Ben Pastor LA VOCE DEL FUOCO Traduzione di Paola Bonini FRASSINELLI
Questa è un'opera di fantasia. I personaggi, i lu...
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Ben Pastor LA VOCE DEL FUOCO Traduzione di Paola Bonini FRASSINELLI
Questa è un'opera di fantasia. I personaggi, i luoghi e gli eventi descritti in questo romanzo sono frutto dell'immaginazione dell'autrice o usati in chiave fittizia. The Fire Waker Copyright © 2007 by Ben Pastor Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency © 2008 Edizioni Frassinelli ISBN 978-88-7684-991-6 86-1-08
Per coloro che combattono e soffrono le guerre, e contro coloro che le scatenano.
Nihil enim extra totum est, non magis quam ultra finem (Fuori del tutto non esiste nulla, nulla oltre la fine) Lucio ANNEO SENECA, De Vita Beata ... Una mutevole superficie sulla quale lo sguardo non trova mai un punto fermo di riposo ed è condotto a scivolare seguendo il labile chiaroscuro, interrotto da profondi solchi di ombra e circoscritto, in modo brusco e potremmo dire brutale, dalle masse che rappresentano i capelli o la barba... RANUCCIO BIANCHI BANDINELLA «Dolore di vivere», Roma: Fine dell'arte antica
Indice Ringraziamenti
XI
Nota dell'autrice
XIII
Personaggi principali
XV
Parte prima - Pietra focaia
1
Parte seconda - Fiamma
241
Parte terza - Ceneri
337
Glossario
355
Ringraziamenti Questo romanzo deve molto a molti, sia negli Stati Uniti sia in Europa. In particolare ringrazio il Museo Archeologico di Milano, la cui collezione di oggetti, ricostruzioni e plastici mi è stata utilissima per i capitoli «mediolanensi» del romanzo. Un grazie di cuore anche allo staff del Museo Verri di Biassono, per avermi generosamente sommerso di materiale bibliografico e iconografico sulla tarda antichità in Lombardia. Un ringraziamento speciale va anche al generale di divisione Giorgio Battisti, alto ufficiale dell'esercito italiano spesso impegnato in missioni di peacekeeping all'estero, che ha trovato il tempo di dialogare con me, con illuminanti osservazioni sul tema degli uomini in guerra, persino durante il suo pericoloso incarico in Afghanistan. Grazie, ancora, a Luigi Lombardi-Satriani e Mariano Meligrana, per i loro studi sui rituali e i lamenti funebri. Un affettuoso thank you, infine, a Peter J. Wolverton, a Piergiorgio Nicolazzini, a Paola Bonini, e alla working crew al femminile della Frassinelli.
Nota dell'autrice All'inizio del IV secolo dopo Cristo l'Impero romano era diviso in quattro grandi regioni amministrative, con capitali distinte e quattro reggenti, fra cui i principali erano Diocleziano e Massimiano. Il potente esercito di Roma, ormai in gran parte composto da ufficiali e truppe di origini barbare, difendeva gli estesissimi confini dell'Impero, ma già da anni poteva e spesso voleva decidere delle sorti dei governanti stessi. Quel che dissi per il precedente romanzo della serie, Il ladro d'acqua, è vero anche per il presente lavoro: l'intreccio è immaginario, ma i personaggi storici rievocati nella narrazione, e i fatti delle loro vite, si fondano su verità biografiche.
Personaggi principali ELIO SPARZIANO:
inviato imperiale, storico e comandante di reggimento
AGNUS / PYRIKAIOS
(noto come «Colui che risveglia il fuoco», o la «Voce del fuoco»):
guaritore cristiano CASTA
(già nota con il nome di Annia Cincia): diaconessa cristiana
CURIO DECIMO:
aristocratico, ufficiale della Guardia di Palazzo
BARUCH BEN MATTHIAS:
ex combattente per la libertà, ebreo,
artista e imprenditore MARCO LUPO:
titolare di un mattonificio
MINUCIO MARCELLO:
giudice a Mediolanum
LuCIA CATULA: sua moglie ISACCO
(genero di ben Matthias): supervisore del mattonificio di Lupo
FULGENZIO PENNATO: SIDO:
titolare di un mattonificio
capo della polizia di Mediolanum
GALLIANO: DUCO:
medico dell'esercito
ufficiale di origini britanne, collega di Elio
FRUGI, OTHO, DESTRO
e
SINISTRO, VIVIO LUCIANO, ULPIO DOMNINO:
membri della Confraternita di Catone di Decimo
ufficiali romani,
PROTASIO: segretario del giudice Marcello, ex cristiano ARISTOFANE: eunuco, ciambellano imperiale GIUSTINA: madre di Elio BELATUSA: sorella di Elio BARGA, GARGILIO: cognati di Elio DIOCLEZIANO, COSTANZO, GALERIO, MASSIMIANO: imperatori congiunti, o tetrarchi COSTANTINO: figlio di Costanzo ELENA: ex concubina imperiale, madre di Costantino MASSENZIO: figlio di Massimiano ANUBINA: ex amante egizia di Elio THERMUTHIS: tenutaria di un bordello in Egitto
PARTE PRIMA Pietra focaia
1 Baruch ben Matthias al comandante Elio Sparziano, salute a te. Non lo sapessi, questa potrebbe essere Vindobona o Intercisa, piuttosto che Confluentes: le postazioni dell' esercito si somigliano tutte. Ormai riesco a muovermi al loro interno a occhi chiusi. Un terzo di un miglio quadrato, la caserma a destra, la postazione di comando a sinistra, gli alloggi brulicanti di ufficiali morti di noia che si venderebbero le madri in cambio di un trasferimento. Anche i vostri comandanti sembrano prodotti dallo stesso stampo: tutti soldati di cavalleria di mezza età con la pancetta e il doppio mento. A proposito, comandante, a Castra ad Herculem, sul Danubio, ho incontrato i tuoi due cognati: che quarti di bue su due gambe! Capisco perché tu non vada spesso alle riunioni di famiglia. Sapevi di essere zio di ben sette mocciosi assortiti? Non ti tedierò con i dettagli dei miei viaggi e delle mie tribolazioni dell'ultimo mese. Basti dire che sono partito dall'Egitto poco prima di te, ed eccomi qui. Gli affari vanno bene. Ho ampliato la mia sfera artistica e commerciale aggiungendovi gli epitaffi scolpiti (in prosa e in versi, con o senza il ritratto del defunto). Per il resto, a parte gli affari, la situazione al confine nord-occidentale è quella che probabilmente conosci già. Esercito o non esercito, non c'è verso di tenere fuori gli stranieri. Per ogni tre che vengono imbarcati sul Danubio per essere rispediti al mittente, altri dieci entrano furtivamente, nottetempo. Pino a quando agli imperi servirà lavoro a buon mercato e il traffico farà guadagnare bene i barcaioli, la questione dell' insediamento clandestino entro i confini resterà aperta. Ma probabilmente ti starai chiedendo la ragione della mia lettera, quindi vengo al punto. Forse ti ricordi di mia figlia (erano suoi, i dolci che abbiamo mangiato ad Antinopoli mesi fa, e il suo matrimonio si è celebrato a Roma poco dopo). Suo marito Isacco, che è un ebreo nato in Germania, lavora come supervisore in un mattonificio a sud di qui. La scorsa settimana il titolare della fabbrica, un uomo di nome Lupo, è morto di una febbre perniciosa, e dopo tutte le debite cerimonie è stato tumulato nella tomba di famiglia. Puoi immaginare lo sbalordimento di mio genero, comandante, quando stamattina, tornando al lavoro, ha trovato Lupo alla sua scrivania, con un aspetto che non tradiva in alcun modo la malattia, la morte e l'apparente resurrezione. Una
favoletta, dirai, oppure la solita esagerazione ebrea. Niente di tutto questo! Mio genero non beve, contrariamente a me è un ebreo osservante e non incline a mentire; inoltre sbigottimento e spavento hanno colpito tutti i lavoratori delle figlinae Marci Lupi, al punto che un paio di loro si sono sentiti male e altri sono scappati a gambe levate giurando che non avrebbero rimesso piede in fabbrica. Ora, di te - oltre al fatto di averti combattuto più o meno dieci anni fa - so queste cose: che malgrado le origini barbare sei colto, coraggioso, rispettoso delle tue divinità e smisuratamente curioso. In qualità di storico potrebbe interessarti documentare che alla conclusione del regno di Nostro Signore Diocleziano (lunga vita a lui etcetera etcetera, come vuole la formula) un uomo morto è stato riportato in vita nella provincia di Belgica Prima. Come investigatore con il permesso imperiale di svolgere indagini, potresti voler scoprire che cosa è successo a Noviomagus. Aggiungo solo al mio resoconto - ma di certo lo presumi - che Lupo è un cristiano. Infatti, la persecuzione nei confronti dei suoi pari non è ancora giunta fra queste foreste, grazie alla considerazione tollerante della setta da parte del nostro Cesare Costanzo (possano gli dei etcetera etcetera). Pieni a mente che dividerò il mio tempo sul Reno fra Con- fluentes e un fiorente borgo a nome Bingum, a sud di qui. Mi abituerò mai a questi balordi nomi di città? A Confluentes mi troverai alla porta dopo lo stagnino Erminio. I miei migliori saluti, addio. PS. Ho sentito che la moglie «ripudiata» di Costanzo non è entusiasta del fatto che il figlio favorito, Costantino, l'abbia resa nonna con Minervina. A mezzo secolo d'età la signora Elena si mantiene più che bene, risultando ancora oggi attraente agli occhi degli ufficiali subalterni quanto, qualche anno fa, lo era a quelli di Elio Sparziano (così vogliono i pettegolezzi al campo dell'esercito). Non ti preoccupare, questa lettera verrà consegnata a mano da un amico fidato. Scritto a Confluentes, a nord di Augusta Treverorum, provincia di Belgica Prima, il 4 Kislev, XIII giorno delle Calende di dicembre. A sud di Mogontiacum (Magonza), 20 novembre 304 dopo Cristo, lunedì Elio lesse la lettera di ben Matthias per ultima, dopo quella concisa e mal scritta di suo padre, che lamentava «Yabsenza da casa di tre anni del mio figlio unico» e riferiva «Xanzietà perché non hai preso ancora moglie» da parte di sua madre.
Malgrado fosse andato in pensione con il grado di colonnello dei Seniores Gentiliorum, il vecchio non aveva avvertito il desiderio di educarsi più dello stretto necessario a far carriera - anche se altri erano diventati imperatori con molto meno. Quanto alla madre di Elio, si affannava a proporgli ogni sei mesi una nuova prospettiva matrimoniale: figlie di soldati, vedove di proprietari terrieri, ragazzine che sarebbero dovute crescere ancora per anni prima di poter dividere il letto con un uomo. Gettando la lettera dei suoi in una scatola sul cui fondo ne giacevano altre (ognuna praticamente identica alla precedente), Elio si trovò a formulare una strana immagine composita di quanto il suo nemico di un tempo, il combattente per la libertà ebreo, gli aveva comunicato. Da una parte c'era Elena, che l'aveva sedotto quando aveva esattamente il doppio dei suoi anni e poi l'aveva lasciato a soffrire come un vitello abbandonato, e dall'altra quell'assurda storia di un morto rinato. Fedele alla reputazione di lavoratori indefessi di cui godevano i cristiani, Lupo sembrava non essere riuscito a pensare nulla di meglio che tornare al lavoro subito dopo la resurrezione. Ne sorrise, convinto com'era che ben Matthias per qualche ragione lo stesse prendendo in giro, ateo sarcastico che non era altro. Ma l'immagine composita aveva una terza faccia, velata e sghemba, un tuffo al cuore: perché Anubina gli aveva dato una figlia, in Egitto, sette anni prima, e solo per il suo rifiuto di sposarlo, dopo la morte del primo marito, ora non poteva scrivere a sua madre di smettere di cercargli moglie. L'efficienza del servizio postale non cessava di stupirlo: i corrieri erano sempre riusciti a scovarlo ovunque, perfino durante le campagne orientali. Era solo logico, dunque, che le missive riuscissero a raggiungerlo fra Noviomagus e Mogontiacum (poche miglia a sud di quest'ultima, di fatto), essendo noto che aveva lasciato la capitale estiva di Diocleziano, Spalato, quasi due settimane prima, per dirigersi a Tergeste, e da lì, attraversando quattro province, giungere a meno di due giorni dalla capitale di Costanzo. Aveva trascorso la notte (ben Matthias aveva ragione) in un luogo come tanti, una fermata sulla strada militare, con la sua stalla e la sua taverna, i suoi commercianti di merci scadenti e qualunque fosse la piccola industria che caratterizzava la regione. Lì erano le vetrerie; più avanti avrebbero potuto essere botteghe di ceramiche o concerie.
Il primo mattino colmava di foschia gli spazi fra le colline davanti a lui; la via conduceva dritta in quella nebbia, lasciando all'immaginazione il paesaggio nascosto: di certo Mogontiacum, dove la strada si biforcava, e poi i campi coltivati, il terreno a maggese irto di stoppie gialle nel tardo autunno, i boschi senza fine. L'Aldilà, addirittura, se era vero quel che scrivevano i poeti: le nebbie perenni come luogo di eterna dimora delle ombre. La ragione per la lettera dei genitori era il suo imminente compleanno, il trentesimo; ma il padre si sbagliava a ricordargli che non tornava a casa da tre anni. Erano quattro e mezzo, e per quanto lo riguardava, Elio non sentiva alcuna fretta di andarci. Quando montò a cavallo e partì, diretto a nord-est, la foschia non si era ancora levata. Si sarebbe potuto fare mezzogiorno prima che il sole riuscisse a diradarla, lasciando spogli ed esposti alla vista la valle del fiume, i monti sulla riva opposta e ogni altro dettaglio. Per il momento, mentre avanzava, la bruma sembrava ritirarsi, eppure se si guardava alle spalle si accorgeva che si richiudeva dietro di lui. Quante volte aveva attraversato la nebbia per andare in battaglia, tornare a un accampamento, o lasciarlo. La caligine sembrava sempre la stessa; di volta in volta l'aveva affrontata pieno di speranza, o preda di una paura muta, o della spossatezza. C'era da augurarsi che l'Aldilà non fosse così, altrimenti meglio resuscitare come apparentemente aveva fatto Lupo, il fabbricante di mattoni. Portare con sé i messaggi indirizzati a Costanzo da Sua Divinità significava che ovunque le porte si aprivano al suo cospetto, e che ai posti di blocco o ai ponti fortificati aveva la precedenza sugli altri. In effetti da Spalato aveva tenuto una tale tabella di marcia da essere in anticipo di un giorno intero. Considerato che il cerimoniale non ammetteva arrivi anticipati più di quanto non ammettesse ritardi, aveva tempo di fermarsi da ben Matthias nella cittadina militare di Bingum, tre o quattro ore a nord di Mogontiacum, sulla via del fiume. Era lì che Elio si dirigeva al momento, e contava di arrivare per mezzogiorno. Costanzo l'aveva incontrato durante un'estate di servizio a corte, nella capitale orientale di Diocleziano, Nicomedia, e nei pochi anni trascorsi da allora non l'aveva più visto. Era uno dei due vice-imperatori che si preparavano a prendere il potere nel maggio seguente, quando ci si aspettava che Diocleziano e Massimiano avrebbero abdicato. Elio lo ricordava come un generale solido, che aveva chiesto che gli ufficiali
di stato maggiore gli fossero presentati dopo un passaggio in rassegna dell'esercito e li aveva salutati a uno a uno. Un uomo massiccio, pallido, dagli occhi sporgenti e i pollici deformi, che aveva preso in sposa la figlia del suo collega Massimiano ripudiando non - come aveva scritto ben Matthias - la sua prima moglie, ma la sua concubina di lungo corso Elena. Quell'estate Elena aveva raggiunto l'apice del risentimento e dell'ambizione frustrata, dopo la sua scalata al privilegio dall'oscurità. Il suo maggior rimpianto era di non essere mai riuscita a convincere Costanzo a sposarla, ma così stavano le cose. Elio ricordava cortigiani e sacerdoti darsi il cambio al suo fianco, e di tanto in tanto convincerla in apparenza ad abbracciare questo o quello stile di vita. La prima volta che gli aveva consentito di entrare nella sua camera da letto gli aveva detto che avrebbe potuto essere l'ultimo, dato che stava prendendo in considerazione la vita religiosa (non aveva ancora deciso se ebrea o cristiana). La seconda, l'aveva informato del suo piazzamento numerico nella scala dei suoi amanti. La terza aveva detto di aver sognato che sarebbe divenuta santa, e che in suo onore si sarebbero eretti chiese e altari. Con l'adulazione ingenua della gioventù, Elio aveva risposto che il suo letto era già un altare, per quanto lo riguardava, e quel giorno gli erano state concesse libertà speciali. Costanzo sapeva, naturalmente, poiché tutto era noto alla corte del suo collega. «Solleticala sotto l'ombelico», gli aveva inaspettatamente consigliato una mattina alle Terme, di buon umore. «Lo adora.» Dalla nebbia, mentre Elio procedeva, ai lati della strada si affacciavano di tanto in tanto le lunghe mura di fattorie fortificate, imbiancate o rosse di mattoni in lontananza, con i loro viali di alberi o cespugli ben potati. In quel grigiore, i servi intenti a preparare i campi per l'inverno e i corvi cinerini volteggianti sopra di loro prendevano davvero le sembianze spettrali di creature dell'Aldilà; o, se non l'Ade, ricordavano i campi di battaglia subito dopo i combattimenti, quando un comandante li percorre per riconoscere i suoi morti e raccogliere i loro modesti anelli in una bisaccia, per le famiglie. Lupo il cristiano, morto e sepolto - giacché i cristiani non accettavano la cremazione - probabilmente sigillato sotto un monumento consono al suo stato, era ritornato alla vita. Assurdità, certo. Ma Elio non riuscì a non pensare ai tanti compagni persi durante le guerre. C'era una possibilità che tornassero indietro, per andargli incontro dalla nebbia della morte, e sentire ancora una volta la loro carne?
Lentamente - aveva già attraversato le strade di Mogontiacum, dove non si vedeva al di là del naso - il sole prosciugò la nebbia e i vapori del fiume. A est, allora, appena la strada salì abbastanza da mostrare le sue acque lustre intrecciarsi nella scia di pesanti vascelli, si rivelò il solenne Reno. Le barche seguivano silenziose la corrente verso nord, per attraccare in una delle dieci e più città fra lì e la costa. Non vascelli da mare aperto, ma chiatte cariche di birra, vino, maiale sotto sale e qualunque altra cosa facesse marciare un esercito. Dai campi proveniva l'odore aspro dei falò di stoppie, e sulle distese, in quel giorno senza vento, il fumo indugiava pigro; in lontananza, le pattuglie notturne facevano ritorno ordinatamente lungo sentieri tra i campi, invisibili da lì. Quando lungo la via del fiume divennero più frequenti le lapidi civili e le sepolture militari, Elio seppe che si stava avvicinando all'insediamento successivo. Stando alla pietra miliare, Bingum, la cittadina il cui nome faceva sorridere ben Matthias, era a sole quattro miglia di distanza. Confluentes (Coblenza), provincia di Belgica Prima Il marchio sui mattoni di Lupo era, prevedibilmente, la sagoma dell'animale omonimo, con le lettere EX FIG MA LUPI REN che la racchiudevano nell'incavo di una mezzaluna. Il pezzo triangolare di argilla cotta, pulito e inutilizzato, giaceva sul tavolo del ben messo laboratorio di Baruch ben Matthias, vicino alla porta meridionale della città. Elio lo studiò, l'orecchio teso al suono sordo delle mazzuole che percuotevano il legno dallo stagnino accanto. «Ex figlinis Marci Lupi: dal mattonificio di Marco Lupo. Non dirmi che ren sta per quel che penso, Baruch.» «Proprio così: renatus, rinato.» Versando vino in due panciuti calici verdi, il pittore osservò: «Credevo fossi a Nicome- dia, e che la mia lettera ci avrebbe messo due settimane a raggiungerti. Invece devi venire da Spalato, e di gran carriera». Elio restò in silenzio. «Quanto a me, comandante, sto solo avviando il mio commercio anche qui», aggiunse ben Matthias malgrado non gli fosse stato chiesto di giustificare la sua presenza tanto lontano da casa. «Non è che voglia trasferirmi per sempre dall'Egitto per venire a buscarmi un malanno su questa frontiera.» «Ho notato che i tuoi balordi viaggiano con te.» Elio sorrise, declinando con un piccolo gesto della mano l'offerta di vino da parte del suo ex nemico.
«Balordi? Non sono balordi, sono i miei figli e parenti. Con tutto il rispetto per l'organizzazione militare imperiale, questi lunghi tratti di strada desolata fra le postazioni e le città richiedono qualche precauzione. Ci sono tagliagole per tutti i boschi. Vedo che - al contrario - tu continui a viaggiare senza scorta.» «Ah, è qui che ti sbagli. I miei cavalieri sono in giro.» Ben Matthias bevve un sorso da uno dei due calici. «La vendemmia di quest'anno», disse schioccando le labbra. «Non male per un vino bianco.» Al suo occhio esperto, nelle settimane trascorse da quando si erano incontrati al negozio di spezie di Theo, ad Antinopoli, Elio doveva essere rimasto in interni o aver viaggiato in climi settentrionali, perché aveva perso del tutto l'abbronzatura. Per il resto era sempre l'ufficiale di cavalleria alto e agile che ben Matthias aveva combattuto durante la Ribellione, arrivando a un soffio dall'ucciderlo. L'Armenia (o le angustie di una carriera a corte) gli aveva reso precocemente grigi i capelli, e solo l'incarnato chiaro rendeva meno stridente l'ovvio contrasto fra la giovane età e la canizie. Elio segnalò la natura semiufficiale della visita evitando di togliersi il copricapo dell'esercito della frontiera settentrionale, noto come «feltro pannone», un cilindro basso e rosso scuro portato da tutti i ranghi. Continuò a osservare con curiosità il mattone sul tavolo. «È il primo pezzo marchiato uscito dalla fabbrica dopo la risurrezione, e capisci che non me lo potevo lasciar sfuggire», commentò ilare ben Matthias. «È una questione di tempo. Prima o poi qualche diacono cristiano o signora devota verrà a cercarlo, e si scatenerà una guerra di rilanci per aggiudicarsi il ricordo del miracolo. Nel qual caso, nel retro ne ho altri dieci. Se ti serve una prova da portare a Nostro Signore etcetera, possiamo accordarci su un prezzo equo. Ho già detto a mio genero che vuoi incontrare Marco Lupo, quindi se stasera hai tempo possiamo organizzare la cosa.» «Stasera ceno con gli ufficiali di stato maggiore a corte. Che ne dici di domani mattina?» «Vedrò che posso fare.» Ben Matthias fece un sorrisetto sotto la barba. «Corte, eh? Be', si dice che il profumo del potere stimoli l'appetito. A proposito, fossi in te cercherei di incontrare anche l'autore del miracolo, altrimenti è come assistere a uno spettacolo di magia senza conoscere il trucco.» «Giusto. Chi è?»
«Il suo nome cristiano è Agnus, meglio noto fra i suoi compari come Pyrikaios, 'Colui che risveglia il fuoco'. La Voce del fuoco, per il popolino.» Di nuovo ben Matthias mostrò un'espressione di malevolo divertimento, anche se Elio immaginò che - con tutte le sue pretese d'ateismo - la sua sensibilità ebraica fosse offesa dalla presunzione che un essere umano potesse riportarne alla vita un altro. «I suoi seguaci giurano che ha fatto camminare gli storpi e vedere i ciechi in diverse città della Germania Superiore e Inferiore, ma questa volta ha battuto ogni primato miracolistico. Dicono che lui stesso sia rimasto sorpreso dai suoi poteri! Come tutti i bravi illusionisti, il nostro uomo ha una fanciulla che gli fa da assistente, di nome Casta; e da quel che sento, per incontrarlo devi fissare un appuntamento con lei. Sì, lo so, ci ho pensato anch'io: solo nei bordelli si fissano gli appuntamenti passando per una donna. Be', che cosa vuoi che ti dica? Non ci posso fare nulla.» A una seconda offerta, Elio accettò il vino, un Mosella più che passabile servito senza aggiunta d'acqua. «Suppongo che saprai anche dove posso trovarla.» «E interessante che tu me lo chieda. Alloggia ad Augusta Treverorum con un gruppo di zitelle in un vicolo non lontano dalla Porta Centrale, oltre cui i cristiani hanno uno dei loro cimiteri. Il nome è Vico di Sole e Luna.» Ben Matthias contò sulle dita, alzando lo sguardo. «La prima, la seconda - no, la terza casa da sinistra uscendo di città, con una ghirlanda dipinta sulla facciata. Vedi quanto aiuto ti do senza farti pagare? Ma no, cosa vai pensando? Mi offendi, comandante. Non mi sognerei neppure di chiederti di spendere una buona parola per me con Nostro Signore Costanzo, anche se c'è una concorrenza feroce per l'appalto di lapidi e monumenti per l'esercito e facciamo tutti carte false per avere la meglio sugli altri. Per me basterebbe poter sostenere che il comandante Elio Sparziano, praefectus Alae Ursi- cianae nella campagna di Persia, storico ufficiale di Sua Divinità, è venuto da me per un'elegante pietra tombale.» Elio rise dell'oltraggiosa proposta. «Basta che tu non lo metta per iscritto sull'insegna del negozio e che faccia tutti i debiti scongiuri mentre incidi le mie fattezze.» Augusta Treverorum (Treviri), 21 novembre, martedì La capitale di Costanzo, nell'antica provincia gallica di Belgica Prima, vantava tutti gli edifici burocratici che ci si aspettava dal suo rango, oltre, naturalmente, a un
pregevole ponte sulla Mosella. Era comunque una città grigia, le cui pietre dai colori spenti sembravano assorbire la poca luce mattutina che filtrava dalle nuvole. Era uno di quei momenti di sole in mezzo alla pioggia che cadeva ovunque, quando contro il cielo tempestoso gli archi e le colonne assumono l'opacità delle ossa, ma i fazzoletti e gli scialli bianchi sulle spalle delle donne sembrano accecare. Elio, che doveva incontrare il coregnante per colazione, arrivò presto a corte e restò in attesa in perfetta posa militare, a gambe dischiuse e braccia conserte, lo sguardo fisso avanti a sé. Presto avrebbe visto che malgrado i suoi ben auguranti titoli ufficiali - Germanicus, Britannicus, Sarmaticus, Persi- cus Maximus e altri, alcuni concessi ben quattro volte - Flavio Valerio Costanzo non sembrava più erculeo o semidivino, anzi. Era notevolmente invecchiato dall'estate passata a Nicomedia, tanto che Elio dovette sforzarsi di non mostrare sorpresa quando gli fu permesso di alzare lo sguardo su di lui. Come collassato dall'interno, il fisico gagliardo dell'uomo si era fatto flaccido, la stretta di mano (concessa in via eccezionale dopo gli umili inchini richiesti dal cerimoniale in quei giorni) era molle e umida, come di un guanto bagnato. Eppure Costanzo vestiva la sua decadenza di uno sconfinato lusso, con fermagli d'oro delle dimensioni della mano di un bambino e un'elegante uniforme che nessuno aveva mai visto in campo, ma solo sulle pareti affrescate dei sacrari dell'esercito. «Tu sei il nipote di Elio Bartario», disse. «Gli somigli, specialmente gli occhi.» In gioventù, Costanzo era stato commilitone dello zio di Elio (incidentalmente il primo marito della madre di Elio), e l'aveva visto cadere in battaglia, come ricordava in quel momento, «in Germania, mentre proteggeva le insegne». Poi diede ulteriore prova del dono da vero comandante di ricordarsi i nomi dei suoi ufficiali. «E sei anche il figlio di Elio Sparto.» Considerato che nel giro di pochi mesi Costanzo sarebbe divenuto uno dei due principali regnanti dell'Impero, solo in virtù di quella vecchia amicizia gli era stata concessa un'udienza privata. Eppure a Elio era stato espressamente richiesto di comportarsi come se dovesse conversare con un superiore in grado, e non con il signore del mondo. «Alza gli occhi, figliolo: non posso parlare con la cima del tuo cranio.» La stanza - più ufficio amministrativo che sala del trono - era austera, perfino priva di eleganza. Accanto alla scrivania, per la colazione imperiale, era stato apparecchiato un tavolino con uova sode sgusciate, olive, uova di pesce rosso
acceso. Sedendosi pesantemente su uno sgabello, Costanzo si preparò a mangiare. «Qui.» Con un coltellino delicato fece segno a Elio di avvicinarsi. «Stai dove ti posso vedere mentre parli.» Le voci per cui presto o tardi sarebbe dovuto salpare alla volta della Britannia per intraprendere una grande campagna erano note a tutti. In effetti, in quelle settimane la sua sede era stata stabilita a Gesoriacum, su una spiaggia distante a nord-ovest. «Abbiamo guai lungo i confini dell'isola, sicuramente te n'è giunta voce», disse, ed Elio notò che quando parlava, dal petto gli si levava una sorta di fischio ansimante. «A volte sembra che il nostro dannato Impero non abbia altro che confini, come una pagnotta fatta di sola crosta.» «La crosta è più resistente della mollica, Vostra Tranquillità.» «E questo dovrebbe farmi sentire meglio o peggio?» Costanzo diede un morso a un uovo, dimezzandolo. «Il tuo povero zio... lo ricordo bene alla frontiera a sud di qui, dove i barbari ci colsero di sorpresa nella foschia del fiume. La sua ultima volontà fu che la sua giovane vedova andasse in sposa a suo fratello. Essendo che una donna conserva l'impronta dell'uomo che l'ha deflorata, spero che in un certo senso tu sia figlio di entrambi quegli uomini.» Frammenti appiccicosi di tuorlo gli si rappresero agli angoli della bocca, e lui non si curò di pulirli. «In questi giorni cupi mi ricordo degli amici morti meglio di quelli che mi respirano intorno. Compagni d'arme che non hanno mai tradito, quelli.» Sì, a Nicomedia Costanzo era tutto grasso e muscoli. Ora sul collo la pelle gli cascava, il mento e la bocca dominavano il volto, e le sue mani sembravano troppo grandi per i polsi macilenti. Come se fosse giunto all'argomento successivo attraverso considerazioni indirette sul tradimento, aggiunse: «Avrai notato che riesco a evitare le contese religiose nella mia fetta di pagnotta imperiale, crosta o mollica che sia. Fin dal principio ho voluto incontrare i locali capi cristiani per addivenire a un accordo: voi rispettate il primo editto di Sua Divinità, cedete o date alle fiamme i vostri libri, smettete di praticare, non create disordini, e io sarò clemente». Costanzo lo guardava fisso, con gli occhi sporgenti color del fango. «Non hai sentito di guai provocati dai cristiani in queste contrade, vero?» «Nessuno, signore», si affrettò a rispondere Elio. «O meglio, solo la storia del fabbricante di mattoni risorto, ma non sono certo che si possa definire 'guaio'.»
«Potrebbe diventarlo.» Difficile giudicare quanto serio fosse Costanzo nel dirlo. In passato era stato famoso per il suo umorismo, con grande irritazione della sua controparte imperiale, Diocleziano, di cui si diceva che «era stato visto ridere solo una volta, ma il testimone era sordo e cieco». Costanzo sbocconcellò il cibo, risucchiandolo più che masticandolo. Con un cucchiaino posò delle uova di pesce sull'uovo sodo che aveva in mano e fu rapido a leccarle via appena minacciarono di scivolare giù. «Posso tollerare guarigioni e cose del genere, ma questo! Immagina se quelli giustiziati per le persecuzioni altrove - i cristiani, intendo - dovessero risorgere dopo le crocifissioni o le decapitazioni. Per non parlare di quelli mandati nell'arena: sarebbe un vero spettacolo vederli tornare in vita nel ventre degli animali che li hanno sbranati. Si potrebbe attivare una gamba nella pancia di un leone, e un braccio in quella di una pantera? Gli arti si riunirebbero per magia appena vomitati, o assisteremmo alla nascita di mostri, mezze bestie, mezzi uomini?» «Credo sia una fandonia, Vostra Tranquillità. Pretese del genere sono già state avanzate da molti ciarlatani, in passato. Resta il fatto che nemmeno il leggendario Penteo tornò alla vita dopo che le Menadi lo ebbero linciato.» Costanzo cambiò subito argomento. Mangiò quanto c'era sul tavolo, masticando pensoso le olive verde-blu e inghiottendone anche il nocciolo. Il cerimoniale prevedeva che la risposta ufficiale al messaggio di Sua Divinità fosse consegnata all'inviato in una busta sigillata dal capo del personale di palazzo il giorno dopo l'incontro. Ciò che sorprese Elio, però, fu che la prima domanda personale di Costanzo non avesse riguardato suo figlio. Da anni Costantino viveva a Nicomedia da ostaggio altolocato, per ordine di Diocleziano, che con il buon senso del contadino non si fidava delle alleanze prive di garanzie. Forse il messaggio di Sua Divinità forniva già rassicurazioni sulla salute e sul benessere del giovane. Forse no. Elio era inquieto. Da lui Costanzo si aspettava forse una dichiarazione spontanea, direttamente dalle labbra di suo figlio? Non ce n'era stata alcuna. Informato ufficialmente della missione di Elio, Costantino non aveva mandato alcun messaggio a suo padre. Attendeva il momento opportuno, dicevano, trascorrendo la maggior parte delle sue giornate in palestra, come se il futuro fosse un'impegnativa lotta corporale a cui prima o poi sarebbe stato chiamato. Come Massenzio, figlio di Massimiano e suo pari, aspettava l'abdicazione dei due
imperatori per vedere come sarebbe stata tagliata la ricca pagnotta dell'Impero, e quanto vicino al piatto si sarebbe trovato lui. Elio dunque restò in silenzio, cercando di pensare a come portare un saluto da parte di Costantino senza spudoratamente inventarsi qualcosa. «Come sta mio figlio?» Infine Costanzo capitolò. «Avendo la sua età e frequentando la corte, immagino che a Nicomedia vi siate visti, qualche volta.» «Era in buona salute quando l'ho visto lo scorso aprile, signore. Come novello padre, naturalmente era preso dall'orgoglio dell'occasione.» «Hai ragione, sì. Il bambino ha davvero i capelli ricci?» Le labbra si piegarono all'improvviso in una smorfia risentita, facendo apparire Costanzo acido, per nulla accomodante. «Altrimenti perché avrebbero dovuto chiamarlo Crispo, invece di dargli il mio nome?» «Non ho visto il bambino. Ma considerato che Minervina ha i capelli ondulati, è ragionevole che...» Alzandosi di scatto dallo sgabello Costanzo fece oscillare il tavolino, tanto che i piatti si urtarono e scivolarono sulla superficie, senza cadere. «Va bene, puoi andare.» La voce cupa non era irritata, non esattamente, e in effetti il gesto che invitava Elio ad andarsene tradì un certo indugio. «Lavori ancora sulle biografie imperiali, ho sentito. Quale, ora?» La domanda colse l'inviato mentre indietreggiava in direzione della porta, come da cerimoniale. «La vita di Severo, Vostra Tranquillità.» «Settimio o Alessandro?» «Settimio Severo, l'Africano.» «Hm», Costanzo mugugnò. «Nemmeno lui è stato fortunato con i figli.» La notte che Elio trascorse ad Augusta Treverorum sarebbe forse stata definita da ben Matthias «come qualunque altra», e agli occhi di chi non prestasse attenzione a dettagli e indizi poteva sembrare così. Elio dubitava che un pittore potesse annoverarsi fra i distratti, quindi probabilmente l'ebreo faceva finta di nulla. Erano diversi gli odori; gli angoli delle strade e le scale emanavano lezzi o profumi che subito facevano dire a un soldato «Siria», o «Mesia», ma non l'una e l'altra. Nella penombra le ragazze sussurravano cose simili, ma la reazione a esse - l'acuirsi di una pulsione, o irritazione, o puro disgusto - variava. Invitato da un ex collega a condividerne l'alloggio affacciato su un crocevia, Elio, con l'occasionale insonnia del
viaggiatore, si mise alla balaustra del suo piccolo balcone per cogliere i barlumi dell'oscurità umida di sotto. Guardie che facevano la ronda, muovendo i batacchi per assicurarsi che le porte fossero chiuse e sicure. Passi affrettati, lo scalpiccio dei muli carichi. Si sorprese a pensare: Come fa un uomo apparentemente ritornato dalla morte a coricarsi nel buio con fiducia e ad affrontare la notte spaventosa? Il potere delle favole raccontate in maniera divertente. Stava già fantasticando, come se il miracolo fosse accaduto davvero e dovesse riferirlo a Sua Divinità nei termini più acconci. Presto avrebbe nevicato. Non fosse stato abituato al freddo degli accampamenti dell'esercito fin dall' infanzia, Elio avrebbe già dovuto ricorrere a mantelli con cappuccio e sopravvesti di pelliccia. Conosceva la stagione, l'odore pulito dei venti invernali in arrivo. Ci sarebbe stato un momento misterioso in cui la nebbia si sarebbe alzata una volta per tutte, e un mattino sarebbe stato tutto perfettamente terso, fino all'orizzonte più remoto, e dal cielo - soffice e bagnata, dapprincipio, poi piccola e così dura da non riuscire a schiacciarla fra le dita - sarebbe scesa la neve. Non era ancora arrivato quel tempo, ma il freddo amaro della notte ne annunciava la vigilia. Al mattino, solo le case più alte di tre piani - non molte, rispetto alle altre - spuntavano dalla nebbia. Dal quarto piano sembravano un arcipelago squamoso di tegole. I suoni vivaci dell'attività umana di sotto giungevano incorporei alle orecchie di Elio; e una volta varcato l'uscio dell'amico per incamminarsi lungo la strada, pensò che stava diventando parte di quella folla invisibile dall'alto. La foschia era sospesa a mezz'aria, così da formare un impalpabile tetto lattiginoso, come una tenda increspata. I suoi uomini di guardia, alloggiati nella caserma adiacente al palazzo, furono felici di avere la giornata libera per riposarsi o visitare la città; due di loro avevano lì mogli e figli, e ne furono entusiasti. Quanto ai letti d'argilla e alle fornaci di Marco Lupo, sorgevano fuori dalla Porta Orientale e dall'altra parte del fiume, a sinistra della strada militare, in una località nota come Alla felice Diana. Arrivando a cavallo, il giorno prima, Elio aveva notato il bivio in un boschetto di querce, con un piccolo sacrario vermiglio dedicato alla dea sul ciglio della strada, e quel giorno aveva in mente di verificare se la statuina o il dipinto di culto la rappresentavano davvero di buon umore. Il sole era appena sorto quando Elio si avviò a cavallo contro il flusso assonnato dei mercanti che entravano da est. Attraverso il voltone della porta urbana la nebbia
si accendeva di sfumature ardenti fra l'arancio e il rosso, come se un grande incendio, visibile solo a tratti, infuriasse dietro il velo di una donna, o un lenzuolo. Sulla soglia i soldati gli fecero il saluto e lo lasciarono passare, e una volta fuori Elio si domandò se davvero erano mai esistiti, tale fu la rapidità con cui la stessa nebbia si richiuse dietro di lui, cancellando porta, mura e il capo del massiccio ponte sulla Mosella. Intorno a lui non sembravano esistere altro che il tratto successivo di ponte e il suono tumultuoso delle acque sotto di esso. La curiosità per uno storico era una qualità, ma non la principale; l'amor di verità, pensò Elio, era in cima alla lista. Una o l'altro, a ogni modo, potevano essere il motivo per cui Sua Divinità l'aveva mandato in missione con l'ordine di riferire di tutti gli incidenti di rilievo incontrati lungo la strada. Era stato così in Egitto, dove era incappato in una serie di omicidi e in una trama occulta che aveva sventato a suo rischio personale. Quassù, be', era difficile a dirsi. Per il momento si trattava di annotare le condizioni delle province visitate, e in tal senso miracoli e portenti non rientravano nella rubrica. Ma la «risurrezione» di Lupo poteva essere fonte di guai, come aveva detto Costanzo, in un'epoca in cui in tre quarti dell'Impero una persecuzione sanguinosa mirava a schiacciare la superstizione cristiana. Nelle province asiatiche e africane la pena di morte veniva inferta contro di loro a dritta e a manca, ma non c'era modo di prevedere che simbolo di aggregazione potesse rappresentare un uomo come la Voce del fuoco per i cristiani sotto assedio. Impregnato di umidità, il piccolo sacrario al bivio della Felice Diana aveva il colore della carne viva. Sotto una gronda consumata, la statuina non superava di molto le dimensioni di una bambola: il tempo l'aveva erosa al punto che il volto della dea non aveva quasi più tratti al di là di un nasino camuso e una traccia di bocca curvata in un sorriso. Fiori essiccati ai suoi piedi testimoniavano la pietà dei viandanti, anche se sull'intonaco della nicchia erano state incise minuscole croci e altri scarabocchi cristiani. Oltre quel punto, il mattonificio era invisibile nella nebbia. Solo la parete alta e rossiccia da cui si estraeva l'argilla appariva e spariva alla vista, con la cima incoronata da querce giovani, in attesa di essere sacrificate alla produzione di mattoni. Il sentiero, segnato da profonde tracce di ruote, assediato dai cespugli, era butterato di pozzanghere. L'acqua stillava dal terreno più in alto, e sulle pozze ai margini, dove i carretti passavano di rado, si stava già formando il ghiacciò. Fra gli
alberi, verso la riva del fiume, si intravedeva un bivacco di tende di fortuna, e fagotti che senza dubbio erano persone avvolte in mantelli e coperte. Elio immaginò che fossero credenti, o semplicemente i curiosi che si affollano sempre quando si parla di miracoli. Ancora intorpiditi dalla notte trascorsa all'addiaccio, si mossero a malapena al passaggio dell'ufficiale. Fra di loro c'erano alcune donne; una guardò nella sua direzione e si coprì il capo con lo scialle. Era l'ora del giorno in cui la maggior parte dei produttori spediva le merci. Sulla strada militare (se Elio si guardava indietro poteva vedere i monumenti funerari che la costeggiavano svanire nella nebbia), carretti trainati da buoi e file di muli si muovevano ininterrottamente. Dalle figlinae più avanti, però, nulla sembrava procedere. L'ufficio del genero di Baruch era in un piccolo edificio vicino alle fornaci; Isacco lo avrebbe aspettato lì, per presentarlo a Lupo. Chiedendosi se in ragione del lungo viaggio si fosse dimenticato di una festività, Elio non pensò più all'assenza di traffico sul sentiero finché non sentì lo scalpiccio che veniva dalla parte opposta, e tirò le redini solo quanto bastava a fermare il cavallo. Per prime emersero le lunghe orecchie di un mulo e il suo cranio lucido e paziente, poi la coppia di uomini che portava in groppa; i due, lavoranti anziani o soprastanti, indossavano grembiuli di cuoio e avevano il volto dell'angoscia, tanto che il loro saluto fu affrettato. «Problemi al mattonificio?» La domanda di Elio impedì loro di proseguire. Lo guardarono di sottecchi, i volti chini, la posa che gli inferiori di grado e i civili in genere assumevano con i rappresentanti dell'autorità. Uno dei due, con il naso arrossato dal freddo o da un pianto recente, rispose: «Il nostro padrone è morto». «Sì, questo lo so.» Elio dovette trattenere un sorriso. «Ed è tornato alla vita, no?» «No, è morto di nuovo.» «Quando? Come?» «Oh, signore, stamattina il supervisore di Lupo l'ha trovato stecchito nel letto quando è andato a svegliarlo. Naturalmente nessuno lo ha toccato, nel caso in cui di nuovo...» «Sì, Dio è misericordioso», attaccò a dire l'altro, ma il primo gli diede una gomitata nel fianco, azzittendolo. Elio ignorò lo scivolone. «Nel suo letto, dove? Non al mattonificio...»
«Sì, sì. La casa di Lupo è in città, ma era ancora debole, e quando c'è da soddisfare un grosso ordine - ne potete star certo, dopo il miracolo abbiamo ricevuto richieste da ogni dove - lui sta in una piccola baracca vicino alla cava. Ed è ancora lì, povero padrone. Stiamo andando a cercare aiuto.» Che con «aiuto» intendessero Agnus era implicito. Il primo istinto di Elio fu di seguirli e vedere come il guaritore avrebbe reagito a un miracolo fallito, ma ad avere la meglio fu una curiosità di altro ordine, quindi cavalcò fino al mattonificio. Lì, il genero di ben Matthias, un giovane villoso senza neppure un mantello sulle spalle, si stava arrampicando dai piedi del colle verso la sua stanza di lavoro. Poche parole fra di loro furono sufficienti per informare Elio che sì, la notizia era vera, e che imboccando una stradicciola ripida a destra della rupe era possibile raggiungere la baracca in cui Lupo giaceva senza vita. «Nella stanza non è stato toccato nulla, comandante», aggiunse Isacco. «Abbiamo pensato fosse meglio. Povero Lupo, e che peccato, per giunta. Il campo dell'esercito ci ha appena mandato un grosso ordine. Stanno ampliando i bagni e l'infermeria, quindi il chirurgo capo è venuto di persona all'alba per controllare la qualità dei mattoni. Lo troverete al capezzale di Lupo.» In effetti, l'ufficiale accanto al letto di Lupo era imperturbabile e brusco come qualunque altro medico militare che Elio avesse conosciuto. Confermò la morte e scosse con stizza il capo all'ipotesi che la prima volta si fosse trattato di un caso di decesso apparente. «Sì, so che 'c'è gente che ne soffre,' e che è come 'un profondo, lungo svenimento'. Con il dovuto rispetto, comandante, non insegnatemi il mio mestiere. Sono ben consapevole della debolezza cui vi riferite, ma in questo caso ve lo posso assicurare, colleghi fidati mi hanno detto che Marco Lupo era davvero morto, a settembre. Voi non eravate presente, quindi non potete formulare giudizi. Inoltre, concorderete con me che anche risvegliandosi da un 'profondo, lungo svenimento' è difficile che qualcuno abbia la forza di rimuovere il coperchio del sarcofago, forzare la porta del mausoleo dall'interno e uscirne. Nel caso dell'uomo che vedete esanime qui, c'è chi ha dichiarato sotto giuramento che è riapparso in piena salute una settimana dopo il giorno della sua dipartita. Eppure il luogo della sepoltura è intatto. Addirittura le ghirlande di fiori erano ancora appese sulle porte, così come le avevano disposte i parenti durante i funerali.»
Elio guardò il morto, la cui espressione era di somma sorpresa, come se sopra di lui, nel soffitto grezzo, si nascondesse qualcosa di stupefacente. Il suo aspetto era singolarmente vivo, roseo e florido, diverso da qualunque altro cadavere avesse visto prima. «Be', forse Lupo aveva un gemello o un sosia, che per qualche ragione - me ne vengono in mente un paio, entrambe legate al denaro e alle proprietà - aveva tutto l'interesse a interpretare il ruolo del rinato. Siamo seri, medico capo. Il mausoleo è stato perquisito per verificare l'assenza del corpo?» «Giurano di sì. Comandante, non solo comprendo il vostro scetticismo: lo condivido appieno.» Bocca grande, con l'ombra di un paio di baffi biondi, il medico spalancava gli occhi mentre parlava, per enfatizzare la sua posizione. «Eppure, come studioso della Natura e dei suoi fenomeni, devo arrendermi all'evidenza. Di fronte alle credenziali dei miei colleghi, che hanno assistito all'apertura del mausoleo in presenza di ufficiali, devo dire che Lupo è tornato dalla morte. Ha un'aria maledettamente sana per un cadavere anche ora, non vi pare?» Elio ignorò il commento. «Ritornare dalla morte. Ma siamo seri! E perché allora sarebbe morto di nuovo? Dobbiamo supporre che non gli piacesse più stare quassù?» Non voleva essere acido, ma si sentiva fra l'infastidito e l'inquieto. «Ditemi, entrando avete aperto la finestra?» «No. L'ebreo, il supervisore che l'ha trovato, mi ha detto che era accostata quando è entrato all'alba. Era abitudine di Lupo non chiuderla del tutto, sembra.» Marco Lupo doveva essere abituato a quel tempo inclemente. Il carbone nel braciere era consumato da parecchio, e dalla finestra socchiusa sul lato della baracca, come dalla porta, l'aria gelida del mattino soffiava all'interno. Gettando uno sguardo fuori dalla finestra, Elio vide che si affacciava su un declivio scosceso di argilla lucida e friabile, impossibile da scalare. «L'unico segno certo del fatto che ha smesso di respirare molte ore fa», osservò il chirurgo dal capezzale, «è che la rigidità delle sue membra sta iniziando ad allentarsi. E dubito che sia perché è sul punto di tornare in vita.» Elio annuì e tornò ai piedi del letto. Distrattamente fissò la coperta stesa a coprire il morto dal volto roseo; ne saggiò la trama fitta con il medio e il pollice, come se la stoffa potesse dare risposte che gli uomini non avevano. Insomma, perfino il pallore del chirurgo era più intenso di quello di Lupo, e probabilmente anche il suo. «Ha una famiglia, che sappiate?»
«Per quanto ne so, solo un fratello e una cognata. Isacco crede che appena sapranno che cosa è successo si affretteranno a far chiamare l'uomo dei miracoli, come hanno fatto la prima volta. Avreste dovuto vederli piangere di gioia alla risurrezione: non avreste mai creduto che il fratello avrebbe dovuto ereditare ogni cosa, considerato che Lupo non ha figli.» «Magari è stata la delusione, invece della gioia, a farli piangere.» «Siete cinico. A ogni modo, fossi suo fratello lascerei le cose così come sono.» Ma il chirurgo stava sorridendo, come spesso fanno i medici per burlarsi della morte e rifiutare la loro impotenza nei suoi confronti. «Suggerirei che venga cremato, secondo la migliore tradizione romana», aggiunse allora, «ma sapete quanto sia superstiziosa questa gente. Ci si chiede perché mai il loro dio non potrebbe farli risorgere anche dalle ceneri.» «Sembra che sul loro conto ne sappiate più di me. Ma eredità o no, Lupo farà bene a rimanere nello stato in cui si trova ora, oppure avremo scoppi di isteria nelle strade da qui alla Giudea.» Il chirurgo annuì. «Potrei accertarmi che resti morto, comunque. Inserirgli un ago sottile nel cuore attraverso la gabbia toracica, per esempio. Allora vedremmo se quel Pyrikaios, o qualunque sia il suo nome, può davvero riaccendere il fuoco della vita. Il mio giuramento di medico, però, mi impedisce di provocare danni di qualunque sorta al paziente. Potreste considerare di farlo voi, se vi dessi l'ago?» «No. Assolutamente no.» «Signori.» Isacco sbirciò dalla porta, e colto l'ultimo scambio bussò sullo stipite per annunciare la sua presenza. «I nostri operai tornati dalla città dicono che fino a ora non sono riusciti a trovare Agnus, ma la famiglia ha avuto la notizia e vuole continuare a tentare. Abbiamo avuto visitatrici fino a tardi, ieri notte, e ce ne sono molte in attesa di vedere Lupo, per non parlare della gente che viene da fuori. Cosa dobbiamo fare nel frattempo?» «Non tenere qui il corpo.» Eloquentemente, il chirurgo parlò guardando Elio, che assentì. «Se Lupo deve risorgere di nuovo, può farlo ovunque, anche in un'infermeria. Fate sapere alla famiglia, supervisore, che le spoglie possono essere reclamate al campo dei legionari, presso Tito Galliano, medico capo.» Accompagnando Elio per un breve tratto fuori dalla baracca, il chirurgo disse che sarebbe rimasto fino a che un gruppo di soldati non fosse arrivato a prendere Lupo.
«Voglio esserci, questa volta, se dovesse presentarsi Agnus per ripetere il miracolo. Se sarete ancora in città, questa notte, cercatemi alle Terme militari dopo il tramonto: potrei avere altro da raccontare.» Dal punto elevato in cui si trovavano, oltre l'intreccio delle giovani querce, le schiarite nella nebbia rivelavano squarci ripidi della campagna di sotto, umida e ricca; solo il lento Reno continuava a scorrere in un bozzolo denso di vapori che ne seguivano il corso verso nord. Abituato a quella vista, Galliano le voltò le spalle mentre Elio indugiava ammirato, cercando di riconoscere questo o quell'edificio nelle mura della città. «Avete detto 'miracolo', medico capo. Perché non 'trucco'?» «Be', la magia è espressamente vietata ai cristiani.» Galliano si strinse nelle spalle. «Secondo i loro precetti, anche nel caso in cui un loro figlio stia morendo e i medici l'abbiano dato per spacciato, non è permesso ricorrere a incantesimi e guaritori. Piuttosto farebbero morire l'erede. E pazzesco, no? Come medico, sapete, ho opinioni contrastanti. Se l'arte medica non può più nulla, allora è improbabile che serva qualunque altra cosa. D'altro canto, ogni giorno si fanno sogni guaritori nei templi di Esculapio, alla cui divina assistenza tutti noi praticanti dell'arte medica ci affidiamo. Se uno dei miei figli rischiasse di morire di malattia, credo che correrei dall'incantatore più vicino, o almeno lascerei che fosse mia moglie a farlo per me.» Elio imboccò il sentiero erto che portava ai piedi della collina. «La questione resta. La filosofia e la scienza ci insegnano che un corpo morto si corrompe, e dunque non può risorgere. Se non è un miracolo, è magia. Credo valga la pena di scoprire qual è la posizione ufficiale del clero cristiano in merito alle attività di Agnus.» «Buona fortuna: se ne stanno rintanati, in questi giorni. Ci vediamo stasera alle Terme.» La replica di Costanzo a Sua Divinità non sarebbe stata nelle mani di Elio prima del pomeriggio. Questo significava che aveva tempo per organizzare un appuntamento con la Voce del fuoco, se fosse stato disponibile, e con quell'intenzione in animo tornò dal mattonificio. Avvertiva il sapore della neve nell'aria, anche se il cielo era ancora sgombro di nubi. Attraversando il ponte per entrare in città, vide la nebbia sulla spuma fredda della Mosella scorrere a pelo d'acqua come un secondo fiume sospeso: nevicava, sulle montagne a est e a sud, e la brezza sapeva di ghiaccio.
Le fabbriche sulla riva, appena entrati dalla porta meridionale, stando a ben Matthias indicavano dove si trovava il Vico di Sole e Luna, breve e cieco, dietro il sacrario dedicato ai due astri. Elio lo trovò senza difficoltà, e così la terza casa sulla sinistra, che si distingueva dalle altre per la ghirlanda stinta sull'arco d'ingresso. Quest'ultimo conduceva a una rampa di scale. Quanto alla ghirlanda, forse nelle intenzioni del pittore doveva rappresentare dei fiori, ma somigliava piuttosto a una collana di salsicce marrone chiaro. Era un isolato nel quartiere dei carpentieri navali, un tratto limitato di botteghe di abbigliamento, chioschi di alimentari e botteghe vetrarie di proprietà di veterani, scrupolosamente pulito. I marciapiedi stretti erano lindi, tutto esprimeva l'ordine che gli uomini dell'esercito portano con sé quando tornano alla vita civile. Anche i bordelli che aveva adocchiato al crocevia precedente avevano porte dipinte di fresco e falli dorati scolpiti in rilievo sugli ingressi. Vista dall'altra parte della strada, la casa non rivelava alcunché; aveva una fila alta di finestrelle, tutte chiuse, e a meno che dentro non ci fosse una corte, all'interno doveva regnare il buio. Quando Elio attraversò, un uomo intento a spazzare la soglia della bottega accanto guardò nella sua direzione. «Cercate qualcuno, comandante?» Cristiano o meno (in città se ne segnalavano molti), l'uomo se ne stava sulla porta con la scopa in mano, e tutto nel suo atteggiamento indicava che era pronto, in base alla risposta, a fare un cenno a una persona all'interno, che a sua volta avrebbe avvisato gli abitanti della casa. Elio rispose: «No», ma entrò nell'androne e salì i gradini. Si trovò al cospetto di una porticina, chiusa. La luce della strada non bastava a illuminare le scale, e non c'era modo di giudicare se qualcuno stesse aspettando dall'altra parte del battente, in ascolto. Elio bussò annunciando: «Questioni ufficiali, aprite!» Che era l'ultima cosa che si sarebbe ripromesso di dire; era così ottusa. Eppure la porta si aprì. Una bambina di dieci anni o giù di lì, serva o domestica, gli si parò di fronte con il faccino stupido dei bimbi cui sia stato ordinato di comportarsi in un certo modo, ma se ne dimenticano quando è il momento. «Le signore non ci sono», fu tutto quello che riuscì a mettere insieme. Alle sue spalle Elio intravide un'apertura, come un corridoio che dava su una corte interna. Alle narici gli salì un odore di intonacatura fresca. Quando entrò, la ragazzina si limitò a fare un passo di lato, aggrottando la fronte come per cercare di ricordare cosa avrebbe dovuto fare in
quel caso. A destra e a sinistra un lungo locale affacciato su una corte interna svoltava agli angoli per proseguire ai lati. Elio prese a sinistra, seguito dalla servetta, e vide che sulle pareti laterali si aprivano delle piccole stanze. Alcune avevano tende all'ingresso, altre no, rivelandosi come spazi angusti, con semplici letti rifatti e nient'altro. Le prigioni che aveva visto nei campi militari non erano apprezzabilmente diverse. «Chi devo dire?» La ragazzina ricordò i suoi ordini, ma non c'era da contare sulla sua accortezza. Elio lanciò un'occhiata alla corte di sotto, lastricata e con una serie di piante in vaso a formare una croce al centro. Senza rispondere, chiese: «Le signore di solito quando rientrano?» «Prima del tramonto, ma non so.» Naturalmente, se il negoziante di sotto fungeva da guardiano, con ogni probabilità aveva già mandato a dire che uno straniero era venuto a curiosare - un ufficiale, nientemeno, con tutto ciò che l'esercito rappresentava per le sette ai limiti della legalità - e i residenti se ne sarebbero stati alla larga fino a pericolo scampato. Elio se ne andò, ma solo per fermarsi alla porta vicina, dove nel frattempo l'uomo occupato a spazzare aveva eliminato ogni particella di polvere dal medesimo punto. «Sono Elio Sparziano, inviato di Cesare. Questo indirizzo mi è stato fornito in modo che io potessi chiedere di una signora di nome Casta, che si suppone viva qui insieme ad altri. Ho saputo degli eventi riguardanti Marco Lupo del mattonificio, e desidero conoscerne i dettagli.» Il bottegaio rallentò i movimenti della scopa. «Allora non sono Casta e le altre signore che cercate, ma l'uomo dei miracoli.» Elio stava iniziando a perdere la pazienza. «Sì, e mi è stato detto che bisogna passare per la donna di nome Casta.» «Le dirò che siete stato qui, comandante.» «No. Le dirai di presentarsi al mio alloggio, nel quartiere di Palazzo, la casa Al piede argenteo, prima del tramonto, e di fissare un appuntamento affinché io possa conoscere la Voce del fuoco, come mi dicono viene chiamato.» «Altro?» «Solo questo: dille che non ho mai visto un uomo morto tornare in vita, ma che non ho nemmeno mai visto un uomo nascere, e non per questo nego la realtà del parto.»
Il bottegaio non parve colpito dalla concessione filosofica. Posò la scopa nell'interstizio fra la parete e il montante della porta, con la saggina verso l'alto. «La loro religione vieta ai maschi di entrare nelle case in cui vivono donne consacrate.» «Bene! Io sono appena entrato, no?» Allontanandosi, però, a Elio venne in mente che forse era potuto entrare perché le donne si erano trasferite altrove. Avrebbe spiegato l'intonaco fresco, la servetta lasciata lì, le celle quasi vuote. «Baruch, devi dirmi qualcosa di più su queste persone, la Voce del fuoco e la sua assistente.» «Non è che debba.» «Molto bene, ti pagherò.» «No. Di' per favore. Mi piace quando un ufficiale romano mi chiede le cose gentilmente.» A mezzogiorno, in una stanzetta accogliente sul retro del suo più recente negozio, ben Matthias misurava le parole come stesse spargendo spezie, un'operazione che in effetti stava compiendo su un arrosto di castrato. «Innanzitutto, una premessa e una descrizione dell'uomo, Agnus. Non ha affatto l'aspetto che ti aspetteresti da un taumaturgo. Fisicamente è mediocre, circostanza che da un punto di vista artistico fa di lui il più impossibile dei modelli. La gente brutta, sai, è in tutto e per tutto interessante da ritrarre quanto quella bella. Anzi, ancor di più. Le persone graziose raramente hanno tratti salienti su cui lavorare. Tu ci vuoi la salvia o no?» «Un po' di salvia, grazie.» «Pepe?» «Sì.» «I vecchi sono meglio dei giovani (i bambini sono praticamente inutilizzabili, si assomigliano tutti, come i vecchioni, e per lo stesso motivo: pochi denti, o nessuno), i mori meglio dei biondi, i magri meglio dei grassi. Ma sto divagando. Agnus è quello che io chiamo un 'non modello'. Avrà quarant'anni, forse, e quanto a colori, peso, altezza, lunghezza del naso e così via, tira una riga dove c'è il centro, ed eccolo lì. Non porta la barba... be', non proprio, sul viso avrà un dito di peluria. A mettergli una parrucca o tingergli i capelli, è il tipo di personaggio che cambia completamente se ne alteri un dettaglio. Non gli ho parlato, quindi non ti so dire della sua voce, ma sono pronto ad azzardare che non ha nemmeno un accento apprezzabile. Ehi, sei stato tu a chiedere.» Ben Matthias indicò il piatto di fronte al suo ospite. «Com'è?»
«Ottimo. Potresti fare il cuoco, se fallissi con l'arte funeraria. Che mi dici di Casta?» «Mai vista.» «Ma cosa sai di lei? Per favore.» Ben Matthias si grattò la barba masticando la sua carne. «Le dicerie vogliono che non abbia iniziato la sua vita con quel nome.» «E questo che significa?» Elio osservò la polvere di marmo levarsi dagli abiti dell'ebreo, volteggiare e cadere. «'Casta', cioè pura, morigerata. Vuoi dire che ha adottato un nuovo nome - so che i cristiani lo fanno - o che il suo stile di vita una volta era diverso dal presente?» «Secondo alcuni, entrambe le cose. Ma in fondo dicono anche che un buon fariseo ha cambiato nome e condotta sulla via di Damasco.» «Sia quel che sia, Baruch. Dimmi quel che sai, perché sono ben consapevole che ti stai divertendo, e dovresti pagare me, per darti modo di spettegolare dei cristiani. Giovane, vecchia... che altro?» «E giovane ed è il tuo tipo.» «Ah.» «Non è quel che pensi. Fisicamente, è... be', ricordo Thermuthis quando era la tua rossa preferita, giù in Egitto. Comunque non ha niente a che fare con Thermuthis. Ma come lei, è sfuggente.» Elio assaporò la carne ben cotta, concedendosi tempo prima di rispondere. «Thermuthis è la tenutaria di un bordello, Baruch. 'Sfuggente' per lei potrebbe essere un termine improprio. E lasciamo stare chi sia il mio tipo a tuo giudizio, visto che non sei aggiornato riguardo al cambiamento dei miei gusti. Questa Casta è semplicemente un'assistente da palcoscenico del mago o posso aspettarmi di scoprire qualcosa di valido da lei?» «Qualcuno sostiene che dei due è lei la santa.» Il tramonto giunse e passò senza alcuna notizia di Casta. Due delle guardie del corpo di Elio riferirono che non c'era movimento intorno alla casa della donna: luci spente, porta chiusa. «Ma non è insolito», aggiunsero. «Per sentirsi al sicuro, i cristiani non smettono mai di muoversi.» Soddisfatto della promessa di essere informato se la donna si fosse presentata al suo alloggio, Elio andò alle Terme militari, dove Tito Galliano stava pagando da bere a tutti dopo aver perso al gioco della palla. Disse prontamente che malgrado la strenua
resistenza della famiglia - dato che Agnus e la sua compagna sembravano trovarsi altrove – era riuscito a ottenere il corpo di Lupo, su promessa di non smembrarlo o incenerirlo. «Il che non significa che non posso eseguire un'autopsia.» Mentre andava alla piscina calda insieme a Elio, si dimostrò ancora eccitato per le sue scoperte. «E poi, avendo prestato servizio sulla frontiera orientale, sono un esperto di traumi e ferite di ogni sorta: è questa la mia specialità. Dal punto in cui si trova quella cicatrice sul vostro petto, per esempio, posso affermare che la freccia che vi ha colpito avrebbe potuto uccidervi, e che avete sputato sangue per almeno due giorni.» «Tre, maledetti ben Matthias e i suoi ribelli.» «Be', il caso di Lupo è completamente diverso. Dopo aver esaminato attentamente il cadavere dall'esterno e non aver riscontrato segni di violenza, ero pronto ad arrendermi all'idea che magari avesse avuto una ricaduta della febbre violenta di cui era morto al principio. Solo quella floridezza, comandante, quelle labbra rosa acceso non mi convincevano. Quindi ho aspettato finché alle estremità hanno cominciato a formarsi delle chiazze - prova inequivocabile dell'inizio della decomposizione - per aprirlo. Ebbene! E stato dopo aver dato un'attenta occhiata ai suoi organi interni che ho cominciato a capire: stomaco e muscoli rosso vivo, sangue fluido e color ciliegia... Il mio vecchio insegnante di anatomia aveva tenuto un'eccellente lezione sul tema anni fa.» Elio scivolò con gratitudine nell'acqua calda. «Qual è stata la vostra conclusione?» «Che Lupo è tornato ai Campi Elisi non di sua volontà, ma con l'aiuto di una buona dose di vapori di carbone.» «Malgrado la finestra aperta?» «Be'... già. L'assassino deve averla aperta dopo, per far uscire l'aria avvelenata. Anche se le esalazioni del carbone sono inodori, sarebbero le vertigini o il mal di testa ad avvisare che ci si trova in un ambiente che non è stato areato. Isacco l'ebreo conferma che Lupo non soffriva il freddo, che di rado usava un braciere o qualcosa del genere, e che teneva la finestra socchiusa. Sembra che non chiudesse neppure la porta, visto che nella baracca non teneva nulla che valesse la pena rubare.» Elio si era rilassato, ma badava a non lasciarsi intorpidire dal caldo. «Quindi potrebbe essere stato sorpreso nel sonno. Aspettate un momento. C'è - è curioso, molto curioso - un'altra cosa: avete notato la coperta, il bordo della coperta?»
«No.» Galliano andò sott'acqua e riemerse, sfregandosi il volto con le mani unite. «Che cosa aveva?» «Immagino che in un mattonificio ci sia argilla ovunque. Ma era terra, erano croste di terra che ho sentito sulla stoffa, come se la coperta fosse stata usata - non so magari per sigillare la base della porta dall'esterno, per accertarsi che le esalazioni uccidessero l'uomo all'interno. La storia è ricca di esempi di analoghi omicidi per soffocamento.» Galliano si strizzò i corti baffetti biondi per farne uscire l'acqua. Concordò che sì, si sarebbe potuto fare, e che in teoria gli assassini avrebbero potuto aspettare fuori il tempo necessario per soffocare la vittima e poi rimettere la coperta sul letto, aprendo la finestra per cambiare l'aria. «Non ho ancora informato la famiglia di Lupo delle mie scoperte, né ne ho parlato ad altri. Non sapendo che il caso nasconde un omicidio, al mattonificio o altrove, a Treviri, danno già la colpa ad Agnus per aver fallito nella sua risurrezione, ed è meglio per lui che non si faccia vedere in giro. Peccato, perché mi sarebbe piaciuto sfidarlo a riportare il morto alla vita dopo la mia autopsia. Voi cosa avete sentito?» «Alcune cose. Anche se a un primo sguardo gli unici a guadagnare dalla morte di Lupo sono suo fratello e sua cognata, sembra che i due siano stati ospiti di amici per la notte, e non fossero nei dintorni del mattonificio quando Lupo è morto. Non ci fate caso, è mia abitudine fare domande su questo tipo di cose. Inoltre non ci sono un guardiano notturno o cani vicini alle fornaci e al letto d'argilla. Praticamente chiunque potrebbe andare e venire senza farsi vedere, evitando il boschetto dove i curiosi bivaccano nella speranza di incrociare il morto vivente.» Galliano rise. «Dunque avete iniziato anche voi a interessarvi.» Si tirò fuori dalla piscina e sedette con i piedi nell'acqua. «Confesso che questo pomeriggio ero così inquieto che sono tornato al mattonificio con un paio di soldati, e finché la luce del giorno ce l'ha concesso siamo andati in cerca di impronte intorno alla baracca. Ma è un'impresa senza speranza in un posto in cui tutti vanno e vengono, è coperto di cespugli e c'è il rischio di cadere.» «Un uomo d'affari potrebbe aver avuto nemici dentro e fuori la famiglia.» Elio parlò ancora immerso nell'acqua fino alla vita, le braccia incrociate sul bordo della piscina. Alzando lo sguardo, osservò il vapore formare una nebbia nella sala dai soffitti alti e
condensarsi lungo i muri. Nella luce fioca, le pareti sembravano lacrimare. «Conoscevate Lupo di persona?» «No. L'anno scorso ha fornito i mattoni per alcune ristrutturazioni al campo, facendo un'offerta decisamente più vantaggiosa dei suoi concorrenti. Ecco perché abbiamo pensato a lui quando abbiamo deciso di ampliare questo edificio. Ma dubito che chiunque possa aver ucciso Lupo perché aveva vinto l'appalto dei mattoni per un ampliamento e nuove latrine. Visto che avete accesso a corte, chiedete se per caso non fosse stato contattato per progetti più importanti. Stanno costruendo nuovi edifici pubblici dappertutto. Augusta Treverorum - Treviri, la chiamiamo - sta crescendo in tutte le direzioni. Se Lupo avesse vinto un appalto governativo di quel tipo, chissà come avrebbe potuto reagire la concorrenza.» Elio non dovette andare fino a corte per chiedere. In realtà non dovette andare oltre la sala accanto delle Terme, una sorta di circolo ufficiali informale, dove i funzionari governativi civili spesso si recavano a bere o a mangiare qualcosa. Ben presto apprese che Marco Lupo era stato uno dei tre titolari di mattonifici in gara per un grosso contratto relativo alla costruzione del nuovo tribunale e degli edifici collegati. Gli altri due concorrenti locali, uno di Mogontiacum, l'altro della zona a nord di Confluentes, sembravano aver perso per un soffio. «Ma sapete, comandante», gli disse un loquace burocrate di una certa età, «fa tutto parte del gioco, eh?» Completamente nudo, stava seduto su uno sgabello e dondolava le gambe esili masticando gherigli di noce. «Qualcuno deve pur vincere la gara d'appalto, e Lupo non riusciva sempre a proporre il prezzo più basso. Ma non riesco a capire perché lo chiamiate uomo d'affari 'di successo'. Successo un corno! Prima del clamore creato dalla sua 'rinascita', il suo mattonificio era sul punto di chiudere, cosa che spiega le offerte stracciate. Ci hanno detto che è morto di nuovo. Che roba, eh? Questi miracoli hanno proprio vita breve, se mi consentite la battuta! Se fossimo in Egitto, la sua scomparsa improvvisa mi puzzerebbe, ma noi viviamo nel mondo civile. Se i fornitori e i mercanti dovessero ammazzarsi ogni volta che qualcuno li batte su un contratto ricco, ognuno di noi sarebbe ridotto a cuocersi i suoi mattoni e ad allevare il suo branco di maiali.» Era vero. Elio si disse che era solo per il fatto che Sua Divinità mesi prima l'aveva spinto a investigare su quegli omicidi in Egitto che ora sentiva di dover comprendere
perché un uomo di cui non sapeva nulla, se non il piccolo dettaglio che era tornato dalla morte, era stato soffocato nel suo mattonificio. 23 novembre, giovedì Puntualmente, come si aspettava Elio, durante la notte nevicò. Al mattino solo una spruzzata di fiocchi imbiancava i tetti, e il traffico quotidiano aveva già ridotto in fanghiglia quelli sulla via. Come spesso accade al principio della stagione fredda, la nevicata fu seguita da un innalzamento della temperatura, così che il ghiaccio si mutò in pioggia, e a sua volta questa diede vita a una giornata quasi primaverile. Ma gli uccelli volavano verso sud in grandi stormi, lanciando i loro richiami per tutta la notte; e se si restava attentamente in ascolto alla finestra, si avvertiva il battere di ali ampie e instancabili. Vanno in Africa, aveva pensato Elio al buio. Vanno in Egitto. Scivoleranno lungo il nobile Nilo, nei canneti, fra le piante di papiro. Voleranno sulla casetta azzurra di Anubina. Continuo a ripetermi che la morte di suo marito e del figlio di lui è la ragione per cui vuole che restiamo lontani per un po'. Dice così, ma non ha desiderio che riconosca la bambina che le ho dato; vuole vivere della sua attività di ricamatrice, e se ha un punto di riferimento affettivo, quello è il bordello di Thermuthis, dove l'ho conosciuta. Ther- muthis mi ha promesso di occuparsi di lei se ne avesse avuto bisogno, e di scrivermi per tenermi informato... «Se la sono filata. Hanno lasciato la città. Hanno preso e sono andati.» Ben Matthias era comodamente seduto davanti a una lastra di marmo e reggeva il cesello fra le dita impolverate. «Mi piace quando queste cose succedono nonostante il controllo imperiale, e a te?» Fece finta di non vedere l'espressione corrucciata di Elio. «Come la maggior parte dei predicatori itineranti, ho sentito che non stanno mai più di un mese nello stesso posto, anche se questa volta la cosiddetta Voce ha mancato una grande occasione di bis. Non c'è modo di dire quando siano partiti o dove siano andati, anche se a mio parere sarebbero degli stolti a uscire dalle province sotto il governo di Costanzo. Se mettono piede nel pezzo di mosaico imperiale di Massimiano, sono belli e spacciati.» «Sì, certo. Non che il pericolo necessariamente li fermi. Ho già visto cristiani andare in cerca dell'esecuzione.» Era ancora mattina presto, ma per Elio era già arrivato il momento di continuare il suo viaggio. Si alzò, pronto ad andare, poiché solo
la speranza che grazie alle sue conoscenze l'ebreo avesse altre informazioni da dargli l'aveva portato fino al laboratorio. «Immagino non siano le notizie che volevi sentire, comandante, ma risolvono lo stesso i tuoi problemi. Il morto vivente è morto una volta per tutte, l'uomo dei miracoli e la sua comare non erano a portata di mano quando c'era più bisogno di loro, i parenti ereditano il mattonificio. Dico io, e se mi inventassi una morte e una resurrezione per far pubblicità alla mia impresa? I pettegolezzi in città aumentano, gli eunuchi a corte stanno spargendo la voce che la magia cristiana è una frode. Quanto a me, me ne vado prima che gli umori e il tempo peggiorino. Ho qualche attività in Italia.» «Dove?» «Innanzitutto andrò a Mediolanum, credo.» Era precisamente la destinazione successiva di Elio, per portare un messaggio di Diocleziano al coregnante Massimiano. Naturalmente non osservò alcunché in merito, e quanto a ben Matthias, l'ebreo gli lasciò credere che anche da parte sua non ci fosse altro da dire. In realtà attese finché l'ufficiale ebbe varcato la soglia per aggiungere: «Allora ci vediamo a Mediolanum», rimettendosi immediatamente al lavoro sulla lapide appoggiata al muro di fronte a lui, come se la conoscenza dei programmi di viaggio di un inviato imperiale facesse incidentalmente parte del suo lavoro. Prima lettera di Elio Sparziano a Diocleziano. Al nostro Signore Imperatore Cesare Gaio Aurelio Valerio Diocleziano, Pio Felice Invitto Augusto, saluti dal vostro Elio Sparziano. Fedele alla vostra raccomandazione, Domine, di tenervi informato degli incidenti incontrati durante l'adempimento dei miei doveri ad Augusta Treverorum, devo riferirvi un evento che ha avuto luogo dopo il mio fortunato incontro con Sua Tranquillità Costanzo, Cesare di Nostro Signore Massimiano. Un bizzarro caso di superstizione ha arruffato per breve tempo le piume dei cristiani in Belgica Prima, ma sembra che non ci saranno conseguenze di lunga durata all'assassinio di uno dei protagonisti. A questo messaggio accludo un rapporto distinto e dettagliato su tutto quanto sono riuscito a raccogliere riguardo all'incidente. Come da disposizioni di Vostra Divinità ora mi appresto a partire, diretto alla capitale di Nostro Signore Massimiano, per dar seguito al mio incarico. Viaggiando con uno stallone dell'esercito
e facendo ricorso a cavalli di posta, tempo permettendo mi aspetto di essere a Mediolanum entro una settimana. L'osservanza dell'editto imperiale sui prezzi massimi è, a mio giudizio, superiore a quella riscontrata in Egitto. Segue un campione dei prezzi: Birra gallica, 1 sestario italico: 4 denari. Farro decorticato, prima qualità, 1 modio da campo militare: 95 denari (1/20 al di sotto del massimo prezzo consentito). Pittore, ricompensa quotidiana con vitto e alloggio: 150 denari, anche se l'uomo intervistato (Elio non disse che si trattava di ben Matthias) giura sulla fortuna dei Nostri Signori Augusti Cesari che riesce a malapena a coprire i suoi costi, e implora che il limite venga rivisto. Burro, 1 libbra italica: 10 denari (1/3 al di sotto del prezzo massimo, e di eccellente qualità). Scritto ad Augusta Treverorum, IX giorno alle Calende di dicembre, rispettivamente nel IX e Vili anno dei consolati di Nostro Signore Diocleziano e Nostro Signore Massimiano, oltre che nell'anno MLVIII dalla fondazione della città di Roma.
2 29 novembre, mercoledì Appunti di Elio Sparziano. In viaggio da Augusta Treverorum a Mediolanum, nell'Italia Annonaria. Bel tempo, per la stagione, fino ad Argentorate. Aggiungere, più avanti, le impressioni provate nel costeggiare la foresta che trecento anni fa è costata la vita a tanti romani. Nello specifico: oste di Arae Flaviae che vende cinture e monete ritrovate, a suo dire, sulla scena della sconfitta di Varo; tentazione di comprare l'elmo da parata che giura sia appartenuto a uno degli ufficiali di cavalleria di Varo. Contadini che seminano frumento e orzo nei recessi protetti della stretta valle verso Vindonissa. Nevicata nella notte. Tornato indietro a comprare l'elmo. Degli strani avvenimenti di Treviri, questo è ciò su cui posso lavorare: il chirurgo dell'esercito riferisce della convinzione dei suoi colleghi che Lupo fosse davvero morto prima del «miracolo», ma lui - Galliano stesso - non era presente. E nemmeno era sul posto quando il sepolcro è stato aperto per assicurarsi che non ci fossero state manomissioni, o che il rinato fosse Lupo in carne e ossa, e non un sosia. Il mattonificio alla Felice Diana, secondo il vecchio burocrate, si trovava sull'orlo della bancarotta prima della vicenda. Molto interessante. Non è lecito immaginare che Lupo e quello che chiamano la Voce abbiano messo a punto un piano vantaggioso per entrambi? Una falsa morte, una falsa resurrezione, gloria al guaritore e commissioni all'uomo d'affari. Non risolve la questione dell'omicidio di Lupo, naturalmente. Tutto ciò che posso aggiungere per ora è che è stato fatto passare per un decesso naturale: qualunque criminale degno di tal nome avrebbe fatto così. Di seguito, c'è il succo della mia ultima conversazione con Isacco. Isacco: «Era sempre la stessa processione. Quel giorno è arrivato un mercante di pellami e ha portato in dono finimenti pregiati in cambio del permesso di avere qualunque oggettino che il guaritore avesse toccato durante la sua visita a Lupo. Anche due cugini del governatore, che studiano filosofia in Grecia, hanno chiesto di incontrare Lupo. Le matrone sono venute insieme, e poi separatamente, con i loro servitori. Una folla numerosa ha portato paste e vino per 'l'uomo dei miracoli'. A un certo punto, nella maniera più garbata possibile, abbiamo dovuto chiedere loro di andarsene, visto che si stava già facendo buio».
Sparziano: «Hai visto Lupo vivo e vegeto dopo il giro di visite?» Isacco: «Sì, naturalmente. Mi ha detto che sarebbe andato a letto presto, perché il giorno dopo c'era parecchio da fare». Sparziano: «Questa 'folla numerosa: sei certo che se ne siano andati tutti?» Isacco: «Perché non avrebbero dovuto?» Ma il volto del supervisore si è rabbuiato mentre rispondeva alla sua stessa domanda: vale a dire che una o più persone di quella folla avrebbero potuto restare senza dare nell'occhio e sigillare la porta e le finestre di Lupo. Quando ho lasciato la città, il magistrato stava indagando sull'omicidio avvalendosi delle deposizioni mia e di Galliano. Il genero di ben Matthias e il fratello di Lupo verranno chiamati a testimoniare, se non l'hanno già fatto, e converrebbe a entrambi avere un alibi e una spiegazione alternativa da fornire. Le matrone e i signori si possono sempre giustificare, la gente qualsiasi no. Notizie raccolte lungo la strada di frontiera: Agnus è un ex precettore che ha trascorso molti anni in Asia, dove è nato, e Casta - il vero nome è ignoto - viene da Laumellum, in Insubria; si umilia, assiste nel ministero e si cura delle donne malate, visto che fra i cristiani i sessi sono rigidamente separati. Viaggia con Agnus, ma non alloggia mai con lui (nemmeno nella stessa locanda o casa). Un giudice itinerante di Brigantium ritiene che sia di buona famiglia, considerato il suo eloquio. La scorsa estate la coppia è stata vista qui in Rezia, dove, stando alle testimonianze, «gli storpi hanno camminato e i ciechi hanno visto». Il giudice, che ha perseguito numerosi cristiani, l'ha saputo da fonti affidabili. Domani, dopo aver seguito il Reno fin quasi alle sue fonti, al passo noto come il Cuneo d'Oro farò il mio ingresso in Italia. Ho avuto fortuna, mi dicono, perché spesso in questa stagione le montagne sono proibitive e si resta intrappolati su uno dei versanti, o si è obbligati ad aggirarle, allungando il viaggio di settimane. Il locandiere sostiene che appena la strada comincia a scendere verso l'Italia si riesce a sentire il profumo dei campi e la ricchezza della terra, mentre «le brezze tiepide si alzano dalla pianura ad accarezzare il volto» (sue poetiche parole). Sarà bene che sia così, perché, per quanto nordico io sia, cavalcare per giorni nella pioggia e nella neve ai miei occhi ha perso ogni fascino. Mediolanum, capitale dell'Italia Annonaria, 30 novembre, giovedì
Il nuovo palazzo di Massimiano, gli era stato detto, non era allineato alle strade dritte e perpendicolari che si incrociavano nella piazza centrale. Entrato a Mediolanum dalla porta più a ovest, ben presto alla sua destra Elio riconobbe le massicce mura degli alloggi imperiali, lungo la direttrice nord-sud dell'ippodromo. Non era insolito che la sede del governo si trovasse vicino a un luogo di intrattenimento pubblico: accadeva perfino a Roma, dove il colle Palatino e i suoi palazzi formavano un enorme palco sopra il Circo Massimo. Non era insolito neppure che vicino alle mura ci fosse la pista dell'ippodromo. Quella che sembrava una scelta azzardata, in termini di sicurezza elementare, era che la pista, la residenza imperiale e i bastioni fossero contigui. I barbari non avevano forse attaccato le mura meno di quarantanni prima, quasi riuscendoci? La breve giornata volgeva al termine. Nella penombra, la debole luce rubava già i dettagli dalle fila di ciottoli di fiume e mattoni che correvano nella malta lungo le infinite superfici cieche; torri poligonali - quelle delle mura e del Circo - incombevano dall'alto. Col vento, per strada soffiava odore di muffa dalle bottegucce e dalle stamberghe dove dovevano fiorire gli affari legati alle corse dei cavalli. Voltandosi, Elio vide i suoi uomini di guardia cavalcare a coppie, visibilmente infastiditi dalla calca di portapacchi, mulattieri, sgualdrine presso la porta. Diversamente dal loro comandante, andavano all'altro capo della città, alla nuova area murata aggiunta a nord-ovest da Massimiano, che si diceva fosse ampia (un terzo delle dimensioni della città vecchia, si stimava) e scarsamente popolata, se si escludevano le Terme, la caserma dell'esercito e le fabbriche d'armi. Nel tratto fra la porta e il complesso del palazzo Elio fu fermato a posti di blocco affidati soprattutto a pannoni. Appena conosciuto il suo incarico, lo facevano passare. All'ultimo posto di blocco, però, furono meno accomodanti. Era composto da ispanici e guidato - se non comprese male - da ufficiali della stessa nazionalità o di origine italica. Le sue guardie non furono autorizzate a varcare la linea, e lo stesso Elio dovette smontare da cavallo, consegnare la spada e attendere nella strada ventosa che qualcuno desse un'occhiata alle sue credenziali. La luce del giorno si chiudeva come un occhio. Alla sua sinistra, il lungo muro del Circo gettava un'ombra immane, tanto che quella strada era già stata inghiottita dal crepuscolo. Solo le torri di mattoni al principio, verso la porta, svettavano rosse come torce nel sole calante. Dalle torri,
contro un immacolato cielo blu, andavano e venivano passeri tanto piccoli da sembrare uno sciame di mosche. «C'è una bella vista da lassù», fece una voce obbligando Elio ad abbassare lo sguardo. Si voltò e guardò il punto, pochi passi avanti a lui, in cui si trovava un ufficiale dall'aspetto elegante, di pari rango, che gli stava restituendo le sue credenziali. «Dalla cima si vede il mausoleo di Nostro Signore Massimiano, dritto da quella parte, nel bosco degli olmi, e perfino l'arena, a sud.» Elio sapeva di non dover presumere che gli fosse accordato il permesso di procedere solo perché gli erano state riconsegnate le carte. Annuì, dunque, in un modo che doveva esprimere un ringraziamento all'ufficiale per l'informazione, per quanto inutile, e un saluto. «Vogliate seguirmi», fece l'altro. «Dobbiamo procedere allo spiacevole rituale del controllo delle vostre armi.» «Non serve. Non ne porto.» «Bene, comandante, vi perquisiremo comunque.» Varcarono una bassa porta di servizio per entrare in una stanzetta con finestrelle a fessura, dove anche con le più bieche intenzioni si sarebbe fatto fatica a tirar fuori un pugnale dal fodero. Due soldati tastarono il torace, i fianchi e le gambe di Elio, e addirittura si chinarono per assicurarsi che non portasse una daga nascosta negli stivali. L'ufficiale rimase fuori, e quando Elio lo raggiunse di nuovo fece finta di non notare la sua irritazione. «Da questa parte, prego.» Malgrado fossero ancora fuori dalla residenza vera e propria, c'erano guardie armate dovunque. Garitte, corridoi scoperti e piccole corti formavano un labirinto impossibile da affrontare senza una guida. Elio restò un passo dietro il suo pari con la sensazione che quella disposizione intricata fosse intesa a confondere un singolo aggressore più che un'orda, un assassino più che i barbari. E si chiese allora se Massimiano non avesse costruito il suo palazzo tanto vicino alle mura cittadine proprio per assicurarsi una via di fuga rapida dalla città, se necessario. Dopotutto negli ultimi cento anni, se la Storia non mentiva, nemmeno uno dei ventisette regnanti ufficiali e usurpatori era morto per cause naturali. Il suo collega lo guardava di sottecchi, non direttamente, con una vena di disprezzo che era difficile misurare. Non si era presentato, né si era rivolto a lui nel modo solito dell'esercito, informale e inteso a far sentire ovunque un soldato a suo
agio. Ma quando finalmente imboccarono un corridoio ampio e ben illuminato, come frugando nella memoria disse: «Elio Sparziano... qualche rapporto con gli Elii di Spagna?» A quel punto Elio fu certo che l'ufficiale si stesse prendendo gioco di lui, poiché era altamente improbabile che un uomo così palesemente non romano, con un cognome così barbarico, potesse essere anche lontanamente imparentato con la famiglia imperiale del divino Adriano. «No», rispose con un sorriso. «Siamo di Castra Martis, sul Danubio, ma gli eccellenti Elii di Spagna un tempo ci possedevano. In un certo senso, diciamo letterale, anche questo è far parte della famiglia, no?» L'ufficiale scoppiò a ridere. Era un uomo scarno, olivastro, con i capelli scuri, lunghi e radi sulla sommità del capo, braccia nerborute e un aspetto irascibile. Era uno di quegli uomini che sembrano contrariati anche quando ridono. «Manio Curio Decimo, di Roma», disse facendo un passo avanti. «Informerò il ciambellano del vostro arrivo. Aspettatemi qui.» Aspettare era una cosa cui Elio era abituato. Prestare servizio a corte l'aveva educato all'arte di restare in piedi in anticamere per periodi indefiniti. Aveva imparato a non farsi domande, a non agitarsi. Anche quando - come in quel momento - il ritardo si prolungava oltre un tempo ragionevole, restava calmo, senza sbadigliare o camminare avanti e indietro. Quando Decimo infine ritornò, l'ultimo barlume di giorno si era spento da un pezzo. Nelle piccole nicchie alle pareti erano stati accesi lumi e torce, e i suoni rarefatti dell'edificio indicavano che gli uffici si stavano svuotando a mano a mano che i funzionari e i burocrati se ne andavano. Massimiano non l'avrebbe ricevuto. Nemmeno il ciambellano l'avrebbe ricevuto. Elio accolse la notizia senza commenti, evitando che il suo contegno rivelasse alcunché all'ufficiale, il cui compito avrebbe potuto essere proprio quello di studiare le sue reazioni. Comprese fin troppo bene, comunque, che era perché aveva con sé un promemoria che il coregnante non avrebbe accettato; Sua Divinità l'aveva avvertito che sarebbe potuto accadere: «Se ti riceve ma non ti consegna un messaggio di risposta per me, va tutto bene; è solo seccato perché gli ricordo che stiamo per abdicare. Se non ti riceve, ma il ciambellano viene a prendere il messaggio dalle tue mani, le cose sono ancora accettabili, poiché è obbligato a leggerlo. Se nemmeno il ciambellano accetta di vederti, non devi protestare quando ti inviteranno ad
andartene. Esci garbatamente e mandami di corsa un corriere militare con la notizia. Ma quanto a te, non lasciare subito Mediolanum. Ci sono sempre dei pettegolezzi che trapelano da corte, e l'Insubria è particolarmente incline agli intrighi di palazzo. Se ne hai la possibilità, cerca di conoscere l'ufficiale o gli ufficiali che ti hanno fatto entrare, Elio Sparziano. Non si sa mai quel che potresti scoprire». Decimo non sembrava il tipo di ufficiale aristocratico che si abbassa a una chiacchierata amichevole, e ancor meno ai pettegolezzi, e in effetti il suo congedo, tre sale più in là, fu conciso, quasi brusco. Solo dopo aver lasciato il palazzo ed essersi ritrovato esposto al vento umido della strada, Elio si concesse di essere indispettito. Diversamente da Roma, di notte Mediolanum era buia. I canali e gli scolmatori per la maggior parte scorrevano al di sotto delle strade, a giudicare dal gorgoglio d'acqua che saliva dai tombini; questo spiegava l'odore di umidità, di mattoni fradici, di cemento bagnato. Una volta valicate le Alpi, Elio aveva viaggiato fra laghi, paludi, la campagna a nord della città ricca di fiumi e canali d'irrigazione, ancora d'un verde vibrante malgrado la stagione avanzata: una simile abbondanza di corsi d'acqua può fare la fortuna di una città e allo stesso tempo eroderne le fondamenta. Fuori dal complesso imperiale Elio sapeva più o meno dove andare: doveva dirigersi verso est fino a incontrare la vecchia strada maestra che tagliava perpendicolarmente la colonia originaria. Alla piazza centrale sarebbe andato verso nord-est, uscendo dall'antica porta per arrivare al nuovo quartiere all'interno delle nuove mura fortificate erette da Massimiano. Giunse a una torreggiante struttura squadrata, alta diversi piani, prima di rendersi conto che malgrado il suo ottimo senso dell'orientamento aveva sbagliato strada, e probabilmente - a giudicare dal tanfo - era molto più vicino al quartiere dei conciatori di pelli che al centro cittadino. Di fronte aveva dei depositi di grano governativi che, enormi, sembravano chiudere la notte. Una torcia, a un angolo, gli permise di leggere SORS FAUNI su una targa, e niente altro. «Credevo che sareste andato al campo dell'esercito, comandante.» Com'è che certe voci, sentite una sola volta, diventano immediatamente riconoscibili? Al buio, in fondo al vicolo Elio non vedeva nulla, ma sapeva di chi si trattasse. Decimo l'aveva seguito, o più probabilmente era arrivato prima, prendendo delle scorciatoie, per attenderlo in quella strada stretta. Solo il bagliore da una porta - una
taverna, un bordello, o entrambe le cose - si insinuava fra i due cavalieri, ma il secondo era invisibile al primo. I pensieri si affannarono fino ad arrivare a un blocco e si interruppero tutti, tranne la certezza che Decimo fosse stato mandato per assassinarlo, visto che nella bisaccia portava ancora il messaggio di Sua Divinità a Massimiano. Si sarebbe preso a calci da solo per non aver ordinato alle sue guardie di aspettarlo fuori da palazzo per scortarlo, ma a quel punto recriminare serviva a poco. Fugacemente, nella luce della porta baluginarono la gamba nuda di una ragazza e un braccio paffuto, senza incidersi nella mente di Elio se non per fargli considerare che stava per morire davanti a un bordello. «Come, state sfoderando la spada?» Dal buio in cui si trovava a cavallo, Decimo reagì al suono lieve di metallo con tale divertimento da sembrare che si stesse sforzando di non ridere. «Non siamo mica sul Danubio, Sparziano.» Si avvicinò, facendo fare un passo in avanti al cavallo con uno schiocco della lingua, fino a un punto in cui il riflesso della porta lo svelò disarmato in sella. «Deve essere vero quello che dicono, che puoi togliere il ragazzo dalla frontiera, ma non la frontiera dal ragazzo!» Decimo non portava alcun copricapo, malgrado il freddo della notte, ma era avvolto stretto in un mantello tanto lungo da coprire in parte la coperta sotto la sella del cavallo. Estrarre un'arma da sotto quell'involto di stoffa sarebbe stata un'impresa. Elio si sentì un po' stupido, ma era ancora seccato. «Può darsi. Alla scuola dell'esercito mi hanno insegnato che gli ufficiali devono rendersi riconoscibili gli uni agli altri.» «Non siate così all'antica, Sparziano. Volete essere mio ospite a cena domani sera? Abito nella zona sud-est della città, non lontano da Porta Romana.» Decimo sorrise. «Ro- ma-na: che suono meraviglioso. Che posso dire, il solo nome della porta in qualche modo mi fa sentire meno distante dall'Urbe. Fate in modo di non portare nulla tranne l'appetito, non sopporto quando gli ospiti mi fanno recapitare vini che non mi piacciono, o cacciagione che non metterei mai in tavola.» «Non vi ho ancora detto se desidero essere vostro ospite, Curio Decimo.» «Ma certo, dovete! Nessuno declina mai i miei inviti a Mediolanum.» Non fosse stato per l'incoraggiamento di Sua Divinità a raccogliere le dicerie, Elio avrebbe detto a Decimo che quello allora sarebbe stato il suo primo rifiuto. Per come stavano le cose, invece, rispose che avrebbe accettato. La gamba della ragazza
passò di nuovo davanti alla porta, agile e rosata. «Ma a una condizione: che non ci siano più di tre o quattro ospiti. Non amo le cene affollate.» «Vi prometto che non ci sarà più di un ospite: voi. E accettabile?» Grazie alle indicazioni di Decimo («prendete la parallela, al tempio a destra, poi seguite le vecchie mura fino alla prima porta che incontrate») nel giro di breve Elio stava lasciando i vecchi confini repubblicani della città. Facendo attenzione a prendere «a destra alla seconda, se vedete Porta Nuova siete andato troppo oltre», arrivò alla caserma della cavalleria, che ospitava i cinquecento uomini del reggimento a cavallo dei Maximiani Juniores, sullo sfondo di quello che sembrava un bassopiano scarsamente popolato.
1 ° dicembre, venerdì Il mattino seguente dovette pensarci due volte per ricordarsi cosa stesse facendo in un alloggio militare, e dove quell'alloggio si potesse trovare. Aveva dormito con il messaggio imperiale per Massimiano nella cinta, stretto nel fodero a forma di tubo che con il ruvido corpo di cuoio e i denti metallici gli aveva lasciato indolenziti fianco e costole. Informare Sua Divinità del rifiuto di Massimiano di riceverlo era una priorità: la prima preoccupazione di Elio fu spedire uno dei suoi uomini a Nicomedia; viaggiando senza sosta, la sua affrettata missiva avrebbe potuto raggiungere Diocleziano entro una settimana. Avrebbe atteso ulteriori istruzioni a Mediolanum, con la solita clausola per la quale avrebbe passato la maggior parte del tempo a compiere ricerche storiche. In altre parole, a esplorare gli archivi della città in cerca di informazioni sulle vite degli antichi imperatori, specificamente Settimio Severo e il suo predecessore Di dio Giuliano (il cui nonno era nato lì), e a prendere minuziosi appunti su qualunque altra cosa degna di essere riferita. La giornata era tersa. Solo sui letti dei canali sostavano cotonosi veli di foschia. A giudicare dal numero di gatti che gironzolavano per il campo, la zona acquitrinosa che lo circondava doveva essere popolata di ratti, rane e chissà quali altri parassiti. Dalla stanza della torre in cui aveva dormito, Elio vide che quelle che la sera prima aveva preso per fabbriche d'armi erano manifatture per l'abbigliamento dell'esercito, botteghe per la produzione del feltro, laboratori di tintura e sartorie. I mantelli color robbia appesi ad asciugare, con i loro cappelli di feltro appollaiati in cima, formavano
una parata fantasma lungo una staccionata a traliccio. Dietro l'area, oltre le mura della città, si erigeva una barriera di monti innevati che nell'aria del mattino aveva il colore dell'acciaio; a destra di due picchi piramidali, di cui uno copriva parzialmente l'altro, correva un massiccio più lungo, come il dorso di un coccodrillo. Se svoltava l'angolo (la balconata di legno abbracciava tre lati della torre) poteva guardare nella direzione diametralmente opposta, oltre l'intera città: da quella parte il paesaggio si faceva più piatto e verde, se possibile, attraversato da torrenti e strade che portavano al Ticino e a Laumellum, di cui Casta si diceva fosse originaria. Più dappresso, attraverso la porta nelle vecchie mura, i mulattieri conducevano carretti carichi di mattoni verso i nuovi cantieri del distretto: scavi per le fondamenta, irti di pali conficcati nel terreno come trappole per animali selvatici o difese contro attacchi di cavalleria. L'avanzata lenta dei carretti riportò la mente di Elio a Lupo; era curioso di avere notizie da ben Matthias per lettera, eventualmente di persona, sul caso d'omicidio. I parenti inconsolabili avevano trovato Agnus per chiedergli ancora una volta di riaccendere il fuoco della vita nel petto del loro defunto? Il chirurgo capo Galliano aveva promesso che si sarebbe trovato sul posto se fosse stato fatto un tentativo: «Perché, per tutti i Numi, se un corpo che è stato soffocato e aperto torna in vita, io voglio vederlo, e sentire la vittima che accusa i suoi assassini con le mie orecchie». Che il fabbricante di mattoni giacesse ancora privo di vita Elio non aveva dubbi. Quel che lo intrigava era ozioso ma avvincente: come l'opinione pubblica avrebbe giudicato la morte di Lupo, se l'omicidio non fosse stato indicato come sua causa. Il buon popolo di Treviri si sarebbe adattato facilmente alla realtà, o avrebbe incolpato la Voce per aver fallito nel mantenere ardente di vita la fiammella di Lupo? Quando tra la fila di muli qualcosa di grigio sgusciò via agilmente, al principio Elio lo prese per una lontra, ma il movimento lo tradiva come un grosso ratto di fogna, di quelli che con impertinenza lungo il Nilo venivano chiamati «di taglia imperiale». Sto ancora pensando all'Egitto, si disse. E considerato che la scorsa estate non ci volevo nemmeno tornare, che quel paese mi respinge almeno quanto mi attrae, deve essere ad Anubina che sto pensando. Le sue cosce bianche, generose e tonde in cima e affusolate verso le ginocchia da danzatrice, gli tornarono alla memoria come le aveva viste per la prima volta, la sera che l'aveva affittata da Thermuthis. C'era voluto poco a convincerlo a comprarla dal bordello, «perché a questa stregua te ne puoi tenere una a casa, Elio, ti costerebbe meno». Aveva scelto Anubina fra tre ragazze, per
quelle cosce bianche e per il suo nome: il nome del dio dei morti dalla testa di sciacallo, così dolcemente incongruo per una giovane che danzava con le nacchere. «E stata vergine fino a tre mesi fa», aveva puntualizzato Thermuthis con un sorriso sotto l'onda rossa dei suoi splendidi capelli, «ma non ti faccio pagare il sovrapprezzo.» L'aveva portata con sé provando una strana vergogna, e quella prima notte si era tenuto Anubina in grembo, abbracciandola, finché entrambi avevano ceduto al sonno. Prima di lasciare la caserma, con noncuranza Elio chiese all'ufficiale di giornata informazioni su Curio Decimo. Apprese quel che aveva già osservato per conto suo: orgoglioso, di casata antica, ottima rete di rapporti, annoiato dalla vita in provincia. Che il suo collega avesse letto o meno una nota di incertezza nella sua voce, considerò opportuno aggiungere: «Non gli piacciono gli uomini, se è questo che state pensando. Decimo risulta un po' effeminato, ma per lui è solo una posa da intellettuale. Considera la maggior parte di noi zotici e arrampicatori sociali. E un soldato eccezionale, però. Ha fatto vere meraviglie contro i pitti e i pirati franchi. Gli piace invitare a cena i conoscenti per scoprire cose da loro». «E ci riesce?» L'ufficiale di giornata, un britanno pieno di lentiggini che doveva essere imparentato in prima persona con quei pitti sgominati, sollevò le sopracciglia. «Sì e no. La maggior parte delle volte, visto che tutti sospettano che l'invito abbia una ragione ufficiale, gli alti gradi e i politici sbavano intorno alla gloria di Massimiano e dell'Impero, sperando di ottenere benefici quando il loro pensiero sarà riferito.» «Capisco. E qual è l'intento reale di Decimo?» «Intento? Non ha un intento. Per lui è un gioco. Se non fosse vecchio abbastanza per essere vostro padre o il mio, si starebbe ancora trastullando con i balocchi. Be', ha cinquantanni, almeno. È stato sposato quattro volte, e tutto quel che gliene resta è una figlia che nessuno ha mai visto. Che altro... lasciatemi pensare... L'ex concubina di Sua Tranquillità, Elena, lo scorso inverno è stata sua amante, anche se hanno litigato come cane e gatto.» Anche Decimo? Sembrava che chiunque fosse stato di servizio a corte, a est o a ovest, presto o tardi fosse stato amante di Elena. Elio sentì quanto misero fosse in realtà quel privilegio, quando a Nicomedia, durante le settimane trascorse con lei,
aveva camminato sulle nuvole. Lo confondeva solo il fatto che Decimo non era - per età e aspetto - il tipo atletico che Elena si vantava di attrarre. «Devo inventarmi una parola d'ordine per la giornata», fece il britanno approfittando della conversazione. «Visto che siete uno storico, suggeritemene una.» «Che ne dite di 'Al lavoro', la parola d'ordine imperiale di Settimio Severo?» «E buffa, ma suona bene, grazie.» Fino all'ora di pranzo Elio rimase sulla piazza centrale, dove grazie alle sue lettere di presentazione ebbe accesso agli archivi cittadini. Non si fermò davanti al monumento a Bruto solo per evitare di sembrare provinciale. Ma ci passò davanti lentamente, osservandolo. La statua bronzea dell'assassino di Cesare era incrostata da una parrucca di verderame, e la stessa patina verde-blu formava come dei basettoni ai lati del volto. Sopra la statua, quattro colonne sottili reggevano un timpano metallico, e nei buchi della ruggine la pioggia era filtrata a formare le incrostazioni. Un cagnaccio al momento stava annusando una delle colonne, senza dubbio con l'intenzione di consegnare le sue tracce alla Storia. Il libraio il cui negozio si apriva poco oltre, vedendo Elio arrivare, fece cerimoniosamente un passo indietro. «E solo perché Bruto è stato governatore della città, comandante, non per altro.» Dopo che l'ufficiale fu entrato, affabilmente aggiunse che ogni nuova amministrazione imperiale aveva considerato la rimozione dell'imbarazzante monumento. «Ma a Mediolanum ci siamo abituati, e se il divino Augusto, proprio lui che era l'erede di Cesare, ha avuto la bontà di lasciarcelo tenere lì dov'è, allora è destinato a fare da palo preferito per i cani ancora a lungo.» Elio si era già avvicinato allo scaffale su cui erano allineati i volumi di storia e i rotoli di pergamena. Chiese l'autobiografia di Settimio Severo, la raccolta di opere di Erodiano e «gli opuscoli di uno storico conosciuto sotto il nome di Elio Mauro, ma che potrebbe essere stato il liberto Flegone del divino Adriano». Solo i libri di Erodiano erano in magazzino, e quando Elio ne apprese il costo si limitò ad aprire un piccolo taccuino di papiro con l'elenco dei prezzi massimi stabilito da Diocleziano. «Sua Divinità li vende a meno.» «Ma vengono dalla Grecia, e c'è il trasporto.» «È un inviato imperiale, Nicanor: te l'ha detto?» Decimo guardò dentro al negozio senza entrare. Alla luce del mattino assomigliava parecchio a una scimmia dispettosa. Rispose al cenno di saluto di Elio con un gesto della mano, scuotendo il
capo in direzione del libraio. «Avanti, non farci sembrare un branco di insubri arraffoni. Dagli le opere di Erodiano al prezzo dell'Editto, o riferirà di te a Sua Divinità. Comandante, sono diretto a Palazzo, ma ora che vi ho visto entrare qui, penso che aspetterò che abbiate finito le compere e vi darò le indicazioni per arrivare a casa mia.» Elio borbottò un «Grazie», e senza fretta terminò la transazione. Nicanor si appuntò gli altri titoli promettendo che li avrebbe procurati. «Altro, comandante?» «Sì. Qualunque opuscolo o trattato che riguardi chi compie miracoli, prodigi e fenomeni analoghi.» «Ho Vita di Apollonio di liana di Filostrato, appena copiato.» «No, l'ho già letto. Qualcosa di più recente, sui culti orientali, o anche sulla setta cristiana.» Il libraio si irrigidì come se gli fosse stata infilata un'asse di legno fra la schiena e i vestiti che indossava. «Qui non teniamo cose del genere.» Il gesto che stava compiendo di protendersi verso uno scaffale più alto si arrestò a mezz'aria. «Vi auguro una buona mattinata, signore, vi farò sapere appena arriveranno gli altri titoli.» Con la coda dell'occhio Elio colse il sorriso del collega fuori dal negozio. Quando lo raggiunse, a voce non troppo bassa Decimo disse: «Ce le ha, ce le ha. Se sono favole cristiane quel che cercate, tornate da Nicanor dopo la chiusura. O pensate davvero che diamo alle fiamme tutte le Scritture che le nostre guardie trovano nelle perquisizioni? Avreste dovuto chiedergli se ha la vostra biografia di Adriano, comandante. In città è fra i libri più letti». Camminarono insieme per un isolato, separandosi a metà del più antico viale centrale, posto sulla direttrice nord-sud, dove Elio aveva una biblioteca privata da visitare. Decimo insistette - ed Elio non vide ragione per non dargli retta - che prima del tramonto facesse una lunga deviazione fino alla sua abitazione di Porta Romana. «Uscite dalla città dalla porta più occidentale, quella che chiamano Porta Erculea, dietro le Terme, e prendete la via diretta a sud. Non fate caso all'odoraccio, è una zona di paludi, e malgrado la manutenzione del canale le foglie marciscono nei campi più bassi. Alla triforcazione, circa cinquecento passi più avanti, tenetevi in mezzo fino a raggiungere la strada per Laus Pompeia e per Roma. Lì, prendete a sinistra e vedrete. Una volta attraversata Porta Romana, casa mia si trova immediatamente
sulla vostra sinistra. Ma fate in modo di cominciare il giro quando è ancora pieno giorno, per godervelo. È molto importante.» Visto che Elio non sembrava incline a discutere, Decimo si astenne dall'entrare in biblioteca con lui. «Se state aspettando in città nella speranza che Massimiano cambi idea e vi riceva», gli disse a mo' di congedo, «avrete il tempo di coprirvi di verderame ed escrementi d'uccello come il monumento a Bruto. Il suo ciambellano, l'eunuco, ha avuto una crisi quando ho annunciato il vostro arrivo, non faceva che sibilare. Hanno sentito Massimiano abbaiare oscenità da due sale di distanza, tutte, se ho sentito bene, riferite ai costumi morali di vostra madre, oltre che alla madre di Sua Divinità. Buon per voi che eravate a tre sale di distanza.» Elio mantenne un contegno all'insegna della garbata assenza di coinvolgimento. Si voltò per bussare alla porta che aveva di fronte, come se le vecchie carte che si preparava a vedere fossero più importanti di quanto aveva sentito. «Quante centinaia di passi oltre le mura, prima che la strada si divida?» fu tutto ciò che chiese. Raggiunta Porta Romana con il sole che calava di fronte, in un trionfo di dettagli incisi e tetti splendenti, Elio rimase molto colpito dall'opulenta via colonnata lungo la quale cavalcava. Aveva letto che le vie di Palmira erano una vera foresta di pilastri di marmo, ma questa era lunga almeno tre volte le strade della città asiatica. Decimo era riuscito a imprimere su di lui la magnificenza di quel porticato lungo due miglia che coronava l'ingresso a Mediolanum dalla strada per Roma. Eppure l'odore di muffa continuava ad aleggiare nell'aria rosata, e già per due volte, da quando aveva imboccato lo splendido viale, Elio aveva incrociato pigri canali soffocati dal muschio. Quando Decimo aveva detto di abitare «vicinissimo alle mura», non esagerava. L'antichità della villa urbana dei Curii era testimoniata dal fatto che l'antico tratto della cinta, costruito alla fine della Repubblica, oltre trecento anni prima, ne attraversava un'ala, mutilando un ampio soggiorno pavimentato con un mosaico dal semplice disegno bianco e nero. «Gradevolmente precesariana», la descrisse Decimo, accogliendo il suo ospite con un sorriso, «perché Cesare ha reso più complicati perfino i nostri pavimenti.» In realtà le vetuste mura urbane - mattoni e pietre senza intonaco - bloccavano la stanza altrimenti elegante alla stregua di un vulcano che fermi il flusso di lava dopo aver distrutto quanto poteva. «E il simbolo più chiaro possibile per ricordarmi
dell'intrusione governativa. Avanti, venite, la parte migliore è dopo la vasca dei pesci dell'anticamera. Sono molto orgoglioso della vasca, l'ho disegnata io stesso. C'è una fonte sotto la casa, quindi ho pensato di metterla a frutto, invece che di combatterla come i miei avi.» Condusse il suo collega per un austero atrio dipinto di nero con dei riquadri gialli, ognuno dei quali rappresentava un diverso pesce d'acqua dolce. Un bagliore che sembrava provenire dalla vasca, un grande quadrato, lanciava riflessi come pugnalate verde pallido sul soffitto; era una cosa talmente unica e originale che Elio non si vergognò di mostrare il suo stupore. Il ghigno di Decimo si trasformò in un sorriso. «Il fondo è di vetro, e quando ho compagnia faccio accendere dei lumi nel seminterrato, in modo che il riflesso lo attraversi. Ditemi che non è bellissima.» «Bellissima è dire ancora poco.» Dando a Elio il tempo di ammirare i pesci che sfrecciavano nelle acque scintillanti, Decimo si appoggiò alla parete a braccia conserte. «Avete saputo? Ieri sera al deposito del grano sono morti due uomini: inciampati mentre controllavano l'aerazione dei sili, e soffocati da una valanga di frumento. E successo proprio mentre voi e io stavamo chiacchierando di fronte a quell'orribile piccolo bordello, appena a un isolato di distanza. Quanto possono essere vicine vita e morte, no? Voi che sfoderate la spada pensando che io sia un assassino, il seme della vita schizzato nelle sgualdrine alla porta accanto, quei due che esalavano l'ultimo respiro in un mare di grano... Mi renderebbe malinconico, se solo non mi facesse ridere.» Nello spazio successivo, un guardaroba, uno schiavo venerando attendeva di prendere in consegna il mantello di Elio, ma non si mosse finché Decimo non schioccò le dita. «Sapevo che vi sareste presentato in uniforme, comandante Sparziano. Voialtri non sapete mai che abiti civili indossare nelle occasioni private.» «Voialtri» poteva significare almeno una mezza dozzina di cose poco lusinghiere, tutte connotazioni di classe o di origini nazionali. Elio scelse di non rispondere. Era intenzionale il fatto di presentarsi come soldato e non come inviato imperiale: perché il suo ospite senza dubbio lo sapeva, per lui era un «gioco», come aveva detto il britanno. Senza abbigliamento militare, d'altra parte, Decimo sembrava meno solenne, e la sua modesta statura era più evidente. In un'epoca in cui le applicazioni ornamentali - nastri, quadrati oppure ovali ricamati a colori - erano l'ultimo grido sugli abiti civili e militari, la sua tunica di lana vecchio stile appariva singolarmente spoglia. Elio giudicò correttamente che fosse un modo per distinguersi, piuttosto che un
segno di modestia. Indicando con un gesto la porta della sala da pranzo, Decimo si guardò indietro, non diversamente da quanto aveva fatto precedendo Elio nelle sale di Palazzo. Quando la luce gli colpì il volto di lato, bocca e naso emersero come il muso di un animale astuto, le guance rasate sembrarono scavate in profondità da dita forti, fino quasi all'osso. La vanità gli faceva pettinare i capelli in modo da coprire la calvizie incipiente sul capo e sulle tempie, come si vedeva nei ritratti dei tempi antichi. Con un cenno minimo della testa indicò il guardaroba. «Bello spillone, avete lì. Dono di Sua Divinità?» Il fermaglio del mantello dell'esercito era una cosa di cui Elio andava fiero, il segno della stima personale di Diocleziano dopo la missione in Egitto; ma l'aria divertita con cui Decimo l'aveva osservato lo imbarazzò. «Sono certo che ne avete uno più grosso e prezioso», rispose, rinunciando alla competizione. La cena fu eccellente, e tale che nei suoi appunti Elio la descrisse così: Manicaretti insaporiti dalle domande, poste in maniera tanto furba e ambigua che ogni volta ne ho dovuto vagliare le implicazioni politiche, a costo di sembrare un bifolco con mansioni ufficiali. Decimo non è uno che si fa distrarre, e se l'indiscrezione per lui è un semplice passatempo, allora il suo gioco lo prende parecchio. Fu dopo che ebbero finito di mangiare e andarono a sedere nello studio, che Decimo chiamava la «stanza degli avi», che per Elio si presentò l'occasione di reagire alla marea di domande. Vista la scelta di indagare sull'applicazione delle leggi anticristiane a Mediolanum, il suo ospite emise un breve suono esplosivo, fra uno sbuffo e un colpo di tosse, come a volte fanno le donne irritate. «Perché mi chiedete di quei seccatori? Non si può passare davanti a un tribunale o a un teatro senza sentire che sono stati processati o gettati in pasto alle belve, anche se i rapporti sul loro martirio (è così che lo chiamano, inconsapevoli che quel concetto di testimonianza non è affatto estraneo ad altre tradizioni filosofiche) sono davvero esagerati. Grazie al giudice Marcello e alla sua giustizia lenta come una tartaruga, le teste mozzate non sono nemmeno la metà di quelle che dovrebbero. Io non ho nulla a che fare con i cristiani, la mia preferenza va agli dei che non se ne vanno in giro a chiedere alla gente di morire per loro.» Su tre scaffali i busti dei membri della famiglia creavano un pubblico muto di uomini e donne di età diverse, alcuni dei quali assomigliavano tanto a Decimo che
attraverso di essi Elio riuscì a ricostruire l'aspetto dell'ospite da giovane e prevedere quello che avrebbe avuto da vecchio. La pietra tombale che il suo stesso padre aveva ordinato anni prima alla frontiera, al confronto, sembrava rozza, assomigliava poco a chiunque, se non a un cavaliere scolpito con approssimazione; solo il nome al di sotto l'avrebbe identificata come lapide di Elio Sparto. «Perché chiedete di loro?» lo sollecitò Decimo. Elio riferì concisamente degli eventi intorno alla «prima e alla seconda morte» di Lupo e della sua curiosità riguardo ad Agnus, l'uomo che aveva compiuto il miracolo. Sembrava un'innocente conversazione serale, che probabilmente avrebbe divertito il padrone di casa. «Potrei sbagliarmi, ma a Brigantium ho avuto l'impressione che l'adepta principale del guaritore sia una donna originaria di queste contrade; di Laumellum, credo.» All'improvviso lo sguardo indifferente di Decimo si acuì notevolmente, per un incontro amichevole. Durante la cena, chiacchierando amabilmente, aveva fatto delle palline con le briciole di pane, arrotolandole fra il pollice e l'indice. Ne aveva portata oziosamente una dalla sala da pranzo, e a quel punto la schiacciò sul tavolo dello studio. «Dovete essere molto stupido o molto sveglio, comandante Sparziano.» «Non so cosa vogliate dire, la mia è una domanda senza secondi fini. Se non desiderate rispondere, lo farà qualcun altro in città. Non mi risulta che questa Casta rappresenti un segreto di Stato.» «Un segreto di Stato, no. Una fonte di imbarazzo per la sua grande città nativa, Mediolanum, direi di sì. Quel che mi lascia perplesso è che cosa vi abbia spinto a chiederlo a me. Io e quella donna siamo quasi consanguinei. E dico 'quasi', perché non sono certo di quanti gradi di parentela ci siano fra noi. Era sposata a uno dei più ricchi proprietari terrieri di Ticinum.» «Vedo.» Al commento laconico, Decimo si rilassò di nuovo. «Be', in fondo è una storia divertente, e non la racconto da parecchio tempo. Perché no.» La mollica tornò a essere lavorata in palline tonde, come le biglie d'argilla con cui giocano i fanciulli. «Il proprietario terriero - Pupieno, si chiamava - era anziano quando l'ha presa, e come tutti i mariti vecchi e ricchi che si rispettino ha avuto l'accortezza di lasciarla vedova nel giro di pochi anni. Dal matrimonio non sono nati figli, quindi lei ha ereditato l'intera proprietà. Circostanza che l'ha resa molto appetibile per ogni maschio che legitti-
mamente potesse aspirare alla sua mano: il prefetto della città l'ha corteggiata invano, come il figlio minore del giudice Marcello. Il vecchio Pupieno era un tradizionalista, un uomo che mi andava a genio. Lei proviene da una famiglia della stessa pasta (non è un caso che siamo imparentati), ma nel corso dell'ultima malattia del marito, due anni fa, si è messa in testa che certi guaritori o taumaturghi potessero fare qualcosa per lui.» «Il loro era un matrimonio d'amore, dunque.» «Non vedo come, ma suppongo di sì. La ninfa Galatea fu corteggiata da Polifemo, e lui era un gigante con un occhio solo. A ogni modo, la loro villa di Laumellum per tre mesi e più è stata come il porto di Alessandria, con ogni sorta di figuri che andavano e venivano. Il vecchio, nel suo letto di dolore, ha ascoltato preghiere, è stato cosparso di incenso, ha fatto suffumigi, si è lasciato spruzzare d'acqua, fare clisteri, coprire di amuleti e formule sacre. Qualunque cosa vi venga in mente, è stata esperita. Poi si è presentato Agnus. Non invitato, badate bene. Non è chiaro come siano andate le cose. Una mattina è comparso sulla soglia, e subito dopo stava blaterando i suoi incantesimi.» «Ovviamente il marito di Casta non è sopravvissuto.» «Ovviamente, dite voi. Eppure le sue sofferenze sono cessate dopo la visita di Agnus, e per i pochi giorni che è vissuto da quel momento è stato sereno quanto Socrate durante la sua prigionia finale. Ero presente, quindi posso garantire in merito. E morto con un sorriso, discutendo di filosofia e della natura degli atomi secondo Lucrezio.» Con l'unghia del pollice, che teneva piuttosto lunga, Decimo tagliò in due la pallina di mollica. «Quel che voi e io (io, almeno) diremmo, è che la malattia ha fatto il suo corso e semplicernente è diminuita di intensità prima che l'ultima fiamma si estinguesse nel vecchio. Il fatto è che un mese dopo il funerale la donna che avete sentito chiamare Casta - non è il suo nome - ha rinunciato alla sua immensa fortuna. Ha conservato per sé solo una casetta di periferia, fuori da Porta Ticinese, vicino all'arena, che ha dato all'unica serva che ha tenuto, la sua vecchia balia. L'atto successivo del dramma è stato elargire pubblicamente i suoi vestiti e gioielli (questi ultimi valutati oltre cinquecentomila denari) e farsi cristiana. Questo è accaduto oltre due anni fa, prima che iniziassero i processi religiosi. Dopo essersi detti che era stato il dolore a farle perdere la testa, gli amici e le malelingue non ci hanno nemmeno pensato più.»
Elio non ne aveva motivo specifico, ma cominciava a provare antipatia nei confronti dell'uomo dei miracoli. «Avvincente. Chi ha ricevuto le ricchezze della signora?» «Oh, i cristiani stessi, la loro gerarchia, ovvero la Chiesa, come la chiamano loro. La scelta più inadatta e intempestiva cui riesco a pensare, visto che nel giro di pochi mesi i beni dei cristiani sarebbero stati confiscati per finire nei forzieri del governo.» Decimo lanciò per aria le palline di pane, riacchiappandole una dopo l'altra. «E come se il povero vecchio Pupieno avesse nominato erede l'Imperatore, lui che teneva in biblioteca tutte le lettere di Bruto e Cassio. C'è una bella ironia in tutto ciò.» Elio parlò fissando il ritratto della sola bellezza presente fra le antenate di Decimo. «Mi sfugge il nesso fra lo spogliarsi delle ricchezze per farsi cristiana e la decisione di diventare l'assistente di Agnus. C'è un bel salto.» L'immagine di marmo portava i capelli in un alveare di riccioli sopra la fronte, come facevano le donne ai tempi di Tito, duecento anni prima. Il suo volto era estremamente delicato, in qualche modo noto; fra gli occhi e la bocca la calma si trasformava in dolce malinconia. «Sì, è così.» Rapidamente Decimo spostò lo sguardo per vedere dove si fosse concentrata l'attenzione dell'ospite. «Ci ha frastornato tutti che facesse una scelta del genere, quando era abituata a dare ordini, piuttosto che a riceverne. Ma vedete, a quel tempo stavo affrontando il mio terzo divorzio, quindi non ero propriamente interessato a sapere che cosa facessero gli altri delle loro vite.» «La incontrate mai di questi tempi, o comunicate con lei?» Elio non fu certo del perché lo stesse chiedendo. Mera curiosità, anche se la vista della splendida progenitrice di Decimo rendeva la sua voglia di sapere meno disinteressata; come se delle cinque donne rappresentate, quattro non fossero decisamente brutte. «Incontrarmi o comunicare con una cristiana? No. Lo facevamo a malapena prima che cambiasse la sua veste spirituale. Ora probabilmente si nasconde. Ma suppongo che se sentiste l'insopprimibile necessità di vederla, ovunque si trovi, potreste portare con voi una mia lettera di presentazione. In nome della parentela potrebbe essere disposta a ricevervi. Annia Cincia era molto bella, un tempo. Per quanto ne so, potrebbe esserlo ancora.» Dunque è bella, o lo era. La sua scelta di mettersi al servizio di un predicatore itinerante, o qualunque cosa fosse Agnus, all'improvviso gli parve eroica, più che stupida. Elio immaginò Casta a Treviri nella sua stanza spoglia come una cella,
mentre teneva testa ai pericoli delle strade innevate, o mortificava le sue carni sfidando addirittura i giudici, come aveva visto i cristiani fare in Egitto, di fronte alla tortura. Era un percorso mentale piuttosto precipitoso nei riguardi di una donna che non aveva mai conosciuto, e che supponeva essere bella quanto la donna dai riccioli di marmo. Decimo aveva forse catturato il senso di quell'interesse e menzionato di proposito la bellezza di Casta, per provocarlo. «A corte abbiamo sentito tutti del vostro lavoro da segugio in Egitto e della cospirazione scoperta in quel modo. Ma ora mi raccontate questa storia da due soldi di un soffocamento da esalazioni di carbone. Un fabbricante di mattoni morto, Sparziano... a chi importa quel che è successo? Un fabbricante di mattoni assassinato è solo appena più interessante. Dal punto di vista del guaritore, sarebbe stato meglio se questo Lupo fosse rimasto vivo: ma se proprio doveva morire, allora l'omicidio è più accettabile, e non implica un fallimento di Agnus. Il mio consiglio, specialmente in questi giorni, è che vi teniate alla larga da quell'ambiente di creduloni. Per vostro divertimento, comunque, sappiate che a Mediolanum abitano alcuni di quelli che sostengono di essersi giovati della coppia dei miracoli: sì, Agnus e Casta hanno iniziato qui i loro giochi di prestigio, prima che il governo mettesse fine a tutte quelle assurdità.» Pigramente Decimo gettò le palline di mollica oltre la sedia di Elio, come un ragazzo annoiato che manchi di proposito un bersaglio. «Suvvia, parliamo di argomenti più interessanti della superstizione.» Elio non fu conquistato dalla sofisticata leggerezza dell'aristocratico che gli stava di fronte. È un uomo fatto di apparenze, non c'è nulla di vero in lui. Anche la sua cultura e gli oggetti preziosi in casa sua sono in qualche modo vuoti, facciate a coprire il nulla. Eppure è pericoloso, non sono certo della portata della sua malevolenza, ma l'aria dietro la maschera, dietro la condotta elegante, potrebbe essere perniciosa da respirare. In quanti erano cascati nelle trappole conviviali, avevano parlato troppo liberamente, ed erano stati imprigionati o perfino giustiziati per questo? I livelli degli intrighi a corte - in ciascuna delle quattro capitali che si spartivano il potere dell'Impero - erano edificati sulla cortesia e sui complimenti mielosi, mentre le spie prosperavano. Cosa aveva detto il britanno? Che Decimo voleva «scoprire cose» dalla gente. Restava da vedere in favore di chi.
Un cenno garbato per Elio fu il modo di acconsentire a cambiare argomento. «Ho ragione di credere di aver acquistato un elmo romano originale dei tempi di Teutoburgo.» «Però, questo sì che è intrigante!» Decimo si sedette dritto, tutto orecchie e sogghigno. «Come fate a sapere di non essere stato abbindolato dal venditore?»
2 dicembre, sabato Appunti di Elio Sparziano. Quel che dice Curio Decimo è vero. Mediolanum è una città di mercanti, di rivenditori e di artigiani di ogni sorta. Mentre a Roma si ha l'impressione di essere ospiti di una venerabile nobildonna la cui casa è deposito di tutto quanto è sacro e ufficiale, qui si ha la sensazione che chi non ha denaro non conti affatto. Malgrado la Zecca sia stata chiusa ai tempi di Nostro Signore Aureliano (Restauratore dell'esercito), le attività continuano a prosperare, e si trovano ancora in uso monete coniate qui, per giunta in grande quantità. Quando me ne sono andato ieri sera, promettendo a Decimo l'occasione di vedere il mio acquisto di Teutoburgo, ho ritrovato senza difficoltà la strada per la caserma. Dopotutto, paragonata a Roma o Alessandria, questa è una grossa borgata, ma ogni cosa è costruita senza badare a spese. Raramente ho visto un uso tanto copioso di marmo e porfido per le colonne a uso privato, anche se i pavimenti, da quanto ho potuto apprezzare, in generale non sono all'altezza dei mosaici che ho visto in Sicilia, e le figure rappresentate sono piuttosto artefatte. Il Portico Massimiano, come chiamano la strada di portici che ho percorso ieri per andare a casa di Decimo, invece, è un capolavoro architettonico, il glorioso approdo cittadino della Via Emilia. Mi ha lusingato riconoscere, in un bassorilievo dipinto sull'arco trionfale, la nostra campagna contro la RibelItone in Egitto, illustrata fra le guerre combattute dai nostri regnanti per mettere al sicuro l'Impero. Sotto il colonnato, su entrambi i lati della strada, si alternano librerie e botteghe di gioiellieri, mercanti di stoffe colorate e di spezie costose. Devo far visita alle librerie. Questo mi ricorda che devo appuntarmi alcuni dei prezzi riscontrati a Mediolanum, più alti che nel resto dell'Impero. Oltre ai dispendiosi testi di Nicanor, ricordo di aver
notato che la seta si vende a 13.000 denari a libbra, ben un quarto in più del tetto fissato dal governo. Visto che la sanzione per l'inosservanza del tetto contempla la morte o l'esilio, posso solo dedurre che ci sia connivenza da parte degli amministratori della città (e anche se non sto facendo la spia su nessuno, come direbbe Decimo, devo trovare un modo per informarne Sua Divinità, senza apparire troppo critico riguardo al governo del suo collega). A sud della caserma, nel nuovo quartiere recentemente compreso nelle mura urbane, si trovano le cosiddette Terme Erculee. Costruite in onore di Massimiano, sono splendide ben oltre quanto ci si aspetterebbe dalla loro grandezza, che è media. Nella sala della piscina fredda una bella statua di Ercole rappresenta il dio appoggiato al suo bastone: le vene sul fianco della figura e i nodi della sua arma sono scolpiti con tale maestria che li si penserebbe di carne e legno invece che di marmo greco. Una versione più piccola dell'opera è conservata nel sacrario della caserma, anch'esso intitolato a Ercole. Da soldato, comunque, di Mediolanum sopra ogni altra cosa ammiro le mura, perché hanno un grande vantaggio rispetto a quelle di Roma: c'è un fiume, o un canale, che le circonda, rendendone più sicura la difesa. In confronto all'Egitto il crimine è raro, così mi dicono. Non si riferisce di predoni che infestino le vie navigabili o di case svaligiate, e anche l'omicidio è poco frequente. Stando a Decimo, un fabbricante di mattoni di Mediolanum potrebbe essere ucciso solo per una questione di profitto. «Come fate a sapere che non è stato ucciso per profitto a Treviri?» gli ho domandato. A ogni modo, dopo il tramonto qui le strade sono considerate sicure, fatta eccezione per quei quartieri - il piccolo porto fluviale, la zona delle concerie e delle sartorie - dove abbondano i bordelli e le bische clandestine. Naturalmente, però, considero i prezzi esagerati una forma di furto. In sintesi, si ha l'impressione che tutti, a Mediolanum, possiedano o gestiscano un'attività; la gente va di fretta e non è particolarmente amichevole, e se ripenso all'Egitto - a come tutti laggiù prendano la vita in maniera ciclica, filosofica - e lo paragono all'affaccendarsi della gente alle porte di questa città, tutta impegnata a contrattare con i carrettieri il trasporto più conveniente per questa o quella merce, mi rendo conto di quante differenze convivano nell'Impero. Siamo a mondi di distanza, di fatto, dalla frontiera che conosco fin dai miei anni di gioventù, dove ogni cosa era ed è in funzione dei militari. Laggiù, l'esperienza di ciascuno si limita a una sequela di accampamenti e insediamenti dell'esercito, dove tutte le case degli ufficiali si
assomigliano, ai ricevimenti delle loro mogli si serve lo stesso cibo e tutti conoscono tutti. «Posso?» Il britanno - il suo nome era Duco - indicò con la mano lentigginosa la sedia di fronte a Elio, e ricevuto il suo assenso si sedette al tavolo. «Non si vedono spesso ufficiali scrivere in questa caserma. Immagino che Curio Decimo abbia ragione a definirci zotici. Come è andata, ieri sera?» «Una cena eccellente.» «E la compagnia?» «Anche.» Non c'era modo di sapere se gli intrighi si limitassero agli ufficiali di corte, quindi Elio decise di non lasciarsi sfuggire più del necessario. La verità era che la conversazione serale aveva preso una strana piega dopo che aveva iniziato a parlare dell'elmo comprato in Germania. Visto che il comandante romano all'epoca del disastro militare era stato Quintilio Varo, figlio di uno degli assassini di Cesare, Decimo aveva detto qualcosa di buffo, insinuando che Varo fosse stato per la sua famiglia una disgrazia peggiore del padre. «Si potrebbe anche dire», aveva risposto, «che ha elevato il tradimento ad arte. Attraverso la sua mancanza di competenze militari, Varo ha tradito Augusto, il suo imperatore, come suo padre aveva tradito quello di Augusto.» Ma stamani Elio non aveva motivo per essere sgarbato con il britanno. Lo ringraziò per aver garantito a lui e alle sue guardie degli alloggi così confortevoli e lo invitò a raggiungerlo per pranzo, se i suoi doveri glielo avessero consentito. Duco declinò. «Mi piacerebbe, ma ho finito per essere di nuovo ufficiale di giornata. Il collega cui sarebbe spettato oggi è partito di gran fretta. C'è stato un omicidio alle Vecchie Terme, come le chiamiamo noi, e si parla di disordini in tutta l'area del Circo e del Palazzo.» Avendo appena vergato delle parole lusinghiere riguardo la sicurezza a Mediolanum, Elio rimase stupito. «L'omicidio è così raro, qui, da far protestare la folla per le strade?» «No-o-o.» Pur trovando ingenua l'espressione, Duco non vide motivo per riderne. «Ma accade che la vittima sia il giudice impegnato nei procedimenti contro i cristiani, e tutti lo stimavano molto. Uno squadrone delle guardie di Palazzo è uscito a presidiare le vie. Davanti alla prigione cittadina pare che la folla volesse trascinare
fuori quelli in attesa di giudizio all'interno. In un certo senso, la giustizia popolare almeno accelererebbe la faccenda.» Elio pulì la penna con uno scampolo di panno morbido. «Questo giudice è un uomo di nome Marcello?» Ripostala nel suo astuccio, soffiò sulla carta di papiro prima di arrotolarla. «Minucio Marcello, sì. La 'tartaruga legale', come si divertivano a schernirlo i suoi colleghi. Avete sentito parlare di lui?» «Solo di sfuggita.» Raccolto e riposto in una custodia di cuoio il suo necessario per la scrittura, Elio si alzò, e l'ufficiale di giornata con lui. «Dove sono le Vecchie Terme?» «Non andrei lì ora, si rischia di uscirne con qualche livido, o peggio. Aspettate che la folla abbia sanguinato un po'.» «Grazie.» Elio rise. «Mi è già successo di trovarmi a sedare un tumulto. I miei uomini e io abbiamo difeso l'entrata principale del porto di Alessandria durante la Ribellione. Indosseremo il nostro equipaggiamento speciale e andremo a vedere.» «Come desiderate.» Duco gli diede indicazioni per raggiungere il luogo dell'omicidio, suggerendo una deviazione che avrebbe dato un vantaggio a un'unità di cavalleria. «Non è che vi viene in mente un'altra parola d'ordine, visto che sono bloccato qui?» «Sì. Quella usata da uno dei predecessori di Settimio Severo, 'Siamo soldati': che ne dite?»
3 I disordini erano stati segnalati nella zona sud-orientale di Mediolanum. Laggiù le Vecchie Terme - Balnea Vetra, nel linguaggio locale - si trovavano a poca distanza dalla prigione cittadina, su una piccola piazza irregolare chiamata Prati Gallici, con i due edifici posti all'incirca uno di fronte all'altro. Duco aveva detto che fuori dal perimetro di Palazzo la Guardia palatina formava un cordone protettivo che andava da Porta Vercellina a Porta Ticinese, isolando l'intero quartiere sud-occidentale della città lungo le due antiche ortogonali. «Immaginate che Mediolanum sia un quadrato diviso in quattro parti: troverete il segmento in basso a sinistra sigillato dalle forze a cavallo, quasi un miglio d'acciaio puro.» «Chi si sta occupando della folla in tumulto, dunque?» «La polizia, probabilmente i vigiles. Non possiamo mandare più di un manipolo di uomini, considerato che la maggior parte della guarnigione è lontana, impegnata nelle manovre.» La guardia di Elio - trentadue uomini in tutto, la solita suddivisione di un'ala di cavalleria - era addestrata a scendere in campo in qualunque momento. Risultò utile, perché nel lasso di tempo che ci volle a Elio per radunarla, da Palazzo giunse ordine di mandare tutte le unità disponibili ai Prati Gallici. Indossare la tenuta adatta ad affrontare i tumulti, precauzione che nella sua mente rappresentava una misura di buon senso, divenne così un presupposto essenziale. Rapidamente i soldati della guardia raggiunsero le stalle, gettarono coperte e selle sulle loro cavalcature, misero loro la cavezza (per impedire che aprissero la bocca e sfuggissero al morso), allacciarono loro protezioni di cuoio sul corpo e bardature a piastre sul muso. Gli uomini, invece, si prepararono con la tenuta di mezzo, una tenuta a metà fra quella delle mansioni di scorta e l'equipaggiamento da battaglia, che comprendeva giubbe imbottite infilate sotto corsetti di cuoio, elmi da guerra con protezioni per le guance e fazzoletti con i colori del reggimento da portare fin sopra al mento. Elio fece lo stesso, e in tempo da primato uscirono dal campo seguendo l'indicazione di Duco di piegare a sinistra nel «luogo in cui si lava nelle tinozze all'aperto» per raggiungere le prigioni della città, non distanti da una porta secondaria, la Posterula Mariana. Là avrebbero
trovato il muro cieco della prigione, dove era improbabile che i ribelli si riunissero. Il vantaggio ulteriore era che le strade laterali non erano lastricate, dunque il fragore degli zoccoli delle bestie non avrebbe tradito i cavalieri; un'utile circostanza, considerato che diversamente da quelli di altre unità, i cavalli della guardia andavano in battaglia ferrati. A mano a mano che Elio e i suoi uomini si avvicinavano ai Prati Gallici, le strade si facevano più intricate, costeggiate da edifici bassi che ospitavano botteghe di macelleria; i titolari di queste ultime, spaventati, erano intenti a chiuderle e sbarrarle. A sinistra si apriva un vicolo come una fenditura fra le mura; Duco aveva detto che conduceva al quartiere ebraico a Porta Ticinese, dove doveva regnare un considerevole nervosismo. Le istruzioni di Duco volevano che di fronte a loro, dietro una stretta curva a gomito, la strada si allargasse prima di arrivare alla piazza. Brusii confusi e un'accozzaglia disordinata di voci - il rumore di tutte le folle - provenivano da quella direzione. Elio levò la mano destra con l'indice teso, per segnalare ai suoi uomini di fermarsi. Al passo, da solo, portò il cavallo verso l'angolo e osservò. Il selciato era più largo, sì, ma considerata la curva non c'era spazio abbastanza per caricare. Altri negozi. Gente che spingeva e correva ovunque. Che ci fosse in corso un saccheggio era palese dal traffico di carcasse dalle macellerie; la metà sinistra di un maiale macellato, rosa-bianco-rosso, carico di grasso, navigava come una nave oscena sul mare di mani; i carcami di capre scuoiate, con il loro sguardo opaco, spuntavano sulle spalle della gente. Elio distinse a malapena le guardie dalla ressa in tumulto, la strada e la piazza in fondo a essa erano un oceano di corpi agitati e carne morta. Duco aveva avuto ragione nel ritenere che la parete cieca della prigione non avrebbe attratto i rivoltosi, ma non aveva considerato il richiamo delle botteghe di alimentari ben rifornite. Dall'altra parte della piazza, quella che sembrava un'improvvisata fortificazione di carretti rovesciati e casse del mercato gli fece pensare, sulle prime, che le autorità avessero allestito un'area delimitata per proteggere la prigione. Dai movimenti su entrambi i lati della barricata, però, Elio capì che era stata la folla stessa a costruirla, per avere mano libera mentre cercava di fare irruzione nelle galere. Zoppicanti e tumefatte, alcune guardie barcollarono via dalla mischia, inciampando su salsicce e sanguinacci ridotti in poltiglia dalla calca. Era impossibile valutare cosa stesse
succedendo dentro le prigioni: di certo c'era che le loro porte borchiate di bronzo venivano messe alla prova a colpi di pali di legno, di quelli che si usano per gettare le fondamenta nei terreni paludosi. All'altro capo della piazza, le Vecchie Terme non attiravano alcuna attenzione, malgrado il rispettato giudice Marcello fosse stato ucciso fra quelle mura. «Farete meglio a procurarvi un piano, Sparziano.» Quando inaspettatamente Curio Decimo lo raggiunse, arrivando da dietro al trotto, Elio pensò due cose: una domanda: Perché non è insieme ai suoi colleghi a proteggere il Palazzo? E la risposta a se stesso: Perché casa sua, a Porta Romana, è a meno di trecento passi in linea d'aria da questo macello. Teso, Decimo lo salutò con un cenno. «Ce l'ho, un piano. Prima di arrivare al quartiere ebraico, dove porta quella viuzza lì dietro?» chiese Elio, e, avuta la risposta: «È larga abbastanza, e posso prendere a destra da lì?» Poco dopo, a una a una, le guardie procedevano in fila fra muri di case distanti quanto bastava per lasciar passare un cavallo, come in un'angusta gola che sbucava in un viale sorprendentemente largo e lastricato, parallelo alla strada che avevano preso. Sembrava dividesse in due l'isolato, segnando dall'altra parte il limite del quartiere ebraico. Da sinistra a destra il selciato brulicava di gente diretta alla piazza, ma a una trentina di passi circa, sulla sinistra, il viale era ancora vuoto, e c'era spazio in abbondanza per allinearsi e manovrare. Elio vi diresse le sue guardie. Nella piazza i tumulti infuriavano. Numericamente inferiori e sotto attacco, le guardie non riuscivano ad andare in soccorso dei colleghi all'interno della prigione; a capo scoperto e insanguinato, impotente, la maggior parte di loro si limitava a lasciarsi spingere qui e là nella torma di uomini urlanti, e i tentativi di sfondamento delle porte continuavano con ottime probabilità di avere successo. Senza fretta Elio raggiunse la sua truppa, quasi in cima al viale. Gli uomini della guardia si erano disposti su tre file da dieci, con i due sottufficiali ai lati della prima. Levando i grandi scudi ovali, attesero l'ordine di cominciare a menar colpi di spada. Elio guardò le ombre sotto i bei cavalli, come pozze, o scampoli di stoffa fra il blu e il grigio. I soldati pronti ad attaccare, il tumulto, quelle ombre pronte a disfarsi come cenci lacerati dal vento: sembrava l'Egitto qualche anno prima, salvo che per la differenza di temperatura e di luce. Laggiù c'era in gioco un tentativo di usurpare il
trono; qui al Nord, per quanto poteva dire, solo la rabbia contro i cristiani per l'assassinio di un giudice. Ma l'emozione, il balletto da fermi dei cavalli eccitati, non erano diversi. Se Decimo era da qualche parte a osservarlo, Elio non ne era consapevole, e non gliene importava. Al suo ordine, a un tempo doppio, prima lento, poi più accelerato, le guardie avanzarono riempiendo il viale con il fragore del metallo sul lastricato. La velocità aumentò fino al piccolo galoppo, poi al trotto. L'impatto degli zoccoli sulla via rimandava un'eco secca, come di sassi che cozzano gli uni contro gli altri all'inizio di uno smottamento. Uno sguardo fortuito lanciato alle spalle, più che il rumore, consentì alla frangia esterna della folla di vedere i soldati: prima uno, poi un altro dei manifestanti guardarono e urlarono; la massa di uomini prese a ondeggiare via via che altri avvertivano l'allarme e si voltavano. Da un capo all'altro della ressa si trasmise un sussulto, ma quelli protetti dalla barricata non smisero di colpire il portone. A distanza di circa duecento passi, Elio diede l'ordine di caricare, e lo spazio fu letteralmente divorato dai cavalli spronati al galoppo. Il giallo-nero dei fazzoletti e degli scudi si mutò in una macchia sfocata, il fragore degli zoccoli divenne più assordante, finché il rombo del metallo sotto gli animali pesanti e i cavalieri scosse il viale. Elio cavalcava in testa, e nonostante la velocità e l'impeto, intorno a lui il tempo sembrava allungarsi e dilatarsi; era cosciente dei dettagli come fosse fermo - una mano, un volto, l'angolo dell'edificio di fronte -, e ricordò l'Egitto, l'Armenia e ogni altro luogo in cui aveva caricato, incuneato nella presa sicura della sella a quattro corni. Notò addirittura i fili d'un nero lucente nella criniera bionda del suo cavallo, appena prima di irrompere nella piazza. Qui, la vista delle guardie in avvicinamento aveva scatenato il panico. Si aprì un varco nel bastione di schiene e gambe, ma seguì subito anche una scarica di proiettili lanciati dai lati, pietre e oggetti rossastri, fra le grida. La mente di Elio continuò a ragionare in quel tempo bizzarramente espanso, come una ruota placida. Ci fossero stati dei cristiani, tra la folla - e non era possibile, visto che quella gente era andata lì proprio per linciarli - avrebbero potuto, come avevano fatto una volta ad Alessandria, decidere di gettarsi a terra, poiché i cavalli non caricano i corpi supini. Ma non erano cristiani, e correvano.
Quelli dall'altra parte delle barricate continuavano a infierire sui battenti. Erano passati alcuni istanti, non di più. Elio si fermò, tirando forte le redini, lasciando che le tre file di soldati lo aggirassero per fendere la folla come erba cattiva sotto la falce. Galoppò indietro per il tratto necessario a prendere la rincorsa, e gridando per spronare il cavallo lo lanciò dove i suoi uomini avevano creato il vuoto, saltò oltre le schiene accucciate, le braccia alzate a coprire teste e volti, oltre la barricata, le ginocchia strette ai fianchi dell'animale, e atterrò senza scivolare sulle pietre del lastricato. Non dovette neppure abbassare la spada. Fu sufficiente mostrarla sfoderata e pronta a colpire perché pali e bastoni cadessero dalle mani dei facinorosi assembrati alla porta; bocche aperte e occhi sgranati, la ferocia che si mutava in paura sulle facce, pietre e mattoni rossi che disegnavano archi nell'aria fredda. Oltre gli sbuffi bianchi dalle narici del suo cavallo, Elio vide uno dei suoi soldati che, colpito in pieno, si accasciava senza cadere, solo perché era incastrato nella sella. Poi il tempo riacquistò la sua velocità, e quello divenne come tutti i disordini, tutte le battaglie urbane. La folla si ritirò, l'indietreggiare e il goffo cambiamento di direzione formarono un moto che assomigliava a un lento vortice in una mandria; la barricata si sgretolò come una diga debole nella corrente. All'improvviso divenne una disfatta, con la gente che si rifugiava nei portoni per sfuggire alla carica, appiattendosi contro le pareti, tentando inutilmente di arrampicarsi verso finestre protette da griglie. Furono spinti dai cavalli nella stradina tortuosa, dove la vicinanza e la mancanza di spazio fecero urtare i corpi degli animali con spalle e teste umane. Fidandosi abbastanza dei suoi uomini per lasciar concludere loro l'operazione, Elio non li seguì. Quando balzò giù dalla sella e si tolse l'elmo, il freddo della mattina fu come un fiotto d'acqua sulla pelle. Le porte della prigione sbadigliarono appena, aprendosi abbastanza da mostrare solo un volto livido, un funzionario del carcere, di certo. L'edificio sembrava inviolato. Pallidi d'angoscia, quelli che avevano difeso l'entrata uscirono. Seguirono le guardie carcerarie, armate di mazze e spadini. Le guardie, ridotte a mal partito, presero subito a smantellare la barricata, e il silenzio si distese su ogni cosa, come sempre dopo una battaglia o una rivolta. Sembrava che i suoni stessi fossero stati calpestati fino alla quiete. A terra restarono diversi corpi, la maggior parte dei quali si muoveva ancora, anche se come al solito qualche morto c'era stato.
Un fossato profondo al capo più largo della piazza, pieno a metà d'acqua piovana o filtrata dal terreno, segnalava un cantiere. Per scavarlo erano state rimosse le pietre del lastricato; i sassi, i mattoni e gli altri proiettili improvvisati venivano da lì. Elio vide dei pali di legno, come quelli usati nel tentativo di sfondare le porte della prigione, accatastati su un lato; a pochi passi di distanza giacevano grandi colonne e capitelli decorati in attesa di essere sistemati in un edificio ancora da erigere. Le Terme Palatine, aveva sentito dire Elio da Decimo la sera prima, la riproduzione in scala di quelle grandi, dall'altra parte della città. Erano le Vecchie Terme, in quel momento, a interessarlo di più. Si avviò in quella direzione, un piccolo edificio di mattoni e un particolare calcare color crema, che Elio riconobbe come il poroso travertino, dall'aspetto del formaggio di montagna, ampiamente impiegato da Adriano nella sua immensa villa fuori Roma. Un tempo, lesse sulla targa all'ingresso, erano state terme private, lasciate in eredità alla capitale da un cittadino una generazione prima, insieme al denaro per la loro manutenzione. All'interno non c'era molta luce; le finestre si aprivano come fessure, le volte molto basse - erano di cemento e stucco; non avevano decorazioni, fatta eccezione per il disegno a onde che spesso si vedeva sui sarcofaghi. Su una porta di servizio qualcuno aveva intagliato, chissà quando, una frase in greco, un verso che Elio conosceva ma che non riuscì a identificare subito. AHIMÈ, AHI! VEDI, VEDI! TIENI, TIENI LONTANA DAL TORO LA GIOVENCA. Stanza per stanza, odore di sudore, teli bagnati, calzature. Le latrine si aprivano a sinistra, una fila semicircolare di buche, su una delle quali una guardia malconcia si inginocchiava a testa china. Frigidario, tepidario, una svolta acuta a sinistra su una stanza stretta e lunga prima del calidario; oltre, la sala chiusa, fatta per sudare. Minucio Marcello, aveva detto Duco, era stato ucciso nella piscina d'acqua calda. Nelle sei ore passate dal delitto, la piscina - un'ampia vasca interrata di marmo - era stata svuotata dopo la rimozione della vittima. Pozze rosate sul pavimento riflettevano la penombra nel punto in cui il corpo insanguinato era stato adagiato prima di essere portato fuori. L'acqua era ovunque; sulla parete più vicina alla vasca, l'impronta insanguinata di una mano sinistra probabilmente indicava solo che uno di quelli che avevano recuperato il cadavere ci si era appoggiato.
Forse era significativo, o forse no, che nessuno avesse cercato rifugio dai disordini nelle Vecchie Terme. Elio uscì dal calidario, attraversò il piccolo edificio in tutte le direzioni, e dagli inservienti terrorizzati (dei nordafricani accalcatisi in cantina) si fece mostrare i corridoi di servizio larghi tre spanne nelle mura principali e la scala d'accesso alla stanza della fornace, sotto il livello della strada. Quel che stava cercando ce l'aveva in mente solo in maniera abbozzata e confusa, come il verso scarabocchiato del cui autore non riusciva a ricordare il nome. Quando uscì, la morsa del freddo gli tolse il fiato. Le sue guardie, cavalcando a coppie, stavano ritornando con calma verso la piazza dalla stradina tortuosa, e andavano raggruppandosi. Subito Elio si informò delle loro condizioni di salute, e apprese che oltre al soldato colpito dal mattone non c'erano feriti. Nel punto in cui la stradina sfociava nella piazza, Curio Decimo se ne stava ritto in sella, accompagnato da due ufficiali: gemelli, tanto simili che fianco a fianco davano la strana impressione di vederci doppio. «Un'azione coi fiocchi», disse Decimo con un tono che sembrava l'opposto di un complimento. «I bastardi sono corsi fino a casa mia, cercando di scappare attraverso la porta cittadina. Ho ordinato ai miei servi di rimandarli a bastonate verso i vostri uomini, e le guardie stanno eseguendo gli arresti.» Elio accarezzò il collo del suo cavallo. Dalla sella estrasse il suo copricapo tondo e lo indossò. Decimo fece un gesto educato con la mano destra rivolta verso l'alto. «Comandante, consentitemi di presentarvi Gaio Destro e Lucio Sinistro, colonnelli della Guardia Palatina; signori, il comandante Elio Sparziano, che fino a poco tempo fa era a capo di un reggimento a cavallo di mille uomini a Nicomedia. Non erano gli loviani Palatini?» Elio rispose al saluto dei gemelli. «Lo sono ancora. Sto svolgendo un incarico speciale di natura temporanea, come storico.» Le mani giunte sulla coscia destra, con le redini morbide nella loro presa, Decimo valutò i segni della rivolta nella piazza. «La brava gente di Mediolanum a volte mi lascia sgomento. Ma potete star certi che i bottegai che hanno subito danni durante i disordini saranno più severi nel richiedere le pene di chiunque di noi.» Parlò rivolto a tutti, ma guardando Elio. «Questa era solo una scusa per creare tumulto, sapete. Si dice che con i tempi che corrono la tentazione di compiere saccheggi è irresistibile. Io dico che si tratta anche di bestialità. A ogni modo, da Palazzo hanno ordinato di
raddoppiare la guardia intorno al deposito del grano, e le porte della città stasera chiuderanno un'ora prima.» «Cos'è successo, esattamente?» Decimo sollevò le sopracciglia. «Esattamente, dubito che qualcuno lo sappia.» «Ci devono essere stati dei provocatori, nella folla.» «Perché? Un'interruzione dei processi contro i cristiani è abbastanza per far infuriare qualunque comunità benpensante.» Elio diede un'occhiata all'ufficiale che era appena intervenuto con quelle parole, il gemello di nome Destro. Era più o meno il contrario di quello che Decimo aveva detto poc'anzi, ma non faceva poi molta differenza che la rivolta fosse un segno di un malcontento più generalizzato o una brutale protesta contro la perdita di un magistrato giudicante. «Nella mia esperienza», replicò, «dopo un tumulto tutti dichiarano che è stato qualcun altro a iniziare; poi dicono di essere stati trascinati da qualcuno che conoscevano, e così via, fino ad arrivare a quelli trascinati da persone che non conosce nessuno.» «Credevo che prestaste i vostri servizi al palazzo di Nico- media, non per le strade.» Destro era giovane, pallido, scuro di capelli, e vista da vicino la mascella era una linea dritta appena più lunga di quella del fratello, a cui era altrimenti identico. Non parlava per spregio, almeno non consapevolmente. Le città erano piene di ufficiali sulla soglia della maturità che avevano prestato servizio solo nei posti di comando, e difficilmente erano in grado di concepire una vita sul campo. «In Egitto ho combattuto nelle strade i ribelli di Domi- zio Domiziano e Achilleo. Torna utile, in caso di disordini.» Destro inspirò tanto profondamente che le narici quasi gli si chiusero. Curio Decimo fece un mezzo sorriso. «Allora, comandante: c'erano dei rivoltosi nascosti nelle Terme?» Per la prima volta, quella mattina, Elio avvertì una punta di irritazione. «No. Solo una delle vostre guardie che vomitava l'anima.» «Peccato. A cosa stiamo arrivando. E difficile trovare personale capace nelle forze dell'ordine quanto a casa propria.» Decimo si diede un colpetto sulla coscia con le redini, un suono sordo nel silenzio della piazza. Per il resto della giornata, nelle librerie come negli archivi, ogni volta che un interlocutore gli dava l'impressione di voler discutere degli eventi, Elio indagava su
Minucio Marcello. In quel momento era solo un gradino sopra la più oziosa curiosità, un modo di occupare il tempo a Mediolanum mentre aspettava una risposta da Sua Divinità. Stando a tutto quel che gli venne riferito, il giudice sembrava molto più felice da morto che da vivo. Lo sguardo malinconico, sua caratteristica principale nei ricordi di chi l'aveva conosciuto, si era disteso nella morte, e se proprio non arrivava a sorridere, almeno sembrava più sereno. In qualche modo sembrava che la morte lo avesse liberato da un'angoscia logorante, un fatto che avrebbe dovuto consolare i suoi concittadini. Nondimeno, al di là dei disordini alla prigione, la rabbia in città era enorme, e forse sincera. Marcello era impegnato a processare molti chierici cristiani di Mediolanum e delle aree circostanti, accusati di rifiutarsi di abiurare i loro libri sacri e di radunarsi malgrado ogni divieto. Siccome era un uomo paziente e minuzioso, i processi che presiedeva tendevano a durare molto a lungo. Le sue sentenze erano capolavori di attenzione giuridica ai dettagli, impossibili da impugnare in appello; quel che sorprendeva, semmai, era la loro mitezza. Nei due anni dall'articolato editto contro i cristiani che Galerio aveva voluto e Massimiano era stato più che lieto di applicare nella sua porzione d'Impero, le sentenze capitali emesse da Minucio Marcello erano rare. Anche gli intellettuali più liberali si trovavano d'accordo sul fatto che quelli che alla fine erano stati condannati a morte se l'erano proprio cercata, se non altro per aver messo alla prova fino a quel punto la pazienza della corte. Non solo: era opinione comune che la vita privata di Marcello fosse impeccabile quanto la sua condotta pubblica. Non beveva, non mangiava carne, aveva letto le Epistole morali di Seneca innumerevoli volte, e con profitto. Era stato sposato con la stessa donna per oltre cinquant'anni, i suoi figli e nipoti erano ben sistemati e occupavano posti importanti in tutta l'Italia Annonaria. Esemplare fino al ridicolo, non aveva mai avuto amanti o concubine, non doveva denaro né ne aveva dato a prestito, possedeva un'onesta ricchezza, proporzionata al suo lungo servizio. In quella città plasmata dai soldi, lui non era in vendita, e le sue virtù - ammirate da tutti - lo rendevano scomodo per molti. Così anche «l'ultimo uomo che qualcuno dovrebbe voler uccidere» poteva essere allo stesso tempo una perdita gravissima e una bella liberazione.
Questi commenti generalmente positivi furono tutto ciò che Elio sentì da quelli con cui parlò fino a sera tarda, e addirittura dopo il suo ritorno in caserma. Naturalmente non
aveva
ancora
chiesto
a
Decimo,
che
poteva
riservarsi
un'opinione
completamente diversa riguardo alla vittima, se non altro per cantare fuori del coro. Vero, i militari consideravano Marcello un po' - o un po' troppo - indulgente nelle sue sentenze contro i cristiani, alcuni dei quali erano ex soldati. «Ma non si può pretendere tutto da un giudice», aveva specificato Duco a Elio. «Per giunta, l'estate scorsa ha deciso a favore dell'esercito in una disputa riguardo certe aggiunte al muro maestro della caserma.» Elio si lasciò scorrere addosso la frase prima di rendersi conto che in essa si nascondeva un dettaglio piccolo e interessante. «Volete dire una disputa riguardante il contratto di costruzione?» chiese. «Sì, precisamente. Abbiamo ordinato i mattoni da Modicia, a nord-est di qui, e quando sono arrivati, viaggiando prima per via d'acqua e poi su ruota, una buona parte di essi era scheggiata o del tutto rotta.» Il britanno, seduto nel suo piccolo ufficio con i piedi appoggiati su uno sgabello, si girava i pollici lentigginosi. «Il titolare del mattonificio ha cercato di affermare che non aveva alcun controllo sul modo in cui veniva condotto il trasporto; in effetti questo era a carico dei militari. Il nostro comandante ha controbattuto che, se i mattoni sono fatti come si deve, non si sbriciolano solo perché vengono caricati su una chiatta o su un carro. Minucio Marcello ha ascoltato entrambe le parti senza commenti, con la sua solita calma, poi ha ordinato a una parte terza del mestiere - della fabbricazione dei mattoni, intendo di scegliere a caso uno dei pezzi della partita e farne una perizia. Be', l'esperto non ci ha messo molto a dichiarare che c'erano dei vizi nel processo di cottura - una temperatura troppo bassa o troppo alta nelle fornaci, ora non ricordo - con il risultato che il prodotto finale era friabile e strutturalmente debole. Non c'è stata discussione, dopo: il fabbricante di mattoni ha dovuto restituire l'anticipo che l'esercito gli aveva versato, e non solo: è stato anche multato, e ha dovuto risarcirci il ritardo dei lavori di costruzione.» Elio si appoggiò al montante della porta. Aveva una contusione, probabilmente dovuta a una pietra scagliata a tutta forza, sulla parte esterna del ginocchio destro, e sotto le braghe la gamba cominciava a far male e a intorpidirsi. «Chi era il convenuto al processo?»
«Oh, un tale di nome Fulgenzio, di Modicia. Si potrebbe pensare che sia andato fallito, dopo che è venuta fuori la storia dei mattoni difettosi. Altri clienti che avevano comprato del materiale da lui in passato gli hanno fatto causa. Ma lui ha pagato ed è tornato al lavoro come se nulla fosse accaduto, vendendo le eccedenze di mattoni difettosi nelle aree rurali, dove di furbi avvocati di città e giudici non ce ne sono.» «E l'esperto di fabbricazione dei mattoni che ha nominato Marcello: chi era?» «Non era di queste parti. Un tipo che si trovava a Mediolanum per lavoro, ma senza legami con i produttori locali. Per questo il giudice l'ha scelto.» «Non era di Augusta Treverorum, per caso?» Duco rimise i piedi sul pavimento. Si strinse nelle spalle, mostrando i palmi delle mani. «Non ve lo saprei dire. L'ufficiale del genio però potrebbe avere quest'informazione.» L'esperto di mattoni nominato da Minucio Marcello non era Lupo, ma saltò fuori che era uno dei concorrenti di Lupo per la grossa commessa dell'ampliamento del tribunale di Treviri, l'uomo di Mogontiacum che, stando al vecchio burocrate nudo che Elio aveva incontrato lassù, «aveva perso per un soffio». La decisione della causa fra l'esercito e Fulgenzio aveva scatenato un certo malcontento fra i fabbricanti di mattoni locali, al punto che il collega del Nord era stato malmenato appena uscito dal tribunale. L'avevano fatto uscire da Mediolanum sotto scorta armata, e «per quanto ne sappiamo», aveva detto l'ufficiale del genio a Elio, «ha proseguito senza ulteriori incidenti il suo viaggio di ritorno in Belgica Prima, e questo è tutto. Quanto a Marcello, ha ricevuto alcune spiacevoli minacce anonime, che sono state attribuite ai produttori di mattoni». Le coincidenze di persone e luoghi non erano insolite nelle zone prossime alle frontiere, specialmente quando si parlava di fornitori dell'esercito. Gli stessi marchi si ritrovavano a grandi distanze, e in Africa si poteva indossare un'armatura fatta a Mantova, o pantaloni cuciti a Segovia. Eppure Elio trovò intrigante il dettaglio che la produzione di mattoni fosse rientrata fra le ultime sentenze del giudice come nell'omicidio di Lupo. Non aveva senso, non ancora. Il legame era nebbioso e sottile, malgrado fosse qualcosa di tanto solido da costituirne, sembrava, le fondamenta. Un legame} No, una finestra che rivelava una vista possibile; uno sfondo agli eventi che comprendeva la fabbricazione di mattoni, o gli uomini che se ne occupavano, oppure ancora le loro relazioni con lo Stato: non avrebbe saputo dire. Ma la causa fra
l'esercito e Fulgenzio era vecchia di tre mesi. L'assassinio di Marcello doveva avere un altro movente. Con gli occhi sulla documentazione, l'ufficiale del genio concluse di non riuscire a cogliere una logica apparente nell'omicidio, visto che non aveva tolto di mezzo né un uomo troppo severo, né un funzionario civile corrotto. «Ho già sentito di giudici ammazzati, comandante, ma erano vere carogne, o ladri, o entrambe le cose.»
3 dicembre, domenica Al mattino la pioggia venne e se ne andò, e il vento si fece freddo. Dalla balconata della torre la vista delle montagne era impedita dalle nuvole basse. I piccioni si accalcavano in gruppi bigi al riparo dei molti spioventi sulle Terme Erculee a sud del campo. A Elio il ginocchio faceva più male della notte precedente, che aveva passato in buona parte sveglio; zoppicò di nuovo dentro per rileggere la bozza di una seconda lettera - senza contare il messaggio sul rifiuto di Massimiano di riceverlo - che aveva buttato giù per Sua Divinità. ...Sono memore, domine, dell' incoraggiamento che mi avete dato quando la mia permanenza a fini di ricerca storica ad Antinopoli si è tramutata contro la mia volontà in un'indagine penale. A pochi mesi di distanza, come riferisco nell'allegato, un'altra morte violenta ha guastato i miei viaggi. Forse sto facendo la vicenda più grande di quanto non sia, ma la personalità e il rango della vittima - un giudice di un 'eminente famiglia di Mediolanum - legittimano il mio ardire nel ritenere di avere il permesso di Vostra Divinità di scoprire chi possano essere gli attori di questo detestabile gesto. Per il resto, avendo iniziato il lavoro sulla biografia di Settimio Severo, sono incerto sull'approccio che dovrei utilizzare riguardo la vita e le gesta del famoso principe. Le fonti e i documenti che ho raccolto fino a ora (Erodiano compreso) lo indicano come un monarca che durante il suo regno ha dovuto continuamente difendersi da nemici dentro e fuori l'Impero. Eppure il modo in cui si è vendicato di coloro i quali l'hanno combattuto, dopo averli sconfitti, va oltre ciò che il buon senso romano definirebbe esemplare. In effetti in molte occasioni non solo ha fatto uccidere il nemico, smembrandone il corpo per esporlo in pubblico, ma ne ha fatto sterminare anche la famiglia. Così si è comportato con la classe senatoriale (ho contato almeno
trentacinque senatori fra le sue vittime), così con i cittadini di insediamenti e province che non reputava abbastanza fedeli, anche se non necessariamente sostenitori dei suoi avversari. Non dimentico le parole pronunciate dal divino Traiano e dal divino Adriano, vostri predecessori nella sacra porpora, sulla clemenza nei confronti di chi venga accusato senza prove certe. E mentre come romani mettiamo in primo piano la sicurezza e la prosperità dello Stato, allo stesso tempo, mi sembra, dovremmo chiederci a che livello siamo pronti ad abbassarci prima di comportarci come il nemico che aborriamo. Severo aveva due figli (Geta e Bassiano, chiamato Caracal- la, il suo primogenito), che erano veri mostri, specie quest'ultimo. Giulia Soemia, una donna della sua famiglia rinomata per bellezza e intelligenza, ha dato alla luce un folle come Eliogabalo. Eppure lo stesso Severo ha abbellito l'Urbe, ricostruito le città di frontiera e gli insediamenti distrutti dai barbari negli anni precedenti, ed è stato un eccellente comandante dell'esercito. Come devo trattare la storia della sua vita? Mentre con il divino Adriano mi sono trovato al cospetto del genio e della magnificenza di un uomo dal carattere volubile, incline a occasionali atti di crudeltà, qui mi trovo di fronte a un principe le cui mani sono insanguinate mille volte di più. Tutte luci e niente ombre non creano tratti distintivi, come ci insegnano gli scultori. Al buio, nessun ritratto è visibile. Rimetto dunque il giudizio alla saggezza di Vostra Divinità, poiché desidero dire la verità senza turbare le menti dei lettori, o insozzare il nome di Cesare che i Nostri Signori Massimiano e Galeno portano con tanto onore. Alla mensa ufficiali, Duco e il geniere stavano parlando della morte di Marcello, e di come altrove, in città, i rivoltosi fossero riusciti a svuotare i forni e addirittura ad assaltare case private. Dopo uno scambio di saluti, Elio disse con noncuranza: «A proposito di case, dove viveva il giudice Marcello?» Duco alzò lo sguardo dalla ciotola del suo pastone di grano bollito. «Non è vicino ai luoghi che sono stati attaccati. Perché?» «Pensavo di andare a fare le condoglianze alla vedova.» Non era del tutto vero, ma il britanno non aveva ragione di sospettare altri motivi. Rimandò la domanda al geniere, che disse: «In effetti non sarebbe male se qualcuno con rango militare ci andasse. La tenuta di famiglia è a mezz'ora da Porta Ticinese, al
secondo crocevia dopo l'arena pubblica. Il nome della signora è Lucia Catula. Potreste presentarle per me le condoglianze del corpo genieri Maximia- ni]unioresì» «Lo farò.» Duco piantò il cucchiaio nella pappa spessa e lo osservò piegarsi lentamente di lato senza toccare il bordo della ciotola. «Anche le mie, se non vi disturba. Portarsi un paio di guardie non sarebbe un eccesso di prudenza, credo.» Di nuovo, Elio disse «lo farò», perché era d'accordo, non si trattava di una cautela esagerata. «Perdonate la confusione, Elio Sparziano. Stavamo facendo eseguire dei lavori in giardino.» Lùcia Catula si scusò come se quella fosse una visita di cortesia e dovesse giustificarsi per l'andirivieni di muratori che Elio aveva incrociato avvicinandosi alla porta. Si scusò a sua volta per essersi presentato senza preavviso, e appena esauriti i convenevoli del caso seguì la signora in un salotti- no ben illuminato. Non portava gioielli. I capelli bianchi erano ben pettinati, non c'era una ciocca fuori posto. Il fatto che si fosse applicata del belletto sulle guance in fretta e furia non era un segno di vanità, questo Elio lo comprendeva bene; al contrario, doveva nascondere agli occhi del visitatore il pallore della sua pena, inappropriata al suo rango. Accettò graziosamente l'offerta di partecipazione al cordoglio, e ascoltò le parole dell'ospite (che era l'inviato di Cesare, triste e preoccupato per il delitto) senza interromperlo. Quando parlò, la sua voce risuonò come acqua che corra in un condotto piccolo e liscio, in leggera pendenza. Sgorgava senza affettazione, perché di certo era stanca. Elio si chiese se avesse pianto, se la sua condizione e la dignità le avessero consentito tanto. «Voi capite, comandante Sparziano, che se un giudice e la sua famiglia dovessero prendere sul serio le minacce contro le loro persone, smetterebbero di vivere. Minucio Marcello aveva ricevuto centinaia di minacce in tanti anni di lavoro. Non è arrivato al punto del mio defunto suocero, anche lui giudice, che durante il regno di Filippo ha raccolto le intimidazioni ricevute in un libretto che ha distribuito agli amici con il titolo La ricompensa dell'onestà. Marcello si è limitato a ignorare quei messaggi.» «Ha mai espresso timori per la sua vita?» «Mai. Forse perché non aveva paura di morire.»
«L'opinione prevalente è che si tratti di un complotto cristiano, considerati i processi di cui si stava occupando vostro marito.» Le labbra di Catula si incresparono, lungi dal formare un vero sorriso, indicando un educato disaccordo nel sentire qualcosa di stupido. «Se è così, presto saranno delusi dal suo successore. No, non credo siano stati i cristiani. Ne avevamo alcuni, nella servitù, quando ero ragazza, e a meno che da allora non abbiano cambiato il loro modo di fare, non ricorrerebbero all'omicidio.» Elio tenne per sé il fatto di aver assistito spesso a comportamenti violenti fra i cristiani, in Egitto e altrove. Cosa, allora? Avrebbe voluto sollecitarla con decisione, ma sarebbe stato l'approccio sbagliato. La soavità dell'eloquio di Ca- tula lo costringeva a mantenere la voce a un livello più basso del solito, e quasi sottovoce si limitò a dire: «Come figlia, moglie e suocera di eminenti giudici, signora, probabilmente avrete elaborato una vostra teoria». «Mi dispiace, non l'ho fatto.» Dietro di lei, oltre a una finestra aperta malgrado la giornata fredda, i muratori scaricavano pile di mattoni su supporti di legno piatto, per qualche indefinito ampliamento delle mura basse, delle are e fontane già erette in giardino. Se la sua resistenza a elaborare gli fosse apparsa come un rifiuto ostinato, Elio avrebbe trovato un modo di insistere, spinto dal sospetto che lei sapesse, e non volesse parlare. Ma la serena assenza di curiosità di Catula sembrava genuina, come se non avesse nemmeno iniziato a desiderare di sapere, abbandonando le preoccupazioni terrene alla stregua di chi lasci cadere un fazzoletto a terra. «Ho sentito dire che i mattonifici locali sono stati scontenti della sentenza del giudice riguardo alla caserma dell'esercito, tre mesi fa.» «Ah, quelli.» Catula abbassò per un istante gli occhi. Erano azzurro chiaro, una peculiarità che Elio aveva notato negli uomini e nelle donne di quella parte d'Italia. «Sì, costituiscono una consorteria ristretta, ma lo stesso si può dire di altri gruppi.» La cura che Elio mise nel dissimulare la sua attenzione per il trasporto dei mattoni lì fuori, le impedì di intuire una connessione fra le parole di lui e quel che vedeva. Senza minimamente cambiare il tono di voce, la donna aggiunse: «Mio marito era inviso ai circoli conservatori, ad alcuni militari, addirittura a certi suoi colleghi. Ma il disprezzo spesso è accompagnato da un'ammirazione invidiosa».
«Perdonatemi: se qualcuno è entrato alle Vecchie Terme per accoltellare a morte vostro marito, nell'atto io vedo più invidia che ammirazione.» «Probabilmente è stato un folle, da compatire nel suo delirio.» Che ci fosse o meno qualcuno da compatire, il nuovo giudice era d'altro avviso. Gli schiavi e i liberti del personale delle Vecchie Terme furono imprigionati senza processo e silenziosamente messi a morte fuori da Porta Ticinese, dove si trovava il luogo d'esecuzione prescelto. Elio lo scoprì per caso, di ritorno in città dalla tenuta di Marcello. Al crocevia più vicino all'arena sorpassò un gruppo di guardie, e appena l'ufficiale al comando riconobbe l'uomo della Guardia che aveva sedato la rivolta, attaccò a conversare. Sì, sì, dunque, era stato uno di quegli ordini improvvisi che arrivano una volta ogni tanto. Oramai era stato eseguito. «Vedete il tempio di Nemesi, comandante? C'è una serie di luoghi di sepoltura, laggiù.» La guardia indicò un punto vago in direzione di paludi e boschi. «E questo renderà le cose più semplici a quelli che devono occuparsi dei corpi.» L'accusa - Elio non dovette nemmeno chiederlo - era la negligenza dimostrata nel garantire la sicurezza, con fin troppo chiari riferimenti a una possibile collusione con gli assassini di Marcello. «Sarebbe a dire i cristiani.» «I giustiziati sono stati interrogati, prima?» «A che scopo, comandante? Erano cristiani d'Africa, i peggiori della specie: violenti, fanatici. Eh, i giorni di Minucio Marcello sono finiti: siamo tornati a tagliare le teste prima e a fare le domande poi. Possa riposare in pace, ma io preferisco così.» Vedendo con la coda dell'occhio la tasca della sella aperta, l'uomo scoppiò in una risata Soffocata. «Vi portate dietro come portafortuna uno dei proiettili che ci hanno tirato i rivoltosi, vedo.» In realtà era un mattone del giardino di Marcello, raccolto senza dare nell'occhio andandosene, all'insaputa dei muratori. Elio lasciò cadere nel vuoto il commento, chiudendo energicamente la falda della borsa. Se esisteva qualcosa di più efficiente dei legati imperiali, e addirittura di più veloce, era il sistema con cui padroni e servitori comunicavano gli uni con gli altri. Elio era tornato in caserma da meno di un'ora quando un uomo inviato da Lùcia Catula chiese il permesso di parlargli. Duco, che aveva ottenuto una giornata libera e scalpitava per andare a trovare una ragazza dall'altra parte della città, offrì al collega
il suo ufficio come luogo d'incontro riservato. «Non mi importa se mettete in disordine le mie carte», scherzò. «Non possono essere più in disordine di così.» Il britanno se ne andò, e al suo posto un attendente fece entrare un tipo dai capelli grigi e ben vestito, con tutta l'aria di chi si è sollevato dalla condizione di schiavo in virtù della propria intelligenza. Il suo saluto a Elio fu cerimonioso ma non servile, e nell'istante in cui iniziò a parlare fu chiaro che era abitudine della casa di Marcello conversare a sussurri. «Protasio è il mio nome, comandante Sparziano. Ero il liberto del giudice Marcello, e lui mi ha onorato della sua fiducia. Lasciate che vi dica subito che con la sua morte la città di Mediolanum ha perso una delle sue luci più brillanti. Il nostro orizzonte pubblico e privato è oscurato da questa dipartita. La signora Catula mi ha invitato a essere aperto, con voi, tanto più che sono stato fra i primi a vedere il padrone morto. Citando Virgilio, consentitemi di dire che rivivere la scena per me sarebbe infandum renovare dolorem, rinnovare un indicibile dolore. Ma se voi siete l'inviato di Cesare, e un uomo ragionevole, sono a vostra disposizione.» Seduto dietro la scrivania del collega, dallo sguardo di Protasio Elio dedusse che quella distesa di tavole, penne e carte non rispondeva all'idea di un luogo ben gestito. Automaticamente cominciò a mettere un po' d'ordine sul ripiano di legno. «Ringrazio la signora per avervi mandato. Mi aveva fatto menzione di voi. Dovete aver saputo che ho espresso interesse per la scena del delitto.» Protasio fece uno di quei respiri tanto profondi da diventare tremuli senza volerlo, ciò che resta dopo il pianto. «È una di quelle viste che restano impresse, signore. Come inizio di mattinata, prima del lavoro, il giudice si trovava sempre alle Terme. No, mai quelle nuove - e nemmeno quelle della sua villa. Sempre i Balnea Vetra, sì, le Terme piccine, ai Prati Gallici, non lontano dalla Posterula Mariana. Aveva l'abitudine di star seduto nella piscina d'acqua calda perché soffriva di crampi alle gambe, e il calore gli scioglieva i muscoli. Come avete visto, la stanza in questione è interna, piuttosto riservata, perché nella vasca entrano comodamente non più di due persone per volta, e quasi sempre il giudice se ne stava immerso da solo. Le Vecchie Terme non sono mai state considerate alla moda, e dopo l'apertura dello stabilimento erculeo sono quasi cadute in disuso. Ogni tanto, specialmente durante le festività, le frequentano avvocati e funzionari di Stato, perché ci trovano un po' di pace e tranquillità. Signore, posso chiedervi quanti anni avete?»
Elio, che fino a quel momento aveva ascoltato con attenzione, facendo solo finta di sistemare il disordine di Duco, si trovò a fissare il suo interlocutore, in piedi davanti a lui con le mani giunte. «Ho trent'anni. Perché?» L'asprezza della risposta non turbò Protasio. «Perdonatemi, comandante. Avete il volto di un uomo giovane, ma i capelli bianchi: alla mia età, scioccamente, si anela ad avere interlocutori segnati dalla vita quanto se stessi.» Era una strana giustificazione, ma sembrava quella vera. «Non vi volete sedere?» «Preferirei di no, signore. Schiena debole. A ogni modo, tornando al mio sfortunato padrone: avendo la coltellata perforato una vena del collo, vuoi il calore che ha accelerato il suo battito cardiaco, vuoi la precisione del colpo, deve essersi dissanguato molto in fretta. Si è dibattuto? Ha cercato di uscire dalla vasca? Ha gridato in cerca d'aiuto? No, no e no. Il suo valletto e io l'abbiamo trovato seduto composto, in quel che sembrava divenuto un calderone di sangue, la scena di una tragedia greca; ma che dico, di uno dei truculenti drammi di Seneca. Il giovane valletto ha perso i sensi, e io stesso mi sono sentito violentemente male. Sapete, non amo i giochi al Circo perché non tollero lo spargimento di sangue. Chiudo gli occhi quando vengono sacrificati degli animali. Devio pesantemente i miei percorsi se so che in questa o quella piazza sono esposti dei criminali giustiziati. Terribile, ecco cosa è stato.» «Ho notato che la volta a botte della stanza è tanto bassa che il vapore ci si condensa e ritorna sul pavimento. Considerata l'ora mattiniera, lo spazio intorno alla vasca era già bagnato?» «Oh, sì. Accendono la fornace con grande anticipo. Ho cercato delle impronte, comandante, ma non se ne discerneva alcuna. Uscendo dalla stanza, per l'assassino o gli assassini sarebbe stato sufficiente asciugarsi i piedi bagnati - chi porta calzature dentro le Terme? - con un telo a uno dei due ingressi, e avrebbero potuto andarsene senza lasciare tracce. Potrebbe essere stato un cliente entrato dalla parte della strada, malgrado all'alba anche la piscina d'acqua fredda, la sola a essere frequentata in maniera più o meno regolare da funzionari civili e ufficiali della guardia carceraria, di solito sia vuota. I servi addetti alle fornaci erano tutti al lavoro, all'ora dell'omicidio, come quelli del guardaroba, i massaggiatori, e così via. Ma alcuni di loro vanno e vengono per fare commissioni.»
Elio non vide perché informare Protasio delle esecuzioni compiute fuori da Porta Ticinese. L'intera città l'avrebbe saputo molto presto. «C'è una possibilità che Marcello conoscesse il suo assassino e l'abbia lasciato avvicinare senza sospetti?» «Non ne ho idea. Il giudice conosceva tante persone! Spesso si addormentava appena sedutosi nella vasca calda. Era un po' duro d'orecchi, e aveva il sonno pesante. Chiunque avesse voluto, avrebbe potuto sorprenderlo.» Protasio sembrò leggere la domanda nella mente di Elio. La faccia lunga, con gli occhi distanti e pazienti che gli davano un'aria da cavallo, si mosse da lato a lato in uno sconsolato diniego. «Marcello desiderava che nessuno di noi, a casa, alzasse la voce per via della sua infermità. Leggeva le labbra, ma questo non gli sarebbe stato d'aiuto se avesse avuto gli occhi chiusi. Di fatto, gli inservienti delle Terme mi hanno detto di averlo lasciato addormentato, seduto in acqua come al solito. Ho sentito quanto è stato detto delle responsabilità cristiane nel delitto, comandante, ma non ci credo.» Bene, pensò Elio, finalmente stiamo andando da qualche parte. Questi liberti istruiti vagano come trottole, e devono smettere di vorticare prima che se ne possano vedere i colori. «Vi sarei grato se spiegaste perché, Protasio. La signora Catula ha accennato senza recriminare che voi stesso siete stato cristiano, prima di fare i conti con le autorità. Non siete uno di quelli che le gerarchie cristiane chiamano lapsi?» «'Coloro che sono fuoriusciti', sì. Certo, spero che la circostanza non si ritorca contro di me durante questa conversazione, comandante. Avevo le mie buone ragioni per abiurare, e che ci crediate o no, non hanno nulla a che vedere con il timore di un processo penale.» «Qual è stato il motivo, allora?» Una accanto all'altra, Elio allineò le numerose penne per lunghezza, creando un flauto di Pan sulla scrivania. «Chiedo solo per curiosità.» È il liberto di una famiglia potente, e lo sa. Guarda quanto non mostra preoccupazione nel parlare di cose del genere, in epoca di persecuzioni religiose. Se penso alla paura che aveva l'apostata Onofrio, a Roma, nella mia precedente inchiesta! «A meno che non vi siano familiari i testi cristiani, comandante, non potete capire. Diciamo che ha avuto a che fare con la discrepanza che percepivo fra gli insegnamenti della viva voce di Cristo e il modo in cui il clero gestisce le cose di questi tempi.» Protasio arrossì; fu una reazione stranamente suggestiva in un uomo
così controllato, e riuscì a compiacere Elio. «Ho letto i classici, non sono arrivato al cristianesimo impreparato come i giovinetti e le vecchie vedove.» «Non conosco i testi cristiani, ma fatemi un corso accelerato sull'organizzazione della setta. Per esempio, la parola che avete usato, 'clero', deriva dal greco.» «Sì, da kleros.» «Significa 'ciò che tocca a sorte', non è così?» «Precisamente, e, per estensione, l'assegnazione di una porzione: la porzione di Dio. Costoro sono la porzione di Dio in Terra.» Elio fece un ottagono sghembo con le penne di Duco. «Significa che le gerarchie cristiane sono tirate a sorte?» «Nella misura in cui la nomina a un ufficio è una sorta di lotteria, sì. La presenza del fedele - la volontà popolare, se preferite - è necessaria al processo d'investitura.» Il sangue abbandonò le guance di Protasio, lentamente, come liquido che evapori da una stoffa. «È una sorta di struttura monarchica, con sede a Roma, come senza dubbio sapete, anche se molti vescovi di altre città imperiali detengono un grande potere. Marcellino ha ricoperto per ultimo la carica di Papa, vale a dire il capo di tutti i vescovi, fino alla sua esecuzione, il 24 ottobre. Da Roma mi è giunta voce che durante il suo processo ha mostrato qualche esitazione e una certa paura, ma essendosi pentito si è prontamente accusato e ha affrontato la punizione capitale. Malgrado ciò, a Roma, e anche a Mediolanum, alcuni cristiani lo considerano un traditor - un apostata -, circostanza che mette in discussione le sue decisioni passate e addirittura le sue ordinazioni sacre. Da questo potrebbe scaturire una grande confusione, poiché i cristiani sono tutto tranne che uniti.» Il 24 ottobre. Elio scompigliò le penne con un gesto lento della mano. Lo stesso giorno in cui aveva concluso la sua indagine in Egitto, e il centosettantaquattresimo anniversario della morte del Fanciullo nel Nilo. L'immagine giovanile del preferito del divino Adriano, la malinconia, gli si presentarono come uno specchio improbabile della sua diversa angoscia, e solitudine. «Ora, la gerarchia locale.» Protasio stava prendendo sul serio l'indottrinamento. «Comprende vescovi, presbiteri, diaconi e subdiaconi. I vescovi e i presbiteri sono sacerdoti, ma non così i diaconi, che sono al servizio dei vescovi; i lettori, le diaconesse, le vedove e le vergini non sono ordinati come tali, ma svolgono compiti ausiliari per la Chiesa. Poi ci sono gli altri ruoli, coloro che impongono le mani,
esorcisti, e così via. Gli esponenti del clero ordinati con l'imposizione delle mani ricevono lo Spirito, o Grazia. Ma i diaconi in certi luoghi sono più potenti dei vescovi.» Elio si accorse che si stava lasciando andare dal cigolio che la sua sedia emise quando si raddrizzò. «Avete mai conosciuto una signora di Laumellum - forse una diaconessa - di nome Annia Cincia, ma che ora viene chiamata Casta, che viaggia con un uomo apparentemente capace di operare miracoli?» «No, signore.» Il liberto sollevò un sopracciglio, guardando verso l'alto come per frugarsi la memoria. «Ma ho letto di lei in una lettera episcopale quando ero ancora preda di quella superstizione. Il vescovo Materno, capo della congregazione di questa città, ha usato la storia della conversione della nobildonna come esempio.» «Esempio di cosa?» «Di come ciò che tocca a sorte - il kleros - possa estendersi anche ai più insignificanti fra noi.» «I più insignificanti? Annia Cincia è di sangue nobile... insomma, l'ho sentito dire da certi suoi parenti.» «Intendevo dire che è una donna.» Con le penne Elio formò il disegno di una stella dai raggi disuguali. «E cosa mi dite di lui, 'colui che risveglia il fuoco'?» «Ah, la Voce! Si dice che sia pio, celibe, severo. Lei lo segue come una servitrice, occupandosi delle donne quando è necessario.» Protasio si portò un dito alle labbra no, al naso - per indicare la necessità di stare all'erta, o di tenere un segreto, o entrambe le cose. «Credo che il clero invidi il suo successo di predicatore, e ancor di più i miracoli che compie. Se quel che si racconta di lui è vero, è dai tempi degli apostoli che non si vedono miracoli del genere. Non so cosa pensare al riguardo, non avendolo visto all'opera. Ma i pettegolezzi che le malelingue hanno messo in giro sulla virtù di Casta sono negati dal fatto stesso che le gerarchie cristiane non consentono a uomini o donne immorali di diffondere il Verbo. Per esempio, se Casta fosse stata vedova di due, anziché di un marito, non sarebbe stata accettata dalla Chiesa.» Oziosamente, Elio considerò che Casta era un nome molto più grazioso di Annia Cincia. Si chiese che età avesse, e perché Decimo avesse detto: «Era molto bella, un tempo». Magari lo era ancora, molto bella. Il pensiero lo distrasse dalle questioni contingenti; visibilmente, forse, perché Protasio si risolse a concludere la lezione.
«In sintesi, comandante, io non ho tradito nessuno, non ho consegnato nessuno. Ho cambiato idea. Il mio buon padrone, che non mi ha mai imputato alcun abbaglio religioso prima, non mi ha nemmeno accusato di codardia dopo. Leggeva i testi cristiani per comprendere come giudicare coloro che vivevano seguendoli, e mi ha ricordato che prima del suo soggiorno a Roma l'apostolo Pietro in persona è stato un lapsus, non una, ma ben tre volte.» «Davvero?» Il riferimento all'Urbe interruppe le fantasticherie di Elio. «A Roma la mia guida mi ha mostrato un punto nel Circo di Gaio dove si dice che questo Pietro sia stato giustiziato durante il regno di Nerone. Ma la mia guida - un egizio - non era degna di fiducia, dunque non saprei.» Per prudenza o disinteresse nella topografia di Roma, Protasio non fece alcun commento. «Ora, ditemi se un uomo di tale saggezza e generosità avrebbe potuto essere assassinato dai cristiani del luogo. Minucio Marcello era quanto di meglio potesse capitare loro.» Chiacchierarono ancora un po', nello scroscio della pioggia autunnale che filtrava dalla finestra come il suono di una cascata lontana, con lo sgocciolio delle grondaie in primo piano. Poi, quando era già stato congedato, giunto alla porta il liberto si voltò con uno scatto di tale vivacità da sorprendere Elio. «Se fossi nei panni delle autorità, comandante, busserei alla porta di Fulgenzio Pennato, fabbricante di mattoni a Modicia. Ho visto la lettera minatoria che lui o qualcuno dei suoi ha mandato al mio padrone, e nella mia mente non c'è dubbio, è colpevole, o comunque coinvolto.» Goffamente, Elio si lasciò cadere in grembo una delle penne che stava risistemando dopo averci giocherellato. «La signora Catula mi ha detto che il giudice non aveva mostrato a nessuno quella lettera, e che l'aveva immediatamente distrutta.» «Ebbene, lo disse a me, di distruggerla subito. Ma 'subito' non significa che non vi abbia posato gli occhi quando l'ho data alle fiamme. L'ho letta come un'intimidazione.» «Ne siete certo?» «Il mio greco è ottimo, comandante. E il foglio veniva da Modicia.» «Ma davvero. E come fate a sostenerlo?» «Come segretario, conoscere bene il materiale da scrittura è un mio compito. Ora, c'è una fabbrica di papiro a Modicia. Importano la materia prima dall'Egitto e la
lavorano in loco. Gli stessi operai sono egizi, anche se il titolare è del luogo. La carta che producono si riconosce dalla trama. Forse sapete che quando dal gambo del papiro viene staccata la corteccia, le fibre interne - tecnicamente si chiamano philurae - devono essere separate con delicatezza le une dalle altre. Poi le strisce ottenute vengono intrecciate con un motivo a croce, più volte. Per lavare la carta si usa l'acqua di calce, e infine la si pressa finché è pronta. Ma... a Modicia non usano le fibre vegetali più interne, come dovrebbero. Quelle le vendono a un'altra cartiera di Ticinum, per la produzione della charta regia, la 'carta reale' per i documenti di Stato. A Modicia usano le fibre di seconda scelta; non proprio gli strati esterni da cui si ricava la carta da pacco, ma i secondi in ordine di qualità. Il risultato viene pomposamente detto charta niliaca modiciana, la 'carta del Nilo di Modicia'. La minaccia che ha ricevuto il padrone era vergata su un pezzo di quella carta. E a Modicia chi altri se non Pennato gli serbava del rancore?» «Ma è stato mesi fa.» «Quanto poco conoscete gli italici, comandante. Il piatto della vendetta lo servono molto freddo.» Elio si alzò dalla sedia. «Bene, allora! Il fabbricante di mattoni deve essere indagato, e, se del caso, denunciato. La signora Catula...» Bastò l'espressione di Protasio a interromperlo, visto che il liberto non avrebbe mai osato farlo con le parole. «Comandante», sussurrò dopo qualche istante di reciproco silenzio, «il fatto è che non ci sono prove. La parola di un liberto il cui padrone è morto non regge davanti a un tribunale contro quella di un imprenditore con tanti amici pronti a sostenerlo. Lavorare con un giudice mi ha reso fin troppo consapevole dei limiti delle illazioni come quella che vi ho esposto. La padrona comunque non è interessata all'inchiesta, e scommetto che il successore del giudice Marcello ha già deciso chi è colpevole.»
4 4 dicembre, lunedì Un'immensa nuvola occupava il cielo a nord, levandosi dai monti. La strada per Modicia usciva dalla città da un nuovo varco, Porta Nuova, detta «Aurea» solo perché la porta successiva veniva chiamata «Argentea» per via della località cui conduceva, Argentiolum. Lastricata per le prime sei miglia, la strada era più bassa della campagna tutta intorno e correva piuttosto dritta in direzione nord-est, fra gelsi e altre piante decidue, alcune delle quali avevano ancora qualche foglia; specialmente i platani, con i loro tronchi chiazzati di bianco dove la corteccia era caduta rivelando i fusti lisci. Le strisce di corteccia rammentarono a Elio le parole di Protasio sulla fabbricazione della carta, un'eco di Egitto lontanissimo dal Nilo. Da ragazzo, sulla frontiera, usava corteccia di platano sottile come un foglio per scrivere e fare barchette; eppure i suoi ricordi d'infanzia non erano lieti. Durante la cena con Decimo aveva scherzato dicendo che suo padre gli avrebbe «spezzato le braccia» pur di farlo studiare con i migliori insegnanti. Aveva taciuto che - in un contesto differente, ma proprio in quegli anni suo padre un braccio gliel'aveva spezzato davvero, punendolo per una piccola disobbedienza. Le cornacchie si agitavano in un arbusto cresciuto sopra un monumento funerario lungo la strada. Era un albero di fico, provato dal clima nordico, che si era insinuato fra i gradini e ora sbarrava la porta del monumento. Se la Voce del fuoco avesse mai deciso di richiamare alla vita l'ospite di quella tomba, si sarebbe dovuto tener pronto ad abbattere la pianta per farlo uscire. Sorridendo all'idea, Elio ammise che al di là delle tombe trascurate, i segni d'abbandono della campagna, che aveva notato in ogni altro luogo dell'Impero, qui non erano troppo evidenti. Eppure - dall'alto della sella riusciva a vederle anche dalla strada infossata - le fattorie sembravano avere scopi e utilizzo ridotti, con le finestre dei piani superiori sbarrate e la maggior parte dei fondi lasciati a maggese in questa stagione di semina. La manutenzione dei fossati d'irrigazione sembrava meno attenta di quella dei canali in città; le erbacce soffocavano le chiuse di legno, bloccandole in posizione aperta: se le prime piogge
invernali si fossero abbattute come di solito sulle pianure settentrionali, avrebbe potuto essere impossibile controllare lo straripamento.
Appunti di Elio Sparziano. Si arriva a Modicia passando per un posto di nome Sextum, dopo un viaggio di circa quattordici miglia. Il luogo - a metà fra un villaggio e una piccola città - è edificato sulle rive del piccolo fiume navigabile Frigidus. Il fiume non sembra freddo come suggerisce il suo nome, ha una quantità d'acqua limitata e scorre verso sud. Dall'altra parte di un ponte con qualche pretesa c'è la fabbrica di mattoni di Fulgenzio Pennato. Un altro mattonificio, un miglio prima di arrivare in città, appartiene ad altro titolare (di lui riferirò oltre). Quanto alla cartiera, non è situata propriamente a Modicia, ma sulla riva del fiume, un po' più a nord della comunità, dove si trovano mulini e un'isoletta a forma di pesce. Alle sue spalle si estendono ininterrotti i boschi, anche se mi dicono che nelle radure, qui e là, ci sono fattorie e piccoli insediamenti, abitati da gente che ancora parla un dialetto celtico e «non è troppo sveglia» (parole di Protasio, non mie). Nonostante le scorrerie dell'attacco alamanno, anni fa, l'area sembra prospera. Un locale che mi ha dato le indicazioni per arrivare al mattonificio di Pennato si è vantato di guadagnarsi da vivere cercando il denaro e l'argento seppellito da chi è morto durante l'invasione. Dunque la perdita di alcuni fa la ricchezza d'altri, ma chi può sapere quanti di questi piccoli tesori non vengono reclamati! Il presuntuoso Fulgenzio Pennato, che ho incontrato al suo mattonificio, ha la faccia di un rospo, e l'incarnato è quasi altrettanto bitorzoluto e grigio-verde. L'immagine sputata di uno sfruttatore di Nicomedia, che ai vecchi tempi il mio collega Tralles e io avevamo sonoramente riempito di botte per la sua brutta abitudine di picchiare le ragazze. Ogni volta che incontriamo qualcuno che assomiglia a chi abbiamo trovato sgradevole, dobbiamo stare particolarmente attenti a non trasferire su di lui l'antipatia che proviamo per colui che ci ricorda. Sarei riuscito a mantenermi sereno, questa volta, se Pennato, appena sono entrato nel suo ufficio, non avesse iniziato a mugugnare che gli ricordavo un colonnello germanico che aveva tentato di scroccargli denaro.
Quella boria, oltre al modo in cui si è mostrato infastidito dalla mia visita, mi ha fatto sospettare immediatamente che abbia protettori molto altolocati, ben al di sopra dei suoi colleghi dell'associazione dei costruttori di mattoni. Come è emerso, è proprio così. Replicato che grazie all'ampiezza che il mandato di Sua Divinità mi garantisce, sono autorizzato a investigare i casi penali che ritengo presentino peculiarità, ho posto le domande che mi sono parse appropriate. Di solito la sola menzione del mio incarico colpisce come un fulmine in un fienile. Pennato, da rospo quale è, è rimasto perfettamente freddo. Tanto per cominciare ha negato di essere a conoscenza della morte violenta del giudice, cosa solo marginalmente possibile, essendo Modicia a meno di due ore da Mediolanum. Ma ammettiamo pure che io abbia viaggiato più veloce delle cattive notizie. Uomo d'affari fino alle ossa, il fabbricante di mattoni ha evitato la mia domanda successiva informandomi che, a meno che io non avessi perso il senno, non mi sarei spinto a suggerire che avesse qualcosa a che fare con la fine di Marcello. Ha aggiunto un elemento logico, comunque: che se avesse avuto in mente di eliminare il giudice, non gli avrebbe mandato prima un messaggio intimidatorio, cosa che sfacciatamente confessa di aver fatto. Che ritenga o meno che Marcello abbia conservato il messaggio (io non ho fatto nulla per dissuaderlo da quell'opinione), Pennato sostiene di essersi accontentato di sfogare la sua rabbia verso Marcello attraverso la parola scritta. Quanto a dove si trovava il giorno dell'omicidio del giudice, dice che la metà di Modicia è pronta a testimoniare in suo favore. Credo che sia davvero così; lo sarebbe, probabilmente, anche se i suoi concittadini sapessero per certo che quel giorno è andato a bagnarsi alle Vecchie Terme di Mediolanum. «E l'altra metà di Modicia?» ho chiesto, per sentirmi rispondere da Pennato che l'altra metà «non conta». Questo tipo di altezzosità si fa sempre più frequente via via che in tutto l'Impero cresce il dislivello fra le persone abbienti o meno. E pensare che l'editto sui prezzi massimi è stato redatto proprio per limitare l'accumulo di ricchezze nelle mani di pochi! Quando ho fatto notare che un sicario può essere spedito a eseguire il suo sporco lavoro da qualunque luogo, Pennato si è sentito apertamente provocato. E stato allora che mi ha informato di essere amico del prefetto della città (non è una
buona notizia per me, se è vero, visto che il prefetto è notoriamente vicino a Palazzo) e ha aggiunto che se non avessi misurato le mie parole, si sarebbe sincerato che una vibrante protesta raggiungesse la scrivania di Sua Divinità. Non è questo a turbarmi tanto, essendo ragionevolmente sicuro di poter spiegare le mie ragioni a Nostro Signore Diocleziano; ma le autorità locali potrebbero rendere molto disagevole il mio soggiorno nell'Italia Annonaria. Non pago, Pennato ha minacciato - deve essere il suo svago preferito quando non produce mattoni difettosi - di mettermi alle calcagna degli investigatori, per «scoprire come mai un soldato mostri interesse in faccende estranee alla sua competenza». Piuttosto, ha proseguito, avrei dovuto dare un'occhiata alla politica di Minucio Marcello, e a quelli che vi si erano opposti già molto tempo prima che iniziassero i processi contro i cristiani. «Credete di essere tanto furbo, quando non siete stato qui nemmeno il tempo per sapere chi annusa la soglia di chi dopo che qualcun altro l'ha marcata col suo piscio.» Non so per quale motivo questi mercanti debbano essere tanto rozzi. Ma io posso essere triviale quanto il migliore di loro, così ho risposto che ho un'inusitata capacità di capire dalla posizione del segno l'altezza dell'uomo che ha pisciato, e che niente che abbia visto finora mi ha preoccupato. Stavo fingendo, naturalmente, non avendo idea di cosa volesse dire Pennato. La soglia di quale porta? Quale politica, chi è coinvolto? Lucia Catula dice che i circoli conservatori disprezzavano Marcello. Se solo sapessi cosa significa «circoli conservatori» di questi tempi. Pennato non è la persona a cui chiedere. Nostro Signore Diocleziano ha riportato la pace e l'ordine nell'Impero, e la politica di qualunque tipo è fuori luogo. «È estremamente pericoloso essere in politica di questi tempi», è stato l'ultimo commento con cui il fabbricante di mattoni mi ha deliziato, aggiungendo un'arguzia sulla relativa altezza del mio segno sulla soglia della porta. Non è tipo da lasciarsi irretire dalle parole, essendo uno di quelli che amano il confronto e traggono una gratificazione fisica dalla discussione. Conosco solo un'altra persona che gode altrettanto del contrasto verbale, ed è la mia vecchia fiamma di Nicomedia, Elena. Qualunque cosa Pennato intendesse riferendosi alla «politica» del giudice, dunque, non sono stato capace di tirargliela fuori. Ho lasciato il mattonificio dopo un incontro inconcludente, con l'impressione che sia un mercante maligno e un prepotente, ma non un assassino.
Sull'isola boscosa più a nord, all'ansa del Frigidus a Modicia, dove mi sono fermato per dare un'occhiata alla cartiera, i fullones di una fabbrica di stoffe dei paraggi stavano dando il colore alla lana in grandi vasche. La tintura era color robbia, e anche da lontano il liquido nelle vasche sembrava sangue. Ho capito cosa intendeva Protasio quando ha detto che il giudice Marcello, morto nella piscina insanguinata, gli ricordava la scena di una tragedia di Seneca. La nuvola torreggiante non si era praticamente spostata da quando avevo riguadagnato la strada. Anche dopo aver passato il ponte di Modicia, lasciandomi alle spalle i letti d'argilla che le danno il nome, i vapori erano ancora immobili sopra le montagne, come se fossero i picchi stessi a produrre umidità, e questa si raccogliesse in nubi sopra di loro. Non conosco abbastanza bene le correnti ventose di questa regione per sapere che tempo annunciano i monti incappucciati di vapore, ma c'è sempre avvisaglia di un cambiamento in una nuvola di quelle dimensioni. Qualcosa mi dice di non chiedere direttamente a Curio Decimo della politica di Mediolanum, di stampo conservatore o altro. In realtà non vi è alcuna necessità di tirare in ballo la questione in loco - meno di tutti con gli ufficiali della caserma di cavalleria, che parlano fin troppo. Tornando indietro mi sono ricordato di aver promesso a Decimo di mostrargli l'antico elmo che ho comprato ad Arae Flaviae. Ha, naturalmente, un avo fra coloro che sono morti nella foresta di Teutoburgo sotto l'inefficace comando di Quintilio Varo. Porterò con me anche l'umile mattone del giardino di Marcello, tanto per vedere come reagisce. Quella sera la «stanza degli avi» sembrò calda, venendo dalla strada, perché si era alzata una tramontana gelida. In realtà - stavolta Elio se ne rese conto, meno abbacinato dall'eleganza dell'ambiente - la muffa macchiava la base delle pareti, intorno al pavimento, dove malgrado tutto l'umidità filtrava. Uno spiffero dalla finestra ne agitava i tendaggi, come se dita invisibili cercassero di pizzicare i lucignoli accesi nei lumi. L'elmo che aveva posato sul tavolo dello studio era di quelli usati per le parate e gli esercizi di cavalleria, gli hippikà gymnasia tanto amati negli anni lontani. Decimo, che fino a quel momento l'aveva dileggiato dicendo che probabilmente si trattava di un falso e che Elio si era fatto raggirare da un venditore senza scrupoli, cambiò espressione quando lo prese in mano.
«Era caduto in una palude», spiegò Elio, «per questo si è conservato così bene. Quell'uomo l'ha trovato cercando di salvare il suo cane dalle sabbie mobili. C'è riuscito quando l'animale era praticamente sprofondato; nella melma ha sentito qualcosa d'altro, si è sporto per prenderlo ed eccolo qui. Mi ha detto che a volte, quando estraggono la torba dalle zone più asciutte, trovano corpi perfettamente preservati. Carne, abiti, armi: viene mantenuto tutto intatto da una sorta di processo di conciatura.» «E questa è tutta l'eternità in cui ciascuno di noi può sperare.» Durante le tappe del suo viaggio verso sud, Elio aveva pulito e lucidato di persona l'elmo. Ora la struttura incernierata - un casco modellato per il cranio, con un rilievo che evocava una cresta di penne e tritoni contrapposti sulla visiera, connesso a un'elaborata maschera - brillava del pallore dell'acciaio e dell'argento, con le fessure per gli occhi che sembravano baluginare fra le mani di Decimo. Lo voltò da una parte e dall'altra fra le dita scure, osservandolo alla luce della lampada più vicina. «C'è il nome del proprietario punzonato all'interno», continuò Elio. «Il venditore mi ha detto che nella stessa palude ha trovato il braccio di un ufficiale ancora ornato di bracciali e anelli; sperava di vendere tutto insieme, ma all'aria fresca l'arto si è decomposto in fretta.» «Quanto volete per questo?» «Non è in vendita.» Decimo tenne l'elmo dalla sua parte della scrivania, in una presa gelosa. «Voi non contate avi fra i romani caduti a Teutoburgo.» «No, ma per quanto ne so potrei contarne fra gli ausiliari, dei quali sono state massacrate sei coorti e tre unità di cavalleria. I parenti di mia madre erano di quelle parti.» «Quello punzonato all'interno non è un nome germanico o pannone.» «Vonatorix non è nemmeno un nome romano.» «Quanto volete, comandante?» «Non è in vendita.» La maschera, modellata in maniera da coprire l'intero volto, rappresentava un giovane con basette ricce e un'espressione di serenità assorta, come stesse pensando a qualcosa di piacevole e sicuro; mento stretto e bocca cesellata, l'ideale virile ai tempi di Augusto. Con un broncio che gli seppelliva il labbro inferiore sotto
quello superiore, Decimo osservò Elio riawolgere l'elmo in un drappo di pelle morbida e riporlo in una borsa di tela. «Spero che cambierete idea, Sparziano.» Non trattandosi di una cena formale, rimasero nello studio a chiacchierare. Prima venne la storia dell'eroico avo di Decimo, capo di stato maggiore sotto Varo, e come Varo suicida di fronte al disastro. Il suo ritratto era sullo scaffale insieme a quello degli altri membri della famiglia, che fissavano dai loro cupi volti di marmo nero con occhi di foglia d'argento. Da questo la conversazione si indirizzò verso la morte di Marcello, la rivolta, e - da parte di Elio - la coincidenza dei fabbricanti di mattoni che in una maniera o nell'altra spuntavano negli omicidi di Treviri e Mediolanum. Interrogato sulla sua opinione, Decimo sorrise lentamente. Giunse le mani, palmo contro palmo, e se ne picchiettò i lati contro le labbra, come per concedersi il tempo di pensare. Sempre sorridendo, lasciò trascorrere un istante sospeso. L'anello con il sigillo alla sinistra, antico e massiccio, formava una luminosa chiazza dorata sulla carnagione scura. Era l'unico ornamento che portava quella sera. Paragonato al carico di decorazioni indossate dalla Guardia di Palazzo, sembrava indice di una modestia schiva, ma Elio la pensava altrimenti. Questi aristocratici portano l'oro antico come i loro nomi e titoli. I metalli preziosi e i famosi nomi ereditati si consumano nei secoli che passano, ma non per questo perdono lustro. In quanti sono rimasti a poter davvero affermare il loro primato come romani? Interi clan sono già scomparsi centinaia di anni or sono, altre famiglie hanno pochi figli o nessuno, e-a meno che non vengano fermati-i cristiani porteranno sempre più aristocratici al celibato e alla verginità. I miei sette nipoti hanno migliori probabilità di riprodursi, e rischiano di generare una miriade di soldati imperiali e funzionari civili, nessuno dei quali romano. Decimo abbassò le mani dalle labbra, ma non smise di sorridere. Disse: «Deve essere vero che quando un oggetto è troppo grande per stare in una stanza, la gente rischia di non vederlo. Mi sorprendete, Sparziano, voi non appartenete a questa banda di borghesi bottegai. Quelli non capirebbero nulla, naturalmente, se non intravedessero del denaro al termine di una qualunque impresa, crimine incluso. Ma voi! Lasciate perdere la faccenda dei mattoni. È palese, l'unica parte ad avere un valido motivo per uccidere Marcello è la frangia estremista dei cristiani. Perché? Perché anche un giudice clemente è un giudice, e formula giudizi. Una triste realtà degna di riflessione, quanto spesso i persecutori più severi siano rispettati per la loro
inflessibilità e ne escano illesi, mentre i personaggi più indulgenti e dal cuore tenero finiscono per pagare.» «Mi sembrerebbe un po' come tagliarsi un piede per far dispetto alla gamba, da parte dei cristiani.» «Be', non aspettatevi che mi unisca al corteo di coloro che celebrano le lodi del caro estinto: non mi piaceva. Non mi interessa chi l'ha ammazzato.» L'ultima affermazione di Decimo, non richiesta, fu pronunciata senza malanimo. La freddezza del suo tono - come ogni cosa in lui - aveva una punta d'artificio, qualcosa che si sforzava di far passare da superficiale distacco, ma che era altro. Infatti, pur implicando il contrario, quel gelo dava a Elio l'impressione che un uomo come Decimo avrebbe potuto mantenere la sua compostezza anche se gliene fosse importato tanto da uccidere. «Sinceramente non so perché insistiate con la faccenda dei mattoni», aggiunse l'ospite dopo aver servito il vino, con una selezione di carni affumicate di Parma e Mutina, «dove i maiali li conoscono». Reggendo una piccola fetta di prosciutto su una forchetta per servire, ne prese un morso ancor più piccolo. «Dire che i mattoni in qualche modo formano una connessione fra l'omicidio di quel vostro Lupo a Treviri e la fine del nostro stimato giudice è come cercare di mettere insieme una spalla di montone e una coscia di fagiano solo perché entrambi gli animali si macellano per mangiarli. Se desiderate penetrare il mondo non così segreto della fabbricazione di mattoni, perché non vi fermate alla mia tenuta a nord di Sextum? Lassù posseggo dei letti d'argilla e delle fornaci; e, se posso dirlo, le figlinae di Manio Curio Decimo (con una foglia d'edera e un ramo di palma nel marchio) hanno costruito la metà di quei depositi di grano i cui operai sono tanto stupidi da cadere nei sili.» Sì, Elio lo sapeva. C'era passato davanti a cavallo la mattina, e scambiandolo per il mattonificio di Pennato aveva fatto domande agli operai, scoprendo il nome del vero proprietario. Decimo stava per dire altro, ma chiuse di scatto la bocca. La sua attenzione, che fino a quel momento si era spostata solo da Elio alle vivande, migrò verso l'angolo del tavolo dello studio, verso il mattone che il suo ospite aveva estratto dalla borsa di tela e posato lì. L'irritazione creò una smorfia sulle labbra serrate strette. «Be', cosa significa questo, e dove l'avete preso?»
«Nel giardino del giudice Marcello.» Decimo sollevò gelido gli occhi dal mattone. «E, se posso chiederlo, cosa stavate facendo lì?» «Porgevo i miei rispetti alla vedova.» «Quella vecchia bisbetica. Perché?» «Non è una cosa che generalmente si fa, fra gente civile?» «Sì, ma voi non avete mai nemmeno conosciuto Marcello, e il suo omicidio difficilmente è affar vostro.» Decimo spazzò l'aria con un gesto annoiato di congedo. «Raccogliete mattoni, per quel che me ne importa, vedete cosa vi aiutano a scoprire. Prima che vi parta la fantasia solo perché ho venduto del materiale per costruzione al giudice, dovreste sapere anche che è stato il mio mattonificio a vincere l'appalto per le scuderie quando Pennato l'ha perso.» «Lo sapevo già. E anche l'appalto per i lavori vicino alle Vecchie Terme. Insieme alle pietre e al fango, sono i vostri mattoni che ci hanno scagliato contro durante il tumulto.» «Ecco. Siamo tornati al vostro essere stupido o un po' troppo intelligente, Sparziano. In voi c'è qualcosa che va oltre la curiosità dello storico.» Elio fissò il mattone. Non era certo del perché se lo fosse portato dietro, e ancor meno del perché l'avesse mostrato, come fosse una qualche sorta di prova. Notando il marchio di Decimo sul materiale da costruzione vicino alle Vecchie Terme, e poi nel giardino di Lùcia Catula, si era limitato a prenderne mentalmente nota. Comunque ne aveva raccolto un campione alla villa. Solo più tardi aveva appreso che era Decimo il proprietario del mattonificio a sud di Modicia. Pennato aveva approfondito il suo interesse, parlando con sdegno dei circoli conservatori e del loro disprezzo per il giudice Marcello. Ma difficilmente bastava, solo perché il suo ospite non aveva pianto il giudice e aveva descritto il defunto marito di Casta come un tradizionalista, un uomo che gli andava a genio. Ora Elio era ancor più confuso. Poteva solo sperare che l'aristocratico prendesse la sua mossa come un'oziosa voglia di conversare del crimine. In effetti, Decimo disse: «Credo siate stupido», con l'aria rasserenata di chi ha risolto un problema di poca importanza. «Mettete via il vostro mattone, non vi porterà da nessuna parte. Per quanto concerne i cristiani, bisogna colpirli forte, dico io! Se il
mandante dell'omicidio è fra loro, giustizia sarà fatta; e se non lo è, si impedirà che quell'abominevole setta compia aberrazioni più avanti. Credetemi, se la cosa pubblica», conversando, Elio aveva notato che si riferiva al governo in quei termini: res publica, «avesse affermato fin dal principio la sua legittima autorità su quei farabutti, non saremmo arrivati al punto in cui nelle nostre città i cristiani imperversano quasi indisturbati. In tre secoli si sono diffusi come olio in una padella bollente: se muovi il manico, l'olio si sparge fino a rivestirne il fondo intero. Grazie al cielo ci sono ancora i contadini, che nelle campagne conservano le credenze tradizionali. È triste che dobbiamo dipendere dagli zotici come campioni di sanità mentale, la bona mens che ha fatto dei romani quel che sono.» Decimo versò altro vino nelle delicate coppe d'argento, rare almeno quanto l'elmo di Teutoburgo. «Sapevate che fra le montagne a nord-est di qui i chierici cristiani e gli altri intrusi di quella specie sono prede lecite, e nel momento in cui mostrano la loro faccina triste rischiano di essere linciati? Ne ho visti con i miei occhi un paio che penzolavano dagli alberi, mentre andavo a controllare una mia proprietà a nord di Leucum.» Elio ripose il mattone. Il gesto ora gli sembrava stupido, era sorpreso che Decimo fosse stato messo di buon umore dal suo passo falso. Non era, in fondo, l'ufficiale che Massimiano usava per scoprire tutto sui suoi visitatori? Si era fatto irretire con facilità. Non c'era modo di rimediare, quindi tanto valeva fare lo stupido fino in fondo. «Non sappiamo cosa deciderà il giudice», disse, «ma non è forse vero che una sentenza affrettata potrebbe confondere le acque? Se Nostro Signore Massimiano avesse desiderato azioni legali più severe contro i cristiani, avrebbe potuto destituire Mi- nucio Marcello in qualunque momento. E se il solo risultato dell'eliminazione di un giudice è una recrudescenza persecutoria, non riesco a vedere cosa i cristiani abbiano da guadagnare da questo omicidio.» Decimo fece di nuovo il gesto di liquidare le parole, avanti e indietro. «Cui prodest?... il grande interrogativo. Come se un assassino avesse sempre in mente il suo tornaconto. Anche nella venale Mediolanum, qualcuno potrebbe mettere valori più alti prima del suo vantaggio personale. Forse è stata proprio la bonomia di Marcello a provocarne la caduta. Sapete che hanno una letteratura apocalittica, questi cristiani, in cui si propugna la fine del mondo? Potrebbero voler accelerare la loro stessa distruzione.»
«Dunque qualcuno avrebbe assassinato Marcello per una causa superiore: ma quale? Dicono che non era coinvolto in politica, che se la scrollava di dosso come un'anatra fa con l'acqua. D'altra parte, questa persecuzione religiosa è decisamente politica, lo sapete meglio di me. Roma non è mai stata intollerante nei confronti dei culti stranieri, e il cristianesimo non rappresenta la prima setta antisociale che entra nei nostri confini. Ma è dichiaratamente la più perniciosa e tenace. Io dico che chiunque abbia ucciso il giudice per una 'causa superiore', l'ha fatto per un movente politico a noi ignoto.» «Può darsi. Chiunque sia stato, ha reso un favore a noi tutti.» C'era una crudeltà gratuita nelle parole di Decimo, una sprezzante nota di perfidia che fece dimenticare a Elio i suoi buoni propositi e il suo tatto. L'ultima domanda che aveva in animo di fare - quella che aveva specificamente deciso di non porre - gli sfuggì. «Sì. I circoli conservatori cosa pensano della morte di Marcello?» Decimo serrò di nuovo le labbra. Non una contrazione della bocca, stavolta, ma la sua scomparsa in un taglio. Sulle guance scavate si aprirono fossette improbabili. Sembrò seccato, o che fingesse di esserlo, come se la domanda fosse impertinente o dovesse sembrare così. Quando parlò di nuovo, le sue parole uscirono piatte: «Non so a che ora vi alziate, Sparziano, ma io sono molto mattiniero. Vi auguro la buona notte, e mi ritiro».
6 dicembre, mercoledì Sulla questione della responsabilità cristiana, superficialmente ovvia, Elio decise di sospendere il giudizio, ma a tre giorni dall'omicidio l'intera città sembrava pensarla come Curio Decimo. Di fatto qualunque indagine seria fu immediatamente viziata dalla circostanza che il giudice ausiliario di Marcello, felice di vedersi all'improvviso spianata la strada alla promozione, aveva sentito l'esigenza di mostrarsi tempestivo e feroce nei processi. Tutti i cristiani in attesa di giudizio nelle prigioni della città in quei tre giorni furono processati in massa, e tutti furono condannati a morte.
Non era un evento inaudito, ma contrastando con la mitezza dei processi precedenti, la sentenza colpì Mediolanum in maniera strana, appagata. I librai dissero che era una buona cosa, pur difettando di eleganza procedurale; gli ufficiali alla caserma della cavalleria brindarono alla salute del nuovo giudice, ma sottovoce osservarono che erano ritornati i tempi delle mazzette da pagare. Gli archivisti tirarono su col naso, presero dagli scaffali questo o quel documento e conclusero che i processi affrettati creavano meno scartoffie. Decimo esultò al limite del buon gusto per un uomo del suo stile e della sua misura. Quanto a Marcello, il suo corpo fu cremato neM'ustri- num di famiglia, e le ceneri portate al monumento funerario dei Minuci sulla strada per Ticinum. Lucia Catula si occupò di ogni dettaglio, dall'indizione di giochi gladiatori in memoria del marito alla distribuzione di offerte alle giovani orfane. Liberò gli schiavi di casa, come da volontà di Marcello, mandò biglietti di ringraziamento a chi aveva preso parte al funerale e amabilmente consolò gli amici del giudice. Il mezzogiorno di lunedì fu trovata morta, per sua stessa mano. Elio apprese la notizia il mercoledì mattina, da un ufficiale subalterno che si recò in caserma e salì a bussare alla sua stanza nella torre. Era una delle Guardie di Palazzo addette alle sale interne della residenza di Massimiano e si presentò come Ulpio Domnino, amico di Decimo. «Il ciambellano Aristofane richiede la vostra presenza a corte, comandante.» «A che ora?» Già in piedi e pronto a uscire dal suo piccolo alloggio, Elio era con il messaggero sul balcone di legno, intento ad allacciarsi la cintura. Era irragionevolmente presto, specialmente per i parametri burocratici, quindi la risposta fu una sorpresa. «All'istante. Vi aspetterò di sotto e vi accompagnerò di persona.» Elio osservò Domnino scendere rapidamente le scale. La convocazione lo lasciò perplesso, una reazione appena al di sotto del senso d'allarme. Inspirò lentamente e lentamente espirò, assimilando la vista come per collocarsi in modo certo nel tempo e nello spazio. Quella notte la tramontana aveva portato tempo terso e una forte gelata. Nei terreni della caserma gli stallieri spaccavano il velo di ghiaccio che si era formato sugli abbeveratoi, e le truppe che si radunavano per l'appello emettevano ritmicamente nuvolette di fiato condensato. I tetti sui passaggi coperti non avrebbero iniziato a evaporare prima che il sole si fosse fatto più forte, ma i gatti del campo
seguivano già con le code ritte i soldati che portavano fuori i rifiuti delle cucine; anche a loro era riservata una piccola mangiatoia, ed Elio li guardò graffiare e azzuffarsi per stabilire l'ordine d'accesso al cibo. Di sotto, con voce monocorde Domnino disse: «Mi sono preso la libertà di ritirare la vostra posta», e gli porse due lettere arrotolate e sigillate. «Il vostro cavallo è già pronto alle porte del campo.» Con la coda dell'occhio Elio vide Duco spuntare sulla soglia del locale dove si ricevevano i corrieri e fare un gesto osceno dietro la schiena del messaggero. Poteva trattarsi di antipatia personale, ma più probabilmente significava che era stato obbligato a consegnare le missive, la cui distribuzione quel giorno era a suo carico. Non era un buon segno. L'eunuco Aristofane, greco come il drammaturgo di cui portava il nome, ma (stando a Decimo) sprovvisto del suo umorismo, era il secondo uomo più potente di Mediolanum, qualunque fosse l'autorità delle altre gerarchie. Era improbabile che una tardiva decisione di Massimiano di ricevere l'inviato di Sua Divinità richiedesse una simile fretta, quindi doveva trattarsi di qualcosa proveniente dall'ufficio del ciambellano, dove tutti gli intrighi per tradizione prosperano. Domnino, che portava la barba, ma limitava a quel dettaglio il suo essere fuori moda, gli fece strada verso la porta del campo in un'uniforme appesantita da un bordo ricamato color porpora. Il fatto che non indossasse il vistoso mantello a frange del suo rango poteva significare che anche lui era stato tirato giù dal letto per svolgere il suo incarico. Appena furono in sella Elio infilò le lettere nella bisaccia, e malgrado una venisse da Thermuthis e l'altra da ben Matthias, non volle dare a Domnino la soddisfazione di vederlo awentarcisi sopra. Non fece domande mentre cavalcavano per le strade fredde e semideserte. Fu quando attraversarono il viale che conduceva a Porta Ticinese - quello che le guardie di Elio avevano divorato per caricare i manifestanti - che venne fuori la morte di Lùcia Catula. Prendendo la via più lunga per evitare il quartiere ebraico, Domnino fece un cenno vago in direzione della tenuta dei Minuci e riferì che qualche ora prima la vecchia signora si era tagliata i polsi sul letto matrimoniale, indossando i gioielli del giorno delle nozze. «'Mai in cinquantadue anni siamo stati lontani per più di tre giorni', ha lasciato scritto. 'Non staremo lontani più di tre giorni nemmeno ora. ' Nessuno fa più cose così. Un gesto di pura classe. Ho pianto, quando ho saputo.» «Notizia triste per i Minuci.»
«Sì, specialmente visto che quello smidollato del maritino non meritava un simile sacrificio.» Se anche Domnino si fosse aspettato altre domande, Elio evitò di porle. Archiviò il commento fra le cose che valeva la pena di ricordare, e con i talloni toccò i fianchi del cavallo per spostarsi un paio di passi avanti al collega. «Gentile Elio Sparziano», gli aveva detto Lùcia Catula il martedì, congedandolo, «per quanto mi concerne, la pena della morte comminata dopo una morte è solo altra morte, anche quando è rivolta al colpevole. Non parteciperò ad alcun processo che riguardi la nostra tragedia. Ci siamo conosciuti appena, voi e io, ma mi commuove che - pur non avendone l'obbligo, non avendo conosciuto di persona il mio amato Marcello - abbiate portato i vostri rispetti e mostriate inquietudine per un assassinio apparentemente immotivato. Mi avete chiesto se ho una teoria personale sull'omicidio, e ho risposto di no. Continuo a dire di no, ma a volte cerchiamo lontano qualcosa che è molto vicino...» Poi aveva silenziosamente chiuso la porta, senza dare spiegazioni. Uno schiocco della lingua e Domnino riguadagnò la distanza, superò il cavallo di Elio e lo guardò girando la testa. Il volto irsuto, pallido per il freddo dell'ora mattutina, era incorniciato dai bastioni esterni del Palazzo come da una cascata di mattoni concatenati. «Il ciambellano desidera che ci si rivolga a lui con il titolo di 'Eminenza'. Fate in modo di ricordarvene.» «E di rango equestre, non è vero? Non sarebbe 'Perfettissimo' il titolo appropriato?» «Si chiama così lo speculator capo, Sparziano. Per il ciambellano si usa 'Eminenza'.» Dunque il capo della polizia investigativa avrebbe potuto assistere all'incontro. Perché? Senza una ragione particolare, Elio se ne sentì irritato. «Credenziali, credenziali.» La cantilena greca era di certo un'ostentazione del ciambellano, visto che gli amministratori avevano una perfetta formazione di latino. Riceveva in un ufficio alla fine di un lungo corridoio con pavimento e pareti rivestiti di marmo nero, lustro come uno specchio, alla maniera dell'atrio costruito a suo tempo dall'imperatore Domiziano per scoraggiare le imboscate. Lasciato da Domnino al principio del corridoio, Elio percorse la distanza fino alla porta di Aristofane scortato dai suoi riflessi a destra e a
sinistra. Era vero, nessuno avrebbe potuto avvicinarsi da dietro senza essere notato: ma Domiziano era stato comunque assassinato. All'interno si trovò di fronte un uomo pingue, più largo che alto, che sembrava ancor più grosso per via delle dimensioni ridotte dell'ufficio. Oltre al suo ospite e all'elaborata sedia su cui era accomodato, la stanza conteneva una scrivania che, a giudicare dalle sue dimensioni, doveva essere stata costruita in loco. La sproporzione poteva essere concepita per impressionare, ma si limitava a colpire e a sbilanciare i visitatori. Dell'investigatore capo non c'era traccia, anche se i palazzi erano famosi per avere spioncini da cui osservare e ascoltare non visti. «Credenziali.» Aristofane fece seguire le sue parole da un gesto di sollecito della mano, piegando avanti e indietro le dita. Elio gli diede le sue credenziali insieme a una lettera di presentazione di Sua Divinità. Fino ad allora, nei suoi viaggi ufficiali, la vista del sigillo dell'imperatore era stata sufficiente ad aprire ogni porta e intimidire i potenti. L'impazienza con cui il ciambellano srotolò la lettera e vi fece scorrere lo sguardo suggerì una reazione diversa. In piedi nello spazio ristretto fra il limite della scrivania e la porta, Elio assunse l'espressione neutra che fa di un inviato ciò che è, eppure fu attento a cogliere tutto quanto poteva di Aristofane. Una blusa morbida gialla, chiusa con un fermaglio sul collo, copriva una tunica lunga fino alle caviglie. Infilati nelle babbucce a sandalo dei funzionari statali, i piedi carnosi gonfiavano la trama delle calze come la pellicina interna di un uovo. Il volto che scrutava la lettera aveva un mento doppio, triplo, le guance premevano sugli occhi del ciambellano con rotoli rosei di grasso sano e senza vene. Elio aveva già avuto a che fare con degli eunuchi di Stato, e sapeva che ce n'erano di tutti i tipi; quella era un'obesità dovuta a ghiottoneria e sedentarietà, non alla castrazione. «Perché siete ancora a Mediolanum?» Era una domanda prevedibile, la cui risposta Elio aveva avuto il tempo di elaborare fra la caserma e il Palazzo. «Ricerche storiche, Eminenza.» Aristofane lo fissò da sopra la lettera imperiale. «Non per aspettare le istruzioni di Sua Divinità prima di proseguire il vostro viaggio?» «Quello è scontato, Eminenza.»
Una delle mani ingioiellate allentò la presa sulla lettera, e la carta tornò ad arrotolarsi. «Eppure siete rimasto coinvolto in altro, oltre a compulsare scaffali.» «In che modo?» «Il Perfettissimo capo degli speculatores della città ha lamentato la vostra interferenza nella questione della morte di Minucio Marcello.» Questo era meno scontato. Elio non era arrivato a immaginare una collaborazione da quegli uffici, ma aveva presunto che le sue azioni non sarebbero state contestate. «Il Perfettissimo l'ha lamentata o resa palese? Vostra Eminenza vede da sé che nelle mie credenziali una clausola specifica mi autorizza a indagare delitti che possano avere implicazioni politiche.» La lettera e le credenziali furono posate al centro della scrivania, in modo che fosse incerto se Elio dovesse riprenderle o lasciarle lì. «Il Perfettissimo se ne è lamentato», specificò Aristofane. «Non c'è alcunché di politico nella morte di Marcello, e per giunta contro i responsabili sono state già emesse le sentenze. Immagino che l'espressione corretta sia 'il caso è chiuso'. Ma siccome questo ufficio si preoccupa che fra gli ufficiali non sorgano equivoci, comandante, è stato organizzato un colloquio fra voi e lo speculator capo alla porta accanto. Sono certo che entrambi ne trarrete giovamento.» «La porta accanto» era una formula che spesso confondeva, in una residenza imperiale. Lì, non aveva alcun senso. Nel tempo che a Elio, garbato ma di cattivo umore, ci volle per raccogliere le sue carte, uno zelante giovane in tunica da segretario si materializzò sulla soglia per fargli da guida. Le mani giunte, i gomiti ad angolo, fece strada per un labirinto di corridoi e scale che avrebbe potuto benissimo portare a zig zag fino a una stanza adiacente all'ufficio di Aristofane. «Entrate, comandante.» Qui lo spazio era quasi eccessivo. Le quattro scrivanie, gli scaffali, le sedie non accennavano neppure a riempirlo; una dettagliata pianta della città su pergamena era appesa al muro dietro la scrivania più grande, su un angolo della quale stava seduto un uomo di mezza età in braghe e stivali dell'esercito. «Avete fatto alzare Sua Eminenza con due ore d'anticipo», esordì. «Sono venuto quando mi è stato ordinato, Perfettissimo.» Le carte passarono di mano. «E-lio Spar-zia-no. La pronuncia è dura o dolce?» «Dura.»
Lo speculator capo non disse il suo nome. Comunque si chiamasse, però, in dodici anni di carriera militare Elio aveva imparato a riconoscere un uomo assurto dai sordidi ranghi di informatore di polizia al ruolo di inquisitore, e oltre. Naturalmente non c'era nulla di male, in questo: dipendeva tutto dai motivi della promozione. Grigio di capelli, li teneva cortissimi sul cranio, appena più lunghi di quelli di un lottatore. Aveva perso il pollice della mano destra. Ma con quella sorta di zampa d'animale ricevette, aprì e lesse senza difficoltà le credenziali di Elio per esaminarle, quindi forse era mancino, oppure si era ben adattato alla sua mutilazione. «Inviato di Cesare.» Leggeva muovendo le labbra, pronunciando le parole sottovoce, come aveva sempre fatto il padre di Elio. «Fin da Spalato, passando per Treviri.» Alzò la voce nel mezzo di una frase sussurrata, continuando a leggere. Le osservazioni non richiedevano risposta, quindi Elio restò con gli occhi fissi sulla parete dietro lo speculator, segnata dagli schienali delle sedie sotto la grande mappa della città. Chiunque fossero gli occupanti delle tre scrivanie vuote dovevano essere impiegati soprannumerari, o tanto ordinati da non lasciare traccia dei lavori in corso in loro assenza. La testa taurina e grigia era ancora china sulle carte a scandire parole. «Bene, Sparziano», fu il giudizio finale, «potete anche essere l'inviato di Cesare, o di Giove, o il suo coppiere, come Ganimede. Esiste una divisione del lavoro, gli uffici e gli incarichi sono ordinati e assegnati, e nulla di quanto leggo qui mi dice che avete voce in capitolo nelle indagini o nell'applicazione della legge a Mediolanum. Mediolanum è il luogo in cui ci troviamo. Non c'è nulla di politico nell'omicidio del giudice Marcello, e qualunque azione vogliate intraprendere in questo senso, d'ora in poi eccederà il vostro mandato.» «Con il dovuto rispetto, gli inviati imperiali possono ricevere ordini solo dai Nostri Signori, i colleghi di Sua Divinità.» «Se le loro credenziali vengono accettate in loco, comandante. Visto che le vostre non lo sono state, e nemmeno siete stato ricevuto da Sua Serenità, siete solo l'ennesimo colonnello dell'esercito in servizio temporaneo, e in giro ne abbiamo più di quelli che di pulci su un cane.» Gli restituì villanamente le carte. «Non siamo in Egitto, qui, non lasciamo che degli estranei ci insegnino il mestiere. E le pulci ce le grattiamo via, quando prudono.» Elio pensò a un paio di risposte a tono - una quantomeno azzardata -, ma nessuna sarebbe servita a sciogliere il nodo burocratico che aveva di fronte.
Si dovette arrangiare da solo per trovare l'uscita del Palazzo. Dopo la seconda serie di sale di marmo che attraversò vide Decimo, in piedi con un gambo verde pallido - finocchio essiccato, forse - fra le labbra, le braccia incrociate, la schiena poggiata a una delle colonne della prima anticamera in cui Elio era rimasto in attesa. «Lasciatemi indovinare: non avete convinto Aristofane o il Perfettissimo Sido della validità delle vostre pretese.» «Preferisco non discuterne.» «Significa solo che dovrete attenervi alle vostre ricerche storiche mentre aspettate la lettera di Sua Divinità.» L'umore di Elio non migliorò quando al ritorno al campo fu informato che sfortunatamente i suoi alloggi non sarebbero più stati a disposizione dopo la fine della settimana, visto l'arrivo di una nuova unità in caserma. Tutto ciò che riuscì a ottenere fu la garanzia da parte di Duco che le lettere indirizzate alla sua attenzione gli sarebbero state recapitate ovunque si fosse trasferito. «Quello stronzo di Domnino mi ha costretto a dargli la vostra posta, Elio.» «Siete superiore in grado.» «Ma non in anello. Aveva un anello con il sigillo di Aristofane che, come tutti sanno, non è difficile da ottenere, considerato che l'eunuco ha più anelli che dita. Ne porterebbe uno grosso anche al... se non glielo avessero tagliato.» «Cosa sapete di Domnino?» «Non molto.» Il britanno agitò la destra, a indicare vari spostamenti. «Se ne va in giro con Curio Decimo, soprattutto perché sono stati soldati insieme, credo. Comunque la sorella di Domnino è stata la prima moglie di Decimo, o la seconda. Dite, voi siete sposato?» «No. E voi?» «Mi sposo il mese prossimo. Vi inviterei alla cerimonia, ma non so se sarete ancora qui, e poi non sarà niente di speciale. Lei ha undici anni, quindi ne dovranno passare altri tre o quattro prima che possiamo combinare qualcosa. Suo padre firmerà il contratto, tutto qui.» Duco diede un'occhiata alle lettere fra le mani di Elio. «Ho notato che l'indirizzo di una di quelle è scritto con la grafia di una ragazza, e ho pensato che fosse di vostra moglie. Le egizie sono ottime spose, ho sentito dire.» «Se si riesce a convincerle a sposarsi, sì.»
La lettera di Thermuthis era stata spedita il 30 ottobre da Ermopoli, sulle rive del Nilo di fronte al suo bordello, vicino al tempio di Heqet. Elio la aprì per prima, cercando la discrezione della sua stanza per leggerla. Protasio, pensò, avrebbe approvato la raffinata trama della carta e l'elegante grafia inclinata greca. Thermuthis al legato Elio Sparziano, abbondante salute a te. Per quale motivo, Elio, mi metto in questi gineprai per favorirti? Non sei diverso dagli altri ufficiali subordinati che hanno speso una fortuna con le mie ragazze durante la Ribellione. Almeno questo è quello che mi dico, anche se la tua buona educazione ti eleva sopra la massa di libidinosi sciocchi dagli occhi azzurri che mi ha resa ricca. Anubina, sul cui conto mi hai chiesto di tenerti informato, sta fisicamente bene. Il contagio che ha seguito l'inondazione del fiume ha lasciato la provincia di Heptanomia, e solo ad Alessandria vengono ancora riferiti dei casi. Eppure la perdita del marito e del figlio la affligge ancora. Il suo solito coraggio e la sua attività di ricamatrice saranno la cura, scommetto, oltre naturalmente alla dedizione per sua figlia Thaesis. Elio notò che la donna non si riferiva alla bambina dicendo «tua figlia», e fu costretto a domandarsi se si trattasse di una scelta di Thermuthis o un rifiuto di Anubina ad ammettere la sua paternità. Mi spiace dire che Thaesis non è bella quanto lo era Anubina allorché sua madre me la vendette: crescerà piuttosto piatta, credo, e con le gambe troppo lunghe. Ma tant'è. La tua ragazza è in gamba, Elio: capisce il motivo delle mie domande sul suo benessere e non mi dice più di quanto non vuole che tu sappia. Quindi deve essere perché mi piacciono le uniformi e quel che contengono (e quei giochini che facevamo tu e io prima che conoscessi lei) che per bontà d'animo sto continuando a mantenere la promessa. Dietro piccolo compenso i vicini mi hanno detto che non parla mai di matrimonio, né di lasciare l'Egitto per raggiungere il suo uomo. Vuole figli maschi, dice, e questo è l'unico incoraggiamento indiretto che posso darti al momento. Se parla di te? No, devo confessare, né con me, né con i vicini. Potrebbe trattarsi, però, di un gelo deliberato, una sospensione che ha scelto per comprendere chiaramente il suo desiderio. figurati che pensando ad Anubina mi è venuto in mente il verso di uno dei vostri poeti: Si nasconde e luccica in una goccia
d'ambra / l'ape, come catturata dal nettare. Forse in fondo sto diventando sentimentale, cosa che avevo giurato non sarebbe mai accaduta. È tutto per ora, Elio caro. Se nei tuoi viaggi dovessi passare per Placentia, fermati alla casa di Felicitas, vicino al Campidoglio. È una cara vecchia amica e sa il fatto suo. Che gli dei, specialmente la nostra amata Heqet, dea delle rane, possano vegliare su di te e tenerti in buona salute: saggio, tanto, temo non lo sarai mai. Scritto da Thermuthis nelle sue stame di Antinopoli il primo giorno di Athyr, V giorno alle Calende di novembre, con la luna piena. Thermuthis non era tipo da spacciare menzogne. Anubi- na stava semplicemente prendendo tempo. Bene. Nelle sue condizioni era la cosa giusta da fare. Avrebbe aspettato anche lui, e poi le avrebbe scritto direttamente. Della lettera, Elio scelse di attaccarsi a quella frase - «vuole figli maschi» - come fosse l'unica significativa e promettente. Il messaggio di ben Matthias, d'altro canto, non necessitava di interpretazioni particolari. Era in viaggio per Mediolanum, scriveva, e una volta arrivato sarebbe stato a disposizione alla locanda Fortuna del Fauno, vicino al Circo; incidentalmente, dove Decimo l'aveva aspettato nel buio la prima notte. ...Ho intenzione di trascorrere i Saturnali a Mediolanum. Chiamami antiquato, ma le feste in cui ci si scambiano doni mi mettono sempre di buon umore. Ormai, con tutti i tuoi impegni a corte, ti sarai probabilmente dimenticato della deplorevole doppia morte di Lupo a Treviri, ma - tanto per divertirti - senza scendere nei dettagli ti posso dare un paio di bocconcini sull'uomo che l'avrebbe resuscitato, Agnus. Sappi che si è diretto a est, una volta lasciata la città, e considerato che alla frontiera per i cristiani non tira una buona aria, visto che Nostro Signore Galeno applica la lettera della legge molto più severamente del suo collega in porpora Costanzo, alcuni pensano che sia andato in cerca di una morte da martire. La sua seguace Casta sarebbe stata strapazzata dai soldati a un posto di blocco su un ponte di Argentorate. Un passaggio obbligato e duro, quello. Quando ci sono passato, di recente, mi hanno perquisito anche la barba in cerca di monete. Fedele al suo nome, Casta ne è uscita con la virtù salva, o quasi, anche se con la scusa di cercare beni non dichiarati l'hanno obbligata a denudarsi. Come faccio a saperlo? Te lo dirò se e quando ci vedremo in Italia. Va da sé che i soldati non dovevano essere a
conoscenza delle convinzioni religiose della coppia, altrimenti avremmo due taumaturghi in meno. L'omicidio di Lupo, per usare le parole del capo della polizia investigativa locale, è un mistero profondo. Il che, per come conosco gli speculatores, significa semplicemente che non hanno idea del movente e del colpevole. Ho il dente avvelenato contro di lui per via del suo atteggiamento nei confronti di mio genero: ma ti dirò di più al nostro incontro, non sporcherò la mia penna per scrivere dell'efferato figlio di un'impura scrofa. Ti auguro buone cose etcetera etcetera. Scritto da mastro Baruch ben Matthias lungo la strada, in una baracca infestata dalle cimici che il proprietario romano osa chiamare mutatio. Se questa è una stazione per il cambio dei cavalli, io sono un gentile. Niente data, perché ho perso il conto. Elio mise via la lettera con irritazione. Se avevano provato a intimidire lui a Mediolanum, poteva solo immaginare come le autorità avrebbero trattato il supervisore ebreo del mattonificio di un cittadino romano. Quanto a Casta, il comportamento delle guardie al posto di blocco era inaudito, a meno che lei non avesse taciuto il suo rango aristocratico: era legale maltrattare i cristiani, naturalmente, ma secondo ben Matthias né lei né Agnus erano stati riconosciuti come tali. Cosa, allora? La sua vecchia guida a Roma, Onofrio, gli aveva raccontato storie di sante cristiane trascinate nei bordelli dai soldati e spogliate davanti alla clientela scalmanata. Gliel'aveva detto indicando la porticina di una casa d'appuntamenti nelle mura dell'ippodromo di Domiziano, dove «una vergine offesa in quel modo, per miracolo divino all'improvviso si è coperta di capelli biondi fino ai piedi». Dubitava davvero che fosse quello che il suo corrispondente ebreo aveva in mente, quando aveva scritto che Casta ne era uscita con la virtù salva, o quasi.
7 dicembre, giovedì «Non sapevo che foste in cerca di un alloggio. Significa che vi state trasferendo nel centro di Mediolanum?» Elio sentì la voce di Decimo mentre lasciava l'agenzia immobiliare sulla strada principale. Il romano era a cavallo a pochi passi di distanza, diretto o di ritorno da
qualche incarico ufficiale - o almeno così sembrava - in compagnia di un pugno di colleghi. Fra di loro c'erano uno dei gemelli, non si sa se Destro o Sinistro, e Ulpio Domnino. Guardando quest'ultimo, Elio rispose: «Come certo avrete appreso dalle voci di Palazzo, mi tratterrò qui solo il tempo necessario per concludere la mia ricerca negli archivi e ricevere ulteriori istruzioni. Gli alloggi che attualmente occupo in caserma serviranno per il colonnello delle nuove truppe a cavallo, e anche se non mi stanno buttando fuori, credo sia appropriato che io trovi una nuova sistemazione». «Capisco.» Con un cenno Decimo si separò dai suoi colleghi, che proseguirono in direzione della vecchia Zecca, e smontò di sella. «Qualche luogo in particolare?» «Sto prendendo in considerazione un condominio di costruzione recente vicino a Porta Argentea, quello con la fontana di fronte.» «Quello? È stato costruito con i mattoni di Pennato. Non lo userei nemmeno come stalla per i miei cavalli.» «Allora troverò un appartamento nel quartiere del Palazzo.» «Per pagarlo quattro volte il suo valore? Se, come immagino, viaggiate a spese del governo, non dovete essere troppo esoso.» Decimo lo disse in tono lieve, come un rimprovero bonario. «Dunque, accade che la scorsa settimana un mio inquilino abbia lasciato la foresteria di casa mia, la parte che non avete visto, orientata verso il centro. Se vi interessa... Mi piace tenere sempre affittato quello spazio, perché si vocifera di un ampliamento della strada su cui si affaccia, e i padri della città potrebbero chiedere facilmente l'esproprio di un'ala vuota.» Elio evitò di rispondere. Non sapeva come giudicare quella coincidenza. E non stava considerando tanto l'opportunità di un'associazione con Decimo, piuttosto si interrogava sulla distanza relativa dalla caserma, dove sarebbero rimaste le sue guardie. Ma il quartiere del Palazzo era ancora più lontano, ed era vero che chiedevano una fortuna per un appartamentino. Il suo collega percepì l'esitazione e ne approfittò. «Ha un ingresso indipendente, è ammobiliato e completo di servitù, ha dei bagni piccoli ma perfettamente allestiti. E ho appena rifatto l'interrato, quindi non c'è muffa.» «Mi piacerebbe vederlo, prima.» «Bene, per caso ho le chiavi qui con me.»
Appunti di Elio Sparziano. Sono andato a vedere la casa che Decimo affitta sul Vico di Venere. Sarebbe un miracolo se non fosse umida, ho pensato, perché a nord si affaccia su un canale. Lacqua arriva al muro esterno, e solo il fatto che presto gelerà le impedirà di infiltrarsi. Per il resto può ben darsi che sia vecchia quattrocento anni, come sostiene il suo proprietario. Il marmo è poco consumato sulle soglie, i pavimenti sono di semplice mosaico bianco, e i bagni sono costruiti per accogliere uomini più piccoli rispetto ai luoghi da cui vengo. Le porte sono basse, le finestre piccine. Patta eccezione per un piccolo guasto nelle condotte del riscaldamento, che si può sistemare nel giro di due giorni, ogni cosa è in condizioni eccellenti. La servitù è così appartata e discreta da farmi chiedere chi abbia affittato per ultimo queste stanze. In camera da letto la sola decorazione sulle pareti nere è un fregio dipinto, molto antico, perfettamente eseguito. Il fregio rappresenta delle scene erotiche con nani e babbuini, e di tanto in tanto un coccodrillo che cerca di staccare a morsi certe sensibili parti corporee. Lo sfondo è l'isola Elefantina, in Egitto, lungo il corso superiore del Nilo. Riconosco gli edifici e le rocce, le rapide e gli aironi che volano al di sopra di esse. Le camere da letto degli ospiti, più piccole e disadorne, potrebbero tornare utili per tenere un paio dei miei soldati a portata di voce. Sua Divinità mi ha invitato a farlo ovunque viaggi per la dignità del mio incarico, e anche per motivi di sicurezza. Putto sommato sono incline ad accettare l'offerta di Decimo e prendere in affitto la casa. La riservatezza è assicurata dal fatto che la porta che collega la foresteria all'edificio principale non è solo chiusa: la serratura è stata sigillata. La stradina su cui si affaccia, resa ancor più stretta da un canale a cielo aperto, deve il suo nome - così dice Decimo – a un piccolo tempio dedicato alla Venere Beata, che ora non c'è più, o, in alternativa, ai bordelli che una volta si susseguivano sul suo ciglio. Ora ci sono appartamenti eleganti, ma se ne indovina ancora il vecchio uso dalle grandi finestre ai lati delle porte, dove le ragazze sedevano in mostra dietro le griglie. Quelle case esistono ancora ovunque, lungo la frontiera. Oggi al Circo cominciano i giochi gladiatori in memoria di Marcello. La gente si sta già avviando in massa verso la parte sud-ovest della città, avvolta in scialli, addirittura coperte, perché c'è il sole, ma fa piuttosto freddo. È strano come la trama e i disegni di alcuni di quei capi mi ricordino gli abiti tessuti a casa quando ero bambino. I vecchi
storici (Posidonio, Strabone e altri ancora) sostengono che la tribù celtica dei Boi, dopo aver disastrosamente fallito il tentativo di conquistare questa parte d'Italia, sette secoli fa, si sia ritirata sul Danubio. Questo significa che i pannoni hanno antenati in comune con questi contadini dell'Italia Annonaria, che si vestono ancora come i loro avi non romanizzati? Più tardi confermerò a Protasio la mia partecipazione ai funerali di Lùcia Catula, domattina, e poi cercherò rifugio per la notte alla Fortuna del Fauno, di cui mi ha parlato Baruch ben Matthias. È una locanda frequentata dagli stranieri e da quelli che lavorano all'arena, per via della sua vicinanza al Circo e alle mura della città. Lì potrei riuscire a raccogliere voci sull'assassinio di Marcello e l'imminente esecuzione dei cristiani imprigionati. Per loro, dodici di numero, la sentenza sarà eseguita fra meno di una settimana al Circo stesso. Da Decimo, che l'ha snocciolato come non fosse più di un gustoso pettegolezzo, ho saputo che Elena, il cui figlio Costantino è grande amico di Massenzio, l'erede di Nostro Signore Massimiano, è attesa in visita da Aqua Nigra, dove avrebbe apprezzato le sorgenti minerali. Questo conferma ciò che già avevo appreso nei pochi giorni trascorsi a Spalato di ritorno dall'Egitto: sta viaggiando parecchio sulla frontiera del Danubio, dove molti veterani la ricordano come mater exercituum. E malgrado il ruolo di «madre delle truppe» non possa più essere rivendicato dopo il suo ripudio, gli uomini della generazione di mio padre l'adorano. Ricordano quando cavalcava al fianco di Costanzo con il mantello da ufficiale, passando in rivista le truppe. Si dice che di tanto in tanto porti con sé suo figlio, e questo mi fa pensare che il viaggio di Elena non sia dettato dalla sola nostalgia. A Mediolanum, comunque, verrà da sola. Il buio della stanza ingoiò ogni senso d'orientamento. Reso ancor più profondo dalla notte senza luna e dalla piccola finestra con i battenti chiusi, rappresentava - se non una vera e propria sicurezza - la cosa più vicina alla sicurezza che un soldato poteva avere. Eppure il buio, misurabile finché il lume era rimasto acceso, si dilatò a dimensioni immense, perché se ne perdeva la posizione. In esso Elio si sentiva meno a suo agio di quanto fosse stato bivaccando sugli altipiani dell'Armenia, con l'esercito persiano a portata d'orecchio. I turni di guardia nelle notti del deserto erano stati meno ansiosi. Restava in ascolto, sdraiato su un fianco. Ascoltava come se si potesse ascoltare lo spazio intorno, scandagliandolo in cerca di forme estranee, perché il vuoto aveva imparato a sentirlo molto tempo prima. Se avvertiva una
presenza, non riusciva a misurarla. Non era rumore, non era assenza di rumore. Non un rumore dalla strada. Delle tre cellette migliori al piano superiore solo la sua era occupata per la notte. Non aspettava alcuna visita, né aveva chiesto dei servitori. Elio ascoltava, tenendo il respiro, sentendosi come se la sua tensione muscolare potesse tradirlo occupando uno spazio maggiore intorno a lui. Passo, mattonella del pavimento, fruscio contro un muro. Suoni che conosceva, e la sua mente diceva di no. Stropiccio di vestiti, scricchiolare di cuoio, la frizione del metallo in un fodero: per anni la sua vita era dipesa dal riconoscere tutto ciò prima che si facesse suono pieno. Si disse, con l'orecchio teso, che non si era mai fatto problemi ad accamparsi da solo sul limite di un territorio ostile, o dentro i suoi confini; non era forse stato l'unico abitante notturno della villa di Adriano, grande quanto una città, che la sua vecchia guida Onofrio temeva infestata dagli spiriti? Ascoltò come se l'infinito buio della notte, che entrava filtrato dalle pareti della locanda per fluire di nuovo all'esterno, si estendesse lungo tutti i margini della Terra, e il suo orecchio dovesse allertarlo per quel che l'istinto già sentiva. La porta poteva essere distante due braccia o un miglio, le scale leghe e leghe verso sud, o verso l'estremo nord. Pietra focaia e lume a olio, un altro continente. Mattonella del pavimento, fruscio sulla parete. No. Passo. Passo, forse. No. L'odore di qualcuno venuto da fuori, dopo aver attraversato la strada in un punto in cui il fango ha formato una pozzanghera. Quel luogo, quel quadrato scivoloso di lastricato, gli si presentò con la chiarezza di un'allucinazione, un punto qualunque che al loro arrivo il suo cavallo aveva disdegnosamente evitato spostandosi a sinistra. La luce calante del giorno aveva gettato un riflesso grigio-blu sulla melma acquosa, e l'odore morto del fango aveva tracciato un'improbabile linea retta dalla strada alle sue narici. Elio sentiva solo quella traccia smorzata di fango, senza riuscire a stabilire quanti fossero gli intrusi. Saltare giù dal letto avrebbe creato una tempesta di coperte sollevate, e non era tipo da accovacciarsi sotto di esse ai piedi del materasso, facendosi piccolo per diventare un bersaglio più difficile. Immobile, Elio attese l'attimo prima del colpo, quando necessariamente qualche fruscio glielo avrebbe segnalato. Che rumore fa un braccio che si alza?
Un moto percepito mentre fendeva il buio sopra di lui. Elio fermò il colpo che stava per essere sferrato, quello successivo affondò fra le coperte, rimbalzando sul cuoio bollito del corpetto militare. Elio arrotolò il lenzuolo intorno al braccio dell'aggressore, tirandolo verso di sé. L'uomo perse l'equilibrio e cadde in avanti, sul letto, e a quel punto Elio scattò sulle ginocchia per colpirlo con i pugni giunti. Alla destra del letto rimbalzò una lama, sbattendo sul pavimento, ma era il pugnale dell'esercito di Elio, riconoscibile per il suono, che nella confusione era scivolato da sotto il cuscino, dove lo teneva. L'altra lama fra le coperte, ovunque fosse, era ancora pericolosa come fosse impugnata. I corpi si agitavano insieme - il suo e l'altro, no, gli altri due - abbrancando alla cieca, senza una parola, pugni e calci che si staccavano da quel viluppo solo il necessario per percuotere. Poi una mazza o qualcosa di simile lo colpì a caso. Il polso sembrò esplodergli in scintille di dolore. Elio tirò un calcio forte, la parete generò un suono sordo quando il corpo dell'uomo ci sbatté contro, rimbalzando. Il polso gli doleva e continuava a mandargli fitte atroci su per il braccio, ma non era solo quello. Elio si vide con precisione - con precisione - affondare i calcagni nei fianchi del suo cavallo mentre superava le barricate ai Prati Gallici, sui visi rivolti in alto e le schiene curve dei dimostranti, eppure questa volta non atterrò diritto, rimettendo al passo il destriero, ma finì a rotolare a testa in avanti. A testa in avanti. Aveva visto molti soldati morire così durante le cariche. A testa in avanti. Gli scesero addosso ambra e miele, come sull'insetto prigioniero della poesia.
5 8 dicembre, venerdì Appunti di Elio Sparziano. Quel che sentivo sul viso dopo l'aggressione era sangue, non miele, ma altrettanto dolce e appiccicoso. Il letto, ho visto nel breve tempo in cui ho ripreso i sensi e armeggiato intorno alla lampada, sembrava la toga di Cesare alle Idi di marzo. Non sanguinavo tanto profusamente, né avevo portato sangue fuori in corridoio, non essendo uscito da quella dannata cel- letta in cui mi ero lasciato sorprendere. A questo momento non ricordo di aver usato il mio pugnale dell'esercito (mi ricordo che è caduto sul pavimento, invece, fuori dalla mia portata), ma la lama era insanguinata quasi fino all'impugnatura, quindi devo averlo fatto. Le tracce di sangue, come ho detto, arrivavano fino a un certo punto del corridoio, dove si fermavano, in mezzo al pavimento di assi. Il mantello con il cappuccio di uno dei due aggressori in fuga era ancora lì dove era caduto. Stoffa color robbia dell'esercito, ma non un taglio militare. La prima impressione è stata che un uomo gravemente ferito abbia raggiunto un punto determinato ed esitato prima di dissolversi nel nulla (vedi sotto). La botta alla testa mi ha spaccato la pelle, tutto qui; ho ricevuto colpi peggiori durante l'addestramento di base. È il polso destro preso a mazzate a preoccuparmi, perché - anche se non si è fratturato alcun osso - sento che è inutile nella misura in cui non ci posso combattere (e se è per questo nemmeno scrivere, almeno per il momento, questi appunti li sto dettando). Il medico del Circo era il più vicino disponibile; chiamato dal locandiere non appena la confusione ha svegliato tutti, ha confermato la relativa trascurabilità del mio problema. Avrebbe potuto dire altro, essendo abituato a curare aunghi con le schiene rotte e gladiatori trafitti? Mi ha garantito che con il suo esclusivo modo di eseguire il bendaggio, non solo il polso mi farà meno male, ma nel giro di una settimana tornerà alla piena motilità. Vedremo. Le cose sarebbero andate diversamente se non avessi indossato il pettorale antisommossa {un capriccio, da parte mia, decidere di tenerlo anche a letto). Il coltello ha squarciato profondamente il cuoio, ma se avesse trovato la carne non
sarei qui a parlarne. Rimasto fra le coperte con cui ho cercato di afferrare la mano dell'aggressore, il coltello è comune, con l'impugnatura d'osso, affilato come un rasoio. Il locandiere mi garantisce che dorme «con un occhio ed entrambe le orecchie aperte», quindi ha dato l'allarme appena ha sentito la lotta. E la sola cosa che spiega perché io non sia stato finito, a meno che: 1. si siano resi conto che ero la vittima sbagliata; 2. non volessero affatto uccidermi. A ogni modo, per quanto riesco a ricostruire gli eventi della notte scorsa, questo è quel che è successo: I ora notturna: Sparziano si ritira alla locanda Fortuna del Fauno, nei pressi del Circo. Occupa da solo il secondo piano. IX ora notturna, più o meno: due uomini lo attaccano, ne segue una breve colluttazione; gli aggressori vengono interrotti e/o scelgono di fuggire, uno di loro è ferito. X ora notturna: sono tutti in piedi, vengono chiamati i vi- giles e il medico. X-XII ora notturna: la locanda e le strade intorno vengono attivamente setacciate (per i dettagli, vedi sotto). Bilancio: nella mia condotta si sono mescolati giudizio e avventatezza; in effetti, malgrado saggiamente io mi sia presentato alla Fortuna del Fauno come anonimo colonnello dell'esercito, allo stesso tempo ho deciso di non far restare alcuna delle mie guardie con me. Il succitato locandiere, un uomo della regione dei laghi a nord di qui, teme ripercussioni. Appena la confusione si è placata ha preso a umiliarsi giurando di non sapere come potesse essere successa una cosa del genere, come se le locande pubbliche fossero circoli femminili di ricamo! «Ma vostra signoria sa bene che quando ci sono i giochi arriva gente da ovunque, specialmente se i ludi sono gratuiti. La vedova del giudice Minu- cio ha fatto le cose alla grande, alla vecchia maniera, distribuendo denari a tutti quelli che vi hanno preso parte.» Io, che nel frattempo avevo risolto il piccolo dettaglio del sangue scomparso, avevo i miei dubbi riguardo un'aggressione casuale di balordi qualunque. «In quanti avrebbero saputo della botola del tuo soffitto?» ho chiesto, e poi, tenendogli sotto al naso il mantello con il cappuccio che avevo trovato: «Cosa mi sai dire di questo?»
Mi ha risposto che era «tessuto in casa, reperibile ovunque, in città». Il che è possibile, considerato che a Mediolanum si produce la stoffa da sagum per l'esercito, e quella che non risponde ai parametri minimi probabilmente viene rivenduta a basso prezzo sui mercati civili. Secondo lui la botola porta a una soffitta bassa dove un tempo teneva il vino e lasciava a seccare la frutta, finché la carie del legno e i parassiti non gli hanno fatto smettere l'abitudine. I clienti abituali sapevano della sua esistenza. Ha osservato che i chiodi che tenevano chiusa la botola dovevano essere stati strappati via, o fatti uscire a martellate dall'alto. Questo può essere successo solo prima che io mi ritirassi per la notte, allorché gli applausi e il baccano del vicino Circo avrebbero potuto coprire anche ben peggio di qualche martellata. Quando il locandiere è sceso di sotto con me, al pian terreno ancora affollato di clienti e servi momentaneamente trattenuti lì, la guardia notturna è entrata per riferire che era stato rinvenuto un corpo in un lavatoio non lontano, vicino alla curva del Circo. Dunque l'ho seguita fuori, nel buio che serrava ancora il quartiere, con un vento feroce che si incuneava dietro l'altissimo muro della pista dell'ippodromo e un cielo impietosamente terso. L'uomo, in comuni abiti civili, era piegato sul bordo della vasca all'aperto, con la testa sott'acqua, come se si fosse trascinato fino a quel punto per morire. Il medico, su mia richiesta, dopo un breve esame alla luce delle torce ha dichiarato che era arrivato vivo fin lì ed era annegato, forse perché svenuto cadendo con la faccia in acqua. «Potrebbe essere stato tenuto sott'acqua con la forza?» è stata la mia domanda. Il medico, che lungo la strada aveva prestato attenzione alla quantità di sangue persa dal fuggitivo, ha risposto che era possibile, ma considerata l'emorragia sarebbe stato facile finirlo. In effetti la ferita l'aveva raggiunto sotto la gabbia toracica, un colpo esperto, sferrato dal basso con un mezzo giro della lama. È il genere di manovra di accoltellamento e torsione che ho inflitto in battaglia, ma non esattamente il colpo a casaccio che con ogni probabilità ho sferrato durante la lotta al buio. Una delle guardie notturne del gruppo ha riconosciuto il morto appena gli è stato illuminato il viso. Le sue parole, che riproduco fedelmente, sono state: «Tu guarda se non è il garzone del macellaio greco sotto i portici del Circo! Un cervello piccolo come una lenticchia. Per partecipare a un'aggressione a un ufficiale doveva avere ancor meno buonsenso di quanto credessi».
Quanto a me, pur non essendo stata trovata traccia dell'altro aggressore, sto cominciando a farmi una vaga idea dell'incidente. Ora è quasi la prima ora mattutina, e qualcosa mi dice che presto riceverò visite. Alla luce cruda del mattino il capo della polizia investigativa Sido sembrava più minaccioso di quanto non fosse stato dentro il suo ufficio; una testa di Minotauro, pensò Elio, un toro con il collo largo quanto il cranio quasi completamente rasato. A giudicare dal modo in cui gli occhi iniettati di sangue gli uscivano dalle orbite, aveva ancora addosso le vampe del bagno di vapore. Arrivò insieme a due speculatores sul limitare perlaceo dell'alba per chiedere cosa fosse successo. Visto che nessuno li aveva chiamati e che si trattava di un caso ordinario, tale da non richiedere la loro competenza, Elio cercò sui loro volti segni di compiacimento o soddisfazione. Ma erano solo facce dure, segnate, di quelle che non ci si sarebbe voluti trovare di fronte in una stanza degli interrogatori. Erano già stati informati del corpo dell'uomo trovato al lavatoio. «Ieri sera da una battega del pane a Porta Ticinese sono scappati diversi 'cervi'.» Sido utilizzò il termine gergale per gli schiavi fuggiaschi, le mani sui fianchi, facendo scorrere lo sguardo su e giù per il vicolo davanti alla locanda. «Per coincidenza li abbiamo catturati tutti tranne due.» «Dubito che i miei aggressori fossero schiavi. Si sono calati con una fune attraverso la botola del tetto, per questo non li ho sentiti salire le scale. Ben addestrati, perché non hanno prodotto suoni percepibili sulle assi del pavimento fra il corridoio e la mia stanza. Io stesso non avrei potuto essere tanto furtivo.» Sido si bagnò le labbra. Anche la punta carnosa della lingua assomigliava a quella di un ruminante, mentre stendeva saliva sulla bocca. «Gli schiavi sono furtivi per definizione. Al di là di ciò, su questa strada le case sono addossate l'una all'altra, quindi gli aggressori avrebbero potuto facilmente spostarsi da un tetto all'altro. Impossibile scoprire da dove siano arrivati in origine. Comunque il cadavere al lavatoio portava un anello di poco conto, bronzo economico o rame, nessun castone, solo una decorazione come un bottone. Ne t.anno a migliaia sul Danubio.» «Be', non veniva dal Danubio, ma dalla bottega del macellaio in fondo alla strada. E almeno uno dei due aveva attraversato la strada in cima al vicolo, per arrivare alla locanda. Gli ho sentito addosso l'odore di fango del canale.» «C'è fango di canale ovunque a Mediolanum.»
Che fosse per l'eccitazione o per le abili cure ricevute, Elio non provava alcun dolore, né alla testa, né al polso. Ma si stava irrit ando. Osservò la figura massiccia di Sido appoggiarsi al muro della locanda, dove un fauno dipinto a colori vivaci possedeva da dietro una ninfa. «A me sembra», osservò, «che un mio eventuale aggressore dovrebbe avere addosso più lividi e contusioni. Mi sono difeso.» «Magari avete colpito l'altro, oppure i vostri pugni non erano forti quanto avete pensato, con il buio e tutto.» Sido parlava con le braccia conserte, una posa che gli faceva sembrare enormi le spalle. «Quello più robusto deve aver tirato il suo compare ferito su per la corda, attraverso la botola, per il tetto e lungo la facciata della casa a graticcio a un isolato da qui. Ci sono macchie di sangue fra il graticcio e il lavatoio. Una volta abbandonato per la sua debolezza, l'uomo è morto. Non andiamo a cercare complicazioni in un'aggressione notturna casuale in una locanda dalla reputazione discutibile. Vi siete salvato la vita, e in questi casi fortunati, come si dice, è tutto grasso che cola. Se ci dovessero essere novità sulla faccenda ne sarete informato.» Appunti di Elio Sparziano (continua). Sono a dir poco perplesso. Mi confonde la circostanza che un perfetto sciocco si sia fatto convincere a partecipare a un'aggressione rischiosa ai danni di una vittima qualunque, e che io l'abbia ammazzato senza averne alcuna memoria. Inoltre è vero che c'è del sangue fra il graticcio e il lavatoio, ma non ne ho visto sul graticcio in sé, né ho trovato altre prove, come una tegola del tetto spostata, o della terra caduta dalla grondaia. Appena Sido e i suoi soci si sono tolti dai piedi, sono corso dal macellaio sotto il porticato del Circo, che stava aprendo proprio in quel momento. Quando sono arrivato, il macellaio aveva la schiuma alla bocca. Inveendo fra sé e sé perché il suo garzone non si trovava, ha usato espressioni piuttosto colorite, di cui qui riporto solo le più lievi. «Figlio di puttana, lo apro in due! Ho dieci carcasse di maiale da macellare e Lui non si fa vedere! Non ha nemmeno dormito nella sua branda, quel figlio di una gran troia», e via insultando. Mentre attaccava a snocciolare minacce contro il bastardo che aveva fatto ritardare il suo dipendente, ho pensato di dover dire: «Lo stai guardando, macellaio». «Legatos... Strategos...» (Ho notato che il mio rango sale esponenzialmente quando i civili cercano di blandirmi.) Voltandosi e vedendo la mia uniforme da
colonnello, il macellaio greco mi ha subito promosso generale, cambiando tono e modi. «Parlavo a vanvera, signore. È solo che non riesco a capire cosa possiate volere da quel mio idiota buono a nulla.» Prima che potessi rispondere, ha avuto un ritorno di impudenza di spirito. «Ma se ha combinato qualche sciocchezza», ha specificato, «io non ho intenzione di ripagarla. Di fronte alla legge è un liberto dipendente, quindi fate di lui quel che vi pare.» «Sembra che l'abbia già fatto.» Dopo aver concisamente riportato i fatti, il macellaio ha iniziato a tremare e a farfugliare in greco. Con un altro voltafaccia ha preso a giurare che il suo ragazzo era grosso ma innocuo, un idiota maldestro che manteneva la vecchia madre (me lo aspettavo, il dettaglio della vecchia madre) con il suo onesto lavoro giornaliero ed era felice di eseguire commissioni per chiunque gli desse qualche spicciolo. «Il cervello di una pulce, signore mio'. Non avrebbe saputo come arrampicarsi su un tetto per salvarsi la vita.» «Però è in grado di macellare dieci carcasse di maiale.» «Sotto supervisione, alta signoria. Porte, ma tanto goffo che dovevo assicurarmi che non spaccasse in due anche il ceppo.» Era tutto molto interessante. Gli ho mostrato il coltello usato nell'aggressione, ma non è sembrato che lo riconoscesse. «Non è un arnese da macellaio, con questo lavoro di cesello sul filo della lama. Al di là dell'eccesso di arrotatura, così li fanno nelle valli a ovest del lago Lario.» «Dunque», ho continuato, «il tuo liberto ieri sera ti ha detto almeno se doveva fare commissioni per qualcuno prima dell'alba?» Il macellaio ha reagito come se la mia domanda fosse stravagante. «No, ma se è per questo non mi diceva mai nulla, signore mio: era incapace di parlare, fin dalla nascita.» Con in mente quell'intrigante dettaglio aggiuntivo sono tornato a piedi alla Fortuna del Fauno, dove sono determinato a trascorrere una seconda notte. Il capo della polizia investigativa Sido, senza gli speculatores, era in sella al suo cavallo all'angolo della strada, e gettava un'ombra allungata nel sole sorgente. Aspettava me, è ovvio. E che si riferisse al mio ritorno alla locanda o al mio indagare dal macellaio, le sole parole che ha detto sono state: «Sapete cosa significa desistere, comandante?»
Nella sua stanza in caserma, dove Elio era andato a raccogliere i propri libri in vista del trasloco nella foresteria di Decimo, Duco ascoltò e disse che non gli piaceva affatto come stavano le cose. Le ciglia rosse erano così sottili che gli occhi sembravano quelli di un coniglio preoccupato, e lo stesso valeva per il volto lentigginoso. «Bel bernoccolo», commentò. «E una fortuna che abbia sanguinato. I colpi alla testa che non sanguinano sono pericolosi.» «Sarà anche un bel bernoccolo, ma mi rende furioso. Mi rende furioso che mi abbiano colto di sorpresa nel mio stesso letto.» «Chi avevate informato che avreste trascorso la notte in quel buco? E perché l'avete fatto, innanzitutto? Per Diana, avreste potuto condividere il mio alloggio. Alla Fortuna del Fauno ci stanno bifolchi ed ebrei, non ufficiali!» «Avevo i miei motivi per stare lì. E non l'avevo detto a nessuno. Non è stata una grande idea, con il senno di poi, ma non l'ho detto neppure alle mie guardie.» Il britanno spalancò di scatto la porta, si guardò intorno sulla balconata e richiuse il battente. «Se è con gli speculato- res che siete entrato in rotta di collisione, il rango non vi aiuterà granché.» «Lo so. In Egitto la polizia era corrotta e più brutale dei predoni per le strade. Qui, in una capitale, presumevo che le cose fossero differenti.» «Non mi fate parlare, sono già abbastanza nei guai così. Tutto ciò che posso dire è che Sido non è tipo da dimenticare un torto: anche se è un torto immaginario.» Con la scusa di supervisionare i servi spediti a prendere il bagaglio di Elio, a mezzogiorno Curio Decimo si fermò per incontrarlo alla mensa ufficiali. Tenendosi un fazzoletto premuto sotto il naso per il disgusto suscitato, come spiegò, dalle unte tavolate dell'esercito, rese evidente il fatto che la notizia dell'aggressione aveva fatto il giro di Mediolanum. «Aveste dormito da me, tutto questo non sarebbe accaduto.» «L'avrei fatto, se il problema dei tubi non avesse ritardato il mio trasloco.» «Cosa? Passerò sopra il fatto che sembriate suggerire una sorta di coinvolgimento da parte mia. Ma i locatari sospettosi mi infastidiscono, e richiederò un pagamento anticipato di tre mesi d'affitto.» «E io vi sarò grato se non mi metterete le parole in bocca, comandante. Non suggerisco alcunché, e ho detto esattamente quanto penso: i problemi con il sistema di riscaldamento hanno ritardato l'inizio della locazione.»
«Gesù, non so come facciate a mangiare in questo posto.» Decimo si sventolò il fazzoletto ripiegato davanti al volto. «Cosa servono, piedini di porco in salsa di pesce?» Rise con i suoi dentini piccoli e macchiati. «Perché mai ho detto 'Gesù'? Non lo so, Sparziano, è un'esclamazione cristiana. La trovo buffa. In caso cambiate idea riguardo agli alloggi per stanotte, posso sistemarvi in una delle stanze degli ospiti.» «No, grazie. Verrò domani, come concordato, alla quarta ora mattutina, portando un deposito di tre mesi d'affitto.» Elio cominciava a sentire la puntura della ferita sullo scalpo, e nel braccio destro il dolore era progressivamente aumentato. Il disprezzo del collega per il cibo e le bevande lo incoraggiarono a finire il suo vino allungato dell'esercito. «Sapete», aggiunse per provocarlo, «da un mio corrispondente in viaggio ho sentito che la vostra parente è incappata in un disdicevole incidente a un posto di controllo in Belgica Prima.» La notizia, brevemente illustrata, non alterò l'umore di Decimo. «Per quanto mi riguarda, è come se fosse scappata con il circo, quando è diventata cristiana. Merita il rispetto dovuto a una che cammina sul filo o a un giocoliere.» Si alzò dalla panca con lo stesso ghigno di derisione che aveva riservato alla mensa. «Se non dovessi tornare a Palazzo, mi attarderei a esprimervi quanto assolutamente e completamente ignorerei qualsiasi sua richiesta, se l'ex Annia Cincia fosse arrestata a un posto di blocco per la sua superstizione.» 9 dicembre, sabato Così come aveva scelto di ignorare il tradizionale intervallo di sette giorni fra la morte e la sepoltura del marito, Lùcia Catula lasciò istruzioni che un funerale privato venisse celebrato subito dopo la sua dipartita. La cerimonia ebbe luogo sabato mattina ali'ustrinum di famiglia, un'area recintata dove era allestita una pedana permanente per la pira crematoria. Il giardino, con i suoi cipressi e cespugli di rose sfioriti, era accanto al monumento dei Minuci, non lontano dalla loro tenuta sulla strada per Ticinum. Il piccolo complesso funerario si affacciava su una marcita che si estendeva fra l'arena, il lugubre tempio di Nemesi eroso dal tempo, e, sul fondo, una modesta proprietà privata. Il fumo che saliva dalla pira la occultava quasi del tutto alla vista, ma di tanto in tanto, fra i sempreverdi lucenti, Elio riusciva a discernere un tetto basso, coperto di tegole sbiadite. Decimo non aveva detto che Casta aveva tenuto una piccola proprietà nelle vicinanze per la sua anziana balia?
Il pensiero si insinuò oziosamente fino alla fine del rito, quando, congedatosi dai figli di Catula, Elio non riprese subito la via della città. Un sole velato del colore di una moneta consunta baluginava fra le nuvole tanto da illuminare dei punti anonimi fra i campi e le tenute confinanti. Più vicino, un sentiero assediato da ginestre spinose partiva dalXustrinum per arrivare a una specie di tempietto in miniatura, poi tornava indietro costeggiando il giardino con i sempreverdi. Elio lo seguì a piedi, tenendo il cavallo per le redini. Verso l'orizzonte sud-occidentale, una catena di colline azzurre formava una sponda netta contro le nuvole. Sopra di lui le ultime volute di fumo della pira formavano un falso soffitto, ma il fetore di carne carbonizzata andava disperdendosi. Più avanti, vide che dal recinto del giardinetto sfuggivano ciuffi di alloro, le cui bacche erano cadute oltre la staccionata; qui e là, mentre si avvicinava, il verde scuro dei rami interrompeva il pallore dell'erba invernale. Sì, questa era l'unica tenuta che corrispondeva alla descrizione di Decimo della casa della balia. Il primo suono domestico che Elio sentì provenire dall'interno fu il cigolio di una porta, poi l'affrettata chiusura di un chiavistello. Nessuna voce umana, nessun cane da guardia ad abbaiare. Senza alcuna paura, un corvo si alzò pesantemente in volo da uno degli allori. Seguì lo sbattere fragoroso delle imposte, una finestra dopo l'altra, come se la distanza fra di esse fosse coperta con una fretta palpitante. Il sentiero fitto di vegetazione verso la casetta a un piano era sbarrato da un cancello di assi che arrivava a spalla d'uomo. Era il modesto ingresso al trasandato giardino di una vecchia. Così decise Elio, osservandolo senza toccare il paletto. Un mosaico di sassolini bianchi e neri, a terra, subito dopo il cancello, rappresentava un improbabile cane da guardia con le orecchie a punta e la mandibola ciondolante, legato a una fila di ciottoli neri che tratteggiavano una catena. CAVE CANEM, c'era scritto: «attenti al cane», ma la C di CAVE si era staccata, e ormai era la parola AVE ad accogliere in tutti i sensi il visitatore. Elio tese l'orecchio verso altri suoni percepibili dall'interno. Non arrivò che l'urto di un'ultima porta sbattuta. Le vecchie, sempre in guardia e timorose di ladri, soldati e maschi in generale! Strappata una foglia d'alloro dal ramo più vicino, la schiacciò fra le dita per estrarne la fragranza dalle fibre. Il movimento gli diede una fitta al polso, ma continuò a giocherellare con la foglia, tenendola vicino alle narici. Il profumo era
aspro, dolce-amaro; l'essenza dei guardaroba ben tenuti, delle corone della vittoria, e dei giorni in cui le mogli degli uomini assassinati venivano messe a riposare in pace. Tornato a Mediolanum, Elio fece un'ultima sosta in caserma per controllare la sua posta e prendere congedo da Duco. Il britanno gli porse con il dovuto rispetto l'involucro color porpora appena consegnato dal corriere. «Dalla residenza di Sua Divinità», disse. Solo dopo che Elio ebbe esaminato il suo contenuto, per poi metter via la missiva e rileggerla senza fretta in altro momento, Duco annunciò che c'erano notizie preoccupanti. «Guai in vista sulla frontiera.» «Cosa, la nuova unità è già arrivata? Non ne ho visto traccia.» Duco scosse la testa. «Gli ufficiali sono qui in anticipo; le truppe seguiranno prima che cali la notte. Erano assegnati come ala di cavalleria alla II legio Adiutrix, di pattuglia fuori Aquincum, sulla strada di confine Vetus Salina-Lugo. Dunque sanno quel che succede. Non sono certo che stiamo parlando di una nuova incursione, ma le avvisaglie ci sono. Gli informatori dalla ex Dacia riferiscono di grandi movimenti di uomini armati - poche famiglie, nessun anziano a carico - dall'area di Centum Putei.» «I cento pozzi.» Elio aveva sentito nominare spesso quel luogo. «Mio padre era di stanza lassù quando la provincia era ancora in mano nostra. Era lì quando sono nato. È sulla strada per la vecchia capitale, no?» «Esatto. E se i nemici hanno seguito i corsi d'acqua verso valle - uno qualunque dei corsi d'acqua - potrebbero essere partiti dalle steppe più lontane del Barbarico.» Duco abbassò la voce, smorzandola ulteriormente con il palmo della mano incurvato accanto alla bocca. «Sono state spazzate via tante pattuglie che stanno iniziando a selezionarle da unità che non parlano latino, così non possono fare troppe domande.» «Dunque potremmo dover andare in guerra, eh?» «Noi? Non so voi, Elio. I nostri uomini, è molto probabile. Mi è puzzato subito quando ci hanno informato all'ultimo minuto che dall'Est stava arrivando un'intera unità. Al loro posto manderanno i Maximiani Juniores, ci scommetto.» A Spalato Elio aveva sentito voci inquietanti di tribù in movimento, settimane prima. Diocleziano gli aveva ordinato di tenere la notizia per sé, quindi in quel momento non disse nulla, e nemmeno fece ipotesi. «Come si chiama l'unità in arrivo?» chiese. «E chi la guida?» «E X Ala Antoniniana Sagittariorum Surorum, sotto Giulio Saphrac.»
«Arcieri siriani. Ma Saphrac non è un nome siriano.» «No, sua madre era la figlia di un capo alano. Suo padre è di Pisa.» Lettera di Sua Divinità a Elio Sparziano. Ci fa piacere che la tua visita a Costanzo Erculeo, nostro fratello e collega nel dovere imperiale, sia stata così ben accolta ad Augusta Treverorum. Siamo altrettanto lieti, Elio caro, che i tuoi viaggi continuino senza complicazioni. Hai fatto bene a chiederci quale trattamento riservare alla vita del nostro predecessore e indi avo governativo Severo. Poiché nei nostri anni giovanili noi stessi ci siamo trovati di fronte a ribellioni e intrighi, comprendiamo la necessità sia delle misure drastiche contro usurpatori e individui impulsivi, sia del valore dell' indulgenza dopo la vittoria. Per quanto riguarda la qualità dei figli di Severo, che questa domanda ti faccia da guida: i mostri sono generati da altri mostri? Che dire di Commodo, che ha macchiato il nome imperiale: suo padre non era forse il più pio dei principi, Marco Aurelio Antonino, che faceva della filosofia l'arma e il sostegno del suo regno? Che dire di Caligola, ancor prima di loro, che - malgrado fosse figlio dell'eccellente Germanico non esitò a conferire rango di senatore al suo cavallo, e a gettare nella vergogna l'istituzione del matrimonio fidanzandosi con la propria sorella? Forse il padre stesso della patria, Ottaviano Augusto, non generò la corrotta Giulia? Venendo alla questione della vendetta piuttosto che del perdono, non si può negare che Severo abbia molto ecceduto nella durezza che richiedevano il suo stesso nome e il suo ruolo. La severità non dovrebbe divenire licenza di governare come un tiranno. Eppure la generosità di questo principe nei confronti dell'esercito, la cui organizzazione ha concepito come percorso a tappe verso carriere importanti, dovrebbe essere contata a suo favore, come i grandi progetti edilizi nella nativa Africa, sul Danubio e altrove. Se, detto tutto ciò, le ombre della vita di Severo dovessero essere più marcate delle luci; ebbene, Elio, che sia! Perché un ritratto non è tale se non assomiglia al soggetto. La maestà di Roma non teme il fatto che di tanto in tanto i suoi principi abbiano mancato di virtù. Senza indugiare in squallidi dettagli che non soddisferebbero un sordido pubblico ma potrebbero scandalizzare il lettore puro, ti incoraggiamo a raccontare fedelmente la vita del nobile Severo, onorando la verità e la storia.
Visto che le notizie sulla tua accoglienza a Mediolanum da parte del nostro fratello e collega nella porpora imperiale Massimiano probabilmente incroceranno questa missiva, Elio, ci riserviamo di farti avere altri ordini più avanti. Sii pronto a riceverli. Sappi nel frattempo che ci fa piacere aver saputo della tua inchiesta sugli strani eventi verificatisi prima e dopo l'assassinio del fabbricante di mattoni in Belgica Prima. Ti incoraggiamo a perseverare, a tenerci al corrente delle tue scoperte, e, tempo permettendo, ad apprendere di più della pratica superstiziosa della cosiddetta resurrezione operata da Agnus, o Pyrikaios, o la Voce del fuoco, come viene chiamato. È precisamente per arginare tali insensate credenze che dobbiamo esercitare la nostra austera disciplina sulla setta cristiana. Scritto a Salona, la vigilia delle Calende di dicembre. La risposta di Diocleziano era dunque stata inviata prima di ricevere il rapporto di Elio sulla missione fallita alla corte di Mediolanum. Alla seconda lettura, comunque, Elio dovette riscontrare una certa delusione per la mancanza di istruzioni specifiche rispetto agli speculatores di Massimiano e Sido. La fiducia di Sua Divinità nei suoi risultati investigativi era l'elemento più incoraggiante, anche se avrebbe dovuto forse sminuire il suo ruolo ufficiale. Aspettò finché il giorno, fattosi più nuvoloso e freddo, non declinò verso la sera. Le strade mezze vuote della città erano sferzate da una tramontana che sapeva di neve, e quando Elio tagliò per il quartiere ebraico non trovò quasi più nessuno in giro. Le porte di Mediolanum sarebbero state chiuse nel giro di un'ora, e questo gli lasciava un arco di tempo appena sufficiente per fare la sua commissione e rientrare. In lontananza i boschi svanivano già nel buio, le paludi non si distinguevano dalle marcite e dai campi coltivati. Cavalcando oltre il tempio di Nemesi, a quell'ora chiuso e ancora più cupo, Elio si disse che poche cose mandano in collera un soldato come vedersi chiudere porta e finestre in faccia. Quale motivo avrebbe potuto ragionevolmente condurlo di nuovo lì, se non la volontà di obbligare la vecchia balia di Casta ad aprirgli e lasciarlo entrare? Era probabile che la serva non sapesse nulla, annidata come un gufo in quel che restava della ricchezza della sua padrona. Elio non aveva domande specifiche da porle, nessuna curiosità oltre quella di varcarne la soglia. A meno che non volesse vedere gli ambienti che un tempo erano stati della lontana cugina di Decimo, nella vaga presunzione (o speranza, chissà perché) che fosse bella come la sua progenitrice scolpita nel marmo della «stanza degli avi». Il
pensiero gli attraversò la mente. Poteva essere anche... no, non proprio un senso di sdegno; pietà, forse, per la donna spogliata e insultata mentre viaggiava verso est con il suo maestro, che diceva di saper risvegliare i morti ma non osava fermare la mano insolente di un soldato. Un ultimo spiraglio di luce esitava in aria quando Elio spinse il cancello e coprì a piedi il breve spazio fino alla porta in un vortice di foglie secche. Una delle due finestrelle strette sulla facciata era sbarrata; l'altra, con solo mezza imposta chiusa, lasciava intravedere la luce di una fiammella all'interno. Il brillio andava e veniva, quindi, probabilmente, si trattava di un lume a olio appeso nel porticato interno, esposto al vento. Per essere certo che la vecchia lo sentisse, Elio estrasse il pugnale e ne usò l'impugnatura per bussare alla porta, metallo contro il metallo del batacchio. Non ci fu risposta, nemmeno il minimo suono. Avvicinando l'orecchio al battente, sentì solo il sibilo del vento fra gli allori. Una sequenza di colpi più energici - che avrebbe dovuto giustificare, se dopotutto questa fosse stata la casa sbagliata - finalmente fu seguita da una voce querula e sospettosa dietro la porta. «Chi è?» Rumore di serratura, chiavistello. Uno spazio esiguo si dischiuse fra un battente e l'altro. «Cosa volete?» Elio dovette abbassare gli occhi per distinguere nello spiraglio un volto rugoso che lo sbirciava. Chiese: «Questa è la proprietà di Annia Cincia?» «No, è mia. A voi che importa?» «Fammi entrare.» Fu quanto bastava per far lanciare alla vecchia un urlo soffocato. «Aiuto, al ladro! All'assassino! All'omicida! Aiuto!» Elio si aspettava il tentativo frenetico di chiudere di nuovo la porta sbattendola, e prontamente infilò lo stivale destro nella fessura. Con il ginocchio spinse indietro per gradi il battente, senza esercitare troppa pressione, perché in fondo era solo una vecchietta che lottava per tenerlo fuori. Riuscì a sopraffarla facilmente, entrò e chiuse la porta. «Non dire sciocchezze, non vedi l'uniforme?» Lei lo fissava, strizzando gli occhi nella semioscurità. Lungi dal sembrare sollevata dalla vista, barcollò all'indie- tro come un uccello arruffato. «Allora siete le guardie, siete le guardie! Qualcuno mi aiuti!»
Con un solo sguardo Elio abbracciò quello spazio fuori moda: colonne basse che circondavano una piccola corte all'aperto, il lume a olio solitario appeso a un gancio sotto il portico, nessun'altra uscita. «Non sono 'le guardie', oca.» «Allora siete il capo delle guardie! Aiuto, vicini!» Non c'erano case a portata d'orecchio; e se ci fossero stati in giro altri servi, a quel punto si sarebbero già fatti vedere. Elio osservò la vecchia correre in tondo in uno scalpiccio di ciabatte, le braccia che si agitavano sopra la testa. Stava solo facendo rumore per la paura. «Smetti di gridare.» Aggirandola rapidamente si piazzò sulla sua traiettoria e lei gli finì addosso, senza arrivargli neppure al torace, un sacco di panni e ossa. «Sono solo in visita, donna», scandì con calma. «Nessuno vuole farti del male.» Lei gli sputò addosso appassionatamente. I suoi pugnetti gli piovvero sul corpo deboli e rabbiosi, martellandogli i fianchi; Elio avrebbe riso, non fosse stato imbarazzato per il modo in cui si erano messe le cose, ma era prossimo ad alterarsi. «Issa, basta così!» Che qualcun altro parlasse era un'eventualità del tutto inattesa. Elio si volse verso il portico, in direzione della voce, e lasciò la presa sulla balia abbastanza perché lei agguantasse un rastrello del giardino e lo usasse per colpirlo, senza esiti, a onor del vero, come una gallina combattiva che non voglia cedere. La donna che aveva parlato restò nell'ombra; era impossibile stimare qualcosa di lei al di là del fatto che la voce era giovane, ben educata. «Non colpirlo, Issa. Mi hanno trovata.» Un tonfo sordo di legno sulle pietre del pavimento lo avvertì che la vecchia aveva lasciato cadere il rastrello. Nell'ombra che aveva di fronte, Elio percepì due braccia femminili che si tendevano in avanti incrociandosi mollemente all'altezza dei polsi: polsi sottili, pallidi sotto il lume, che spuntavano da maniche lunghe e scure lo stretto necessario per ammanettarli. Quel moto di resa lo sorprese. A Elio sembrò che la sera avesse voltato pagina e fosse divenuta una nuova cosa, strana e sconosciuta, appartenente al destino di qualcun altro, di un altro uomo. «Annia Cincia...» Pronunciò le parole con un tono fra la domanda e la conferma, entrambe rivolte a se stesso. «Non è quello il mio nome.»
«Stasera deve esserlo, domina. Fa differenza, per la mia visita.» Il suo altro io (nuovo e inesperto, cui ora apparteneva la serata) si presentò, chinando il capo come fanno gli ufficiali salutando le signore. L'Elio che era stato fino a quel momento rimase indietro, stupefatto. La presenza di lei, la sua esilità, la sua severità lo turbavano. «Credevo - così mi avevano riferito - che steste viaggiando verso est.» I
polsi pallidi rimasero incrociati, ma le braccia si abbassarono lentamente. «Chi
vi manda, comandante?» «Nessuno. Tuttavia conosco un vostro parente, il comandante Curio Decimo.» «Un parente, ma non un amico.» «Be', non è nemmeno lui a mandarmi. Sono qui di mia volontà, semplicemente perché...» «Cesare vi manda: siete l'inviato di Cesare. Mi hanno detto il vostro nome. Mi avete già cercata a Treviri. Perché?» Con la coda dell'occhio, Elio colse il movimento furtivo della vecchia balia, che si teneva al largo da lui mentre faceva il giro per raggiungere la sua padrona. «Per via dell'uomo che risveglia il fuoco.» «Non è qui. Mi ha preceduto a oriente. Volete arrestarlo?» «Cosa? No.» IItempo si era fermato. Non fu fatto alcun invito a entrare in una delle stanze che si aprivano sulla corte, o ad accendere altre lanterne, o semplicemente a lasciare il portico sempre più scuro sotto cui erano rimasti. Il moribondo lume a olio dondolava appeso al suo gancio. Grazie a esso o all'immaginazione, Elio a un certo punto colse un barlume di guancia nel velo austero, e in un altro momento lo scintillare d'occhi che le donne brune hanno anche nella penombra. In quel momento, per la prima volta l'ordine di Sido di desistere dalle indagini gli parve ben accetto. Si sentì esprimere precipitosamente a Casta il suo desiderio di incontrare l'uomo dei miracoli, parlare dell'omicidio di Lupo e di altre cose del tutto slegate fra loro, unite dalla curiosità e da niente altro. Niente altro? Altri sorvegliavano. All'improvviso il pensiero che guardie o soldati di pattuglia dopo il tramonto potessero vedere il suo cavallo legato fuori dal giardino e insospettirsi, lo mise in agitazione. Non avrebbe dovuto rimanere, per il bene delle donne. Per non rinnovare il loro stato d'allarme, Elio finì quel che stava dicendo e poi,
con voce pacata, aggiunse: «Potrebbe essere pericoloso per voi rimanere qui, domina». «Dio provvederà.» «Consentitemi di dubitarne. Ci sono dodici cristiani in attesa di esecuzione ai Prati Gallici.» «Lo so.» «Sono accusati di aver assassinato il giudice Marcello.» «So anche questo.» La sua voce era controllata, neutra, priva di paura. «Ai cristiani si insegna a non mentire: se doveste chiedermelo, non potrei dirvi che i cristiani sono innocenti per la morte di Marcello, perché questo implicherebbe una cognizione che non ho.» «Non che faccia differenza, ma hanno i giorni contati.» Quando Elio fece un passo avanti per congedarsi - senza avere in mente alcun contatto, essendo anche uno sfioramento delle mani impensabile senza il permesso di un'aristocratica - lei indietreggiò di scatto con un mezzo giro della spalla, il capo distolto, sprofondando di nuovo nel buio, una figura simile a Euridice, la mitica sposa inutilmente richiamata fuori dal regno dei morti. Elio disse: «E meglio che vada. Visto che per me voi siete la clarissima domina Annia Cincia, di classe senatoriale, vedova di Pupie- no, posso solo chiedere venia per la mia intrusione, e assicurarvi che da me nessuno saprà della vostra presenza qui». Lei non rispose nulla. Con un ultimo passo indietro si sottrasse del tutto, senza alcun rumore, come le spose fantasma dei miti. «Ora andate», gli disse burbera la vecchia serva. Prima di uscire, sulla soglia Elio si rammentò di quando, adolescente, aveva deciso di scrivere il saggio: Perché Thanatos avrebbe dovuto lasciar sfuggire Alcesti dallAde in virtù dell'amore di suo marito. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, un'ultima striscia traslucida di cielo, tra le nuvole a occidente, gli rivelò quanto poco tempo in realtà fosse passato. Il resto era nubi, buio sotto gli allori, vento freddo. Lo scalpiccio paziente degli zoccoli del suo cavallo nel punto in cui aspettava, legato sul retro, lo fece tornare presente a se stesso. Era di nuovo la vecchia sera, la sera di Elio. E di Elio sarebbe stato il calar della notte.
Aveva preso a nevicare quando varcò Porta Ticinese, proprio mentre la stavano chiudendo. All'imbocco del Vico di Venere, lampade e torce senza fumo formavano una collana infuocata intorno alle mura della casa di Decimo. Lungi dall'affievolire l'illuminazione, il vento e la neve la rendevano ancor più strabiliante, uno splendore da favola quasi accecante dopo i quartieri bui che Elio aveva attraversato. Guidò il cavallo a svoltare l'angolo, verso lo spiazzo lastricato dell'ingresso principale. Questo era affollato da eleganti lettighe governate da schiavi tarchiati e incappucciati, i cavalli erano stati messi al riparo nelle stalle, e le porte si aprivano su un brulicare di ospiti. Il rumore della festa filtrava dal nobile atrio d'ingresso, illuminato da lumi e bracieri. Più che a un ricevimento assomigliava a un tradizionale, grandioso festino romano, a giudicare dall'andirivieni profumato di aitanti liberti in pelliccette corte, dallo squittire delle ragazze nelle sale interne, dalla musica e dalle risate. Il capo del personale di Decimo lo attendeva sulla soglia dell'ala che aveva affittato, silenziosa e scura, al confronto. Informò immediatamente Elio che se lo desiderava erano pronti il bagno e un cambio. «Il padrone ha domandato se foste in casa, comandante, nel caso voleste unirvi alla festa.» «Qual è l'occasione?» «Il compleanno del padrone, e un inizio anticipato dei Saturnali.» L'enunciazione dell'alfabeto, gridata dall'interno, tradiva chiassosamente i ripetuti brindisi di compleanno a ogni lettera del nome dell'ospite. «M...A...N...I....O...» Le ragazze lanciavano urletti acuti, senza dubbio perché i bicchieri volavano e si infrangevano in segno di buona fortuna. Elio si slacciò il mantello. «Presenta al tuo padrone i miei ringraziamenti, i migliori auguri e il mio rammarico; sono stanco e non mi sento bene.» Tre ore più tardi la festa continuava a imperversare oltre il muro che separava l'ala dalla casa principale. Le lettighe e le squadre di schiavi erano andate, così Elio suppose che ospiti e intrattenitori avrebbero dormito lì, o sarebbero rimasti svegli fino al mattino. Fece il bagno con comodo, lesse, iniziò una risposta a Thermuthis e si sedette in un'accogliente piccola biblioteca, a meditare sul fatto che Anubina aveva «danzato alle feste per soli uomini» (parole di Thermuthis) per sei mesi prima che lui la incontrasse. Questo di solito non lo teneva lontano dalle cene in cui le ragazze a pagamento cantavano, danzavano senza veli e giacevano con gli ospiti; stasera
l'idea lo disgustava, anche se non era tanto stanco o indisposto quanto aveva detto. La testa e il polso gli facevano un po' male, tutto qui. Le celebrazioni lo urtavano, alla fine di un giorno e di una serata che minacciavano di cambiare le cose in più di un senso. L'autobiografia di Severo, che aveva previdentemente glossato per poterla usare come fonte, da un pezzo era diventata una congerie di parole che sfuggivano all'attenzione, ed Elio la mise da parte. Chiudendo gli occhi, con un orecchio teso agli auguri di «lunga vita!» rivide il fumo della pira funeraria alzarsi dall'ustrinum, il sentiero soffocato dalla vegetazione oltre di esso, il tempio di Nemesi. Schegge d'immagini del giorno appena passato si levarono di fronte a lui come fulmini nell'oscurità. Il tedio si trasformò in irritazione quando la musica e il chiasso dei tamburelli presero un ritmo pulsante, popolare in Egitto e immancabile alle feste degli ufficiali. Quattro battute ripetute all'infinito, con l'accento sulla terza, aumentavano di velocità fino a creare un'aspettativa mozzafiato. Anubina, per quanto fosse una danzatrice, non amava quel pezzo. Per la stessa ragione durante la campagna d'Egitto Elio si ritirava ogni volta che lo sentiva, restio com'era ad accettare che al suono di quella musica lei fosse stata messa all'asta. Gli uomini, gli aveva raccontato, avevano fatto la fila per toccarla in mezzo alle gambe e accertarsi di quella verginità attentamente pubblicizzata dalla tenutaria, finché un mercante di vino di Alessandria aveva offerto una cifra esorbitante per «stapparla», così aveva detto, di fronte alla compagnia. «Ma dopo ero ubriaca, Elio, non mi ricordo granché. Non so nemmeno se mi ha fatto male.» Durante la Ribellione quel mercante aveva preso le parti degli usurpatori e fondato una milizia, e queste circostanze - che in quei giorni agli occhi di Elio non contavano molto più del suo rancore privato - gli avevano offerto un'insperata e onorevole legittimazione a tagliargli la gola in battaglia. Non l'aveva mai detto ad Anubina, ma Thermuthis lo aveva saputo, ed era stata l'unica volta in cui aveva visto la tenutaria del bordello spaventata di fronte a lui. Il chiasso della festa dunque lo seccava a causa dei suoi ricordi egizi. Ma Elio avrebbe mentito a se stesso se non avesse ammesso di pensare anche a quell'altra donna, in piedi nel buio della casa solitaria fra il tempio di Nemesi e l'arena in cui i suoi compagni presto sarebbero stati giustiziati.
10 dicembre, domenica Al mattino, dalla casa principale non arrivavano segni di vita. Finalmente Elio era riuscito ad addormentarsi, lui che non si abbandonava mai ai massaggi in piscina, sotto le abili mani di un massaggiatore del personale di Decimo. Si svegliò alla solita ora, dopo strani sogni in cui forzava delle porte solo per trovarsene davanti altre, ognuna delle quali prometteva una festa selvaggia, ma si apriva sul buio e sul silenzio. Durante la colazione apprese che per il compleanno di Decimo in realtà si sarebbe dovuto aspettare gennaio, ma lui aveva deciso di festeggiarlo in anticipo, «insieme ai Saturnali». «Anticipa spesso il suo compleanno?» chiese Elio al compunto liberto. «No, signore. Questa è la prima volta.» Lungo il Vico di Venere la coltre di neve era quasi intatta. L'acqua scorreva lenta e torbida nel canale, tra friabili bordi bianchi. Sui tetti dei vecchi bordelli il cielo del mattino riluceva sgombro di nuvole, e al più tardi per mezzogiorno il sole avrebbe sciolto la neve. I rumori vaghi di redini dietro l'angolo indicarono a Elio che i primi ospiti si preparavano ad andarsene. Sarebbe stata una gara fra il sole e i piedi dei portantini delle lettighe, le ruote e gli zoccoli per ridurre in poltiglia la neve, pensò. Nel giro di un'ora la guardia che aveva spedito in abiti civili al Circo tornò indietro per riferire che la bottega del macellaio sotto gli archi quel giorno non aveva aperto. I titolari dei negozi intorno avevano dato versioni differenti, due delle quali privilegiate: era stato arrestato per il ruolo che quell'idiota del suo lavorante aveva avuto nell'aggressione notturna alla Fortuna del Fauno, oppure era scappato per evitare la cattura. «Indizi di un imminente ritorno?» «Nessuno, signore. Il pescivendolo due negozi più in giù dice che ieri sera all'ora di chiusura sono state portate via dieci carcasse di maiale, e quella è stata l'ultima volta che tutti quanti hanno visto il macellaio. Nessuno dei mercanti dirà una parola di più. Andando verso la Fortuna del Fauno come da vostri ordini, invece, sono incappato in un certo trambusto inatteso prima di giungere alla locanda. Dei bambini che si davano la caccia per fare a palle di neve si erano infilati negli spazi angusti fra le case e, sembra, avevano trovato un cadavere.»
Elio si stava vestendo per uscire e si fermò con le dita sulle cinghie delle calzature, perplesso. «Non quello del macellaio!» «No, signore. Uno dei fannulloni dei dintorni ha detto che l'uomo era una faccia nota, conosciuto come ladro. Trafitto al torace, per quel che ho potuto vedere, e non ancora o non più rigido, al di là dell'effetto del freddo. Ho sentito che è stato un gruppo di ebrei il primo a sopraggiungere dopo i bambini, ma è tornato di corsa al suo quartiere per evitare guai. Quando sono arrivato io, le guardie stavano portando via il cadavere e non lasciavano avvicinare nessuno.» «Sembra che sia un quartiere anche peggiore di quanto pensassi.» Quando Elio si allacciò la cintura sulla tunica, il polso bendato gli mandò una fitta di dolore fino al gomito. «Che mi dici dell’ustrinum dei Minuci: hai controllato i sentieri tutto intorno? Ci sono impronte?» La guardia negò. «Fatta eccezione per la strada principale, dove la neve era già stata calpestata da uomini e mezzi, non c'era alcuna traccia in tutta la zona. Nessuna impronta umana intorno all'arena o al tempio di Nemesi, solo il passaggio di una volpe.» Avuta risposta alle sue due domande - riguardo alla sorte del macellaio e alla sicurezza di Casta - Elio impostò il programma della giornata intorno a una visita al quartiere ebraico, ufficialmente per curiosare nei negozi di libri usati. In realtà aveva in mente di cercare Baruch ben Matthias. La guardia riferiva che l'ebreo era sceso alla Fortuna del Fauno la notte precedente, da solo. La mattina, comunque, erano andati ad accoglierlo dei parenti, e lui, bagaglio alla mano, li aveva seguiti. Curio Decimo aveva le borse sotto gli occhi, sembrava più vecchio di dieci anni e disse di sentirsi la testa «grossa come le palle di piume che le ragazzine prendono a calci sulla spiaggia». Incontrò Elio già in sella, mentre stancamente si arrampicava sulla sua per raggiungere il suo posto a Palazzo, per quanto tardi fosse. «Perché non siete venuto?» chiese con uno sbadiglio. «E stata una festa eccezionale, ne parleranno a lungo anche dopo che ce ne saremo andati.» Elio si interrogò sul senso del commento, se si riferisse alla memorabile qualità della festa o ad altro. «E stata un'idea dell'ultimo minuto, celebrare le feste prima che ricorressero?»
«Sì. Non avete sentito le voci che corrono? I venti di guerra le hanno fatte impazzire. Si dice che diversi di noi presto partiranno per la frontiera, la maggior parte degli amici che avete già conosciuto.» Decimo si sistemò sulla testa il copricapo d'ordinanza in pelliccia lisciandosi i capelli sulle tempie. «Dovete aver saputo che era nell'aria, provenendo dalla sede estiva di Sua Divinità. E per questo che Nostro Signore Massimiano non vi ha ricevuto? A ogni modo, i barbari si sono rimessi a fare la voce grossa, e sembra una minaccia che è meglio non ignorare. Quindi - chiamatemi superstizioso - ho deciso di festeggiare in anticipo e condividere l'imbattibile terzetto danza-vulva-vino con gli amici che amo. Andate nella mia direzione?» «Solo fino alla fine della strada. C'è già una tabella delle partenze?» «No, e non siamo ancora sicuri che gli ufficiali delle Guardie di Palazzo debbano partire. E ragionevole però che Nostro Signore Massimiano voglia contribuire con il fior fiore delle sue truppe.» Il tono ironico era fuori luogo in un uomo della posizione di Decimo. Elio prese nota. Se era stato Massimiano a spingere questo ufficiale invelenito a indagare sui fatti in vece sua, non c'era da stupirsi che tutti gli ospiti si fossero precipitati a proclamare la loro fedeltà allo Stato; la trappola era troppo visibile per inciamparci. Ma Elio non dovette fingere per esprimersi come fece: «Si tratta di guerra, qualunque sia l'uniforme che indossiamo». «Vero, vero. Nulla di meglio di un'onesta incursione barbara per far sembrare meschini e fuori luogo la morte di Marcello e i vostri pruriti investigativi.» Cosa farebbe se sapesse che ieri sera ho incontrato sua cugina? Per discrezione Elio evitò di fissare l'aspetto del collega, devastato dai postumi della festa. Insisterebbe per sapere dove si nasconde? La denuncerebbe? Tenere l'informazione per sé gli diede una sensazione gradevole. «Il Perfettissimo capo della polizia, Sido, ha già sottolineato la natura inappropriata della mia curiosità.» Si consentì di sorridere. «Sembra convinto che basti per farmi smettere, con o senza l'aiuto dei barbari.» Decimo gli rivolse un'occhiata di disprezzo. «Non sorridete solo perché avete dei bei denti.» In fondo alla strada, dove si congedarono, replicò al saluto di Elio con un gesto noncurante, conducendo il suo cavallo nella direzione opposta. «Lo stai chiedendo a me? A questo vecchino? Sono solo un povero ebreo.»
«Sei un ebreo, ma non povero, nemmeno alla lontana.» Trovare ben Matthias era stato più facile del previsto. Il suo nome era ben noto al quartiere ebraico, e dopo che ebbe soddisfatto le domande di diversi giovani minacciosi, il passaparola portò Elio alla porta giusta, in un vicolo cieco ampio abbastanza per allargarci le braccia. In quel momento erano seduti l'uno di fronte all'altro in una piccola cucina fumosa e smaltivano le solite frasi introduttive, uno ad affermare di essere passato di lì per caso e l'altro a mostrarsi sorpreso che chiunque potesse rivolgersi a lui per informazioni. Ben Matthias inquadrò nella sua prospettiva le indagini di Elio su Lupo. «Be', non ne sono entusiasta, se è questo che intendi. Mio cognato se l'è vista brutta quando ha dovuto spiegare in dettaglio agli speculatores locali dove si trovava, e con chi, fra l'ora in cui è uscito dal lavoro, la sera, e quella mattutina a cui è andato a svegliare Marco Lupo. È riuscito a provare che non era coinvolto solo perché ha amici altolocati disposti a garantire per quelli dei ranghi più bassi che hanno garantito per lui. Mia figlia, che è incinta, ha avuto degli svenimenti e ci ha fatto spaventare tutti. Quanto al fratello di Lupo, comandante, vorrei che non avessi chiesto. E stato uno dei peggiori, ha coperto Isacco di insulti solo per allontanare da sé i sospetti. 'Sono germanici', ho detto a Isacco quando è andato a lavorare al mattonificio, 'dei germanici non c'è da fidarsi. Non potresti fare il supervisore per qualcun altro?' Ma no, lui doveva lavorare per Lupo, che sia dannato all'inferno dei gentili.» «E ora?» «E ora non so e non mi interessa. La famiglia ingrasserà i palmi giusti per far tacere le voci ed ereditare la fortuna di Lupo, che sono certo sentano di meritare. Dopotutto hanno dimostrato al mondo quanto fossero disinteressati quando hanno chiamato la Voce per far risorgere il loro parente la prima volta. Il risultato più visibile dell'intera faccenda è che anche un moderato come Costanzo ha perso la pazienza con i cristiani. I miracoli creano disordini, e per giunta sta dando ascolto a quelli che accusano Agnus di praticare magia nera. Lui e la sua amichetta Casta sono scappati appena in tempo, visto che adesso sono accusati di aver evocato spiriti malefici contro Lupo per farlo ammalare, fingere una resurrezione e poi ammazzarlo in virtù del loro odio per il genere umano, veneranda accusa mossa ai cristiani. Lo scotto l'hanno pagato i padri della Chiesa di Treviri, che sono stati arrestati in blocco.»
Studiatamente, Elio si tolse il mantello. «La magia nera è un'assurdità. I filosofi assicurano che non esiste.» «Già. E io credo in un Dio, non a un manipolo di divinità. La maggior parte della gente la vede diversamente, comandante. Senti cosa ti dico, sono partito da Belgica Prima una settimana dopo di te, e mi sono premurato di scuotere via dai sandali la polvere di quel postaccio. Accidenti, magari fosse stata solo polvere. Era neve, e parecchia. Al confronto qui a Mediolanum c'è un gran bel tempo.» Studiando il suo ospite, ben Matthias non rivelò come aveva saputo che Elio l'aveva preceduto nella città italiana. Elio non lo chiese, sapendo che Baruch aveva le sue fonti. «Ma che mi dici di te?» fece l'ebreo con un mezzo sorriso. «Dovrebbe lusingarmi che tu mi abbia cercato. Comunque, per quanto abbiamo collaborato, diciamo così, in Egitto, non sei così preso dalla mia presenza da capitare da queste parti senza una ragione specifica. O era tutto qui quel che volevi sapere dell'indagine a Treviri?» «Sì e no.» Per non mostrare la ferita suturata sullo scalpo, anche se la stanza era calda Elio si tenne il copricapo, e abbassò la manica destra sul polso bendato. «Sei qui solo da - quanto? - questione di ore? Ma sei il tipo che tiene le orecchie aperte, quindi ti chiederò se hai saputo della morte di Minucio Marcello.» «Ah! E chi non l'ha saputo. Ha deciso a favore della comunità ebraica in un caso di diritti sulle acque, quindi mi hanno detto tutto sul suo omicidio a colazione. Mi ha turbato apprenderlo. Comunque è una fortuna che stesse perseguitando i cristiani e non gli ebrei, altrimenti dovrei fare di nuovo i bagagli.» Ben Matthias si alzò per ravvivare le fiamme nel focolare aperto. «Ti posso dire subito che è stata coinvolta più di una persona, ma probabilmente non più di due. Uno può aver controllato che non arrivassero altri clienti e gli schiavi delle Terme, mentre l'altro ha fatto fuori il giudice. Hanno trovato l'arma del delitto?» «No. Potrebbero averla pulita nella vasca calda e fatta uscire di nascosto così come l'hanno portata dentro.» «L'hanno cercata intorno alle Vecchie Terme?» «Hanno detto che l'avrebbero fatto, ma chi lo sa. Quando sono entrato ho visto un'impronta insanguinata sulla parete, piuttosto sbavata. Al principio ho immaginato che appartenesse a uno di quelli che hanno tirato fuori Marcello dall'acqua. Gli schiavi con cui ho parlato - prima che fossero decapitati con tanta fretta - hanno
negato che qualunque membro del personale si fosse appoggiato al muro, ma chi può dirlo. Il suo liberto Protasio non ha nemmeno toccato il corpo. Potrebbe essere stato l'assassino ad appoggiarsi dopo aver accoltellato la vittima. Ma se è così, perché l'avrebbe fatto? L'omicidio di un vecchio non può essere così sfiancante.» «Magari l'assassino è sovrappeso, o soffre di vertigini.» Ben Matthias stava scherzando, perché la fiducia di Elio nelle sue capacità investigative lo lusingava e divertiva allo stesso tempo. Fece oscillare la punta ardente di un bastoncino di legno come fosse un pennello. «Forse è inciampato perché è zoppo, e non ha mai sentito dire che 'l'uomo dei miracoli' poteva guarirlo. Le mani sono tutte diverse, ma un'impronta sbavata non è molto utile. Hanno lasciato un segno tutte e cinque le dita, almeno?» «Sì.» «Mano destra o sinistra?» «Sinistra, direi.» «Forse stai cercando un mancino. O forse no. Le Vecchie Terme possono essere frequentate da uomini e donne in orari diversi?» «No, sono troppo piccole. Possono usarle solo gli uomini.» «Be', allora addio alla mia idea che l'arma potesse essere nascosta da qualche parte nell'edificio e che una donna possa averla portata fuori in un secondo momento. Sei sicuro di voler tenere su il feltro? Stai sudando.» «Sto bene, grazie. No, nessuno potrebbe aver portato via l'arma dopo che è stato scoperto il corpo. Le Terme sono chiuse al pubblico dall'omicidio. E nulla che le guardie abbiano trovato sul luogo può essere collegato al colpevole.» «Loro cosa pensano dell'impronta?» «Sono così stupidi da ritenere che sia stato Marcello stesso a lasciarla. Non si capisce come avrebbe potuto farlo, considerato che è stato accoltellato in acqua e non ha avuto il tempo di fare altro che rendere l'anima.» «È proprio della polizia uscirsene con sciocchezze simili.» Elio scosse il capo. «Si trattava di guardie, Baruch. La polizia investigativa non ha detto una parola della sua indagine, e mi ha avvertito anche di non impicciarmi.» «È per questo che hanno mandato quella coppia di balordi a metterti al tappeto alla fortuna del fauno?» Sorridendo sotto la barba, ben Matthias indicò la testa di Elio. «Ho avuto la tua celletta a tariffa scontata, perché gli ospiti hanno paura di passarci la notte. Sembra che piovano ribaldi dal cielo intorno a quella locanda. Stamattina
presto, mentre venivo qui con i miei parenti, ho visto che qualcuno era stato buttato giù da un tetto nello spazio fra due case.» «Dunque sei stato uno dei primi a vedere il corpo: avrei dovuto saperlo. Perché dici che è stato buttato giù? Potrebbe essere stato accoltellato dabbasso.» «No. Gli era caduta addosso una tegola appena spaccatasi, e ne aveva altre sfracellate sotto al corpo. Io dico che l'hanno abbandonato morto o moribondo sul tetto, l'altra notte, e la nevicata l'ha fatto scivolare e cadere di sotto.» «E impossibile! Mi hanno attaccato in due, e non posso averli accoltellati entrambi senza ricordarmene.» «Magari non ne hai accoltellato nessuno dei due. Ai vecchi tempi, quando combattevo - non chiedere dettagli, visto che i miei arcinemici all'epoca erano romani - mi sono trovato una o due volte nella sgradevole condizione di dover si- lenziare i miei
compagni
dopo
una
missione
particolarmente
delicata.
Bestialmente
increscioso, ma deve essere fatto. Non credo che il tipo sul tetto dovesse piovere giù prima di primavera.» «Potresti aver ragione.» Elio buttò il feltro sul davanzale della finestra. «Fino ad allora sarebbe stato ufficialmente incolpato il garzone del macellaio, e chi si interroga sul movente di un idiota? Probabilmente l'hanno ingaggiato solo per montare la guardia e come cadavere utile dopo l'agguato. Per questo non ho trovato sangue sul traliccio: quel povero stupido non ci è mai salito, sul tetto. Contando anche lui erano in tre, ed era previsto che solo uno facesse ritorno. Ma perché prendersi tutto questo disturbo? Come minimo non avrebbero dovuto tagliarmi la gola?» «Sei l'inviato di Cesare. Avrebbe fatto brutta impressione. E quel che hai fatto è stato impicciarti nel caso che gli speculatores avevano aperto e chiuso, la morte di Marcello. Per ora.» Voltando le spalle al focolare, l'ebreo si sfregò le mani. «Almeno è questo che immagino tu abbia fatto. Agli occhi del mondo doveva apparire come un'aggressione casuale, ma a te doveva arrivare un messaggio specifico. Potrei essere fuori strada, comandante, ma se per qualunque ragione la polizia avesse ucciso il giudice, non avrebbero esitato ad ammazzare anche te.»
6 Appunti di Elio Sparziano, scritti l'11 dicembre, lunedì. Festa degli Agonali. Dopo aver ascoltato ben Matthias, la faccenda degli omicidi mi pare ancor più intricata di quanto avessi sospettato. Da una parte abbiamo le vittime: Lupo, «risorto» grazie ad Agnus (la Voce del fuoco), probabile simpatizzante dei cristiani, e Marcello, le cui sentenze contro i cristiani venivano ritenute troppo miti. Dall'altra parte abbiamo qualcuno che ha ucciso Lupo, e qualcuno che ha ucciso Marcello. Perché voglio vedere un nesso fra queste due morti? In apparenza non c'è alcuna connessione logica. Alcune coincidenze esistono: uno dei fabbricanti di mattoni battuto dalle migliori offerte di Lupo ha contribuito, grazie alle sue competenze, a far condannare da Marcello il collega imbroglione di Modicia. Quest'ultimo ha minacciato Marcello. Mi sfugge qualcosa o me la sto inventando, questa connessione, come dice Decimo? E parlando di Decimo, è imparentato con l'assistente di Agnus, Casta, ma è anticristiano, conservatore, per nulla amico di Marcello. A prima vista potrebbe sembrare che ci sia il rancore contro i cristiani dietro entrambi gli omicidi, specialmente visto che sono loro a patirne le conseguenze. Eppure c'è l'accusa di magia nera contro Agnus, e i cristiani sono stati dichiarati colpevoli del complotto per l'assassinio del giudice. Addirittura Casta non esclude la possibilità, o almeno non è disposta a garantire, che i suoi compagni di fede siano innocenti. Anche se contro di loro non sono state presentate vere prove, e la sentenza nel migliore dei casi si può considerare avventata, in sé questo non avalla l'innocenza di chi presto morirà nell'arena. Che cos'altro sa Casta? Come si comportano i cristiani di fronte alla scelta di dire la verità e denunciare uno dei loro? Era pronta ad arrendersi alle autorità dello Stato, che ai suoi occhi io rappresentavo. E tipico dei cristiani non resistere all'arresto, eluderlo, al massimo. Perché? Baruch ben Matthias dice che le gerarchie della Chiesa a Treviri sono state effettivamente decapitate. La stessa cosa sta accadendo a Mediolanum. Cui prodest, per usare le parole di Decimo? Sola risposta possibile al momento: ai conservatori, che da parecchio predicano l'eliminazione di questi zeloti.
A ogni modo l'ebreo ha promesso di tenermi aggiornato su ogni voce che filtri dalla comunità cristiana: esiste un gruppo in cui questo formidabile mascalzone non abbia amici o informatori? Approfittando delle feste, che tengono impegnati guardie e polizia, questa mattina ho cavalcato fino all'ustrinum dei Minuti. Ero diretto all'arena, curioso di vederla da vicino. Come a tutti gli ufficiali in città mi è arrivato un sollecito a presenziare all'esecuzione dei cristiani, che avrà luogo il XVII giorno alle Calende di gennaio. Siccome i sacerdoti ci insegnano che quella data, in cui cade la festa dei Consuali è un endoter- cisus dies, infausto la mattina e la sera ma propizio a mezzogiorno, l'esecuzione avrà luogo a quell'ora. Se non interviene una nevicata, è probabile che lo spettacolo si svolga come da programma. C'è un detto dell' esercito che recita: «Il mondo non è abbastanza grande perché si possa essere certi di non incontrare qualcuno che si conosce». Figurarsi quando si va in un posto che si è già visitato prima! Intenta a porgere i suoi rispetti alle ceneri di Marcello e Lucia Catula, sul limitare dell'area funeraria c'era la vecchia balia bisbetica di Casta. L'ho riconosciuta dalla sua piccolezza. Tutta in nero, assomigliava a una delle streghe di cui parla Orazio nei suoi versi; fossi superstizioso, le sarei rimasto lontano. Invece mi sono avvicinato, e dopo aver pregato i Mani della coppia defunta l'ho guardata allusivamente. Lei non ha ricambiato il mio sguardo. Tutto quel che ha detto è stato: «Se n'è andata, andata, andata», con tale maligna soddisfazione che solo la paura di me deve averle impedito di vantarsi di come fosse riuscita a scappare la sua padrona. Per viaggiare sicura, se si sta dirigendo a est, Casta cercherà di evitare le città di Brixia, Verona e Vicentia, seguendo la strada per Aquileia per scansare i passi di montagna che portano fuori dall'Italia. E la stessa strada che anche l'esercito e io percorreremo fra un mese, diretti alla frontiera. Il secondo messaggio di Sua Divinità in effetti mi è giunto ieri pomeriggio. Accoglie senza commenti il rifiuto di Sua Tranquillità di ricevermi alla corte di Mediolanum, e mi istruisce a lasciare la città il prima possibile a gennaio, quando le unità scelte di Mediolanum si muoveranno. Questo soddisfa i miei desideri. Durante i giorni passati a Spalato, dopo il ritorno dall'Egitto, ho chiesto che considerasse favorevolmente la mia intenzione di tornare in servizio attivo. E passato un anno interminabile dal mio ritorno da una campagna militare. Posso essere anche solo uno di «noialtri» per
quelli come Curio Decimo, ma sento in maniera tanto forte il mio amore per Roma che abbandonare gli intrighi della vita civile per la guerra mi sembra davvero auspicabile. Duco, che ha anticipato la data del suo contratto matrimoniale, mi ha invitato a conoscere la sua sposa e la sua famiglia. La ragazzina è appena più grande di Thaesis, la figlia di Anubina (e mia, a meno che Anubina non mi giuri che il padre è qualcun altro). Incontrandola per la prima volta, il mio collega dai capelli rossi è parso ben poco preso dalla promessa. La madre della ragazza, comunque, è una donna florida, con tutti gli attributi che rendono un britanno (o un pannone, se è per questo) impaziente di esigere i suoi diritti coniugali. Ho detto a Duco che la ragazzina fra pochi anni probabilmente le assomiglierà, e lui mi è parso considerevolmente più allegro. Parentesi personale: sono trascorse diverse settimane da quando ho goduto l'ultima volta della compagnia di una donna (l'eufemismo dei miei maestri stoici per quel che con il cuore in gola feci la prima volta in un piccolo bordello di Poe- tovio, con mio padre ad aspettare fuori dalla porta). Credo di essere piuttosto bravo a controllare le mie passioni, ma le tentazioni sono quel che sono. Forse sarei dovuto andare alla festa di Decimo, alcune delle ragazze che ho visto barcollare fuori dalle sue porte questa mattina erano autentiche bellezze. Mediolanum, comunque, è un luogo in cui Venere si deve sentire a suo agio: sono ottimista riguardo alle mie opportunità di fare l'amore. Aver sentito dai colleghi che la madre di Costantino, Elena, sarà qui fra un paio di giorni francamente rende più acuto il mio desiderio, visto che qualche anno fa era un'amante completa, e stando ai pettegolezzi è ancora bellissima e pazza per gli uomini. Questo pomeriggio andrò a Palazzo, dove ho chiesto un colloquio con il capo della polizia investigativa. Al corrente di tutte le chiacchiere, ben Matthias ha alluso a una molteplicità di strati di intrighi e competizioni fra gli uffici imperiali e i loro titolari; eppure, dall'esterno, danno l'impressione di un muro solido quanto quelli che circondano la città. Forse Sido era soddisfatto all'idea che Elio avesse dovuto seguire la procedura per farsi ricevere da lui, o forse era solo di buon umore. Liberò il suo spazioso ufficio dai subalterni che occupavano le altre scrivanie con un conciso «fuori», e riservò un cenno cordiale al visitatore.
«Come va il polso, comandante? Stiamo guarendo?» «Sì, grazie.» Non c'erano sedie sul suo lato della scrivania, probabilmente perché la maggior parte di quelli che venivano portati lì non aveva grandi speranze di essere trattata da ospite. Sido fece il giro del tavolo coperto di carte e si fermò abbastanza vicino a Elio da toccarlo, se avesse voluto. Era armato, dettaglio insolito per un uomo del suo rango, per giunta in un ufficio, al sicuro, dentro una residenza imperiale tanto ben vigilata. Da un semplice fodero di cuoio alla cintura spuntava infatti una lama più stretta, ma lunga quanto una spada d'altri tempi. L'impugnatura d'avorio assomigliava ancor di più a quella di una spada dell'esercito, e rappresentava la testa e il collo pennuto di un'aquila. Attento a non fissare l'arma, Elio premise di essere andato lì per sapere se ci fossero novità riguardo ai suoi aggressori. «Apprezzo le vostre rassicurazioni sul fatto che sarei stato avvertito. Eppure che posso dire, sono ansioso di avere la vostra opinione professionale.» Pronunciare quelle parole senza sembrare sarcastico fu il risultato della pratica acquisita con molte prove in camera da letto, subito dopo essersi svegliato. I sospettosi occhi grigi di Sido lo scrutarono, anche se comporre i tratti in un'espressione di serena neutralità era stato il secondo esercizio di Elio. «La zona intorno alla locanda è malfamata», disse il poliziotto dondolando sulla punta e la suola degli stivali, abbastanza rilassato da intrecciare le mani dietro la schiena. Perché no? Non aveva motivo di temere alcunché, visto che Elio era stato attentamente perquisito non una, ma due volte prima di arrivare nel suo ufficio. «Di tanto in tanto da quel canale pescano cadaveri, comandante. Gli uomini con incarichi come il vostro possono finire per ritenersi privilegiati e distinti, e partire dal presupposto che abbia qualcosa di speciale anche tutto ciò che capita loro. Credetemi, malgrado i nostri sforzi in favore dei bravi cittadini di Mediolanum, quel che è successo alla Fortuna del Fauno praticamente accade tutte le notti in questa o quella locanda della città. Anche laddove dovessimo individuare un legame fra il ladro patentato e l'aggressione ai vostri danni... insomma! Un ladro è un ladro, e fa quel che fanno i ladri. Quando siamo andati in solaio a cercare tracce, abbiamo controllato anche il tetto. In quel momento non c'era alcun cadavere. Come ve lo spiegate?»
Non me lo spiego, e credo che tu stia mentendo, disse Elio a se stesso, senza pensarci su. «Quelli che hanno visto il corpo per primi riferiscono che aveva il collo rotto.» Sido guardò alle spalle di Elio; fece un cenno a qualcuno alla porta o in corridoio; un gesto tranquillizzante, per indicare che era tutto sotto controllo. «Affermativo. Il fatto che i miei uomini non l'abbiano scoperto durante la loro perquisizione, il mattino dopo l'attacco, mi dice che non aveva niente a che fare con il vostro incidente. E anche accogliendo la possibilità che si trovasse sul tetto, chiaramente è scivolato e si è ammazzato cadendo. Succede anche al migliore dei ladri.» Ben Matthias, nel suo breve esame del cadavere, aveva individuato una ferita alla testa che poteva derivare o meno da una caduta. «Comunque potrebbero avergli spezzato la spina dorsale sul tetto», era stato il suo commento a beneficio di Elio. «Qualcuno, a ogni modo, prima gli ha dato una coltellata nello stomaco, e scommetto che è quello il sangue che ti sei trovato nel letto e per terra.» Non era un dettaglio che Elio trovò saggio condividere. Prese nota del silenzio del poliziotto sulla ferita da coltello. «Il corpo», osservò, «poteva essere stato incastrato ad arte sul tetto finché la neve non l'ha spostato.» «Non necessariamente.» Sido si allungò verso un foglio di carta sulla sua scrivania, distratto, e lo allineò con il margine della superficie di legno. O amava l'ordine, oppure aveva bisogno di un istante per adattare la sua espressione alla bugia. «Lo spazio fra le due case è angusto e pieno di rifiuti. Un posto perfetto per nascondere qualcuno ammazzato per la strada, in un quartiere dove la gente non collabora mai con le autorità.» Lanciò un'occhiata a Elio, che a sua volta fu abbastanza saggio da farsi trovare con lo sguardo rivolto a un angolo dell'ufficio. «Perché insistete nel credere che ci sia un legame fra quel cadavere e quanto vi è accaduto?» Elio sentì di averne abbastanza. Avrebbe preferito che Sido ammettesse il suo ruolo nell'aggressione, perché il gioco duro - anche a un soffio dall'omicidio - fra uomini d'azione è ammesso. «Con tutto il rispetto, Perfettissimo, suggerisco una mia azzardata ipotesi, ovvero che ci fossero tre complici, due dei quali hanno concretamente preso parte all'aggressione. Uno di questi due, il ladro, è stato ucciso subito per eliminare un possibile testimone, e poco dopo la stessa cosa è successa al
garzone del macellaio, che stava di guardia davanti ai tralicci, di sotto. Il terzo uomo è scappato.» Sotto l'occhio destro di Sido un muscoletto tese la pelle, contraendosi e rilassandosi. «Eccellente!» sbottò. «Davvero furbo\ Ora abbiamo tre criminali, perché due non sono abbastanza per una vittima come l'inviato di Cesare. Se non fossero fantasiose assurdità, vi chiederei di considerare la possibilità di prestare le vostre capacità deduttive allo Stato unendovi agli speculatores.» La battuta fece ritornare Sido di buon umore. Quando amichevolmente posò la mano sulla spalla di Elio dovette accorgersi della rigidità dei suoi muscoli, per quanto il visitatore cercasse di fingersi calmo. «Voi mi lusingate», riuscì a spremere fuori Elio dalla sua tensione, «o almeno credo che lo stiate facendo. Si sa nulla del macellaio greco, il datore di lavoro dell'uomo che pare io abbia ucciso?» «Nessuna. Ma un viscido greco è un viscido greco: potete star certo che non si troverà, comandante.» Scommetto che è così, pensò Elio. Farete in modo di essere maledettamente sicuri che non si trovi. Mantenendo la presa possente sulla spalla dell'ospite (avrebbe potuto rompergli l'osso con un unico, rapido movimento), Sido lo accompagnò alla porta. «Passate, se avete altri suggerimenti per noi. Voi e io ci rivedremo all'esecuzione, vero? Lo dobbiamo entrambi al defunto giudice.»
12 dicembre, martedì «Non mi opporrete un altro rifiuto, Sparziano. Vi perdono per aver disdegnato il mio compleanno, ma stasera festeggio la vigilia del giorno di Tellus, e la Madre Terra è una dea su cui nessuno di noi può essere in disaccordo.» L'invito a cena, formulato in maniera tanto affabile e diretta, non lasciò a Elio alcuno spazio per sfuggire. Promise a Decimo che ci sarebbe andato, comprò una copia illustrata del Romanzo d'Etiopia di Eliodoro come regalo di compleanno e partecipò all'elegante riunione in compagnia di quelli che Decimo chiamava amici quasi fratres\ «amici, quasi fratelli». C'erano gli ufficiali che Elio aveva già conosciuto, insieme ad altri tre, il cui approfondito esame nei suoi confronti andò ben oltre la mera curiosità suscitata da un inviato di Cesare.
Stendersi sui divani per cenare stava già divenendo un retaggio del passato, ma rappresentava solo il primo di una serie di atti tradizionali, cerimoniali. Trovarsi fra Decimo e Ulpio Domnino sul divano centrale, il posto d'onore noto come «il sedile del console», confermò a Elio che si onorava il suo incarico. Il menu seguì l'antica divisione fra antipasti (Decimo aveva scelto platessa di Ravenna, lucci d'allevamento e uova di pavone), tre portate principali (cinghiale, coniglio, fagiano) e dolci (conserve e mele al miele). Il vino caldo e freddo, che giovani attraenti allungavano con acqua e miele, veniva fatto girare in coppe della valle del Reno sontuosamente decorate con reticoli di vetro soffiato, per gli auguri di lunga vita e felicità formulati alla maniera romana: BIBE VIVAS MULTIS ANNIS, VIVAS FELICITER. Per tutto il ricevimento, la conversazione sembrò guidata da una regia sottile. Con la scusa della guerra imminente si parlò a lungo della carriera, dei viaggi e delle conoscenze di ciascuno degli ospiti. Elio osservò Decimo stimolare i suoi amici fra cibo e bevande come un direttore di coro, e attese il suo turno con il disagio dell'estraneo fra uomini che si conoscono per questioni di famiglia, educazione, servizio nelle stesse unità. Non era l'impaccio che aveva provato vedendo per la prima volta Roma dalla via Aurelia, tanto schiacciante da fargli passare la notte fuori dalle mura. Era insicurezza, piuttosto, legata a quel gioco a metà fra la millanteria e il segnare il territorio di cui aveva parlato a Modicia Pennato, il fabbricante di mattoni. Fortunatamente la narrazione di questa o quella esperienza di una certa campagna era sempre interrotta da risate e commenti oziosi. L'assegnazione allo stesso comando dei due gemelli aveva creato un'ilare commedia degli equivoci con la moglie di un generale, e il disastroso incontro di Decimo con la cucina caledone aveva ravvivato il suo racconto sul duro incarico svolto alla frontiera. Quando venne il turno di Elio, l'attenzione discontinua che gli ospiti avevano prestato alle reciproche storie si mutò in un silenzio pressoché ininterrotto. Gli occhi si alzarono verso di lui sopra i piatti mezzi vuoti e i bicchieri pieni. Sar- mazia, Egitto, Armenia, Persia, i giorni a Corte: Decimo lo incoraggiò a parlare di quelle esperienze proprio come aveva fatto con gli altri. Eppure, e da parte di Elio fu più che un'impressione, i suoi racconti scatenarono un'analisi che solo la buona educazione distinse da un vero esame. Il sospetto di essere stato valutato lo accompagnò anche dopo che una serie di brindisi mise fine al confronto, quando il levar di bicchieri in
onore di imperatori e unità dell'esercito si mutò in ripetuti auguri a cortigiane e fidanzate lontane, e amanti maschi, per chi li aveva. Alla fine della cena il padrone di casa si alzò da tavola per andare a scegliere altro vino; la sua assenza creò una strana parentesi che rese ancor più acuto il senso di esclusione di Elio. Fu Ulpio Domnino ad aprirla, come uno che riprenda una vecchia conversazione su qualcosa di irrisolto. «Niente da fare, signori. Il nostro Decimo tiene tanto bene il segreto che secondo me dovremmo abbandonare le nostre scommesse, oppure mettergli alle calcagna gli speculatore s.» «Perché?» Lucio Sinistro, che aveva bevuto più degli altri e si sforzava di restare puntato sul gomito sinistro, batté il palmo sul divano come un cliente che chieda un altro bicchiere. «Invece potremmo aggiungere Sparziano alla scommessa: alza un bel po' di soldi come inviato di Cesare, ci giurerei.» Suo fratello, accanto a lui, rise nel bicchiere. «Se non l'abbiamo scoperto noi in anni, come potrebbe farcela uno appena arrivato? Non sapete nemmeno di cosa stiamo parlando, non è vero, comandante Sparziano?» Rispondere che non lo sapeva avrebbe accentuato la sua estraneità. Elio non disse una parola, con il risultato che fu comunque messo a parte del mistero. Riguardava la figlia di Decimo, la cui esistenza non aveva mai menzionato a Elio. Nella fantasia degli ufficiali era ricca e fiera, essendo erede unica, di una tale bellezza che il padre la teneva rinchiusa come Danae, così che nessun uomo o dio potesse prenderla, e tanto istruita che sarebbe stata una vergogna per una donna esibire una simile cultura in pubblico. «Alcuni di noi ritengono che il suo nome sia Plautilla», disse a suo beneficio un uomo abbronzato presentatosi come Vivio Luciano, «perché la prima moglie di Decimo si chiamava Plautia. Altri giurano che sia Porzia. In realtà non lo sappiamo. Probabilmente vive in un'altra città, o qui, sotto falso nome. Lui non lo dice, e noi possiamo solo fare ipotesi.» «Perché è necessario che lo sappiate?» Le parole di Elio recisero una corda molto tesa. Ulpio Domnino rise. Se una recluta di provincia avesse messo i piedi sul tavolo, non avrebbe avuto un'aria più divertita. «Che cosa significa perché? Siamo curiosi. Una piramide, un labirinto o una
scatola sigillata non sono forse fatti apposta per essere aperti? Se c'è uno che dovrebbe vivere seguendo questo dettato, quello siete voi!» Ci erano voluti mesi, a Elio, per rintracciare lettere e documenti, per venire a capo di bugie e inganni, appurare dove si trovava un sepolcro, quale sarcofago scoprire per arrivare alla verità. La sua ultima missione in Egitto gli aveva mostrato la natura terribile dei segreti, e non perché era stato sul punto di morire. «Perdonatemi», cercò di dire senza arroganza, «non sento alcuna esigenza di svelare questo arcano.» «Ma lo direste, se riusciste a svelarlo?» «No.» Dopo che tutti se ne furono andati - anche Ulpio Domnino, che si attardò più degli altri - Decimo osservò Elio prendere il suo mantello dal venerando schiavo nel guardaroba. «Reggete bene il vino.» «Non è una virtù.» «Nemmeno un vizio. Bere fino all'eccesso è un vizio. Non volete restare ancora un po'? Parlare dei vecchi tempi mi ha messo malinconia.» Elio trovò debole la scusa. «Siete stato voi a evocare carriere e campagne. Avremmo potuto parlare della Madre Terra, invece.» Seguì comunque Decimo nella «stanza degli avi». Com'è che nel cuore della notte uomini che si conoscono a malapena parlano più liberamente di quanto farebbero con gli amici? Elio lo interpretò come un livello successivo di indagine da parte di Decimo. Mantenne il riserbo anche quando la sproporzione fra la confidenza concessa e quella ottenuta divenne eccessiva per essere utile al suo collega, per quanto fosse tentato di contraccambiare. «Se leggete i padri fondatori, Sparziano, vi renderete conto di quanto siamo distanti dai nostri ideali, dal disegno originario.» «Be', dipende da quali sono i padri fondatori cui vi riferite. Romolo e Remo? I sette re? O volete risalire a coloro i quali salparono da Troia per trovare un nuovo mondo sui lidi d'Italia?» Decimo mosse il capo in segno di diniego. La stanchezza e il vino gli avevano fatto afflosciare il volto; l'occhio sinistro, in particolare, sotto una palpebra che voleva chiudersi. Aveva raggiunto l'età in cui gli uomini si tengono in forma con i massaggi e l'esercizio, ma la freschezza artificiale del mattino non dura. «Sapete perfettamente cosa intendo. La Repubblica, il popolo, la volontà del popolo inteso come l'insieme
dei cittadini. Guardatevi intorno: non abbiamo idea di chi, o da dove, o quante centinaia di migliaia passeranno i confini da un giorno all'altro. Bisogna allungare l'orecchio, nella maggior parte delle città, per sentir parlare latino.» Fece una pausa, e corresse levando il palmo aperto l'impressione di disprezzo che aveva dato. «Non mi riferisco a gente come voialtri, siete stati romanizzati da un paio di secoli.» «Le genti di mia madre forse, non quelle di mio padre. Dalla sua parte non ho una goccia di sangue italico, di quello romano nemmeno a parlarne. Non possiamo tutti risalire al tempo delle guerre puniche come voi, ricordando per nome tutte le generazioni passate nel frattempo.» «Comprendete dove voglio arrivare?» No, non era affatto chiaro dove volesse arrivare Decimo. Negli anni Elio aveva sentito opinioni simili espresse da civili, politici conservatori, di tanto in tanto da qualche testa calda di città. Lamentele, critiche dello squallido presente dopo i bei vecchi tempi, e la mancanza di rispetto che le giovani generazioni avevano per i loro anziani. Ai militari, in quel senso, importava meno. L'integrazione faceva parte della loro realtà, tutti insieme si impegnavano contro il nemico. «Suppongo che vi riferiate alla composizione delle legioni di frontiera» ipotizzò di conseguenza. «Al fatto che spesso sono affidate a uomini delle stesse tribù da cui ci dovrebbero proteggere.» «Sparziano, in Asia e in Africa è la regola. Avete combattuto la Ribellione in Egitto, lo sapete.» «Sì, e abbiamo vinto. Se vi struggete al pensiero dei tempi in cui erano tutti romani e il nemico abitava a un colle di distanza, a dieci miglia, dovete ridurre di parecchio le dimensioni dell'Impero. Fino - diciamo - alla sola Roma e alle sue prime colonie.» «Lo dite a mei Secoli fa, è stato il mio avo Dentato ad abbattere i maledetti sanniti, e in premio ricevette una casa con trentadue acri di terreno sul colle del Quirinale!» «A me piace come stanno le cose, con la metà del mondo nelle nostre mani e l'altra metà che cerca di diventare noi.» Decimo serrò le labbra. La sua maschera stanca si fissò e per un momento sembrò uno dei volti degli avi allineati sullo scaffale alle sue spalle. «E qui che vi sbagliate. Non cercano di diventare noi: ci svuoteranno della nostra lingua e dei nostri costumi antichissimi finché non saremo più nulla. O finché non saremo proprio come loro, che è peggio del nulla.»
«Posso ricordarvi che quattordici dei nostri diciassette imperatori negli ultimi trentasei anni sono originari delle province del Danubio? Sono principi romani.» «Romani un cazzo. Nemmeno italiani, alcuni di loro perfino analfabeti.» Elio sentì il sangue scorrergli via dal volto, un segno di rabbia che non gradiva di se stesso. «Non ho sentito quel che avete detto.» «Desiderate che lo ripeta? O preferite che lo metta per iscritto, visto che sapete leggere?» Appunti di Elio Sparziano, scritti il 13 dicembre, mercoledì. Memorandum: non importa quanto reggi bene il vino, bevine la metà. Sono stato a un soffio dal colpire Decimo, contro ogni regola e solo perché l'ubriachezza lo tutelava da una più seria accusa di tradimento. Un fragore di vetri rotti mi ha obbligato a voltarmi mentre mi dirigevo verso la porta, pronto ad affrontarlo se avesse cercato di scagliarmi contro qualcosa. In realtà Decimo era caduto all'indietro dalla sedia; aveva battuto la testa contro l'angolo di un tavolino, rovesciandolo insieme al lume accanto. Giaceva sul pavimento con gli occhi socchiusi, svenuto, o in preda a un qualche tipo di attacco – in quel momento non avrei saputo dire - e perdeva sangue da dietro l'orecchio. Il rumore ha attratto il servo del guardaroba, che è accorso in aiuto. Ha borbottato che al suo padrone di tanto in tanto succede, dopo le libagioni o le lunghe veglie. Ho sollevato la testa di Decimo per esaminare la ferita, un brutto taglio da vetro che aveva bisogno di essere tamponato. La testa gli penzolava come quella di un morto, e malgrado avesse gli occhi aperti, dubito che vedesse me o qualunque altra cosa. A quel punto è intervenuto il medico di casa. Quando questa mattina ho verificato le condizioni di Decimo, mi hanno assicurato che stava meglio, che aveva già dimenticato qualunque cosa fosse successa dopo l'arrivo dei suoi ospiti a cena. A mezzogiorno, mentre leggevo la vanesia autobiografia di Severo, ho ricevuto una visita inattesa dal liberto dei Minuci, Protasio. Dopo avermi cercato invano in caserma, dove Duco gli ha indicato il mio nuovo indirizzo, è venuto sotto sua responsabilità a chiedermi se avessi alcuna influenza sul sistema giudiziario di Mediolanum.
Ho risposto in tutta sincerità che non ne ho. Per giunta il successore di Marcello è partito per le vacanze invernali, e il destino dei cristiani detenuti ai Prati Gallici è segnato. Nonostante tutti i suoi discorsi sull'essersi lasciato alle spalle la superstizione, Protasio si sente chiaramente vicino ai suoi compagni di fede di un tempo. Perdere i vertici della Chiesa locale - il fiore del clero, come li chiama - a suo giudizio paralizzerà il movimento per gli anni a venire. Ho replicato che in effetti era proprio quello l'intento delle autorità, al di là dell'accusa ufficiale di omicidio. A questo proposito Protasio è irremovibile: il colpevole andrebbe ricercato altrove (Fulgenzio Pennato resta la sua bestia nera). Ha ammesso che due o tre degli schiavi delle Vecchie Terme già giustiziati fossero in odore di cristianità. «Non potrebbe essere stato uno di loro a uccidere il tuo padrone?» ho chiesto. Niente commenti. Quando ho cercato di ripercorrere insieme a lui gli istanti prima e dopo la sua scoperta del corpo del giudice nella vasca d'acqua calda, Protasio mi ha dato una descrizione vaga ed emotiva come la prima volta. Ha cercato impronte di piedi, invano. Si è sentito male. Allorché ho menzionato la traccia insanguinata di una mano sinistra sulla parete, mi ha rivolto uno sguardo vuoto. Era così stravolto dall'orrore da non essersene accorto? E possibile. Mantenendo il tono di voce più neutrale che potevo, allora, ho indagato sui rapporti di lavoro fra Minucio Marcello e la polizia investigativa. Li ha definiti «corretti da entrambe le parti», ma per nulla amichevoli. Mi mette sempre a disagio vedere un vecchio, qualunque sia la sua posizione sociale, stare in piedi mentre io sono seduto. Protasio e la sua schiena malandata, comunque, sono rimasti ritti davanti a me per tutta la durata della conversazione, al termine della quale ci siamo fissati per un momento lungo e imbarazzante. Io stavo pensando che la casa dei Minuti non è distante dal rifugio di Casta, e mi chiedevo se il liberto sapesse nulla della sua breve visita; lui mi ha restituito lo sguardo come se fosse sul punto di condividere un'informazione. Mi leggeva nel pensiero? Mi ha detto che, ricordando il mio interesse per la Voce del fuoco, aveva compulsato le sue vecchie carte senza trovare nulla (scommetto che ha ripulito i cassetti da ogni sciocchezza religiosa, in questi giorni!). A ogni modo ha aggiunto: I) che Agnus aveva tuonato contro il giudice Marcello nelle sue epistole ai correligionari di Mediolanum, e II) che avrebbe potuto recuperare una copia di quella che ha chiamato «lettera pastorale» scritta da Agnus ai cristiani di
Aquileia qualche tempo fa. Mi interessava? Ho risposto di sì. Mentre parlava, in volto aveva dipinti tutti insieme sentimenti di dolore, preoccupazione, pietà. Sul mio, mi azzardo a dire, c'erano la solita curiosità e un interesse tutt'altro che spirituale, un misto dell'impressione ricevuta dalla (bellissima?) diaconessa e la crescente, mondana aspettativa per l'arrivo di Elena, questa sera tardi.
14 dicembre, giovedì «Fresco di Terme! Lo sento dal buon odore, quanto sei pulito.» Flavia Giulia Elena non era cambiata nei due anni in cui Elio non l'aveva vista. Non era mai stata particolarmente bella, dunque il tempo le usava la cortesia che alle grandi bellezze non è garantita. Così almeno la pensava Elio, che aveva studiato i ritratti delle imperatrici del passato. Le mogli di Augusto e di Adriano, e anche la sposa siriana di Severo, erano passate da giovani deliziose ad arcigne matrone, se gli scultori non mentivano; ed era improbabile che le avessero ritratte più brutte di quanto fossero. L'ex concubina imperiale Elena, dagli occhi grigi, con i capelli fluenti ancora scuri e fulgidi, un corpo da nuotatrice e mani dalle dita affusolate, conservava l'aspetto apprezzabile che presumibilmente aveva sempre avuto. A giudicare da come era vestita spendeva ancora una fortuna in abbigliamento (Costanzo pagava i conti per rendere più appetitoso il ripudio che le aveva riservato), e ancor più in gioielli. A Corte, dieci anni prima, lei lo aveva considerato uno dei tanti avvenenti ufficialetti che abitualmente catturavano la sua attenzione, e l'aveva fatto struggere per giorni prima di portarlo nelle sue stanze. Erano stati amanti per un'estate, a tratti, anche se lui non era l'unico, naturalmente, cui lei si concedeva. E se il padre di Elio diceva di ricordare bene quando Elena serviva da bere nella taverna di famiglia, a quel punto lei era l'ex concubina di un imperatore, e - a meno che i pettegolezzi non fossero del tutto fuori strada - ben presto sarebbe stata la madre di un usurpatore. Non c'era dubbio che si trovasse a Mediolanum per favorire la corsa all'Impero del figlio. Nell'elegante locanda fuori Porta Argentea, dove si era fermata per la notte, si abbracciarono e baciarono sulle guance, poi sulle labbra, e quando Elio infine si tirò
indietro («per elementare prudenza», come disse), con leggerezza Elena gli diede il suo indirizzo definitivo in città. Era venuta a trovare il suo vecchio amico Curio Decimo, spiegò, e qualche altro conoscente, per le festività. «Sai», aggiunse agitando un dito nella sua direzione, «allora ti ho scelto perché eri bello, non perché eri in gamba. Gli uomini in gamba sono rari a Corte come altrove: perché mai avrei dovuto cercarne uno a Nicomedia? Non l'ho ancora capito, se sei in gamba oppure no. E nemmeno ho deciso se vorrei avere un amante che sia anche solo in parte intelligente quanto me.» «Be', obbligato. La prossima cosa che mi dirai è che a Nicomedia avevi intenzione di controllarmi denti e zoccoli prima di scegliermi dal branco, ma nella tua gentilezza hai scelto di risparmiarmelo.» «Oh, i denti li ho fatti controllare, e... insomma, non esattamente i tuoi zoccoli. Ricordi la visita militare cui sei stato sottoposto la prima volta che sei stato convocato a Corte? Non era richiesta, ma ho pensato che sarebbe stato utile.» Rise. «Ho delle esigenze di taglia, e cose del genere. Perché hai l'aria imbarazzata? Voi uomini fate lo stesso nel momento in cui entrate in un bordello, o spettegolate fra voi delle vostre ragazze, per sapere quanto sono strette qui e larghe lì. Ho sentito la mia parte negli anni dell'adolescenza.» Era il modo di Elena di riferirsi al suo passato alla taverna, anche se un paio di volte Elio le aveva sentito dire «il mio apprendistato». «Affermi di conoscere Curio Decimo: potrei dirti di lui, per esempio.» «No, grazie.» Lei gli accarezzò le guance con le nocche, avanti e indietro. «Lo batti in dimensioni, anche se non in durata, ma Decimo conosce un paio di trucchetti che a te sfuggono. Stai alla larga da quell'uomo Elio. Lui sì che è in gamba, e non c'è modo di dire cosa possa fare con la sua intelligenza. E non dargli fiducia, ti sedurrà. No, non in quel senso, in senso politico.» Fece un passo indietro. «Ora vai. Devo cambiarmi, e le mie serve sono così impacciate, sono inutili.» Elio la osservò aprire un baule chinandocisi sopra in una posa piuttosto seducente di posteriore e fianchi. «Aspetta. Cos'è questa storia della durata?» Elena parlò senza voltarsi, immersa fino ai gomiti nelle stoffe leggere. «Oh, niente, niente... eri un bambino, dopotutto. Andavi di fretta.» «Non vado di fretta, ora.»
«Vedremo. Resterò per qualche giorno, quindi è possibile...» Elena non finì la frase. Era il suo modo di parlare, ricordò lui. Teneva aperte tutte le strade alludendo a una probabilità, senza rivelare a cosa potesse condurre. La sua voce scivolò in un «mm... mmm... mm...» di sospensione, lasciando all'interlocutore uno spazio vuoto da riempire. Elio decise che era meglio non dirle che alloggiava da Decimo. Lei fece volare tutto intorno veli e capi di cotone leggero. «Sei uno dei pochi con cui negli anni ho mantenuto un'amicizia. Voglio che tu sappia che mi è dispiaciuto, per tua madre, tenerti fra le grinfie per tutta l'estate.» «Lei non l'ha mai saputo.» «Credi? Il cuore di una madre è il cuore di una madre, Elio. Sente tutto quello di cui ha bisogno un figlio, e quello che fa.» Elena si voltò, improvvisamente impaziente. Lui non riuscì a capire se stesse cedendo a un impulso o precipitando una decisione ben ponderata. «Passa questa sera: sono annoiata. Quasi tutte le fonti minerali che ho visitato erano piene di devoti custodi di templi e sacerdoti con l'abitudine disgustosa di tenerti d'occhio. Non sto con un uomo da due settimane.» Si gettò una semplice stoffa nera sul capo, e quando lievemente ricadde, drappeggiata sul suo corpo, la coprì fino al bacino, come un velo di nebbia. «Ho dovuto accontentarmi di uno sciocco ufficiale spagnolo che si trovava ad Aqua Nigra per curarsi un'infezione a un orecchio, e non mi ha soddisfatta nemmeno a metà. A parte l'orecchio, voglio dire.» Baciandolo attraverso il velo lasciò che le ginocchia le cedessero, in modo che lui dovesse cingerla con un braccio per tenerla in piedi. La lingua di lei inumidì la stoffa. «Non so proprio come facciate a farne a meno, durante una lunga campagna.» Elio sentì la lingua di Elena contro la sua. Alcesti, recitava la poesia, era risalita dagli inferi velata di nero. E il velo era a un tempo / impedimento e invito. «Ho avuto bravi maestri, Elena.» «Bravi maestri dei miei stivali.» Si dimenò dietro la delicata barriera. «Dieci anni fa avevi già concluso la tua educazione, e non mi ci è voluto molto per portarti a letto.» «Mi hai fatto aspettare una settimana.» «Davvero? Mi chiedo perché. E dolce da parte tua ricordarlo.» Con due dita, lentamente, Elio tirò giù il velo. Il volto di Elena emerse bianco, pulito, le minuscole rughe ai lati della bocca sembravano aggiungere perfezione. «Ho
consumato il pavimento davanti ai tuoi alloggi. Avrei spaccato la testa al mio compagno di stanza, se l'avessi preferito a me.» «Be', mi aveva attraversato la mente l'idea di vedervi az- zuffare per le mie grazie.» «Azzuffare? Eravamo i migliori maestri di spada dell'unità, lui e io, avremmo finito per farci a pezzi l'un l'altro. Possibilmente mirando alle parti migliori che avevamo da offrire, al di là dei nostri volti gradevoli.» Il tocco di Elena lo cercò in maniera così spinta che Elio dovette sforzarsi di non gemere di piacere. «...Passerò questo pomeriggio, se vuoi.» «Perché no. Il pomeriggio è meglio della sera.» Lei stava slacciando e sollevando cuoio e stoffe, e gli parlava sulle labbra. Elio cominciò a vedere tutto attraverso un rossore liquido, come se sul corpo di Elena ci fosse stato un sinuoso velo scarlatto. Il sangue gli rimbombava nelle orecchie. «Non ho nemmeno tanta fame, quindi... voglio dire, potrei passare, non so... anche prima di pranzo.» La sciocchezza gutturale delle sue stesse parole scaturì come da qualcun altro, perché era andato lì sperando che tutto ciò accadesse e stava accadendo, e parlare era del tutto fuori luogo. «Prima di pranzo, che idea. Ma non varrebbe la pena che tu andassi a casa per poi tornare qui da me di corsa... e se facessimo che prima di pranzo è orai» Avevano fatto un simile gioco ansioso quella memorabile prima volta a Nicomedia, in una stanza in cui non c'era alcun letto, solo tappeti che coprivano il pavimento da parete a parete e i cuscini che Elena tanto amava. Cuscini e tappeti abbondavano anche lì, e c'era addirittura un letto, in quella stanza transitoria. La prima volta con lei stava arrivando la pioggia. Il cielo di Nicomedia era nero a metà mattina, il vento faceva sbattere le porte aprendole e chiudendole, gonfiava le tende nelle stanze. Dal cuscino sotto di lei Elena si era fatta scivolare un nastro di seta rossa fra le cosce, lucido e stretto, come emergesse da quel luogo desiderabile; se l'era tirato lentamente su, fino al ventre, sull'ombelico, fra i seni, al collo. Sembrava una ferita preziosa che la fendeva in due. Io mi ero inginocchiato accanto e mi spogliavo con un desiderio cieco di piangere, tremando per entrare dentro di lei prima che cadesse la pioggia.
Accucciata nuda sul letto, Elena si teneva i seni, lasciando sporgere i capezzoli fra le dita. Nella maggior parte delle altre donne, per non dire delle donne della sua età, quella posa civettuola sarebbe apparsa ridicola. Nel caso di Elena era seduzione e promessa di altra seduzione. Disse: «Elio, sai che ho ragione». «No, non lo so.» «Sì, lo sai.» La tarda mattinata, l'ora del pranzo e il pomeriggio erano volati via, il buio si affacciava alla finestrella, e ancora una volta lei prese a fargli scivolare via le lenzuola di dosso. Lui la fermò, ma tenne la mano sulla sua. «Costantino è il più in gamba di tutti loro, Elio caro, non perderà tempo ad aspettare che quei vecchiacci muoiano o cedano il posto, per avere la sua occasione. Massimiano non ha alcuna intenzione di ritirarsi, qualunque cosa ti abbia detto. Complotterà con suo figlio per tenere il potere, e allora scoppierà una guerra, perché Diocleziano non consentirà mai al suo pari di rimanere sul trono.» «Preferirei non pensarci. Ho visto la Ribellione in Egitto, e mi basta per il resto dei miei giorni.» Elena si insinuò sotto le coperte al suo fianco. «Vedi da te, dunque, che ci serve un uomo forte.» I baci e le effusioni ricominciarono, al principio solo da parte di lei. «Fa' in modo che Costantino sappia che ti importa, proprio ora, e ne beneficerete entrambi.» Per quanto arrabbiato si sentisse ormai nei suoi confronti, Elio ricambiò i baci e si trovò presto sul punto di non far caso a quel che veniva detto. «Non me lo chiederesti se non pensassi che Costantino non ce la può fare da solo. Dubito che sia il mio vantaggio quello che hai in mente.» «Be', questo è quel che credi, caro. Ma se sei amico di Costantino, non c'è modo di dire cosa potresti finire per guadagnarci, una volta che sarà in vetta.» «Tuo figlio dovrà trovare una ragione migliore del non volere attendere il momento opportuno, Elena. Esiste un sistema, e deve rispettarlo.» «Ma Elio, Elio, una volta che un uomo si trova sopra...» E questo, vista la situazione, era più di un suggerimento.
15 dicembre, venerdì. Consuali, Festa della Semina
La lastra di vetro deformava la vista. Attraverso la sua superficie imperfetta il bagliore del mattino filtrava verdastro. Sorgendo dalla nebbia sui campi, il sole si dilatava in un'opacità pallida e acquosa che delimitava l'oriente (le strade, il confine, la frontiera). Elio si voltò verso Elena, seduta alla sua specchiera. Si stava appuntando la treccia sul capo, sistemando meticolosamente le ciocche di capelli che sfuggivano a quella corona annodata e lustra. Il fatto che qui e là avesse una vena pallida di un color acciaio - non proprio capelli grigi - la rendeva più interessante, curiosamente più desiderabile. Dalla sua compostezza non si sarebbe potuto comprendere che da lui non aveva ottenuto quel che voleva, se non fisicamente. «Chi hai di questi tempi?» chiese lei guardandolo dallo specchio. «So che non ti sei sposato, ma chi ti tieni?» Elio tornò a voltarsi verso la finestrella. Allacciatosi la cintura, era pronto ad andare. Dopo due ore sarebbero iniziate le esecuzioni dei cristiani, e aveva promesso a Duco che avrebbe cavalcato con lui fino all'arena. «Nessuno, nel senso che intendi tu», rispose. «Vedo delle donne.» «Donne. E questo cosa significa? Puttane, signore, con- tadinotte d'oltre frontiera?» «Non le ultime.» «Oh, andiamo, Elio! Fai il difficile perché non vuoi dirmelo. Non è qualcuna del giro imperiale, altrimenti lo saprei. Due anni fa a Nicomedia facevi la corte a Ignazia.» «Non per vantarmi, ma era lei a corteggiare me.» «Con successo?» «Così così.» Il rimpianto, o almeno la malinconia, scavarono via il primo pezzetto della mattinata di Elio. Il nome di Anubina era talmente sepolto nel suo profondo che non l'avrebbe mai pronunciato a uso del mondo. «E tu chi stai tenendo?» «Quanta impertinenza per un uomo che ha i capelli grigi da quando aveva venticinque anni.» Stendendosi il trucco, Elena fece delle smorfie. «Quando diventerò cristiana pregherò per i tuoi peccati.» «Be', Elena, dovesse venire quel giorno, gli inferi come li conosciamo cesseranno di esistere: Tantalo riuscirà a raggiungere il cibo e il masso di Sisifo schizzerà lontano a ogni sua spinta.» «Fossi in te, non ne sarei tanto certo.»
«Sì, naturalmente. Se un ciarlatano può resuscitare i morti, allora può accadere qualunque cosa.» Elio rise, e fu la sola ragione per cui Elena non se la prese a male. Quando si spostò alla luce della finestra, gli occhi della donna, cerchiati di un nero fuligginoso, brillavano come argento. «Ringrazia la sorte che ti ha fatto un bell'uomo, Elio Sparziano.» «Sì, e rispetto la riservatezza delle signore.» Agli ingressi dell'arena erano stati allestiti altari temporanei per assicurare che tutti i partecipanti, entrando, offrissero dei grani d'incenso. La misura in effetti teneva lontani i cristiani e la maggior parte degli ebrei, ma non quelli secolari come ben Matthias, che Elio scorse nella folla. Il vecchio combattente della libertà si cacciò con noncuranza le dita nel naso prima di usarle per raccogliere dell'incenso e gettarlo nel fuoco. «E sempre la solita storia, quando decidono di allestire questi spettacoli di fretta.» Duco borbottava calcandosi il cappello di pelliccia sulle orecchie infreddolite. «Non hanno trovato un leone in tutta Mediolanum, e quelli che hanno mandato a prendere a Ticinum non ce li hanno dati. E poi i leoni con questo tempo non vanno bene, per non parlare delle tigri. State a guardare, Elio, sarà uno di quegli spettacoli mosci che si trascinano all'infinito, finché non ordinano ai soldati di accelerare le cose. Hanno detto a Saracco di portare un po' dei suoi arcieri. Be', no, alcune bestie ce le hanno. L'autunno scorso l'esercito ha comprato tre orsi in Germania, ma uno si è ammalato ed è morto. Quindi sono rimasti con due orsi e tredici cristiani.» «Dodici, volete dire.» «No, proprio tredici. Ce ne sono tredici dichiarati nel manifesto. Guardate.» «Credevo che per l'omicidio di Minucio Marcello ci fossero stati dodici arresti. Chi è il numero tredici?» Duco rispose che non lo sapeva, e nemmeno si accorse dell'agitazione del collega. Quando raggiunsero i loro posti, all'improvviso Elio si alzò dicendo: «Torno subito». Mentre faticava a raggiungere l'uscita più vicina contro la corrente degli spettatori, vide Elena e Decimo entrare insieme nel settore accanto, come vecchi amanti. La guardia cui Elio si rivolse disse di non sapere, ma che il suo ufficiale subalterno avrebbe potuto avere i nomi e le identità dei condannati. Non era così. «Non tengo
qui una lista, comandante», spiegò l'uomo. «Posso dirvi che in tutto si tratta di sette uomini e sei donne. Uno è stato aggiunto all'ultimo minuto.» «Chi è? Uomo o donna?» L'ufficiale fece una smorfia. «Avete preferenze?» No finché non si tratta di Casta. «Sono un uomo preciso», insistette Elio, «con un manifesto errato in mano. Mi urta che i programmi vengano cambiati all'insaputa del pubblico.» «E un maschio, un greco. Coinvolto in un'aggressione contro un ufficiale. Altro, signore? Lo sapete che ci sono due orsi invece di tre?» Appunti di Elio Sparziano. Di solito non ho difficoltà ad assistere alle esecuzioni. Il rilievo educativo della punizione pubblica non mi sfugge, poiché anche quelli che vi partecipano per i peggiori motivi (guardare esseri umani che soffrono) comprendono il messaggio per cui infrangere la legge porta a un castigo tempestivo e severo. Nella mia filosofia il dolore è inevitabile e non va sfuggito. E la vista dell'intemperanza di fronte alla morte a disturbarmi, come soldato e come uomo. Lo sfortunato macellaio greco, cui mi rammarico di non aver raccomandato di fuggire quando quell'idiota del suo garzone ha fatto quel che ha fatto, ha lottato orribilmente, ma almeno è stato ucciso per primo. A mio giudizio lo spettacolo delle donne legate mani e piedi che cercavano di strisciare via dalle bestie selvagge è stato particolarmente sgradevole, oltre che una punizione che trovo indegna del nostro sistema legale. Mi hanno detto che erano le mogli dei cristiani arrestati a seguito della morte di Marcello. Senza essere accusate direttamente di alcun crimine, hanno scelto di seguire i loro uomini in prigione e nell'arena, senza dubbio ingannate dai vaniloqui che i loro sacerdoti scrivono sulla gloria del martirio, sul loro dio che distribuirebbe corone di rose e sulle bestie che indietreggerebbero davanti al sacro. Una di quelle povere creature è riuscita a liberarsi polsi e caviglie - a meno che non siano stati i giustizieri a legarle poco strette per accrescere l'emozione degli spettatori - e ha iniziato a correre in tondo strillando come una pazza. Non più giovane, la paura le ha dato un'energia insospettata. Ha tentato invano di arrampicarsi sugli spalti di legno che separano l'arena dalla prima fila di posti. Ha battuto i pugni sulle assi e implorato quelli di sopra di aiutarla, e per tutta risposta la gente le ha rovesciato addosso torsoli di mela e rifiuti, e ha incitato gli orsi a inseguirla. Uno degli animali,
pungolato da un soldato, ben presto si è messo a trottare nella sua direzione. Ottuso come possono essere gli orsi, si è avvicinato dondolando la testa, poi ha perso interesse, perché quelli ancora legati erano stati già in gran parte straziati e gettati a terra, e l'attraevano con l'odore del sangue. L'orrendo balletto è proseguito per un pezzo, peggiorato dalle incessanti urla con cui la donna chiedeva aiuto. Quando infine la bestia l'ha raggiunta (mi vergogno a scriverlo) le sue viscere hanno ceduto all'estremo terrore, e anche dalla relativa distanza del mio posto la lordura della veste bianca risultava ben visibile. La folla ha tuonato. Solo alcune delle donne, dagli spalti più in alto, dove stavano sedute con gli schiavi e gli stranieri, finalmente hanno iniziato a protestare. A quel punto non si poteva fare più nulla per salvare la vittima. Anche così, c'è voluto parecchio prima che smettesse di gridare e contorcersi nella presa dell'orso. La sua morte ha fatto perdere ogni interesse all'animale: anch'esso ne aveva abbastanza! Con un'ultima zampata ha spinto lontano da sé il corpo esanime e si è voltato verso quelli che ancora attendevano di essere finiti. (Ricordarsi di riferire a Sua Divinità). Alla mia sinistra, quando mi sono tirato indietro sul sedile, ho notato Duco con gli occhi sulle ginocchia, rosso fino alle orecchie, oltre il suo colore naturale. Nel loro palco, non lontano da noi, Aristofane, Sido e le Guardie di Palazzo si stavano passando dolci e bevande. I colleghi di Decimo si rimpinzavano, specialmente Domnino, che aveva allungato le gambe sui sedili che Elena e Decimo avevano lasciato liberi, a un certo punto, durante lo spettacolo. Ben Matthias, che era stato seduto con i mercanti stranieri, in loro presenza si esibì in cerimoniosi saluti orientali, toccandosi il petto e le labbra. Fuori dall'arena, nella folla che andava disperdendosi, attese finché i suoi compagni furono fuori vista e poi fece un cenno a Elio. «Mi onora che tu voglia tornare a cavallo in città con questo umile imprenditore funebre, esimio comandante. Puah!» Mimò il gesto di sputare. «Questi discorsi melliflui sono terefah.» «Immondi, dici? Quel che abbiamo appena visto va oltre l'indecenza.» Affidandosi al polso guarito, Elio montò in sella. Non aveva desiderio di unirsi a Duco, diretto da qualche parte a bere qualcosa, mentre una conversazione con l'ebreo poteva tornargli utile. «E i giochi gladiatori vanno bene, eh?»
«Non ho nulla contro i giochi gladiatori. Sono una cosa completamente diversa, Baruch.» Ben Matthias era in groppa a un mulo nervoso. Non disse molto mentre sfilavano davanti a una doppia fila di sepolcri sui lati della strada per Mediolanum. Il suo occhio attento soppesava architravi scolpiti, incisioni; per due volte spalancò ad angolo indice e medio di entrambe le mani unendoli alle punte per formare una cornice quadrata attraverso cui esaminare i monumenti. «Decorazioni passabili, iscrizioni scadenti», fu il suo giudizio. «Buone notizie per te, no?» «Lo spero.» Modulando la voce per imitare il tono di una guida turistica, l'ebreo puntò alla porta della città che avrebbero raggiunto di lì a poco. «Porta Ticinese, nota anche come Porta di Palazzo. Qui potete ammirare la torre d'angolo e l'ingresso più occidentale delle mura di Mediolanum, dove l'ippodromo con la sua magnifica massa forma un ulteriore baluardo. Notate la sua estremità, dove le torri della linea di partenza svettano in cielo, preparatevi per i viali eleganti dei palazzi governativi! All'altro capo si trova un'accozzaglia di modeste locande. Lì, nei giorni delle corse, le ovazioni e il fragore delle bighe che affrontano la curva stretta o cozzano disastrosamente le une contro le altre, sono assordanti. La locanda nota come la Fortuna del Fauno, frequentata soprattutto da ebrei in viaggio per i loro commerci, di recente è stata la scena di un'infida aggressione...» «Baruch, piantala. Ho bisogno di alcune informazioni.» «Oh, benissimo.» Ben Matthias si avvolse il collo in una sciarpa. Si lisciò delicatamente la barba riccia sotto il labbro inferiore, dividendone la massa fin sotto il mento. «Mi par di capire che tu e la signora Elena ieri sera vi siate incontrati, per usare un eufemismo. Lo sapevi che per un po' ha avuto un amante ebreo a Nicomedia, e che le è piaciuto così tanto che al successivo ha chiesto di farsi circoncidere?» Chiaramente c'erano degli ebrei nel personale agli alloggi provvisori di Elena, pensò Elio, divertito dall'insolenza. «Ti garantisco che non ero io quello, Baruch», replicò senza astio. «Che altro mi puoi dire?» «Su cosa, Elena, Mediolanum o la politica? Ah, tutte tre. Avrei dovuto saperlo. E triste quando fottere una donna non basta più a farle rivelare le ragioni per cui lei si
concede. Quindi immagino che tu non stia agendo in veste ufficiale, ma solo per curiosità personale.» «Perché?» «Fa differenza rispetto a quello che direi o meno.» «Senza ricompensa, in altre parole. D'accordo, ammetto di agire per pura curiosità. Nessun ordine dall'alto.» Erano arrivati al crocevia trafficato di fronte a Porta Ticinese, un'intersezione tanto rappresentativa nel suo genere da essere comunemente chiamata solo così, quadruvium. Quelli di ritorno dall'arena a bordo di carri scendevano per raggiungere le vicine trattorie e i chioschi di salsicce all'aria aperta. I cani rognosi ricevevano calci immediati in risposta al loro elemosinare, ma continuavano a restare bramosamente accucciati nell'odore grasso di cotenna di maiale fritta che aleggiava su tutta la zona. Davanti ai baracchini del pesce fritto e del vino sostavano anche le carrozze più eleganti, le tendine tirate contro il freddo, i rumori e il fetore. Ben Matthias serrò le labbra disgustato. Qualunque critica fosse sul punto di proferire, gli morì sulle labbra alla vista del suo compagno intento a comprare del maiale fritto in un cartoccio di papiro unto. Tirò il fiato solo quando Sparziano, tornato in sella, cominciò a gettarlo a pezzettini al branco di cani randagi. «Spero che dopo non mi toccherai con quelle mani, comandante.» Elio gli lanciò un'occhiata. «Sto ancora aspettando informazioni.» «Allora, vediamo. Si mormora che Elena si sia messa in testa di non farsi sorpassare da alcuna altra donna, moglie o nuora. Con Minervina non può far molto, perché ha appena dato un figlio a Costantino, ma non c'è modo di prevedere quanto durerà il matrimonio. Durante il suo giro delle acque termali - fidati, lo so da fonte attendibile - ha cercato di sedurre ogni ufficiale e politico che possa a suo giudizio migliorare la posizione di Costantino. Si è scopata perfino il figlio di Massimiano nella speranza di prevalere.» Estratto un fazzoletto dalla sacca della sella, Elio si pulì minuziosamente le mani. Girandosi le redini intorno al polso sinistro, fece tornare il cavallo verso la porta. «Tutte queste cose potevo immaginarle anche da me, Baruch. Che altro?» «Be', dicono che chiunque abbia ucciso il compianto Marcello abbia anche cercato di ammazzare l'inviato di Cesare.» «Oh?»
«E che le armi usate in entrambi i casi erano state immerse nel veleno, in modo che - non fossero riuscite a ferire - la sostanza tossica si sarebbe fatta strada per le vene fino a far marcire il cuore.» Ben Matthias assunse un'espressione di pietosa preoccupazione. «Nel tuo caso, se era avvelenato l'arnese che hanno usato per stenderti, puoi aspettarti che la morte intervenga, diciamo, fra un mese o giù di lì.» «Te lo stai inventando.» «Giuro che l'ho sentito dire. Altri dicono che è la Voce del fuoco a volerti morto, in modo da poterti resuscitare pubblicamente durante i Saturnali e convertire le masse. Si sostiene che la Voce cambi forma come Proteo, che possa trovarsi in più posti contemporaneamente, e che proprio adesso sia a Mediolanum.» Quali assurdità, si disse Elio. Se l'ebreo non stava mentendo di proposito, però, forse stava riferendo dicerie trapelate sui santi della setta cristiana. Lo faceva star male pensare a Casta dopo quello che aveva visto nell'arena. Era davvero «andata andata andata» come aveva detto la vecchia balia, ed era al sicuro? E la storia del veleno a effetto ritardato! No. Non poteva esistere una cosa del genere... «Basta, Baruch. Voglio che controlli qualcuno per me.» «Ti costerà.» Il flusso in entrata delle persone aveva richiamato una maggior presenza di guardie e soldati a Porta Ticinese. Varcandola, Elio rispose con dei cenni del capo al saluto degli ufficiali subalterni. Quando Baruch fu trattenuto e dovette identificarsi, come tutti gli altri, non fece nulla per aiutarlo, restandosene in sella con un sorriso. «Quando prepari il conto», disse all'ebreo appena furono di nuovo insieme, «tieni a mente quel che so io: anche se ufficialmente sei uno 'specialista d'arte funeraria', come ti piace definirti, firmi contratti e tieni le fila di una dozzina di attività differenti. Tutte lecite, affermi pubblicamente, quindi 'non te ne importa un accidenti se gli agenti del governo vengono a curiosare'. Dubito che non te ne importi. Sei talmente aggiornato su quel che succede in città che ci deve essere qualcuno a passarti notizie confidenziali più volte al giorno. Com'è come controinformazione?» «Media. Chi è che devo tenere sotto controllo?»
7 Elio Sparziano a Thermuthis, saluti. Sono in debito per le buone notizie che mi hai dato riguardo alla salute fisica di Anubina, e ti auguro felicità in questa stagione di feste. Sappi che anche nella lontana Mediolanum capita di incontrare soldati che conservano ricordi cari del loro soggiorno ad Antinopoli, grazie alla tua ospitalità. In effetti, un collega di nome Eolio Anziate mi invita a portare i suoi saluti più cari a te, Demetra e Thenpakebkis (spero di scrivere correttamente il suo nome). Riguardo al desiderio di Anubina di avere figli maschi, va da sé che se non avesse rifiutato la mia offerta di matrimonio a quest'ora sarebbe incinta. Non capisco per quale motivo non voglia legarsi a me. La conosci da più tempo di me, ti supplico dunque di spiegarmi la sua condotta. Quanto alla tua difficoltà di parlare direttamente con lei di queste cose, non ci credo. Non porti il nome del serpente velenoso del Nilo senza una ragione, Thermuthis. Le tue astuzie sono infinite, e la tua diplomazia si può paragonare a esse. Parla bene di me ad Anubina, e insisti in particolare sul fatto che ai nostri futuri figli non mancherebbe nulla e sarebbero anche belli (se posso). La sua vita, come quella di sua figlia, sarebbe quella che conducono le signore. Attendo ansiosamente altre notizie. Nel frattempo ti rinnovo i miei auguri di buona salute e fortuna, mando i miei saluti a tuo fratello Theo e ti chiedo di indirizzare le tue prossime lettere al centro di smistamento militare di Savaria, che mi garantisce la consegna ovunque io possa trovarmi. Scritto nelle sue stanze sul Vico di Venere (un indirizzo davvero appropriato per una destinataria del tuo calibro), a Mediolanum, Italia Annonaria, nel primo giorno festivo dei Saturnali, XVI giorno alle Calende di gennaio. 18 dicembre, lunedì «Non sono tipo da scusarsi.» Decimo era sulla soglia della foresteria quando lo schiavo alla porta si tirò indietro, a testa bassa, per lasciar scorgere a Elio chi fosse andato a fargli visita dopo il calar del buio. «Posso entrare?» Elio congedò lo schiavo con un cenno. «E casa vostra.»
Un velo farinoso di neve copriva il mantello che Decimo si era buttato sulle spalle per fare il giro dell'edificio. «Sua Tranquillità ha deciso di accettare le vostre credenziali», continuò. «Avete udienza con Aristofane, domani, alla terza ora del mattino.» Erano inaspettate e in gran ritardo, ma pur sempre buone notizie. Comunque, Elio chiese: «Perché non mi è stato notificato in via ufficiale?» «Sarà fatto. L'ho sentito stasera incrociando Aristofane in uno dei corridoi, mentre parlava con il suo segretario.» Decimo si sfilò il mantello e lo scosse. Sembrava meno impudente del solito, o semplicemente non era in vena di stuzzicarlo. «Il ciambellano è considerevolmente preoccupato per il modo in cui vi ha ricevuto la prima volta.» «Già.» L'appartamento si apriva direttamente su una piccola sala da ricevimento, fiocamente illuminata. Sedie di vimini intorno a un tavolo basso e l'altare di famiglia in una nicchia costituivano l'unico arredamento. Elio invitò il suo collega a sedersi. Le braccia conserte, lui rimase in piedi. «Come funziona il riscaldamento?» si informò Decimo. «Bene.» Non si erano visti per tre giorni, durante i quali erano iniziati i festeggiamenti di fine anno in onore di Saturno, con la loro allegria e le feste, le processioni e le mascherate. In verità, Elio aveva evitato il collega. A quel punto la sua mancanza di incoraggiamento, priva di ostilità aperta, lasciava poca scelta a Decimo. «A volte mi esaspero, è un aspetto del mio carattere», borbottò per giustificare il boccone amaro che sarebbe seguito. «Avrei dovuto rispettare l'orgoglio che nutrite per i vostri successi.» Elio rimase in piedi accanto alla sua sedia, senza prendervi posto. «Non trattatemi con condiscendenza.» Se le meritava, quelle parole. Decimo reagì come chi accolga la critica, un gradino sotto l'accettazione. «Non posso più bere fino a stordirmi come una volta, tutto qui.» «Allora dovreste stare attento alle compagnie che scegliete ai simposi.» Non era il tono che Elio aveva programmato di usare se mai quella conversazione avesse avuto luogo. Era intenzionato a ignorare l'incidente, o a liquidarlo nella maniera più rapida possibile. Eppure sotto le sue stesse parole scorse una punta di rabbia, o di senso contrariato della rettitudine. «Che si trattasse o meno di una messa in scena tesa a
verificare la lealtà dei vostri colleghi, non mi va di essere sottoposto a esame o goffamente sospinto sul terreno della politica nella speranza che io inciampi. Sono stato a Corte a intermittenza da quando avevo diciannove anni, Decimo: conosco l'etichetta e il pettegolezzo, come rispettare la prima ed evitare il secondo. Magari è solo un tratto caratteriale, ma la mia lealtà è indiscussa. Non mi coglierete con la guardia abbassata.» Decimo aveva ascoltato con piccoli, crescenti segni di impazienza. Gli occhi dardeggiavano nella penombra della stanza in cerca di angoli e oggetti che conosceva benissimo. «Alla fine tutti si fanno cogliere con la guardia abbassata.» «Non io.» «Abbiamo entrambi delle ferite ricucite in testa a provare il contrario.» «Non paragoniamo le circostanze in cui ci siamo procurati quelle ferite.» Elio fece il giro della sedia e si accomodò. All'altro capo del tavolino a tre gambe, Decimo doveva aver esaurito la scorta di buona volontà che aveva in serbo per gli altri. Tamburellando sui braccioli, sembrava combattuto fra il desiderio di andarsene e la propensione a proseguire la conversazione da un punto di vista diverso. Con voce provocatoria, scandì: «Futuisti puellam meam, come disse il poeta». Elio non si concesse nemmeno di battere le palpebre. «Potrei affermare lo stesso. Elena è stata la mia amante come la vostra.» «Be', non importa chi si è scopato la ragazza dell'altro, non sono schizzinoso in quel senso.» Fissarsi a vicenda non stava portando da nessuna parte. Decimo continuava a farlo solo perché non voleva dare a Elio la soddisfazione di abbassare lo sguardo. «Come la sua omonima della guerra di Troia, Elena porterà gli uomini ad ammazzarsi gli uni con gli altri in suo nome, e non solo in suo nome. Vi invito per il vostro bene a stare lontano da lei.» «Interessante che parliate così. Elena mi ha ammonito allo stesso modo sul vostro conto.» «Sparziano, anche portarsela a letto non è sicuro... per quanto sia dannatamente piacevole, devo ammettere.» «Ho promesso di non discutere di lei.»
«Davvero? Elena prospera sul fatto che i suoi amanti si confrontano. Non credete a nulla di quello che vi dice, perfino riguardo le vostre abilità a letto, o quelle di chiunque altro.» Era un'altra trappola nell'erba. Figuratamente Elio ce l'aveva di fronte, intento a stimare il pericolo e a non fare un passo avanti. Il suo collega equivocò, leggendovi insicurezza. «Infine, cosa ci fate voi qui?» sbottò come se gli fossero dovute delle scuse. «Vi presentate nelle vesti di inviato imperiale e poi restate, fate domande su faccende che non c'entrano con il vostro incarico... Mediolanum non è così grande, un comportamento del genere si nota. Dopo la vostra missione in Egitto e a Roma, la scorsa estate, sono stati arrestati molti ufficiali, qui e nel resto d'Italia, gli ultimi appena una settimana prima che arrivaste. La gente sospetta che siate un agens in rebus, ma se appunto siete un agente sotto copertura, sappiate che la coperta è un po' corta.» Che sciocchezze. Ecco il risultato dell'agiatezza e della noia. «Non devo spiegare la mia posizione a Mediolanum, né a voi, né a chiunque altro. Pensate quel che vi aggrada.» Decimo continuò a tamburellare sui braccioli, una sequenza che iniziava con l'indice per finire con il mignolo. «Dunque, verrete anche voi a est», disse. «Ho i miei ordini.» «I nomi degli ufficiali trasferiti alla frontiera vengono mandati a Palazzo, per quanto ne so. Si mormora che le unità specifiche saranno assegnate presto. Non sono certo che si tratti di un premio oppure di una punizione: voi che ne dite?» «Gli ordini sono ordini.» «Oh, ne ho abbastanza, Sparziano! Non lascerò che vi comportiate come se aveste ingoiato una scopa. Gli uomini che vanno insieme in guerra non dovrebbero comportarsi in questo modo gli uni con gli altri.» Elio fece un respiro profondo. «In generale questo è vero. Quindi comportatevi come un buon compagno d'armi e accettate il fatto che domani incontrerò Elena.» «Dove, a che ora?» «Non è affar vostro.»
19 dicembre, martedì. Opali, Festa dell'Abbondanza
Alla seconda ora del mattino, un ossequioso ufficiale subalterno si presentò con la convocazione per Sparziano. Avrebbe fornito un accompagnamento adeguato (con sé aveva sei soldati) se Elio non avesse insistito per farsi seguire dalla sua scorta personale. Una nevicata abbondante nelle strade attutiva tutti i suoni umani. Dai canali, dove l'acqua incappava in piccoli grovigli, saliva uno sciabordio vago; passeri litigiosi levavano il loro cinguettio da un davanzale su cui si stavano contendendo briciole o semi sparsi per loro. L'odore pulito della neve, noto a Elio fin dalla sua infanzia, in certi punti acquisiva una nota di legna combusta, di zuppa bollita in paioli di ferro. Odori legati alla casa e alle donne, nella sua mente. Ma Elena a quell'ora senza dubbio stava ancora dormendo, forse sola, forse no, e il sonno le impediva di preoccuparsi di questa ruga, di quel cedimento, dell'importantissima levigatezza dell'interno coscia. Casta stava facendo... cosa? Affrontando il maltempo, attendendo seduta in un posto di guardia ostile, pregando il suo dio, volgendo un pensiero estemporaneo all'ufficiale comparso nella sua casa piccola e buia vicino al tempio di Nemesi. Nella sua casetta azzurra fuori dalle mura della città, o nel suo laboratorio di Antino- poli, Anubina era in piedi da almeno due ore. Sua madre, moglie e madre di soldati, da prima dell'alba. Contro ogni logica Elio sperò che almeno una delle quattro in quel momento stesse pensando a lui, come lui pensava a loro. Attraversando il quartiere ebraico, diretti al distretto di Palazzo, ordinò al capo delle sue guardie di portare un messaggio a Baruch ben Matthias. Le strade, ovunque scivolose e coperte di poltiglia, erano state spazzate nei dintorni della residenza di Massimiano; le guardie della sicurezza se ne stavano a battere i piedi negli angoli e nei portoni. Nel suo minuscolo ufficio, quella mattina Aristofane era in verde. Quel colore lo faceva sembrare immaturo, paragonato all'oro generoso indossato durante il primo colloquio. Negli ovali ricamati sul fronte della sua tunica erano ritratti arcieri e cavalieri, realizzati con filo nero e argentato. Lavoro artigianale egizio, riconobbe Elio. La bottega di Anubina produceva applicazioni ricamate con quella minuzia, sciolte o già applicate sul tessuto. Stavolta l'eunuco fece in modo di farsi trovare in piedi. I piedi relativamente piccoli, tirando la stoffa delle sue pan- tofoline, dovevano sostenere una massa in cui
era tutto cortesia, ma niente scuse. Come se il primo colloquio avesse riguardato due altri uomini e loro si stessero vedendo per la prima volta, Aristofane gli chiese le credenziali. Quella mattina la richiesta non fu accompagnata da nessun'irritabile ripetizione, nessuna sollecitazione della mano destra. Elio stette al gioco. Gli ordini diretti di accettare il messaggio imperiale erano giunti da Diocleziano, questo era poco ma sicuro. Poteva significare o meno che sarebbe stato ricevuto da Massimiano, dopo quell'incontro. Probabilmente no, cosa che risparmiava a tutti tempo e imbarazzo. «Sua Serenità esaminerà la missiva del suo collega e fratello in porpora, comandante, e sarà lieto di darvi risposta mercoledì mattina.» Sorprendentemente, l'accento greco era scomparso del tutto dalla parlata del ciambellano. Dimenticanza? Ammissione che la recita non era più necessaria? Sotto il naso a patata, la bocca formò una mezzaluna con gli angoli all'insù, qualcosa di vicino a un sorriso. Elio chinò il capo. «Sono grato a Sua Serenità per la considerazione.» L'amara riluttanza di Massimiano a rinunciare al trono retto per ventun anni con il suo collega anziano era comprensibile. Stando alla decisione irrevocabile di Sua Divinità, in meno di quattro mesi cortigiani, burocrati e parassiti di Nicomedia, Mediolanum, Treviri e Sirmium avrebbero perso il lavoro o avrebbero dovuto reinventarsi per compiacere la nuova tetrarchia. I loro clienti sarebbero caduti a turno, e se ci si aspettava che i professionisti - fra cui gli esperti legali e i comandanti di reggimento - avrebbero mantenuto i loro posti, le teste più altere avrebbero dovuto cercarsi nuovi cuscini dove posarsi. Anche i quadri della polizia investigativa erano sul punto di cambiare. Nottetempo, le posizioni di Aristofane e Sido si erano fatte traballanti. L'incontro con il ciambellano durò il tempo necessario per accordarsi sull'orario in cui il mercoledì successivo Elio sarebbe potuto tornare a prendere la risposta ufficiale di Massimiano. L'accettazione dei termini di Diocleziano era fuori questione; comunque, anche nel giro di poche ore a un inviato imperiale possono succedere parecchie cose. Preferendo la prudenza, Elio programmò di mandare un messaggio a Sua Divinità prima del pomeriggio. Dopo il senso di disorientamento della sua prima visita a Palazzo, cominciava ad avere ragione dei labirinti di sale e corridoi. Il dedalo aveva un senso: in base al rango dei funzionari ospitati, le pareti erano rivestite di marmo, travertino o mattoni. I nomi
sulle targhe alle porte, il numero di guardie sulle soglie, la presenza e la qualità dei tappeti indicavano la solita boria: ma maggio sarebbe passato come un fiume in piena fra quelle fragili pretese di fama. Al principio del suo corridoio, la porta di Sido era aperta; attraverso di essa Elio vide la sua scrivania vuota. Stando a Decimo, il segretario di Aristofane aveva suggerito che fosse lo stesso capo speculator a portare la convocazione a Elio. Aristofane aveva ponderato un istante la questione prima di rispondere di no. Ma Sido sapeva del cambiamento di politica, chiaramente, e forse era più pericoloso a quel punto di quanto fosse stato quando la sua posizione era inattaccabile. Girandosi sui talloni per riprendere l'intricato cammino verso l'uscita, Elio andò a sbattere contro due Guardie di Palazzo. Gli erano silenziosamente arrivate alle spalle, malgrado le volte che rimandavano l'eco e amplificavano i suoni. «Comandante.» Appena lo ebbero preso sottobraccio, senza spiegazioni lo scortarono di nuovo alla soglia dell'ufficio di Sido, stringendo i suoi lati inermi fra i loro fianchi ben armati. Come evocato da un incantesimo, Sido era seduto alla sua scrivania. Solo nella stanza, si comportò come se solo in quel momento gli fosse capitato di alzare gli occhi dalle carte; la testa taurina e il suo minaccioso fascio di muscoli si disposero in una posizione fra la vigilanza e l'attacco. Scaricato all'interno dell'ufficio dalle guardie, Elio si sforzò di formulare un saluto appropriato. «Andate di fretta, comandante?» «Non particolarmente, no. Stavo cercando l'uscita per conto mio.» Non era vero. Elio aveva deviato di proposito, per vedere in faccia il capo della polizia investigativa. Nei giorni precedenti, esercitando amichevoli pressioni, aveva fatto ammettere a Duco quanto d'altro sapeva sul suo conto: e cioè che Sido prendeva tangenti dai fornitori dell'esercito. Per questo motivo, il favoloso appalto per la costruzione delle mura era cresciuto come un impasto pieno di lievito. «Sido è legato all'attività dei fornitori di mattoni, condutture, muli per l'esercito... qualunque cosa vi venga in mente, Elio. Capite perché dico che a parlare mi caccio nei guai? Non mettetevi contro di lui.» In quel momento il funzionario di polizia si puntellò sulle nocche contro la scrivania e si levò dietro di essa. «Perché andarsene? Venite avanti.»
Era inteso come un invito; il tono ricordava più un ordine. Elio misurò la sua rabbia. Non trovandone tracce degne di nota, si liberò con agio dalle guardie e fece un passo all'interno dell'ufficio. «Più vicino, più vicino.» Il capo ispido di Sido occupava il centro della mappa di Mediolanum alla parete, segnando il punto in cui un tempo era stata la vecchia Zecca. «Avvicinatevi. C'è qualcosa che dovete vedere.» Se Elio non avesse saputo il fatto suo, avrebbe identificato il recipiente allungato di metallo sulla scrivania di Sido come una zuppiera usata per servire il pesce; il luccio d'allevamento di Decimo era stato portato in tavola in un contenitore molto simile. «Più vicino, Sparziano.» Quando sotto il suo naso tolse il coperchio, Elio vide che era pieno fino all'orlo di sale e coperto da un velo di salamoia, il cui odore saliva indefinito. «Ecco.» Il capo della polizia investigativa gli porse uno stilo da un completo per scrittura. «Guardate nel sale.» Con un solo gesto, Elio scoprì una mano umana mozzata. Delle cose raggrinzite e pallide che un tempo erano state dita ne formavano le appendici inerti, dalle unghie blu. «Credevate di essere l'unico ad aver notato l'impronta insanguinata della mano nella stanza in cui è stato assassinato Marcello? La cosa buona delle Vecchie Terme è che necessitano di un personale ridotto, che è facile controllare in tempi brevi.» Elio tenne gli occhi sulla zuppiera. Non provava disgusto; non esattamente, data la sua esperienza sul campo di battaglia: un malessere, piuttosto, infausto e scomodo. «Dunque appartiene a uno degli schiavi presi e immediatamente giustiziati.» Dicendolo, mise da parte lo stilo. «Ho ragione?» «No. Appartiene al segretario del giudice, l'ex cristiano Protasio. Le dita e l'apertura della mano corrispondono alla traccia sulla parete.» Il malessere all'improvviso si approssimò al disgusto. Sa bene che quella traccia poteva essere della mano sinistra di chiunque. Elio si disse quelle parole facendo un rigido passo indietro per allontanarsi dalla scrivania. Sa che l'impronta insanguinata potrebbe appartenere a chiunque abbia aiutato a tirare fuori Marcello dalla vasca. «Avevo avuto l'impressione che fosse stato il clero cristiano a essere riconosciuto colpevole del crimine», osservò.
Sido si riprese lo stilo. Lo usò per punzecchiarsi la mano, schizzando salamoia tutto intorno. «Lui è quello che materialmente ha ucciso il giudice. Ma chi credete l'abbia arruolato per commettere il crimine? Una volta cristiani, si resta cristiani per sempre. I loro capi prendono tutte le decisioni per loro.» Le dita pallide dalle unghie blu si erano ritirate fino a sembrare di donna. Elio fece un altro passo indietro, meno sicuro. «Bene, presumo che questo chiuda il caso d'omicidio.» «Già.» Deliberatamente, Sido riawicinò la punta dello stilo alle labbra e l'assaggiò con la lingua. «Sono stato trasferito a Siscia.» Pronunciò quella frase, così estranea alla conversazione, come ne fosse il logico corollario. «Siete
fortunato»,
commentò
Elio.
Distogliere
lo
sguardo
dall'oscena
degustazione della punta metallica gli divenne necessario. «Miniere di ferro, fabbriche d'armi, la Zecca dell'esercito. È un eccellente incarico.» Anche con l'attenzione puntata sulla mappa della città, quell'infilzare la mano mozzata stava rapidamente passando dal fastidio a provocargli la nausea. «Con il vostro permesso», aggiunse, «ho delle commissioni da fare.» Sido lasciò che salutasse e facesse per andarsene, prima di ribattere: «Statene certo, comandante, questa non è l'ultima volta che ci vediamo». «Non lo è quasi mai, nei servizi imperiali.» «Avete lavorato contro di me.» Nei drammi teatrali, il pubblico rabbrividiva a sentire frasi così, pronunciate con voce profonda dall'attore che interpretava il fantasma o il dio vendicativo. Nella vita reale, l'accusa fece voltare Elio come se fosse stato spinto. «Io? E che ragione avrei mai avuto per lavorare contro di voi?» Non importava che di ragioni gliene venissero in mente diverse, tutte valide. Sido svettava dietro la sua scrivania, dominando il centro della grande stanza vuota. I pugni premevano contro la superficie di legno, dando l'impressione che con un impulso improvviso avrebbe potuto scagliare in avanti il pesante mobile per rovesciare il suo interlocutore. «Non sarete per sempre lo storico di Sua Divinità, né il suo inviato.» Chissà quali intrighi di palazzo si nascondevano dietro al trasferimento di Sido. Di certo non era stato ordinato per la sua corruzione, e ancor meno per il sospetto che avesse ordito l'aggressione alla fortuna del fauno. Elio non vide perché contraddirlo,
per giunta. A Treviri, Costanzo aveva accennato al suo interesse di annoverare uno studioso nel suo personale, nel momento in cui da vice sarebbe divenuto imperatore. Elio si era riservato di rispondergli dopo il primo di maggio, poiché, aveva detto, «fino ad allora sarà Diocleziano il mio imperatore. Sono cresciuto insieme a lui, e sarò al suo servizio fino all'ultimo». A Sido, che continuava a guardarlo in tralice con i pugni serrati, potè solo dire la verità. «Vi assicuro che non ho avuto alcunché a che vedere con il vostro trasferimento, Perfettissimo.» Scelta delle parole, tono, postura: tutti e tre erano sotto controllo. I suoi occhi - Elio si conosceva bene - avevano la crudeltà sicura e sorridente del soldato che risponde a una sfida. Ben Matthias non volle parlare in casa. «Andiamo verso la sinagoga», disse. Un mantello di pelliccia con il cappuccio faceva assomigliare la sua figura a un astuto personaggio mitologico. «Ulisse», scherzò Elio, e l'ebreo rise. Ricominciò a cadere la neve, in fiocchi grandi e bagnati che precipitavano pesantemente, in linee rette. Paragonato ai festeggiamenti nel resto della città, il quartiere ebraico era silenzioso, malgrado fosse tempo di celebrazioni anche lì. «Gli uomini di cui hai chiesto, comandante... Curio Decimo li vede spesso. Vivio Luciano, Ulpio Domnino, un uomo noto come Otho che dice di appartenere alla discendenza dei Salvi, e un altro di nome Frugi... tutto quel che so di quest'ultimo è che è grasso. Più quei due, i gemelli. Destro e Sinistro, gli unici non aristocratici per nascita, ma - me lo assicura un amico che vive a Roma - di pura discendenza urbana, plebei dalla notte dei tempi, il cui padre è stato nominato cavaliere da Aureliano.» «E che cosa fanno?» «Chiedi troppo. Sono un ebreo in gamba, non un mago. Sono ufficiali, e sei un ufficiale anche tu: quelli come voi cosa fanno quando si incontrano?» Elio ignorò la domanda. «E sono tutti assegnati a Corte, naturalmente.» «No. Otho è l'ufficiale di collegamento con i fabbricanti d'armi a Ticinum. E un circolo, non c'è nulla di segreto in merito. Si fanno chiamare la Confraternita di Catone. Hanno le loro leggi personali e il loro calendario, si incontrano a pranzo o a cena nelle rispettive case, a turno.» «Catone il Vecchio o il Giovane?» Ben Matthias si strinse nelle spalle. «Non saprei. Fa differenza? Se leggo correttamente la storia romana, erano stronzi conservatori, tutti e due.»
Alla cena di Decimo nessuno aveva fatto menzione del circolo. Le apparenze indicavano un incontro occasionale fra colleghi di stirpe romana. «Pettegolezzi su di loro a livello politico?» chiese Elio. «La mia indagine indiretta in caserma ha fatto cucire la bocca a tutti.» «Nessun elemento politico che potrebbe metterli nei guai. Si ritiene che Decimo sia un informatore imperiale di alto livello, ma la stesso si può dire di te.» Erano giunti in vista della sinagoga, un bell'edificio in fondo a un viale fiancheggiato su entrambi i lati da abitazioni private. Nessun negozio o spazio pubblico si affacciava sul marciapiedi stretto. Ben Matthias ammiccò. «Siamo come gli amici di Decimo, comandante: ci piace stare fra pari. Le case sono di proprietà della sinagoga, e vengono affittate solo a persone che conosciamo.» Elio annuì distrattamente. «Altro su Decimo?» «Qualche anno fa è stato parte in una controversia per un'eredità, ed è stato il giudice Marcello a occuparsene.» «Ma davvero. Vinto o perso?' «Perso. Troverai gli atti depositati in tribunale.» L'interesse improvviso di Elio fu così lampante che ben Matthias sogghignò nell'intrico brizzolato della sua barba. «Lo vedi perché non si può essere amici di un romano? Spettegolate e vi spiate gli uni con gli altri. No, non ho fatto altre indagini nel ruolino di Corte. Ricorda che me ne sto occupando a titolo gratuito. Se vuoi altre notizie, dunque, mio genero mi dice che a Treviri è scoppiato uno scandalo che rischia di diventare brutto. Sono già state arrestate diverse persone. Isacco stesso ha preso la moglie ed è partito per la campagna. Ma ha buoni avvocati, quindi speriamo che per quanto li riguarda si risolva tutto.» «Stiamo ancora parlando del fabbricante di mattoni? Si tratta degli eredi di Lupo?» «Si tratta di Lupo stesso! Diversi individui, dai medici ai beccamorti, sono stati inquisiti per essersi prestati al trucco della sua resurrezione.» Dato che Elio si era fermato ad ascoltare, familiarmente ben Matthias lo prese per il gomito. Per ripararsi dalla neve sostavano sotto una grondaia sporgente. «I parenti del fabbricante di mattoni stanno facendo di tutto per risultare estranei alla faccenda. Ora giurano che è stato Lupo, una volta ammalatosi, a chiedere che la Voce del fuoco andasse al suo capezzale.»
«Fa differenza?» «Sì. Comunque ci sia riuscito il guaritore cristiano, Lupo è migliorato. Allora con Agnus ha tramato per fingere la sua morte, preparando un'elaborata messa in scena che avrebbe simulato una resurrezione. I vantaggi per la carriera del guaritore si spiegano da sé. Non sono in molti, nemmeno fra i cristiani, quelli che possono vantare un successo del genere. Quanto a Lupo, l'idea era che il suo mattonificio divenisse popolare dopo il suo ritorno dalla morte.» «Be', è esattamente quel che pensavo fosse successo. Che prove ci sono che sia stato Agnus a manovrare l'accordo?» «All'ufficio del procuratore è arrivata una lettera anonima che da un'infinità di dettagli risulta scritta da uno di quelli coinvolti direttamente. Sembra che anche fra i cristiani di tanto in tanto spunti un traditore, Agnus deve aver pestato i sacri calli di qualche suo compagno. Per buona sorte nella lettera non si fa il nome di Isacco. La conclusione è che ora cercano Agnus il ciarlatano e - di conseguenza - anche la sua assistente. E non solo in Belgica Prima, dove sono stati visti l'ultima volta. Hanno emesso mandati d'arresto anche per altre province dell'Impero.» «Capisco.» Elio riprese a camminare. Pensò alla mattina in cui era andato a cavallo al mattonificio di Lupo, alle donne velate accovacciate nei campi bagnati, in attesa di vedere il resuscitato. Come le aveva guardate, e come loro avevano guardato lui, coprendosi il volto. Indifese, deboli. Tieni lontana dal toro la giovenca, ammoniva il verso greco. Sembrando più indifferente di quanto fosse, chiese: «Sappiamo che ruolo ha svolto la diaconessa nella messa in scena?» «Secondo Isacco nemmeno il suo nome è stato fatto direttamente. La lettera anonima è un'invettiva contro l'ipocrisia e l'imbroglio di Agnus, ma Casta è la collaboratrice di Agnus, quindi... Insomma, anche Costanzo, che fino a ora con i cristiani ci è andato leggero, ha ordinato che i capi del movimento siano arrestati per essere interrogati, in base al principio per cui se non si può arrestare il ladro che scappa, si arresta il ladro che resta a portata di mano. Fidati, appena le autorità gli metteranno le mani addosso, l'uomo dei miracoli sarà bell'e che pronto per le bestie del Circo; e quanto alla sua ragazza, stavolta non si limiteranno a spogliarla. Io mi fermo qui, comandante. Devo tornare al lavoro.» «Quadra tutto, Baruch, ma non ci dice chi ha avvelenato Marco Lupo.»
«Che importanza ha? Mandami quel che mi devi al mio alloggio.» Tirandosi il cappuccio di pelo fin sul volto, ben Matthias fece un gesto fra il cenno e l'inchino d'addio. «Come un panettiere, lascia che aggiunga un tredicesimo panino gratis ai dodici che hai comprato, anche se giuro sulla mia vita che non so perché dovrei ammonirti: lascia perdere. Non sono arrivato a questo punto della mia vita senza essere capace di fiutare il pericolo in aria. C'è pericolo, qui. Non ne vedo la forma, ma in qualche modo ne percepisco il moto subdolo. Se pensavi di avere nemici nascosti nell'ombra in un posto assolato come l'Egitto, pensa a quanto più lunghe sono le ombre nelle province del Nord.» Il tribunale di Mediolanum si affacciava sulla via cardinale, una delle due strade principali della pianta originaria della città. Per via delle festività erano presenti solo pochi impiegati. Per Elio questo fu un vantaggio, perché lasciarono che facesse da solo le sue ricerche negli archivi. L'edificio non era riscaldato. Elio dovette camminare avanti e indietro mentre leggeva questa o quella lista di cause legate a questioni di proprietà ed eredità. La buona gente di Mediolanum sembrava piuttosto litigiosa quando si trattava di denaro. A nome di Decimo erano elencate quattro controversie: M. Curio Decimo contro P. Curio Liviano (due cause); M. Curio Decimo contro Publilia Otacilla (la sua terza moglie); M. Curio Decimo contro la Proprietà di C. Pupieno. Una secchiata scarsa di carbone su un braciere costituiva l'unico sollievo dal freddo delle sale a volta. Elio offrì la schiena al calore mentre con interesse crescente leggeva come, vantando un'intricata rete di relazioni famigliari, Decimo avesse cercato di provare che la vedova di Pupieno, An- nia Cincia - «a malapena raggiunta la maggiore età, e mal consigliata da fanatici» - non poteva disporre delle vaste proprietà lasciatele dal defunto marito «in favore di terzi privi di legami di sangue». La controversia era andata avanti per mesi, e alla fine Minucio Marcello aveva deciso in favore della giovane vedova. La lista di possedimenti era estesa: da una grande casa a Laumellum alla villa in periferia, con tanto di peschiera, fattoria, stalle per i cavalli, pascoli e boschi. Dalla villa si passava ad altri immobili affittati a privati o commercianti a Mediolanum e ad appezzamenti di terreno in tutta la regione. Tutto ciò, probabilmente, Annia Cincia l'aveva dato ai cristiani, e dopo l'inizio della persecuzione religiosa era finito fra i beni immobili confiscati dallo Stato. Quello era un dettaglio che Decimo aveva tenuto per sé, raccontando la storia della lontana cugina. Elio si chiese cosa, eventualmente, avrebbe potuto raccontargli
il defunto Protasio su quella faccenda. Un esponente dell'aristocrazia conservatrice difficilmente risponde al profilo di un omicida, ma il rancore di qualcuno che avesse perso una causa restava il movente più plausibile per la morte di Marcello. La gerarchia cristiana non era forse un utile capro espiatorio? Il dileguarsi di Decimo dall'esecuzione all'arena, con la scusa della compagnia di Elena, assunse un inquietante nuovo significato. Vero, c'era un ritardo di tempi. Due anni e passa sono un periodo lungo per nutrire un malcontento omicida; ma l'eredità di Pupieno forse non era sembrata del tutto irrecuperabile, almeno finché il recente esproprio dei beni della Chiesa non l'aveva rimessa in discussione. Elio stava risistemando le pratiche sullo scaffale quando l'occhio gli cadde su un incartamento sottile che prima gli era sfuggito. Anche quello era archiviato a nome di Decimo, e riguardava un atto di interdizione di sua figlia Porzia, di ventidue anni, «per degenerazione morale». Pensieroso, uscì dal tribunale sotto una nevicata fitta e meno bagnata, che aderiva a ogni cosa. Protasio gli aveva dato come indirizzo cittadino le stanze in affitto dove alloggiava mentre gli eredi di Marcello decidevano che cosa fare della villa di famiglia. Era vicino, nei pressi della Zecca governativa, un edificio rimasto chiuso negli ultimi anni. Passando davanti al suo portone di bronzo costellato di borchie, Elio pensò che ci fossero ben poche possibilità che riaprisse in tempi brevi; in quei giorni, la maggior parte dei contanti necessari per pagare l'esercito veniva coniata direttamente nei territori danubiani. Non aveva senso chiedere se il povero liberto gli avesse lasciato messaggi prima di morire. Mestamente Elio continuò la sua passeggiata fino all'appartamento esclusivo in cui alloggiava Elena, fra il decumano e il teatro cittadino. Elena si stava ancora vestendo. Congedò la ragazza che le stava pettinando i capelli e finì di farlo da sola, infilando forcine d'avorio nella lucida treccia arrotolata sul capo. «Non mi hai detto che stavi da Decimo! Sono così irritata, Elio, che non credo di volerti vedere.» Il movimento delle mani che infilzavano la chioma a Elio ricordò sgradevolmente Sido che punzecchiava l'arto mozzato. «Non sono stato io a dirgli che ti conosco.» «È stato lui a parlare di te con me, stupido caprone!» «Quando? Mentre il resto di noi assisteva all'esecuzione dei cristiani?»
«No, è stato quando abbiamo cenato insieme, più tardi. Lo scorso anno ci siamo lasciati così male che ho deciso che dovevamo parlare. Non per rappezzare le cose.» Elena alzò la voce con astio, per accertarsi che Elio non giungesse a quella conclusione. «Per dare a me stessa l'occasione di essere un po' più civile, visto che durante la nostra ultima discussione gli ho fracassato un paio di vasi antichi. Ero sul punto di avvelenare la sua mela candita dicendogli che ero qui per vedere una vecchia fiamma.» Indicò Elio con dei piccoli scatti dell'indice, come se bucasse l'aria. «Ma lui mi ha battuta. 'Ho un ospite a casa', ha detto, 'che mi sorprende tu non ti sia portata a letto a Nicomedia: alto, pelle chiara, occhi azzurri'.» «Ci sono centinaia di uomini con quelle caratteristiche», replicò Elio. «Come fai a sapere che Decimo si riferiva a me?» «'E lo storico di Sua Divinità', ha detto Decimo. Mi infastidisce infinitamente pensare che due dei miei amanti vivano insieme e possano confrontare le loro esperienze.» «Dei gentiluomini non farebbero mai una cosa del genere.» «Ah?» Pranzarono da soli, a un tavolo così piccolo che se solo si sporgevano in avanti le loro teste si toccavano. In un misto di cameratismo e civetteria, Elena gli raccontò del suo batticuore per un uomo visto a Corte, in modo che Elio sapesse che la sua missione diplomatica si era spinta fin lì. «Quanto in alto?» chiese. «Quasi al vertice.» «Quasi al vertice c'è un eunuco.» «Un eunuco e un bruto dagli occhi grigi.» «Non Sido!» «Perché non Sido?» Scimmiottò la sorpresa di lui e sorrise. «Mi ricorda Costanzo quando era giovane. Ed è politico.» «Se ti fidi.» «Io non mi fido di nessuno degli uomini con cui vado a letto. Del resto non verrebbero con me se fossero degni di fiducia.» Diede dei morsettini a un'oliva verde, scoprendone un poco per volta il nocciolo. «Prendi te. Noi due siamo amici, ma non posso fidarmi di te.» «Perché dico che tuo figlio deve aspettare il suo turno? Sua Divinità ha già...» «Sua Divinità, Sua Tranquillità, Sua Serenità, Sua Idiozia! Sono vecchi, Elio.»
«Non diresti cose tanto pericolose se non ti fidassi di me, Elena.» «No, è vero. Mi fido di te, ma mi dà fastidio.» Gettò via il nocciolo dell'oliva. «A ogni modo, è un orrendo spreco di uomini validi, questa marcia per la frontiera.» «Sai anche di quella, eh?» I suoi occhi scintillanti lo inchiodarono. «Caro mio, io sarò la madre di un imperatore. Devo sapere che cosa succede.»
Appunti di Elio Sparziano. Gli eventi e le rivelazioni si susseguono così in fretta che non so dire se si stanno dipanando o aggrovigliando ancor di più. Una costante li attraversa tutti: vale a dire, in ogni caso sono i cristiani a venire sospettati e accusati. È una caratteristica delle persecuzioni radicali ascrivere ai nemici dello Stato tutti i crimini, anche quelli che palesemente riguardano altri colpevoli. Si dice, e Svetonio lo assicura, che ai tempi di Nerone i cristiani furono accusati di aver appiccato il grande incendio di Roma. Senza spingermi lontano come Svetonio (che sospetta sia stato l'imperatore stesso a dare alle fiamme la città per ricostruirla daccapo), è pacifico per chiunque abbia visitato i quartieri sovraffollati dell'Urbe che gli incendi accidentali possono sprigionarsi ovunque senza intenzione umana. Non molto tempo fa il palazzo imperiale di Nicomedia è stato devastato dal fuoco. Logicamente sono stati sospettati e perseguiti i cristiani del personale addetto all'edificio. Lapplicazione degli editti contro i cristiani a Treviri come a Mediolanum non ha certo bisogno di scuse. Non sono incline a riconoscere l'impronta di zelanti servitori dello Stato (nemmeno degli speculatores) sull'omicidio di Marcello e sulla conseguente distruzione dei vertici della Chiesa in questa città. Un aristocratico invelenito e avido, d'altro canto... Il caso di Lupo è ancor più complicato. Non mi turba il fatto che metta in discussione la buona fede di Agnus, considerato un santo. Non sarebbe la prima volta che un ciarlatano si inventa un trucco e viene smascherato. È l'assassinio successivo di Lupo a inquietarmi, perché sembra un crimine commesso per ridurlo al silenzio. Perché mai Lupo avrebbe dovuto spettegolare del santo? Un uomo che deve la sua ricchezza alla condizione di miracolato non rischierebbe di divulgare l'inganno cui volontariamente si è prestato. Quindi forse si riduce tutto a una cospirazione fra
parenti per ereditare il patrimonio; o fra i concorrenti di Lupo, intimoriti dalla possibilità che nelle gare di appalto il «risorto» vantasse un privilegio sovrannaturale. Resta il fatto che Agnus non si è trovato quando è stato scoperto il corpo di Lupo. Ha «tagliato la corda», per usare un'espressione di ben Matthias, lasciando la sua assistente a rischiare l'osso del collo al posto suo. Se non l'avessi messa in allarme cercandola all'indirizzo del Vico di Sole e Luna, probabilmente sarebbe rimasta là e l'avrebbero catturata. Se l'uomo dei miracoli continua con i suoi imbrogli, Casta dovrà fare in modo di non cadere prima di lui.
20 dicembre, mercoledì Il giorno seguente, la presenza di militari a Palazzo era raddoppiata. Diretto al suo terzo colloquio con Aristofane, Elio si limitò a chiedersi il perché. Non si abbandonò alla curiosità finché non ebbe in mano il consenso all'abdicazione di Massimiano e l'ebbe consegnato al corriere in attesa di partire per Spalato. In uno dei cortili esterni, a quel punto, non gli ci volle molto per scoprire che quel giorno si comunicavano i comandi e gli incarichi di coloro in procinto di partire per la frontiera. Lui stesso apprese che la sua unità di mille cavalieri lo aspettava a Mursella. La città di Savaria era il punto di raccolta dell'esercito, e da lì la campagna sarebbe stata lanciata senza attendere la primavera, un segno di fretta che diceva tutta la gravità del pericolo. L'ufficiale di nome Saphrac, riconoscibile dall'uniforme degli arcieri siriani, stava parlando a una piccola folla di colleghi della caserma dei Maximiani Juniores. Duco lo presentò a Elio, e ben presto presero a discutere della guerra incombente. Saphrac era pessimista. «Prima di partire per l'Italia abbiamo suggerito alle autorità civili che si disponesse un ritiro dei coloni e degli insediamenti a una distanza minima di trenta miglia dalla strada militare e dalla frontiera stessa. Non è stato preso bene, anche se i governatori di Pannonia e Mesia in linea di principio sono d'accordo. Ci sono famiglie che hanno coltivato la terra, costruito case, vedono gli insediamenti come la loro dimora permanente. Ma non sarà così. Per quanto alto sia il tasso di nascite nelle nostre province di confine, nel Barbarico resta molto più alto.» «Durante la campagna di Persia», disse Elio, «addirittura sull'Eufrate abbiamo sentito resoconti diffusi di migrazioni verso ovest dall'estremo Est. Popolazioni intere,
non orde, che si spostavano da posti più lontani di Bactria e Pa- rapamisos, oltre le terre di conquista di Alessandro. Non so quanto sia vero. O perché, essendo quelle lande tanto ricche, i loro abitanti debbano anelare all'Europa.» «Posso dirvi che le cose non stanno così.» Saphrac gesticolava e appariva come qualunque altro uomo nato e cresciuto in Italia, ma gli occhi, allungati e stranieri, facevano eccezione. «O meglio, è vero che infinite tribù si stanno spingendo a ovest, ma non si tratta di popoli stanziali. Sono gruppi nomadi a cavallo, che vivono muovendosi in continuazione con le loro mandrie. Non vogliono affatto partecipare alla nostra cultura, solo saccheggiare. Se siamo saggi li compreremo, perché di certo non possiamo riuscire a fermarli tutti.» «Be'», intervenne Duco, «molte delle tribù oltre frontiera possono essere ricondotte alla ragione.» «Non possiamo lasciarci fuorviare da quelli che abitano più vicini alla nostra frontiera; hanno vissuto abbastanza a lungo al nostro fianco da civilizzarsi almeno a metà. Gli zii di mia madre in Bactria hanno incontrato stranieri che non assomigliano ad alcunché di conosciuto: mettono la carne sotto le selle e la mangiano cruda, le loro donne partoriscono cavalcando.» «Mi sembra un po' eccessivo. Voglio dire, partorire...» «Duco, i miei zii hanno visto nascere un bambino in sella con i loro occhi. La madre si reggeva in equilibrio tenendo i piedi in quelle specie di staffe di metallo che quelle genti usano per cavalcare più sicure.» Saphrac batté le mani in segno di divertimento scandalizzato. «Ma ci pensate, infilare i piedi in ganci che penzolano dalla sella? Cosa ne sarebbe delle tattiche di cavalleria? Solo i barbari possono venirsene fuori con certe invenzioni.»
21 dicembre, giovedì. Divali, Festa dei Segreti Appunti di Elio Sparziano (continua). Di fronte alla guerra continuo a pensare alla morte di Lupo, a quella di Marcello e alla Voce del fuoco. Sto perdendo del tutto il senso delle proporzioni? Che importa se un ciarlatano ha ammazzato qualcuno per proteggere i suoi segreti, che importa se un vecchio giudice è stato fatto fuori? Non sarebbe la prima volta. Perché me ne
preoccupo? Le autorità in Germania e qui sono soddisfatte e certe che, eseguiti i primi arresti, giustizia sarà fatta. Io sono l'unico ad agitarsi ancora, a non accettare che le cose siano andate così come hanno detto. Ben Matthias avverte il pericolo, ma per sua stessa ammissione la gente della sua razza ha buoni motivi per farlo. A ogni modo, quanto è sbagliato dire che i morti non possono parlare! Il povero Protasio mi è stato più utile da morto che da vivo. Uno schiavo mi ha portato una sua lettera, ieri pomeriggio, mentre mi dibattevo nella vessata questione storica dell'influenza sulla politica imperiale della moglie e della cognata di Severo. Per studiarla in santa pace ho lasciato la proprietà di Decimo per una piccola osteria privata. Lì, le mie letture hanno confermato che il mio padrone di casa ha combattuto aspramente per impedire che l'eredità di Pupieno finisse nelle mani dei cristiani; tanto che le sue relazioni con i Minuci, fino a quel momento esemplari e benevole, sono state troncate repentinamente dopo la sentenza avversa. Decimo si è opposto alla conferma in carica come giudice di Marcello, alienandogli fra l'altro il sostegno di influenti famiglie romane a lui legate. Ora, questo sì che va tenuto a mente'. Riguardo la mia altra richiesta al defunto Protasio (che mi procurasse un campione significativo di scrittura della Voce del fuoco), la lettera non conteneva alcunché, ma oggi un giovane schiavo dei Minuci si è presentato di buon'ora con una cesta di mele. Io ero sveglio, e ho pensato che fosse un'ora strana per consegnare un regalo per i Saturnali. Così, al pari di Cleopatra, coraggiosamente ho ficcato una mano tra i frutti per cercare, come recita la poesia, «ciò che si annida nel delizioso dono». Contrariamente alla regina, che ha trovato i denti degli aspidi, sotto le mele io ho sentito un involucro. All'interno c'era la lettera pastorale di Agnus che mi era stata promessa. Spedita apparentemente da Placentia, dove a suo tempo ha predicato ed elargito cure, all'allora fiorente comunità cristiana di Aquileia, la lettera è lunga e colma di ammonimenti. Lo schiavo mi ha riferito anche l'ultimo messaggio di Protasio per me: che «godessi dei frutti e non lasciassi che nessun altro ne prendesse». Distruggerò la lettera, dunque, dopo averne riportato di seguito gli elementi che mi danno un'idea della personalità della Voce: Amati fratelli in Cristo, la cui forza d'animo per profezia è messa alla prova dalle mani di uomini empi e dalle astuzie del Maligno, rispondendo alla vostra richiesta di
istruzioni su come prepararsi al giudizio e alla sofferenza supremi, il nostro amore e ministero ci spinge a esprimerci di conseguenza... Qui seguono irragionevoli suggerimenti su come provare la pazienza di un giudice rifiutando di rispondere o ripetendo all'infinito la frase «Sono un cristiano», tattiche che io stesso ho visto all'opera in Egitto, potendo confermare quanto siano irritanti. Più in basso, Agnus trova il suo primo bersaglio: ...E cosa dire di quegli uomini ciechi che si dedicano con tutto il cuore all'empia vita militare? Non fanno forse dell'omicidio e del saccheggio la loro pratica quotidiana? Non portano vessilli che rappresentano oscene divinità e bestie? Meglio sarebbe se perissero tutti nelle prossime guerre, così che la loro genìa assetata di sangue si estinguesse per sempre! Come hanno provato i martiri benedetti Giulio il Veterano, Dasio ed Espedito, per i cristiani l'esercito non riserva altro che tentazioni. Tanto preferibile è la corona del martirio [...] Quanto agli insegnamenti di Platone, Aristotele, Plotino e dei bugiardi agenti del diavolo che vanno sotto il nome di epicurei e stoici, è precisamente la finta moralità delle loro istruzioni a renderli pericolosi. Di fatto, mentre insegnano la probità della vita, celebrano le false divinità le cui storie, note a tutti, finanche ai bambini a scuola, sono abomini di lascivia e fornicazione. L'esercito e i falsi maestri devono essere evitati: ma di tutti i pericoli da cui si devono guardare i cristiani, le donne sono il peggiore. I loro corpi sono pozzi di perdizione. Contaminate ogni mese da luridi umori, deboli di senno e inclini a ogni credenza irrazionale, vengono dopo i ragazzetti ignoranti e i barbari che nemmeno parlano greco e latino. La loro sensualità è un fluido che si attacca agli occhi degli uomini e confonde la loro capacità di vedere, motivo per cui Eros si rappresenta bendato. Non dimenticate che la prima donna creata ha trascinato l'uomo nel peccato! Non mi curerò del resto della lettera. Come appare evidente, sotto l'ascia teologica di Agnus cadono diverse categorie. Non importa che a testimonianza della sua posizione contro le donne chiami una divinità pagana come Eros, la cui autorità dovrebbe respingere. Non verrebbe da credere, leggendo simili ipocrite pomposità, che la stessa Voce del fuoco si abbassi senza indugi all'imbroglio e al falso. Mi fa ridere che Elena di tanto in tanto minacci di convertirsi al cristianesimo. Come si sentirebbe a sentirsi chiamare «pozzo di perdizione»? Questo disprezzo per le donne
mi convince che se Casta dovesse essere arrestata o messa a morte, Agnus non la considererebbe una gran perdita per sé o la sua superstizione.
23 dicembre, sabato «Braghe di cuoio. Significa che sei in partenza per una campagna?» «Non significa che ho finito quelle di lana.» «Qual è la tua destinazione?» Elio non lo disse. Con un cenno del capo indicò le lapidi allineate contro la parete di ben Matthias. «Ottimi affari per te, in ogni caso.» «Non farmi più cinico di quanto sia, comandante. Per giunta, ogni minaccia all'Impero danneggia gli affari.» Infilò un pollice nel grembiule legato ai fianchi. «E vero che ho elaborato quest'ingegnoso metodo di mettere in fila cinque scalpellini: il primo pareggia solo il fronte della lapide; il secondo cesella grossolanamente l'area su cui si troverà il ritratto; il terzo scolpisce i tratti essenziali del ritratto - maschio o femmina, militare o civile -; il quarto prepara l'iscrizione tipica, lasciando in bianco il nome, e il quinto aggiunge parole e dettagli quando sono disponibili.» «Acuto.» Camminando per la stanza, Elio scrutò schizzi e modelli. «E la mia, di lapide, quella che hai scolpito a Confluentes?» «L'ho lasciata lì, come pubblicità per la filiale del negozio.» Superstiziosamente l'ebreo si toccò l'inguine. «Porterebbe male se te la mettessi sotto al naso mentre sei in partenza per il Barbarico. Posso indirizzare la tua attenzione su una vernice per scudi resistente all'acqua e al sole?» «Se ce l'hai nera e gialla, potrebbe esserci utile.» Elio si fermò di fronte a un busto finito. «Un ritratto di Sua Divinità? E identico, un ritratto parlante!» «Grazie.» «Però ha l'aria preoccupata.» «Esattamente. Quel che un artista cerca di fare in questi giorni è restituire il pathos dell'esistenza, comandante. Già nell'antichità, il greco Skopas ha compreso che un soldato- imperatore come Alessandro doveva essere rappresentato in schiavitù del Fato, una figura simile ad Achille, di bellezza dannata. Perché pensi che il grande macedone sia ritratto con la testa girata, gli occhi levati a guardare ansiosamente verso l'alto, come se su di lui incombesse un'aquila, o un dio? Questo
era il modo in cui gli antichi pensavano di dover raffigurare la natura scelta dell'eroe. In questi giorni abbiamo un modo più controllato di restituire la drammaticità della vita individuale. A mio parere il volto deve mostrare le rughe del pensiero, della preoccupazione, della responsabilità. Se il viso è troppo fresco per essere segnato penso a Gordiano III, o al bestiale Eliogabalo, morti giovanissimi - deve apparire comunque marcato, perché la nostra mente mostra il peso e la fatica dell'esistenza molto prima che il corpo la segua. Due, tre linee brevi sulla fronte, parentesi ai lati della bocca. Gli occhi devono essere aperti, guardare avanti a sé. Voglio imprimere una sensazione sospesa di aspettativa, e allo stesso tempo la determinazione a guardare i problemi dritti in faccia. Basta con la congerie di pieghe e torsioni tanto amata ai tempi di Marco e Antonino, quando i sarcofaghi di marmo erano ammassi caotici di uomini e cavalli in battaglia, menadi e satiri ubriachi, scolpiti in rilievo quasi integrale per raccogliere polvere.» Ben Matthias passò le mani su tutta la testa di granito, con gesti rapidi di rimozione e pulizia. «Meno, meno, meno. Semplificare! Pochi tratti significativi, ecco tutto ciò che serve.» «La semplicità è una virtù nella maggior parte degli ambiti, trovo.» Elio continuò a guardarsi intorno. Era l'ora degli addii. L'imminente momento della partenza gli rendeva estranei gli oggetti e gli scenari, un fenomeno che aveva già avuto modo di osservare in se stesso. Le cose più comuni e i loro dettagli si facevano nuovi e allarmanti. Affascinato, quando si fermò sulla soglia per ammirare la giornata tersa, fissò la maniera in cui la polvere del grembiule di ben Matthias si precipitava convulsamente verso l'esterno. «Vedi da te che il mio laboratorio è fuori dal quartiere ebraico. Come ebreo, per me le immagini scolpite dovrebbero essere un abominio. Come artista, mi sembrano l'unica cosa che si pone fra me e l'oblio della morte. Le incido sull'onda dell'ansia e del desiderio di assicurare che il mio lavoro resti e perduri. E così, comandante. Tu vai in guerra con le tue grandi armate: cosa resterà di tutti voi? Leggende da raccontare intorno al fuoco? Storia? Tu puoi scrivere la tua, di storia, per far sì che la favola sia raccontata in modo corretto; ma sarà la tua versione, a rimanere, o quella del tuo nemico?» La corrispondenza fra i suoi sentimenti e le parole di ben Matthias rese Elio pensieroso, a un soffio dalla tristezza. Disse: «Se non mi sbaglio - non sono proprio
un esperto in questo campo - gli ebrei credono nella permanenza della loro scrittura, senza aver bisogno di immagini scolpite». «Per favore, comandante, non rovinare la mia esposizione. Non stiamo parlando di teologia, qui. Semplicità e permanenza. Io prediligo il porfido e il granito, perché sono quasi indistruttibili e perché sono difficili da lavorare: ti costringono a semplificare i tuoi ritratti.» Il congedo da ben Matthias fu tipicamente breve, ironico. L'ebreo disse: «Non si sa mai, i giudei sono come il prezzemolo, si trovano in tutti i piatti su tutte le tavole». Avrebbero potuto vedersi alla frontiera, se Elio per caso si fosse fermato a Intercisa. «Perché no?» rispose Elio. «Ho degli amici nel Primo Reggimento dei traci di stanza lì.» Separarsi da Elena fu ancor più facile. Aveva perso la testa per Sido, confessò; baciò Elio su entrambe le guance dicendogli di comportarsi bene e non dimenticarsi quanto gli aveva suggerito. «Mentre facevamo l'amore o in un altro momento?» «Cane impudente, sai bene a cosa mi riferisco.» Gli morsicò l'orecchio con un ultimo bacio. «Ricorda cosa ho detto sugli uomini che si trovano sopra.» Quanto a Curio Decimo, le occasioni di incontrarlo si erano diradate nell'ultima settimana che Elio aveva trascorso a Mediolanum. Il collega era via, in visita a parenti o chissà chi altro. La sera del penultimo giorno andò a trovarlo con la scusa di restituirgli i tre mesi di caparra per l'affitto. «Siete rimasto a malapena tre settimane, Sparziano. Sarebbe indecente tenere la somma.» «Il governo ve ne è grato», rispose Elio. Ma stava sorridendo. «Non volete entrare?» «Speravo che me lo chiedeste.» Come la volta precedente, si sedettero sulle sedie di vimini, uno di fronte all'altro. Nella nicchia dell'altare di famiglia era stato da poco bruciato dell'incenso, e il suo aroma fumoso non sfuggì a Decimo, che apertamente approvò l'atto di devozione di Elio. «È un bene farlo, di tanto in tanto. Queste pareti non godono abbastanza dell'antica religione.» Elio lo guardò. La maschera dell'educato disprezzo si adattava meno bene al volto di Decimo dopo l'episodio dell'ubriacatura. Ogni commento sull'osservazione del collega sarebbe stato superfluo, quindi non disse nulla. Scoprì di avere ben poco da
dire a Decimo, in effetti. I registri del tribunale, le parole di Protasio, le sue stesse osservazioni creavano un'immagine gemella dell'uomo molto più sinistra e credibile del meticoloso camuffamento che gli stava seduto di fronte. «E venuto il tempo della paura, non è vero?» L'atteggiamento amichevole era la copertura della trappola, ancora una volta. Elio sentì le parole penetrarlo come punte. «Ma io non ho paura», rispose lentamente. «Sì, e non inciampate mai. Lo so.» Decimo sorrise scoprendo i brutti denti. «Dobbiamo viaggiare insieme, combattere insieme... la verità verrà fuori. Anche nel vostro esercito pan-romano, Elio Sparziano. Gli ufficiali e i gentiluomini cercano la compagnia dei colleghi prima di una campagna, e aprono i loro cuori camerateschi.» «Voi avete paura?» «Non so cosa sia, la paura.» E fu in questo modo che aprirono i loro cuori l'uno all'altro. Elio restò poi alzato a lungo. La visita l'aveva interrotto mentre apriva una lettera la cui grafia non riconosceva. Era stata spedita un mese prima, e da una stazione di posta all'altra lo aveva finalmente raggiunto. Non era quella la novità, ma il mittente sì. Non aveva mai ricevuto lettere direttamente da sua madre. Il tono e lo stile erano così ben articolati da stupirlo. Sapeva che Giustina era capace di scrivere, ma finora ogni (scarsa) comunicazione gli era giunta vergata e firmata da suo padre. E infatti, solo perché Sparto stava ancora poco bene, come specificava sua madre, prendeva lei in mano la penna per fargli sapere come andavano le cose alla frontiera. ...Stanno tutti fortificando la loro casa, in questi giorni. Siamo tutti consapevoli che quel che è successo quarantanni fa potrebbe accadere di nuovo, e non ci faremo trovare impreparati. Ovunque ci sono muratori e falegnami al lavoro; si potrebbe dire che in questa provincia non ci sono disoccupati. I posatori di mosaici e gli scalpellini fanno bei guadagni. Per la maggior parte sono italici di Aquileia e Grado, alcuni ex soldati che comprendono la necessità e i gusti dei coloni militari. L'esercito chiude un occhio sul fatto che la nostra è una reazione civile indipendente alle potenziali minacce dall'esterno. Ogni uomo un soldato, un cittadino-soldato, se vuoi, ogni casa una guarnigione. Lo stile, come vedrai quando piacendo agli dei - verrai a trovarci, è piuttosto uniforme. Comprende due o quattro torri sporgenti, di solito di due piani, con dei raddoppi concepiti come granai, dispense
per la frutta secca e ripari per gli attrezzi contadini. Una volta chiuse le porte, un aggressore dovrebbe combattere sul serio anche solo per entrare. Naturalmente la luce patisce queste sistemazioni e gli spazi sono un po' costretti: ma siamo tutti felici di fare la nostra parte, la consideriamo una barriera ulteriore a protezione dell'Impero. Le ville in stile romano sono molto più eleganti e belle, con i loro porticati aperti e i giardini pieni di canali e fontane. Però è difficile trovare porte da chiudere, in quelle proprietà, e - se la vita ci metterà alla prova - vedremo quel che vedremo...
31 dicembre, domenica Fuori da Porta Argentea, il mendicante con una gamba sola attraversò la strada saltellando e puntellandosi su una stampella di fortuna. All'imbocco del ponte si sedette sulle pietre contro il parapetto per ripararsi dal vento crudele. A coprire le sue nudità c'erano pezzi di uniformi dell'esercito lacere e non identificabili, l'unico piede calzava uno stivale della misura sbagliata sopra una calza di lana senza dita. Il moncone, a destra, legato con un laccio nella stoffa consunta dei pantaloni, era amputato sopra il ginocchio. Blu per il freddo, era una figura davvero miserevole quando intravide Elio che gli si avvicinava al passo guardando nella sua direzione. «Carità per un uomo che ha dato tutto a Roma ed è stato mutilato in guerra!» Elio schioccò la lingua per far fermare il suo cavallo. «In quale campagna?» «In Armenia, onorevole comandante, e in Persia, dopo. Ero a Dafne, vicino ad Antiochia, quando abbiamo preso l'harem del re persiano... ed ero lì quando siamo entrati a Ctesifonte. Carità per un soldato!» «In che unità?» La schiena esposta al vento sferzante, Elio si sporse di sella per lasciar cadere una moneta nella mano dell'uomo. «L'Ala Ursiciana, che porta il vessillo dell'orso.» Seguì una seconda moneta. «Il tuo colonnello?» «Ah, mio signore...» Il mendicante catturò l'attenzione di Elio e tenne la mano speranzosamente aperta. I geloni sulle nocche e sulle punte delle dita si spaccavano e sanguinavano sotto una crosta di sporcizia. «E stato per salvare quell'uomo che ho
perso la gamba; è caduto ed è rimasto prigioniero sotto il suo cavallo morto. Mi è piovuta addosso una pioggia di frecce mentre tornavo di corsa verso di lui. Per due volte mi ha detto di mettermi in salvo, e per due volte sono stato ferito, ma non ho abbandonato i miei sforzi.» Fece saltellare le monete nel palmo sudicio, chiedendo di più. «Avreste dovuto vedermi.» Elio assentì con il capo. «Sì, certo che avrei dovuto. Li guidavo io, gli uomini dell’Ala Ursiciana a Dafne e Ctesifonte.» «Voi? E... e non siete caduto da cavallo?» «Nemmeno una volta, durante quella campagna. E i nostri animali li chiamiamo 'cavalcature'.» Il mendicante chinò la testa. La pelle sottile del collo a Elio ricordò una tartaruga, ma anche le tartarughe erano meno malnutrite e più pulite. «Un uomo deve pur mangiare, comandante.» «E vero.» «Nessuno vuole sentire che hai perso una gamba sotto la ruota di un carro. Suona comune. E per strada fa maledettamente freddo in questo periodo dell'anno.» La mano rimase mezza aperta, riluttante. «Ora rivorrete indietro le monete.» Elio guardò avanti a sé, verso la schiena del ponte. Sbuffò un po' d'aria fra le labbra, come ogni tanto fanno gli uomini quando sono dubbiosi o seccati. Dall'altro capo non arrivava nessuno, e alle sue spalle vide che la gente era presa intorno alle bancarelle del mercato. Si slacciò il mantello dell'esercito - una tessitura di prima classe, dall'Aquitania - e lo porse al mendicante. «Chiedi ai soldati in che unità hanno prestato servizio prima di inventarti storie.» Incredulo, al principio l'uomo non riuscì a prendere il mantello, ma accorgendosi dell'impazienza dell'ufficiale lo afferrò e gelosamente se lo avvolse due volte intorno al corpo, tirandoci sotto la gamba sana per tenerla calda. «Possano gli dei restituirvi dieci volte tanto, comandante.» Elio sorrise. «Sarebbe un mantello troppo grande.»
***** Per Elio era una regola non dormire nel suo letto (che fosse a un campo, in caserma, o in altri alloggi) la notte prima di partire per una campagna militare. Locande, case di amici; a volte si accontentava anche dell'aria aperta. E doveva essere da solo, come altri andavano a ubriacarsi o cercavano la compagnia di una donna, o facevano il giro dei bordelli per tutta la notte, per arrivare al mattino con gli occhi pieni di sonno, senza pensare. Doveva riflettere con chiarezza. Avendo scritto il suo testamento alla vigilia del suo incarico in Egitto all'epoca della Ribellione, doveva occuparsi di questioni meno pragmatiche. Era un passaggio che seguiva lo straniamento dagli oggetti familiari. Camminava già per l'appartamento affittato da Decimo come uno straniero che non abbia mai visto un certo luogo. Anche l'incanto turbolento delle figurine dipinte sopra il suo letto, i nani egizi e i babbuini, lo sorprese di nuovo; gli fece chiedere cosa fosse a conti fatti l'abitudine, se se ne dimenticava tanto facilmente. Seguì l'esercizio cosciente di prendere confidenza con le cose che aveva intorno, e la realizzazione che la vicinanza agli oggetti, alle trame, alle forme di una camera da letto potevano importunare la scelta di separarsene, magari per sempre. Ogni qualvolta fosse possibile, Elio preparava i bagagli in anticipo e mandava avanti i suoi effetti personali, per non doverle rivedere con la prospettiva che stessero diventando oggetti di un morto, come l'elmo trovato nella palude al Nord. Chi poteva dire cosa avesse pensato l'uomo cui era appartenuto la notte prima della partenza per la marcia nella foresta di Teutoburgo? Elio immaginò come l'uomo avesse messo da parte l'elmo decorato e l'avesse impacchettato con cura, in previsione di quando l'avrebbe indossato. Aveva in mente l'elmo quando era stato ucciso? Si dice che spesso gli uomini pensano a questo o a quell'oggetto domestico o insignificante prima di morire. Un collega ufficiale ferito a morte in Armenia aveva chiesto il suo fazzoletto da collo prima di spirare, con tale rabbiosa insistenza che erano andati a prenderlo, inutile com'era, e lui era morto succhiandolo come un neonato. L'immagine era rimasta con Elio in una sorta di orrore vergognoso. Una settimana prima aveva scritto una breve nota ai suoi genitori, informandoli che stava partendo per la frontiera. Quella sua ultima notte a Mediolanum, il luogo
diverso fu una locanda vicino alla caserma, dove anche gli uomini della sua Guardia si apprestavano a partire.
PARTE SECONDA Fiamma
8 Appunti di Elio Sparziano. Che si prenda la strada per il Nord o per il Sud, verso oriente solo una provincia (il Norico nel primo caso, la Dalmazia nel secondo) separa l'Italia dalla Pannonia. E per quanto lontane sembrino, le quattro unità amministrative che formano la Pannonia sono solo a un terzo della distanza fra le Alpi italiane e la massima estensione dell'Impero in Europa, che termina a Bisanzio. La Pannonia - il cui nome si dice derivi dalla divinità dei boschi Pan - è una vasta terra di pianure, foreste, laghi e montagne imponenti. I suoi abitanti si chiamano anche danubiani, perché il Danubio traccia i confini esterni della regione, e al grande spirito del fiume sono state devote le popolazioni che vivono lungo le sue sponde ricche e ininterrotte. Fisicamente i pannoni sono alti e robusti, più spesso chiari che scuri, dagli occhi grigi o blu, resistenti alla fatica e alle intemperie. Il loro naturale orgoglio è temperato dalla pazienza e dalla buona volontà, e questo fa di loro eccellenti reclute e ufficiali di valore. Le loro donne sono modeste, rispettabili e fertili. Poco prima della mia nascita, Nostro Signore Aureliano - Restauratore dell'esercito - ha avuto la saggezza di abbandonare le ingestibili terre transdanubiane che formano la provincia della Dacia. Così un enorme territorio, conquistato circa duecento anni fa dai divini Traiano e Adriano, è tornato al Barbarico. Fin dai tempi dei due principi guerrieri, e per la durata dei regni di Settimio Severo e il suo altrimenti abominevole figlio Caracalla, il confine fortificato che chiamiamo Limes, o Limite, è diventato una frontiera continua composta dal fiume e da fossati muniti, mura di pietra, torri d'osservazione, posti di blocco, caserme e interi accampamenti militari, collegati da comode strade di transito militare, ponti fortificati, a tratti integrati da controfortezze sull'altra sponda. Quelli di noi che sono nativi della Pannonia e della Mesia, province che condividono la medesima area geografica, dipendono dagli storici greci e romani per la narrazione della loro stessa antichità, che risale a oltre seicento anni prima di Alessandro il Macedone. Sembra che il nostro sangue sia celtico; di più, sembra che le tribù (principalmente i boi e gli scordi- sci) che formano il nucleo etnico della popolazione non siano affatto indigene, ma siano venute dalla Gallia tre secoli prima
di Giulio Cesare (in effetti i miei avi paterni sono boi, che hanno occupato un grande territorio detto Boihaemium, o Boihaemia, o più comunemente Boemia). Avendo fallito il loro scriteriato tentativo di attaccare Roma, quei celti sono fuggiti verso est per insediarsi lungo i fiumi Sava, Drava e Tibi- sco, tutti affluenti del grande Danubio. Ancora allo stato barbarico, combatterono con gli indigeni e fra di loro. Nove anni dopo la morte di Giulio Cesare, il suo erede Ottaviano Augusto occupò la capitale della Pannonia, Siscia, e per i cinquantanni successivi nella regione si alternarono pace e rivolte impossibili. Sotto il divino Vespasiano e i suoi figli, la Pannonia ha conosciuto un'assegnazione permanente di legioni e la prima organizzazione del Limes, da cui sono state lanciate le grandi campagne di Dacia di Traiano e Adriano. Marco Aurelio, il principe filosofo, in Pannonia ha scritto le sue Meditazioni, per poi morire a causa della Grande Epidemia che cento- vent'anni fa ha quasi spopolato l'Impero. Severo e la sua dinastia hanno portato alla regione una prosperità senza precedenti. Fra allora e oggi la nostra storia è stata caratterizzata da incursioni barbariche, guerre e due imperatori nati in Pannonia (Decio e Probo). Sette anni fa i soldati pannoni, reputati i migliori dell'Impero, sono stati scelti per combattere le vittoriose campagne di Persia. Attualmente le città e i pacifici insediamenti pannoni si trovano a fronteggiare una schiera di popoli ostili dall'altra parte del fiume: i quadi, i marcomanni, i goti, i sarmati e i loro alleati rossolani, gepidi, svevi, vandali e altri. Era sensato che, se le province danubiane erano la loro destinazione, per evitare gli alti passi di montagna delle Alpi Agnus e Casta avessero preso separatamente la strada più bassa. Percorrendo la stessa strada insieme alle sue guardie e alle altre unità da Mediolanum, per un totale di un migliaio di soldati, Elio ricostruì il possibile itinerario dell'uomo dei miracoli. Pons Aureoli, Bergomum, Brixia... A ogni sosta, se ce n'era occasione, si informava sullo stato delle inchieste per reati religiosi. A Bergomum gli dissero di certi disordini fra «gli orientali», vale a dire i cristiani e gli ebrei, scatenati da un falso profeta e dalle sue affermazioni. Nemmeno una parola su chi potesse essere il profeta. Negli scontri erano rimasti uccisi due uomini, e fra i cristiani c'erano stati degli arresti. Altri due morti, dunque, e arresti che probabilmente si sarebbero trasformati in condanne capitali. A quel punto, qualunque fosse stato il ruolo che il predicatore itinerante aveva svolto nell'incitazione alla rivolta e perfino nell'omicidio, il desiderio di
Elio di sbugiardarlo era andato oltre la sua curiosità. Al di là del magnanimo permesso di Sua Divinità di «apprendere di più della pratica superstiziosa della cosiddetta resurrezione operata da Agnus, o Pyrikaios, o la Voce del fuoco, come viene chiamato», voleva affrontarlo di persona. Le probabilità di un simile incontro erano piuttosto scarse, ma quando, durante un pernottamento dell'esercito a Brixia, conobbe ulteriori dettagli dei disordini di Ber- gomum, Elio fu certo che il maestro di Casta vi era in qualche modo coinvolto. La controversia verteva su un ragazzo malato, figlio di un'ebrea e di un cristiano apostata, la cui guarigione, a Treviri, veniva riferita in maniera diversa dalle locali comunità ebree e cristiane. Le accuse incrociate di truffa e le presunzioni di miracolo erano sfociate in disordini violenti. L'incidente, per la prima volta, procurò a Elio una descrizione dell'uomo dei miracoli: più d'una, in realtà. Giunse sotto forma di un rapporto del comandante dell'unità inviata a Brixia per soffocare la rivolta. Anche se il guaritore doveva essere passato di recente, lui non l'aveva visto di persona, ma da quelli che l'avevano fatto erano emersi dettagli interessanti. L'impressione era quella di un uomo distratto o assorbito dalle proprie idee; non guardava direttamente il suo interlocutore, sembrava piuttosto che «cercasse presenze o segni sopra la testa dell'altro, o al suo fianco». Non si lasciava toccare da nessuno, non ci si poteva avvicinare a più di un passo e mezzo da lui. Dormiva e mangiava da solo, ma nessuno lo vedeva mai nutrirsi o bere; molti credevano che non lo facesse affatto, «essendo in qualche modo sostenuto dalla fiamma del suo stesso spirito». Capelli lunghi e scarmigliati, andava a piedi scalzi noncurante del tempo o del terreno, eppure i suoi piedi non sembravano feriti o provati dai viaggi. Nessuno aveva mai visto neppure il suo corpo nudo, al di là delle mani, dei piedi, del collo e della testa, perché portava una tunica a maniche lunghe, di colore nero. Secondo una delle descrizioni, almeno. Altre dicevano che non era in alcun modo distinguibile dagli altri uomini, portava vestiti comuni adatti alla sua età, aveva la barba curata e i capelli corti. Come altro avrebbe potuto passare inosservato in province in cui le autorità andavano in cerca di fanatici religiosi? Il rapporto non menzionava alcun assistente, uomo o donna che fosse, una circostanza che confermava che Agnus e Casta viaggiavano separati. L'avanzata dell'esercito attraverso l'Italia del Nord continuava alla mercé del tempo che alternava bufere e giornate terse di freddo mozzafiato. Curio Decimo e i
suoi amici di Mediolanum formavano un gruppo serrato, quasi impermeabile agli altri. Ogni volta che arrivavano a una delle città o ai forti dell'esercito lungo la via, avevano commissioni da fare e conoscenti ai quali rendere visita. Di tanto in tanto, Elio andava in cerca della compagnia dell'aristocratico. Dato che le sue relazioni personali fino a quel momento erano state caratterizzate da una notevole apertura d'intenti, al principio Elio fu turbato all'idea di frequentare il collega per i sospetti che nutriva su di lui riguardo la morte di Marcello. Ma durante le marce dell'esercito la vita era quella che era, e ben presto si trovò a dirsi che comunque gli ufficiali beneducati difficilmente potevano evitarsi. Da parte sua Decimo sembrò
singolarmente
compiaciuto
di quello
sviluppo,
addirittura
divertito.
Probabilmente attribuiva al piacere della sua brillante compagnia il cambio di rotta di Elio. A dire il vero, all'inizio commentò: «C'è un odore inconfondibile di fumo nell'aria. Dov'è il fuoco?» Ma Elio fece finta di non capire. A sud del lago Benaco, in una spettacolare mattina di sole, con le alte catene montuose a nord che accecavano di neve come barriere di specchi, Sido e un seguito di speculatores avvolti in mantelli di pelliccia raggiunsero al trotto l'esercito. La ghiaia schizzava sotto gli zoccoli dei cavalli insieme a schegge di ghiaccio. Uno dei gemelli Destro o Sinistro - faticò per impedire al suo cavallo di impennarsi. «Figlio di puttana!» gridò a squarciagola verso la scia brillante di Sido, e suo fratello, ridendo a metà, puntualizzò con disprezzo: «Un fortunato figlio di puttana», a beneficio dei colleghi tutto intorno. «Io dico che è stato proprio tempestivo il modo in cui Marcello ha tirato le cuoia, appena prima che le accuse di corruzione facessero perdere a quello il posto alla polizia.» Elio, che cavalcava in testa al gruppo, rallentò appena, per ascoltare meglio. Tutto ciò che sentì fu il rimprovero di Decimo, con voce distratta: «Perché attribuire a Sido il merito dell'assassinio del giudice? I meriti si danno quando si meritano». Non aggiunsero più nulla, ma i romani risero come se fosse stata una battuta. Verona, 7 gennaio 305 dopo Cristo, domenica Come avveniva talvolta, la lettera che sua madre aveva spedito prima di quella già ricevuta arrivò a Elio il sesto giorno dalla partenza da Mediolanum, a Verona, dove l'esercito si era fermato per approvvigionarsi alla locale fabbrica d'armi e aveva dovuto sostare un'intera notte in più a causa di una tempesta di neve. Elia Giustina al comandante Elio Sparziano, il mio affetto e i miei saluti.
Carissimo figlio mio, ti scrivo nella speranza che queste righe ti raggiungano ovunque tu possa essere. E in primo luogo per metterti a parte di un fortunato evento che ci è capitato, che comunico con te senza attendere che la lieve indisposizione di tuo padre passi. Ricorderai che quando egli ha acquisito questa proprietà, sei anni or sono, in previsione del suo pensionamento, l'ha fatto grazie alla successione a un lontano parente morto senza eredi. Si trattava del nipote di quel Resato i cui beni sono stati distrutti dai barbari quarantaquattro anni fa, durante la guerra che ha devastato la nostra provincia. In quell'occasione fu sterminato insieme a tutta la sua famiglia. Tale era il disordine a quei tempi (lo ricordo bene, malgrado fossi piccola) che la casa arsa e crollata fu lasciata nello stato in cui si trovava, con i cadaveri delle vittime abbandonati all'interno. All'insediamento si raccontava che la casa di Resato fosse infestata dagli spiriti, e in effetti a noi bambini non era permesso di andare a giocare intorno alle rovine. Non solo, anche il tratto di strada di campagna che un tempo portava allo sfortunato luogo aveva fama di essere visitato dai fantasmi, a mezzogiorno e nel cuore della notte. Ora sono tutti sepolti in un luogo che si trova all'angolo della nostra tenuta. Senza dubbio te ne ricordi, perché andavi laggiù a cacciare le lucertole, e una volta, cadendo dal monumento a Resato, ti sei sbucciato malamente le ginocchia. All'epoca dell'invasione tuo nonno era di servizio al campo di Ala Nova, e le mie sorelle e io siamo cresciute lì. Ricordo perfettamente il vecchio Resato, e Blanda, sua moglie; meno i loro figli, che erano più grandi di me. Ma Blanda posso ancora vedermela di fronte agli occhi come fosse allora, il giorno in cui noi ragazze le portammo delle uova fresche in dono per ringraziare di qualche cortesia che ci avevano fatto. Ebbene, circa due settimane fa - ricorrenza dell'antica tragedia, che osservo sempre portando le appropriate libagioni sulle loro tombe - stavo pensando se quei tumuli, che abbiamo sempre curato come se appartenessero ai nostri genitori, riceveranno lo stesso trattamento una volta che tuo padre e io non ci saremo più. Considerazioni da povera vecchia, penserai, ma ci sono giorni in cui guardo gli operai alle prese con la nostra casa e divento superstiziosa, temo che qualche disgrazia possa colpire noi o i nostri figli.
In effetti, a volte mi sembra di poter immaginare un tempo in cui non sarà rimasto nulla di quelle comunità e insediamenti, e i boschi e gli animali selvatici avranno di nuovo la meglio, oppure nuovi popoli, stranieri o barbari, si trasferiranno qui al nostro posto. Non posso non riflettere su quel che penseranno - sempre che lo facciano quando troveranno un mattone solitario, un orcio abbandonato, o qualunque altra cosa segni il nostro passaggio in questo luogo. Non conosceranno i nostri nomi, né quello che contava per noi, chi amavamo, quello di cui ci curavamo, quali dei avessero la nostra fede e devozione. Ma sono questi i pensieri che affiorano alla mente quando ci si siede a scrivere quello che sto per riferirti. Mentre ampliavamo la casa (abbiamo deciso di costruire un portico e aggiungere due torri sul fronte in funzione difensiva), abbiamo dovuto fare dei cambiamenti. Ieri, prima che gli operai cominciassero a scavare per le aggiunte, tuo padre ha detto che avrebbe tagliato le siepi per lasciare spazio agli uomini di fronte alla casa. Sono erano - le mie siepi preferite, quindi abbiamo discusso, e dopo un po' la pioggia ha fatto temporaneamente desistere tuo padre. Si stava facendo anche buio, dunque siamo rientrati, e senza rivolgerci la parola poco dopo siamo andati a letto. Ora, chi mi è venuta a trovare in sogno se non Blanda, identica a come la ricordavo? Mi è sembrato di sentir bussare alla porta e l'ho trovata sulla mia soglia, sorridente. Nel sogno non ricordavo fosse morta, sai, quindi è stato naturale invitarla a entrare. Volevo mostrarle come avevamo ricostruito quel luogo che era stato suo, e come ci stessimo prendendo cura delle proprietà. Lei però non è voluta entrare, e mi ha invitato a non abbracciarla. «Solo», ha detto, «prima che domani vengano gli operai, accertati di scavare sotto l'albero di pere che fa ombra al tavolino di pietra in giardino. Ho nascosto ai suoi piedi le mie cose migliori, non sono mai state trovate e voglio che sia tu ad averle.» Immagina come mi sono sentita; sapevo che qualche volta nel sonno si presentano le ombre degli estinti, ma non mi aspettavo che succedesse a me. Chiedendomi come sapesse dei nostri lavori in casa (ma questo è sciocco, si suppone che i morti sappiano tutto), ho ringraziato Blanda e le ho chiesto di nuovo se non volesse entrare e sedersi un momento. Ha continuato a sorridere, ripetendo di non voler (o poter) entrare, e aggiungendo che presto mio marito le avrebbe portato un paio di orecchini, che ha descritto dettagliatamente.
Ebbene, figlio caro, questa mattina mi sono svegliata molto confusa. Quando ho condiviso il sogno con tuo padre, lui l'ha preso come un modo tutto femminile di ammettere che avevo torto riguardo le siepi, che stessi insomma usando il sogno per giustificarmi. Voi è uscito, di buon mattino, e ha iniziato a scavare: prima le siepi, e in seguito precisamente sotto l'albero di pere, di cui avevo sognato. Si è fatto più corpulento nell'ultimo paio d'anni, così gli ho detto di non affaticarsi, ma siccome non ascolta mai, dopo un po' ho smesso di insistere. Che tu ci creda o no, due spanne sottoterra la pala ha trovato qualcosa di duro. Era metallo, una specie di cassa blindata. Ha continuato a scavare, sempre più furiosamente, e a un certo punto mi ha ordinato di mandar via gli schiavi e tutti gli altri, cosa che ho fatto con una scusa. Per farla breve, ha tirato fuori una cassa di quelle in cui si conservano gli oggetti di valore, e quando l'abbiamo aperta, con qualche difficoltà, abbiamo trovato una serie di vasi d'argento e due tazze dorate, oltre a un piccolo tesoro in monete d'oro dei tempi di Nostro Signore Aureliano e qualche gioiello femminile. Fra questi ultimi, perfettamente riconoscibile, il paio di orecchini descrittimi in sogno. Tuo padre è impazzito per la scoperta, e naturalmente anche a me ha fatto piacere, saranno ottimi regali per voi ragazzi. L'unica cosa di cui non sono certa riguarda le parole di Blanda su tuo padre che dovrebbe portarle gli orecchini. Non voglio fare troppo la credulona che si fida di qualunque presagio. .. Comunque ho suggerito che scaviamo un buco più vicino possibile al luogo di sepoltura e ci mettiamo dentro gli orecchini. Ma il mio cuore è a disagio. Mi ripeto che è perché tuo padre, che ha preso freddo dopo aver sudato tanto per scavare, stasera ha la febbre. Appena si riprenderà mi sentirò assai meglio. Stai bene, mio caro unico figlio. Prego Magia, Mammola e le Madri Pannone affinché veglino sempre su di te. Scritto di suo pugno nella proprietà di Elio Sparto nel distretto di Savaria, provincia di Pannonia Savia, il XII giorno alle Calende di dicembre. Era lo scambio più lungo che sua madre avesse mai avuto con lui, a parole o per lettera. Al di là della stranezza dei contenuti, Elio apprezzava la differenza fra le note brevi e mal scritte di suo padre e quel modo attento, vivace, scorrevole di comunicare. Gli diede gioia. Perché aveva lasciato che fosse lui a parlare per lei in tutti quegli anni? Sono più figlio di mia madre, si trovò a pensare, che di mio padre. La
notizia dell'indisposizione dell'anziano era secondaria rispetto alla scoperta di Giustina come interlocutrice. La notte seguente - si erano lasciati alle spalle Cadianum - furono sorpresi dal buio mentre ancora si trovavano lontani dalle caserme più vicine. Montare le tende non fu un compito facile, ma ne vennero a capo. Gli ufficiali trovarono riparo qui e là nelle fattorie, fatta eccezione per Elio e Curio Decimo, che decisero di sistemarsi fra le rovine di un podere devastato dalle guerre passate e dall'abbandono. Fu una di quelle decisioni prese per mutuo accordo, senza esprimere ragioni. Accesero un fuoco, masticarono gallette e parlarono di cose che in apparenza non avevano nulla a che fare con gli scopi taciuti di quella conversazione privata. Decimo la prese alla larga, discutendo di filosofia. «Voi dite - con Seneca, se non mi sbaglio - in regno nati sumus, e immagino intendiate che, in un modo o nell'altro, fin dalla nascita siamo in un mondo che ci rende schiavi delle sue regole. Se è così (e ammettiamolo pure, Seneca non ha lasciato che la sua filosofia gli impedisse di arricchirsi e diventare addirittura il consigliere di un tiranno), allora posso solo replicare che nessuno può costringerci a restare in un mondo di tal fatta.» «Vero. Ma se ogni uomo virtuoso uscisse di scena, il mondo non verrebbe lasciato in balìa del male? Io dico che per quanto coscienti siamo della difficoltà della situazione, dobbiamo affrontarla, e fare del nostro meglio.» «Non stavo pensando al suicidio. Vi ho mai detto qual è il soprannome di Mediolanum? La Pingue, perché produce molto, e un'infinità di beni passano per le sue porte. È come un immenso viluppo di cuore e intestino, che pompa ed espelle. Non proprio quella che chiamerei una città con ideali repubblicani. Eppure c'è un motivo per cui i miei amici e io ci incontriamo regolarmente a Mediolanum. Come storico,
senza
dubbio
ricordate
che
prima
delle
Idi
di
marzo,
quasi
trecentocinquant'anni orsono, Bruto era in carica proprio in quella città. A Mediolanum la Repubblica ha continuato a respirare anche dopo che aveva cessato di farlo a Roma.» Elio si curò di mantenere l'attenzione sul fuoco, per mostrare solo un tanto di interesse. «Immagino sia a Bruto il repubblicano che vi riferite, non a Bruto l'assassino.» «Il 'tirannicida', volete dire.» Decimo rise. «Bruto era un individuo, non una serie di attori cucita dentro una pelle. Quintilio Varo, colui che ha condotto il titolare del vostro
bell'elmo a morire nella foresta di Teutoburgo, era figlio di uno dei cesaricidi. E uno dei miei avi materni era al fianco di Bruto alle Idi di marzo. 'Assassino' è una parola talmente disdicevole: non la usiamo nella mia famiglia.» La risposta di Elio, qualunque essa fosse, non gli affiorò alle labbra. Si accovacciò davanti al fuoco, e con la coda dell'occhio guardò il collega tormentare le fiamme con un ramoscello lungo, arroventandone la punta. Decimo stava girando intorno all'argomento dell'omicidio, sfidandolo a istituire un collegamento con il giudice Marcello? Le sue affermazioni erano cariche di significato, politico ma non solo. Un buio incerto e fluido si accumulava agli angoli della stanza, fuligginoso e profondo come una presenza. Oltre le travi diroccate, il precipitoso cielo stellato sembrava tutto nero, come se un sacco di ramoscelli e ceppi in fiamme fosse capace di spegnere la volta celeste. Anche le parole di Decimo sembravano alimentare e ravvivare il fuoco. Qualunque fosse la simulazione o il desiderio di provocare, agitavano e pungolavano anche il concetto di libertà che i maestri stoici di Elio interpretavano in maniera tanto letterale da giustificare l'atto di togliersi la vita prima di perdere l'onore. Nel suo silenzio Decimo lesse una mancanza di critica. Frustando pigro le fiamme, disse: «Prendete Pertinace e Macrino: non hanno avuto un ruolo nella liberazione di Roma da mostri come Commodo e Caracalla, prendendo il loro posto di imperatori? Ci saranno sempre ufficiali dalle menti illuminate che si uniscono - si uniscono, non complottano - per abbattere il tiranno e salvare l'onore della patria. Correranno sempre il rischio di essere scoperti, accusati, processati e messi a morte. La morte in battaglia non è una fine nobile quanto l'esecuzione per mano di un tiranno». Il ramoscello fra le sue mani era sempre più incandescente, ma non prendeva fuoco. «Non è possibile che approviate il modo in cui Roma viene governata di questi tempi.» Soppesandole, Elio trovò difficili da maneggiare le sue parole. «Perché, Roma era governata meglio ai tempi della Repubblica? Allora abbondavano le guerre sociali e civili. Uomini potenti avevano potenti eserciti privati, che tenevano in scacco l'Urbe e i suoi territori. Uccidevano impunemente. Credo che ci inventiamo un passato virtuoso solo per condannare un presente che non ci soddisfa. Nulla di quanto ho studiato nel lavoro dei grandi storici indica l'eccellenza dei 'vecchi tempi andati', Decimo. C'erano personalità eccezionali nella Repubblica, come ce ne sono ora. Potrebbe
semplicemente infastidirvi che mai come oggi degli uomini figli delle classi più umili riescano a ottenere tanto, ad arrivare così in alto.» «Anche questo.» Di fuori il vento girava intorno all'edificio come una volpe nelle vicinanze di un pollaio, in cerca di una fessura per insinuarsi all'interno. Il suono era basso e insistente, quello delle veglie notturne nei propri stivali e mantello. Elio pensò che c'erano state altre volte in cui, seduto a discorrere con qualcun altro, all'improvviso si era sentito distaccato dal momento e dal luogo. È perché sono abituato a non avere un'appartenenza, a non affezionarmi. Perché, al contrario dell'uomo che siede di fronte a me nella sua amarezza, non ho gloriose catene di avi che mi legano qui e là, avviluppandomi in Roma come una mosca in una ragnatela. E provò pena per Decimo, come i soldati che di tanto in tanto si lasciano trapassare dal dolente senso della miseria umana. Gli sembrò che con tutta la sua severità e il suo orgoglio, il collega si stesse dibattendo in un bozzolo di saliva di ragno, senza riuscire a liberarsene. Eppure un uomo del genere avrebbe potuto trovare non una ma dieci diverse ragioni per giustificare l'omicidio, Elio ne era certo. Farlo inciampare in una confessione era un'altra faccenda, assai più pericolosa. 14 gennaio, domenica Varcarono il confine fra Italia Annonaria e Norico a metà gennaio. Aquileia, Concordia, Tergeste, Emona: dovettero passare per ognuna di esse prima di proseguire il viaggio. Ad Aquileia, dove la presenza cristiana si diceva essere forte e dilagante, Elio riprese le tracce di Agnus grazie a un pernottamento in una caserma non lontana dalle prigioni cittadine. Laggiù erano in attesa di giudizio dei cristiani di lingua greca, rei di aver contravvenuto alla legge associandosi e facendo uso di testi sacri proibiti. Lo scritto di Agnus che Protasio aveva nascosto nel cesto di mele era stato mandato ad Aquileia, dunque Elio era certo che avrebbe appreso di più del guaritore. Fu così, anche se non per bocca dei cristiani. Il capo secondino di turno era più loquace dei carcerati. Agnus aveva guidato una congregazione in città, anni prima, senza controversie, finché la figlia di un ufficiale si era convertita alla sua superstizione. «Aveva corteggiatori in fila da qui a laggiù», spiegò, «ed era la luce degli occhi di suo padre. Un bel giorno ti diventa cristiana, comincia a digiunare e a mortificare la sua carne, non ascolta ragioni, e nel giro di un anno o giù di lì si consuma come la cera di un moccolo e muore. Credetemi, il padre è
andato a cercarli uno per uno, i cristiani, con tutto che a quei tempi era permesso loro di venir su come erbacce. Agnus, naturalmente, si era già spostato altrove. C'è stato un mandato di arresto pendente a suo nome, per anni. Due settimane fa, secondo certi informatori, girava voce che fosse di passaggio ad Aquileia. Be', abbiamo pensato, che siamo maledetti se lasciamo che altre delle nostre ragazze perdano la testa dietro ai suoi trucchetti magici. Ci muoviamo, facciamo arresti. Troppo tardi. Lo chiamano la Voce del fuoco, adesso, eh? Buono a sapersi.» «Non capisco perché la figlia dell'ufficiale si sia lasciata morire.» «È presto detto, comandante. Perché le donne cristiane sono la progenie degli spiriti del male, e devono punire i loro corpi di peccatrici. Avete mai sentito qualcosa di più ridicolo? Si sa che le donne non hanno cervello: tutto quel che hanno è il corpo!» Emona era l'ultima città militare amministrativamente annessa all'Italia. La sua collocazione sulla Via dell'Ambra le conferiva già il carattere culturale della regione pannona; il dialetto, le mura spesse e i torrioni dicevano frontiera a dispetto di quanto portavano a credere i negozi e le attrattive urbane. Elio appuntò in fretta le sue impressioni del luogo. Ho autorizzato i miei uomini a prendersi la sera libera per le loro pratiche religiose al locale tempio di Mitra, poiché questo culto, legato a quello del Sole Invitto, prospera da qui fino al Danubio. Il tempio è nell'interrato di un edificio accanto al luogo dove hanno cenato Decimo e i suoi amici, i «romani», come li chiama Duco. Intorno a mezzanotte, mentre ero ancora sveglio a leggere, è venuto a trovarmi il capo delle guardie. In base al mio ordine di informarmi di qualunque cosa fuori dell'ordinario, ha riferito di aver sentito un chiassoso litigio fra i miei colleghi. Non è propriamente una novità. Se hanno bevuto quanto gli ho visto fare a Mediolanum, è un miracolo che non abbiano sfasciato il locale. Oltre il confine, passato il fiume Sava e una stazione eloquentemente chiamata Gli esattori delle tasse, la successiva città di un certo rilievo fu Celeia, «la Porta del Norico». Le unità dell'esercito, di conseguenza, fecero una sosta ufficiale per offrire i sacrifici dedicati al buon inizio e al buon esito della campagna. Giunsero al tramonto, con un vento da ovest che tagliava come una lama e costrinse uomini e animali a cercare riparo. Gli ufficiali requisirono una locanda fuori dalla porta occidentale, troppo stanchi per mangiare o fare qualunque altra cosa che non fosse dormire.
15 gennaio, lunedì Duco lo stava scuotendo. Elio si girò nel letto, appesantito dal sonno ma già in allarme. «Che c'è, ho dormito troppo?» mugugnò. «No, è l'ora della sveglia, ma ci sono guai.» Il britanno non era ancora vestito. Alla luce fioca del lume i capelli rossi gli stavano ritti in testa come gli aghi di un porcospino. «Uno dei 'romani' è morto.» «Morto? Come, chi?» «E quello che chiamavano Frugi. Dormiva due brande più in là di me. Non si è svegliato, tutto qui. Non ho sentito niente, Elio.» Elio si stava infilando le braghe. «Be', siamo tutti stanchi come bestie.» Aveva sognato una bizzarra combinazione di volti ed eventi, che aveva dimenticato appena aperti gli occhi, anche se ricordava che in essa comparivano Anubina e Casta. «Chi altri è in piedi?» «Otho e uno dei gemelli.» «Decimo?» «Dorme ancora.» «Andate a svegliarlo... no, vado io.» Le assi del pavimento erano fredde sotto i piedi nudi quando Elio si precipitò nell'altra stanza. Come quella in cui aveva dormito era quadrata, grande abbastanza per contenere quattro o cinque brande. Decimo si svegliò dopo che l'ebbe chiamato e sballottato a lungo. Apprese la notizia con i piedi fuori dal letto, mezzo seduto. Aveva gli occhi vitrei. «Stronzate», reagì con una risata bassa, incredula. In breve furono tutti in piedi, con l'abbigliamento a metà. Ulpio Domnino tastò il collo e il volto congestionato del collega morto. «E freddo. Deve essere morto poco dopo che ci siamo ritirati. Non sembra che abbia sofferto, quindi deve essersi trattato di una cosa improvvisa, un colpo, o qualcosa del genere. Chi gli ha parlato per ultimo?» Otho alzò la mano senza aprire bocca. Poche ore addietro ognuno di loro si era gettato sulla prima branda su cui era inciampato. Duco, Decimo, Frugi e Sinistro avevano preso la stanza più vicina alle
scale; Elio, Vivio Luciano, Destro, Otho e Ulpio Domnino quella accanto, comunicante con la prima. Elio guardò il pasciuto corpo di Frugi steso sull'anonimo materasso. Dell'intera coorte di Decimo era il meno colorito, un uomo ostinato e di poche parole, anche durante la festa in cui tutti si erano vantati della loro carriera. Era stato lui a dire che la figlia di Decimo doveva essere favolosamente ricca. «Chi è di servizio di sotto?» Ponendo la domanda, Ulpio Domnino gettò un'occhiata a Elio. «Le vostre guardie?» «Sì. Garantisco personalmente per loro. Perché?» «Stavo solo chiedendo.» Convocate senza che gliene fosse spiegata la ragione, le guardie confermarono che nessuno era entrato nella locanda dopo gli ufficiali. Il manto di neve intatto intorno all'edificio lo provava. A montare la guardia si erano alternati quattro uomini; il secondo turno era iniziato appena un'ora prima. «Questa è due volte una pessima cosa.» Duco interpretò il pensiero di tutti. «Un collega morto è un brutto presagio per la campagna.» «Già, senza contare che le guardie potrebbero farci ritardare tutti.» Decimo stava sbadigliando coprendosi la bocca con le mani, tanto che sembrò staccarglisi la mascella. Pronunciò quelle parole fra uno sbadiglio e l'altro. «Sparziano, avete detto che per i vostri uomini garantite di persona.» «L'ho detto. Dunque?» «Non mi equivocate. Sto pensando quel che ha in mente almeno la metà di noi: Frugi è morto, e coinvolgere le autorità cittadine non lo riporterà in vita. Accidenti, qui non abbiamo la prodigiosa Voce del fuoco, no?» «Dovremmo almeno far venire un medico per accertarci che si sia trattato di morte naturale.» Se Elio avesse fatto cadere un'enorme pietra in una pozzanghera, i suoi colleghi non si sarebbero tirati indietro in maniera più automatica. «Cosa?» «Ma che dite?» «Siete impazzito?» Decimo placò le voci con un lento semicerchio della mano destra a mezz'aria. «Ci offendete tutti, Sparziano, voi compreso. Il povero Frugi ha mangiato e bevuto all'eccesso; quelli di noi che conoscono la sua famiglia possono dirvi che suo padre è
morto di un colpo apoplettico in Senato, e suo zio seduto su una latrina. Io dico di dargli la possibilità di usarci un'ultima cortesia non ritardando la nostra marcia. Chi di voi conosce la città?» I gemelli, Otho, addirittura Duco sembrarono sollevati dalla proposta di vestire e portare fuori Frugi finché era buio. Otho era stato di stanza a Celeia due anni prima e suggerì un piccolo insediamento fuori dalle mura occidentali, un miglio più indietro. «Sono tutti bordelli. Le puttane sono egizie e siriane, si possono scopare un uomo a morte, ve lo assicuro.» «Non dite assurdità.» «Che c'è, Elio, potete garantire anche per le puttane egizie?» «Sparziano ha ragione, non piace neppure a me», intervenne Ulpio Domnino. Decimo raccolse i suoi stivali accanto al letto e se li infilò. «Bene, siamo due contro quattro. Cinque, se contiamo Frugi, che non avrebbe mai voluto ritardare la nostra avanzata verso la guerra. Sparziano, visto che non volete partecipare, mandate via le vostre guardie prima che ci vedano portare di sotto il nostro amico.» Andò da sé che i sacrifici offerti al mattino al tempio dell'esercito furono cupi, con una non dichiarata natura riparatrice. Il corpo di Frugi, trovato all'alba dalle guardie dietro al bordello noto come Priapo Rosso, fu considerato una vittima di cui le prostitute non seppero rendere conto, ma pur sempre vittima di un incidente. Appunti di Elio Sparziano, scritti il 26 gennaio, venerdì. La
nostra
marcia
è
proseguita
lungo
la
strada
militare
Ce-
leia-Poetovio-Sala-Savaria. Stanotte ci accampiamo fuori Savaria, e domani le nostra unità si separeranno dopo una breve cerimonia in centro. Le Guardie di Palazzo e altri soldati della guarnigione di Mediolanum andranno a sud-est, verso Herculia, e passeranno il confine a Intercisa. Io incontrerò i miei soldati a Mursella, per la via di Bassiana, e per quanto ne so, seguirò a monte il fiume Mura fino ad Arrabona e al Barbarico. Fin dalla morte di Frugi non ho smesso di osservare i miei colleghi «romani». E una mia impressione, o all'interno del gruppo aleggia una certa ansia? La fretta con cui è stata trattata la dipartita di un amico li turba, credo. Ulpio Domnino ogni tanto cerca il mio sguardo, proprio lui che era il più sprezzante della coorte di Decimo. Vuole parlare, ma non osa. Decimo tiene strettamente d'occhio i suoi compagni: mangiano e dormono insieme, senza eccezioni. Tagliano fuori Duco, che anche con
me si apre meno di quanto facesse prima. Forse ci sospettiamo segretamente a vicenda per quel che è accaduto a Frugi, non essendo certi che si sia trattato di morte naturale? Ma quale mai potrebbe essere stata la ragione per chiunque di noi d'uccidere un collega tanto anonimo? Il tempo nella migliore delle ipotesi è stato strano. L'Italia ha fama di godere di inverni miti, eppure ci ha rovesciato addosso neve da Mediolanum a Tergeste. Il Norico e la Pannonia sono sinonimi di brutta stagione, eppure abbiamo avuto una sola nevicata da quando abbiamo lasciato Celeia. Non posso nascondere che mi sento a casa, o almeno quanto può sentircisi un soldato. Mio padre ha prestato servizio in tutti i principali posti della regione che stiamo attraversando; quando era sposata con il fratello maggiore del marito, mia madre ha vissuto ovunque, lungo questa frontiera. La tenuta in cui si sono ritirati è a meno di quaranta miglia da qui, ai piedi delle alture che si estendono verso Scarbantia. A Poetovio, sede del procurator Augusti e di conseguenza attiva in tutte le faccende burocratiche, abbiamo attraversato il ponte per la Pannonia. A quel punto ci siamo fermati per offrire sacrifici al tempio collinare di Giove, affacciato sul ventaglio di strade ben curate che scendono alla Drava (con una rapida sosta personale al sacrario di Iside e Serapide per lasciare un'offerta in favore di Anubina e Thaesis). Sala, sul lago Pelso, si è riempita di case per le vacanze. Contrariamente a quanto ha scritto mia madre, queste ultime non sono affatto fortificate; anche il meno pericoloso degli aggressori non avrebbe difficoltà a saccheggiarle. Chi avrebbe mai detto che in una località di vacanza avrei ritrovato le tracce di Agnus? Le guardie locali stavano cercando proprio lui, «un pericoloso ciarlatano cristiano con una donna al seguito». Così hanno detto quando ci siamo presentati al posto di blocco. Ho osservato che sapevo che la compagna dell'uomo dei miracoli era una vittima della superstizione, ma non era di per sé immorale. Devo supporre che i due si siano riuniti? Se fosse così, questo potrebbe essere molto pericoloso per Casta. Ora di cena. Dopo avermi ignorato per giorni, Curio Decimo chiede il piacere della mia compagnia; il piacere è tutto suo, ma ho accettato di unirmi a lui. Trascrivo di seguito, per la sua stramberia, il dialogo che ha preceduto l'invito. Decimo: «Avete figli?» Io: «Credo di averne una». «Credete?»
«Sua madre non me lo vuole confermare.» «È dura non avere eredi.» Specialmente quando uno disereda la sua unica figlia per questioni morali, mi sono detto, ricordando l'incartamento che ho visto agli archivi di Mediolanum a nome suo e di Porzia. Ho comunque risposto: «Be', non ho una gran fretta, ma ho in programma di averne. Se le mie sorelle sono un indicatore della capacità della famiglia di perpetuarsi, non avrò problemi in merito». Insieme alle diverse portate di pesce bollito fu servito solo vino locale allungato con la quantità adeguata di neve; l'eleganza dei piatti fu garantita dall'abbondante «salsa degli alleati», un saporito composto di spezie e sangue di maccarello. Decimo era di umore indecifrabile. La stanza che aveva preso per la notte, non distante dal campo, aveva tutta l'aria dello spazio locato, ma la tavola era stata apparecchiata con i suoi raffinati calici di vetro del Reno, sottopiatti d'argento e biancheria ricamata. «Da Antinopoli», precisò, come se Elio non avesse riconosciuto i punti minuti che decoravano il bordo della tovaglia e i tovaglioli. «Non mi avete detto che eravate di stanza lì durante la Ribellione?» Come sua abitudine, Decimo staccava pezzettini di mollica dal filone di pane che aveva di fronte e oziosamente ci giocherellava. «A proposito di ribellione, sospetto che la nostra comune amica Elena vi abbia parlato dei sogni di grandezza di suo figlio. Qualcosa nel suo atteggiamento, durante un momento intimo, mi ha fatto pensare che poteste essere incline a sostenere la sua materna ambizione.» «Elena perde la testa quando sta sotto un uomo, dovreste saperlo.» «Lievemente grezzo, ma suppongo significhi no.» «Non mescolo mai la politica e il piacere carnale.» «Sì, sì, e non inciampate mai, e non vi fate mai sorprendere con la guardia abbassata.» Decimo roteò gli occhi. «Ho detto a Elena la stessa cosa, che non sosterrei Costantino nemmeno se fosse l'unico pretendente al trono.» «Non è nemmeno un pretendente, Decimo.» Decimo lo scrutò con la testa reclinata di lato, quasi posata sulla spalla sinistra; stava facendo una pallina di mollica, lisciandosela fra i palmi. «Dovreste capire una volta per tutte, Sparziano, che non raccolgo informazioni per Sua Serenità, come sembrano credere molti dei miei stupidi colleghi di Mediolanum. Non farei nulla per Sua Serenità che ecceda i miei doveri di servizio. Nemmeno mi piace, Sua Serenità.»
Rapidamente, in maniera precipitosa, attaccò una marea di parole a quella frase, senza dare a Elio il tempo di replicare. «Resta il fatto che - quali che siano i sogni di Elena - appena il primo di maggio tramonterà il sole, si formerà un vuoto ai vertici dello Stato. Massimiano pretenderà solo di passare il potere al suo delfino Flavio. Costanzo è malato e davanti a sé ha al massimo qualche mese di vita. Ve lo dico io, alla fine se la giocheranno Massenzio e Costantino, e scorrerà parecchio sangue. Lo sapete quanto me, che vogliate o meno atteggiarvi a virtuoso per ragioni vostre. No! Questo non è tradimento, Sparziano! Non fatemi infuriare con una simile ipocrisia.» La pallina di mollica, scagliata via dalla presa delle dita di Decimo, descrisse un arco e cadde nel calice di Elio. Elio la osservò annegare nel vino; prima che avesse il tempo di sciogliersi sul fondo, afferrò il bicchiere e ne gettò violentemente il contenuto a terra. Decimo sogghignò. «Oh, finalmente. Finalmente una reazione degna di tal nome. Quel che vi sto dicendo, collega caro, è che presto dovremo fare tutti una scelta, perché ci sono in vista cambiamenti epocali. O volete restarvene come un ramoscello in mezzo al focolare politico ad aspettare che l'incendio vi consumi e trasformi in carbone?» «E suppongo che voi abbiate ponderato estensivamente la questione, Decimo.» «Per anni.» «Pervenendo a quale conclusione eminentemente tradizionale?» «Puah, la tradizione!» Decimo sorseggiò dal suo calice, schioccando le labbra. «Non avete idea di che cosa significhi questa parola. Dicunt Homerum caecum fuisse. Non solo la tradizione dice che Omero era cieco, ma perpetua altri frammenti di informazioni che non possiamo verificare nei fatti, o delle palesi menzogne. Se dovessimo credere alla tradizione così come la intendete voi, nell'Alto Egitto, verso le fonti del Nilo, avremmo dovuto trovare uomini con un solo occhio o con il volto sul ventre. E scommetto che non avete mai visto cose del genere. Il mio senso della tradizione è ben differente. Voi, come tutti gli stranieri, non avete tradizioni, potete solo oscillare fra la dabbenaggine e la diffidenza.» «Nei confronti di chi, in particolare, sarei colpevole di diffidenza?» «Nei miei. Avete incontrato Annia Cincia, il mese scorso, e non me lo avete detto.»
Elio si accorse dal formicolio al volto che stava diventando pallido. «Avete cercato di rovinare Annia Cincia con le vostre cause, come avete rovinato vostra figlia.» «Ah! Cosa credete di aver capito, povero presuntuoso?» Consumarono il resto della cena in un silenzio quasi assoluto. Elio si sentiva offeso, irritato, e le ragioni per cui non si alzava da quel tavolo lo confondevano. Le trappole che aveva cercato di evitare gli scattavano intorno, e per non inciampare non si muoveva affatto. A un certo punto Decimo si levò in piedi posando bellicosamente le mani cariche di anelli sulla tovaglia ricamata. «Codardo, certo non lo siete. Vi sfido a seguirmi senza sapere dove stiamo andando.» Fuori, la notte era scura come la gola di un lupo; a un miglio di distanza, le poche luci del campo tremavano sprofondate nelle tenebre. Un vento amaro soffiava da nord, dove le stelle sembravano resistere a una forza che cercava di strapparle dai loro posti fissi. La strada che Decimo imboccò a cavallo, seguito dal collega, luccicò come latte versato per l'istante in cui uno schiavo rimase alla porta con una lanterna, poi anch'essa fu inghiottita dal nero. La ghiaia scricchiolava sotto gli zoccoli, in lontananza gli alberi emettevano suoni tristi d'acqua cascante. Elio cavalcò senza pensare, perché era stato sfidato, e perché la curiosità lo sospingeva. I pensieri logici venivano spazzati via appena formati, come se il vento lo stesse mondando da ogni pregiudizio e facile verità. I terrori dell'infanzia, a lungo sopiti, abitavano le tenebre e i suoni rabbiosi delle foreste del Nord. Ricordò, dal suo passato credulo, la leggenda della sposa infedele che segue il suo visitatore notturno fino alla cava in cui si gettano gli animali morti, dove lui si trasforma nello scheletro del suo vendicativo, defunto amante. Decimo non diceva nulla, ma doveva conoscere molto bene la strada. A un certo punto svoltò, dove gli alberi crescevano più vicini al ciglio del sentiero. La ghiaia si fece più profonda, qui e là gli zoccoli scivolavano. Dentro al bosco l'oscurità divenne quasi insopportabile. Quando si aprì, senza preavviso, la radura sembrò vibrare di luce. Ma la luna era sorta appena sopra l'orizzonte. Davanti a loro, più in basso, si estendeva una villa, con le terrazze e i portici laccati di bianco dai raggi lunari, come un luogo incantato, o la terra dei morti.
Decimo spronò il cavallo e arrivò alla villa per primo; stava già smontando quando Elio lo raggiunse. Con la luna in ombra, della facciata non si vedeva niente; e nulla si udì oltre al lamento dei cardini quando la porta si aprì. All'interno c'era una casa in stile romano con un elegante atrio. Decimo accese una lampada, scambiò qualche bisbiglio con qualcuno, attraverso le fessure di una porta laterale, e continuò a camminare fino a una rampa di scale. Elio lo seguì con il cuore particolarmente stretto, trattenendo il respiro. Un affresco di Euridice salvata dall'Ade gli balenò accanto, ondeggiando nella scia della lampada. Orfeo si guardava alle spalle, ansioso. La mitica sposa, velata, faceva un passo indietro con un gesto rigido delle braccia levate, mostrando i palmi, come chi cada irrimediabilmente nell'oblio. L'idea - la certezza - che la favoleggiata figlia di Decimo vivesse lì si impossessò di Elio come una fiamma fredda.
****** Decimo non disse: «Aspettate qui», ma proseguire senza permesso gli sembrò sconveniente. Elio si fermò sulla soglia di una camera troppo grande per essere una stanza da letto, la cui oscurità era mitigata dal lume che il suo collega aveva portato dentro. Di primo acchito giudicò vuoto il letto, rivestito solo di un involto di coperte. Un letto ricco, luccicante di intarsi d'avorio e oro, in uno spazio caldo e punteggiato di tappeti. Mettendo da parte la lampada, Decimo si chinò sopra il materasso, e l'involto di coperte si mosse. Nel letto sontuoso giaceva una cosa. Nell'agitarsi di lenzuola, Elio scorse la sua testa deforme, la fronte sporgente e gonfia ai lati, un cranio di tumefazioni, appena coperto da capelli radi e flosci. La parte inferiore del volto formava un'escrescenza carnosa che era più di un mento, alto e grosso, tanto che il naso piatto e le labbra erano schiacciati e scarsamente visibili fra quei bitorzoli. La testa cadeva sul petto della creatura, con gli occhi assonnati e pesante come quella di un gatto appena nato. Dalle spalle spuntavano due braccine infantili, le mani erano grandi, lunghe e bianche. Quando la sollevò a sedere, le mani presero a muoversi lentamente, senza sosta; dalla bocca affondata si levarono suoni inarticolati. Decimo la accarezzò, per quanto inconsapevole di quelle tenerezze sembrasse la creatura. Solo il cibo offerto dei dolci - sembrò provocare in lei una reazione, e ci si protese sopra senza usare le mani, cercando di lapparlo direttamente dal palmo di Decimo, ma la forma del volto non l'aiutò, facendola infuriare. Le mani si dibatterono inerti, la testa sformata lottò contro il suo stesso peso, dal suo interno sgorgarono vagiti disperati. Decimo allora le mise i dolci direttamente in bocca, uno per volta, calmandola. Seduto sul letto le pettinò i capelli stopposi e sfilacciati sulle orecchie, cullandosi il capo mostruoso sul petto. Quando Decimo uscì dalla stanza, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle, Elio si era spostato di qualche passo in corridoio, appoggiandosi a una parete con le braccia conserte e il capo chino. Non disse nulla mentre il collega gli passava davanti con il lume in mano. Non parlò nemmeno quando Decimo, a metà strada verso le scale, si voltò. Con il suo solito tono canzonatorio lo invitò: «Se volete seguirmi un momento in libreria, vi presterò un insopportabile panegirico di un poeta
siriano su Severo». E siccome Elio continuava a non reagire, scoppiò in una risata crudele. «Allora, venite? Abbiamo una guerra da combattere.» Durante il viaggio di ritorno, malgrado il mutismo di Elio, Decimo non smise di chiacchierare, comportandosi come se nulla fosse accaduto. Il vento era calato. Le ciarle umane disturbavano il silenzio degli alberi e dei campi tutto intorno, altrimenti intatto. Intatto divenne anche il buio, appena una lunga nube color del fumo nascose la luna sorgente. «Sento la vostra mente macinare come un mulino.» La voce ben educata di Decimo raggiunse le orecchie di Elio. «Ci state pensando da quando abbiamo cenato. Perché tormentarvi nell'ignoranza? Ve lo dico io dove si trova l'uomo dei miracoli: nel Barbarico. Se sono ancora insieme, lui e la mia lontana cugina dovrebbero aver passato il confine fra Carnuntum e Ala Nova al più tardi oggi pomeriggio.» Nella notte, Elio sgranò gli occhi. «Cosa volete dire? Come?» «Solo quel che ho detto. Come sono affari di mia cugina. Non ho rinunciato all'idea di mettere le mani sulle proprietà che tanto sconsideratamente ha dato ai cristiani, grazie al giudice Marcello. Quindi diciamo che in una breve visita a Mediolanum le ho prestato quanto le serviva per comprarsi la fuga dall'Italia, e levarsi dai miei nobili coglioni. La prenderanno, prima o poi.» «Non avete alcuna morale.» «La morale è per i bifolchi e per gli incolti romanizzati come voi.» Savaria, capitale della Pannonia Savia, 21 gennaio, sabato Elio non chiuse praticamente occhio, ma la mattina dopo era lucido. Entrando a cavallo a Savaria, dovette ammettere che un'estesa nota a piè di pagina della sua biografia di Severo avrebbe dovuto riguardare la ricostruzione delle città danubiane dopo le guerre marcomanne. Le strade ampie e ben lastricate di Savaria, l'acquedotto e le Terme, il palazzo del governatore e i gloriosi templi furono visioni benvenute dopo una marcia di quasi un mese. Accanto al fiorente rione popolato dai mercanti di Aquileia c'era un opulento quartiere ebraico dove Elio aveva acconsentito a consegnare un paio di lettere d'affari a uno degli innumerevoli parenti di ben Matthias.
Allo spaccio militare trovò un biglietto di sua madre che attendeva di essere raccolto dal primo corriere utile e consegnato di gran fretta. Tuo padre non migliora, diceva. Ho mandato a chiamare la tua sorellastra, le tue sorelle e i loro mariti. Se possibile, raggiungici. I tempi erano più stretti di quanto fossero stati durante la marcia. La cerimonia alla presenza del governatore e la separazione ufficiale delle unità per i distinti incarichi alla frontiera avrebbero occupato la maggior parte delle ore del giorno. Il suo reggimento, gli loviani Palatini, era alloggiato a due giorni di distanza, a Mursella, ma una coorte della sua vecchia ala di cavalleria della campagna persiana, parte permanente della sua unità, era arrivata a Savaria per unirsi a lui, e le guardie l'avevano già raggiunto alla caserma cittadina. Frettolosamente Elio scarabocchiò una risposta per la madre, spiegandole che la trasferta verso le posizioni assegnate aveva la precedenza. Sarebbe andato a casa appena gli fosse stato possibile. Quanto all'indirizzo successivo per la posta, indicò il forte dell'esercito ad Arrabona, a meno di due ore dalla frontiera. Alla terza ora mattutina le unità si radunarono all'altare provinciale - ara Provinciae - per un sacrificio comune e per trarre auspici da vittime vive. Gli auspici furono favorevoli, ma Elio (e i suoi colleghi con lui) sapevano bene che per quel genere di occasione i sacerdoti tenevano a portata di mano viscere di animali pulite, rubizze e sane. Il praeses in persona, con le insegne del governatore, presenziò all'assegnazione dei vessilli, maniche a vento con teste d'aquila e dragoni, ai soldati schierati lungo la strada che portava dalla via cardinale alla porta orientale. Oltre le mura, in direzione nord-est, fin dall'alba si stava alzando una foschia densa come una marea bianca, quasi i nemici dall'altra parte della frontiera stessero costruendo un baluardo contro la fanteria e gli altri soldati splendidamente bardati, favolosamente armati. 30 gennaio, martedì Il comandante del forte di Arrabona era stato collega di suo padre, e la prima cosa che disse quando Elio si presentò a rapporto con il suo reggimento fu: «E arrivata una missiva da tua madre stamattina presto. Conosco Giustina da trent'anni, e so che non eccede mai in toni drammatici. Era particolarmente ansiosa che il suo messaggio ti raggiungesse, perché le condizioni di tuo padre sono peggiorate, e teme per la sua vita. Non saranno tre giorni a fare la differenza per la tua partenza alla volta del
Barbarico, quindi suggerisco che tu vada a casa a occuparti delle tue faccende famigliari».
9 Residenza di Elio Sparto, a nord-est di Savaria, 1° febbraio, giovedì «Sposo, com'è spalancata la casa / com'è caduta dalla porta la chiave di volta! / E chi si occuperà ora di noi? / E chi parlerà ora per noi? / E chi ci proteggerà ora? / E chi si curerà ora dei figli? / Oh, bene di una vita, vita mia! / Chi lo dirà alla famiglia, mio sposo? / Chi piangerà con te, mio sposo? / Chi camminerà con te, mio sposo? / Chi visiterà la tua tomba, mio sposo? /Oh, bene di una vita, vita mia!» La lamentazione di sua madre attraverso la porta aperta e il fiero battere di palmi alla fine di ogni verso riempivano l'aria come il richiamo afflitto di un uccello, o il suono secco delle asce nel bosco. Non trovò nessuno ad accoglierlo all'ingresso, non c'era segno che l'avessero sentito arrivare. Solo quando la sua ombra allungata dal sole che sorgeva si riversò sul pavimento e raggiunse la soglia della stanza da letto, i gemiti acuti cessarono per un momento, come se la voce stessa fosse stata recisa. Dall'interno continuarono a filtrare echi di pianto, le donne singhiozzavano, ma Giustina uscì asciugandosi gli occhi. Aveva i capelli legati in una crocchia severa, come li portava d'abitudine. Quanto rituali fossero il suo cordoglio e le sue amare recriminazioni, quanto soffocato il suo dolore, fu ovvio nel modo in cui riprese la sua lucidità di moglie di un soldato. Non disse: «Sei arrivato tardi, troppo tardi», niente del genere. Lo abbracciò e poi lo staccò da sé per potergli tenere le mani e guardarlo. «Hai i capelli tutti grigi», sarebbe stato l'altro commento che era lecito aspettarsi, e che lei non fece. In effetti, ricordava Elio, raramente sua madre enunciava l'ovvio, o commentava qualcosa che era sotto gli occhi di ognuno. «Hai fatto buon viaggio?» fu la prima domanda che pose. E con la mano destra alzata, discretamente lo invitò a non rispondere con delle scuse per il suo palese ritardo. «Avrai avuto le tue ragioni», aggiunse soltanto. Dalla camera da letto i pianti filtravano più smorzati, lunghi, tremuli, segno che le lamentatrici ingaggiate avevano superato la parte più violenta della veglia. Avvertite che stava per entrare il figlio del morto, si alzarono dalle loro posizioni inginocchiate intorno al letto. I loro volti, lividi per i colpi che si erano inferte, graffiati con le unghie fino a far uscire il sangue, sembravano quelli di donne possedute. Ciuffi di capelli
strappati dai loro capi erano stati sparsi sul corpo immobile. E al corpo parlavano all'unisono. «Ecco Elio, tuo figlio, tuo unico figlio, visibile a te ma non alla Morte.» Da un braciere in cui lentamente dei rami ardevano su un letto di tizzoni e incenso, liberando una fragranza acuta, levarono dei ramoscelli per mandare una nuvola di fumo in direzione di Elio e renderlo invisibile alla Morte. «Eccolo, la chiave di volta e la porta che rendono sicura la casa.» Giustina osservò il figlio guardare il corpo. Sette monetine erano state sistemate sugli occhi dell'uomo, sulla bocca, le mani e i piedi, per pagare il suo passaggio all'altro mondo; quella sulle labbra rappresentava l'offerta di sua moglie, le due sulle palpebre del figlio, sulle mani delle figlie e sui piedi dei generi. Le lamentatrici si avvicinarono al letto per ricevere il loro compenso. Giustina mise in una moneta in ciascun palmo che le veniva offerto, le baciò su entrambe le guance, lasciò che loro restituissero il bacio e distribuì in piccoli cesti quel che era rimasto del pasto funebre, poiché nemmeno una briciola di pane o fetta di carne doveva andare persa o non essere consumata. «Il resto l'ho dato ai mendicanti», sussurrò a Elio. Solo dopo che se ne furono andate, fra i ringraziamenti e gli sguardi in tralice al figlio che era arrivato tardi per la morte di suo padre, con un gesto Giustina invitò Elio a seguirla in cucina. Il focolare era spento, con la cenere sparsa su ceppi per accertarsi che nessuna fiamma bruciasse nella casa di un morto. Sul tavolo c'erano un solo bicchiere di vino pieno e una forma di pane, perché lo spirito sarebbe tornato nottetempo a bere e mangiare un'ultima volta, mentre la famiglia trascorreva altrove le ore più buie. «Tre notti fa ho sognato di raccogliere arboscelli, che come sai è un brutto segno», disse Giustina. «La notte seguente ho sognato di piegare lenzuola bianche, un altro messaggio sfortunato.» Posando la mano destra sul palmo aperto del figlio, gli sfiorò il petto con la fronte. «Ha chiesto di te, e gli ho risposto che eri per strada.» Elio tenne le labbra serrate. Era difficile leggere i suoi sentimenti, addirittura per lui stesso. Lasciò che le parole della madre lo attraversassero, respirando lento. Lei gli levò la mano alla guancia, tenendola lì, come faceva ogni volta che si rivedevano dopo lungo tempo: un modo affettuoso di confrontare il volto del figlio con il suo ricordo. «Sono entrata in tutte le stanze di casa e ho detto a ogni oggetto che tuo padre era morto, e ho riflesso in uno specchio ogni cosa di valore in modo che la sua immagine possa seguire tuo padre nell'altro mondo. E abbiamo contato ad alta
voce tutte le proprietà e gli animali che gli sono appartenuti, così che attraverso i loro nomi anch'essi possano seguirlo nell'aldilà.» Dalla porta sul retro gli indicò la prima casa in cui avevano abitato dopo la pensione, una piccola fattoria all'estremità della tenuta, ormai usata solo quando c'erano in visita nipoti e amici. Lì, dove insieme al marito aveva atteso che la villa fosse rimessa a nuovo, aveva portato il corredo di lino usato durante i loro primi anni insieme, le vecchie pentole e padelle, le lenzuola e il letto matrimoniale, su cui non avrebbe giaciuto mai più. «Quando ti sposerai, Elio, porta qui tua moglie. Fa' qui il tuo primo figlio.» Quanto l'aveva sottovalutata, pensò Elio. Giustina era come una stella fissa, piccina al buio, ma punto di riferimento per tutti e tutto in famiglia. «Le tue sorelle e i loro mariti sono a Savaria in cerca di avvocati.» Lo espresse come dato di fatto, senza rancore, solo per informarlo. «Tuo padre era troppo superstizioso e attaccato alla vita per fare testamento, quindi ora i tuoi cognati insistono che vogliono essere rimborsati del milione di sesterzi che ognuno di voi tre gli aveva prestato quando ha comprato la proprietà.» Elio si accorse aprendo bocca che il suono della sua voce era nuovo alla casa, che non aveva ancora detto una parola da quando era arrivato. «Mio padre ci ha restituito i tre milioni nel giro di sei mesi: io c'ero, e ricordo di aver firmato la ricevuta di estinzione del debito.» «Gargilio e Barga dicono diversamente, figlio mio. Al sei per cento di interesse, in cinque anni fra tutti e due fanno oltre due milioni e seicentomila: oltre la metà del valore dell'intera proprietà. La metà della quale, secondo la legge, dovrebbe andare a te. Ti sottrae oltre la metà della tua eredità.» «Per quanto mi concerne, sottrae la tua per intero. Io non voglio nulla. Mamma, i miei cognati lavorano ai Comandi provinciali; hanno ottimi stipendi, e lo stesso vale per me. Dopo aver sopportato Elio Sparto per trentacinque anni di certo non finirai con in mano solo una frazione della sua proprietà.» Parlò distogliendosi, non per la vergogna, ma perché non voleva che lei ne vedesse l'amarezza. «Ce ne siamo andati o ci siamo sposati tutti più in fretta che abbiamo potuto, ma tu sei dovuta restare.» «Stanno cercando di vendere.» «Dovrebbero prima vincere la causa, e questo non avverrà mai. Qual è il loro piano, vogliono che tu vada a vivere con uno di loro? Non permetterò che ti adatti ad
accettare una stanza in un alloggio dell'esercito; non si conviene alla vedova di un colonnello ridursi a essere ospite dei suoi generi. Quanto all'argento e al denaro che hai trovato grazie al tuo sogno, ti appartiene di diritto.» Di tutto quello che Elio disse, una cosa sembrò cogliere nel segno. «Ho viaggiato per anni...» Giustina parlò con le mani in quelle del figlio, sentendo i calli della spada. «Ho seguito tuo padre ovunque ci abbia portato l'esercito. Siete nati tutti in posti diversi, e quelli morti da bambini sono sepolti in un tratto di confine che va da Oescus a Castra Regina. Sono passati cinque anni dalla pensione, e in cinque anni finalmente ci siamo costruiti una vita stabile, abbiamo curato un giardino, tenuto schiavi e animali. Non ho desiderio di trasferirmi di nuovo, ancor meno di ricominciare a viaggiare. Ci sono momenti, Elio, in cui penso che solo la morte consenta di restare in un solo posto.» Viste dalla porta sul retro, le colline su cui Elio si era arrampicato da ragazzo disegnavano una linea da nord-est a sud-ovest, come tutte le alture da lì al Norico. Il loro punto più alto, ricordava dai tempi dell'incarico di suo padre a Savaria, garantiva una vista generosa sul campo dell'esercito, la città, i boschi tenebrosi e oltre, verso la pianura, fino alla lontana Scarbantia e al lago Pelso Superior. Più vicino, persino sotto la coltre di neve i lavori svolti fino a quel momento per predisporre un giardino formale fra le vigne mostravano l'abbondanza di un meritato pensionamento, anche in quei giorni difficili di inflazione e guerra. Nella nitidezza del cielo occidentale, Elio immaginò il volto di suo padre, scavato dalla morte, svuotato di passione, il corpo obeso che per oltre quarant'anni aveva servito lo Stato e governato la famiglia. Pensò di dover dire quel che pensava. «Potrei far finta di essere venuto qui più in fretta che potevo, mamma, ma non è vero; non avevo alcuna intenzione di viaggiare più velocemente di quanto un cavallo mi avrebbe consentito in una giornata qualunque. Mio padre ha fatto tutto quel che poteva, e anche di più, per avviarmi al mondo e aumentare le mie possibilità di successo. Di questo gli sono grato, ma non lo amavo, e non posso fingerlo ora. Era brutale con i suoi soldati e con noi. Non ha fatto nulla per coltivare l'anima donatagli dagli dei o per riconoscere l'intelligenza di sua moglie. Ti sei guadagnata la sua eredità con la tua pazienza e il tuo amore: io non l'ho fatto, perché non l'ho mai amato, né rispettato. Nella mia carriera, fino a ora, ho incontrato una mezza dozzina di uomini che mi hanno fatto da padre più di lui.» La sua attenzione fu attratta dalle
pile di mattoni usate per completare le torri d'angolo, rosse contro la neve. «Quanto ai miei cognati, che facciano quel che vogliono. Che assumano avvocati e cerchino di ingannare te e la legge. Ne uscirai vittoriosa, e dovranno venire alla tua porta con il rispetto che ti è dovuto, come dovranno fare le mie sorelle e la loro prole.» Giustina sembrò improvvisamente stanca. Nei due giorni trascorsi dalla morte del marito senza dubbio si era occupata di ogni cosa. Ora che la famiglia era riunita le sue energie si affievolivano, o forse temeva il disaccordo. «Come succede, Elio? Quelli che ci assomigliano di più fisicamente sono i meno simili a noi. Assomigli a tuo padre, e ancor più a tuo zio, anche se sei più bello di quanto siano stati loro. Ma dentro - e non è solo per la tua educazione - non sei simile ad alcuno di noi, fatta eccezione per me, almeno un po'. Mi chiedo se sia un bene o un male, perché mi preoccupo così tanto, sento le cose, e questi non sono tempi benevoli con le persone sensibili. Tuo padre è quel che chiamano un buon marito: non ha mai portato a casa le sue amanti, non ha mai messo incinta una schiava domestica, ha mandato regolarmente denaro quando era lontano, si è costruito una carriera. Non mi è mai mancato niente di materiale. Tu eri la luce dei suoi occhi; credo abbia segretamente sperato fino all'ultimo che tu fossi, ora o in futuro, coinvolto in qualche intrigo, che aspirassi al potere come altri che sono stati soldati insieme a lui. Questi sono tempi in cui la corsa al trono è aperta a tutti, diceva. Non sai quante volte ho tremato al pensiero che qualcuno ci sentisse e ci rovinasse tutti, rovinasse te, e le tue possibilità di avanzamento.» Era in piedi al suo fianco, alta, una donna vigorosa con i capelli biondi che sfumavano al grigio, dalla pelle chiara. «O forse lo faceva per se stesso. Un solo figlio maschio sopravvissuto all'infanzia: ha puntato tutto su di te. Con tutta la sua arroganza, conosceva i suoi limiti. In te vedeva la stoffa intuita in altri che sono saliti alle stelle da quando servivano insieme a lui.» «Ha sbagliato ad affidarmi alle cure dei filosofi, allora.» «Dimmi, quanto a lungo resterai?» «Parto domattina presto.» Elio si rese conto che non aveva chiesto delle circostanze della morte del padre, né trascorso più del momento dovuto accanto al corpo. Quando lo fece, e Giustina gli spiegò come la malattia fosse progredita, ascoltò passivo, con la mente ancora alla frode ordita dai suoi cognati. Poi qualcosa che sua madre disse lo obbligò a concentrare la sua attenzione.
«Verso la fine, Elio, quando si è reso conto che nessun medico avrebbe potuto salvarlo, tuo padre ha iniziato a dar retta a chiunque gli promettesse di restituirgli la salute. Di recente aveva saputo da una delle schiave dei vicini - una sciocca che borbotta sempre fra sé e sé - che a Savaria c'era un uomo in grado di fare miracoli. Ha avuto una crisi terribile quando gli è stato detto che un viaggio in pieno inverno l'avrebbe di certo ucciso. Così abbiamo dovuto avvolgerlo bene e portarlo fuori casa in una tempesta di neve. Ha resistito solo un paio di miglia prima di avere un altro attacco, e quando abbiamo varcato di nuovo la soglia di casa ormai era morto.» Che cosa aveva detto ben Matthias? Fiuto il pericolo. Elio sentì le parole della madre e all'improvviso seppe che la curiosità accesa al capezzale di Lupo gli aveva fatto attraversare mezza Europa fino alla soglia di casa sua, che la morte di suo padre era in qualche modo parte di un ordito che lo legava all'elusivo santo o ciarlatano. Il pericolo poteva seguirlo fino alla casa di sua madre? Pose la domanda solo perché sapeva di doverlo fare. «Chi è l'uomo dei miracoli, e dove si trova ora?» «Credo sia conosciuto come la Voce del fuoco, Elio. Il suo vero nome lo ignoro. Le lamentatrici hanno sentito che si è spostato da Savaria a Contra Florentiam, dove la moglie di un comandante soffre di un'emissione di sangue.» Contra Florentiam era un controforte costruito sull'altra sponda del Danubio, a duecento miglia da lì. Se Agnus voleva passare il confine era improbabile che scegliesse un posto così; più probabilmente era diretto ad Ala Nova o Geru- lata, a nord. Dopo il commento di sua madre Elio si sentì come un segugio che fiuta di nuovo un indizio. Già intravista, sospettata, non riconosciuta, la probabilità della colpa di Agnus per gli omicidi a Treviri e Mediolanum gli balenò davanti come la coda rossa di una volpe in fuga verso un nascondiglio, o una lingua di fuoco. Per un attimo non seppe cosa fare di quell'intuizione; alterava la realtà di quella sua visita a casa, e solo il tocco di Giustina sul suo braccio lo teneva ancorato ai doveri di unico figlio maschio di padre scomparso. Tornò in casa, e per un po' restò da solo nella stanza da letto del padre. Il funerale - per inumazione, come da tradizione famigliare - era fissato per il primo pomeriggio. Prima che cominciassero ad arrivare famigliari, vicini e rappresentanti militari dell'ultimo incarico di Sparto, Elio avrebbe avuto il tempo di andare a trovare il giudice distrettuale di Savaria e tornare. Montò dunque a cavallo.
Per una settimana la vedova, la famiglia e gli schiavi avrebbero dovuto evitare i crocevia, perché il morto avrebbe potuto attaccarsi a loro, mentre avrebbe dovuto riuscire a proseguire per la sua strada. Era già stato tracciato un sentiero nella neve nel punto in cui due cammini - uno diretto alla proprietà, l'altro alla casa di un altro pensionato - si intersecavano. Quegli incroci, a ogni modo, abbondavano da lì a Savaria. Per due volte, fin quando sua madre potè vederlo dalla finestra, Elio evitò un incrocio, ma il terzo lo affrontò attraversandolo diritto. Poco dopo passò davanti all'appezzamento di famiglia appena preparato lungo la strada militare, la stessa strada che dalla cintura di tenute portava agli insediamenti, e da lì al grande fiume. Savaria L'originale della ricevuta era andato perso durante un incendio al tribunale due giorni prima. Fu questa la prima cosa che Elio apprese dal giudice. La seconda fu che tutti i testimoni che l'avevano firmata, tranne uno, da allora erano morti, e si diceva che il sopravvissuto fosse partito per una località remota della Britannia settentrionale. Elio aveva la sua copia a Nicomedia, e quanto ai suoi cognati, naturalmente affermavano di non averne una. Era di pessimo umore quando uscì dagli uffici del magistrato. La sua incidentale richiesta di informazioni sulla persecuzione dei cristiani del luogo confermò che molti di loro erano stati arrestati o giustiziati. Fra di loro non c'era alcun uomo dei miracoli, e nemmeno donne. Voci di prodigi o morti strane in città? Gli impiegati del tribunale lo guardarono tutti come avesse due teste. No, o almeno loro non ne avevano avuto notizia. Gli restò appena abbastanza tempo per passare alla caserma di cavalleria, dove Duco stazionava con le sue truppe in attesa della trasferta al fronte. Il britanno non si aspettava di vedere Elio in città, si informò della ragione, gli fece le condoglianze e lo invitò a bere qualcosa. Su una birra si trovarono d'accordo che sarebbero passate settimane di ricognizione armata, schermaglie e pattugliamenti nel Barbarico prima che le unità si riunissero per lanciare un attacco congiunto alla fine dell'inverno. Per giunta i primi diciassette giorni di febbraio erano nefasti e non si sarebbe iniziata alcuna campagna, salvo non fosse inevitabile. Dopo che la birra li ebbe fatti scostare dai discorsi di guerra, Duco tornò a essere loquace come sempre. «A Celeia non vi ho detto la verità, Elio», disse quasi scusandosi. «Ho sentito qualcosa, la notte in cui è morto Frugi. Il pavimento ha
cigolato appena, abbastanza per farmi rendere conto che qualcuno si stava spostando in punta di piedi da una branda all'altra... verso quella di Frugi. Sto nell'esercito da abbastanza tempo da non far caso a quel che fanno certi uomini quando passano la notte nello stesso posto. Voglio dire, mi capite...» Elio batté le palpebre, e fu l'unico segno d'impazienza che diede. «Lo so quel che intendete. Avete identificato dei suoni? Sembrava una conversazione o cosa?» «Tutto quello che ho sentito è stato un fruscio di lenzuola, un gemito e un sussurro. Considerato quel che pensavo fosse, mi sono girato e mi sono coperto la testa. Quando ci siamo alzati tutti, dopo la scoperta del suo cadavere, mi è sembrato imbarazzante dirlo. E comunque se Frugi è morto per un colpo...» Sul punto di bere un altro sorso, Duco posò lentamente il boccale. «È così, vero?» «Chi era, Duco, lo sapreste dire? Pensate alla disposizione delle brande nella camera.» Il britanno non rispose direttamente. Finire la birra divenne una scusa utile per quell'intervallo inquieto e i suoi dubbi. «Tutto sembra indicare Decimo... ma perché avrebbe dovuto alzarsi nel cuore della notte per controllare un collega? Non è che Frugi la sera prima stesse male.» Di nuovo quella sensazione di cacciare ed essere vicino alla preda. Elio intuiva le strade, fiutava un effluvio nell'aria, ma la selvaggina cui stava dietro era altra. O almeno la selvaggina che era sempre stata lì, non riconosciuta. Lo stupore negli occhi di Duco lo convinse a non aggiungere nulla a quanto aveva già detto. Lo sapevo che non avremmo dovuto abbandonare Frugi senza verificare che la sua morte fosse naturale, pensò. Al suo collega disse solo: «Devo rientrare per il funerale di mio padre. Prendetevi cura di voi. Ci vediamo oltre frontiera, quando capita» . Alla tenuta di Elio Sparto, dopo la sepoltura la famiglia si riunì nella grande sala da pranzo, la stanza migliore della casa. Singhiozzando, Elia Belatusa si passò le mani in cerchio sul ventre. Era prossima al termine, annunciò (come se non si vedesse), e sarebbe rimasta dalla madre per partorire. Fino a quel momento aveva generato solo figlie femmine, ma «se è un maschio», disse, «lo chiameremo Elio Sparto. L'ho sentito scalciare quando mi sono chinata per baciare il morto: credo sarà nostro padre rinato». Sua sorella e la sorellastra si scambiarono uno sguardo di disprezzo. «E noi chi siamo, estranee? Fra tutte e due abbiamo tre figli maschi.»
«No.» Con calma Giustina si intromise. «Il nome Elio Sparto è riservato per il primo figlio di vostro fratello.» «Con la piega che ha preso, mamma, non vivrai abbastanza a lungo per vedere il primogenito di Elio.» «Belatusa, se non ti dispiace ho tutte le intenzioni di vivere fino a vedere i nipoti, di Elio.» Elio colse la conversazione entrando dal giardino. Fino a quel momento aveva tenuto d'occhio un nervoso agente immobiliare portato dalla città dai cognati per visitare la proprietà in compagnia del capo dei liberti di Giustina. All'ingresso di Elio, i parenti di sangue e acquisiti si voltarono verso di lui frenando la lingua. Belatusa si produsse in un altro singhiozzo. Andò avanti e indietro trascinando i piedi, con gli occhi arrossati dal pianto, e - come quando si era alzata dall'ultimo bacio dato al corpo del padre - si teneva le mani sui lombi, con le braccia ad angolo. Fin dal suo matrimonio, raramente Elio l'aveva vista in uno stato diverso. L'altra sorella, la «giovane», aveva partorito due mesi prima, ed era ancora grossa intorno ai fianchi. Quanto alla figlia del primo matrimonio di Giustina, aveva lasciato a casa marito e figli per porgere i suoi rispetti, e malgrado non avesse pretese da vantare sulla proprietà, per «aiutare nella vendita». Belatusa si sedette con aria esausta. «Verranno i capelli bianchi a tutti se aspettiamo un figlio da Elio, mamma.» Suo marito Barga rise. «Son venuti i capelli grigi anche a lui, nell'attesa!» Forti di circonferenza, chiassosi nelle loro elaborate uniformi, Gargilio e Barga fino a quel momento non erano arrivati a scambiare dieci parole con il cognato. «La questione è: lo sta spargendo il seme?» Gargilio rispose alla battuta di Barga tirandosi il cavallo delle braghe. «Ecco che diceva il vecchio Sparto: 'Elio non sparge il seme, mi chiedo cosa ci sia che non va'. E vero, cognato, diceva così. E si chiedeva se per caso i maestri greci che ti aveva procurato non ti avessero reso un tantino strano.» Solo la presenza della madre impedì a Elio di colpirlo. L'intenzione gli si dovette leggere in volto, comunque, visto il modo in cui Gargilio finse una mossa di pugilato quando Elio lo ammonì. «Non alzare la voce e non usare quel linguaggio di fronte a mia madre, asino.»
Immediatamente le ragazze si misero in mezzo, rumorosamente, specialmente Belatusa. Fu un bene che il liberto di Giustina arrivasse ad annunciare che l'agente immobiliare era pronto ad andarsene e voleva scambiare qualche parola con gli uomini di famiglia. Barga e Gargilio si precipitarono fuori per precedere Elio nel portico, dove a tutti e tre fu presentata una perizia della proprietà prevedibilmente sotto le quotazioni di mercato, se l'agenzia avesse deciso di comprare. «Potete provare a venderla da voi, ma è difficile attirare molto denaro di questi tempi.» Barga sputò un mucchio di saliva, con disprezzo. «Ci potete scommettere che la vendiamo da noi», e avvicinò il palmo all'orecchio di Gargilio per sussurrargli qualcosa. «Siete voi l'erede», disse l'agente a Elio. «Se sulla tenuta ci sono dei debiti, farete meglio a estinguerli per guadagnare il più possibile dalla vendita.» Elio vedeva rosso, ma mantenne la calma. Attese fino a che il piccolo carro coperto dell'agente immobiliare fu svanito oltre i vecchi abeti che fiancheggiavano il cancello. Poi spinse via Barga, si voltò verso Gargilio e lo colpì dritto sul mento con il pugno destro, facendolo barcollare sotto il portico e volare nella neve accumulata ai piedi dell'albero del tesoro.
2 febbraio, venerdì Malgrado le tensioni in famiglia, gli usi e i costumi del lutto furono rispettati. Il focolare fu tenuto spento (lo sarebbe rimasto per sette giorni complessivi), e a cena si utilizzarono coltelli di rame, perché il ferro avrebbe impedito allo spirito del morto di congedarsi. Per la notte, le figlie e i cognati andarono a casa di amici a un miglio di distanza; Giustina ed Elio rimasero con un numero minimo di schiavi nella casetta in fondo alla proprietà. Al mattino Elio si alzò presto, ma non prima di sua madre. In una giornata tersa di perfetto tempo invernale era andata a piedi alle stalle, lunghe e allestite nello stile dell'esercito, a sorvegliare la preparazione del suo equipaggiamento e la sellatura del suo cavallo, oltre che per infilare la spada di cavalleria del padre nel suo bagaglio.
Elio la raggiunse lì. Senza parlare finirono di mettere a posto le cose, poi tornarono alla villa per dirsi addio. Lui le baciò le mani, quando furono sul portico davanti, un gesto che riservava ai suoi congedi da lei. «Davvero sei così ansiosa che mi sposi?» Il bisogno di parlare di Anubina gli premeva dentro. Non l'aveva mai fatto, e anche in quel frangente si trattenne, perché forse non era il momento adatto a quella conversazione. Dipendeva tutto da quel che avrebbe risposto lei. Giustina lo sorprese. «Non sono stata io a mandarti per lettera i nomi di quelle pretendenti. Tuo padre faceva il mio nome perché considerava che dovesse essere un gesto materno, presentare possibili spose al proprio figlio. Io sarei l'ultima a importi una compagna, anche se mi rendo conto che sfuggo a uno dei miei doveri.» E così, in fretta, perché il servo avrebbe potuto portargli il cavallo da un momento all'altro, Elio le raccontò di sé e Anubina, della loro storia d'amore, e della bambina che poteva essere sua figlia. Giustina rimase dapprima in silenzio. Al sole, il suo candore la faceva sembrare grande e lucente anche nelle vesti del lutto. «Devi comprenderla, Elio», disse poi. «Io la comprendo. E stata comprata e venduta; ti apparteneva, perché per lei avevi versato del denaro. Non significa che non l'amassi anche allora, ma nessuno ha chiesto il suo parere, non è così? Tu glielo hai chiesto? Chi l'ha chiesto a me, quando è morto il mio primo marito? Ha lasciato scritto nelle sue volontà che sposassi suo fratello, tuo padre, e tuo padre l'ha fatto prontamente, perché anche lui era rimasto vedovo, e voleva dei figli. Nessuno l'ha chiesto a me. Così ho partorito due volte in un anno e mezzo, due figlie, e lui si stava già penten- do dell'affare quando sono rimasta incinta di te.» Gli toccò il petto con il palmo della mano. «Ma in fondo non ti ha nemmeno mai chiesto se volessi diventare un soldato.» «Be', cos'altro avrei potuto fare? Sono il figlio di un soldato.» «E Anubina è l'orfana di un soldato, e sua madre l'ha venduta a un bordello. In quanti l'hanno presa prima di te, contro la sua volontà o meno?» «Ma ha sposato suo marito, il contadino: l'ha scelto lei.» «È più probabile di no, perché portava in grembo tua figlia, e voleva un uomo in casa. Quanto al marito, lo so come ragionano i contadini: comprare una giumenta incinta è come comprare due cavalli al prezzo di uno. Non ti sei chiesto perché abbia avuto solo un altro bambino, negli anni in cui dici che è stata sposata? Dimentica il figlio che
ha perso in gravidanza, quelle sono cose che succedono. Io credo che Anubina stesse già affermando la volontà di appartenere a se stessa.» Con un rumore attutito il cavallo dell'esercito, condotto dallo stalliere, si avvicinò sul terreno innevato. Giustina fece un passo indietro, affinché suo figlio non vedesse le lacrime salirle agli occhi. La voce restò ferma. «Non è che lei non ti voglia, Elio. Anubina vuole scegliere per Anubina, come io volevo scegliere per me stessa, e non ho mai potuto.» Quando ci passò davanti un'ultima volta, la lapide di suo padre nel sole basso invernale gettava un'ombra lunga e sottile. Acquistata molto tempo prima, rappresentava il defunto, anche se nella sua superstizione Sparto non aveva chiesto che lo ritraesse. Era l'immagine sommaria di un ufficiale dell'esercito con le insegne del suo rango, scolpita in rilievo nelle fattezze di un cavaliere che trionfa su un nemico prostrato. Lungo la frontiera pressoché chiunque - soldato o no - aveva un cavaliere simile inciso sulla tomba. «Il tracio», lo chiamavano di solito. L'epitaffio diceva DIS MANIBUS AELII SPARTI SIBI ET SUIS (Per lui e per la sua famiglia). Ma Elio era deciso a non essere sepolto sotto la stessa lapide, qualunque cosa accadesse. Appunti di Elio Sparziano, scritti a Gerulata il 4 febbraio, domenica, vigilia della Festa di Concordia. E a proposito di concordia, essendo stato incapace di mantenere il controllo, mi resta la piccola soddisfazione di sapere che Gargilio dovrà spiegare ai suoi amici il dente mancante, lividi e gonfiore. Non fermerà i suoi maneggi con Barga, ma ci penserà due volte prima di comportarsi da villano in presenza di Giustina. Il fiume Arrabo nottetempo è ghiacciato. Non lo ricordavo così fitto di canneti e piante. Nel punto in cui l'ho attraversato, prima di tassiana, si era rappreso talmente in fretta che dei disgraziati uccelli acquatici sono rimasti impigliati nella stretta del ghiaccio e sono morti. Si dice che il Danubio scorra ancora, anche se le rive e le anse più profonde mostrano già segni di gelata. Ad Arrabona ho sentito che Sido è arrivato a Siscia e si è portato i suoi compagni, trasferendo gli speculatores locali in capo al mondo. Mi aspettava anche una lettera di quell'amabile canaglia di ben Matthias, il cui nocciolo copio di seguito: Stimato comandante, ho appena ricevuto una missiva da mio genero Isacco, che è stato del tutto scagionato nella faccenda della morte del suo datore di lavoro Marco Lupo al mattonificio di Belgica Prima. Al di là della consolazione che mi ha dato questa notizia, mi è stato servito un bocconcino che ritengo valga la pena di inoltrarti
con corriere speciale. Durante l'indagine, che è stata ampliata fino a ricomprendere le attività della cosiddetta Voce del fuoco a Treviri, si sono fatti avanti (o sono stati spinti alla ribalta dalle autorità competenti) diversi poveracci e buoni a nulla, per confessare di aver ricevuto denaro dal detto Agnus per fingere di avere varie malattie. Le più frequenti erano la paralisi, l'epilessia, la cecità e la scabbia. La rivelazione non risolve direttamente il mistero della morte di Lupo, ma conferma quanto la lettera anonima diceva dell'uomo dei miracoli: cioè che è un ciarlatano, che campa sulla credulità della gente. Ora lui e la sua assistente sono ricercati per omicidio 'ovunque possano trovarsi nell'Impero'. Qui a Mediolanum l'esecuzione dei capi cristiani ha ufficialmente chiuso il caso della morte del giudice Marcello. Allora perché sentiamo dire che gli speculatores continuano a fare domande e a investigare? Il nome o i nomi degli indagati sono strettamente riservati. Datata 14 gennaio, la lettera prosegue chiedendomi: Dovessi avere l'opportunità di farlo nei circoli appropriati, considera cortesemente di raccomandare lo stabilimento di tintoria militare di mio cugino Giuda Ilaro a Intercisa. Puoi ottenere ottime referenze sul suo lavoro al Comando della Prima coorte dei Siriani di Emesa nella stessa città. Ben Matthias è sempre fedele al suo animo di commerciante. Quel che scrive è benvenuto, però, e rafforza il mio desiderio di affrontare la Voce, in qualunque luogo dell'Impero si trovi, o anche al di fuori di esso. Dopo essermi riunito al reggimento ho preso con me una coorte, visto che i nostri ordini sono di arrivare alla riva destra del Danubio a ovest di Arrabona, passando per Ad Mures, Quadrata, Ad Flexum. «Topi», «quadrato», «ansa» sono nomi che illustrano con precisione quei luoghi, per come li ricordo, a parte il fatto che i topi sono ratti fluviali. Una volta raggiunto il punto in cui il fiume Morava sfocia nel Danubio, dovremo attraversarlo e cominciare la ricognizione: abbiamo buone mappe e un'ottima conoscenza del territorio ostile dalla confluenza alla prima ampia ansa della Morava che si incontra risalendo verso monte. Poi toccherà a noi e alle preghiere di mia madre. Stanotte alloggiamo a Gerulata, a un'ora di cavallo a est di Carnuntum; in quella città stasera saranno offerti sacrifici al tempio di Nemesi. Curio Decimo e i suoi «romani» ci hanno preceduto. È probabile che io venga invitato a cenare con loro. Quel che
preferirei sarebbe vedere Decimo faccia a faccia. A questo punto devo chiedermi se la morte di Frugi non sia stata un omicidio compiuto proprio da lui, e se sì, perché. Sono tormentato da domande senza risposta, che forse non possono averne una. Cos'altro ha fatto Decimo? Non potrebbe essere dietro la morte del giudice Marcello, non potrebbero anche altri incidenti sfociati nella morte di cristiani essere direttamente o indirettamente opera sua, accecato com'è dal suo odio conservatore e dalla sua brama di recuperare le ricchezze di Casta dallo Stato? Sono andato completamente fuori strada pensando a complotti di fabbricanti di mattoni invidiosi, o sospettando la sfuggente persona di Agnus? Il predicatore è un ciarlatano, in realtà? La lettera anonima che lo accusa di congiurare con Lupo non potrebbe asserire il falso? Curio Decimo sarebbe arrivato a uccidere il fabbricante di mattoni a Treviri per perseguitare sua cugina e obbligarla a uscire dai confini dell'Impero? Tutto ciò che so per certo, in realtà non lo so affatto: lo sento. È qualcosa di oscuro, pauroso e negativo, e riguarda l'uomo dei miracoli. Un ciarlatano, sì, ma se ci fosse lui dietro tutto quanto, in qualche modo? Il fiuto per il pericolo e i guai di ben Matthias non può sbagliarsi. Agnus emana quell'odore. Contro ogni logica mi sento obbligato a trovarlo, affrontarlo e catturarlo, se è colpevole, prima che Casta debba pagare per il loro legame. Ad Arrabona una guardia mi ha detto di diversi punti del fiume usati dagli immigranti e dai contrabbandieri per eludere le pattuglie dell'esercito. Se Agnus riesce a scomparire fra le tribù ostili a Roma (e se non lo ammazzano dopo che i suoi imbrogli falliscono) potrei perderlo per sempre. Per questo avverto l'urgenza di rintracciarlo, anche se ci sono così tante cose più importanti in gioco. E voglio anche rivedere lei: Casta, la signora Annia Cincia. Era una bellezza, un tempo, così ha detto Decimo. Sono passati pochi anni da allora. Perché non dovrebbe essere ancora una bellezza? Non significa niente per me, eppure potrei essere l'unico amico che le resta. Perché? Perché è sfuggente, come dice ben Matthias, e questo in una donna mi attrae? Perché suo marito è morto, suo cugino Decimo sta dietro alle sue ricchezze, il suo maestro religioso l'ha abbandonata? Non sono tenero di cuore, ma potrebbe essere semplicemente perché, cristiane o meno, in questo mondo le donne hanno vita dura, e gli uomini spesso ne approfittano.
La frontiera era come Elena: non sembrava cambiare mai. Malgrado l'imminenza della guerra gli affari prosperavano; si vedevano le stesse merci nelle botteghe, le stesse uniformi; si aveva l'impressione che fossero gli stessi uomini a prestare servizio lì anno dopo anno, generazione dopo generazione. Anche i bordelli schierati lungo le strade per i campi militari erano sempre gli stessi, con le loro insegne esplicite e le tende rosse agli ingressi, le stesse ragazze bionde che chiamavano i passanti dalla soglia. A Carnuntum, l'affluenza delle truppe aveva gettato nel caos sia la cittadella dell'esercito, sia la zona civile. Elio trovò una libreria ben fornita, dove si assicurò una copia delle opere teatrali di Eschilo. «Rispolverate i classici?» gli chiese amichevolmente il venditore. «No, cerco una frase che ho visto scritta su una parete delle Terme a Mediolanum.» Quasi per caso, all'ennesima ricerca in tribunale, vide la coda della volpe in fuga. Durante una retata della polizia in un luogo di raduno cristiano, una persona nota come la Voce del fuoco era riuscita a scappare per un capello, e malgrado tutti gli sforzi delle guardie sembrava avesse ormai varcato il confine. «Non può essere a più di due o tre giorni di distanza», disse l'impiegato del tribunale a Elio, «ma chi andrà a cercarlo laggiù, comandante?» «È fuggito da solo?» «Supponiamo. Il nostro informatore ha sentito che il fuggitivo ha una complice, ma si sono separati, da qualche parte fra Ala Nova e Vindobona.» I due presìdi dell'esercito erano a un giorno di cavallo a ovest di Carnuntum. Elio dovette ricordare a se stesso le sue responsabilità per non partire subito. Il gancio che lo teneva lì e in quel momento era la cerimonia al tempio di Nemesi; e ancor di più l'incontro con Curio Decimo, il cui invito a cena Elio si aspettava, e accolse. Non era presente nessun altro della Confraternita di Catone. La stanza era piccola, un angolino da pranzo al piano superiore di una locanda gestita dall'associazione dei fabbri. Quando Elio indagò, il collega rispose che Ulpio Domnino e Otho erano con i loro uomini ad Ala Nova. «I gemelli sono in città, Vivio Luciano guida una coorte a Quadrata. Mandano i loro auguri.»
Quali che fossero le intenzioni di Decimo per quella rimpatriata, Elio la vide come un'opportunità per farlo parlare, anche se significava assecondare le solite ciarle politiche sui bei vecchi tempi repubblicani. Chiedere di punto in bianco di Frugi non era consigliabile, ma il vino avrebbe potuto aiutare. C'era la miglior vendemmia locale accanto al tavolo, e anche diversi vini greci e italiani. «La cena è da parte mia», disse Elio. «La guerra imminente esige celebrazione. Domani risalirò il corso della Morava, e se sono fondate le voci di una possibile incursione intertribale, non sarà una passeggiata.» «Questo merita un brindisi.» A Decimo non piaceva il clima rigido. Portava la sciarpa anche in casa, e il mantello sulle ginocchia. Non c'era dubbio che avesse i suoi motivi per l'incontro, visto che non si erano congedati nel più cordiale dei modi. «È utile che non abbiate paura», osservò dopo aver assaggiato il vino con uno schiocco delle labbra. «Morireste per Roma?» «In questo istante.» «Non in questo istante.» Decimo rise, riempiendosi di nuovo il bicchiere. «Non prima di una cena ben preparata, Sparziano! I vostri stoici non dicono: 'Se ti mandano in esilio, fermati lungo la strada per un buon pasto'?» «E voi non morireste per Roma?» «Sarà così.» Lasciandosi sfuggire di bocca quelle parole ambigue, Decimo si voltò verso il tavolo laterale, carico di piatti freddi e caldi. Avevano chiesto di essere lasciati soli, così il romano servì sia Elio, sia se stesso. Sulla frontiera mangiare significava cacciagione, fibrosa e saporita, bisognosa di brindisi frequenti. A un certo punto, ancora non alterato dal vino ma considerevolmente più rilassato, Decimo disse: «Immagino vi rendiate conto che siete l'unico fra i miei colleghi ad aver visto la mia Porzia». «Grazie per il privilegio.» «Non un privilegio: una prova di fiducia da parte mia.» Bevvero a Porzia, a Thaesis, alle figlie in generale. «E ai figli che non ho», aggiunse Decimo con una smorfia. Scelse da un vaso uno dei tanti cucchiaini per le numerose salse e si servì un condimento piccante. «A proposito di figlie, ricorderete cosa vi ho detto della sicura corsa all'Impero di Costantino e Massenzio dopo il primo di maggio. E un fatto che attraverso il matrimonio del padre con la figlia di Massimiano, Costantino è diventato cognato di Massenzio.»
«Sì. Dunque?» «Be', a letto ho fatto ammettere a Elena che ha in mente di convincere Costantino a divorziare dalla moglie attuale per sposare la sorella di Massenzio, Fausta. Se accadesse, considerato che suo padre Costanzo ha sposato l'altra figlia di Massimiano, Teodora, Costantino diventerebbe (come suo padre) genero di Massimiano, ma anche cognato del suo stesso padre e della sua matrigna. Teodora, dal canto suo, diventerebbe la matrigna di sua sorella. E quanto a Elena, madre di Costantino, che è stata a letto sia con Massimiano, sia con Massenzio, per non parlare di Costanzo, non riesco nemmeno a individuarlo, il suo ruolo in questa confusione.» «E interessante, ma considerato che in senso stretto mia madre è anche mia zia, non posso dire che si tratti di una situazione fuori dell'ordinario.» Decimo apparve all'improvviso seccato, come se Elio avesse di proposito ignorato le allusioni contenute nel discorso. «Non capite? Elena ha in mente di impedire a Massenzio
di
combattere
Costantino
finché
entrambi
non
blandiranno
o
ammazzeranno chiunque altro possa avvicinarsi al trono.» «Non sarebbe la prima volta nella storia di Roma.» «Ma se Costantino viene dichiarato viceimperatore appena il padre muore a Treviri, Massenzio - che non ha avuto né il posto di console, né una miserabile nomina a generale - lo sfiderà, e con l'aiuto del padre, scommetto, visto che Massimiano non vuole abdicare. Credetemi, so di cosa parlo. A Palazzo, a Mediolanum, ci sono scommesse aperte su quanto a lungo Sua Serenità resterà in disparte prima di riallungare le grinfie sul trono. Insomma, Aristofane vi voleva far ammazzare appena avete messo piede in città solo perché portavate l'ordine di abdicare. L'eunuco ha cambiato atteggiamento solo perché Diocleziano gli ha annunciato per lettera che l'avrebbe ritenuto direttamente responsabile per la vostra vita.» Era possibile, del tutto possibile. «Non so se ci sia qualcosa di vero nelle vostre illazioni», rispose Elio per non apparire sorpreso com'era. «Giudicate voi. Una settimana prima che arrivaste a Mediolanum, io stesso ho ricevuto ordine di liquidarvi appena aveste messo piede in città. Per via della lettera di cui sopra, ho ricevuto un contrordine la mattina stessa del vostro arrivo.»
Elio ingoiò un pezzo di carne stopposa. Ricordò la prima notte a Mediolanum, quando Decimo l'aveva aspettato a un angolo buio della strada davanti a un bordello da cui baluginava la nudità di una ragazza. «Perché mi state dicendo tutto questo?» «Perché Roma presto dovrà affrontare il governo di due usurpatori, o il governo sanguinario di chiunque dei due vinca. Per questa ragione è necessario che voi vi fidiate di me quanto io mi fido di voi.» Stavano arrivando al punto. Era il genere di conversazione che Frugi era stato costretto a sentire e commentare prima della sua morte improvvisa? Elio vedeva in maniera imperfetta attraverso la nostalgia di Decimo, come quando la nebbia comincia a diradarsi senza dissolversi. «Sinceramente non comprendo la necessità di riaffermare la fiducia fra colleghi ufficiali.» «Siete davvero così stupido? Noi abbiamo bisogno di uno come voi per fare quel che solo uno come voi può fare.» «Voi avete bisogno di me. Voi chi?» Di fronte a Decimo c'erano sette cucchiai da salsa; uno a uno, parlando, li mise in fila. «Venite dalla stessa provincia di Costantino e Massenzio, vostro padre ha prestato servizio con i loro. Elena si fida di voi.» Con un solo gesto scombinò la fila di cucchiai. «Il giorno del mio ventesimo compleanno, trentasette anni fa, un imperatore romano è stato assassinato da ufficiali danubiani che aspiravano al trono, e che l'hanno tenuto da allora. Ora corriamo il rischio che i danubiani rendano ereditaria l'usurpazione.» Elio sentì i capelli più corti rizzarglisi sulla nuca. La voce di Decimo gli giungeva alle orecchie con una strana profondità, come se stesse parlando dentro un tubo di legno, all'altro capo. In un attimo passò dal credere che si trattasse dell'effetto di qualcosa versato a tradimento nel suo vino al rendersi conto che era una paura dell'anima di sentire quelle parole. «Così abbiamo pensato a voi, dato il vostro dichiarato amore per Roma e il modo in cui solo lo scorso anno avete pubblicamente denunciato dei nemici dell'Urbe.» Decimo si mise a lisciare la tovaglia con le mani, e gli anelli pesanti alle dita lasciarono dei solchi nel lino. «Le cerimonie per l'abdicazione del primo maggio si terranno contemporaneamente a Nicomedia, dove ci saranno Costantino ed Elena, e a Mediolanum, con Massenzio al fianco del padre. Mediolanum non è un problema,
ma abbiamo bisogno di un uomo al di sopra di ogni sospetto a Nicomedia.» La rastrellatura della stoffa si interruppe, poi ricominciò. «Sembrate un po' pallido, collega. E per le mie parole o per il fatto che solo ascoltarle vi ha reso complice? Posso essere più formale, e lasciare che i muri sentano, se hanno le orecchie: Elio Sparziano, per il bene della res publica per cui siete sia ufficiale, sia storico, il primo maggio Costantino e Massenzio devono cadere. Specialmente Costantino, che sta radunando sostenitori stranieri. Badate bene: vi dovesse solleticare l'idea di denunciare me o qualcuno dei miei amici, ritorceremo tutte le accuse contro di voi e proveremo che avete ammazzato Frugi a Celeia perché resisteva al vostro piano. Abbiamo av- ' vocati potenti, dalla nostra parte, e giudici ancor più potenti.» Elio sentiva il battito del cuore in gola, dietro gli occhi. La facilità con cui Decimo gli aveva ritorto contro quello che in un mese aveva distribuito in indizi, lasciando che vedesse e non vedesse, capisse o meno, era come il colpo netto di una lama. E ben Matthias aveva preso la Confraternita di Catone per un innocuo circolo sociale! Aprire la bocca per parlare fu uno sforzo. «Per quanto ho visto, siete un manipolo di illusi nostalgici, e verrete schiacciati come grappoli d'uva.» «Davvero? Bene, lo vedremo. E stato ottenuto anche di più con molto meno. Non abbiamo in mente una rivoluzione, Sparziano. Non riuscirebbe mai, a questo stadio di collasso della storia romana. Vogliamo solo tentare una restaurazione parziale. Ecco, bevete. Sapete meglio di me che intere aree dell'Impero sono fuori dal controllo dell'esercito, de facto terra di nessuno, dove solo nominalmente vale l'autorità di Roma. Alcune di queste regioni sono grandi come nazioni. Alcune, scommetto, prima o poi lo diventeranno.» «Non potete pensare di riuscire! Chi attrarrebbe una restaurazione del genere? I discendenti dei romani di sangue puro come voi? Non ne trovereste abbastanza per popolare i confini, e ancor meno per formare un esercito!» «C'è tempo. Ora andiamo in guerra, come comandato. Dato che i nostri imperatori devono necessariamente dichiarare la vittoria prima dell'inizio di maggio, è certo che la campagna sarà conclusa o interrotta prima della fine di aprile.» Decimo riempì anche il bicchiere di Elio, oltre il bordo. «Noto che avete difficoltà a esprimervi, contrariamente ad altre sere. Non importa, Sparziano, non mi aspetto che mi rispondiate subito. Ci sarà occasione nei giorni a venire. Fino ad allora potete scegliere se restare in silenzio o denunciarci e risultare uno dei cospiratori, con tutto
quello che comporterà per la vostra famiglia d'origine; le autorità non hanno pazienza con i parenti dei traditori. Nessuno, nemmeno Sua Divinità, per cui siete 'il nostro caro Elio', crederà che per tutto questo tempo vi siete accompagnato a me e alla mia coorte nella beata ignoranza. Anche lui, che dopotutto ha iniziato come ufficiale e ha eliminato tutti i rivali sulla via del trono, penserà che mentite. Una lettera speditagli ora - se è a questo che state pensando - sarà solo un cappio intorno al collo: il vostro, nonché quelli della vostra famiglia. Ce ne sono... quanti? Sedici o più, di parenti stretti, fra giovani e vecchi?» Elio non ricordava di aver lasciato la locanda e di essere ritornato a Gerulata. Si trovò nel suo alloggio dopo che ebbe fatto buio da un pezzo, sudato malgrado il gran freddo. Tutte le domande che aveva programmato di fare su Marcello, Lupo, addirittura Frugi, gli erano state spazzate via dalla mente. Che altro c'era da chiedere? Frugi era stato ucciso perché cominciava ad avere paura. Quanto al resto, i suoi pensieri erano in una confusione disperata. Cercò di dormire, invano. Alzarsi a sedere non migliorò le cose, quindi camminò avanti e indietro per ore. Una volta aveva visto un orso costretto in un fosso quadrato andare fino agli angoli e poi indietreggiare allontanandosene, incapace di girarsi. Allo stesso modo non faceva che ritornare di continuo alle parole di Decimo e recederne senza voltare la faccia, fissandole. Al mattino aveva la febbre alta. La nascose per non perdere la sua opportunità di trovarsi sul campo e mettere l'azione fra sé e la sua angoscia. Appunti di Elio Sparziano, 8 febbraio, giovedì. Ci sono dei che vegliano su di noi nei momenti difficili. Prima che iniziasse, quella che avrebbe dovuto essere una comune incursione in territorio nemico si è trasformata in una controffensiva a causa di un attacco notturno all'avamposto di Nemo- rense, lontano dalla testa di ponte fortificata dove avremmo dovuto attraversare il Danubio. Una distrazione insperata! Non c'era tempo da perdere, così i miei uomini e io abbiamo attraversato il fiume sulle rocce e i tronchi che i barbari avevano accumulato per rendere più sicuro il guado. I nemici sono scomparsi con la stessa rapidità con cui erano spuntati, naturalmente, e per un'intera giornata abbiamo seguito le loro tracce, fino al punto in cui la Morava confluisce nel Danubio.
Sapevo che si tratta di una palude, infida in primavera e autunno, quando le piogge gonfiano il corso delle acque, e per miglia tutto ciò che le circonda diviene terra d'inondazione. Ciò che non mi aspettavo era di trovarla gelata solo in parte, così che mentre alcuni tratti potevano essere percorsi a cavallo - o almeno a piedi, con le bestie tenute per le redini - altri erano ancora allo stato liquido. Una tavola di acqua gelida che rifletteva il cielo, punteggiata da grossi alberi con i tronchi sommersi oltre la metà. Le macchie di canne offrivano nascondigli perfetti, ma fortunatamente la temperatura dell'acqua non consentiva nemmeno al più vigoroso dei barbari di resisterci a lungo. Siccome da lunedì hanno iniziato a soffiare venti da sud, in molti punti il manto di neve si è sciolto. Abbiamo potuto tenere dietro alle tracce del nemico come se fossero orme lasciate dagli animali selvatici. I cani randagi che seguono la nostra pattuglia (ce ne sono intere mute su entrambe le rive del Danubio) si rotolavano sull'erba gialla in cui i tassi e altre creature avevano lasciato le loro deiezioni, vecchia abitudine dei loro progenitori lupi. Il terzo giorno, in un meandro nascosto del fiume, finalmente abbiamo avvistato il nemico. Ho dato ordine di non attaccare subito, determinato a verificare se ci trovassimo di fronte un gruppo di esploratori, un'avanguardia o il fronte di un esercito più grande. La febbre che mi aveva ammorbato fino a quel momento (tutti i miei capitani e ufficiali subordinati sembravano consapevoli del mio disagio, e la cosa mi preoccupava) era scesa con la rapidità con cui era venuta. Mi sono trovato perfettamente lucido e sano. Al pomeriggio ci siamo resi conto che si trattava in effetti di un'avanguardia di un centinaio di armati - proveniente dal lontano Nord-est, a giudicare dalle vesti e dall'equipaggiamento -, reduci dal saccheggio di villaggi neutrali e senza dubbio intenzionati a riferire ai loro capi la reattività delle truppe di frontiera. Le unità semoventi come la mia, vexillationes capaci di muoversi su ordine dell'ultimo minuto, a loro sono completamente ignote. Abbiamo attaccato all'alba, da ovest, protetti dai raggi bassi che dovevano riflettersi come fiamme sulle paludi, accecandoli. Li abbiamo falciati con vigore. In queste operazioni non si possono prendere prigionieri, né lasciare superstiti. Più di una volta i prigionieri catturati per essere
interrogati hanno trovato sostegno fra i barbari cui è consentito vivere negli insediamenti, e hanno trasformato la grazia in un cavallo di Troia. In Persia era sgradevole abitudine di tutti tagliare l'orecchio destro del nemico caduto per tenere conto delle perdite inflitte. Io stesso l'ho fatto. Sulla colonna del divino Traiano, a Roma, si vedono soldati offrire ai loro comandanti diverse teste mozzate di barbari. Considerato che il gruppi contro cui abbiamo combattuto si acconcia i capelli con una treccia avvolta e appuntata su una tempia, è quella che ho fatto recidere a tutti, raccogliendole in un sacco. Ho perso sette uomini nello scontro, la cui ferocia mi preoccupa nella prospettiva di dover affrontare gli stessi barbari in primavera. Sui cadaveri dei nemici abbiamo trovato equipaggiamento romano, addirittura delle nostre cotte di maglia. La maggior parte degli oggetti, per aggiungere vergogna alla vergogna, deve essere stata venduta di contrabbando dalle nostre truppe di frontiera: peggio che perderle con onore sul campo di battaglia! All'alba del giorno successivo, alla mia tenda si sono presentati i contadini della zona per chiedermi il permesso di spogliare i barbari morti dei loro averi: i più anziani venivano da gruppi di federati, e il loro stato di residenti non ostili della frontiera li rende sfacciati e petulanti. Non ho visto nulla di male nel permettere che si servissero liberamente di abiti e cavalli, anche se non è stata concessa loro alcun'arma (nemmeno coltelli e rasoi). Soddisfatti della nostra missione, abbiamo iniziato a ritirarci. Vale la pena di notare che oltre frontiera i contadini sono terrorizzati da noi solo in nostra presenza; appena torniamo indietro, sono i barbari quelli che temono. Niente di nuovo. Invece non mi piacciono il loro umore e le loro mezze parole; qualcosa mi dice che potrebbe esserci una sollevazione programmata per molto prima di quanto non ci aspettiamo. Il mio rapporto al quartier generale sarà in questo senso. Stamattina presto, su una collinetta abitata al margine di una foresta e affacciata sul fiume, gli anziani, una volta riuniti, si sono lasciati interrogare solo dopo un insieme di promesse di denaro e minacce. Le informazioni raccolte sono incomplete, ma forniranno diverse tessere al mosaico più grande. C'è di più: questi giorni trascorsi all'addiaccio, tanto frenetici e privi della stagnazione delle retroguardie, mi hanno portato vicino alla soluzione degli omicidi contro cui per settimane ho sbattuto la mia dura testa pannonica. Le prove troppo insignificanti o troppo madornali per essere notate infine si sono unite, e potrei prendermi a calci da solo per averci messo
tanto. Quanto lontano dalla verità si può trovare un uomo, quanto può travisare tutti i segnali che il Fato e la sua stessa determinazione gli presentano? In modo assolutamente accidentale, è stato il verso greco inciso sulla parete delle Vecchie Terme di Mediolanum a rivelarsi determinante: Ahimè, ahi! Vedi, vedi! Tieni, tieni lontana dal toro la giovenca... È l'Agamennone di Eschilo. Quando sono passato, nella mia fretta di vedere dove era stato ucciso Marcello, ho ignorato - peggio, ho travisato - il suggerimento implicito nelle parole dell'antica tragedia. E pensare che una volta la conoscevo tutta a memoria! La soluzione, quella cui sono arrivato, mi pesa. E come una medicina che lasci un sapore amaro sulla lingua. Mi si è presentata cavalcando verso il mattonificio di Lupo, quella prima mattina, e io l'ho ignorata, rifiutando di accoglierla per i due mesi successivi. Ne avessi accettato l'asprezza, il giudice Marcello sarebbe ancora vivo, e così sua moglie, e gli idioti che si sono cercati la morte a Mediolanum. Ma eccoci qui. Dato che Nemorense è un punto d'osservazione non lontano da Ala Nova e Carnuntum, e io mi trovavo in una regione di fronte a quelle località, ho fatto le solite domande. Descrivendo Agnus e Casta meglio che potevo, ho chiesto se ci fossero stati viaggiatori stranieri che affermavano di compiere magie. Che cos'ho detto degli dei che vegliano su di noi? Il capo degli anziani della tribù ha risposto di sì. Secondo le sue parole, dal confine romano è giunto di recente un uomo che opera miracoli; la sua fama nel giro di pochi giorni si è diffusa fra le popolazioni della Morava e del Tibisco; ospitarlo è un privilegio, e i barbari non lasceranno che nessuno gli faccia del male o lo porti via. Così ho compreso che la Voce del fuoco si nasconde nelle vicinanze, in un villaggio neutrale di capanne interrate di fango e rami, di quelli - se posso aggiungerlo - che ancora si vedono nei luoghi più remoti della mia Pannonia. «Sentono odor di romani fin da lontano», mi ha ammonito il vecchio riguardo i suoi vicini barbari, e io non ho risposto che questi romani non li fiuteranno affatto; i miei uomini sono settentrionali di pelle chiara, bevono latte come bevono vino, e consumano una dieta del Nord. Occorre aggiungere che ci sto andando, con un manipolo delle mie guardie?
10 8 febbraio, giovedì Diplomazia, conoscenza del dialetto locale e un dono in denaro furono egualmente necessari a Elio per accedere al rifugio della Voce del fuoco. La riva sinistra della Morava, vicina alla confluenza con il Danubio, era praticamente una terra di nessuno, dove trafficanti, mercanti e disertori si muovevano liberamente, e le occasionali pattuglie romane non venivano contrastate finché lasciavano in pace i contrabbandieri e le donne. Quando non nevicava, e se si procedeva controvento, di solito si fiutavano i campi ostili e i bivacchi molto prima di vederli. L'uso di pellami conciati in fretta e di grandi quantità di prodotti derivati dal latte, conferiva un odore particolarmente rancido all'aria. E nel momento in cui da sopra la linea degli alberi le volute di fumo rendevano visibili i fuochi nemici, di solito l'esercito aveva già cominciato l'attacco. Il luogo che Elio raggiunse a mezzogiorno era qualcosa a metà fra un insediamento e un campo stagionale. Lasciò le sue guardie al perimetro esterno, con l'ordine tassativo di non intervenire a meno che non fosse stato aggredito di persona. Una volta chiariti i motivi della sua venuta ai sospettosi barbari che gli si affollavano intorno con i loro cani ringhiami, gli fu consentito di procedere. Gli indicarono una delle capanne, fuori dalla quale si accalcava un gruppo di indigeni, senza dubbio nella speranza di intravedere il guaritore. Nella semioscurità dell'interno, Agnus sedeva a occhi chiusi, con le mani sulle ginocchia. Sentendo parlare in latino sollevò le palpebre quanto bastava per dare un'occhiata al visitatore, poi vi fece nuovamente sparire le pupille sotto, come un cieco, o un uomo ispirato. Se in lui c'era traccia di sorpresa, la nascose bene. Ma seguì un rapido cambio d'espressione, ed Elio non seppe dire quale fosse, in essa, il ruolo della paura, o del disprezzo, o dell'interesse scaltro per l'incontro. A ogni modo, il volto si fece curioso e ostile. Era possibile che alcuni superstiziosi ufficiali romani gli avessero già fatto visita, in cerca di consiglio o aiuto, anche se la condotta di Elio non era certo quella di un postulante. «Siete fuori dalla giurisdizione di Roma, comandante.»
«Ovunque metta piede un romano, quella è giurisdizione di Roma. Al di là di ciò, se voi siete Agnus, che la gente chiama Pyrikaios, o la Voce del fuoco, sono qui per farvi delle domande, sapendo che i cristiani non mentono, e per mettervi di fronte alla verità.» «La verità da un miscredente! Siete consapevole del fatto che questi buoni barbari mi proteggono?» «Be'...» Elio ampliò notevolmente la portata della sua potenza d'attacco. «Questi buoni barbari possono essere spazzati via.» Dava il fianco destro alla porta della capanna, pronto a reagire in caso qualcuno avesse cercato di entrare. «Tanto per cominciare, ditemi quale itinerario avete seguito voi e la vostra assistente Casta per arrivare fin qui.» Ancora una volta la sorpresa fu abilmente controllata. Agnus rimase seduto come un capo tribale, fra i regali grossolani che quegli zotici gli avevano portato per chiedergli un miracolo: brocche di idromele, pelli, schegge di finimenti in bronzo strappate da uomini e cavalli romani. «Non ho nulla da nascondere. Da Treviri, attraverso la Germania Superiore, ho raggiunto Castra Regina sul confine. Ho seguito la riva destra del Danubio per giorni prima di trovare un punto in cui attraversarlo. La frontiera è ben controllata, se è questo il motivo per cui me lo chiedete, ma era Dio a guidarmi. Mi sono incontrato con la diaconessa ad Astura, dove il No- rico diviene Pannonia. E stata Casta a convincermi a seguirla a Carnuntum, il cui vescovo secondo lei avrebbe promesso di proteggerci. Lì, per colpa di una spia, siamo quasi stati catturati dalle guardie. Abbiamo viaggiato di notte verso il fiume, e solo l'aiuto di Nostro Signore ha impedito che morissimo di freddo. A un certo punto, fuori da Ala Nova, ci siamo divisi. Io mi sono diretto nel Barbarico. Quel che ha fatto lei, o dove si trovi ora, non lo so.» «Eravate cosciente, quando avete varcato la frontiera, che i vostri miracoli erano stati sbugiardati come frodi a Treviri?» Gli occhi di Agnus rimasero rovesciati indietro, bianchi, con le palpebre che tremavano. Il fumo che si alzava dal focolare in mezzo alla capanna saliva verso il buco nel tetto. Dall'alto pioveva la luce del sole, creando lame evanescenti di fumo quando incrociava le ombre di rami e puntelli. «Nostro Signore insegna che chi crede davvero non ha bisogno di segni e portenti.»
«Ma contravvenendo agli insegnamenti del vostro profeta, voi avete deciso che ne avevano bisogno.» «Non ne so nulla. Quando il potere di Dio scorre in me, non sono consapevole di nulla che mi circondi.» «Una lettera mandata alle autorità di Treviri vi accusa di aver complottato con Lupo la sua 'resurrezione'. C'è il sospetto che lo abbiate ucciso quando, per un motivo o per l'altro, ha minacciato di parlare.» Questa volta gli occhi di Agnus si aprirono definitivamente. Era un uomo di altezza media, sulla sessantina, e il suo volto aveva la singolare caratteristica descritta da ben Matthias: si faceva dimenticare. Barba, lunghezza dei capelli, vestiti, tutto in lui era ordinario. Quanti vecchi del genere aveva conosciuto Elio nella sua vita, di tutte le categorie, lungo ogni strada percorsa? Il Dio di costui doveva accontentarsi della mediocrità. «Io, comandante? Io non ho nemmeno mai parlato con Lupo prima che mi chiamassero al suo capezzale! Ho saputo della sua triste fine dopo aver lasciato Treviri; è stato solo un caso che la mia partenza sia coincisa con il giorno della dipartita di Lupo. Durante la sua malattia le sue famigliari hanno avvicinato la diaconessa in cerca d'aiuto, e il mio cuore è stato mosso ad arrendevolezza.» Le palpebre scesero, e così gli angoli della bocca. «Io non tratto con le donne. L'anima dell'uomo retto teme le loro lingue scaltre. La diaconessa è il muro che erigo fra me e quegli esseri impuri; lei è fatta per tutelarmi dall'insopportabile insistenza di coloro che turbano la mia contemplazione...» Le mani bianche percorse dalle vene si levarono lente dalle ginocchia, cercando con le dita allargate la luce che pioveva dall'alto. «... Io sono il veicolo della potenza di Dio, poiché Egli vuole indicare la differenza fra l'uomo e la donna: l'uomo cristiano, la donna cristiana... ma la potenza di Dio fluisce solo attraverso l'uomo. Come ha potuto esserci un momento, quando mi è stato presentato il corpo esanime di Lupo, in cui nella mia ingenuità ho dubitato dei miei poteri? Quale poca fede ho dimostrato nelle grandi opere di Dio pianificate per me! Ho addirittura sospettato che fosse Casta ad adularmi! Come se Dio potesse permettere a una donna che ho elevato dall'idolatria di essere altro che uno strumento al servizio del prescelto. Devo riconciliarmi con il fatto di essere il prescelto: che è mio dovere compiere miracoli che solo Nostro Signore e i più grandi santi potrebbero fare.»
Già, e ultimamente avete resuscitato qualche morto? Elio pensò stizzito a quelle parole, senza pronunciarle. «Le persone arrestate a Treviri hanno testimoniato di aver ricevuto denaro per certificare la morte di Lupo e mettere in scena la sua sepoltura.» «Ripeto, non so niente al riguardo. E vero che ho dovuto avvalermi di aiutanti, di tanto in tanto, per convincere i miscredenti, come gli insegnanti usano dei modelli per illustrare le loro lezioni. Cos'è peggio: fingere di guarire una finta lebbra o lasciarsi sfuggire l'opportunità di convertire le folle? Coloro che pensano che saranno guariti, spesso guariscono: il fuoco è in loro, deve solo essere alimentato. Il titolo di 'Voce del fuoco' illustra precisamente quanto ha detto Cristo in persona: 'La tua fede, alla quale hai prestato ascolto, ti ha guarita'.» Un ciocco umido sibilò sul focolare. Senza fiamma, ne salì una spira di fumo denso, riempiendo il centro inondato di sole della capanna. Elio si spostò per non perdere di vista l'uomo dei miracoli. «E che ne è di quelli meno certi della loro guarigione?» «Esistono solo la fiamma o il ghiaccio, comandante: non ci sono credenti tiepidi. Alcuni sono freddi come sassi. Lo so, ho lavorato con le loro insulse schiere per anni! Una volta dopo l'altra, fino al giorno in cui ho incontrato Lupo, sono rimasto ore in preghiera per guarire un'infiammazione o dare sollievo a una febbre, invano. Ma la mancanza non era mia: era loro, perché essi non credevano. Poi, in Belgica Prima, mi portano il cadavere di un fabbricante di mattoni: io prego in una maniera non apprezzabilmente diversa dalle altre, e il miracolo fiorisce di fronte ai miei occhi. L'uomo si alza e riprende a camminare, come Lazzaro! La fede dei suoi parenti è stata la legna, io il fuoco. Voi parlate di finzione, ma io vi dico che si tratta di un mistero ineffabile.» «Non è l'opinione dei giudici di Treviri», mugugnò Elio. La mano bianca rimase a mezz'aria, con ogni dito teso fremente per la contrazione. «Che cosa sono Platone e Aristotele di fronte alla potenza di Dio, comandante? Che valore ha Pitagora, che ritiene la mente delle donne plasmabile alla stregua di quella degli uomini? Blasfemia! Lo so grazie all'autorevolezza dell'apostolo Paolo. Paolo dice chiaramente che l'uomo è l'immagine e la gloria di Dio, mentre la donna è la gloria dell'uomo. L'uomo è stato creato direttamente da Dio, la donna è stata
formata da una delle sue costole. Una chiara questione di proporzioni. Dunque il ruolo di una donna cristiana, nella sua modestia, è servire suo marito e la sua famiglia, e - se è una vergine consacrata - di servire coloro che servono Dio. Solo così si rispettano le proporzioni cui allude Paolo.» «Gli uomini non dovrebbero dunque avere una costola in meno nel loro scheletro, in confronto alle donne? Non ho mai saputo che fosse così.» La domanda fu ignorata. La mano sinistra di Agnus salì a raggiungere l'altra, i pollici giunti, cogliendo e spezzando il sole fumoso. «Ci sono fatti fisiologici», aggiunse con il capo rovesciato all'indietro, le palpebre nervose, «che provano la verità e la saggezza dell'affermazione di Paolo. Nella nostra stessa tradizione scientifica, se durante le sue impure perdite una donna tocca del vino, questo si tramuterà in aceto. Annebberà gli specchi fino a renderli inutilizzabili (meglio, giacché la vanità si annida negli specchi come una cagna nella sua tana) e ucciderà le api da miele passando davanti all'alveare. Molti altri esempi tramandati dall'autorevolezza degli antichi potrebbero farsi riguardo a tale malefica influenza, e scaturirebbero tutti nel riconoscimento della sozzura della donna e della sua indegnità a essere ministro di fede.» «La ragazza con cui vivevo in Egitto usava abitualmente lo specchio durante il suo periodo mensile, e a me è sempre parso che si mantenesse lustro.» Agnus aggrottò le sopracciglia. Solo il braccio destro rimase sollevato, la mano chiusa a pugno, con l'indice teso: la posa teatrale che Elio aveva visto fare ai maestri di filosofia per sottolineare l'importanza del momento. «Voi in cosa credete?» «Come Epitteto, credo che l'unica cosa che mi appartiene davvero sia la volontà. Per me la vita è una battaglia da combattere coraggiosamente, il cosmo è generato dal fuoco, il dolore non deve essere sfuggito e l'equanimità è una virtù fondamentale.» «Tutto qui?» «No. Credo anche di essere una creatura razionale, con un'anima che possiede la coscienza del Bene, giacché in natura esistono quelli che Cicerone chiama i 'semi della virtù', e il mondo stesso ha un'anima coesiva. Malgrado abbia qualche problema a escludere il piacere della carne, mi rendo conto che il logos - ovvero la ragione deve trionfare su ogni irrazionalità ed esaltazione.»
«Lo stoicismo è solo meno disdicevole della maggior parte delle filosofie, comandante. Clemente Alessandrino, uno dei nostri pensatori più profondi, scrive che la filosofia era per i greci quel che la legge di Mosé era per gli ebrei: una preparazione all'avvento di Cristo. Clemente stesso ha iniziato come stoico, ma ha colto il suo errore. Pregate Dio di rendervene conto anche voi.» Agnus giunse le mani con reverenza. «Ora mettete pure al mio cospetto la vostra verità.» Elio aveva provato meno disgusto a stroncare fisicamente dei nemici armati. «Ho visto l'arroganza accecare militari e politici, ma la vostra presunzione è mostruosa. Davvero non sapete, Voce del fuoco, che non c'è stata resurrezione in Belgica Prima, e che il mago è credulone come il pubblico? Chi credete vi abbia raggirato?» Appunti di Elio Sparziano, scritti a Gerulata l'il febbraio, domenica. Quando ho lasciato Agnus avevo lo stomaco in rivolta. Quella montagna di arroganza e ipocrisia mi ha fatto uscire pieno di repulsione dalla sua puzzolente capanna. Non fossi stato così lontano dalle nostre linee, gli avrei tagliato la gola lì dove si trovava, presuntuoso ipocrita che non è altro. Ha negato l'evidenza che gli ho esposto, e insiste sulla sua capacità di resuscitare i morti! Non ammette alcuna responsabilità morale nella morte di Marcello, malgrado i feroci attacchi e le maledizioni contro il giudice contenuti nella sua lettera pastorale, che nemmeno Protasio riusciva a giustificare. Quando gli ho detto delle numerose rivolte e delle esecuzioni di cristiani avvenute nella sua scia, le ha liquidate come parte del grande piano segreto che Dio ha per lui. Sono uscito dal suo nascondiglio con il cuore pesante, chiedendomi perché, perché non può essere lui l'omicida che cerco, e che sono condannato a continuare a inseguire? A ogni modo, l'uomo dei miracoli è pericoloso, ne sono convinto: se dovesse mettersi in testa di capeggiare degli altri, alla frontiera potremmo avere dei guai. Trascinarlo in tribunale sarebbe una mossa di prevenzione politica, oltre che un atto di giustizia. Disgraziatamente, data la sua apparente popolarità fra i barbari, con il numero di uomini che avevo con me, non è stato possibile portarlo via questa volta. Il suo atteggiamento, allorché mi sono congedato, è stato del tipo: «Be', cosa potete farci?» Ho intenzione di farci qualcosa, prima o poi. La prossima primavera, quando attaccheremo in forze, se non riesco a trovare un modo prima.
Sono appena tornato a Gerulata e già un altro dovere mi chiama al presidio di Burgus Aquae Mortae. A un ristretto gruppo di ufficiali di carriera è stato chiesto di recarsi laggiù, da soli, per un colloquio con i capi delle tribù dei boi e dei quadi, incerte fra noi e i sarmati che alitano sul loro collo. Un incarico diplomatico, ma dovremo indossare maglie di ferro ed equipaggiamento completo. Il nome del forte, Torre delle Acque Morte, non è il più felice, ma la frontiera ne ha da vendere, di nomi bizzarri. Forse è il mio umor nero che ha bisogno di essere sollevato: solo gli Dei sanno se ho abbastanza preoccupazioni. Alla posta mi attendeva una lettera di Anubina, eppure esito ad aprirla, per paura di quel che potrebbe dirmi. Credo che la leggerò al campo, dove gli eventi probabilmente mi distrarranno nel caso non siano buone notizie. Il tempo si sta facendo brutto, perché il vento ha ricominciato a soffiare da nord.
Burgus Aquae Mortae, 13 febbraio, martedì. Primo giorno dei Parentali, Festa dei Morti La neve cadeva dura e minuscola, non si attaccava alle cose e alle persone ma continuava a vorticare in aria, raddoppiando l'effetto della foschia che cercava rabbiosamente di accecare e confondere. Laddove la strada militare costeggiava una radura, il vento scaraventava secchiate di pulviscolo ghiacciato contro le truppe che scortavano i negoziatori. I cavalli procedevano a testa bassa, con lo sguardo a terra, e gli uomini si avvolgevano nelle sciarpe e nei cappucci dei mantelli per evitare il taglio del gelo. Lungo il fiume, gli spiazzi di terreno rimasti verdi fino a stagione avanzata svanivano sotto la burrasca; un sole tanto piccolo e trasparente da sembrare spettrale veleggiava sopra gli strati sottili di nuvole che si sbrindellavano nella tramontana. Elio aveva attraversato tempeste peggiori, in Pannonia e altrove, ma non prendeva mai alla leggera il tempo invernale. Non si potevano seguire tracce, su quel tipo di neve, e l'unico vantaggio era che il proprio cavallo passava inosservato. I soldati del Sud tossivano e tiravano su con il naso, alcuni di loro il mattino sarebbero stati malati.
I quattro negoziatori - per coincidenza Decimo era l'unico che Elio conosceva, e l'ufficiale più anziano fra loro - cavalcavano fasciati nei loro mantelli, ma si tenevano abbastanza liberi da essere in grado di sfoderare la spada, se necessario. Era improbabile che il nemico non li stesse osservando dall'altra riva. Le trattative si sarebbero svolte nel pieno dei preparativi per la guerra, e non c'era modo di dire quali gruppi e quali clan avrebbero potuto prendere le parti gli uni degli altri. «Nemico» era il termine comunemente usato dall'esercito per descrivere i barbari sul campo, a prescindere dalla complicata nomenclatura tribale delle masse che premevano alle frontiere. Dai veterani dei tempi di Aureliano si sentiva dire che i barbari comunicavano fra loro scambiandosi richiami di animali, ma per esperienza Elio sapeva che si trattava di un'altra leggenda da reduci. L'aveva sentito fare solo una volta, e comunque molto più lontano, in Armenia. Il silenzio improvviso degli uccelli nei boschi, quello era un segnale di cui tener conto, perché nove volte su dieci indicava un movimento ostile fra gli alberi. Per il resto, l'addestramento lo rendeva vigile, sensibile a quanto i suoi sensi captavano; non ignorava alcun segno, ma valutava senza paura ciascuno di essi. Alla seconda ora del mattino, su acque che scorrevano nere fra i ghiacci, i negoziatori passarono un ponte fortificato che portava al burgus, una torre di tre piani sulla minacciata sponda destra del Danubio. Gli appuntamenti con i capi delle tribù difficilmente si basavano sulla puntualità, ma le controparti dei romani erano fin troppo in ritardo. In quella che era diventata una bufera, i quattro ufficiali rimasero ad aspettare per ore nel presidio di Aquae Mortae. «Non gli piace entrare nelle fortificazioni romane», scherzò Decimo. «Scommetto che sono lì fuori a congelarsi le natiche, aspettando che li incontriamo all'aperto. L'hanno già fatto in passato. Cosa pensate?» Elio parlò solo perché il collega gli si era rivolto direttamente. «O è così, oppure hanno deciso di non negoziare.» Trovarsi di fronte Decimo, dopo il loro ultimo incontro, gli dava una sorta di triste disgusto, per il modo in cui nascondeva il suo folle piano con un'arroganza baldanzosa. «Potrebbe esserci un attacco», aggiunse deliberatamente, guardandolo dritto negli occhi. Il ghigno di Decimo si mutò in una smorfia. «Credo stiano aspettando la nostra prima mossa.»
Verso mezzogiorno un soldato fu spedito in ricognizione. I boschi intorno al burgus erano stati sgombrati, ma alle loro spalle c'erano settimane di foreste. Misurata in base ai giorni necessari per attraversarla, la landa boscosa si estendeva pressoché ininterrotta da lì alle regioni inesplorate, punteggiata da cornici montane e burroni, segnata dalle impronte degli animali, gli unici indizi nel labirinto. Elio andò al piano di sopra per osservare le figure del soldato e del suo cavallo sparire, assorbite dal muro impetuoso di neve. Nella solitudine della piccola stanza in cui il candore accecante dell'esterno filtrava attraverso le finestrelle a fessura, l'attesa era meno greve. Alla fine pensò che fosse ora di tirare fuori la lettera di Anubina dal suo involucro e srotolarla. I suoi occhi incontrarono la mano ferma e capace di lei, i tratti piccoli e puntigliosi di una donna orgogliosa di aver imparato a scrivere. Al comandante Elio Sparziano da Anubina, scritta con l'aiuto di Thermuthis per metterla in una miglior lingua. Caro Elio, spero che la mia lettera ti trovi in buona salute e felice. Io sto bene, e così Thaesis, il cui migliore amico al momento è il cane che le hai lasciato a ottobre. Sirio non è un animale di grande intelligenza, ma ha un buon carattere ed è affettuoso. Thermuthis dice che così dovrebbero essere i mariti... La lettera proseguiva per un altro paragrafo con il solito aggiornamento di persone e cose, ma furono le linee più in basso a catturare l'attenzione di Elio. Sappi che per tutto il tempo in cui abbiamo vissuto insieme, una volta al mese, quando eri via, al bordello - non a quello di Thermuthis, la casa di Isidora di Alessandria (Elio intuì che era stata Thermuthis a suggerire che fosse aggiunta la spiegazione, per tutelarsi) - ho giaciuto con un altro uomo. Non un romano, non un soldato, nessuno che tu conosca: ogni volta un uomo diverso, bastava che fosse un contadino, un apprendista vasaio, un pescatore. Non per tradirti, ma perché volevo essere sicura che se fossi rimasta incinta non si sarebbe potuto dire che il bambino era tuo. Non ti serve questo tipo di complicazione, e neppure a me. Sono stata la figlia di un soldato: non lascerò che mia figlia ne abbia uno per padre, per quanto importante come te. Thaesis è troppo scura, troppo ordinaria per essere tua. Alta, sì, ma i bambini si fanno sempre più slanciati di questi tempi. C'è una mezza dozzina di uomini ad Antinopoli cui assomiglia. Fra tre anni comincerà a lavorare con me, imparerà a guadagnarsi da vivere da sola e sarà in grado di scegliere liberamente il suo uomo. Da qui ad allora,
andrà a scuola e imparerà non solo a scrivere, ma a far di conto, e tutto il resto. Le signore che sono tali grazie ai loro mariti o padri non sono più libere delle donne povere. Fin qui ho scritto con l'aiuto di Thermuthis. Ora aggiungo queste parole con la mia voce: possano gli dei Serapide e Giove Ammone, Afrodite-Hathor e specialmente la nostra Signora Benedetta, Iside, vegliare su di te e proteggerti. Quando sceglierò un marito mi accerterò di chiedere la tua approvazione. Quando nasceranno i miei figli maschi, te ne manderò notizia. Per favore, fa' lo stesso quando ti sposerai, e quando nasceranno i tuoi figli. Scritta di suo pugno da Anubina nelle stanze di Thermuthis ad Antinopoli, il giorno dopo le Calende di gennaio, diciottesimo giorno di Mechir. Il sibilo del vento attraverso la finestrella gli sferzò contro uno sbuffo di neve, come se qualcuno avesse soffiato acqua e ghiaccio lungo una cannuccia. Elio era immobile nella raffica gelata quando la testa di uno dei suoi colleghi spuntò dalla porta. «Curio Decimo vuole che andiate fuori con lui. Il soldato riferisce che i barbari si sono fermati in una radura a un miglio nei boschi; sembrano nervosi, e stanno aspettando.. . Vi sentite bene?» «Sto bene.» Di sotto, Decimo aveva indossato di nuovo il mantello. Sollevandosi il cappuccio sopra la testa, disse: «Non si fidano di noi. Dobbiamo incontrarli lì dove si trovano o niente. Dato che parlate la lingua, Sparziano, andiamo a vedere se riusciamo a convincerli a seguirci qui». Elio si allacciò la cintura in silenzio, sistemandosi la cinghia sul petto, dove incrociò il fodero sulla sinistra. La lunga spada di cavalleria, dall'elsa in acciaio e avorio, ricadde perfettamente allineata all'ascella. La precisione dei suoi gesti celava il dolore confuso che provava per le parole di Anubina, il cui pieno significato - per pietà del caso - avrebbe dovuto considerare in un altro momento. La neve cadeva silenziosa e pesante in cortile; perpendicolare, visto che il vento stava calando. Usciti dalla piccola porta nelle mura perimetrali, gli ufficiali seguirono le tracce del soldato, che si stavano riempiendo in fretta, fino al confine oscuro dei boschi e al loro interno.
Il terreno si alzava lievemente, pietroso sotto la neve, e gli abeti crearono un crepuscolo improvviso intorno a loro. Avevano percorso senza parlare due terzi della strada quando Decimo disse a Elio, come se non ci fossero in gioco faccende più urgenti: «Temo di aver usato la tattica sbagliata con voi l'altra sera». La sua voce era calma, amichevole, priva della minima traccia d'ansia. Eppure i suoi anelli e la sua lussuosa bardatura non dovevano essere molto diversi da quelli del suo avo mentre entrava nella foresta di Teutoburgo. Elio, dal canto suo, avvertì la fitta della tensione, appena sotto l'allarme. Incolpò il pensiero di Teutoburgo e l'accenno infido a essa del collega, non ciò che poteva minacciarli dai boschi. «Dopotutto siamo uomini pratici», proseguì Decimo, «anche se siamo stati formati da filosofi. Oserei dire specialmente perché siamo stati formati da filosofi, Sparziano, visto che con tutto il loro cervello sembrano incapaci di permettersi una vita decorosa. Avrete il vostro vantaggio, se vi unite alla nostra causa. Siamo ricchi. Una sola parola, e chiunque di noi può darvi un latifondo in Sicilia o in Nor- dafrica, o qui, nel vostro cortile pannone.» «Vi vedrò nell'Ade, prima.» «Ben possibile.» Decimo annusò l'aria gelida. Sotto gli alberi la nevicata si interrompeva, rarefatta. Sembrò divertito dalla reazione di Elio. «E la vostra ultima parola? D'accordo, questo è quanto, allora. Sono un uomo di mondo, posso sopportare un rifiuto. Siamo ancora colleghi, con un negoziato che ci aspetta e una guerra da combattere.» «Voi non capite. Io vi denuncio.» «Ah! Per soccombere con noi, insieme alla vostra famiglia? Pensateci.» «Io denuncio voi e i vostri.» Un miglio nei boschi, le tracce del soldato erano svanite del tutto. Il luogo sembrava intatto, primordiale. Eppure una chiazza più bianca fra gli abeti bianchi e neri, come un assaggio di luce del giorno, indicava che la radura era proprio di fronte a loro. Al passo, gli ufficiali condussero i cavalli fino al margine dello spazio aperto, dove la neve scendeva fitta e regolare. Nessuno in vista, nessun suono. L'altura all'altro capo della radura era il punto in cui i barbari erano stati visti in sella. A sinistra, dove gli abeti si facevano più scabri e radi, un crinale coperto di neve attirò l'attenzione di Elio. Quel lato doveva essere delimitato da un fosso o da un
burrone. Il silenzio intorno era assoluto, rotto solo dallo stridio dei finimenti quando i cavalli si muovevano sul posto. Un silenzio eccessivo, carico di aspettative. La prudenza suggeriva di tornare indietro, rientrare al burgus e concludere la giornata. Inaspettatamente Decimo spronò il cavallo, facendo volare neve fin sopra i garretti della bestia. Un movimento disordinato per un soldato di carriera, stava pensando Elio, e nello stesso momento vide i cavalieri nemici irrompere da dietro gli alberi alla loro destra. Nel giro di pochi secondi, ogni cosa divenne freneticamente immediata, automatica, come impugnare e sfoderare la spada, cercare lo spazio aperto in cui manovrare e reagire, per quanto disperatamente, all'attacco. In quei secondi Elio non percepì alcuna paura da parte di Decimo: solo un opportunismo gelido, gongolante, mentre con uno strattone sicuro alle redini controllava la testa del cavallo, lo faceva voltare in un vortice di neve e spariva alla vista. Circondato in mezzo alla radura, Elio si sentì trafitto da pensieri rapidi e brevi: tutto ciò che la sua mente aveva elaborato fino a un attimo prima si era dissolto, per tacere della complessa montagna di ragionamenti e ansie dell'ora precedente: sabbia che scorreva fuori da un sacco, senza lasciarsi nulla alle spalle. Era passato a una moltitudine di lampi che erano meno di pensieri: quadi o chissà quale altra tribù... no, non quadi. Hanno lance della cavalleria romana. Non c'è modo di fronteggiarli con una spada. Sono praticamente morto. La vita si era precipitata attraverso i suoi trent'anni per terminare qui. Nella rabbia continuò a governare il cavallo sovreccitato, colpì la lancia più vicina, la fece cadere dalla mano del nemico, ma non potè schivare il pungolo di un'altra alla sua sinistra; la trama rivettata della maglia cedette in un unico, piccolo punto, abbastanza perché la punta di ferro la attraversasse. Non sentì il dolore, solo il colpo; con un esperto movimento delle redini fece fare mezzo giro al cavallo. Fendenti irosi, dati e ricevuti, l'ansia aggressiva e disperata della preda fra i cacciatori. Evitando per un soffio le lance dall'estremità a foglia che convergevano su di lui, Elio cercò un varco nel cerchio mortale che gli consentisse un estremo tentativo di fuga, senza trovarlo, ma spronò comunque, quasi a caso, perché lanciarsi contro il nemico era meglio che aspettare di essere sventrato. Ai suoi fianchi baluginavano lame slanciate, rimbalzavano colpi sulla sella, il suo cavallo urtava con il petto massiccio quelli dei barbari, più piccoli e ispidi, gli occhietti sgranati; solo il contraccolpo al braccio destro gli disse che con la lama aveva colpito
il legno di uno scudo. Nella calca, le lance divennero d'impaccio. Sfrecciò finalmente fra gli uomini dai lunghi capelli che si affannavano ad attaccarlo e prese a sinistra. Da quella parte c'era il crinale; la neve cadeva a ondate contro la schiera brulla degli abeti, il vuoto al di là dei rami creava dislivelli e vortici bianchi. Elio immaginò una gola stretta, un crepaccio che gli avrebbe consentito di passare oltre; incitò il cavallo a prepararsi per il balzo. Volarono neve e sassi, gli abeti furono dietro di lui. Il cavallo intuì l'abisso sotto il ciglio e si rifiutò di saltare. Essere disarcionato non fu la parte più difficile; la parte difficile fu la caduta. La gola era un burrone profondo tra rocce bianche; in cima la neve ribolliva come fumo in un calderone. In quel calderone la sua spada fu sbalzata via, ed Elio la seguì a testa in giù contro le sporgenze. In un battito di ciglia il burrone si richiuse su di lui, divenne pietra. Un dolore nero e straziante lo strappò alla coscienza, lo risucchiò in un baratro più fondo, in cui si lasciò andare con tutto ciò che era, o che era stato. La neve tamponava il sangue. Attutiva il dolore. Eppure Elio cadde sulle ginocchia due volte prima di ammettere di non riuscire a stare in piedi; così supino rimase a guardare lo spettro della neve che turbinava in aria su di lui senza posarsi. La gola era molto più profonda di quanto sembrava dall'alto; il suo ciglio, con i denti delle rocce aspre che la sua stessa caduta aveva scoperto, sembrava un pezzo di cielo. Aveva la spalla lussata, o rotta; se si muoveva, il pericolo era che svenisse di nuovo. Al fianco, il dolore era più desolato dove la lancia aveva lacerato la cotta di maglia. Pensare lo affaticava, si limitò alla consapevolezza che i nemici non lo stavano guardando dall'alto, e che presto sarebbe stato pomeriggio. Quando riprese lucidità era quasi sera. Elio non ricordava di essersi trascinato fino a un punto protetto ai piedi del crinale, con l'intento confuso di riposare e poi cercare la pianura nella speranza di giungere al Danubio. Si mise un pugno di neve contro la ferita al fianco, troppo debole per coprire le tracce di sangue intorno a sé, che presto lupi e orsi avrebbero fiutato da lontano al buio. 14 febbraio, mercoledì. Secondo giorno dei Parentali, Festa dei Morti Nessun suono nelle vicinanze. Lontano, nella foresta, ogni tanto il brontolio del verso di un alce, come di un uomo che vomita. Poi, all'improvviso, uccelli che si levavano in volo con il fruscio di carta che si srotoli. Dall'intrico di rami la neve in eccesso cadde con tonfi sordi, il cielo al di sopra - dal ricamo di fronde che da lì
sembrava nero - era fra il blu e l'oro, scintillante, maculato. Elio non sapeva da quanto tempo avesse lasciato la gola, ma dall'alba si era perso. Durante la notte gli era caduto addosso il tipo di neve che diventa una crosta e si spacca in scaglie crepitanti quando la si spazza via. Fra gli alberi riusciva a vedere il candore
lucente
delle
pianure
oltre
i
boschi,
un
bianco
incandescente
controbilanciato dai tronchi scuri, dai rami cupi come le tenebre. Nessuna traccia del fiume, e probabilmente si stava dirigendo a ovest. Non avvertire molto dolore lo preoccupava. Non era un buon segno. Si sentiva lucido, eppure certe notti, dopo la fatica di una battaglia o una lunga marcia, aveva sognato con la chiarezza di un'allucinazione. Non sentire il male poteva significare che lo stava lucidamente sognando, o altro. In inverno si trovavano uomini morti apparentemente senza aver capito che la fine stava arrivando, come stessero dormendo. Ad altri avevano dovuto amputare gli arti, braccia e gambe in cui la sensibilità, per non parlare del dolore, era scomparsa. Quando si inginocchiò per alzarsi, comunque, il dolore 10trapassò come una seconda ferita. Elio ricadde pesantemente, urtò la pietra sotto la neve e si graffiò in viso. Il male, però, ebbe il merito di dirgli che era sveglio, vigile, e che il sangue continuava a scorrere in tutto il suo corpo. Se solo avesse potuto cogliere un barlume di fiume, indovinare un segno di presenza romana - il ciglio di una strada militare, una torre d'osservazione abbandonata, un muro di recinzione -, il resto sarebbe arrivato per deduzione. Aveva un'idea chiara della direzione che doveva evitare: Il Nord. Ma Est, Ovest, Sud... non aveva certezze in merito. Il confine era frastagliato, irregolare, le radure nella foresta imitavano gli spiazzi aperti delle rive del Danubio e confondevano il senso dell'orientamento. Cercare un punto rialzato sarebbe stato d'aiuto, anche se probabilmente significava allontanarsi dal fiume. Tracce di volpi, giovani lupi e cani selvatici si incrociavano in questo o quello spazio fra gli alberi innevati. Freddo, bisogno di mangiare, dissanguamento: non c'era tempo di pensarci. Elio camminò - barcollò, in realtà, strisciando ogni volta che per il dolore e la debolezza era impossibile stare in piedi, il braccio sinistro inutilizzabile - verso la direzione in cui l'incandescenza bianca segnalava il margine della foresta. La natura ingannevole delle distanze d'inverno, nei boschi, gli era familiare. Era consapevole di dover andare molto più lontano di quel che sembrava. La radura pareva allontanarsi
da lui, spostarsi a sinistra, perdersi dietro gli abeti scuri. Gli abeti si trascinavano ampie vesti e mantelli nati dalla neve, come se davanti a lui si muovessero altissime donne fasciate nelle loro stole. Ricordò le leggende delle Madri Pannone, le dee che appaiono fra gli alberi o si moltiplicano davanti agli occhi di chi sta per morire, una legione di donne torreggianti con volti invisibili, perché camminano sempre un passo avanti. La sua mente razionale gli disse che all'origine di quelle storie c'erano le visioni di uomini che avevano perso i sensi, ma fu una misera consolazione. Dopo molto tempo raggiunse il limitare del bosco. La coltre di neve intatta, ora che le nuvole si aprivano su chiazze di cielo terso, era più che accecante: come una deflagrazione bianca e silenziosa che lo obbligava a schermarsi gli occhi con il braccio destro. Una valle si apriva da destra a sinistra, più o meno da ovest a est. Il terreno saliva appena dopo la radura. Sul crinale si addossavano altre foreste; a destra, i boschi della pianura e dell'altipiano si univano, o così sembrava. Forse da quella parte c'era un valico, ma non c'era modo di dire se gli alberi fossero tanto fitti da impedire il passo. Ogni cosa - la gola, la foresta lunga settimane, il fiume invalicabile, i piedi delle montagne - poteva essere a est. Anche il grande fiume, il confine con Roma. Alla sinistra di Elio l'estensione della foresta che aveva appena traversato si accalcava nella radura come un esercito che, cacciatolo fuori, rimaneva ad aspettare che morisse. Ovunque, alberi: per quante ore, o settimane di cammino, Elio non poteva giudicare. Sfiorarsi le guance per sentire la crescita della barba e calcolare le ore passate dall'imboscata non avrebbe comunque aiutato molto. Elio era uno di quegli uomini biondi con il volto glabro; la peluria gli cresceva sulle labbra e sul mento, folta ma lenta. Fino a quando il tempo teneva c'era una possibilità di sopravvivere, forse rientrare. Con sé aveva della pietra focaia; se avesse trovato qualche ramoscello asciutto per accendere un fuoco, le possibilità di farcela fino a trovare un ponte o un guado, e riuscire a passare la frontiera, sarebbero cresciute. Altrimenti la determinazione non gli sarebbe servita a nulla: Decimo, Agnus, Casta, Anubina, sua madre: sarebbero rimasti nomi da denunciare, salvare, o amare; il suo dovere era come un nastro rosso che avrebbe potuto riportarlo indietro, se solo fosse riuscito a trovarlo. Nella radura la neve superava l'altezza delle ginocchia. Attraversarla sarebbe stato difficile anche nella migliore delle condizioni. Nel suo stato ci sarebbe potuto
volere tanto da far annuvolare di nuovo il cielo fino a una nuova nevicata, e a quel punto non avrebbe più avuto scampo. Per giunta, la radura portava verso nord. La foresta era più sicura; morire al suo interno sarebbe stato meno spaventoso che in quell'ininterrotto biancore. Elio tornò indietro. Si inginocchiò e scavò con la mano destra irrigidita vicino al tronco caduto di un albero, in cerca di schegge o corteccia secca, finché non si rese conto che era tutto ghiacciato o umido, e non ci sarebbe stato modo di accendere un fuoco. Le immagini andavano e venivano. Un momento era la giara di rame in casa di Anubina che rifletteva il sole africano; un altro era un mantello rosso che si trascinava, si trascinava, un mantello come quello che aveva dato al mendicante a Porta Argentea, o i polsi pallidi di Casta che si protendevano verso di lui dall'ombra, per attirarlo. Una parte di lui era perfettamente consapevole del fatto che giaceva nella neve, della gravità estrema della sua situazione, un'altra era libera di muoversi ed essere altrove; riusciva a vedere sua madre raccogliere monete d'oro dalla terra, poteva avvertire il profumo dei giardini egizi, sentire il tuffo delle code dei coccodrilli nel Nilo. Il vento soffiava fra gli abeti, e se un'altra notte l'avesse sorpreso all'aperto, sarebbe stata la sua ultima. Gli parve di vedere la capanna al mattonificio in cui era morto Lupo, una lunga fila di uomini e donne accorsi a guardare l'uomo dei miracoli, con le donne che restavano indietro per blandirlo, offrirgli doni, chiedergli della sua risurrezione. Avevano nastri rossi fra le mani, come quello che Elena una volta si era passata fra le cosce per sedurlo. Vide il giudice Marcello nella sua vasca insanguinata, come Agamennone trucidato dalla moglie; Marcello aveva i tratti di Costantino, e la moglie il volto di Casta. Sua Divinità portava un mantello rosso, o forse era il mendicante che gli aveva predetto la buona sorte sul ponte. Ma non era passato per i crocevia? L'anima di suo padre gli si era attaccata, e voleva nipoti in cambio della sua vita. Casta danzava come le ragazze alla festa di Decimo, e Lupo il fabbricante di mattoni ballava insieme a lei. Il mantello rosso andava e veniva, strascicato come sangue nella neve. Al mattonificio, una donna del bivacco gli lanciava un'occhiata e si copriva il capo. Anche lei aveva il viso di Casta. Il mantello rosso si allargava come un fuoco; al di sotto, i piedi scalzi del mendicante si erano trasformati in stivali.
Un piede lo rivoltò. La faccia del barbaro fu sopra di lui. Gli occhi del barbaro, distanti e grigio chiaro, erano tutti malizia e gioia. «Sparziano, figlio di puttana.» Peggio di un barbaro, era Sido. Si accovacciò nella neve, gridando «Sparziano, dannato figlio di puttana! Guardatemi. Guardatemi! Tenete gli occhi aperti. Guardatemi.» Il cielo del tardo pomeriggio sopra di lui sembrava accecante, anche se le stelle erano già puntate a un'altezza impossibile sui rami folti degli alberi scuri. Le tuniche lunghe fino ai fianchi chiuse da cinture, braghe e stivali, gli speculatores dai mantelli e dai copricapi in pelliccia gli stavano intorno, un cerchio di lupi. Uno di loro passò la suola nella neve insanguinata, un altro disse: «È un miracolo che non siano arrivati gli orsi a finirlo». Sido gli sollevò la testa. «L'ultimo uomo sulla Terra che avrei voluto salvare, ma mi dà soddisfazione.» Gli tirò uno schiaffo secco. «Ditemi se lo sentite. Numi, se mi dà soddisfazione! Ecco, bevete.» Vino caldo si materializzò in una coppa che gli fu portata alle labbra. «Piano, bevete. Curio Decimo vi ha lasciato nei guai, eh? Il vostro cavallo è riuscito a rientrare da solo. Ha più buon senso di voi.» Elio
aveva
una
vaga
consapevolezza
del
suo
stesso
tremore.
Gli
ammonticchiarono addosso delle coperte, mentre accendevano un bel fuoco. Il battere di denti nella sua testa gli impedì di sentire le parole che cercava di pronunciare. «Lo so», rispose Sido a qualunque cosa avesse detto. «Lo so. Frugi era un mio uomo. Nell'istante stesso in cui è arrivata notizia della sua morte a Celeia, ho saputo che era stato assassinato. Semplicemente non sapevo chi fra voi l'avesse ucciso. Poi Elena mi ha detto che vi aveva infiltrato per proteggere gli interessi del figlio: non lascerò che siate l'unico a cui dovrà essere grata.» Elio avrebbe voluto dire che non era affatto vero, ma lo stava prendendo un gran torpore. Lo obbligarono a bere. «Come avete potuto andare da solo nei boschi con Decimo? Se non vi avessero teso un'imboscata i nemici, vi avrebbe fatto fuori con le sue mani, visto che lo avevate minacciato. In un modo o nell'altro, non avreste dovuto sopravvivere a questa missione. Ora dovete dirmi dove trovarlo. E sparito, e voi siete un testimone. Se sapete dove può essere scappato dovete dirmelo, è vostro dovere farlo.»
Buttar giù il vino caldo era così consolante che Elio ebbe la tentazione di chiudere gli occhi di nuovo e lasciarsi andare. Ma Sido continuava a scuoterlo: «State sveglio, non fate così!» Qualcun altro gli sfregò le mani, lo pizzicò sulle gambe. Ci volle un'ora per riportarlo alla lucidità. Gli diedero qualche boccone di galletta, piccoli sorsi di altro vino caldo. Doveva aver perso conoscenza nel momento in cui gli ridussero la lussazione alla spalla, perché non sentì il dolore, ma dopo riusciva a muovere un poco il braccio sinistro, che gli faceva molto meno male. Al buio il fuoco si levava alto. Sido era in piedi di fronte alle fiamme, una figura possente a braccia incrociate che ascoltava le parole di Elio. «Sì, va bene, va bene», lo interruppe con impazienza. «Non ho tempo di ascoltare tutto questo. Gli omicidi sono un altro paio di maniche, specialmente quelli compiuti altrove. Lasciamoli perdere. C'è un solo colpevole che voglio catturare, ed è Curio Decimo. Non riusciamo a trovarlo. I suoi colleghi sono stati fermati ieri a Carnuntum. Non vogliono rivelare dove si trovi, o non lo sanno; credo non lo sappiano, altrimenti glielo avrei fatto sputare. Dovete dirmelo.» Elio si tirò su a sedere. La vita gli scorreva di nuovo dentro, la mente correva sempre più veloce. «Be', non lo so nemmeno io, dove si trovi.» Il punto più vicino per varcare la frontiera con il territorio romano non era il burgus. Dagli speculatores, nella cavalcata di ritorno, Elio seppe dell'incursione contro Aquae Mortae che aveva seguito l'imboscata. Era stato un incidente di poca importanza, concluso con la ritirata del nemico, ma nella confusione nessuno aveva dubitato di Decimo quando aveva riferito della morte del collega. Era stata la manciata di negoziatori barbari a compiere il gesto di buona volontà di informare le autorità romane; avevano assistito all'imboscata dai boschi dove si erano rifugiati e l'avevano raccontata al comandante ad Ala Nova. Sido si trovava lì, sulle tracce di Decimo, e aveva usato l'informazione per cercare il suo testimone nelle foreste barbare. Vicino ad Ala Nova Sido ed Elio passarono il Danubio e furono in territorio sicuro, diverse ore dopo che Curio Decimo aveva lasciato la frontiera verso una destinazione ignota.
Gerulata, 15 febbraio, giovedì. Lupercali, Festa della Lupa
«Cosa ne pensate? Per oltre un anno ho tenuto d'occhio il giudice Marcello, che con la sua vantata onestà ha accumulato più minacce e antipatie di qualunque giudice accomodante io abbia conosciuto.» L'acume che Sido aveva dimostrato nell'ascoltare il racconto di Elio sulla Confraternita di Catone si mutò in nervosa impazienza ora che parlavano d'altro. «Non c'è modo di proteggere qualcuno giorno e notte, specialmente quando non vuole essere protetto. La sua uccisione non è stata una grossa sorpresa. Comunque mi ha offerto l'opportunità di scoprire chi - fra tutti quelli che gli avevano giurato vendetta - era riuscito nell'intento. L'ultima cosa che mi serviva, Sparziano, era uno come voi che si impicciava delle indagini. Che le vostre credenziali di inviato di Cesare fossero o meno accettate da Sua Serenità, dovevate essere fermato nell'unico modo che conosco: con una lezione, arrivando a tanto così dall'ammazzarvi. Voi avete avuto una reazione esagerata, quelli che avevo assunto hanno abborracciato tutto, ed è stato necessario eliminarli. Il macellaio greco avrebbe potuto vivere, se non aveste ficcato il naso nel ruolo di quel ritardato del suo garzone nell'aggressione ai vostri danni. Mi avete obbligato a liberarmi anche di lui, quindi l'ho aggiunto alla lista dei cristiani da giustiziare. Uno più, uno meno, chi li conta?» «Quindi adesso è colpa mia se mi avete fatto aggredire e poi avete dovuto coprire le vostre tracce. Ma non avete trovato l'assassino del giudice, vero? Sapevate che non è stato Protasio.» «Certo che no. E stato quel traditore del vostro collega Decimo. Il suo rancore verso Marcello era noto. Aveva i mezzi per farlo; ha fornito i mattoni e gli operai per il cantiere vicino alle Vecchie Terme. I suoi uomini avevano il vantaggio della prossimità: uno chiunque di loro avrebbe potuto uccidere il giudice, e ho in animo di farli torturare tutti finché il colpevole non sputa una confessione.» «Vi sbagliate di nuovo.» Nel cortile dello spaccio dell'esercito, Elio supervisionava la preparazione del bagaglio della sua sella. Malgrado la ferita al fianco fosse lieve e la spalla dolorante stesse guarendo, aveva richiesto cinque giorni di congedo malattia per recuperare l'energia necessaria all'imminente campagna, e per altre ragioni personali. «Sprechereste il tempo del carceriere. Non è stato neppure Decimo.» Sido mugugnò. Nel suo mantello di lupo, con due teste d'animale che gli ricadevano sulle spalle, sembrava una creatura ibrida dei boschi, nemmeno troppo amichevole. «Sciocchezze.»
«Al contrario. Non aveste avuto tanta fretta di eliminare la squadra di schiavi cristiani alle Vecchie Terme, avreste scoperto che uno di loro era davvero l'omicida di Marcello: ma ha agito su commissione.» «Sì, di Decimo!» «No, della cugina di Decimo, Annia Cincia.» Sido alzò le mani, e le teste di lupo sembrarono vive, pronte a morderlo sul collo. «Cosa? E chi sarebbe lei? Cosa ha a che fare con questo?» «E una lunga storia. Ce l'avevo piuttosto chiara in testa una settimana fa, quando ho incontrato il suo vecchio compagno, la Voce del fuoco, nel Barbarico. Fino a quel momento ero incerto delle mie intuizioni: pensavo ancora che dietro a tutto - alla morte di Lupo, fabbricante di mattoni di Treviri, come a quella di Marcello - potesse esserci Agnus. Di certo è illuso e arrogante a sufficienza da rigirare gli eventi a suo favore. Ma - peggio ancora - è un ciarlatano truffatore e un farabutto, non un assassino. L'ho sentito sbrodolarsi nell'adulazione di sé, poi gli ho dato la mia versione dei fatti. Non ha mostrato aperta sorpresa quando gli ho esposto la mia teoria, quindi al principio ho pensato che non ci credesse e se la stesse scrollando di dosso. Ora mi azzardo a dire che è stato colpito forte, nel profondo. Il suo stesso fuoco alla fine si è rivoltato contro di lui; ha una responsabilità in quello che è successo. Da parte di Annia Cincia - o Casta, come si fa chiamare - c'è stata invece una formidabile serie di mosse astute, governate da una pura tattica femminile. Ha fatto in modo di trovarsi dove avvenivano gli omicidi, ma restando invisibile, e non ha esitato a provocare morti collaterali per colpire le vittime designate.» «Sciocchezze», tenne duro Sido. «Ma se così fosse, qual era il suo piano?» «Qual è il suo piano, volete dire. Diciamo che il suo intento ultimo è far scendere la mano pesante della giustizia romana sul presente delle gerarchie cristiane. Conservatorismo? No, niente del genere, Sido. La signora stessa è una cristiana.» «Non capisco.» Sido osservò Elio montare in sella con qualche difficoltà, ma non gli offrì alcun aiuto. «Non sono certo di volerlo capire. Se i cristiani si ammazzano gli uni con gli altri, mi risparmiano la fatica. Quello che voglio è Decimo, e nel momento stesso in cui rientrerete dalla licenza mi aspetto che mi forniate un rapporto scritto e dettagliato del piano balordo di quei maledetti traditori. Per catturare un'assassina ci sarà tempo.»
Elio si passò le redini intorno al pugno sinistro. Stava pensando a quella mattina a Treviri, mentre cavalcava verso il mattonificio e osservava quei pellegrini accovacciati nei campi. «Non questa. Credo che il Fato stesso mi abbia fatto trovare un indizio alle Vecchie Terme, sulla parete in cui un cliente annoiato ha inciso il verso di una tragedia greca: Ahimè, ahi! Vedi, vedi! Tieni, tieni lontana dal toro la giovenca...» «Cosa?» «Lo dice la veggente folle Cassandra, predicendo l'assassinio del re ai bagni per mano della regina. Io credevo che fosse la giovenca a doversi tenere al sicuro dal toro, non viceversa.» «Non so cosa vogliate dire, parlate per enigmi.» «Ebbene, avrei dovuto pensare che anche dietro l'uccisione di Marcello ci fosse il disegno omicida di una donna. Non vi preoccupate, ve lo spiegherò per iscritto, Perfettissimo. Ma a meno che non le mettiate i vostri uomini alle calcagna - e potrebbe essere già troppo tardi - ci sfuggirà fra le dita come ha fatto in passato.» C'era una strada - meno di una strada, in realtà, una traccia che seguiva la riva di un torrente stagionale - che da Savaria, in maniera tortuosa, costeggiando due tratti di foresta, portava fin sopra le colline. Da lì, imboccare un sentiero in direzione della villa isolata di Decimo sarebbe stato facile. Eppure Elio non seguì quel percorso. Ne prese uno più lungo, non tracciato, che dalla tenuta dei suoi genitori seguiva stradine lungo i confini di altre proprietà, rasentando muriccioli bassi di pietre senza calce, incrociando boschetti e piccoli corsi d'acqua. Per le ultime poche miglia cavalcò in una terra non marcata, una landa selvaggia che portava i segni di antiche coltivazioni. La neve si trasformò in fanghiglia sotto una pioggia gelida, il buio calò prima del suo arrivo. Gli schiavi lo lasciarono entrare senza fare domande, quindi Decimo doveva aver dato loro una descrizione del collega e il permesso di aprirgli. Il romano era seduto nella sua biblioteca, più piccola di quella di Mediolanum, ma, come Elio ricordava dalla notte in cui gli era stato prestato il panegirico di Severo, ben fornita e accogliente. Sugli scaffali pendevano tende impeccabili, per proteggere i libri dalla polvere. Decimo non si levò in piedi né parlò quando Elio comparve sulla soglia. Alzò gli occhi. In un istante tirò la somma dei momenti frenetici in cui si erano visti l'ultima volta, risolvendola; la rabbia personale che Elio si aspettava di provare a quel punto non si materializzò. Non arrivò neppure a montargli in gola. Non ricordava di averla elaborata nel suo viaggio fin lì, o nelle ore di convalescenza che l'avevano
preceduto; semplicemente rimase dov'era, in un punto interiore tanto profondo da non esistere quasi. «Non c'è proprio modo di sbarazzarsi di voi.» Decimo sembrava più vecchio di anni; di secoli, volle pensare Elio, come se il peso delle ere impossibili da resuscitare gli fosse collassato addosso tutto insieme. Il tentativo di fare dell'ironia era come trucco sul volto di un defunto. «Non volete accomodarvi?» «No. Sido vi sta cercando. Non sa dove siete, e non credo che i suoi uomini mi abbiano seguito fin qui. Ho lasciato il mio cavallo per una delle bestie di casa non ferrate; e per quanto ne sa lui, io sono da mia madre. Ma è una questione di tempo.» «Non necessariamente.» Decimo stava scrivendo, non leggendo. C'erano già delle lettere arrotolate e sigillate sulla sua scrivania. «Questa proprietà è registrata a nome di un altro. Gli schiavi sono fedeli. Sido e i suoi tirapiedi potrebbero compulsare il catasto della regione per settimane senza trovare alcunché. Il fatto che lo sappiate voi è il problema... per voi, intendo. Io sono al di là di ogni problema.» Elio accolse quelle parole senza difficoltà. Se le aspettava. Tutto sommato era il motivo per cui nemmeno il suo disprezzo politico nei confronti di quell'uomo aveva più motivo di essere. «Avete deciso quando farlo, e come?» «Due domande in una, due risposte in una, Sparziano: molto tempo fa, e stasera.» «Posso essere d'aiuto in qualche modo?» Decimo fece una smorfia. Per un attimo il divertimento riuscì a sollevargli gli angoli della bocca stanca e curvata al- l'ingiù. «No, grazie. Non sono esattamente Nerone, e voi non siete esattamente il mio pietoso liberto. Tenere la mano di un suicida è un gesto privo di gusto.» «Francamente pensavo voleste fuggire in una delle province più lontane.» «Oh, non vi azzardate a suggerirmi le province, Sparziano. La vita nelle province non è vita. Ho dovuto sopportare Mediolanum per tre anni, e prima ancora era passata un'eternità da quando avevo potuto posare gli occhi su Roma. Mi duole soltanto di dover morire lontano dall'Urbe, così ho scelto la seconda miglior cosa da fare.» Senza muoversi dalla sedia scostò la tenda alle sue spalle. Non c'erano scaffali, lì, solo la parete, e un affresco su di essa. Su uno sfondo nero, come notturno o di
tempesta, era illustrato un panorama di Roma. Elio riconobbe il Campidoglio, l'imponente tomba di Adriano sul Tevere, i circhi e i templi. Era dipinto in un color pane dorato, come fosse una torta a forma di Roma, una gran prelibatezza da consumare. «Volete che resti?» «Come desiderate.» Da un cassetto della sua scrivania Decimo estrasse un bisturi chirurgico e lo posò con calma di fronte a sé. «Aprite l'armadio e guardate dentro», disse indicando un piccolo mobile alla destra di Elio. «Le ho pagato il viaggio per l'Africa. Potete tenerla.» Nell'armadietto c'era una statuetta d'alabastro che ritraeva una donna, giovane, dagli occhi grandi, con una bocca ferma, piccola e squisita. Elio la riconobbe senza chiedere, senza dire. «L'ho corteggiata, quella cagna, ma non ha voluto sposarmi. Si è presa quel vecchio stolto di Pupieno, invece.» «L'amavate e siete stato respinto: ecco il vero motivo del vostro rancore per Annia Cincia!» Quando Elio si voltò a guardare, Decimo aveva girato la sedia verso la parete affrescata, e il bisturi era svanito dalla scrivania. «Non dite sciocchezze. Volevo la sua ricchezza.» Il gesto di recidersi i polsi fu rapido, quasi impercettibile da dove si trovava Elio. Decimo si limitò a una piccola smorfia quando lo fece. «E vostra figlia?» pensò di dover dire. Decimo mosse la testa da parte a parte. Elio non capì se fosse per respingere la questione, o perché non aveva nulla da dire, o che altro. Le sue spalle erano ancora dritte, il collo non mostrava debolezza. «E la vostra, di figlia?» fece eco alla domanda di Elio. «Non è mia.» «E dura.» Fino alla fine Elio fissò il collo del collega, l'assenza di tensione sotto i capelli puntigliosamente pettinati, la linea diritta dei tendini che a poco a poco cominciava a cedere, l'osso nodoso fra le spalle che sporgeva lentamente mentre la testa cadeva in avanti, le spalle si afflosciavano. Sul pavimento il sangue formò delle pozze ai lati della sedia, una pendenza infinitesimale lo fece serpeggiare sotto la scrivania. Elio attese l'ultimo moto convulso
della fine, un crollo che si avvicinò per sostenere. Quando gli sollevò la testa, Decimo sembrò fissarlo; la carnagione olivastra non rivelò immediatamente la morte come sarebbe stato per un uomo rubizzo, ma la vita gli era scivolata via dagli occhi. Li chiuse, compose il corpo e rimase lì qualche momento prima di chiamare gli schiavi. Sido e i suoi uomini comparvero sulla porta di casa della madre per controllarlo prima dell'alba, quando Elio era appena rientrato. Giustina, già in piedi, li ricevette, dandogli il tempo di spogliarsi e infilarsi nel letto. «Mio figlio ha trascorso la prima notte di vero sonno dopo aver rischiato la vita oltre il fiume, e voi venite a disturbarlo a quest'ora? Avanti, controllate la sua stanza, il suo cavallo nelle stalle, svegliate la mia nipotina appena nata!» I vagiti insistenti della figlia di pochi giorni di Belatusa accompagnarono gli speculatores per tutta la casa, fino alla stanza di Elio. «Che c'è, è cominciata la guerra?» chiese lui girandosi sul cuscino. Sido in persona affrontò il fango fino alla stalla per esaminare il cavallo dell'esercito, i suoi finimenti asciutti, per scoprire che né quello né gli altri erano stati montati di recente. Tornò indietro con aria scontrosa, sfilando inconsapevole davanti al granaio in cui il cavallo non ferrato ed esausto masticava del fieno. A bassa voce disse: «Le mie scuse, signora, dovevamo essere sicuri», e lasciò la tenuta in gran fretta.
PARTE TERZA Ceneri
11 Intercisa, Pannonia Valeria, 22 febbraio, giovedì. Cara Cognatio, festività per risolvere le dispute di famiglia C'era già una nota acerba e fresca di primavera nell'aria, anche se ci sarebbero voluti ancora un paio di mesi prima che la neve si sciogliesse; ma era uno di quei disgeli passeggeri di febbraio, quando il ghiaccio romba spezzandosi nel grande fiume e cumuli di neve bagnata piovono sordi dai tetti. Un sole tiepido scavava il cielo nuvoloso come un bulino una pietra cedevole; ovunque un raggio sottile riuscisse a penetrare, la cosa o l'animale sfiorati sembravano incendiarsi di colore, qualunque il loro colore fosse. Elio andò a Intercisa per diverse ragioni, professionali e personali. Doveva guidare la trasferta di un'unità di arcieri a cavallo dalla città a Carnuntum, e capitava che i legali di sua madre, raccomandati dall'onnipresente ben Matthias, risiedessero lì. Ben Matthias in persona, che aveva ottenuto delle buone commissioni dall'esercito, disse a Elio che il caso era praticamente già vinto. «Non hanno niente cui appigliarsi, quei quarti di bue.» Si riferiva a Gargilio e Barga, sfregandosi le mani. «Cercare di derubare una vedova: terefah! Ma fai male a non reclamare la tua quota ereditaria; un uomo deve avere delle proprietà.» «A ogni modo, ho spedito a Nicomedia la mia copia della rinuncia alla successione. Da quanto tempo sei qui, Baruch?» «Una settimana.» «Significa che conosci già gli affari di tutti quanti, eh?» L'ebreo si lisciò modestamente la barba. «Non di tutti. Ho sentito che c'è stata una purga nell'esercito, fra i tuoi colleghi romani. Hanno tenuto la bocca sigillata fino al giorno dell'esecuzione, e Decimo si è dato la morte. Bah, comandante: il genere di balordo piano idealista con cui se ne escono gli aristocratici. Che altro? Ah, ho saputo che il nostro Perfettissimo Sido si è preso tutto il merito della denuncia della congiura, e monta la signora Elena giorno e notte.»
«Lascialo fare: si meritano l'un l'altra.» Elio conosceva bene Elena; la favola raccontata a Sido, per cui l'avrebbe infiltrato nella Confraternita di Catone, non era tanto intesa a salvarlo, ma a legarlo a lei politicamente, dichiarando ufficialmente la sua preoccupazione per la vita di Costantino. Ben Matthias equivocò l'irritazione di Elio. «Oh, ti lascerà infilare ancora nel suo letto, stanne certo.» Si voltò disgustato dalla porta quando passò un mercante di bestiame con dei maiali pronti al sacrificio agli dei di famiglia. «Oggi non metterò piede fuori, c'è in giro troppa impurità. Domani, invece, vado ad Aquincum, ma non per le ragioni a cui puoi pensare tu.» «A che ragioni dovrei pensare? Sono stato in giro per spacci dell'esercito fino a questa mattina.» «E il tuo vecchio spauracchio, comandante: l'uomo dei miracoli. Si è consegnato agli esploratori romani a Contra Aquincum ed è stato riportato da questa parte del fiume. È rimasto per tre giorni nella prigione della città, e promette che le bestie selvagge nell'arena rifiuteranno di sbranarlo, le lame non lo feriranno, il fuoco non consumerà le sue carni etcetera. La gente sta accorrendo in massa da ogni dove per assistere al miracolo della Voce del fuoco, anche se penso vogliano vederlo fatto a pezzi dagli orsi.» «Ha detto perché si è arreso?» «Sono forse una mosca sul muro del tribunale, comandante? Non ne ho idea. Forse ha saputo di essere stato sbugiardato, magari ha deciso di salvarsi la reputazione con una morte da martire, cosa che lo metterà al di sopra dei comuni mortali, facendo di lui un santo.» «Oppure si è reso conto della sua responsabilità indiretta in altri crimini.» Elio non elaborò il pensiero. «La sua assistente Casta era con lui?» «Non che io sappia. Se ci fosse stata una donna in procinto di essere giustiziata, la pubblicità sarebbe stata più chiassosa. Io vado ad Aquincum a comprare degli immobili. Un terzo della città è fatto da botteghe, sai.» A quell'ora Casta probabilmente si era imbarcata al porto dalmata più vicino, su una di quelle navi panciute che solcavano le acque del Mediterraneo. Non aver risolto le cose con lei (e che lei non le avesse risolte con lui) era un fatto di cui Elio avrebbe dovuto farsi una ragione. Non gli era sfuggita, in realtà: era solo fuori portata, per il momento. Il piccolo ritratto traslucido che Decimo aveva deciso di dargli - perché? - lo
legava a lei come un mezzo per riconoscere il suo volto, ovunque, in qualunque momento. «Stai ancora lavorando alla biografia di Severo, comandante?» La domanda di ben Matthias lo riportò alla realtà. «Un pezzo per volta, ma sì.» «Potrei venderti un'eccellente copia degli scritti di Aurelio Vittorio su di lui. Un prezzo equo: guarda, ci perdo addirittura.» «Quindi vendere a un prezzo equo significa perderci?»
Savaria, 24 febbraio, sabato. Regifugium, festa in ricordo della «cacciata dei re» Sì, a tutti gli effetti la campagna sarebbe iniziata presto. Un moto come un brivido impaziente avrebbe percorso la lunga linea di forti, cittadelle, torri d'osservazione, strade militari, e gli uomini avrebbero marciato al di là del Danubio. Perfino al quartier generale di Savaria Elio sentiva lo scalpiccio del fango sotto gli zoccoli dei cavalli, il cigolio del cuoio di finimenti, bandoliere, cinghie, il suono degli uomini che vanno alla guerra. Come sempre quando passava da una postazione militare si fermò a controllare la posta e mandare una risposta ad Anubina, in cui in sintesi le diceva di aver capito senza però perdere la speranza che lei cambiasse idea. «Pensa ai figli che avremmo tu e io: non vorresti che fossero miei?» Lo attendevano due lettere, nessuna delle quali portava sulla busta il nome del mittente e l'indirizzo. Una delle due era in papiro di seconda scelta, mentre quello dell'altra era di prima qualità, tinto di rosso. «Sai chi ha consegnato queste?» chiese all'impiegato. «Sono arrivate entrambe con la consegna del mattino, signore. Il corriere parte da Celeia, quindi potrebbero essere state imbucate laggiù o a Poetovio, o a Sala, o in qualunque luogo in mezzo.» La busta più modesta fu quella che Elio aprì per prima. Conteneva tre fogli scritti fitti, con mano rapida e in un buon latino. La prima riga lo fece quasi cadere per le scale dello spaccio militare, rese insidiose dal ghiaccio. Al Comandante Elio Sparziano, dalla serva di Dio Casta, siate benedetto in questo mondo e nell'altro.
Si precipitò attraverso la piazza d'armi verso la mensa ufficiali, vuota a metà mattina, e si sedette a leggere il più vicino possibile alla finestra, che riceveva luce dal cortile. Stimato comandante, vi scrivo in ricordo della vostra cortese visita alla casa della mia vecchia balia a dicembre, in memoria di Marco Lupo e Minucio Marcello, e in virtù della vostra ricerca della verità, anche se la verità come costruita dagli uomini, e non come insegnata da Nostro Signore, merita ben poco. L'arroganza è peccato, per gli idolatri quanto per i cristiani. Lalterigia conduce alla nemesi. Non posso permettervi di andar fiero dell'arresto della mia persona, ma posso soddisfare la vostra curiosità, ora che sono fuori dalla vostra portata. Attraverso i nostri compagni di fede, il mio maestro di un tempo Agnus mi ha mandato un messaggio poco prima della sua cattura, raccontandomi in dettaglio quanto gli avete detto incontrandolo nel Barbarico. In seguito alle vostre rivelazioni ha deciso di coronare il suo discutibile ministero consegnandosi alle autorità come martire. Non sono sorpresa dal suo senso di grandezza: si addice alla persona. Ma sappiate che quando ho conosciuto l'uomo dei miracoli, io gli credevo. Nella mia disperazione per la malattia di mio marito ero pronta a credere a qualunque cosa. Sembrava possedere la pace mentale cui aspiravo, la certezza di cui avevo bisogno. È stato un sacrificio da nulla, vendere o donare tutto ciò che possedevo, per guadagnarmi quella pace interiore. Tanto piccolo, in effetti, che io, un'aristocratica cresciuta fra i privilegi, mi sono offerta addirittura di servirlo. Mi sembrava l'azione più degradante, dunque più meritevole, che potessi intraprendere agli occhi di Dio. Accecata dalla fiducia, mi ci sono voluti parecchi mesi per rendermi conto di quanto ottuso e borioso fosse. Il amore di Agnus per la virtù non era altro che amore per il suo ego virtuoso. Le sue tecniche erano grette e trasparenti: qualche erba, molto incenso, un cantilenare monotono e occhi che roteavano. La credulità della gente e l'ingaggio di falsi storpi hanno fatto il resto. Ho visto saltimbanchi migliori a Laumellum, da piccola. Eppure la mia delusione avrebbe potuto essere temperata dalla vita pura dichiarata da Agnus, se non avesse riservato un tale disprezzo alle donne. Le sue lettere pastorali circolavano molto fra gli adepti, venivano citate e rispettate. Ovunque hanno prodotto il risultato di escludere le persone del mio sesso dall'aiuto nel ministero, creando restrizioni intollerabili in una Chiesa che sostiene di onorare la donna che ha dato alla luce il Salvatore!
«Comandante, posso portarvi qualche cosa?» L'attendente era accanto a lui, inopportuno come la maggior parte degli attendenti. Con la mente ancora sulla lettera, Elio lo fissò per un istante prima di trovare la prontezza di spirito per rispondere: «No, lasciami solo». Dovete sapere che avrei continuato a servirlo, non fosse appartenuto alle schiere di coloro che nella Chiesa, con l'arroganza di Nimrod, si pongono prima di Dio a spese degli altri. Dove sarebbe la cristianità oggi, se non fosse per le donne che hanno rinunciato ai loro mariti, ai figli, addirittura a se stesse per il vero e unico Dio? Non ci sono stati forse più martiri donne che uomini, non sono state più numerose degli uomini ricchi le donne devote che hanno aperto le loro case ai perseguitati, a loro rischio? Il Signore è il Signore, direbbero Agnus e i suoi. Ma, dico io, il Signore stesso è nato da donna. Non è stata Maria, la madre di Cristo, il primo ministro della Chiesa cristiana? I mesi della sua divina gravidanza sono un segno assoluto di questa perfetta unione, e di un privilegio che non è stato concesso ad altro essere umano. Ora, se Cristo si è concesso di essere fisicamente contenuto nel corpo di una donna, non è questo un segno della superiore sacralità della donna rispetto all'uomo? Se avesse deciso altrimenti, avrebbe potuto prendere dimora nel seme del padre putativo, o scaturire perfettamente formato da una roccia, come i seguaci di Mitra dicono del loro dio. No, ha scelto il corpo di una donna come veicolo della sua incarnazione. Eppure la comunità di donne presso la quale mi avete cercata a Treviri, dedicata alle opere di bene e allo studio delle arti guaritrici, è stata chiusa per la contrarietà alla volontà di Dio asserita da Agnus. Gli anziani della Chiesa gli hanno prestato subito ascolto, a Treviri come a Modicia e Mediolanum: le matrone sono considerate utili per il denaro che versano alla Chiesa, per i ricami che eseguono sulle vesti dei sacerdoti e niente altro, a meno che non vogliate contare i figli che possono crescere per il sacerdozio. Non mi era rimasto denaro, non avevo figli, né talento di ricamatrice. La mia bellezza, per quanto insignificante agli occhi di Dio, mi era d'ostacolo. Così ho mortificato la mia carne, ho digiunato fino ad ammalarmi. Dopo due lunghi anni, però, ho deciso che non poteva essere quello ciò che Dio voleva, che questa Chiesa non è quel che Dio vuole. È per tale motivo che quest'arrogante Chiesa fatta di questi
arroganti sacerdoti è da biasimare, da denunciare come fraudolenta laddove lo è. Non sono una santa, né uno strumento prescelto: ma lavorerò per cambiare le cose. L'ingresso di due ufficiali di cavalleria fece sbattere la porta, lasciando entrare una folata di umidità gelida. Elio voltò la testa, sentendoli conversare con l'inconfondibile cadenza dei nati a Roma. Era stata la parlata di Decimo. Strano che non si vergognasse di aver cavalcato fino alla sua villa solitaria per avvertirlo del pericolo, sapendo che il collega era colpevole di aver ordito un tradimento, e di averlo lasciato morire. Aveva provato molta più rabbia verso altri uomini, per molto meno. E ora, comandante, la questione del vostro successo nel perseguimento della verità, e dei nomi con cui ho aperto questa lettera: Marco Lupo e Minucio Marcello. Avete ragione, il miracoloso ritorno alla vita di Lupo è stata opera mia. Era necessario, in previsione della lettera anonima che avrei scritto in seguito per denunciare i raggiri di Agnus. Il più sorpreso della «resurrezione» è stato l'uomo dei miracoli. Si è purgato e ha digiunato per tre giorni, dopo, ringraziando Dio per avergli dato il potere di riportare indietro il morto, quando tutto quello di cui soffriva Lupo era una banale febbre. L'arroganza ha accecato il truffatore davanti alla più semplice delle truffe, alla facilità con cui si possono comprare un sonnifero, dei medici e dei becchini. Per quanto io stessa mi fossi ridotta in povertà, avevo accesso alla pingue borsa di Agnus, ingrassata dai doni di uomini e donne sciocchi come ero stata io. Lui non si sarebbe lordato le mani con del denaro! Tutto quel che ho dovuto fare, dunque, è stato comprare i testimoni e asserire di aver dato la somma in beneficenza. Il sant'uomo si considerava superiore al controllo di certi sordidi dettagli. Lupo, naturalmente, aveva tutto da guadagnare a mantenere un silenzio che lo ha reso improvvisamente famoso e ha portato molti affari al suo mattonificio. Ma doveva morire, in modo che Agnus e i suoi misogini colleghi venissero sospettati. Chiedere a un'amica fidata (e ignara) di portare in dono a Lupo delle prelibatezze è stato un gioco da ragazzi. C'erano tanti ammiratori e credenti in coda per vedere l'uomo dei miracoli! Convincerla a lasciare che mi umiliassi agli occhi di Dio scortandola al mattonificio in guisa di serva è stato ancora più facile. Nessuno fa caso ai servi. Così Lupo ha intrattenuto i visitatori fino all'ora di coricarsi, e la serva è rimasta lì con un pretesto, nascondendosi al buio, in attesa di sigillare la stanza con degli stracci. Come si sono rivelate utili le mie letture sulle cause di malattia e di morte... Sfortunatamente non avevo con me stoffa a sufficienza, quindi ho dovuto usare
anche la coperta di Lupo: infatti voi stesso avete notato la frangia sporca di terra. Al mattino gli stracci erano spariti, la finestra di Lupo era di nuovo aperta. La serva si è accovacciata fra le altre nel bivacco di pellegrine al campo vicino al mattonificio, e all'alba vi ha visto arrivare a cavallo, da solo. Anche voi avete guardato, e ci stavamo fissando quando mi sono tirata lo scialle sulla testa. Per questo non mi sono potuta mostrare a voi sotto la luce, a casa della mia balia. Quanto a Minucio Marcello, era un vecchio e caro magistrato e un amico della mia famiglia, il cui ultimo atto di generosità nei miei confronti è stato sacrificarsi come vittima, in modo che la misogina Chiesa di Mediolanum potesse essere punita come quella in Belgica Prima. Chi altri, se non i cristiani, infatti, avrebbero potuto essere accusati di averlo aggredito alle Terme, dove lavoravano schiavi di tale fede? Voi guidate gli uomini in campo, quindi sapete quanto i soldati siano sottomessi ai loro comandanti, quanto pronti a eseguire i loro ordini. Casta è meno della terra sotto i piedi di Dio, ho pensato. Ma Agnus cammina insieme al Signore. Cosa succederebbe se fra gli schiavi delle Vecchie Terme si diffondesse la voce che il prossimo processo di Marcello sarà contro la Voce del fuoco, che ha tuonato contro di lui nelle sue lettere pastorali? Sarebbe sufficiente a provocare un agguato? I cristiani delle province nordafricane hanno la fama di portare al loro nuovo credo l'impeto dei vecchi convincimenti tribali. Un febbrile incontro in uno dei loro nascondigli li ha scatenati oltre ogni mia speranza. Mi aspettavo solo un disperato tentativo da parte loro: hanno superato di gran lunga i miei sogni, uccidendo il mite giudice inviso ad Agnus. Di certo Nostro Signore riserva un posto non lontano dal suo trono per i miscredenti pietosi, ed è lì che Marcello si trova ora. I due ufficiali di cavalleria si sedettero a un tavolo dietro di lui. Elio li sentì ordinare del vino e chiacchierare in greco per non farsi capire dal personale della mensa. «Hai sentito che cosa avevano in mente? Sì, getterà un'ombra su tutti noi. Ora ogni maledetto arricchito rischia di essere promosso prima di noi.» «Già, e Curio Decimo è quello che mi ha turbato di più: chi avrebbe potuto immaginare che?...» Mi rammarico della sorte delle mogli degli uomini di Chiesa a Mediolanum, ma hanno compiuto la libera scelta di seguire i loro consorti in una morte da martiri. Nessuno di noi conta molto, io meno ancora di chiunque altro sulla Terra: la cosa importante è cambiare la Chiesa; il sacrificio di quelle mogli sarà un passo in più
verso il riconoscimento del ruolo delle donne come insegnanti e ministri. La caduta di Agnus è la nostra vittoria, l'estinzione del suo fuoco è la scintilla che ne accenderà uno più grande e brillante. Se l'aveste saputo, al tempo del nostro breve incontro a casa della mia balia, avreste comunque mantenuto il silenzio sulla mia presenza a Mediolanum? La questione mi dà da pensare. Voi, comandante Sparziano, mi date da pensare. Come vi comportate con le vostre donne? Le onorate o siete come gli altri, violenti e prevaricatori nei loro confronti? Confido che ci sarà per noi occasione di discutere queste faccende, se a Dio piacerà farci incontrare di nuovo. Quando riceverete questa lettera io sarò lontana, ma siatene certo, starò lavorando per il fine che vi ho illustrato sopra. Saluti, e preghiere al nostro caritatevole Signore per il vostro benessere e la vostra conversione. Scritto da Casta il X giorno alle Calende di marzo, in un luogo sicuro. Elio arrotolò la lettera senza fretta, senza fretta la infilò di nuovo nella sua busta. La caduta della Voce del fuoco, pensò, era iniziata il giorno del suo incontro con Annia Cincia. Forse il suo dio era più grande di quello di Agnus, e non era clemente quanto sosteneva. Forse i cristiani facevano concessioni alla truffa e all'omicidio per raggiungere i loro scopi. Perfino giustiziarli era utile al loro ambiguo disegno. Quella piccola bocca ferma, quei polsi squisiti che si arrendevano dal buio: avrebbe lasciato che lui la portasse a morire senza resistere. Lui non l'aveva fatto, eppure lei non aveva mentito dicendo: «Se doveste chiedermelo, non potrei dirvi che i cristiani sono innocenti per la morte di Marcello». Dietro di lui, gli ufficiali di cavalleria conversavano di questioni più lievi: le donne che conoscevano, i cavalli. Erano tornati al latino, e si abbandonavano al turpiloquio. La seconda lettera, quella nella preziosa busta rossa, Elio la tenne ancora chiusa di fronte a sé. L'indirizzo era scritto in greco. Riconobbe la grafia. La ceralacca esibiva l'impronta di un anello antico. Il servitore che l'aveva consegnata allo spaccio dell'esercito senza dubbio aveva avuto ordine di tenerla per una settimana circa prima di farlo. Fuori, la pioggia si era mutata in neve, poi di nuovo in pioggia. Elio notò il grigiore della giornata quando gli ufficiali romani uscirono dalla mensa. Ruppe il sigillo.
Se vi foste unito a me nella mia disperata impresa, Elio Sparziano, non starei scrivendo questa lettera. Scrivo perché avete detto di no. Nei due mesi della nostra conoscenza sono accadute molte cose. Fossero stati anni, non posso dire che sarei arrivato a conoscervi meglio. Forse è perché le ultime settimane delle nostre vite sono state così intense? In Italia e durante il nostro viaggio verso la frontiera vi ho osservato attentamente. Divertito, al principio, vi ho spiato per riconoscere i segni della rozzezza e dell'inciviltà che si sostiene i vostri selvatici avi abbiano eretto come un baluardo contro Roma. Mi sono detto: I suoi antenati hanno stuprato donne romane, saccheggiato città, inchiodato le teste degli ufficiali ai tronchi dei loro boschi d'abeti. È uno degli orsi ammaestrati che portiamo al guinzaglio, obbligandolo a ballare alla nostra musica, tirandogli l'anello alla narice. E per tutto il tempo, inevitabilmente, ho dovuto ammettere che il vostro comportamento non era meno beneducato di quello degli amici che chiamo romani. Il vostro latino non è solo chiaro: meditato e intelligente, seppure più moderno di quello che mi è stato insegnato in gioventù. Il vostro greco scritto - arrossisco nell'ammetterlo - è ancor meglio del mio. Non certo compiti che un orso ammaestrato potrebbe imparare a eseguire. Ma è stata la vostra essenza d'uomo, anche vista dal vortice della mia disperata cospirazione, l'elemento con cui avrei potuto contendere meno: il vostro senso della Storia, la vostra conoscenza di quel che ci ha preceduto, e del perché è accaduto in quel modo. La vostra familiarità con questioni romane che molti a Roma - dovrete fidarvi della mia parola al riguardo - invidierebbero, se solo si rendessero conto che c'è qualcosa da invidiare. A poco a poco, a dispetto del mio miglior giudizio, a dispetto di quella volontà, anche, che per voi stoici è l'unica cosa che appartiene all'uomo, sono giunto alla conclusione che Elio Sparziano - il figlio di Elio Sparto, i cui avi erano barbari e schiavi-è un romano. Di più, che Roma deve essere ciò che voi rappresentate, o svanirà dalla Terra. Come sapete, non ho figli maschi: nessuno, legittimo o illegittimo, è nato da me. Potreste dire (vi sento quasi dirlo) che è per via della decrepitezza del sangue romano, incrociato fino all'incesto, e oltre. Due dei miei avi hanno sposato le loro stesse nipoti, e sifavo- leggia che una giovane antenata, perduta in un naufragio da bambina e cresciuta in un bordello, solo dopo essere stata liberata e aver sposato il suo amato si è resa conto di essere la sorella di questi, a lungo dispersa. Ma
potrebbe trattarsi di un racconto adattato dall'opera teatrale di Plauto, chi lo sa. Sangue antico! Abbiamo idioti e pazzi, nella nostra genealogia. Ho sposato quattro donne - dei Valeri, degli Anici, dei Fabi, dei Corneli -, il fiore del sangue romano. E solo dalla seconda ho avuto una figlia, che avete visto, unico fra i miei amici. L'avrei uccisa, sapete. Eavrei uccisa per salvarla dalla perdita di suo padre. Ma mi ha fatto un secondo regalo, dopo quello della sua nascita, morendo un giorno prima di me. Osserverete (mi pare di sentirvi dire anche questo): «Perché allora non avete cercato una compagna plebea, o una donna delle province lontane dell'Impero?» Certo che l'ho fatto, come voi e tutti i soldati fanno durante gli anni di servizio. Che io sappia, neppure dalle mie concubine ho avuto figli. La mancanza dunque è in me, Elio. Il sangue e la gloria, la purezza e i valori repubblicani, gli incarichi di generale e di console, i seggi al Senato, tutto finirà con me a meno che io non trovi un rimedio. Ricorderete che a Mediolanum, quella sera che sembra così lontana nel tempo, vi ho invitato a cena a casa mia, e - sentendo che non avevate ancora deciso se accettare o meno - ho aggiunto che nessuno aveva mai rifiutato un mio invito. Stasera che le cose sono così diverse, eppure tanto più chiare nella mia mente, vi invito di nuovo, e non accetterò un rifiuto. Grazie ad alcuni legali fidati, il mio patrimonio disponibile - non gli immobili, che purtroppo saranno tutti alienati dal fisco per via della mia disgrazia - settimane fa è stato collocato in un deposito fiduciario anonimo. Uintera somma va a voi, per una delle seguenti ragioni a vostra scelta: perché non mi è venuto in mente nessun altro. Perché mi fa piacere. Oppure perché, malgrado il mio tentativo di fermare la barbarizzazio- ne dell'Impero fosse sacrosanto, è stato comunque un tradimento, e visto che non vi siete piegato né alle mie minacce, né alle mie lusinghe, vi siete dimostrato leale, un romano, sempre. I miei avi si rivolteranno meno nella tomba per questo che per il modo in cui ho disonorato il loro nome. Non fidatevi di Sido. Non fidatevi di Elena. Sopra a tutti, non fidatevi di Costantino. È mio desiderio che, in vece di mio figlio, versiate libagioni e compiate tutte le consone celebrazioni in memoria di me nei giorni della mia nascita e della mia morte, ogni anno, nelle celebrazioni bisettimanali dei morti di Parentali, in febbraio, e l'XI giorno alle Calende di maggio, giorno della fondazione di Poma Eterna. Salve atque vale. Manio Curio Decimo, figlio di Publio Curio Calvino, vir clarissimus della classe senatoriale.
Elio si rese conto di essere rimasto seduto a tavola molto a lungo, perché quando si guardò di nuovo intorno gli altri ufficiali avevano riempito la mensa. Uno di loro si sporse a chiedergli: «Vi dispiace se mi siedo qui?» Un altro non si era nemmeno preoccupato di chiedere, e stava già mangiando rumorosamente dall'altra parte del tavolo. Trovare Sido fuori dalla porta non lo sorprese. Per quanto ne sapeva poteva anche averlo spiato dalla finestra. Prima il capo degli speculatores disse qualche sciocchezza riguardo al dover andare a un appuntamento con qualcuno, poi se ne restò lì a braccia conserte, immobile sotto la grondaia che lo proteggeva dalla pioggia. Elio decise che sarebbe stato meglio dargli l'occasione di parlare in quel momento, e farla finita. Così rimase sotto la stessa grondaia, con la bisaccia della sella sulla spalla sana, a guardare le gocce che dallo scolo cadevano a scavare una trincea nella neve molle. «Sembra che questa partita la chiuderemo in pari, Elio Sparziano.» «Davvero? Non sapevo stessimo giocando una partita.» Sido si voltò verso di lui. Con calma Elio fece lo stesso, finché non furono l'uno di fronte all'altro, noncuranti del fatto che la pioggia stesse bagnando loro il fianco sotto la grondaia gocciolante. «Ma vi tengo d'occhio, dentro e fuori il confine. Non pensate di essere mai fuori dalla mia portata. Ricordate che Decimo ha lasciato su di voi un po' del suo odore.» Sido toccò il petto di Elio, per poi portarsi le dita sotto al naso. «Lo fiuto. E il tafano del tradimento può mordere in qualunque momento.» «Credo di aver dato prova in Egitto di essere immune a quell'insetto.» «Allora diciamo che il fuoco dell'ambizione si può alimentare in ogni istante, e che l'esercito è un fastello di legna secca. Voi siete l'esercito, non è vero?» Una provocazione poco intelligente, in un momento poco adatto a menar colpi alla cieca. Elio trattenne il fiato, lo lasciò andare. A maggio gli imperatori avrebbero abdicato. Nel giro di un anno Costanzo sarebbe morto, e nei mesi successivi Massenzio e Costantino sarebbero usciti dalla lotta di potere tenendo in pugno interi eserciti, trascinando dalla loro parte tribù barbare, congiurando e assassinando, stagione dopo stagione. Il volto stesso di Roma sarebbe stato oscurato dal sangue. Quella mattina, nella piazza d'armi del campo militare di Savaria, nella provincia di Pannonia Prima Savia, Elio poteva guardare l'uomo che aveva di fronte e presagirne
la fine, poiché la stupidità finisce sempre per essere schiacciata, nelle grandi battaglie. Era una vendetta sufficiente. «Sono decisamente l'esercito», disse soltanto. La pioggia scioglieva la neve, e un sole malato cercava di diradare quell'acquerugiola; le nuvole si strappavano come veli tirati senza pietà. Elio osservò Sido girarsi sui talloni e andare via, schizzando fango. Benedisse la pulizia della guerra imminente. Sarebbe venuta l'occasione giusta per riprendere in mano la lettera di Decimo e decidere cosa farne. Per il momento giaceva nella bisaccia, con le sue lusinghe e promesse di ricchezza, i suoi moniti, il peso di testamento di un'anima. Il piccolo, delicato busto d'alabastro di Annia Cincia - di Casta - era al suo fianco, ed entrambi erano come pietre focaie in attesa di una scintilla.
Glossario Achilleo: usurpatore romano sconfitto in Egitto nel 296 d.C. circa. Ade: dio dell'Oltretomba, o l'Oltretomba per antonomasia. Agamennone, Cassandra: il mitico re ucciso dalla moglie e la schiava che predisse la sua morte. «Ahimè, ahi! Vedi, vedi! Tieni, tieni lontana dal toro la giovenca»: à'AVAgamennone di Eschilo. Agonali (in latino, Agonalia): festività antichissime che cadevano 4 volte l'anno, dedicate ciascuna a una divinità diversa (Giano, Marte, Veiove e Sole Indigete). Ala
Antoniniana
Sagittariorum
Surorum:
unità
di
cavalleria
romana,
approssimativamente della grandezza di un reggimento. Ala Ursiciana\ unità di cavalleria romana, approssimativamente della grandezza di un reggimento. Alamanni: barbari originari delle regioni settentrionali e orientali europee, che fra il 300 e il 500 d.C. hanno attaccato periodicamente l'Impero romano. Alani: barbari originari delle regioni settentrionali e orientali europee, che fra il 300 e il 500 d.C. hanno attaccato periodicamente l'Impero romano. Alcesti: mitica moglie di Admeto; offrì la sua vita per quella di lui. Antinopoli: città oggi scomparsa a metà del corso del Nilo. Aquileia: importante sede religiosa agli albori della cristianità, in Fiuli Venezia Giulia. Arae Flaviae: Rottweil, nella Foresta Nera (Germania). Argentiolum: oggi Gorgonzola, comune in provincia di Milano. Argentorate: Strasburgo (Francia). Arrabo: fiume Raba. Affluente del Danubio, scorre in Au- stra e in Ungheria. Arrabona: Gyòr (Ungheria). Athyr: mese egizio corrispondente al periodo dal 28 ottobre al 26 novembre. Augusta Treverorum: Treviri (Germania). Ave: «Salve», «Benvenuto». Balnea Vetra: le Vecchie Terme di Milano. Barbarico: definizione generica delle aree abitate dai barbari fuori dall'Impero romano. Bassiana: probabilmente Donis Petrovei (Croazia).
Battria: antica provincia persiana nell'Asia centrale. Belgica Prima: provincia romana corrispondente all'odierno territorio della Mosella. Bergomum: Bergamo. Bibe vivas multis annis, vivas feliciter. frasi di buon augurio sui calici romani, «Bevi e campa molti anni»; «Possa tu vivere felice». Bingum: Bingen (Germania). Bisanzio: poi Costantinopoli, oggi Istanbul. Boemia: territorio corrispondente all'odierna Repubblica Ceca centro-occidentale. Boi: barbari originari delle regioni settentrionali e orientalieuropee, che fra il 300 e il 500 d.C. hanno attaccato periodicamente l'Impero romano. Brigantium: Bregenz (Germania). Brixia: Brescia. Bruto: uno degli assassini di Giulio Cesare. Burgus: torre di difesa fortificata lungo la frontiera romana. Cadianum: oggi Cazzano di Tramigna, in provincia di Verona, luogo di mutatio (vedi). Calende: suddivisioni dell'antico calendario lunare romano, cadevano più o meno al principio del mese. Calidario (in latino, calidarium): nelle antiche terme romane, locale per i bagni d'acqua calda. Cara Cognatio: dette anche Caristia. Il nome significa «Cara parentela». La festività, non religiosa, cadeva il 22 febbraio ed era dedicata all'armonia famigliare. Carnuntum: località a sud-est di Bratislava (Slovacchia). Castra ad Herculem: Pilismarót (Ungheria). Castra Martis: Kula (Bulgaria). Castra Regina: Regensburg (Germania). Catone il Censore, o il Vecchio: romano, uomo di Stato conservatore e oratore. Celeia: Celje (Croazia). Centum Putei: insediamento romano nell'attuale Romania. Clarissima domina: «Nobilissima signora» (vedi Clarissimus). Clarissimus: letteralmente «chiarissimo», titolo attribuito alla classe sociale romana dei senatori e dei cavalieri. Confluentes: Coblenza (Germania).
Consuali (in latino, Consualia): festività antichissime legate ai campi e all'agricoltura. Cadevano diverse volte l'anno ed erano dedicate al dio Conso. Contra Aquincum: Budapest (Ungheria). Contra Florentiam: Dunaszekcso (Ungheria). Costantino: noto come il Grande, primo imperatore cristiano. Costanzo: tetrarca con Diocleziano e padre di Costantino. Cui prodest?\ «Chi se ne giova?» Cuneo d'Oro: passo dello Spluga, fra l'Austria e l'Italia. Dacia: Romania. Dalmazia: regione adriatica della Croazia. Denario (in latino, denarius): unità monetaria di base romana, deprezzata negli anni. Dicunt Homerum caecum fuisse: «Si dice che Omero fosse cieco». Diocleziano: imperatore romano, grande soldato e amministratore. Dis Manibus Aelii Sparti sibi et suis: «Agli dei Mani di Elio Sparto. [Questa tomba è] per lui e per la sua famiglia». Divali (in latino, Divalia): festività che cadeva il 21 dicembre, dedicata ad Angerona, dea del silenzio e della segretezza. Domine, domina: da dominus, domina, «signore», «signora». Domizio Domiziano: usurpatore romano sconfitto in Egitto nel 296 d.C. circa. Drava: fiume del Centroeuropa. Elena: madre di Costantino, poi santa. Emesa: Homs, città della Siria. Emona: Ljubljana (Slovenia). Eschilo: drammaturgo greco, autore fra l'altro della tragedia Agamennone. Euridice: mitica sposa di Orfeo, che scese negli Inferi per liberarla dal regno dei morti. Ma contravvenendo alla proibizione di guardare la moglie prima di ritornare in superficie, la perse per sempre. Figlinae Marci Lupi-, «mattonificio di Marco Lupo». Foederatv. «confederati militari», tribù barbare alleate dell'esercito romano. Frigidario (in latino, frìgidarium): nelle antiche terme romane, sala con grande vasca per il bagno freddo, posta dopo il calidario e il tepidario (vedi). Frigidus: «freddo». Nome latino del fiume Lambro. Fullones: tintori di stoffe.
Futuisti puellam meam\ «Ti sei fatto la mia ragazza». Galerio: tetrarca con Diocleziano, persecutore dei cristiani. Germania Inferior: provincia romana corrispondente alla Germania meridionale. Germania Superior: provincia romana corrispondente alla Germania settentrionale. Germanicus, Britannicus, Sarmaticus, Persicus Maximus: titoli imperiali che indicavano le vittorie conquistate contro la Germania, la Britannia, la Sarmazia e la Persia. Gerulata: Rusovce (Ungheria). Gesoriacum: Boulogne (Francia). Herculia: Tàc (Ungheria). Idi: suddivisioni dell'antico calendario lunare romano, cadevano all'incirca a metà mese. Infandum renovare dolorem-, dal verso Infandum, regina, iu- bes renovare dolorem: «Tu mi costringi, o regina, a rinnovare un indicibile dolore» (Virgilio, Eneide). In regno nati sumus\ «Siamo nati sotto una monarchia» (Seneca, De vita beata). Insubria: provincia dell'Impero comprendente Lombardia, Liguria e parte del Piemonte. Intercisa: località sul Danubio a sud di Budapest. loviani Palatini: unità di cavalleria romana, approssimativamente della grandezza di un reggimento. Italia Annonaria: Italia settentrionale. Kislev: mese ebraico corrispondente a novembre-dicembre. Lapsi: da lapsus, «caduto, scivolato». Nome dato ai cristiani che abiuravano la fede durante le persecuzioni. Laumellum: oggi Lomello, comune in provincia di Pavia. All'epoca, importante centro romano. Laus Pompeia: Lodi. Legatos, strategos: in greco, «comandante», «generale». Legio: legione. Leucum: Lecco. Lupercali (in latino, Lupercalia): festa in onore della Lupa che allattò Romolo e Remo (o, secondo altra ipotesi, in onore del dio della fertilità Lupercus). Si celebravano il 15 febbraio.
Massenzio: figlio di Massimiano, usurpatore e rivale di Costantino. Massimiano: tetrarca con Diocleziano e padre di Massenzio. Mater exercituum: «madre degli eserciti». Maximiani Juniores: unità di cavalleria romana, approssimativamente della grandezza di un reggimento. Mechir: mese egizio corrispondente al periodo dal 16 dicembre al 14 gennaio. Mediolanum: Milano. Mesia: provincia romana che comprendeva le attuali Serbia e Bulgaria. Modicia: Monza. Mogontiacum: Magonza (Germania) Morara: fiume del Centroeuropa. Mursella: Morichida (Ungheria). Mutatio: stazione di cambio dei cavalli. Mutina: Modena. Nefasti (dies): nel calendario romano, i giorni infausti in cui erano vietati gli atti ufficiali. Nicomedia: Izmit (Turchia). Norico: Austria centrale. Noviomagus: Lisieux (Francia). Oescus: Gigen (Bulgaria). Opali (in latino, Opalia): antica festività romana celebrata il 19 dicembre in onore della dea Opis (Abbondanza). Pannonia: regione che comprendeva parti d'Ungheria, Austria, Slovenia e Croazia. Pannonia Savia: provincia pannona corrispondente a parte dell'odierna Croazia. Pannonia
Valeria:
provincia
pannona
corrispondente
a
parte
dell'odierna
Croazia/Ungheria. Parapamisos: città del Gandara, circa 300 km a ovest del fiume Indo, nell'Impero persiano. Parentali (in latino, Parentalia): antica festa romana in onore dei parentes, gli antenati. Si svolgevano dal 13 al 21 febbraio. Pelso: lago Balaton (Ungheria). Penteo: mitico re assassinato dalle baccanti, donne ubriache e possedute.
Perfectissimus: letteralmente «il più perfetto», titolo attribuito alla classe sociale romana dei senatori e dei cavalieri. Pisae: Pisa. Placentia: Piacenza. Poetovio: Ptuj (Slovenia). Pons Aureoli: oggi Pontirolo Nuovo, comune in provincia di Bergamo. Porta (Argentea, Aurea/Nuova, Comacina, Giovia, Erculea, Romana, Ticinese, Vercellina): porte di Milano in epoca massimiana. Praefectus: titolo militare romano corrispondente in via approssimativa al rango di colonnello. Praeses: termine della tarda Roma per indicare i governatori provinciali. Prima ora mattutina: d'inverno, tra le 7 e le 7.40 del mattino. Quintilio Varo: generale romano, perse tre legioni e la sua stessa vita nella foresta di Teutoburgo (vedi). Regifugio (in latino, Regifugium): festività che cadeva il 24 febbraio. Alla fine del rituale di celebrazione, il rex sacro- rum (il sacerdote) abbandonava precipitosamente il Foro. Secondo alcuni, l'origine del nome commemora la leggendaria cacciata dei re etruschi. Secondo altri è in relazione con la momentanea sospensione della carica del rex sacrorum. Sagum: la stoffa utilizzata nell'esercito romano per confezionare i mantelli, e per estensione anche questi ultimi, spesso d'un rosso acceso. Sala: Zalaloevo (Ungheria). Salve atque vale: Formula di commiato: «Salve, e state bene». Sanniti: antica tribù italica, ha combattuto contro Roma agli albori della città. Saturnali (in latino, Saturnalia)-. antica festività romana che si svolgeva dal 17 al 23 dicembre. Sava: fiume del Centroeuropa. Savaria: Szombathely (Ungheria). Scarbantia: Sopron, nei pressi del lago Balaton (Ungheria). Scordisci: barbari originari delle regioni settentrionali e orientali europee, che fra il 300 e il 500 d.C. hanno attaccato periodicamente l'Impero romano. Seneca: filosofo romano, maestro di Nerone (che lo obbligò a suicidarsi).
Seniores Gentiliorum-, unità di cavalleria romana, approssimativamente della grandezza di un reggimento. Sestertium (sesterzio): unità monetaria romana, 1/4 di dena- rius (vedi denario). Settimio Severo: generale e imperatore romano, originario del Nordafrica. Sextum: Sesto San Giovanni, a pochi chilometri da Milano. Sirmium: Sremska Mitrovica, a nord-est di Belgrado (Serbia); il suo vescovo era il martire Ireneo. Siscia: Sisak (Croazia). Sors fauni: Fortuna del Fauno. Speculator, speculatores: membri della polizia investigativa romana. Tepidario (in latino, tepidarium): nelle antiche terme romane, locale di passaggio tra quelli destinati al bagno caldo e a quello freddo, usato anche come spogliatoio. Terefah: in ebraico, «impuro». Tergeste: Trieste. Terza ora notturna: anche per i romani il giorno consisteva in due periodi di 12 ore, in cui la parte notturna incominciava dopo le ore 18. Teutoburgo: foresta nei pressi di Detmold (Germania), dove nell'anno 9 dopo Cristo un intero esercito romano fu tratto in un agguato e sterminato dalle tribù germaniche guidate da Arminio. Thanathos: personificazione greca della morte. Tibisco: fiume del Centroeuropa. Ticinum: Pavia. Ustrinum-. area recintata in cui si erigeva la pira funebre di una famiglia o di un clan. Vetus Salina: Adony (Ungheria). Vexillationes: letteralmente «recanti la bandiera», unità a cavallo mobili dell'esercito romano. Vicenda: Vicenza. Vigiles: corpo di polizia urbana e pompieri. Vindobona: Vienna (Austria). Vindonissa: Windisch (Svizzera). Vir clarissimus: «Uomo distintissimo», di elevata posizione (vedi Clarissimus). Virgilio: poeta romano, autore, fra l'altro, dell'Eneide.