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JAMES GRIPPANDO NEL LETTO DI UNO SCONOSCIUTO (Lying With Strangers, 2007) A Tiffany, per tutta l'eternità «Molti pretendono di essere leali, ma una persona fidata chi la troverà?» Proverbi 20:6 Ringraziamenti In questo mondo fatto di porte girevoli, io sono quello che si potrebbe definire un'anomalia professionale. Dall'inizio della mia carriera ho avuto lo stesso agente (Richard Pine e, fino alla sua morte nel 2001, il padre Artie) e lo stesso editore (HarperCollins). Ho anche avuto la stessa editor (Carolyn Marino) dal mio secondo romanzo. Faccio tesoro di queste collaborazioni. È grazie a queste persone che per vivere riesco a fare quello che più amo. Questo libro ha segnato l'inizio di alcuni nuovi ed elettrizzanti rapporti. Sarò eternamente grato a Markus Wilhelm, amministratore delegato di Bookspan, che mi ha detto di aver comprato uno dei miei romanzi in aeroporto e di essere diventato un mio fan dal momento in cui l'aereo è decollato. È stato Richard Pine a suggerirgli che avrebbe potuto apprezzare anche quello a cui stavo lavorando. Il resto, come si dice, è storia. Sono stato selezionato soltanto un'altra volta in vita mia - da mia moglie quando mi ha sposato - quindi sono profondamente onorato che questo romanzo sia stato il primo dei miei libri a entrare nella Selezione Gold del Book-of-theMonth Club, della Literary Guild e del Doubleday Book Club. Anche Carole Baron merita un applauso. Si dice che un editor abbia svolto il proprio lavoro al meglio quando la sua opera non traspare, ma fidatevi, la mano di Carole è in ogni pagina di questo romanzo. È una vera professionista, e io non finirò mai di ringraziarla per essere uscita dal suo ruolo dirigenziale ed essersi dedicata al mio testo, portandomi come scrittore a un altro livello. Sono anche grato ai miei precedenti affidabilissimi lettori, la dottoressa Gloria M. Grippando, Janis («Conan il Grammatico») Koch ed Eleanor Rayner. Un enorme grazie va anche al dottor David Weinstein e allo staff e
all'amministrazione del Children's Hospital di Boston che mi ha permesso di diventare l'ombra di David. È stata una delle ricerche più educative e piacevoli che abbia mai svolto. Il dottor Weinstein è adesso alla Florida University, che gli ha dato l'opportunità di creare e dirigere un programma per bambini affetti da glicogenosi. Il suo programma è uno dei più importanti al mondo, e la Florida University dispone dell'équipe di ricercatori più vasta del pianeta, impegnata nell'elaborazione di una terapia e di nuovi trattamenti per questa rara patologia. Uno dei pazienti in cura dal dottor Weinstein è un ragazzo la cui famiglia ha fornito un sostegno fondamentale al programma. In onore di quel ragazzo, Jacob, e come segno di apprezzamento per la famiglia Gordon, il paziente prediletto della dottoressa Peyton Shields si chiama, appunto, Jacob Gordon. Infine, desidero ringraziare mia moglie Tiffany, che mi ha aiutato a narrare la storia attraverso gli occhi di una protagonista femminile. Devo ammettere che mi ci sono voluti anni per riuscirci. Ho cominciato a scrivere questo libro nel 1999, e mi sembra ancora di vedere Tiffany che alza lo sguardo dal dattiloscritto, esclamando: «Una donna non direbbe mai una cosa del genere!» Il romanzo è ora uno dei thriller di James Grippando che lei preferisce. Spero sarà lo stesso anche per voi. Prologo Lei lo voleva. Cinque minuti sulla metropolitana e ne era certo. Rudy aveva il dono di saper cogliere anche il più impercettibile dei segnali. Il treno era affollato, e lui andò a mettersi fra la donna e l'uscita più vicina. Sembrava non la guardasse nemmeno. Stava appoggiato al palo e leggeva il Wall Street Journal. O almeno fingeva di farlo. Era tutta una finzione, dalle lustre mascherine nere delle scarpe alla cravatta di Armani, dal gessato alla montatura di tartaruga degli occhiali. Il treno si fermò e le porte si aprirono. Lei si mosse verso l'uscita, proprio nella sua direzione. Un lungo cappotto nero le nascondeva il corpo, ma il viso era attraente. Una bella bocca. «Permesso», disse passandogli accanto. Fissava dritto davanti a sé, senza mai incrociare lo sguardo, ma non riuscì a ingannarlo. Il tono della voce, il modo in cui gli era passata vicino, abbastanza lento perché lui potesse cogliere le note dolci del suo profumo, erano tutti passi calcolati dell'antichissima danza dell'accoppiamento. E poi
nessuno l'aveva costretta a utilizzare proprio quell'uscita; le altre porte funzionavano alla perfezione. Di certo non era un caso che i suoi lunghi capelli castani gli avessero sfiorato il cappotto mentre passava. E, cosa più rivelatrice, aveva aperto la bocca, aveva separato quelle deliziose labbra e pronunciato una parola. Permesso. Un messaggio potente avvolto in una sola preziosa parola. In un fugace ma elettrico istante, aveva avviato la connessione. Rudy avrebbe potuto rispondere, e lei forse si sarebbe mostrata ricettiva. Avrebbero parlato. E chissà dove sarebbero arrivati. Il campanello suonò, segnalando che le porte scorrevoli stavano per chiudersi. Non era la sua fermata, ma d'impulso Rudy saltò giù. Il treno si allontanò, lasciandolo solo sulla piattaforma. Aveva colto il suo invito, ma lei era scomparsa. L'ennesima inutile provocazione. Si scrollò la rabbia di dosso, prese le scale ed emerse in un incrocio buio. Faceva freddo e non c'era anima viva in giro a quell'ora tarda. Rifletté un istante per scegliere la direzione. Nel quartiere finanziario di Boston le vie sinuose si intersecavano con angolazioni e intervalli che sfidavano la logica, sulla falsariga delle strade dell'agglomerato originario che qualche secolo dopo erano state bordate da grattacieli commerciali di quarantacinque piani. Per molti era un labirinto, ma Rudy conosceva bene quelle strade. Anni prima usava tagliare proprio a quell'angolo, diretto nella Combat Zone, un tempo malfamata per i locali di spogliarello e i porno shop. Da allora la zona era stata ripulita ma, grazie al filone pornografico di Internet, lui non sentiva la mancanza delle sue incursioni in centro. Non doveva più arrancare nella neve con una dolorosa erezione nei calzoni. Non doveva più sopportare le occhiatacce dei picchettatori che facevano la guardia al loro quartiere. Non doveva più temere di essere arrestato perché si masturbava nel buio di un cinema per adulti. Abbottonò il cappotto e si incamminò lungo il marciapiede, opponendosi al vento mentre il ghiaccio cosparso di sale scricchiolava sotto i suoi passi. Era una lunga camminata fino a Back Bay. Era sceso troppe fermate prima a causa dei seducenti sguardi della piccola Miss Permesso. Ma averla persa non era affatto un problema. Doveva rimanere concentrato. Lo aspettava un lavoro di tutt'altro genere, quella notte. Il suo nome era Peyton Shields. Immaginava che lei stesse già dormendo, sempre ammesso che l'ora segnata dall'orologio lampeggiante della banca fosse giusta. Tanto per essere sicuro, ammazzò il tempo passeggiando nel quartiere: su per Commonwe-
alth Avenue, giù per Newbury e poi tagliando per Claredon Square fino a Magnolia. Era il percorso di jogging di Peyton, e nel corso di innumerevoli notti più calde di quella l'aveva vista sfrecciare sui marciapiedi in shorts e canotta coordinati che abbracciavano la splendida forma del suo corpo. Non si erano mai salutati, non avevano mai incrociato lo sguardo. Ma lui le era passato accanto molte volte senza che lei lo notasse. Era sempre in un altro mondo, presa dalla musica dell'iPod fissato alla cintura. Rudy adorava l'iPod. Un paio di cuffie erano in grado di privare qualunque donna della propria vigilanza. Trovane una con un paio di cuffie e potrai praticamente seguirla ovunque, potrai infilarti nelle sue mutandine senza che nemmeno se ne accorga. L'aria fredda della sera gli pungeva le guance mentre si avvicinava all'appartamento di lei. Respiri caldi e brevi gli uscivano dalla bocca sotto forma di vapore. Si fermò accanto alla magnolia dall'altra parte della strada, gli occhi incollati sulla porta di ingresso. Rudy sapeva che suo marito era fuori città quella sera: lo aveva seguito fino all'aeroporto. Ciò significava che Peyton era in casa da sola. Soltanto lei. E lui. Attraversò la strada, attento a non rimanere fermo troppo a lungo nello stesso posto per non attirare l'attenzione. Non camminava né troppo veloce né troppo lento. La via era deserta, ma doveva evitare di muoversi furtivo come un maniaco. Può sempre esserci qualcuno che ti osserva, lui lo sapeva meglio di chiunque altro. Il suo cuore prese a battere all'impazzata quando raggiunse i gradini d'ingresso. Provò un po' di rabbia ma più che altro eccitazione. Un pizzico di paura era salutare. Aiutava a prevenire gli errori. Salì uno scalino alla volta, prima il piede destro, poi il sinistro. All'improvviso ogni muscolo del suo corpo sembrava sincronizzato, quelli volontari e gli involontari, ogni passo verso il gradino successivo in sintonia con il battito del cuore. Aveva ripetuto la scena almeno cento volte nella sua testa. Aveva studiato le fotografie dell'ingresso scattate in precedenza. Aveva memorizzato le condizioni di luce, con la lampada del portico accesa o spenta. Quella sera, lei l'aveva tenuta spenta. I gradini erano illuminati solo dal bagliore del lampione a dodici metri di distanza. Dodici e mezzo per l'esattezza. Le mani inguantate, sfilò dalla tasca la chiave della porta. Era stato semplice procurarsela. Il marito di Peyton lasciava la macchina davanti allo stesso ristorante ogni giovedì, ed era tanto stupido da consegnare al posteggiatore il mazzo di chiavi completo. Rudy era andato a lavorare lì il
tempo sufficiente per scoprire qual era quella di casa loro. La mano gli tremò impercettibilmente. Era una mossa decisiva, ma lui era pronto. Afferrò saldamente la chiave avvicinandola alla porta. Con delicatezza, l'appoggiò contro il metallo e girò attorno alla serratura, come per stuzzicarla prima di entrare. Poi guidò la punta della chiave verso l'apertura e ve la infilò, solo un po', solo la punta, e la tenne in quel modo per svariati secondi. Fu colto dall'urgenza di spingerla tutta dentro ma si trattenne. Fece un lungo respiro e la inserì piano piano, uno scatto del cilindro dopo l'altro. L'adrenalina scorreva mentre l'impulso si faceva più intenso. Un'unione perfetta, così gratificante, così metaforica. Quando la chiave scivolò oltre la metà chiuse gli occhi, andando sempre più in profondità a ogni secondo. Quando le punte dei suoi guanti toccarono l'intelaiatura della serratura seppe di essere entrato. Fino in fondo. Mai in vita sua si era sentito tanto connesso con un altro essere umano, alla sola idea che lei si trovasse dall'altra parte della porta. La sensazione fu quasi incredibile, così si toccò per essere sicuro e gemette di piacere: era enorme. Aprì gli occhi, e un leggero sorriso si dischiuse sulle sue labbra. Lentamente, ma un po' più in fretta di come era entrato, estrasse la chiave e le diede un bacetto prima di infilarsela in tasca. Il cuore gli martellava in petto, e avvertì dentro di sé il cambiamento. La paura di fare le cose che lei di certo desiderava stava svanendo. L'unico timore che ancora perdurava era quello di poter essere meno che perfetto. Avrebbe aspettato quella perfezione. «Buonanotte, Peyton», sussurrò. Poi, con calma, scese i gradini e svanì nella notte. PARTE PRIMA Inverno 1 Peyton Shields se lo sentiva. Nessuno l'aveva messa in guardia. Non si era accesa nessuna lampadina. Ma il suo sesto senso era all'erta. Era al primo anno di internato di pediatria al Children's Hospital di Boston e faceva parte di un'élite di una quarantina di giovani provenienti dalle migliori facoltà di medicina del mondo. Era arrivata al top grazie a uno zelo indefesso, delle ottime referenze universitarie e una montagna di debiti nei confronti dell'Harvard Medical School. Anche l'istinto era incluso nel
pacchetto di tanto successo, e in quel momento l'istinto le diceva che qualcosa non andava. Parcheggiò l'auto nello spazio riservato ai medici fuori della North Shore Clinic, a circa cinquanta chilometri da Boston, nella città di Haverhill. Era giunta allo stadio della sua formazione professionale in cui gli interni in pediatria passavano tre o quattro giorni al mese in una clinica di periferia per consolidare la propria esperienza. Haverhill era una meta molto ambita dal punto di vista delle assegnazioni, situata nella ricca Merrimack Valley. Lì, in qualunque direzione si andasse, si era quasi certi di incappare in una pittoresca cittadina vecchia di trecento anni, in cui la maggior parte della popolazione bianca guadagnava più del doppio del reddito medio degli abitanti dello stato. Sebbene non il più caratteristico della vallata, il centro di Haverhill era comunque un'interessante combinazione di raffinata architettura vittoriana e di edilizia residenziale sorta ai tempi del boom dell'industria calzaturiera. Con il dieci percento circa della popolazione sotto la soglia di povertà, l'ambulatorio dispensava innanzitutto assistenza pediatrica gratuita per i meno abbienti. Quel giorno era il turno di Peyton. «Che ci fate qui fuori?» chiese scendendo dall'auto. Era una domanda lecita. Anche se la giornata era soleggiata e c'erano tredici gradi - un'ondata di caldo per essere a fine febbraio - era inusuale per Felicia e Leticia Browning venire sorprese a chiacchierare fuori dell'ingresso alle nove e mezzo del mattino. Le due infermiere a tempo pieno della clinica erano gemelle identiche, con personalità diametralmente opposte. Felicia era la più seria, spesso una vera piantagrane. «È saltata la corrente», rispose Leticia, ridacchiando come al solito. «Che strano. Tutti i semafori che ho incontrato funzionavano.» «Perché tu arrivi da sud», disse Felicia. «L'elettricità è saltata da qui verso nord.» «Che cosa è successo?» «Terremoto», spiegò Leticia. Altre risatine. «Molto divertente.» «Non è uno scherzo», replicò Felicia. «Qui ci troviamo all'estremità meridionale di quella che viene definita 'la zona attiva', cinquanta chilometri a nord di Boston e su fino a Clinton. Una ventina di terremoti negli ultimi ventun anni. Di solito molto leggeri, come questo.» «Come fate a sapere tutte queste cose?» «Noi sappiamo sempre più cose di te», affermò Felicia, scherzando solo a metà. «Siamo infermiere.»
Leticia prese una radiolina dalla tasca del cappotto della sorella. «Hanno appena intervistato alla radio un sismologo del Boston College.» «Stai zitta, sciocca», l'ammonì Felicia. «Ah», commentò Peyton, rendendosi conto che dicevano la verità. «Suppongo non ci sia un generatore di riserva in questo posto.» Leticia si limitò a ridere. La sorella affermò: «Il dottor Simons ha annullato i suoi appuntamenti per la mattinata e se n'è andato a casa un'ora fa». Il buon vecchio dottor Simons. Dirigeva la clinica, ma di certo non brillava per efficienza. Per lui, carpe diem significava «cogli il giorno di ferie». Le tre donne si guardarono in silenzio, come per sollecitare la proposta di idee per tenersi occupate. Peyton fu sul punto di entrare, quando un'auto sfrecciò a tutta velocità nel parcheggio, frenando con un forte stridio. La portiera dal lato del guidatore si aprì in un lampo, e un'adolescente balzò fuori della macchina con un bimbo piccolo fra le braccia. «Aiuto, mio figlio ha bisogno di aiuto!» A guardarla non pareva neppure avere l'età per poter guidare, e a sentirla parlare sembrava ancora più giovane. Peyton le corse incontro e prese il bambino. «Quanto tempo ha?» «Ventuno mesi», rispose la ragazza in preda al panico. «Si chiama TJ. Si è punto con un ago.» «Sei sua madre?» «Sì. Mi chiamo Grace.» «Portiamolo nella sala A», disse Felicia. «È molto luminosa.» Peyton si precipitò all'interno, procedendo con cautela nell'atrio in penombra. Il piccolo si lamentava debolmente, come se avesse pianto fino a sfinirsi. Fecero scorrere il lettino per le visite vicino alla finestra in modo da sfruttare al massimo la luce naturale, poi vi adagiarono il bambino. «L'ago è entrato qui», spiegò Grace, indicando una gamba. Felicia puntò una torcia elettrica. Peyton notò una piccola ferita da puntura all'interno della coscia. «Di che genere di ago si tratta?» «Un ago da cucito lungo circa due centimetri e mezzo.» «Lo hai portato con te?» «È ancora nella gamba.» Peyton guardò con maggiore attenzione ma non riusciva a vederlo. «Sei sicura?» «All'inizio la punta sporgeva. Ho provato a toglierlo, sa, come se fosse una scheggia. Ma è scomparso dentro la gamba.»
Leticia infilò un piccolo misuratore di pressione attorno al braccio destro del bambino e cominciò a pompare. «Sei sicura che si tratti di un ago da cucito, ragazzina?» «Che cos'altro potrebbe essere?» Felicia afferrò la ragazza per i polsi e le tirò su le maniche. «Fammi vedere le braccia.» Grace oppose resistenza, ma l'altra era molto più forte. «Non mi buco. Mi lasci andare.» Le braccia erano intonse, però Felicia non aveva ancora finito. «Ti buchi fra le dita dei piedi, gioia? O è il tuo ragazzo che si fa e lascia le siringhe in giro?» «Nessuno di noi si buca, quindi vada all'inferno!» Peyton stava per intervenire in favore della giovane, ma poi notò dei segni sulle sue gambe, proprio sotto l'orlo della gonna. «È sangue quello che hai dietro le ginocchia?» Grace indietreggiò. L'infermiera la afferrò e le tirò su la gonna. Le cosce erano costellate di punture di siringa insanguinate. «Che hai combinato, ragazzina?» le chiese Felicia. «È stato il mio ragazzo.» «A fare cosa?» le chiese Peyton. «Abbiamo litigato. Lui ha cominciato a infilzarmi con il suo bastone, così ho afferrato TJ e sono corsa verso la porta. È riuscito a colpirlo sulla gamba e l'ago si è spezzato quando io sono scappata.» «Che genere di bastone finisce con un ago da cucito?» «Lo ha costruito lui. Ha preso il manico di una scopa e ci ha infilato dentro un ago. Lo usa quando faccio jogging.» «Che cosa?» La ragazza abbassò gli occhi, come imbarazzata. «Quando ero incinta sono ingrassata e quando è nato TJ non sono più riuscita a perdere peso. Così lui mi costringe a fare jogging. Usa il bastone per spingermi a continuare a correre.» «Come i pungoli per il bestiame?» chiese Leticia. «Chi diavolo è il tuo ragazzo?» esclamò Peyton. «Voglio conoscerlo, questo disgraziato.» «Mi creda, non le piacerebbe incontrarlo.» Il bambino iniziò a piangere. Peyton si sterilizzò le mani e prese a palpare delicatamente la gamba, cominciando dal foro della ferita e salendo piano piano. «Ti fa male qui, piccolino?»
«Che cosa sta facendo?» chiese Grace. «Sto cercando di localizzare l'ago. Sembra essere finito sotto la pelle, lontano dal foro di entrata. Se non esce da solo, potrebbe inserirsi nella circolazione sanguigna.» «Che schifo», fece Grace con una smorfia. «Gli lacererebbe le vene.» Era ancora troppo bambina per comprendere la gravità della situazione. Peyton spiegò: «La mia vera preoccupazione è che potrebbe arrivare al cuore». «Allora deve tirarlo fuori.» Leticia obiettò: «Non possiamo fargli una lastra se non c'è la corrente. Deve andare all'ospedale». «Nemmeno per sogno», replicò Grace. «L'ago potrebbe raggiungere il cuore prima che riesca a portarcelo.» «Aspettate», disse Peyton. «Penso di averlo trovato.» Premette con delicatezza due dita contro l'interno della coscia del piccolo. TJ pianse, come se fosse stato punto da dentro. Lei sentì l'estremità dell'ago proprio sotto la pelle. «Dammi della lidocaina, per favore.» «Non avrai intenzione di tagliare?» ribatté Felicia. «Con il consenso della madre, sì. È solo una piccola incisione, e l'ago salterà fuori.» «Lo faccia», affermò Grace. «Non osare», disse Felicia. «Sei un'interna in pediatria. Nemmeno quelli in chirurgia hanno l'autorizzazione a operare senza la supervisione di un medico esperto.» «Ma non è un intervento. Non essere sciocca.» «Sciocco è chi pensa di sapere tutto, abusa della propria autorità e fa rischiare a questa clinica di perdere la copertura assicurativa per pratiche illecite.» Peyton procedette a iniettare l'anestetico locale. «Bisturi, per favore.» «È la tua testa», commentò Felicia. «Sai che quello che stai facendo è contro le regole.» Leticia tenne la torcia. Peyton fece una minuscola incisione, più simile a una puntura che a un taglio. Con un lieve stimolo, l'estremità dell'ago emerse. «Pinzette», disse Peyton. Afferrò l'ago e lo estrasse con mano sicura, poi lo depose sul tavolo di fronte a Felicia. «Ecco fatto. Penso di essere ormai pronta per il trapianto di reni, non credi?»
«Perfetto», rispose Felicia. «Lo aggiungerò al mio rapporto.» E uscì dalla stanza sbuffando. Peyton scosse il capo e terminò il lavoro. Il bambino piangeva disperato, ma la ferita sanguinava appena. Sarebbe bastato un cerotto, comunque lei chiuse la piccola incisione con dei punti liquidi. Ci volle solo un minuto. Leticia vi applicò una garza sterile. Grace la abbracciò. «Grazie. Lei ha salvato la vita a TJ.» «Be', non proprio.» La giovane madre prese in braccio il figlio. Il suo pianto ben presto scemò. La loro gioia fu interrotta da uno stridio di pneumatici sulla ghiaia del parcheggio, seguito dallo sbattere della portiera di un'auto. Grace corse alla finestra. «È Jake!» «Grace!» gridò il ragazzo incamminandosi nel parcheggio. «Mi nasconda. È un pazzo!» Peyton sbirciò fuori. Un giovane muscoloso avanzava con aria minacciosa verso l'ingresso, l'infame bastone stretto in pugno. «Nell'armadio», disse. Spinse madre e bambino all'interno e chiuse la porta. «So che sei qua dentro, Grace!» Entrò nell'atrio. Leticia afferrò il cellulare di Peyton. «Chiamo la polizia.» Grace gridò dall'interno dell'armadio: «Ci troveranno tutte morte!» Peyton temeva che avesse ragione. Il dottor Simons aveva affrontato situazioni simili in passato, e lei sapeva dove teneva la rivoltella. Esitò un istante, poi corse nel suo ufficio e aprì il cassetto chiuso a chiave. Era quasi buio, ma trovò la Smith & Wesson. Controllò, era carica. «Che cosa hai intenzione di fare?» le chiese Felicia, gli occhi sgranati per il panico. «Non possiamo starcene qui e guardare una madre bambina che viene picchiata a morte con un bastone.» «Sei pazza a metterti in mezzo in questa storia.» Grace urlò dalla stanza accanto. Peyton non era una patita delle armi da fuoco, ma non c'era tempo di aspettare la polizia. «Forse lo sono», disse, quasi a se stessa. Corse più veloce che poté e trovò Jake - due metri di altezza - che trascinava Grace fuori dell'armadio, con l'intenzione di sbatterle la testa contro il muro. «Fermati immediatamente!» Peyton strinse la pistola con le mani, pun-
tando al petto di lui. Jake lasciò la presa. Grace afferrò il bambino in lacrime e corse al fianco della dottoressa. Il giovane mosse mezzo passo in avanti, con aria di sfida. «Non fare un'altra mossa!» intimò Peyton. «Tanto non lo sai usare quell'affare», disse Jake, sogghignando. «Il barattolo!» gridò lei, e con un movimento rapidissimo sparò un colpo al malconcio barattolo dei batuffoli di cotone appoggiato sulla mensola dietro l'orecchio di lui. Gli occhi del ragazzo si fecero grossi come due dollari d'argento. «Mio padre era uno sbirro, stronzo. Adesso sdraiati a terra, faccia in giù.» Jake si affrettò a ubbidire. «Quanto pesi?» gli domandò Peyton. «Eh?» «Rispondi e basta.» «Centoventi.» «Leticia!» «Cosa?» giunse l'ovattata risposta. L'infermiera era nascosta sotto la scrivania. «Portami del secobarbital. Dosaggio da adulto più cinque millilitri.» In trenta secondi, Leticia aveva la siringa pronta. «Iniettalo», le ordinò Peyton. L'infermiera guardò Grace e il piccolo ferito dall'ago. «Con piacere», rispose, poi assestò un bel colpo sulla natica destra del giovane. Lui gemette appena e mormorò qualche oscenità, poi il suo corpo si rilassò. Nella stanza cadde il silenzio. Sembrò trascorrere un'eternità, ma in novanta secondi Jake fu fuori gioco. «Grazie», disse la giovane madre. Peyton cominciò a tremare, travolta, infine, dalla consapevolezza di quello che aveva appena fatto. «Dove diavolo sono gli sbirri?» «Chiamo di nuovo», rispose Leticia. «Devono essere sommersi dalle telefonate a causa della mancanza di elettricità.» Un lamento si levò all'improvviso dall'ufficio del dottor Simons, seguito da un intenso imprecare. Peyton si precipitò nello studio, aprì la porta e rimase di ghiaccio. Felicia era curva sul lettino per le visite, i piedi sul pavimento. Aveva abbassato i pantaloni a metà delle sue grosse natiche, e stava applicandosi una garza sul fianco sinistro. Nella carta da parati in fondo alla stanza, Peyton notò un foro di proiettile ad altezza d'uomo. Il colpo di avvertimento che aveva sparato contro il barattolo del cotone ave-
va trapassato due pareti interne. Non doveva viaggiare molto veloce quando aveva raggiunto lo studio del dottor Simons dall'altra parte dell'ambulatorio, ma evidentemente era stato veloce abbastanza. «Mi hai sparato nel culo», disse Felicia, gemendo. «Lascia che ti aiuti.» «Stai lontana da me. Mi ha preso di striscio. Sei stata fortunata.» Peyton non si sentiva fortunata. Il solo pensiero della tragedia sfiorata le fece venire la nausea. «È stato... un incidente», mormorò, la voce rotta. «Non volevo ferire nessuno. Mi stava venendo addosso. Se non avessi sparato quel colpo di avvertimento, avrebbe potuto strapparmi di mano la pistola.» «Avresti dovuto pensarci prima di correre a prenderla.» «Felicia, mi spiace tantissimo.» «Non me ne faccio niente delle tue scuse.» Peyton si diresse nell'atrio, come guidata dalle occhiatacce dell'infermiera. All'esterno udì le sirene della polizia. Erano arrivati, alla fine. Trattenne il fiato, temendo quello che Felicia avrebbe potuto raccontare loro. «Oh, ragazzi», disse piano, sentendosi morire. 2 «Largo!» Un'infermiera arrivò di corsa spingendo una ragazzina su una sedia a rotelle. Peyton si fece velocemente da parte con due saltelli. Era una danza familiare in quei saloni affollati. Le continue emergenze richiedevano grande rapidità di riflessi. Il Children's Hospital era uno dei centri traumatologici e di pronto soccorso più grossi del New England, che ogni anno curava più di dodicimila bambini feriti e registrava più di cinquantamila visite di pazienti. A lei sembrava che quarantanovemila di quei pazienti si fossero presentati la settimana precedente, sebbene quella mattina fosse relativamente tranquilla. Un'adolescente nella sala visite numero uno vomitava a getto continuo, una piccola parte in un grosso secchio verde, tutto il resto addosso a un interno. La bambina nella sala numero due piangeva con un braccio rotto. La neonata in attesa di essere visitata strillava inconsolabile, mentre la madre preoccupata la cullava fra le braccia. L'esperienza aveva insegnato a Peyton a godere dell'occasionale quiete mattutina, l'unico momento della giornata in cui il personale era relativamente nutrito e il numero dei pa-
zienti poteva in effetti avvicinarsi a un livello di parziale normalità. Che le piacesse o no, il pronto soccorso era una delle tredici rotazioni richieste agli interni nel corso dell'anno. Lei era solo alla sua prima settimana, ne mancavano ancora tre. L'unica pausa che si era concessa fino a quel momento era stato il viaggio in giornata a Haverhill per andare a trovare Felicia. Che pausa. Erano trascorsi quattro giorni dalla sparatoria in clinica. Le chiappe dell'infermiera stavano benone, ma la donna intendeva rifarsi su di lei con ogni mezzo. Niente come trovarsi dalla parte sbagliata di una milionaria causa civile per danni, per lanciare la carriera di un giovane medico! L'alterco era finito in mano agli avvocati. Peyton era certa che sarebbe stata assegnata a un'altra clinica. Pregava solo il Signore di non essere licenziata. Fece per prendere la cartella di un paziente, ma un interno più anziano la batté sul tempo. «Questa è mia», le disse. «Il dottor Landau ti sta cercando.» Peyton fu colta dallo sconforto. Landau era il responsabile del programma formativo. «Per cosa?» «Non lo so. L'ho incontrato nella sala di ritrovo. Si stava lamentando con il dottor Sheffield per una qualche riunione a cui non ti sei presentata. Non è di buonumore.» Sheffield era il responsabile degli interni. Le cose non promettevano nulla di buono. «Se ti sbrighi, riesci a raggiungerli là.» Peyton sentì le farfalle nello stomaco. Ci siamo. Mi silurano. Attraversò l'atrio principale, oltrepassando l'enorme acquario di acqua salata e la giraffa di ceramica a grandezza naturale, sistemata dietro il banco dell'accettazione. La giraffa di solito la faceva sorridere, ma aveva troppi pensieri per la testa quando entrò nella sala di ritrovo. «Sorpresa!» Lei trasalì, poi sorrise al gruppo di infermieri e di medici che affollavano la sala. Alcuni guanti di lattice gonfiati pendevano dal soffitto, come palloncini improvvisati. Uno striscione scritto al computer dal reparto contabilità recitava: BUON COMPLEANNO, PEYTON! Riconobbe quasi tutti, alcuni del pronto soccorso ma la maggior parte delle rotazioni precedenti. «Il mio compleanno era la settimana scorsa», disse. «Ma allora non sarebbe stata una sorpresa», rispose un suo collega. «Ottima osservazione», sorrise, poi alzò gli occhi al cielo. «Si fa per di-
re.» Un'infermiera le versò un bicchiere di succo d'uva gassato, lo champagne dei turnisti. La porta si aprì all'improvviso e un clown irruppe fra gli applausi dei presenti. I clown erano comuni al Children's Hospital, dove la risata era una terapia consolidata per alleviare le sofferenze dei piccoli pazienti. Questo in particolare era un mimo vestito con uno smoking nero, farfallino in tinta e fascia a pois bianchi e rossi. I capelli erano imbrillantinati e pettinati all'indietro. Aveva il viso dipinto di bianco con delle stelle sulle guance. Appoggiò lo stereo portatile sul pavimento e, senza proferire parola, indicò Peyton dall'altra parte della stanza. Con l'incoraggiamento degli amici, lei si fece avanti. Il mimo fece partire la musica: tango. Peyton arrossì per l'imbarazzo al pensiero di dover ballare il tango con un pagliaccio, nel vero senso della parola. Ma lui si trasformò immediatamente in Rodolfo Valentino, le girò attorno, guardandola intensamente negli occhi. Dall'interno della giacca prese una rosa rossa. Si mise in ginocchio e gliela porse. «Forza, ragazza!» gridò un'infermiera. Cogliendo quell'esortazione, lei assunse la classica posa da tanguera, la rosa stretta fra i denti. I presenti andarono in visibilio quando, guancia a guancia, i due ballerini cominciarono a muoversi per la sala con passo sorprendentemente sciolto. Poi lui la fece stendere su un braccio per il finto bacio finale. La folla li incitò. Il responsabile degli interni sorrise e disse: «Peyton, la prego, questo è un ospedale per bambini». Il mimo afferrò la rosa e, come per magia, le porse un muffin con sopra una candelina accesa. La folla proruppe in un'esclamazione di sorpresa, poi intonò una versione estemporanea di «Buon compleanno» in varie tonalità. Peyton spense la candelina e partì un nuovo applauso. «Grazie a tutti.» Alla porta si affacciò un'infermiera di traumatologia che era rimasta nel pronto soccorso. L'espressione sul suo viso diceva tutto. «Incidente stradale. Piuttosto grave. Quattro ragazzi, un adulto. I paramedici li stanno portando dentro.» Il succo d'uva gassato perse all'improvviso tutte le sue bollicine. Il capo dell'équipe di traumatologia di Peyton affermò: «È stato bello finché è durato. Andiamo». Gli altri non si mossero mentre quelli del pronto soccorso si disperdeva-
no velocemente. Peyton si precipitò verso la porta con il resto della squadra. Con la coda dell'occhio colse il mimo, l'aria confusa evidente anche sotto lo spesso strato del trucco da clown. «Grazie», gli disse. Lui si limitò a guardarla, in silenzio. La mancata risposta la fece sentire lievemente a disagio, ma non si fermò. Giunta sulla soglia si voltò indietro. Il mimo la guardava ancora. Attraversò di corsa l'atrio centrale diretta al pronto soccorso. L'adrenalina entrò subito in circolo, innescata dall'annuncio dell'arrivo della prima vittima: «Undici anni, maschio, bianco. Trauma cranico, numerose lacerazioni, perone destro rotto». «Shields, con me! Trauma Uno.» Peyton seguì i paramedici che spingevano la barella metallica con le rotelle nell'atrio spazioso. Alle sue spalle, una fredda folata di vento invernale si riversò all'interno dalla porta spalancata del pronto soccorso, dove un'altra ambulanza era appena arrivata. Davanti a lei, il capo dei paramedici gridava dei comandi e faceva strada verso il reparto di traumatologia. Peyton aveva già cominciato a valutare mentalmente il paziente, le ferite, il trattamento. Un attimo prima che la sua squadra facesse l'ultima curva, però, lo rivide. Il mimo della festa di compleanno era fuori dell'ingresso principale dell'ospedale, e sbirciava nel pronto soccorso dalla vetrata che delineava la sala d'attesa, separata dal resto della struttura. Continuò a camminare, cercando di concentrarsi sull'emergenza, turbata tuttavia da quegli sguardi. Forse era soltanto incuriosito da tutto quel caos, ma a lei parve ossessionato, lo sguardo bruciante. «Shields!» Trasalì al suono della voce del capo della sua squadra, poi si infilò in una delle sale di traumatologia, senza più distrazioni, senza più voltarsi indietro. 3 Nessuno era morto quella notte, perlomeno nessuno sottoposto alle sue cure dirette. Quel fatto rendeva la seconda parte della sua giornata lavorativa di venti ore un successo, suppose Peyton. La prima parte era un'altra storia. Avevano perso un bambino di undici anni. Meraviglioso eufemismo, «perso». Quasi si trattasse di un guanto lasciato fuori posto o di uno
sfortunato turista. Ma quel piccolo non avrebbe più trovato la strada per riapparire miracolosamente. Non c'era modo di camuffare l'irreversibilità di simili eventi. Era stata lei stessa ad annunciarlo ad alta voce. «Ora del decesso, 10.37.» Molto prima che mettesse piede in ospedale, prima ancora che entrasse alla Harvard Medical School, lei sapeva di voler diventare pediatra. Aveva scelto il Children's Hospital per il suo internato perché era il migliore. E, come suo padre andava quotidianamente dicendo con orgoglio al mondo intero, loro l'avevano scelta per la stessa ragione. Ma anche i migliori, occasionalmente, perdono un paziente. Eccola ancora, quella parola ingannatrice. È morto, Peyton. Due giorni prima del suo dodicesimo compleanno. Le cinture di sicurezza non possono salvare tutti. E non poteva farlo nemmeno lei. I tergicristalli stridettero sul parabrezza, spostando di lato quella poltiglia fangosa. Grossi fiocchi bagnati cadevano dall'oscurità, perfetti cristalli bianchi che finivano schiacciati sul parabrezza come piccoli kamikaze della natura. Era la prima nevicata consistente dell'anno, e Peyton era tra i primi a sentirne il gelido morso sulle strade. Un'automobilista solitaria, atipica persino per le tre del mattino. Due ore di nevicata senza sosta e la minaccia di altri trenta centimetri nel corso delle successive ventiquattro avevano reso quelle strade più deserte di quanto non le avesse mai viste. Nemmeno lei si sarebbe avventurata a uscire, se i suoi genitori non avessero abitato proprio lì a Brookline. Con il marito fuori città per lavoro, aveva deciso di affrontare la tormenta per andare a casa loro. Parlare con suo padre le avrebbe fatto bene, dopo un turno tanto estenuante nel quale era inclusa anche la sua prima... fatalità. Ecco, lo aveva detto. Nella mente, quantomeno. Da tempo aveva accettato la realtà che una carriera in pediatria non sarebbe stata tutta sorrisi e lecca-lecca. Sapeva che sarebbero morti dei bambini, alcuni suoi pazienti. Tuttavia quell'episodio l'aveva colpita profondamente, e non solo perché era stato il primo. Dal punto di vista clinico, lei e il medico di turno avevano fatto tutto il possibile per salvarlo. Nessun errore. Nessun rimorso. Dover dare la notizia ai genitori del piccolo, però, era un'altra storia. Desiderava non aver detto a quei due che il figlio se la sarebbe cavata. Si fermò a un semaforo, ipnotizzata dal ritmo ovattato dei tergicristalli ricoperti di neve. C'era poco traffico agli incroci sulla Avenue Pasteur. A quanto pareva gli automobilisti avevano ascoltato i bollettini meteorologici. Malgrado ciò, lei era costretta a fermarsi a un semaforo che qualche i-
diota aveva programmato perché diventasse rosso senza ragione. Doveva essere l'opera di un premio Nobel per l'ingegneria. La sosta imprevista le diede modo di controllare i messaggi sul cellulare. Provò una volta ma non c'era copertura. La tormenta, pensò. Provò ancora e riuscì a connettersi alla segreteria telefonica. I primi tre messaggi erano poco importanti. Il quarto era del marito, un rapido promemoria per ricordarle che sarebbe rimasto a Providence fino al pomeriggio successivo, così lei non doveva preoccuparsi del fatto che si mettesse in viaggio con il cattivo tempo. Fu colta dal senso di colpa. La mattina precedente, l'ultima cosa di cui avevano parlato era di come in passato avessero sempre cercato di trascorrere del tempo insieme prima che lui partisse per un viaggio d'affari. Ora erano fortunati se Peyton riusciva a essere a casa per salutarlo prima che uscisse per andare all'aeroporto. E quella sera si era addormentato in una solitaria stanza d'albergo senza che lei nemmeno rispondesse alla sua telefonata per augurargli la buonanotte. Stava cercando di capire se sarebbe stato un gesto carino o soltanto fastidioso chiamarlo alle tre del mattino per dirgli che lo amava, quando il messaggio successivo le fece passare la voglia, travolgendola come una secchiata di acqua gelida. Era Felicia dalla clinica di Haverhill. «Ho pensato che fosse giusto avvisarti delle mie intenzioni. Ho deciso di sporgere denuncia nei tuoi confronti, per aver sconsideratamente generato una situazione di pericolo. Se hai qualche domanda da fare, chiedi al tuo legale di contattare il mio.» L'autocompiacimento nella voce dell'infermiera la irritò. Evidentemente Felicia si era procurata un avvocato scaltro, uno che non ci avrebbe pensato due volte prima di calpestare la carriera di un giovane medico per estorcere un indennizzo più cospicuo all'ospedale in cui Peyton lavorava. Rimpianse di non avere informato il dottor Simons. Lui era un uomo ragionevole. Forse avrebbe potuto stroncare la questione sul nascere, convincendo Felicia a non intentare un'azione legale. Forse non era troppo tardi. Sarebbe andata a Haverhill e gli avrebbe parlato di persona, per prima cosa l'indomani mattina. Ma non le sembrava abbastanza presto. La pazienza non era una delle sue virtù. Aveva bisogno di agire subito per compensare quello che non aveva fatto in precedenza. Non riuscì a escogitare altro se non lasciare un messaggio nello studio del dottor Simons per comunicargli che sarebbe stata lì all'apertura della clinica. Il semaforo scattò proprio quando Peyton prese la comunicazione. Acce-
lerò lentamente, preparandosi a svoltare all'incrocio coperto di neve, il telefono in una mano, il volante nell'altra. «Salve, sono la dottoressa Peyton Shields.» «A quest'ora la clinica è chiusa.» «Sì, lo so. Potrebbe mettermi in contatto con la segreteria telefonica del dottor Simons, per favore?» «Un momento», disse la donna prima di connetterla. «Questa è la segreteria del dottor Hugh Simons...» Mentre Peyton ascoltava il messaggio registrato, un grosso veicolo le sfrecciò accanto a una velocità pericolosa viste le condizioni del tempo, alzando una nube di fanghiglia che ricoprì interamente la sua auto. L'aveva quasi speronata. Proprio quando finiva il messaggio e c'era il segnale acustico, lei mormorò: «Stronzo». Poi si paralizzò, rendendosi conto che la segreteria stava registrando la sua voce. Peyton, idiota! Rifletté sulla possibilità di ricominciare da capo, ma tutte le volte che si sentiva cadere troppo in basso, ricordava quella che suo padre definiva «la prima regola dei buchi»: smetti di scavare. Spense il telefonino, lo gettò sul sedile del passeggero e strinse il volante con entrambe le mani. Stava andando in direzione sud sulla Jamaicaway, una tortuosa strada a due corsie che correva lungo il perimetro esterno di Olmsted Park. Era una vecchia zona benestante, con una serie di parchi creati da Frederick Law Olmsted, il famoso progettista di Central Park a New York. I genitori di Peyton vivevano proprio dietro il Country Club... il country club, precursore di centinaia di istituzioni simili in tutto il paese. Non era il quartiere in cui era cresciuta, non con un poliziotto per padre. Ma sua madre era un'abile agente immobiliare che aveva saputo elevarsi socialmente e, quando lei compì diciassette anni, la famiglia aveva finalmente raggiunto una posizione. Per quanto la riguardava, Peyton sarebbe volentieri tornata subito nel South End, dove i vicini non erano afflitti da acuto snobismo. La strada si fece sempre più buia mentre procedeva lungo il confine alberato del parco. Il Jamaica Pond, lo stagno, era là da qualche parte sotto la neve. Non c'era nessuno in giro, anche se davanti a lei, in lontananza, aveva notato un paio di sfocati puntini luminosi che ben presto si rivelarono dei fari posteriori. Forse la neve le stava giocando un brutto scherzo, però dalle luci sembrava che quella macchina avesse invertito la marcia e ora le venisse incontro ad alta velocità, una manovra pericolosa in qualunque
condizione atmosferica sulla Jamaicaway, pura follia in una notte simile. Peyton rallentò, ma non di colpo, temendo un testacoda. La neve bagnata cadeva sempre più forte sul parabrezza. Il vento si stava alzando. Regolò il tergicristallo e, proprio in quel momento, il veicolo davanti a lei svanì. Strano. Non le era parso di vederlo imboccare un vialetto o una strada laterale. Accese gli abbaglianti e lo intravide a un centinaio di metri di distanza, ora stava avvicinandosi ancora più velocemente. Il cuore le balzò in gola. Avanzava a fari spenti! Peyton fece lampeggiare gli abbaglianti, pensando si trattasse di un ubriaco. Nessuna reazione. L'auto continuava ad avvicinarsi. A una cinquantina di metri di distanza, fece lampeggiare di nuovo i fari. Il lampo di abbaglianti che ricevette in risposta quasi l'accecò. Distolse lo sguardo, ma sfuggire al fascio di luce fu impossibile. I fari la colpirono dritto in faccia. Dritto in faccia. È sulla mia corsia! Suonò il clacson mentre la macchina si avvicinava sempre di più; l'autista sembrava determinato a causare uno scontro frontale. Terrorizzata, Peyton premette l'acceleratore e scartò a destra, facendo istantaneamente sbandare la sua auto sulla strada ghiacciata, fuori controllo. L'altra macchina le sfrecciò accanto, senza cambiare direzione, come per ripercorrere le impronte dei suoi pneumatici sulla neve. L'auto di Peyton rimbalzò sul guardrail. L'airbag le esplose in faccia, poi le collassò sulle gambe, e l'auto continuò a slittare verso la carreggiata opposta. Era come se lei stesse guardando fuori dall'occhio di un ciclone... girava e roteava, mentre i fari fendevano l'oscurità della notte e il bagliore della neve. Il muso si schiantò contro una spalla di cemento, ma l'urto fece volare l'auto sopra la barriera. Rimase lì in bilico e quasi si rovesciò, poi si raddrizzò, per scivolare infine lungo il terrapieno innevato. Le braccia di Peyton si agitarono convulsamente, il corpo sussultò, il capo fu scaraventato in avanti e indietro sul poggiatesta. Vetri infranti tutto intorno: i finestrini, il parabrezza, un'esplosione di schegge affilate. Il viso si fece subito caldo e prese a pizzicarle. Non vedeva nulla, non sentiva nulla, nemmeno le proprie grida. L'auto smise di rotolare e sbandare con un tonfo sinistro, ma l'impatto parve ovattato, come se fosse atterrata in un banco di neve. Peyton non riusciva a capire se la macchina si fosse rovesciata, non era neppure certa di essere cosciente. Le sembrava di oscillare, di muoversi ancora al rallentatore. Sentì freddo ai piedi, poi alle caviglie e agli stinchi. Di nuovo quella sensazione di bagnato. Non la calda sensazio-
ne di umido che le aveva avvolto il viso. Ora faceva freddo, un freddo glaciale. La sua auto non era atterrata in un banco di neve. Stava ondeggiando davvero. C'era acqua ovunque. Lo stagno! Improvvisamente si rianimò. L'acqua gelida le arrivava ormai alle ginocchia, e continuava a filtrare dalle portiere e dal fondo dell'auto. Era tinta di rosso, e capì che era il suo sangue. Colta dal panico tentò di aprire la portiera, ma era bloccata. Si tolse la cintura di sicurezza, ma non riusciva a muoversi. Un piede era incastrato fra i rottami, da qualche parte sotto il volante. Tirò forte, ancora più forte. Le luci del cruscotto andavano e venivano, poi si spensero definitivamente. Il sangue continuava a colarle negli occhi, accecandola, anche se a quel punto era comunque troppo buio per vedere attorno. L'acqua saliva, l'auto affondava. Sebbene le gambe stessero perdendo sensibilità, lei continuò a tirare, lottando con tutte le forze per liberare il piede bloccato. L'acqua le lambì le cosce, poi i fianchi. Chiamò aiuto: «Fate qualcosa, vi prego!» Ma quello non era un grido. Allo stremo delle forze prese a tremare, ormai vicina allo choc. Provò a urlare di nuovo, però la sua voce si ruppe. Si lasciò andare alla deriva, poi si riprese ancora una volta, quando quella sensazione di freddo e di umido giunse a cingerle la vita. Le ghiacciò la pancia, le strinse lo stomaco, scatenando le lacrime e una supplica finale con un filo di voce, udibile a stento. «Aiuto», mormorò, accasciandosi sul volante. Una serie di colpi sulla carrozzeria la fece trasalire. Riusciva a malapena a sollevare la testa, ma intravide qualcuno accanto a lei. Era immerso fino alla vita nell'acqua ghiacciata e tentava con forza di aprire la portiera contorta. Avrebbe voluto dire qualcosa. Sentì la sua bocca muoversi, ma era un movimento incontrollato, come se il corpo non seguisse più i suoi comandi. Cercò di raccogliere le forze e provò a mettere a fuoco, la vista ancora offuscata dal sangue che aveva cominciato a rapprendersi sul suo viso. La portiera si era aperta solo di qualche centimetro. Il finestrino non c'era più; il vetro era andato in frantumi nell'impatto. All'improvviso si sentì afferrare saldamente per le spalle. Il suo corpo si sollevò dal sedile e Peyton gemette per il dolore. Il piede era ancora incastrato sotto il volante, da qualche parte sotto l'acqua gelida che continuava a salire. La gamba si tese. La presa non allentò. Il piede rimaneva bloccato, ma il dolore era svanito. Come pure l'uomo. Aiuto! si sentì gridare nella sua testa, anche se dubitava che qualcuno potesse udirla.
L'uomo riapparve all'improvviso, questa volta dal lato del passeggero. Le sembrava di vederci meglio da quella parte, l'occhio destro meno oscurato dal sangue. La portiera era aperta, ma l'acqua non si riversava all'interno. Si rese conto che l'auto era semisommersa, le ruote posteriori ancora aggrappate alla sponda innevata. Eppure l'acqua le era salita oltre la vita. I piedi avevano perso ogni sensibilità. Le sembrava di fluttuare, come se il veicolo non la trattenesse più. Con un improvviso strattone il piede si liberò. Lei balzò su e il suo corpo prese a scivolare sopra i sedili anteriori fino a uscire dalla portiera del passeggero. Si stava muovendo, qualcuno la trascinava, lo sapeva, ma era inerme nelle sue braccia. Sentì il vento e la neve sul viso, poi la sensazione di movimento cessò. Era distesa sulla schiena in una coltre di neve fresca. Nell'oscurità riusciva appena a distinguere l'immagine dell'uomo in piedi sopra di lei. Non ci vedeva quasi più. Si sforzò di ascoltare, aspettandosi che lui dicesse qualcosa. Udì il vento ululare sotto il ponte alle sue spalle. Ma lui non disse nulla, o almeno così le parve. Si sfilò semplicemente il cappotto e la coprì. E poi si allontanò. Peyton si sollevò su un gomito, e lo guardò. Chiamò, implorò: Non andare via! Ti prego, torna indietro! L'uomo continuò a camminare, senza mai voltarsi. Si distese di nuovo, affondando nel banco di neve. Notò che, là dove aveva preso la forma della sua testa, la neve era rossa. La vista del sangue non la agitò. Le sue ferite erano di secondaria importanza. Scrutò il cielo notturno, nel turbinio dei fiocchi che cadevano, e un pensiero la assillò. «Jamie», disse debolmente, poi cedette all'oscurità. 4 Kevin Stokes si svegliò alle 4.17 del mattino e si guardò attorno nella stanza d'albergo. I suoi occhi si abituarono all'oscurità, rivelando l'evidenza davanti a lui. Sul comodino, un assortimento di bottigliette di liquori vuote, tutte dal minibar. I suoi vestiti giacevano accanto al letto, ammucchiati, proprio accanto a quelli di lei, proprio dove si erano precipitosamente svestiti l'un l'altra sei ore prima. Pregò Dio che fosse solo un sogno, ma sapeva che non era così. Troppi rimorsi per un semplice sogno. Sandra aveva insistito per mantenere fresca l'aria nella stanza - «frizzante», diceva - ma adesso lui era al caldo sotto la soffice trapunta, uno snello corpo nudo accanto al proprio. Lei dormiva sul fianco sinistro, dandogli la
schiena. La curva della sua vita gli bloccava il braccio, e le dita gli formicolavano come punte da migliaia di aghi a causa del blocco della circolazione. Delicatamente, per non svegliarla, estrasse la mano, facendo scivolare le dita sul suo sodo fondoschiena. Il contrasto era notevole, una pelle tanto morbida in un posto tanto duro. Sexy, nel vero senso della parola. Non era il genere di corpo che si aspettava di trovare sotto quei grigi e noiosi completi da avvocato che lei indossava in ufficio. Niente la notte scorsa era stato come se lo aspettava. Ora che era sobrio, un pensiero lo assillò. Devo andarmene da qui. Ritirò la mano. Il gomito di lei scattò come una catapulta, colpendolo sul mento. La testa gli volò all'indietro, andando a sbattere contro la testata del letto. «Ahi, merda!» Improvvisamente sveglia, Sandra balzò su nel letto. «Qualcosa non va?» chiese con voce allarmata. Il suo sguardo confuso gli fece capire che non si era neppure accorta di averlo colpito. Si massaggiò la mascella dolorante, facendola schioccare. «Dormi come un Marine pronto a entrare in azione.» «Di che stai parlando?» «Niente. Continua pure a dormire.» Sandra scosse il capo, come se lui fosse matto, ma era troppo assonnata per discutere. Sprofondò con la guancia nel cuscino e si riaddormentò quasi istantaneamente. Kevin si mise seduto appoggiandosi alla testata, gli occhi sgranati. L'aria gelida entrava dalla finestra. Era aperta solo un filo, per rinfrescare la stanza come piaceva a lei. Ma faceva troppo freddo. Il tempo era stato orrendo per tutta la giornata e, a giudicare dall'ululato del vento, non poteva che essere peggiorato. Odio Boston. All'improvviso si ricordò di non essere a Boston. Era a Providence, nel Rhode Island, ma per lui si trattava del medesimo blocco di ghiaccio. Non riusciva proprio ad abituarsi al freddo. Kevin era nato nella Conch Republic, meglio conosciuta come Key West, in Florida. Era cresciuto in T-shirt e calzoncini su un'isola dal clima mite, aveva vissuto i primi diciotto anni della sua vita in un vero e proprio paradiso, dove era notizia da prima pagina se la temperatura dell'aria o del mare scendeva sotto i ventidue gradi. L'inverno gli era stato intollerabile persino a Tallahassee, dove aveva frequentato il college e poi la facoltà di giurisprudenza alla Florida State
University. Durante il secondo anno di università si era innamorato di una studentessa bellissima e decisamente brillante, il cui cuore era orientato più verso la carriera che la famiglia. Lo aveva sposato solo a condizione che dopo la sua laurea si trasferissero a Boston, in modo che lei potesse frequentare la facoltà di medicina ad Harvard. All'epoca sarebbe stato disposto ad andare a vivere in un igloo nello Yukon, pur di concludere il matrimonio. Era un ottimo studente e collaborava con la redazione del suo giornale universitario, credenziali sufficienti per assicurargli un posto in uno dei prestigiosi studi legali di Miami o Atlanta. Spedì il suo curriculum ai migliori avvocati di Boston, ma presto scoprì che i grossi studi del nord non erano impressionati dalle università di legge del sud, almeno non da quelle che non includevano Thomas Jefferson fra gli ex allievi. Neppure un'offerta di lavoro. Avrebbe potuto abbassare le proprie aspettative e accettare di lavorare per uno studio più piccolo, ma di fronte al successo di Peyton sarebbe sembrato una sconfitta. Era autunno, cinque anni prima, quando lui e la sua novella sposa si erano recati per la prima volta a Boston per cercare un appartamento; Kevin ancora disoccupato. Per divertimento, andarono a vedere una partita di football ad Harvard, un patetico incontro fra due squadre della Ivy League che avrebbero perso contro qualunque squadra di seconda categoria della Florida State University. Quelli di Harvard vennero sconfitti 42-0, un punteggio che qualunque amante dello sport troverebbe ridicolo. Quarantadue punti significavano sei touchdown e sei punti extra. Una dozzina di punti segnati dalla squadra avversaria, e ogni volta la tribuna degli studenti di Harvard rispondeva all'unisono con quella rumorosa incitazione, un'arrogante celebrazione che, per Kevin, ben riassumeva le sue attuali difficoltà a trovare un impiego. Non importa, non t'arrabbiare, un giorno per il governo andrai a lavorare! Non aveva aiutato, poi, che al quinto touchdown, la sua stessa moglie fosse stata presa dall'eccitazione e si fosse unita al coro. Con il sostegno di un suo professore di legge che aveva studiato ad Harvard, alla fine lui riuscì a ottenere un colloquio con un prestigioso studio legale che contava duecento avvocati, la Marston & Wheeler. Li impressionò abbastanza da guadagnarsi l'opportunità di fatturare duemilasettecen-
to ore all'anno, a caccia dell'inafferrabile premio, anche se si rendeva conto che diventare socio senza un pedigree da Ivy League sarebbe stata un'impresa assai ardua. Kevin pensava che se avesse lavorato sodo e dimostrato loro cosa era in grado di fare, si sarebbe sistemato. Ma gli ultimi cinque anni avevano provato soltanto che il sistema di caste degli studi legali si fondava quasi esclusivamente sui titoli di studio. I clienti che si rivolgevano alla Marston & Wheeler erano disposti a pagare salato per essere rappresentati da avvocati della Ivy League, fine della storia. Non importava quanto fosse bravo: Kevin era lungi dal diventare socio. Dio, odio Boston. Il freddo nella stanza stava diventando insostenibile. Lo spiraglio di due centimetri che Sandra aveva lasciato aperto la sera prima pareva portare correnti artiche. Uscì dalle coperte, facendo attenzione a non svegliare la kick boxer che aveva accanto. Il pavimento di piastrelle era gelato come un campo di hockey. Si diresse rapidamente in punta di piedi verso la finestra e, nell'oscurità, batté l'alluce contro la gamba di una sedia. Gemette ma non urlò, saltellando su un piede solo, facendo del suo meglio per non svegliare Sandra. Squillò il telefono. Non quello sul comodino. Era un trillo più acuto, appena udibile, in apparenza ovattato. Proveniva dalla tasca della sua giacca, che era appoggiata sulla sedia, la maledetta sedia. Cercò a tentoni il cellulare, si precipitò all'altro capo della stanza, il più possibile lontano da Sandra, e rispose più piano che poté. «Pronto.» «Parlo con Kevin Stokes?» chiese una donna. Lui sussurrò a denti stretti, ancora dolorante. «Sì. Chi è?» «Chiamo dal Brigham and Women's Hospital. Lei è il marito della dottoressa Peyton Shields?» Lanciò un'occhiata alle curve sotto le coperte, poi distolse lo sguardo. «Sì. Ma Peyton lavora al Children's Hospital. Che cosa è successo?» «Sua moglie è stata coinvolta in un incidente stradale.» Kevin rimase di ghiaccio, e non fece più caso al freddo. «È...» «Si trova in terapia intensiva.» «Si rimetterà?» «Per ora non posso dirle altro, signore. Ma se desidera può venire qui a parlare con un medico.» «Sì, certo. Il vostro ospedale si trova accanto al Children's, vero?» «Sì. Vada all'accettazione al primo piano.» «Grazie. Sarò lì il prima possibile.» Spense il cellulare e vide Sandra seduta nel letto.
«Qualcosa non va?» gli chiese. Lui la ignorò e si infilò pantaloni e scarpe. «Kevin», disse lei in tono severo. «Cosa c'è?» «Devo andare.» «Perché?» «Un'emergenza. Devo tornare a Boston.» Si abbottonò frettolosamente la camicia, sbagliando asole, e dovette ricominciare da capo. «Che genere di emergenza?» Kevin provò un brivido alla schiena. La finestra era ancora aperta. La raggiunse e la chiuse di schianto. «Si tratta di Peyton. Devo partire subito.» «Sei paranoico.» Non aveva il tempo né la voglia di mettersi a discutere. Afferrò le chiavi dell'auto appoggiate sulla cassettiera. «Prendo io la macchina a noleggio, va bene?» «Che cosa?» «Dovrai occuparti delle riunioni di oggi da sola. Ti spiegherò più tardi.» Si precipitò alla porta e attraversò di corsa la hall, diretto nella sua stanza. Se solo vi ci fosse rimasto dopo cena, e avesse detto a Sandra di essere troppo stanco per seguirla in camera a «preparare gli incontri del giorno successivo». Avrebbe voluto prendersi a calci, invece afferrò la ventiquattrore e il borsone da viaggio e andò verso l'ascensore. Naturalmente, era fuori servizio. Scese le scale come il vento, due gradini alla volta, spinto sia dal bisogno di raggiungere Peyton in ospedale sia dal desiderio di fuggire da Sandra e da quel terribile errore. Non sapeva come diavolo avesse fatto il suo matrimonio a finire in tal modo. Avrebbe potuto biasimare Peyton per la sua indifferenza. Quando le aveva detto del viaggio, lei non si era nemmeno presa il disturbo di scrivere l'indirizzo dell'albergo o di chiedere quando sarebbe tornato. Lui aveva semplicemente ricevuto il solito «Ciao, tesoro, ci vediamo quando torni». Peyton non aveva tempo di parlare, non aveva tempo di ascoltare, non aveva tempo per fare sesso né per nient'altro che non fosse la pediatria. Era forse colpa sua se non riusciva a sopportare la solitudine? Cercò di aprire la porta d'uscita in fondo alle scale, ma dovette riprovarci con maggior forza. Il vento era fortissimo. Quando uscì lo fece quasi cadere, congelandolo all'istante. La strada era una lastra di ghiaccio coperta da trenta centimetri di neve fresca, e non aveva ancora smesso di nevicare. Le macchine erano indistinti mucchi bianchi. Provò con uno, poi con un altro,
incapace di capire quale delle anonime berline americane fosse quella che lui e Sandra avevano noleggiato. Al terzo tentativo fece cadere le chiavi nella neve. Prese a scalciare tutto intorno ma senza risultati. Si mise in ginocchio e cercò freneticamente, fino a perdere sensibilità alle dita. Alla fine trovò le chiavi e tentò di aprire la portiera. La serratura era coperta di ghiaccio. Cercò di romperlo con la punta della chiave, poi forzò la serratura e diede uno strattone alla portiera. Mentre lo sportello si apriva cigolando, la neve cadde dal tetto come una valanga, ricoprendogli la testa e infilandosi dentro il colletto della camicia e giù per il collo. La montagna sul parabrezza era troppo pesante per il tergicristallo, così afferrò la spazzola e lo pulì. Sotto la soffice coltre si celava una solida crosta di ghiaccio. La grattò via con una spatolina di plastica, con tanta foga e velocità da farsi sanguinare le nocche. Il riquadro pulito era grande solo quel tanto da permettergli di vedere dove andava, ma le sue dita non potevano sopportare oltre. Accese il motore. Da sotto il cofano si levò un mormorio letargico, poi uno scatto, poi il silenzio. Provò ancora. Niente. Fissò fuori, attraverso lo spiraglio che era riuscito ad aprire sul parabrezza ghiacciato. Persino dentro la macchina il fiato si condensava. Gli tremavano le mani. Rimase seduto nell'oscurità a pensare a Peyton in un letto di ospedale, attaccata alla vita per un soffio, mentre lui se ne stava comodo e al calduccio nella stanza d'albergo di un'altra donna attaccato a... Chiuse gli occhi per la vergogna e la rabbia. Dio, quanto odio Boston. Lasciò le chiavi inserite, sbatté la portiera e annaspò nella neve in cerca di un autobus, un taxi o magari una slitta trainata da cani. 5 Kevin arrivò in ospedale poco prima delle sei e mezzo del mattino. Per trecento dollari, il direttore di turno in albergo aveva accettato di mettere a rischio la vita e di accompagnarlo in macchina fin lì. Ci erano volute più di due ore per coprire la distanza fra Providence e Boston, tragitto che di solito richiedeva metà del tempo, e questo solo perché avevano avuto la fortuna di rimanere a lungo dietro uno spazzaneve. Solo mentre attraversava faticosamente il marciapiede innevato per raggiungere l'entrata spazzata dal vento, Kevin si rese conto di quanto fosse stato stupido. Aveva scelto proprio quella notte, in cui Peyton aveva più bisogno di lui, per cedere infine alle avance di Sandra.
Un'ondata di calore lo travolse quando si precipitò nell'atrio. In meno di un minuto prese a gocciolare. Nel breve percorso fino all'ingresso dell'ospedale aveva accumulato sul corpo neve e ghiaccio sufficienti a farlo assomigliare allo Yeti. «Kevin?» Sua suocera, Valerie, stava parlando a un telefono pubblico. Quando lo vide, riagganciò e gli venne subito incontro. Aveva un'aria sbattuta, anche se di solito era una donna attraente, con lo stesso bellissimo viso, gli stessi occhi espressivi di Peyton. Kevin aveva visto tutta una serie di foto in cui lei e la figlia erano vestite con abitini estivi, abbigliamento da equitazione o costumi da bagno molto simili. Più Peyton cresceva, più la madre cercava di sembrare giovane. Forse il suo scopo finale era che le scambiassero per sorelle. «Dove accidenti eri finito?» Ecco una domanda interessante. «Sono venuto qui di corsa non appena ho ricevuto la chiamata dall'ospedale. Come sta Peyton?» «È piuttosto malconcia, ma se la caverà, grazie al cielo. Povera ragazza, era così confusa che non riusciva nemmeno a ricordare il nome del tuo albergo a Providence. Non era neanche sicura che tu glielo avessi detto prima di partire.» «Gliel'ho detto. E poi lei sa che può sempre raggiungermi sul cellulare. Lo lascio acceso anche quando lo metto in carica.» «Ho provato a chiamarti tutta la notte.» «Probabilmente non l'ho sentito perché stavo dormendo.» Valerie parve un po' sospettosa. Forse Peyton le aveva confidato che ultimamente loro due non andavano più d'accordo. O forse aveva solo un fiuto eccezionale. «Dov'è Hank?» chiese, riferendosi al suocero. «Di sopra. Io avevo bisogno di allontanarmi per qualche minuto da tutti quei macchinari della terapia intensiva. Mi rendono nervosa.» «Che cosa dicono i dottori?» «Nessuna frattura, miracolosamente. Una brutta distorsione alla caviglia e una profonda ferita alla gamba. Ventisei punti sul polpaccio destro. Ha perso un sacco di sangue. Pare che le ferite alle gambe sanguinino moltissimo.» «Però starà bene?» «Fisicamente, sì. Emotivamente, dovremo aspettare per vedere. Anche se potrebbe rimanerle qualche cicatrice.»
«Sulla gamba, intendi?» «Sì», disse lei, poi distolse lo sguardo, fissando il vuoto. «E sul viso.» Kevin si sentì mancare. Quel viso bellissimo. «Che cosa è successo?» «Schegge di vetro.» La voce era tesa. «Sul lato sinistro. Non si sa ancora quanto sia grave. L'hanno bendata.» Kevin abbassò la testa, in silenzio. «Avrà bisogno di molto sostegno da parte di tutti noi», continuò lei. «Io sono ottimista. Peyton è una ragazza forte. Solo che non è mai passata attraverso questo genere di trauma emotivo. Con la perdita di sangue e tutto il resto.» «Perché la perdita di sangue dovrebbe essere un fattore emotivo?» Valerie si limitò a guardarlo. Kevin le chiese: «Mi stai nascondendo qualcosa?» «Be'. È quello che mi ha detto la dottoressa. Quando una donna perde molto sangue e molto in fretta, be'... sai.» «Che cosa?» «Può verificarsi un aborto.» «Aborto?» «Mi spiace», disse. «Ha perso il bambino.» «Bambino?» I loro occhi si incontrarono. La confusione di Valerie si trasformò in rabbia e gli disse: «Peyton era all'undicesima settimana. Non lo sapevi?» «Non mi aveva detto niente.» Lei si avvicinò, guardandolo con occhi torvi. «Senti, Peyton non conosceva il nome del tuo albergo a Providence. Io ti ho chiamato nel mezzo della notte e tu non hai risposto al cellulare. Ora scopro che non sapevi nemmeno che tua moglie era incinta. Non mi piace quel che immagino, quindi è meglio che tu mi dia una risposta diretta. Che cosa sta succedendo, ragazzi?» Lui rimase in silenzio, in cerca delle parole giuste. «Non siamo più dei ragazzi. Forse è proprio questo che sta succedendo.» Jamie. Quello doveva essere il nome del bambino. Andava bene sia per un maschio sia per una femmina, come il suo. Jamie Stokes. O Jamie Shields. A seconda che... be', non era più un problema. Quando l'avevano portata al pronto soccorso, era ancora abbastanza lucida da riuscire a dire che era incinta. Aveva perso e ripreso conoscenza di continuo mentre le curavano le ferite, ma a un certo punto aveva sentito un
medico parlare della necessità di una dilatazione e di un raschiamento. E così aveva saputo dell'aborto spontaneo. «Peyton?» Provò ad aprire gli occhi, però uno rimase nell'oscurità. L'occhio buono seguì i tubi di plastica della flebo dalla sacca fino al suo braccio, e lentamente lei cominciò a comprendere dove si trovava. Si sentiva stordita ma abbastanza in forze da alzare una mano per tastare i bendaggi. Sembravano enormi, coprivano un occhio e metà della fronte. Un'ondata di panico la pervase al pensiero di una grave ferita al volto. «Kevin?» mormorò. Lo sentì stringerle la mano, poi lo vide. Provò a sorridere, ma aveva il viso insensibile. Almeno per metà. La metà ferita. La metà di cui solo Dio sapeva che aspetto avesse. «Che cosa è successo?» «Hai avuto un incidente d'auto.» Sollevò appena la testa dal cuscino, cercando per quanto possibile di mettersi seduta. «Lo so. Intendevo, che cosa dicono delle mie ferite?» «La dottoressa ti spiegherà meglio di quanto non possa fare io. Ma dice che starai benone.» «E il mio aspetto?» Kevin non rispose subito. «Hai l'aria di una donna fortunata di essere ancora viva.» «Ora sembri mio padre.» «Preferiresti che sembrassi tua madre?» «Solo se mi raddoppiano le dosi di antidolorifici.» Condivisero un debole sorriso. Poi lentamente lei si guardò attorno nella stanza, per orientarsi. I macchinari, i monitor, i suoni che aveva imparato a conoscere durante l'internato. «Sono ancora in terapia intensiva.» «Soltanto finché i tuoi valori si saranno stabilizzati. Hai preso una bella botta in testa, quindi non vogliono correre rischi.» «Che ore sono?» «Appena passate le nove.» «Mi sento come una che si è appena risvegliata dal coma.» «Devi essere distrutta. Hai perso molto sangue.» Le sue parole rimasero sospese nell'aria, entrambi consapevoli delle conseguenze di quella perdita di sangue. Con o senza bende, Peyton sapeva di non riuscire a nascondere l'espressione affranta che aveva dipinta in volto. «Mi spiace per...» «Possiamo evitare di parlarne ora?» «È solo che non capisco. Perché non mi hai detto che eri incinta?»
«Mi dispiace. Stavo aspettando il momento più adatto per farlo.» «E perché il momento giusto non è mai arrivato?» «È... complicato.» «So che ci siamo allontanati un po', ultimamente. Ma le cose non andavano così male da non potermi dire che avremmo avuto un figlio, no?» «Mi ami?» Kevin si mostrò stupito dalla domanda, anche se Peyton dubitava della sua sincerità. Sentiva che negli ultimi tempi era cambiato. «Lo sai che ti amo», disse lui. «No, non lo so. È da qualche mese che mi sembra di non piacerti più, figuriamoci amarmi.» «Forse sarebbe stato diverso se mi avessi detto che aspettavi un bambino.» «Questo è il punto. Non volevo che rimanessi con me solo perché ero incinta, mentre avresti preferito essere altrove.» «Come ti vengono certe idee?» le chiese. «Credi davvero che io potrei mai lasciarti?» «Un anno fa avrei detto di no. Ma ho l'impressione che, più faccio carriera, meno ti importa di me.» «Non è vero.» «Sei certo di non esserti stancato di me?» Lui rimase in silenzio per un istante, poi le carezzò la guancia con il dorso della mano. «Questa conversazione non ha senso. Ti stai preoccupando per niente.» Lei abbozzò un sorriso triste. «Mi spiace. Forse non riesco a pensare in modo lucido.» «Capisco. So che sei sconvolta. Se quel buon samaritano non ti avesse soccorsa, saresti morta congelata.» La menzione del salvataggio mise in moto la mente di Peyton. In un flash, l'immagine riaffiorò. L'uomo che la estraeva dalla macchina, che la faceva sdraiare nella neve, coprendola con il suo cappotto. «Mi ha lasciata lì.» «Cosa?» «Mi ha estratto dalla macchina e poi se n'è andato.» «Suppongo non volesse essere coinvolto. Però ha avuto il buon senso di chiamare il pronto intervento.» Lei gli prese la mano, per far smettere di tremare la sua. «Devo parlare con la polizia.»
L'infermiera apparve sulla soglia della stanza. «È ora di riposare.» «Ancora un minuto, per favore», rispose Peyton. Strinse più forte la mano di Kevin, rifiutandosi di lasciarlo andare. «Voglio parlare con loro, davvero.» «Direi che il rapporto della polizia sull'incidente può aspettare.» «È proprio questo il punto. Non credo sia stato un incidente. Mi hanno buttata fuori strada.» «Vuoi dire che l'automobilista era ubriaco o qualcosa di simile?» «No», rispose lei, in tono terribilmente serio. «Penso sia stato un atto deliberato.» «Perché mai qualcuno dovrebbe volerti fare del male?» «Ti ho raccontato del fidanzato violento di quella ragazza che è arrivata con il suo bambino nella clinica di Haverhill. Temevo potesse vendicarsi. E forse è proprio quello che è successo.» «D'accordo, avvertirò la polizia», la rassicurò il marito. «Ma voglio che tu pensi solo a rimetterti. Sono certo che non sia successo niente del genere. Ricordi che un paio di mesi fa sostenevi di aver sentito qualcuno armeggiare con la serratura della porta di ingresso?» «Eppure c'era davvero...» cominciò, poi s'interruppe. Kevin era fuori città quando lei aveva sentito quello strano rumore di notte e, quando gliene aveva parlato, lui si era detto pronto a prendere armi e bagagli e trasferirsi. Peyton non voleva che la sua paranoia gli desse un nuovo pretesto per riattaccare con la solita tiritera: che cosa aspettiamo ad andarcene da Boston? L'infermiera entrò di nuovo nella stanza. «È ora di rifare la fasciatura. I parenti potranno tornare più tardi.» Kevin si protese sul letto e baciò Peyton sulla fronte. Lei gli trattenne la mano e lo trasse a sé, parlando piano, in modo che l'infermiera non sentisse. «Forse non guasterebbe avere una guardia fuori della porta della stanza. Ti prego, sono un po' spaventata.» «Okay. Ci penso io.» «Promesso?» chiese lei, fissandolo intensamente. Quello sguardo che da sempre la contraddistingueva. «Sì. Promesso.» «Grazie.» Kevin uscì. Peyton distolse lo sguardo, dirigendolo verso la finestra, e notò per la prima volta il suo viso pallido riflesso nel vetro. Tutte quelle bende la fecero trasalire. Decisamente troppe per pochi graffi. «Adesso», disse l'infermiera, «controlliamo l'occhio.»
Lei fece un respiro profondo. «Va bene», mormorò. «Controlliamo.» 6 Peyton provò a dormire, ma i rumori della sala di terapia intensiva erano incessanti. Rimase sdraiata a occhi chiusi, grata di essere viva e al tempo stesso furiosa per quanto era accaduto. L'occhio non era danneggiato, sebbene ci fosse un grosso taglio sul sopracciglio. Temeva le rimanesse una cicatrice, e quel timore la faceva sentire in colpa, come se le sue lacrime dovessero essere destinate alla vera perdita, non a quelle estetiche. Udì qualcuno arrivare ma finse di dormire, non era in vena di ricevere visite. Le voci si fecero più forti a mano a mano che riacquistava lucidità. Non sapeva da quanto tempo i suoi genitori fossero lì seduti accanto al letto a parlare tra loro mentre lei scivolava dentro e fuori il dormiveglia. «Ho ragione io, Hank», affermò la madre, ma Peyton l'ascoltava solo a metà. Eppure c'era stato un periodo in cui ignorare la mamma avrebbe rappresentato per lei un'offesa capitale. Ricordava il vecchio tormentone: «Peyton, mi stai ascoltando?» seguito dall'inevitabile: «Allora ripeti quello che ho detto». Sua madre aveva sempre cercato di educarla. Una semplice domanda come: «Che cosa hai fatto a scuola oggi?» poteva evolvere in un'estemporanea interrogazione di matematica mentre tornavano a casa in macchina. Quando giunse il momento di scegliere il college, lei non vedeva l'ora di andarsene lontano, alla Florida State University, il che era l'esatto contrario di quello che la mamma avrebbe voluto. Da giovane, Valerie Stanton era una graziosa bionda dalla pelle chiara che conduceva la tipica vita degli intellettuali di Boston, completa di estati nel Maine e di una casa a Brookline, forse disegnata da Charles Bulfinch prima di ricevere l'incarico di progettare il Capitol di Washington. Aveva frequentato Princeton e si era iscritta a un master ad Harvard quando si era innamorata di un aitante atleta universitario entrato al Boston College con una borsa di studio. Era simpatico e divertente, del tutto diverso dal tipo di uomo che pensava di sposare. Hank Shields non si laureò mai. Valerie non completò mai il suo master. Rimase incinta, e trascorse il resto della vita ad assicurarsi che la figlia si costruisse un'esistenza migliore della sua. Peyton si era sentita ripetere in continuazione lo stesso consiglio, anche la notte prima che si mettesse in auto per raggiungere Tallahassee. «Qualunque cosa farai», le aveva detto la madre, «non commettere il mio stesso errore.»
Peyton si stupiva che una donna tanto intelligente non si rendesse conto del vero messaggio che le aveva trasmesso per tutti quegli anni: «l'errore» sei tu. «Che cosa stai facendo?» Ancora sua madre, rivolta al marito. «Sto pregando», rispose lui. Peyton avvertì un silenzio carico di disagio. Sapeva che la madre non si rivolgeva più a Dio. «Fammi un favore», disse Valerie. «Chiedigli perché è successo questo.» «Non gli sto chiedendo niente. Lo sto ringraziando.» Un sonoro sospiro si levò nella stanza. «Il solito Hank», mormorò lei, come parlando fra sé. «Se un asteroide si schiantasse sulla terra, noi tutti dovremmo ringraziare Dio per averci lasciato la luna.» «Ti ho sentito», replicò lui. Peyton percepì la lite imminente. Fin dall'infanzia ricordava come la madre si metteva a litigare con il marito in sua presenza. Stava per aprire gli occhi e troncare la discussione sul nascere, quando la udì domandare: «Stai pregando per il bambino?» Il padre chiese a sua volta: «Vuoi che lo faccia?» «Solo se pensi che Peyton sarebbe d'accordo.» Suo padre abbassò la voce. «Certo che è così.» «Nei sei davvero sicuro?» «Sì.» Peyton sentì le palpebre tremare, come bramose di aprirsi, ma continuò il suo falso sonno. «Credi che...» Sua madre si interruppe. «Cosa?» «Credi che lei volesse questo bambino?» Fu come un pugno nello stomaco, ma Peyton non batté ciglio. «Assolutamente sì», affermò suo padre. «Hai risposto troppo in fretta», replicò la madre. «Tanto per fare una cosa diversa, pensa prima di parlare.» «Non ho bisogno di pensarci. So quanto stia soffrendo.» «Solo perché è triste per aver perso il bambino, ciò non significa che fosse elettrizzata all'idea di averlo. Non ha detto a nessuno di essere incinta. Nemmeno a Kevin.» «Queste sono faccende private fra loro due.» «Al diavolo. Non ti accorgi che hanno dei problemi?»
«Devi sempre ficcare il naso dappertutto, tu?» le chiese lui. «Se il suo matrimonio sta andando a rotoli, avrà bisogno del nostro sostegno emotivo. E non possiamo aiutarla, se non sappiamo cosa le sta succedendo.» Peyton non ebbe bisogno di aprire gli occhi per vedere il padre consegnare le armi. Era così che sua madre vinceva sempre. Sosteneva di preoccuparsi solo per il bene della figlia. «Che cosa dovremmo fare?» chiese lui. «Penso che dovremmo domandarle del bambino.» «Domandarle cosa, se lei lo desiderava davvero? È inutile.» «Se l'aiuteremo a rendersi conto che lei in realtà non lo desiderava, riuscirà a superare il fatto di averlo perso. Capirà che è stato meglio così.» «Lasciala al suo dolore, va bene? Per una volta in vita tua, smetti di dire a tua figlia come dovrebbe sentirsi.» «Lo farai o no?» «No», dichiarò lui con fermezza. «Allora ci penserò io.» «Io non lo farò. E se sei intelligente la metà di quanto ti consideri, la lascerai in pace.» «Che ne sai tu di intelligenza, Hank Shields?» Peyton rimase immobile, gli occhi serrati, sperando di sentire almeno quella volta papà rispondere a tono. Ma sapeva che era un uomo troppo per bene per apostrofare la moglie di fronte a sua figlia, persino se pensava che lei non fosse cosciente. Udì solo il rumore dei suoi passi che si allontanavano e quello secco della porta che si chiudeva. 7 Era quasi ora di pranzo quando sentì la voce di Kevin nel corridoio. Aveva mantenuto la promessa. Con lui c'era un detective della polizia di Boston. «John Bolton», disse l'uomo, con un tono perfetto per una stazione di polizia ma un po' alto per il reparto di terapia intensiva di un ospedale. Peyton gli strinse la mano, attenta a non strapparsi la flebo dal braccio. «Grazie per essere venuto.» «Non c'è problema.» Pronunciò quel «non» come se fosse una mucca, un lungo muggito con una «n» in fondo. Più lo esaminava, più Peyton tro-
vava che la similitudine bovina fosse calzante. Era un uomo grosso, senza dubbio muscoloso in gioventù, appesantitosi con l'età. Il viso era tondo e pieno. Portava una cravatta con il primo bottone del colletto aperto, non per essere casual ma perché non riusciva a chiuderlo. Quando lui si tolse il soprabito, notò dei rotoli di pelle sul retro del collo, piccoli gradini che portavano alla testa con i capelli a spazzola. Aveva una serie simile di gradini anche sulla fronte. «Vuole un po' d'acqua?» offrì Peyton, accennando alla caraffa sul comodino. «Nah, a posto così», rispose Bolton. «Sono sicuro che non si sente in forma smagliante, quindi farò in fretta. Ho letto il rapporto sul suo incidente, perciò so praticamente tutto quello che c'è da sapere sul caso, a parte quello che può aggiungere lei.» «Avete scoperto chi mi ha estratto dall'auto e chi ha chiamato il pronto intervento?» «La chiamata è stata effettuata da un telefono pubblico. Il tizio ha spiegato all'operatore di essere stato lui a tirarla fuori dall'acqua, ma non ha voluto dire il suo nome.» «E non le sembra un po' strano?» «Non esattamente. Viviamo in un'epoca in cui, se un tizio chiama la polizia e dice come si chiama, rischia che uno zelante avvocato lo citi per danni per aver rovinato il trucco alla sua assistita mentre la salvava da un incendio. Non si può biasimare la gente perché non vuole farsi coinvolgere.» «Forse ha ragione», disse Peyton, pensando alla causa intentata da Felicia nei confronti suoi e dell'ospedale. «In ogni modo», disse Bolton, prendendo una penna e un piccolo taccuino dalla tasca della giacca. «L'infermiera mi caccerà a calci fra cinque minuti, perciò, per quanto può ricordare, mi racconti che cosa è successo.» Peyton lanciò un'occhiata a Kevin in cerca di rassicurazione, poi cominciò. «Erano circa le tre del mattino. Ricordo che nevicava forte. Sempre più forte ogni minuto che passava. Mi sono fermata a un semaforo rosso e ho controllato i messaggi sulla segreteria del cellulare.» «Alle tre del mattino?» chiese Bolton. «È in pratica il solo momento libero che ho, ma questo non ha importanza. È scattato il verde. Ero in Riverway e mentre stavo per svoltare sulla Jamaicaway un'auto mi è sfrecciata accanto.» «Era ancora al telefono?»
«No. Avevo appena riagganciato.» «Quella per controllare la segreteria è stata la sola chiamata che ha effettuato?» «A dire il vero ho risposto a uno dei messaggi che avevo ricevuto, ma non capisco che differenza possa fare.» «I dettagli sono sempre importanti. Chi ha chiamato?» «Il dottor Simons. Gestisce la clinica di Haverhill, dove lavoro quattro giorni al mese. Dove lavoravo, suppongo dovrei dire.» «Perché suppone di doverlo dire?» «Dire cosa?» «Che lavorava lì.» Peyton esitò. «Perché mi fa questa domanda?» «Sto solo cercando di avere un quadro completo della situazione. Si ferma a un semaforo rosso e controlla i messaggi sulla segreteria. Ascolta qualcosa di così importante da spingerla a chiamare il dottor Simons alle tre del mattino. Se si è trattato di un'emergenza medica, può essersi distratta. Se era una questione personale, può essersi agitata. Entrambe le ipotesi riducono la capacità di concentrazione nella guida.» «Se sta insinuando che l'incidente sia in qualche modo imputabile al fatto che ero al telefono, si sbaglia.» «Forse. Ma qual era la natura della sua chiamata?» Peyton rifletté un istante, per scegliere le parole giuste. «Personale.» «La faccenda in questione l'ha forse turbata?» Kevin intervenne: «Non capisco che cosa c'entrino queste telefonate con le sue indagini». «Penso che lei abbia capito dove voglio arrivare», replicò Bolton. «Può rispondere alla mia domanda, dottoressa?» «Va bene. Ero turbata.» «Capisco.» Scribacchiò sul suo taccuino. «Quindi stava svoltando all'incrocio. Continui.» «E un'auto mi ha superato a una velocità decisamente eccessiva per le condizioni meteorologiche di quella notte.» «Vuol dire le stesse condizioni nelle quali lei stava guidando con una mano e tenendo il telefono con l'altra?» «Gliel'ho già detto, avevo riagganciato.» «Quanto tempo prima?» «Una manciata di secondi.» «Quindi era ancora turbata.»
«Un po'.» Kevin chiese: «Perché la sta costringendo a difendersi?» «Mi spiace», disse Bolton. «Devo confessare che i telefoni cellulari sono sulla mia lista nera. Personalmente, credo che provochino più incidenti degli autisti ubriachi.» «Ma non ha provocato questo», replicò Peyton esasperata. «D'accordo, mi racconti come è andata.» Lei si ricompose e proseguì: «Ho riagganciato. Se vuole sapere tutti i dettagli, diciamo che la telefonata è stata imbarazzante». «Che cosa intende?» Peyton non desiderava affatto risollevare la questione. «Volevo lasciare una comunicazione sulla segreteria telefonica del dottor Simons, ma il mio messaggio è stato... a dir poco goffo. Stavo decidendo se richiamare per chiarire. Poi davanti a me ho notato una macchina che si avvicinava velocemente. Era a un centinaio di metri di distanza.» «E stava ancora pensando alla chiamata che aveva appena effettuato?» «Forse.» «Bene. Quindi questa macchina le viene incontro mentre lei è, diciamo, preoccupata.» «Non ero preoccupata.» «Come vuole. Che cosa è successo?» Peyton rimase in silenzio, mentre l'immagine riaffiorava alla mente. «È strano. L'autista aveva acceso gli abbaglianti, così gli ho lampeggiato. Lui mi ha risposto allo stesso modo e poi è scomparso.» «Che cosa intende?» «Non riuscivo più a vederlo.» Bolton le rivolse un'occhiata perplessa. «Svanito nel nulla?» «Dopodiché è riapparso.» «Capisco. Una specie di David Copperfield.» «Niente affatto. Aveva semplicemente spento i fari. E suppongo che i miei fossero così coperti di neve da non permettermi di vedere molto lontano. L'ho perso. E poi, quando è riapparso, mi ha accecato all'improvviso con gli abbaglianti. Me li ha puntati contro. Ed era nella mia carreggiata.» La sua voce prese a tremare. Kevin le strinse una mano. Peyton proseguì: «Continuava ad avanzare verso di me, come se fosse un missile programmato per colpirmi. Era determinato a buttarmi fuori strada o a venirmi addosso frontalmente». Bolton si grattò la testa. «Capisco. E lei ha sterzato di colpo, suppongo.»
«Sì. È stato allora che ho perso il controllo dell'auto. Non ero al telefono. Non ero distratta. Dovevo fare qualcosa, o mi avrebbe travolta.» «È certa che fosse sulla sua corsia?» «Sì. Mi stava proprio davanti.» «Capisco. Ma come ha precisato poc'anzi, era turbata da quella telefonata. Fuori era buio e nevicava forte, e le strade erano coperte di neve e ghiaccio. Non è possibile che fosse lei a essere nella corsia dell'altra auto?» Peyton rimase in silenzio, valutando per la prima volta quell'ipotesi. «No.» «No?» disse Bolton, lasciando intendere che a lui sembrava plausibile. «Perché l'autista avrebbe spento i fari per poi accecarmi in quel modo, come un missile in avvicinamento?» «Forse non si trattava nemmeno della stessa auto. Ha detto che le condizioni meteorologiche peggioravano di minuto in minuto, e forse non ha visto quello che crede. La macchina che aveva notato prima può aver svoltato in un vialetto o aver imboccato una strada laterale. Poi ne arriva un'altra mentre lei sta guidando nella carreggiata opposta, e l'autista accende tutte le luci che ha a disposizione per far sì che si tolga di mezzo. A quel punto lei ha una reazione esagerata e finisce nello stagno.» «Non ho avuto una reazione esagerata.» «Non sto dicendo che sia una cattiva guidatrice. In quelle condizioni, il minimo errore può avere conseguenze disastrose.» «Allora mi spieghi una cosa», replicò Peyton. «Perché l'autista non si è fermato dopo avermi fatto uscire di strada?» «Forse non si è neppure accorto che lei aveva perso il controllo del suo veicolo.» «Io penso volesse investirmi.» «Dottoressa Shields, in tal caso staremmo parlando di una missione suicida. E il mio istinto mi dice che là non c'era nessuno pronto a mettere a repentaglio la propria vita in uno scontro frontale intenzionale. Ora, potrei capire se lei fosse Jennifer Aniston o Shania Twain. Non che non fosse... che non sia carina, naturalmente.» Peyton colse la gaffe ma ci passò sopra. Non c'era niente di carino in tutte quelle bende. «E l'uomo che ho fatto arrestare nella clinica di Haverhill? Kevin non gliene ha parlato?» «Me lo ha riferito. Ci sono voluti due minuti per controllare. Quel ragazzo è ancora in prigione. Non ha chiesto di uscire su cauzione, e quindi non
può averla mandata fuori strada.» Kevin intervenne di nuovo: «La polizia non può fare nulla per tranquillizzarci?» Bolton le chiese: «Ha notato il numero di targa?» «No.» «Modello e marca dell'auto?» «No. Poteva trattarsi di una Ford. Forse.» «Capisco.» Tutti quei «capisco» le stavano dando sui nervi. «Lei pensa che io sia paranoica», replicò. Bolton addolcì il tono di voce. «Penso abbia vissuto un'esperienza traumatica. Ora la cosa migliore che può fare è riposare e cercare di rimettersi in salute. Smetta di preoccuparsi di qualcuno che ha intenzione di ucciderla.» Peyton scrutò Kevin negli occhi, ma lui sembrava essere d'accordo con il detective. Appoggiò le mani sulle sue e le disse: «Andrà tutto bene». Bolton lasciò il suo biglietto da visita sul vassoio accanto al letto. «Se c'è qualche problema, mi dia un colpo di telefono. Auguri, dottoressa.» Peyton osservò in silenzio i due uomini stringersi la mano e uscire in corridoio. Prese il biglietto da visita e lo lesse. Forse il poliziotto aveva ragione. Forse la cosa migliore era smettere di preoccuparsi. Memorizzò il numero di telefono. Tanto per essere sicuri. 8 L'acuto trillo di una sveglia lacerò il silenzio. Un languido braccio uscì dalle lenzuola per spegnerla. Poi l'uomo rimase immobile sotto la montagna di coperte. Aveva dormito a lungo, ma non si sentiva riposato. Di solito non andava a letto a quell'ora ed era crollato a causa dell'enorme stanchezza. Tre giorni senza sonno erano tanti anche per lui. Invece di accendere la lampada, lasciò che i suoi occhi si abituassero alla penombra. Le veneziane aperte per metà tagliavano a strisce la luce della luna che si rifletteva sulla parete opposta della stanza. Un altro fascio di luce filtrava da sotto la porta chiusa dell'armadio a muro. Sul comodino accanto al letto, le cifre verdi fosforescenti della sveglia annunciavano le 22.55. Scivolò fuori del letto e si diresse assonnato ma con passo deciso verso
l'armadio. Le piastrelle del pavimento erano fredde. Quando raggiunse la maniglia, il fascio luminoso che proveniva da sotto la porta gli lambì le dita dei piedi, accendendole di un bagliore rosato. Udì il lieve ma familiare ronzio intrappolato all'interno. Aprì la porta e fu subito immerso nella luce rossa. La vista del computer gli fece abbozzare un sorriso, come se avesse ritrovato un vecchio amico. L'armadio a muro era stato completamente ristrutturato, in modo da fungere da postazione di lavoro. Le casse erano appoggiate sulla mensola sovrastante, come fermalibri di un'ordinata fila di CD. Sul pavimento c'era un subwoofer, accanto alla torre e all'unità zip esterna. Il monitor da ventun pollici aveva lo screen saver attivato, fonte della luce colorata. Lo schermo brillava di una di quelle strane sfumature che solo un computer può generare, un misto del rosso nerastro delle rose e di quello ferroso del sangue. Spostò la sedia davanti alla postazione e, sfiorando appena la tastiera, fece scomparire il rosso. Una selezione di icone punteggiò lo schermo. L'orologio nell'angolo segnava le 22.58. Ancora soltanto due minuti. Un semplice clic del mouse attivò la connessione Internet veloce. Sorvolò gli annunci pubblicitari, le notizie e le altre immagini che gremivano la sua home page. Cliccò sull'icona «chat istantanea». Era un visitatore regolare delle chat room online. Il concetto lo affascinava da tempo, quelle cosiddette stanze nel ciberspazio dalle quali i surfisti del Web potevano entrare e uscire a piacimento. Una volta dentro potevano scambiare messaggi scritti con persone che non avevano mai incontrato prima o semplicemente leggere i messaggi che si scambiavano gli altri, come la trascrizione di una conversazione telefonica privata. La vera bellezza, ovviamente, stava nell'anonimato. La gente si nascondeva dietro nickname tipo Cowgirl o Bad Ass. Questo gli ricordava la mania della radio CB negli anni Settanta, quando, dal sedile posteriore della station wagon della sua famiglia sentiva il padre parlare con altri automobilisti. Avevano tutti un nomignolo, e c'erano un sacco di coglioni aspiranti Burt Reynolds che si facevano chiamare «bandito», celando così la propria identità. Quella era stata la miccia delle moderne chat room. Erano le undici in punto. Rudy entrò in una dove, ogni notte, i fan dei vecchi film si incontravano per chiacchierare online. Quella sera stavano cercando di stabilire se i veri pionieri del cinema fossero stati gli americani o invece i francesi fratelli Lumière. A Rudy non interessava. Per lui, quella chat room notturna era solo un luogo di incontro, come starsene all'incro-
cio fra la Quinta e Vine perché sai che la donna dei tuoi sogni passa di lì tutte le notti alla stessa ora. Il piccolo riquadro sulla destra dello schermo indicava che con lui nella chat room c'erano altre ventidue persone. Non riconobbe il solito nickname di lei nella lista dei partecipanti, ma non significava nulla. Poteva essersene inventato uno nuovo... un alias che si serviva di un altro alias. Digitò il proprio messaggio nel tipico stile delle chat room, tutto minuscolo, lettere e numeri in sostituzione delle parole. «c 6?» Il messaggio apparve nel riquadro della conversazione, proprio accanto al suo nickname, RG. Attese una risposta, ma in fondo al cuore sapeva di avere poche speranze. C'era una possibilità su un milione che lei si connettesse proprio quella sera, dopo l'incidente. Stranamente, fino a poco tempo prima avrebbe scommesso il suo computer che sarebbe arrivata alle undici in punto. Era molto affidabile. Ma ciò accadeva prima che tutto il loro mondo cambiasse. «6 lì?» La risposta giunse da qualcuno che si faceva chiamare Windjammer. Forse quello era il suo nuovo nome. O forse era solo un estraneo bramoso di attaccare bottone. Il problema con gruppi così nutriti era che il tuo messaggio poteva essere letto da chiunque. Soltanto dopo esserti collegato con la persona che stavi cercando potevi accedere a una chat room privata, dove stare da soli. «6 tu, ladydoc?» Quello era stato il suo nickname fino al momento dell'incidente. Trascorse un minuto. Il dibattito online sui fratelli Lumière continuava. Riga dopo riga, il testo trascritto appariva sullo schermo sotto la sua domanda. Gli abituali lo ignoravano, bollando il suo intervento come irrilevante. Fissò lo schermo, quasi a esigere una risposta, ma mentre i cinefili continuavano a chiacchierare fra loro, si rese conto che lei non era collegata. Ciò non gli avrebbe impedito di ricollegarsi la sera successiva. Né di dirle come si sentiva... stasera. «mi spiace tanto», digitò, poi rimase in attesa per un po'. Le scuse di Rudy erano assolutamente avulse dal resto della discussione, ma se lei fosse stata là ad aspettare in silenzio, avrebbe capito di che cosa stava parlando. Conosceva il suo nickname. Sapeva che le sue scuse erano dirette a lei. E avrebbe capito per che cosa fosse dispiaciuto. Usare qualunque altro appellativo che non fosse un nickname significava
infrangere il protocollo, ma evocare un nome reale lo avrebbe forse aiutato a trasmettere la profondità dei suoi sentimenti. «dal profondo del cuore, peyton», aggiunse, poi cliccò sul mouse e uscì dalla chat room. 9 A casa. Dopo tre notti in ospedale ritornare era bello, per Kevin quasi quanto per Peyton. Abitavano in Magnolia Street, due isolati a nord dalla famosa Newbury Street, dove le magnifiche residenze vittoriane si mescolavano a gallerie d'arte, bei negozi e caffè all'aperto che, specialmente d'estate, conferivano alla zona un sapore europeo. Sebbene fosse costoso, Peyton aveva insistito per prendere quell'appartamento, e Kevin aveva capito le sue intenzioni. Non era stato felice di rimanere a Boston dopo che lei aveva terminato gli studi di medicina, così sua moglie lo aveva portato proprio nel cuore di quello che veniva considerato il luogo più in della città. Ironicamente, l'incidente stava dando loro la prima vera opportunità di condividere l'appartamento, loro due da soli. Stare a casa dal lavoro per accudire la moglie convalescente aveva anche aiutato Kevin a non pensare ai propri errori, a tenere Sandra alla larga. Non si spiegava del tutto quella storia, non avendo mai colto nessuna tensione sessuale fra loro. Lei era solo una piacevole compagnia e una buona amica alla Marston & Wheeler, una boccata d'aria fresca in quello studio legale dove gli avvocati gareggiavano l'uno contro l'altro come gladiatori nell'arena. Sandra era dotata di un'insolita saggezza e maturità. Sebbene fosse associata solo da un paio d'anni, ne aveva dieci più di Kevin. Laureatasi alla Columbia Law School, aveva rinunciato alla carriera per sposare un vedovo e allevare tre figliastri. Ma un giorno, mentre tornavano in macchina da Dartmouth - dove avevano lasciato la figlia più piccola al college - il marito, dopo dodici anni di matrimonio, le aveva confessato di avere un'amante da undici. A onor del vero, lei si riprese in fretta e riuscì a entrare nello studio più prestigioso di Boston, partendo dalla gavetta, determinata a recuperare il tempo perduto. Kevin sapeva che era stupido andare a letto con una collega di lavoro, ma proprio quello era stato il motivo che aveva reso le cose tanto semplici. Quando si era offerto volontario per investigare su una frode bancaria a Providence, perché «tanto a Boston non c'era nessuno ad aspettarlo a ca-
sa», Sandra aveva convinto il socio anziano ad affidarle la causa. Lei e Kevin avevano lavorato molto insieme e, dopo due mesi di viaggi avanti e indietro da Providence, le loro conversazioni avevano assunto un tono confidenziale. A volte dovevano fermarsi lì a dormire in albergo e durante la cena Sandra sondava sempre più in profondità, entrando nella sfera privata. Lui non si era nemmeno reso conto di quanto le stesse rivelando di se stesso e delle proprie perplessità, finché una sera lei ordinò una bottiglia di vino e gli raccontò tutto del suo orribile ex marito. Probabilmente non era sua intenzione piantare i semi del dubbio sul matrimonio di Kevin, ma il fatto che una persona brillante come Sandra potesse essere stata ingannata dal consorte fedifrago per undici anni lo portò a considerare che, se sua moglie non stava mettendo nemmeno un briciolo di energia nel loro rapporto, forse c'era qualcosa - o qualcuno - che Peyton gli stava nascondendo. Qualche settimana più tardi aveva stupidamente accettato l'invito della collega ad andare nella sua stanza per preparare le riunioni del giorno successivo. In realtà, lavorarono per un po', ma dopo averlo visto controllare il cellulare almeno una decina di volte, per essere certo di non aver perso nessuna chiamata, Sandra pronunciò le fatidiche parole, la proverbiale goccia che fece traboccare il vaso, aprire il minibar e il letto: «Tua moglie non ti ha chiamato per darti la buonanotte nemmeno stasera, eh?» Gli sembrava appropriato che fosse accaduto proprio nella notte culminata con l'incidente di Peyton. Un finale doloroso per l'errore più grosso della sua vita. «Vorrei tanto che tu oggi non dovessi partire», disse Peyton. Era seduta nel letto, appoggiata alla testata, la gamba ferita sostenuta da un cuscino. «È perché sentirai la mia mancanza o perché sei terrorizzata all'idea che arrivi tua madre?» «Mi appello al quinto emendamento.» «Ne ero certo.» Le porse una tazza di caffè. «Sai, il fatto che mi porti la colazione a letto mi fa venire in mente la prima volta che hai cucinato per me. Ricordi?» «Già, ricordo.» Era successo quando si frequentavano ai tempi del college. Le aveva preparato dei brownie, seguendo meticolosamente le istruzioni, mescolando gli ingredienti nel preciso ordine indicato sulla confezione. Prima il contenuto della busta. Mezza tazza esatta di latte. Un uovo. Poi aveva stupito Peyton infilando le mani nell'impasto, sporcandosi di cioccolato fino ai gomiti. Solo quando lei gli aveva porto un cucchiaio di legno si era ac-
corto di aver seguito la ricetta in modo eccessivamente scrupoloso: mescolare a mano per un minuto. «Questa è la prova che sei destinato a diventare un avvocato», gli aveva detto lei, provocandolo. Trenta secondi dopo si erano ritrovati nudi sul pavimento della cucina, ricoperti di cioccolato, a fare cose che nemmeno la minaccia della salmonella a causa delle uova crude era riuscita a frenare. Era un bel ricordo che apparteneva a loro due soltanto. Ma lui odiava quando Peyton raccontava quell'episodio agli amici. Lo faceva passare per un idiota. «Forse potresti cucinare dei brownie quando torni a casa», gli disse lei con un sorriso. «Certo. Come vuoi», rispose in tono più offeso di quanto non volesse. Peyton bevve un sorso di caffè, poi chiese: «Va tutto bene?» «Sì. È solo che vorrei poter evitare questo viaggio.» «Allora annullalo. Adoro averti qui con me.» «Non posso. Ma New York non è così lontana. In caso di emergenza, chiamami.» «Intendi forse se io e la mamma cercheremo di ucciderci a vicenda?» «Hai capito che cosa intendo.» «Non ho più paura, se è lì che vuoi arrivare.» «Bene.» Kevin si diresse verso la cassettiera e aprì la ventiquattrore. «Mentre sono via, perché non dai un'occhiata a questi?» Lasciò cadere una pila di fogli sul letto, poi si sedette accanto a lei. «Mi sono collegato a Internet ieri notte e ho stampato una lista di case in vendita. Che ne diresti di traslocare?» «Sai che non posso andarmene da Boston.» «Non dobbiamo trasferirci, solo lasciare l'appartamento. Con la stessa somma che paghiamo qui, e magari anche meno, potremmo affittare una casa con un'opzione di acquisto, quando la mia situazione lavorativa si sarà assestata. In una zona vicina all'ospedale e con un piccolo giardino. Qualcosa di più adatto a una famiglia.» Peyton era stupita. Lui non aveva mai voluto mettere radici a Boston. «È un'idea fantastica», rispose con un luccichio negli occhi. «È quello che ho sempre sognato. Ma tu non devi farlo... sai, per pietà.» «Non è affatto così.» Senso di colpa, forse, ma non pietà. «Tu odi questa città. Perché hai cambiato opinione?» «Il tempo che abbiamo trascorso insieme, solo tu e io, dall'incidente... mi ha fatto capire che per il bene della tua carriera devi rimanere a Boston. La
mia non sta andando da nessuna parte in ogni caso.» «Tu sei un avvocato più bravo di tanti altri qui.» «Lo studio non la pensa così. Nessuno dei soci mi ha detto niente di specifico, ma io so leggere fra le righe. Alla fine stanno riuscendo a sbarazzarsi di me.» «Mi spiace.» «Oh, be'. Sono stato uno stupido a pensare che avrei potuto fare strada in uno storico studio legale di Boston. Ho sprecato cinque anni. Non è colpa tua, ma so di aver sfogato la mia frustrazione su di te. Per questa ragione ultimamente ero così distante.» «Se era davvero questo che ti turbava, avresti dovuto parlarmene prima.» «Hai ragione. E prometto che d'ora in poi ti starò vicino.» «Parli sul serio?» «Assolutamente sì. Sono tornato. Puoi contare su di me.» «Bene. Ma qualcosa mi dice che dovrò comunque sorbirmi mia madre per i prossimi due giorni.» «Ho detto che sono tornato, non che sono perfetto.» Era riuscito a farla ridere. La baciò e si alzò, poi prese il cappotto e la ventiquattrore. «Il mio volo parte solo alle due, quindi se hai bisogno di me chiamami sul cellulare.» «Va bene.» Kevin si avviò verso la porta, ma lei lo fermò. «Ti amo», disse. Lui si voltò lentamente. «Ti amo anch'io.» Si infilò il cappotto e si diresse all'ingresso. Era ancora buio in soggiorno, ma non accese la luce. Per un istante rimase nel passaggio ad arco a fissare il vuoto, travolto all'improvviso dalla gravità di quanto era quasi successo. Se Peyton fosse rimasta ancora pochi minuti nell'acqua ghiacciata dello stagno, quei quattro giorni appena trascorsi insieme li avrebbe passati da solo a organizzare il funerale. Qualcuno, lui presumibilmente, avrebbe scelto il vestito da farle indossare, i gioielli, i ricordi che l'avrebbero seguita nella tomba. Si chiese quali parole di commiato avrebbe pronunciato, quale ultimo tributo avrebbe fatto scolpire sulla lastra di granito, quali segreti avrebbe sussurrato alla moglie immersa nel sonno eterno, dopo che tutti se n'erano andati, quando solo lei avrebbe potuto sentirlo, ammesso che fosse in grado di ascoltare. Mi spiace, Peyton. Mi spiace più di quanto tu possa immaginare.
Il vecchio orologio ticchettava sul caminetto. Ora di andare. Afferrò le chiavi e uscì. La porta si chiuse alle sue spalle, e il vento lo colpì con una raffica di fredda polvere bianca. In alcuni punti la neve sui marciapiedi arrivava ancora agli stinchi, in altri erano stati scavati sentieri ghiacciati. Nel cielo, un sole pallido lottava per fendere le grigie nubi invernali. Kevin fece un passo e si fermò. Notò qualcosa ai suoi piedi. Una rosa rossa a stelo lungo. La raccolse. La mano prese a tremargli, e non per il freddo. Che diavolo stava accadendo? Qualcuno che augurava a Peyton una pronta guarigione, forse. Magari i suoi genitori, un'amica, i colleghi dell'ospedale. Ma dei fiori sarebbero stati comprensibili, un bel mazzo assortito. Oppure della frutta. Non una rosa rossa. Si inginocchiò in cerca di un biglietto che poteva essere caduto lì attorno. Tolse la neve dalla soglia di casa, da principio con tocco leggero, poi più rapidamente, poi con fare febbrile, mentre controllava il gradino più alto, il secondo, quello successivo, dal portico fino al marciapiede. Niente. Si sedette sul gradino più basso e guardò la strada, esausto per il breve accesso di energia sprecata. Il respiro si condensava in bianchi sbruffi simili a quelli di un toro, mentre rimuginava le varie possibilità. Era ovvio che non ci fosse nessun biglietto. Nessuna firma. Non c'è bisogno di spiegazioni quando si manda una rosa rossa. Il messaggio era inequivocabile. Peyton si era trovata qualcuno? Non provava meno vergogna per la propria mancanza. Ora, tuttavia, l'intera situazione lo nauseava, e si chiese se non fosse stato cieco quanto Sandra nel suo disastroso matrimonio. Spezzò il gambo in due, gettò la rosa in strada e si diresse verso la metropolitana. 10 Non era proprio una bugia. Kevin si sarebbe arrabbiato se avesse scoperto che quel giorno lei aveva intenzione di tornare al lavoro. Così non aveva detto nulla. «Sei già qui?» le chiese stupita un'infermiera incontrandola in corridoio. Peyton sorrise senza fermarsi, non poteva perdersi in chiacchiere. Si sentiva meglio di quanto non sembrasse in apparenza, con le stampelle, un sopracciglio rasato pieno di punti, l'occhio sinistro circondato da sottili lace-
razioni provocate dai vetri infranti, e da un livido grosso come una ciambella. La lieve commozione era passata senza strascichi di nausea né emicranie. Il suo problema più grande era lo squarcio ricucito nel polpaccio, che la obbligava a sollevare ogni tanto la gamba per evitare che sanguinasse. Giudiziosamente, aveva programmato di fermarsi in ospedale solo un paio d'ore, tanto per farsi vedere e poi assistere alla lezione di mezzogiorno riservata agli interni in pediatria. Il responsabile del programma formativo le aveva assicurato che i suoi quattro giorni di assenza per malattia non sarebbero stati calcolati, ma era scontato che lei avrebbe dovuto recuperare in seguito. Per gli interni, ottenere del tempo libero era come trattare con uno strozzino: prenditi un'ora oggi, e la ripagherai con gli interessi domani. Usando la tessera di identificazione, Peyton entrò nel piccolo reparto di terapia intensiva neonatale. Non aveva un giro di visite da fare in quell'unità, ma era passata una settimana da quando aveva visto il suo prematuro preferito. Il piccolo Jacob Gordon aveva trascorso i primi tre mesi di vita in ospedale, un intero trimestre in cui avrebbe dovuto stare nel ventre della mamma. Ogni giorno sua madre arrivava per nutrirlo, tenerlo in braccio, cullarlo. Peyton aveva assistito la neonatologa che aveva preso in carico Jacob subito dopo la nascita, poi aveva seguito quotidianamente il bambino durante il suo turno nel reparto. E anche se ormai non lavorava più lì, gli si era affezionata e continuava ad andare a trovarlo. Si lavò le mani, poi aprì la porta. Ogni volta che varcava la soglia del reparto di terapia intensiva neonatale veniva colta da una strana sensazione. La luce era fioca, per favorire il sonno dei neonati. Nella sala c'era una decina di postazioni, con bambini minuscoli custoditi in incubatrici di plastica trasparente, molti di loro gravemente prematuri e nutriti via flebo, alcuni con l'itterizia addormentati sotto le lampade, tutti connessi a monitor di controllo del battito cardiaco e della respirazione. Si diresse decisa all'angolo di Jacob. I monitor erano silenziosi. L'incubatrice e la culla vuote. Il cuore prese a batterle forte e temette il peggio. «È andato a casa», le disse l'infermiera. «Quando?» «Due giorni fa.» Peyton sorrise, rincuorata al pensiero di Jacob finalmente a casa. Spesso la madre del piccolo sosteneva di avere intenzione di portarlo presto fuori al parco, e lei le ricordava sempre premurosamente che, come per tutti i neonati, ci sarebbe voluto un po' prima che fosse sicuro per lui avventurar-
si all'esterno. Venti o trent'anni. «È una notizia stupenda», disse, e fu subito colta da un moto di tristezza. Vedere i bambini entrare e uscire dall'ospedale faceva parte del suo lavoro, ma non essere riuscita a salutare un bimbo come Jacob le risultò più difficile del solito. Specialmente sulla scia della propria perdita. «Non sembra felice», commentò l'infermiera. «Lo sono moltissimo.» Guardò l'orologio. «Ora è meglio che mi metta al lavoro.» L'infermiera l'aiutò ad aprire la porta e Peyton la varcò con le stampelle. Giunta a metà del corridoio si rese conto che, a quel ritmo zoppicante, la sua vescica non le avrebbe permesso di arrivare fino al bagno dall'altra parte dell'ospedale. Così fece un rapido dietro-front ed entrò in quello del reparto di terapia intensiva neonatale, poi si fermò all'improvviso nell'udire il proprio nome. «Hai visto che la dottoressa Shields è tornata?» Era una voce di donna che proveniva da dietro una delle porte dei gabinetti. «Già», giunse la risposta da un altro gabinetto. Peyton riconobbe le voci che riecheggiavano lungo i pavimenti e le pareti di piastrelle. Erano quelle di due infermiere del reparto. «Ha un aspetto disastroso, non credi?» «Povera ragazza. Era così carina.» Peyton rimase immobile ad ascoltare. «Mi hanno detto che ha abortito.» «Io non sapevo nemmeno che fosse incinta.» «Mia sorella lavora nel pronto soccorso del Brigham and Women's. Ha visto la cartella.» «Che peccato. Sarebbe stata una buona madre.» «Lo credi davvero? La conosci bene?» «No. Ma di certo sembra amare i bambini. Infatti è una pediatra.» «Se vuoi il mio parere, lei non ama davvero i bambini.» Peyton rimase di sasso. Era il colpo più duro da quando aveva sentito sua madre dubitare che lei desiderasse davvero un figlio. «Come fai a dirlo?» chiese l'altra infermiera. «Il piccolo Jacob non era più un suo paziente, e lei continuava a venire a trovarlo ogni giorno.» «È proprio questo il punto. La Shields ama i bambini malati. Sono come un progetto scientifico per lei. Mettila in una stanza con uno sano e non saprebbe da che parte cominciare.» Peyton si sentì umiliata dalle loro risate. Avrebbe voluto annunciare la
propria presenza e rispondere a tono, ma non ci riusciva. Poi udì lo scroscio di uno sciacquone. Sussultò, e fu presa dall'urgenza di andarsene. Aprì in fretta la porta e uscì, lasciando quelle due alle loro battute velenose e alle idee sbagliate che si erano fatte sul suo conto. Non aveva mai camminato tanto rapidamente con le stampelle, era addirittura più veloce dei medici e delle infermiere che si muovevano indaffarati nel corridoio. Le si inumidirono gli occhi. Era davvero sciocco piangere per dei pettegolezzi. Tuttavia, il fatto che a casa non fosse ancora riuscita a sfogare con le lacrime il trauma dell'aborto l'aveva resa vulnerabile. Ora lottava per ricacciare il pianto, rifiutandosi di perdere il controllo sul lavoro. Il cercapersone vibrò sul suo fianco. Controllò. Non c'era il numero, soltanto un messaggio digitale. «Ti amo», lesse. Fece un respiro profondo e riuscì quasi ad abbozzare un sorriso. Si sentì molto meglio. Tempismo impeccabile. Non aveva la certezza dell'identità del mittente, ma chi altro poteva essere? «Grazie, Kevin», sussurrò, poi si diresse verso l'ascensore. 11 Il lunedì all'ora di pranzo Kevin era seduto da solo in un séparé sul retro del Murphy's Pub a sgranocchiare nervosamente il ghiaccio della sua soda. Al momento soltanto un altro séparé era occupato, da un uomo e una donna che si tenevano per mano fissandosi negli occhi. Erano troppo ben vestiti e il cibo in quel locale troppo scadente perché pranzassero lì per qualsiasi altra ragione che non fosse una relazione segreta. Le probabilità che qualcuno di loro conoscenza capitasse in un posto simile erano pari a zero, ed era proprio quello il punto. I fedifraghi pensano sempre di essere molto furbi. «Ciao», disse Sandra. Kevin riuscì ad abbozzare un sorriso tirato, mentre lei prendeva posto al tavolo. «Ehi.» Da quando gli aveva mandato un'e-mail chiedendogli di incontrarsi da Murphy's, lui non aveva fatto che domandarsi se fosse il caso di accettare l'invito, approfittando dell'occasione per chiarire le cose. Non aveva dato grande importanza al luogo dell'appuntamento. Ma ora, guardandosi attorno, si sentiva uno sporco traditore.
«Sono sorpresa che tu sia venuto.» «Pensavo dovessimo parlare.» «Come sta Peyton?» Era una domanda gentile, ma date le circostanze a Kevin sembrò un po' strana. «Molto bene, in effetti.» «E tu come stai?» «Come puoi immaginare.» Sandra si toccò i capelli, un lieve segno di nervosismo. «Le hai detto dov'eri quando hai saputo dell'incidente?» «No», rispose lui con fermezza. «Hai intenzione di farlo?» Kevin inspirò profondamente, poi espirò. «Sandra, è proprio di questo che sono venuto a parlare.» «Non hai intenzione di dirglielo, vero?» «Voglio essere onesto con te. Peyton e io...» «Vi siete riconciliati», concluse lei, chiudendo gli occhi per un istante per assorbire il colpo. «Lo sapevo.» «È mia moglie, Sandra.» «E che ne sarà di noi?» «È quello che sto cercando di farti capire. Non può esserci un 'noi'.» «Avresti dovuto dirmelo prima di portarmi a letto.» Non aveva gridato, ma aveva parlato abbastanza forte da farsi sentire dalla cameriera. Quello non era il momento di stabilire chi avesse portato a letto chi. «Sandra, ti prego.» «Che cosa ti aspettavi? Vuoi che sia felice di sentire che tutto il tempo e le energie che ho investito su di te sono finiti in un'unica notte di sesso da ubriachi?» «Quale tempo, quali energie? Siamo amici e, per quanto riguarda quell'unica notte, le cose ci sono semplicemente sfuggite di mano.» «Io nutro dei sentimenti nei tuoi confronti. Non è forse evidente?» Lui rimase in silenzio, il bel discorso che si era preparato all'improvviso non scorreva più come aveva sperato. «Senti, sarò sincero con te. Il mio piano era di venire qui oggi a dirti che Peyton e io intendevamo provare a rimettere insieme i cocci. Ma ora non credo più sia il caso.» «Stai cercando di farmi ammattire? Non puoi continuare a cambiare idea.» «Non è questione di cambiare idea. È solo che... è successo qualcosa che mi porta a pensare di aver già perso Peyton.»
«Ha intuito da sola che abbiamo avuto una storia?» «No. Stamattina qualcuno ha lasciato una rosa rossa per lei sulla soglia. Nessun biglietto. Nessun nome.» «Le hai chiesto spiegazioni?» «No.» «Perché?» «Se lo avessi fatto, la situazione avrebbe potuto degenerare, e avrei finito con il dirle di noi.» Sandra fece una smorfia. «Per te, ci devono sempre essere un vincitore e un perdente, non è vero? Sei così competitivo con Peyton. È pazzesco.» «Cosa stai dicendo?» «Risulta chiaro ogni volta che parli di lei. Tua moglie ha un lavoro meglio retribuito del tuo, ha frequentato scuole migliori, ha amici di maggior successo rispetto ai tuoi. Quando vi siete sposati, avrebbero dovuto regalarvi un segnapunti.» «È ridicolo.» «Davvero? Invece questo spiega il tuo interesse nei miei confronti. Sei andato in giro a cercarti una cosa che eri assolutamente certo lei non avesse, un'amante. Così avresti finalmente primeggiato. O almeno lo credevi. Ora salta fuori questa misteriosa rosa, e tu non sopporti l'idea di ammettere che Peyton ti abbia battuto al tuo stesso gioco.» «Senti, capisco che tu sia arrabbiata.» «Non sono arrabbiata. Sono ferita. Delusa. Perché so quello che stai pensando: se Sandra fosse dieci anni più giovane, forse le cose sarebbero diverse.» «Non è quello che sto pensando.» «Ti conosco», replicò lei. «Devi capire che probabilmente, se io avessi l'età di Peyton, farei gli stessi stupidi giochetti nei quali voi due sprecate tante energie. Quella notte a Providence mi sono illusa che alla fine lo avessi compreso. Ma non era vero. E sono stanca di tutto questo. Quindi, torna a casa e combatti tutti i sedici round con tua moglie. Voi due potrete competere fino allo sfinimento. E quando soltanto uno di voi sarà rimasto in piedi, chiamami. Allora magari vedremo a che punto siamo io e te.» «Ti prego, non fare così. Noi due dobbiamo ancora lavorare insieme.» «Come hai detto prima, non c'è nessun 'noi'. Almeno finché non sarai pronto a lasciarti Peyton alle spalle. Pronto davvero.» «Mi spiace che tu la pensi così. Perché ti sbagli di grosso sul conto mio e di Peyton.»
«In che senso?» «Non sono in competizione con lei.» Sandra gli rivolse un sorriso inespressivo, poi scosse il capo. «Divertente. Pensavo stessi per dire che non la ami.» I loro occhi si incontrarono, e Kevin a un tratto si rese conto di quanto fossero distanti lui e quella donna. «Mi spiace.» «Potresti limitarti ad andartene, per favore?» sussurrò lei. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa per consolarla, ma la situazione con sua moglie era troppo confusa per lasciarla in balia della suscettibilità di Sandra. Senza una parola, scivolò fuori del séparé e si diresse verso la porta. Superò la coppia nel séparé vicino - gli altri fedifraghi - e all'improvviso immaginò Peyton e Mr Rosa Rossa che si scambiavano languidi sguardi in un bar, carezzandosi le mani, per poi recarsi nell'appartamento di lui, baciandosi lungo le scale, strappandosi i vestiti di dosso, toccandosi come... come era accaduto nella sua notte con Sandra. Sentì una fitta di rimorso ma si rifiutò di attribuirsi tutta la colpa. Se Sandra era un sintomo del loro problema, Peyton ne era la radice. Sembrava sciocco, però era davvero cominciato tutto con quella patetica partita di football della Ivy League che erano andati a vedere durante la loro prima visita ad Harvard, e con quell'odioso ritornello di incitamento che lei aveva cantato a squarciagola con tutti gli altri snob, anche se sapeva che suo marito non riusciva a trovare un impiego decente. «Non importa, non t'arrabbiare, un giorno per il governo andrai a lavorare!» Certo, Peyton poi si era scusata, e forse non era giusto prendersela con il pubblico solo perché si era lasciato trasportare dagli inni da stadio dopo aver bevuto troppo rum da una fiaschetta. Ma ultimamente le persone che lei frequentava non avevano bisogno di liquore per darsi arie di superiorità! Faceva un freddo pungente e, uscito da Murphy's, Kevin faticò ad abbottonarsi il cappotto. Una folata di vento sferzò la neve a terra e gli fece perdere l'equilibrio. Scivolò sul marciapiede ghiacciato e cadde sul fondoschiena. Maledisse il bar, maledisse Boston, maledisse se stesso per essersi trasferito in una città così folle, dove gli abitanti diventavano nostalgici pensando alla mitica nevicata di cento ore del 1969, lamentandosi del fatto che, a causa del surriscaldamento del globo, lì non ci fossero più vere tormente di neve. Gli mancavano gli amici della Florida, gli inverni miti, lo scuba diving nelle calde acque sopra stupende barriere coralline. Aveva ri-
nunciato a tanto per cosa? Un grosso e prestigioso studio legale che lo faceva sgobbare settanta ore la settimana con la sfuggevole prospettiva di una promozione a socio. Una moglie che lo aveva spinto al tradimento. Una moglie che lo aveva tradito. Nemmeno per sogno. Mai e poi mai Peyton lo avrebbe tradito. Non che lui meritasse tanta fedeltà. Era semplicemente una cosa che lei non avrebbe mai fatto. Continuò a ripeterselo mentre arrancava nella neve per tornare in ufficio. 12 Peyton raggiunse la sala conferenze pochi minuti dopo mezzogiorno. Era riuscita a limitare al minimo le logoranti chiacchiere dei colleghi, ma un amico la intercettò nel corridoio proprio un attimo prima che riuscisse a scomparire all'interno dell'aula. «Ehi, Peyton», la chiamò Gary Varnes. Era un infermiere e, soprattutto, un suo fidanzato dei tempi del liceo. Il loro primo appuntamento era stato un disastro: erano andati in uno di quegli affollati ristoranti informali a Faneuil Hall Marketplace, dove la direttrice seguendo una lista d'attesa, chiamava i clienti con un altoparlante a mano a mano che si liberavano i tavoli. Gary aveva lasciato il nome inventato «Itsmy», e quando la donna aveva annunciato: «Itsmy party», il gruppo del signor Itsmy, mentre attraversavano il ristorante lui si era messo a cantare «It's my party and our table is ready», imitando una canzone pop degli anni Sessanta. Una cosa spassosa per un ragazzo quattordicenne, ma un'imperdonabile bravata per la coetanea che lo accompagnava. Non ebbero altri appuntamenti per qualche anno, poi, visto che Gary si era trasformato in un bellone, Peyton era stata più che lieta di dargli una seconda possibilità. Le cose fra loro si erano fatte piuttosto serie, finché lei non decise di andare a Tallahassee per frequentare il college. Così incontrò Kevin, capì subito che era quello giusto, e non si voltò mai indietro. Quando si erano rivisti, Peyton era un medico e Gary un infermiere che studiava per il test di ammissione alla facoltà di medicina. Di certo ne aveva le capacità. Il suo problema era la disciplina. Di tanto in tanto lei gli ricordava educatamente che avrebbe dovuto prendere in mano i libri se aspirava a qualcosa di meglio del college caraibico per corrispondenza Ultima Spiaggia. «Non riesco a credere che tu sia già qui», le disse ora Gary.
«Soltanto per le lezioni. Ci vado cauta finché la gamba non guarisce.» «Fai bene. Probabilmente ti vorranno per la parata quando tornerai.» «Finiscila.» «Dico sul serio. Da quello che ho sentito, sei diventata l'eroina di tutto lo staff.» «Davvero?» «Oh, sì. La direzione non fa che sommergere gli interni di lavoro. Grazie a te, nessuno chiederà più a loro di guidare il pulmino dell'ospedale.» «Molto divertente.» Gary le strizzò l'occhio e fece per andarsene, ma lei lo fermò. «Ehi, non ti ho mai ringraziato per quella festa di compleanno a sorpresa. È stato davvero dolcissimo da parte tua.» «Non c'è bisogno di ringraziarmi.» «Sei sempre gentile.» «Voglio dire che non c'è davvero bisogno di ringraziarmi. Non è stata una mia idea.» Per un istante Peyton pensò che il suo bel ex fidanzato negasse di aver organizzato la festa perché non voleva crearle dei problemi con il marito, piuttosto geloso nei suoi confronti. Kevin non era fra quelli convinti che il sentimento potesse trasformarsi in amicizia... una filosofia che si era premurato di spiegare accuratamente a Gary ai tempi del college, l'ultima volta che lui aveva chiamato per farle gli auguri di compleanno. Ma poi dalla sua espressione capì che stava dicendo la verità. «Allora chi ha ingaggiato il mimo con cui ho ballato il tango?» «Non lo so. Ho ricevuto un biglietto su cui c'era scritto di recarsi nella sala di ritrovo alle nove. Io mi sono semplicemente presentato, come tutti gli altri.» Peyton si sentì percorrere da un brivido, ripensando al modo in cui il mimo l'aveva fissata mentre usciva dalla stanza. «Stai bene?» le chiese Gary. «Sì. È solo che credevo avessi organizzato tu la festa, nient'altro.» «Mi spiace di averti deluso.» «Allora chi può essere stato?» «Non lo so. È successo casualmente, come spesso accade in questo posto. Tutti avevano ricevuto lo stesso invito a farsi trovare lì per una festa a sorpresa, ma sembrava che nessuno sapesse esattamente chi lo avesse inviato. Dopo qualche minuto abbiamo escogitato un modo per attirarti nella sala.»
«Il mio presunto colloquio con Landau e Sheffield?» «Esatto. Ma quella è stata pura improvvisazione. Nessuno lo aveva programmato. Se sei davvero curiosa, potrei chiedere in giro e cercare di capire da chi sia partita l'idea.» «No», rispose lei bruscamente. Gary la guardò preoccupato. «Sei sicura di star bene?» Peyton temette di passare per nevrotica. «È solo che oggi sono un po' nervosa.» «Forse dovresti sederti.» «Già. La lezione sta per cominciare. Ci vediamo.» Lo guardò allontanarsi lungo il corridoio, sentendosi in preda all'agitazione. Non riusciva a scacciare l'immagine di quel mimo che la fissava, mentre lei si allontanava di corsa dalla sala di ritrovo diretta al pronto soccorso. All'epoca la cosa l'aveva un po' spaventata, e alla luce di tutto quello che era successo in seguito, adesso la spaventava ancora di più. Con l'esclusione di Gary, non riusciva a pensare a un altro amico che si fosse sobbarcato l'impegno di organizzare la festa. Se non era stato lui, allora chi? Entrò nella sala conferenze, la mente molto lontana dalla medicina. Le parole di Sandra ancora lo perseguitavano. Kevin non aveva mai considerato il suo matrimonio in quel modo, una competizione. Ma forse lei aveva visto giusto. Come per tutto il resto, Peyton lo aveva battuto al suo stesso gioco. Di sicuro, essere un avvocato di uno dei più vecchi e grossi studi legali di Boston dava un certo prestigio. Bastava camminare per i corridoi per incappare in un ex governatore, un senatore degli Stati Uniti, un ex presidente dell'American Bar Association, o un futuro giudice federale. Kevin era entrato nello studio assieme a un gruppo di giovani associati che includeva un ex cancelliere del presidente della Corte Suprema e un vincitore del Sears Prize, un onore concesso ai più brillanti laureati della Harvard Law School. Certo, il suo pedigree lo costringeva a lavorare sodo per provare di essere all'altezza di diventare socio. Si era impegnato al massimo, e alcuni soci gli avevano persino lasciato intendere che era sulla strada giusta. Solo dopo averlo spremuto come un limone avevano cominciato a fargli capire che per lui il pentolone alla fine dell'arcobaleno era vuoto. La sua scrivania era sommersa da documenti che attendevano di essere esaminati, ma non li degnò di uno sguardo. Sprofondò nella poltrona di
pelle, accese il computer e aprì il suo file preferito. Non era esattamente una pratica legale, ma di sicuro era collegato allo studio. Due anni di lavoro segreto. Un progetto che lo appassionava molto. La porta dell'ufficio si aprì. Colto alla sprovvista, Kevin alzò gli occhi e vide il suo capo, il frenetico Ira Kaufman, fermo sulla soglia. Istintivamente premette il pulsante di spegnimento del computer. Il motore gemette. Lo schermo divenne nero. Kaufman gli lanciò un'occhiata sospettosa. «Navighi tra i siti porno, Stokes?» Kevin provò a comportarsi in modo normale, ma non riuscì a nascondere la propria agitazione. «Ehm, no. Stavo solo, ehm...» «Lascia perdere. Siamo stati travolti da un mare di interrogatori nell'azione collettiva EnviroMedix. Ho bisogno che tu elabori delle risposte e delle obiezioni, forse una mozione per un ordine protettivo. Poi buttiamoci sull'offensiva. Spara anche tu qualche interrogatorio a quei perdenti e invia delle notifiche sulla prima ondata di deposizioni. Muovi qualche ingranaggio e forse lasceranno perdere.» «Per quando le serve?» «Ieri.» La scadenza tipo di Kaufman. «Devo partire fra due ore per un seminario.» «I seminari si tengono durante il giorno, Stokes. Approfitta della notte.» La porta si chiuse e Ira se ne andò. Kevin guardò il computer, lievemente preoccupato. L'ultima volta che qualcuno si era precipitato nel suo ufficio, costringendolo a spegnerlo senza seguire le corrette procedure, l'intero sistema operativo era andato in tilt. Meglio perdere qualche dato che essere pizzicati a lavorare sul biglietto di andata che avrebbe potuto portarlo lontano da lì. Premette il pulsante di accensione e sperò per il meglio. 13 La lezione di mezzogiorno verteva sui progressi nel trattamento dell'asma infantile ma, come sempre, la partecipazione era favorita dal pranzo gratuito. Considerato che il loro compenso ammontava a meno di due dollari l'ora, gli interni partecipavano in massa a questi eventi. Dopo la lezione Peyton si fermò a chiacchierare con gli amici in corridoio per rassicurarli che si stava rimettendo benissimo, cosa che nel comples-
so le prese due minuti. Gli altri dovevano tornare subito al lavoro, e lei non aveva nessuna voglia di dilungarsi in aggiornamenti sulle sue ferite. Essere di nuovo in ospedale, anche se soltanto per poche ore e con le stampelle, la rinvigoriva. In un certo senso si sentiva più a proprio agio lì che a casa. Quello era il suo ambiente naturale. Quando tornava nel suo appartamento, non sapeva come passare il tempo. In ospedale aveva una routine. I giri del mattino. Le lezioni di mezzogiorno. Persino i noiosi fogli di dimissioni dei pazienti. Tutto le era familiare, come il caffè amaro del distributore automatico, il materasso gibboso degli stanzini dove si riposavano quando erano di turno, il ritmo frenetico del pronto soccorso... e il mimo che la fissava in fondo al lungo corridoio. Guardava proprio lei. Un attimo dopo era scomparso. Peyton si arrestò bruscamente, il cuore in gola. Erano piuttosto distanti l'uno dall'altra, ma avrebbe potuto giurare che si trattava dello stesso clown con cui aveva ballato il tango il giorno prima dell'incidente d'auto. Si fece strada tra la gente più in fretta che poté, arrancando con le stampelle e fermandosi all'intersezione a T alla fine del corridoio. La caffetteria era a destra. L'accettazione a sinistra. Rimase ferma nel mezzo, incerta su quale direzione prendere. Alcune infermiere le passarono accanto. Una barella metallica con le rotelle era rimasta appoggiata alla parete. Ma del mimo non c'era traccia. Peyton fu percorsa da un brivido. Il modo in cui lui l'aveva scrutata negli occhi dopo il ballo l'aveva turbata sin dal primo momento. Ed era ancora più inquietante sapere che nessuno lo aveva ingaggiato per la festa a sorpresa. Quell'ultimo sguardo poi, seguito da una rapida fuga, non l'aveva certo tranquillizzata. Era giunta l'ora di dare voce ai propri timori. Attese quarantacinque minuti che il responsabile del programma formativo tornasse da una riunione, ma alla fine Miles Landau la ricevette. Sebbene Landau fosse un medico, il suo impegno pluriennale come responsabile del programma lo aveva trasformato in un amministrativo a tutti gli effetti. Preferiva addirittura il completo da uomo d'affari al camice bianco del dottore. Parte del suo lavoro era assicurarsi che ogni interno si attenesse al piano di studi e dimostrasse di possedere i requisiti e le certificazioni richiesti. Questo implicava spianare i problemi quotidiani che potevano presentarsi sul cammino. Visto che c'erano altre due persone che aspettavano di essere ricevute e Landau aveva tre telefonate in attesa, Peyton fu molto sintetica. Lui l'a-
scoltò con attenzione, poi le chiese: «Intende dire che qualcuno la sta pedinando?» «Mentirei se affermassi che quell'uomo alla festa non mi ha spaventata. E poi, meno di ventiquattr'ore più tardi, qualcuno mi butta fuori strada. Forse si è trattato davvero di un incidente, e forse è solo una coincidenza, ma dopo quello che è successo oggi in corsia, non so più che cosa pensare.» Landau si grattò la testa con aria meditabonda. «Non ha prospettato questa sua teoria alla polizia?» «Sì, ma non mi sono stati molto d'aiuto.» «Per quanto ne so, hanno controllato e poi hanno scartato l'ipotesi. Lei sospettava che il giovane che ha fatto arrestare nella clinica di Haverhill potesse aver provocato il suo incidente. Ma è venuto fuori che in quel momento era in prigione, il che costituisce un alibi piuttosto solido.» «È vero. E come fa lei a saperlo?» «Il suo legale ci tiene informati.» «Quale legale?» «Quel bravo ragazzo è rappresentato dallo stesso cacciatore di ambulanze che ci ha denunciati per il proiettile che lei ha sparato nel fondoschiena dell'infermiera Felicia. Ora ci tocca rispondere anche a questo coglione, che dichiara di aver avuto una reazione allergica all'iniezione di secobarbital che lo ha immobilizzato. Il suo avvocato sostiene che lei lo ha falsamente accusato di pedinamento come tattica intimidatoria, in modo da impedirgli di sporgere denuncia.» «È ridicolo.» «Vada a dirlo ai nostri assicuratori. Loro stimano che le parcelle legali che dovremo pagare ammonteranno a cinquantamila dollari.» Non capì se Landau lo avesse fatto apposta, ma Peyton cominciò a sentirsi una che crea un sacco di problemi. «Sono certa che tutto si risolverà in nostro favore una volta che i fatti verranno alla luce.» «Me lo auguro. In ogni modo, torniamo a lei. Qual è il suo timore, con esattezza?» «Vorrei semplicemente scoprire l'identità del mimo della festa a sorpresa. Forse potremmo indagare sul suo passato, fargli qualche domanda.» «Perché le ha lanciato un'occhiata strana?» «C'è più di questo.» S'interruppe, chiedendosi se fosse il caso di dirlo, preoccupata com'era di passare per paranoica. «Per quanto riguarda la clinica, è ovvio che io sappia usare una pistola. Mio padre era un poliziotto e
me lo ha insegnato da ragazzina. Ma non ne ho mai posseduta una fino a qualche mese fa. D'estate andavo a fare jogging di sera... è stato allora che per la prima volta ho avuto la sensazione di essere seguita, e poi una notte, a dicembre, mi è sembrato proprio che ci fosse qualcuno che cercava di forzare la serratura della porta di casa mia.» «Quindi lei crede che il pedinamento vada avanti da mesi?» «Come le ho spiegato, è allora che mi è venuto questo terribile sospetto. Visto poi che mio marito viaggia molto per lavoro, non mi sentivo sicura. E ora mi sento nello stesso modo. Forse sono completamente pazza. O forse è tutto collegato.» «Nessuno dice che lei sia pazza. Ma...» «Non le sto chiedendo di premere il pulsante rosso. Soltanto di approfondire un po' la faccenda, nient'altro.» Landau guardò il telefono dove lampeggiavano le chiamate in attesa. «Va bene», tagliò corto. «Dirò a quelli della sicurezza di effettuare un controllo.» Quella improvvisa condiscendenza la turbò. Sperò che i suoi timori fossero infondati; inoltre, non voleva essere l'interna che gridava al lupo. «Speriamo si risolva tutto in niente.» «Non deve fare marcia indietro. Se anche non l'avesse pedinata, di certo questo tizio è nei guai. Il nostro è un ospedale per bambini. E sono il primo ad ammettere che si tratta di un ospedale molto attento alla propria immagine. Non possiamo permettere che i nostri clown facciano scoppiare palloncini un momento, e quello dopo rivolgano languide occhiate al personale medico femminile. È stato un bene che lei abbia sottoposto la cosa alla mia attenzione.» «Sono lieta che la pensi così.» «Ora, se vuole scusarmi», disse Landau, lanciando un'altra occhiata al telefono lampeggiante. Peyton avrebbe voluto stringergli la mano, ma prima che riuscisse a mettersi in piedi con le stampelle, lui aveva già afferrato la cornetta, ruotando la poltrona girevole di centottanta gradi per guardare fuori dalla finestra. Riuscì quasi a vedere la propria espressione desolata riflessa su quella nuca calva. Fra cause legali e la sospetta paranoia, lei non doveva essere la sua interna preferita. «Grazie per il tempo che mi ha dedicato», mormorò avviandosi da sola verso la porta.
Il volo di Kevin arrivò al La Guardia nel tardo pomeriggio. Doveva in effetti prendere parte a un seminario a New York che sarebbe cominciato l'indomani, proprio come aveva detto a Peyton. Ma prima aveva un'altra faccenda da sbrigare. Un taxi lo portò all'albergo sulla Eighth Avenue, una zona periferica a ovest di Manhattan. Sull'altro lato del marciapiede si vedevano case con ingressi e finestre bloccati da assi di legno, negozi che vendevano riviste per adulti chiusi in seguito al giro di vite dell'amministrazione sui reati minori. All'inizio della via c'era un grattacielo a vetri che ospitava il più prestigioso studio legale di New York - una vera e propria istituzione - considerato anche il più potente del mondo da tutti tranne che dai pochi diretti concorrenti sparsi per la città e da qualche illuso a Washington. L'albergo era la sola altra bella costruzione dell'isolato, non esattamente un palazzo ma di certo di categoria superiore rispetto ai degradati dintorni in cui sorgeva. Da quando era partito da Boston, Kevin si era reso conto di quanto fosse felice di aver dato un taglio netto alla storia con Sandra. Prima di finire a letto insieme, lei era stata una buona alleata e un'eccellente fonte di informazione sullo studio in cui lavoravano. Per fortuna non aveva commesso l'errore di condividere con la collega il suo segreto. Nessuno, nemmeno Peyton, sapeva ancora niente. Ed era meglio così. Per due anni si era dedicato furtivamente a quel progetto con gran fervore, più che altro di notte e nei fine settimana. Ogni tanto rimaneva indietro ed era costretto a recuperare mentre era in ufficio, come era accaduto proprio quel pomeriggio, quando il capo lo aveva sorpreso al computer. Nonostante quegli incidenti di percorso, era riuscito a tenere la sua missione per sé. La segretezza era essenziale. La sua posizione all'interno dello studio era già traballante, e non aveva certo bisogno di alimentare il fuoco, dando a Ira Kaufman e al comitato di valutazione soci una ragione di credere che lui stesse gonfiando le proprie ricevute per compensare tutte le ore in cui si era occupato dei suoi interessi personali, invece di seguire le cause. «Tenga il resto», disse Kevin scendendo dal taxi. Oltrepassò la porta girevole dell'ingresso principale dell'albergo e si diresse alla reception. Una cordiale impiegata lo registrò. «Potrebbe dirmi se Percy Gates è già arrivato?» le chiese. Sillabò il nome, e la donna digitò sulla tastiera del computer. «Non trovo alcuna prenotazione a nome Gates.»
Kevin non se ne preoccupò. La riunione era fissata per le nove del giorno successivo. Probabilmente Gates sarebbe arrivato con lo shuttle BostonNew York della mattina presto, salvo impedimenti causati dalla neve o da qualche guasto meccanico. Lui avrebbe potuto fare lo stesso, ma non avrebbe certo rischiato di perdere l'incontro che poteva cambiare la sua vita solo per risparmiare il costo di una notte in albergo. Salutò l'impiegata con un cenno della mano e si avviò verso l'ascensore senza aspettare un facchino. La borsa da viaggio era abbastanza leggera, e per niente al mondo avrebbe lasciato la sua ventiquattrore e il suo computer nelle mani di un estraneo. Specialmente adesso. La stanza era al venticinquesimo piano, alla stessa altezza dei rampanti avvocati che lavoravano nell'elegante edificio all'inizio della strada. Sei anni prima, avrebbe voluto essere uno di loro. Nel giro di sei mesi, tutti loro avrebbero voluto essere lui. Si sedette sul letto e accese la televisione, con la mente altrove. Non sapeva bene cosa aspettarsi l'indomani mattina, anche se Percy gli aveva spiegato tutto al telefono. Quel settore gli era completamente nuovo, ma Kevin si sentiva piuttosto sicuro che, di lì a breve, per una volta avrebbe suscitato la gelosia di quei bastardi snob della Marston & Wheeler. Peyton di certo sarebbe stata orgogliosa. O invidiosa, come credeva Sandra. Lui e la sua competitiva consorte. Che idiozia, pensò. Si appoggiò alla testata del letto, scalciò via le scarpe e chiamò il servizio in camera. Senza battere ciglio, ordinò un cheeseburger da trentaquattro dollari più una coca-cola da sei. «E una porzione doppia di cocktail di gamberetti», aggiunse poco prima di riagganciare, per puro capriccio. L'ironia, si rese conto, era che era troppo agitato per avere fame. Stava per richiamare e annullare l'ordinazione, ma non lo fece. E perché? Lascia che portino tutto. All'improvviso, fu preso dalla voglia di sperperare denaro. 14 Un taxi lasciò Peyton di fronte al suo appartamento. Era tardo pomeriggio e il freddo si stava facendo molto intenso. Eppure, persino in quell'oscurità coglieva qualcosa di rasserenante nella pittoresca via in cui abitava, dove cancelli di ferro battuto adornavano le ben conservate residenze in stile regina Anna che si susseguivano le une alle altre. Malgrado il vivace contingente studentesco, Magnolia Street era tran-
quilla dopo la mezzanotte, specialmente d'inverno. La primavera la riportava in vita, quando gli alberi - era davvero la via delle magnolie - giungevano a piena fioritura. Non appena il clima si faceva più mite Peyton amava indossare le scarpe da corsa e andare a fare jogging dalle parti di Commonwealth Avenue. L'ampio viale d'ispirazione francese personificava lo spirito di autoindulgenza del diciannovesimo secolo che aveva portato la classe agiata dalla parsimoniosa vecchia Boston nella Back Bay. La corsa era un suo modo per godersi la bellezza della zona. Raggiungeva i giardini pubblici e girava attorno ai salici piangenti che bordavano la splendida laguna, proseguiva a passo svelto lungo Newbury e i suoi caffè all'aperto preferiti e alla fine tagliava attraverso due isolati e riprendeva la strada di casa, oltrepassando la chiesa in stile romanico che per via dei suoi angeli trombettieri veniva chiamata «dei santi musici». Lì era dove lo aveva notato la prima volta, ricordò di nuovo a se stessa. Un tizio che sembrava trovarsi sempre in quel luogo. Non ci aveva badato fino allo scorso dicembre, quando Kevin era fuori città per l'ennesimo impegno di lavoro e lei era a casa da sola. Una sera tardi, le era parso di sentire qualcuno che cercava di forzare la serratura della porta d'ingresso. Allora aveva deciso di comperare una rivoltella. Una folata di vento sollevò una leggera nuvola di neve ai suoi piedi. Il vento fischiava lungo il marciapiede come uno spettrale tappeto volante, mentre minuscoli cristalli di ghiaccio brillavano nella fioca luce dei vecchi lampioni. L'ingresso del loro appartamento dava sulla strada. Salì i gradini e aprì la porta. Il tepore che la accolse le fece capire che aveva dimenticato di abbassare il termostato quella mattina. Kevin la rimproverava sempre di lasciare i caloriferi e le luci accesi quando usciva di casa. La luce che proveniva dalla cucina segnò il suo fallimento su entrambi i fronti. Appese la sciarpa e il cappello dietro la porta, poi scrollò la neve dal cappotto e lo ripose nel ripostiglio. Troppo stanca per mangiare, si diresse verso la camera da letto ma si fermò a metà del corridoio. Dalla cucina sembrava provenire un odore di paella, da sempre uno dei suoi piatti preferiti. Andò a controllare. «Mamma?» La donna urlò, poi si portò la mano sul cuore, come a indicare l'imminenza di un attacco cardiaco. «Santo cielo, tesoro. Mi hai quasi spaventata a morte.» «Nemmeno io mi aspettavo di vederti. Non hai ricevuto il mio messaggio?»
«Sì. Ma non c'è bisogno che tu faccia la martire. Non mi dispiace prendermi cura di te quando Kevin è fuori città.» «Ti assicuro che non era necessario.» «Troppo tardi. La paella è in forno. Con doppia porzione di cozze, proprio come vuoi tu. Perché non mi dai una mano a preparare l'insalata?» Peyton andò al lavello e cominciò a lavare la lattuga. La madre si comportava in modo insolitamente dolce. Il suo atteggiamento la insospettì, ma decise di concederle il beneficio del dubbio. «È molto carino da parte tua. Grazie.» «Ho pensato che un po' di allegria ti avrebbe fatto piacere.» «In questi giorni mi pare di essere piuttosto allegra.» «Proprio questo mi preoccupa. Il 'piuttosto'.» Peyton non rispose. Ecco spiegata la ragione di tanta dolcezza. L'ennesima spedizione organizzata per ficcare il naso nella vita della figlia. «Oh, quasi dimenticavo», disse la madre. «Mentre eri fuori, è passato un uomo.» «Un uomo?» «Un ufficiale giudiziario. Ti ha lasciato una citazione e qualcosa che si chiama ingiunzione a comparire in giudizio. Sono lì sul tavolo.» Peyton si asciugò le mani e andò a dare un'occhiata ai documenti. «Hanno fatto causa a te e all'ospedale», spiegò la madre. «Li hai letti?» «Ovviamente. Pensavo potesse essere urgente.» Peyton continuò a leggere. «Sapevo che avrebbero fatto causa all'ospedale. Suppongo che ora abbiano anche deciso di perseguirmi personalmente.» «Vuoi raccontarmi che cosa è successo?» «Qualcuno sta cercando di estorcere un bell'indennizzo. Soltanto un mare di sciocchezze.» «Quindi tu non hai sparato a quell'infermiera?» «È una storia lunga.» «È per questo motivo che la clinica ti ha licenziata?» «Non sono stata licenziata.» «La citazione dice di sì. Paragrafo undici.» «Che cosa? Lo hai memorizzato? E poi non mi hanno licenziato, ma affidato un altro incarico.» «Non hai bisogno di nascondermi niente. Sono tua madre.» «Non c'è motivo di preoccuparsi. Il lavoro va benone.»
Peyton si allontanò, e la madre la prese gentilmente per un braccio per fermarla. «Non è del tuo lavoro che mi preoccupo.» «Gradirei davvero che tu e tutti quanti la smetteste di trattarmi come se quello stupido incidente d'auto mi avesse trasformato in un caso clinico.» «Non credo sia stato l'incidente a provocare questa situazione. Io penso sia solo il sintomo di un problema più profondo, del quale mi sento in parte responsabile.» Peyton socchiuse gli occhi, confusa. «Ti ho rimproverato molte cose in vita mia, ma l'incidente non rientra nella lista.» «Fin da piccola ti ho spinta a fare meglio di tutti, e soprattutto meglio di me. A volte ti ho imposto degli obiettivi irrealizzabili, in modo che, anche se non fossi riuscita a perseguirli, saresti comunque caduta in piedi. Ma accidenti, tu hai raggiunto anche i più impensabili. E ora che sei una donna adulta, pretendi da te stessa ancora di più. Penso che tu non abbia mai fallito in niente. Ma presto o tardi tutti falliscono in qualcosa. Essere licenziati da una piccola clinica di Haverhill non vale, sai...» «Non vale cosa?» «Finire con la macchina nel Jamaica Pond.» «Pensi che abbia tentato di suicidarmi?» chiese Peyton incredula. Gli occhi della madre brillarono di lacrime. «Capisco benissimo come devi esserti sentita. Imbarazzata, arrabbiata. A nessuno piace fallire. Hai lavorato a ritmi assurdi e poi è arrivato questo fiasco alla clinica. E, come se non bastasse, sei rimasta incinta ma eri tanto insicura da non riuscire nemmeno a dirlo a tuo marito.» «Non hai capito niente.» «So che le cose non vanno bene fra te e Kevin.» «Il nostro matrimonio andrà benissimo.» «Gli hai chiesto dove si trovava la notte del tuo incidente?» «Era a Providence per lavoro.» «Sapevi che oggi avrebbe pranzato in uno squallido ristorantino con una donna molto attraente?» Peyton rimase turbata per un attimo, visto che lui le aveva detto che avrebbe fatto solo un rapido salto in ufficio prima di andare in aeroporto. Poi lo stupore prese il sopravvento. «Lo hai seguito?» «Tuo padre e io siamo preoccupati.» «Non mettere in mezzo papà. Lui non si abbasserebbe mai a spiare.» «D'accordo, io sono preoccupata. Che male c'è? Capisco cosa stai passando. Tu lavori sodo, hai talento, credi di essere a un passo dal successo.
E poi, bam, qualcuno ti strappa tutti i tuoi sogni.» «Non ricominciare. Papà non ti ha portato via niente. E io neppure.» «So che non intendevi farlo, ma la mente può giocare strani scherzi. Anch'io sono arrivata a toccare il fondo, proprio come te. Per questo ti comprendo così bene. Una notte ti trovi a guidare lungo una strada buia e ti rendi conto che basterebbe un rapido colpo di sterzo per...» «Sei matta? Non sono un'aspirante suicida.» «Non puoi negare che eri depressa.» «Sì, ho attraversato un lieve momento di depressione. Dopo l'incidente.» «L'incidente è stato una catarsi. Eri infelice anche prima, e non lo sapevi nemmeno.» «Non c'è stata nessuna catarsi. Sono triste perché ho avuto un aborto.» «E non dovresti sentirti in colpa per questo. Biasima me. Spronandoti per tutta la vita, non ho fatto che allontanarti. Che tu ci creda o no, c'è stato un tempo in cui volevi essere proprio come la tua mamma. Ora che hai ventotto anni, noi siamo praticamente diventate due estranee. Questo mi deprime. E nel profondo, deve deprimere anche te.» «I miei sentimenti nei tuoi confronti non hanno niente a che vedere con il modo in cui mi hai sempre spronata a cercare il successo. E per la cronaca, l'unico motivo della mia depressione è la perdita del bambino. Se ciò non soddisfa lo standard freddo e razionale che tu hai stabilito quando ero adolescente, mi dispiace per te.» «Questo è un colpo basso.» Peyton si pentì subito delle proprie parole; del resto, sua madre riusciva sempre a farle perdere le staffe. «Hai ragione. Scusa. Ma santo cielo, mamma, se tu la finissi di farmi costantemente notare che io sono stata una gravidanza indesiderata, forse non ti ricorderei che, quando sei rimasta incinta la volta successiva, non ti è importato molto di perdere un figlio.» «Stai parlando di tua sorella, carne della mia carne. Sono rimasta traumatizzata per mesi.» «Di certo a vederti non sembrava.» «Forse l'unico modo che avevo di affrontare il trauma è stato convincermi che fosse meglio per tutti.» «No, mamma. Meglio per te. È sempre stato così nella nostra famiglia.» Peyton si voltò, zittendosi prima di dare in escandescenze. «Io vado a dormire.» Usando le stampelle, si affrettò lungo il corridoio fino in bagno e chiuse la porta. L'incidente non era stato una catarsi, ma ora sentiva che stava per
crollare. Non gridava in quel modo con sua madre dai tempi dell'adolescenza, avendo fatto voto di non rievocare mai più l'antica rabbia distruttiva. La perdita del bambino sembrava essere il biglietto di ingresso per ripiombare in quei giorni bui. Si appoggiò con le mani al lavandino, lo sguardo fisso, i respiri profondi. Lentamente, alzò la testa e si scrutò allo specchio. Aveva gli occhi arrossati ed era sul punto di scoppiare in lacrime. Per quasi una settimana aveva sopportato il peso dell'infortunio, dell'aborto. Era riuscita a contenere i propri sentimenti e a rimanere stoica. Aveva annullato l'appuntamento per la prima ecografia di Jamie, dato a una delle sue pazienti l'integratore vitaminico che non le serviva più, persino donato i vestiti premaman che non aveva fatto in tempo a indossare. Tutto senza mai vacillare. Ora, però, si sentiva privata dello sfogo emotivo di cui aveva estremo bisogno. L'occhio sinistro prese a muoversi di scatto. Non le aveva dato grossi problemi da dopo l'incidente, ma all'improvviso le fece male. Lo strizzò, avvicinandosi allo specchio. Le parve che una lama le trafiggesse la palpebra. Ammiccò un paio di volte e notò una minuscola goccia di sangue all'angolo esterno dell'occhio. La tamponò con un fazzoletto e capì di cosa si trattava. Una scheggia di vetro era emersa da sotto la pelle. Chiara e rigida, come una piccola lacrima congelata che si era indurita dentro di lei. Sentì un freddo subitaneo e fu travolta dalla tristezza. Allora, le lacrime si sciolsero e finalmente cominciarono a scorrere. 15 «La colazione è pronta», la madre la chiamò dalla cucina. Quelle parole proiettarono Peyton indietro nel tempo. Spesso in passato erano andate a letto arrabbiate l'una con l'altra. Poi si svegliavano il giorno seguente cercando di fingere che non fosse successo niente. Anche se nessuna delle due era una buona attrice. «Solo un secondo», rispose. Era in bagno e stava controllando l'occhio allo specchio. Non le aveva più dato fastidio dopo che aveva espulso la scheggia di vetro la sera prima. Ma, dal punto di vista estetico, la pelle tutto attorno non stava ritornando liscia come sperava. Cercò di non farsene un cruccio, ma in fondo era la sua faccia. Le vennero in mente le brutte oche lungo il Prado, con quella rugosa pelle in esubero attorno agli occhi e i becchi che sembravano una colata di lava. Sapeva che in quel modo non faceva che tormentarsi, ma si protese sul lavandino e appoggiò il lato ferito
del volto sullo specchio dell'armadietto delle medicine. Fece in modo che metà del viso - quella sana - si riflettesse nello specchio sulla parete, poi in quello a figura intera sul retro della porta del bagno e di ritorno sull'altra parte dell'armadietto delle medicine. Nel riflesso dei riflessi, era in grado di creare una faccia intera usando la metà non danneggiata, liscia e perfetta. Non era esattamente il suo aspetto di prima dell'incidente (in qualunque viso, i lati destro e sinistro sono un po' diversi), ma quel trucchetto la portò a domandarsi se sarebbe mai tornata a essere bella. Ogni giorno Kevin le ripeteva che era sempre stupenda, ma diceva sul serio? Per quanto si sforzasse di non pensarci, si chiedeva anche quanto fosse attraente la donna con cui lui aveva pranzato il giorno prima. «Il pane tostato si raffredda», l'avvertì la madre, e lei prese le stampelle e si diresse in cucina. Valerie era dietro il bancone a leggere il giornale sorseggiando il caffè, e quando la figlia le si sedette di fronte per fare colazione, non alzò nemmeno lo sguardo. Peyton non voleva ricominciare a litigare, ma era rimasta sveglia tutta la notte a pensare alle sue parole e ai commenti delle due infermiere della terapia intensiva neonatale. Era troppo turbata per lasciar correre. «Pensi che io sarei una buona madre?» domandò. Dopo qualche istante, Valerie abbassò il giornale. «Penso che saresti una bravissima madre.» Peyton addentò un pezzetto di pane, che in effetti si era raffreddato. «Ti sei mai chiesta perché abbia scelto di studiare pediatria?» «Suppongo che tu ami i bambini. Ragione in più per essere un'ottima madre.» «E non credi che la mia scelta avesse invece qualcosa a che fare con noi? A livello inconscio.» Valerie sospirò. «Non intendo riprendere la discussione di ieri sera. Sono venuta qui per aiutarti, non per litigare. Sei mia figlia, e vorrei solo starti accanto quando hai bisogno di me. Se solo tu me lo permettessi.» Tornò al suo giornale, ma Peyton continuò a guardarla. Si chiese se la madre cogliesse l'ironia della propria lamentela sul sentirsi esclusa. Lo stoicismo di fronte a una tragedia personale era una tradizione di famiglia che aveva imparato proprio da lei. Aveva ricevuto la prima dura lezione all'età di quindici anni, quando loro si erano trasferiti in Florida. Era una sistemazione temporanea che durò soltanto un anno scolastico, il tempo necessario perché Valerie, che all'epoca era rimasta incinta, potesse portare
a termine la gravidanza in un clima più mite. Quella gravidanza era imprevista e Peyton non era felice di lasciare i propri compagni di liceo, ma la prospettiva di avere una sorella la eccitava. Era affascinata dai cambiamenti del corpo della mamma, così comprò dei libri per informarsi sull'argomento e l'accompagnò dal ginecologo per le visite, fino al sesto mese, quando la madre cominciò a mostrarsi insofferente nei suoi confronti e decise di andare dal medico da sola. Visto che il termine si avvicinava, Peyton le chiese di poter assistere al parto, ma lei rifiutò, dicendo che neanche il marito sarebbe stato presente, e quando il giorno arrivò, le impose addirittura di rimanere a casa. Era ormai evidente che Peyton era molto più emozionata per l'evento di quanto non fosse la mamma. Nel corso della giornata, il padre la chiamò ogni tanto dall'ospedale per informarla sull'andamento del travaglio. Alla fine, più di ventiquattro ore dopo che i genitori erano usciti di casa, ricevette una telefonata dalla madre. «Ho delle cattive notizie da darti», esordì. «La bambina non è sopravvissuta.» Peyton trovò a stento la forza per parlare. «Che cosa è accaduto?» «Non è colpa di nessuno. Sono cose che succedono.» Peyton chiese delle spiegazioni ma non ne ricevette. Anche lei era distrutta dal dolore, e volle organizzare il servizio funebre. Scegliere la lapide. Prendersi cura dei particolari più strazianti, in modo da togliere l'incombenza alla mamma. Ma più cercava di starle vicino, più lei s'infuriava. «Io voglio aiutarti», le disse Peyton un giorno. «Non puoi. Tu non c'entri. È una questione fra me e tuo padre.» Era successo dodici anni prima, però il ricordo era ancora vivido. Era orribile, il modo in cui la madre l'aveva fatta sentire esclusa. In circostanze normali, probabilmente l'avrebbe perdonata. Di certo la morte di un neonato era un evento traumatico, e non poteva biasimarla per il suo comportamento irrazionale. Il problema, tuttavia, era che Peyton aveva da tempo intuito l'ovvia verità sottaciuta. «Vai al lavoro oggi?» chiese Valerie. Peyton si riscosse dalle sue riflessioni. «Cosa? Oh, sì. Pensavo di andare in ospedale per qualche ora. Non vorrei dimenticarmi tutto quello che mi hanno insegnato.» «Non essere sciocca, non succederà.» «Hai ragione», rispose, ripensando a quel giorno lontano. «Alcune cose
non si dimenticano mai.» 16 Kevin arrivò alle nove. L'incontro doveva avere luogo nella Turlington Hall, un nome sofisticato per una delle sale conferenza al piano ammezzato dell'albergo. Percy Gates non c'era, ma la sua assistente lo salutò all'ingresso. All'interno della sala si era raccolta una piccola folla, divisa a gruppi di quattro o cinque persone che chiacchieravano fra loro. La maggior parte dei presenti era vestita in modo distinto, eccezion fatta per due tizi più audaci che sfoggiavano code di cavallo, jeans e giacche di tweed. Fece lo sforzo di presentarsi a quelli che erano vicino al buffet della colazione, sperando così di fare conoscenze utili. Ma, con la sua solita fortuna, incontrò soltanto altri come lui. Aspiranti scrittori. La conferenza di Percy Gates per scrittori di fiction dava un'impressionante garanzia: trovi un agente letterario o ti restituiamo il denaro. Dopo due anni trascorsi a scrivere e limare il suo romanzo, Kevin aveva ricevuto abbastanza lettere di rifiuto dagli editori per capire quanto la premessa di Percy fosse corretta: le grandi case editrici non comprano un libro a meno che non sia proposto da un agente. Percy amava raccontare l'aneddoto di un brillante giornalista che, per dimostrarlo, aveva ribattuto Il cucciolo parola per parola e poi lo aveva inviato sotto forma di dattiloscritto a tutti gli editori di New York. Un paio riconobbero il vincitore del premio Pulitzer del 1939, ma gli altri lo rifiutarono, partendo dal presupposto che, se l'autore non era rappresentato da un agente, l'opera non aveva alcun valore. Non che Kevin aspirasse al Pulitzer. Più che altro voleva sentirsi dire che ciò che scriveva era piacevole. A volte, era stato persino tentato di far leggere qualche capitolo a Peyton. Sarebbe stato come chiedere alla propria madre se lo trovava bello, ma uno scrittore deve pur cominciare da qualche parte. A quel punto era entrato in gioco Percy Gates. Sosteneva di selezionare con attenzione gli aspiranti scrittori i cui capitoli di prova denotassero un «vero talento». Questo, oltre a un'iscrizione di mille dollari da pagare in anticipo, assicurava ai partecipanti qualche minuto sul palco per presentare il proprio lavoro a vari agenti riuniti in un contesto informale. Alle nove e mezzo, Kevin contò all'incirca sessanta persone nella stanza. Con solo una decina di autori - Percy aveva specificato che non sarebbero stati più di dodici - significava una proporzione agente-autore di quattro a uno. Se avesse fallito anche in quell'occasione, non meritava di essere
pubblicato. «Signor Stokes, lei ha la tessera di oratore?» gli chiese la servizievole assistente di Percy. «Sì, grazie», rispose Kevin. La giovane donna salì sul palco, si posizionò davanti al microfono e fece un breve discorso introduttivo che enfatizzava lo spirito informale dell'evento. Ogni scrittore era stato munito di una tessera numerata che indicava l'ordine degli interventi, della durata massima di tre minuti ciascuno. Non ci sarebbero state presentazioni e non sarebbe stato necessario mantenere un rigoroso silenzio. Gli ospiti erano liberi di continuare a chiacchierare e divertirsi, di ascoltare o meno, come se le incitazioni degli autori: Vi prego, rappresentatemi! non fossero che musica da sottofondo per supermercati. Kevin valutò il proprio posizionamento: sesto, perfetto. Sufficientemente in fondo alla lista perché il meccanismo ingranasse, ma non abbastanza perché la gente se ne andasse prima che arrivasse il suo momento. Osservò gli oratori sul palco al fine di stimare quali commenti stimolassero l'interesse del pubblico. Il primo tizio era nervoso, sudato, orribile. I tre successivi semplicemente banali. Dato interessante, erano tutti avvocati, come lui. Il quinto aveva evidentemente un gran talento nel tergiversare, prolungandosi ben oltre il tempo limite. «Considero il mio libro un thriller letterario da grande schermo», affermò. «Una specie di Jackie Chan che incontra Moby Dick.» Alla fine, il numero cinque terminò. Nessuno applaudì, ma nessuno pareva nemmeno essersi accorto dei precedenti oratori. Metà dei presenti non ascoltava neppure, gli altri lo facevano per pura cortesia. Kevin sentì un nodo allo stomaco. La fiducia e l'energia che aveva provato all'inizio stavano lentamente cedendo il passo all'imbarazzo e alla disperazione. Lanciò un'occhiata alla porta e valutò la possibilità di darsi alla fuga. Quella che da principio era sembrata un'opportunità, ora pareva poco più di una costosa forma di umiliazione. Ma aspettava quel giorno da mesi, ed era il suo turno. Il microfono lo attendeva. Che cos'ho da perdere? Raggiunse il leggio assieme a un altro uomo. «Mi scusi», disse Kevin. «Io sono il numero sei.» «No, sono io il numero sei.» Kevin prese il cartellino numerato dalla tasca del cappotto e glielo mostrò. «Guardi qui.» Il tizio gli mostrò un tesserino identico che riportava lo stesso numero.
«Sembra che siamo tutti e due il sei.» Una donna si avvicinò. «Anch'io ho il numero sei.» «E anch'io», intervenne un'altra. Kevin si guardò rapidamente attorno nella sala in cerca dell'assistente di Percy, ma era sparita. Fu travolto da un'ondata di ansia. Salì al microfono e chiese: «Scusate, ci sono altri autori con il numero sei?» Due uomini sul lato della sala alzarono la mano. A quel punto, la voce di Kevin prese a tremare. «E il numero sette?» «Io ho il sette», risposero quattro all'unisono. «Sette, qui», disse un altro. Un mormorio di preoccupazione serpeggiò tra la folla. Kevin suggerì: «Alzate la mano, per favore. Chi ha il numero otto?» Sei persone alzarono la mano. «Numero nove?» Un'altra decina di mani. Kevin si fece paonazzo. Era sul punto di esplodere, colmo di rabbia e umiliazione. Il tizio dietro di lui dichiarò: «Lo denuncio quel bastardo». «Anch'io», disse un altro, e un altro ancora, e così il sentimento si trasmise nella stanza, finché all'improvviso Kevin comprese in modo dolorosamente chiaro che cosa fosse successo. Afferrò il microfono e chiese: «C'è qualcuno in questa stanza che non è un avvocato che aspira a diventare scrittore?» Silenzio, finché un tipo basso in fondo alla sala si fece avanti. «Io sono un dentista.» «Mi hanno detto che ci sarebbero stati degli agenti qui», disse una donna con rabbia. «Anche a me!» «A me lo stesso!» «Ehi, sentite questa», gridò l'uomo vicino a lui, cellulare alla mano. «Ho appena fatto il numero dell'ufficio di Percy. È disattivato.» Nella sala si diffuse il panico. Kevin sentì salire l'amaro in bocca. Scrutò la folla e pensò, senza riuscire ad accettarlo, che tutte quelle persone intelligenti erano state facilmente raggirate. I sogni possono istupidire chiunque, e dei seri professionisti con la possibilità di sprecare denaro per inseguire i propri sogni erano i più stupidi di tutti. Sessanta polli a mille dollari a cranio. Niente male come giornata di lavoro, Percy. «Figlio di puttana», mormorò al microfono senza nemmeno rendersene
conto, mentre la sua voce amplificata risuonava sul furibondo clamore dei presenti. Un clacson risuonò fuori dell'appartamento, e Peyton uscì per raggiungere il taxi. Boston era generalmente considerata una città pedonale - «Andiamo a piedi o abbiamo il tempo di prendere un taxi?» diceva la vecchia battuta - ma le regole erano differenti con le stampelle in pieno inverno. Avendo completamente distrutto la loro unica macchina, a lei non restava altra scelta, finché non avesse ripreso a camminare normalmente e non si fosse sentita pronta ad affrontare la metropolitana. «Children's Hospital», disse all'autista. Il cellulare squillò proprio mentre il taxi si metteva in moto. Era il dottor Sheffield, dall'ospedale. «Il dottor Landau mi ha chiesto di chiamarla per dare una buona notizia. Abbiamo rintracciato il mimo che la preoccupava tanto. Si chiama Andy Johnson.» «Non conosco nessuno con questo nome.» «È relativamente nuovo al Children's, ma lavora nei reparti pediatrici di molti altri ospedali.» «Che cosa avete scoperto?» «Non si allarmi, ma sembra abbia una specie di cotta per lei.» «In che senso?» chiese Peyton con trepidazione. «Mi lasci dire innanzitutto che la sicurezza ha preso le sue preoccupazioni molto seriamente. Svariati anni fa, una delle nostre dottoresse è stata molestata dal parente di un paziente, quindi sappiamo come gestire questo genere di situazioni.» «Non posso crederci. Qualcuno mi pedina.» «No. Dico solo che la sicurezza non ha lasciato nulla al caso. Hanno interrogato Johnson a lungo. Da principio ha negato di aver mai avuto comportamenti inappropriati nei suoi confronti. Ma le cose hanno cominciato a chiarirsi quando gli hanno domandato chi avesse organizzato la festa a sorpresa e chi lo avesse pagato perché ballasse con lei. Lui ha risposto che uno dei clown del Mass General gli aveva detto di essere stato ingaggiato per un lavoro al Children's, ma che non sarebbe riuscito ad andarci. A quanto pare, gli ha dato settantacinque dollari perché prendesse il suo posto. Johnson sostiene che l'altro tizio si chiama Rudy, ma quando la sicurezza ha chiamato il Mass General, ha scoperto che non c'è nessun animatore di nome Rudy in quell'ospedale.» «Ciò significa che Johnson ha organizzato la festa a sorpresa soltanto
per ballare con me? Non lo conosco nemmeno.» «È una possibilità.» Il cuore prese a martellarle in petto. «Gli avete chiesto dell'incidente?» «Questa è la vera buona notizia», disse Sheffield. «Il nostro responsabile della sicurezza ha persuaso Johnson a sottoporsi alla macchina della verità. Gli hanno fatto molte domande sull'incidente. Se ne sapesse niente. Se vi fosse in qualche modo coinvolto. Gli è stato persino chiesto di punto in bianco se fosse stato lui a farla uscire di strada. L'uomo ha negato qualunque relazione con l'accaduto, e l'esaminatore ha concluso che non mentiva.» «E adesso che cosa succederà?» «Probabilmente verrà licenziato. Il dipartimento legale cercherà un capo di imputazione adeguato, ma immagino si tratterà di violazione della politica dell'ospedale contro le molestie sessuali.» «Ci sarà un seguito con la polizia?» «Sotto quale aspetto?» «Le macchine della verità non sono infallibili. Nessuno avrà il compito di investigare per scoprire se Johnson mi ha, in effetti, mandata fuori strada?» «Dovrò chiedere alla sicurezza in merito.» «Sto arrivando in ospedale. Gradirei parlare con loro.» «Io le consiglierei di concentrare i suoi sforzi sul rimettersi in forma.» «Ma è importante.» «Sì, come pure il suo benessere. La prego di non prenderla nel modo sbagliato, ma il dottor Landau e io pensiamo sia giusto ricordarle che l'ospedale mette due psichiatri a disposizione dei medici interni che attraversano momenti di particolare stress. Non immagina quanti richiedano la loro assistenza. Non c'è niente di cui vergognarsi. Se il suo incidente la fa sentire timorosa, arrabbiata, colpevole, paranoica, o che altro, può parlarne con uno specialista.» Ecco la reazione che aveva tanto temuto. «Mi riprenderò presto.» «Lo so. E mi affretto ad aggiungere che, sebbene sia solo all'inizio del suo internato, le mie osservazioni fino a questo momento indicano che ha un grosso potenziale. Riuscirà a lasciarsi tutto alle spalle.» «Grazie.» «Comunque la prego di pensare alla consulenza psichiatrica. So che l'incidente è stato particolarmente traumatico per lei. Rispettiamo tutti la sua privacy, ma è trapelata voce che ha subito un aborto spontaneo. Mi spia-
ce.» «Oh», fu l'unica risposta che riuscì a dare. Non esiste più nulla di privato? «Un incidente che danneggia un innocente, come un bambino non ancora nato, è destinato a generare sensi di colpa. Psicologicamente, lei potrebbe sentire il bisogno di trovare qualcuno da incolpare. Ma si tratta di un gioco pericoloso, perché rischia di giungere alla conclusione che quella misteriosa auto in realtà non c'entrava niente. Allora lei comincerebbe a biasimare se stessa per essersi messa alla guida quando era troppo stanca, con delle cattive condizioni meteorologiche, oppure per non aver preso un'altra strada per tornare a casa. La verità è che non c'è nessuno da biasimare. Si è trattato soltanto di un incidente.» «Che cosa vuole insinuare? Che mi sono inventata la storia dell'auto che mi ha buttato fuori strada solo per scaricare su un altro la responsabilità del mio aborto?» «Nessuno la sta giudicando. Non sappiamo dove porterà l'indagine su questo Andy Johnson, ma potrebbe non dare tutte le risposte che lei sta cercando. Come le ho già detto, se vuole parlarne, i consulenti psichiatrici sono sempre a disposizione.» «Lo terrò a mente. Grazie.» Si salutarono. Peyton spense il cellulare, un intrico di pensieri nella mente. Sembrava destinata al successo sin da quando frequentava la facoltà di medicina, e sapeva che i complimenti del dottor Sheffield sul suo «grosso potenziale» non erano solo chiacchiere. Un mese prima le aveva messo la pulce nell'orecchio, suggerendole che avrebbe potuto seguire l'elitario corso di specializzazione in pediatria dopo l'internato. L'incidente alla clinica di Haverhill e le conseguenti denunce bastavano a dare un colpo d'arresto alla sua giovane carriera. Non aveva bisogno di note tipo «allucinazioni paranoiche» sulla scheda di valutazione. Il suggerimento del dottor Sheffield di andare a parlare con gli psichiatri era assolutamente a fin di bene, ma ora come ora la cosa migliore da fare era dare un taglio a tutte quelle chiacchiere su auto kamikaze e misteriosi malintenzionati. «Otto e cinquanta», disse il tassista. Peyton gli porse una banconota da dieci e scese sul marciapiede. L'ingresso principale dell'ospedale era proprio di fronte a lei. A destra dell'entrata, una parete vetrata mostrava allegri cartelloni di Scooby-Doo, Tasmanian Devil, Gatto Silvestro e altri personaggi dei cartoni animati. Sopra di essi campeggiava l'inquietante scritta PRONTO SOCCORSO. Quell'appa-
rente contraddizione appesantì ulteriormente il suo umore. Per quanto cercasse di scrollarsi di dosso tutta quella storia, sotto la superficie si celava una vera crisi. Puntellò le stampelle sul marciapiede bagnato e si diresse all'entrata, avendo deciso di punto in bianco che il suo periodo di malattia era finito. Non le importava quello che pensavano Sheffield o Landau. Lei non aveva bisogno di uno psichiatra. Sarebbe andata dritta dal responsabile della sicurezza. 17 Kevin era sul punto di crollare nel sonno quando il cellulare vibrò. Dannato Percy Gates! Lui doveva davvero partecipare a un seminario, e un intero pomeriggio passato ad analizzare le recenti azioni di adempimento della Commissione di Sicurezza e Scambi aveva avuto un effetto soporifero. I suoi occhi si aprirono di colpo, e gli ci volle mezzo secondo per ricordare che era seduto in un auditorio affollato. Si era assopito non appena in sala avevano abbassato le luci per utilizzare il proiettore a soffitto. Afferrò il telefono e si diresse verso l'uscita, facendo il possibile per non disturbare gli avvocati che erano riusciti a rimanere svegli durante il discorso dell'ospite d'onore. «Pronto», rispose una volta in corridoio. Era Peyton. Sembrava agitata, e si mise subito a raccontargli di Andy Johnson. «Incredibile», si limitò a dire Kevin. «Pensi sia lui il tizio che ti ha buttato nel Jamaica Pond?» «No. Gli hanno fatto il test della verità. A quanto pare, ciò ha dimostrato la sua totale estraneità all'incidente.» «Le macchine della verità non sono affidabili al cento per cento, ma la notizia dovrebbe tirarti un po' su di morale.» «E invece no. Ho parlato per un'ora con il responsabile della sicurezza dell'ospedale. Se vuoi la mia opinione, il test a cui hanno sottoposto Johnson è del tutto inaffidabile.» «Che cosa te lo fa credere?» «Se te lo dico, prometti di non arrabbiarti?» «Sì, suppongo. A cosa alludi?» «Hanno chiesto ad Andy Johnson se io e lui siamo mai stati sessualmente coinvolti.» «Davvero?» All'improvviso, l'immagine della rosa rossa che aveva tro-
vato sui gradini di casa si riaffacciò con forza alla sua mente. «E qual è stata la risposta di Johnson?» «Kevin, hai promesso di non arrabbiarti.» «Non mi sto arrabbiando.» «Conosco quel tono. È la stessa voce che hai quando accenno a Gary Varnes. Mi rende difficile parlarti di certe cose.» «Voglio solo sapere che cos'ha detto quel tizio, nient'altro.» «Ha risposto di no, ovviamente. Ma ecco perché penso che la macchina della verità non sia attendibile. L'esaminatore ha concluso che questa risposta mostrava segni di titubanza, il che è ridicolo.» Lui non ascoltò nemmeno il commento sulla «ridicolaggine» della situazione. Tacque, sapendo che avrebbe adottato di nuovo «quel tono». «Kevin, sei ancora lì?» «Sì.» «Allora di' qualcosa.» «Non capisco proprio perché abbiano dovuto chiedergli se voi due avete avuto dei coinvolgimenti sessuali.» «Perché la sicurezza voleva scoprire quali fossero i suoi intenti di pedinamento.» «Intenti di pedinamento?» «Da quello che mi hanno spiegato, le forze dell'ordine etichettano in modo diverso i diversi tipi di ossessione. Se la persona che pedina ha avuto in precedenza rapporti con la propria vittima, si parla di ossessione semplice. Ma se il molestatore è ossessionato da una persona che non ha mai neppure conosciuto, allora si tratta di una cosa completamente diversa. Viene definita ossessione d'amore.» «Perché non si sono limitati a chiedere a te se avevate avuto una relazione?» «Perché io sono sposata. Suppongo pensassero che avrei potuto mentire.» «E lo avresti fatto?» «Che cosa?» «Mentire.» «Ti prego. Vuoi farmi impazzire?» «Non hai risposto alla domanda.» «Non sono una bugiarda», disse, con voce un po' troppo alta. Kevin si sentiva girare la testa. «Scusa. Ma ho passato un paio di giorni davvero infernali qui a New York.»
«Non basta a giustificare il fatto che tu mi accusi di... insomma, hai capito.» «Be', prova a metterti nei miei panni. Come può un marito ignorare un test della verità che dimostra che la propria moglie era sessualmente coinvolta con un altro uomo?» «Il test non ha dimostrato niente del genere. Hanno chiesto a Johnson se tra noi c'era mai stato qualcosa, e la sua negazione ha mostrato segni di titubanza. Devi considerare come funziona la mente di un molestatore. Vivono in un mondo di fantasia. Avendo ballato un tango con me, può aver pensato che io e lui fossimo sentimentalmente coinvolti. O forse ha avuto così tante fantasie sessuali sul mio conto che nella sua testa è come se fosse accaduto davvero.» «È possibile.» «È più che possibile. Dio, Kevin, odio tutto questo. La tua totale mancanza di fiducia. Voglio dire, siamo arrivati al punto che persino mia madre sospetta.» «Che cosa?» Peyton esitò, poi disse: «Pensa di averti visto ieri a pranzo con un'altra». Il cuore di Kevin quasi si fermò. «Oh, davvero?» «Senti, mi spiace anche solo avertene accennato. Non voglio che arriviamo ad accusarci a vicenda. Ero così felice del modo in cui le cose si stavano sistemando.» «Anch'io. Pensiamo solo ad andare avanti.» «È esattamente quello che volevo sentirti dire. Quando torni a casa?» «Il seminario finisce domani pomeriggio.» «Vorrei che potessi tornare prima.» «Idem», disse lui con una risatina nervosa. «Ora devo andare. Ti richiamo più tardi.» Dopo aver riattaccato, Kevin quasi cadde contro la parete, esangue. Il riferimento al pranzo era solo a un passo da una domanda diretta su Sandra. Ma perché Peyton aveva fatto marcia indietro? Forse non era pronta ad affrontarlo, proprio come lui non era pronto a insistere per avere delle risposte sulla rosa che aveva trovato fuori della loro porta. Di certo lei avrebbe sostenuto che si trattava dell'ennesima non voluta espressione d'amore del molestatore. Forse era la verità, nel qual caso parlarne avrebbe significato soltanto spaventarla ulteriormente. Ma se fosse stato il simbolo di qualcos'altro, e se lui avesse deciso di farne una questione, avrebbe voluto guardarla negli occhi mentre gli dava una giusti-
ficazione. Probabilmente lei avrebbe preteso lo stesso faccia a faccia, se intendeva chiedergli chiarimenti sul pranzo. All'improvviso, Kevin ricordò le parole di Sandra: lui e Peyton erano in competizione e la moglie lo aveva battuto al suo stesso gioco. In quel momento l'aveva giudicata un'affermazione assurda. Il secondo nome di Peyton era monogamia. Tuttavia, considerati i continui viaggi di lavoro che aveva fatto con Sandra, lei poteva aver cominciato a sospettare un tradimento ben prima che suo marito varcasse il confine. Non era da Peyton cercarsi un amante per ripicca. Ma forse si era trovata davvero un altro uomo. Non un uomo. Un clown. Un maledetto clown! Infilò il cellulare in tasca e si diresse in bagno. Al diavolo il seminario. Al diavolo tutto quanto. Era ora di levare le tende. 18 Andy Johnson era infuriato. Dopo diciannove anni di lavoro part time in vari ospedali di Boston, la sua carriera era finita. Il Children's era stato il primo a informarlo che i suoi servizi non erano più richiesti. Gli altri lo avevano presto imitato. Un'occhiata provocante a una giovane dottoressa, e il suo nome era finito sulla lista nera di tutta la città. Sapeva che gli ospedali come il Children's erano molto attenti alla propria immagine e sensibili al cattivo comportamento del personale che entrava in diretto contatto con i pazienti della pediatria. Ma dalla reazione a dir poco esagerata dell'amministrazione, sembrava che lui avesse violentato la donna in un bagno. Tutta quella faccenda del politicamente corretto stava diventando pura follia. «Ti pago una birra, amico?» Si era sentito fare la stessa proposta ogni dieci minuti nell'ultima ora. Un vecchio solitario che non aveva mai visto prima aveva piantato il culo sullo sgabello accanto a lui al bancone, e sembrava determinato a diventare il suo compagno di bevuta. Dopo qualche minuto di chiacchiere riluttanti, tuttavia, Andy si era aperto. Due o tre giri più tardi, si ritrovò a un passo dall'ammazzare di noia il vecchio eccentrico con quella dannata storia. «Mi hanno lasciato uno stramaledetto biglietto nel casellario», si lamentò Andy. «Riesce a crederlo? Non hanno nemmeno avuto il fegato di dirmelo in faccia.» «È stato davvero meschino», rispose il vecchio. «Forse dovrebbe denun-
ciarli.» «Per cosa? Discriminazione dei clown?» «Non possono licenziarla solo perché ha lanciato uno sguardo a una donna.» «Ma c'è dell'altro. Sono convinti che io le stia dando la caccia.» «Ed è vero?» Andy lo guardò di sbieco. «Dove vuole arrivare?» «La mia è solo una domanda. Le sta dando la caccia oppure no?» Andy osservò la schiuma della sua birra, poi sorrise debolmente. «Non le è mai capitato di guardare una donna e capire subito che sarebbe stupendo?» «Che cosa sarebbe stupendo?» «Ehi, vecchio, mi stai prendendo in giro? Carenza di Viagra? Sto parlando di sesso.» «Quindi, le stai dando la caccia.» «Non le sto dando la caccia. Ci stavo solo, be', provando.» Il vecchio annuì in silenzio. Andy disse: «La cosa è cominciata quando sono stato ingaggiato per ballare un tango con lei a una festa a sorpresa. Era tutta una finta, ma quando una come quella sta al gioco in una stanza piena di persone e si diverte a fare la sexy, ti viene da pensare. Ecco una donna senza inibizioni: a letto deve essere una bomba». «Quindi volevi solo scopartela.» «Be'... sì.» «Sei malato.» «Che cosa?» «Sei un malato figlio di puttana», disse, un po' più forte questa volta. Andy si mise dritto a sedere. «Senti, amico, non m'importa di quanti anni hai. Bada a come parli.» «Siamo tutti malati. Dal primo all'ultimo.» Un sorriso gli si aprì sulle labbra, e alzò il bicchiere per un brindisi. «A noi malati, e alle donne che ci riducono in questo stato.» Andy cominciò a chiedersi se il vecchio ci fosse con la testa, ma gli parve innocuo. «Alla salute», rispose. Finirono le birre insieme e appoggiarono i boccali sul bancone. «Te ne offro un'altra, amico?» «Nah, grazie», disse Andy. «Faccio un salto al gabinetto e poi me ne vado a casa.» Scivolò giù dallo sgabello e si diresse verso i bagni. A metà strada gli
vennero le vertigini. Da princìpio fu una sensazione piacevole, ma ben presto s'intensificò e lui cominciò a sentirsi a disagio e disorientato. Si fermò per riprendere il controllo. La televisione dietro il bancone era rimasta accesa per tutta la sera, ma era come se ora riuscisse a udire le voci distintamente, come se il volume si fosse alzato da solo. Poi scemò. La sua attenzione si spostò su due tizi che giocavano a biliardo nel retro del locale e che sembravano ridere di lui. Ma anche le loro voci svanirono. La cucina si trovava dietro due porte girevoli sul retro, eppure il rumore di pentole e stoviglie gli rimbombava nella testa. Cercò di scacciarlo e posò lo sguardo su una donna grassa al telefono pubblico. O forse era un uomo. Non riusciva a distinguere. Era impossibile mettere a fuoco. Gli si intorpidirono le mani. Le ginocchia cominciarono a tremare. Una vampata di calore seguita da un brivido di freddo lo attraversarono da capo a piedi, poi all'improvviso gli cedettero le gambe. Cercò di aggrapparsi alla sedia più vicina, ma era occupata. «Ehi, attento!» Un tizio corpulento lo spinse, e Andy cadde sul pavimento. Provò a rialzarsi, ma riuscì soltanto a mettersi su un ginocchio. Cercò di tirarsi in piedi, e scoprì che si stava aggrappando alla coscia di qualcuno. «Metti giù le mani dalla mia ragazza!» Il tipo corpulento lo strattonò ancora. Andy barcollò all'indietro e rovinò sul pavimento, finendo incastrato fra le gambe di due sedie rovesciate. Provò ancora ad alzarsi e riuscì appena a sollevare la testa. Dovette raccogliere tutte le forze che aveva soltanto per ascoltare la conversazione che avveniva sopra di lui. «Qual è il problema?» chiese il barista. «Questo zoticone ubriaco ci è caduto addosso.» «Adesso lo faccio andare a casa, ma diamoci tutti una calmata, d'accordo?» Andy riconobbe la voce tremolante del vecchio, il quale lo aiutò a sollevarsi e gli porse il portafoglio. «Sei così rovinato che hai dimenticato questo sul bancone», disse, infilandoglielo nella tasca del cappotto. «Forza, non ti lascio da solo, ti do una mano a uscire.» Camminava a stento, ma riuscì a mettere un braccio sulle spalle del suo nuovo amico. Si strinsero per passare dalla porta, l'uno accanto all'altro, mentre Andy trascinava i piedi a ogni passo. La folata di fredda aria notturna lo aiutò a ritornare un po' in sé e gli permise di formulare qualche pensiero coerente. Era strano. Cinque birre erano ben sotto il suo limite. Il
vecchio lo aveva persuaso a prendere due tequila, ma anche quelle non erano sufficienti a stenderlo. O erano sei birre e tre tequila? Forse era quello il problema. Aveva perso il conto. «Chiamami solo un taxi», biascicò. «Me la caverò.» «Un tassista non caricherebbe mai un cliente che potrebbe vomitargli in macchina.» «Non ce la faccio a camminare. È troppo lontano.» «Che ne dici della metropolitana?» «Sì», bofonchiò Andy. «L'ultimo treno passa a mezzanotte e trenta.» «Ti ci porto io.» Si appoggiò all'amico e si incamminarono lungo il marciapiede. Il vecchio sbuffava e ansimava sotto quel peso, e il suo fiato si condensava nell'aria gelida. Andy il freddo quasi non lo sentiva. La stazione della metropolitana durante l'ora di punta, sembrava un laborioso formicaio. A mezzanotte, con la temperatura vicino allo zero, era un deserto. Il vecchio infilò il biglietto nella fessura della macchina vidimatrice e spinse Andy oltre il tornello. Lui stava per voltarsi a ringraziare, ma se lo ritrovò dietro. «Ti accompagno fino al treno», disse. «Non voglio che tu cada sbattendo la faccia.» «Grazie, vecchio.» Seguirono le indicazioni verso la piattaforma. La luce dei neon illuminava a malapena le umide gallerie sotterranee di cemento. I graffiti imbrattavano le pubblicità appese alle pareti. Una pozza di urina mezza congelata brillava in un angolo. Il vecchio lo condusse alla fine della piattaforma, dove la linea rossa entrava nella stazione attraverso uno stretto tunnel. Si fermarono sulla striscia gialla che indica il limite della banchina. Oltre quel segnale, un salto di qualche metro fino a due serie di binari. Andy si rese improvvisamente conto che erano completamente soli, lui e il vecchio. Si erano lasciati i rumori della strada alle spalle, lì nei tunnel sotterranei, e ora il silenzio era palpabile. Lo stordimento dato dall'alcol e dal freddo stava svanendo, e cominciò a sentirsi di nuovo le dita. Diede una lunga occhiata ai binari ma vide soltanto oscurità. Si chiese se non avessero già perso l'ultimo treno. Lentamente, i suoi occhi furono attratti dal ronzio sotto la piattaforma. «Terza rotaia», disse il vecchio, avendolo notato anche lui. «Seicento volt di elettricità. Attento a non perdere l'equilibrio.» Al mero suggerimento Andy si sentì vacillare. «Voglio andare a seder-
mi.» «Non ora. Il treno sta arrivando.» Lungo il binario, un paio di fanali si stavano avvicinando alla stazione. Andy provò a fare un passo indietro, ma il vecchio era proprio alle sue spalle e lo teneva stretto. Forte, per la sua età. «Allontaniamoci», disse. «Ti tengo io. Stai tranquillo.» Ora Andy sentiva arrivare il treno, le vibrazioni sotto i piedi. Si avvicinava a gran velocità. Era tanto vicino al limite della piattaforma da riuscire a vedere in faccia il conducente. Il vecchio stava ancora alle sue spalle, proprio all'imboccatura del tunnel, fuori vista. Di nuovo lui provò a indietreggiare, ma la presa dell'amico si faceva sempre più forte. Avvertì una vampata, proprio come gli era accaduto al bar. «Devo sedermi, davvero.» Gli parve che l'altro gli dicesse di chiudere il becco, ma il rumore delle rotaie aveva soffocato le parole. Il treno distava ormai solo una ventina di metri. All'improvviso, il vecchio lo afferrò per il bavero della giacca, lo voltò e gli gridò in faccia. «Non puoi avere Peyton!» I loro occhi si incontrarono quanto bastò perché uno sguardo folle lo trapassasse, e Andy si rese conto che a distanza ravvicinata, faccia a faccia, il tizio non sembrava più così vecchio. E allora sentì la sua rabbia inarrestabile colpirlo dritto nel petto, mentre due mani lo spingevano con la forza di un uomo molto più giovane. Volò all'indietro oltre la linea gialla. Cercò di afferrare la mano dell'assassino, il suo cappotto, qualunque cosa potesse evitargli di cadere, ma strinse soltanto manciate di aria fredda. Si udì gridare e la mente fu attanagliata dal panico. Per una frazione di secondo fu come se si trovasse fuori del proprio corpo e fosse testimone del pericolo imminente. Le braccia che si agitavano mentre precipitava. Il treno che frenava bruscamente entrando in stazione. Un'esplosione di sangue rosso e caldo al momento dell'impatto. Gli organi vitali che si spappolavano spargendosi sul parabrezza. Gli arti mutilati che volavano sui binari, atterrando con uno sfrigolio sulla terza rotaia elettrificata. «No!» gridò. Cercò di afferrare il vecchio un'ultima volta ma rimase a mani vuote, poi si schiantò contro il treno e la sua visione divenne realtà. 19
Aveva una caramella di gelatina infilata nel naso. Ecco il problema immediato che Peyton e il suo paziente dovevano affrontare, in quello che si stava rivelando un bizzarro primo giorno di lavoro, di nuovo al pronto soccorso. C'erano altri sette bambini nelle stesse condizioni, tutti provenienti dalla stessa festa di compleanno. Loro se la sarebbero cavata, ma a giudicare dal drappello di parenti infuriati in sala d'attesa, non si poteva dire lo stesso dei genitori che avevano organizzato la festa. «Peyton, può venire con me, per favore?» Alzò lo sguardo e vide il dottor Sheffield fare capolino da dietro la porta. Lei aveva una siringa in mano e con l'altra teneva un ragazzino tremante di sette anni. Lanciò un'occhiata al responsabile degli interni, per chiedergli se poteva aspettare. «È importante», disse lui. Dall'espressione del suo viso, Peyton comprese che lo era davvero. Rassicurò il bambino e sua madre, si scusò, e seguì Sheffield. «Che succede?» chiese, sfilando i guanti di lattice. «È arrivata la polizia. Vogliono parlarle.» «A che proposito?» «Speravo potesse spiegarmelo lei. La stanno aspettando davanti al suo armadietto, e non hanno l'aria contenta.» Lo spogliatoio era proprio in fondo al corridoio, accanto allo stanzino del turno di notte. Il dottor Sheffield aprì la porta e Peyton entrò. Vide che all'interno c'erano il dottor Landau e due poliziotti. «Detective Bolton», disse, con una certa sorpresa. «Che cosa la porta qui?» L'uomo le strinse la mano, ignorando la sua domanda e presentandole la collega. «Lei è il detective Andrea Stout. Fa parte della polizia della Massachusetts Bay Transportation Authority.» «Non sapevo che l'azienda dei trasporti del Massachusetts avesse il proprio corpo di polizia.» «È così», tagliò corto la donna. «Sappiamo quanto sia impegnata, quindi, se può concederci un minuto, vorremmo che ci mostrasse la chiave del suo appartamento.» «Perché?» Bolton intervenne: «È nel suo interesse, dottoressa». Peyton esitò ma non vide motivo di protestare. Aprì il suo armadietto, pescò la chiave dalla borsetta e la porse alla poliziotta. Il detective Stout prese dalla sua borsa un foglio di carta su cui era tracciato il profilo di
un'altra chiave. Stese il foglio su una panca e vi appoggiò sopra quella che lei le aveva consegnato. «Corrisponde», disse. «Corrisponde a cosa?» chiese Peyton. Bolton disse: «Andy Johnson, il clown che ha ballato con lei qui all'ospedale, è stato trovato morto la notte scorsa. Investito da un treno della metropolitana». «È orribile.» «Prima di versare lacrime, deve sapere che l'uomo aveva una chiave nella tasca della giacca. Ora risulta essere quella della porta d'ingresso del suo appartamento.» Peyton mosse mezzo passo indietro, stupefatta. «Com'è possibile?» «Deve essere riuscito a farne una copia.» «Quindi era lui a pedinarmi.» «Probabilmente. Ed è ancora più plausibile alla luce di un'altra prova che gli abbiamo trovato addosso. È questo che ci ha spinto a venire qui a controllare.» «Di che si tratta?» Bolton lanciò un'occhiata alla collega, poi tornò a guardarla. «Aveva una sua foto nel portafoglio. Un'istantanea.» Peyton si sentì mancare. «Mi ha scattato una foto?» «Si tratta di un primo piano, quindi o è stata fatta da qualcuno che lei conosce oppure Johnson l'ha scattata con un teleobiettivo.» «Non so che cosa dire.» «Non dovrebbe essere così scioccata», affermò Bolton. «Ho saputo che si è lamentata con l'amministrazione che Andy Johnson l'aveva spaventata alla festa a sorpresa organizzata in ospedale.» «È vero. Sono addirittura arrivata a pensare che potesse essere stato lui ad avermi buttata fuori strada la notte dell'incidente. Ma mi è stato riferito che aveva superato il test della macchina della verità.» «Che resti tra noi», replicò Bolton, «ma quegli aggeggi non sono affidabili al cento per cento. Molto dipende dall'abilità dell'esaminatore.» Landau si fece avanti, fedele al proprio ruolo di responsabile del programma formativo. «Ci tengo a sottolineare che l'ospedale si è comportato in modo corretto. Abbiamo licenziato Johnson.» Bolton aggiunse: «Come tutti gli altri ospedali per cui lavorava. Perciò non crediamo che la sua morte sia stata accidentale». «Vuol dire che l'hanno ucciso?»
«È più probabile che si tratti di suicidio. Stiamo ancora indagando. Sfortunatamente le telecamere di sicurezza della stazione della metropolitana non funzionavano e finora non abbiamo trovato nessun testimone oculare. Ma l'istinto mi dice che Johnson fosse sull'orlo di una crisi di nervi. Un tipo solitario che si innamora pazzamente di una donna quasi sconosciuta, viene respinto e poi perde il posto a causa di quella storia. Il rapporto tossicologico ha riscontrato una pericolosa combinazione di alcol e droghe nel suo sangue. Chissà quali problemi aveva quel tizio. Doveva essere combinato male se se ne andava in giro con la sua chiave di casa e quella fotografia nel portafoglio.» «Di certo è una faccenda inquietante. Ma mi sento molto in colpa per il fatto che si sia ucciso. Lui lavorava nel nostro ospedale. Avremmo potuto aiutarlo.» «Questo è un modo di vedere la cosa», replicò Bolton. «Io, invece, preferisco la versione del bicchiere mezzo pieno.» «Che significa?» «Ora può smettere di preoccuparsi del suo molestatore. E, meglio ancora, nessuno la crederà più paranoica.» Peyton lanciò un'occhiata al dottor Landau, il quale disse in tono malizioso: «Suppongo sia già qualcosa». Ammiccò, mentre lei conveniva: «Sì, è già qualcosa». 20 Peyton voleva parlare con Kevin. Non l'aveva chiamata la notte precedente prima di andare a dormire. Non l'aveva chiamata neppure quella mattina. Suppose che stesse ancora rimuginando sul test della macchina della verità. Era difficile gioire del fatto che un uomo fosse stato sfracellato da un treno, ma desiderava informare il marito che, qualunque minaccia al loro matrimonio lui avesse percepito, era cessata. In modo definitivo. Lo chiamò sul cellulare e andò subito al sodo. «Andy Johnson è morto.» «Che cosa? Come?» Il minuto di spiegazione che Peyton gli fornì lo lasciò senza parole. Poi le chiese: «Come ti senti?» «Sto cercando di seguire il consiglio del detective Bolton e di ringraziare il cielo che sia finita con la sua morte e non con la mia.» «Adesso puoi lasciarti questo incubo alle spalle. Quell'uomo non c'è
più.» «Mi piacerebbe tanto sapere con certezza dove si trovava al momento del mio incidente. Ora tutti sostengono che, se davvero qualcuno mi ha buttata fuori strada, deve essersi trattato di lui. Ma avrei voluto chiederglielo di persona, senza tanti preamboli: 'dov'eri tu quella notte?'» La sua voce era tesa, e si chiese se Kevin avesse colto a chi fosse realmente indirizzata quella domanda. «Sfortunatamente, è troppo tardi per farlo.» «Già. Troppo tardi.» «Sembri arrabbiata», commentò lui. «Ce l'hai ancora con me per il modo in cui ti ho trattato ieri al telefono?» «Non sono arrabbiata.» «Se è così, lascia che te lo ripeta. Mi dispiace.» «Kevin?» «Che c'è?» «Dov'eri la notte del mio incidente?» Lui ridacchiò nervosamente. «Che vuoi dire?» «Non è una domanda trabocchetto.» «Lo sai dov'ero. A Providence, per lavoro.» Peyton tacque. Kevin ruppe il silenzio e le chiese: «Perché stai sollevando la questione proprio adesso?» «Il tuo appuntamento a pranzo con quella donna prima di partire per New York.» «Pensavo fossimo d'accordo di non tornarci più sopra.» «Credo di meritare una spiegazione. Quando sei uscito di casa, hai sostenuto che avresti fatto un salto in ufficio e poi saresti andato direttamente in aeroporto.» La risposta di Kevin giunse dopo qualche istante. «È vero.» «Quindi hai mentito?» Un altro momento di silenzio. «Va bene, mi hai scoperto.» La voce di Peyton tremò. «Che cosa significa?» «Volevo fosse una sorpresa, ma ora tanto vale che te lo dica. Sai che non sono contento del lavoro allo studio. Sto esplorando un altro genere di carriera. La donna che tua madre ha visto con me è una persona che potrebbe aiutarmi.» «Aiutarti in cosa?» «Senti, non posso negare che sia un tipo attraente. Ma è soltanto un'amica che lavora nel mio studio. Io non dubito delle tue amicizie. Gary, per
esempio.» «Mi stai prendendo in giro? Quando ti ho detto che gli avrei dato una mano a prepararsi per l'esame di ammissione alla facoltà di medicina, hai reagito come se io intendessi provare il suo nuovo materasso ad acqua. Ma non rigirare la frittata. Stavamo parlando di te e della tua amica. Come ha intenzione di aiutarti esattamente?» «È un progetto che finora ho tenuto segreto, specie a quelli dello studio. Ti spiegherò tutto stasera.» «Non capisco.» «Capirai. E sarai orgogliosa di me. Lascia che ti faccia una sorpresa.» «Che cosa stai combinando?» «Proprio niente.» Peyton non gli disse che sua madre le dava il tormento. Tuttavia, non riuscì a fare a meno di chiedere: «Hai una storia con un'altra oppure no?» «Ti giuro di no.» «Hai avuto una storia con un'altra?» «Peyton, forse è stato l'incidente, o forse i giorni che abbiamo passato insieme dopo il tuo ricovero in ospedale. Ma io sono sicuro dei miei sentimenti per te come mai prima. Perché credi sia rimasto tanto turbato quando mi hai raccontato di Andy Johnson e del test della macchina della verità?» «Non lo so.» «Non potevo sopportare il pensiero di te con un altro. Torna a casa subito. Sono ansioso di vederti.» «Sei a casa?» Avendolo chiamato sul cellulare, Peyton aveva supposto che lui fosse ancora a New York. «Il seminario era inutile. Me ne sono andato prima della fine e sono rientrato a Boston.» Lei rimase in silenzio per un attimo, poi disse: «Non posso tornare a casa adesso. È il mio primo giorno di lavoro dopo la convalescenza». «Allora organizziamo una bella cenetta. Ti racconterò della mia nuova carriera. O almeno della mia speranza di cominciarne una. Che ne pensi? Una specie di appuntamento romantico?» «Sì. Ma sarò lì verso le dieci.» «Allora alle dieci», disse Kevin. «Va bene. A dopo.» Riagganciando, ebbe un pensiero fugace. Aveva a che fare con la telefonata del giorno prima e l'irragionevole reazione di Kevin alla notizia del
suo presunto «coinvolgimento sessuale» con Andy Johnson. Lui era sempre stato un compagno molto geloso, si disse. Al college, dopo che si erano fidanzati, aveva quasi rotto il naso a un tizio che aveva cercato di abbordarla al Bullwinkle's Bar. Kevin non era un assassino, ma accessi d'ira come quello avrebbero potuto spingere una persona più sospettosa a domandarsi se fosse tornato da New York prima o dopo che quell'uomo finisse morto sulle rotaie della metropolitana. Scacciò subito l'idea. Si trattava solo di un pensiero fugace che le aveva sfiorato la mente. Tuttavia lo aveva formulato. Peyton riprese il controllo di sé e si diresse al pronto soccorso. 21 Un altro venerdì sera, un'altra notte solo nel letto. Solo con i suoi pensieri su Peyton. La stanza di Rudy era buia, fatta eccezione per il debole bagliore di un lampione fuori della finestra. Il rumore dell'affollata L Street Tavern un piano più sotto filtrava dal pavimento, la solita confusione del week-end. La musica era così alta da permettergli di cogliere il motivo del brano. Canticchiò qualche nota, mettendo insieme una parola qua e là, finché capì che si trattava di LA Woman dei Doors. Una canzone datata ma bella. La radiosveglia segnava le 22.57. Fu lieto di essere riuscito a dormire qualche ora. Ultimamente soffriva d'insonnia. L'emergenza Andy Johnson era stata fonte di preoccupazione. La notizia del suo licenziamento lo aveva raggiunto in fretta. I pettegolezzi viaggiano veloci e ci erano voluti pochi minuti perché l'intero ospedale venisse a sapere che Andy era stato silurato per averci provato con la dottoressa Shields. Rudy aveva persino sentito delle voci su un «coinvolgimento sessuale» tra lui e Peyton. Negli ultimi mesi aveva osservato la donna con sufficiente attenzione per capire che non era affatto vero. Ma la prospettiva che Johnson potesse desiderarla era piuttosto stressante. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era di venire pugnalato alle spalle proprio dal clown che aveva ingaggiato per danzare con lei alla festa di compleanno a sorpresa. Non gli servivano altri rivali. Kevin Stokes bastava, anche se l'idiota non comprendeva che gemma rara avesse per moglie, e se la spassava con la sua piccola puttana. Meriti di meglio, Peyton. Da quando l'aveva buttata fuori strada, Rudy si era sforzato di escogitare
una maniera per trasmettere il suo semplice messaggio. La rosa davanti alla porta di casa. La scritta «Ti amo» sul suo cercapersone. Non che lei dovesse necessariamente collegare quei gesti a lui. La regola delle loro chiacchierate su Internet era di non rivelare mai la loro vera identità, un modo comune per le persone sposate di tradire virtualmente e proteggere la propria coscienza e la propria privacy. Lui la conosceva come Ladydoc. Lei come RG o Rudy. A meno che non si fosse trovata nella chat room la settimana precedente e non avesse visto le sue scuse personalizzate dirette a «Peyton» - cosa che escludeva - lei non poteva avere idea che Rudy conoscesse il suo vero nome. Non poteva sapere che lui si era procurato il suo indirizzo e il numero del cercapersone. Quei dettagli erano parte di un vasto archivio di informazioni raccolte e orecchiate quotidianamente, che includeva in pratica ogni numero che avesse anche la più remota connessione con la vita di Peyton Shields. Il numero di casa, del cellulare, del cercapersone, il civico sulla porta, il numero della patente, della tessera di previdenza sociale, del conto corrente, del suo armadietto all'ospedale, il numero dei gradini dalla sua porta di casa alla metropolitana, il numero di volte che usava il bagno durante un turno medio di dodici ore, il numero di morsi che le ci volevano per mangiare mezzo tramezzino con il tacchino durante la pausa per il pranzo di dieci minuti. Dieci, se prendeva le solite fette di pane integrale con solo lattuga, niente pomodoro e una spruzzata di maionese. Sedici, se sceglieva il panino. Conosceva addirittura le misure del suo reggiseno e degli slip. Si chiedeva persino se lei avesse mai mandato una lamentela a Victoria's Secret per non averle inviato un pacco ordinato per corrispondenza che, a sua insaputa, era scomparso dalla casella della posta. Nessuno di quei numeri, nemmeno le taglie della biancheria intima, contava per lui come quello che ultimamente gli rodeva lo stomaco: quattro. Per quattro interi giorni dopo l'incidente Peyton e suo marito erano rimasti a casa insieme mentre lei era convalescente. Si erano di certo rappacificati, e il solo pensiero gli dava la nausea. Tutta la faccenda dell'«incidente» non si era svolta come l'aveva immaginata. Buttare Peyton fuori strada solo per essere colui che l'avrebbe salvata, la persona che poteva decidere se dovesse vivere oppure morire, probabilmente non era stata una delle sue migliori fantasie. E adesso era più importante che mai esprimerle i propri sentimenti. Ma una rosa senza biglietto e un messaggio sul cercapersone inviato da un telefono pubblico di certo non le avrebbero fatto capire che era lui a dirle: «Ti amo». Il problema era che non era pronto a rivelarsi completamen-
te. Se si fosse esposto troppo, lei avrebbe potuto respingerlo. Non lo avrebbe sopportato. Non un'altra volta. Scivolò fuori della coperta e appoggiò i piedi nudi sul pavimento. Con addosso solo i boxer attraversò la stanza fiocamente illuminata, dando agli occhi il tempo di abituarsi prima di accendere una luce. Si fermò al lavandino del bagno e premette l'interruttore. Si diede una sciacquata, poi si diresse alla cassettiera e indossò un paio di pantaloni della tuta e una T-shirt. Erano quasi le undici, l'ora magica che notte dopo notte lo portava davanti al computer e nelle chat room. L'ennesima serata passata in cerca di Ladydoc. Anche quando chiacchieravano con regolarità, di rado se non mai accadeva durante il fine settimana. Stasera, Rudy sperò, poteva essere diverso. La morte di Andy Johnson aveva cambiato tutto. Sorrise fra sé, domandandosi se mai avrebbero acciuffato il colpevole. Si collegò a Internet ed entrò nel loro sito abituale, quello frequentato da patiti di vecchi film. La conversazione in genere cominciava alle undici, ma erano già passate da qualche minuto e lui era l'unico nella chat room. Nemmeno la donna che aveva creato il sito e che di solito sosteneva la conversazione si era sprecata a partecipare quella notte. In parte lui si aspettava un niente di fatto. D'altra parte, però, stava cominciando a irritarsi per l'umiliante silenzio. Fissando lo schermo bianco, digitò una breve domanda nello stile da chat room. «c 6?» Attese, poi riprovò. «EHI! ho detto, c 6?» Sapeva di essere solo, che le parole scritte sullo schermo stavano cadendo nel nulla cibernetico. Eppure si sentì costretto a continuare, come se volesse registrare la propria solitudine e vederla scandita sullo schermo, davanti ai suoi occhi. «non c 6?» Arrabbiarsi era controproducente, ma non poteva farci niente. Averla buttata fuori strada era stata una cosa di cui si era pentito immediatamente. Le aveva domandato scusa. Glielo aveva detto con il cuore. L'aveva persino tirata fuori dalle acque ghiacciate dello stagno. Le aveva salvato la vita, dannazione. Solo tre righe lo fissavano dallo schermo, tutte scritte da lui. Nessuna risposta, da nessuno. Non un saluto, figuriamoci poi un grazie. Digitò con rabbia un ultimo messaggio sulla tastiera, non accorgendosi nemmeno di
aver abbandonato lo stile consueto. «Sei in debito con me. Un debito grosso.» Cliccando sul mouse uscì dalla chat room. Fece un respiro profondo per placare la rabbia montante, ma non funzionò. Era stanco di impegnarsi e venire snobbato. Era stato la quintessenza della dolcezza con lei fin troppo a lungo. Con un altro clic, sullo schermo apparve una lista di siti web indicati come «Preferiti». La mano gli tremò. Entrarvi sarebbe stata un'enorme regressione. Era furioso con Peyton per il modo in cui lo stava trattando, per averlo trascinato di nuovo in quel posto. Nessuna donna avrebbe mai apprezzato quel lato della sua personalità. Ma era tutta colpa di Peyton. Lei lo aveva fatto arrabbiare. La rabbia lo aveva spinto lì. A volte ci stava per ore intere, giorno dopo giorno, fino a che la collera scemava. Forse era proprio quello di cui aveva bisogno. Un po' di tempo lontano da tutto. Con quello che era successo nelle ultime due settimane, sarebbe stato rischioso tentare un altro approccio diretto a Peyton. Le cose dovevano sgonfiarsi. Poi avrebbero potuto fare sul serio. Cliccò su uno dei file e attese ansioso mentre l'immagine si metteva a fuoco dall'alto verso il basso sullo schermo. Era una fotografia digitale. Da principio vide la parte alta della testa di una donna, i capelli biondi. Poi apparve il viso, gli occhi sgranati per la paura. Poi il lungo collo sottile stretto da un collare di pelle. Era carponi, mani e piedi legati, nuda, eccezion fatta per il collare e una sorta di bardatura chiodata chiusa talmente stretta sotto il seno da provocarle lacerazioni sanguinanti sulle costole. La fotografia era appena sgranata, chiaramente scattata da un amatore. Un fotografo amatore, per la precisione. A quanto pareva, il tizio era un vero professionista. Non si trattava del genere di idiozia spedita via mail da vecchi ciccioni che pagano delle giovani prostitute, fanno scattare a un amico delle foto prima che scemi l'effetto del Viagra, e voilà! ecco a voi gli stalloni del porno. Quella era opera di un vero maestro, che si era guadagnato il diritto di mostrare il suo lavoro al mondo. Alcuni pervertiti andavano a caccia dei siti porno con le adolescenti, eccitati da ragazzine che facevano sesso per la prima volta. Altri, come Rudy, impazzivano per le donne che facevano sesso per l'ultima volta. Scese in fondo alla pagina, fino a un messaggio sovrimpresso sulla fotografia, scritto con audaci caratteri rosso sangue: HAI DATO DA MANGIARE ALLA TUA SCHIAVA OGGI? Considerata la lunghezza della ricrescita scura, era evidente che fosse
prigioniera da un bel pezzo. Ciononostante era ancora sexy. E il suo padrone non aveva perso il senso dell'umorismo. Il mio lato creativo, pensò Rudy. Con un luccichio negli occhi sistemò la sedia e accese lo stereo, preparandosi a un'altra visita a quei graziosi volli a lui tanto familiari. Ognuna di loro si era data un sacco di arie, proprio come la piccola Miss Permesso, che lo aveva stuzzicato, lo aveva invitato a seguirla scendendo dal vagone della metropolitana e poi era scomparsa, umiliandolo. Le fotografie non catturavano l'eccitazione della conquista, ma erano la scintilla di cui lui aveva bisogno. Erano le sue fotografie, le sue schiave, scomparse, ma da non dimenticare. Sarebbe stata un'altra notte oscura lungo la strada dei ricordi. PARTE SECONDA Estate 22 I venditori ambulanti di gelati sorridevano nel North End. I bambini che vivevano nella parte meridionale di Boston giocavano felici per strada, schizzandosi a vicenda nel refrigerio ristoratore degli idranti aperti a mo' di fontana. I reparti di pronto soccorso degli ospedali traboccavano di casi di insolazione. Era la terza settimana di luglio, e la domanda sulla lingua inaridita di tutti era la medesima: quando le massime diurne sarebbero scese sotto la temperatura di cottura consigliata per il filetto di maiale alla griglia? Peyton sopportava il caldo meglio della maggior parte degli abitanti del New England, avendo trascorso il suo anno da matricola alla Florida State University, in un dormitorio senza aria condizionata. Malgrado ciò, l'ondata di calore l'aveva minata, emotivamente più che nel fisico. Di tanto in tanto si scopriva a domandarsi come sarebbe stato sentirsi così accaldata e appiccicosa al nono mese di gravidanza. Si era lasciata l'aborto alle spalle, ma gli occasionali pensieri su «come sarebbe stato» ancora si affacciavano alla sua mente. Il primo vero colpo era arrivato con un promemoria del computer che le ricordava l'ecografia della sedicesima settimana. Quel giorno, invece, l'inatteso fattore scatenante era stato il caldo soffocante, probabilmente perché un'estate afosa era ciò che più aveva temuto dal momento in cui aveva calcolato di partorire
in agosto. Fortunatamente, gli ultimi sei mesi avevano portato dei cambiamenti positivi nella sua vita. Un piccolo intervento di chirurgia plastica aveva risolto il problema delle cicatrici attorno all'occhio. La morte di Andy Johnson era stata ufficialmente riconosciuta come suicidio, e da allora lei non aveva più notato segni di pedinamento. Quella sicurezza le dava modo di concentrare tutte le forze nel rimettere in carreggiata la sua carriera... e il suo matrimonio. Per loro due, la pietra angolare della riconciliazione era stato il romanzo di Kevin. Peyton rimase molto colpita dal fatto che avesse scritto un libro tanto bello, lavorando più di cinquanta ore la settimana per lo studio legale. Un libro era un progetto appassionante per entrambi. Lei lo aiutò con un po' di revisione e gli fu immensamente utile con i dialoghi dei personaggi femminili, evidenziando le cose che sapeva una donna non avrebbe mai detto. Alla fine della primavera portarono la versione rivista del manoscritto a un agente letterario, il quale lo divorò in un week-end. Fu venduto a una grossa casa editrice meno di tre settimane dopo. Quasi dalla sera alla mattina, Kevin si trasformò. La vendita del libro gli fece ritrovare la fiducia in se stesso, e gli permise di scrollarsi di dosso tutto il risentimento accumulato. Aiutò il loro matrimonio, la loro vita sessuale, le interazioni quotidiane. Accelerò persino la carriera di lui alla Marston & Wheeler. Il suo successo aveva attirato l'attenzione dei media di Boston. A Kevin non importava l'atteggiamento che lo studio avrebbe adottato nei suoi confronti dopo l'uscita del libro, ma fino a quel momento non si sentiva pronto ad abbandonarlo, e fu abbastanza saggio da dire solo cose carine sui propri datori di lavoro. Dal canto loro, i soci all'apparenza apprezzarono molto quei gentili commenti, ma nell'intimo covavano il sacro terrore dei succosi aneddoti che lui avrebbe potuto rivelare a un giornalista, se i colleghi non avessero cominciato a trattarlo con un accresciuto livello di rispetto. Peyton era rimasta sbalordita dal poco nobile principio su cui si fondava l'andamento delle relazioni professionali, simile al senso dell'onore fra ladri, però Kevin le assicurò che quel genere di mutua ammirazione ispirata dalla paura era il collante che teneva uniti tutti gli studi legali più importanti d'America. E in fin dei conti, se lui era contento, lei era lieta di vederlo comportarsi di nuovo come l'uomo di cui si era innamorata tempo prima. «Fa abbastanza caldo per lei?» le chiese l'autista. Sulla strada per l'aeroporto, il tassista di Boston le aveva fatto la stessa
sciocca domanda che ora, dopo il breve volo, le veniva riproposta dal suo corrispettivo a Manhattan. Cosa si aspettavano rispondesse: No, vengo dall'Uganda? Incontrò lo sguardo dell'autista nello specchietto retrovisore e sorrise educatamente. «Molto caldo, grazie.» Il viaggio a New York non era programmato. Kevin doveva stare via tutta la settimana, per raccogliere deposizioni in uno studio legale di Park Avenue in merito a una grossa causa per violazione di marchio di fabbrica. E quella mattina Peyton si era ricordata che ricorreva il decimo anniversario del loro primo appuntamento. Le cose fra loro andavano talmente bene che, nel bel mezzo dell'esame dei risultati di una tomografia computerizzata addominale con contrasto, le era tornato in mente quell'avvenimento remoto della sua vita privata. Il pensiero le aveva strappato un sorriso. Aveva quindi deciso di saltare sul primo aereo e di raggiungerlo per fargli una sorpresa. Il taxi si fermò accostando al marciapiede. Peyton pagò la corsa, afferrò la sua borsa e scese. Fu subito travolta dall'umidità. Faceva ancora caldo, sebbene fossero le otto di sera. «Benvenuta al Waldorf», le disse l'usciere. Un fattorino si precipitò attraverso la hall per prenderle il bagaglio, ma si trattava di una borsa assai leggera. La portò da sé fino all'ascensore e premette il tasto del quattordicesimo piano. Il cuore prese a martellarle nel petto mentre le porte si aprivano. Quell'iniziativa era stata così spontanea, così insolita per il suo carattere. Non riusciva a reprimere il sorriso che aveva stampato in volto. Come se stesse combinando una marachella. Si incamminò con passo energico lungo il corridoio verso la stanza 1426. Kevin le aveva dato il numero della camera quando l'aveva chiamata all'arrivo. Bussò due volte, morendo dalla voglia di vedere che faccia avrebbe fatto. Non rispose nessuno. Premette l'orecchio sulla porta ma non sentì alcun rumore. Probabilmente era ancora a cena con un collega o un cliente. L'idea di dover rimanere lì fuori ad aspettare il tempo del dolce e del caffè le cancellò il sorriso dalla faccia. Dall'altra parte del corridoio una cameriera stava entrando in una stanza per sistemarla per la notte. Peyton pensò che avrebbe potuto farsi trovare a letto al ritorno del marito, magari con uno di quei piccoli cioccolatini della buonanotte sulla pancia e un completino intimo di pizzo nero. Una sorpre-
sa ancora più riuscita. «Potrebbe aiutarmi?» chiese alla cameriera. «Ho dimenticato la chiave in camera.» «Mi spiace, ma deve rivolgersi alla reception.» «La prego, non mi faccia tornare giù. C'è una coda lunga un chilometro.» La donna parve prenderla in simpatia. O forse una faccia onesta riusciva ad aprire tutte le porte, nel vero senso della parola. Si avvicinò a lei con in mano il passe-partout. «La ringrazio», disse Peyton. Si affrettò a entrare, ma la cameriera la seguì all'interno. «Deve trovare la chiave e mostrarmela», dichiarò. «Questione di sicurezza.» «Oh», fece Peyton, accendendo la luce. La stanza era un disastro. Il letto disfatto. Asciugamani bagnati gettati a terra. Un vassoio del servizio in camera appoggiato sul comodino, vuoto. Ne notò un altro sulla scrivania, vuoto anch'esso. Perché due? Guardò meglio. Sul primo, c'era un piatto con delle patatine fritte ormai fredde. Sul secondo, gli avanzi di un'insalata con pollo alla griglia. Esitò. Anche se fosse stato tanto affamato da ordinare due pasti, Kevin non era tipo da insalata. Sperò si trattasse di lavoro, magari lui e un testimone che preparavano la deposizione del giorno successivo mentre cenavano. «Signorina», incalzò la cameriera, «la sua chiave, per favore.» Una morsa le strinse il cuore mentre si allontanava dai vassoi e andava a sbirciare nel bagno buio. Nell'ombra scorse qualcosa appeso al tubo della doccia. Accese la luce, e le sue paure si concretizzarono. Un paio di collant. Sul ripiano del lavandino c'erano un beauty, un rossetto e un flacone di shampoo con balsamo per capelli trattati. Si voltò in fretta e andò ad aprire l'armadio ad ante scorrevoli. Tutto il lato sinistro era occupato da vestiti femminili. Presa dal panico, si precipitò alla porta e lesse due volte il numero: 1426. La stanza era quella giusta. Appesa dietro l'uscio trovò la conferma di cui aveva bisogno. Un sacchetto di plastica della lavanderia dell'albergo. All'interno, due camicie. Le iniziali cucite sulle maniche erano una prova sufficiente, ma controllò anche la ricevuta pinzata alla busta: K. STOKES, 1426. «Dovrebbe davvero mostrarmi la sua chiave», insistette la cameriera.
Per un istante Peyton si sentì mancare. «Mi spiace. È stato tutto un errore. Un terribile errore.» Con la borsa in mano, corse fuori e si diresse all'ascensore, ferita e arrabbiata. Si rese conto che, negli ultimi sei mesi, si era illusa. Era stata troppo indulgente con Kevin, dispiacendosi per i suoi problemi di lavoro. Da una parte, era riuscita a convincersi che lui non aveva preso una sbandata. Dall'altra si era detta disposta a perdonarlo anche se lo avesse fatto, incolpandosi di passare troppo tempo in ospedale e di non dedicargliene abbastanza. Ironia della sorte, il suo romanzo li aveva aiutati a tornare insieme, distogliendo la loro attenzione dai problemi reali, quando invece avrebbe dovuto rappresentare per lei la prova definitiva. In effetti, era bravo a raccontare storie. Maledetto, pensò mentre le porte dell'ascensore si chiudevano. Mi hai fatto fare la figura della stupida. Era quasi mezzanotte quando il suo volo atterrò a Boston. L'ultimo posto in cui Peyton desiderava tornare era a casa, nel loro letto, fra le loro lenzuola, i loro cuscini, i ricordi. Presentarsi dai genitori era fuori discussione. Il padre avrebbe potuto esserle d'aiuto, ma non aveva bisogno di sentirsi rinfacciare dalla madre un grosso «te lo avevo detto». Buffo, e forse proprio perché quel giorno era il decimo anniversario del loro primo appuntamento al college, ma lei si ritrovò a pensare alla prima vera crisi con Kevin a Tallahassee. A lui non piaceva il fatto che Peyton portasse ancora una collana regalatale dal suo ex fidanzato per il diploma del liceo, e da lì la lite era sfociata in una scenata di gelosia ancora più stupida. Lei non si era fatta molti amici alla Florida State University, concentrando tutte le energie su Kevin e gli studi, così aveva chiamato Gary Varnes a Boston. Era la prima volta che si sentivano da quando gli aveva comunicato che la loro storia a distanza non funzionava e che aveva conosciuto un altro. Avevano parlato a lungo, e Gary alla fine era andato contro i propri interessi, convincendola a dare a Kevin un'altra possibilità. Per Peyton quella era stata la chiara dimostrazione che gli ex amanti potevano diventare buoni amici. Considerò se chiamare Gary anche stavolta, invece scelse di recarsi nel luogo dove era sempre la benvenuta, giorno e notte. L'ospedale. «Che ci fai qui?» Il suono della voce di Gary la fece trasalire. Faceva il turno di notte al Children's da quando in autunno aveva cominciato a frequentare la facoltà
di medicina. Era rimasto sorpreso (a differenza di lei) dall'ottimo punteggio ottenuto al test di ammissione. «Lavoro», rispose Peyton, proseguendo verso lo spogliatoio. Lui la seguì. «Pensavo fossi andata a New York.» «È così», disse lei, armeggiando con la combinazione. «Sono tornata.» «Oh.» Un'esclamazione dispiaciuta, come se fosse dolorosamente ovvio che le cose non erano andate per il verso giusto. «Vuoi parlarne?» «Grazie. Ma tu non puoi farci niente.» La serratura dell'armadietto scattò. Gary si avvicinò e si sedette sulla panca accanto a lei. «Non ne sarei così sicuro.» «Di che cosa?» «Del fatto che io non possa fare niente. A dire il vero, ho una teoria in proposito.» «Tu hai una teoria per tutto», brontolò lei, abbozzando un sorriso. «Vero. Ma non hai ancora sentito questa. Riguarda te e me.» Lei smise di allacciarsi la scarpa. «Te e me?» «Già. Infermieri e dottori.» «Oh.» «Noi siamo gli ultimi riparatori della terra.» Peyton sorrise debolmente, percependo l'arrivo dell'ennesimo gary-ismo, sperando si trattasse di qualcosa di meglio della bravata sull'«Itsmy party» al loro primo appuntamento al liceo. «D'accordo. Questa voglio sentirla.» «Nessuno nella moderna società è più in grado di aggiustare niente. Siamo arrivati al punto in cui l'unica cosa che valga la pena riparare è il nostro corpo. Per tutto il resto, se si rompe è meglio buttarlo via e comprarne un altro.» «Come un televisore o un lettore CD?» «Specialmente i televisori e i lettori CD.» «E che mi dici delle automobili? La macchina la porti a riparare.» «Sono già in produzione delle auto che fanno centomila chilometri senza bisogno di una messa a punto. I meccanici sono a spasso, bella mia.» «E gli elettrodomestici, come il tritarifiuti?» «Una truffa gigantesca. I tritarifiuti non esistono. Tu premi il bottone, e senti solo un gran fracasso.» «Sai, tu hai l'abilità di dire cose totalmente assurde con un'espressione serissima dipinta in faccia.» «È perché ci credo. Prima che ce ne rendiamo conto, anche il corpo u-
mano diventerà usa e getta. I medici e gli infermieri sono gli ultimi riparatori del mondo.» «Questo significa che, ogni volta che mi abbasso in cucina, mezzo culo mi cadrà fuori dai jeans?» Lui rise, poi prese a tossire. «Dai, Gary, non è un'immagine così spaventosa.» Lo aveva fatto arrossire. Lui si riprese e domandò: «Allora, vuoi che ti dica che cosa è successo stasera?» «No.» «Va bene. Allora non parliamone più e andiamo a prenderci un frappé.» «Non posso. Devo lavorare.» «Dimenticati del lavoro. In questo momento dovresti essere a New York. Forza.» Peyton ci pensò su un attimo. «Non saprei. Penso che uscire mi farebbe bene, ma l'ultima cosa di cui ho bisogno è sentirmi grassa oltre che depressa.» «Niente frappé, allora», concesse Gary. «Che ne dici di una vodka tonic?» «Facciamo un caffè.» «Guastafeste.» «Già», disse lei, domandandosi cosa stesse facendo Kevin in quel momento. «Ogni festa che si rispetti ne ha uno.» 23 Un raggio di sole le trafiggeva un occhio. Come un raggio laser, filtrava attraverso una fessura nelle tende della camera da letto. Il suo cervello la spronava a girarsi sul fianco, ma non ne aveva la forza. Era uno di quei giorni in cui anche solo sbattere le palpebre provoca dolore. Non si era sentita tanto male dalla mattina dopo la sua prima sbronza, ai tempi del liceo, quando aveva sviluppato una permanente avversione al bourbon. Se la memoria non l'aveva del tutto abbandonata, Gary Varnes era stato l'autore anche di quel disastro. Avevano cominciato da Chauncy's, che chiudeva alle due del mattino, poi si erano spostati in un posto che lui sosteneva fosse di gran moda. Lì avevano incontrato degli amici di Gary, assidui frequentatori di locali notturni. Da qualche parte fra un bicchierino di tequila e un ballo al ritmo di una musica a volume insopportabilmente alto, lei gli aveva raccontato di
Kevin. Non si era trattato di una di quelle melense scene da lacrime sulla spalla. Peyton era andata dritta al sodo. «È finita», gli aveva detto, mentre la musica pulsava in sottofondo. «Che cosa è finita?» «Fra me e Kevin. Mi ha tradito.» «Mi spiace.» «E non è la prima volta. Sono certa sia cominciata almeno sei mesi fa.» «Mi spiace tantissimo.» «Non devi dispiacerti.» «In questi casi c'è solo una cosa da fare.» Le lanciò una lunga occhiata ambigua, che la mise a disagio. Sembrava avesse delle intenzioni, ma lei non voleva, né con lui né con nessun altro, almeno non prima di aver affrontato Kevin. «Prendersi un altro drink?» disse, per cambiare argomento. «Già, certo. Prendere un altro drink.» Dopodiché non ricordava più nulla. E ora la testa le pulsava. Era sdraiata con la testa sotto le coperte, ma c'era luce sufficiente per notare che le lenzuola non le erano affatto familiari. Balzò a sedere nel letto. La stanza girava, anche se abbastanza lentamente da farle capire che non era la sua. Scostò le coperte e poi le riprese subito, rendendosi conto di indossare solo gli slip e una T-shirt da uomo. Fu colta dal panico, e fece un respiro profondo nel tentativo di riprendere il controllo. Non poteva essere andata a letto con Gary. Doveva esserci un'altra spiegazione. L'adrenalina pompava, e all'improvviso sentì l'acqua della doccia scorrere nel bagno. Qualcuno stava canticchiando. Era proprio la voce di Gary. Balzò fuori del letto, poi si fermò per recuperare l'equilibrio: i postumi della sbronza non le permettevano di mettersi in posizione verticale tanto in fretta. Frugò nel letto, cercò persino sotto il letto. Dei suoi vestiti non c'era traccia. Che cosa diavolo era successo la notte precedente? Trovò l'orologio sul comodino. Guardò l'ora e si sentì mancare. Erano quasi le due del pomeriggio. Anche se la sua visita a sorpresa a New York fosse andata come previsto e avesse passato la notte con Kevin al Waldorf, avrebbe comunque dovuto presentarsi in ospedale più di un'ora prima. Aveva bisogno del suo cercapersone; lo trovò in una scarpa dall'altra parte della stanza e lo controllò. Nessun messaggio, grazie a Dio. Per essere certa che non la stessero cercando, afferrò il telefono di Gary e compose il
numero della segreteria di casa. «Non ci sono nuovi messaggi», disse la voce digitale. «C'è un messaggio in memoria.» Era tipico di Kevin ascoltare i messaggi e poi salvarli. Quel messaggio era stato registrato alle 16.13 del giorno precedente. Era di suo marito. «Peyton, ciao, sono io. Ira Kaufman mi ha spedito a Los Angeles per un'altra delle sue emergenze. Sto andando al JFK in questo momento, e starò fuori almeno due giorni. Ti chiamo domani e ti faccio sapere in quale albergo sono.» Los Angeles? Peyton fu travolta da un'ondata di panico. Aveva sentito la segreteria telefonica prima di partire per New York, ma non i messaggi in memoria. Kevin, che idiota! Le aveva lasciato un messaggio e poi, quando aveva richiamato più tardi per controllare come al solito la segreteria, lo aveva spedito nella remota isola dei «salvati». Si affrettò a riagganciare e chiamò un operatore perché la mettesse in comunicazione con il Waldorf. «Stanza 1426, grazie.» Il telefono squillò tre volte prima che un uomo rispondesse. Non era Kevin. «Con chi parlo?» «Steve Beasley.» Conosceva Steve, un giovane associato che lavorava nello studio. «Sono Peyton Shields. Sto cercando di mettermi in contatto con Kevin.» «È partito ieri per Los Angeles.» Coincideva con il messaggio. «Capisco. Ma perché tu sei nella sua stanza?» «Ira mi ha mandato qui all'ultimo momento come tappabuchi, in modo che lui e Kevin potessero partire per Los Angeles. Non avevo nemmeno il tempo di registrarmi in albergo, perciò Kevin ha lasciato la stanza a nome suo e con il suo numero di carta di credito. Ha funzionato a meraviglia. Sono qui con la mia fidanzata, e stiamo facendo in modo di far addebitare un conto di un migliaio di dollari su quella carta.» «Che cosa?» «Stavo scherzando. Circa il conto, intendo. La mia fidanzata, però, è davvero con me. Frequenta la facoltà di legge alla Columbia, quindi siamo riusciti a ritagliarci un week-end al Waldorf.» «Oh, mio Dio.»
«Ti senti bene?» «Sì. Credo.» «In ogni modo, Kevin è dovuto partire prima che le sue camicie tornassero dalla lavanderia. Digli che le hanno consegnate e che gliele porterò lunedì in studio.» Peyton si sentì svenire. Non riuscì più nemmeno a parlare. «Pronto?» disse l'uomo. «Lunedì, certo. Perfetto.» Gary gridò dal bagno: «Allora ti sei alzata, Peyton?» Lei trasalì, temendo che Steve udisse la voce di un altro uomo. «No.» «La doccia è tutta tua.» «Sono al telefono», rispose con urgenza, sperando che lui si zittisse. Tolse la mano dal microfono del ricevitore e disse: «Steve, eccomi di ritorno». Gary gridò: «Non essere timida, ti ho già visto nuda». Peyton rabbrividì. Era certa che il collega del marito avesse sentito. «Scusami, Steve», mormorò al telefono. «Hai detto qualcosa? Quella maledetta televisione è così alta che non riuscivo a sentirti.» «No», ripose lui nervosamente. «Non ho sentito... cioè, non ho detto nulla. Ora ti lascio.» La comunicazione si interruppe senza che lei avesse il tempo di salutarlo. Gary accese il phon. Peyton si sedette sul letto, con addosso soltanto gli slip e una delle sue T-shirt, stringendo in mano il telefono e senza riuscire a capacitarsi di dove si trovava. Che cosa diavolo ho combinato? 24 La permanenza a Los Angeles rischiava di durare settimane. Il compito di Kevin era quello che più odiava nelle grosse contestazioni commerciali: la presentazione dei dati aziendali. Per cinque giorni e cinque notti, la sua squadra di sfortunati paralegali e assistenti passò al setaccio migliaia di documenti contenuti in scatole piene di scarafaggi, che erano stati archiviati e sparpagliati in otto diversi magazzini infestati da topi e senza aria condizionata. Il sesto giorno la situazione si fece intollerabile. La sua sola via di fuga era ricorrere all'harakiri dell'avvocato. Fece notare a un dirigente che la compagnia avrebbe ri-
sparmiato montagne di soldi in spese legali se il consulente interno della società avesse sovrinteso al progetto di persona. Salì sull'aereo per tornare a casa quello stesso pomeriggio. Il suo tempismo non era stato accidentale. Kevin era rimasto finché aveva potuto, ma doveva assolutamente rientrare entro giovedì sera. Alle otto avrebbe fatto la sua prima apparizione pubblica come autore al Booklovers' di Boston. Il Booklovers' non era la libreria più grande o più conosciuta della città, ma comunque restava la sua preferita. Quel piccolo negozio per oltre cinque anni aveva nutrito i suoi sogni più grandi. Lì due o tre sere alla settimana gli autori - alcuni famosi, altri del tutto sconosciuti - prendevano posto al leggio nella sala letture e parlavano dei propri libri a chiunque fosse disposto a fermarsi ad ascoltarli. Il pubblico era per lo più costituito da sognatori come lui, che partecipavano agli eventi domandandosi se, un giorno, qualcuno avrebbe ascoltato loro. Subito dopo aver firmato con la casa editrice, Kevin aveva chiamato il proprietario, che però non gli aveva dato buone notizie. Il suo romanzo sarebbe stato pubblicato l'inverno successivo, e per quella data il Booklovers' sarebbe stato storia antica. Come molte librerie indipendenti, era allo stadio terminale di una «megastorite». Il suo agente lo aveva avvertito che era una perdita di tempo organizzare apparizioni in pubblico prima dell'uscita del libro, ma Kevin non intendeva rinunciare al debutto sognato per anni. Ora avrebbe desiderato solo che la moglie potesse essere lì con lui a condividere il momento. Il cercapersone di Peyton aveva suonato proprio quando stavano uscendo di casa. L'ennesima emergenza in ospedale. Non tutto era cambiato nella loro relazione. «Buonasera», disse a un pubblico di cinque o sei abituali. «Mi chiamo Kevin Stokes, e devo dire che sono più rattristato che onorato di essere l'ultimo autore a presentare il proprio lavoro qui da Booklovers'.» «Mi scusi», intervenne una donna in prima fila. «Come si intitola il suo romanzo?» «È ancora da decidere. Al mio editore non piace il titolo che ho scelto, così stiamo cercando di trovarne un altro.» «Quindi il libro non è ancora uscito?» «Non ancora. Ma la scorsa settimana ho lasciato qui qualche copia del dattiloscritto, per chi fosse interessato a darci un'occhiata. Vedo che ne mancano due, perciò suppongo che qualcuno lo abbia letto.» «Io ne ho preso uno», disse un uomo anziano, appoggiato agli scaffali in
fondo alla stanza. «Un romanzo eccellente.» Kevin sorrise. «Grazie. Allora lo ha letto?» «Sì, ed è accaduto per caso. Lo scorso mercoledì sono sceso dall'autobus alla fermata sbagliata. Stava piovendo, così sono entrato nella libreria. Sul bancone c'era quel dattiloscritto. Ho cominciato a leggerlo e non sono riuscito più a smettere.» «Ne sono lietissimo, visto che si tratta di un thriller.» «Sua moglie è medico, vero?» Kevin si stupì. Quel commento era del tutto inatteso. «Già.» «Pediatra?» «Esatto.» «E direi che ha pressappoco ventotto anni.» Kevin sorrise nervosamente. La cosa si stava facendo un po' personale. «Il romanzo non riguarda mia moglie.» «Invece sì. Che cosa crede, che sia necessario firmare un'autobiografia per rivelare se stessi nei propri scritti?» «Comprendo il suo punto di vista. Ma in questo libro nessun personaggio ricorda mia moglie.» «Invece è in ogni pagina del libro. Solo che lei non se ne rende conto.» Il tono era lievemente accusatorio, lo sguardo del vecchio non proprio amichevole. Kevin abbassò gli occhi sui suoi appunti per interrompere la conversazione. «In ogni modo, il resto dei presenti si starà probabilmente domandando di che si tratti, quindi permettetemi di raccontarvi un po' la trama.» «Parla di una bellissima donna di successo che è costretta a prendere una decisione di vita o di morte», lo anticipò l'uomo. «Be', c'è più di questo. Il libro parla di fiducia, di tradimento, e...» «Di un rapimento. Questa è la cosa più importante.» Kevin replicò: «Io sono convinto che i personaggi siano più importanti». «Ah! Lei ha predeterminato una tragedia. È quello che conta.» «Si tratta di un romanzo. Non ho predeterminato nulla.» «È così che la pensa? Lei scrive una storia e poi se ne lava le mani? Quattordici anni prima che il Titanic finisse sul fondo dell'oceano, venne pubblicato un romanzo che narrava la medesima vicenda, Futility, or The Wreck of the Titan, di Morgan Robertson. Qualcuno lo definì profetico, ma le profezie si limitano a predire il futuro. Io credo che il libro di Robertson lo abbia in realtà modellato. 'Non c'è niente di nuovo sotto il sole', dice la Bibbia. Scrivendo questa storia, lei ha segnato il destino di qualcuno.»
«È solo una storia. Completamente inventata.» «Dove abita lei?» «Non ho intenzione di rispondere a questa domanda.» «Io so dove vive.» Lo scrutava con sprezzo dal fondo della sala. Nessuno dei presenti si mosse. Alla fine, il proprietario della libreria avvicinò il vecchio rabbioso. «Mi scusi, signore, ma mi vedo costretto a chiederle di andarsene.» Il vecchio era come paralizzato, gli occhi fissi su Kevin. «Signore, non mi costringa a chiamare la polizia.» L'uomo lanciò uno sguardo minaccioso e rispose: «Me ne stavo andando in ogni caso». Con un senso di disagio, lo videro precipitarsi verso la porta e sbatterla uscendo, strappando quasi le campanelle d'ingresso dall'intelaiatura. Nella stanza calò un breve silenzio, ma un rumore improvviso alla finestra li fece trasalire. Il vecchio era sul marciapiede e batteva sul vetro, scrutando all'interno. Indicò Kevin, poi estrasse il dattiloscritto dalla borsa. Girò su se stesso come un folle e lo lanciò in aria, ridendo mentre cinquecento fogli turbinavano nel vento per poi ricadere sul marciapiede. Alzò il dito medio delle mani, poi si voltò e corse via. Il proprietario andò alla finestra e chiuse le veneziane. «Mi spiace, Kevin.» «Già», mormorò lui con voce scossa. «Anche a me.» 25 Peyton non osò dirlo al marito. Per tutta la settimana fece in modo di evitare Gary in ospedale. Saggiamente, lui parve disposto a darle il tempo di assimilare il colpo, dopo averle spiegato che cosa era successo. Si era sentita male. Troppa tequila e aveva finito per vomitarsi addosso. Non esattamente un comportamento di classe, ma nemmeno un adulterio. Gary l'aveva portata nel suo appartamento, che era proprio dietro l'angolo. Le aveva tolto i vestiti sporchi, li aveva gettati in lavatrice e l'aveva messa a dormire nel suo letto. Lui si era sistemato sul divano. Soltanto un infermiere diplomato che metteva a letto una dottoressa ubriaca in mutande e maglietta in prestito. «Niente imbrogli», erano state le sue parole il mattino seguente. Una cosa del tutto innocente. Kevin, tuttavia, non era tipo da credere che «non fosse successo nulla».
Era quasi andato fuori di testa il passato inverno quando aveva saputo del test della verità di Andy Johnson. Di certo, ora era più sicuro di sé, più sicuro che mai, a dire il vero. Ma per quanto successo Kevin riuscisse a ottenere, il fatto che sua madre avesse abbandonato lui e il padre era un trauma psicologico che lo aveva segnato per sempre. Le aveva raccontato quella storia solo una volta, e Peyton era rimasta impressionata dal fuoco che gli ardeva negli occhi. «Due morti di fame», aveva gridato la madre mentre se ne andava sbattendo la porta della loro roulotte con due camere da letto. Kevin aveva otto anni, e non l'avrebbe più rivista. La donna partì per Key West assieme a «un tipo in giacca e cravatta», così lo aveva descritto il figlio, un turista che aveva conosciuto facendo la cameriera alle feste. Un avvocato di Boston. Date le circostanze, il silenzio era parso a Peyton la reazione migliore. Lei amava Kevin. Non avrebbe mai permesso che un caffè con Gary si trasformasse in una bevuta con lui e i suoi amici nottambuli, se non avesse creduto che il marito le era stato infedele. E non si sarebbe mai abbassata a fare del «sesso per ripicca», indipendentemente dal numero di donne con cui pensava che Kevin l'avesse tradita. Aveva troppo rispetto per se stessa per comportarsi in un modo simile. Mettere tutto a tacere era decisamente la sola strada da prendere. Lo aveva detto chiaro a Gary prima di lasciare il suo appartamento, parlando con il cervello annebbiato a causa, supponeva, dei postumi della sbornia. «Questa storia deve rimanere fra di noi, hai capito? Non farne parola con nessuno.» «Peyton, io sono una persona su cui potrai sempre contare.» Le aveva lanciato di nuovo quell'occhiata, quella che aveva visto prima dell'ultimo, fatale giro di tequila. Buffo, ma ora che era passato un po' di tempo, e malgrado tutto ciò che era successo, quel suo fugace sguardo era la cosa che lei ricordava con maggior vividezza. Il cercapersone suonò nel bel mezzo del controllo respiratorio di un bambino di nove anni che soffriva di asma. Peyton si scusò e si diresse verso la sala conferenze del secondo piano. Era la chiamata che aveva temuto per settimane. Proveniva dal suo avvocato. La causa civile del Massachusetts numero 05-1132, «Kersip contro il Children's Hospital, Brookline, e Peyton Shields, medico chirurgo», durava da sei mesi, ed era ormai arrivata alla fase di scambio tra le parti di do-
cumenti e informazioni attinenti alle prove. Quello era il giorno della sua deposizione. La causa originaria intentata dall'infermiera Felicia si era conclusa settimane prima. Per una questione di principio, tuttavia, l'ospedale rifiutava di accettare quella correlata, mossa dal losco figuro che aveva punto la fidanzata e il figlio con un bastone munito di ago e poi aveva fatto irruzione nella clinica scatenando il disastro. Visto che Peyton era stata denunciata di persona, aveva bisogno di appoggiarsi al proprio legale, indipendentemente dall'ospedale. Vince Edwards la aspettava fuori della sala conferenza. «Pronta?» le domandò. «Certo. Voglio solo che questa storia finisca.» Lo stenografo aspettava all'interno, seduto a capotavola. All'altro capo del tavolo c'era Peter Jenkins, l'avvocato del querelante. Era un uomo robusto sulla cinquantina. Il suo corpo aveva un aspetto tozzo e malconcio, sembrava avesse fatto una caduta libera di dieci piani in ascensore e fosse sopravvissuto per raccontarlo. Teneva il naso affondato negli appunti. Non si alzò per salutarli, né li guardò. Peyton e il suo avvocato si accomodarono sulle sedie vicino alla porta. Jenkins si tolse gli occhiali da lettura, poi si schiarì la voce e fece un cenno con il capo allo stenografo per indicargli che era pronto. «Buongiorno», disse mentre le dita dello stenografo danzavano sui tasti. «Vorrei cominciare mettendo agli atti che il mio cliente non prenderà parte a questa deposizione. Nella veste di querelante, ovviamente, avrebbe ogni diritto di essere qui a osservare lo svolgimento della procedura, ma per via del modo in cui la dottoressa Shields lo ha aggredito e assalito in passato, come risulta dalle carte, è naturalmente spaventato all'idea di trovarsi nella stessa stanza con lei.» «La finisca», borbottò Vince. «Finire che cosa?» «Questa farsa. Un'altra affermazione idiota, e ce ne andiamo.» «Sta cercando di intimidirmi?» «Intendo chiarire un punto. Un'affermazione del genere è inappropriata tanto quanto lo sarebbe la mia se asserissi che il suo cliente non è qui oggi perché questa è una causa inutile, alimentata da un legale che sta lavorando per incassare una grossa parcella da un individuo poco credibile, che vuole solo approfittare della situazione.» «Faccia giurare il testimone», disse Jenkins allo stenografo.
Peyton pronunciò il giuramento. Gli avvocati si guardarono in cagnesco. Lei era pronta per il consueto «Ora dica il suo nome perché venga messo agli atti», ma Jenkins, chiaramente, non aveva intenzione di rendere loro la vita facile. «Dottoressa Shields, a quante persone ha sparato in vita sua?» «Obiezione.» «Annotata. Risponda alla domanda, prego.» «Solo una», dichiarò lei. «Solo una? Può specificare meglio che cosa intende con questo? Dal suo punto di vista, dovrebbe significare: A, più di; B, meno di; o C, uguale al numero di persone a cui viene sparato dall'essere umano medio?» «Obiezione.» «Se muove questa obiezione, avremo dei seri problemi.» «Oh, avremo degli enormi problemi, ne sono sicuro.» «Perfetto, fintanto che io ottengo le mie risposte. Quindi, dottoressa? A, B o C?» Peyton rispose in tono freddo. «Direi che è più della media.» «Molto bene, A. O forse dovremmo aggiungere D: uguale a un membro medio di una banda criminale?» «Obiezione. Le ho detto di finirla, e parlo sul serio.» «Possiede un'arma, dottoressa?» «Sì.» «Di che genere?» «Una Smith & Wesson, calibro trentotto.» «L'aveva con sé il giorno in cui ha sparato al mio cliente?» «Certo che no. Quella era la pistola del dottor Simons. La mia è a casa.» «Si considera una proprietaria di un'arma da fuoco giudiziosa?» «Sì, molto.» «Conserva la sua pistola debitamente riposta in un luogo sicuro?» «Sì. È chiusa a chiave in una cassetta di metallo, sulla mensola più alta dell'armadio della mia stanza da letto.» «È in grado di usarla?» «Sì.» «Avrebbe il coraggio di usarla?» «Obiezione. Troppo vago. Quando, dove, in quali circostanze?» «Cerchiamo di essere più specifici. Il giorno dell'incidente in questione alla clinica di Haverhill, sarebbe stata pronta a sparare al mio cliente se avesse dovuto farlo?»
Peyton si agitò sulla sedia. «Non so come rispondere a questa domanda.» «Lei ha estratto una pistola, non è vero?» «Sì.» «E ha sparato.» «Ho sparato un colpo di avvertimento. Avevo preso di mira il barattolo sulla mensola, soltanto per mostrargli che sapevo usarla.» «Abbiamo già stabilito che lei sa usare una rivoltella. La mia domanda è: era pronta a usarla? Era pronta a mirare al mio cliente e ucciderlo se, a suo giudizio, ciò si fosse reso necessario?» «Obiezione. Sta vessando la mia cliente.» «È il perno della causa. La prego di rispondere alla domanda.» Peyton si strinse le mani nervosamente. «Suppongo di sì, se le circostanze lo avessero reso necessario, probabilmente gli avrei sparato.» «Perfetto. Quindi, ritorniamo al giorno in questione alla clinica Haverhill. Il mio cliente era faccia a terra sul pavimento.» «Sì, dopo che ho sparato il colpo di avvertimento si è buttato a terra.» «Era disarmato?» «Per quanto ne sapevo, sì.» «Lei gli ha puntato contro una rivoltella?» «Sì.» «E secondo la sua testimonianza appena rilasciata, sarebbe stata pronta a sparargli se le circostanze lo avessero richiesto.» Peyton aveva la bocca secca. «È ciò che ho detto.» «E in quel momento, lei ha deciso di fargli un'iniezione di secobarbital.» «Esatto. Per sedarlo.» «Dove pensava che potesse andare?» «Non sapevo che intenzioni avesse.» «Così come non sapeva che lui è allergico al secobarbital.» «In effetti, lo ignoravo.» «Perché lei non si è presa la premura di domandargli se soffrisse di qualche allergia.» Peyton esitò. «Non si trattava di una normale visita a un paziente», rispose. «I medici del pronto soccorso rivolgono quella domanda tutti i giorni, non è così?» «Sì, lo fanno, ma...» «Sono sicuro che anche lei prima di questa occasione si sia comportata
così, nei casi di emergenza, non è vero?» «Certo, molte volte. Ma...» «Non lo ha chiesto al mio cliente.» «No.» «Perché non gliene importava.» «Obiezione.» «Esigo una risposta. Non glielo ha domandato perché non le importava. Non è forse così, dottoressa?» «Non è vero.» «Capisco. Lasci che le ponga la questione in un altro modo. Non glielo ha chiesto perché le importava?» «Non gliel'ho chiesto perché...» Peyton lanciò un'occhiata al suo legale, poi tornò a guardare Jenkins. «Perché non gliel'ho chiesto.» «Ottima risposta, dottoressa.» «Obiezione.» «Un po' tardiva, avvocato.» Chiuse il suo taccuino e si alzò dalla sedia. «Non mi serve altro. Ho finito. Chiamatemi quando decidete di discutere dell'indennizzo.» Raccolse i suoi appunti, afferrò la ventiquattrore e uscì. Peyton guardò il suo avvocato, confusa. «Cinque minuti. Tutto qui?» Vince le fece strada in corridoio, in modo che lo stenografo non sentisse. «La brevità dell'incontro è un buon segno. Se avesse preso questa causa seriamente l'avrebbe tenuta qui tutto il giorno. Voleva soltanto darle una bella scossa, sperando di indurre la compagnia di assicurazione a sganciare una somma di indennizzo.» Peyton era ancora turbata. «Quando mi ha domandato se avrei avuto il coraggio di usare una rivoltella, mi sono sentita così fredda nel rispondere che sarei stata pronta a uccidere un uomo.» «Non si preoccupi.» «Non voglio che né lei né nessun altro pensi che, solo perché posseggo una pistola, io mi crogioli nel pensiero di poterla usare.» «Non deve giustificarsi.» «Ne ho comprata una soltanto perché c'è stato un momento in cui ho seriamente temuto per la mia incolumità.» «Peyton, davvero. So tutto dell'incidente e di quel molestatore. Capisco benissimo.» «Sono rimasta sorpresa dalle mie risposte. Devo aver dato l'impressione di avere il ghiaccio nelle vene.»
«Leggendo nero su bianco la sua deposizione, potrebbe anche sembrare. Ma stia tranquilla. Questo caso non finirà mai davanti a un giudice.» Non era esattamente il tipo di consolazione che andava cercando. «Sta bene?» le chiese l'avvocato. Lei distolse gli occhi, poi tornò a guardarlo, seria in volto. «Non credo che avrei potuto sparargli.» «Che cosa?» «È questo che più mi ha turbato. Le mie risposte non mi sono sembrate sincere quando le ho pronunciate, e non mi convincono neanche adesso. Per questo motivo l'ho sedato. Per questo ero così agitata da non domandargli nemmeno se soffriva di qualche allergia. Non volevo essere obbligata a sparargli.» «È normale.» «Non sono sicura che ci sarei riuscita. Nemmeno se lui avesse cercato di aggredirmi.» «Credo che non si possa conoscere la risposta a questa domanda finché non giunge il momento di premere il grilletto. Grazie al cielo, lei non ha dovuto affrontare quella situazione.» Peyton abbassò gli occhi sulle mani e disse: «Mi guardi. Sto tremando». «Deporre può essere un'esperienza sconvolgente.» «No. È che mi rendo conto soltanto adesso del pericolo corso. Mi fa paura pensare a cosa sarebbe potuto succedere se quel clown che mi molestava non si fosse ucciso. E se mi avesse assalita? Sono stata una sciocca a sentirmi più sicura solo perché possedevo una rivoltella. Probabilmente avrei fatto la fine di quelli che estraggono la pistola e poi rimangono paralizzati, spaventati anche solo dall'idea di sparare per legittima difesa.» «Ora è tutto passato. Non permetta che questa causa e quell'avvocato da baraccone ridestino i suoi vecchi incubi.» «Suppongo di non aver ancora superato lo choc. Ci penso molto. Specialmente all'incidente d'auto.» «Vorrei poterla aiutare in questo, ma...» «Lo so. Lei è un avvocato, non uno psichiatra. Non dovrei riversarle addosso le mie angosce.» «Tutto si sistemerà con il tempo.» «Speriamo. Mi tenga informata su come procede la causa, d'accordo?» «Certo.» Si strinsero la mano, e lui si diresse verso l'uscita. Peyton sentì un bruciore allo stomaco. Corse nello spogliatoio a prendere un antiacido, poi si fermò a pochi passi dal suo armadietto. Il tubo di
cartone di un rotolo di carta igienica era appeso allo sportello. Ne ispezionò il contenuto con cautela e vi trovò un fiore. Una rosa rossa. Attaccato allo stelo c'era un biglietto. Anonimo. Il messaggio era scritto a mano, solo una parola: «Parliamone». Mentre apriva l'armadietto sentì una fitta allo stomaco. Era proprio quello che più temeva. Non che Gary andasse in giro a raccontare a tutto l'ospedale che lei si era ubriacata, era stata male ed era finita nel suo appartamento, ma che cercasse di portare le cose fra di loro a un altro livello. Sapeva che limitarsi a evitarlo non era la risposta al suo problema. Avrebbe dovuto affrontarlo. Prese il flacone dell'antiacido e chiuse lo sportello, gettando il tubo di cartone e la rosa nella spazzatura prima di tornare al lavoro. 26 All'ora di pranzo Kevin rimase seduto alla sua scrivania a lavorare al computer. Questa volta non si trattava di un'opera di narrativa. L'indomani aveva una scadenza. In venti pagine doveva convincere la corte che, sebbene la ditta di autonoleggio di cui avevano assunto la difesa avesse frodato i propri clienti per tre anni con falsi addebiti per il carburante, l'amministrazione della società era completamente all'oscuro dell'imbroglio. Gli sciocchi che pompavano benzina per un salario minimo dovevano considerarsi i veri responsabili. In un certo senso, anche questa era fiction. Quell'incarico era uno dei molti che aveva ricevuto negli ultimi mesi dai soci dello studio, che prima di allora non gli avevano mai passato del lavoro. Ora che aveva venduto il romanzo, era diventato l'avvocato a cui tutti si rivolgevano quando si trattava di stilare i documenti. Giusto quella mattina un giovane socio che a stento lo degnava del saluto era arrivato da lui con una breve istanza appena abbozzata, per chiedere il suo parere. Il direttore del personale voleva che organizzasse un laboratorio di scrittura per gli studenti di legge che avrebbero fatto lì un tirocinio estivo. Gli era stato persino assegnato un nuovo ufficio... con vista. Non lo avrebbe mai pensato, ma in effetti stava cominciando a divertirsi alla Marston & Wheeler. Bussarono alla porta, e lui rispose distrattamente «Avanti» senza staccare gli occhi dallo schermo del computer. «Ho bisogno di un minuto.» Era Ira Kaufman, cupo in volto. Chiuse la
porta ma non si sedette. Kevin girò la poltrona in modo da guardarlo in faccia. «Che succede?» Ira lasciò cadere sulla scrivania un dattiloscritto, che atterrò con un tonfo. «Questo», dichiarò. «È il mio libro. Non mi dica che lei è uno di quelli che sono andati da Booklovers' a prenderne una copia.» «No. Me lo ha portato ieri sera una delle nostre segretarie. Si è sentita in dovere di farlo, dato che lavora qui da ventidue anni e ha nei confronti dello studio un senso di lealtà che a te evidentemente manca.» Kevin si rimpicciolì nella poltrona. «Lo ha letto?» «Sì. Sono rimasto sveglio tutta la notte, e non perché fosse coinvolgente. Lo trovo disgustoso.» Kevin provò a rimanere impassibile. «Queste cose sono molto soggettive.» «Non è una questione di gusti. Quello che hai scritto è del tutto disonesto.» «Io la vedo in modo diametralmente opposto.» «Hai usato questo libro per attaccare persone innocenti.» «È un romanzo. Non parlo di persone reali.» «È solo un cavillo. Ti sei limitato a cambiare i nomi. Ci sono io e anche gli altri legali dello studio. E veniamo tutti descritti come degli stronzi.» «Penso che la sua sia una reazione esagerata. Il libro racconta di una donna che casualmente è un avvocato di grande successo, e le parti sullo studio legale servono soltanto a creare l'atmosfera.» «Atmosfera un cazzo. Hai scritto I colori della vittoria della Marston & Wheeler.» «Anche se fosse vero, sul copyright è indicato a chiare lettere che tutti i personaggi sono immaginari e che ogni riferimento a fatti o a persone reali è da ritenersi puramente casuale.» «Forse questa merda funziona quando lanci un attacco velato a personaggi pubblici. Ma io non sono uno di loro, e non me ne starò con le mani in mano permettendo che si infanghi il mio buon nome e la mia reputazione in nome dell'intrattenimento. Ti assicuro che qui tutti la pensano allo stesso modo.» Ira aveva gli occhi fuori dalle orbite. Kevin lo aveva visto arrabbiato prima di allora, ma mai così. «Che cosa mi sta chiedendo di fare?» «Hai due opzioni. Ritira il libro o sgombra la scrivania... e preparati alla
guerra. Voglio una decisione entro la settimana prossima.» Aprì la porta e la sbatté uscendo. Kevin voltò la poltrona girevole verso la finestra. Non era un ingenuo. Aveva scritto il romanzo sapendo benissimo che un rigido studio legale di Boston probabilmente non avrebbe avuto l'elasticità necessaria per tollerare i paralleli fra finzione e realtà, anche se si trattava, come aveva detto a Ira, di semplice «atmosfera». La breve luna di miele fra il giovane autore in erba e la Marston & Wheeler era stata divertente, ma la risposta a quell'ultimatum era scontata. Sarebbe stata guerra. «Mi fai sentire il cuore, tesoro?» Peyton stava sforzandosi di parlare in tono dolce. La sua poco collaborativa paziente di tre anni era seduta sul lettino per le visite, le braccia incrociate con fermezza, il labbro inferiore sporgente sotto il nasino all'insù. Ogni volta che lei avvicinava lo stetoscopio all'esile petto nudo, la piccola lo scostava arrabbiata. «Vuole che la immobilizzi?» chiese la madre. «Con i suoi fratelli facevo così.» Peyton scosse il capo, poi appoggiò lo stetoscopio sul ginocchio della bambina. «Mmm. Qui dentro non sento proprio niente.» La bambina represse un sorriso. «Quello non è il mio cuore.» Lei le mise lo stetoscopio sulla testa. «Niente nemmeno qui. Ma sei sicura di avere un orologino che fa tic tac?» «Sì», rispose la piccola, ridacchiando. «È proprio qui!» Peyton sorrise. Il suo lavoro le dava molte soddisfazioni, e la più grande di tutte era riuscire a stabilire un contatto con i bambini. Specie in una giornata come quella, in cui doveva lottare anche solo per mantenere la concentrazione. Fidarsi di Gary era stato l'errore iniziale. Buffo, ma per tutto il tempo in cui aveva lavorato al Children's aveva pensato che loro due fossero riusciti a lasciarsi con successo alle spalle la loro storia sentimentale e a diventare buoni amici. Le aveva fatto piacere ritrovarlo su un altro livello, riuniti in amicizia dieci anni dopo aver goffamente perso la verginità insieme. Il posto speciale che Gary aveva nella sua vita aveva reso una situazione difficile ancora più complicata. Procrastinò per gran parte della giornata, ma alla fine si costrinse ad andare a cercarlo nella caffetteria dell'ospedale. Spesso cenava lì quando a-
veva il turno di notte. Era un luogo rumoroso e affollato, la cornice ideale per una conversazione obbligatoria e imbarazzante volendo evitare una scenata. «Vuoi parlare con me?» gli chiese, arrivandogli alle spalle. «Certo.» Piegò il giornale per farle spazio sul tavolino. Lei si sedette e appoggiò sul tavolo la sua consueta cena fatta di yogurt ai lamponi e una banana. Rimanere affamata era un modo per non addormentarsi nel corso dei turni di notte, anche se al momento appisolarsi era l'ultimo dei suoi pensieri. «Come va?» le chiese Gary. «Bene. E tu?» «Come puoi immaginare.» Peyton evitò di guardarlo negli occhi e cominciò a mangiare lo yogurt. «Ho ricevuto il tuo messaggio.» «Messaggio?» «Sul mio armadietto.» «Non mi ci sono nemmeno avvicinato.» «Stai dicendo che non sei stato tu ad attaccare una rosa al mio armadietto con un biglietto che diceva: 'Parliamone'?» «Per quale motivo avrei dovuto mandarti un fiore?» Peyton percepì il suo atteggiamento sfuggente. Scansò lo yogurt e cominciò: «Gary, innanzitutto voglio dirti quanto sono felice che noi due siamo riusciti a tornare amici». «Anche per me è così.» «Ti rispetto moltissimo per questo. So che probabilmente per te è stato più difficile superare quello che c'è stato tra di noi.» «Perché? Pensi sia ancora innamorato di te dai tempi del liceo o qualcosa del genere?» «No, ma ora io sono sposata. Con il tizio che ho conosciuto quando sono partita per il college, lasciandoti qui a Boston.» «E non ricordi che io sono il tizio che ti ha convinta a dargli una seconda possibilità nove anni fa, quando mi hai chiamato sconvolta dalla vostra prima lite a Tallahassee? Non vorrei passare per lo stronzo di turno, ma tranquillizzati: ti ho dimenticata.» «Mi fa piacere saperlo. Perché quest'ultima settimana ho cominciato a temere che tu sperassi in qualcosa che non accadrà. Me ne assumo la responsabilità. Ti avevo detto che mio marito mi aveva tradito, il che probabilmente ti ha fatto credere che presto sarei stata disponibile. Ma come sai,
ho preso un enorme granchio. Fra me e Kevin le cose vanno benone, e voglio che continui in questo modo.» «Capisco.» A Peyton parve di scorgere la delusione negli occhi di Gary. «Così, quando mi hai mandato quella rosa...» «Ti ho già detto che non ti ho mandato nessuno stupido fiore.» Lei non gli credette, però non volle insistere. «D'accordo, non sei stato tu. Ma solo per finire il mio pensiero...» «No, adesso tocca a me parlare», la interruppe lui, improvvisamente brusco. «Hai idea di quanto sia incazzato con te?» «Per cosa?» «Per cosa?» esclamò, incredulo. «Chi pensi che io sia, una specie di amica del cuore che puoi andare a cercare ogni volta che hai dei problemi con gli uomini?» «No. Ma credevo fossimo amici.» «Lo siamo. Una specie.» Fece una smorfia, come se stesse valutando i propri sentimenti. «È complicato. Ci ho provato, però è davvero molto difficile quando hai davanti, be', una stronza manipolatrice.» «Gary, ti prego.» «No, stammi a sentire. Quella sera eri completamente distrutta perché tuo marito ti aveva tradito. E volevi andare fuori a ubriacarti.» «Volevo solo andare a bere un caffè insieme.» «Già, e sappiamo bene quale sia il significato in codice.» «Un caffè significa un caffè.» «Come ti pare. Io poi ti propongo di raggiungere degli amici, e un attimo dopo tu cominci a tracannare tequila.» «L'hai ordinata tu, la tequila.» «Ma tu l'hai bevuta. Dopodiché è stata un'idea tua quella di andare da me.» «Non è vero.» «Lo è. Solo che non te lo ricordi.» «Ammetto di non ricordare molto di quella notte. Ma lo hai detto tu che sono stata male. Eri troppo ubriaco per accompagnarmi a casa in macchina, così abbiamo camminato fino al tuo appartamento.» «Dove io ti ho gentilmente lavato i vestiti sporchi di vomito. E credimi, fosse stato per te, non ti saresti svegliata con le mutande addosso.» «È ridicolo.» «Mi hai implorato di portarti da me. Alla fine sei rimasta mezza nuda,
perché ti sei praticamente strappata i vestiti di dosso. Se non ti fossi addormentata di botto, quelle mutande non sarebbero rimaste al loro posto, e avremmo di sicuro fatto sesso.» «Non inventarti le cose.» «Perché dovrei inventarmelo?» Lei cercò le parole giuste, non volendo scatenare una vera e propria lite nel bel mezzo dell'affollata caffetteria. «Perché sei arrabbiato, e ti capisco. Pensavi mi stessi lasciando con Kevin, mi hai mandato una rosa, e ora io ho buttato una bella secchiata di acqua fredda sulle tue aspettative.» «Ti ho detto che non ti ho mandato nessun dannatissimo fiore.» «Perfetto. Lasciamo perdere la rosa. Ma dobbiamo chiarire questa situazione.» «Sei soltanto un'approfittatrice, lo sai?» «Nessuno ha usato nessuno.» «Ma tu ci hai provato. Io mi sono comportato da amico con te perché mi hai detto che tuo marito era una carogna. Poi hai cambiato idea e hai cercato di usarmi per dimostrare a te stessa quanto valevi o per far ingelosire il tuo fedifrago consorte.» «Sono davvero disgustata. La sola affermazione corretta che hai fatto negli ultimi cinque minuti è che pensavo Kevin mi avesse tradita.» «E la ragione per cui lo pensavi era perché volevi fosse vero. Preferivi credere che tuo marito ti era infedele, così da poterti sentire libera di andare con chi ti pareva.» «Per tua informazione, Kevin è il terzo uomo con cui sono stata in vita mia. E fino a quando lui mi vorrà, non ce ne saranno altri. Non me ne vado in giro in cerca di un bel niente.» «Allora perché, quando sei arrivata da New York, sei venuta dritta in ospedale a cercarmi?» «Stavo tornando al lavoro.» «Certo», fece lui in tono sprezzante. «Gary, sto sforzandomi di affrontare la situazione in modo gentile. Ma tu mi rendi il compito molto difficile.» «Allora lascia che ti semplifichi le cose. Io non sono la tua amica del cuore, non sono il tuo migliore amico né qualunque altro genere di amico. Non avevo intenzione di scoparti quella notte e nessun'altra notte. Quindi vaffanculo.» Si guardarono con occhi di ghiaccio. Lei avrebbe voluto difendersi, ma una piazzata nel bel mezzo della caffetteria dell'ospedale le parve inoppor-
tuna. «Se speri ancora che io e te possiamo tornare a rivolgerci la parola, è meglio che mi domandi scusa.» «Scusa?» replicò Gary in tono beffardo. «Tu credi che io dovrei chiederti scusa?» Si protese sul tavolo e sussurrò con voce tanto bassa da non sembrare più nemmeno la sua. «Forse un giorno capirai che cosa significa chiedere scusa.» Detto questo, prese il vassoio, si alzò dal tavolo e si allontanò. 27 La testata sbatté forte contro la parete. Era da poco passata la mezzanotte, quando il letto a baldacchino smise finalmente di oscillare e Kevin crollò fra le cosce della moglie. Si issò sui gomiti, le braccia tremanti. Peyton giaceva nuda sotto di lui, le guance avvampate nella fioca luce di una candela accesa sul comodino. Aveva una ciocca di capelli appiccicata al mento e il viso, il collo e il seno ricoperti da un sottile strato di sudore. Il corpo di Kevin fu percorso da un brivido mentre si scostava. Lei gli diede un rapido bacio, poi scivolò fuori del letto e si diresse silenziosamente in bagno. Era stata una maratona. Non che fosse particolarmente in vena di fare lo stallone, pensò Kevin. Solo che gli giravano troppe cose in mente per riuscire a raggiungere l'orgasmo. Non aveva ancora raccontato a Peyton di quel pazzo da Booklovers'. Non voleva spaventarla, specie dopo quello che lei aveva dovuto sopportare l'inverno precedente con Andy Johnson. E se il libro fosse stato un trionfo e lui fosse davvero diventato famoso? Vane speranze. Ira Kaufman era tutt'altra questione. Sentiva di doverle confidare che rischiava di perdere il lavoro allo studio prima di quanto si aspettasse. Alla luce della candela, la vide tornare dal bagno e infilarsi di nuovo sotto le coperte. «È stato stupendo, tesoro», gli disse a voce bassa. «Il mio scopo è compiacere.» «Hai fatto centro!» esclamò Peyton, rannicchiandosi al suo fianco. Kevin era sdraiato sulla schiena e fissava il soffitto. Il braccio di lei gli pesava sul petto. Presto sarebbe caduta in un sonno profondo. «Peyton?» «Mmm.» «Forse mi sono spinto un po' troppo in là con il libro.» Lei alzò la testa dal cuscino. «Che cosa vuoi dire?»
«Ira Kaufman lo ha letto, e pensa che alcuni personaggi siano troppo simili agli avvocati dello studio.» «Chi se ne importa di quello che pensa Kaufman?» «Vuole che ritiri il libro, altrimenti mi licenzierà.» «Non puoi ritirare il libro.» «Non posso nemmeno perdere il lavoro.» «Tesoro, siamo realistici. Sapevi che, se avessi ambientato la tua storia in uno studio legale, la gente avrebbe capito che prendevi ispirazione dalla Marston & Wheeler. Il tuo è stato un rischio calcolato.» «Lo so. Ma speravo di rimanere lì il tempo sufficiente per vedere se il libro andava abbastanza bene da permettermi di abbandonare la professione.» «Troverai un altro lavoro.» «Quale studio legale mi assumerà dopo che la Marston & Wheeler mi avrà licenziato perché secondo loro nel mio romanzo ho fatto fare ai soci la figura degli idioti?» Lei gli appoggiò il mento sul petto, riflettendo. «Apri uno studio tuo.» «Non ci sono abbastanza ore in un giorno per avviare uno studio legale e al tempo stesso cercare di far decollare la mia carriera di scrittore.» «Vallo a dire al responsabile del mio programma formativo.» «Hai capito cosa intendo.» «Sì. E hai ragione.» «È buffo», affermò lui. «La cosa peggiore di questa faccenda è che mi sta portando a credere di non essere poi uno scrittore così bravo.» «Non dirlo neanche.» «È vero. Mentre buttavo giù la trama, mi ero illuso che i riferimenti a fatti e persone reali non fossero così palesi. Ma evidentemente mi sbagliavo.» «Non lasciare che Ira ti faccia dubitare delle tue doti di scrittore.» «Non è solo lui. In realtà, è cominciato tutto da Booklovers' l'altra sera.» «Che cosa è successo?» Kevin esitò, non si sentiva ancora pronto a raccontarle quanta paura gli avesse fatto quel pazzo. «Uno dei partecipanti alla presentazione ha affermato che, attraverso la mia scrittura, avevo rivelato me stesso.» «In che senso?» «Per essere più precisi, ha detto che mia moglie era ovunque nel libro.» Peyton fece una smorfia. «Io?» «Ho avuto la tua stessa reazione. Ma dopo che Ira mi ha accusato di a-
verlo diffamato, ci ho riflettuto. Forse, a livello inconscio, ho davvero attinto troppo dalle persone che mi stanno attorno.» All'improvviso Peyton si irrigidì fra le sue braccia. «Che c'è?» le chiese. «Niente.» «È il mio personaggio principale, vero?» «Be', sì», mormorò lei. «Hai scritto la storia di una donna bellissima, intelligente e di successo a cui capita di tradire il marito.» «Ed è soltanto una storia.» «Esatto», confermò Peyton. «Solo una storia di fantasia.» «Fatta eccezione per la parte della donna bellissima, intelligente e di successo. Quella è chiaramente mia moglie.» «Appunto. Tre elementi su quattro. È facile che in un certo senso io sia nel tuo libro. E non ho intenzione di denunciarti né di licenziarti. Quindi di' a Ira Kaufman di andare al diavolo.» Lui sorrise e la strinse forte. «Grazie.» «Prego.» La tenne stretta, sentendosi ancora in colpa per non averle raccontato quanto fosse stato folle in realtà il comportamento di quel tizio da Booklovers'. Era per il suo bene, si disse, anche se sapeva che peccare di razionalità era un modo assai comodo per giustificare l'occultamento di qualunque cosa. Anche Sandra Blair. «Buonanotte, amore», disse, protendendosi su di lei per spegnere la candela con un soffio. Le tre del mattino, e Peyton era sdraiata nel letto completamente sveglia. Pensava al libro di Kevin e alle accuse di Gary. Era strano. Due uomini, suo marito e il suo primo amore. Entrambi si erano inventati delle storie su di lei. Entrambi le avevano attribuito il ruolo dell'adultera. Guardò l'ora per l'ennesima volta. Il tempo si muoveva lentamente nella camera da letto buia. Prima aveva sbagliato a confidare a Gary i suoi sospetti su Kevin, e poi a non dire a Kevin che si era ubriacata, si era sentita male ed era finita a smaltire la sbornia nell'appartamento dell'amico. Ora Gary distorceva la verità, rendendole impossibile uscire pulita da quella storia. Si era sempre considerata onesta, il che non faceva che accrescere il suo disagio. Non capiva cosa la turbasse di più, se il fatto di aver nascosto la verità al marito
o di essere stata in grado di razionalizzarla. Quelle giustificazioni forzate erano vecchie come la menzogna. Non è successo niente. Sembrerebbe peggio di quel che è stato. È semplicemente meglio per lui non sapere. Erano solo scuse, e suonavano vacue. Nemmeno l'aborto l'aveva lasciata con quel senso di vuoto. Era consapevole che le bugie fra chi si ama potevano rovinare per sempre i rapporti. Lo aveva imparato presto dalla sua stessa famiglia. All'epoca vivevano ancora in Florida. Erano trascorsi quasi tre mesi da quando la madre le aveva telefonato dall'ospedale per comunicarle che la bambina non era sopravvissuta. Da allora, non era più stata detta una parola sull'argomento, almeno non in presenza di Peyton. Per lei, la cospirazione del silenzio aveva solo reso più difficile accettare la morte di una persona cara mai conosciuta. Sentiva il bisogno di mettere il punto finale a quella storia. Prima di lasciare la casa per fare ritorno a Boston, voleva visitare la tomba della sorella. Il giorno della partenza ne aveva parlato con la mamma, intenta a mettere via il servizio di porcellana in una scatola di cartone. «Non puoi andare a trovarla», aveva replicato la madre. «Voglio solo fermarmi un attimo davanti alla tomba per dire una preghiera.» «Non c'è nessuna tomba.» «Che cosa?» «Abbiamo optato per la cremazione.» «E non c'è nemmeno una piccola lapide in memoria?» «No.» «Perché no?» «Perché non ne abbiamo comprata una.» La madre rispondeva alle sue domande con una cantilena da robot, senza mai fermarsi per guardala negli occhi. «E non avete intenzione di farlo?» «No. Abbiamo disperso le ceneri.» «Dove?» La mamma le aveva lanciato un'occhiata cupa. «Che importa?» «Era mia sorella. Importa.» «Benone. Nell'oceano.» Lei l'aveva osservata attentamente. La mamma sembrava agitata, quasi arrabbiata mentre avvolgeva la zuccheriera nella carta di giornale e la infilava nello scatolone. Così si era avvicinata e aveva messo un piede sulla
pila di giornali sul pavimento, impedendole di prendere un altro foglio. Sua madre aveva alzato lo sguardo, e alla fine i loro occhi si erano incontrati. «Penso che tu mi stia nascondendo qualcosa», le aveva detto Peyton. Era passato più di un decennio, ma il ricordo era tuttora vivido. Ora lei era preda della medesima sensazione. Certo, allora era l'opposto. Si era sentita ingannata, non ingannatrice. Ma c'era una strana comunanza fra il mentire e l'essere il destinatario di una bugia: entrambe le condizioni parevano prosciugare l'anima. Ancora sveglissima, Peyton fissava il soffitto, domandandosi che cosa l'avesse spinta a ripensare a quell'orribile confronto con la madre. Si coprì gli occhi con il cuscino, ricordandosi quello che il padre usava dirle da ragazza: le cose sembrano sempre più gravi la notte di quanto non appaiano il mattino seguente. Ma stavolta non si sentiva così ottimista. Forse era quella la ragione che l'aveva spinta a chiamare il padre di punto in bianco per invitarlo fuori a pranzo. Lui sarebbe comunque riuscito a farla stare meglio, anche se lei era troppo imbarazzata per dirgli esattamente qual era il problema. O forse aveva finalmente deciso di far luce su una vecchia bugia di famiglia che non era mai stata del tutto chiarita. 28 Si incontrarono un sabato a mezzogiorno da Fugakyu, un ristorante giapponese di Brookline. Condivisero la specialità della casa, i maki ripieni di tonno e salmone. Era un piccolo locale e gli avventori seduti agli altri tavoli avrebbero potuto sentirli, così Peyton mantenne la conversazione su un tono leggero. Suo padre, comunque, pareva aver percepito che qualcosa la tormentava. Fu lui a proporre una passeggiata dopo pranzo. Camminarono l'uno accanto all'altra lungo l'ampio marciapiede bordato da alberi. «Va tutto bene?» le chiese dopo un po'. «A dire il vero, no.» «Vuoi parlarne?» Lei continuò a camminare senza dire nulla per qualche altro passo. «Ti spiace se ti faccio una domanda personale?» «Perché dovrebbe dispiacermi?» «Tu e la mamma avete dato un nome alla bambina che è morta?» Il padre quasi inciampò sul marciapiede. «No. Perché questa domanda?»
Peyton si fermò davanti a una panchina vicino all'ingresso del parco. «Ci sediamo un minuto?» Lui prese posto sulla panchina, ma lei rimase in piedi. «Non sei costretto a rispondere, però c'è una cosa che voglio chiederti da tanto tempo. E che ora, al punto in cui mi trovo nella mia vita, ho assolutamente bisogno di sapere.» «Cosa?» «Non avresti preferito che la mamma avesse evitato di dirti che la bambina non era tua?» Lui aprì la bocca, ma non riuscì a proferire parola. «Come hai fatto a capirlo?» disse infine con un filo di voce. «L'ho capito e basta. Il modo in cui siamo andati via da Boston non appena lei è rimasta incinta. La mancanza di gioia in casa prima che la bimba nascesse. La mamma non ha mai preparato una cameretta, e sembrava che la sua gravidanza fosse perennemente rabbuiata da una nube. Poi, dopo la morte della piccola, tutto è stato avvolto nel segreto. Mi sbaglio?» Lui guardò oltre le spalle di Peyton. «No. Hai ragione.» «Ti ripeto che non sei costretto a rispondere. Ma non ti capita mai di desiderare che la mamma non ti avesse detto nulla?» «Odio ammetterlo. Però suppongo che saperlo mi abbia aiutato ad affrontare la piega che hanno preso gli avvenimenti.» «Lascia stare questo, se ci riesci. Considera solo la sua infedeltà. Si tratta di una cosa che avresti preferito non scoprire mai?» «La domanda si riferisce a me, o a te e Kevin?» Peyton provò a guardarlo negli occhi, ma non ci riuscì. «Kevin ti ha tradito?» «Papà, ti prego. È davvero difficile per me.» Lui si fece scuro in volto. «Non dirmi che tua madre aveva ragione sul suo conto.» «Nessuno ha tradito nessuno. Si tratta più di un problema di percezione.» «Che cosa intendi dire?» «È troppo complicato. Voglio solo sapere come hai gestito la situazione. Con il senno di poi, sei contento che la mamma te lo abbia detto?» «So che alla fine l'ho perdonata. È l'unica cosa che conta.» «Perché lei te lo ha detto. Per questo l'hai perdonata?» «No. Quello è il motivo per il quale siamo rimasti sposati, non la ragione per cui l'ho perdonata.»
«Non capisco.» «Il suo pentimento mi ha permesso di mettere da parte l'orgoglio. Ma ciò non ha niente a che vedere con il perdono. L'ho perdonata perché l'amavo.» Si scambiarono un lungo sguardo pieno di affetto. Peyton si sedette sulla panchina accanto al padre. Si ricordò che spesso la gente diceva che lei aveva ereditato il cervello da sua madre. «Sei un uomo molto saggio.» Lui si lasciò andare a una risatina malinconica. «O soltanto un vecchio sciocco.» «Per quanto mi riguarda», obiettò Peyton, appoggiandogli la testa sulla spalla, «non lo sarai mai.» La morsa di caldo più lunga dell'estate finì. Gli amanti del jogging della domenica erano ovunque. Kevin e Steve Beasley avevano appena terminato una partita di basket improvvisata nel parco e ora stavano riprendendo fiato, facendo qualche tiro a canestro. Steve era un membro dell'ufficio controversie di Ira, come Kevin, ma un po' più giovane. Avevano lavorato assieme su diversi casi nel corso dell'anno ed erano diventati amici al punto da pranzare insieme due volte la settimana e giocare a pallacanestro un week-end sì e uno no. Kevin prese la mira dalla linea di tiro libero. «Tempo scaduto. Siamo in pareggio. Se faccio questo canestro i Celtics vincono il campionato del mondo.» «Se lo sbagli, offrirai a me e alla mia fidanzata una cena nel nostro ristorante preferito.» «Spero che non siate affamati.» Kevin lanciò la palla, che ribalzò sul ferro. «Dannazione.» «Paga in contanti o mettiamo sul conto, signore?» «Dipende se tu e Jeannie volete anche le patatine fritte con l'hamburger.» Si scambiarono un sorriso e Kevin andò a sedersi nell'erba attorno al campo. Steve si asciugò il sudore dalla fronte con una salvietta e si lasciò cadere accanto a lui. Osservarono in silenzio un'anatra attraversare il campo seguita da cinque anatroccoli. «Ti va di mangiare un boccone?» «Certo.» «Do un colpo di telefono a Jeannie, se vuoi invitare anche Peyton.»
«Nah, Peyton è in biblioteca. Una specie di ricerca a cui sta lavorando con il responsabile degli interni.» «Fa un sacco di straordinari, eh?» «Non la lasciano in pace un minuto.» Steve aprì la sua Gatorade e bevve un sorso. «Ti sei mai chiesto... ah, lasciamo perdere.» «Che cosa?» «Non sono affari miei.» «Spiegati meglio.» «Mi sono domandato se era il caso di dirtelo o meno. Ma se fossi in te, io vorrei sapere.» «Be', te la sei voluta. Adesso, o finisci quello che stavi dicendo o dovrò fartelo sputare a cazzotti.» Steve bevve un altro sorso. «Va bene. Ti ricordi un paio di settimane fa, quando Ira ti ha chiamato al Waldorf e ti ha spedito a Los Angeles?» «Sì. Tu hai preso il mio posto.» «Esatto. A dire il vero, ho soltanto preso la tua stanza. Non abbiamo neppure modificato la registrazione alla reception.» «Allora, che cosa stai cercando di dirmi? Troverò un addebito di tremila dollari di servizio in camera per una prostituta sul prossimo estratto conto della mia carta di credito?» «A essere sinceri, la faccenda è piuttosto seria.» Il sorriso di Kevin si spense. «Che c'è?» «La mattina successiva alla tua partenza, ha chiamato Peyton. Ti cercava. È stata una conversazione strana.» «In che senso?» «Le ho spiegato che eri andato a Los Angeles e che io avevo occupato la tua stanza. Ogni volta che le dicevo qualcosa, lei rimaneva a lungo in silenzio. Sembrava distratta. E poi, verso la fine della conversazione, ho sentito la voce di un uomo in sottofondo.» «Un uomo?» «Già. Non so chi fosse.» «Hai capito che cosa ha detto?» Steve lo guardò e poi annuì. «Per questo faccio fatica a continuare.» «Limitati a riferirmelo, dannazione.» «Ha detto: 'Non essere timida, ti ho già visto nuda'.» Kevin rimase stordito. «Poi che cosa è successo?» «Lei si è imbarazzata e ha provato a incolpare la TV.»
«Forse era davvero la TV.» Steve gli lanciò un'occhiata d'intesa. «Non era la TV.» «Come fai a esserne tanto sicuro?» «Riconosco la differenza.» Kevin distolse lo sguardo, ammutolito. Era come se una mano enorme si fosse levata dal suo stomaco, gli avesse trapassato il cuore e lo avesse afferrato per la gola. Poi un altro pensiero gli affiorò alla mente e si fece subito sospettoso. «Perché me lo stai raccontando?» «Come dicevo, se fossi in te vorrei sapere.» «Ne hai parlato con Ira?» «Ovviamente no. È una faccenda personale.» Kevin socchiuse gli occhi. «Ira ti ha spinto a raccontarmelo?» «Come ti salta in mente? Ira non c'entra con questa storia.» «Due giorni fa è venuto nel mio ufficio e ha minacciato di licenziarmi, perché pensava che ci fossero troppi paralleli poco lusinghieri fra la Marston & Wheeler e lo studio legale del mio romanzo. Mi ha detto di sospendere la pubblicazione del libro o di prepararmi alla guerra. Due giorni dopo il suo giovane associato preferito mi informa che mia moglie mi tradisce.» «Credi che me lo sia inventato?» «Il mio libro parla di una donna che tradisce il marito. Buffa coincidenza, non pensi?» «Senti, mi spiace di avertelo detto. Scordatene.» Kevin si alzò e infilò velocemente la sua roba nella borsa sportiva. «Scordarmelo? Neanche per idea.» «Forza. La stai prendendo per il verso sbagliato.» «Non riesco a credere che tu mi abbia fatto questo.» «Non ho fatto altro che riferirti una cosa in nome dell'amicizia.» «Un amico non avrebbe aspettato due settimane per dirmelo, se fosse accaduto davvero. Ho capito di che si tratta. Ira dichiara guerra e i suoi soldati scendono in campo.» «Dai, aspetta.» «È bello sapere da che parte stai.» Si gettò la borsa sulla spalla e si diresse verso l'auto. 29 La domenica doveva essere il suo giorno libero, ma si era offerta di aiutare il responsabile degli interni a scrivere un articolo sulla crescente inci-
denza del diabete mellito di tipo 2 nei bambini. Le sarebbe bastato usare il computer per accedere via Internet o con dei CD a tutto il materiale necessario: pubblicazioni, studi, statistiche, storie cliniche dei pazienti. A lei, tuttavia, non sembrava di svolgere una vera ricerca se, a un certo punto del progetto, non si ritrovava nel silenzio di una biblioteca circondata da libri. La biblioteca dell'ospedale era deserta, com'era da aspettarsi in una domenica d'estate. Peyton era seduta in un box di consultazione e stava esaminando la versione online di un articolo tratto dal Journal of the American Medical Association, quando un avviso apparve sullo schermo del suo portatile. Odiava essere interrotta. Invariabilmente, mentre era nel bel mezzo di qualcosa di interessante, una di quelle finestre indesiderate compariva con qualche sciocco messaggio di un amico che voleva fare quattro chiacchiere. Internet poteva anche aver rivoluzionato il mondo della comunicazione, ma per certi versi era un ritorno ai vecchi tempi del duplex, quando potevi alzare la cornetta, scoprire chi stava parlando e saltare dentro la conversazione. Solo che ora ci si presentava con un nickname. Il messaggio istantaneo diceva: «ciao, c 6?» Peyton non riconobbe il mittente, ma era possibile modificare il proprio nickname o addirittura averne più di uno. Chiunque fosse, era un esperto frequentatore delle chat room, perché scriveva tutto in minuscolo, le lettere e i numeri in sostituzione delle parole. Lei era troppo perfezionista per comunicare in quel modo. Scrisse: «Chi sei?» «non venivi più da me, così sono venuto io da te.» «Continuo a non riconoscere il nome.» «è nuovo, come il tuo.» Quella frase la confuse ulteriormente. Dietro consiglio del responsabile della sicurezza dell'ospedale, aveva cambiato il suo nickname dopo l'episodio di molestie da parte di Andy Johnson, proprio come aveva cambiato il numero di telefono, del cercapersone e la serratura del proprio appartamento. Ma ciò era successo mesi prima. «pensavo che potevamo ricominciare da capo», proseguì il messaggio. Quelle parole le furono sufficienti. Sperò che lui se ne andasse, ma era evidente che non sarebbe stato semplice interrompere la conversazione. «Non è possibile.» «xché no?» «Perché così deve essere.» «come puoi sentirti ancora arrabbiata dopo tutto questo tempo?» «Non è passato affatto tanto tempo.»
«1 eternità. ho cercato di riconquistarti troppo a lungo.» «Finiscila. Non siamo più al liceo.» Seguì una lunga pausa. Peyton si chiese se se ne fosse andato. Alla fine, la risposta si costruì sullo schermo, una lettera alla volta. «Con chi credi di parlare?» Le sue dita si paralizzarono sulla tastiera. Niente più linguaggio da chat room. La situazione si stava facendo strana. «So che sei tu, Gary.» «Non sono Gary.» Peyton rimase di ghiaccio. «Chi sei?» «Hai ricevuto la mia rosa, il mio messaggio sull'armadietto. Devi saperlo.» «Certo. So che sei Gary.» «NON sono Gary!» «Non ti credo.» «Te lo proverò. Guarda fuori della finestra.» «Vuoi lasciarmi in pace, per favore?» «Fai come ti ho detto. Rimani connessa alla rete. Vai alla finestra e guarda in giardino.» L'istinto le disse di disconnettersi. Era stanca di essere manipolata. Ma la cosa stava diventando pesante, e un giorno avrebbe potuto servirle una prova che Gary la molestava. «Va bene, vado.» Lentamente, si alzò e si diresse in un'area di lettura vicino alla vetrata che dava sul giardino. Era un piccolo spazio verde tipicamente urbano, circondato su tutti i lati dalle costruzioni del complesso ospedaliero. Alberi, uccelli e fiori lo trasformavano in una piccola oasi. Due adolescenti giocavano con un frisbee nel prato. Una giovane paziente con una flebo attaccata a un'asta a rotelle camminava piano accanto ai genitori verso la fontana con le lontre di pietra nel centro. Peyton non vide nulla fuori dell'ordinario. La sua rabbia montò quando si rese conto che lui la stava prendendo in giro. Ritornò rapidamente indietro attraverso l'area di lettura, superando gli scaffali. Si fermò a pochi passi dal suo box e quasi rimase senza fiato. Il computer era sparito, e con esso tutto il suo lavoro. D'impulso, si precipitò all'ingresso principale e guardò nell'atrio verso la caffetteria, ma non c'era nessuno. Corse di nuovo dentro e controllò l'uscita laterale della biblioteca, che dava sul vicolo. Vide soltanto auto parcheggiate e cassonetti dell'immondizia. A un isolato di distanza, il traffico si muoveva veloce in Longwood Avenue, una facile via di fuga.
Allora comprese e si sentì avvilita: era stata distratta e raggirata. Il vecchio trucco da ladruncolo. Ma lei sapeva che non si trattava di un comune ladro. «Gary, sei un figlio di puttana!» Peyton denunciò la «scomparsa» del suo computer all'ospedale, con la vana speranza che una guardia o qualcun altro lo trovasse in giro. Non fece una formale denuncia alla polizia. Gli sbirri di rado si muovevano per recuperare gli oggetti rubati assicurati di proprietà personale, e in ogni modo lei preferiva tenere i propri guai con Gary per sé, almeno finché non lo avesse affrontato e non avesse avuto la conferma che era un ladro. Lui abitava a poca distanza dalla biblioteca dell'ospedale. In dieci minuti a piedi Peyton raggiunse il suo appartamento e bussò con decisione alla porta. Udì un rumore di passi. Era a casa, ma questo non bastava a cancellarlo dalla lista dei sospetti. Avrebbe potuto rientrare di corsa con il suo computer, accendere la televisione e sedersi sul divano. «Peyton?» disse Gary. «Che sorpresa.» Lei gli lanciò un'occhiataccia. «Dov'è il mio computer?» «Che cosa?» «Qualcuno mi ha appena fatto uno scherzetto nella biblioteca dell'ospedale e ha rubato il mio computer.» «Mi stai accusando?» «Sapevi che stavo lavorando a quella ricerca. E che vado in biblioteca ogni domenica da un mese a questa parte.» «Come lo sanno molte altre persone.» «Nessun altro è tanto meschino da organizzare un sabotaggio.» «Accidenti, dici sempre delle cose così carine.» «Questa faccenda sta davvero prendendo una brutta piega», replicò lei. «Restituiscimi il mio computer e faremo finta che non sia successo niente. Ma se continui a startene lì come un idiota fingendo di non saperne niente, denuncerò il furto. Farò alla polizia e all'ospedale il nome di chi sospetto lo abbia preso.» Lui ridacchiò. «Sì, certo.» «Non mettermi alla prova.» «Non ho preso io il tuo stupido computer. Ma se vuoi accusarmi, benone. Scavati la fossa. In sei mesi sei passata da superstar a spina nel fianco degli interni. Hai sparato nelle chiappe all'infermiera della clinica e hai fatto sì che l'ospedale si beccasse una bella denuncia. Andy Johnson ha finito
coll'ammazzarsi a causa tua, e girano ancora voci sul fatto che eravate sessualmente coinvolti. E ora vuoi trascinare l'amministrazione in un contenzioso con un infermiere che di recente ti ha portata nel suo appartamento ubriaca fradicia.» «Ti stai divertendo, non è così?» «Un po'. Mi spiace per il tuo computer. Però penso che tu abbia avuto un'ottima idea dieci anni fa, quando mi hai mollato: addio e buona fortuna.» Le chiuse l'uscio in faccia. Peyton era tanto furiosa da desiderare di buttare giù la porta. Ma soprattutto scioccata dall'intensità del risentimento che Gary nutriva nei suoi confronti. Evidentemente le manifestazioni di amicizia precedenti celavano emozioni più profonde irrisolte. I suoi tentativi di essergli amica erano stati interpretati come il mero capriccio di una «stronza manipolatrice», che voleva tenerselo buono perché, chissà, forse un giorno le sarebbe venuta la voglia di andare a letto con lui. Questo la feriva e la confondeva, e sottolineava il fatto che lei aveva problemi ben più grossi da affrontare del furto di un computer. Gary aveva ragione su una cosa. Le era rimasta una sola possibilità, con l'ospedale e con il marito. Se ne andò in silenzio, temendo che l'uomo che un tempo aveva considerato il suo migliore amico sul lavoro fosse ora determinato ad assicurarsi che lei avesse quello che si meritava. E sembrava essere riuscito a chiuderla nell'angolo, proprio come voleva. 30 Un lunedì sera Kevin uscì dall'ufficio alle sei e mezzo, un po' prima del solito. Peyton lo aveva costretto a partecipare a un cocktail di Harvard. Lui odiava quel genere di ricevimenti, l'avvocato solitario in una stanza piena di medici della Ivy League. Sapeva che avrebbe finito con lo sgranocchiare cuori di pannocchie mentre la moglie, come al solito, faceva pubbliche relazioni. Per accompagnarla aveva rinunciato all'invito di un amico, che gli aveva offerto dei biglietti per i posti dietro la casa base nella partita dei Red Sox di quella sera. Cosa non si fa per amore. Non le aveva ancora detto niente della storia che Steve Beasley gli aveva raccontato domenica. Non voleva convincersi che Steve fosse un bugiardo, ma non poteva nemmeno credere che lei l'avesse tradito. Così si trovava di fronte a un dilemma: come poteva affrontare Peyton su quello che era poco
più di un pettegolezzo senza aprire la porta a domande sulla sua passata mancanza? Non vedeva ragione per sollevare l'argomento, almeno fino a quando non ne avesse saputo di più. Salì in ascensore fino al quarto piano del garage e poi si diresse all'auto. Il rumore dei suoi passi riecheggiava fra i muri, i pavimenti e i soffitti della costruzione di cemento grezzo. Premette il pulsante del portachiavi, l'allarme trillò e lo condusse al suo veicolo, quasi alla fine di una lunga fila di macchine. Si tolse la giacca del completo gessato e la appoggiò sul sedile posteriore assieme alla ventiquattrore. Proprio mentre stava aprendo la portiera del guidatore, qualcosa sul parabrezza attirò la sua attenzione. Era un foglio di carta formato A4, bianco sul lato esterno. Lo estrasse da sotto il tergicristallo e guardò il lato opposto. Era una pagina stampata del suo dattiloscritto, quella della dedica. «A Peyton», lesse. La dedica era stata cancellata con larghi tratti rabbiosi di inchiostro rosso. Sotto, un messaggio scritto a mano. «Lei ha un altro, stronzo.» Il foglio cominciò a tremargli in mano. D'impulso, lo accartocciò in una palla e lo gettò lontano. Ira gioca sporco, si ricordò. Ma non era convinto. Il ricevimento era stato organizzato al Fogg Art Museum, proficua occasione per dare rilievo alla generosa decisione di un facoltoso laureato della facoltà di medicina di Harvard di versare una cospicua somma di denaro in onore del fratello deceduto. Sebbene non si trovasse nel famoso Tercentenary Quadrangle, il cortile a forma di atrio del museo era uno scenario allettante per qualunque evento, dai ricevimenti di nozze alle raccolte di fondi. L'ospite d'onore aveva voluto che la festa si tenesse a Cambridge, anche se la sua facoltà si trovava a Brookline, molto lontano dal campus principale. Era un tributo adatto, visto che il museo era vicino alla Memorial Church, dove il nome del fratello era scolpito per l'eternità nel marmo accanto a quelli degli altri soldati che avevano perso la vita servendo la patria nella prima guerra mondiale. Kevin arrivò in ritardo. Nel cortile erano raccolte una cinquantina di persone ben vestite, amici e studenti, in gran parte di medicina. Il donatore, un distinto signore dai capelli grigi, parlava a una folla attenta da un leggio. Lui scorse Peyton dall'altra parte della corte. Si fece strada fra la gente e la raggiunse proprio mentre l'oratore arrivava al termine del discorso. «Per concludere, vi ricordo il nostro motto scolpito sullo stemma di
Harvard: Veritas. Verità. Per me, quella parola riassume mio fratello. È stato fedele a se stesso. Fedele alla propria famiglia. Fedele ai propri amici. Fedele ai principi per la cui difesa è morto sul campo di battaglia. Ha combattuto per la verità. Ricordiamoci tutti, verità.» Dopo una decina di ripetizioni della parola «verità» Kevin lanciò un'occhiata a Peyton, che evitò di incontrare il suo sguardo. «Sono orgoglioso di fare questa donazione a favore della facoltà di medicina a nome di Douglas Hester, l'uomo più vero che io abbia mai conosciuto. Ma la vera verità è che ho molta sete. Così, in onore di Doug, dichiaro ufficialmente aperto il bar. Vi prego di farmi compagnia.» Un giusto applauso riempì il cortile, seguito dal mormorio della conversazione crescente. Kevin e Peyton ancora non si erano guardati. «Bel discorso», disse lui. «Sì, molto bello.» Kevin si era deciso a dirle del foglio sul parabrezza, ma stava perdendo il coraggio. Tutto quel parlare di «verità» lo aveva fatto sentire un ipocrita. La mera menzione del messaggio avrebbe innescato una discussione su ciò che gli aveva riferito Steve Beasley, sulla rosa trovata davanti alla porta di casa l'inverno passato a cui non aveva mai accennato, sulla storia del matto da Booklovers' che si era tenuto per sé, e così via. Tanti segreti che riportavano alla sua stessa infedeltà, una serie di bugie e continue coperture che ora gli sembravano peggiori del singolo gesto di stupidità di quella fredda notte a Providence. Forse era giunta l'ora della verità. «Peyton...» «Ecco il dottor Sheffield», disse lei. «Ti spiace se vado a fare quattro chiacchiere?» Quella frase tolse fiato alle sue parole, o almeno tolse il vento alle sue vele. «Vai pure avanti. Ti raggiungo con qualcosa da bere.» «Per me niente, grazie.» «Allora prenderò qualcosa io.» Ne ho bisogno, pensò. La osservò svanire fra la folla che via via si stava dividendo in piccoli gruppi. «Hai l'aria annoiata.» Kevin riconobbe la voce alle sue spalle. Si voltò, provando a non cedere al panico. «Sandra?» «Hai intenzione di salutarmi o vuoi rimanertene lì a bocca aperta?» «Che ci fai qui?» «La stessa cosa che ci fai tu. Il mio accompagnatore è proprio là.» Con un cenno del capo indicò un uomo di bell'aspetto, anche se di una certa età,
che in qualche modo faceva sembrare più vecchia anche lei. Era immerso in una conversazione con un gruppo di persone vicino a quello di Peyton. «Be', mi ha fatto piacere rivederti, Sandra», disse lui, nel tentativo di allontanarsi. «Mi è spiaciuto sentire di te e di Peyton.» Kevin si fermò di colpo. «Sentire cosa?» «È piuttosto ironico, non credi?» «Di cosa stai parlando?» «Tu scrivi una storia su una donna di successo che rimane invischiata in un rapimento dopo aver tradito il marito, ed ecco che Peyton finisce con il tradirti.» «Chi te lo ha detto?» «Steve Beasley. Dopo aver letto il tuo dattiloscritto, mi ha detto anche che uno dei personaggi secondari è un'arrivista che cerca di farsi strada in uno studio legale di Boston saltando da un materasso all'altro. In ufficio gira la voce poco piacevole che tu abbia basato quel personaggio su di me.» Quell'affermazione lo ferì sotto molti punti di vista, non ultimo il fatto che non fosse vera. «Nessuno dei miei personaggi si basa su qualcuno.» «Ottima risposta.» «Ti prego, ascoltami. Mi spiace per come sono andate le cose fra di noi, ma è importante per me sapere che tu mi credi. Per tutto il tempo in cui ho scritto il libro, ti ho considerata un'amica. Una buona amica. E anche se avessi voluto inserirti nella storia, non lo avrei mai fatto in quel modo.» «Ti ringrazio per esserti preoccupato tanto dei miei sentimenti», rispose lei freddamente. «Ma se Ira ha qualcosa da dire sulla tua carriera di scrittore, allora hai problemi molto più grossi da affrontare.» «Che cosa hai saputo?» «Solo che è deciso a dimostrarti che chiunque si metta contro la Marston & Wheeler non la passa liscia.» Kevin diede una rapida occhiata attorno, per accertarsi che nessun altro membro dello studio si trovasse a quel ricevimento. «Sandra, se sai qualcosa di specifico, apprezzerei davvero molto se...» «Mi dispiace per te e per Peyton», lo interruppe lei, stroncando la sua frase sul nascere. «Non volevo dirti altro. Ciao, Kevin.» Si voltò e si allontanò. Kevin si ritirò al tavolo del buffet. Cercò un posto il più vicino possibile a un'uscita e si mise a piluccare le tartine al salmone affumicato, mentre gli occhi sfrecciavano in ogni direzione in cerca della moglie.
Di tutti quelli che poteva incontrare... Sandra. Peyton non sapeva ancora nulla di quella donna. Lui se ne rammaricava, di sicuro. Ma era successo in un momento in cui il loro matrimonio era così traballante che lei non gli aveva nemmeno detto di essere incinta. Chi avrebbe potuto stabilire qual era l'inganno peggiore? Non c'è tradimento quando due persone sono sincere l'una con l'altra. O almeno di questo cercava di convincersi. Ma di una cosa era certo: il suo tradimento sarebbe stato ben più grave se avesse perso la testa durante giorni felici, quando le cose fra loro due andavano alla grande, come per esempio un paio di settimane prima... precisamente quando il suo amico Steve sosteneva di aver sentito la voce dell'amante di Peyton al telefono. Kevin ingurgitava tartine al salmone come fossero noccioline, travolto a tal punto dalle emozioni contraddittorie che provava, da non rendersi nemmeno conto di quanto fosse piena la sua bocca. Tenne d'occhio Peyton, poi alla fine ottenne la sua attenzione. Dopo decine di eventi come quello, avevano affinato l'arte della comunicazione non verbale. Con un cenno del capo lui le indicò l'uscita e si avviò. Lei lo seguì. Kevin si incamminò per un corridoio di marmo deserto e si ritrovò di fronte a una serie di porte chiuse di una sala conferenze. Avrebbe preferito entrare nel salone, ma in fondo al lungo corridoio gli parve comunque di aver trovato sufficiente intimità. Peyton lo raggiunse e disse: «Non possiamo ancora andarcene. Siamo appena arrivati». «Mi spiace, ma devo assolutamente dirti una cosa.» «Che succede?» Non era il luogo ideale per discutere, ma erano soli, e il momento era giusto. «Tre volte nel corso degli ultimi due giorni mi è stato riferito che mia moglie si vede con un altro. Ecco che succede.» Lei si paralizzò, senza parole. Kevin proseguì. «A quanto pare è capitato mentre io ero a Los Angeles.» Il viso di Peyton sbiancò. Lui la incalzò, percependo di essere sulla strada giusta. «Steve Beasley mi ha detto che lo hai chiamato al Waldorf, cercandomi. Ha sentito la voce di un uomo in sottofondo. Ho provato a convincermi che non fosse vero, che Ira Kaufman lo avesse spinto a giocarmi un brutto scherzo. È così? O mi sto soltanto prendendo in giro?» «Kevin...» cominciò Peyton, poi si interruppe. «Dobbiamo discuterne proprio qui?» «Non dirmi che è vero.»
«Voglio soltanto una possibilità di spiegarti. In privato.» «Non riesco a crederci.» Si voltò, poi le chiese in tono duro: «È qualcuno di mia conoscenza?» «Non sono andata a letto con nessuno. Io... io avevo bevuto troppo e sono stata male. Così ho finito con il passare la notte nell'appartamento di Gary. Non ti sono stata infedele, te lo giuro.» «Oh, risparmiami almeno questo. Il tuo amico sosteneva di averti vista nuda! Steve lo ha sentito!» «Kevin...» Se ne andò prima che la sua rabbia potesse fargli dire qualcosa di stupido. Peyton si affrettò a seguirlo. «Non farti rincorrere.» «Nessuno ti ha chiesto di venire con me.» A quella frase, Peyton si fermò. Kevin proseguì nel corridoio vuoto, girò l'angolo e andò quasi a sbattere contro un'altra donna. Stava per scusarsi, quando si accorse che era Sandra. Si trattava di una pura coincidenza, oppure lei si era strategicamente posizionata proprio dietro l'angolo, davanti all'entrata del bagno delle signore? Nessuno dei due disse una parola, però dall'espressione del suo viso lui comprese che aveva sentito tutto. «Kevin, non è successo niente!» Peyton non si vedeva ancora, ma lo stava raggiungendo. Lanciò un'occhiata tagliente a Sandra e si diresse rapido verso l'uscita principale, domandandosi quale delle due lo avrebbe seguito fuori. 31 Peyton arrivò a casa alle dieci. Non aveva inseguito Kevin, ma non si aspettava che lui la piantasse lì al cocktail senza la macchina. Aveva atteso a lungo, dopo che la maggior parte degli invitati se n'era andata, sperando invano che tornasse. Un taxi la lasciò davanti al suo appartamento. Salì i gradini d'accesso e si voltò a guardare Magnolia Street nelle due direzioni, fino a dove il bagliore dei vecchi lampioni le permetteva di vedere. La loro auto non c'era: Kevin non era rientrato. Aprì la porta e trovò la posta sul pavimento dell'ingresso. La raccolse e andò in camera, dove la lasciò cadere sul letto assieme alla borsetta. Controllò la segreteria telefonica, ma lui non aveva chiamato. Provò a cercarlo allo studio e sul cellulare. Nessuna risposta. Ovunque fosse, era chiaro che non voleva parlarle.
Fece scorrere l'acqua nella vasca, si struccò e si svestì, poi si immerse. Un lungo bagno caldo le avrebbe fatto bene. Il telefono squillò proprio mentre lei cominciava a rilassarsi. Fu tentata di ignorarlo, ma pensò che poteva essere Kevin. Balzò fuori e si avvolse nell'accappatoio, poi corse a rispondere. Il segnale della linea libera le vibrò nell'orecchio. Esitò un attimo, dopodiché utilizzò il servizio automatico che componeva l'ultimo numero che aveva chiamato. Chissà, forse si trattava solo di un fastidioso operatore di telemarketing. Dopo nove squilli a vuoto riagganciò e tornò in bagno. Mise un piede nell'acqua e il telefono riprese a squillare. Colta di sorpresa, scivolò e batté un ginocchio sul pavimento. Si rialzò, raccolse l'accappatoio e zoppicò fuori dal bagno. «Pronto», disse, ma c'era di nuovo il segnale della linea libera. Riutilizzò il servizio automatico e, dopo tre squilli, qualcuno le rispose. «Sì.» La voce roca di un uomo. «Con chi parlo?» «Lenny. Chi lo vuole sapere?» «Mi ha chiamato lei un minuto fa?» «No.» «Qualcuno mi ha chiamato usando il suo apparecchio?» «Solo se hanno trovato il suo numero scritto sul muro del bagno. Questo è il telefono pubblico del Sylvester's.» Peyton udì in sottofondo il rumore tipico di un bar affollato. «Mi scusi. Grazie.» Riagganciò, incerta sul da farsi. Non aveva mai sentito il nome di quel locale, comunque era plausibile che Kevin, dopo averla piantata in asso, si fosse infilato in un bar. Forse aveva bevuto un paio di bicchieri, l'aveva chiamata dal telefono pubblico, poi gli era mancato il coraggio di parlarle. Allacciò l'accappatoio, andò in cucina e prese le pagine gialle. Il Sylvester's si trovava nella parte meridionale di Boston, relativamente facile da raggiungere con un taxi a quell'ora di notte. Ma che senso aveva? Non era nemmeno certa che fosse stato lui a chiamare. Meglio rimanere vicino al telefono ad aspettare che si rifacesse vivo. All'improvviso si sentì affamata. La discussione con Kevin le aveva tolto l'appetito al cocktail. Era da mezzogiorno che non mangiava niente. Prese una busta di cibo precotto dal freezer e la buttò in padella. In dodici minuti la cena era pronta e dopo altri otto lei aveva finito. Quando terminò di riordinare erano quasi le undici. Di Kevin ancora nessuna traccia.
Andò a distendersi sul divano in soggiorno e accese la televisione, dove stavano trasmettendo il telegiornale della notte. Il solito bollettino di violenza quotidiana, ma lei non vi fece molta attenzione. Nella sua mente stava già preparando il discorso da fare al marito quando avesse varcato la soglia di casa, il che, sperava, sarebbe accaduto presto. Gli avrebbe detto la verità, naturalmente. Era arrivato il momento. L'interrogativo era: lui le avrebbe creduto? Afferrò il telecomando e cominciò a fare zapping in cerca di un programma che, anche se non fosse riuscito a calmarla, l'avrebbe almeno distratta. Il telefono squillò. Peyton aprì gli occhi e vide un test di trasmissione sullo schermo del televisore. Guardò l'orologio sopra la mensola del camino. Erano le 4.11 del mattino. Si era addormentata sul divano mentre era lì ad aspettare Kevin. Inutilmente, a quanto pareva. Si strofinò gli occhi per scacciare il sonno e rispose. Non udì nessun rumore, ma percepì la presenza di qualcuno all'altro capo del filo. «Pronto», disse, un po' più forte questa volta. Nessuna risposta. Riagganciò e si mise a sedere diritta sul divano. Se era Kevin, non le piaceva il gioco che stava facendo. Qualche secondo dopo il telefono squillò ancora. Rispose. «Chi parla?» Dall'altra parte, silenzio. Di nuovo percepì la presenza di qualcuno. Dopo svariati secondi sentì respirare. «Chi è?» Il respiro si fece più intenso, e Peyton si affrettò a riattaccare. Non poteva assolutamente essere Kevin. Gli era capitato di infuriarsi, ma non era mai stato tanto cattivo con lei. Del resto, finora non aveva mai nemmeno avuto ragione di pensare che lo avesse tradito. Qualche istante più tardi, il telefono tornò a squillare. Lo lasciò suonare nove volte prima di decidersi a rispondere. «So chi sei. Finiscila o chiamo la polizia.» «Apri la posta.» «Che cosa?» La comunicazione si interruppe. Appoggiò la cornetta sulla forcella e rimase immobile, confusa. Aprire la posta? L'istinto le suggerì di chiamare la polizia, ma la curiosità ebbe la meglio. Di sicuro non era Kevin, perciò doveva trattarsi di quel burlone che le aveva rubato il computer... Gary. Con un pizzico di fortuna, era stato tanto
stupido da spedirle qualcosa che lei poteva usare per provare che la stava molestando. Si alzò dal divano e si diresse in camera da letto. Attraversando il corridoio, scorse una busta sul pavimento dell'ingresso. Era certa che prima non ci fosse. Aveva raccolto tutta la posta quando era entrata. Qualcuno, evidentemente, l'aveva recapitata nel bel mezzo della notte, mentre lei dormiva sul divano. Si avvicinò lentamente e la raccolse. Una busta comune senza francobollo né scritte. La aprì con cautela. Dentro non c'era nessun biglietto. Soltanto una ciocca di capelli castano chiaro, lunga un paio di centimetri. Capelli umani. Un brivido di freddo le percorse la schiena. Si precipitò di nuovo in soggiorno per chiamare la polizia e, proprio quando raggiunse il telefono, la luce saltò. Continuò a comporre il numero, ma il telefono non funzionava. Dalla finestra che dava sulla strada vide le luci dei portici delle abitazioni di fronte. Era chiaro che qualcuno le aveva staccato l'elettricità, intervenendo sull'interruttore generale posto all'esterno della casa. Il cuore prese a martellarle nel petto. Il suo primo impulso fu di correre fuori e mettersi a gridare a squarciagola fino a svegliare qualche vicino. Ma forse era proprio quello che lui voleva. Forse la stava aspettando lì. Aveva bisogno di un altro piano. La sua pistola era chiusa a chiave in una scatola di metallo su una mensola della cabina armadio nera come la pece. A meno che... Le venne un'idea: il cellulare. Era sepolto nel fondo della sua borsetta, sul letto, dove l'aveva lasciata. Il fioco bagliore dei lampioni della via si riversava nell'appartamento, sufficiente per aiutarla a percorrere il corridoio ora che i suoi occhi si erano adattati all'oscurità. A mano a mano che si avvicinava alla camera da letto il buio aumentava, e i suoi passi si fecero sempre più incerti. Presumeva soltanto che l'elettricità fosse stata tolta dall'esterno. Non aveva mai trafficato con gli interruttori automatici. Quello era il regno di Kevin. E se fossero stati dentro? E se lui fosse stato dentro? Un trillo lacerò il silenzio. Proveniva dalla camera da letto. Fu sul punto di gridare, poi comprese di cosa si trattava. Veniva dalla sua borsa. Qualcuno la stava chiamando sul cellulare. Peyton non si mosse. Il telefono continuò a squillare. Entrò piano nella camera da letto, poi si avvicinò un passo alla volta, tastando il letto per orientarsi finché riuscì ad afferrare la borsa. Pescò il cellulare e rispose con voce tremante.
«Pronto.» «Ho preso il tuo amante.» La voce era alterata, camuffata da un marchingegno elettronico. Era bassa, come se qualcuno stesse parlando sott'acqua, e dava i brividi. «Chi sei?» «Ho detto che ho preso il tuo amante.» «Non so di cosa stai parlando.» «Si chiama Gary Varnes.» «Chi sei?» «Ho delle foto. Un bicchiere da Chauncy's. Quattro salti da Colombo's. Tu sdraiata sul suo letto mentre lui ti spoglia.» Peyton rimase di ghiaccio. Quell'uomo sapeva esattamente in quali locali erano andati lei e Gary quella notte. «Che cosa vuoi?» «Diecimila dollari. In contanti. O tuo marito vedrà le foto.» Sentì un nodo in gola. Si rese conto che quelle fotografie non avrebbero mostrato che era stata male e che era priva di conoscenza, mentre Gary le levava di dosso i vestiti sporchi di vomito. «Non accetto di essere ricattata.» «Allora non pagarmi. O meglio ancora, vai dalla polizia. Fallo e Gary Varnes atterra dritto dritto davanti alla tua porta di casa. Morto.» «Vuoi dire che lo hai rapito?» «Tombola. Se sei intelligente, paghi. Se sei stupida, lui muore. Mi hai capito?» Peyton comprese in quell'istante che i capelli nella busta erano di Gary. Esattamente il suo colore. A stento trovò la forza di rispondere. «Sì. Ho capito.» «Fra due giorni chiamerò ancora. Fatti trovare con i contanti. E non pensare nemmeno lontanamente di chiamare gli sbirri.» Peyton strinse il telefono finché non udì il segnale della linea libera. Incapace di muoversi, rimase a fissare l'oscurità. Aveva commesso un terribile errore. E ora Gary Varnes era stato rapito. Da qualcuno che possedeva delle fotografie. E adesso che cosa dico a Kevin? 32 La serratura scattò all'alba. Peyton si precipitò all'ingresso mentre la porta si apriva. Kevin entrò.
«Grazie a Dio, sei tornato.» Aveva un aspetto orribile, gli occhi gonfi. Portava lo stesso completo che indossava la sera prima al cocktail. «Sono stato in piedi tutta la notte.» «Dove?» «Nel mio ufficio.» «Ti ho chiamato lì.» «Lo so. Non ho risposto. Quello che ho saputo ieri sera mi ha fatto reagire male, ma in fin dei conti non è la questione che mi preoccupa di più.» Abbassò gli occhi, poi la guardò intensamente. «C'è una cosa che avrei dovuto dirti molto tempo fa.» «No», replicò lei in tono serio. «Sono io a doverti dire una cosa.» In quindici minuti Peyton gli raccontò tutto, dall'errata presunzione che lui l'avesse tradita, ai suoi ultimi sospetti che Gary la stesse molestando, fino ad arrivare alla telefonata del rapitore. Kevin ascoltò in silenzio ogni parola, seduto immobile di fronte a lei al tavolo della cucina. Alla fine le disse: «Non pagheremo». «Sostiene che lo ucciderà, se ci rivolgiamo alla polizia.» «Non c'è da preoccuparsi. Non lo faremo.» «Non possiamo ignorare il rischio che corre Gary.» «Provi qualcosa per lui?» «No. Te l'ho già detto, siamo andati fuori a bere, sono stata male e...» «Ti aspetti davvero che ci creda?» «Sì. È la verità.» «Ci crederesti se fossi io a raccontarti una storia del genere?» Lei non rispose subito e lui approfittò della sua esitazione. «Ci hai riflettuto troppo.» «Kevin, non facciamone una questione fra noi due. Gary è in pericolo. Concentriamoci su questo.» «Ti stava molestando, dannazione. Due minuti fa dicevi che ti ha rubato il computer.» «Ho detto che pensavo me lo avesse rubato. Alla luce dei nuovi eventi, non ne sono più così sicura. Non sono nemmeno certa che mi abbia attaccato quella rosa sull'armadietto. Lui ha sempre negato tutto ogni volta che l'ho affrontato. È possibile che mi abbia lasciata in pace, dopo che me ne sono andata dal suo appartamento. In un certo senso, sono stata io a molestarlo con delle false accuse.» «A me pare che tu provi qualcosa per lui.» «Voglio solo fare quello che è meglio.»
«Che sarebbe, dal tuo punto di vista?» «Chiamare la polizia.» «Non dobbiamo essere impulsivi. Prima riflettiamoci.» «Ma non possiamo fingere che non sia successo niente. Che cosa accadrebbe se le minacce di quel tizio fossero reali? Gary verrebbe ucciso.» «Nessuno lo ucciderà.» «Come fai a saperlo?» «Perché credo sia lui.» «Cosa?» «Il rapitore è Gary. Chi potrebbe essere in possesso di foto in cui sei nuda? C'era qualcun altro nella stanza?» Lei rimase in silenzio e rifletté per un istante. «Giusta osservazione.» «Non capisci? Ha inscenato tutto.» «Ma perché dovrebbe fare una cosa simile?» «Perché è un sacco di merda, ed è incazzato. Gli hai confidato che ti avevo tradito, sei uscita con lui e hai passato la notte nel suo appartamento. Poi gli hai detto che ti eri sbagliata su di me e che noi due ci eravamo riconciliati. Tu stessa mi hai raccontato che questo lo ha sconvolto e che stava quasi per fare una scenata nel bel mezzo della caffetteria dell'ospedale. Aveva una cotta per te, e tu lo hai preso in giro e poi lo hai mollato. Per la seconda volta nella sua vita lo hai scaricato, e sempre per me. Quindi adesso ha intenzione di farcela pagare nel solo modo che ha a disposizione. Vuole spremerci un po' di denaro.» «Ma perché inscenare un rapimento? Avrebbe potuto semplicemente ricattarmi.» «Perché è uno stratagemma ingegnoso. Se fosse venuto da te affermando: 'Dammi diecimila dollari o dirò a tuo marito che abbiamo fatto sesso', avrebbe rischiato di finire in galera. Ma l'idea del rapimento gli fornisce un certo livello di protezione. Se paghi il finto riscatto, lui si intascherà i soldi. Se chiami la polizia, lui farà finta di essere stato rapito davvero. In questo modo non è costretto a esporsi, facendoti delle richieste esplicite che tu potresti registrare e consegnare al procuratore distrettuale, garantendogli una bella condanna con l'accusa di estorsione.» «Sembra un trucco che solo un avvocato potrebbe escogitare. Non Gary.» «Forse è più intelligente di quanto credi.» «Ma non vorrei proprio sbagliarmi.» «Come sei rimasta con il rapitore?»
«Vuole il denaro pronto fra due giorni. Mi richiamerà lui.» «Perfetto. Quando chiama, digli che tu hai già confessato tutto a tuo marito. E che io ho capito.» «Finiscila, Kevin. Non c'è niente da capire. Io non ti ho tradito.» «Questo è in realtà irrilevante.» «Come puoi dire una cosa simile?» «Perché se non mi hai tradito, sono contento. Se lo hai fatto, io ti amo e ti perdono. È molto semplice.» Lei voleva che Kevin le credesse, ma pensare che lui l'amava a tal punto da riuscire a perdonarla la rincuorò. O erano soltanto parole? «È un tale pasticcio», mormorò. «Niente che non possiamo gestire. Quando il rapitore chiama ancora per chiedere il riscatto, tu gli rispondi che abbiamo deciso che Gary Varnes non vale dieci centesimi, figuriamoci diecimila dollari.» «Io voglio solo andare dalla polizia.» «Scordati la polizia, per favore.» «Ho paura che qualcuno possa farsi male.» «Nessuno si farà male. Te l'ho già detto, non esiste nessun rapitore. È Varnes.» I loro sguardi si incontrarono, poi Peyton distolse il suo e lasciò la mano di Kevin. Solo poche altre volte aveva visto quell'espressione infuriata sul viso del marito. «Sei arrabbiato», gli disse. «Sì, lo sono. Ma non sono fuori di me dalla rabbia.» Lo sguardo di Peyton si posò sul telefono. Era terrorizzata dal pensiero di ricevere un'altra chiamata del rapitore di lì a due giorni, e da quello che avrebbe dovuto rispondergli. «Spero tu abbia ragione», mormorò. «Dio, lo spero proprio.» 33 Kevin si sentiva inutile. Anche se non fosse stato fisicamente esausto per la mancanza di sonno, era troppo preoccupato per occuparsi di questioni legali. Finse di impegnare la mattinata dedicando qualche ora di facile fatturazione a una conference call con altri undici avvocati che difendevano quattro diversi clienti in un'azione collettiva di portata nazionale. Grazie al cielo, due colleghi di New York sostennero gran parte della conversazione,
escogitando astuzie per ritardare il processo fino a che il giudice trentaseienne che aveva preso a calci il loro culo collettivo non fosse morto di vecchiaia. Per pranzo ordinò un sandwich e mangiò da solo nel suo ufficio. Il panino era insapore, né buono né cattivo, sembrava di gomma. O forse era lui. Ciò faceva parte del generale processo di intorpidimento dei sensi. Il primo a scomparire era stato l'inconscio senso di colpa. A seguire i sensi fisici. Sarebbe presto diventato uno zombie senza rimorso. Tali erano gli effetti della menzogna abituale. Pareva, in effetti, che ci si stesse abituando. Era rimasto seduto al tavolo della cucina e aveva ascoltato il penoso racconto di Peyton su Gary Varnes, senza mai neppure accennare alla sua storia con Sandra. Non arrivava mai il momento giusto. La porta si aprì. Ira Kaufman entrò e la chiuse alle sue spalle. «Voglio sapere qual è la tua decisione», gli disse. Kevin mise da parte il panino al sapor di cartone. «A che proposito?» «Il libro. Non stavo scherzando. Non permetterò che tu lo pubblichi così come lo hai scritto.» «Allora mi licenzi pure. Io non ho intenzione di cambiare una parola.» «Non essere sciocco. Ti sto dando l'opportunità di salvare il tuo lavoro. Se sputi nel piatto in cui mangi, perderai il posto e la causa.» «Quale causa?» Ira gettò un fascicolo sulla scrivania. «Questa.» «Mi ha davvero fatto causa?» «Non ancora. Come forma di cortesia, ti do la possibilità di leggerla prima che venga inoltrata. Spero che tornerai in te. In caso contrario, inoltreremo la causa entro venerdì e otterremo un'ingiunzione lunedì.» «Non può ottenere un'ingiunzione contro la pubblicazione del mio libro. Primo emendamento. Libertà di parola. Le ricorda niente?» «Leggi. Penso rimarrai sorpreso. Spiacevolmente.» Abbozzò un sorriso, poi aprì la porta e uscì. Kevin lanciò un'occhiata al fascicolo sulla scrivania ma non lo prese. Era più intrigato dal tempismo che dal contenuto. Sandra doveva aver riferito al capo il loro incontro al cocktail la sera precedente. Forse gli aveva perfino detto del litigio che senza ombra di dubbio aveva sentito... lui e Peyton che discutevano di infedeltà. Ira era un maestro in queste cose. Colpire quando l'avversario è a terra era il suo marchio di fabbrica, e quello era il genere di colpo basso che preferiva. Il senso di giustizia poetica avrebbe
avuto una presa enorme, il modo in cui la vita di Kevin Stokes imitava la finzione del suo romanzo. Una donna di successo che tradisce il marito. L'amante rapito. Proprio come nel libro. Ovviamente, Ira non poteva sapere che la seconda metà della storia si era avverata nella vita reale... il rapimento. Le sole persone che ne erano a conoscenza erano Peyton, lui stesso e il rapitore. Soltanto loro tre. Si appoggiò allo schienale della poltrona, preoccupato, domandandosi se la mente della moglie fosse già stata sfiorata dal pensiero che forse si trattava soltanto di loro due... Peyton e lui. Peyton fece il consueto turno di dodici ore in ospedale sia martedì sia mercoledì. Giovedì cominciò con le visite mattutine in reparto, seguite dalla possibilità di assistere un suo paziente maschio di sei mesi, che veniva sottoposto a intervento chirurgico per un malfunzionamento dello stomaco da lei correttamente diagnosticato come stenosi pilorica. Ringraziò Dio di non essere il chirurgo. La sua mente era distante mille miglia. Il termine era tecnicamente scaduto alle quattro di quel mattino, se con «fra due giorni» il rapitore aveva inteso esattamente quarantotto ore. Peyton era grata per l'estensione. Gary non si presentava in ospedale da lunedì sera. Il giorno prima lei aveva domandato con discrezione a così tanta gente se lo avessero visto, che la sua missione stava diventando ben poco discreta. Alla fine era riuscita a sapere che si era dato malato martedì mattina, poche ore dopo la telefonata del rapitore. Da principio quella scoperta avvalorò la teoria di Kevin. Gary aveva inscenato il proprio rapimento. Riflettendoci, tuttavia, poteva essere altrettanto plausibile che il rapitore lo avesse costretto a darsi malato, in modo che la sua improvvisa sparizione non destasse sospetti. L'intervento chirurgico fu un successo. Peyton sarebbe dovuta andare al pronto soccorso subito dopo l'operazione, ma si fermò nella sala riservata ai medici per fare una telefonata. Solo per vedere che cosa sarebbe successo, compose il numero di casa di Gary. Scattò la segreteria. Al consueto messaggio iniziale seguirono una dozzina di bip, uno per ogni messaggio già registrato, e la comunicazione si interruppe. Non c'era più spazio per lasciare altri messaggi. Se Gary aveva davvero inscenato un rapimento, stava di certo facendo un lavoro convincente da quel punto di vista. Il dottor Sheffield entrò nella sala di ritrovo mentre Peyton controllava la sua posta.
«Come procede l'articolo?» le domandò versandosi una tazza di caffè. «Bene», rispose lei. «Un piccolo contrattempo con il computer domenica, ma niente di serio.» «Sono certo che risolverà tutto.» Si diresse alla porta, poi si fermò. «In ogni modo, se questa fase della sua ricerca risulterà buona anche solo la metà dell'ultima, stavo pensando di citarla come coautrice.» «Sarebbe un onore. Grazie.» Il dottor Sheffield se ne andò con la stessa rapidità con cui era arrivato. Anche lei era sul punto di andarsene, quando il telefono squillò, facendola trasalire. Rispose al terzo squillo, solo per sentire di nuovo quella voce camuffata. «Dove sono i miei soldi?» Peyton rabbrividì, incerta di poter attuare il piano di Kevin. «Come facevi a sapere che ero in questa stanza?» «Nello stesso modo in cui ho scattato le foto di Gary Varnes che ti spogliava.» Quell'affermazione rafforzò la sua determinazione. Come sosteneva Kevin, chi altri avrebbe potuto procurarsi quelle fotografie? «Hai i soldi?» Lei prese più tempo possibile, guardandosi attorno nella sala per accertarsi che non ci fosse nessuno, un interno esausto buttato sul divano oppure addormentato davanti al computer. Via libera. «Speravo che avremmo potuto discutere di questo.» «Non c'è niente da discutere.» «Mio marito sa... dell'incidente. Gli ho raccontato tutto.» Seguì un attimo di silenzio all'altro capo del filo. «Dev'essere stato meraviglioso. Che cosa gli hai detto? Che è stato tutto un errore. Che non provi nulla per Gary?» «È così.» «Allora le cose non si mettono bene per il povero Gary Varnes, vero? Il mio prezzo non cambia. Diecimila.» «Non credo di poter pagare.» «Pagherai. O lo ucciderò.» L'uomo pareva seriamente intenzionato. Peyton si sentì vacillare, ma provò a essere ferma. «Ti prego...» «Ti prego che cosa? Se Gary non significa niente per te, non hai nulla da temere. Non ti importa se vive, non ti importa se muore. Non ti importa di quello che gli accadrà.»
La sua voce tremò. «Che cosa sta succedendo?» «Dimmelo tu. A chi stai mentendo, puttana? A me? A tuo marito, o a te stessa? Prepara i soldi per mezzanotte. E finiscila con le stronzate. Questo è quello che ottieni quando ti infili nel letto di uno sconosciuto. Non sapevi che ti importava.» Interruppe la comunicazione senza darle il tempo di replicare. 34 La privacy era cosa rara in ospedale, ma gli stanzini del turno di notte facevano al caso suo. Erano piccoli locali senza finestre (a stento definibili stanze) per gli interni che miracolosamente riuscivano a ritagliarsi venti o trenta minuti di sonno tra una chiamata e l'altra, completi di letti a castello, una doccia nella quale l'acqua ghiacciata non mancava mai, e un telefono. Peyton vi si infilò, chiuse la porta e compose il numero di Kevin allo studio legale. Lui rispose di persona, il che la spiazzò un po', poiché si aspettava di parlare con la sua segretaria. «Sono io», gli disse. «Ha chiamato ancora.» «Quando?» «Proprio adesso. Non so come, ma sapeva che mi trovavo nella sala di ritrovo dell'ospedale. Il telefono ha squillato e ho risposto. Mi fa venire i brividi il modo in cui mi pedina.» «Non lasciarti spaventare.» «Come faccio a non essere spaventata? È ovvio che mi spia.» «Si diverte a giocare con te. Gli hai spiegato che io so tutto?» «Sì. Non gli importa. Vuole comunque i diecimila dollari di riscatto.» «Che bastardo. Spero tu sia stata ferma con lui.» «Sì.» «Che cosa ha detto esattamente?» «Di preparare i soldi per mezzanotte, altrimenti ucciderà Gary.» «Se è quello che vuole, lascia che l'idiota si uccida.» «Kevin», lo rimproverò lei. «Non dico sul serio. E non lo fa nemmeno lui. Non si ucciderà.» «Questa è la cosa che non comprendo. Come fai a essere così sicuro che sia Gary?» «È ovvio. Se sei obiettivo.» «E come puoi tu essere obiettivo? Sei quello...» «Che è stato tradito?» disse lui, finendo la frase al posto suo.
«Che pensa di essere stato tradito. Accidenti, il fatto che non accetti la mia innocenza non fa che confermare le mie perplessità. Nessuno di noi può essere obiettivo in questa faccenda. Non dovremmo prendere decisioni che potrebbero letteralmente rivelarsi questioni di vita o di morte.» «È una sciarada. Gary Varnes ci sta prendendo in giro entrambi.» «Va bene, ammettiamo che sia lui. Ciò non significa che non sia pericoloso.» «È solo un perdente. Punto.» «Il braccio della morte è pieno di perdenti, e questo non rende le vittime meno morte.» «Vuole soltanto i soldi.» «Non sono certa che sappia cosa vuole. Alla fine ha pronunciato una frase molto strana che mi ha lasciato allibita. Ha detto: 'Questo è quello che ottieni quando ti infili nel letto di uno sconosciuto'. Ovviamente è convinto che io sia stata con Gary, proprio come te.» «Tu come la interpreti?» chiese lui, leggermente sulla difensiva. «Non capisco dove voglia andare a parare. Gary non era uno sconosciuto.» «Lo era, nel senso che non è tuo marito.» «Non penso intendesse questo.» «Cos'altro potrebbe significare?» «Che sono stata con qualcuno che credevo di conoscere. Ma che in realtà non conosco.» «Be', questo probabilmente è vero. Quanto si conoscono davvero le persone con cui si lavora? Gary potrebbe nascondere un lato oscuro. Forse soffre addirittura di una specie di disturbo di dissociazione della personalità. Schizofrenia.» «La schizofrenia e le personalità multiple sono due cose diverse. E i casi reali di personalità multipla sono estremamente rari. Ancora meno diffusi negli uomini che nelle donne.» «Il che non fa altro che confermare la mia tesi. Gary non è come Sybil, quella ragazza con sei diverse personalità su cui hanno fatto il film. È solo un ricattatore di bassa lega, il quale ha deciso che, se non può avere mia moglie, la distruggerà. Noi non pagheremo.» «Non sto dicendo che dovremmo farlo. Ma vorrei tu ripensassi all'idea di rivolgerci alla polizia.» «No. Continuo a rimanere dell'avviso che questa sia una faccenda privata. Il tuo amico Gary non ha il fegato di andare sino in fondo, soprattutto
adesso che sa che noi siamo uniti in questa storia.» «Comunque, ho paura.» «Non devi. Se richiama e insiste a spingere per avere il denaro, avvertiremo la polizia. Fidati di me. Scommetto che invece mollerà il colpo.» «In tal caso, come ci comporteremo? Lasceremo perdere anche noi?» «Assolutamente. Considerato il tuo momento di sfortuna in ospedale, dovresti essere ansiosa quanto me di far passare questa faccenda sotto silenzio.» Interessante. Gary le aveva detto esattamente lo stesso dopo che il suo computer era scomparso. «Va bene, vedremo», rispose. «Ma se riceverò un'altra telefonata anonima, e avrò soltanto il dubbio che possa essere lui, allora andremo dritti dalla polizia.» «Questo mi sembra ragionevole», disse Kevin. Vorrei lo sembrasse anche a me, pensò lei senza dirlo. Si limitò a salutarlo, riattaccò e guardò l'orologio. Quasi le due del pomeriggio. Ancora dieci ore prima che il rapitore richiamasse... oppure no. In ogni caso, sarebbe stata una lunga giornata. 35 Ira Kaufman fu di parola. Aveva dato a Kevin fino a venerdì per prendere una decisione sul romanzo. Giovedì pomeriggio aveva già inoltrato la denuncia e lo aveva costretto a presentarsi in tribunale a un'udienza preliminare. Tipico di Ira. L'udienza era prevista per le quattro, meno di un'ora dopo che gli era stata notificata la citazione, con cui era giunta anche la lettera ufficiale di licenziamento. Kevin non aveva neppure avuto il tempo di avvisare il suo agente e l'editore della minacciata controversia. Non aveva nemmeno assunto un avvocato, quindi avrebbe dovuto difendersi da solo. Kevin stava ancora leggendo la denuncia e l'istanza mentre era in ascensore, dopodiché si affrettò lungo il corridoio affollato verso la stanza del giudice Cosgrove. Fu l'ultimo ad arrivare. Ira sedeva sul logoro divano in finta pelle nella sala d'attesa, unico rappresentante della Marston & Wheeler. Una volta tanto era un cliente. Accanto a lui il distinto Irving Beckle, grigio di capelli, responsabile in pensione dell'ufficio controversie. Non più formalmente associato allo studio, ne era diventato il legale. Quando si trattava di difendere l'onore della ditta, non poteva esserci scelta migliore di Beckle, che apparteneva alla vecchia scuola giuridica, dove una stretta
di mano aveva ancora un significato e la pubblicità era cosa da supermercati. Non guastava nemmeno che la figlia di Beckle e il giudice Cosgrove fossero state membri della confraternita femminile della Cornell. «Signor Beckle», lo salutò la Cosgrove con un caldo sorriso, accogliendolo sulla porta. «Che piacere rivederla. La prego, si accomodi.» Quella di certo non era la norma, un giudice che si alzava per andare incontro a un avvocato. Di solito era compito della segretaria condurre una processione di avvocati ossequiosi alla presenza di Vostro Onore. «Kevin Stokes», disse Kevin, presentandosi. Il sorriso della donna si spense. «Si accomodi, signor Stokes.» L'udienza si sarebbe svolta in una stanza del tribunale invece che in aula, il che non era inusuale quando si intendeva ascoltare soltanto le argomentazioni degli avvocati senza le deposizioni di eventuali testimoni. Non c'era nessun ufficiale giudiziario dalla faccia di pietra, nessun alto scranno di mogano dal quale il magistrato presiedeva l'udienza. Tale procedura non implicava, tuttavia, una mancanza di formalità. Quel giorno il giudice indossava la consueta toga nera, e gli avvocati le tributavano lo stesso rispetto che avrebbero dimostrato in aula. La Cosgrove prese posto alla sua scrivania antica a un'estremità della stanza, dando le spalle a un'ampia finestra ad arco. Di fronte alla scrivania era posizionato un altro tavolo, in modo da creare una struttura a T. Gli avvocati sedevano gli uni di fronte agli altri, il querelante alla sinistra del giudice, l'imputato alla sua destra. Lo stenografo era più distante, a lato, accanto agli scaffali alti fino al soffitto. «Buon pomeriggio, signori», cominciò il giudice. «Siamo qui riuniti per un'udienza preliminare relativa al caso 'Marston & Wheeler LLP contro Kevin Stokes'. Il querelante chiede un ordine restrittivo temporaneo che impedisca all'imputato di far circolare ulteriori copie del suo dattiloscritto non ancora pubblicato.» «Esatto», disse Beckle. «Per ora abbiamo fatto causa solo al signor Stokes, poiché ha distribuito copie non pubblicate del suo testo in una libreria di Boston che si chiama Booklovers'. Lunedì procederemo a presentare la denuncia a New York, al fine di impedire al suo editore di stampare e far circolare l'opera pubblicata.» «Va bene», rispose il giudice. «Dietro richiesta del querelante, questa udienza si svolgerà in camera, in privato, poiché si suppone che il romanzo del signor Stokes riveli informazioni di carattere confidenziale su clienti dello studio legale Marston & Wheeler, violando, quindi, il segreto professionale che tutela il rapporto avvocato-cliente. Una teoria interessante.
Proceda, signor Beckle.» «La ringrazio, Vostro Onore. Non si tratta del tipico caso in cui si può invocare la libertà di parola sancita dal primo emendamento. In quanto avvocato associato della Marston & Wheeler, il signor Stokes ha accesso a informazioni riservate che sono protette dal segreto professionale. Nessun cliente del nostro studio legale ha acconsentito a rinunciare a tale diritto, permettendo al signor Stokes di includere tali informazioni nel suo romanzo.» Il giudice chiese: «Ma i romanzi contengono tutti la dicitura attestante che si tratta di un'opera di finzione, non è così?» «In questo caso tale dicitura non è applicabile», obiettò Beckle. «A titolo di esempio, supponiamo che la Marston & Wheeler rappresenti la CocaCola. Supponiamo poi che nel corso di tale incarico il signor Stokes entri in possesso della formula segreta della famosa bevanda. Sarebbe quindi libero di scrivere un romanzo sulla ditta produttrice della più diffusa bevanda analcolica del mondo, di divulgare la formula e di non assumersene la responsabilità semplicemente cambiando il nome della società in questione? Nessuno potrebbe sostenere che abbia il diritto di farlo.» «Quello sarebbe un caso di facile soluzione», concordò il giudice. «Questo lo è altrettanto. Sebbene il romanzo del signor Stokes non sia tecnicamente incentrato su uno studio legale, lui ha scelto di ambientare la sua storia in un importante studio di Boston, che assomiglia alla Marston & Wheeler in tutto e per tutto, fuorché nel nome. Nel corso del romanzo l'autore rivela questioni delicate relative ai nostri clienti, che non dovrebbero essere trattate in un'opera di finzione così maliziosa e poco velata.» Il giudice si appoggiò allo schienale della poltrona, per riflettere. «Che cos'ha da dire in sua difesa, signor Stokes?» «Innanzitutto, mi consenta di sottolineare che è stata compiuta un'azione sleale. Il signor Kaufman mi aveva assicurato che avrei avuto tempo fino a domani per prendere una decisione sul romanzo, prima che lui inoltrasse questa denuncia.» «Aveva intenzione di bruciare il suo libro se le fosse stato concesso di aspettare fino a domani?» «A essere sincero, no.» «Allora la smetta di lamentarsi e arrivi al punto.» Kevin lanciò un'occhiata a Ira, che sembrava fastidiosamente soddisfatto. Era ora di lanciare il guanto. «Vostro Onore, tutto questo parlare di infrazione del segreto professionale fra avvocato e cliente è insensato. Io ho
scritto solo un'opera di finzione su una donna sposata che è socia di un importante studio legale di Boston. La protagonista ha un'avventura con un giovane associato, ma poi il suo amante segreto viene rapito, il che le lascia tre alternative. Può rendere pubblica la propria infedeltà e rivolgersi alla polizia, cosa che rovinerebbe il suo matrimonio e metterebbe in crisi il lavoro. Può pagare il riscatto e sperare che la stampa e il marito non vengano a sapere nulla. O può semplicemente negare che quel tale sia mai stato il suo amante, dire al rapitore di andare a quel paese, e lasciare che se la cavi da solo.» «Intrigante», commentò il giudice. «Non vedo l'ora che esca il film.» «Vostro Onore», brontolò Beckle. «Mi scusi. Continui, signor Stokes.» «Ammettiamolo. La cosa che al signor Beckle... mi correggo, che al signor Kaufman non piace è il fatto che la socia protagonista del mio romanzo sia sposata e vada a letto con un avvocato più giovane, il quale spera in questo modo di fare carriera. Questo lo ha spinto a querelarmi.» «Che significa?» ringhiò Ira. «Vostro Onore, lasci che il romanzo venga pubblicato. Se il signor Kaufman è davvero convinto che alcuni punti della trama non siano opera di finzione e che io nel libro mi sia limitato a cambiare il sesso dei personaggi, ha un rimedio a sua disposizione. Può denunciarmi per averlo ritratto come il genere di legale che va a letto con le giovani e ambiziose associate del suo studio. E allora io mi preparerò alla miglior difesa che mai si sia sentita in un caso di diffamazione. Lo giuro.» «Oh, ma è un oltraggio!» gridò Beckle, alzandosi. «Signor Stokes, la prego», intervenne il giudice. «Mi rendo conto che questa udienza si svolge in privato e che gli avvocati godono di immunità per quanto affermano nel corso di un procedimento giudiziario, ma cerchiamo di essere più cauti prima di muovere certe accuse.» «Mi assumo piena responsabilità di ogni parola che ho detto», replicò Kevin. Beckle esclamò: «Ecco il motivo per cui abbiamo bisogno dell'assistenza della corte. Questo giovanotto non ha ritegno!» Kevin lanciò uno sguardo d'intesa al giudice. Beckle fece scivolare un foglio sulla sua scrivania. «A vantaggio della corte, mi sono preso la libertà di preparare un ordine che riflette il giudizio di Vostro Onore. Se volesse firmare proprio qui.» «Non ho ancora espresso un giudizio.» La Cosgrove parlò senza disto-
gliere lo sguardo da Kevin, che a quel punto intravide uno spiraglio. Beckle disse: «Certo che no. Ma la prego di concedermi un minuto e di esaminarlo». «In realtà, ho letto buona parte del libro del signor Stokes all'ora di pranzo. E anche la sua mozione, signor Beckle, e la dichiarazione in cui espone tutte le supposte infrazioni del segreto professionale fra avvocato e cliente, che francamente si sono rivelate una lettura molto meno avvincente. Voi affermate che il romanzo in questione si riferisce direttamente alla Marston & Wheeler, ai suoi clienti e ai suoi membri, ma io non la vedo così. Il signor Stokes ha ambientato la vicenda in uno studio legale perché è un avvocato, e lui ha seguito la vecchia regola di 'scrivere di quello che si conosce'. Comunque gli eventi narrati si sarebbero potuti svolgere anche in una banca, un'università, o per esempio un ospedale. È la storia di una bellissima donna di successo che tradisce il marito e finisce con il dover affrontare il rapitore del suo amante. Punto e basta.» «Vostro Onore, se desidera ulteriori delucidazioni sulla questione, saremmo lietissimi di produrre un altro scritto.» «Non ho bisogno d'altro. Ci rifletterò ulteriormente durante il fine settimana, ma per il momento questa è la mia propensione.» Ira prese la parola. «Vostro Onore, speravamo di avere in mano il suo giudizio lunedì mattina, in modo da poter procedere contro l'editore di New York.» «Davvero? Be', forse dovrebbe essere contento di non riceverlo lunedì mattina», ribatté il giudice, lanciandogli uno sguardo esplicito, poi si alzò e strinse la mano a Beckle. «Signore, come sempre, è un piacere.» «Anche per me», rispose lui con un pallido sorriso. Aveva l'aria di chi avesse scommesso fino all'ultimo centesimo sulla vincita di Golia e avesse perso. «Ora, se volete scusarmi, ho una riunione preprocessuale fra due minuti.» Si diresse verso la porta laterale che conduceva all'aula, poi si fermò e guardò Kevin. «Buona fortuna per la sua carriera di scrittore», disse in modo affabile, e uscì. Gli avvocati rimasero muti, gli uni di fronte agli altri. Kevin si protese in avanti, i palmi piatti sul tavolo, e parlò in un tono degno di un funerale. «Tradizionalmente questo è il momento in cui il querelante vuole arrivare a un accordo. Sfortunatamente per voi, oggi l'imputato non ha nessuna intenzione di rimanere qui ad ascoltare.» Uscì dalla stanza dandosi un contegno, ma non appena fu in corridoio
lanciò un grido che riecheggiò fino nell'atrio. Sperò con tutto il cuore che Ira e il vecchio Beckle lo avessero sentito. 36 Mezzanotte e trenta, e il telefono era ancora silenzioso. Peyton sedeva in soggiorno sul divano, Kevin sulla poltrona. La televisione era spenta. Il bagliore di una lampada di ottone illuminava il tavolino laterale. Non si erano mossi, non avevano parlato da quando l'orologio sopra la mensola del camino aveva battuto dodici rintocchi. Non potevano fare altro che aspettare. «Lo sapevo che non avrebbe richiamato», disse lui. «Non ha detto che avrebbe chiamato a mezzanotte. Solo che dovevo avere il denaro pronto per quell'ora.» «È un millantatore.» «Non lo conosci nemmeno.» «No, tu non lo conosci.» «Hai ragione. Non lo conosco davvero. Per questo ho tanta paura.» Kevin buttò giù un sorso di caffè e strizzò gli occhi per quanto era amaro. «È stato giusto dirgli che non avresti pagato. Non si farà più vivo.» «Oppure sì, più infuriato di prima. Magari addirittura violento. So che abbiamo deciso di non avvertire la polizia se non avesse richiamato, ma forse dovremmo farlo comunque.» «Questa sarebbe la reazione più sbagliata.» «Perché?» «È come nelle storie che si sentono in televisione, in cui una giovane donna va in tribunale per ottenere un ordine restrittivo contro il suo ex amante. Due ore dopo, il tizio va a casa di lei, la uccide e poi si suicida.» «Perché sei tanto certo che ignorare la situazione sia la politica migliore?» «Non sono convinto che la polizia sia brava a gestire un malato d'amore come Gary Varnes. Ce la caviamo benissimo da soli.» Peyton diede un'occhiata fuori della finestra, poi tornò a guardare Kevin. «Credi che abbia letto il tuo dattiloscritto?» «Non vedo davvero come.» «Hai lasciato delle copie da Booklovers'. Chissà chi le ha portate via.» «Suppongo sia possibile», ammise lui. «Pensi che abbia preso da lì l'idea del rapimento?»
«Non lo so. Forse.» «Hai scritto un libro che parla di una donna sposata il cui amante viene rapito. Due settimane dopo che hai distribuito delle copie gratuite, Gary Varnes viene rapito. E tutto quello che sai dire è forse?» Kevin le lanciò uno sguardo gelido. «Stai ammettendo di essere andata a letto con Gary?» «No. Lui vuole fartelo credere, così ha messo in scena il suo rapimento esattamente come lo hai descritto nel libro.» «Che differenza fa se ha preso l'idea dal romanzo o da un'altra parte?» «Nessuna, suppongo.» «Allora perché discuterne?» «Perché tutta questa faccenda fa venire i brividi», disse lei. «Specialmente il modo in cui il marito del tuo libro reagisce alla scoperta del tradimento della moglie.» «Sai, devo ammettere che sono davvero stufo di dover spiegare alla gente che quei personaggi e i loro stupidi problemi sono completamente inventati.» «Lo sono davvero?» «Sì, dannazione.» «Quindi nella protagonista che hai creato non c'è nemmeno un grammo di tua moglie?» «No.» «Non può essere.» «Benone, dottor Freud. Sei nel libro. Ogni donna che ho conosciuto c'è.» «Ogni donna è una adultera, e deve essere punita? È così che la vedi?» «Non ho detto questo.» «Ma è quello che pensi, non è così?» «No, stai distorcendo le mie parole.» «Allora smettila di trattarmi come la peggiore adultera mai apparsa sulla terra. Non lo merito. Non ti ho nemmeno tradito.» «Non ha importanza. Che tu lo abbia fatto oppure no, ho detto che ti ho perdonato.» «Non ho bisogno di perdono. Non ho fatto niente di male.» «Allora che cosa vuoi da me?» «Finiscila di mettermi alla prova», rispose lei, alzando la voce. «Finiscila di costringermi a provarti il mio amore facendo tutto quello che dici, lasciando che sia tu a prendere ogni più piccola decisione e a gestire tutto a modo tuo.»
«Va bene. E tu dimmi la verità e smettila di cercare di farmi bere la storiella che ti sei ubriacata, ti sei svegliata mezza nuda nell'appartamento del tuo ex fidanzato, e non è successo assolutamente niente.» «È la verità.» «Mi spiace, Peyton. Non ci credo.» «Non sono un'adultera.» «Come il mio amico William Shakespeare potrebbe dire: 'la dama si sbilancia, penso, troppo a promettere'.» «Dannazione, non sono una cattiva moglie! Non sono come tua madre!» Si pentì subito delle sue parole. Quello era l'argomento tabù del loro matrimonio: la madre fuggita, la cameriera. «Complimenti», mormorò lui con una voce che la fece raggelare. «Scusa. Non volevo.» «Allora avresti dovuto non dirlo.» Afferrò la giacca dall'armadio e si diresse alla porta. «Dove vai?» «Fuori.» «Non lasciarmi qui da sola.» «Te la caverai. Chiama la polizia, se vuoi. Chiama l'FBI. La Guardia Nazionale. Avvisa i media, già che ci sei. Dai a Gary Varnes i suoi soldi. Dagli il doppio più gli interessi. Fai quello che ti pare. Non mi importa più.» La porta si aprì. Peyton si affrettò a seguirlo. «Dove pensi di andare?» «Al diavolo, direi. Non ho neppure più un ufficio.» Lei rimase in silenzio mentre lui sbatteva la porta. 37 Kevin trovò un locale aperto in Newbury Street. Era più elegante di quel che avrebbe voluto, offriva costosi vini francesi al calice e hamburger vegetariani, solo un grosso fungo champignon sopra un panino al rosmarino. Si sedette all'estremità del bancone, ordinò una birra e si mise a sgranocchiare noccioline, per creare la sensazione da bettola di cui aveva bisogno. A metà della sua Budweiser, il cellulare squillò. L'illusione svanì. Ritorno alla realtà. «Sono Weaver», disse l'uomo al telefono. Erano trascorsi dieci anni da quando Walter Weaver aveva lasciato l'FBI per creare la propria agenzia di investigazioni, ma aveva ancora l'abitudine
da federale di chiamare tutti per cognome. Nel corso degli anni Kevin si era rivolto a lui infinite volte perché svolgesse del lavoro investigativo per i suoi clienti. Questa volta era stato sul vago. Si trattava di un controllo sui trascorsi di Gary Varnes. «Lo sai che è mezzanotte passata?» «Ti ho svegliato, Stokes?» «No.» «Allora non fare tante storie. Mi hai detto di chiamarti non appena scoprivo qualcosa, e ragazzi se l'ho scoperta. Voglio che tu sappia in anticipo che questo ti costerà il doppio della parcella abituale.» «Che cos'hai?» «Niente detenzione. Una normale ricerca si sarebbe fermata qui. Ma io ho scavato più a fondo e ho trovato il tesoro.» «Ti ascolto.» «Stokes, vecchio mio. Credo che tu abbia fatto jackpot.» La radiosveglia suonò alle cinque del mattino. Peyton si girò nel letto e fermò la suoneria, facendo quasi cadere la sveglia dal comodino. Si era addormentata dopo le 4.18, l'ultima volta che aveva controllato i numeri luminosi. Era rimasta sdraiata al buio a pensare, sussultando a ogni rumore della notte. Il ronzio del frigorifero. Il condizionatore che si accendeva e si spegneva. Nei momenti più silenziosi, la sua mente l'aveva persino portata fuori dell'appartamento, a investigare su rumorini curiosi. Magnolia Street era di solito molto tranquilla, in particolare durante il week-end. Le auto passavano piano senza attirare l'attenzione. Quella notte, invece, Peyton le aveva sentite tutte. Forse ne aveva anche inventata qualcuna. Rimase a letto ancora per un po'. Poi riuscì solo a farsi una doccia veloce e a buttarsi addosso qualcosa. Non c'era assolutamente tempo per mangiare, doveva essere in ospedale alle sei. Afferrò la borsetta, le chiavi della macchina e uscì. Fuori era ancora buio ma cominciava a rischiarare. Il debole bagliore dei lampioni impallidiva in previsione dell'alba. L'auto era ancora parcheggiata dall'altra parte della strada, dove l'aveva lasciata la sera precedente. Evidentemente Kevin era andato a piedi o aveva preso un taxi, ovunque fosse diretto. Stava cominciando a diventare un'abitudine quella di non tornare a casa la notte. Attraversò la strada dando solo un'occhiata distratta al traffico. Tolse
l'antifurto, aprì la portiera e scivolò al posto di guida. Gettò la borsa sul sedile del passeggero e accese il motore. Inserì la retromarcia e guardò nello specchietto retrovisore. I suoi occhi incontrarono quelli di uno sconosciuto. Un uomo con un passamontagna nero. Fu sul punto di gridare, ma la mano di lui le coprì la bocca e si sentì un coltello puntato alla gola. «Non muoverti», disse l'uomo. Lei ubbidì al comando, paralizzandosi, gli occhi sgranati per la paura, il cuore che le martellava nel petto. «Ascoltami attentamente. Ho delle domande da farti. Ti toglierò la mano dalla bocca in modo che tu possa rispondere. Se gridi, ti taglio la gola. Annuisci se hai capito.» Peyton annuì una volta, sentendo la lama premerle contro la giugulare. Lentamente l'uomo tolse la mano. Il coltello rimase dov'era. «Hai i soldi?» le chiese. «Posso procurarmeli. Non farmi del male. Ti darò qualunque cosa vuoi.» «Non voglio che te li procuri. Ti ho chiesto se ce li hai.» «No. Ma, ti prego, posso procurarmeli.» «Calmati e rispondi alla mia domanda. Ti sei procurata i soldi entro la mezzanotte?» «Posso...» «Zitta!» le intimò, premendo il coltello con maggior fermezza contro il suo collo. Peyton si irrigidì. La voce dell'uomo si fece più acuta, un segno di agitazione. «Renditi le cose semplici. Rispondi alla mia domanda. Niente suppliche, niente spiegazioni. Hai capito?» Lei annuì. «Ti ricordi della nostra telefonata, vero?» «Sì.» «Mi hai sentito quando ti ho detto che la scadenza era a mezzanotte, non è così?» «Sì.» «Mi hai sentito quando ti ho detto che avrei ucciso Gary Varnes se non ti fossi procurata i soldi. Sì o no.» «Sì.» «Ti sei procurata il denaro?» Le sue labbra tremarono. Lui la afferrò per il collo, come per forzare una
risposta. «Sì o no», disse con voce ferma. «Hai i soldi?» «No.» Lei sentiva il rumore del proprio respiro, breve e terrorizzato. Lentamente la presa sul mento si allentò e l'uomo disse: «Buon per te, Peyton. Hai fatto la scelta giusta». Lui le mise uno straccio sulla bocca, con un odore pungente. Non riusciva a respirare. Lottò per liberarsi, pestò addirittura i pugni sul clacson, che non suonò perché evidentemente era stato disconnesso... il suo ultimo pensiero coerente. Incontrò ancora una volta gli occhi dell'assalitore nello specchietto retrovisore, ma non riuscì più a opporre resistenza. Poi qualcosa scattò nel suo cervello, un ricordo, una somiglianza. Il suono di quella voce, l'espressione degli occhi. Pur nella semincoscienza, le sembrò di aver già visto quell'uomo. Respirò un'ultima volta attraverso il panno che aveva sulla bocca e fu percorsa da un brivido. Le vennero le vertigini. Poi tutto si fece nero. 38 Per Kevin fu un déjà vu. Precipitarsi all'ospedale all'alba, il destino di sua moglie nelle mani della medicina moderna. Questa volta era il Massachusetts General Hospital, grazie al cielo non il reparto di terapia intensiva. Quando arrivò la trovò al pronto soccorso in una delle piccole aree di degenza chiuse da tende. Aveva una flebo attaccata al braccio e un'infermiera la stava aiutando a mettersi seduta nel letto, mentre una giovane dottoressa le auscultava il torace con uno stetoscopio. Gli sembrò che fosse appena cosciente. Rimase immobile un secondo, travolto dalla preoccupazione. Non le aveva mai detto che stava investigando sul passato di Gary, e non aveva avuto la possibilità di riferirle quello che aveva appena scoperto. Ma a quel punto sembrava non avere più importanza. «Mi spiace tantissimo», mormorò raggiungendola. Peyton parve riconoscerlo ma non reagì. La dottoressa disse: «È ancora quasi del tutto priva di conoscenza». «Sono il marito», si presentò Kevin. La donna si tolse lo stetoscopio dalle orecchie e cominciò a spiegargli: «Sua moglie era priva di conoscenza ma respirava, quando è stata portata al pronto soccorso. Ha perso molti liquidi a causa del vomito. Abbiamo effettuato una lavanda gastrica. Aveva...»
«Lo so. Ho parlato con la polizia.» «Bene, allora sa tutto. La terremo qui in osservazione ancora per un po'. Quando sarà lucida, un consulente psichiatrico verrà a farle una visita. Poi, se rimane stabile, potrà tornare a casa.» «Le state dando qualcosa?» «Per ora, soltanto la flebo per integrare i liquidi. Le infermiere l'hanno già fatta camminare negli ultimi venti minuti. Continueranno a farlo ogni cinque minuti, finché non riprenderà completamente conoscenza.» «Posso pensarci io.» «Perfetto. Suoni il campanello se ha bisogno di assistenza.» La dottoressa se ne andò prima che lui potesse ringraziarla. L'infermiera stava sostenendo Peyton, in modo da farla stare seduta sulla sponda del letto. Kevin la sostituì e abbracciò la moglie mentre l'infermiera spariva oltre la tenda. Peyton affondò languidamente la testa sulle sue spalle, come se fosse ubriaca. Poi il suo corpo fu scosso dai singhiozzi. «Peyton. Stai bene?» «Sono così felice che tu sia qui.» La voce era debole, gli occhi due sottili fessure. «Anch'io. Ho chiamato i tuoi. Torneranno dalla loro vacanza con il primo volo disponibile.» «È orribile. Tutta questa storia.» «Lo so.» Le carezzò la testa, nel tentativo di consolarla. «Perché hai fatto una cosa simile?» «Fatto cosa?» «Non devi vergognarti. È più colpa mia che tua. Mi spiace per il modo in cui ti ho trattata ieri sera. Avrei dovuto capire quanto eri stressata, quanto fossi vicina al baratro.» Lentamente, lei divenne più cosciente, come se stesse lottando per riacquistare il controllo. «Di che diavolo stai parlando?» «Lo sappiamo tutti. La polizia ha trovato le pillole.» «Quali pillole?» «Hanno visto la tua auto parcheggiata giù al molo. Tu eri accasciata sul volante con mezzo flacone di sonniferi rovesciato a terra. Hanno supposto che avessi preso l'altra metà. Per questo ti hanno portata qui e ti hanno fatto la lavanda gastrica.» «Pensano che abbia tentato il suicidio?» «Non preoccuparti, troveremo qualcuno che ti aiuti.» «Non ho bisogno d'aiuto», protestò lei. «Sono stata rapita. Un tizio con
un passamontagna si era nascosto sul sedile posteriore della mia macchina. Mi ha puntato un coltello alla gola.» Lui si sforzò di nascondere uno sguardo scettico. «Un passamontagna?» «Sì. Sì!» All'improvviso qualcuno tirò la tenda. Kevin alzò gli occhi e vide un agente di polizia in piedi di fronte a loro. Era lo stesso afroamericano alto con cui aveva parlato all'accettazione. Dietro di lui c'era un altro agente, che non riconobbe. «Mi spiace disturbarla, signor Stokes.» «Che c'è?» «Volevo sapere se sua moglie conosce un uomo di nome Gary Varnes.» Kevin rimase di ghiaccio. «Sì. Mia moglie lo conosce.» L'agente annuì lentamente, eccedendo in cortesia. «Odio doverglielo chiedere in simili circostanze. Ma ritiene che lei e sua moglie siate in grado di rispondere a qualche domanda?» «Che genere di domande?» «In realtà, si tratta di una domanda sola.» «Certo.» L'uomo socchiuse gli occhi. «Le spiacerebbe dirmi che cosa ci faceva il corpo senza vita di Gary Varnes nel baule del veicolo di sua moglie?» Kevin cadde quasi dal letto. Il suo istinto di avvocato gli suggerì di non dire una parola, ma non c'era pericolo. Non sarebbe riuscito a parlare comunque. 39 Peyton venne dimessa dal pronto soccorso del Mass General Hospital dopo pranzo. Era procedura standard nei casi di tentato suicidio che il paziente si sottoponesse a un colloquio con un consulente psichiatrico, così, per riuscire a evitarlo, dovette muovere più di una conoscenza. Con l'auto sequestrata a tempo indeterminato dalla polizia, lei e Kevin tornarono a casa in taxi. Era un piacevole pomeriggio d'estate, una temperatura da calzoncini corti e camicia a mezze maniche. Quando il taxi svoltò in Magnolia Street, Peyton vide molti dei vicini fuori a godersi il sole. Stranamente, erano tutti voltati nella stessa direzione, verso il loro appartamento. Poi scorse le auto di pattuglia. Due macchine del dipartimento di polizia di Boston e un terzo veicolo non contrassegnato erano parcheggiati di
fronte a casa. La porta di ingresso era spalancata e due agenti in uniforme stavano di guardia sul portico. Alcuni ficcanaso si erano avvicinati per scoprire che cosa stesse accadendo. Il taxi si fermò dall'altra parte della strada. «Ci sono stati i ladri?» chiese Peyton. «Non ne ho idea», rispose Kevin, pagando la corsa. Scesero insieme dal taxi, attraversarono la strada e salirono i gradini di ingresso. I due agenti non si mossero dalla loro postazione. La padrona di casa andò loro incontro sulla soglia. «Che cosa sta succedendo?» le chiese Peyton. La donna non ebbe il tempo di rispondere. Un uomo corpulento con indosso una camicia bianca a maniche corte e una cravatta allentata emerse dall'ingresso e dichiarò: «Stiamo eseguendo una perquisizione. Abbiamo un mandato». Peyton gli diede una seconda occhiata. Era il detective Bolton, che non vedeva dalla morte di Andy Johnson l'inverno precedente. Aveva le mani grasse e tozze infilate nei guanti di lattice, e reggeva una busta di plastica trasparente con dentro una cassetta di metallo che lei riconobbe come la sua. «Vorrei vedere il mandato», disse Kevin. «La vostra padrona di casa ha la copia per voi.» «Non era davvero necessario inscenare tutto questo spettacolo per i vicini. Se aveste chiamato, vi avremmo fatti entrare.» «Certo», replicò Bolton. «E noi avremmo trovato quello che andavamo cercando in un cassonetto a otto isolati dal vostro appartamento, invece che nell'armadio della vostra camera da letto.» «Mia moglie e io non abbiamo nulla da nascondere.» «No, non più, ha ragione.» Con un accenno di sorriso ringraziò la padrona di casa e scese i gradini. Come se avessero ricevuto l'imbeccata, i due agenti in uniforme lo seguirono sul marciapiede. Peyton li osservò montare in auto e allontanarsi. La padrona di casa consegnò a Kevin la copia del mandato. «Sarà meglio che non ci siano di mezzo droghe, o dovrete trovarvi un altro appartamento più in fretta di quanto non ci voglia a dire sfratto.» Li guardò in cagnesco, poi scese i gradini, lasciandoli soli nell'ingresso. Kevin chiuse la porta e si affrettò a leggere il mandato. «La cassetta che lui ha portato via è quella dove tengo la mia pistola», mormorò Peyton. «Stavano cercando l'arma?»
«È quanto dice il mandato.» «E adesso che cosa succederà?» «Presumo che svolgeranno degli esami balistici per vedere se trovano una corrispondenza con il proiettile che ha ucciso Gary Varnes.» «Bene. Perché non ci sarà alcuna corrispondenza.» «Auguriamoci di no.» «Che cosa intendi con auguriamoci? Non penserai che gli ho sparato, vero?» «Questa faccenda si sta muovendo troppo in fretta. E diventa sempre più inquietante. Anche il mandato di perquisizione è strano. Per legge i mandati devono essere specifici, ma questo sembra essere stato redatto da qualcuno che è onnisciente. Naturalmente gli sbirri possono risalire al tipo di pistola che possiedi consultando i registri di immatricolazione, ma non riesco proprio a capire come abbiano potuto sapere della cassetta di metallo dove la tenevi.» Lei rifletté un istante, poi comprese. «La mia deposizione. L'avvocato di quella carogna che mi ha denunciato per l'incidente alla clinica di Haverhill mi ha fatto delle domande sulla pistola. Gli ho risposto che la tenevo chiusa in una cassetta sulla mensola più alta dell'armadio della camera da letto. La trascrizione delle mie dichiarazioni era lunga solo quattro pagine. Alla polizia ci saranno voluti trenta secondi per leggerla.» «Ma è altrettanto strano che siano venuti a sapere della tua deposizione, che ne avessero una copia, poi, è impossibile. A meno che qualcuno non gli stia passando delle informazioni.» «Un confidente?» «Confidente è un termine molto neutro. Io pensavo più a una definizione del genere: chiunque sia il figlio di puttana che ha ucciso Gary Varnes e vuole far ricadere la colpa su di te.» Si scambiarono uno sguardo preoccupato, poi Peyton chiese: «Che cosa pensi dovremmo fare adesso?» «Vuoi un consiglio da marito o da avvocato?» «Entrambi.» «Trovati un avvocato. Uno bravo.» «Hai dei suggerimenti?» «Solo uno», rispose lui in tono serio, poi si diresse in cucina e prese il telefono. Trenta minuti più tardi erano in centro negli uffici della Falcone & As-
sociates. Tony Falcone era un avvocato forense molto scaltro che nell'arco della sua ventennale carriera si era occupato soltanto di diritto penale, i primi cinque anni come difensore d'ufficio e i rimanenti esercitando privatamente. Peyton aveva letto qualche volta il suo nome sul giornale, collegato a casi di grande importanza, ma non lo aveva mai incontrato di persona. Chiamarlo era stata un'idea di Kevin, anche se aveva corredato il suo consiglio di un avvertimento: Tony aveva un grande talento ma era pieno di sorprese. La segretaria di Falcone portò loro il caffè, dicendo che il capo li avrebbe raggiunti non appena terminata una telefonata. Rimasero in silenzio nell'area di attesa fuori del suo ufficio, seduti l'uno accanto all'altra sul divano ricoperto di seta. Kevin continuava a lanciare occhiate a Peyton, come per controllare se avesse delle domande da porgli. Lei non aveva voglia di parlare. La sala d'attesa era arredata con gusto, un misto eclettico di mobili moderni con qualche tocco d'antiquariato. I dipinti a olio e gli acquerelli erano tutti originali e perfettamente illuminati, il che suggeriva il loro proprietario fosse un intenditore, e che avessero un qualche valore. Sembrava più un'intima galleria d'arte che lo studio di un avvocato. Niente targhe, diplomi o altri riconoscimenti sulle pareti rivestite di pannelli di ciliegio. Peyton lo considerò un buon segno. Nella sua esperienza, i veri professionisti in qualunque campo non sostituivano la carta da parati con i propri curriculum. «Scusate se vi ho fatto aspettare», disse Tony, uscendo da! suo ufficio. Le presentazioni furono rapide. Mentre si alzava per stringergli la mano, Peyton si rese conto di averlo visto intervistato qualche mese prima al notiziario della sera, dove le aveva dato l'impressione di essere duro e serio. Di persona trasmetteva più che altro un senso di rilassata sicurezza, casual ma di stile, una giacca Armani, una camicia blu e una cravatta blu scuro, abbigliamento molto diverso dai gessati con camicia bianca e cravatta bordeaux che sembravano essere l'uniforme dello studio legale dove lavorava Kevin. Era più alto di quanto si aspettasse e più bello di come se lo ricordasse in televisione. Dal modo in cui i denti bianchi e perfetti risaltavano sull'abbronzatura, sembrava appena ritornato da una vacanza. Gli sorrise di rimando, sebbene, date le circostanze, il suo sorriso fosse un po' forzato. «Come procede il romanzo?» chiese Tony. «Quella è tutta un'altra storia», rispose Kevin. Tony lanciò un'occhiata a Peyton. «Kevin è stato tanto gentile da offrir-
mi un paio di pranzi in cambio di qualche delucidazione in materia di legge penale, mentre scriveva il romanzo.» «Lo so. Mi ha detto che gli è stato di grande aiuto.» «Non ho fatto altro che raccontargli delle storie.» «Allora suppongo che Kevin conosca tutti i suoi trucchi.» Tony stava ancora sorridendo, ma il suo ego trapelava. «Non direi.» Si fece di lato per farli entrare per primi. Peyton notò una vecchia targa di ottone sulla porta dello studio con la scritta CONFESSIONI TUTTI I GIORNI 7-9. «Carina», disse. «Oh, quella. Qualche mese fa ho accompagnato la mia nipotina alla St. Anthony per la confessione e l'ho vista nel vestibolo. Dovevo averla.» «L'ha rubata in una chiesa?» Lui si strinse nelle spalle con fare malizioso, come a dire che non era poi tanto grave. «Ho recitato due Ave Maria e ho lasciato cento dollari nella cassetta delle offerte. Peccati veniali che si lavano via con un bel bucato.» «Non dalle mie parti», rispose lei, scherzando solo a metà. «Peyton», disse Kevin, in tono di rimprovero. «Non preoccuparti. Tua moglie non è una che fa da tappezzeria. Mi piace. Soprattutto in una donna tanto attraente.» Il commento parve innocente, ma rimaneva fuori luogo. Lei e Kevin si sedettero su due sedie da regista di pelle e metallo cromato che si trovavano di fronte alla scrivania; dalla finestra si godeva una meravigliosa vista del porto di Boston. La scrivania era un pezzo insolito, di design ultramoderno, che consisteva solo di una lastra di vetro molato a forma di rene appoggiato su tre colonnine di granito lucente. Sembrava doversi ribaltare a ogni più piccolo movimento, così Peyton non osò avvicinarsi troppo né respirare troppo forte. La segretaria apparve sulla soglia. «Mi scusi, signor Falcone. C'è un giornalista sulla linea due.» I tre si scambiarono uno sguardo, come a chiedersi: Di già? «A proposito del caso della tangente alla polizia», spiegò la donna. Tony prese il telefono sulla scrivania, poi parve ripensare al fatto di parlare alla stampa di un cliente davanti ad altri due. «Ci metto solo un minuto», disse, uscendo dall'ufficio. Nell'attesa, Peyton osservò una nave passare nel porto, una barchetta giocattolo da quell'altezza. Kevin giocherellava con un orribile gingillo che aveva trovato sul tavolo. Sembrava una mela rinsecchita con un ciuffo di
capelli, poi lei si accorse che si trattava di un cranio africano rimpicciolito... finto, sperava. Probabilmente il ricordo di una vacanza esotica. O del suo ultimo processo con giuria. «Pensi davvero che questo tale sia il migliore?» chiese a voce bassa. «No.» «Allora perché siamo qui?» «Perché è il migliore che possiamo permetterci.» «Che cosa vuoi dire, che è l'equivalente forense della previdenza sociale?» «Solo se la tua previdenza sociale ti chiede mille dollari in anticipo, soddisfazione non garantita.» «Stai scherzando.» «Benvenuta nel mondo reale, dottoressa. Il diritto penale funziona così.» Tony ritornò e chiuse la porta. «Bene, mettiamoci al lavoro», disse, prendendo posto alla scrivania. «Voglio che mi raccontiate tutto. Partite pure dalla creazione del mondo, se è necessario.» «È interessante questa sua affermazione», commentò Peyton. «Dopo aver visto tutte quelle fiction legali in televisione, avevo l'impressione che gli avvocati penalisti non volessero sapere tutto.» «Dipende dall'avvocato. Certi lo vogliono, altri no.» Kevin intervenne. «Penso che Peyton stesse cercando di dar voce a un timore più grande e legittimo.» «Capisco», rispose Tony. E poi, rivolto a lei: «Un'eccessiva conoscenza delle circostanze può far sentire alcuni avvocati vincolati al tipo di difesa da presentare in tribunale. Per esempio, se la cliente dice che si trovava a casa a dormire da sola nel suo letto la notte del crimine, l'avvocato potrebbe agitarsi all'idea di dover chiamare alla sbarra un testimone che, per crearle un alibi, dichiari che l'imputata è stata fuori tutta la notte con lui a girare per locali». «Esattamente», disse Kevin. «Si verrebbe a creare un dilemma etico.» «Sì, ma solo per l'avvocato che ricorda davvero tutto quello che il suo cliente gli dice.» Seguì un momento di silenzio, poi Tony fece un largo sorriso. «Stavo scherzando. Forza, un po' di allegria, voi due.» Peyton offrì un sorriso tirato. «Sentite», proseguì Tony. «Io sono onesto e diretto, ve lo assicuro. Il mio lavoro consiste nel dare ai fatti il miglior effetto se e quando li presen-
teremo a una giuria. Non è compito vostro filtrare le informazioni che ci scambiamo nella privacy del mio studio. Quindi ditemi esattamente che cosa è successo. Di qualunque cosa si tratti, la affronteremo. Peyton, perché non comincia lei?» «Preferirei che fosse Kevin a parlare. Io colmerò le eventuali lacune.» «Come vuole.» «È iniziato tutto l'inverno scorso», esordì Kevin, ma lei non ascoltava con grande attenzione. Tony prendeva appunti su un taccuino, e sembrava annotare ogni singola parola. Peyton sperava che avesse detto la verità quando si era definito onesto e diretto, ma la battuta che aveva fatto sul ricordare soltanto le informazioni utili la preoccupava. Forse era solo senso dell'umorismo da avvocati, ma lei non si sentì per niente rassicurata. E poi che tipo è uno che ruba in chiesa? Si sforzò di rimanere concentrata sul discorso di Kevin, incapace di valutare lo stimato Tony Falcone. 40 Kevin aveva cominciato a raccontare soltanto da pochi minuti, e già Peyton aveva riempito più buchi di una squadra addetta alla riparazione delle strade. Il suo primo pensiero fu che lui dimenticasse in modo imperdonabile tutti i dettagli importanti, poi seguì il sospetto che stesse intenzionalmente celando all'avvocato parte delle informazioni, e alla fine comprese che c'erano moltissime cose che, per una ragione o per l'altra, lei aveva tenuto nascoste al marito. Anche Kevin aveva dei segreti, come la rosa rossa trovata sulla soglia di casa dopo l'incidente stradale, il pazzo in libreria e la pagina della dedica del suo dattiloscritto su cui qualcuno aveva scarabocchiato quello spaventoso messaggio: «Lei ha un altro, stronzo». Dopo pressappoco la decima volta che uno dei due guardava l'altro esclamando: «Non mi avevi mai detto che...» Tony posò il taccuino sulla scrivania e offrì loro uno sguardo di ironica perplessità. «Ma voi due vi conoscete?» chiese in tono faceto. «Kevin, ti presento Peyton Shields. Peyton, Kevin Stokes.» Ci volle un'ora buona per ricostruire tutto, seguita da altri quindici minuti di domande dell'avvocato. Alla fine, Tony si appoggiò allo schienale della poltrona e si mise a riflettere in silenzio per un minuto. Poi disse: «Sapete che cosa penso?» «Che siamo matti?» suggerì Peyton.
Lui alzò le spalle, come se quello fosse sottinteso. «Cerchiamo per un momento di ragionare con la mente del procuratore distrettuale. Supponiamo che vi abbia entrambi nel mirino. Una supposizione più che certa, considerato che il cadavere è stato trovato nel bagagliaio della vostra auto e che la polizia si è presentata da voi con un mandato per la pistola. Ecco una possibile teoria. Primo, Peyton ha tradito Kevin ed è andata a letto con Gary Varnes. D'accordo?» «No», obiettò lei. «Io non sono andata a letto con Gary.» «Non sto parlando della verità», replicò Tony. «Cerco di capire quale forma l'accusa potrebbe dare ai fatti a sua disposizione, per mettere insieme una storia che abbia presa sulla giuria.» «Forse non si concentreranno sull'adulterio come tu credi», disse Kevin. «Scherzi? Io sono stato educato a usare graziosi eufemismi tipo 'avventura' e 'sbandata'. Ma aspettate che la pubblica accusa si metta in moto, per non parlare della stampa, poi. Verrà tutto ridotto a questo semplice elemento. Un giovane stallone sexy che penetra i lombi della moglie di un altro uomo, un estraneo che eiacula in quello stesso canale da cui i figli di questa coppia un tempo felice sarebbero dovuti venire al mondo. Non è mia intenzione essere crudo, voglio solo che voi siate pronti.» «Saremo pronti», disse Peyton. «A patto che il nostro legale sia attento a distinguere fra percezione e realtà.» «Per alcuni pubblici ministeri la percezione è la realtà. Quindi il primo punto è il seguente: Peyton e Gary commettono il fatto. Dopodiché sarà una questione di congetture, ma se fossi nell'accusa la vedrei così. Peyton prova a interrompere la relazione. Varnes comincia a molestarla. La perseguita al lavoro, le ruba il computer in biblioteca. Quando infine è chiaro che lei ha chiuso con lui, minaccia di raccontare a Kevin della loro relazione e comincia a ricattarla. Messa di fronte a questo, Peyton confessa tutto al marito. Mi seguite fin qui?» Annuirono e Tony proseguì: «Il ricatto si rivolta contro Varnes. Dopo la confessione della moglie, Kevin lo vuole morto. Peyton rivuole il marito, così partecipa al suo piano. Il risultato è che uno dei due spara a Varnes con la pistola di lei. Uno o entrambi mettono il cadavere nel bagagliaio dell'auto per farlo sparire. Peyton sta andando al molo per buttare il corpo a mare, quando viene travolta dal senso di colpa per quello che ha fatto. Parcheggia lì la macchina e ingoia dei sonniferi per uccidersi. Fortunatamente per lei, la polizia la trova in tempo e la porta in ospedale». «E che mi dice del rapimento?» chiese Peyton.
«Non è mai accaduto», rispose Tony. «In seguito, con l'aiuto del loro legale, gli imputati hanno escogitato la sensazionale storia che Gary Varnes sia stato rapito e che un misterioso sconosciuto con un passamontagna abbia sequestrato Peyton e l'abbia incastrata per l'omicidio di quell'uomo.» «Sosterranno che ci siamo inventati tutto?» «Che avete plagiato voi stessi, per essere più precisi. Il ricatto, il rapimento, l'intera inverosimile difesa rispecchia la trama del romanzo di Kevin, un'opera di finzione. È una curiosa coincidenza, non vi pare?» «Stai facendo l'avvocato del diavolo, o anche Tony Falcone pensa si tratti di una curiosa coincidenza?» volle sapere Kevin. «Troppo presto per esprimere un giudizio.» «E il tizio con il passamontagna che si è nascosto nell'auto di Peyton? Quello non è nel mio romanzo. La cosa non ti sembra rilevante?» «Lo avete detto alla polizia?» «No. Peyton me lo ha riferito quando ha ripreso conoscenza al pronto soccorso. Due secondi dopo gli sbirri ci hanno comunicato che c'era un cadavere nel bagagliaio della sua macchina. E l'istinto mi ha suggerito di consultare un avvocato prima di parlare.» «Ottimo istinto.» «Non dovremmo dirglielo adesso?» chiese Peyton. «Segua il mio consiglio. A questo punto per voi è meglio evitare di parlare direttamente con la polizia. Vi mangerebbero in un boccone.» «Sarà lei a informarli del rapimento di Gary, allora.» «Il problema è che, in tal caso, dovremo accennare anche alla richiesta di riscatto. Sarebbe rischioso.» «È un complotto. Perché non gridarlo con tutto il fiato che abbiamo in gola?» «Perché, secondo me, il pubblico ministero crederà soltanto alla metà di quello che dite. Non accetterà il fatto che Gary Varnes sia stato rapito. Questo gli ricorda troppo il romanzo di Kevin. Ma presumerà che lei sia stata ricattata, e poi distorcerà le sue parole per sostenere la teoria che Varnes fosse il ricattatore. Così vi verrà attribuito un serio movente per ucciderlo in modo premeditato e intenzionale. Senza quell'elemento, il gesto verrà imputato più alla rabbia e alla gelosia che alla premeditazione, il che è meglio, data la minor pena prevista per l'omicidio colposo rispetto all'omicidio di primo grado.» «Quindi lei vuole che teniamo la nostra difesa per noi?» «Per il momento. Aspettiamo di vedere se l'accusa è a conoscenza del ri-
catto prima di dirglielo.» Kevin fece una smorfia. «Rispetto il tuo parere, ma non vedo come mettere il pubblico ministero alla prova possa beneficiarci.» «Non è così», ribatté Peyton. «Io penso che la prova sia a beneficio del nostro legale. Vuole sapere se stiamo mentendo.» «Teoria interessante», disse Tony. «Non sono sicuro di aver capito», mormorò Kevin. «Se io fossi stata ricattata da un ex fidanzato, soltanto tre persone al mondo potrebbero esserne a conoscenza. Due di queste sono in questa stanza. L'altra adesso è morta.» «Questo è certo.» «Ma se Gary Varnes è stato davvero rapito, c'è una quarta persona coinvolta... il rapitore. Quindi se Kevin e io teniamo la bocca chiusa e, nonostante questo, il pubblico ministero comincia a parlare di ricatto, vuol dire che lui ha una fonte. Probabilmente è anonima, e andando per eliminazione non può che essere il rapitore. Questo soddisferebbe il nostro legale, perché saprebbe che c'è effettivamente stato un rapimento, e che noi siamo stati incastrati.» Tony rimase in silenzio, poi abbozzò un sorriso. «Lei è una persona molto sospettosa, dottoressa.» «E lei è più trasparente di quanto non creda», rispose Peyton. Il suo tono non era ostile, ma Kevin era visibilmente a disagio per il modo in cui la moglie stava sfidando l'avvocato. «Non so se Peyton abbia ragione o meno», disse. «Ma quanto ci vorrà per scoprire se l'accusa è in possesso di informazioni sul rapimento?» «Se non ne parla esplicitamente sin dal principio, ne farà comunque menzione abbastanza presto. Per esempio, potrebbe chiedere la verifica dei vostri conti bancari, per controllare se ci siano stati ingenti prelievi di denaro nei giorni precedenti l'omicidio. Suppongo che questa verifica non porterebbe a nulla, visto che entrambi concordate sul fatto che non intendevate pagare il riscatto.» «Esatto», convenne Peyton. Kevin tossì. «Be', ehm, questo non è del tutto corretto.» «Cosa significa?» «Io...» si interruppe, incerto. «Io ho prelevato del denaro dal nostro fondo di investimenti.» «Che cosa?» Kevin le rispose tenendo gli occhi fissi sul pavimento. «Mi sono rifiutato
di pagare perché pensavo che Varnes ci stesse ricattando. Ma il secondo giorno ho cominciato a temere che forse era stato davvero rapito, e che il rapitore potesse reagire in modo violento di fronte a un nostro rifiuto categorico. Così, per sicurezza, ho prelevato la somma.» Peyton lo fulminò con lo sguardo. «Per due giorni hai lasciato che io mi angosciassi sulle possibili conseguenze del nostro rifiuto. E ora sostieni che avevi pronto il denaro ed eri disposto a pagare?» «Solo se avessi creduto che tu eri in pericolo.» «Dannazione, perché non me lo hai detto?» «Non potevo. Fino a quando non avessi saputo...» Si interruppe, ma lei terminò la frase al posto suo. «Che ero disposta a lasciar morire Gary?» Lui non rispose. Peyton disse: «E questo è il modo in cui intendevi accertarti che non ero andata a letto... che non provavo niente per lui?» Kevin annuì a testa bassa. «Non so che cosa mi sia passato per la mente.» Lei distolse lo sguardo, non riusciva a crederci. All'improvviso nello studio calò un gran silenzio, tanto che era possibile udire il ronzio del condizionatore. Tony lo ruppe. «Be', è stato illuminante. Perché ora non ci concediamo una pausa? Prendiamo un caffè, una boccata d'aria, e magari uno di voi potrebbe trovarsi un altro avvocato.» «Cosa?» disse la coppia all'unisono. «Ho sentito abbastanza per capire che non posso rappresentarvi entrambi, nemmeno nella fase preliminare. Avrete bisogno di due legali diversi e tanto vale provvedere da subito. Kevin, tu sai a cosa mi riferisco, lo avrai visto un milione di volte nel ramo civile. Creeremo una difesa congiunta, coopereremo in ogni fase del caso. Ma ognuno di voi ha bisogno di un legale che difenda specificamente i suoi interessi. Prima che vi uccidiate l'uno con l'altra.» Peyton guardò il marito, poi Falcone. «A chi mi suggerisce di rivolgermi?» «A me», rispose Tony. «Che cosa?» disse Kevin. «Tu sei perfetto per mia moglie. È un ex pubblico ministero, donna tosta, in grado di gestire un avvocato per cliente. La adorerai.» Kevin parve abbattuto, come un bambino che non viene scelto per una
partita di baseball in cortile. «Be', se è questo che ci consigli.» «Esatto.» «Quando posso incontrarla?» «Il suo ufficio è dall'altra parte dell'ingresso. Ti accompagno.» «Vuoi che ci vada subito?» «Chi ha tempo non perda tempo.» «D'accordo. Ma c'erano delle cose che avevo pensato di discutere con te e Peyton nel corso del nostro incontro. Informazioni che ho saputo da un investigatore privato, e poi c'è dell'altro.» «Ti suggerisco, d'ora in avanti, di consultare il tuo legale prima di parlare con me o con la mia cliente di qualunque cosa riguardi il caso in questione», rispose Tony. La sua cliente, pensò Peyton. Innanzitutto cliente, poi moglie. Il loro mondo era decisamente sottosopra. Kevin le lanciò un'occhiata, come per chiederle se quella nuova soluzione la soddisfacesse. Lei non reagì. Lui si alzò lentamente e disse: «Non so quanto ci vorrà. Penso che ci rivedremo più tardi a casa». Peyton rimase zitta. Tony intervenne: «È meglio. Noi due qui abbiamo un mucchio di lavoro da sbrigare». Kevin attese che lei gli rivolgesse uno sguardo, ma non lo fece. «Be', buona fortuna», disse. «Anche a te», disse Peyton, e finalmente lo guardò. «Penso che stasera cenerò dai miei. Sono preoccupati per me, e non ho avuto molte occasioni di parlare con loro da quando sono tornati di corsa dalla vacanza. Se vuoi venire, ma...» «No, non importa. Tu fai la brava figlia. Io starò benone per conto mio.» Lei annuì. Tony lo accompagnò alla porta, poi si fermò sulla soglia, per dare un consiglio alla cliente che gli rimaneva. «Non la consideri una separazione, Peyton. Si convinca che è l'unico modo sano di proteggere il vostro comune interesse.» «Certo», rispose lei, osservandolo mentre usciva con suo marito. «L'interesse comune prima di tutto.» Se ne è rimasto. 41 La foto di Peyton apparve sui giornali. Non una grande somiglianza. Rudy ne aveva di molto più belle. Una cinquantina, tutte scattate da lonta-
no con un teleobiettivo, senza che lei nemmeno se ne accorgesse. Era sdraiato a letto, il giornale aperto sul cuscino. Aveva già scorso l'articolo più volte, ma continuava a tornare sulla foto di Peyton che entrava nel suo appartamento: uno scatto di profilo, il marito sullo sfondo. Rudy fissò il suo viso con tale intensità da riuscire addirittura a contare i puntini di inchiostro. Se solo fosse stata un'immagine frontale, con lei rivolta verso l'obiettivo! Aveva bisogno di guardarla in faccia per poter entrare nella sua testa. Gli bastava fissarla negli occhi, e capiva sempre che cosa stava pensando. Gettò il giornale sul pavimento e si girò sulla schiena, meditabondo. Sapeva che Peyton stava soffrendo. Le cose non sembravano mettersi bene. Il cadavere nel bagagliaio. I sonniferi nell'auto. I salaci riferimenti a un qualche genere di «relazione» fra lei e Gary Varnes. Chiunque avesse letto il giornale l'avrebbe definita una persona distrutta. Ma non Rudy. Persino in quella foto nebulosa, lui non vedeva un'assassina e un'adultera, e di certo non una donna sull'orlo del suicidio. Solo bisognosa d'aiuto. Proprio come quella intrappolata nell'auto dopo l'incidente, la donna che aveva salvato dalle gelide acque del Jamaica Pond. Io ti ho sempre aiutato, Peyton. Posso farlo ancora. Lei doveva soltanto mandargli un segno. E lui sarebbe accorso in un istante. Si mise a sedere sul letto, improvvisamente ispirato. Erano le undici e cinque. Pensò che valesse la pena provarci. Forse stanotte sarebbe stata la volta giusta. Probabilmente si sentiva avvilita come non mai. Forse lo avrebbe cercato, il suo amico di un tempo. Scivolò giù dal letto e si diresse al computer. Lo screen saver brillava. Si connesse e andò dritto là dove si erano conosciuti, nella chat room sui vecchi film di Hollywood. C'erano undici utenti. Sullo schermo, proprio davanti ai suoi occhi, si snodavano conversazioni inutili, in vari colori e caratteri. Entrò subito e scrisse il suo messaggio nel tipico linguaggio delle chat room. «c 6?» Aveva usato il familiare e vecchio nickname, «RG». Se lei fosse stata presente, le iniziali prima del messaggio le avrebbero fatto capire di chi si trattava. Attese, dopodiché scrisse un altro messaggio. «ti prego dimmi che c 6.» Trascorsero alcuni istanti, poi la piacevole sorpresa. Una gioiosa lettera alla volta, la risposta comparve sullo schermo. «sono tornata.»
Il nickname prima della risposta gli fece quasi fermare il cuore: «Ladydoc». Con mani tremanti proseguì a scrivere. «6 proprio tu?» «sì.» «provamelo.» Trattenne il fiato nell'attesa. Alla fine, Ladydoc scrisse: «Rodolfo Guglielmi». Rudy sorrise. Si era ricordata. Glielo aveva detto mesi prima, in una chat room privata, solo loro due. Lei era l'unica persona al mondo a sapere che la sigla «RG» del suo nickname stava per «Rodolfo Guglielmi». Il vero nome di Rodolfo Valentino. «sono così felice che 6 qui.» «chat privata?» Fu percorso da un brivido profondo. Erano mesi che aspettava quell'invito. Amava quando si allontanavano dal gruppo, amava le cose che lei gli diceva nella privacy della loro chat room. Non riusciva a credere che stavano per tornarci. «non vedo l'ora», scrisse. Uscirono insieme dall'affollata chat, loro due da soli. 42 Fu la camminata più lunga della sua vita. Peyton era determinata a riprendere il lavoro all'ospedale e ridare un senso di normalità alla propria vita. Il suo piano non funzionò. Venne quasi subito chiamata in amministrazione. L'ufficio del responsabile del programma formativo si trovava nella vecchia ala del Children's Hospital. Arrivarci era come partire per un'escursione attraverso un contorto sentiero fatto di corridoi che connettevano quell'ala alle costruzioni più nuove, per poi infine scalare tre rampe di una maestosa gradinata del diciannovesimo secolo. Si trattava di un edificio cavernoso, costruito intorno a un atrio, adatto a ospitare uffici amministrativi. Peyton sentiva i suoi passi riecheggiare sui muri mentre saliva un gradino alla volta. Al terzo piano, lungo il corridoio che portava all'ufficio del responsabile, erano appesi i ritratti di illustri personaggi che avevano reso il Children's Hospital di Boston il migliore del mondo. Il primo chirurgo a eseguire un trapianto cardiaco pediatrico. La prima donna a capo del personale. Poche erano le possibilità che lei finisse accanto a loro: prima in-
terna in pediatria estratta dalle acque del Jamaica Pond, molestata da un clown, ricattata da un vecchio fidanzato malato d'amore e - il suo più recente conseguimento - inserita nella lista dei sospettati per omicidio. Troppi primati per i suoi gusti, sebbene fosse perfettamente consapevole che quella era la seconda volta che veniva chiamata a rapporto. Era quasi un déjà vu, paurosamente simile alle conseguenze dell'incidente con Andy Johnson. C'erano già due persone in attesa di essere ricevute, ma la segretaria non la fece aspettare. Paradossalmente, non era un buon segno. Miles Landau si alzò vedendola entrare. Con lui c'era anche Craig Sheffield, il responsabile degli interni, che non la guardò in faccia. Un altro cattivo segno. «La prego, si accomodi.» Peyton prese posto sulla sedia di fronte alla scrivania. Il dottor Landau le parlò con voce estremamente seria, anche se il suo discorso sembrava preparato. «Nella veste di responsabile del programma formativo, ho molto a cuore il benessere di tutti i nostri interni.» Per ora tutto bene, pensò lei. «Ma arriva il momento in cui gli interessi dell'ospedale diventano una priorità.» Peyton si sentì mancare. «Capisco.» Il dottor Sheffield si inserì. «Non intendiamo esprimere un giudizio a priori sulla sua colpevolezza o la sua innocenza.» «Però avete letto i giornali», disse lei, «e non gradite la cattiva pubblicità.» «Non si tratta di pubblicità», obiettò Landau. «È una questione di cura dei pazienti.» «Cura dei pazienti?» «Ne abbiamo discusso con il nostro consulente legale. In sostanza, dal punto di vista dell'ospedale ci sono due possibili spiegazioni per la sua sgradevole situazione, nessuna delle quali è positiva. La prima: lei è in qualche modo collegata alla morte di Gary Varnes, ha portato il suo cadavere al molo e poi ha cercato di togliersi la vita ingerendo dei sonniferi. Se questo fosse il caso, non dovrebbe più occuparsi dei pazienti.» «Non è questo il caso», protestò lei con veemenza. «Il mio legale non mi consente di scendere nei dettagli, ma sono stata incastrata.» «Questa è appunto la seconda possibile spiegazione», disse il dottor Sheffield. «Mi creda, non abbiamo ancora preso decisioni in merito.»
Il dottor Landau intervenne: «La verità è che, se è stata incastrata, dovrà impegnarsi al massimo per cercare di scoprire chi c'è dietro questa brutta storia. E non potrà più dedicarsi a tempo pieno all'internato in ospedale». Quelle parole le trafissero il cuore. «Mi state cacciando dal programma?» Landau abbassò lo sguardo. «Preferiremmo soltanto che lei lo rimandasse. Torni l'anno prossimo, una volta che tutto sarà stato chiarito.» Peyton rimase lì seduta incredula. Non che l'avessero colta di sorpresa. Era semplicemente meno preparata di quanto pensava. Spesso aveva sognato il giorno in cui si sarebbe trovata in quello stesso ufficio con quei due uomini, circondata da sorrisi, mentre il dottor Landau si congratulava con lei per essere stata selezionata come interna di ruolo al Children's Hospital, il meglio del meglio. Ma ora non c'era nessun sorriso. «Farò tutto quello che devo», disse. I due parvero sollevati dalla prospettiva di non dover affrontare una contestazione. Le strinsero la mano e le augurarono buona fortuna. Peyton scivolò fuori in silenzio, sentendosi completamente sola. Il suo cercapersone suonò mentre stava svuotando l'armadietto. Riconobbe il numero di Tony Falcone. Usò il telefono dello stanzino del turno di notte, per avere un po' di privacy. «Che succede?» chiese. «Ho avuto una piccola soffiata da una delle mie fonti alla centrale di polizia.» «Buona o cattiva?» «Un po' tutte e due. Il mandato di perquisizione del detective Bolton ha preso una piega interessante.» «Una piega? Lui ha portato via soltanto la cassetta di sicurezza dove tenevo la pistola.» «Esatto. Ma dentro non c'era nessuna pistola.» Peyton si sedette. «Non è possibile. Non la uso mai. L'ho comprata quando pensavo che qualcuno mi molestasse. È sempre rimasta chiusa a chiave nella cassetta sulla mensola del mio armadio.» «La cassetta c'era, ma l'arma no.» «Allora devono averla rubata.» «Questa sarà la nostra versione.» «Ma è la verità. Ha senso che l'abbiano rubata. Ciò dimostra che sono stata incastrata. Se la polizia avesse trovato la pistola, avrebbe potuto fare
un esame balistico, non è così?» «Decisamente.» «Be', quell'esame avrebbe provato che non è stata la mia Smith & Wesson calibro trentotto a uccidere Gary Varnes.» «Giusto. Ma come faceva chi l'ha incastrata a sapere che lei teneva una pistola chiusa in una cassetta di metallo sulla mensola del suo armadio?» «Così come lo sapeva la polizia. L'ho dichiarato nella mia deposizione per la causa con la clinica di Haverhill.» «È possibile. O forse ha parlato della pistola a qualcuno.» «La sola persona a conoscenza della pistola, a parte me, era Kevin.» «Era proprio quello che intendevo.» Peyton strinse forte il telefono. «Sta prendendo un granchio.» «Davvero? Ho appena riletto gli appunti della nostra conversazione congiunta. Mi permetta di verificare alcuni fatti con lei. Dov'era Kevin la notte in cui Varnes è stato rapito?» Rifletté un istante. «Abbiamo litigato. Era fuori.» «E la notte in cui Varnes è stato ucciso?» «Ancora fuori.» «Sa dove?» «Per essere sincera, non ne ho idea.» Seguì un momento di silenzio, e lei poté facilmente immaginare Falcone mentre prendeva nota sul suo taccuino. «Ora torniamo indietro nel tempo. Che mi dice della notte in cui Andy Johnson cadde o saltò giù dalla banchina finendo sui binari della metropolitana? Dov'era Kevin allora?» «A New York per un seminario.» «Ne è sicura?» «A dire il vero, no. Adesso che mi ricordo, è ritornato a casa prima che il seminario finisse. Non so con esattezza quando sia rientrato a Boston.» Di nuovo silenzio. Peyton intuì che prendeva un altro appunto. «Cosa sta pensando?» gli chiese. «È stato un bene che lei e Kevin abbiate scelto di avvalervi di due distinti legali. Suo marito potrebbe trovarsi in guai peggiori di quelli che immaginavo.» «In ogni modo, mai grossi quanto i miei.» «Perché dice questo?» «Il fatto che io ignori dove si trovasse Kevin in quelle notti non significa che non ci sia qualcuno che invece lo sa benissimo.»
«Crede che lui abbia un alibi?» «Non lo so. È proprio questo che stavo cercando di dire.» Peyton sentì le farfalle nello stomaco. Ci aveva già pensato in passato, ma era la prima volta che dava voce al suo dubbio. Udirlo non le piacque. 43 Alle nove del mattino di venerdì, ventitré giurati sedevano in una stanza senza finestre nelle cantine del vecchio tribunale di stato, in attesa che lo spettacolo iniziasse. Le aspettative erano alte: avevano visto il corteo di giornalisti davanti alla porta. Per legge, i procedimenti del gran giurì erano segreti, e l'ingresso in aula era consentito soltanto ai giurati e al pubblico ministero. La teoria costituzionale voleva che in questi casi la giuria fungesse da organo di controllo del potere del pubblico ministero, stabilendo se le prove presentate erano sufficienti per accusare formalmente qualcuno di aver commesso un reato. In realtà, il pubblico ministero otteneva quasi sempre l'incriminazione desiderata. Quel giorno, Charles Ohn voleva la testa di Peyton Shields. «Buongiorno», disse, salutando la giuria prigioniera nella stanza. Ohn sorrideva, ed era sincero. Il caso in questione era destinato alla celebrità. Una dottoressa bellissima e intelligente e il marito avvocato, gli indagati. Un ex fidanzato e possibile amante, la vittima. Poteva essere la sua occasione, il biglietto d'ingresso per il circuito dei talk show che lui aspettava da tempo. Era un veterano con una ventennale esperienza in diritto penale e aveva abilità da vendere, centinaia di vittorie al suo attivo, ma non molta pubblicità. Lavorava per un procuratore distrettuale che era un vero e proprio beniamino dei media. Ohn aveva garantito al suo ufficio alcuni dei successi più sorprendenti, però nel corso delle conferenze stampa veniva sempre messo a sedere da parte, in modo che non fosse inquadrato dalle telecamere. Lui faceva il lavoro, il procuratore se ne aggiudicava i meriti. Questa volta si era ripromesso che sarebbe andata diversamente. Non si poteva dire che il procuratore gli avesse dato carta bianca. Ohn aveva una tabella di marcia da rispettare: avanti a tutta birra. E la cosa gli calzava a pennello. Alle nove e cinque il primo testimone aveva preso posto al banco, aveva giurato ed era pronto a deporre. «Il suo nome, signore», disse Ohn. «Steven Beasley.»
«Dove lavora?» «Sono un avvocato associato dello studio legale Marston & Wheeler.» Con poche domande ben preparate Ohn condusse il testimone là dove voleva, identificandolo come amico di Kevin Stokes, qualcuno a cui il gran giurì avrebbe potuto credere. Beasley trasmise la giusta quantità di riluttanza, mentre descriveva la strana telefonata ricevuta da Peyton Shields. «Che cosa sentì esattamente?» gli chiese Ohn. «La voce di un uomo in sottofondo.» «Cosa disse l'uomo?» «L'uomo ha detto: 'Non essere timida, ti ho già visto nuda'.» Questa era la bellezza del gran giurì, pensò Ohn. Nessuna restrizione sulle prove de auditu, e lui poteva interrompere in qualsiasi momento la deposizione per dare delucidazioni. «A questo punto», dichiarò, «porto all'attenzione del gran giurì il reperto numero uno. Queste sono le copie delle bollette del telefono di casa di Gary Varnes. Ho evidenziato la chiamata che è stata fatta a quell'ora dall'appartamento di Varnes al WaldorfAstoria di Manhattan, esattamente come il signor Beasley ha appena testimoniato.» Diede ai giurati un attimo per esaminare la prova. Una vecchia signora in prima fila alzò la mano, e il pubblico ministero si preparò a ricevere il colpo. Era legalmente permesso ai membri di un gran giurì di porre delle domande, a differenza della procedura prevista per un processo, e non si poteva mai sapere che cosa sarebbe uscito dalle loro bocche. «Mi scusi», disse la donna, «ma il signor Beasley sta per caso sostenendo che Peyton Shields tradiva suo marito con Gary Varnes?» Ohn sorrise. Niente come una domanda amichevole per smuovere le cose. «Questo spetta a voi deciderlo.» «Be', mi ha convinta. Che cos'altro ha da mostrarci?» Ohn si sforzò di contenere l'entusiasmo. Davvero un peccato che non ci fosse modo di inserire quella donna nella giuria del processo. «Forse dovremmo passare direttamente alle fotografie del cadavere di Gary Varnes nascosto nel bagagliaio dell'auto di Peyton Shields.» Congedò il testimone e si avvicinò alla scatola dei reperti. Kevin trascorse gran parte della giornata alla ricerca di un luogo tranquillo dove riflettere. Jennifer gli aveva assegnato il compito di redigere una lista di testimoni che potessero costituire una difesa anticipata. Per tutta la mattina, il telefono dell'appartamento non aveva smesso di squillare.
Persino alcuni quotidiani nazionali stavano cominciando a interessarsi al caso. Finì con il fuggire al parco, nel tentativo di trovare un po' di pace. Il suo avvocato gli aveva detto che le cose si stavano muovendo in fretta. La segretezza era uno dei miti dei gran giurì, ma le fughe di notizie erano frequenti. Il giorno successivo all'inizio del procedimento i giornali riportavano già che il pubblico ministero aveva presentato prove sufficienti a ottenere l'incriminazione. Kevin si chiese che cosa l'accusa stesse aspettando. Alle sei e mezzo tornò a casa. Peyton era fuori. Dall'incontro con Tony Falcone sembrava che istintivamente loro due avessero cominciato a evitarsi. Lui si mise i calzoncini da jogging e uscì per andare a fare una corsa. Ma arrivò soltanto in fondo ai gradini del portico. Un uomo era fermo sul marciapiede e gli bloccava la strada. «Come va, Stokes?» Pensò si trattasse di un giornalista, poi lo riconobbe. Non aveva mai incontrato Charles Ohn, ma aveva visto la sua faccia sui giornali. «Da quando i pubblici ministeri pedinano i sospettati fin sotto casa?» «Ho saputo che lei ha un legale personale», rispose l'altro. «È vero. Dovrebbe parlare con il mio avvocato, non con me.» «Anche lei è un avvocato. Quindi possiamo parlare.» Kevin fu tentato di andarsene, ma la curiosità glielo impedì. «Di che cosa?» «Del suo futuro.» «È un po' vago.» «Io direi gramo», lo corresse Ohn. «A meno che lei non faccia qualcosa per modificarlo.» «Mi risparmi le minacce velate. Per il resto, si rivolga al mio legale.» Era sul punto di allontanarsi, quando il pubblico ministero aggiunse: «Le sto offrendo un accordo». Kevin si fermò di botto. «Che genere di accordo?» «Voglio che lei mi aiuti a ottenere l'incriminazione di sua moglie.» «Perché mai dovrei essere disposto a collaborare?» «Perché sua moglie le è stata infedele.» Kevin arretrò di mezzo passo, come se avesse incassato un pugno nello stomaco. «Peyton lo nega.» «Non lo fanno tutte?» lo beffò Ohn. La rabbia stava montando, ma la tenne a freno. «Non sono interessato a nessun genere di accordo.»
«Ora mi ascolti bene. Peyton è un bersaglio piuttosto facile, con il cadavere rinvenuto nel bagagliaio della macchina. E probabilmente riusciremo a tirare dentro anche lei, adducendo la gelosia di un marito tradito. Tutto dipende dalla mia abilità nel provare che era a conoscenza del fatto che sua moglie andava a letto con Varnes prima che questi venisse ucciso.» Kevin tacque, sforzandosi di non reagire. Ohn proseguì: «Ammetto di non disporre ancora di prove certe della sua conoscenza a priori. Questa mattina Steven Beasley non si è sbilanciato su quanto ricordava di averle detto a proposito della telefonata con sua moglie». Quelle parole lo risollevarono. Forse, dopo tutto, Steve era davvero un amico. O forse Ohn stava bluffando. «Se non ha la merce, perché dovrei scendere a patti?» «Perché l'avrò in tempo per il processo. Questo glielo posso assicurare. E allora sarà troppo tardi per un accordo. Quindi le concedo un giorno di riflessione. Mi dia qualcosa per promuovere l'azione penale contro sua moglie, e lei ne uscirà pulito. Immunità totale. Oppure può rimanere al fianco della sua fedifraga consorte. E affonderete insieme.» Kevin avrebbe voluto mandarlo al diavolo, ma le parole non gli affiorarono alle labbra. Rimase muto a guardare il pubblico ministero che si girava e si allontanava. 44 Gli ci vollero meno di cinque minuti per togliersi la tenuta da jogging e infilarsi un completo. Venti minuti dopo entrava nello studio legale di Jennifer Dunwoody. A prima vista, quella donna tutto poteva sembrare fuorché la moglie di Falcone, e non solo perché aveva mantenuto il cognome da nubile. Per quanto Tony fosse dotato di talento e buon gusto, c'era in lui qualcosa dello scaltro penalista. Al contrario, Jennifer era un esempio di raffinatezza, un ex pubblico ministero attraente ed elegante, all'apparenza più propensa a denunciare all'ordine degli avvocati un tipo come Tony, che a sposarlo. Kevin era il suo ultimo appuntamento, per di più improvvisato, della giornata. Lo ascoltò con la penna in mano ma senza prendere appunti, mentre le raccontava dell'incontro con Ohn. «È davvero spregevole», dichiarò infine con tutta l'indignazione di un ex pubblico ministero. «Non posso credere che l'abbia avvicinata direttamen-
te, sapendo che sono io a rappresentarla.» «Lasciamo perdere. Ora che cosa dovremmo fare?» Jennifer appoggiò la penna, poi intrecciò le mani sulla scrivania. «Lei che intende fare?» «Sta usando il metodo socratico? Risponde a una domanda con un'altra domanda?» «Voglio soltanto sapere cosa ne pensa.» «Ho avuto una reazione emotiva. Ma a parte le mie emozioni, penso che il tutto si riduca a un interrogativo. Perché un indagato dovrebbe scendere a patti, se non crede che il pubblico ministero sia in grado di ottenere un'imputazione contro di lui?» «Argomentazione validissima.» «Razionale, no?» «Assolutamente.» «Quindi concorda con me che non dovrei scendere a patti?» «Vuole che provi a farle cambiare idea?» gli chiese lei. «Solo se pensa di riuscire a farmi superare la reazione emotiva.» «Che sarebbe?» «Non posso dire di aver preso seriamente in considerazione l'offerta di Ohn. Nemmeno per un minuto. Ma volevo analizzarla in modo logico. Pensavo che così avrei potuto vedere la questione, come pure me e Peyton, in modo obiettivo. Ma più cercavo di essere razionale, più mi rendevo conto che stavo semplicemente andando a caccia di argomentazioni a sostegno del mio stato emotivo. La verità è che amo Peyton, e non le volterei mai le spalle. Voglio che, come mio avvocato, lo sappia, nel caso Ohn venga a parlarle dell'accordo.» «Capisco il suo punto di vista.» «Bene», concluse Kevin guardando l'orologio. «Mi spiace di averle fatto fare tardi. Mi dava fastidio non averlo detto ieri, quando Peyton e io ci siamo incontrati con Tony, così ho sentito il bisogno di comunicarlo a lei.» «Non si preoccupi.» Lui si alzò e si diresse verso la porta. «Kevin», lo chiamò Jennifer. Si fermò, voltandosi. «Sì?» «Trovo interessante che abbia tralasciato una ragione importante per non scendere a patti con Ohn.» «Quale sarebbe?» «Che lei crede con tutto il cuore che Peyton sia innocente, e non farebbe
mai nulla che possa portare alla condanna di un'innocente.» «Non c'è bisogno di dirlo.» «Davvero?» «Sì, certo.» «La gente potrebbe attribuire vari significati a un'omissione del genere, sia a livello conscio sia inconscio.» Kevin misurò con cura le parole. «Non c'è motivo di interpretarla in nessun modo. Come le ho già detto: io amo Peyton.» L'avvocato attese che aggiungesse qualcosa. Lui si limitò a darle la buonasera e chiuse la porta uscendo dallo studio. Peyton indossava il suo pigiama preferito, quello azzurro con le nuvolette bianche, e si trovava scalza davanti allo specchio del bagno, una goccia di dentifricio sullo spazzolino. Era quasi mezzanotte, ed era esausta. Aveva l'aria distrutta. Il padre le aveva raccomandato di non leggere i giornali, ma come avrebbe potuto? Le chicche che la polizia e il pubblico ministero si degnavano di far trapelare alla stampa erano la sua unica vera fonte di informazioni. Non aveva nessuno con cui parlare, nemmeno Kevin. E meno che mai lui. Le cose fra loro si erano fatte strane dall'incontro con Tony Falcone. Kevin si era scusato, ma non era bastato a sanare la fiducia incrinata. Odiava avere dei dubbi sul suo conto, e sentiva che la diffidenza era reciproca. Aveva discusso con Tony dei propri timori quel pomeriggio, e l'avvocato le aveva suggerito un rimedio. Si adattava perfettamente all'impostazione che voleva dare alla difesa, e poteva essere il modo più veloce per rimarginare il baratro che stava crescendo fra loro. «Tony vuole che ci sottoponiamo al test poligrafico.» Kevin lasciò cadere lo spazzolino nel lavandino. Lo raccolse, si riprese. «Perché?» «È convinto che lo supereremmo.» «Certo che lo supereremmo», disse lui con una risatina nervosa. «Ma i risultati di un esame poligrafico non sono ammissibili come prove. E gli esaminatori possono commettere degli sbagli. Perché rischiare, quando in ogni caso non possiamo avvalercene in aula?» «Tony dice che, se lo superiamo, può chiedere al pubblico ministero di presentarlo al gran giurì. La giuria può prenderlo in considerazione anche se i risultati non sono ammissibili al procedimento.» «Chiedere al pubblico ministero di presentare il test non significa che lui
accetterà.» «Secondo Tony, per Ohn sarebbe controproducente rifiutare. Darebbe alla stampa l'impressione che l'ufficio del procuratore distrettuale stia cercando di occultare la verità.» Kevin si sciacquò la bocca e ripose lo spazzolino nel bicchiere. «Che succede se non lo superiamo?» I loro sguardi si incontrarono nello specchio. «Vuoi dire, che cosa succede se l'esaminatore commette un errore e si convince che mentiamo?» «Ehm, già. È quello che intendevo.» «Tony dice che in tal caso ci limiteremmo a tenere i risultati per noi. Nessuno verrebbe nemmeno a sapere che ci siamo sottoposti al test.» Kevin fece un respiro profondo. «Tu hai deciso di farlo?» «Deve essere una decisione congiunta. Dato che stiamo preparando una difesa congiunta, Tony pensa che parrebbe brutto se uno di noi si sottoponesse al test e l'altro no.» «Vuoi che lo faccia?» «Solo se ne sei convinto.» Lui la guardò negli occhi per un istante che parve eterno. «Va bene. Lo farò.» «Grazie», disse lei, spegnendo la luce sullo specchio. 45 Peyton si sedette rigidamente su una vecchia sedia di legno, una camera d'aria di gomma sul sedile e un'altra infilata dietro la schiena. Un misuratore di pressione le stringeva il braccio destro. Degli elettrodi erano attaccati a due dita della mano sinistra. I tubi dello pneumografo le avvolgevano il petto e l'addome. Seduto dall'altra parte del tavolo c'era Ike Sommers, ex agente dell'FBI che, a detta di Tony Falcone, era diventato uno dei migliori esaminatori poligrafici in circolazione. L'uomo controllava il cardio-amplificatore e il monitor galvanico piatto appoggiati sul tavolo. Il rotolo della carta scorreva, mentre l'ago tracciava una linea ondulata. «Tutto pronto», disse Ike. Peyton sentì una morsa allo stomaco. Per l'agitazione quella mattina non aveva mangiato, e poi avrebbe preferito andare per prima, al posto di Kevin. Aspettare fuori fino alla conclusione del suo test l'aveva fatta diventare più ansiosa.
«Dobbiamo uscire?» chiese Tony. Era seduto in fondo alla sala riunioni, accanto alla moglie. «L'esame è coperto dal segreto professionale previsto dalla difesa congiunta», intervenne Jennifer. «Abbiamo assistito all'esame di Kevin, quindi non vedo perché non dovremmo fare lo stesso con Peyton. A meno che non la rendiamo troppo nervosa.» «Sto bene», rispose lei. In ogni caso era lieta che Kevin non fosse presente. «Allora cominciamo», disse Ike. Tony aveva già spiegato a Peyton la procedura, quindi lei sapeva che il primo compito dell'esaminatore era farla rilassare. L'uomo cominciò a porle delle domande generiche per metterla il più possibile a suo agio. Le piacciono i fiori? Ha mai avuto un cane? I suoi capelli sono viola? Sembravano quesiti innocui, ma a ogni risposta lui monitorava le sue reazioni psicologiche, per stabilire i parametri più bassi della pressione sanguigna, della respirazione e della perspirazione. Era come il gioco del gatto con il topo. L'esaminatore doveva tranquillizzarla, per poi indurla a dire una piccola bugia che sarebbe servita da parametro di base della falsità. La tecnica standard era chiedere qualcosa su cui persino una persona sincera avrebbe potuto mentire. «Ha mai pensato al sesso in chiesa?» «Mmm, no.» Peyton si morse un labbro. Che indizio. Non c'era bisogno del poligrafo per capire che aveva mentito. Nella stanza calò il silenzio, mentre l'esaminatore si concentrava sulle letture. Apparve soddisfatto. L'aveva colta in fallo, e ora poteva misurare il grado di veridicità delle sue affermazioni sulle questioni che importavano davvero. «Lei si chiama Peyton?» «Sì.» «Le piace il gelato?» «Sì.» «Lei è medico?» «Sì.» «Ha fatto sesso con Gary Varnes?» «Sì.» Un'occhiata ai legali le bastò per capire che la sua risposta li aveva presi di sorpresa. Si sentì in dovere di spiegare. «L'estate prima di partire per il
college. Allora stavamo insieme.» «Risponda solo sì o no», disse Ike. L'avvocato di Kevin non parve soddisfatto. Peyton aveva la fastidiosa sensazione che la sua risposta sarebbe stata fraintesa, ma l'esaminatore proseguì. «Oggi è domenica?» «No.» «Hai mai scalato il monte Everest?» «No.» «Ha ucciso Gary Varnes?» «No.» «Ora è seduta?» «Sì.» «Lei è una donna?» «Sì.» «Sa chi ha messo il cadavere di Gary Varnes nel bagagliaio della sua auto?» «No.» «Lei è sorda?» «No.» «Parla cinese?» «No.» «Ha nascosto la sua pistola alla polizia?» «No.» «È contenta che il test sia finito?» «Sì», rispose con un sorriso di sollievo. L'esaminatore spense la macchina. Tony si alzò e le diede una lieve pacca sulla spalla. Jennifer si diresse alla porta, senza dire una parola. «Che cos'ha?» chiese Peyton. «Ah, niente di grave.» «Non ha gradito la mia risposta a proposito del sesso con Gary Varnes, vero?» «Non si preoccupi», la rassicurò Tony. «L'ho detto ieri che Gary è stato il mio primo fidanzato. Abbiamo perso la verginità insieme l'estate prima che io partissi per il college. A quei tempi Kevin non lo conoscevo ancora.» «Capisco.»
«L'esaminatore ha formulato male la domanda. Non c'era nulla di sbagliato nella mia risposta.» «Ha assolutamente ragione.» «Qualcuno dovrebbe spiegarlo a Jennifer. Gliel'ho letto in faccia. Pensa che abbia sempre mentito sul fatto che non avessi una relazione extraconiugale con Gary.» «Si rilassi. Non c'è nessun problema.» Peyton non insisté, ma aveva la sgradevole impressione che l'avvocato di Kevin non fosse più dalla sua parte. Peyton decise di attendere i risultati del test nello studio legale. Quando tornò in sala d'attesa, notò con sorpresa che Kevin non c'era. Forse, si disse, temeva quello che sarebbe saltato fuori dall'esame, o forse se n'era andato via furente, dopo che Jennifer gli aveva riferito la propria interpretazione della risposta di sua moglie relativa ai rapporti con Gary. Dato che ci sarebbe voluto un po' di tempo, Peyton uscì a mangiare un boccone e si ripresentò un'oretta dopo. La segretaria la fece passare subito nell'ufficio di Falcone. Lei entrò, senza dire una parola, l'aria visibilmente interrogativa. «Lo ha superato», dichiarò Tony. Peyton si sentì quasi svenire, era così sollevata. Si sedette sul divano. «E Kevin?» «Lo avete superato entrambi.» Provò a non sembrare sorpresa. «Grandioso.» «Sì. È fantastico.» «Ma abbiamo bisogno di aggiustare quella domanda sul sesso con Gary Varnes. Non voglio che qualcuno fraintenda la mia risposta, convincendosi che stessi tradendo Kevin.» «Ho già chiarito la situazione con l'esaminatore. Ogni esame poligrafico è rilevante solo per tre o quattro delle domande che vengono poste. Ike limiterà la sua relazione scritta finale alle tre sostanziali. Ha ucciso Gary Varnes? Sa chi ha messo il cadavere nell'auto? Ha nascosto la sua pistola? Nessuno verrà mai a sapere che le è stato chiesto se ha fatto sesso con Varnes.» «Il legale di Kevin lo sa.» «Ha sentito la sua spiegazione.» «Non penso mi abbia creduto.» «Senta, dovrà semplicemente chiarire la faccenda con suo marito.»
L'interfono suonò. Tony premette il pulsante e la sua segretaria annunciò: «C'è qui il signor Esposito». «Arrivo.» Spense l'interfono, si diresse alla porta e disse: «Torno subito, Peyton. È il mio sarto. Deve soltanto prendermi un paio di misure». La porta si chiuse, e lei rimase sola. Gli occhi cominciarono a vagare, fermandosi sulle litografie di David Hockney appese alla parete per posarsi infine sui documenti che erano sulla scrivania. Provò a metterli a fuoco da un metro e mezzo di distanza, poi si alzò e diede un'occhiata più da vicino. Era la trascrizione integrale delle domande che l'esaminatore le aveva posto. La prese. Sotto c'era quella delle domande fatte a Kevin. Prima lesse la copia relativa al suo esame. Conteneva alcuni commenti scritti a mano da Tony. Proprio come l'avvocato le aveva detto, la domanda circa il sesso con Gary Varnes era stata cancellata con una croce, e una nota a lato specificava che non doveva apparire nella relazione finale. Appoggiò la copia sulla scrivania e prese la trascrizione che riguardava Kevin. Sembrava somigliare molto alla sua, in sostanza le domande erano più o meno le stesse, a parte naturalmente quella sul sesso con Gary. Ma scorrendola da cima a fondo, si accorse che ne mancava una. Passò alla seconda pagina, e non la trovò nemmeno lì. Ricominciò da capo, leggendo in modo più attento, per essere certa di non averla tralasciata. Deve esserci. Ma non c'era. L'esaminatore non aveva mai chiesto a Kevin se aveva ucciso Gary Varnes. Il foglio tremò appena fra le sue mani, mentre le implicazioni di quella scoperta la travolgevano. Kevin aveva superato l'esame, però gli erano state poste solo due delle domande sostanziali, che si collegavano a un suo possibile ruolo di complice dopo l'omicidio. Ha messo lei il corpo di Gary Varnes nel bagagliaio dell'auto? Ha nascosto la pistola di sua moglie? La porta si aprì e Peyton si affrettò a rimettere i documenti sulla scrivania. Tony la guardò fra il sorridente e il preoccupato. «Sembra che abbia appena visto un fantasma.» «Davvero?» «Va tutto bene?» Lei si sforzò di tenere lo sguardo lontano dalla scrivania. «Lo spero», disse con un filo di voce. 46
Non appena sentì il tono di voce di Falcone al telefono, Peyton comprese che le notizie non erano buone. Pensava di essere pronta, rassegnata all'inevitabile. Milioni di volte si era ripetuta le parole di Tony come un mantra: un'imputazione era soltanto un foglio di carta, alla fine la verità sarebbe venuta a galla. Eppure, quasi le cadde il telefono di mano quando l'avvocato sganciò la bomba. «È un'accusa con due capi d'imputazione», le comunicò. «Vada avanti», disse Peyton, le mani tremanti. «Lei e Kevin siete accusati degli stessi crimini. Omicidio di secondo grado e complicità dopo l'avvenuto omicidio.» «Secondo grado? È positivo. Voglio dire, meglio di primo, giusto?» «È comunque punibile con l'ergastolo.» «E allora in che cosa differisce dall'omicidio di primo grado?» «Con un omicidio di secondo grado è possibile ottenere la libertà condizionata.» «Grandioso. Forse l'ospedale mi lascerà completare l'internato quando avrò sessantadue anni e tornerò a essere una donna libera.» «Non ci vorrebbe tanto... ma non è quello su cui ora mi concentrerei.» Sembrava molto perplesso, il che non la confortò. «Che succede, Tony?» «Per essere sinceri, mi sembra un'imputazione molto strana.» «In che senso?» «La distinzione tecnica fra omicidio di primo e di secondo grado si riduce alla premeditazione e all'intenzionalità. In questo caso, l'interrogativo sarebbe: ha avuto tempo di riflettere prima di sparare a Gary Varnes? Lei e Kevin avete pianificato l'omicidio? Di norma un pubblico ministero si limiterebbe ad accusarvi di omicidio di primo grado, lasciando quello di secondo come opzione alternativa per il gran giurì, nel caso la prova di premeditazione e intenzionalità non bastasse a garantire l'istruzione di un processo.» «Quindi con noi è stato generoso?» «No. Penso sia stato astuto.» «Mi spieghi.» «Se vi avesse accusato di omicidio di primo grado, non avreste avuto diritto di uscire su cauzione. Lei e Kevin sareste rimasti in carcere fino al processo.» Peyton era confusa. «A me sembra ancora che per qualche motivo sia
stato generoso con noi.» «Non direi. Farvi rimanere insieme gioca a suo favore.» «Non capisco.» «Non vuole che voi due stiate in celle diverse in attesa del processo. Ma che viviate nello stesso appartamento, condividendo il letto la notte.» «Perché?» «Ha visto i giornali. I procedimenti del gran giurì dovrebbero essere segreti, ma è già trapelato che la tesi dell'accusa si fonda sul fatto che lei e Gary Varnes avevate una relazione.» «Non è vero.» «Questo non impedirà al pubblico ministero di cercare di dimostrarlo. Se crede che le cose vadano male adesso, aspetti l'inizio del processo, quando Ohn presenterà tutte le prove della sua presunta infedeltà.» Il pensiero la fece tremare. «Posso solo immaginare cosa stia passando per la testa di Kevin.» «È questo il punto. Tenendovi vicini, Ohn sta costruendo una pentola a pressione. Più tempo trascorrerete insieme, più opportunità avrete di litigare su quanto è realmente successo fra lei e Varnes.» «Quindi lui spera di rendere la nostra vita un inferno?» «Non solo. Più discuterete, più è probabile che uno di voi contravvenga ai patti e accusi l'altro.» «Io non lo farei mai. E neanche Kevin.» «Mai dire mai», l'avvisò Tony. Peyton abbassò la testa, prendendo per un attimo in considerazione la possibilità che l'avvocato avesse ragione. Fece un profondo respiro e domandò: «Che cosa succederà adesso?» «Non voglio che la polizia venga a casa vostra ad arrestarvi e vi porti via in manette, così chiamerò Ohn e tenterò di fissare una data in cui vi consegnerete di vostra spontanea volontà. Sarete formalmente accusati e poi, come le dicevo, verrete probabilmente rilasciati su cauzione. Le darò un colpo di telefono non appena avremo chiarito tutti i dettagli.» Peyton fissava la parete della camera da letto, ottenebrata dalla dura realtà che piano piano stava penetrando in lei. Sono stata accusata di omicidio. «Si sente bene?» La voce di Tony le sembrava provenire da molto lontano. «Sì, certo», mormorò in un tono privo di emozione. «Ci vediamo alla festa.»
47 Tony Falcone aveva perso il notiziario delle diciotto, così alle undici di sera teneva gli occhi incollati alla televisione mentre stava sdraiato sul suo gigantesco letto matrimoniale. Non sapeva quale rilevanza avrebbero dato alla vicenda, ed era molto combattuto in proposito. Da una parte, quella pubblicità avrebbe ferito la sua cliente. Dall'altra, chi diavolo se ne importava? Se non avesse attirato su di sé tutta l'attenzione, questa sarebbe semplicemente ricaduta su qualche altro avvocato meno meritevole. «Jennifer, vieni, svelta», gridò. La moglie emerse dal bagno, con addosso una vestaglia orientale di seta, lo spazzolino in mano. «È la storia di copertina!» esclamò, alzando il volume con il telecomando. L'annunciatrice parlava in toni sensazionalistici. «Oggi c'è stato un importante sviluppo in quello che è ormai diventato il caso più discusso di Boston.» Alle sue spalle, apparve sullo schermo un'immagine di Peyton che decisamente la valorizzava: l'aria sensuale, le labbra socchiuse, i capelli appena mossi. Evidentemente i fotografi avevano continuato a scattare finché non aveva catturato l'espressione sexy e seducente che si adattava al taglio di quella notizia da «prima pagina». L'annunciatrice proseguì: «Il gran giurì ha formalizzato una doppia imputazione per omicidio a carico della coppia accusata di aver ucciso l'uomo che era rimasto coinvolto in un sordido triangolo amoroso. Durante la conferenza stampa l'assistente del procuratore distrettuale, Charlie Ohn, ha rilasciato questa dichiarazione». Partì il filmato di Ohn in piedi davanti a un leggio, accanto alla bandiera americana. «Questo pomeriggio...» «Blablablà», gli fece il verso Tony. «Lasciami sentire», disse Jennifer. «Per l'amor del cielo, sei un ex pubblico ministero. Potresti recitare il suo discorso trito e ritrito nel sonno.» Fece un ampio gesto con il braccio e aggiunse con ironica voce baritonale: «Garantire libertà e giustizia per tutti». «Sst», lo tacitò lei, poi rimase interdetta. Tony apparve all'improvviso sullo schermo. «Che diavolo ci fai lì?»
«Ho organizzato la mia piccola conferenza stampa privata.» «Tu, serpe. Pensavo ci fossimo accordati di tenerla congiuntamente, domani.» «Sei così sprovveduta da fidarti di tuo marito?» Jennifer gli tirò una cuscinata. Lui rotolò giù dal letto e si posizionò davanti al televisore, affascinato dalla propria immagine. «Quei test poligrafici sono stati fatti esclusivamente a scopi privati», stava dicendo il Tony televisivo, «quindi non ho nessuna idea di come la stampa sia venuta a conoscenza dei risultati. Ma visto che ormai sono diventati di pubblico dominio, posso tranquillamente affermare che la mia cliente, la dottoressa Peyton Shields, fin dall'inizio con me si è sempre detta innocente, e io le credo.» Il filmato si interruppe. L'annunciatrice passò a un altro servizio, la storia della mala gestione dei fondi per la costruzione della rete stradale e il Big Dig, il grande scavo di Boston. Tony spense il televisore. Jennifer fece una smorfia. «Sarò onesta. Mi sento un po' a disagio. Cos'è questa sciocchezza sul non avere idea di come i test poligrafici siano finiti in mano alla stampa?» «Ehi, se il pubblico ministero riesce a rimanere serio mentre afferma di non capacitarsi della fuga di notizie sul gran giurì, io posso fare lo stesso gioco.» «Ecco di cosa sto parlando. Tu la vedi come un gioco. È per questo che non volevo lavorare al caso con te.» «Dai, siamo sposati da dieci anni. Era ora che affrontassimo un caso insieme.» «Abbiamo stili completamente diversi. Ciò rende il nostro matrimonio molto interessante, ma non credo che le cose in tribunale andranno altrettanto lisce.» Lui sorrise malizioso e si avvicinò, posandole le mani sui fianchi. «Quindi ti piacciono le cose lisce?» La baciò delicatamente sulle labbra, poi agli angoli della bocca. «Che cosa fai?» protestò lei, sensibile al solletico. Le mani di Tony si infilarono nella sua vestaglia. Jennifer gettò i lunghi capelli rossi all'indietro e sorrise. «Vieni», disse lui, portandola verso il letto. «Te lo faccio vedere io come vanno lisce, le cose.» Una pentola a pressione. Erano quelle le parole rimaste impresse nella
mente di Peyton. Più di arresto, più di capo d'imputazione, persino più di omicidio di secondo grado. Più di qualunque altra affermazione dell'avvocato. La pressione era la sola cosa che le sembrava reale. La sentiva già mentre giaceva sveglia nel letto a mezzanotte passata. Kevin era girato su un fianco, ma avvertiva che anche lui non si era ancora addormentato. Chi mai avrebbe potuto dormire in una notte come quella, la notte prima che marito e moglie facessero il loro ingresso in tribunale per rispondere dell'accusa di omicidio? «Kevin?» lo chiamò nel buio. «Cosa?» fece lui senza muoversi, continuando a darle le spalle. «Perché non ti hanno chiesto se hai ucciso Gary Varnes?» Lui non reagì. Alla fine si girò e la guardò dal suo lato del letto. «Come fai a saperlo?» «Ho visto le domande che Ike ti ha posto.» Kevin si appoggiò su un gomito e si avvicinò leggermente. Sembrava guardarla negli occhi, sebbene fosse troppo buio per dirlo. «C'era un'ottima ragione», affermò. «Voglio saperla.» «C'entra con il ricatto, o il riscatto o comunque tu voglia chiamarlo. Sono stato io a dirti di non pagare, ricordi?» «Me lo ricordo molto bene.» «E dopo che ci siamo rifiutati di farlo, hanno ammazzato Gary. Ne ho parlato con il mio avvocato, e lei era convinta che, inconsciamente, io potessi nutrire forti sensi di colpa a questo proposito. Jennifer temeva mi sentissi indirettamente responsabile della sua morte e che avrei avuto una reazione emotiva interpretabile come una menzogna, se mi avessero chiesto se lo avevo ucciso.» Peyton provò a decifrare l'espressione del suo viso, ma il fioco bagliore dell'abat-jour non era sufficiente. «Ti sembra un motivo sensato?» le chiese. Lei non era sicura. Ma per il momento c'era solo una risposta giusta. «Sì, certo.» Lui le carezzò delicatamente i capelli, poi si girò di nuovo sul fianco e tornò nel suo lato del letto. «Buonanotte», gli augurò Peyton, la mente che turbinava. Senza dubbio, quella spiegazione era sensata. Sensatissima. Fin troppo sensata. Chiuse gli occhi e provò a dormire un po', sapendo che non ci sarebbe
riuscita. 48 «Tutti in piedi», annunciò la guardia giurata. Lesse il numero del caso, aggiungendo: «Lo stato del Massachusetts contro Peyton Shields e Kevin Stokes. Presiede l'onorevole giudice Oscar Gilhorn». Peyton e il suo avvocato erano l'uno di fianco all'altro, come pure Kevin e Jennifer. Alla loro sinistra, al tavolo più vicino ai seggi vuoti della giuria, sedeva Charles Ohn, con un giovane assistente del procuratore distrettuale. Svariate troupe televisive e perlomeno una trentina di giornalisti si alzarono in piedi all'ingresso del giudice Gilhorn, producendo un rimbombo che ricordava quello di una banda in marcia. «Accomodatevi, prego», invitò il giudice dallo scranno. Nella vecchia aula ci fu un breve tramestio, mentre gli spettatori riprendevano posto. Poi, silenzio. Peyton strinse forte i braccioli della sedia. Non sapeva che cosa aspettarsi e temeva non lo sapesse neppure il suo legale. Tutto quello che Tony le aveva detto prima dell'inizio dell'udienza preliminare era che non si sarebbe conclusa con la consueta rapidità. Ohn aveva presentato una mozione d'urgenza, che richiedeva delle argomentazioni legali. «Sbrighiamo innanzitutto le formalità», cominciò il giudice. «Come si dichiara l'imputata Peyton Shields?» Lei fece per alzarsi, ma Tony era già balzato in piedi e rispose: «Innocente, Vostro Onore». Il giudice lo guardò da sopra gli occhiali con aria di rimprovero. «Un semplice 'non colpevole' è più che sufficiente, avvocato Falcone.» Poi si rivolse al difensore di Kevin. «E il signor Stokes?» «Non colpevole», rispose Jennifer. «Signor Ohn, lo stato vuole essere interpellato sulla questione della libertà provvisoria?» Il pubblico ministero si alzò e disse: «Accettiamo che i due imputati siano rilasciati dietro cauzione». Il giudice parve ripensarci. «Con un'accusa di omicidio di secondo grado?» «Si tratta di imputati ben inseriti nella comunità. Il rischio di una loro possibile fuga non ci pare sostanziale.» Tony si avvicinò a Peyton e sussurrò: «Ricordi quello che le ho detto. Vi
vuole tenere insieme». Il giudice chiese: «La decisione del pubblico ministero soddisfa la difesa?» «Sì», risposero i due avvocati all'unisono. «Bene», concluse il giudice. «Ora, andiamo al nocciolo della questione. Un'ora fa ho ricevuto una mozione d'urgenza dall'ufficio del procuratore distrettuale. A una prima occhiata pensavo si trattasse di un tentativo piuttosto trasparente di drammatizzare il dibattimento. Ma nel leggerla mi sono reso conto che sollevava un punto estremamente importante, da me considerato un principio cardine. Signor Ohn, se vuole procedere.» «Con piacere», rispose lui. «È a conoscenza di questa corte, come pure di tutta la città di Boston, che ieri sera l'avvocato Falcone ha tenuto una conferenza stampa. Lo scopo di tale conferenza era, in realtà, ribadire la presunta innocenza della sua cliente, Peyton Shields. Il signor Falcone ha parlato di esami poligrafici che sono trapelati alla stampa, scaricando qualsivoglia responsabilità da parte sua per la fuga di notizie.» Il giudice lo interruppe. «Questo non è il punto della mozione, per come l'ho letta.» «No, Vostro Onore. Serve solo a chiarire il contesto. Alla base della nostra mozione ci sono le parole con cui Falcone si è congedato, e cito: 'Posso tranquillamente affermare che la mia cliente, la dottoressa Peyton Shields, fin dall'inizio con me si è sempre detta innocente, e io le credo'. Fine della citazione.» Tony guardò Peyton come a chiedere: E allora? «Ora, se analizziamo in dettaglio questa dichiarazione, noteremo che l'avvocato Falcone ha fatto due cose. Primo, ha rivelato in un contesto pubblico un'informazione che la sua cliente gli ha confidato in una conversazione privata. Secondo, ha affermato in un contesto pubblico che crede a quanto lei gli ha confidato. È nostra convinzione che, così facendo, lui abbia violato il segreto professionale.» «È assurdo!» gridò Tony. Il giudice lo richiamò all'ordine. «Signor Falcone, la prego.» Il pubblico ministero proseguì: «La legge che disciplina il rapporto fra avvocato e cliente è molto chiara in merito. Se parte di una conversazione protetta dal segreto professionale viene volontariamente resa pubblica, dev'essere esposta l'intera comunicazione. Un avvocato non può selettivamente rivelare le parti favorevoli di una conversazione e omettere quelle non favorevoli che riguardano il medesimo argomento».
Il giudice annuì. «E quale sarebbe il rimedio da lei auspicato?» «Una totale deroga al segreto professionale. La nostra mozione mira a ottenere copia di tutti gli appunti delle conversazioni che l'avvocato Falcone ha avuto con la cliente. Se crede che la sua cliente sia innocente, e sceglie di parlarne apertamente in pubblico, allora lo stato ha il diritto di venire a conoscenza degli elementi su cui si fonda quella convinzione.» «Ma questo è ridicolo!» protestò Tony. «È tutta una messinscena.» «Si sieda», lo ammonì il giudice. Tony riprese posto. Peyton si sforzò di non apparire terrorizzata, anche se era certa di non riuscirci. Le sembrava di sentire gli obiettivi delle telecamere zoomare su di lei dalla galleria riservata alla stampa. Il giudice Gilhorn si appoggiò allo schienale della sua poltrona, preparandosi a pontificare. «Alcuni mi considerano all'antica. Altri pensano che sono solo vecchio. Ma ai miei tempi, gli avvocati avevano una certa dignità professionale. Non ho nulla contro chi si esibisce in vigorose difese in aula. Quello che non sopporto, a essere franco, sono gli imbonitori che hanno un debole per trasformare ogni processo penale in un circo mediatico.» Si protese in avanti, guardando Falcone con occhi torvi. A Peyton pareva che quelle parole fossero rivolte a lei. «Sono stufo di vedere tutte le sere al notiziario avvocati difensori che garantiscono l'innocenza dei propri clienti. Dal mio punto di vista, un avvocato non dovrebbe mai garantire per il proprio cliente. Soltanto rappresentarlo e difenderlo.» Peyton guardò alle proprie spalle. La stampa seguiva con attenzione la scena. Gilhorn continuò: «D'altronde capisco che la mozione del pubblico ministero è un po' aggressiva. Non credo sia giusto recare detrimento alla dottoressa Shields a causa di una macchinazione architettata dal suo legale. La corte respinge la mozione. Ma da questo momento, signor Falcone, si ritenga imbavagliato». «Vostro Onore...» «Imbavagliato», ripeté il giudice, facendo il gesto di chiudersi la bocca con una lampo. Poi si rivolse al difensore di Kevin. «E per quanto riguarda lei, Jennifer, la conosco sin da quando era una praticante presso l'ufficio del procuratore distrettuale. Mi sorprende che abbia tollerato un gesto tanto sconsiderato.»
Jennifer abbassò lo sguardo, poi lanciò un'occhiata al marito, il viso avvampato di rabbia. «Non succederà più, Vostro Onore.» «Me lo auguro davvero. Passiamo oltre.» Alzò il martello, pronto ad aggiornare l'udienza. «Se tutti concordiamo sul comportarci da adulti d'ora in poi, allora possiamo...» «Vostro Onore», intervenne il pubblico ministero, appena in tempo per fermare il martello. «C'è un'ulteriore questione che vorrei sollevare.» «Quale sarebbe?» «Riguarda la prova che abbiamo ottenuto grazie al mandato di perquisizione.» «Si tratta di qualcosa di cui dobbiamo discutere adesso?» «Vorrei solo avvisare la corte di un possibile problema di procedura.» «Problema?» chiese il giudice. «Il mandato di perquisizione emesso ha identificato due oggetti. Una cassetta di metallo e la pistola che usava contenere, entrambi di proprietà della dottoressa Shields. Siamo entrati in possesso della cassetta, ma l'arma non era custodita al suo interno.» «A volte si ha fortuna, altre no», rispose serafico il giudice. «Giusto, Vostro Onore. Infatti abbiamo scoperto una miniera d'oro. La pistola non c'era, però dentro abbiamo trovato qualcos'altro.» Tony balzò in piedi. «Non se ne parla nemmeno. Non ci si può servire di un mandato di perquisizione per entrare in possesso di prove non elencate. Sul mandato erano segnati la cassetta e la pistola. Nient'altro. Qualunque altro oggetto abbiano sottratto dall'appartamento è inammissibile.» «Non sa nemmeno di che si tratti», obiettò il giudice. «Non ha importanza», replicò Tony. «Se non si tratta di una pistola o di una cassetta metallica, l'accusa non può presentarlo in aula come prova.» Gilhorn chiese: «Che cosa avete trovato, signor Ohn?» Il pubblico ministero gonfiò il petto. Lanciò un'occhiata al giudice, poi alla stampa. Alla fine, il suo sguardo si posò dritto su Peyton. «Comunicazioni fra la dottoressa Shields e la vittima, Gary Varnes.» Il cuore prese a batterle all'impazzata. Non capiva a cosa lui si riferisse. «Potremmo definirle delle lettere d'amore.» Tony balzò in piedi. «Questa procedura è totalmente irregolare, giudice. Non abbiamo visto le lettere, e non sappiamo di quali stia parlando.» Peyton avrebbe voluto afferrarlo, scuoterlo e gridargli che non c'era nessuna lettera. Non potevano assolutamente esistere delle lettere d'amore. Kevin non si era ancora degnato di guardare dalla sua parte, ma lei vide
un'ombra che oscurava il suo profilo. «Be'», bofonchiò il giudice. «Devo concordare con l'avvocato Falcone. Pare si tratti di una questione che va esaurientemente approfondita per iscritto, prima che la corte possa esprimere una qualunque decisione in merito all'ammissibilità di queste lettere. Supponendo, naturalmente, che siano rilevanti.» «Oh, lo sono davvero. Lo stato intende provare che Gary Varnes e la dottoressa Shields avevano una relazione, che poi è sfociata nell'omicidio di Varnes. Le lettere costituiscono una prova piuttosto convincente sotto questo aspetto. Un anno intero di corrispondenza. E con un contenuto, per così dire, sessualmente esplicito.» Quell'affermazione scatenò la reazione della stampa. Il giudice picchiò il martelletto. «Fate silenzio in aula.» Tony affermò: «Dobbiamo esaminare quelle lettere». «Mi sembra giusto», rispose il giudice. «Signor Ohn, può cortesemente provvedere a fornirne una copia alla difesa?» «Ne ho già preparate un paio», rispose il pubblico ministero. Attraversò l'aula e lasciò cadere due grosse buste sul tavolo davanti a Kevin. Peyton cercò di incontrare gli occhi del marito. Ci stava provando da quando le parole «lettere d'amore» erano state pronunciate per la prima volta. Ma lui continuava a ignorarla. Il pubblico ministero disse: «Vorrei precisare che non sono lettere scritte a mano, nel senso convenzionale del termine. Ma trascrizioni di conversazioni avvenute in una chat room su Internet, utilizzando il computer. In questi casi si può parlare di cibersesso, o sesso virtuale». Il giudice alzò gli occhi al cielo. «La cosa va davvero al di là della comprensione di questo povero vecchio.» «I termini informatici non sono affatto importanti, Vostro Onore. Il punto è che la dottoressa Shields ha stampato queste sue comunicazioni con la vittima e le ha raccolte in un luogo segreto, proprio come gli amanti per secoli hanno nascosto la propria corrispondenza amorosa.» «Ebbene, presenti queste lettere o trascrizioni con appropriata mozione, e la corte prenderà una decisione in merito. Nient'altro?» «Niente, da parte nostra», rispose Ohn. «No», disse Tony. «L'udienza è aggiornata.» Il giudice batté il martello e si diresse verso l'uscita laterale che conduceva al suo ufficio. Il frastuono alle loro spalle segnalò la carica della stampa affamata di dettagli. I giornalisti si fermaro-
no alla sbarra, a pochi metri dagli avvocati della difesa e dai loro assistiti. Peyton non volle neppure voltarsi, sebbene fosse già stata travolta da un'ondata di domande. «Cosa sono queste lettere? Dottoressa Shields, che cosa ha scritto?» Dietro insistenza di Falcone, i quattro si raccolsero attorno al tavolo della difesa. Tony sussurrò con voce roca: «Uscire sarà difficile. Voglio che procediamo in fila indiana, compatti. Jennifer in testa, seguita da Kevin, poi Peyton e io. E, Kevin, tu prenderai per mano tua moglie mentre ce ne andiamo da qui. Capito?» Kevin parve sul punto di protestare, ma Jennifer lo anticipò: «Capito». «Non rispondete a una sola domanda dei media, ed evitate di apparire preoccupati. Non appena arriviamo in studio, esigo una dettagliata spiegazione su quelle lettere.» «Anch'io», disse Kevin. Peyton si sentì arpionata. Jennifer si mise in marcia. Lei tese la mano. Kevin la prese, ma il suo tocco non le trasmise alcun calore. In fila indiana, i quattro entrarono in collisione con una stampa rumorosa e scatenata. Gran parte delle telecamere era puntata su Peyton. Era difficile capire le domande in tutto quel trambusto, ma quelle gridate più forte riguardavano la sua presunta relazione con Gary. «È vero?» «Lo amava?» «Suo marito ne era a conoscenza?» A testa alta, Peyton si sforzò di guardare oltre quella folla frenetica e di mostrarsi impassibile. Eppure, non c'era modo di evitare di incontrare lo sguardo dei giornalisti più intraprendenti, che le si gettavano letteralmente incontro. Ogni volta che i suoi occhi si posavano su uno di quei volti eccitati, anche se solo per un istante, si rendeva conto con sconforto che il pubblico ministero aveva dato in pasto ai lupi proprio quello che loro volevano. Lei. 49 Nessuno parlò lungo il tragitto di ritorno dal tribunale. Peyton e Kevin sedevano sul sedile posteriore della Jaguar di Falcone; gli altri due erano davanti. Si erano messi d'accordo di incontrarsi di nuovo nello studio due
ore dopo, per dare ai legali la possibilità di rivedere il «materiale», come lo definiva Tony. Non appena loro scesero dall'auto, Jennifer assalì il marito. «Non sono mai stata tanto umiliata in vita mia.» «Tu? Il giudice mi ha sbattuto in faccia un ordine di imbavagliamento. Tutta la stampa di Boston si sta avventando sulle presunte lettere di Peyton. E tu ti senti umiliata?» «Ti sei dimenticato di come il giudice mi ha ripresa in piena udienza? Mi ha persino chiamata per nome: 'E per quanto riguarda lei, Jennifer, mi sorprende che abbia tollerato un gesto tanto sconsiderato'.» Tony si fermò a un semaforo. «È soltanto un vecchio sciocco.» «È uno stimato giurista. E i giudici parlano fra loro. Io ho una reputazione da difendere.» «Oh, e io no?» «È diverso. Io sono un ex pubblico ministero. Ho passato nove anni sull'altro fronte, e ho ancora degli amici nell'ufficio del procuratore distrettuale che rispettano la mia credibilità. Tu ti occupi da sempre di diritto penale. La gente si aspetta che tu sia...» «Squallido?» «Non era quello che intendevo dire.» «Ma era quello che stavi pensando.» Un clacson suonò alle loro spalle. Tony brontolò e oltrepassò il semaforo verde. Jennifer guardò fuori del finestrino e disse: «Vorrei solo che tenessi a bada il tuo ego e rispettassi i miei desideri». «Tesoro, se vuoi lasciare il caso, questo è il momento giusto.» Lei non rispose subito. Poi, abbozzò un sorriso per smorzare i toni della discussione. «Non ti libererai di me tanto facilmente, pezzo di idiota.» Tony si ammorbidì un po'. «In realtà, credo che le parole esatte siano state: 'Nel bene e nel male'.» «La mia parola è sacra.» Lui svoltò nel garage del palazzo dove si trovava il loro studio. «Vuoi dire che sei pronta a imbarcarti per un viaggio lungo e periglioso?» «Parli del matrimonio o del caso?» «Del caso, saccentona.» «Sì. A meno che, naturalmente, il pubblico ministero non lasci cadere le accuse contro Kevin.» «Aspetta e spera.» Non poteva dirgli dell'accordo che Ohn aveva offerto al suo cliente. In-
tuiva soltanto che quelle lettere d'amore avrebbero potuto far cambiare idea a Kevin. «Sono successe cose davvero strane», si limitò ad affermare. Peyton tornò nello studio di Tony alle cinque e mezzo. Kevin era con lei, ma soltanto nel senso fisico del termine. Le aveva rivolto a stento la parola, da quando erano usciti dal tribunale. A casa avevano guardato le stampate delle conversazioni in chat. Tony si era tenuto una copia per sé, così loro due avevano dovuto condividere l'altra. Sedersi a leggerle insieme era fuori discussione. Kevin aveva insistito per farlo per primo, il che si era rivelato un errore. In caso contrario, Peyton avrebbe avuto la possibilità di dare la propria versione dei fatti prima che lui subisse il colpo più duro della sua vita. E invece, Kevin aveva passato venti minuti a leggere le trascrizioni e poi un altro quarto d'ora a sbollire da solo in soggiorno, mentre toccava a lei. Quando infine era pronta a parlare, lui era tutt'altro che pronto ad ascoltare. Fu per quella ragione che Peyton iniziò l'incontro nello studio di Tony con lo stesso ritornello che a casa era caduto nel vuoto. «Non ho scritto niente di tutto questo», dichiarò. I quattro erano seduti attorno a un tavolo rotondo nella sala riunioni. Le trascrizioni erano appoggiate al centro del piano di vetro scuro. «Allora che cosa ci facevano in una cassetta di sicurezza nel suo armadio?» chiese Jennifer. «Non lo so. Qualcuno deve avercele messe.» L'altra parve scettica. Tony intervenne: «Non diamo giudizi affrettati. Prima di tutto, dalle stampate in questione non emerge affatto la certezza che si tratti di conversazioni avvenute fra Peyton e Gary Varnes. Questo materiale», come amava definirlo, «è stato falsificato». «Non mi intendo molto di chat room», ammise Jennifer. «Ma come puoi affermare che siano state alterate?» «Il modo migliore è mostrarvelo.» Prese la sedia e la mise davanti al computer sistemato su una piccola scrivania, poi si connesse a Internet. «Entrerò in una chat room a caso.» Pochi clic del mouse, lo schermo emise due bip, e il gioco era fatto. «Eccone una sullo sport. Ora, osservando questa conversazione online possiamo notare due cose. Primo, il nickname di ogni utente è scritto sul margine sinistro della pagina. Secondo, il messaggio scritto appare alla destra del nome. Così è sempre possibile sapere chi sta dicendo che cosa.»
Jennifer osservò una delle trascrizioni stampate. «Qui non ci sono nickname. Soltanto il testo dei messaggi.» «Esatto», disse Tony. «Ora, lasciate che vi faccia vedere cosa accade se stampiamo una parte di questa conversazione.» Cliccò su un'icona e stampò una pagina, poi posò il foglio sul tavolo vicino agli altri. «Guardate in cima alla pagina che ho appena stampato.» Peyton disse: «Ci sono la data e l'ora di oggi». «E appare anche il nome della chat room in cui mi trovavo. È evidente che nessuna di queste informazioni è riportata sulle trascrizioni prodotte da Ohn.» Kevin chiese: «Allora, che cosa sta succedendo?» «Qualcuno ha alterato le trascrizioni», spiegò Tony. «Senza i nickname o la tagline del sito è impossibile contattare il provider di Internet per scoprire le vere identità che si nascondono dietro i nomignoli. Il pubblico ministero non sarà mai in grado di provare chi abbia scritto questi messaggi.» «Ma perché uno dovrebbe prendersi la briga di rimuovere quelle informazioni?» «Perché nella chat c'era qualcun altro», disse Peyton. «Chiunque abbia alterato le trascrizioni è la stessa persona che le ha messe nella mia cassetta. E anche la stessa che ha rubato la mia pistola, e che probabilmente l'ha usata per uccidere Gary Varnes. Sono stata incastrata! Non lo capite?» Si interruppe, dando modo ai presenti di meditare sulla sua teoria. Soltanto Tony parve impressionato. «C'è un'altra possibilità», obiettò Jennifer. «Come ha sostenuto il pubblico ministero, supponiamo che la moglie conservi queste trascrizioni chiuse a chiave in una cassetta, perché si tratta di una corrispondenza amorosa segreta. Potrebbe essere stata lei a rimuovere i nickname e il nome del sito. Così, anche se il marito le avesse trovate, non sarebbe riuscito a risalire al suo amante.» «Ma non è così. Io non ho mai avuto un amante.» «Ci sta sfuggendo il fatto più ovvio», disse Kevin, il volto stravolto dal dolore. «Ho cercato di valutare questo scambio di messaggi in modo obiettivo, anche se non è facile leggere di un tizio che esprime il suo bollente desiderio per il corpo di tua moglie. Comunque quello che conta non sono le parti di sesso spinto, ma i dettagli. La donna della chat non esce mai allo scoperto, dichiarando: 'Mi chiamo Peyton'. Però è come se lo avesse fatto. Parla del suo internato in pediatria al Children's Hospital, del quartiere in cui vive, della facoltà di medicina che ha frequentato. Addirittura del mari-
to avvocato. Cose di cui solo Peyton potrebbe parlare.» «Ma non è il mio stile!» protestò lei. «È vero, uno dei due utenti cita dei dettagli che corrispondono alla mia vita. Comunque si tratta di cose che potrebbero essere facilmente scoperte da chiunque sia disposto a fare un minimo di ricerca sul mio conto. Il punto più importante è il tono, la scelta dei termini, la fraseologia. Tutto quel linguaggio da chat room, le lettere minuscole e i numeri al posto delle parole... non sono io. E in quanto mio marito, tu dovresti saperlo.» «Non so più se ti conosco davvero», rispose lui. Un imbarazzato silenzio calò nella stanza. Tony disse: «È chiaro che dovrete affrontare l'argomento in privato. Come avvocato di Peyton, però, permettetemi di fare un'osservazione. Queste stampate non rappresenteranno mai una prova in tribunale. Per le ragioni che abbiamo detto, il pubblico ministero non potrà stabilire che siano effettivamente le trascrizioni di conversazioni avvenute fra lei e Gary Varnes. Muoveremo un milione di obiezioni, e il giudice le accoglierà». «Allora perché Ohn le ha sventolate in aula questa mattina?» chiese Peyton. «Per solleticare la stampa e tirarci un colpo basso. Voi due vi state comportando proprio come lui aveva sperato. Gliel'ho già spiegato, Peyton. È il motivo per cui vi ha accusati di omicidio di secondo grado e non ha nemmeno insistito sulla cauzione. La sua strategia prevede che vi tagliate la gola l'un l'altra. Con la presentazione delle trascrizioni stamattina vi ha armati di coltelli. Mi spiace constatare che le lame sono già sporche di sangue.» «Che diavolo pretendete che faccia?» chiese Kevin. «I messaggi non avranno una data, ma in uno di questi i due si scambiano gli auguri per Halloween. Pensate sia contento di sapere che sono stato ingannato per quasi un anno?» «Cerca di capire che io non ti ho ingannato», replicò Peyton in tono supplichevole. «So che sembra pazzesco, però qualcuno sta fingendo di essere me. Per incastrarmi.» «Vorrei tanto crederti. Voglio crederti. Ma chi mai si prenderebbe tutto quel disturbo?» I quattro si scambiarono un'occhiata, come se avessero formulato simultaneamente lo stesso pensiero. «Adesso resta la questione dell'ora», disse Tony.
50 Alle otto la cena era pronta. Valerie e Hank Shields erano passati a trovarli per dare sostegno alla figlia in difficoltà. Poi la madre aveva insistito per cucinare qualcosa di buono per Peyton. Era stato il padre a invitare anche Kevin a sedersi a tavola. A Valerie il genero non era mai piaciuto, nemmeno negli anni più felici del loro matrimonio. Non si comportava in modo apertamente ostile, ma aveva il potere di irritarlo come nessun altro. «Allora, che cosa ne pensi di questa faccenda, Kevin?» Era come se Valerie lo avesse colpito in testa con il cucchiaio di legno. Masticò un boccone di spinaci in insalata e poi chiese: «Quale faccenda?» «Oh, forza. Siamo adulti. Parlo di tutte quelle sciocchezze secondo cui Peyton faceva del sesso virtuale su Internet.» «Mamma, ti prego.» «Io sono dalla tua parte, tesoro.» «Non possiamo limitarci a goderci la cena?» intervenne Hank. «Siamo una famiglia», replicò Valerie. «È importante sapere che cosa pensa ognuno di noi. Ora, io la vedo così. Prima di tutto mia figlia non farebbe mai una cosa simile. Ma Kevin, in quanto suo marito, forse non ha in lei la mia stessa fiducia. Quindi vorrei puntualizzare il fatto.» «Non ce n'è bisogno», ribatté Kevin. «Preferisco precisare», rispose la suocera. «Perché questi insidiosi reporter non sottolineano mai che Peyton è una delle persone più impegnate del pianeta. Sta facendo l'internato di pediatria nel più importante ospedale per bambini del mondo. Suo padre e io l'abbiamo vista di rado da quando ha iniziato a frequentare la facoltà di medicina, e abitiamo nella stessa città. Lavora da sedici a diciotto ore al giorno, sei giorni la settimana. Qualcuno a questa tavola può davvero credere che lei abbia avuto il tempo di sedersi davanti a un computer per chiacchierare con Gary Varnes sulle dimensioni del suo pene?» «Preferirei sinceramente non discutere di queste cose», mormorò Kevin. «Voglio solo sapere se ci hai pensato.» Dato che lui taceva, Valerie guardò la figlia. «Non glielo hai spiegato, Peyton?» Lei si versò il vino, mentre lottava per contenere la rabbia. «Forse speravo di non essere costretta a giustificarmi, facendo notare che non ho tempo sufficiente per tradire mio marito. Contavo su una piccola dimostrazione di fiducia.» Parlò guardando Kevin. Lui teneva gli occhi fissi sul piatto. Alla fine li
alzò e si rivolse alla suocera. «So che hai delle buone intenzioni. Ma questo è un argomento che Peyton e io dovremo affrontare più tardi, da soli.» «Sono d'accordo», dichiarò Hank. «Possiamo passare a qualcosa di più leggero? Che ne dite di un po' di lasagne?» La conversazione cessò e si udì soltanto il rumore del cucchiaio da portata, mentre lui serviva a tutti le lasagne. Valerie si lisciò il tovagliolo sulle gambe e disse: «Sai, Peyton, tuo padre e io siamo andati a pranzo in un posticino interessante l'altro giorno». «Dove, tesoro?» chiese Hank, che pareva non averne idea. «Ma sì. Quel bugigattolo in centro. Si chiama Murphy's Pub.» Hank la guardò con aria interrogativa. «Non ricordo di aver mangiato...» «Kevin», disse lei, interrompendo il marito. «Non è lontano dal tuo ufficio. Ci sei mai stato?» Lui si mosse nervosamente sulla sedia. Il Murphy's Pub era dove aveva pranzato con Sandra l'inverno precedente, quando avrebbe dovuto essere sulla strada dell'aeroporto per andare a New York. Non capiva come la suocera potesse saperlo, ma chiaramente era così. «Sì», rispose. «Ci sono stato.» «Dovresti portarci Peyton qualche volta», suggerì lei. «Lo farò.» «Bene. Fallo.» Valerie era scesa in picchiata come un aereo della Luftwaffe e aveva sganciato la sua bomba da duecento chili, con il nome di Sandra scritto sopra. Kevin odiava la sua invadenza, ma sapeva anche che lei aveva ragione. Se intendeva comportarsi da stronzo nei confronti di Peyton per quei messaggi di sesso virtuale, allora doveva pulirsi la coscienza, rivelando i propri segreti. «Ancora un po' di vino?» chiese Valerie. «Sì», disse lui. «Molto volentieri.» Dopo cena, Kevin uscì e vagò un'ora senza meta per la città prima di dirigersi in Copley Square. Aveva dato appuntamento a Sandra alle dieci davanti allo specchio d'acqua che fronteggiava la Christian Science Cathedral. Quella sera aveva ricevuto un suo messaggio. «Parliamone», diceva. Kevin supponeva che lei avesse sentito in televisione la notizia delle lettere d'amore fra Peyton e il suo defunto amante. Da principio, l'istinto gli aveva suggerito di ignorarla: immaginava volesse solo buttare sale sulle sue
ferite. Ma dopo quell'imbarazzante conversazione a cena, aveva cominciato a sospettare che Sandra avesse detto qualcosa a sua suocera. Se lui aveva davvero intenzione di raccontare tutto a Peyton, doveva sapere cosa era successo. Il complesso della Christian Science era un campus monumentale in un frenetico contesto urbano. La vasca lunga duecentoquattro metri di fronte all'immensa basilica e alla più piccola chiesa originale ricordava il National Mall di Washington. Di notte, tuttavia, era chiusa al pubblico. Sandra lo aspettava seduta sulla panchina di una fermata dell'autobus vicino al cancello di ferro dell'ingresso. «Sei venuto», mormorò, sorpresa. «Camminiamo», propose lui. L'uno accanto all'altra, proseguirono lungo il marciapiede. «Suppongo tu abbia saputo cosa è successo oggi in aula», ipotizzò Kevin. «Per questo stasera non sono a casa davanti al computer. Le chat room sono piene di avvisi che dicono: 'attenti a ciò che scrivete'.» «Non è divertente.» «Scusa.» «Perché mi hai mandato un messaggio?» «Spero sia per lo stesso motivo per cui tu mi hai risposto, chiedendomi di incontrarti qui stasera.» Gli lanciò un'occhiata obliqua che lo mise a disagio. «Mi sembra improbabile, Sandra.» Lei non reagì. «Non ti capita mai di pensare a noi due?» «A essere sincero, e non lo dico per cattiveria, ho cercato di non farlo.» «E ci sei riuscito?» «Sì, abbastanza. Fino a stasera.» «Che cosa è successo?» «Peyton e io abbiamo cenato con i suoi genitori. Mia suocera mi ha fatto capire chiaramente che sa qualcosa di me e di te. Quanto meno del nostro pranzo al Murphy's Pub lo scorso inverno.» «Ahi, Kevin. Dopo tutto quello che avete passato, non hai ancora detto a Peyton di noi?» Il tono della sua voce lo fece sentire ancora peggio delle allusioni di Valerie. «No, non gliel'ho detto.» Fece una pausa, poi chiese: «E tu?» «Io? Certo che no.» «Hai detto qualcosa alla madre di Peyton?» Sandra si fermò e lo guardò dritto negli occhi. «Mi stai accusando?»
«Sto soltanto cercando di capire come mai mia suocera sa di noi.» «Be', non lo ha saputo da me», replicò lei. «Ti ho già spiegato, proprio quando eravamo al Murphy's Pub, che io non faccio gli stessi giochetti di tua moglie. Quando ho una relazione con qualcuno, non è mia priorità primeggiare. Per me, è una questione di fiducia. Fiducia totale e incondizionata. È la ragione per cui sono rimasta scottata dal mio primo matrimonio, ma non posso permettere che questo mi cambi, perché... be', per dirla con parole che tu e Peyton potreste comprendere, significherebbe darla vinta al mio ex marito.» Kevin guardò lontano, sentiva il rumore del traffico in sottofondo. Poi si concesse di tornare con lo sguardo su Sandra, e la sua espressione lo sorprese. Si era preparato alla rabbia o alla delusione, persino all'amarezza. Era pronto anche ad affrontare l'arroganza e la gioia maligna nel vedere un ex amante pagare pegno. Ma gli occhi di lei mostravano solo qualcosa che lui non si aspettava assolutamente. Vi lesse una punta di disperazione. «Devo andare», disse, allontanandosi. «Kevin», lo chiamò Sandra. Lui si fermò e si voltò. Lei lo raggiunse, poi si avvicinò come non faceva da quella sola e unica notte che aveva cambiato tutto. Parlò con un filo di voce. «Se hai bisogno di un alibi per la notte in cui Gary Varnes è stato ucciso, potrei fornirtelo io.» L'intensità del suo sguardo lo toccò nel profondo. Arretrò di un passo, rimanendo in silenzio. «Non devi rispondermi adesso», mormorò Sandra. «Pensaci soltanto.» Un autobus passò rumorosamente per Huntington Avenue. «Buonanotte», disse lui. Poi cominciò a camminare, solo, senza neppure sapere se avesse preso la direzione giusta. 51 I genitori di Peyton se ne andarono verso le dieci e mezzo. Sua madre le lasciò un plico di ritagli di giornali. Glieli aveva raccolti tutti, come se lei potesse desiderare di conservare quella rassegna stampa diffamatoria nel suo album dei ricordi. Che cosa diavolo passa a volte per la testa di quella donna? Peyton andò alla finestra che dava sulla strada e guardò fuori. Di Kevin
nessuna traccia. Aveva già provato a chiamarlo sul cellulare, ma lui non aveva risposto. Per quanto riguardava l'adulterio, sembrava che lei stesse perdendo la battaglia su tutti i fronti. Kevin non credeva alla sua innocenza, almeno non completamente. E la presentazione da parte del pubblico ministero di false conversazioni online di certo aveva distrutto l'immagine positiva della giovane dottoressa che aveva scelto di dedicare la sua vita e il suo talento alla cura di bambini malati. Realtà a parte, ora veniva considerata un'adultera con il gusto delle chiacchiere piccanti su Internet. Di certo quelle parole erano già state ampiamente diffuse in rete, un dozzinale titillamento per i soliti perdenti solitari di tutto il mondo. Represse l'impulso di guardare il notiziario delle undici. L'avrebbe soltanto depressa. Alle undici e dieci, tuttavia, la curiosità la spinse a vedere che taglio avessero dato al servizio. Accese la televisione giusto in tempo per sentire uno dei tanti esperti parlare della mozione del pubblico ministero, presentata allo scopo di ottenere una deroga al segreto professionale fra avvocato e cliente, una questione fondamentale che era andata persa nella montatura sensazionalistica del cibersesso. L'ospite era un professore di giurisprudenza, un tipo dall'aria distinta con la barba grigia e gli occhiali, che sembrava godersi i suoi quindici minuti di celebrità a spese di Peyton, pontificando sulle possibili ipotesi. «Naturalmente, se parlassimo con quelli dell'ufficio del procuratore distrettuale, loro direbbero che, se la dottoressa Shields fosse davvero innocente, non si rifiuterebbe di consegnare alla polizia la documentazione vincolata dal segreto professionale.» Spense il televisore. Aveva sentito abbastanza. Come fa una ragazza a vincere una battaglia simile? Gettò il telecomando sul divano e si diresse verso la camera da letto. Magari un buon libro. Accese la luce nell'angolo dove c'era la scrivania e aprì l'armadio a muro. Era pieno di libri, gran parte dei quali risalenti a un'epoca ormai lontana in cui lei aveva tempo di leggere per diletto. Nella sua parte di armadio non trovò nulla di nuovo, così diede un'occhiata alla mensola di Kevin. A quanto pareva, i soli libri che lui aveva letto di recente avevano titoli del genere Come farsi pubblicare con successo, Come scrivere una lettera di presentazione e una sinossi perfette, Come diventare ricchi raccontando agli altri come farsi pubblicare. Continuò a spulciare una seconda fila di saggistica, poi rimase di sasso. Sapeva che in nome della ricerca Kevin aveva acquistato degli insoliti libri di riferimento su argomenti quali autopsie e ferite da lama, persino uno che
spiegava come impiccarsi. Le sembrò una strana coincidenza che quel volume in particolare fosse proprio sopra gli altri. Era come se lui lo avesse consultato di recente. Si intitolava: Come superare un test poligrafico. Le venne voglia di affrontare Kevin non appena fosse rientrato a casa, ma sapeva già come avrebbe risposto. Era diventato uno scrittore di gialli e doveva informarsi su tutto. Lei era disposta a concedere che forse, a un certo punto del suo romanzo, aveva davvero avuto bisogno di conoscere il funzionamento della macchina della verità. Ciononostante, la sua mente fu attraversata da un dubbio. Perché aveva improvvisamente sentito il bisogno di fare un ripasso? Ripose il libro e spense la luce. Erano quasi le undici e mezzo, e Rudy era preoccupato. Stava aspettando nella chat room privata da quasi mezz'ora, e di Ladydoc nessuna traccia. Era certo che quella sera si sarebbe fatta viva, dopo tutto il polverone sollevato dalle loro precedenti chiacchierate. Forse si era sentita tradita dalle trascrizioni che le aveva lasciato nella cassetta di sicurezza. Poteva essere saltata alla conclusione che lui avesse rubato la sua pistola e ucciso Gary Varnes. Ora doveva spiegarle che voleva solo ottenere la sua attenzione. Aveva messo lì quei fogli molto prima che lei ritornasse nella chat room, e quando infine si era presentata, la polizia aveva già preso la cassetta. Quella loro «rimpatriata», poi, era stata troppo breve. Lei era sembrata esitante, timorosa di aprirsi, di compromettersi con un'altra conversazione. Rudy voleva solo che le cose fossero come in passato. Dove sei, Ladydoc? Lo schermo del computer era bianco. Lui si sentì svuotato. Non aveva alcun diritto di arrabbiarsi. Possedeva centinaia di altre trascrizioni delle loro chiacchierate notturne, gran parte delle quali sessualmente molto più esplicite di quelle che aveva infilato nella cassetta. Il suo scopo non era stato metterla in imbarazzo. Non aveva intenzione di permettere a degli sconosciuti di invadere il loro posto privato nel ciberspazio. Per quella ragione aveva rimosso i loro nickname e il nome del sito dalle trascrizioni. Non voleva essere contattato da orde di impostori, o che nuovi ammiratori contattassero lei. Cominciava a sentirsi stanco. La luce brillante dello schermo a cristalli liquidi nel suo piccolo appartamento buio gli infastidiva gli occhi. Alla fine ci fu un segnale di attività, poi apparve una dicitura: «Ladydoc è entrata
nella chat room». Si svegliò immediatamente. «scusa ho fatto tardi», scrisse lei. «stavo guardando il telegiornale.» «6 famosa», rispose lui. «grazie a te.» «grazie a gary varnes.» Lei smise di scrivere. Rudy temette di averla offesa. «mi sono espresso male. tutto ok?» «voglio vederti.» Rudy non rispose. Chiacchierare con lei era una cosa. Aveva rubato così tante password che nessuno sarebbe mai riuscito a collegare una delle loro conversazioni a lui. Ma incontrarla di persona costituiva tutto un altro livello di rischio. E i suoi precedenti non erano buoni. «l'ultima volta mi hai dato buca.» «avevo paura.» «e io sono rimasto scottato. avevamo scelto il posto perfetto. avevamo fissato un'ora.» A mano a mano che scriveva, la sua rabbia montò, e Rudy non si rese nemmeno conto di aver smesso di scrivere con la tipica cortesia del linguaggio da chat room. «Io c'ero e ti ho aspettato per ORE! Avresti potuto dirmi che avevi paura. E invece hai preferito non farti viva.» «avevo da fare.» «BUGIARDA!!!!!!! Ho continuato a entrare nella nostra chat room per una settimana. TU NON SEI MAI VENUTA!!!!!» «invece sono tornata.» Rudy avrebbe voluto tirare un pugno allo schermo. «Sei tornata solo per scaricarmi.» «tu non sai che cosa ho passato. ho dovuto farla finita.» «e io ho fatto lo stesso. E così sei finita nel Jamaica Pond.» Lei non rispose subito. Rudy pensava che sapesse chi l'aveva buttata fuori strada, ma quella reazione ritardata gli fece temere di aver detto troppo. «sei ancora lì?» scrisse. «mi stai facendo paura.» Lui chiuse gli occhi, riprese il controllo della sua rabbia. «Scusa. Non ti ho lasciata affogare quella volta. Non lo farò nemmeno adesso. A patto che tu faccia quello che ti dico.» «cosa devo fare x te?»
«provami che vale la pena salvarti una seconda volta.» «come?» «sai come.» Ci fu un'altra pausa. Il suo cuore batteva all'impazzata per l'emozione. «vorrei poterti vedere.» «che cosa vuoi vedere?» «tu che ti inginocchi sopra di me, enorme, imponente.» Un sottile sorriso gli dischiuse le labbra. Infilò una mano negli short e con l'altra continuò a scrivere. «continua a parlare, baby. tu sai cosa mi piace.» PARTE TERZA Autunno 52 L'autunno portò le farfalle. Peyton le sentiva svolazzare nello stomaco, poiché la fine dell'estate significava l'inizio del suo processo. Da principio, le sei settimane fra l'imputazione e il processo le erano parse un periodo lunghissimo per abituarsi all'idea che si sarebbe trovata di fronte a una giuria. Ma nessun lasso di tempo avrebbe potuto addolcire il colpo di dover rispondere di un omicidio che non aveva commesso. Sembrava una scena quasi irreale, lei e Kevin seduti al tavolo di mogano accanto ai due coniugi assunti per rappresentarli. C'erano voluti l'intero lunedì e la mattina di martedì per selezionare la giuria, con gli avvocati di entrambe le parti presi da quella che sembrava una combinazione di pratiche voodoo e di psicologia popolare per riuscire a raccogliere il gruppo perfetto dei cosiddetti pari. Alle tre del pomeriggio di martedì la giuria era composta: otto donne e quattro uomini, di cui una maestra elementare, un bidello, due casalinghe, un autista di autobus, uno studente del MIT, un sedicente artista, due precari e tre pensionati. Tony e Jennifer erano parsi soddisfatti. Come pure Charles Ohn. Dopo una breve pausa, ritornarono tutti in aula per le dichiarazioni di apertura. I genitori di Peyton sedevano nella prima fila delle panche destinate al pubblico, proprio dietro la figlia. Il padre di Kevin era morto, e lui non vedeva la madre che se ne era andata di casa dai giorni della sua infanzia, quindi non aveva famigliari presenti. La galleria della stampa era completamente esaurita, ben oltre la manciata di giornalisti che aveva assi-
stito all'udienza preliminare. Allo stesso modo, il pubblico era quasi raddoppiato dopo la pausa. Era come se i presenti avessero telefonato agli amici, avvisandoli che lo spettacolo stava per farsi interessante. Peyton aveva la nauseante sensazione che fosse proprio così. «Signor Ohn», esordì il giudice. «La prego, proceda.» Il pubblico ministero si portò nello spazio riservato agli avvocati, una sorta di palcoscenico davanti alla postazione della giuria dove i legali possono rivolgersi direttamente ai giurati come in un soliloquio shakespeariano. Ohn si abbottonò la giacca del completo, salutò i giurati e andò dritto al nocciolo della questione, senza appunti né frasi di circostanza. «Una moglie tradisce il marito. Il marito lo scopre ed è furioso. La moglie prova a interrompere la relazione, ma l'amante non demorde. L'amante viene ucciso.» In aula regnava un totale silenzio. Per un istante, sembrò che Ohn potesse fare ritorno al proprio posto, avendo detto abbastanza. «Chi è stato?» chiese a voce bassa, ma pressante. «Chi ha ucciso Gary Varnes? «È stato il marito, spinto dalla gelosia?» proseguì, parlando più forte. «O invece la moglie, nel tentativo di porre definitivamente fine alla sua relazione extraconiugale?» Dall'altra parte dell'aula, Peyton si chiuse in se stessa. Il pubblico ministero le rivolse uno sguardo torvo. Ohn assunse un tono pratico. «Gary Varnes è stato ucciso con un colpo di pistola alla nuca, sparato da distanza ravvicinata. L'arma del delitto, una calibro trentotto. L'arma non è stata rinvenuta, ma Peyton Shields possedeva una Smith & Wesson calibro trentotto che è misteriosamente scomparsa dal suo appartamento dopo l'assassinio. Il corpo della vittima è stato ritrovato nel bagagliaio dell'auto degli imputati, Peyton Shields era al volante, priva di sensi. Un flacone di sonniferi rovesciato sul sedile accanto a lei. «Vi chiedo ancora: chi ha ucciso Gary Varnes?» Si interruppe, e per Peyton quel silenzio fu intollerabile. Metà dei giurati la stava fissando, l'altra metà guardava il pubblico ministero. Ohn fece un gesto plateale. «La risposta è ovvia», concluse. Rivolse ai giurati una lunga occhiata soddisfatta, come per rassicurarli del fatto che l'accusa formulata dallo stato era indirizzata ai veri responsabili. Poi ritornò al proprio posto, in silenzio. Per sette settimane la difesa aveva aspettato un segnale da parte dell'ac-
cusa che rivelasse quale dei due imputati sarebbe stato accusato di essere l'esecutore e quale il complice dopo il fatto. Ohn non aveva completamente escluso la possibilità di perseguire anche Kevin per omicidio. Ma quel suo ultimo discorso era l'indicazione più significativa finora ricevuta. «Avvocato Falcone, la sua dichiarazione di apertura?» intervenne il giudice. Mentre lui si alzava, Peyton notò l'ambiguità del suo sguardo. Era pienamente consapevole della strategia elaborata dalla difesa congiunta per le dichiarazioni di apertura, ma ora che lei costituiva l'apparente fulcro dell'accusa di omicidio, Tony sembrava nutrire le sue stesse riserve. «L'imputata Shields rimanda la propria dichiarazione all'inizio del dibattimento», proclamò attenendosi al piano. «Molto bene. Signore e signori della giuria, l'imputata Shields ha scelto di pronunciare la dichiarazione di apertura dopo che lo stato avrà presentato la propria accusa. È suo diritto farlo e, se sarà necessaria una difesa, ascolterete il suo avvocato in quell'occasione. Signora Dunwoody, può procedere.» L'avvocato di Kevin andò davanti al leggio. Alle spalle di Peyton il rumore dei passi dei reporter, a caccia di una postazione vantaggiosa, poi il silenzio. Jennifer cominciò il suo discorso, in tono serio ma cordiale. «Una consorte infedele, un amante morto. Se fosse davvero tutto così chiaro, questa giuria avrebbe il compito più facile del mondo. «Invece facile non è. Il vostro compito è esigere che il pubblico ministero provi le proprie accuse contro Kevin Stokes e Peyton Shields oltre ogni ragionevole dubbio. Questo vale per ognuno dei due. Sono marito e moglie, ma le accuse mosse nei loro confronti sono separate. Ciascuno è stato accusato di omicidio di secondo grado. Ciascuno è stato accusato di complicità dopo il fatto. È come se il pubblico ministero volesse farvi apporre una lettera scarlatta sulla fronte di entrambi e semplicemente concludere che sono stati loro.» Scosse il capo, continuando a parlare: «Ha completamente sbagliato, signori. Non esiste alcun loro. Per condannare il mio cliente, lo stato deve provare oltre ogni ragionevole dubbio che è stato lui. Per condannare la dottoressa Shields, lo stato deve provare oltre ogni ragionevole dubbio che è stata lei. Non è sufficiente che possa essere stato uno dei due. La somma di due casi deboli non può dare come risultato una condanna. «Ora io sostengo che, dopo aver visionato tutte le prove, vi convincerete che nessuno dei due ha ucciso Gary Varnes. Ma tenetelo a mente: se la vo-
stra conclusione è che possa averlo fatto l'uno o l'altra, il vostro verdetto dovrà essere il medesimo. Non colpevole». Lasciò che la giuria assorbisse le sue parole, poi ritornò al posto. Peyton provò a non fissarli, ma stava cercando di valutare i giurati, di sondarne gli umori. Un gruppo imperscrutabile. Ma forse l'avevano già condannata. Il giudice Gilhorn ruppe il silenzio. «Sono quasi le cinque, quindi ci aggiorniamo a domattina alle nove. Rammento ai giurati il proprio giuramento. L'udienza è sciolta», concluse con un colpo di martello. Tutti i presenti si alzarono in piedi, e mentre il giudice lasciava l'aula Tony si congratulò con la moglie per il lavoro ben fatto. Peyton colse lo sguardo di Kevin. Sebbene potesse solo supporre a che cosa stesse pensando, avrebbe potuto scommettere di avere intuito giusto. Tutti quei discorsi sul ragionevole dubbio erano molto belli. Ma sarebbe stato ancora più bello ascoltare qualcuno che dichiarasse ad alta voce e in modo più chiaro che nessuno dei due era colpevole. 53 Mercoledì mattina segnò tecnicamente il terzo giorno del processo, ma a Peyton sembrava il vero inizio. Era giunto il momento, per degli esseri umani in carne e ossa, di scagliare le accuse che il pubblico ministero aveva preparato contro gli imputati. Steve Beasley fu il primo. L'ultima volta che lei aveva udito la voce di Steve era stata nel corso di quella disgraziata telefonata al Waldorf-Astoria dall'appartamento di Gary, e avrebbe preferito non sentirla mai più. Il testimone si diresse dritto al banco con viso inespressivo, senza guardarla. Peyton non si sorprese: non era mai stata sua amica e lo conosceva soltanto attraverso il marito. Ma il fatto che evitasse di dare un'occhiata anche nella direzione di Kevin le parve un presagio negativo. Steve prestò giuramento e si girò verso i giurati, rivolgendo ogni tanto lo sguardo al pubblico ministero. Sembrava escludere tutta la parte sinistra dell'aula dal suo campo visivo, come se fingere che lei e Kevin non fossero presenti avesse potuto semplificare la faccenda. «Dica il suo nome, prego.» Le domande si susseguirono, e le risposte fluirono come le battute di una sceneggiatura. Peyton aveva visto la trascrizione della sua testimonianza al gran giurì, quindi non si stupì di nulla. Eppure, leggerla sulla carta era stata
una cosa, ma sentirla riferire ad alta voce in un'aula gremita di persone la ferì. «Quali furono con esattezza le parole che lei udì in sottofondo, mentre parlava al telefono con la dottoressa Shields?» Il testimone guardò i giurati, come per accertarsi che stessero ascoltando. «Ho sentito un uomo dire: 'Non essere timida, Peyton, ti ho già visto nuda'.» La maestra presente in giuria assunse un'aria scandalizzata. L'artista fece un sorriso compiaciuto. Peyton sapeva già che sarebbe successo: le obiezioni contro le prove de auditu erano state tutte respinte nel corso delle mozioni preprocessuali; eppure era difficile accettarlo. Le sembrava quasi di sentire le penne dei giornalisti incidere la carta dei taccuini. Ora tutti i presenti in aula erano al corrente di quello che apparentemente lei faceva quando il marito era fuori città. Ben presto, grazie al potere dei media, tutto il mondo sarebbe venuto a conoscenza del suo meschino, piccolo segreto. «Ha mai parlato di questa storia al signor Stokes?» chiese Ohn al testimone. «Sì. Durante una partita di basket, una domenica mattina. Gli ho raccontato esattamente la telefonata.» «Quale fu la sua reazione?» «In pratica perse le staffe.» «Si arrabbiò?» «In realtà, andò su tutte le furie.» «La ringrazio. Nessun'altra domanda.» Ohn ritornò al suo posto con aria soddisfatta. Jennifer si alzò per il controinterrogatorio, ma Tony le fece un cenno con la mano, come a dire: A questo pollo ci penso io. Afferrò la trascrizione del gran giurì e si posizionò a tre metri dal testimone, i piedi ben piantati a terra. «Signor Beasley, lei ha testimoniato davanti al gran giurì per questo caso, non è così?» «Sì.» «Il signor Ohn le ha domandato della telefonata di Peyton Shields. Specificamente, della voce maschile in sottofondo.» «Esatto.» «Lei ha riferito al gran giurì le parole pronunciate dall'uomo.» «Sì.»
«All'epoca, lei diede la seguente risposta.» Aprì la trascrizione alla pagina segnata e lesse: «L'uomo ha detto: 'Non essere timida, ti ho già visto nuda'.» «Esatto. Ed è quanto ho testimoniato oggi.» «No, non è esatto.» Tony andò a prendere il taccuino, controllando i propri appunti. «Stando alla sua testimonianza odierna, si presume che l'uomo in sottofondo abbia detto: 'Non essere timida, Peyton, ti ho già visto nuda'.» Il teste sbatté le palpebre. «È giusto. Ha pronunciato il suo nome.» «È in questo modo che ricorda i fatti, adesso?» «Sì, ha pronunciato il suo nome. Ne sono certo.» «Ne sono certo anch'io», ripeté Tony, indignato. «Sono certo che così sia più semplice per il pubblico ministero provare che quell'uomo stesse, in effetti, parlando con Peyton.» «Obiezione.» «Accolta.» «Proseguiamo», continuò Tony, le mani in tasca. «Signor Beasley, è a conoscenza del fatto che Gary Varnes usciva con la dottoressa Shields prima che lei sposasse Kevin Stokes?» Steve si strinse nelle spalle: «Come potrei?» «Quindi, supponendo che l'uomo in sottofondo fosse proprio Varnes, e che stesse rivolgendosi proprio a Peyton, e supponendo anche che lui abbia, in effetti, pronunciato le parole: 'Ti ho già vista nuda', lei non sa se si stesse riferendo alla notte precedente o a dieci anni prima.» Steve rifletté un istante, poi rispose con riluttanza: «No, non potrei affermarlo». «Ora, parliamo di come il signor Stokes si è arrabbiato sul campo di basket. 'Andò su tutte le furie', lei ha dichiarato.» «Esatto.» «Per puro amore di precisione, è corretto affermare che Kevin Stokes l'abbia accusata di essersi inventato tutto?» «È proprio ciò che ha fatto.» «Le ha risposto che non credeva che Peyton gli fosse stata infedele.» «Esatto.» «Non ha detto di essere furioso con la moglie, vero?» «Be', no. Mi sembra proprio di no.» «Non ha neppure detto di essere furioso con Gary Varnes, vero?» «Non che io ricordi.»
«La sola persona con cui Kevin era furioso era lei.» «Be', sì, per quanto ne so.» Tony si grattò la testa, in segno di confusione. «Quindi, a che cosa si riduce questa storia, a un caso di rabbia male indirizzata? Il signor Stokes si infuria così tanto con lei, che lui e la moglie decidono di uccidere Gary Varnes?» «Obiezione», intervenne Ohn, irritato. «Ritiro l'affermazione. La giuria ha sentito abbastanza, signor Beasley. A meno che non ci sia qualche altro aspetto della sua testimonianza al gran giurì che lei desidera modificare in questa sede.» «Obiezione.» «Si sieda, signor Falcone.» «Mi siedo, giudice», acconsentì con un esile sorriso. «Ho finito.» Mi sento morire, pensò Peyton, ancora colpita dalla testimonianza di Beasley, condividendo solo in parte l'eccitazione del suo legale per la vittoria ottenuta nella forense guerra verbale. Sandra Blair stava cercando di ricacciare le lacrime. L'aria era fresca, ma c'era il sole e le foglie colorate si stagliavano contro il magnifico cielo azzurro, un giorno d'autunno perfetto per viaggiare in una Mercedes decappottabile con il tettuccio abbassato e il riscaldamento acceso. Sandra non era esattamente tipo da macchina di quel genere, ma il suo ex marito era un collezionista. Quel veicolo d'epoca faceva parte del bottino ottenuto con il divorzio, dopo che lei aveva allevato i suoi figli e lui l'aveva presa in giro per anni. Era stanca di essere presa in giro. Non aveva raccontato a nessuno della notte a Providence, ma allo studio era risaputo che lei e Kevin erano amici. Non era nemmeno un segreto che lei avesse parlato con il pubblico ministero, sebbene nessuno sapesse se sarebbe stata chiamata a deporre e, in caso affermativo, che cosa avrebbe detto. Gli avvocati dello studio avevano ricevuto l'ordine categorico di non discutere del caso in sua presenza. Cionondimeno, a mano a mano che si svolgeva il processo, la Marston & Wheeler diventava un posto sempre più scomodo per Sandra. L'atmosfera si era fatta particolarmente tesa il giorno della deposizione di Steve Beasley, così aveva deciso di andare fuori città a trovare la più giovane dei suoi figliastri. Dei tre, Chelsea era quella a cui Sandra si era sempre sentita più vicina. Aveva solo sei anni quando sua madre era morta, e otto quando lei aveva
sposato il padre. L'aveva seguita dall'età dei codini fino a quella del college. Aveva sviluppato un forte legame con Chelsea, e credeva fosse ricambiato. Considerava perfettamente naturale andare a trovarla a Dartmouth senza preavviso. E quando quel giorno la ragazza le aveva chiesto di non farlo più, a lei era parso di udire solo la voce del suo ex marito. Ricacciò un'ultima lacrima mentre rientrava a Boston, e i suoi pensieri ritornarono a Kevin. Con il «Peyton e Kevin show» montato dai media, Sandra aveva pensato molto a lui di recente. Non c'era dubbio, per lei, che fosse stato usato. Era indiscutibile, perlomeno a parer suo, che Peyton e Gary Varnes fossero amanti. Sandra era egualmente convinta che Kevin non fosse un assassino, il che lasciava soltanto un'ovvia spiegazione per l'omicidio di Gary. Non era stata così chiara l'ultima volta che gli aveva parlato, ma era ancora preoccupata per lui. Se non fosse stato molto attento, avrebbe finito con il pagare un prezzo eccessivo per la sua lealtà nei confronti di una donna certamente pericolosa, che non lo meritava. A quel punto si arrabbiò con se stessa per essersi presa il disturbo di curarsi di quello che poteva accadere a Kevin. Il vento sul viso le fece dimenticare le preoccupazioni per un istante, anche se una rapida occhiata nello specchietto retrovisore le ricordò che non aveva più ventotto anni. Stava attraversando il Salt and Pepper Bridge sul fiume Charles, quando Ohn la chiamò sul cellulare. «Spero lei abbia imparato una lezione dal suo collega», esordì il pubblico ministero. Sandra allontanò il telefono dall'orecchio; Charles Ohn aveva una di quelle voci da trombone che rimbombano nei cellulari. «Di che cosa sta parlando?» «Steve Beasley si è fatto fare a pezzi questa mattina. Una lieve discrepanza fra la testimonianza di oggi e quella rilasciata al gran giurì.» «Non ne so niente.» «D'accordo, ma se c'è qualcuno che voi membri della Marston & Wheeler state cercando di impressionare, vi prego di finirla.» «Non capisco davvero a cosa si riferisca, signor Ohn.» «So che alcuni nel vostro studio non sono felicissimi del romanzo che Kevin Stokes ha scritto. Il vostro socio di maggioranza lo ha persino trascinato in tribunale, nel tentativo di ottenere un'ingiunzione contro la sua pubblicazione, che per altro gli è stata negata. Lo studio probabilmente non verserebbe una lacrima se Stokes soccombesse. Perciò non infiorate la vostra testimonianza per ingraziarvi i superiori.»
«Steve ha fatto questo?» «Beasley doveva limitarsi a riferire la frase: 'Ti ho già vista nuda', corredata di bolletta telefonica per accertare la chiamata extraurbana di Peyton Shields, fatta dall'appartamento di Varnes. Ora quella prova è stata del tutto screditata, perché lui ha provato a insinuare il nome di Peyton nella conversazione. Non capisco perché avrebbe dovuto farlo, se non per compiacere il suo capo.» «Che cosa dovrei farci io?» «Soltanto salire sul banco dei testimoni e dire la verità, dannazione. Non provi a compiacere me, il suo capo o qualcun altro. Non permetta a nessuno di influenzare la sua deposizione.» «Di questo non deve preoccuparsi.» «Bene. A domani.» «A domani», ripeté lei, poi riagganciò. Ma la sua mente stava ancora galoppando. Influenzare la sua deposizione. Che idea. Nessuno avrebbe influito sulla deposizione di Sandra Blair. Nessuno, se non io stessa. 54 Kevin sentì il peso dello sguardo del pubblico ministero, mentre Ohn si alzava per fare la propria comunicazione. «Lo stato chiama Sandra Blair», annunciò. Kevin si sentì mancare. L'ansia lo aveva perseguitato sin dal loro incontro al complesso della Christian Science, quando lei si era offerta di essere il suo alibi. Non aveva mai considerato l'idea di ricontattarla, ma all'improvviso si rese conto che forse la questione non era finita lì. Forse lei aveva un piano. Forse si era persino presentata all'appuntamento con un microfono nascosto. Mi ha incastrato? Le teste si voltarono a guardarla camminare lungo il corridoio centrale dell'aula. Il pubblico ministero l'aspettava al cancelletto di legno e la accompagnò al banco dei testimoni. Indossava un completo da ufficio scuro, dei gioielli semplici, niente di sexy. Kevin incrociò le dita. Grazie al cielo non si era vestita per recitare la parte della femme fatale. Poteva solo sperare che Sandra limitasse il suo ruolo a quello di «collega». La sua offerta di fornirgli un alibi lo aveva spiazzato. Prima di incontrarla quella sera, Kevin si era deciso a raccontare tutto a Peyton. Ma quando
era tornato a casa aveva cambiato idea. Si era, in effetti, convinto che lei probabilmente non avrebbe testimoniato al processo, in particolar modo perché lui non aveva intenzione di accettare la proposta. Se Sandra non avesse testimoniato, era stato il ragionamento di Kevin, dire la verità a Peyton avrebbe a quel punto soltanto gravato il loro matrimonio e la loro difesa congiunta di un'ulteriore, inutile tensione. Avrebbe confessato tutto alla moglie a tempo debito, dopo il processo. Evidentemente il suo ragionamento da codardo si era rivelato fallace. Peyton guardò verso di lui mentre Sandra prestava giuramento. Kevin capiva la confusione della moglie, dato che la Blair non aveva testimoniato di fronte al gran giurì. Avrebbe dovuto parlarle di quella donna la notte prima, la settimana scorsa, il mese scorso, lo scorso inverno. Ora eccola lì in carne e ossa, senza alcun precedente che potesse lasciare intuire alla difesa il tenore della sua deposizione. Dalla sua bocca sarebbe potuta uscire in pratica qualunque cosa. «Qualunque cosa», tuttavia, non era quello di cui Kevin si preoccupava. Ti prego, fa' solo che non sia «tutto». «Signora Blair, dove lavora?» le chiese Ohn. Sandra si avvicinò al microfono e rispose. «Quindi lei e il signor Stokes siete colleghi alla Marston & Wheeler?» Per la prima volta da quando era entrata in aula, incontrò lo sguardo di Kevin. «Sì. Ci conosciamo.» «Lo conosce bene?» Kevin cominciò a sudare. Lei guardò nella sua direzione, poi di nuovo il pubblico ministero. «Piuttosto bene, sì.» Ohn si interruppe. O almeno così parve a Kevin, che attendeva con ansia la domanda successiva. «E sua moglie? La conosce?» Kevin riprese a respirare. Miracolosamente, Ohn stava passando oltre. Sandra rispose: «Non direi che la conosco. L'ho vista qualche volta». «Quando è stata l'ultima volta che ha visto il signor Stokes?» Il petto di Kevin fu attanagliato di nuovo dalla tensione. Ancora una volta si interrogò: Mi ha incastrato? Sandra spiegò: «Credo che l'ultima volta sia stata a una raccolta fondi per beneficenza all'università di Harvard. Era in compagnia di sua moglie». Kevin si sentì sollevato soltanto in parte. Nessuna menzione della notte alla Christian Science. Ma la raccolta fondi celava delle insidie.
Il pubblico ministero proseguì: «Quando è successo?» «L'estate scorsa.» «Rispetto al giorno in cui il cadavere di Gary Varnes è stato rinvenuto nel bagagliaio dell'auto della dottoressa Shields, quando è stato?» «Tre giorni prima.» «Tre giorni», ripeté Ohn, sottolineando l'importanza di quell'affermazione a favore della giuria. «E parlò con il signor Stokes?» «Brevemente.» «Ebbe la possibilità di sentire il signor Stokes parlare con la moglie?» «Sì.» «In quali circostanze?» «Mi stavo recando a un telefono pubblico. Li ho sentiti urlare dal fondo del corridoio.» «Erano soli?» «Sì.» «Ha fatto notare la sua presenza?» «No. In effetti, ero piuttosto imbarazzata per loro.» «Forza, signora Blair. Diciamo le cose come stanno. Stava origliando, non è così?» Sandra arrossì, e Kevin pregò che questo non sollevasse il dubbio sul perché lei fosse tanto interessata ai loro dissidi coniugali. «Dovevo proprio usare il telefono», spiegò. «Ma sì, ho sentito gridare e ho fatto quello che probabilmente avrebbe fatto chiunque al posto mio. Ho ascoltato.» «Non siamo qui per esprimere giudizi. Almeno non sul suo conto. Può dirci che cosa ha udito, per favore?» Tony si alzò. «Obiezione. De auditu.» Ohn replicò: «Si tratta di ammissione degli stessi imputati, non di de auditu». «Respinta.» Sandra riprese: «Kevin era molto arrabbiato e parlava a voce piuttosto alta. Sembrava avesse appena saputo qualcosa che lo aveva turbato». «Si limiti a riferire quello che ha detto, la prego.» «Accusò Peyton di aver passato la notte nell'appartamento di Gary Varnes, mentre lui era fuori città per lavoro.» «Quale fu la risposta della moglie?» «Mi pare: 'Kevin, dobbiamo discuterne proprio qui?'» «Non negò?» «Non che io abbia sentito.»
Kevin trasalì quando sua moglie gli afferrò la mano e la strinse forte. Sapeva che era stato un gesto puramente istintivo, che lei avrebbe voluto saltare in piedi e gridare la propria innocenza alla corte e al mondo intero. Indipendentemente dal fatto che lui le credesse o meno, Peyton aveva negato qualunque intimità con Gary almeno un paio di volte. «Che cosa accadde in seguito?» «Soltanto un susseguirsi di accuse. A quel punto la mia curiosità cedette il posto a... be', la situazione era davvero spiacevole. Lui gridava che lei si era ubriacata e aveva passato la notte nell'appartamento di Gary Varnes... insomma, quel genere di cose.» «E poi?» «Kevin se ne andò furibondo. Mi sfrecciò davanti in corridoio.» «Lo guardò?» «Sì.» «Che aspetto aveva?» Sandra si girò verso Kevin, poi si rivolse al pubblico ministero. «Non ricordo con precisione.» Ohn rimase di stucco, come se la sua testimone gli si fosse rivoltata contro. «Non ricorda?» «Non esattamente.» Il pubblico ministero andò dalla sua assistente, che gli passò un foglio. «Forse questo le rinfrescherà la memoria. Ricorda la dichiarazione giurata che ha fatto davanti a me nel mio ufficio circa un mese fa?» chiese poi a Sandra. «Sì.» «Ricorda che le domandai che aspetto avesse il signor Stokes quando lasciò il ricevimento da lei appena descritto?» «Sì.» «E ricorda di aver dato la seguente risposta: 'Kevin aveva l'aria di chi potrebbe uccidere qualcuno'.» «Obiezione», gridò Tony. «Domanda tendenziosa», protestò Jennifer. «Respinta e negata.» Ancora una volta Sandra guardò Kevin. Poi abbassò gli occhi, come se fosse imbarazzata per aver parlato mossa dalla rabbia, in particolare con un pubblico ministero. «Sì. Credo di averlo detto.» Ohn si stava chiaramente godendo il momento, sebbene fosse attento a non bearsi troppo di fronte alla giuria. «Forse gliel'ho già domandato, ma
solo per essere precisi, questo è successo quanti giorni prima che il cadavere di Gary Varnes venisse rinvenuto nel bagagliaio dell'auto della dottoressa Shields?» «Tre giorni», ribadì lei. «La ringrazio. Nessun'altra domanda», concluse, ritornando al suo posto. Peyton lasciò la mano del marito. Sussurrò qualcosa a Tony, presumibilmente per negare ancora la sua relazione con Gary. Kevin guardava Sandra. Sul suo viso non lesse disprezzo né risentimento. Con gli occhi, lei sembrava dirgli che aveva raccontato le cose come le aveva viste. Poi, lentamente, in un gesto che parve del tutto spontaneo, si spostò i lunghi capelli dietro le orecchie. Lui la osservò con attenzione e interpretò il messaggio. Portava gli stessi orecchini che aveva la notte in cui erano andati a letto insieme. Era come se lo avesse raggiunto dall'altra parte dell'aula e lo avesse colpito in mezzo agli occhi. Senza parlare, gli stava comunicando qualcosa. Di primo acchito sembrava una minaccia: Ti ho in pugno. Ma quando i loro sguardi si incontrarono di nuovo, lui non percepì astio. Al contrario, forse a suo modo, Sandra stava tentando una riconciliazione. Poteva trattarsi di un tacito rinnovamento dell'offerta che gli aveva fatto quella notte davanti alla Christian Science. Potrei essere il tuo alibi. «Avvocato Dunwoody, a lei il testimone», intervenne il giudice. Era il turno di Jennifer per la difesa. Fece per alzarsi, ma Kevin la fermò. Appoggiò le mani a coppa al suo orecchio e sussurrò: «Niente controinterrogatorio». «Che cosa?» «Non vada.» Il giudice ripeté l'invito: «Signora Dunwoody, prego». Lei continuò a discutere a bassa voce con Kevin. «Dobbiamo controinterrogarla. Ci ha massacrati.» «Le cose potrebbero andare molto peggio. Lasci stare.» Lei gli rivolse uno sguardo incredulo, lievemente preoccupato. «Parliamone.» Il giudice insistette: «La difesa intende porre delle domande alla teste, oppure no?» Jennifer si alzò per rivolgersi alla corte. «Vostro Onore, chiedo una breve sospensione dell'udienza per conferire con il mio cliente.»
«Se lo scordi. Non interromperò il processo ogni volta che volete scambiare quattro chiacchiere. Ci metteremmo un secolo. Ora proceda con il controinterrogatorio o la teste verrà congedata.» Tony si alzò, un'espressione confusa in volto. «Posso avere soltanto trenta secondi con la mia collega?» «Trenta secondi», concesse il giudice, brontolando. La squadra si raccolse attorno al tavolo, sussurrando per non essere sentita, cercando di non lasciar trapelare alcuna emozione, in modo che né la stampa né la giuria potessero percepire del disaccordo. Tony disse piano: «Volete che la interroghi io?» «No», dichiarò Kevin. «Non deve farlo nessuno.» «È pura follia.» «Sentite, la sua testimonianza ha ferito me molto più che Peyton. E vi assicuro, se la interrogherete la situazione potrà solo peggiorare.» Peyton lo guardò, e Kevin si sentì trapassare dai suoi occhi. «Che cosa stai dicendo?» gli chiese con voce bassa ma penetrante. Il giudice li interruppe. «I trenta secondi sono trascorsi. Che cosa intendete fare, avvocato?» Kevin e Peyton si fissarono in silenzio. Gli avvocati diedero uno sguardo ai propri clienti, poi si guardarono. Alla fine, Tony si alzò e rispose: «Per il momento nessuna domanda, Vostro Onore. Ma è possibile che uno degli imputati possa riconvocarla come parte della nostra difesa». «Molto bene. La testimone può andare. Signora Blair, la prego di non parlare della sua deposizione con nessuno, visto che esiste la possibilità che lei ritorni al banco dei testimoni.» Sandra scese dal banco e attraversò l'aula con passo lievemente più svelto del solito. Passando davanti al tavolo della difesa, rallentò e guardò Peyton dritta negli occhi. Il suo sguardo si spostò poi su Kevin, e lui girò goffamente il suo, soltanto per incontrare quello furioso di Peyton. Si voltò dalla parte opposta, ma continuò a sentire il peso del bruciante sospetto di sua moglie. Udì il ticchettio dei tacchi di Sandra che si allontanava lungo il corridoio. Udì la pesante porta aprirsi e richiudersi in fondo all'aula. Lei se n'era andata, ma era come se fosse ancora lì, seduta fra loro, a mostrare a Peyton i suoi orecchini. 55
Il telefono sulla scrivania di Jennifer squillò. Era sola nello studio e si stava preparando per le testimonianze del giorno successivo. Spostò la vaschetta dell'insalata e alzò il ricevitore. Era Ohn. Lei si irrigidì, colta di sorpresa. «A cosa devo questo onore?» «Il suo cliente ha rifiutato un accordo vantaggioso prima dell'inizio del processo. Testimoniare contro la moglie e ottenere una completa immunità. Chiamo per rinnovare l'offerta.» «Che cosa le fa credere che adesso sia interessato?» «Ho notato il modo in cui lui e Sandra Blair si sono guardati in aula ieri. E cosa più importante, il modo in cui lo ha guardato sua moglie. Il mio istinto di pubblico ministero mi suggerisce che è solo questione di tempo prima che Peyton siluri il marito. Questa è l'ultima possibilità per il suo cliente di organizzare un attacco preventivo.» «Devo dedurre che, secondo la sua teoria, è stata la Shields a premere il grilletto?» «Le dico solo questo. Se il suo cliente non accetterà l'accordo, io avrò motivo di supporre che sia stato lui a farlo. In tal caso, potrei girare l'offerta al suo collega.» «Lei è un vero modello di integrità, non è così?» «L'offerta è valida fino a domattina.» «Le farò sapere», assicurò Jennifer, poi riagganciò. Peyton arrivò a casa alle otto e mezzo. Dietro sua insistenza, non si erano incontrati per discutere della difesa congiunta al termine dell'udienza di quel giorno. Lei si era vista soltanto con Tony, lasciando a Jennifer e Kevin la decisione se trovarsi o meno per conto loro. Kevin aveva cercato di intercettarla da sola, ma lei lo aveva evitato. Nel profondo, aveva sempre saputo che il marito le stava nascondendo qualcosa. Ironia della sorte, se non fosse stata sua madre a seminare il dubbio iniziale, probabilmente lei lo avrebbe affrontato già da tempo. Ma il breve e significativo scambio di sguardi fra Kevin e Sandra Blair in aula aveva finalmente dato un volto al suo sospetto e alle sue paure. Entrò nell'appartamento con passo svelto, e appese il cappotto all'ingresso. Con la coda dell'occhio vide Kevin seduto in soggiorno, ma non guardò nella sua direzione. Proseguì lungo il corridoio, fino in camera. Prese una valigia e una borsa dal ripiano nell'armadio e le gettò sul letto. Cominciò a preparare i bagagli lentamente, poi in modo più frenetico, mossa dal dolore e dalla rabbia.
«Che cosa stai facendo?» le chiese lui sulla soglia. Peyton continuò a frugare nel cassetto delle calze, senza alzare il capo. «A te che cosa sembra?» «Perché lo fai?» Lei si fermò e lo trafisse con lo sguardo. «Hai intenzione di guardarmi negli occhi e sostenere che non c'è stato mai nulla fra te e quella donna?» Lui dondolò nervosamente sui piedi. «Peyton, ti giuro, è stata solo una notte.» Peyton rise con fare di compatimento. «Solo una notte. È fantastico, Kevin. Perché non tentiamo questa linea di difesa al processo? Vostro Onore, noi abbiamo sparato in testa a Gary Varnes solo una volta.» «Io non gli ho mai sparato in testa.» «Nemmeno io, stronzo. Era solo un modo di dire.» «Lo so. Hai tutti i diritti di essere infuriata.» «Hai perfettamente ragione», approvò lei con voce tremante. Si tuffò nell'armadio e afferrò dei vestiti e delle scarpe per l'udienza, poi gettò tutto sul letto. «Sei un bastardo. Come hai potuto farmi questo?» «È successo l'inverno scorso. Tu eri così presa all'ospedale, ci vedevamo sì e no due ore la settimana. Le cose fra noi non andavano troppo bene, ricordi? Non mi hai nemmeno detto di essere incinta.» «Quindi è colpa mia, non è così? Se ti avessi detto che ero incinta, non mi avresti tradita?» «No. È solo un sintomo della crisi che c'era fra noi. Sono io il colpevole, e me ne sono pentito dal giorno in cui è successo.» Peyton socchiuse gli occhi. «Sai che cosa davvero non capisco? Come hai potuto farmi sentire tanto male per un semplice fraintendimento con Gary Varnes, quando tu nascondevi il segreto di te e quella... donna.» «Perché avevo paura che tu amassi Gary. E in tutta la mia vita, io ho amato soltanto una persona. Te.» Peyton chiuse la lampo della valigia e osservò: «Hai un modo perverso di dimostrarlo». «Non sono fiero di come mi sono comportato. Ma per me, la storia fra te e Gary Varnes non è mai stata questione di una notte. Avevo cominciato a preoccuparmi della tua ritrovata amicizia con lui da quando hai iniziato a lavorare al Children's. Lo ritenevo responsabile del fatto che tu sembravi avere smesso di amarmi.» Peyton afferrò le borse e gli passò davanti spingendolo di lato. «Non rigirare la frittata.»
La seguì lungo il corridoio fino all'ingresso. Lei rallentò giusto il tempo di infilarsi il soprabito. Lui le mise una mano sulla spalla mentre spalancava la porta. Peyton si fermò sulla soglia, ma non osò voltarsi a guardarlo. Era in balia di un groviglio di sentimenti, dal dolore all'incredulità, dalla rabbia alla delusione. Era determinata a non perdere il controllo davanti a lui. La voce di Kevin tremò alle sue spalle. «Vorrei tanto sapere che cosa dire.» «Non dire niente.» «Vorrei poterlo cancellare, poter tornare indietro nel tempo. Mentre me ne stavo seduto in soggiorno aspettando che tornassi, ripensavo al nostro secondo appuntamento ai tempi del college. Lo rammento ancora perfettamente. Ricordo come eri vestita, che cosa ci siamo detti. Ricordo di averti riaccompagnata al tuo appartamento. Più di tutto, ricordo di essere tornato a casa e, per la prima e unica volta in vita mia, di avere ringraziato Dio per aver fatto entrare una donna nella mia vita.» Lei si sforzò di trattenere le lacrime. «Mi spiace, Peyton.» «Anche a me», sussurrò, poi si precipitò giù per gli scalini del portico senza voltarsi indietro. 56 Rudy aspettava e osservava, nascosto alla vista dai fitti cespugli e dalla scura coltre della notte. Stava soltanto eseguendo degli ordini. La notte prima dell'inizio del processo aveva parlato ancora con Ladydoc. Erano passati quasi due mesi da quando avevano ristabilito un contatto via Internet, pressappoco nello stesso periodo in cui Peyton e Kevin erano stati accusati di omicidio. In quella prima chiacchierata dopo la lunga pausa, lei gli aveva dato esattamente quello che lui voleva nella chat room privata. Da allora, lo aveva fatto impazzire. Un anno prima, al picco della loro relazione, lei si collegava al loro luogo di incontro cibernetico quasi ogni sera alle undici. Da quando erano stati formulati gli atti di imputazione, si presentava con scarsa regolarità, senza programmazione, senza mai fissare una data per l'appuntamento successivo. Rudy era costretto a connettersi e controllare la chat room ogni sera alle undici, collezionando più delusioni che altro. Anche quando lei si faceva viva, non era più come prima. Se ne andava all'improvviso, nel bel mezzo di un incontro, minac-
ciando di non fargli più raggiungere l'orgasmo se non accettava di incontrarla di persona. Lui aveva sempre rifiutato, ma lei gli aveva dato un ultimatum. «Raggiungimi al Back Bay Fens, o sparirò dalla tua vita», erano state le sue precise parole. Non capiva se parlasse sul serio oppure no. Ma sapeva di non poter più sopportare quel tormento, con l'aggravante di essere lasciato gonfio e insoddisfatto una volta dopo l'altra. Stava distruggendo l'illusione, lo faceva eccitare, lo portava al limite e poi: bip... «Ladydoc ha lasciato la chat room». Gli dava una sensazione di vuoto, era come farlo con una puttana qualunque solo per scoprire che nel bel mezzo dell'azione lei si era addormentata, era svenuta o che il coltello era penetrato troppo vicino al cuore, e la donna era morta dissanguata prima che lui riuscisse a concludere. Se voleva vederlo di persona, benone. Aveva portato con sé la sua lama, tanto per stare tranquillo. «Allora, dove diavolo sei?» brontolò, guardando l'orologio. Ladydoc non sapeva che aspetto avesse, così gli aveva dato istruzioni dettagliate. «Incontriamoci su una panchina di fronte al Muddy River. Siediti all'estremità settentrionale del parco. Incrocia la gamba destra sulla sinistra, poi la sinistra sulla destra. Così saprò che sei tu.» Rudy accettò, ma non era un idiota. In un angolo del suo cervello sospettava che, nell'istante in cui si fosse messo sulla panchina, mezza dozzina di agenti dell'FBI gli sarebbe piombata addosso per arrestarlo. Così, dal suo nascondiglio fra i cespugli, osservava da una certa distanza il barbone che aveva pagato venti dollari perché eseguisse gli ordini di Peyton. Questi si sedette sulla panchina, incrociò la gamba destra sulla sinistra e poi la sinistra sulla destra. E attese. Trascorse un minuto, e non accadde nulla. Rudy riesaminò mentalmente la scena per essere certo che ogni mossa fosse stata eseguita in modo corretto. Il barbone non aveva sbagliato, ne era certo. Trascorsero due minuti, e ancora niente. Cominciava a innervosirsi. Tutta quella messinscena era stata un'idea di Peyton, non sua. Aveva stabilito le regole, e lui ci si era attenuto. Perlomeno per quanto ne sapeva lei. Non aveva ragione di sospettare che il tizio sulla panchina non fosse il vero Rudy. Quasi cinque minuti, e ancora niente Ladydoc. La buona notizia era che lei non gli aveva dato appuntamento per farlo cadere in una trappola della polizia. Altrimenti, a quel punto gli sbirri sarebbero già saltati addosso al barbone. Ma tale consapevolezza gli assicurò
soltanto un istante di calma. La conclusione della storia era che lei gli aveva dato un bidone. Dannazione! Tremava dalla rabbia, cercando di mantenere il controllo di sé. Il barbone si era disteso prono sulla panchina, mezzo addormentato. In un accesso di rabbia, Rudy balzò fuori del suo nascondiglio e si diresse a passo svelto verso la panchina. Si scagliò sul barbone, cogliendolo alla sprovvista. «Ehi, ma che accidenti...» Rudy lo colpì con i pugni, tirandolo per il cappotto, frugandogli in tasca. «Ridammi i miei venti dollari!» L'uomo si lamentò e cadde dalla panchina. Rientrato in possesso del suo denaro, Rudy gli sferrò un calcio alle reni e si allontanò nella notte. Le mani gli puzzavano per aver frugato nelle tasche di quel tizio. Servirsi di un sosia era stato un errore. Quella doveva essere la ragione per cui Ladydoc non si era fatta viva. Forse lo aveva osservato da lontano, magari si era addirittura servita di un binocolo, aveva visto il barbone, non le era piaciuto e se n'era tornata a casa. Se fosse andata così, sarebbe stata colpa sua. Avrebbe dovuto connettersi a Internet e confessare quello che aveva fatto, assicurarle che lui non era un ubriacone che puzzava di urina e si addormentava sulle panchine nei parchi. Ma chi diavolo stai prendendo in giro? Gli aveva dato un bidone, ne era certo. Un'altra volta. Proprio come lo scorso inverno, quando gli aveva promesso di incontrarlo, poi si era spaventata e gli aveva comunicato che era finita. Cinque settimane prima l'aveva messa in guardia e le aveva chiesto di dimostrargli che valesse la pena salvarla una seconda volta. Questo provava soltanto una cosa. Non avrebbe dovuto estrarla dal Jamaica Pond. Non era valsa la pena salvarla allora, non valeva la pena salvarla adesso. Una cosa tuttavia era certa. Quella sarebbe stata l'ultima volta che lei gli dava un bidone. Fendette l'oscurità dell'estremità settentrionale del parco e si diresse dritto al cavalcavia, stringendo in mano i venti dollari recuperati, sapendo che, per quella cifra, le puttane di strada gli avrebbero fatto un pompino senza preservativo. Chi ha bisogno di te, Peyton? Erano le 5.26 del mattino e Peyton aveva dormito circa un'ora in tutta la notte. La sua immaginazione si rifiutava di placarsi. Ogni volta che riusciva a pensare a qualcosa che non fosse la separazione da Kevin, la mente
correva al processo. Di certo non c'era possibilità di fare sogni d'oro. La sera prima era andata dritta nel posto più ovvio: a casa dei suoi genitori. Loro l'avevano accolta a braccia aperte, e sorprendentemente non le avevano chiesto quasi nulla. Ma forse non c'era da stupirsi, data la loro personale esperienza in materia di infedeltà coniugale, tanti anni prima. In ogni modo, Peyton non aveva voglia di parlare e nessuno la forzò. Riuscì quindi a vivere il trasferimento in modo poco traumatico, ma questo non bastò a garantirle una buona notte di sonno, nemmeno nella sua vecchia stanza. A fissarla dai piedi del letto c'era il suo orsetto Wilbur, che era servito da cuscinetto per evitare che la testata sbattesse contro la parete la volta che aveva portato Kevin a casa dal college per annunciare il loro fidanzamento. Era andata lì per sfuggire ai propri fantasmi, ma lui faceva parte della sua vita da quando aveva diciannove anni. I fantasmi erano dappertutto. La sveglia sarebbe suonata nel giro di mezz'ora, e Peyton non vide l'utilità di aspettare ancora. Con addosso la vestaglia, scese in cucina e preparò il caffè. Andò a controllare all'ingresso, ma il giornale non era ancora arrivato. Meglio così. Stava cercando di evitare di leggere le notizie che la riguardavano. L'aroma del caffè si diffuse per la cucina. Se ne versò una tazza, poi si domandò che cosa fare mentre il resto del mondo si svegliava. Non poteva telefonare a nessuno a quell'ora. Sorseggiò il caffè e, come per magia, il suo cervello si mise in moto di soprassalto. Non controllava la posta elettronica dall'inizio del processo. I suoi genitori avevano un computer nello studiolo. Si connesse al proprio server e aprì la pagina di posta. C'era un'infinità di messaggi a cui non aveva risposto. Auguri da parte di amici. Proposte pubblicitarie da società di software. E uno che non riconobbe. Lo aprì, lo lesse una volta, poi una seconda. Terminata la seconda lettura, cominciò a tremare. Il mittente non era identificato da un nickname, ma da un numero. L'email le era stata inviata da uno di quegli Internet café aperti ventiquattr'ore su ventiquattro che affittano postazioni di lavoro collegabili a programmi di posta elettronica. Peyton sapeva che sarebbe stato impossibile rintracciare il vero mittente del messaggio, attraverso il quale sarebbe approdata solo all'utente, Fast Fred's Copy Center. L'ennesimo stratagemma per proteggere l'anonimato in rete. Di chiunque si trattasse, però, lui o lei sembravano volerla aiutare. Il messaggio diceva: «L'uomo che devi incontrare sarà seduto su una
panchina di fronte al Muddy River nel parco a Back Bay Fens, questa sera a mezzanotte. Vai. Porta la polizia». Peyton non era certa di chi fosse «l'uomo che doveva incontrare». Ma con qualcuno che si spacciava per lei nel cibersesso e qualcun altro che voleva incastrarla per omicidio, le sarebbe andato bene chiunque. Premette il tasto per copiare l'e-mail, incerta su chi chiamare per primo. «Questa sera a mezzanotte»: non aveva molto tempo per prepararsi. Un'ondata di nervosa eccitazione la travolse, seguita da un'ondata ancora più grande di disperazione. Il messaggio, notò, portava la data del giorno prima. Questa notte a mezzanotte significava la scorsa notte a mezzanotte. Stordita, si abbandonò contro lo schienale della sedia, fissando lo schermo, domandandosi che dimensioni avesse l'opportunità che le era appena scivolata fra le dita. 57 «Mai», dichiarò Kevin. Erano le sette e mezzo del mattino, e lui era seduto nello studio del suo avvocato. Il quarto giorno di processo sarebbe cominciato solo un'ora e mezzo dopo, ma Jennifer lo aveva chiamato per avvertirlo che c'era una cosa di cui dovevano discutere prima dell'udienza. In due minuti, Kevin aveva sentito abbastanza. «Gliel'ho già detto l'ultima volta che abbiamo sollevato l'argomento. Non accetterei mai un accordo che mi costringa ad andare contro Peyton.» Jennifer si appoggiò allo schienale della poltrona di pelle, con aria frustrata. «Le circostanze sono cambiate. Sua moglie se n'è andata di casa. Non so quali conseguenze avrà questo gesto sull'accordo di difesa congiunta.» «Non m'importa. Siamo ancora sposati.» «È molto onorevole da parte sua, ma nel contesto di un processo congiunto per omicidio potrebbe costituire una lama a doppio taglio, una specie di suicidio.» «Mi sta chiedendo di testimoniare contro la donna che amo.» «Le sto consigliando di fare ciò che è meglio per lei.» «D'accordo, allora lasci che le parli in termini che può comprendere. Anche se volessi accettare l'accordo, non c'è nulla che io possa offrire al pubblico ministero in cambio dell'immunità. Non ho assolutamente alcuna prova che Peyton abbia ucciso Gary Varnes.»
Jennifer parve dubbiosa, ma non commentò. Kevin la incalzò: «Pensa davvero che sia stata lei?» Ancora, l'avvocato rimase in silenzio. Lui scosse la testa, sbalordito. «L'ultima volta che abbiamo affrontato la questione, mi ha aspramente rimproverato per non aver citato l'innocenza di Peyton fra le ragioni per rifiutare l'accordo con il pubblico ministero. Be', adesso è venuto il momento di dirlo a chiare lettere, mettiamo l'innocenza di mia moglie in cima alla lista.» «La decisione è sua», dichiarò Jennifer in tono rigido. «Ma tenga a mente che Charles Ohn potrebbe avere ragione. Se rifiuta l'accordo, Peyton potrebbe cominciare a puntare il dito contro di lei.» Kevin abbassò gli occhi e sospirò: «Forse me lo merito». Jennifer rifletté un istante e poi gli domandò: «In che senso?» Lui si rese conto di come poteva essere interpretata la sua affermazione. «Intendevo che merito di essere tradito perché sono stato infedele a mia moglie.» «Ah sì?» «Non volevo dire che merito di essere condannato perché ho ucciso Gary Varnes.» Lei gli rivolse uno sguardo serio. «In ogni modo, per me va bene. Fintanto che ci capiamo.» «Non ho ucciso Gary Varnes.» «Bene. Lasciamo le cose come stanno.» Jennifer chiuse il taccuino, come per enfatizzare le sue parole. «Bene», approvò Kevin, sospettando di non averla convinta. Incontrare Tony di primo mattino significò per Peyton guardarlo sudare. Era nel locale palestra accanto al suo studio, e correva a tutta velocità sul tapis roulant, con indosso un paio di pantaloni della tuta e una T-shirt dei Boston Bruins. Un triangolo scuro di sudore si diffondeva dalle spalle allo sterno, segno evidente dei suoi sforzi per eliminare la pancetta. Si sedette di fronte a lui sulla panca dei pesi. Lo mise rapidamente al corrente dell'e-mail che aveva aperto con un giorno di ritardo. Tony parve ascoltarla, ma non rallentò mai il ritmo. «Non ha idea di chi possa averla mandata?» le chiese, sfiatato. «No. È stata spedita dal computer di un Internet café.» «Ma lei è convinta che questa persona sappia chi la vuole incastrare?» «Il messaggio diceva che l'uomo che dovevo incontrare si sarebbe trova-
to al parco a mezzanotte. Sarei dovuta andare lì con la polizia. Per quale altro motivo avrei dovuto rivolgermi alle forze dell'ordine?» La velocità del tapis roulant aumentò di una tacca, con un sonoro lamento. Tony cercava di tenere il passo. «Dovremmo avvisare la polizia?» domandò Peyton. Tony diede un pugno al pannello di controllo e rallentò il ritmo. «No.» «Perché no?» «Perché il messaggio potrebbe essere stato inviato da un amico, o da suo marito. Da chiunque voglia aiutarla a dimostrare la fondatezza della teoria secondo la quale lei è stata incastrata.» «Oppure potrebbe essere il collegamento di cui abbiamo bisogno per provare che Gary Varnes è stato rapito.» Tony fermò l'attrezzo e si appoggiò sul pannello per riprendere fiato. «Ci sarebbe di grande aiuto in questa fase del processo, non crede?» «Pensa che abbia scritto io l'e-mail per sostenere la mia difesa basata sul rapimento?» «No. Ma è possibile che qualcuno di sua conoscenza abbia fatto proprio questo.» «Intende Kevin?» «Chi altri?» «È folle.» «Davvero?» Lei scosse la testa. «Quindi lei è dell'idea che dovremmo dimenticarcene?» «Sì. Le ho spiegato nel corso del nostro primissimo incontro che non voglio introdurre nel processo la questione del rapimento. La giuria non ci crederebbe, e il pubblico ministero se ne servirebbe per sostenere che Gary Varnes stava ricattando lei e Kevin, il che andrebbe solo a rafforzare il suo movente per l'omicidio. Fino a ora, Ohn non ha mostrato alcuna intenzione di percorrere quella strada. Non voglio essere io a spianargliela, mettendolo a parte di una misteriosa e-mail che probabilmente le è stata spedita da suo marito.» Peyton si sforzò di contenere la rabbia. «Lei non crede a una parola di quello che le ho detto, vero?» «A che proposito?» «Che qualcuno si sta spacciando per me su Internet. Che qualcuno ha rapito Gary e ha chiesto un riscatto. È convinto che io e Kevin ci siamo inventati tutto prima di venire nel suo studio.»
Tony si asciugò il collo. «Lasci che le dica una cosa. Penso di essere in grado di farla prosciogliere senza entrare nel merito di nessuna di queste questioni.» «Come faremo ad arrivare alla fine del processo, se lei non mi crede a proposito del rapimento?» «Non ho detto che non le credo.» «È quello che ho sentito.» «Allora non mi ha ascoltato con sufficiente attenzione. Quello che intendo è che non mi fido di suo marito.» Lei abbassò lo sguardo. «Qualche giorno fa avrei potuto rimproverarla per queste parole. Ma dopo ieri, temo che ci sia poco da controbattere.» Tony si sedette sulla panca, guardandola dritto negli occhi. «Si fidi di me sulla questione del rapimento. E mi dica come stanno le cose su un punto.» «Quale?» «Glielo chiedo solo perché voglio capire quale sia la sua disposizione d'animo nei confronti di Kevin, non in qualità di marito, bensì di imputato in una causa congiunta. E sia onesta, la prego. Lo ha lasciato lei a causa di Sandra? O l'ha cacciata lui a causa di Gary Varnes?» Nell'udire quelle parole, gli occhi di Peyton si accesero. Doveva già sopportare così tante false accuse, che sentirne una proprio dal suo legale fu la goccia che fece traboccare il vaso. «Mi fiderò del suo istinto sulla questione del rapimento, Tony. Ma non si azzardi più a farmi una domanda del genere.» Gli rivolse una fredda occhiata di commiato, poi si alzò e lasciò la stanza. 58 Peyton avrebbe voluto essere da qualche altra parte. Non importava dove. Era stato già abbastanza estenuante dover seguire il pubblico ministero mentre faceva sfilare davanti alla giuria una processione di testimoni, con l'intento di dipingerla come un'assassina. Ma rimanere seduta in silenzio al tavolo della difesa accanto all'uomo che aveva lasciato la sera precedente era una vera prova di forza d'animo. Si erano salutati in modo freddo anche se non apertamente ostile, lontano dagli occhi della stampa, e di certo non sotto quelli della giuria. «Buongiorno, Peyton.»
«Buongiorno, Kevin.» Quelle erano state le sole parole che si erano scambiati in tutta la mattina. Sarebbe stata una situazione davvero dolorosa, se non avessero avuto cose ben più importanti a cui pensare. Ohn aprì l'udienza con il primo agente intervenuto sulla scena del delitto, la cui testimonianza fu breve e diretta. Aveva notato un'auto che aveva creduto abbandonata vicino al molo e si era fermato a controllare. Aveva trovato una donna priva di conoscenza accasciata sul volante, con un flacone aperto di sonniferi rovesciato a terra. Aveva chiamato un'ambulanza via radio, e dopo che la dottoressa Shields era stata portata via, aveva notato del sangue che filtrava attraverso il sedile posteriore, proveniente, a quanto pareva, dal bagagliaio. Così lo aveva aperto. «Che cosa c'era nel bagagliaio?» «Un maschio, bianco. Sulla trentina. Gli avevano sparato in testa.» «Era morto?» «Direi.» A quel punto il pubblico ministero sfoderò gli ingrandimenti di fotografie della scena del delitto, incluse quelle della vittima, e Peyton si sentì mancare. C'era sangue, ma non abbastanza da celare le fattezze di Gary. Ohn proseguì con le domande sulla posizione del cadavere, le sue condizioni e così via, ma lei non riusciva a concentrarsi, nemmeno sul metodico controinterrogatorio del suo legale. Per giorni, forse settimane, si era focalizzata esclusivamente sul fatto di non aver ucciso Gary Varnes. Vedere quelle fotografie l'aveva brutalmente messa di fronte all'evidenza che qualcuno lo aveva fatto, che si era trattato di un omicidio terribilmente violento, che lui aveva trascorso gli ultimi istanti della sua vita infilato in un soffocante bagagliaio o con una pistola puntata alla testa; una situazione tanto orribile da non poterla augurare nemmeno al proprio peggior nemico. Per fortuna, quello spettacolo finì presto. Il pubblico ministero passò rapidamente a un altro testimone. «Dottor Sidney Gersch», si presentò il testimone, rivolgendosi alla giuria. «Sono un anatomopatologo del reparto di medicina legale.» Era un uomo con i capelli grigi, gli occhi scuri e stanchi che facevano capolino da dietro un paio di occhiali dalla montatura di metallo. Con le spalle curve, sembrava incapace di stare seduto diritto, neppure nell'aula di un tribunale, come se troppi anni passati chino sui cadaveri gli avessero conferito una lugubre postura. «Lei fu chiamato sulla scena del delitto quando il corpo della vittima
venne rinvenuto?» «Esatto. E sono stato anche il patologo che ha eseguito l'autopsia.» Ohn pose le domande preliminari, poi chiese: «Qual è stata la causa della morte della vittima?» «Un colpo di arma da fuoco. Un singolo proiettile calibro trentotto entrato dalla tempia destra. Il foro di uscita si trova sulla tempia sinistra. Questo tipo di ferita è chiamata trapassante.» «Quindi il proiettile ha attraversato completamente il cranio?» «Esatto.» «Ha determinato la modalità della morte?» «Il reparto di medicina legale sostiene si tratti di omicidio.» «Come avete fatto a scartare l'ipotesi del suicidio?» «Come prima cosa, accanto al cadavere non è stata rinvenuta un'arma da fuoco.» «Non è possibile che qualcuno l'abbia portata via in seguito?» «In teoria. Ma le mani della vittima erano legate dietro la schiena.» «Non per rompere le uova nel paniere, dottore, ma non è possibile supporre che il signor Varnes si sia ucciso, e poi qualcuno abbia portato via la pistola e gli abbia legato le mani dietro la schiena per farlo sembrare un omicidio?» Peyton lanciò un'occhiata al suo avvocato, domandandosi dove Ohn intendesse arrivare con quello che sembrava un indebito indugiare sulla possibilità del suicidio. «Sarebbe molto illogico, ma comprendo la sua osservazione. La terza, e forse conclusiva, ragione per cui abbiamo scartato l'ipotesi del suicidio è che non abbiamo trovato schizzi di sangue sulle mani della vittima.» «Può spiegarci meglio, per favore?» «Certamente», acconsentì il dottor Gersch, girando il viso verso la giuria. «Il foro di entrata è in sostanza il foro di un proiettile circondato da polvere da sparo facilmente rimovibile. La presenza di polvere suggerisce che il colpo è stato sparato da una distanza piuttosto ravvicinata, da due a sette centimetri.» «E questo non potrebbe corroborare l'ipotesi di un suicidio?» «Sì, ma con una ferita d'entrata a stretto contatto avremmo sicuramente rinvenuto quello che viene definito 'schizzo di sangue posteriore'. In sostanza, l'entrata del proiettile ad alta velocità provoca la scomposizione del sangue in fini particelle simili ad aerosol. Quando il proiettile viene sparato da distanza ravvicinata, come nello stile delle esecuzioni, queste parti-
celle si disperdono ritornando verso il tamburo della pistola.» «E qual è il significato da attribuire a tutto questo nel nostro caso?» «Il signor Varnes non aveva tracce di sangue sulle mani. Se si fosse trattato di una ferita autoinflitta le avremmo trovate.» «Quindi, anche se la dottoressa Shields è stata ritrovata sul sedile anteriore con un flacone aperto di sonniferi, è chiaro che non si è trattato di un tentativo mal riuscito di suicidio congiunto? Una sorta di patto d'amore?» «Obiezione.» «Respinta.» Peyton si sentì umiliata. Persino mentre interrogava l'anatomopatologo, Ohn riusciva sempre a trovare il modo di mantenere la giuria concentrata sulla questione dell'infedeltà. Il teste rispose: «Qualcuno ha ucciso il signor Varnes. Non so dire che cosa sia successo alla dottoressa Shields». Ohn proseguì cambiando l'argomento delle sue domande, ma i pensieri di Peyton erano arenati sull'ultimo scambio di battute. La maestra elementare nella giuria le rivolse uno sguardo severo. Il giovane artista in seconda fila le lanciava delle occhiate lascive, come se sperasse di essere il prossimo nella crescente lista di uomini che l'avevano vista nuda. Forse se lo stava solo immaginando, o forse no. Si voltò verso Kevin, domandandosi se apprezzasse l'ironia del fatto che fosse lei a venire descritta come una fedifraga. «Ancora un paio di domande, dottor Gersch», proseguì Ohn. «Era presente sulla scena del delitto, quando il corpo della vittima è stato rimosso dal bagagliaio dell'auto?» «Sì. Ho sovrinteso all'operazione.» «Quanto era grosso Gary Varnes?» «Lo abbiamo misurato, un metro e ottantotto. Ottantanove chili.» «Quante persone ci sono volute per rimuovere fisicamente il suo cadavere dal bagagliaio?» «Un paio.» Ohn si voltò verso il tavolo della difesa, e posò lo sguardo prima su Kevin poi su Peyton. Era come se li stesse contando: uno e due, dando alla giuria giusto il tempo di considerare che, se erano servite un paio di persone per estrarlo dal bagagliaio, probabilmente c'erano voluti quei due per mettercelo dentro, l'assassino e il complice. «Grazie. Nessun'altra domanda.» «Controinterrogatorio?» chiese il giudice.
Era il turno di Falcone di cominciare per primo. Si alzò e si avvicinò al testimone, il passo leggermente più rigido del solito, come se stesse prendendo di mira la preda da dietro i cespugli. Alcuni avrebbero potuto considerarla una correzione strategica al suo stile abituale, ma Peyton sapeva che aveva semplicemente esagerato con il tapis roulant quella mattina. A pensarci bene, però, forse era davvero intenzionale. Stava cominciando a rendersi conto che con Tony quasi nulla accadeva per caso. «La causa della morte è stata una ferita da arma da fuoco», esordì, più come affermazione che come domanda. «Lo ha determinato dall'esame della ferita, dico bene?» «Ovviamente.» «Bene, a rischio di ribadire l'ovvio, non è stata rinvenuta nessuna pistola sulla scena?» «Abbiamo trovato un proiettile. Ma, francamente, non ho bisogno di una pistola o di un proiettile per riconoscere una ferita da arma da fuoco.» «La mia domanda era: non c'era nessuna pistola, vero?» «Esatto.» «E non c'erano schizzi di sangue sulle mani di Gary Varnes.» «È esatto.» «Sarebbe corretto dedurre dalla sua testimonianza che chiunque abbia premuto il grilletto di questa rivoltella scomparsa avrebbe dovuto avere degli schizzi di sangue sulle mani?» L'uomo rifletté un istante, come se percepisse la presenza di una trappola. «Con uno sparo a distanza tanto ravvicinata, sì.» «Per esempio, se Peyton Shields avesse sparato al signor Varnes prima di perdere conoscenza sul sedile anteriore, avrebbe dovuto avere degli schizzi di sangue sulle mani, forse anche sui vestiti.» «Dovremmo aspettarcelo, sì.» «Rimarrebbe sorpreso se le dicessi che né i paramedici dell'ambulanza, né i dottori al pronto soccorso hanno notato tracce di sangue sulle mani o sui vestiti della Shields?» «Obiezione.» «Respinta.» «L'acqua avrebbe potuto rimuoverle. Come pure un cambio di abiti.» Tony abbozzò un sorriso. «Quindi, mi lasci chiarire il concetto. Niente arma. Niente schizzi di sangue sulle mani o sugli abiti della mia cliente. Sta forse suggerendo che la dottoressa Shields ha sparato alla vittima da una distanza ravvicinata, si è liberata della pistola, si è lavata le mani, si è
cambiata i vestiti, è ritornata all'auto e ha ingoiato una manciata di pillole per suicidarsi?» «Obiezione. Il teste non può sapere queste cose.» «Vostro Onore, sto solo cercando di capire quanto disturbo si prendono di norma gli assassini per coprire il loro reato, prima di suicidarsi.» «Niente divagazioni, e in ogni caso non arriverà a dimostrarlo con questo testimone. Accolta. Prosegua.» Tony guardò verso la giuria. «Penso che la questione sia chiara a tutti. Nessun'altra domanda.» Ritornò al posto, lanciando alla propria cliente un'occhiata di autocompiacimento. Peyton gli rivolse un debole cenno di riconoscimento, sebbene nella sua mente il punto segnato non fosse determinante come l'avvocato sembrava considerarlo. Jennifer si alzò prima che lui avesse finito di sistemarsi sulla sedia. Parlò da dietro il tavolo della difesa, per suggerire che sarebbe stata ancora più breve del suo collega. «Dottor Gersch, si è fatto una qualche opinione in merito al luogo e all'ora dell'omicidio di Gary Varnes?» «Sembra sia stato ucciso nel bagagliaio.» «Su che cosa fonda questa opinione?» «Come ho già spiegato, il proiettile è entrato dal lato destro del cranio ed è uscito dal sinistro. Gli spruzzi di sangue rinvenuti nel bagagliaio sono compatibili con questo tipo di foro di uscita. E, cosa forse più importante, il proiettile è stato rinvenuto nel parafango.» «Quindi era vivo quando fu messo nel bagagliaio?» «Questa è la mia opinione.» Lei annuì, in apparenza soddisfatta. «Il rapporto della sua autopsia rileva soltanto una lacerazione, una ferita. Un singolo colpo di arma da fuoco che ha ucciso Gary Varnes.» «È così.» «Lei ha eseguito un esame approfondito, ne sono certa.» «Molto approfondito.» «Non ha rinvenuto segni di trauma cranico, come quelli provocati, diciamo, da un colpo in testa?» «Soltanto il colpo da arma da fuoco.» «Ha eseguito un esame tossicologico?» «È la prassi in casi come questo.» «Nessun segno che la vittima sia stata drogata.»
«Niente del genere.» «Quindi nessuno lo ha colpito in testa, lo ha messo nel bagagliaio e poi gli ha sparato?» «Non sembrerebbe.» «Nessun segno che qualcuno gli abbia fatto perdere conoscenza drogandolo, per poi infilarlo nel bagagliaio e sparargli?» «No.» «Tutto ci porta a ritenere che Gary Varnes fosse vivo e cosciente quando è entrato nel bagagliaio. E che gli hanno sparato mentre era vivo e cosciente.» «Probabilmente è quanto è accaduto.» «Per proseguire sulla scia della domanda del signor Ohn a proposito di quante persone siano state necessarie per rimuovere il cadavere dal bagagliaio, lasci che le chieda questo. Quanti uomini o donne con in mano una pistola ci vogliono per costringere un uomo cosciente a entrare in un bagagliaio?» «Uno, suppongo.» «Grazie. Nessun'altra domanda.» Peyton incrociò lo sguardo di Jennifer, mentre si rimetteva a sedere. Prima di arrivare in tribunale quella mattina, Tony le aveva detto che dovevano essere più cauti, ora che lei e Kevin si erano separati, e che avrebbero dovuto osservare ogni mossa del codifensore con un po' più di circospezione. Poteva sembrare che Jennifer avesse voluto aiutare entrambi gli imputati, provando la tesi dell'unica persona armata. Ma ora che aveva finito, lei fu colta dalle stesse vibrazioni negative che aveva provato dopo l'esame poligrafico. Non le piaceva il modo in cui l'avvocato di Kevin l'aveva guardata. Quando giunse la pausa pranzo, gli avvocati si recarono in una sala privata del tribunale, lasciando soli i propri clienti. Tony aveva bisogno di stare un momento con sua moglie, e non intendeva aspettare. Chiuse la porta, controllò il bagno per essere certo che lui e Jennifer fossero soli, poi la assalì. «Che cosa diavolo stai cercando di fare?» «A che ti riferisci?» «L'ultima domanda. Quanti uomini o donne ci vorrebbero per ordinare a Varnes di entrare nel bagagliaio, puntandogli contro una pistola?» «Sono stata neutra sul sesso.»
«Oh, ti prego.» «Il mio unico scopo era quello di smontare la teoria del pubblico ministero, secondo la quale ci sarebbero volute due persone per infilare il corpo di Varnes nel bagagliaio. Qualcuno lo ha costretto a entrare puntandogli contro una pistola, poi gli ha sparato. È l'ipotesi ideale per la tua teoria che Peyton è stata incastrata.» «Non farmi favori.» «Infatti non è così. Sto solo cercando di provare che Kevin non è coinvolto.» «Allora non farlo a spese della mia cliente.» «Mi spiace che non ti piaccia il mio approccio», lo avvisò Jennifer, «ma è mio dovere difendere il mio cliente. Specialmente uno che rifiuta di tutelare i propri interessi per amore di una moglie che è andata a letto con la vittima.» «Peyton non è andata a letto con Varnes.» «Oh, dai, Tony. Non puoi crederlo davvero.» Lui le si avvicinò, guardandola dritto negli occhi. «Tu credi che lei lo abbia ucciso, non è così? Questo è il tuo scopo. Oggi non eri in aula per sostenere la teoria dell'unica persona armata. Tu volevi provare che quell'unica persona era una donna.» Jennifer gli rivolse uno sguardo serio, ma non c'era rabbia nelle sue parole. Solo convinzione. «È compito del pubblico ministero provarlo, Tony. Ma sì. Io credo sia stata lei.» Tony osservò la moglie dirigersi verso la porta. «Jennifer», la chiamò. «Che vuoi ancora?» «Non sei più un pubblico ministero.» «Che cosa vorresti dire?» «Non devi far condannare la mia cliente per far assolvere il tuo.» Lei rifletté sulle sue parole e poi lo trafisse con lo sguardo. «Buffo. Nutro le stesse preoccupazioni nei tuoi confronti.» Poi si voltò e uscì dalla stanza. 59 Peyton cenò nello studio di Tony. Non aveva fretta di tornare a casa dei genitori, e lei e il suo avvocato avevano parecchio lavoro da sbrigare. Dopo la pausa pranzo Ohn aveva introdotto l'elemento di prova finale
dello stato, la registrazione di una pistola, che dimostrava che Peyton possedeva una calibro trentotto, abbinata alla testimonianza del detective Bolton che affermava di non aver trovato l'arma nel corso della perquisizione del suo appartamento. Ciò detto, il pubblico ministero era rimasto in silenzio. La difesa aveva argomentato delle mozioni per il giudizio di assoluzione, premendo affinché il giudice ricusasse il caso per insufficienza di prove. Il giudice aveva ascoltato pazientemente, poi aveva negato le mozioni. Tony fece la posticipata dichiarazione di apertura a nome di Peyton e l'udienza fu aggiornata alle cinque del pomeriggio con ordine di riconvenire alle nove del mattino successivo per l'inizio del dibattimento della difesa. «Quanto è profonda la fossa in cui mi trovo?» si informò Peyton. Erano seduti l'uno di fronte all'altra al tavolo della sala riunioni, mentre le luci del porto di Boston brillavano oltre l'ampia finestra. Confezioni mezze vuote di cibo cinese da asporto erano impilate sulla lucida superficie di mogano che li divideva. «Lui l'ha fatta semplice», ricapitolò Tony. «La sua relazione. Il suo litigio con Kevin. Il cadavere rinvenuto nella sua auto. Il suo tentato suicidio. La pistola calibro trentotto scomparsa dal suo appartamento, esattamente lo stesso tipo di arma che ha ucciso Gary Varnes. Un caso del tutto circostanziale, ma potrebbe bastare.» «Quella maestra elementare mi ha già condannata, l'ho capito.» «Ce ne sono almeno altri due che credo siano dalla nostra parte. La sua maestra potrebbe cambiare idea, quando sentirà quello che hanno da dire in camera di consiglio.» «Non voglio dover aspettare tanto. Spero cambi opinione una volta che avrà sentito ciò che ho da dire io.» Tony lasciò cadere il suo involtino, poi appoggiò le bacchette di lato. «C'è una cosa di cui dobbiamo discutere.» «La mia testimonianza?» «La prima domanda da porsi è se farla testimoniare.» «Ha appena affermato che io posso venire condannata. Non lascerò che accada senza aver raccontato la mia versione della storia.» «Comprendo pienamente il suo impulso. Ma ci sono due questioni che voglio esaminare con lei, prima che si convinca dell'idea di andare al banco dei testimoni per difendersi da sé.» Peyton bevve un sorso di soda. «La ascolto.» «Prima di tutto, come abbiamo intenzione di gestire la relazione con
Gary Varnes?» «Dirò che non c'è mai stata, naturalmente.» «Be', non proprio. Dirà che ha invitato il suo ex fidanzato a uscire a bere qualcosa, che siete andati a ballare, che lei ha bevuto tanto da non ricordare nemmeno quello che è successo poi, e che tutto quello che sa è di essersi svegliata il pomeriggio successivo nell'appartamento e nel letto di lui, con addosso soltanto gli slip e una maglietta.» «Ma non abbiamo fatto sesso.» Tony gettò la testa all'indietro, sospirando. «Nessun giurato ragionevole crederà mai che non avete fatto sesso.» «Allora che cosa vuole che dica?» ribatté lei, con aria beffarda. «Che ho fatto sesso con Gary anche se non è vero?» Lui si limitò a fissarla, il volto inespressivo. Peyton si stupì: «Non può parlare sul serio». «A parer mio, lei deve guardare quei giurati dritto negli occhi, ammettere la relazione e confessare loro che se ne è pentita. Se la negherà, non crederanno più a una sola parola di quello che dirà.» «Lei si aspetta che io menta sotto giuramento e ammetta una relazione che non ho mai avuto?» «La sua alternativa è non testimoniare affatto.» «La mia alternativa è andare al banco dei testimoni e dire la verità.» «Un intento lodevole, se il suo obiettivo è essere condannata e passare venticinque anni in un penitenziario di stato.» Peyton si protese in avanti sul tavolo, per imporre la propria opinione. «Senta, lei è il mio avvocato, ma su questo punto non mi importa di quello che sostiene. Io testimonierò, e mai, nemmeno in un milione di anni, ammetterò qualcosa che non ho fatto.» «Sospettavo che questa sarebbe stata la sua reazione.» «Be', il suo intuito aveva ragione. Quindi adesso passiamo alla questione successiva.» «Non credo sarà meno difficile.» «Che cosa?» «Suo marito testimonierà?» «Non lo so. Suppongo di sì.» «Lo chiedo perché è un nodo importantissimo della nostra strategia. Se la nostra difesa congiunta fosse forte come all'inizio, coordineremmo queste decisioni in modo più diretto. Non è buona cosa che un imputato vada al banco dei testimoni se l'altro non ha intenzione di testimoniare. Fa una
brutta impressione sulla giuria.» «Sono certa che, se lo chiedesse a Jennifer, sua moglie glielo direbbe.» «Il problema non è se possiamo o meno domandarlo a loro. Alludevo a una questione di influenza.» «Cosa vuol dire?» «Se lei vuole testimoniare, è meglio che lui stia dalla sua stessa parte.» «Che intende con esattezza?» «Se lei testimonierà, lui farà altrettanto. E se lui testimonierà, è meglio che lei sappia che cosa ha intenzione di dire.» Peyton sospirò. «Non ci siamo più parlati molto da quando mi sono trasferita dai miei.» «Questo è il punto. Se vuole salire sul banco dei testimoni, ha del lavoro da sbrigare, signora mia.» Lo sguardo di Peyton scivolò verso le lontane luci della città fuori della finestra. «Lo so.» Kevin e Jennifer saltarono la cena per lavorare. Lui non aveva più molto appetito da quando Peyton lo aveva lasciato, e lei non mangiava molto in generale. Le decisioni difficili erano le sole voci del loro menu. «Personalmente, sono contenta di come vanno le cose», dichiarò Jennifer. «In che senso?» «Il caso contro di lei in pratica non esiste. Tutto ciò che hanno è Sandra Blair che afferma di averla vista andare via infuriato dopo il litigio con Peyton, con lo sguardo di chi avrebbe potuto uccidere qualcuno. Sinceramente, non riesco a capire perché il giudice Gilhorn non abbia sostenuto la nostra mozione per un giudizio di assoluzione.» «Quindi quando dice di essere contenta di come vanno le cose intende per me?» «Ovviamente.» «E Peyton?» «Io non rappresento Peyton.» «Lo so. Sono solo curioso di sapere se lei pensa che sia nei guai.» «La questione non deve preoccuparci. La situazione di Peyton è un problema di Tony.» «Quindi pensa che mia moglie sia messa male?» «Più di quanto non lo sia lei, questo è certo.» «Voglio aiutarla, se posso.»
Jennifer si massaggiò la radice del naso, come se percepisse l'avvicinarsi di un'emicrania. «Sarà difficile, Kevin. Perché il consiglio che mi sento di darle è di non testimoniare. Spero di riuscire a persuadere Tony a dare lo stesso suggerimento alla sua cliente.» «Perché è convinta che io non dovrei testimoniare?» «Il caso contro di lei è debolissimo, rischierebbe solo di danneggiarsi. Di solito gli avvocati sono dei pessimi testimoni. Ma oltre a questo, se decide di testimoniare, dovremo affrontare tutta la questione del rapimento e del possibile ricatto. E questo non farà che garantire a Ohn nuove munizioni.» «Ma potrebbe essere l'unica possibilità per Peyton. Deve convincere la giuria di essere stata incastrata.» «Sua moglie si troverà in una brutta posizione, questo è certo. Ma se lei andrà al banco dei testimoni, si ficcherà in una posizione pessima.» «Per quale motivo?» Jennifer gli rivolse uno sguardo freddo, improvvisamente calata nella parte del pubblico ministero. «Signor Stokes, dove si trovava la notte in cui Gary Varnes è stato ucciso?» Kevin abbassò gli occhi. «Ha ragione. Pessima posizione.» Poi glielo raccontò. 60 Peyton ritornò dallo studio di Tony a casa, alla sua vera casa, dove da qualche giorno Kevin dormiva solo. Se intendeva testimoniare, il suo avvocato voleva che lo facesse per prima la mattina seguente, in modo da dare al pubblico ministero meno tempo possibile per preparare un controinterrogatorio. Doveva chiarire subito le cose con il marito. Salire con passo titubante i gradini d'ingresso, e bussare alla propria porta, le provocò una strana sensazione. Un momento le sembrava di non essere mai vissuta lì, quello successivo era come se non se ne fosse mai andata. Fu sul punto di ripensarci, ma la porta si spalancò. «Peyton», disse Kevin, fermo sulla soglia. Sembrava aver pronunciato il suo nome per un riflesso condizionato. «Tony pensa che dobbiamo parlare.» «Lo penso anch'io.» Fece un passo indietro per permetterle di entrare. Peyton esitò, poi entrò. Kevin l'aiutò con il cappotto, con premura persino eccessiva. «Posso offrirti qualcosa?»
In verità lei non desiderava nulla, ma lui aveva dipinto sul volto uno sguardo così pieno di speranza. Sarebbe stato crudele rifiutare. «È rimasto un po' di quel succo di frutta alla carota e mandarino?» «Certo. Nessuno lo beve, a parte te e i conigli della Florida.» Si scambiarono un debole sorriso, poi Peyton lo seguì in cucina. Lui le versò il succo e le offrì una sedia. Lei rimase in piedi accanto al bancone. «No, grazie. Sarà una cosa veloce.» «Sei sicura? Hai fame? Ho un po' di...» Aprì il frigorifero. «Olive.» «Non ho fame.» «Che ne dici di...» «Kevin, domani ho intenzione di testimoniare.» Lui chiuse la porta del frigorifero e si appoggiò al bancone di fronte a lei. «Non posso dire di essere sorpreso.» «Non sei d'accordo con la mia decisione?» «Non spetta a me dirlo.» «Sai che cosa intendo. Sono certa che Jennifer ti abbia fatto lo stesso discorso del mio avvocato.» «Ho la sensazione che il nostro fosse un po' diverso.» «Cioè?» «Niente. Qualunque cosa tu decida, io ti sosterrò. In realtà, non ero sicuro delle mie intenzioni. Ma se tu testimonierai, penso che lo farò anch'io.» «Voglio solo che tutto sia chiaro fra noi. La mia scelta di testimoniare non potrebbe crearti un problema che non saresti in grado di risolvere?» Lui tentennò, ma rimase in silenzio. «È un sì o un no?» insistette Peyton, preoccupata. Kevin distolse lo sguardo, poi lo riportò su di lei. «La notte in cui Gary Varnes è stato ucciso, tu e io abbiamo litigato. Io sono uscito, te lo ricordi?» «Sì, me lo ricordo.» «Non ho un alibi.» «Nemmeno io.» «Ma tu puoi dire alla giuria che sei rimasta a casa tutta la notte. Sarà un po' più difficile per me spiegare dove sono finito.» Per un istante, Peyton non riuscì a parlare. Gli rivolse uno sguardo tagliente. «Mi hai assicurato di essere stato con lei solo una volta.» «Con chi?» «Hai giurato che tu e Sandra siete stati insieme soltanto quella notte, l'inverno scorso.»
«Ed è vero.» «Non cercare di fare retromarcia adesso.» «Hai completamente frainteso. Non era quello che stavo cercando di spiegare.» «Devi considerarmi una vera idiota.» Si voltò e si diresse all'ingresso. «Peyton, aspetta.» Lei si infilò il cappotto con un gesto rabbioso. «Sai, la notte scorsa ho pensato che forse tu avevi commesso un errore. Che forse eri davvero pentito. Che forse avrei potuto perdonarti una singola debolezza. Ma le bugie non sono finite, non è così? Non so nemmeno perché mi sia presa il disturbo di venire qui.» «Ma non ero con Sandra. Non quella notte.» Peyton si voltò e chiese: «Allora dov'eri?» «Jennifer dice che...» Esitò, in preda a una lotta interiore. «È meglio che tu non lo sappia.» La rabbia esplose, e Peyton spalancò la porta. «Vai al diavolo!» gridò, sbattendola alle sue spalle. Alle dieci e mezzo Charles Ohn era rilassato sulla sua poltrona reclinabile davanti alla televisione accesa sul canale dello sport, solo, con una birra e un voluminoso pacchetto di pretzel. C'era il suo programma preferito, le qualificazioni mondiali di poker. Veniva considerato il pubblico ministero più stakanovista di Boston, e tornare a casa per stravaccarsi davanti alla televisione alle dieci di sera per lui era diventata quasi una routine, dopo il divorzio di sei mesi prima. A dire il vero, era un'abitudine anche prima del divorzio, cosa che la moglie gli aveva platealmente rinfacciato quando aveva deciso di mettere la parola fine a dodici anni di matrimonio. Il telefono squillò. Ohn recuperò il cellulare sepolto sotto i cuscini. Era Jennifer Dunwoody. «Congratulazioni per essere sopravvissuto alle nostre mozioni di assoluzione questo pomeriggio», esordì lei. Abbassò il volume della televisione. «Oh, grazie. Ma c'è poco di cui congratularsi. Se un pubblico ministero non riesce a costruire un caso abbastanza solido da evitare che il giudice lo ricusi senza che gli imputati debbano almeno imbastire una difesa, non è un grande professionista.» Gli sembrò di sentire una risatina, ma forse era solo un'impressione dovuta alla sua insicurezza. Dopotutto, era stato il marito di Jennifer a coniare il suo soprannome, «Ohn-anator». In realtà, da principio lui l'aveva accettato, pensando a un gioco di parole con il Terminator di Schwarzeneg-
ger. Poi qualcuno gli aveva spiegato che si riferiva a Onan, una figura biblica il cui nome era diventato sinonimo di masturbazione. «Per essere sincera», precisò Jennifer, «pensavo che al mio cliente la mozione sarebbe stata accordata.» «Se questo è l'argomento della telefonata, ci sarebbe una partitella di poker che mi piacerebbe guardare.» «A dire il vero, stavo decidendo se mandare Stokes sul banco dei testimoni oppure no.» Con quelle parole catturò la sua totale attenzione. «Vada avanti.» «Be', ci sono un paio di possibilità.» «Ci sono sempre», commentò Ohn. «O testimonia o non lo fa.» «In questo caso c'è una piccola complicazione. Se andrà al banco dei testimoni, potrebbe testimoniare come parte della difesa, o come parte della sua confutazione.» «Sta dicendo che sarebbe disposto a testimoniare contro la moglie?» «Lui sostiene che non lo farebbe mai. Ma in ogni caso io voglio poter informare il mio cliente di tutte le opzioni che ha a disposizione. Quindi chiamo per sapere se l'accordo che ci ha offerto potrebbe essere rimesso sul tavolo.» Ohn lanciò un'occhiata al televisore. Il suo giocatore preferito aveva scommesso tutto su una coppia d'assi. «Mi spiace, Jennifer. L'offerta non è più valida.» «Che cosa?» «Niente accordi. Li faccio affondare entrambi.» «Va bene», reagì Jennifer. «Lo vedremo.» «Esatto, lo vedremo», ripeté Ohn. «E abbastanza presto.» Alle undici, Rudy era online, connesso alla solita chat room in cerca di Ladydoc. Si odiava per quello che stava facendo. Lei non meritava un'altra occasione, visto il modo in cui gli aveva dato buca per la seconda volta la notte passata. Non era nella sua natura mostrarsi così indulgente, e questo lo fece riflettere sugli equilibri di potere nella loro relazione. Non che avesse nulla da temere. Aveva il coltello dalla parte del manico: sapeva dove lei viveva. Forse si illudeva di potersi liberare di lui semplicemente abbandonando la chat room, cambiando il suo nickname o non facendosi trovare di persona all'appuntamento. Altre avevano commesso lo stesso errore in pas-
sato. L'ultima puttanella che aveva provato a fregarlo aveva rivelato così tanto di se stessa online, che Rudy sapeva addirittura che lei teneva una caraffa di frullato alla banana per il pranzo nel frigorifero dell'ufficio. Vestito da fattorino, era andato nel suo ufficio, si era intrufolato in cucina, aveva chiuso la porta a chiave, era venuto nel frullato e lo aveva riposto in frigo. Chi aveva il potere? Beviti quel frullato, baby. Disgustoso, sì, ma non era stato il frullato a ucciderla. Lo schermo del computer brillava nell'oscurità, una pagina bianca con il solo cursore lampeggiante a fargli compagnia. Non scrisse nulla, guardava lo schermo e aspettava. Due minuti dopo le undici, il messaggio che aveva sperato di ricevere apparve sullo schermo. «Ladydoc è entrata nella chat room.» La rabbia si trasformò in eccitazione. Erano soli nella loro chat room privata. «6 arrivata.» «certo.» «non dire certo. mi hai bidonato l'altra notte.» «scusa.» Lui attese dell'altro, ma sapeva che non sarebbe arrivato. Lei non gli aveva dato alcuna spiegazione nemmeno lo scorso inverno. Semplicemente era mancata a un appuntamento, poi quell'ultima chiacchierata in cui lo scaricava, a quanto pareva perché era meglio così. Infine il tuffo nel Jamaica Pond. Non pensare nemmeno a scaricarmi questa volta. «è tutto quello che hai da dire? scusa?» «vediamo. come posso farmi perdonare da te?» «lo sai come.» «vuoi che ti canti delle canzoni d'amore?» «no.» «vuoi che ti reciti una poesia?» «sbagli ancora.» «vuoi che succhi il tuo grosso uccello?» «ahhhhhhhh.» «lo hai tirato fuori?» «sì.» «lo voglio tutto fuori.» «è tutto per te.» Tolse le mani dalla tastiera. Era passato così tanto tempo dall'ultima vol-
ta, che gli ci erano voluti soltanto trenta secondi per trovarsi sull'orlo dell'orgasmo. Si toccò con la mano sinistra e andò a tentoni sulla scrivania, frugando fra pile di fotografie che aveva segretamente scattato a Peyton nel corso degli ultimi diciotto mesi, in cerca di quella giusta sulla quale spruzzare la propria eccitazione. Una frase cominciò a comporsi sullo schermo, attirando la sua attenzione. «è successa una cosa. devo andare.» Lui si fermò di botto. «aspetta!» «devo andare. aspettami domani sera nella chat del cinema.» «NO!» «te lo prometto. domani sera di sicuro.» «puttana!» «domani. prometto, prometto.» «non farlo di nuovo!» Rudy fissò lo schermo vuoto. Lei se n'era andata. «Vai al diavolo!» gridò, facendo quasi tremare i vetri. Aprì con violenza il cassetto pieno delle foto di Peyton e le gettò per la stanza. Centinaia di fotografie caddero sul pavimento. Peyton che faceva jogging, Peyton che andava al lavoro, Peyton che pranzava al caffè all'aperto. Peyton diretta all'appartamento di Gary Varnes. Si afferrò dei ciuffi di capelli e li tirò con violenza, facendo smorfie di dolore fino a che non poté più resistere. Poi gridò con quanto fiato aveva in gola. Lasciò la presa, ponendo fine all'autoflagellazione. Seguì una serie di profondi rantoli, dopo i quali Rudy si calmò. «Ci siamo», mormorò, fissando lo schermo del computer. «È ora.» 61 Peyton si sentì rabbrividire mentre il suo legale si alzava per parlare nell'aula affollata ma silenziosa. «La difesa chiama l'imputata, la dottoressa Peyton Shields.» Dopo essere stata dipinta come un'adultera dai giornali per intere settimane, dopo che il suo avvocato e persino suo marito avevano dubitato di lei, Peyton non desiderava altro che raccontare la propria versione dei fatti. La speranza che un giorno avrebbe potuto ottenere vendetta era stata la forza che l'aveva sostenuta fino a quel momento. Mentre si avvicinava al banco, tuttavia, fu travolta dalla cupa consapevolezza che il mondo potesse
non credere alle sue parole. «Giura di dire la verità, tutta la verità...» Il giuramento le era parso molto meccanico quando lo aveva sentito pronunciare dagli altri testimoni, ma era un'altra cosa sentire l'ufficiale giudiziario rivolgerle quelle parole di fronte al giudice, ai giurati, al suo avvocato, a suo marito, ai suoi genitori, alla stampa famelica e alla folla di spettatori. Con tutti quegli occhi puntati addosso, si chiese chi mai sarebbe riuscito a mentire sul banco dei testimoni. Quel momento di nervosismo, poco prima di sottoporre la propria difesa a una giuria di suoi pari, confermò un'incrollabile verità su se stessa: non era fatta della stessa pasta dei bugiardi. Tony le si avvicinò, gentile ma professionale. Partì dalla sua storia personale, in particolare la decisione di dedicare la propria vita ai bambini e alla pediatria. Era un modo di accattivarsi la simpatia del pubblico mettendola, al contempo, a suo agio. Ben presto, però, quelle calorose effusioni terminarono. «Dottoressa Shields, l'ultima cosa che abbiamo ascoltato dallo stato, prima che ieri chiudessero la requisitoria, è che lei possiede una pistola calibro trentotto. Quando l'ha acquistata?» «Lo scorso inverno», rispose lei con un filo di voce. Era la prima domanda significativa dell'interrogatorio e aveva già un nodo in gola. «Perché l'ha acquistata?» «Una notte, quando mio marito era fuori città per lavoro, mi è parso di sentire qualcuno che cercava di forzare la serratura dell'ingresso.» «Quindi l'ha comprata per difesa personale?» «Sì.» «L'ha mai usata?» «Ho seguito un corso che prevedeva anche una parte di pratica con tiri al bersaglio. La mia ultima lezione credo risalga a febbraio. Quella è stata l'ultima volta che l'ho usata.» «Che cosa ne ha fatto poi?» «L'ho conservata chiusa in una cassetta metallica sopra un ripiano del mio armadio. L'ho messa lì e giuro di non averla mai più toccata.» «Perché non era al suo posto quando la polizia è venuta a cercarla dopo la morte di Gary Varnes?» «Non so spiegarlo. Tutto quello che posso dire è che deve essere stata rubata.» Tony si interruppe, come per lasciare tempo ai giurati di assorbire la te-
stimonianza. Il giudice Gilhorn borbottò come un orso che si sveglia dal letargo, facendo cenno ai legali di avvicinarsi. Sia Tony sia il pubblico ministero lo raggiunsero allo scranno per un breve scambio di parole lontano dalla giuria. Dal banco dei testimoni Peyton era abbastanza vicina per cogliere il rimprovero del giudice. «Signor Falcone, ho accolto la sua mozione preprocessuale per evitare che lo stato presentasse come prova le cosiddette lettere d'amore ritrovate nella cassetta quando la polizia ha effettuato la perquisizione in cerca della pistola. Suggerendo che qualcuno ha manomesso la cassetta e ha rubato l'arma, lei è soltanto a una domanda di distanza dal farmi cambiare opinione. Chiaro?» «Chiaro.» Gli avvocati si ritirarono, Ohn al tavolo dell'accusa e Tony al suo posto di fronte alla propria cliente. Guidò Peyton direttamente nella sua «altra vita» con Gary Varnes, facendole raccontare di come uscissero insieme ai tempi del liceo e di come le loro strade si fossero nuovamente incrociate al Children's Hospital; amichevolmente, solo come colleghi. Poi venne il momento di spiegare come fosse finita nell'appartamento di Gary, partendo dalla visita a sorpresa a Kevin a New York e dall'orribile errore che aveva commesso, credendo che il marito stesse condividendo la stanza con un'altra donna. «Che cosa fece quando ritornò a Boston?» «L'ultima cosa che avevo voglia di fare era tornare a casa, nel nostro appartamento. Così andai in ospedale, per cercare di distrarmi con il lavoro.» «E là incontrò il signor Varnes?» «Sì. Era di turno, e cominciammo a parlare. Si era accorto di quanto fossi turbata. Come ho detto, eravamo amici, così decidemmo di lasciare l'ospedale per cercare di tirarmi un po' su.» Peyton lanciò uno sguardo ai giurati. Un paio di loro sembravano avere un'idea precisa di dove avrebbe portato quel tentativo di «tirarla un po' su». «Così andaste in un bar?» «Prima andammo a prendere un caffè. Era stata una mia idea. Poi incontrammo dei suoi amici in un locale. Quella fu un'idea di Gary.» «Ricorda quanti cocktail bevve?» «Non esattamente. Non sembravano molti, ma a posteriori posso affermare con certezza di averne bevuto uno di troppo. Ero stanca e mi sentivo molto triste. Ero appena tornata da New York, convinta che mio marito mi avesse tradita.»
«A che ora pressappoco lasciaste l'ultimo locale?» «Tutto ciò che rammento è che cominciai a sentirmi male verso le due del mattino, così ce ne andammo. Da quel punto in avanti, non ricordo nulla.» «Qual è la prima cosa che ricorda dopo quella notte?» «Di essermi svegliata nell'appartamento di Gary. Il pomeriggio successivo.» La folla mormorò. La testimonianza di Steve Beasley aveva rivelato qualche indizio, ma quelli erano dettagli nuovi, e succulenti. Il battito di Peyton accelerò. Temeva il prossimo paio di domande, ma nel corso delle prove fatte la sera precedente, Tony le aveva assicurato che, se intendeva dire tutta la verità, era meglio portare alla luce i dettagli più scabrosi di persona, piuttosto che aspettare che Ohn glieli estorcesse durante il controinterrogatorio. «Dove si trovava esattamente nell'appartamento del signor Varnes?» «Ero nel suo letto, sola. Gary aveva dormito sul divano.» «Era vestita?» «Sì. In parte.» «Che cosa indossava?» «Gli slip. E una maglietta di Gary.» Il vociare del pubblico si fece più intenso. Il giudice picchiò il martello per riportare il silenzio. «Ordine.» Tony proseguì. «Devo ammettere che questa comincia ad apparire una situazione piuttosto imbarazzante.» «Non è come sembra. Gary mi spiegò tutto il giorno successivo. Mi disse...» «Obiezione», gridò Ohn. «La teste ha affermato di non avere ricordi di quello che accadde dopo aver raggiunto l'appartamento di Gary Varnes. Sa di essere finita mezza nuda nel letto della vittima soltanto basandosi su quanto lui le ha riferito. De relato?» «Accolta.» Peyton guardò Tony, sconfortata dal fatto che la giuria non avesse potuto sentire l'ammissione dello stesso Gary, secondo la quale non avevano fatto sesso, lei si era sentita male e lui le aveva semplicemente lavato i vestiti. «Ma, Vostro Onore», protestò Falcone, in tono quasi implorante. «L'obiezione è stata accolta. La prossima domanda, prego.» Peyton incrociò lo sguardo del giudice, e in quel momento si rese conto
che il suo avvocato aveva ragione. Aveva previsto che la giuria non avrebbe creduto che lei non era andata a letto con Gary Varnes. Evidentemente, il giudice era della medesima opinione. Con riluttanza, Tony passò all'ostilità di Gary nei suoi confronti dopo la notte passata insieme, alla discussione sulla rosa che lei aveva trovato attaccata al suo armadietto e al furto del computer dalla biblioteca. Poi giunse al cuore della teoria difensiva. «Dottoressa Shields, abbiamo ascoltato Sandra Blair testimoniare del litigio che le è capitato di ascoltare fra lei e suo marito al cocktail ad Harvard. Che cosa accadde in quell'occasione?» «Kevin aveva sentito delle false dicerie sul conto mio e di Gary, e mi affrontò nel corridoio. Io negai che fra noi ci fosse stato qualcosa, ma non credevo che un corridoio fosse il luogo ideale dove discutere. Di fronte al mio rifiuto di approfondire l'argomento, Kevin si infuriò e se ne andò senza di me.» «Così lei rincasò sola?» «Sì. Aspettai fino a tardi che lui tornasse a casa, ma non lo fece. Verso le undici ricevetti un paio di telefonate, ma quando risposi sentii riagganciare. Mi spaventai, e rimasi in piedi a guardare la televisione fino a tardi.» «E poi che cosa accadde?» «Il telefono squillò e io mi svegliai sul divano davanti alla televisione. Erano passate le quattro del mattino.» «Chi era?» «Non lo so. La voce di un uomo che non riconobbi.» «Che cosa le disse?» Peyton si preparò a un'altra obiezione per sentito dire di Ohn, ma il pubblico ministero sembrava rapito dal suo racconto proprio come tutti i presenti in aula, troppo incuriosito per interrompere. «Mi suggerì di controllare la posta, poi riagganciò.» «E lei lo fece?» «Sì. Trovai una busta all'ingresso che qualcuno aveva infilato nella fessura della posta. La aprii subito.» «Che cosa vi trovò?» Lei deglutì e rispose: «Una ciocca di capelli umani». Quelle parole provocarono una rumorosa reazione da parte del pubblico. «Ordine», intimò il giudice, picchiando il martello. «Che cosa accadde in seguito?» La sua voce tremò mentre raccontava di come fosse saltata la luce, e del-
la chiamata sul cellulare. «Arrivai in camera da letto a tentoni e risposi. Era la stessa voce di poco prima.» «Che cosa le disse l'uomo questa volta?» «Che aveva rapito Gary Varnes ed esigeva un riscatto di diecimila dollari.» Ohn rimase scioccato, troppo sbalordito persino per muovere un'obiezione. Peyton cercò di ignorare il mormorio della folla e rimanere concentrata. Tony le domandò: «Doveva pagare diecimila dollari, altrimenti lui che cosa avrebbe fatto?» Peyton lanciò un fugace sguardo a Kevin. Lei sola lo conosceva tanto bene da capire quanto stesse soffrendo. «Disse che avrebbe ucciso Gary Varnes e avrebbe raccontato a mio marito che eravamo amanti.» «Quale fu la sua reazione?» «Un misto di paura per la vita di Gary e di rabbia perché venivo accusata di essere la sua amante, quando non era vero. Oltre a questo, puro choc. Mi diede un paio di giorni per recuperare il denaro e poi riattaccò.» «Lei chiamò la polizia?» «No. Lui mi aveva avvertito che, in tal caso, avrebbe ucciso Gary.» «Quindi che cosa fece?» «Kevin rientrò all'alba e ne parlammo. Mio marito si convinse sin dal principio che Gary avesse inscenato il presunto rapimento e che fosse stato lui a chiamare, nel tentativo di ricattarci. Così decidemmo di non pagare.» Peyton vide il suo avvocato sussultare appena alla menzione del ricatto. Era il movente aggiunto che aveva disperatamente cercato di non servire al pubblico ministero sul proverbiale piatto d'argento. «Discuteste della questione della sua presunta relazione con Gary?» «Assicurai a Kevin che non era vero. Lui mi rispose che, anche se lo fosse stato, mi avrebbe perdonata.» «Fu contattata ancora dal presunto rapitore?» «Due giorni più tardi mi chiamò al lavoro. Mi informò che avrei fatto meglio a procurarmi il denaro entro mezzanotte o avrebbe ucciso Gary.» «E lei si procurò il denaro?» «No. Kevin e io eravamo ancora convinti che si trattasse soltanto di una molestia di Gary. Ma decidemmo che, se avessi ricevuto un'altra telefonata minacciosa, saremmo andati dalla polizia.» «E la riceveste?» «No. Kevin e io aspettammo fino a mezzanotte, ma non fummo più con-
tattati.» «Quindi che cosa accadde in seguito? Lei e Kevin andaste a dormire?» «Avevamo raggiunto un livello di stress insostenibile. Litigammo e Kevin uscì.» «Per quanto tempo?» «Il resto della notte.» Rivolse uno sguardo al marito, poi al pubblico ministero. Sembrava che Ohn avesse preso nota della seconda scomparsa di Kevin. «Che cosa fece lei?» «Andai a letto, ma non dormii bene. Dovevo essere al lavoro presto, così verso le cinque uscii e salii sulla mia auto.» La sua voce si smorzò. Per otto settimane Tony aveva considerato il rapimento un argomento tabù, e Peyton lo aveva rimosso. Ora le emozioni riemergevano impetuose mentre lei descriveva alla corte la mano premuta sulla sua bocca, l'immagine nello specchietto retrovisore, l'uomo seduto sul sedile posteriore con un passamontagna. «Mi chiese se avevo il denaro. Provai a spiegargli che avrei potuto procurarlo, ma lui voleva soltanto che rispondessi sì o no alla sua domanda: avevo il denaro? Gli dissi di no.» «E allora che cosa accadde?» «Mi disse: 'Buon per te, Peyton. Hai fatto la scelta giusta'.» Si interruppe, la voce tremante, gli occhi offuscati dalle lacrime. La prova della sera prima era finita lì, ma quasi involontariamente lei aggiunse: «Era come se intendesse che lasciar morire Gary fosse la scelta giusta». Tony fece una pausa a effetto. «Ci dica che cosa accadde in seguito.» «Mi mise uno straccio sulla bocca. Sentii l'odore del cloroformio. E poi persi conoscenza.» «Qual è la prima cosa che ricorda dopo questo evento?» «Di essermi risvegliata all'ospedale. Kevin era accanto a me. Mi raccontò che la polizia mi aveva trovata in macchina con un flacone di sonniferi rovesciato. E poi arrivarono gli agenti», proseguì, manifestando una lieve emozione. «Ci informarono che Gary era morto e che il suo cadavere si trovava nel bagagliaio della mia auto.» Tony fece un passo indietro e Peyton si preparò per il difficile finale che avevano provato. «Dottoressa Shields, lei aveva una relazione con Gary Varnes?» «No.» «Ha ucciso lei Gary Varnes?»
«No, non l'ho ucciso.» «Ha contribuito in qualunque maniera all'occultamento del cadavere del signor Varnes?» «No.» «Ha idea di chi possa essere l'uomo che l'ha assalita?» Peyton fu colta lievemente di sorpresa. Nel corso delle prove, Tony non le aveva mai domandato della possibile identità del suo assalitore, e il cambiamento di rotta la lasciò interdetta per un istante. «No», rispose alla fine, sentendosi percorrere dai brividi. «Ma sembrava stranamente familiare.» «In che modo?» Forse perché si trovava in un'aula di tribunale, o perché era sotto giuramento e stava cercando con tutte le sue forze di affermare la verità, Peyton si convinse all'improvviso che l'uomo con il passamontagna fosse il «buon samaritano» che l'aveva salvata dalle acque del Jamaica Pond. Senza quasi accorgersene diede voce ai suoi pensieri: «Era come se lo avessi già guardato negli occhi prima di allora». Lentamente, mentre l'intera giuria lo osservava, Tony diede le spalle a Peyton e si voltò verso il marito, seduto al tavolo della difesa, lasciando che il proprio sguardo severo si posasse su di lui. Peyton ripensò alle parole appena pronunciate - «era come se lo avessi già guardato negli occhi prima di allora» - e rimase quasi senza fiato di fronte all'implicita accusa del suo avvocato. Avrebbe voluto ritrattare la propria testimonianza o spiegare che cosa intendesse, non si aspettava proprio quella bravata di Falcone. «Grazie, dottoressa Shields», la congedò Tony. «Nessun'altra domanda.» Peyton guardò Kevin e vide sul suo volto la mortificata espressione di chi ha subito un tradimento. Si girò verso il giudice, mentre lanciava un silenzioso grido disperato: Aspettate! C'è una cosa che devo spiegare. «Signor Ohn», intervenne Gilhorn. «Controinterrogatorio, prego.» Peyton cadde in uno sconforto ancora maggiore quando il pubblico ministero si fece avanti. Le bastò uno sguardo ai suoi occhi fiammeggianti per comprendere che era troppo tardi per spiegare, troppo tardi per fare marcia indietro. La parte facile non si era rivelata affatto tale. Quella difficile doveva ancora cominciare. 62
Peyton udiva il rumore del proprio respiro, tanto era il silenzio calato in aula. Il pubblico ministero si avvicinò a lei lentamente e poi si fermò, le mani sui fianchi. Fissò la teste senza parlare, come se la stesse esaminando, un pitone strisciante pronto a divorarla in un solo boccone. Peyton sostenne il suo sguardo per un attimo, anche se sentiva che avrebbe perso la battaglia della tensione. Guardò altrove e vide Kevin, il viso stravolto dalla confusione. Provò a inviargli un messaggio silenzioso per fargli capire che non aveva intenzione di tradire suo marito, ma il suono aspro della voce di Ohn la riportò istantaneamente alla realtà. «Non successe nulla», tuonò, per poi assumere un tono più pacato, ma sarcastico. «E lei si svegliò mezza nuda nel letto di un altro uomo.» Peyton non era certa che Ohn volesse una risposta, ma lasciare che le sue parole rimanessero sospese la faceva sentire ancora più a disagio. «Sì», confermò con voce più debole di quanto intendesse. «Non indossava un pigiama?» «No.» «Le erano stati tolti i pantaloni.» «Sì.» «Niente reggiseno?» «No.» «Indossava solo gli slip.» «E una maglietta.» «Una maglietta di lui, esatto?» «Sì.» Ohn abbozzò un sorrisetto sardonico. «E non successe nulla?» «Ho provato a spiegare. Ma lei non me lo ha consentito.» «Direi che i fatti parlano da soli», obiettò il pubblico ministero, lanciando uno sguardo alla giuria. La rabbia le fece uscire le parole. «Mi sentii male perché avevo bevuto troppa tequila e Gary mi lavò i vestiti sporchi.» Lui le rivolse uno sguardo severo, come per far scappare il topolino di nuovo nella sua tana, quasi a minacciare che avrebbe fatto molto peggio se lei avesse osato di nuovo prendere una simile iniziativa. «Fino alla biancheria intima, si era sentita così male, eh?» «Ero molto ubriaca, quindi non posso sapere quanto sia stata male.» «Lei non ha ricordi in merito, quindi ci sta offrendo la spiegazione che
Gary le fornì il giorno seguente.» «Esatto.» «Motivo per il quale il giudice ha accolto la mia obiezione di poco fa. Ma ora che è venuta fuori, affrontiamo la questione. Lei non ha fatto l'amore con Gary Varnes quella notte, vero?» Peyton fu colta di sorpresa, non comprendendo la ragione per la quale Ohn sembrava improvvisamente essersi schierato dalla sua parte. «Esatto, non l'ho fatto.» «Ma lui voleva fare sesso con lei, non è vero?» «Non lo so.» «Era il suo ex fidanzato, giusto?» «Sì.» «La portò fuori per farle affogare nell'alcol i suoi dispiaceri.» «Si potrebbe dire così.» «La fece bere tanto da non riuscire nemmeno a ricordare quanto.» «Bevemmo troppo, sì.» «Lui la condusse nel suo appartamento.» «Esatto.» «E tutto ciò che lei sa è che il giorno dopo si ritrovò praticamente nuda nel suo letto.» «È vero.» «E lui le spiegò che era stata male a causa della tequila.» «Esatto.» Ohn prese a camminare, poi si fermò all'improvviso, come se gli fosse appena venuta in mente un'idea. «Ora, lei non raccontò questo episodio a suo marito, una volta tornata a casa, vero?» «No.» «In realtà non gli disse niente fino alla sera in cui Sandra Blair vi sentì litigare, quando suo marito la affrontò.» Peyton abbassò lo sguardo. Quella era la parte di cui non andava fiera. «È vero.» «Non glielo disse, perché sapeva che si sarebbe arrabbiato.» «L'intera faccenda sembrava diversa da com'era. Temevo che Kevin non avrebbe capito.» «E quando alla fine glielo confessò, lui, in effetti, si arrabbiò.» «Sì.» «Era tanto arrabbiato da non rientrare nemmeno a casa la notte dopo il cocktail.»
«È così.» «E quella fu la stessa notte in cui lo sconosciuto chiamò per farle sapere che aveva rapito Gary Varnes.» Lei esitò, ma c'era soltanto una risposta da dare. «Sì.» «E un paio di giorni più tardi lei e suo marito aveste un altro litigio.» «Una discussione, sì.» «Lui si infuriò al punto di andarsene di casa.» «Esatto.» «Quella fu la stessa notte in cui Gary Varnes fu ritrovato morto nella sua auto.» Ancora una volta Peyton esitò, sapendo che la situazione non si stava mettendo molto bene per Kevin. «La stessa notte.» «Che notte», commentò Ohn, sorridendo beffardo. «La notte in cui Gary Varnes fu ucciso. La notte in cui suo marito se ne andò dal vostro appartamento sbattendo la porta. Quella fu la notte in cui lei confessò a Kevin la verità, non è così?» «Gli dissi che io e Gary non avevamo fatto niente di male.» «Gli disse che era uscita a bere con il suo amico.» «Sì.» «Gli disse che poi eravate andati nel suo appartamento.» «Sì, lo ammisi.» «Gli disse di non ricordare nulla, ma di essersi svegliata nel suo letto.» «È la verità.» Ohn si fece più vicino, come per incalzarla. «Gli disse che Gary Varnes aveva provato a violentarla.» «Obiezione!» gridò Tony. «Non c'è prova a registro a sostegno di una domanda tanto accusatoria.» «Obiezione congiunta!» intervenne Jennifer. Peyton si atterrì. Un mormorio si levò in aula. «Ordine!» si alterò il giudice. «Avvocati, nella mia stanza!» Il giudice scese con impeto dallo scranno e loro lo seguirono attraverso l'uscita laterale. Il giudice Gilhorn era appoggiato alla propria enorme scrivania, le braccia conserte, furibondo. Guardava il pubblico ministero con occhi torvi. Tony riuscì a parlare a stento. «Questo procedimento è da considerarsi nullo.» Il giudice alzò una mano, zittendolo. «Signor Ohn, si spieghi.»
Ohn parve perplesso per la rabbia di tutti i convenuti. «La dottoressa Shields ha testimoniato di non avere alcun ricordo della notte trascorsa nell'appartamento di Varnes. Ovviamente io sono venuto a conoscenza della sua mancanza di memoria solo quando lo ha rivelato qui, nel corso del processo. Quindi è stato soltanto oggi che ho collegato la sua perdita di memoria e l'altra prova che il signor Varnes ha drogato la dottoressa Shields con l'intento di violentarla.» «Quale altra prova?» chiese Tony. «Durante la perquisizione dell'appartamento di Varnes dopo il ritrovamento del suo cadavere, la polizia ha rinvenuto un flacone aperto di Rohypnol.» «Le pillole da appuntamento, la droga dello stupro?» si stupì Tony. «Perché non ne siamo stati informati prima del processo?» «Perché non era rilevante per nessuno degli aspetti di questo caso. Fino a oggi.» Tony fu sul punto di esplodere. «La mia cliente è stata ritrovata priva di conoscenza al volante della sua auto. Come può una qualunque droga rinvenuta nell'abitazione della vittima essere considerata non rilevante?» «È rilevante soltanto per mostrare il movente del signor Stokes per l'omicidio.» Jennifer si fece avanti, inorridita. «Quindi adesso è il mio cliente ad aver premuto il grilletto? Quante volte ha intenzione di cambiare le sue teorie in questo caso?» Ohn ignorò gli avvocati e si rivolse direttamente al giudice. «Vostro Onore, questa teoria ha preso forma soltanto oggi, ma ora è chiaro quello che è successo. Il signor Stokes era furioso per aver scoperto che Varnes aveva drogato sua moglie con l'intento di violentarla. Ha ucciso Varnes con l'aiuto di Peyton. La dottoressa Shields ha provato a sbarazzarsi del corpo, e ha finito con tentare il suicidio con i sonniferi, probabilmente spinta da una combinazione di depressione per la violenza subita e di senso di colpa per il proprio ruolo nell'omicidio. Insieme, gli imputati hanno in seguito inventato la comparsa di un misterioso rapitore a sostegno della propria difesa. Il signor Stokes ha premuto il grilletto. Di sicuro la dottoressa Shields lo ha aiutato dopo il fatto, forse è stata addirittura sua complice.» «Si tratta di totale malafede e cattiva condotta da parte del pubblico ministero», commentò Tony. «È quanto è successo», ribatté Ohn. «Io ho agito in completa buona fede.»
Il giudice tamburellò le dita sulla scrivania, meditabondo. «Suppongo, in effetti, che il signor Ohn non potesse venire a conoscenza della perdita di memoria della dottoressa Shields fino a dopo la sua deposizione.» «Avrebbero dovuto informarci della droga. C'è di che annullare il procedimento.» «Io presenterei una mozione di proscioglimento», propose Jennifer. Di nuovo il giudice alzò una mano, zittendoli entrambi. «Signor Ohn, lei avrebbe dovuto metterli al corrente della droghe.» «Ma...» Il giudice lo interruppe, poi proseguì. «Il caso è ormai troppo avanzato perché io possa prendere provvedimenti affrettati. Quindi permetterò al pubblico ministero di continuare sulla sua linea di interrogatorio, ma entro determinati limiti. Il signor Ohn può sostenere che la dottoressa Shields sia stata drogata con intento di stupro. Però non deve menzionare il flacone di droghe rinvenuto nell'appartamento del signor Varnes.» Tony protestò. «Giudice, non è abbastanza.» «Non sono disposto a fare altro. Per il momento. Ritorniamo in aula.» «Tutti in piedi.» Peyton provò uno strano senso di sollievo nel vedere il giudice e gli avvocati ritornare in aula. Durante la loro breve assenza si era sentita schernita, come un'adultera alla gogna nella piazza del paese. Cinque minuti le erano parsi cinque ore. Era rimasta sola al banco dei testimoni, nessuno con cui parlare, oggetto delle speculazioni di tutti i presenti. Incrociò lo sguardo di Tony, sperando in un segno che le facesse capire che il controinterrogatorio era finito. Si sentì travolta dalla tensione quando lo vide ritornare al suo posto accanto a Kevin e Jennifer. Ohn riprese la posizione di fronte a lei e, con l'approvazione del giudice, tornò all'attacco. «Dottoressa Shields, lei è un medico, non è così?» Peyton aveva la gola completamente secca. «Sì.» «Ha sentito parlare di droghe dello stupro, non è vero?» Lei rivolse uno sguardo a Tony, confusa. «Certo.» «È a conoscenza del fatto che sono di facile dissoluzione nei cocktail.» «Alcune lo sono.» «Una persona potrebbe ingerirle con una bevanda e non sentirne nemmeno il sapore.» «È vero.» «La maggior parte delle donne non si accorge neppure di essere stata
drogata, fino a quando non è troppo tardi.» «Ha ragione.» «E la perdita di memoria non è ricollegabile agli effetti di alcune cosiddette droghe dello stupro?» Lei esitò, comprendendo finalmente dove Ohn intendesse arrivare. «Può essere.» Il pubblico ministero mosse qualche passo verso la giuria, come se loro facessero fronte comune nella contestazione e Peyton fosse la solitaria controparte. «Ritorniamo alla notte in cui lei andò a bere con Gary Varnes e i suoi amici e finì nel suo appartamento. Uno degli amici del signor Varnes era una donna, non è vero?» «Sì. Si chiama Liz.» «Supponiamo, come ci ha detto, che lei si sia sentita male a causa della tequila. Non trova almeno un po' sospetto che il signor Varnes decidesse di portarla a casa personalmente e di svestirla lui stesso, invece di ricorrere all'aiuto dell'amica incontrata nel locale?» «Non so se lo fece oppure no. So soltanto quello che Gary mi disse. Non ricordo che cosa accadde.» «Precisamente», approvò Ohn, alzando la voce. «E la sua perdita di memoria non è ricollegabile agli effetti di alcune droghe dello stupro?» L'aula era in silenzio. Per Peyton fu come se le luci si fossero infine accese. Non riuscì a parlare e si rese conto di avere scritta in faccia l'improvvisa rivelazione che forse era stata drogata da Gary Varnes. Tuttavia si mostrò ancora cauta, supponendo si trattasse di informazioni che Ohn intendeva usare contro di lei. «In qualità di medico, non crede che mi sarei accorta di essere stata drogata?» «Senza dubbio», ammise il pubblico ministero. «E in qualità di moglie, avrebbe condiviso questa informazione con un marito furibondo.» Peyton, il giudice, i giurati: tutti seguirono lo sguardo del pubblico ministero attraversare l'aula. Era come se Peyton avesse costruito un enorme castello di sospetti. E poi lo avesse fatto crollare su Kevin. Ohn si avviò verso il suo tavolo, poi si fermò. «Un'ultima considerazione. Suo marito ha un mazzo di chiavi dell'auto, suppongo.» «Certo.» «La chiave del bagagliaio?» «Anche.» «Grazie, dottoressa Shields. Ci è stata molto utile.»
Davanti ai suoi occhi, Kevin parve schiacciarsi sotto il peso degli sguardi sospettosi. Peyton guardò altrove, verso il fondo dell'aula, e rimase di ghiaccio. Lo vide per una frazione di secondo, un istante che passò così fugace da permetterle a stento di registrare l'immagine nella mente. Sbatté le palpebre, faticando a comprendere, poi fece un respiro profondo per smettere di tremare. Ciò che aveva visto le aveva fatto gelare il sangue. Quello che credeva di aver visto, perlomeno. 63 Alla fine di quell'orribile giornata, Peyton desiderava soltanto stare sola. Tony insistette per un incontro nel suo studio, una riunione congiunta per definire la strategia da seguire con entrambi gli imputati e i loro difensori. Lasciarono il tribunale sulla stessa auto, ma l'esibizione di solidarietà fu soltanto a beneficio della stampa. Fino a quel momento erano riusciti a tenere nascosto ai giornali che Peyton si era trasferita dai genitori, ma spostarsi su due auto diverse sarebbe stato un evidente segno di separazione. Su ordine di Tony, nessuno parlò per circa trenta secondi. Jennifer non riuscì a contenersi. Si protese in avanti dal sedile del passeggero e spense la musica di sottofondo che il marito aveva acceso nella speranza di calmare gli animi. «Tutta questa storia è cominciata con il tuo sciocco interrogatorio diretto», sbottò. Tony tenne lo sguardo sui fanali posteriori accesi davanti a lui. «Non è stato sciocco.» «Stavi chiaramente cercando di creare l'impressione, attraverso la testimonianza di Peyton, che l'uomo con il passamontagna fosse Kevin.» «Non 'fosse'. Poteva essere, avrebbe potuto essere. Sto solo tentando di creare un ragionevole dubbio.» «Ma continui a farlo a spese del mio cliente.» «Ciò che ho fatto è perfettamente coerente con la tua dichiarazione di apertura: se la giuria dovesse concludere che soltanto uno dei due imputati è colpevole, dovrà proscioglierli entrambi. Alla chiusura della requisitoria del pubblico ministero, l'ago della bilancia pendeva troppo verso Peyton. Io l'ho soltanto spostato un pochino.» «Un pochino!» esclamò Jennifer, quasi gridando. Peyton si inserì nella discussione dal sedile posteriore. «Per favore, pos-
siamo finirla con i battibecchi?» Un silenzio imbarazzato cadde sui quattro mentre la macchina si fermava a un semaforo rosso. Peyton guardò Kevin e gli parlò: «Voglio che tu sappia che io non ho niente a che fare con questa strategia di puntare il dito contro di te. Non ho problemi a sostenere davanti al mio avvocato che il suo comportamento in aula è stato per me una totale sorpresa». Tony brontolò: «Che lingua tagliente...» «Stia zitto», lo tacitò Peyton. «Te l'ho letto in viso», riconobbe Kevin. «So che non è stata un'idea tua.» Lei non aggiunse altro, e lo stesso fecero i due avvocati. Il semaforo scattò e loro proseguirono il viaggio in silenzio. Tony lottò contro il traffico del venerdì sera senza fare nemmeno un appunto allo spericolato tassista davanti a loro. Peyton aprì uno spiraglio di finestrino, respirando la fresca aria autunnale. Alla fine Kevin parlò: «La questione delle droghe non mi ha colto del tutto di sorpresa». Jennifer lo zittì con uno sguardo. Peyton finse di non accorgersene. «Perché lo dici?» gli chiese. «A causa del passato di Varnes.» «Oh, per l'amor del cielo», esclamò Jennifer, nell'ovvio tentativo di convincere il proprio cliente a chiudere la bocca. Kevin proseguì. «Dopo la prima chiamata del rapitore ho fatto fare dei controlli su Gary. Volevo capire se fosse il genere di psicopatico in preda a infatuazione capace di inscenare un rapimento.» Peyton si sentì gelare il sangue nelle vene. «Se stai per dirmi che sapevi che era un violentatore e hai comunque permesso a Ohn di dipingermi come un'adultera, Tony dovrà difendermi per un altro omicidio.» «Niente di tutto questo. Ma sapendo ciò che sappiamo ora, il suo potrebbe essere definito un comportamento predatorio.» «Che cosa?» «Gary aveva una predilezione per le donne sposate. Inizialmente il mio investigatore si era rallegrato perché pensava di poter riconoscere uno schema ricattatorio abituale. Ma dopo aver intervistato un paio delle sue passate conquiste, ha concluso che lui semplicemente si eccitava all'idea di andare a letto con le mogli degli altri.» «Perché non me lo hai detto prima?»
«Perché onestamente non ho cominciato a considerarlo un comportamento predatorio, almeno non al livello di un appuntamento con stupro, fino a che Ohn non ha menzionato le droghe.» Abbassò gli occhi, poi aggiunse: «E perché, se te lo avessi detto, avrei anche dovuto rivelarti che...» «Adesso basta», si intromise Jennifer. «In veste di suo avvocato le consiglio di non andare oltre.» «Dirmi cosa?» insistette Peyton, pressante. Lui le rivolse uno sguardo carico di sentimento. Lei lesse nei suoi occhi quanto fosse stanco di tutte le mezze verità, la segretezza, il sospetto derivante dalla loro posizione di coimputati. «Ricordi l'altro giorno, quando ti ho detto di non poterti rivelare dove sono andato la notte in cui Gary Varnes è stato ucciso?» «Sì.» «E tu hai pensato che fossi con Sandra.» Peyton si sentì travolgere da un'ondata di nausea, desiderando in quel momento che lui fosse davvero con Sandra. «Non voglio sapere...» «La ragione per cui non potevo dirti dove ero andato è perché mi trovavo a casa di Gary Varnes.» «Prima o dopo che è stato ucciso?» «Verso l'una. Quando io e te abbiamo litigato, sono uscito per andare a bere una birra. In quel momento il mio investigatore mi ha chiamato sul cellulare e mi ha raccontato del passato di Gary. Allora ho deciso di andare a parlargli di persona.» «Stai affermando che lo hai incontrato la notte in cui è morto?» «No. Non era in casa. Così ho aspettato fuori, per ore.» «Che cosa intendevi fare?» chiese Peyton titubante. Jennifer intervenne: «Ha detto abbastanza, Kevin». «Non l'ho ucciso, te lo giuro. Ma il mio investigatore mi aveva raccontato che genere di persona fosse, e tu mi avevi confessato di esserti rivolta a lui come amico in un momento di sconforto e di essere finita ubriaca e praticamente nuda nel suo appartamento. Be', come ripeto, non l'ho ucciso. Ma a posteriori devo ammettere di essere felice di non averlo trovato a casa.» «Capisco.» «Ora ascoltami bene. Non avevo intenzione di ucciderlo, ma non ero neppure andato da lui per parlare. Di certo capisci come la giuria potrebbe farsi un'idea sbagliata di questa storia.» «Sono tua moglie. Avresti dovuto dirmelo.»
«Oh, certo», commentò Jennifer con sarcasmo. «Così, quando il pubblico ministero le chiederà dove si trovasse Kevin la notte dell'omicidio, lei potrebbe rispondere con soddisfazione che si rifiuta di rispondere alla domanda sulla base del diritto a non utilizzare in giudizio comunicazioni fra i coniugi. Questo farà apparire entrambi davvero innocenti, no?» «Naturalmente queste erano informazioni che Jennifer voleva che tenessi per me», spiegò Kevin, come per scusarsi di aver seguito il consiglio della sua legale. Peyton gli toccò una mano. «Sono felice che tu me lo abbia detto. Ma c'è un'altra cosa che tutti qui devono sapere.» «Che cosa?» chiese Kevin. «Gary può sembrare una specie di serial killer, come lo hai definito tu. E io posso essere stata drogata. Ma non sono stata stuprata.» «Probabilmente perché è stata male davvero», ipotizzò Tony. «Lo stupro è più una questione di potere che di sesso, ma il vomito di tequila di certo è un ottimo strumento per smontare un uomo, persino un violentatore.» Quell'uscita era tipica del suo stile rude, ma nessuno ne contestò la logica. Lui svoltò nel parcheggio coperto, si fermò nel posto auto riservato e spense il motore. «Permettetemi di essere brutalmente onesto», disse. «Dal giorno in cui voi due siete venuti nel mio studio, io non ho creduto alla faccenda del rapimento. Ancora non ho capito se siete sinceri o se vi meritate due premi Oscar. Però una cosa la so. Se non troverete delle prove convincenti di chi esattamente sia il rapitore, la prossima settimana la vostra teoria finirà dritta giù per lo scarico del tribunale. E voi seguirete la stessa sorte.» Peyton non sapeva ancora se parlare, incerta su quello che aveva visto. Ma il tempo era agli sgoccioli. «Oggi penso di averlo scorto in tribunale.» «Quando?» «Alla fine della mia testimonianza. Proprio mentre tutta l'aula aveva gli occhi puntati su Kevin, ho avuto la strana sensazione che qualcuno mi stesse fissando intensamente. Ho alzato lo sguardo e per un istante potrei giurare di aver guardato in quegli stessi occhi.» «Gli occhi di chi?» «L'uomo con il passamontagna. Il buon samaritano che mi ha tirata fuori dal Jamaica Pond.» «Ne sei sicura?» le chiese Kevin. Lei si strinse debolmente nelle spalle. «Era proprio in fondo all'aula, ma questa è l'impressione che ho avuto.»
«Ho una domanda migliore», riprese Tony. «Anche se dovesse trattarsi dello stesso tizio, ha una vaga idea di chi diavolo possa essere?» Lei guardò fuori del finestrino, osservando il suo pallido riflesso sulla berlina scura parcheggiata lì a fianco. «Temo di no», ammise con voce fioca. 64 Kevin era deluso ma non sorpreso. Aveva sperato che la sessione di sincerità sul sedile posteriore dell'auto di Tony avrebbe rinsaldato un po' la fiducia fra lui e Peyton. Aveva avuto la sensazione che fosse così, ma sfortunatamente non era bastato a farla tornare a casa. Almeno non quella sera. Per lui, ovviamente, Sandra rappresentava un errore di quella che gli appariva un'altra vita, molti mesi prima, nel periodo più cupo del loro matrimonio. Era definitivamente finita fra loro, quella stessa sera. Lui era pronto a essere perdonato perché si stava punendo da quando era successo. Ma doveva ricordare che, per Peyton, Sandra era una ferita recente. Lo aveva scoperto soltanto tre giorni prima. Non poteva biasimarla per la sua reazione. In realtà, non avrebbe potuto biasimarla nemmeno se avesse deciso di non perdonarlo mai. Ecco che cosa lo spaventava veramente. Ordinò una pizza per cena e guardò qualche minuto del telegiornale della sera mentre aspettava la consegna. Dovette farsi forza quando i sondaggi relativi al processo apparvero sullo schermo. Il loro caso non era più il servizio di apertura, ma Kevin aveva imparato a sue spese che non bisognava essere accusati del crimine del secolo per attirare l'attenzione dei media. «Il processo per omicidio Shields-Stokes ha preso oggi una piega inaspettata», annunciò la cronista, «in quanto il pubblico ministero ha rivolto i propri sospetti sul marito, Kevin Stokes. Charles Ohn ha torchiato la moglie al banco dei testimoni, facendo emergere la teoria di un appuntamento con stupro come movente...» Kevin spense il televisore. I mezzibusti televisivi avevano parlato abbastanza per quel giorno, anzi per una vita intera. Arrivò la pizza. Pagò il fattorino e andò ad aprire il cartone sul tavolo della cucina. Non era quello che aveva chiesto, e si annotò mentalmente che, fosse finito nel braccio della morte, avrebbe ordinato il suo ultimo pasto a base di pizza con salame piccante e formaggio extra in un posto più affidabile.
Stava aprendo il frigo per prendere una birra fresca, quando squillò il telefono. Lo afferrò in fretta, sperando fosse Peyton. «Pronto?» «Parlo con Kevin Stokes?» Era la voce di una donna, ma non la riconobbe. «Chi parla?» «Qualcuno che può aiutarla.» Sospettando si trattasse di un ficcanaso fu sul punto di riattaccare, poi ci ripensò. «Chi è lei?» «Sono una cyber-detective.» «Una cosa?» «Una detective specializzata in investigazioni informatiche.» «Mai sentito.» «Perché prima non ne ha mai avuto bisogno. Ora sì.» «Che cosa fa?» «In sostanza entro nelle chat room e spio le persone che credono di fare del sesso cibernetico in privato. Rintraccio i nickname dei partecipanti e, se sono sposati, contatto il coniuge e comunico ciò che ho scoperto. Per un compenso ragionevole, come qualunque altro detective.» «Mi sta dicendo che...» «Seguo il suo caso da circa due mesi, sin da quando il pubblico ministero ha mostrato in aula le trascrizioni delle conversazioni online fra Gary Varnes e sua moglie.» «Non erano fra Gary e Peyton.» «Lo so. Erano fra qualcun altro e sua moglie. Continuano ancora.» Kevin si paralizzò. «Non le credo.» «Si sono sentiti non più tardi della settimana scorsa.» «Come fa a saperlo?» «Sono una cyber-detective.» «In ogni modo non le credo.» «Allora lasci che glielo dimostri.» «Non sono interessato.» «Dovrebbe esserlo. Perché hanno appuntamento questa sera alle undici in punto.» «Non può essere.» «Mi creda, amico. Gliel'ho detto, li ho spiati.» Kevin rimase in silenzio. «Perché dovrei fidarmi di lei?» «La domanda giusta è: perché dovrebbe fidarsi di sua moglie?»
«Chi le ha chiesto di mettersi in mezzo? È una specie di truffatrice?» «Senta, ecco la mia proposta. Non corre nessun rischio. Noi ci incontriamo alle undici, io conosco il nickname di sua moglie e quello del suo amante. Dispongo della tecnologia e delle informazioni necessarie per spacciarmi per quell'uomo. Mi basterà usare il suo nickname. Lei potrà osservare l'intera chiacchierata sullo schermo del mio computer. Possiamo chiederle qualunque cosa desideri. Se alla fine della conversazione non sarà convinto che stiamo parlando con Peyton Shields, allora non mi dovrà nulla.» «E se invece fosse lei?» «Cinquanta dollari.» «Che cosa?» «Economico, no? Vede, questo genere di lavoro diventa costoso quando uno vuole scoprire la vera identità dell'amante.» A Kevin venne un'idea. Non voleva credere che si trattasse di Peyton, ma se qualcuno in rete si fosse spacciato per il suo amante, forse lui avrebbe potuto smascherare l'identità del rapitore. «Va bene», acconsentì. «Dove ci incontriamo?» Peyton udì dei rumori provenire dal soggiorno. Venti minuti prima era scesa dall'auto e si era infilata direttamente nella vasca del bagno degli ospiti dei genitori, al piano di sopra. Quando era arrivata, la macchina del padre non c'era e lei aveva supposto che lui e sua madre fossero usciti a cena. Era contenta di poter rimanere un po' da sola. Sbirciò fuori della finestra, il vialetto era deserto. Ancora sola, pensò, finché non lo udì di nuovo. Quel rumore in soggiorno. Si infilò l'accappatoio, aprì la porta del bagno e rimase in cima alle scale ad ascoltare. Era un ronzio, piuttosto costante ma di volume variabile. Il suono si fece più intenso, e lei pensò che potesse trattarsi di un ventilatore o un elettrodomestico. Tuttavia, più stava a sentire, più si convinceva che non si trattasse di un rumore meccanico. Sembrava umano. Una specie di mormorio. Cominciò a scendere le scale, poi si fermò pressappoco a metà. L'ingresso era illuminato dalle luci del soggiorno. Non ricordava di averle accese prima di salire. L'istinto le suggerì di correre di sopra, ma d'impulso scese con foga altri cinque scalini, quanto bastava per sbirciare oltre la linea del muro nel soggiorno. «Chi c'è?» gridò.
Le sue parole produssero un urlo, poi una testa si voltò, con sguardo torvo. Peyton sospirò di sollievo nel vedere la madre. «Perché mi hai fatto prendere un simile spavento?» la interrogò la mamma in tono risentito. «Mi dispiace. Non ho visto l'auto nel vialetto quando sono rientrata, così pensavo di essere sola.» «Tuo padre è andato a fare un salto al supermercato.» Peyton si mise a sedere, lasciandosi cadere sul terzo gradino e appoggiandosi alla balaustra intagliata. «Mi spiace. Sono ancora molto tesa. Non è stato uno dei miei giorni migliori.» Valerie tornò a rivolgere l'attenzione alle mensole incassate di fianco al caminetto. Peyton si alzò e la raggiunse in soggiorno. Notò che sul divano erano ammucchiate molte fotografie incorniciate. La madre ne prese un'altra dalla mensola più alta e appoggiò anche quella sul divano. Era una foto di matrimonio. Peyton diede un'occhiata alla pila. Erano tutte fotografie di lei e Kevin, matrimonio, fidanzamento, vacanze. «Che cosa stai facendo?» «Faccio un po' d'ordine.» «Non abbiamo ancora divorziato.» «Dopo tutto quello che è stato detto in aula questa settimana, pensavo che avere queste cose in giro per casa ti facesse sentire a disagio.» Peyton le rivolse uno sguardo interrogativo. «Sei contenta che io e Kevin ci siamo separati?» «Certo che no», negò Valerie con una risatina goffa. «Voglio solo che tu sia felice, tutto qui.» Peyton si sedette sul divano e osservò una delle foto detronizzate. La loro prima vacanza insieme sull'isola di Martha's Vineyard. Erano stretti l'una nelle braccia dell'altro sulla spiaggia di Menemsha, soltanto loro due, una bottiglia di vino, un paio di aragoste bollite e il luminoso bagliore arancione di uno stupendo tramonto sul tratto di mare di Vineyard Sound. Era una delle foto di loro due che preferiva per moltissime ragioni, non ultima il ricordo di Kevin nell'acqua fino alle cosce che correva a gambe levate verso riva, dopo che lei gli aveva rivelato che quello era il luogo dove era stato girato il film Lo squalo. Si chiese se sarebbero mai più riusciti a ridere come allora. Peyton guardò la madre e disse: «Papà mi ha raccontato dei problemi
che avete avuto». Valerie rimase di ghiaccio. «Che cosa intendi con 'problemi'?» «Il genere di difficoltà che io e Kevin stiamo attraversando adesso. E non mi riferisco al processo per omicidio.» La voce della madre si fece più tesa. «Te lo ha detto, non è così?» «Non prendertela con lui. Per la verità sono stata io a intuirlo.» Valerie spolverò una vecchia cornice e la ripose al posto della foto di matrimonio di Peyton e Kevin. Buffo, in un certo senso. Era una di quelle fotografie dei tempi del liceo per le quali Kevin usava prenderla in giro, madre e figlia vestite allo stesso modo, come una coppia di amiche adolescenti. «Allora, come mai hai voluto sapere?» «Suppongo di essere in cerca di risposte.» «Per esempio, se perdonarlo o meno?» «Sì. Come papà ha perdonato te.» «Perdonato? Questo ti ha detto?» «Sì.» Lei annuì piano, ma era evidente che non fosse d'accordo. «È interessante.» «Perché lo dici?» «Perché ciò che ha salvato il nostro matrimonio è che ci siamo perdonati a vicenda.» «Non capisco. Per che cosa lo avresti perdonato?» Valerie spalancò gli occhi. «Peyton, perché vuoi rivangare tutto questo?» «Perché per me è importante. Ho bisogno di capire.» «Il sesso non c'entrava», puntualizzò Valerie, sforzandosi di rispondere. «Si trattava di avventura.» «Avresti potuto darti all'alpinismo.» «Non essere spiritosa.» «Scusa. Continua.» «Mi sono sposata con tuo padre quando ero decisamente troppo giovane. Ho vissuto i miei venti e trent'anni pensando di essermi persa tutto il divertimento. Quando compii trentacinque anni, ero... be', posso affermare che ero disperata.» «È stato allora che ti sei persa?» La madre non rispose, ma il suo silenzio era carico di ammissione. «Continuo a non capire. Che cosa hai perdonato a papà?»
Valerie le rivolse uno sguardo incredulo, come se non si capacitasse del fatto che lei non ci arrivasse da sola. «Per avermi quasi soffocato. Ero una ragazza di vent'anni con una quantità di sogni, proprio come i tuoi. Avevo così tante opportunità. E poi... bam. Esco con tuo padre e salto un ciclo. Puoi immaginare la reazione dei miei genitori. E tuo padre era schierato dalla loro stessa parte. Da quel momento fu come se tutte le mie possibilità e le mie scelte si fossero volatilizzate. Ci sposammo. La mia vita fu definita. Fine della storia.» Le parole le morirono sulle labbra, gli occhi lucidi. All'improvviso raggiunse Peyton, si sedette sul divano accanto a lei e la strinse forte. Singhiozzava, il viso affondato nella spalla della figlia. «Per questo ti ho sempre esortato a non commettere il mio stesso errore, cara.» Peyton rispose al suo abbraccio, ma non le venne dal cuore. Era, in effetti, quello che la mamma le aveva sempre raccomandato, sin dai primi appuntamenti, quando era partita per il college, quando si era innamorata di Kevin che ancora studiava. Il ricordo di quelle conversazioni con la madre e il medesimo, vecchio avvertimento fecero sorgere in Peyton l'impulso di allontanarsi, di afferrare la madre e scuoterla. Invece, la strinse tremante fra le braccia, provando per l'ennesima volta a comprendere che il freddo messaggio di Valerie le giungeva nel distorto nome dell'amore. «Andrà tutto bene, mamma», le assicurò, abbracciandola ancora. «Tutto si sistemerà.» 65 Avevano appuntamento alle undici meno un quarto in un caffè di Newbury Street. La cyber-detective era sembrata abbastanza cordiale al telefono, ma considerati tutti i pazzi che ci sono in giro, a Kevin era parso più prudente incontrarla in un luogo pubblico, anziché a casa sua o nell'appartamento di lei. Il bar era stato ricavato da una vecchia drogheria. Le pareti erano di mattoni rossi a vista e un sifone per l'acqua di seltz, di almeno un secolo ma ben conservato, era appoggiato sul bancone. Tavolini tondi riempivano il centro del locale, e sulla parete di fondo erano allineati i séparé. Una giovane donna nell'angolo strimpellava una chitarra acustica, l'intrattenimento del fine settimana. Nessuno badava a lei. Il locale era mezzo vuoto, qualche coppia, alcuni studenti universitari, un paio di tizi solitari senza niente
di meglio da fare il venerdì sera che bere caffè e leggere il giornale del giorno prima. Kevin non aveva idea di che aspetto avesse la detective, comunque la individuò facilmente in uno dei séparé. L'indizio era un computer portatile acceso sul tavolo. «Lei è Daisy?» chiese. «Sì», confermò la donna, senza stringergli la mano. Il suo aspetto era piuttosto goffo, e sembrava meno gradevole di persona che al telefono. Indossava dei jeans informi e una maglietta troppo grande. Portava un paio di occhiali dalla montatura nera, poco accattivanti. Kevin suppose fosse la norma per chi per mestiere viveva virtualmente online, e in verità ne fu sollevato. Visto com'era la situazione con Peyton, l'ultima cosa di cui aveva bisogno era di essere pizzicato in giro per la città con una tipa dalla bellezza appariscente. Kevin si sedette di fronte a Daisy, che posizionò il computer all'estremità del tavolo, in modo che potessero vederlo entrambi. Il retro del computer era rivolto verso la sala, perché nessuno potesse sbirciare. «È nervoso?» gli domandò. «Dovrei esserlo?» Lei si strinse nelle spalle, poi si mise subito al lavoro. «Mi servirò del nickname RG. È quello usato dall'amante cibernetico di sua moglie.» «Ma non si tratta di mia moglie.» «Certo. Come vuole. Ha portato i cinquanta dollari?» Il pagamento richiesto era così basso che Kevin se ne era quasi dimenticato. Estrasse le banconote dal portafoglio e gliele consegnò. Allora Daisy si mise in moto. Kevin la osservò connettersi ed entrare subito nella chat room. «A volte si incontrano direttamente nella chat room privata, ma l'ultima volta Ladydoc gli ha chiesto di incontrarsi nella chat room del cinema, il loro luogo di incontro abituale. Ed è proprio lì che andremo.» Daisy sembrava così sicura di sé, che Kevin cominciò a titubare. Potrebbe davvero trattarsi di Peyton? «Quando saprà che lei è entrata?» le chiese. «È già qui.» Daisy indicò il menu a tendina nell'angolo superiore destro del computer, che elencava una serie di nickname. «Ladydoc», lesse, il quarto nome dall'alto. «È Peyton.» Kevin guardò l'ora. Le undici e due minuti. «Puntualissima», osservò, ricordando che Daisy gli aveva preannunciato le undici in punto.
«Come facciamo a essere certi che Ladydoc sia davvero Peyton?» «Stia a vedere.» Sullo schermo, la conversazione fra le altre persone presenti nella chat room proseguiva. Daisy scrisse il proprio messaggio, che apparve sullo schermo dopo che lei ebbe assunto il nome di RG. «una chiacchierata privata, ladydoc?» Seguì qualche irrilevante scambio di battute fra gli altri presenti, l'equivalente cibernetico di un gruppo di persone che parlano tutte contemporaneamente. Ma alla fine Ladydoc rispose. «ok.» Kevin si sentì a disagio nel vedere con quanta scioltezza Daisy si spostasse dallo spazio reale a quello virtuale della chat room. Pochi secondi più tardi si trovò a fissare uno schermo vuoto, con due nomi soltanto: RG e Ladydoc. Daisy lo guardò e annunciò: «Ora lo spettacolo sta per cominciare». «Non sono qui per divertirmi. Voglio solo sapere chi è questa Ladydoc.» «Non verrà mai allo scoperto ammettendo di essere Peyton. Ma osservi il dialogo con attenzione. Capirà che si tratta di lei.» Daisy scrisse la prima frase. «non è stato molto carino il modo in cui mi hai mollato l'ultima volta.» «non intendevo stuzzicarti. è tornato mio marito. mi ha quasi scoperto. ho dovuto disconnettermi immediatamente.» «è sempre in mezzo ai piedi quello, vero?» «niente che non riesca ad aggirare.» «forse. ma io penso che tu ti sia trattenuta per colpa di kevin.» Kevin sussultò alla vista del suo nome. Daisy stava andando dritto al sodo. «che cosa te lo fa pensare?» giunse la risposta. «io so tutto.» «che cosa 6, una specie di detective?» Loro due si scambiarono un'occhiata, poi Daisy ritornò alla conversazione online. «non riesco proprio a capire perché tu abbia sposato quello sfigato.» Kevin la fulminò con lo sguardo. «Abbia pazienza», disse lei. Ladydoc rispose: «è complicato». «è lui il problema, non è così?» Kevin osservava la detective, completamente assorta nella conversazione, quasi si divertisse a interpretare il ruolo dell'amante online di Peyton.
«che cosa pensi?» scrisse Ladydoc. «se non fosse per lui, tutto questo casino non sarebbe mai successo. avremmo potuto stare insieme già da 1 anno.» «triste ma vero.» Kevin si inserì. «Perché le fa dire queste cose?» «Io non le sto facendo dire proprio niente», ribatté lei. «Non mi piace.» «Se ne faccia una ragione.» La detective scrisse un'altra frase a Ladydoc: «non ti piacerebbe che kevin sparisse per sempre?» Seguirono pochi istanti di silenzio, poi la risposta si compose sullo schermo. «tu che ne dici?» La detective alzò lo sguardo dal computer e guardò Kevin dritto negli occhi. Una risposta verbale gli giunse simultaneamente a quella scritta a Ladydoc. «Consideralo fatto.» Kevin rimase pietrificato. La voce della donna si fece improvvisamente più profonda, e lui comprese subito dallo sguardo maligno di quegli occhi che quella donna era un uomo, e che quell'uomo non era un detective. Prima che potesse reagire, l'uomo travestito fece un rapido movimento protendendosi sul tavolo con una lama di venti centimetri. Kevin gridò forte mentre il metallo gli trapassava la pelle, spezzandogli una costola e lacerandogli il petto. La lama girò su se stessa poi uscì e l'uomo si ritrasse. Uno zampillo di sangue caldo gli inzuppò la camicia. Kevin provò ad afferrare il proprio aggressore, ma si accasciò nel séparé e cadde sul pavimento. «Quella donna ha un coltello!» urlò qualcuno. Kevin sentì gli avventori del locale gridare e correre in ogni direzione. Si mise una mano sul petto, toccò il foro insanguinato fra le costole e capì di essere gravemente ferito. Provò a chiedere aiuto, ma le parole non uscirono. Alzò la testa di pochi centimetri dal pavimento e vide il suo aggressore fuggire dalla porta con il computer sotto il braccio. «Fermatela!» cercò di gridare, emettendo a malapena un sussurro. La stanza scomparve ai suoi occhi. Si voltò sul fianco e sentì il sangue uscire copioso dal corpo, la vita fluire nella pozza rossa accanto a lui. «Fermatelo!» ripeté debolmente. Fu il suo ultimo pensiero cosciente prima che la testa battesse sul pavimento.
Peyton si precipitò al Brigham and Women's Hospital appena ricevuta la telefonata. Le ci vollero soltanto pochi minuti da casa dei suoi genitori a Brookline, e arrivò poco dopo l'ambulanza. «Dov'è Kevin Stokes?» gridò all'infermiera del pronto soccorso. «Trauma Uno, ma lei non può...» Peyton si allontanò di corsa prima che la donna avesse il tempo di finire la frase. Girò l'angolo ed entrò nella sala. All'interno l'attività era febbrile. Due medici del pronto soccorso e quattro infermiere si agitavano freneticamente intorno al paziente sdraiato sul tavolo di metallo. Forcipi, spugne e bende erano appoggiati sui vassoi. C'era sangue dappertutto, sul tavolo, sul pavimento e sulle mani inguantate dei dottori. Lo avevano sottoposto a una trasfusione. Un medico stava controllando la gola di Kevin, per accertarsi che non fosse ostruita e non fosse necessario intubare. Un altro controllava il respiro con uno stetoscopio. «Mio Dio, Kevin», esclamò Peyton, in preda allo choc. Si avvicinò, ma un'infermiera la scostò gentilmente di lato. «La prego, abbiamo bisogno di spazio.» «È mio marito!» «Dobbiamo portarlo in sala operatoria.» I medici si scambiavano informazioni. «Respirazione buona, nessun pneumotorace, grazie al cielo.» «Pressione sanguigna novanta su sessanta, in diminuzione.» «Bisogna arrestare l'emorragia!» Un agente di polizia si trovava dall'altra parte del tavolo, e si era chinato per parlare nell'orecchio del paziente, che era quasi incosciente. «Kevin!» si disperò Peyton. Gli strinse la mano e lui aprì un poco gli occhi. Per un istante, lei fu certa di aver stabilito un contatto. L'agente gli ripeté la domanda a voce più alta. «Chi è stato?» Kevin deglutì rumorosamente, le palpebre tremanti. Emise un filo di voce. «Detto... era... Peyton.» Lei rimase a bocca aperta. «Andiamo!» il medico del pronto soccorso li interruppe. Kevin fu spostato rapidamente su un lettino con le rotelle, infermiere e medici al suo fianco. Le porte pneumatiche si aprirono, poi si richiusero, e la stanza piombò nel silenzio, lasciando Peyton sola con l'agente di polizia. «Sa chi sia Peyton?» chiese il poliziotto. Lei infilò le mani in tasca, il viso preoccupato. «Sarei io.»
66 Peyton rimase seduta fuori del reparto di chirurgia, nella sala d'aspetto dell'ospedale, in ansia per Kevin e per se stessa. Continuò a ripetersi: Nessuna nuova, buona nuova, ma quando l'intervento si prolungò alla seconda ora, i suoi nervi cominciarono a cedere. Si trattava di una di quelle situazioni in cui essere un medico non era necessariamente un bene. Era consapevole di tutto quello che poteva andare storto sul tavolo operatorio, e stare lì da sola nella sala d'attesa non faceva altro che alimentare le sue fantasie. Nella sua mente vedeva il chirurgo lavorare freneticamente sul corpo di Kevin, maledicendo i medici del pronto soccorso per non aver rilevato l'evidente pneumotorace. Immaginava il sangue schiumoso che usciva dal suo fianco a ogni respiro, mentre i dottori intubavano il polmone forato e collassato; l'elettrocardiogramma che si metteva improvvisamente a suonare, mentre sul monitor correva una linea piatta; qualcuno che chiamava il codice di trauma da choc, mentre uno di loro afferrava il defibrillatore e dava una scarica al petto di Kevin, una, due volte, poi alla potenza massima per un'ultima scossa, un tentativo vano. «Ora del decesso...» «Dottoressa Shields?» I suoi tragici pensieri svaporarono. Davanti a lei c'era l'agente che aveva interrogato Kevin nel pronto soccorso, aveva sentito quel curioso frammento di frase e aveva preso accuratamente nota delle parole incriminanti. Era assieme a un detective che aveva qualche domanda da porle. L'uomo si affrettò a presentarsi, molto educato, tanto educato da renderla immediatamente sospettosa. Dopo un paio di minuti di chiacchiere di circostanza, Peyton lo interruppe: «Che cosa vuole sapere, detective?» Lui esitò, colto alla sprovvista dalla sua franchezza. «Pare che suo marito stesse prendendo un caffè con una donna non meglio identificata. Nessuna idea di chi potesse essere?» «Che aspetto aveva?» «Per ora, non abbiamo molto. Capelli biondi, un'altezza compresa fra il metro e settanta e il metro e ottanta. Età fra i venticinque e i trentacinque.» «Mi sembra che questa descrizione si adatti a un gran numero di persone.» «Sì. Inclusa lei.» «Come ho spiegato, mi trovavo a casa dei miei quando è accaduto.» «I genitori sono alibi molto comodi.»
Peyton lo guardò incredula. «Una donna ha tentato di uccidere mio marito. Dovete trovarla.» «È quello che stiamo cercando di fare», ribatté il detective, scettico. «Mi sta dicendo che io sono davvero sulla lista dei possibili sospetti?» «Per il momento, lei è l'unica sulla nostra lista.» «Per via di quello che Kevin ha mormorato al pronto soccorso?» «Ha fatto il suo nome, dottoressa.» «Poteva anche essere in preda al delirio.» Il detective non rispose. Peyton continuò: «Non ci resta che aspettare per vedere che cosa dirà quando riprenderà conoscenza, non crede?» «Certo», ammise lui. «Speriamo che ce la faccia.» La sua totale mancanza di sensibilità la irritò. «Mi scusi», si congedò, alzandosi. «Ho bisogno di prendere una boccata d'aria.» La notizia ricevuta da Jennifer sulle condizioni del suo cliente era di terza mano, ma la catena da Peyton a Tony a lei sembrava sufficientemente affidabile da indurla a mettersi in moto prima che Kevin riprendesse conoscenza. Attese fino alle cinque del mattino, un'ora comunque improponibile di sabato, e chiamò Charles Ohn. Lui rispose al primo squillo, cosa che la sorprese. La luna brillava ancora nel cielo buio fuori della finestra della sua cucina, e lei era seduta sul bancone di granito, nel fioco bagliore di una luce notturna. «Mi spiace svegliarla», si scusò, supponendo di averlo fatto. «Non stavo dormendo.» «Il mio cliente è stato accoltellato.» «Sono già stato informato. Come sta?» «Toccata e fuga. Siamo fiduciosi.» «Lo sono anch'io.» «Chiamo per questa ragione. Se... voglio dire, quando riprenderà conoscenza, nessuno dovrà interrogare il mio cliente prima che io abbia avuto la possibilità di parlargli. Voglio la polizia fuori della sala d'attesa.» «L'ho già mandata via.» Jennifer rimase così sorpresa che il ricevitore quasi le scivolò di mano. «Oh, cielo, tutta questa premura non è proprio da lei.» «Sta scherzando? Pensa che lascerò che marito e moglie facciano pace e si perdano in effusioni amorose, in modo che Stokes possa ritrattare le meravigliose parole pronunciate al pronto soccorso? Sono felicissimo di la-
sciare le cose così come stanno, grazie tante.» Jennifer era sveglia soltanto da venti minuti e Ohn era già riuscito a farle andare il sangue alla testa. «Quindi è vero quello che si dice in giro.» «Che cosa?» «Lei è l'Ohn-anator», lo apostrofò, poi riagganciò. «Adesso può vederlo», le concesse l'infermiera. Erano quasi le sei del mattino quando quelle parole tanto attese giunsero alle orecchie di Peyton. La polizia se n'era andata un'ora prima, e lei aveva aspettato che Kevin uscisse dalla sala postoperatoria e venisse trasferito in terapia intensiva. L'unità di terapia intensiva era un vasto salone aperto, con la postazione del personale al centro e i vani letto lungo le mura perimetrali, allineati gli uni accanto agli altri. Non si trattava di vere e proprie stanze, ma di comparti a tre pareti chiusi da tende di plastica beige a tutela della privacy. Quel mattino nel reparto c'era un gran viavai, tipico del fine settimana. Kevin si trovava nel quinto vano. Peyton scostò la tenda e rimase paralizzata, lottando con tutte le sue forze per non allarmarlo con la sua reazione. Kevin aveva l'aria debole e intontita, ma era vivo. Il letto comandato elettricamente era alzato appena per tenergli il busto sollevato. Gli avevano somministrato degli antidolorifici via flebo, e il tracciato del battito cardiaco scorreva regolare sul monitor appoggiato sul comodino. «Come stai?» «Stanco», rispose lui, la voce roca a causa dell'anestesia. «E fortunato, suppongo.» «Molto fortunato. Il chirurgo mi ha spiegato che la lama ha mancato l'arteria polmonare per un soffio.» Kevin sorrise debolmente. «A dire il vero, io pensavo a quanto sono fortunato ad averti qui accanto a me.» Peyton si avvicinò e gli prese la mano. Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre si chinava su di lui e lo baciava sulle labbra. Kevin fece per abbracciarla ma gemette per il dolore. «Cerca di non muoverti troppo», lo ammonì lei. «Cosa sei, un dottore?» Si scambiarono un pallido sorriso, poi Peyton tornò seria. «Chi è stato a farti questo?» Interrompendosi per riprendere fiato, Kevin riuscì lentamente a raccontarle dell'incontro con la cyber-detective, della conversazione nella chat
room privata e della sua intuizione tardiva che quella donna non fosse ciò che sembrava. «È evidente che si trattava di un uomo, e io suppongo si trattasse di RG.» «Allora chi è Ladydoc?» «È quello che stavo cercando di dirti al pronto soccorso. Lui sosteneva che Ladydoc era Peyton.» «Ma tu sai che non sono io, vero?» «Certo. Mi ha ingannato forse per mezzo secondo. Ma tua madre lo aveva già sottolineato un paio di mesi fa a cena, quando aveva fatto notare che l'internato al Children's non ti lasciava assolutamente il tempo di dedicarti a una chat room tre o quattro volte la settimana.» «Quindi RG e Ladydoc sono i nickname che mancano nelle conversazioni online che il pubblico ministero ha attribuito a me e Gary?» «Tu non pensi che sia così?» «Sì. Ma se RG si è preso tanto disturbo da togliere i nomi dalle trascrizioni, perché avrebbe dovuto mostrarli a te?» Lui abbassò gli occhi sul petto ferito. «Immagino fosse convinto che non sarei sopravvissuto per raccontarlo.» Peyton fu percorsa da un brivido di paura. «Dobbiamo chiedere protezione. Questo tizio ha già ucciso Gary Varnes, e ora ha tentato di assassinare te. Se scopre che sei ancora vivo, potrebbe ritornare all'attacco.» «Pensi che l'ospedale ci darebbe il permesso di mettere una guardia in terapia intensiva? La metà dei pazienti del reparto ha appena avuto un attacco di cuore.» «Il dottore mi ha assicurato che le tue condizioni sono buone. Se insisto un po', ti trasferiranno in una stanza privata nei reparto di chirurgia. È meglio così. Per la guardia sarà molto più semplice controllare.» «A me va benissimo, ma come faremo a sapere se lui tornerà? Non abbiamo idea di chi sia.» «La sola cosa che mi viene in mente è chiedere a Tony di citare in giudizio tutti gli Internet provider. Loro potranno rivelarci chi sono RG e Ladydoc.» «Potrebbero volerci settimane solo per identificare e notificare tutti i provider, e più tempo ancora per risolvere i problemi di privacy.» Lei abbassò la testa, tormentata dalla solita vecchia questione. «Quindi per il resto del processo il solo elemento di cui disporremo sarà che il tizio da cui siamo stati incastrati è un monogramma invaghito di me. Non ab-
biamo altro.» «Forse stiamo guardando la faccenda dalla prospettiva sbagliata.» «Che cosa vuoi dire?» «Pensala nei termini di RG e Ladydoc. Ci siamo concentrati su RG e non siamo arrivati a nulla.» «Credi che se ci mettessimo a cercare Ladydoc le cose sarebbero più semplici?» «La sola domanda che ci siamo posti finora è: chi ti perseguita? Ma forse il vero interrogativo è questo: chi ti ama, ti odia, ti ammira o prova risentimento nei tuoi confronti al punto tale che, nella finzione del mondo virtuale, e Dio solo sa per quale ragione, vuole essere te?» Peyton rabbrividì. Il modo in cui Kevin aveva posto la questione, il nodo di sentimenti conflittuali che sembravano mescolati assieme in un'unica mente perversa aveva scatenato in lei pensieri che la terrorizzarono nel profondo. «Credi si tratti di Sandra?» chiese lui. Lei guardò un punto nel vuoto e rispose: «C'è solo un sistema per scoprirlo». «Dove stai andando?» la interrogò Kevin vedendola allontanarsi dal letto. «Tornerò appena posso. Con una risposta.» Uscì dal vano e abbandonò la terapia intensiva a passo svelto, raggiungendo l'ascensore quasi di corsa. Rudy era sulla metropolitana. Si sedette in un posto riservato agli anziani e ai portatori di handicap, guardandosi attorno con aria minacciosa, come a sfidare chiunque a chiedergli di spostarsi. Il treno era quasi deserto, troppo presto la domenica mattina. Il tunnel buio si snodava indistinto fuori del finestrino, ma lui lo fissava senza vedere, immerso nei suoi pensieri. Non capiva. Aveva letto nero su bianco i desideri di Ladydoc sullo schermo del computer, e aveva fatto proprio ciò che lei gli aveva chiesto. Si era liberato del suo inutile marito, o almeno ci aveva provato. E lei era prontamente corsa all'ospedale, ansiosa di stare al suo fianco. Pensava forse che RG non venisse a sapere del suo tradimento? Era così stupida da immaginare che lui non si sarebbe aggiornato sugli sviluppi di un omicidio? Ovviamente aveva atteso l'arrivo dell'ambulanza davanti al bar. Dopo aver gettato il travestimento nel vicolo, si era facilmente mescolato alla folla dei ficcanaso. Poi aveva seguito l'ambulanza fino all'ospedale. Con sua grande delusione avevano portato Kevin al pronto soccorso, e non
all'obitorio. Aveva visto Peyton singhiozzare nella sala d'attesa, con un'espressione di sincera angoscia sul viso. Tutto quell'amore e quell'affetto dopo che aveva dichiarato senza mezzi termini a RG che voleva sbarazzarsi del marito. Puttana doppiogiochista. Il treno si fermò. Non era la sua stazione, ma lui scese lo stesso. Non era diretto a casa. Se Peyton voleva stare con il suo adorato Kevin, perfetto. Rudy aveva un lavoro da finire. Solo che ora il lavoro si era duplicato. 67 Sua madre era in cucina a preparare il caffè quando Peyton entrò in casa. Durante la notte, per telefono, lei aveva tenuto i genitori al corrente delle condizioni di Kevin. Suo padre era tornato a letto dopo l'ultima telefonata, ma la mamma era rimasta in piedi e si era vestita. Peyton andò dritta nella camera matrimoniale al piano di sopra a svegliare il padre. «Che c'è?» chiese lui con voce roca mentre si metteva a sedere sul letto. «Devo parlarti», disse lei. «Kevin sta bene?» «Sì. Sta migliorando.» Il padre strinse gli occhi, cercando di mettere a fuoco la sveglia sul comodino. «Che ore sono?» «È presto. Papà, c'è una cosa che devo sapere. Riguarda la nostra famiglia.» «Certo. Dimmi.» «È molto difficile, perché se c'era una persona sulla cui sincerità pensavo di poter sempre contare, eri tu.» «Ma puoi contare su di me, tesoro. Sempre.» «Davvero?» «Sì, assolutamente. Di che si tratta?» «Kevin e io abbiamo avuto un'intuizione su chi può avermi molestato. Lui ha conversato in una chat room con qualcuno che finge di essere me. Si fa chiamare Ladydoc.» «Che finge di essere te?» «Sì. Questo ci ha portato a interrogarci su chi potrebbe provare risentimento nei miei confronti, odio, o una forma patologica di ammirazione, al
punto da voler diventare me in Internet. Allora un'immagine mi è balzata alla mente.» Il padre si alzò su un gomito. «L'immagine di cosa?» «Una adolescente dall'esistenza infelice, priva di un'identità significativa a parte quella che si è creata su Internet. E che non ha una vera vita perché i suoi genitori non la volevano e hanno preferito investire tutte le loro energie e le loro risorse sulla sorella maggiore, affinché diventasse un medico di successo. Ma per questa povera ragazza non c'è possibilità di riscatto. Forse fa parte di quegli sfortunati per i quali la custodia o l'adozione si trasformano in un incubo.» «Di che cosa stai parlando?» «Mia sorella non è morta, vero?» Il viso del padre sbiancò. «Rispondimi, papà. La bambina che la mamma ha concepito con il suo amante è stata data in adozione, vero?» Lui distolse lo sguardo. Per la prima volta, suo padre non riusciva a guardarla negli occhi. «Mi spiace», le disse. «Quindi ho ragione? Ho una sorella da qualche parte?» «Sì», ammise lui con un filo di voce. «Non so dove sia ora.» Peyton avrebbe voluto sferrargli un pugno nel petto, ma non lo fece. «Mi hai mentito. Come hai potuto nascondermelo per tutti questi anni?» «Come avremmo potuto spiegare l'adozione di una bambina, senza far sapere a tutti che non era mia?» «Non sto parlando di tutti. Sto parlando di me.» «Hai ragione. Me ne pento. Ma a quell'epoca tua madre e io eravamo d'accordo: se non avevamo intenzione di tenere la bambina, dovevamo darla in adozione in segreto. Così ci trasferimmo in Florida qualche tempo prima del parto, e poi comunicammo a tutti che la piccola era nata morta.» Peyton chiuse gli occhi, poi li riaprì, in preda alle vertigini. «Non riesco a sopportare tutte queste bugie. È l'aspetto peggiore. Se tu solo mi avessi raccontato la verità, forse avrei capito. Non era figlia tua. Tu avevi perdonato la mamma e l'avevi ripresa con te. Forse era troppo chiederti di accogliere anche una figlia che non era tua.» «Be', se desideri sapere la verità, è bene che tu conosca tutta la storia.» «Che cosa non so?» «Non era figlia mia e perdonai tua madre. Ma non fui io a voler dare in adozione la piccola.» Peyton rimase in silenzio.
«Quella bambina era in ogni caso tua sorella. Io l'avrei tenuta. Però tua madre, be', non intendeva affrontare il peso di una seconda maternità.» «Oh, mio Dio.» «Voleva essere...» continuò con voce tremante. «Non so proprio che cosa volesse.» Peyton fu più veloce di lui, e ripensò a Ladydoc. «Non preoccuparti, papà. Credo di aver capito chi voleva essere.» 68 Peyton sentì un vuoto allo stomaco quando raggiunse il computer nello studiolo e si sedette sulla sedia di sua madre. Aveva chiamato Tony prima di scendere al piano inferiore. Lui le aveva dato dei consigli utili, facendole considerare aspetti a cui non aveva pensato. Ora l'esecuzione del piano dipendeva esclusivamente da lei. «Mamma, puoi venire un secondo?» Attese ansiosamente al computer. Finalmente Valerie apparve sulla soglia. Aveva l'aria stanca, era evidente che aveva dormito poco. «Che c'è?» «Devo connettermi a Internet. Posso usare il tuo account?» «Per cosa?» «Ieri sera Kevin ha visto i nickname.» «Quali nickname?» «Quello del mio presunto amante online e del mio alter ego. RG e Ladydoc.» Valerie esitò, come per elaborare le sue parole. «Davvero li ha visti?» «È una storia lunga, ma ho bisogno di verificare subito. Posso usare il tuo account, per favore?» Rivolse a sua madre uno sguardo indagatore, ma lei non batté ciglio. «Certo che puoi.» La madre accese il computer, inserì la password e si connesse al proprio provider. «Ecco.» Peyton controllò il nickname. C'era solo un nome registrato come account: Valerie51. La donna parve compiaciuta. «Cosa devi cercare, cara?» «Tony mi ha suggerito di inviare un'e-mail a Ladydoc e vedere che cosa succede.» «Non ti aspetterai di ricevere una risposta, vero?» «No. In effetti, Tony pensa che Ladydoc sia probabilmente un nickname
camuffato.» «Oh? E che vuol dire?» «Si tratta di uno stratagemma usato da chi vuole mantenere segreta la propria identità online.» «In che senso?» «Be', prendiamo il tuo nome, per ipotesi. Quando ti connetti, il nickname che appare sul tuo computer è Valerie51. Se entri in una chat room, quello stesso nome dovrebbe apparire sullo schermo di qualcun altro. Ma se per qualche ragione volessi a tutti i costi nascondere la tua identità, allora dovresti rivolgerti a un quindicenne mago del computer affinché lo trucchi, in modo che nel ciberspazio quel nome sia convertito in qualcos'altro.» «Mi sembra una fatica inutile. Posso creare tutti i nickname che voglio usando il mio account.» «Ma la lista dei nickname appare ogni volta che tu o qualcun altro si connette. Con un nickname camuffato, nessuno che usi il tuo computer è in grado di sapere che ti sei creata un alias. Né tuo marito e nemmeno io, per esempio.» Valerie emise una risatina falsa, di cui si valeva solo quando voleva apparire più vecchia e meno dotata di buon senso di quanto non fosse. «Mi sembra tutto così complicato.» «In realtà non lo è. In sostanza il tuo computer di casa indica come tuo nickname Valerie51. Ma quando entri in una chat room, alle altre persone apparirà sullo schermo il nome Ladydoc.» «Capisco. Per ipotesi, intendi.» «Sì, certo. È solo un esempio.» Peyton si girò verso il computer. «Quindi, il mio piano è inviare un'e-mail a Ladydoc e vedere che cosa succede.» «Ma se Ladydoc è un nickname camuffato, la tua e-mail non si perderà nel ciberspazio?» «No. Verrà recapitata a chiunque abbia creato il nome. Le persone che si servono di questi nickname camuffati non riescono a nascondersi così bene come credono. È una loro illusione.» La madre rimase di sasso. «Ma esistono così tanti server. Dovresti cercare Ladydoc in AOL, in Earthlink, e così via. È un tentativo vano.» Peyton percepì chiaramente di averla messa in stallo. «Perché non cominciamo con il tuo?» «Il mio?» chiese lei nervosamente. «Sì. Il tuo.» Scrisse il nome Ladydoc nella tendina dell'indirizzo. Con un clic del
mouse, il messaggio di testo sarebbe stato proiettato in rete per finire nella casella di posta elettronica di chiunque avesse creato il nome Ladydoc. Peyton lo sapeva bene. Dall'espressione sul viso di sua madre, sembrava lo avesse capito anche lei. La tazza di caffè che aveva in mano tremava. Sullo schermo, il cursore indugiava sull'icona di invio. Peyton cliccò, e il messaggio elettronico partì. Quasi istantaneamente, il computer emise un suono e annunciò il familiare messaggio. «C'è posta per te.» Era ritornato dritto a Valerie51. Per un istante che parve eterno, nessuna delle due donne si mosse. Lentamente, Peyton elaborò il proprio rifiuto e la propria incredulità, riuscendo infine a parlare. «Che cosa hai fatto?» chiese, la voce bassa ma piena di rabbia. «Non ho mai voluto nuocerti, Peyton.» «Papà ne è al corrente?» «No, no. E noi non possiamo dirglielo. Mi lascerebbe di sicuro.» «Te lo meriti. Lo hai tradito in passato, hai abbandonato una bambina che lui era disposto a tenere e hai fatto sesso online con uno psicopatico.» «Non sapevo che fosse uno psicopatico. Sembrava molto carino.» «Sembrano tutti carini, online», ribatté, di nuovo incredula. «Fingono di essere qualcosa che non sono. Proprio come te.» «Mi spiace, Peyton.» «Perché io? Perché hai fatto finta di essere me?» «Perché... tu sei me.» «Che cosa?» «Tu sei quello che io potevo essere. O meglio, quello che tu avresti potuto essere è ciò che io sarei dovuta diventare.» «Ma cosa stai dicendo?» «Non capisci, tesoro? Nonostante tutti i miei avvertimenti, hai commesso il mio stesso errore. Io ho sposato un uomo che a stento è riuscito a finire il college ed è diventato uno sbirro senza futuro. Tu hai sposato un poveraccio che è cresciuto in una roulotte a Key West.» Peyton fu percorsa da un brivido. Ricordò che cosa il marito le aveva raccontato della conversazione online della notte precedente. «Per questo gli hai chiesto di sbarazzarsi di Kevin?» «Cosa?» «Ladydoc ha detto a RG che desiderava Kevin sparisse dalla sua vita.» La madre esitò. «Io... io non credevo lo avrebbe accoltellato.»
«Ha ucciso Gary. Sapevi che quell'uomo è un assassino.» «Sì, ma...» «Per questo non hai detto niente. E anche quando sono stata accusata di omicidio, non sei andata dalla polizia.» «Ti giuro. Ho provato a fare la cosa giusta. Ho cercato di attirare RG allo scoperto in modo che tu potessi prenderlo. Ho fissato un appuntamento con lui al parco, e ti ho mandato un'email avvisandoti di portare la polizia.» Peyton ricordò l'e-mail che aveva aperto troppo tardi. «Molto coraggioso da parte tua, mamma. Tutto doveva essere fatto dietro le quinte. Proteggere te stessa e il tuo piccolo mondo di fantasia aveva la priorità assoluta.» «Non potevo renderlo pubblico. Non volevo ferire tuo padre.» «Bugiarda. A te non è mai importato niente di papà, né di me.» «Non è vero.» «Volevi solo che io non commettessi il tuo stesso errore. Lo hai sempre sostenuto.» «Perché ti voglio bene.» «Ladydoc non c'entra nulla con l'amore», l'accusò Peyton con voce tremante. «Ladydoc avrebbe dovuto cancellare il mio errore. Tu sei diventata me, e hai fatto in modo di sbarazzarti di Kevin.» I loro sguardi si incontrarono in un teso, glaciale silenzio. Ma sua madre non negò. Peyton si alzò e fece per raggiungere la porta. «Dove stai andando?» «Da mio marito. E poi chiameremo la polizia.» «Non farlo, ti prego. Ho un piano. Possiamo incastrarlo insieme. Non abbiamo bisogno della polizia, né di tuo padre, di Kevin o di nessun altro. Riusciremo a farlo da sole.» Si precipitò al computer, spingendo Peyton di lato. «Guarda», la invitò, battendo freneticamente sui tasti e aprendo un file. «Non so che aspetto abbia, ma mi ha mandato questa foto. Forse ci fornirà un indizio, ci suggerirà come catturarlo.» L'immagine apparve sullo schermo. Era una vecchia foto in bianco e nero di Rodolfo Valentino. Stretta fra i denti una singola rosa rossa a stelo lungo. «La rosa», osservò Peyton, rammentando quella che aveva trovato attaccata al suo armadietto, e l'altra che Kevin aveva raccolto sulla soglia di casa. «È per questo che si fa chiamare RG: Rodolfo Guglielmi, il vero nome
di Valentino. Dai, Peyton. Siamo noi le più intelligenti. Prenderemo quello psicopatico.» La figlia la guardò con occhi torvi, in viso un'espressione mista di disprezzo e di intensa emozione. «No, mamma. La psicopatica sei tu.» Afferrò la borsa e si avviò alla porta. 69 Peyton telefonò a Tony dall'auto, ancora turbata, ma determinata ad andare fino in fondo. «Era proprio mia madre», fu tutto ciò che gli riferì. Tony rimase un attimo in silenzio. «Mi spiace», disse infine. «Chiamo io la polizia o lo fa lei?» «Prima di prendere iniziative, bisogna elaborare una strategia congiunta. Dobbiamo vederci al più presto con Jennifer e Kevin. Pensa che lui sia in grado di incontrarci questa mattina?» «Non credo. Sarò in ospedale fra dieci minuti. La richiamo.» «In ogni caso, non dica niente alla polizia finché non ci siamo accordati. Voglio un fronte unito da presentare al procuratore distrettuale e al giudice Gilhorn per chiedere un'assoluzione congiunta di tutte le accuse contro lei e Kevin.» «Ma c'è un assassino in libertà.» «Sì, e da quello che abbiamo visto, non ha tanta voglia di farsi prendere. Sono certo che dopo l'attacco della sera scorsa manterrà un profilo molto basso. Non correremo nessun rischio se ci fermeremo un attimo a riflettere, così non solo potremo aiutare la polizia a catturarlo, ma riusciremo anche a tirare lei e suo marito fuori dai guai. Si tratta solo di un'ora.» «C'è voluto molto meno tempo per pugnalare Kevin.» «Se è tanto preoccupata, rimanga con lui. Io chiamerò l'ospedale e mi accerterò che mettano qualcuno di guardia alla porta.» «Me ne sono già occupata io stamattina prima di lasciarlo.» «Benissimo. Allora non ha nulla da temere.» «Certo», annuì Peyton mentre svoltava nel parcheggio dei visitatori. «Se lo dice lei.» L'antifurto di un'auto si mise a suonare. Per due minuti buoni il rumore riecheggiò fra le pareti di cemento grezzo del garage dell'ospedale. Poi si fermò.
Vinnie Skovick alzò lo sguardo dal giornale del mattino. Nella veste di guardiano della biglietteria e dell'ingresso principale del garage, stava facendo quello che gli riusciva meglio, cioè leggere la pagina sportiva. Finì un articolo sulle speranze dei Celtics per la nuova stagione, si tolse lo zucchero a velo che aveva sull'uniforme blu e si incamminò piano lungo la rampa. Era certo si trattasse soltanto di un antifurto scattato casualmente sulla Porsche di qualche medico, ma era suo dovere andare a controllare. A un orecchio poco allenato, i rumori in un garage possono apparire insidiosi. Vinnie, però, faceva il guardiano da ben sei settimane, e riusciva a individuare l'antifurto di un'auto con impressionante precisione. Quello doveva provenire dalla sezione arancione, fila due o tre. Ci avrebbe scommesso la testa. Il garage era semideserto quel giorno, e questo creava un'eco cavernosa che rendeva il suono dei suoi passi più forte e più solitario del solito. Tagliò per la sezione viola, diretto a quella arancione. Questa si trovava vicino agli ascensori, ed era sempre la prima a riempirsi. Raggiunse la fila due ma non notò niente di insolito. Si diresse allora alla fila tre, e individuò l'anomalia. Nessun falso allarme questa volta. Schegge di vetro sul pavimento fra un furgone bianco e una Lexus. Il finestrino del guidatore di una berlina era stato infranto. Strano che l'allarme si sia spento tanto in fretta, si stupì Vinnie. Si infilò fra i due veicoli e sbirciò all'interno. Si aspettava di trovare vuoto il vano che ospitava lo stereo sul cruscotto, invece era intatto. Devono aver rubato una borsa. Fece per prendere il walkie-talkie. Aveva la testa infilata nel finestrino rotto, circondata da tutti e quattro i lati dalle punte affilate del vetro. In una frazione di secondo udì il portello del furgone aprirsi, sentì una mano sulla nuca e qualcuno lo afferrò per i capelli. Prima che potesse reagire, il suo assalitore gli sbatté la faccia sui cocci di vetro appuntiti che spuntavano dall'intelaiatura del finestrino. L'uomo gemette, incapace di parlare per il sangue che aveva in bocca, incapace di vedere per i tagli negli occhi. Era quasi privo di conoscenza quando la testa gli venne tirata all'indietro, sempre per i capelli, e rapidamente avvolta in una giacca, che assorbì il sangue e gli levò l'aria. Il suo corpo fu spinto bruscamente contro il furgone, poi venne buttato a terra. Sentì il portellone richiudersi e poi una voce che non riconobbe. «Niente di personale, Skovick.» La testa aveva sbattuto contro il pavimento. Provò a parlare attraverso la
giacca intrisa di sangue, ma fu inutile, il fiato tolto per sempre da una corda attorno al collo. Peyton prese l'ascensore diretta al piano della chirurgia. Ora si sentiva un po' meglio. Prima di andare a trovare Kevin, si era fermata in amministrazione per accertarsi che il servizio di sicurezza fosse stato attivato. Le ci erano voluti quasi venti minuti per riuscire a parlare con un responsabile, ma il viceamministratore le aveva assicurato che il loro caso aveva priorità assoluta. Suo marito si stava riprendendo molto rapidamente, ed era stato trasferito dal reparto di terapia intensiva in una camera singola, più facilmente controllabile. Non rientrava nella politica dell'ospedale fornire guardie armate, ma Tony Falcone si era dichiarato disponibile a pagare un agente della polizia di Boston fuori servizio perché vigilasse la stanza. Grazie, Tony. Le porte dell'ascensore si aprirono e Peyton uscì. Fu contenta di vedere una guardia di sicurezza appostata proprio davanti all'ascensore. Era più di quanto si aspettasse. Era soddisfatta di constatare che l'ospedale aveva affiancato all'agente di polizia uno dei suoi guardiani. «Buongiorno», lo salutò. Quando l'uomo si voltò, lei lesse il nome sul cartellino identificativo dell'ospedale che portava appuntato sul petto: SKOVICK. «Buongiorno», rispose Rudy. 70 Rudy la perse di vista quando lei svoltò l'angolo. Sapeva esattamente dove fosse diretta, avendo già fatto due volte il giro del piano. La stanza 516 era lontana dalla confusione, in fondo a un tranquillo corridoio. Un agente armato stava di fronte alla porta chiusa. Sembrava che l'amministrazione avesse scelto una camera relativamente isolata, per evitare di attirare l'attenzione sul fatto che un paziente era sorvegliato. L'uniforme di Skovick gli andava perfetta, e la giacca che gli aveva avvolto attorno alla testa aveva impedito al sangue di macchiarla. Rudy pareva davvero una guardia, ma non aveva intenzione di affidarsi troppo alla fortuna. Concesse a Peyton solo tre minuti di vantaggio, poi fece la sua mossa. Con la disinvoltura del capo della sicurezza dell'ospedale, si allontanò dagli ascensori e si incamminò lungo il corridoio laterale.
Dritto davanti a lui c'era l'agente solitario seduto davanti alla stanza di Kevin. Indossava l'uniforme della polizia di Boston. Considerato che era solo, probabilmente stava facendo un secondo lavoro in nero, mentre era fuori servizio. Aveva l'aria annoiata, dondolava sulle gambe posteriori della sedia, fischiettando una melodia irriconoscibile. Rudy tenne d'occhio la sua pistola mentre si avvicinava. «Ti do il cambio.» «Chi lo dice?» «L'amministrazione.» L'uomo diede un'occhiata alla cinta di Rudy e parve notare l'assenza dell'arma. «Mi è stato detto che volevano una guardia armata.» «Suppongo abbiano cambiato idea.» Il poliziotto lo guardò con sospetto. «Voglio verificare.» Fece il gesto di prendere il walkie-talkie, ma Rudy sfilò un coltello dalla manica della camicia, lo stesso che aveva usato con Kevin. Prima che l'altro potesse reagire, gli puntò l'estremità della lama sulla giugulare. L'agente si paralizzò. In quello che parve un unico movimento, Rudy afferrò la pistola dalla fondina e tirò su con violenza il poliziotto prendendolo per il colletto. Si mosse in fretta, temendo che potesse arrivare qualcuno. Puntandogli la rivoltella contro la schiena, lo spinse verso la porta. «Stai tranquillo», disse. «Adesso entriamo.» Peyton era accanto al letto di Kevin, quando la porta si aprì. Gli teneva la mano mentre lui dormiva grazie agli antidolorifici che gli avevano somministrato. Entrarono due uomini, il poliziotto che sorvegliava la stanza seguito dalla guardia di sicurezza. «Che cosa succede?» chiese lei allarmata. La porta si chiuse e nessuno dei due rispose. Peyton notò che dalla fondina del poliziotto mancava la pistola. All'improvviso la guardia di sicurezza mosse un braccio, puntando la rivoltella alla testa dell'agente. «Non un'altra parola o lo sbirro muore.» Peyton strinse la mano di Kevin, ma lui era ancora assopito. «Spostati dal letto, Peyton. Allontanati dal pulsante delle chiamate di emergenza.» Lei fece due passi indietro, fissandolo negli occhi dall'altra parte della stanza. Riconobbe lo sguardo folle e la voce, dalla notte del Jamaica Pond e da quella dell'omicidio di Gary.
«Che cosa vuoi?» «Sono venuto a uccidervi tutti e due.» Il cuore di Peyton sussultò. Lui la guardò, il viso pieno di rabbia e gli occhi colmi di sentimento. «Ma ogni volta che sto per darti quello che meriti, non riesco a farlo. Perché?» «Perché sei una brava persona», intervenne il poliziotto con voce tremante. «Non sei un assassino.» «Chiudi il becco, idiota.» Premette la pistola ancora più forte sulla testa dell'uomo. «Dai, amico. Ho un bambino di quattro anni e una moglie incinta.» «Per favore», lo pregò Peyton. «Non devi provarmi niente, Rodolfo.» I suoi occhi si accesero. «È la prima volta che ti sento pronunciare il mio nome.» Peyton non sapeva se rivelargli che lei non era Ladydoc o se recitare la parte. «È un bel nome», disse. «Non cercare di lusingarmi.» «Sono solo sincera.» «Tu non sai che cosa significa essere sinceri.» «Non è vero.» «Non sarai mai sincera con me, né con te stessa. Non finché c'è lui», l'accusò, indicando Kevin. «Che cosa vuoi sapere? Sarò completamente sincera.» «Intendevi sul serio quello che hai detto ieri sera?» Peyton rimase in silenzio. Aveva ascoltato la versione di Kevin, ma non si sentiva molto sicura all'idea che RG la interrogasse su quanto si erano detti. «Che cosa di preciso?» «Non essere evasiva. Hai fatto capire che volevi sbarazzarti di tuo marito.» Lei non rispose. «Ripetilo», le intimò Rudy. «Dimmi che vuoi che io mi liberi di lui.» «Non posso farlo.» «Forza, Peyton. Hai preso la decisione giusta con Gary Varnes.» «Lo hai ucciso», affermò lei, perché il poliziotto sentisse. «Per noi. E ora c'è soltanto un ultimo ostacolo sulla nostra strada. Dimmi che cosa devo fare.» «Voglio che tutto questo finisca.» «Non potrà mai finire.»
Nonostante il pensiero la disgustasse, Peyton si rese conto che avrebbe dovuto recitare la parte di Ladydoc. «Rodolfo, se mi ami, metti giù la pistola.» «Non tentare di manipolarmi.» «Mettila giù. Possiamo aiutarti.» Lui rise tristemente. «Pensi che io abbia bisogno di aiuto?» «Sì, lo penso.» «Sei tu quella che ha bisogno di aiuto. Ti darò un'altra possibilità, Peyton. Un'ultima possibilità per prendere la decisione giusta. Kevin non ti merita. Ripeti quello che mi hai detto l'altra sera, e lo toglierò di mezzo per sempre.» «Non deve morire nessuno.» «È qui che ti sbagli.» Con il fondo del manico del coltello colpì alla nuca il poliziotto, che cadde a terra privo di sensi. «Fermati!» gridò Peyton. «Stai zitta!» ordinò lui, puntandole contro la pistola. «Vieni qui. Ammanettati allo sbirro.» Peyton attraversò la stanza, mentre Rudy continuava a tenerla sotto tiro. Inginocchiandosi, lei controllò il respiro e il battito del poliziotto. «Fallo!» le intimò Rudy. Peyton tolse le manette dalla cintura dell'uomo e ammanettò entrambi. «Siediti», disse Rudy. Lei si sedette sul pavimento accanto al poliziotto. Rudy si spostò rapido alle sue spalle e le puntò il coltello alla gola. Con l'altra mano aprì il tamburo della rivoltella e gettò cinque dei sei proiettili sul pavimento. Fece ruotare il tamburo, in stile roulette russa. Poi, con il coltello ancora puntato alla gola, le girò bruscamente la testa, in modo che lei potesse guardarlo negli occhi, faccia a faccia. Le puntò la canna alla tempia. «Ti prego, non farlo.» Il suo sguardo si fece più intenso. Tolse la pistola dalla tempia di lei e la appoggiò sotto il suo mento, puntandola verso il cervello. «Kevin farebbe questo per te?» le chiese, poi premette il grilletto. Peyton chiuse gli occhi e trasalì al rumore dello scatto metallico. Aveva sparato un colpo a vuoto. Rudy spostò la pistola e fece di nuovo girare il tamburo. «Ora è il suo turno.» Si alzò e si diresse verso il letto. «Non farlo.»
«Zitta», la interruppe lui con voce tagliente. «Un'altra parola e ti giuro che continuerò a premere il grilletto fino a ficcargli il proiettile in testa.» «Non essere stupido. Se sparerai il colpo, la polizia arriverà in dieci secondi. Non c'è via d'uscita.» «Tu sei la mia via d'uscita. Posso andare ovunque con un ostaggio.» «Io non verrò da nessuna parte con te.» «Certo che verrai. Tu lo desideri quanto lo desidero io. Me lo hai confessato l'altra sera. Volevi sbarazzarti di Kevin.» Peyton temette che urlando lo avrebbe spinto a uccidere entrambi, ma doveva fermare quel folle. Era sul punto di gridare aiuto, quando vide qualcosa sotto una gamba dei pantaloni del poliziotto. Sembrava un piccolo cinturino di pelle proprio sopra la caviglia, all'altezza dell'orlo. Distinse il contorno di una fondina. L'uomo nascondeva un'altra pistola. Rudy teneva la rivoltella a trenta centimetri dal viso di Kevin. «Stai guardando, Peyton? Voglio che tu guardi.» Lei si spostò appena verso la caviglia del poliziotto, poi con un rapido scatto finale afferrò l'arma che era nella fondina e la rivolse contro Rudy. «Metti giù quella pistola!» gridò. Lui la mantenne saldamente puntata verso Kevin, con un debole sorriso sulle labbra. «Hai intenzione di spararmi?» «Se sarò costretta.» «Pensi di riuscire a farmi secco con un colpo solo? Perché, se non lo farai, io premerò il grilletto.» «Butta la pistola o sparo!» «Sei davvero disposta a rischiare? C'è una possibilità su sei che ci sia un proiettile in canna. Se tu non metti a segno un colpo mortale, sparerò io. E Kevin potrebbe morire.» Lei diede un'occhiata al marito, poi tornò a guardare Rudy. Prese la mira. Aveva studiato abbastanza neurologia per sapere che il colpo con più possibilità di essere mortale era quello sparato in mezzo agli occhi. Il proiettile lo avrebbe atterrato, per morte istantanea, senza alcuna azione di riflesso. «Non costringermi a farlo», lo minacciò. «Non puoi farlo», la contraddisse lui. «Mio padre era un poliziotto. Ho un'ottima mira.» «Ma io non sono un barattolo di cotone su una mensola della clinica di Haverhill. Non sono una di quelle sagome in bianco e nero contro cui hai sparato al corso di addestramento, quando hai comprato la pistola.»
Quelle parole furono l'ennesima prova di quanto lui sapesse della sua vita. La rabbia di Peyton montò. «Sparerò, parlo sul serio.» «Non puoi uccidermi.» Peyton mirò in mezzo agli occhi. Rudy la fissò, come a sfidarla. La mira era perfetta, ma lei sentì il coraggio venirle meno all'ultimo momento. Era la paura che aveva provato quando aveva comprato la pistola, la paura che aveva espresso al suo legale dopo la deposizione per l'incidente alla clinica di Haverhill. Aveva dedicato la vita alla cura del prossimo. Non aveva mai ucciso un essere vivente. Non voleva essere il boia di nessuno. Rudy si avvicinò a Kevin e gli premette la rivoltella contro la testa. «Non puoi uccidermi, Peyton.» «Lascia la pistola o sei morto.» «Non puoi farlo.» «Lo farò.» «Non lo farai. Perché mi ami.» Nel sentire quelle parole, Peyton trovò la forza necessaria. Le dita di Rudy strinsero il grilletto e lei reagì. L'intera stanza parve eruttare mentre la sua pistola sparava un unico colpo. La testa dell'uomo balzò all'indietro, ma non prima che lui riuscisse a premere il grilletto. Successe tutto in un attimo, anche se a Peyton sembrò di vedere ogni singolo segmento di azione svolgersi in modo separato. Il proiettile che attraversava il cranio di Rudy. La testa che arretrava in un'esplosione di un rosso acceso. Le ginocchia che si piegavano. E in tutto questo, il suo dito comunque premuto sul grilletto. «No!» Peyton si lanciò in avanti, ma fu trattenuta dalle manette. Il suono le lacerò l'anima, l'orrendo scatto metallico del cane della rivoltella. E poi lo sentì. Un meraviglioso silenzio. Alzò la testa dal pavimento e guardò attraverso le lacrime. Rudy era abbattuto al suolo in una pozza di sangue. Kevin si mosse nel letto, illeso. L'uomo aveva sparato un altro colpo a vuoto. La porta si spalancò. Un'infermiera lanciò un grido, poi si voltò e uscì di corsa, chiamando aiuto. Peyton cercò la chiave delle manette nella tasca dell'agente, le aprì e corse al fianco del marito. In pochi secondi l'infermiera terrorizzata ritornò con una guardia di sicurezza e un medico. «Che cosa è successo?» chiese la guardia. «Quel pazzo aveva una pistola!» rispose Peyton. «È morto. Aiutate l'a-
gente a terra. Ha un trauma da corpo contundente alla nuca.» Mentre loro si precipitavano a soccorrere il poliziotto, Kevin gemette, ridestandosi dal sonno indotto dai farmaci. Peyton gli sfiorò il viso. «Stai bene?» Lui la guardò, confuso. Il dottore stava gridando istruzioni per assistere l'agente ferito. Kevin non era ancora del tutto in sé. «Accidenti, c'è un rumore d'inferno in questo posto.» Le venne da ridere, una reazione dovuta all'enorme tensione accumulata. «Abbiamo avuto un incidente.» «È finita?» Lei abbassò lo sguardo sul corpo esanime di Rudy. Aveva ancora gli occhi aperti. Una pozza di sangue si allargava sotto il foro nella sua testa. «Sì», sospirò. «Stavolta è davvero finita.» Epilogo Quattro giorni prima di Natale, Peyton e Kevin stavano facendo le ultime compere. Era passato molto tempo, ma finalmente il romanzo di Kevin era stato pubblicato. Una neve leggera fioccava nel tardo pomeriggio, e un nuovo strato di bianco ricopriva i rami spogli degli alberi lungo Commonwealth Avenue. Le vetrine dei negozi tutto attorno erano decorate con ghirlande, luci e candele. Peyton prese il braccio del marito mentre attraversavano la strada, passando davanti a un calesse tirato da un cavallo. Era un momento magico dell'anno, e la cosa che lei amava di più di Boston in quella stagione era che, stringendo gli occhi e astraendosi dal rumore del traffico, per un istante si poteva, come in sogno, ritrovarsi in un altro secolo. Il processo, grazie al cielo, cominciava ad apparire lontano. E, soprattutto, Rudy non c'era più. Con lui se n'erano andate le accuse di omicidio nei loro confronti. Anche se il poliziotto nella stanza d'ospedale di Kevin non aveva sentito la confessione, l'appartamento di Rudy e il suo computer erano pieni di prove incriminanti. Schedari, fotografie, documenti elettronici e mappe contribuivano a creare un vero e proprio diario di tutti gli avvenimenti dell'ultimo anno: il pedinamento di Peyton, gli omicidi di Andy Johnson e Gary Varnes, il suo primo tentativo di uccidere Kevin. Trovarono persino la pistola di lei sotto il cuscino, usata per uccidere Gary. A Peyton non piaceva pensare agli ultimi due mesi come a un «ritorno alla normalità», perché era difficile capire che cosa fosse la normalità. La
madre non era stata ancora accusata del crimine che aveva commesso, ma ai suoi occhi era già condannata. Suo padre aveva chiesto il divorzio, e né lui né lei le avevano più rivolto la parola da allora. Peyton fu tentata di provare a rintracciare la sorellastra, ma alla fine decise che spettava alla figlia data in adozione mettersi in cerca della propria famiglia biologica, e non il contrario. Il fatto che la ragazza fosse ancora minorenne rendeva la situazione anche più delicata. Pensando a cose più allegre, Peyton era felice di essere tornata al Children's Hospital per il suo internato, e aveva perdonato Kevin per quella notte con Sandra Blair. Lui ora lavorava presso un piccolo studio legale, avvocato e scrittore part time. Si sarebbe accontentato della pubblicazione del romanzo, ma il processo li aveva trasformati entrambi in celebrità locali, spingendo il libro nella lista dei titoli più venduti in città. «Eccolo», lo individuò Peyton entrando in libreria con il marito. Sul tavolo, proprio di fronte a loro, era in mostra Nel letto di uno sconosciuto. Un romanzo di Kevin Stokes. Si avvicinarono all'espositore, lei al settimo cielo per l'emozione. Kevin prese una copia e la tenne in mano con cautela, quasi potesse rompersi. «Ho aspettato così tanto per questo», ammise. «Compriamone uno.» «È poco elegante comperare una copia del mio romanzo, non credi?» «Ci sono libri molto più brutti, qui.» «Mille grazie. Forse potresti fornirmi una critica per la copertina: 'Non fa proprio schifo. Peyton Shields'.» Lei si chinò sotto il tavolo e ne sollevò una pila. «Ecco, prendiamo tutti questi.» «Peyton», la rimproverò lui, in tono gioviale. «Che c'è? Siamo usciti per acquistare dei regali per gli amici, no?» «Credi forse che l'amministratore delegato di McDonald's regali ai suoi amici le sorprese degli Happy Meal?» «Sì, credo di sì. In ogni modo non è la stessa cosa.» «Ne compreremo solo uno», decise lui, dirigendosi alla cassa. Peyton si convinse e ripose le altre copie, non sotto il tavolo però, dove le aveva trovate, ma sopra, bene in vista nell'espositore. Kevin osservò con sorriso infantile il giovane commesso passare sotto il lettore il codice a barre del volume. Si era comportato con grande contegno, ma Peyton sapeva che non sarebbe mai riuscito a uscire dal negozio senza cedere alla tentazione di farsi riconoscere.
«Questo è il mio libro, sa», informò il commesso con orgoglio. Il giovane gli rivolse uno sguardo idiota. «Certo. Appena lo avrà pagato.» Kevin fu sul punto di ribattere, ma lei lo fermò. «Abbiamo assaggiato il sapore della notorietà. Ora godiamoci l'anonimato.» Lui sorrise, chiedendosi se il commesso avrebbe collegato il nome dell'autore alla firma sulla ricevuta della carta di credito. A scanso di equivoci, si firmò Mickey Mouse. Peyton fece una piccola smorfia divertita. Il commesso non si prese neppure il disturbo di controllare. Si limitò a infilare il volume in un sacchetto e ad appoggiarlo oltre la cassa. «Sembra che un mucchio di gente stia acquistando questo romanzo. Deve essere bello.» «Il libro migliore che abbia mai...» Peyton gli diede un pizzicotto, indovinando che Kevin avrebbe detto: «scritto». «Mai comprato», concluse lui. «Il libro migliore che abbia mai comprato.» Il commesso gli lanciò un altro sguardo idiota. Peyton prese Kevin per mano e lo condusse all'uscita, sorridendo. «Forza, Ernest. La corrida ci aspetta.» FINE