KATHARINE KERR I GIORNI DEL SANGUE E DEL FUOCO (Days Of Blood And Fire, 1993) LE TERRE OCCIDENTALI ESTATE, 1116 RUBEUS (...
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KATHARINE KERR I GIORNI DEL SANGUE E DEL FUOCO (Days Of Blood And Fire, 1993) LE TERRE OCCIDENTALI ESTATE, 1116 RUBEUS (ROSSO) Fra tutte le figure che ci forniscono presagi nell'ambito dell'elemento della Terra, questa è la più pericolosa e dissoluta, a meno che grazie alla lettura generale della mappa essa non risulti riguardare giorni di sangue e di fuoco. Se poi tale figura dovesse ricadere nella Casa del Ferro, il maestro del sapere dovrà distruggere immediatamente la mappa senza procedere oltre, perché non potrà venire nulla di buono dal cercare di vedere un simile futuro. Dal Libro dei Presagi di Gwarn, Maestro del Sapere UNO PUER (FANCIULLO) A meno che non ricada nella Casa del Bronzo, e cioè nella settima regione della nostra mappa, oppure nella Casa dell'Oro, che corrisponde alla quinta regione in cui dimorano arte e canto, questa è una figura che lascia presagire male in quanto è apportatrice di dissenso, di lesioni e di sete di vendetta. Dal Libro dei Presagi di Gwarn, Maestro del Sapere Con il volto e le mani coperti di grasso per evitare i morsi delle zanzare, Jahdo si stava aggirando in cerca di erbe medicinali fra l'erba alta dei prati paludosi solcati da migliaia di ruscelletti e costellati di polle e di pozze fangose che si allargavano intorno a Cerr Cawnen; verso nord le montagne che il popolo dei nani chiamava il Tetto del Mondo levavano in mezzo a
veli di nebbia azzurrina i loro picchi torreggianti e avvolti in un bianco manto che scintillava sotto il sole estivo, mentre a sud i prati ondulati si trasformavano in distese di terre coltivate punteggiate da alberi e qua e là da pennacchi di fumo, che si levavano nel cielo dal fuoco che ardeva nella cucina di qualche fattoria. Nel camminare Jahdo stava cantando con la sua pura voce tenorile, facendo oscillare a tempo il cesto di vimini che aveva con sé e contemplando il panorama con tanto interesse da non guardare dove metteva i piedi, con il risultato che finì per incespicare e precipitare con uno strillo in un canalone profondo poco più di un metro scavato da un ruscello. Il suo atterraggio fu attutito dall'erba morbida e dal terreno paludoso, ma il cestino gli volò via di mano e andò a cadere nell'acqua con uno sciacquio, per poi essere trascinato via dalla corrente. Rialzatosi di scatto, il ragazzo decise che gli conveniva procedere sul suolo sabbioso e compatto del ruscello e si lanciò all'inseguimento del cesto che in quel momento stava oltrepassando una svolta per poi scomparire alla vista; ansioso di raggiungerlo, Jahdo si mise a correre nell'acqua che gli arrivava al ginocchio, senza neppure accorgersi che il suo procedere era quasi del tutto silenzioso e che la sua figura era nascosta dalle rive sempre più alte del ruscello. Oltrepassata un'altra svolta riuscì infine ad afferrare il cesto, che si era andato ad arenare su una striscia di sabbia lasciata scoperta dall'acqua, e mentre si chinava la sua attenzione fu attratta da un piccolo disco di metallo forato appeso ad un laccio di cuoio: nella speranza che si trattasse di una moneta lasciata cadere da qualcuno si affrettò a raccogliere l'oggetto che però risultò essere soltanto una medaglia di peltro su cui era inciso uno strano scarabocchio. Riposto comunque in tasca il disco, il ragazzo si raddrizzò e rimase per un momento fermo per riprendere fiato... e in quel momento sentì delle voci provenienti dalla chiazza d'ombra proiettata dalle fronde di un boschetto che cresceva sulla riva del ruscello: là un uomo e una donna stavano discutendo con fare che rasentava l'ira, anche se stavano tenendo il tono tanto basso da far supporre che il loro fosse un incontro segreto. Intimorito, Jahdo accennò ad allontanarsi indietreggiando, ma scivolò e cadde con un tonfo e un'imprecazione. «Laggiù!» stridette la donna. «Una spia!» «Non sono nulla del genere, buona signora» gemette Jahdo, in tono di protesta, rialzandosi in piedi. «Non fatemi del male.» Un giovane alto e biondo, con gli occhi azzurri che brillavano gelidi come gli innevati picchi montani, raggiunse con un salto la striscia di
spiaggia sabbiosa che costeggiava il ruscello e afferrò il ragazzo per un braccio, trascinandolo fuori dall'acqua: nel riconoscere Verrarc, un membro del Consiglio dei Cinque che governava la città, Jahdo cominciò a balbettare parole di scusa, ma Verrarc gli serrò entrambe le spalle con le mani e prese a scuoterlo con forza. «Cosa ci fai qui?» domandò. «Sto raccogliendo erbe, signore. Mia sorella è malata e l'erborista Gwira ha detto di essere disposta a curarla a patto che io venissi a cercare un po' di erbe per ripagarle il suo lavoro.» Verrarc lo spinse in ginocchio, e nel sollevare lo sguardo su quell'uomo alto e muscoloso che torreggiava su di lui Jahdo sentì lo sguardo dei suoi occhi azzurri trapassargli l'anima come un coltello ed ebbe l'impressione che il mondo prendesse a vorticargli intorno. «Sta dicendo la verità» affermò quindi la voce di Verrarc, che pareva provenire ora da molto lontano. «Questo non ha importanza. Uccidilo» ordinò la donna, con voce che sibilava e crepitava. «Non possiamo correre rischi, Verro... uccidilo!» Con un gemito di terrore Jahdo sollevò di scatto le mani in un gesto che era in parte di protezione e in parte di supplica, poi cercò di parlare ma la lingua parve esserglisi incollata al palato e lui scoprì di fare fatica perfino a respirare mentre Verrarc posava la mano sull'elsa ingioiellata della spada che portava al fianco e indugiava a fissarlo per un lungo, doloroso momento, con occhi che adesso avevano una normale espressione infuriata e non avevano più nulla di strano o di magico. «Io ti conosco» osservò infine. «Sei il ragazzo che dà la caccia ai topi.» «Sono io, signore» rispose Jahdo, finalmente in grado di parlare, sia pure con voce ridotta ad un sussurro. «Jahdo Ratter (Ratter significa Cacciatore di Topi).» «Uccidilo subito» insistette la donna, avvolta in un mantello nero dal cappuccio alzato a celarle il viso, accoccolandosi sul bordo del canalone. «Tieni a freno la lingua, Rae!» scattò Verrarc. «Non intendo fare del male a questo ragazzo, che ha appena dieci anni e non costituisce una minaccia.» «Verro!» esclamò lei, in tono ora petulante quanto quello di un bambino piccolo. «Uccidilo. Voglio guardare mentre lo fai.» Ti ho detto di tacere. Questo ragazzo è prezioso... e poi l'erborista sa che si trova da queste parti. Con un ringhio la donna si appoggiò all'indietro sui talloni, permettendo così a Jadho di intravedere i suoi occhi grigi e le guance pallide solcate di
sudore a causa del mantello in cui era avvolta nonostante la giornata fosse calda. Ignorandola, Verrarc passò un braccio intorno alle spalle di Jahdo e lo costrinse a girarsi. «Ascoltami, ragazzo, voglio chiederti una cosa, da uomo a uomo: hai davvero intenzione di parlare a qualcuno di quello che hai visto qui oggi?» All'improvviso Jahdo capì ogni cosa: si trattava di un incontro amoroso. «Certamente no, signore, dato che non sono affari miei» rispose. «Non lo sono proprio, ragazzo» annuì Verrarc, strizzandogli l'occhio. «» Non ti preoccupare, non ti succederà nulla di male finché terrai a freno la lingua. «Ti ringrazio, signore... oh, ti ringrazio davvero. Non dirò mai nulla, lo giuro, e andrò a raccogliere le mie erbe lontano da qui.» Verrarc lo fissò intensamente negli occhi e sorrise: per un momento le sue pupille azzurre parvero mutarsi in acqua e il suo sguardo fluire su Jahdo come una corrente calda. «Bene... sei un bravo ragazzo. Adesso torna indietro lungo la riva e allontanati da qui.» Jahdo obbedì al suo ordine, mettendosi a correre più in fretta che poteva e senza osare guardarsi indietro finché non fu ad almeno un chilometro di distanza, poi scalò il fianco del canalone e sostò per un momento, scuotendo il capo: laggiù vicino all'acqua gli era successo qualcosa di strano, o forse si era addormentato e aveva sognato tutto? No, aveva visto qualcuno... il Consigliere Verrarc e una dama, che s'incontravano all'insaputa del marito di lei, e aveva giurato di non farne parola con nessuno, giuramento che avrebbe mantenuto anche perché non era certo di aver davvero visto queste cose e di non averle invece sognate o sentite raccontare, considerato che in città giravano tante voci. Forse non aveva davvero visto nulla, e più ci pensava più gli pareva di aver scorto soltanto Verrarc, seduto vicino al corso d'acqua. Entro il tempo che impiegò a riempire il cesto di erbe il ragazzo aveva già dimenticato il nome del consigliere e quando infine si diresse a casa tutto ciò che rammentava era un senso di paura, collegato alla riva erbosa di un imprecisato ruscello, da cui dedusse di essere forse stato spaventato da un serpente, visto che ricordava un suono sibilante molto simile al verso di un rettile. Anche se più a ovest c'erano alcuni villaggi, Cerr Cawnen era la sola città degna di questo nome in quella parte del mondo, nota come il Riddhaer (le Terre Libere); in mezzo a quella distesa di prati paludosi si allargava il
Loc Vaed, le cui acque verdi e poco profonde scintillavano lungo le rive ma si facevano sempre più azzurre e cupe nelle vicinanze del suo centro, dove su una rocciosa isoletta centrale c'era la Cittadella, dimora delle famiglie più in vista della città e sede dell'armeria della milizia cittadina, che sorgeva sul picco più alto dell'isola; il resto della città si stendeva lungo le rive del lago in un ammasso di case e di botteghe erette su palafitte, dette crannog, collegate fra loro da piccoli ponti in modo da formare il rozzo equivalente di isolati cittadini, ciascuno dei quali era irto di moli e di scale traballanti che scendevano verso i tratti di acqua che li separavano gli uni dagli altri, dove piccole barche di cuoio dondolavano sulla corrente legate ai loro ormeggi. Verso il limitare della città, nei tratti in cui le acque del lago si stendevano su ampi banchi di sabbia, grossi ceppi di legno segati a metà e conficcati verticalmente nel fondale sabbioso servivano da punti di appoggio per passare dall'una all'altra di un insieme di capanne e di isolette, mentre sulla riva vera e propria del lago, dove il terreno era dotato di una ragionevole consistenza, si levava un alto muro di pietra rivestito in legno che cingeva l'intero perimetro del lago e che era costantemente sorvegliato da guardie di stanza presso le porte e lungo i bastioni, in modo da trasformare la città e il lago in una sorta di campo militare, in quanto le quarantamila anime che abitavano Cerr Cawnen avevano più di un nemico da cui guardarsi. La giornata volgeva ormai al termine quando infine Jahdo oltrepassò le porte e si addentrò sul tratto di terreno erboso al di là di esse, e lui comprese che avrebbe fatto meglio a sbrigarsi perché adesso a preoccuparlo non era più soltanto la vaga sensazione di paura ancora insita nel suo animo ma anche il timore per la salute della sorella maggiore, che si era svegliata quel mattino in preda a violente fitte di dolore. Stringendo a sé il cesto avanzò sull'acqua bassa saltando da un ceppo all'altro e salì alcune scale fino ad arrivare ad un gruppo di edifici che avevano tutti il tetto composto da uno strato di terriccio coltivato ad orto; la maggior parte delle abitazioni era circondata da un'ampia piattaforma di legno, e Jahdo saltò dall'una all'altra di esse evitando cani, capre e bambini piccoli, abbassandosi per schivare i bucati stesi ad asciugare e scambiando qua e là qualche saluto con una donna intenta a macinare del grano o con un uomo che stava pescando dalla finestra di casa. Giunto al limitare dell'acqua profonda, scese quindi dalle palafitte in una delle piccole imbarcazioni rotonde che costituivano una proprietà comune di tutti gli abitanti, da usarsi quando ce n'era bisogno per poi lasciarle a disposizione di chi altri fosse passato dove era-
no attraccate, e si mise a remare in direzione della Cittadella tenendo stretto il cesto fra le ginocchia. Di norma le persone povere come lo erano lui e la sua famiglia non avevano diritto a vivere sull'isola centrale, ma il suo clan occupava due grandi stanze annesse ai granai cittadini ormai da cento anni, e cioè da quando il consiglio cittadino gliele aveva attribuite, naturalmente a condizione che "i suoi membri e le loro donnole lavorassero con la massima diligenza e con tutta la cura e la pazienza necessarie" per decimare i topi che infestavano i granai. Tutti sapevano che quei roditori erano nemici pericolosi perché diffondevano pulci e malattie e sporcavano più cibo di quanto ne consumassero direttamente, e per guadagnarsi vitto, vestiario e altri generi di prima necessità i Cacciatopi, come i membri della famiglia avevano finito per essere chiamati, andavano a disinfestare con le loro donnole anche le case private della città. Le donnole erano dotate di piccole museruole al fine, di evitare che uccidessero direttamente le prede, e avevano l'incarico di stanare i topi dalle loro tane in modo che i loro padroni li potessero rinchiudere in gabbie di vimini e poi annegare nel lago insieme alle loro pulci... un lavoro tutt'altro che piacevole ma tollerabile, se ci si abituava a svolgerlo fin da piccoli. I tozzi edifici di pietra che ospitavano i granai pubblici sorgevano a ridosso di un'altura nella parte bassa dell'isola, e arrivare all'alloggio dei Cacciatopi richiedeva un'agilità degna di una donnola in quanto bisognava salire una scala di legno, infilarsi fra due pareti e procedere in mezzo ad esse fino ad una curva a gomito sulla destra che dava accesso all'abitazione. Quando entrò nella grande stanza quadrata che fungeva da cucina, da stanza comune e da camera da letto dei suoi genitori, Jahdo vi trovò la canuta erborista Gwira intenta a rimestare un infuso d'erbe in una teiera di ferro appesa sul fuoco, da cui esalava un intenso odore di spezie e di resina che si mescolava al sentore di muschio delle donnole. «Dov'è mia madre, Gwira?» chiese Jahdo. «È fuori con tuo padre e le donnole, ma mi ha detto che torneranno prima che faccia buio. Quanto a Kiel, non so dove sia andato.» Pallidissima ma sorridente, sua sorella Niffa... una dinoccolata ragazza bruna... sedeva al tavolo intenta a sorseggiare il contenuto di una ciotola di legno: anche se stava guardando nella direzione del fratello, i suoi enormi occhi scuri sembravano contemplare un più ampio e lontano panorama, caratteristica che aveva indotto la gente a definirla una sognatrice e a considerarla molto strana, anche se Jahdo la trovava soltanto irritante.
«Stai bene?» le chiese. «Sì» rispose Niffa, tingendosi di un violento rossore. «In realtà non sono stata veramente male.» Notando la perplessità apparsa sul volto di Jahdo, l'erborista scoppiò a ridere. «Adesso tua sorella è una donna, giovane Jahdo, e questo è tutto ciò che hai bisogno di sapere. Sarà bene che ci affrettiamo a trovarle presto un marito.» Memore di vaghi discorsi relativi a perdite di sangue e alle fasi della luna che circolavano fra i ragazzi della sua età, Jahdo arrossì più violentemente della sorella e dopo aver posato il cesto sul tavolo fuggì nella propria stanza, dove ad un'estremità c'era l'ammasso di coperte e di materassi di paglia su cui dormivano lui, il fratello maggiore e la sorella, e dall'altra c'era un labirinto di recinti di legno dal fondo coperto anch'esso di paglia, nel quale vivevano le donnole. Dal momento che adesso i suoi genitori erano fuori a caccia, nel recinto c'era soltanto una femmina incinta, stranamente sveglia sebbene fosse ancora giorno e intenta a sfregare il posteriore sulla paglia come se avesse appena defecato; protendendosi al di sopra della recinzione che la circondava, alta abbastanza da tenere gli altri animali lontani dal suo nido di paglia e di frammenti di stoffa, il ragazzo allungò la mano verso la donnola, Tek-tek, che gli permise di accarezzarle la pelliccia morbida e poi si stiracchiò con noncuranza in modo da sfregare il posteriore contro le sue dita e contrassegnarlo come parte del suo territorio. «Accidenti, Tek!» protestò Jahdo, pulendosi la mano sui calzoni, poi ricordò il ninnolo di peltro che aveva in tasca e continuò. «Ecco un'aggiunta per il tuo tesoro.» Non appena lasciò cadere il ciondolo dentro il recinto la donnola lo annusò e afferrò il laccio con i denti, poi sollevò la testa in modo da poter trascinare la propria preda e si diresse verso il nido, dove procedette a nascondere con cura il medaglione di peltro. Alcune donnole erano infatti peggiori delle gazze ladre, con la tendenza a rubare ogni sorta di oggetti luccicanti che poi nascondevano in mezzo a stracci e a frammenti di cuoio fino a formare una palla piena di piccoli tesori; anche i calzini erano di loro gradimento, e avevano la tendenza a sottrarre le fibbie con tutta la cintura, trascinandole nel loro nido alla minima disattenzione del proprietario. Come previsto, i genitori di Jahdo rientrarono di lì a poco, chini sotto il peso delle gabbie delle donnole e delle trappole per topi bagnate. Suo padre Lael, un uomo bruno che cominciava a mostrare tracce di grigio nella
barba e nei baffi, era alto e massiccio quanto un fabbro, mentre sua moglie Dera era una donna bionda e ancora minuta anche dopo aver generato tre figli sani e altri due che erano morti durante l'infanzia... ma quando s'infuriava nessuno la considerava più minuta o fragile, e i suoi occhi azzurri erano sempre accesi da un'emozione di qualche tipo. «Visto che sei tornato, aiutami con queste donnole» disse Lael, rivolgendo al figlio un cenno del capo. Insieme i due trasportarono le gabbie nella camera da letto e le aprirono una alla volta, tirando fuori ciascuna donnola per liberarla del minuscolo cappuccio di cuoio: per quanto detestassero farselo applicare, le donnole parevano odiare ancora di più il momento in cui esso veniva rimosso e si contorcevano in grembo con una forza incredibile per delle bestiole che potevano pesare al massimo un paio di chili. Jahdo riuscì a portare a termine l'operazione abbastanza facilmente con i primi due animali, ma poi dovette affrontare il maschio più grosso, Ambo, che come sempre impegnò una violenta battaglia con un frenetico dimenarsi di zampe. «Adesso sta' fermo e lasciami sciogliere questo nodo!» ingiunse Jahdo. «So che detesti il cappuccio, ma non ci posso fare niente! È necessario usarlo, perché se mangiassi un pasto abbondante poi ti addormenteresti all'interno delle pareti di qualche casa, così ti perderemmo e finiresti per essere divorato dai cani. Adesso sta' fermo! Ecco fatto! Per gli dèi!» Finalmente libero, Ambo scrollò il corpo affusolato ed emise un ciangottio, sfregandosi con fare affettuoso contro il braccio del ragazzo adesso che la sua giornata di lavoro era conclusa, poi spiccò il salto e prese a caracollare intorno alle caviglie di Jahdo, facendosi rincorrere per qualche tempo prima di permettere infine al ragazzo di afferrarlo e di scaricarlo nel recinto comune, dove cominciò a scavare fra la paglia. In quel momento Dera entrò nella stanza con un grosso piatto di terracotta pieno d'acqua fresca e una ciotola di legno colma di frammenti di carne secca, e dopo aver posato entrambi i contenitori nel recinto comune provvide a portare a Tek «tek un po' di carne fresca di prima scelta.» «Il cibo per te sarà pronto fra poco» annunciò a Jahdo. «Gwira è ancora qui, mamma?» chiese il ragazzo. «Sì, perché? Non ti senti bene?» «Affatto. Era soltanto curiosità.» «Allora non restare lì fermo come uno sciocco e vieni a vedere tu stesso.»
Nel seguire sua madre fuori della stanza Jahdo scoprì che suo fratello era intanto rientrato e sedeva all'estremità più lontana del grosso tavolo, intento a bere un boccale di birra in compagnia di suo padre. Kiel, che era il maggiore dei tre figli del cacciatore di topi ed era ormai quasi un uomo, era un ragazzo avvenente con capelli biondi come quelli della madre e di statura alta quasi quanto il padre, ma di corporatura più snella e con dita lunghe e delicate. All'estremità opposta del tavolo la vecchia erborista era intenta a vagliare le erbe raccolte da Jahdo. «Quelle erbe vanno bene?» chiese il ragazzo. «Sono eccellenti» replicò Gwira. Quella sera l'erborista rimase a cena con loro e sedette ad un lato del tavolo vicino a Dera e di fronte a Niffa, in modo che tutte e tre potessero scambiarsi pettegolezzi e discutere di possibili mariti mentre mangiavano maiale e pane; accanto a loro, Lael si limitava per lo più ad ascoltare e a pronunciare di tanto in tanto qualche preoccupato parere su questo o quel possibile pretendente, mentre Kiel e Jahdo fingevano un'indifferenza assoluta ma al tempo stesso non si scambiavano una sola parola per timore di perdere qualcosa della conversazione, dal momento che Gwira era la seconda persona più anziana di Cerr Cawnen e sapeva parecchie cose sul conto di tutti o quasi. «Con quel tuo viso grazioso potresti mirare a prede altolocate, giovane Niffa» commentò infine la vecchia. «È risaputo che di tanto in tanto il Consigliere Verrarc si ferma qui per scambiare qualche parola.» «Viene a trovare la mamma, e comunque non lo sposerei neppure se fosse l'ultimo uomo rimasto al mondo» replicò Niffa, in tono sommesso ma inflessibile. «Non sarebbe la prima volta che una ragazza ha migliorato la propria condizione in virtù della sua bellezza» osservò Gwira, poi fece una pausa per tagliare con la daga un pezzo di cartilagine e aggiunse: «Perché lo disprezzi tanto, ragazza?» «Guardarlo è come infilare una mano in una polla e toccare un pesce vecchio e viscido. Lo odio.» Di fronte a quella dichiarazione Dera e Lael sollevarono entrambi la testa con stupore, mentre Niffa si portava alle labbra il boccale di birra annacquata come per nascondersi dietro di esso. «In effetti c'è stato quello scandalo» rifletté intanto Gwira. «Verrarc e quella Raena, la moglie del primo portavoce di Perdi.»
«Per poco la cosa non ci è costata un'alleanza» interloquì Lael. «Dopo un simile scandalo ti garantisco che molti di noi potrebbero non votare più per quel giovane cucciolo sventato.» «Le cose sono andate peggio per Raena» lo interruppe Gwira. «Suo marito l'ha ripudiata, giusto? Chi può sapere che ne è stato in seguito di quella povera donna?» «Se davvero la desiderava tanto, quel giovane cucciolo avrebbe potuto avere la decenza di sposarla quando ne ha avuto la possibilità» ringhiò Lael. «Ho sentito dire che Raena è tornata nel nord presso la sua gente, coperta di vergogna» interloquì Dera, con aria pensosa. «A mio parere però bisogna essere in due per torcere una corda, e in quella donna c'era qualcosa che non mi è mai piaciuto, tanto che mi chiedo se fosse davvero un povero pulcino innocente e Verro sia stato la volpe della situazione.» «Può darsi che tu abbia ragione» ammise Gwira, arricciando le labbra. «Forse la nostra Niffa non può darle dei punti quanto a ricchezza e a posizione sociale, ma di certo è la migliore fra le due per quanto concerne il carattere. Credo che questo problema richieda qualche giorno di riflessione da parte mia.» «Pensa a Demet» borbottò Niffa. «Il secondo figlio del tessitore.» Tutti scoppiarono a ridere, rilassandosi, e Gwira annuì lentamente. «Lui non sarebbe una cattiva scelta» commentò. «Suo padre è un uomo buono e calmo, ed è anche benestante.» Intanto Jahdo posò il cucchiaio nella propria ciotola perché tutti quei discorsi sul Consigliere Verrarc avevano destato in lui un senso di nausea accompagnato da un gelo intenso: sapeva che avrebbe dovuto dire a Gwira come si sentiva, che avrebbe dovuto parlarle di... di cosa? C'era un incidente di qualche tipo di cui avrebbe voluto parlare con lei per il semplice fatto che era più vecchia e saggia di chiunque altro in città, qualcosa di pauroso che gli era successo mentre era sui prati... ma non riuscì a ricordare con esattezza di cosa si trattasse e dopo un momento la sensazione si dissolse. Meno di due giorni più tardi il ragazzo recuperò però in parte il ricordo di quanto era successo, anche se non in misura sufficiente a salvarlo. Quella mattina di buon'ora, Dera lo incaricò di andare in città a riscuotere delle uova e della carne da una famiglia che era indebitata con loro. «Anche tuo padre verrà in città, tesoro» gli disse, «quindi quando avrai finito vedi se ti riesce di rintracciarlo.»
Jahdo aveva già superato a forza di remi metà della distanza che lo separava dalla riva e stava continuando a remare con la schiena rivolta verso la sua destinazione, quando vide la barca cerimoniale allontanarsi dalla Cittadella e dirigersi verso di lui. Pochi rapidi colpi di remo gli bastarono per spostarsi dalla sua traiettoria, poi lasciò che la barca si fermasse e rimase a guardare il passaggio della tozza chiatta dipinta d'argento e di rosso, al centro della quale si levava un albero ornamentale su cui la bandiera verde e gialla di Cerr Cawnen si agitava pigramente sotto il soffio della brezza estiva. A prua dell'imbarcazione era raccolto un gruppo di uomini riccamente abbigliati con camicie di lino ricamate che sovrastavano i pantaloni lunghi fino al ginocchio comuni in quella parte del mondo, il tutto completato da un corto mantello gettato all'indietro sulle spalle e da gioielli d'oro e gemme che scintillavano al sole. Nel momento in cui la chiatta lo oltrepassò Jahdo vide il Consigliere Verrarc fermo vicino alla murata e il cuore gli saltò un battito quando si accorse che lui stava guardando nella sua direzione: dal momento che le due imbarcazioni erano a meno di cinque metri di distanza, Jahdo poté vedere con chiarezza che il consigliere si era accorto di lui e lo stava fissando con espressione accigliata, girandosi per continuare a tenerlo d'occhio mentre la chiatta proseguiva la sua corsa. Avvertendo la bocca che gli si inaridiva, Jahdo fu indotto da quella sensazione a ricordare la paura provata sul prato e l'immagine di una donna avvolta in un mantello nero e che sibilava nel parlare, ma la sola cosa di cui riuscì a rendersi conto fu che la vista di Verrarc aveva in qualche modo incomprensibile riportato a galla quel ricordo, che lui si affrettò comunque a reprimere con un brivido nel ricominciare a remare alla volta della città. La vedova Suka, che doveva pagare la disinfestazione dai topi, aveva macellato una capra appena il giorno precedente. La donna viveva con il figlio in una casa che sorgeva ad un centinaio di metri dalla riva del lago, su una palafitta eretta tante centinaia di anni prima da essersi trasformata con il passare del tempo in una vera isola, con alberi e terriccio sufficienti per ospitare un piccolo orto e un recinto per le capre, che d'estate il figlio della vedova trasportava con la barca sulla terraferma perché potessero pascolare. Mentre la donna sistemava le uova nel cesto imbottito di paglia e vi aggiungeva la carne avvolta in foglie di cavolo, Jahdo si portò vicino al limitare della palafitta e indugiò a guardare in direzione della riva, dove una folla di gente si era raccolta vicino alle porte presenti nelle mura e sta-
va guardando verso di esse. Davanti a tutti era possibile scorgere l'alta figura del Consigliere Verrarc. «Cosa sta succedendo?» domandò Suka, alle sue spalle. «Sembra che stia arrivando qualche carovana di mercanti.» «È vero. Mi chiedo dove siano stati.» «Ragazzo, se vuoi andare a vedere terrò qui il cibo in fresco per te.» Lasciata la barca dove si trovava, Jahdo si diresse verso la riva a piedi, saltando da un ceppo all'altro, e arrivò al limitare della folla proprio nel momento in cui le porte si spalancavano e una fila di uomini e di muli cominciava ad oltrepassarle. Dal momento che era il più basso di statura fra tutti i presenti, Jahdo non era in grado di vedere nulla e continuò a correre di qua e di là per qualche minuto nella speranza di trovare il modo di arrivare in prima fila; stava ormai decidendo di rinunciare quando dalla folla giunsero borbottii e imprecazioni, seguiti da un rapido indietreggiare della calca perché adesso gli uomini presenti si stavano ritraendo più in fretta che potevano senza però girarsi a guardare dove andavano. In preda al panico Jahdo si girò per fuggire ma per poco non cadde e si lasciò sfuggire un grido di timore. «Questa situazione è pericolosa per un ragazzo della tua taglia» disse Lael, afferrandolo. «Aggrappati a me e ti sistemerò sulle mie spalle.» «Pà! Non ti avevo visto!» «Però io ho visto te e stavo venendo a raggiungerti.» Al sicuro sulle spalle di suo padre, Jahdo poté infine vedere cosa aveva causato tanta agitazione: in coda alla carovana composta da due mercanti a cavallo, da una fila di guardie e da una serie di muli carichi, marciava una figura virile che conduceva per la cavezza un enorme cavallo bianco carico di sacchi e di fagotti. Si trattava di uno dei Gel da'Thae, che nel camminare agitava davanti a sé un robusto bastone spostandolo di qua e di là come per sgombrare qualcosa dal proprio cammino. Alto un po' più di due metri, il Gel da'Thae aveva una forma umanoide, con gambe corte ma robuste, un lungo torso, lunghe braccia e un volto dai lineamenti simili a quelli umani... ma di certo non era un uomo e neppure un nano. I tratti di pelle lasciati esposti dall'aderente camicia di cuoio e dai calzoni dello stesso materiale erano pallidi come il latte, i capelli neri erano ispidi e irsuti quanto il pelo di un cinghiale e le sopracciglia convergevano a firmare una stretta V sull'arco del naso enorme per poi scomparire nell'attaccatura dei capelli che si sollevavano sulla fronte in una sorta di pennacchio e ricadevano all'indietro lungo il cranio e fino alla vita in una
folta criniera, in mezzo alla quale era possibile scorgere qua e là piccole trecce fermate con lacci di cuoio da cui pendevano numerosi amuleti. Il dorso delle mani pallide ed enormi era anch'esso coperto di ispidi peli neri, mentre il volto era del tutto glabro e tatuato con un complesso insieme di linee e di cerchi azzurri e porpora. «Mentre camminava il Gel da’Thae girava il capo a destra e a sinistra per ascoltare più che per guardare, perché al posto degli occhi che avrebbero dovuto brillare sotto le folte sopracciglia c'erano soltanto due orbite pallide e vuote segnate da cicatrici.» «Oh!» esclamò Jahdo, senza riflettere, con la sua acuta voce da bambino che risuonò al di sopra del vociare della folla. «È cieco!» Agitando la criniera il Gel da'Thae si arrestò davanti a Lael e si voltò nella direzione da cui era giunto il suono della voce di Jahdo, snudando i grossi denti bianchi che somigliavano parecchio a delle zanne. «Ti fai beffe di me, ragazzo?» domandò, esprimendosi nella lingua del Rhiddaer ma con voce possente e ringhiante che echeggiò nell'aria come l'abbattersi di un'onda di tempesta contro un molo. «No, affatto» balbettò Jahdo. «Mi dispiace davvero. Ero soltanto sorpreso.» «Non ne dubito, ma sei comunque un cucciolo maleducato.» «Lo sono davvero, signore, ma cercherò di migliorare.» «Maleducato e vigliacco» ribatté il Gel da'Thae, poi indugiò ad annusare l'aria e aggiunse: «Huh. Avverto un uomo che ti tiene in spalla. Sei il padre del ragazzo?» «Sì» rispose Lael con voce fredda e calma, «e intendo parlare per lui. Mio figlio non è un vigliacco, signore, si vergogna soltanto di aver ferito i tuoi sentimenti.» Con un grugnito il Gel da'Thae infilò il bastone sotto un braccio e protese una mano enorme a tastare un lato della faccia di Lael, poi spostò la mano più in alto fino a trovare il braccio di Jahdo e batté un colpetto anche su di esso prima di ritrarre la mano e di annusarsi il palmo. «È vero, non avverto paura nel ragazzo, anche se tutti gli dèi e i demoni mi sono testimoni che puzzate entrambi di donnola.» «Non ne dubito. Hai un fine odorato.» «Posso anche essere cieco, ma un uomo dovrebbe essere morto per non sentire quell'odore» ribatté il Gel da'Thae, ritraendo le labbra sulle zanne in un'espressione che sembrava un sorriso. «Bene, auguro una buona giornata ad entrambi e anche alle vostre amiche donnole.»
Chiamato con un fischio l'enorme cavallo riprese quindi a camminare tastando il terreno con il bastone e seguendo il resto della carovana lungo la curva del lago, dove un erboso tratto di riva era tenuto a disposizione dei mercanti in visita. «D'ora in poi farai meglio a badare a quello che dici, ragazzo» commentò Lael, posando a terra il figlio con un grugnito. «Hai sempre avuto la bocca dannatamente troppo grossa.» «Lo so, Pà, e mi dispiace davvero.» «Non ne dubito, ma l'ultima cosa che possiamo volere è offendere uno dei Fratelli dei Cavalli, perché basta loro una sola parola, una minima scusa per entrare in guerra. È per questo che non mi va di vedere qui uno di loro: se quel bardo dovesse offendersi per qualcosa vedremo arrivare il suo clan alla testa di un esercito e ci troveremo sotto assedio.» «Come fai a sapere che è un bardo?» «Perché non ha più gli occhi. Quando decidono che uno dei loro bambini ha una voce abbastanza bella da poter diventare un bardo gli cavano gli occhi con la punta di un coltello perché ritengono che questo renda il suo canto più dolce.» Jahdo si sentì assalire da un senso di nausea e si girò di scatto, soltanto per trovarsi faccia a faccia con il Consigliere Verrarc, alla cui vista il sangue gli defluì dal volto, lasciandolo raggelato per la paura. «Qualcosa non va, ragazzo?» domandò Verrarc, in tono pacato ma con espressione attenta e fredda. «Hai l'aria spaventata.» «Oh, si è trovato a dover scambiare qualche parola con quel bardo dei Gel da'Thae» spiegò Lael, con un sorriso. «Prima d'ora non aveva mai visto uno di loro.» «In effetti è una vista tale da spaventare chiunque.» «Si può sapere cosa ci fa qui?» domandò Lael. «Che io sia dannato se lo so» replicò Verrarc, scrollando le spalle con evidente preoccupazione. «È per questo che le guardie hanno mandato a chiamare me e gli altri consiglieri prima di far entrare quei mercanti. Adesso andremo a trovarlo giù al campo per chiedergli cosa vuole.» «Pensi che ci saranno dei guai?» «Vorrei saperlo, Lael, vorrei proprio saperlo. Mentre passava mi ha detto di essere venuto a reclamare un tributo che dobbiamo alla sua gente. Per quanto vorrei che così non fosse, noi siamo in effetti vincolati ai Gel da'Thae da un intreccio di trattati e di accordi, perciò chi può sapere cos'ha inteso dire quel bardo? Credo che farò meglio ad andare a scoprirlo.»
Verrarc rivolse quindi loro un cortese cenno del capo e si allontanò, ma Jahdo sentì la sua paura accentuarsi e soffocarlo, come se avesse avuto in bocca un ciuffo di peli di capra, e al tempo stesso comprese con assoluta chiarezza che mostrare il proprio timore al consigliere era pericoloso, che se Verrarc avesse pensato che lui stava cominciando a ricordare... a ricordare cosa? Il terrore sul prato. Il sibilo di un serpente. «Ragazzo, sei più pallido di come ti abbia mai visto» osservò intanto Lael. «Cosa c'è che non va?» Jahdo stava per dire la verità, poi però si rese conto che il consigliere era ancora a portata di voce. «Si tratta soltanto degli occhi di quel bardo, Pà» mentì. «Continuo a immaginare cosa deve aver provato quando lo hanno accecato.» «Di certo non è una bella cosa» convenne Lael, con un piccolo brivido. «Però i Gel da'Thae sono gente strana e crudele. Vieni, torniamo a casa... lungo la strada dobbiamo anche fermarci a ritirare un pagamento.» «Ho già provveduto io, Pà. La mamma mi ha detto di farlo: ho avuto un mucchio di arrosto di capra dalla vedova Suka.» «Splendido. Allora portiamolo a casa.» Al loro arrivo alla Cittadella scoprirono che la notizia li aveva preceduti. Mentre provvedevano ad ancorare la barca vennero circondati da una manciata di uomini della milizia, fra i quali si fece poi largo con decisione il biondo Demet, che Jahdo e suo padre conoscevano praticamente da sempre... come del resto quasi ogni altro abitante di Cerr Cawnen. «È vero, Lael?» chiese Demet. «Uno dei Fratelli dei Cavalli è giunto in città?» «È vero, e noi lo abbiamo visto. È un bardo cieco come una talpa, e il Consigliere Verrarc ha detto che sostiene di essere venuto a reclamare un antico servizio o pagamento dovuto alla sua gente.» Tutti i presenti imprecarono e posarono d'istinto la mano sull'elsa della spada o del coltello, mentre Demet lasciava vagare lo sguardo in direzione della lontana riva e si riparava gli occhi con una mano, quasi stesse sperando di riuscire a vedere lo straniero. «Comunque non capisco perché abbiamo dovuto stipulare dei trattati con loro» osservò intanto Jahdo. «Meglio questo che diventare i loro schiavi, ragazzo» replicò Lael, o gli schiavi delle tribù selvagge che vivono nel nord. Meglio trattare con i Fratelli dei Cavalli che conosciamo che combattere contro quelli che non conosciamo, non trovi?
«Ben detto» approvò Demet, girandosi verso di loro. «Però scommetto che stanotte verrà acceso il fuoco del consiglio a causa dell'arrivo di quel bardo.» Nessuno tentò di confutare quella previsione, che del resto si rivelò esatta. Al tramonto infatti il grosso gong di bronzo che era posto sulla cima della Cittadella cominciò a spargere i suoi echi sull'acqua: più minaccioso di uno scoppio di tuono, ogni singolo, possente rintocco parve rimanere sospeso nell'aria sempre più buia, e nel lasciare il proprio alloggio con la sua famiglia Jahdo vide ogni sorta di imbarcazioni solcare l'acqua sulla spinta dei remi, simili ad altrettanti insetti, mentre lungo tutta la riva la popolazione si affrettava a sciamare in direzione della Cittadella. Infatti ogni uomo o donna che abitava a portata di udito del suono del gong aveva il diritto di partecipare a queste riunioni del consiglio e di esprimere il proprio parere, oltre ad avere anche quello di votare per l'elezione del consiglio cittadino, perché nel Rhiddaer non c'erano nobili e re. Mentre tutta la cittadinanza si avviava su per le erte strade della Cittadella accompagnata da una marea di dicerie e di timore, la famiglia di Jahdo si diresse a sua volta verso il luogo delle assemblee. Davanti al palazzo di pietra del consiglio, che era abbellito da un colonnato e da una rampa d'accesso di bassi gradini, si allargava una piazza pavimentata di mattoni, su un lato della quale i membri della milizia erano impegnati ad ammassare la legna per il gigantesco falò che avrebbe fornito l'illuminazione necessaria all'adunanza. Arrampicatisi sullo spesso muro che recintava la piazza verso monte, Jahdo e Niffa rimasero ad osservare la folla irrequieta che si faceva sempre più numerosa, e di tanto in tanto Jahdo si girò a guardare in direzione del lago, le cui acque profonde si stavano già ammantando della rada nebbia serale dovuta al contatto della più fresca aria notturna con le acque tiepide del lago alimentato da sorgenti calde. Quando infine il buio notturno divenne assoluto le fiamme cominciarono a levarsi dal falò, proiettando ombre enormi sulle arcate e sui pilastri del palazzo e sulla barca del consiglio ormeggiata a ridosso del molo; dal punto rialzato in cui si trovava, Jahdo poteva vedere le torce che si spostavano ondeggiando lungo le strade tortuose della Cittadella e individuare i diversi membri del Consiglio a mano a mano che la processione risaliva con lentezza l'erto pendio: in mezzo ad essi procedeva con passo deciso il bardo dei Gel da'Thae.
«Ho paura» disse d'un tratto Niffa. «Non so perché ma mi sento fredda e strana.» «Oh, in realtà non è poi così cattivo... mi riferisco al bardo... e comunque questa faccenda non avrà nulla a che vedere con noi.» «Non ne essere tanto certo, fratellino: quando mi sento così c'è sempre un motivo» replicò Niffa, poi la voce le si bloccò in gola e lei dovette fare una pausa, respirando affannosamente, prima di aggiungere: «Scendiamo da questo muro e andiamo a cercare Pà e la mamma.» «Non voglio farlo. In mezzo alla folla non riesco a vedere natta.» «Vieni, Jahdo! Non puoi restare qui.» Jahdo esitò, riflettendo su quelle parole, ma alla fine rifiutò di prendere ordini da sua sorella. «Non intendo farlo. Tu va' pure, se vuoi.» «Sei un somaro! Vieni con me!» Lui però scosse il capo in un cocciuto gesto di diniego e rifiutò di aggiungere altro; dopo un momento Niffa si lasciò scivolare giù dal muretto e s'immerse fra la folla come un nuotatore fra te onde. Da dove si trovava Jahdo riuscì a stento a seguire il suo percorso da un capannello all'altro di cittadini preoccupati, fino a quando si andò ad arrestare accanto a Demet, che era di guardia vicino al falò. Allora si trattava di questo! pensò il ragazzo. Era lui che voleva andare a cercare, non Pà e la mamma. In quel momento dalle porte di accesso alla piazza giunse uno squillo di corni d'ottone in reazione al quale la folla si ritrasse su se stessa in modo da creare uno stretto passaggio per i consiglieri, capitanati da Verrarc, mentre alla retroguardia veniva il portavoce Admi; in mezzo al gruppo procedeva il Gel da'Thae, circondato dai consiglieri che sembravano intenti a parlargli tutti contemporaneamente, senza preoccuparsi che lui potesse o meno sentirli al di sopra del mormorio della folla e dello squillare dei corni. Allorché il gruppo arrivò ai gradini una squadra di uomini della milizia lo scortò fino alla grossa tribuna di pietra che sorgeva vicino al falò, e dopo un altro momento di confusione il capannello di consiglieri si aprì in modo da permettere ad Admi di salire su di essa. Alto di statura ma con le spalle strette e il ventre prominente, il portavoce era affetto da una pronunciata calvizie che lo faceva apparire come un insieme di sfere sovrapposte; alla luce del fuoco la sua testa calva brillava madida di sudore e i suoi occhi minuscoli sbirciavano la folla attraverso
sottili fessure soffocate da pieghe di grasso, ma quando parlò la sua voce echeggiò limpida come il tintinnare dell'oro. «Compagni concittadini! Abbiamo fra noi un ospite, l'onorato bardo Meer dei Gel da'Thae.» Doverosamente tutti i presenti batterono le mani, ma si trattò di un suono breve che si spense in fretta. «Il bardo Meer è giunto presso di noi animato da un grave scopo e da un serio intento: sembra che il lontano occidente sia in fermento e che le tribù selvagge dei Fratelli dei Cavalliche vivono nel settentrione stiano migrando.» Parve che nella piazza tutti trattenessero il respiro in preda ad uno sgomento tacito ma più rumoroso del crepitare stesso dell'enorme falò, mentre Admi si passava entrambe le mani sulla fronte, spingendo inconsciamente indietro capelli che non esistevano più. «Possano gli dèi concedere che questi conflitti rimangano confinati a loro» proseguì poi, «ma chi può sapere quali siano le intenzioni degli dèi? I Fratelli dei Cavalli dell'occidente,nostri alleati nel corso di questi lunghi anni, stanno fortificando le loro città, e da quanto il bardo Meer mi ha detto, è bene che anche noi si provveda alla difesa, per cui da questo momento siamo in stato di allarme militare e la guardia verrà raddoppiata.» Ci furono mormorii, cenni di assenso, e la folla parve raccogliersi in un gruppo più compatto prima di scivolare di nuovo nel silenzio; in cima al muretto, Jahdo si spostò per essere più vicino alla tribuna, sulla quale poteva vedere Meer girare lentamente la testa di qua e di là come se stesse sondando l'umore dell'assemblea. «Dal momento che per raggiungerci ha sostenuto un viaggio duro e lungo, il bardo Meer intende reclamare una ricompensa» proseguì intanto Admi. «È sua intenzione proseguire il cammino al di là delle nostre terre, là dove nessuno dei nostri mercanti è disposto a spingersi, e ha bisogno di un servitore e di una guida. Essendo cieco, gli serve un ragazzo che lo assista durante i suoi vagabondaggi, adesso che non potrà più viaggiare all'interno di una carovana.» Ricordando troppo tardi la premonizione di sua sorella, Jahdo si aggrappò al muretto, paralizzato come un ratto messo con le spalle al muro da una donnola, mentre il Consigliere Verrarc si portava al limitare dei gradini e spostava lo sguardo nella sua direzione, proprio nel momento in cui il fuoco traditore levava una fiammata più intensa delle altre che gli impedì
di decifrare i suoi freddi occhi azzurri. Intanto dalla folla parecchi uomini gridarono una domanda. «Si sta dirigendo ad est» rispose Admi, abbandonando l'abituale retorica sotto la pressione dovuta alla tensione del momento. «Afferma di avere un incarico da assolvere lungo il confine che abbiamo in comune con gli Schiavisti.» Jahdo si sentì assalire da un gelo e da una debolezza tali che per poco non cadde dal muretto e dovette aggrapparsi alle pietre grezze per sorreggersi, affrettandosi poi a saltare giù per nascondersi in mezzo alla massa dei cittadini vociferanti. Ormai però era troppo tardi... Verrarc stava già parlando con gli uomini della milizia, convocandone un paio che subito s'immersero fra la folla e puntarono dritti verso di lui. Jahdo cercò di fuggire, ma intrappolato nella foresta di adulti ammassati non trovò dove andare e un momento più tardi la mano pesante di Verrarc gli calò sulla spalla, costringendolo a girarsi verso di lui. «Meer si ricordava di te» sorrise il consigliere. «Ha chiesto che gli portassimo il ragazzo che odora di donnola e che ha un cuore coraggioso.» Jahdo incontrò il suo sguardo ed ebbe di nuovo l'impressione di scivolare in un vortice mentale e di sprofondare sempre più in basso, annegando nel lago costituito dagli occhi di Verrarc, poi da quella che gli parve una distanza enorme sentì giungere l'urlo di rabbia di una donna. Gli urli andarono quindi aumentando d'intensità, si fecero più vicini e si trasformarono nella voce di sua madre, che ebbe l'effetto di infrangere l'incantesimo: quando tornò a vedere con chiarezza, Jahdo scorse sopra di sé il volto materno. «Non puoi farlo, non puoi! Come hai potuto anche soltanto pensarlo?» «È il vincolo imposto dal trattato, Dera!» esclamò Verrarc, indietreggiando e sollevando una mano come per difendersi da un attacco fisico. «È necessario che qualcuno vada con il bardo... oppure vuoi che un esercito di Fratelli dei Cavalli assedi la città accusandoci di aver infranto un trattato?» «Lui ha appena dieci anni! Manda un altro ragazzo, scegli qualcuno della milizia.» «Meer non ha chiesto un altro ragazzo.» Con un ringhio animalesco Dera volse le spalle al consigliere e cominciò a farsi largo in direzione della gradinata trascinando con sé Jahdo e seguita dalle guardie e da Verrarc, che continuò a discutere con lei per tutto il tragitto. Intorno a loro la folla intanto si stava assottigliando e muovendo, a mano a mano che la maggior parte dei cittadini si dirigeva verso le porte
della piazza, e Jahdo si sentì pronto a scommettere che la famiglia di ogni altro ragazzo della città stava correndo a mettersi al sicuro: sotto il bagliore delle torce che rischiaravano il colonnato Meer era in attesa con le braccia incrociate sul petto. «Ascoltami, tu!» ringhiò Dera. «Non m'importa se sei uno degli dèi stessi sceso sulla terra. Non porterai via mio figlio.» «Dera, per favore, tieni a freno la lingua!» supplicò Verrarc, che appariva terrorizzato. «Offenderai il nostro ospite.» Intanto Lael si stava facendo largo fra la folla, seguito da Niffa, da Demet e da Kiel, ma Dera ignorò sia il marito che il consigliere e agitò invece un dito sotto il naso piatto di Meer. «E poi si può sapere chi credi di essere a venire qui in questo modo e...» cominciò a inveire. «Per favore, buona donna!» la interruppe Meer, sollevando una grossa mano per chiedere silenzio. «Io vengo a voi come supplice in stato di bisogno e ti imploro di permettere a tuo figlio di venire con me. Ti prometto che non lo tratterò come uno schiavo ma che gli userò la stessa bontà e tenerezza che avrei per il mio nipote primogenito.» Di fronte a quelle parole Dera esitò e Verrarc si lasciò sfuggire un borbottio di stupore. «Le parole di una madre sono legge, consigliere» scattò Meer. «Mia buona donna, oggi mentre attraversavo la tua città ho fiutato paura dovunque, tranne che su tuo figlio: lui è come una delle vostre donnole, molto piccolo ma con il cuore di un lupo, ed io non posso viaggiare solo» proseguì, sollevando una mano a sfiorare un'orbita vuota. «Mia madre ha pianto quando mi hanno accecato, ma alla fine è stata soddisfatta della mia vocazione. Per quel che ne so un grande destino può essere in attesa del tuo ragazzo: vorresti forse bloccare la sua strada?» «Ecco» replicò Dera, sbuffando con minor vigore, «se stessi andando in qualsiasi altra direzione che non fosse l'est...» «In effetti il nome degli Schiavisti non è uno che si possa pronunciare per scherzo. Presso il mio popolo li chiamiamo i Lijik Ganda, i Saccheggiatori Rossi: un eone fa sono piombati su di noi seminando stragi che ci hanno spinti lontano dalla nostra terra natale e ci hanno fatti sprofondare nel peccato e nella degradazione. Sventura, sventura per il popolo del cavallo, che nella disperazione si è lasciato spingere a simili peccati! Credi forse che abbiamo dimenticato tali spaventosi eventi? Non ti voglio menti-
re: sto portando tuo figlio incontro al pericolo, ma farei lo stesso con mio nipote, se ne avessi uno.» «Questa tua missione è importante fino a questo punto?» intervenne Lael. Mentre lui parlava, Meer si girò leggermente in direzione del Consigliere Verrarc in un gesto fugace e involontario che per fortuna parve non essere notato da Verrarc, che stava sussurrando qualcosa ad uno degli uomini della milizia. «Lo è per me, anche se forse non lo è per nessun altro» rispose quindi. «Mia madre mi ha sottoposto ad un geas che riguarda mio fratello, ed io ho motivo di ritenere che lui sia andato ad est.» Jahdo ebbe l'impressione che il suo tono fosse troppo disinvolto e questo lo indusse a chiedersi se il bardo stava mentendo, ma poi si disse che probabilmente quest'impressione era dovuta al fatto che anche lui aveva qualcosa da nascondere al consigliere... e non appena formulò quel pensiero le parole gli sfuggirono spontanee dalle labbra. «Mamma, io voglio andare con lui.» Nel momento stesso in cui parlò fu assalito dall'orrore per ciò che aveva appena fatto, ma ormai non poteva più rimangiarsi la propria affermazione. Dera levò le braccia verso il cielo e si lasciò sfuggire un acuto gemito simile ad un fugace singhiozzo subito soffocato, e Lael si girò a fissare il figlio con la bocca contratta per l'angoscia. «Se è una cosa dovuta in base al trattato e se davvero tu vuoi andare con lui, allora non c'è molto che io e tua madre si possa dire al riguardo» affermò infine. «Sei però certo della tua decisione, ragazzo? Considerata la tua giovane età, puoi essere certo di sapere quello che vuoi davvero?» Jahdo si sentì assalire da un tremito violento per lo sforzo di emettere le parole che la sua bocca traditrice rifiutava di pronunciare. No, no, non voglio andare, non parlavo sul serio, avrebbe voluto dire, ma per quanto il cuore gli martellasse nel petto come un tamburo non riuscì ad aprire bocca. «Lui sta fiutando l'approssimarsi di grandi cose, mio brav'uomo» dichiarò intanto Meer. «Perfino un bambino può avvertire il destino.» «Destino?» ripeté Dera, in tono sprezzante. «Destino un accidente!» «Mia buona donna, ti prego. Con un po' di fortuna non dovremo neppure attraversare il confine con le terre degli Schiavisti.» «Hah! Quel genere di fortuna ha sempre la tendenza ad essere scarso. Non intendo permettere al mio ragazzo...»
All'improvviso Dera smise di parlare e Meer si bloccò nell'atto di accennare a interromperla, girandosi e spostando di qua e di là la grossa testa come se si stesse sforzando di sentire un suono appena percettibile. Soltanto allora Jahdo si accorse che lui stesso... come tutti i presenti... si stava girando a sua volta verso Niffa per fissarla, anche se lei non aveva detto una sola parola. La ragazza si era fatta pallidissima in volto e alla luce incerta delle torce i suoi occhi sembravano enormi polle d'ombra e apparivano vuoti quanto quelli del bardo, tanto che Demet l'afferrò per un braccio per sorreggerla. «Lascialo andare, mamma» sussurrò infine la ragazza,con voce appena udibile. «Sarà più al sicuro là che qui.» Involontariamente, Jahdo scoccò un'occhiata a Verrarc, che si trovava alle spalle di sua sorella, e colse sul suo viso uno stranissimo sorriso che gli ricordò quello di un compagno di gioco che fosse stato sorpreso a barare. Dera rifletté per un lungo momento, valutando seriamente la strana affermazione di sua figlia come faceva sempre ogni volta che Niffa si comportava in quel modo, poi parve per un momento sul punto di parlare e infine scoppiò in pianto, allontanandosi fra quel che restava della folla. Imprecando sottovoce, Kiel si affrettò a seguirla. «Bene, allora è tutto risolto» commentò Verrarc, sfregandosi le mani e venendo avanti. «Lael, dal momento che tuo figlio sta adempiendo ad un obbligo per conto dell'intera cittadinanza il consiglio lo fornirà di un pony e di tutte le provviste necessarie per il viaggio. Meer, il portavoce ed io abbiamo pensato che potremmo metterti a disposizione anche alcune guardie armate, diciamo una squadra di uomini della milizia e alcuni animali da soma.» «Potete farne a meno, consigliere» replicò Meer. «Lo scopo del mio viaggio è proprio quello di evitare una cosa del genere, giusto? Inoltre il ragazzo ed io saremo più al sicuro se lasciati a noi stessi, perché conosco un paio di trucchi che mi permetteranno di usare l'odorato per mettermi al sicuro in caso di necessità. Se ce ne sarà bisogno io e lui ci potremo nascondere in luoghi selvaggi, mentre nascondere una squadra di uomini armati in una foresta esulerebbe dalle mie capacità.» «Nascondersi?» esclamò Lael, avanzando verso di lui. «Da cosa? Aspetta un momento, buon bardo. Non avevo idea...» «Pà!» scattò Niffa. «È necessario che tu gli permetta di andare.»
«Suvvia, mio buon signore» aggiunse Meer. «La tradizione ci insegna che una delle cinquantadue cose stabilite è questa: quando le donne pronunciano la legge gli uomini devono fare ciò che è stato loro detto.» Lael si girò verso di lui, del tutto sconcertato da quell'affermazione, anche se il bardo non poté naturalmente notare il suo gesto. «Lui è d'accordo» tagliò corto Niffa. «Jahdo, adesso vieni a casa con me, perché dobbiamo preparare il tuo bagaglio.» Lael accennò a protestare ancora, poi si limitò a levare le mani al cielo in un gesto di rimprovero rivolto agli dèi e a seguire i due ragazzi che si stavano allontanando attraversò la piazza ormai semivuota. Nel guardarsi alle spalle Jahdo vide che anche Demet li stava seguendo di corsa e che Verrarc e il Gel da'Thae erano fermi dove li avevano lasciati, intenti a conferire fra loro, mentre il resto dei consiglieri si teneva ansiosamente stretto intorno a loro. La famiglia trascorse una serata infelice raccolta intorno al focolare centrale dove due candele racchiuse in altrettante lanterne proiettavano lunghe ombre tremolanti sulle pareti, sostituendo il fuoco che nessuno aveva voglia di accendere in una notte tanto afosa. Per molto tempo Dera e Lael camminarono avanti e indietro per la stanza litigando e imprecando uno contro l'altra e contro il consiglio cittadino mentre il resto della famiglia si limitava ad ascoltare, Niffa e Demet seduti su una panca di legno, Kiel appoggiato con aria furente allo stipite della soglia e Jahdo accoccolato in un angolo con una donnola stretta fra le braccia perché gli desse conforto. D'un tratto si rese conto che suo padre gli stava parlando. «Perché? Perché hai detto di voler andare con lui?» Jahdo aprì la bocca per rispondere, soltanto per scoprire di non avere nulla da dire. Per quanto si sforzasse di ricordare cosa lo aveva indotto a parlare l'intero episodio avvenuto accanto al fuoco del consiglio si era già sfumato nella sua mente come un sogno ricordato in modo vago. «Forse per amore di avventura?» insistette Lael, addolcendo il tono di voce, poi si accoccolò per portarsi all'altezza di Jahdo e insistette: «Ragazzo, ragazzo, a me puoi dirlo. Cosa c'è che non va? Hai dei ripensamenti?» Jahdo annuì e Lael esalò con violenza il fiato. «Adesso è troppo tardi per uscire da questa situazione. Avresti dovuto riflettere quando hai parlato. Per gli dèi, qui non possiamo certo fare a meno di te, considerato il lavoro che abbiamo in questo periodo dell'anno.» «Lael!» intervenne Demet. «Se il mio sergente me lo permetterà verrò io a prendere il posto di Jahdo.»
Niffa gli rivolse un sorriso smagliante che lo fece arrossire, ma Lael finse di non notare la cosa. «Questo è generoso da parte tua, ragazzo» replicò soltanto. «Parlerò io stesso con il sergente. Sono passati parecchi anni da quando ho prestato servizio nella milizia, e non mi dispiacerebbe avere a portata di mano qualcuno abile con la spada.» «Perché, Pà?» domandò Jahdo, ritrovando infine la voce. «Non lo so» rispose Lael, improvvisamente a disagio. «È solo che c'è qualcosa che non va, posso avvertirlo.» «Tutto non va!» esclamò Dera, cominciando a piangere. «Jahdo, Jahdo! Nulla sarà più come deve essere.» Jahdo serrò la donnola fra le braccia con tanta forza che la bestiola girò di scatto la testa a mordergli il polso, poi si svincolò e saettò nell'altra stanza, mentre lui si alzava in piedi. «Mamma, non piangere! Per favore! È necessario che io faccia questo disse. Gli sembrava di essere impegnato a lottare per aprire una porta chiusa a chiave, spingendo e picchiando contro una lastra di solido legno di quercia, senza però riuscire a rivelare la pura e semplice verità, e cioè che non era mai stata sua intenzione acconsentire.» «Almeno potresti dire a tua madre il perché» scattò Lael, e l'intera famiglia si girò verso il ragazzo, in attesa che questi parlasse. «Non posso farlo» confessò Jahdo. «Non so il perché.» «E pensare che sei mio figlio!» esclamò Lael, sollevando le mani al cielo con un sospiro esasperato. «Oh, dèi!» «Pà!» esclamò Niffa, venendo in soccorso del fratello. «Lascialo in pace, tanto adesso non c'è più niente da fare, quali che siano i motivi della sua decisione.» Annuendo, Dera si asciugò gli occhi con uno straccio. «Devo dire una cosa a favore di quel bardo dei Gel da'Thae» ringhiò. «Lui almeno nutre un certo rispetto per un cuore di madre, contrariamente al nostro Verro. Lo conosco fin da quando era un misero bambinetto alla mercé di quel suo padre violento, ed io ero la sola donna in città che osasse affrontare il vecchio Renno e dirgli di tenere lontana la cinghia dalla schiena del ragazzo. Ha un bel coraggio a trattare così uno dei miei figli, adesso che ha fatto strada nel mondo!» Jahdo si sforzò di parlare a tal punto che cominciò a tremare, ma non riuscì ad emettere suono. Vagamente, ricordava che Verrarc gli aveva in
qualche modo risparmiato la vita, ma non riuscì a trovare il modo di dirlo a sua madre. «Il ragazzo è esausto» intervenne intanto Demet. «Lael, è impossibile aggiustare un piatto che si è rotto, giusto? Tanto vale lasciare che Jahdo vada a dormire, considerato che ne ha bisogno.» Riflettendo che Demet era senza dubbio l'ideale come futuro cognato, Jahdo si ritirò nella camera da letto prima che i genitori potessero ricominciare a tormentarlo. Per quanto fosse stato certo che non sarebbe riuscito ad addormentarsi, Jahdo riaprì gli occhi quando ormai stava albeggiando: Kiel e Niffa dormivano accanto a lui avvolti nelle loro coperte, le donnole erano ammucchiate in gruppetti di due e di tre sui loro nidi di paglia, e il silenzio era assoluto. Alzatosi in piedi, Jahdo prese in considerazione l'idea di svegliare i suoi familiari, ma poi decise che non avrebbe sopportato di dover dire addio a tutti, quindi si vestì, infilò i suoi stivali più pesanti e sgusciò fuori della stanza in punta di piedi, oltrepassando il letto dei suoi genitori per raggiungere il sacco che aveva preparato la notte precedente e che conteneva il suo poco vestiario di ricambio insieme al mantello invernale e al coltello con il manico d'osso che gli era stato regalato da suo nonno. Raggiunta la porta dell'alloggio si fermò per un momento a contemplare la grigia luce diurna che cominciava a rischiarare il passaggio che portava all'esterno, consapevole che se si fosse voltato a guardarsi indietro sarebbe scoppiato a piangere, poi afferrò il sacco e si affrettò ad uscire. Percorso lo stretto passaggio scese la scala di legno e spiccò la corsa lungo l'ampia strada sottostante, andando quasi a sbattere contro il Consigliere Verrarc, che alla luce del giorno sembrava avere un aspetto malsano... o almeno questo era il solo termine che Jahdo riuscì a trovare per descrivere il suo volto, dal momento che era pallidissimo, con gli occhi che apparivano enormi e infossati nelle orbite gonfie e segnate da cerchi neri; alle spalle di Verrarc c'erano due guardie armate e dotate di cotta di maglia sotto l'ampio tabarro rosso che le contrassegnava come servitori del Consiglio dei Cinque, e anche se si trattava di uomini che lui e i suoi genitori conoscevano bene, Jahdo li vide in quel momento come due carcerieri. «Eccolo qui» commentò Verrarc, sforzandosi di esibire un sorriso. «Jahdo, il consiglio ti manda i suoi ringraziamenti ufficiali... ti rendi conto di cosa questo significhi? Addossandoti questo fardello che ci era imposto dai vincoli stabiliti dal trattato hai scelto di svolgere un incarico per conto di
tutti noi... della città, del consiglio, della tua famiglia. Sei un eroe, ragazzo!» Le guardie annuirono con aria solenne ma Jahdo si limitò a scrollare le spalle perché sapeva che se avesse cercato di dire una sola parola avrebbe cominciato a piangere e si sarebbe coperto di vergogna; quando poi raggiunsero il molo principale dove l'intero consiglio si era riunito per accomiatarsi da un semplice cacciatore di topi, il ragazzo si lasciò però trascinare dall'entusiasmo del momento allorché Admi venne avanti di persona per prenderlo per mano e guidarlo a bordo della chiatta, sul cui albero le bandiere cittadine sventolavano sotto il soffio della brezza che stava dissolvendo la foschia della notte. Tutt'intorno i consiglieri s'inchinarono, i rematori salutarono e i membri della milizia fissarono con reverenziale rispetto il ragazzo, che sentì il cuore cominciare a martellargli nel petto di fronte all'onore che gli stavano rendendo: forse dopo tutto era davvero un eroe, forse voleva davvero partire. Vicino alle porte principali Meer era in attesa con il suo enorme cavallo bianco e con il bastone stretto in mano; allorché il Gel da'Thae volse i suoi occhi ciechi in direzione della processione che si stava avvicinando e pronunciò un saluto con la sua voce tonante, il senso d'importanza che Jahdo stava ricavando dagli onori tributatigli si dissolse come nebbia al sole. «Allora, Jahdo, sei pronto per il nostro viaggio?» chiese il bardo. «A dire il vero no» replicò suo malgrado il ragazzo. «Ho paura, Meer.» I consiglieri sussultarono e distolsero lo sguardo, ma il Gel da'Thae si limitò a scoppiare in una risata. «Ne ho anch'io» rispose. «Del resto è giusto che noi si abbia paura, perché non siamo due guerrieri, giusto?» «Infatti» convenne Jahdo. «Però vorrei che lo fossimo.» «Consigliere Verrarc» chiamò Meer, ridendo ancora. «Dove sei?» «Sono qui, buon signore» replicò Verrarc, venendo avanti. «I miei uomini mi hanno riferito che hai rifiutato il pony che volevamo dare al ragazzo.» «Infatti. Ci basteranno il mulo da soma e le provviste che voi ci avete generosamente elargito. Jahdo e io cammineremo, perché non siamo dei guerrieri ma soltanto un uomo cieco e un ragazzo e ci si addice quindi di più viaggiare a piedi, senza contare che comporterà rischi minori. Nel corso di tutto il mio lungo viaggio dalle stazioni commerciali dell'est ho badato ad apparire sempre umile e raccomando lo stesso anche a te, Jahdo, a-
mico mio, perché ad un uomo conviene mostrarsi umile quando corre il rischio di incontrare i suoi nemici ancestrali.» Nessuno parve trovare parole forbite con cui replicare a quell'affermazione. «Ora rivolgiamoci agli dèi e imploriamoli di concederci un viaggio sicuro» proseguì intanto Meer, «perché dopo tutto ogni nostra azione risiede nelle mani degli dèi.» Gettatosi in ginocchio chinò quindi il capo e protese le braccia in fuori in atteggiamento di supplica, esclamando: «Oh dèi che dimorate al di là del cielo, onnipotenti e onniveggenti, e soprattutto voi divinità delle strade, Tanbala del Nord e Rinbala del Sud, Signori del Tuono e della Tempesta, udite la nostra preghiera!» Meer continuò a pregare per parecchio tempo, sia nella propria lingua che in quella del Rhiddaer, mentre gli uomini presenti spostavano di continuo lo sguardo di qua e di là in preda all'imbarazzo e Jahdo contemplava con aria affascinata lo spettacolo offerto dal bardo. Quando pregava, il popolo del Rhiddaer era infatti abituato a farlo restando in piedi e fronteggiando la dimora del dio a cui si stava rivolgendo, sia che si trattasse di un albero o di una sorgente calda o di un incendio montano, per cui prima di allora lui non aveva mai visto nessuno prostrarsi davanti agli dèi, una vista che lo metteva a disagio. Finalmente Meer concluse la sua preghiera e si rialzò in piedi, spolverandosi i calzoni di cuoio con l'aria di chi avesse appena fatto una cosa del tutto normale, e gli uomini che lo attorniavano si lasciarono fuggire un sospiro di sollievo mentre Verrarc consegnava a Jahdo la cavezza di un ottimo mulo baio carico di sacchi di tela. «Arrivederci, ragazzo» disse. «Spero che ci rivedremo presto.» Nel prendere la cavezza Jahdo pensò che in tutta la sua vita non aveva mai sentito un augurio meno sincero di quello. Allorché le porte si spalancarono si portò in testa conducendo il mulo per la cavezza ed emettendo gli stessi suoni sommessi che aveva sempre usato per incoraggiare le donnole, ma una delle guardie si protese a porgergli un frustino. «Picchia quel mulo quanto serve» consigliò. «Sono brutte bestie testarde.» «Un momento!» tuonò Meer. «Cosa ti ha dato... un bastone o qualcosa del genere? Gettalo via, ragazzo: t'insegnerò io come controllare un mulo, e ti garantisco che le percosse non servono a nulla.»
Certo che Meer non potesse notarla a causa della sua cecità la guardia sogghignò e levò gli occhi al cielo, ma Jahdo gettò comunque via il frustino. Per tutta la mattina il ragazzo e il Gel da'Thae seguirono la strada di terra battuta che si snodava verso est attraverso un territorio abbastanza familiare; anche se Jahdo non si era mai spinto a più di due o tre chilometri da Cerr Cawnen, infatti, i contadini che abitavano quelle zone facevano comunque parte della sua gente e lui aveva familiarità con le loro case di legno dipinte di bianco e con il tetto di assi, che sorgevano nel centro di campi di terriccio vulcanico tanto fertile da sembrare tale per opera di qualche magia, così come gli erano familiari anche gli uomini ben vestiti e i bambini dall'aria pasciuta che abbandonavano l'aratro o il bestiame per correre verso la strada a guardarli passare quando lui e Meer si trovavano a costeggiare la recinzione di un campo o di un pascolo. Durante i primi chilometri di marcia Meer procedette in silenzio, agitando di qua e di là il suo bastone davanti ai piedi con una mano massiccia e stringendo nell'altra le redini del cavallo, e in un primo tempo Jahdo fu contento di essere ignorato perché era ancora oppresso dalla nostalgia di casa; a mano a mano che si spinsero sempre più lontano dalla città e che il sole salì in alto nel cielo, però, gli riuscì sempre più difficile trattenere il pianto e controllare il borbottio dello stomaco. Quella mattina non aveva infatti mangiato nulla e adesso gli riusciva facile immaginare la sua famiglia che tornava a casa per il pasto di mezzogiorno e si radunava intorno al lungo tavolo in attesa che la mamma servisse la zuppa dalla pentola e tagliasse a pezzi il pane... un singhiozzo represso gli sfuggì dalle labbra a quel pensiero. «Cosa succede?» tuonò Meer. «Cosa ho sentito?» «Nulla, buon bardo.» «Hah! Non puoi ingannare il mio udito, ragazzo, quindi non ci provare neppure. Avverto il calore del sole sulla schiena... il mezzogiorno è vicino?» «In effetti sì.» «Allora è tempo di fermarsi e di scoprire che sorta di provviste i tuoi consiglieri ci hanno fornito. Guardati intorno e controlla se vedi nelle vicinanze qualche corso d'acqua, perché dobbiamo abbeverare le bestie.» Circa quattrocento metri più avanti lungo la strada Jahdo trovò un ruscelletto che scorreva fra rive erbose. Lavorando secondo le direttive di Meer procedette quindi a slacciare le cinghie delle selle da soma, ma il
bardo dovette provvedere di persona a toglierle dalla groppa degli animali: nonostante la sua cecità, il Gel da'Thae si muoveva con notevole sicurezza quando si trattava di accudire gli animali, e nel guardarlo strigliare con una manciata d'erba il proprio cavallo bianco, Baki, fischiettando al tempo stesso fra sé, oppure nell'osservarlo mentre accarezzava l'animale e lo guidava ad abbeverarsi, era difficile ricordarsi che lui era cieco. «Lo chiameremo Gidro» annunciò Meer, dopo aver elargito le stesse attenzioni anche al mulo. «Nel linguaggio del mio popolo è una parola che significa "forte", e in effetti questo è un bel mulo forte.» Gidro reagì a quelle parole appoggiando la fronte contro la testa del bardo e sbuffando. «I muli sono una delle tredici bestie intelligenti, giovane Jahdo. La tua gente ne abusa e li definisce cocciuti, ma chi può biasimare i muli? Un mulo si chiede perché debba sudare e sfiancarsi la schiena a beneficio di una creatura glabra a due zampe che puzza di carne e di urina, per ricevere in cambio una manciata di fieno e una baracca piena di correnti, e tende a mandare tutti al diavolo.» Jahdo scoppiò a ridere suo malgrado. «Così va meglio, ragazzo» approvò Meer. «So che quella che ti ho chiesto di fare è una cosa difficile. Adesso fruga in quei sacchi e cerca qualcosa da mangiare per entrambi.» Con sua estrema soddisfazione, Jahdo trovò notevoli quantità di cibo riposte nelle diverse sacche di stoffa, compresi alcuni appetitosi dolcetti al miele. Meer gli disse di prendere un po' di pane nero e di formaggio, che Jahdo affettò con il coltello del nonno, e prima di mangiare recitò un'altra preghiera, per fortuna molto più corta di quella pronunciata a Cerr Cawnen, per ringraziare il dio Elmandrel del cibo che stavano per consumare. «Gli dèi hanno molta importanza per te, vero, Meer?» osservò Jahdo. «Sì, e così dovrebbe essere per tutti i Gel da'Thae, perché ai loro occhi noi siamo peccatori più immondi dei vermi» dichiarò Meer, protendendo una mano per ricevere il proprio pranzo. «Ti ringrazio, ragazzo. Devo dire che questo formaggio ha un buon odore» commentò, poi riprese: «In ogni caso, noi tutti abbiamo peccato grandemente contro i trecentosessantacinque dèi e contro le migliaia e migliaia di Figli degli Dèi, all'epoca in cui i Saccheggiatori Rossi si sono abbattuti su di noi. Anche il tuo popolo ha sofferto molto a causa dei Lijik Ganda, ma per quanto vittima non ha peccato.» «Er... ecco... è una cosa splendida.»
Meer si limitò ad emettere un grugnito e ad addentare la sua porzione di pane e formaggio, subito imitato da Jahdo, e per parecchio tempo nessuno dei due pronunciò più una sola parola. Jahdo aveva sentito narrare le storie dei tempi antichi da parte dei preti e dei cantori del suo popolo che recitavano quelle narrazioni in occasione dei giorni di festa pubblica, come le celebrazioni che avevano luogo in primavera e al tempo del raccolto, ma non aveva mai supposto che quegli antichi eventi avrebbero un giorno proteso le loro mani ormai morte per toccare la sua vita... dopo tutto per lui gli Schiavisti erano esistiti sempre e soltanto nelle storie che si usavano per spaventare i bambini e indurli a comportarsi bene, mentre adesso aveva appena scoperto che erano reali e stava viaggiando verso le loro terre. Secondo le storie nel lontano est c'era una terra molto remota dove un tempo era sorto uno splendido regno che apparteneva agli antenati del popolo del Rhiddaer, che là vivevano in pace e in prosperità a contatto con gli alberi e le sorgenti e gli antichi dèi. In un cupo giorno era però giunto un nuovo popolo di guerrieri a cavallo, che erano piombati sui pacifici contadini uccidendo e schiavizzando per poi costruire sulla terra così rubata e con il lavoro dei suoi abitanti resi schiavi torri e città di pietra formate da case rotonde, dove si erano stabiliti con ogni comodità costringendo gli antenati del popolo del Rhiddaer a lavorare nei campi. Pochi per volta quegli antenati erano però fuggiti in cerca della libertà, e anche se alcuni erano morti nel tentativo altri avevano trovato una nuova terra, il Rhiddaer, dove avevano proibito per legge che potessero mai esistere re e nobili come quelli che comandavano gli Schiavisti. Quanto agli invasori, essi erano infine andati incontro alla rovina a causa della loro stessa natura sanguinaria che aveva scatenato una enorme guerra civile durata centocinquant'anni, da cui il loro regno era uscito devastato. La maggior parte degli antenati del popolo del Rhiddaer era riuscito a riguadagnare la libertà in quei giorni di sventura per gli Schiavisti e a raggiungere il Rhiddaer, dove per molto tempo tutti avevano sperato che gli Schiavisti si fossero sterminati a vicenda. Sfortunatamente, però, la loro follia combattiva li aveva abbandonati e adesso il loro regno era di nuovo prospero. «Meer» chiamò d'un tratto Jahdo. «Le antiche storie dicono che gli Schiavisti avevano l'abitudine di tagliare la testa alle persone e di legarla alla loro sella o in altri posti, ma questo non può essere vero... giusto?» «Temo che lo sia, ragazzo, perché le tradizioni trasmesse da un bardo all'altro lo confermano.»
Dopo quella lunga e orribile giornata accettare anche le tradizioni parve esulare dalla capacità di resistenza di Jahdo, che nascose la faccia fra le mani e scoppiò in pianto. Accanto a sé senti Meer sospirare e muoversi, poi la sua grossa mano gli cercò a tentoni la spalla e batté su di essa un colpetto per confortarlo. «Suvvia» lo consolò il bardo, «dobbiamo riporre la nostra fiducia negli dèi: essi ci guideranno e ci proteggeranno, facendo in modo che gli Schiavisti non si accorgano neppure della nostra presenza lungo il loro confine.» «Mi dispiace di aver pianto.» «Non credi che anche a me dolga il cuore? Te lo ripeto, ragazzo, noi non siamo guerrieri, quindi gli dèi non ci infliggeranno l'aspro onore che è loro riservato.» «Se mai tornerò a casa, quando crescerò io dovrò però diventare un guerriero... voglio dire che dovrò entrare nella milizia, come fanno tutti. Suppongo che fra la tua gente le cose non funzionino in questo modo.» «Infatti. Soltanto pochi prescelti, i migliori fra noi, diventano guerrieri, e si tratta di uomini cupi, immersi nel sangue e nella morte fin da quando sono semplici cuccioli.» «Allora sono esattamente come gli Schiavisti.» «È vero, ma al tuo posto non direi loro una cosa del genere, se mai dovessi incontrarli, come ti potrebbe accadere nei giorni che verranno.» Dopo aver mangiato caricarono di nuovo il cavallo e il mulo e continuarono la marcia verso est per il resto della giornata. Mentre camminavano a volte Meer si metteva a cantare, o almeno Jahdo suppose che stesse facendo questo, dal momento che erano suoni molto diversi dai canti e dalle semplici musiche note al suo popolo. La voce di Meer era profonda e possente come il suo fisico, ma lui pareva cantare con la gola contratta e forzare l'aria fuori dal naso in modo da rendere le note sibilanti e lamentose oltre che possenti nell'intonare melodie che fluivano in su e in giù in una lunga cadenza di quarti di tono e di ritmi alternati. Di tanto in tanto Jahdo si sentì pronto a giurare di aver sentito il bardo emettere note degne di uno strumento a corde pur non avendo nessun accompagnamento musicale, e anche se in un primo tempo quei suoni minacciarono di fargli venire un'emicrania entro la terza canzone cominciò ad individuare il loro ritmo e a trovarlo se non di suo gusto almeno tollerabile. Quella notte si accamparono vicino ad una polla popolata di anatre che si allargava sul pascolo di un contadino, la cui casa di legno sorgeva poco lontano affiancata da un grosso granaio di pietra. Dopo aver mangiato Ja-
hdo raccolse un po' di legna e di esca per preparare un piccolo fuoco, aspettando però ad accenderlo che fosse sceso il buio; mentre calava il crepuscolo il ragazzo si sorprese a fissare la fattoria dalle finestre illuminate e a chiedersi quanto fosse numerosa la famiglia che vi abitava, e se fosse felice. Naturalmente gli venne spontaneo domandarsi se avrebbe mai rivisto i propri familiari e quando questa riflessione lo fece scoppiare nuovamente in pianto Meer lasciò che singhiozzasse fino a sfogarsi del tutto e a sentirsi meglio. «Allora, ragazzo, ti dispiace così tanto di aver detto di voler venire con me?» domandò infine il bardo. Jahdo accennò a replicare ma scoprì che la gola gli si era come congelata e riuscì ad emettere soltanto un flebile suono soffocato. «Cosa significava quel verso?» insistette Meer. «Nulla» replicò Jahdo, strappando una manciata d'erba con cui asciugarsi il naso. Il Gel da'Thae girò la testa massiccia come per guardare verso di lui ma non insistette, lasciando che il silenzio infranto soltanto dal ronzare vellutato degli insetti si protraesse mentre Jahdo gettava via l'erba umida e sporca. «Meer, perché stai andando nell'est?» chiese d'un tratto il ragazzo. «La tua è una domanda pertinente, considerato che ti ho trascinato lontano dalla tua casa e dalla tua famiglia, però non intendo risponderti.» «Un momento, questo non è giusto!» «La giustizia non c'entra nulla con tutto ciò.» Sentendo la propria nostalgia di casa aumentare fino a trasformarsi in un'ira ribollente, Jahdo scattò in piedi. «Allora puoi anche trovare la strada senza di me. Io torno a casa» dichiarò, poi afferrò una delle sacche di viveri che erano sparse per terra e s'incamminò in direzione degli ultimi raggi di luce del sole al tramonto, mentre alle sue spalle Meer emetteva un ululato possente quanto il grido congiunto di una decina di lupi. «Torna indietro, torna indietro!» gridò. Pur sentendolo imprecare e muoversi incespicando, Jahdo continuò a camminare. «Aspetta!» esclamò alle sue spalle il bardo, con voce angosciata. «Aspetta! Ti dirò tutto!» Jahdo si fermò e si girò, indugiando a fissare la sagoma del bardo delineata dagli ultimi residui di chiarore diurno: agitando intorno a sé il basto-
ne, Meer stava cercando di raggiungerlo sul terreno ineguale, ma per quanto si muovesse molto bene per un uomo con la sua infermità si stava comunque allontanando dalla direzione da lui imboccata. Senza di me è un uomo morto, pensò il ragazzo. «Meer, fermati!» gridò infine. «Sto tornando indietro.» Il bardo emise un singhiozzo di sollievo e s'immobilizzò dove si trovava. Dopo averlo raggiunto Jahdo lo accompagnò al campo e lo fece sedere su un tronco, dandosi quindi da fare con l'acciarino per accendere l'esca che aveva preparato, soffiando su di essa fino ad ottenere una piccola fiamma che alimentò con erba secca, con qualche rametto e con pezzi di legna più grossi. Ottenuto infine un fuoco degno di questo nome si ritrasse dal calore eccessivo che esso emanava e vide che Meer era seduto con la testa fra le mani e il volto girato in direzione del fuoco, come se lo stesse fissando... e contemplare l'aria sconfitta del Gel da'Thae gli trasmise una strana sensazione: mai prima di quella sera lui si era trovato a discutere con un adulto... tanto meno con successo... e invece di renderlo esultante questo lo spaventava. «Avanti» disse comunque, rifiutandosi di cedere proprio adesso, «dimmi perché stai andando nell'est.» «Si tratta di una storia lunga e amara, ma hai ragione nell'affermare di avere il diritto di sentirla. Presta però attenzione perché posso tollerare di narrarla una volta soltanto» replicò Meer, poi si schiarì parecchie volte la voce e infine proseguì: «Ho un fratello maggiore che è diventato un potente rakhzan, un uomo che comanda un gruppo di guerrieri... credo che nella vostra lingua voi lo definireste un capitano. In virtù delle sue scorrerie e delle battaglie legittime fra le nostre diverse città lui è diventato famoso ed ha raccolto intorno a sé molti guerrieri liberi oltre ai consueti soldatischiavi che ha comprato con il bottino accumulato.» «Un momento. Soldati-schiavi, hai detto? Come si può dare ad uno schiavo un'arma e ordinargli di combattere?» «Quegli schiavi sono Gel da'Thae per nascita e discendenza, e sanno che se combatteranno bene avranno la libertà.» «Comunque non capisco. Ci sarebbe da pensare che una volta armati si limitino ad uccidere il loro rakhzan per poi fuggire.» «Fuggire dove? Nelle terre selvagge? Sanno che le autorità darebbero loro la caccia e che gli dèi non li aiuterebbero come hanno invece aiutato la tua gente nella fuga, perché loro sarebbero ribelli e traditori.» «Gli dèi ci hanno aiutati?»
«Certamente. Hanno mandato i loro figli a salvarvi e a soccorrervi, sulle pianure erbose del sud.» «Prima d'ora non avevo mai sentito dire nulla di simile. A me risultava che siamo stati aiutati da un popolo di qualche tipo che allevava cavalli. Perché gli dèi ci hanno soccorsi?» «Un momento!» ribatté Meer, con una certa asprezza nella voce. «Vuoi che finisca questa storia oppure no? Se la vuoi sentire fammi meno domande, per favore.» «Mi dispiace.» «D'accordo, sei scusato. Dunque, ti stavo parlando di mio fratello Thavrae... questo è il suo nome di guerriero, anche se quello che nostra madre gli ha dato è Svar. Ahimé, giorno di sventura è stato quello in cui lei lo ha generato, e sventurati sono la sua famiglia e il suo clan per aver vissuto abbastanza a lungo da assistere alla sua infamia!» «Cosa ha fatto?» «Si è prostituito a strane divinità. Divinità? Ho detto divinità? Più probabilmente si tratta di qualcuno dei trecentosessantaquattro demoni! In ogni caso sono falsi dèi, perché si suppone che siano divinità nuove, ma io mi chiedo che razza di dio possa essere una divinità che non era presente a contribuire alla creazione del mondo. Gli dèi non sbucano dal nulla all'improvviso, presentandosi a tavola come qualche zio scapolo in cerca di una buona cena!» Suo malgrado Jahdo si lasciò sfuggire una risatina. «Esattamente ciò che intendevo» annuì con decisione Meer. «Ormai da alcuni anni falsi profeti stanno però circolando in mezzo a noi, parlando di queste divinità fasulle a chiunque sia tanto stupido da dare loro ascolto. Tali cosiddetti veggenti provengono dalle tribù selvagge del lontano nord, dove secondo quanto sostengono loro questi demoni sono apparsi per operare meraviglie. Il nome che citano più spesso è quello di Alshandra, che sarebbe una potente dea della guerra.» «Allora alla tua gente dovrebbe piacere.» «Infatti. Adesso però la maggior parte di quei profeti è scomparsa. Alcuni sono stati catturati e strangolati nella pubblica piazza per ordine delle autorità e gli altri non si fanno più vedere da qualche tempo: si sono fatti furbi, se capisci cosa intendo, però fra noi ci sono degli stolti che hanno dato loro ascolto e fra questi c'è anche mio fratello, sangue del mio sangue, quello che io continuo a considerare il piccolo Svar, che ha giurato fedeltà
a questa creatura chiamata Alshandra e così facendo ha spezzato il cuore a mia madre.» «Non ne dubito, Meer. È davvero una brutta storia» commentò Jahdo, cercando di immaginare come potesse essere la madre di un individuo come Meer e giungendo alla conclusione che doveva essere ancor più formidabile di sua madre. «Suppongo che non sia riuscita a fargli cambiare idea, vero?» «Nessuno è riuscito a indurlo a ragionare, nessuno... né nostra madre, né le zie, né gli zii. In ogni caso alcune settimane fa Thavrae ha condotto i suoi uomini verso est.» «Perché?» «Ecco, in parte per evitare alla nostra città una guerra aperta fra la sua banda di guerra e quella dei suoi rivali. Sotto questo aspetto ha dato ascolto a nostra madre quando lei lo ha implorato di portare via i suoi uomini prima che i cittadini cominciassero a massacrarsi fra loro nelle strade. Vedi, le autorità volevano farlo strangolare per la sua blasfemia, ma non si può arrestare un rakhzan che ha alle spalle la sua banda di guerra.» «Quindi lui ha ancora un certo senso dell'onore.» «Sì, anche se questo è un misero conforto per la nostra povera madre.» «Aspetta un momento... hai detto che questi demoni vivono nel nord, giusto? Allora perché Thavrae sta andando ad est?» «Sto arrivando a questa parte della storia: aspetta e lo saprai. A quanto pare, lui avrebbe ricevuto un messaggio dagli dèi, che lo stanno mandando a recuperare un particolare oggetto nelle terre degli Schiavisti.» «Di cosa si tratta?» «Come faccio a saperlo? Io sono stato incaricato di rintracciare mio fratello e d'implorarlo di tornare a casa.» «Ti ha mandato tua madre?» «Sì.» «E pensi che riuscirai... che riusciremo a trovarlo?» «Non lo so» sospirò Meer, passandosi entrambe le mani nella criniera arruffata. «Ormai lui e i suoi uomini dovrebbero aver trovato questo misterioso oggetto, quale che sia, e spero che li incontreremo sulla via del ritorno.» «Quale via? Non sappiamo neppure dove stiamo andando.» «Questo è vero.» «Allora come puoi sperare di trovarlo?»
«Se arriverò ad una ragionevole distanza da lui il legame che ci unisce in qualità di fratelli ci farà da guida.» «Il cosa?» «Il legame fra fratelli» ripeté Meer, poi esitò a lungo e in fine aggiunse: «Questa è una cosa che non posso assolutamente spiegarti, Jahdo, neppure se tu dovessi porre in atto la minaccia di andartene e di abbandonarmi qui a morire di fame, perché si tratta di una magia propria dei Gel da'Thae, che come tale non può essere condivisa. Posso dirti soltanto che abbiamo pronunciato voti sacri nel tempio.» «Questo è sufficiente. Mia madre dice sempre che quando si pronuncia un giuramento bisogna attenersi ad esso. Comunque non capisco come farai a trovarlo: cosa succederà se lui andrà a nord e noi a sud, o qualcosa del genere?» «In effetti potrebbe succedere, ma un incarico assegnato da una madre è una cosa sacra, quindi io devo almeno tentare.» Jahdo esitò, con aria riflessiva. «Sei certo che si tratti soltanto di questo? A casa ti ho sentito discutere con Verrarc... il Consigliere Verrarc, intendo... e anche se parlavi di tua madre e di cose del genere ho avuto la strana sensazione che non gli stessi dicendo proprio tutto. È veto?» «Sapevo che stavo scegliendo il ragazzo più intelligente della città, e avevo ragione» rise Meer. «In realtà non stavo mentendo ma soltanto omettendo alcuni fatti perché non volevo scendere nei particolari e perché nel Consigliere Verrarc c'è qualcosa che mi fa accapponare la pelle. Si tratta delle cose che sento nella sua voce.» «Cose?» «Sfumature di tono, strane esitazioni, un timbro particolare. Sembra infuriato, ma al tempo stesso puzza di paura spiegò Meer, poi fece una pausa di riflessione e aggiunse:» È una sensazione così sottile che non riesco ad esprimerla a parole, però a modo suo quello è un uomo pericoloso. Jahdo rabbrividì, mentre il ricordo sepolto cercava ancora una volta di affiorare nella sua mente e portava con sé un brivido gelido che gli strappò un piccolo sussulto, inducendo Meer a girarsi verso di lui con aria interrogativa. «Qualcuno che cammina sulla mia tomba» commentò Jahdo, poi sussultò ancora e aggiunse: «Accidenti, vorrei non averlo detto.» «È più probabile che si tratti della brezza notturna, ragazzo. Io non lo considererei un presagio.»
Più tardi, mentre si stava addormentando, Jahdo ricordò che Meer lo aveva giudicato intelligente, e ne fu contento nonostante i guai che questa valutazione gli aveva procurato. Dopo altri tre lenti giorni di viaggio i due si lasciarono infine alle spalle le terre civilizzate. La strada era ormai in costante salita e le ultime fattorie da essi oltrepassate risultarono annidate su colline i cui scarsi pascoli costellati di massi ospitavano adesso pecore e non più bestiame. A mano a mano che la strada rimpicciolì fino a ridursi ad un sentiero sassoso Meer cominciò a preoccuparsi per il cavallo e per il mulo, fermandosi spesso per passare la grossa mano lungo le loro zampe per controllare che non ci fossero gonfiori o distorsioni, spiegando a Jahdo come sollevare gli zoccoli e individuare le spine o i ciottoli che potevano esservisi conficcati, cosa che il ragazzo fece con esitazione perché timoroso di poter ricevere un calcio da uno dei due animali, che però si mostrarono del tutto docili e rimasero immobili finché Meer tenne la loro cavezza o anche soltanto protese una mano ad accarezzarli. «Se una di queste due creature dovesse azzopparsi ci troveremmo nei guai sul serio, ragazzo» commentò il Gel da'Thae. «Lo capisco, e mi prenderò buona cura di loro» garantì il ragazzo. Il mattino successivo si lasciarono alle spalle il Rhiddaer. In realtà il confine non era formalmente contrassegnato da una pietra, e Jahdo comprese di averlo oltrepassato soltanto perché quando gli capitò di guardarsi indietro dalla sommità di una collina non riuscì a vedere più nulla di familiare... né una fattoria, né un pastore e neppure un campo coltivato o un bosco ceduo che indicassero la presenza di esseri umani o di Gel da'Thae. Per un lungo momento indugiò a scrutare l'orizzonte verso occidente, nel tentativo di spingere lo sguardo oltre le basse colline e di individuare la valle, velata di caligine azzurra dalla distanza, in cui aveva trascorso tutta la sua vita, mentre dentro di sé si sentiva lacerato fra la nostalgia della famiglia e una sensazione del tutto nuova, fatta di curiosità per ciò che si stendeva davanti a lui e dell'improvvisa impazienza di vedere il nuovo panorama che si doveva celare a oriente di quelle colline. «Jahdo?» chiamò intanto Meer. «C'è qualcosa che non va?» «Nulla... mi stavo soltanto guardando alle spalle. Adesso è meglio che lasci andare avanti me, perché questa non è più una strada ma soltanto una sorta di pista e non penso che il tuo bastone possa essere una guida sufficiente.»
«Allora precedimi, ragazzo, e rammenta che tu sei i miei occhi, per cui mi dovrai dire tutto quello che vedrai.» «Lo farò.» Ricordarsi di descrivere di continuo ogni cosa a beneficio del bardo cieco risultò essere difficile. Non avendo idea di quali informazioni Meer potesse ritenere utili, in un primo tempo Jahdo esordì descrivendo il paesaggio che si vedeva in lontananza invece di quello che si trovava intorno e davanti a loro, ma grazie ai commenti costanti e sarcastici di Meer imparò ben presto che il piacevole panorama di una valle alberata non valeva come informazione neppure la metà della segnalazione della presenza di un masso che bloccava la pista. Il sentiero, se tale poteva essere definito, si snodava lungo i fianchi delle colline e correva da un tratto erboso al successivo, il che confermò la supposizione di Jahdo che si trattasse di una pista creata dalla selvaggina, una guida così tenue da indurre i due a reputarsi fortunati di essere diretti ad est e di potersi quindi orientare con il sole, perché altrimenti avrebbero potuto facilmente finire per girare in cerchio fra quelle colline spoglie e quelle erte vallate, dove se non altro l'acqua scorreva limpida e abbondante in una moltitudine di ruscelletti e di sorgenti, ammassandosi qua e là in torrenti più profondi che formavano rapide ruggenti ai piedi di qualche burrone poco profondo ma decisamente ripido. Uno di questi piccoli dirupi per poco non si rivelò fatale nel tardo pomeriggio, quando nel costeggiare un torrente in piena Jahdo si concentrò a tal punto sul suo compito di dire a Meer dove mettere i piedi da dimenticare di guardare dove andava lui stesso, con il risultato di portarsi troppo vicino al bordo del dirupo: nel momento in cui sentì il terreno umido sbriciolarsi sotto l'impatto del suo piede il ragazzo lasciò andare la cavezza del mulo per evitare di trascinare Gidro nel vuoto con sé. «Meer!» stridette al tempo stesso. «Sto cadendo!» Poi precipitò nel vuoto, contorcendosi e dimenandosi nell'aria mentre intorno a lui il cielo vorticava azzurro e luminoso e il ruggito delle acque torrenziali sembrava sovrastare ogni altra cosa, e andò a colpire una piccola sporgenza di roccia con un impatto violento e doloroso che gli tolse il respiro. In alto, ad una distanza che gli parve di chilometri e chilometri, sentì il ragliare del mulo spaventato e la voce di Meer che gridava il suo nome, ma per quanto si sforzasse ansimando di immettere aria nei polmoni non riuscì a parlare o a lanciare richiami.
Ho le costole rotte, pensò. Non riuscirò a camminare e finirò per morire qui. D'un tratto si rese conto che dall'alto non giungeva più nessun rumore e la sua prima supposizione indotta dal panico fu che Meer lo avesse abbandonato; subito dopo però si ricordò che il Gel da'Thae aveva troppo bisogno di lui per fare una cosa del genere e sentì il panico aumentare di fronte al timore che il bardo potesse precipitare a sua volta nel vuoto. «Meer!» chiamò infine, vincendo il dolore bruciante ai polmoni. «Sta' attento! Lungo il bordo il terreno è friabile.» «Jahdo! Sia resa grazie ad ogni dio, sei vivo! Resta immobile, ragazzo, e riprendi fiato.» Jahdo fece come gli veniva detto e lasciò che il dolore si placasse a poco a poco mentre ascoltava strani suoni striscianti che provenivano dall'alto; quando poi la faccia di Meer apparve all'improvviso oltre il bordo del costone, il ragazzo si rese conto che il bardo si era disteso prono al suolo e aveva cercato il limitare del precipizio a tentoni con una mano, tenendo stretta nell'altra una corda. «Fa' rumore in modo che possa sentirti» avvertì Meer. «Sei proprio sopra di me.» «Hah! Mi pareva di averti sentito ansimare là sotto» ribatté il bardo, inducendo Jahdo a pensare che se aveva sentito il suo respiro, per quanto affannoso, nonostante il fragore delle rapide sottostanti, il suo udito doveva essere di un'acutezza stupefacente. Quando Meer gli gettò la corda, la cui estremità gli andò a cadere sul petto, Jahdo l'afferrò con una mano e tastò con attenzione intorno a sé con l'altra, appurando di avere a stento lo spazio necessario per sollevarsi a sedere. «Sono tutto intero, Meer!» gridò, non appena si fu issato in posizione seduta e si fu reso conto di non avere ossa rotte anche se era pieno di dolori e di lividi. «Ed ho preso la corda.» «Splendido. Legatela intorno alla vita, ragazzo, ma non troppo stretta perché per salire dovrai fare leva su di essa. Ho fissato l'altra estremità alla sella da soma di Gidro.» Grazie alla trazione esercitata dal mulo, Jahdo riuscì a risalire abbastanza facilmente l'erto pendio, ma arrampicarsi lungo il bordo di terriccio fradicio risultò poi tutt'altro che facile perché la schiena e le spalle gli dolevano terribilmente. Alla fine si trovò comunque a strisciare sul terreno solido e infine si issò in piedi aggrappandosi alla sella di Gidro, mentre poco
lontano Meer si ritraeva lentamente dall'orlo del precipizio e si sollevava a sedere. «Ti ringrazio, mi hai salvato la vita» gli disse Jahdo. «E con essa anche la mia, eh?» commentò Meer, tastandosi il davanti della camicia e cominciando a ripulirla dal fango e dai ciuffi d'erba. «Ti sono comunque grato, perché nel tentare di salvarmi saresti potuto precipitare, rompendoti il collo.» «La maledizione di tua madre mi spaventa più di una simile eventualità, perché la maledizione di una madre segue un uomo anche nel Mondo della Morte. Ero certo di averti perso per sempre, ragazzo. Cosa è successo?» «Ho camminato troppo vicino al precipizio, ecco tutto. Questo terriccio così friabile è pericoloso, Meer, ed è meglio che d'ora in poi tu ne controlli la consistenza con il bastone ad ogni passo.» «Da questo momento lo farò. Vedi un buon posto per accamparci? Sento l'impellente bisogno di riposare.» «Da qui la pista si fa in discesa, e sulla nostra sinistra vedo alcuni alberi e un po' d'erba.» «È in discesa, eh? Mi chiedo se più avanti ci siano delle montagne. Riesci a scorgerne qualcuna all'orizzonte?» «Non ne ho ancora viste, neppure dalla cima di qualche collina, ma del resto non ho mai sentito dire che fra noi e gli Schiavisti ci fossero delle montagne e credo che sia stato per questo che i nostri antenati sono potuti fuggire, dato che non sarebbero mai sopravvissuti ad un viaggio fra le montagne.» «Questo è vero. Un'altra cosa che mi sto chiedendo è se questa città verso cui è diretto Thavrae si trovi a nordest oppure a sudest.» «Non lo sai?» chiese Jahdo, con voce che saliva di tono e si faceva lamentosa. «Temo di no. Le tradizioni sono un po' imprecise quando si tratta di dettagli del genere. Bene, in ogni caso siamo nelle mani degli dèi, nelle quali riposano la nostra vera speranza e la nostra sicurezza. Preghiamo perché essi ci guidino.» Anche se non avrebbe mai osato esprimere un pensiero del genere ad alta voce, Jahdo pensò fra sé che avrebbe preferito riporre la propria fiducia in qualcuno che avesse già visitato quei luoghi... e tuttavia con sua sorpresa non molto tempo dopo ricevettero effettivamente un segno degli dèi, o almeno fu così che Meer interpretò quanto accadde.
Nei giorni che seguirono i due viaggiarono lentamente, fermandosi spesso per permettere a Jahdo di riposare la schiena dolorante, perché anche se aveva avuto la fortuna di non rompersi nessun osso il ragazzo stava comunque soffrendo più di quanto gli fosse mai capitato in tutta la sua vita, e dormire sul nudo terreno non serviva certo ad attenuare l'indolenzimento derivante dai lividi. A volte il pensiero del caldo materasso su cui aveva dormito a casa lo faceva piangere, mentre in altri momenti desiderava semplicemente di essere morto in fondo al precipizio e di aver cessato così di soffrire. Naturalmente non aveva però altra scelta che quella di continuare a viaggiare, perché in fin dei conti tornare indietro non sarebbe stato meno doloroso che proseguire il cammino e con sua sorpresa lui stava scoprendo di poter resistere parecchio al dolore e di avere comunque la forza di occuparsi degli animali e di preparare il campo dopo lunghe ore di duro cammino su quel terreno aspro e ineguale. Il quarto giorno dal sud giunse una violenta tempesta estiva e cominciò a piovere a dirotto. Sebbene fossero ormai inzuppati dalla pioggia, i due cercarono riparo dal vento in una delle circostanti valli alberate, e Meer insistette perché liberassero le bestie dal carico mentre aspettavano che spiovesse sotto quel riparo tutt'altro che perfetto. «Tanto vale che stiano a loro agio, anche se a noi non è possibile convenne Jahdo.» Detesto essere bagnato, mi sento freddo e viscido, i lividi causati dalla caduta mi fanno più male con questa umidità ed ho acqua perfino dentro gli stivali. «Mi pare di dedurre, ragazzo, che non hai mai trascorso molto tempo in zone selvagge.» «Perché avrei dovuto farlo?» «In effetti non ce n'era motivo, perché tu non sei un Gel da'Thae. Vedi, la nostra anima appartiene ai luoghi selvaggi del mondo e in fondo al cuore noi tutti aneliamo a tornare sulle pianure settentrionali che sono la vera patria delle nostre tribù.» «Ma io pensavo che viveste in città, proprio come noi.» «È ovvio che lo facciamo, per poter meglio servire gli dèi in questi ultimi giorni del mondo, però in fondo al cuore rimpiangiamo i giorni in cui cavalcavamo liberi nella nostra patria. I nostri guerrieri abbattono i loro avversari per glorificare questo ricordo e i bardi come me compongono la loro musica per rendere onore ad esso.» «Se la vostra terra vi manca tanto, perché non vi fate ritorno?»
«Non possiamo. Ascoltami bene, Jahdo, perché è molto importante: quando gli Schiavisti hanno attaccato la nostra terra natale noi siamo fuggiti, abbiamo abbandonato il settentrione che era la nostra terra e siamo scappati verso sud, coprendoci tutti di vergogna perché abbandonare la propria terra natale nell'ora del bisogno è una delle tredici cose peggiori che si possano fare. Spinti dall'ira e dalla vergogna abbiamo devastato le città del meridione bruciando e saccheggiando. Oh, vergogna ai Gel da'Thae, che non solo hanno abbandonato la loro terra ma hanno anche distrutto le città che gli dèi stessi avevano eretto per i loro figli! E doppiamente vergogna su di noi per aver levato le armi contro i figli stessi degli dèi, seminando strage in mezzo a loro! A causa di questa vergogna e di questo peccato non possiamo più tornare indietro: i vasti pascoli del settentrione, le montagne di fuoco degli antenati e i caldi fiumi che impediscono all'inverno di avvicinarsi alle loro rive sono perduti per sempre. Capisci cosa ti sto dicendo?» «A dire il vero no. Devi essere davvero molto vecchio per ricordare tutto questo, Meer.» «Non lo ricordo, irritante cucciolo. Questa è tradizione.» «Mi dispiace se sono stato di nuovo scortese, ma quello di cui parli sembra avere per te tanta importanza da far pensare che si tratti di cose avvenute appena l'inverno scorso.» Per tutta risposta Meer emise un ringhio degno di un cane che indusse il ragazzo a lasciar cadere l'argomento. Una volta che si furono presi cura degli animali e li ebbero impastoiati, Meer si accoccolò accanto alle sue sacche di cuoio, che erano state ammucchiate nel punto meno bagnato, e invece di mettersi a pregare come Jahdo si era aspettato di vedergli fare si limitò a rimanere del tutto immobile come se fosse stato uno degli alberi che li attorniavano, vivo ma assolutamente silenzioso, limitandosi a girare di tanto in tanto la testa o a chinarla da un lato come se ogni goccia di pioggia che cadeva e ogni scoiattolo che si muoveva fra i rami gli stesse rivelando qualche importante messaggio. Anche dopo che la pioggia fu cessata lui continuò a restare seduto immobile, fino a quando Jahdo non riuscì più a sopportare il silenzio. «Meer?» chiamò. «Mi sento spaventosamente a disagio.» «Non ne dubito, ragazzo, e ti chiedo scusa. Avanti, togliti quegli stivali bagnati per evitare che ti provochino vesciche ai piedi. Che aspetto ha il cielo?» «Si sta schiarendo in fretta, ma ormai deve essere pomeriggio inoltrato.»
«Ah» commentò Meer, poi rifletté per un momento e aggiunse: «E com'è il terreno intorno a noi?» «Ci sono altre colline, più alte e aspre di quelle che abbiamo superato finora.» «Allora ci accamperemo qui. Sento scorrere un ruscello poco lontano.» «In effetti posso vederlo, e stavo giusto pensando di andare a riempire le borracce. Vuoi che ti porti da bere?» «Sì, se non ti dispiace. Secondo la tradizione una delle cinquantadue cose contradditorie è che sedere sotto la pioggia fa venire sete, e di solito la tradizione è nel giusto.» Jahdo si gettò in spalla un paio di borracce legate una all'altra da un laccio di cuoio e si fece largo nel groviglio di alberi e di felci fino a raggiungere il ruscelletto che scorreva fra rive poco profonde rese scivolose da uno strato di minuscole felci e di muschio. Com'era prevedibile, finì per perdere l'equilibrio e scivolare nell'acqua, dove ritrovò l'equilibrio con uno strillo dovuto all'impatto dei piedi nudi sui ciottoli del fondale. «Attento» avvertì una voce che proveniva da un punto direttamente alle sue spalle. «Il ruscello non è profondo ma è infido.» Nel girarsi di scatto Jahdo vide seduto sulla riva un uomo strano che gli stava sorridendo. Si trattava di un individuo alto e snello, che indossava una lunga tunica verde e calzoni di pelle di daino; i suoi capelli erano del giallo acceso delle giunchiglie, le labbra erano rosse come ciliegie e gli occhi avevano un'innaturale tinta fra l'azzurro e il turchese ed erano scintillanti come gemme. La cosa più strana erano però gli orecchi dell'uomo, lunghi e appuntiti, simili alle felci di primavera. «Quel Gel da'Thae non ha gli occhi» osservò ancora l'uomo. «È un bardo, e per questo è stato accecato.» «Un'usanza disgustosa che peraltro non mi riguarda. Tu sei il suo schiavo?» «Niente affatto!» «Allora cosa sei?» Jahdo si concesse un momento per riflettere. «Quindici giorni fa non lo conoscevo neppure, ma adesso è mio amico rispose infine.» «Benissimo, allora riferiscigli un messaggio. Ciò che le leggende affermano è abbastanza esatto, e in effetti gli Schiavisti si trovano ad est, ma voi dovete andare verso sud. Seguite questo ruscello che si allargherà fino a diventare un fiume e attraversatelo al guado contrassegnato con una pie-
tra, procedendo in direzione del sole nascente. Attenti però a non spingervi troppo oltre, se non volete raggiungere gli Schiavisti nella loro fortezza torreggiante. Credi di poter ricordare tutto questo?» «Senza dubbio signore... ma tu chi sei?» «Riferisci al bardo che il mio nome è Evandar.» «Lo farò, signore. Tornerai ancora da noi, se dovessimo perderci?» «Non te lo posso promettere, perché ho altri affari da sbrigare» ribatté l'uomo, e con quelle parole scomparve in maniera così assoluta e improvvisa da indurre Jahdo a dubitare di aver sognato tutto. Dopo un momento il ragazzo si rese però conto che non poteva certo essersi addormentato in piedi e immerso nell'acqua gelida fino al ginocchio, quindi si affrettò a riempire le borracce e tornò a precipizio dal bardo, che era intento a strigliare il suo cavallo bianco. «Meer, Meer, mi è appena successa una cosa stranissima. Ho visto un uomo, che poi è scomparso all'improvviso.» «Davvero? Comincia dall'inizio, ragazzo, e raccontami tutto con calma.» Jahdo fece come gli era stato detto, badando in modo particolare a riferire con esattezza le indicazioni fornite dall'uomo, e quando ebbe finito Meer rimase a lungo in silenzio, con le mani enormi appoggiate sulla groppa del cavallo come per trarne conforto e con lo sguardo cieco rivolto verso il cielo. «Ebbene» tuonò infine, «avevo detto a tua madre che eri destinato a grandi cose, giusto?» «Hai detto che forse lo ero» replicò Jahdo. «Ed avevo ragione» proseguì il bardo, ignorando la precisazione. «Vedere uno degli dèi è il più grande onore che un uomo può ricevere.» «Quello era uno dei tuoi dèi?» «Lo era. Non ho forse pregato di ottenere una guida? E lui non è forse venuto a fornircela?» Nel sentire quelle parole Jahdo rabbrividì per una sensazione simile allo scivolargli di una manciata di neve lungo la schiena, e impiegò parecchio tempo a trovare la forza di parlare. «Sei certo che fosse un dio?» domandò infine. «A me non sembrava che lo fosse.» «Razza di cucciolo irrispettoso! Non spetta a te mettere in discussione l'aspetto con cui un dio sceglie di manifestarsi a noi.» «In tal caso ti chiedo scusa, ma... sei certo che non fosse uno di quei demoni di cui mi hai parlato?»
«Non se ha detto di essere Evandar il Vendicatore, l'Arciere di Rinbala, dea del mare, colui le cui frecce d'argento potrebbero trapassare la luna stessa e tirarla giù dal cielo.» «Ha detto soltanto di essere Evandar ma non ha aggiunto nulla di queste altre cose.» «Queste altre cose, come tu le hai poco elegantemente definite, sono due dei suoi principali attributi e uno di quelli minori, così come sono indicati nei sacri inni. Vedo che sarà meglio provvedere alla tua educazione. Inoltre, se fosse stato un demone avrebbe cercato di sottrarti a me per farmi fallire nella mia impresa.» Quell'affermazione strappò a Jahdo un nuovo brivido, pervaso da un gelo molto più intenso di quello che poteva essere generato dal timore reverenziale nei confronti di una divinità. «Sento l'odore della paura» osservò Meer. «Mi biasimi forse per averne?» «Certamente no. Accompagnami vicino al nostro bagaglio, ragazzo, e apri le grosse sacche da sella grigie. Dentro di esse ho alcuni potenti amuleti e un talismano di piume preparato e benedetto dalla somma sacerdotessa in persona che credo sarà meglio tu tenga addosso d'ora in poi.» S'incontrarono a cavallo e soli, al confine dei loro due domini che si trovavano molto lontano dal mondo fisico, in quella strana dimensione nota come il piano dell'eterico. In quest'impero fatto d'immagini una brughiera di un marrone spento si stendeva tutt'intorno a loro fino all'orizzonte, dove un sole perennemente al tramonto lottava contro quella che sembrava una cortina di fumo per riversare su di loro la propria luce ramata. Privo di armatura, Evandar aveva indosso soltanto una tunica verde e calzoni di cuoio e sedeva rilassato in groppa al suo stallone dorato, con una gamba ripiegata intorno al pomo della sella in una posizione tale da far sì che un solo colpo inferto con un pugno o con un'arma potesse gettarlo a terra, e tuttavia stava sorridendo nell'osservare suo fratello. In sella ad un cavallo nero, avvolto in una scintillante armatura di smalto nero, questi aveva un aspetto decisamente volpino, e poiché teneva l'elmo decorato da un pennacchio nero nel cavo del braccio era possibile vedere i suoi orecchi a punta sovrastati da un ciuffo di peli rossi e la massa di capelli dello stesso colore che partiva dalla fronte e ricopriva il cranio per poi scendere lungo il collo. I lucenti occhi neri scintillavano minacciosi al di sopra del naso affilato.
«Sei uno stolto, Evandar, a venire qui solo in questo modo» ringhiò il guerriero dall'aspetto volpino. «Davvero? Il tuo messaggio diceva che avevi bisogno del mio aiuto. Si trattava forse di una trappola o di un'imboscata?» Con un grugnito suo fratello appese l'elmo alla sella e cominciò a sfilarsi i guanti, rivelando le mani rivestite di pelo rossiccio e con le dita che terminavano con affilati artigli neri invece che con normali unghie umane. «Prima hai perso tua moglie, la tua amata Alshandra» disse infine, e adesso ho sentito dire che hai perso anche tua figlia. «Alshandra se n'è andata, questo è vero, ed io sono lieto di essermi liberato di quell'arpia urlante, ma non ho certo perduto mia figlia» sorrise Evandar. «So esattamente dove si trova Elessario, anche se in effetti non è più in questo posto: adesso lei è al sicuro in un grembo umano e presto nascerà nel mondo degli uomini e degli elfi.» Il guerriero volpino scrollò le spalle, indifferente al fatto che la sua frecciata non avesse colpito nel segno, poi si girò sulla sella e per un lungo momento indugiò a scrutare l'orizzonte avviluppato da una ribollente cortina di luce rossastra. Adesso sembrava che il fumo si stesse levando sempre più in alto e che protendesse lunghe dita rosse verso l'orizzonte. «Cos'hai fatto alle Terre?» chiese quindi, con voce che somigliava all'abbaiare di una volpe. «Di certo hai fatto qualcosa, sporco bastardo, feccia di tutte le stalle, perché noi possiamo avvertirlo e vederlo. Le Terre stanno rimpicciolendo e svanendo, e la mia Corte è malata.» «Cosa ti induce a supporre che sia opera mia?» «Quello che succede nelle Terre è sempre opera tua» ritorse il guerriero, con lo sguardo fisso sul terreno ed esprimendosi come se pronunciare ogni parola gli costasse fatica. «Tu le hai create e modellate. Il Tempo non si nutre forse anche sui tuoi pascoli?» «Cosa c'entra con tutto questo il fluire dei giorni?» «Non lo vedi? Ogni giro della ruota porta maggior decadimento e ultimamente il Tempo corre come un cavallo al galoppo. Tu sei il solo che possa afferrarne le redini, fratello, quindi fallo rallentare nell'interesse della tua Corte come della mia.» Per tutta risposta Evandar si limitò a scoppiare a ridere e subito una spada d'argento apparve nella destra di suo fratello, pronta a colpire. Lentamente Evandar abbassò la gamba agganciata al pomo della sella e si protese in avanti per fissare gli occhi scintillanti del guerriero volpino, che ringhiò ma ripose al tempo stesso l'arma nel fodero.
«Tu non mi ucciderai, fratello» affermò quindi Evandar, in tono pacato per evitare che il suo sorriso potesse sembrare di derisione. «Non lo farai perché non sai cosa ne sarà di te se io morissi. A dire il vero lo ignoro io stesso, ma immagino che non sarebbe una cosa piacevole.» «Cos'hai fatto alle terre?» ripeté il guerriero volpino, accantonando quelle parole con una scrollata di spalle. «Dimmelo.» «Rivelami il tuo nome ed io te lo dirò.» «No! Non lo farò mai!» «Allora io non ti dirò nulla.» Per un lungo momento il guerriero esitò, con le labbra socchiuse come se intendesse parlare, poi emise un ringhio e assestò un violento strattone alle redini, facendo girare la testa del cavallo e spronandolo con decisione per poi allontanarsi in una nube di polvere, seguito dallo sguardo di Evandar. «Stupido stolto» commentò questi, con un accenno di sorriso sulle labbra. «Ciò che sta succedendo alle Terre dovrebbe essere evidente: stanno morendo.» Voltato il cavallo si allontanò al trotto, diretto verso il verde rifugio che sorgeva accanto all'ultimo fiume, dove la sua magia... quell'insieme di incantesimi che aveva modellato interi regni utilizzando la mutevole sostanza del piano dell'eterico... aveva ancora efficacia. Pur non essendo il dio che Meer credeva che lui fosse, Evandar era comunque dotato di un enorme potere che derivava direttamente dalle correnti del piano astrale superiore, che modella l'eterico nello stesso modo in cui modella il piano fisico. Di conseguenza lui sapeva come intessere... sia pure a prezzo di uno sforzo enorme... la mutevole luce astrale e creare con essa forme che sembravano solide quanto la materia, anche se doveva ancora impadronirsi dell'arte di incanalare in modo costante l'energia in quelle forme per tenerle in vita. Nelle migliaia di anni di esistenza, che lui aveva trascorso intrappolato in una letale secca del fiume del Tempo, Evandar aveva avuto modo di perfezionare senza fretta le sue capacità. In un momento così lontano da essere immemorabile, all'alba dell'universo, quando erano stati generati come tutte le anime, scintille derivanti dal fuoco immortale, Evandar e la sua gente erano stati destinati ad addossarsi il fardello dell'incarnazione e a seguire con tutte le altre anime il girare della ruota della Vita e della Morte, ma in qualche modo che essi stessi non riuscivano a ricordare erano "rimasti indietro" e non erano mai nati sul piano fisico. Privi della disciplina impartita dai mondi della forma, erano
adesso condannati a spegnersi ad uno ad uno e a morire, come scintille volate troppo lontano dal fuoco... o almeno così era stato detto ad Evandar, che credeva implicitamente a quest'affermazione perché amava la donna che gli aveva spiegato ogni cosa, e non si era neppure soffermato a vagliare le sue parole alla luce dell'intelletto o della logica. Dopo essersi lasciato alle spalle la brughiera morta, Evandar raggiunse una foresta composta per metà di alberi verdi e di folte felci e per metà di alberi secchi e di rovi contorti; al suo limitare cresceva un albero enorme metà del quale era coperto di una fitta massa di foglie verdi, mentre l'altra metà ardeva di un fuoco che non consumava mai i rami e non si estingueva mai... e che costituiva il faro inteso a contrassegnare il confine vero e proprio fra le terre che lui aveva creato per la Corte Oscura di suo fratello e quelle che teneva per la propria Corte Luminosa. Una volta oltrepassato quel segnale Evandar si permise di rilassare la guardia e nel cavalcare cominciò a pensare a sua figlia, che aveva scelto di lasciare questo posto meno che reale ma più che fittizio per assumere un corpo di carne nel mondo concreto, un corpo che sarebbe sopravvissuto senza il sostentamento del dweomer ma che prometteva futura sofferenza. Adesso Elessario sarebbe presto nata da una madre umana e sarebbe andata incontro al destino che avrebbe dovuto reclamare tutta la sua gente... e se quel passaggio si fosse concluso senza problemi Evandar avrebbe poi avuto molto da fare in quell'altro mondo, l'unico noto alla maggior parte delle anime senzienti. Di conseguenza ciò che sarebbe accaduto a queste sue terre incantate, o meglio all'immagine di tali terre che lui stesso aveva costruito nell'arco di eoni, non gli interessava più molto, e senza il suo interessamento quelle immagini stavano cominciando ad attenuarsi. Le verdi pianure punteggiate di radure e di ruscelli apparvero velate e indistinte mentre lui le attraversava, come se fossero state disegni ricamati su un copriletto che qualcuno stava scuotendo prima di stenderlo sul letto; le torri e le costruzioni delle lontane città ondeggiavano e tremolavano come se fossero state delle bandiere appese a poca distanza e soltanto un particolare fiume e il prato che lo circondava rimanevano reali, il luogo in cui si radunava la sua Corte che sembrava a sua volta essersi contratta su se stessa, facendosi più piccola e indistinta, come poche lingue di fiamma che ancora si levassero da un fuoco morente. E tuttavia i suoi sudditi erano ancora un popolo splendido. Dal momento che non avevano un corpo o una forma che potevano considerare propri, essi avevano assunto l'aspetto degli elfi tanto cari al loro capo, sfoggiando
capelli chiari come la luce lunare o luminosi come il sole, che mettessero in risalto gli occhi violetti o grigi e i lunghi orecchi appuntiti propri di quella razza della terra. I più avevano la pelle bianca come il latte con un vago accenno di rosa sulle guance, ma alcuni avevano visto gli esseri umani che abitavano le lontane isole meridionali e sfoggiavano invece una carnagione di un ricco colore bruno, simile a quello assunto sotto la pioggia dalla terra appena arata. Raccolti all'interno del padiglione dorato i suoi sudditi stavano ascoltando tristi canzoni intonate da svariati bardi oppure sedevano sotto il pallido sole intenti a conversare in tono sommesso, del tutto dimentichi del loro antico amore per la danza. Evandar non era in grado di dire se il loro numero fosse diminuito, perché neppure lui era in grado di contarli: la maggior parte di essi era infatti costituita da forme appena intraviste nelle nuvole o nelle fiamme, a volte distinte e altre volte fuse le une con altre da cui si separavano per fugaci momenti di vita individuale per poi tornare a condividere una mente unica. Soltanto pochi erano riusciti come lui ad arrivare ad acquisire una vera consapevolezza e uno di questi, che aveva scelto la forma di un giovane paggio, accorse per prendersi cura del suo cavallo quando lui smontò di sella. Anche se il ragazzo rimase fermo a fissarlo nella speranza di sentire da lui qualche parola di conforto, Evandar si limitò a scrollare le spalle e ad incamminarsi con passo rapido fra la folla, una moltitudine di volti che si giravano verso di lui, di occhi che si riempivano di vita e di sorrisi pervasi della speranza che lui potesse salvarli tutti come aveva già fatto in passato. Questa volta però dubitava che gli importasse abbastanza da aver voglia di tentare. Vicino al fiume che scorreva ampio e lento fra le rive coperte di canneti, sedeva una donna dagli occhi grigi come l'acciaio e dai lunghi capelli di un biondo argenteo che le ricadevano lungo la schiena. Quando lei si alzò in piedi per accoglierlo Evandar osservò il suo corpo snello come un'asta di granito, duro, freddo e reale in mezzo alle forme mutevoli delle Terre, e posò lo sguardo sulla minuscola figura intagliata nell'ametista che la donna portava al collo e che pareva riprodurre il suo corpo in ogni minimo dettaglio: quello in effetti era il suo corpo, un tempo fatto di carne, di ossa e di sangue ed ora trasformato dalla magia di Evandar in modo da permetterle di vivere nelle sue Terre. Dallandra apparteneva infatti ai veri nati, era un membro della razza definita degli elfi o del "Popolo dell'Ovest" dagli uomini, e chiamata i "Figli degli Dèi" dai Gel da'Thae, anche se essa si autodefiniva semplicemente "il Popolo". Oltre a questo Dallandra era inoltre
una maestra del dweomer dotata di grande potere, anche se nessun mago umano o elfico avrebbe mai potuto rivaleggiare con i poteri di Evandar. «Cosa voleva tuo fratello?» chiese Dallandra. «Biasimarmi per aver permesso che le sue terre si deteriorassero. Che le ricostruisca lui, se le desidera tanto. Io non ho tempo da sprecare per il suo branco di seguaci pelosi» replicò Evandar, avvicinandosi alla riva del fiume e contemplando la sua acqua astrale, densa e argentea, che fluiva più che scorrere fra gli ammassi di canne e di felci. «Questo fiume continua ad esistere qualsiasi cosa io faccia, e mi chiedo se esisterà ancora dopo che sarò morto e disperso nel nulla» commentò. «È possibile che continui ad esistere. Naturalmente non c'è nessun bisogno che tu muoia insieme al tuo dominio: potresti scegliere di incarnarti come ha fatto tua figlia» ribatté con noncuranza Dallandra, senza quasi guardarlo. «Ho fatto la mia scelta» scattò Evandar. «Non andrò mai a vivere in un mondo fatto di sangue e di fango e di sofferenza.» «In tal caso non c'è nulla che io possa fare in merito, giusto?» Tanta indifferenza di fronte alla prospettiva della sua morte lo ferì come una lama gelida, al punto che per un momento lui si sentì tentato a cambiare idea soltanto per farle dispetto. «In ogni caso dovrò visitare quel mondo di tanto in tanto» affermò invece, «perché ho messo in campo altre pedine e devo controllare i loro movimenti.» «Spero che tu sappia quello che stai facendo.» «Lo spero anch'io, mia adorata» rise Evandar. «Lo spero sinceramente. Non ti fidi di me?» «Non si tratta di fiducia, ma del fatto che tutto sta diventando così spaventosamente complicato e tu mi sembri avere in corso troppi piani contemporaneamente.» «Soltanto uno, inteso a tenere Elessario al sicuro finché non sarà nata.» «Però hai parecchi pezzi di carne che stanno cuocendo a fuoco lento in questo particolare stufato. Inoltre sono preoccupata a causa del Tempo, amore mio, perché nel tuo mondo scorre in maniera molto diversa da come fa nel mio.» «Perché devi sempre riferirti a quell'altro mondo indicandolo come il tuo? Vorrei che tu rimanessi qui con me per sempre.» Dallandra esitò, ma alla fine scosse il capo in un gesto di diniego, nonostante la malinconia che le si leggeva nello sguardo.
«Il mio posto è là, nel mondo degli uomini, nel mondo del Tempo» disse. «Nel mondo della Morte» aggiunse Evandar. «Anche perché alcune cose sono immutabili. Dopo la morte viene però la rinascita.» Evandar cercò di ribattere senza però riuscirci, perché indipendentemente dalla capacità o meno di cambiare, sapeva che il Tempo e la Morte che esso generava erano due cose che esulavano dalla sua comprensione. Questa consapevolezza aveva l'effetto di instillargli dei dubbi, suggerendogli che forse non conosceva l'universo bene come credeva di conoscerlo, che forse il suo potere era molto più limitato di quanto credesse. Sotto la pressione di quei dubbi una lontana città svanì per sempre dalle sue terre, cancellata come una chiazza di carbone lavata via dalla pietra di un focolare. Sebbene ad Evandar sembrasse che fossero passate al massimo un paio d'ore da quando aveva visto il bardo dei Gel da'Thae e aveva parlato con Jahdo, in effetti secondo il modo in cui lo scorrere del Tempo viene calcolato nel nostro mondo per loro erano trascorsi dieci giorni, durante i quali avevano seguito il ruscello verso sud, fermandosi spesso a far riposare gli animali perché avevano esaurito da parecchio le scorte di avena. Sebbene costeggiasse una serie di colline che si levavano verso nord e verso est, il fiume sembrava diretto verso un territorio pianeggiante, e a mano a mano che il suo corso si fece più profondo le rive divennero piatte ed erbose, per quanto affiancate su entrambi i lati da una folta e intricata foresta. Allorché Jahdo gli descrisse la natura del terreno, Meer commentò che quella zona doveva essere abitata, anche se per ora non avevano ancora scorto nessuno. «Gli alberi crescono a ridosso dell'acqua, ragazzo» spiegò. «Seguire questo fiume dovrebbe essere una lotta contro la natura e non una simile passeggiata, quindi qualcuno ha sgombrato le rive e lo ha fatto per di più di recente, dal momento che la vegetazione non è ancora ricresciuta.» «Può darsi che sia così. In tal caso, spero che a questa gente non secchi che noi usiamo la sua strada.» «Lo spero anch'io.» Pensare a quello che sarebbe potuto succedere loro se si fossero imbattuti in nativi ostili rese Jahdo abbastanza nervoso da indurlo ad aguzzare la vista, e quando il fiume cominciò a deviare verso est si sorprese a scrutare con attenzione la riva mentre camminava, individuando qua e là tracce di
sterco di cavallo ormai secco e sbriciolato e qualche rara impronta di zoccolo tanto profonda che non era stata cancellata dalla pioggia. «Credi che quello sterco sia stato lasciato dai cavalli di Thavrae?» domandò. «Da come lo hai descritto sembra troppo vecchio per questo» replicò Meer, «quindi è più probabile che sia stato lasciato dai cavalli dei nativi. Se usano questa strada per farvi passare del bestiame ha senso che abbiano sgombrato la riva dalla vegetazione.» «Mi chiedo se si tratti dello stesso popolo di cui si parla nelle vecchie storie, quello che ha aiutato i miei antenati a fuggire.» «Quelli erano i Figli degli Dèi, come affermano le tradizioni» scattò Meer. «Ma cosa se ne farebbero gli dèi di cavalli in carne ed ossa?» obiettò Jahdo, costringendo il bardo a riflettere a lungo su quell'affermazione eretica prima di trovare una risposta adeguata. «Forse» ribatté infine, «coloro che vi hanno aiutati erano davvero allevatori di cavalli come sostengono le vostre leggende, però hanno agito dietro indicazione degli dèi o dei loro figli, secondo quanto affermano le nostre tradizioni. Questo avrebbe senso.» «Benissimo, allora. Se si tratta dello stesso popolo non avremo di che preoccuparci, perché tutte le storie raccontano che si trattava di gente per bene, che ha nutrito i nostri antenati e li ha forniti di coltelli e di muli e di altre cose che permettessero loro di coltivare le terre del Rhiddaer.» «Questo dimostra che erano guidati dagli dèi, secondo gli scopi della loro divina volontà.» «Perché?» «Perché altrimenti qualsiasi popolo avrebbe schiavizzato di nuovo i tuoi antenati.» «Le storie affermano che questo popolo era contrario per principio a tenere degli schiavi, proprio come lo siamo noi: la riteneva una cosa indegna e disonorevole» insistette Jahdo. «È improbabile che chiunque possa credere ad una cosa del genere sbuffò Jahdo, con profondo scetticismo.» Non che io voglia insultare la tua tribù, sia chiaro. «Oh, non importa» tagliò corto il ragazzo, che aveva sempre sentito gli adulti affermare che indurre un Gel da'Thae a cambiare idea in merito a qualcosa era come cercare di impedire ad una montagna di fuoco di eruttare la sua lava. «Siamo tutti diversi gli uni dagli altri.»
Verso mezzogiorno arrivarono ad un prato enorme circondato da una serie di ceppi d'albero che stavano marcendo, la cui presenza servì ad avvallare la tesi che misteriosi allevatori di cavalli avessero liberato parte di quelle terre dalla vegetazione. Dopo che ebbero scaricato gli animali da soma in modo da permettere loro di rotolarsi nell'erba e dopo che Meer ebbe pregato, i due prelevarono una ridotta razione di cibo dalle sacche e si disposero a cenare. Anche se avevano ancora una buona scorta di formaggio, di gallette e di carne secca, metà delle loro provviste era già stata consumata, e Jahdo stava cominciando a preoccuparsi di cosa avrebbero mangiato sulla via del ritorno, mentre Meer era naturalmente convinto che gli dèi avrebbero provveduto al riguardo a tempo debito. Jahdo aveva appena finito di mangiare quando sentì un suono strano ed aspro, simile al verso di un uccello che giungesse dal cielo. «Cosa succede?» domandò Meer. «Sembra il grido di un falco.» «Infatti lo è» confermò Jahdo, guardando verso il cielo. In alto sopra di loro, delineato sullo sfondo delle nubi lanuginose, un uccello stava effettivamente volando in cerchio sopra la radura, e in base al colore delle sue penne... grigio scuro sul dorso e grigio chiaro sul ventre... Jahdo riuscì a determinare che si trattava davvero di un falco di qualche tipo. Sebbene l'animale stesse volando ad un'altitudine notevole, la colorazione del petto e le snelle zampe grigie apparivano così nitide da indurre il ragazzo a rendersi conto di colpo che quel rapace doveva essere enorme... ma mentre lo scrutava per studiarlo meglio esso parve accorgersi di essere osservato e si allontanò dalla radura. In un primo tempo Jahdo non diede comunque molta importanza alla cosa, ma verso sera il falco... se davvero si trattava dello stesso volatile... tornò a librarsi su di loro mentre approntavano il campo, salvo poi volare di nuovo via allorché il ragazzo cercò di esaminarlo più attentamente. Il giorno successivo Jahdo si tenne pronto ad avvistare il falco, che verso metà della mattinata tornò ad apparire, volando in pigri cerchi e mantenendo la propria posizione anche quando lui si arrestò per osservarlo, avvertendo Meer di fermarsi per un momento e riparandosi gli occhi con una mano per fissare l'uccello, che sembrava volare più basso di quanto avesse fatto il giorno precedente. «Meer, sta succedendo una cosa strana. In alto sopra di noi c'è un falco che vola in cerchio, ma anche se sembra un falco pellegrino è troppo grosso per poterlo essere... è più grosso di qualsiasi rapace che io abbia mai visto.»
«Quanto è grosso, ragazzo? Questo potrebbe essere importante.» «Direi che è enorme» replicò Jahdo, poi fece una pausa nel tentativo di valutare le dimensioni in rapporto alla distanza e proseguì: «Mi sentirei pronto a giurare che sia grosso quanto un pony, ma so che è impossibile. Probabilmente le nuvole m'impediscono di vedere bene, dal momento che neppure le aquile sono tanto grandi.» Per tutta reazione Meer emise un ululato che era un grido di puro terrore e sollevò entrambe le mani a coprire gli occhi ciechi mentre il falco emetteva un acuto stridio e si allontanava in volo. «Adesso se n'è andato» avvertì Jahdo. «Cosa c'è che non va?» «Questo è un cattivo geas, ragazzo, un cattivo geas. Non capisci? Un uccello tanto grosso può essere una cosa soltanto!» Quello che sto cercando di dirti è che uccelli di simili dimensioni non possono esistere. «Hah! Allora non hai capito nulla... avrei dovuto rendermene conto a causa della tua mancanza di paura. Quello deve essere un mazrak, ragazzo, e cioè il tipo più immondo di mago, un mutaforme che si serve di una magia da vigliacchi.» «Vuoi dire che si tratta di qualcuno che è in grado di trasformarsi in un uccello?» Esattamente. E se un mazrak ci sta spiando allora la situazione è davvero grave. Jahdo non seppe come rispondere a quell'affermazione. Fedele alla sua promessa, durante il cammino Meer aveva cominciato ad insegnargli le tradizioni, e le sue storie lo avevano avvicinato ad un mondo del tutto nuovo in cui gli dèi circolavano fra gli uomini e combattevano contro i demoni, in cui gli spiriti girovagavano per la terra giocando scherzi crudeli e la magia costituiva una parte necessaria della vita in quanto serviva a tenere lontane le presenze più forti o a piegare quelle più deboli alla propria volontà. Automaticamente il ragazzo si portò la mano alla gola per toccare i talismani che gli pendevano dal collo mediante un laccio di cuoio: se l'essere chiamato Evandar non fosse scomparso sotto i suoi stessi occhi probabilmente avrebbe riso di tutte quelle storie, ma dopo ciò che aveva visto era disposto a credere quasi a tutto. «In effetti quel falco era davvero enorme» osservò. «Certo che lo era, perché i mazrakir non possono rimpicciolire le loro dimensioni, possono soltanto cambiare la carne di cui sono composti in un'altra forma, per cui è soltanto logico che il loro animale» totem... quello in cui si trasformano... abbia le loro stesse dimensioni. «Possono mutarsi anche in altri animali che non siano uccelli?»
«Alcuni diventano orsi, altri lupi o cavalli... ogni sorta di animale, a seconda della natura del mazrak» spiegò Meer, girando la testa e sputando per terra per evocare la buona sorte. «Parlare di queste cose è però un cattivo geas. Mettiamoci in cammino, ragazzo, e teniamoci pronti ad addentrarci nella foresta dove nessun falco possa seguirci per spiarci.» «D'accordo. Dovremo anche dormire nel bosco?» «Sarà meglio farlo.» L'indomani stesso Jahdo ebbe una dimostrazione della capacità dei mazrak di portare la cattiva sorte. L'alba era appena sorta quando lui si svegliò di soprassalto e si sollevò a sedere con l'orecchio teso per recepire il suono che lo aveva destato e che tornò a ripetersi proveniente dall'alto... lo stridio di un corvo che doveva essere di dimensioni notevoli, a giudicare dal rumore che era in grado di fare. Intanto anche Meer si girò fra le coperte e si sollevò a sedere. «Jahdo, cosa succede?» Il ragazzo si mise in ginocchio, sbirciando fra il fogliame sovrastante fino a intravedere una forma nera che si stava allontanando... un corvo grosso almeno quanto un cane da pastore che volava sferzando l'aria con le ali immense. «Ce n'è un altro» esclamò. «Meer, ho visto un altro mazrak.» Il bardo emise un gemito soffocato. «Adesso se n'è andato» continuò intanto Jahdo, «e spero che non torni più.» «Non ho mai condiviso una speranza con tanto fervore» replicò Meer, poi rifletté per un momento e spinse indietro le coperte con un enorme sbadiglio, aggiungendo: «Sono tentato di cercare di proseguire il cammino tenendomi a ridosso del limitare della foresta e nascosto alla vista, ma il terreno sarebbe troppo difficoltoso per gli animali e poi se dovessimo perdere di vista il fiume per noi sarebbe la fine.» «Stavo pensando la stessa cosa... riguardo al fiume, intendo.» «Prima di metterci in marcia pregheremo i tredici dèi che proteggono i viandanti. Innanzitutto portiamo i cavalli a bere e facciamo colazione.» Dopo aver abbeverato gli animali e averli impastoiati sulla riva erbosa, Jahdo s'inginocchiò vicino alle sacche e tirò fuori qualche piccolo pezzo di pane non lievitato e una manciata di mele secche per se stesso e per Meer, posando il tutto su una roccia pulita per poi ridistribuire in modo equilibrato il carico fra le sacche mentre alle sue spalle Meer camminava avanti e indietro cantilenando sottovoce e ripassando delle frasi, come faceva sem-
pre prima di una preghiera di particolare importanza. All'improvviso però il bardo tacque di colpo, e nel girarsi a guardarlo Jahdo vide che si era immobilizzato con la bocca aperta e la testa inclinata da un lato, come se stesse ascoltando un suono infinitesimale. «Cosa succede?» chiese, alzandosi in piedi. «Cosa c'è che non va?» Meer gettò indietro il capo ed emise un ululato, un suono di cui Jahdo non aveva mai sentito l'uguale e che era una vasta e vibrante esclamazione di dolore, tale da dare l'impressione che tutta l'angoscia del mondo fosse stata compattata in un unico lamento prolungato che scaturiva in toni ora bassi ed ora acuti dalla gola del bardo. «Meer!» chiamò ancora il ragazzo, raggiungendolo di corsa e afferrandolo per un braccio. «Meer! Dimmi cosa c'è che non va!» La sola risposta che ottenne fu un secondo ululato, un'altra lunga cascata di onde di agonia e di angoscia, mentre lui scuoteva il bardo per un braccio e lo implorava e gridava fino a scoppiare in pianto per la pura e semplice frustrazione derivante dalla sua indifferenza. Il suono del suo pianto parve infine trapassare la cortina di afflizione che avviluppava Meer. «Perdonami, ragazzo» annaspò questi. «Si tratta di mio fratello! Credo che sia morto.» «Cosa?» esclamò Jahdo, tanto sconvolto da smettere di colpo di piangere. «Morto? Quando? Voglio dire, come fai a saperlo?» «È morto proprio ora, me lo ha detto il vincolo che ci unisce» replicò Meer, poi si liberò con uno strattone dalla presa del ragazzo e si allontanò nella foresta. Dopo un momento di esitazione Jahdo decise che il suo compagno aveva bisogno di restare solo almeno per un po' e si asciugò la faccia con una manica sporca prima di raccogliere il cibo e di riporre la porzione di Meer, consumando quindi la propria con lo sguardo rivolto al sole nascente: non era trascorsa neppure metà della prima ora del giorno da quando il grido del mazrak li aveva svegliati. «Scommetto che è opera del mazrak» commentò fra sé, e che quel brutto uccellaccio nero ha molto a che vedere con questa storia. Pensare al mazrak gli strappò un brivido di terrore e lo indusse a raggiungere di corsa il limitare della foresta, dove però esitò per poi tornare sui suoi passi con un gemito per afferrare la cavezza del cavallo e del mulo. «Non voglio neppure pensare che il corvo si possa impadronire di voi disse loro.» Venite, andiamo a cercare Meer.
Aveva già condotto gli animali fino al limitare della foresta quando si ricordò che il loro bagaglio era sparso vicino alla riva del fiume e che senza Meer che sollevasse le selle da soma lui non avrebbe potuto caricarlo sugli animali. Gemendo e piangendo per la frustrazione continuò ad avanzare nella foresta con i due animali e scoprì che per fortuna Meer non si era addentrato di molto nella vegetazione, arrestandosi al limitare di una piccola radura. Spinti il cavallo e il mulo in quel tratto di terreno aperto il ragazzo lasciò cadere a terra l'estremità della cavezza per avere la certezza che rimanessero entrambi dove si trovavano. «Meer?» chiamò con esitazione, desideroso di chiedere al bardo come si sentiva ma consapevole che si trattava di una domanda stupida. «Meer, sono Jahdo.» Il bardo annuì e spostò verso di lui lo sguardo dei suoi occhi ciechi. «Meer, non possiamo rimanere qui. Perdonami, ma dobbiamo fare qualcosa. Il mazrak...» «È vero» convenne il bardo, con voce che suonava inspessita e pervasa di dolore. «Non c'è bisogno che tu chieda perdono, perché hai ragione.» «Adesso torneremo all'ovest?» «Non posso farlo, perché devo prima accertarmi che lui sia davvero morto. Nel mio cuore so che è così, ma come posso riferire a mia madre di aver appreso della sua morte senza essermi neppure premurato di scoprire come essa sia avvenuta o perché, o dove lui sia sepolto?» «In effetti sarebbe un atto da vigliacco. Lei di certo vorrà saperlo.» Meer annuì in segno di assenso, mentre il ragazzo si tormentava il labbro inferiore con i denti e cercava le parole giuste, pur sapendo che non ce n'erano. «Meer, mi dispiace.» Il bardo annuì ancora. «Adesso vado a prendere il cibo e tutto il resto che posso trasportare» aggiunse il ragazzo. Senza rispondere, Meer si lasciò cadere in ginocchio, con il volto abbassato verso il terreno, mentre Jahdo cominciava a fare la spola fra il fiume e la radura, trasportando bracciate di sacchi e di sacchetti, trascinando le pesanti sacche da sella, barcollando sotto il peso dei rotoli delle coperte e continuando a lavorare fino a trasferire tutto il loro equipaggiamento al sicuro nella radura, accanto ai cavalli. Spossato, ignorò il bardo che continuava a restare immobile e tornò ancora una volta al fiume per bere, spruzzandosi un po' d'acqua sulla testa e sulle braccia per poi indugiare per
un momento in ginocchio con lo sguardo rivolto verso il cielo, nel quale però non si muoveva nulla, neppure un uccello di dimensioni normali, tranne pochi brandelli di nubi che fluttuavano pigri da ovest verso est. Rabbrividendo, si affrettò a tornare nella foresta, e questa volta Meer sollevò la testa nel sentire il rumore dei suoi passi. «Vuoi rimanere qui ancora per un po'?» gli chiese Jahdo. «Ho bisogno di riprendermi» ammise Meer, con voce sottile e secca come un frusciare di canne. «Ti chiedo scusa, Jahdo.» «Non importa. Anch'io sono molto stanco... vorrei soltanto poter fare qualcosa per te» replicò il ragazzo, e quando Meer si limitò a scrollare le spalle con un sospiro aggiunse: Immagino che tu non sappia dove si trova tuo fratello, vero? Sai cosa intendo dire. «No, temo di non avere indicazioni più precise di quelle che possedevo quando lui era ancora vivo» rispose il bardo, con voce che s'incrinò nel pronunciare l'ultima parola. «Però non abbiamo bisogno di cristalli per evocare visioni per intuire quello che è successo: la sua falsa dea lo ha abbandonato, come non dubito che alla fine farà con tutti coloro che hanno creduto in lei! Che sia maledetta insieme ai suoi falsi profeti!» «Immagino che tutto quello che possiamo fare sia continuare verso est sperando e pregando, però ho tanta paura.» Avvolto nel suo dolore, il bardo non sentì neppure quelle ultime parole del ragazzo: serrato il pugno enorme lo appoggiò più che sbatterlo contro il tronco di un albero e al tempo stesso emise un lamento funebre che gli scaturì dalle labbra più come un rombo che come un gemito e che tuttavia salì e scese di tono in un'espressione di estrema angoscia... e nell'ascoltare quel suono Jahdo si rese conto con un senso di orrore che essendo privo di occhi Meer non poteva neppure trovare sollievo nel pianto. Alla fine il Gel da'Thae tacque, e dopo essere rimasto in assoluto silenzio per un momento si girò verso il ragazzo, parlando con voce atona in modo innaturale. «Sarà meglio metterci in cammino, dovunque noi si sia diretti» disse. Per tutta quella giornata marciarono più verso sud che verso est, seguendo il fiume e la sorte, e al tramonto approntarono il campo in un'atmosfera cupa e depressa. Meer infatti si rivolgeva soltanto al cavallo e al mulo, e per di più si esprimeva nella sua lingua, con il risultato di abbandonare Jahdo alle proprie angosciose fantasticherie in cui vedeva qualche membro della propria famiglia che veniva ucciso senza che lui potesse fare nulla per impedirlo.
Nell'interesse di Meer, il ragazzo continuò peraltro a sperare che il bardo si fosse sbagliato e che suo fratello fosse ancora vivo, ma alcuni giorni più tardi scoprirono che l'innata magia di Meer gli aveva rivelato la verità. Un pomeriggio sul tardi il fiume, che stava ora scorrendo dritto verso est, si fece d'un tratto più largo e meno profondo, cosa che indusse Jahdo a supporre che si stessero infine avvicinando al guado indicato loro da Evandar. Il ragazzo stava cominciando a guardarsi intorno alla ricerca di un luogo dove accamparsi quando scorse alcuni punti neri che volteggiavano nel cielo ad una certa distanza da loro e che parevano trovarsi sulla riva opposta del fiume. «Cosa succede?» scattò Meer, smettendo di camminare. «Hai visto degli uccelli? Sento i loro richiami in lontananza.» «In effetti li vedo: sono parecchi ma non riesco a distinguere di che specie sono a causa della distanza. Però mi sembrano troppo piccoli per essere dei mazrakir.» «Bene. Precedimi e andiamo a vedere cosa stanno combinando.» Alcuni metri più avanti s'imbatterono effettivamente in un guado contrassegnato sulla loro sponda da alcune alte pietre bianche, proprio come aveva detto Evandar. Per quanto l'acqua fosse abbastanza bassa per Meer e per gli animali, Jahdo si trovò a dover avanzare sul fondo sassoso immerso fino alla cintola perché non osava montare in groppa ad una delle due bestie da soma e lasciare a Meer il compito di guidarle. Dal momento che il fiume era alimentato dalle distese di neve presenti sulle montagne, il ragazzo era ormai gelato fino alle ossa quando finalmente risalì la riva erbosa sul lato opposto del fiume, come Meer constatò posandogli sulla guancia una mano pelosa dopo aver tastato la propria casacca umida. «Sarà meglio continuare a camminare, perché così ti scalderai un poco» suggerì. «D'accordo. Vuoi sempre andare a vedere di che uccelli si tratta?» «Sì. Ho nel cuore una sensazione angosciosa, ma devo appurare la verità.» «I timori di Meer risultarono essere più che giustificati perché a mano a mano che proseguirono la marcia, diretti ora più a sud che ad est, le strida dei volatili si trasformarono nell'aspro gracchiare dei corvi, che volteggiavano e calavano in picchiata su un oggetto non ancora identificabile.» «Potrebbe trattarsi della carcassa di un daino» opinò Jahdo. Meer si limitò a rispondere con un grugnito e continuò a camminare a grandi passi, agitando con rabbia il bastone davanti a sé come se fosse sta-
to una sorta di falce; avevano percorso qualche altro centinaio di metri quando all'improvviso il cavallo e il mulo sollevarono la testa e sbuffarono, appiattendo gli orecchi sul cranio e caracollando nervosamente fino a tendere al massimo la cavezza. «Nel nome benedetto di ogni dio» sussurrò Meer. «Avverti quest'odore?» «No. Che odore?» «In tal caso considerati fortunato della tua debolezza umana. È un odore di morte... di molti corpi morti esposti al calore del sole.» Jahdo non rispose e sentì lo stomaco che gli si serrava. «Torniamo indietro di un breve tratto e lasciamo impastoiati il cavallo e il mulo» proseguì intanto Meer. «Jahdo, perdonami: se potessi proseguire da solo e risparmiarti la vista di ciò che di certo si trova davanti a noi lo farei, perché tu non sei un puledro dei Gel da'Thae, abituato a questo genere di cose... ma senza di te, come posso sapere che mio fratello si trova o meno laggiù?» «È vero. Farò del mio meglio per aiutarti.» Insieme tornarono sui loro passi per un breve tratto fino a individuare vicino al fiume un buon posto per accamparsi, dove scaricarono e impastoiarono gli animali; quando ebbero finito Meer incaricò Jahdo di scovare un paio di vecchi stracci e d'inzupparli d'acqua per poi legarli intorno al naso e alla bocca di entrambi prima che si rimettessero in cammino, accompagnati dalle preghiere che il bardo recitava in tono sempre più disperato. I versi degli uccelli, a cui si unì anche troppo presto l'odore incredibilmente disgustoso della carne che marciva, li guidarono lungo la riva erbosa e poi lontano dal fiume di qualche centinaio di metri e verso est, dove il terreno risaliva a formare un'alta collinetta alberata che sovrastava il luogo della strage come una sorta di tumulo funebre. Giunto sulla sommità, per un lungo momento Jahdo riuscì soltanto a fissare in silenzio ciò che stava vedendo perché ogni volta che tentava di parlare era assalito da conati di vomito a causa dell'odore intenso che lo aggrediva nonostante la misera maschera con cui aveva cercato di proteggersi, bloccandogli la gola e devastandogli lo stomaco con le sue dita immonde. La cosa peggiore però era che il senso d'orrore che lo pervadeva era troppo intenso per permettergli di vomitare mentre continuava a ripetersi che doveva andare fino in fondo: cos'avrebbe fatto, come si sarebbe sentito, se a giacere là morto fosse stato Kiel?
Devo essere la vista di Meer, si disse, e quando infine trovò il coraggio di passare all'azione scoprì di essere anche di nuovo in grado di parlare. «Meer, c'è uno spiazzo pianeggiante che è coperto di cadaveri. Non sono sepolti, sono sparsi qua e là e sono tutti gonfi. E poi ci sono gli uccelli che si aggirano dappertutto come formiche e lottano gli uni con gli altri, il che spiega perché continuano a stridere e a svolazzare.» «Infatti» convenne Meer, con voce molto sottile ma salda. «Quanti sono i morti?» «Oh, sono tanti, e sono tutti esseri umani. Verso nord c'è un carro rovesciato: è in pezzi e vedo una sagoma molto alta stesa accanto a esso.» «Detesto dovertelo chiedere, ragazzo, ma puoi tollerare di guidarmi fin là?» «Ci proverò.» Per fortuna poterono aggirare il campo di battaglia anziché attraversarlo, ma anche così Jahdo rimase colpito dall'orrore di quello spettacolo e si sorprese a fissare i cadaveri, consapevole che finché avesse avuto vita non avrebbe dimenticato la vista di quei corpi accasciati e ammucchiati come legna da ardere, devastati a colpi di spada e poi abbandonati in pasto alle creature selvagge in un'estrema manifestazione di disprezzo. Ogni volta che avevano narrato storie concernenti i campi di battaglia, i cantori di Cerr Cawnen avevano sempre parlato del rosso colore del sangue e del letale silenzio della morte, mentre qui i corpi erano tutti grigi e gonfi, chiazzati di nero a causa del sangue ormai secco o di un marrone opaco là dove i corvi avevano strappato la carne nel nutrirsi, e tutto il campo pulsava di vita e di rumori per lo sciamare delle formiche, il continuo stridere dei corvi che s'interrompeva soltanto quando essi spiccavano brevi voli prima di tornare a nutrirsi, e il costante, immenso ronzare di migliaia di mosche. «Credo che siano stati uccisi a colpi di spada» disse. «Tutt'intorno ci sono impronte di zoccoli e vedo anche dei cavalli morti, ma soltanto un paio. Oh, aspetta, qui per terra c'è una freccia.» Anche se spezzata, l'asta del dardo era fortunatamente pulita; nel chinarsi a raccoglierla, Jahdo scorse minuscole impronte di volpe sul terreno disgustosamente umido, segno che senza dubbio quei piccoli predatori venivano di notte a partecipare al banchetto, ma si costrinse a concentrare la propria attenzione sulla freccia e la raccolse da terra, passando le dita sul legno dell'asta.
«Non ho mai visto una freccia tanto lunga. Quando era intera doveva essere più lunga del mio braccio, e le piume sono state ricavate da un uccello azzurro di qualche tipo.» «Nessun membro del mio popolo userebbe un dardo del genere» sussurrò Meer. «Ahimé, il male si è abbattuto su di noi!» Jahdo avrebbe voluto assentire ma non osò parlare per il timore di scoppiare in singhiozzi. Fra loro e il carro erano sparsi alcuni cadaveri, simili a pezzi di legno spinti in secca da qualche mulinello di quel fiume di morte. Un giovane giaceva supino con la testa piegata con un'angolazione innaturale e gli occhi trasformati in pozze viscide nel volto gonfio e grigio; il corpo di un compagno gli poggiava di traverso sulle gambe e poco lontano c'era un braccio, strappato di netto e grigio come la pietra, con l'osso esposto e spolpato fino al polso; alcune mosche strisciavano in mezzo alle dita. «Attento, Meer!» avvertì il ragazzo, con voce soffocata. Spostati sulla tua destra. «D'accordo» assentì Meer, tastando il terreno con il bastone ma muovendolo con cautela, senza dubbio timoroso di ciò che poteva toccare. «Ragazzo, come sono vestiti questi morti?» «Alcuni non hanno vestiti, gli altri indossano una camicia con ampie maniche, una specie di giustacuore di cuoio e calzoni che arrivano fino alla caviglia e sono fermati con lacci di cuoio.» Meer si lasciò sfuggire un gemito da cui risultò evidente che aveva riconosciuto quel genere di vestiario. Infine arrivarono al carro rovesciato e all'enorme guerriero steso accanto ad esso, e al loro avvicinarsi un piccolo stormo di corvi si levò in volo con strida di protesta. Qualcuno però aveva deposto uno scudo crepato sul volto del guerriero e gli aveva ripiegato le braccia sul petto, coprendogli le mani con un mantello, per cui gli uccelli non avevano ancora potuto recare danni degni di nota; quando Jahdo gli descrisse quei pochi segni di rispetto per il morto, Meer emise un lungo gemito sommesso. «Che aspetto ha lo scudo?» chiese quindi. «È di legno, ha una forma simile a quella di un uovo ed è dipinto di bianco. Nel centro c'è un cerchio di metallo su cui sono disegnate strane figure, e in basso qualcuno ha inciso un piccolo disegno che credo debba rappresentare un drago.» «Se non ti dispiace, vorrei qualche altro dettaglio sulla piastra di metallo.»
«Ecco, il disegno è formato da diversi cerchi: uno ricorda una coda di cavallo intrecciata, e un altro somiglia ad un susseguirsi di nodi, come se qualcuno avesse fatto una serie di nodi su una corda senza però stringerli.» «Che gli dèi ci aiutino, questa è opera degli Schiavisti!» stridette Meer. «Te la senti di sollevare lo scudo, ragazzo?» Lottando contro i conati di vomito, Jahdo si servì della freccia spezzata per agganciare il bordo dello scudo e spingerlo da un lato: in reazione a quel movimento lo scudo si spezzò però in due parti che scivolarono di lato a rivelare una faccia enorme e distorta, gonfia e marcia a causa del caldo, che fissava il cielo con occhi vitrei e bianchi, incorniciata da un'ispida criniera di capelli neri arruffati e intrisi di sangue secco, che chiazzava anche una guancia coperta di tatuaggi. «Mi dispiace, Meer. È un Gel da'Thae.» Meer gettò indietro il capo ed emise un ululato pervaso di una tale pulsante agonia da indurre i corvi che si trovavano intorno a librarsi in volo con aria indignata mentre il bardo continuava a urlare la propria angoscia, serrando il bastone con entrambe le mani e levandolo verso il cielo come se stesse accusando gli dèi stessi di quanto era accaduto. In virtù degli insegnamenti impartitigli da Meer, Jahdo sapeva che gli amuleti intrecciati nei capelli di Thavrae servivano come protezione nel Mondo della Morte e dovevano rimanere su di lui, mentre i talismani che gli pendevano dal collo avrebbero dovuto essere restituiti alla famiglia. Per quanto prossimo a vomitare, estrasse allora il coltello che suo nonno gli aveva regalato, s'inginocchiò e tagliò il laccio di cuoio mentre l'ira e il dolore di Meer si abbattevano tutt'intorno a lui come una tempesta; quando rimosse con uno strattone deciso la collana con i talismani, la testa del guerriero morto si spostò mollemente da un lato e Jahdo si affrettò a rialzarsi in piedi, controllando a stento i conati di vomito e infilandosi in tasca gli amuleti. «Meer! Meer!» gridò, afferrando il bardo per un braccio. «Dobbiamo andare via da qui perché non sappiamo dove siano i nemici. E se fossero ancora nelle vicinanze?» Meer emise ancora un gemito, poi lasciò che quel suono gli si spegnesse in gola come un rantolo. «Ancora una volta hai ragione tu, ragazzo. È bene tornare all'ovest il più in fretta possibile.» Appoggiandosi al bastone, permise quindi a Jahdo di guidarlo lontano dal campo di battaglia, camminando però con estrema lentezza sotto il pe-
so del dolore che l'opprimeva. Una volta rientrati al campo, Jahdo fece sedere Meer vicino alle selle da soma, gli porse una delle borracce perché si dissetasse, poi si strappò la maschera dal viso e la gettò a terra, precipitandosi quindi verso il fiume e inginocchiandosi per immergere la testa e le spalle nell'acqua. Annaspando e piangendo agitò l'acqua con le braccia fino ad inzuppare tutta la parte superiore del corpo e a liberarla dall'odore di morte, poi si sedette all'indietro sui talloni e valutò l'intensità della nausea che lo tormentava, scoprendo che essa era ormai svanita ma che si era lasciata alle spalle ricordi che nulla avrebbe potuto cancellare. Meer intanto si stava dondolando avanti e indietro con le mani strette intorno alle ginocchia ripiegate e aveva ripreso a gemere, sia pure in tono più sommesso, emettendo una serie di lamenti che formavano una sorta di musica spettrale dotata di una sua particolare bellezza. «Meer, sei in grado di viaggiare?» domandò Jahdo, tornando indietro e posandogli una mano sulla spalla. «Dobbiamo andare via da qui. Ho molta paura.» Il Gel da'Thae non parve sentirlo e continuò a gemere e a dondolarsi, oppresso dal dolore. «Meer! Meer!» chiamò il ragazzo, afferrandolo per le spalle e scrollandolo. «Ascoltami, Meer!» «Prosegui senza di me, ragazzo, lascia che la mia casata si estingua qui. Thavrae era l'ultima speranza della nostra famiglia perché era un guerriero che avrebbe potuto conquistarsi il diritto di reclamare per sé una donna e consegnarle il nostro nome come un tesoro da custodire. Mia madre non ha generato figlie ed è una sciagura per il nostro clan e la nostra famiglia che gli dèi debbano cancellare il nostro nome dalla faccia della terra. Lasciami qui, Jahdo, lasciami morire con il nome della nostra casata.» «Non farò nulla del genere. Se rimarrai qui resterò con te e morirò anch'io, anche se hai promesso a mia madre che ti saresti preso cura di me.» Meer gemette e fu assalito da un tremito. «Lo hai fatto» scattò Jahdo. «Hai promesso.» Meer rimase a lungo in silenzio, poi scoppiò all'improvviso in una risata isterica. «Jahdo, ragazzo mio, senza dubbio un giorno sarai un grande uomo fra la tua gente, probabilmente il suo portavoce dal momento che il tuo popolo si serve delle parole per gestire il potere. D'accordo, porta qui Baki in modo che possa sellarlo. Viaggeremo di giorno e di notte potrò sfogare il mio lutto.»
Quel pomeriggio percorsero però soltanto pochi chilometri perché Meer era esausto per il dolore della perdita subita e Jahdo a causa degli orrori che aveva visto, e sotto il sole torrido entrambi parevano a stento in grado di muovere un passo dopo l'altro. A tratti Meer intonava un canto funebre fatto in parte di musica e in parte di gemiti, ma poi s'interrompeva di colpo per scivolare di nuovo nel silenzio; all'apparenza consapevoli del suo stato d'animo, il cavallo e il mulo procedevano a testa bassa e con aria spossata, fermandosi ogni pochi passi a meno che Jahdo non assestasse uno strattone alla cavezza per indurli a muoversi. «È inutile» ammise infine il ragazzo. «Poco più avanti c'è quel piccolo ruscello accanto a cui ci siamo accampati la scorsa notte e dove c'è erba a sufficienza per i cavalli, quindi che ne diresti di fermarci là per la notte?» E fu là che gli Schiavisti li sorpresero. Era ancora pomeriggio e Jahdo era impegnato a raccogliere legna per il fuoco serale, quando Gidro e Baki si fecero irrequieti e cominciarono a sollevare la testa per annusare sbuffando il vento sempre più intenso. Infine i due animali emisero un richiamo a cui rispose un nitrito lontano seguito da un secondo, e in reazione a quei suoni Jahdo scattò in piedi con il coltello del nonno stretto in pugno, mentre Meer rimase accoccolato vicino al loro equipaggiamento con la testa abbandonata sulle ginocchia; di lì a poco, ai nitriti fece seguito un battito di zoccoli al galoppo che puntava direttamente verso di loro proveniente da est, e Jahdo scorse in lontananza un pennacchio di polvere che si spostava nell'aria come una cosa viva. «Meer! Meer! Dobbiamo fuggire!» esclamò. «Fuggi da solo, Jahdo» replicò il bardo, sollevando lentamente la testa e girandosi in direzione del suono. «Dirigiti ad ovest e augurati di trovare quei mandriani che già una volta hanno aiutato il tuo popolo. Dal momento che morirò presto io posso anche concludere la mia vita da schiavo, perché un uomo non è nulla senza un clan e nel mio futuro non ci sono parenti che possano servire gli dèi quando sarò vecchio.» «Smettila! È necessario che venga anche tu.» Intanto il battito di zoccoli si era fatto più intenso ed era adesso accompagnato da un tintinnare di finimenti e dalle grida di esultanza dei cavalieri. Di lì a poco la nuvola di polvere si dissolse a rivelare una squadra di uomini a cavallo e Meer si alzò lentamente in piedi, afferrando il bastone ma limitandosi ad appoggiarsi ad esso nel girarsi verso la fonte di quei suoni.
«Corri, Jahdo! Prendi una sacca di cibo e rifugiati nella foresta!» esclamò. Jahdo però esitò un istante di troppo. Gridando come uomini che stessero guidando del bestiame, i cavalieri... circa una dozzina di individui armati e dotati di cotta di maglia sopra la tunica e i lunghi calzoni infilati negli stivali... piombarono sull'accampamento e si disposero in cerchio intorno a loro, avanzando con i cavalli fino ad entrare nel cerchio di luce proiettato dal fuoco. Affascinato e terrorizzato al tempo stesso, Jahdo scrutò con attenzione l'equipaggiamento di quegli sconosciuti, ottenendo il misero conforto di non vedere teste recise appese alle selle, poi soffocò un singhiozzo e si erse in tutta la sua statura stringendo saldamente il coltello quando due guerrieri smontarono di sella e consegnarono le redini ai compagni. Entrambi erano di alta statura e dotati di un fisico muscoloso sotto la cotta di maglia, ma uno dei due era biondo e giovane, con folti baffi che gli ricadevano ai lati della bocca, mentre l'altro aveva i capelli scuri striati di grigio e un accenno di barba impolverata che mostrava anch'essa qua e là tracce di grigio. Entrambi sfoggiavano alla cintura una lunga spada e una daga di tipo particolare, dalla lama sottile ora nascosta dal fodero e dall'impugnatura caratterizzata da tre pomelli d'argento. «Un cieco e un ragazzo?» commentò il guerriero biondo. «Sarebbe questa la nostra importantissima preda?» Jahdo lo fissò sgranando gli occhi, perché era in grado di capire il suo linguaggio e questa era l'ultima cosa che si sarebbe aspettato: anche se tutte le R e i suoni RH erano più arrotondati e la metà delle parole emergevano con un tono più gutturale, se prestava molta attenzione era infatti in grado di afferrare il senso generale di ciò che veniva detto. «Un Gel da'Thae costituisce di certo una rarità» sorrise intanto l'uomo bruno. «Confido che Jill sappia quello che sta facendo.» Jill? Quello era un nome Rhiddaer! Automaticamente, Jahdo si girò verso Meer nella speranza di ricevere delle risposte a quegli strani interrogativi, ma in quel momento il bardo avanzò di un passo e s'inginocchiò ai piedi del guerriero bruno. «Se sono la preda che cercate» disse con la sua voce tonante, «allora lasciate andare il ragazzo. Permettetegli di prendere il cibo che ci è rimasto e di cercare di tornare a casa.» L'uomo bruno esitò, visibilmente commosso, ma il suo compagno biondo si fece avanti e rivolse un cenno alla squadra di uomini a cavallo.
«D'accordo, sellate quegli animali da soma e torniamo al campo!» ordinò, poi si girò verso il compagno bruno e proseguì: «Rhodry, il ragazzo potrà cavalcare in sella dietro a qualcuno e credo che potremo caricare questo cane peloso su uno degli animali da soma.» «Può darsi» convenne Rhodry, poi si avvicinò a Jahdo e ordinò: «Dammi quel coltello, ragazzo.» Per puro istinto Jahdo cercò invece di colpirlo, ma Rhodry gli afferrò il polso con la mano massiccia e lo sollevò quasi da terra fino a fargli sfuggire il coltello dalle dita. «Hai del coraggio» commentò quindi, con un sorriso, «però questo non è un momento adatto per azioni eroiche. Intendi comportarti come si deve oppure saremo costretti a legarti?» Jahdo cercò di pensare ad un insulto adeguato, ma si distrasse nel vedere l'uomo biondo afferrare Meer per un braccio. «Alzati in piedi» ingiunse in tono secco il guerriero. «Lascialo in pace!» ringhiò Jahdo. «E trattalo con rispetto, perché è un bardo.» L'uomo biondo cominciò a ridere, ma Rhodry gli sferrò un colpo alla spalla che lo indusse a smettere e si avvicinò quindi a Meer, piegando a terra un ginocchio davanti a lui per portarsi alla sua altezza. «Il ragazzo ha detto la verità?» domandò in tono cortese. «Sì. Sono un bardo e un maestro del sapere, giunto al dodicesimo dei tredici livelli del pozzo del sapere... anche se probabilmente non rivedrò più la mia terra e il mio maestro, e non potrò quindi completare i miei studi.» «Il ragazzo è il tuo schiavo?» «No, è libero per nascita e sta viaggiando con me dietro mia richiesta.» «D'accordo» annuì Rhodry, rialzandosi e girandosi verso il guerriero biondo. «Yraen, metti la tua sella su quel cavallo bianco, in modo che il bardo e il ragazzo possano viaggiare comodamente. Quanto a te, dovrai montare a pelo, a meno che non voglia sperimentare tu stesso il piacere di viaggiare su una sella da soma.» «Cosa?» esclamò l'uomo chiamato Yraen, visibilmente infuriato. «Sei impazzito?» «Un bardo è sempre un bardo, ragazzo, e gli si deve il massimo rispetto.» Ridendo e avanzando suggerimenti beffardi, gli altri uomini della squadra si raccolsero intorno ai due per vedere come avrebbe ribattuto Yraen...
ma il guerriero biondo non ebbe reazioni di sorta perché Rhodry incontrò il suo sguardo con il proprio e lo sostenne fino a costringerlo alla sottomissione. «Come preferisci» concesse infine Yraen, con un melodrammatico sospiro. «Sei un dannato bastardo.» Jahdo si aspettò di veder scoppiare una lite, ma i presenti si limitarono a ridere ancora... anche se la risata di Rhodry ebbe l'effetto di far sperimentare al ragazzo la veridicità dell'antico detto secondo cui c'erano suoni capaci di raggelare il sangue. Quella risata era infatti al tempo stesso folle e furente, allegra e letale, un suono acuto e insieme profondo che gli ricordò le strida di furore delle donnole. Gli altri guerrieri parvero però non prestarvi attenzione, come se avessero sentito spesso Rhodry ridere in quel modo, e alla fine Yraen si allontanò scuotendo il capo per impartire gli ordini necessari; nel guardarlo allontanarsi Jahdo si chiese come mai la vista gli si fosse fatta così velata e perché all'improvviso si fosse messo a tremare, poi si rese conto che stava piangendo e che le lacrime gli scorrevano lungo il volto di loro iniziativa. Ancora inginocchiato, Meer protese un braccio enorme e Jahdo si precipitò da lui, gettandosi contro il suo petto e scoppiando in singhiozzi mentre il bardo gemeva sommessamente nello stringerlo a sé. «Perdonami, Jahdo, ragazzo mio, e possa perdonarmi anche tua madre!» In una curva del fiume l'acqua eterica creava una polla simile ad un lucido specchio argenteo bordato di verde; inginocchiato sulla riva vicino ad esso Evandar era intento a scrutarne la superficie che però non presentava una sua immagine riflessa ma una visione che lui stava scrutando con occhio attento. «Li hanno presi» annunciò infine. «Mi riferisco al bardo e al ragazzo. Rhodry e la sua squadra li hanno catturati lungo la strada e adesso si stanno dirigendo verso Cengarn.» «Mi dispiace per quel povero ragazzo» replicò Dallandra. «Deve essere terrorizzato.» Evandar si limitò a scrollare le spalle. «Non provi nulla per nessuna di queste persone?» esplose allora Dallandra. «Le stai spostando di qua e di là come pedine in una partita di Tattica, rimuovendole dalla scacchiera e rovinando loro la vita. Possibile che non t'importi?»
«Amo te, amo mia figlia e amo il ricordo di Rinbaladelan, la città costiera di cui ti ho parlato. A parte questo, mia cara... no, non m'importa minimamente di nulla e di nessuno.» DUE AMISSIO (PERDITA) È un buon presagio quando si devono prendere dei prigionieri, mentre in ogni altro caso costituisce un presagio nefasto, sia pure con grande speranza di attenuazione. Se dovesse cadere nel territorio della Latta, la nona regione sulla nostra mappa, questo significherebbe un presagio di sventura senza nessuna speranza di mitigazione, perché in tutte le questioni pertinenti agli dèi e alla loro adorazione questa figura porta soltanto sventura e danno. Dal Libro dei Presagi di Gwarn, Maestro del Sapere Vista da occidente, Cengarn appariva incombente, ancor di più in una giornata limpida e soleggiata come quella in cui Jahdo l'avvistò per la prima volta, quasi che gli dèi avessero deciso di farsi beffe della sua sorte e di accertarsi che lui potesse scorgere in ogni dettaglio la malvagia città degli Schiavisti. Come al solito lui e Meer montavano entrambi su Baki e procedevano in coda alla squadra, ma quando oltrepassarono la cresta dell'ultima collina gli uomini si sparpagliarono per permettere ai cavalli di riposare e Jahdo poté spingere lo sguardo davanti a sé. Sotto di loro il panorama si allargava in una rada foresta che cedeva il passo ad una valle di pascoli ondulati e di verdi campi coltivati; una fattoria isolata sorgeva su un lato della vallata e al di là di essa era visibile un ruscello costeggiato da alcuni alberi. «La casa è rotonda, Meer, ed è circondata da un muretto di terra. Vedo alcune mucche che sembrano essere bianche, anche se da qui è difficile dirlo» descrisse Jahdo, poi si riparò gli occhi con una mano e aggiunse: «Oh! Credo che quella sia la loro città.» Sotto l'intensa luce del mattino poteva infatti distinguere dalla parte opposta della valle tre colline grigie circondate da quelle che sembravano essere mura di pietra, dal momento che erano troppo lisce e circolari per po-
ter essere promontori di roccia; sparse sulle colline c'erano le forme minuscole di numerose case dipinte di bianco e di forma rotonda, miste ad alcuni edifici più grossi fatti di pietra, e su tutto l'insieme si levava una lieve caligine che doveva essere probabilmente costituita dal fumo dei fuochi accesi per cucinare, da cui emergeva un agglomerato di torri rotonde dal tetto piatto che si levava sulla sommità della collina più alta e che corrispondeva alle descrizioni date dalle antiche storie, in quanto appariva cupo e tetro come un pezzo di ferro. Quando Jahdo gli descrisse quel panorama Meer sospirò ma rimase in silenzio. «Non manca più molto» aggiunse Jahdo, deglutendo a fatica. «Dovremmo arrivare laggiù parecchio prima di mezzogiorno.» «E finalmente scopriremo quale sarà la nostra sorte. Posso soltanto pregare che tu trovi un padrone buono e gentile, ragazzo. Ciò che ne sarà di me non ha importanza perché sono un uomo distrutto, senza casata né clan, ma tu hai una vita intera davanti a te.» «Una magra soddisfazione, questa.» Meer non replicò. Nel corso degli ultimi tre giorni, durante il viaggio alla volta di Cengarn, Jahdo aveva pianto per la famiglia e la libertà perdute fino ad esaurire ogni riserva di lacrime e adesso provava solo un senso di stordimento, come se fosse stato in preda alla febbre per tanto tempo da sentirsi ora distaccato dallo scorrere vero e proprio della vita. «Avanti, ragazzi!» esclamò intanto Rhodry. «Siamo quasi a casa.» La squadra si avviò giù per il pendio collinare fra un tintinnare di finimenti e un tamburellare di zoccoli, e quando si addentrò nella pianura sottostante Jahdo ricevette la prima avvisaglia del genere di benvenuto che poteva aspettarsi. Vicino alla strada vide infatti una ragazza dai capelli biondi raccolti in una lunga treccia che le scendeva sulla schiena, vestita con uno sporco abito marrone stretto in vita da un vecchio pezzo di corda, e con in mano un bastone che probabilmente le serviva per controllare le mucche al pascolo. Nel sentire il rumore di zoccoli e di finimenti, la ragazza si girò verso la strada e si soffermò a guardar passare i guerrieri, agitando la mano in un gesto di saluto accompagnato da una risata allorché Rhodry le rivolse un galante inchino dall'alto della sella. Quando però il suo sguardo si posò su Meer, la ragazza si girò di scatto e fuggì urlando verso la fattoria. «Aspetta!» le gridò dietro Rhodry. «Non gli permetteremo di farti del male.»
Nel sentire le risate degli altri guerrieri Jahdo avvertì il riaccendersi del proprio odio nei loro confronti. Intanto la ragazza aveva smesso di urlare ma continuò comunque a correre fino a oltrepassare il muro di terra e di lì a poco poterono udire una porta che si chiudeva con fragore e i cani che cominciavano ad abbaiare in modo isterico... un intero branco, a giudicare dal fracasso che stavano facendo. «Meglio accelerare il passo, ragazzi» commentò intanto Rhodry, con un sorriso. «Andiamo via di qui prima che ci scatenino contro i cani.» Una volta che ebbero oltrepassato la fattoria senza altri problemi che il fastidio dato dal fragoroso abbaiare dei cani, Rhodry ordinò alla squadra di rallentare l'andatura: a quanto pareva non aveva nessuna fretta di raggiungere la città, che pure in precedenza aveva indicato con il termine "casa", forse perché voleva godersi a fondo quella splendida giornata animata dal canto degli uccelli e rallegrata dal bagliore del sole che si rifletteva nel ruscello. A mano a mano che si avvicina vano alla città, Jahdo si trovò a paragonarla ad una nube di tempesta che fluttuasse sempre più vicina, dapprima levandosi cupa e nera all'orizzonte e poi ingrandendo fino a occupare l'intero campo visivo, e nel guardarla non seppe decidere se preferire di raggiungerla e di farla finita o desiderare che il Tempo rallentasse in modo da impedire loro di arrivarvi. Alla fine giunsero comunque alla Porta Occidentale, dove la parete perpendicolare dell'altura, levigata dall'intervento umano e rinforzata alla base con grossi blocchi di pietra, proteggeva il tortuoso sentiero che portava alla città. Adesso Jahdo doveva gettare il capo all'indietro per riuscire a distinguere le torri massicce che sbucavano al di sopra del grigio muro di pietra in cima alla collina più alta; le porte aperte soltanto in parte avevano spessi battenti di legno di quercia rinforzati con strisce di ferro e con catene, e nella penombra al di là di essi era possibile distinguere in modo vago un grosso argano. Quando la squadra si avvicinò, alcune guardie armate oltrepassarono le porte per intercettarla. «Vedo che hai fatto buona caccia, daga d'argento» commentò una di esse, rivolta a Rhodry. «Di certo abbiamo preso la preda a cui Jill era interessata. Dimmi una cosa... oggi c'è molta gente in giro per le strade?» «Parecchia, dato che è una bella giornata. Perché?» «Perché non voglio che i prigionieri possano essere aggrediti e feriti» spiegò Rhodry, destando in Jahdo un fugace senso di angoscia.
«Hai ragione» annuì intanto la guardia. «Sarà meglio che smontiate e che li mettiate in mezzo a voi» continuò quindi, accennando con il pollice in direzione di Meer. «La gente ha saputo di quel tizio che hai ucciso, e quelli della sua razza non sono certo molto ben visti da queste parti.» Meer emise una sorta di grugnito che suonò però molto simile ad un singhiozzo. «Non ti preoccupare, buon bardo» garantì Rhodry. «Ti faremo arrivare a destinazione tutto intero. Yraen, noi ti aspetteremo qui mentre andrai a cercare Otho il nano. Sono pronto a scommettere che lui e la sua gente hanno il modo di circolare per la città senza essere visti.» Pur borbottando, Yraen smontò di sella e s'incamminò ansimando su per il pendio per eseguire gli ordini, e nel frattempo anche il resto della squadra scese a sua volta di sella, guidando a mano i cavalli oltre le porte; di fronte all'enorme argano c'era un piccolo casotto di guardia di legno, e tutti si andarono a raggruppare davanti ad esso, mettendosi a chiacchierare con le guardie in merito alle cose che erano accadute in città durante la loro assenza. Rigido ed eretto, Meer attese con le mani serrate intorno al bastone e le labbra scosse da un lieve tremito, e quando Jahdo cercò di posargli una mano sul braccio in un gesto di conforto se ne liberò in modo brusco, cosa che non passò inosservata a Rhodry. «Non permetterò che accada qualcosa a nessuno di voi due» garantì. «È il motivo per cui stiamo aspettando qui.» «Non è questo che gli fa dolere il cuore» sbottò Jahdo. «Il Gel da'Thae che hai ucciso era suo fratello.» Nel momento stesso in cui si lasciò sfuggire quelle parole il ragazzo rimpianse di averlo fatto, perché per quanto stesse cercando visibilmente di controllarsi Meer si lasciò sfuggire un altro lamento prima di imporsi il silenzio. Rhodry dal canto suo sussultò e reagì con un'imprecazione. «Mi dispiace, Meer» disse quindi, in tono che stranamente suonò del tutto sincero. «Però tuo fratello stava facendo del suo dannato meglio per uccidere me.» «Non ne dubito» replicò Meer, esalando il fiato in un lungo sospiro. «Era un guerriero, come lo sei anche tu, e quelli come voi vivono e muoiono secondo un codice diverso da quello che seguiamo noi uomini comuni.» Guardandosi intorno, Jahdo si accorse che i membri della squadra stavano fissando Meer con una nuova sfumatura di rispetto nello sguardo; dal canto suo Rhodry parve cercare qualche altra cosa da dire, ma in quel momento Yraen fu di ritorno insieme a tre uomini, due armati e dotati di cotta
di maglia e il terzo avanti negli anni come testimoniava la sua lunga barba bianca. Tutti e tre erano però le persone più basse e tozze che Jahdo avesse mai visto, al punto che il più basso dei tre... che pure era senza dubbio un uomo adulto... era alto a stento quanto lui pur avendo spalle larghe il doppio delle sue; stupito da quella stranezza, il ragazzo continuò a fissare apertamente i nuovi venuti fino a quando uno di essi incontrò il suo sguardo con espressione accigliata, spaventandolo quanto bastava per indurlo a guardare altrove. «Ti ringrazio per essere venuto, Otho» disse intanto Rhodry. «Che ne pensi... possiamo usare una delle vostre strade?» «Dipende da Jorn» ribatté Otho, indicando in direzione del più alto dei due tozzi guerrieri armati d'ascia. «A proposito, daga d'argento, il giovane Yraen ha avuto la dannata sfacciataggine di ricordarmi quella piccola questione della paga che vi devo. Non appena sarò riuscito a vendere qualcosa ad un buon prezzo vi porterò la somma pattuita, giusto per porre fine alle vostre insistenze» aggiunse, poi si girò a squadrare Meer da testa a piedi e commentò: «Ah, è cieco! Non riuscivo a capire come avessi potuto chiederci di far percorrere le nostre strade ad una spia, ma se non le può vedere il segreto rimarrà tale.» Nel sentire quelle parole Meer snudò i denti affilati ma non disse nulla. «I cavalli non potranno passare» intervenne in quel momento Jorn, venendo avanti. «Perché non incarichi Yraen e il resto della squadra di portarli alla fortezza? Di certo» aggiunse in tono sprezzante, «non potete aver bisogno di dodici uomini per sorvegliare un cieco e un ragazzo.» «Ah, ma ti garantisco che sono pieni di astuzia» ribatté Rhodry, con un sorriso. «Yraen, ragazzi... ci vediamo nella grande sala.» Radunati i cavalli, compresi Baki e Gidro, la squadra si avviò su per l'erta collina, e nell'osservare i guerrieri che si allontanavano Jahdo si rese conto di essere dispiaciuto di vederli andare via: anche se li odiava perché avevano contribuito a catturarlo, se non altro quegli uomini gli erano familiari e durante quegli ultimi orribili giorni si era abituato a loro. «Venite con me» chiamò intanto Otho, accennando ad un viottolo contorto che si snodava alle spalle del casotto di guardia. Preceduti da Jorn si diressero verso la base della collina, dove ad appena pochi metri dalle porte il pendio era stato tagliato fino a renderlo verticale e rivestito con blocchi di pietra in modo da creare un'altura artificiale. Fermandosi davanti ad uno di quei blocchi Jorn vi picchiò sopra con l'ascia, e una parte di esso rientrò scricchiolando di una decina di centimetri,
in modo da rivelare una porzione di un volto e un occhio dall'aria sospettosa. «Ah, sei già qui» commentò una voce, dall'interno. «Tirati indietro, in modo che possa aprire.» Accompagnata da un profondo scricchiolio misto allo stridere della polvere e al rimbalzare di alcuni ciottoli, la massiccia porta si aprì di una fessura appena sufficiente a permettere a tutti di sgusciare dall'altra parte, uno alla volta e di traverso, poi i due guerrieri più giovani precedettero gli altri giù per una lunga e fredda galleria di pietra lavorata, larga oltre tre metri ma alta meno di due, cosa che costrinse sia Meer che Rhodry a procedere incurvati; l'unica illuminazione era un nauseante bagliore azzurrino che scaturiva da funghi e muschi fosforescenti raccolti in cestini appesi a pioli conficcati nella parete, e nel percorrere quel cunicolo Jahdo si trovò a rabbrividire, chiedendosi se questo fosse ciò che provava un topo finito nelle trappole piazzate dalla sua famiglia. Ricordare come quelle creature stridevano e artigliavano le pareti della trappola allorché l'acqua del lago saliva a sommergerli gli fece salire il pianto in gola. «Avanti, muovetevi» ingiunse intanto Otho, in tono secco. «Smettila di guardarti intorno con gli occhi sgranati, ragazzo, non abbiamo a disposizione tutta la giornata.» La galleria procedette diritta per circa tre metri, poi finì da vanti ad una rampa di scale che saliva stretta ed erta per centinaia di metri. Prima che ne avessero salito anche soltanto la metà Jahdo sentì il cuore che cominciava a martellargli nel petto e fu costretto a lottare per riuscire a respirare in quell'atmosfera soffocante; sfinito, d'un tratto incespicò e le sue mani doloranti e sudate persero la presa intorno alla stretta sporgenza di pietra che fungeva da ringhiera: per un fugace momento pensò di lasciarsi cadere all'indietro in modo da precipitare incontro alla morte, ma poi Rhodry lo afferrò per un braccio e lo aiutò a raddrizzarsi. «Non avere fretta, ragazzo» consigliò il guerriero. «Riprendi fiato prima di proseguire.» Jahdo non ebbe altra scelta che continuare l'ascesa, e quando infine arrivarono alla sommità Rhodry concesse loro qual che momento per riposare, dato che avevano tutti il respiro affannoso, soprattutto Meer che pareva quasi ansimare. «Dimmi una cosa, ragazzo» osservò allora Otho. «Sembri nutrire un grande rispetto per questa creatura di cui sei al servizio. Sei stato forse allevato fra la sua gente?»
Jahdo accennò a dire la verità, ma poi si chiese se voleva davvero far conoscere a questi uomini l'esistenza della sua terra natale. «Sì» mentì quindi. «Lui però è un bardo, quindi è doveroso che anche voi lo rispettiate.» Otho si limitò a scrollare le spalle in un offensivo gesto d'indifferenza. Quando ripresero il cammino s'imbatterono in un altro corridoio, altre scale, un'altra porta massiccia... poi infine emersero sotto l'abbagliante luce del sole venendosi a trovare da vanti ad una seconda porta massiccia e sorvegliata quanto la prima, al di là della quale si levavano le torri, cupe e incombenti come giganteschi bastoni conficcati nel terreno. «Siete arrivati» dichiarò Otho. «Ora noi torneremo indietro.» «Ricordati il denaro che mi devi, Otho» esclamò però Rhodry, mentre i tre nani accennavano a tornare verso la galleria. Nel sentire quelle parole Jahdo trovò del tutto ingiusto che queste persone stessero discutendo dei normali dettagli della loro vita quotidiana... probabilmente di una cosa insignificante come un debito di gioco... quando lui stava invece andando in contro alla schiavitù. Non appena ebbero oltrepassato le porte Rhodry posò una mano sulla spalla di Meer e Jahdo prese il bardo per mano, perché il suo bastone avrebbe costituito una misera guida in mezzo alla confusione presente nel vasto cortile, dove intorno alle torri e a ridosso delle mura sorgeva un agglomerato di costruzioni di legno, per lo più rotonde e con il tetto di paglia. Incorporati nelle mura esterne c'erano poi lunghi edifici rettangolari che al piano inferiore erano adibiti a stallaggi, anche se Jahdo non poteva vedere a quale funzione fosse destinato il piano superiore, e in mezzo al tutto si aggiravano una quantità di servitori impegnati ad accudire i cavalli, a trasportare legna da ardere o sacchi che sembravano pieni di verdure o ancora a trascinare una capra belante o a guidare davanti a sé un paio di maiali. Da un punto imprecisato nelle vicinanze giungeva il rintoccare metallico proprio della fucina di un fabbro e dovunque c'erano cani che abbaiavano e persone che gridavano; di tanto in tanto, poi, una guardia armata passava in mezzo al caos generale allontanando a spintoni qualsiasi servitore che le tagliasse la strada. «Procedete dritto davanti a voi» ingiunse Rhodry, «e camminate in fretta, prima che mi trovi a dovervi difendere. Vedi quel lungo edificio diritto che si erge appena oltre il porcile, ragazzo? È la nostra destinazione.» La paura indusse Jahdo a collaborare e a sospingere Meer nella direzione indicatagli mentre Rhodry si guardava nervosamente intorno e i servito-
ri stridevano al solo vederli passare e accorrevano per scrutarli più da vicino, fra i commenti beffardi degli uomini armati presenti nel cortile, tanto che il ragazzo fu più che lieto di entrare infine nel lungo edificio di pietra, anche se esso era intriso del puzzo del vicino porcile e di un più sgradevole sentore di sporcizia umana. Una volta all'interno si trovò davanti uno stretto passaggio costellato di porte, ciascuna delle quali aveva una piccola fessura alla sommità e una pesante sbarra di quercia a impedirne l'apertura dall'interno. «La prigione della fortezza» commentò Rhodry, confermando i suoi peggiori timori, «ma con un po' di fortuna non resterete qui a lungo.» Un uomo anziano, vestito con laceri stracci marroni che un tempo erano stati vestiti, emerse zoppicando da una stanza all'estremità opposta del corridoio. «Sono prigionieri di guerra» gli disse Rhodry. «Mettili qui dentro, daga d'argento» replicò il vecchio, sollevando con mani artritiche una sbarra e aprendo una porta. «Avanti, falli entrare.» Jahdo aiutò Meer ad oltrepassare la soglia, poi lo seguì con il cuore che gli martellava nel petto come aveva fatto mentre stava salendo le interminabili scale sotterranee; un momento più tardi fu quindi assalito da un profondo senso di sollievo nel vedere che la stanza era dotata di una piccola finestra bloccata da sbarre e che lo spesso strato di paglia che copriva il pavimento era ragionevolmente pulito. In un angolo c'era inoltre un secchio di cuoio su cui ronzavano parecchie mosche, ma a parte questo la cella non conteneva niente altro, neppure una coperta. «Voglio che vengano trattati bene» stava intanto dicendo Rodry al vecchio. «Bada di dare loro cibo in abbondanza ed acqua fresca e pulita, e che il pane non sia ammuffito. Di tanto in tanto passerò a controllare come li stai trattando.» «D'accordo, farò come dici.» Intanto la porta si richiuse, la sbarra tornò a cadere al suo posto, poi Jahdo sentì Rhodry e il vecchio avviarsi discutendo lungo il corridoio e di lì a poco udì il carceriere tornare indietro. «Ragazzo, ragazzo! Sto per passarti l'acqua attraverso la finestra.» Una brocca d'argilla apparve inquadrata nella feritoia presente nel battente, così stretta che Jahdo riuscì a stento a farla passare dalla sua parte, poi fu la volta di una tazza d'argilla con il manico rotto e infine di una forma di pane nero abbastanza fresco.
«Ecco fatto» commentò il vecchio, in tono secco. «Quella daga d'argento è davvero un arrogante bastardo, per permettersi di dare in questo modo degli ordini ad un uomo onesto.» «Allora Rhodry non è un nobile?» «Cos'hai detto, ragazzo?» «Rhodry non è un nobile?» Il vecchio rimase in silenzio per un secondo, poi scoppiò in una fragorosa risata. «Non lo è proprio, ragazzo, tutt'altro. È soltanto uno sporco mercenario che combatte per denaro e non per l'onore come ogni uomo per bene, il che significa che è poco migliore di un ladro. Le daghe d'argento si mettono nei guai quando sono ancora giovani, altrimenti non si troverebbero a percorrere la lunga strada, giusto? Quella daga d'argento ha avuto un bel fegato a dare degli ordini a me!» esclamò quindi, producendo un suono da cui Jahdo dedusse che doveva aver sputato per terra. Il vecchio si allontanò borbottando e questa volta non tornò più indietro. Versata una tazza d'acqua... che era in effetti pulita e perfino fresca... il ragazzo aiutò Meer a bere. «Questo pane è abbastanza morbido da permettermi di spezzarlo con le dita» disse quindi. «Sai cosa mi secca davvero, Meer? Che mi abbiano preso il coltello del nonno, perché era la sola cosa veramente mia che avessi mai avuto.» «Se soltanto non ti avessi trascinato in questa folle impresa» gemette Meer, restituendogli la coppa. «A quanto pare gli dèi hanno deciso diversamente» replicò Jahdo, e sentì la propria voce incrinarsi, in quanto lui stesso in fondo al suo cuore desiderava di non aver mai intrapreso quel viaggio. Deglutendo a fatica, si concentrò sul compito di versarsi un po' d'acqua mentre proseguiva. «Del resto, tu non potevi sapere che Thavrae sarebbe stato ucciso... un momento! C'è una cosa che ti devo dare, ma finora me ne sono sempre dimenticato.» Trangugiata l'acqua in un sorso, posò la tazza e cominciò a frugarsi in tasca. «Ecco qui» aggiunse quindi. «Questi sono gli amuleti e gli altri oggetti che Thavrae portava al collo. Li ho recuperati per te.» Quando Jahdo gli posò i monili sul palmo della mano, Meer serrò per un momento le dita intorno ad essi, poi borbottò un'imprecazione e li scagliò con violenza contro la pare te.
«Ho esaudito la richiesta di nostra madre, ma non intendo fare altro» dichiarò. «Se non fosse stato per Thavrae e per i suoi immondi demoni, i suoi falsi dèi, la sua blasfemia e la sua eresia, il nostro clan avrebbe ancora una speranza di vita e né tu né io saremmo rinchiusi in questa disgustosa prigione. Cadere nelle mani dei propri nemici non è forse una delle sette cose più disgustose di tutta l'esistenza?» Jahdo cercò di trovare qualche parola di conforto ma non ci riuscì e invece spezzò la pagnotta in alcuni pezzi, porgendo la porzione più grossa a Meer, che però la respinse. «Mangiala tutta tu, ragazzo. Sei giovane e hai speranza, perché più di uno schiavo fedele è stato ricompensato con la libertà.» «Ma tu non hai fame?» Meer scosse il capo in un gesto di diniego. «Eppure ne devi avere... oh, Meer, non farlo, non lasciarti morire di fame. Non puoi morire, sei tutto quello che ho! Per favore, Meer, mangia un po' di questo pane, te ne prego.» Meer però incrociò le braccia sul petto e distolse lo sguardo, rifiutandosi di dire una sola parola per quanto Jahdo piangesse e supplicasse, e alla fine il ragazzo si arrese perché ormai il suo stesso stomaco stava brontolando in reazione all'odore del cibo. Asciugatosi alla meglio la faccia con la manica sporca cominciò a mangiare e Meer dovette sentirlo masticare perché si concesse un accenno di sorriso. Finito il primo pezzo di pane Jahdo ne stava aggredendo un secondo, chiedendosi al tempo stesso se avrebbe dovuto conservare metà della pagnotta per più tardi o se sarebbero stati nutriti più di una volta al giorno, quando gli parve di sentire un lieve suono vicino alla porta, e nel girarsi a guardare scoprì che adesso c'era qualcuno nella cella insieme a loro. L'apparizione sembrava risplendere nella luce incerta della stanza angusta, e aveva la forma di una splendida donna alta e snella, con lunghi capelli biondo cenere che le ricadevano sulla schiena e profondi occhi del colore delle nubi temporalesche ma con le pupille verticali come quelle di un gatto; i suoi orecchi affusolati e appuntiti erano uguali a quelli del dio apparso vicino al ruscello e i suoi abiti di un grigio argenteo erano costituiti da un'ampia camicia fermata in vita da una cintura, da calzoni di pelle e da stivali dello stesso materiale. «Evandar non è voluto venire di persona, ma non potevo tollerare di lasciarti in questo stato, ragazzo. Non temere, le cose non sono cupe come ti devono sembrare... te lo prometto.»
La donna parve quindi dissolversi come una scia di fumo al di sopra di un fuoco da campo e svanì. «Cos'era quella voce?» domandò Meer. «Chi era?» «Era una dea» rispose Jahdo, certo come non lo era mai stato di niente altro in tutta la sua vita. «Una dea è venuta da noi, Meer, per dirci che andrà tutto bene. Adesso puoi anche mangiare, giusto?» Quando il ragazzo gli porse nuovamente il pane Meer si mise a sbocconcellarlo lentamente, assaporando ogni boccone con una sorta di meraviglia, mentre Jahdo si versava dell'altra acqua e la beveva con altrettanta assorta lentezza. Dopo aver rivolto le ultime minacce al carceriere, l'uomo che preferiva essere conosciuto come Rhodry di Aberwyn indugiò per un momento nel cortile, soppesando il proprio desiderio di concedersi un bagno e un cambio di vestiario dopo quindici giorni in sella contro la necessità di fornire un rapporto a coloro che lo avevano incaricato di quella caccia. Alla fine decise però che era meglio fare subito il suo rapporto e si avviò attraverso il cortile in direzione del complesso della rocca, diretto verso una delle torri più piccole che sorgevano a ridosso di quella principale... ma sebbene fosse stata sua intenzione sgusciare all'interno senza dare nell'occhio si trovò ad essere intercettato da uno dei pochi uomini della fortezza che non poteva ignorare: alto e muscoloso, con i capelli chiari quanto la luce lunare e gli occhi grigi, Lord Matyc di Dun Mawrvelin era appoggiato contro la porta con le braccia incrociate sul petto. Poiché non gli restava altra scelta, Rhodry gli rivolse un profondo inchino. «Buon giorno, mio signore. Posso esserti utile?» domandò. «Volevo soltanto scambiare qualche parola con te, daga d'argento. Per ordine di chi hai catturato quei due prigionieri che hai appena scortato qui?» «Il gwerbret in persona ha mandato me ed Yraen a cercarli insieme ad alcuni uomini.» «Capisco» commentò sua signoria, raddrizzandosi e allontanandosi senza neppure una parola di commiato. Dal momento che ho agito per ordine del gwerbret non c'è niente che tu possa fare al riguardo, vero? pensò intanto Rhodry, che avrebbe comunque preso in antipatia per principio un uomo arrogante come Matyc e che di recente era stato indotto da un paio di incidenti a dubitare della fedeltà di quest'ultimo al suo signore, il Gwerbret Cadmar di Cengarn. Ciò che più
lo interessava di questo più recente incontro con sua signoria non era tanto che Matyc gli avesse rivolto una domanda... giustificabile come semplice curiosità... quanto il fatto che poi non gli avesse chiesto altro, come per esempio chi potesse essere Meer o come fosse stato trovato, e cioè il genere di interrogativi che ci si sarebbe aspettati di sentire in circostanze del genere. Pensieroso, Rhodry seguì il nobile con lo sguardo finché questi non scomparve nella rocca, poi entrò nella torre laterale, dove sulla destra una scala di ferro battuto erta quanto la scala di pietra dei nani s'inerpicava a spirale per quattro piani di piccole stanze a forma di cuneo riservate agli svariati servitori di rango del gwerbret per poi terminare al quinto livello, occupato per metà da un'area aperta usata per immagazzinare sacchi di carbone e per metà da un'ultima camera. Dopo aver sostato per un momento davanti alla porta per riprendere fiato, Rhodry bussò e quando una voce di donna lo invitò ad entrare aprì il battente dopo appena un istante di esitazione, addentrandosi quindi nella stanza con passo deciso. Vestita con un paio di calzoni grigi e una camicia bianca coperta di fitti ricami, Jill sedeva su una sedia a tre gambe ed era intenta a consultare un grosso volume rilegato in cuoio posato sul tavolo davanti a lei. I suoi capelli, tagliati corti come quelli di un ragazzo, erano di un candore assoluto e il suo volto era di una magrezza eccessiva, al punto che gli occhi azzurri spiccavano enormi su di esso e dominavano i lineamenti come quelli di un bambino. Nel complesso, lei appariva infatti di una magrezza sconvolgente e di un pallore spaventoso, e tuttavia sembrava tutt'altro che debole perché i suoi occhi erano pieni di vita e la sua voce suonava forte e vibrante. «Allora, hai avuto successo?» chiese. «Sì. Abbiamo seguito le tue indicazioni e li abbiamo trovati proprio dove avevi detto, un ragazzo umano e un Gel da'Thae. Adesso sono rinchiusi nelle segrete della fortezza.» Per tutta risposta Jill contrasse la bocca in una smorfia. «Per quanto ti possa sembrare strano, lì sono più al sicuro che in qualsiasi altro luogo» proseguì intanto Rhodry. «In città gli animi sono ancora piuttosto caldi perché parecchi cittadini hanno perso dei parenti a causa di quei razziatori e si è risaputo in giro che il loro capo era una creatura pelosa che sembrava scaturita direttamente dal terzo inferno. Come pensi che la prenderanno quando sapranno di avere a portata di mano un'altra di quelle creature? A proposito, sai una cosa strana? Il Gel da'Thae che ho ucciso era il fratello di questo bardo.» «Davvero strano. Come sai che il prigioniero è un bardo?»
«Me lo ha detto il suo servitore che, per quanto possa sembrare assurdo, parla la stessa lingua degli uomini di Deverry. Sai, Jill, non sono mai stato tanto sorpreso in vita mia come quando quel ragazzo si è messo a parlare ed io mi sono accorto che riuscivo a capirlo. All'inizio non è stato facile, perché la sua pronuncia è piuttosto diversa... è piatta e fluida... e perché lui usa una quantità di parole che sono molto antiche, del genere che puoi trovare sui libri del mio stimato antenato ma che non vengono più usate correntemente da un paio di centinaia di anni.» «Non dubito che sia così e che lui sia rimasto sorpreso quanto te. Se la mia supposizione è esatta, i suoi antenati erano servi vincolati che sono riusciti a ruggire. Prima di essere sottomessi dai tuoi antenati, quei servi provenivano da molte diverse tribù, e in base alle tradizioni ognuna di esse aveva una sua lingua diversa... un centinaio in tutto, secondo i preti» spiegò Jill, battendo con un dito un colpetto sul volume che aveva davanti. «La sola lingua che avevano tutti in comune era quella dei loro antichi padroni, e sono stati costretti ad usarla per poter sopravvivere.» «Scommetto che non ne sono stati felici... so che io non lo sarei stato, al loro posto.» «Non ne dubito» assentì Jill, con un fugace sorriso, poi abbassò lo sguardo sul libro e proseguì: «Il Rhiddaer deve essere un posto strano. Quei prigionieri sono tanto importanti proprio perché non sono riuscita ad apprendere molto su di esso, tranne che laggiù non c'è un Sommo Re e non ci sono nobili o gwerbret che mantengano l'ordine e formino alleanze... non che possa biasimare quella gente per essersi voluta lascia re alle spalle per sempre questo genere di cose, considerato che la giustizia del re per loro non ha mai avuto valore. Quanto al bardo e al ragazzo, sebbene detesti farlo, direi che la cosa migliore sia di lasciarli per un po' dove si trovano, in modo che siano abbastanza spaventati da essere disposti a parlare con me e che intanto la gente della città trovi altri argomenti di cui chiacchierare.» «Allora faremo così.» «Dimmi, il tuo viaggio è stato tranquillo?» «Sì. Non abbiamo avuto problemi o visto tracce di altri razziatori, ma è possibile che ci si sia incrociati senza accorgersi gli uni degli altri, perché quelle sono zone selvagge.» «Qui intorno il territorio è tutto selvaggio, il che costituisce il vero problema di Cengarn. Per gli dèi, siamo davvero isolati! Dimmi una cosa,
Rhoddo... quanti uomini credi che Cadmar possa schierare in campo, se si dovesse arrivare alla guerra aperta?» «Non molti. Lasciami pensare... Matyc è il suo unico vassallo nel settentrione e Gwinardd è il suo vassallo più ricco, il che dovrebbe essere sufficiente a darti un'idea di questo posto, se consideri il genere di equipaggiamento di cui dispongono i suoi uomini. Qui intorno ci sono poi una quantità di piccoli nobili, che hanno dai cinque ai dieci uomini votati al loro servizio, e inoltre il nostro signore ha degli alleati nell'est... anche se la provincia di Arcodd non è essa stessa una terra ricca e popolosa. Diciamo che Cadmar potrebbe raccogliere con facilità cinquecento uomini, più altri cinquecento se tutti i suoi alleati mandassero i rinforzi previsti dai trattati. Poi ci sono» naturalmente i contadini, che in queste zone sono tutti uomini liberi e che saranno pronti a combattere per le loro terre. Essi potrebbero fornire un altro migliaio di uomini, addestrati e armati in maniera approssimativa, ma tutti decisi e coraggiosi. «Se l'intera provincia fosse minacciata, credi che il Sommo Re interverrebbe?» «Certamente, ma ci vorrebbero dei mesi per raccogliere un esercito e farlo arrivare fin qui» rispose Rhodry, poi si rese conto di colpo del sottinteso di tutte quelle domande ed esclamò: «Jill! Cosa stai dicendo? Pensi davvero che stiamo correndo un pericolo del genere?» «Non lo so e mi auguro di no, ma per tutta la vita mi sono aspettata il peggio e mi sono preparata a fronteggiarlo... e vuoi sapere una cosa? Finora non sono mai stata delusa nelle mie aspettative.» Rhodry cercò di reagire con una risata ma alla fine ci rinunciò. «Onestamente non credo che ci siamo lasciati alle spalle questo problema» continuò intanto Jill, «ma non ho idea di quanto sia grande il pericolo che corriamo. Non appena avrò scoperto qualcosa in merito informerò sia te che il gwerbret.» «D'accordo. A proposito di sua grazia, credo che farò meglio a cercarlo e a riferirgli che gli ho riportato i suoi uomini.» «Quando lo vedrai, ringrazialo da parte mia» replicò Jill, «girando un'altra pagina del libro.» Fra poco scenderò anch'io nella grande sala. La grande sala del Gwerbret Cadmar occupava tutto il piano terreno della rocca principale. Da un lato, vicino ad una porta posteriore, c'erano tavoli e panche a sufficienza per ospitare una banda di guerra di oltre cento uomini, mentre vicino al focolare e alla tavola d'onore c'erano altri cinque tavoli riservati agli ospiti e ai servitori; il pavimento era sempre coperto da
un tappeto di canne intrecciate di fresco e le pareti e l'enorme focolare fatti di una pietra dal pallido colore dorato erano splendidamente lavorati e intagliati, mentre enormi pannelli dagli intagli simili a merletti circondavano le finestre ed erano inseriti nelle pareti alternativamente ad altri decorati con spirali e immagini di animali fantastici. Il vero capolavoro era però costituito dal focolare d'onore, avviluppato dalla scultura di un drago di pietra che era raffigurato con la testa posata sulle zampe saldamente poggiate a terra, la schiena incurvata a costituire la mensola del focolare e la coda che si arrotolava ad abbracciare il lato opposto; il motivo del drago era ripetuto anche nelle decorazioni del focolare riservato ai guerrieri, situato sul lato opposto della sala e ornato con teste di drago e arabeschi intrecciati. Quando vi fece il suo ingresso, Rhodry trovò la sala praticamente vuota tranne per un paio di serve ferme accanto al focolare d'onore e un paggio che era intento a lucidare i boccali vicino alla tavola d'onore e che finse di non sentire il primo richiamo che lui gli rivolse. «Allonry!» tuonò ancora il guerriero. «So che tuo padre è un grande nobile, ma sei qui per obbedire a chiunque richieda i tuoi servigi!» Il paggio, un ragazzo di circa dieci anni, snello, lentigginoso e rosso di capelli, si diresse verso di lui con aria svogliata e con espressione accigliata. «Dov'è sua grazia?» gli chiese Rhodry. «Nelle stalle, con il siniscalco.» «Ci rimarrà per molto?» «Non ne ho idea. Va' a chiederglielo tu stesso, daga d'argento.» Rhodry si trattenne a fatica dallo schiaffeggiare quel ragazzo arrogante: anche se lui stesso aveva servito come paggio nella fortezza di un gwerbret, non ricordava di essere mai stato tanto arrogante, ma piuttosto terrorizzato di poter agire nel modo sbagliato e coprirsi di vergogna... una preoccupazione che non sembrava sfiorare il giovane Allonry. «Allora lo farò» replicò infine. «Al tuo posto però non mi pavoneggerei tanto in presenza di Lord Matyc e di quelli come lui.» Il ragazzo abbassò la testa e distolse lo sguardo mentre Rhodry si voltava per lasciare la sala, arrestandosi però nel vedere il gwerbret fare il suo ingresso in essa seguito dal siniscalco e dal ciambellano. Anche se zoppicava vistosamente a causa della gamba destra deformata, il Gwerbret Cadmar era un uomo imponente, alto oltre un metro e ottanta, con le spalle larghe e con i capelli e i baffi grigio ardesia che contrastavano con gli occhi di un azzurro incredibile sotto le sopracciglia cespugliose e con la car-
nagione scura del volto segnato dagli elementi. Allorché il gwerbret si avvicinò alla tavola d'onore, il paggio si affrettò a inchinarsi e Rhodry s'inginocchiò in segno di omaggio. «Alzati, daga d'argento, non c'è bisogno di attenersi al cerimoniale» affermò però il gwerbret, rivolgendogli un fugace sorriso. «Vedo che sei tornato, ed ho sentito dire che hai portato con te dei prigionieri: devo dedurre che Jill aveva ragione e che c'erano in effetti delle spie che si aggiravano lungo i miei confini?» «Ecco, Vostra Grazia... in effetti abbiamo trovato un paio di intrusi, ma dubito che siano davvero delle spie, perché uno è soltanto un ragazzo e l'altro è cieco.» Il capo stalliere e il ciambellano si scambiarono un'occhiata stupita e lo stesso Cadmar si lasciò sfuggire un verso di sorpresa. «In tal caso è una situazione dannatamente strana. Perché si stavano aggirando nelle mie terre?» «Non ne ho idea, Vostra Grazia, ma so che Jill ha molte speranze di poter ottenere da loro delle informazioni.» «Devo dedurre che vorrebbe che lasciassi la cosa nelle sue mani?» «Se Vostra Grazia è d'accordo, naturalmente.» «È molto probabile che lo farò» commentò il gwerbret, poi si rivolse al paggio e aggiunse: «Alli, sali nella camera di Jill e chiedile... con cortesia, bada bene... di scendere a conferire con me.» Anche se si allontanò in fretta per obbedire, il ragazzo mostrò palesemente di essere seccato all'idea della salita che lo aspettava. «Credi che un giorno o l'altro finirà per imparare la cortesia?» domandò Cadmar, scoccando un'occhiata al suo ciambellano. «Posso soltanto sperarlo, Vostra Grazia» sospirò il vecchio. «Io sto facendo del mio meglio per istruire quel dannato moccioso presuntuoso.» Cadmar scoppiò a ridere, poi si ricordò di Rhodry e si girò verso di lui con un rapido cenno della mano. «Puoi andare, daga d'argento» disse. «Non c'è bisogno che resti ancora qui.» «Ringrazio Vostra Grazia.» Recatosi negli alloggiamenti, quelle strutture a ridosso del le mura che avevano lasciato Jahdo tanto perplesso, Rhodry attinse dell'acqua dal pozzo delle stalle per prepararsi un bagno freddo, e quando infine fu rasato e ragionevolmente pulito tornò nella grande sala per tenere d'occhio la situazione. Dopo essersi preso un po' di birra attingendola con il proprio bocca-
le per evitare di essere ignorato da qualcuna delle serve, si trovò un posto ad un tavolo sul lato più lontano della sala, mettendosi a sedere in un punto da cui poteva osservare i nobili da una giusta distanza, mentre i guerrieri che facevano parte delle diverse bande di guerra attualmente alloggiate nella fortezza cominciavano ad arrivare alla spicciolata, scherzando con le serve e prendendo posto a questo o quel tavolo in attesa del pasto serale. Al contrario dei servitori e dei nobili, la maggior parte dei guerrieri ebbe per Rhodry un saluto cordiale o almeno una battuta scherzosa, perché lo avevano visto combattere e lo giudicavano in base al suo valore sul campo. La sala si riempì in fretta perché in occasione della guerra contro la banda di razziatori capitanata dal fratello di Meer il gwerbret aveva convocato due dei suoi vassalli più vicini, Lord Matyc e Lord Gwinardd, che in ossequio al loro giuramento di fedeltà si erano presentati ciascuno con una banda di guerra di venticinque uomini con cui incrementare quella del gwerbret. Uno dei guerrieri che cavalcavano per Cadmar, un ragazzo castano di nome Draudd, si venne a sedere accanto a Rhodry. «Dov'è Yraen?» domandò. «Non lo so, ma spero che si stia ripulendo» replicò Rhodry. «A quest'ora avrebbe già dovuto essere qui. Perché me lo chiedi?» «Mi stavo soltanto domandando se ha voglia di fare una partita a carnoic o qualcosa del genere, perché gioca dannatamente bene» replicò Draudd, con un colossale sbadiglio. «Sai, Rhodry, qui fra gli uomini è in corso una sorta di scommessa, perché alcuni sostengono che Yraen sia di nobile nascita.» «Ma davvero? Mi auguro che non pensino di potergli chiedere apertamente informazioni al riguardo e poi vivere abbastanza a lungo da incassare la posta della scommessa. Curiosare nel passato di una daga d'argento non è salutare.» Per tutta risposta Draudd sbuffò nel sorseggiare la sua birra. «Non sto scherzando» insistette Rhodry, in tono quieto e secco. «Avvertili di lasciar perdere.» Draudd sollevò lo sguardo di scatto, perdendo di colpo tutto il suo buon umore. «Ancora una cosa» proseguì intanto Rhodry. «Sono incluso anch'io in questo vostro giochetto?» Allorché Draudd si tinse di un violento rossore che costituiva di per sé una tacita confessione Rhodry lo afferrò per la camicia, imprimendo alla
stoffa una torsione che troncò quasi il respiro al guerriero e lo trasse con decisione verso di sé. «Lascia perdere, ragazzo... mi hai capito?» ingiunse, e nell'abbandonare la presa con una spinta che fece barcollare il giovane ripeté: «Hai capito?» «Ho capito, e lo farò» replicò Draudd, massaggiandosi la gola con una mano, poi si alzò dalla panca e aggiunse: «Credo che andrò a scambiare qualche parola con il capitano.» In quel momento Rhodry si rese conto che un gruppetto di uomini si era raccolto vicino alla porta per osservare la scena, ma mostrò di ignorarlo e riprese a sorseggiare con calma la propria birra. Quando tornò a guardare in quella direzione gli uomini erano scomparsi. Di lì a poco Jill apparve sul lato opposto della grande sala e si affrettò a raggiungere la tavola del gwerbret, che si alzò di persona per accoglierla e insistette per attribuirle il posto d'onore alla propria destra. Anche se era troppo lontano per sentire la loro conversazione, Rhodry non ebbe difficoltà a intuire che il gwerbret stava di certo tentando di attingere delle informazioni da Jill, il che non era una delle cose più facili del mondo... Rhodry stesso aveva infatti il sospetto che lei sapesse più di quanto fosse disposta ad ammettere sul conto di quel misterioso bardo giunto da tanto lontano. Entro pochi minuti un altro dei vassalli del gwerbret presenti nella fortezza, Lord Gwinardd, un giovane dai capelli castani e dall'aspetto insignificante che aveva da poco ereditato il proprio titolo, venne a prendere posto alla tavola d'onore, sedendo con diffidenza all'estremità opposta rispetto al suo signore e rimanendo in silenzio. Con il trascorrere del pomeriggio, Rhodry cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di Lord Matyc, che avrebbe dovuto unirsi agli altri nobili almeno per cena se non addirittura prima, ma dovette attendere ancora a lungo prima di vederlo entrare a grandi passi, tallonato da Yraen... una vista che gli strappò un sorriso mentre i due infine si separavano, Matyc per andare a rendere omaggio al suo signore e Yraen per attraversare la stanza e raggiungere il compagno. «Dove sei stato?» gli chiese Rhodry. «Ho tenuto d'occhio sua signoria. L'ho sorpreso a dimostrare per quei prigionieri un interesse che mi è parso eccessivo, quindi sono rimasto di guardia per qualche tempo e quando lui ha continuato a gironzolare nei dintorni della prigione l'ho infine distratto parlandogli di cavalli e l'ho praticamente costretto a venire a dare un'occhiata alla nuova giumenta del gwerbret.»
«E come l'ha presa sua signoria?» «Male» dichiarò Yraen. scrollando le spalle, «ma non m'importa. Quell'uomo non mi piace: in lui c'è qualcosa che mi fa contrarre lo stomaco.» «Succede anche a me. Credo che cercherò di parlare di lui con Jill il più presto possibile... e inoltre non mi dispiacerebbe trasferire i prigionieri in un altro posto senza che sua signoria ne venga informato.» Verso il tramonto il carceriere portò a Jahdo e a Meer un'altra pagnotta di pane fresco, altra acqua, abbondanti porzioni di formaggio dal sapore piacevole anche se dalla scorza spessa e un paio di pesche che affermò essere state fornite per ordine diretto di Rhodry. Per quanto grato del cibo, Jahdo si sentì profondamente a disagio al pensiero che lui e Meer si trovassero a dipendere dalla benevolenza dell'uomo che aveva ucciso il fratello del bardo. «Ritengo che non dovremmo mangiare questa roba» commentò, rivolto a Meer. «Gli schiavi devono prendere tutto quello che possono, ragazzo.» «Lo so, ma quello che mi fa accapponare la pelle è il pensiero di cosa ne sarà di noi se Rhodry dovesse essere ucciso o qualcosa del genere. Come ci tratterà qualcun altro?» «Gli schiavi vivono giorno per giorno.» Mentre mangiavano, seduti sulla paglia, Jahdo sollevò lo sguardo in direzione della finestra dotata di sbarre che si apriva nella parete opposta, notando che all'esterno il cielo, solcato qua e là da nubi dorate, si stava tingendo di un blu cupo e vellutato; da fuori giungevano a tratti le voci dei passanti... servi frettolosi, uomini che ridevano e di tanto in tanto l'abbaiare di un cane o il nitrire di un cavallo. Quando ebbe finito di mangiare, il ragazzo si avvicinò alla finestra e scoprì che alla sua base c'erano un paio di pietre che sporgevano dal muro in maniera tale da permettergli di arrampicarsi su di esse aggrappandosi alle sbarre per sostenersi mentre guardava il panorama costituito da un paio di magazzini, dal porcile e in lontananza dalle massicce mura esterne della fortezza, cose che lui descrisse tutte a Meer, più che altro per passare il tempo. «Intorno alla sommità della fortezza ci sono delle passerelle di legno come quelle che abbiamo anche noi a casa, in modo che la milizia possa montare la guardia lungo le mura. Qui però le passerelle sono rotte in al-
cuni punti, come se fossero state trascurate, segno che forse non hanno molte guerre.» «Questa fortezza sembra essere il punto di forza dell'intera area, per cui è improbabile che venga attaccata. Mi chiedo cosa sia un gwerbret... senza dubbio si tratta del signore di questo posto, ma è un termine che prima d'ora non avevo mai sentito.» «Neppure io.» Meer rifletté per un momento sul problema, poi cercò a tentoni il suo bastone che era posato poco lontano sulla paglia. «Hai bisogno di usare il secchio?» chiese Jahdo. «No. Aiutami ad alzarmi in piedi, ragazzo.» Quando Jahdo lo ebbe fatto, Meer raggiunse la porta tastando il terreno con il bastone e trovò al tatto la piccola finestra, accostando la faccia alle sbarre. «Carceriere!» ruggì. «Carceriere! Vieni qui!» Il bardo continuò a chiamare fino a quando il vecchio fece infine la sua apparizione e percorse il corridoio con il suo passo zoppicante, imprecando e lamentandosi. «Cosa ti prende adesso, mucca pelosa?» domandò, esalando un respiro che sapeva di birra. «Perché disturbi un uomo onesto mentre si sta godendo il suo meritato pasto, anche se nutrire gente come te e prendere ordini da una dannata daga d'argento non mi porta certo un grande profitto?» «Ho bisogno di sapere il significato di una parola – ribatté Meer, e quando il carceriere lo fissò in silenzio, a bocca aperta per lo stupore, aggiunse:» Io sono Meer, bardo e maestro del sapere. Dimmi cosa significa la parola gwerbret, perché tali spiegazioni mi sono dovute. «Ma davvero?» ritorse il carceriere, riprendendosi dallo stupore. «E da quando i cani pelosi come te hanno fra loro dei bardi?» «Farai meglio a tenere a freno la lingua!» scattò Jahdo. «Taci» ingiunse però Meer, segnalandogli di allontanarsi dalla porta. «Vecchio, prima mi hai definito una mucca e adesso sostieni che sono un cane: nella mia terra natale verresti strangolato pubblicamente per questi insulti, ma qui come schiavo non posso fare altro che perdonarti. Tuttavia un bardo è pur sempre un bardo, per quanto schiavo, quindi risponderai alla mia domanda se non vuoi che invochi su di te l'ira degli dèi.» «Invoca quello che vuoi. Io non ti dirò assolutamente niente» ritorse il carceriere e accennò ad andarsene, ma Meer intonò una nota acuta e pene-
trante il cui suono aspro fece contorcere Jahdo, e continuò ad alzare il tono di voce fino a quando il carceriere si lasciò sfuggire uno strillo. «D'accordo! Chiudi quella dannata bocca, bardo, e ti dirò quello che vuoi sapere. Avrei dovuto immaginare che i selvaggi pelosi come te sono ignoranti quanto sono brutti. Un gwerbret è un tipo di nobile, il più potente che esiste tranne per i principi e gli altri nobili di sangue reale. Ha dei vassalli che gli devono dei servigi e gli pagano i tributi, e ha il compito di giudicare i criminali... e nel nome di ogni dio spero proprio che quando giudicherà te ti condanni ad essere impiccato, come meriti.» Poi si allontanò dalla cella e Meer lo lasciò andare via indisturbato. «Possa il cuore scoppiargli nel petto» commentò. «O meglio ancora, possano gli dèi bloccargli i reni in modo da farlo morire nel fetore della sua stessa urina. Ah, bene, se non altro ho acquisito una nuova informazione.» Jahdo si sentì profondamente sollevato, perché se Meer si preoccupava del significato di uno strano vocabolo questo voleva dire che aveva davvero deciso di continuare a vivere. Dopo averlo aiutato a sedersi, il ragazzo tornò ad appollaiarsi vicino alla finestra per osservare lo svanire della luce crepuscolare, e dopo qualche minuto vide una figura familiare uscire con passo deciso dalla rocca principale. «Sta arrivando qualcuno» avvertì. «È Rhodry, e con lui ci sono Yraen e un paio di uomini della squadra.» Quando sentì nel corridoio la voce di Rhodry e le risposte lamentose del carceriere, Jahdo si allontanò dalla finestra e porse al Gel da'Thae il suo bastone, aiutandolo ad alzarsi in piedi proprio mentre la sbarra veniva sollevata e la porta si apriva, lasciando entrare Rhodry che rivolse loro un inchino formale accompagnato però da un sorriso divertito. «Che ne dite di una passeggiatina serale?» propose. «In questo momento il cortile è vuoto e silenzioso perché quasi tutti stanno ancora cenando, quindi credo che potremo farvi arrivare fino alla rocca senza problemi, se camminerete in fretta e se non mi causerete difficoltà. Siamo d'accordo?» «Non abbiamo altra scelta, giusto?» ribatté Jahdo. «Nessuna» convenne Rhodry, scoppiando a ridere di gusto, «quindi cominciate a camminare.» Jahdo prese Meer per un braccio e il gruppo si affrettò ad uscire, attraversando in fretta il cortile con i guerrieri disposti intorno ai prigionieri... anche se naturalmente non potevano mimetizzare Meer a causa della sua notevole statura. Jahdo peraltro ebbe difficoltà a vedere qualcosa attraver-
so quella barriera umana, pur riuscendo a intravedere il complesso di torri della fortezza che incombeva sullo sfondo del cielo sempre più scuro e si andava avvicinando. All'improvviso il gruppetto oltrepassò una soglia, che Rhodry sbarrò alle spalle dei compagni, facendo sprofondare il luogo in cui si trovavano in un buio totale. «Dannazione a te, Rhodry!» ringhiò Yraen. «Non ho intenzione di salire tutte quelle scale al buio.» «Allora va' nella grande sala e procurati una lanterna, dato che i servitori staranno cominciando ad accenderle. Draudd, Maen... non appena Yraen sarà di ritorno voi potrete andarvene, ma non dite una sola parola di tutto questo se non volete vedervela con me.» «Ho già dimenticato tutto anche se sono ancora qui» garantì Draudd. Non appena Yraen fu di ritorno con una lanterna di metallo che emetteva una luce tenue e tremolante, i quattro cominciarono a salire l'alta scala a chiocciola fino a quando Meer e Jahdo si trovarono ad avere il respiro affannoso. Arrivati all'ultimo pianerottolo Rhodry permise infine loro di riprendere fiato in mezzo a mucchi di sacchi. «Una volta lì dentro badate a come vi comportate» sussurrò. «State per incontrare Jill, ed è lei ad avere nelle mani la vostra sorte.» Jahdo immaginò immediatamente una grande regina del genere descritto nelle antiche storie, quindi si trovò del tutto impreparato ad accettare la realtà di fatto quando Jill venne ad aprire la porta. La camera alle sue spalle splendeva di una strana luce argentea che aderiva al soffitto e rivestiva le pareti come acqua, e sullo sfondo di quell'illuminazione la sua figura parve a Jahdo quella di uno scheletro, o di un cadavere, con il risultato che lui si lasciò sfuggire un urlo. «Cosa succede?» domandò Meer, stringendogli una spalla con la mano. «Cosa c'è?» Jahdo cercò di parlare ma riuscì soltanto a balbettare, e si mise poi a piangere quando Rhodry scoppiò nella sua folle risata. «Cosa gli state facendo?» tuonò Meer, con la sua possente voce da bardo. «Non ha causato danno a nessuno di voi!» «È tutto a posto» intervenne Yraen. «Jahdo, smettila di piangere.» «Per gli dèi!» ringhiò intanto Jill. «Volete tenere tutti a freno la lingua? Oppure volete che metà della fortezza accorra quassù per vedere cosa sta succedendo?» Quella domanda razionale ridusse tutti al silenzio.
«Così va mollo meglio» proseguì Jill. «Adesso entrate. Ragazzo, ti chiedo scusa per averti spaventato.» Animato da nuovo coraggio. Jahdo guidò Meer nella stanza, perché adesso poteva vedere che Jill era una donna normale, anche se di certo tutt'altro che comune, e si aspettava quindi che lo strano bagliore presente nella camera fosse dovuto alla luce lunare o a quella delle torce. Sfortunatamente, però, la spiegazione era del tutto diversa. «Meer, qui c'è della magia all'opera» sussurrò al bardo. «La luce riveste ogni cosa come se fosse polvere... quello che intendo è che se la luce lunare fosse polvere creerebbe un effetto del genere. Inoltre questa donna possiede dei libri, grossi libri... devono essere almeno una ventina.» Jill accolse quelle parole con un sorriso, mentre il Gel da'Thae prese a girare la grossa testa di qua e di là, tendendo l'orecchio per registrare ogni suono e dilatando le narici per fiutare l'aria come avrebbe fatto un cavallo. Dal momento che aveva la mano posata sul suo braccio, Jahdo si accorse che il bardo stava tremando... e d'un tratto ricordò di aver sentito Rhodry e Yraen parlare di questa donna durante il lungo viaggio di ritorno a Cengarn. «Tu sei il mazrak!» esclamò. «Sei il falco che ho visto intento a seguirci!» Nel sentire le sue parole Meer serrò il bastone con entrambe le mani e ringhiò qualcosa sottovoce. «Non ho idea di cosa possa essere un mazrak» ribatté intanto Jill, con voce pacata, «quindi come potrei essere una cosa che non conosco?» «Però io ho visto il falco, e subito dopo Rhodry e Yraen sono arrivati con i loro uomini, sapendo esattamente dove trovarci, giusto? Loro hanno parlato di te, hanno detto il tuo nome, ed io ho capito che stavano eseguendo i tuoi ordini.» «Sono d'accordo con te» commentò Jill, rivolta a Rhodry. «Questo ragazzo è senza dubbio troppo intelligente per essere rinchiuso in una segreta puzzolente.» Rendendosi conto che quella donna stava ammettendo che lui aveva ragione, che lei era effettivamente una maga, Jahdo serrò il talismano che portava al collo. «Mi è dato di capire che tu sei un bardo» proseguì intanto Jill, rivolta ora a Meer, «quindi occuperai la sola sedia di cui dispongo. Rhodry, Yraen, volete montare la guardia vicino alla porta? Anzi... Yraen, se non ti dispiace, ti sarei grata se tu rimanessi all'esterno della stanza in modo da poter
tenere lontani eventuali curiosi. Jahdo, aiuta il tuo padrone a sedersi, perché credo che sia arrivato il momento di parlare con chiarezza.» Jahdo accompagnò Meer fino alla sedia, poi s'inginocchiò accanto a lui sul pavimento, coperto da una stuoia di canne intrecciate e quindi abbastanza comodo. Tutta la stanza aveva un aspetto piuttosto normale tranne per la presenza dei libri, in quanto era arredata con un piccolo tavolo, una sedia, un braciere, un letto sistemato in un'alcova e un paio di cassapanche intagliate; nel guardarsi intorno il ragazzo si rese conto di essersi aspettato che un mago vivesse in un luogo sfarzoso, pieno di strani oggetti e di demoni votati al suo servizio, e non in un ambiente comune come questo. L'unica cosa inspiegabile era la luce argentea, che si spostò come un drappo quando Jill si appoggiò alla parete di fronte a lui e a Meer. «Buon bardo» esordì la donna, «ti porgo le mie scuse per il rude trattamento che hai ricevuto, ma attualmente il tuo popolo non è molto amato in queste zone, a causa dei razziatori.» «Me ne sono accorto» ribatté Meer, con voce rigida e fredda. «Un momento... chi sono questi razziatori?» «Una banda di uomini, guidati da uno dei Fratelli dei Cavalli, hanno razziato e bruciato in questa zona, uccidendo gli uomini e le donne incinte, e schiavizzando le altre donne e i bambini.» «Cosa?» ringhiò Meer, poi cercò di parlare ma si trovò a farfugliare per l'indignazione e impiegò qualche tempo prima di riuscire a esclamare: «Menzogne! Disgustose menzogne demoniache! Nessun Fratello dei Cavalli farebbe mai del male ad una femmina incinta, sia che fosse della sua famiglia o una sconosciuta, della sua tribù o umana o anche soltanto una giumenta, e ucciderebbe qualsiasi uomo sottoposto ai suoi ordini che osasse fare una cosa del genere. Un Gel da'Thae non commetterebbe mai un simile atto, perché gli dèi scatenerebbero contro di lui la loro vendetta e gli toglierebbero la vita.» «In un certo senso lo hanno fatto» intervenne Rhodry, massaggiandosi il mento con una mano. «Ti giuro che quanto ti abbiamo dello è vero, Meer. Io stesso ho visto una delle vittime, una donna ormai vicina al parto, giacere morta sulla strada per un colpo di spada, massacrata insieme al suo bambino.» Meer girò la lesta nella direzione da cui proveniva la voce della daga d'argento ed esitò, contraendo in silenzio la bocca, mentre Jill rimaneva del tutto immobile e osservava ogni cosa con i suoi occhi azzurri acuti e pene-
tranti come spine, che sembravano poter trapassare il volto di un uomo e arrivare fino alla sua anima. «Mi credi?» domandò intanto Rhodry. «Se vuoi ti posso portare altri testimoni, fra cui lo stesso Yraen.» Meer scosse il capo in un gesto sconcertato che poteva essere un assenso o un diniego. «Dimmi una cosa» replicò infine. «Sei certo che i razziatori contro cui hai combattuto fossero la stessa banda che si era macchiata di quest'orribile peccato?» «Sì. Dopo che li abbiamo salvati, gli schiavi da essi catturati hanno testimoniato contro i razziatori, ed hanno giurato tutti che l'uomo dei Gel da'Thae era il loro capo e aveva ordinato gli omicidi.» Meer reagì con un grugnito, mentre le sue mani strette intorno al bastone prendevano a contrarsi nervosamente. «Ti porterò dei testimoni» offrì Jill. «Non ce n'è bisogno» replicò Meer, con voce ridotta ad un sussurro. «Siamo dunque schiavi oppure prigionieri di guerra?» «Di certo non schiavi» dichiarò Rhodry. «Non mi adopererei mai con la mia spada a rendere schiavo nessuno, buon signore, e sono pronto a giurartelo su qualsiasi cosa tu voglia.» Jahdo lo fissò con occhi sgranati, desideroso di credergli e al tempo stesso timoroso di farlo. «Rhodry e i suoi uomini vi hanno trattati bene?» chiese intanto Jill. «Meglio di quanto si possano di solito aspettare i prigionieri di guerra» garantì Meer. «Non ho di che lamentarmi con te.» «Bene» approvò Jill, poi si appoggiò di nuovo alla parete e lasciò che il silenzio tornasse a gravare sulla stanza. «Dimmi una cosa, Meer. se puoi farlo senza disonorare te stesso» disse infine Rhodry. «Ci saranno altri di questi luridi razziatori che verranno a invadere le nostre terre?» «Come posso saperlo?» ringhiò Meer. «Questo primo gruppo non avrebbe mai dovuto giungere qui, e mandarne altri sarebbe un aggravare questa infamia, compiere uno scandaloso abominio, se davvero essi sono venuti a infrangere ogni legge degli dèi e dei Gel da'Thae e ad uccidere delle femmine in attesa dei loro puledri! Chi sono io per dire cosa potrebbero fare o non fare uomini del genere?» Jill annuì, valutando con attenzione quello sfogo del bardo.
«A me sembra che questa scorreria non sia stata casuale» osservò intanto Rhodry. Meer si limitò a fissarlo con occhi roventi e con le labbra serrate. «Sono stati i falsi dèi!» esclamò d'un tratto Jahdo. «La falsa dea deve averli spinti ad agire in questo modo.» «Una falsa dea?» ripete Jill, girandosi di scatto verso di lui. «Quale falsa dea.» «Si chiama Alshandra ed è soltanto un demonio o qualcosa del genere, ma alcune persone l'adorano come se fosse una vera dea giunta dal Mondo della Morte.» Mai prima di allora il semplice servitore di un bardo aveva ottenuto con una narrazione l'effetto sconvolgente che Jahdo provocò con la sua affermazione: Rhodry si tinse infatti di un pallore mortale e snocciolò una sfilza di imprecazioni mentre Jill scoppiava in una risata nervosa e decisamente troppo acuta. «Quindi Alshandra sarebbe una dea?» domandò infine. «Oh, per tutto il ghiaccio di ogni singolo inferno!» Rhodry accolse quell'affermazione con un verso inarticolato e ringhiante. «Sono d'accordo con te» commentò Jill, sorridendo. «Ebbene, tutto ciò può far presagire decisamente male, ma è davvero molto interessante. Ti ringrazio, ragazzo, questo chiarisce molte cose.» «In cambio fornisci ora a me una risposta» interloquì Meer. «Devo dedurre che tu sai qualcosa di questa creatura chiamata Alshandra?» «In effetti sì: lei non è una dea né mai lo sarà... su questo hai decisamente ragione tu.» «Allora cos'è? Un demone.» «Una cagna impicciona» ringhiò Rhodry. «Ecco cosa è.» «Zitto, lasciami finire» ingiunse Jill, agitando una mano nella sua direzione. «Lei non è un demone, ma neppure un essere umano o una Gel da'Thae, bensì uno strano tipo di essere. Vediamo... come posso spiegarmi in modo chiaro? Non sono certa di poterci riuscire» ammise, dopo un lungo momento di riflessione. «Lei non vive nel nostro mondo, quindi sotto questo punto di vista somiglia agli spiriti che la gente definisce demoni, però è molto più intelligente e si può anche muovere con molta più libertà di un demone, oltre a crearsi una sorta di corpo quando si trova nel nostro mondo. In base a quanto ho sentito, inoltre, è in grado di operare alcune magie
davvero spettacolari, per cui posso capire che alcune persone la considerino una dea.» «Allora sembra molto più pericolosa di quanto avessi supposto.» «Sfortunatamente lo è. La cosa peggiore, però, è che è del tutto pazza.» «Pazza? Possano gli dèi preservarci!» «In effetti non mi dispiacerebbe il loro aiuto» convenne Jill, con un asciutto sorriso. «Allora, tuo fratello adorava quella creatura?» Meer annuì in silenzio, poi abbassò la testa come se stesse fissando il pavimento e fece scorrere le mani lungo il bastone, quasi cercasse di trarre conforto da esso. «È un'infamia che il disonore e il peccato di mio fratello mi abbiano portato a dovermi fidare di stranieri che senza dubbio non sono migliori di lui e sono forse molto peggiori!» ringhiò. «Tu sei davvero un mazrak?» «Non ne ho idea» ribatté Jill, facendosi irritabile. «Forse però potrei risponderti se ti degnassi di spiegarmi cos'è un mazrak.» «Un mutaforme, una creatura che assume forma animale.» «Oh. In effetti io sono in grado di farlo» ammise Jill, in tono così disinvolto da generare in Jahdo un lungo brivido di terrore, mentre Meer ringhiava sommessamente e snudava le zanne. «Ma quale mazrak sei? Il falco o il corvo? Il mio servo mi ha detto di averne visti due.» «Cosa?» esclamò Jill, esitando. «La forma che io assumo è quella del falco. Jahdo, sei certo di aver visto un'altra forma generata dal dweomer, oppure eri soltanto spaventato e confuso? Se è così non ti biasimerò di certo, bada bene, perché non c'è nulla di vergognoso nello spaventarsi in simili circostanze.» «So di averlo visto. Era un corvo ed era enorme, e l'ho visto la mattina in cui Meer ha appreso che suo fratello stava morendo. Il corvo volava basso sopra gli alberi, quindi ho potuto vedere bene quanto era grosso.» «Bene, bene bene» commentò Jill, poi scoccò un'occhiata a Rhodry e domandò: «A te è capitato di vedere qualche uccello che avesse un aspetto più grosso del normale? Quando stavi andando a prendere Meer e Jahdo. intendo.» Pallido in volto, Rhodry scosse il capo in un gesto di diniego. «Però parecchie settimane fa, quando tu e Yraen stavate venendo a Cengarn, ti è capitato di vedere un corvo, vero?» insistette Jill. «Infatti» annuì Rhodry. «È successo quando ci siamo imbattuti in quella fattoria distrutta dai razziatori dove abbiamo trovato il corpo di quella po-
vera donna uccisa insieme ai suo bambino. Per gli dèi! Ho perfino scherzato in merito a quel dannato uccello, stuzzicando Carra e dicendole che probabilmente si trattava di qualche mago.» «Stavi davvero soltanto scherzando?» «A dire il vero no» ammise Rhodry, con un fugace accenno di sorriso. «Mi stai dicendo che avevo ragione e che si trattava davvero di un maestro del dweomer?» «Non ti sto dicendo nulla, però comincio a ritenerlo probabile.» «Infamia e abominio!» interloquì Meer, con voce ridotta inizialmente ad un sussurro ma che si fece sempre più possente fino ad assumere i toni stentorei di una declamazione bardica. «O Thavrae, come hai potuto farlo, fratello che non sei più tale? Possa il tuo spirito vagare inquieto per lunghi secoli! Possano gli dei allontanarti dalla loro dimora! Possano i loro giardini esserti vietati! Possa tu non bere mai le loro bevande né assaggiare il loro cibo! Come hai potuto commettere un simile peccato, una tale perfidia? Come hai potuto infrangere ogni legge di ogni dio? La maledizione di tuo fratello si abbatta su di te e alla fine, se mai nostra madre verrà a sapere della tua malvagità, possa anche la sua maledizione trapassare il tuo spirito mentre esso si contorce nelle tredici fauci di Ranadar, il Mastino Infernale dalle molte teste!» «Così sia» concluse Jill, con voce risonante come quella di un prete. «Possano gli dèi essere tuoi testimoni.» La stanza parve echeggiare per un momento molto lungo, e mentre se ne stava accoccolato accanto a Meer e guardava la luce del dweomer vorticare sulle pareti. Jahdo fu assalito da una strana intuizione, e cioè che quel momento stesse contrassegnando un grande cambiamento per un numero di persone molto più vasto di quello presente nella stanza, che qualche grande evento mosso dal fato avesse cominciato a riscuotersi dal suo sonno millenario o che una notte cupa e profonda stesse per cedere il posto al giorno... il ragazzo non era in grado di descrivere quella sensazione neppure a se stesso, ma sapeva con certezza che era reale. «Hai l'aria solenne, ragazzo» osservò Jill. «Cosa ti succede?» Jahdo la fissò in volto, poi si alzò in piedi e posò una mano sullo schienale della sedia di Meer. «Ho soltanto avvertito… non so come descriverlo…» mormorò, «perché il momento stava passando e la sua intuizione cominciava a dissolversi nell'istante stesso in cui lui cercava di definirla.» So che succederà qualcosa di grande e che sono lieto di essere qui per vederlo accadere.
«Sei impazzito?» scattò Meer, girandosi verso di lui. «No. Avevi ragione, quando mi hai detto che grandi cose si stavano muovendo. Tutto questo è davvero molto importante, Jill, non è così?» «Infatti lo è, o almeno è quanto ho dedotto dai presagi. Stanno accadendo grandi cose, o cose malvagie, o forse entrambe.» Sebbene l'ora si stesse facendo ormai tarda, il Gwerbrel Cadmar era ancora seduto a capo della tavola d'onore, con Lord Gwinardd alla sua destra; poco lontano un bardo sonnecchiava appoggiato alla sua arpa, nell'eventualità che il suo signore potesse chiedergli di cantare qualcosa, mentre i tavoli destinati ai guerrieri erano ormai quasi tutti vuoti e pochi servitori sedevano ancora sbadigliando vicino al focolare spento. Giunta sulla soglia Jill esitò, perché era stata sua speranza trovare Cadmar solo, poi si consolò all'idea che se non altro Matyc se n'era già andato; pur non avendo personalmente nulla contro quel particolare nobile, infatti, lei aveva imparato a fidarsi del giudizio di Rhodry in cose del genere e sapeva che se lui affermava di sentire odore di bruciato c'era senza dubbio qualcosa che non andava come avrebbe dovuto. D'altro canto nessuno aveva mai avuto nulla da dire contro il giovane Gwinardd, e lei non aveva nessuna intenzione di abbandonare il campo per causa sua e di far trascorrere a Meer e al ragazzo la notte in prigione. Quando si avvicinò al tavolo Cadmar l'accolse con un sorriso ed un cenno, e chiamò un servitore perché le portasse una sedia in modo da permetterle di sedergli accanto senza privare Gwinardd della sua posizione d'onore; intanto il giovane nobile si alzò per rivolgere a Jill un inchino e si rimise quindi a sedere, mostrandosi come sempre perplesso di fronte al rispetto che sua grazia dimostrava per quella vecchia di umile nascita pur sapendo che l'inverno precedente le sue conoscenze erboristiche avevano salvato la vita al gwerbret. Incontrando lo sguardo del giovane nobile, Jill si chiese se questi sospettasse che lei possedeva anche talenti di altro genere. «Allora, Jill» esordì intanto Cadmar. «Hai già parlato con quei prigionieri?» «Sì, Vostra Grazia, ed è proprio a causa loro che sono qui. Non si tratta di spie, com'era logico prevedere dal momento che uno di essi è cieco: in realtà il Gel da'Thae è un bardo che si è spinto fin qui per assolvere ad un triste incarico, ed io vorrei che lui e il ragazzo venissero trattati come ospiti... ecco, ospiti sorvegliati, se capisci cosa intendo... e insediati in una camera qui nella rocca. E possibile?»
«Ho forse mai allontanato un uomo che meritava di ricevere ospitalità? Però...» «Vostra Grazia mi permetta di spiegarmi» si affrettò a proseguire Jill. «Quando questi razziatori sono apparsi per la prima volta nelle tue terre, io ho supposto che fossero in cerca del solito genere di bottino. Rammenti la conversazione che abbiamo avuto al riguardo di ciò che potevano volere, dopo che tu hai individuato e distrutto quel gruppo di scorridori?» «Sì, anche se non mi hai fornito molti dati concreti» replicò Cadmar, concedendosi un accenno di sorriso. «Hai detto che stavi cominciando a sviluppare una diversa teoria ma non mi hai spiegato di cosa si trattava.» «Ti chiedo scusa per questo, ma è dipeso dal fatto che la mia teoria appare tanto assurda che ancora adesso non sono del tutto certa della sua validità. Ritengo però che Meer mi possa dire ciò che ho bisogno di sapere, che il pezzo mancante di questo rompicapo si trovi nascosto nelle cognizioni bardiche da lui accumulate... ma se non lo trattiamo bene e non dimostriamo di avere una certa fiducia in lui non si fiderà a sua volta abbastanza di me da dirmi una sola parola di ciò che forse sa.» «Questo è vero» annuì Cadmar, convocando con uno schiocco delle dita una delle serve a cui ordinò: «Corri a chiamare il ciambellano e avvertilo che dobbiamo trovare una sistemazione ad un ospite che è un bardo girovago.» La ragazza eseguì una riverenza e si allontanò in fretta sotto lo sguardo di Gwinardd, che appariva sconvolto dalla pronta acquiescenza del gwerbret quanto Jahdo lo era stato di fronte alla luce generata dal dweomer. «Ti ringrazio» disse intanto Jill, alzandosi in piedi e chinando il capo in un cenno di commiato anziché eseguire una riverenza. «Ho il permesso di Vostra Grazia di ritirarmi?» «Certamente. Posso però sapere dove si trova quest'ospite imprevisto?» «È con Rhodry e Yraen. Guarda, sta arrivando proprio adesso... il ragazzo dovrà naturalmente rimanere con lui invece di essere alloggiato con gli altri servitori.» «D'accordo. Ordinerò al ciambellano di provvedere al riguardo.» «Sono grata a Vostra Grazia. Ho fatto venire qui Meer perché ho pensato che se tu lo avessi ricevuto apertamente nella grande sala tutti avrebbero capito che adesso è un tuo ospite e le minacce contro di lui e contro gli altri membri della sua razza sarebbero cessate.» «Senza dubbio è meglio che una cosa del genere abbia subito fine, Jill.»
Nel momento in cui il gwerbret e il suo vassallo si voltarono a guardare in direzione del bardo Jill sgusciò via: indipendentemente dalle affermazioni contenute nelle vecchie leggende, nessun maestro del dweomer poteva rendersi del tutto invisibile, ma contraendo intorno a sé la propria aura e muovendosi in silenzio, Jill poteva comunque passare inosservata a meno che qualcuno avesse guardato direttamente verso di lei. Avvolta in queste ombre fittizie si avviò in fretta su per la scala che portava alla sua stanza, perché quanto aveva sentito su quel misterioso corvo aveva generato in lei la decisione di tenere sotto stretto controllo Cengarn e l'area ad essa circostante, e per fare questo le era necessario levarsi in volo. Sebbene Meer temesse e detestasse quelli che definiva i mazrakir, in realtà il procedimento mediante il quale un maestro del dweomer assumeva la forma di un animale era una semplice estensione della procedura abitualmente usata per la costruzione di un corpo di luce, e cioè di una forma di pensiero umana o anche elfica che un maestro del dweomer poteva usare come veicolo per trasferire la propria consapevolezza sul piano dell'eterico. Anche se inizialmente un maestro del dweomer doveva immaginare tale forma in ogni singolo particolare ogni volta che doveva usarla, con il tempo un corpo completamente definito e identico ai precedenti appariva non appena veniva evocato, in virtù della semplice massima secondo cui "la pratica porta alla perfezione", nello stesso modo in cui una normale immagine mnemonica come quella di una casa immaginaria che un mercante usa per archiviarvi le informazioni relative ai suoi clienti assume una forma fissa e permanente se viene usata per parecchio tempo. Il procedimento seguito da un mazrak per sostituire la forma umana con una forma animale era essenzialmente lo stesso, anche se più completo di quello utilizzato per creare un corpo di luce. Quella sera Jill seguì il procedimento abituale. Per prima cosa si liberò di tutti i vestiti perché neppure il più potente maestro del dweomer poteva trasformare la materia inanimata come la stoffa, poi aprì le imposte di legno della finestra e posò le mani sul davanzale tenendole ben distanziate, e infine fissò il cielo stellato ed esalò lentamente il respiro in modo da sgombrare la mente sotto l'effetto della fresca aria notturna. A poco a poco sentì il potere concentrarsi e ne evocò una quantità sempre maggiore fino a farlo fluire come acqua attraverso la propria mente, e a quel punto modellò l'immagine mentale di un falco grigio molto più grande delle sue dimensioni reali, proiettandola quindi all'esterno mediante un trucco mentale fino a vederla appollaiata sul davanzale. Fino a quel momento l'immagine del
falco esisteva ancora soltanto nella sua immaginazione, sebbene si trattasse di un'immaginazione addestrata e disciplinata nel corso di anni di intenso lavoro mentale, e sempre con l'immaginazione lei trasferì la propria consapevolezza nel corpo dell'uccello fino ad avere l'impressione di essere appollaiata sul davanzale e di contemplare il cortile sottostante attraverso gli occhi del rapace. Era giunto il momento di affrontare il primo passaggio veramente difficile: mantenendo la propria concentrazione accentrata sul falco, Jill spostò la propria consapevolezza sul piano dell'eterico. Un fruscio le pervase gli orecchi e lei ebbe la sensazione di cadere, poi sentì un secco scatto metallico come quello prodotto da una spada che colpisse il bordo di uno scudo e nel guardarsi intorno vide che la camera e il cielo erano permeati da una luce azzurra e che il suo corpo fisico giaceva accasciato al suolo in stato di trance, connesso alla forma del falco mediante un cordone d'argento. A questo punto avrebbe potuto servirsi del falco come di un comune corpo di luce con cui esplorare il piano dell'eterico o gli strati più bassi del piano astrale, invece effettuò l'ultimo passaggio della trasformazione, sfruttando il principio in base al quale il doppione eterico di una persona è una matrice che forma e contiene la carne, per cui se il doppione e la volontà addestrata sono abbastanza forti, la carne segue le loro direttive, e cominciò a cantilenare strane parole di potere note soltanto a pochi maestri, fino a quando con un'ultima convulsione mentale il falcone eterico modellò il mondo fisico a sua immagine. Adesso la donna di nome Jill era scomparsa dalla camera e al suo posto rimaneva soltanto il falco appollaiato sul davanzale, che stava allargando le ali e arruffando le penne in reazione al freddo esterno. Il rapace spiccò quindi il volo con un grido sommesso, continuando a sbattere con costanza le ali fino a quando si fu lasciato alle spalle la fortezza per poi librarsi seguendo le correnti ascensionali in modo da volare in cerchio al di sopra delle colline che formavano Cengarn. Anche se il corpo del falco esisteva nel mondo fisico, la consapevolezza di Jill era ancora spostata sul piano dell'eterico, per cui lei vedeva gli alberi e i campi sotto forma di opache macchie di un marrone rossastro che costituivano la loro aura vegetale, mentre sporadiche gialle chiazze ovoidali indicavano la presenza di gruppi compatti di mucche o di cavalli; la fortezza, le mura e la città in se stessa apparivano invece permeate del nero opaco proprio della pietra e del legno morto, ma qua e là l'aura di colore intenso di qualche essere umano si spostava lungo una strada o attraverso il cortile della fortez-
za, e una volta le capitò di vedere in città l'aura metallica striata di venature rame e grigio acciaio di un nano che procedeva con passo deciso nel dedalo di strade. Più lontano, nella valle a occidente della città, il veloce corso del fiume emanava le sue esalazioni di forza elementare, simili a un torreggiante velo argenteo che si librasse al di sopra della superficie fisica dell'acqua. Anche se Jill allargò la propria perlustrazione fino ad allontanarsi dalla città di qualche chilometro, tutto parve rimanere pacifico e tranquillo, senza che lei scorgesse traccia di soldati nemici, di corvi o di operatori del dweomer, e senza che le capitasse di vedere qualsiasi altra cosa che non fosse come doveva essere, per cui alla fine giunse alla conclusione che quell'altro mutaforme, se davvero esisteva, doveva essere diretto verso casa... dovunque essa potesse essere... alla massima velocità concessa dalle sue ali, perché senza la banda di razziatori che lo rifornisse di cibo e di indumenti umani era adesso del tutto impotente nelle terre disabitate dell'ovest. Quanto a dove si trovasse la sua dimora, Jill si augurava che Meer potesse dirglielo o che potesse almeno fornirle informazioni atte a permetterle di scoprire da sola la sua dislocazione. Certa che per quella notte non avrebbe trovato nulla, cambiò direzione al suo volo con un colpo d'ala e lasciò che il vento notturno la trasportasse verso la fortezza, ma quando era ormai in vista della città scorse un uccello troppo grosso per essere un normale volatile che si stava librando in cerchi concentrici al di sopra delle mura. Allorché l'altro uccello si volse e prese a volare verso di lei, Jill salì di quota e si spostò agilmente in cerchio per portarsi in una posizione vantaggiosa, ma a mano a mano che l'altro mazrak si faceva più vicino si rese conto che non si trattava di un corvo bensì di uno strano e indefinito uccello grigio, simile ad un fanello ma privo della colorazione del piumaggio che lo contraddistingueva: Dallandra... passata sul piano fisico in forma di uccello! Senza riflettere Jill arrestò il proprio volo e si lasciò cadere in picchiata come avrebbe fatto il falcone di cui aveva assunto le sembianze, con il risultato che il fanello grigio lanciò uno stridio di terrore e si allontanò svolazzando freneticamente in direzione di un boschetto. Imprecando contro la propria disattenzione, Jill interruppe la sua picchiata e seguì più lentamente il fanello, anche se avrebbe potuto raggiungerlo con facilità. «Dalla, sono io!» trasmise mentalmente sul piano dell'eterico. «Ti chiedo scusa, non volevo spaventarti, ma per un momento gli istinti di questo dannato falco hanno avuto la meglio su di me.»
La risposta che ottenne fu una silenziosa ondata di sollievo. Dal momento che gli alberi erano troppo piccoli per dare rifugio ad un paio di uccelli delle loro dimensioni, il falco e il fanello volarono in cerchio e andarono a posarsi sul terreno sottostante, saltellando un poco per trovare una posizione comoda su quel terreno poco congeniale, poi il fanello scrollò le penne e lisciò con il becco quelle del petto per calmarsi. «Mi dispiace» ripeté mentalmente Jill. «Ho pensato che mi avresti riconosciuta.» «Non sei la sola maestra del dweomer che assuma la forma del falco. A volte la stessa Alshandra sceglie l'aspetto di un falco notturno.» «Davvero? Usa anche la forma del corvo?» «No, ma ogni tanto si trasforma in cigno.» «Questo è davvero strano, considerato che ho sentito parlare della presenza di un mutaforme che si manifesta come un corvo. Un ragazzo proveniente dal lontano ovest sostiene di averlo visto appena una settimana fa.» «Nessuno che io conosca vola nelle vesti di un corvo. Per gli dèi, una scelta del genere sarebbe troppo macabra perfino per Alshandra!» «A giudicare da alcune delle cose che ho sentito non escluderei che ne sia capace. In ogni caso ho anche un'altra notizia ancora più strana e nefasta: a quanto pare la nostra Alshandra si è finta una dea e si è creata una banda di adoratori fra i Fratelli dei Cavalli.» Il fanello aprì e chiuse il becco alcune volte come se stesse cercando di emettere suoni concreti. «Da parte sua c'era da aspettarselo» trasmise quindi Dallandra, i cui pensieri erano adesso intrisi di amarezza. «Leviamoci in volo, Jill: non riesco a sopportare di stare appollaiata così scomodamente e di dover al tempo stesso sentire notizie del genere.» Con alcuni saltelli e un balzo finale i due uccelli si librarono in aria, battendo le ali fino a raggiungere una tale altezza da essere certi di non poter essere avvistati dal suolo. Così lontano dall'ancoraggio fornito dalla terra la vista eterica trasformava il cielo in un vortice nero tempestato di enormi stelle argentate che scintillavano tanto vicine da dare l'impressione che se ne potesse sentire il calore, mentre in basso la campagna appariva come un amorfo chiarore rossastro; lentamente, i due uccelli si lasciarono trasportare dalle correnti in un lungo cerchio senza meta che aveva come centro Cengarn, visibile ora come una grossa macchia nera che emergeva dal rossore circostante.
«Cosa sta combinando Alshandra?» domandò Dallandra. «Ha operato delle magie al cospetto dei Gel da'Thae?» «Suppongo di sì, ma non lo so con certezza. L'unico testimone di cui dispongo non si fida per nulla di me... cosa di cui non posso certo biasimarlo... e non ha nessuna intenzione di mettere a nudo con me il suo cuore e la sua anima. In base a quanto mi ha detto, però, ho dedotto che la sua gente considera l'adorazione di Alshandra una sorta di eresia, degna soltanto dei fuorilegge e di altri soggetti del genere.» «Se non altro questa è una buona notizia. Sei ancora convinta che i Fratelli dei Cavalli siano quelle orde demoniache di cui parlano le antiche tradizioni elfiche? Quelle che hanno distrutto le nostre città?» «Sono sempre più certa che si tratti di loro, anche se non sono dei demoni.» «Io non ho mai pensato che lo fossero. La mia maestra, Nananna, ha sempre sostenuto che anche se si comportavano come demoni con ogni probabilità si trattava di creature in carne ed ossa proprio come noi, e lei aveva sentito storie narrate in un'epoca molto più vicina a quella della distruzione rispetto a quelle che noi conosciamo.» «Proprio così. Dalla, devo farti una domanda a cui certo saprai rispondere: è mai esistito un re elfico di nome Ranadar?» «È stato l'ultimo superstite del Consiglio dei Sette Re. Dopo che le città sono state distrutte dalle Orde e gli altri sei re sono morti, Ranadar ha radunati i superstiti in una banda di guerra ed è vissuto sulle montagne come un bandito, attaccando le Orde in una serie di razzie e vendicandosi come poteva. È stato anche testimone oculare della spaventosa pestilenza che ha quasi distrutto le Orde. In effetti, finché tu non hai cominciato a parlare dei Gel da'Thae io ho sempre supposto che gli invasori fossero stati completamente sterminati dalle malattie.» «È quello che i più hanno pensato, e dalle informazioni che sono riuscita a mettere insieme risulta che le tribù che hanno conquistato la parte meridionale delle terre elfiche sono effettivamente morte fino all'ultimo bambino. Nel nord sono però sopravvissute alcune tribù che adesso pare stiano venendo nell'est.» Il fanello perse leggermente quota e rabbrividì. «Allora questo Ranadar era una figura storicamente esistita?» continuò intanto Jill.
«Senza dubbio. Quando si è reso conto che lui e i suoi uomini non sarebbero riusciti a riconquistare le città perdute, alla fine si è unito agli altri profughi, sulle pianure erbose.» «Meer... il bardo dei Gel da'Thae che ho in custodia... ha usato il suo nome, ma lo ha definito il Mastino dell'Inferno con tredici bocche. Inoltre Rhodry mi ha detto di aver sentito il bardo pregare e che tutti i suoi dèi hanno nomi elfici che risultano stranamente troncati o distorti e che sono per lo più frammenti dei nomi delle antiche città e degli antichi palazzi.» Nel pronunciare quelle parole Jill sentì la mente del fanello ritrarsi dalla sua per un fugace momento. «Rhodry è qui?» chiese quindi Dallandra. «In effetti è molto coinvolto in questa storia, ma perché ne sei così sorpresa? Una volta mi hai detto di averlo conosciuto.» «Molti anni fa, e in modo superficiale. Questa faccenda dei nomi elfici è però davvero strana: la situazione si sta facendo troppo complessa e ho il timore che possa sfuggire al nostro controllo perché nutro seri dubbi che Evandar sia davvero consapevole di quello che sta facendo con tutte le sue interferenze, in quanto previdenza e comprensione delle conseguenze non sono di certo suoi talenti.» «Lui possiede però altri talenti in abbondanza. Dalla, fino a che punto posso fare affidamento sul suo aiuto?» «Devo ammettere onestamente che non lo so. Gli importa di sua figlia e della sua imminente nascita più di qualsiasi altra cosa nei tre mondi, però adesso ci sono dei problemi nelle sue Terre e anche se avevo progettato di tornare sul piano fisico e di restare alla fortezza con te e con la madre di Elessario ho paura di farlo.» Se fosse stata nella sua forma umana Jill avrebbe sospirato ad alta voce, mentre il falcone emise un sommesso suono ciangottante. «Che sorta di problemi?» domandò. «Non te lo so dire con certezza. Cattivo sangue fra Evandar e suo fratello, cattivo sangue fra la Corte Luminosa e quella Oscura. Stanno per verificarsi eventi malvagi, Jill, posso avvertirlo... e anche se non sono precisamente malvagi hanno comunque a che vedere con la malizia, il disprezzo e antiche avversioni.» «Mia cara amica, questo a me sembra già un male sufficiente. Sta' attenta, te ne prego, perché ultimamente sei in costante pericolo.» «Suppongo di sì, anche se non posso biasimare Alshandra per l'odio che nutre nei miei confronti: dopo tutto le ho rubato il marito, giusto? Adesso
sarà meglio che vada da Evandar, però tornerò il più presto possibile perché indipendentemente da tutto il mio posto è qui.» Insieme a quelle parole la mente di Dallandra trasmise a Jill anche un'ondata di paura simile ad un vento freddo. «Ti ringrazio» replicò Jill. «Se dovessi avere bisogno di te prima di allora userò i membri del Popolo Fatato come messaggeri.» «D'accordo.» Il fanello scese quindi di quota, abbassandosi verso la campagna e puntando dritto in direzione del velo d'acqua che si levava dal fiume che attraversava la valle. Consapevole che le correnti di forza elementare che si muovevano al di sopra dell'acqua erano sufficienti a fare a pezzi una forma eterica, Jill era sul punto di gridare un avvertimento quando si ricordò non solo che Dallandra era decisamente sul piano fisico ma anche che lei era una maestra nell'uso dello strano dweomer delle strade nascoste. Il fanello scese in picchiata, svolazzò lungo il velo d'acqua e all'improvviso salì a spirale, scomparendo attraverso una di quelle misteriose porte che conducevano alle terre dove Dallandra viveva con il suo amato. Per gli dèi, pensò Jill fra sé, non riesco proprio a immaginare come riesca a sopportare Evandar per due giorni di filai Lui e tutti i suoi enigmi e i suoi discorsi assurdi, senza contare che non è né umano né elfico, e neppure veramente incarnato... è decisamente tutto troppo perverso per una come me! Un momento più tardi si trovò a ridere di se stessa e del fatto che in mezzo a tanti strani avvenimenti e a simili potenti opere del dweomer poteva ancora preoccuparsi per il genere di compagno che un'amica si era scelta. Riprendendo quota, spiccò il volo in direzione di Cengarn e raggiunse la fortezza proprio mentre le prime luci dell'alba rischiaravano il cielo verso oriente. Quando ai risveglio si venne a trovare nella loro nuova stanza, ad uno dei piani alti della torre principale, Jahdo rimase a lungo immobile desiderando che quello fosse un sogno e che non appena si fosse svegliato davvero si sarebbe ritrovato a casa, ma la grossa camera a forma di cuneo rimase cocciutamente reale alla grigia luce del giorno. Che fosse o meno la sua casa, il nuovo alloggio era comunque migliore della prigione della fortezza, come dimostrava il fatto che dall'altra parte della stanza Meer stava russando su un letto degno di questo nome e dotato di tendaggi ricamati, mentre Jahdo aveva una branda e calde coperte tutte per sé; in un angolo
c'era un braciere di bronzo con cui combattere l'eventuale freddo notturno e sotto la finestra c'era una cassapanca di legno, attualmente coperta da un mucchio di sacche e di sacchetti perché la notte precedente Rhodry aveva setacciato la fortezza fino a ritrovare la maggior parte del bagaglio che era stato loro sottratto. Con dispiacere di Jahdo il coltello di suo nonno non era saltato fuori insieme al resto, probabilmente perché doveva essere rimasto sulla riva del ruscello quando Rhodry lo aveva costretto a lasciarlo cadere, in quella che adesso gli sembrava un'altra vita. Dal momento che aveva fame, il ragazzo si alzò e s'infilò i calzoni, poi attraversò a piedi nudi la stanza per raggiungere e usare il pitale, e quando ebbe finito si mise a frugare senza far rumore nei sacchetti ammucchiati sotto la finestra, per vedere se in essi fosse rimasto un po' di cibo. All'improvviso però l'intero mucchio si smosse e scivolò da un lato, crollando sul pavimento con un fragore tale che Meer si svegliò di scatto con uno sbuffo e un'imprecazione. «Chiedo scusa» disse subito Jahdo. «Stavo cercando di non fare rumore, ma mi sono caduti alcuni sacchetti.» Meer sbuffò di nuovo e sbadigliò, sfregandosi i lati della faccia con entrambe le mani. «Ormai è l'alba» continuò Jahdo. «Ho sentito i servi muoversi e parlare giù nel cortile, e mi sono chiesto se nelle nostre sacche fosse rimasto del cibo.» «Una domanda valida. Dammi i vestiti, in modo che possa alzarmi dal letto.» Nell'angolo di un sacco Jahdo trovò alcune fette di mela secca che accompagnarono con l'acqua fresca contenuta in una brocca presente nella stanza, in modo da assestare lo stomaco. Quando ormai la luce del sole batteva sempre più intensa sul muro della fortezza, una serva tolse la sbarra che bloccava la porta della loro stanza ed entrò portando con sé una forma di pane, della pancetta fritta e un boccale di latte, bevanda che Meer aveva specificamente richiesto la notte precedente. Oltrepassata la soglia, la ragazza fissò Meer con tale terrore che probabilmente avrebbe gettato a terra il cibo e sarebbe fuggita se Jill non si fosse trovata direttamente alle sue spalle. «Jahdo, vieni a prendere queste cose» ordinò la mazrak. «Ho pensato di venire a fare due chiacchiere con voi.» Sebbene non riuscisse a immaginare niente che potesse rovinare il gusto di fare colazione più di una conversazione con una maga, Jahdo sfoggiò un
sorriso cortese e fece come gli era stato detto mentre Jill si appollaiava sulla cassapanca da poco sgombrata; dopo aver servito Meer, il ragazzo prese la propria porzione di cibo e sedette insieme al bardo sul letto per mangiare. «Meer» esordì allora Jill, «so che sei un prigioniero di guerra e che interrogarti sulla tua terra natale va contro tutte le leggi dell'onore, però sono abbastanza disperata da essere disposta a tentare.» Meer si limitò a grugnire e addentò una fetta di pancetta. «Rifletti sul male a cui il tuo popolo andrà incontro» proseguì intanto Jill. «Questa falsa dea lo porterà alla rovina.» «Il mio popolo ne è consapevole, mazrak» ribatté Meer, con la bocca piena. «Con l'eccezione del mio sventurato e ignobile fratello lei non ha seguaci fra di noi.» Jill esitò e piegò il capo da un lato, sinceramente perplessa. «Si tratta delle tribù selvagge che vivono nel nord e non del popolo di Meer che vive nell'ovest» spiegò allora Jahdo. «È di là che giungono tutti i profeti.» «I cosa?» esclamò Jill, concentrando su di lui il suo sguardo gelido e trapassandogli l'anima. «Dove sono queste tribù?» Jahdo fu assalito da un senso di malessere perché nel profondo della sua mente il ricordo di un altro paio di occhi azzurri e di uno sguardo che lo aveva trapassato in quel modo cercò di affiorare alla superficie: gemendo, si ritrasse da quel ricordo e sollevò una mano come per difendersi da un attacco fisico mentre Meer si girava verso di lui con un ringhio interrogativo. «Suvvia, ragazzo, non ti farò del male» mormorò intanto Jill, in tono più pacato, mentre i suoi occhi tornavano normali. «Mi dispiace di averti spaventato... vedi, fino a questo momento non avevo idea che esistessero queste tribù selvagge, e la cosa mi ha colta alla sprovvista.» «Capisco» ribatté Jahdo, sorpreso di scoprire che la sua voce aveva un tono tanto calmo. «Meer, posso parlarle delle tribù o pensi che sarebbe disonorevole? Sono preoccupato per quello che potrebbe succedere alla mia gente se venisse attaccata da esse: sai, mio padre dice sempre che dobbiamo temerle.» Il bardo rifletté, pulendosi la bocca con il dorso di una mano pelosa, mentre Jill si limitava ad aspettare la sua decisione. Alla luce del sole lei appariva più fragile che mai, come se la sua pelle e la sua carne fossero
trasparenti, e nel guardarla Jahdo si sorprese a paragonarla ad una candela di cera. «Parlerò io per entrambi» decise infine Meer. «Le tribù possono appartenere ai Fratelli dei Cavalli, ma non sono alleate dei Gel da'Thae, e se si sono sottomesse alla falsa dea sono addirittura nostre nemiche.» «Ti ringrazio, buon bardo» affermò Jill, che sembrava molto sollevata. «Esiste una differenza fra i Fratelli dei Cavalli e i Gel da'Thae?» «In un certo senso sì. Apparteniamo tutti allo stesso popolo, anche se si tratta di un popolo che in un passato molto lontano era composto da tribù in guerra fra loro. Adesso però la mia gente vive nelle città devastate dei Figli degli Dei mentre le tribù selvagge vagano ancora sulle indomite pianure del settentrione insieme alle loro mandrie di cavalli. Ah, le pianure! Il tesoro che noi Gel da'Thae abbiamo perduto! Le tribù selvagge si sono rivelate ben miseri custodi di un bene tanto prezioso, considerato che osano muovere guerra senza i riti e le procedure richiesti dalla tradizione. In guerra è giusto che un uomo sia spietato, ma essi si sono abbassati ad usare qualsiasi arma a loro disposizione, incluse le quattro magie malvagie e i sette trucchi dei vigliacchi. Laggiù tu non saresti sola, mazrak.» Jahdo sussultò e si augurò che Jill non decidesse di abbattere Meer con un fulmine o qualcosa del genere, ma lei si limitò a sorridere. «Capisco» commentò. «E sono queste tribù ad adorare Alshandra.» «Infatti.» «I diversi pezzi cominciano infine a combaciare. Quando dici che le tribù selvagge si trovano nel nord, intendi che sono direttamente a nord di qui oppure a nordovest?» «A nordovest. Non molto ad ovest rispetto al mio popolo, ma molto, molto a ovest rispetto a voi.» «Un'ultima domanda. Meer. Cosa intendevi dire quando hai parlato delle città distrutte dei Figli degli Dèi?» «Di questo non ti posso parlare.» «Benissimo, allora lasciami indovinare: molto, molto tempo fa i Fratelli dei Cavalli hanno conquistato sette ricche città piene di meraviglie, ma nella loro ira e nella loro ignoranza le hanno completamente distrutte e adesso il popolo noto come i Gel da'Thae vive nelle vicinanze dei resti della bellezza che ha annientalo.» Meer gettò indietro il capo ed ululò, emettendo un verso acuto che esprimeva al tempo stesso ira e dolore, mentre Jahdo pensava che quella donna doveva effettivamente possedere il dweomer se era in grado di co-
noscere cose tanto antiche. Jill dal canto suo continuò a sorridere e ad attendere con calma fino a quando infine Meer tacque e prese a girare lentamente la testa di qua e di là fino a individuarla grazie al suono del suo respiro. «È vero» sussurrò. «Tu hai visto la nostra antica vergogna, mazrak. Come hai fatto? Possiedi un cristallo per evocare immagini oppure gli spiriti vengono da te per rivelarti ogni cosa?» «Non si tratta affatto di magia ma di ricordi, di una storia trasmessa attraverso gli anni dai bardi oppure scritta sui libri. Io posseggo un libro, Meer. che narra tutta questa storia e parla anche del tuo popolo, ma di come esso era oltre mille anni fa. Non tutte le persone che abitavano quelle città sono morte, alcune sono fuggite e hanno conservato il ricordo del triste Wyrd che si è abbattuto sul loro popolo. Parte di questi profughi vive ad ovest di qui, mentre altri hanno attraversato il mare diretti al sud e ancora oggi dimorano laggiù.» Per mollo tempo Meer rimase immobile con la testa girata verso di lei, come se avesse avuto ancora degli occhi con cui incontrare il suo sguardo, poi distolse il volto con un lungo sospiro. «Non parlerò oltre con te. mazrak. però rifletterò su quanto hai detto.» «Te ne sono grata e non ti chiedo di fare altro» ribatté Jill, poi si volse verso Jahdo e aggiunse: «Tu provieni dal Rhiddaer, vero, ragazzo?» «Sì. Ecco, non sapevo che tu conoscessi la sua esistenza... oppure è scritto su uno dei tuoi libri?» «In effetti è così, ma probabilmente io sono la sola persona in tutto Deverry che abbia sentilo parlare del Rhiddaer e sia interessata ad esso, quindi non ti preoccupare: posso capire perché non vuoi che gli Schiavisti s'interessino alla tua terra.» «Infatti non lo vogliamo» convenne Jahdo, attingendo a tutto il coraggio di cui era dotato. «Adesso siamo liberi, e lo resteremo.» «Per quanto mi riguarda, ragazzo, ti prometto che morirei io stessa prima di permettere a chiunque di rendere di nuovo schiava la tua gente... lo dico con la massima sincerità. Gli uomini di Deverry hanno sbagliato quando hanno sottratto al tuo popolo la sua terra e la sua libertà, e tutti noi che serviamo il dweomer abbiamo condannato fin dal principio questo atto.» Il tono quieto con cui si era espressa convinse Jahdo che era sincera, e lui si trovò a non riuscire a replicare a causa delle lacrime che gli serravano la gola.
«Dimmi una cosa, mazrak» interloquì allora Meer, apparentemente incapace di mantenere oltre il suo autoimposto silenzio in una situazione in cui c'erano nuove cose da apprendere. «Posso farti una domanda in cambio di quelle che tu mi hai rivolto?» «Certamente, anche se non è detto che ti risponda, considerato che a volte tu non hai risposto a me.» «Mi sembra giusto. Sai dell'esistenza del popolo di Jahdo e il tuo è un nome del genere usato nella sua terra. Hai forse vissuto laggiù?» «No, ma ho sentito parlare di quella terra dal Popolo dell'Ovest, che alleva cavalli sulle pianure che separano i nostri popoli.» «Alleva cavalli!» esclamò Jahdo. «Hai visto, Meer, avevo ragione!» «Infatti. Ora però taci.» «Alcuni di loro si trovano attualmente nella fortezza, Jahdo» continuò Jill, sorridendo e cercando di mostrarsi gentile. «Prima o poi avrai modo di vederli. In ogni caso, per rispondere alla tua domanda, io ho fatto del mio meglio per raccogliere tutte le informazioni possibili sul Rhiddaer e sui Gel da'Thae, per quanto debba ammettere che non ho appreso molto.» «Davvero? Ma cosa mi dici del tuo nome?» «È soltanto un soprannome datomi da mio padre, però non mi sorprenderebbe affatto scoprire che risale a qualche mia antenata che era una serva vincolata. Jahdo, in base a quanto sono riuscita ad appurare, il tuo popolo ha adottato la lingua di Deverry ma ha conservato nomi che derivano dall'antica lingua dei tuoi antenati, perché la gente tende ad aggrapparsi ai nomi e a trasmetterli. Inoltre non tutti i vostri antenati sono fuggiti da Deverry. Molti anni fa, mentre qui era in corso una serie di terribili guerre, una quantità di servi vincolati si sono trovati all'improvviso senza un padrone: alcuni di essi hanno reclamato della terra e la condizione di uomini liberi, mentre altri si sono trasferiti in province diverse dove si sono insediati a coltivare la terra.» «E nessuno li ha costretti a tornare indietro?» chiese Jahdo. «Erano troppo preziosi dove si trovavano. In quei tempi di guerra civile i nobili hanno infatti imparato un'importante lezione: se non ci fossero i contadini che forniscono loro cibo sotto forma di tasse, dovrebbero coltivare loro stessi la terra per poter mangiare, e in quel caso non sarebbero più tanto nobili, giusto?» Jahdo scoppiò a ridere di gusto. «Per quanto mi riguarda» proseguì intanto Jill, «io ero il tipico caso di ragazza aminheddic... conosci questa parola? Hai l'aria perplessa.»
«Chiedo scusa ma non la conosco.» «Dunque, un uomo binheddic è un uomo con una linea di discendenza, un uomo che sa chi erano i suoi antenati, e che è quindi un nobile. Chi invece non sa e non s'interessa di sapere chi fossero i suoi antenati è un aminheddic, un popolano che non ha una genealogia.» «Oh. E questo ha importanza?» «Ne ha molta, qui in Deverry, non dimenticarlo mai perché la tua stessa vita potrebbe dipendere dal ricordare che i nobili vedono loro stessi come soggetti molto più preziosi di una persona aminheddic. In ogni caso, io porto senza dubbio un nome da serva vincolata, quindi suppongo che fra i miei antenati ci debbano essere stati dei servi vincolati che hanno conquistato la libertà.» «E questo non ti addolora?» domandò Meer, con una certa sorpresa. «Affatto, buon bardo. Per me tutte le anime sono uguali, che appartengano a nobili o a popolani, a umani o a creature non umane. Mi è stato dato il dweomer perché le serva tutte nello stesso modo.» «Non avevo mai sentito parlare di un mago che usasse i suoi trucchi per servire altri se non se stesso» osservò il bardo, dopo un momento di riflessione. «In tal caso scommetto che non hai mai sentito parlare di un mago che avesse a sua disposizione qualcosa di più che semplici trucchi da illusionista.» Meer parve sul punto di ribattere ma poi preferì tacere, e quando Jahdo si lasciò sfuggire una risatina per puro nervosismo lo zittì con un leggero colpo sul braccio. «Ti chiedo scusa, Meer. Non mi stavo facendo beffe di te.» «Bene. Non farlo.» «Meer, bardo e maestro del sapere» interloquì Jill, «io sono sinceramente convinta che noi si debba essere alleati e non nemici in questo momento di pericolo. Unire le mie cognizioni alle tue sarà di grande utilità per entrambi i nostri popoli.» «Tu lo pensi davvero, non è così?» ribatté Meer, bevendo un sorso di latte. «Questo vostro latte di mucca è una strana sostanza, così densa e oleosa.» Jill sorrise di fronte a quel tentativo di cambiare discorso e si limitò ad attendere, lasciando che Meer finisse il suo boccale di latte e che il silenzio che regnava nella stanza si facesse sempre più intenso. Accanto al bardo, Jahdo scoprì di colpo di non avere più fame anche se non avrebbe saputo
spiegarne il motivo e posò il pezzo di pane mangiato a metà sul vassoio di legno. Dal cortile esterno giungevano ogni sorta di rumori... zoccoli di cavallo che battevano sull'acciottolato, persone che ridevano e che parlavano, un barile che veniva fatto rotolare... ma tutti quei suoni parevano provenire da una grande distanza e il silenzio che permeava la camera sembrava tanto denso da dargli l'impressione che se avesse teso una mano avrebbe potuto toccarlo. Dopo un momento Meer gli porse il proprio boccale e si passò il dorso della mano sulla bocca: di fronte a lui Jill continuò ad attendere con le mani incrociate in grembo. «Dunque» disse infine, «si dà il caso che io sappia per quale motivo Thavrac ha condotto i suoi uomini nelle vostre terre.» «Thavrae è tuo fratello, vero?» domandò Jill, con un sorriso, e quando Meer reagì con un ringhio si corresse: «Chiedo scusa: è l'uomo che un tempo era tuo fratello.» Meer accettò la correzione con un grugnito soddisfatto. «Mi piacerebbe moltissimo sapere perché lui è venuto qui» continuò Jill, «sempre che tu riesca a indurti a parlarmene.» «Potrei farlo, mazrak, ma in cambio voglio da te la promessa che farai tutto il possibile per accertarti che il giovane Jahdo possa tornare nella sua terra entro breve tempo. Non m'importa cosa ne sarà di me, ma ho fatto una promessa a sua madre.» Jahdo sentì gli occhi che gli si colmavano di lacrime e li asciugò nel modo più furtivo possibile. «Affare fatto» replicò Jill, protendendosi a sfiorare il braccio di Meer. «Hai la mia parola.» «E tu hai la mia che quanto sto per dirti è la verità nella misura in cui io la conosco» replicò il bardo, mentre si stringevano fugacemente la mano. «Quando l'uomo che un tempo era mio fratello è fuggito dalla nostra città con la sua banda di soldati perché in base alle nostre leggi sarebbe stato strangolato per eresia se vi fosse rimasto ancora, la somma sacerdotessa si è recata da mia madre, che a sua volta mi ha mandato a chiamare. La sacerdotessa ha giurato che il dio Evandar l'Arciere, che serve la dea Rinbala, le era apparso mentre lei vegliava nel tempio e le aveva rivelato notizie di estrema importanza. L'uomo che mia madre ha generato prima di me si stava dirigendo verso est dietro ordine della sua falsa dea per recuperare un oggetto prezioso che essa voleva per sé. Quella creatura di nome Alshandra lo aveva incaricato di riportarle quest'oggetto prezioso, ma nessuno di
noi ha mai saputo di cosa si trattasse; ci è stato soltanto detto che lei sosteneva che era suo e che le era stato rubato.» «Evandar!» esclamò Jahdo. «È quello che ci ha detto quale strada seguire!» «Infatti» annuì Meer. «Non c'interrompere.» «Comincio a capire» affermò intanto Jill, che aveva il volto atteggiato ad un'espressione di sconvolta sorpresa. «E noi sappiamo che Thavrac ha fallito.» «Infatti, mazrak, infatti. Ritengo probabile che questa falsa dea piena di orgoglio e di putridume manderà altri a cercare quest'oggetto. Io ero presente quando alcuni di questi profeti eretici sono stati sottoposti a tortura nella pubblica piazza: ognuno di essi ha dichiarato che il demone femmina di cui era al servizio era implacabile e inflessibile, che la loro falsa dea era una divinità della guerra e non della misericordia e che si sarebbe vendicata su tutti noi per il tormento che stavamo infliggendo loro. Queste sono le parole esatte che hanno usato, puoi esserne certa dal momento che come bardo sono stato addestrato a ricordare cose del genere.» «Infatti, anche se quella che mi hai riferito è una cosa che lascia presagire nefasti eventi» replicò Jill, poi indugiò a riflettere per un lungo momento e concluse: «Credo che farò meglio ad andare a parlare con il gwerbret.» «In effetti è probabile che altri razziatori invadano le sue terre.» Jill annuì con aria distratta e nel guardarla Jahdo si chiese d'un tratto se lei apparisse tanto turbata perché sapeva cosa Thavrae fosse stato mandato a recuperare. «Meer, ti sono enormemente grata per quest'informazione e posso soltanto sperare che mi aiuterai ancora se mi troverò nella necessità di porti altre domande. Ti prometto... anzi ti giuro sul mio onore... che se lo farai non tradirai il tuo popolo ma gli sarai invece d'aiuto.» «Le parole hanno poco significato fra persone che si sono appena conosciute, mazrak.» «Questo è vero, bardo» replicò Jill, che pareva più divertita che offesa. «Spero però che con il passare del tempo impareremo a conoscerci meglio» aggiunse alzandosi in piedi. «Ora andrò a parlare con Rhodry e con il gwerbret, in quanto non vedo motivo per cui dobbiate rimanere rinchiusi qui dentro come animali in un recinto.» «Non lo vedo neppure io. Non possiamo certo fuggire, privi come siamo di cibo e di equipaggiamento.» «Infatti.»
Attraversata la stanza Jill aprì la porta e sulla soglia si girò per scoccare un'ultima occhiata a Jahdo. che ebbe l'impressione di essere valutato come avrebbe potuto esserlo un cavallo alla fiera del mercato e per buona parte della mattina continuò a sentirsi intimorito ogni volta che ricordava quello sguardo freddo e indagatore. «Qualcuno ha manipolato la mente di quel ragazzo» dichiarò Jill. «Cosa?» esclamò Rhodry. sollevando di scatto lo sguardo dalla briglia che stava pulendo. «Che intendi dire?» «Mi riferisco a Jahdo. In lui c'è qualcosa che non va, e mi chiedo se sia stato sottoposto a incantesimo. A dire il vero non riscontro le tracce abituali ma forse la cosa è stata fatta con molta abilità.» «Credi che possa essere successo qui nella fortezza?» «Non è possibile. Se qualcuno stesse operando il dweomer malvagio nelle vicinanze me ne sarei accorta.» I due erano seduti all'aperto sotto il sole, davanti alle stalle, Jill su una balla di fieno e Rhodry sull'acciottolato perché era intento a ripulire i suoi finimenti, e anche se nel cortile regnava la consueta confusione, i diversi servi e i cavalieri delle bande di guerra badavano a tenersi alla larga da entrambi. «Inoltre» proseguì Jill, «ogni volta che lo guardo negli occhi sussulta, mentre non l'ho colto a farlo con nessun altro. La mia impressione è che abbia già avvertito il tocco della magia sulla sua anima.» «Quel ragazzo è senza dubbio dotato di coraggio. La notte in cui li abbiamo catturati lui ci ha fronteggiati senza timore e mi ha fissato dritto negli occhi, e quando mi sono avvicinato per prenderlo ha cercato di colpirmi con un coltellino che era poco meglio di quelli che si usano per appuntire le penne. In quel momento ho pensato che un giorno sarebbe diventato un grande guerriero, però mi sono poi reso conto che è terribilmente goffo!» «Credo che la sua goffaggine sparirà con la crescita» sorrise Jill. «Ad alcuni ragazzi succede, è vero, ma non credo che sia il suo caso.» «Forse gli dèi hanno altri progetti per il nostro Jahdo.» «Cosa?» esclamò di nuovo Rhodry, tornando a sollevare lo sguardo e notando l'espressione solenne di lei. «Stai pensando di farne il tuo apprendista?» «Oh, non direi proprio, adesso che mi ci fai pensare. Mi sembra un ragazzo stolido, tutto buon senso e praticità. Comunque credo sia tempo che mi procuri un apprendista.»
Rhodry sussultò e si concentrò sul compito di passare uno straccio attraverso un anello di bronzo delle briglie per ripulirlo dello strato di verderame. «So che non ti piace pensare che io possa morire» continuò Jill, dopo un momento, «però non mi sono più ripresa da quella febbre che ho contralto nel Bardek, ed è improbabile che possa superarla in futuro. Ormai siamo entrambi avanti negli anni, Rhoddo, per quanto tu dimostri la metà della tua età.» Rhodry prese a sfregare con maggior vigore l'anello di bronzo delle briglie. «Oh, d'accordo, terrò a freno la lingua» si arrese Jill. «Dannazione, Jill!» esclamò lui, lasciandosi cadere la briglia in grembo. «Come ti aspetti che mi senta quando cominci ad essere così morbosa?» «Sono davvero morbosa?» «Suppongo di no, considerato che hai ragione nell'affermare che siamo entrambi parecchio più vecchi di quanto la gente possa supporre, però...» Rhodry esitò, poi concluse: «Sai che non m'importa della mia morte, però non potrei sopportare di perderti.» «Ti ringrazio. Dunque sono morbosa, vero? Eppure non sono io quella che è innamorata della propria morte, al contrario di qualcuno che ti potrei menzionare.» Rhodry scrollò le spalle, ignorando quel commento, e dopo un momento lei scoppiò in una sommessa risata, dichiarandosi sconfitta. «Dimmi una cosa,» domandò invece. «Quando hai incontrato Dallandra?» Quell'interrogativo parve però peggiorare le cose, in quanto Rhodry si alzò di scatto, raccogliendo la briglia che era caduta a terra. «È successo molto tempo fa, l'anno in cui ho preso Yraen come apprendista. È stato a causa di quella stupida storia del fischietto d'osso.» «Di cosa?» «Suvvia, ne avrai di certo sentito parlare.» «Invece no, quindi vuoi sederti e raccontarmi ogni cosa? Quello che tu e Dalla avete fatto insieme non mi riguarda.» Rhodry si sedette, pur sentendo il volto che gli si arroventava. «Come fai a saperlo? Te ne ha parlato lei?» «Affatto, però ho sentito la sua mente ritrarsi esattamente come ha appena fatto la tua. Allora, parlami di questo fischietto d'osso.» Rhodry prese di nuovo lo straccio e cominciò a lucidare un'altra borchia.
«A pensarci bene è una cosa di cui dovresti essere informata» ammise. «Uh, sei certa di non essere gelosa?» «Quanti anni sono passati da quando cavalcavamo insieme? Di certo si tratta di un tempo molto lungo. È ovvio che non sono gelosa, perché dovrei esserlo? Oppure la tua vanità è ferita a causa della mia assenza di gelosia?» Per tutta risposta Rhodry emise un ringhio inarticolato e sommesso. «Dunque si tratta di questo» commentò Jill, che pareva divertita. «Ora però parlami...» «Del fischietto, d'accordo. Si tratta di un oggetto che Evandar ha lasciato per sbaglio in mio possesso un giorno di Samaen, incaricando poi Dalla di recuperarlo. Era fatto d'osso e sembrava ricavato da un dito umano o elfico, ma era troppo lungo perché fosse così. Il suo suono era dannatamente aspro e poi c'erano delle strane creature che hanno cominciato a pedinarmi per cercare di rubarlo. Un essere che sembrava un uomo ma aveva la testa di tasso ha tentato di assassinarmi per prendermi il fischietto, ma io l'ho ucciso ed ho consegnato quel dannato arnese ad Evandar quando è venuto a riprenderselo di persona. A dire il vero» aggiunse, fissando con aria accigliata le briglie, «ci sono anche degli altri particolari, ma non ricordo più tutto con precisione.» «Per gli dèi!» sibilò Jill, in tono sorpreso. «E non me ne hai mai parlato?» «Quando avrei avuto la possibilità di farlo? Non ti ho più vista per anni e anni, e poi sei sbucata di colpo dal nulla non più di una quindicina di giorni fa... e per fare cosa? Per mandarmi a combattere contro un branco di razziatori e a dare la caccia a misteriosi bardi.» «Hai ragione. Rhoddo, ma da questo momento per favore vieni immediatamente a riferirmi qualsiasi cosa che abbia odore di dweomer, indipendentemente da quanto ti possa apparire strana o insignificante.» «Lo farò con piacere, e avvertirò anche Yraen di fare altrettanto.» «Te ne sono grata» replicò Jill, e dopo un momento di riflessione aggiunse: «Quanto era grande questo fischietto?» «Dunque, lasciami pensare... circa così» rispose Rhodry, posando la briglia e sollevando le mani ad un palmo di distanza una dall'altra. «Può darsi che fosse un po' più corto, ma di certo era troppo lungo per essere davvero l'osso di un dito, come sembrava. Inoltre qualcuno vi aveva praticato un paio di buchi in modo che potesse emettere qualche aspra nota.» «Davvero? E dici che sembrava un dito? Ebbene, è plausibile.»
«Cosa sarebbe plausibile?» «Te lo dirò quando lo saprò. Prima però devo essere sicura.» «Ultimamente sei piena di enigmi quanto Evandar.» «In effetti comincio a provare una maggiore comprensione nei suoi confronti» ammise lei, con un fugace sorriso. «Ricordi quando sei arrivato a Cengarn e tu ed io abbiamo parlato qui negli alloggiamenti? Allora ti ho detto che Alshandra aveva giurato di uccidere il bambino di Carra.» «Lo rammento. È da quel momento che continuo a chiedermi se è per questo che i razziatori...» «Ritengo che la tua supposizione sia esatta, ma adesso taci per un istante.» Rhodry si lanciò un'occhiata intorno e si girò di tre quarti, apparentemente per prendere un altro straccio che si trovava alle sue spalle, e nel vedere Lord Matyc fermo a qualche metro di distanza, forse fuori portata d'udito e forse no, si affrettò ad alzarsi in piedi per rivolgergli un inchino. «Buona giornata a te, mio signore» gli disse. «Hai bisogno di qualche servigio da parte mia?» «No, daga d'argento. Ero soltanto di passaggio» ribatte Matyc, allontanandosi con passo lento e riluttante mentre Rhodry si rimetteva a sedere con una diversa angolazione in modo da poter tenere d'occhio chi gli si fosse avvicinato da ogni lato. «In ogni caso» proseguì intanto Jill. «sono quanto mai certa che Alshandra abbia mandalo qui il fratello di Meer e la sua banda di guerra per uccidere Carra e il bambino.» «A quale scopo?» «Ecco» replicò Jill, dopo un momento di esitazione, «in realtà lo sai già. In diversi momenti mi è successo di confidarti pezzi e frammenti di cose di cui non avrei mai dovuto parlare... mi riferisco a segreti del dweomer. Sono stanca, Rhoddo, stanca, preoccupata e indebolita a causa di questa dannata febbre, e per quanto siano passati molti anni dall'ultima volta che ci siamo visti mi fido di te più di qualsiasi altro uomo vivente.» Con sua sorpresa, Rhodry si sentì enormemente compiaciuto di quell'ammissione, ma piuttosto che darlo a vedere sfoggiò un sorriso divertilo. «Non ricordo di aver sentito nessun antico segreto pertinente al sapere del dweomer, e non mi pare che incantesimi arcani o esotici abbiano fatto presa sulla mia anima.» «Finché vedrai le cose in questa luce non ricorderai mai di cosa si tratta. Meglio così» commentò Jill, conferendogli la netta sensazione di essere
stato depistato, poi si alzò e si ripulì gli abiti dai frammenti di paglia che vi erano rimasti attaccati, proseguendo: «Adesso ho del lavoro che mi aspetta... però puoi pormi altre domande più tardi, se ne hai il coraggio.» E si allontanò a passo rapido, lasciandosi alle spalle un Rhodry decisamente irritato che si chiedeva cosa lei avesse inteso dire con quella sua ultima affermazione. Cosa avrebbe dovuto osare? E cos'erano tutti questi dannati discorsi di segreti svelati e non? Nel profondo della sua memoria sapeva tuttavia con esattezza a cosa lei avesse inteso riferirsi, o per meglio dire sapeva che lo avrebbe compreso se soltanto si fosse permesso di farlo e avesse deciso di incastrare fra loro tutte le strane allusioni che suo malgrado non poteva fare a meno di rammentare. Una volta Jill aveva accennato al fatto che Alshandra aveva una figlia che aveva in qualche modo perduto, e lui era certo che il figlio atteso da Carra fosse una femmina, lo era a tal punto che lo aveva addirittura detto a Dar alcune settimane prima, mentre erano in viaggio alla ricerca dei razziatori. D'altro canto non era possibile che ci fosse un collegamento logico fra quelle due bambine, perché una stessa anima non poteva certo nascere di nuovo in un corpo diverso... oppure sì? Perché si stava domandando se le anime potessero indossare un corpo nuovo nello stesso modo in cui lui sostituiva una camicia vecchia con una nuova? E soprattutto perché porsi interrogativi del genere aveva il potere di spaventarlo? Scuotendo il capo come un cavallo nervoso si alzò in piedi e raccolse le briglie, rifiutandosi di dare una risposta a quelle domande per il semplice motivo che esse lo portavano sulla soglia di un'introspezione a cui rifiutava di sottoporsi. A grandi passi entrò nelle stalle nella speranza di trovarvi un po' di compagnia, ma all'interno c'erano soltanto i cavalli e il gatto locale che si stava crogiolando al sole sulla paglia davanti alla finestra della stanza dei finimenti. Appese le briglie al piolo ad esse riservato Rhodry uscì di nuovo dall'edificio e si avviò verso la grande sala, ma giunto a metà del cortile fu attratto da un vociare di ragazzi che gridavano e ridacchiavano nel provocare qualcuno. Seguendo il suono delle voci, che proveniva da dietro una delle baracche adibite a magazzino, Rhodry si trovò davanti Jahdo, rosso in volto per l'ira e circondato da un gruppo di paggi e di garzoni di cucina capitanato dal giovane Allonry, che nel momento in cui Rhodry sopraggiunse alle sue spalle stava agitando davanti alla faccia di Jahdo un bastone dall'aspetto pericoloso. «Schiavo, sei uno schiavo» stava cantilenando il giovane nobile. «Jahdo è un servo vincolato, Jahdo è un servo vincolato.»
«Sono nato più libero di te» ringhiò Jahdo. «Là da dove vengo io non abbiamo vecchi nobili puzzolenti.» Alli calò il bastone in direzione della testa di Jahdo ma Rhodry gli bloccò il polso appena in tempo e con tanta forza da strappargli uno strillo di dolore. «Lascialo cadere» ingiunse al paggio. Piagnucolando di dolore, Alli abbandonò la presa perché non aveva altra scelta e quando Rhodry gli lasciò andare il braccio si affrettò a indietreggiare per allontanarsi dalla sua portata. «Dirò al ciambellano quello che hai fatto!» stridette. «Non ne dubito, ragazzo, dal momento che l'onore non sembra essere una delle tue doti principali. Avanti, corri pure dalla tua balia.» Gli altri ragazzi accolsero quelle parole con una fragorosa risata mentre Alli si tinse di un violento rossore e per un momento cercò di mantenere la propria posizione, guardando i suoi alleati di poco prima in cerca di sostegno; quando però essi si limitarono a fissarlo a loro volta senza muovere un dito si girò di scatto e spiccò la corsa in direzione della rocca. Un momento più tardi il resto del gruppetto si disperse ridendo per tornare in parte alle cucine e in parte nella grande sala. «Ti ringrazio, Rhodry» mormorò Jahdo, osservandoli allontanarsi. «Avrai dei problemi per il tuo intervento?» «Ne dubito, ragazzo. Il nostro Allonry può anche essere di nobile nascita ma è un vigliacco. Se fossi in te però d'ora in poi mi guarderei alle spalle quando lo hai nei dintorni, perché sei più piccolo di lui.» Vedendo Jahdo reagire con un sorriso noncurante, Rhodry si sentì profondamente deluso che quel ragazzo fosse tanto goffo, perché a suo modo possedeva un notevole coraggio. «Quel branco di piccoli lupi ti ha dato molto fastidio?» chiese quindi. «Non molto, a dire il vero. Nessuno mi ha creato problemi finché Alli non ha cominciato ad insultarmi, poco fa. Questa mattina Cae e Bran sono anzi stati molto gentili con me.» «Ho il sospetto che se continuerai a incassare da uomo le offese di Alli quei due riprenderanno ad essere gentili con te.» «È probabile. Cengarn è un posto molto strano, e mi fa pensare che le antiche storie sugli Schiavisti fossero vere. Siete una razza feroce e crudele, eh?» «Ecco» replicò Rhodry, sinceramente sorpreso, «suppongo che a te dobbiamo apparire tali, ma...»
«Se non altro non collezionate più teste... oppure lo fate? Non ne ho viste pendere dalle mura o in altri posti, secondo quanto affermano invece le antiche storie.» «È ovvio che non lo facciamo!» scattò Rhodry, tormentato dal ricordo di una volta in cui aveva visto un nobile innalzare su una picca la testa di un particolare nemico. «O per meglio dire non lo facciamo a meno di essere violentemente provocati.» «Tu non hai mai tagliato la testa a qualcuno per legarla alla sella del tuo cavallo, vero?» «Posso darti la mia parola che non l'ho mai fatto, ragazzo, e che non lo farò mai.» Jahdo sospirò in una manifestazione di sollievo tanto profonda da apparire comica, e Rhodry stava per commentare la sua reazione con una battuta scherzosa quando nel girare la testa vide Matyc fermo fra due baracche e intento ad osservarli. Da quanto tempo sei fermo lì, bastardo? si chiese fra sé, riflettendo che Lord Matyc stava cominciando a innervosirlo. «Rhodry» disse intanto Jahdo, «Cae mi ha detto che nella fortezza c'è una principessa. È vero?» «Infatti. Vorresti che te la presentassi?» «Mi piacerebbe, perché non ne ho mai vista una. Sai, mio padre penserebbe che sono sciocco a volerla conoscere soltanto perché è una principessa, ma ne sarei contento.» «Ecco, è una giovane donna graziosa ma abbastanza comune, nel senso che non è certo un vitello a due teste o qualcosa del genere. Vieni, entriamo nella rocca e vediamo se ci riesce di trovarla, poi sarà bene che torni da Meer, perché non dovrebbe essere lasciato troppo solo.» «Ha detto che voleva dormire un poco, quindi ho pensato che se volevo potevo uscire a gironzolare.» Se Carra si fosse trovata nella sala delle donne, dove soltanto gli uomini più anziani potevano accedere, Jahdo avrebbe dovuto fare a meno del suo incontro con una vera principessa, ma per sua fortuna i due la trovarono nella grande sala insieme alla moglie del gwerbret, Labanna, e a due delle sue dame di compagnia, sedute comodamente su alcune sedie a tre gambe accanto alla tavola d'onore, con il lavoro di cucito in grembo; ai piedi di Carra era sdraiato un grosso cane grigio con il pelo striato di nero sulla schiena, un animale che a giudicare dagli occhi gialli e dall'aspetto ferino doveva essere più un lupo che un cane. Mentre Labanna e le sue dame era-
no tipi matronali, robuste e grigie di capelli, Carra appariva non soltanto graziosa ma addirittura bella, con i suoi capelli biondi e ondulati che erano tagliati più corti di quanto fosse uso a causa di alcune strane circostanze e che incorniciavano un volto delicato e illuminato da due grandi occhi azzurri; quel particolare giorno lei indossava un abito di fine lino azzurro ricamato con bande di arabeschi e di fiori che correvano lungo il collo e sulle maniche e tagliato con la vita piuttosto alta per dare comodità al ventre che si andava ingrossando. Al collo portava un pendente di oro rossiccio decorato con intagli di rose in bassorilievo e nel complesso appariva così bella che Jahdo si trovò a fissarla ad occhi sgranati. «È adorabile» sussurrò. «E poi non avevo mai visto un vestito così bello.» Quel commento indusse Rhodry a supporre che il Rhiddaer dovesse essere un posto alquanto rozzo, e mentre accompagnava il ragazzo verso la tavola d'onore si chiese come avrebbe reagito Jahdo di fronte all'eleganza della corte del Sommo Re, a Dun Deverry. Quando si avvicinarono alla tavola il grosso cane si alzò in piedi ringhiando. «A cuccia, Lampo!» ordinò Carra. facendo schioccare le dita. «Avanti, vieni qui, da bravo.» Con riluttanza il cane aggirò la sua sedia e tornò a sdraiarsi uggiolando leggermente, e nel frattempo Rhodry s'inginocchiò davanti a Carra e a Lady Labanna, segnalando a Jahdo di fare altrettanto. «Signore» disse, «vi posso presentare Jahdo? A quanto pare prima d'ora non aveva mai incontrato una vera principessa e gli piacerebbe conoscerne una.» Carra scoppiò in una sommessa risata e anche Labanna sorrise. «Certamente» replicò quindi Carra, «però mi dovrai dire tu cosa fare perché come sai non ho molta esperienza nel rivestire il ruolo di principessa.» «Benissimo» annuì Rhodry. «Adesso io dirò: "Posso presentare a Vostra Altezza Jahdo del Rhiddaer?" Per accettare tu dovrai annuire con il capo in maniera appena accennata e regale... no, non sorridere, devi assumere un aspetto altezzoso.» Carra cercò di seguire le sue istruzioni ma finì per mettersi a ridacchiare mentre le altre donne si portavano una mano alla bocca per nascondere un sorriso. «Così dovrà bastare» commentò Rhodry. «Adesso io dirò: "Jahdo del Rhiddaer, hai l'onore di trovarti alla presenza della Principessa Carramaena
delle Terre Occidentali e di Sua Grazia Lady Labanna, moglie del Gwerbret Cadmar di Dun Cengarn." A questo punto, ragazzo, tu devi inchinarti all'altezza della vita, con una mano dietro la schiena e quanto più eretto ti è possibile stare essendo in ginocchio... così va bene. Inchinati prima alla principessa e poi a Lady Labanna.» Badando a seguire con cura le sue istruzioni, Jahdo fece come gli era stato detto. «Molto bravo» si complimentò Labanna. «Devo anche ammettere che tu sei un ottimo istruttore, daga d'argento.» «Ti ringrazio, mia signora» replicò Rhodry, notando che le dame di compagnia lo stavano ora scrutando con espressione attenta. «Adesso però sarà meglio che andiamo per non imporvi oltre la nostra presenza.» «Oh, Rhodry, non essere tanto formale!» rise Carra. «Dopo tutto questo pomeriggio non ho molto da fare dal momento che Dar... er, volevo dire il principe mio marito... è di nuovo fuori a caccia con i suoi uomini.» «La daga d'argento ha ragione, Vostra Altezza» intervenne però Labanna, posandole una mano sul braccio. «Il tempo che lui può trascorrere in tua presenza è limitato.» «Auguro a tutte voi una buona giornata» sorrise Rhodry, alzandosi in piedi per inchinarsi e segnalando a Jahdo di imitarlo. «Vieni, ragazzo, è ora che torni dal tuo padrone.» Mentre lasciavano la grande sala Jahdo prese a parlare di quanto la principessa fosse bella ma Rhodry non lo sentì quasi perché era impegnato a ricordare a se stesso che se voleva mantenere nascosto il proprio passato avrebbe dovuto adottare dei modi più rozzi. Poi un urlo di terrore del ragazzo lo riscosse all'improvviso, ma nel girarsi di scatto con la spada già in pugno lui non vide nulla che potesse aver provocato quella reazione, tranne un paio di uomini a cavallo che stavano oltrepassando in quel momento le porte principali. «Cosa succede?» domandò in tono brusco. «Dèi» balbettò Jahdo, che stava tremando da testa a piedi, e protese una mano altrettanto tremante per indicare verso le porte. «Due dèi sono appena entrati a cavallo nella fortezza.» «Cosa?» esclamò Rhodry, riponendo la spada nel fodero. «Quelli sono soltanto due degli uomini del Principe Dar.» I due guerrieri del Popolo dell'Ovest smontarono intanto di sella e consegnarono le redini ad un garzone di stalla in attesa. Alti e snelli, con i capelli chiari come la luce lunare, entrambi erano individui avvenenti se si
trascuravano le pupille verticali come quelle dei gatti e gli orecchi allungati e appuntiti come conchiglie. Fissandoli interdetto, Jahdo tentò di parlare ma riuscì ad emettere soltanto un verso inarticolato e soffocato, e di colpo Rhodry comprese che probabilmente prima di allora il ragazzo non aveva mai visto un elfo. «Suvvia» lo tranquillizzò, «quelli sono esseri in carne ed ossa proprio come te e me, e anche se hanno un aspetto diverso sono fatti proprio come noi. Un lupo ha senza dubbio un aspetto diverso da un gwertrae, ma entrambi sono pur sempre cani e dal loro incrocio si possono ottenere cuccioli sani, giusto? Il Principe Daralanteriel è un uomo del Popolo dell'Ovest e la Principessa Carra è una donna di Deverry, e tuttavia lei aspetta un figlio da lui, il che ti dimostra quanto gli elfi ci somiglino.» Il terrore di Jahdo si trasformò in perplessità mentre i due elfi rivolgevano a Rhodry un cenno di saluto e s'incamminavano lentamente attraverso il cortile, diretti verso una delle rocche laterali in cui erano alloggiati. «Però sono uguali agli dèi» insistette infine il ragazzo. Mi è successo due volte di vedere un dio, ed entrambi avevano esattamente quell'aspetto. «Sei certo di non aver visto semplicemente due elfi?» «Certissimo, perché gli dèi sono apparsi dal nulla e poi sono subito scomparsi. Uno di essi, una dea, è apparsa nella cella in cui eravamo rinchiusi: ha attraversato la parete e ci ha detto che non avremmo corso pericoli, poi è scomparsa. Di lì a poco tu sei venuto a prenderci per portarci da Jill, e Jill ha parlato per noi al gwerbret e ci ha messi al sicuro, proprio come aveva profetizzato la dea.» «Davvero?» esclamò Rhodry, sorpreso. «Corri a occuparti del tuo padrone, ragazzo. Io devo andare a cercare Jill per parlarle di questo, perché sono certo che lo troverà interessante.» Per Dallandra la lunga notte e la mattinata che Jill aveva impiegato tornando a Cengarn e poi interrogando Meer e Jahdo trascorsero rapide come un paio di battiti del cuore, come un breve intervallo di Tempo durante il quale lei volò oltre il velo d'acqua che separava la notte di Deverry dall'aurea luce diurna che avviluppava le terre di Evandar. Il semplice effettuare quella transizione la privò della sua forma di uccello e lei torno ad assumere le sue abituali sembianze, ritrovandosi vestita con illusori abiti elfici e ferma sulla sommità di una collina che sovrastava il corso argenteo del fiume; tutt'intorno si stendeva una vasta distesa d'erba verde ma stentata e già tendente al marrone là dov'era sovrastata dall'ombra di radi alberi dal-
l'aspetto malsano, e quando si voltò a guardare nella direzione opposta lei vide che dello splendido giardino di un tempo adesso restava soltanto un groviglio di erbacce e di mattoni infangati. D'impulso si avvicinò per guardare meglio. Quando era giunta per la prima volta nelle terre di Evandar, oltre duecentocinquant'anni prima secondo il modo in cui gli uomini e gli elfi calcolavano il passare del Tempo, Evandar aveva creato quel giardino soltanto per farle piacere, e Dallandra ricordava che esso era stato di una precisione geometrica, formato da un enorme quadrato limitato da muretti di mattoni e da siepi e diviso da un angolo all'altro da sentieri di ghiaia che portavano ad una fontana centrale; all'interno di ogni ripartizione così creata c'erano state rose in boccio miste ad altri fiori porpora, azzurri e oro a cui lei non aveva saputo dare un nome. Adesso i muretti erano crollati, le siepi si erano inselvatichite oppure erano morte, i sentieri erano nascosti da lappole e soffioni, le rose lottavano con le erbacce per conquistarsi un po' di sole e i pochi boccioli che ancora spuntavano su di esse non erano più quelli a molti petali propri delle varietà coltivate bensì il tipo a cinque petali caratteristico dei roseti selvatici; la fontana di marmo che si trovava al centro dei sentieri era in rovina e la sua vasca crepata era ricoperta di muschio. Spinta dal puro e semplice dolore dovuto alla vista della devastazione abbattutasi su qualcosa che un tempo era tanto bello, Dallandra accennò ad oltrepassare i resti del cancello, e in quel momento qualcosa si mosse con un piccolo suono frusciarne nel groviglio di viticci che crescevano intorno alla fontana. Nel sentire quel rumore Dallandra s'immobilizzò completamente con un piede già oltre la soglia e l'altro ancora fuori del giardino, e attese che il suono si ripetesse: quando giunse, questa volta le parve di vedere qualcuno sbirciarla per un fugace istante prima di ritrarsi fra il fogliame... occhi elfici che spiccavano in un volto pallido e grigio, che aveva il muso allungato come quello di un maiale ma una bocca assolutamente umana. In un primo tempo Dallandra suppose che potesse trattarsi di un membro del Popolo Fatato, ma nonostante i loro scherzi e la loro malizia gli spiriti elementari... spiritelli, gnomi, ondine e salamandre... erano essenzialmente innocui, soprattutto per un maestro del dweomer quale lei era, mentre qui avvertiva un pericolo incombente che si manifestava sotto la forma di una penetrante fitta di avvertimento del dweomer che le trapassava il cuore. Con cautela, lentamente, indietreggiò fino ad uscire del tutto dalla recinzione e mosse qualche altro passo indietro senza voltarsi, in modo da continuare a tenere d'occhio il giardino in rovina.
«Dalla!» chiamò la voce di Evandar, dall'alto della collina. «Cosa ci stai facendo laggiù?» «Vieni qui da me.» Pur sentendo Evandar che si affrettava per andare a raggiungerla, Dallandra continuò a tenere lo sguardo fisso sul giardino. «Cosa succede?» chiese intanto lui. «Oh, il tuo giardino si è rovinato. Vuoi che lo ricostruisca per te, amore mio?» «Fermo! Taci per un momento e osserva. Mi è parso di vedere un membro della Corte di tuo fratello che si aggirava là dentro.» Fra le erbacce qualcosa si mosse e si alzò in piedi in mezzo ad una pioggia di fogliame strappato... il proprietario del muso intravisto da Dallandra, e che stava ora rivelando un corpo più o meno umano anche se curvo e deforme, vestito soltanto con un paio di calzoni e niente altro. Alla vista di Evandar l'essere gemette e protese le zampe tozze e dotate di artigli. «Aiutaci! Senza di te non abbiamo dove vivere!» esclamò. «Potete vivere dovunque» ribatté Evandar. «Tutto il mondo che si stende fra le stelle appartiene a voi.» «Vogliamo una vera dimora, quella che conosciamo, l'erba e il fiume delle Terre» piagnucolò però la creatura, scuotendo il capo in un cocciuto gesto di diniego. «Allora costruiteveli da soli oppure, meglio ancora, chiedete al signore che servite di costruirli per voi.» La creatura si allontanò con un ultimo gemito, simile a quello di un bambino disperato che scivolasse nel sonno per il troppo piangere, mentre Evandar l'osservava con le braccia conserte sul petto fino a quando non scomparve alla vista. «Suppongo che secondo te li dovrei aiutare» commentò infine. «Onestamente non so cosa pensare. La cosa migliore per loro sarebbe scegliere la via della vita e della nascita, proprio come dovrebbe fare la tua gente, però ti costerebbe davvero tanto salvare le loro terre?» «Quello che non capisco è perché dovrei fare a loro vantaggio una cosa che non voglio fare.» L'affermazione venne pronunciata con tono assolutamente calmo e cortese, senza la minima traccia di petulanza o d'ira, e quel tono più di ogni altra cosa ebbe l'effetto di ricordare a Dallandra quanto lui fosse effettivamente alieno, nonostante il suo aspetto elfico.
«Sarebbe un atto compassionevole, una cosa giusta... un gesto dettato dall'amore.» Evandar scoppiò a ridere. «Sono brutti» obiettò. «È vero» ammise Dallandra, scegliendo ogni parola con cura, «però soffrono ed hanno sentimenti, proprio come te.» «Loro? I piccoli mostri di mio fratello? I suoi miserabili bruti?» D'un tratto una cosa apparve chiara nella mente di Dallandra. «Hai creato una terra per tuo fratello, ma lui ha dovuto modellare da solo il corpo dei suoi seguaci» affermò. «Infatti, ed ha fatto un lavoro miserando. Ha preso un pezzo di qua e un pezzo di là, attingendo dalle bestie oltre che dagli elfi e dagli uomini... comunque adesso questo è un suo problema e non mi riguarda.» «Però hai creato la sua terra. Perché?» «Non voglio più parlare di lui, o delle sue terre.» «Io ho bisogno di saperne di più.» «Non te lo dirò» tagliò corto Evandar, poi si volse e prese a risalire a grandi passi il pendio della collina mentre Dallandra lo seguiva, imprecando fra sé per la sua cocciutaggine. «Vuoi ascoltarmi, per favore?» scattò in tono secco, quando infine lo raggiunse in cima alla collina. «Dobbiamo parlare, perché ho scoperto alcune cose orribili.» «Elessario!» esclamò Evandar, mentre un'espressione effettivamente allarmata gli appariva per un momento sul volto. «È al sicuro?» «Sì, ma non so per quanto ancora. Sai che Alshandra ha giurato di riportarla in questo mondo, uccidendo la sua nuova madre se ogni altro mezzo non si fosse dimostrato adeguato. Ebbene, sta radunando un esercito perché l'aiuti.» «Davvero? Allora ci occuperemo di lei non appena il suo esercito sarà pronto» ritorse Evandar, con una fugace esitazione. «Non mi infastidire però con queste cose adesso che abbiamo sorpreso una spia che si aggirava nelle mie terre.» «A me non sembrava qui per spiare. Mi è parso terrorizzato.» Evandar le volse le spalle senza prendersi la briga di risponderle e fece schioccare le dita, materializzando dal nulla un corno d'argento dal quale trasse tre note profonde: in reazione ad esse i soldati della Schiera risalirono la collina con la rapidità di lingue di fiamma che emergessero dal terreno e gli si raccolsero intorno fra uno scintillare di cotte di maglia e di elmi
del colore del rame, brandendo ciascuno una lancia dalla punta di bronzo, mentre il suo paggio personale sopraggiungeva conducendo per le briglie due cavalli dorati dalla coda e dalla criniera argentee. «Evandar!» tentò ancora Dallandra. «Queste notizie che ti ho portato...» «Dovranno aspettare. Vieni con me, amore mio, perché per te non è sicuro rimanere qui da sola.» Nel montare in sella Dallandra si accorse che i soldati appiedati si erano trasformati in un contingente di cavalleria secondo uno di quei cambiamenti improvvisi che erano propri di quel luogo; con un tintinnare di finimenti e un martellare di zoccoli, la Schiera seguì Evandar quando questi si avviò con un grido e un gesto del braccio, e Dallandra spronò il cavallo per affiancarsi a quello di lui non appena la strada si fece pianeggiante nel seguire il corso del fiume. «Andiamo alla pianura della battaglia» esclamò Evandar. Alle sue spalle la Schiera levò un ruggito di approvazione accompagnato da uno squillo dei corni d'argento. Mentre procedevano al trotto attraverso le pianure dalla fisionomia sempre più vaga, il panorama andò acquistando una maggiore concretezza intorno a loro, l'erba tornò ad essere verde e tanto alta e folta da costringere i cavalli a rallentare il passo, e le lontane città che si levavano lungo l'orizzonte assunsero di nuovo una forma nitida e definita, scintillando qua e là per una lanterna accesa dietro una finestra o per il riflettersi della sempre più fioca luce diurna su qualche superficie metallica. Appena al di sopra della linea dell'orizzonte, il disco lunare spiccava gonfio e rosato nel cielo, sospeso in un attimo di Tempo in cui non poteva né sorgere del tutto né tramontare. Sotto quella luce spettrale la Schiera si addentrò nella foresta per metà morta e per metà vivente, avanzando con lentezza lungo una pista tanto stretta da costringere i cavalieri a procedere in fila per uno, mentre dalla profondità della vegetazione giungevano suoni striscianti e rumori di piccoli passi frettolosi che denunciavano la presenza di cose che si muovevano appena al di fuori del campo visivo e che ebbero l'effetto di tendere i nervi di Dallandra fino a destare in lei l'impulso di mettersi a urlare. A livello intellettuale sapeva che si trattava soltanto di esseri fatati, ma l'intelletto aveva ben poco potere nelle terre di Evandar e ogni volta che un ramoscello le si impigliava nei capelli o le sfiorava una spalla lei sentiva il cuore che prendeva a martellarle nel petto, tanto che quando infine vide apparire davanti a sé la chiazza di luce che denotava l'approssimarsi del
segnale di confine si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo tanto intenso da suonare quasi come un singhiozzo. «Come stai, amore mio?» chiese Evandar, girandosi sulla sella per guardarla in volto. «Abbastanza bene» replicò Dallandra, costringendosi a sorridere perché detestava mostrarsi debole davanti a lui. «Stiamo cavalcando da parecchio e la notte è molto buia.» «È vero, ma presto saremo arrivati» replicò Evandar, dirigendo il cavallo al di là del segnale di confine costituito dal grande albero per metà in fiamme e per metà verde e fiorente e precedendo il suo esercito fuori della foresta sotto la luce incerta dell'alba. Sulla sinistra della strada, il fiume ridotto ora ad un torrente schiumante di rapide ribollenti scorreva sul fondo di un canalone profondo circa sei metri e più avanti la pianura si allargava fino all'orizzonte dove banchi di nubi... o cortine di fumo... si addensavano come un'onda immobile, tinta del colore del sangue dai raggi del sole gonfio; in lontananza sulla pianura quella luce orribile si rifletteva ammiccante sulla punta delle lance e sulle armature della Corte Oscura, e a quella vista Evandar sollevò una mano per ordinare alla sua gente di fermarsi. «Percepisco che lui è là in attesa» disse con un sorriso a Dallandra, quando lei gli si affiancò. «Mi riferisco a mio fratello.» «Immaginavo che stessi parlando di lui.» Sulla pianura il guerriero dai lineamenti volpini si staccò dalle file dei suoi uomini e venne loro incontro al trotto, con l'elmo infilato sotto il braccio e la lancia rivolta verso il terreno. Ad un cenno di Evandar. i membri della Corte Luminosa manovrarono con i loro cavalli in modo da formare un rozzo semicerchio vicino al fiume, manovra subito imitata dai loro avversari vestiti di scintillanti armature nere, anche se entrambi i contingenti badarono a mantenere invariata la distanza che li separava. Infine il guerriero dai lineamenti di volpe si arrestò davanti ad Evandar e sfoggiò in un sorriso i denti bianchi e aguzzi. «Stai perlustrando i tuoi confini, vero?» commentò. «Infatti» ribatté Evandar, «e pare che abbia fatto bene, dal momento che ti ho trovato qui.» «Se non risanerai le mie terre, un giorno o l'altro potrei decidere di conquistare le tue.» A quelle parole Evandar gettò indietro il capo e scoppiò in una fragorosa risata.
«Vuoi dire che cercheresti di farlo. Pensi davvero che potresti vincere, mio giovane fratello?» Il guerriero volpino reagì con un ringhio che mise a nudo le zanne aguzze. «Se pensassi di avere la minima speranza di vittoria mi avresti attaccato già da molto tempo» continuò intanto Evandar. «Questo non è ancora stato dimostrato, fratello maggiore» ritorse il guerriero, pronunciando la parola fratello in maniera tale da farla suonare come un insulto. «Non ho forse intessuto un corpo per la mia gente quando tu mi hai deriso asserendo che non ci sarei mai riuscito?» Invece di rispondere Evandar si limitò a fissarlo con un sorrisetto sulle labbra. «Quindi non ti inorgoglire tanto» continuò il guerriero, con una fretta eccessiva e poco dignitosa. «Inoltre sono qui per un motivo che non ha nulla a che vedere con la guerra, il che significa che sei doppiamente in errore.» «Davvero?» «Tu hai un fischietto che mi è stato rubato.» «In effetti ce l'ho, ma non è rubato. L'ho trovato nelle mie terre e molto tempo fa tu mi hai detto che apparteneva ad un ribelle che aveva abbandonato la tua corte.» «Ti ho detto questo?» mormorò il guerriero volpino, e dopo una lunga pausa di silenzio aggiunse: «Ebbene, lui me l'aveva rubato.» «Non ti credo.» Il guerriero reagì a quell'affermazione con un ringhio sommesso. «Perché lo vuoi?» insistette intanto Evandar. «Perché mi appartiene.» «Questa non è una risposta... e poi come posso donartelo se è già tuo?» «Me lo daresti?» «Potrei farlo, se mi dirai per quale motivo lo vuoi.» Il guerriero volpino rifletté per un momento, girandosi sulla sella per lasciar scorrere lo sguardo sulla sua Schiera e poi tornando a voltarsi per fronteggiare Evandar, mentre il suo cavallo agitava la testa e batteva al suolo uno zoccolo con fare nervoso e Dallandra si sentiva assalire da un brivido di timore: non voleva che quel fischietto malvagio cadesse in mani nemiche, soprattutto non dopo che Rhodry lo aveva avuto con sé per tanto tempo nelle terre degli uomini. Stava per esprimere le sue preoccupazioni quando il guerriero volpino la prevenne.
«Mi serve per pagare un riscatto» disse. «I ribelli hanno preso una delle mie donne e non me la restituiranno se non darò loro il fischietto.» «Sono diventati così arditi?» «Sì. Sono accampati lungo i miei confini e fra loro ho visto anche alcuni dei tuoi seguaci, i ribelli che hanno seguito Alshandra.» «In tal caso, fratello mio» dichiarò Evandar, girando il capo e sputando al suolo con disprezzo, «ti consiglio di pattugliare accuratamente i tuoi confini come io faccio con i miei.» «Come posso pattugliarli se le Terre si stanno spegnendo a poco a poco?» Invece di rispondere a quella domanda Evandar schioccò le dita... e nel vedere il fischietto d'osso apparire di colpo nella sua mano il guerriero volpino accennò a scattare in avanti, trattenendosi appena in tempo. «La perdita di una donna è una cosa dolorosa» affermò intanto Evandar. «Prendi.» E gettò il fischietto al fratello, che lo afferrò al volo e fece subito girare il cavallo dando al tempo stesso di sprone. Mentre lui si allontanava al galoppo in direzione del sole nascente la Schiera Oscura levò ululati e strida di approvazione e spronò a sua volta le cavalcature per seguirlo, sollevando una nube di polvere tale da dare l'impressione che l'esercito in ritirata si fosse trasformato in una vasta tempesta che infuriava al di sopra dei suolo e si dirigeva verso l'orizzonte come una cosa viva. Poi la polvere si depositò in una miriade di piccoli vortici brani e la pianura tornò a stendersi ampia e silenziosa. «Sono preoccupata, amore mio» affermò Dallandra. «Perché quei ribelli sono così decisi ad ottenere il fischietto?» «Probabilmente per lo stesso motivo per cui hanno creato quel dannato oggetto» replicò Evandar, poi fece voltare il cavallo e si avviò al trotto verso la Schiera in attesa, non lasciandole altra alternativa che quella di seguirlo e sperare che avesse ragione in merito al fischietto. Sapeva intatti che c'erano operatori del dweomer che potevano evocare visioni e l'equivalente astrale degli odori lavorando su un oggetto che qualcuno aveva avuto in suo possesso per molto tempo, e non voleva che una persona del genere si lanciasse sulla pista di Rhodry per fargli del male. «Adesso i confini sono sicuri!» esclamò intanto Evandar. «Torniamo a casa, dove per ricompensarvi innalzerò il padiglione dorato in modo che si possa banchettare e danzare, amici miei!»
La Schiera Luminosa levò un ruggito di approvazione a cui però Dallandra non si unì perché era ancora di animo turbato. Prima d'ora non aveva mai visto Evandar ricompensare la sua gente, e di colpo si chiese se lui non stesse cercando di alimentarne la fedeltà vacillante: durante il tragitto del ritorno notò che le terre da loro attraversate parevano aver ritrovato la loro freschezza e solidità, come se Evandar avesse ripreso a riversare energie in esse nel percorrerle, e quando arrivarono sul prato adiacente il fiume vi trovarono gli alberi che crescevano alti e verdeggianti fra l'erba punteggiata di rose selvatiche e di soffioni. La Corte prese a inneggiare ad Evandar, gridando ripetutamente il suo nome, ma pur levando un braccio in un gesto di risposta a quell'omaggio lui non disse nulla e alla fine i suoi guerrieri tacquero, smontando di sella e allontanandosi con i cavalli per poi svanire vicino al fiume e ricomparire un momento più tardi senza di essi. Ancora in sella, Evandar rimase ad osservarli con aria cupa. «Cosa c'è che non va'.» domandò Dallandra. «So che qualcosa ti turba.» «Oh, mi stavo soltanto domandando se ho agito come un debole e quindi in maniera sbagliata» rispose Evandar, in tono tanto sommesso che lei sola poté udirlo. «Mi riferisco all'aver dato il fischietto a mio fratello.» «A me sembra che tu abbia compiuto un gesto onorevole, aiutandolo a salvare la sua donna.» «Senza dubbio ai tuoi occhi, a quelli degli uomini e degli elfi, e perfino ai miei stessi occhi appare evidente che si è trattato di un nobile gesto... ma credi che lui lo capirà? Probabilmente lo interpreterà come un semplice segno di debolezza. Bene, comunque piangere sul latte versato è inutile anche qui nelle mie terre.» In seguito, quando ormai non era più possibile trasformare un male in un bene, Dallandra rammentò questa conversazione e si rese conto che in effetti Evandar aveva avuto ragione nel nutrire tanta diffidenza nei confronti di suo fratello. Mentre Dallandra cavalcava sulla vasta pianura insieme alla Corte Luminosa, Jill si era rinchiusa nella propria camera e si era impegnata in una sorta di personale perlustrazione dei confini, anche se i metodi da lei usati erano piuttosto la meditazione e l'evocazione di immagini; di tanto in tanto un paggio dall'aria spaventata bussava alla porta per portarle da mangiare e da bere e prelevare gli eventuali resti dei pasti precedenti, ma nessun altro osava avvicinarsi alla sua stanza. Per quanto dotato di enorme potere, il dweomer era anche vincolato da rigide limitazioni che adesso costringeva-
no Jill ad operare in una posizione di notevole svantaggio: se avesse mai avuto modo di vedere questi magici nemici in carne ed ossa avrebbe potuto evocare la loro immagine, e se fossero stati nelle vicinanze avrebbe potuto esplorare il piano dell'eterico servendosi del proprio corpo di luce, ma lei non sapeva nulla di loro, neppure il nome, e a quanto pareva essi si stavano tenendo bene alla larga da Cengarn in quanto non si trovava traccia della loro presenza da nessuna parte. Quando viaggiava sul piano dell'eterico Jill non usava la forma del falco ma una semplice e stilizzata sagoma umana modellata con l'azzurra sostanza eterica e congiunta al corpo fisico mediante un cordone d'argento che andava dal suo ombelico a quello del corpo di luce e permetteva il continuo scorrere dell'energia che sostentava sia la sua carne che la sua consapevolezza astratta. Per quanto non fosse vivo nel senso letterale della parola, il corpo di luce serviva come veicolo per la sua sfera cosciente e per il suo doppione eterico, di cui ogni essere vivente era dotalo. Sfortunatamente, anche l'uso di un corpo di luce prevedeva determinati limiti, soprattutto derivanti dalla distanza che un maestro del dweomer poteva percorrere senza rischi nell'utilizzarlo, in quanto l'aumento della distanza dal corpo fisico provocava una riduzione del costante afflusso di nuova energia di cui il corpo di luce aveva bisogno per rimanere integro, con la conseguenza che esso cominciava a disintegrarsi e lasciava infine il doppione eterico nudo e vulnerabile, esposto alla mercé dei venti e delle correnti di pura forza che erano una presenza costante sui piani più elevati dell'essere. Qualsiasi danno al doppione eterico poteva uccidere una persona, anche un grande maestro del dweomer, e qualsiasi danno arrecato al cordone d'argento comportava una morte istantanea in quanto portava ad un'interruzione immediata della connessione fra il corpo materiale e i livelli più elevati della consapevolezza della persona in questione. Per questi motivi, Jill era costretta a rimanere nelle vicinanze di Cengarn nel corso delle sue perlustrazioni notturne, e per quanto in questa forma potesse arrivare più lontano di quanto le fosse possibile nelle vesti di un falco non era comunque soddisfatta, anche se ogni volta si spingeva ad almeno centocinquanta chilometri dalla città, una distanza che per un gruppo di razziatori corrispondeva a cinque giorni di viaggio a cavallo e che le avrebbe permesso quindi di dare l'allarme in anticipo... a patto che si fosse spinta nella direzione giusta. La sua insoddisfazione derivava peraltro dalla consapevolezza che qualsiasi nuovo gruppo di razziatori avrebbe avuto dalla sua parte un dweomer
potente e di un tipo a lei alieno, cosa che le rendeva impossibile prevedere di cosa questo altro mazrak avrebbe potuto o meno essere capace... per quanto dubitasse che fra i suoi poteri ci fosse anche quello di celare alla vista un intero esercito. Più o meno nello stesso momento in cui Dallandra ed Evandar... per i quali erano trascorse appena poche ore... facevano ritorno al prato sulla riva del fiume, Jill decise che quattro giorni di inutili ricerche erano più che sufficienti, e dopo essersi fatta portare dai paggi l'acqua calda per un bagno, in modo da potersi cambiare d'abito e rendersi presentabile, scese nella grande sala per conferire con il Gwerbret Cadmar. Nell'uscire dalla torre laterale in cui era alloggiata notò Jahdo intento ad osservare i garzoni di cucina che giocavano a spingere avanti e indietro a calci una palla di cuoio; allorché gli lanciò un richiamo. Jahdo si affrettò ad avvicinarsi ma dal suo atteggiamento risultò evidente che aveva molta paura di lei. «Come mai non stai giocando con gli altri?» domandò Jill. «Non me lo permettono perché Alli non vuole.» «Davvero? È proprio un piccolo bullo, vero?» Jahdo si limitò a scrollare le spalle con espressione infelice. «Se vuoi posso scambiare qualche parola con lui.» «Ti ringrazio, mia signora, ma questo servirebbe soltanto a peggiorare le cose. A proposito, Rhodry dice che devo chiamarti "mia signora". Faccio bene a seguire il suo consiglio?» «Sì, sebbene dubiti che il nostro arrogante Allonry mi consideri degna di questo titolo.» «Non potresti trasformarlo in un ranocchio almeno per un po'?» «Temo di non poterlo fare, Jahdo» rise Jill, «anche se ammetto che vederlo saltellare in giro sarebbe divertente per tutti noi. Dimmi, a parte questo giovane nobilotto pieno di sé, tu e Meer siete stati trattati bene? Ho lasciato ordini in tal senso, e per me è importante che siano stati eseguiti.» «Sì, ci hanno trattati bene.» «Mi fa piacere. Vorresti svolgere un incarico per me? Va' a cercare Rhodry e digli che sono scesa dalla torre.» «Subito» assentì Jahdo, rischiarandosi notevolmente in volto. «Sai, quando lui ci ha catturati ho creduto di odiare Rhodry, ma adesso lo trovo simpatico e non riesco a credere che possa aver commesso qualche atto disonorevole... mi riferisco al fatto che è una daga d'argento.» «In realtà non ha fatto nulla del genere, però non oso dirti altro perché rischierei di provocare la sua ira.»
«Oh, allora va bene. Non vorrei mai che s'arrabbiasse con me» annuì Jahdo, poi si allontanò di corsa per assolvere al suo incarico e Jill entrò nella grande sala. Vicino al focolare d'onore decorato con l'effigie del drago il gwerbret sedeva alla tavola d'onore insieme agli altri nobili, mentre poco lontano il bardo di corte e Meer sedevano uno vicino all'altro con un'arpa posata in mezzo a loro, impegnati a discutere sul metodo migliore per suonarla e badando a tenere bassa la voce per non disturbare i nobili. Nel notare il Gel da'Thae, Jill rimase per un momento sorpresa della facilità con cui lui e il ragazzo sembravano essersi inseriti nella vita quotidiana della fortezza... finché non ricordò che avevano avuto a disposizione parecchi giorni di tempo per integrarsi con gli altri, intanto che lei era rinchiusa nella sua stanza a lavorare. Per quanto lui si fosse ambientato nella fortezza, non voleva comunque che Meer scendesse in città, dove la gente non aveva modo di sapere che quella strana creatura era sotto la diretta protezione del gwerbret, quindi prese mentalmente nota di dirgli di non correre rischi del genere. Quando si avvicinò alla tavola d'onore il gwerbret si alzò in piedi e ordinò che le portassero una sedia, mentre Matyc e Gwinardd la salutarono con un cenno del capo a cui lei rispose con un inchino impersonale e generalizzato. «Sono venuta a riferire a Vostra Grazia che in base a quello che sono stata in grado di determinare Cengarn non corre pericoli immediati. D'altro canto non posso promettere che i razziatori non torneranno presto a farsi vivi, considerato che ritengo abbiano validi motivi per tentare di attaccarci ancora.» «Davvero?» replicò Cadmar. «Queste sono notizie davvero spiacevoli.» «Vostra Grazia sa che io e i miei uomini siamo a sua disposizione finché avrà bisogno di noi» intervenne Gwinardd. «Anche i miei, naturalmente» aggiunse Matyc, molto più lentamente. «Però hai alcuni affari personali che richiederebbero di essere seguiti, vero?» sorrise Cadmar. «Scommetto che lo stesso vale anche per te, Gwinardd, quindi avete entrambi il permesso di far ritorno nelle vostre terre, a patto che accorriate ancora in mio soccorso qualora i nostri nemici si facciano di nuovo vivi.» «Se devo essere onesto, Vostra Grazia, non so se a casa ci sia o meno bisogno di me» replicò Matyc. «Con il tuo permesso manderò immediatamente un messaggero alla mia signora.»
«Certamente. Dopo che avrete entrambi avuto notizie dalle rispettive mogli e dal vostro ciambellano dovremo discutere a lungo della situazione.» Matyc e Gwinardd si alzarono con un inchino e si allontanarono, seguiti dallo sguardo di Cadmar, che di lì a poco si volse verso Jill con un sopracciglio inarcato e un'espressione interrogativa sul volto. Consapevole che era giunto il momento di una spiegazione sincera, e pur essendo disposta a rivelare al gwerbret tutto ciò che sapeva. Jill si chiese peraltro fino a che punto Cadmar avrebbe compreso quello che stava succedendo, e infine decise che una versione alterata della verità sarebbe stata per lui più comprensibile della verità effettiva. «Cercherò di essere semplice, Vostra Grazia» esordì quindi. «Qualcuno sta cercando di uccidere Carra al fine di eliminare il figlio ed erede di Dar. I suoi nemici hanno avuto informazioni poco precise in merito a dove Carra si trovasse, quindi hanno mandato i razziatori nel tuo territorio con troppo anticipo. Per quanto mi riguarda, sono convinta che non sappiano neppure che aspetto lei abbia.» «Il che spiega perché abbiano ucciso ogni donna incinta in cui si sono imbattuti» commentò Cadmar, che appariva nauseato. «Mi pare che il nostro principe abbia dei nemici davvero spietati, più simili a demoni che ad uomini.» «A dire il vero essi non sono veramente umani e neppure elfi» replicò Jill, poi rifletté per un momento e decise di lasciare che il gwerbret continuasse a supporre che il principe fosse il bersaglio effettivo del loro nemico. «Se riuscissero ad ucciderlo, per il suo clan sarebbe la fine perché lui è l'ultimo e unico erede vivente di uno dei sette troni dell'occidente, il che lo rende il solo erede di tutti e sette, per quello che ciò può valere.» «Il principe mi ha esposto la situazione» replicò Cadmar, con un fugace e dolente sorriso. «A quanto mi ha detto, il suo è un regno popolato da erbacce, ortiche, pietre e animali selvatici, ma pare proprio che ci sia qualcuno a cui non dispiacerebbe avere diritto a dominare questo ammasso di desolazione e di rovina, giusto?» «A me sembra che sia così. Gli antenati dei Gel da'Thae hanno distrutto il regno degli elfi in un momento imprecisato e remoto del passato, e stando a quanto mi ha detto Meer occupano ancora ciò che resta di esso, quindi non mi stupirebbe scoprire che uno dei loro signori sta cercando di legittimizzare le proprie rivendicazioni. È una cosa che è già successa spesso in passato.»
«Sono dunque abbastanza umani da volere che il loro diritto d'occupazione si fondi su solide basi, senza che ci sia in giro un re che generi eredi effettivi al trono. Una storia davvero comune. Mi chiedo se ci sia fra i Gel da'Thae una fazione che stia cercando di spodestare questo loro sovrano, magari minacciando di riportare al potere l'antica dinastia regnante.» «Anche questa è una cosa che è già accaduta spesso in passato. Meer però è dannatamente restio a parlare con me, e per quanto non possa biasimarlo per questo la sua reticenza mi costringe ad operare sulla base di informazioni incomplete. Mi sento comunque di affermare che siamo in una situazione pericolosa.» «Senza dubbio hai il dono di minimizzare le cose, Jill» commentò il gwerbret. «Da quanto mi hai riferito, credo si possa dire che siamo in guerra, considerato che il principe e la sua gente mi hanno fatto molti favori in passato e che fra noi esiste una sorta di trattato. Per essere onesto, devo ammettere che i miei uomini andrebbero a combattere a piedi se il Popolo dell'Ovest non ci fornisse i cavalli che noi non possiamo allevare su queste colline rocciose... e poi questi razziatori hanno recato gravi danni anche a me e alla mia gente. Adesso credo che andrò a scambiare due chiacchiere con il mio ciambellano e il mio capitano» aggiunse, alzandosi in piedi imitato da Jill, «per vedere in che condizioni siamo quanto a provviste, uomini, cavalli di scorta e altre cose del genere.» Jill si congedò da lui con un inchino e si diresse verso la porta posteriore della grande sala, raggiungendola nel momento in cui Rhodry ne oltrepassava la soglia proveniente dall'esterno... e nel vedere la sua sagoma che si stagliava sullo sfondo della luce diurna lei sentì un gelido avvertimento del dweomer che le serrava il cuore e la faceva ghiacciare in modo così assoluto da strapparle un brivido e un'imprecazione. Durante tutta la sua vita Rhodry era stato contrassegnato da uno strano Wyrd, anche se nessuno era stato in grado di decifrare tutti i presagi ad esso connessi, neppure il suo antico maestro e insegnante Nevyn, che era stato il più grande operatore del dweomer di tutta la storia di Deverry... e in quel momento lei vide il Wyrd di Rhodry librarsi sulla sua testa come se avesse avuto le ali, e pur non sapendo cosa esso gli avrebbe portato comprese con assoluta certezza che quel Wyrd avrebbe significato la morte di tutto ciò che lui era stato o aveva mai sperato di essere. Prima di riuscire a trattenersi si lasciò sfuggire un grido angosciato a cui reagì premendosi entrambe le mani sulla bocca, mentre Rhodry scoppiava a ridere nel venirle incontro.
«Cosa c'è che non va?» domandò. «Sono soltanto io.» «In questi giorni ho avuto la mente troppo pervasa dal dweomer» replicò Jill, riabbassando le mani. «Perdonami, Rhoddo... mi hai spaventata, ecco tutto.» Lui sorrise, dondolandosi leggermente sui piedi e guardandosi fugacemente intorno con la cautela di un animale selvatico sebbene si trovasse al sicuro nella grande sala del suo attuale signore, e per un momento Jill riuscì a ricordare cosa aveva provato quando era innamorata di lui, tanti armi prima. «Perdonami» ripeté. «Sono così stanca da esserne sconvolta. In effetti ho bisogno di parlare con te, ma è una cosa che può essere rimandata a più tardi.» «Non ti starai ammalando di nuovo, vero?» domandò Rhodry, assumendo un'espressione allarmata e protendendo la mano verso di lei in un gesto istintivo. «No, sto bene» replicò Jill, laconica, poi lo aggirò e fuggì all'esterno, ansiosa di respirare l'aria fresca del cortile e di allontanarsi da Rhodry prima di commettere l'orribile errore di dirgli ciò che aveva appena visto, in quanto era meglio che alcuni presagi rimanessero sconosciuti; per tutto il pomeriggio si sorprese però a pensare a lui nei momenti più impensati, mentre cercava di portare avanti il suo lavoro magico nella torre. Tutti gli uomini muoiono, ricordò a se stessa. Rhodry ha corteggiato la morte per anni, sia come daga d'argento che come nobile di Aberwyn, e adesso sta portando avanti con insistenza questo suo corteggiamento giorno e notte, con quei discorsi relativi alla sua Signora Morte e all'amore che nutre per lei. E sta invecchiando, tutti e due stiamo diventando vecchi, quindi senza dubbio il presagio si riferiva a questo. Quando le ombre del crepuscolo cominciarono a gravare sulla fortezza lei scoprì però di non poter tollerare di restare sola nella sua camera, come faceva abitualmente, e scese nella grande sala dove si scelse un posto vicino alla curva del muro, affinché nessuno notasse la sua presenza. Quella sera Meer decise di esibirsi... la prima volta che qualcuno di Deverry avesse modo di sentire un bardo dei Gel da'Thae... e sotto la luce tremolante delle torce prese posto accanto al focolare intagliato a forma di drago, mettendosi a cantare. Per l'occasione il bardo aveva indossato una tunica di cuoio dipinta con strani disegni... forme tipiche dell'alfabeto elfico ma stranamente distorte e disposte a casaccio, intrecciate con bande di fiori e di viticci che erano senza dubbio stati copiati da qualche decorazione elfi-
ca... e si era anche lavato la voluminosa criniera, intrecciando di nuovo in essa svariati amuleti che adesso brillavano e scintillavano sotto la luce ad ogni suo movimento. Mentre cantava, Meer scandiva il tempo battendo con una mano enorme su un piccolo tamburo, e il bardo locale gli forniva un accompagnamento con la sua arpa. Per quanto quella musica fosse a dir poco strana, ogni persona presente nella sala rimase ad ascoltare con espressione rapita, consapevole che quello a cui stava assistendo era un evento d'importanza incalcolabile. Nel seguire il ritmo altalenante della musica, i suoi toni lamentosi e tremuli, Jill si trovò costretta a lottare contro il pianto nel percepire l'eterna tristezza della vita che tutti gli esseri senzienti, sia che fossero Fratelli dei Cavalli, elfi o umani, dovevano condividere sulla terra. TRE PUELLA (FANCIULLA) Una figura fortunata, soprattutto quando si presenta nella Casa dell'Oro e nella Casa dell'Acciaio, e tuttavia la natura delle cose femminili è tale che questa figura mina tutte quelle che la circondano e ne distorce il significato. Qualora dovesse cadere nella Casa del Piombo indicherà un pesante logoramento e una malattia che prevarrà sui forti. Dal Libro dei Presagi di Gwarn, Maestro del Sapere La sala delle donne occupava tutto il secondo piano della rocca principale, con la sola eccezione del piccolo pianerottolo intorno alla scala a chiocciola, ed era in quest'ampia camera che la Principessa Carramaena trascorreva le sue giornate insieme alla moglie del gwerbret, Lady Labanna, e delle sue due dame di compagnia, mentre suo marito era impegnato a cacciare e ad occuparsi di altri importanti affari maschili. Dal momento che prima di sposarsi era stata soltanto la figlia terzogenita di un nobile molto povero della zona meridionale di Pyrdon, in passato Carra non aveva mai avuto il lusso di godere di un'intera sala a sua disposizione, arredata con panche dotate di cuscini e piccoli tavoli su cui erano disposti svariati oggetti d'argento, e con le pareti coperte di arazzi e il pavimento nascosto da canne intrecciate di fresco; poiché la sala si trovava in alto rispetto al corti-
le, l'aria aveva inoltre un profumo fresco e pulito, al contrario dell'atmosfera della grande sala che era un covo fumoso pieno di uomini che odoravano di cavallo e di sudore. Inoltre Carra non aveva mai avuto tanta compagnia o tanti divertimenti. Nelle occasioni in cui il gwerbret o il principe erano presenti nella sala delle donne... dove entrambi potevano accedere soltanto con il permesso della moglie... anche un bardo poteva entrare con loro per cantare o per narrare delle storie nella forma nota come "conversazione", mentre quando le donne erano sole Labanna si dedicava al proprio lavoro, in quanto doveva amministrare l'intera fortezza con tutti i problemi derivanti dalla gestione dei servitori e delle provviste. Le altre donne... e la stessa Labanna, quando ne aveva il tempo... erano poi perpetuamente impegnate a cucire, dal momento che ogni capo di vestiario indossato da ogni singolo abitante della fortezza era prodotto da loro, e poiché aveva sempre amato cucire Carra era più che lieta di addossarsi una porzione di quel lavoro, godendo dell'assortimento di splendide stoffe e della varietà di fili colorati che per lei costituiva un altro lusso del tutto nuovo. Carra era giunta a Cengarn appena poche settimane prima, dopo essere fuggita da casa per sottrarsi al matrimonio organizzato per lei da suo fratello con un nobile ricco ma vecchio e brutto, e per non dover rivelare di aspettare un figlio dal principe elfico di cui era innamorata. Poiché il viaggio era stato tutt'altro che facile, lei era arrivata alla fortezza completamente spossata e in un primo tempo sedere al sole e godere delle attenzioni delle altre donne le era parso un lusso già più che sufficiente; a mano a mano che aveva ritrovato le forze, però, aveva cominciato a rendersi conto della misura in cui il matrimonio da lei contratto aveva cambiato la sua vita. All'epoca in cui viveva nella fortezza di suo fratello, per il quale era soltanto un'inutile sorella terzogenita di cui la morte del padre lo costringeva a prendersi cura, Carra aveva avuto una molto maggiore libertà di circolare da sola e di indulgere nei propri capricci, mentre adesso ogni volta che annunciava di aver intenzione di scendere a fare due passi nel cortile Labanna si affrettava a convocare alcuni paggi perché la scortassero, e quando decideva di uscire dalla fortezza questo scatenava vaste consultazioni in seguito alle quali il capo scudiero o il ciambellano, se non addirittura entrambi, la scortavano insieme a parecchi membri della banda di guerra di suo marito. Se capitava che Labanna avesse degli ordini da impartire a qualcuno nella fortezza, per esempio al cuoco nella capanna adibita a cuci-
na, allora Carra era libera di andare con lei, ma entrambe non erano mai sole e ogni loro spostamento era seguito da una folla di paggi, di servitori semplici e di altri appartenenti alla nobiltà. «Ero abituata ad uscire a cavallo» commentò un giorno. «Andavo da sola, sapete, o magari prendevo con me un paio di cani e facevo un giro per le terre di mio fratello. E non mi è mai successo nulla di spiacevole... davvero!» Le tre donne più anziane si limitarono a sorridere, inducendola a chiedersi se avesse effettivamente parlato ad alta voce o meno. «Presto la mia gravidanza sarà così avanzata che non potrò più cavalcare» proseguì, «ed è per questo che mi piacerebbe uscire a cavallo adesso che posso ancora farlo.» «Mia cara bambina» replicò infine Labanna, «adesso non sei più la figlia minore di un nobile sconosciuto ma sei una donna sposata e una principessa. Presto partirai alla volta delle terre di tuo marito, e questo viaggio sarà la massima avventura che puoi aspettarti per il futuro.» «Il che mi porta a chiedermi se sia saggio permettere alla principessa di compiere un simile viaggio nel suo stato» intervenne Ocradda, la più anziana delle due dame di compagnia e la principale confidente che Labanna avesse nella fortezza. «Mi sento bene» ribatte Carra, «e sono giunta fin qui a cavallo, giusto?» «Una valida osservazione, Occa» convenne Labanna, come se di nuovo Carra non avesse parlato, «però temo che il suo posto sia presso il popolo di suo marito e che quando lui partirà lo dovrà accompagnare.» Nell'ascoltarla, Carra rifletté che detestava sentir parlare di quale fosse il suo "posto", perché la faceva sentire come un piatto o un boccale di pregio riposto al sicuro su uno scaffale dove nessuno lo potesse danneggiare... uno stato d'animo che non veniva certo migliorato dall'atteggiamento di suo marito. Ogni sera Dar si presentava alla porta della sala per scortarla a cena, e naturalmente trascorreva le notti nella camera che era stata loro assegnata, ma per il resto sembrava intenzionato a lasciarla il più possibile sola. Naturalmente Carra era consapevole che spesso lui e i suoi uomini uscivano a caccia per ripagare l'ospitalità del gwerbret, in quanto in quella zona tanto aspra buona parte della carne consumata a tavola era cacciagione, ma c'erano altre volte in cui le pareva che Dar si limitasse ad oziare con i suoi uomini invece di stare con lei; quando però provò a farglielo notare Dar si
mostrò perplesso e replicò dicendo che era consapevole che lei aveva la sua vita di donna da vivere e che non voleva esserle d'impiccio. Carra si era ben guardata dal lamentarsi di questo stato di cose con Labanna, che vedeva lei stessa di rado suo marito... d'altro canto, il loro era un matrimonio organizzato dai rispettivi clan secondo le usanze di Deverry, mentre Dar affermava di averla sposata per amore e tuttavia si comportava in modo tale da darle l'impressione di essersi lasciata alle spalle la parte migliore della sua vita, anche se aveva appena sedici anni. Le lunghe giornate trascorse a preoccuparsi di un possibile ritorno dei razziatori stranieri stavano intanto logorando i nervi di tutti, perché anche le donne avevano sentito parlare di come quei razziatori avessero bruciato fattorie, sterminato intere famiglie e massacrato donne incinte, ed erano consapevoli della perdurante minaccia che quella banda fosse stata soltanto l'avanguardia di un esercito nemico. La tensione andò crescendo fino a quando un pomeriggio particolarmente afoso le donne si trovarono a litigare senza un effettivo motivo, e Labanna si decise infine a prendere in mano le redini della situazione. «Ritengo che sarebbe meglio per tutti se progettassimo una festa o un intrattenimento di qualche tipo» dichiarò. «Credo che farò meglio a scendere a consultarmi con mio marito, considerato che quest'attesa deve essere logorante anche per i suoi uomini. Il morale, mia cara» aggiunse, guardando verso Carra come per indicare che le stava impartendo una piccola lezione, «è una cosa molto importante in una regione di confine come questa.» «Lo ricorderò, mia signora. Se stai scendendo nella grande sala, posso venire con te?» «Certamente, cara. Chiama le altre, così andremo tutte insieme.» Circondata da una folla di donne Carra si recò quindi nella grande sala, che trovò piena delle diverse bande di guerra intente a bere con espressione cupa e stanca; nel vedere il Principe Daralanteriel seduto alla tavola d'onore insieme agli altri nobili, Carra accennò a correre da lui, ma Labanna la trattenne per un braccio con fare materno. «Gli uomini stanno discutendo di approvvigionamenti e di altre cose importanti, mia cara, quindi prenderemo posto al secondo tavolo che comunque è in posizione più arieggiata.» Carra fu così costretta a sedere alla destra della dama e a guardare suo marito da una distanza di circa tre metri. Dar era un uomo che spiccava per la sua avvenenza anche fra i membri del suo stesso popolo, con i capelli nerissimi e i chiari occhi grigi dalla pupilla verticale color lavanda, ma ciò
che aveva catturato il cuore di Carra non era stato il suo aspetto bensì il fatto che lui fosse sempre stato così gentile nei suoi confronti quando lei conduceva un'esistenza infelice nella fortezza di suo fratello. Adesso però Dar sembrava non accorgersi quasi della sua presenza, e per quanto si ripetesse che si stava comportando in modo sciocco ed egoista, Carra non poteva evitare di ricordare che per amor suo si era lasciata alle spalle tutto ciò che conosceva, la sua famiglia, il suo clan, gli amici che si era creata nell'arco di una vita e le terre ancestrali della sua famiglia, e che presto avrebbe addirittura lasciato il regno in cui era nata e il suo stesso popolo. Quando queste riflessioni la indussero a domandarsi se per caso non aveva commesso un errore, il cuore prese a martellarle nel petto per il panico. Finalmente Labanna riuscì ad attirare l'attenzione del marito e venne invitata a unirsi al gwerbret, per poi tornare indietro di lì a poco insieme ad alcuni servitori di nobile nascita con i quali procedette a discutere i progetti per un banchetto abbinato ad un torneo di spada. Intorno a loro la grande sala era piena di uomini che andavano e venivano, di servi che si precipitavano di qua e di là nel tentativo di garantire che tutti avessero il boccale pieno, di cani che abbaiavano e litigavano fra loro, e nel sentirsi sopraffare da tutto quel chiasso e dal calore crescente Carra cominciò ad essere assalita dalla nausea. «Sei pallida, mia cara» osservò Ocradda, protendendosi a sfiorarle una mano. «Lascia che convochi un paggio che ti scorti di sopra. Credo che un sonnellino ti farebbe bene.» «Penso che tu abbia ragione, mia signora» replicò Carra. «Ti ringrazio.» Non appena fu nella sua stanza fresca e si fu sdraiata sul letto, lei però si sentì di nuovo bene e dopo aver cercato per qualche momento di prendere sonno si alzò e si accostò alla finestra, da cui vide una quantità di persone che andavano e venivano per il cortile con aria affaccendata, segno che probabilmente Labanna aveva già messo in moto i preparativi per il banchetto, un evento che avrebbe richiesto giorni di pianificazione e di elaborazione. Nel contemplare tanta confusione si trovò a pensare che in quel momento avrebbe potuto scendere a passeggiare nel cortile senza essere notata... poi si ricordò degli abiti da ragazzo che aveva avuto indosso quando aveva abbandonato la sua famiglia per andare a cercare Daralanteriel e rifletté che se li avesse indossati sarebbe forse riuscita ad arrivare non vista alle stalle e a prendere il suo cavallo. Prima di sposarsi era stata solita sellarlo da sé, e di certo la sua gravidanza non era ancora avanzata al punto da impedirle di farlo di nuovo.
Il suo piano funzionò. Vestita come un paggio trasandato, con i capelli nascosti sotto un cappello di cuoio di stile elfico, parve essere diventata del tutto invisibile mentre si dirigeva verso le stalle, dove il suo Corsiero Occidentale, un castrato di nome Gwerlas, risultò essere sistemato proprio in fondo alla fila di stallaggi. Dopo averlo sellato senza che nessuno la vedesse, dovette però affrontare il problema di uscire dalla fortezza senza dare nell'occhio: seguendo un percorso tortuoso fra gli edifici si avvicinò alle porte con il cavallo e attese al riparo di una catasta di legna da ardere fino a quando le due guardie cominciarono a chiacchierare con un gruppetto di serve, poi montò in sella e si avviò al trotto oltre le porte, con lo sguardo fisso davanti a sé come se avesse avuto ogni diritto di passare. Nessuna delle due guardie accennò a fermarla e dopo essersi addentrata di qualche centinaio di metri nelle strade di Cengarn lei smontò di sella perché in quel labirinto di vie strette e ingombre di cittadini intenti ai loro affari era più facile condurre a mano un cavallo che tentare di montarlo; dirigendosi sempre verso valle nella misura in cui le vie sinuose glielo permettevano arrivò infine alla Porta Meridionale, dove ebbe un inatteso colpo di fortuna in quanto un carro carico di rape si era appena rovesciato a circa sei metri dalle porte, sul lato interno, con il risultato che adesso il carrettiere, alcuni cittadini e le guardie erano tutti raccolti intorno al veicolo e stavano discutendo in tono tutt'altro che pacato sul modo migliore per raddrizzarlo. Montata in sella, Carra incitò Gwerlas al trotto e passò oltre prima che chiunque si potesse accorgere di un ragazzo in sella ad un Corsiero Occidentale. Non appena fu abbastanza lontana, spinse quindi Gwer al galoppo e lo diresse lontano dalla strada e verso ovest, cavalcando sotto il caldo sole estivo senza avere una meta precisa e canticchiando per il piacere di essere infine all'aperto. A causa della calura e del fatto che Gwer era rimasto privo di esercizio troppo a lungo, ben presto fu costretta a rallentare al passo, gironzolando per i pascoli che si allargavano intorno a Cengarn fino a portarsi sul lato occidentale della città, dove si fermò per far riposare il cavallo e per contemplare le alture coronate dall'impressionante struttura della fortezza, prima di dirigersi verso una macchia di alberi che circondava un ruscelletto; smontata di sella permise a Gwer di bere, aspettando al suo fianco che avesse finito e contemplando intanto i giochi di luci ed ombre che il sole creava sull'acqua: per qualche momento almeno aveva cessato di essere una principessa e una donna sposata, e in realtà questo era tutto ciò che in effetti voleva... qualche momento di respiro e di solitudine.
«Non ho ancora voglia di rientrare» commentò, rivolta al cavallo. «So che è sciocco da parte mia, ma mi sembra meraviglioso tornare per qualche momento ad essere soltanto me stessa... e poi è stato un bello scherzo, sgusciare via in quel modo senza che nessuno se ne accorgesse.» Gwer sbuffò, facendo cadere dal muso qualche goccia d'acqua. «Avremmo dovuto portare con noi anche Lampo, perché uscire dalla fortezza gli avrebbe fatto piacere...» riprese Carra, e all'improvviso si sentì assalire dallo sgomento al pensiero che non appena si fossero accorti della sua scomparsa alla fortezza si sarebbero serviti di Lampo per farsi condurre direttamente da lei, un particolare a cui non aveva pensato quando era stata tanto trascurata da non portare con sé il cane. A meno che... ricordando ciò che facevano gli eroi dei racconti dei bardi, quando erano braccati dal marito della loro amata o da qualche altro nemico, s'inginocchiò a toccare l'acqua, verificando che non era tanto fredda da poter recare danno alle gambe del cavallo. «Potrebbe funzionare, Gwer. Guarda, il ruscello è poco profondo ed ha un fondale sabbioso che non ti farà scivolare» disse ancora al cavallo. Rimontata in sella lo spinse quindi nell'acqua e lo costrinse a risalire la corrente, diretto approssimativamente verso nord. In questo modo il loro passaggio venne nascosto dagli alberi che crescevano lungo le rive e impedivano che qualcuno dei mandriani delle fattorie vicine si accorgesse di loro mentre procedevano a guado senza lasciare una traccia che un cane potesse seguire a fiuto. Rhodry era seduto sul lato della grande sala riservata ai cavalieri, intento a bere in compagnia di Yraen, quando il Principe Daralanteriel entrò a precipizio nella sala proveniente dal cortile e in preda al panico oltrepassò la tavola d'onore senza neppure guardare in direzione del gwerbret, facendosi largo fra la folla per andare ad arrestarsi accanto a Rhodry. «Carra è scomparsa!» esclamò in lingua elfica. «L'ho cercata dappertutto: il suo cane è ancora qui ma il cavallo non è più nelle stalle.» Tutti gli uomini abbastanza vicini da sentire quella sfilza di parole sconosciute si girarono di scatto per la curiosità, mentre Rhodry si alzava in piedi imprecando in due lingue diverse. «Avverti il gwerbret! Raduneremo ogni uomo presente nella fortezza perché passi al setaccio la campagna alla sua ricerca. Per il Sole Oscuro, Altezza, chi può sapere cosa ci sia in agguato là fuori, in attesa dell'occasione per aggredire Carra?»
Dar emise un gemito nel profondo della gola, poi si girò e si diresse di corsa verso i perplessi nobili, che si erano alzati in piedi in reazione al suo comportamento così poco ortodosso. Accorgendosi che i presenti si stavano scambiandosi sussurri perplessi, Rhodry si affrettò a tradurre le parole di Dar a beneficio degli altri cavalieri, poi si girò per impartire un ordine ad Yraen ma si arrestò a metà del gesto nel notare l'improvviso pallore del suo compagno. «Sai qualcosa di questa faccenda?» gli chiese, in tono secco. «Cosa? No, niente... che intendi dire?» ribatté Yraen, alzandosi pesantemente in piedi. «Sono soltanto... ecco... sono preoccupato, ecco tutto.» Terrorizzato sarebbe stata una definizione più adeguata, tanto che per un momento Rhodry prese in considerazione l'idea assurda che Yraen potesse essere un traditore... prima di rendersi conto di quale fosse la spiegazione più ovvia del suo comportamento. «Per gli dèi» sibilò. «Proprio la donna giusta di cui innamorarsi! Non avresti potuto sceglierne una maggiormente fuori della tua portata.» Yraen reagì con un'imprecazione e un colpo alle costole così forte da essere doloroso, che Rhodry incassò con una risata che badò a tenere sommessa per evitare che gli altri li potessero sentire. «Adesso non abbiamo il tempo di discutere di queste cose» disse. «Va' a sellare i nostri cavalli, d'accordo? Io ho intenzione di restare sempre vicino a Lord Matyc e vorrei che tu facessi lo stesso.» Lui e Yraen finirono comunque per venire separati per il semplice fatto che nessuno, neppure gli dèi stessi, avrebbe potuto organizzare una squadra di ricerca di oltre duecento uomini senza creare una certa confusione. Rhodry ebbe peraltro il sospetto che Yraen si stesse tenendo alla larga per evitare domande imbarazzanti, e nel ricordare a se stesso che tormentare un uomo come Yraen a proposito di un amore senza speranza poteva essere non solo crudele ma anche pericoloso, si impose di dimenticare ciò che aveva scoperto. Allorché le squadre di ricerca lasciarono la città si limitò poi ad unirsi agli uomini di Lord Matyc senza aspettare che qualcuno gli dicesse cosa fare, deciso ad essere abbastanza vicino al nobile da poterlo bloccare qualora avesse tentato di sfruttare quest'occasione per provocare un incidente di qualche tipo a spese della principessa. Anche se a volte si mostrava cocciuta, Carramaena non era comunque una stupida e nel seguire un percorso a prova d'inseguimento dal ruscello
ad un bosco ad un tratto di terreno roccioso e di nuovo al ruscello badò di tenersi sempre in vista delle torri della città e abbastanza vicina ad esse da poter galoppare al sicuro in caso di necessità. Con la sua ascendenza, Gwerlas si sarebbe infatti lasciato senza dubbio alle spalle la maggior parte dei cavalli di quella provincia, e per essere certa che fosse al massimo delle sue capacità lei lo fece riposare spesso. I primi squilli di corno da caccia le giunsero all'orecchio mentre si trovava ad est di Cengarn e stava percorrendo uno stretto viottolo che si snodava fra due campi coltivati: sollevandosi sulle staffe, lei piegò il capo da un lato per ascoltare nel momento stesso in cui il suono si ripeteva... una quantità di corni che levavano i loro squilli dalla direzione in cui si trovava la fortezza... e per un momento si chiese come mai gli uomini stessero uscendo a caccia quando il pomeriggio era ormai così avanzato. Poi si rese conto che Dar doveva aver chiamato a raccolta le bande di guerra perché la cercassero e il piacere che aveva provato per il suo scherzo parve dissolversi all'improvviso. «Adesso saranno tutti furenti nei miei confronti» borbottò, e Gwerlas sbuffò in segno di assenso, scuotendo la testa. Riflettendo, Carra si rese conto che se fosse riuscita a passare inosservata abbastanza a lungo avrebbe potuto aggirare le squadre mandate a cercarla e rientrare senza essere notata, per poi fingere di non essersi mai assentata e di essersi magari addormentata in uno dei giardini, dove Dar non aveva pensato a cercarla. Decidendo che valeva la pena di tentare s'incamminò nella direzione da cui era giunta e ripercorse lo stesso tragitto tortuoso, da una stalla per le mucche ad un ruscello, da esso ad un boschetto e ad una polla, descrivendo un percorso a spirale che la portò sempre più vicina alla città... e anche se durante quel tempo sentì ancora il suono dei corni da caccia e a volte scorse perfino pattuglie di cavalieri che passavano al galoppo ad una grande distanza, nessuno le si avvicinò abbastanza da intercettarla. Giunta in vista delle porte meridionali si sollevò sulle staffe e si arrestò a scrutare la città fortificata che s'inerpicava su per i pendii collinari e pareva incombere su di lei; da dove si trovava poteva scorgere le minuscole sagome delle guardie che si spostavano avanti e indietro, e alla fine decise che le porte orientali le avrebbero offerto le maggiori probabilità di rientrare senza essere vista, per il semplice fatto che erano vecchie e strette e si affacciavano su un sentiero poco usato che serviva soltanto ai mandriani e ai contadini che venivano al mercato per vendere i loro prodotti. In effetti
quando si avvicinò alla città da est non scorse vicino alle porte né guardie né sfaccendati in ozio. «Bene» commentò, rivolta al cavallo. «La parte più difficile sarà però oltrepassare le porte della fortezza. Bene, ci penseremo quando verrà il momento.» Smontata di sella, s'incamminò conducendo Gwerlas a mano. Le mura in quel punto erano spesse almeno tre metri e la "porta" era una sorta di galleria alla cui estremità c'erano due robusti battenti di legno di quercia rinforzato in ferro, ora semiaperti, al di là dei quali erano visibili grossi mucchi di massi, accatastati lì perché potessero essere usati per bloccare il passaggio nel caso di un attacco. Superate le porte, si stava per incamminare lungo la strada polverosa quando un uomo le bloccò il passo e l'afferrò per un braccio, strappandole un urlo di paura prima che lei si rendesse conto che la figura ringhiante che la stava trattenendo apparteneva ad Yraen. «Come supponevo» scattò questi. «Ho immaginato che se eri stata abbastanza astuta da riuscire ad uscire lo saresti stata anche abbastanza da rientrare di soppiatto per poi fingere che non fosse successo nulla.» «Lasciami andare! Adesso sono una principessa, e tu dovresti comportarti con umiltà nei miei confronti!» «Ti rendi conto dello spavento che hai procurato a tutti noi? Per gli dèi! Avresti potuto essere uccisa, uscendo così a cavallo del tutto sola» inveì Yraen, assestandole uno scossone al braccio. «Ho provveduto a non correre rischi.» «Hah! Ma se non hai alla cintura neppure una daga da tavola! E quando alla fortezza non si parla di altro che di un mutaforme capace di volare e di spiriti malvagi che si anniderebbero dietro ogni cespuglio! Sei forse impazzita?» «Volevo soltanto restare sola per un po' di tempo. Tu non sai cosa significhi rimanere rinchiusa come una giumenta di razza, non potendo mai fare nulla senza essere tallonata da metà della corte.» «A dire il vero so cosa significhi» replicò Yraen. lasciandola andare. «Per gli dèi, Carra... voglio dire principessa... Vostra Altezza... hai ragione e ti chiedo scusa: ho dimenticato di stare al mio posto.» «A dire il vero è difficile ricordarsi di essere formali quando abbiamo rischiato la vita insieme.» «Infatti» annuì Yraen, guardando altrove con aria distratta. «Avanti, monta in sella ed io condurrò a mano il tuo cavallo fino alla rocca.» «Ti ringrazio, ma posso camminare.»
«Per gli dèi, adesso non fare l'altezzosa e monta su questo dannato cavallo prima che ti metta in sella di peso.» «Provaci» ritorse Carra, piantandosi le mani sui fianchi. Per un momento si fissarono a vicenda con occhi roventi, poi Yraen si arrese. «Non credo che a tuo marito farebbe piacere se ti mettessi le mani addosso, quindi cammina pure, se ti fa piacere» ringhiò, poi girò sui tacchi e si avviò a grandi passi verso la fortezza mentre Carra si affrettava a prendere Gwer per le redini e a seguirlo, badando a non perdere di vista la sua ampia schiena mentre lui sceglieva un percorso che si snodava fra le case rotonde e i vicoli sinuosi deviando di qua e di là ma salendo sempre verso la cima della collina. «Yraen, vuoi smetterla di tenere il broncio?» chiamò infine Carra, non sopportando più quel silenzio. «Mi dispiace.» Lui si fermò e le permise infine di raggiungerlo. «Dopo averti scortata fino alla rocca sarà meglio che vada a cercare gli altri per avvertirli che sei al sicuro» disse. «In effetti è una buona idea. Se vuoi, posso tornare indietro da sola... dopo tutto ho trovato da me la via per lasciare la città, giusto?» suggerì Carra, con un sorriso. Per un momento Yraen continuò a rimanere inespressivo, poi si concesse a poco a poco di sorridere a sua volta, sia pure con riluttanza. «Ti accompagnerò alla rocca, dato che mi devo comunque procurare un cavallo fresco» replicò. «Secondo l'etichetta dovrei essere io a guidare Gwer per te.» Nel parlare protese la mano e infine Carra gli cedette le redini, riprendendo poi il cammino al suo fianco. Yraen costituiva per lei un'incognita, perché anche se era un uomo attraente era al tempo stesso freddo e duro come una lama d'acciaio, sorrideva di rado, non rideva mai e pareva sempre sul punto di cedere ad un'ira violenta; perfino Rhodry, nonostante le sue crisi berserker, appariva più umano e pieno di calore di quanto facesse Yraen, il cui prolungato silenzio cominciò ora a darle sui nervi. «Sono sorpresa che tu abbia capito dove venire a cercarmi» osservò, infine. «Sapevo soltanto quanto puoi essere abile a sgusciare di qua e di là, ecco tutto. Mi sono chiesto cosa avrei fatto se avessi voluto rientrare nella fortezza senza essere visto ed ho atteso vicino alla porta orientale, perché era quella che io avrei scelto. E alla fine ti ho vista arrivare, come previsto.»
«Quindi sarei una che sa sgusciare di qua e di là, vero? La cosa mi piace.» «Non ho dimenticato l'astuzia con cui hai progettato la fuga da tuo fratello, e non ho ancora capito come hai fatto a indurre Rhodry a scortarti durante il viaggio fino a qui, quando ci hai incontrati sulla strada.» «A dire il vero non lo so neppure io. Lui è apparso così strano, quella notte in quella miserabile tavernetta dove vi ho incontrati: ha continuato a parlare della sua signora Morte e di come io portassi con me la sua morte, spaventandomi terribilmente.» «Non te la prendere. L'ho sempre sentito parlare in quel modo da quando lo conosco» replicò Yraen, in tono irritato. «Non so perché continuo a cavalcare con Rhodry, non lo so davvero, però finisco per restare con lui anche quando mi capita l'occasione di imboccare una strada diversa.» «Suppongo che per le daghe d'argento sia più sicuro viaggiare in coppia che da sole. Mi riferisco ai pericoli che si corrono sulla strada e ad altre cose del genere.» «Questo è vero, naturalmente.» Mentre parlavano erano arrivati sulla sommità della collina del mercato, la seconda per altezza in Cengarn, la cui vetta era costituita da un vasto spiazzo in parte erboso e in parte coperto di acciottolato dove durante ogni luna piena di primavera e d'estate si teneva una fiera cittadina, anche se il vero scopo di quello spiazzo era fornire pascolo per il bestiame nel corso di un assedio. Da quel punto era possibile contemplare la fortezza che si levava scura e cupa sulla collina successiva, torreggiando su tutto ciò che la circondava. «Oh, detesto l'idea di tornare indietro!» esclamò Carra, con un sospiro melodrammatico. «Yraen, non potrei fuggire con te e diventare una daga d'argento?» Accennò quindi a ridere della propria battuta ma s'interruppe nel vedere l'espressione apparsa sul volto del guerriero, il cui cuore per un momento risultò aperto e decifrabile come un cielo notturno, permettendole di scorgere ogni costellazione di desiderio e di dolore e di frustrazione presente in esso. Poi lui le volse le spalle con uno sbuffo disgustato. «Come se una ragazza minuta come te potesse mai imparare a maneggiare una spada!» scattò. «E poi, c'è da prendere in considerazione il piccolo problema costituito dal tuo bambino.» «Oh, lo so» replicò lei, riuscendo a stento a parlare e cercando disperatamente qualche battuta con cui nascondere la propria involontaria crudeltà
di un momento prima senza però trovare nulla di adeguato. «Inoltre ho già il mio posto nella vita e obblighi da rispettare» disse infine. «Yraen, mi dispiace.» Lui si limitò a scrollare le spalle, lasciando vagare lo sguardo sulla fortezza, da cui erano separati da una piccola valle. Per qualche momento rimasero fermi uno accanto all'altra, avvolti nell'infelicità di una verità messa a nudo: pur sapendo di essere graziosa, Carra era cresciuta con la consapevolezza che nel suo mondo la bellezza contava meno della posizione sociale e di una buona dote e non aveva quindi mai pensato a se stessa come ad una donna che gli uomini della sua razza potessero trovare desiderabile... per cui adesso scoprire che Yraen si era innamorato di lei le stava riuscendo del tutto inatteso e destava nel suo animo più timore che soddisfazione. «Sono stanca» disse infine. «Per favore, puoi fermarti per permettermi di montare su Gwer? Avevi ragione tu, giù vicino alle porte.» Yraen reagì con un fugace sorriso e trattenne il cavallo per le briglie finché non fu salita in sella, poi entrambi ripresero il cammino senza più scambiarsi una parola per tutto il resto del tragitto fino alla fortezza. Carra aveva sperato di riuscire in qualche modo ad evitare le donne che di certo la stavano aspettando, ma per quel giorno la sua fortuna sembrava essersi esaurita: non appena lei e Yraen oltrepassarono le porte della fortezza le guardie gridarono il suo nome e subito Labanna si precipitò nel cortile insieme alle sue dame e a Jill mentre Carra smontava di sella e si preparava a ricevere il rimprovero più monumentale della sua vita. «Mia cara bambina! Ma cosa ti è saltato in mente!» cominciò subito Labanna. «Fra tutte le cose stupide e sventate...» «Un momento Vostra Grazia, per favore» intervenne Jill, venendo a porsi fra loro due. «Lascia a me questo compito.» Pur accigliandosi, Labanna rivolse alla maestra del dweomer una piccola riverenza e batté in ritirata insieme alle sue dame; Jill intanto posò con fermezza una mano sul braccio di Carra, che desiderò di poter svenire o addirittura morire sul posto, perché sapeva che non sarebbe mai riuscita a circuire Jill con un atteggiamento contrito e accattivante come si era invece preparata a fare con Labanna. «Vieni con me nella tua camera, Carra» disse intanto Jill. «È ora che noi due si faccia una piccola chiacchierata.» Lanciò quindi un'occhiata ad Yraen, che era ancora fermo poco lontano da loro e domandò: «Hai intenzione di andare a chiamare gli altri?»
«Sì. non appena mi sarò procurato un cavallo fresco e un corno da caccia.» «Bene. In tal caso quando lo avrai raggiunto avverti Dar di venire a parlare con me. Avanti, Carra, andiamo.» Sentendosi come un cane sul punto di essere frustato, Carra la seguì con passo riluttante su per la scala a spirale; una volta che furono nella sua stanza, con la porta chiusa alle loro spalle, Jill si appollaiò sul davanzale e le segnalò di sedersi sul letto, cosa che lei fece chiedendosi se avrebbe potuto fingere uno svenimento e giungendo alla conclusione che non sarebbe comunque riuscita ad ingannare Jill. Per un momento la maestra del dweomer la fissò con i suoi freddi occhi azzurri che parvero trapassarle l'anima, poi scoppiò all'improvviso in una sommessa e divertita risatina. «Ho sempre saputo che eri dotata di uno spirito deciso» commentò infine, continuando a sorridere. Carra non riuscì a fare altro che fissarla a bocca aperta, con un'espressione che intuì essere decisamente stupida e sconcertata. «Ascoltami, Carra» continuò intanto Jill. «Le cose saranno diverse, molto diverse, una volta che tu e Dar raggiungerete le pianure su cui vive il suo popolo. Laggiù la tua vita avrà un orizzonte molto più ampio di quanto possa averlo la vita di qualsiasi donna di Deverry, e anche se condurrai un'esistenza che ti apparirà decisamente strana alla luce dei nostri usi deverriani, di certo non ti troverai ad essere limitata nei movimenti. Fino ad allora dovrai però comportarti come una donna di Deverry... riesci a capirlo? Provo soltanto comprensione per te, ragazza, ma non possiamo fare altrimenti, e finché resterai in Deverry dovrai comportarti da dama di rango e da moglie ossequiosa. Pensi di farcela?» «Certamente. Non sono stata forse addestrata a questo per tutta la mia vita?» «Bene» approvò Jill, con un altro sorriso. «Ricorda però la mia promessa. Non so quando tu e Dar potrete tornare senza rischi presso il suo popolo, forse dovrete addirittura aspettare che il bambino sia nato, a seconda di come andranno alcune cose che... ecco, alcune cose che in parte concernono questioni di guerra. Questo non è un momento piacevole. Carra» concluse, alzandosi in piedi. «Non ti preoccupare comunque per Labanna e per le altre donne, perché dirò loro di averti rimproverata a dovere.» Uscì quindi dalla camera senza aggiungere una sola parola e lasciando Carra in preda ad una confusione assoluta e tuttavia stranamente rasserenata dall'idea della vita nuova ed eccitante che l'attendeva.
Dopo aver riposato per un po' si lavò e si cambiò d'abito prima di fare appello a tutto il suo coraggio e di scendere nella sala delle donne, dove però le altre dame l'accolsero con una quantità di premure, quasi a compensare i terribili rimproveri che Jill doveva averle rivolto. Per quanto divertita dalla cosa, Carra riuscì ad apparire abbastanza abbattuta e la cosa si concluse lì. Naturalmente le rimaneva ancora da affrontare suo marito, ma per quanto avesse temuto il momento del suo ritorno, Carra scoprì con sorpresa che la sua reazione fu notevolmente simile a quella di Jill... una risata e una certa dose di comprensione. Non appena furono soli lui la baciò più volte, poi la fece sedere su una sedia nella loro camera e prese a passeggiare nervosamente avanti e indietro; ormai era scesa la notte, e alla luce delle candele il suo volto finemente cesellato appariva più sottile che mai, evidenziato com'era dalle ombre che ne segnavano i contorni. «Perdonami, amore mio» disse infine. «Ho creduto che tu volessi essere lasciata in pace con le altre dame. Non è forse ciò che le donne di Deverry si aspettano dai loro uomini?» «Suppongo che sia vero per la maggior parte di esse. Dar, la tua gente deve essere molto diversa dalla mia.» «Immensamente diversa, amore mio, e ogni dio di entrambe le nostre tribù mi è testimone che vorrei poterti portare subito nelle nostre terre: sulle pianure erbose la vita è più pulita, fresca e onesta, noi non viviamo come fate voi, rinchiusi in tende di pietra come animali in un recinto, circondati da odori sgradevoli che permeano ogni cosa... per non parlare del fatto che qui tutti continuano a tramare e a complottare per cercare di indurre il gwerbret a preferirli agli altri nobili. A volte vorrei vomitare, mentre me ne sto seduto accanto a Matyc e a Gwinardd e li guardo duellare verbalmente per conquistarsi una maggiore dose di favore del loro signore.» Carra rimase a tal punto sconvolta da tanta veemenza che non seppe cosa dire, e nel notare il suo silenzio Dar le si inginocchiò accanto, prendendole una mano nelle proprie. «Perdonami, non intendevo insultare la tua gente» si scusò. «Non sono offesa, sono soltanto sorpresa. Non mi ero resa conto di quanto tu odiassi tutto questo.» «Perché credi che esca tanto spesso a caccia? Lo faccio per allontanarmi da qui e trovarmi di nuovo in mezzo alla natura.» «Vorrei che me lo avessi detto! Credevo che non mi amassi più!» Lui scoppiò a ridere e le baciò la mano, prima sul dorso e poi sul palmo.
«Il gwerbret è un brav'uomo» affermò, «ma mi considera una sorta di selvaggio ed ha continuato a darmi consigli su come comportarmi con te, dal momento che tu sei una donna civile che si aspetta di essere trattata come tale. Naturalmente io sono stato tanto stupido da seguire i suoi consigli, perché ho pensato che fosse quello che volevi anche tu.» «In tal caso» rise Carra, gettandogli le braccia al collo e baciandolo, «devo essere anch'io una selvaggia perché mi sono innamorata di te molto prima che prendessi lezioni dal gwerbret.» «Bene» mormorò lui, poi si accoccolò sui talloni e distolse lo sguardo, e mentre i suoi occhi si trasformavano in polle d'ombra aggiunse: «Il Sole Oscuro mi è testimone che vorrei poterti portare via da qui.» «Perché non possiamo partire? Cosa c'è che non va?» «Molte cose, amore mio. La Saggia me ne ha parlato quando siamo tornati.» «Chi?» «Jill. Scusami, tu non puoi sapere che il termine Saggio è quello con cui noi indichiamo i maestri del dweomer. Lei non mi ha detto molto, o per essere precisi ha evitato di scendere nei dettagli e si è rifiutata di rispondere alle mie domande, ma ha continuato a ripetere che il pericolo sta crescendo di continuo, indipendentemente dal fatto che ci siano o meno altri razziatori diretti alla volta di Cengarn.» «Anche a me ha detto qualcosa relativo ad una guerra, ma è stata tutt'altro che chiara.» «I Saggi si basano sui presagi e parlano in modo strano» replicò Dar, con un profondo sospiro. «Vedi, io avrei voluto portarti con me la prossima volta che fossi uscito a caccia, ma lei lo ha proibito.» «Oh, vorrei che non lo avesse fatto, perché adoro andare a caccia. Perché afferma che non posso venire con te?» «A causa del pericolo, Carra. Non capisco tutto quello che sta succedendo, ma so che qualcuno sta cercando di uccidere il nostro bambino.» Carra si serrò entrambe le mani sulla bocca per soffocare un urlo. «Jill mi ha raccomandato di non fartene parola, come se fossi tu stessa una bambina, ma io penso che tu debba saperlo.» Carra fu scossa da un brivido così violento da indurla a girarsi verso la finestra per vedere se le tende fossero state aperte da una folata di vento gelido, poi tornò a voltarsi verso il marito, sentendosi al tempo stesso nauseata, spaventata e furente.
«In effetti era mio diritto saperlo» replicò, con voce tanto sottile da sconvolgere lei stessa. «Chi vuole fare questo, e perché?» «Non lo so... Jill sostiene che si tratta di un nemico che possiede il dweomer ma non mi ha voluto dire altro. In ogni caso è per questo che dobbiamo rimanere nelle vicinanze di un maestro del dweomer, e in questo momento lei non può venire con noi nelle Terre dell'Ovest a causa del pericolo che qui incombe su tutti. Di conseguenza siamo bloccati in questa fortezza dove può tenerci sotto la sua protezione, e anche se prima o poi troverà il modo di farci tornare a casa e di porci sotto la protezione di un altro Saggio, per il momento non ci sono alternative.» Carra annuì per indicare che aveva capito, sentendo al tempo stesso il cuore che le martellava nel petto e scoprendo di riuscire a pensare soltanto ad uccidere: ciò che voleva era scovare questo anonimo nemico e farlo a pezzi, colpirlo fino a mandare la sua anima urlante nelle terre dell'Aldilà, a congelare in eterno nel terzo inferno. Ciò che poteva succedere a lei le appariva privo d'importanza ma che osassero minacciare il suo bambino era inconcepibile! «Cosa c'è che non va?» domandò d'un tratto Dar. «Sei pallidissima. Hai bisogno di sdraiarti?» «No, sto bene. Dar, sono contenta che tu mi abbia detto tutto questo, perché adesso capisco una quantità di cose, come la necessità da parte mia di usare tante cautele... per il bene di entrambi» rispose Carra, posandosi le mani sul ventre in un gesto inconscio. «Bene» approvò Dar, baciandola ancora. «Adesso vogliamo scendere insieme nella grande sala? Il bardo dei Gel da'Thae si esibirà ancora, stanotte.» «Andiamo. Detesto stare sempre seduta qui in questa stanza, e d'ora in poi sarà anche peggio perché continuerò a domandarmi cosa stia complottando il nemico.» «Finché saremo sotto la protezione di Jill suppongo che non correremo rischi, o almeno lei sembra pensarla così e dopo tutto qui sei circondata dai soldati del gwerbret e dai miei uomini.» «Oh, lo so, però vorrei saper usare una spada, per maggiore sicurezza.» «Non credo che questo sia necessario, amore mio» rise lui, baciandola sulla fronte. «Ci sono qui io per combattere al tuo posto.» Per un momento Carra sentì il desiderio di prenderlo a calci, perché sotto certi aspetti gli uomini del Popolo dell'Ovest e quelli di Deverry erano dopo tutto molto simili fra loro.
A quanto pareva la notizia della sua avventura inattesa aveva fatto in fretta il giro della città, perché il mattino successivo Otho il nano si presentò alla fortezza in visita, affermando di volersi accertare con i suoi occhi che la principessa fosse sana e salva; per l'occasione Otho si presentò insieme ad un giovane dai capelli neri, basso e tozzo come lui ma privo di barba tranne che per un cespuglioso accenno di basette, che lui presentò come suo nipote Mic. «Ricordi quella lettera che alcune settimane fa ho mandato ai miei parenti, avvertendoli che ero a Cengarn?» domandò Otho, rivolto a Carra. «Ebbene, a quanto pare alcuni di loro sono contenti di rivedermi. Mio cugino Jorn si trovava già a Cengarn al mio arrivo, e adesso il giovane Mic è arrivato insieme a Garin, un altro cugino. Un inizio promettente, anche se non tutti i problemi sono ancora stati risolti.» «È una splendida notizia» sorrise Carra. «Venite di sopra con me: ho a disposizione una camera particolare in cui posso ricevere i visitatori.» Nel corso della visita Mic parlò molto poco, passando il tempo a divorare i dolcetti disposti su un vassoio portato dalla cameriera di Carra, mentre Otho si rivelò una vera miniera di pettegolezzi raccolti in città e nella fortezza. «Quando ti deciderai a pagare Rhodry?» gli chiese infine Carra. «Continua a lamentarsi al riguardo.» «Oh, ho a disposizione da tempo la somma che gli devo, ma farlo aspettare è una sorta di scherzo. Lui e Yraen si mostrano così indignati per la mia riluttanza a pagare la loro dannata mercede!» «Può darsi, ma non puoi certo biasimarli. Dopo tutto nella vita non hanno altro.» «Hah! Avrebbero potuto fare scelte migliori... no, forse questo è ingiusto nei confronti di Rhodry, ma il giovane Yraen ha deciso di volere una daga d'argento e nessun consiglio sensato al mondo è riuscito a impedirgli di lasciare la sua famiglia e il suo clan per imboccare la lunga strada.» «Davvero? Credevo che avesse fatto qualcosa di terribile, come tutti gli altri... mi riferisco alle altre daghe d'argento, non al resto dei suoi parenti.» «Non Yraen. Questo non è il suo vero nome, naturalmente, considerato che neppure fra il mio popolo una madre chiamerebbe il proprio figlio come un lingotto di ferro. Lui però era affascinato dall'idea di percorrere la lunga strada, e ha tormentato Rhodry perché lo prendesse come apprendista. In realtà il nostro Yraen appartiene ad una nobile casata» spiegò Otho,
ammiccando con aria astuta. «Una casata molto nobile, tanto che credo sia piuttosto vicina al trono.» «Per la dea! È davvero molto strano!» «Infatti. Non riesco a capire per quale motivo qualcuno possa voler abbandonare la corte del Sommo Re per percorrere la lunga strada. Il nostro Yraen è davvero strano, anche se suppongo abbia le sue ragioni per agire come ha fatto, che lui stesso le conosca o meno» replicò il nano, distogliendo di colpo lo sguardo come se qualcosa gli stesse causando dolore. «Avverti forse una corrente d'aria dalla finestra?» chiese Carra, lieta di poter cambiare argomento. «Posso chiedere alla mia cameriera di...» «Non ce n'è bisogno. Stavo soltanto ricordando qualcosa che è successa molto tempo fa» rispose Otho, che appariva profondamente triste. «Hai ragione tu, mia signora, nel sostenere che dovrei pagare quelle monete. Questo scherzo si è protratto anche troppo.» «Ecco, io...» cominciò con esitazione Carra, profondamente a disagio e attribuendosi la colpa della strana svolta presa dalla conversazione. «Mic, gradisci quell'ultimo dolcetto? Non essere timido e serviti pure.» Il giovane nano si tinse di un violento rossore e scoccò un'occhiata in tralice allo zio, ma alla fine accettò il dolcetto. Per il resto della visita Carra mantenne con decisione la conversazione su argomenti che riguardavano Otho e i suoi parenti presenti a Cengarn, ma più tardi nella giornata, mentre stava attraversando il cortile con le altre donne e la loro abituale scorta, vide Yraen fermo vicino alle stalle: quando gli passò accanto lui si girò a guardarla con un'espressione di studiata indifferenza e continuò a seguirla con lo sguardo. Allorché il gruppo svoltò per entrare nel giardino recintato, Carra si lanciò un'occhiata alle spalle e vide che lui la stava ancora fissando. Dall'alto della sua stanza nella torre Jill vide le donne passare nel cortile ma non si accorse di Yraen, e se anche lo avesse fatto non avrebbe comunque dato molto peso al suo atteggiamento. Per tutta la mattina aveva continuato a studiare i libri che aveva portato con sé dal suo recente viaggio nelle Isole Meridionali, cercando in essi un ultimo indizio per la soluzione dell'enigma che la stava tormentando da anni e che concerneva un anello che Rhodry aveva ricevuto da suo padre molto tempo prima, una semplice banda d'argento decorata all'esterno da una serie di rose incise e all'interno contrassegnato da un nome scritto in caratteri elfici, il cui insieme formava però una parola che non aveva senso in nessuna lingua.
Jill era giunta ad essere certa che quella parola fosse un nome decisamente strano che Evandar stesso aveva inciso nell'anello prima di consegnarlo al padre di Rhodry. A quanto pareva Evandar era convinto che il proprietario di quel nome avrebbe svolto un ruolo cruciale di qualche tipo nell'ambito dei cupi eventi che si profilavano all'orizzonte, molto probabilmente fungendo da guardiano del bambino non ancora nato. Fin qui la spiegazione da lei messa insieme aveva senso... ma perché fornire a Rhodry soltanto quel nome senza altri indizi? Oltre a identificare chi lo portava, esso doveva avere un significato speciale di qualche tipo, ma Evandar si rifiutava di spiegare il proprio enigma per il semplice motivo che questa era la sua natura. C'erano momenti in cui Jill si chiedeva se provava dell'odio nei confronti di questa creatura che s'immischiava così tanto nella loro vita, ma al tempo stesso non nutriva dubbi sul fatto che avrebbe avuto bisogno del suo aiuto se voleva mantenere al sicuro Carra e suo figlio. Mentre proseguiva la lettura, scorrendo una pagina dopo l'altra di oscure nozioni da tempo dimenticate, i membri del Popolo Fatato si raccolsero ad osservarla: un gruppetto di gnomi si materializzò sul tavolo, cominciando a giocare con cose che sarebbe stato meglio non toccare, parecchie silfidi si librarono su di lei come bolle nella superficie di vetro dell'aria e numerosi spiritelli presero a gironzolare intorno ai suoi piedi. Un particolare gnomo grigio, con gli arti sproporzionati e il naso coperto di verruche, apparve addirittura sulla pagina che lei stava leggendo, costringendola a spingerlo di lato con una risata. «Tutto questo deve essere noioso per te» commentò Jill, «e ti garantisco che comincia ad esserlo anche per me. Vorrei conoscere qualcuno che possegga una maggiore quantità di sapere... per gli dèi! Meer!» Con quell'esclamazione chiuse di scatto il libro, provocando una nuvoletta di polvere e l'immediata scomparsa del Popolo Fatato. Dopo aver chiesto a una quantità di persone e aver cercato per tutta la fortezza, alla fine trovò Meer dietro le stalle, seduto sul retro di un carro e intento a godersi il calore del sole, mentre poco lontano il giovane Jahdo strigliava il loro cavallo bianco. A quanto pareva, quei due trascorrevano molto tempo in compagnia del loro cavallo e del mulo, e quando li raggiunse lei vide che Meer aveva in grembo uno dei gatti che vivevano nelle stalle e lo stava accarezzando distrattamente nel parlare con il ragazzo. «Buon giorno, Jill» la salutò allegramente Jahdo, nel vederla avvicinarsi. «Meer, Jill è venuta a trovarci.»
«Buona giornata a te, mazrak» tuonò Meer, «o almeno spero che il tuo arrivo faccia presagire bene.» «Probabilmente no» replicò Jill, sorridendo. «Di questi tempi non sono mai foriera di buone nuove. Sono venuta a chiederti un'informazione connessa all'antico sapere, buon bardo.» «Davvero? Allora rispondi ad una mia domanda ed io prenderò in considerazione la possibilità di rispondere alla tua.» «Mi sembra una proposta equa.» «Jahdo mi ha detto che la Principessa Carra è sposata con un uomo di una tribù chiamata il Popolo dell'Ovest, e pare che questa tribù sia quella degli allevatori di cavalli che hanno salvato il popolo del Rhiddaer quando è sfuggito agli Schiavisti, tanti anni fa.» «Questo è vero.» «Ah. Jahdo afferma inoltre che i membri di questo popolo hanno una forma uguale a quella degli dèi.» Perplessa Jill guardò in direzione di Jahdo, che annuì con vigore. «Allora suppongo che sia così» replicò infine. «Però non ho mai visto uno dei vostri dèi, quindi non posso confermarlo.» «Avrei dovuto immaginarlo. È ovvio che tu non li abbia mai visti: senza dubbio la tua gente ha i suoi dèi, quindi non c'è motivo che i nostri appaiano ad essa. Bene, direi che questo chiude l'argomento. Non ti offendere, ragazzo, ma avrei voluto avere un altro punto di vista al riguardo.» «Oh, lo so» replicò allegramente Jahdo. «Ti garantisco che loro sono uguali alla benedetta signora che ci è apparsa nella cella.» «Rhodry me ne ha parlato» cominciò Jill, poi esitò chiedendosi se avrebbe dovuto dire al ragazzo la verità e infine decise che sarebbe stato meglio lasciargli la convinzione che Dallandra fosse una dea, perché gli era di conforto ed era una spiegazione molto più semplice di quella effettiva. «Meer, non so cosa pensare a proposito di questa somiglianza.» «Non dubito che questo Popolo dell'Ovest sia stato modellato a immagine degli dèi per qualche scopo divino.» «Per quel che ne so potrebbe darsi, però... un momento, Meer: i membri del Popolo dell'Ovest sono profughi provenienti dalle Sette Città, quelle ora occupate dal tuo popolo.» Meer gettò indietro il capo e mormorò nella propria lingua qualcosa che avrebbe potuto essere una preghiera.
«Allora sono i Figli degli Dèi» sussurrò quindi, in tono reverenziale. «Mi vorresti dire, mazrak, che gli immortali alloggiano in questa fortezza?» «Non sto dicendo questo, perché essi sono mortali quanto me e te, anche se vivono per un tempo molto più lungo.» «Ah. Se non sono immortali allora non possono aver vissuto nelle Sette Città del Lontano Ovest» dichiarò Meer, in tono ora teso e duro. «Devono essere soltanto quei mandriani di cavalli.» «In effetti questi elfi non hanno mai vissuto là, ma i loro antenati sì. Suppongo che avessero modellato le effigie degli dèi che voi adorate a loro immagine e somiglianza.» Meer reagì con un sordo ringhio. «Cosa c'è che non va, buon bardo?» domandò Jill, d'un tratto cauta. «Non era mia intenzione offendere.» «Davvero? Allora perché ti sei espressa in modo sacrilego?» ritorse Meer, poi esitò come se fosse sua intenzione aggiungere altro ma alla fine si limitò ad un grugnito. «Senza dubbio hai ragione tu in merito alle loro origini» si affrettò ad affermare Jill, consapevole che rischiava di perdere la sua disponibilità. «In ogni caso sono eventi ormai molto remoti.» Per un momento Meer rimase seduto in silenzio, con le mani strette intorno al suo bastone e la testa massiccia inclinata verso di lei, poi emise un suono sommesso che era in parte uno sbuffo e in parte una risata. «Qual era la tua domanda?» chiese quindi. «Se dovesse riguardare cose empie come quelle che hai appena detto ti avverto che non risponderò.» «Spero che non si tratti di nulla di empio. Possiedi qualche cognizione in merito ai draghi?» «Parecchie, a dire il vero» replicò Meer, rilassandosi e snudando le zanne in un sorriso. «Questo è uno dei cinquantadue argomenti che un bardo deve conoscere se vuole essere qualcosa di più di un cantore convocato per matrimoni e funerali.» «Una volta mio nonno ne ha visto uno» intervenne Jahdo. «Volava verso nord, e il giorno dopo un contadino ha riferito che il drago si era portato via in una volta sola due delle sue mucche.» Jill accennò a replicare con qualche commento scherzoso ma poi si accorse che il ragazzo era estremamente serio, e qualcosa in quella sua sincerità spontanea la convinse che lui stava dicendo la semplice verità e riferendo un fatto effettivamente accaduto e non una storia inventata. Messa di
fronte a quella constatazione si sentì percorrere da un brivido gelido e si rese infine conto che nonostante le lunghe ore di ricerche, di evocazione d'immagini e di meditazione, fino a quel momento in un angolo remoto della sua mente si era sempre rifiutata di credere che la creatura in questione e il suo nome non fossero soltanto uno strano scherzo escogitato da Evandar. Verso la metà del pomeriggio Rhodry stava attraversando il cortile quando vide Jill venirgli incontro con passo affrettato e si fermò ad attenderla con un sorriso che però si dissolse ben presto di fronte all'espressione cupa presente negli occhi di lei. «Cosa c'è che non va?» le domandò. «Nulla... o per meglio dire tutto. Ho bisogno di parlarti, Rhodry, in un posto dove non possiamo essere sentiti da nessuno. Credo che sia meglio andare sul tetto.» Insieme salirono la scala a spirale che portava all'ultima camera della torre principale, uno spazio ristretto e angusto pieno di fasci di frecce, dove nel soffitto era presente una botola raggiungibile con una scala di legno che permetteva di accedere al tetto piatto della torre. Una volta all'esterno, Cengarn apparve distesa ai loro piedi con le case che ricoprivano i pendii delle colline da cui si allargava una vasta distesa verde di campi coltivati alternati a foreste che si spingeva sempre più lontano fino ad essere inghiottita dal velo di nebbia che ricopriva l'orizzonte. Avvicinatasi al muretto di recinzione del tetto, alto appena un metro e mezzo, Jill sedette su di esso e abbassò lo sguardo sul panorama con tale noncuranza da rendere difficile a Rhodry non distogliere lo sguardo per le vertigini. «Ti piace volare?» le chiese. «In effetti sì. È una sensazione splendida.» «È quanto pensavo. Ti conosco abbastanza bene da sapere che se mai è esistita un'anima nata per volare libera si tratta della tua.» «Sei ancora capace d'incantare il cuore di una ragazza, o anche di una vecchia, vero, Rhoddo? Vieni a sederti.» «Se per te è lo stesso preferisco di no... non lì, in ogni caso.» Jill scoppiò a ridere, scuotendo il capo con aria divertita. «Deridimi quanto vuoi ma non cambierai il fatto che detesto trovarmi tanto in alto. Salire in cima al faro di Cannobaen mi terrorizzava, anche se da ragazzo non lo avrei mai confessato. Inoltre se dovessi cadere, contrariamente a te non potrei farmi spuntare un paio di ali.»
«In tal caso te ne dovremo prestare un paio. In effetti è proprio per questo che volevo parlarti.» «Oh, dèi! Che altro è successo?» «Una reazione davvero confortante.» «Dover subire gli scherzi di una maga è una cosa che può far impazzire un uomo.» «Perché pensi che io stia scherzando?» «Ecco, naturalmente mi riferisco a questo discorso di ali prese a prestito...» cominciò Rhodry, ma poi s'interruppe e si chiese d'un tratto se doveva cominciare ad avere paura. «Non è affatto uno scherzo, bensì qualcosa che ha a che vedere con la parola incisa all'interno del tuo anello.» D'istinto Rhodry sollevò la mano destra e la banda d'argento che gli cingeva l'anulare brillò al sole. «Arzosah Sothy Lorezohaz» scandì con attenzione Jill. «Per quanto sono riuscita a determinare questo è il modo esatto in cui dovresti pronunciare quelle lettere, e la loro pronuncia è davvero importante, perché da essa dipenderà la tua vita.» «Cosa? Si tratta di un incantesimo di qualche tipo?» «Sì e no. Si tratta di un nome, che però è anche un incantesimo in virtù della sua stessa natura perché, come puoi intuire, ti conferisce il controllo su chi lo porta.» «Non intuisco nulla di simile. A chi appartiene questo nome?» «Ad un drago.» Rhodry accennò a scoppiare in una risata, ma la sua ilarità si dissolse sul nascere di fronte all'espressione blanda e pacata con cui Jill lo stava fissando. «I draghi non esistono» ringhiò. «I soli che conosca sono quelli che hanno ad Aberwyn, splendide immagini raffigurate su una bandiera o su qualche gioiello.» «Questo non è vero, Rhodry. Sul Tetto del Mondo ci sono alcuni di quei grandi wyrrn... pochissimi, oramai... che vivono in solitudine e che sono molto simili a come vengono raffigurati nelle leggende e nelle storie dei bardi, o almeno questo è ciò che ho appreso dalla maggiore autorità in questo campo.» «Aspetta un momento. Chi sarebbe quest'autorità?» «Er... ecco...» tergiversò Jill, distogliendo lo sguardo con finta indifferenza. «Si tratta di Evandar.»
«Per gli dèi! Quella folle creatura? In nome di tutti gli inferni, come puoi prendere per buona una sola parola di quello che dice?» «Avevo la sensazione che avresti opposto delle difficoltà.» Rhodry sbuffò con violenza e prese a camminare avanti e indietro, con le mani affondate nelle tasche dei calzoni. «Mi vuoi ascoltare?» scattò Jill, dopo un momento. «Ti sto ascoltando, quindi vuota pure il sacco. Il bardo di questa fortezza è un uomo malinconico, e non mi dispiacerebbe sentire qualche storiella divertente.» «Cocciuto come sempre, vero?» ritorse Jill, con un verso che era quasi un ringhio. «Io sarei cocciuto? Mi trascini quassù e cominci a raccontarmi storie assurde, e quando io non credo ad ogni tua parola come un idiota mi definisci cocciuto?» «Forse sono stata un po' ingiusta.» Questa volta fu Rhodry a reagire con un ringhio. «Vuoi smetterla di camminare in quel modo? Mi stai facendo impazzire!» esclamò intanto Jill. «Benissimo» assentì lui, con un sospiro melodrammatico, sedendo ai suoi piedi sul tetto. «Parla pure.» «Cercherò di essere il più chiara possibile. Ricordi la storia narrata da tuo padre secondo cui un essere misterioso gli avrebbe dato l'anello annunciando che era per uno dei suoi figli? Ebbene, quella persona era Evandar sotto mentite spoglie, ed è stato sempre lui ad incidere quel nome all'interno dell'anello, a causa di una visione che aveva avuto.» «Possiamo credere anche ad una sola delle cose che Evandar ci dice?» «In questo caso ritengo di sì» replicò Jill, dopo un momento di seria riflessione. «Inoltre Meer mi ha riferito molte cose in merito ai draghi, e collimano tutte con ciò che mi ha detto Evandar. A quanto pare i draghi sono in grado di pensare e di parlare, e danno un'enorme importanza al loro nome, per cui sono convinti che l'uomo che venga a conoscenza del loro vero nome acquisisca il potere di controllarli.» «Non sono certo di avere nei confronti di Meer più fiducia di quanta ne nutra verso Evandar.» «Lui è il solo maestro del sapere che io conosca che sappia qualcosa sui draghi.» «Posso immaginarlo. Credi che sia vero che possano essere controllati mediante il loro nome?»
«Non penso che abbia importanza, finché i draghi continuano a credere che sia così.» «Francamente a me sembra rischioso sperare che credano ad una cosa del genere quando il più piccolo incidente potrebbe dimostrare l'erroneità delle loro convinzioni. Un momento, però, c'è una cosa che non capisco: perché questo drago è tanto importante?» «Evandar ha avuto una visione nella quale ha visto il drago proteggere il bambino di Carra dopo la sua nascita, aiutare Dallandra nel suo lavoro e infine proteggere le rovine di una città che lui ha supposto essere Rinbaladelan. Di conseguenza ha rintracciato il drago che era apparso nella sua visione e in qualche modo gli ha estorto il suo nome. Non so come abbia fatto, ma ci è riuscito.» «Benissimo. Supponiamo che io accetti per valido tutto questo e per il puro gusto di fare illazioni supponiamo anche che lui abbia effettivamente avuto questa visione, trovato il wyrm in questione e inciso il suo nome su questo oggettino capitatogli così a proposito per le mani. Perché ha dato poi a me l'anello?» Jill piegò il capo da un lato e lo scrutò in volto per tanto tempo che lui cominciò a sentirsi a disagio. «Se vuoi risponderò alla tua domanda» disse infine. «Se proprio lo desideri davvero, Rhodry, ti risponderò... ma ti avverto che questa risposta ridurrà in pezzi la concezione che tu hai del mondo e anche il modo in cui consideri la tua vita e quella degli altri uomini.» Alzandosi in piedi di scatto, Rhodry riprese a camminare avanti e indietro, contemplando suo malgrado il panorama. A sud la collina digradava fino a cedere il posto alle terre coltivate, al di là delle quali si allargavano le parti civilizzate del regno al cui interno era rimasto vincolato per tutta la sua vita, mentre verso nord la sua vista quasi elfica gli permetteva di scorgere lontano sull'orizzonte una serie di picchi candidi, e anche se non era in grado di dire se si trattava di banchi di nubi o dei primi effettivi contrafforti montani, essi gli parvero l'avanguardia del Tetto del Mondo. Quella vista era molto bella, perfino affascinante, e sembrava invitarlo a sfidare quelle cime lontane. Se ne avesse avuto il coraggio avrebbe inoltre potuto scalare anche un'altra vetta, quella dell'anima: tutto quello che doveva fare era porre una domanda, e lei gli avrebbe risposto. Girandosi di scatto vide che Jill stava aspettando pazientemente con le mani in grembo. Sì, tutto quello che doveva fare era porre una domanda. «Vuoi che io vada a caccia di questo drago» disse invece.
Lei sorrise, e quel particolare momento si dissolse. «Non per ucciderlo» replicò. «Devi trovarlo e farlo schierare dalla nostra parte.» «E come ti aspetti che ci riesca?» «Parlandogli fino a convincerlo. Meer mi ha giurato e spergiurato che tutti i grandi wyrm parlano la lingua elfica.» Allorché Rhodry levò gli occhi al cielo in un'espressione disgustata Jill reagì con un altro ringhio che gli strappò una risata. «Tu verrai con me?» le chiese. «Non posso, sia perché devo rimanere vicino a Carra sia perché qui stanno per scatenarsi dei guai.» Senza replicare, Rhodry si diresse a grandi passi verso il lato settentrionale del tetto, indugiando a scrutare la vaga sagoma bianca delle montagne che scintillavano all'orizzonte. «Io sono sempre stato un guerriero, Jill» disse infine, «sia come onorato signore di Aberwyn che come sporca daga d'argento, e in tutte le battaglie a cui ho preso parte non ho mai incontrato nessuno tanto stupido da definirmi un vigliacco. Lo sai, e sai che non è la paura che adesso mi sta inducendo ad esitare. La verità è che non ho la più pallida idea di come fare ad orientarmi in terre selvagge. Per gli dèi, io ho sempre combattuto all'interno di un esercito, con un convoglio di provviste a portata di mano, non sono un boscaiolo o un cercatore di piste, per andare a zonzo nei boschi alla ricerca di una bestia selvatica.» «Questo purtroppo è vero» ammise Jill. Accostandosi al parapetto, Rhodry si costrinse a guardare verso il basso: da lassù il cortile delle stalle appariva minuscolo come un fazzoletto, i cavalli risultavano grandi come dei gatti e gli stallieri sembravano altrettanti topi. Per un momento si trovò a chiedersi che sensazione avrebbe provato se si fosse lanciato nel vuoto, libero per un singolo glorioso momento prima d'incontrare la morte contro l'acciottolato, ma poi si costrinse a distogliere lo sguardo. «Capisco perché non volessi che qualcuno potesse sentire la nostra conversazione» mormorò. «Per il timore che mi ritenessero pazza?» sorrise Jill, in tono divertito. «Se devo dirti la verità, Rhoddo, io stessa sono alquanto sorpresa di credere alle affermazioni di Evandar, ma esse combaciano con una quantità di cose che ho appurato per conto mio e le collegano fra loro. Andrai a prendere quel drago, vero?»
«Come posso promettertelo? Di certo ci proverò» ribatté Rhodry, sorridendo a sua volta. «Ci proverò con tutto il cuore e con tutta l'anima, perché se non altro mi sembra un bel modo di corteggiare la mia signora Morte. Prometterti che riuscirò nell'impresa significherebbe però macchiare il mio onore e sprecare fiato al tempo stesso.» «È vero. Comunque ti sono profondamente grata.» Nel parlare Jill si stiracchiò pigramente al sole come un gatto e accennò un sorriso, tornando per un fugace momento ad essere semplicemente umana ai suoi occhi... finché non si rese conto della noncuranza con cui lei accettava i suoi discorsi sulla morte, come se sapesse già che il suo corteggiamento era prossimo a concludersi con successo. Per un momento esitò, sul punto di chiederglielo apertamente, e in quell'istante Jill smise di sorridere e distolse lo sguardo, fissandolo sull'irregolare superficie del tetto. «C'è una cosa che ti devo insegnare» affermò, «però ho paura che possiamo essere sentiti in qualsiasi angolo della fortezza possiamo andare a nasconderci, perfino quassù.» «È una cosa tanto segreta?» «Mi duole il cuore a fare una simile ammissione, ma temo che d'ora in poi ben poco di quello che dirò apparirà sensato. Nel nome di ogni divinità t'imploro però di fidarti di me e di seguire le mie direttive. Sei in grado di farlo, Rhoddo? E soprattutto, vuoi farlo?» «Sono soltanto una daga d'argento che cavalca agli ordini di altri uomini. Guidami, cadvridoc, ed io farò del mio meglio per seguirti.» «Benissimo» annuì lei, con un accenno di sorriso. «Vuoi rimetterti a sedere? Se ne avessimo il tempo cercherei di spiegarti ogni cosa, ma poiché non lo abbiamo dovrai imparare tutto a memoria. Il sapere di cui Meer è in possesso sostiene che pronunciando il nome segreto di un drago si ottiene il potere su di esso, ed Evandar giura e spergiura che il nome inciso all'interno dell'anello è assolutamente esatto... però non puoi pronunciarlo come faresti con qualsiasi altro nome, in quanto neppure la cortesia che useresti nel proferire quello del re sarebbe sufficiente. Esiste un modo determinato dal dweomer per pronunciare parole del genere, e devi impararlo alla perfezione perché se non ci riuscirai e finirai per trovarti di fronte a quel drago, con ogni probabilità esso ti ucciderà.» «Non so perché ma lo avevo intuito.» «Non è necessario urlare o gridare, bada bene; invece bisogna far scaturire il suono dal cuore e dall'anima, vibrante come una corda d'arco allentata. Prima si trae un respiro molto lento e molto profondo, in modo da
riempire d'aria i polmoni e da rilassarsi, poi si emette il suono in questione nell'esalare il respiro.» Interrompendosi, Jill rifletté intensamente per qualche momento, quindi concluse: «Non è una cosa che si possa descrivere a parole, è necessario che ti dia una dimostrazione, ma non voglio che qualcuno ci possa sentire!» «Potremmo uscire a cavallo nelle campagne» suggerì Rhodry. «Non oso lasciare la fortezza. Naturalmente, se scoppiasse una tempesta con tuoni e fulmini potremmo fare tutto il rumore che vogliamo senza essere notati da nessuno.» «Alquanto improbabile, non credi?» commentò Rhodry, fissando il cielo limpido e soleggiato. Jill si limitò a sorridere. La tempesta scoppiò poco prima del tramonto. Rhodry stava attraversando il cortile quando sentì il vento levarsi freddo e tagliente da ovest e si affrettò a raggiungere le mura esterne e a salire sui bastioni per poter osservare il cielo da un punto sopraelevato che gli garantisse una visuale libera: lontano verso ovest il sole stava tramontando in mezzo ad immense nuvole nere che incombevano al di sopra delle colline e delle foreste e parevano dirette verso Cengarn. Sulle pianure erbose gli era capitato spesso di vedere tempeste del genere, con le nubi che fluivano senza ostacoli sopra la pianura, ma non aveva mai assistito a nulla di simile in una zona collinare, mentre adesso le nubi stavano puntando su Cengarn con una tale determinazione da indurlo per un momento a temere che fossero il prodotto di qualche enorme incendio innaturale. Poi però si ricordò di Jill e del suo sorriso. Il cielo si stava incupendo e il vento cominciava a riempirsi di umidità quando dal cortile gli giunse il richiamo di Jill; supponendo che fosse giunto il momento di ricevere la famosa lezione, Rhodry si affrettò a scendere dai bastioni. «Forse sarebbe meglio non tornare sul tetto della torre, perché la tempesta potrebbe essere accompagnata da fulmini» osservò, una volta che Jill gli ebbe confermato la sua supposizione. «Oh, non correremo nessun pericolo» garantì lei. Sulla cima della torre il vento soffiava e sibilava intorno a loro; verso occidente era possibile vedere qualche occasionale bagliore seguito da un rombo di tuono mentre nel cortile servitori e guerrieri stavano correndo avanti e indietro per portare i cavalli nelle stalle, trascinare al riparo la legna da ardere e infine precipitarsi loro stessi al coperto quando le prime
grosse gocce di pioggia cominciarono a cadere. Rhodry ne sentì una infrangersi sulla sua guancia ma essa risultò essere non solo la prima ma anche l'ultima, sebbene scrosci d'acqua si stessero ormai riversando tutt'intorno. Allorché Jill scoppiò a ridere della sua espressione sorpresa, lui si rese infine conto di una cosa che fino a quel momento i suoi ricordi della loro storia d'amore gli avevano impedito di realizzare, e cioè che ormai Jill era completamente cambiata rispetto alla donna che un tempo lui aveva amato... era cambiata a tal punto da far sì che il fatto che lei fosse giovane o vecchia, uomo o donna, aveva cessato di essere importante: adesso Jill era al di là di questo genere di considerazioni, era un nucleo di consapevolezza che si serviva del suo involucro di carne per i propri scopi piuttosto che essere vincolata da esso, e che era in grado di esercitare un potere che andava molto al di là della sua semplice persona. Un fulmine si abbatté poco lontano con un'esplosione di luce azzurra, seguito da un rimbombo di tuono che echeggiò per tutta la fortezza e che fu accompagnato da una risata di Jill. Adesso la pioggia si stava riversando su ogni cosa in fitte cortine argentee, riparandoli da occhi indiscreti e tuttavia lasciando perfettamente asciutto il punto in cui si trovavano. «Ricordi quello che ti ho detto oggi?» chiese infine Jill, alzando la voce per farsi sentire al di sopra del fragore della tempesta. Improvvisamente spaventato dalla sua vicinanza, Rhodry annuì. «Allora ascoltami» continuò Jill. «Il suono che sto per emettere non significa nulla, è soltanto un rumore e non un richiamo pervaso di dweomer.» Lieto di quella precisazione, Rhodry l'ascoltò mentre lei esalava un lungo "ah", un suono simile a quello che i bardi erano soliti usare per sostituire una parola che avevano dimenticato e tuttavia al tempo stesso diverso perché non era né pronunciato né cantato ma risuonava piuttosto come un mormorio forte e profondo, che pareva scaturire dal nucleo della sua anima e tremolare come una cosa viva... sempre che si potesse definire vivo un suono... vibrando come una manciata di corde d'arpa. I suoi echi impiegarono molto tempo a dissolversi nonostante l'aria umida e densa. «Adesso provaci tu» disse quindi Jill. «Un momento, io non potrei mai fare una cosa del genere.» «Io invece credo che tu ne sia capace, Rhodry, anche se non te ne posso spiegare il motivo. Nella tua anima c'è più musica di quanto tu immagini.» Pur sentendosi imbarazzato, perché gli pareva di essere un idiota a stare fermo su un tetto a gridare, per amore di Jill lui si sforzò ripetutamente,
emettendo ogni sorta di strilli e di sibili oltre ad un paio di commenti decisamente irripetibili... finché d'un tratto ciò che doveva fare gli apparve improvvisamente chiaro senza che sapesse con esattezza in che modo riusciva a farlo, proprio come un bambino impara a usare una trottola facendola prima cadere da troppo in alto e poi imprimendole una rotazione eccessiva fino a riuscire all'improvviso ad ottenere il movimento voluto. Adesso gli pareva che il suono desiderato scaturisse dal profondo del suo intimo, apparentemente di propria iniziativa, per poi fluirgli attraverso e uscirgli dalle labbra con una forza tale da farlo tremare in tutto il corpo. E come un bambino con la trottola, comprese che adesso che aveva scoperto come fare non lo avrebbe più dimenticato. «Splendido!» sorrise Jill. «Ci sei riuscito. Adesso dovrai imparare a pronunciare l'intero nome.» Una sillaba dopo l'altra procedette a farlo esercitare ripetutamente fino a destare in lui il desiderio di inveirle contro, anche se si trattenne perché ricordava ancora gli incessanti addestramenti a cui si era sottoposto per imparare ad usare una spada... e sapeva che se Jill aveva ragione la sua vita sarebbe dipesa da questa esercitazione più di quanto fosse mai dipesa dalla sua abilità con la spada. Mentre ripeteva in quel particolare modo vibrante ogni singola sillaba del nome, ebbe l'impressione di crescere in altezza, di torreggiare, e tuttavia di essere fatto di una sostanza incorporea come quella che costituiva le nubi che lo circondavano, tanto leggero da librarsi fluttuando al di sopra della pietra, tremante e tuttavia pervaso di un potere maggiore di quello del fulmine. Infine, quando ormai il buio era tanto fitto da impedirgli quasi di discernere il volto di Jill, lei decise che aveva acquisito un'abilità sufficiente... almeno per il momento. «Dovremo ripetere questo esercizio più e più volte» avvertì, «ma non voglio che tu finisca per perdere la voce. Adesso prova con il nome completo, Rhodry. Pronuncialo tutto in un solo, lungo respiro.» Lui inspirò quanta più aria poteva ed emise il suono richiesto. «Ar Zo Sah Soth Ee Lor Ez O Haz.» Per un fugace momento avvertì una risposta: non era qualcosa di concreto come poteva esserlo una parola, era piuttosto il tocco di una mente sulla sua, una presenza viva, un'anima che aveva sentito il suo richiamo e si era girata verso di lui. Poi la sensazione si dissolse, lasciandolo spossato, e Rhodry ebbe l'impressione di cadere e al tempo stesso di rimpicciolire, precipitando attraverso le nubi per un lungo tratto fino ad abbattersi al suolo.
«Rhodry! Oh, dèi, mi dispiace!» Nel buio crescente il volto pallido di Jill gli si parò davanti e lui si rese conto di essere inginocchiato sul tetto e che lei gli era accanto, impegnata a sostenerlo con un braccio passato intorno alle spalle per impedirgli di accasciarsi in avanti. «Mi dispiace davvero» ripeté intanto Jill. «Ho dimenticato che prima d'ora tu non avevi mai fatto nulla del genere.» Rhodry annuì, con il respiro troppo affannoso per poter parlare. «È un po' come se un cittadino che non è mai montato a cavallo in vita sua si trovasse a dover trascorrere un'intera giornata in sella» spiegò intanto lei. «Domani ti sentirai anche peggio di così.» «Non ne dubito» annuì Rhodry, riuscendo a sorridere. «Ho passato l'esame?» «Certamente! Oh, lo hai passato a pieni voti! Ti avevo detto che avevi una vena di musica nell'anima, giusto? Adesso sarà meglio scendere nella grande sala dove fa più caldo, perché quassù è troppo umido. Inoltre dovresti mangiare qualcosa, perché in situazioni del genere il cibo è il rimedio migliore.» In effetti dopo un piatto di pane e di carne fredda, accompagnato da un paio di boccali di birra bevuti nella grande sala in compagnia di altri uomini, Rhodry tornò a sentirsi quello di sempre: adesso gli sembrava che urlare uno strano nome sotto la pioggia fosse stato un sogno irreale con cui lui non aveva nulla a che fare, anche se era consapevole che il sapere acquisito sarebbe rimasto in suo possesso per sempre. Mentre rifletteva su quanto era accaduto l'intera giornata parve assumere una qualità strana, quasi di sogno e tuttavia minacciosa al tempo stesso. È colpa di Jill e delle sue dannate domande, pensò. Supporre che un uomo possa vivere più di una vita era una pura e semplice idiozia, una cosa impossibile. E se invece fosse stata anche solo remotamente possibile? Avrebbe potuto chiederglielo, e lei gli avrebbe risposto... d'un tratto si trovò a ricordare le bianche montagne che si ergevano al limite massimo del suo campo visivo e sentì la mente che si allontanava ritrosa da quegli interrogativi. «Qualcosa non va?» domandò d'un tratto Yraen. «Hai l'aria di qualcuno che abbia appena visto uno spirito malvagio.» «Forse l'ho visto. No, non è vero. Stavo pensando ad una cosa vergognosa.» «Si tratta di una ragazza, vero?»
«Vorrei che fosse così, ma in effetti stavo pensando all'unica volta nella mia vita in cui ho agito da vigliacco.» Yraen si girò sulla panca per fissarlo con espressione attenta e perplessa mentre lui trangugiava un altro lungo sorso di bina. «E quando sarebbe successo?» chiese infine Yraen. «Se devo essere sincero, è successo proprio oggi» replicò Rhodry, calando con violenza il boccale sul tavolo. «Se dirai una sola parola al riguardo ti ucciderò.» «Sei ubriaco.» «Infatti» ammise Rhodry, issandosi in piedi con mosse incerte e allontanandosi dalla panca. «Credo che andrò a letto.» Una volta che si trovò steso nella sua cuccetta il rumore della pioggia lo tenne però sveglio e lui continuò a ricordare Jill che sedeva sotto il sole e rideva allegramente di lui in merito a spaventosi segreti dell'anima. La pioggia cessò poco dopo l'alba e il silenzio improvviso svegliò Jahdo, che rimase disteso nel letto per un momento con gli occhi serrati, pregando di ritrovarsi a casa una volta che li avesse aperti. Quando infine cedette e si guardò intorno. naturalmente, vide soltanto la camera a forma di cuneo che occupava nella rocca del gwerbret, pervasa del grigiore dell'alba e di ombre incerte. Sbadigliando si sollevò a sedere e si accorse che il letto di Meer era vuoto: improvvisamente sveglio e lucido, si chiese per quale motivo il bardo non lo avesse svegliato se aveva avuto bisogno di alzarsi dal letto per andare alle latrine o per recarsi da qualche altra parte, considerato che all'esterno le scale dovevano essere scivolose a causa della pioggia. Afferrati i calzoni se li infilò e uscì di corsa dalla stanza senza neppure mettersi le scarpe. Con il nuovo giorno la fortezza stava cominciando a risvegliarsi, e servitori assonnati si aggiravano nei corridoi o sostavano nella grande sala stiracchiandosi e scambiandosi pettegolezzi; scorto il vecchio Darro vicino al focolare principale, intento a rimuovere le zolle che coprivano i carboni ardenti, Jahdo si diresse verso di lui. «Hai visto Meer?» gli chiese. Il vecchio si accoccolò sui talloni e rifletté per un momento. «L'ho visto poco fa, ragazzo. Era diretto verso quella porta laggiù.» «Non avrebbe dovuto uscire senza avermi con sé.» «Con lui c'era uno dei cavalieri di Lord Matyc che gli stava parlando con fare urgente, quindi credo che non corra rischi.»
Dopo un attimo di esitazione Jahdo decise che doveva andare a controllare di persona e saettò fuori della grande sala per poi arrestarsi per un momento a guardarsi intorno nel cortile fangoso. D'un tratto un suono di risatine soffocate proveniente da dietro le sue spalle lo indusse a girarsi di scatto, ma ormai era troppo tardi: un sacco di tela umido e puzzolente gli calò sulla testa e gli altri ragazzi scoppiarono a ridere. «Lasciatemi andare!» gridò Jahdo. «Devo trovare Meer.» Per quanto agitasse le braccia e urlasse di rabbia, gli altri continuarono a ridere e a farlo girare su se stesso, e soltanto in seguito Jahdo si rese conto che a causa del sacco che soffocava la sua voce i ragazzi non dovevano essere riusciti a sentire cosa stava dicendo. Lui peraltro sentì nitidamente le loro risate mentre cominciavano a sospingerlo in una direzione che suppose essere quella delle cucine, poi si sentì precipitare e andò a sbattere con violenza contro un pavimento di terra battuta. L'impatto fu seguito da un tonfo e da un rumore metallico provenienti dall'alto, e nello strapparsi il sacco dalla testa lui scoprì di trovarsi nella cantina in cui erano immagazzinati i tuberi e di giacere disteso in mezzo a cesti pieni di rape; sopra di lui la porta incorniciata da raggi di luce che filtravano dalle fessure era sbarrata, e quando spiccò un balzo per assestarle una spinta la grossa sbarra di metallo che la bloccava dall'esterno rifiutò di cedere. «Lasciatemi uscire!» urlò, poi continuò a saltare, a spingere e a gridare per parecchio tempo senza ottenere altro risultato che quello di scorticarsi le mani: a quanto pareva in giro non c'era nessuno che potesse sentirlo ed evidentemente i suoi tormentatori si erano ormai allontanati. Accoccolatosi per spiccare un altro salto, all'ultimo momento si trattenne, consapevole che spingere contro la porta come un toro infuriato non gli sarebbe servito a nulla e che avrebbe dovuto invece essere astuto come una donnola. La luce che penetrava dalle fessure circostanti la porta gli permetteva di vedere abbastanza bene ciò che lo circondava, quindi cominciò a passare al setaccio le pareti, spostando i cesti e i sacchi che gli ostacolavano i movimenti, alla ricerca di punti deboli o di piccole aperture che potessero dare accesso ad un'altra sezione delle cantine della fortezza. Finalmente nell'angolo più buio della parete posteriore trovò una lunga fenditura, dovuta probabilmente al congiungersi di due muri al di là di essa, e constatò che inginocchiandosi avrebbe potuto inserire le spalle nel passaggio: spingendo e strisciando s'insinuò nel pertugio, poi imprecò ad alta voce quando la camicia gli si impigliò in un chiodo... e sentì una voce che gli rispondeva.
«Chi è là?» domandò la cuoca. «Chi striscia là dentro come un topo?» «Sono io, Jahdo. Per favore, cuoca, gli altri ragazzi mi hanno rinchiuso nella cantina dei tuberi mentre io devo uscire a cercare Meer, che è in giro da qualche parte senza una guida.» «Per gli dèi! Pagheranno cara questa bravata!» esclamò la cuoca, insinuando le mani massicce nella fenditura e spezzando le vecchie travi. «È stata una fortuna che io fossi quaggiù. Adesso prova a passare.» Strisciando Jahdo s'insinuò nell'apertura e si venne a trovare nella piccola cantina della capanna delle cucine, dove la cuoca era ferma vicino ad una botte di sale con in mano una ciotola vuota; di fronte a lei una scala portava verso la luce e Jahdo si affrettò a salirla con un rapido grido di ringraziamento, oltrepassando a precipizio le stupite sguattere per poi lanciarsi in cortile, con il fiato corto ma troppo preoccupato per fermarsi. Ansimando e annaspando si diresse verso il pericoloso muro alle spalle della rocca principale, dove Meer avrebbe potuto facilmente imboccare la rampa di scale sbagliata e finire per trovarsi sui bastioni. «Un momento, perché tanta fretta?» domandò Rhodry, venendo con passo pacato verso di lui. «Guai» ansimò Jahdo, schivandolo e continuando a correre. Come aveva temuto, nell'aggirare l'angolo di una baracca vide Meer in alto sulla sommità delle mura della fortezza, fermo in un punto in cui la ringhiera dei bastioni era rotta; alle sue spalle c'era Lord Matyc, e nel guardare la scena per una frazione di secondo Jahdo si sentì pronto a giurare che il nobile aveva le mani sollevate nell'atto di spingere il bardo nel vuoto. «Meer!» stridette, con gli ultimi residui di fiato che gli rimanevano. «Attento!» Il nobile afferrò improvvisamente Meer per la camicia, nel momento stesso in cui questi indietreggiava di un passo. «Attento!» avvertì Matyc. «Per gli dèi, uomo, per poco non sei precipitato.» Mentre Lord Matyc aiutava Meer a girarsi nella direzione giusta e lo guidava verso le scale, Jahdo smise intanto di correre, troppo spossato per poter far altro se non ansimare, e Rhodry riuscì infine a raggiungerlo per poi soffermarsi a fissare i due uomini con occhi socchiusi. «Come mai non eri con Meer?» chiese. «Gli altri ragazzi mi hanno rinchiuso in una cantina» ansimò Jahdo. «Ma davvero? Hai riconosciuto la voce di Alli?»
Jahdo annuì in segno di assenso mentre la daga d'argento si avvicinava al muro e raccoglieva il bastone di Meer, che giaceva al suolo proprio in corrispondenza della parte di bastione resa pericolosa dalla ringhiera rotta. «Deve averlo lasciato cadere. Piuttosto negligente da parte sua» commentò. «Non è da lui» dichiarò Jahdo, ancora con il fiato corto. «Sa di averne bisogno.» Poi prese il bastone e andò incontro a Meer, che stava proprio allora raggiungendo il terreno solido e sicuro del cortile, avvertendo: «Siamo qui, Meer.» «Sei tu, Jahdo? Bene, bene» replicò Meer, afferrando il bastone con entrambe le mani e portandoselo alle labbra per baciarlo. «Come hai fatto a perderlo?» gli chiese intanto Jahdo. «Sono stato molto sciocco. Anche se mi sentirei pronto a giurare che una creatura di qualche tipo me l'abbia strappato di mano, in realtà devo essermelo semplicemente lasciato sfuggire. Sto diventando vecchio, Jahdo, dal momento che una presa poco sicura è uno dei tredici segni dell'approssimarsi dell'anzianità. Dov'è Matyc?» «Dietro di te.» «Ah» commentò Meer, girandosi per inchinarsi. «Rifletterò con estrema cura su tutto ciò che Vostra Signoria mi ha detto» promise. «Ti ringrazio, buon bardo» ribatté Matyc, che però appariva tutt'altro che compiaciuto e aveva un'espressione acida quanto un limone del Bardek. Subito dopo sua signoria si allontanò in fretta in una direzione mentre Jahdo guidava Meer in quella opposta, scortato da Rhodry, che attese che Matyc non fosse più a portata di udito prima di parlare. «Meer, sono Rhodry» disse. «Cosa significa tutto questo?» «Non lo so con certezza, daga d'argento. Matyc mi ha rifilato una strana storia in merito ad un uomo che odierebbe il gwerbret a causa di antichi giudizi emessi da sua grazia nel corso di un malover, ed ha detto di essere certo che questo tizio stia progettando un tradimento di qualche tipo. Quello che vorrei sapere è perché Matyc mi abbia fatto questa confidenza e per di più con tanta segretezza e richiedendo di mantenerla privata. Ha infatti insistito che aveva dovuto parlarmi al più presto, ma in effetti non c'è nulla che io possa fare contro queste antiche sentenze.» «Questo è evidente. Perché non hai portato Jahdo con te?» «Ci ho pensato, ma lui stava dormendo così profondamente che non mi andava di svegliarlo, e dal momento che uno degli uomini di sua signoria
era venuto a prendermi nella nostra camera, ho pensato che non avrei corso pericoli.» «Come ho potuto continuare a dormire con il rumore che dovete aver fatto... lui che entrava, tu che ti alzavi, la porta che sbatteva...» esclamò Jahdo. «È quello che mi sono chiesto, ragazzo, però è un fatto che hai continuato a dormire.» «Questa storia mi appare sempre più strana» intervenne Rhodry. «Credo che sia meglio andare a cercare Jill.» «Jill!» tuonò Meer. «Cosa c'entra il mazrak con tutto questo?» Rhodry non rispose, e Jahdo si accorse che stava fissando la rocca: nel guardare in quella stessa direzione vide una tenda di cuoio ricadere su una delle finestre che li sovrastavano, come se fino a quel momento qualcuno fosse stato intento a sorvegliarli. Appreso da una serva che Jill si trovava nella sala delle donne con la principessa, Rhodry incaricò la ragazza di andarla a chiamare con urgenza mentre lui aspettava insieme a Meer e a Jahdo fuori della sala, sul pianerottolo adiacente la scala a spirale: durante l'attesa il bardo mantenne un'espressione accigliata nel serrare con forza il bastone fra le mani, e Jahdo si esaminò con attenzione le nocche escoriate e sanguinanti. «Chiederemo a Jill di dare un'occhiata a quei tagli» commentò Rhodry, notando la cosa. «Me ne occuperò subito» interloquì Jill, che proprio in quel momento stava uscendo dalla sala. «Jahdo, cosa è successo?» «Non qui» avvertì Rhodry, in tono sommesso. «È bene che ne parliamo in un luogo dove si possa avere un po' d'intimità.» «Allora venite nella mia camera, così preparerò un infuso d'erbe con cui Jahdo possa disinfettare quelle mani.» Scesi nel cortile raggiunsero la torre laterale e salirono la scala ricurva fino all'ultimo piano, dove Jill li fece entrare nel proprio alloggio; aiutato Meer a sedersi su una cassapanca intagliata vicino alla porta, Jahdo prese posto sull'unica sedia disponibile mentre Rhodry si appollaiava sul davanzale, evitando peraltro di guardare in fuori e verso il basso. «Anche Nevyn sceglieva sempre camere all'ultimo piano delle torri» osservò. «Come mai voi maestri del dweomer tendete a preferire i luoghi elevati?»
«Per quanto riguarda Nevyn. gli piaceva il panorama. Io trovo semplicemente comoda questa sistemazione» replicò Jill, strappando a Meer un brivido e un brontolio sommesso. Girandosi verso un braciere addossato alla parte delle mura realizzata in pietra, accese quindi la legna e il carbone contenuti in esso con un semplice schiocco delle dita, gesto che indusse Jahdo a lasciarsi sfuggire uno strillo spaventato. «Non hai mai visto fare una cosa del genere prima d'ora?» domandò Jill, e quando il ragazzo rispose con un cenno negativo del capo spiegò: «In realtà sono gli spiriti elementari del fuoco a fare tutto, ed io mi limito a mostrare loro cosa voglio che accendano. Ora spiegami come ti sei fatto male alle mani e perché Rhodry sta usando tanto riserbo al riguardo.» Mentre Jahdo cominciava a raccontare quello che era accaduto, Jill si mise al lavoro, versando dell'acqua da una brocca in un contenitore di metallo e aggiungendovi delle erbe e altre sostanze per poi prendere a rimestare il tutto... ma anche se pareva concentrata sul suo lavoro, Rhodry sapeva però che stava prestando la massima attenzione alla storia del ragazzo. Quando si arrivò a Lord Matyc, Meer portò avanti la narrazione al posto di Jahdo e riferì la conversazione che lui e il nobile avevano avuto sulla sommità delle mura, intanto che Jill versava il fumante infuso odoroso di menta in una ciotola di terracotta e costringeva Jahdo a immergervi le mani, nonostante le sue grida e le sue proteste. «Nelle cantine si accumulano ogni sorta di muffe e di sostanze sporche» dichiarò, inflessibile. «So che brucia, ma dobbiamo pulire quei tagli. Meer, mi chiedo se stai pensando quello che penso io, e cioè che l'uomo scontento di cui Matyc stava parlando fosse lui stesso.» «In effetti è una sensazione che ho avuto, ma in tal caso perché mi ha raccontato ogni cosa? Stava forse verificando se poteva indurmi a passare dalla sua parte?» «Stava cercando di ucciderti» interloquì Rhodry, e mentre Meer imprecava nella sua lingua proseguì: «Per poterti spingere nel vuoto aveva bisogno di distrarti, e sono pronto a scommettere tutto il denaro che posseggo che è stato lui a strapparti di mano il bastone. Il nostro Matyc è però un uomo privo d'immaginazione e dubito che possa essere in grado d'inventare una storia lunga e interessante, il che spiega perché abbia dovuto raccontarti la sua... una rivelazione priva di conseguenze, dal momento che aveva intenzione di ucciderti.»
«Una buona supposizione, che collima con la mia opinione» osservò Jill. «Jahdo, ho il sospetto che Alli stesse soltanto eseguendo degli ordini quando ti ha rinchiuso in quella cantina.» «La scorsa notte ho visto Matyc dare una moneta a quel ragazzo» intervenne Rhodry. «I paggi si divertono sempre a provocarmi» obiettò Jahdo, con le lacrime agli occhi. «È vero» convenne Rhodry, «ma perché hanno scelto proprio questa particolare mattina e un'ora così antelucana per giocarti uno scherzo che dovevano sapere essere pericoloso, considerato che stavano sottraendo ad un cieco la sua guida? Non è quindi possibile che qualcuno li abbia istigati a farlo, sapendo che sono tutti ragazzi nobili, figli di uomini potenti, e che non sarebbero stati interrogati in modo approfondito in merito alla morte di uno straniero? E non è possibile che quello stesso qualcuno abbia poi pianificato di attirare Meer sui bastioni viscidi per la pioggia per farlo precipitare nel cortile? Un piano decisamente semplice e sicuro.» «Sono d'accordo con te» annuì Jill. «Se fossi stato un ragazzo come gli altri, Jahdo, saresti rimasto seduto per ore a gridare e a picchiare contro quella porta: ciò che non hanno calcolato e che tu potessi essere tanto intelligente da cercare un'altra via d'uscita. Purtroppo però» proseguì, scoccando un'occhiata a Rhodry, «non abbiamo nessuna prova al riguardo, nulla che possa convincere il gwerbret qualora si convocasse un malover.» «Credi che riuscirai mai a trovare qualcosa che possa convincere sua grazia?» Jill scrollò le spalle a indicare che non ne aveva idea, ma Rhodry notò l'espressione impotente del suo sguardo: per convincere sua grazia che uno dei nobili votati al suo servizio era un traditore ci sarebbe voluta la parola d'onore di un prete o forse addirittura di un intero tempio di preti. Di certo sua grazia non avrebbe dato ascolto ad una daga d'argento e ad un ragazzo di umile nascita. «Perché?» domandò d'un tratto Meer, in tono secco. «Perché uccidere proprio me?» «Non lo so» ammise Jill, «però mi chiedo se per caso sua signoria non adori quei falsi dèi di cui mi hai parlato e tema che tu lo possa riconoscere per quel traditore che è.» «Potrebbe darsi» annuì Meer, dopo aver riflettuto per un lungo momento, «ma anche in questo caso non sarà facile appurare se abbiamo ragione.»
«E nel frattempo non abbiamo idea di quello che Matyc potrà fare» aggiunse Rhodry. «Il mio parere è che gli si debba impedire di causare altri danni.» «Rhoddo!» ringhiò Jill, girandosi di scatto verso di lui. «Questo è un problema da sottoporre alla legge, non da risolvere con un assassinio.» «Ho forse detto di aver anche solo pensato di assassinare quell'uomo?» «Non lo hai fatto, però io ti conosco dannatamente bene e so che la prima cosa a cui pensi è sempre il sangue.» «Non ho nessuna intenzione di farmi impiccare per aver ucciso un nobile, quindi non ti preoccupare al riguardo. Quello che intendo fare è rimanere vicino a Meer e a Jahdo durante i prossimi giorni, chiedendo al tempo stesso ad Yraen di tenere d'occhio sua signoria.» «Questa è una splendida idea» approvò Jill, poi si volse verso il suo paziente e aggiunse: «D'accordo, ragazzo, adesso puoi togliere le mani dall'acqua, così verificheremo se quei tagli sono puliti.» Mentre la guardava lavorare, Rhodry rifletté che il tempo era loro alleato e nemico di Matyc, perché adesso che il gwerbret aveva dato ai suoi vassalli il permesso di tornare alle loro terre Matyc non avrebbe potuto indugiare oltre a Cengarn senza un motivo più che valido, e con la sua mancanza d'immaginazione avrebbe avuto parecchia difficoltà ad escogitarne uno. Come disse più tardi ad Yraen, mentre indugiavano entrambi a tavola dopo il pasto serale, se intendeva colpire ancora Matyc avrebbe dovuto agire al più presto. «Stanotte dormirò nella camera del bardo» aggiunse Rhodry. «Avere una daga d'argento che dorme sdraiata davanti alla soglia è una buona garanzia che nella stanza in questione non insorgeranno problemi.» «Questo è vero. Dove sono adesso Meer e il ragazzo?» «Nella camera di Jill, e credo che là siano al sicuro, almeno per ora.» «Non provocherei guai in presenza di Jill neppure se ne andasse della mia vita» dichiarò Yraen, poi fece una pausa di riflessione, masticandosi l'estremità dei baffi, e infine aggiunse: «Per quanto riguarda Matyc, forse potrei corrompere uno dei servi e ottenere un posto per dormire che sia vicino agli appartamenti di sua signoria. Direi che vale la pena di tentare.» Quasi inconsciamente, entrambi si girarono a guardare verso la parte opposta della grande sala e la tavola d'onore, intorno alla quale aleggiava qualche voluta di fumo azzurro proveniente dal focolare principale. Anche se il gwerbret e la sua signora si erano già ritirati, e il principe e Carra se n'erano andati da tempo, i due vassalli di Cadmar erano ancora seduti a
sorseggiare boccali di sidro e Matyc stava ascoltando con la consueta espressione impassibile mentre Lord Gwinardd gli raccontava una lunga storia di qualche tipo che, a giudicare dal modo in cui lui rideva nel narrarla, doveva avere un contenuto umoristico. «Non ho mai visto un uomo acido come Matyc» commentò Yraen. «Dopo tutto potrebbe almeno fingere un sorriso, se non altro per cortesia.» Quando si accorse che la sua storia non aveva avuto l'effetto sperato Gwinardd si alzò, rivolse un rapido inchino a Matyc e si allontanò a grandi passi dalla sala; rimasto solo, Matyc l'osservò andarsene senza la minima traccia di espressione sul volto, poi protese la mano verso la caraffa del sidro. «Credo che andrò a scambiare qualche parola con Matyc» decise intanto Yraen, dopo un momento di riflessione. «Uno dei suoi uomini mi ha detto che sua signoria adora scommettere su una partita di carnoic... e il gwerbret ha una scacchiera riposta in quella cassapanca addossata alla parete. Vado a vedere se Matyc è disposto ad accettare una sfida da una daga d'argento.» «Buona idea» approvò Rhodry, alzandosi a sua volta. «Io invece uscirò nel cortile per fare due passi.» Intanto il sole era ormai tramontato e le prime stelle stavano cominciando ad apparire al di sopra delle mura di Dun Cengarn. Vicino alle cucine i servitori andavano e venivano e gli sguatteri attingevano dal pozzo un secchio d'acqua dopo l'altro, ma a parte questo il cortile era vuoto e Rhodry ne approfittò per farne il giro completo alla ricerca di posti dove un uomo intenzionato a commettere un omicidio si sarebbe potuto nascondere, dirigendosi infine con passo tranquillo verso le porte principali, ancora aperte e sorvegliate da un paio di guardie. Al di là di esse la città si allargava verso valle, buia tranne per qualche bagliore di luce che scaturiva da una finestra aperta, e in lontananza si sentiva echeggiare la campana di bronzo di qualche tempio. «Un tuo amico è arrivato poco tempo fa, daga d'argento» commentò una guardia. «Era quel mercante nano... Odo, Thoto, o come diavolo si chiama.» «Ah. Mi chiedo se quel piccolo bastardo sia finalmente venuto a pagarmi la somma che mi deve.» «Ha detto che sarebbe andato nella grande sala. Ti auguro buona fortuna, perché spremere denaro ad un nano non è una cosa semplice.»
Risalito il pendio collinare in direzione della rocca principale, Rhodry vi entrò dalla porta posteriore: adesso i tavoli riservati ai cavalieri erano vuoti e una piccola folla era accalcata intorno ad un tavolo adiacente al focolare d'onore, intenta ad osservare una partita di carnoic e a scommettere sul risultato, prossimo a decidersi a giudicare dal silenzio che regnava nella sala. Un momento più tardi Rhodry scorse anche Otho, che sostava in disparte vicino al focolare e appariva irritato come se avesse avuto una spina conficcata nei calzoni, e si stava avviando per raggiungerlo quando Lord Matyc esplose in un'imprecazione seguita da un misto di gemiti e di acclamazioni degli spettatori. «Una buona mossa, daga d'argento» disse quindi Matyc, complimentandosi con il tono più riluttante e seccato che Rhodry avesse mai sentito in una situazione del genere. «Vogliamo fare un'altra partita?» «Un momento! Io non posso aspettare per tutta la notte i comodi di voi due fannulloni» intervenne Otho, facendosi largo fra la calca. «Yraen, ho bisogno di parlarti.» «Dovrai aspettare» scattò Matyc. prima che Yraen avesse il tempo di rispondere. «Adesso stiamo giocando.» «Non m'importa un accidente» ringhiò Otho. «Non riesco a trovare Rhodry, quindi ho bisogno di parlare con Yraen... ehi!» Schivando appena in tempo, Otho riuscì ad evitare il colpo sferratogli da Matyc con aria pigra e sprezzante, e nel notare la reazione del nobile Rhodry ne dedusse che perdere era la sola cosa capace di irritare sua signoria. «Razza di pustola proveniente dal posteriore di un mulo lebbroso!» scattò Otho. «Non provare a insultarmi, parodia di uomo dalle gambe mozze!» «Benissimo, ritiro quello che ho detto. Sei una piaga purulenta sulle parti tenere di una mula lebbrosa.» Matyc scattò in piedi tanto in fretta da rovesciare la panca che si trovava alle sue spalle, e mentre cavalieri e cani si affrettavano ad allontanarsi da lui calò con violenza entrambe le mani sul tavolo, fissando con occhi roventi Otho, che però rimase impassibile e ricambiò l'occhiata. «Prova ad estrarre quel tuo coltello... se osi» sussurrò Matyc, con voce pericolosamente uniforme. «Fermi» intervenne Rhodry, mettendosi davanti ad Otho. «Siamo nella sala di un gwerbret.» Matyc esalò il fiato in un lungo sospiro.
«È vero, daga d'argento, e ti sono grato per avermelo ricordato.» Se Otho avesse tenuto a freno la lingua o borbottato qualche frase conciliatoria la cosa sarebbe finita lì, ma il nano non era mai stato molto abile a controllare la propria loquela. «Molto bene» scattò. «Se questa misera parodia di un nobile mi farà le sue scuse le accetterò.» «Io scusarmi con te?» esclamò Matyc, con voce incrinata dall'ira incredula. «Prima ti vedrò morto.» Nel sentire quelle parole il capitano della sua banda di guerra si affrettò a prenderlo per un braccio, ma Matyc si liberò dalla sua stretta e si girò verso il nano con espressione fredda e impassibile come quella di una maschera di pietra. «Non temere» ringhiò, «non c'è pericolo che io versi del sangue nella sala di sua grazia. Però sarà meglio che domattina tu ti faccia trovare qui, nano, perché ho intenzione di sottoporre questa faccenda al malover del gwerbret.» Poi girò sui tacchi e si allontanò a grandi passi, seguito dal suo capitano e dai suoi uomini, mentre Yraen... che per tutto quel tempo era rimasto seduto sulla panca di fronte a quella del nobile... prendeva a scuotere il capo e a riporre le pietre del carnoic nel loro minuscolo contenitore. «Questa storia ti costerà una notevole quantità di denaro, Otho, ragazzo mio» dichiarò con un sogghigno. «Rhodry, credo che faremo meglio ad estorcergli la somma che ci deve, prima che Matyc lo trascini in tribunale.» Otho reagì con un ululato d'angoscia a cui gli altri cavalieri presenti risposero con una risata... finché Rhodry non si volse e li ridusse tutti al silenzio con un ringhio. «Questa faccenda è troppo seria per potersi risolvere con una multa» disse. «Sua signoria ritiene che il suo onore sia stato offeso e dubito che ci sia molto da ridere al riguardo.» Il mattino successivo i timori di Rhodry risultarono ampiamente fondati. Dal momento che non poteva rifiutare la richiesta di un suo giudizio da parte di un nobile, il Gwerbret Cadmar indisse il malover e mandò un paio dei suoi uomini in città a prelevare Otho alla locanda e un prete di Bel al tempio. Intanto alla fortezza la grande sala si riempì al massimo della sua capienza perché tutti volevano assistere al malover: perfino Meer e Jahdo trovarono un po' di posto in fondo alla sala, mentre quelli che arrivarono in ritardo dovettero accontentarsi di accalcarsi vicino alla porta e alla finestra;
quanto alla banda di guerra di Matyc, per prevenire disordini venne costretta a rimanere negli alloggiamenti. In qualità di testimoni, Rhodry e Yraen s'inginocchiarono al centro della sala, in prima fila, e gli altri posti migliori... laterali ma vicini alla tavola d'onore... vennero naturalmente assegnati a Lord Gwinardd, al Principe Daralanteriel, alla moglie del gwerbret e a Carra, che appariva pallida per la preoccupazione. «Una volta che i servi ebbero girato di traverso la tavola d'onore e disposto dietro di essa il suo seggio, Cadmar sedette al centro del lato lungo del tavolo con un prete da un lato e uno scriba dall'altro; davanti a lui sul piano di legno graffiato e intaccato era posata la dorata spada cerimoniale dei gwerbret di Cengarn. Ad un cenno del gwerbret Otho, che secondo il diritto concessogli dalla legge si era presentato scortato da tre consanguinei, si venne a inginocchiare fra la tavola e i testimoni, sulla sinistra rispetto al gwerbret, mentre Matyc s'inginocchiò sulla destra. Presa la spada, Cadmar la levò quindi al cielo con la punta rivolta verso l'alto.» «Dichiaro aperto il malover» scandì. «Che gli dèi abbattano chiunque osi mentire durante il suo corso.» Batté quindi per tre volte il pomo della spada sul tavolo e infine adagiò l'arma su di esso, proseguendo: «Lord Matyc di Brin Mawrvelin parlerà per primo ed esporrà la sua lamentela, poi il mercante nano Otho risponderà alle sue accuse. Infine i testimoni diranno ciò che hanno visto.» Pervaso di una gelida calma, Lord Matyc si alzò in piedi e fornì la propria versione dell'incidente. «Ammetto di aver levato la mano contro quest'uomo, Vostra Grazia» concluse, «ma non è mai stata mia intenzione colpirlo. Si trattava soltanto di una sorta di schiaffo, come per allontanare una mosca.» Lo scriba si affrettò ad annotare qualcosa. «E quale insulto ti ha rivolto quest'uomo, Lord Matyc» chiese Cadmar, «per darti l'impressione che fosse in gioco il tuo onore?» Matyc esitò e impallidì leggermente in volto. «A meno che tu non ripeta l'insulto non posso certo giudicarne la gravità, non trovi?» insistette Cadmar. «Benissimo, Vostra Grazia. Mi ha definito una piaga purulenta sulle parti tenere di una mula lebbrosa.» Carra scoppiò a ridere. Senza dubbio fu soltanto una reazione dovuta all'ansia, ma la sua risatina echeggiò così stentorea nel silenzio che quasi tutti poterono sentirla, e in fondo alla sala un'anonima serva reagì ridacchian-
do a sua volta, con un effetto troppo trascinante perché semplici esseri umani potessero resistervi. Un momento più tardi l'intera sala si mise a ridere, uomini e donne che ridacchiavano, sogghignavano o ridevano apertamente, e quel chiasso si protrasse finché Cadmar non si issò in piedi e picchiò con forza sul tavolo. Le risate si spensero bruscamente, ma ormai Matyc stava tremando per la vergogna e l'ira, con le labbra esangui, il volto paonazzo e i pugni serrati lungo i fianchi. La partita è persa, pensò Rhodry, e nel guardare in direzione dei parenti di Otho li vide levare gli occhi al cielo come se stessero pregando. «Otho, mercante dei nani» recitò intanto Cadmar. «Neghi quest'accusa?» «No, Vostra Grazia, perché lui ha meritato ogni parola che gli ho detto. Come potevo sapere che non aveva intenzione di colpirmi? Nel veder arrivare una mano grande quanto la mia faccia non ho certo avuto il tempo di soppesare le sottigliezze verbali.» La discussione si protrasse sempre più accesa, mentre l'aria nella grande sala si faceva calda e maleodorante a causa della grande quantità di persone ammassate in essa, e per tutto il tempo Matyc mantenne un atteggiamento impassibile e un'espressione calma sul volto esangue, al contrario di Otho che si andò progressivamente infuriando e prese a ringhiare ogni singola parola. «Trovo che siate entrambi colpevoli in pari misura» scattò infine Cadmar, protendendosi in avanti con espressione accigliata. «Questa stupida lite non ha motivo di essere.» «Non ha motivo di essere, Vostra Grazia?» ritorse Matyc, avanzando di un passo. «Quest'uomo mi ha insultato davanti a te, ai miei pari, al mio capitano, ai miei uomini, ai servi e a queste daghe d'argento, e adesso le sue parole mi stanno coprendo di vergogna nella tua stessa sala, esponendomi alle risate beffarde dei miei pari e di chi mi è inferiore... e tu dici che questa lite non ha motivo di essere?» Cadmar esitò e scoccò un'occhiata al prete. «L'onore di un nobile è più prezioso dell'oro» recitò il prete, attingendo alle leggi. «Se non ha onore agli occhi del suo popolo, come può un nobile governare? Gli uomini che lo deridono in segreto gli obbediranno forse apertamente? Di conseguenza un nobile deve ottenere soddisfazione per la minima macchia gettata sul suo più grande tesoro.» «Questo è vero» ammise Cadmar, con un sospiro. «D'alto canto, Matyc, tu non sei del tutto privo di responsabilità, considerato che un colpo diretto
alla testa di un uomo costituisce comunque una minaccia. Quale compensazione vorresti che ti assegnassi?» chiese quindi, e guardando verso il prete aggiunse: «Qual è il prezzo abitualmente previsto per questo genere di cose?» Prima che sua santità potesse parlare, Matyc tornò però a farsi avanti. «Non voglio denaro o bestiame, Vostra Grazia. Esigo un confronto armato in modo che siano gli dèi a determinare chi è colpevole e meritevole di ignominia.» «Secondo la legge sua signoria ha il diritto di richiedere una cosa del genere» affermò il prete, «ma in questa situazione io lo sconsiglierei.» «Esigo ciò che mi spetta di diritto» ringhiò Matyc. Nel sentire quelle parole Otho si lasciò cadere pesantemente a sedere, con la bocca aperta come quella di un pesce in secca; poco lontano Carra si premette le mani sulla bocca per soffocare un grido e tutt'intorno la folla prese a borbottare mentre il gwerbret si protendeva verso il prete e scambiava con lui qualche parola in tono sommesso. Vedendo dal canto suo il modo di risolvere una volta per tutte il problema costituito da Lord Matyc, d'un tratto Rhodry si fece avanti e rivolse un profondo inchino in direzione della tavola d'onore. «Signori, Vostra Grazia, e tutti voi che siete qui riuniti» esordì, girandosi a fissare con espressione significativa la folla. «Otho è un vecchio perfino secondo gli standard del suo popolo, e anche se fosse giovane il suo braccio risulterebbe comunque lungo la metà di quello di Lord Matyc, penalizzandolo in un duello. Se pure Otho fosse alto quanto Lord Matyc, rimarrebbe comunque da considerare il fatto che non ha mai usato una spada in tutta la sua vita.» La folla cominciò a mormorare e Matyc scoccò a Rhodry un'occhiata velenosa; dopo aver lasciato che i commenti dei presenti si protraessero per qualche momento, Cadmar impose infine il silenzio. «La daga d'argento ha ragione» affermò. «In queste circostanze richiedere un confronto armato equivarrebbe soltanto a recare offesa agli dèi.» «Vostra Grazia!» esclamò Matyc. «Come potrò allora ottenere compensazione?» «Vostra Grazia» intervenne ancora Rhodry, inginocchiandosi davanti al gwerbret, «mi offro come campione per Otho, in modo da salvaguardare la giustizia del procedimento.»
La folla accennò ad applaudire ma subito si trattenne, mentre Matyc emetteva un suono ringhiante nel rendersi conto di essersi messo in trappola da solo. «Per gli dèi!» scattò intanto Cadmar. «Questo stupido incidente sta degenerando in maniera sproporzionata! Vostra Santità, non posso accettare tutto questo!» «Ho poco da dire al riguardo, Vostra Grazia» replicò il prete, scrollando le spalle e sollevando appena le mani in un gesto d'impotenza. «Matyc ha formalmente richiesto un confronto armato e adesso non c'è nulla che io possa fare per impedirlo: quando si trova al cospetto degli dèi, un uomo può parlare una volta sola.» «Intendi ritirare la tua richiesta?» domandò Cadmar a Matyc. «Come posso farlo e conservare anche soltanto un brandello d'onore? Pensi che potrei camminare ancora a testa alta se la mia gente pensasse che ho avuto paura di una daga d'argento? Il dio mi aiuterà, Vostra Grazia, e allora vedremo chi ha diritto o meno ad avere giustizia.» Otho sospirò e si asciugò il sudore dalla fronte con la manica della camicia. «Così sia, dunque» dichiarò il gwerbret. «Combatterete con le armi rituali: non avrete la protezione della cotta di maglia o dello scudo, ma avrete la spada nella mano destra e una daga nella sinistra. Lord Matyc, figlio di Arddyr, accetti queste condizioni?» «Le accetto, Vostra Grazia» rispose Matyc, con voce salda. «Mi sottometto all'arbitrato degli dèi.» «E tu, Rhodry, figlio di... chiedo scusa, daga d'argento, ma non conosco il nome di tuo padre.» «Devaberiel Mano d'Argento, Vostra Grazia.» Un coro di sussurri echeggiò nella grande sala e Cadmar rimase per un momento paralizzato dallo stupore prima di sollevare la spada per ottenere il silenzio, che scese immediato. «Molto bene. Rhodry, figlio di Devaberiel Mano d'Argento, ti sottometti all'arbitrato degli dèi di Deverry e di quelli del popolo di tuo padre?» «Sì, Vostra Grazia.» «Vostra Santità» continuò Cadmar, rivolto ora al prete, «è stata convocata qui per una questione di giustizia, e giustizia avremo. Sei disposto a presiedere al duello?» «Lo farò, Vostra Grazia, ma sarà il Grande Bel ad emettere il giudizio, non io o qualsiasi altro mortale.»
Senza attendere che il gwerbret o il prete dicessero altro le bande di guerra cominciarono a defluire dalla grande sala immerse in un letale silenzio che indusse la folla degli spettatori a cedere loro il passo sia pure fra mille borbottii di protesta. Per quei cavalieri il rito del combattimento era un sigillo apposto alla loro vita di guerrieri, un segno esteriore e visibile del fatto che il loro dispensare morte aveva un che di santo agli occhi degli dèi, e Rhodry aveva abbastanza in comune con essi da sapere che nel profondo del loro cuore quegli uomini erano grati di avere l'occasione di assistere a questo raro atto di adorazione. Procedendo da solo, circondato da un piccolo spazio vuoto che sembrava impenetrabile quanto le mura di una fortezza a giudicare da come nessuno osava avvicinarglisi, Rhodry seguì gli altri all'esterno della fortezza, dove su un tratto di prato il prete di Bel misurò il lungo rettangolo del terreno destinato allo scontro e ne segnò i contorni con il suo falcetto d'oro. Gli uomini di Matyc presero quindi posizione su un lato del rettangolo, Otho e i suoi parenti si schierarono dall'altro e gli uomini del gwerbret si sparpagliarono tutt'intorno per impedire disordini; in camicia e calzoni, e a piedi nudi, Rhodry e Matyc si portarono infine al limitare del rettangolo e consegnarono le loro armi al prete, che baciò e benedisse con la preghiera ciascuna di esse prima di ordinare a Rhodry e a Matyc di inginocchiarsi davanti a lui in modo da posare la mano sul capo di ciascuno e recitare una lunga preghiera per chiedere a Bel di giudicare chi era sincero e chi era nel falso. Bel era il dio del Sommo Re, e per tutta la sua vita, sia come daga d'argento che come grande nobile, Rhodry si era sempre considerato un servitore del Sommo Re, con una devozione più grande di quella che qualsiasi uomo di Deverry poteva nutrire nei confronti di una delle divinità; nell'inginocchiarsi davanti al prete per risolvere quella questione di giustizia, lui avvertì improvvisamente il tocco di un'altra mano... una mano fredda e dura... che si posava sulla sua, e seppe che il dio era venuto a presenziare al duello. Mentre la preghiera si protraeva in mezzo al silenzio dei presenti, Rhodry sentì il sangue che gli si raggelava, i peli che gli si rizzavano sul collo e sulle braccia, e una profonda quiete che gli si diffondeva nel cuore; intorno a lui la luce del sole era più penetrante e intensa di come fosse mai stata e al suo fianco Matyc stava tremando leggermente, anche se di certo quel tremito era dettato dall'ira e non dal timore. Finalmente il prete concluse la sua preghiera ed entrambi si alzarono e recuperarono le armi dalle
mani del gwerbret, che stava aspettando lì accanto come un paggio; nell'incontrare lo sguardo di Rhodry, Cadmar si ritrasse involontariamente sulla spinta di un timore improvviso, ma Rhodry si limitò a sorridere e a dirigersi a grandi passi verso il suo lato del terreno di scontro. «Cominciate!» esclamò il prete. «Possa il Wyrd di ciascuno combattere con lui e per lui.» Oltrepassato il sacro confine del terreno di scontro Rhodry si portò lentamente verso il suo centro; Matyc dal canto suo esitò, accennò a seguirlo, esitò ancora e cominciò a spostarsi in cerchio. Decidendo fra sé che se il nobile voleva allungare il gioco lui era disposto ad accontentarlo, Rhodry prese a imitare le sue mosse ed entrambi girarono l'uno intorno all'altro per qualche tempo, avvicinandosi sempre di più con una serie di finte e di ritirate che fecero scintillare al sole la daga d'argento di Rhodry. D'un tratto Matyc si scagliò alla carica, ma Rhodry si spostò con eleganza da un lato e si fece sotto per colpire nel momento in cui il suo avversario sollevava d'istinto il braccio sinistro per parare il suo assalto con lo scudo di cui però era privo. Allorché una chiazza di sangue affiorò sulla manica del nobile Rhodry scoppiò in una risata e sentì l'abituale crisi berserker affondare i propri freddi artigli nel suo cuore e impadronirsi di lui, mentre Matyc lanciava un grido frenetico e con le forze residue del braccio spezzalo scagliava la daga dritta verso la testa dell'avversario. Schivando l'arma, Rhodry permise all'avversario di indietreggiare barcollando con la morte negli occhi, poi rise ancora e scattò all'attacco continuando a ridere nel vibrare un fendente laterale. L'acciaio rintoccò contro l'acciaio quando Matyc parò il colpo, respirando affannosamente e contrattaccando per qualche istante prima di tentare un disperato affondo che si rivelò un clamoroso errore in quanto Rhodry intercettò la sua spada con la propria e lasciò che l'impeto stesso dell'affondo di Matyc la facesse volare lontano sull'erba. Respirando a fatica il nobile si erse sulla persona per fronteggiare la morte. «Va' a prenderla» disse però Rhodry, indicando l'arma con la propria spada. «Nessuno dirà mai che io abbia ucciso un uomo disarmato.» Per un momento Matyc lo fissò con espressione incredula, poi si mosse lentamente all'indietro, senza distogliere gli occhi da lui e comportandosi come il proverbiale coniglio alle prese con una donnola nel chinarsi a recuperare la spada; nel frattempo Rhodry approfittò della pausa per riporre la daga d'argento nel fodero in modo che lo scontro si svolgesse in condizioni di assoluta parità... e sentì che il dio era compiaciuto del suo compor-
tamento. Di nuovo armato e pronto, Matyc tornò verso di lui e riprese a girare in cerchio verso la sua sinistra, con il chiaro intento di attaccarlo sul lato privo di protezione, ma Rhodry rifiutò di adeguarsi alla sua tattica e con una fredda risata eseguì un affondo che intrappolò nuovamente la lama del nobile: mentre la sua risata saliva di tono. Rhodry spinse quindi la spada da un lato nel portare avanti l'affondo, e Matyc reagì con un grugnito e una convulsione accompagnata da un fendente. Rhodry registrò la ferita alla spalla sinistra soltanto come una linea di fuoco freddo che gli solcava la carne e continuò a fissare Matyc mentre questi tossiva sputando sangue e si accasciava ai suoi piedi morente, con lo sguardo rivolto verso il cielo e le labbra che sillabavano una parola... che Rhodry riconobbe con orrore essere il nome di Alshandra... prima di spegnersi con un ultimo, soffocato colpo di tosse. Protendendo le braccia verso il cielo il prete levò un lungo e inarticolato grido al grande Bel a cui Rhodry unì il proprio grido di vittoria. «Il dio ha pronunciato il suo giudizio!» esclamò intanto Cadmar. «Otho, il mercante nano, è innocente dall'aver recato danno o insulto a Matyc figlio di Arddyr, ai suoi parenti e al suo clan. Che nessun uomo porti avanti una faida a cui gli dèi hanno posto fine su questo santo terreno di scontro.» Mentre le bande di guerra assiepate tutt'intorno levavano il loro grido di assenso, Rhodry sentì la presenza del dio abbandonarlo: improvvisamente raggelato e con il respiro affannoso si accasciò in ginocchio e si serrò con la mano destra la spalla sinistra, sentendo il sangue che gli fluiva caldo fra le dita. Ridendo e gridando per il sollievo, Otho e i suoi parenti si affrettarono a raggiungerlo. «Puoi camminare, daga d'argento?» domandò Jorn. «Avanti, lascia che ti sostenga. Ti dobbiamo tutto l'aiuto che possiamo elargire.» «Ti ringrazio ma è soltanto un taglio poco profondo» replicò Rhodry. issandosi in piedi con l'aiuto del nano. «Ciò di cui ho davvero bisogno è qualcosa da bere.» «Per come hai combattuto riceverai del sidro proveniente dalla mia stessa tavola, daga d'argento» dichiarò Cadmar, che era intanto sopraggiunto. «È tuo diritto come vincitore e favorito del dio.» «Un diritto che prescinde dai problemi e dal dolore che posso aver causato a Vostra Grazia?» ribatté Rhodry. «Non credo che chiederò quella coppa di sidro.» Il gwerbret sospirò e distolse lo sguardo, deciso a non mostrare il dolore che doveva provare per la morte di un uomo che ancora credeva essergli
stato fedele. La sua banda di guerra e quella di Lord Gwinardd si accalcarono però intorno a Rhodry per fissarlo con reverenza, in quanto agli occhi di quegli uomini lui adesso era e sarebbe stato per sempre un guerriero toccato dal dio; qualcuno fra i più audaci arrivò addirittura a sfiorare con un dito la sua manica insanguinata per potersi segnare la fronte con il suo sangue. In quel momento Jill si fece infine largo fra la calca. «Otho, Jorn, accompagnate Rhodry alla vostra locanda» ordinò. «Vostra Grazia, ritengo che sarebbe assai poco saggio tributare alla daga d'argento gli onori che pure le sono dovuti, in quanto il clan di Matyc mi preoccupa molto più degli dèi e della loro passione per i dettagli.» Il suo sguardo si spostò quindi su Rhodry e lei aggiunse: «Adesso andrò a prendere i miei medicinali e ti raggiungerò alla locanda. Quella ferita non è tanto grave da impedire ad un uomo come te di arrivarci con i suoi mezzi.» «Credo di aver già detto qualcosa del genere io stesso» sorrise Rhodry. «D'accordo, ti aspetterò là.» Con l'aiuto dei nani si avviò quindi lentamente lungo le strade tortuose di Cengarn, dove il calore del sole si abbatteva spietato sull'acciottolato dal momento che era ormai quasi mezzogiorno. Mentre camminava, Rhodry si accorse d'un tratto che ogni cosa pareva fluttuargli intorno come se stesse guardando attraverso un pezzo di vetro soffiato; il sudore gli faceva bruciare gli occhi ed era vagamente consapevole che i cittadini si stavano fermando a fissare la loro strana piccola processione, mormorando commenti che erano per lo più supposizioni inerenti a qualche rissa da taverna. Finalmente il gruppetto raggiunse un pendio collinare tanto erto da essere quasi un'altura, nel quale era inserita una porta di legno dagli spessi cardini di ferro, fiancheggiata da due pini stentati; borbottando in tono preoccupato a proposito della sua ferita e del clan di Matyc, i nani accompagnarono Rhodry lungo un corridoio di pietra attraversato da correnti continue di aria sorprendentemente fresca e rischiarato dall'irreale luce azzurra emanata dai funghi fosforescenti riposti in una serie di cestini appesi lungo la strada. Dopo aver percorso un paio di centinaia di metri il gruppetto arrivò infine ad una camera rotonda del diametro di una quindicina di metri, dove alcuni bassi tavoli dotati di piccole panche erano disposti intorno ad un focolare centrale. In esso ardeva un fuoco su cui era sospesa un'enorme pentola, appesa ad una sbarra posta di traverso su due alari. Sollevando istintivamente il capo per seguire le volute di fumo che si levavano dal fuoco, Rhodry vide che esse salivano verso una bocca di ventilazione inserita nel soffitto e affiancata da altre due che permettevano l'af-
flusso di aria fresca. Dirigendosi verso il locandiere, che era fermo accanto ad uno dei tavoli intento a lucidare boccali con aria assonnata, Otho gli disse qualcosa nella lingua dei nani a cui il locandiere rispose scuotendo il capo e oltrepassando a precipizio una delle porte d'accesso alla locanda. «Adesso siediti, ragazzo» consigliò intanto Jorn. «Ecco, se ti siedi qui su un tavolo Jill avrà minori difficoltà a medicarti.» Rhodry obbedì senza protestare, fin troppo lieto di fare come gli veniva detto perché adesso tutta la manica sinistra e il lato della camicia erano intrisi di sangue; intanto il locandiere tornò verso di loro munito di una fiasca d'argento e di un bicchierino di vetro. «Bevi un po' di questo» consigliò. «Scalda il cuore di un uomo.» In effetti quel liquore dal chiaro colore dorato che aveva un aspro sapore d'erbe mescolate ad alcool puro parve incendiare l'intero corpo di Rhodry, ma dopo essersi costretto a inghiottirlo lui dovette ammettere di sentirsi più rilassato e di avere la mente più limpida. Jill arrivò di lì a poco munita di un grosso sacco di tela pieno di medicinali, e nell'appollaiarsi accanto a lui sul tavolo annusò attentamente l'aria. «Se hai bevuto quella roba è inutile che ti prepari un infuso di erbe» dichiarò quindi. «Per prima cosa taglierò quella camicia. Per fortuna Carra te ne ha mandata una nuova come segno di ringraziamento per aver aiutato Otho. Mi ha incaricata di riferirti che l'ha cucita lei stessa.» «In tal caso rispondile che mi sento doppiamente onorato» replicò Rhodry, mentre Otho si affrettava a distogliere lo sguardo senza però riuscire a nascondere le lacrime. Rhodry si sottopose quindi alle cure di Jill, che procedette a disinfettare e a ricucire la ferita mentre Otho e Garin discutevano in tono urgente nella loro lingua e il locandiere portava via la camicia insanguinata per tornare con una grossa caraffa e alcuni boccali che Mic provvide a riempire di sidro per tutti, tranne per Jill che lo rifiutò. «Credo sia meglio che mantenga la mente lucida» commento. «Rhoddo, sei in grado di infilarti dalla testa la camicia nuova?» Con il suo aiuto lui ci riuscì, ma lo sforzo lo lasciò con il respiro così affannoso da indurre Jorn ad insistere perché si sistemasse sulla sedia migliore, su cui erano stati ammucchiati alcuni cuscini per compensare la sua statura, mentre tutti si concedevano un altro brindisi e Jill cominciava a riporre i suoi medicinali. «Non avrei mai creduto di vivere tanto a lungo da trovarmi un giorno a dovere un favore ad un elfo» commentò infine Otho.
«Per gli dèi!» ringhiò Jorn. «Vuoi stare attento a come parli? È stato questo tuo modo di esprimerti che per poco non ti ha fatto ridurre a pezzi per opera del defunto e non compianto Matyc.» «Ha ragione» rincarò Garin. «Chiedi scusa.» «Non ce n'è bisogno» intervenne Rhodry. «Conosco Otho da troppo tempo per aspettarmi da lui un po' di cortesia.» «Bene, continua così» ribatté Otho, sfoggiando però un sorriso, per quanto fugace, e sollevando il boccale in direzione di Rhodry nell'aggiungere: «D'accordo, daga d'argento. Dimmi quale prezzo apponi al mio debito... so che ce n'è uno e so anche che sarà elevato.» «Questo è ovvio, Otho, però non voglio oro o preziosi. Invece ho bisogno di aiuto per rintracciare qualcosa che si trova sulle montagne settentrionali, qualcosa che devo ritrovare al più presto, perché anche se adesso è estate l'inverno tende ad arrivare prima di quanto lo si desideri.» Otho gemette e levò gli occhi verso il soffitto. «Di cosa si tratta?» domandò intanto Jorn. «Di una vena di metallo? Di gioielli o di altri preziosi?» «Nulla di tutto questo. Sto cercando un drago.» Jorn emise un verso indistinto, Garin impallidì in volto e Mic si lasciò cadere seduto per terra... e soltanto di fronte a quella palese manifestazione di terrore da parte loro Rhodry si convinse infine che da qualche parte esisteva davvero un drago. Scoccando una fugace occhiata in direzione di Jill, si accorse quindi che lei lo stava fissando con una certa ammirazione. «Per tutti i vermi!» esplose intanto Otho. «Perché non chiedi invece la luna, daga d'argento? In quel caso potremmo approntarti una scala abbastanza lunga da permetterti di salire nel cielo per portarla giù.» «Ho sempre sentito dire che il Popolo della Montagna ripaga i suoi debiti. Oppure non è così?» ribatté Rhodry. Alle sue parole fece seguito un istante di silenzio tanto assoluto da essere quasi rumoroso, e in base all'esperienza acquisita presso la corte reale lui si rese conto di aver commesso un grave atto di scortesia, senza però essere in grado di stabilire se avesse lanciato una sfida o fosse stato semplicemente offensivo. Infine Garin scoccò ad Otho un'occhiata velenosa accompagnata da alcune parole nella loro lingua, e si rivolse a Rhodry. «Vorrei chiederti di non giudicarci tutti in base all'esempio offerto dal mio parente» disse. «Non intendevo offendere. Non date peso alle mie parole.»
«Noi diamo sempre peso ad un debito e al suo pagamento» dichiarò Garin, trapassando Otho con un'altra significativa occhiata. «E dal momento che ti dobbiamo la vita di Otho avrai in cambio il tuo drago.» «Ci metteremo qualche tempo a radunare un esercito» intervenne Jorn. «Spero che tu non abbia troppa fretta.» «Non ho bisogno di un esercito» precisò però Rhodry. «Tutto quello che vi chiedo è di aiutarmi a trovare quella bestia, poi penserò io a catturarla.» I nani si fissarono a vicenda per un altro lungo momento, poi si voltarono a squadrare Rhodry in maniera tale che lui non ebbe bisogno del dweomer per sapere che lo stavano giudicando un idiota e un pazzo. Infine Garin si girò verso Jill con una silenziosa supplica nello sguardo. «Se al mondo c'è qualcuno in grado di domare un drago quello è Rhodry» dichiarò però lei. «Oh» sospirò Garin. «Hai detto "se"? Benissimo, allora.» «Humph» borbottò Otho, pettinandosi la barba con dita nervose. «Tutto considerato adesso mi dispiace di non aver permesso a Matyc di farmi a pezzi, perché quella sarebbe stata una morte più rapida e molto più piacevole.» «Alcuni di noi stanno pensando la stessa cosa» commentò distrattamente Jorn, come se si stesse rivolgendo al soffitto. «I parenti però sono sacri, un debito è sempre un debito e non c'è altro da aggiungere.» «Infatti» convenne Garin. «Dovremo andare da Enj.» «E dove sarebbe?» intervenne Otho. «Non dove, bensì chi» lo corresse Garin. «Enj è nato qualche anno dopo che tu ci hai... er... ci hai lasciati in maniera così improvvisa.» «Anche il dove non è cosa da poco» intervenne Jorn, «considerato che il viaggio fino ad Haen Marn è già una difficoltà in se stesso.» «In tal caso dovremo sopportarlo» ribatté Garin, scoccandogli una cupa occhiata che pareva di avvertimento. «Enj è la massima autorità in fatto di draghi e di montagne di fuoco, e se c'è qualcuno in grado di trovare la nostra preda quello è lui.» «Ma è pazzo» gemette Mic. «Pazzo delirante.» «Oh, splendido!» esclamò Jill, posando per terra il suo sacco e girandosi verso i nani. «Un pazzo come guida è proprio ciò di cui Rhodry ha bisogno... e poi cosa sono questi discorsi inerenti ai vulcani?» «È là che vivono i draghi» rispose Jorn. «I grandi wyrm sono creature a sangue freddo e d'inverno morirebbero senza una fonte di calore. Inoltre
non definirei Enj un folle. Diciamo piuttosto che tutti i membri del suo clan hanno... er... ecco... hanno una mente un po' insolita.» «Io dico che sono pazzi» scattò Mic. «Decisamente, assolutamente pazzi.» «Otho, hai presente il focolare a forma di drago che si trova nella grande sala di sua grazia?» chiese Jorn, voltandosi sulla panca in modo da volgere le spalle a Mic. «Ebbene, è stato il clan di Enj a intagliarlo.» «Ah, capisco» annuì Otho, con l'aria di chi la sa lunga. «In tal caso va bene.» «Questo cosa vorrebbe dire?» domandò Jill. «Senza dubbio si tratta di una scultura splendida, ma ciò cosa prova?» «Nonostante tutto il tuo dweomer tu non potresti capire, Jill» intervenne Garin. «È una cosa comprensibile soltanto per il Popolo della Montagna.» Jill levò gli occhi al cielo ma tenne a freno la lingua, mentre Rhodry si limitava a sogghignare perché era troppo stanco per scoppiare in una divertita risata berserker. «Montagne di fuoco, bestie pericolose, nani folli... oh, quello a cui mi stai mandando incontro sembra proprio un bel viaggetto rilassante, Jill» commentò. Jill si limitò a contrarre il volto in una smorfia acida senza rispondere. «Hall!» sbuffò intanto Otho. «Sogghigna finché vuoi, daga d'argento, ma rifletti su una cosa: se ti scorteremo in quest'assurda missione sarai costretto a camminare.» «A camminare?» ripeté Rhodry, sentendo il proprio sogghigno svanire a poco a poco. «Cosa intendi con questo?» «Quello che ho detto. Come puoi aspettarti che dei cavalli sopravvivano ad un viaggio del genere, considerato che potremmo perfino finire per procedere nel sottosuolo? Quindi si tratta di camminare» ribadì Otho, sollevando una mano con le dita rivolte verso il basso e mimando dei passi con l'indice e il medio. «So come siete fatti voi elfi: avete tutti i piedi teneri e delicati, e senza un cavallo vi sentite perduti.» «Otho, vuoi tenere a freno la tua dannata lingua?» ringhiò Garin. «Devi la tua vita a quest'uomo!» «E mi sembra che lui mi stia chiedendo di restituirgliela immediatamente, andando a spasso per le montagne a caccia di draghi» ritorse Otho, ergendosi sulla persona con estrema dignità. «Non è un grande affare, giusto?»
«Potresti pagare Enj e il suo clan per indurli ad addossarsi il tuo debito di sangue» suggerì Jorn. «Hall! E quanto chiederebbero per una cosa del genere? Senza dubbio pretenderebbero ogni gemma che posseggo e finirei sul lastrico!» «Sempre meglio che essere morto, giusto?» domandò Rhodry, tornando a sogghignare, ma Otho si limitò a sbuffare con disprezzo. «Adesso è meglio che torni alla fortezza, perché ci sono cose che hanno bisogno di essere sistemate» decise intanto Jill, raccogliendo di nuovo il suo sacco. «Quanto a te, Rhodry, ti suggerisco di rimanere dove sei, sempre che i nostri amici siano d'accordo.» Con la sola eccezione di Otho, tutti i nani annuirono in segno di assenso. «Splendido» proseguì Jill. «Dirò a Yraen di portarti il rotolo delle coperte e il resto delle tue cose in modo che tu non debba venire a prenderle, in quanto Lord Matyc ha un fratello che adesso si sentirà vincolato dall'onore a indagare sull'accaduto. A proposito, te la senti di camminare, dal momento che vorrei scambiare qualche parola con te in privato?» Per evitare a Rhodry di alzarsi i nani si ritirarono sul lato opposto della locanda, dove presero a discutere fra loro in merito al modo migliore per avvicinare il misterioso Enj. Jill intanto si accoccolò accanto alla bassa sedia di Rhodry. «Ti avevo chiesto di evitare di arrivare all'assassinio» sibilò. «Assassinio? Mi hai chiesto di risolvere la questione secondo la legge, ed è esattamente quello che ho fatto. L'intera questione è stata giudicata direttamente da un prete di Bel, giusto?» «È vero, ma è anche vero che hai colto al balzo l'occasione di avere Matyc a portata della tua spada.» «E allora? Era un traditore.» «Pensavamo tutti che fosse un traditore, il che non implica che lo fosse davvero.» Rhodry avrebbe voluto controbattere, ma la testa gli girava a causa del sidro bevuto e della perdita di sangue; accorgendosene, Jill si alzò in piedi scuotendo il capo. «Adesso è inutile discuterne. Devo tornare alla fortezza ma verrò qui di nuovo domani, quando sarai sobrio.» «D'accordo. Per gli dèi, potresti almeno ringraziarmi.» Lei accennò a parlare, poi contrasse le labbra in una linea tesa e sottile e gli volse le spalle.
«Otho!» chiamò. «Vuoi vedere se il locandiere è in grado di procurare al tuo salvatore un letto in grado di contenerlo?» Prima che Rhodry riuscisse a pensare a qualcosa da ribattere si issò quindi il sacco in spalla e si allontanò a grandi passi mentre lui scivolava nel sonno lì dove si trovava. Al suo ritorno alla fortezza Jill scoprì che il cortile si era trasformato in un caos di cavalli e di uomini che gridavano. Oltrepassate le porte senza farsi notare seguì la curva delle mura fino ad aggirare quella calca e a raggiungere senza problemi il complesso della rocca, dove trovò il Gwerbret Cadmar fermo sulla soglia della grande sala e intento a parlare con un cavaliere inginocchiato davanti a lui, mentre il ciambellano e il siniscalco attendevano alle sue spalle con atteggiamento ansioso. Tutti e quattro gli uomini avevano l'aria molto preoccupata, soprattutto il cavaliere inginocchiato. «Se Vostra Grazia ci ordinerà di rimanere noi saremo comunque costretti a tentare di partire» stava dicendo quest'ultimo. «Tanto vale che Vostra Grazia c'impicchi direttamente e risparmi un combattimento ai suoi uomini.» «Non farò nulla del genere, ragazzo, e non vi ho neppure ordinato di rimanere. Vi ho solo chiesto di prendere in considerazione la possibilità di farlo, ecco tutto.» «Vostra Grazia, io non posso...» «Lo so» lo interruppe Cadmar, sollevando la mano in un gesto secco per ottenere silenzio. «L'onore connesso a questa situazione esige che tu porti a casa gli uomini di sua signoria. Avanti, alzati.» All'improvviso Jill comprese: il cavaliere era il capitano degli uomini di Matyc, e il gruppo di cavalieri che vociferava in cortile era la banda di guerra che quel nobile aveva portato con sé. Mentre lei imprecava mentalmente contro Rhodry ricorrendo ad ogni epiteto che conosceva, il capitano si alzò in piedi spolverandosi i calzoni. «Ho scritto una lettera al fratello del tuo signore» proseguì allora Cadmar, protendendo una mano per prendere un tubo portamessaggi in argento che il ciambellano gli stava porgendo. «Vuoi consegnarla per me?» «Lo farò, Vostra Grazia. Dopo tutto, adesso Lord Tren è il nostro signore, giusto? Sarà lui a ereditare, non è così?» domandò il capitano, scoccando un'occhiata in direzione del ciambellano.
«Dipende dai preti» replicò questi con un gemito, passandosi entrambe le mani fra i radi capelli. «In base alla legge le terre di un signore che perda un confronto armato devono essere riassegnate dal signore da cui questi dipendeva.» «In tal caso provvederò perché il fratello...» cominciò Cadmar. «Vostra Grazia!» esclamò il ciambellano, tirandolo per una manica. «Secondo la tradizione, se non secondo la legge, le terre devono essere assegnate al tempio.» Il capitano levò le mani verso il cielo in un gesto di disperazione accompagnato da un tintinnare di cotta metallica. «Contese legali di questo tipo sono incomprensibili per un uomo come me» disse. «Vostra Grazia, dobbiamo uscire dalla città prima che il sole tramonti.» «Allora partite subito, con la mia benedizione» replicò Cadmar, porgendogli il tubo portamessaggi. «Nel nome di ogni dio consegna immediatamente questo messaggio a Lord Tren e riferiscigli tutto ciò che hai sentito qui.» Il capitano infilò il tubo nella camicia, sotto la cotta di maglia, controllando che andasse a bloccarsi contro la cintura, poi si affrettò a tornare dai suoi uomini in attesa e montò in sella, impartendo una serie di ordini e prendendo dalle mani di un paggio la cavezza di uno splendido castrato grigio sulla cui sella era gettato di traverso un macabro fardello avvolto in alcune coperte. In silenzio gli uomini della banda di guerra si schierarono intorno al loro capitano e al corpo del loro signore, poi voltarono i cavalli e cominciarono a defluire dalle porte mentre Cadmar li guardava andare via scuotendo il capo. «Vostra Grazia?» chiamò allora Jill. Il nobile e i suoi consiglieri si lasciarono sfuggire uno strillo e un'imprecazione sorpresa. «Per gli dèi, Jill, non ti ho vista avvicinarti» disse quindi Cadmar, con un sorriso. «Non sarai forse apparsa dal nulla, vero?» «Vostra Grazia era troppo distratto e preoccupato per notarmi, ecco tutto. Quanti problemi ci saranno a causa della morte di Matyc?» «Non lo so. Suppongo che in gran parte dipenderà dal trapasso o meno delle terre di Matyc nelle mani di suo fratello, Lord Tren. Se questi le erediterà sono certo di riuscire a sistemare le cose, ma se i preti dovessero richiedere per loro quelle terre e le tasse che ne derivano non ho idea di quello che potrebbe succedere.»
«Capisco. Per evitare guai ho comunque trovato alla daga d'argento una sistemazione in città, in quanto ho supposto che fosse opportuno allontanarla dalla tua fortezza.» «Immagino che sia meglio così» convenne Cadmar, scoccando un'occhiata al suo ciambellano, che stava annuendo. «Però mi addolora dover allontanare così Rhodry, perché sarebbe suo diritto che io lo onorassi facendolo sedere alla mia tavola, come gli dèi lo hanno onorato durante il combattimento.» Il ciambellano si lasciò sfuggire un gemito angosciato. «Non ti preoccupare, non ho intenzione di fare nulla del genere» scattò Cadmar. «Avanti, entriamo e sediamoci: detesto restare fermo sulla soglia in questo modo!» Nella grande sala Labanna era in attesa accanto alla tavola d'onore, con una mano posata sulla spalliera della sedia del marito; dietro di lei le sue donne si tenevano raccolte nell'ombra ai piedi della scala a spirale. «Ho appena detto ai servi che non si terrà nessun banchetto» affermò la dama, in risposta ad un'occhiata interrogativa di Cadmar. «In queste circostanze non sarebbe appropriato.» «Certamente, mia cara, e ti sono grato di averlo fatto. Io me ne ero dimenticato» replicò Cadmar, sedendosi e protendendosi a batterle un colpetto sulla mano. «Se vuoi unirti a noi sei la benvenuta.» «Ti ringrazio, mio signore, ma sarà meglio che mi occupi delle mie faccende, perché ci sono molte cose da sistemare.» Cadmar annuì con un asciutto sorriso e Labanna si avviò in fretta su per le scale, portando con sé le sue donne, mentre i servi si affrettavano a distribuire boccali di birra per gli uomini e per Jill, che però rifiutò il suo e scelse di rimanere in piedi anche dopo che il ciambellano e il siniscalco ebbero preso posto alla destra del gwerbret. «Vorrei una risposta sincera da Vostra Grazia» disse. «Per te è un peso avere qui nella tua fortezza me, Carra e tutti i guai che abbiamo portato con noi?» «Dove altro potreste andare?» «Non lo so, Vostra Grazia, ma...» «Rifiuto di allontanare chiunque dalla sicurezza offerta dalle mie mura sapendo che potrebbe andare incontro al pericolo sulla strada. Per me sarebbe un dolore e una vergogna se il principe o la sua dama dovessero subire il minimo danno.»
«Per me sarebbe un dolore ancora più grande» annuì Jill. «Ho bisogno di riflettere sulla situazione. Tutto questo è accaduto troppo all'improvviso.» «Infatti, ma del resto Matyc si è attirato da solo quello che gli è successo. Lo hai sentito insistere durante il malover per poter esercitare il suo diritto a risolvere la questione con un duello.» «È vero, ma i suoi parenti vedranno le cose in questa stessa ottica?» Cadmar scrollò le spalle per indicare che non ne aveva idea. «Se posso osare di parlare con franchezza» proseguì Jill, «il mio parere è che Vostra Grazia abbia molto bisogno di quell'alleanza, quindi con la massima umiltà e con la più grande deferenza nei confronti degli dèi voglio chiederti una cosa: in una guerra chi ti sarebbe più utile per mantenere al sicuro la tua gente... il tempio oppure Lord Tren?» «Vostra Grazia!» intervenne il siniscalco. «La sola persona la cui presenza potrebbe influenzare in qualche modo la situazione è la daga d'argento. Se rimarrà in città...» «In effetti, mio signore» interloquì Jill, scoccando un'occhiata al siniscalco, «ho intenzione di allontanarla da qui. Vedi, c'è un incarico di cruciale importanza che ho bisogno di veder assolto, e non appena sarà guarito Rhodry lascerà Cengarn per provvedere.» Il siniscalco annuì con apprezzamento, chinando il capo nella migliore forma d'inchino che poteva eseguire essendo seduto, e Cadmar si prese del tempo per riflettere sulla cosa, facendo scorrere pensosamente il palmo della mano sul bordo del boccale in una serie di cerchi. «Regolati come meglio ritieni opportuno in merito alla daga d'argento» disse infine. «Possano gli dèi perdonarmi per il modo in cui sto insultando il vincitore del confronto.» «Credo che lo faranno, Vostra Grazia.» «Quanto all'altra questione, dovrò vedere come si sviluppano le cose. La banda di guerra di Lord Tren non ci servirebbe a molto se i preti dovessero renderci ostili gli dèi.» Jill si trattenne dal ribattere a quell'affermazione soltanto con notevole difficoltà. «In ogni caso passeranno alcuni giorni prima che Tren risponda al mio messaggio» proseguì intanto Cadmar. «Non hai scorto altri razziatori dirigersi verso di noi, vero?» «Non ancora, Vostra Grazia. Come tu hai detto, dovremo aspettare di vedere come si sviluppano le cose. Adesso ho il tuo permesso di accomiatarmi? Devo trovare Yraen e chiedergli di portare a Rhodry le sue cose.»
«Certamente. Ti ho già detto di regolarti come ritieni sia meglio.» «In tal caso lo farò. Vostra Grazia consideri la questione risolta.» Nel pronunciare quella noncurante affermazione Jill avvertì una strana sensazione, come se qualcuno la stesse osservando: le pareva che da una grande distanza qualcuno dotato di un potente dweomer avesse volto il suo sguardo verso di lei, e pur riuscendo a sorridere e ad accomiatarsi in modo cortese dal gwerbret, una volta fuori della sala si precipitò nella sua stanza in cima alla torre invece di mandare un paggio a cercare Yraen. Al suo ingresso trovò la camera che sciamava di membri del Popolo Fatato che saettavano di qua e di là per aria e sul pavimento, ammucchiandosi sul mobilio e accoccolandosi gli uni contro gli altri nella curva della parete. Non appena entrò, il suo gnomo grigio le balzò fra le braccia. «Oho, l'avete avvertito anche voi, vero? Credo che qualcuno abbia trovato Cengarn, ma l'interrogativo è se questo qualcuno stia cercando Carra oppure me.» Ripensandoci, ricordò di aver sentito quella sensazione nel momento esatto in cui una possibile linea d'azione si era delineata in modo concreto ed era stata approvata, e aggiunse: «Oppure potrebbe darsi che sia Rhodry a destare tanto interesse.» Con lo gnomo accoccolato sulla spalla si accostò alla finestra e guardò fuori: da dove si trovava poteva vedere la città che si stendeva al di là delle mura della fortezza, ma la collina del mercato le impediva di godere di un panorama più ampio. Per quale motivo un qualsiasi nemico poteva essere in cerca di Rhodry? Una cosa del genere era plausibile soltanto se il nemico sapeva che lui aveva finora protetto Carra e supponeva che lo stesse ancora facendo. «Vuoi andare a chiamare Dallandra per me?» domandò, girandosi in modo da attirare l'attenzione dello gnomo grigio. «Tutto quello che devi fare è trovarla, e lei saprà cosa questo significa.» Lo gnomo sorrise, rivelando una bocca piena di irregolari denti appuntiti, e scomparve. Adesso Jill poteva soltanto sperare che la creatura avesse capito e che Dallandra venisse al più presto... nel modo in cui il mondo fisico misurava il Tempo. Come spesso faceva in queste situazioni, si trovò a pensare al suo maestro del dweomer, ormai morto da molti anni, chiedendosi cosa avrebbe fatto lui al suo posto, e al tempo stesso si sorprese a desiderare di possedere la sua stessa influenza presso i preti di Bel: se fosse stata Nevyn, infatti, avrebbe potuto recarsi al tempio e forse sarebbe riuscita a risolvere la questione pertinente le terre di Lord Matyc, mentre quei preti non avrebbero
mai dato ascolto ad una donna, e soprattutto ad una che conoscevano a stento, il che significava che la soluzione di quel problema era nelle mani degli dèi. Riflettendo su questo si rese conto che i preti di Bel avrebbero avuto molto da perdere se le forze di Alshandra avessero conquistato Cengarn e spodestato il loro dio, una cupa eventualità che se non altro le metteva a disposizione un'arma di qualche tipo. Esaminando le ombre presenti nel cortile prese mentalmente nota della loro posizione in modo da poterla usare per cominciare a controllare il passaggio del Tempo. Dal momento che la sua finestra era rivolta ad est avrebbe potuto usare come metro di misurazione l'ombra stessa della rocca, che adesso cadeva circa a metà del cortile. Anche se rimase in attesa dove si trovava fino a quando quell'ombra arrivò a toccare le mura esterne della fortezza, Dallandra però non si fece vedere. Rhodry trascorse la maggior parte della giornata dormendo raggomitolato su un corto letto messo a sua disposizione nella locanda dei nani, e quando infine si svegliò a causa del dolore dovuto alla ferita, impiegò parecchio tempo a ricordare dove si trovasse e perché fosse lì. Sollevatosi a sedere stiracchiò i muscoli irrigiditi dai crampi e si guardò intorno nella minuscola camera vagamente rischiarata dal tenue bagliore azzurrino che emanava da un cestino di funghi prossimo ad esaurire la propria luminosità: l'oscurità era tale che soltanto la sua vista elfica gli permise di distinguere almeno i contorni delle pareti, una semplice cassapanca e una porta. Dopo qualche momento tentò infine di alzarsi in piedi, ma fu assalito da un senso di vertigine così violento che dovette sorreggersi alla parete per non cadere. «Stai peggio di quanto pensassi, vero?» borbottò, rivolto a se stesso. «Diventi vecchio, Rhodry, ragazzo mio.» Rimessosi a sedere con una certa urgenza si concesse un momento di riposo, poi trovò a tentoni gli stivali, li infilò e tentò ancora di alzarsi, muovendosi questa volta con lentezza e riuscendo a rimanere in piedi. Il corridoio all'esterno della camera era meglio illuminato ma privo di indicazioni che potessero fargli capire da che parte doveva andare: imprecando fra sé, rimase quindi in ascolto e di lì a poco riuscì a cogliere un tenue suono di voci che giungeva dalla sua sinistra e che in effetti lo guidò fino alla sala comune della locanda, dove trovò Otho e i suoi parenti seduti
intorno ad un tavolo rotondo, mentre vicino al focolare il locandiere era impegnato a rimestare il contenuto della pentola di ferro, da cui emanava un profumo di stufato. «Vieni a sederti» lo invitò Garin. «Non avresti dovuto alzarti tanto presto.» «Oh, sono già in via di guarigione» replicò Rhodry, ma fu comunque lieto di potersi sedere, anche se la panca era troppo bassa per le sue gambe. La sola posizione comoda che riuscì a trovare fu di appollaiarsi sull'orlo della panca e d'incrociare le gambe in modo da appoggiare quasi le ginocchia per terra, ma fu comunque meglio che accoccolarsi sul freddo pavimento di pietra. «Vuoi un po' di stufato?» gli domandò il locandiere. «Per il momento no, ti ringrazio... però mi piacerebbe un altro sorso di quel medicinale che mi hai dato prima.» «Buona idea. Vado a prenderlo.» Quasi nel momento stesso in cui il locandiere scompariva lungo il corridoio nella sala echeggiò un tenue bussare che doveva provenire dalla porta esterna, e Mic si alzò con un sospiro per andare a vedere di cosa si trattava, tornando di lì a poco con Yraen che aveva con sé un mucchio di equipaggiamento, un rotolo di coperte, sacche da sella e perfino il mantello invernale di Rhodry. «Oho!» esclamò questi. «Devo dedurre che sono stato messo al bando dalla fortezza?» «Più o meno» replicò Yraen, scaricando poco cerimoniosamente il suo carico per terra ai piedi dell'amico. «Jill ha borbottato qualcosa sul fatto che qui saresti stato più al sicuro, ma quanto al gwerbret so che gli duole il cuore a buttarti fuori.» «Sua grazia è l'incarnazione stessa dell'onore. Che ne sarà del mio cavallo?» «Jill ha detto di lasciarlo nelle stalle e il giovane Jahdo si è offerto di prendersene cura.» «Ringrazialo per me, d'accordo?» «Lo farò» promise Yraen, poi gli si accoccolò accanto e domandò: «Come ti senti?» «Non troppo male. Era un taglio poco profondo.» Nel frattempo il locandiere tornò con un minuscolo bicchiere pieno di liquore medicinale, e dopo averlo consegnato a Rhodry si allontanò nuovamente per andare a prendere altra birra per tutti.
«Che notizie ci sono dalla fortezza?» chiese allora Garin, protendendosi verso Yraen. «Si sa qualcosa dei razziatori?» «Ancora nulla, sebbene Jill si sia nuovamente rinchiusa nella sua stanza sulla torre. Quando si comporta in questo modo mi fa accapponare la pelle, perché ogni volta che attraverso il cortile ho sempre paura di guardare verso l'alto per timore di veder svolazzare in giro quel dannato falco.» I nani annuirono con aria cupa, in segno di assenso. «Tutta quest'attesa sta cominciando a darmi sui nervi» proseguì intanto Yraen, «e anche gli altri sono tutti nervosi come gatti in un bagno pubblico, soprattutto adesso che sua grazia corre il rischio di perdere la fedeltà del fratello di Matyc.» Nel sentire quelle parole Rhodry sussultò con aria colpevole, perché quando aveva sfidato il nobile si era dimenticato completamente di come funzionasse quel genere di questioni di stato. Ma che altro avrei potuto fare, si chiese con irritazione. Avrei dovuto permettergli di abbattere un vecchio in una parodia di combattimento? Al tempo stesso però adesso stava vedendo con chiarezza la ragnatela di collegamenti politici che aveva tranciato di netto quando aveva ucciso Matyc, e si sorprese a chiedersi se non avrebbe invece dovuto cercare di far cambiare idea al nobile. «Stai bene?» gli domandò intanto Yraen. «Sei diventato pallido come la neve.» «Davvero? Allora credo che tornerò a letto. Ti ringrazio per avermi portato la mia roba.» «Ti aiuto a trasportarla in camera. Dove dormi?» Dopo che Yraen ebbe scaricato le sue cose vicino alla cassapanca e se ne fu andato, Rhodry si sdraiò e si addormentò prima ancora di essersi tolto la cintura e gli stivali; per tutta la notte fu però tormentato da sogni a base di draghi e di un paio di strani occhi elfici privi di corpo che fluttuavano fra le nuvole e lo osservavano da molto lontano. Quando si svegliò nuovamente, madido di sudore, scoprì che la camera era adesso immersa nel buio più totale, segno che i funghi nel cestino dovevano aver restituito già da tempo tutta la luce solare che avevano immagazzinato, e si alzò barcollando per spalancare la porta in modo da far entrare il chiarore presente nel corridoio, tenue ma fortunatamente adeguato. Lasciando la porta aperta tornò quindi nella camera e sulla cassapanca trovò una caraffa d'acqua e altri oggetti di prima necessità, segno che qualcuno era entrato durante la notte senza che lui si svegliasse.
Per un momento prese in considerazione la possibilità di rimettersi a dormire, ma si trattenne dal farlo per timore di sognare ancora e dopo essersi ripulito un poco tornò nella sala comune, dove adesso c'erano soltanto Otho e il giovane Mic che sedevano ad un tavolo su cui era disposto un assortimento di strani oggetti... due vassoi di legno oblunghi, un sacco che sembrava pieno di sabbia, alcuni bastoni appuntiti, un oggetto d'osso simile ad un piccolo pettine e un pezzo di cuoio coperto di disegni e di caratteri. «Buon giorno, Rhodry» salutò Mic. «Come ti senti oggi? A proposito, è mattina.» «Molto meglio, grazie. La ferita duole ancora ma sta guarendo.» «Vieni a sederti» lo invitò Mic, indicando la panca. «Zio Otho sta per effettuare una lettura dei presagi.» Intanto il locandiere abbandonò il suo posto accanto al fuoco per portare a Rhodry una ciotola di porridge coperto da un lucido strato di burro e un cucchiaio di legno. «Ti ringrazio» mormorò questi. «Ci sono notizie di Jill?» domandò quindi. «Nessuna, ma l'alba è sorta da poco. Forse...» «Voi due volete stare zitti?» ringhiò Otho. «Sto cercando di preparare la mente e non ho bisogno di sentir chiacchierare intorno a me.» Il locandiere si allontanò con un'imprecazione e Rhodry si mise a mangiare in silenzio il suo porridge mentre Otho versava nei vassoi uno strato di pallida sabbia di fiume e si serviva del pettine per appiattirla fino a renderla simile ad un foglio di pergamena. Usando un bastone appuntito il nano tracciò quindi alcune linee sulla superficie di uno dei due vassoi, andando da un angolo all'altro in modo da dividerlo in quattro triangoli, e dopo aver trovato il punto centrale della base di ciascuno di essi disegnò un quadrato che unisse quei punti e si sovrapponesse ai triangoli in modo da suddividere lo spazio del vassoio in quattro diamanti e otto triangoli più piccoli. «Queste sono le terre della mappa» annunciò infine. «Ognuna di esse è la dimora di un metallo: la numero uno, questa, è la casa del ferro, la numero due del rame e così via. La terza è la casa del mercurio e la dodicesima quella del sale, due case che sospetto avranno molta importanza in questa lettura.» «Il sale non è un metallo» obiettò Rhodry.
«Lo so, daga d'argento, ed è per questo che rappresenta tutte le cose nascoste che ci sono nella vita, come le faide, gli odi... e il dweomer.» «Tutte cose che rallegrano la vita di un uomo, non c'è dubbio» commentò Rhodry. «Come fai a predire la sorte partendo da questo?» «Guarda e vedrai.» Preso il secondo bastone Otho lo tenne sospeso sull'altro vassoio, poi distolse la testa e cominciò a praticare dei lori nella sabbia quanto più in fretta poteva, fino ad ottenere sedici linee di puntini e di spazi su cui meditare. «Queste file sono le madri» spiegò. «Utilizzando le prime linee si forma la prima figlia, con le seconde linee la seconda e così via. Non mi prenderò il fastidio di spiegarti tutte le regole perché mi ci vorrebbe un giorno intero e tu lo troveresti senza dubbio noioso.» Mic intanto stava studiando il pezzo di cuoio, e quando si accorse che Rhodry allungava il collo per guardare a sua volta si affrettò a girarlo in modo da permettergli di vedere, rivelandogli così parole scritte in un alfabeto che gli era del lutto sconosciuto. «Chiedo scusa, ma non so come leggere queste parole» disse Rhodry. «Cos'è?» «Un libro di presagi, o almeno una sua parte» rispose Mic. «È una sorta di carta dei significati fondamentali delle diverse figure. Zio Otho la conosce a memoria.» «La conosco quando non ho intorno dei chiacchieroni» scattò Otho. «Adesso lasciatemi riflettere... ah! Proprio come sospettavo. Ecco qui la Testa del Drago che cade di nuovo nella prima casa.» Mentre parlava disegnò con abilità una figura nella sabbia tracciando due linee congiunte e tre punti verticali che rappresentavano il corpo del drago. «Di nuovo?» domandò Mic. «Ho fatto un'altra lettura una quindicina di giorni fa e anche allora questa figura è apparsa nella prima casa» replicò Otho, con un profondo sospiro, «Quando le figure si ripetono due volte si può essere certi dell'esattezza del presagio, quindi dovremo vedercela con questo dannato wyrm che ci piaccia o meno.» Otho rimuginò quindi per qualche altro momento sulle serie di linee, poi tracciò altre figure sulla mappa, una per ciascuna terra, esitando nel giungere alla dodicesima. «L'ultima volta la fortuna mi ha abbandonato a questo punto» annunciò, «e detesto pensare cosa possa aspettarmi questa volta.» Con un altro sospiro tornò a concentrarsi sulle linee e dopo un momento gemette: «Il Rosso?
Sapevo che sarebbe andata storta, lo sapevo! Mio padre diceva sempre che non bisogna mai far affari con gli elfi» proseguì, tracciando con violenza alcuni punti nella Terra del Sale, «ed io avrei dovuto dargli ascolto.» «In base a questa carta, Zio Otho» intervenne Mic, girando la pelle verso di lui, «il Rosso non è un presagio tanto nefasto se cade nella dodicesima casa.» «Hah! Ecco tutto quello che ho da risponderti, giovane Mic. Hah!» ritorse Otho, sbuffando così violentemente da far svolazzare la barba. «Guarda lì! La Strada cade nella Terra dello Stagno!» «E cosa significa?» interloquì Rhodry. «Di solito lo stagno si riferisce agli dèi, ma in questo caso credo che indichi un lungo viaggio.» «Gli dèi!» esclamò Rhodry. «Che idiota sono stato!» «Mi fa piacere vedere che cominci a scorgere la verità in merito all'essenza della tua natura.» «Tieni a freno la lingua! Devo parlare con Jill.» «Ti ha detto di rimanere qui» intervenne Mic. «Vuoi che le porti un messaggio?» «Ecco... in effetti sarebbe la cosa migliore» ammise Rhodry. dopo aver riflettuto. «Hai qualcosa su cui si possa scrivere, oltre ad una penna e a un po' d'inchiostro?» «Non mi dire che sai leggere e scrivere!» esclamò Mic, che pareva sinceramente sorpreso. «In effetti sì.» «In questo miserabile elfo ci sono più doti di quante traspaiano ad occhio nudo» commentò Otho. «Non molte, ma più di quanto si possa supporre.» Ignorandolo, Rhodry chiamò il locandiere, che era rimasto a origliare svergognatamente nelle vicinanze, e chiese qualcosa per scrivere un messaggio. Il materiale da scrittura risultò essere composto da un paio di tavolette di legno unite da cardini di cuoio e coperte da uno spesso strato di cera in modo che, con la consueta parsimonia dei nani, lo scritto potesse essere cancellato dopo essere stato letto e le tavolette riutilizzate più volte. Quando provò ad usare il sottile stilo d'osso che il locandiere gli porgeva, Rhodry scoprì di non avere problemi a scrivere con esso e una volta ultimato il messaggio legò insieme le tavolette con un laccio. «Vuoi apporre un sigillo sul nodo?» chiese il locandiere.
«No. Se qualcuno dovesse rubarle non avrebbe problemi a infrangere il sigillo, e mi fido di Mic.» Il giovane nano sfoggiò un sorriso accompagnato da un cenno del capo e prese le tavolette. Nel guardarlo allontanarsi con passo affrettato, Rhodry si sentì immensamente sollevato al pensiero che dopo tutto, almeno dal suo punto di vista, aveva avuto ogni diritto di uccidere Matyc. Quando Mic entrò nella grande sala Jill ordinò ad un servitore di portargli un boccale di birra per compensarlo del disturbo, poi prese le tavolette di legno e uscì sulla soglia della sala per poter leggere il loro contenuto più o meno in privato... e per quanto le seccasse riconoscerlo dovette ammettere con se stessa di essere contenta di non doversi più preoccupare che Matyc potesse comparire dal nulla come la maledizione di una strega ogni volta che lei stava cercando di tenere segreto qualcosa. Il messaggio risultò comunque essere breve e significativo: "L'ultima parola pronunciata da Matyc è stata il nome di Alshandra." Emettendo un fischio sommesso Jill si affrettò a richiudere le tavolette e per un momento prese in esame l'eventualità di mandare a Rhodry un messaggio di risposta, decidendo però poi di aver bisogno di parlargli subito di persona. Mentre Mic finiva la sua birra informò quindi Yraen di dove stava andando e infine accompagnò il giovane nano alla locanda, dove trovò Rhodry nella sala comune, seduto per terra sulle proprie coperte con la schiena appoggiata al muro e le lunghe gambe stese davanti a sé; seduto al tavolo. Otho stava ancora rimuginando sui suoi presagi geomantici mentre il locandiere consultava il pezzo di cuoio dipinto con strani simboli. «A quanto pare hai ritenuto importante il mio messaggio» commentò Rhodry. «Sapevi che sarebbe stato così. Comunque sono lieta che tu ti sia finalmente ricordato questo particolare» replicò Jill, agitando le tavolette nella sua direzione. «Dobbiamo parlare in privato.» Insieme si recarono nella piccola camera assegnata a Rhodry, dove con uno schiocco delle dita Jill convocò il Popolo Fatato dell'Aethyr perché spargesse nell'aria la propria luce argentea; gettato per terra il rotolo delle coperte Rhodry prese di nuovo posto su di esso mentre Jill sedeva sul letto senza troppo disagio perché la sua statura, pur essendo alta per una donna, non lo era tanto da renderglielo scomodo. Una volta sistemata, aprì le tavolette e posò una mano sulla cera per farla scaldare. «Sei certo di quello che hai scritto?» domandò.
«Più che mai certo. Lui mi ha fissato, ha pronunciato quel nome ed è morto.» «Questa è una notizia davvero spiacevole, e desta in me un pensiero altrettanto spiacevole che non ha nulla a che vedere con il dweomer: se è dimostrato... e così pare che sia... che Matyc era un traditore, chi ci garantisce che non lo sia anche suo fratello?» La reazione di Rhodry fu un fischio sommesso. «Ho chiesto a Lady Labanna qualche informazione su Lord Tren... il fratello di Matyc... e lei mi ha detto che tutto il loro clan tende ad essere cupo e meditabondo, probabilmente a causa della vita isolata che conduce nelle sue terre ancestrali. A quanto pare il vicino più prossimo si trova ad oltre venti chilometri da esse.» «Una distanza un po' eccessiva per una casuale visita pomeridiana» convenne Rhodry. «A quanto pare la loro è la fortezza più settentrionale di tutto il regno.» «Senza dubbio quella più settentrionale che riconosca l'autorità del Sommo Re» precisò Jill. «In ogni caso, la fortezza di Matyc e quella di suo fratello sembrano una base operativa ideale per quei profeti di cui Meer ci ha parlato.» «Suppongo di sì» annuì Rhodry, poi fece una lunga pausa di riflessione e riprese: «Quello che non capisco è questa faccenda dei nuovi dèi. Che bene potrebbe derivare dall'adorare un dio che non appartenga alla propria gente e alle proprie terre ancestrali? Quello che intendo è che si può voler propiziare un dio straniero, ma perché adorarlo?» «Ecco, non so cosa dirti, però ho il sospetto che Alshandra sia diventata una dea che gli uomini possono vedere e toccare. e che sia stata senza dubbio la prima del genere in cui si siano imbattuti in tutta la loro vita. Stando a ciò che afferma Meer. inoltre, lei compie potenti opere del dweomer al cospetto dei suoi adoratori e fa loro delle promesse.» «Promesse? Che genere di promesse?» «Nuove terre e nuovi schiavi, Rhodry» replicò Jill, con un pallido sorriso. «In poche parole promette noi, il Popolo e le terre di Deverry.» Rhodry si mise ad imprecare usando un miscuglio di parecchie lingue. «Proprio così» annuì infine Jill. «Alshandra però non ha idea della vastità del regno e dubito che sappia dell'esistenza del Sommo Re, o quanto sia grande l'esercito di cui lui può disporre in caso di necessità... tutte cose che anche i suoi seguaci ignorano. Se però lei riuscirà a radunarne abbastanza da scatenare una guerra santa la situazione si farà molto grave per noi che
ci troviamo lungo il confine, almeno finché il re non interverrà per risolvere la situazione.» «Non ne dubito, e Cadmar avrà bisogno di ogni spada su cui potrà fare affidamento, per cui non mi sembra il momento di andare in cerca del tuo fantomatico drago.» «Una mossa molto astuta, Rhodry, ma non ti sottrarrai con tanta facilità a quest'incombenza.» Nel vedere l'espressione contrariata di Rhodry, Jill scoppiò a ridere, e al tempo stesso sentì la cera smuoversi sotto la sua mano, segno che era ormai abbastanza morbida da permetterle di cancellare lo scritto, cosa che fece spianandone la superficie con il palmo della mano. «A parte questo devi pensare anche a te stesso» osservò quindi, «in quanto Lady Labanna e le sue donne hanno cominciato a tempestarmi di domande sul tuo conto a causa dei tuoi modi colti ed educati, e anche se è passato molto tempo da quando hai lasciato Aberwyn non ne è comunque trascorso tanto da garantire che nessuno possa riconoscerti, come per esempio qualche nobildonna che a quell'epoca era appena una ragazza ma che abbia la memoria lunga. Come ben sai le alleanze vengono spesso cementate con i matrimoni, che portano le donne molto lontano dalla loro casa natale.» «Hai ragione, e per più di un motivo» ammise Rhodry, sussultando leggermente nel ricordare come sua moglie fosse stata tutt'altro che felice del modo in cui suo fratello aveva disposto della sua vita. «Dato il mio aspetto giovanile, in Eldidd nessuno mi avrebbe creduto tanto vecchio da poter essere il gwerbret di un tempo. Qui in Cengarn però la gente sa quanto viva a lungo un elfo mezzosangue e grazie al malover adesso tutti sanno il nome di mio padre. Se qualcuno dovesse identificarmi, se si dovesse mai scoprire che un tempo io ero Rhodry Maelwaedd, Gwerbret di Aberwyn, ma che in effetti non sono un vero Maelwaedd... credi che mio figlio avrebbe ancora diritto ad occupare la carica di gwerbret?» «No, e sarebbe un peccato vederlo deposto perché finora è stato un regnante splendido. Lo hai allevato bene.» «Ti ringrazio. Ho fatto del mio meglio.» «Dimmi una cosa» domandò Jill, dopo un momento di riflessione. «Senti la mancanza della tua famiglia e del tuo clan?» «Sentire la loro mancanza? Vorresti sapere se desidero rivederli o qualcosa del genere? A dire il vero no, non dopo tanti anni. Mi fa però piacere
avere loro notizie e sono lieto di sapere che se la stanno cavando bene, così come mi addolorerebbe essere per loro causa di danno.» «Ben detto. In tal caso, amico mio, credo sia meglio che ti allontani da Cengarn, che tu lo voglia o meno.» «Così sembrerebbe» ammise Rhodry, alzandosi in piedi e sussultando nel muovere il braccio ferito. «Dal momento che sono qui sarà bene che dia un'occhiata alla ferita, considerato che non intendo mandarti da nessuna parte finché non sarà guarita.» «Con la mano sana Rhodry prese la cintura per la spada dalla cassapanca e la gettò sul letto accanto a Jill, poi sollevò il coperchio della cassapanca e prese a frugare al suo interno.» «C'è una cosa che ti voglio mostrare» disse. «Sì, credo che sia qui dentro.» Nel parlare tirò fuori una sacca da sella di cuoio e la posò sul pavimento per poi richiudere la cassapanca in modo da potersi sedere su di essa. Per aprire la fibbia della sacca gli fu necessario l'aiuto di Jill, ma una volta che lei l'ebbe slacciata infilò personalmente la mano nella sacca e tirò fuori un fagotto avvolto in un vecchio straccio, che risultò contenere un fodero di cuoio nel quale era infilato un coltello di qualche tipo, una rozza lama di bronzo a forma di cuneo conficcata da un lato in un manico di legno e fissata su di esso con alcuni lacci di cuoio. «Che ne pensi?» chiese. «Non so cosa pensare. Questo non è un comune coltello: dal suo aspetto sembra che sia stato fabbricato molto tempo prima dell'Alba dei Tempi, e avverto su di esso del dweomer» replicò Jill, soppesando con cautela l'arma. «Dove lo hai trovato?» «L'ho avuto da Evandar. Ricordi quando ti ho parlato del fischietto e della creatura dalla testa di tasso?» «Certamente.» «Ebbene, questa è la lama con cui l'ho uccisa. Dubito che un comune coltello avrebbe avuto effetto su di essa.» «Capisco» mormorò Jill, stringendo l'arma in una mano e fissando lo sguardo nel vuoto per lasciare che le impressioni da essa emanate le riempissero la mente. «Non credo che questo coltello sia veramente qui. Esso si trova su un altro piano dell'esistenza, e questa cosa che vedi e che tocchi è più un'immagine dell'oggetto effettivo, anche se si tratta di un'immagine fatta di materia. Nello stesso modo con ogni probabilità la creatura simile
ad un tasso era soltanto un'immagine del suo vero io, con il risultato che quando l'hai colpita con questo coltello in realtà hai trafitto il suo vero corpo, sul suo piano di esistenza. Una lama comune avrebbe trapassato soltanto l'immagine e non avrebbe avuto effetti negativi duraturi.» Rhodry tentò di dire qualcosa ma non riuscì ad emettere suono. «Mi rendo conto che tutto questo non ha molto senso e me ne dispiace» proseguì intanto Jill, «ma non so in che altri termini spiegare la cosa. Immagina che questo coltello sia un'ombra proiettata dall'arma effettiva, che ha la sua vera dimora altrove.» Rhodry continuò a rimanere in silenzio, scuotendo il capo in un gesto che era in parte d'ira e in parte di perplessità; quando lei gli restituì il coltello accennò quindi a riporlo di nuovo nel panno ma poi esitò. «Dal momento che puoi usare entrambe le mani, fammi un favore» disse. «Appendi questo coltello alla cintura della spada, accanto alla daga d'argento, perché ho la sensazione che mi servirà.» Dopo aver provveduto a sistemare il coltello Jill diede un'occhiata alla sua spalla, che stava guarendo in maniera molto più rapida e pulita di come avrebbe fatto su qualsiasi individuo dal sangue completamente umano; nonostante questo lo costrinse a prometterle che si sarebbe riguardato ancora per qualche giorno. Quando Rhodry la riaccompagnò verso la porta della locanda, lei si soffermò poi per un momento a scrutare i presagi evocati sulla sabbia da Otho. «È più che mai evidente» sospirò questi. «Non è possibile evitare di andare a prendere il drago.» «Questo avrei potuto dirtelo anch'io» sorrise Jill. «Quel drago ti sta chiamando, Otho.» Il nano gemette e levò gli occhi al cielo. «Per gli dèi!» esclamò intanto Rhodry. «Per poco non mi sono dimenticato un'altra cosa. Jill, per tutta la scorsa notte ho sognato che qualcuno mi stava osservando... era come se un enorme occhio fluttuasse sopra di me. Questo significa qualcosa?» «In effetti sì» annuì Jill, sentendosi raggelare. «Sii cauto, d'accordo? Resta sul chi vive in ogni momento, soprattutto perché qui ci potrebbe essere qualcuno intenzionato a farti del male.» «Non c'è nessuno del genere» intervenne Jorn. «Se ti riferisci al tizio che ha tentato di uccidere la giovane Carra, lo abbiamo trovato ed è morto.» Jill attese, aspettandosi di sentire altro al riguardo, ma i nani si limitarono a fissarla.
«Ti dispiacerebbe dirmi perché ha cercato di uccidere la ragazza?» «Er... ecco... è una questione che riguarda solo il nostro popolo» rispose Jorn, dopo un momento. Jill prese in considerazione l'idea di ricorrere a invettive e minacce ma vi rinunciò perché sapeva che sarebbe stato inutile, e quando Rhodry accennò a parlare gli indicò con un cenno di tacere. «In tal caso badate di proteggere Rhodry per me... e se ci fosse bisogno di me mandatemi un messaggio per mezzo di Mic.» Non appena fu tornata alla fortezza Jill si affrettò a salire nella propria camera nella speranza di trovarvi Dallandra o almeno un messaggio o un segnale da parte sua, ma la stanza risultò essere esattamente come l'aveva lasciata. In preda ad un senso d'irritazione scese allora nel cortile per sfogarsi a camminare avanti e indietro dove c'era spazio sufficiente per farlo, soffermandosi a guardare verso l'alto ogni volta che si veniva a trovare in un punto che offriva una buona visuale della sua finestra, senza però scorgere nulla. Durante uno di quei giri infruttuosi, nel passare oltre le stalle sentì la voce di un vecchio e quella di una donna provenire da dietro una baracca: per quanto nella cosa in sé non ci fosse nulla di insolito il loro tono le parve stranamente furtivo e nel suo attuale stato d'animo fu sufficiente a indurla ad avvicinarsi per ascoltare. «Dal loro aspetto non pare che valgano più di un paio di monete di rame» stava dicendo la donna. «Non mi stupisce che siano stati abbandonati.» «Quanto a questo non saprei. Lì ci sono due belle perle azzurre e questo pezzo potrebbe essere argento, non trovi? E poi c'è questa medaglia di bronzo decorata con un disegno. Mi merito qualcosa in cambio di tutti i fastidi che ho avuto a causa di quei prigionieri, per non parlare del modo in cui quella miserabile daga d'argento continuava a darmi ordini!» Jill aggirò la baracca con il suo abituale passo silenzioso, strappando uno strillo ai due cospiratori... una sguattera delle cucine e l'anziano carceriere, che aveva in mano una manciata di lacci di cuoio e di amuleti come quelli che Jahdo portava indosso. «Cos'avete lì?» domandò. «Nulla, nulla» replicò il carceriere, accennando a infilarsi il tutto in tasca, poi però intercettò lo sguardo di Jill e si arrestò a metà del gesto, domandando: «Er... ecco... non vorrai gettarmi addosso il malocchio, vero?» «Non farò nulla del genere. Mi sono limitata a porti una domanda.»
L'uomo si umettò le labbra aride e si guardò intorno con aria di panico mentre la ragazza cominciava a indietreggiare un passo per volta. «Allora?» insistette Jill. «Er... ho trovato queste cose in mezzo alla paglia, nella cella dove hanno dormito quella creatura pelosa e il suo ragazzo, e da giorni mi stavo chiedendo di cosa si trattasse. Non si può certo sostenere che le abbia rubate, giusto? Le hanno lasciate là, gettandole via, quindi non mi si può accusare di averle rubate.» «Non ho mai affermato il contrario. Ti ho soltanto chiesto di cosa si tratta.» «Prendi tutto tu. Questa roba mi fa accapponare la pelle!» esclamò l'uomo, gettando i lacci verso di lei, poi si girò e si diede alla fuga seguito dalla sguattera mentre Jill afferrava gli strani oggetti con una mano. Le bastò un'occhiata per rendersi conto che erano opera di un Gel da'Thae. Lanciando uno sguardo in direzione del cielo appurò che quella era più o meno l'ora in cui Meer era solito concedersi un sonnellino, il che significava che Jahdo doveva essere fuori da qualche parte; alla fine riuscì a rintracciare il ragazzo dietro le stalle, dove era intento a strigliare il suo mulo con una spazzola fatta di paglia intrecciata, e dopo essersi accertata che fossero soli tirò fuori di tasca i lacci di cuoio e gli amuleti. «Sono gli amuleti di Thavrae» annunciò subito il ragazzo. «Dove li hai trovati?» «Suppongo che si possa dire che me li ha appena consegnati il carceriere. È stato lui a rubarveli?» «No. Li ho tagliati da... ecco, quando abbiamo trovato Thavrae lui era morto» spiegò il ragazzo, con voce che tremava violentemente, «ed io ho tagliato i lacci in modo da poterli sfilare da... in ogni caso, pensavo che Meer li avrebbe voluti, ma lui ha detto che Thavrae non era più suo fratello ed ha gettato gli amuleti contro il muro della cella. Suppongo che il vecchio li abbia trovati lì.» «Capisco. In tal caso avrebbe anche potuto tenerli, considerato che di certo Meer non li vuole riavere» rifletté Jill, ma quando si guardò intorno non scorse più traccia del carceriere e nel riflettere più attentamente aggiunse: «Peraltro non so se sia bene che li tenga lui, perché se uno qualsiasi di questi oggetti dovesse essere permeato di vero dweomer è bene che quel vecchio ne stia lontano nel suo stesso interesse.»
Mentre parlava cominciò a vagliare i diversi amuleti e la sua attenzione si accentrò immediatamente su un disco di peltro recante un sigillo dall'aspetto familiare. Questo è davvero strano, rifletté fra sé. I maestri del dweomer dei Gel da'Thae non userebbero mai i nostri stessi sigilli, e tuttavia questo è senza dubbio il sigillo del Signore del Fuoco dell'Aria. «Jahdo, possiedi anche tu un talismano che rechi questo tipo di disegno?» domandò. «No, ma ne ho già visto uno simile in passato» replicò il ragazzo, poi i suoi occhi parvero farsi di colpo velati mentre aggiungeva: «Da qualche parte... non ricordo dove.» Jill esitò, chiedendosi se dovesse verificare immediatamente se il ragazzo era stato sottoposto a incantesimo, ma poi preferì evitarlo perché il cortile pullulava come al solito di persone che andavano e venivano per svolgere questo o quell'incarico. «Non ha importanza» disse invece, riponendo con estrema noncuranza i talismani nella tasca dei calzoni, perché voleva evitare che Jahdo potesse preoccuparsi. «Se me ne ricorderò più tardi lo chiederò a Meer.» Invece la prima cosa che fece non appena ebbe lasciato il ragazzo fu salire nella camera di Meer, svegliarlo e rivolgergli immediatamente la sua domanda. La descrizione che lei gli fornì del sigillo parve non essergli di nessun aiuto, ma quando infine lo tastò con le dita il bardo si fece un'idea abbastanza precisa della sua forma. «Posso dirti che non è un oggetto che lui abbia ricevuto da sua madre o da una delle sacerdotesse dei Gel da'Thae» affermò infine. «Finora non mi ero mai imbattuto in questo simbolo, anche se un maestro del sapere deve apprendere parecchie cose in merito ai simboli sacri. A parte questo, non ho la minima idea di cosa possa essere, e per quanto riguarda gli altri segni sacri e gli altri simboli, mazrak, si tratta di segreti che non intendo tradire.» «Benissimo. Ti ringrazio, buon bardo, per quello che hai ritenuto di potermi dire.» Uscita dalla stanza Jill sostò con esitazione vicino alla scala, riflettendo su cosa doveva fare adesso... e all'improvviso avvertì il tocco della mente di Dallandra sulla sua, segno che la maestra del dweomer era tornata sul piano fisico. Non appena entrò nella propria camera trovò infatti Dallandra ad attenderla, seduta al tavolo e intenta a sfogliare il libro di cronache elfiche che lei aveva portato con sé dalle Isole Meridionali. «Vedo che il mio gnomo ti ha trovata» esordì Jill, a titolo di saluto.
«Infatti» convenne Dallandra, sollevando lo sguardo con un sorriso. Hai dovuto aspettare molto? «Due giorni.» «A me sono parsi pochi momenti» replicò Dallandra, emettendo un piccolo verso d'irritazione e chiudendo il libro. «Oh, lo so, e non ti biasimo certo per questo.» «È necessario che torni in questo mondo, vero? Non posso continuare a viaggiare avanti e indietro, cercando di saltellare lungo il fiume del Tempo come un bambino saltella da una roccia all'altra nel guadare un ruscello. Un ritardo del genere potrebbe costituire un disastro, qualora tu dovessi avere urgente bisogno di me.» «È vero, ma che ne sarà del tuo lavoro? E della gente di Evandar?» «Potrei restare qui per mesi e nel suo mondo trascorrerebbe appena un giorno, giusto?» Jill scoppiò in una risata di sollievo ma priva di divertimento. «Ma certo. Mi ero dimenticata che le differenze valgono in entrambi i sensi. Sono preoccupata, Dalla: Alshandra ha già mandato qui un branco dei suoi adoratori per cercare di uccidere Carra e il bambino, e adesso che hanno fallito ne radunerà inevitabilmente un altro perché è decisa a riavere Elessario.» «Infatti, Jill, e non c'è nulla che possa indurla a comprendere la verità, perché lei è sinceramente convinta che io le abbia rubato sua figlia e che se ucciderà il nuovo corpo di Elessario sua figlia sarà libera da una trappola di qualche tipo e tornerà da lei.» «In un certo senso è da compatire, ma io continuo a pensare alle altre donne, quelle che sono state uccise dai suoi mastini della guerra, e ai loro uomini che hanno perso la vita nel tentativo di difenderle.» Dallandra rabbrividì. «Devo tornare indietro per congedarmi da Evandar e accertarmi che lui si renda conto che con ogni probabilità avrò al più presto bisogno del suo aiuto, però sarò di ritorno il più rapidamente possibile e questa volta mi fermerò fino a quando il problema non sarà stato risolto e il bambino sarà nato» dichiarò, alzandosi in piedi e afferrando la sedia con entrambe le mani. «Se vogliamo proteggere Carra da Alshandra dovremo stare in guardia, e di tanto in tanto tu devi anche dormire.» «Di tanto in tanto sì. Ti sono grata del tuo aiuto. Quando tornerai ci sono un sacco di informazioni che devono essere vagliate.»
Jill stava per chiedere all'altra maestra del dweomer cosa intendesse fare con quella sedia... in quanto si sentiva quasi indotta a supporre che lei fosse tanto preoccupata da essersi dimenticata di averla in mano... quando Dalla la posò davanti alla finestra. «Pietra ed aria, e l'antagonismo esistente fra loro» commentò. «Vedi, le porte sono presenti dovunque si riesce a trovarle.» Poi salì sulla sedia, passò sul davanzale e mosse un passo verso l'esterno, scomparendo. Immediatamente Jill si precipitò verso la finestra, quasi aspettandosi di vedere il suo corpo privo di vita steso sull'acciottolato sottostante, e nel constatare che lei era semplicemente scomparsa emise un profondo respiro, accorgendosi soltanto allora di aver trattenuto il fiato: nonostante tutto il suo grande potere, c'erano infatti alcune magie a cui faticava ad abituarsi. Quando aveva inizialmente imparato a percorrere le strade del dweomer, Dallandra era stata costretta a cercare possibili porte nei siti più ovvi, come il punto d'incontro di tre ruscelli o un boschetto dove sorbo e nocciolo crescessero intrecciati, ma adesso che aveva tanta pratica era ormai in grado di percepire i confini lungo i quali i piani d'energia s'incontravano e si respingevano, lasciando una sorta di apertura di breve durata fra un mondo e l'altro. Nell'oltrepassare una di queste porte proprio mentre cominciava a richiudersi, si venne a trovare sulla collina che sovrastava il fiume astrale. Sentendo alle proprie spalle un rumore di voci che cantavano si volse nella direzione da cui giungeva il suono e vide alcune donne che passeggiavano nel suo giardino: vestite con lunghi abiti di fine stoffa rossa, bianca ed oro, le donne si aggiravano fra le rose e si raccoglievano vicino alla fontana in un capannello di teste bionde e brune che chiacchieravano fra loro. A volte sembrava che nel giardino ci fossero al massimo una dozzina di anime, mentre in altri momenti pareva che in esso si fosse raccolta una grande folla, così come a volte un fuoco ha una vampata che ne moltiplica le lingue di fiamma e subito dopo rimpicciolisce non appena la folata di vento che lo ha attizzato si dissolve. Mentre si affrettava ad andare a raggiungere quelle donne, lei sentì menzionare Elessario. «Se volete, potete andare a raggiungerla!» esclamò. Improvvisamente attente le donne le si raccolsero intorno chiacchierando e ridendo, ma le risa svanirono e le chiacchiere si mutarono in sospiri quando le sentirono ripetere il consueto messaggio relativo al mondo fatto di materia e di Tempo. Infine la donna che lei aveva ribattezzato la princi-
pessa della notte perché si era modellata a imitazione dei bruni abitanti del Bardek, scosse il capo con un frusciare di riccioli neri. «Perché lei è andata laggiù?» domandò. «Non lo capisco.» «Per conoscere la vita. Ciò che avete qui è soltanto una parvenza di vita, un'ombra colorata proiettata su una parete.» Le donne rifletterono su quell'affermazione, fissandosi a vicenda e scrutandola con occhi bruni o chiari pervasi di sospetto e di perplessità, e alla fine la principessa della notte si allontanò scrollando le spalle. «Andiamo a danzare!» esclamò. «Scendiamo nel boschetto di lillà e danziamo!» Le risate si mutarono in esclamazioni deliziate e in allegri chiacchiericci mentre le donne si trasformavano in uno stormo di uccelli variopinti... pappagalli e cacatua dalle penne rosse, oro e rosa, con qua e là una sfumatura di turchese, più un macao dalle penne nere bordate di rosa sulle ali e dal becco dorato... che spiccarono il volo fra un coro di richiami e uno sbattere d'ali, volarono in cerchio una volta e puntarono dritti verso ovest mentre Dallandra si lasciava sfuggire un'imprecazione elfica, chiedendosi se sarebbe mai riuscita a indurle a capire cosa voleva dare loro. Scuotendo il capo risalì la collina e scese il versante opposto in direzione del fiume astrale, che scorreva lento e simile a mercurio fra le canne verde scuro, scintillando sotto il sole di mezzogiorno; nel prato vicino ad esso il padiglione dorato spiccava vuoto e silenzioso, e quando chiamò Evandar per nome lei ottenne soltanto di far accorrere il suo paggio. «Lui è ancora assente» spiegò il ragazzo. «Sta pattugliando il confine con i suoi guerrieri. Vuoi del sidro?» «No, grazie. Portami invece un po' di pane, d'accordo?» Il ragazzo entrò di corsa nel padiglione, e Dallandra si stava chiedendo se avrebbe dovuto entrarvi a sua volta quando lo sentì lanciare un urlo. Senza riflettere spiccò allora la corsa verso l'ingresso del padiglione, ma prima che potesse arrivarvi intorno a lei apparvero numerosi guerrieri in cotta di maglia ed elmo neri come la notte: nel vedersi circondata da volti di lupo o di orso e da zampe dotate di artigli che si protendevano per afferrarla, Dallandra sollevò le mani per evocare il fuoco, ma venne trattenuta da una voce familiare. «Ferma» ingiunse il guerriero dai lineamenti di volpe, «altrimenti causerai la morte di questo ragazzo.»
Nel parlare il guerriero emerse con passo pacato dal padiglione, trasportando su una spalla il paggio legato la cui testa dondolava pericolosamente vicina ad un coltello di bronzo che lui stringeva in pugno. «Cosa vuoi da me?» domandò Dallandra, lasciando ricadere le mani. «Hah! Sapevo che avrebbe funzionato» commentò il guerriero volpino, facendo scorrere lo sguardo sui suoi uomini, se così li si poteva definire. «Questa donna è debole, compatisce gli altri.» Le creature ulularono divertite e le si strinsero maggiormente intorno, tanto che lei poté avvertire odore di lupo e d'orso ed anche di grasso, di sangue e di muschio, il tutto mescolato ad un odore di sudore fin troppo umano. «Tu verrai con me» proseguì intanto il loro capo, «e non opererai nessuna magia, altrimenti io lacererò ogni fibra che compone il corpo di questo ragazzo e il suo spirito morirà.» Nel sentire quelle parole il paggio prese a piangere con rinnovato vigore. «Calmati, ragazzo» lo rassicurò Dallandra. «Non permetterò loro di farti del male.» «Hah! Accetta il nostro patto» commentò il guerriero volpino, ritraendo le labbra in un sogghigno ferino. «Cosa vuoi da me?» ripeté Dallandra. «Da te nulla, da Evandar tutto. Anche lui e debole, mi ha dato quel fischietto quando non era costretto a farlo. "Perdere una donna provoca dolore," ha detto, e così mi ha dato un'idea. Ti terrò in ostaggio finché lui non avrà restaurato la mia terra morente.» «Hai l'anima di una larva, non di una volpe» dichiarò Dallandra, sputando per terra. «Questa donna ha l'occhio acuto. Forse ingannerò Evandar e la terrò con me per sempre!» esclamò il guerriero. I suoi uomini ringhiarono ed ulularono, poi una mano dotata di artigli calò sulla guancia di Dallandra, lasciandola stordita. «Prendetela, legatela e portatela via! Ce ne andremo da dove siamo venuti!» Dallandra venne legata con corde ruvide e abrasive al punto da sembrare essere fatte di paglia intrecciata, e al tempo stesso ebbe l'impressione di precipitare, sentendosi venire meno e cadere sempre più vicino al suolo senza però mai sbattere contro di esso. Dopo un momento la mente le si schiarì e nel vedersi circondata da enormi mosche e da coleotteri dal lucido corpo nero e dalle ali verdi, dotati di possenti mandibole e di occhi sfaccet-
tati, si rese conto che quell'orda d'insetti aveva le dimensioni abituali e che lei era rimpicciolita fino a diventare grande quanto un moscerino. Un momento più tardi due massicce creature simili a vespe, nere con le ali dorate, afferrarono con le mandibole le corde che l'avviluppavano e presero il volo con un orribile stridere d'ali che, unito al dolore alla testa che la tormentava, ebbe l'effetto di farla quasi impazzire. Per quanto scalciasse e si dibattesse non riuscì però a liberarsi dalla rete di corde che la vincolava e che permetteva a quegli insetti di trasportarla nel cielo. Il volo si protrasse al di sopra di un ammasso di vegetazione, un intreccio di alberi che riempiva il mondo sottostante e protendeva i suoi artigli marroni ad afferrarli mentre l'oltrepassavano veloci. Contorcendosi e allungando il collo per guardare verso l'alto, Dallandra riuscì a individuare i vestiti bianchi del paggio, che più avanti rispetto a lei pendeva come una briciola di pane dalle mandibole di un'enorme e lucida mosca fra il verde e il nero... una briciola di pane che però di tanto in tanto scalciava e si dibatteva, segno che se non altro il fratello di Evandar aveva avuto il buon senso di mantenere in vita il prigioniero che garantiva il comportamento del suo ostaggio. All'improvviso la vegetazione sottostante parve venire loro incontro molto in fretta, ingrandendosi e vorticando in maniera tale che lei tentò di gridare ma non ci riuscì, perché sembrava che la lingua e la bocca le si fossero fuse in un blocco unico, che la gola le si fosse gonfiata e che tutto il suo corpo si stesse dilatando fino a darle l'impressione che il dolore le esplodesse attraverso la pelle. Seguì un duro impatto contro il terreno accompagnato da uno scoppio di luci vorticanti. L'ultimo suono che udì fu la voce del paggio che urlava. Per molto tempo credette di essere morta, perché anche se non poteva muoversi, vedere o sentire la sua mente continuava ad esistere come un fluttuante punto di consapevolezza perso in un mare nero. Con calma attese che la luce sorgesse a portarla via con sé e al tempo stesso indugiò a riflettere sulla caduta: con ogni probabilità essa doveva aver disintegrato il suo doppione eterico uccidendola sul colpo, dal momento che qui lei era priva di corpo. Il suo dolore principale era per Evandar e non per se stessa, perché a tempo debito lei sarebbe rinata ed era intenzionata a implorare che la sua rinascita avesse luogo il più presto possibile, in modo da poter riprendere il proprio lavoro... a patto, naturalmente, che fosse riuscita a ricordarsi di esso abbastanza a lungo da indursi a implorare di poter rinascere.
D'un tratto si rese però conto di due cose: innanzitutto stava pensando troppo freddamente e con troppa calma per esser davvero morta, e in secondo luogo era pervasa di dolori che andavano aumentando d'intensità a mano a mano che acquisiva consapevolezza della loro presenza, trasformandosi da un lontano pulsare ad un dolore vero e proprio e infine ad un bruciore estremamente intenso. Un momento più tardi davanti agli occhi le apparve un bagliore violento e lei ebbe l'impressione di nuotare attraverso il fuoco verso una luce lontana e più fresca. Infine aprì gli occhi e trovò il volto volpino del fratello di Evandar vicino al proprio. «Bene» grugnì questi. «Sei viva. Morta non mi saresti stata di nessuna utilità.» Lei cercò di parlare, di deriderlo, ma il dolore la sopraffece e perse di nuovo conoscenza, questa volta pensando che se non altro era ancora viva... almeno per qualche tempo. Dal momento che era abituata ai dislivelli temporali esistenti fra il mondo fisico e le terre di Evandar, Jill non si preoccupò quando Dallandra mancò di tornare immediatamente. Durante le notti che seguirono trascorse lunghe ore evocando immagini e spingendosi quanto più lontano osava dalla fortezza nella forma di falco o con il corpo di luce, nella speranza di avvertire per tempo il gwerbret di un eventuale attacco. Ogni mattina scendeva quindi a raggiungere Cadmar per colazione in modo da fornirgli il proprio rapporto. Da quando Lord Gwinardd era tornato a casa insieme ai suoi uomini la grande sala appariva semivuota e stranamente silenziosa, perché sul lato opposto rispetto al focolare d'onore i membri della banda di guerra evitavano di parlare per cercare di cogliere quello che lei diceva al loro signore. Come sempre accadeva in questi casi, infatti, la voce si era ormai sparsa e ogni uomo della fortezza sapeva che la guerra era imminente, e che il solo interrogativo era stabilire quando sarebbe scoppiata. Dopo aver mangiato Jill si recava alla locanda dei nani per curare la ferita di Rhodry e interrogarlo in merito ai suoi sogni, ma anche se lui riferì di non aver più visto quegli occhi intenti a scrutarlo lei preferì partire dalla supposizione che il nemico... chi o qualsiasi cosa fosse... stesse continuando a spiarli con maggiore abilità, e questo la pose di fronte ad una scelta impossibile. Se avesse voluto avrebbe potuto facilmente apporre dei sigilli astrali su Rhodry... o anche sull'insieme della città e della fortezza... in modo da impedire a qualsiasi maestro del dweomer, per quanto abile, di vedere a di-
stanza il minimo dettaglio, ma un atto del genere sarebbe equivalso da parte sua ad appendere dovunque enormi bandiere per annunciare la presenza a Cengarn di una maestra del dweomer... e dal momento che non aveva ragione di supporre che i nemici sapessero chi era o che si trovava nella fortezza, alla fine preferì lasciarli nell'incertezza in merito alle difese della città. Dopo aver visitato Rhodry, tornava quindi nella sua camera e si concedeva qualche ora di sonno, svegliandosi prima del tramonto per consumare un parco pasto e riprendere la propria veglia notturna. Stava seguendo questo ritmo di vita da quattro giorni quando un pomeriggio Jahdo venne da lei proprio mentre stava finendo di mangiare un po' di pane e formaggio, e a Jill bastò scoccargli un'occhiata per rendersi conto che in lui c'era qualcosa che non andava. Dopo averlo fatto entrare chiamò a sé il Popolo Fatato dell'Aethyr, che si materializzò con un tremolio di luce argentea. «Sei malato, ragazzo?» gli chiese. «No, mia signora. Ho sentito dire che Rhodry lascerà Cengarn con i suoi piccoli amici e che non si sa quando farà ritorno.» «Dove lo hai sentito?» «Me lo ha detto Yraen. Mi ha avvertito di non ripeterlo ad altri ed io non l'ho fatto, tranne che con te perché ero certo che lo sapessi già.» «Infatti. Il tuo problema è che sentirai la mancanza di Rhodry?» «Voglio andare con lui» dichiarò Jahdo, con voce che suonava però così falsa da indurre Jill a scrutarlo attentamente, abbastanza da scorgere l'espressione tormentata dei suoi occhi. «Jahdo, sei certo di non sentirti male? A volte la febbre porta strani pensieri.» «Sto bene, davvero» garantì il ragazzo, cominciando a tremare. «Volevo soltanto chiedere se posso partire con Rhodry e con i nani.» «Vuoi davvero lasciare Cengarn?» domandò Jill, inginocchiandosi in modo da poterlo vedere bene in volto. Il tremito si fece sempre più accentuato e il ragazzo emise un suono gutturale nel profondo della gola, deglutendo quindi a fatica prima di riuscire a parlare. «Voglio andare via.» «Non ti credo. È proprio vero che vuoi partire?» «Sì» dichiarò Jahdo, ma al tempo stesso scosse il capo in un convulso gesto di diniego che indusse Jill ad emettere un fischio sommesso. «Non vuoi dire le parole che stai pronunciando, vero?» domandò.
«Non voglio» replicò il ragazzo, costringendosi a rispondere, «però è necessario.» «Davvero? Interessante. Adesso resta fermo per un momento, senza muoverti o parlare» ordinò Jill. Facendo ricorso alla propria vista del dweomer esaminò quindi l'aura del ragazzo. Come accadeva con la maggior parte dei giovani, essa formava una nube di energia ovoidale e in continuo cambiamento, ora rimpicciolendo e ora dilatandosi da un lato o dall'altro, ma lungo i suoi contorni si snodava a spirale una sorta di chiazza o di linea oscura, tracciata in maniera tutt'altro che esperta e tuttavia senza dubbio efficace. Con un grugnito di disgusto Jill attinse una linea di luce dalla propria aura e se ne servì per cancellare quella chiazza scura, poi disattivò la propria vista del dweomer e scoprì che Jahdo la stava fissando con la testa inclinata da un lato, come un cane perplesso. «Adesso dimmi, ragazzo... vuoi davvero partire con Rhodry e con i nani?» domandò. «Non voglio! Oh, per favore, posso restare qui?» «Certamente, e non appena sarà possibile ti riporteremo a casa.» Jahdo sfoggiò un sorriso e accennò qualche saltello d'entusiasmo, ma poi si arrestò di colpo e il suo sorriso fu sostituito da un'espressione pensosa. «Jahdo?» chiamò Jill, mantenendo il tono molto dolce. «Qualcuno ti ha detto di andare con Rhodry. Chi è stato?» «Non me lo ha detto nessuno, però sapevo che per me era necessario continuare ad andare avanti.» «Davvero? "Andare avanti", eh? Cerca allora di rispondere a questo: chi ti ha detto di andare con Meer?» «Io... non lo ricordo.» «Però qualcuno te lo ha detto.» «Non proprio. Sapevo soltanto che era necessario partire e quando Meer mi ha chiesto cosa volevo fare non ho potuto dire che non volevo andare con lui.» «E Yraen ti ha chiesto se volevi andare con Rhodry?» «Sì. Dal suo sguardo mi sono accorto che stava scherzando, e tuttavia non ho potuto dire di no. Per me era necessario continuare a viaggiare.» Jill si lasciò sfuggire un ringhio sommesso, rendendosi conto che chiunque aveva sottoposto Jahdo a incantesimo era senza dubbio un piccolo furfante molto furbo: dal momento che non aveva mai impartito al ragazzo un ordine diretto, infatti, Jahdo non era in grado di ricordarsi di lui a meno
che gli fosse stata rivolta una domanda estremamente precisa al riguardo, cosa che Jill non poteva fare fino a quando non avesse appreso qualcosa di più su quella faccenda. Per ora l'unica cosa certa era che questo stregone dilettante viveva a Cerr Cawnen, il luogo da cui Jahdo aveva iniziato il suo viaggio, il che significava che avrebbe dovuto aspettare di poterlo affrontare sul suo territorio, a patto naturalmente che un giorno fosse riuscita a riportare a casa il ragazzo. Quella notte nel viaggiare nell'eterico lei si arrischiò a spingersi più lontano del solito. In genere nelle sue esplorazioni si dirigeva a nordovest, nella direzione da cui era probabile aspettarsi un attacco, mentre questa volta puntò direttamente ad ovest, nel dubbio che per caso il nemico avesse cercato di ingannarla giungendo da una direzione inattesa. Anche questa volta però non trovò nulla e all'alba rientrò esausta nel proprio corpo e nella fortezza. Prima di scendere nella grande sala si concesse un po' di riposo, durante il quale si chiese se Alshandra non avesse rinunciato al suo folle piano di liberare l'anima della figlia uccidendo il suo corpo fisico in fase di crescita. Peraltro sembrava improbabile che uno spirito così determinato e così privo dell'esperienza e della compassione derivanti dall'incarnazione potesse rinunciare con tanta facilità alla propria ossessione, e di certo Dallandra aveva sempre dipinto Alshandra come una creatura implacabile. Dallandra! Nel rendersi conto di colpo di quanto tempo fosse passato da quando Dalla se n'era andata promettendo di tornare subito indietro, Jill si ritrovò di colpo del tutto sveglia... ma per quanto preoccupata ritenne che i suoi timori fossero ingiustificati e che quel ritardo potesse essere spiegato benissimo con l'irregolarità del fluire del Tempo fra i mondi, a causa della quale era possibile che nel frattempo per Dalla fossero passati soltanto pochi istanti. D'altro canto Jill non aveva modo di rintracciarla e le terre di Evandar erano così estranee alla sua natura e così lontane sul piano astrale da impedirle di ricorrere ad una visione per esplorarle, quindi si costrinse ad accantonare il problema almeno per il momento e scese a fare colazione insieme al gwerbret, a sua moglie, a Carra e al suo principe. Ben presto risultò evidente che Dar aveva riflettuto a sua volta a lungo sulla situazione, in quanto dopo aver atteso che la cameriera avesse posto in tavola il pane e il porridge e si fosse allontanata lui si protese in avanti per rivolgersi al tempo stesso a Jill e al gwerbret. «Vostra Grazia, buona maga» esordì, «se Cengarn dovrà sostenere un assedio ciò di cui abbiamo maggiore bisogno sono degli arcieri... e il mio popolo ne può radunare con facilità cinquecento, tutti muniti di un robusto
arco di legno di tasso. Basterà che io mandi alcuni dei miei uomini a cercare Calonderiel, il Banadar del Confine Orientale... ecco, noi lo consideriamo quello orientale, anche se per voi è naturalmente il confine occidentale.» «Davvero una splendida idea» approvò Cadmar, «ma quanto tempo ci vorrà per rintracciarlo? So che la tua gente vaga con le sue mandrie per tutta l'estate.» «Questo è vero, Vostra Grazia, ma in autunno ci spostiamo tutti al sud e c'è un particolare campo invernale dove Calonderiel si reca sempre, mettendosi in viaggio per tempo per raggiungerlo in modo che la gente sappia dove trovarlo nel caso che ci siano dispute o contese da sottoporre al suo arbitrato. Di certo ci vorranno alcune settimane, ma non è un'impresa impossibile, e ce ne vorranno delle altre perché lui possa arrivare qui una volta che i miei uomini lo avranno rintracciato, quindi direi che nel complesso passeranno due intere lune prima del suo arrivo.» Cadmar scoccò un'occhiata in direzione di Jill, che si rese conto della situazione in cui il gwerbret si trovava, intrappolato fra i dettami della cortesia e la cupa realtà dei fatti. «Vedi, Dar, il vero problema sarà quello di nutrire tanti uomini» intervenne. «È per questo che sua grazia ha rimandato Gwinardd nelle sue terre e non ha ancora convocato il resto dei suoi alleati. Arcodd non è un posto molto ricco e qui sarebbe difficile trovare il fieno necessario per tanti cavalli, per non parlare delle stalle in cui sistemarli.» «Oh, certo» annuì Dar, comprendendo quelle motivazioni invece di sentirsene offeso. «Lo avevo dimenticato. Cos'altro possiamo fare, Vostra Grazia? Aspettare di apprendere che il nemico si è messo in marcia per poi mandare dei messaggeri?» «Credo che sarebbe la cosa migliore, Vostra Altezza» replicò Cadmar, con evidente sollievo. «Sostenere un assedio sarà meno difficile che approvvigionare tanti uomini un mese dopo l'altro, e sono certo che Jill ci potrà garantire qualche giorno di preavviso, vero?» «Lo spero, Vostra Grazia» replicò Jill. «Sto facendo del mio meglio per sorvegliare i dintorni.» «Allora speriamo che non succeda nulla fin dopo il primo raccolto, in modo che la fortezza risulti approvvigionata al massimo» proseguì Cadmar. «Del resto è probabile che anche i nostri avversari aspettino di porre al sicuro le loro scorte per l'inverno prima di mettersi in marcia. Ai bardi piace cantare di eserciti che si nutrono di ciò che trovano nelle terre che at-
traversano, ma la realtà non è così semplice e in effetti una cosa del genere è sempre rischiosa perché non si sa cosa si troverà o in che quantità, e poi setacciare un territorio in cerca di cibo porta via enormi quantità di tempo quando si ha bisogno di procedere in fretta. Inoltre» aggiunse, con un sorriso, «se arriveranno da nordovest incontreranno sulla loro linea di marcia ben poche fattorie, alcune delle quali decisamente povere. I soli viveri che potranno trovare da quella parte saranno costituiti dalla carne degli orsi che riusciranno ad abbattere.» Tutti risero doverosamente per quella battuta, ma Carra e Labanna si scambiarono un'occhiata piena di ansietà; pur essendo d'accordo in linea di massima con il ragionamento del gwerbret, Jill decise dal canto suo di continuare con le esplorazioni notturne... una linea di pensiero che la portò a prendere in esame un altro pericolo tutt'altro che remoto. «Dar, ho appena avuto un pensiero assai poco piacevole. Quando arriveranno, i nostri nemici avranno con loro degli operatori del dweomer... forse uno o forse parecchi... ed io preferirei evitare che sapessero dell'imminente arrivo dei tuoi uomini. Perché non mandi adesso i tuoi messaggeri a cercare Calonderiel, informandolo della situazione e chiedendogli di radunare i suoi guerrieri e di tenersi pronto? In seguito potremo inviare altri messaggeri non appena avvisterò l'avvicinarsi del nemico, e comunque il banadar sarà già stato avvertito di quello che succede qui.» «Una buona idea» approvò Dar. «In questo modo lui potrà mettersi in marcia anche se non dovessimo riuscire a fargli avere altre notizie. Che data dobbiamo fissare? Noi abbiamo una festa, Delanimapaladar, che contrassegna il giorno in cui il buio e la luce hanno la stessa durata... direi che mi sembra il giorno più indicato.» «Una buona scelta» convenne Cadmar, con un sorriso. «Jill, devo dire che hai una mente portata per la guerra.» «Durante la mia vita ne ho vista più di una, Vostra Grazia. Anzi, direi che ne ho viste anche troppe.» «Anch'io» annuì Cadmar, distogliendo lo sguardo con espressione improvvisamente turbata. «Quest'attesa ha un effetto decisamente negativo sui nervi di un uomo. A proposito di attesa, mi chiedo per quale motivo Lord Tren non abbia ancora risposto alla mia lettera, considerato che i preti del tempio stanno per avanzare una rivendicazione per le terre di suo fratello. Proprio ieri ho mandato a Tren un altro messaggero perché gli riferisse la cosa e mi auguro che questo lo sproni ad agire.»
Tutti annuirono, scambiandosi occhiate significative, e Jill si rimproverò per aver permesso alla propria preoccupazione riguardo ad Alshandra di indurla a dimenticare che quello non era l'unico problema a cui dovevano fare fronte e che ne stava nascendo anche un altro, questo di matrice prettamente umana. Quella stessa mattina Daralanteriel inviò un paio di messaggeri con una lettera e regali per Calonderiel; dall'alto della sua torre Jill li guardò partire conducendo per la cavezza un cavallo da soma e con il corto arco da caccia pronto all'uso e appeso alla spalla, e decise che durante i giorni seguenti avrebbe tenuto d'occhio anche loro, evocando di tanto in tanto la loro immagine finché non avesse avuto la certezza che si erano addentrati sani e salvi sulle pianure erbose e che stavano procedendo verso sud senza problemi. Nel suo intimo, lei era sempre più convinta che un ignoto nemico stesse tenendo sotto controllo la fortezza nello stesso modo in cui lei sorvegliava di continuo le terre circostanti ad essa, e anche se dubitava che un altro mutaforme potesse aggirarsi fisicamente nei dintorni di Cengarn non era da escludere che un operatore del dweomer stesse usando mezzi di spionaggio più convenzionali o si stesse aggirando sul piano dell'eterico. Quando viaggiava nel suo corpo di luce, infatti, lei aveva preso l'abitudine di sbirciare di tanto in tanto fra le onde azzurre di energia eterica e più di una volta le era capitato di scorgere indizi che segnalavano il passaggio di qualcun altro in quella particolare zona, così come a volte le capitava di imbattersi in membri del Popolo Fatato che le si raccoglievano intorno pervasi ora d'ira ora di terrore, come se nel loro mondo fosse penetrato un intruso che li aveva terrorizzati. A parte questo, lei e Rhodry avevano ancora di tanto in tanto l'impressione di essere osservati; naturalmente quella di Rhodry avrebbe potuto essere una sensazione ingiustificata, in quanto le persone non dotate di dweomer avevano la tendenza a nutrire sospetti del genere anche nelle situazioni più normali, ma d'altro canto Rhodry possedeva una naturale sensibilità alla magia che gli derivava dal suo sangue elfico e in aggiunta a questo il dweomer... buono e malvagio... aveva in passato toccato molte volte la sua vita, per cui Jill non esitava a credergli. «Sai una cosa strana, Jill?» commentò lui, una mattina. «Quando questa mente, o come la vuoi chiamare, rivolge la sua attenzione verso di me, in essa io non avverto traccia di malizia.»
«Davvero interessante. Io ho invece percepito una buona dose di malizia, e così pure il Popolo Fatato. Qualcuno ha terrorizzato quelle povere creature.» «Davvero strano.» «La mia supposizione è che potremmo avere a che fare con due diversi operatori del dweomer... ma è soltanto un'ipotesi» replicò Jill, poi esitò per un istante e infine decise che in realtà non c'era nulla che si poteva fare in merito a quel problema finché lei non avesse raccolto prove più concrete. «Quello che so per certo» proseguì, «è che la tua ferita è ormai guarita e che è ora che tu e i nani vi mettiate in cammino.» «Sei certa che non saremmo di maggiore aiuto al gwerbret restando qui? Se sta per scoppiare una guerra...» «Il gwerbret ha soldati in abbondanza, mentre tu sei il solo uomo sulla terra che possa trovare quel drago e risolvere questo noioso indovinello posto da Evandar.» «Tu ritieni davvero così importante rintracciare quel drago?» «Sì. Non sono in grado di spiegartene il motivo, ma è così.» «Allora non c'è più nessuna speranza» dichiarò Rhodry, con uno dei suoi folli sorrisi. «Obbedirò agli ordini della mia signora e percorrerò strade sconosciute, scalerò alte montagne, congelerò nella neve e affronterò nani folli, il tutto con cuore allegro e...» «Vuoi tacere? Non è il momento adatto a stupidi scherzi.» «Al contrario, mia signora» ribatté Rhodry, con un profondo inchino. «Quale momento migliore per uno scherzo stupido, considerato che stiamo vivendo in un'epoca folle?» Lei accennò a replicare in tono rovente ma si trattenne perché era consapevole che Rhodry aveva ragione. «Andiamo nella sala comune» propose invece. «Voglio parlare con Otho in merito all'approvvigionamento della spedizione. A proposito, ti ha poi consegnato il denaro che ti doveva?» «Ovviamente no. È andato tutto al locandiere per pagare vitto e alloggio per me.» «Che sfrontatezza! Gli parlerò io al riguardo.» «Lascia perdere. Senza dubbio stiamo tutti per morire, inghiottiti come bocconi prelibali da questo wyrm, quindi che importanza può avere una manciata di monete... a parte procurare un'indigestione a quella bestia, qualora mangiasse anche le mie tasche con il loro contenuto? In effetti questa sarebbe almeno una piccola vendetta.»
«Vorrei che evitassi questo genere di scherzi.» Rhodry esitò, poi distolse lo sguardo con una scrollata di spalle. «Come ordina la mia signora» rispose soltanto. «Il pagamento di quella somma è importante, Rhoddo... e lui dovrebbe pagare anche per il tuo mantenimento» insistette Jill. «Attualmente non riesco a preoccuparmi per qualche moneta.» «Non si tratta di questo. Non intendevo dire che era importante per te, ma per Otho» precisò Jill, e quando lui la fissò con espressione interdetta aggiunse: «Ti sei mai chiesto per quale motivo sia stato mandato in esilio?» «Molte volte, ma non ho mai ritenuto che spettasse a me chiederglielo.» «Avevi ragione, e se mai parlerai con qualcuno di quanto sto per dirti ne resterò molto contrariata.» Rhodry reagì con un brivido che non era del tutto fittizio. «Otho si è rifiutato di pagare un debito» spiegò intanto Jill, ignorando il suo gesto. «Non conosco tutti i particolari, ma so che doveva a qualcuno una somma notevole e che si è rifiutato di pagarla adducendo ragioni che a lui parevano perfettamente valide ma che sono state rigettate da tutti gli altri, con il risultato che lo hanno esiliato.» «È andato in esilio per un debito di denaro?» «Proprio così. Il Popolo della Montagna prende molto sul serio i suoi obblighi.» «Allora si è trattato di questo» commentò Rhodry, sussultando al ricordo di quell'episodio. «Quando Garin mi ha chiesto di non giudicare tutti i nani dal suo parente mi sono reso conto di aver commesso una scortesia di qualche tipo, ma non ho capito quale. Benissimo, allora, andiamo a tormentare il nostro vecchio amico.» «Trovarono Otho seduto nella sala comune insieme ai suoi parenti, intento a bere e a giocare a dadi; accanto al focolare il locandiere era impegnato ad aggiungere anonimi pezzi di verdura nella pentola dello stufato, ma quando loro arrivarono smise di lavorare per ascoltare.» «Otho» esordì Jill, in tono secco, «devi del denaro a Rhodry e a Yraen.» L'anziano nano ululò e levò il volto verso il cielo lontano, forse per chiamarlo a testimone delle sue sofferenze. «È vero?» scattò intanto Garin. Otho gemette, borbottò, gemette ancora, ma quando si accorse che ogni nano presente nella stanza lo stava fissando con le braccia conserte sul petto si decise infine a prendere la sacca che gli pendeva sulla cintura e a con-
tare il denaro, metà del quale venne preso in custodia da Jill per farlo pervenire ad Yraen. «Partirete tutti con il vostro parente?» chiese quindi Jill a Garin. «Io lo accompagnerò almeno fino ad Haen Marn anche se Jorn non intende farlo, e qualora Enj rifiutasse di accettare un pagamento dal nostro clan in cambio del suo aiuto andrò di persona in cerca del wyrm, anche se sarò un ben misero aiuto in quanto sono certo che i maestri del sapere impiegano anni ad imparare a memoria tutto quello che io non so sul conto dei draghi.» «Io andrò con lui» intervenne Mic. «Posso venire, Zio Otho? Non sono mai stato da nessuna parte e non ho mai fatto nulla d'interessante.» «Hah! Quando questa piccola passeggiata si sarà conclusa sono certo che rimpiangerai di non essere rimasto in questo benedetto stato d'ignoranza» ribatté Otho, «ma per quanto mi riguarda puoi venire, se tuo padre lo permette. Tu credi che lo farà?» aggiunse, guardando verso Jorn con un sopracciglio inarcato. «Io ne dubito, dato che mio fratello è sempre stato l'uomo più cocciuto che esistesse sulla terra.» «Finché suo figlio non gli ha sottratto tale titolo» sorrise Jorn. «Dovrai chiederlo a lui, ma del resto dovrai tornare a casa prima di proseguire per Haen Marn. Probabilmente lui pretenderà di fissare un prezzo del sangue per il giovane Mic, nel caso che non dovesse tornare.» «Un prezzo del sangue? Che sfacciataggine!» «Otho!» esclamarono in coro Jorn e Garin. Lasciandoli alle loro discussioni, Jill fece ritorno alla fortezza, dove trovò Yraen nella grande sala, seduto a bere ad un tavolo vicino alla porta posteriore. Allorché gli consegnò le monete lui sfoggiò uno dei suoi rari sorrisi e le ripose subito nella sacca che portava appesa al collo, sotto la camicia. «È stato Rhodry a insegnarmi a tenere i soldi nascosti» spiegò. «Ha detto di averlo imparato da te.» «Infatti, quando eravamo entrambi molto più giovani.» «Sono lieto che Otho si sia finalmente deciso a pagare: cominciavo a chiedermi se lo avrebbe mai fatto. Dimmi, credi che sia pazzo?» «Non che io sappia. Perché?» «Alcune notti fa mi è successa una cosa molto strana. Mi sono imbattuto in Otho nel cortile e gli ho chiesto se era venuto a pagarmi. Lui ha ribattuto che per questo c'era tempo e che era venuto a trovare la principessa... poi mi ha fissato all'improvviso in modo strano e ha detto: "Tu sei in debito
con lei, anche se non lo ricordi, e se mai c'è stato un debito che dovesse essere pagato si tratta di questo." E se n'è andato senza aggiungere una sola parola.» «Ecco... è davvero strano» temporeggiò Jill, annaspando alla ricerca di una spiegazione plausibile. «Forse ti ha scambiato con qualcun altro. In questo periodo è un po' sconvolto.» «È vero. Probabilmente si deve essere trattato di questo.» Pur lasciando cadere l'argomento, Jill rimase comunque sinceramente sorpresa che Otho avesse riconosciuto all'interno del loro nuovo corpo anime in cui si era imbattuto tanto tempo prima, quando lui era giovane ed esse stavano vivendo altre vite, cicli della ruota della nascita e della morte che erano da tempo terminati. Alla fine giunse alla conclusione che doveva dipendere tutto da Carra, che in quella remota esistenza era stata la sola persona che il nano avesse mai amato in tutta la sua vita, ma non ritenne che fosse saggio riaprire quell'antica ferita e porre domande in merito al vecchio nano. Nel corso dei giorni che seguirono Cengarn iniziò i preparativi per la guerra. Il gwerbret cominciò a trascorrere la maggior parte della giornata viaggiando a cavallo per le sue terre con un seguito di servitori, spostandosi da una fattoria all'altra per valutare la portata del raccolto e scambiare qualche parola con gli svariati contadini che facevano parte della milizia e che sarebbero accorsi alla sua convocazione. A questi sopralluoghi si accompagnò un fitto scambio di messaggi con i suoi diversi vassalli, al fine di elaborare i necessari piani, e al tempo stesso gli abitanti della città diedero inizio ai loro personali preparativi, raccogliendo tutte le scorte possibili e radunandosi per prendere accordi di reciproco supporto e per selezionare i carri e gli uomini che erano tenuti a fornire al gwerbret in tempo di guerra. In mezzo a tutto questo caos di duro lavoro e di messaggeri che andavano e venivano né il gwerbret né i suoi fedeli vassalli ricevettero la minima notizia da parte di Lord Tren: ogni volta che Cadmar gli mandava un messaggero questi veniva trattato bene e si sentiva dire che sarebbe seguita presto una risposta, ma poi veniva rimandato indietro a mani vuote e la risposta promessa non giungeva mai. Durante quelle giornate Jill trascorse un tempo più lungo del consueto ad esplorare i dintorni ma non trovò mai la minima traccia di azioni militari lungo i confini delle terre del gwerbret. Al tempo stesso la sua preoccupazione per Dallandra andò aumentando perché erano ormai passati quin-
dici giorni da quando l'aveva vista per l'ultima volta... anche se, come ricordava di frequente a se stessa, quel lasso di tempo poteva essere equivalso ad un solo pomeriggio nelle terre di Evandar. Alla fine si decise a mandare ripetutamente il suo gnomo grigio, che stava cominciando a sviluppare una vera e propria mente, a cercare Dallandra come già aveva fatto spesso in passato: sebbene la creatura non fosse in grado di comunicarle un messaggio effettivo, la sua stessa apparizione era in genere sufficiente a ricordare a Dallandra che Jill voleva vederla. Ogni volta però lo gnomo tornò solo e quando Jill cercò di porgli semplici domande esso si limitò a scrollare le spalle e a gironzolare per la stanza curiosando di qua e di là, un atteggiamento che indusse Jill a ritenere che lui non avesse semplicemente trovato Dallandra. Esasperata, si rassegnò allora a cercare di contattare personalmente Evandar o il suo popolo. Quando il Principe Daralanteriel uscì a caccia con i suoi uomini si unì a loro finché non trovò un posto dove due ruscelli confluivano uno nell'altro e convergevano con la staccionata eretta da un contadino... proprio il genere di contrasto e di mescolanza di nature opposte che sembrava dare forma alle misteriose porte di cui Dallandra aveva parlato con lei. Dopo aver aspettato che il principe e i suoi uomini non fossero più a portata di udito scese di sella e legò il cavallo alla staccionata, dirigendosi a piedi verso il punto di congiunzione dei ruscelli con lo steccato: in effetti lì era possibile avvertire una lieve differenza, una sorta di agitarsi dell'energia della terra, una tensione nell'aria e una certa frettolosità nell'acqua... senza dubbio, se avesse avuto in mano una torcia accesa in quel punto la sua fiamma si sarebbe fatta più intensa. Per un momento sostò immobile, guardandosi intorno, ma vide soltanto una mucca bianca intenta a bere nel ruscello. «Evandar!» chiamò quindi. «Dalla! Mi sentite?» Non ci fu risposta... non un suono o un cambiamento nell'energia, non un agitarsi delle forze eteriche che potesse costituire una risposta. Sedendosi con la schiena appoggiata al recinto, Jill scivolò in un lieve stato di trance che le permettesse di essere consapevole al tempo stesso del piano dell'eterico e di quello fisico. Adesso poteva vedere una sorta di piastra o di sagoma che tremolava in mezzo alla luce azzurra, ma non aveva la minima idea di come utilizzarla e alla fine tornò in sé con un gesto di sconforto, abbandonando il tentativo sul nascere.
Quando raggiunse gli elfi nessuno di essi le chiese dove fosse stata o cosa avesse fatto perché avevano troppa esperienza con il dweomer per porre domande ad una Saggia. Mentre la banda di guerra tornava a passo lento verso la fortezza, portando con sé tre daini, Jill si andò ad affiancare a Dar. «Ho sentito dire che gli assedi possono protrarsi per mesi» commentò questi. «È vero. Credi che tu ed i tuoi uomini riuscirete a sopportare di restare rinchiusi tanto a lungo?» «Se è troppo pericoloso portare via Carra non mi resta altra scelta. Posso sopportare ciò che è necessario. Lo possiamo tutti.» «È un bene, perché lei non sarebbe al sicuro sulle pianure. Ho pensato di chiamare altri Saggi... sai che abbiamo i mezzi per comunicare fra noi... ma se devo essere franca, Dar, ho avuto paura di farlo perché quando si mandano i propri pensieri mediante il fuoco o sulle ali del vento è possibile essere sentiti, e non credo che sarebbe un bene se i nostri nemici dovessero intercettare una comunicazione del genere.» «È una cosa che mi ero chiesto» annuì Dar, girandosi sulla sella per guardarla, «ma ho supposto che tu sapessi come era meglio regolarsi.» «Ti ringrazio... comunque ritenevo di doverti una spiegazione. C'è ancora una cosa che volevo dirti: Rhodry lascerà Cengarn domani perché gli ho affidato una missione veramente pericolosa.» «Capisco. Non partirà solo, vero?» «Alcuni membri del Popolo della Montagna andranno con lui. Perché?» «Sono preoccupato a causa di quel mutaforme, quello a forma di corvo che Rhodry e Carra hanno visto mentre erano diretti a Cengarn. Rhodry ha con sé un arco?» «Non che mi risulti. Lo sa usare?» «Direi proprio di sì» sorrise Dar. «Oh, lui tende a sminuire la propria abilità e di certo non è al livello di un tiratore come per esempio Calonderiel, ma nel complesso è un uomo che non mi dispiacerebbe avere accanto se avessi bisogno di un arciere.» «Capisco. Hai un arco di riserva che io possa dargli?» «Sì. Al nostro rientro te lo porterò in camera insieme ad una faretra di frecce.» Il tramonto era ormai prossimo quando Otho si presentò alla fortezza per discutere con Jill dei loro piani. Era stata speranza di Jill che i nani avessero costruito una sorta di uscita segreta da Cengarn ma Otho le spiegò che non esisteva nulla di simile perché lo strato di roccia era troppo vicino alla
superficie per scavare una galleria e perché tunnel del genere sarebbero stati pericolosi in una città strutturata in modo da resistere ad un assedio, in quanto un traditore ne avrebbe potuto rivelare l'esistenza al nemico. «In ogni caso non ti devi preoccupare» proseguì, «perché rimarremo sulle colline e seguiremo una strada nota soltanto a noi.» «Questo dovrà bastare, allora.» «Nessuno potrà vederci, a meno che si serva del dweomer, che però potrebbe permettere di rintracciarci anche se fossimo nelle viscere della terra. Il fatto che Rhodry sia per metà un elfo ha almeno un aspetto positivo, e cioè che come noi anche lui riesce a vederci abbastanza bene al buio da poter viaggiare di notte, il che è proprio quello che faremo, tenendoci poi nascosti di giorno.» «Splendido. Hai la mia gratitudine, per quello che può valere.» «Ha un grande valore» sospirò Otho, scuotendo il capo. «Ah, è davvero strano come si evolvano le cose! Continuo a pensare a te come alla ragazzina dai capelli dorati che eri quando ti ho incontrata per la prima volta tanti anni fa, all'epoca in cui eri soltanto la marmocchia di una daga d'argento che viaggiava insieme a suo padre. Ricordi ancora quell'enigma che ti ho sottoposto?» «Quello riguardante il fatto che "nessuno" poteva indicarmi quale mestiere intraprendere?» sorrise Jill, rammentando quando da bambina aveva visitato la bottega di Otho e sentito quelle parole. «Lo ricordo, e sia io che Nevyn ne abbiamo riso di gusto dopo che io mi sono votata allo studio del dweomer, perché in effetti era stato "Nevyn" a indicarmi la strada da seguire.» Otho annuì e distolse lo sguardo, accennando uno dei suoi rari sorrisi prima di sospirare e di assumere un'espressione triste. «Sarà meglio che vada a congedarmi dalla Principessa Carramaena» disse quindi. «Senza dubbio non... ah, non ho intenzione di generare da solo un presagio nefasto dicendo ad alta voce una cosa del genere. Verrai alla locanda per salutarci?» «Ci sto andando adesso perché voglio parlare con Rhodry e devo dargli il dono di Dar» replicò Jill, battendo un colpetto sulla faretra piena di frecce. Jill trovò Rhodry intento a passeggiare avanti e indietro nella sala comune della locanda dei nani, del tutto solo come se il locandiere e gli altri se ne fossero andati per lasciarlo alle sue cupe meditazioni. Già alto di statura anche secondo gli standard umani, Rhodry appariva addirittura enorme in
mezzo agli arredi modellati a misura di nano e sotto la luce pallida e incerta che derivava in parte dai funghi fosforescenti e in parte dal chiarore del fuoco. Quando si accorse di lei, scoppiò in una delle sue folli risate che denotavano un umore tetro e che a volte inducevano Jill a chiedersi se fosse posseduto da qualcuno degli antichi dèi della guerra, come per esempio Gamyl o addirittura Epona, Signora dei Cavalli, anche se aveva paura di sondare la sua mente per appurarlo. «Cos'hai in mano?» domandò Rhodry. «Sembra un arco da caccia.» «Infatti lo è. Si tratta di un regalo per te da parte del Principe Dar. Lui afferma che sei capace di usarlo.» «Temo di non essere fra i migliori, ma se corriamo il rischio di avere un mutaforme che ci svolazza intorno penso che un arciere mediocre come me sia meglio che niente.» Nel parlare Rhodry posò il fagotto su un tavolo e cominciò ad aprirlo, emettendo un fischio sommesso alla vista della faretra di pelle di daino dipinta, appesa ad un balteo dalle fibbie d'oro. Posandola da un lato finì di aprire l'involto e ne tirò fuori un arco dalla curva aggraziata quanto quella dell'arcata sopraccigliare di un uomo, fatto con due diversi tipi di legno e di corno e decorato in argento intorno all'impugnatura. «Dar mi ha mandato il suo arco» mormorò, con gli occhi velati di lacrime, facendo scorrere un dito lungo la curva dell'arma. «Questo è un onore che non avrei mai pensato di ricevere.» «A me sembra che sia il minimo che lui possa fare, considerando che stai rischiando la vita per la sua donna.» «Per gli dèi, Jill! Riesci sempre a togliere lo smalto ad ogni bel gesto!» «Deriva dall'essere per nascita la figlia bastarda di una daga d'argento.» «Non ne dubito. Adesso che ho trascorso una notevole quantità di anni nella più infima posizione sociale comincio a capire il tuo modo di vedere le cose, ma nonostante questo apprezzo il dono di Dar» ribatté Rhodry, continuando ad accarezzare l'arco con mano amorevole. «Riferisci al principe che mi sento onorato.» «Lo farò.» Per un momento esitarono entrambi, fissandosi a vicenda sotto quella luce dai colori bizzarri. «È un addio, vero?» domandò infine Rhodry. «Pensi che avremo modo di rivederci ancora?» «Lo spero. In caso contrario vorrà dire che qualcosa è andata decisamente per il verso sbagliato per uno di noi due.»
«È proprio quello che temo possa succedere. Ah, bene... se la mia signora Morte dovesse portarmi via da te questo sarà soltanto il giusto castigo per il modo in cui il dweomer ti ha tolta a me, tanti anni fa.» «Rhodry, dovevo andate.» «Vuoi sapere una cosa veramente strana? Lo capisco adesso... adesso, dopo tutti questi anni» affermò Rhodry, con un fugace sorriso. «Credi che i giovani riescano mai a vedere la verità connessa alle donne della loro vita? Io ne dubito, e dubito che conoscendola potrebbero continuare ad essere gli uomini che i loro padri e il loro re si aspettano che siano. Adesso però che ho vissuto così a lungo da non ricordare più quanti anni ho... devo essere vicino agli ottanta, vero?... vedo le cose con maggiore chiarezza. Volevo soltanto che lo sapessi, anche se non ho idea del perché» concluse, voltandole le spalle e dandosi da fare per avvolgere di nuovo l'arco nel suo panno protettivo. «Ti ringrazio. Per me significa davvero molto, perché per tutti questi anni sapere che non mi avevi mai perdonata per essere andata via con Nevyn mi ha fatto dolere il cuore.» Scrollando le spalle, Rhodry ripiegò l'ultimo lembo di stoffa intorno alla faretra con un gesto amorevole quanto quello di una madre che rimboccasse le coltri al suo bambino. «Un'ultima cosa» disse quindi. «Ricordi quando sei venula a prendermi ad Aberwyn?» «Sì.» «Allora avevo sperato che potessimo cavalcare ancora insieme.» «L'avevo capito.» «Però tu sei stata fredda con me quanto avrebbe potuto esserlo una tempesta invernale.» «Dovevo esserlo, razza di somaro!» «Si tratta ancora del tuo Wyrd?» «Non del mio ma del tuo. Non appartieni più a me nella stessa misura in cui io non appartengo più a te, ma sapevo che non avresti ascoltato la voce della ragione. Dovevi trovare una nuova strada, Rhodry, ed io pensavo sinceramente che tu potessi vivere in pace sulle pianure erbose, trovare un nuovo amore e una nuova vita. Non avrei mai immaginato che il dweomer avesse piantato così in profondità i suoi artigli dentro di te.» Rhodry si girò di scatto, sorpreso. «E così i maestri del dweomer non sanno tutto quello che c'è da sapere, vero?» riuscì infine a commentare, con un sorriso.
«Certo che no. In caso contrario credi che tu, io e Carra e tutti gli altri ci troveremmo adesso in questo dannato pasticcio?» Lui scoppiò nella sua risata berserker, il cui suono folle le fece dolere il cuore. Quasi avesse avvertito il suo cambiamento d'umore, Rhodry smise all'improvviso di ridere e per un momento si fissarono a vicenda immersi in un silenzio tanto profondo da risultare assordante. «Jill» mormorò infine Rhodry, «se dovesse accadere il peggio, ricorda quanto ti ho amata.» «Lo farò, Rhodry. E tu ricorda che prima che il mio Wyrd mi portasse via, anch'io ti ho amato.» Con quelle parole Jill gli volse le spalle e lasciò in fretta la stanza diretta verso la porta esterna, perché per la prima volta da quasi quarant'anni temeva di essere prossima a scoppiare in pianto. Mentre tornava verso la fortezza, si sorprese a rammentare l'orribile presagio ricevuto alcuni giorni prima, quando aveva visto Rhodry divorato dal proprio Wyrd. Nessuno, né un maestro del dweomer né un re o un prete, poteva allontanare da un uomo il suo Wyrd, ma quella notte Jill giurò a se stessa che se mai le fosse stato possibile modificare quello di Rhodry una volta che esso si fosse abbattuto su di lui avrebbe corso qualsiasi rischio pur di riuscirci. All'alba Yraen si svegliò negli alloggiamenti, rischiarati dalla grigia luce diurna che penetrava attraverso le finestre aperte. Per un momento rimase disteso con le mani incrociate dietro alla testa, ascoltando i suoni emessi dagli altri uomini che dormivano nelle lunghe file di cuccette, un rumore di sottofondo che gli era ormai divenuto familiare e che era proprio dell'unica casa che lui avesse avuto in tutti i lunghi anni trascorsi da quando era fuggito dalla tenuta patema per diventare una daga d'argento. Sulla spinta dell'abitudine girò quindi la testa per verificare se Rhodry si fosse svegliato, ma la cuccetta accanto alla sua risultò naturalmente vuota. Sentirò la mancanza di quel bastardo, pensò. Per un momento ancora rimase disteso, poi si alzò dal letto, si vestì e tenendo la cintura con la spada stretta contro il petto per non farla tintinnare uscì dall'alloggiamento prima di poter svegliare qualcuno. Una volta nel cortile si arrestò per affibbiarsi intorno alla vita la pesante cintura a cui erano appese la spada sulla sinistra e la daga d'argento sulla destra; fuori l'aria era afosa, ma una serie di banchi di nuvole promettevano l'approssimarsi della pioggia, come dimostrò il vento che prese a soffiare sibilando nel cortile fra un frusciare di paglia e uno sbattere di imposte
mentre lui si dirigeva verso le porte. La primavera aveva ormai ceduto il passo all'estate, le giornate si facevano sempre più lunghe e i servitori avevano già cominciato a parlare del primo raccolto di grano invernale e di fieno: se si doveva partire per adempiere ad una missione assurda, quello era probabilmente il periodo dell'anno più indicato per farlo. Vicino alle porte una guardia assonnata lo salutò con uno sbadiglio. «Dove vai così di buon'ora?» chiese. «Oh, Rhodry partirà oggi, e mi deve del denaro.» «Allora è meglio che lo recuperi finché puoi.» Yraen sorrise e riprese il cammino, chiedendosi perché avesse mentito, perché avesse inventato un motivo freddo e impersonale per dire addio ad un amico. Intorno a lui la città stava cominciando a svegliarsi con uno sbattere d'imposte e un profumo di legna accesa da poco, quindi Yraen badò a camminare nel centro della strada per schivare i rifiuti gettati dalle finestre mentre percorreva il tragitto ormai familiare fino alla locanda dei nani, dove trovò Rhodry fermo all'esterno sotto la luce sempre più intensa del sole, intento a stiracchiarsi appoggiato allo stipite di pietra della porta aperta. Quel giorno lui indossava uno strano paio di stivali di pelle di pecora, con il vello all'interno e trattenuti intorno alle caviglie da sporche strisce di tessuto... il genere di calzatura proprio di un contadino che creava uno stridente contrasto con il balteo decorato in oro che portava di traverso sul petto e con la faretra di cuoio che gli pendeva dal fianco; appoggiato alla parete accanto a lui c'era un voluminoso bagaglio da venditore ambulante, costituito da rigidi sacchi di tela e da un rotolo di coperte, il tutto fissato ad un'intelaiatura di legno, e accanto ad esso c'era un ricurvo arco da caccia elfico. Nel vedere l'amico, Rhodry sorrise e gli andò incontro. «Ti sei alzato presto» commentò. «Me lo stanno ripetendo tutti. Per gli dèi, hai l'aspetto di un dannato taglialegna!» «Almeno fammi l'onore di chiamarmi guardacaccia» lo corresse Rhodry, battendo un colpetto sulla faretra. «Ti prego di notare la coppa che mi pende dalla cintura e l'ascia fissata al mio bagaglio. Il nostro generoso Otho mi ha corredato di ogni oggetto necessario per la mia nuova vita di creatura dei boschi e delle brughiere.» «Humph. Dove sono i nani?» «Sono dentro a litigare. Sono dannatamente contento che Garin venga con noi perché sembra essere il solo a cui Otho dia ascolto.»
«E per quale motivo stanno litigando?» «Non ne ho idea perché parlano nella loro lingua» replicò Rhodry, con una risata che suonò per fortuna normale. «Questo sarà un viaggio degno di essere cantato da un bardo, Yraen, amico mio. L'unico interrogativo è se si tratterà di una nobile storia di valore o di una satira sulla follia umana.» Yraen cercò di trovare una battuta scherzosa ma non ci riuscì, mentre Rhodry sorrideva e spostava lo sguardo verso est e verso la sommità delle mura, come se stesse osservando il sole farsi sempre più luminoso. «A proposito, ci si aspetta che tu viaggi portando con te quella roba?» domandò infine Yraen, indicando il bagaglio da venditore ambulante. «Sì, ed è quello che farò» replicò Rhodry, fissando l'oggetto in questione con aria grave e dubbiosa. «Questa sarà di certo la strada più strana che io abbia mai percorso, ma chi può dire dove mi condurrà? Forse mi porterà infine al letto del mio unico vero amore, la mia signora Morte.» «Vuoi tenere a freno la lingua?» esclamò Yraen, poi si rese conto che stava gridando e si costrinse a moderare il tono mentre proseguiva: «Sono quanto mai nauseato di vederti indulgere in questa dannata e folle fantasticheria.» «Non è folle. Alla fine lei ci avrà tutti per sé.» Di nuovo Yraen si trovò a corto di parole, e nel silenzio che seguì Rhodry si girò verso di lui con espressione d'un tratto solenne. «Ti chiedo scusa» disse. «Cerca di non correre rischi, d'accordo?» «Farò del mio meglio, ma tenta di fare lo stesso anche tu, bastardo berserker.» Rhodry rispose con un fugace sorriso, e d'un tratto Yraen si rese conto che non c'era più nulla da dire. Con un cenno della mano si girò e s'incamminò a passo veloce per tornare alla fortezza. Quando infine rientrò nel cortile il sole aveva ormai superato la sommità delle mura e gli uomini della banda di guerra si erano raccolti davanti agli alloggiamenti, alcuni intenti a lavarsi la faccia nell'abbeveratoio dei cavalli, altri in attesa vicino alle latrine e qualcuno diretto verso la grande sala per la colazione. «Yraen!» chiamò Draudd. «Jill ti stava cercando. È meglio che tu stia attento, ragazzo, se non vuoi che ti getti addosso il malocchio o qualcosa del genere.» «Oh, non dire stupidaggini! Mi vuole vedere?» «Sì, e subito. Ha detto che l'avresti trovata nella grande sala.»
«Quando entrò nella sala, Yraen vide Jill seduta alla tavola d'onore, e poiché era in compagnia del gwerbret e della sua dama esitò ad avvicinarsi; Jill però si accorse di lui e lo chiamò, segnalandogli di avvicinarsi.» «Yraen, ho un incarico per te» gli disse, quando lui le si fu inginocchiato accanto dopo aver rivolto un inchino al gwerbret. «Voglio mettere una guardia vicino alla camera del Principe Daralanteriel. Il ciambellano mi ha detto che accanto ad essa c'è una stanzetta riservata ad un eventuale servitore, e d'ora in poi tu potrai dormire là, in modo da essere a portata di mano in caso di guai. Durante il giorno, inoltre, voglio che sorvegli la Principessa Carramaena ogni volta che non si troverà nella sala delle donne o insieme a suo marito.» Yraen ebbe l'impressione di aver ricevuto uno schiaffo in pieno volto e per un momento desiderò inveire contro Jill e dirle che lui era l'uomo meno indicato per quell'incarico... ma come poteva spiegare che essere vicino alla principessa era come avere una daga piantata nel cuore, perché era stato tanto stupido da innamorarsi di una donna sposata? «Cosa c'è che non va?» domandò intanto Jill, fissandolo con i suoi penetranti occhi azzurri. «Nulla» replicò Yraen, consapevole che il gwerbret e Labanna stavano ascoltando con interesse. «È solo che... ah, non è nulla. Ho appena detto addio a Rhodry, ecco tutto, e mi stavo chiedendo se avrò mai modo di rivederlo.» «Capisco. Mi piacerebbe poter placare i tuoi timori, ma in tutta franchezza anch'io mi sto ponendo la stessa domanda. Questi non sono tempi facili, Yraen, il che spiega perché ho bisogno di porre una guardia vicino alla principessa. Tu hai modi abbastanza raffinati, e so che mi posso fidare di te.» «Ti ringrazio» replicò Yraen, deglutendo a fatica. «Farò del mio meglio per meritare la tua fiducia.» «Bene. Ecco che arriva il ciambellano... va' a prendere il tuo equipaggiamento negli alloggiamenti e trasferiscilo qui nella rocca.» Yraen si rialzò, rivolse un altro inchino a sua grazia e si affrettò ad allontanarsi, pervaso dalla stessa sensazione che aveva provato una volta in cui era stato ferito in battaglia, una sorta di sconvolta incredulità che una cosa del genere potesse succedere proprio a lui, un freddo senso di shock che gli dava le vertigini e generava in lui l'impressione di essere prossimo a fluttuare via nel cielo. Quando era stato ferito, però, il dolore si era fatto avvertire quasi subito e gli aveva dato un mezzo per combattere quella
sensazione, qualcosa su cui concentrarsi per ritrovare il controllo e mettersi al sicuro, mentre adesso non aveva nulla a cui aggrapparsi tranne il suo onore, che però era una spada arrugginita e priva di filo dopo tanti anni vissuti sulla lunga strada, e non aveva nulla che lo proteggesse dal suo cuore traditore. Stava ancora imprecando al tempo stesso contro Jill e contro la propria sfortuna, quando Carra scese le scale seguita da una dama di compagnia e da un paggio, e alla sua vista il desiderio divampò in lui come un fuoco che gli mozzasse il respiro. Allorché riprese i sensi Dallandra si trovò rinchiusa in una gabbia e per un momento rimase immobile, fissando incredula quanto la circondava: non solo era imprigionata in una gabbia cubica fatta di rami legati gli uni agli altri, ma per di più quella struttura tutt'altro che salda era appesa ad un ramo di un enorme albero, come dimostravano i rami e le foglie che riusciva a scorgere attraverso il tetto. Il suo primo gesto quasi automatico fu quindi quello di portarsi una mano alla gola per controllare che la statuina di ametista fosse sempre presente e integra, poi si sollevò a sedere fra le fitte di protesta di ogni tendine e muscolo, e subito la gabbia oscillò così violentemente da costringerla ad aggrapparsi alla sbarra più vicina per non perdere l'equilibrio mentre si guardava intorno. Non molto lontano era visibile una seconda gabbia, fatta anch'essa di rami tagliati rozzamente, al cui interno era rinchiuso il giovane paggio che sedeva con le braccia intorno alla testa, come se stesse cercando di far scomparire il mondo intero fingendo che esso non esistesse. Abbassando lo sguardo, sbirciò quindi attraverso le fessure presenti fra i rami strettamente legati del fondo della gabbia, e vide che un rozzo campo era stato preparato poco lontano da dove lei si trovava. L'albero a cui era appesa la gabbia si levava al limitare di una radura, al cui centro ardeva un fuoco intorno a cui erano raccolti il fratello di Evandar e sei dei suoi uomini, o per meglio dire sei dei suoi seguaci, dal momento che quelle creature erano in pari misura uomini e animali... il guerriero dal lungo muso di lupo, gli orsi con le loro zampe massicce poste all'estremità di braccia umane, un'altra creatura volpina che aveva lo stesso pelo rossiccio del suo capo ma purpurei occhi elfici e infine un essere che aveva la testa umana e un corpo deforme. Adesso i guerrieri avevano accantonato l'armatura e indossavano soltanto una tunica di panno verde legata alla vita da una cintura da cui pendevano le armi, e bassi stivali di cuoio che lasciavano in piena vista il pelo variegato che rivestiva le gambe e le cosce di ciascuno di quegli es-
seri. Poco lontano sedeva una creatura che Dallandra riconobbe: gobba e calva, essa teneva le mani strette intorno ad un lungo bastone adorno di nastri che le poggiava sulle ginocchia. Il suo volto grottesco appariva distorto e gonfio, con la pelle che ricadeva intorno al collo in spesse pieghe costellate di verruche. «Buon araldo!» chiamò Dallandra. «Riferisci al tuo signore che i prigionieri hanno bisogno di acqua.» Gli uomini si alzarono tutti di scatto, imprecando e girandosi per guardare verso di lei, mentre l'araldo si issava in piedi appoggiandosi al bastone, accompagnato dal frusciare delle pieghe di pelle che gli circondavano il collo. «Mio signore» disse, con voce stridula e gracchiante, «i prigionieri trattati bene fruttano alla fine condizioni migliori.» Il guerriero volpino emise un grugnito pensoso, poi schioccò le dita in un'imitazione di uno dei gesti di Evandar e fece apparire una fiasca di bronzo che risultava però deformata e priva di proporzioni, come se fosse stata modellata dal più inesperto apprendista fabbro. «Tirali giù» ordinò ad uno dei guerrieri «orsi.» Prima lei. Ringhiando e sudando, la creatura slegò il nodo che fissava al tronco dell'albero la corda a cui era appesa la gabbia e la calò a terra così in fretta da farla sbattere violentemente contro il suolo. Lanciando un urlo, Dallandra si aggrappò alle sbarre per non cadere e i guerrieri scoppiarono in risa sguaiate. «Oh, è davvero bella» commentò il guerriero «orso, protendendo il muso puzzolente verso le sbarre: le labbra e il naso avevano fattezze umane sotto uno strato di pelliccia marrone, ma gli occhi neri erano minuscoli e all'apparenza privi di palpebre.» Possiamo averla, mio signore? Possiamo prenderla e passarla da uno all'altro come un orcio di vino? Sarebbe un dolce sollievo ai desideri di un uomo, mio signore. Dallandra gli sputò in pieno volto e quando il guerriero reagì con un ringhio e un colpo di zampa contro la gabbia, il fratello di Evandar lo afferrò per un braccio, lo costrinse a girarsi e lo scagliò a terra, sferrandogli un calcio alla testa per porre fine alle sue imprecazioni. «Credi forse che Evandar sarebbe disposto a trattare in cambio di un giocattolo rotto?» esclamò. «Lasciatela in pace! Mi avete sentito? Se scoprirò che qualcuno ha dato fastidio a lei o al paggio lo ucciderò con le mie mani. Vogliamo che entrambi siano integri e in forma quando arriverà il momento di trattare.»
Muovendosi con cautela in modo da non perdere di vista il suo irato signore, l'araldo si avvicinò alla gabbia e fece passare la fiasca deforme attraverso le sbarre. «Tienila!» ringhiò il guerriero volpino. «Ne creerò un'altra per il ragazzo. Anch'io posso eguagliare le imprese del tuo Evandar e creare cose dal nulla, intessendole con la luce, proprio come fa lui. Tiratela su e calate il paggio.» Dallandra si strinse la fiasca al petto per evitare che potesse rovesciarsi mentre la gabbia veniva risollevata fra un susseguirsi di scossoni, poi bevve avidamente non appena essa ebbe cessato di oscillare. Nel frattempo la gabbia del paggio venne calata a sua volta e il ragazzo ricevette una fiasca d'acqua... ma per ordine del guerriero volpino la sua prigione venne poi lasciata al livello del suolo. «Tu! Strega elfica!» chiamò quindi il guerriero, portandosi sotto di lei. «Il ragazzo rimarrà quaggiù, più vicino a me che a te, e se solo accennerai a far ricorso alle tue dannate magie lo tirerò fuori e lo torturerò a morte sotto i tuoi occhi. Mi hai sentito?» Di fronte a quella minaccia il ragazzo prese a piangere e a urlare; infilata una zampa fra le sbarre, la creatura simile ad un lupo lo afferrò per i capelli e lo scrollò con violenza per farlo tacere, con il solo risultato di accentuare le sue grida. «Lasciatelo in pace!» esclamò Dallandra. «Farò come dice il vostro capo!» Il guerriero-lupo gettò a terra il ragazzo e si allontanò con passo pacato, disinteressandosi di lui. Non appena il fratello di Evandar ebbe raggiunto gli altri vicino al fuoco Dallandra sedette all'interno della gabbia e cominciò a riflettere, chiedendosi per prima cosa per quanto tempo fosse rimasta priva di sensi a causa del suo ritorno alle dimensioni normali e poi del suo successivo svenimento. Alla fine dovette ammettere di non averne idea, così come non riusciva neppure a immaginare quanto tempo potesse essere passato nell'universo fisico da quando aveva lasciato Jill. Sollevandosi sulle ginocchia incastrò la fiasca fra due rami in modo che non si rovesciasse e guardò verso il basso. «Araldo!» chiamò. «Il mio signore Evandar è stato informato di quest'oltraggio?» L'uomo si avvicinò maggiormente e la fissò con i suoi occhi rosati e cisposi.
«Non sono stato mandato da lui, mia signora» rispose. «Il mio signore ritiene che debba essere lui a trovare noi.» «In altre parole gli avete teso una trappola.» L'araldo gemette, torcendosi le lunghe mani simili ad artigli. «Vieni qui!» ingiunse in quel momento il guerriero volpino. «Non hai nulla da dirle.» Inchinandosi, tremando e gemendo sottovoce, l'anziana creatura si allontanò, ma non senza scoccare prima a Dallandra un'occhiata che poteva essere definita soltanto apologetica. Accoccolandosi nel centro della gabbia per mantenere la costruzione in piano ed equilibrata, Dallandra si chiese se Evandar si sarebbe reso conto che lei era stata catturata dai suoi nemici quando avesse scoperto la sua assenza, o se avrebbe invece supposto che lei fosse andata ad aiutare Jill. Forse la principessa della notte si sarebbe ricordata di averla vista e glielo avrebbe riferito... ma Dallandra dubitava che uno qualsiasi dei sudditi di Evandar fosse abbastanza cosciente da riuscire ad abbinare un ricordo ad un pericolo attuale e a trarne le dovute conclusioni. Di conseguenza poteva soltanto sperare che gli orribili seguaci del fratello di Evandar si fossero lasciati alle spalle qualche indizio, altrimenti avrebbe potuto finire per marcire lassù... esca di una trappola andata a vuoto... per interi eoni, secondo il modo di misurare il Tempo proprio degli uomini e degli elfi. QUATTRO VIA (STRADA) Si tratta di una figura dai significati controversi, dannosa per le figure fra cui s'interpone sulla mappa ma positiva in ogni genere di viaggio ed estremamente benefica se ricade nella Terra dell'Oro. Qualora cada nella Terra dell'Argento, peraltro, lascia presagire grandi sventure per tutte le questioni d'Amore. Dal Libro dei Presagi di Gwarn, Maestro del Sapere L'alba era ormai lontana e il mezzogiorno si stava approssimando quando finalmente Rhodry e i tre nani lasciarono Cengarn e si diressero a nordest seguendo una stretta strada di terra battuta che si snodava contorta in-
torno a pascoli di pecore e a boschi cedui disposti sul crinale di un succedersi di colline... e dopo aver risalito soltanto due di quei pendii Rhodry cominciò a chiedersi se sarebbe riuscito a reggere a quel viaggio. Pur essendo abituato a sopportare il peso della cotta di maglia, infatti, non aveva mai trasportato un bagaglio sulle spalle prima di quel giorno, e anche se Garin gli aveva steso sulle spalle una pelle di pecora prima di gravarlo del bagaglio, il legno e la tela sfregavano e premevano nel mutare posizione di continuo; avendo le mani occupate dall'arco di Dar, inoltre, lui non poteva infilarle nelle cinghie del bagaglio per tenerlo fermo come stavano facendo invece i nani, e in aggiunta a tutto questo la pelle di pecora cominciava a farlo sudare, irritandogli ulteriormente le spalle. Il vero problema era però costituito dal dover procedere a piedi, perché Rhodry aveva cominciato a cavalcare quando aveva appena tre anni, in sella ad un piccolo pony di Eldidd, e da allora aveva trascorso in sella ad un cavallo la maggior parte della sua vita, anche perché secondo il codice del guerriero camminare era una cosa adatta soltanto per i contadini e per altri esseri inferiori. La conseguenza era stata che con il tempo le sue gambe avevano finito per modellarsi in modo da seguire i contorni del corpo di un cavallo, con il risultato che adesso camminare in salita gli fece dolere prima le ginocchia incurvate all'in fuori, poi anche i fianchi a mano a mano che il peso del bagaglio cominciò a gravare sempre più sui reni. Mentre i nani lo precedevano con passo deciso grazie alle loro gambe corte ma dritte e robuste, lui era costretto a seguirli con un' andatura ondeggiante, coprendosi i piedi e la schiena di vesciche e rimanendo sempre più indietro. Infine, quando i nani erano a metà del pendio della terza collina e Rhodry stava appena cominciando a risalirlo, Garin si decise a ordinare una sosta, aspettando poi che Rhodry raggiungesse con passo barcollante il resto del gruppo prima di parlare. «Così non può andare, Otho» dichiarò. «È ingiusto aspettarsi che la nostra daga d'argento impari all'improvviso a viaggiare come facciamo noi. Quando ci fermeremo alla fattoria per prelevare le provviste che abbiamo comprato dovremo contrattare anche l'acquisto di un mulo che trasporti il suo bagaglio e il resto delle scorte. In ogni caso potrai sempre rivendere l'animale in seguito, una volta che Rhodry si sarà abituato a camminare e sarà pronto a tentare di nuovo di trasportare il bagaglio.» Otho emise un brontolio di protesta mentre Mic annuì a indicare che era d'accordo con quella soluzione; Rhodry, dal canto suo, provò l'impulso
d'inginocchiarsi ai piedi di Garin e di cantare le sue lodi come avrebbe fatto un bardo. «Quanto dista questa fattoria?» domandò invece. «Devo ammettere che i chilometri percorsi finora mi hanno impartito una dura lezione.» «Allora ne è valsa la pena, vero?» commentò Otho, con un sogghigno. «Non manca più molto, ragazzo. Continua a mettere uno dei tuoi teneri piedi elfici davanti all'altro e ci arriverai.» Rhodry evitò di ribattere, anche se tacere gli costò parecchia fatica. Per fortuna la fattoria risultò essere ragionevolmente vicina, e mentre Otho contrattava l'acquisto del mulo Rhodry ne approfittò per sedersi con la schiena appoggiata al muro della stalla, addormentandosi immediatamente nonostante il fango e le mosche. Quando infine Mic venne a svegliarlo il sole era decisamente più basso nel cielo. «È tempo di rimettersi in cammino» avvertì il giovane nano. «Finalmente abbiamo caricato il mulo come vuole Zio Otho.» Camminare senza essere gravato dal peso del bagaglio risultò essere molto più facile, ma anche così tutti i muscoli delle gambe presero a dolergli prima ancora che si fossero di nuovo addentrati in mezzo alle colline, e Rhodry rimase sinceramente sconcertato dal modo assoluto e totale in cui il suo corpo si era modellato per adattarsi a cavalcare, e da quanto gli riuscisse difficile percorrere a piedi anche una distanza minima. La scoperta di quella debolezza destò peraltro la sua cocciutaggine e lo indusse a costringersi a continuare la marcia, rifiutandosi di chiedere una pausa di riposo anche quando Garin gli lanciò un'occhiata come per offrirgli quella possibilità. A mano a mano che la strada si restrinse fino a trasformarsi in un sentiero l'andatura rallentò comunque perché il gruppo fu costretto a procedere in mezzo a rocce e rovi; quando infine si fermarono per riposare, Garin tagliò la pelle di pecora che aveva dato a Rhodry in tante strisce che avvolse intorno ai pastorali del mulo. «Questa dannata bestia ci renderà difficile viaggiare di notte» borbottò Otho. «Vorrei che non l'avessimo mai comprata.» «Bada a quello che dici» lo rimproverò Garin. «Uccidere l'uomo che stai cercando di ripagare non è certo il modo migliore di saldare un debito, quindi non c'è altro da aggiungere.» Otho sbuffò sonoramente ma non rispose, concentrandosi sul pane e formaggio che stava mangiando, e nell'osservare la scena Rhodry si chiese per l'ennesima volta quale fosse la fonte dell'evidente autorità di Garin: infatti non aveva mai sentito dire che il Popolo della Montagna avesse un
equivalente dei gwerbret e dei nobili di Deverry, ma d'altro canto era chiaro che Garin si aspettava di essere obbedito come lo avrebbe preteso un gwerbret. Di media statura per un membro della sua razza, con le spalle ampie, i fianchi stretti e una folta barba scura, Garin aveva un aspetto che emanava autorità quanto il suo modo di comportarsi. Allorché ripresero la marcia sotto il chiarore sempre più tenue del crepuscolo, Garin s'incaricò personalmente di guidare il mulo per la cavezza: camminando un po' più avanti rispetto ad esso e spostando dal suo percorso le rocce e gli altri ostacoli più grossi, riuscì a mantenere il gruppo in movimento per alcune ore dopo che fu sceso il buio, ma nonostante questo il ritmo di marcia risultò essere troppo lento per le esigenze dei nani e quando infine si accamparono in una valletta fra due colline Otho e Garin si appartarono dagli altri per discutere concitatamente nella loro lingua. «Stanno cercando di determinare se sia o meno sicuro viaggiare durante il giorno» spiegò Mic a Rhodry. «Tu che ne pensi?» «Non ne ho idea. La sola cosa che posso dire è che di giorno mi sarà molto più facile usare quest'arco di cui sono munito, perché al buio non riesco a vedere altrettanto bene o altrettanto lontano.» Mentre Mic si allontanava per andare a riferire agli altri quell'informazione, Rhodry si tolse il balteo, posò l'arco e la faretra accanto alle sue coperte e si sedette per slacciare le strisce di stoffa che avvolgevano gli stivali in modo da poterseli sfilare, in quanto Garin aveva sottolineato l'importanza di arieggiare le calzature e di tenere i piedi asciutti nel corso di marce tanto lunghe. Quando ebbe finito si distese con l'intenzione di concedersi soltanto un momento di riposo e finì invece per addormentarsi, troppo stanco anche per mangiare; si svegliò una volta quando i nani cominciarono a muoversi per il campo e a stendere le loro coperte ma si riaddormentò immediatamente. Nei suoi sogni continuò però a vedere occhi che l'osservavano... occhi di drago e occhi umani... e a sentire uno strano stridio che proveniva però da troppo lontano perché potesse identificarlo. Dopo un ultimo sogno riguardante una città in rovina si svegliò infine madido di sudore freddo, scoprendo che l'alba era appena sorta. Intorno a lui i nani stavano ancora russando avvolti nelle coperte e poco lontano il mulo impastoiato sull'erba sonnecchiava con la testa bassa, mentre la brezza del primo mattino faceva frusciare gli alberi circostanti, fresca e gradita in quella che prometteva di essere una giornata soleggiata e afosa. Sollevandosi a sedere Rhodry posò automaticamente una mano sull'arco, consapevole che per quanto sveglio poteva ancora percepire gli occhi
che aveva visto in sogno... o per meglio dire poteva percepirne un paio. Nel corso dell'ultima settimana era infatti giunto a rendersi conto che c'erano due diverse presenze che lo sorvegliavano durante il sonno: gli occhi di drago lo scrutavano con curiosità, ma al tempo stesso il loro sguardo appariva indifferente e del tutto neutrale, mentre gli occhi umani erano pervasi di malizia... la stessa che lui stava avvertendo adesso. Gettate indietro le coperte si guardò intorno, e nel constatare che non c'era nessuno si rese conto che in effetti non si era aspettato di vedere qualcosa. D'un tratto però il mulo sollevò la testa di scatto e sbuffò, girandosi per annusare il vento, un atteggiamento che indusse Rhodry ad afferrare l'arco e a tenderne la corda, agganciandola ad un'estremità del legno per poi puntellare l'arco con il piede e incurvarlo contro la gamba fino a fissare la corda anche dalla parte opposta. Quando ebbe finito si alzò in piedi e incoccò una freccia, allontanandosi di qualche passo dalle coperte e girando lentamente in cerchio su se stesso alla ricerca di un nemico nascosto. Per quanto i suoi occhi non riuscissero a scorgere nulla d'insolito, accanto a lui il mulo sbuffò ancora e caracollò nervosamente... e nel guardare in direzione degli alberi Rhodry riuscì infine a scorgere una figura che lo stava osservando e che scambiò inizialmente per quella di un pastore, a causa dei calzoni laceri e della camicia rozza e sporca. Quando però la figura uscì sotto la luce del sole lui si rese conto che per quanto il volto fosse classificabile come umano il corpo era appollaiato su un paio di gambe lunghe e sottili come quelle di una cicogna, la schiena era incurvata all'indietro e le braccia risultavano minuscole e sproporzionate, mentre la testa era sorretta da un collo tanto lungo e sottile da dare l'impressione di fluttuare nell'aria. «Cosa vuoi?» sibilò Rhodry. Gli occhi della creatura scintillarono ed essa snudò le lunghe zanne gialle in un sogghigno permeato di malizia, di un contorto desiderio di sbranare e di lacerare per il semplice gusto di farlo. Sollevato di scatto l'arco, Rhodry lasciò partire la freccia che sibilò nell'aria e attraversò di netto la creatura, andando a cadere rumorosamente sul terreno roccioso al di là di essa. Sebbene il dardo non gli avesse creato nessun danno visibile, l'essere emise comunque uno stridio di dolore nel momento in cui esso lo attraversò. «Vattene e bada a restarmi alla larga!» ingiunse intanto Rhodry.
La creatura snudò le zanne in un ringhio e scomparve, anche se il suo volto ringhiante parve librarsi nell'aria come una chiazza unta per qualche secondo ancora prima di svanire insieme al resto. Rabbrividendo in modo convulso, Rhodry avanzò con estrema cautela per andare a recuperare la freccia, e quando s'inginocchiò ad esaminare il terreno non trovò impronte di sorta nella polvere. Al suo ritorno vicino al fuoco scoprì che i nani erano svegli e si stavano alzando dai loro giacigli. «Cos'era quella creatura?» esclamò Mic. «Prima d'ora non avevo mai visto esseri fatati così grossi.» «Dubito che fosse un membro del Popolo Fatato» replicò con esitazione Rhodry, cercando il modo migliore per fornire una spiegazione. «In ogni caso non era veramente qui, dato che la mia freccia l'ha attraversata senza danno.» «Lo abbiamo visto» annuì Mic, poi lui e gli altri fissarono Rhodry con aria piena di aspettativa. «Vi ho parlato di Alshandra, vero?» continuò questi. «Ebbene, suppongo che quello fosse uno dei suoi seguaci.» «Cosa vogliono da te?» chiese Garin. «Che io sia dannato se lo so.» «Potremmo essere tutti dannati se non riusciamo a intuirlo» intervenne Otho. All'improvviso Rhodry si sentì assalire dalla vergogna, perché per quanto amasse litigare con Otho lo conosceva praticamente da sempre, e provava una sincera simpatia per il suo popolo. «Perché non tornate indietro?» suggerì. «Garin, se tu mi spiegassi come trovare questo Haen Marn potrei cercare di arrivarci da solo. Questa faccenda si è fatta di colpo troppo pericolosa e mi vergogno all'idea di avervi coinvolti in essa.» «Tieni a freno la lingua, stupido elfo!» scattò Otho. «Avresti potuto pensarci quando abbiamo stretto l'accordo, invece di versare adesso aceto sulla ferita.» Rhodry lo fissò con espressione vacua, incapace di comprendere quella reazione. «Otho, uno di questi giorni finirò per cucirti le labbra e la vita diventerà molto più piacevole per tutti» intervenne Garin. «Ascoltami, Rhodry: tu hai salvato la vita ad Otho e in cambio noi abbiamo promesso di aiutarti a
trovare questo drago, quindi non c'è altro da aggiungere, dal momento che fra noi esiste un debito.» «E se io vi liberassi dal doverlo pagare?» «Non esiste una possibilità del genere. Un debito rimane tale finché non venga ripagato.» All'improvviso Otho si alzò in piedi e si allontanò, borbottando qualcosa di incomprensibile, e nel notare l'occhiata significativa che Garin e Mic si stavano scambiando Rhodry ricordò per quale motivo il vecchio nano fosse stato mandato in esilio. «Ebbene, allora non mi resta che ringraziarvi dal più profondo del cuore» si arrese infine. Garin gli rivolse un fugace sorriso, poi si girò verso Mic. «Prepara un po' di cibo per tutti, d'accordo?» gli disse. «Abbiamo molto da fare prima di rimetterci in cammino.» Comprendendo che la discussione era da considerarsi conclusa, Rhodry s'incaricò di andare ad abbeverare il mulo. Nel corso dei successivi giorni di viaggio il terreno si andò facendo sempre più erto in una successione di aspre colline solcate da profondi burroni e da torrenti schiumeggianti e coperte da un sottile strato di terriccio dal quale sporgevano qua e là enormi massi neri. Nelle strette vallate il gruppetto s'imbatté in rare fattorie composte da case rotonde dal tetto di paglia e da granai circondati da un terrapieno e sorvegliate da cani che al loro passaggio si scagliavano contro i cancelli abbaiando selvaggiamente; di tanto in tanto capitò loro di vedere anche qualche contadino o sua moglie montare la guardia con un randello o una falce stretti nelle mani rovinate dal lavoro in attesa che quegli stranieri si fossero allontanati. Nell'attraversare i rari tratti erbosi i viandanti scorsero a volte delle capre al pascolo, mai mucche e di rado pecore, e ognuno di quei greggi risultò sorvegliato da due o tre ragazzi e da un branco di cani. Sul finire del secondo giorno i quattro oltrepassarono un vero e proprio villaggio fortificato che contava una dozzina di edifici circondati da pareti di pietra e legno dalla sommità coperta di zolle erbose su cui stavano pascolando alcune capre bianche e marroni; vicino alle porte erano di guardia due giovani armati e vestiti della rozza stoffa marrone che sembrava essere onnipresente in questa parte del mondo; uno di essi era armato di spada mentre l'altro brandiva un'ascia da battaglia di stile elfico dalla lunga impugnatura e dalla lama ricurva. Quando il gruppetto oltrepassò la fortezza i
due giovani s'irrigidirono, evidentemente pronti a dare l'allarme al primo segno di pericolo. «Questa gente è assoggettata a Lord Matyc?» domandò Rhodry. «Hah!» esclamò Garin. «Dubito che abbiano mai saputo della sua esistenza. Si trovano insediamenti del genere lungo tutto il confine di Deverry, abitati da gente dura che odia in pari misura i nobili e gli stranieri. Il mio popolo commercia a volte con essa ma di rado perché ha poca roba che a noi possa servire e non ha molta simpatia nei nostri confronti.» Rhodry si rese allora conto che avevano ormai attraversato il confine fra il regno in cui era nato e le terre dei nani: anche se intellettualmente aveva sempre saputo che Deverry aveva dei confini ben precisi, in qualche modo nel suo cuore aveva avuto l'impressione che esso si stendesse fino ai limiti stessi del mondo, ma adesso nel contemplare quelle colline poco ospitali, coperte di stentati pini scuri e solcate da ammassi di rocce sul fondo dei burroni, compresi di trovarsi davvero in una terra sconosciuta. «Da quel poco che ho potuto vedere, quel villaggio sembrava strutturato come quelli di Deverry, o per meglio dire come una fortezza, con quella grossa rocca eretta proprio nel centro» obiettò tuttavia. «In effetti questa gente di confine è giunta da Deverry, dopo quelle guerre civili che avete avuto per l'elezione del vero re» annuì Garin. «Credo che appartenesse alla fazione sconfitta.» «Infatti» interloquì Otho. «Dopo che Maryn ha conquistato il trono parecchi nobili di Cantrae sono fuggiti in quelle terre che voi umani chiamate Cerrgonney, e quando il nipote di Maryn... credo che si trattasse del nipote... in ogni caso, quando uno dei discendenti di Maryn li ha inseguiti nel Cerrgonney per imporre loro la pace alcuni fra i più cocciuti sono fuggiti quassù.» Nel frattempo il gruppetto era giunto in cima ad una collina che si ergeva alle spalle del villaggio, e nel soffermarsi per guardarsi indietro Rhodry poté vedere con chiarezza da quel punto sopraelevato l'interno della recinzione, uno spiazzo fangoso dove maiali, polli e bambini seminudi si aggiravano fra le case di legno dal tetto di paglia raccolte intorno ad una rocca fatta di pietre miste a fango. Sulla sommità della rocca sventolava una rozza bandiera agitata dal vento che infine la spiegò a rivelare lo stemma del cinghiale. «Ecco la fine dei nemici del re» commentò Otho, con evidente soddisfazione. «Puzzolenti bastardi.» «Da come parli sembra che ti ricordi di loro» osservò Rhodry.
«Li ricordo. A quel tempo ero giovane ed ero arrivato da poco nelle vostre terre» replicò Otho, poi parve sul punto di aggiungere altro ma infine preferì distogliere lo sguardo e lasciar cadere l'argomento. «Ebbene, è inutile restare qui fermi tutto il giorno a blaterare» esclamò. «Rimettiamoci in cammino.» Con il protrarsi del viaggio Rhodry si stava progressivamente abituando a camminare su terreni disagevoli, ma continuava a stancarsi prima degli altri e sul finire di ogni giornata si trovava a seguire i nani con passo incespicante a causa delle vesciche ai piedi. Nel frattempo la loro linea di marcia li stava portando sempre più in alto verso le montagne innevate, che spiccavano immense all'orizzonte, e giunse infine il giorno in cui il tempo volse al peggio e cominciò a piovere. La tempesta sopraggiunse un pomeriggio sul tardi, così improvvisa da indurre in un primo momento Rhodry a sospettare che potesse essere stata provocata dal dweomer, finché i nani non gli spiegarono che simili rovesci erano tipici del clima montano. «Si esaurirà in fretta com'è arrivata» aggiunse Garin, «ma oggi sarà bene accamparci per tempo.» Anche se erano privi di tende, troppo pesanti e voluminose per poter essere usate in un viaggio del genere, i nani erano comunque muniti di tratti di rozza tela di lino impermeabilizzata da uno spesso strato di grasso di pecora che potevano essere uniti gli uni agli altri in modo da formare un rozzo riparo di qualche tipo. Incalzati dalle nubi che si stavano addensando sempre più nere e gonfie nel cielo, i quattro trovarono un ammasso di rocce sulle quali crescevano un paio di stentati pini a cui avrebbero potuto appendere la tela impermeabilizzata, fissandone le estremità con dei sassi per evitare che venisse smossa dal vento; i massi offrivano inoltre una rientranza nella quale sarebbe stato possibile impastoiare il mulo in modo da fornire anche ad esso un po' di riparo, e poco lontano un fiume stretto ma profondo che scorreva fra le rocce garantiva il rifornimento d'acqua. «Fra poco sarà buio e scoppierà la tempesta» annunciò Garin, quando ebbero approntato il campo. «In una situazione del genere quella creatura simile ad una cicogna potrebbe tornare a farsi viva, o magari potremmo trovarci ad avere a che fare con qualcosa di peggio, quindi io direi di stabilire dei turni di guardia.» Perfino Otho non trovò da ridire, e mentre le prime gocce di pioggia cominciavano a cadere i quattro compagni tirarono a sorte i turni di guardia usando alcuni ramoscelli spezzati al posto degli abituali fili di paglia, e a Rhodry toccò in sorte il più lungo insieme all'ultimo turno. Raggomitola-
ti sotto l'angusto riparo i quattro trascorsero una notte scomoda, ma Rhodry riuscì comunque a dormire più degli altri a causa della notevole stanchezza. Nonostante questo fu comunque lieto quando Mic lo venne a chiamare per il suo turno di guardia, perché se non altro questo gli avrebbe dato l'opportunità di sciogliere i muscoli intorpiditi e di allontanarsi dall'odore dei corpi e dei vestiti umidi dei compagni, per non parlare del sentore rancido del grasso di pecora. Anche se aveva ormai smesso di piovere l'aria era fredda e lui si trovò a tremare nello scendere con cautela verso il fiume per bere; accoccolatosi vicino alla riva armeggiò per prendere la tazza di stagno che portava alla cintura e in quel momento sentì alle proprie spalle un rumore che avrebbe potuto essere quello di un passo e che mise in allarme il suo istinto di guerriero, inducendolo a girarsi di scatto in tempo per scorgere una sagoma grigia che gli si scagliava contro. Non appena lo vide calare la mano verso il coltello di bronzo che portava alla cintura, la creatura... che questa volta appariva approssimativamente umana ma con la testa informe e priva di lineamenti visibili ad occhio nudo... si arrestò di scatto, esitando a circa tre metri di distanza per poi svanire con un ringhio degno di un lupo non appena lui estrasse l'arma. Consapevole che qualcuno aveva appena cercato di annegarlo nel fiume che scorreva rapido e gonfio, con la superficie chiazzata qua e là di spuma che scintillava sotto la luce incerta, Rhodry decise che avrebbe potuto aspettare che gli altri si fossero svegliati prima di estinguere la sete. Garin fu il primo ad alzarsi e a emergere dal riparo proprio mentre una pallida striscia di luce argentea appariva verso est ad annunciare il sorgere del sole; quando Rhodry gli riferì dell'aggressione subita, il nano indugiò a riflettere per un lungo momento, accarezzandosi la barba con una mano. «Ebbene, non so proprio cosa fare» dichiarò infine. «A quanto pare queste creature hanno paura del tuo coltello di bronzo, giusto?» «Ne hanno sempre avuta, e Jill sostiene che quell'arma è permeata di dweomer.» Garin annuì, continuando a tormentarsi la barba. «Non so cosa fare» ripeté quindi. «L'unico dato positivo è che siamo quasi a casa, o per meglio dire siamo quasi a Lin Serr, la città dove Otho ed io siamo nati, quindi direi di raggiungerla con la massima rapidità concessa da questo clima avverso.»
Mentre il nano parlava, Rhodry lasciò scorrere lo sguardo sulle colline circostanti, silenziose e all'apparenza deserte, riflettendo che fra i pini che le ricoprivano poteva nascondersi qualsiasi cosa. «Se soltanto avessimo seguito la strada principale a quest'ora saremmo giunti a destinazione, ma Otho ha voluto che scegliessimo questi percorsi secondari, credo a causa dell'insistenza con cui Jill gli ha raccomandato di usare la massima cautela.» «E tuttavia i nostri nemici mi hanno trovato nonostante tutte queste precauzioni» commentò Rhodry. «Infatti. Benissimo, dal momento che è inutile continuare a nascondersi abbandoneremo questa dannata strada secondaria e cercheremo di raggiungere al più presto una città vera e propria, dove saremo di certo più al sicuro. Suppongo che tutto questo sia opera di quel dannato dweomer. Per lo più noi nani non c'impicciamo di cose del genere, tranne pochi incantesimi che usiamo per i nostri metalli e qualche talismano fabbricato dalle nostre donne, ed io non mi sono mai fidato del dweomer: un uomo comincia a mescolare la natura di questo mondo con quella di qualche altro, oppure a viaggiare in posti strani e a impicciarsi di quello che vi trova, e chi può sapere a cosa questo finisca per portarlo? Il mio parere è che di solito lo porta in mezzo ai guai.» Continuando a snocciolare una serie di luoghi comuni, Garin si allontanò per andare a svegliare gli altri. Quando infine si rimisero in marcia, i quattro abbandonarono la strada che stavano seguendo... ammesso che la si potesse definire tale... e si avviarono lungo un ruscello che scorreva fra due colline, procedendo su una sottile striscia di terreno scivoloso che a tratti appariva come un costone scavato nel fianco della collina e a tratti come un succedersi di rocce e di pozzanghere al lato del ruscello. Durante il cammino Garin dovette dedicare la maggior parte della sua attenzione al mulo, incoraggiandolo o pungolandolo quando si mostrava recalcitrante, e dal momento che Mic era impegnato ad aiutarlo e che Otho pareva immerso in un astratto stato di umore cupo, Rhodry si trovò ad essere il solo membro del gruppo in condizione di montare la guardia. In un primo tempo prese in considerazione la possibilità di marciare con l'arco teso e pronto all'uso, ma poiché le sue frecce si erano già dimostrate inutili una volta alla fine preferì appenderselo alla schiena e fare invece affidamento sulla daga di bronzo. Le colline che si ergevano ai due lati della difficile pista che stavano seguendo parevano essere state un tempo rivestite di alberi, a giudicare dai
ceppi e dalle rare piante giovani che facevano capolino in mezzo alle felci e all'erba che adesso rivestivano i pendii. Quella forma di vegetazione non avrebbe certo potuto offrire un nascondiglio adeguato ad un uomo ma la cosa non rassicurava molto Rhodry in quanto lui non poteva sapere con sicurezza quali dimensioni i suoi strani nemici potessero assumere, cosa che lo indusse a restare continuamente in guardia, scrutando senza posa entrambi i pendii alla ricerca della minima traccia di movimento che potesse far presagire una minaccia, tutt'altro che facilitato in questo dal fatto che con il disperdersi delle nubi i momenti di luce intensa si alternavano di continuo ad un gioco di ombre intermittenti. Avevano appena oltrepassato la prima collina, addentrandosi in una valle dove la marcia era meno difficoltosa, quando Rhodry sentì un suono molto familiare, simile ad un fischio ma più paragonabile ad uno stridio, e si arrestò di colpo per ascoltare con la testa piegata da un lato: il suono echeggiava estremamente debole e tenue, e tuttavia lui si sarebbe sentito pronto a giurare che emanava da un punto poco lontano da dove si trovava. «Muoviti, stupido elfo!» chiamò Otho. «Restare indietro è pericoloso.» «Taci e ascolta! Non hai sentito nulla?» Il suono flebile si ripeté, un succedersi di tre note aspre. «Cosa avrei dovuto sentire?» domandò Otho. Intanto anche gli altri nani si erano fermati per ascoltare, ma dopo un momento si limitarono a scrollare le spalle con aria tanto perplessa da indurre Rhodry a chiedersi se per caso stesse impazzendo. Poi il fischio echeggiò ancora, un po' più forte e più sgradevole. «Lo sento anch'io!» esclamò Mic. A quanto pareva il mulo aveva udito a sua volta lo strano suono, perché di colpo appiattì gli orecchi e prese a scalciare a casaccio con una zampa posteriore, mentre Rhodry si girava di scatto a scrutare il pendio collinare con estrema attenzione. Un istante più tardi il fischio echeggiò ancora, formando una distorta melodia di quattro note stridule che parvero farsi beffe dei suoi sforzi. «Qui intorno non c'è nessuno, e tuttavia sentiamo quel fischio» sussurrò Mic. «Rimettiamoci in cammino, ragazzi!» ordinò Garin. «Avanti, andiamo via di qui.» Perfino il mulo parve essere d'accordo con quella decisione e da quel momento procedette con passo costante. Per tutto il resto della giornata lo strano suono continuò ad echeggiare ad intervalli ineguali, a volte come un
singolo stridio, a volte come una piccola e sgradevole melodia, ma sia che procedessero in un'aperta vallata o su una collina boscosa Rhodry non riuscì mai a vedere chi lo stesse generando. Già da qualche tempo aveva comunque riconosciuto il suono come quello prodotto dal fischietto d'osso che un tempo aveva avuto con sé e dal quale aveva perfino provato a trarre qualche nota per pura curiosità, anche se adesso rimpiangeva di averlo fatto; non avendo peraltro modo di sapere che Evandar non era più in possesso dello strumento, suppose che dovessero essercene altri simili fra i seguaci di Alshandra e non indagò oltre sulla cosa. Nel tardo pomeriggio il gruppo raggiunse infine quella che Garin definiva la "strada vera e propria", che risultò stretta ma fiancheggiata da terrapieni e coperta di zolle di terriccio che facilitavano il cammino sia al mulo che agli uomini. «Questa ci permetterà di arrivare a casa entro domani» dichiarò Garin. «Già» sbuffò Otho, «se non verremo prima rapiti e trasportati nelle Terre dell'Aldilà da questi furfanti deformi che continuano a seguirci.» Anche se il nano stava soltanto borbottando le parole da lui scelte indussero Rhodry a soffermarsi a riflettere: fino a quel momento era partito dalla supposizione che i loro nemici stessero facendo quello che lui stesso avrebbe fatto al loro posto, e cioè stessero cercando di ucciderli, questo perché si era dimenticato di quella terra misteriosa in cui Evandar viveva e di come quegli esseri potessero viaggiare avanti e indietro con estrema facilità, a giudicare dall'unica esperienza da lui acquisita al riguardo. D'un tratto si trovò a chiedersi se quelle creature non fossero invece a caccia di prigionieri. «Sapete» disse, «credo che sarebbe opportuno protrarre la marcia il più a lungo possibile e stabilire dei turni di guardia dopo esserci accampati.» Otho reagì ringhiando qualche parola nella sua lingua. «Rhodry ha ragione» ribatté Garin, nella lingua di Deverry. «Peraltro mi chiedo se non sarebbe meglio marciare per tutta la notte dopo esserci concessi adesso un po' di riposo. Il mulo non ha più un carico eccessivo, considerato che abbiamo mangiato la maggior parte dei viveri.» Tutti si girarono verso Rhodry in attesa di una risposta. «Non so se sia una mossa saggia» affermò questi. «Ho l'angosciosa sensazione che marciare durante la notte potrebbe essere più pericoloso che accamparsi in un punto fisso perché anche se possiamo tutti vedere al buio non siamo comunque in grado di spingere lo sguardo molto lontano durante la notte, e non vorrei che finissimo per perdere la strada.»
«Ascoltami bene, idiota d'un elfo» scattò Otho. «Adesso siamo sulla strada di casa e non ce ne allontaneremo di certo...» «Tu non capisci. Queste creature possono alterare ogni cosa con il dweomer e indurci a credere che stiamo camminando lungo un sentiero soltanto per farci poi ritrovare da tutt'altra parte e diretti dove non vogliamo andare.» «Questo m'induce a pormi qualche interrogativo in merito a quello strano fischio» interloquì Garin. «La mia supposizione è che sperassero d'indurci a seguirlo per vedere di cosa si trattasse.» «Sono d'accordo con te» replicò Rhodry, con un brivido involontario. «D'ora in poi sarà bene essere molto cauti.» «Aguzzate la vista, ragazzi, e non abbandonate la strada» raccomandò Garin, facendo scorrere lo sguardo da Mic ad Otho. «Più avanti c'è un riparo, quindi ci accamperemo là.» Il riparo risultò essere un tetto spiovente di lastre d'ardesia sorretto da pilastri di pietra e completato da un frangivento e da un pavimento in legno. Le colonne erano incredibilmente snelle rispetto al peso che dovevano reggere, e Rhodry rimase stupito dalla loro resistenza e dalla delicata incisione che le decorava, raffigurante file verticali di anelli intrecciati. «All'interno ci sono delle sbarre di ferro» spiegò Garin, notando il suo interesse. «È per questo che reggono un simile peso.» «Un'idea interessante. Ciò a cui stavo pensando, però, è che faremmo meglio a impastoiare il mulo il più vicino possibile, magari addirittura all'interno del riparo, per evitare che venga messo in fuga durante la notte e che Otho insista perché lo si vada a recuperare.» «Una buona idea. Faremo così.» «Anche se gli toccò in sorte il secondo turno di guardia, Rhodry venne svegliato molto prima del tempo dalle grida di Mic miste ai ragli del mulo. Assonnato com'era afferrò la spada invece del coltello di bronzo e si liberò dalle coperte mentre poco lontano Garin ed Otho si svegliavano a loro volta con una sfilza di imprecazioni nella loro lingua. Alzatosi in piedi, si lanciò quindi in soccorso di Mic, che stava trattenendo a viva forza per la cavezza il mulo che scalciava e ragliava a più non posso.» «Penso io al mulo!» gridò però Mic. «Guarda là fuori!» Disposti in cerchio intorno al riparo c'erano una quantità di esseri deformi nessuno dei quali poteva essere definito del tutto umano: vestite con un assortimento di armature di bronzo e munite di coltelli dello stesso materiale, quelle creature erano un miscuglio di torsi umani su arti animale-
schi oppure di corpi animaleschi su gambe umane, di teste umane o feline o canine miste a capelli intrecciati secondo lo stile dei Fratelli dei Cavalli, a mani nanesche o elfiche, a orecchi da mulo e a zanne da serpente. Alla vista di Rhodry le creature cominciarono a gridare e a imprecare in un assortimento di linguaggi, ma nonostante il loro atteggiamento minaccioso non tentarono di avvicinarsi. Sempre prossimo a cedere ad una crisi berserker, Rhodry perse però il controllo nel sentire quegli insulti, e senza ricordarsi di essere scalzo e semisvestito si lanciò alla carica con un grido di battaglia, vibrando violenti fendenti di piatto con la spada e continuando a correre verso le creature anche se un angolo della sua mente era consapevole che Garin gli stava ordinando di tornare indietro. Il mostruoso branco ululante reagì però al suo attacco lanciando strida di terrore e di sofferenza ad ogni colpo della sua spada d'acciaio ed anche i pochi che inizialmente avevano tentato di contrattaccare si ritrassero urlando al minimo contatto con essa, sebbene la lama paresse attraversare la loro carne illusoria senza provocare ferite di sorta. Colpendo a destra e a sinistra Rhodry costrinse le creature ad allontanarsi dal riparo, e nel fuggire sotto il suo incalzare esse cominciarono a dissolversi, dapprima alla spicciolata e poi in numero sempre maggiore finché all'improvviso lui si ritrovò del tutto solo in mezzo alla strada, con il respiro affannoso. Improvvisa com'era insorta la sua ira berserker allora si dissipò e lui si sentì di colpo decisamente stupido. «Rhodry, torna indietro!» stava urlando Garin, alle sue spalle. Rhodry mosse un paio di passi per obbedire all'ordine, poi si rese conto di non essere più solo e che Alshandra era ferma di fronte a lui sulla strada. Quella notte lei aveva scelto di apparirgli come la splendida donna elfica che gli si era già presentata molti anni prima, alta quasi quanto lui ma snella e avvolta nei capelli biondo miele che le ricadevano lungo le spalle e fino alla vita. «Rhodry, Rhodry, vieni ad aiutarmi» chiamò l'apparizione, protendendo le mani snelle in un gesto di supplica. «Adesso sono così sola e devo salvare la mia povera figlia. Non vuoi aiutarmi, Rhodry Maelwaedd? Sola come sono non posso fare nulla per salvarla» implorò, con le guance improvvisamente solcate di lacrime. Pur conoscendola bene, Rhodry si sentì commuovere dai singhiozzi silenziosi che le scuotevano le spalle, dal dolore sincero che si leggeva nei suoi occhi dorati.
«Oh, Rhodry» sussurrò Alshandra, «avrai la migliore ricompensa che io possa offrire. Potrei facilmente amare un uomo come te. Vieni con me e permettimi di amarti per sempre, nella mia terra dove non invecchierai mai. Basta che tu posi quella spada e venga con me, ed io ti darò una lama migliore, fatta d'argento come la tua daga.» All'improvviso Rhodry scoprì di fare fatica a parlare e a pensare in modo razionale, e quando si guardò intorno scoprì che la strada, il riparo e i nani erano scomparsi, avvolti da una nebbia opalescente. «Basta che tu muova appena un passo in avanti, Rhodry» insistette Alshandra, con voce suadente. «Ti prego, aiutami, e poi saremo felici per sempre. Lascia cadere quella brutta spada e vieni avanti di un passo soltanto.» Con un violento sforzo di volontà Rhodry sollevò di scatto la spada in modo da porla in mezzo a loro come una barriera e Alshandra si ritrasse con uno strillo fuori della sua portata. Anche se ogni muscolo del corpo gli doleva per il desiderio di incalzarla e di ucciderla, Rhodry si costrinse però a rimanere dove si trovava, sul proprio lato di quell'invisibile confine fra i mondi. Nel muoversi Alshandra aveva intanto mutato aspetto, assumendo quello della cacciatrice e torreggiando su di lui con un'ascia di bronzo stretta fra le mani: allorché levò in alto l'arma con il volto contorto dall'ira Rhodry si tese, consapevole di non poter avanzare per attaccare per primo e che quindi la sua unica speranza consisteva nello schivare l'ascia quando si fosse abbassata. D'un tratto però la nebbia svanì e la luce apparve tutt'intorno a loro, accompagnata da un grido. Un istante più tardi Alshandra lanciò un urlo e l'ascia le sfuggì di mano, dissolvendosi nell'aria mentre tutto il suo corpo pareva ondeggiare e tremolare come un panno agitato dal vento: adesso che la sua magia era stata infranta Rhodry si azzardò infine a scattare in avanti, trapassandola con la propria lama d'acciaio, e lei scomparve con un altro urlo. Di colpo Rhodry si ritrovò in piedi nel centro della strada circondata da torreggianti montagne che lui sapeva appartenere al proprio mondo ora pervaso dal grigiore dell'alba; davanti a lui c'era Garin, che sorrideva nel tenere stretta in pugno un'ascia da boscaiolo. «A quanto pare questi tuoi amici non tollerano il contatto con il ferro» commentò. «È una cosa più volte ribadita dalle antiche leggende, per cui non appena sono stato di nuovo in grado di vederla mi sono avvicinato ed
ho provato ad usare l'ascia. Ha funzionato come un incantesimo... anche se è un modo di dire alquanto infelice» aggiunse, mentre il suo sorriso svaniva. Per tutta risposta Rhodry scoppiò nella sua folle e gorgogliante risata berserker, ma si costrinse a smettere quando si accorse che Garin era impallidito. «Ti chiedo scusa per non aver seguito il consiglio che io stesso avevo dato, e ti ringrazio per avermi salvato la vita» disse. «Ritieni che quell'ascia avrebbe potuto ucciderti? Non sapevo se fosse reale o meno.» «A dire il vero non ci ho neppure pensato... diciamo che preferisco restare nell'incertezza piuttosto che aver appurato che era reale finendo tagliato in due.» «Questo è vero.» «In ogni caso, Garin, ti sono debitore.» «Forse un giorno chiederò il pagamento di questo debito, daga d'argento. Non lo dimenticare.» Insieme tornarono verso il riparo, dove gli altri due nani li stavano fissando a bocca aperta, Mic con un pezzo di pane in mano e Otho con del formaggio, mentre il mulo pascolava tranquillo poco lontano sotto la luce sempre più intensa del sole. «Per gli dèi... è l'alba» mormorò Rhodry. «Infatti» confermò Mic. «Cosa ti è successo durante tutto il tempo in cui sei scomparso?» «Per me sono stati soltanto pochi momenti, appena il tempo necessario a scambiare qualche parola con lei.» «Davvero?» domandò Garin, levando gli occhi al cielo. «Devo dedurre che si è trattato di quell'Alshandra di cui ci hai parlato?» «Era proprio lei, e ogni dio e la sua sposa mi sono testimoni che spero che siamo riusciti a spaventarla.» «Spaventarla... vuoi dire che non è morta?» «Jill afferma che non è possibile ucciderla, non con i metodi normali. Scommetto che è tornata nelle sue terre a covare rancore.» Garin accennò a parlare ma poi si limitò a scuotere il capo mentre Mic emetteva una sorta di verso strangolato. «In tal caso speriamo che rimanga là» ringhiò Otho. «Da quello che ho visto era un'elfa. Stavamo facendo colazione quando all'improvviso Garin
ha lasciato cadere il suo cibo con un'imprecazione ed ha afferrato un'ascia, lanciandosi sulla strada per attaccare quella strega elfica.» «Anche se aveva l'aspetto di un'elfa non era una creatura concreta, fatta di sangue e di carne» lo corresse Rhodry. «Jill sostiene che Alshandra può assumere qualsiasi forma desideri.» Otho parve sul punto di pronunciare qualche altra frase tagliente ma si trattenne all'ultimo momento. «Prenditi qualcosa da mangiare, daga d'argento» consigliò Garin. «Voglio rimettermi in marcia al più presto, perché se il ferro crea tanti problemi a quegli esseri allora a Lin Serr dovremmo essere del tutto al sicuro.» Sia che i loro nemici avessero consumato tutte le energie la notte precedente o che fossero ostacolati dalla luce del sole, la mattina di marcia trascorse in assoluta tranquillità. Verso mezzogiorno la strada cominciò ad assumere una marcata pendenza fino a raggiungere la sommità di un'altura oltre la quale si allargava un ininterrotto pianoro che si stendeva verso le lontane montagne incappucciate di bianco. Più avanti Rhodry riuscì a scorgere alcune foreste alternate a tratti di pascoli aperti ma non vide nulla che somigliasse ad una città. «Lin Serr si trova sotto le montagne?» domandò. «No» replicò Garin. «Presto la vedrai.» Per alcuni chilometri la strada si snodò lungo alcune colline in un susseguirsi di salite e di discese, attraversando un tratto di foresta e un ampio pascolo prima di inerpicarsi fino alla vetta di un ultimo costone, oltrepassato il quale i quattro si vennero a trovare su un tratto di prato sopraelevato che si stendeva davanti a loro per circa un chilometro e mezzo e che era senza dubbio una formazione artificiale. All'estremità di quella lingua di prato il terreno scendeva ripido verso il fondo di un enorme bacino erboso punteggiato da qualche albero, sul cui lato opposto era possibile vedere alcune alture di un grigio pallido che apparivano alte quanto il tratto di terreno su cui Rhodry e i nani adesso si trovavano. Nel vedere quelle alture Otho cominciò a piangere in modo inarrestabile, con le braccia abbandonate lungo i fianchi. «Lin Serr» disse Garin. «Casa.» Batté quindi una pacca sulla spalla di Otho in un silenzioso gesto di conforto e si avviò a passo lento insieme a Mic e a Rhodry, per dare al vecchio nano il tempo di riprendersi. Il passo pacato non diede fastidio a Rhodry, in quanto il panorama circostante era senza dubbio degno di ammirazione: la serie di alture era disposta a ferro di cavallo intorno al bacino simile ad
un parco, e la lingua di terra su cui adesso si trovavano si addentrava in esso nel centro del lato aperto; da una parte scorreva un fiume che scintillava sotto i raggi del sole e seguiva la curva delle alture per proseguire il suo corso verso valle in un profondo canale, mentre sulla sinistra... all'interno del bacino ma alla stessa altezza dell'estremità del ferro di cavallo... si ergeva un'alta struttura che in un primo tempo parve essere un naturale pinnacolo di roccia che sorgeva separato dall'altura, fra essa e il vasto spazio aperto del bacino, pur levandosi di una buona quindicina di metri al di sopra dell'altura stessa. Quando si riparò gli occhi per vedere meglio, Rhodry scoprì però che il pinnacolo era invece pietra lavorata, come una statua intagliata nella roccia viva, anche se la sua altezza complessiva doveva essere di almeno sessanta metri: il corpo principale del pinnacolo si levava dritto come una colonna e tanto levigato che quasi risplendeva, ma nel tratto che sporgeva al di sopra delle alture alla sua forma erano state aggiunte opere murarie, insieme a qualche finestra disseminata qua e là a indicare che il suo interno era cavo. «La vecchia torre di guardia» spiegò Garin. «Da qui puoi vedere il passaggio fra essa e l'altura, che un tempo era il solo accesso a Lin Serr.» «Humph» commentò Otho, soffiandosi il naso in un vecchio fazzoletto. «Questo posto sembra più grande di come lo ricordavo.» «I clan continuano a crescere e così noi dobbiamo scavare ancora, un po' qua e un po' là» replicò Garin. «Facciamo il giro in modo da entrare dalle vecchie porte: non ce n'è più bisogno, ma noi tutti persistiamo a farlo come se fosse una sorta di rituale. Suppongo che sia sciocco, ma le antiche abitudini perdurano.» Una volta sul fondo pianeggiante del bacino Rhodry si rese conto che le alture circostanti erano artificiali e non un fenomeno naturale, perché guardando verso l'alto poteva vedere che la loro sommità era piatta e che avevano tutte la stessa altezza; a mano a mano che si avvicinò, inoltre, scoprì che le formazioni verticali che aveva scambiato per fenditure e sporgenze naturali erano in effetti passaggi e camminamenti disposti a intervalli regolari tutt'intorno al bacino, nello stesso modo in cui quelle che a lui erano parse grotte create dall'erosione erano in effetti porte e condotti di ventilazione. «Avete scavato il bacino» affermò, con voce che tremava leggermente. «Avete scavato fino a questa profondità, e quelle alture sono... gli strati di roccia messi a nudo?»
«Proprio così» confermò Garin, sorridendo del suo stupore. «Noi nani siamo una razza paziente: continuiamo a scavare, un po' qui e un po' lì, e alla fine tutto assume una forma precisa.» «Ma il fiume...» «Una volta si trovava nel sottosuolo, ecco tutto. Senza dubbio è più felice adesso che scorre sotto la luce del sole. Naturalmente» proseguì Garin, accennando in modo vago con la mano in direzione del prato... o per meglio dire del giardino, «abbiamo salvato lo strato superficiale di terriccio perché ci piace avere un panorama verdeggiante.» «Ah» mormorò Rhodry, incapace di dire altro. «Scavare il primo cunicolo è stata la parte più difficile» proseguì Garin, «ma una volta che abbiamo fatto progressi in quel senso e creato uno spazio in cui potessero vivere parecchie famiglie abbiamo poi proceduto senza intoppi. Quando infine siamo arrivati a modellare la torre il bacino misurava all'incirca... ecco, io ero solo un ragazzo e non lo ricordo molto bene» concluse, guardando in direzione di Otho. «Il bacino misurava un diametro di ottocento metri, intorno ad esso vivevano circa mille persone e questa era la sola via d'accesso» proseguì per lui Otho, indicando il passaggio di circa tre metri che separava la torre dalle alture. «A quel tempo la torre non era isolata ma collegata sull'altro lato ad uno strato di roccia in modo da formare una specie di porta.» A mano a mano che si avvicinarono risultò evidente che tanto il pinnacolo quanto la parete dell'altura erano del tutto lisci e non offrivano il minimo appiglio ad un eventuale nemico; quando poi ebbero oltrepassato il passaggio immerso nell'ombra e furono emersi di nuovo alla luce del sole, Rhodry si soffermò a guardarsi alle spalle e poté così constatare che sul pinnacolo di quel lato che un tempo aveva costituito l'interno della fortezza spiccavano bastioni, scale e piccole torri scolpiti nella roccia. «Osserva anche le alture» gli fece notare Garin, indicando intorno a loro. «Noti come gli ultimi quindici metri circa sono lisci come il vetro? Qualsiasi invasore che pensasse di poter evitare le porte inerpicandosi lungo il loro lato esterno si dovrebbe poi calare lungo l'altro lato con delle corde, e in quel caso noi potremmo mandare degli arcieri sul pianoro sovrastante, anche se senza dubbio sarebbe ancor meno sportivo di quelle gare che la tua gente organizza durante le fiere, legando dei polli ad altrettanti pali perché fungano da bersaglio. Questo naturalmente valeva per il passato, perché come puoi vedere adesso è possibile accedere liberamente a Lin Serr.»
«Allora questa era una regione pericolosa, quando avete iniziato a costruire la vostra città?» domandò Rhodry. «Qualsiasi nuova regione è pericolosa» replicò Garin. «Hah!» Sbuffò Otho. «Sei proprio l'incarnazione stessa della diplomazia, vero, Garin? Perché non gli dici la verità?» «Dannazione a te e alle tue cattive maniere!» ribatté Garin, che però appariva più stanco che scoraggiato. «Quest'uomo è nostro ospite.» Ascoltando quel battibecco, Rhodry credette d'intuire in esso il motivo dell'avversione che Otho nutriva nei confronti della razza elfica. «Potete anche dirmi di cosa si tratta» intervenne. «Ci sono stati degli attriti fra la vostra razza e quella di mio padre?» «Non con il popolo di tuo padre ma con quello di tua madre. Un tempo noi vivevamo più a sudovest di qui, ma ci siamo spostati quando l'invasione ha avuto inizio.» «L'invasione?» ripeté Rhodry, poi però ricordò le storie che anche Jahdo aveva raccontato e proseguì: «Ti riferisci al nostro arrivo dalla Terra Natale?» «Esatto» confermò Garin. «Dalla Gallia, o come altro la chiamavate, anche se il vero problema sono stati in effetti i Fratelli dei Cavalli. Non so bene cosa sia successo in realtà, ma sembra evidente che i tuoi antenati siano piombati innanzitutto sui Fratelli dei Cavalli, che si sono dati alla fuga in tutte le direzioni per sottrarsi al pericolo, arrivando anche dove noi vivevamo... e non si può dire che costituiscano dei vicini piacevoli. Noi abbiamo comunque avuto un certo preavviso e tempo sufficiente per ritirarci sulle montagne e nasconderci finché il peggio non è passato, poi ci siamo rifugiati qui, convinti che saremmo stati le prossime vittime dei tuoi antenati, che però non sono mai giunti fino a noi.» «Pura fortuna» interloquì Otho, in tono sprezzante. «È stato soltanto per mera fortuna che teste di nani non sono finite a decorare le mura delle loro dannate fortezze. Oh, il tuo è davvero un popolo adorabile, Rhodry Maelwaedd, al punto che non c'è da meravigliarsi che sia odiato da tutti. Voi non appartenete a queste terre, ed è un peccato che non possiate tornare da dove siete venuti.» «Otho!» esclamarono all'unisono Mic e Garin. «Tieni a freno la lingua!» Rhodry intanto ebbe l'impressione che qualcuno gli avesse sferrato un calcio nello stomaco, non tanto per la velenosità delle parole del vecchio nano a cui era da tempo abituato quanto per lo shock derivante da questa
nuova visione della storia, che finora lui non aveva mai preso in considerazione. «Oh, dèi!» sussurrò. «Poi le Orde sono fuggite verso sud, vero? Ed è stato allora che il Grande Incendio... oh, dèi! Le Orde hanno distrutto le città elfiche perché stavano fuggendo davanti a noi.» «Proprio così» confermò Otho, con un sorriso compiaciuto. «Il tuo popolo è responsabile dell'accaduto come se avesse acceso esso stesso le torce.» Garin ringhiò nella sua lingua tre parole che fecero scomparire il sorriso dal volto di Otho, poi aggiunse un'altra frase che fece impallidire l'anziano nano. «Voi non potevate saperlo» continuò quindi, rivolto a Rhodry. «Non potevate immaginare quello che sarebbe successo, e a quanto mi è dato di capire eravate giunti qui perché eravate stati anche voi scacciati dalle vostre terre, conquistate e sottomesse da un nemico più forte.» «Infatti. Si chiamavano Rhwmanes, ed erano davvero spietati, e tuttavia... Per gli dèi! Come potrò mai tornare presso il popolo di mio padre, ora che so tutto questo?» Garin si limitò a scrollare le spalle in un gesto d'impotenza, mentre Rhodry ricordava a se stesso di avere ben poche probabilità di vivere abbastanza a lungo da rivedere le Terre Occidentali, e che quindi era inutile che si tormentasse in merito a quel problema. Alla fine decise che se fosse vissuto abbastanza da avere modo di rivedere suo padre gli avrebbe riferito tutto ciò che aveva appreso e avrebbe lasciato che l'erudito bardo decidesse cosa fare in merito, poi accantonò l'intera questione anche se continuò per parecchio tempo a provare un senso di sorpresa e di disagio. Nel frattempo si erano addentrati sul prato ben curato che si allargava al centro del bacino; dalla parte opposta, vicino al punto in cui la curva a ferro di cavallo era più marcata, era possibile vedere un tratto di rapide ribollenti là dove il fiume emergeva da una caverna, accanto alla quale una serie di segni che sembravano i gradini di una scala s'inerpicavano su per la parete di roccia in direzione di una fenditura scura. «Quella è l'entrata pubblica» indicò Garin, notando la direzione del suo sguardo. «Rhodry, mi dispiace ma dovremo lasciarti per qualche tempo negli alloggi riservati agli ambasciatori, e cioè in un paio di case così chiamate perché servono ad accogliere i visitatori. Vedi, noi nani non permettiamo agli stranieri di entrare nella città sotterranea, per quanto possiamo conoscerli bene.»
«Mi sembra una giusta precauzione, soprattutto nel caso di un barbaro assetato di sangue come me» sorrise Rhodry. «Quanto tempo ci vorrà prima che possiamo riprendere il cammino?» «Er... ecco... dipende» esitò Garin, poi scoccò un'occhiata in direzione di Otho, che stava sfoggiando un sorriso piuttosto sgradevole, e aggiunse: «Ebbene, Otho, dal momento che sei stato tanto pronto a scagliare la verità in faccia agli altri, di certo non ti dispiacerà che il nostro ospite apprenda quella inerente a te.» Otho emise un ululato inarticolato ma poco sentito, come se avesse saputo in partenza di essere sconfitto. «Vedi, Otho deve essere processato per quell'antica questione che ha provocato il suo esilio, e gli dovrà essere comminata una multa» proseguì intanto Garin. «Io spero che non ci voglia troppo tempo, ma è capitato che cose del genere si protraessero per mesi.» «Spero che non succeda in questo caso» ribatté Rhodry, mentre Otho reagiva con un ringhio, peraltro fievole. «Non che voglia ostacolare la giustizia, ma Jill pareva ritenere che dovessimo fare in fretta.» «Un rinvio!» esclamò d'un tratto Otho, sfoggiando un sorriso. «Potremmo riuscire ad ottenere un rinvio, e se poi il drago dovesse divorarmi tanto meglio così!» «Davvero?» scattò Garin. «Saresti capace di andare a contare le tue gemme nell'Aldilà pur di non doverle dare in pagamento qui nel mondo dei vivi? Peraltro ritengo che tu abbia ragione nel suggerire un rinvio: considerato che c'è da ripagare un debito a chi ti ha salvato la vita e da assolvere ad un geas imposto da una maestra del dweomer i giudici potrebbero anche mostrarsi ragionevoli.» Mentre riprendevano a camminare Rhodry scorse vicino all'altura un gruppo di figure inginocchiate sulla riva del fiume, e sparsi tutt'intorno ad esse capi di vestiario simili a pallidi fiori, e suppose che si trattasse di donne intente a lavare il bucato. Dopo qualche momento poté però constatare che anche se stavano in effetti facendo il bucato, quelle figure non appartenevano a delle donne ma ad un gruppo di giovani e di ragazzi. Nel riconoscere Garin i lavandai abbandonarono il loro lavoro e vennero di corsa a raccogliersi intorno a lui, umidi e insaponati com'erano, parlando tutti insieme nella loro lingua. Immediatamente Otho mise in mano a Mic la cavezza del mulo e andò ad unirsi al gruppo.
«Mentre sono qui mi piacerebbe provare ad imparare un po' la vostra lingua, se riuscirò a trovare qualcuno che abbia voglia di insegnarmela» commentò intanto Rhodry, rivolto al giovane nano. Essendo per metà elfo e figlio di un bardo, aveva infatti un buon orecchio per le lingue e aveva già imparato un paio di parole semplicemente ascoltando i suoi compagni di viaggio. «Ne dubito... ecco, voglio dire che è improbabile» replicò Mic, facendosi guardingo. «Oh. Insegnare ad altri la vostra lingua è contrario alle usanze del tuo popolo?» «Non saprei dirtelo. Chiedilo a Garin» rispose Mic, scrutando con attenzione l'erba intorno ai suoi piedi. Rhodry lasciò cadere l'argomento, perché il commento di Otho... tutti vi odiano... gli echeggiava ancora nella mente e non poteva evitare di chiedersi se il popolo dei nani avesse dovuto abbandonare qualche splendida città quando l'invasione lo aveva costretto a costruire Lin Serr; al tempo stesso si accorse anche del fatto che gli uomini raccolti intorno a Garin e ad Otho continuavano a voltarsi a guardarlo con espressione accuratamente neutra, mai offensiva ma mai cordiale. Garin, dal canto suo, sembrava impegnato a chiarire qualcosa d'importante agitando un dito nell'aria mentre parlava. «Adesso sta raccontando loro di come hai salvato Zio Otho» tradusse Mic, «e sta spiegando che sei nostro ospite. Questo ha una grande importanza.» «Non ne dubito, ma se non dovessero volermi all'interno della città io e il mulo potremmo sempre accamparci qua fuori.» Mic accolse quel suggerimento con un sorriso e lo riferì a Garin, che annuì per indicare che aveva sentito e continuò a parlare. «In ogni caso non riuscireste mai a condurre il mulo su per quella scala.» «Questo è vero. Faremo meglio a impastoiarlo quaggiù finché non avremo avuto modo di venderlo per conto di Zio Otho» annuì Mic, poi accennò in modo vago verso il nord, al di là della sommità delle alture e aggiunse: «Naturalmente fra noi c'è anche chi coltiva la terra, lassù sull'altopiano.» Le scale a cui entrambi si riferivano erano intagliate nella viva roccia e s'inerpicavano su per il lato dell'altura in rampe di venti scalini disposte a zig zag, ora verso destra e ora verso sinistra; sebbene non fosse erta quando quelle che c'erano a Cengarn, la scala era molto più lunga e portava al-
l'ingresso principale che si trovava ad almeno una trentina di metri dal livello del suolo. Dal punto in cui era Rhodry, i gradini sembravano terminare su un pianerottolo sovrastato da una sporgenza di roccia grezza nella cui ombra era a stento possibile individuare i contorni di una porta massiccia. «Rhodry?» chiamò d'un tratto Mic. «Ritengo di doverti delle scuse. Hai salvato la vita a mio zio, e tuttavia tutti qui ti stanno trattando come se fossi un appestato.» «Apprezzo le tue parole, ragazzo, ma non prendertela troppo. Ho sempre sentito dire che il Popolo della Montagna non ama i contatti con l'esterno, e adesso so anche che ha validi motivi per agire in questo modo. In ogni caso i nani che gestiscono la locanda di Cengarn mi hanno trattato più che bene.» «È vero, ma è facile essere cordiali e aperti a Cengarn o in un'altra delle città in cui sappiamo di essere i benvenuti, mentre vicino a casa si tende a diventare protettivi. D'altro canto la maggior parte dei nostri uomini non si reca mai in una città degli umani, ed è per questo che Garin è tanto importante... perché riesce ad andare d'accordo con tutti.» «Perfino con un miserabile elfo come me?» «Oh, questa è soltanto una fissazione di Zio Otho!» esclamò Mic. «La maggior parte di noi giovani non ha mai neppure visto un elfo, conosciamo soltanto una vecchia storia che risale all'epoca dell'invasione, in base alla quale una banda di nani avrebbe cercato di rifugiarsi in una città degli elfi che però hanno rifiutato di aprire le porte per paura dei Fratelli dei Cavalli, con il risultato che tutti i nani sono stati massacrati. Si tratta però di una cosa che risale a un migliaio di anni fa» affermò, scrollando le spalle con la profonda indifferenza propria dei giovani. «A chi importa più di una cosa passata da tanto tempo?» «Ecco, gli antichi rancori sono duri a morire» commentò soltanto Rhodry, ma al tempo stesso si sentì turbato da quella storia, indice di un altro disonore che la sua razza aveva seminato sulla scia del proprio passaggio. Qualche tempo dopo Garin tornò verso di loro scuotendo il capo con aria disgustata. «Mi dispiace, Rhodry, ma temo che il mio popolo sia una razza cocciuta. Alla fine comunque sono riuscito a farli ragionare.» «Ecco, potrei sempre accamparmi...» «Con quelle creature che ti danno la caccia?»
«A dire il vero me ne ero dimenticato.» «Io invece no. Mic, Larn e Baro porteranno il mulo sulla cima delle alture e troveranno un contadino disposto a sistemarlo nella sua stalla finché non sapremo come si evolveranno le cose, dato che per quel che ne so potremmo averne ancora bisogno.» Con l'aiuto di altri nani il mulo venne scaricato del bagaglio che venne ridistribuito fra tutti; le scorte di viveri dei quattro viaggiatori erano però molto ridotte e gli zaini risultarono così leggeri che Rhodry poté appendere il suo su una spalla prima di iniziare la salita, durante la quale provò una crescente gratitudine per la leggerezza del suo carico a mano a mano che affrontava una rampa dopo l'altra con il respiro sempre più affannoso. Finalmente arrivarono alla sommità e ad un pianerottolo di pietra lavorata abbastanza ampio da poter ospitare in caso di bisogno un contingente di un centinaio di persone; avvicinatosi ad un grosso gong di bronzo appeso ad un sostegno di legno posto vicino alle porte, Garin raccolse il bastone fissato ad esso con una catena e vibrò un colpo deciso, destando un suono fragoroso che echeggiò a lungo nella valle silenziosa. «Prima o poi il custode verrà ad aprire» commentò quindi. Mentre aspettavano, Rhodry ebbe l'opportunità di osservare le porte di pietra, saldamente chiuse e annidate sotto la sporgenza di roccia: alte circa quattro metri e larghe due e mezzo, erano formate da battenti divisi in pannelli decorati in bassorilievo in modo da raffigurare qualche evento connesso alla costruzione della città. Appurato che il primo pannello in ordine cronologico era quello in basso a destra del battente di destra, Rhodry si accoccolò per esaminarlo meglio e quando scoprì che raffigurava una banda di laceri profughi fermi in mezzo alla pianura che sarebbe un giorno diventata una città si rese conto di aver temuto e al tempo stesso sperato di trovarsi davanti al ritratto di qualcuno dei suoi antenati. D'un tratto dall'interno giunse un colpo di gong di risposta che lo indusse ad alzarsi e a indietreggiare proprio nel momento in cui i battenti si aprivano verso l'esterno senza un gemito o uno scricchiolio, rivelando una vasta caverna naturale rischiarata da una luce azzurrina. «Siamo arrivati, ragazzi» annunciò Garin, in tono deciso. «Venite con me.» Allorché si addentrarono in quell'atrio in penombra gli occhi di Rhodry richiesero qualche momento per adeguarsi al cambiamento di luce, poi lui fu in grado di scorgere le aperture di pietra lavorata che sembravano dare accesso a diverse gallerie che si diramavano in ogni direzione, e al tempo
stesso si rese conto di sentire in lontananza un rumore d'acqua che scorreva sulla roccia. Quel poco di luce diurna che giungeva dall'ingresso principale gli permise inoltre di vedere che il pavimento era fatto di lastre d'ardesia e che direttamente davanti a lui c'era un'enorme decorazione rotonda realizzata con lastre di pietra di diversi colori che formavano un complesso e intrecciato labirinto. All'improvviso Otho scoppiò in pianto e avanzò a grandi passi fino a posare il piede sulla lastra di pietra che dava inizio al labirinto: in mezzo ad un assoluto silenzio e all'attenzione generale cominciò quindi a camminare in fretta e senza la minima esitazione, come se neppure centinaia di anni di esilio fossero stati in grado di cancellare il ricordo di quell'intricato percorso. Arrivato infine al centro del disegno si lasciò cadere in ginocchio e spalancò le braccia, gridando qualcosa nella sua lingua a cui risposero sia Garin che molte altre voci che giungevano dalle diverse gallerie e dal lato opposto dell'atrio. Nel frattempo le porte esterne vennero chiuse e la luce azzurra dei funghi fosforescenti si fece di colpo più intensa, rivelando centinaia di figure che sostavano in silenzio tutt'intorno ai confini della caverna, venute ad assistere al ritorno del loro connazionale. Rialzatosi infine in piedi. Otho ripercorse a ritroso il tracciato del labirinto, e Garin prese Rhodry per un braccio, rivolgendogli la parola in tono sommesso. «Quell'uomo laggiù con la tunica bianca che sta aspettando di accogliere Otho è suo fratello... il padre di Mic. Scommetto che avranno molte cose da dirsi, e dopo naturalmente dovremo andare a parlare con i giudici, quindi sarà meglio che adesso tu venga con me.» Insieme si allontanarono dalla folla sempre più fitta e imboccarono una galleria laterale che si prolungò soltanto per una decina di metri prima di terminare davanti ad una porta di legno intagliata con disegni verticali rappresentanti gli anelli di una catena, molto simili a quelli che spiccavano sui sostegni del riparo eretto lungo la strada. Aperta la porta. Garin fece entrare Rhodry in un ambiente inondato di luce solare. «Benvenuto in uno degli alloggi per gli ambasciatori» disse. «Ho chiesto ai ragazzi che abbiamo incontrato vicino al fiume quale di essi fosse disponibile.» Anche se piccola, la stanza di pietra aveva il soffitto alto e un'ampia finestra che si affacciava sul sottostante bacino erboso e che era dotata di un paio di imposte in caso di pioggia. L'ambiente era inoltre decorato da una
serie di pannelli d'acciaio, intagliati e cesellati a formare i disegni più svariati, che andavano dal pavimento al soffitto e che erano disposti a intervalli lungo le pareti. «Qui Alshandra e i suoi seguaci avranno seri problemi a infastidire chiunque» commentò Rhodry con un sorriso. «Proprio così» convenne Garin, fissando con una certa soddisfazione una lastra d'acciaio decorata con immagini di teste di cervi. «Lin Serr è piena di questo genere di cose in quanto si tratta di un tipo di decorazione che è popolare presso di noi ormai da centinaia di anni, insieme alla creazione di fili di ferro battuto intrecciati a formare una sorta di filigrana. Ci piacciono le decorazioni che durano nel tempo.» La testata del letto era infatti realizzata con quel genere di lavorazione del ferro, eseguita in modo da creare un disegno di viticci e di fiori; il letto in se stesso era basso ma abbastanza lungo, senza dubbio perché era stato progettato per essere usato da uno di questi misteriosi "ambasciatori". Un basso tavolo rotondo e una cassapanca di legno, entrambi intagliati con un motivo a spirale e addossati alla parete opposta, completavano l'arredamento. «Ti farò portare dell'acqua e ogni altro genere di prima necessità» affermò Garin, mentre Rhodry lasciava cadere il suo zaino sulla cassapanca. «Inoltre Mic ed io torneremo fra breve per cenare con te. Nel frattempo dovrò porre qualche domanda in modo da appurare dove ti sia permesso andare e altre cose del genere, però non ti preoccupare, perché non ti abbandoneremo qui a marcire in solitudine.» Garin si accomiatò quindi con un sorriso, lasciando la porta socchiusa alle proprie spalle, senza dubbio a indicare che Rhodry non era prigioniero, indipendentemente dal fatto che la sua presenza fosse o meno gradita. Chiuso il battente, Rhodry si avvicinò alla finestra per guardare fuori: il sole del tardo pomeriggio stava cominciando a scomparire dietro le alture e la lunga ombra dell'antica torre di guardia cadeva sull'erba come una lancia; tutt'intorno era possibile vedere inoltre le aperture triangolari splendidamente lavorate che si aprivano nelle pareti delle alture e che davano senza dubbio accesso a stanze come quella in cui lui si trovava, mentre di fronte e in basso si scorgevano nitidamente in lontananza le figure dei lavandai intenti a raccogliere il bucato e a riporlo in grossi cesti. Al di là di essi il bacino verde si allargava ancora per almeno un chilometro e mezzo prima di arrivare alla lingua di terra che ne formava la rampa di accesso,
una scena che sotto la luce dorata e serena del pomeriggio parve di colpo a Rhodry pervasa di una bellezza inesprimibile. «Lin Serr» sussurrò ad alta voce, e con sua sorpresa sentì che gli occhi gli si colmavano di lacrime. Infine guardò verso la base dello strapiombo di oltre trenta metri che si apriva sotto di lui e di colpo si aggrappò al davanzale con entrambe le mani, in preda alle vertigini e con il respiro affannoso. «Sei un vigliacco» disse a se stesso, ad alta voce, poi si costrinse a sedersi sul davanzale e a guardare verso l'esterno e verso il basso, e nonostante il sudore freddo che ben presto gli inzuppò la camicia s'impose di rimanere in quella posizione finché il sole non fu tramontato e la notte ebbe avviluppato il bacino. Allorché dall'esterno della città giunse una serie di echeggianti colpi di gong a cui rispose con maggiore chiarezza un gong posto all'interno, lui accettò infine quel suono come un segnale che lo liberasse dall'obbligo di quella veglia forzata. Stava frugando nella cassapanca alla ricerca di qualche candela quando Garin e Mic fecero ritorno insieme a due servitori che trasportavano vassoi di cibo, caraffe d'acqua e altri oggetti necessari ad un ospite, e che dopo aver servito il cibo e riposto gli altri oggetti se ne andarono chiudendosi la porta alle spalle. «Mi dispiace per il ritardo» si scusò Garin, «ma il consiglio era preoccupato soprattutto di quello che si doveva fare in merito a Otho, per cui ho dovuto costringerlo a prestarmi attenzione. Avanti, ragazzi, sediamoci e cominciamo, perché sono affamato.» Anche Rhodry e Mic avevano fame, quindi per qualche tempo tutti e tre mangiarono in silenzio la cena, che era costituita prevalentemente da funghi, cucinati con svariate salse e insieme ad un assortimento di verdure, e accompagnati da sottili forme rotonde di pane d'erbe. Su un piatto tuttavia erano disposti alcuni uccelli a pezzi, fritti in una pastella di qualche tipo, e quando ne provò un pezzo Rhodry scoprì che sapevano di carne e non di pollame. «Pipistrelli?» chiese. «Infatti» confermò Garin. «Er... spero che la cosa non ti secchi.» «Affatto. Direi che sono saporiti.» «Bene. Non si sa mai come gli ospiti possano reagire ad un piatto del genere... a proposito di ospiti, il consiglio ha deciso che potrai circolare soltanto nella caverna principale. Mi dispiace ma non sono riuscito ad ottenere l'autorizzazione a farti visitare anche la città alta. Quanto alla città
sotterranea, naturalmente non vi è ammesso nessuno che non sia nato qui, neppure altri nani.» «Vuol dire che mi dovrò accontentare.» «Però potrai passeggiare nel bacino ogni volta che lo vorrai» intervenne Mic, «e potrai visitare la vecchia torre di guardia. Il custode ha avuto l'ordine di lasciarti libero di entrare e di uscire.» «Bada soltanto di non allontanarti troppo, considerato che quella creatura di nome Alshandra può essere sempre in agguato» raccomandò Garin. «Se andrai in giro soltanto di giorno e ti terrai vicino alle alture la quantità di ferro presente nella città dovrebbe bastare a proteggerti.» «È probabile» annuì Rhodry. «Per quanto tempo pensi che resteremo qui?» «Se Otho riuscisse a tenere a bada la sua lingua tagliente sono certo che potremmo partire per Haen Marn entro un paio di giorni. Se» replicò Garin, in tono disgustato e levando le mani al cielo. «Capisco. Significa che potremmo restare bloccati anche per quindici giorni?» «Spero che non si tratti di un tempo tanto lungo, considerato che terrò sotto sorveglianza Otho e che lo farà anche suo fratello.» «Questo mi ricorda che mio padre mi ha permesso di venire con voi» interloquì ancora Mic. «Ha detto che posso proseguire fino ad Haen Marn, e anche oltre, se Garin riterrà che non ci siano rischi.» «I rischi ci saranno sempre, ragazzo, dal momento che stiamo dando la caccia ad un drago» avvertì Garin. «In ogni caso valuterò i pericoli effettivi una volta che saremo ad Haen Marn, e comunque ti farà bene trascorrere un po' di tempo con Enj, a patto che tu abbia poi la possibilità di sopravvivere a questa piccola avventura. Stavo pensando che per me è ormai tempo di scegliermi un apprendista» proseguì, guardando verso Rhodry, «e Mic sembra cavarsela bene fuori di qui.» «Ah. Posso chiedere quale sia la tua arte?» «È vero, non te l'ho ancora spiegato» annuì Garin, con un sorriso. «Io sono un ambasciatore, carica che presso di noi è tutt'altro che semplice da rivestire, in quanto obbliga a viaggiare avanti e indietro fra diverse città, per non parlare della necessità di circolare in mezzo al tuo popolo. Voi avete araldi ed emissari e condottieri, e in un certo senso io sono in parte tutte e tre le cose. Naturalmente non potrei mai capitanare un contingente in battaglia, ma quando ci troviamo nel mondo esterno noi nani abbiamo
bisogno di qualcuno che si faccia ascoltare e obbedire, qualora la situazione lo richieda.» «L'esterno è pericoloso, lo sappiamo tutti» aggiunse Mic, «ma io lo trovo anche affascinante, pur non sapendo spiegare il perché.» «Il fatto stesso che tu la pensi così, Mic, è il motivo per cui sto pensando di prenderti come apprendista. Vedremo anche cosa ne penserà Enj al riguardo, ma se non altro viaggerai fino ad Haen Marn e vedrai tutto ciò che ti sarà possibile, mentre io controllerò l'effetto che restare tanto a lungo all'esterno avrà su di te.» «Allora Haen Marn è lontano?» domandò Rhodry. «Sì. Si trova a nordovest di qui e non è facile da trovare neppure per chi vi sia già stato prima» replicò Garin, poi fece una pausa e assunse un'espressione astratta mentre proseguiva: «Se loro non vogliono che tu la trovi non la vedrai mai, e anche trovandola potresti non esservi il benvenuto, ma questi sono problemi di cui ci preoccuperemo in seguito. Prima dobbiamo convincere i giudici a lasciare Otho libero di partire, in modo che possa sovrintendere al pagamento del debito che ti dobbiamo prima di affrontare la questione dell'antico debito da saldare.» «Quanto tempo potrebbe passare se decidessero invece di processarlo subito?» «Mesi» rispose Garin, facendo suonare quella parola come una via di mezzo fra un gemito e un'imprecazione. «Per allora sarà ormai inverno e non sopravvivremmo mai ad un viaggio fra le montagne» aggiunse, guardando verso Mic. «Tuo padre ed io dovremo proprio convincere Otho a badare a come si comporta.» Affacciandosi alla porta e chiamando a gran voce, Garin convocò i servitori e fece portare via i resti della cena, poi si ritirò per la notte insieme a Mic lasciando nella camera una fiasca d'argento piena di un liquore opaco più forte del vino del Bardek e un piccolo bicchiere di vetro con cui berlo. Versatosi una moderata quantità di liquore Rhodry si rimise a sedere sul davanzale per osservare le stelle che splendevano sulle alture di Lin Serr, chiedendosi dove fosse Alshandra e cosa stesse complottando. Accorgendosi che detestava pensare a lei per più di qualche momento per volta, si rese quindi conto che nel profondo del suo cuore aveva paura di poterla evocare semplicemente pronunciando il suo nome. In alto la grande distesa della Strada Innevata si allargava nel cielo sereno, e la limpida aria montana la faceva apparire tanto vicina da dargli l'impressione che gli sarebbe bastato muovere un passo fuori della finestra per
camminare su di essa e andare... dove? Forse nelle terre di Evandar o magari nell'Aldilà. Abbassando lo sguardo sul precipizio di oltre trenta metri che si perdeva nel buio scoppiò a ridere sommessamente e sollevò il bicchierino in un brindisi. «Al mio unico vero amore» disse. «La mia signora Morte.» Finito il liquore riabbassò i piedi al sicuro sul pavimento di pietra, prima di sentirsi tentato a disinteressarsi del folle incarico di Jill per andare invece a raggiungere la sua amata. Lungo il confine astrale regnava la pace, una pace troppo assoluta per poter essere convincente, come dimostrava il fatto che durante la sua lunga cavalcata di pattugliamento Evandar non s'imbatte né in un albero squarciato né in una torre distrutta o in altri segni di devastazione e di saccheggio, non trovò neppure una sola impronta di zoccoli o un mucchietto di sterco a contrassegnare la presenza o il passaggio di suo fratello... il che significava senza dubbio che quello stolto malvagio era nel proprio territorio a complottare qualcosa che certo non prometteva nulla di buono. Evandar parve però il solo a trarre questa cupa deduzione, come dimostrò il fatto che quando impartì l'ordine di far ritorno a quel posto che tutti chiamavano casa gli uomini della Schiera Luminosa che possedevano una certa dose di consapevolezza, vera o rudimentale che fosse, cominciarono a cantare intonando una melodia di gioia, mentre le creature d'ombra, quelle tremolanti concatenazioni di energie che un giorno avrebbero potuto o meno evolversi fino a diventare degli individui, si unirono ad essa con una serie di suoni inarticolati ma armoniosi. Ascoltandoli, Evandar si accorse con sua sorpresa di essere contento della loro gioia: prima di restaurare la parte delle Terre in cui viveva la sua Corte, lui non aveva mai fatto qualcosa con l'intento di rendere felice la sua gente, e adesso decise di parlare con Dallandra della strana soddisfazione che gli derivava dall'aver fatto quel favore gratuito. Quando arrivarono al fiume, che scorreva ampio e argenteo sotto la luce intensa del sole, il padiglione dorato risultò sempre intatto, il che di per sé era un buon presagio, e gli uomini della Schiera Luminosa smontarono di sella davanti ad esso per poi sparpagliarsi di qua e di là in quelle terre magiche, portando con loro i destrieri meno che concreti ma più che illusori. Rimasto solo, Evandar smontò a sua volta e chiamò il paggio, ottenendo però come unica risposta un silenzio profondo, infranto soltanto dal tintin-
nare di finimenti prodotto dal suo cavallo... reale nella stessa maniera e misura in cui anche lui lo era... che prese a scrollare nervosamente la testa. «Ragazzo! Vieni a portare la mia cavalcatura nella stalla!» chiamò ancora Evandar. Di nuovo non ci fu risposta di sorta... non un suono, una parola o anche solo un alito di brezza... e il silenzio assunse di colpo una connotazione minacciosa: conducendo il cavallo per la briglia Evandar si avvicinò al padiglione e sbirciò all'interno, scoprendo i tavoli rovesciati e fracassati. A quanto pareva questa volta suo fratello si era spinto troppo oltre, invadendo le terre della Corte Luminosa e prendendo addirittura un prigioniero. Il suo primo pensiero fu quello di convocare di nuovo la Corte e di scatenare una guerra, ma la prudenza lo indusse ad aspettare di discutere prima della cosa con Dallandra: dopo tutto, lei gli aveva promesso di tornare a parlargli prima di sprofondare di nuovo nel mondo del Tempo e della Morte per assistere Elessario durante la sua nascita, e ormai avrebbe dovuto essere di ritorno da un momento all'altro. Di conseguenza, decise di sistemare di persona il cavallo nella stalla e di convocare poi un paio di suonatori d'arpa che lo intrattenessero mentre aspettava. Una volta che avesse parlato con Dalla avrebbe avuto tutto il tempo di organizzare il salvataggio e la conseguente vendetta. L'attesa di una risposta alla richiesta di Otho che il suo processo venisse rinviato si protrasse per alcuni giorni, durante il primo dei quali Rhodry scoprì che gironzolare per la caverna principale costituiva un passatempo interessante, perché l'area in cui gli era permesso di circolare misurava parecchie centinaia di metri di lunghezza e ogni centimetro delle sue pareti era coperto da intricate decorazioni, ora di pietra ora d'acciaio, che raffiguravano il paesaggio circostante Lin Serr oppure scene di vita agricola o immagini di caccia in mezzo ai boschi. Rhodry peraltro trovò interessanti soprattutto i bassorilievi che riproducevano immagini di eventi connessi al passato della gente di Lin Serr. Alcune di quelle immagini raffiguravano un panorama a lui sconosciuto, che Garin confermò essere quello circostante l'antica dimora occidentale dei nani, Lin Rej, mentre altre mostravano l'interno di quelle antiche caverne oppure erano ritratti di persone che vi avevano vissuto. Mentre Rhodry circolava per la stanza, esaminando di volta in volta ogni singolo pannello, intorno a lui i cittadini di Lin Serr andavano e venivano impegnati nelle loro attività, entrando e uscendo da questa o da quella gal-
leria per lo più senza degnare l'ospite poco gradito di una sola occhiata, anche se qualcuno gli indirizzò un brusco cenno del capo che non era tanto un saluto quanto un riconoscimento della sua presenza. Non avendo nulla di meglio da fare, Rhodry dedicò parecchie ore anche ad osservare la popolazione locale, e fu così che notò un particolare sconcertante di cui parlò con Garin e con Mic, quella sera a cena. «Non voglio essere offensivo o ficcare il naso nelle vostre usanze» esordì, «però c'è una domanda che vi devo fare. Dove sono le vostre donne? Da quando siamo arrivati qui non ne ho vista neppure una.» «È una domanda logica e per nulla offensiva» lo rassicurò Garin. «In effetti adesso che sono stato nelle tue terre capisco il perché della tua meraviglia» aggiunse Mic. «In Deverry si vedono donne dappertutto, che circolano tranquille sotto la luce del sole.» Rhodry attese per qualche minuto una risposta più esauriente, e quando nessuno dei due nani aggiunse una sola parola sull'argomento decise che la domanda poteva anche non essere offensiva ma sarebbe rimasta senza risposta. Il mattino successivo fece una passeggiata fino alle vecchie porte, badando a tenersi a ridosso delle alture e a stare sempre in guardia, ma Alshandra non si fece vedere, forse a causa delle grandi quantità di ferro presenti a Lin Serr o forse perché era impegnala in qualche altra attività malvagia. Sedutosi sull'erba davanti alle antiche porte indugiò per qualche tempo a studiare il pinnacolo e le aggiunte intagliate nella roccia che sporgevano da esso sul lato interno quasi a formare una seconda torre, quest'ultima ancora connessa alle alture lungo uno dei suoi lati. Questa sorta di seconda torre presentava alla base due strutture rotonde più piccole che avevano una forma molto simile a quella di una rocca deverriana e che in base a quanto aveva detto Garin erano gli antichi casotti di guardia. Quando andò ad esplorarli, Rhodry scoprì che erano stati adibiti ad armeria e che erano quindi pieni di asce di ferro a lama singola, di lance la cui asta di legno era tanto vecchia da cominciare a scheggiarsi e di coltelli di svariate forme e dimensioni. Le parti in ferro erano state tutte coperte da uno spesso strato di grasso per impedire che arrugginissero, e l'odore di grasso stantio che impregnava quelle stanze afose indusse ben presto Rhodry ad uscirne; prima di andarsene, però, ebbe il tempo di notare che alcuni coltelli di ferro avevano la stessa forma rozza e primitiva della daga di bronzo che lui aveva alla cintura, particolare da cui dedusse che
qualcuno proveniente dalle terre di Evandar doveva aver visto in un'era molto remota le armi dei nani e averle copiate. Una volta tornato all'aperto si diresse verso il pinnacolo vero e proprio e scoprì una rampa lunga una decina di metri che portava ad una porta aperta; arrivato fino ad essa, si arrestò un momento per riprendere fiato e per contemplare le alture circostanti, poi entrò nel pinnacolo e si venne a trovare in una piccola stanza, poco più che un pianerottolo scavato intorno ad una scala a chiocciola scolpita nella roccia viva. Superata la meraviglia di fronte a quell'opera incredibile, cominciò la lunga salita all'interno del pinnacolo, e anche se il suo interno era fresco e umido a causa delle spesse pareti di roccia arrivò comunque in cima madido di sudore. La scala terminava in una camera di forma squadrata che misurava circa sei metri di lato ed era dotata su ogni parete di un'enorme finestra intagliata nella roccia e dotata quindi di un davanzale profondo circa un metro e mezzo. Per qualche tempo Rhodry si spostò da una finestra all'altra, costringendosi a contemplare i diversi panorami che esse offrivano, la lunga pianura ondulata che si stendeva verso sudovest, il fiume e le lontane colline visibili ad est e le montagne bianche che incombevano sull'orizzonte settentrionale, al di là della città stessa. Finché il suo sguardo vagava in lontananza il fatto di trovarsi tanto in alto non gli causava problemi, ma non appena provava a guardare direttamente verso il basso si sentiva assalire dalle vertigini e da un'ondata di sudore freddo. Pervaso dalla sensazione che quella fosse comunque una battaglia con se stesso che avrebbe già dovuto combattere e vincere da molto tempo, s'impose comunque di guardare verso il basso quanto più a lungo possibile, e quando infine volse le spalle all'esterno aveva la camicia appiccicata al corpo per il sudore. Dopo quella prima visita Rhodry prese l'abitudine di trascorrere lunghe ore in solitudine sulla vecchia torre. Dal momento che Garin e Mic avevano soltanto pochi momenti da dedicargli, a parte i pasti che consumavano sempre con lui, e che Otho era naturalmente sotto sorveglianza per conto dei giudici, Rhodry si trovò spesso a salire faticosamente la lunga rampa di scale che portava alla postazione di guardia in cima al pinnacolo, dove si sedeva a contemplare Lin Serr e le montagne innevate al di là di essa, appena visibili oltre la cima delle alture artificiali. A volte quando i raggi caldi del sole penetravano attraverso le finestre gli succedeva di assopirsi, pronto da quel guerriero che era a sfruttare ogni momento di riposo che gli si presentava, e nei suoi sogni le montagne assumevano allora un'importanza enorme di cui però non riusciva mai a ricordare il motivo una volta
sveglio, conservando soltanto la convinzione che in mezzo alle nevi di quegli alti picchi avrebbe infine trovato una cosa che aveva cercato durante tutta la sua lunga vita, anche se non era in grado di ricordare di cosa si trattasse. In sogno gli accadeva inoltre spesso di avvertire la presenza dei due osservatori, gli occhi calmi e freddi del drago e quelli pervasi di malizia del suo nemico umano. Quando non stava dormendo gli capitava di domandarsi come stessero procedendo le cose a Cengarn, irritato dal non sapere cosa stesse succedendo a Yraen, a Carra, al Principe Daralanteriel e a tutti gli altri e dall'essere impossibilitato ad aiutarli in qualsiasi modo anche se erano forse in pericolo. Quanto a Jill, pur non preoccupandosi mai della sua sicurezza perché era certo che sapesse badare a se stessa, pensava comunque spesso a lei e a volte l'insorgere di quel ricordo mentre contemplava le bianche cime montane lo portava pericolosamente vicino a quel segreto che si rifiutava di svelare, a quella scoperta che minacciava di alterare la sua intera concezione del mondo: senza preavviso si trovava infatti a domandarsi se per pura ipotesi, giusto a titolo di mera supposizione, fosse possibile che l'anima di un uomo continuasse ad esistere dopo la morte del corpo invece di spegnersi con esso, per poi riprendere a vivere in un altro posto e in un altro tempo. Ogni volta che quell'interrogativo insorgeva nella sua mente, lui si affrettava però a respingerlo scuotendo il capo in un gesto fisico di rifiuto. Sul finire del quarto pomeriggio, mentre come al solito sedeva sul davanzale della finestra, Rhodry vide Mic attraversare di corsa il bacino in direzione del pinnacolo, e poiché era evidente che il giovane nano stava venendo a cercarlo si affrettò ad alzarsi in piedi e a scendere la lunga rampa di scale in modo da intercettarlo a metà della salita. «Possiamo partire!» esclamò Mic, sorridendo per l'entusiasmo. «Il consiglio dei giudici si è riunito oggi ed ha concesso a Zio Otho il suo rinvio.» «Splendido!» approvò Rhodry, ma al tempo stesso indugiò a contemplare con un certo rimpianto il pinnacolo che li sovrastava, consapevole che con ogni probabilità non avrebbe mai più rivisto Lin Serr né si sarebbe seduto ancora lassù. «Cosa c'è che non va?» domandò Mic. «Sentirò la mancanza di questo posto, ecco tutto.» «Perché? Non è la tua città natale.» «Questo è vero. Dimmi, dov'è Garin?»
«Ti aspetta nel tuo alloggio perché c'è qualcosa che ti deve riferire, anche se non ha voluto dirmi di cosa si tratta.» Trovarono Garin seduto al tavolo nella camera di Rhodry e intento a studiare un paio di tavolette coperte di cera che aveva davanti; quando li vide entrare il nano tracciò un'ultima annotazione e posò lo stilo. «Stavo cercando di determinare quello che dovremo portare con noi» commentò. «All'inizio ci serviremo del mulo, ma in seguito dovremo lasciarlo presso qualche fattoria. Del resto sono certo che i contadini saranno disposti a nutrirlo e alloggiarlo in cambio del permesso di usarlo.» «Non ne dubito» convenne Rhodry. «Mic mi ha detto che dovevi parlarmi.» «Infatti, e si tratta di una cosa davvero strana. Mic, per favore, va' a cercare tuo padre e tuo zio.» Mic aprì la bocca come per protestare, poi ci ripensò e lasciò la camera. «Il problema» affermò dopo qualche istante Garin, «è che questa è una cosa del tutto priva di precedenti, per cui preferisco che ne sia al corrente il minor numero possibile di persone. La madre di Otho ti vuole vedere.» «La madre di Otho?» «Infatti. È molto vecchia, Rhodry, e così malata da essere costretta a letto, ma per anni si è aggrappata a quel poco di forze che le rimanevano ed ha continuato a vivere nella speranza che Otho tornasse, in modo da dirgli addio. Adesso grazie a te lui è tornato, e sua madre vuole conoscere l'uomo che ha salvato la vita del suo figlio maggiore.» «Capisco. Mi pare di dedurre che le vostre donne non permettono molto spesso a degli stranieri di incontrarle.» «Infatti» annuì Garin, poi esitò per un lungo momento e infine aggiunse: «Il vero problema consiste nel fatto che dovrai rimanere bendato per tutto il tragitto fino alla città sotterranea. Una volta là ti toglieremo la benda, ma permetterti di vedere il percorso che seguiremo è contrario a tutte le nostre leggi. Sei disposto a farlo?» «Va bene» assentì Rhodry, quasi senza esitazione, perché era consapevole che per riuscire a trovare il drago e rimanere in vita aveva bisogno dell'aiuto e del favore di Garin. «Bendatemi pure.» «Ti ringrazio. Mi sarebbe dispiaciuto deludere quella vecchia, perché non le resta più molto da vivere.» «Lungi da me causarle dolore. Quando andremo a trovarla?»
«Presto. Uno dei suoi servitori... in effetti si tratta del suo pronipote più giovane... verrà a chiamarci non appena si sarà svegliata dal suo sonnellino.» «Ah, d'accordo. Nel frattempo potresti rispondere ad una domanda, sempre che non violi qualcuna delle vostre leggi? Perché le vostre donne rimangono nascoste? Lo fanno per pudore, come le nostre sacerdotesse?» «In certa misura è per questo, ma soprattutto perché detestano l'esterno ed anche la luce del sole» replicò Garin, raccogliendo lo stilo e cominciando a giocherellare nervosamente con esso. «A dire il vero non so quante cose ti posso dire.» «In tal caso lascia perdere, perché la mia è soltanto curiosità.» «Ti ringrazio. Ora tocca a me porti una domanda: pensi che quando lasceremo Lin Serr sarai in grado di trasportare la tua parte di bagaglio, una volta che si renderà necessario?» «Dopo aver avuto a disposizione qualche giorno di marcia per rimettermi in forma dovrei poterlo fare» replicò Rhodry, con un sorriso. «Del resto non avrò molta scelta, vero?» Prima che Garin potesse rispondere qualcuno bussò alla porta, e nell'andare ad aprire Rhodry si trovò davanti un ragazzino alto meno di un metro, scalzo e vestito soltanto con una tunica lunga fino al ginocchio; il ragazzo, che aveva con sé una sciarpa di fine panno bianco, rispose con voce limpida e acuta quanto il suono di un flauto quando Garin gli rivolse la parola nella lingua dei nani. «È pronta» riferì quindi Garin a Rhodry. «La sua serva personale le sta dando qualcosa di caldo da bere.» Presa la lunga sciarpa bianca dalle mani del ragazzino, Rhodry se la gettò su una spalla perché se proprio doveva procedere bendato da un certo punto in poi voleva almeno tenere personalmente la benda che sarebbe stata usata allo scopo. Sotto la fosforescente luce azzurra che emanava dalle pareti, i tre attraversarono la caverna centrale aggirando il labirinto e dirigendosi verso un'alcova dalla quale partiva una massiccia scala di pietra che scendeva verso il basso dritta ed erta, più o meno come le scale ricavate dai nani all'interno della collina su cui sorgeva Cengarn, e che terminava su un piccolo pianerottolo sottostante dal quale partivano corridoi laterali dal pavimento di marmo e una seconda rampa di scale che permetteva di continuare la discesa. «Quelle gallerie portano alla città alta» spiegò Garin, accennando ai corridoi laterali, «e se non avessimo tanta premura di partire cercherei di con-
vincere il consiglio a permetterti di visitarla perché è davvero bella. Con un po' di fortuna, però, andremo via di qui entro domattina.» «Capisco» annuì Rhodry, guardando verso le scale che scomparivano nel buio. «A giudicare dall'oscurità, non sembra che questa sciarpa sarà necessaria.» «In effetti se non avessi sangue elfico nelle vene non ci saremmo presi il disturbo di farvi ricorso, ma tu sei per metà un elfo» replicò Garin, poi però fissò per un momento la ripida scala e infine aggiunse: «D'altro canto per la tua stessa sicurezza credo che sia meglio che tu possa vedere dove metti i piedi.» Cominciarono quindi a scendere con cautela, un gradino per volta, tenendosi addossati alle ringhiere di ferro battuto che fiancheggiavano la scala. Dopo circa quindici metri la luce azzurrina che proveniva dal pianerottolo sovrastante si dissolse nel buio, lasciando Rhodry avvolto in una fitta tenebra che appariva grigia alla sua vista elfica e che gli permetteva a stento di individuare il gradino successivo; immerso in quel buio così totale, d'un tratto si trovò a chiedersi se morire fosse una sensazione simile a questa, una strana luce che svaniva a poco a poco in un nero assoluto come quello che regnava in fondo alla scala. «Siamo arrivati» sussurrò poi Garin. «Fermati dove sei.» «Non riesco a vedere niente» affermò Rhodry, obbedendo. «Più avanti ci sarà la luce.» «Allora è il momento di usare questa» annuì Rhodry, legandosi la sciarpa intorno agli occhi anche se essa parve apportare ben poca differenza. «Da questa parte» disse Garin, posandogli una mano sul braccio per guidarlo. «A proposito, non ci sono altri gradini.» «Ottimo! E quanto è alto il soffitto?» «È un bene che tu lo abbia chiesto» replicò Garin, in tono di scusa. «Infatti temo che ti dovrai chinare un poco.» Quando arrivarono all'imboccatura del passaggio, nel sollevare una mano Rhodry appurò che la volta era in effetti più bassa di lui di qualche centimetro. Dopo aver camminato in linea retta per una cinquantina di passi, Garin lo guidò oltre una svolta e d'un tratto Rhodry percepì un chiarore rossastro che trapassava la benda, avvertendo al tempo stesso nell'aria un odore misto di carbone e di incenso resinoso; a mano a mano che continuarono a camminare la luce si attenuò e venne infine sostituita da una pallida parvenza dell'onnipresente fosforescenza azzurrina mentre all'orecchio di Rhodry giungeva il rumore di una porta che si apriva e si richiudeva alle
loro spalle. Seguirono parecchie altre svolte e una successione di altre porte, così tante da indurre Rhodry a pensare che i nani non avrebbero comunque dovuto preoccuparsi che lui potesse mai orientarsi in quel labirinto anche avendo il pieno uso degli occhi. Quando ormai la schiena cominciava a dolergli per tutto quel camminare incurvato in avanti, il giovane Baeo disse qualcosa nella sua lingua. «Siamo nella sala delle madri» tradusse Garin. «Adesso puoi raddrizzare la schiena, Rhodry, e toglierti la sciarpa.» «Ti ringrazio» annuì Rhodry, obbedendo. Una volta liberi dalla benda, i suoi occhi si abituarono quasi immediatamente alla tenue luce azzurra, striata in alcuni punti da venature argentee dovute probabilmente a qualche nuovo tipo di muschio, permettendogli di vedere che adesso si trovava con i compagni in una caverna circolare dal soffitto a volta, scavata nella roccia e ammantata di una luce fra l'azzurro e l'argenteo. Quattro gallerie, una per ciascuna direzione, si diramavano da quello spazio circolare per poi svanire nell'oscurità, e da esse giungevano folate di aria fresca unite al rumore di acqua corrente e al sussurro di una lontana cascata. Ferme in attesa al centro della caverna c'erano tre donne, vestite con un lungo abito bianco fermato sotto il seno da una fascia e con i lunghi capelli nerissimi intrecciati o comunque raccolti in maniera elaborata e trattenuti da pettini e spille adorne di gemme porpora e rosse. Anche se le tre figure erano alte quanto altrettante ragazzine di Deverry, dal loro atteggiamento emanava una tale aura di autorità che nessuno avrebbe mai osato considerarle immature. Allorché Garin disse loro qualcosa nella lingua dei nani le tre donne annuirono e risposero in modo conciso, osservando al tempo stesso Rhodry con una certa curiosità, poi una di esse venne avanti e protese una mano snella e minuta. Per un momento Rhodry credette che fosse sua intenzione appoggiargliela sul petto, ma la donna si limitò a tenerla davanti a lui e a muoverla in cerchio come se stesse percependo qualcosa nell'aria, il tutto senza cessare di scrutarlo in volto. «Puoi proseguire» disse infine in un deverriano stranamente accentato che ricordò a Rhodry il modo di parlare di Jahdo, e annuì con una certa soddisfazione nell'aggiungere: «Credo che tu sia un uomo abbastanza onorevole, Rhodry, che a quanto ho sentito dire saresti figlio di due padri. È vero?» «In un certo senso sì, mia signora. Sono stato generato da un uomo e allevato da un altro.»
La donna annuì di nuovo con aria riflessiva. «Othara è vecchia» disse poi. «Senza dubbio divagherà parecchio, ed io vorrei che usassi con lei una certa pazienza.» «Lo farò, mia signora.» Con un ultimo cenno di approvazione la donna tornò a raggiungere le compagne, poi tutte e tre si fecero da parte accennando con le mani delicate verso una galleria laterale e rimanendo immobili mentre i tre uomini attraversavano il loro dominio e proseguivano il cammino. Una volta nella galleria Rhodry fu costretto a curvarsi di nuovo ma per fortuna dovette percorrere soltanto pochi metri prima di arrivare ad una piccola porta di legno. Giunto davanti ad essa Baeo disse qualcosa a Garin e bussò. «Sarà meglio che entri soltanto tu» suggerì Garin, «perché avere contemporaneamente molti visitatori la stanca troppo.» Una giovane donna vestita di marrone, con i capelli raccolti semplicemente all'indietro e fermati con un laccio di cuoio, venne ad aprire la porta e fece entrare Rhodry, che dopo essersi chinato per oltrepassare la soglia si venne a trovare in un'ampia camera dalla volta alta abbastanza da permettergli di raddrizzarsi, pervasa da un intenso profumo d'incenso e illuminata da un chiarore tendente al verde e all'argento; una volta all'interno, i suoi occhi impiegarono qualche istante a distinguere i particolari di quella camera pervasa di ombre perché piena all'inverosimile di oggetti: cassapanche di fine lavorazione, sedie, tavolinetti su cui era ammucchiato un assortimento di soprammobili d'argento e di ferro, sacchi di cuoio o di stoffa ammucchiati negli angoli o sulle cassapanche. Sul lato opposto rispetto alla porta c'era un letto di ferro battuto su cui giaceva una donna anziana e minuta, appoggiata a parecchi cuscini e avvolta in alcune coperte. A quanto pareva la serva personale aveva cercato di preparare la sua padrona a quella visita, perché Othara portava uno scialle frangiato intorno al collo e i suoi capelli candidi erano raccolti in una pettinatura elaborata, fermati da almeno quattro pettini pregiati. Al rumore prodotto dall'ingresso dell'ospite l'anziana donna sfoggiò un sorriso che parve tendere ulteriormente la sua pelle già così sottile e tirata da attenuare perfino le rughe che le segnavano il volto, poi la serva segnalò a Rhodry di avvicinarsi e Othara girò la testa nella sua direzione, rivelando occhi così bianchi e vacui da rendere evidente che l'età avanzata l'aveva privata della vista.
«È questo l'uomo che mi ha riportato mio figlio?» chiese, con voce scricchiolante come una porta smossa dal vento. «Vieni qui. Mi piacerebbe sapere che aspetto hai.» «Certamente, mia signora» assentì Rhodry, inginocchiandosi accanto al letto in modo da permetterle di toccargli il volto con dita che si mossero lievi e sicure nel sondare ogni lineamento. «Sei un ragazzo avvenente» commentò infine Othara, con una risatina. «Qual è il tuo nome?» «Rhodry Maelwaedd, mia signora.» «Io ti chiamerò Rori, perché è un nome molto simile a quelli usati dai nani, e ti si adatta maggiormente» dichiarò la vecchia, poi girò la testa verso la sua serva, che era ferma in un angolo in ombra e ordinò: «Lopa, versa qualcosa da bere per il nostro ospite. Gli uomini gradiscono sempre bere quando vengono in visita.» La serva sorrise e armeggiò vicino ad un tavolinetto, tornando un momento più tardi con un bicchiere di vetro pieno del consueto liquore scuro. «Ti ringrazio» mormorò Rhodry, bevendone un piccolo sorso per cortesia. «È molto buono.» «Certamente. Credi forse che servirei qualcosa che non fosse l'annata migliore all'uomo che ha salvato mio figlio? Ah, lui è il mio primogenito ed è sempre stato un ragazzo testardo, ma se una madre non ama suo figlio, chi altri lo amerà?» «Senza dubbio.» Othara annuì, girando la testa in un gesto che ricordò a Rhodry il modo di fare di Meer e guardandosi intorno come se potesse ancora vedere. «Ci troviamo in profondità nelle viscere della terra, Rori. Questo ti disturba?» «Soltanto a tratti, mia signora. Il mio popolo è fatto per vivere sulle praterie e nelle foreste, e di tanto in tanto l'oscurità che regna quaggiù mi serra il cuore.» «Non ne dubito. Ha questo effetto sul cuore della maggior parte degli uomini, anche su quelli della nostra razza che desiderano girovagare là fuori sotto la luce. Io non ho mai visto il sole, Rori, e non ho mai desiderato di vederlo. Che ne pensi di questo?» «Mi sorprende.» La vecchia sorrise, compiaciuta dell'effetto ottenuto. «Ho sentito parlare del mondo esterno dai miei figli, ma del resto descriverle il mondo non è forse una delle cose che un figlio fa per sua ma-
dre? Io però sono una donna e sono sei volte madre, ventidue volte nonna e adesso già sette volte bisnonna, e conosco la terra. Mi sono guadagnata sei volte il mio posto qui, nel cuore della terra: noi donne nasciamo nel cuore della terra, riposiamo su di esso, ascoltiamo le sue storie, lunghe storie che parlano di fuoco e di roccia, e alla fine moriamo sul suo seno» concluse con un piccolo sorriso, annuendo come se stesse ascoltando una musica lontana. Intanto Lopa le si avvicinò con una coppa piena di un infuso fumante che odorava di erbe, e l'aiutò a sollevarsi a sedere. «Un infuso eccellente, mia cara» si complimentò Othara. «Davvero eccellente. Il nostro ospite ha bisogno di un'altra bevanda?» «No, grazie» si affrettò a rifiutare Rhodry, perché quell'"annata migliore" stava risultando piuttosto alcoolica e lui aveva molti gradini da salire per poter tornare in superficie. «È davvero buono.» Othara sorrise, annuì e lasciò vagare per la stanza lo sguardo dei suoi occhi ciechi. «Rori, mi hanno detto che sei diretto al nord per cercare un antico wyrm in mezzo alle montagne di fuoco» osservò infine. «Infatti, mia signora.» «Ah, il nord, il nord dei draghi, la terra della Grande Fenditura. Noi donne la chiamiamo la terra del sangue e del fuoco... il sangue della terra che scorre rosso e oro attraverso tutte le nere venature che circondano la fenditura. Secondo il modo di pensare di noi donne quella è una terra splendida, ma gli uomini la temono, hanno paura del sangue di fuoco. Rori, sai perché la terra sanguina tanto lassù nelle terre del settentrione?» «No, mia signora, e vorrei che me lo dicessi.» «Lo farò, perché è compito della donna narrare agli uomini le storie della terra profonda. Noi viviamo e ascoltiamo qui nelle profondità della terra, sentiamo le sue storie e ce le trasmettiamo di madre in figlia, in modo che anche i nostri figli le conoscano.» Othara s'interruppe e chiese con un cenno un altro sorso dell'infuso di erbe. «Le terre del nord e quelle del sud sono unite lungo le alte montagne: i nostri figli le chiamano il Tetto del Mondo, ma io ti dico che là non c'è un tetto e neppure un riparo, bensì la Grande Fenditura» continuò, poi fece un'altra pausa, con la bocca che le si contraeva a vuoto, prima di proseguire: «La terra del nord e quella del sud vanno ciascuna per la sua strada, Rori, come una moglie che arriva a odiare il marito e lo rimanda nella città alta. Di conseguenza la terra si spacca e si lacera lungo la linea delle alte montagne e sanguina... sanguina. Un
giorno la spaccatura diventerà tanto profonda da arrivare al mare, e la sua acqua fredda e salata salirà a colmarla, placando tanto bruciore.» Rhodry trattenne il respiro per lo shock e Othara scoppiò in una sommessa risatina, simile al franare di un ammasso di ghiaia. «L'idea della terra che si spacca e si divide ti spaventa?» domandò. «Non vedo nulla di vergognoso nell'ammetterlo, mia signora: sì, mi spaventa. Che ne sarà infatti delle genti che vivono lassù?» Othara rise ancora, poi fu assalita dalla tosse e Lopa le passò un braccio intorno alla schiena, aiutandola a sedersi in posizione eretta e porgendole la coppa. Dopo aver bevuto un altro sorso di medicinale Othara si adagiò all'indietro e riposò per un momento prima di riprendere a parlare. «Oh, quelle genti hanno davanti a loro ancora qualche anno prima di trovarsi in pericolo, migliaia e migliaia di anni, Rori, mille migliaia di volte mille migliaia di anni. La terra è profonda ma è anche lenta.» «Capisco.» «Gli uomini pensano che la terra sia salda e ferma, ma noi donne sappiamo che la roccia si muove, fluttuando su un mare di fuoco perché la terra, la terra profonda, è la nostra vita. Sapevi che le rocce stesse galleggiano sul fuoco?» «No, mia signora, e ti sono infinitamente grato per avermelo detto.» Othara sorrise e sbadigliò, tormentando le coperte con una mano dalle dita lunghe e sottili come ramoscelli e altrettanto nodose. Allarmata, Lopa si avvicinò alla sua padrona, poi si girò verso Rhodry e sillabò in silenzio due sole parole: "Vattene presto". Mentre Rhodry annuiva per indicare che aveva compreso, Othara tornò ad essere pienamente cosciente. «Anche se sei al tempo stesso uomo ed elfo, voglio farti un regalo, Rori, perché mi hai riportato mio figlio» disse, poi girò la testa verso Lopa e proseguì: «Apri la cassapanca nell'angolo, trova il cofanetto di piombo e aprilo: all'interno c'è un pezzo di seta azzurra... o almeno una volta lo era. Aprilo e vedrai una pietra blu appesa ad una catena.» La giovane donna si allontanò per fare come le era stato detto, e in virtù di una progressiva conoscenza intuitiva di quelle che dovevano essere le norme di etichetta in vigore fra i nani, Rhodry evitò accuratamente di guardare nella sua direzione mentre lei frugava fra i tesori della sua anziana padrona. Durante l'attesa Othara chiuse gli occhi e il suo respiro affaticato si fece così stentoreo da indurre Rhodry a temere che si fosse addormentata. Non appena Lopa fu di ritorno tenendo in mano una catena d'oro,
però, Othara protese una mano e si fece consegnare l'oggetto, tastandolo con cura prima di restituirlo alla ragazza. «È la pietra che volevo» disse. «Dalla a lui.» Rhodry emise un sommesso fischio di meraviglia nell'accettare il lapislazzulo grosso quanto una mela selvatica e modellato a forma di uovo; all'estremità più sottile la pietra era stata forata per permettere il passaggio della fine catena d'oro, e i due lati del buco erano stati rivestiti in argento per evitare che la pietra potesse spezzarsi per l'usura. «Sembra una presenza concreta» esclamò, nel chiudere istintivamente la mano intorno al pendente. «È una cosa viva, non una pietra.» Riaperta la mano tornò a fissare il lapislazzulo che peraltro sembrava una comune pietra preziosa, sempre che un pezzo così grosso di un materiale tanto raro potesse essere considerato comune. «Riesci ad avvertirlo?» domandò Othara. «Bene, bene, in tal caso sei adatto a possedere quella gemma, che è pervasa da un grande dweomer. Se la terrai indosso ritengo che i tuoi nemici incontreranno enormi difficoltà nel tentare di evocare la tua immagine.» Rhodry si passò la catena intorno al collo e fece scivolare la gemma sotto la camicia. «Non so davvero come ringraziarti» cominciò. «Sei la più generosa...» La vecchia però si era ormai addormentata, con la testa girata da un lato sul cuscino, e Lopa fece subito uscire Rhodry dalla stanza, scortandolo nel corridoio dov'era in attesa Garin. «Sei stato gentile ad accontentare quella povera donna» commentò Garin. «Povera donna? Per gli dèi. quella è una delle donne più potenti che io abbia mai incontrato, inclusa Jill. A dire il vero il mio solo rincrescimento è che Jill non possa essere qui a tenere compagnia ad Othara e ad ascoltare tutto ciò che lei sa.» Lopa gli scoccò un'occhiata piena di approvazione, mentre Garin parve non aver sentito una sola parola del suo discorso. «Sei stato molto gentile» ripeté soltanto. «Bene, adesso faremo meglio a tornare in superficie, perché abbiamo molto da fare prima di partire.» Durante le settimane trascorse da quando Rhodry era partito, Jill aveva preso l'abitudine di evocare la sua immagine parecchie volte al giorno. Dal momento che lo conosceva così bene, le bastava concentrare la propria attenzione su un elemento naturale come il fuoco, un banco di nubi, il vento
che soffiava fra gli alberi, e così via, e pensare a lui per vedere dove si trovava. In questo modo aveva seguito il suo cammino attraverso le colline e fino a Lin Serr, aveva visto la vecchia torre di guardia attraverso i suoi occhi e aveva accumulato nella memoria un centinaio di domande da rivolgergli in merito a quello strano posto, nella speranza che lui sopravvivesse per risponderle. Poco tempo dopo la conclusione del colloquio fra Rhodry e Othara, Jill era seduta nella sua stanza in cima alla torre, intenta a contemplare attraverso la finestra una tempesta estiva che si stava addensando all'orizzonte... e quando provò a pensare a Rhodry non vide nulla, neppure la vaga traccia di un'immagine o la minima sensazione della sua presenza. «È strano» commentò ad alta voce. Presa una coppa d'acqua che si trovava sul tavolo ne agitò la superficie e se ne servì per evocare l'immagine di Rhodry, ma senza successo. Preoccupata, posò la coppa e tornò alla finestra, ma per quanto concentrasse la sua mente non riuscì in alcun modo ad ottenere il minimo risultato. Più irritata che spaventata, rivolse i propri pensieri a Otho e lo vide immediatamente: accompagnato da Mic, il vecchio nano stava percorrendo a passo rapido un corridoio pervaso da una luce fosforescente. Mentre lei lo osservava a distanza, il nano attraversò la caverna principale della città, imboccò una corta galleria e bussò ad una porta, che Jill riconobbe come quella della stanza in cui aveva in precedenza visto risiedere Rhodry, ma non appena la porta si aprì la visione si dissolse in una chiazza grigia come fumo e per quanto lei si appellasse ai diversi signori degli elementi che presiedevano all'evocazione d"immagini la sua vista si rifiutò semplicemente di trapassare quella caligine. Borbottando parecchie imprecazioni poco gradevoli Jill si allontanò dalla finestra e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, ormai certa che qualcuno avesse avvolto Rhodry in uno schermo creato con il dweomer ma incapace di stabilire se esso fosse opera di un amico o di un nemico. L'unica cosa che la confortava era il fatto che non avvertiva timore né pericolo, come sapeva che avrebbe fatto se Rhodry fosse stato prossimo a correre qualche rischio mortale. Consapevole che adesso le restava soltanto da sperare che di tanto in tanto Garin e Otho si allontanassero abbastanza da Rhodry da permetterle di evocare la loro immagine e di seguire i progressi del gruppo, tornò infine alla finestra e indugiò ad osservare le nubi sempre più fitte, cercando di decidere se fosse il caso di uscire in volo per un ultimo giro di pattuglia,
dal momento che durante una tempesta era impossibile ricorrere al proprio doppione eterico. «Jill?» chiamò in quel momento una voce proveniente da oltre la soglia. «Saggia, ti posso disturbare?» «Certamente, mio principe, entra pure.» Daralanteriel spalancò la porta ed entrò nella stanza, con una mano stretta intorno all'elsa della spada. «Cosa c'è che non va, altezza?» chiese Jill. Il principe assunse l'aria di qualcuno colto sul punto di commettere un'infrazione di qualche tipo e trasse un profondo respiro, allontanando la mano dalla spada. «Chiedo scusa, ma è tutta colpa di quel grosso zoticone di un Orecchio Rotondo» disse. «Di chi stai parlando?» «Di Yraen. Ogni volta che mi giro me lo trovo intorno.» «Ecco, Vostra Altezza, gli ho chiesto io di montare la guardia...» «Oh, lo so, ma ho venti uomini a mia disposizione, giusto?» «Quando esci a caccia loro vengono con te.» «Potrei lasciarne qualcuno qui a proteggere mia moglie, se è questo che intendi dire.» Jill credette allora di comprendere il motivo di quella sfuriata, e che si trattasse di una questione di orgoglio ferito. «Non metterei mai in discussione la capacità di Vostra Altezza di tenere Carra al sicuro, però il tradimento umano viene meglio notato da occhi umani ed Yraen è un uomo astuto e sospettoso che ha già vissuto più di una situazione alquanto spiacevole e che conosce molto bene l'aspetto peggiore della natura del suo popolo.» Dar rifletté, tormentandosi il labbro inferiore. Secondo gli standard degli elfi lui era ancora poco più che un ragazzo, nello stesso modo in cui secondo gli standard umani Carra era ancora sotto molti aspetti una ragazza, e quella sera dimostrava in pieno la propria giovane età, con le mani affondate nelle tasche e i capelli arruffati e spettinati. «Pensa a Lord Matyc» proseguì intanto Jill. «Considera quanto era vicino al gwerbret e quanto era solida la sua posizione all'interno di questa fortezza. Se Rhodry non si fosse accorto della sua duplicità avrebbe potuto arrecare danni incalcolabili.» «Questo è vero» convenne Dar, sollevando lo sguardo con un fugace sorriso. «Ti chiedo scusa, Saggia. Detesto discutere con te ma vedere quel-
l'uomo sempre presente mi tormentava l'anima. In ogni caso hai ragione, lui è una daga d'argento» aggiunse, con voce pervasa di disprezzo acquisito. «Infatti, ma è anche un uomo per bene e un ottimo cane da caccia.» «Se lo dici tu deve essere così, Saggia. Ti sono grato per avermi ascoltato.» «Non c'è di che.» Sulla soglia Dar esitò ancora per un momento, scrutando il pavimento. «C'è qualcos'altro che non va, Vostra Altezza?» domandò Jill. «Oh, in realtà no. Mi stavo solo chiedendo, come del resto tutti noi, se tu abbia infine avvistato qualcosa... mi riferisco ai nemici. Quest'attesa comincia a tendere i nervi di tutti come altrettante corde per arco.» «Temo di non avere novità da riferire, ma ti garantisco che t'informerò non appena saprò qualcosa.» Nonostante il suo rango, Dar dovette accontentarsi di quella risposta. Nei giorni che seguirono Jill poté però costatare la verità della sua affermazione ogni volta che si trovò a girare per la fortezza: dovunque c'erano servi che litigavano e imprecavano, mentre gli uomini delle bande di guerra finivano spesso per fare a pugni senza un valido motivo; dal canto loro, Carra e le dame di compagnia parevano sempre sul punto di scoppiare a piangere, e Lady Labanna appariva estremamente allegra e gioviale tranne quando si rilassava per un momento, perché allora assumeva di colpo l'aspetto di una persona affetta da una malattia mortale. Un pomeriggio sul tardi, quando tutti erano impazienti di cenare, nell'aggirare l'angolo di una baracca vicina alle stalle Jill sorprese alcuni paggi intenti a lottare, imprecando e prendendosi a pugni a vicenda nel rotolare di qua e di là sull'acciottolato sporco. «Fermi!» ingiunse, saettando in avanti. «Smettetela immediatamente se non volete che vi trasformi tutti in ranocchi!» Quella minaccia portò una pace istantanea: i ragazzi si separarono e rotolarono lontano gli uni dagli altri, il giovane Lord Allonry da un lato, Jahdo e Cae dall'altro. Questi ultimi apparivano sporchi e ammaccati, mentre Allonry sembrava avere avuto la peggio in quanto aveva il naso sanguinante e un labbro spaccato. «Lui stava picchiando Cae» spiegò Jahdo, «ed io cercavo di fermarlo.» Cae si affrettò ad annuire mentre Alli si limitò a piagnucolare.
«Capisco» commentò Jill. «Lord Allonry, credevo che tu avessi avuto problemi a sufficienza in seguito allo scherzo del magazzino dei tuberi e che non desiderassi averne altri simili.» «Mi odiano tutti a causa di quella storia» gemette Alli. «Si fanno beffe di me e mi ricordano di continuo la punizione che ho ricevuto.» Jill fissò Cae con espressione minacciosa e il ragazzo si fece pallidissimo, prendendo a balbettare. «Facciamo un patto» lo interruppe Jill. «Jahdo e Cae, voi due non nominerete più l'episodio del magazzino dei tuberi e in cambio Alli non insinuerà più che Jahdo sia un servo vincolato. Il primo di voi che dovesse infrangere il patto finirà dritto a gracidare in una palude.» I tre ragazzi annuirono in maniera quasi frenetica, e dopo aver mandato Alli dal ciambellano e Cae dalla cuoca, Jill si occupò personalmente delle ammaccature di Jahdo. «Non ti sei fatto nulla di serio» annunciò infine, «ma prima di cena ti dovrai fare un bagno.» «Lo so, mia signora, e lo farò, anche se probabilmente mi dovrò servire dell'acqua fredda dell'abbeveratoio dei cavalli. Sento molto la mancanza delle sorgenti calde che abbiamo a casa.» «Non ne dubito, ma con un po' di fortuna uno di questi giorni riusciremo a riportarti a casa.» «Ci credi davvero, mia signora? Io lo desidero così tanto che non oso più sperare.» Jill rifletté seriamente su quella domanda ma l'unica impressione che il dweomer le trasmise fu una piccola dose di sicurezza. «Ci credo, Jahdo, e anche se scommetto che la via di casa non sarà facile da percorrere farò del mio meglio perché tu riesca a tornarvi.» Jahdo reagì con un sorriso che risultò un po' storto a causa del gonfiore alla guancia destra. «Se lo dici tu allora sarà così di certo» dichiarò. «Yraen sostiene che i maghi sanno quello che succederà o che non succederà, e dice anche che troverai presto i nostri nemici.» «Speriamo allora che Yraen abbia ragione. Adesso corri a lavare via tutta quella sporcizia» tagliò corto Jill, sentendosi stringere il cuore di fronte alla cieca fiducia che il ragazzo riponeva nel suo potere. Infatti per ora lei poteva soltanto montare la guardia e uscire di pattuglia, sia nella forma di falco che usando il suo doppione eterico, e anche se a volte si sentiva indotta a sperare che Alshandra avesse rinunciato al suo
folle piano, nel profondo del suo cuore e della sua anima, là dove nascevano gli avvertimenti prodotti dal dweomer, sapeva che non c'era da sperare ma soltanto da aspettare. Quando lasciarono Lin Serr Rhodry e i suoi compagni si trovarono in un primo tempo a viaggiare comodamente su una strada fabbricata dai nani, incontrando parecchie fattorie dove era possibile comprare cibo fresco e godendo del beneficio del mulo che trasportasse il loro equipaggiamento. Ad ogni fattoria dove si fermarono Rhodry vide soltanto uomini, per lo più giovani e a volte poco più che ragazzi, che vivevano in gruppo come una qualsiasi banda di guerra, dormendo in una sorta di alloggiamenti e consumando i pasti ad una mensa comune. Dopo aver viaggiato così per tre giorni il gruppo raggiunse il limitare del pianoro, dove le terre coltivate si facevano progressivamente più rade fra le erte colline dominate dalle montagne che incombevano sempre più vicine: simili a nubi bianche, i picchi innevati parevano adesso fluttuare al di sopra delle foreste di pini di un verde tanto cupo da sembrare nero, una distesa scura interrotta soltanto qua e là da qualche sporgenza di basalto grigio. Quando giunsero all'ultima fattoria che avrebbero incontrato lungo il loro percorso, Otho barattò il mulo con il privilegio di riempire i loro zaini con tutto il cibo secco e il formaggio che essi potevano contenere. «È comunque una scorta di provviste davvero scarsa» commentò infine, con un sospiro. «Senza dubbio gli dèi ci faranno patire la fame prima di gettarci nelle fauci del drago, per il semplice gusto di vederci soffrire.» «Otho, vecchio mio» commentò Rhodry, «se fossi rimasto a casa in questo momento staresti consegnando una fortuna in gemme ai tuoi creditori.» Otho accolse quelle parole con un ringhio e con un pugno poco convinto sferrato nella sua direzione. «Lungo il cammino potremmo riuscire a catturare qualche coniglio e a pescare delle trote, oltre a raccogliere un po' di erbe selvatiche» suggerì Garin. Quando si rimisero in marcia, Rhodry scoprì che un bagaglio pesante risultava meno opprimente sulle spalle di un uomo abituato a camminare, e anche se alla fine del primo giorno si ritrovò con i muscoli della schiena che bruciavano in segno di protesta, a poco a poco si abituò al peso a tal punto da essere quasi in grado di reggere il ritmo di marcia dei nani, pur sapendo che non sarebbe mai riuscito ad acquisire la loro resistenza fisica. Anche quando ebbe finalmente trovato la giusta cadenza di marcia, infatti,
la sua minore resistenza costrinse comunque il gruppo a concedersi più pause di riposo di quante fossero necessarie e ad accamparsi un po' prima di quando lo avrebbero fatto i nani se fossero stati soli. La regione che stavano attraversando era inoltre impervia, costituita da erte colline rocciose, da valli rivestite di fitte foreste e a volte tanto strette da poter essere quasi definite dei burroni, e il terreno era abbastanza infido da indurre il gruppo a decidere che sarebbe stato meglio marciare durante il giorno. Sebbene Garin paresse certo del percorso da seguire, Rhodry non vide però mai nulla che potesse essere classificato come un sentiero, soltanto un susseguirsi di aree in cui i cespugli e i rovi crescevano meno folti, anche se alcune volte soltanto un po' di duro lavoro con l'ascia permise loro di sgombrarsi il cammino senza essere costretti a tornare sui loro passi. Naturalmente il viaggio avrebbe potuto essere meno disagevole se Otho avesse desistito dal brontolare di continuo, ora ringhiando di rabbia ora limitandosi a borbottare sottovoce, con il risultato che almeno una volta al giorno Garin minacciava di affogarlo e di lasciare le sue ossa in pasto ai corvi. Ogni notte s'accamparono il più in alto possibile, preferibilmente in mezzo alle rocce e non tra gli alberi, in modo da poter montare la guardia a turno nel caso che qualcosa li stesse seguendo, ma non videro mai traccia di nemici né di giorno né di notte, e al tempo stesso per la prima volta dall'inizio dell'estate Rhodry scoprì che i suoi sogni non erano più infestati da occhi che l'osservassero. Dai punti sopraelevati in cui si accampavano poteva spingere lo sguardo tutt'intorno per chilometri verso sud, in direzione di Lin Serr e di Deverry, perso al di là dell'orizzonte come se fosse precipitato giù da questo strano mondo verticale fatto di rocce e di burroni, mentre se si girava verso nord poteva vedere i picchi bianchi, così vicini che nella limpida aria del mattino gli sembrava di poterli toccare se soltanto avesse spiccato un salto e teso la mano. Il gruppo si trovava in quelle terre selvagge ormai da sei giorni e cominciava ad essere a corto di cibo quando il clima cambiò in peggio. Verso il tramonto le prime nubi solcarono il cielo provenienti da ovest ed entro il sorgere della luna... a metà fra il primo quarto e la fase di luna piena... la nuvolosità era già così fitta che la sua luce argentea riuscì a filtrare soltanto a tratti fra le nubi sempre più dense. Il mattino rivelò un cielo interamente coperto di ribollenti nuvole grigie e dopo aver tolto il campo i quattro si avviarono verso nord incalzati da un vento sferzante e guardando verso l'alto con la stessa frequenza con cui guardavano davanti a loro.
«Quanto manca ad arrivare a Haen Marn?» domandò Mic. «Non lo so» replicò Garin, tormentandosi il labbro inferiore, «però oggi dovremmo incontrare la prima pietra miliare.» «Come sarebbe a dire... non lo sai?» scattò Otho. «Ci sci stato già tre volte!» «Ed ogni volta la pietra è apparsa in un punto diverso del sentiero» ritorse Garin, e mentre Otho lo fissava con gli occhi sgranati aggiunse, scrollando le spalle: «È apparsa in punti diversi, e non c'è altro da aggiungere al riguardo. Voi potete anche non credermi, ma io so quello che ho visto. La terza volta, inoltre, non mi hanno permesso di entrare.» «Che sorta di posto è questo?» domandò Rhodry. «Una fortezza? E che razza di gente allontanerebbe uno straniero dalle sue porte?» «Gente che vive secondo leggi diverse dalle tue. In ogni caso si sono accertati che avessi cibo a sufficienza per tornare a casa, ma non intendo aggiungere altro perché so che non mi credereste. In ogni caso con un po' di fortuna presto vedrete ogni cosa con i vostri occhi.» Verso mezzogiorno, dopo aver risalito con fatica il pendio di una collina particolarmente erta ed essere giunti sulla cresta di una nuda altura di basalto nero, i quattro si trovarono a contemplare dall'alto una valle fittamente boschiva larga circa duecento metri nel suo punto più ampio e lunga più o meno cinquecento, il cui fondo era attraversato da un corso d'acqua che passava attraverso una radura del diametro di una cinquantina di metri e dalla forma circolare troppo perfetta perché potesse essere naturale. «Oho!» esclamò Garin. «Ecco una cosa che appare promettente.» Il gruppo si aprì faticosamente un varco verso il fondo della vallata, lottando con i rami spinosi dei rovi e con fitti cespugli, e una volta raggiunto il fiume ne seguì l'intero corso tortuoso senza però trovare traccia della radura vista dall'alto. «Per gli dèi» sussurrò Garin. «Sta già cominciando. D'accordo, tanto vale uscire da questa dannata valle.» «Un momento» intervenne Rhodry. «Per quanto mi riguarda ho bisogno di mangiare qualcosa, e poi una radura non sparisce nel nulla in questo modo.» «Non lo fa, vero? Benissimo, allora, guidaci e andremo a cercarla.» «Affare fatto. Anche un misero elfo come me è capace di seguire un corso d'acqua.» I quattro tornarono quindi sui loro passi e questa volta gli alberi cominciarono a diradarsi dopo che ebbero percorso appena una ventina di metri.
Con un sorriso di trionfo sulle labbra, Rhodry precedette gli altri su un tratto di terreno scoperto. «Lo sapevo, eccola qui!» esclamò, poi sentì il proprio sorriso svanire mentre aggiungeva: «Ma prima dov'era finita?» «Esattamente quello che intendevo» replicò Garin, mentre Mic e Otho si guardavano intorno a bocca aperta. «Cosa c'è laggiù?» chiese d'un tratto Mic, indicando. «Sembra una pietra.» In effetti l'oggetto in questione risultò essere una pietra, una grossa e appuntita lastra di basalto nero piantata in posizione verticale e incisa con alcune parole nella lingua dei nani. «Questo è il primo segnale che indica la strada che stiamo cercando» spiegò Garin, passando una mano sulla pietra come per assicurarsi che fosse reale. «Se fossi stato solo dubito che l'avrei trovato, ma Rhodry c'è riuscito e questo indica con chiarezza una cosa, ragazzi.» Gli altri lo fissarono con aria piena di aspettativa. «Per gli dèi, riflettete!» esclamò Garin, secco. «Significa che la venuta di Rhodry è stata prevista o predetta, e che d'ora in poi sarà lui a cercare la strada.» «Cosa?» protestò Rhodry. «Io non sono mai stato da queste parti mentre tu ci sei venuto tre volte.» «D'accordo, io fungerò da guida, ma sarai tu a comandare.» «Non avrei mai pensato che un mio cugino, e per di più un ambasciatore, potesse impazzire» gemette Otho, levando gli occhi al cielo. «E proprio quando ci troviamo in mortale pericolo, per di più.» «Non siamo affatto in pericolo» sospirò Garin, «ed io so benissimo quello che sto facendo.» «D'accordo, allora» tagliò corto Rhodry. «Lungi da me discutere con il dweomer, e questo posto ne è intriso. Dunque, o Guida» proseguì con un sorriso divertito, «cosa dice quest'antica pietra?» «Se hai intenzione di cominciare ad esprimerti come un apprendista bardo ti butterò giù dalla cima della prossima altura» ritorse Garin, con una certa asprezza. «La scritta dice, in termini semplici ed espliciti, che "Questa è la prima pietra scritta sulla strada di Haen Marn". Se ben ricordo le prime due volte che sono venuto qui ho trovato altre due pietre, mentre l'ultima volta ne ho trovate quattro.» «E scommetto che erano sempre in posti diversi» interloquì Otho.
«Esatto» confermò Garin, poi scoccò un'occhiata al cielo sempre più cupo e aggiunse: «Per il momento, ragazzi, direi però che abbiamo bisogno più di un riparo che di un altro segnale che contrassegni la pista.» Quasi a confermare la sua affermazione le prime grosse gocce di pioggia caddero sulla pietra nera, accompagnate da un lontano rombo di tuono. «Sapevo che il tempo sereno non poteva durare, non in questo periodo dell'anno» proseguì Garin. «Laggiù, o Capo, la tua guida vede un gruppo di alberi che sembra decisamente più basso degli altri. Suggerisco di cercare riparo sotto di essi e di lasciare che gli alberi più alti attirino i fulmini.» I quattro consumarono il loro pasto accompagnati dal lieve tamburellare della pioggia sui rami che li sovrastavano, ma non appena si rimisero in cammino la pioggia si trasformò in un diluvio e anche se le provviste vennero mantenute asciutte dalla tela cerata che avvolgeva gli zaini, Rhodry e i nani si trovarono inzuppati nell'arco di pochi minuti mentre avanzavano a fatica tenendosi sul fondo della vallata e lasciando che le vette circostanti attirassero i fulmini. Per quanto bagnato, dolorante e stanco, Rhodry si sorprese a cantare ogni volta che aveva il fiato per farlo, brevi brani di canzoni elfiche che aveva imparato dal proprio padre naturale, e a scoppiare a ridere ad ogni nuovo fulmine che si abbatteva al suolo. Quella notte si accamparono senza poter accendere il fuoco e il giorno successivo ripresero la marcia sotto un cielo che alternativamente minacciava pioggia e concretizzava la propria minaccia, fino a quando verso la metà del pomeriggio si alzò il vento e disperse le nubi temporalesche con tanta rapidità che verso il tramonto il sereno cominciò ad apparire a nordest. Quando si misero alla ricerca di un posto per accamparsi Rhodry sentì nascere dentro di sé l'aspettativa di trovare un'altra pietra miliare, per il solo motivo che gli sembrava giusto che così fosse. Nell'emergere dall'ennesima valle, il gruppo s'inerpicò fino alla cima di una collina, dove un agglomerato di massi sparsi fra l'erba alta offriva un riparo di qualche tipo, e mentre i nani discutevano fra loro sul da farsi Rhodry sostò sulla cresta con lo sguardo rivolto a sud, verso il lungo pendio che avevano appena risalito e il fondovalle avvolto nelle nuvole che ancora incombevano al di sopra degli alberi e si trasformavano in caligine azzurrina lungo l'orizzonte: il suo vecchio mondo era nascosto sotto quella caligine, e nel contemplarla lui si chiese d'un tratto perché fosse tanto certo di essere giunto in un mondo nuovo. «Ehi, Rhodry!» chiamò infine Garin. «Ci accampiamo qui oppure no?»
«No. Non so perché, ma dobbiamo proseguire.» Il motivo risultò evidente meno di un chilometro più avanti. Disceso il pendio settentrionale della collina i quattro compagni deviarono leggermente per incunearsi fra quell'altura e la successiva ed emersero da quella depressione rivolti verso ovest, trovandosi davanti un tratto di terreno sgombro che permetteva di spingere avanti lo sguardo di qualche centinaio di metri, abbastanza per scorgere la lunga valle sottostante, divisa in due da un profondo fiume che scorreva da nord verso sud. Sulla loro sinistra, e quindi verso sud, si allargava una serie di pascoli misti a querce e cinti da erte colline coperte di foreste mentre verso nord un'alta parete di roccia bloccava la visuale delle colline retrostanti, permettendo soltanto di scorgerne le cime coperte di alberi. «Oh, dèi!» sussurrò Garin. «Haen Marn.» Rhodry accolse quelle parole con una delle sue risate berserker, selvaggia quanto lo scoppio di un tuono. «Questa sarebbe Haen Marn?» scattò intanto Otho. «Non vedo un accidente di niente tranne gli alberi... né una fortezza né una capanna... un momento! Quelle sono querce, e non dovrebbero poter crescere a quest'altitudine.» «Per tutti i vermi!» esplose intanto Mic. «Cos'ha che non va questo panorama? Oppure sono i miei occhi che non funzionano?» In effetti finché guardavano in direzione della valle "quel panorama" aveva perfettamente senso, ma non appena cercò di guardarsi intorno Rhodry scoprì di non essere in grado di vedere in che modo la cresta su cui si trovava, posta ad est della valle, si collegasse con le alture alla sua estremità settentrionale. Intorno non si scorgevano nubi generate dal dweomer né l'aria appariva oscurata mediante magia... semplicemente era impossibile guardare in modo diretto verso quella che poteva essere definita soltanto come un'assurdità geografica, in quanto la cresta si allargava verso settentrione e le alture facevano seguito ad essa... mentre non avrebbero dovuto poterlo fare. Sembrava che la valle fosse contenuta in un panorama e che la cresta su cui loro si trovavano appartenesse ad un altro panorama diverso dal primo. Mentre gli altri due nani ribollivano di irritata perplessità e continuavano a guardare verso il basso e poi tutt'intorno a loro, Garin si concesse un profondo sospiro. «Haen Marn» si limitò a ripetere, indicando verso nord, là dove il fiume emergeva da una spaccatura nella base dell'altura. «Quello è l'accesso, e Haen Marn si trova al di là delle alture.»
«E come facciamo ad entrare? A nuoto?» scattò Otho. «È una giornata troppo fredda e cupa per un bagno.» Come al solito Garin ignorò il suo commento. Rhodry dal canto suo lanciò un'occhiata in direzione del sole e vide che stava già sprofondando verso occidente, tingendo di un'ingannevole luminosità le nubi che ancora costellavano il cielo. «Se non altro non ci accamperemo sotto la pioggia» disse. «Avanti, ragazzi, è meglio scendere verso il fondovalle perché la notte è prossima.» Accompagnati da uno sbuffo di protesta da parte di Otho si rimisero in spalla il bagaglio e si diressero verso il basso aprendosi un varco fra i cespugli e i massi fino ad emergere nella valle ormai piena di ombre. Allorché Garin si incamminò verso nord, marciando con passo deciso verso l'altura da cui scaturiva il fiume, gli altri lo seguirono guardando verso l'alto e tutt'intorno con perplessità. Anche se l'aspetto della valle corrispondeva a ciò che avevano visto dall'alto della cresta c'era peraltro qualcosa che non andava, un particolare così sottile che nessuno di loro era in grado di specificarne la natura dal momento che tutto appariva come doveva essere, perfino i picchi innevati che continuavano a fare capolino da dietro l'altura. «Si tratta del vento» affermò d'un tratto Rhodry. «Sulla cresta non ce n'era e qui sta invece soffiando, mentre avrebbe dovuto essere il contrario.» «È vero» ringhiò Otho. «È una cosa strana, irreale e intrisa di dweomer, e la detesto.» Mic si limitò ad annuire, anche perché non c'era molto di più da aggiungere. Alla fine i tre raggiunsero Garin, che trovarono intento a frugare fra tre enormi massi grigi ammucchiati ai piedi dell'altura e che proprio in quel momento esibì con un sorriso di trionfo un corno d'argento ammaccato e brunito, connesso all'estremità di una lunga catena. «Adesso lancerò un richiamo» spiegò. «Speriamo che ci rispondano.» «E che lo facciano prima che io invecchi ulteriormente» borbottò Otho. «Non ci sperare troppo.» Anche se il corno appariva malconcio ed ammaccato come «se qualcuno lo avesse preso a calci su un tratto di terreno roccioso, quando Garin vi soffiò dentro esso emise un suono di una dolcezza penetrante, tre lunghe note che fecero salire le lacrime agli occhi di Rhodry, una reazione che lui non seppe spiegarsi né allora né in seguito. Nel guardarsi intorno sorprese Mic nell'atto di asciugarsi gli occhi con il dorso della mano e notò che an-
che Otho appariva commosso. Dopo aver ripetuto per tre volte quel richiamo di tre note, Garin tornò infine a nascondere il corno nella depressione fra le rocce.» «Adesso non ci resta che aspettare» annunciò. Allontanandosi dal fiume di un centinaio di metri i quattro trovarono fra le rocce un punto riparato dove poterono appendere la loro tenda di fortuna fissandone le estremità, poi i nani trascorsero gli intervalli fra i diversi turni di guardia sonnecchiando in posizione seduta, con la testa appoggiata alle ginocchia, mentre Rhodry dormì più profondamente, incuneato fra i bagagli e un masso, svegliandosi una prima volta nel cuore della notte a causa del tamburellare della pioggia sulla tela e poi di nuovo alcune ore prima dell'alba quando Mic lo scosse perché gli desse il cambio. Stiracchiandosi e sbadigliando, Rhodry sgusciò fuori del riparo e scoprì che aveva cessato di piovere e si era levalo il vento che stava disperdendo le nubi mettendo a nudo una luna quasi piena. Manciate di stelle ammiccavano fra una nuvola e l'altra per poi scomparire e tornare di lì a poco a scintillare nel cielo. Infreddolito e dolorante a causa dell'ennesima notte trascorsa all'addiaccio, prese a camminare avanti e indietro, sbadigliando e massaggiandosi il volto con entrambe le mani... un gesto che lo portò ad accigliarsi leggermente nel constatare quanto gli fosse cresciuta la barba. Per tutta la vita aveva sempre detestato portare la barba e nel ripensare alla pena che si era dato per mantenersi ben rasato sia sulla lunga strada che nelle Terre Occidentali si trovò a ridere di se stesso, ma al contempo si augurò che nella misteriosa Haen Marn gli abitanti avessero dell'acqua calda e del sapone da mettere a disposizione di un visitatore. Con il sorriso ancora sulle labbra lanciò quindi un'occhiata in direzione del fiume e si lasciò sfuggire un'imprecazione nel vedere una processione di donne alte e snelle, vestite con un abito bianco fermato in vita da una cintura d'argento e con la gola adorna di un collare dello stesso metallo, che avanzavano sul fiume come se fosse stato una strada scintillante. Le donne procedevano appaiate, tranne la prima che era armata di una lancia dalla punta d'argento. Nel camminare piangevano agitando la testa e si coprivano il volto con le mani sottili scompigliando i lunghi capelli. Senza soffermarsi a riflettere, Rhodry spiccò la corsa verso la riva. «Mie signore, cosa c'è che non va?» gridò. «Posso esservi di qualche aiuto?»
Nel sentire la sua voce la donna munita di lancia girò il capo e gli rivolse un fugace sorriso prima che l'intera processione svanisse, lasciandosi alle spalle soltanto un lieve velo di nebbia che aleggiò ancora per qualche istante sulle acque argentee del fiume. Per un momento Rhodry pensò allora di essersi addormentato e di aver sognato ogni cosa, ma era difficile che un uomo nel dormire si ritrovasse a sognare di aver bisogno di una rasatura. Assalito da un brivido improvviso, prese a camminare lungo il fiume e non si fermò finché il chiarore dell'alba non cominciò a illuminare il cielo. Stava cercando di decidere se fosse o meno il caso di svegliare gli altri quando gli giunse all'orecchio un suono tanto distante da indurlo a supporre che si trattasse soltanto di qualche eco prodotto dallo scorrere dell'acqua sulle rocce, ma nel soffermarsi ad ascoltare con maggiore attenzione lo sentì di nuovo... un nitido clangore di metallo contro metallo che lo indusse a tornare di corsa verso il loro campo improvvisato proprio nel momento in cui Garin emergeva dal loro riparo di fortuna. «Hai sentito?» domandò il nano. «Sì. In un certo senso sembrava il suono prodotto da una spada che colpisse una piastra di metallo.» Fermi uno accanto all'altro rimasero in ascolto mentre intorno a loro la luce del sole si faceva sempre più intensa; di lì a poco Otho venne a raggiungerli, borbottando fra sé finché un'imprecazione di Garin lo ridusse al silenzio, ma per quanto tendessero l'orecchio non sentirono più nulla. «Per tutti i vermi» imprecò infine Garin. «Probabilmente ci siamo soltanto immaginati quel suono... a volte succede in alta montagna. Otho, va' a svegliare tuo nipote e cominciate a smontare il riparo.» Nonostante tutto Rhodry rimase sulla riva ancora per qualche momento, osservando le acque del fiume vorticare intorno al varco nella parete dell'altura: sotto la luce intensa del mattino poteva adesso vedere il varco con maggiore chiarezza, una fenditura larga una decina di metri e frangiata di rapide, che si assottigliava sempre di più verso l'alto fino a scomparire del tutto poco prima della sommità dell'altura. L'attesa si protrasse per tutto il giorno, accompagnata dal costante soffio del vento lungo la valle e intorno al campo, dove i nani trascorsero il tempo dormendo o giocando a dadi mentre Rhodry continuava a camminare avanti e indietro, incapace di sedersi e di riposare nonostante la stanchezza che lo aveva oppresso il giorno precedente, e anche se Garin lo invitò a
prendere parte al gioco lui preferì rimanere a guardare invece di partecipare alle accalorate discussioni che sembravano essere parte integrante del divertimento. Verso sera, quando ormai il sole stava proiettando lunghe ombre attraverso la caligine azzurra che avvolgeva la valle, Rhodry scese sulla riva del fiume e indugiò a fissare le rapide che circondavano l'apertura. Osservando con attenzione gli parve di scorgere qualcosa di enorme che aderiva alla parete, ma a causa dei massi ammucchiati sulla riva in quel punto non riuscì ad avvicinarsi abbastanza da poterla vedere con chiarezza; dal momento che la cosa non si muoveva, suppose comunque che non fosse pericolosa, e stava ormai per allontanarsi sconfitto quando sentì di nuovo il clangore metallico, che questa volta riuscì a identificare come il suono prodotto da un gong d'ottone simile a quelli usati a Lin Serr. Il suono echeggiante pareva scaturire dalle viscere dell'altura, come se qualcuno stesse cercando di ottenere una sorta di ritmo scandito... e prima che lui potesse andare ad avvertire gli altri di quello che stava succedendo dall'apertura saettò fuori una barca trascinata dalla corrente. Dipinta interamente di verde, l'imbarcazione era lunga e stretta, con l'alta prua modellata secondo una forma che lui suppose essere quella di un drago a causa del collo lungo che terminava con una testa simile a quella di un serpente, le cui fauci erano spalancate a rivelare due file di denti dorati; allorché essa gli passò davanti, lui riuscì anche a distinguere i suoi occupanti, un timoniere a poppa, due rematori nel centro e a prua un uomo munito di una corda alla cui estremità pendeva un grosso arpione di ferro dalle molteplici punte ricurve a forma di fiore. Accanto a quest'ultimo c'era poi un gong d'ottone appeso ad un'intelaiatura di legno fissata al fondo della barca. «Oy!» urlò d'un tratto Garin, agitando follemente le braccia. «Siamo qui!» Nel momento stesso in cui lanciò quel richiamo tutti i nani si precipitarono verso la riva, ma ormai l'imbarcazione li aveva già oltrepassati e stava fluttuando verso valle e in direzione della curva del fiume. I nani ebbero però appena il tempo di cominciare ad imprecare che l'imbarcazione prese a manovrare per invertire la propria direzione a forza di remi, mentre il timoniere tirava e spingeva a turno l'asta del timone in modo da sfruttare a proprio vantaggio i cambiamenti della corrente. Essendo abituato da sempre alle barche e al modo in cui andavano manovrate, Rhodry si mise a correre verso valle prima ancora che l'imbarcazione avesse invertito la rotta e cominciasse a dirigersi verso la riva a forza di remi.
«Hila!» esclamò l'uomo munito dell'arpione, nel farlo roteare per lanciarlo nell'aria in direzione della sponda. Afferrata al volo la corda, Rhodry si affrettò a girare lo strano arpione e a conficcare nell'erba umida i suoi denti rivolti verso il basso; un momento più tardi l'uomo che aveva scagliato l'arpione raggiunse la riva con un balzo e saltò su di esso con tutto il proprio peso in modo da affondarlo in profondità e da fissare la barca alla terraferma. Di lì a poco i rematori seguirono il loro compagno e Rhodry li aiutò a tirare in secca l'imbarcazione, rispondendo quindi con un sorriso ad alcune parole nella lingua dei nani che gli vennero rivolte dall'addetto all'arpione, in quanto non era difficile riconoscere un ringraziamento indipendentemente dalla lingua in cui veniva pronunciato. Nel frattempo i nani sopraggiunsero di corsa, o meglio arrivarono Mic e Garin, seguiti a passo più lento da Otho. «Davvero impressionante, daga d'argento» commentò Garin, poi si girò verso l'addetto all'arpione e gli parlò rapidamente nella propria lingua. Invece di rispondere, l'uomo si limitò però a indicare in direzione del timoniere, che stava scendendo a riva proprio in quel momento: alto poco più di un metro e cinquanta, il nuovo venuto era troppo alto e snello per essere un nano ma al tempo stesso era troppo basso e tozzo per essere un umano, e pur essendo vestito come tutti gli altri con rozzi calzoni marroni e un'ampia camicia dello stesso colore che lasciava alle braccia ampia libertà di movimento, sulla spalla portava una spilla d'argento che aveva la forma di un drago con il collo e la coda annodati e arrotolati uno intorno all'altra. Accennando con il capo in direzione di Rhodry, Garin si rivolse quindi al timoniere esprimendosi in una sorta di deverriano misto ad una quantità di parole della lingua dei nani che rese molto difficile a Rhodry seguire il senso della conversazione. A quanto pareva Garin stava cercando di ottenere un passaggio fino ad Haen Marn mentre il timoniere manifestava notevoli dubbi al riguardo. Alla fine l'uomo si girò verso Rhodry e gli rivolse alcune parole che lui riuscì a comprendere senza difficoltà. «Come ti chiami?» domandò. «Rhodry di Aberwyn.» Occhi scuri e astuti lo fissarono per un lungo momento. «Ed hai bisogno di parlare con Enj?» chiese quindi il timoniere. «Perché?» «Mi serve il suo aiuto per dare la caccia ad un drago» rispose Rhodry, ritenendo inutile perdere tempo in formalità o in duelli verbali.
«Ah» commentò il timoniere, fissandolo con aria sorpresa. «Allora credo che ti stiano aspettando. Caricate le vostre cose sulla barca.» Rhodry scambiò un'occhiata sconcertata con Garin, che scrollò le spalle e si allontanò di corsa in direzione del campo. Una volta che ebbero caricato il loro bagaglio, i rematori li aiutarono a salire a bordo uno per volta, tutti tranne Rhodry che fece da solo con una risata divertita. Liberato l'arpione l'uomo addetto ad esso spiccò la corsa e balzò a bordo per ultimo proprio nel momento in cui la barca si staccava dalla riva e s'insinuava nella corrente. Remare verso monte risultò tutt'altro che facile e quanto più si avvicinarono alla parete dell'altura tanto più procedere si fece lento e difficile a causa dell'assottigliarsi del fiume. Rhodry stava cominciando a domandarsi come avrebbero fatto a oltrepassare le rapide, in quanto questo gli appariva impossibile anche se ai passeggeri fossero stati dati a loro volta dei remi, quando l'addetto all'arpione si andò a piazzare a prua e cominciò a scrutare davanti a sé con espressione estremamente concentrata... poi la barca si addentrò nell'ombra proiettata dall'altura e Rhodry scorse infine un'intelaiatura di corde intrecciate che formava una sorta di reticolalo lungo un lato della galleria e passava attraverso un'enorme ruota di ferro. «Hila!» esclamò l'addetto all'arpione, facendo vorticare le punte di ferro sopra la testa per poi scagliarle con mano sicura. Le punte colpirono il reticolato e vi si impigliarono, e un momento più tardi l'uomo si gettò all'indietro con tutto il proprio peso in modo da tendere al massimo la corda. «Gong!» urlò. Afferrato un bastone che pendeva da una catena Rhodry colpì con forza il gong, producendo un suono rimbombante che si levò al di sopra del fragore delle rapide: a quel segnale la ruota cominciò a girare con uno scricchiolio e un gemito quasi umano, e la striscia di reticolato prese a muoversi, trascinando la barca verso monte e contro corrente con l'ausilio dei rematori che stavano sudando piegati sui loro remi. Osservando la scena, Rhodry rifletté che non c'era da meravigliarsi che Haen Marn avesse la reputazione di essere un luogo tanto inospitale, se per farvi accedere degli stranieri era necessaria tutta quella fatica. Mentre l'addetto all'arpione si teneva aggrappato alla corda e la barca sussultava e sobbalzava come un cavallo infuriato, il tragitto verso monte proseguì lento attraverso il tunnel di pietra e in direzione di una piccola e lontana
chiazza di luce. D'un tratto il timoniere gridò qualcosa che Rhodry non comprese, perché si era espresso nella lingua dei nani. «Continua a suonare il gong!» tradusse Garin. «Dice che la nostra vita può dipendere da questo.» Afferrato il bastone con entrambe le mani, Rhodry prese a colpire ripetutamente il gong fino a trovare un ritmo regolare che accompagnò il lento progresso della barca, scandito dal sussultare della snella polena a forma di drago e dalle costanti imprecazioni del timoniere alle prese con la corrente nello sforzo di evitare che la prua andasse a sbattere contro la roccia, segnando la fine per tutti. Nel sollevare lo sguardo fra un colpo di gong e il successivo, Rhodry vide poi che accanto alla chiazza di luce sempre più ampia era visibile un'altra ruota e al di là di essa una striscia di spiaggia sabbiosa sulla quale due nani erano intenti a girare faticosamente una manovella. «Hila!» gridò al loro indirizzo l'addetto all'arpione. «Hola!» risposero di rimando i due. Oltrepassata lentamente la ruota, l'imbarcazione scattò d'un tratto in avanti ed emerse sotto la grigia luce del cielo aperto che sovrastava Haen Marn. Mentre l'addetto all'arpione lottava per liberare le punte di ferro dalla rete di corde e i due nani che avevano manovrato la manovella saltavano a bordo, Rhodry lasciò scorrere lo sguardo sul lago che gli si allargava ora davanti per chilometri, circondato da colline che scendevano a picco verso l'acqua senza la minima traccia di spiaggia, coperte di vegetazione che appariva scura e pervasa d'ombre sotto gli ultimi raggi del sole. Direttamente di fronte all'ingresso era poi possibile intravedere un bagliore argenteo che sembrava prodotto da una cascata che si riversasse nel lago da un punto molto elevato. Nel centro dello specchio d'acqua spiccava una piccola isola modellata come la cresta di una collina rocciosa e sovrastata da una strana torre di forma squadrata, circondata da altri edifici più bassi di forma rettangolare; alle spalle dell'isola principale si allargava una rosa di isolette più piccole, poco più che grossi massi che facessero capolino al di sopra dell'acqua, e nell'osservare quell'insieme Rhodry si trovò a ricordare la descrizione che Jahdo aveva fatto di Cerr Cawnen e della Cittadella, anche perché le cortine di nebbia visibili in lontananza facevano supporre la presenza di sorgenti di acqua calda. «Gong!» stridette il timoniere. «Suona il gong!»
Nel sentire quel grido Rhodry si accorse di essere rimasto tanto affascinato dal paesaggio da aver smesso di colpire il gong e si affrettò a riprendere a farlo, ritrovando ben presto il ritmo e mantenendolo mentre i due nani appena saliti a bordo davano il cambio ai rematori: adesso che ai remi c'erano braccia riposate la barca prese a saettare veloce sull'acqua, preceduta dal suono del gong che echeggiava fra le lontane colline e tornava poi a riverberare verso di loro a mano a mano che l'isola si faceva più vicina. Alzandosi in piedi, Garin si spostò in modo da portarsi vicino a Rhodry. «Dicono che il rumore serva ad allontanare le bestie» gridò. «Lascia che ti dia un po' il cambio.» Rhodry fu lieto di cedergli il bastone e di allontanarsi dal gong, i cui rintocchi stavano cominciando a fargli dolere le tempie. Trovato un posto sul lato della polena, dove poteva appoggiarsi alla prua e tuttavia guardarsi comodamente intorno, lasciò vagare lo sguardo nella direzione da cui erano venuti, osservando la piatta altura che si ergeva al di sopra dell'acqua per poi farsi pianeggiante e regolare sulla sommità in modo tutt'altro che naturale: a quanto pareva il tunnel d'accesso attraversava una sorta di diga e Haen Marn non era integralmente opera della natura, indipendentemente dal mondo a cui poteva appartenere. Spostando lo sguardo davanti a sé, scoprì di poter ora vedere con chiarezza l'isola con la sua alta torre di guardia che si levava al di sopra degli alberi incurvati dal vento e di quella che sembrava una lunga dimora costruita alla sua base e circondata da un agglomerato di piccole capanne rotonde e da un casotto per le barche da cui sporgeva un molo d'attracco. Sulla sinistra una serie di isolotti si snodava in direzione di una piccola baia fra le colline, nella quale qualcosa stava fluttuando sull'acqua attraverso la nebbia sempre più fitta, ancora indistinta a causa della lontananza. In un primo tempo Rhodry suppose che si trattasse di un'altra imbarcazione perché adesso poteva scorgere lo stesso collo ricurvo e la stessa minuscola testa della polena che si levavano al di sopra dell'acqua, ma d'un tratto la testa si girò sul collo lucido come quello di un serpente e una massiccia onda accompagnò l'affiorare di un corpo simile allo scafo rovesciato di una barca. L'improvvisa apparizione strappò un'imprecazione a Rhodry e un urlo ai nani. «Gong!» Garin prese a manovrare il bastone sempre più in fretta mentre gli altri nani cominciavano a urlare e a imprecare con quanto fiato avevano, con il risultato che la creatura esitò pur continuando a fissarli, mentre la superfi-
cie del lago s'increspava di piccole onde dovute al pagaiare subacqueo con cui la bestia sembrava mantenersi ferma dove si trovava, poi la testa tornò a girarsi seguita dal maestoso movimento del corpo, il collo si protese in avanti e la creatura s'inabissò, tornando a dirigersi verso la piccola baia e l'isoletta visibili in lontananza. I suoi movimenti erano stati così fluidi e silenziosi che quando scomparve sott'acqua e nella caligine Rhodry dubitò per un momento di averla vista davvero; i suoi compagni non parvero però nutrire dubbi di sorta e continuarono con la loro deliberata cacofonia finché l'imbarcazione non attraccò al molo di legno. «Le bestie detestano il rumore» gridò Garin, sovrastando il frastuono generale, «o almeno così mi hanno detto.» «Capisco» gridò di rimando Rhodry. «Ce ne sono molte?» Garin si limitò a scrollare le spalle per indicare la propria ignoranza al riguardo. Sul molo era possibile vedere una figura in attesa, vestita con calzoni di lana azzurra, una camicia tagliata secondo lo stile di Deverry e fermata in vita da una cintura, e un mantello grigio trattenuto sulla spalla da una spilla a forma di drago grande quanto la mano di un uomo. Valutata la distanza, l'addetto all'arpione balzò sul molo e avvolse la corda che aveva in mano intorno ad una bitta mentre i rematori manovravano per accostare e il timoniere saltava a sua volta sul molo munito di una gomena. Quando i due ebbero finito di assicurare la barca la figura in attesa infine si avvicinò, risultando essere quella di una donna alta un po' più di un metro e mezzo, con gli occhi scuri e le labbra sottili propri della razza dei nani ma con una massa di capelli chiari raccolti in una morbida treccia che denotavano la presenza nelle sue vene del sangue della gente di Deverry. La luce sempre più scarsa del tramonto rendeva difficile determinare la sua età, ma a giudicare dal portamento e dall'autorità che pareva possedere non era certo una ragazzina. «Angmar!» chiamò il timoniere. «Ospiti!» La donna annuì, scrutando i passeggeri uno dopo l'altro, lentamente e con attenzione, mentre essi scendevano dalla barca e trasportavano il loro equipaggiamento sul molo. Infine il suo sguardo si appuntò su Rhodry, valutandolo con espressione fredda e penetrante nonostante l'inchino che lui le rivolse. «Benvenuto ad Haen Marn» gli disse quindi, esprimendosi in un deverriano alquanto storpiato. «Tu sei l'uomo che è a caccia di draghi, vero?»
«Sono io» confermò Rhodry, talmente sorpreso dall'autorità che emanava dal suo sguardo da chiedersi se quella donna possedesse il dweomer. «Mi hanno detto che un uomo di nome Enj avrebbe potuto aiutarmi.» «Enj è mio figlio, ma da oltre vent'anni io non ho più autorità su di lui. Governo però Haen Marn e conosco le sue usanze, cosa che sarebbe saggio che tu ricordassi.» «Certo, mia signora» assentì Rhodry, inchinandosi ancora. Accanto a lui Garin aveva già seguito parecchie volte il suo esempio e adesso anche Mic e Otho s'inchinarono a loro volta dopo essersi scambiati alcune occhiate perplesse. «E quale sarebbe dunque il tuo nome?» continuò Angmar. «Mia madre mi ha chiamato Rhodry, ma una donna che vive nelle profondità della terra ha preferito chiamarmi Rori, asserendo che questo nome aveva un suono migliore. Tu quale preferisci?» «Rori, sii il benvenuto ad Haen Marn insieme ai tuoi amici» replicò la donna, con un accenno di sorriso, poi rivolse un cenno del capo ai nani e aggiunse: «Benvenuto, Ambasciatore Garin.» «Mia signora, mi rallegra il cuore rivederti.» Angmar rispose al suo inchino con un altro piccolo cenno del capo, poi si volse e cominciò ad impartire secchi ordini nella lingua dei nani. Immediatamente gli uomini che avevano pilotato la barca raccolsero i bagagli dei visitatori, poi tutto il gruppo si avviò lungo il molo preceduto da Angmar, più simile ad un ragazzo che ad una donna con il suo passo pesante dovuto agli stivali di pelle di pecora. Alla fine del molo un piccolo sentiero si snodava fra alberi contorti dall'azione del vento e portava fino ad un vasto orto, attraversando file di cavoli e di rape per poi aggirare un pollaio e proseguire fino alla dimora padronale, che attendeva con le finestre rischiarate dalla luce del fuoco e le massicce porte di quercia spalancate. Alcuni servitori, tutti maschi, erano schierati sulla soglia in attesa di prendersi cura del bagaglio e di accompagnare i visitatori in una grande sala dove un fuoco vivace ardeva in ciascuno dei due focolari di pietra disposti alle estremità della stanza quadrata. Le pareti erano fatte di massicce assi di quercia, levigate, lucidate e decorate con una serie di intagli riempiti di terra rossa e raffiguranti intrecci di viticci, spirali, animali... un susseguirsi di immagini che si mescolavano le une alle altre e si allungavano su tutta una parete per poi salire verso l'alto lungo ciascun angolo e proseguire sulle travi del soffitto prima di ridiscendere verso la parete successiva.
Accanto ad uno dei focolari un ragazzetto era intento a girare uno spiedo su cui stava arrostendo un intero quarto di carne, mentre vicino all'altro erano disposti tavoli e panche sparpagliati in modo accogliente sul lucido pavimento di legno. In fondo alla stanza, poi, una scala scompariva nell'ombra dei piani superiori. «Accompagnateli nelle loro camere» ordinò Angmar ai servitori, «e portate loro l'acqua per lavarsi e qualsiasi altra cosa di cui abbiano bisogno. Ceneremo quando avrete finito di ristorarvi» aggiunse quindi, rivolta agli ospiti. «Ti ringrazio, mia signora» replicò Garin. «Enj è qui?» «Oggi non c'è, ma credo che arriverà presto. Per tutta la vita ha sognato di andare sulle alte montagne in cerca di un grande drago e di vederne uno volare, e se non avvertirà che il suo momento è giunto vorrà dire che non è davvero mio figlio.» La camera destinata a Rhodry risultò essere quadrata e spartana, arredata soltanto con un materasso posato sul pavimento di legno; quando lui chiese un po' d'acqua per potersi radere un servitore gli portò però anche uno sgabello su cui poggiare la bacinella, uno specchio di bronzo argentato e un pezzo di sapone aromatizzato al bergamotto. L'acqua giunse all'interno di una pentola di ferro, tanto rovente che il servitore aveva dovuto avvolgersi degli stracci intorno alle mani per poterla trasportare; l'acqua si mantenne calda per tutto il tempo che Rhodry impiegò a liberarsi di una barba che cresceva ormai da dieci giorni. Aveva quasi finito quando i nani bussarono alla porta ed entrarono nella stanza. «Radere una bella barba folta è tipico di un elfo» commentò Otho. «La tua gente non ha proprio buon senso.» «Direi che questa stanza è fin troppo spoglia» osservò intanto Garin, guardandosi intorno. «Noi abbiamo avuto una sistemazione migliore, con un letto degno di questo nome, imposte alle finestre e via dicendo.» «A me va bene» replicò Rhodry. «Le daghe d'argento sono abituate ad accontentarsi di poco.» «Credevo che ormai ti fossi reso conto che quassù la tua daga d'argento non significa assolutamente niente» gli fece notare Garin, con un sorriso. «La nostra gente pensa che tu la porti alla cintura soltanto perché ha una bella lavorazione, e niente di più.» «A dire il vero non ci avevo pensalo» ammise Rhodry, scoppiando a ridere. «Naturalmente hai ragione, e saperlo è un vero sollievo.»
Quando anche lui fu pronto scesero tutti e quattro nella grande sala dove trovarono la cena preparata soltanto per loro e per Angmar, un pasto a base soprattutto di carne e di birra, anche se un anziano servitore portò a ciascuno una scarsa razione di pane per poi allontanarsi in fretta come se avesse temuto che gliene potessero chiedere dell'altro. Rhodry e Garin condivisero un vassoio seduti lungo un lato del tavolo, gli altri due nani ne divisero un secondo seduti di fronte a loro e Angmar mangiò una cena frugale assisa sul suo seggio a capo della tavola. Fuori si era intanto levato il vento, accompagnato dallo sbattere di qualche finestra, dallo scricchiolare della porta principale e dal tremolio delle candele inserite nei candelabri posati sul tavolo, tutti suoni a cui faceva da sottofondo lo sciabordare delle onde del lago lungo la riva. Durante la cena Rhodry pensò più di una volta di avviare una conversazione, ma quando guardò in direzione di Angmar lei gli parve così distaccata e meditabonda che non riuscì a trovare nulla da dirle. Sotto la luce incerta delle candele, la donna sembrava troppo giovane per poter avere un figlio già adulto, ma dal momento che aveva nelle vene sangue della razza dei nani era probabile che la durata della sua vita fosse impossibile da calcolare quanto quella di un mezzosangue elfico. Per quanto non potesse essere definita bella... un complimento trito che probabilmente l'avrebbe offesa... Angmar era comunque una donna attraente, snella e muscolosa al tempo stesso, e Rhodry ebbe l'impressione che somigliasse sotto certi aspetti a Jill quando era giovane, per esempio negli zigomi alti che sarebbero risultati evidenziati se i suoi capelli biondi fossero stati lasciati liberi sulle spalle. Mentre mangiava, Angmar scoccò di tanto in tanto qualche occhiata nella sua direzione, senza però che i suoi occhi scuri tradissero la possibile opinione che si era formata sul suo conto. D'un tratto Mic lanciò un'imprecazione e si girò di scatto sulla panca, e nel guardare in direzione della porta Rhodry scorse la donna vestita di bianco con il collare d'argento che le brillava intorno alla gola sotto la luce delle candele, che li fissava appoggiata alla sua lancia e con il volto solcato di lacrime. «C'incontriamo di nuovo, mia signora» disse prontamente, alzandosi in piedi. «La mia spada è al tuo servizio, se ne hai bisogno.» La donna sorrise e scomparve. Sconcertati e a bocca aperta per lo stupore i nani si scambiarono un'occhiata turbata e parvero sul punto di dire qualcosa, mentre Angmar si limitò a prendere il proprio boccale e a bere un sorso di birra con un atteggia-
mento così normale che Rhodry si sentì di colpo uno stupido e si rimise a sedere guardando verso di lei. Quando Angmar si limitò a rivolgergli un sorriso e a riprendere a mangiare, Rhodry decise che la cosa migliore era seguire il suo esempio, una scelta che i nani parvero condividere in quanto per qualche tempo si concentrarono tutti esclusivamente sul cibo. «La mia tavola è ricca a sufficienza per tutti voi?» domandò infine Angmar. «Sì, mia signora» rispose Garin. «Hai i nostri umili ringraziamenti per un pranzo così eccellente.» Alzatasi in piedi, la donna lasciò la stanza senza aggiungere una sola parola, e un momento più tardi i servitori portarono in tavola una fruttiera piena di mele per poi ritirarsi a loro volta; per qualche istante i quattro compagni attesero in silenzio, ma quando Angmar non accennò a rientrare Mic non riuscì più a trattenersi. «Cos'era quella donna con la lancia?» esplose. «Uno spettro?» «Non ne ho idea» replicò Garin. «Durante le altre due volte in cui sono stato qui non ho visto apparizioni di sorta.» «Era proprio quello che volevo chiederti» interloquì Rhodry. «Qui non hai mai visto nulla di così strano?» «No, tranne per la stranezza propria di Haen Marn e della strada per arrivare fin qui. Naturalmente le mie visite erano dovute a pure e semplici questioni di affari inerenti alle nostre corporazioni di mercanti e non alla necessità di andare a caccia di draghi nel bel mezzo di una guerra pervasa di dweomer.» «È inevitabile che questo comporti una differenza» sospirò Otho. «Il nostro Rori sembra attirare le cose più assurde e bizzarre come lo sterco di cavallo attira le mosche.» «Otho!» esclamarono all'unisono tutti gli altri, un rimprovero che il vecchio nano accolse ammantandosi nella propria dignità e versandosi dell'altra birra. I quattro compagni rimasero a lungo seduti accanto al fuoco a bere birra e a chiedersi chi potesse essere quella donna vestita di bianco, ma Angmar non si fece più vedere per il resto della serata e per tutto il giorno successivo, anche se i suoi servitori provvidero ad ogni esigenza dei quattro ospiti. Dal momento che la giornata era soleggiata e troppo umida per restare seduti nella grande sala, Rhodry e i nani uscirono a fare un giro per l'isola, pur badando a non avvicinarsi troppo alla riva per timore di quelle strane bestie dal collo lungo. Tutt'intorno il vento lambiva l'acqua e mandava una
serie interminabile di onde a infrangersi sulla spiaggia sabbiosa, frusciava fra gli alberi e gemeva e sospirava in mezzo alla miriade di edifici che sorgevano ai piedi dell'alta torre di pietra; di tanto in tanto Rhodry ebbe l'impressione di udire anche un pianto di donna, ma si disse che molto probabilmente doveva essere un effetto prodotto dal vento. «Dimmi una cosa, Garin... sempre che tu possa farlo» chiese d'un tratto. «Cosa significa esattamente il nome Haen Marn? Vecchio cosa?» «Il termine Haen può suonarti simile al suono hen presente nella tua lingua» rise Garin, «ma nella nostra significa nero. Haen Marn, Pietra Nera.» «Ah. Chiedo scusa.» Il giro dell'isola li condusse infine al casotto delle barche e al molo, dove i rematori che li avevano prelevati il giorno precedente sedevano intenti a pescare con le gambe che penzolavano sull'acqua. Quando Garin li salutò essi gli risposero nella lingua dei nani e invitarono a gesti i quattro ospiti ad unirsi a loro. Piuttosto che ascoltare una conversazione che non era in grado di capire, Rhodry preferì però tornare alla casa padronale, perché aveva voglia di un boccale di bina e i servi avevano dimostrato chiaramente che potevano averne quanta ne volevano. Presa questa decisione s'incamminò quindi lungo il sentiero che la sera precedente aveva condotto lui e i suoi compagni attraverso l'orto e fino alla porta principale; attraverso gli alberi poteva vedere più avanti il tetto della casa e al di là di esso la torre di pietra, e mentre camminava constatò fra sé che il sentiero sembrava più lungo di quanto lo ricordasse... poi oltrepassò una curva e si venne a trovare di nuovo sulla riva del lago. Pensando di aver preso una diramazione sbagliata tornò allora sui suoi passi: avvistata la casa, che si trovava dietro un muro di pietra e alcune siepi, puntò dritto verso di essa addentrandosi fra gli alberi senza perderla di vista, ma dopo aver percorso qualche altro metro scorse di colpo davanti a sé il casotto delle barche. «Sto proprio facendo la figura dell'idiota!» si disse, ma al tempo stesso decise di effettuare ancora un tentativo, concentrando però questa volta la sua attenzione su una capanna adiacente la dimora principale, nella speranza di ingannare il dweomer che gravava senza dubbio su quel luogo. Il sentiero lo condusse nuovamente sulla riva del lago, ma ora sul lato opposto dell'isola, e nel girarsi lui si trovò davanti alla torre. «Rori!» chiamò Angmar.
Vedendola dirigersi verso di lui lungo la riva, Rhodry preferì rimanere fermo dove si trovava perché temeva che se le fosse andato incontro avrebbe potuto perderla di vista. «Ti chiedo scusa» continuò la donna. «Tu non hai sangue di nani nelle vene e questo non ti permette di avvicinarti alla dimora.» «Capisco. Su questo posto grava un potente dweomer.» «Puoi esserne certo» replicò Angmar, fermandosi infine vicino a lui, con i capelli dorati che brillavano al sole, poi proseguì: «Senza dubbio ti starai chiedendo quando mio figlio tornerà a casa, perché da quanto mi ha detto l'ambasciatore il tuo compito deve essere portato a termine il più in fretta possibile.» «È vero, ed è una cosa triste, perché Haen Marn è un posto piacevole in cui soggiornare.» Mentre Angmar sfoggiava un lieve sorriso in risposta a quelle parole, Rhodry notò un movimento con la coda dell'occhio e nel guardare in direzione del lago scorse la donna con la lancia, ferma sull'acqua e intenta ad osservarlo. Il suo sussulto di fronte a quell'apparizione indusse Angmar a girarsi a sua volta in direzione della donna, che come nelle occasioni precedenti continuò a piangere finché Rhodry non le rivolse la parola. «Mia signora, ti prego, dimmi cosa ti fa dolere tanto il cuore» implorò. La donna scomparve però senza dire nulla, e nel riportare la propria attenzione su Angmar Rhodry scoprì che lo stava osservando con aria stranamente inespressiva, come se per lei fosse stato importante non tradire la minima emozione. «Le vostre leggi mi permettono di porre delle domande?» le chiese, dopo un momento. «Puoi domandare quanto vuoi, ma spetta a me giudicare se posso o meno risponderti.» «Mi sembra giusto. Chi e quello spirito?» «È bene che tu lo abbia chiesto, ma non ti posso rispondere.» «Ah. È quel che pensavo. Sei stata tu ad apporre il dweomer su questo posto, mia signora?» «Anche se lo mantengo in essere non l'ho creato io, perché non sono nata ad Haen Marn.» «Ed è necessario che la signora di questo posto sia nata qui?» «Sì. L'ultima vera signora ha avuto soltanto figli maschi, ed io sono stata portata qui perché sposassi il maggiore» spiegò Angmar, che pareva diver-
tita da qualcosa. «Rori, io credo che tu comprenda l'evolversi delle vie del dweomer meglio di quanto possano farlo gli altri uomini» osservò quindi. «Che lo volessi o meno, signora, il dweomer ha governato la mia vita. Mi sento come uno di quei cavalli selvaggi che vivono sulle pianure erbose che sia stato intrappolato dai lacci degli elfi e trascinato dove non voleva andare.» «Sembri amareggiato.» «Davvero? Suppongo di esserlo. Vedi, il mio è stato un aspro Wyrd, che mi ha dominato da quando ero un ragazzo. Adesso ho smesso di sgroppare ed ho lasciato che mi domasse.» Avvicinandosi al limitare del lago, Rhodry si chinò quindi a raccogliere una pietra, rigirandola fra le dita, e mentre lei scendeva a raggiungerlo la lanciò di piatto sul lago, facendole fare sette rimbalzi prima che infine sprofondasse nell'acqua, lontano dalla riva. «Un buon lancio» sorrise Angmar. «In Aberwyn, dove sono nato, dicono che sette rimbalzi siano un buon presagio.» «Davvero? Speriamo che sia così.» Per qualche momento ancora indugiarono insieme sulla spiaggia, guardando in direzione della lontana sponda, avvolta in una nebbia azzurrina che esalava dalla fitta foresta e che il vento pareva incapace di dissipare. «Credo che mia figlia possa sapere quando suo fratello tornerà ad Haen Marn» disse d'un tratto Angmar. «Non sapevo che avessi una figlia.» «Ne ho una, ma è una creatura da compatire perché è una povera lunatica.» «Me ne dispiace.» «Dimmi, le permetteresti di incontrarti? Te lo chiedo per un valido motivo.» «Certamente.» «Ti ringrazio. Vieni con me.» Allontanandosi a grandi passi dal lago, Angmar si diresse verso la torre, spingendo la pesante porta di quercia inserita nella sua base e precedendo Rhodry all'interno di una piccola stanza che sapeva di pietra e di umidità, da dove una scala di ferro saliva a spirale oltre un pianerottolo per perdersi nell'ombra. «Indossi un talismano che ha il potere di nasconderti a occhi indiscreti, vero?» domandò Angmar.
«Sì» annuì Rhodry, posando automaticamente la mano sul lapislazzulo nascosto dalla camicia. «Perché me lo domandi?» «Soltanto per curiosità. Ho immaginato che fosse così quando lei non è più riuscita a vederti. Saliamo.» Il primo pianerottolo su cui giunsero risultò occupato da un assortimento di sacchi e di cassapanche malconce, oltre che da una sedia rotta e da un mucchio di legna da ardere. «Non vorrei che pensassi che lei sia prigioniera qui dentro» affermò Angmar, alzando la voce per sovrastare il gemito del vento che s'insinuava all'interno della torre. «Avain predilige i luoghi alti e rifiuta di scendere da qui.» Allorché ripresero a salire diretti verso il pianerottolo successivo, lei si arrestò poi d'un tratto per lanciare un richiamo. «Avain!» chiamò. «Avain!» Pur non ricevendo risposta continuò quindi l'ascesa insieme a Rhodry fino ad emergere sul pianerottolo successivo che risultò essere una stanza vera e propria anche se la scala continuava a salire attraversandola. Nonostante le pareti di nuda pietra l'ambiente risultava soleggiato e luminoso grazie alle grandi finestre ed era arredato con un tavolo e una sedia semicircolare accanto alla quale una ragazza di non più di quindici anni sedeva per terra su un mucchio di paglia pulita. La ragazza aveva i capelli biondi come sua madre ma appariva grassoccia e in un certo senso gonfia, con una grossa faccia rotonda su un corpo altrettanto rotondo; in grembo teneva un bacile d'argento ampio ma poco profondo e pieno d'acqua ed era intenta a fissarlo mentre cantava fra sé una sorta di melodia inarticolata. «Avain?» sussurrò Angmar. «Tesoro, abbiamo un ospite.» La ragazza sollevò il capo e fissò Rhodry con gli occhi di drago che lui aveva visto nei suoi sogni... occhi rotondi, quasi privi di palpebra con la pupilla verde verticale come quella dei gatti o degli elfi e l'iride gialla. Quando lei gli sorrise, Rhodry si aspettò di vedere una bocca piena di zanne, ma a parte gli occhi risultò essere del tutto umana e quando parlò lo fece nella lingua dei nani. «Afferma di averti visto nella città in cui vivono gli uomini» tradusse Angmar. «Perdona il suo modo di esprimersi: è già stata una lotta riuscire a insegnarle quel poco della sua stessa lingua che ora conosce, e apprendere altro esulava dalle sue capacità.» «Certamente, mia signora. Dille che durante il sonno l'ho vista osservarmi.»
«Davvero?» Allorché Angmar riferì quelle parole alla ragazza lei batté le mani con una risata, agitando il bacile con il risultato che l'acqua smossa scintillò sotto la luce del sole e attirò di nuovo la sua attenzione. Con un piccolo sospiro appagato Avain si annidò nuovamente nella paglia e fissò i movimenti dell'acqua, intingendo di tanto in tanto un dito nel bacile per poi accostarselo alla fronte appena al di sopra dell'attaccatura del naso. «Le chiederò di Enj» mormorò Angmar. Inginocchiatasi sulla paglia accanto alla figlia le rivolse qualche parola a cui Avain reagì fissando il bacile con espressione accigliata per un lungo momento prima di replicare con voce cantilenante. «Lo vede molto lontano, anche se si sta dirigendo verso casa» tradusse Angmar. «Il nostro Enj ama girovagare e il popolo di suo padre lo considera ancora più pazzo di sua sorella a causa del suo andare di qua e di là sotto la luce del sole per il gusto di vedere ciò che ci può essere sulla superficie della terra. Invece Avain può vedere soltanto tramite quest'acqua, e se per caso il bacile si rovescia si mette a piangere e continua fino a quando qualcuno non lo riempie di nuovo.» «Perché mi hai osservato, Avain?» domandò Rhodry. Scoppiando a ridere, Angmar non tradusse alla figlia la sua domanda. «Una parola come perché non ha significato per quelli come lei, Rori. Avain vede tutto ciò che riguarda Haen Marn e il tuo avvicinarsi le è apparso nello stesso modo in cui le appaiono l'approssimarsi di una tempesta o immagini inerenti a ciò che fanno le bestie che vivono nel lago.» «Capisco» mormorò Rhodry. Dunque era per questo che il suo arrivo era stato atteso ad Haen Marn. Ricordava ancora come in sogno gli occhi di drago gli fossero apparsi del tutto neutrali, quasi si limitassero a prendere atto della sua esistenza, al contrario della malizia presente nell'altro paio di occhi. Avain doveva aver riferito a sua madre le varie tappe seguite dal suo viaggio, fino al momento in cui Othara gli aveva dato il talismano. «Però i barcaioli sapevano che sono a caccia di un drago.» «Avain lo ha ripetuto molte volte. Io mi sono domandata come facesse a saperlo, ma la mia povera bambina non è stata in grado di dirmelo sebbene gliel'abbia chiesto in tutti i modi più semplici che sono riuscita ad escogitare. L'argomento la turbava a tal punto che ho smesso di sollevarlo, e da allora lei ha cominciato a piangere ogni volta che si parlava di te.»
«Me ne dispiace. Dille che non intendo fare del male a questo drago e che desidero soltanto ottenere il suo aiuto per risolvere una questione molto grave.» «È la verità? Bada che lei sa distinguere il vero dal falso.» «Lo giuro sulla mia daga d'argento.» Quando Angmar le tradusse l'informazione Avain sollevò lo sguardo e sfoggiò il sorriso più bello che Rhodry avesse mai visto su un volto infantile, esprimendo contemporaneamente gioia, sollievo e affetto anche se i suoi occhi di drago lo scrutarono fissamente per un lungo momento. Sorridendo a sua volta, Angmar passò le dita fra i capelli della figlia per districarne i nodi, e lei si appoggiò contro la sua mano come un cane con il padrone; quando poi Angmar le parlò ancora la ragazza annuì e riprese a fissare il suo bacile con espressione assolutamente serena, senza badare al fatto che sua madre si stava alzando per andarsene. «In seguito le chiederemo altre notizie di Enj» disse Angmar. «Ora torniamo dabbasso.» Una volta fuori della torre scortò quindi Rhodry fino alla dimora lungo un sentiero che rimase immutato e normale per tutto il percorso, ma davanti alla porta si fermò. «Io non verrò dentro con te» disse. «Devo provvedere a preparare il pasto di mia figlia e salire per aiutarla a mangiare perché non è in grado di tagliare la carne. Un'ultima cosa: prima di trovarti sulla riva del lago mi sono imbattuta nell'Ambasciatore Garin, che si è lamentato della camera che ti è stata assegnata.» «Oh, non ti devi preoccupare per questo! Va benissimo per un uomo come me.» «Alcuni fra i miei servi non hanno simpatia per chi ha sangue elfico nelle vene, ma adesso ho provveduto a che ti venisse assegnata una camera migliore.» Senza un'altra parola Angmar si allontanò quindi verso uno degli edifici circostanti e Rhodry entrò nella dimora, trovando Garin, Mic e Otho seduti nella grande sala ad un tavolo adiacente alla porta principale in modo da poter godere di un po' d'aria e della luce del sole. Quando si unì a loro l'anziano servitore gli portò un boccale di birra e tornò subito ad allontanarsi. «Il silenzio che regna qui comincia a turbarmi» osservò Rhodry, notando che tutti gli altri tavoli della sala erano vuoti. «Sono abituato a vedere grandi sale molto più animate di questa.»
«Anch'io» convenne Garin. «L'ultima volta che sono stato qui era diverso, i barcaioli mangiavano con noi e c'era sempre gente che andava e veniva. Mi pare di ricordare anche un bardo o almeno un cantore munito di arpa.» «A quel tempo Angmar era già la signora dell'isola?» «Sì, ma naturalmente suo marito era ancora vivo» replicò Garin, e dopo un momento di riflessione aggiunse: «Probabilmente la vedovanza ha spezzato il cuore di quella povera donna. È stata una cosa davvero triste che lui sia annegato durante una tempesta quando sua figlia era nata da appena quindici giorni.» «Vivere esposto a questo dannato vento mi farebbe impazzire» borbottò Otho. «Con questi suoi gemiti e lamenti è peggio di una donna.» «A proposito di suo marito» interloquì Mic. «Hai detto che è annegato... hanno recuperato il corpo?» «Sì, ed è sepolto sulle colline, con i suoi antenati» rispose Garin. «Perché?» «Stavo pensando a quella bestia che abbiamo visto.» «Non essere disgustoso!» scattò Otho. «Per una volta tuo zio ed io siamo d'accordo su qualcosa» aggiunse Rhodry, addolcendo il commento con un sorriso. «Allora suo marito era un membro del Popolo della Montagna?» «Ecco, aveva l'aspetto di uno di noi, più alto della media ma non troppo» rispose Garin, accarezzandosi la barba con aria pensosa. «Lui affermava di appartenere al nostro popolo, e non ho mai visto nulla che potesse indurmi a contestare quest'affermazione.» «Però sembri dubbioso.» «È vero» ammise Garin, guardandosi intorno, «ma non è questo il posto più adatto per discuterne.» «Certamente. Ti chiedo scusa.» Per tutto il giorno e durante la serata Rhodry rimase sul chi vive, pronto a cogliere la minima apparizione della donna vestita di bianco che però non si fece vedere. Durante il pasto serale Angmar mangiò in silenzio e in modo frugale come il giorno precedente, poi se ne andò prima che gli uomini avessero finito... probabilmente per andare a prendersi cura di sua figlia. Dopo che i servi ebbero sparecchiato la tavola, Garin tirò fuori i dadi e i tre nani iniziarono una delle loro interminabili partite mentre Rhodry restava a guardare per qualche tempo... chiedendosi se lo scopo fosse quel-
lo di giocare o piuttosto quello di litigare... prima di dare la buona notte a tutti e di salire le scale munito di candela. Giunto nella sua camera la trovò però vuota: ricordandosi soltanto allora che Angmar gliene aveva promessa una migliore indugiò nel corridoio, chiedendosi a chi potesse domandare dove fossero stati portati il suo equipaggiamento e il rotolo delle coperte. Attratta forse dalla luce della sua candela, un'anziana donna del popolo dei nani che portava i capelli grigi legati sulla nuca con un laccio si avvicinò con passo strascicato, munita di una candela inserita in una lanterna traforata che proiettava sulle pareti intagliate ogni sorta di punti e di linee. «Seguimi» disse soltanto. Rhodry obbedì e s'incamminò dietro di lei lungo il corridoio, oltre un angolo e su per una stretta rampa di scale, fino ad un pianerottolo in fondo al quale c'era una porta di quercia rinforzata in ferro e intagliata con immagini di uccelli e di mani intrecciate, mescolate secondo uno stile scoordinato che Rhodry non aveva mai visto prima. «Lì dentro» disse la donna, poi si voltò e tornò giù per le scale, lasciandolo solo e dotato dell'unica luce della candela prossima a spegnersi. Gente davvero ospitale, pensò Rhodry, aprendo la porta e venendosi a trovare in una stanza che misurava circa sei metri di lato e che era dotata ad un'estremità di un grosso focolare e all'altra di un'ampia finestra che si affacciava sul lago. Posato il portacandela su un tavolino si guardò intorno, notando il lusso dei tendaggi ricamati del letto, delle cassapanche intagliate, del tavolo rotondo e delle due sedie dotate di cuscini... poi scorse il suo zaino e le sue coperte vicino al focolare e al tempo stesso si rese conto di non essere solo: Angmar era seduta sul sedile ricavato sotto la finestra, così silenziosa che non si era neppure accorto della sua presenza. «Questa camera si addice meglio alle tue esigenze?» domandò lei. «È la tua, vero?» «Sì.» «Allora mi va meglio di qualsiasi altra camera io abbia visto da molti anni a questa parte.» Angmar sorrise ma rimase immobile dov'era, osservandolo mentre attraversava la stanza per venirsi a sedere accanto a lei. «Dovrò andare via di qui quanto prima mi sarà possibile» disse Rhodry, lanciando un'occhiata all'esterno, verso le colline che si stagliavano nere al di là del lago, sullo sfondo del cielo stellato. «Sia che lo desideri o meno.» «Lo so.»
Allorché la circondò con le braccia Angmar si girò verso di lui e lo baciò per prima mentre Rhodry sollevava una mano a sciogliere il laccio che le tratteneva i capelli, in modo che essi si riversassero sulle spalle di lei e sulle sue dita come morbidi fili di seta. CINQUE CARCER (PRIGIONE) Si tratta di una figura estremamente malvagia, a meno che ricada nella Casa del Sale, perché se presieduta da quel cristallo augura bene per la sepoltura di tesori nascosti ottenuti con mezzi illeciti e per l'occultamento di segreti che è meglio rimangano celati alla luce del giorno. Dal Libro dei Presagi di Gwarn, Maestro del Sapere In seguito Meer l'avrebbe definito uno dei sette peggiori inconvenienti della guerra: un attacco a sorpresa. L'inizio dell'assedio giunse infatti più in fretta di come Jill avesse immaginato, in una mattina soleggiata in cui al ritorno dal suo volo di perlustrazione nel rientrare nella sua stanza in cima alla torre lei vide un messaggero avvicinarsi al galoppo alle porte. Rivestitasi in tutta fretta, si precipitò subito nella grande sala, dove trovò il gwerbret seduto alla tavola d'onore e intento a conferire con i suoi servitori di rango, che erano raccolti con espressione cupa intorno a lui e a una lettera stesa sul tavolo, mentre lo scriba attendeva disposizioni accanto al ciambellano, pallido in volto come se avesse appena letto qualcosa di detestabile... il che era proprio ciò che aveva fatto in quanto Lord Tren aveva infine mandato un messaggio di risposta, stilato in termini che giungevano pericolosamente vicini all'esigere che Cadmar gli consegnasse la proprietà delle tenute che erano state di suo fratello. «"Verrò presto a Cengarn, ma alle mie condizioni"» recitò Jill, leggendo la conclusione del messaggio. «"Speriamo che la questione venga risolta in fretta."» «Niente frasi di cortesia, niente titolo, niente di niente» farfugliò con indignazione il siniscalco. «Che sfrontatezza!» «È peggio che sfrontatezza» lo corresse il ciambellano. «Questo messaggio mi pare pericoloso.»
«Sono d'accordo» convenne Jill. «Vostra Grazia ritiene che sia giunto il momento di mettere in allarme la zona e di convocare i nobili?» «Senza dubbio» annuì Cadmar, poi si girò verso il siniscalco e ordinò: «Provvedi in questo senso. Come procede l'approvvigionamento della fortezza?» domandò quindi al ciambellano. «Potrebbe andare meglio, Vostra Grazia. Parte del grano invernale sta ancora affluendo a Cengarn.» «Un momento, Vostra Grazia» intervenne il siniscalco. «Anche se unisse l'esercito di suo fratello al proprio, Lord Tren non potrebbe mai assediare Cengarn.» «Ne sono consapevole, mio signore» replicò Cadmar. «Non possiamo però escludere che si unisca a questi nostri nemici, considerato che qualcosa deve averlo reso di colpo arrogante.» Il siniscalco imprecò sommessamente di fronte alla logica di quell'affermazione, e in quel momento Jill si rese conto di una cosa che avrebbe dovuto notare già da settimane, o almeno così le parve nel rimproverarsi per non aver visto prima quello che adesso le appariva ovvio. «Sono stata un'idiota e una stupida» dichiarò, rimanendo lei stessa sorpresa dal tono calmo della sua voce. «Vostra Grazia, quanto tempo fa è stata scritta questa lettera? E quanto dista la fortezza di Lord Tren?» «È a quasi due giorni di cavallo verso nord» rispose il gwerbret, che si era girato a fissarla con un'espressione che rasentava il timore. «Jill, cosa...» «La situazione è grave, Vostra Grazia, e i nostri nemici potrebbero esserci addosso da un momento all'altro abbattendosi su di noi come il dweomer, perché è proprio di questo che si sono serviti.» «Cosa? Sono forse invisibili? Combattere contro nemici invisibili sarà un'impresa degna del Terzo Inferno.» «No, nulla di così grave! Li vedrete fin troppo bene una volta che giungeranno alla fine della strada del dweomer che stanno seguendo e appariranno sotto le nostre mura. Non c'è un momento da perdere, Vostra Grazia, bisogna mettere in allarme le campagne, mandare a chiamare i tuoi vassalli... insomma, bisogna fare tutto ciò che è necessario!» Con quelle parole Jill si girò di scatto e lasciò di corsa la grande sala. Anche se il suo principale timore era una possibile apparizione dell'esercito direttamente davanti alla città, la lettera aveva sottinteso che Lord Tren si sarebbe unito ad esso prima dell'attacco, quindi esisteva la possibilità che Alshandra avesse fatto uscire le sue truppe dalle terre di Evandar vici-
no alla fortezza di Tren con l'intento di proseguire poi con mezzi ordinari fino a Cengarn, nel qual caso lei avrebbe potuto andare in esplorazione nella sua forma di falco e tornare con qualche informazione concreta. Entrata nella torre laterale salì le scale più in fretta che poteva e si precipitò nella sua stanza, sbarrandosi la porta alle spalle. Con il respiro affannoso, si diresse verso la finestra mentre ancora si stava spogliando, e constatò che in basso il cortile era già un caos di uomini della banda di guerra che correvano verso le stalle, senza dubbio prossimi a partire per andare a mettere in allarme le campagne e per fungere da messaggeri. Non appena il battito del suo cuore si fu normalizzato, si trasformò nel falco e spiccò il volo dalla finestra nel momento in cui uno strano suono echeggiante e discorde prendeva a risuonare in tutta Cengarn: dal momento che i suoi sensi erano adesso legati alle percezioni proprie dell'eterico, lei impiegò qualche momento a riconoscere le campane del tempio, che stavano dando l'allarme alla città e a tutti i contadini che vivevano nelle sue vicinanze. In basso le strade cittadine e le case viste dal piano dell'eterico sotto la luce intensa del mattino apparivano come grottesche sagome morte, nere e grigie come se fossero state scolpite in masse d'ombra rese palpabili; in mezzo a quelle forme morte lei scorse le aure degli abitanti della città che sciamavano di qua e di là, alcuni diretti a difendere le porte, altri alla volta della fortezza, mentre i più si limitavano a vagare per le strade o a raccogliersi negli spazi aperti, muovendosi senza scopo come particelle di farina lasciate cadere in una ciotola d'acqua. Prima di dirigersi verso nord descrisse un ampio giro verso sudest, sorvolando un'area piena di fattorie dove in mezzo alle chiazze rossastre dovute all'aura propria dei campi e delle foreste poté scorgere lo stesso panico ordinato presente in città: alcuni contadini stavano già spingendo verso Cengarn mandrie di mucche riconoscibili dall'aura gialla orizzontale, e dietro di essi venivano le donne che conducevano per mano i bambini e spingevano carretti carichi. Messe in allarme ormai da settimane, quelle persone erano state pronte a muoversi, una costatazione da cui Jill poté trarre un minimo di conforto, anche perché non avrebbe comunque potuto fare molto di più per migliorare la loro situazione: se pure si fosse ricordata prima che la madre di tutte le strade passava per le terre di Evandar e avesse pensato che Alshandra poteva accedervi tanto quanto lui, la città non avrebbe comunque potuto dare asilo a tutti quei contadini, alle loro famiglie e al loro bestiame durante quelle lunghe settimane di attesa, e adesso che era ne-
cessario accoglierli all'interno delle mura la situazione si sarebbe comunque fatta ben presto precaria. A nord di Cengarn c'erano quasi soltanto colline allo stato selvaggio e nel sorvolare il sentiero di terra battuta che costituiva la strada settentrionale lei vide soltanto un paio di pastori e i loro cani che stavano spingendo verso la città un piccolo gregge di pecore. Più oltre si stendeva un territorio vergine fatto di foreste e di ruscelli, di massi e di colline, che stava ora scorrendo veloce sotto di lei grazie all'innaturale velocità delle immense ali del falco. Sebbene il vento soffiasse in suo favore Jill si chiese però se sarebbe riuscita a percorrere in volo tutti i cinquanta chilometri che la separavano dalla fortezza di Tren e a tornare sana e salva in un solo giorno, perché per quanto le lunghe settimane di esplorazione avessero incrementato in certa misura la sua forza fisica, in realtà lei era comunque una vecchia che stava facendo affidamento più sull'innaturale vitalità derivante dal dweomer che sulle proprie risorse fisiche. Il sole aveva appena oltrepassato lo zenit quando scorse molto più avanti, al limitare del suo campo visivo, le radure che ora s'intervallavano alla foresta e che indicavano i primi campi della tenuta del defunto Matyc. Secondo quanto le aveva detto il ciambellano, la tenuta di suo fratello si trovava verso est, quindi abbassò l'ala destra ed effettuò una virata, sbattendo leggermente le ali per resistere ad una folata di vento... e in quel momento scorse sotto di sé il corvo, che anche visto così dall'alto appariva troppo grande per essere un uccello qualsiasi. Simile a un vero corvo esso stava volando basso sui campi come se si stesse nutrendo di grano, mentre come un vero falco Jill volava ad una quota tanto elevata da essere virtualmente invisibile. Per un momento lei esitò, soppesando le alternative e lasciandosi trasportare dal vento mentre cercava di decidere il da farsi. Per quanto tutti i suoi istinti umani le consigliassero di usare la misericordia, quella che le si offriva era una splendida occasione di liberarsi di un potente nemico... ma d'altro canto un suo attacco avrebbe rivelato la presenza di un altro mazrak schierato a favore di Cengarn. Una volta che l'assedio avesse avuto inizio, lei sarebbe peraltro stata costretta a rivelare comunque la sua presenza nel caso che questo maestro del dweomer nemico avesse pensato di poter sorvolare impunemente la fortezza. Le piume del collo le si arruffarono per l'ira al pensiero che qualche minaccia potesse sorvolare lo spazio che i suoi istinti di falco la portavano a considerare come il proprio nido e mettere in
pericolo quelli che il falco vedeva come i propri piccoli. Preso di mira il bersaglio, Jill si lanciò in picchiata. Mentre il falco calava su di esso con gli artigli protesi per sferrare un attacco mortale, accompagnato dal sibilare dell'aria che gli echeggiava intorno come un grido di guerra, un imprecisato istinto dovette mettere in guardia il mazrak sottostante perché il corvo lanciò uno stridio di terrore e schivò appena in tempo l'attacco, svolazzando follemente verso nord. Effettuata una veloce cabrata Jill tornò a prendere quota per un altro attacco contro il goffo corvo che stava volando con la forza della disperazione senza cessare di stridere e di gracchiare. Qualsiasi cacciatore che si fosse trovato ad assistere alla scena avrebbe visto un paio di uccelli del tutto normali tranne che per le dimensioni che rappresentavano un dramma comune in natura, quello in cui un falco braccava con determinazione la propria preda continuando a scendere in picchiata e mancando di poco il bersaglio mentre l'esausto corvo schivava freneticamente nel continuare il volo verso nord. Nel riprendere quota ancora una volta Jill avvertì la certezza che avrebbe finalmente abbattuto l'avversario, proprio come un vero falco aveva sempre la meglio anche sul più astuto fra i volatili, ma all'improvviso il corvo regolarizzò il proprio volo... probabilmente perché era nel frattempo riuscito a ritrovare il controllo della sua mente umana... e nel momento in cui Jill calava nuovamente su di esso scomparve di colpo nel nulla: un momento prima stava volando in pieno sole al di sopra di un campo di orzo maturo e quello successivo risultò svanito senza lasciare traccia. Con uno stridio infuriato Jill interruppe la propria picchiata e agitò selvaggiamente le ali per un momento prima di girarsi e di dirigersi verso sud in quanto aveva ormai visto ciò che le interessava... un altro mazrak che era per di più capace di volare nelle terre di Evandar e di percorrere la madre di tutte le strade... ed era adesso giunto per lei il momento di battere in ritirata, in quanto non nutriva nessuna illusione di poter sconfiggere Alshandra nel caso che il corvo avesse fatto ritorno dal piano astrale scortato dalla sua infuriata "dea". Pur volando verso sud, non appena arrivò al limitare della foresta descrisse un ampio giro per controllare la situazione alle proprie spalle... e scoprì che la sagoma nera del corvo era riapparsa e questa volta si stava dirigendo verso est. Non sei poi così astuto, vero? pensò, mentre prendeva a seguire la sua ignara guida tenendosi tanto in alto da riuscire a stento a vederla. Dopo
appena poche miglia il corvo la condusse fino ad un vasto accampamento di soldati, cavalcature, carri e servitori, che sembrava essersi fermato per la sosta di mezzogiorno e che emanava un insieme di aure simile ad un letto di carboni ardenti sparso sull'opaco terreno sottostante. Pur non potendo scendere di quota quanto bastava per appurare se quelle aure appartenevano ad esseri umani o a Fratelli dei Cavalli, lei non ebbe comunque il minimo dubbio sul fatto che l'esercito nemico fosse ormai in marcia e senza indugiare oltre si diresse verso sud e verso casa, battendo con decisione le ali per resistere al vento ora contrario. Quando arrivò a Cengarn il tramonto era ormai prossimo e la città era già straripante di persone e di animali, e la sua vista eterica le diede l'impressione che nell'ombra sempre più fitta del crepuscolo Cengarn stesse bruciando, in quanto era ora cosparsa di aure dorate e gialle, punteggiate qua e là dall'aura rossa di qualche guerriero che spiccava come una lingua di fiamma. Nel dirigersi verso la fortezza prese a volare in cerchio per perdere velocità e calare di quota, sorvolando il cortile per poi puntare verso la propria finestra. Dal momento che lo conosceva bene, non ebbe difficoltà a individuare l'aura di Yraen in mezzo alla confusione generale, sfiorandola in modo da indurlo a sollevare lo sguardo: non appena la vide il guerriero lanciò un'esclamazione e spiccò la corsa verso la torre laterale e la sua camera. Jill ebbe appena il tempo di atterrare e di tornare alla propria forma naturale che Yraen prese a tempestare di colpi la porta della stanza. Gridandogli di avere pazienza, lei s'infilò un paio di pantaloni ed una camicia e corse a piedi nudi ad aprire per lasciarlo entrare. «Hai visto Dar?» sbottò Yraen. «Sai da quale parte sia andato?» «Di cosa stai parlando?» «Questa mattina è uscito a caccia con i suoi uomini prima che tu dessi l'allarme.» «Per gli dèi. probabilmente torneranno prima che scenda la notte, come fanno sempre, e comunque il nemico non ci raggiungerà prima di domani» ribatté Jill. Nel parlare si sentì però trapassare da una sensazione di pericolo, dovuta alla consapevolezza che a volte Dar e i suoi uomini decidevano di passare la notte nella foresta, stanchi di essere rinchiusi in quelle che definivano "tende di pietra".
«Per oggi non posso più volare perché sono esausta» disse. «Tutto quello che posso fare è evocare la sua immagine e cercare poi di dirti dove si trova in modo che tu gli possa mandare incontro un paio di uomini.» Di fronte a quell'aperto accenno alla magia Yraen s'innervosì come un cavallo spaventato. «Mia signora, ti chiedo scusa per aver dimenticato quanto devi essere stanca» mormorò. «Andrò a prenderti della carne e qualcosa da bere.» Poi lasciò a precipizio la stanza e scese rumorosamente le scale. Avvicinatasi alla finestra Jill si appoggiò al davanzale e fissò lo sguardo su una scia di nubi che brillavano dorate sullo sfondo vellutato del cielo al crepuscolo. Allorché concentrò la propria Vista e pensò a Dar, lo vide fermo in una radura imprecisata percorsa da un ruscello privo di particolari caratteristiche; dopo qualche istante anche i suoi uomini entrarono lentamente nella visione, simili a figure che emergessero dalla nebbia, raccolti intorno al loro principe e intenti a discutere furiosamente. Per quel che riuscì a stabilire, il gruppo si trovava a chilometri di distanza dalla città e stava cercando di decidere se cercare di tornare indietro al buio. Il pensiero che proprio quel giorno essi avessero scelto di spingersi tanto lontano destò in lei un impeto d'ira che abbinato all'enorme stanchezza le costò la perdita dell'immagine. D'un tratto si trovò costretta a sedersi e si diresse barcollando verso la sedia, accasciandosi su di essa e chinandosi in avanti per puntellarsi contro il tavolo. In modo vago, come se si fosse trovata in fondo ad un profondo pozzo, sentì Yraen salire rumorosamente le scale, e di lì a poco lui rientrò nella stanza portando con sé mezza pagnotta e un piatto di carne di maiale e cavolo. «Per gli dèi!» esclamò. «Sei pallida quanto la Morte! Cosa posso fare per aiutarti?» «Versami dell'acqua da quella brocca sulla cassapanca.» Jill si costrinse quindi a mangiare qualche boccone di pane accompagnandolo con l'acqua, mentre Yraen attendeva impotente al suo fianco. «Sei certo che il principe si sia diretto a sud?» chiese infine Jill. «Sì, anche se è possibile che in seguito abbia cambiato direzione, magari per inseguire un daino.» Jill cominciò a snocciolare una serie di imprecazioni che avrebbero sconvolto perfino suo padre, che pure era stato una daga d'argento, e che indussero Yraen a indietreggiare inconsciamente come per sottrarsi alla sua portata.
«Carra deve essere frenetica per la preoccupazione» disse infine Jill, dopo aver dato abbondantemente sfogo ai suoi sentimenti. «È nella sala delle donne?» «No, nella sua stanza.» «Allora va' da lei e scortala nella sala. Riferiscile che dovrà rimanere là fino al ritorno di suo marito... ci deve essere un letto in più vicino a dove dormono le dame di compagnia. Avvertila che si tratta di un mio ordine e che se dovesse disobbedire la trasformerò in una rana!» «Lo farò» garantì Yraen, poi si affrettò a uscire sbattendosi la porta alle spalle. Rimasta sola Jill si appoggiò allo schienale della sedia con un profondo sospiro. Il cibo coperto di grasso aveva ai suoi occhi un aspetto disgustoso ma si costrinse a sbocconcellarlo mentre rifletteva sul da farsi, consapevole che entro pochi momenti avrebbe dovuto raccogliere le energie necessarie per andare a riferire al gwerbret le informazioni acquisite. Il suo disgusto fisico all'idea di scendere le scale per poi risalirle di nuovo le fece comprendere che indipendentemente da qualsiasi pericolo in cui Dar potesse trovarsi lei non aveva le energie necessarie per spiccare il volo e andare ad avvertirlo, e mandare dei comuni messaggeri era inutile perché non era riuscita a identificare dove si trovasse. Se soltanto lui fosse stato un maestro del dweomer, addestrato a recepire i suoi pensieri... D'un tratto scoppiò a ridere, perché pur non essendo un maestro del dweomer Daralanteriel era comunque un elfo purosangue e un principe, distante soltanto due generazioni da una linea di discendenza reale che, se ben ricordava la storia del Popolo, era stata famosa per il suo innato talento per il dweomer. Mentre finiva la sua coppa d'acqua Jill abbozzò un cupo sorriso, decidendo che valeva la pena di tentare di raggiungerlo sul piano dell'eterico. Dal momento che gli elfi erano in grado di vedere il Popolo Fatato e le altre forme eteriche, Dar sarebbe riuscito a vedere il suo doppione eterico anche se non fosse stato in grado di recepire i suoi pensieri, e se avesse agitato le braccia e accennato ogni sorta di gesti drammatici gli avrebbe almeno fatto capire l'imminenza di un pericolo di qualche tipo. In quel momento qualcuno bussò alla porta con una certa violenza. «Mia signora, mia signora... ci sei?» «Ci sono, Jahdo, entra pure.» Il ragazzo fece irruzione nella stanza con i capelli arruffati e gli occhi sgranati.
«Oh, mia signora, mi dispiace disturbarti, ma sua grazia mi ha mandato a chiamarti perché tutti i paggi sono impegnati a correre di qua e di là per portare messaggi e svolgere altri incarichi.» «Non ne dubito» annuì Jill, alzandosi in piedi e contraendo la bocca in una smorfia nel constatare la portata del suo sfinimento. «Sei eccitato, vero?» «Sì, mia signora, ma sono anche spaventato perché Meer continua a ripetermi che gli assedi sono una cosa orribile, uno dei sette grandi disastri che si possono abbattere su una città.» «E quali sarebbero gli altri sei?» «A dire il vero non li conosco tutti perché lui non li ha elencati, ma credo che uno di essi sia la pestilenza... oh, scusami, forse non dovevo dirlo.» «Non importa, e comunque non so perché te l'ho chiesto. Credo di essere spaventata anch'io.» Di fronte a quell'ammissione Jahdo impallidì vistosamente, mentre Jill lo prendeva per mano e gli permetteva di guidarla verso le scale. Giù nella grande sala il gwerbret stava camminando avanti e indietro dinnanzi al focolare di pietra, appoggiandosi pesantemente al bastone e tallonato dai suoi fedeli servitori, fra cui Jill fu lieta di vedere Lord Gwinardd e parecchi altri nobili di cui non conosceva il nome, segno che i vassalli fedeli a Cadmar stavano affluendo per unirsi al loro signore, come dimostrava il fatto che la grande sala straripava di uomini intenti a mangiare e a bere immersi in un cupo silenzio. «Vostra Grazia mi ha fatta chiamare?» domandò, rivolgendo un inchino a Cadmar. «Yraen mi ha detto che hai delle notizie per noi.» «Sì, Vostra Grazia. Posso sedermi?» «Ma certo» assentì Cadmar, guardandosi intorno con l'aria sorpresa di un uomo che si stesse riprendendo da uno svenimento. «Sediamoci tutti. Per gli dèi, non so cosa mi sia preso a mettermi a trottare avanti e indietro come un vecchio ariete che ne veda uno più giovane sui suoi pascoli.» Quando Jahdo tirò indietro una sedia per lei, Jill si sedette con gratitudine, sperando che i nobili le permettessero di riferire le sue notizie e di ritirarsi al più presto. I piani e le discussioni parvero però trascinarsi interminabili come quella serata afosa e all'apparenza senza fine. Quel giorno Daralanteriel e i suoi uomini avevano effettivamente percorso una trentina di chilometri attraverso un territorio impervio per dare
la caccia ad un daino grigio, e anche se lui avrebbe voluto continuare il cammino e rientrare a Cengarn il gruppo si era ritrovato con i cavalli sfiniti dall'inseguimento, e inoltre incapaci di vedere con la sola guida della luce delle stelle, al contrario dei loro padroni elfici. Pur essendo un principe, Daralanteriel era consapevole che attualmente nelle Terre Occidentali il suo titolo aveva un valore soltanto nominale e che quindi gli uomini che lo accompagnavano erano suoi pari in tutto tranne che nel nome, per cui quando essi insistettero all'unanimità per accamparsi lui finì per acconsentire, soprattutto perché avevano trovato un posto ideale per passare la notte, una radura che offriva erba per i cavalli ed era fiancheggiata da un ruscello. Poiché la notte era molto calda e la luce era un lusso inutile per chi era dotato di vista elfica, il gruppo decise di fare a meno del fuoco. Anche se i suoi compagni stavano scherzando e ridendo, contenti dell'occasione di trascorrere una notte all'aperto, Dar si sentì opprimere da un umore sempre più cupo che gli gravava addosso come un mantello umido e si tenne in disparte vicino al limitare della radura, con aria tetra e meditabonda. A mano a mano che il movimento delle stelle nel cielo indicava l'approssimarsi della mezzanotte gli uomini si stesero uno dopo l'altro sull'erba per dormire e il luogotenente di Dar, Jennantar, andò a raggiungere il principe che se ne stava seduto su un ceppo, in mezzo agli alberi. «Sarà meglio disporre delle guardie» disse Dar. «Cosa? Jill sta sorvegliando i dintorni da settimane e non ha trovato la minima traccia del nemico.» «Lo so, ma ho nel cuore una sensazione stranissima. Saremmo dovuti tornare indietro.» «Non potevamo farlo, mio principe.» «In tal caso non avremmo dovuto spingerci tanto lontano!» esclamò Dar, scattando in piedi sulla spinta di un'ira improvvisa, desiderando per la prima volta in vita sua di essere dotato del potere dei suoi leggendari antenati reali e di essere obbedito non appena parlava. «Te l'ho detto questo pomeriggio! Dovevamo tornare indietro.» «Ma quell'animale era così bello! Non ne avevo mai visto uno simile, tutto bianco e con corna tanto grosse.» «Su questo sono d'accordo, però alla fine ci è sfuggito e adesso siamo qui in questa landa selvaggia senza neppure una preda in cambio di tanta fatica.»
«C'è qualcosa che ti tormenta, vero?» domandò d'un tratto Jennantar. «Sì, e non so di cosa si tratta.» Nel momento in cui pronunciò quelle parole Dar avvertì un brivido gelido lungo la schiena, come se una mano di ghiaccio lo avesse accarezzato: sollevando la testa di scatto come un cervo spaventato tese l'orecchio, e non appena si rese conto che qualcosa si stava muovendo nei boschi vicini diede l'allarme senza neppure soffermarsi a riflettere. «Svegliatevi! Prendete le armi!» gridò. Il suo avvertimento fu la sola cosa che evitò un massacro generale. Estratta la spada, Dar si precipitò in mezzo ai suoi uomini, svegliandoli a forza di calci mentre Jennantar afferrava imprecando il suo arco da caccia e la faretra di frecce. All'improvviso ci fu un bagliore di torce accompagnato da stridule grida di guerra e un gruppo di guerrieri armati fece irruzione nella radura in modo così repentino che i cacciatori elfici ebbero a stento il tempo di alzarsi in piedi e di afferrare spade e archi prima che i nemici fossero loro addosso, enormi esseri pelosi che puzzavano di sudore di cavallo. Quando in seguito si soffermò a pensarci, Dar si rese conto che gli avversari erano stati almeno una cinquantina, ma in quel momento non ebbe il tempo di pensare a nulla. «Meradan!» stridette Jennantar. «Le Orde!» E al tempo stesso scagliò una freccia da caccia che raggiunse il primo degli assalitori, facendolo crollare al suolo con un urlo e con le mani strette intorno al ventre e inducendo i suoi compagni ad esitare, cosa che diede agli altri elfi la frazione di tempo necessaria per raccogliersi intorno al principe. Intanto anche Jezryaladar era riuscito a procurarsi un arco e lui e Jennantar presero a scagliare una freccia dopo l'altra mentre i Gel da'Thae ritrovavano la formazione e tornavano all'attacco. I due elfi che si trovavano in prima fila crollarono al suolo sanguinanti ma lo schieramento resistette... poi qualcuno gettò una torcia nel mucchio di coperte da sella e di equipaggiamento degli elfi, provocando un divampare di fiamme oleose che esalarono fetide volute di fumo. Vagamente, Dar sentì i cavalli nitrire di terrore e un rumore di zoccoli che martellavano e caracollavano. «Ranadar ci vendichi!» urlò, lanciando l'antico grido di guerra della sua casata. «Anche negli inferni, se così deve essere!» I nemici risposero con un farfugliare di parole straniere, e prima che tornassero alla carica Dar riuscì a intravedere le loro sagome enormi e le criniere di capelli lunghi e intrecciati nei quali scintillavano piccoli amuleti.
Poiché gli archi erano inutili a distanza ravvicinata, Jennantar e Jezryaladar non ebbero altra alternativa che quella di indietreggiare e di aggirare la massa dei nemici nella speranza di poter colpire qualche bersaglio alla luce spettrale del fuoco che cominciava ad estendersi nell'erba, mentre i loro compagni privi di armatura e inferiori numericamente continuavano a combattere fino alla morte. Adesso Dar non era quasi più consapevole di dove fosse e di cosa stesse facendo perché era guidato esclusivamente dall'istinto mentre colpiva, parava, saettava in avanti per un affondo e si ritirava, protetto soltanto dalla sua innata grazia contro i colpi dei più goffi Gel da'Thae. D'un tratto qualcosa gli rotolò contro i polpacci e nel contorcersi con un salto laterale Dar si trovò davanti Farendar che giaceva morto in mezzo ad una pozza di sangue... e un istante dopo abbatté con un affondo alla gola il guerriero che lo aveva ucciso. Nel momento stesso in cui quel Gel da'Thae si accasciò al suolo Dar oltrepassò il suo cadavere con un balzo e attaccò il nemico successivo. Nel frattempo il fuoco aveva attecchito fra i cespugli secchi che crescevano al limitare della radura e le fiamme si stavano levando sempre più alte, proiettando una luce giallastra su tutta la radura. All'improvviso il Gel da'Thae che Dar stava affrontando lanciò un urlo di terrore, gettò la spada a terra e cominciò ad ululare tre parole incomprensibili, ripetendole all'infinito... una reazione assurda che Dar suppose essere dettata dalla paura del fuoco che parve di colpo contagiare tutti gli assalitori, inducendoli a buttare via le armi e a fuggire ululando in preda al panico attraverso i boschi. Ansimante al punto da faticare a respirare, Dar girò su se stesso per fare il punto della situazione. Jennantar era ancora vivo ed era impegnato a trascinare un ferito lontano dal fuoco sempre più esteso, aiutato da Jezryaladar che si affrettò a sollevare il ferito per i piedi. «Andiamo via di qui!» gridò Dar. «C'è qualcun altro ancora vivo? Attraversate il fiume!» L'unico altro uomo ancora in vita era Devalanteriel, che però aveva un fianco squarciato e un rivolo di sangue che gli colava dalle labbra mentre barcollava nel tentativo di restare in piedi; nel momento stesso in cui Dar lo circondò con un braccio per sostenerlo l'elfo si accasciò in avanti nell'erba, ormai morto, mentre alle spalle di entrambi il semicerchio di fuoco si faceva sempre più vicino. «Dar!» stridette Jennantar. «Vieni via di lì!»
Riposta la spada nel fodero Dar entrò di corsa nel fiume poco profondo, avanzando a fatica nell'acqua che gli arrivava fino alle spalle e che stava lavando via il sangue del suo amico; respirare gli riusciva così faticoso che in un primo momento credette di essere stato ferito e soltanto dopo un istante si rese conto che stava singhiozzando. Quando raggiunse la riva opposta Jennantar si protese ad afferrarlo per le braccia. «Perdonami» continuò a ripetere, piangendo a sua volta. «Avrei dovuto darti ascolto. Perdonami.» «Adesso non c'è tempo per queste cose» ribatté Dar, inginocchiandosi accanto al ferito... il giovane Landaren... e appurando che aveva la tunica intrisa di sangue. Quando spinse indietro l'indumento insanguinato scoprì però che la ferita era un superficiale taglio di traverso lungo le costole. «Ha ricevuto anche un colpo sulla testa» avvertì Jezryaladar, «però non credo che abbia il cranio fratturato perché altrimenti sarebbe morto durante il trasporto dall'altra parte del fiume.» Dar annuì senza rispondere ed estrasse la daga, usandola per tagliare dalla propria tunica una striscia di tessuto pulito con cui fasciare la ferita. «Dobbiamo andare via di qui» disse quindi, mentre lavorava. «Non so da dove siano venuti quei Meradan, ma è inevitabile che in giro ce ne siano altri. Oh, per il Sole Oscuro! Carra!» Al pensiero di lei si sentì assalire da un terrore così intenso da non riuscire a muoversi o a parlare, e trattenne il respiro con un singhiozzo. «Devo tornare a Cengarn» affermò quindi. «Non essere idiota.» La voce suonò così echeggiante e strana, così all'interno della sua stessa mente che lui si lasciò sfuggire un urlo e si girò di scatto per guardarsi intorno. A poca distanza da loro e il più lontano possibile dal fiume si librava una pallida forma azzurra dai contorni umani ma stranamente liscia e trasparente, così snella e fragile da essere probabilmente femminile anche se il contorno della testa denotava che i capelli erano corti. Intanto anche gli altri si erano accorti dell'apparizione e quando tentò di parlare Jennantar riuscì ad emettere soltanto un verso soffocato. «Jill!» sussurrò Dar. «Per gli dèi, allora sei morta?» «No» scandì la voce di lei nella sua mente. «Sono venuta con il mio corpo del dweomer per avvertirti, ma vedo che sono giunta troppo tardi. Dar, il nemico sta marciando verso Cengarn. Puoi raggiungere Calonderiel? I vostri cavalli hanno smesso di fuggire e alcuni di essi si sono raccolti in una piccola mandria appena oltre il fiume, verso sud.»
«Non ci resta che tentare, vero?» replicò Dar. Mentre parlava si trovò a lanciare un'occhiata in direzione di Jezryaladar e dalla sua espressione si rese conto che gli altri non erano in grado di udire nulla. «È Jill» disse. «Posso sentirla parlare.» Gli altri si limitarono a fissare l'apparizione con occhi vitrei, tremando. «Jill, quei Meradan hanno paura del fuoco. Non potete usarlo contro di loro?» continuò intanto Dar. Un istante dopo avvertì l'amaro divertimento di lei più che sentire fisicamente la sua risata. «Non si è trattato del fuoco. Ho assistito allo scontro e so che le cose non sono così semplici. È di voi che hanno paura, Dar: non appena sono stati in grado di vedervi con chiarezza hanno creduto che foste i figli dei loro dèi e di aver appena compiuto il più orribile fra i sacrilegi uccidendo degli esseri sacri. I loro capi faranno però capire loro presto l'errore in cui sono caduti.» «Cosa? Non capisco, nessuno può uccidere un dio.» «Non ho il tempo di spiegartelo perché sono esausta e non posso mantenere a lungo quest'immagine. Andate da Calonderiel e tornate con il maggior numero possibile di guerrieri elfici. Al ritorno badate però di non precipitarvi alla cieca contro l'esercito assediante e di mandare avanti degli esploratori.» Per un momento ancora Dar poté vedere l'immagine di Jill che parlava e gesticolava, ma non riuscì più a sentirla, poi lei si fece sempre più sottile e trasparente fino a dissolversi come fumo nell'aria. «Se Jill è morta allora tutto è perduto» sussurrò Jezryaladar. «Non è morta. Quella era un'immagine del dweomer, idiota, non il suo spirito.» Per qualche tempo rimasero tutti in silenzio mentre dall'altra parte del fiume l'incendio cominciava a spegnersi nel raggiungere l'umido suolo della foresta. Poi Landaren gemette e cercò di muoversi. «Resta immobile!» gli ingiunse Jennantar. «Non tentare di sederti.» «Non possiamo trasportarlo molto lontano, vero? Almeno non subito» osservò Dar. «Sentite, Jill mi ha detto che ci sono alcuni cavalli non lontano da noi. Nascondete Lan da qualche parte, chiamate i membri del Popolo Fatato perché lo proteggano e andate a prendere quegli animali, cominciando a incamminarvi verso sud molto lentamente, pochi chilometri per volta.»
«Un momento, cosa vuoi...» «Io devo tentare di arrivare a Cengarn e da Carra prima che l'assedio abbia inizio.» «Razza di idiota! Regale idiota!» «Dunque sarei io l'idiota? Se soltanto mi avessi dato ascolto non saremmo...» Dar si pentì di quanto aveva detto nel momento stesso in cui le parole gli uscirono di bocca, perché Jennantar barcollò all'indietro e girò il capo come se fosse stato colpito di piatto in pieno volto con una spada. «Mi dispiace, Jenno, ho detto una cosa ingiusta.» «Non è vero» ribatté Jennantar, con voce a stento udibile. «Hai ragione, e vorrei essere morto io al posto degli altri.» Dar cercò di parlare senza però riuscire a trovare le parole adatte e infine si alzò in piedi con un brivido, quasi avesse potuto allontanare fisicamente da sé quell'affermazione infelice. «Intendo partire adesso» disse quindi. «Se non vi avrò raggiunti entro tre giorni proseguite verso sud alla massima velocità possibile.» Jennantar annuì con lo sguardo sempre fisso a terra, e Jezryaladar si alzò in piedi a sua volta. «Tu non vuoi un cavallo?» «Se sguscerò a piedi fra i boschi sarò più difficile da individuare.» «In tal caso dovresti prendere uno degli archi» suggerì Jezryaladar, dopo un momento di riflessione. «Lo farò, ma voglio poche frecce perché a voi serviranno più che a me.» Dar attese quindi per un momento ancora, alla disperata ricerca di qualcosa da dire a Jennantar, mentre Jezryaladar faceva un rapido inventario della loro scarsa scorta di frecce e gliene consegnava dieci... un quarto del totale disponibile... da portare con sé insieme all'arco. D'un tratto Dar si sorprese a rammentare le antiche storie del tempo dei Sette Re, e le sagge parole pronunciate da questo o da quel consigliere nella perduta Valle delle Rose. «Jenno» disse, «nessun uomo può modificare il fato di un altro, neppure io che pure sono un principe dell'ultima di tutte le casate reali. Oggi siamo stati tutti strumenti del Fato e nulla di più. Perdonami la mia colpa ed io perdonerò la tua.» «D'accordo» sussurrò Jennantar, fissandolo con occhi pieni di lacrime. «Ti ringrazio.» «Ed io ringrazio te.»
Detto questo Dar si sentì finalmente libero di partire e cominciò a risalire il ruscello alla luce degli ultimi bagliori dell'incendio, proseguendo la marcia a passo rapido per circa due ore, pungolato dall'ira per la morte dei suoi uomini e dal terrore per la sicurezza di sua moglie, tenendosi sempre al riparo degli alberi, spostandosi da un'ombra all'altra nella notte senza luna, concentrandosi per non fare rumore e soffermandosi spesso ad ascoltare. Alla fine però lo sfinimento ebbe la meglio su di lui e cominciò a incespicare, a urtare contro rami secchi e a spezzarne di freschi con un suono che echeggiava nella notte come uno schiocco; comprendendo che doveva concedersi un po' di riposo, si arrestò vicino ad uno spesso groviglio di cespugli e di giovani alberi, insinuandosi al suo interno fino a raggiungere uno spazio estremamente scomodo ma abbastanza nascosto che era troppo piccolo per poter essere definito una radura e dove poté permettersi di sonnecchiare in relativa sicurezza, sia pure raggomitolato su se stesso e tormentato da sogni di sangue che scorreva in mezzo a fiamme crepitanti fra l'echeggiare delle grida dei Meradan, i demoni dell'antichità, che si lanciavano alla carica urlando in modo inumano. Il suo risveglio fu accompagnato da uno stridio che echeggiava lontano nel grigiore dell'alba e che lo indusse a restare a lungo immobile con l'orecchio teso. Allorché il suono non si ripeté lui si decise infine a muoversi lentamente, stimolando di volta in volta ogni muscolo contratto e aspettando che il sangue riprendesse a scorrere in modo da potersi alzare in piedi senza far rumore ed emergere dal suo nascondiglio. Tutt'intorno la foresta di querce si stava destando con un frusciare di fogliame sotto il soffio della brezza del mattino e con un cantare di uccelli; qua e là poteva sentire degli animali muoversi nel sottobosco, sentinelle ideali che lo avrebbero avvertito con il loro improvviso silenzio se qualche goffo Gel da'Thae si fosse addentrato in quel bosco. Per tutta la mattina proseguì la marcia verso nord, tenendosi lontano da qualsiasi pista e deviando leggermente verso est per sfruttare il riparo offerto dalle colline e dalla foresta, pungolato a procedere senza cedere alla stanchezza o alla fame dal costante pensiero di Carra e del pericolo che stava correndo... anche se alla fine scoprì che non era più nelle sue possibilità raggiungerla o proteggerla. Sul finire della giornata emerse dalla foresta sulla cresta di una piccola altura: davanti a lui il pendio scendeva roccioso verso una valletta solcata da un ruscello e risaliva la cima erbosa della collina successiva, nuda tran-
ne per un piccolo bosco ceduo di alberi piantati da poco, al di là della quale si allargava la pianura su cui sorgeva Cengarn. Pur essendo riluttante ad attraversare un tratto di terreno scoperto, Dar era consapevole che il tempo giocava a suo sfavore, quindi chiamò a raccolta le forze e spiccò la corsa giù per il pendio, lasciando che l'impeto così acquisito lo trascinasse oltre il fiumiciattolo poco profondo e su per la salita, che risalì con il respiro sempre più affannoso e il cuore che gli martellava nel petto, per poi gettarsi infine al riparo della relativa protezione offerta dal bosco ceduo, dove poté riprendere fiato e guardarsi intorno: le colline familiari che componevano Cengarn si levavano a circa un chilometro e mezzo di distanza, sovrastate dalla loro corona di mura e di torri, ma in lontananza sulla pianura era possibile vedere quella che sembrava una vasta nube di fumo o di polvere che circondava la città in un vasto vortice pulsante, solcato qua e là da qualche lampo di luce prodotto dal riflettersi del sole su una superficie metallica. Dar rimase a fissare quello spettacolo per un lungo, sconcertato momento, fino a quando si rese conto che quello che stava vedendo era un esercito e che l'assedio di Cengarn aveva già avuto inizio. «Carra!» gemette, costringendosi a sussurrare anche se avrebbe voluto ululare come un folle. «Carra!» Infine trovò la forza di volgere le spalle a quello spettacolo e di incamminarsi verso sud per raggiungere i suoi uomini: anche se disponeva soltanto della sua ira come guida e protezione per se stesso e per i suoi uomini nel corso della lunga e faticosa cavalcata fino al campo di Calonderiel, sapeva che sarebbe stato sufficiente e che se gli dèi avevano anche minimamente a cuore la giustizia presto sarebbe tornato alla testa di un esercito. Mentre correva giurò nel profondo della sua anima che cento nemici sarebbero morti per ciascuno dei suoi compagni che avevano perso la vita la notte precedente. «C'è una cosa che non riesco a capire» affermò il ciambellano. «Come fanno queste creature a credere di poter portare a termine con successo questo assedio? Il mio signore Cadmar ha chiesto aiuto ai suoi alleati... due altri gwerbret qui in Arcodd e uno nel Pyrdon settentrionale, e di fronte a questo stato di grave necessità essi raduneranno certo tutti i loro vassalli per venire in suo soccorso... e se neanche questo sarà in grado di porre fine all'assedio il Sommo Re interverrà di persona con le sue truppe, non sol-
tanto per rispettare gli obblighi che ha nei confronti dei suoi gwerbret ma anche perché è nel suo interesse avere un confine settentrionale sicuro.» «Noi lo sappiamo, ma loro no» replicò Jill. «Ma Lord Tren...» «Probabilmente non gli danno ascolto, e non sarei per nulla sorpresa di scoprire che si è già pentito di aver tradito il Gwerbret Cadmar, adesso che ha visto chi sono i suoi nuovi alleati.» Jill e il vecchio ciambellano, Lord Gavry, si trovavano sui bastioni di Dun Cengarn, intenti a guardare verso la città e il campo degli assediami che si allargava intorno ad essa, una marea di uomini e di cavalli sparsi intorno alle mura: dovunque c'erano bandiere rosse che sventolavano, armature e spade che ammiccavano sotto il sole caldo del mezzogiorno, e nel guardarsi intorno Jill calcolò che i nemici dovevano ammontare ad almeno tremila uomini, anche se molti fra quelli alla retroguardia dovevano essere servitori e stallieri. Pur essendo sopravvissuta a più di una guerra nel corso della sua vita, lei non aveva mai visto un esercito tanto numeroso, perché la maggior parte dei conflitti in cui si era trovata coinvolta erano stati scaramucce di confine fra nobili male in arnese di Provincie povere. «Dubito che Tren conoscesse in anticipo la natura degli altri seguaci della sua nuova dea» continuò dopo un momento, notando la sorpresa dipinta sul volto del ciambellano. «Non siamo forse rimasti sorpresi noi stessi quando abbiamo scoperto che le Orde esistevano veramente e costituivano ancora una minaccia?» Il vecchio annuì con un sospiro mentre Jill si riparava gli occhi con una mano per scrutare il campo avversario: fino a questo momento in esso non si era ancora vista una sola macchina da assedio, né una ballista o una catapulta, e neppure un semplice ariete, ma era impossibile stabilire se questo fosse o meno un buon presagio. «Come sta la Principessa Carra?» chiese intanto Lord Gavry. «Sta meglio. Si è alquanto tranquillizzata quando le ho detto che suo marito era ancora vivo e la colazione sembra averla rimessa in sesto dopo la sua crisi isterica.» «Per favore, buona maga! Non essere così aspra con lei... dopo tutto è ancora soltanto una ragazza, e sta aspettando il suo primo figlio.» «In effetti hai ragione. Dimmi, per quanto tempo pensi che la città potrà resistere?» «Per mesi, se sarà necessario. I problemi insorgeranno in seguito, se i contadini non potranno piantare il secondo raccolto dell'anno» rispose il
ciambellano, con voce improvvisamente incrinata. «In questo caso Cengarn andrà incontro ad un inverno davvero molto duro.» «Quanto tempo abbiamo prima...» «Secondo quanto mi hanno detto abbiamo a disposizione al massimo un intero ciclo della luna, se vogliamo sperare in un raccolto abbondante; se ci accontenteremo di uno più scarso potremo rimandare di qualche altra settimana, ma al di là di questo...» Lord Gavry lasciò a mezzo la frase, scrollando le spalle e protendendo le mani vuote con il palmo rivolto verso l'alto. «Se però quest'anno l'inverno giungesse in ritardo la stagione del raccolto durerebbe qualche settimana in più» osservò Jill. «Se. Come possiamo essere sicuri che sarà così?» obiettò il ciambellano. Per tutta risposta Jill si limitò a fissarlo in volto e a sorridere. «In tal caso» replicò allora Lord Gavry, deglutendo a fatica e impallidendo un poco, «potremmo avere a disposizione un paio di cicli della luna. Spero però che prima di allora gli alleati del mio signore Cadmar verranno a liberarci dall'assedio, perché sono preoccupato anche dalla necessità di mantenere alto il morale della gente e di evitare il panico nelle strade se il nemico dovesse usare la magia contro di noi.» «Hai ragione, ma non intendo permettere che le cose degenerino fino a questo punto» garantì Jill, ma per quanto si stesse esprimendo con tanta sicurezza al fine di tranquillizzare il ciambellano e con lui l'intera fortezza, dentro di sé nutriva parecchi dubbi. Pur essendo ragionevolmente certa di poter avere la meglio sull'altro mazrak in uno scontro di qualsiasi tipo, doveva infatti tenere presente l'incognita costituita da Alshandra, questo strano e possente essere che lei non aveva mai visto personalmente e di cui aveva soltanto sentito parlare da Rhodry, in modo confuso e caotico, e da Dallandra, che aveva fornito invece rapporti accurati e precisi. In entrambi i casi si trattava comunque di informazioni di seconda mano, e in aggiunta a questo Jill sapeva che la sua ignoranza in merito al dweomer delle strade la poneva in posizione di svantaggio nel fronteggiare Alshandra e i suoi seguaci perché non aveva idea di ciò che avrebbero potuto fare grazie ad esso. Per esempio, poteva Alshandra usare il dweomer delle strade per organizzare una linea di approvvigionamento con un territorio molto lontano da lì, in modo da garantire che le scorte di viveri del suo esercito durassero più a lungo di quelle della città? O ancora, poteva guidare parte delle sue truppe nelle terre di
Evandar per poi farle emergere nel cuore della città? Jill non lo sapeva, e questo la preoccupava più di ogni altra cosa. Lord Gavry trascorse il resto di quella prima giornata di assedio a stilare un piano per la distribuzione del cibo e dell'acqua, mentre Jill lo passò ad elaborare difese magiche. Per prima cosa si recò dall'addetto all'armeria per procurarsi un paio di elmi di ferro, scegliendone due ormai troppo ammaccati e arrugginiti per poter essere ancora utilizzati in battaglia; dal fabbro si fece dare un piccolo e informe lingotto di ferro che un tempo era stato una lama di coltello che si era spezzata e che lui non aveva più avuto il tempo di rimodellare. Armata di questi oggetti, si recò quindi nella sala delle donne, dove trovò Carra seduta vicino alla finestra con un lavoro di cucito incompleto abbandonato in grembo; il suo vestito ampio e privo di cintura cominciava a rivelare il progredire della gravidanza e lei appariva pallida, ma riuscì comunque a salutare Jill con calma e addirittura con voce salda. «Cos'hai lì, Jill?» le chiese, con un accenno di sorriso. «Devo forse armarmi e andare in battaglia? Se devo essere sincera lo preferirei al restare qui seduta a non fare nulla.» «Capisco i tuoi sentimenti ma credo che debba rassegnarti all'attesa, che è sempre il compito più duro, in situazioni del genere. Ti ho portato questi vecchi elmi soltanto perché sono fatti di ferro, una sostanza di cui l'essere che sta cercando di farti del male non tollera la vicinanza. Voglio che tu tenga sempre questi due elmi ai lati del tuo letto e questo piccolo lingotto di ferro costantemente sulla tua persona, insieme alla tua daga da tavola. D'ora in poi bada di averla con te in ogni momento, che sia o meno ora di mangiare, ed anche quando dormi.» «Benissimo» assentì Carra, prendendo il piccolo lingotto che risultò avere le esatte dimensioni del palmo della sua mano. «Se dovesse succedere qualcosa devo lanciarlo contro eventuali assalitori?» domandò quindi. «No. Tienilo sempre con te e in caso di necessità tiralo fuori esattamente come stai facendo adesso. Dovrebbe essere sufficiente.» Pur accorgendosi che Carra appariva perplessa, Jill non poté concedersi il tempo di fornirle una spiegazione, anche perché lei stessa non capiva a fondo la teoria connessa alla lesività del ferro per quegli strani esseri, salvo per alcuni commenti fatti un tempo da Nevyn in merito alle calamite. In effetti, gli esseri che esistevano sul piano dell'eterico e potevano assumere una forma fisica intessendo la sostanza astrale, esistevano in un campo
magnetico e in uno stato di flusso magnetico che il ferro prima assorbiva, magnetizzandosi, e poi sconvolgeva con effetti dolorosi. In quel preciso momento storico dello sviluppo del sapere del dweomer Jill però sapeva soltanto che esseri come Alshandra ed Evandar non potevano tollerare il contatto diretto con il ferro o la vicinanza ad esso, e pur senza conoscere le cause ultime di questo effetto sperava che esso giocasse a favore di Carra. Al tempo stesso le venne di colpo in mente che con tutte le armature e le armi che i guerrieri dell'Orda accampati sotto le mura avevano indosso, Alshandra non poteva essere sul piano fisico insieme a loro, un pensiero che ebbe il potere di rasserenarla alquanto anche se era consapevole che Alshandra avrebbe potuto essere altrettanto dannosa operando dal piano dell'eterico. Congedatasi dalla principessa, scese in cortile con l'intento di raggiungere la torre laterale in cui alloggiava, ma nell'attraversare lo spazio aperto vide che vicino alle porte si stava formando una piccola processione composta da un araldo munito di un palo ornato di nastri e da un gruppo di guerrieri che lo avrebbero scortato attraverso la città. Il siniscalco e lo stesso Gwerbret Cadmar erano intenti a parlare con il giovane araldo e accanto al gwerbret, vestito con abiti puliti in onore di quella particolare occasione, c'era Meer, come sempre accompagnato da Jahdo. Quando Jill venne a raggiungere il gruppo, il bardo avanzò di qualche passo e girò a destra e a sinistra la testa massiccia. «Sei tu, mazrak?» domandò. «Sono io» rispose Jill. «Cosa ci fai qui?» «Ho offerto i miei servigi al gwerbret per ricambiare la generosa ospitalità da lui elargita a me e al ragazzo. Presso il nostro popolo una delle dodici condizioni essenziali per poter parlamentare è la presenza di un bardo, senza contare che se questi porci selvaggi non dovessero conoscere la vostra lingua l'araldo avrà bisogno di qualcuno che sia in grado di parlare la loro.» «Infatti. Ti sono grata della tua disponibilità. Porci selvaggi, vero? Si tratta allora dei Fratelli dei Cavalli provenienti dal nord.» «Sì, e il loro odore non mi piace. Qui sta succedendo qualcosa di malvagio, ma di certo non hai bisogno che sia io a dirtelo.» «Temo di no, buon bardo, temo proprio di no» annuì Jill, poi si girò verso il gwerbret e chiese: «Chi ha domandato che si parlamentasse, Vostra Grazia?»
«Sono stati loro. Intendono presentare una richiesta e delle condizioni» replicò Cadmar, arrossato in volto dall'ira. «Che sfrontatezza! Pensano di poter esigere qualcosa da me!» «Sono pronta a scommettere che so di cosa si tratta» affermò Jill. «Ti chiederanno di consegnare loro la Principessa Carramaena, in modo da potersi impadronire del suo bambino non ancora nato.» L'araldo accolse quella previsione con espressione scettica, ma alla fine risultò che Jill aveva avuto ragione. Il gruppo inviato a parlamentare tornò indietro in fretta e dopo brevissimo tempo: l'araldo appariva adesso tremante e pallidissimo in volto, mentre Meer era furibondo ed entrò nella grande sala muggendo per l'ira. Ferma in disparte accanto al focolare a forma di drago, Jill ascoltò il resoconto dell'araldo, che riferì i termini del nemico in mezzo al più assoluto silenzio da parte di nobili e servitori. «Esigono che consegnamo loro la principessa, questo è certo» esordì l'araldo. «L'unica alternativa che ci lasciano è che siamo noi stessi ad ucciderla in modo da garantire che abbia una morte rapida e misericordiosa, e che poi consegnamo loro il suo corpo.» Nella sala esplose una tempesta di imprecazioni, di grida e di inarticolate espressioni di puro orrore. «Blasfemia!» sibilò soltanto Meer, rivolto a Jill, snudando le zanne in un'espressione irosa. Infine Cadmar si alzò in piedi e picchiò sul tavolo con il proprio bastone per imporre il silenzio. «Mi fa piacere constatare che siete furenti quanto lo sono io» esordì, con voce squillante e decisa. «Non temete, non consegnerei mai nessuna donna a quello sciame di larve infette, sia che si tratti di una principessa o di una serva di taverna.» Le sue parole furono accolte da un ruggito di approvazione... e nel guardarsi intorno Jill si augurò che quell'assenso generale rimanesse intatto durante i lunghi mesi di fame e di malattie che sarebbero giunti se l'assedio fosse durato troppo a lungo. D'un tratto Meer venne avanti a grandi passi, affiancato da Jahdo, e quando si fermò davanti al gwerbret con un inchino sulla sala scese di nuovo il silenzio, dettato questa volta dalla curiosità. «Vostra Grazia, c'è una cosa che devo dire, perché mi brucia sulle labbra» esordì il bardo. «Questi vermi non sono il mio popolo: possono anche essere Fratelli dei Cavalli, ma non sono Gel da'Thae. Infatti sarebbero pronti ad uccidere una donna prossima a diventare madre, il che costituisce una delle quattro massime offese contro i nostri dèi. Questi miserabili sono
blasfemi, idolatri, seguaci di magie perverse, sporcizia che deturpa il volto pulito della terra, un mucchio di letame che leva al cielo il suo fetore, e come tali io li ripudio, li disprezzo e volgo loro le spalle per sempre e in maniera assoluta.» Dalla folla dei presenti si levò un mormorio di commento ma i toni rimasero sommessi perché tutti stavano aspettando la risposta di sua grazia. «Per questo hai la mia gratitudine, buon bardo» replicò Cadmar. «D'ora in poi ti considererò uno dei miei uomini, e anche se un giorno sceglierai di lasciarci sappi che nella mia fortezza e alla mia tavola ci sarà sempre un posto per te, qualora decidessi di tornare qui.» Dalla folla si levò un sussurrio di approvazione. «Ti sono umilmente grato, mio signore: oggi hai dimostrato la grandezza del tuo cuore e della tua anima» affermò Meer, con un altro inchino, poi sussurrò qualcosa a Jahdo che lo aiutò a girarsi verso il punto in cui si trovava Jill, e proseguì: «Mazrak, tutto quello che so, tutti i miei dodici livelli del sapere, sono a tua disposizione: chiedi ed io risponderò ad ogni tua domanda, senza tenere più nascosto nulla.» La folla deliziata esplose in un applauso, anche se di certo nessuno tranne Jill aveva idea dell'enormità del dono che il bardo stava offrendo. Jill dal canto suo ne fu tanto felice da fare fatica a parlare, perché l'aiuto di Meer era la sola arma di cui non aveva mai sperato di poter disporre. «Ti sono grata, buon bardo. Se ti fa piacere, stanotte gradirei che cenassimo insieme nella mia camera.» «Mi fa piacere, mazrak» replicò Meer, poi esitò e aggiunse: «Un momento, questa forma di espressione non è esatta. Mi fa piacere... Jill.» Con un ultimo inchino l'enorme bardo segnalò a Jahdo di precederlo e si avviò per lasciare la sala, girando la testa di qua e di là e tastando il terreno intorno a sé con il bastone nell'attraversare la folla che si aprì per lasciarlo passare: senza dubbio aveva bisogno di restare solo con il dolore che gli procurava la consapevolezza che una tribù del suo popolo era disposta a tradire i suoi dèi e ciò che essi rappresentavano, anche se non si trattava della tribù a cui lui apparteneva. «Del sidro!» ordinò intanto Cadmar. «Ho bisogno di lavarmi dalla bocca il sapore di queste empie richieste. Che quei porci attendano pure una risposta.» La folla levò un ennesimo ruggito di assenso. Mentre le serve e i paggi si allontanavano per obbedire all'ordine del gwerbret, Jill si guardò intorno senza vedere traccia della presenza di Carra; Yraen era però appoggiato ai
piedi della scala a spirale, così grigio e immobile da sembrare una statua scolpita nel granito. Quando lei andò a raggiungerlo le rivolse un inchino senza dire una sola parola. «Dov'è Carra?» chiese in tono secco Jill. «Nella sala delle donne, dove io non posso entrare» rispose Yraen, con voce tremante. «Laggiù vicino alla finestra c'è Lady Occrada. Fatti accompagnare di sopra da lei: dal momento che prima o poi Carra verrà a sapere cosa è successo, preferisco che venga informata da te e da Occa piuttosto che apprenderlo dai pettegolezzi di qualche cameriera.» Yraen annuì e si allontanò in silenzio per eseguire i suoi ordini. Nel frattempo Jill decise che era giunto il momento di erigere i suoi personali bastioni di difesa intorno alla fortezza e alla città: anche se il cortile e le mura pullulavano di gente, non aveva infatti il tempo di aspettare che scendesse il buio, e del resto ormai gli abitanti della fortezza avevano assistito a sufficienti manifestazioni del dweomer da poter tollerare di vederla in piedi in cima ad una torre e intenta a fare cose strane. Ansimando, salì la scala a spirale che portava sul tetto della rocca principale, là dove aveva insegnato a Rhodry come si recitava una formula magica, e una volta in cima scoprì che adesso sul tetto c'erano piccole piramidi di sassi rotondi disposte ad intervalli regolari e pronte per un'eventuale difesa estrema della rocca. Portatasi al centro di quel cerchio di pietre attese per un momento di riprendere fiato, poi concentrò la propria mente sulla luce azzurra dell'eterico: lentamente, l'intensa luce solare che l'avviluppava parve attenuarsi per essere sostituita da una luce diversa, fioca e argentea, che peraltro non le impediva di continuare a vedere il circostante mondo fisico. Immersa in quella radiosità azzurra, Jill sollevò le braccia verso il cielo ed invocò il potere della Luce, che era presente dietro ogni figura d'ombra e che personificava quelle forze che gli uomini chiamavano dèi. Il suo simbolo visibile si manifestò come una lancia di luce che la trapassò dalla testa ai piedi, e per un momento lei rimase immobile in segno di omaggio prima di protendere le braccia in fuori all'altezza delle spalle in modo da allargare la luce fino a formare una croce la cui luminosità continuò a crescere per qualche istante, dandole nuova forza, prima di svanire a poco a poco di propria iniziativa.
Allorché fu del tutto scomparsa, Jill abbassò le braccia e visualizzò nella mano destra una spada di luce: non appena l'immagine ebbe acquisito vita propria e indipendente dalla sua volontà, fece quindi il giro del tetto camminando nella direzione del sole e si servì della spada per tracciare nel cielo un enorme cerchio di luce dorata, che nell'entrare in contatto con la terra si allargò a formare un muro rovente che abbracciava l'intera città di Cengarn. Jill ripeté l'operazione per tre volte, in modo da garantire che il muro avesse vita propria nell'eterico indipendentemente dalla sua volontà, quindi appose ad ogni punto cardinale un sigillo che aveva la forma di una stella a cinque punte fatta di fuoco azzurro, e non appena i sigilli dei re degli elementi brillarono nelle quattro direzioni allargò la luce dorata fino a mutarla da un muro in un'enorme sfera che avviluppava come una cupola la città e la fortezza e si estendeva anche nel sottosuolo. Le bastò quindi apporre gli ultimi due sigilli allo zenit e al nadir perché nei molti mondi al di là di quello fisico Cengarn si venisse a trovare all'interno di una sorta di bolla protettiva. Giunta alla fine del suo lavoro, Jill ritrasse il proprio potere dall'immagine della spada, dissolvendola, poi batté per tre volte il piede sul tetto e un istante più tardi la luce del sole tornò a brillarle intorno, accompagnata dai rumori propri della fortezza che fino a quel momento erano stati annullati dalla sua concentrazione. La porzione della sfera sovrastante il terreno rimaneva comunque visibile per chiunque fosse dotato della vista data dal dweomer, e anche se adesso lei avrebbe dovuto rinnovare i sigilli cinque volte al giorno, ad ogni alternarsi delle maree astrali, la città sarebbe stata al sicuro da occhi curiosi e da eventuali spiriti inviati dai nemici. «E adesso vedremo se Alshandra troverà la cosa di suo gusto» commentò ad alta voce, pur essendo consapevole che quelle parole erano un semplice atto di spacconeria degno di un guerriero alle prime armi. Per quel che ne sapeva, infatti, Alshandra poteva anche essere capace di spingere di lato quei sigilli come se fossero stati semplici ragnatele... se solo Dallandra fosse tornata! Quello era un pensiero ricorrente che la tormentava cento volte al giorno, ma al tempo stesso era un pensiero inutile, come ricordava a se stessa altrettanto spesso. Riscuotendosi infine da quelle vane divagazioni si affrettò a scendere dalla torre per cercare di convincere l'addetto all'armeria ad aiutarla a spargere per l'intera fortezza ogni vecchio pezzo di ferro che fossero riusciti a trovare.
Dopo che Meer ebbe pronunciato il suo impegno a servire sia il gwerbret che la maga, Jahdo lo guidò fino al tavolo dei servitori, dove il giovane bardo di Cengarn sedeva insieme alla sua dama; preso posto accanto a loro, il Gel da'Thae chiese a gran voce un boccale di birra. «Hai ancora bisogno di me?» domandò allora Jahdo. «Per un po' no, ragazzo. Se vuoi corri pure a cercare i tuoi amici.» Invece di seguire quel consiglio, Jahdo si affrettò a seguire Yraen e Occrada su per la scala a spirale. Arrivati sul pianerottolo che dava accesso alla sala delle donne, Occrada chiese ad Yraen di aspettare là mentre lei riferiva a Carra le cattive notizie nel modo più gentile possibile; nel frattempo Jahdo cercò di restare nascosto nell'ombra della scala finché la dama non fosse scomparsa all'interno, ma gli occhi acuti di Yraen lo notarono quasi immediatamente. «Cosa vuoi, ragazzo?» «Oh, niente. Io... ecco...» «Avanti, cosa c'è?» «Yraen, ho tanta paura che facciano del male alla principessa!» Yraen cercò di accantonare quei timori con un sorriso ma non ci riuscì. «Vuoi sapere una cosa, Jahdo?» replicò quindi. «Ne ho anch'io, ma ogni dio del cielo mi è testimone che prima di arrivare a lei dovranno uccidere me, e questa non è una cosa facile da fare.» «È vero» convenne Jahdo, salendo gli ultimi gradini per venire a fermarsi accanto a lui. «Però... ecco, ci sarà di mezzo il dweomer, e cosa possiamo fare noi contro di esso? Di conseguenza ho pensato una cosa: ho questi talismani che Meer mi ha dato parecchio tempo fa, e voglio che adesso sia la principessa a portarli, perché di certo nessun grande stregone verrà a cercare uno come me.» «Hai avuto davvero un nobile pensiero, e sono orgoglioso di te» si complimentò Yraen, poi si soffermò ad ascoltare i rumori che giungevano da oltre la porta e continuò: «Zitto, stanno arrivando! Inginocchiati davanti a lei e preparati a chiederle se vuole i tuoi talismani.» Jahdo si affrettò a piegare un ginocchio a terra e a passarsi le mani fra i capelli, poi si sfilò gli amuleti che portava intorno al collo e nel farlo tornò ad arruffarsi i capelli, con il risultato che li stava di nuovo assestando quando la porta si aprì. Affiancata da Occrada, la Principessa Carra apparve sulla soglia a testa alta ma con la bocca serrata in una linea sottile e dura... e Jahdo pensò che non l'aveva mai vista così bella e al tempo stesso fiera e piena di sfida, simile ad un'aquila bianca dal momento che era vesti-
ta con un abito di lino bianco ornato di ricami colorati intorno alla scollatura e lungo le maniche. «Cosa succede?» chiese Occrada, indicando in modo vago verso Jahdo con una mano. «Ha un dono da offrire a sua altezza» spiegò Yraen. «Avanti, Jahdo, coraggio.» Per un momento il ragazzo non riuscì a parlare a causa del violento martellare del cuore nel petto, ma quando Carra lo incoraggiò con un piccolo cenno trovò infine il fiato necessario. «Vostra Altezza, il mio padrone mi ha dato questi talismani che sono stati fatti dalla somma sacerdotessa della sua città, che di certo conosce il dweomer dei Gel da'Thae meglio di chiunque altro. Per questo ho pensato che dovresti essere tu a portarli, perché i maghi dei Fratelli dei Cavalli potrebbero cercare di fare del male a te ma non baderebbero mai ad un ragazzo come me.» «Un pensiero davvero gentile, Jahdo» replicò Carra, con un lieve tremito nella voce che subito scomparve. «Però non potrei mai toglierti la tua protezione.» «Vostra Altezza ne ha bisogno e lui no» intervenne Yraen, in un tono che a Jahdo parve un po' troppo brusco, considerato che stava parlando con una principessa. «Proprio così, Altezza» insistette Jahdo. «Oh, per favore, se saprò che li hai indosso dormirò molto più tranquillo.» Con un sorriso di gratitudine simile all'improvviso apparire di un raggio di sole in mezzo alle nuvole, Carra accettò i talismani e se li mise al collo. Nel vederli appoggiare contro la sua pelle candida Jahdo fu assalito da un'improvvisa ondata di calore e non riuscì a capire perché di colpo si sentisse al tempo stesso euforico e intimidito e perché il cuore gli stesse battendo a più non posso. «Hai la mia imperitura gratitudine, Jahdo» affermò Carra. «Li indosserò sempre e penserò a te.» Pur essendo consapevole che la stava fissando con un sorriso idiota dipinto sul volto, Jahdo non riuscì a pronunciare un'altra parola, e anche dopo che Carra si fu avviata lungo le scale, scortata da Occrada e da Yraen, rimase a lungo inginocchiato sul pianerottolo, sentendosi più felice di quanto lo fosse mai stato in tutta la sua vita. Nella mente poteva ancora vedere l'immagine dei lacci di cuoio che scivolavano lungo l'incavo della gola della principessa, i ciuffi di piume, il disco d'argento...
«Oh! Quell'altro disco!» esclamò, balzando in piedi con la stessa repentinità con cui gli era affiorato nella mente il ricordo di quel disco di peltro contrassegnato con uno strano sigillo che Jill gli aveva mostrato nel cortile delle stalle. Un istante più tardi si stava già precipitando giù per le scale ad una velocità pericolosa per la sua incolumità per poi attraversare come un fulmine la grande sala ed emergere nel cortile in tempo per vedere Jill che scendeva dalla torre, di ritorno dal rito che aveva appena eseguito. «Jill, Jill» gridò. «Adesso ricordo!» Ridendo, Jill lo prese per un braccio e lo guidò lontano dalla piccola folla di guerrieri perplessi che si trovava nel cortile. «Cosa ricordi, ragazzo?» «Rammenti quella strana cosa che c'era in mezzo agli amuleti di Thavrae? Quando li hai sottratti al vecchio carceriere me li hai mostrati, e in mezzo agli altri c'era quel disco di peltro coperto di strani disegni.» «Certo che lo rammento. Dici di averne già visto uno simile in precedenza?» «E so anche dove. Ne ho trovato uno identico nell'erba fuori delle porte di Cerr Cawnen.» «Ah» commentò Jill, esalando con violenza il respiro. «E cosa ne hai fatto?» «L'ho dato a Tek» tek per il suo tesoro. È una delle nostre donnole, e come le gazze loro amano tutte le cose che luccicano e che destano la loro curiosità. Lei se l'è portato via insieme al laccio di cuoio e l'ha nascosto fra i suoi tesori, anche se è possibile che in seguito Ambo, il nostro maschio più grosso, glielo abbia rubato. «In ogni caso il medaglione è ancora in mezzo alle donnole?» «Sì, perché non vedo motivo per cui mia madre o mio padre avrebbero dovuto prenderlo, considerato che adesso sarà piuttosto sporco.» «Ben fatto, ragazzo, davvero ben fatto» approvò Jill, con una risata fugace e squillante. «In tal caso dubito che i nostri nemici andranno a cercarlo, e se mai riusciremo a riportarti a casa lo troveremo là ad aspettarci in modo che possiamo dargli un'occhiata.» Mentre nel mondo degli uomini erano trascorsi molti lunghi giorni, per Dallandra la ruota del Tempo si era spostata di poco più dell'equivalente di un'ora pomeridiana, che lei aveva impegnato alternativamente ribollendo d'ira ed elaborando piani.
Se soltanto avesse potuto uscire dalla sua prigione e raggiungere il paggio prima di Lord Volpe... come aveva soprannominato il fratello di Evandar... e dei suoi uomini, in modo da tirarlo fuori dalla gabbia e metterlo al riparo dietro di sé, insieme avrebbero potuto tentare di liberarsi combattendo. Il problema però era come riuscirci. Sapendo che spesso nelle terre di Evandar cose che sembravano solide erano in realtà soltanto illusione, a titolo di esperimento lei concentrò la propria volontà su una delle sbarre: se essa non esisteva realmente, infatti, la sua mano permeata di scetticismo in merito alla sua solidità avrebbe dovuto poterla attraversare, dissolvendola, ma quando ci provò ottenne soltanto di andare a sbattere contro un pezzo di solido legno, il che significava che quella era sostanza astrale fittamente intessuta, forse addirittura frutto dell'operato di Evandar, dal momento che era stato lui a creare gli alberi di cui i suoi catturatori si erano serviti per creare quella gabbia. Se fosse stato fatto di sostanza fisica, e se fosse stato possibile trasportarlo come tale su questo piano dell'esistenza, il suo corpo avrebbe attraversato le sbarre in quanto per esso inesistenti, ma il corpo illusorio di cui lei disponeva era invece fatto della stessa sostanza astrale della gabbia e di conseguenza si comportava in rapporto alle "cose" presenti nelle terre di Evandar nello stesso modo in cui il suo corpo concreto si sarebbe comportato nel mondo reale. Peraltro questo fisico illusorio di cui era dotata era al tempo stesso abbastanza reale da dolere, o meglio da registrare le impressioni sensoriali del suo doppione eterico come una forma di dolore, senza dubbio modellando quella sensazione sulla base del suo ricordo del dolore fisico, come dimostrava il fatto che in seguito alla sua cattura lei era ancora tormentata da un generale indolenzimento. Spesso questo la induceva a massaggiare la figurina di ametista che portava al collo per attenuare le ammaccature, proprio come sul piano fisico avrebbe potuto massaggiarsi una spalla dolorante. Sedendosi prona sul fondo della gabbia finse quindi di dormire ma prese invece ad esaminare la disposizione del campo: l'araldo si era allontanato nel bosco, forse per rimuginare in solitudine sulla condotta disonorevole del suo signore, e le creature simili ad orsi stavano dormendo a causa del sidro creato magicamente dal loro signore, ma il guerriero dalla testa di lupo, l'altra creatura volpina, l'umano dalla figura distorta e Lord Volpe stesso erano ancora ben svegli e sedevano a parlare intorno al fuoco.
Se soltanto fosse riuscita ad uscire dalla gabbia, Dallandra avrebbe potuto usare il fuoco contro di loro, appellandosi alle salamandre per farlo divampare ed esplodere in modo da diffondere le fiamme per tutta la radura: naturalmente esse non avrebbero effettivamente bruciato nulla, ma lei dubitava che quelle creature se ne sarebbero rese conto in tempo ed era certa che il loro corpo astrale avrebbe registrato sotto forma di dolore le energie elementari delle fiamme. Sbadigliando vistosamente, rotolò quindi supina e si gettò un braccio sul volto per poter sbirciare di nascosto il tetto della gabbia. Se fosse stata notte avrebbe probabilmente potuto sciogliere i nodi che univano fra loro le sbarre di legno, ma era difficile calcolare quando e perfino se la notte sarebbe giunta in quella terra magica. Girandosi di nuovo, lentamente e con cautela in modo da non attirare l'attenzione, cercò di appurare quali armi avrebbe avuto a portata di mano se fosse riuscita ad arrivare a terra. All'improvviso dal limitare della foresta giunse un grido ululante dell'araldo che indusse Dallandra a sollevarsi a sedere di scatto mentre i guerrieri simili ad orsi si svegliavano con un grugnito e Lord Volpe e il resto dei suoi uomini balzavano in piedi. Gemendo e agitando il bastone, l'araldo emerse quindi dalla foresta accompagnato da un guerriero in armatura nera che come il suo signore aveva un aspetto prevalentemente umano, con la sola eccezione della massa di capelli rossi e delle mani dotate di artigli. «I nostri confini sono stati violati!» gridò l'araldo. Dallandra faticò a trattenere una risata perché era certa che si trattasse di Evandar, e nella sua gabbia posata sul terreno il paggio scattò a sua volta in piedi per ascoltare con attenzione. Mentre l'araldo continuava a gemere e a tergiversare, il guerriero in armatura s'inginocchiò ai piedi di Lord Volpe. «Mio signore! I ribelli hanno marciato attraverso le nostre terre: erano centinaia e avevano con loro un esercito di strane e orribili bestie a cavallo, dotate esse stesse di capelli simili alla criniera di un cavallo.» Lord Volpe imprecò e sollevò una mano, facendo apparire in essa una spada d'argento. «Quella cagna di Alshandra era alla loro testa sotto forma di un grande corvo» continuò intanto il guerriero. «Adesso si sono addentrati nelle terre di Evandar, e poiché non abbiamo osato seguirli in esse non so dove siano andati.» In alto, Dalla serrò le sbarre della gabbia con tanta forza da farla oscillare, perché lei non aveva difficoltà ad immaginare la destinazione ultima di
quelle truppe: stavano marciando verso Cengarn per attaccare Jill, il bambino e sua madre. Immagini di strage e di terrore le apparvero nella mente prima che avesse il tempo di bloccarle. «Dov'erano le nostre guardie?» domandò Lord Volpe, in tono secco. «Sono state sopraffatte. Quelle creature... erano munite di ferro.» Gettando indietro il capo il fratello di Evandar lanciò un lungo ululato di rabbia e di frustrazione... e all'improvviso Dallandra si rese conto che avrebbe potuto servirsi di lui come di un'arma, a patto che fosse riuscita a impugnarla senza ferirsi. «Oho!» esclamò. «Tu, Muso di Cane! Sei proprio un signore eccellente!» Lord Volpe si girò di scatto e sollevò lo sguardo verso di lei, puntando al tempo stesso la spada nella sua direzione. «Tieni a freno la lingua, cagna, se non vuoi che te la tagli» ingiunse. «Oh, non dubito che lo faresti, perché è facile torturare una donna e un bambino impotenti» ritorse Dallandra, indicando in direzione del paggio. «Suppongo sia un buon metodo per dimenticare la tua sconfitta.» «Ti ho detto di tenere a freno la lingua!» Alle spalle del suo signore, l'araldo levò verso Dallandra le mani giunte, come per implorarla di fermarsi, ma lei lo ignorò. «Hai dimenticato una cosa, vero? Quel corvo che il tuo uomo ha visto non poteva essere Alshandra, non così vicino ad una simile quantità di ferro. Lei non avrebbe mai potuto viaggiare insieme a quell'esercito.» Lord Volpe la fissò a bocca aperta per un momento, esitando. «Questo è vero» ammise infine. «E allora?» «Allora lei dov'è? Senza dubbio si aggira ancora nelle Terre, e sul tuo lato del confine, perché ha giustamente paura di Evandar.» Lord Volpe emise un ringhio e sferrò un calcio al guerriero inginocchiato ai suoi piedi, che gemette ma rimase dov'era. «Non sei in grado di tenere Alshandra fuori del tuo territorio, vero?» insistette Dallandra, assumendo un tono insolente. «Oh, i tuoi confini sono davvero ben protetti se perfino la donna respinta da Evandar può oltrepassare le tue guardie ogni volta che ha voglia di farlo.» Lord Volpe ringhiò e serrò la mano intorno alla spada, coprendosi improvvisamente di un folto pelo e mordendosi il labbro inferiore con denti divenuti zanne, come se fosse intenzionato a trasformarsi in un animale sotto i suoi occhi. «Mio signore!» stridette l'araldo.
Scuotendo il capo Lord Volpe ritrovò il controllo e tornò ad essere quello di sempre, con lineamenti quasi del tutto elfici. «Cagna, tu dimentichi che i suoi guerrieri erano muniti di ferro» sibilò. «È vero, ma come potrebbe Alshandra fare altrettanto?» Il fratello di Evandar esitò di nuovo, colto in contropiede, e Dallandra scoppiò a ridere. «Araldo!» chiamò. «Come ci si sente a servire un vigliacco, capace di minacciare una donna in gabbia ma non di proteggere i suoi stessi confini?» L'araldo la fissò spalancando la sua lunga bocca da rospo ed emettendo un suono gorgogliante, come se stesse inghiottendo delle preghiere, mentre i guerrieri simili ad orsi contemplavano la scena con le zampe appoggiate al muso. Senza preavviso, Lord Volpe sferrò all'araldo un manrovescio così violento da scagliarlo a terra. «Convoca i miei uomini!» ringhiò. «Andiamo a pattugliare i confini.» I suoi guerrieri reagirono con un ululante applauso. «Voi!» proseguì Lord Volpe, girando su se stesso e indicando a turno ciascuno di essi. «Sorvegliate bene il ragazzo e quella vipera; non appena l'esercito si sarà messo in marcia l'araldo verrà a tenervi d'occhio. Dal momento che non ci sarà da parlamentare, vecchio» proseguì rivolto all'araldo, «tu resterai qui, e se al mio ritorno non troverò più i prigionieri affetterò quelle pieghe di carne che hai lungo il collo mentre tu mi implorerai di lasciarti morire.» L'araldo reagì alla minaccia con uno stridio inarticolato che Lord Volpe ignorò nell'afferrarlo per un braccio per issarlo in piedi. «Ti ho detto di convocare i miei uomini!» ripeté, trascinandolo verso la foresta e lasciandosi alle spalle i suoi uomini impegnati a discutere e a imprecare, seccati di dover restare di guardia e di perdere così l'occasione di cavalcare con l'esercito. Fin qui procede tutto bene, pensò intanto Dallandra, ricordando contemporaneamente a se stessa che anche se nelle Terre la notte poteva forse essere prossima nel mondo degli uomini sarebbero potute trascorrere intere settimane prima che il cielo sopra di lei scurisse. Era quindi necessario elaborare al più presto un piano di fuga. Il terzo giorno dell'assedio di Cengarn Jill si alzò all'alba e salì in cima alla torre centrale per rinnovare i sigilli astrali, indugiando poi per un momento a contemplare l'esercito nemico, ormai attestato a qualche centinaio
di metri di distanza dalla città e fuori della portata di tiro degli archi. Al di là di quella fascia di terreno neutrale era possibile vedere alcune guardie che pattugliavano pigramente i confini del campo in sella ai loro enormi cavalli; alle spalle delle sentinelle c'era quindi un tratto di terreno mantenuto sgombro in previsione di possibili combattimenti e più oltre ancora iniziavano le tende, fra le quali si scorgeva un sempre più frequente scintillare di armi e di armature sotto il sole a mano a mano che i soldati cominciavano ad aggirarsi per il campo, probabilmente per andare a prendere le loro razioni, considerato che appena oltre le tende erano disposti alcuni carri, i cavalli di riserva e gli approvvigionamenti. Al di là del proprio campo, il nemico stava intanto cominciando a scavare delle trincee e ad ammucchiare dei terrapieni come difesa contro eventuali soccorsi che la città avesse potuto ricevere, ma a causa del fatto che Cengarn sorgeva su alcune colline in una zona comunque collinare, i Fratelli dei Cavalli si trovavano ad avere una posizione difficile da difendere a causa dell'alternanza di alture e di vallate, e avrebbero impiegato parecchio tempo a creare difese adeguate... o almeno così Jill sperava. Ciò che più la preoccupava, però, era appurare se essi avessero o meno anche difese di tipo magico, cosa che comunque non poteva accertare dall'alto della rocca, da dove riusciva a vedere soltanto vaghe nubi di bagliore purpureo che emanavano da talismani personali del genere portato da Meer e da Carra. Anche se la fortezza sorgeva sulla collina più alta della città, l'irregolare panorama circostante rendeva infatti impossibile vedere l'intero campo nemico e Jill non osava sorvolarlo nella sua forma di falco perché Meer le aveva detto che i Fratelli dei Cavalli erano dotati di archi da caccia e si vantavano della loro abilità nell'usarli. Di conseguenza quella stessa mattina sul tardi si recò insieme a Lord Gavry a fare il giro delle mura cittadine, che ovviamente erano più vicine al campo nemico di quelle della fortezza. Accompagnati da un capitano della milizia, Mallo, i due salirono una scala che portava ai bastioni di legno che descrivevano il perimetro delle mura; notando che Mallo indossava un elmo di ferro ma che per il resto la sua corazza era fatta di cuoio bollito rinforzato qua e là con l'ottone, Jill si rese conto con preoccupazione che quello era il meglio di cui la maggior parte dei difensori cittadini poteva disporre in fatto di armature. Mentre percorrevano lentamente i bastioni, fermandosi di tanto in tanto a sbirciare fra i merli, Jill lasciò che i due uomini rimanessero leggermente indietro rispetto a lei e attivò la propria vista eterica per esaminare con cu-
ra il campo nemico, cercando di ignorare le mura di pietra che le apparivano adesso così nere e morte da darle l'impressione di essere strisciata dentro una grotta. Lungo il lato occidentale, alla base della fortezza vera e propria, non trovò naturalmente nulla di strano, e così pure sul lato settentrionale, dove la città si allargava sulle colline, sovrastando il campo nemico di circa ottocento metri. Il lato orientale le portò risultati più interessanti. Da quella parte le colline settentrionali si snodavano a semicerchio e si protendevano verso la città come un paio di dita di terra, e sempre da quella parte c'era la porta orientale di cui Carra si era servita per rientrare inosservata in città alcune settimane prima. Sulla cima di una di quelle dita di terra, distante circa cinquecento metri dalla città, Jill vide una bolla di pallida luce dorata, contrassegnata ai punti cardinali da macchie scintillanti che ad un'ispezione più ravvicinata si sarebbero di certo rivelate sigilli magici, e nel tornare a fare uso della vista fisica scorse sulla bassa altura alcune forme bianche che sembravano tende e una bandiera rossa che si agitava al vento. «Guardate là!» esclamò, indicando. «Scommetto che in quelle tende sono alloggiate persone di rango, probabilmente il loro cadvridoc e il loro mazrak.» Gavry e Mallo si affrettarono a raggiungere uno spazio fra due merli e a scrutare nella direzione indicata, riparandosi gli occhi con una mano. «Lord Gavry, quando torneremo indietro farai bene a riferire la cosa a sua grazia» proseguì intanto Jill. «Mallo, quanto sono solide le difese di questa porta?» «Questa non è più una porta, buona maga, perché l'abbiamo sigillata in quanto è sempre stata il punto più debole delle difese cittadine. Alcuni fra i nani che sono assediati insieme a noi hanno fornito dei sacchi di una sostanza grigia che suppongo essere magica, perché quando l'abbiamo mescolata all'acqua fino ad ottenere una specie di porridge e l'abbiamo spalmata sulle porte è diventata dura come pietra. Dopo aver sigillato i battenti in questo modo vi abbiamo ammucchiato dietro ghiaia e sassi e abbiamo versato sopra e intorno al tutto una buona quantità di quella sostanza magica, per cui dubito che adesso anche un dio potrebbe aprirsi un varco attraverso la porta orientale.» «Splendido!» approvò Jill. «Questo è un tipo di magia che potrebbe farci comodo utilizzare ancora.»
Mentre i due uomini scoppiavano in una risata peraltro permeata di disagio, Jill tornò a focalizzare la propria vista sul piano dell'eterico e riprese a camminare, soffermandosi ogni pochi passi per scrutare il campo nemico. Nel quadrante che andava dalle tende protette dalla sfera dorata fino alla porta meridionale trovò una quantità sempre maggiore di tracce di magia, sotto forma di scintillii purpurei e di scie di un rosso più chiaro prodotte da talismani di un tipo diverso. Lei e i suoi due compagni erano quasi arrivati alla porta meridionale quando Jill scorse quelle che sembravano essere tre colonne o tre sottili torri di luce nera, per quanto una simile descrizione potesse apparire inimmaginabile: era come se enormi raggi di luce fossero stati tramutati in oscurità percepibile, lucida come l'ossidiana che giungeva dalle lontane montagne di fuoco del nord e tanto alta da arrivare ad una decina di metri da terra. «C'è qualcosa che non va!» esclamò, sentendo il gelido tocco di un avvertimento del dweomer che le scorreva lungo la schiena. «Mallo, gli uomini sono sul chi vive?» «Sì, mia signora» rispose il capitano, battendo un colpetto su un corno d'argento che gli pendeva dalla cintura. «Tutto quello che devo fare è dare loro il segnale.» Jill riprese a camminare con passo un po' più rapido, mentre le tracce di dweomer presenti nel campo nemico si facevano più luminose e raggruppate. Arrivata alle torri che sovrastavano le porte principali, quelle meridionali, trovò là quattro uomini della banda di guerra del gwerbret, in cotta di maglia e muniti di archi da caccia, che stavano guardando al di là dei merli nel discutere fra loro di qualcosa che vedevano all'esterno. Riportata la propria vista sul piano fisico Jill guardò a sua volta e si accorse che nel campo dei Fratelli dei Cavalli era in corso un'attività di qualche tipo che provocava un notevole sollevarsi di polvere. «Mallo!» gridò. «Suona l'allarme!» Simili ad uccelli, le note argentine del corno si librarono su Cengarn. Giù nelle strade gli uomini gridarono, le guardie cittadine si precipitarono verso le scale dei bastioni, le donne lanciarono strilli allarmati e afferrarono i figli per allontanarsi con loro dalle mura e dirigersi verso la relativa sicurezza del cuore della città. Alla rocca un altro corno lanciò il proprio richiamo di risposta, indicando che gli uomini del gwerbret sarebbero venuti a rinforzare le difese delle mura esterne non appena si fossero armati. «Gavry, scendi dai bastioni!» ordinò intanto Jill. «Qui sarai soltanto d'impaccio.»
L'anziano ciambellano fu lieto di obbedire al suo ordine e si affrettò a scendere la scala e ad incamminarsi verso la fortezza. Trovato un punto in cui poteva addossarsi alla parete di una torre e non essere d'intralcio a nessuno, Jill tornò a scrutare intorno a sé con la vista eterica, scoprendo che i pilastri di luce nera si erano fatti più vicini. «Torri d'assedio!» gridò. «Le hanno, ma sono nascoste dal dweomer!» Un istante dopo sentì Mallo ordinare di accendere dei fuochi e di lì a poco avvertì l'aroma della legna che bruciava misto al sentore nauseante della pece che fondeva. Per un momento prese in considerazione la possibilità di cercare di annullare l'incantesimo che proteggeva le torri, ma poi ritenne che sarebbe stato meglio guidare la mira degli arcieri e lasciare che i nemici si chiedessero in che modo fossero state aggirate le loro difese magiche. Guardando verso il basso studiò la conformazione del terreno, poi tornò a fissare le torri di luce nera per memorizzare la loro posizione; quanto alle diverse squadre di guerrieri nemici, esse erano facilmente individuabili grazie al chiarore delle aure e dei talismani. «Subito dietro quei cinque nobili a cavallo» segnalò. «Puntate al di là delle file di fanti che li precedono e mirate un punto a circa un metro e mezzo dai cinque a cavallo, poi alzate la mira di circa tre metri da terra.» La prima raffica di frecce incendiarie partì accompagnata da un sibilo e da un puzzo di fumo, poi Jill sentì i Fratelli dei Cavalli levare grida di rabbia ma mantenne la vista concentrata sull'eterico... il piano effettivo su cui si stava combattendo quella strana battaglia. «Un po' più a sinistra!» urlò. La seconda raffica di frecce partì dalle mura ed una delle colonne di luce nera esplose per poi dissolversi in un fluire di pure energie elementari, il rosso e l'oro del fuoco naturale; intanto le frecce residue si abbatterono sull'esercito che circondava la torre, e urla di dolore cominciarono a mescolarsi alle grida di guerra mentre le squadre nemiche colte alla sprovvista si agitavano in preda alla confusione nel tentativo di trovare una certa misura di ordine e di lanciarsi alla carica. «L'abbiamo centrata!» esclamarono intanto le guardie. «Ce ne sono altre due» avvertì Jill. «Spostate la mira verso destra, al di là degli uomini che reggono quel... per gli dèi, hanno anche un ariete! Mirate oltre gli uomini con l'ariete, un metro e mezzo più indietro e alla stessa altezza dell'ultima scarica.» Questa volta la prima raffica raggiunse subito il bersaglio e un'altra colonna nera scomparve, mutandosi in semplice fuoco. In basso intanto i
nemici si lanciarono alla carica e vennero accolti da una pioggia di pietre, in quanto in questa fase iniziale dell'assedio i difensori avrebbero fatto affidamento sulla protezione delle mura e delle porte in modo da non impoverire le loro scorte di armi. Localizzata con precisione anche la terza torre, Jill ordinò una nuova raffica di frecce che andarono a loro volta a segno, incendiando la costruzione. Dalle mura di Cengarn si levarono le risa e le beffe dei difensori mentre i soldati che reggevano l'ariete sferravano senza troppo vigore un colpo contro le porte e si ritiravano sotto la protezione dei loro arcieri, il cui tiro ebbe l'effetto di stroncare sul nascere le risa dei difensori. Jill si lasciò cadere al riparo di un merlo appena in tempo, accompagnata da un'imprecazione soffocata che giunse da poco lontano, emessa da una delle guardie che aveva aspettato troppo a mettersi al sicuro. Riportando in fretta la vista sul piano fisico Jill s'inginocchiò e strisciò fino all'uomo in questione che però era già morto con il collo trapassato da una freccia. Tutto ciò che poté fare per lui fu chiudergli gli occhi mentre Mallo la raggiungeva strisciando e si lasciava sfuggire un'imprecazione alla vista del cadavere. «Abbiamo respinto quei bastardi» disse al morto, come se potesse sentirlo. «Non hai perso la vita invano, ragazzo.» Poi lanciò un'occhiata a Jill e aggiunse: «È il primo vero? E purtroppo non sarà l'ultimo.» Annuendo Jill si alzò in piedi e si arrischiò a guardare fuori fra due merli, constatando che il nemico si era ritirato e aveva lasciato le torri che bruciavano come immani torce sul tratto di terreno neutrale, pur portando via i morti e i feriti. «Benissimo» commentò, guardando il fumo nero che saliva a contaminare il cielo. «Abbiamo piantato loro in corpo un artiglio e adesso dovranno riflettere per qualche tempo prima di correre il rischio di avvertire l'impatto di tutta la zampa.» Nello stesso momento in cui i Fratelli dei Cavalli lanciavano il loro attacco destinato a fallire, nelle sue terre Evandar era intento ad ascoltare gli arpisti cantare un paio di canzoni, ma per quanto la musica fosse dolce non riusciva a concentrarsi su di essa e all'improvviso balzò in piedi con un'imprecazione. «Lasciatemi solo! Prendete quegli striduli strumenti e andate via!» Con piccole grida di terrore i suonatori si strinsero al petto l'arpa e lasciarono a precipizio il padiglione mentre Evandar prendeva a camminare
avanti e indietro, chiedendosi perché Dallandra impiegasse tanto tempo a tornare. In genere lei avvertiva i suoi umori e si affrettava ad accorrere da lui ogni volta che desiderava averla accanto, quindi perché adesso stava indugiando tanto nel mondo degli uomini? Gli aveva promesso che sarebbe tornata presto e voleva che lo facesse. Alla fine uscì a passeggiare sui curati prati verdi che di solito avevano l'effetto di rilassarlo, perché li aveva creati sul modello dei giardini reali della perduta città elfica di Rinbaladelan e gli ricordavano quindi tempi più felici. Anche lì non riuscì però a trovare la tranquillità che cercava perché venne distratto da un improvviso frullare di ali accompagnato da strida di uccelli, e nel sollevare lo sguardo vide uno stormo di volatili dai colori vivaci... cacatua, macai, pappagalli dalle ali smeraldine... che stava volando verso il padiglione. Nel posarsi sull'erba gli uccelli si trasformarono in donne dai fruscianti abiti di seta che si diressero in fretta verso di lui guidate dalla principessa della notte. «Allora, cosa succede?» scattò Evandar. «Cosa c'è che non va?» «L'abbiamo vista, l'abbiamo vista» gridarono le donne, all'unisono. «Poi sono arrivati gli uomini, pelosi e crudeli, con pezzi di ferro attaccati al corpo, che guidavano cavalli che puzzavano di ferro.» «Chi avete visto?» «Alshandra, Alshandra» stridettero le donne, danzando tutt'intorno e ciangottando in coro finché Evandar non impose loro di tacere. Infine la principessa della notte ritrovò la propria compostezza ed eseguì un inchino. «Mio signore» disse, finalmente calma, «mentre danzavamo abbiamo sentito un grande rombo, come se la terra stesse per spaccarsi, quindi ci siamo mutate in uccelli e abbiamo spiccato il volo... proprio nel momento in cui un esercito cominciava ad emergere dalla nebbia, guidato da un enorme corvo. Non appena ci ha viste, il corvo ha lanciato uno stridio e ci ha attaccate, beccando e artigliando finché siamo fuggite. Quando siamo tornate indietro facendo un largo giro, l'esercito vasto come un fiume stava ancora marciando, e gli uomini che lo componevano e i loro cavalli hanno continuato a passare sotto di noi molto tempo dopo che il corvo si è allontanato.» «E non erano i guerrieri di mio fratello?» «No, mio signore, perché erano muniti di ferro. Non erano neppure uomini o elfi, ma creature brutte, pelose ed enormi, con strani disegni incisi
sulla pelle della faccia. Anche i loro cavalli erano enormi e pesanti, con gli zoccoli frangiati... noi non avevamo mai visto nulla di simile.» «Questo esercito è ancora qui a violare i nostri confini e a contaminare le mie terre con il suo passaggio?» «No, mio signore, perché si è addentrato in un'altra nebbia ed è scomparso.» Per un lungo momento Evandar rimase immobile per lo sconcerto, perché non aveva idea di cosa tutto questo potesse significare. «Per gli dèi» scattò quindi. «Lei ha scelto di scomparire proprio quando ho maggiore bisogno della sua presenza! Mi riferisco a Dalla, che sta passando il suo tempo nelle terre degli uomini!» «Lei non è là, mio signore. L'abbiamo vista poco prima che arrivasse quell'esercito.» «Cosa? Dov'era?» «Qui, mio signore» replicò la principessa della notte, agitando un braccio snello in direzione della collina e del giardino di Dalla. «Ha detto che ti stava aspettando.» Evandar si trovò senza parole per la seconda volta, e nel frattempo le donne si allontanarono un po' per volta, sagome che tremolavano e si riformavano nel dirigersi verso il vicino padiglione. Soltanto la principessa della notte rimase dove si trovava, nitida e concreta, in attesa di una risposta. «Ancora una cosa, prima che vada» le disse Evandar, alzando una mano per evocare il suo corno d'argento. «Sei certa che quel corvo fosse Alshandra? Prima d'ora lei non aveva mai assunto quella forma.» «Se non era lei, non so chi potesse essere. C'è un'altra cosa strana, mio signore: quei mostri avevano addosso tanto ferro che le terre si sono fatte strane e vitree intorno a loro, gli alberi sono parsi bruciare e l'erba sciogliersi, ma il corvo ha continuato a volare con loro e sopra di loro senza emettere neppure un grido di dolore.» «Allora non era Alshandra. Per tutti quegli inferni di cui parlano gli uomini! Mi chiedo se quella megera di mia moglie abbia fatto del male a Dallandra. Ritengo che sia meglio indagare sull'accaduto... hai detto che è successo fra i lillà? D'accordo, andremo a controllare.» Sollevato il corno ne trasse uno squillo in risposta al quale la sua corte gli si raccolse subito intorno, spadaccini e arcieri che preparavano i cavalli, si affibbiavano l'armatura e levavano grida di guerra, pervasi di un'ira gelida e letale quanto la piena di un fiume invernale.
«Al confine!» esclamò Evandar. «E se quel bastardo di mio fratello cercherà di impedirci il passaggio questo è il giorno in cui vedrò la sua testa in cima ad una picca.» La Corte Luminosa si mise in marcia fra uno scroscio di risa di approvazione, intonando canti di vendetta accompagnati dal tintinnare dei finimenti e dallo scintillare di armi e armature d'argento sotto la luce del sole. Mentre attraversavano le vaste pianure erbose Evandar visualizzò un enorme corno per bere in argento che si levò davanti e sopra di lui e servì per riversare tutt'intorno luce e sostanza vitale, in modo che per mezzo suo le Terre ritrovassero solidità, che la loro forma venisse riempita di energia e di un'illusione di vita... gli alberi, i fiori, i fiumi e perfino le immagini di lontane città erano tutte cose generate dalla sua mente e vivificate da questo sforzo. Quando vide profilarsi davanti a lui la cupa foresta che segnava il confine, Evandar smise però di operare il dweomer e si concentrò sul compito per cui era venuto. Ricavando una lunga nota dal suo corno d'argento fece arrestare l'esercito sulla pianura erbosa, e mentre gli esseri più effimeri e impalpabili si muovevano confusamente intorno a lui, quanti erano dotati di una vera mente gli si fecero accanto per ascoltare e fornire consigli, affiancando i loro cavalli al suo stallone dorato. «Dove pensate che possa essere Alshandra?» domandò Evandar. «Lei ha sempre detestato le foreste, mio signore.» «E ha sempre disprezzato anche le città.» «Amava i fiumi e i laghi argentei.» «E i fiori e i boschetti dove fioriscono i lillà.» «Secondo me non è in nessuno di questi luoghi, mio signore, ma si sta nascondendo nelle terre di tuo fratello perché ti teme.» Quell'ultima supposizione venne da un guerriero i cui capelli erano gialli quanto quelli di Evandar, anche se gli occhi erano di un azzurro molto cupo e le sue forme erano più umane che elfiche. «Hai un nome?» gli chiese Evandar. «No, mio signore.» «Allora sceglitene uno perché oggi te lo sei guadagnato. Anch'io la penso come lui, miei signori e vassalli. Andiamo sulla piana della battaglia.» Mentre nelle Terre si stava diffondendo la notizia del passaggio dell'esercito di Alshandra, a Cengarn stava iniziando la settima notte di assedio. Lunghi giorni di pioggia intermittente e di vento avevano reso la città umi-
da e fangosa, anche se quanti erano accampati in essa potevano trarre un certo piacere dalla consapevolezza che gli assedianti erano di certo molto più bagnati di loro. Nella sua protetta alcova nella sala delle donne, Carra stava trascorrendo notti insonni osservando la pioggia che cadeva oppure contemplando la luna crescente nei rari momenti in cui il cielo si schiariva. Ogni giorno Jill veniva parecchie volte a trovarla per riferirle che aveva evocato l'immagine di Dar, che stava procedendo senza rischi verso sud con gli uomini che gli erano rimasti, ma per quanto fosse lieta di quelle notizie Carra non poteva evitare di pensare agli elfi che erano morti, a quegli avvenenti giovani arcieri che costituivano la scorta di Dar, perché anche se non aveva fatto in tempo a imparare a conoscerli bene il fatto stesso che avessero perso la vita per causa sua la induceva a piangere la loro scomparsa come quella di un fratello. «Ecco, a dire il vero mi addolora ancora di più di quanto lo avrebbe fatto la morte di mio fratello» commentò con Yraen. «Lo odiavo terribilmente, perché per lui avevo meno importanza di uno dei suoi cani.» Lui si limitò ad annuire, come spesso faceva in risposta ai suoi commenti. Quella mattina erano seduti nell'orto retrostante le cucine perché Carra aveva avvertito il disperato bisogno di uscire a prendere un po' di sole e quello era stato il solo posto ragionevolmente isolato che fossero riusciti a trovare. Yraen aveva procurato a Carra una panca zoppicante che aveva addossato al muro della fortezza, in modo che lei potesse sedere con le spalle appoggiate alla pietra; quanto a lui, si era sistemato per terra ai suoi piedi, con le spalle addossate alla panca e le lunghe braccia strette intorno alle ginocchia. Sotto il sole caldo le colture dell'orto esalavano un misto di aromi acuti, speziati e dolci, e l'aria sonnolenta era solcata dal ronzare delle api; l'atmosfera era così tranquilla che a tratti Carra aveva il sospetto che Yraen si fosse addormentato, ma ogni volta che si girava a guardarlo lui incontrava il suo sguardo come se si stesse aspettando una richiesta o un ordine di qualche tipo, un atteggiamento che più di una volta aveva già indotto Carra a prendere in considerazione l'ipotesi di chiedere a Jill un'altra guardia, sebbene si fosse sempre trattenuta dal farlo perché sapeva che Jill avrebbe voluto conoscere il motivo di quella richiesta e Yraen si sarebbe sentito umiliato. Se fosse stata davvero una principessa di uno dei grandi clan di Deverry, Carra non avrebbe certo dato il minimo peso ai sentimenti di una guardia, ma in un angolo della sua mente lei era sempre consapevole che aveva fi-
nito per sposare un principe per puro caso... senza contare che se i pettegolezzi appresi da Otho erano veri, il rango di Yraen doveva essere più o meno pari al suo. Nel girarsi per l'ennesima volta a guardare verso di lui, lo sorprese a osservare il suo volto e prima di potersi controllare si coprì di rossore. «Dovresti dormire maggiormente» osservò d'un tratto Yraen. «Hai gli occhi cerchiati di nero.» «Oh, ma come posso dormire quando sono preoccupata per Dar e per tutta la città? A volte di notte passeggio lungo il perimetro della sala delle donne, e quando arrivo ad una delle finestre che permette di vedere al di là delle mura mi fermo a guardare i piccoli fuochi dell'accampamento nemico e... ecco, a volte penso che dovrei andare a consegnarmi a quelle creature e lasciare che mi uccidano, perché allora se ne andrebbero e tutti sarebbero al sicuro.» Yraen si girò di scatto e le afferrò il polso con tanta forza da strapparle un grido. «Non ci pensare neppure. Oh, dèi, se avessi il dubbio che tu potessi fare una cosa del genere lo direi a Jill e ti farei chiudere a chiave nella tua stanza.» «Credi che non abbia onore e che non provi vergogna?» ritorse Carra, liberandosi con uno strattone. «Hai mai visto una città patire la fame, Yraen? L'hai mai vista? Io sì, e preferisco morire che essere responsabile di una cosa del genere.» Mentre Yraen la fissava a bocca aperta, Carra si costrinse a ricacciare indietro le lacrime, sorpresa al tempo stesso dell'intensità con cui i ricordi la stavano assalendo, troppo vividi perché potesse bandirli. «È successo molto tempo fa, quando ero soltanto una bambina. Quell'anno l'inverno è arrivato in anticipo e ha rovinato il raccolto... non si è trattato di un assedio o di una guerra, soltanto della volontà degli dèi, e quando infine la neve si è sciolta ci rimaneva a stento una manciata di orzo marcio... niente di più, né per i nobili né per i contadini, e neppure per il Sommo Re, se si fosse trovato a passare da quelle parti. Ricordo di aver avuto fame, ne avevamo tutti al punto che riuscivamo a pensare soltanto al cibo, ogni giorno, mentre aspettavamo che il grano crescesse e maturasse abbastanza da permetterci almeno di ricavarne del porridge. Mio padre e mio fratello cercavano di pescare e di intrappolare qualche uccello, e anche se mi veniva da piangere a mangiare rondini e passeri lo facevo comunque. Nel villaggio una vecchia si è lasciata morire di fame per dare il poco cibo
che aveva al suo nipotino, ma appena una settimana dopo che lei è morta il bambino ha contratto una febbre ed è morto a sua volta, rendendo vano il suo sacrificio. E adesso ci sono un'intera fortezza, una città e gli abitanti dei dintorni che stanno rischiando questo o anche di peggio... per gli dèi. non capisci?» esclamò, scoppiando infine in pianto sotto il peso dei ricordi. «Sarebbe meglio che mi consegnaste e la faceste finita, perché preferisco morire che provocare una cosa dei genere!» Sentì le braccia di Yraen che la circondavano e la stringevano contro il suo petto mentre lei singhiozzava, affranta. Yraen aveva un odore così familiare, così uguale a quello di tutti gli uomini che aveva conosciuto... un misto di cavalli, di sudore e di fumo di legna... che per un momento Carra poté fingere che fosse Dar ad abbracciarla e si trovò a desiderare e a pregare che quando avesse aperto gli occhi un intervento del dweomer avesse mutato Yraen in Dar, anche se alla fine si costrinse a respingerlo insieme a quel conforto di cui aveva tanto bisogno. «Mi dispiace, Yraen» balbettò. «Non dovrei opprimerti con questi cupi pensieri.» Nel guardarlo in volto rimase sconvolta nel vedere che i suoi occhi erano velati di lacrime e per mascherare l'imbarazzo prese ad armeggiare alla ricerca del fazzoletto, soffiandosi il naso mentre lui si limitava a osservarla immobile e silenzioso. «Allora, riesci a capire?» domandò infine Carra, non sapendo che altro dire. «Sì» rispose lui, con voce incrinata. «Io... ecco... non ho mai conosciuto una donna che fosse più adatta di te ad essere una principessa.» Per un momento Carra s'irritò che lui potesse farle dei complimenti per quello che ai suoi occhi era soltanto un dovere da assolvere, poi si accorse che Yraen era sincero e arrossì, distogliendo lo sguardo. «Ti ringrazio» mormorò, asciugandosi il volto umido con una manica. «Mi dispiace di aver pianto come un vitello.» Yraen reagì con uno di quei suoi sorrisi appena accennati, poi si rimise a sedere per terra ai suoi piedi e nessuno dei due aprì più bocca finché Carra decise che era arrivato il momento di rientrare. L'indomani mattina sul tardi Jill era seduta nella grande sala insieme al Gwerbret Cadmar e a Lord Gwinardd quando Draudd entrò a precipizio, con la cotta di maglia indosso e con l'elmo sotto il braccio perché proveniente dal servizio di guardia, e s'inginocchiò davanti al suo signore così in
fretta che scivolò sulle canne e andò quasi a sbattere contro i piedi di Cadmar. «Vostra Grazia!» balbettò. «Abbiamo avvistato alcuni cavalieri che potrebbero fare parte delle forze dei tuoi alleati.» «Una splendida notizia, ragazzo. Adesso che ne diresti di raccontare tutto dall'inizio?» «Chiedo scusa, Vostra Grazia. Ero di guardia in cima alla torre principale insieme ad altri due uomini quando abbiamo visto in lontananza due cavalieri sopraggiungere da sud... guerrieri, perché da come il sole scintillava su di loro era evidente che indossavano una cotta di maglia. Quando sono arrivati sulla cresta di una collina si sono soffermati per un momento e poi sono tornati da dove erano venuti galoppando come se gli inferni si stessero aprendo sotto di loro.» «I nostri nemici hanno mandato qualcuno ad inseguirli?» «No, Vostra Grazia. Prima di venire ad avvertirti abbiamo aspettato per essere certi che non lo facessero.» «Bene» approvò Cadmar, poi incontrò lo sguardo di Gwinardd e aggiunse: «Probabilmente erano messaggeri del Gwerbret Pedrys... li aspettavo più o meno in questi giorni.» «Così pare, Vostra Grazia» annuì Gwinardd, concedendosi un fugace sorriso. «In tal caso adesso i nostri alleati sanno a cosa si trovano di fronte.» «Esatto, e pensarlo mi rallegra il cuore» replicò il gwerbret, poi si girò verso Jill e proseguì: «Quando ho mandato i messaggi ai miei alleati non avevo idea di quanto sarebbe stato grosso questo esercito. Qui siamo sul confine, queste terre sono ancora in buona parte selvagge e non ci sono molti uomini da utilizzare per le bande di guerra, quindi temo che Pedrys e Madoc impiegheranno parecchio tempo a radunare un esercito in grado di tenere testa a questo.» «Capisco, Vostra Grazia, e chiedo scusa per non aver dato l'allarme prima.» «Per gli dèi, vuoi smetterla di sentirti in colpa?» esclamò Cadmar, sorridendo per attenuare la durezza delle sue parole. «Tu non hai nessuna colpa, Jill, ed è stato grazie a te che siamo riusciti a rinforzare la nostra posizione almeno in certa misura.» Pur sapendo a livello razionale che il gwerbret aveva ragione, dentro di sé Jill continuò comunque a rimproverarsi per non aver scorto la verità con maggiore anticipo e non aver fatto qualcosa... qualsiasi cosa, anche se non
aveva idea di ciò che avrebbe potuto essere... per fermare l'esercito di Alshandra. Quella sera quando salì nella sua stanza si soffermò a guardare fuori della finestra il cortile buio e la città che si allargava al di là di esso, cercando di escogitare un modo per combattere il nemico con il dweomer e trovandosi a dover accantonare un piano dopo l'altro per motivi di prudenza. Per esempio avrebbe potuto con facilità appiccare il fuoco alle tende del nemico, ma se il maestro del dweomer avversario lo avesse estinto il morale dei Fratelli dei Cavalli ne sarebbe uscito rafforzato e quello della gente di Cengarn ne avrebbe sofferto. Ciò che lei avrebbe veramente desiderato era sfidare direttamente il mazrak nemico ad un combattimento, ma se fosse stata sconfitta avrebbe lasciato la città priva di qualsiasi difesa magica, e alla fine dovette riconoscere che non le restava che seguire il consiglio da lei stessa dato a Carra e rassegnarsi ad attendere. Quell'idea la contrariava a tal punto che quando qualcuno bussò alla porta si girò di scatto e rispose urlando. «Per tutti gli inferni, chi diavolo è?» ringhiò. Guardandosi intorno come se temesse di vedere delle daghe solcare l'aria nella sua direzione, Yraen oltrepassò la soglia ma rimase vicino alla porta. «Chiedo scusa. Mi stavo chiedendo se tu avessi qualche... er... qualche notizia di Rhodry, se sai come sta e così via» balbettò. «Non ne ho la minima idea» ribatté Jill, secca, e vedendo che Yraen la stava fissando con espressione interdetta aggiunse: «Ti chiedo scusa, ragazzo, ma non posso operare miracoli, posso soltanto seguire le dannate leggi del dweomer e non ho idea di dove Rhodry possa o non possa essere, quindi perché non esci di qui e mi lasci in pace?» Yraen fuggì letteralmente dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle, e una volta rimasta sola Jill sferrò alla gamba del tavolo un calcio così violento da farlo tremare e da indurre i membri del Popolo Fatato a sparpagliarsi come se fossero stati dei polli terrorizzati. Ringhiando anche contro di loro, Jill tornò alla finestra e scivolò di nuovo nelle sue cupe riflessioni. Nella grande sala di Haen Marn Garin, Mic e Otho oziavano intorno ad un tavolo, impegnati in una delle loro perenni partite a dadi, anche se adesso il loro interesse per quel passatempo sembrava notevolmente diminuito. Mic se ne stava appoggiato su un gomito e stava tracciando piccoli disegni sul tavolo con un pezzo di carbone mentre Otho e Garin tiravano a turno i dadi senza neppure scambiarsi un ringhio o un insulto. Appoggiato allo
stipite della porta, sotto il sole, Rhodry era intento ad osservarli sbadigliando di tanto in tanto. «Vuoi sederti o andare via?» scattò d'un tratto Otho. «Mi fa impazzire vederti startene là in quel modo per ore.» «Oh, taci!» esclamò Garin. «Abbiamo tutti i nervi tesi per via di quest'attesa, ma non c'è bisogno di rendere le cose peggiori.» Mentre Otho si limitava ad un ringhio inarticolato, Rhodry cercò di trovare una soluzione di compromesso e dopo essersi versato un boccale di birra da una botte aperta si andò a sedere accanto a Garin. «Hai voglia di giocare con noi?» domandò questi. «No, grazie.» «Hah!» commentò Otho. «Ha trovato altri modi per divertirsi. Era prevedibile che fra tutti noi sarebbe stato proprio l'elfo a sedurre la padrona di casa.» Rhodry gli scagliò in pieno volto la birra appena attinta e quando il vecchio nano scattò in piedi con uno strillo sbatté con violenza il boccale vuoto sul tavolo. «Di' quello che vuoi sul mio conto» ringhiò, «ma evita di pronunciare il suo nome.» Prima che Garin potesse fermarlo si alzò quindi dalla panca e aggirò a grandi passi il tavolo mentre Otho prendeva ad indietreggiare fino a venirsi a trovare con le spalle contro il muro. «Chiedo scusa!» gemette, quando Rhodry lo raggiunse e lo afferrò per la camicia, sollevandolo da terra. «Non intendevo insultare la dama.» «Soltanto me, vero?» rise Rhodry, poi lo lasciò andare e lo posò con gentilezza al suolo, asciugandogli qualche goccia di birra dalla faccia con il dorso della mano e commentando: «È meglio che tu vada a lavarti la barba, Otho, amico mio, perché puzza di birra.» Otho lasciò a precipizio la grande sala, seguito da Mic, e Rhodry tornò a sedersi di fronte a Garin, rivolgendogli un radioso sorriso. «Tu sei pazzo, Rori. Lo sai?» «Tutti i berserker sono pazzi. È una cosa che a volte torna utile.» «Quanto a questo non ne ho idea, però devo ammettere che il vecchio se l'è meritato. Ti sta tormentando da settimane.» «A dire il vero sono anni, fin dal giorno in cui ci siamo incontrati. Naturalmente non ricordo tutto con esattezza, ma credo che mi abbia rivolto il primo insulto quando ancora non sapeva neppure il mio nome.»
Con un sospiro Garin si alzò e prese i boccali, andando a riempirli alla botte, e per qualche momento bevvero entrambi immersi in un rilassato silenzio. «In realtà Otho è stato esiliato proprio a causa di quella sua lingua tagliente» affermò d"un tratto Garin. «L'accusa ufficiale è stata il mancato pagamento dei suoi debiti, ma in realtà lui ha mostrato verso i giudici... ah, vogliamo dire che è stato meno che rispettoso?» «Conoscendolo non fatico a crederlo. Dimmi una cosa, la mia signora rischia di rimanere danneggiata per causa mia?» «Perché dovrebbe? È una vedova ed è anche la signora di Haen Marn, e se sceglie di avere di notte qualcuno che le scaldi il letto chi può avere da ridire?» «Ecco, le cose sono un po' diverse nella mia terra.» «È vero, ma qui non siamo in Deverry, giusto?» sorrise Garin. «In effetti no.» «Mi chiedo perché Enj tardi tanto ad arrivare» osservò Garin, dopo qualche momento. «Ho la strana sensazione che lo stia facendo di proposito, il che è strano perché i servitori hanno confermato tutti ciò che io ho pensato fin dall'inizio e cioè che lui sarà più che felice di partecipare a questa caccia.» «Ottimo, ma se non sa neppure che noi siamo qui...» obiettò Rhodry. Garin si limitò a fissarlo marcando un sopracciglio. «Credi che lo sappia?» «Qui siamo ad Haen Marn, Rori, e la signora e i suoi figli non sono quelle che definirei persone comuni, giusto?» «Ecco, questo è vero. Dunque, vediamo, noi siamo arrivati qui poco prima che la luna diventasse piena, poi è passata nella fase oscura e adesso a che punto è?» «Ieri notte è finito il primo quarto della fase crescente» replicò Garin, fissando improvvisamente il proprio boccale e lottando per reprimere un sorriso. «Senza dubbio sei stato troppo occupato per accorgertene.» Rhodry mimò per scherzo l'atto di sferrargli un pugno. «Comunque sia» proseguì Garin, con un certa dignità, «l'estate sta passando e se non partirai al più presto non ti sarà facile arrivare sul Tetto del Mondo, considerato che non è certo un viaggio breve.» «Hai ragione. Bene, ora andrò a cercare Angmar. Di solito a quest'ora è nella torre.»
Come aveva supposto, trovò Angmar insieme a sua figlia. Quel giorno era riuscita a persuadere Avain a posare il bacile sul tavolo e a sedere sulla sedia e aveva preso posto di fronte a lei. Appoggiandosi ad una parete, Rhodry indugiò a contemplare quelle due teste bionde illuminate dal sole, una tanto forte e l'altra così vulnerabile ad ogni capriccio malvagio di un mondo che non sarebbe mai riuscita a comprendere. Al sicuro sotto la protezione materna Avain era così solare e amorevole che era difficile non volerle bene, tanto che perfino l'acida serva personale di Angmar aveva sempre un sorriso per lei quando veniva alla torre per aiutare a svolgere qualche lavoro. «Prima o poi riuscirà a vedere anche Enj» disse Angmar. «Non è possibile metterle fretta e a volte dubito che lei possa scegliere cosa vedere nel suo bacile.» «Probabilmente non ha scelta.» Rhodry ebbe per un momento la sensazione che Angmar stesse rimandando la sua partenza per motivi personali, e pur non sentendosi di biasimarla questo lo portò a vagliare anche il proprio stato d'animo e a interrogarsi in merito alla sua crescente riluttanza ad addossarsi il fardello del proprio Wyrd. D'un tratto Avain cominciò a parlare in un succedersi di frasi frammentarie e Angmar si accigliò nel tentativo di decifrarne il senso. «Questo è strano. Ha detto che nella città degli uomini, quella città dalle molte torri dove ti ha visto per la prima volta, c'è una donna che ti sta cercando e che è contrariata per la tua assenza. Si tratta di una donna molto fragile e snella, con i capelli bianchi. È tua madre, Rori?» «No» rise Rhodry. «è la maestra del dweomer che mi ha imposto il geas di trovare il drago.» Quando le venne riferita quella notizia Avain ridacchiò e cominciò a piegare ripetutamente la testa ora a destra ora a sinistra in una specie di danza finché sua madre non la fece smettere premendole con gentilezza una mano contro la guancia. Abbassando di nuovo lo sguardo la ragazza tornò quindi a fissare il bacile, agitandolo di tanto in tanto per produrre delle onde, poi lanciò un grido improvviso e prese a parlare così in fretta che Angmar ebbe difficoltà a decifrare ciò che stava dicendo. Alla fine però riuscì a dare un senso a quel flusso di parole e impallidì nel sollevare lo sguardo. «Rori, la città dove vive quella maestra del dweomer è sotto assedio. Un enorme esercito è accampato intorno ad esso e quei guerrieri non sono né
umani né gente del Popolo della Montagna ma esseri strani che lei fatica a descrivere. Continua soltanto a ripetere che sono pelosi, grossi e pelosi.» Rhodry reagì con un grugnito perché quella notizia gli aveva causato un dolore quasi fisico e stava destando in lui un impeto d'ira che lo indusse ad allontanarsi dal muro e a inarcarsi come l'arco di Dar. Quando la sua reazione strappò un grido ad Avain si costrinse però a calmarsi e ad allentare i pugni; esalando il respiro con un sussulto, s'inginocchiò quindi accanto alla ragazza e le sorrise. «Ti ringrazio» le disse. «Non ti preoccupare.» Il suo tono e il suo sorriso la fecero tornare rilassata e serena, e dopo che Angmar le ebbe parlato con dolcezza per qualche momento lei tornò a fissare il bacile mormorando il nome di Enj. «È meglio che andiamo via» affermò allora Angmar, rivolta a Rhodry. «Con te qui finirà per vedere ancora l'assedio ed io non lo voglio.» «Neppure io, mia signora» annuì Rhodry. Scesa la scala della torre attese quindi Angmar all'esterno, fissando il lago e le colline circostanti senza vederli veramente; quando lei lo ebbe raggiunto si avviarono insieme verso la spiaggia senza dire una sola parola e sostarono uno accanto all'altra a osservare le onde che si riversavano sulla sabbia mentre il vento soffiava intorno ad Haen Marn con la malinconia di un canto funebre. «Ci lascerai immediatamente?» domandò infine Angmar. «Per tornare a Cengarn, intendi? A cosa servirebbe una spada in più contro un esercito? Il signore di quella città ha potenti alleati che senza dubbio accorreranno in suo aiuto con tutti gli uomini che riusciranno a radunare. Posso anche sbagliarmi, ma ritengo che per me la cosa migliore da fare sia portare a termine il mio geas. Del resto» aggiunse con un'improvvisa risata che conteneva una sfumatura del suo ululato berserker, «dubito che il dweomer mi permetterebbe di fare altrimenti.» «Mi ero chiesta cosa volessi fare perché mi hai parlato spesso degli amici che hai in quella città.» «Il cuore mi duole a saperli intrappolati laggiù, perché un assedio è una cosa terribile.» «Così ho sentito dire da mia madre, che aveva avuto modo di sperimentarne uno e me ne parlava spesso, quando era in una delle sue crisi di depressione e piangeva di nostalgia della sua terra natale.» «Tua madre apparteneva al Popolo della Montagna?»
«No. Sono stati loro a pretenderla come tributo, quando la sua città si è arresa.» Rhodry si girò di scatto a fissarla con un'espressione sorpresa a cui lei reagì con un asciutto sorriso. «L'Ambasciatore Garin è un brav'uomo e fra la sua gente ci sono molte brave persone, ma il Popolo della Montagna ama covare i suoi rancori e parlare di come sia stato oppresso dal popolo di mia madre, dal nostro popolo, Rori. Io ritengo però che in certe cose la responsabilità non sia mai da una parte sola e che non tutte le ingiustizie abbiano avuto origine a sud del confine con Deverry.» «Infatti. Tu sei stata allevata in una fortezza dei nani?» «Sì, finché non mi hanno portata qui perché il signore di Haen Manti aveva bisogno di una moglie. Giustamente, hanno pensato che io avrei prosperato maggiormente al sole e all'aria aperta, mentre una donna del Popolo della Montagna si sarebbe ammalata e sarebbe deperita.» «Non ti hanno lasciato molta scelta, vero?» «Nessuna» replicò Angmar, con lo stesso sorrisetto asciutto di poco prima. «Io sono però stata contenta lo stesso di poter camminare sotto la luce del sole e a modo suo lui era un brav'uomo. Quando è annegato ho pianto.» Avvertendo nella sua voce l'eco di un antico dolore Rhodry si guardò intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno e le prese la mano, traendola contro di sé. Con un sospiro, Angmar gli appoggiò per un momento la testa sulla spalla prima di ritrarsi. «Non so dove sia Enj» disse. «Se Avain non lo avesse visto tante volte, sano e salvo e in cammino per venire qui, mi preoccuperei che potesse essere stato assalito da quei nemici che hanno cercato di impedirti di arrivare qui.» In quel momento Rhodry sentì il rumore che Angmar doveva già aver udito, e cioè uno stridere di passi sulla ghiaia che precedette l'apparire in mezzo agli alberi dell'anziana serva, che aveva il volto acido come l'aceto rancido e pareva esalarne anche l'odore. Avvicinatasi ad Angmar, la donna le disse qualcosa nella lingua dei nani e lei annuì in segno di assenso. «Devo andare, Rori, perché stanno per salare la carne e tocca a me aprire la cassetta del sale.» «Allora sarà meglio che venga con te se voglio ritrovare la dimora» replicò Rhodry, e la vecchia serva gli scoccò un'occhiata carica di veleno,
come se avesse sperato che lui intendesse rimanere vicino al lago per poi finire in pasto ad una delle bestie che lo abitavano. Nel frattempo Otho e Mic avevano raggiunto di nuovo Garin nella grande sala, e quando Rhodry entrò con passo affrettato tutti e tre si girarono a fissarlo. «Cosa c'è che non va?» chiese Garin. «Cengarn è sotto assedio. Avain lo ha visto nel suo bacile.» Nel sentire quella notizia Garin s'immobilizzo e rimase a lungo seduto con la mano stretta intorno al manico del boccale mentre Otho e Mic si limitavano a fissarlo in silenzio come se fossero in attesa di ordini. Infine Garin borbottò qualche parola nella sua lingua. «Oh, dèi» sussurrò quindi, in deverriano. «È una brutta notizia, Rori, davvero brutta, e significa che devo tornare a Lin Serr il più in fretta possibile perché dopo tutto noi abbiamo un'alleanza con Cadmar e in quella città ci sono alcuni nostri parenti. Devo trovare Angmar» disse quindi, alzandosi e posando infine il boccale. «Otho, detesto lasciarti a negoziare il tuo debito da solo, ma...» «Oh, non ti tormentare al riguardo» replicò il vecchio nano, con una nota soddisfatta nella voce. «Me la caverò egregiamente.» «Se in seguito dovessi scoprire che sei stato avaro pagherai il doppio sotto forma di multa» minacciò Garin, quindi esitò come se stesse riflettendo su qualcosa e infine aggiunse: «Devo parlare con Angmar. Del resto ormai è troppo tardi per partire subito.» Poi uscì di corsa dalla sala, lasciando gli altri a fissarsi a vicenda senza sapere che dire. Quella notte Rhodry si ritirò per tempo nella camera che divideva con Angmar, si spogliò e s'infilò nel letto, rimanendo sveglio con le mani sotto la testa ad aspettare che lei sistemasse Avain per la notte nella torre. La luce della luna penetrava attraverso le finestre aperte e l'umida brezza estiva gli arruffava i capelli. Durante la sua vita lui aveva preso parte a numerosi assedi, dall'una e dall'altra parte delle mura cittadine, e per quanto cercasse di allontanare i ricordi adesso essi stavano evocando nella sua mente gli orrori che un assedio poteva portare con sé. Il peggiore fra quei ricordi riguardava una città che era caduta nelle mani degli assedianti, di cui lui faceva parte, un'occasione in cui aveva avuto modo di apprendere fin troppo bene quanto un uomo potesse diventare brutale dopo lunghi mesi di frustrazione trascorsi sotto le mura di un nemico cocciuto. Sollevandosi a sedere scosse con violenza il capo come per li-
berarsi dal sapore della vergogna, poi si alzò dal letto e andò a sedersi sotto la finestra fino a quando l'arrivo di Angmar lo distrasse dai suoi pensieri. Sbarrata la porta lei posò la lanterna sul tavolinetto e Rhodry si alzò in piedi per baciarla, andando poi a sdraiarsi sul letto per guardarla mentre si svestiva con calma, ripiegando ogni capo di vestiario e sistemandolo su una cassapanca di legno. «Sei davvero bella» le disse. «Lo pensi davvero? Io mi sono sempre sentita così strana e brutta, sia nella fortezza dei nani che qui con mio marito, a causa del mio fisico alto e sottile e dei miei capelli gialli.» «Io non appartengo al Popolo della Montagna.» Angmar sorrise e si sdraiò, scivolando fra le sue braccia per farsi baciare; prima però che lui potesse darle un secondo bacio lo trattenne posandogli sulle labbra la punta delle dita. «Dimmi prima una cosa, Rori. Negli ultimi giorni hai più visto la donna vestita di bianco?» «No.» «Quando l'hai vista per l'ultima volta?» Il tono di lei era tanto urgente che Rhodry s'impose di riflettere con una certa attenzione sulla domanda. «È successo alcuni giorni fa» affermò infine. «Eravamo distesi qui, e appena prima di prenderti fra le braccia mi è parso di vederla in piedi vicino alla finestra. Per un momento la sua apparizione mi ha spaventato, ma poi lei è scomparsa.» «E da allora non l'hai più vista?» «No.» «Davvero? Questo mi rallegra il cuore.» Nella sua voce c'era una nota tanto strana, simile al trillo di un uccello che potesse volare libero sotto la luce del sole, che Rhodry si sollevò su un gomito per guardarla in volto, senza però che la sua espressione gli rivelasse nulla. «C'è qualcosa che non va?» chiese Angmar. «Nulla. Mi stavo soltanto domandando perché avessi voluto saperlo.» «Questa è una cosa che non ti potrò mai dire.» Cingendogli il collo con le braccia Angmar lo trasse quindi a sé e gli prese la mano, guidandola verso il proprio seno, con il risultato che Rhodry si dimenticò ben presto delle sue domande.
Enj fece ritorno a casa l'indomani mattina. Rhodry stava scendendo verso il lago quando sentì provenire da molto lontano, verso nord, il suono di un gong che echeggiava come un richiamo al di sopra dell'acqua, a cui fecero seguito di lì a poco le grida eccitate dei battellieri che lasciavano a precipizio la dimora principale. Seguendo di corsa la spiaggia, Rhodry arrivò al casotto delle barche in tempo per vederli sciogliere le gomene che tenevano ancorata al molo la barca con la polena a forma di bestia lacustre. «Gong?» chiese con un sorriso il timoniere, nell'invitarlo con un cenno a salire a bordo. Ridendo Rhodry balzò sulla barca e si portò a prua, vicino al gong e all'addetto all'arpione, che questa volta aveva però in mano una semplice gomena invece dell'arpione dalle punte ricurve. Non appena la barca prese il largo sulla spinta di vigorosi colpi di remo, Rhodry impugnò a due mani il martelletto del gong e cominciò a battere su di esso con un ritmo regolare mentre sia il timoniere che l'addetto all'arpione gridavano, stridevano ed emettevano ogni sorta di possibile rumore al fine di tenere lontane le bestie che popolavano il lago. Fra un colpo di gong e il successivo, Rhodry si concesse intanto il tempo di osservare le colline della costa settentrionale farsi più vicine e la cascata trasformarsi da una linea argentea in una massa d'acqua ruggente avvolta da un velo di nebbia che nell'intercettare i raggi del sole scintillava dei colori dell'arcobaleno. Poi il timoniere impartì una serie di ordini e nel virare per allontanarsi dalle rapide sottostanti la cascata la barca puntò verso una piccola insenatura dove c'era un malconcio molo di legno sulle cui travi scolorite e traballanti era in attesa accanto al suo bagaglio un giovane uomo del Popolo della Montagna. «Enj!» esclamò Rhodry, notando che il giovane era alto circa un metro e settanta ed aveva quindi una statura superiore alla media del suo popolo. L'addetto all'arpione annuì in segno di conferma, fissando al tempo stesso il molo per valutare la distanza mentre i rematori manovravano per accostare ad esso l'imbarcazione, facendola virare e remando freneticamente all'indietro finché le correnti e la marea non completarono l'opera. Gridando qualcosa nella lingua dei nani Enj si issò allora il bagaglio in spalla e balzò a bordo prima che l'uomo a prua avesse il tempo di gettargli la corda che aveva in mano, e così facendo scosse la barca a tal punto che l'uomo con la gomena lanciò un'occhiata in direzione di Rhodry come per invitarlo a condividere il proprio disprezzo di fronte ad un comportamento del genere. Mentre i rematori riprendevano a remare verso il centro del lago,
Enj avanzò lungo lo scafo della barca parlando con ogni membro dell'equipaggio... poi si accorse di Rhodry e s'immobilizzò di colpo. «Buon giorno» salutò Rhodry. «Io mi chiamo Rori.» «Ed io sono Enj. Sei un uomo di Deverry, vero? Chiedo scusa per la mia sorpresa ma qui non abbiamo molti ospiti. Ora lascia che ti dia il cambio al gong.» «Ti ringrazio.» Mentre la barca avanzava sul lago Rhodry si portò a poppa per non essere d'intralcio e da lì osservò attentamente Enj. Mentre Avain somigliava a sua madre, Enj doveva invece aver ereditato i lineamenti paterni perché aveva gli zigomi alti e il naso piatto propri dei nani, i suoi capelli e la barba tagliata corta erano di un castano tanto scuro da essere quasi nero e gli occhi, per quanto verdi come quelli della sorella, erano stretti e infossati sotto spesse sopracciglia; nell'osservarlo, Rhodry si chiese d'un tratto in che modo lui avrebbe reagito alla notizia che uno straniero divideva il letto di sua madre, una complicazione a cui avrebbe forse dovuto pensare prima. Arrivati al molo trovarono là l'intera servitù radunata ad accoglierli, e pur rivolgendo a tutti un gesto di saluto dalla barca non appena a terra Enj si affrettò a raggiungere sua madre, circondandola con un braccio e baciandola sulla fronte. Parlando fra loro in tono urgente i due si allontanarono quindi verso la torre, senza dubbio perché Avain vedesse che il fratello era rientrato a casa sano e salvo, e nel frattempo Garin e Rhodry si avviarono per tornare alla dimora, tenendosi un po' più indietro rispetto agli altri. «Così quello è Enj» commentò Rhodry. «A me non sembra assolutamente pazzo.» Per un momento Garin diede l'impressione di trattenersi a fatica dal ribattere. «Imph» borbottò quindi. «Non mi secca ammettere che sono dannatamente contento di vederlo: in questo modo potrò trattare direttamente con lui per il trasferimento del debito del clan di Otho e gli accordi relativi all'approvvigionamento e a tutto il resto, e poi sarò libero di partire alla volta di Lin Serr. Spero che tu capisca, Rori: se la situazione fosse diversa verrei con voi, se non altro per tenere sotto controllo Otho, ma con l'assedio in corso...» «Certo che capisco, e comunque la presenza di Mic dovrebbe indurre il vecchio a comportarsi decentemente.»
«Speriamolo.» Dal momento che trascorsero parecchie ore prima che Angmar ed Enj tornassero nella grande sala, Rhodry ebbe tutto il tempo per chiedersi di cosa madre e figlio stessero parlando. I due arrivarono verso mezzogiorno e subito i servitori cominciarono a preparare la tavola per il pranzo; per alcuni momenti ci fu un teso scambio generale di convenevoli, poi Angmar prese posto come al solito a capo della tavola ed Enj rimase in piedi accanto alla sua sedia, mentre Rhodry aspettava vicino al focolare in modo da permettergli di occupare il posto alla destra di sua madre, se così avesse voluto. A poco a poco sulla sala scese il silenzio e tutti, servitori compresi, concentrarono la propria attenzione su loro due. Guardandosi intorno, Enj indicò infine un'altra sedia semirotonda e dagli intagli elaborati, che era addossata ad una parete, poi rivolse ad un servitore un secco ordine che strappò un sussulto di sorpresa a tutti coloro che comprendevano la lingua dei nani. Presa la sedia, il servitore la sistemò all'altro capo della tavola, di fronte ad Angmar, e soltanto allora Enj sedette alla destra di sua madre, lasciando a Rhodry un solo posto che lui potesse occupare e lanciandogli un'occhiata accompagnata da un fugace sorriso. «Ti ringrazio» mormorò Rhodry. Mentre prendeva posto sulla sedia che era un tempo appartenuta al marito di Angmar, lei lo fissò con occhi che però non esprimevano nessun sentimento. Sa che sto per partire, pensò Rhodry, e per un istante fu sul punto di ululare di rabbia e di inveire contro il Wyrd che continuava a ridurre in pezzi la sua vita per poi fare a brandelli quei pochi frammenti di felicità che lui riusciva a salvare da tanta devastazione. Avrebbe voluto alzarsi e correre fuori urlando come un folle, ma si costrinse invece a prendere il boccale e a bere un lungo sorso di birra mentre i servi provvedevano a portare in tavola il cibo. Durante il pasto Garin cominciò a parlare con Enj degli accordi che dovevano essere presi e una volta che tutti ebbero finito di mangiare le trattative ebbero inizio. Anche se per cortesia nei suoi confronti Garin provvide a che la conversazione si svolgesse in deverriano, Rhodry evitò d'intervenire perché a lui interessava soltanto il risultato finale e riteneva che i dettagli del negoziato non dovessero riguardarlo, né secondo la legge di Deverry né secondo quella dei nani. Angmar invece ascoltò attentamente, mormorando di tanto in tanto al figlio qualche consiglio che doveva essere ben mirato, a giudicare dai sus-
sulti con cui Otho reagiva ad esso e di cui Enj aveva bisogno perché era evidente per tutti che il giovane sarebbe stato pronto ad andare a cercare il drago senza pretendere in cambio nessun tipo di pagamento. Con il prolungarsi delle trattative durante le lunghe e calde ore pomeridiane, Rhodry alla fine borbottò qualche parola di scusa e lasciò la sala per scendere sulla riva del lago dove il vento ringhiava fra le rocce e gemeva fra gli alberi; sedutosi al fresco sotto un pino curvo e contorto, rimase a lungo a fissare la distesa del lago e il nastro argenteo che si riversava giù dalle alture, sulla riva opposta, riflettendo che doveva essere stanco, spaventosamente stanco di girovagare, di combattere una battaglia dopo l'altra, sia con la spada che con un dweomer che non era neppure in grado di comprendere davvero... altrimenti perché avrebbe detestato tanto l'idea di lasciare Haen Marn? «Rori!» chiamò la voce di Angmar. «Rori, sei lì?» D'un tratto Rhodry sentì gli occhi che gli si velavano di lacrime, e le asciugò con il dorso della mano. «Sono qui» rispose. «Hanno bisogno di me nella grande sala?» «Sì. Devi acconsentire a considerare rimesso il debito.» Quando Rhodry la raggiunse Angmar gli sorrise in modo così blando da fargli comprendere che non desiderava che parlassero di nulla d'importante, quindi si limitò a prenderle la mano e a stringerla con affetto. «Allora sarà meglio tornare dentro, mia signora» disse soltanto. «Infatti, mio signore.» Tenendosi apertamente per mano fecero ritorno nella grande sala, dove trovarono il sorridente Garin in piedi accanto al focolare e Otho, Mic ed Enj seduti al tavolo e intenti a bere... e dal modo in cui Otho stava trangugiando la sua birra, Rhodry suppose che il costo dell'accordo fosse risultato elevato. Stringendogli la mano, Angmar infine lo lasciò e andò ad occupare il suo consueto posto a capotavola. «Allora, ambasciatore» disse Rhodry. «L'accordo raggiunto ti sembra onesto?» «Sì, anche se Otho può pensarla diversamente» replicò Garin, con un sorriso sempre più accentuato. «Naturalmente c'è la tariffa compensativa per l'assunzione di un debito di clan da parte dell'erede di Haen Marn. e poi c'è l'indennità da pagare a sua madre nel caso che gli accada qualcosa di male, oltre al rimborso delle scorte che Haen Marn fornirà per approvvigionare la spedizione. Tuttavia, dal momento che Enj insiste perché tu e
lui partiate da soli, Otho risparmierà una discreta sommetta in quanto non dovrà pagare l'indennizzo pattuito con il padre di Mic.» Nel guardare verso Mic, Rhodry scoprì che il giovane nano era prossimo al pianto. «Suvvia, Mic, se davvero diventerai l'apprendista di Garin vivrai molte altre esperienze eccitanti» cercò di consolarlo. «Lo dicono anche l'ambasciatore e Zio Otho.» «È davvero meglio così» intervenne Enj. «Vedi, Rori, la strada che dovremo percorrere è troppo lunga perché si possa portare con noi anche solo la metà di ciò di cui avremo bisogno durante il viaggio. Otho mi ha detto che te la cavi bene con l'arco, ed io sono abile a pescare, ma la selvaggina sarà scarsa, e nutrire quattro persone o perfino tre...» Il giovane concluse la frase con un'espressiva scrollata di spalle che indusse Mic a scattare in piedi e a lasciare a grandi passi la sala. «Lin Serr dovrà mandare in aiuto del Gwerbret Cadmar un contingente di guerrieri» commentò Garin, in tono sommesso, «quindi credo che presto il nostro Mic avrà fin troppa eccitazione per i suoi gusti.» «Non dubito che ne avremo tutti» replicò Rhodry, che all'improvviso si sentiva profondamente stanco. «Bene, Otho, a patto che le tariffe pattuite vengano pagate prontamente ad Haen Marn, di fronte a questi testimoni io ti libero a partire da ora dal debito che hai contratto con me per averti salvato la vita.» «D'accordo» sospirò Otho, alzandosi per stringergli la mano. «Accetto le tue condizioni. Quando torneremo con le provviste, e cioè entro il tempo più breve che impiegherò ad arrivare a Lin Serr e a tornare qui, questa dama potrà scegliere fra le gemme migliori che posseggo.» «Ed io mi accerterò che si tratti delle migliori» garantì Garin, rivolto ad Angmar. «Non potrò tornare qui di persona con lui, ma manderò un uomo di mia fiducia.» «Mi fido di te, ambasciatore, perché hai sempre trattato onestamente con me e con la mia gente» replicò Angmar, poi guardò verso Enj e aggiunse: «Ti sei comportato bene.» Dopo il pasto serale, mentre Angmar si occupava di sua figlia e l'ambasciatore e il suo gruppo approntavano le provviste per il viaggio di ritorno a casa, Rhodry ed Enj uscirono a passeggiare lungo la riva del lago, dove gli ultimi bagliori del giorno che s'insinuavano fra le colline proiettavano sfumature dorate e rosa sulle polle in cui l'acqua era più bassa e immota, mentre lungo la sponda opposta cominciava già a levarsi la nebbia.
«C'è una cosa che mi preoccupa» affermò Rhodry, «e cioè la sicurezza di tua madre durante la nostra assenza, perché ho dei pericolosi nemici che potrebbero seguirmi fin qui. Haen Marn ha nelle vicinanze dei vassalli e degli alleati che siano impegnati a mandarvi degli uomini in caso di necessità?» «Qui intorno non ci sono altre fortezze o insediamenti per il raggio di chilometri» rise Enj, «ma Haen Marn non correrà nessun pericolo.» «Ne sei certo? Questi nemici sono spietati, e non sono né esseri umani né nani.» «Qualsiasi nemico, umano o meno che sia, dovrà trovare questa fortezza prima di poterla prendere.» «Questo è vero, però avranno a loro vantaggio un dweomer potente, senza dubbio il più potente che io abbia visto fino ad ora.» Enj rifletté su quelle parole, fissando la sabbia con espressione accigliata. «Andrò a dare la buona notte a mia sorella» replicò infine, «e riferirò a mia madre quanto mi hai appena detto.» Più tardi, mentre Rhodry era seduto a bere in compagnia dei nani, Angmar apparve sulla soglia e lo chiamò con un cenno; lasciati gli altri, Rhodry la raggiunse all'esterno alla luce tremolante di una lanterna, agitata dal vento notturno che aveva preso a soffiare come un gigantesco cane dietro gli alberi distorti. «Rori, non voglio che ti preoccupi per me e per la mia gente.» «Come posso non farlo? Preferirei consegnarmi ai miei nemici e farla finita piuttosto che recarti il minimo danno.» «Pensi che non farei lo stesso per te?» Per un momento si fissarono a vicenda, prossimi a cedere all'ira per nascondere ciò che erano giunti più vicini che mai ad ammettere, e cioè che il loro rapporto di conforto reciproco si era trasformato in amore, poi Angmar scosse improvvisamente il capo con un asciutto sorriso. «Haen Marn protegge la sua gente» disse. «Non posso spiegarti come, perché non lo so con esattezza, ma non ho paura.» «Questo mi rallegra il cuore.» «Immagino che rallegri anche il mio, ma...» «Ma cosa? Questi sono tempi malvagi, mia signora, e avrai bisogno di uno scudo che ti protegga.»
«Non ne dubito» replicò lei, con voce tremante. «Il levarsi di questo scudo è però una cosa funesta, Rori, quindi prega che non sia mai necessaria.» Poi si girò e si allontanò a grandi passi per tornare nella torre; più tardi, quando si ritrovarono nella loro camera, entrambi evitarono di accennare all'ormai prossima partenza di Rhodry. L'indomani mattina all'alba Garin, Mic e Otho trasportarono il loro bagaglio fino al casotto delle barche, e mentre i barcaioli si preparavano non tanto allo sforzo di trasportarli fuori quanto a quello del ritorno, Rhodry sostò sul molo a parlare con i tre nani di Lin Serr. «Oggi non sarete in grado di percorrere molta strada» osservò, notando che la giornata era già afosa nonostante la leggera brezza. «No, se il clima risulterà così anche all'esterno» replicò Garin, in tono asciutto, «ma chi può sapere cosa troveremo?» «Se non altro, la maggior parte della strada sarà in discesa.» «Infatti.» Lasciati Mic e Otho a caricare l'equipaggiamento, Garin si spostò con Rhodry verso l'estremità del molo, dove per un momento sostarono in silenzio a osservare le onde che lambivano i piloni di sostegno. «Ti auguro la migliore fortuna del mondo, Rori» mormorò infine Garin. «Vorrei poter credere che non ne avrai bisogno.» «Ti ringrazio e spero che tu abbia a tua volta una buona dose di fortuna, amico mio, anche se stavo pensando che dovrei fare per te qualcosa di più che augurarti buona fortuna.» «Se i Fratelli dei Cavalli sono in marcia avremo tutti bisogno di qualcosa di più della fortuna» ribatté Garin, guardando verso il cielo. «Non mi dispiacerebbe avere una maggiore fiducia in quegli dèi che il tuo popolo nomina di continuo.» «Lo stesso vale per me» replicò Rhodry, poi infilò la mano nella camicia per tirare fuori il talismano che Othara gli aveva dato e aggiunse: «Vorrei che prendessi questo.» «Cosa? E lasciarti esposto allo sguardo del nemico? Noi non ne abbiamo bisogno.» «Tu sì. Non sei stato tu ad attraversare la schiena di Alshandra con un'ascia, lungo la strada che portava a Lin Serr?» «Me l'ero dimenticato» ammise Garin, con un fischio sommesso. «È stato stupido da parte mia.» «Per amore di Othara vorrei che accettassi questa pietra.»
Garin esitò, e per un momento parve che stesse per protendere la mano verso la gemma azzurra, ma poi scosse il capo in un gesto di diniego. «In base a quanto Jill ha detto a Cengarn e a ciò che i nostri maestri del sapere hanno affermato a Lin Serr, e importante per tutti noi che questo drago venga trovato» replicò. «Se dovesse succedere il peggio, ci sono comunque altri ambasciatori.» «Ma io...» «I nobili gesti sono una bella cosa, ma adesso è importante vincere questa guerra» gli ricordò Garin, poi sfoggiò un sorriso e aggiunse: «Daga d'argento.» Rhodry sorrise a sua volta con aria un po' contrita e ripose il talismano nella camicia. «Inoltre» proseguì Garin, «senza di te noi nani potremo viaggiare più in fretta e dando meno nell'occhio. Ti sono grato per avermi preavvisato ma non devi avere timori, quest'arpia di nome Alshandra avrà notevole difficoltà a trovarci, che possegga o meno il dweomer. Perfino Otho sarebbe pronto a scommettere una somma sostanziosa sul fatto che non ci riuscirà.» «Come preferisci.» «Ora parliamo di te. Partirai oggi anche tu?» «No. Io ed Enj vorremmo metterci in cammino il più presto possibile, ma abbiamo bisogno dell'aiuto di Avain, e non si può metterle fretta.» Alle loro spalle il timoniere disse qualcosa nella lingua dei nani e Garin protese la mano verso Rhodry, che la strinse nella sua. «Mi auguro che possiamo incontrarci ancora» disse, «però non sono disposto a scommetterci sopra.» Garin annuì con espressione cupa e si avviò lungo il molo a grandi passi per salire a bordo. Rhodry agitò la mano in un gesto di saluto mentre la barca si allontanava sull'acqua, ma invece di restare a guardarla si volse e si avviò verso l'interno dell'isola. Nel corso dei giorni che seguirono Rhodry ed Enj trascorsero molto tempo a lavorare per approntare il loro equipaggiamento, controllando la resistenza delle corde, rivestendo di grasso pezzi di tela, preparando scorte di carne secca e così via, e passarono una quantità di tempo ancora maggiore nella torre insieme ad Avain. La ragazza prendeva in una mano l'anello di Rhodry e fissava il proprio bacile, poi cominciava a parlare con tanta scioltezza da far supporre che trovare il drago le riuscisse facile finché stringeva in pugno il suo nome.
Mentre lei portava avanti quel flusso ininterrotto di parole Enj scriveva di tanto in tanto qualcosa su una tavoletta incerata, spiegando a Rhodry che si trattava di punti di riferimento grazie a cui orientarsi, e che alcuni di essi gli erano noti mentre non ne aveva mai visti altri. «Non è possibile aspettarsi da lei che valuti la direzione in cui si trovano le diverse cose e neppure che calcoli le distanze che le separano, ma quando parla di una superficie di roccia che sembra una spiga di grano so a cosa si riferisce, mentre ci sono altri posti come questa valle che lei chiama la "Scodella degli Dèi" che non ho mai visto in tutta la mia vita. Se non altro, però, so in quale direzione andare, e un po' per volta potremo mettere insieme il percorso lungo la strada.» «Ci vorrà parecchia fortuna.» «Infatti.» «È una cosa dannatamente utile che tu sappia leggere e scrivere.» «Mia madre ha provveduto perché mi venisse insegnato a farlo sia nella nostra lingua che in quella degli uomini di Deverry. A questo scopo mi ha mandato a Lin Serr quando ero ancora un ragazzo affinché venissi istruito in un posto dove c'erano preti e libri. A quel tempo ho alloggiato presso l'Ambasciatore Garin, il che spiega perché io riesca a parlare bene la tua lingua, o comunque meglio di mia madre che ha appreso quello che sa da sua madre, negli alloggi delle donne.» Durante quegli ultimi giorni che rimanevano loro, sia Rhodry che Angmar si sforzarono di fare finta che il tempo che avevano a disposizione sarebbe durato un'eternità. Quando erano insieme nel corso della giornata parlavano per lo più di piccole cose pertinenti l'isola, come se al mondo non esistesse nulla di più importante di un pesce che era stato pescato o di un servitore che si era slogato una caviglia, ma di notte si amavano con disperata avidità e nonostante il clima afoso dormivano stretti uno nelle braccia dell'altra. Alla fine giunse naturalmente l'ultima mattina, un'alba calda e secca che costituiva la giornata ideale per viaggiare. Al risveglio Rhodry sgusciò fuori del letto senza svegliare Angmar e andò a sedersi accanto alla finestra per osservare il cielo farsi sempre più luminoso mentre imprecava interiormente contro il proprio Wyrd. Di lì a poco lei si accorse però della sua assenza e si sollevò a sedere sbadigliando e rivolgendogli un sorriso che svanì alla vista del sole che splendeva all'esterno. Alzatasi a sua volta andò a raggiungerlo e gli sedette accanto, girandosi in modo da poterlo vedere in volto.
«Credi che troverete quella bestia?» «Enj giura che ci riuscirà, adesso che sa dove cercare, ed io accetto per buona la sua parola perché in questo campo tuo figlio ne sa più di me.» «Mi ha detto che il drago ha il suo covo nel nord.» «Infatti, e se riusciremo nell'impresa al ritorno passeremo di qui.» A quelle parole Angmar accennò un sorriso, esitò e infine replicò con voce sottile. «E dopo?» chiese. «So che dovrai ripartire al più presto possibile.» «Sì, ed è una cosa che non desidero fare.» «Ah. Me lo ero domandata.» In silenzio, mentre il vento che soffiava attraverso la finestra aperta portava fino a loro un umido aroma di pino, condivisero un fugace sorriso che diede ad Angmar un aspetto stanco quanto quello che Rhodry stesso sentiva di avere. «Non è molto probabile che tu ritorni una seconda volta» osservò infine Angmar. «Non è probabile che io sopravviva per farlo.» Lei si girò di scatto a fissarlo con la bocca socchiusa in un'espressione sorpresa. «Perdonami» si scusò Rhodry. «Non avrei dovuto dirlo.» «No, Rori. Cosa credi che io sia... una ragazzina che vive di speranze e di sogni fasulli? Questa cosa di cui parli, questa guerra del dweomer, è davvero così grave?» «Sì, ed è soltanto all'inizio. Angmar, ti prego di credermi, se pensassi di avere la minima probabilità concreta di poter tornare ad Haen Marn e da te, ti prometterei di tornare.» «Saperlo significa molto per me. Quando penserò a te ricorderò queste tue parole.» «Per gli dèi, non pensare a me! Ti prego, dimenticami nel momento stesso in cui partirò: trovati un altro uomo e non preoccuparti più di me.» «In questo siamo simili, Rori. Non intendo promettere qualcosa che non posso mantenere.» Quando Rhodry le porse la mano lei la prese e tenendosi per mano rimasero a lungo seduti in silenzio a contemplare il lago, finché non sentirono la voce di Enj che li chiamava da quella che pareva una distanza infinita. Durante tutto quell'ultimo pasto che consumarono insieme Angmar mantenne la calma, e la forza da lei dimostrata permise a Rhodry di essere altrettanto forte. Anche quando si scambiarono un bacio di commiato riusci-
rono a sorridersi e a parlare di piccole cose insignificanti, ma mentre la barca che lo portava via si allontanava dal molo diretta verso la sponda settentrionale del lago Rhodry si guardò alle spalle e la vide ferma al limite massimo del molo, piegata su se stessa dall'angoscia. Gettando indietro il capo si permise allora di sfogare il proprio dolore emettendo un lamento simile ad un ululato animalesco che echeggiò su tutto il lago con forza maggiore degli stentorei colpi di gong. Più o meno nel momento in cui Rori ed Enj si stavano imbarcando per lasciare Haen Marn, nelle Terre Dallandra guardò il cielo attraverso le sbarre della gabbia e vide che il noioso pomeriggio non mostrava ancora di voler cedere il passo alla sera. Al tempo stesso si rese però anche conto che stava finalmente cominciando a riprendersi del tutto dall'angosciosa cattura di quella mattina e che era adesso in grado di riflettere con maggiore chiarezza. Sollevandosi a sedere a gambe incrociate nel centro della gabbia bevve un po' dell'acqua che i suoi catturatori le avevano dato e spostò la propria attenzione sul campo sottostante. Chiuso nella gabbia posata a terra, il paggio camminava avanti e indietro nel poco spazio a sua disposizione, mentre intorno al fuoco gli uomini di Lord Volpe stavano bevendo ormai da circa mezz'ora, facendo circolare dall'uno all'altro la grossa fiasca piena di liquore che il loro capo aveva lasciato al campo e trangugiandone il contenuto così in fretta da farlo colare a macchiare la loro tunica verde. Adesso gli esseri simili ad orsi stavano russando di nuovo, il guerriero umano e quello dalle fattezze di lupo stavano cantando insieme e le due creature volpine fissavano le fiamme sorridendo con aria assorta. Nel complesso era chiaro che entro breve tempo avrebbero ceduto tutti all'ubriachezza... o per meglio dire che lo avrebbero fatto se non fosse stato per l'araldo, che era ancora del tutto lucido e sedeva al limitare del gruppo da dove sorvegliava con attenzione sia i prigionieri che le guardie, pronto a pungolare o a colpire con il suo bastone i guerrieri fino a renderli sobri mentre impartiva loro una sorta di predica che era un misto di avvertimenti e di espressioni di disgusto nei loro confronti e che per lo più veniva ignorata. Per quanto concerneva l'araldo, Dalla aveva il sospetto che se fosse stata libera di parlare apertamente sarebbe riuscita a farlo passare dalla sua parte perché quella creatura possedeva qualche brandello di onore e di decenza, un minimo di compassione per gli altri su cui avrebbe potuto fare leva per
contrastare il timore che nutriva nei confronti di Lord Volpe... ma se ci avesse provato la banda di guerra avrebbe di certo provveduto a zittirli entrambi. Allorché stiracchiò le braccia doloranti al di sopra della testa, la gabbia ondeggiò scricchiolando e subito l'araldo balzò in piedi con un grido, agitando il bastone nella sua direzione. «Non tentare nulla di strano e resta dove sei» ingiunse. «Non ho bisogno di fare nulla. Adesso che ho manomesso la trappola del tuo signore senza dubbio Evandar mi salverà fin troppo presto» ribatté Dallandra. L'araldo gemette e prese a tremare con tanta violenza da farle capire che la sua frecciata scagliata alla cieca aveva colto nel segno. «L'esercito è andato via con lui, giusto? Dov'era nascosto? Da qualche parte nelle vicinanze, immagino, pronto a tendere un'imboscata fra gli alberi.» L'araldo si limitò a fissarla con i suoi occhi cisposi, mentre i membri della banda di guerra ancora svegli l'ascoltavano in silenzio e perfino il paggio si aggrappava alle sbarre della gabbia e la fissava con occhi pieni di speranza. «Immagino che Evandar verrà qui con tutto il suo esercito» proseguì intanto Dallandra, «centinaia e centinaia di guerrieri in cotta di maglia e armati di spade scintillanti e di lance affilate, pronti a farvi a pezzi. Oh, quanto rideremo il ragazzo ed io nel vedere il vostro sangue inzuppare il terreno e voi tutti giacere con la testa fracassata e sanguinante e il ventre squarciato, contorcendovi e urlando per chiedere misericordia.» Con una serie di grugniti assonnati i guerrieri simili ad orsi si sollevarono a sedere grattandosi e guardandosi intorno con sconcerto. «Morirete tutti» insistette Dallandra. «Il mio signore sta arrivando e vi ucciderà tutti.» I guerrieri reagirono balzando in piedi e afferrando le armi. «Tieni a freno la lingua!» stridette l'araldo. «Non le date ascolto! Il nostro signore non lascerebbe mai succedere nulla di simile.» «Hah! Lui non è qui per proteggervi» ritorse Dallandra. «Se n'è andato e vi ha lasciati qui, sacrificandovi all'ira di suo fratello. Questo potrebbe rendergli le cose più facili, perché forse quando avrà finito di torturare voi Evandar avrà un po' di misericordia per il vostro capo, il vecchio Muso di Cane in persona.»
I guerrieri la fissarono, affascinati dalle sue parole quanto altrettanti bambinetti potevano esserlo dalle storie di un bardo che avesse accondisceso a intrattenerli per un'ora, e Dallandra rimase sinceramente sconvolta nel vedere che il suo rozzo inganno stava funzionando finché non ricordò che quegli esseri non avevano una mente nel vero senso della parola e non erano quindi capaci di ragionamento, di logica, d'introspezione, o di analizzare una situazione o una storia. «Ho intenzione di aiutarlo a torturarvi» insistette, facendo del suo meglio per sogghignare. «Arroventerò un coltello di bronzo su quel fuoco e lo appoggerò sulla vostra carne fino a bruciare tutto il vostro pelo.» Il guerriero-lupo stridette per il timore. «Ti ho detto di tenere a freno la lingua!» ripeté invece l'araldo, questa volta con voce che tremava notevolmente. «Stai mentendo, cagna elfica.» «Invece no. Sei condannato quanto gli altri, vecchio. Lasceremo che sia il paggio a divertirsi a tue spese.» Il ragazzo scoppiò a ridere e batté le mani, anche se Dallandra non fu in grado di capire se stesse recitando o se pregustasse già una cosa del genere. L'araldo invece si lasciò sfuggire un gemito e prese a tormentare con i denti l'estremità del suo bastone. «Oh, Muso di Cane è andato a giocare lontano sulle colline» continuò Dallandra, «ed Evandar potrà venire qui quando vorrà.» «Va a chiamare il nostro signore» ringhiò il guerriero-lupo, girandosi verso l'araldo e strappandogli di mano il bastone. «Tu sai da che parte è andato, quindi riportalo qui.» Ringhiando a loro volta i guerrieri volpini afferrarono l'araldo per le braccia e lo scrollarono, mentre l'intera banda di guerra gli si accalcava intorno imprecando e gridando. «Chiamalo, chiamalo, riportalo indietro!» «D'accordo!» gemette l'araldo. «Lo farò, ma ridatemi il bastone. Ridatemelo, disgustose larve!» Quando cercò di afferrare il bastone il guerriero dall'aspetto umanoide si mosse per fare altrettanto ma per errore colpì l'essere simile ad un lupo che reagì con un morso: urlando e picchiando i due presero a lottare, spintonandosi a vicenda con la testa e con le spalle, e agitando nell'aria i pugni e le zampe. Intanto l'araldo si districò dalla mischia e rotolò lontano con il volto graffiato e sanguinante ma con il bastone stretto a sé. «Presto!» ingiunse il guerriero lupo. «Va' a cercarlo!»
Stridendo e piangendo l'araldo si precipitò nella foresta, imboccando una direzione che Dallandra riconobbe come quella da cui era in precedenza giunto il messaggero e passando in mezzo a due querce stranamente identiche di cui lei badò di memorizzare la posizione. Intanto la rissa in corso al campo cessò in mezzo ad un misto di lamenti e di recriminazioni, ed uno dei guerrieri orsi sollevò una fiasca di liquore. «Usiamo questo per lavare via ogni rancore» suggerì. «Dobbiamo comportarci da quei fratelli che siamo.» Mentre osservava la fiasca che riprendeva a circolare fra i guerrieri, Dallandra cercò di calcolare quanto potesse adesso essere lontano l'araldo con la sua mente sia pur minimamente razionale, consapevole che ogni battito del suo cuore scandiva il trascorrere del tempo e per Jill corrispondeva ad un'ora o forse perfino ad un giorno, e angosciata al tempo stesso anche da quello che sarebbe successo se il vecchio araldo avesse rintracciato in fretta Lord Volpe e fosse tornato indietro insieme a lui. Vedendo il paggio che la fissava come se fosse stata una dea, aggrappato alle sbarre della sua gabbia, desiderò di poterlo tirare fuori di là e metterlo al sicuro senza che nessuno se ne accorgesse, proprio come Lord Volpe aveva rapito loro due sotto il naso stesso di Evandar. «Sono un'idiota!» esclamò d'un tratto ad alta voce... ma per fortuna le guardie non la sentirono perché erano troppo impegnate a bere e a litigare. Fino a quel momento lei aveva pensato alle dimensioni del suo corpo apparentemente fisico ritenendole immutabili, proprio come avrebbe fatto nel mondo del reale, mentre qui nelle Terre non esistevano restrizioni di questo genere. Sollevando un dito attirò l'attenzione del paggio e indicò se stessa e poi lui, ripetendo il movimento parecchie volte perché non osava sussurrargli di imitare ciò che avrebbe fatto lei, e vide il ragazzo fissarla con occhi socchiusi, come se stesse cercando di comprendere. Con cura creò quindi nella propria mente l'immagine del fanello, poi si concentrò sulle dimensioni e immediatamente sentì il proprio corpo sciogliersi, fondersi, cambiare. Aggrappandosi all'immagine, la rese sempre più piccola all'interno della sua mente e avvertì al tempo stesso il proprio corpo che rimpiccioliva come aveva già fatto per opera di Lord Volpe, diventando così piccolo che all'improvviso la figurina di ametista divenne un peso che le gravava intorno al collo. Affrettandosi a bloccare le dimensioni dell'immagine Dallandra agitò le ali e fece qualche saltello in avanti a titolo di esperimento: adesso la gabbia torreggiava intorno a lei enorme e incombente, e i piccoli spazi fra le sbarre erano diventati larghi come porte.
Piegando la testa da un lato si guardò intorno e vide un minuscolo passero nella gabbia in cui poco prima c'era il paggio. In basso le guardie stavano ancora parlando fra loro, imprecando contro l'araldo e lanciando strida spaventate ogni volta che un ramo si spezzava nella lontana foresta, per cui non videro Dallandra saltellare fino al bordo della gabbia, ciangottare per richiamare l'attenzione del paggio e poi spiccare il volo al di sopra del campo, ciangottando ancora allorché il passero si librò a sua volta nell'aria per raggiungerla. Fianco a fianco saettarono quindi verso la foresta, ma proprio mentre raggiungevano i primi alberi Dallandra sentì il guerriero lupo lanciare un ululato che indusse l'intera banda di guerra a lanciarsi all'inseguimento, scagliando lance e sassi misti a imprecazioni rabbiose. Circondata da quella pioggia di proiettili, Dallandra ebbe l'impressione di volare in mezzo a montagne che precipitavano dal cielo; più avanti poteva vedere le due querce e in mezzo ad esse un innaturale velo di nebbia che pendeva nell'aria come un tendaggio di muschio... ciangottando per segnalare al passero di seguirla puntò dritta verso quella cortina e l'attraversò. Una volta dall'altra parte i due si trovarono a volare su una pianura erbosa dove minuscoli corsi d'acqua zigzagavano fra collinette coperte di fiori gialli; qua e là noccioli e sorbi crescevano nelle vicinanze di qualche polla profonda e lungo l'orizzonte era possibile vedere distanti nubi di fumo come quelle che contrassegnavano la piana della battaglia su cui Evandar e suo fratello s'incontravano spesso. Sentendo alle proprie spalle un coro di ululati in cui il latrare di un lupo si mescolava al verso più stridulo delle volpi, Dallandra si arrischiò a guardarsi indietro e vide che il branco li stava inseguendo a quattro zampe in forma animale, con il lupo che procedeva per primo seguito con passo pesante dagli orsi e poi dall'essere umanoide, che faticava a reggere l'andatura dei compagni; un'ondata di paura proveniente dal passero le fece comprendere che anche lui aveva scorto gli inseguitori. Ad ogni colpo d'ala la figurina d'ametista le batteva contro il petto, un peso che la trascinava verso il basso e la rallentava, percuotendo il suo corpo... o pseudo «corpo... già dolorante; sfinita, per un momento prese in considerazione l'eventualità di ripristinare in volo le proprie dimensioni naturali ma si trattenne dal farlo perché tutte le sue conoscenze inerenti al dweomer mettevano in guardia contro una simile follia indipendentemente da dove ci si potesse trovare nel vasto quadro di mondi intercomunicanti. Di conseguenza non le rimase che concentrarsi sulla necessità di continua-
re a volare ed escludere ogni altra cosa dalla sua sfera cosciente, perché anche se in natura nessun vero lupo o volpe avrebbe potuto correre più veloce del volo di un uccello, il branco alle loro spalle stava infatti guadagnando terreno.» Vedendo il passero oltrepassarla con uno stridio di terrore e un frenetico sbattere delle sue piccole ali, Dallandra si rese conto d'un tratto di aver continuato a pensare come un uccello braccato, mentre adesso che il paggio era libero poteva usare senza problemi il dweomer. Rallentando deliberatamente l'andatura permise al passero di allontanarsi, poi descrisse un semicerchio nell'aria e calò di quota in modo da indurre il branco a inseguirla, dirigendosi verso un boschetto di noccioli. Mantenendo la forma di uccello saettò in mezzo al groviglio di tronchi e di virgulti fino a trovare un tratto di terreno sgombro dove si posò al suolo, saltellando in mezzo alle radici contorte. Alle sue spalle poteva sentire il branco ululare e grugnire mentre gli orsi cominciavano a smantellare il boschetto a colpi di artiglio, lacerando e squarciando tronchi e rami. Un fugace pensiero le fu sufficiente per ritrovare la sua forma elfica, e di colpo il branco si ritrasse di qualche passo ringhiando e uggiolando, perché le creature dovevano aver avuto l'impressione di vederla apparire dal nulla in mezzo al groviglio di fogliame. Sollevando una mano Dallandra evocò allora il fuoco eterico, e dalle dita le scaturirono sfrigolanti fiamme azzurrine che andarono a colpire gli orsi in pieno volto. Stridendo essi si raddrizzarono sulle zampe posteriori, parvero tremolare e tornarono ad assumere la forma di creature quasi umane e ora del tutto nude, che si percuotevano il muso e gli occhi con mani umane, artigliavano le scintille e stridevano nel sentire le fiamme che ustionavano la loro carne illusoria. Allorché il guerriero-lupo le si scagliò contro, Dallandra reagì con una cortina di fuoco che lo colse a metà della trasformazione, bruciando al tempo stesso pelo e pelle mentre una testa umana urlava sul corpo del lupo. Sollevate entrambe le mani, Dallandra continuò a tempestare l'intero branco di fiamme simili a dardi fino a quando le volpi e il lupo si girarono e fuggirono ululando attraverso la pianura; i guerrieri orsi cercarono ancora di arrivare fino a lei, ma un'ultima pioggia di fiamme li indusse a seguire i compagni trascinando con loro la creatura semiumana. Con il respiro affannoso Dallandra emerse dal boschetto e li guardò correre verso la cortina di nebbia del dweomer che aleggiava in lontananza nell'aria fino a quando le loro minuscole figure scomparvero al di là di essa, lasciandola sola sulla piana erbosa a chiedersi dove potesse essere E-
vandar. Esisteva una remota possibilità che il paggio fosse andato a cercarlo, ma molto più probabilmente il ragazzo era fuggito in direzione della sola casa che conoscesse, il fiume astrale e il padiglione dorato che sorgeva accanto ad esso. Assunta di nuovo la forma d'uccello, questa volta conservando però le sue dimensioni effettive in modo da poter trasportare senza rischi la statuetta che rappresentava il suo corpo fisico, Dallandra riprese a volare con lunghi e decisi colpi d'ala, librandosi di tanto in tanto sulle correnti ascensionali per risparmiare le forze e dirigendosi verso il fumo fra il giallo e il marrone che aleggiava all'orizzonte. In basso la pianura erbosa cedette il posto ad una distesa di rocce e ad una collina spoglia, al di là della quale lei si trovò a sorvolare la pianura della battaglia dove due eserciti si stavano fronteggiando, la Corte Luminosa dalle scintillanti spade argentee e la Corte Oscura con le sue corazze e le sue lance di smalto nero. Nel piccolo spazio sgombro fra i due schieramenti Lord Volpe sedeva in sella al suo stallone nero e stava schernendo il fratello con la spada in pugno. «Ho in mia mano la tua preziosa donna!» stava gridando. «Fammi del male e lei morirà.» Con l'elmo sotto il braccio e la spada ancora nel fodero, Evandar sedeva in sella immobile come una statua. «Risana le mie terre» tuonò ancora Lord Volpe, «e forse ti restituirò la tua cagna elfica. Adesso non riuscirai mai a trovarla, non dove l'ho rinchiusa.» Evandar continuò a fissarlo senza dire una parola, mentre alle sue spalle la Corte Luminosa infuriava e imprecava, agitando le armi e chiedendo vendetta. Infine Evandar si mosse, ma soltanto per girarsi sulla sella e gridare ai suoi uomini di tacere. «Rifletti bene sulla mia richiesta!» ringhiò intanto Lord Volpe. «Domani quando sorgerà il sole tornerò qui per sentire la tua risposta.» Con un colpo inferto di piatto con la spada fece quindi impennare il cavallo e si girò per allontanarsi con i suoi uomini che ridevano e gridavano insulti, gongolando della loro temporanea vittoria. Nella sua arroganza, Lord Volpe non vide il fanello grigio che stava volando in cerchio nel cielo, in attesa che lui e il suo esercito fossero infine scomparsi all'orizzonte e che la polvere fosse tornata a posarsi sulla spenta piana marrone. Di nuovo immobile, Evandar seguì con lo sguardo la Corte Oscura che si allontanava mentre i suoi guerrieri gli si stringevano intorno e lo incitavano a guidarli in battaglia. Lanciando un piccolo stridio, Dallandra scese
in picchiata e la Corte Luminosa prese ad applaudire, a ridere e a gioire a sua volta mentre lei volava in cerchio intorno al cavallo di Evandar, vi atterrava davanti e tornava ad assumere la propria forma elfica. Per un lungo momento Evandar si limitò a fissarla senza dire nulla, e d'un tratto Dallandra si rese conto che stava piangendo. «Amore mio» sussurrò infine lui. «Sei davvero libera?» «Sì. Pensavi che avrebbero potuto trattenermi a lungo?» Gettando indietro il capo Evandar scoppiò in un'ululante risata berserker che le ricordò Rhodry Maelwaedd, poi sfilò un piede dalla staffa e le porse la mano per aiutarla a montare dietro di lui; non appena si fu assestata in sella, si girò quindi a darle un rapido bacio. «Prima la vendetta!» esclamò, sollevando una mano e materializzando dal nulla il corno d'argento. «Inseguiamoli!» La Corte rispose con un grido di guerra alla cascata di note argentine che lui trasse dal corno; gridando e agitando le spade i guerrieri si lanciarono al galoppo sulla piana della battaglia dove la Corte Oscura si girò per affrontarli, avvertita da tanto clamore. Sollevando il suo corno argenteo Evandar lo usò per impartire ai suoi uomini l'ordine di mantenere le posizioni e di formare lo schieramento, e i suoi guerrieri frenarono i cavalli ululando di delusione, imitati più avanti dalla Corte Oscura. «Fratello!» esclamò Evandar. «Cosa ne pensi di questo, fratellino? A quanto pare ho di nuovo la mia donna!» Lord Volpe urlò e si volse per fuggire, ma ormai era troppo tardi: sollevando di scatto una mano Evandar la mosse in cerchio nell'aria e di colpo il terreno sottostante la Corte Oscura tremò e cominciò a squarciarsi con un crepitio simile a quello di un ramo che si spezzasse ma tanto forte da far pensare che si trattasse di un'intera foresta. La fessura così creatasi si allargò in cerchio con una velocità incredibile, circondando Lord Volpe e tutti i suoi uomini in modo da imprigionarli all'interno di una sorta di vasta trincea: fra nubi di polvere e rocce che precipitavano nel vuoto, i guerrieri della Corte Oscura stridettero e implorarono misericordia mentre la terra stessa sussultava e sobbalzava sotto di loro, i cavalli cadevano a terra scalciando e nitrendo e i guerrieri si aggrappavano al suolo con dita e artigli, fra le risa e i commenti beffardi dei membri della Corte Luminosa. Abbassando la mano Evandar l'appoggiò infine sul pomo della sella, e quando le nubi di polvere si dissiparono Dallandra vide che la Corte Oscura era adesso ammucchiata in un gruppo terrorizzato sulla sommità di un'isola di terreno solido grande a stento quanto bastava per contenerla tutta,
intorno alla quale non si allargava il mare ma soltanto il vuoto, un'oscurità che si estendeva fino a raggiungere un panorama di stelle tanto lontane da sembrare schegge di ghiaccio in un cielo nero, stelle di cui lei non aveva mai visto l'uguale perché la loro luce era stranamente fissa e priva del minimo tremolio. Allorché Evandar spinse il cavallo fino all'orlo di quell'abisso la Corte Luminosa esalò un lungo sospiro di timore e scivolò in un silenzio assoluto; sentendosi lei stessa tutt'altro che sicura e un po' spaventata, Dallandra si aggrappò con forza ad Evandar e rifiutò di guardare verso il basso e in direzione di quelle distanti stelle. «Adesso possiamo parlare, fratello» affermò Evandar, in tono pacato. Con un improvviso stridio la Corte Oscura si trasformò in uno stormo di corvi che spiccò il volo dal pinnacolo di terra su cui era intrappolato: per un momento i volatili andarono a sbattere contro una sorta di muro invisibile poi ricaddero al suolo, intrappolati, e quando tornarono ad assumere la loro consueta forma in parte umana e in parte animale Dallandra si rese conto che adesso erano molto meno numerosi, cosa che l'indusse a supporre che soltanto quelli fra loro che erano dotati di una vera consapevolezza fossero riusciti a sopravvivere. «Fratello! Sbaglio o ti avevo detto di farti avanti?» chiamò ancora Evandar. Piangente e tremante, privo della sua bella armatura e delle armi, Lord Volpe avanzò a sua volta verso l'orlo dell'abisso. «Intendo infliggerti una punizione per la sofferenza che hai causato alla mia donna e per esserti fatto beffe di me» dichiarò Evandar. «Tutte le mie terre sono tue, e così pure i miei vassalli.» «Le tue terre erano comunque mie e non voglio il tuo puzzolente branco di mostri. Dimmi il tuo nome.» «Questo no, mai» ribatté Lord Volpe, con un ululato pieno di angoscia. Evandar schioccò le dita e un pezzo dell'isola su cui era imprigionata la Corte Oscura si staccò dal resto, precipitando nell'abisso e scomparendo, accompagnata da una pioggia di terriccio che a sua volta si dissolse nel nulla. «Il tuo nome, fratello.» «No!» Un'altra fetta di terra precipitò e scomparve mentre quanto restava della Corte Oscura ululava e piangeva, rifugiandosi al centro dell'isola in una confusione di urti e di spintoni provocati dalla fretta di allontanarsi dall'orlo del baratro.
«Fratello, il tuo nome. Tu mi hai rubato il mio con l'inganno e adesso avrò il tuo come ammenda.» Il guerriero volpino ringhiò e incrociò le braccia sul petto, fissando il fratello con occhi roventi e pieni di sfida. Per un momento Evandar parve esitare, poi accennò con le dita un gesto in reazione al quale una nuova fenditura divise in due la prigione, separando i guerrieri dal loro capo. «Hai un'ultima possibilità» ingiunse quindi. «Dimmi il tuo nome se non vuoi che ti precipiti di nuovo nel caos dal quale sei nato.» Suo fratello si girò di scatto a fissare la nuova fenditura e il suo esercito, come se avesse sperato di farsi scudo della compassione di Evandar nei confronti dei suoi uomini; dal canto suo la Corte Oscura prese a deriderlo e a insultarlo, schernendo la sua debolezza e dichiarando la propria fedeltà ad Evandar finché il guerriero volpino non la mise a tacere con un ululato. «Ho ancora un po' di dweomer a mia disposizione, e lo userò per uccidervi io stesso!» ringhiò, e i guerrieri tacquero, tenendo lo sguardo fisso su Evandar. «Fratello, il nome!» Il guerriero volpino tornò a voltarsi verso di lui, girando la testa di qua e di là mentre il minuscolo pinnacolo di terra su cui si trovava cominciava a sgretolarsi lentamente, prima dietro di lui, poi alla sua sinistra, quindi alla sua destra e infine davanti ai suoi piedi, fino a lasciargli a stento il terreno sufficiente a mantenere l'equilibrio. «Shaetano!» stridette, paralizzato per il terrore. «E che siate maledetti tu e la tua sgualdrina elfica.» Scoppiando a ridere Evandar schioccò le dita e con un ruggito simile a quello di una piena l'isola di terra si estese verso l'esterno, allargandosi fino ad incontrare il terreno solido intorno ad essa e a far scomparire la fenditura. Urlando e imprecando la Corte Oscura si diede alla fuga, superando d'un balzo l'ultima sottile crepa e allontanandosi in mezzo a nubi di polvere, mentre Shaetano si lasciava cadere in ginocchio piangendo e ringhiando al tempo stesso nell'agitare la testa di qua e di là. «Dimmi una cosa... chi è il più vecchio, tu o io?» domandò Evandar. Shaetano sollevò il capo con un bagliore degli occhi neri, parve sul punto di parlare, poi protrasse il proprio silenzio quanto più a lungo osava. «Tu» ringhiò infine. «Bene. Ricordalo d'ora in poi. Senza di me, fratellino, cesseresti di esistere. Sfidami ancora e mi assicurerò che la tua esistenza abbia fine. Adesso vattene! Ormai conosco il tuo nome e dovrai venire quando ti chiamerò,
proprio come io ho dovuto farlo quando eri tu a convocarmi... e allora vedremo, mio caro Shaetano, quanto questo sarà di tuo gusto.» Ringhiando il guerriero scattò in piedi con i capelli rossi irti sulla testa e le zampe rossicce protese in un inutile gesto di sfida. Per un momento parve tendersi per scattare in avanti, poi si girò e si allontanò a grandi passi, seguendo a testa alta i suoi uomini in fuga. «Shaetano!» mormorò Dallandra. «Che sorta di nome è mai questo?» «Non ne ho idea» replicò Evandar. «Immagino che sia qualcosa che ha raccolto da qualche parte durante i suoi vagabondaggi, scavando nei rifiuti di un altro mondo da quella creatura animalesca che è. Ciò che conta è che adesso conosciamo tutti il suo nome» aggiunse con una risata, «e che potremo continuare la nostra caccia senza che lui abbia il potere di fermarci.» La Corte Luminosa applaudì, ma Dallandra gli posò una mano sulla spalla. «Un momento, amore mio! Io devo andare da Jill!» Lui si girò sulla sella per fissarla con espressione accigliata. «Non posso rimanere» scattò Dallandra. «Devo assolutamente tornare da Jill. Quanto tempo è trascorso per lei?» «Come faccio a saperlo?» «Allora sarà meglio che io lo appuri, non credi?» «Suppongo di sì.» «Lo supponi? Lo sai che Alshandra ha guidato un esercito lungo la madre di tutte le strade?» «Lo so. È stato per questo che ho convocato la mia Corte e mi sono diretto verso il confine: stavo cercando lei e invece ho trovato quel miserabile di mio fratello, tutto tronfio e gongolante.» «D'accordo. Se lo sai, allora sai anche che Alshandra sta senza dubbio cercando di fare del male alla madre di Elessario, che si trova a Cengarn.» «Oh, non intendo certo sostenere il contrario. Perché credi che voglia andare a caccia e stanare Alshandra dalle terre di mio fratello? Rifletti su questo: lei ha guidato un puzzolente esercito attraverso le mie terre per fare danno altrove, ma da allora nessuno l'ha più vista. E se fosse andata a raccogliere altre truppe?» «Per gli dèi! Non ci avevo pensato!» «Io sì» replicò Evandar, con un sorrisetto compiaciuto, «e voglio tenerti accanto a me e al sicuro mentre vado a cercarla.»
«Quale che sia il pericolo devo raggiungere Jill. Non può proteggere l'intera città da sola... se non altro prima o poi dovrà concedersi un po' di sonno.» «Questo è vero, ma...» «Evandar, lei ha bisogno di me.» «Davvero? Ne ho anch'io.» «Cosa ti prende? Elessario è in pericolo... tua figlia! Ti ricordi di lei, vero?» «Certo che mi ricordo, e sento la sua mancanza, ma adesso se n'è andata da me e indipendentemente dal fatto che abbia una vita lunga o che muoia presto per poi rinascere ora appartiene alla ruota della vita e della morte.» «Hai ragione, però...» «Taci. Naturalmente l'amo ancora e temo per lei e farò tutto il possibile per proteggerla, ma non voglio che tu te ne vada!» «Ed io non ti voglio lasciare, ma devo farlo!» Contorcendosi sulla sella Dallandra passò una gamba sul dorso del cavallo e scivolò poco elegantemente giù dalla groppa dell'animale, che scartò in modo tale da farla quasi cadere a faccia in avanti. Afferrandosi ad una staffa appena in tempo riuscì però a ritrovare l'equilibrio mentre Evandar la fissava con assoluta incredulità e lo stallone agitava la testa e sbuffava. «Evandar, ti prego, cerca di capire. Non posso fare quello che desidero. Se potessi rimarrei qui con te, perché ti amo.» «Se fossi in pericolo, accantoneresti la tua gioia per venire da me?» Per un momento Dallandra credette che fosse geloso, poi comprese che stava effettivamente facendo lo sforzo di capire. «Lo farei» rispose. «Lascerei la più bella festa del mondo, il giorno più felice, per venire da te.» «Perché mi ami?» «Perché ti amo.» Evandar rifletté per un lungo momento, poi scese di sella e affidò il cavallo ad uno dei suoi uomini, un guerriero dagli occhi azzurri e dai lineamenti più umani che elfici, che prese le redini e si allontanò di qualche passo con l'animale mentre Evandar l'osservava attentamente e dava l'impressione di studiare anche il resto dei suoi guerrieri, che sedevano rilassati in sella in attesa di ordini. «Rispondi a una domanda» disse, senza girarsi. – Quando ho dato il fischietto a mio fratello lui si è servito della mia compassione come arma
contro di me, catturandoti. Adesso che di nuovo l'ho risparmiato, dovrò rimpiangere questo nuovo atto di misericordia? «Non ne ho idea, ma anche questa volta era la cosa più giusta da fare. Cosa ti ha indotto a perdonarlo?» «Perdonarlo? Io non gli ho perdonato assolutamente nulla, amore mio, neppure una delle sue azioni, non un solo momento di gioia che ha tratto dal farti del male. Un giorno pagherà ogni cosa e ti garantisco che non lo troverà piacevole.» Il modo quieto in cui lui pronunciò quella minaccia strappò un brivido a Dallandra. «Allora perché non lo hai distrutto quando strisciava tremante ai tuoi piedi?» domandò. Evandar accennò a parlare, poi esitò e parve riflettere. «Voglio dirti la verità» replicò infine, voltandosi a guardarla. «La verità invece di un enigma, in modo che tu sappia che ti amo, perché dire la verità non mi riesce tanto facile. Ho bisogno di lui.» Dallandra lo fissò a bocca aperta, senza parole. «Senza di me Shaetano cesserebbe di esistere, proprio come gli ho fatto notare più di una volta, però ho il sospetto... anzi, nel profondo del mio cuore è una convinzione... che senza di lui io stesso morirei. Luce e ombra, amore mio, ombra e luce. Può una delle due esistere senza l'altra? O il caldo senza il freddo, l'umidità senza l'aridità, il fuoco senza l'acqua, l'aria senza la terra? Di conseguenza lo chiamo fratello perché è vero, perché siamo nati insieme anche se io sono il maggiore, perché la luce scaturisce dalla fiamma della candela prima che l'ombra raggiunga il muro.» «Capisco. E chi ha acceso la candela?» «Questo, amore mio, è un enigma a cui neppure io posso rispondere e non ho la presunzione di volerci provare. Possono essere stati quegli esseri che il tuo popolo chiama dèi? Ah, vedo dalla tua espressione che non sai rispondere neppure tu. Bene, forse un giorno conoscerò la risposta, ma fino ad allora essa ha poca importanza per me» ribatté lui, poi le girò di colpo le spalle e si rivolse alla sua corte. «Aspettatemi qui! Tornerò fra poco, prima che vi accorgiate che me ne sono andato» disse, quindi protese la mano verso Dallandra e aggiunse: «Andiamo da Jill, per il semplice fatto che tu lo desideri.» Dallandra prese la sua mano e gli permise di guidarla mentre s'incamminavano con passo lento e deciso sulla pianura polverosa e intorno a loro si raccoglieva una nebbia opalescente solcata di luce argentea.
«Attenta ai gradini» avvertì Evandar, con un tono alquanto compiaciuto. Abbassando lo sguardo, Dallandra si accorse di essere su una rampa di ampi gradini di marmo bianco che salivano in mezzo a grigie mura di nebbia, e quando tornò a guardare Evandar scoprì che stava sorridendo come un bambino soddisfatto. «Ho pensato di rendere la strada meno faticosa del solito» commentò lui. «Ti ringrazio, mio signore» rispose Dallandra, con una piccola riverenza. «Queste scale hanno qualcosa che mi fa sentire una dama di rango.» «Ho usato come modello quelle del palazzo d'estate del re, a Rinbaladelan.» Dallandra scoppiò a ridere, grata di un momento di scherzoso rilassamento prima di affrontare la battaglia successiva di quella strana guerra. Mentre salivano la scala tenendosi per mano ebbe la fugace impressione di sentire musica e risate, l'armonia di molte arpe che suonavano in una vasta sala e molte voci che si levavano nel canto a ricordare tempi migliori e giorni più sereni. Poi la nebbia vorticò, si fece meno fitta e infine si dissolse, permettendole di salire un ultimo gradino e di venirsi a trovare nella piccola stanza di Jill, dove la maestra del dweomer sedeva al tavolo, addormentata su un libro con la testa appoggiata sulle braccia. «Eccola lì» disse la voce di Evandar, che già si stava affievolendo. «Tornerò quando avrò notizie di Alshandra.» Un momento dopo era scomparso, abbandonandola nel mondo degli uomini e degli elfi, stretta nella morsa del Tempo e di sua figlia, la Morte. SEI CAPUT DRACONIS (LA TESTA DEL DRAGO) Alcuni maestri del sapere sostengono che questa figura indica grandi benedizioni indipendentemente dalla casa in cui ricade... con la sola eccezione di quella del Sale. Per quanto mi concerne io nutro però seri dubbi in merito, perché tutti sanno che chi sceglie di cavalcare un drago rischia per forza di rimanere bruciato. Dal Libro dei Presagi di Gwarn, Maestro del Sapere.
«C'è una cosa che mi stavo chiedendo» osservò Rhodry. «Perché così desideroso di vedere questo drago? Si tratta del fascino che esercita una bestia del genere?» «È una domanda legittima» annuì Enj. «No, non si tratta soltanto di questo.» I due erano appollaiati fianco a fianco su una sporgenza di basalto nero simile ad una barca rovesciata; alle loro spalle si levava un pendio boschivo, davanti a loro non c'era nulla, soltanto l'interminabile e ripida discesa della parete dell'altura verso il minuscolo nastro d'acqua che scorreva fra alberi in miniatura nella valle sottostante, al di là della quale si levava verso occidente un'altra altura dalla sommità coperta di boschi, alle cui spalle incombevano le montagne, simili a onde grigioverdi avvolte in un manto di nebbia resinosa. «È a causa di mio padre» spiegò improvvisamente Enj. «Lui mi ha insegnato tutto quello che so sui grandi wyrm, e in effetti sapeva molto sul loro conto perché li trovava bellissimi. Un tempo, quando era molto giovane, ne aveva visto uno volare sopra Haen Marn e non era più riuscito a dimenticare quello spettacolo, quindi era andato a Lin Serr dove aveva studiato tutto lo scibile esistente sui draghi, trovando molte informazioni sui libri e attingendone da svariate storie narrate dai bardi e dai preti.» «Non sapevo che i nani avessero libri del sapere, ma del resto suppongo che quando sono stato a Lin Serr non mi avrebbero comunque permesso di leggerli.» «Oh, laggiù hanno un libro che è grosso quanto la dimora di Haen Marn. Stando a ciò che lui stesso mi ha raccontato, mio padre ha trascorso là molto tempo a studiare il sapere relativo ai draghi, anche se poi se n'è pentito. Vedi, quando mia sorella è nata ed è risultato evidente che era... strana, mio padre ha ritenuto che fosse colpa sua.» «Cosa?» «Oh, si è messo in testa idee assurde, attribuendo a se stesso la colpa dell'accaduto e sconvolgendo terribilmente mia madre, come certo puoi immaginare. Poiché aveva trascorso tanto tempo a rimuginare sui draghi, a parlarne e via dicendo, si è convinto di aver evocato l'anima di un drago e di averla fatta nascere nel corpo di sua figlia.» Rhodry non seppe cosa rispondere e si limitò a fissarlo a bocca aperta, mentre Enj distoglieva lo sguardo. «Poco tempo dopo è annegato» proseguì con voce incrinata. «Io avevo circa vent'anni, quindi lo ricordo bene, anche perché gli ero molto affezio-
nato. Spesso raggiungevamo la riva con la barca portando con noi solo i cani e gli archi, e per giorni interi andavamo insieme a caccia di daini e di pecore selvatiche per rifornire di carne l'isola, e quando ci accampavamo per la notte lui mi parlava dei draghi e di come gli dolesse il cuore per il desiderio di vederne un altro volare.» «E così tu vuoi realizzare il suo sogno?» «Esatto.» «Se potessi trasmettermi quello che sai te ne sarei grato perché sarebbe una vergogna che tante cognizioni andassero perdute, considerando che tu sei il solo a possederle, adesso che lui non c'è più.» «Hai ragione» assentì Enj, con voce soffocata. «Seguirò il tuo consiglio.» Per qualche altro minuto rimasero seduti in silenzio uno accanto all'altro, poi Enj si asciugò gli occhi sulla manica e si alzò in piedi, ritraendosi con cautela dall'orlo del dirupo. «Adesso è meglio rimettersi in marcia» suggerì. «Se lo seguiamo, il costone di questa valle dovrebbe portarci alla cascata che Avain ha visto nel suo bacile, e quando l'avremo trovata sapremo di essere sulla strada giusta.» Rhodry ed Enj avevano lasciato Haen Marn con la luna nuova appena sorta, e in questo momento in cui durante una sosta si erano trovati a parlare del padre di Enj (più o meno lo stesso in cui Dallandra stava arrivando nella camera di Jill) la luna aveva ormai oltrepassato la terza fase. Da alcuni giorni i due si erano lasciati alle spalle le colline per affrontare i fianchi delle montagne, e per quanto Rhodry avesse temuto il momento in cui avrebbe dovuto affrontarle, paradossalmente inerpicarsi su di esse era risultato meno difficile che attraversare le colline, perché anche se i pendii erano talmente erti da obbligarlo in alcuni tratti a camminare piegato su se stesso e appoggiato ad un bastone, d'altro canto una volta arrivati alle foreste d'alta quota il sottobosco aveva cessato d'essere d'intralcio, diradandosi fino a scomparire sotto i giganteschi abeti che i nani chiamavano "grigi di montagna", piante più alte di qualsiasi pilastro della grande sala del Sommo Re, che crescevano scure e diritte e ricoprivano il suolo con una coltre di aghi che avevano il colore del sangue secco e che creavano un tappeto fitto e cedevole sotto i piedi. Pur rendendo impossibile l'utilizzo di animali da soma per l'assoluta mancanza di foraggio fresco, quel morbido tappeto permetteva d'altro canto ai due uomini di mantenere una ragionevole andatura di marcia.
«Su un terreno del genere riescono a crescere ben poche piante» aveva commentato Enj. «Non so perché, ma sembra che gli abeti reclamino per loro queste montagne e siano pronti a soffocare qualsiasi intruso.» Lungo i corsi d'acqua era naturalmente possibile imbattersi in qualche groviglio di cespugli e di piantine che lottavano per accaparrarsi un po' d'acqua e di luce solare, e in mezzo ad essi Enj trovava erbe commestibili che abbinava al pesce da lui pescato. Quando si accampavano, i due piazzavano inoltre delle trappole per conigli e roditori in modo da incrementare la scorta di pane e di formaggio che avevano con loro, consapevoli di aver bisogno di ogni boccone in più che fossero riusciti a ricavare dal terreno circostante mentre proseguivano la marcia in mezzo a quelle foreste sterminate, un vero e proprio mare di alberi che si stendeva sulle montagne e scendeva a rivestire le rare vallate, dando a Rhodry l'impressione di nuotare sott'acqua e di emergere di tanto in tanto in superficie per orientarsi. Ogni volta che arrivavano sul costone di una vallata o che s'imbattevano in una sporgenza di roccia lui indugiava sempre a guardare verso nord, dove i picchi bianchi si levavano più alti che mai e all'apparenza irraggiungibili, sebbene ormai si trovasse in mezzo ad essi. Mentre i due compagni s'inerpicavano sempre più in alto le notti cominciarono a diventare fredde, anche se la loro brevità indicava che era ancora estate; nelle giornate in cui il tempo era asciutto entrambi facevano raccolta di legna secca per il fuoco, ed Enj era sempre alla ricerca di foglie marce e di aghi d'abete secchi con cui incrementare la loro scarsa scorta di esca per il fuoco. Dal momento che aveva sempre vissuto in città o lungo strade che portavano da una città all'altra, vedere l'abilità con cui Enj era in grado di sopravvivere nei boschi riempì Rhodry di ammirazione. «Questa è la mia casa» replicò semplicemente Enj. «Dalla notte in cui mio padre è annegato non mi sono più sentito a mio agio ad Haen Marn.» «In ogni caso ti sono comunque grato dal profondo del cuore» ribatté Rhodry, «perché indipendentemente dal mio Wyrd senza di te non sarei mai riuscito a portare avanti la mia missione. Non ho mai conosciuto nessuno che sapesse cavarsela come te nei boschi.» Enj si affrettò a distogliere lo sguardo con un sorriso, arrossendo fino agli orecchi. Durante la marcia, il giovane era anche impegnato nella costante ricerca dei punti di riferimento indicati da sua sorella, che rintracciò uno dopo l'altro... la roccia che l'erosione aveva modellato fino a farla somigliare ad una spiga di grano maturo, l'abete alto trenta metri morto da almeno vent'anni
che ancora sorgeva nudo e nero sulla sommità di una collina, un enorme masso nel quale in tempi antichi il ghiaccio aveva creato una spaccatura ora occupata da un giovane albero; altri indizi erano meno facili da individuare, come una collina dalla forma strana piuttosto che un gruppo particolare di alberi o una cascata che sembrava dividersi in due nel cadere su alcune rocce, ma alla fine giunse il giorno in cui arrivarono all'ultimo di quei punti di riferimento... se la sporgenza di roccia che avevano trovato era effettivamente quella che Avain aveva detto somigliare alla testa di un cane. La somiglianza poteva essere sembrata evidente a lei, ma né Enj né Rhodry erano del tutto certi che si trattasse dell'altura giusta. «Che sia o meno quella che cerchiamo se non altro fornisce un riparo dal vento» affermò Enj. «Direi di accamparci qui.» Disposte le trappole andarono in cerca di legna da ardere e mentre Enj la faceva a pezzi con la sua accetta Rhodry s'inerpicò sulla sommità della supposta testa di cane per dare un'occhiata in giro. La loro linea di marcia si stava attualmente snodando lungo un pendio in discesa, e questo gli permise di spingere in lontananza lo sguardo verso ovest fino ad una foresta ammantata di foschia estiva. «Enj!» chiamò d'un tratto. «C'è una cosa strana! Vedo delle colline che sembrano essere i fianchi del grosso picco che si leva verso nord, ma credo che all'orizzonte ci sia anche una pianura di qualche tipo... è troppo grande per essere un pascolo montano o qualcosa del genere.» Il rumore secco dell'ascia cessò immediatamente. «Sei tu ad avere la vista elfica, non io» replicò Enj. «I picchi sono di nuovo visibili sul lato opposto di questa spianata?» «La distanza è eccessiva per poterlo stabilire» replicò Rhodry, riparandosi gli occhi con la mano. «Il terreno sembra piatto e stranamente spoglio. Non sai di cosa si possa trattare?» «Non sono mai giunto così lontano in tutta la mia vita. Sono pronto a scommettere che nessuno, né uomo né nano, si è mai spinto tanto a nord.» All'improvviso Rhodry si sentì assalire dalle vertigini e scivolò giù dal suo punto di osservazione, sedendosi all'ombra della roccia e battendo un colpetto sul terreno come per accertarsi che ci fosse ancora. «Se è rotonda, quella valle potrebbe essere la "Scodella degli Dèi" che Avain ha continuato a nominare» osservò Enj, affondando l'accetta in un ceppo. «A dire il vero sembra lunga e stretta.»
«Allora non so cosa sia» sorrise Enj, improvvisamente solare quanto sua sorella. «Andremo a vedere, consapevoli di essere i primi uomini al mondo a percorrere queste terre.» «Questo significa molto per te, vero?» «Oh, quanto un mucchio di oro e di gioielli, anche se vedo che a te non importa affatto.» «M'interesserebbe maggiormente se non fossi angosciato a causa dell'assedio» replicò Rhodry, scrollando le spalle. «Per quanto ne so Cengarn può già essere stata conquistata dai suoi nemici mentre io sono bloccato qui senza poter fare nulla per salvarla.» «Chiedo scusa... io continuo ad allontanare dalla mente il pensiero di quell'orrore. In tal caso, Rori, domattina riprenderemo il cammino in direzione di quella misteriosa pianura, ma se tu non riuscirai a scorgere montagne di sorta entro il tramonto dovremo tornare indietro, perché non troveremo il nostro drago se non nelle vicinanze di una montagna.» «Davvero? Perché?» «È dove si rintanano d'inverno. I grandi wyrm sono animali a sangue freddo e d'inverno morirebbero senza una fonte di calore di qualche tipo.» «Capisco. Vorrei che avessimo con noi degli esploratori da mandare in avanscoperta... a proposito, c'è una cosa strana che ho notato: durante tutto il nostro viaggio non ho visto un solo membro del Popolo Fatato, non uno gnomo né uno spiritello, mentre di solito ne ho sempre intorno e a volte svolgono anche degli incarichi per me.» «Ecco, stanno evitando me» spiegò Enj, con un sorriso contrito. «Noi del Popolo della Montagna possiamo vederli ma loro ci detestano, quindi suppongo che si stiano tenendo lontani per causa mia.» «Allora è per questo che non li ho visti sciamare intorno ad Avain mentre di solito amano stare vicini a persone che mostrino di avere talento per il dweomer.» «Davvero? Non lo sapevo. Un momento... quando evocava le immagini connesse al drago Avain teneva sempre in mano l'anello perché senza di esso non poteva vedere nulla. Dal momento che hai sangue elfico nelle vene e che porti indosso il nome di quel drago, non potresti cercare di rintracciarlo con una visione?» «Proprio no, altrimenti lo avrei già fatto.» «Hai ragione, e ti chiedo scusa per non averci pensato. È solo che sento che in qualche modo ci sta sfuggendo qualcosa che potrebbe esserci d'aiuto.»
In effetti anche Rhodry era consapevole che avevano bisogno di ogni aiuto possibile. Dopo che ebbero cenato, mentre il sole del tramonto splendeva ancora dorato sulla pianura lontano verso ovest, lui tornò ad arrampicarsi sulla sporgenza di roccia e indugiò a fissare il panorama: le ombre più lunghe proiettate dal tramonto sembravano adesso delineare sull'altro lato di quella misteriosa pianura dei picchi montani acuminati come i denti di un gatto e molto distanti, al punto che era difficile stabilire se si trattava effettivamente di montagne, e nel contemplare quello scenario Rhodry si sentì dolorosamente consapevole del fatto che lui ed Enj avrebbero potuto vagare per mesi in mezzo a quelle ignote vette, girando intorno alla tana del drago o mancandola appena di qualche chilometro. Quando infine riabbassò la mano con cui si stava riparando gli occhi, lo scintillare dell'anello sotto il sole morente gli ricordò però una cosa. «Senti, Enj, non pensare che sia impazzito... ma credo che proverò a chiamare il drago» disse. Gli ci volle un momento per ricordare ciò che Jill gli aveva insegnato, poi si sfilò l'anello per leggere la scritta ed essere certo di avere chiara in mente ogni singola lettera elfica e sillabò lentamente le parole... Arzosah Sothy Lorezohaz... per rinfrescarne il suono. Quando infine si sentì pronto si concentrò, trasse un profondo respiro e intonò il nome del drago. «Ar Zo Sah Soth Ee Lor Ez O Haz.» Il suono da lui emesso echeggiò stentoreo come un colpo di gong nel silenzio delle montagne, avvolte nella quiete del tramonto, indugiando nell'aria e spegnendosi molto lentamente. Consapevole che dal basso Enj lo stava fissando a bocca aperta, per un momento Rhodry si sentì terribilmente stupido. «Fallo di nuovo, Rori» sussurrò quindi il giovane. «Non ho mai sentito nessuno tranne i preti ottenere un effetto del genere.» Rhodry si concentrò nuovamente, immaginando di trovarsi in procinto di impegnare una battaglia d'importanza cruciale. «Ar Zo Sah Soth Ee Lor Ez O Haz.» Questa volta le sillabe scaturirono dalle sue labbra come uno squillo simile a quello dei corni d'ottone modellati secondo lo stile dell'Alba dei Tempi che i preti suonavano la notte di Samaen, ronzando e vibrando nel diffondersi in tutta la valle per poi destare una serie di echi che parvero inseguirsi fino all'orizzonte. La risposta giunse sotto forma di un tocco lieve, di una consapevolezza, della carezza di una mente aliena che incontrava la sua. Il drago viveva non molto lontano da dove si trovavano, almeno ri-
spetto alla distanza che già avevano percorso, e adesso Rhodry poteva avvertire la sua inquietudine... non ancora definibile come paura ma piuttosto come un senso di disagio di fronte al fatto che un pensiero che gli riusciva incomprensibile aveva sfiorato la sua mente. Nel ripararsi di nuovo gli occhi per guardare in direzione del tramonto, Rhodry avvertì la certezza che il wyrm avesse il suo covo verso ovest: gettando indietro il capo scoppiò nella sua risata berserker, e nell'echeggiare fra le colline quel folle ululare parve quasi normale a confronto del suono che lui aveva emesso nel gridare il nome del drago. Continuando a sorridere, Rhodry scivolò infine giù dalla sporgenza e batté una pacca sulla spalla di Enj. «Andremo ad ovest» annunciò. «Potrai attraversare quella pianura, ragazzo, proprio come desideravi fare.» Due giorni più tardi, quando raggiunsero il pianoro dalla forma allungata stretto fra due catene di montagne, i compagni ottennero una prova concreta che venne ad avvallare quell'intuizione data dal dweomer: mentre scendevano il pendio che li avrebbe portati sulla pianura, la prima cosa che notarono fu il cambiamento subito dagli alberi, che pur essendo ancora abeti grigi di montagna erano adesso stentati, con pochi rami sempre più flosci a mano a mano che si avvicinavano al fondo, e al tempo stesso Rhodry si scoprì ad annusare l'aria con l'attenzione di un cane per identificare la natura dell'odore che stava avvertendo. «Per gli dèi!» esclamò. «L'aria puzza di zolfo.» «Infatti» annuì Enj, soffermandosi ad annusare a sua volta. «È un odore che si avverte di tanto in tanto, quando il vento soffia dritto da ovest.» Scambiandosi un sorriso soddisfatto, ripresero la marcia e verso sera giunsero infine sulla pianura. Rhodry si era preparato a trovarsi di fronte un panorama cupo e devastato, ma la pianura risultò avere un aspetto abbastanza normale, almeno vista da una certa distanza; a mano a mano che si addentrarono su di essa, tuttavia, si accorsero che l'erba cresceva pallida e stentata intorno a rotondi massi neri che sporgevano attraverso il sottile strato di terriccio e che i pochi alberi presenti erano contorti e avevano l'aspetto malsano. Accoccolandosi, Enj affondò le dita nel terriccio e ne sollevò una manciata, mostrando a Rhodry come esso fosse nero e stranamente lucido, quasi avesse iniziato la propria esistenza come cenere.
«Mio padre mi ha ripetuto spesso che alla fine gli alberi e l'erba si riprendono la terra che la montagna di fuoco ha tolto loro, il che deve essere quello che sta succedendo qui» disse. «Senza dubbio è così. Guarda, ecco laggiù la montagna.» All'estremità settentrionale della valle si levava infatti un monte di cui Rhodry non aveva mai visto l'uguale in tutta la sua vita: simile alle torri multiple della fortezza di qualche grande nobile, esso sembrava formato da tre picchi fusi insieme, il più alto dei quali era un cono tronco e incappucciato di neve che dominava le altre due vette molto più basse, la cui sommità sembrava essere stata staccata a morsi da una bestia di dimensioni inimmaginabili. I pendii apparivano scuri, qua e là chiazzati di alberi o solcati da crepacci che proiettavano ombre profonde, e la cima era avvolta in un velo di nebbia. «Fumo?» domandò Rhodry. Enj si limitò a scrollare le spalle e a fissare il vulcano con espressione affascinata. «Credo che sia stato il tuo dweomer a condurci qui» sussurrò infine. «Aver visto quella montagna è ricompensa sufficiente per questo viaggio, anche se dovessi morire stanotte.» Pur trovando che il vulcano fosse interessante, Rhodry non riuscì a comprendere il fascino che esso esercitava su Enj, in quanto per quel che lo riguardava avrebbe preferito di gran lunga contemplare il palazzo del Sommo Re o qualche altra cosa del genere. «Laggiù vedo dell'acqua» osservò. «Speriamo che non puzzi di zolfo.» Quella notte si accamparono ai piedi della montagna e per la prima volta da quando Othara gli aveva dato il talismano Rhodry ebbe di nuovo uno di quei lunghi e vividi sogni in cui si trovava a volare molto al di sopra della terra, vedendo gli alberi e le montagne scivolare via sotto di lui mentre il suo sguardo spaziava nel cielo; insieme alla gioia del volo i suoi sogni furono però velati anche di preoccupazione, di un vago timore e della sensazione che nelle vicinanze ci fosse un pericolo incombente. Svegliatosi di colpo all'alba rimase sdraiato con le mani sotto la testa e lo sguardo fisso sui picchi che lo sovrastavano: a mano a mano che la luce si fece più intensa, accentuando così le ombre che riempivano i crepacci, riuscì a distinguere le rientranze della parete e strane e lunghe formazioni di roccia che scendevano intrecciandosi lungo i fianchi della montagna insinuandosi come rivoletti di acqua nera fra macchie di alberi grigi oppure allargandosi a formare una sorta di polla o massi che sembravano delle gocce d'acqua, a
testimonianza del tempo lontano in cui la montagna aveva eruttato roccia liquida come il metallo fuso che coli nel crogiuolo di un fabbro. Mentre osservava i pendii montani, sentì la terra tremare sotto di lui per una manciata di secondi prima d'immobilizzarsi. «La terra del sangue e del fuoco» sussurrò, sedendosi e spostando la propria attenzione sui due coni. Oltre ad essere meno alti di quello centrale... il sinistro ancor più del destro... entrambi erano profondamente segnati dall'erosione e quello di sinistra era coperto da un più fitto strato di vegetazione, il che significava che con ogni probabilità costituiva anche la via di ascesa più facile. Considerato quanto lui ed Enj fossero stanchi e quanto poco cibo fosse loro rimasto, dovevano peraltro cercare di individuare la direzione giusta al primo tentativo, e per un momento lui prese in considerazione l'eventualità di chiamare ancora il drago per potersi formare un'impressione in merito alla direzione in cui si trovava, ma poi evitò di farlo quando si rese conto che in questo modo avrebbe messo in allarme la sua preda. Enj si svegliò di lì a poco, e dopo una rapida colazione a base di uno scoiattolo catturato e arrostito il giorno precedente lui e Rhodry discussero su quale dei due picchi convenisse scalare. «Mi chiedo se dobbiamo davvero scalare uno di quei picchi» osservò d'un tratto Rhodry. «Sento nel profondo dell'anima che il drago è lassù da qualche parte, ma non si tratta di un pensiero razionale e detesto dover fare affidamento su una mera sensazione.» «Che altro abbiamo su cui fare affidamento? Rori, io credo che se sei destinato ad avere questo wyrm lo troveremo facilmente e che in caso contrario moriremo qualsiasi direzione decidiamo di seguire.» «Un pensiero spiacevole, ma temo che tu abbia ragione. Ciò di cui avremmo bisogno è un presagio, ed è un peccato che Otho non sia con noi per ottenerne uno con la geomanzia.» Enj scoppiò a ridere e riprese a studiare le montagne, il cui picco più alto era ancora avvolto nella nebbia anche se la giornata si stava facendo sempre più calda e soleggiata. D'un tratto Rhodry si alzò in piedi e si allontanò di qualche passo dal compagno. «Se qui c'è davvero all'opera il dweomer allora possiamo inventarci un modo per trarre presagi con la certezza che funzioni» disse. «Se invece il dweomer non c'è siamo condannati comunque. Che gli dèi abbassino lo sguardo su di noi e decidano!» esclamò quindi con una risata, mentre estraeva la daga d'argento e la levava in alto.
Ricordando un commento che aveva sentito fare a Jill badò di muoversi nella direzione del sole, da est ad ovest, mentre prendeva a girare su se stesso sempre più velocemente, come un bambino che stesse giocando; dopo qualche giro vertiginoso aspettò il momento in cui con la coda dell'occhio vide il picco più alto saettare verso di lui e lanciò la daga che descrisse un arco scintillante verso l'alto e cadde in modo da indicare dritto verso il picco di sinistra. «Allora è deciso» commentò Enj. «Vediamo cos'hanno in serbo per noi gli dèi.» Impiegarono tutto il giorno a risalire il pendio di sinistra, consumando l'intera mattina per scoprire il modo migliore per portare avanti l'ascesa, spostandosi da una fenditura alla successiva, da una macchia di cespugli ad una fessura nella roccia; con sollievo di Enj lungo il tragitto trovarono dell'acqua potabile, anche se era tiepida e sapeva leggermente di zolfo, e una volta raggiunta la parte bassa del pendio riuscirono a tenere un ritmo di marcia lento ma costante, tanto che entro mezzogiorno la pianura sottostante era ormai così lontana da far sì che gli alberi apparissero come piccole macchie sul terreno spoglio. Trovata una fenditura più o meno orizzontale dove alcuni alberi nodosi come altrettanti gnomi stavano sgretolando a poco a poco la roccia coperta da un fitto strato di muschio e di licheni, i due compagni si concessero un po' di riposo e uno scarso pasto prima di affrontare la parte superiore del pendio, così ripida da dare loro l'impressione di non aver percorso neppure un chilometro anche dopo che si stavano inerpicando ormai da ore. Nonostante tutto continuarono l'ascesa, piegati in avanti per combattere la pendenza del terreno e con lo sguardo costantemente fisso sulla successiva zona di roccia nuda e nera o sulla prossima area di terriccio reso scivoloso dallo strato di erba morta che lo ricopriva, mentre intorno a loro il vento soffiava incessante, carico di un sentore di zolfo e di cenere. Alla fine, quando ormai cominciava a sentirsi le gambe prossime a sciogliersi come acqua per la fatica, nel sollevare lo sguardo Rhodry vide davanti a sé una sorta di orizzonte... la linea nerastra della superficie di roccia che si stagliava sullo sfondo del cielo azzurro là dove cessava di salire per appiattirsi. Allorché s'issò a fatica su quel crinale si trovò di fronte ad un altro pendio, questa volta in discesa e interrotto qua e là da tratti di falsopiano nei quali qualche scarno albero levava i suoi rami verso il cielo. «Ci siamo quasi» ansimò Enj. «Resisti.»
Avendo entrambi il respiro affannoso, si concessero qualche momento di riposo allontanando i capelli sudati dalla fronte, poi si assestarono il bagaglio sulle spalle e ripresero il cammino, e a mano a mano che il pendio si trasformava nella cima vera e propria di un'altura Rhodry cominciò a intravedere ciò che si trovava davanti a loro, una serie di enormi e distanti rupi dalle pareti piatte e circolari come il muro che cingeva Lin Serr e circondate da picchi innevati che scintillavano al sole. Fu soltanto quando infine arrivarono al limitare dell'altopiano che poté abbracciare con lo sguardo l'intero panorama. «Oh, dèi!» sussurrò. «Oh, dèi!» Davanti a lui il costone su cui si trovavano scendeva per centinaia di metri verso il fondo di una vasta vallata, che si allargava sterminata fino alla distante superficie di quello che era stato un tempo l'interno di una montagna e che adesso formava un semicerchio così perfetto da sembrare il bordo di un'enorme scodella d'argilla che il vasaio avesse però rovinato nel modellarla sulla ruota producendo con un pollice la depressione che aveva permesso a lui e ad Enj d'inerpicarsi fin là. Scuotendo il capo per la meraviglia cercò d'immaginare cosa avesse prodotto un simile cratere: gli riusciva difficile credere che un tempo fuoco e roccia liquida si fossero riversati oltre il costone su cui ora si trovava, fluendo come vino da quella ciotola deformata, così come faticava a credere che la roccia avesse ribollito come acqua... e tuttavia sapeva che quanto Enj aveva appreso da suo padre era la verità. Il fondo della scodella si era adesso trasformato in una valle coperta a tratti d'erba e punteggiata di alberi ammantati di un fogliame rosso e oro, quasi volessero rendere omaggio al fuoco da cui era nata la loro dimora, anche se probabilmente quella colorazione era dovuta al fatto che l'autunno giungeva in anticipo a quell'altitudine. «La Scodella degli Dèi» commentò Enj, con un sorriso di trionfo. «Infatti! Dopo tutto Avain aveva ragione.» «Senza dubbio le ha dato un nome adatto, anche se forse manca un po' di poesia.» «Comunque la si voglia chiamare, è enorme.» «Direi che abbia un diametro di almeno tre chilometri, ma è difficile stabilirlo» convenne Enj, protendendo il braccio con il pollice sollevato per valutare meglio le dimensioni. – E quelle rupi sull'altro versante devono essere alte almeno millecinquecento metri, il che per noi è una vera sfortuna. «Perché?»
«Perché dobbiamo oltrepassarle. Da qui è possibile vedere il picco centrale che si leva al di là della rupe più lontana, e se ti guardi intorno puoi notare che il fuoco deve essere scaturito per la prima volta da un punto a metà del fianco della montagna, in un tempo così remoto da essere incalcolabile; in seguito deve esserci stata una seconda eruzione più recente in cui il fuoco è emerso da quell'altro cono...» «E adesso il prossimo di cui preoccuparsi è l'ultimo picco rimasto, giusto?» «Preoccuparsi? Ecco... se quella montagna dovesse esplodere mentre siamo qui...» Per un momento rimasero entrambi immobili a fissare la cima avvolta nel suo manto di caligine grigia che poteva essere una coltre di nuvole come una nube di fumo. «Se dobbiamo oltrepassare le alture non possiamo aggirare il tutto evitando di scendere nella valle?» chiese infine Rhodry. «Vorresti usare la sommità delle alture come una sorta di strada? Probabilmente hai ragione, ma non mi va di accamparmi stanotte qui allo scoperto, come una mosca sull'orlo di un boccale.» «Perché no? Abbiamo dormito in posti peggiori.» Enj esitò, fissando il cielo e tormentandosi con i denti il labbro inferiore. «Stavo pensando che quella creatura potrebbe uscire a caccia e sorprenderci a camminare quassù, dove non ci sono né alberi né sporgenze di roccia nel raggio di almeno un chilometro» disse infine. Rhodry accennò a ribattere, poi si limitò ad una risata che strappò un sussulto ad Enj. «Per gli dèi, Rori, quando ridi in quel modo mi fai accapponare la pelle. Allora, se deviamo leggermente verso ovest dovremmo poter scendere nella vallata sfruttando quella fenditura che puoi vedere laggiù.» In direzione della fenditura la sommità dell'altura sembrava digradare in certa misura, e Rhodry si augurò che questo riducesse il tragitto che dovevano percorrere, perché anche se si era riposato abbastanza da poter riprendere la marcia aveva tutti i muscoli delle gambe e dei piedi che erano attraversati da fitte di dolore. D'un tratto Enj, che procedeva all'avanguardia, lanciò un grido e sollevò un braccio per segnalargli di fermarsi. «Questo sì che è un precipizio degno di questo nome!» esclamò. «Vieni a dare un'occhiata.» In fondo ad un enorme pozzo naturale c'era un lago del diametro di almeno un centinaio di metri; il pozzo sembrava invece una sorta di gigante-
sco buco creato con un dito da un dio nella terra umida che si era poi trasformata in roccia e aveva trattenuto al proprio interno l'acqua piovana. Dal punto in cui erano i due potevano vedere lisce pareti della consueta roccia grigia scendere a strapiombo fino all'acqua che si trovava alcune decine di metri più in basso e sulla cui superficie era possibile veder fluttuare volute di vapore. «Scommetto che laggiù vive qualcosa di poco piacevole» commentò Rhodry. «Probabilmente un demone o almeno un branco di spiriti malvagi.» «In ogni caso non resteremo nei dintorni abbastanza a lungo da appurarlo» replicò Enj. «In marcia.» Una volta raggiunta la depressione presente lungo il bordo del cratere, il pendio eroso dagli elementi che portava verso il fondo della valle parve meno inaccessibile di quanto avessero supposto e percorribile sia pure a prezzo di una certa fatica. «Cosa ne pensi?» chiese Enj, dopo averlo osservato per un lungo momento. «Qui sei tu il capo.» «Io penso che potremmo farcela se ci muoviamo adesso, perché è necessario arrivare sul fondo della valle prima che scenda il buio.» Ci riuscirono, sia pure a stento, effettuando la discesa assicurati uno all'altro con una corda, con Rhodry che procedeva per primo e l'esperto Enj che lo seguiva in modo da fungere da ancora per entrambi se lui fosse caduto. Ogni metro guadagnato era frutto di accurate riflessioni e di un lungo esame del pendio non tanto per valutare i possibili appigli offerti da quel passaggio quanto quelli che sarebbe stato possibile trovare più in basso. Più di una volta furono costretti a tornare sui loro passi alla ricerca di un percorso più accessibile, per quanto il nano avrebbe potuto forse superare il punto che aveva creato il problema se non avesse avuto Rhodry di cui preoccuparsi; ogni volta però Enj decise di cercare un percorso più lento ma più sicuro, dichiarando allegramente che era meglio perdere del tempo che la vita. Verso la metà della discesa passarono dal sole all'ombra e quando infine raggiunsero sani e salvi il fondo della valle esso era già ammantato nel buio, anche se la sommità delle pareti del cratere era ancora illuminata dal sole e al di là di essa il picco del vulcano, appena visibile da quel punto, splendeva di una tinta dorata soffusa di rosa. «A giudicare dalla presenza di tutti quegli alberi direi che laggiù ci deve essere un corso d'acqua» osservò Rhodry. «A proposito, che piante sono?»
«Io li chiamo larici di montagna» rispose Enj, «ma non so che nome darebbe loro un maestro del sapere. Mi sento proprio pronto ad accamparci, e quelle piante dovrebbero garantire legna secca a sufficienza per accendere il fuoco.» «Sempre che osiamo accenderne uno.» «Questo è vero. Bene, una notte d'estate trascorsa senza il beneficio di un fuoco non ha mai ucciso nessuno.» Mentre riprendevano a camminare diretti verso il centro del cratere rimasero entrambi costantemente in guardia, girandosi spesso per scrutare il cielo, ma nella valle continuò a regnare l'assoluto e profondo silenzio portato dalla notte ormai prossima. «Del resto non credo che il drago si farebbe mai la tana quaggiù» osservò Rhodry. «In tutte le storie ho sempre sentito dire che si annidano nelle montagne.» «Scommetto che si è rintanato dove può stare al caldo, vicino al fuoco che cova in quel che resta di questa montagna.» «Non mi sembra il posto più sicuro in cui crearsi la propria casa.» «Non lo è per noi, ma è abbastanza sicuro per un drago. Queste antiche montagne sono piene di canne fumarie e di passaggi lisci e rotondi, prodotti dalla roccia fusa che è defluita in fretta all'esterno e si è lasciata alle spalle la propria pelle come un serpente in fase di muta. Con il tempo lo strato esterno... la pelle, se così vogliamo chiamarla... si è indurito fino a formare vere e proprie gallerie dove l'aria calda scorre per poi raccogliersi in numerose caverne create dalle bolle d'aria presenti in passato nella lava fusa. Il wyrm deve aver trovato uno di questi angoli accoglienti in cui creare la sua tana.» «Può darsi, ma se non è morta la montagna potrebbe esplodere ancora» replicò Rhodry, guardandosi intorno con un brivido mentre tentava d'immaginare che genere di eruzione ci sarebbe voluto per sventrare in questo modo metà di una montagna. «Il drago non può essere certo che non accada.» «Secondo tutte le storie i grandi wyrm vivono in comunione con le montagne di fuoco perché nel profondo del loro cuore arde un fuoco simile a quello che consuma la montagna e questo permette loro di comprendersi a vicenda. I wyrm sanno quando la montagna dorme e quando sta per svegliarsi: essa stessa li avverte, perché sono come fratelli» spiegò Enj, poi scoppiò a ridere e aggiunse: «Mio padre però sosteneva che quelle bestie hanno soltanto un udito eccezionale e il ventre sensibile: quando si stendo-
no sulla roccia possono sentire il sottostante gorgogliare della lava fusa e avvertire il tremito della montagna, per cui imparano a valutarne lo stato da quei rumori, come una levatrice valuta le condizioni di una donna incinta premendo un orecchio sulla sua pancia.» «Anche se preferisco la tua versione, senza dubbio la spiegazione di tuo padre è la più valida.» Enj sorrise e accennò a parlare ancora, poi però si bloccò e sollevò la mano in un gesto di avvertimento. Mentre conversavano i due compagni avevano raggiunto la protezione dei primi alberi stentati, che per quanto dotati di uno scarso fogliame offrivano comunque una protezione di qualche tipo, e adesso s'immobilizzarono, tendendo l'orecchio per cercare di decifrare la natura del suono che aveva attratto la loro attenzione e che si stava ripetendo, così lontano da essere più un'eco indistinta che un rumore vero e proprio. Nell'ascoltare con attenzione Rhodry ebbe l'impressione che si trattasse di un suono simile al battito di una mano contro un tamburo la cui superficie di pelle di capra si fosse allentata a causa degli anni... una serie di distanti schiocchi ovattati e pulsanti che si ripetevano nel farsi più forti e vicini fino a rivelarsi come il battito di ali enormi che risuonava nell'aria immota. Automaticamente sia lui che Enj sollevarono lo sguardo per sbirciare fra i rami: nero sullo sfondo del cielo, il drago stava sorvolando la valle con le zampe ritratte sotto la coda dritta e protesa in fuori come un timone. Le sue ali nude e immense sferzarono l'aria per una dozzina di battiti, poi rimasero immobili mentre la creatura si librava e calava di quota puntando dritta verso le alture sul lato opposto della valle e deviando leggermente verso una vasta formazione di roccia simile ad un pilastro attaccato ad una rupe lungo tutta la sua altezza. Con un ultimo schiocco e un frusciare delle ali che si ripiegavano il drago si posò sulla roccia e per un momento parve rimanere aggrappato ad essa come un picchio ad un tronco d'albero. La crescente oscurità rendeva impossibile effettuare una valutazione accurata, ma da dove si trovava Rhodry giudicò che il wyrm dovesse essere lungo almeno una decina di metri senza considerare la coda. Scuotendosi un poco la creatura si contorse agitando la coda e scomparve all'interno di una grotta o di un crepaccio che neppure lo sguardo elfico di Rhodry fu in grado di individuare. Con l'espressione di un uomo che avesse appena visto la sua amata affacciarsi per un breve momento ad una finestra per poi chiudere le imposte, Enj esalò allora un lungo sospiro. «Siamo fortunati, non trovi?» sussurrò Rhodry. «È evidente che cacciano guidati dalla vista e non dall'olfatto.»
«È quello che mio padre ha sempre sostenuto» sussurrò di rimando Enj. «A quanto pare il suo covo non è sul picco principale.» «Mi auguro di no, anche se è possibile che abbia trovato un passaggio attraverso la montagna che porti verso l'alto. Credi che riusciremo ad arrampicarci fino a quel buco?» «Può darsi, Rhodry, ma ti garantisco che non mi sorride molto l'idea di strisciare là dentro a stanare quella bestia.» «Sono pienamente d'accordo con te. Che ne dici allora di cercare una porta posteriore di qualche tipo? La base di quelle alture sembra piena di fori come un pezzo di formaggio stagionato.» «Domattina daremo un'occhiata. Se ci sposteremo da un albero all'altro non correremo rischi... spero.» Per quanto fosse ormai notte avanzata, entrambi si scoprirono incapaci di prendere sonno, perché anche se appariva probabile che il drago si fosse appena nutrito dal momento che aveva fatto ritorno al suo covo, questa era una tesi di cui nessuno dei due voleva sperimentare a sue spese la validità. Per qualche tempo rimasero quindi seduti sotto gli alberi a discutere a bassa voce del problema di avvicinarsi alla bestia quanto bastava perché Rhodry potesse sottoporla a incantesimo. «Avrai bisogno almeno di qualche momento per pronunciare il suo nome nel modo giusto e così via» osservò Enj. «Infatti, e mi servirà anche un posto dove mettermi seduto o su cui stare in piedi in modo da potermi riempire adeguatamente i polmoni d'aria.» «Dal momento che cacciano servendosi della vista» affermò Enj, dopo un momento di riflessione, «forse dovremmo raggiungere adesso la base dell'altura.» «Una buona idea» approvò Rhodry. «A mio parere però stiamo affrontando la cosa nel modo sbagliato, perché ci stiamo concentrando sul fatto che la nostra preda è un drago più che sul fatto che stiamo cacciando una preda. Io non sono abile quanto te a sopravvivere nei boschi, ma ho una certa esperienza in fatto di caccia.» «Anch'io» replicò Enj, con un sorriso che Rhodry distinse chiaramente alla tenue luce delle stelle. «Una bestia del genere deve lasciare tracce e segni del suo passaggio che non potrebbero sfuggire neppure ad un cieco.» Caricatisi il bagaglio in spalla spiccarono la corsa attraverso il fondo del cratere e verso le alture che risultarono offrire una quantità di nascondigli adatti a due uomini. Trovata una grotta poco profonda il cui accesso era grande appena quanto bastava a loro per oltrepassarlo uno per volta e nel
quale un drago avrebbe potuto a stento infilare una zampa, decisero che avrebbero potuto trascorrere lì al sicuro il resto della notte, ma nonostante questo non riuscirono a rilassarsi e finirono per sonnecchiare a turno invece di dormire. Appoggiato con la schiena alla parete della caverna, Rhodry ebbe l'impressione di poter avvertire di tanto in tanto una sorta di tremito, come se la roccia alle sue spalle stesse respirando, e quando si addormentò sognò fiumi di fuoco che scorrevano nelle viscere oscure del mondo. Non appena i primi chiarori che annunciavano il sorgere del sole illuminarono il cielo, i due compagni si misero alla ricerca di altre grotte e fenditure tenendosi addossati alla rupe e il più possibile al riparo delle sporgenze della roccia, senza però trovare nessun accesso che paresse addentrarsi in profondità nel ventre della montagna; fatto ritorno al rifugio in cui avevano trascorso la notte sedettero quindi a discutere dei possibili piani d'azione mentre mangiavano quanto restava delle scorte di pane che avevano portato da Haen Marn e un po' della carne affumicata di un daino abbattuto in precedenza. «Ebbene» commentò Enj, «se quella bestia non dovesse divorarci e tu non dovessi riuscire a domarla per tornare ad Haen Marn dovremo affrontare una lunga camminata con lo stomaco vuoto.» «È vero» annuì Rhodry. «Per gli dèi, spero che tua madre stia bene. So che entrambi mi avete parlato del dweomer di Haen Marn e delle sue difese, ma Alshandra è una creatura capace di apparire dal nulla come un essere fatato. Cosa succederebbe se Angmar non avesse il tempo di approntare i vostri incantesimi di difesa?» «Non si tratta di incantesimi: Haen Marn va dove non c'è pericolo, ecco tutto.» Enj parlò in tono tanto calmo e sincero che Rhodry sentì la propria preoccupazione placarsi e pensò che forse presto avrebbe visto lui stesso Haen Marn sicura e priva di danni se fosse riuscito a domare questo drago. «Vogliamo riprendere le ricerche?» suggerì. «Quanto più tempo aspettiamo tante più possibilità avrà quella bestia di rendersi conto che siamo qui.» Per ore continuarono a vagliare la superficie dell'altura ma non trovarono né una crepa né una grotta che penetrassero in profondità neppure quando si arrischiarono a spingersi sulla pianura per meglio esaminare la parete di roccia, cosa che permise loro di scorgere con chiarezza sotto il sole scintillante l'accesso alla tana del drago, la bocca semirotonda di una
grotta che si apriva su una minuscola sporgenza di roccia e verso la quale salivano una quantità di fessure e di crepe. «Praticamente formano una scala» commentò Enj. «Mi chiedo se sia stata quella bestia a scavarle con i suoi artigli nel cercare una via di accesso.» «Questo spiegherebbe la loro fortunata presenza» annuì Rhodry. «Fortunata? Parli di fortuna? Rori, cosa vorresti suggerire?» «Senti, potremmo vagare qui intorno come talpe per giorni per poi trovare una galleria, perdere altri giorni a percorrerla e scoprire di essere finiti in un vicolo cieco. Dopo tutto non abbiamo con noi uno dei minatori di Lin Serr, giusto?» «Questo è vero» convenne Enj, scrutando dubbiosamente la grotta per un lungo momento. «Ah, per gli dèi, senza un po' di rischio non si ottiene nulla! Andiamo a prendere candele e corde nel bagaglio e cominciamo la salita.» «Andrò avanti io, così se il drago è in attesa vicino all'ingresso divorerà prima me e questo ti darà il tempo di allontanarti.» «Allontanarmi? Da un drago che si trova tanto vicino? Ti piace scherzare, vero?» Entrambi scoppiarono a ridere, ma in tono sommesso per non mettere in allarme la loro preda. Lungo la prima decina di metri la roccia risultò abbastanza liscia e rese quindi difficile la salita, ma una volta superato quel tratto i due trovarono una quantità di appigli da sfruttare e di tanto in tanto s'imbatterono in qualche enorme graffio che sfregiava la roccia e che sembrava simile agli squarci che gli artigli di un enorme gatto avrebbero potuto lasciare nel cuoio, segno che il drago doveva aver cercato parecchio prima di trovare l'accesso alla sua tana. Quando la fenditura che stavano seguendo si strinse i due poterono puntellarsi contro le sue pareti per riposare, ma entrambi rimasero in silenzio lungo tutta l'ascesa tranne che per avvertire il compagno di un sasso smosso o di altre cose del genere, avvertimenti nonostante i quali di tanto in tanto finirono per provocare qualche pioggia di ghiaia con l'inevitabile rumore che ad essa si accompagnava; ogni volta che questo successe Rhodry si sorprese a sussultare ma dall'interno della grotta non giunse mai nessun rumore di risposta. Infine proprio mentre il sole arrivava allo zenit al di sopra del picco più alto l'ascesa li portò al di sotto del costone, che sporgeva dalla superficie di roccia: rischiando di precipitare Rhodry si spostò di lato e riuscì a gettarsi prono su di esso per poi strisciare in avanti sul ventre fino a raggiungere
una posizione sicura, provocando un rumore che risuonò assordante almeno ai suoi orecchi. Sollevatosi in ginocchio lanciò un'occhiata dentro la grotta, che per fortuna risultò un lungo cunicolo che si perdeva nel buio e che era perciò soltanto un semplice ingresso e non la tana vera e propria. Con un sospiro che era più un sussulto di sollievo aiutò quindi Enj ad issarsi sul costone. «Non siamo ancora stati divorati» commentò questi, con un'allegria un po' forzata. «Direi di aspettare ad accendere le candele.» «Mi sembra una buona idea, dato che entrambi vediamo bene al buio.» Entrati nella grotta attesero che gli occhi si fossero abituati alla semioscurità, poi la luce che filtrava dall'ingresso permise loro di distinguere due gallerie che portavano in profondità nelle viscere della montagna, una sola delle quali era però abbastanza grande da permettere il passaggio di un drago. Naturalmente era possibile che il passaggio più stretto descrivesse un cerchio per poi tornare a confluire con l'altro in un punto più sicuro, ma dopo essersi scambiati un'occhiata Rhodry ed Enj scrollarono le spalle e imboccarono il cunicolo più largo il cui suolo appariva sgombro da sassi e detriti e addirittura lucido per il continuo strisciare su di esso del ventre e della coda del drago. Mentre avanzavano con la massima cautela, posando in silenzio un piede davanti all'altro e arrestandosi spesso per ascoltare, la luce alle loro spalle si attenuò e nell'aria andò aumentando un miscuglio di odori... quello soffocante dello zolfo unito ad un altro sentore acre, come di sudore. «Puzza di drago» sussurrò Rhodry, ed Enj annuì con un sorriso. Nello scendere in profondità il tunnel descrisse una svolta che fece scomparire alle loro spalle ogni residuo di luce solare, e tuttavia per la vista elfica di Rhodry l'oscurità non risultò totale perché qua e là le pareti di roccia erano solcate da venature che emanavano una chiara luce azzurra. In un primo tempo lui suppose che si trattasse dei consueti funghi usati dai nani, ma poi si rese conto che quel posto non era mai esposto alla luce solare e che quindi non si poteva trattare di piante fosforescenti e giunse alla conclusione che quel chiarore potesse invece essere frutto di un dweomer apposto dal drago per illuminare il tragitto, considerato che lui non aveva mai sentito dire che quelle bestie fossero in grado di vedere al buio. Il fatto che il drago avesse marcato in quel modo la pista che portava al suo covo indicava peraltro che dovesse nutrire un'assoluta certezza di essere al sicuro, il che generò in lui la speranza di poterlo sorprendere mentre dormiva, soprattutto se si era nutrito appena il giorno precedente.
Intanto la galleria continuò a scendere verso il basso fino ad una profondità che doveva ormai essere di circa ottocento metri, e l'aria si andò facendo sempre più calda e pervasa del puzzo dello zolfo, tanto che Rhodry cominciò ad avere l'impressione che la sua gola fosse rivestita di quella sostanza e a sentire l'impulso di vomitare. Più avanti poteva adesso scorgere un tipo di luce diversa, un pallido rossore come quello che emanava da un ferro arroventato posato sull'incudine di un fabbro, un particolare che anche Enj dovette notare, perché pur non dicendo nulla sfoggiò un sorriso da berserker quando si fermarono per riprendere fiato e per bere un po' d'acqua dalla borraccia. A mano a mano che scendeva verso la luce rossastra il tunnel si restrinse a tal punto che anche le pareti e il soffitto cominciarono a risultare lucidi e levigati, come se il drago dovesse insinuarsi a forza in quel tratto ogni volta che tornava al suo covo, particolare che indusse i due a rallentare il passo e a camminare con crescente cautela. D'un tratto il chiarore si accentuò fino a diventare intenso come quello di cento lanterne e al tempo stesso Rhodry avvertì un odore di acqua calda che indicava la presenza di sorgenti ricche di minerali e di zolfo. Notando che più avanti la bocca del tunnel si allargava, Rhodry lanciò un'occhiata ad Enj, sorrise e precedette il compagno fuori della galleria e su una sporgenza di roccia che si protendeva su una caverna enorme e vecchia di eoni, con le pareti di uno strano nero opaco curve e lisce come l'interno di una bolla, anche se qua e là erano solcate da grosse fenditure. Rendendosi conto che lui ed Enj si trovavano più o meno a metà della parete meridionale della grotta, Rhodry diresse lo sguardo verso il basso e verso il centro della caverna, il cui interno puzzava di drago, di vapore e di minerali, grazie anche alla condensa che colava di continuo lungo le pareti. Nel guardare infine verso il suolo di quell'enorme antro, Rhodry si chiese se la montagna di fuoco fosse davvero morta come il drago sembrava pensare, considerato che il terreno era costellato di fosse piene di acqua sulfurea che filtrava attraverso un fango fra il rossiccio e il giallo e che emanava lunghi filamenti di vapore in direzione del tetto irregolare, dove in alcuni punti la luce solare filtrava attraverso strette crepe. In basso e sulla sinistra la caverna continuava ad estendersi nell'ombra, così buia che era impossibile valutarne l'ampiezza anche se era possibile vedere la ripida pendenza del pavimento, lungo il quale s'intravedevano forme vaghe che potevano essere pinnacoli di roccia o l'imboccatura di altre gallerie.
Sulla destra, seminascosto dalle volute di vapore, il grande wyrm giaceva arrotolato su se stesso su un'ampia sporgenza di roccia che sovrastava le sorgenti calde: sotto la tenue luce che emanava dalle fenditure nel soffitto il suo corpo brillava di una tinta nera tendente al verde, mentre la grande testa poggiata su una zampa munita di artigli aveva una sfumatura verderame e il grande corpo e le ali ripiegate sembravano di un nero più cupo. «Qui dentro fa caldo» sussurrò Enj. «Probabilmente è sveglio.» La testa si sollevò di scatto e gli occhi si spalancarono, rivelando pupille di un lucido color rame nello scrutare tutt'intorno alla ricerca della fonte della voce, poi una grande ala... una vasta distesa di pelle fra il nero e il verde tesa su ossa delicate... si allargò con un secco fruscio e si protese verso l'esterno a ricoprire metà della caverna sottostante. Fissando quella creatura, Rhodry constatò con meraviglia di non avere paura e di essere soltanto pieno di reverenziale meraviglia di fronte alla sua bellezza, oltre ad essere assolutamente certo del fatto che essa fosse una femmina. «Resta qui e lasciala a me» disse ad Enj. Mentre il giovane nano indietreggiava per portarsi al riparo del tunnel la testa massiccia si girò in direzione di Rhodry e l'ala si allargò di nuovo con lentezza, emettendo un fruscio simile allo stormire del fogliame di mille alberi. «Lasciala, hai detto? Hai occhi acuti, elfo.» La sua voce risultò più un sibilo che un ruggito ma echeggiò comunque per tutta la caverna nel pronunciare in tono gelido quelle parole in lingua elfica. Avanzando sul costone, Rhodry fronteggiò il drago da meno di sei metri di distanza e sentì la sua consueta risata berserker che gli saliva in gola, gorgogliante e sommessa. «Ridi della tua morte imminente?» chiese il drago, aprendo l'enorme bocca a rivelare una fila di zanne lunghe e affilate come spade, poi sbadigliò, protendendo la lunga lingua rosata e arrotolandola all'indietro come avrebbe fatto un gatto, e aggiunse: «Molto bene. Mi piace il coraggio, in un maschio.» «Davvero, mia signora? È giusto, perché sei nobile e maestosa come mille regine» ribatté Rhodry, rivolgendole l'inchino più raffinato di cui era capace. «E sei la mia signora, perché sono certo che la mia morte viaggia sulle tue ali, ed io ho sempre servito la dama chiamata Morte.» «È per questo che sei qui, elfo? Per morire? Se sei sconsolato perché la donna che amavi ti ha lasciato ti sarebbe stato più facile gettarti sulla tua spada» ribatté il drago, poi fece una pausa, con gli occhi che scintillavano
come fiammelle di rame, e infine proseguì: «Guardati intorno, qui non c'è nessun tesoro, non c'è nulla che tu mi possa rubare, né oro né gioielli, nessuna delle cose di cui parlano le vostre stupide storie.» «Perché pensi che io sia un uomo del Popolo?» «Che altro potresti essere? Hai l'odore di un elfo, sei grosso per essere un nano e non sei abbastanza peloso per poter essere un Meradan.» «Sono un elfo, mia signora, ma per metà soltanto, perché mia madre apparteneva alla razza degli uomini. Ne hai sentito parlare?» Con un ruggito devastante la femmina di drago si sollevò sulle zampe anteriori e per un momento Rhodry scorse nei suoi occhi la propria morte. Se il fato di migliaia di persone non fosse dipeso da lui avrebbe accolto la morte inferta da una bellezza così terribile, ma dal momento che non poteva permetterselo emise un sincero sospiro di rincrescimento e sollevò di scatto la mano in modo che l'anello d'argento scintillasse sotto la luce. «Arzosah Sothy Lorezohaz!» esclamò, recitando il nome in un'onda di suono che trapassò l'ira del drago come una lancia ed echeggiò tutt'intorno ad esso come una rete. «Arzosah! Io ti chiamo e ti comando!» Il drago s'immobilizzò in maniera così assoluta e totale da dare l'impressione che Rhodry avesse pronunciato un incantesimo capace di fonderla con la roccia e di trasformarla in una vena di rame. Per un lunghissimo momento rimase accoccolato immobile e senza neppure respirare, come morto, poi con un gemito frusciarne accasciò la testa sulle zampe e rovesciò all'indietro gli occhi enormi sotto le palpebre abbassate. «Ho odiato la tua razza per migliaia di anni, Uomo!» ringhiò, sputando quel nome come se fosse stato un insulto. «Quando avete conquistato la razza dei wyrm, noi siamo fuggiti davanti a voi e vi abbiamo lasciato le nostre foreste e le nostre montagne, e adesso ci avete seguiti fin qui. Cosa mi toglierai questa volta, Uomo? La mia stessa vita?» Troppo sconvolto per rispondere Rhodry si limitò a guardarla mentre giaceva assolutamente immobile, con gli occhi fissi su di lui come un cane che stesse vedendo un padrone crudele approntarsi ad usare la frusta, e si odiò per averla posta in quella condizione abbietta. «Se non fosse per il fatto che senza il tuo aiuto coloro che ho giurato di servire moriranno, me ne andrei di qui in questo preciso momento» disse infine.
«Sono in grado di discernere quando qualcuno sta mentendo e so che sei sincero» replicò il drago, senza però accennare a muoversi. «Cosa vuoi da me, Uomo?» «Quando è successo che il mio popolo vi ha fatto del male? Non ho mai incontrato nessuno che sapesse anche soltanto dell'esistenza dei wyrm.» Arzosah sollevò la testa e la inclinò leggermente da un lato per scrutarlo con attenzione, e nel vedere la vitalità riaffiorare nei suoi occhi Rhodry avvertì l'impulso di ridere di gioia. «Di nuovo stai dicendo la verità. Questo è molto strano, Uomo... no, non voglio usare questo nome detestabile. Devo chiamarti Elfo, oppure puoi fornirmi qualche termine innocuo con cui identificarti?» «Il mio nome è Rhodry.» «Lo è davvero» sussurrò Arzosah, mentre i suoi occhi sembravano trapassargli l'anima. «Lo è davvero. Perché mi dici una cosa tanto importante?» «I nomi degli elfi non hanno il potere di vincolarli.» Per un momento Rhodry credette che il drago stesse ringhiando sommessamente, poi si rese conto che stava invece ridendo. «Ancora una volta hai detto la verità. Molto bene, Rhodry, se devo essere ridotta in schiavitù, preferisco che a farlo sia un elfo come te. Cosa vuoi da me, Rhodry Signore dei Draghi?» «Molto lontano da qui, nel sud, i Fratelli dei Cavalli... i Meradan, come tu li chiami... stanno assediando una città con l'intenzione di ucciderne tutti gli abitanti. Io voglio fermarli.» La risata roboante salì di volume fino a far tremare il costone. «Se devo essere resa schiava, sono almeno contenta che sia per un compito del genere» dichiarò Arzosah, poi spostò la testa in modo da guardare qualcosa che si trovava alle spalle di Rhodry e aggiunse: «La creatura che vedo dietro di te è un tuo servo oppure posso mangiarla?» Girandosi a controllare, Rhodry vide che Enj era fermo all'imboccatura della galleria con le braccia strette intorno al petto e lo sguardo fisso sul drago e pieno di ammirazione come quello di un fedele che stesse vedendo la statua del suo dio. «Lascialo stare. È un mio amico» disse. «Sempre più strano. Per metà elfo e per metà uomo, e amico dei nani. Se non altro sembri un soggetto interessante.» «Mia signora, ti posso garantire una cosa: molte donne mi hanno amato, qualcuna mi ha odiato ma nessuna mi ha mai trovato noioso.»
Arzosah scoppiò di nuovo a ridere, un suono fragoroso ed echeggiante che scosse la caverna e si protrasse a tal punto che Rhodry sentì un gelido brivido di timore corrergli lungo la spina dorsale e comprese che doveva riasserire il proprio controllo su quella splendida creatura. «Dimmi ancora una cosa prima che torniamo alla luce del sole: perché odi i Meradan?» domandò. Il drago arricciò un'enorme zampa e si studiò gli artigli, affilati e lunghi come spade a due mani. «Questo è un ordine a cui sarò lieta di obbedire» affermò. «Sono passati moltissimi anni, ma mi brucia ancora il cuore al ricordo del mio compagno, che quegli esseri pelosi hanno braccato come una bestia e ucciso, soltanto per compiacere la vanità del loro re. Re! Sempre che si possa definire re un animale in sella ad un cavallo. Ho ucciso molti di loro mentre gongolavano vicino al corpo del mio compagno, compreso il loro re, che ho inseguito sull'erba... come strideva e gemeva quando l'ho infine avuto fra gli artigli. Gli ho trapassato il ventre e gli ho tirato fuori gli intestini, poi l'ho lasciato a morire lentamente, urlando e stridendo fino alla fine, ma nulla ha potuto ridarmi il mio compagno morto. Da allora ho sempre desiderato vendetta, e adesso tu me la stai offrendo, Signore dei Draghi, quindi ti servirò bene... anzi, ti servirò spontaneamente, tanto che non hai neppure bisogno di quell'anello.» «Credo che lo porterò ancora per qualche tempo, giusto per abitudine» sorrise Rhodry. Arzosah lo fissò con occhi roventi e ringhiò appena, in tono peraltro sommesso. «Adesso il mio amico ed io torneremo all'aperto» continuò intanto Rhodry. «In virtù del tuo nome, Arzosah, ti ordino di seguirmi.» «Sei davvero astuto! D'accordo, ti seguirò.» Mentre si avviava per risalire il tunnel Rhodry sentì il drago artigliare la roccia per spingersi oltre la strettoia e fino al tratto più largo del passaggio, dove poté poi procedere con maggiore agio, facendo vibrare la roccia con il suo passo pesante. Intanto Enj sembrava essersi ripreso dalla sorpresa, ma anche se lui e Rhodry si scambiavano di tanto in tanto qualche occhiata nessuno dei due riuscì a parlare mentre procedevano come in sogno lungo la galleria. Una volta arrivati all'aperto sul costone, Enj si girò infine verso l'amico con un ampio sorriso. «Ce l'abbiamo fatta» sussurrò. «Contro ogni logica e ogni speranza, ma ce l'abbiamo fatta.»
Rhodry scoppiò a ridere proprio nel momento in cui il drago protendeva la testa enorme sotto il sole, sbattendo furiosamente gli occhi a causa della luce intensa, sotto la quale le sue scaglie splendevano di un nero assoluto e lucido come quello dell'ossidiana. «Ti fai beffe di me?» ringhiò. «Non di te ma del mio timore di non riuscire a trovarti e di non poter così adempiere al geas che mi era stato imposto.» «Un geas?» «Proprio così, imposto su di me dal più grande maestro del dweomer del regno di Deverry.» «Ah» commentò Arzosah, riflettendo su quell'informazione. «La cosa mi fa piacere, perché se c'è il dweomer all'opera di certo non avrei potuto fare nulla per evitare il mio Wyrd. Devo portarvi in fondo alla valle?» «Devi trasportarci sani e salvi sul fondo della valle» precisò Rhodry. «Sei decisamente astuto. Così sia.» Mai Rhodry aveva vissuto un momento altrettanto solenne, neppure quando era stato investito della carica di gwerbret di Aberwyn nel palazzo del re a Dun Deverry, e neppure quando il Sommo Re in persona lo aveva preso per mano invitandolo a rialzarsi. Puntellando un piede sul collo del drago si sistemò fra le sue ali, aggrappandosi alle scaglie che si sollevavano a formare una rigida cresta, ed Enj prese posto dietro di lui con occhi velati di lacrime. «Se soltanto mio padre potesse vedere questo» sussurrò. «Se soltanto fosse qui.» Arzosah si portò sul limitare del costone e spiccò il volo, allargando di colpo le ali come un enorme ventaglio: l'aria saettò intorno a loro con la violenza di uno schiaffo, poi il drago si librò verso il basso descrivendo un cerchio al di sopra della valle prima di andare a posarsi vicino agli alberi e al ruscello. Scivolato a terra, Rhodry aiutò il pallidissimo Enj a fare altrettanto, certo di essere lui stesso alquanto pallido in volto. «Questa non è stata la cavalcata più piacevole che abbia mai fatto» commentò in deverriano, poi passò alla lingua elfica e proseguì: «Arzosah, temo che dovremo approntare dei finimenti di qualche tipo con delle funi.» «Delle funi? Una corda intorno al mio ventre come se fossi un puzzolente mulo? No! Non lo permetterò!» Rhodry però sollevò la mano in modo da far brillare l'anello e subito Arzosah abbassò la testa, roteando gli occhi e sibilando sommessamente.
«Rhodry, per favore, risparmiami quest'umiliazione... oh, ti prego, Signore dei Draghi!» «Non posso, altrimenti lo farei perché mi rendo conto che è un'indegnità nei tuoi confronti, ma anche se io potrei rischiare di morire precipitando, non posso permettere che accada lo stesso ad Enj.» «Oh, d'accordo, allora. Però sei un uomo duro.» «Così mi hanno sempre detto, e del resto ho sempre avuto bisogno di esserlo.» Unendo i pezzi di corda che avevano portato con loro lui ed Enj riuscirono quindi a creare dei finimenti primitivi, passando un giro di corda intorno al ventre del drago, appena dietro le ali, e stabilizzandolo con un altro intorno al petto come una sorta di rozza martingala. Poi Rhodry si servì dell'anello per rinforzare il proprio ordine che il drago volasse nel modo più fluido possibile. «Padrone, posso sapere dove stiamo andando? Non posso volare giorno e notte, e di tanto in tanto dovrò anche andare a caccia di qualche daino.» «Mi sembra giusto, a patto che tu prometta sul tuo nome di tornare da noi non appena abbattuta la tua preda, in modo da consumarla dove siamo accampati.» «Sei davvero duro!» protestò Arzosah, battendo a terra un piede dotato di artigli. «D'accordo, farò come vuoi.» «Benissimo. Adesso voleremo verso est, in direzione di un posto chiamato Haen Marn. Lo conosci?» «No.» «Allora ti guiderò io. È un lungo viaggio ma non temere, ci riposeremo spesso e potrai cacciare. Una volta che Enj sarà di nuovo a casa ad Haen Marn, io e te proseguiremo verso sud e daremo la caccia ai Meradan.» Il drago aprì le fauci ed emise un sibilo pervaso di gioia omicida. Avendo ora la corda a cui aggrapparsi, dopo i primi momenti di disagio Rhodry ed Enj impararono ad adattarsi al volo del drago. Ogni battito d'ali spingeva la creatura in avanti con un movimento rollante e a volte simile ad un salto, soprattutto quando stava guadagnando quota, con il risultato che sedere sul suo collo o sulle sue spalle dava l'impressione di trovarsi sulla prua di una piccola imbarcazione che andasse incontro alle onde. Dopo alcune ore Rhodry trovò se non altro un modo di bilanciarsi allorché si rese conto che fino a quel momento aveva cercato di montare il drago come se fosse stato un cavallo, mentre doveva invece sedere in avanti bilanciandosi con le ginocchia e appoggiandosi non solo alle scaglie ma anche
sui talloni per poter seguire il rollio impresso da ogni battito d'ala. Puntellarsi contro quel movimento era infatti del tutto inutile. Quando cercò di spiegare la sua scoperta ad Enj il giovane nano si limitò a levare gli occhi al cielo e continuò ad aggrapparsi disperatamente alla fune e alle scaglie della cresta; del resto il sibilo del vento e il frusciare delle ali rendevano impossibile portare avanti qualsiasi tipo di conversazione e il massimo che Rhodry riusciva a fare era gridare degli ordini al drago o qualche parola ad Enj nei brevi intervalli in cui Arzosah procedeva planando invece di battere le ali. Pur supponendo che Arzosah dovesse essere enormemente divertita dalla goffaggine e dalla pavidità di quelle due misere creature che erano comunque riuscite a trovarla e a catturarla, nell'interesse suo e di Enj, Rhodry le ordinò di volare basso, perché vedere il suolo saettare sotto di loro risultava meno spaventoso che vederlo passare lentamente da una grande altezza. Quando infine si avvicinò il crepuscolo erano ormai lontani dalla Scodella degli Dèi perché ad ogni battito delle grandi ali Arzosah copriva una distanza maggiore di quella che loro avrebbero potuto percorrere anche correndo fino a restare senza fiato e inoltre poteva librarsi al di sopra di ostacoli per lei insignificanti come vallate e creste, fiumi e tratti di terreno roccioso il cui superamento aveva invece richiesto a Rhodry e a Enj ore di fatica e di sudore. Dopo appena un pomeriggio di viaggio i compagni oltrepassarono quindi di un buon tratto la sporgenza di roccia dalla dubbia forma di testa di cane e al sopraggiungere della notte Arzosah li depose con gentilezza al suolo in una valletta solcata da un ruscello. Non appena scivolato a terra, Enj mosse qualche passo, s'inginocchiò e baciò il terreno, un gesto che fece assumere ad Arzosah un'espressione sprezzante. «Padrone?» chiese quindi il drago. «Posso andare a caccia?» «Puoi farlo, a patto di tornare qui con la tua preda non appena l'avrai abbattuta.» «Puoi almeno togliermi queste dannate corde?» Anche se farlo gli sarebbe costato ben poco, Rhodry era peraltro consapevole del pericolo che correvano nel cavalcare un drago, una creatura d'aria e di oscurità domata così a fatica. «No» rispose quindi. «Devi abituarti ad esse.» Arzosah ringhiò e agitò la testa, ma si quietò immediatamente non appena lui sollevò l'anello, segno che il dweomer di cui Evandar lo aveva pervaso, quale che fosse, doveva essere davvero potente per quanti erano sensibili ad esso.
«Va' a caccia» disse, «ma torna qui con la tua cena.» Arzosah spiccò il volo con un fruscio di ali e si allontanò verso nord, mentre Enj si scrollava come un cane bagnato. «Per gli dèi, Rori, non avrei mai pensato che avrei visto un drago e realizzato il sogno di mio padre, e tanto meno che avrei volato sul suo dorso» affermò con un ampio sorriso. «Credo però che mio padre avrebbe apprezzato questo modo di viaggiare più di quanto faccia io.» «Sai cosa dice il vecchio detto: attento a ciò che desideri...» «Perché potresti ottenerlo. Proprio così.» Stava cominciando a calare il buio quando Arzosah tornò al campo portando fra gli artigli una cerva morta con la stessa facilità con cui un falco avrebbe trasportato una colomba. Volando bassa lasciò cadere al suolo la preda e si andò quindi a posare accanto ad essa. «Desideri un po' di cacciagione, Rhodry Signore dei Draghi?» chiese. «Ti ringrazio ma abbiamo la nostra scorta di carne. Goditi la tua cena, mia signora.» «Ah, mi piacciono gli uomini dai modi galanti.» Sia Rhodry che Enj avevano avuto un certo timore alla prospettiva di vederla mangiare, ma Arzosah risultò estremamente compita e procedette a staccare con delicatezza piccoli pezzi di carne con un artiglio per poi girare la testa da un lato per inghiottire; quando giunse il momento delle ossa le ruppe posando una zampa su di esse ed esercitando pressione fino a spezzarle per poi succhiare il midollo con un angolo della bocca, e quando ebbe finito seppellì la pelle e gli altri resti ricoprendoli di terra con qualche colpo di zampa prima di andare al ruscello per lavarsi la testa e il petto. «Hai fatto bene a ordinarmi di tornare indietro per mangiare» commentò poi, «perché adesso ho un sonno terribile. Buona notte a tutti e due.» Senza aggiungere altro si accoccolò in una depressione erbosa come avrebbe fatto un gatto e si addormentò all'istante. «Per gli dèi!» sussurrò Enj. «Per gli dèi! Vorrei saper parlare la lingua degli elfi per capire quello che dice.» «A dire la verità, amico mio, sono tutte cose molto comuni. Se vuoi il mio parere, dubito che abbia una notevole intelligenza... o forse le sue esigenze sono semplicemente del tipo più basilare.» «In tal caso non ho rimpianti» rise Enj. «Mi chiedo se mia sorella abbia evocato la nostra immagine! Dobbiamo costituire un bello spettacolo, intenti a viaggiare in groppa ad un drago.»
«Stai dimenticando il talismano» replicò Rhodry, posando una mano sulla pietra nascosta dalla camicia. «Non oso toglierlo per permetterle di individuarci.» «È vero. Per gli dèi, Rhodry, continuo a dimenticare i tuoi nemici e l'assedio di Cengarn.» «Indipendentemente dalla guerra, credo che abbiamo il diritto di essere compiaciuti di noi stessi.» Anche se si svegliarono entrambi rigidi e doloranti come se fossero stati reduci da una battaglia, durante quel secondo giorno di viaggio impararono progressivamente quale fosse il modo più adatto per cavalcare un drago ed entro la fine della giornata Rhodry cominciò a sentirsi a proprio agio come in sella ad un cavallo... per quanto non avrebbe certo voluto tentare di combattere sul dorso di un drago, con tutte le picchiate e le giravolte che questo avrebbe comportato. Anche Enj appariva più a suo agio e adesso sedeva sulla schiena di Arzosah piuttosto che aggrapparsi ad essa. Quando si accamparono, il drago andò a caccia, tornò con un'altra cerva e dopo aver mangiato si addormentò di nuovo così prontamente da indurre Rhodry a pensare che lo stessero stancando con quel lungo viaggio. Presto però sarebbero arrivati ad Haen Maen, quel posto che lui era giunto a considerare come la sua casa, e là Arzosah avrebbe potuto riposare. «Mi chiedo cosa ne penserà delle bestie che vivono nel lago» commentò. «Oh, sono certo che per lei non sono abbastanza eleganti» replicò Enj, ed entrambi risero di quella battuta, anche se più tardi si chiesero come avevano fatto ad essere così tranquilli e inconsapevoli quando invece il dweomer presente tutt'intorno avrebbe dovuto almeno dare loro qualche piccola avvisaglia di pericolo. Il terzo giorno dopo la partenza dal vulcano si trovarono a volare sopra le colline che Rhodry ed Enj avevano valicato a prezzo di tanto tempo e fatica. Secondo i calcoli di Enj avrebbero dovuto arrivare ad Haen Marn prima del tramonto, ma esso era ancora molto lontano allorché avvistarono il primo cattivo presagio: Arzosah stava sorvolando una valle erbosa quando nel guardare in basso Rhodry vide uno strano solco nell'erba che si stendeva verso est come una strada. Senza attendere un suo ordine Arzosah si abbassò di circa sei metri in modo da volare quasi rasoterra, e da quell'altezza Rhodry poté vedere il solco con chiarezza sufficiente a indurlo a ordinarle di atterrare. Descritto un breve cerchio nell'aria, il drago si posò con grazia sul terreno nel punto in cui il solco aveva inizio.
Qualsiasi cosa fosse passata di lì aveva lasciato senza dubbio un segno notevole, circa trenta metri d'erba trasformati in un ammasso di fango, impronte di zoccoli, sterco di cavallo, solchi di ruote e tracce di piedi calzati di stivali. Scivolato a terra, Rhodry corse verso quella devastazione e s'inginocchiò al suo limitare, là dove alcune impronte spiccavano in mezzo al resto. «Cos'è questo?» domandò in tono perplesso Enj, che lo aveva seguito. «Non ho mai visto nulla del genere in tutta la mia vita.» «In tutta la tua vita fortunata e riparata, ragazzo» lo corresse Rhodry. «Un esercito è passato di qui, e non molto tempo fa... direi al massimo ieri.» «Ma da dove è venuto? Le tracce nascono dal nulla.» «Dweomer» esclamò Arzosah, in elfico. «Posso sentirne l'odore.» Rhodry si alzò in piedi e si girò a guardare verso il drago, accoccolato con aria tesa e con la grande testa allungata in avanti, le narici dilatate e il respiro affannoso; le sue ali vibravano come se soltanto con uno sforzo di volontà gli stesse impedendo di levarsi in volo. «Hai indubbiamente ragione» convenne, «e dalle dimensioni di queste impronte direi che i cavalli erano grandi come animali da traino, il che significa che i cavalieri dovevano essere Meradan.» Il drago snudò gli artigli, affondandoli nel terreno. «Andiamo» proseguì intanto Rhodry, rivolto ad Enj. «E prega che il dweomer di Haen Marn abbia funzionato.» Non appena furono rimontati sulla sua schiena Arzosah riprese il volo con maggiore velocità, seguendo la traccia come se fosse stata una strada, mentre Rhodry aveva l'impressione che intorno a lui fosse improvvisamente sceso l'inverno e che blocchi di ghiaccio gli si fossero annidati nello stomaco. Verso metà pomeriggio, quando secondo i calcoli di Enj dovevano essere ormai vicini ad Haen Marn, le tracce deviarono verso sud. «Dobbiamo seguirle e uccidere?» tuonò Arzosah. «Non ancora. Continua verso est.» «Io voglio ucciderne qualcuno.» «Arzosah, in virtù del tuo nome...» «Oh, lo so. D'accordo, andremo ad est.» Pochi altri momenti di viaggio portarono loro il secondo presagio nefasto, una sottile colonna di fumo che si levava nel cielo verso sud, come se laggiù stesse bruciando qualcosa di grosso, tanto che Rhodry avrebbe pen-
sato che qualcuno avesse incendiato una fortezza, se soltanto ci fosse stata una fortezza da bruciare. Invece il fumo si trovava nella direzione sbagliata rispetto alla posizione di Haen Marn, e poiché era incapace di calcolare le distanze dall'aria, poté soltanto supporre che la sua fonte fosse una fattoria, forse una di quelle che sorgevano nelle vicinanze di Lin Serr. Alle sue spalle Enj gridò qualcosa di incomprensibile, ma la paura presente nella sua voce fu più esplicita di qualsiasi parola; al tempo stesso Arzosah aumentò ancora di più la velocità del suo volo, segno che aveva visto a sua volta il fumo. Sotto di loro le colline scivolarono via veloci, un verde tappeto di foreste in mezzo alle quali brillava qua e là il solco argenteo di un ruscello... poi il drago cominciò a tradire i primi segni di fatica e a sfruttare di tanto in tanto le correnti d'aria per planare e riposarsi, rallentando al tempo stesso l'andatura. Infine oltrepassarono l'ultima altura al di là della quale avrebbe dovuto esserci la valle che ospitava Haen Marn, ma Rhodry vide soltanto altre colline che si stendevano verdi e placide lungo i due lati del fiume... quel riconoscibile fiume che un tempo era scaturito dal lago di Haen Marn e che adesso scorreva attraverso una stretta valle punteggiata di pini anziché di querce. Alle sue spalle Enj emise un grido che esprimeva al tempo stesso angoscia ed ira. «Atterra!» ordinò Rhodry al drago. «Giù vicino al fiume, in modo che tu possa bere.» Con una lunga planata e un battito d'ali Arzosah si posò sul terreno e Rhodry scivolò al suolo, aiutando Enj a fare altrettanto. Per un momento nessuno dei due riuscì a dire una sola parola. «Sei certo che io non abbia guidato Arzosah nella direzione sbagliata?» chiese infine Rhodry. Enj si limitò a scuotere il capo in un gesto di diniego e si diresse verso un mucchio di massi dall'aria familiare che si trovava vicino alla riva del fiume; seguendolo, Rhodry lo aiutò a sollevare le rocce e a spingerle di lato per poi frugare sotto di esse nella disperata speranza di non trovare nulla, consapevole della presenza del drago ansimante accoccolato al sole alle loro spalle. Improvvisamente Enj emise un acuto e breve lamento, poi sollevò un oggetto nero e contorto, appiattito e logorato come dal passaggio di migliaia di anni... quello che restava del corno d'argento che un tempo era servito a far accorrere la barca manovrata dai nani.
«È stata ritirata» mormorò quindi, con voce soffocata. «Haen Marn.» «Ritirata? Cosa vuoi dire?» «Nel suo mondo. Haen Marn non appartiene veramente al nostro e in periodi di pericolo può essere ritirata da esso... è questo il dweomer di cui ti ho parlato, quando mi esprimevi le tue preoccupazioni.» «Di cui mi hai parlato? Sono stati solo vaghi accenni, ragazzo, vaghi accenni» ribatté Rhodry, chiedendosi cosa ci fosse in lui che non andava, perché si sentisse così calmo e privo di sentimenti che non fossero una strana e distaccata curiosità. «È una cosa di cui non si può parlare apertamente! Cosa sarebbe successo se il dweomer avesse sentito? O se avessero sentito gli spiriti o ciò che protegge quel posto, qualsiasi cosa sia? Sarei potuto svanire in un istante.» «Quando ritornerà? Una volta che il pericolo sarà passato?» Enj scosse il capo, con occhi velati di lacrime. «Non lo so, forse mai più» sussurrò. «Mia nonna, la madre di mio padre, la vera Signora di Haen Marn, quella che Avain avrebbe dovuto sostituire se fosse nata normale... lei mi ha sempre ripetuto quando ero ragazzo che correvamo un grande rischio a vivere ad Haen Marn, che un giorno sarebbe stata ritirata e che ci saremmo trovati nel suo vero mondo, che lo volessimo o meno.» Il levarsi di questo scudo è però una cosa funesta, Rori, quindi prega che non sia mai necessaria. Quel pensiero gli echeggiò così stentoreo nella mente da indurre Rhodry a pensare che Angmar si trovasse alle sue spalle e da spingerlo a girarsi per porle una domanda soltanto per scoprire che non era in grado di parlare e che dietro di lui non c'era nessuno tranne il vento che sussurrava fra l'erba. Lentamente mosse qualche passo verso nord, verso il punto in cui un tempo il fiume si era riversato fuori della fenditura fra le alture: stava pensando che avrebbe dovuto dire qualcosa di confortante ad Enj, che aveva appena perso sua madre, quando di colpo la vista gli si offuscò. Lasciandosi cadere in ginocchio vicino al corso rapido del fiume lottò contro il pianto e alimentò invece dentro di sé una rabbia gelida mentre Arzosah girava la testa enorme per osservarlo con fissità. «Hanno ucciso il mio compagno e adesso hanno portato via la tua donna» disse infine. «Insieme uccideremo molti Meradan, Rhodry Signore dei Draghi.» «Lo faremo» convenne lui, con un sorriso che pareva bruciargli sul volto. «Li stermineremo insieme.»
APPENDICI NOTE STORICHE Molti lettori e critici hanno supposto che i libri del ciclo di Deverry abbiano luogo in una sorta di Britannia alternativa, o che il popolo di Deverry sia originariamente giunto da quella terra. In effetti esso proviene dalla Gallia settentrionale, come lo può chiaramente capire il lettore attento che abbia anche conoscenze di storia celtica. Dal momento che poche persone, fra cui io stessa, ricadono in questa strana categoria, permettetemi quindi di fornire qualche ulteriore spiegazione. Tanto per cominciare, i grandi eroi spesso menzionati, Vercingetorix e Vindex, sono guerrieri gallici realmente esistiti nonché personaggi storici, così come i diversi dèi, quali Bel (Belinus) e soprattutto Epona, sono primariamente divinità galliche anche se il loro culto era noto in tutti i regni celtici. Inoltre i "vergobretes", che in Deverry sono diventati "gwerbret", sono citati nel De Bello Gallico di Giulio Cesare come magistrati esistenti fra i galli, anche se secondo Cesare i Britanni non possedevano capi di questo tipo e facevano invece affidamento su dei "re". A quanto pare, un re gallico era più quello che noi definiremmo un "condottiero"... un "cadvridoc" in Deverry... che non il sovrano di uno stato organizzato. Perfino in Britannia, tuttavia, capitava più spesso che i Celti eleggessero i loro re invece di accettarli come tali in virtù del diritto ereditario, una tradizione politica comune a tutti i Celti e che è alla base dell'instabilità del potere sovrano in Deverry. Anche la lingua di Deverry deriva da quella della Gallia, ma va notato che in base a quanto gli studiosi sono riusciti a determinare l'antico gallico non era molto diverso dall'antico inglese che si è poi evoluto nella lingua che noi oggi conosciamo come cymraeg, o gallese. Di conseguenza, la lingua di Deverry somiglia molto al gallese, ma chiunque conosca la forma moderna di questa lingua può subito notare che esistono anche molte differenze, così come ce ne sono rispetto al cornovallese, al bretone e agli altri ceppi linguistici appartenenti alla sottofamiglia di lingue nota come Pceltica. NOTE SULLA PRONUNCIA DELLA LINGUA PARLATA A DEVERRY
Gli scrivani di Deverry distinguono le vocali in due categorie: nobili e comuni. Quelle nobili hanno due pronunce diverse, quelle comuni una sola. A come in father quando è lunga; quando è breve, si usa una versione più corta dello stesso suono, come in far. O come in bone quando è lunga; come in pot quando è breve. W come l'oo di spook quando è lunga; come quella di woof quando è breve. Y come la i di machine quando è lungo; come la e di butter quando è breve. E come in pen. I come in pin. U come in pun. Le vocali sono generalmente lunghe nelle sillabe accentate, brevi in quelle non accentate. La Y costituisce l'eccezione fondamentale a questa regola, perché quando compare come ultima lettera di una parola è sempre lunga, indipendentemente dal fatto che la sillaba sia accentata o meno. I dittonghi hanno una pronuncia costante. AE come in mane. AI come in aisle. AU come il suono ow in how. EO come una combinazione dei suoni eh ed oh. EW come in gallese, una combinazione dei suoni eh ed oo. IE come in pier. OE come il suono oy in boy. UI come il suono wy nel gallese del nord: una combinazione dei suoni oo ed ee. È da notare che OI non costituisce mai un dittongo ma genera invece due suoni distinti, come nel nome Carnoic (KAR-noh-ik). Le consonanti sono come in inglese, con le seguenti eccezioni: C è sempre un suono duro, come in cat. G è sempre un suono duro, come in get. DD si pronuncia come il th di breathe, ma il suono si fa sentire molto più che in inglese e si contrappone al TH, che è il suono muto, come in thin o in breath. E inoltre da notare che dd e th sono sempre considerati lettere singole. (Si tratta del suono che i Greci definivano la "tau" celtica.) R è un suono molto marcato.
RH è una R muta, pronunciata più o meno come se fosse scritta hr. Si tratta però di una distinzione molto sottile e propria di Deverry, mentre in Eldidd tende ad essere sempre più ignorata. DW, GW e TW formano per lo più un suono unico, come in Gwendolen o in twit. Y non è mai una consonante. I è considerata una consonante se posta davanti a vocale, soprattutto all'inizio di una parola, e questo vale anche per la desinenza plurale ion (che si pronuncia yawn). Le consonanti doppie vengono sempre pronunciate chiaramente entrambe, al contrario di quanto accade in inglese; è da notare però che DD è considerato una consonante unica, come anche la doppia m nel nome del dio Wmm. L'accento cade di solito sulla penultima sillaba, ma i nomi composti e i nomi di luoghi costituiscono spesso un'eccezione a tale regola. Ho usato questo sistema di trascrizione non solo per l'alfabeto bardekiano ed elfico ma anche per quello deverriano, che è naturalmente basato su un alfabeto che segue più il modello greco che quello romano, un sistema che nel complesso funziona molto bene almeno per il bardekiano; quanto all'elfico, in un'opera di questo genere sarebbe stato ridicolo ricorrere all'elaborato apparato con cui gli studiosi tentano di trascrivere le più sottili sfumature di questa lingua. Come ben sanno coloro che hanno letto i precedenti volumi che compongono questa serie, un certo professore elfico docente di tale lingua ha scelto di sprecare il suo tempo, che si suppone essere prezioso, mettendo in discussione la validità di questa soluzione ovviamente pratica. Dal momento che quest'uomo rifiuta di ragionare e di cessare i suoi scurrili attacchi nei nostri confronti, i miei editori ed io siamo stati costretti a chiedere riparazione tramite malover presso i gwerbret di Aberwyn, per quanto ci dispiacesse sprecare il tempo palesemente prezioso di tale corte. Anche se essa deve ancora accettare di deliberare sul caso, i lettori verranno tenuti informati dei futuri sviluppi di questa vicenda. GLOSSARIO Aber (Deverriano) Lo sbocco di un fiume, un estuario.
Alar (Elfico, plurale alarli) Un gruppo di elfi che possono essere o non essere imparentati e che acconsentono a viaggiare e a vivere come una singola unità per un periodo di tempo indefinito. Alardati (elf.) L'incontro di parecchi alarli, di solito occasione per festeggiare e ubriacarsi. Angwidd (dev.) Inesplorato, sconosciuto. Arconte (traduzione del bardekiano atzenalern) Il capo elettivo di una città-stato (in bardekiano at). Astrale Il piano dell'esistenza direttamente "al di sopra" o "all'interno" dell'eterico. In altri sistemi di magia è spesso indicato come l'Archivio Akashic o lo Scrigno d'Immagini. Aura Il campo di energia elettromagnetica che permea un essere umano ed emana da esso. Aver (dev.) Un fiume. Bara (elf.) Un enclitico che serve a indicare in una parola composta elfica che l'aggettivo che la precede è il nome dell'elemento che segue invece l'enclitico. Es: can-bara-melim = Aspro Fiume (aspro+enclitico+fiume). Banadar (elf.) Un condottiero di guerra o un giudice legale di un determinato gruppo di alarli, eletto dai loro membri per un periodo di cento anni. In qualsiasi momento successivo all'elezione nuovi alarli possono scegliere di porsi sotto la giurisdizione del banadar, ma ritirarsi da essa è una questione seria che richiede l'assenso di tutti i gruppi soggetti alla sua guida. Bel (dev.) Il principale dio del panteon di Deverry. Bel (elf.) Un enclitico simile nella sua funzione a bara, soltanto che indica che il verbo che lo precede è il nome dell'elemento che lo segue nella parola composta, come in Darabeldal, Lago Fluente (fluente+enclitico+lago). Brigga (dev.) Ampi calzoni di lana indossati da uomini e ragazzi. Broch (dev.) Tozza abitazione a forma di torre. Una volta, nella Terra d'Origine, quelle torri avevano un grande focolare al centro e parecchie piccole stanze lungo i lati, ma al tempo del nostro racconto tale struttura architettonica era stata ormai rimpiazzata da normali piani con focolari e camini su entrambi i lati della costruzione. Cadvridoc (dev.) Un condottiero di guerra. Non essendo un generale nel senso moderno del termine, il cadvridoc deve accettare i consigli dei nobili che servono ai suoi ordini ma la decisione finale spetta a lui di diritto.
Capitano (traduzione dal deverriano pendaely) Il secondo in comando in una banda di guerra dopo il nobile a cui essa appartiene. È interessante notare che il termine taely (che è la radice o la forma immutata di - daely) può indicare tanto una banda di guerra quanto una famiglia, a seconda del contesto in cui è usato. Conaber (elf.) Strumento musicale simile alla fistola ma con una gamma di suoni ancora più limitata. Corpo di Luce Una forma di pensiero artificiale costruita da un maestro del dweomer per permettergli di viaggiare attraverso gli altri piani dell'esistenza. Corte Luminosa, Corte Oscura Sono i nomi che ho adottato per indicare la tradizionale divisione esistente fra i diversi gruppi di membri del Popolo Fatato, piuttosto che chiamarli Corte dei Seelie e Corte degli Unseelie, in quanto questi sono termini pertinenti al nostro mondo in generale e alla Scozia in particolare. Cwm (dev.) Una valle. Dal (elf.) Un lago. Doppione Eterico La vera sostanza di una persona, la struttura elettromagnetica che tiene insieme il corpo fisico e che costituisce la vera sede della consapevolezza. Dun (dev.) Una fortezza. Dweomer (traduzione dal deverriano dwunddaevaed) In senso stretto è un sistema di magia che mira all'illuminazione personale attraverso l'armonia con l'universo naturale in tutti i suoi piani e le sue manifestazioni; in senso popolare equivale a magia, stregoneria. Elfi Ho preferito questo nome comune per il popolo che i Deverriani chiamano degli Elcyion Lacar (letteralmente, gli "spiriti lucenti"). Essi sono noti fra gli uomini e i nani anche come il Popolo dell'Ovest, sebbene il nome che i nani usano per indicare tale razza sia Carx Taen. Per i Gel da'Thae essi sono i Figli degli Dèi, Graekaebi Zo Uhmveo, mentre gli elfi stessi si autodefiniscono con estrema semplicità Impar, il Popolo. Englyn (Gallese, pl. englynion) Una forma metrica consistente in stanze di tre versi, ciascuna composta da sette sillabe anche se a qualsiasi verso può essere aggiunta una sillaba; tutti i versi sono legati fra loro da rime secondo regole troppo elaborate per essere esposte in questa sede. All'epoca della nostra storia in Deverry questa forma poetica era così dominante che il suo nome è semplicemente traducibile come "poesia", il che spiega l'uso del termine gallese per darle una definizione di qualche tipo.
Eterico Il piano dell'esistenza direttamente "al di sopra" di quello fisico. Con la sua sostanza magnetica e le sue correnti esso trattiene la materia fisica in una matrice invisibile ed è la vera fonte di ciò che noi chiamiamo "vita". Evocare una visione L'arte di vedere a distanza luoghi o persone mediante la magia. Forma di pensiero Un'immagine o forma tridimensionale che è stata modellata con sostanza eterica o astrale, di solito mediante l'azione di una mente addestrata. Se un numero sufficiente di menti addestrate opera congiuntamente per costruire una stessa forma di pensiero essa esisterà indipendentemente per un periodo di tempo proporzionale alla quantità di energia che vi è stata riversata (inserire energia in una tale forma è noto come dare un'anima alla forma di pensiero). Le manifestazioni di dèi e di santi sono spesso forme di pensiero avvertite da chi ha molta intuizione, come i bambini, o un accenno di seconda vista. È anche possibile che un grande numero di menti non addestrate che agiscano all'unisono crei forme di pensiero vaghe e mal definite che possono essere percepite da tutti nello stesso modo, come gli UFO e le supposte apparizioni del demonio. Fola (elf.) Un enclitico che indica che il nome che lo precede in una parola composta elfica è quello dell'elemento che segue l'enclitico, come in Corafolamelim, Fiume del Gufo (gufo+enclitico+fiume). Geis, Geas Un tabù, di solito la proibizione di fare qualcosa. Infrangere un geis comporta la contaminazione rituale e lo sfavore... se non l'effettiva ostilità... degli dèi. Nelle società che credono veramente nei geis, una persona che ne infranga uno di solito muore rapidamente per depressione o per qualche "incidente" inconsciamente autoinflitto, a meno che non faccia ammenda secondo i riti prescritti. Gel da'Thae Anche noti come Fratelli dei Cavalli, sono una razza di esseri umanoidi dotati per natura di talento psichico che vivono a nordovest del territorio di Deverry. I talenti psichici dei Gel da'Thae si manifestano soprattutto sotto forma di un'enorme empatia con gli animali. Per gli elfi essi sono i Meradan (lett. demoni) o le Orde, perché in ere passate sono stati responsabili della distruzione della civiltà elfica che fioriva fra le lontane montagne occidentali. Geomanzia Un sistema di divinazione, codificato durante il tardo Medioevo, che si basa sugli elementi della terra. I nomi delle figure usati in questo libro hanno il seguente significato: Rubeus, il Rosso; Puer, il Fan-
ciullo; Amissio, la Perdita; Puella, la Fanciulla; Via, la Strada; Carcer, la Prigione; Caput Dragonis, la Testa di Drago. Gerthddyn (dev.) Letteralmente "uomo della musica". Menestrello e intrattenitore girovago di livello molto inferiore a quello di un vero bardo. Giavellotto (traduzione dal deverriano picecl) Dal momento che l'arma in questione è lunga appena novanta centimetri, una traduzione più appropriata sarebbe "dardo di guerra" e il lettore deve evitare di pensare ad essa come ad una vera e propria lancia o ad uno di quegli enormi giavellotti usati nei moderni giochi olimpici. Gorchan (Gallese, traduzione del deverriano gwerganu) Letteralmente si può tradurre con il termine "canto supremo" ed è un ultimo canto, un'elegia o un poema funebre. Grandi Spiriti, un tempo umani ma ora disincarnati, che esistono su un piano inconoscibilmente elevato e che hanno dedicato loro stessi all'illuminazione ultima di tutti gli esseri senzienti. I Buddisti li definiscono Bodhisattva. Gwerbret (dev. Nome che deriva dal gallico vergobretes) Il rango di nobiltà più elevato al di sotto della famiglia reale stessa. I gwerbret (dal deverriano gwerbretion) fungevano da principali magistrati nella loro regione e perfino il re esitava a revocare le loro decisioni a causa delle loro molte e antiche prerogative. Hiraedd (dev.) Una particolare forma celtica di depressione, contraddistinta da un profondo e tormentoso desiderio per una cosa impossibile a ottenersi; inoltre e in particolare, è un senso di nostalgia di casa elevato all'ennesima potenza. Hob termine usato per indicare il maschio della donnola. Le femmine sono chiamate "jill", anche se per ovvie ragioni in questo contesto si è evitato tale termine. Luce azzurra Altro nome con cui indicare l'eterico. Lwdd (dev.) Un prezzo di sangue. Differisce dal wergild per il fatto che in alcune circostanze l'ammontare del lwdd può essere contrattato invece di essere prestabilito dalla legge in modo irrevocabile. Malover (dev.) Una corte formale che comprende tanto un sacerdote di Bel quando un gwerbret o un tieryn. Mazrak (gel.) Un mutaforme, un mago capace di trasformarsi a piacimento da essere umano in animale e viceversa. Melim (elf.) Un fiume. Mor (dev.) Un mare, un oceano.
Pan (elf.) Un enclitico, simile a fola (definito precedentemente) tranne per il fatto che specifica che il sostantivo che lo precede è un plurale oltre a indicare il nome della parola che lo segue, come in Corapanmelim, Fiume dei Molti Gufi (gufi+enclitico+fiume). Ricordate che gli Elfi indicano sempre il plurale aggiungendo un morfema semindipendente e che questa semindipendenza si riflette nei molti enclitici sintattici. Peci (dev.) Lontano, distante. Rhan (dev.) Unità politica territoriale; tali sono il gwerbretrhyn e il tierynrhyn, rispettivamente aree poste sotto il diretto controllo di un gwerbret o di un tieryn. Le dimensioni dei diversi rhan (in deverriano rhannau) variano ampiamente a seconda delle eredità e della fortuna in guerra piuttosto che a seconda di una definizione legale. Sigillo Una figura magica astratta, di solito rappresentante un particolare spirito o un particolare potere o tipo di energia. Queste figure, che somigliano molto a scarabocchi geometrici, vengono ricavate secondo svariate regole da diagrammi magici segreti. Sottoporre a incantesimo Produrre in una persona un effetto simile all'ipnosi mediante diretta manipolazione della sua aura. (La comune ipnosi manipola invece soltanto la consapevolezza e vi si può quindi resistere più facilmente.) Spiriti Esseri viventi anche se incorporei che appartengono ai diversi piani e alle diverse forze dell'universo. Soltanto gli spiriti elementari, il Popolo Fatato (traduzione dal deverriano elcyion goecl) si possono manifestare direttamente sul piano fisico. Gli altri hanno bisogno di un veicolo di qualche tipo come una gemma, incenso, fumo o il magnetismo esalato dal sangue appena versato o da piante tagliate di fresco. Taer (dev.) Territorio, paese. Tieryn (dev.) Un grado nobiliare intermedio, inferiore a quello di gwerbret ma superiore a quello di un nobile comune (deverriano arcloedd). Wyrd (traduzione dal deverriano tingedd) Fato, destino. Gli inevitabili problemi residuati dall'ultima incarnazione precedente. Ynis (dev.) Isola. RINGRAZIAMENTI Ringrazio in modo particolare: Barbara Denz, che mi ha insegnato a riportare alla luce le tradizioni e che ha dedicato del tempo a correggere i miei errori,
Ken St. Andre, i cui commenti su un libro precedente a questo mi hanno indotta a pensare ai draghi in un modo nuovo, e Karen Lofstrom, che ha scalato un vero vulcano e mi ha parlato della sua esperienza. FINE