JUDE FISHER MAGIA SELVAGGIA (Wild Magic, 2003)
Prologo La Rosa del Mondo era china sul suo sposo addormentato, e la pun...
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JUDE FISHER MAGIA SELVAGGIA (Wild Magic, 2003)
Prologo La Rosa del Mondo era china sul suo sposo addormentato, e la punta dei suoi capelli chiari sfiorava la guancia di lui. Sprofondato nel più strano dei sogni dopo le fatiche della notte, re Ravn Asharson, più comunemente noto alle donne dell'Eyra e ai loro invidiosi uomini come lo 'Stallone del Nord', si mosse leggermente non appena quelle seriche chiome lo toccarono, e le sue ciglia tremarono come le ali di un corvo che sta per spiccare il volo. La Rosa Eldi sorrise. Era un'espressione che negli ultimi tempi aveva provato e riprovato ogni giorno, nell'intimità delle proprie stanze, con l'aiuto di uno dei tanti doni di suo marito: uno specchio d'argento lucido, ve-
tro e mercurio, comprato da mercanti provenienti dalle isole Galiane. Un oggetto già di per sé miracoloso, ma ancora di più per lei, che non aveva mai visto il proprio volto, tranne quando era riflesso negli occhi degli uomini che ammaliava. Le dicevano che era di rara bellezza, la più perfetta delle donne... ma lei non aveva modo di sapere se quelle parole fossero sincere: aveva trascorso tutta la vita, per quanto riusciva a ricordare, segregata a Santuario, la remota fortezza di ghiaccio i cui unici abitanti erano stati un gatto nero, Bëte, il mago Rahe e Virelai, l'apprendista del Padrone. Rahe le aveva spesso ripetuto che era bella, ma dal momento che le aveva anche dato a intendere di averla creata in modo che il suo aspetto fosse il più gradevole possibile ai suoi occhi, quello le era sempre sembrato un giudizio soggettivo. Poi, quando Virelai l'aveva portata via di nascosto e con lui aveva cominciato a viaggiare per il mondo, aveva avuto l'opportunità di valutare da sola i concetti di bellezza e perfezione, anche se in principio l'assalto ai suoi aridi sensi era stato di tale impatto che lei aveva trovato ogni cosa, dalla più comune mosca del letame al più frondoso degli alberi, bella e perfetta. Ma allo stesso tempo tutto ciò che aveva visto le era apparso stranamente familiare, come se le immagini che avevano popolato i suoi sogni fossero all'improvviso saltate fuori dalla sua testa per brulicarle intorno nella loro miriade di forme e colori. Tuttavia, ancora più sconcertante era stato il contatto con le persone. Non aveva la minima idea di come comportarsi con loro, così si era limitata a tacere e ad assorbire quanto più poteva dei loro gesti e delle loro parole, per poi rifletterci una volta al sicuro nel carro in cui lei, il gatto e l'apprendista avevano abitato durante i loro viaggi. C'era però una cosa che l'aveva ripetutamente colpita: il fatto che le donne rifuggissero da lei, sorridendole con le labbra, ma raramente con gli occhi, quasi che interpretassero il suo sguardo e il suo silenzio come una dimostrazione di insolenza, o come una minaccia. Gli uomini, invece, sembravano innamorarsi di lei all'istante, follemente, tanto da voler avere senza indugio un rapporto carnale, senza curarsi dell'inopportunità del momento, del luogo o delle circostanze. Alle donne non piaceva neppure quello, a quanto aveva capito. Pareva quasi che, nel crearla, il Padrone avesse infuso in lei una magia in grado di sedurre ogni uomo su Elda, anche se di certo non l'aveva fatto di proposito, poiché la sua intenzione era stata di tenerla solo per sé. E in base a ciò che aveva imparato negli ultimi tempi, ora si rendeva conto che Virelai aveva probabilmente compreso tale potere sin dall'inizio del loro
viaggio, e aveva guadagnato una considerevole somma di denaro proprio grazie a quegli uomini e all'uso che avevano fatto di lei. La Rosa Eldi sentì il proprio sorriso svanire ripensando a quei giorni: lo comprese dal rilassamento dei muscoli che avvertiva in quella parte del viso. Voltandosi, tese la mano e recuperò il suo specchio dalla panca intarsiata accanto al letto, inclinando il manufatto di squisita fattura per intrappolare i primi raggi del sole dell'alba tra la sua lucente superficie e la propria pelle pallida. L'argento le mostrò un volto ovale dall'incarnato bianco come il latte, tranne che sul mento e su una guancia, dove suo marito durante la notte l'aveva leggermente arrossata con la barba, e un paio di occhi di un verde tendente al blu oltremare. Ravn li chiamava 'occhi da sirena', e scherzosamente insisteva per controllarle i piedi ogni mattina per cercare segni delle sue escursioni notturne: fronde di alghe, diceva, o cavallucci marini, e addirittura pinne e squame! Lei non aveva idea di cosa intendesse dire e quando gliel'aveva confessato lui era rimasto molto sorpreso, perché era certo che tutti conoscessero i racconti sulle creature delle isole del Nord che assumevano forma umana per sedurre incauti marinai e pescatori, per poi tornare a infilarsi nella loro pelle di pesce la notte e scomparire nella loro casa nell'oceano, lasciando gli amanti confusi e affranti. Sorrise di nuovo nello specchio e guardò le proprie labbra incurvarsi in un arco rosa tenue, le guance arrotondarsi e la pelle intorno agli occhi formare delle piccole grinze. Rilassò i muscoli del viso e fissò con occhio critico l'immagine sulla superficie riflettente. Nell'intensa luce del mattino riuscì a intravedere delle sottilissime rughe che le segnavano i lati del naso e della bocca, allargandosi poi a ventaglio sotto gli occhi. Aveva creduto di non essere capace di sorridere o assumere qualsiasi altra espressione, ma quei debolissimi segni la smentivano. Il Padrone l'aveva sempre trattata come un oggetto, come un conforto o un passatempo destinato al suo piacere nel gelido e freddo regno di Santuario, e fino a quel momento lei non aveva mai messo in dubbio il proprio posto nel mondo... ma ora un nuovo pensiero cominciava a farsi strada nella sua mente. In un perduto passato, doveva aver sorriso, essersi accigliata e aver messo il broncio un numero di volte sufficiente a imprimere quelle piccole rughe sulla sua pelle. In un perduto passato, quindi, doveva aver avuto un'altra vita. Emozioni a cui non era in grado di dare un nome traboccarono nel suo animo. La Rosa del Mondo si lasciò cadere lo specchio in grembo, senten-
do a malapena il freddo dell'argento sulla pelle nuda. Accanto a lei suo marito si mosse, batté nuovamente le palpebre, ma poi scivolò ancora in un sonno profondo. Tese una mano e gli scostò una ciocca di capelli neri dalla fronte, e la mera semplicità del gesto sembrò calmarla. Un uomo così complesso, pensò, studiando il punto in cui la pelle segnata dalle intemperie del volto e del collo si congiungeva con il vulnerabile biancore del petto e del ventre, mentre le mani e gli avambracci scuri distesi sulle lenzuola di lino contrastavano con gambe così pallide che non sembravano neppure le sue. Solo i folti peli neri che crescevano dappertutto sulla sua pelle sembravano amalgamare il tutto, offuscando le linee di giunzione, confondendo i margini. Chinandosi su di lui, la Rosa Eldi appoggiò lo specchio di taglio davanti al viso addormentato e ne osservò il respiro appannare il freddo metallo. L'appannamento diminuiva pian piano fino a svanire, per ritornare a ogni nuovo soffio di aria calda. Poi la donna ripulì lo specchio sul lenzuolo e provò a respirarci sopra a sua volta. Niente. Il metallo rimaneva nitido, incontaminato. «Nonostante la tua fama, non c'è calore in te» ricordò che le aveva detto una volta il Padrone. Allora, sotto l'influenza della sua magia, lei non aveva potuto far altro che concentrarsi sul suono delle sue parole, senza comprenderle. Solo ora, lontano da lui, cominciava a capire quello che probabilmente intendeva dire; eppure, per quanto provasse e riprovasse con quel piccolo esperimento, il risultato non cambiava, e lei non ne traeva alcuna utile indicazione sulla propria identità o provenienza. Era un mistero che aveva preso a ossessionarla, a tormentare la sua mente a ogni ora del giorno e della notte. Sapeva solo di non aver posseduto alcuna conoscenza, alcuna identità né alcuna forza di volontà nel periodo in cui aveva vissuto con il Padrone. Era come se la sua magia le avesse soffocate come un mantello bagnato è in grado di soffocare le fiamme prima che il fuoco attecchisca. L'unica cosa di cui era stata capace negli anni passati a Santuario era stata accendere la passione di Rahe e soddisfare la sua libidine... Ma, a parte quello, aveva vissuto come in un sogno. Solo una volta lasciata l'isola aveva ricominciato ad avvertire una minima consapevolezza di sé. Ma anche dopo aver viaggiato per mesi tra i fantastici popoli e gli strabilianti luoghi di Elda, era rimasta come in uno stato di quiescenza, paga di vivere all'ombra di Virelai, di fare ciò che lui le chiedeva con gli uomini che portava nel carro,
soddisfatta di quell'esistenza... finché lui non aveva tentato di venderla a quel nobile del Sud, un individuo il cui solo tocco le faceva accapponare la pelle, che le suscitava un disgusto che non avrebbe saputo definire. Per un qualche istinto profondo e primordiale sentiva che quell'essere portava con sé la morte, e lei non aveva voluto avere niente a che fare con lui. Doveva solo a se stessa il fatto di trovarsi lì ora, nelle stanze reali del castello di Halbo, e provava una certa soddisfazione per questo. Quando era fuggita da Virelai, la sera del Raduno, neppure lei aveva saputo come comportarsi. Per sottrarsi alle grinfie del letale signore del Sud doveva mettere un oceano tra sé e lui, e una nave diretta a nord necessitava della protezione di un capitano eyrano... ma quando aveva posato gli occhi su Ravn Asharson, tutto era divenuto improvvisamente chiaro. Aveva compreso a prima vista che era un uomo potente, un uomo che poteva difenderla contro tutto e tutti, e che la sua anima bramava il nuovo e l'esotico... così si era fatta avanti e ne aveva attirato l'attenzione. Nella sua breve esperienza del mondo fuori da Santuario aveva imparato che le donne usavano qualunque astuzia per attrarre gli uomini, e che la conquista di un re andava considerata come un'impresa da non affrontare alla leggera, un'iniziativa non alla portata di una donna priva di educazione e di sangue nobile. Ma per la Rosa Eldi non si era trattato di un gioco di potere, della ricerca di uno status sociale: per lei era stata una semplice questione di sopravvivenza, e perciò aveva esercitato tutto il suo potere di seduzione su di lui, che ne era stato completamente e ineluttabilmente ammaliato. Ciò che non aveva messo in conto erano le strane sensazioni che lui avrebbe fatto nascere in lei. Queste sensazioni, che aveva imparato a definire 'emozioni', erano cominciate con un vago senso di tenerezza verso un uomo così vulnerabile che bastava uno sguardo per metterlo in ginocchio; poi, nelle settimane del loro viaggio di ritorno alla capitale del Nord, erano diventate qualcosa di molto più forte del semplice desiderio carnale. Ora, dopo che lui l'aveva cautamente presentata agli abitanti del grande castello che chiamava casa, si erano trasformate in qualcosa che poteva descrivere solo come un lento fuoco che bruciava dentro di lei. Così, invece di fuggire subito dopo l'arrivo in Eyra come aveva programmato di fare, aveva finito per provare una sorta di dolore fisico ogni volta che Ravn si allontanava da lei. E quel dispiacere era accresciuto dal fatto di sapere di aver operato un potente incantesimo su di lui. Senza di esso, non poteva essere sicura che
lui l'avrebbe amata. Inoltre, a causa di questo velo di malia che aveva gettato su di lui, era anche impossibile conoscere il vero carattere del suo promesso sposo. Era come vedere un'isola attraverso la nebbia: dietro l'inganno della magia, percepiva in lui una fierezza, un qualcosa di primordiale e intransigente, qualcosa che avrebbe potuto condurla, entusiasta e inebriata, a una maggiore comprensione dell'amore, della vita, del mondo e del suo posto in esso. Ma ogni volta che erano insieme, Ravn si muoveva e parlava come in stato di trance, e quando era via lei non sapeva come si comportasse. Sarebbe stato interessante, rifletté chinandosi ancora sul marito per sfiorargli le labbra con la punta del dito, poter rinunciare per un po' al suo magico fascino per vedere chi fosse veramente l'uomo con cui aveva scelto di restare. Ma non osava farlo. Così, scivolò più in giù lungo il letto, finché il suo viso non fu all'altezza del petto del marito. Poi posò la testa su di lui e ne ascoltò il costante ritmo del respiro, il potente battito del cuore (come una marea, come una marea...) e si chiese se avrebbe mai imparato cosa voleva dire essere umani nel mondo di Elda. 1 Intrighi Aran Aranson, Signore di Rocciacaduta, era in piedi sulla soglia della sua fucina, mentre la luna si stagliava alle sue spalle simile all'occhio di un vendicativo gigante; guardava incredulo la donna morta alzarsi lentamente in piedi. Di fronte a lui il suo secondogenito Fent era in ginocchio, e fissava a occhi sgranati l'apparizione di colei che solo pochi momenti prima aveva ucciso con le proprie mani, mentre la sua unica figlia, Katla Aransen, giaceva immobile sul gelido pavimento con il viso e le mani ricoperte di sangue. La donna morta fece un passo verso Aran Aranson e la luce della luna si rifletté nel suo unico occhio. Sembrava un camminatore della notte appena tornato dalla quiete della sepoltura per tormentare coloro che in vita avevano fatto del male, sedendosi a cavalcioni sulla trave di colmo delle case finché il tetto non crollava, piazzandosi in groppa al bestiame fino a farlo impazzire, terrorizzando tutto il vicinato finché il villaggio non diventava maledetto e veniva abbandonato.
La mano dell'uomo strinse il pomo del pugnale che portava legato alla vita. «Tagliargli la testa, ecco l'unica cosa che funziona con gli spettri» gli aveva detto un tempo la vecchia nonna Garsen, il volto illuminato dalla lugubre luce del fuoco intorno al quale era solito sedere insieme agli altri bambini della fattoria, tutti incantati e al contempo terrorizzati dalle sue parole. «Bisogna tagliargli la testa e seppellirla il più lontano possibile dal corpo.» Ma un consiglio così semplice avrebbe funzionato con una seither, una dei leggendari incanalatoli di magia delle isole del Nord? Aran sguainò il pugnale e lo tenne di fronte a sé, ben sapendo che era inadeguato al suo scopo. La Spada Rossa di Katla, quella stupenda arma con una corniola incastonata nell'elsa che la giovane aveva forgiato l'anno precedente, era fuori della sua portata. Ma se fosse riuscito a mettere fuori gioco la seither con il pugnale per poi balzare accanto a Katla per. recuperarla... «Metti via quello spillo, Aran Aranson.» La voce della seither era sonora e profonda, troppo potente per provenire da una donna colpita al cuore solo pochi attimi prima. Aran scoprì che la mano gli tremava, come se ci fosse stata più potenza in quelle parole del loro mero significato. «Hai intenzione di attirare su di te la stessa maledizione che ho lanciato sul tuo sanguinario rampollo?» Che le tue imprese possano culminare nel disastro. Aran non si era mai considerato particolarmente superstizioso, ma in quel momento si sentì pervaso da un gelido terrore, come se la morta avesse teso la mano e posato un dito di ghiaccio sul suo cuore. «Non capisco cos'è accaduto qui» riuscì a dire alla fine. La seither, Festrin Occhiosolo, fece un sorriso tetro. C'era sangue sui suoi denti e sulle gengive, un sangue che in quella luce abbagliante sembrava nero. «Non sanguinano come noi» aveva detto nonna Garsen. «Possono gonfiarsi fino a raggiungere il doppio delle loro normali dimensioni, e le loro vene si riempiono di fluido nero, una goccia del quale è sufficiente a inaridire una collina per l'eternità.» «Davvero mi credi aptagangur, Aran Aranson?» chiese Festrin con una strana dolcezza nella voce, e iniziò a slacciarsi la tunica. Gli occhi di Aran si posarono riluttanti sulle abili dita della seither che correvano sugli alamari. La stoffa lacera e macchiata di sangue si aprì con facilità... ma anche se Aran aveva visto con i propri occhi un Fent sconvolto conficcarle nel petto la Spada Rossa fino all'elsa, sul corpo di lei ora non c'era traccia di ferite: nessun taglio irregolare da cui sgorgasse il sangue
che aveva spruzzato Katla mentre tentava di soccorrere la donna ferita, e neppure la cicatrice purpurea di una lesione da taglio appena rimarginata. Non c'era niente, a eccezione dalla pelle liscia e bianca e del lieve rigonfiamento del seno. Aran sentì la propria bocca spalancarsi per lo stupore. Fent si voltò per fissare suo padre, il viso cereo per lo spavento. «Io l'ho uccisa» sussurrò. «L'ho vista morire.» Festrin passò accanto al ragazzo dandogli meno importanza di quella che avrebbe riservato a un cane randagio, gli occhi fissi sul Signore di Rocciacaduta. «Tua figlia è una creatura rara, Aran Aranson. Ha tentato di dare la sua vita per me, ma non temere: è ancora viva. Si riprenderà presto. Ascolta bene quello che ti dico: non sprecarla. Non venderla come fosse un capo di bestiame pregiato, ma non tenerla neppure avvolta in stoffe di seta o nella bambagia. La magia della terra fluisce attraverso di lei, e non solo quella...» La seither si chinò verso di lui e gli pose un lungo dito sottile su una spalla. «Abbi cura di tua figlia, Signore di Rocciacaduta. Perché se non lo farai, tornerò a prenderla e tu desidererai che io non abbia mai messo piede su quest'isola.» Pronunciate queste parole, Festrin gli passò accanto e la sua sagoma si stagliò per un momento contro la luna sull'arco della porta della fucina, alta e diritta come un monolite. Poi scomparve. Nessuno vide la seither partire. Nessuna barca mancava dal molo il giorno successivo, né dalle stalle sparì alcun cavallo. L'unica cosa che Tam Volpe, il capo della compagnia teatrale con cui Festrin Occhiosolo era arrivata a Rocciacaduta, fu in grado di dire, picchiettandosi il naso, fu: «Meglio non indagare sul modo in cui i seither viaggiano per il mondo.» Katla trascorse due giorni nel letto su cui Aran l'aveva adagiata, dormendo profondamente come una bambina malata, svegliandosi di tanto in tanto per brevi momenti e poi riaddormentandosi subito. Ma il terzo giorno, quando lui andò a trovarla per sedersi accanto al suo letto trovò le coperte gettate a terra e i suoi stivali spariti dal loro posto accanto alla porta. Aran controllò i terreni intorno alla tenuta, i fienili e i granai, senza risultato. Alla fine prese il sentiero che conduceva al porto verso il frangiflutti dove Katla negli ultimi tempi era solita sedersi e calare una lenza, suo unico passatempo da quando aveva quella mano deformata dal rogo, ma le uniche persone che vi trovò erano i pescatori che portavano fuori le loro barche sfruttando la prima marea. Raggiunse comunque la fine del molo e si voltò a guardare verso l'entro-
terra. La fattoria dei Rocciacaduta non era di certo imponente come alcune delle residenze dei capiclan di Eyra, ma era una bella casa, ampia, elegante e robusta, costruita con travi di legno portate dal continente al tempo del bisnonno di Aran e con pietra scavata dalle colline circostanti e ricoperta con il tradizionale tetto di torba. Anche in una bella mattina d'estate come quella un filo di fumo si sollevava dal fuoco al centro della sala principale, che non veniva mai spento, né di giorno né di notte, per tutto l'anno. La mia casa, pensò Aran con orgoglio, osservando il brulicare di attività nei recinti, il luccichio del campo d'orzo sotto il sole, i minuscoli puntolini bianchi delle pecore sui pascoli di montagna. Quando aveva assunto il comando di Rocciacaduta dopo l'ultima guerra, la casa colonica era in pessimo stato, i campi incolti, i granai e i fienili crollati. Aran Stenson aveva prestato ben poca attenzione alla sua terra, preferendo la vita di mare, per occuparsi di quello che definiva 'commercio', ma che altri, come gli Istriani, avrebbero chiamato semplicemente pirateria. Aran Aranson sorrise. Lui aveva fatto il suo dovere nei confronti della propria famiglia: aveva reso Rocciacaduta una tenuta di cui essere fiero. C'erano voluti anni di duro e generoso lavoro, ma alla fine aveva ricostruito la maggior parte della casa con le sue mani nei giorni in cui riusciva a malapena a mantenere i suoi e avere dei salariati era fuori questione. Lui e Bera avevano cresciuto una famiglia, perdendo cinque figli alla nascita e per malattia. Si era conquistato l'appoggio dei propri vicini e dei signori e capiclan di tutta l'Eyra con il suo parlare posato e responsabile e il suo comportamento equo in centinaia di controversie, e con la sua autorità nel far osservare la giustizia. Aveva guadagnato rispetto e considerazione non abbandonando mai la strada del buonsenso e della responsabilità nel corso degli anni; e ora pensava di essersi meritato anche il diritto di seguire i propri sogni e vivere le avventure che si era perso da giovane e che sin da allora si era ripromesso di avere. Era stata quella speranza a spingerlo ad andare avanti, a superare tutte le difficoltà del matrimonio e la monotonia della vita alla fattoria. Solo quello gli aveva permesso di resistere per tutti quegli anni: ora avrebbe avuto la sua ricompensa. Accarezzò il sacchetto che portava legato al collo. All'interno era riposto un frammento di pergamena, un'antica mappa che aveva avuto da un mercante nomade alla Grande Fiera. Quella mappa gli avrebbe procurato una prosperità che i suoi antenati non avrebbero neppure potuto immaginare. La ricerca del tesoro che avrebbe trovato grazie a essa non era perciò un'impresa egoistica: con quelle ricchezze avrebbe infatti assicurato il futu-
ro della famiglia molto più che rimanendo a Rocciacaduta a gestire la fattoria, o dedicandosi a estrarre dal cuore dell'isola la sempre più rara sardonica, lavoro lungo e al tempo stesso costoso. No, in un solo colpo, e con un po' di fortuna, un pizzico di audacia e la nave giusta, avrebbe fatto la loro ricchezza. Bera avrebbe potuto vivere come la donna agiata che aveva sempre sognato di essere. I suoi figli avrebbero potuto comprare una vera e propria flotta di navi lunghe, salpare per la Via del Corvo oppure, nel caso di Fent, andarsene a razziare la costa istriana prima di sistemarsi con un bel pezzo di terra da seminare e una moglie da ingravidare. E in quanto a Katla, dovunque fosse... Si guardò distrattamente intorno alla ricerca di sua figlia, i pensieri che già vagavano in mare aperto, verso il Nord con i suoi banchi di ghiaccio galleggianti, gli enormi iceberg e le isole segrete avvolte nella nebbia... Attirato di nuovo verso l'oceano dalle seducenti immagini nella sua mente, il suo sguardo si posò sulle ultime barche da pesca che salpavano dalla baia, superando il torreggiante Dente del Segugio, il promontorio roccioso che costituiva per l'isola un formidabile punto d'osservazione verso sud e verso ovest. Proprio in cima alla rupe un ammasso roccioso si stagliava contro il cielo del mattino, in precario equilibrio sul mare. Aran strinse gli occhi e in quel momento il sole sbucò da dietro le montagne, proiettando i suoi raggi sulle scogliere e permettendogli improvvisamente di distinguere non solo una roccia in bilico, ma una minuscola figura, i capelli rossi fiammeggianti nella luce. Katla! Katla Aransen era seduta in cima al Dente del Segugio, il volto rivolto verso il mare, i piedi penzoloni sopra l'acqua che si infrangeva sugli scogli a più di cento metri sotto di lei. Si era svegliata all'alba, invasa da un'energia che non avrebbe saputo definire, ed era corsa fuori di casa prima che gli altri membri della famiglia si alzassero. Negli ultimi giorni aveva visto e sentito così tante cose che c'era una gran confusione nella sua testa: le parole di Festrin sulla magia della terra, i piani di suo padre di rapire il costruttore di navi del re per la sua folle spedizione nel gelido Nord, la voce nella sua mente che aveva rombato come un tuono quando lei aveva incanalato l'ignota forza che aveva riportato la seither indietro dalla morte... Le implicazioni di quell'ultimo gesto in particolare erano così sconcertanti che non sopportava il pensiero di parlarne con anima viva finché lei
stessa non avesse trovato una qualche spiegazione all'accaduto. Così era corsa giù per la collina fino alla battigia e poi aveva scalato la scogliera seguendo il suo percorso preferito. Arrampicarsi era sempre stato il suo modo di schiarirsi le idee, specialmente quando la vertiginosa via da seguire era la liscia parete a picco sul mare del Dente del Segugio, che richiedeva la massima concentrazione. Non aver potuto arrampicarsi in tutti quei mesi a causa delle lesioni subite; e aver creduto che non sarebbe stata mai più capace, con quella mano ridotta a un ammasso informe di carne, era stata la punizione peggiore di tutte. Katla sollevò il braccio mutilato, girandolo e rigirandolo davanti ai propri occhi. Ancora non riusciva a credere a ciò che vedeva. Dove prima c'era stata una grande massa di tessuto cicatriziale rosso e bianco, ora c'erano di nuovo quattro dita e un pollice, anche se pallidi e sottili rispetto all'altra mano abbronzata e muscolosa. Era difficile ammettere che fosse guarita; ancora più difficile convincersi che era stata lei stessa a provocare quella guarigione. Era talmente strano e sconcertante che quasi si aspettava da un momento all'altro di rivolgere lo sguardo in giù, alla mano, e trovare di nuovo quella mostruosità. Cercò di non pensarci affatto, nel caso i Fati si sentissero tentati e ricordassero quanto lei era indegna di ricevere un simile miracolo. Quando aveva appoggiato una mano sul primo appiglio di freddo granito un leggero formicolio aveva cominciato a diffondersi dalla punta delle dita, trasformandosi poi in una calda vibrazione che si era soffusa per il braccio, poi per le spalle, il collo, la testa e infine in tutto il corpo, come se la roccia le stesse parlando in una lingua che solo il suo sangue poteva comprendere, un linguaggio potente come un tuono; e quello l'aveva confusa più di tutto il resto. Per Katla scalare una parete rocciosa era una via di fuga, l'evasione dalla monotonia della fattoria e dai vani tentativi di sua madre di fare di lei una donna, un modo per nascondersi nei posti più inaccessibili dell'isola dove nessuno avrebbe potuto seguirla neppure se avesse capito dove si trovava. Poter osservare dall'alto i gabbiani che si libravano sull'acqua, dividere una cornice rocciosa inondata dal sole con le procellarie e le taccole, spiare la gente di Rocciacaduta da lassù, senza che loro si rendessero conto del suo sguardo, erano piaceri speciali per lei: una disciplina mentale raggiunta col controllo totale dei propri movimenti e allo stesso tempo l'espressione della parte più selvaggia del suo essere. Ogni volta che nella sua esistenza
accadeva qualcosa di frustrante o di preoccupante, lei affrontava una scalata. Spostarsi con cautela, tenersi stretti, non cadere: Katla aveva scoperto che i movimenti necessari a quell'attività sembravano semplificare tutti i problemi della vita. Quando si arrampicava era costretta a fare di quelle semplici regole le uniche sue vere preoccupazioni, e di conseguenza tutto il resto perdeva di significato; ma essere assaliti a ogni spostamento da quel tangibile flusso di magia della terra, con tutta la complessità e le conseguenze che ne derivavano per la sua esistenza, trasformava una semplice via di fuga in una sconcertante riflessione sulla natura del mondo. Il mare, pensò in quel momento, guardando l'enorme distesa di blu. Nel mare ci sono le risposte. Riesco a sentire la magia emanata dalle scogliere e dagli isolotti, ma nell'oceano più profondo mi lascerà di certo in pace... o no? Spiegherò le mie ragioni a papà, gli chiederò di portarmi con sé nella sua spedizione... I polmoni e le gambe di Aran cominciarono a dare segni di insofferenza ben prima che raggiungesse la cima, anche se il sentiero battuto era di gran lunga più semplice del percorso scelto da sua figlia. Era passato diverso tempo da quando il Signore di Rocciacaduta era salito fino alla sommità del Dente del Segugio. Anzi, fu con un certo disappunto che si rese conto che 'diverso tempo' significava in verità quasi vent'anni: prima che l'isola diventasse il suo dominio dopo la morte del padre nella guerra contro l'Istria. In quel periodo c'era sempre la necessità di mandare dei ragazzi lassù su a fare da vedetta: prima, al termine della guerra, per controllare l'eventuale arrivo di navi nemiche, anche se poteva risultare difficile individuarle perché, dal momento che le navi istriane non erano fatte per attraversare l'oceano, l'Impero del Sud usava le navi eyrane strappate al nemico contro il Nord; e poi, quando era stata instaurata una fragile tregua, le navi da cui guardarsi erano state quelle dei corsari giunti per razziare. In seguito, le vedette avevano cominciato ad aspettare con molto più entusiasmo le navi dei mercanti e quelle che portavano uomini e notizie dalla corte del re a Halbo. All'epoca di suo padre le vedette erano rispettate da tutta la comunità dell'isola, ma da quando il rischio di una guerra si era ridotto, il compito era stato demandato a giovani inesperti: secondi, terzi e quarti figli dei mezzadri di Rocciacaduta senza una terra di loro proprietà da lavorare e poche altre prospettive. In quel momento le due vedette erano il giovane Vigli e Jarn Forson, e solo Sur sapeva quanto i due fossero incoscienti: con la guerra che si profilava nuovamente all'orizzonte, si rendeva necessario
trovare dei sostituti affidabili... «Ciao, papà.» Katla lo salutò con la mano. La destra, quella che era rimasta menomata. Le bende con cui Bera aveva pensato di nascondere l'improvviso miglioramento agli occhi superstiziosi del mondo erano scomparse, notò Aran. Ovviamente nessuno aveva ancora avuto la possibilità di dire a Katla di non togliersele. Con una certa trepidazione (Aran non condivideva affatto la disinvoltura della figlia di fronte a quelle vertiginose altezze) si sedette sullo sperone roccioso, ma molto più lontano dal bordo rispetto a Katla, e prese tra le sue la mano in via di guarigione della figlia. Nelle sue mani robuste quell'arto sembrava minuscolo, quasi fragile. Aran lo girò a palmo in su e poi in giù, e lo osservò sbalordito. Aveva salvato sua figlia prima che venisse inghiottita dalle fiamme sul rogo che gli Istriani avevano costruito per lei alla Grande Fiera allo scopo di punirla per quello che ai loro occhi era il sacrilegio di aver scalato la Rupe sacra, e castigarla per la parte che secondo loro aveva avuto nel rapimento della figlia del nobile Tycho Issian, Selen; ma la mano destra della giovane era rimasta ustionata, le dita fuse in una massa informe. Aveva temuto che sua figlia non avrebbe mai più forgiato una spada, che non avrebbe mai più decorato un pugnale, non avrebbe mai più scalato una parete rocciosa; ma ora eccola lì di fronte a lui, con una serie completa di dita immacolate e un pollice separato, allegramente seduta in cima alla sua scogliera preferita. Aran non aveva mai creduto molto alla magia, ma quello che aveva vissuto negli ultimi tempi gli aveva dato di che riflettere. «Allora,» Katla gli sorrise e il sole fece brillare di malizia i suoi occhi grigi «ora che sono di nuovo intera, posso andare con Fent e Halli a Halbo per rapire il nuovo costruttore di navi del re?» Aran lasciò cadere la mano di sua figlia come se scottasse. Era impossibile che qualcun altro fosse salito di nascosto sul Dente del Segugio per ascoltare i loro discorsi, ma non poté fare a meno di guardarsi intorno con ansia. «Cosa? Come fai a saperlo?» Non avendo mai imparato a mentire - più che altro per pigrizia, perché era più facile dire la verità - Katla optò per una semplice spiegazione: «Ho sentito te e i ragazzi che complottavate nella stalla, dopo il banchetto. Per portare Morten Danson qui anche contro la sua volontà e con tutto il legname, gli attrezzi e gli uomini necessari a costruire una nave rompighiac-
cio per la tua spedizione al Nord, attraverso i ghiacci.» Gli occhi di Aran si socchiusero per un istante, come a voler celare i suoi pensieri. Quando li riaprì, era scuro in volto, in preda a una qualche oscura passione. «Non devi dirlo a nessuno: lo sai, vero? C'è in gioco il futuro della nostra famiglia.» «Allora mi lascerai andare con loro?» «Ci servono uomini forti, non ragazze» replicò in tono brusco. Le narici di Katla si dilatarono. «Io so combattere bene quanto i miei fratelli. Nel corpo a corpo sono più brava di Halli e riesco a brandire una spada meglio di Fent...» «Tu non andrai. Tua madre ha bisogno di te qui.» «Mia madre! Ma se non faccio altro che esserle d'impiccio e ricordarle costantemente quanto sarà difficile maritarmi...» Aran la strinse per le spalle con così tanta forza che lei per poco non gridò. «Quando partirò per questa spedizione, tu dovrai mandare avanti Rocciacaduta insieme a Bera: sarà meglio che cominci a imparare come funzionano le cose.» «Ma papà!» Con suo grande disappunto, gli occhi le si riempirono di lacrime improvvise e brucianti. Si era consolata ripetendosi che, se non avesse potuto recarsi a Halbo, almeno sarebbe partita con la spedizione di ricerca della leggendaria isola di Santuario e del tesoro che vi era nascosto. Sbatté furiosamente le palpebre. «Devi portarmi con te: chi altri è in grado di arrampicarsi sull'albero della nave quando le cime si aggrovigliano? Chi altri percepisce la presenza della terra quando non è ancora in vista?» «Ti ho già quasi perduto due volte, ragazza mia. Non potrei perdonarmi se ti perdessi di nuovo.» Katla si sottrasse alla sua stretta con tale violenza che Aran cadde all'indietro, battendo la testa su un masso di granito costellato di licheni dorati. La giovane balzò in piedi, coprendolo con la sua ombra per qualche istante, poi iniziò a ridiscendere lungo la scogliera, senza fermarsi. Con un gemito, Aran si raddrizzò, mentre un'espressione di dolore irrigidiva il suo viso attraente; ma era difficile dire se quella smorfia fosse causata dall'urto sul granito o da qualcosa di più profondo. In alto sopra di lui, un gabbiano dal dorso scuro scartò di lato su una corrente d'aria calda, e il sole ancora basso proiettò la sua ombra sulla cima della scogliera. «Lei ha detto che devo avere cura di te, Katla,» mormorò il Signore di Rocciacaduta guardando sua figlia gettarsi all'impazzata giù per la parete,
incurante delle ginestre e dei rovi che ostruivano il passaggio, «o sarebbe tornata a prenderti.» Sapeva che non le avrebbe mai parlato della conversazione avuta con la seither, e non solo perché Katla avrebbe fatto le bizze come un cavallo selvaggio e alla fine l'avrebbe avuta vinta con la sola forza di volontà, ma soprattutto perché si vergognava di credere che ci fossero altri fattori a influenzare le loro vite oltre a quelli che lui poteva controllare, e che una qualche oscura forza potesse essere già all'opera, manovrando il suo destino e quello della sua famiglia. Nonostante la discesa e la folle velocità con cui l'aveva affrontata, Katla impiegò più di venti minuti per raggiungere il porto. La prima persona che incontrò laggiù fu Min Facciadipesce, uno dei migliori elementi di Tam Volpe, la cui specialità nella compagnia dei teatranti era il lancio dei coltelli, eseguito con tale precisione che a Tam piaceva scherzare dicendo che quella donna robusta era in grado di rifinire la barba, tagliare le unghie e poi uccidere un uomo senza che se ne rendesse conto. Min non era certo minuta, ma persino lei ora barcollava sotto il peso di un'enorme cassa di vimini che le copriva completamente la visuale: un altro paio di passi e sarebbe caduta in acqua. Katla afferrò la cassa e indirizzò Min dalla parte giusta appena in tempo. «Per un pelo!» esclamò la lanciatrice di coltelli con un sorriso, rivelando l'enorme buco tra i denti che era stato motivo di feroce divertimento per Fent e Tam, prima che Min minacciasse di metterli fuori combattimento con un pugno ben assestato. Persino Fent si era reso conto che esisteva qualcuno potenzialmente più violento di lui e aveva bofonchiato l'equivalente di una scusa. «Grazie, alicetta.» Min aveva preso l'abitudine di paragonare chiunque a una diversa specie di pesce. «Povera triglia senza coda» aveva detto di un ragazzo che aveva perso l'equilibrio in cima alla piramide umana che stava provando prima di una festa. Oppure, riferendosi a una delle ragazze del villaggio, «Bella come una trota dorata» aveva dichiarato, e ancora: «Tuo fratello Halli sembra proprio una buona carpa», che probabilmente era da intendersi come un complimento. Katla si era chiesta se Min avesse scelto da sola il proprio cognome o se il fatto che le era stato imposto avesse potuto influenzare la sua visione del mondo. La donna posò senza tante cerimonie la cassa sul frangiflutti e si asciugò la fronte. Dietro di lei una lunga processione di teatranti provenienti dalla fattoria scendeva lungo la ripida collina con le braccia cariche di costumi,
oggetti di scena e provviste per il viaggio che li attendeva. «Ve ne andate di già?» chiese Katla, sbalordita per aver perso la cognizione del tempo. La lanciatrice di coltelli annuì. «Sì, prenderemo l'ultima marea, ha detto Tam. Non gli andava di alzarsi presto, pigrone di un halibut che non è altro. Ci ha messi tutti a correre su e giù mentre lui se ne sta lì a tentare di convincere tua madre a dargli il suo miglior panbiondo.» Non appena sentì nominare quella prelibatezza, lo stomaco di Katla brontolò. Il panbiondo di sua madre era conosciuto in tutte le isole, anche se lo preparava raramente ora che i fiori dai cui stami si ricavava la spezia che dava al dolce il suo caratteristico colore e il gusto squisito avevano assunto un costo proibitivo. I crochi crescevano solo alle pendici delle Montagne d'Oro nel continente meridionale e questa era una delle ragioni che nonna Rolfsen adduceva sempre come prova che gli Eyrani erano stati cacciati dalla loro terra natale: come avrebbe fatto il panbiondo a diventare un prodotto tipico delle isole del Nord quando la gente del Sud usava quei fiori solo per ricavarne una tintura? Katla si costrinse a sorridere a Min, poi corse su per la collina, diretta a casa. Prima la colazione, pensò, poi occorrerà pianificare le questioni serie. Passò accanto ai giocolieri, vestiti non dei variopinti abiti di scena ma con ordinarie tuniche marroni, e che non di meno trasportavano botti d'acqua e di vino sangue di stallone in precario equilibrio sulla testa; poi ad altre donne della compagnia che trascinavano a fatica dietro di sé una mucca appena abbattuta, che sembrava comunque restia a seguirle. Sarebbe stato molto più facile, pensò Katla guardandole lottare goffamente con il corpo irrigidito, squartarla su alla casa e portarla un pezzo alla volta, o meglio ancora abbatterla giù sulla spiaggia, vicino alla nave. I teatranti non erano di certo le persone più pratiche del mondo, nonostante tutta la loro abilità in altri campi. Verso la fine della processione, Katla vide suo fratello gemello Fent con una lunga scatola di quercia di squisita fattura in mano. La giovane lo scrutò sospettosa. «Cos'hai lì dentro, furbastro?» chiese, parandosi di fronte a lui per costringerlo a fermarsi. Conosceva bene quel bauletto: era stato lo zio Margan, il cognato di Aran, a regalarlo al padre di Katla affinché vi conservasse la sua spada, «dal momento che ora non siamo più in guerra e tu manterrai mia sorella diventando un grande proprietario terriero». A Bera piaceva raccontare della faccia che aveva fatto Aran, il quale aveva pensato che Margan volesse regalargli una spada nuova, e di quanto tempo gli ci
era voluto per riprendersi a sufficienza e ringraziarlo per l'astuccio. In principio Fent sembrò sorpreso di vedere la sua gemella già in piedi; poi diventò elusivo. Non si radeva da diversi giorni, notò Katla con sorpresa, visto che suo fratello era piuttosto vanitoso e non gli piaceva che la barba offuscasse il suo bel viso. Ora però una leggera peluria color arancio gli ricopriva il mento e il labbro superiore, come una strana muffa. «È per Tam» bofonchiò, e tentò di passare. Katla non si mosse. «C'è solo una spada a Rocciacaduta sufficientemente bella da incontrare il favore di Tam,» osservò in tono severo «ed è la mia spada con la corniola, per la quale ho altri progetti.» Fece un balzo in avanti e aprì il coperchio del baule. All'interno, su uno strato di lino bianco, c'era la Spada Rossa. Katla imprecò. «Chi ti ha detto che potevi prendere la lama migliore che io abbia mai forgiato per darla a un teatrante?» Fent arrossì, ma sollevò il mento con aria battagliera. Chiuse il coperchio così bruscamente che la ragazza fece appena in tempo a ritirare la mano. «Papà ha detto che Tam Volpe doveva averla come parziale pagamento del viaggio. In ogni caso ora è inservibile.» Si diceva che il sangue di un seither rendesse la lama che l'aveva fatto scorrere inaffidabile e infida, capace di rivoltarsi contro il suo possessore. «Anche se fosse, nessuno me ne ha parlato.» «Tu eri come morta.» «E tu dovrai ritenerti maledettamente fortunato se non lo sarai presto» ringhiò Katla infuriata, gli occhi grigi che scintillavano pericolosamente. Rimasero fermi, gli occhi negli occhi come due falchi, e nessuno dei due era disposto a indietreggiare, finché Halli, apparso all'improvviso con un paio di forme di formaggio avvolte nella mussola, non intervenne. «È bello vedere che stai abbastanza bene da litigare con Fent, ma lascia che prenda la spada, sorellina» disse con voce pacata. Poi rivolse a Fent un'occhiata gelida che sembrò allarmare suo fratello come mai era accaduto prima. Lo sa, pensò Katla, ricordando con improvvisa chiarezza la conversazione che aveva sentito dopo il banchetto. Sa che Fent è un assassino, che ha ucciso Finn Larson in uno scatto di rabbia alla Grande Fiera. E quanto sapeva di ciò che era accaduto con la seither, Festrin Occhiosolo? Quasi in risposta alla sua tacita domanda, Halli posò lo sguardo sulla mano destra miracolosamente guarita della sorella, e le sue sopracciglia si aggrottarono fino a formare un'unica linea nera, come quelle di suo padre quando era perplesso. Sfruttando quel momento di disattenzione, Fent passò sgomi-
tando in mezzo ai due fratelli e trottò giù per il sentiero con la cassetta in mano, la testa rossa che si muoveva a piccoli scatti, come pervasa da un'energia a stento trattenuta. «Lascialo andare» la esortò Halli posando una mano sulla spalla di Katla. «La spada è maledetta e anche lui. Perché credi che non si sia fatto la barba negli ultimi giorni?» Katla si strinse nelle spalle. «Per pigrizia?» Halli emise un'aspra risata. «Da quando la seither gli ha detto che tutte le sue imprese sarebbero culminate nel disastro, non ha neppure il coraggio di usare il coltello per radersi nel timore di tagliarsi la gola!» Katla fece una smorfia, provando quasi pena per il suo gemello. «E tu...» Non sapendo cosa dire, Halli fissò di nuovo il braccio della sorella. Improvvisamente a disagio, Katla tirò giù la manica per nascondere la mano. «Oh, questo» mormorò. «È migliorato.» «Un po' troppo rapido per essere una processo naturale.» Uno dei braccianti passò loro accanto con un rotolo di tela olona in spalla e, udita solo quella frase, gettò a Katla uno sguardo incuriosito. Halli afferrò la sorella per il braccio e la condusse via finché l'uomo non fu più in grado di sentirli. «È stata la seither a fare questo, a guarirti?» Katla si liberò dalla stretta e ricominciò a camminare su per il sentiero. Non voleva pensarci in quel momento. «Non lo so.» All'Incrocio di Feya, dove il sentiero si biforcava, prese la stradina che portava ai pascoli di montagna. «E non m'interessa» aggiunse con fermezza. «So solo che la mia mano è tornata come prima ed è l'unica cosa che m'importa.» Fletté la mano, godendosi nuovamente la stupenda sensazione delle dita separate e dei muscoli integri. «Potrà anche essere l'unica cosa che importa a te, ma ci sarà chi parlerà di stregoneria se non la terrai nascosta. Ti eviteranno tutti, e faranno altrettanto con il resto del clan.» Halli si accigliò. «E con papà deciso a portare a termine questo folle piano, probabilmente diventeremo dei reietti della società anche prima.» «Non se le storie che si raccontano su Santuario sono vere. Non se riporterà indietro l'oro.» Gli occhi di Katla brillarono al pensiero. «Sono tutte sciocchezze.» «Papà non la pensa così.» «Papà si è fatto abbindolare da un nomade e dalle sue stupide mappe.»
«Sarà meglio che non ti senta parlare così. In ogni caso, chi dice che la mappa non è vera? È disegnata con tale precisione!» «Be', in ogni caso sta succedendo qualcosa di strano» brontolò Halli con espressione torva. «Perché la sua non è l'unica mappa che ho visto.» Katla lo fissò perplessa. «Alludi a mappe che indicano la via per Santuario?» «Non alzare la voce. Sì. Ho intravisto per un istante una mappa che Hopli Garson stava mostrando a Fenil Soronson alla Grande Fiera.» Katla rifletté per un momento. «Allora anche loro staranno progettando una spedizione...» Halli annuì. «Senza dubbio. Fenil va pazzo per i racconti di tesori e isole perdute quanto nostro padre.» «Dobbiamo arrivare noi per primi!» esclamò Katla, il viso acceso. «Perché non possiamo prendere il Dono di Fulmar e partire immediatamente? Passeranno mesi se dovremo aspettare che venga costruita una nuova nave, anche se Morten Danson accettasse di farlo, cosa di cui dubito molto, anche se doveste riuscire a rapirlo... anzi, soprattutto se doveste riuscire a rapirlo!» «Neppure Fenil sarebbe tanto sciocco. Il mare è congelato a sud dell'Isola delle Balene dal Giorno degli Spiriti fino a dopo Primo Sole. E dicono che oltre quel punto il ghiaccio si estenda fino alla fine del mondo. Gli servirà un rompighiaccio, proprio come occorre a noi.» «Ma sarà già andato da Morten Danson...» «Tam sostiene che il cantiere navale è pieno: vi sono stati immagazzinati ben sei mesi di produzione di minerale di ferro proveniente dalle Isole Orientali.» «È molto più di quanto serva per un solo rompighiaccio. Se dovesse saldare tutto quel ferro alla sua nave, l'unica rotta che prenderebbe sarebbe quella che porta dritta al Grande Sepolcro!» «Credo che il costruttore reale abbia ordini in abbondanza da soddisfare. Sospetto che possa aver rifiutato la commissione di papà a causa delle voci sulle circostanze in cui è morto il suo predecessore.» Pronunciò quelle parole con voce piatta, come se quello che Fent aveva infilzato alla Grande Fiera fosse stato una capra e non un uomo, per di più il padre della sua amata. Katla lo guardò sorpresa. Il suo viso sembrava più duro, più maturo... e più che mai simile a quello di Aran. Halli era ormai un adulto da rispettare, non più un ragazzo. A causa delle azioni di suo padre e di suo fratello aveva perduto ogni sogno per il futuro: una nave
tutta sua, i mezzi finanziari per sposare la ragazza che amava e il denaro per una fattoria in cui avrebbe allevato il bestiame e cresciuto la sua famiglia. «A Jenna passerà presto» mormorò. «Ti è molto affezionata.» Halli sollevò di scatto la testa, come se lei l'avesse colpito. «Tu sai?» chiese incredulo. «Me ne ha parlato Fent. Durante il viaggio di ritorno.» «E invece di essere tu a dirmelo, hai pensato che fosse meglio che lo scoprissi da solo» commentò con amarezza. «Perché mai dovrebbe avere voglia di allearsi con il clan che ha ucciso suo padre?» «Lei non lo sa per certo. Nessuno lo sa.» «E il fatto che nessuno lo sappia la rende un'azione giusta? Io dico che Fent dovrebbe comportarsi da uomo, dichiarare l'assassinio, offrire il prezzo del sangue al clan degli Acquachiara e accettare gli anni di esilio per il crimine che ha commesso.» «Credi che papà glielo permetterebbe?» Ma Katla conosceva già la risposta: Aran era così ossessionato dal suo sogno dell'oro che non avrebbe lasciato che minuzie come la legge o i principi morali lo ostacolassero. Pagare il prezzo del sangue per il costruttore di navi del re avrebbe privato il clan dei Rocciacaduta dei mezzi per costruire un'altra nave, e sarebbe stato difficile guadagnare di nuovo a sufficienza, sempre che qualcuno fosse ancora disposto a commerciare con loro. Halli scosse la testa senza parlare, la mascella serrata. Katla si strinse nelle spalle. «È più facile spostare le montagne che far muovere papà anche solo di un passo quando si è messo in testa qualcosa.» «Lo odio.» Un cupo rossore gli soffuse il volto. «Papà?» Katla era sbalordita. «Fent.» «Ha un pessimo carattere...» tentò di dire lei a discolpa del loro fratello. «È un mostro.» Halli parlò con una veemenza che Katla non aveva mai sentito prima nella voce del suo calmo e posato fratello. «È peggio di un cane rabbioso. Nella migliore delle ipotesi dovrebbe essere legato a un palo con una museruola sulla faccia in modo che il suo morso velenoso non provochi più danni.» Una strana espressione, in parte avida e in parte calcolatrice, passò sul viso di Katla Aransen, come una nuvola in un cielo limpido. «Ho un'idea» disse.
Al culmine della seconda marea la nave dei teatranti era stata caricata e gli abitanti di Rocciacaduta avevano lasciato le loro attività per radunarsi al porto e augurare alla compagnia di Tam Volpe un buon viaggio di ritorno a Halbo. Solo tre persone, tra quelle ammassate sul molo, sapevano che c'era qualcosa di più in quella partenza di un semplice ritorno al continente, e una di loro era più informata delle altre due. Stretti l'uno di fronte all'altro a un'estremità del frangiflutti e leggermente distanziati dalla folla dei curiosi, Aran Aranson, Halli Aranson e Tam Volpe parlavano a voce bassa. «Per la chiglia voglio solo il suo legno di quercia della qualità più pregiata» stava dicendo Aran a suo figlio. «Non lasciare che ti rifili qualcosa che non sia il migliore legname che ha in magazzino... non voglio una nave raffazzonata per questo viaggio. Ho sentito che ha delle querce provenienti dalla Piantagione della Collina: gli alberi di quel bosco sacro possono raggiungere i trenta metri d'altezza. Per la nave che ho in mente non può andar bene nient'altro: quella chiglia dovrà essere flessibile come la spina dorsale di un gatto per affrontare i vasti mari dell'estremo nord.» Halli annuì impaziente. Aveva l'aria di chi si era sentito ripetere la stessa cosa una decina di volte. «E del durame per il fasciame, sì, lo so.» «Torna con i corsi di fasciame in alburno o ti rimanderò a Halbo con una barca a remi...» «Durame, non alburno.» Halli alzò gli occhi al cielo, ma suo padre aveva già rivolto la sua attenzione a Tam Volpe. Il capo della compagnia dei teatranti era alto quanto Aran, ma sembrava torreggiare su di lui per la massa di capelli biondo rossiccio che teneva pettinati in una bizzarra combinazione di ciuffi, trecce e creste dall'aspetto animalesco, e che anni di esposizione all'aria di mare avevano in parte striato di un giallo brillante. Spesse trecce sbucavano anche dalla sua lunga barba rossa come sinuosi serpenti: un osservatore più attento avrebbe notato che alcune delle decorazioni erano davvero esemplari di quei viscidi animali, essiccati oppure ridotti a scheletri, le teste pronte a colpire. «Stai attento con il costruttore di navi» stava dicendo Aran. «Se devi tramortirlo, assicurati che prima ti abbia dato tutte le informazioni che ci servono: uomini, legname, attrezzi. Non voglio che niente sia lasciato al caso. E non colpirlo troppo forte, perché non mi sarà affatto d'aiuto se perderà la lucidità...» «Aran,» Tam Volpe afferrò il suo vecchio amico per una spalla «credi che abbia la memoria di un pollo e che tu mi debba ripetere sempre le stes-
se cose? Ti porteremo Morten Danson, ammaccato se necessario, ma in pieno possesso delle sue facoltà mentali; poi ti porteremo il legname, gli attrezzi e gli uomini per usarli, e saremo di ritorno entro la Luna del Raccolto.» Tacque per un istante, gli occhi che passavano in rassegna la folla oltre le ampie spalle del Signore di Rocciacaduta. «Speravo di poter salutare tua figlia» aggiunse con noncuranza. «Non la vedo da questa mattina, quando abbiamo avuto un alterco» replicò freddamente Aran. «Io l'ho vista» intervenne Halli. «Mi è passata accanto come una furia, è entrata in casa, ha preso del pane e del vino, poi è corsa alle stalle, è saltata su uno dei pony e si è diretta al galoppo verso le colline.» Aran fece una smorfia. «Tornerà quando si sarà calmata.» «È una piccola vipera impudente, la tua Katla,» commentò Tam Volpe con un sogghigno «ma il suo temperamento focoso mi piace alquanto. Perché non renderla parte dell'accordo, Aran Aranson, risparmiandoti la pena di doverla civilizzare per darla a un altro? Altrimenti sono pronto a scommettere che non riuscirai a maritarla entro la prossima Festa d'Inverno!» «L'ultima volta che ho incluso Katla in un accordo del genere è finita piuttosto male» ringhiò Aran. «Non tenterò ancora i fati.» «Voglio averla, Aran.» L'uomo più anziano sostenne lo sguardo del teatrante. «Se io non sapessi che sei migliore di quanto sembri, porrei fine a questa discussione una volta per tutte. Inoltre persuadere Katla a sposarsi sarebbe probabilmente l'aspetto più difficile di tutto l'affare.» Tam Volpe rivolse al Signore di Rocciacaduta il sorriso lupesco per cui era famoso. «Nonostante le apparenze, sono un uomo paziente. Il tempo ha per me un peso diverso che per te, amico mio.» In quel momento la scialuppa della nave urtò il frangiflutti sotto di loro e Halli gettò la sua sacca di pelle agli uomini ai remi, poi si calò agilmente a prua. «A presto, padre» disse con freddezza. Poi si voltò verso il Lupo delle Terre Innevate, la cui prua sottile ed elegante come il collo di un cigno ondeggiava seguendo la marea, e scrutò i ponti alla ricerca di una figura alta e snella. Katla Aransen stava osservando con curiosità il gruppetto di uomini sul molo. Ma quando smisero di parlare e si voltarono a guardare verso la nave, chinò prontamente il capo e si affaccendò con le cime. Nessuno dell'equipaggio di Tam Volpe aveva notato niente di strano quando il 'figlio'
minore di Aran Aranson era salito a bordo, ma probabilmente ciò era dovuto più agli otri di sangue di stallone che Katla aveva portato con sé che all'efficacia del suo travestimento. In ogni caso, pensò toccandosi l'inconsueta peluria sul mento, il miele aveva fatto un ottimo lavoro nel tenere incollati i pezzettini di pelliccia di volpe che aveva tagliuzzato dai bordi di uno dei mantelli più belli di sua madre, anche se il loro cane, Ferg, aveva tentato di leccarglielo via. Un vento di burrasca quasi certamente avrebbe spazzato via tutto il posticcio, ma per ora il tempo dava l'impressione di volersi mantenere al bello almeno fino a quando non avessero oltrepassato il punto di non ritorno. Katla allungò una mano verso l'alto per raggiungere un'altra cima del pennone e fu assalita da un terribile afrore. Per Sur! Arricciò disgustata il naso. Indossare gli abiti di Fent per tutta la durata del viaggio avrebbe costituito già di per sé una punizione. L'immagine del suo gemello, imbavagliato e legato strettamente al pilastro centrale del fienile, gli occhi sprizzanti odio mentre lei e Halli gli dicevano addio dall'arco della porta, le balenò per qualche piacevole istante nella mente. Poi Katla voltò il viso verso l'oceano e proruppe in un sorriso di somma gioia. 2 Tanto «Porta via questa roba disgustosa! Stai forse cercando di avvelenarmi, non contento di avermi ridotto a uno storpio grasso e puzzolente?» Saro vide il piatto d'argento volare roteando nell'aria e colpire la parete dall'altra parte della camera da letto, vuotando il suo contenuto sul pavimento di terracotta chiara come fosse una pozza di vomito. Era strano, pensò, che suo fratello avesse la forza di lanciare un piatto in quel modo lasciando persino un segno nell'intonaco, eppure fosse troppo debole per mangiare da solo. Erano passati tre mesi da quando Tanto Vingo aveva ripreso conoscenza in seguito al trauma delle ferite riportate alla Grande Fiera e le cure ancor più traumatiche cui l'avevano sottoposto i vari dottori. I loro genitori, Favio e Illustria, avevano pianto di sollievo e di gioia nel vedere il loro figlio prediletto tornare in vita, anche se in questa nuova forma; ma sentendo quella voce familiare lacerare il silenzio la sera del banchetto in onore dei
mercanti, che con le loro stupide chiacchiere piene di rancore e le loro pietre dell'umore tanta parte avevano avuto nella resurrezione del paziente, il cuore di Saro si era contratto per la disperazione. Preferiva di gran lunga quando il fratello giaceva nel suo letto come morto, a marcire in silenzio. «Puliscilo subito, brutto rospo! Leccalo dal muro, quel vomito ributtante... È tutto quello che sei capace di fare, in ogni caso.» Delle lacrime comparvero negli occhi malevoli di Tanto e scivolarono sulle sue guance pallide e flaccide. Il giovane strinse le mani molli a pugno e cominciò a tempestare di colpi il copriletto. Poi prese a strepitare come era solito fare quando non c'era nessun altro oltre a Saro a sentirlo. «Perché io? Perché la Dea ha voluto colpirmi con una tale malasorte? Perché non tu? Tu sei solo un piccolo verme, codardo e pieno di merda... Di che utilità sei per il mondo? Nessuno ti ama, nessuno si aspettava niente da te: vederti ridotto in questo stato non sarebbe stata una grande perdita. Ma io...» Il lamento crebbe fino a raggiungere dimensioni spropositate: alla fine, con la faccia oramai diventata di un orrendo colore violaceo, Tanto fu costretto a calmarsi perché non riusciva più a respirare. Saro si premurò di ignorare quell'accesso d'ira come aveva imparato a fare (niente rendeva più furioso il fratello) e si adoperò per rimuovere dalla parete i resti del pollo arrosto con peperoni, cipolle e zucchine. Il cibo era stato triturato, come quello dei bambini, perché Tanto si rifiutava persino di sforzarsi di masticare; ma era stato preparato personalmente da Illustria, condito con le erbe e le spezie più costose e cotto a fuoco lento per far risaltare gli aromi. Vedere un tale amore e una tale cura accolti con quell'infantile disprezzo era doloroso per Saro. Anche se doveva ammettere che il perenne malumore di Tanto non era affatto sorprendente: affermare che fosse diverso dal giovane partito da Altea per la Grande Fiera solo pochi mesi prima era un cortese eufemismo. Allora era bello, atletico e adorato da tutti: il figlio prediletto, per il quale si nutrivano grandi aspettative. Si parlava di un ottimo matrimonio, un'alleanza che gli avrebbe portato prestigio, terre, potere e, almeno così speravano tutti, non poche ricchezze. Attraverso Tanto, il clan dei Vingo si sarebbe riappropriato dello status economico e politico di cui godeva diverse generazioni prima, quando le fortune di famiglia non erano ancora state dilapidate da figli ingrati e la guerra con il Nord non aveva portato via tutto il resto. Tanto era stato innalzato come il dorato vessillo della famiglia, e ogni favore e lusso gli erano stati concessi senza alcuna remora: i migliori inse-
gnanti (o meglio, dal momento che i migliori finivano regolarmente per essere licenziati perché osavano contraddirlo, quei maestri più astuti e di carattere debole che avevano imparato a non lamentarsi della sua pigrizia e della sua totale mancanza di diligenza nello studio, e a non insinuare che la calligrafia con cui venivano svolti i compiti non fosse la sua); i migliori maestri d'armi e di scherma, i migliori sarti e le migliori stoffe (anche se Tanto non aveva mai imparato cosa fosse il buongusto: la sua preferenza andava allo sfoggio di tutto ciò che era visibilmente dispendioso); e in séguito, le cortigiane e le schiave personali più costose. Eppure nessuno di questi privilegi era riuscito a rendere migliore quella che già si delineava come una personalità pericolosa, e incoraggiando i sogni di potere e di gloria del figlio, Favio non aveva fatto altro che alimentare una natura arrogante e prepotente. Tanto non camminava come tutti: incedeva impettito. Non rideva: ragliava, e di solito delle proprie battute, perché raramente ascoltava quelle degli altri. Non si limitava a vincere: trionfava, in tutto ciò che faceva. In caso contrario si arrivava ai capricci e agli spargimenti di sangue, di solito ai danni di un povero schiavo. In breve, il giovane era stato sulla buona strada per diventare il mostro che la Dea, in quel suo modo inimitabile, aveva ora portato alla luce: era come se la sua bruttezza interiore fosse improvvisamente emersa per mostrare al mondo il vero volto di Tanto, cosicché quello che appariva come un giovane abbronzato, muscoloso e affascinante era stato rimpiazzato dalla grassa, puzzolente e irascibile lumaca che albergava in lui. Ed era stato Tanto con le sue stesse mani (e altre parti del corpo che ora erano tristemente mancanti) a provocare la disgrazia che l'aveva colpito, nonostante cercasse ora con veemenza di darne la colpa a Saro. Quindi dopotutto sembrava esserci una sorta di giustizia a questo mondo, pensava Saro mentre raschiava via i residui della cena dalle piastrelle del pavimento dove si erano raggrumati. «Vuoi forse un dolce, fratello?» chiese in tono gentile, voltandosi a guardare la devastata creatura nel letto. «C'è del dolce alle albicocche, o della gelatina di fichi...» «Vai a farti fottere, fratello» rispose Tanto con malvagia ferocia, gli occhi neri che brillavano come due tizzoni ardenti nel grasso molle della sua nuova faccia. Sin da quando i cancrenosi rimasugli della sua mascolinità erano stati tagliati via dal bisturi del chirurgo e cicatrizzati col fuoco di Falla, Tanto era cresciuto di dimensioni, aveva perso tutto il tono muscolare e la mag-
gior parte dei peli e dei capelli. Il grasso era probabilmente dovuto al fatto che Favio e Illustria, mentre il giovane giaceva deliziosamente incosciente, avevano dimostrato il loro amore di genitori versando cibi liquidi nella gola del figlio giorno e notte, con un lungo cucchiaio o con un ingegnoso sistema di tubi fatti di intestini di pecora, mentre uno schiavo sedeva accanto a lui e gli accarezzava il collo per farlo deglutire. Essendo Tanto bloccato a letto, tutto quel cibo sì era trasformato in grandi pieghe e sacche di grasso; in quanto ai capelli e all'odore di marcio che sembrava sbucare da ogni suo orifizio... be', quella sembrava la giusta punizione della Dea. Per quanto Tanto inveisse contro i barbari predoni eyrani che giurava di aver visto fare irruzione nella tenda di Selen Issian per stuprarla e ucciderla, e che l'avevano ferito mentre tentava coraggiosamente di difenderla, Saro conosceva suo fratello fin troppo bene. Aveva talmente elaborato il suo racconto, arricchendolo di particolari sempre più improbabili, che Saro sospettava che la spiegazione degli eventi e delle loro conseguenze fosse ben più semplice e più in linea con quello che sapeva del fratello maggiore. Tanto non era abituato ai rifiuti, perciò quando il suo accordo matrimoniale con Selen era saltato per mancanza di fondi, c'era senz'altro un'unica ragione per cui sarebbe andato alla tenda della ragazza: per prendere, con la forza, se necessario, ciò che riteneva suo di diritto. E una ferita di coltello ai genitali suggeriva la disperata difesa di una donna piuttosto che un corpo a corpo con una banda di uomini del Nord, specialmente dal momento che gli unici altri segni che Tanto aveva addosso erano fin troppo simili ai minuscoli graffi a forma di mezzaluna che solo le unghie di una donna potevano fare. Si diceva che la Dea aveva cura delle proprie figlie... Nessun altro aveva notato quelle piccole lacerazioni: tutti erano stati senza dubbio distratti dalla mostruosità delle altre ferite, ma Saro era stato costretto a trascorrere la maggior parte del tempo a prendersi cura di suo fratello dopo l'incidente. Era stato il modo in cui Favio Vingo l'aveva punito per aver donato metà delle sue vincite alla corsa dei cavalli della Grande Fiera alla ragazza nomade il cui nonno era stato ucciso da Tanto, invece che riservarle per l'accordo matrimoniale, come un figlio più rispettoso (e più duro di cuore) avrebbe dovuto fare. Saro raccolse il piatto e il cucchiaio, e toccandoli per un istante avvertì uno sconcertante formicolio di energia sulla punta delle dita, come se lo spettro dell'ira di Tanto avesse infestato quegli oggetti e ora cercasse un modo di liberarsi attraverso di lui. Uscendo dalla stanza sentì gli occhi del fratello fissi sulla sua schiena. Una volta fuori, nel corridoio, scosse la te-
sta: restare soli con quell'uomo era un'esperienza spiacevole, in grado di provocare strane cose nella sua mente. Fu un sollievo il solo respirare aria pulita mentre attraversava il cortile per lavare il piatto, il cucchiaio e il panno sotto il rubinetto della botte piena d'acqua. Tanto avrebbe indubbiamente mentito alla loro madre dicendo che il fratello non gli aveva dato da mangiare, che aveva portato via il cibo senza svegliarlo o, più probabilmente, che l'aveva mangiato lui stesso. E Saro sarebbe probabilmente stato insultato e punito allo stesso modo: con la privazione del cibo. Ma mentre sentiva il sole scaldargli il viso e veniva assalito dal profumo caldo e speziato dei caprifogli e delle calendule che crescevano lungo la parete imbiancata della casa, provava un'assoluta indifferenza. Era abituato ai soprusi di suo fratello e al fatto che i suoi genitori credessero sempre alla parola di Tanto e non alla sua. Ecco i vincoli d'affetto che legano una famiglia, pensò. C'erano momenti in cui sentiva di aver stretto un legame più profondo con i nomadi incontrati alla Grande Fiera piuttosto che con le persone con le quali aveva trascorso tutta la vita. Attraversò il cortile e si appoggiò contro la parete, ammirando il paesaggio. La villa di famiglia era ubicata su una collina ai piedi della quale si estendevano vaste terrazze di campi coltivati in cui spiccavano i raccolti di lime e limoni, melagrane e fichi, mentre più giù, piantati in schiere serrate lungo la valle, sorgevano gli aranceti, cosicché la terra appariva come una stoffa arditamente colorata in fasce alternate di rosso opaco e verde lucente, solcata da un'unica striscia di blu scintillante dove il fiume l'attraversava. Oltre i terreni coltivati, a un centinaio di chilometri di distanza, il suolo si innalzava bianco e roccioso a formare le colline delle alture di Farem, al di là delle quali si ergeva la catena montuosa seghettata nota come Spina Dorsale del Drago, che si stagliava netta contro l'orizzonte blu. Il mio unico desiderio, pensò Saro strizzando il panno contro il muro, è andarmene via di qui. Riuscire ad avere una vita tutta mia. Ma solo i nomadi potevano vivere nei luoghi selvaggi oltre i confini dell'Impero. Viaggiando con le loro placide bestie da soma, i pelosi yeka, i nomadi attraversavano Elda senza mettere mai radici, senza mai fondare insediamenti, senza mai reclamare il possesso di un territorio, né provocare alcun danno al mondo. E poiché camminavano con passo così leggero sulla terra, essa sembrava garantire loro il sostentamento e il passaggio anche attraverso le sue zone più inospitali. Gli unici nomadi che Saro aveva incontrato erano stati quelli della Grande Fiera, l'evento al quale sia la gente del Nord che quella dell'Impero confluiva per concludere affari, vendere e
comprare merci e servizi, combinare alleanze e matrimoni e conquistare favori politici. Se queste fossero state le uniche attrattive della fiera, Saro l'avrebbe trovata assai noiosa; ma anche quell'anno i nomadi, noti alla gente del Sud come gli 'Erranti', anche se loro preferivano definirsi 'Viaggiatori', erano giunti numerosi e la loro presenza era stata fonte di continue meraviglie. Il giovane ricordò il giorno in cui li aveva visti arrivare, con i loro carri dai colori sgargianti e i loro strani costumi, portando con sé una stupefacente gamma di merci da vendere e barattare: lanterne e candele, gioielli fatti con artigli di drago e denti di orso, ornamenti, vasellame e tessuti, pozioni, amuleti e incantesimi. Le sue dita si posarono senza volerlo sulla piccola sacca di pelle che portava al collo. All'interno c'era l'oggetto più pericoloso del mondo, anche se quando l'aveva scorto per la prima volta sul banchetto di un nomade l'aveva considerato solo un ninnolo piuttosto carino: una pietra dell'umore che cambiava colore a seconda dello stato emotivo della persona che la teneva in mano. Poi, però, l'aveva vista assorbire la morte di un vecchio e passare a lui stesso il dono della persona che la indossava, una profonda e assolutamente indesiderata empatia con chiunque Saro toccasse; l'aveva vista diventare rossa per l'ira e di un virulento verde per la gelosia; l'aveva vista illuminarsi di un bianco che accecava; l'aveva vista rubare le anime degli uomini e lasciarli a terra freddi e svuotati. Fino a tre mesi prima, Saro pensava di aver assistito a tutto quello che la pietra dell'umore era in grado di compiere. Ma poi, attingendo a un potere che lui non riusciva a comprendere, aveva richiamato in vita suo fratello... E per quello Saro provava l'irresistibile desiderio di ridurla in polvere e gettare la sua magia al vento. Magia, pensò irritato. Di certo solo la magia avrebbe potuto portarlo via da quel posto. Se solo fosse riuscito a prendere il coraggio a due mani e ad andarsene di lì nel cuore della notte, forse si sarebbe imbattuto in una carovana di nomadi che l'avrebbero accolto. E forse allora avrebbe potuto ritrovare Guaya, la piccola nomade il cui nonno era stato così insensatamente ucciso da Tanto e che, fino a quell'orribile momento, era stata sua amica. Oppure avrebbe potuto dirigersi verso nord e cercare di scoprire cos'era accaduto a Katla Aransen. Il rosso della terra intorno alla casa non faceva che ricordargli lei, giorno dopo giorno, perché era dell'esatta tonalità di pietra arenaria dei suoi capelli... proprio come il pallido blu del cielo all'orizzonte era lo stesso degli occhi di lei. Tutto intorno a lui gli ricordava Katla: la curva sinuosa di un frutto, una lama ben tornita o una risata cristallina... e persino il menzionare l'Eyra o l'imminente guerra con il Nord.
Lei era dappertutto, e da nessuna parte. Saro ignorava persino se fosse ancora viva. Era sfuggita al rogo facendo uso di arti magiche, o così gli aveva detto Fabel; ma Saro aveva visto nella sua anima quando lei l'aveva toccato al banchetto delle armi, e sapeva che non c'era stregoneria in lei: solo un'energia pura, naturale. Ma, notte dopo notte, Katla continuava a popolare i suoi sogni, con la propria presenza calda e vibrante di quando era in vita, e il suo cuore ancora ardeva per lei. Quell'energia non poteva essere svanita dal mondo: di certo lui avrebbe percepito se fosse morta... «Saro!» Strappato ai suoi sogni a occhi aperti, il giovane si voltò e vide Favio Vingo venire a passo di carica verso di lui attraverso il cortile, scuro in volto. Per la Signora, pensò tristemente Saro, ora cosa succede? La risposta alla sua domanda arrivò senza incertezze per mezzo di un potente ceffone assestatogli dall'uomo che aveva sempre creduto suo padre, fino al momento in cui, pochi mesi prima, era stato sfiorato da quell'inquietante visione dello zio che giaceva con sua madre... Una rabbia incontenibile crebbe in lui, ma non avrebbe saputo dire se fosse una legittima reazione per lo schiaffo che aveva percosso il suo orecchio ora dolorante o un retaggio meno tangibile della collera di Favio. «Come osi trattare tuo fratello in questo modo?» Ah, pensò Saro avvilito. Allora si tratta di questo. «Colpire un invalido costretto a letto è l'atto peggiore e più codardo... e poi colpirlo tanto forte da lasciargli un così brutto segno...» Saro non riusciva a credere alle proprie orecchie. Anche se le calunnie inventate finora contro di lui erano state molte e di vario genere, Tanto non l'aveva mai accusato di violenza fisica. Questa nuova bugia rappresentava quindi un peggioramento del malanimo contro di lui. Anche se sapeva che era del tutto inutile, Saro pensò di dover fare almeno un tentativo per difendersi. «Non ho colpito Tanto» disse con voce ferma. «Se ha un segno addosso deve esserselo procurato da solo.» Quella dichiarazione non produsse altro effetto che far infuriare Favio ancora di più. «Vieni con me!» ringhiò. Afferrando brutalmente il giovane per un braccio, cominciò a trascinarlo di peso verso la casa. Saro fu sopraffatto da un'ondata d'ira che sconfinava nell'odio, seguita da un accorato dolore: perché c'era il figlio sbagliato a giacere in quel letto, ridotto a una grossa larva umana, mentre questo ragazzo inutile e bugiardo se ne andava in giro sprizzando salute. Saro si lasciò trascinare, e la mente e il corpo non gli appartennero più finché durò quel contatto fisico. Sulla
soglia della camera di Tanto, però, Favio lo spinse con così tanta forza che il giovane finì a terra e il turbine di emozioni lentamente si placò. Quando si riprese e alzò lo sguardo, Saro vide sua madre, avvolta nella sua solita sabatka blu, che piangeva silenziosamente su una sedia accanto al letto e suo fratello, adagiato su una moltitudine di cuscini bianchi (senza dubbio imbottiti con le piume delle più costose oche jetrane, si ritrovò a pensare Saro nel momento meno adatto, e costati almeno un cantari a pezzo, mentre io dormo su un giaciglio imbottito di paglia e con un sacco riempito con le piume delle galline del nostro pollaio) che lo fissava con sguardo offeso. Da uno strappo nella camicia da notte di Tanto si intravedeva un grosso livido sulla clavicola, o almeno nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la clavicola, se non fosse stata nascosta sotto tutta quella morbida carne bianca. La lesione era di un rosso bluastro che stava già cominciando a scurirsi. Doveva essere stata necessaria una notevole forza e una fredda determinazione per procurarsi da solo un livido del genere, pensò Saro, sconvolto dalla profondità dell'odio che il fratello provava per lui. «Non mangiavo abbastanza in fretta» gemette Tanto con una vocina triste, gli occhi neri rilucenti di false lacrime, stringendo per tutto il tempo la mano sottile di Illustria nella sua, grassa e disgustosa. «Lui ha continuato a colpirmi con il cucchiaio e alla fine, quando gli ho gridato di smettere, ha tirato fuori il pugnale e mi ha colpito così forte con il pomo che pensavo mi avesse accoltellato!» Come prova delle sue affermazioni infilò la mano sotto le coperte e tirò fuori con un gesto trionfante proprio il pugnale di Saro. Il giovane lo fissò, sbalordito. Si portò automaticamente la mano alla vita, ma sapeva già ancor prima di sentirlo che non indossava la cintura a cui abitualmente teneva legato il suo pugnale. Ricordò dove l'aveva lasciata, appesa allo schienale della sedia di bambù in camera sua, al piano di sopra. E quando era uscito dalla stanza, quella mattina, il pugnale era lì, al suo posto, nel suo fodero di pelle decorata. Come aveva fatto suo fratello a venirne in possesso? Tanto notò lo stupore sul volto del fratello e sorrise malignamente. «Ma ovviamente ti perdono, fratello mio» mormorò, gli occhi stretti e penetranti. «So che è difficile prendersi cura di me e che non è nella tua natura accudire gli altri, ed è per questo che ho suggerito a nostro padre che, dal momento che molto presto il Consiglio chiamerà alle armi tutti gli uomini abili perché entrino a far parte degli eserciti dell'Impero, dovremmo farti
addestrare come soldato.» Saro lo fissò incredulo. Tanto sapeva bene che lui non aveva le doti di un guerriero. Come spadaccino era più che maldestro, con la lancia anche peggio: non aveva né la passione né le capacità per combattere. E anche con l'arco era un caso disperato, perché non avrebbe mai potuto sopportare di trafiggere un essere vivente. Era lesto di gambe e aveva una certa intesa con i cavalli, che gli consentiva di cavalcare meglio di tanti altri, ma l'unica utilità che potevano avere tali attitudini era riuscire a fuggire dal campo di battaglia più in fretta degli altri, che era ciò che sarebbe stato propenso a fare in ogni caso, perché non possedeva l'aggressività né il cieco patriottismo necessari a spaccare la testa a un proprio simile per nessun'altra buona ragione che non fosse l'esigenza di salvarsi la pelle. Aprì la bocca per protestare, inorridito, ma poi la richiuse quando gli sovvenne un altro pensiero. Se fosse riuscito a diventare un soldato abbastanza capace da non disonorare il nome dei Vingo, allora forse gli sarebbe stato permesso di lasciare Altea e fuggire come desiderava fare ormai da tanto tempo. Si voltò verso l'uomo che chiamava padre, il quale era in piedi sulla soglia, le mani piantate sui fianchi, scuro in volto. «È davvero magnanimo da parte di mio fratello» disse a denti stretti «un suggerimento del genere. Se vorrete consentirmi di redimermi in questo modo, signore, allora farò del mio meglio per assumermi tale compito e acquisire le qualità necessarie a diventare un buon soldato.» Favio Vingo sembrò preso alla sprovvista. Era rimasto sorpreso quando Tanto aveva caldeggiato quell'idea, ma l'aveva imputato al fatto che non potendo più indossare lui stesso l'armatura dei Vingo e andare in battaglia alla testa delle truppe alteane come l'eroe che sarebbe sicuramente stato, allora aveva generosamente pensato che dovesse essere suo fratello a tenere alto l'onore della famiglia. Ma la risposta di Saro l'aveva sorpreso ancor più. Si era aspettato una pioggia di proteste da parte del ragazzo che, per quanto ne sapeva, non amava affatto quel genere di cose. O, in alternativa, un netto e arrogante rifiuto. Questa benigna accettazione era segno di responsabilità filiale, di umiltà e, finalmente, di un po' di orgoglio virile. Ma anche se l'atteggiamento del ragazzo aveva mitigato in parte la sua ira, c'era ancora da risolvere la questione dell'aggressione a Tanto. «Dal momento che non è nella tua natura prenderti cura di tuo fratello, vorrà dire che dovrai imparare a farlo, e lo farai nel peggiore dei modi. Non so perché Tanto dovrebbe provare ancora dell'affetto per te quando tu gli hai dimostrato tanta cattiveria e brutalità, ma lui mi ha fatto una richie-
sta particolare, affermando che il legame fraterno tra voi due deve essere rafforzato. Perciò, per le settimane a venire, prima, durante e dopo il tuo addestramento con il capitano Bastido, ti assumerai la responsabilità di lavare tuo fratello, portare via i suoi escrementi e applicare gli unguenti prescritti dal chirurgo. Comincerai da domani mattina all'alba. Questa sera, invece, ti ritirerai nella tua stanza senza cibo né luce, e rifletterai sulle qualità che dovrebbe avere una normale relazione fraterna. Ora vai nella tua stanza.» Saro era esterrefatto. Doversi addestrare alle armi ed essere affidato per questo alle poco amorevoli cure del capitano Galo Bastido detto 'il Bastardo' era già abbastanza terribile, perché quell'uomo era un violento, e un sadico per di più; ma dover toccare suo fratello a mani nude ora che i pensieri di Tanto non erano più immersi nel turbinio dell'incoscienza era di certo il più orribile tormento che si potesse immaginare. Fu col cuore pesante che salì le scale diretto in camera sua. 3 Halbo Illuminata da terra dai raggi rosso sangue del sole al tramonto e dal mare dallo spettrale chiarore della luna appena sorta, Halbo, la capitale del regno d'Eyra, apparve come un miraggio tra le alte sagome delle Colonne di Sur. Tra le alture e le curve del paesaggio che si ergeva ripido dalla stretta insenatura verso l'entroterra, minuscole luci color ambra brillavano a gruppetti o in lunghe file, mentre un grande fuoco sembrava ardere vicino alla riva, illuminando le acque scure e la moltitudine di navi che ondeggiavano all'ancora nel porto interno. Poi le Colonne stesse si stagliarono in tutto il loro splendore, svettando verso il cielo buio con i loro cento metri d'altezza, e Katla rimase senza fiato per la meraviglia. Contrariamente a quanto le era parso a prima vista, sembrava che quelle enormi torri di guardia non fossero un semplice tratto distintivo del paesaggio: man mano che la nave si avvicinava al loro interno, si delineò una miriade di piccole luci, una sull'altra, fino a raggiungere l'altezza di una decina di case lunghe. Minuscole figure si muovevano davanti a quei bagliori in vari punti, cosicché da una certa distanza i fasci luminosi sembravano saltellare qua e là. Poi lentamente cominciò a distinguersi una ragnatela di scalinate e archi che partiva dal livello dell'acqua
per salire su fino alla cima, snodandosi intorno alle torri e sulla parete della scogliera su entrambi i lati dell'insenatura. Era un miracolo dell'architettura: Katla rimase lì in piedi, con le mani sulla frisata, lo sguardo rivolto verso il cielo notturno fino a farsi venire il torcicollo... finché non sentì un dito seguire delicatamente la linea del suo collo fino al mento e balzò via con un grido. «Per le palle di Sur! Toglimi le mani di dosso!» «Molto meglio senza la barba, mia cara, se posso permettermi.» Tam Volpe era accanto a lei, gli occhi penetranti che la fissavano, i denti bianchi che risplendevano nella luce argentea. «E dovresti essermi un po' più grata per non averti messa in una faering per rispedirti dal tuo papà.» L'uomo fece un altro passo verso di lei, ma Katla si scansò. «Sei un vecchio caprone lascivo» gli disse con un sorriso. «Vatti a trovare una capretta da montare.» Poi tornò a guardare verso le colonne. «Straordinarie, eh? Opera di un genio, o di un pazzo, se credi alle leggende.» «Non ho mai visto niente di simile» mormorò Katla, ed era vero: le case delle Isole Occidentali erano basse e robuste, costruite per sopportare i forti venti che soffiavano dall'Oceano del Nord, mentre durante la sua visita alla Grande Fiera non aveva notato altro che tende, padiglioni e semplici bancarelle, nulla che potesse servire ad altro che a una sistemazione temporanea. Aveva però sentito parlare delle grandi città dell'Istria, Jetra, Cera, Forent, costruite intorno a magnifici castelli che turbavano la vista e toglievano il respiro. «Le Colonne sono state scavate al loro interno ai tempi di re Raik Crinedicavallo, quando gli Eyrani furono scacciati per la prima volta verso nord, su queste isole. Re Raik fortificò la città in molti modi, tutti ingegnosi, e quando cadde nella battaglia dello Stretto degli Squali, la sua consorte portò avanti il suo progetto. Dicono che è inespugnabile, sai. Un po' come te...» Katla alzò gli occhi al cielo. «Lo so» replicò stizzita, ignorando quella frecciatina. «È il significato del nome della città: Halbau, 'casa sicura' in eyrano antico, e nessun nemico è mai riuscito ad aggirare le sue difese.» Dalla torre di guardia un uomo gridò qualcosa che lei non riuscì a comprendere, anche se le parole erano chiaramente distinguibili nell'aria notturna; e dopo un momento Tam rispose gridando: «Rosa bianca!» Katla lo guardò. «La parola d'ordine» le spiegò stringendosi nelle spalle. «Cambia a in-
tervalli di poche settimane. Ma da quando il re è ritornato con la nomade, hanno tutte a che fare con lei: Rosa Eldi, la Rosa del Nord, il Desiderio del Cuore, la Rosa del Re.» «E cosa sarebbe accaduto se non avessi saputo la parola d'ordine?» chiese Katla perplessa. Tam sorrise. «Guarda lì» disse, indicando le rocce su cui poggiava la torre. Un bordo di bianca schiuma segnava il margine della costruzione dalla parte del mare. «E lì.» Tam indicò l'altra colonna allo stesso livello. Katla si sforzò di scrutare nell'oscurità. «Non vedo niente.» «Proprio sotto la superficie dell'acqua c'è una catena forgiata con ferro, sangue e incantesimi dei seither» spiegò il capo della compagnia di teatranti. «È agganciata su entrambi i lati a due grandi argani all'interno delle torri. Le nostre navi hanno un pescaggio abbastanza basso da consentirci di sfiorare soltanto la catena, mentre qualsiasi nave del Sud che per un qualche miracolo riuscisse ad attraversare l'Oceano del Nord ci si incaglierebbe sopra... Una sola parola degli uomini di guardia e la catena salirebbe, rovesciando la nave nello stretto. E poi...» «Cosa?» Tam scosse la testa. «Non ne voglio parlare» disse, e fece un gesto superstizioso. Poi guardò oltre le spalle di Katla, verso il canale che si stendeva di fronte. Dietro di loro i remi si immergevano e risalivano silenziosamente e l'uomo al timone compiva piccole regolazioni della rotta. Un attimo dopo il Lupo delle Terre Innevate passò accanto alla colonna orientale e fu inghiottito dalla sua fredda ombra. Ci fu un leggero stridore, poi il suono dell'acqua che si apriva al loro passaggio, e si ritrovarono nel porto. Lì cambiarono direzione in modo da costeggiare l'interno dell'insenatura (anche se, per quanto poteva vedere Katla, la via centrale per le banchine era libera), passando così vicino alla terra che la giovane riuscì a distinguere i riflessi delle alghe verdi, le file di patelle e cinipedi attaccati agli scogli, gli schizzi di guano bianco sulle rocce. Superarono un piccolo promontorio ed ecco Halbo apparire all'improvviso dinanzi a loro. Le colline salivano bruscamente dal livello dell'acqua, cosicché le stradine affollate di basse case di pietra sembravano impilate l'una sull'altra. Minuscole candele brillavano alle finestre. Volute di fumo si levavano nell'aria notturna dal fuoco delle cucine. E, al centro di quel bel quadretto di vita domestica ordinata, sorgevano le pallide mura della fortezza di Halbo, l'Alto Castello, dimora dei re eyrani sin da quando avevano fatto di quel continente la loro casa. Tozzo e tetro, l'edificio in sé
non era certo bello, almeno non agli occhi di Katla, ma non si poteva negare che fosse imponente. Agli angoli della fortezza sorgevano massicce torrette le cui mura erano percorse da feritoie, in modo che gli arcieri potessero causare morte e distruzione a un nemico in avvicinamento restando al sicuro al loro interno. Gli spalti erano merlati e un ripido pendio saliva fino ai piedi delle mura del castello: sembrava in effetti una fortezza inespugnabile. File di casermoni scendevano giù dal castello fino al porto, che brulicava di moli, banchine e vascelli di ogni tipo. Sulla spiaggia orientale ardeva un grande falò, acceso per illuminare il lavoro di un centinaio di uomini, nudi dalla cintola in su e ricoperti da capo a piedi di una qualche sostanza color rosso brillante che somigliava stranamente al sangue. Davanti a loro, sulla spiaggia, giaceva un'enorme sagoma dalla quale sporgevano grosse costole bianche tra lembi scuri e scintillanti di carne. Il fetore era terrificante persino da quella distanza. «Per Sur,» sussurrò Katla «sembrano gli spiriti maligni che hanno portato giù Halvi il Gigante per porre fine alla Battaglia del Sole.» Tam rise. «Non hai mai visto degli uomini macellare una balena prima d'ora, Katla Aransen?» «Una balena? Ma è enorme... Nessuna delle balene che ho visto finora arrivava a un quarto delle dimensioni di quel mostro!» «Ah, le Isole Occidentali, dove le balene sono piccole come alici! Sur non era di certo propizio ai tuoi antenati, quando ha spinto la loro nave di coloni a Rocciacaduta, mia cara.» Katla gli lanciò uno sguardo furioso. «Scogliere altissime, altopiani ventosi e donne a metà strada tra i gatti selvatici e i troll, ecco le specialità di Rocciacaduta. Proprio come piacciono a me.» E a quelle parole Tam Volpe l'afferrò per la vita e la strinse contro il suo petto. Katla gli sputò prontamente in un occhio e allo stesso tempo sollevò un ginocchio per piantarglielo nel basso ventre, ma quell'uomo aveva a che fare con le donne da tutta una vita e si riteneva un esperto in materia. Ruotando i fianchi riuscì a evitare la minaccia principale e prese lo sputo sulla guancia, dove rimase attaccato per un istante prima di colargli giù per il mento. Poi Tam le rivolse un ampio sorriso. «Dicono che un po' di resistenza aumenti la passione» osservò allegramente. «Ma preferirei che venissi da me di tua volontà.» Quando lei cominciò a divincolarsi, le gridò: «Ascoltami!» e le imprigionò le braccia con una classica mossa di lotta libera, eseguita con tale abilità che Katla
non poté fare a meno di provare ammirazione, per un breve momento. «Ho un posto vicino ai moli dove possiamo andare per conoscerci meglio» aggiunse, mordicchiandole il collo. I denti di Katla per poco non gli afferrarono un orecchio, ma lui allontanò la testa con una risata. «Non è lussuoso, ma non ci farai più caso quando avremo cominciato. È tutta la settimana che aspetto questo momento, piccolo troll. Non crederai che mi sia lasciato ingannare dal tuo travestimento anche solo per un secondo? Sarei in grado di riconoscerti tra una folla di migliaia di altre donne, tutte nude e con un sacchetto sulla testa!» Katla smise di divincolarsi e lo fissò. «Hai un'immaginazione alquanto bizzarra, Tam Volpe» fu tutto quello che le riuscì di dire. Lui rise ancora. «Sì, è piuttosto creativa. Dovresti fare uno sforzo per scoprire da sola fino a che punto può arrivare...» «Toglile le mani di dosso!» La voce era bassa, ma il tono minaccioso. «Se non la lasci immediatamente ti staccherò un rene e lo darò in pasto ai gabbiani.» Katla si voltò di scatto e vide che suo fratello Halli, il quale aveva ucciso solo due uomini in vita sua e soffriva ancora di incubi per quello che aveva dovuto fare, era apparso silenzioso come un ermellino alle loro spalle, e teneva un coltello premuto contro la schiena di Tam. Katla rise e si districò senza troppa difficoltà dalla presa dell'uomo. «Va tutto bene, Halli. Non è successo niente.» Tam si strinse nelle spalle e indietreggiò di un passo. «Sei tu che ci rimetti, piccolo gatto selvatico.» Le fece l'occhiolino. «Vedremo cosa dirà tuo padre quando torneremo a Rocciacaduta, va bene?» E con quelle parole passò agilmente in mezzo a loro e si incamminò, tra gli sguardi curiosi dei rematori, verso il timoniere che stava gridando agli altri le sue istruzioni. Pochi momenti dopo l'equipaggio tirò i remi in barca mentre il Lupo delle Terre Innevate entrava nel porto interno, e tutto fu dimenticato nel trambusto dello sbarco. Era quasi mezzanotte quando Katla e Halli riuscirono a salire sull'ultima delle faering, come se la punizione di Tam Volpe per l'offesa al suo orgoglio fosse stata quella di ritardare il più possibile il momento della loro scoperta della città. Fremente di impazienza, Katla allungò il collo per guardare oltre le teste degli altri nella barca, assorbendo avidamente ogni dettaglio. C'erano imbarcazioni dappertutto: navi mercantili, dal ventre grosso e le coste corte,
piccoli knarr, navi lunghe e pescherecci. Remarono così vicini al Corvo di Sur, la nave del re di Eyra, che Katla, sporgendosi più che poté mentre Halli le teneva le gambe e il resto dell'equipaggio la incitava, riuscì a sfiorare i suoi eleganti corsi di fasciame con la punta delle dita. «È così bella!» esclamò la ragazza, ammirandone le curve eleganti dei fianchi, le linee nette del dritto di prora, la ruggente testa di drago della polena. Un attimo dopo passarono accanto a una nave costruita con un legno di quercia così scuro e stagionato da essere quasi nero. Sul dritto di prora c'era un'orrenda polena, rozzamente intagliata e dall'aspetto tetro, una grande testa rotonda nella quale era impossibile riconoscere una qualche creatura vivente di Elda, la bocca spalancata come per divorare il mondo. Katla la fissò affascinata. Mentre la superavano, la luce della luna colpì il pezzo di vetro che era stato incastonato nel suo unico occhio e un ricordo affiorò alla memoria della giovane. Un istante dopo, esclamò: «È il Troll di Narth!» Tutti risero di cuore al suo entusiasmo: molti infatti erano nati e cresciuti a Halbo e nessuno, tranne Katla, era nuovo a quelle sponde. Avevano visto il Troll almeno cento volte: quella nave era ormai un punto di riferimento, un pezzo di storia antica. A Katla invece sembrò di essere trasportata indietro nel tempo, davanti al fuoco della sua casa nelle sere d'inverno, quando suo padre le raccontava dell'antica guerra, che aveva preceduto quella in cui aveva combattuto, quella in cui era rimasto ucciso suo nonno. Quei tempi e i manufatti che vi risalivano erano diventati quasi leggendari per lei. Mentre le altre donne della tenuta si coprivano le orecchie con le mani e gemevano al sentire i racconti sanguinari di Aran Aranson, Katla li aveva sempre ascoltati estasiata. Si voltò per guardare ancora il grande scafo annerito. Era dunque questa la nave sulla quale il nonno di Ravn, re Sten, era fuggito dalla battaglia della baia del Corno grazie al suo estro e alla sua abilità di marinaio, distanziando una dozzina di vascelli eyrani catturati dal nemico e guidati da mercenari, resi schiavi dal comando istriano. Il Troll era una nave antica già allora, ma Sten la governava da una vita e conosceva ogni vibrazione del timone e ogni gradazione della tensione delle sue cime e delle vele; perciò, confidando nelle proprie capacità e nella conoscenza di quella regione, aveva scelto una rotta pericolosa che passava dritta attraverso le Cagne, quell'infido gruppo di scogliere affilate come denti di squalo, che si celavano nelle acque davanti alla costa orientale. Otto delle navi inseguitrici, certe di riuscire a prenderlo, gli si erano messe alle calcagna: sei si
erano schiantate su quegli scogli invisibili. Le restanti due, circondate dal caos dei naufragi, avevano cambiato rotta e perduto il vento e, quando l'avevano ritrovato, il Troll era già svanito nel labirinto di isole a nord della costa. Sten si era ricongiunto alla sua flotta al largo di Punta del Lupo e insieme le navi erano tornate indietro ed erano calate sugli Istriani e sui loro vascelli rubati. Era stata una battaglia breve, perché il nemico era in inferiorità numerica e non sapeva come muoversi in quelle acque infide. Costretti a scegliere tra le Cagne e la pietà del re del Nord, molti Istriani avevano fatto l'errore fatale di optare per quest'ultima; perché, anche se Sten aveva ordinato di salvare i sopravvissuti e di riportarli a Halbo, solo gli schiavi erano stati liberati e avevano pianto di gratitudine. Di questi molti erano rimasti in Eyra, dal momento che non c'era niente che li aspettava al Sud, e avevano lavorato nelle fattorie e nelle case dei nobili finché non si erano potuti permettere un pezzo di terra tutto loro. Molti altri erano salpati per le isole orientali dove la terra era a buon mercato, il che spiegava la prevalenza di gente dai capelli scuri e l'atteggiamento un po' sdegnoso da parte degli Eyrani più ricchi nei confronti di chi proveniva da quelle zone. In quanto ai mercenari, Sten li aveva presi al proprio servizio, perché apprezzava i bravi combattenti e non si faceva illusioni riguardo a lealtà e patriottismo; gli Istriani, invece, li aveva fatti impiccare e squartare sugli stessi moli che avevano avuto intenzione di saccheggiare, poi aveva ordinato di lanciare con le catapulte i loro resti verso la parte più bassa della città. «Come monito agli altri» aveva detto all'unico Istriano che aveva risparmiato, un allampanato ragazzetto dai capelli neri proveniente da Forent, che saggiamente non aveva rivelato di essere l'erede del signore di quella città. E ora, mentre nella sua mente il racconto giungeva alla fine, un altro pensiero colpì Katla: lei aveva incontrato il figlio di quell'uomo alla Grande Fiera. Rui Finco, Signore di Forent, aveva presieduto al suo processo, l'aveva dichiarata colpevole e condannata al rogo. Katla si precipitò a farsi il segno dell'ancora di Sur per scongiurare il male e si concentrò sulla città davanti a sé. La faering approdò sulla spiaggia di ciottoli sotto la banchina. L'equipaggio scese a riva, meravigliandosi di quel terreno stranamente stabile e immobile sotto i piedi, e trascinò la barca oltre la linea di marea. Il tempo di sbarcare e di riflettere sul da farsi, e Katla e Halli si ritrovarono soli, con il resto dell'equipaggio inghiottito dalla notte della capitale. «Dovremmo trovare un alloggio» suggerì Halli, assennato come sempre. Ma gli occhi di Katla brillavano. «Come puoi pensare a dormire? C'è
un'intera città da esplorare!» Corse su per le strette scale di pietra che portavano ai moli e si guardò attorno estasiata, anche se c'era ben poco da vedere da quelle parti oltre l'armamentario tipico di un porto: incerate distese su sacchi di granaglie, barili, tregge e gabbie di bestiame, e sullo sfondo una baraccopoli dell'industria marittima, cordai, velai, retai, calafati. Oltre il porto, un'altra Halbo li chiamava: Katla riusciva a sentire la sua mefitica presenza nell'aria, un miasma di fumo, birra e sesso. «Forza!» esclamò afferrando suo fratello per un braccio e trascinandolo dietro l'angolo di una strada il cui nome era scritto con i nodi, nella tradizionale maniera eyrana, su un inzaccherato pezzo di corda legato a un palo: vicolo dell'Occhio di Pesce. La prima taverna che incontrarono offriva la meravigliosa vista di due uomini che vomitavano sulla porta. Katla li guardò con interesse, ma Halli la spinse via in fretta. Lui era già stato a Halbo prima. Il Bastardo di Bosun non era il genere di posto in cui portare una ragazza, neppure un maschiaccio come Katla... Anche se, a pensarci, non gli veniva in mente nessun luogo dove avrebbe potuto condurla senza timore. Più in alto lungo il vicolo passarono davanti a un gruppo di donne con calzoni larghi aperti sul davanti e bizzarri corsetti rigidi di osso di balena da cui i seni bianchi straripavano come un'offerta per avide mani. Katla ridacchiò della loro generosità. «Vieni su con me, ragazzino» disse la più vecchia del gruppo con il rozzo accento della zona orientale del continente. Discostò la stoffa dei pantaloni per mettere meglio in mostra la sua merce. «Ti insegnerò un paio di trucchi nuovi. Hai mai provato 'la Rosa di Elda'? È quello che vogliono tutti, in questo periodo. È garantito che ti farà venire prima ancora che il tuo amico qui presente abbia il tempo di contare le sue monete.» La donna guardò Halli con occhi cupidi. «A te potrei anche farlo gratis, tanto sei carino, se il tuo compagno qui paga per la Rosa...» Katla, perplessa riguardo al motivo per cui qualcuno avrebbe desiderato pagare un prezzo maggiore per un amplesso più breve, e curiosa di sapere esattamente cosa fosse Ma Rosa, aprì la bocca per chiederlo, ma Halli la spinse rudemente avanti. «Siamo appena arrivati, signore mie» gridò allontanandosi. «Ci servirà un bel po' da mangiare prima di avere la forza di rendere giustizia alle vostre grazie.» Katla sollevò un sopracciglio. Era strano sentire il suo diffidente fratello
così controllato e sicuro di sé. «Io prenderò la Rosa!» La voce proveniva dalle loro spalle. Katla si voltò e vide un gruppo male assortito, guidato da una piccola figura rotonda con un farsetto di ruvida pelle, risalire il vicolo dell'Occhio di Pesce. Dietro di loro c'era un uomo alto e smunto con una mano sola, in tenuta da battaglia, un altro brutto con uno zucchetto in testa e l'espressione lugubre, e qualche passo indietro una donna dall'aspetto temibile, con la testa piena di trecce disordinate e la bocca da cui sbucavano denti appuntiti. Accanto a lei camminava un gigante d'uomo con una lunga spada che gli sbatteva contro la gamba. «Spade in vendita» disse Halli a voce bassa. «Sì, lo so» rispose allegramente Katla. «Joz! Ehi, Joz Manodiorso!» Poi fischiò e agitò la mano per farsi vedere. L'uomo grosso si bloccò. Strinse gli occhi per vedere meglio e poi si voltò verso la donna che gli era accanto. «Be', cavoli, Mam: guarda cosa ci ha portato la marea. È Katla Aransen, per Sur!» La donna avanzò finché la luce del portacandele sulla porta del bordello non la illuminò in pieno. Le prostitute diedero una sola occhiata alla nuova arrivata e senza discutere si trasferirono un po' più avanti sulla strada. «Pensavamo fossi morta» grugnì Mam, squadrando Katla con sospetto. «Sembravi morta l'ultima volta che ti abbiamo vista» convenne l'uomo piccolo e grasso, sorridendole dal basso della sua statura. «Distesa sulla spiaggia come una trota rosolata, ecco com'eri, e con tutti i capelli bruciacchiati.» «I pesci non hanno i capelli» gli fece notare l'uomo con lo zucchetto e lo sguardo impassibile. «Neanche lei li aveva, Doc.» «Chiudi il becco, Dogo.» Joz Manodiorso spinse da parte il piccoletto e strinse Katla in un abbraccio degno del suo nome. «Sono felice che tu sia viva, ragazzina.» Fece un passo indietro e toccò con affetto la spada che portava al fianco. «La migliore lama che abbia mai avuto, questa che hai fatto tu. Ho una gran voglia di un pugnale da abbinarle.» Katla sorrise deliziata. «Ah, il Drago di Wen.» E in effetti era la migliore spada che avesse mai forgiato, oltre a quella con la corniola che ora apparteneva a Tam Volpe. E che gli porti la fortuna che si merita, pensò. «Sarebbe un piacere, Joz.» Mam guardò la spada e arricciò il labbro. «Mi ha fatto perdere un tesoro, quella cosa. Io direi che porta sfortuna.»
Era difficile credere che il Drago di Wen avesse potuto far perdere un tesoro alla mercenaria, pensò Katla. Nel peggiore dei casi avrebbe potuto venderla per una buona sommetta. «Sfortuna?» Mam rise, e la luce del portacandele conferì ai suoi denti limati un aspetto sinistro. «Il tuo dolce fratello» le spiegò «ha preso in prestito questa bellezza e l'ha gentilmente usata per infilzare il maestro d'ascia.» Katla si accigliò, perplessa. Non aveva la più pallida idea di come Fent potesse essersi procurato il Drago e compiervi il delitto; né, se era per quello, del perché la morte di Finn Larson dovesse essere una così grave perdita per i mercenari. «Il re ci aveva promesso una delle navi di Larson» spiegò Joz, come se le leggesse nella mente. «Pensavamo di andare per mare da soli, invece che al servizio di un qualche ricco bastardo, e di fare fortuna. Un bel problemino, ora che l'hanno accoppato.» «Ma hai ancora il prezzo di un...» intervenne il piccoletto chiamato Dogo, poi si interruppe con un grido quando l'uomo alto con l'armatura gli diede un calcio negli stinchi. «Non ce n'era bisogno, Mazza. Stavo solo pensando a quel forziere di monete che abbiamo pescato dal suo...» «Sì, be', i prezzi di Danson sono saliti alle stelle dalla dipartita del vecchio Larson» commentò Mam con amarezza. Katla divenne stranamente silenziosa. Stava pensando al forziere di monete e si chiedeva se potesse essere quello con il denaro che Aran Aranson aveva rubato ai suoi figli e aveva portato a Finn Larson per commissionargli la nave rompighiaccio che lo ossessionava al punto di aver acconsentito a includere anche lei nell'affare... Nodi dentro altri nodi, rifletté, perplessa. «Le monete...» cominciò, ma Halli, conoscendo la reputazione di quella gente apparentemente di buone maniere, ed essendo stato testimone alla Grande Fiera della violenza di cui erano capaci, le si parò di fronte e cambiò rapidamente argomento. «Dal momento che sembra che mio fratello ti abbia fatto perdere una fortuna,» disse «il meno che io possa fare è offrirti della birra per riparare ai suoi torti.» Sul volto di Mam comparve un orribile sorriso. «Ci vorrà più birra di quella che tu abbia mai visto in vita tua, piccolo orso, per conquistare il mio favore... Ma immagino che sia un inizio.» La Gamba del Nemico vantava un'insegna grossolanamente dipinta e un tabellone all'esterno da cui pendevano un certo numero di vecchi pezzi di spago annodati in maniera complessa. Halli, Katla e i mercenari osserva-
rono con interesse il tabellone, completo di nodi sbagliati e nomi fantasiosi. L'Occhio di pecora sembrava un piatto da evitare, ma Doc lesse «'Birra di aringa affumicata'» facendo schioccare le labbra contento. «Due pezzi la caraffa. Mi piace.» «Non so proprio come fai a bere quella roba» osservò l'uomo con una mano sola. «Ha un gusto orrendo, proprio come il suo nome. Piscio di pesce.» «È un po' salata» ammise Doc. «Ma sai, Mazza, mi ricorda casa mia. Ha un gusto... be', io direi 'autentico', ma poi dovrei spiegarti il significato della parola. Diciamo 'giusto, buono'.» L'uomo con una mano sola tentò di assestare un'allegra sventola a Doc, che però la evitò con tale agilità che lo schiaffò si abbatté sulla testa di Dogo. Nella confusione che ne seguì, Katla si infilò nella taverna davanti al resto del gruppo. All'interno, la sala principale era buia, dal soffitto basso e pregna di un fumo così pungente che le fece lacrimare gli occhi. Il posto era ancora zeppo di clienti anche a quell'ora tarda. Senza riuscire a scorgere il pavimento, tanta era la calca, Katla sentì dei trucioli di legno scricchiolarle sotto i piedi a ogni passo. Una vera città di mare, pensò soddisfatta. Bastava guardarsi intorno per capirlo: tavoli e sedie fatte con vecchie casse da marinaio, un angoletto costruito con una vecchia faering rotta e appesa in verticale sotto la quale quattro uomini stavano giocando rumorosamente agli astragali, antiche polene imbrattate dal grasso dell'olio per le lampade e dai fumi della cucina ad adornare le pareti, birre chiamate 'Ancoraggio in alto mare' e 'Doppio pescatore', 'Lisca di marlin' e 'Vecchia acqua di sentina'. Katla sperava che quest'ultimo nome fosse un appellativo divertente e non una descrizione accurata, e ne ordinò una caraffa per scoprirlo, nonostante Halli avesse cercato di farle scegliere un bicchiere di vino leggero, che evidentemente considerava più adatto per la sua sorellina. La 'Vecchia acqua di sentina' si rivelò una birra scura e corposa con una specie di retrogusto amaro in cui Katla sospettava sarebbe stato facile marinare un qualche tipo di pesce e probabilmente anche la lingua di chi ne beveva troppa. Ma lei la mandò giù senza fiatare e lasciò che a parlare fosse per lo più Halli. «Siete venuti con Tam Volpe, vero?» chiese Mam senza giri di parole. Halli annuì. Non c'era motivo di negarlo, dal momento che non era arrivata nessun'altra nave in porto dopo la loro. «Papà ci ha mandato a prendere delle attrezzature che ci mancavano» spiegò, ed era la verità, anche se
un tantino ridimensionata. «E dato che il Lupo delle Terre Innevate salpava...» «E come tornerete indietro?» Mam inclinò la testa in modo interrogativo. «L'ultima volta che l'ho visto, Aran aveva uno knarr perfettamente funzionante per approvvigionarsi di tutto il necessario.» «È in riparazione» si affrettò a dire Katla, sapendo che il suo flemmatico fratello non era bravo a mentire. «Il Dono di Fulmar, intendo.» Mazza rise. «Bel nome quello!» Joz Manodiorso sorrise. Dogo fissò Mazza, poi Katla e infine Mam, la fronte corrugata per la confusione. «Cosa?» Mazza si raschiò rumorosamente la gola, poi sputò con dovizia sul tavolo. «Il dono di Fulmar, il fulmaro, la procellaria artica» disse sorridendo e indicando il lucente sputo. «Ecco quello che ti regalano, quei begli uccellini.» Dogo sembrò ancora più perplesso. «Non capisco cosa c'è di tanto divertente» bofonchiò. «Né perché si debba chiamare così una nave.» «Sono così, gli Occidentali» disse Joz facendo l'occhiolino a Katla. «Hanno uno strano senso dell'umorismo.» «Ah, sì, e non ci mettono molto a infilzarti se gli prende lo sghiribizzo» aggiunse Mam cupamente. Poi si voltò verso Katla. «Tu somigli un bel po' a quel tuo fratello dai capelli rossi come la volpe» osservò. «Me lo dicono spesso.» «Non è venuto con voi, allora?» «No. È rimasto a casa.» L'immagine di Fent nel fienile che dava strattoni alle corde con cui era legato, gli occhi lampeggianti di rabbia per l'oltraggio subito, fece capolino ancora una volta nella sua mente. Katla chinò la testa per nascondere un sorriso che non riuscì a reprimere, però Mam lo notò ugualmente e strinse gli occhi. «Ho sentito dire che la compagnia di Tam Volpe avrebbe tenuto uno spettacolo per il matrimonio del re a Mezza Luna, dopodomani sera, e che il Lupo sarebbe arrivato in porto questa sera» intervenne Mazza nel silenzio che seguì. «C'erano delle persone che ne parlavano sul molo dei Ratti questo pomeriggio.» «Non sapevamo neppure noi quanto ci sarebbero stati propizi i venti o quando esattamente saremmo arrivati» commentò Halli, perplesso. «Come potevano saperlo loro?» «Un uccello messaggero è arrivato dalla nave... uno dei bei piccioni
viaggiatori di Tam.» Katla si accigliò. Non aveva visto piccioni a bordo del Lupo delle Terre Innevate; ma poco prima del tramonto aveva notato con sorpresa un corvo posarsi sul pennone superiore, proprio alla sinistra della sommità dell'albero. Le era sembrato strano, perché i corvi non sono uccelli marini, ma era stata talmente distratta dal richiamo della terra che non aveva prestato molta attenzione a quell'evento. «Anche se di certo noi non saremmo i benvenuti» osservò l'uomo con lo zuccotto, che gli altri chiamavano Doc, incenerendo Dogo con lo sguardo. «Non dopo che abbiamo tentato di rifarci della nostra perdita.» «Era buio, no?» gemette il piccoletto. «Come potevo sapere che era proprio la nave di Ravn?» Katla fissò incredula tutti i membri del gruppo, l'uno dopo l'altro. «Avete tentato di rubare il Corvo di Sur da sotto il naso del re?» Dogo si strinse nelle spalle. «A me sembrano tutte uguali queste navi, e Mazza non mi è stato di grande aiuto.» L'uomo alto rise. «Abbiamo levato l'ancora e messo ai remi alcuni di quei robusti ragazzi di Farem; ma con Dogo da una parte e me dall'altra con una mano sola, non siamo riusciti a fare altro che andare a sbattere contro un'altra nave e girare in tondo!» «Per fortuna il re aveva altro per la testa, giusto?» commentò Mam scura in volto. «Ha pensato che fosse un bello scherzo, dicono; ma Capotempesta non è uno sciocco. Ha detto alle guardie di tenerci d'occhio e di non lasciarci entrare per nessun motivo al castello né avvicinare alla nave. Ma ci sono un sacco di cose divertenti da fare anche lontano dai ricconi» disse, rianimandosi un po'. «Perché tu e tuo fratello non venite a fare un giro con noi lunedì sera, in modo che possiamo mostrarvi un po' la città?» E sorrise malignamente. Katla vide il panico negli occhi scuri di Halli. «Parenti da visitare» rispose prontamente. Alzò gli occhi al cielo come se fosse seccata di dover adempiere a tali noiosi doveri. «Dobbiamo passare a salutare la sorella di nostra madre e trascorrere una malinconica serata a sentir parlare di mani doloranti e ginocchia gonfie.» Mam fece una smorfia. «La vita è più facile per noi 'spade in vendita'. Questi ragazzi sono la mia famiglia. Io li pago e loro mi guardano le spalle. C'è più fiducia e onore tra di noi che in qualsiasi famiglia abbia mai conosciuto.» Poi cominciarono a parlare di vecchie campagne e dei lavori fatti e Katla
si scoprì scioccata nello scoprire che Mam, Dogo e Joz avevano combattuto tutti nella battaglia del Porto di Hedera in cui suo padre aveva quasi perso la vita, e per di più dalla parte del nemico. «Perché combattere per niente?» disse Joz. «Inoltre gli Istriani offrivano bei soldoni.» «Ma voi non provate alcuna lealtà verso il vostro paese?» insisté Katla, sentendosi un po' ingenua nel porre quella domanda. Mam rise. «Eyra ha saputo darmi soltanto il vaiolo e la necessità di difendermi da sola sin dalla più tenera età.» La mercenaria strinse i denti limati con fare minaccioso. «Non nutro amore per nessun re, che sia la vecchia volpe grigia o lo sciocco e giovane corvo. Pensano tutti di poterti convincere con le buone o con le cattive a fare la loro volontà, anche quando è palesemente contro i tuoi interessi. Gli Istriani sono dei viscidi bastardi, ma almeno sono abbastanza realistici da sapere che per avere un lavoro ben fatto bisogna pagare bene. Tra il denaro istriano e le promesse eyrane sceglierei il primo in qualsiasi momento.» Messa in quel modo, pensò Katla, senza una famiglia da difendere e un posto da chiamare casa, l'argomentazione della mercenaria non faceva una piega. «E poi» aggiunse Joz «il denaro che gli Istriani ci pagano ritorna comunque in mano a gente come te come prezzo per le nostre spade.» E accarezzò il Drago di Wen. «Sì» mormorò Halli in tono sommesso. «E spesso anche il sangue sulla lama è il nostro.» 4 Maledizione Saro era già sveglio quando il sole sorse il giorno dopo. Era sveglio da ore. Anzi, era quasi sicuro di non aver dormito affatto, perché il pensiero di ciò che lo aspettava l'aveva ossessionato per tutto il tempo, impedendogli di chiudere occhio per il terrore che l'attanagliava. Si vestì come in trance, notando per un solo, breve istante di irritazione l'assenza dalla sedia accanto al letto del coltello che era solito portare alla cintura (doveva averlo lasciato in cucina, anche se non ricordava di averlo fatto) e si infilò controvoglia gli stivali. Di sotto, Tanto giaceva nel suo letto come un bruco nel bozzolo. I suoi
occhi brillavano. Anche lui era sveglio da un po', e pregustava il sapore squisito della vendetta che si sarebbe preso sul suo amato fratello. Tutto quanto era accaduto era stata colpa di Saro: se lui non avesse portato la vincita della corsa a quella piccola puttana nomade, lui sarebbe stato signore di una terra sua, con un castello e una moglie bella e devota. Sarebbe stato in salute e ammirato, guardato con rispetto da tutti quegli sciocchi che si consideravano migliori di lui, come Fortran Dystra e Ordono Qaran, a esempio, con il loro denaro e le loro terre e il loro futuro luminoso, semplice e privilegiato, che gli si profilava davanti liscio, brillante e infinito come la superficie del lago Jetra. Tanto li odiava tutti. Ma ancor di più odiava Saro. Cominciò a spingere e a spostarsi leggermente nel letto, finché non sentì il suo intestino fare il proprio dovere. Il puzzo era soffocante. Saro rimase in piedi accanto a suo fratello per qualche istante, stringendo i pugni per combattere la nausea che minacciava di assalirlo. Gli occhi di Tanto erano chiusi, il respiro regolare. Agli angoli della sua bocca aleggiava il fantasma di un sorriso. Sembrava che avesse dormito avvolto nell'innocenza, sognando i tempi migliori... se non fosse stato per il sangue che pulsava insistente in una vena al Iato della tempia e per il rossore da sforzo sulle guance. Saro rimase a fissarlo con sospetto per un minuto o più, aspettando di vedere se si sarebbe mosso o si sarebbe tradito in qualche altro modo. Poi, serrando la mascella, andò nel piccolo locale di servizio in fondo al corridoio, mise a scaldare dell'acqua su una stufa e prese dei panni e un recipiente di stagno con il coperchio per gli escrementi. Quando tornò nella stanza, Favio Vingo era in piedi accanto al letto e fissava la sagoma addormentata del figlio maggiore. L'uomo non si era ancora rasato e indossava una vestaglia rossa costellata di macchie, legata alla bell'e meglio con una logora fusciacca blu. La testa calva brillava alla luce che entrava dall'unica finestra della stanza. Era raro che permettesse a qualcuno di vederlo così, perché di solito era piuttosto vanitoso: si radeva alla perfezione ogni mattina e nascondeva la mancanza di capelli sotto raffinati turbanti. Era la dimostrazione, pensò Saro, di quanto poco gli importava di tutto il resto ora che l'orgoglio del clan dei Vingo giaceva in un letto imbrattato dei propri escrementi come un vecchio incontinente. Quando Saro entrò, Favio si affrettò a togliersi una mano dal naso e si raddrizzò. I suoi occhi erano umidi. Gli bruciavano per l'odore, si chiese Saro poco caritatevolmente, oppure per la pena di quella situazione?
Il suo sguardo si posò sugli oggetti che Saro teneva in mano, fermandosi perplesso per diversi secondi sul recipiente di stagno, poi Favio sollevò la testa e fissò il figlio minore con disprezzo. «È tua la colpa di tutto questo» disse con la voce impastata per l'emozione. «Non importa quello che farai, non importa quanta buona volontà ci metterai, non varrai mai neppure un decimo di quello che vale lui. E non credere che riuscirai mai a sostituirlo nel mio cuore o in questa casa.» Con quelle parole passò accanto a Saro urtandolo con la spalla, e se ne andò lasciandolo al suo poco invidiabile compito di accudire il fratello. Saro vacillò, travolto dall'ondata di disprezzo che emanava da suo padre. Aveva pensato di essersi ormai abituato al dolore di essere odiato in quel modo. Ma anche se quelle invettive si manifestavano ormai a intervalli regolari, non era mai riuscito a indurire il suo cuore tanto da sopportarle. Raddrizzando le spalle, si mise al lavoro. Per prima cosa tirò via le coperte, ritraendosi quando il puzzo lo investì in pieno. All'improvviso l'invalido si mise a sedere, sorridendo orribilmente, gli occhi che brillavano di cattiveria. «Schifoso, no?» Tanto sembrava allegro. «Dal momento che tu puoi camminare a tuo piacimento fino alla latrina, fare un bagno o nuotare nel lago con tutti gli altri bei ragazzetti nudi, ho pensato che dovessi trascorrere il maggior tempo possibile immerso fino ai gomiti nello stato disgustoso in cui mi hai ridotto: in tutta questa merda, piscio e sporcizia. Se potessi vomitarti addosso lo farei, solo per darti il quadro completo.» Saro indietreggiò, allarmato. «Sai che non sono stato io a farti questo, Tanto» disse a voce bassa, tendendo il recipiente e distogliendo lo sguardo da quei lampeggianti occhi neri. «Non capisco perché stai cercando di punirmi per la disgrazia che ti è capitata.» «Disgrazia!» gridò Tanto con una risata amara. Spinse via il recipiente con tanta forza che scivolò dalle mani di Saro e cadde rumorosamente a terra. «È stata una sventura, una disgraziata fatalità quello che mi è successo? Una divertente burla della nostra amata Signora, Falla la Misericordiosa? I Fati che intrecciano erroneamente i loro fili, dici? Io non credo, fratello...» Con le dita simili ad artigli, scattò in avanti e afferrò Saro per un braccio. Pelle contro pelle, stretto nella morsa del potente malanimo di suo fratello, per Saro non ci fu scampo. Si ritrovò come paralizzato su una spiaggia di notte, mentre terribili ondate nere come la pece, ribollenti di schiuma e portatrici di mostri dai mille tentacoli, squali dai denti mortali e
serpenti velenosi - si ammassavano all'orizzonte, tutte pronte a trascinarlo via, a catturarlo nella loro risacca e a bloccarlo impotente sul fondo del mare, per essere assalito e tormentato da quegli orrori. Poi la prima ondata lo travolse e Saro vide... Una nota, scritta di proprio pugno, appoggiata contro un'esigua pila di monete; un movimento confuso, poi qualcuno che rovistava nella sua camera, tutti i dettagli resi con precisione allucinatoria: il calamaio che versava il suo contenuto con infinita precisione sull'ordinata pila di biancheria intima e sulle sue pianelle di pelle di daino preferite, la stoffa che si impregnava del liquido scuro, assorbendolo con pigra avidità, qualcosa d'argento che spuntava da sotto un bianco cuscino. Un braccio ricoperto da una manica viola scattò in avanti, una mano, scura, abbronzata, muscolosa, la mano di Tanto, afferrò l'arma, le dita che si chiudevano sull'elsa. Una combinazione di odio e furia lo sopraffece in quell'istante, seguita da una sanguinaria sensazione di trionfo. Lo ucciderò. Prenderò questo pugnale e... Un coltello che penetrava. Piume. Piume dappertutto. Qualcuno aveva ucciso un uccello? Non capiva. Le dita scavarono nel suo braccio, implacabili, spietate. La scena cambiò, divenne sconosciuta, disorientante. Un ridicolo paio di scarpe color porpora con la punta arricciata alla moda di Cera che scricchiolavano su un nero terreno coperto di cenere: era la Grande Fiera sulla pianura vulcanica, allora. Il chiarore della luna e i bagliori di un fuoco acceso. Un altare alla Dea, rovesciato a calci con malvagia esultanza. Lo schianto della terracotta infranta, poi l'improvviso profumo del cartamo, aromatico e inebriante. Si ritrovò fuori da una tenda illuminata dall'interno da candelabri. Dentro c'erano due figure femminili, una velata e l'altra dal profilo chiaramente delineato dalla luce delle candele: Selen Issian. Una calda ondata di lussuria Io avvolse, seguita da una voce che echeggiava nella sua testa, citazioni da La deflorazione di Alesto, la luce che danzava sulle magnifiche incisioni della lama di un pugnale... Poi non vide altro che sangue. Sangue dappertutto, nell'aria, galleggiante in minuscole gocce, come se il tempo fosse rallentato fin quasi a fermarsi; sangue sulla lama del pugnale, sangue che riluceva sulle sue mani. Sangue che fluiva in un grande torrente scuro da uno scialle dorato... Qualcosa si spezzò in Saro, a quel punto. Il giovane indietreggiò barcollando e stringendosi la testa tra le mani, e Tanto dovette lasciare la presa.
Ma anche se il contatto era stato spezzato, immagini latenti continuarono a rincorrersi nella sua mente. Saro si concentrò, tentando di dar loro un senso. Aveva riconosciuto subito il messaggio e la furia che doveva aver generato: il biglietto che lui stesso aveva lasciato a suo fratello avvertendolo che stava per dare la metà della vincita a Guaya, com'erano d'accordo... o come aveva pensato fossero d'accordo, anche se avrebbe dovuto sapere che Tanto non aveva alcun senso dell'onore, specialmente per quanto riguardava il prezzo del sangue da pagare per un nomade. Le piume, l'altare, il profumo di cartamo: tutte quelle immagini erano troppo slegate una dall'altra per poter dare loro un senso. La sua mente non faceva che ritornare sul pugnale. Continuò a girarlo e rigiralo nella sua testa, a guardare ammirato i caratteristici disegni in argento e le eleganti incisioni. Una lama eyrana, di quello era sicuro, ed era di certo quella che gli aveva dato Katla, Katla Aransen... Il solo ricordo di lei, della sua competenza, della sua allegria, della sua elegante bellezza, gli diede la lucidità di pensiero che cercava. Sì, era il pugnale che aveva nascosto sotto il suo cuscino, e che poi era scomparso. Ma Tanto aveva dichiarato di essere stato colpito con quello quando aveva tentato di difendere la figlia del nobile Issian da malfattori eyrani, perciò doveva averlo rubato lui dalla stanza di Saro; il che spiegava le piume, il cuscino pugnalato con furia omicida... poi il percorso a piedi (quelle scarpe erano senza dubbio di Tanto, nessun altro avrebbe avuto un così pessimo gusto in fatto di calzature) fino alla tenda con le due donne dentro... tenda che doveva essere di certo quella di Selen Issian, ma non c'era alcun segno di aggressori eyrani, nessuna agitazione là fuori, finché... Saro aprì di scatto gli occhi, spinto da un'improvvisa e orribile consapevolezza. «Per la Dea, Tanto: cos'hai fatto?» Suo fratello lo fissò con curiosità. «Per la Dea, Saro, di cosa stai parlando?» «Sei stato tu a...» Vide l'espressione di Tanto cambiare; ma senza manifestare, come si era aspettato, rimorso o senso di colpa, o persino paura per essere stato scoperto. Nei suoi occhi poteva scorgere calcolo e avidità. «Lo sapevo!» esclamò Tanto in tono trionfante. «Tu puoi leggermi nella mente! Quando ti tocco, tu leggi i miei pensieri! Sei sempre stato così sensibile, così dolce, così debole e codardo come una femminuccia, sempre così premuroso con gli schiavi, così gentile con gli animali, tanto da coc-
colare anche le bestie più selvagge; e ti mordevano mai come facevano con me? Oh, no: loro mordevano sempre me, perché tu leggevi la loro mente e gli dicevi di mordermi!» La sua mano scattò di nuovo e catturò il polso di Saro. Poi guardò deliziato suo fratello che si divincolava, il viso contorto come in preda a un profondo dolore. L'odio lampeggiò nelle nere pozze dei suoi occhi. «Per anni ho pensato che non era possibile che tu fossi veramente mio fratello... tu, un bambino così miserabile, timido, senza spina dorsale, mio fratello: ridicolo! Mamma deve aver giaciuto con un venditore di pozioni per generarti mentre papà era in guerra, e tu sei rimasto contaminato da quell'unione proibita, infestato da una qualche disgustosa magia della mente... Allora vediamo se la mia teoria funziona, che ne dici? Vediamo se la tua piccola anima pura e bigotta sa leggere questi pensieri, d'accordo?» Il suo viso si contorse di gioia perversa. Poi chiuse gli occhi come se stesse richiamando alla mente i suoi più bei ricordi. Un torrente di immagini cominciò a riversarsi nella mente di Saro, anche se lui tentò in tutti i modi di fermarle, di sottrarsi alla presa di suo fratello... troppo forte, troppo salda per essere quella di un invalido. Un'attraente schiava, con la sabatka strappata in due e penzolante intorno alle caviglie, che cercava di respingere la sua pressione, le piccole mani che lo picchiavano con la stessa forza delle ali di un piccione finché lui non le catturava con brutalità, quasi rompendole un braccio, e la faceva piegare sopra il tavolo (il tavolo della loro sala da pranzo, notò Saro sgomento e impotente, mentre la schiava era la povera piccola Sani, morta l'anno prima di tosse di sangue), spalancandole poi le gambe e spingendo una mano dentro di lei fino a farla urlare di dolore... Giù all'aranceto, uno schiavetto in ginocchio, che gridava in maniera incoerente in una lingua gutturale delle colline, mentre lui, eccitato dal terrore e dal disgusto del ragazzo, lo afferrava per i capelli e gli tirava indietro la testa mentre con l'altra mano si liberava l'uccello. Due occhi marroni dalle lunghe ciglia che brillavano di disprezzo e disperazione. Un paio di seni bianchi, venati da sottilissime linee blu, che gli riempivano le mani fino a straripare. Il viso di una donna, bagnato di lacrime, implorante, implorante in una maniera così attraente che gli faceva venire voglia di picchiarla ancora. Una pancia tonda, bianca, dilatata da un bambino di sei mesi... il suo... il suo primo bastardo! La stanca rassegnazione sul viso pieno di lividi della prostituta da cui lui tornava spesso, perché pagava bene la tenutaria del bordello per le sue pratiche insolite... La schiava che spirava ai suoi piedi in un mare di colore rosso, Selen Issian che lo fissava con quella bocca, rosa e piena,
aperta in una perfetta 'o' di sorpresa. Sua moglie... sua moglie! O almeno presto lo sarebbe stata; come avrebbero potuto il nobile Tycho o suo padre porre il veto al matrimonio, una volta che la merce fosse stata rovinata in quel modo, che il prezzo della sposa fosse stato pagato o meno? Quella tunica, così provocante, così inconsistente, era di certo stata indossata per eccitarlo, no? Attraverso la stoffa leggera vedeva le pallide lune dei suoi seni, le aureole scure come gli occhi che lo fissavano sorpresi. C'era voluto solo un attimo per liberarle, strappando via quel sottile velo; e poi c'era stato tutto il resto di lei, così morbido e arrendevole: il seno esattamente come piaceva a lui, florido, rotondo e leggermente pesante, la pancia piatta pronta a fare da ricettacolo per il suo seme, e quel luogo giù in basso, mai toccato da nessun altro uomo, suo, da reclamare, adesso... adesso! La prima calda immersione dentro di lei era una splendida combinazione di dolore e piacere divino: sentiva la resistenza della sua verginità, ammorbidita dalle sue secrezioni, la sentiva lacerarsi sotto la potenza e la pressione della sua robusta erezione e dargli accesso, volontariamente, sì, volontariamente, ne era sicuro... Poi l'eccitante crescita, fino all'orgasmo, mentre lui arava e arava quel campo incontaminato, e le forti dita di lei gli stringevano la schiena, le unghie che si conficcavano nella carne per l'intensità del desiderio che provava per lui; infine la meravigliosa liberazione... Le mani di Tanto si staccarono dal fratello un istante prima del momento fatale. Non voleva pensarci di nuovo, e men che mai condividerlo con Saro. E poi non riusciva neppure a credere che fosse accaduto, che lei, la sua amata, la sua futura moglie... No, di certo erano stati altri, che avevano preso il suo pugnale e l'avevano usato contro di lui: Tanto ne era ormai pressoché convinto, nella sua mente riusciva quasi a vedere le loro facce. «Mostro!» Libero dalla stretta, Saro indietreggiò verso la parete, fuori dalla portata di quelle grasse mani. Il suo respiro era affannoso, il viso arrossato. Si sentiva contaminato da ciò di cui era stato testimone, come se fosse stato sporco. Già da prima conosceva molti dei meno encomiabili aspetti di Tanto: aveva visto nei suoi occhi la malizia, l'inganno, le menzogne, la futile crudeltà verso i cani e i gatti della villa, la deliberata rudezza verso i cavalli; il modo in cui picchiava i servitori, una volta fino a rendere il povero piccolo Deno cieco da un occhio. E lo aveva sentito decantare le proprie prodezze con le donne, ma aveva rifiutato di prestare orecchio a tali vanterie, accantonandole come improbabili e vuote millanterie nel migliore dei casi, e nel peggiore come fantasie, racconti di quello che avrebbe voluto
fare se ne avesse avuto l'opportunità. Conoscere la vera portata della depravazione di Tanto era nauseante. Per tutta risposta, l'altro si limitò a sorridere. Poi indicò le parti basse di Saro. «Non sei proprio una femminuccia, a quanto vedo. Forse potrei chiamarti 'fratello', dopo tutto.» Saro guardò in basso e scoprì con orrore che il suo corpo, posseduto dai pensieri lascivi di Tanto, l'aveva tradito, perché la sua tunica era tesa sotto la vita da una rigida erezione. Con un grido di disperazione, si precipitò fuori dalla stanza e poi dalla casa, nell'aspra luce del cortile. Tanto ascoltò con maligna soddisfazione suo fratello che vomitava rumorosamente sulle calendule fuori dalla sua finestra. Così impara, pensò. Lui che si considera tanto perfetto e mi crede un mostro. I conati continuavano a scuoterlo. Tanto Vingo tirò indietro il copriletto e fece ruotare le grosse e morbide gambe da un lato. Vi poggiò cautamente il peso, poi si alzò. Il pavimento era freddo sotto i piedi nudi. Raccogliendo i panni che Saro aveva gettato a terra, strofinò via il grosso degli escrementi dalla propria pelle e dalle lenzuola e si asciugò meglio che poté, il volto contratto in una smorfia per la gran puzza. Poi, sudando e tremando per lo sforzo, barcollò fino alla finestra e sbirciò fuori. Saro era dall'altra parte del cortile, appoggiato alla parete. Ogni linea del suo corpo denotava sconfitta e disperazione: le spalle erano curve, la testa china, le mani distese contro la pietra riscaldata dal sole come se fossero l'unica cosa che lo teneva in piedi. Tanto sorrise. Era stata una mattinata estremamente soddisfacente, fino a quel momento: la migliore che ricordava da diversi mesi. Aver fatto in modo che suo padre ordinasse a Saro di occuparsi degli aspetti peggiori della sua infermità era stato già di per sé delizioso, ma questo nuovo sviluppo era meglio di quanto avrebbe mai potuto immaginare... Perché ora avrebbe potuto far impazzire Saro con nuove torture, grazie a quel legame appena scoperto, e non solo con gli orrori giornalieri del dover ripulire le sue sporcizie e soddisfare ogni suo capriccio. Ovviamente avrebbe preteso che Saro si occupasse anche di quei piccoli e utili compiti, ma ora, con un minimo di disturbo da parte sua (che non gli dispiaceva affatto) si sarebbe assicurato che la vita di suo fratello diventasse un vero inferno. E quando Saro se ne sarebbe andato per fare il soldato (il soldato! Solo l'idea di lui
che tentava di guidare delle truppe in battaglia o che stringeva infuriato una spada era meravigliosamente assurda) sarebbe stato già completamente folle, come una vespa alla fine dell'estate che sbatte confusa di qua e di là, ormai priva di forze. Sarebbe morto nella prima battaglia... Probabilmente sarebbe inciampando e cadendo sulla spada. Non poté fare a meno di ringraziare la Dea per questo. Assicuratosi che suo fratello non stesse tornando verso casa, Tanto tornò a letto e tirò fuori da sotto la pila di cuscini il coltello che aveva rubato, con le sue mani, dalla stanza di Saro il giorno prima. Sarebbe stato meglio che Illustrila non lo trovasse quando sarebbe venuta a salutarlo quella mattina: gli faceva comodo che tutti continuassero a considerarlo debole e confinato a letto. Il coltello era pesante nella sua mano. Procurarsi quel livido sul petto con il pomo era stato piuttosto doloroso, ma l'investimento aveva fruttato anche più di quanto si era aspettato. Essere in grado di ferire la mente di Saro era talmente gratificante che il disagio di doversi fare del male da solo era un piccolissimo sacrificio, al confronto. Tanto costeggiò il muro fino alla porta e sporse fuori la testa. Non c'era nessuno in vista. Papà e lo zio Fabel molto probabilmente erano impegnati nelle preghiere mattutine, inginocchiati sui loro tappetini, da sciocchi superstiziosi quali erano; le donne... be', loro non avrebbero mai osato riferire dei suoi movimenti, anche se l'avessero visto: avevano imparato a loro spese cosa poteva accadere se contrastavano in qualche modo la sua volontà. Appoggiandosi alla parete per tenersi in piedi, percorse il corridoio a una velocità notevole per un invalido. Poi affrontò le scale con le mani e le ginocchia come un gigantesco scarafaggio. Era stato il giorno peggiore della sua vita, pensò Saro mentre il sole calava a occidente, ed era tutto dire. Dopo essere tornato nella stanza di suo fratello per ripulire il letto, aveva cambiato le lenzuola ed era stato costretto a lavarle a mano. E mentre i servitori portavano a Tanto lenzuola fresche e una colazione degna di un signore, lui era stato mandato fuori al campo di addestramento con il pane del giorno prima nello stomaco e i pochi frutti che era riuscito a trovare lungo la strada, e lì era stato conciato per le feste, col pretesto che era lento e goffo, dal capitano Galo Bastido. 'Il Bastardo', come era comunemente conosciuto tra i giovani che aveva picchiato e frustato per farne dei passabili spadaccini, in tempo di guerra era l'ufficiale in capo dell'esercito permanente di Altea; ma al momento,
poiché si supponeva che l'Impero fosse ancora in pace anche se la minaccia di un conflitto pendeva su Elda come un nuvolone nero foriero di tempesta, aveva l'incarico di sovrintendente delle tenute dei Vingo, ed era responsabile della gestione dei lavoranti della famiglia, che erano uomini delle colline e schiavi, per ciò che riguardava i più umili compiti nei campi e nei frutteti. Un altro uomo, Santio Casta, deteneva il più prestigioso incarico di amministratore della tenuta, ed era a lui che il capitano era costretto a obbedire (il che veniva da lui considerato un grave affronto, perché Casta era stato uno dei suoi subordinati durante l'ultimo conflitto con il Nord). Tutti questi elementi messi insieme non avevano certo reso Bastido un uomo amabile, e a essi andava sommata la sua naturale tendenza alla violenza fisica e mentale, l'arroganza e la sua pellaccia dura, qualità che gli erano state di grande utilità durante la carriera militare. L'umiliante incombenza di dover lavorare la terra insieme a schiavi e gentaglia di altro genere che a malapena parlava istriano, ma spesso si limitava a grugnire in una lingua incomprensibile, aveva generato in lui una completa mancanza di interesse per la sensibilità altrui... con l'eccezione della sofferenza. Un grido di dolore, un cupo lamento, degli occhi pieni di lacrime e una smorfia di agonia: ecco le uniche reazioni che Bastido capiva, e causarle mentre insegnava qualcosa sembrava produrre risultati rapidi e duraturi. Il fatto che gli fosse stato chiesto di rivolgere le sue crudeli attenzioni al secondo e molto meno amato figlio del suo padrone pareva averlo rallegrato notevolmente, perché ogni volta che Saro cadeva a faccia in giù per la stanchezza o sotto i colpi dell'enorme spada da addestramento di Bastido, il capitano ghignava felice. «Trattalo con durezza, mi ha detto tuo padre» aveva informato allegramente il ragazzo, mentre era in piedi sopra di lui dopo averlo atterrato per la terza volta quella mattina. Nonostante fosse una spanna più basso di Saro, era grosso il doppio di lui e muscoloso come un toro. «'È pigro e indolente, e mostra poca attitudine con la spada. Fai di lui un uomo,' ha detto 'un soldato di cui i Vingo potranno andare orgogliosi'... ed è esattamente ciò che ho intenzione di fare.» Perciò ora, con ogni centimetro del suo corpo pieno di graffi e tagli e le fibre di ogni muscolo doloranti, Saro si trascinò su per le scale fino alla sua camera, consapevole che una volta gettatosi sul letto sarebbe probabilmente caduto in un sonno così ben accetto e profondo che difficilmente ne sarebbe uscito in tempo per un pasto caldo, e che in quel caso avrebbe avuto meno possibilità che mai di resistere alle amorevoli cure del Bastar-
do il giorno dopo. Ma in quel momento non riusciva a trovare neppure un briciolo di energia o volontà in sé per evitare di crollare come morto sul proprio giaciglio. Gli sembrava di essere ancora meno vigile di un cane bastonato che si rintanava nella sua cuccia. Domani era un altro giorno. Con un po' di fortuna, non sarebbe vissuto tanto a lungo. Spinse la pesante porta di legno con una spalla, cadde su di essa e barcollò all'interno. Riuscì a scalciare via gli stivali e cominciò a lottare per districarsi dalla tunica polverosa. Con le braccia e le mani ancora intrappolate nell'indumento, piombò all'indietro sul letto. Il suo cervello esausto registrò qualcosa di freddo e duro sotto i muscoli doloranti della schiena. Rotolando su se stesso, si liberò della tunica e la gettò sulla sedia accanto al letto. La sua mano destra si chiuse su un oggetto familiare. Lo tirò fuori da sotto la schiena e lo guardò. Nella luce morente della sera, scoprì che teneva in mano il suo coltello, quello che non era riuscito a trovare quella mattina. L'impugnatura era sporca di feci e puzzava. Con un brivido di repulsione Saro gettò il coltello a terra, dove rotolò rumorosamente, con la lama arrossata dalla luce del tramonto come se fosse stata appena immersa nel sangue. E Saro capì con improvvisa e orrenda consapevolezza dov'era stato per tutto il tempo in cui non era rimasto in suo possesso e come era tornato lì. Quella notte non poté dormire. 5 Il costruttore di navi del re La prima notte nella città del re dormirono in una soffitta sopra la bottega di un fabbricante di frecce con cui i mercenari facevano affari. Quando Katla aveva chiesto che tipo di affari fossero, Dogo aveva assunto un'espressione da idiota e aveva sogghignato, mentre Halli aveva scosso la testa. Perciò Katla aveva rinunciato a fare domande finché lei e il fratello non avevano salutato le spade in vendita la mattina dopo e si erano avviati verso il cantiere di Morten Danson per portargli l'invito 'reale' allo spettacolo di Tam: non un normale spago annodato, questa volta, ma una sottile pergamena di pelle di capra scritta con inchiostro di pesce nella bella calligrafia di Tam stesso. Per dare maggiore credibilità, Katla aveva indossato una tunica bicolore verde e rossa, presa in prestito proprio per quello scopo da Silva Manoleggera, uno degli acrobati, prima di scendere dalla nave;
Halli invece sembrava alquanto a disagio in un ridicolo abito verde e oro, la cui vistosità era in parte mitigata da un enorme mantello grigio su cui il Lupo delle Terre Innevate e il suo nemico serpente erano elegantemente ricamati in seta rossa. Per quanto sorpresa dal fatto che Tam Volpe sapesse scrivere, Katla era rimasta molto più impressionata nello scoprire che il capo della compagnia teatrale aveva fabbricato quel mantello con le sue mani. Era difficile pensare a quelle zampe grosse e pelose impegnate in qualcosa di diverso dal maneggiare coltelli, issare vele o stringere donne, per non parlare di qualcosa di così delicato e tradizionalmente femminile come il ricamo; ma Tam Volpe non era sembrato risentito quando lei lo aveva deriso. «Fare del teatro non è solo giocare e divertirsi» aveva spiegato. «Si sta in giro tutto l'anno. Può diventare molto noioso a volte, specialmente quando qualche gentile signorotto decide di farti aspettare un giorno o due mentre lui se ne va a caccia di qualche mitico drago o si diverte con la sua ultima conquista. Inoltre non possiamo permetterci una sarta, una cuoca o una lavandaia, quindi dobbiamo tutti darci da fare. Ci fabbrichiamo e ci manteniamo da soli i nostri costumi, uomini e donne allo stesso modo: nella mia compagnia si deve essere abili con l'ago come con i bastoni, le palle e i coltelli.» E Katla aveva dovuto ammettere che la maestria con cui erano stati confezionati gli indumenti che avevano preso in prestito era di molto superiore alle sue capacità. Se lei avesse dovuto farsi i costumi da sola, molto probabilmente il pubblico avrebbe assistito a uno spettacolo molto più esilarante di quello per cui aveva pagato, pensò con amarezza. La prima mezz'ora di camminata per Halbo era stata una vera gioia per Katla, uno spettacolo degno di una compagnia teatrale. Non aveva potuto fare a meno di esclamare a ogni passo: «Guarda, fratello, finestre con i vetri! Guarda quella donna, ha i capelli viola! Oh, questa sì che è una pettinatura... Ma che gente vive in quella casa? Perché ci sono sbarre alla porta e spuntoni sul muro? Cosa sono quei segni che sembrano di catrame bruciato? Oh, sono catrame bruciato. È successo in guerra? Ma perché un nobile eyrano combatterebbe contro il proprio re? Per una donna? Ma di certo non...» E aveva proseguito di questo passo finché Halli non aveva minacciato di darle una botta in testa e lasciarla in un fosso a languire. Poi, mentre si avvicinavano alla periferia della città, erano stati testimoni di un vero e proprio corteo che veniva nella loro direzione: uomini a cavallo con eleganti mantelli ed elmi scintillanti, i lunghi capelli intrecciati e le barbe annodate con strisce di stoffe dai colori vivaci, i vessilli sventolanti su lan-
ce così lucenti che non sembravano aver mai avuto altro uso che quello; donne che sbirciavano fuori da carri coperti tirati dai robusti pony delle isole del Nord, con le criniere e le code adornate di nastri colorati. Una delle carrozze, che portava un gruppo di ragazze che ridevano e si pettinavano a vicenda i lunghi capelli, passò così vicino a Katla e Halli che i due furono costretti a saltare giù dal ciglio della strada; ma quando la giovane si rimise in piedi, gridando furiosa e agitando il pugno, Halli l'afferrò per un braccio. «Ferma!» Lei lo fissò incredula. «Avrebbero potuto ucciderci...» Poi si bloccò. Il viso di Halli era pallido e teso, e negli occhi scuri si indovinava una qualche indecifrabile emozione. «Cosa succede? Qual è il problema?» Ma Halli si limitò a scuotere la testa e riprese a camminare, a testa bassa, assorto in tetri pensieri, e non disse più una parola per il resto della strada. Il cantiere di Morten Danson si trovava al centro di un'ampia laguna, oltre la quale le pareti del fiordo si ergevano ripide verso l'ampio cielo blu. Un tempo il panorama doveva essere stato tra i più belli delle isole del Nord, perché di certo quella terra era stata popolata da querce, cipressi e pini a perdita d'occhio, mentre le acque della laguna avevano riflesso sulla loro chiara superficie tutta la gamma delle tonalità di verde, e gli irti picchi delle montagne e le alte nubi bianche correvano nel luminoso cielo del Nord. Ora invece non c'erano più neppure i tronchi segati degli alberi, perché sulle alture ormai brulle le foreste erano state sostituite da un denso intrico di felci, rovi e piante di mirtillo, oppure da grovigli anneriti di radici bruciate, dando vita a un paesaggio desolato che non era più di alcuna utilità né all'uomo né alle bestie. Giù lungo la pianura attraversata dal fiume, cadenti edifici avevano colonizzato le aree aperte: capanne di assi rose dalle intemperie con tetti di latta arrugginita, strutture di pietra e zolle di terra, casupole in legno, magazzini, ricoveri temporanei fatti con pelle conciata e pali... una sorta di squallido accampamento. In quel caos giacevano gli scafi di un centinaio di vascelli in vari stadi di ultimazione, con le prue e le chiglie nude stagliate contro il cielo che le facevano assomigliare a scheletri di balene macellate. A Katla quel paesaggio dava l'impressione che una grande battaglia navale fosse stata combattuta lì millenni prima, e che le acque si fossero poi ritirate, lasciando nella loro scia le carcasse dei vinti come monito agli altri. Nella laguna c'era invece una gran confusione di vascelli, per la maggior
parte alla fonda, mentre alcuni zigzagavano tra una decina di pontoni, chiatte e zattere di legname ormeggiate ai moli. Chiaramente la zona era stata spogliata di ogni albero idoneo allo scopo per diversi chilometri, e la richiesta crescente di nuove navi aveva costretto Morten Danson a rifornirsi di materiali molto più lontano. I tronchi più grandi quasi sicuramente provenivano dalla sacra Piantagione della Collina, dal momento che gli alberi che erano stati tagliati e privati dei loro rami e che ora giacevano su quelle zattere in origine dovevano essere stati alti oltre trenta metri... antichi giganti ora abbattuti. Un corso d'acqua, tributario del fiume che sfociava all'estremità meridionale della laguna, era stato deviato dal suo corso originario, che ora era rimasto abbandonato, evidenziato solo da una linea di verde più scuro e da un letto di ciottoli asciutti tra cui spuntavano delle alte erbacce, mentre il ruscello scorreva ora all'interno di un canale di pietra che lo conduceva fin nel cuore del cantiere navale. Katla vide degli uomini correre dal corso d'acqua ai capannoni fumanti con grandi secchi di pelle pieni d'acqua, e da quelle costruzioni saliva così tanto vapore che da lontano sembrava che in quella valle non si fabbricassero navi, ma nuvole: una fabbrica della pioggia, come solo Sur in persona avrebbe potuto avere. Katla e Halli scesero lungo la strada che portava a quel crogiolo di operosità e si guardarono intorno sbalorditi. Neppure Halli, che aveva viaggiato più di sua sorella, spingendosi a Promontorio Grande e Acquachiara e una volta, dopo la Grande Fiera, persino fino a Ixta nel nord dell'Istria, aveva mai visto una tale dimostrazione della volontà che l'uomo brutalmente esercita sulla natura. «È straordinario» mormorò, osservando il brulichio di attività sotto di loro. «È tremendo» replicò Katla. «Credo che non prenderò mai più una nave in vita mia.» «Questo posto fornisce la linfa vitale dell'Eyra, sorellina. In quale altro modo altrimenti potremmo dominare gli oceani? Pensi che il Dono di Fulmar sia stato intagliato da nostro nonno un giorno in cui non aveva niente da fare con un paio di rami delle sue querce preferite?» Katla sembrò dispiaciuta di quella frecciatina. «Non lo so. È solo che...» Allargò le braccia come per afferrare quella vista. «Non c'è niente... che venga restituito.» Si accigliò. «Non riesco a spiegarmi. È tutto così tetro.» Tacque, confusa. Quando lavorava i metalli nella sua officina, riusciva a sentire il potere di Elda che risaliva dal calore delle sue creazioni, attraver-
sava il suo corpo e ritornava nella terra. Era una specie di benedizione, un baratto con il mondo. Ma questo... «Posso aiutarvi?» L'uomo che aveva posto quella cortese domanda era di bassa statura e riccamente vestito. Era senza barba, alla maniera del Sud, ma aveva baffi sottili acconciati con cura che rivelavano una bocca altrettanto sottile e cesellata. Persino le basette erano state tagliate in una linea fine per accentuare la curva della mascella e gli zigomi. Il colletto della sua tunica era affilato come un coltello e ornato da costoso broccato che appariva davvero fuori posto in quell'ambiente, mentre la sua sottotunica era di un bianco talmente improbabile che sembrava indossata per la prima volta quel giorno. Katla pensò che non aveva mai visto un uomo così intenzionato a dare di sé un'immagine di precisione e affettata eleganza. La sua voce, però, ne tradiva le origini: l'accento della zona più povera dell'Eyra, le isole dell'estremo oriente, piatto e duro, non era stato ancora modificato fino a raggiungere il livello di perfezione del resto. «Siamo venuti per vedere Morten Danson, il proprietario di questo cantiere» disse Halli. L'uomo lo squadrò da capo a piedi, poi rivolse la sua attenzione a Katla. La giovane sentì i suoi occhi scrutarla con attenzione e soffermarsi sui capelli scompigliati, il costume stravagante, la piccolezza del seno. «Altri mendicanti e buoni a nulla che cercano lavoro, senza dubbio» commentò infine con un sospiro. «Non ci servite: abbiamo operai ignoranti a sufficienza qui. Portate i vostri abiti da pagliacci e le vostre mani leste da qualche altra parte. Buon giorno.» E voltò loro le spalle. Halli aprì la bocca per rispondere, ma Katla lo precedette. «Non importa, fratello» disse a voce alta in modo che le sue parole giungessero fino all'uomo che si stava già allontanando. «Se questo signore vuole impedirci di consegnare a Morten Danson un invito da parte del re, be', sono affari suoi. Sono sicura che difficilmente si sentirà la mancanza di un semplice costruttore di navi tra l'augusta folla di nobili e uomini di potere.» Il piccoletto si voltò con un fruscio di sete. «Un invito? Per me? Dal re, avete detto?» Dunque quel galletto vanitoso era Morten Danson in persona. Katla sentì una fitta di costernazione. Come faceva un tale sciocco presuntuoso a essere il più bravo maestro d'ascia di tutta l'Eyra? Le sue mani, pallide e lisce come quelle di una signora, sembrava che non tenessero in mano uno
strumento, almeno non del tipo usato in carpenteria, da decenni. Non aveva senso. Halli infilò la mano nella borsa e tirò fuori il rotolo di pergamena, legato con un nastro di seta. Lo tese al costruttore di navi, che lo afferrò con avidità, e le sue lunghe dita accarezzarono il rotolo come in un parossismo di eccitazione. Poi Danson lo srotolò con mani tremanti. Katla guardò i suoi occhi saettare sui segni e le sue sopracciglia corrugarsi per la costernazione. Non sa leggere, pensò deliziata. Potrebbe esserci scritta qualunque cosa: e per fortuna che parlava di ignoranza! Katla fece un delicato colpo di tosse e gli tolse di mano la pergamena. «Sai che ci è stato ordinato di declamare l'invito come si conviene, fratello» disse a Halli, tendendogli il rotolo. «Non è cortese aspettarsi che un uomo di cultura legga da solo i propri inviti...» Il volto di Halli rimase privo di espressione, ma Katla sapeva bene che la sua mente stava lavorando furiosamente. «Ah, sì» disse Halli dopo un istante di esitazione. Tenne la pergamena a distanza di braccia. «Il re, il nobile Ravn, figlio di Ashar, figlio di Sten delle Isole del Nord, richiede la presenza, la notte di Mezza Luna al castello di Halbo, del suo più leale e stimato costruttore di navi, Morten Danson, a una serata di spettacolo della compagnia di teatranti di fama mondiale guidati dal grande Tam Volpe, per celebrare le proprie nozze con la bella Rosa, regina del suo cuore.» «Uno spettacolo? Domani sera? Al castello di Halbo? Con la compagnia di Tam Volpe? Invitato da re Ravn in persona?» Gli occhi di Danson brillavano. «Siete invitato a partecipare al banchetto e a godere dell'ospitalità del re per la notte» concluse Halli ad alta voce. Arrotolò nuovamente la pergamena e la offrì a Danson, che si affrettò a prenderla e a stringersela al petto. «Povero me, che gioia. Che prospettiva entusiasmante. E cosa dovrei indossare per un'occasione del genere?» Gli occhi del maestro d'ascia si posarono per un istante su Halli. «Ma cosa mi viene in mente, chiedere una cosa del genere a un messaggero? E per di più a un messaggero che sembra si sia vestito al buio con gli abiti di qualcun altro...» Katla fece una smorfia a suo fratello. «Ti ha beccato» disse a fior di labbra. «Ci è stato anche chiesto» continuò Halli ignorandola «di ispezionare il cantiere navale e riferire al nostro padrone delle meraviglie che producete qui.» Fu attento a evitare di specificare chi fosse il loro 'padrone'. Che
Danson pensasse pure che loro servivano il re invece del capo dei teatranti, se era tanto presuntuoso da credere che Ravn li avrebbe inviati personalmente con una richiesta del genere. L'inganno funzionò. A Katla sembrò quasi di vedere Danson lisciarsi le penne con quel suo becco da galletto. «Certamente, certamente. Seguitemi.» La visita guidata fu superficiale e le notizie interessanti sepolte sotto un tale torrente di boria e autocelebrazione che, quando si concluse, Katla aveva una gran voglia di dare una botta in testa al costruttore di navi in quell'istante e risparmiare a tutti la pena di farlo la sera dopo. Erano comunque riusciti a raccogliere tutte le informazioni per cui erano venuti. Morten Danson aveva commissioni per tre navi rompighiaccio, stava attualmente fondendo il ferro per una quarta, aveva abbattuto ogni grossa quercia delle isole orientali, incluso il sacro bosco sopra Promontorio Grande («perché dicono che la guerra è imminente, sapete,» aveva commentato il maestro d'ascia, muovendo a scatti la testa come un passero che avvista un verme, «e a quel punto sarà chi ha il legname a vincere»), aveva fatto un bel buco anche nella Piantagione della Collina e aveva al suo servizio non solo il proprio capocantiere, Orm Nasopiatto, un mastro artigiano di primissimo ordine, ma anche l'uomo di Finn Larson, Gar Fintson. Qualunque Eyrano che avesse voluto farsi costruire una nave in grado di affrontare l'oceano sarebbe stato costretto ad arrivare fino alla porta di Morten Danson e prendere posto in una fila che cresceva a vista d'occhio. Avrebbe anche dovuto accettare i suoi prezzi esorbitanti... «Non c'è più molta concorrenza» aveva gioito lo sgradevole ometto «con Larson morto e ciò che è rimasto del clan degli Acquachiara ridotto a fare barche a remi e rozzi knarr con gli ultimi rimasugli di legno stagionato. Non c'è da meravigliarsi che debbano vendere la loro mucca da primo premio.» A quel punto Katla aveva visto il volto di suo fratello rabbuiarsi esattamente come quello di suo padre quando era davvero infuriato. Danson aveva poi indicato loro i principali capisquadra, il mastro segantino, che curvava il fasciame col vapore senza bisogno di alcuno strumento di misura, e poi il calafato e il mastro carpentiere, e aveva fatto notare che, a causa del numero di ordini urgenti da portare a termine, tutti i lavoranti vivevano nel cantiere o non lontano da esso. Per quanto riguardava i velai e i cordai, ce n'erano in abbondanza sulle Isole Occidentali: non ci sarebbe stato bisogno di corrompere o rapire nessuno di quel mestiere. Katla e Halli avevano poi preso nota di dove si trovava il durame più pregiato e la
migliore quercia per la prua. Sarebbe stato rischioso guidare due chiatte tra tutti gli ostacoli della laguna e fuori nel fiordo, ma le imbarcazioni di quel tipo erano enormi e gli altri vascelli minuscoli al confronto, e il problema sarebbe stato la mancanza di velocità più che la scarsa manovrabilità. Katla non invidiava affatto quel compito a suo fratello. Lei, invece, non vedeva l'ora di dare un bel colpo in testa al maestro d'ascia e di trasportarlo sul Lupo delle Terre Innevate il più in fretta possibile. Il giorno dopo l'alba si presentò con un cattivo presagio. La luce rossa del sole faceva risaltare le nubi di un fiammeggiante bagliore; poi, pochi minuti più tardi, tutto il cielo divenne scuro come al crepuscolo, e solo un fascio d'argento trafisse le nuvole nere. Con un grugnito sordo i cieli si aprirono e la pioggia cominciò a cadere a torrenti. Katla guardò fuori tra tutto quel grigio e osservò col cuore pesante le pietre scivolose, le strade fangose e i canali di scolo ribollenti di sporcizia. Per la prima volta da quando era salita di nascosto a bordo della nave dei teatranti avrebbe voluto essere a casa, a Rocciacaduta, dove le tempeste sul mare sembravano il teatro degli dèi e la pioggia serviva soltanto a far schiarire il cielo, a far verdeggiare i campi e a ripulire i suoi percorsi di ascesa preferiti dal guano degli uccelli. Accanto a lei, avvolto in un paio di vecchi sacchi di farina, Halli mormorò qualcosa di incomprensibile, si girò su un fianco e continuò a russare. Aveva dormito male, e di conseguenza anche Katla, perché era stata costretta a dargli di gomito in varie occasioni per farlo smettere. La parola 'Jenna' era stata pronunciata ben otto volte durante i suoi sproloqui notturni: Katla le aveva contate. La ragazza infilò un piede gelato tra i sacchi e lo posò sulla pelle calda della pancia del fratello. Halli scattò a sedere, sbuffando irritato. «Cosa...» «È ora di abbandonare i sogni felici» disse Katla con fermezza. «Hai una razzia di cui occuparti e io devo imparare qualche acrobazia.» «Lei sarà lì. Questa sera. E io non la vedrò neppure.» Katla lo fissò senza capire. «Di cosa cavolo stai parlando?» «Jenna.» Il volto di Halli sembrava tetro, ma forse era solo colpa della luce. «Come sai che sarà lì?» «L'ho vista, ieri, sulla carrozza con tutte le altre.» Katla ricordò il corteo di carri che avevano incrociato sulla strada il
giorno prima, il gruppo di ragazze che ridevano, i lunghi capelli biondi, l'umore nero di Halli in seguito, e si sentì una sciocca. «Oh, Halli... la carrozza che per poco non ci ha investito sulla strada...» Lui annuì. La sua mascella era serrata e i due grossi tendini che risaltavano sul suo collo erano un'evidente indicazione di quanto era teso. «Quello che Danson ha detto sul clan degli Acquachiara...» «...che stavano vendendo la loro mucca da primo premio» concluse con amarezza Halli. «L'hanno portata qui per farle sposare un vecchio e storpio amministratore di tenute, senza dubbio. O qualche grasso signorotto arrampicatore sociale e in cerca di favori, che pensa di far bene a sposare la seconda arrivata dopo la puttana nomade.» Katla fece una smorfia. «Faresti meglio a non dire certe cose nella città del re, se ci tieni alla testa.» «Mia sorella, la grande diplomatica.» Halli fece una risatina, poi andò verso la finestra dai vetri di membrana semitrasparente, ricavata dal rivestimento dello stomaco di una foca, e guardò fuori. «È un'ombra quella che vedo, o un maiale che vola?» Katla guardò verso le nuvole, con gli occhi stretti per fingere concentrazione. «Un maiale, senza dubbio.» Rimasero in silenzio per diversi minuti, guardando fuori verso il cielo in tempesta. Poi: «Cosa posso fare, Katla?» Halli chiese con voce angosciata. «Nostro padre mi spinge da una parte e il mio cuore e la mia coscienza dall'altra...» Si passò una mano sul viso. «Se porterò a termine il piano di papà, sarò a miglia di distanza lungo la costa, a rubare navi e legname, mentre Jenna viene spedita da qualche parte senza un amico al mondo a salvarla, e io l'avrò perduta per sempre.» Katla non sapeva cosa dire. Gli strinse un braccio. «Tu la ami davvero?» Halli annuì. «Ma temo che lei non mi ami.» Katla sorrise. «Jenna non sa amare altri che se stessa, e neppure tanto quanto dovrebbe. La troverò questa sera, e le parlerò. Fidati di me, fratello.» Poi si allontanò dalla parete eseguendo una goffa capriola all'indietro e atterrò scompostamente e dolorosamente a terra. Aveva della paglia nei capelli e una guancia tutta sporca di polvere: sembrava una bambina di quattro anni. Halli non poté fare a meno di sorridere. «Proprio un bel serpente, agile e svelto, sarai questa sera. Sarà meglio che ti sbrighi. Hai bisogno di tutto l'esercizio possibile.» Katla arrivò alle scuderie dove i teatranti avevano stabilito di incontrarsi
per le prove con grande ritardo, il che non era poi così sorprendente, visto che si era persa e poi aveva peggiorato la situazione decidendo di esplorare la parte della città sotto il castello, dove, ed esattamente lungo una stradina tortuosa che costeggiava le mura, aveva trovato un negozio che vendeva torte salate e un fabbricante di coltelli, e aveva mangiato a sazietà nella prima bottega, mentre nella seconda aveva intrapreso un'interessante conversazione sulla tempra dei metalli. Gli acrobati della compagnia di Tam avevano completato i loro primi esercizi e ora si riposavano qua e là per le stalle, sudando copiosamente. Gli uomini si erano spogliati rimanendo in tuniche di lino o in morbide brache di pelle, mentre le donne avevano stretto il seno con delle fasce e legato i capelli in lunghe trecce. Tutti si voltarono a fissarla quando si precipitò dentro. Tam Volpe, risplendente nel suo più trasandato mantello, la guardò con freddezza, studiando ogni particolare del suo abbigliamento e ogni centimetro di carne sotto di esso, e poi chiamò Urse Orecchiomozzo, il suo enorme braccio destro. «Legale insieme il secondo e terzo dito della mano sinistra» ordinò all'omone. «Può darsi che le serva a ricordare di essere puntuale in futuro.» Poi si voltò verso Katla. «Quattro dita, la quarta ora dopo mezzogiorno. La Grande Sala. Se tarderai, dirò a Urse di tagliarti le dita legate.» E si allontanò senza voltarsi indietro. «Non puoi trattarmi così!» gridò Katla furiosa. «Non con mio padre che paga per...» Se ne pentì un istante dopo aver parlato. E non solo perché sembrava una bambina permalosa e viziata, ma perché era una stupida mancanza di discrezione da parte sua e ora tutti avevano smesso di chiacchierare per ascoltarla. Tam Volpe si voltò lentamente. I suoi occhi erano di ghiaccio. «Tuo padre, mia cara,» disse a voce bassa «è uno sciocco e un pazzo, e per di più non ha un soldo. Io faccio questo per mie ragioni personali: faresti meglio a ricordarlo, o ti farò annodare anche quella tua lingua troppo lunga.» Urse girò la sua faccia deturpata verso Katla. Era difficile decifrare un'espressione in un volto del genere, pensò Katla. Un incidente con l'ascia, aveva sentito dire da una delle donne; uno scontro con un orso, aveva detto uno degli uomini. Ma lei era sicura che stesse sorridendo, e in maniera poco piacevole. «La mano, ragazzina.» Fare la ruota riusciva naturale a Katla. Se n'era andata in giro facendo capriole per tutte le isole sin da quando aveva cominciato a camminare, ma con le dita legate con un laccetto di pelle era necessaria molta più concen-
trazione per non cadere, e la punizione di Tam Volpe assunse ben presto un nuovo e più interessante significato. Urse aveva legato il laccetto con una serie di gasse d'amante e nodi da marinaio, in modo che il tutto rimanesse ben stretto e immobile anche sotto il peso del corpo della ragazza. Katla divenne consapevole della pressione della terra sotto il suo palmo in un modo che non avrebbe mai notato se avesse piroettato libera da costrizioni, e sentì il formicolio dell'energia sprigionata dal terreno crescere con forza sempre maggiore tra il suo corpo e la pietra del pavimento. Alla fine delle prove era esausta, ma traboccante di piacere per l'intensa soddisfazione che le aveva procurato la coordinazione e il controllo del proprio corpo. La sua era una parte semplice, in realtà: tutto ciò che doveva fare era una serie di ruote e poi, dopo una sfilza di salti mortali, doveva minacciare l'attore che sosteneva la parte del dio e cadere quando lui la colpiva con una gigantesca ancora riempita di paglia durante la rappresentazione dell'incontro tra Sur e il Serpente che voleva inghiottire il mondo. A quel punto Bella, una degli acrobati, doveva sbucare correndo dall'ombra con il suo costume a strisce e dei bizzarri baffi, interpretando il Gatto del Fuoco; allora 'Sur' fischiava per chiamare il Lupo delle Terre Innevate, che avrebbe gettato il Gatto del Fuoco in mezzo al pubblico prima di cominciare la sua battaglia con il Drago di Wen. Era un gioco da bambini, ma a quanto pareva era anche il racconto preferito dal re... e per fortuna lei non aveva battute da recitare. Accettò con gratitudine il fiasco di acqua speziata che Bella le passò, bevve con avidità e poi cominciò a slegare il laccio di cuoio. Non era affatto semplice, specialmente con una mano sola. Aveva appena cominciato ad allentare il primo nodo quando all'improvviso si rese conto che la loro disposizione non era puramente funzionale: Urse aveva scritto un messaggio in quel laccio. Katla voltò le spalle agli altri teatranti e lo scrutò, incredula. Incontriamoci: un nodo parlato ripiegato su se stesso. Fine: un nodo incrociato semplice. Prove: un nodo elaborato di cui non conosceva il nome. Ho: una gassa d'amante e un mezzo otto. Piano: due nodi semplici incrociati. Cancello: una gassa d'amante doppia. 3° albero: tre nodi attorcigliati e un nodo margherita per finire. Katla si guardò intorno. Era arrivata lì seguendo una strada piuttosto tortuosa: aveva attraversato un cancello di servizio e poi aveva percorso una serpeggiante stradina attraverso i fabbricati annessi al castello. Non aveva
visto alcun cancello degno di quel nome da quella parte. Continuando a toccare i nodi si alzò in piedi e cominciò ad allontanarsi dagli altri senza dare nell'occhio. Oltrepassò un gruppo di uomini con lunghi mantelli, poi un capannello di donne con dei cesti pieni di pane che salivano la collina dirette alle cucine del castello. Nessuno le prestò attenzione. Fiancheggiò un laghetto pieno di rumorose oche e papere, risalì la collina dietro di esso e si ritrovò a guardare in basso, verso una fila di querce che portavano a un alto cancello di legno. Sorridendo, Katla corse giù per il sentiero, fermandosi al terzo albero dal cancello. Non c'era nessuno in giro. Per le palle di Sur, imprecò tra sé. Girò intorno all'albero. Niente. Tam doveva aver disperato della sua intelligenza e disertato l'incontro. Irritata con se stessa, Katla tornò a incamminarsi lentamente su per la collina. «Uh-uh...» Era strano sentire un gufo in pieno giorno. Katla si voltò. In alto, tra i rami della terza quercia dal cancello, c'era Tam Volpe, le lunghe gambe che penzolavano da un ramo. La chiamò con un cenno del capo. «Vieni su e stai attenta che nessuno ti veda.» Katla si guardò intorno. Non c'era nessuno in vista. La quercia era enorme, e i primi rami erano facili da raggiungere. Lei non era abituata a salire sugli alberi: nelle Isole Occidentali le uniche piante che potevano sopravvivere ai rigidi inverni e ai venti di nordovest che soffiavano dritti dalla banchisa polare erano le basse betulle e i deboli salici, mentre le poche querce e i frassini non raggiungevano mai il loro pieno sviluppo. Ma Katla scalava rupi da tutta una vita. All'altezza della sua cintola c'era un piccolo incavo nel tronco dell'albero e sopra di esso una protuberanza dove una volta spuntava un ramo. Salendo sulle radici più alte, Katla infilò un piede nella cavità, afferrò l'escrescenza con la mano destra e si sollevò agilmente verso l'alto. Ora poteva raggiungere il ramo più basso, dopodiché tutto fu facile. Un attimo dopo era seduta a cavalcioni di un grosso ramo nodoso di fronte al capo dei teatranti. «Una vera signora» osservò Tam, canzonando il modo in cui la tunica le si era arrotolata fin sulla vita. Katla, che non era tipo da curarsi della decenza, si risistemò l'abito. «Non può essere un piano così importante se hai tempo da sprecare a guardare le mie gambe.» «E come potrei considerarlo tempo sprecato?» I suoi denti bianchi
splendevano tra la barba rossiccia. E quando Katla lo incenerì con lo sguardo, Tam si affrettò a continuare: «Ho un ruolo per te che credo ti piacerà.» Katla era distesa al suolo, e ansimava. Flint Erson era in piedi su di lei, trionfante nel suo abito sbrindellato color grigio mare e grigio tempesta e con l'enorme barba nera fatta di lana di pecora tinta. La sua smisurata ancora imbottita di paglia calò nuovamente. «Maledizione» sibilò Katla, schivando il colpo. «Non così forte!» Ma la folla rideva a crepapelle, fischiava e batteva i piedi e chiaramente si stava godendo un mondo lo spettacolo. Anche se non tanto quanto sembrava goderselo Flint Erson stesso. Poi ci furono 'ooh' e 'aah' di stupore, ed ecco entrare Bella vestita da Gatto del Fuoco, con un costume attillato di pelle di cavallo dipinta che le era stato cucito addosso per mettere in mostra tutte le sue qualità. Rosse fiamme risalivano dalla punta dei suoi piedi fino alla sommità della testa, danzando in maniera seducente tra le cosce e sul petto. Il Gatto del Fuoco cadde in ginocchio e cominciò a fare le fusa. Poi si attorcigliò intorno alle gambe del dio in un modo che sembrava impossibile per qualunque donna. Bella era talmente snodata... Katla sorrise. Mentre la folla era opportunamente distratta, scivolò via in fretta e si tolse la testa del Serpente, che era stata abilmente cucita con pelli di salmone conciate. Le era rimasta ben salda sul capo nonostante tutte le capriole, rifletté Katla, ma aveva un odore spaventoso. Il suo primo compito era stato portato a termine, ma non era ancora il momento di dare il via alla sua seconda interpretazione. Per la prima volta quella sera fu in grado di rilassarsi a sufficienza da guardarsi intorno nella Grande Sala, e ammirare l'architettura monumentale dei pilastri scolpiti che si elevavano per più di quindici metri fino agli enormi ventagli di assi di legno del tetto, e gli arazzi dai favolosi colori che adornavano le spesse mura di pietra e che ritraevano scene dal mito e dalla storia: re Fent e i troll della montagna Nera, la battaglia dello Stretto degli Squali, Sur immerso fino alla vita nell'Oceano del Nord che gettava pietre nell'acqua per creare le isole dell'Eyra. Poi Katla rivolse la sua attenzione agli ospiti lì riuniti. Era come rivivere il Raduno della Grande Fiera, pensò: la nobiltà eyrana si era presentata vestita degli abiti più sgargianti e di peggior gusto, rivaleggiando nell'eccentricità per essere notati dal re. Ravn Asharson, che aveva lasciato che gli Istriani la prendessero per bruciarla senza alzare un dito e neppure la voce allo scopo di impedirlo, non aveva occhi che per la donna che ora
aveva preso ufficialmente in moglie, e che quindi era di diritto la regina del Nord. Sedeva dando le spalle allo spettacolo (e tanti saluti alle nostre prove, pensò Katla irritata) e sussurrava qualcosa alla sua compagna, mentre lei gli teneva la mano e con le lunghe dita bianche gli accarezzava l'interno del polso con quella sorta di ritmo sensuale e ipnotico con cui si accarezza il proprio gatto preferito. Dietro la coppia sedeva una donna dall'aspetto austero, vestita di nero, dal naso aquilino e il portamento fiero dei reali eyrani. Neppure lei guardava lo spettacolo; fissava invece con manifesto odio la nuova regina d'Eyra. La nobile Auda, rifletté Katla: la madre del re, vedova del Lupo della Notte, il Signore dell'Ombra in persona, Ashar Stenson, ora sostituita come prima Signora del regno dalla zingara che le sedeva di fronte, mentre il suo unico figlio era soggiogato dalla sua malia. Non c'è da meravigliarsi che sia così infuriata, pensò Katla: essere costretta a cedere i propri privilegi a una donna degli Erranti senza nome né lignaggio, e perdere non solo il proprio status, ma anche il proprio figlio... Gli occhi di Katla si posarono ancora una volta sulla nomade. Era la prima volta che poteva osservare la Rosa Eldi a suo piacimento: venire trascinata al rogo da una compagnia di guardie della Grande Fiera non era certo stata l'occasione migliore per permetterle di prestarle tutta la sua attenzione. Era una creatura strana, pensò Katla, abituata com'era alle robuste donne d'Eyra: così sottile, pallida e delicata che sembrava aver trascorso tutta la vita in una caverna di ghiaccio senza sole né sostentamento... ma c'era qualcosa di più in lei di quanto si poteva scorgere. Altri potevano anche definire la Rosa Eldi 'bionda', 'leggiadra' o a prima vista 'fragile', ma Katla aveva visto le pelli degli orsi bianchi delle regioni più fredde delle isole del Nord ed era rimasta affascinata da quei peli che, esaminati in maniera più accurata, non erano di quel bianco giallastro che ci si poteva aspettare guardando quelle bestie da lontano (il modo più sicuro di osservarle, perché nonostante la loro camminata apparentemente indolente erano rinomati per la loro velocità e la loro ferocia, come Urse poteva probabilmente testimoniare), ma traslucidi come un ghiacciolo con un fuoco congelato intrappolato al suo interno, ed era proprio così che quella donna appariva a Katla: pallida, fredda e bella, dalle fattezze finemente cesellate e il corpo flessuoso, ma allo stesso tempo piena di un'energia pericolosa, invisibile, che in qualsiasi momento avrebbe potuto erompere dai suoi fragili confini, invadere la sala e uccidere tutti in un istante. Katla distolse lo sguardo, sconcertata da quel bizzarro pensiero, e mentre lo faceva il suo occhio fu attirato da un'altra cascata di capelli biondi, ve-
ramente dorati questa volta, e non del verde di un campo di grano non ancora maturo come l'ultima volta che aveva visto la sua amica: lì, seduta a poca distanza dal re, tra un giovane scheletrico con una tunica color porpora e un uomo barbuto con un farsetto tirato sulla grossa pancia, sedeva Jenna Finnsen. E a due scranni di distanza da Jenna c'era il costruttore di navi, Morten Danson. Perfetto, pensò Katla. Due piccioni con una fava. Poi ci fu uno scroscio di applausi. Katla si voltò e vide che, nel cerchio dei teatranti, Sur aveva appena spacciato il Drago di Wen con uno stravagante colpo della sua enorme spada e Tam Volpe era uscito sul palcoscenico, battendo le mani per chiedere il silenzio. «E ora» dichiarò Tam «è arrivato il momento di un miracolo della mutabilità, di un mistero magico latore di gioia, di una stupefacente fantasmagoria, di un trionfo della trasformazione, di uno spettacolo di vera e propria metamorfosi!» La folla applaudì di nuovo. Le prolisse presentazioni del capo della compagnia teatrale erano molto apprezzate. Quattro attori portarono una tenda a strisce fatta con pali flessibili e una stoffa dalla trama molto fitta, e la posarono a terra dietro a Tam Volpe, trascinandola nel punto esatto dove doveva essere posizionata. Era più alta di circa due spanne rispetto a Tam stesso, aveva all'incirca il diametro di un uomo alto sdraiato, e nel complesso sembrava piuttosto robusta, nonostante i suoi componenti fossero leggeri. «Mi servono due volontari» proclamò Tam. «Un gentiluomo e un membro del gentil sesso. Entreranno entrambi nella tenda magica e... be', quello che faranno assieme lì dentro sarà affar loro, naturalmente...» Il commento generò un gran numero di battute pesanti e di fischi. «Tutto quello che posso promettervi è che ciò che state per vedere è la rara e antica arte della metamorfosi! Qualche volontario?» Solo una persona, Silva Manoleggera, seduta tra il maestro d'ascia e il grassone accanto a Jenna Finnsen e pronta a fare la sua parte, rispose all'appello. Tam sorrise. «Non c'è nessun gentiluomo tanto coraggioso da accettare la mia sfida?» Era il segnale che Katla aspettava. Rimettendosi precipitosamente la testa del Serpente, la giovane sbucò dalle ombre facendo la ruota, con la sua flessuosa figura tutta vestita d'argento lucente, e si fermò ansimando leggermente davanti alla tribuna reale, dove sedevano Ravn Asharson e la sua
novella sposa. Lì eseguì uno stravagante inchino, poi si voltò con aria interrogativa verso Tam, come le era stato detto di fare. «Il mio signore accetterà la sfida?» gridò Tam Volpe. La folla tacque all'istante, scioccata da tale affronto, ma quasi immediatamente Katla si mosse di nuovo, con un sorriso e una giravolta all'indietro che la portarono proprio di fronte a Morten Danson. Il costruttore di navi la fissò, sbalordito, mentre balzava sul tavolo e lo prendeva per un braccio. Poi, trascinandolo in piedi, ignorò la mano tesa di Silva e la superò. «Cosa stai facendo?» mormorò Silva tra i denti, ma «Shh» rispose Katla, e tese la mano verso la figlia del clan degli Acquachiara. Jenna aprì la bocca per protestare; ma il Serpente chinò la testa e, Jenna ne fu sicura, le fece l'occhiolino attraverso la fessura che era stata ricavata tra le pelli di salmone. Nel momento di esitazione che seguì, Katla afferrò la sua amica e spinse lei e Danson sul pavimento. «Cribbio,» dichiarò Tam Volpe con un'espressione leggermente divertita «sembra che il Serpente abbia trovato due coraggiosi da portare con sé nel suo viaggio nell'aldilà.» La folla applaudì e gridò esultante. Era troppo tardi per fuggire. Morten Danson decise di far buon viso a cattivo gioco e cominciò a sorridere e a salutare con la mano libera, ma quella che Katla teneva imprigionata nella sua era fradicia di sudore. Non si sta divertendo affatto, pensò la ragazza con gioia. E si divertirà ancora meno con quello che verrà dopo... Tam Volpe tenne alla coppia un bel sermone sul comportamento da tenere quando sarebbero stati insieme nella tenda, dal momento che la presenza del Serpente poteva portare solo a una tentazione più grande. Fece anche finta di guardare sotto la gonna di Jenna per assicurarsi che indossasse degli indumenti intimi resistenti, al che lei gli schiaffeggiò le mani per allontanarle da sé e arrossì furiosamente. La folla urlò il suo allegro incoraggiamento al maestro d'ascia, che sembrava ugualmente preoccupato da quanto stava succedendo. Poi Katla li condusse all'interno della tenda, stringendo le loro mani con tutta la forza che aveva. Nei secondi prima che scoppiasse il caos, sentì i musicisti cominciare a suonare e un rumore di piedi che danzavano circondare la tenda; poi il pavimento cedette sotto di loro e si ritrovarono a cadere. Il suono dei pifferi e il battere dei tamburi mascherarono con efficacia il grido di oltraggio di Morten Danson e lo stridio della botola prima che Urse stringesse il costruttore di navi con il suo potente braccio e lo imba-
vagliasse con impressionante velocità e destrezza. Katla si districò dalle balle di fieno che erano state poste sotto di loro per attutire la caduta e tirò via Jenna in modo che i due teatranti che stavano prendendo il posto di Danson e di quella che avrebbe dovuto essere Silva Manoleggera potessero arrampicarsi su fino al buco. Il sostituto di Danson era un uomo piccolo, magro e calvo di nome Lem, che non indossava che un paio di smisurati stivali e dei mutandoni in cui era stata infilata un'enorme salsiccia. «Pronto, mio piccolo luccio?» Min Facciadipesce, vestita con un abito semitrasparente e molto scollato, sollevò Lem nel buco, poi si tirò su con agilità. Mentre Min usciva dalla botola, Katla notò che aveva annodato delle strisce di lino intorno ai polpacci e alle cosce e vi aveva infilato tutta un'armeria di coltelli da lancio. In fondo non si poteva mai sapere... «Per le tette di Feya, Katla, a che gioco stai giocando?» Jenna era sempre più rossa in volto. Sembrava che stesse per scoppiare a piangere da un momento all'altro. «Bene,» rispose Katla con voce tesa, togliendosi la testa del Serpente con un gesto esagerato «è la mezza cartuccia scheletrica o la grossa e vecchia capra che ti hanno portato qui per sposare?» Jenna batté le palpebre, perplessa. «Lo sapevo» disse alla fine. «L'ho capito quando mi hai fatto l'occhiolino, anche se mi sembrava troppo assurdo che tu viaggiassi con una compagnia di teatranti.» Ci rifletté per un momento. «O forse no, in effetti.» «Allora? Quale dei due?» «La capra» rispose Jenna senza sorriderei. «E tu vuoi sposarlo?» «Non ho scelta. Dicono che non abbiamo più denaro e che lui è un uomo ricco.» «Halli ti ama ancora.» Jenna lo fissò. Poi scoppiò a piangere. «Oh, Katla, sono stata così infelice...» Sopra di loro la musica era cessata. Poi ci fu uno strascichio quando la tenda fu rimossa e dopo un istante di sbalordito silenzio la folla cominciò a ridere a crepapelle e a battere entusiasta le mani. Katla afferrò la sua amica. «Non c'è tempo per parlare. Vieni con noi o resti per sposare la capra?» Per un istante la ragazza bionda esitò. Poi annuì vigorosamente. «Vengo
con voi.» Ci fu un certo trambusto sopra di loro quando Morten Danson fu infilato in un rotolo di tendoni da palcoscenico e gettato in un carro coperto. Jenna sembrò allarmata. «Sta bene?» «È una specie di scherzo» rispose Katla sorridendo. «Starà bene.» Sarà solo leggermente furente, pensò con allegria, quando scoprirà dove sta andando. E perché. 6 Esuli Erno Hamson sedeva in silenzio in un angolo della taverna e ascoltava. Era lì, ad ascoltare, da quasi due ore ormai. Era molto più caldo e più piacevole stare dentro Il Leopardo e la Signora (una taverna più comunemente nota ai marinai e ai portuali di Hedera come Il Micio e la Passera) che fuori, specialmente in paragone alla misera capanna che era riuscito a ricavare con la faering rovesciata su cui lui e la donna erano fuggiti dalla pianura della Luna Caduta, e con legno e rami e una grande pezza di tela olona che era riuscito a rubare da un cantiere navale la notte precedente. Viaggiavano da parecchie settimane ormai, vagando di costa in costa, vivendo di quello che il mare e la terra avevano da offrire, senza nessun progetto per il futuro. La donna se ne lamentava parecchio... ma a Erno non importava. Da quando Katla Aransen era morta il suo mondo era diventato freddo e vuoto, perciò vagare e condurre una vita disagiata per lui era lo stesso che abitare in un palazzo. Ma starsene seduto lì al Micio e la Passera era senza dubbio preferibile che starsene giù alla piccola spiaggia di ciottoli. E più che altro significava non dover ascoltare la morbida e sibilante voce della donna mentre cantava quegli strani versi senza senso che le piacevano tanto. All'inizio aveva pensato che il problema fosse la sua scarsa comprensione dell'istriano poiché aveva colto parole e frasi che mal si collegavano tra loro (qualcosa su una rana e un cucchiaio, su un gatto in un pozzo, un ragno e del formaggio); ma poi si era reso conto che la donna stava canticchiando delle vecchie filastrocche per bambini, canzoncine che avevano un loro equivalente anche nelle isole del Nord da cui lui stesso proveniva. Per un po' si era sentito triste per lei, una povera esule fuggita dalla sua stessa gente; ma da un po' di tempo aveva cominciato a trovare irritante quell'atteggiamento,
perché gli sembrava un modo per isolarsi da lui e dalla situazione in cui si trovavano. A quel punto, dopo più di tre cicli lunari in compagnia di Selen Issian, Erno era in grado di conversare abbastanza bene nella lingua del Sud, anche se quando si avventurava in luoghi pubblici come il porto di Hedera doveva giustificare il suo bizzarro accento dicendo che proveniva dalle montagne dell'estremo Sud per non attirare troppo l'attenzione. E quanto mangiava quella donna! Era quasi incredibile che una persona così piccola potesse trangugiare così tanto cibo senza ingrassare a vista d'occhio. Viaggiare con lei stava diventando una vera tortura: "quando era abbastanza fortunato da procurarsi più pane di quello che potevano mangiare in un giorno e lo metteva da parte, spesso gli capitava di non trovarlo più la mattina dopo: svaniva insieme a tutto il pesce essiccato e alla forma di formaggio che Stava conservando per i tempi duri. Data la tragicità della situazione della donna, in fuga dalla tanto magnificata 'giustizia' istriana per aver ucciso l'uomo che l'aveva violentata alla Grande Fiera, lui si sentiva in dovere di restarle accanto, anche se era per causa di lei che la sua amata Katla era stata mandata al rogo. C'erano giorni in cui faceva fatica persino a guardarla... e questo era uno di quei giorni, e per tale motivo era lì in quel momento, con il cappuccio sulla testa e gli occhi bassi, a sorseggiare il boccale di birra leggera che si girava e rigirava tra le mani da più di un'ora. Aveva speso la sua ultima moneta per il primo boccale, che era andato giù un po' troppo in fretta sia perché potesse fargli bene che perché riuscisse ad assaporarlo appieno; poi, quando era uscito dalla taverna per fare una capatina alla latrina, aveva trovato un cantari semisepolto nel fango, perduto senza dubbio da un cliente troppo ubriaco per fare attenzione alla propria borsa, e quella moneta gli aveva procurato l'attuale boccale; e avrebbe potuto procurargliene altri due oppure del cibo, se in lui avesse prevalso il buonsenso. In ogni caso, pensò Erno, Sur doveva sorridergli quel giorno. Il Leopardo e la Signora era la prima taverna istriana in cui aveva avuto il coraggio di entrare; ma era la somiglianza tra le bettole di casa sua e quelle dell'Impero del Sud ciò che più l'aveva colpito. Il locale era buio, fumoso e affollato, e a causa della confusione si era costretti a gridare per ordinare; la birra era leggera e costava più di quanto avrebbe dovuto. Nonostante le enormi differenze tra le culture dei due paesi, anche lì le taverne sembravano essere il luogo dove gli uomini andavano per sfuggire per un po' alle loro donne, alla monotonia del loro lavoro e alle responsabilità della vita domestica. Venivano lì per bere, per sentirsi a loro agio in com-
pagnia di altri uomini e per parlare. Era impressionante quello che una persona poteva sentire in un posto del genere se ci sedeva tranquilli in un angolo in modo che nessuno le prestasse attenzione. Finora Erno aveva scoperto molti fatti interessanti. Aveva saputo, a esempio, che un certo Pico Lansing stava offrendo tariffe speciali al bordello che gestiva, le Braccia della Vergine, giù alla fine del molo, e che ora si potevano avere due ragazze per dieci cantari e probabilmente per otto, se si era disposti a perdere un po' di tempo a contrattare, poiché gli affari erano scarsi a causa del grande aumento del carico di lavoro nelle botteghe locali per la lavorazione dei metalli; aveva scoperto che l'uomo alto con la lucente testa calva e il naso aquilino che se ne stava immusonito al bancone con un grosso bicchiere di araque alla rosa davanti, quel disgustoso liquore che sapeva di fumo ma che agli Istriani piaceva tanto, stava avendo grosse difficoltà a far riparare la casa dei suoi genitori sulla collina di Sestria, poiché in quel momento era quasi impossibile mettere le mani su un carpentiere nemmeno pagandolo a peso d'oro, e la pioggia filtrava dal tetto e minacciava di rovinare quei mobili su cui sua moglie aveva messo gli occhi addosso già da sette anni; e che il prezzo dello stagno e del rame era stranamente salito alle stelle, mentre il valore dell'argento era crollato, perché il mercato monetario era invaso da monete di quel metallo. Aveva saputo che un gruppo di Erranti era passato alla periferia della città di mare la settimana prima ed era stato cacciato dalla zona in cui erano soliti accamparsi da più di vent'anni, e che come conseguenza la moglie del mercante Paulo Foring aveva prematuramente partorito un mostro, un bambino con una testa enorme e ali al posto delle braccia, che l'aveva fatta a pezzi mentre nasceva, e la donna probabilmente non sarebbe sopravvissuta. Un grande mormorio aveva fatto seguito a quel racconto, e altri avevano contribuito con le loro storie: di come una cavalla da riproduzione aveva dato alla luce due leoni già adulti e poi era morta, dato che essi l'avevano divorata dall'interno; di come la settimana prima era stato trovato nelle reti un pesce con minuscole dita sulle pinne e sulla coda (era appeso a un palo al molo Calabria, se qualcuno voleva andarlo a vedere); di come una ragazza della rispettata famiglia dei Layon, quelli che possedevano la tenuta nella valle, era fuggita dalle Sorelle del Fuoco, dove suo padre l'aveva mandata per punirla di aver rifiutato il matrimonio con l'uomo che aveva scelto per lei, ed era andata dai nomadi, pregandoli di prenderla con loro; ma quelli a loro volta l'avevano cacciata via a colpi di pietra, solo dopo averla stuprata, e ora giaceva prossima alla morte. Si sussur-
rava che non poteva neppure pregare la Dea per ottenere il suo perdono, dal momento che quegli uomini malvagi, oltre alla sua castità, avevano preso anche la sua lingua. Molti in tutta la taverna si fecero il segno del fuoco a quella terribile notizia. Gli Erranti avrebbero dovuto essere bruciati tutti, dal primo all'ultimo, gridò un uomo, e altri annuirono concordi. La magia era malvagia e pericolosa: tutti quegli anni di pozioni che avevano poco effetto e di incantesimi che non funzionavano erano stati di certo un inganno per far sì che la gente si cullasse in un falso senso di sicurezza mentre di nascosto i nomadi raccoglievano le forze e si preparavano a vendicarsi dell'Impero. Erno ascoltò quelle farneticazioni con una smorfia. Dava poco credito a tutte le sciocchezze superstiziose che la gente del Sud attribuiva ai nomadi, persone che neanche lui, e Sur lo sapeva bene, aveva motivo di amare, ma che gli erano sembrati, per quel poco che li aveva conosciuti, gente cordiale senza alcun interesse nei confronti della ricchezza o del potere... e questo era più di quanto potesse dire degli Eyrani o degli Istriani che aveva incontrato, la maggior parte dei quali dedicavano la loro vita a conseguire uno dei due scopi, e spesso entrambi. La ragazza molto probabilmente era stata aggredita da uomini del suo stesso popolo, e la lingua le era stata tagliata perché non parlasse. Niente ormai avrebbe potuto sorprenderlo: gli Istriani si comportavano in modo molto strano con le donne, mettendole su un piedistallo come esseri degni di adorazione, ma poi trattandole come loro proprietà, usandole come dettava loro la lussuria, come se fossero solo dei beni senza alcuna facoltà mentale, per non parlare poi di una propria volontà o di un'anima. Ma qualcosa in quello strano modo di vivere doveva funzionare, perché nessuna protestava né fuggiva dal paese: per quanto ne sapeva lui, non c'erano femmine del Sud in Eyra, dove le donne avevano il diritto di parlare e gestivano famiglia e casa. Dai primi due frammenti di conversazione, però, Erno aveva arguito che i piani per la guerra contro il Nord erano in pieno sviluppo: se i cantieri navali e gli artigiani erano così impegnati, allora il Consiglio istriano doveva aver ordinato di preparare una flotta. E se era così, allora se fosse stato scoperto sarebbe stato ancora meno bene accetto lì di quanto già era sicuro di essere. Involontariamente si portò una mano alla testa. Aveva convinto la donna istriana a tagliargli i capelli quando si era reso conto che gli uomini del Sud raramente li avevano lunghi, e tanto meno intrecciati con conchiglie o pezzi di stoffa. Ogni oggetto che aveva usato per adornarli possedeva invece un significato. C'era una treccia che aveva fatto in ri-
cordo di sua madre, morta di febbre, a cui aveva legato piccole strisce di un suo abito e una conchiglia che lei gli aveva regalato. Poi c'era quella che aveva fatto per Katla, che includeva una piccola treccia di capelli rosso dorato legati intorno ai suoi color biondo argento con un nodo complesso, insieme a un sassolino che a lei piaceva e che lui aveva trascorso ore a bucare con il punteruolo che usava per riparare i suoi abiti di pelle. Il filo d'argento con cui l'aveva legato proveniva, all'insaputa di Katla, dalla sua fucina. Lei lo usava per comporre i suoi delicati motivi sulla testa incisa di un'ascia o sulla lama di un pugnale, ed era un oggetto costoso, ma all'epoca in cui se l'era infilato nella sacca tutti quei mesi prima aveva pensato che non si sarebbe accorta se gliene mancava un pezzettino. E ora, purtroppo, non le sarebbe più servito dovunque fosse andata, magari a tessere stoffe con Feya nella sala delle donne, mentre Sur banchettava nel Grande Sepolcro. Aveva conservato tutte le sue trecce (le teneva avvolte in un pezzo di tela olona e infilate sotto il sedile del rematore della faering: meglio non portarle con sé nelle sue scorribande), si era rasato con un coltello ben affilato e aveva continuato a farlo ogni giorno anche se era un'insopportabile seccatura, poi si era tinto i capelli di nero con l'inchiostro di seppia acquistato in un piccolo porto lungo la costa... ma i suoi occhi erano impossibili da mascherare, perciò si copriva con un cappuccio. Stava quasi per consentire al buonsenso di avere la meglio sul piacere alzandosi per uscire dalla taverna e andare a comprare del cibo al mercato quando sentì il nome 'Vingo' infilato in una conversazione da qualche parte alla sua destra, e sollevò di scatto la testa come un lupo che fiuta la preda. «Ululava come un cane, quel ragazzo, e dichiarava di essere cieco, ecco quello che mi ha raccontato Foro; ma era stata l'oscurità della stanza a ingannarlo. E da quel giorno non ci fu mai uomo più felice di Favio Vingo di vedersi restituito suo figlio da Falla.» «Sì, be', forse la Signora non ha voluto tenerselo. Da quello che ho sentito dire...» «Su Tanto Vingo? È un tesoro nazionale, quel ragazzo. È arrivato secondo nella gara di scherma alla Grande Fiera, sai; e poi è incappato in una lama nel tentativo di impedire a dei malviventi di quella terra di rapire sua moglie...» «La sua futura moglie» lo corresse un altro. «Non c'era stata ancora la giunzione delle mani la sera del Raduno. Il nobile Tycho aveva mandato a monte l'affare e si era rifiutato di onorare il patto.» «Io avevo sentito dire che erano stati i Vingo a tirarsi indietro» osservò
il primo uomo. «È un tipo davvero strano, quel Tycho Issian.» «È un uomo pio: un nobile dall'animo retto, che predica ogni giorno contro l'iniqua oppressione delle donne da parte degli Eyrani. L'ho sentito parlare a Forent la scorsa settimana ed è stato molto convincente. Davvero, mi è quasi venuta voglia di salpare all'istante per le isole del Nord e riportare indietro ogni donna che fossi riuscito a trovare per servire la Dea...» «Per fare qualche servizietto a te, probabilmente!» Ci fu uno scroscio di risa a quella battuta, poi la conversazione si spostò sugli utilizzi più specifici delle donne e sul modo migliore per venerare la Dea col loro aiuto. Erno si accigliò, tentando di dare un senso a quei frammenti di informazioni che aveva racimolato. Poi si scolò i resti della birra e si fece silenziosamente largo tra gli avventori per uscire nella strada gelida. Andò per prima cosa al mercato, dove fu tentato di spendere la moneta che gli era rimasta in ben altre cose che il cibo, ma poi comprò due pagnotte di pane di segale, un sacco di riso e un pezzo di prosciutto affumicato. Era passato accanto a una serie di alberi ancora carichi di mele mentre veniva dalla costa. Poi al suo ritorno avrebbe controllato la nassa che aveva messo in acqua quella mattina; il tutto avrebbe dovuto durare almeno qualche giorno, se avessero razionato la carne e il riso. All'ultimo minuto ricontrollò la moneta e si rese conto che gli bastava anche per comprare un secondo pezzo di prosciutto, che si sarebbe conservato per una settimana o più... ma poi passò davanti a una bancarella dove un uomo stava decantando ad alta voce le sue merci e scoprì che aveva in mano il prezzo esatto di una gallina, il che gli sembrò un bizzarro colpo di fortuna. Tuttavia quando aprì la bocca per dirlo, il venditore gli prese il denaro dalla mano, tirò fuori un pollo dalla stia e lo sgozzò con tale maestria e velocità che Erno non fece in tempo a chiedergli di lasciarlo vivo e di legargli solamente le zampe insieme, e poi scoprì che aveva bevuto un po' troppo per mettersi a discutere con lui in istriano. Ora avrebbero dovuto cucinarlo quella sera, che la nassa contenesse o meno una preda. Erno prese un sentiero lungo le scogliere che portava a ovest e, una volta lontano dalla città, si tolse il cappuccio e camminò a testa alta, con la brezza fresca tra i capelli. Il sentiero passava attraverso ricchi campi che prima del raccolto avevano di certo ospitato un grande mare di orzo e segale, ma che ora erano pieni di stoppie. Grandi covoni segnalavano i campi di grano
più all'interno: Erno riusciva a vedere per chilometri intorno a sé, perché la campagna era ondulata e priva di alberi. E ovunque guardava il suo suolo era fertile e i raccolti abbondanti. Tutto questo, pensò Erno, scuro in volto, una volta apparteneva agli Eyrani, giù fino alle montagne d'Oro, o così dicevano gli anziani. Il giovane aveva provato un odio forte e istintivo contro gli Istriani quando aveva saputo cosa era accaduto a Katla; ma ora che vedeva quella bella terra intorno a sé e paragonava i suoi lussureggianti campi alle brulle distese rocciose spazzate dalle tempeste delle isole del Nord, sentiva quella rabbia farsi più profonda, e bruciare più forte e più violenta. Cominciò a capire le parole rabbiose che Tor e Fent pronunciavano sempre contro gli uomini del Sud, che loro definivano l'antico nemico, parole che a quell'epoca gli erano sembrate crudeli e stupide. Eppure ora lui si ritrovava lì, sul suolo istriano, camuffato da Istriano e in procinto di ritornare da una donna di quella terra, della quale doveva prendersi cura, mentre tutto intorno a lui l'Impero del Sud si preparava alla guerra contro la sua gente. Scosse la testa. Tor avrebbe avuto qualcosa da ridire in proposito. Se mai l'avesse rivisto. Nella valle successiva un pennacchio di fumo indicava la posizione di una fattoria. Erno costeggiò un piccolo bosco finché non fu abbastanza vicino da vedere del bucato che svolazzava appeso a un filo fuori dalla casa: dei polli correvano su e giù per il cortile. Un'idea si fece strada nella sua mente. Pochi istanti dopo stava correndo verso la costa con la sacca più gonfia di prima. L'abbaiare di un cane infuriato echeggiava nell'aria che sapeva di fumo. Il tempo di controllare la nassa, trovarla vuota e ritornare alla spiaggia, e il sole era già calato sotto l'orizzonte, lasciando il mondo nell'oscurità. La donna era seduta su un tronco di fronte a un piccolo fuoco e stava colpendo con la punta di un bastone i due sgombri che aveva catturato e pulito quella mattina, lasciandoli poi in una pozza tra gli scogli per conservarli freschi per la cena. I pesci giacevano sulla brace, la pelle sfrigolante per il calore. La luce del fuoco illuminava il suo viso, allontanando in parte le ombre della sera. Se fosse stata una qualsiasi altra donna Erno avrebbe detto che era bella, ma ormai il suo cuore era indurito, quindi infilò la mano nella sacca. «Metti questa!»
Le gettò della stoffa scura e vide mutare l'espressione sul viso di lei. «Perché mi dai questa cosa?» Selen Issian agitò la lunga veste nera con il velo integrale e la fessura che rivelava solo la bocca: l'abito tradizionale delle donne istriane, di cui quello era un esemplare particolarmente dozzinale. Fissò sbalordita l'Eyrano. «Pensavo che fossimo d'accordo, dopo l'ultima volta, che fosse meglio non farci vedere insieme.» «Non ti porto in città, ma da tuo padre. È a Forent con il nobile Rui Finco al momento. Non è lontano: tre o quattro giorni al massimo, meno se riusciamo a ottenere un passaggio.» Anche alla luce rossastra del fuoco, il viso della donna impallidì. «Non puoi... hai promesso che ti saresti preso cura di me. Hai promesso che non avrei dovuto tornare da lui...» «L'uomo che pensavi di aver ucciso non è morto, perciò le circostanze sono cambiate.» «Tanto... Tanto Vingo è ancora vivo?» Come poteva un uomo sopravvivere a quel dissanguamento? Quando l'aveva accoltellato (tre, quattro volte? Aveva perso il conto nel terrore del momento) il sangue era zampillato dappertutto: sulle sue mani, sul coltello, sul pavimento. Non riusciva a crederci. «C'era un uomo alla taverna che era in visita alla casa della sua famiglia quando Tanto Vingo si è risvegliato dal suo lungo sonno.» Non le disse che il ragazzo dei Vingo aveva 'ululato come un cane' quando aveva ripreso conoscenza. «E ora si sta riprendendo. Perciò sembra che, nella peggiore delle ipotesi, tuo padre dovrà pagare alla famiglia solo il prezzo per il suo ferimento, invece che spedirti sul rogo. Puoi tornare in tutta sicurezza con il tuo onore intatto.» Selen scrutò il viso di Erno per capire se stesse mentendo, ma il giovane sembrava sincero. Lui la guardò a sua volta, aspettandosi uno scoppio d'ira... Tuttavia la donna si limitò a serrare la mascella e a fissare nel fuoco con tale intensità che sembrava volesse fargli capire che avrebbe preferito gettarsi tra quelle stesse fiamme piuttosto che fare ciò lui aveva suggerito. Poi, con un gesto deciso, recuperò con cautela i pesci dalla brace e gettò nel fuoco la sabatka, e quando lui emise un grido di protesta e fece per recuperarla, agitò minacciosa il bastone che stava usando per girare il pesce. «Te lo dico ora» esclamò, e il suo tono di voce era basso e determinato, «e te lo giuro su quanto c'è di sacro al mondo: non indosserò mai più uno di questi orribili indumenti. Perché dovrei coprirmi la faccia come se mi
vergognassi di mostrarmi agli altri? Perché dovrei permettere che mi nascondano come se fossi meno che umana? Siamo confinate dentro questi abiti, ed è peggio che se fossimo dietro le sbarre: non ci è permesso di avere alcuna identità che non quella di nostro marito, o di nostra padre. Be', io ne ho avuto abbastanza di essere trattata così, da mio padre, da te o da chiunque altro su Elda.» Le fiamme crebbero e crepitarono mentre consumavano la sabatka, illuminando la spiaggia con una luce infernale. «Mi rifiuto di essere comprata e venduta per soddisfare i desideri di altri. Non verrò mai più considerata come una proprietà né barattata come parte di un accordo matrimoniale che non ha altro scopo che riempire i forzieri di mio padre e ingrandire le sue tenute. Mi rifiuto di tornare da lui: lo ripudio, insieme alla mia famiglia, al mio paese e...» fece un profondo respiro «e anche alla Dea!» Erno si accucciò accanto a lei con espressione cupa. «Per il tuo bene, Selen, torna dalla tua famiglia. A cosa servono queste farneticazioni? Il mondo è quello è, e tu e io non possiamo cambiarlo. Qualunque cosa tentassimo di fare, alla fine tutto si ridurrà in cenere.» Le prese di mano il bastone e toccò lo straccio annerito in mezzo al fuoco. Piccoli fiocchi di stoffa bruciata turbinarono verso l'alto sospinti dal calore, splendendo di luce rossa come minuscole lucciole, poi si allontanarono, carbonizzati e morti. La donna cominciò a piangere. «Non posso tornare, Erno. Non c'è più posto per me in Istria, ormai.» «Tuo padre si prenderà cura di te.» Selen fece una risatina amara. «Mio padre non ama nessuno oltre se stesso. Io non gli sono di alcuna utilità ora, perché rappresento una merce avariata. Anche se tornassi, nessun uomo mi vorrebbe in moglie. Mio padre non avrebbe altra scelta che consegnarmi alle Figlie o alle Sorelle di Falla e loro mi scoprirebbero, perché io non credo più nella loro Dea, né nella sua bontà. Perciò sarà il rogo per me, in un modo o nell'altro.» Erno si passò una mano sulla faccia. Aveva provato e riprovato quella scena nella sua testa durante la lunga camminata per tornare alla spiaggia e tutto gli era sembrato tremendamente semplice: il ragazzo non era morto, quindi non c'era nessun crimine di cui rispondere e lei sarebbe potuta tornare a casa e lui sarebbe... Be', non era arrivato fino a quel punto. «Quei pesci sono tutti e due tuoi?» chiese con voce pacata. Percependo che l'atteggiamento di Erno era cambiato, Selen si asciugò le
lacrime col dorso della mano. Le sue guance bagnate brillavano alla luce del fuoco. La donna arrischiò uno sguardo all'uomo del Nord, ma i suoi occhi erano diventati bui e tristi e lei non riusciva a indovinare i suoi pensieri. Fece invece un profondo respiro e rispose alla sua domanda. «Io... no. Prendine uno, se ti va. Pensavo che avessi mangiato qualcosa in città.» Erno tolse una delle pagnotte dalla sacca e ne tagliò un grosso pezzo con il suo coltello. «Ecco.» Glielo porse senza guardarla. Era un'offerta di pace, o almeno un tentativo. Erno non sapeva cos'altro dire di fronte alla sofferenza della donna. Perché tutto risultava sempre più difficile e complicato di quanto si poteva immaginare? Selen prese il pane e sentì Erno ritrarsi quando gli sfiorò inavvertitamente il palmo con la punta delle dita. Lui continuava a non volerla guardare, e anzi, si stava sforzando di fissare a terra, nel fuoco, il pesce... qualunque cosa, pur di evitare lo sguardo di lei. Devo salvare me stessa, pensò Selen. Ma non so come farlo con un uomo del genere. Lo scrutò senza parlare, notando le rughe di ansia che gli solcavano la fronte, i muscoli tesi della mascella solo parzialmente oscurati dal pallido accenno di barba. Emozioni contrastanti lottavano in lui: quello almeno era chiaro. Non voleva essere responsabile per lei, ma un innato buon cuore gli impediva di abbandonarla. Non riesce neppure a guardarmi, pensò. Mi odia davvero così tanto? Forse dovrei dirglielo... Sentì un'ondata di commiserazione minacciare nuovamente di travolgerla, mentre le lacrime le bruciavano gli occhi e la sua mente era in subbuglio. Non era il momento giusto: nello stato in cui si trovava, quell'uomo avrebbe potuto farsi prendere dal panico e abbandonarla comunque, e lei non avrebbe avuto altra scelta che tornare a casa e rimettersi alla mercé di suo padre. Per distrarsi da quei pensieri, batté furiosamente le palpebre per scacciare le lacrime e poi, indicando la sacca delle provviste, disse con voce più calma che poté: «È un pollo quello che vedo?» Erno si costrinse a ridere. «Sì, ma dovrebbe restare fresco fino a domani se lo lascio immerso nell'acqua.» «Lascialo in acqua e se lo mangeranno i granchi.» «Sarebbe uno spreco.» «Dallo a me e lo arrostirò subito.» «Se lo do a te, tu lo getterai sul fuoco con le interiora e tutto il resto, così avremo un pollo nero all'esterno e rosso all'interno, e la pancia dolorante per una settimana!» Selen si strinse nelle spalle. «Non ci insegnano queste cose, nel mio pae-
se.» «Mi hai visto pulire un pollo dozzine di volte e non hai imparato niente. Sembra quasi che mi consideri il tuo schiavetto!» Aveva parlato in tono più tagliente di quello che avrebbe voluto, ma la vide alzare di scatto la testa come per fronteggiare un attacco. «Non è colpa mia se sono nata nobile e non ho appreso queste cose. Sto facendo del mio meglio per imparare, ma è difficile con te che hai così poca pazienza.» Stringendo i denti per non dire qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi, Erno prese il pollo dalla sacca e andò verso il bordo dell'acqua per pulirlo. Quando tornò, scoprì che lei aveva mangiato tutti e due i pesci e il resto del pane e lo stava guardando con i grandi occhi spalancati. «Se vuoi uno sgombro, posso gettare di nuovo la lenza» disse con aria colpevole. Erno alzò gli occhi al cielo e si controllò a fatica. «Perché non metti a bollire del riso?» suggerì alla fine, poi, quando lei lo guardò senza capire, sospirò e ritornò verso il mare con la pentola in mano. Le avrebbe parlato di nuovo il giorno successivo. La situazione gli sarebbe sembrata meno disperata, dopo un po' di cibo e una buona dormita. Alla luce del giorno lei si sarebbe di certo resa conto dell'impossibilità della condizione in cui l'aveva messo, ora che non aveva più bisogno della sua protezione. L'indomani le cose sarebbero decisamente migliorate. Più tardi, disteso nella capanna voltando la schiena a Selen e con il suono del respiro di lei a riempire il buio che li circondava, Erno scoprì di non riuscire a dormire. 7 Illusioni C'era qualcosa che non andava. Virelai l'aveva pensato già la notte precedente, ma alla luce intermittente della candela non poteva esserne sicuro. Ora invece, sotto l'implacabile luminosità della fredda alba istriana, non c'era alcuna possibilità di errore. La pelle tra il pollice e l'indice della sua mano sinistra stava cominciando a seccarsi e a squamarsi, proprio com'era accaduto con la mano destra un paio di settimane prima, rivelando un tes-
suto opaco e bianco come il gesso, molto poco piacevole a vedersi. Unguenti e creme emollienti avevano migliorato in parte la situazione sull'altra mano, ma alla fine Virelai era stato costretto a ricorrere a un oscuro incantesimo di rigenerazione che aveva tirato fuori a forza dal gatto, il quale era sembrato felice della sua tribolazione ed era stato particolarmente restio a collaborare. Ora la pelle sulla quale aveva fatto l'incantesimo era un po' troppo rosa e 'viva' mentre il resto del suo corpo era così pallido; ma era improbabile che qualcuno lo notasse, a patto che le zone colpite restassero piccole. Se la faccenda avesse continuato in quel modo, però, ben presto Virelai avrebbe avuto l'aspetto di una coperta rattoppata. Era forse quello che mangiava a causare questo curioso effetto, si chiese Virelai, o forse l'uso eccessivo della magia? Poteva essere semplicemente il fatto che una così lunga esposizione alla cucina istriana si stava rivelando deleteria per il suo organismo: il Padrone infatti non si era mai curato di insegnargli l'uso delle spezie o di quelle combinazioni di erbe che la gente del Sud usava per insaporire i cibi quando gli aveva spiegato i fondamenti dell'arte culinaria. Il suo vitto a Santuario era stato assai monotono: Virelai sapeva cuocere il pane non lievitato, bollire radici e rape e cucinare quei polli piuttosto scheletrici che Rahe riusciva a creare dal nulla e che di nulla sapevano. Il Padrone non era mai stato molto interessato al cibo, e anzi, non era mai sembrato molto interessato a niente, specialmente negli ultimi tempi prima che Virelai fuggisse dall'isola, tanto da lasciare che le cose andassero in rovina o addirittura distruggendole lui stesso. L'unica eccezione era stata la Rosa Eldi, una creatura che Virelai aveva cominciato a odiare negli ultimi mesi. Avevano avuto un rapporto difficile e complesso nel periodo in cui viaggiavano insieme, e anche se lui non era stato in grado di trarre profitto personale dalle sue grazie, si era assicurato che altri pagassero salato per averle. Ma ora lei era libera e lui stava sgobbando sotto il giogo di un nuovo e più crudele padrone, costretto a produrre magie sempre più sofisticate nel nome dell'incontrollabile ossessione di quell'uomo... Virelai sospirò e si voltò a guardare il gatto. Avrebbe dovuto pronunciare alcune parole sulla sua mano squamata se voleva fermare l'avanzare di quella nuova affezione. Ma di Bëte, la bestia in cui Rahe aveva immagazzinato un gran numero dei suoi incantesimi più importanti, non c'era traccia. «Per la passera fiammeggiante di Falla!» Era l'imprecazione peggiore che conosceva. Se Tycho Issian l'avesse
sentito pronunciarla l'avrebbe fatto punire molto severamente. Ma il Signore di Cantara era ancora chiuso nella sua stanza con la ragazza che Virelai gli aveva procurato la sera prima: non ne sarebbe uscito ancora per un'ora, o forse più. Lì al castello di Forent, sotto l'egida di Rui Finco, vigeva un regime di sobria depravazione, almeno per i nobili. Persino il felino sembrava cacciarsi sempre nei guai; anche se non gli era permesso di allontanarsi dalla torre, riusciva ugualmente a scoprire e a uccidere un discreto numero di piccole bestie di vario tipo. Fino a quel momento a Virelai erano state portate, con suo grande orrore, diverse famigliole di topi, disposti accuratamente in fila, un paio di zampe di allodola, complete di speroni ricurvi (ma nessuna allodola: ovviamente l'uccello si era rivelato un bocconcino troppo allettante), tre grossi ratti, un piccione con un messaggio legato intorno alle zampette grigie e una volta, cosa molto allarmante, un coniglio mezzo morto che era sorprendentemente tornato in vita quando Virelai aveva tentato di toccarlo. Dove Bëte avesse fatto quelle nuove conoscenze, Virelai non aveva idea. Topi e ratti infestavano ogni castello, e il piccione doveva essere stupidamente atterrato sul davanzale della finestra. Ma un'allodola? E un coniglio? Quelle erano creature di campagna, e intorno al castello di Forent di campagna ce n'era ben poca. Il messaggio era stato interessante, però. Consisteva in uno strano pezzo di corda con una combinazione di nodi e torsioni e strani arabeschi che Virelai aveva impiegato giorni per decifrare e che sembrava avere a che fare con il fatto che un piano era andato storto e che un marinaio di nome Dan, o qualcosa di simile, era scomparso. Virelai non aveva idea del perché questo Dan fosse tanto importante che la sua assenza dovesse essere comunicata tramite un piccione viaggiatore, ma pensò che forse avrebbe dovuto cercare di scoprirlo. Una delle cose che aveva imparato in quei lunghi mesi trascorsi nel mondo di Elda era che le informazioni potevano essere più preziose dell'argento, delle donne, delle navi o di qualsiasi altro oggetto commerciabile. Il giovane andò alla finestra e si sporse sul vertiginoso precipizio sottostante. Agli Istriani piaceva costruire edifici alti: anche la stanza sulla torre in cui aveva abitato nel castello di Cera era altrettanto elevata. Ma mentre laggiù il panorama dalla finestra era davvero piacevole a vedersi (parchi, foreste e giardini ben curati inondati di sole e accarezzati da brezze gentili; strade tortuose e mercati splendenti di colori) e animato dalle voci della gente che correva su e giù sotto di lui come piccole formiche con le loro provviste sulle spalle, lì a Forent la vista era tutta un'altra cosa. Dalla fine-
stra che dava a nord non si vedevano altro che scogliere e mare. E cielo, tanto cielo. Il tutto era di un triste colore grigio. Una fitta nebbia proveniente dall'Oceano del Nord, piuttosto comune in quel luogo dimenticato dalla Dea, aveva fuso i tre elementi, aria, acqua e terra, in un'unica, monotona immagine sfocata. Virelai odiava quel paesaggio: l'aveva odiato sin dal giorno in cui era stato confinato lì. Gli ricordava troppo Santuario, con le sue tetre scogliere di ghiaccio e i gelidi giardini, uno scorcio dipinto in infinite sfumature di grigio. Un uomo più poetico, o uno che avesse viaggiato di più e per questo possedesse una maggiore capacità di fare paragoni, avrebbe potuto percepire nel panorama dell'isola una straordinaria tavolozza di toni di blu, verde e porpora; ma finché non era fuggito, Virelai non aveva mai visto in Santuario altro che l'inferno di ghiaccio costruito dal Padrone, e l'aveva odiato troppo per darsi la pena di trovarci un briciolo di poesia. In basso un'onda più grande del normale si infranse rumorosamente sugli scogli frastagliati alla base del torrione, sollevando una pioggia di spuma bianca nell'aria umida. Poi il mare si ritirò, risucchiando tutto con sé. Virelai rabbrividì, una reazione istintiva ai brutti ricordi e all'aria fredda; ma poi sentì la pelle d'oca e capì che la causa di quel brivido era più tangibile. Bëte era tornata. Sin dal giorno di quella bizzarra visione avuta a Cera, Virelai aveva diffidato di lei. Ora si affrettò a voltarsi, allarmato al pensiero degli occhi della bestia sulla sua schiena. Il gatto era seduto sulla soglia, immobile come una statua di Bast, il compagno felino di Falla: la testa alta, le zampe unite, la coda avvolta intorno alle zampe, e guardava il mago con i suoi spietati occhi verdi. Era evidente che lo odiava: Virelai aveva la strana sensazione che Bëte incolpasse lui per la sua separazione dalla Rosa Eldi. Ormai a un continente di distanza dalle mani ipnotiche della donna che era stata capace di ridurlo a un dolce gattino che faceva le fusa, e costretto a sputare incantesimi secondo i capricci di Virelai, l'animale stava diventando sempre più intrattabile. Non che prima avesse un buon carattere, in ogni caso (e le mani e gli avambracci di Virelai pieni di sottili cicatrici bianche ne erano la prova). Sorvegliandolo con la coda dell'occhio, Virelai attraversò la stanza e si sedette sul letto per consentire al gatto di entrare indisturbato. Da quando aveva creduto di vederlo enorme e demoniaco in quella stanza a Cera, cercava di evitare qualsiasi tipo di confronto che potesse improvvisamente dare vita a la stessa manifestazione. Era quasi riuscito a convincersi che la
visione dell'animale in quello stato mostruoso, e la voce echeggiante che l'aveva accompagnata, era stata causata dalla sua mente inquieta, una mente sottoposta a un tremendo sforzo dal Signore di Cantara. Quasi, ma non del tutto. C'era stato il piccolo particolare del cane morto che aveva trovato sulla soglia della stanza la mattina dopo, sgozzato, il manto grigio tutto sporco di sangue. Apparteneva alla muta di cani da caccia del Signore di Cera ed era una bestia enorme: quanto doveva essere stato più grande e più feroce il predatore che l'aveva ucciso e trascinato sulla torre più alta? «Be', mio Signore di Cantara, ora capisco perché state tardando per la colazione questa mattina.» Rui Finco, Signore di Forent, si appoggiò con noncuranza allo stipite della porta, osservando la scena che gli si presentava davanti con sguardo divertito. Tycho Issian, ipocritamente, spinse via con malagrazia la donna che era seduta a cavalcioni su di lui, si tirò le coperte sul petto e incenerì il suo ospite con lo sguardo. «Non esiste un luogo privato per voi?» «Non in questo castello.» Rui guardò dispiaciuto la donna che si sistemava la sabatka in modo più decoroso e usciva silenziosamente dalla stanza. Aveva una bella figura, anche se un po' troppo sottile per i suoi gusti. Gli riusciva facile dare un simile giudizio anche se la donna era completamente avvolta nell'abito: si acquisiva occhio per certe cose quando ci si era portati a letto tante donne quanto il Signore di Forent. Dopo tutto era suo diritto e suo privilegio, come padrone di quel feudo, e in più aveva speso parecchio del suo tempo e del suo denaro per crearsi il miglior serraglio dell'Impero. Era forse Raqla quella? si domandò. L'altezza e le dimensioni dei fianchi e del seno sotto la tela blu non sembravano quelle che lui ricordava, ma forse la ragazza era stata vittima di quella devastante epidemia che era scoppiata all'inizio dell'anno. Raqla era stata una delle sue favorite: una ragazza instancabile, se le veniva dato il giusto incoraggiamento, ben felice di cavalcarlo in modo che lui potesse vedere il suo seno ondeggiare e ballonzolare per lo sforzo. Niente sciocche sabatka per lui, dietro le porte chiuse: gli piaceva poter vedere come era fatto il corpo di una donna e non riusciva a capire come si potesse preferire adorare l'immagine della Dea attraverso dei buchi in una veste piuttosto che apprezzare la gloriosa creazione per intero. Ma avrebbe potuto giurare di aver intravisto una ciocca di capelli biondi fare capolino per un istante dalla fessura della bocca nell'indumento, e Raqla era così scura da avere i capelli quasi del colore dell'e-
bano... Strano. Non gli riusciva di capire quale donna fosse tra le cento o più che teneva nel suo serraglio: che il Signore di Cantara avesse avuto il coraggio di disdegnare la sua più che generosa ospitalità e si fosse fatto portare di nascosto una ragazza dalla città affinché gli prestasse i suoi servigi? Gli sembrava improbabile, soprattutto data la rete di informatori che pagava profumatamente per tenere d'occhio i movimenti di Tycho. Ma il nobile del Sud era davvero un tipo strano e abbastanza pazzo da tentare qualsiasi cosa. «Se la signoria vostra si è riposata a sufficienza, potremo forse continuare la nostra discussione?» Tycho agitò la mano con impazienza. Sotto l'abbronzatura il suo viso scuro appariva giallastro e malato. Sembrava che non dormisse da settimane, e non che avesse trascorso una piacevole notte tra le braccia di una vigorosa cortigiana. «Datemi qualche minuto e sarò da voi, Rui. Ma non ci sono porte con la serratura in questo maledetto posto?» Rui Finco non si curò di rispondere a quell'ingenua domanda. Ovviamente nessuna porta tranne quella della sua camera, e della stanza dei valori sottostante, aveva serrature. Quanto sarebbe stato abile come politico se non avesse conosciuto gli andirivieni di ogni visitatore del castello di Forent? Con un sorriso privo di ironia e un lieve cenno del capo Rui lasciò la stanza, chiudendo la porta di quercia dietro di sé. Tycho si alzò di scatto dal letto e attraversò infuriato la stanza per andarsi a guardare allo specchio appeso sopra il catino e la brocca di porcellana. Racchiusi nello squisito mosaico della cornice, i suoi occhi erano iniettati di sangue, le guance incavate e il mento scurito da un accenno di barba. Le rughe che gli solcavano la fronte e i lati del naso erano più pronunciate che mai e un'intera ragnatela di solchi sottili era apparsa intorno agli occhi. Invece dei quarantatré anni che aveva, quel giorno sembrava più vicino ai sessanta. In verità non stava dormendo molto, e non solo a causa dei suoi sforzi con le puttane che costringeva Virelai a mandargli tutte le notti, perché quelle non erano che futili distrazioni, un tentativo di esorcizzare il demone che tormentava la sua anima. Oramai non dormiva più bene da... Fece un rapido calcolo mentale: era arrivato a Forent da Cantara passando per Cera intorno alla Luna del Raccolto, e la Grande Fiera aveva avuto luogo a un quarto d'anno, quindi erano oltre quattro cicli lunari che soffriva in quel modo. Era un tempo sufficientemente lungo da far impazzire qualsiasi uomo o almeno da rovinargli la salute. Prima del fatale incontro
con la donna che tutti chiamavano la Rosa del Mondo, Tycho aveva creduto di essere un uomo razionale, una persona avvezza a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, capace di scegliere invariabilmente la strada migliore per portare benefici alla propria vita e al proprio stato sociale. E, cosa più importante, in diverse parti dell'Impero il suo nome era sinonimo di religiosità e patriottismo: Tycho era noto come grande oratore e sostenitore delle leggi di Falla. Un uomo dalla reputazione impeccabile. Sì, il suo passato era oscuro, e lui aveva ogni intenzione che tale restasse, inoltre era stato a lungo in debito con il Consiglio per una grossa somma di denaro (ora ripagata, e con gli interessi), ma Tycho aveva lavorato sodo tutta la vita per mostrarsi al mondo come una persona di forte carattere, un uomo che non solo era rinomato per la sua durezza nei confronti dei peccatori e delle occasioni di peccato, ma che conduceva lui stesso una vita casta e irreprensibile. E ora? Ora tutto ciò a cui riusciva a pensare, a ogni ora del giorno e della notte, era la Rosa Eldi, la sua pelle bianca come il latte, i lunghi capelli dorati che sarebbero stati morbidi come seta sul suo corpo, il seno prosperoso che le sue mani di certo non sarebbero riuscite a contenere il calore della sua glabra... Tycho si riscosse all'istante, sbalordito per l'ennesima volta dalla potenza di quell'immagine, dal profondo effetto che aveva fisicamente su di lui. Non aveva mai visto neppure una piccola parte della pelle nuda di quella donna, eppure in qualche modo quell'unico bacio che le aveva dato nel carro del venditore di mappe alla fiera era stato sufficiente per legarlo a lei, corpo, anima e pensiero: durante quel breve sfioramento di labbra la donna gli aveva donato, ne era sicuro, la precisa cognizione di come sarebbe stato conoscere ogni centimetro del suo corpo, e da allora lui era stato ossessionato da quell'insaziabile desiderio. Non solo era costantemente esausto, ma il suo maledetto uccello era sempre duro. E oltre a essere disperatamente imbarazzante, era una vera tragedia, perché per quanto provasse, niente sembrava ridurre la dimensione o la persistenza della sua erezione. Bagni freddi, impacchi gelati, ore di preghiera: niente funzionava. Perciò si era rivolto all'esperienza professionale del serraglio del castello, perché di certo donne del genere dovevano essersi imbattute in problemi ben peggiori del suo nella loro libidinosa carriera. Le cortigiane infatti l'avevano sfinito e reso dolorante con i loro sforzi, ma non erano riuscite comunque a farlo eiaculare. Neppure quell'ultimo esperimento era servito. Tycho prese una nuova striscia di lino e si legò strettamente, trasalendo
per il dolore. È la mia punizione, pensò con rabbia, per aver permesso che la Rosa Eldi fosse portata via da quei pagani. E dovrò sopportarla finché non riuscirò a liberarla da quel barbaro e dai suoi malvagi ed eretici seguaci. Devo prenderla e purificarla completamente, mondarla con le mie sacre libagioni. Insieme noi adoreremo la Dea da cui tutti noi siamo stati creati: io nasconderò la sua carne alla vista dei lussuriosi e le mostrerò la vera e retta Via del Fuoco; la condurrò sui sentieri del bene... Stava cominciando a credere lui stesso alle parole che gridava nelle piazze delle città, le parole che portavano la gente ad affollarglisi intorno, che invocavano una guerra santa contro l'Eyra: una guerra per porre fine a tutte le guerre. Rui Finco si attardò nel corridoio fuori dalla porta finché non sentì l'acqua scorrere nella bacinella e il nobile pregare la sua puttana di uscire dal passaggio segreto; poi corse silenziosamente giù per i gradini ed entrò nella ricca Stanza Galiana di sotto. Dietro l'enorme letto a baldacchino, dai lussuosi drappi e le grosse colonne intarsiate, c'era una porta nascosta da pannelli e Rui ci s'infilò dentro per raggiungere la stretta rampa di scale scavata all'interno. Era stato il suo bisnonno, il famigerato Taghi Finco, a costruire quel piccolo labirinto di passaggi segreti nelle pareti del castello. Nel secolo precedente i costumi erano più morigerati e il congresso carnale con una donna diversa dalla propria moglie santificata davanti alla Dea era un crimine punibile con la castrazione. Taghi era un uomo dagli enormi appetiti e sua moglie una creatura debole che si era rifiutata di andare a letto con lui dopo la nascita del loro unico figlio, e non aveva avuto neppure la grazia di scomparire o di morire. Attraverso i passaggi, Taghi aveva fatto entrare di nascosto le sue donne nella Sala Galiana e lì aveva trascorso con loro molte notti torride e piacevoli. Si diceva anche (ma mai in cortese compagnia) che avesse messo al mondo decine e decine di bastardi. Rui benediceva il suo antenato ogni giorno: dal nobile Taghi Finco, infatti, non aveva ereditato solo il castello. Sentì uno scricchiolio sopra di sé e il suono di passi sui gradini di legno, e un istante dopo una figura snella con una veste scura emerse a piedi nudi e trafelata dalla stanza di sopra. «Ah-ah, tesoro mio!» Uscendo dall'ombra, Rui prese la ragazza tra le braccia e la trascinò con sé attraverso la porta della Stanza Galiana. Ancora prima di toglierle in velo, capì al tatto che era Raqla. Con mano esperta le tolse la sabatka da
sopra la testa e l'indumento cadde al suolo in un luccichio di seta. «Per i capezzoli di Bast!» Se fosse stato cieco e avesse avuto solo il tatto su cui basarsi, avrebbe ancora giurato che si trattasse Raqla. Ma i suoi occhi gli raccontavano un'altra storia. La donna in piedi di fronte a lui, con una mano sul seno e l'altra che nascondeva con pudore il pube rasato, era pallida e bionda, un colorito davvero raro nelle terre del Sud, dove gli uomini e le donne tendevano ad avere pelle e capelli scuri. Rui la fissò sbalordito, d'un tratto trovandosi senza parole. Poi gli venne in mente una cosa. «Voltati!» ordinò bruscamente. La donna sembrò allarmata, ma si voltò con grazia e gli presentò una schiena elegante e un sedere rotondo, sulla cui natica destra c'era un grosso neo nero che risaltava sulla pelle di latte. Rui lo sfiorò con un dito e sentì la donna irrigidirsi. Lui conosceva bene quel neo: l'aveva accarezzato piuttosto spesso mentre faceva l'amore con lei. Il nobile istriano sentì un brivido superstizioso percorrergli la schiena. Si fece il segno della Dea, si chinò per recuperare l'indumento caduto e lo tirò alla donna. «Vestiti.» La ragazza prese l'abito al volo, lo scosse con rapida efficienza e se lo infilò. Stava per sistemarsi il velo che le copriva il volto quando il Signore di Forent fece un passo verso di lei. «No, aspetta.» Infilando le mani nella fessura della bocca, strappò il velo in due con un unico, violento gesto e rimase lì a studiare il volto della giovane. Poi le prese il mento con una mano, spostandole il viso da una parte e dall'altra. Gli occhi della ragazza erano grandi e neri come il carbone, e lui li conosceva bene. I capelli erano forse una parrucca? Rui si attorcigliò una ciocca setosa tra le dita e diede un brusco strattone. La donna gridò di dolore. No, erano capelli veri. «Perché li hai tinti?» La donna fissò il pavimento, incapace di guardarlo. Aveva compiuto con quell'uomo degli atti paragonabili a quelli dei famosi amanti del libro erotico proibito, Il Viaggio di Cestia; aveva visto ogni parte di lui nei suoi più intimi dettagli, l'aveva guardato nei suoi momenti più vulnerabili, mentre dormiva o mentre era perso nell'estasi... eppure in quel momento non riusciva a guardarlo in faccia. Era davvero vergognoso ciò che aveva fatto, vergognoso e punibile con la morte.
Il tono di Rui era più dolce di quanto si fosse aspettata quando le chiese: «Chi ti ha fatto questo, Raqla?» Ma nel momento in cui rispose, con un filo di voce, vide la sua mascella serrarsi e gli occhi farsi di ghiaccio. «Stai ferma. No, mettiti qui: mi serve che tu abbia la luce in faccia...» Questa volta era difficile. La linea di quel mento era troppo pronunciata. Con i capelli ci aveva messo meno tempo questa volta, ma sembrava che ci fosse sempre un qualche aspetto del rifacimento che compensava la facilità di esecuzione di alcuni. E gli occhi... quelli non riusciva mai a modificarli. Aveva letto in uno dei tomi della gelida biblioteca del Padrone che uno dei poeti più amati dall'Impero del Sud li aveva definiti 'le finestre dell'anima', e all'epoca non aveva idea di cosa volesse dire quell'uomo con un'espressione così sciocca; ma ora, scoprendo che sembravano impossibili da trasformare e che erano immuni anche alla più potente delle magie che riusciva a tirare fuori dal gatto, Virelai cominciava a chiedersi se non ci fosse un fondo di verità in quella poesia, dopo tutto. D'altro canto, però, era piuttosto orgoglioso di quello che era riuscito a ottenere con il corpo di quella donna. I fianchi era quasi perfetti, snelli e sottili come quelli di un ragazzo, con un delicato rigonfiamento sull'anca; e la forma dei seni era una meraviglia. Era stato un piacere toccarli anche per lui, anche se rischiava una severa punizione se fosse stato scoperto. Portò il gatto all'altezza del viso della ragazza e la guardò spalancare gli occhi quando sentì il ringhio di protesta della bestia. Aumentando la stretta sulla spessa pelle alla base del collo di Bëte, Virelai chiuse gli occhi, concentrò i suoi pensieri sulla linea netta, perfetta del viso che ricordava così bene, e ripeté l'incantesimo di perfezionamento. «Smetti subito con questo inganno o finirai per uscire dritto dritto dalla finestra.» La voce era fredda e pericolosa. «Gli squali hanno avuto un'estate breve quest'anno: la scarsità di tempeste ha impedito che potessero avere il solito numero di marinai naufraghi con cui banchettare, e a loro piace tanto il sapore della carne umana...» Virelai aprì gli occhi di scatto. Non aveva sentito rumore di passi, né la porta che si apriva, e così al vedere il nobile Rui Finco in piedi sulla soglia, con un'espressione di furia controllata sul viso affilato e la ragazza sulla quale aveva lavorato così bene il giorno prima in ginocchio di fronte a lui con il velo della sabatka strappato, rimase senza fiato. Malgrado ciò, non poté fare a meno di fissare il volto delle due donne e di notare con soddisfazione che la mascella di Balia era più simile all'originale di quella
di Raqla. Le sue capacità stavano migliorando di giorno in giorno. «Cosa credi di fare, per i sacri fuochi di Falla?» Virelai trasalì, ricordando improvvisamente il guaio in cui si era cacciato. Non aveva mai visto il Signore di Forent infuriato prima d'ora e sospettava che non molti di coloro che avevano affrontato la sua furia fossero sopravvissuti. «Mio signore, io...» Rui chiuse silenziosamente la porta dietro di sé. A Virelai quel gesto non piacque affatto. Quando era infuriato, Tycho aveva la tendenza a urlare il suo malcontento e a dimostrarlo con i pugni. Virelai aveva avuto una miriade di lividi come conseguenza degli scatti d'ira del Signore di Cantara e una volta era stato anche frustato, ma mai niente di peggio. Il Signore di Forent, invece, dava l'impressione di voler mantenere fede alla sua parola gettandolo ai pesci, e probabilmente insieme alle due ragazze. Nessuno si sarebbe mai accorto di niente, e anche se qualcuno avesse sentito qualcosa, quello era il suo castello: chi avrebbe osato interrogarlo sulla morte di un povero nomade? «Stregoneria. Ne sento l'odore.» La faccia di Rui Finco si contorse per il disgusto. «Sapevo che c'era una qualche perversione nell'aria, un qualche sordido patto tra te e il tuo padrone.» Guardò il gatto nero, al momento stranamente tranquillo e immobile in braccio a Virelai. «E lascia andare quella povera creatura, per l'amor di Falla!» Virelai lasciò andare Bëte. Il gatto ricadde sulle zampe, gli lanciò uno sguardo implacabile col quale senza dubbio prometteva che avrebbe aggiunto anche quell'ultima offesa al suo conto, e con un raccapricciante rumore di unghie sul legno balzò in cima all'armadio dall'altra parte della stanza e si appollaiò lassù per poter osservare quello che succedeva in tutta sicurezza. «Noi bruciamo gli operatori di magia in questo paese» disse Rui a bassa voce, senza staccare gli occhi dal volto di Virelai. «Lo so, mio signore.» Virelai sentì un tremore alle ginocchia, come se le sue ossa si stessero disfacendo. «Tu sai quando i nomadi cominciarono a essere perseguitati seriamente in questo paese?» «No, mio signore.» «Fu all'epoca del mio defunto padre. Aveva avuto motivo di credere che uno stregone nomade l'avesse tradito lanciando un incantesimo sul suo nemico. Non ti infastidirò raccontandoti l'intera sordida storia, ma ti basti
sapere che io ho un fratello in questo mondo che non è davvero mio fratello e che mio padre era profondamente risentito poiché coloro che calpestavano il suolo istriano avevano osato portare disgrazia sulla sua casa in tale maniera. Da quel giorno decise di vendicarsi degli Erranti. Deve averne bruciati» Rui alzò gli occhi al cielo e cominciò a contare «vediamo... erano due, tre, quattrocento... no, no, ma che dico? Migliaia. Ce n'erano diverse decine in quella prima carovana di viaggiatori: uomini, donne e bambini e fecero un bel falò, dico davvero, maestro Virelai. Avevo otto anni quando fui portato sul palco e costretto a guardare. Penso che mio padre la considerasse una specie di punizione per me, che ero rimasto a casa e non avevo protetto il suo focolare e sua moglie come un vero guerriero istriano avrebbe dovuto fare; ma a essere sincero fui morbosamente affascinato dalle loro grida e dal modo in cui la loro pelle si increspò e annerì e le loro ossa si sciolsero come candele di. sego. Sai che quando si brucia un essere umano il fumo che si leva dalla pira può ricoprire gli edifici per una distanza di mezza lega o più con uno strato di grasso nero estremamente appiccicoso?» Le ginocchia di Virelai cominciarono a piegarsi. Il Signore di Forent lo afferrò per le braccia. «Ma come, mio magico amico, il tuo stomaco è troppo debole per tali dettagli? O forse ti vedi bruciare anche tu in un fuoco simile? Cosa ne pensi, urleresti o te ne andresti in silenziosa dignità? Bisogna proprio dirlo, è difficile morire in quel modo quando le fiamme cominciano a friggerti gli occhi.» A quelle parole Virelai si accasciò. Si sedette sul pavimento della stanza della torre, tremando di terrore. Era proprio come pensava: mentre il Padrone era severo e il Signore di Cantara brutale e crudele, quest'uomo era molto più pericoloso. Avrebbe volentieri mandato tutti al rogo e avrebbe riso mentre bruciavano. «Mi dispiace, mio signore» riuscì a dire. Le parole sgorgarono dalla sua bocca come un torrente mentre le chiuse della cautela cedevano. «È per il mio padrone, Tycho Issian, Signore di Cantara, che faccio questi incantesimi, signore. Si è ammalato per il desiderio di... di una certa signora, e io sto cercando di aiutarlo ad alleviare la sua sofferenza. È molto difficile, mio signore, e i miei sforzi non sono sempre stati apprezzati. Molte volte lui mi ha percosso quando l'incantesimo è svanito prima del tempo. È molto difficile operare una magia che duri a lungo, mio signore, e ancora di più quando per avere effetto tale magia deve imitare una persona alla perfezione.»
Ma Rui Finco non lo stava più ascoltando. Stava invece fissando prima Balia, e poi Raqla. Tirò su quest'ultima da terra, dove si era accasciato e la mise in piedi accanto all'altra ragazza. Le guardò entrambe a lungo... poi tornò a voltarsi verso Virelai. «Tu non continuerai con questa attività. Mi hai sentito?» Virelai annuì senza parlare. Tycho l'avrebbe indubbiamente pestato a sangue, ma lui preferiva quel trattamento piuttosto che incorrere ancora una volta nell'ira del Signore di Forent. «Lui non deve consumare le proprie forze con queste creature. Non posso permettermi di alleviare in nessun modo la sua ossessione.» Quelle ultime parole furono pronunciate a voce così bassa e ironica che apparve chiaro che si trattava di una sorta di riflessione personale, ma Virelai annuì ugualmente. «Puoi riportarle al loro aspetto normale?» Quando capì che non sarebbe stato messo al rogo, almeno per il momento, Virelai si rimise faticosamente in piedi. «Non ce n'è bisogno, mio signore. In breve Raqla tornerà a essere se stessa, con i capelli neri e il corpo più robusto. E se Balia dormirà per un'ora o due l'incantesimo svanirà da solo: vedete, mio signore, è necessario un certo sforzo di concentrazione da parte dei soggetti stessi per mantenere l'illusione...» «Sì. Sì.» Il Signore di Forent agitò impaziente le mani. Poi i suoi occhi si strinsero, come se gli fosse venuto in mente qualcosa. «L'argento che il Signore di Cantara si è così fortunatamente procurato in questi ultimi mesi... anche quello è stato fatto con la magia?» L'espressione terrorizzata di Virelai gli diede la risposta che cercava. «Anche l'argento che ha dato a me per contribuire alla nostra impresa?» Virelai scosse vigorosamente la testa. «No, mio signore. Il nobile Tycho ha pensato fosse meglio cambiare quello che io ho creato con del vero argento per i vostri forzieri, mio signore. Anche se, a dire il vero, ho scoperto che la mia abilità nel modificare l'aspetto degli altri metalli migliora di giorno in giorno: ne ho un esemplare che conserva la sua nuova forma già da due mesi.» Il Signore di Forent si fece pensieroso. «Capisco. Interessante. Tuttavia, anche se non condivido la predilezione che aveva mio padre per l'aroma della carne arrostita degli Erranti, non pensare che esiterei a infilzarti personalmente se scoprissi che continui a portare avanti le tue aberranti pratiche...» «Mio signore, io...»
«Non interrompermi. Ti infilzerò personalmente se ti scoprirò a operare magie per altri al di fuori di me. Mi capisci, nomade? Tu rimarrai qui come mio ospite e lo stesso vale per il tuo ex padrone, il Signore di Cantara, e per il tuo maledetto gatto, e da ora in poi tutti e tre eseguirete i miei comandi, o sarete mandati al rogo per stregoneria.» Si voltò verso le donne. «È passato diverso tempo da quando mi sono portato a letto una ragazza con i capelli biondi. Vogliamo vedere se il vostro nuovo aspetto vi ha insegnato dei nuovi trucchi?» Le due donne seguirono il loro padrone con notevole solerzia, notò Virelai, come se non stessero semplicemente obbedendo al suo comando, ma fossero impazienti di saggiare nuovamente le sue capacità amatorie. Un momento dopo Virelai si ritrovò da solo nella stanza. Solo a parte Bëte, ovviamente, di cui sentiva gli occhi pieni di odio e disprezzo puntati addosso. Ogni volta che pensava che la sua vita non sarebbe potuta andare peggio, il Fato sembrava avere un nuovo tiro mancino da giocargli. Virelai sospirò, ricordando le parole del Padrone: «Dovresti ringraziarmi per averti portato qui a Santuario, salvandoti da tutta quell'avidità e quell'orrore.» E ancora una volta sentì gli antichi dubbi assalirlo. 8 Messaggi «Per le palle di Sur, come odio questo maledetto mare!» La donna si chinò ancora una volta sulla frisata, stringendo le trecce scolorite con una mano e vomitando così rumorosamente e orribilmente che chiunque non fosse a conoscenza della situazione avrebbe potuto pensare che qualcuno stesse sgozzando una pecora in modo lento e terribile. L'uomo alto e scheletrico che le era accanto rimase a guardare impassibile, e quando la donna si raddrizzò, col viso ora smunto quasi quanto il suo, sollevò un sopracciglio. «Hai scelto la professione sbagliata per una tale delicatezza di stomaco, Mam.» Il colorito scuro della donna aveva assunto una leggera sfumatura verdastra. Mazza trovava che le donasse: la faceva apparire un tantino più vulnerabile, più femminile. Non pensava spesso in quel modo di Mam, che in qualsiasi altro momento sembrava a malapena una donna, anche a volerle pettinare bene i capelli e a vestirla con uno di quegli abiti semitrasparenti
che la nuova regina amava indossare, e che stavano causando un grande scalpore alla corte di Halbo. Mazza rabbrividì. In effetti quell'immagine di Mam non era affatto piacevole, e se lei avesse anche solo intuito ciò che stava pensando, ed era stranamente brava a indovinare i pensieri altrui, non ne sarebbe stata affatto contenta. E una Mam non contenta era qualcosa da evitare, questo era certo. «Hai già pensato a cosa dirgli?» chiese cambiando argomento, anche se, a giudicare dall'espressione che assunse il capo dei mercenari, non aveva scelto quello giusto. «Pensi che dovrei inventarmi qualcosa che sembri meno bizzarro della verità?» ringhiò Mam. Mazza si strinse nelle spalle. Di certo il loro datore di lavoro, Rui Finco, Signore di Forent, non sarebbe stato per niente soddisfatto: visto che anche se erano riusciti a stipare la nave con le buone armi eyrane che erano stati pagati per portare al Sud, avevano clamorosamente fallito quando si era trattato di portare a bordo il loro carico principale, l'uomo senza il quale tutto il resto si sarebbe rivelato inutile, perché a meno che la portata di un arco non fosse sensibilmente aumentata negli ultimi tempi, non esisteva ancora nessuna arma in grado di attraversare con il proprio fuoco l'ampio Oceano del Nord dall'Istria fino all'Eyra senza che una nave la portasse a distanza di tiro. Quando lui e Joz erano arrivati al cantiere navale, non solo Morten Danson non c'era più, ma anche la maggior parte dei suoi operai e del legname migliore era svanita. Nessuna delle persone con cui avevano parlato pareva sapere dove fosse finito: era stata fornita loro una qualche debole scusa circa uno spettacolo teatrale a Halbo, ma ciò difficilmente spiegava gli uomini e il legname scomparsi, e a Mazza sembrava molto più probabile che uno dei rivali del re avesse deciso di fare un piccolo investimento per conto suo. Quando erano tornati a Halbo per fare rapporto sul loro fallimento, Mam era apparsa già piuttosto agitata, piena di rabbia a stento trattenuta, e invece di restare per scoprire cosa esattamente aveva causato uno dei suoi famigerati attacchi d'ira, i due uomini avevano riferito le loro misere scoperte e si erano dileguati in fretta per andarsi a rifugiare in un'anonima taverna. Ma questa, pensò Mazza, non era certo una situazione che lui avrebbe voluto spiegare di persona al Signore di Forent. Niente navi significava niente guerra. Anzi no: niente navi eyrane significava niente guerra, perché quei piccoli vascelli istriani, adatti a veleggiare lungo le coste, erano molto
più che inutili, una volta in mare aperto. Quindi niente costruttore di navi eyrano, niente navi eyrane. E niente guerra, niente più lavoro ben remunerato per loro. Forse, rifletté, avrebbero dovuto cercare di fomentare una guerra civile nell'impero del Sud. Oppure... «Potremmo dire al capitano di tornare indietro, portare questa roba a nord attraverso lo Stretto degli Squali e vendere il tutto al conte di Promontorio Grande...» «Questo capitano non saprebbe trovare lo Stretto degli Squali neppure se uno dei suddetti gli mordesse il culo. E poi quel conte non ha un soldo» replicò freddamente Mam, facendo capire che aveva già considerato una simile possibilità e l'aveva scartata. «Erol Bardson?» «Quell'uomo opera nell'ombra, non con gli eserciti. Quando entrerà in azione, non sarà con la forza delle armi, ma con scaltre parole e un coltello dietro la schiena. La guerra con l'Istria potrebbe anche servire ai suoi scopi, ma comprare un carico di frecce da noi sarebbe davvero una mossa troppo ovvia. No, Bardson ha altri piani, ci scommetto, e poi non sono certa che accetterei il suo denaro neppure se me lo offrisse.» Mazza si grattò pensosamente il mento. «Mi sembra che tu stia facendo un po' troppo la difficile, Mam. Non ti sarai mica invaghita del giovane Ravn?» Mam sbuffò. «Del nostro stallone? Quel povero ragazzo non sa più neppure dove ha il buco del culo, in questo momento. Avranno presto bisogno di un nuovo re, a Halbo, e non per colpa di Bardson: quella donna deve aver ormai ridotto l'uccello di Ravn alle dimensioni di un vermetto, tanto che non credo che le dia più neppure tanta soddisfazione a questo punto.» Mazza arrischiò un'occhiata al suo capo. Aveva sentito dire che molte donne provavano piacere durante l'atto sessuale, eppure non ne aveva ancora conosciuta una disposta ad ammetterlo. Ma forse aveva a che fare con il fatto che... Scacciò via dalla mente quel pensiero. «Pensi che Bardson tenterà di impadronirsi del trono?» «C'è gente a sufficienza che si metterebbe dalla sua parte, se ci provasse. Ravn non ha fatto una gran mossa scegliendosi come moglie un'oscura nomade e preferendola al fior fiore della nobiltà eyrana. E non presta alcuna attenzione ai suoi consiglieri, neppure quando si riunisce con loro, il che mi dicono sia piuttosto raro di questi tempi. Passa la maggior parte del tempo, di giorno e di notte, tra le braccia della sua nuova regina e lascia
che il resto vada alla malora. Dicono anche che Capotempesta e il conte di Isola delle Pecore stiano facendo il possibile, ma sono vecchi ormai, e non se la sentono più di andare avanti con tutti quei nobili ambiziosi e quegli avidi possidenti terrieri che gli abbaiano intorno come tanti cani in cerca di un osso.» «Isolaustrale era l'unico che avrebbe potuto riuscire a tenere tutti uniti.» «Sì. Be', noi facciamo quello che dobbiamo fare e veniamo ben pagati per questo... in un modo o in un altro.» Dopo il disastro al Raduno e la successiva fuga di re Ravn, era stato piuttosto difficile convincere il Signore di Forent a dar loro il resto del denaro, anche se, come Mam aveva fatto notare senza mezzi termini, loro avevano mantenuto fede al patto portandogli il re, ed era stata colpa sua e di quello stupido di Varyx se Ravn gli era sfuggito. Rui era rimasto tutt'altro che favorevolmente colpito dalla facilità con cui Mam era passata al nemico quando la situazione era cambiata, ma quando aveva capito che sarebbe scoppiato un vero e proprio putiferio se non avesse saldato il conto con lei, l'aveva fatto, seppure malvolentieri. Era stata una sorpresa per Mam sentirsi poi offrire un nuovo incarico dal Signore di Forent; ma il lavoro era lavoro e non ce n'era così tanto da potersi permettere di rifiutarlo. Le due 'spade in vendita' fissarono con aria imbronciata l'infinita successione di onde grigie davanti a loro, riflettendo sulla propria sfortuna. Ma mentre Mam malediceva tra sé la propria ottusità e mancanza di lungimiranza riguardo alla questione del rapimento del maestro d'ascia, Mazza si ritrovò a desiderare di poter tornare su quell'isoletta a un giorno di viaggio a est delle isole Galiane su cui era fortuitamente capitato un giorno ormai lontano, per una volta non in seguito a un naufragio, ma a uno sventurato alterco con dei pirati circesiani. Laggiù il sole brillava costantemente nel cielo e la luce che illuminava le piccole onde che si infrangevano sulla riva era dello stesso colore verde opalescente di un ciondolo che una volta aveva strappato a un guerriero del Sud mortalmente ferito durante una piccola schermaglia alle pendici delle montagne d'Oro in cui loro si erano ritrovati dalla parte dei perdenti e si erano affrettati a passare fra le schiere del nemico. Mazza si era messo il pendente al collo e aveva dispensato al possessore una morte più veloce di quella che meritava, e da allora aveva considerato quella pietra come un portafortuna, un simbolo della propria sopravvivenza, anche se a volte quando se la toglieva e la studiava avrebbe potuto giurare che cambiasse colore. In quell'occasione, sull'isola si era
disteso su quella magnifica, risplendente e scomoda spiaggia di bianche conchiglie frantumate, con il sole che gli picchiava sulla schiena e gli asciugava la camicia trasformandola in una rigida lastra di sale, e aveva fissato quella pietra levigata mentre cambiava colore, da grigia a un bellissimo verde mare, davanti ai suoi occhi: un mutamento lento come la marea della sua vita... Quel dolce ricordo svanì all'improvviso, spazzato via da un'onda particolarmente alta, che colpì la fiancata della nave così forte da far scricchiolare le assi. Un tremito si diffuse lungo tutta l'imbarcazione e penetrò fin nelle povere ossa di Mazza. «Per Sur! Dai a un capitano istriano una nave eyrana decente e lui farà ugualmente del suo meglio per affondarla. Ma non capiscono proprio niente di navigazione? È un miracolo se non ci siamo rovesciati già una dozzina di volte. Se fossimo più vicini alla terra, affogherei io stesso quel maledetto incapace e mi metterei al timone!» Una nuova ondata li colpì con violenza. Mam gemette. Poi afferrò la frisata e vomitò disperatamente un'altra volta nelle acque sottostanti. «Cavoli, quella era grossa! Mosso, eh?» Un uomo basso e rotondetto era apparso dietro Mazza, con un ampio sorriso stampato in volto. I suoi capelli tagliati alla bell'e meglio erano irti sulla testa, in parte a causa dell'accumulo di acqua salmastra e in parte perché non vedevano del sapone e dell'acqua pulita da... be', Mazza non ricordava quando era stata l'ultima volta che aveva visto Fiatodicane lavarsi una parte qualsiasi del corpo, per non parlare di qualcosa di così frivolo come i capelli. Dogo affermava che lavandosi si eliminava uno strato indispensabile di pelle e che, dal momento che lui era già abbastanza piccolo, non voleva rischiare di diventarlo ancora di più. «Qual è il problema, Mam? Qualcosa che hai mangiato? È stato forse il pasto di ieri sera - in effetti puzzava un po' - o la zuppa di granchi di questa mattina?» Il rumore dei conati ebbe un crescendo, poi cessò all'improvviso. Mam si raddrizzò, afferrò il piccoletto per la gola in un unico, fluido movimento e lo sollevò finché i piedi dell'uomo non penzolarono a mezzo metro dal ponte. «Perché non te ne vai a giocherellare col sartiame, Fiatodicane?» Ogni parola fu accompagnata da una scrollata. «Restami fuori dai piedi e non nominare più il cibo in mia presenza, o ti ritroverai a fare la conoscenza della chiglia da mooolto vicino!» Quando lo rimise giù, Dogo si nascose prontamente dietro Mazza. «Mi
ha mandato Joz a chiamarti» ansimò, strofinandosi il collo indolenzito. «È arrivato un piccione da Forent.» «Che io sia dannato!» Mazza fece uno scongiuro. «Per i sette inferni, come fanno quei piccioni a trovare una nave in mezzo a un maledetto oceano?» «Mi pagano per combattere e rubare: non riempirmi la testa con arcani quesiti come questi. Quelle sono cose per Doc. Perché non lo chiedi a lui? In quanto a me, sarà meglio che vada e che mi prepari al peggio. Sapevo che avrei dovuto strozzare quella carogna di un piccione che Lazio affermava essere il suo amato uccellino da compagnia prima che potesse comunicare il nostro piccolo disastro a Rui Finco. Uccellino da compagnia, quante se ne sentono! Ma chi mai terrebbe un uccellino da compagnia su una nave? Verrebbe arrostito il secondo giorno, garantito, su qualunque altra imbarcazione...» «Sur ce l'aveva» intervenne Dogo. «Cosa?» «Sur aveva un corvo che lo seguiva dappertutto.» Mam fissò il piccoletto con sguardo torvo. «Chiudi il becco» disse. «E?» «E preparati a minacciare quel subdolo bastardo di un capitano, se le cose andranno male. Ha le palle di un topolino, quello: non ci mette niente a raccontare balle su di noi.» «Potrei farlo fuori per te, Mam» aggiunse Fiatodicane in tono allegro, felicemente al sicuro dietro l'ampia schiena di Mazza. «Potrei infilzargli la gola così in fretta che penserebbe di essere stato punto da una mosca!» «Probabilmente è così che si sentono le tue donne dopo che te le sei portate a letto, piccoletto.» Il capo dei mercenari finse un'espressione stupita e parlò con una vocetta stridula: «Oooh, povera me, era una minuscola zanzarina quella che mi ha punto nelle parti più intime, oppure sono stata appena visitata dal potente Dogo?» Mam lo incenerì poi con lo sguardo. «Non devi infilzare Lazio, testone: lui sta governando la nave. Voglio solo minacciarlo, e unicamente in caso di necessità. Attraversiamo il ponte prima di tagliare la corda, va bene?» Il piccione a quel punto si era accomodato sul pennone sopra la grande vela e si rifiutava di scendere. Due dei mercenari, Joz e Doc, e un gruppo assortito di marinai provenienti da una mezza dozzina di province istriane si erano radunati ai piedi dell'albero e guardavano verso l'alto. In mezzo a loro un uomo basso dall'a-
ria preoccupata, che indossava una giacca di pelle riccamente lavorata, stava dando istruzioni a un ragazzino magro e scuro originario delle montagne meridionali dell'Impero (per le sue capacità di scalatore veniva chiamato Scimmia, dal nome di una leggendaria creatura dell'Estremo Occidente) affinché si arrampicasse sull'albero per portare giù il piccione, e il ragazzo stava protestando, e a ragione secondo Mam, che non appena fosse arrivato a pochi metri dall'uccello, quello si sarebbe spaventato e sarebbe volato via, magari su un'altra nave. E allora cosa avrebbero fatto? Per le sue lamentele, Scimmia ricevette uno scappellotto sull'orecchio e una pioggia di insulti da parte del capitano. Joz Manodiorso sospirò e scosse la testa. Quella gente aveva una scarsità di senso pratico e un amore per la teatralità che lui trovava estremamente irritante. Fece un paio di passi indietro, tese il braccio e prese la mira. Un attimo dopo l'uccello cadde sul ponte, contorcendosi. Nello sbalordito silenzio che seguì, Joz recuperò il sassolino (uno dei suoi preferiti, un ciottolo tondo di quarzo bianco levigato dal mare che aveva preso su una spiaggia delle isole Belle), se lo rimise nella sacca insieme alla fionda, tirò su il piccione, slegò il messaggio che portava intorno alla zampa e lo diede a Mam. La donna lo srotolò con cura e cominciò a leggere la strana combinazione di punti e linee. «Quel messaggio è per me!» Il capitano istriano le si avvicinò furioso con la mano tesa, agitando imperiosamente le dita. Mam gli fece il suo più orrendo sorriso, assicurandosi che ognuno dei suoi denti appuntiti fosse ben visibile. Immagina come sarebbe se ti mordessi, suggeriva il suo sguardo. Immagina come sarebbe se ti mordessi proprio laggiù... Poi gli porse il pezzo di carta con una noncuranza che diceva tutto. Joz incrociò lo sguardo di Doc e fu ricompensato con una strizzatina d'occhi. Dogo sembrò deluso: non vedeva l'ora di mostrare la sua piccola lama al capitano. I mercenari si separarono per tornare a fare capannello a prua. «Allora?» chiese Mazza impaziente. «Cosa diceva?» «Purtroppo sembra che l'uccello del capitano non sia arrivato a destinazione» rispose Mam sorridendo. «Il Signore di Forent era estremamente seccato di non aver ricevuto alcuna notizia finora e chiedeva che gli venisse comunicato l'esito della questione relativa al costruttore di navi a stretto giro di piccione.»
Joz ridacchiò. «È un vero peccato» osservò laconico. «Il vecchio Lazio non sarà molto contento quando torneremo e dovrà affrontare l'ira del suo padrone che non avrà ancora ricevuto notizie di Danson.» Lazio, il capitano, sembrava già piuttosto infelice. Mam invece appariva d'un tratto, e stranamente, al settimo cielo. «Forse questa volta non saremo pagati, ma non vedo l'ora che venga il momento in cui comunicherò a sua signoria che il suo prezioso maestro d'ascia è stato rapito dal clan dei Rocciacaduta!» Joz e Mazza si scambiarono uno sguardo perplesso. Quella era una vera novità per loro. C'erano volte in cui sospettavano che Mam riuscisse a controllarli tutti in maniera così efficiente proprio nascondendo loro le informazioni cruciali. Dopo tutto, come lei non faceva che ripetere, la conoscenza era potere; e in qualche modo Mam sembrava averne sempre più di loro. Erno si alzò prima dell'alba, con ogni muscolo del corpo teso per l'angoscia di ciò che l'aspettava nelle ore seguenti. Uscì nella luce grigia di un mondo in precario equilibrio tra notte e giorno, e più silenziosamente che poté, nonostante lo scricchiolio dei ciottoli sotto i suoi stivali, attraversò la piccola spiaggia fino ad arrivare in riva al mare. Era una mattina fredda. Nell'aria si percepiva già l'arrivo dell'inverno, una sensazione strana che non gli era mai capitato di avere nel continente meridionale. La stagione fredda sarebbe stata molto più mite lì che a casa sua, rifletté, osservando il proprio respiro condensarsi nell'aria. Probabilmente da quelle parti non nevicava mai; persino la grandine si sarebbe di certo sciolta non appena avesse toccato quella terra benedetta dal sole per tutta l'estate. Nelle Isole Occidentali, invece, la neve cadeva giù in grossi fiocchi, turbinando confusamente nel cielo come se Sur stesso avesse appeso un gigantesco sacco di piume d'oca sopra tutto il mondo, e si accumulava caparbiamente al suolo per l'intera stagione. Da bambino, quando viveva con Aran Aranson a Rocciacaduta, Erno era sempre il primo ad alzarsi la mattina, quando il resto della famiglia dormiva ancora; e invariabilmente un qualche inspiegabile istinto primitivo gli diceva se nell'aria c'era neve. Lui amava stare fuori in cortile con il viso rivolto verso il cielo ad aspettare i primi, morbidi fiocchi, per sentirli sfiorare la calda pelle delle sue guance e posarglisi come falene sui capelli e sul mantello. Il periodo dell'anno in cui Rocciacaduta era all'apice del suo splendore era l'inverno, quando la neve copriva i campi e le colline con una perfetta, immacolata e avvolgente coperta di
un bianco splendente alla luce del mattino, e il ghiaccio confondeva terra e acqua, trasformando i laghi, gli stagni e persino alcuni tratti di costa in un'increspata e traslucida superficie solida in grado di sopportare il peso delle oche, dei gabbiani e delle foche, e persino, se si era fortunati, di un ragazzo che vi correva sopra con lunghe scarpe di legno legate con stringhe di pelle e unte d'olio di tricheco. La purezza dell'inverno a Rocciacaduta non aveva mai cessato di sorprenderlo, persino quando doveva passare ogni giorno circondato da gente che si lamentava del freddo, delle stanze piene di fumo, della carne essiccata e del pesce sotto sale che diventavano l'unica dieta in quei lunghi mesi, e che la notte intorno al fuoco raccontava struggenti storie di terre dove il sole brillava tutto l'anno, succosi frutti chiamati melagrane crescevano sugli alberi e il frumento arrivava fino all'altezza delle spalle. Ma per Erno niente poteva essere paragonato alla vista del cielo sopra il Picco Blu quando il sole tramontava un pomeriggio di Ultima Luna, al modo in cui il luminoso turchese che rifletteva il bianco della neve sulla cima della montagna cedeva il passo al tenue color porpora dell'erica in boccio e poi a un rosa così delicato che la volta del cielo sembrava potesse infrangersi come una pellicola di ghiaccio se anche il più piccolo uccello l'avesse attraversata. Una volta che si sentiva particolarmente temerario, spinto da un impulso che non riusciva a definire, Erno si era arrampicato sulle pendici del Picco Blu proprio mentre il sole si tuffava nel mare, anche se sapeva che avrebbe dovuto affrontare una lunga e pericolosa discesa al buio. Seduto su un masso di granito, più vicino alla cima del mondo di quanto lo fosse mai stato in vita sua, aveva tirato fuori uno dei rotoli di corda che portava sempre con sé a quello scopo e vi aveva praticato dei nodi che gli avrebbero ricordato per sempre il modo in cui sottilissimi nastri color porpora striavano il cielo blu, il modo in cui un basso banco di nubi sospeso sopra l'estremità occidentale dell'isola era contornato di un profondo color oro, il modo in cui i pennacchi di vapore delle sorgenti calde sotto di lui salivano dalle fosse di torba gelate e dagli antichi affioramenti di lava come gli spiriti dell'isola liberati nell'aria della sera. Erno accarezzò quella cordicella intrecciata che portava al polso sinistro, dove l'aveva annodata quella notte di tanti anni prima, e ricordò la scena così chiaramente che poté quasi sentire le proprie narici fremere per il freddo. Era tempo di tornare a casa.
«Dov'è?» La voce di Rui Finco, normalmente così ben modulata, così controllata e signorile, divenne un grido indignato. Mam si appoggiò allo schienale della sedia, la inclinò tanto che le due gambe posteriori stridettero sul lucido pavimento di legno, e piazzò villanamente i piedi sulla preziosissima scrivania di quercia del Signore di Forent. I suoi stivali, enormi, informi e ricoperti da diversi tipi di innominabile sporcizia, stonavano in maniera impressionante con le ordinate pile di libri, i rotoli di pergamena accuratamente arrotolati, la mappa ben distesa sull'angolo inferiore destro del piano di lavoro, la delicata boccetta d'inchiostro e il vaso colmo di penne tagliate. «A Rocciacaduta, mio signore, nelle Isole Occidentali, il dominio di Aran Aranson e del suo clan.» Il Signore di Forent aggrottò perplesso la fronte. «Aranson?» Un vago ricordo si fece strada nella sua mente... un uomo dalla carnagione scura, infuriato, con occhi penetranti, la barba corta, lunghi capelli neri striati di grigio e maniere arroganti. «Aranson... quello a cui abbiamo bruciato la figlia? La piccola strega che aveva scalato la Rupe di Falla?» Mam annuì, scura in volto. Non aveva niente da guadagnare nel dirgli che Katla Aransen era sopravvissuta al rogo, e anzi, stava informando Rui della probabile ubicazione del costruttore di navi proprio perché non c'era niente che lui potesse fare in proposito, dal momento che Rocciacaduta era un posto così remoto dall'altra parte dell'Oceano del Nord da essere fuori dalla sua portata. Rui passeggiò avanti e indietro per la stanza, riflettendo su quell'informazione. Poi si voltò, il viso scuro per la rabbia. «E togli i tuoi maledetti piedi dalla mia scrivania!» Mam inclinò la testa di lato, gli fece un sorriso pigro e indifferente, poi con molta lentezza mise giù i piedi. Piccoli pezzi di fango e di chissà quale altra sostanza chiazzavano l'immacolata superficie della scrivania. Era alquanto improbabile che il nobile si chinasse per ripulirla da solo, ma l'idea che dovesse chiamare uno schiavo per farlo, e che quello schiavo intuisse le circostanze per cui una significativa chiazza di merda di cane era finita sul prezioso mobilio del nobile istriano le provocava un infantile piacere. Rui si avvicinò alla scrivania e studiò attentamente la mappa, tentando di tenere a freno la propria ira. Era un'antica pergamena che aveva portato via dalla grande biblioteca di Cera, dove l'aveva trovata così piena di polvere
che dubitava che qualcuno avrebbe notato la sua mancanza. Era di squisita fattura e così antica che si riferiva a Jetra come a 'Ieldra', l'antico nome della Città Eterna prima che gli Istriani attraversassero il fiume Tilsen durante la Lunga Guerra e cacciassero via il nemico da quella ricca terra, spingendolo sempre più a nord finché gli Eyrani non ebbero altra scelta che prendere il mare e salpare verso l'ignoto. Non c'era segnata alcuna isola, ovviamente. Oltre la punta più settentrionale dell'Istria, all'altezza del porto di Edera, non vi era altro che una vasta distesa convenientemente denominata 'acque sconosciute'. Rui sollevò lo sguardo e trovò Mam che lo guardava, un sopracciglio alzato in maniera interrogativa. Il nobile istriano la incenerì con i suoi occhi neri e penetranti. Era insopportabile sentirsi preso in giro da un comune mercenario e, quel che era peggio, molto peggio, da una donna. Arrotolò la mappa e trasse un profondo respiro. «Allora perché non li avete inseguiti fino a questa... Rocciacaduta e non avete ripreso l'uomo con la forza?» «I miei ordini erano di tornare qui con il carico prima del Giorno di Bast, che è, mi sembra, fra tre giorni da oggi. Inseguire il clan dei Rocciacaduta fino alle isole Occidentali e da lì tornare a Forent avrebbe significato almeno dieci giorni in più di viaggio. Inoltre è solo una diceria il fatto che Morten Danson sia stato portato lì: potrebbe essere una pura coincidenza che il contingente di Rocciacaduta e il costruttore di navi siano scomparsi quasi nello stesso momento.» L'espressione del nobile del Sud le fece capire con esattezza ciò che pensava del suo ragionamento. «E non ti sei fermata a considerare neppure per un momento che era inutile sprecare tempo e denaro per portare qui quelle maledette armi senza l'uomo che avrebbe costruito le navi necessarie a usarle?» Gli occhi di Mam brillarono. «Io non sono che un'umile spada in vendita, signore, e come tale sono pagata per agire, non per pensare. E dal momento che vostra signoria non mi ha onorato di alcuna spiegazione circa il collegamento tra i due carichi che sono stata mandata a procurare, ho eseguito il mio incarico meglio che ho potuto, date le circostanze.» Il Signore di Forent digrignò i denti. «Avrei dovuto sapere che non era il caso di affidare un tale incarico a dei barbari ignoranti.» «Allora vostra signoria pensa che avrebbe potuto raggiungere il suo scopo mandando un drappello di fedeli istriani nella capitale del Nord? I quali, ovviamente, non avrebbero dato affatto nell'occhio, all'incirca come
delle puttane in un tempio...» «Fuori di qui!» ruggì Rui. «Non senza il nostro compenso.» «Il vostro compenso?» «Non vi chiederò l'intera somma, ma dato che abbiamo riportato metà della fornitura come pattuito, sono certa che vostra signoria ammetterà di doverci metà del denaro...» «Tu non avrai neppure un cantari da me per questo fallimento. Sei già fortunata se non ti faccio scorticare viva e non appendo i tuoi resti sul porto come pasto per i gabbiani.» Mam fece un passo avanti e lo fissò. «Se non sono fuori di qui incolume entro l'ora della Seconda Preghiera, Joz Manodiorso chiederà udienza al duca di Cera per offrirgli delle informazioni riguardanti il vostro rapporto con il re del Nord... mio signore. Non sono sicura che i membri del Supremo Consiglio Istriano di Governo vi accoglierebbero più tanto calorosamente se avessero la sensazione che le vostre ambizioni e la vostra lealtà non coincidono con le loro.» In realtà Mam nutriva quel sospetto sin dalla notte del Raduno, quando aveva sbattuto senza tante cerimonie Ravn Asharson nel padiglione del Signore di Forent, aveva notato un paio di cosine interessanti e poi aveva ascoltato una conversazione tra i due uomini di cui non avrebbe mai dovuto capire il significato. Lei, invece, aveva immagazzinato quel discorso nella sua memoria, e come una gazza che passa in rassegna gli oggetti lucenti che ha raccolto per il suo nido, l'aveva ripetuto più volte nella sua testa finché non aveva creduto di essere riuscita a dargli un senso. Era un rischio calcolato, quello di portare alla luce con tale sfacciataggine i suoi sospetti e confidare nel fatto che il duca di Cera non appartenesse alla cerchia degli intimi del Signore di Forent; ma tutto ciò che aveva sentito dire riguardo al capo del Consiglio di Governo dell'Istria l'aveva indotta a credere che il vecchio era un tradizionalista troppo convinto per lasciarsi coinvolgere da un ambizioso arrivista come Rui Finco. Era una vita che Mam aveva a che fare con persone come il Signore di Forent, e conosceva il tipo di amici che aveva quella gente. Era una grossa carta da giocare per quella che poteva sembrare una questione insignificante, ma gli ottomila cantari che le erano stati promessi non erano una sciocchezza, né lo era in quali tasche sarebbero finiti. Con un enorme sforzo di volontà Rui mantenne un contegno. Ma dentro di sé si maledisse per aver sottovalutato l'intelligenza della donna e il suo sangue freddo. Ora avrebbe dovuto giocare questa partita con estrema at-
tenzione. La sua mente passò velocemente al vaglio le varie possibilità. Vedere il suo bluff e ordinare alle guardie del castello di infilzarla su due piedi? Aveva avuto il buonsenso di farla disarmare prima che entrasse nelle sue stanze, ma sospettava che avrebbe potuto ugualmente disfarsi delle sue guardie personali, e probabilmente anche di lui, persino a mani nude, anche se non avesse avuto altre armi nascoste addosso (e nessun Istriano avrebbe voluto sporcarsi le mani perquisendo una donna barbara con troppa attenzione... Solo Falla sapeva in quali dubbi anfratti una donna del genere avrebbe potuto nascondere un piccolo coltello!). E se avesse detto la verità riguardo al mandare il suo uomo dal duca di Cera? Haro non avrebbe mai accettato la parola di una mercenaria contro la sua, a meno che... Forse avrebbe dovuto pagarla come chiedeva, poi mandare un sicario a eliminare lei e il suo gruppetto durante la notte. Sì, sarebbe stata la soluzione migliore. Quell'uomo alto, proveniente dalle colline di Farem, quello con i tatuaggi rituali sulla faccia... Persoa: ecco come si chiamava. Varyx l'aveva usato per disfarsi di quell'intera famiglia di Sestria, che aveva osato infamarlo... Non sarebbe stato a buon mercato, ma avrebbe potuto detrarre dalle spese quello che avrebbe dovuto consegnare ora alla donna. Ottomila? Fu tentato di darle l'intera somma per farla andare via il più in fretta possibile, ma se non avesse contrattato si sarebbe di certo insospettita. Si stampò sul viso un sorriso mesto. «Be', in effetti forse vi devo qualcosa. Ma non puoi certo aspettarti che vi dia la metà della somma per un lavoro così malfatto...» «Ottomila» disse Mam con fermezza. «Te ne darò sei.» Non gli andava di ripetere di nuovo tutta la sceneggiata. «Otto.» Rui tirò fuori dal cassetto della scrivania un'enorme chiave, attraversò la stanza e aprì una cassa profilata in ottone che si trovava nell'alcova sotto il tempio alla Dea. Poi tornò da Mam con tre grosse borse di monete. «Per l'amore di Falla, donna, prenditi i seimila e ritieniti fortunata.» Mam gli rivolse il suo migliore sorriso, quello che metteva in mostra i molari rivestiti in argento con le doppie punte. «Affare fatto.» Il Signore di Forent la guardò uscire con tutta tranquillità dalla stanza, le trecce che ondeggiavano e le monete che tintinnavano a ogni passo. «Goditele, finché puoi» le augurò tetro. 9
Morte e vita Selen Issian si scostò i capelli dagli occhi e tentò di svegliarsi. Di recente le riusciva sempre più difficile farlo, e ancora più difficile abbandonare il conforto dello spesso mantello che l'avvolgeva e affrontare la prospettiva di trascinarsi fuori nella gelida aria dell'alba fino al limite della baia per controllare le lenze che Erno predisponeva ogni sera. La scarsa luce che filtrava dalle crepe del rifugio che l'uomo del Nord aveva allestito con la barca rovesciata come tetto, delle pietre accatastate l'una sull'altra come pareti e manciate di felci e muschio per riempire i buchi, quella mattina le sembrava grigia e molto poco invitante. Selen si voltò stringendosi ancora di più il mantello intorno alle spalle, chiuse gli occhi e tentò di recuperare i fuggevoli frammenti del sogno che stava facendo. In quel luogo lei era seduta in cima a una ripida collina, appoggiata contro una gelida pietra, e il vento le sferzava i capelli: non portava il velo. Da lì tentava di radunare un gregge di pecore che prima deviava bruscamente a destra, e poi a sinistra, come se possedesse un'unica mente, e ogni volta che le pecore mutavano direzione un cane nero ululava irritato e si gettava contro di loro, abbaiando furiosamente. Lei era rimasta a guardare con aria sonnolenta gli animali che zigzagavano sull'erba bassa, minuscoli punti bianchi su un'immensa e ondulata coperta verde, prima di riaffiorare dal torpore, e aveva notato come il cane, quando correva troppo velocemente o abbaiava troppo forte, spaventava a tal punto le povere pecore di cui doveva prendersi cura che lei avrebbe voluto scendere giù dalla collina e cercare di calmarlo parlandogli con voce suadente, convincendolo a rallentare il passo e a cessare quella successione di fughe e rincorse a cui lui stesso aveva dato il via. Ora il sogno la richiamò a sé, bussando dolcemente alla porta della sua coscienza, e lei lo lasciò fare. Un attimo dopo l'aria le sembrò più rarefatta, più difficile da respirare, e il sangue le affluì al viso. Era tutto molto chiaro, netto, eccessivamente reale. I dettagli la assalivano da ogni parte: il muschio, la pietra, i rami degli alberi, il verde brillante del pascolo, l'innaturale dimensione del cane. Selen si alzò in piedi ed ebbe la sensazione che il mondo fosse improvvisamente mutato, facendosi molto meno accogliente. Il vento la sferzò e lei si rese conto di non indossare altro che una sottile tunica bianca che le si incollava al corpo, rivelandone ogni curva e ogni contorno. Il cane si bloccò, guardandola, e le pecore presero a girargli disordinatamente intorno, non sapendo come
comportarsi, ora che non venivano più inseguite. Lo sguardo della bestia era avido, molesto. Selen provò un brivido di preoccupazione, ma i suoi piedi la portarono a scendere lungo il sentiero anche se la sua mente la esortava a tornare indietro, a svegliarsi. Distante ora solo pochi metri da lui, Selen vide che il cane ansimava e roteava gli occhi... occhi strani per un cane, troppo espressivi, troppo... umani. Il bianco che circondava totalmente l'iride di un bel marrone screziato d'oro era iniettato di sangue, come gli occhi di un uomo ubriaco sul punto di perdere la testa. Schiuma bianca gli si era raggrumata agli angoli della bocca. Nonostante il terrore, Selen si ritrovò a tendere la mano per toccare la testa del cane, ma quello le ringhiò contro, tirando indietro le labbra nere a scoprire i denti seghettati; e fu allora che lei notò il collare di sardonica che l'animale indossava. Qualcosa si accese nella sua memoria. Mentre il cane si gettava contro di lei, Selen ricordò dove aveva visto quelle fasce di calcedonio rosso e quarzo prima d'allora. Aprì la bocca per gridare e il cane la azzannò a un braccio. Sentì la punta delle zanne stridere contro le ossa del suo avambraccio, sentì le mascelle serrarsi... Un attimo dopo fu gettata a terra e c'era un altro cane sopra di lei: un cane bianco, più grande del primo, e allora tentò di fuggire via strisciando, terrorizzata. Questa volta si svegliò completamente. Nella sua mente riusciva ancora a sentire il caldo respiro dell'animale sulla sua pelle e il ringhio profondo che emetteva; ma lì, nel rifugio improvvisato, l'unico respiro caldo era il suo, e gli unici suoni erano i gridi distanti dei gabbiani che volteggiavano sulla baia e il delicato sussurro delle onde. Eppure l'ansia che l'aveva attanagliata allo stomaco sembrava non volerla abbandonare. C'era qualcosa di diverso. Qualcosa che non andava. Strisciò fuori dal rifugio, convinta che a Erno fosse capitata una qualche disgrazia; ma quando si alzò e lo cercò con lo sguardo nella baia, lui era lì, all'estremità opposta della spiaggia, a fissare il mare, immobile come una statua di pietra. Selen lo vide guardare verso di lei e poi distogliere di nuovo lo sguardo, il che non la fece sentire affatto meglio. Sospirando, si diresse verso la battigia. Si accucciò dietro gli scogli di fronte al mare e fece i suoi bisogni. Poi, tirando su l'abito rosso, ora striato di sporcizia e lacero intorno all'orlo, entrò in acqua e si lavò meglio che poté. Il sale si sarebbe seccato sulla sua pelle e sull'abito, ma non avevano acqua dolce a sufficienza per lussi come lavarsi o fare il bucato, ed Erno glielo ricordava fin
troppo spesso. Si lavò la faccia e sentì il sapore dell'acqua salata. Poi si passò le dita bagnate tra i capelli appiccicosi e arruffati dal vento. Infine prese dell'acqua e si lavò accuratamente tra le gambe. Com'era accaduto negli ultimi due mesi, le sue dita non si macchiarono del sangue che di solito si aspettava di vedere il giorno prima della luna piena. Ormai questa non era più una sorpresa per lei. Allontanò dalla sua mente con tutte le forze ciò che quel fatto poteva significare e, stringendo i denti, s'incamminò con cautela tra gli scogli per controllare le lenze che Erno aveva disposto la sera prima. Tre sgombri si erano agganciati ai robusti ami che aveva fatto l'uomo del Nord. I pesci giacevano immobili nelle acque scure, e la loro pelle striata luccicava lambita dalle onde. Per un istante Selen provò pena per loro; poi tirò lentamente le lenze verso di sé e portò le prede sulla spiaggia. Quando tornò, Erno non era più dove l'aveva lasciato. Selen si guardò intorno e con grande sorpresa vide che aveva smantellato il loro rifugio. Aveva spinto la faering giù dalle rocce e l'aveva raddrizzata, ponendola sui ciottoli nella sua posizione naturale: una barca invece di un tetto. Lei era stata tanto concentrata nel tirare a riva i pesci, così determinata nel non soffermarsi sui suoi tetri pensieri che non aveva sentito il trambusto di quell'operazione. Ora Erno era impegnato ad abbattere le pareti di pietra a calci, mettendoci più energia del necessario. Le pietre franavano e rimbalzavano le une sulle altre. Il suono secco che emettevano echeggiava tra le scogliere della caletta. Muschio e foglie volavano via tutto intorno a lui. I loro averi, per quanto miseri, erano stati divisi in due pile separate. Lasciando cadere le lenze e gli sgombri, Selen coprì la distanza tra loro con una goffa corsa. Dietro di lei uno sgombro batté impotente la coda, soffocando nell'aria. «Cosa stai facendo?» Il suo tono di voce era più imperioso di quello che avrebbe voluto. Erno si voltò di scatto. Lo sforzo e il vento freddo gli avevano arrossato le guance. Gli occhi blu sembravano lampeggiare di una qualche indecifrabile emozione. Aveva un'espressione determinata che non le piacque affatto. «Me ne vado» furono le sue uniche parole. Poi le voltò la schiena e raccolse la sua sacca, il coltello, l'attrezzatura per la pesca e infilò tutto sotto la panca a poppa della faering. Selen si sentì raggelare. Si affrettò a raccogliere la propria patetica pila di miseri averi (il mantello trafugato da un altro bucato steso al sole, le mutande che si era fatta con strisce di stoffa ricavate da una camicia ruba-
ta; il coltello che le aveva dato Erno per pulire il pesce; il lungo cucchiaio che le aveva intagliato quando si era lamentata di dover mangiare con le mani) e li sistemò dall'altro capo della barca. Erno fissò quegli oggetti, poi lei. Infine si chinò e ripescò il fagotto, gettandolo di nuovo sulla spiaggia. «Da solo. Me ne vado da solo.» Quella dichiarazione le attraversò la mente, rapida come il volo di un gabbiano. Era impossibile che avesse detto quello che le sembrava di aver sentito. Selen si accigliò, perplessa, tentando di formulare una domanda, ma non ci riuscì; poi stette a guardare mentre Erno spingeva la barca con un tremendo sforzo lungo la spiaggia di ciottoli e poi nelle acque basse. Per un momento, la faering si arenò su un banco di sabbia, ma quando lui si gettò in acqua e la spinse di nuovo, i muscoli delle braccia e della schiena ben visibili sotto la stoffa leggera della camicia, la barca si mosse verso il largo. Erno la seguì finché non ebbe l'acqua fino alla vita. A quel punto afferrò il fianco della barca, sollevò una gamba sopra la frisata e cominciò a issarsi a bordo. La faering ondeggiò e minacciò di ribaltarsi, ma Erno aspettò che la barca avesse ritrovato l'equilibrio prima di completare la sua manovra. Senza neppure voltarsi, l'uomo del Nord si sistemò sulla panca e mise i remi in acqua. La stava abbandonando. La stava lasciando lì, a chilometri di distanza da tutto, senza uno scrupolo, senza un dubbio. «No!» L'indignazione che provò era impressionante. Un'esplosione di adrenalina le diede forza, determinazione, velocità. Raccogliendo precipitosamente tutti gli oggetti che lui aveva gettato sulla riva, se li mise sotto il braccio e si avviò furiosa tra le onde. L'acqua le arrivò ai polpacci, alle ginocchia, alle cosce. Selen ne sentì la resistenza, ma non ci badò e continuò ad avanzare, gridando. «Torna indietro! Come osi abbandonarmi, Erno Hamson? Sei un codardo, un bastardo, un barbaro!» Nella faering Erno cercò di indurire il proprio cuore alle parole della donna e iniziò a remare. Selen continuò ad avanzare. Le onde cominciarono a lambirle la vita, il seno, le afferrarono la veste e la aiutarono momentaneamente a galleggiare. Un attimo dopo sentì i suoi piedi perdere contatto con il fondo del mare. Presa dal panico, cominciò a dibattersi e agitare le braccia, e perse il fagotto dei suoi averi. Il mantello le si avvinghiò in-
torno al corpo. L'acqua schizzava tutto intorno a lei, le bagnava i capelli, le riempiva la bocca. Selen sputò e gridò di nuovo: «Vuoi lasciarmi affogare? Hai intenzione di remare fino in mare aperto senza guardarti indietro?» Scorse l'uomo sulla barca irrigidirsi e pensò che sarebbe tornato a prenderla, ma poi un'onda la sommerse e per un terribile istante non vide altro che acqua. Poi l'onda si ritirò, portando con sé il mantello, e Selen si ritrovò nell'acqua alta, con l'abito rosso che le fluttuava intorno come una grossa pozza di sangue. Lottò per restare a galla, scalciando e dimenando le braccia. «Sono incinta, Erno! Se mi lasci ora non sarai responsabile solamente della morte di una donna che tu incolpi dell'uccisione di Katla, ma anche di quella di un bambino innocente!» Poi andò sotto di nuovo, l'acqua fredda e pesante intorno a lei. La sentì richiudersi sopra la sua testa, toglierle qualsiasi contatto con l'aria, reclamarla nei suoi abissi. Affondò. Le braccia e le gambe si agitarono impotenti. La pressione dell'acqua contro il suo petto le sembrava una mano che la schiacciava nella sua morsa. La bocca le si riempì all'improvviso. Selen sentì il gelido ingresso dell'acqua, un'orribile invasione, sentì il proprio corpo perdere il calore che la rendeva umana e viva. Mentre iniziava ad affogare provò un istante di comprensione per quel povero sgombro che aveva lasciato a morire sulla spiaggia, a soffocare in un elemento ostile, innaturale. Poi la luce svanì, e Selen non sentì più niente. Invece delle classiche topaie in cui erano soliti alloggiare, quella notte Mam aveva offerto ai suoi mercenari una dimora di lusso, che vantava una sala comune oltre ad ampie stanze da letto sopra le stalle di una taverna di buona qualità, vicina ai più bei bordelli che Forent avesse da offrire, il che era tutto dire. Poiché quella era la città di Rui Finco, i postriboli abbondavano, e le loro donne erano famose in tutta l'Istria per la bellezza e la sapienza nelle arti amatorie. Era a Forent che le donne accorrevano per sfuggire ai roghi vendicatori di Falla: per adulterio, per empietà, per aver pronunciato le parole sbagliate al momento sbagliato di fronte ai loro padri, fratelli o mariti. Rui Finco era noto per avere un atteggiamento leggermente più permissivo riguardo a tali misfatti degli altri signori dell'Impero e questo, unito alle prodezze di cui faceva sfoggio nelle sue stanze, l'aveva reso piuttosto popolare con le donne di Forent, come Doc aveva imparato a
sue spese. «Ho detto solo che scommettevo che il suo naso era più grosso del suo uccello e lei mi ha cacciato a calci dal letto e si è persino rifiutata di prendere il suo cantari.» «E l'avevate già fatto?» Doc sorrise al ricordo. «Diverse volte.» Dogo sembrò riflettere. «Come hai detto che si chiamava?» «Sestrina.» «E in quale bordello stava?» «La Torre delle Delizie Terrene, la seconda da sinistra dopo la piazza del mercato: ha una coppia di pilastri rosa a ciascun lato della porta. Mi ci ha portato Mazza.» Dogo diede dei colpetti affettuosi alla propria tasca, poi tirò fuori il sacchetto delle monete. Gonfia per il denaro che Mam aveva spartito tra i componenti del gruppo, la sacca ondeggiò rumorosamente appesa al suo laccio di pelle. «Allora questa non mi servirà» disse ridacchiando. Poi la lanciò in alto, la afferrò a mezz'aria con l'altra mano e la rinfilò nella tasca della tunica. «Eppure chi può mai dire che io non la stanchi tanto da dovermi trasferire in un altro posto più tardi?» Joz Manodiorso, seduto su una panca sistemata lungo il muro della stanza, impegnato ad affilare le molte armi che possedeva con un complicato sistema di cote e panni assortiti, sbuffò con disprezzo. Era raro che si unisse ai suoi compagni in quelle escursioni notturne e quando lo faceva, invece di entrare per avvalersi dei servizi offerti, preferiva restare fuori appoggiato alla sua spada a osservare i visitatori che entravano e uscivano, 'in caso di guai', diceva. Anche se l'unico guaio in cui spesso incappavano era il fatto che i padroni dei bordelli si lamentavano della sua presenza, poiché intimidiva i clienti convincendone diversi a fare marcia indietro e visitare un altro esercizio in cui non sarebbero stati esaminati con occhio critico da un uomo che sembrava un gigante vendicatore saltato fuori da qualche leggenda, pronto a staccare loro la testa per punirli delle loro lascive intenzioni. E a quel punto Doc, Mazza e Dogo dovevano puntualmente impacchettare Joz e portarlo via, prima che si lanciasse nella sua solita ramanzina su quanto fosse immorale pagare le donne per un congresso carnale. Era buffo in realtà che un uomo pronto a uccidere per denaro si rifiutasse di spendere una piccola parte delle monete faticosamente guadagnate con una ragazza carina che per un po' gli avrebbe fatto dimenticare le disgrazie del mondo, ma purtroppo era così.
«Stai attento con quei soldi» lo avvertì Mam. «Non è il caso di farne sfoggio, in un posto come questo.» Lo diceva puntualmente, dovunque andassero. A volte era come portarsi dietro la propria madre, il che sembrava ancora più bizzarro quando si era in procinto di andare a far visita a una puttana. Dogo strabuzzò gli occhi rivolto a Doc, che si strinse nelle spalle. Oramai ci erano abituati. Fiatodicane si tastò la coscia sinistra. «Ho il mio coltello» dichiarò. Poi si toccò il ginocchio destro. «E qui c'è il suo compare.» Infine, con un gesto stravagante, ne produsse altri due, che teneva nascosti negli stivali. «Ops, mi ero scordato di questi.» «Per pietà, vai e basta.» «Vengo con te.» Mazza apparve sulla soglia, tutto rosa e splendente dopo il suo bagno annuale. I suoi capelli, che normalmente portava legati in una dozzina di trecce annodate intorno alla testa perché non lo intralciassero durante un combattimento, erano sciolti e ancora umidi, e cominciavano ad arricciarsi intorno alle spalle. Indossava la sua camicia più fine, quella che aveva comprato a un banchetto dei nomadi alla Grande Fiera, un affarino blu chiaro con uno sgargiante cordoncino verde e argento intorno al colletto. Sembrava che ci avesse passato sopra una pietra calda per togliere la maggior parte delle pieghe. Il pendente che portava sempre al collo era comodamente poggiato sui folti peli del petto, ben visibile dall'apertura della tunica. Sembrava un diciannovenne in procinto di visitare la sua bella, invece del trentenne che era. «Ti sei tolto il cappuccio» osservò Doc sorpreso, guardando il moncone della mano sinistra di Mazza. Senza il cappuccio di pelle macchiata che di solito il mercenario portava sulla ferita, l'appendice sembrava vulnerabile come un cucciolo appena nato: di colore rosato, raggrinzita e senza peli. Il contrasto con la pelle scura e solcata da cicatrici dell'avambraccio era quasi scioccante. Guardando quella pelle morbida e pallida si riusciva quasi a credere che un tempo Mazza avesse avuto un'infanzia lontana dalla violenza e dalla durezza delle loro vite di adesso. «Mi prudeva» spiegò imbarazzato l'uomo alto. «Gia mi lenisce il fastidio con le sue mani.» «È la stessa ragazza che sei andato a trovare per tutta la settimana?» Mazza arrossì fino alla punta dei capelli. «Sì.» Fiatodicane fece una grassa risata. «Anche la mia appendice ha un fastidio che lei potrebbe alleviarmi...» «Chiudi il becco, Dogo.» Doc diede uno scappellotto al piccoletto. «Pre-
sto ce ne andremo» ricordò poi a Mazza. «Non è il caso di affezionarsi troppo a una di queste ragazze dei postriboli. Meglio spargere il proprio denaro in giro, secondo me.» «Assaggiare tutto l'assortimento» aggiunse Dogo sorridendo. Mazza sembrò offeso. «Alcuni di noi sanno capire quando hanno trovato qualcosa di buono. Solo perché non sento il bisogno di scoprire cosa c'è sotto ogni sottana di Forent, non vuol dire che mi sia rincitrullito. E poi Gia è una brava ragazza, e lavora dove lavora solo perché la sorte si è accanita contro di lei. Abbiamo parlato parecchio, io e lei. È impressionante quanto abbiamo in comune.» Fiatodicane scoppiò a ridere. «Sì. Come sdraiarsi e fottere come ricci...» Questa volta fu Mam a dargli una manata sulla testa. «Chiudi quella bocca di fogna, Dogo. Non c'è niente di sbagliato nel trattare una ragazza come un essere umano invece che come un posto comodo in cui ficcare l'attrezzo. Ora uscite di qui e lasciate me e Joz in pace così che possiamo prendere qualche decisione. Qualcuno deve pur progettare qualcosa di più costruttivo del decidere quale bordello visitare la prossima volta.» Il freddo fuori dalla locanda li colse di sorpresa, e Fiatodicane e Doc si divertirono come matti a prendere in giro Mazza che si rifiutò di rovinare il suo nuovo aspetto indossando il suo vecchio mantello sporco e addirittura di sgualcire la camicia mettendosi il cinturone con la spada. «Ma che bella spada in vendita che sei!» commentò Doc. «È solo a un paio di strade di distanza e a Gia non piace che io indossi un'arma. E poi di cosa dovrei aver paura con due guardie del corpo come voi?» Nessuno di loro notò un paio di figure che, al loro passaggio, sbucarono dall'ombra del vicolo dietro via del Tagliatore, né il movimento di altre due nella direzione opposta. Erno guardò il corpo della donna che giaceva sul fondo della barca e sentì delle lacrime cocenti bruciargli gli occhi. Non era stato facile per lui decidere di abbandonare Selen Issian, né sentire la più che giustificata rabbia nella sua voce mentre si allontanava con la barca, ma era l'unica soluzione che gli era venuta in mente in quel momento. Ragionare con lei non aveva portato a nulla e ogni volta che cominciava a pensare al tipo di vita che la attendeva una volta tornata dalla sua famiglia, nonostante Tanto Vingo fosse sopravvissuto, la sua mente rifuggiva sgomenta da quelle riflessioni. Non era giusto che nel continente meridionale le donne dovesse-
ro essere vendute e comprate e passate da un uomo all'altro in quel modo, che dovessero vivere un'esistenza di umiliazioni e infelicità senza avere nessuna voce in capitolo, ma in fondo così era la vita in Istria: probabilmente era sempre stato così e sempre lo sarebbe stato e lui non poteva fare niente per cambiare le cose. Quella situazione non era stata causata da lui, continuava a ripetersi: non aveva fatto altro che tentare di aiutarla. Ma se non era colpa sua, allora perché si sentiva così responsabile? Era stato il senso di colpa a spingerlo ad andarsene quella mattina senza una spiegazione, a mettere in acqua la faering; era stato il senso di colpa a farlo remare via senza guardarsi indietro, senza rendersi conto che lei l'aveva seguito tanto al largo che il mare l'aveva inghiottita. La verità era, e ora non poteva fare a meno di ammetterlo con se stesso anche se era troppo tardi, che aveva capito che Selen era incinta già da diverse settimane. L'aveva capito nel modo in cui ogni ragazzo cresciuto in una famiglia numerosa di campagna capiva certe cose, istintivamente, senza bisogno di riflettere. Una parte della sua mente aveva notato i cambiamenti che stavano avendo luogo in Selen, probabilmente ancora prima che li notasse lei stessa; aveva notato il modo in cui sembrava cercare sempre più cibo, calore e conforto, come se la minuscola vita che cresceva dentro di lei stesse trasformando il suo corpo in un caldo nido; aveva notato, senza malizia, il modo in cui il suo seno si era ingrossato, le sue curve si erano fatte ancora più prosperose, e aveva intuito che quel graduale ingrossamento non era semplicemente dovuto al cibo che continuava a sparire, e che quelle provviste non erano state prese per pura ingordigia. E difatti lui non l'aveva mai rimproverata per aver rubato dalle loro riserve, né perché cantava quelle strane nenie o perché dormiva fino a tardi e la notte prendeva per sé tutto il mantello. E di certo si era reso conto degli improvvisi cambiamenti di umore, degli accessi di rabbia che a volte sfogava contro di lui, ma l'aveva imputato al carattere volubile tipico di tutte le donne e in particolare di quelle di nobile origini. Ma quando lei, prima che le acque la inghiottissero, gli aveva gridato che era incinta e che sarebbe stato responsabile di due morti, si era reso conto che quella era la pura verità e che l'aveva sempre saputo. Anche allora, però, aveva esitato. In momenti del genere, nella mente di un uomo possono passare pensieri incredibili. Erno si era visto a un anno di distanza, straniero in una terra straniera, costretto a tingersi i capelli, a radersi e a parlare la lingua del nemico per poter ottenere umili lavori che gli avrebbero consentito di mantenere una donna e un bambino non suo. E
poi aveva pensato a come avrebbero potuto cambiare le cose in un mondo diverso a un anno di distanza, un mondo in cui Katla non era morta e lui aveva conquistato il suo amore, ma non grazie a uno stupido incantesimo degli Erranti. Con l'immaginazione aveva visto il sole brillare su un piccolo podere nell'isoletta del Nord, su un gruppo di case col tetto di zolle che sorgeva sulla punta di una cala in cui piccole barche da pesca ondeggiavano ancorate al molo e una bella nave lunga che si riparava dal freddo invernale nel suo capanno vicino alla spiaggia. Sulle colline intorno alle case pecore e capre brucavano l'erba e diventavano grasse. Sulla soglia della casa più grande c'era una donna snella con lunghi capelli rossi intrecciati intorno alla testa e un bambino al seno. Erno aveva visto tutto questo con la chiarezza tipica delle allucinazioni e per un momento gli era sembrato che potesse essere una vera visione del futuro e non un sogno impossibile, ma poi si era riscosso e si era reso conto che anche se Katla non fosse morta bruciata, non avrebbe mai voluto una vita del genere, e che, a pochi metri di distanza, una donna stava annegando. Aveva coperto la distanza in tre potenti colpi di remo, determinando l'esatta ubicazione dall'ombra rossa dell'abito che era affondato insieme a Selen. Poi si era gettato in acqua e, immergendosi, aveva afferrato quel fatidico abito e aveva tirato finché non era riuscito a prendere l'Istriana per le braccia, e anche se lei non si muoveva, era riuscito in qualche modo a risalire insieme a lei, con i polmoni che gli bruciavano ed erano sul punto di scoppiare. Era stato disperatamente faticoso issare il corpo sulla faering senza rovesciarla, ma il terrore gli aveva dato un'immensa forza. Poi lei era rimasta distesa sul fondo della barca come una grossa foca morta, finché Erno non aveva ricordato che due inverni prima Thoro Bracciostorto era quasi affogato al largo dell'Isola di Sabbia, e Gar Otterson gli aveva premuto il petto finché l'uomo non aveva tossito, vomitato e poi ripreso le forze a sufficienza da imprecare contro tutti. Era uscita parecchia acqua anche da Selen, all'inizio in grossi fiotti, poi in deboli rivoli... ma lei non si era mossa, e pareva che ancora non respirasse. Quando però lui, preso dal panico (per tutto il tempo una vocina nella sua testa non aveva fatto altro che ripetere «È stata colpa tua, colpa tua, colpa tua»), le aveva toccato il collo e il polso, aveva sentito in lei un flebile fremito di vita, e così si era tolto tutti i vestiti tranne un piccolo cencio per pudore, e l'aveva avvolta in quei panni meglio che poteva, cominciando poi a sfregarle le mani, il viso, i piedi. Neppure in quelle tremende circostanze, pur sapendo che il centro del ca-
lore corporeo risiede nel petto e nella pancia, era riuscito a costringersi a posare le mani sulle parti più intime di lei. E così ora se ne stava lì seduto, a tremare nel vento freddo, vegliando su di lei come se con la sola forza della sua volontà potesse riportarla indietro, e temendo nonostante tutto che Selen preferisse lasciare che il proprio spirito si spegnesse piuttosto che affrontare il disperato futuro che l'attendeva se fosse tornata in vita. «Potremmo tentare la fortuna a Cera.» «Già, potremmo.» Joz passò la cote sul filo del Drago di Wen, poi strofinò la lama con il suo panno oliato e allontanò da sé la spada per ammirare per la millesima volta la maestria di Katla Aransen. «Ho sentito che il duca sta assembrando truppe.» «Non prende più mercenari eyrani da quando Cob Merson ha voltato gabbana a Calastrina e ha preso il denaro del duca di Gila.» Mam rifletté sulla faccenda. «Più a sud allora? Dove c'è meno concorrenza?» «Ci sono meno soldi. Anche se forse varrebbe la pena fare una capatina a Jetra.» «Non mi dispiacerebbe visitare di nuovo la Città Eterna.» Alle orecchie percettive di Joz la voce di Mam sembrò pervasa da un certo desiderio. Alzò lo sguardo e vide che gli occhi della donna sembravano persi nel vuoto, come se stessero guardando qualcosa di molto più lontano della stanza della locanda in cui si trovavano. «È un posto curioso, Jetra» disse soppesando le parole. «Piena di gente strana che va e viene.» Mam sospirò. «Già, gente che va e viene e raramente resta» disse alla fine. Poi gli rivolse un sorriso luminoso, ma senza mostrargli i tremendi denti. «È piuttosto lontano per andare alla ventura, ma sarà comunque meglio andarcene da Forent, secondo me. Non mi fido affatto di quel bellimbusto del Signore della città.» Joz ridacchiò. «Comunque siamo stati pagati, ed è certo più di quanto mi sarei aspettato, date le circostanze. Sei proprio un portento, Mam, sul serio.» Mam si toccò il naso. «Io so più di quanto lui vorrebbe che sapessi» disse criptica, «ed è questo che ci mantiene al sicuro.» Poi si alzò, attraversò la stanza e guardò fuori dalla finestra, verso le strade sottostanti. Schiere di ubriachi vagabondavano con passo incerto su e giù per le strade, con fiaschi in mano e monete nelle bisacce. «Dovrebbe essere una buona notte per le puttane» commentò. «Sembra proprio che la maggior parte dei loro
clienti sarà fin troppo sbronza per farselo venire abbastanza duro da usarlo.» Joz fece una smorfia. «Non dispiacerebbe neanche a me farmi un paio di boccali di birra, a dir la verità. Perché non continuiamo la nostra discussione giù alla taverna?» Mam si piantò le mani sui fianchi. «E chi sorveglierà i soldi nel frattempo?» «Potremmo portarli con noi.» «Tanto varrebbe attaccare un cartello fuori dalla finestra per invitare ogni ladro di Forent a servirsi da solo... Immagina che tintinnio invitante!» I mucchi di cantari che avevano accumulato negli ultimi mesi con mezzi leciti o illeciti erano al sicuro in una grossa cassa di legno di fattura eyrana. Al momento il forziere conteneva due dozzine di sacchi di monete, molto più di quanto potevano portare in due senza attirare l'attenzione, anche se avessero usato tutte le cinture e i mantelli con le tasche nascoste. «Ti dirò io cosa faremo» disse Mam dopo un po'. «Perché non intacchi i nostri risparmi e vai giù a comprare qualche fiasco di quel buon vino rosso che fanno da queste parti e lo porti su? E anche un bel pasticcio di carne non ci farebbe male.» Joz si alzò prontamente in piedi. Aprì il forziere, prese una manciata di monete e si precipitò fuori dalla porta prima che Mam potesse cambiare idea. Il Drago di Wen rimase sulla panca dove l'aveva lasciato, scintillando alla luce della candela. Quando la porta si chiuse, Mam si voltò e tornò a guardare fuori dalla finestra. Non era un brutto posto, Forent, pensò. Il cibo era buono e l'atmosfera molto meno opprimente di quella di alcune città istriane, anche se non le piaceva il suo Signore; inoltre tenere a freno i ragazzi in una città che offriva così tante distrazioni avrebbe potuto essere un problema. Ma l'indomani se ne sarebbero andati, e forse era tempo di dirigersi verso sud e affrontare il demone che aveva incontrato a Jetra, a patto che fosse ancora lì. I suoi pensieri furono interrotti dallo scricchiolio di un'asse del pavimento dietro di lei. Era troppo presto perché fosse Joz che tornava. Mam si voltò di scatto, col coltello in mano, ma la lama del sicario la colpì ugualmente al collo. Mazza, Doc e Dogo attraversarono la piazza del mercato e presero la seconda strada a sinistra dopo aver superato un paio di ubriachi impegnati in
una rissa. Sembrava che l'accenditorce non fosse ancora arrivato al vicolo della Tigre per infiammare la dozzina di torce appese ai muri, perché la stradina era buia e tetra, anche se la Torre dei Piaceri Terreni era ben visibile all'incirca a metà della strada sulla destra, dove un pallido portico indicava l'entrata. Mazza si passò nervosamente una mano tra i capelli. «È buio» osservò laconico. Doc rise. «Scommetto che riusciresti a trovare la strada anche bendato... Sei venuto qui ogni notte da quando siamo arrivati, no?» «Tu pensi che Mam me la lascerebbe portare con noi?» «Gia? Ma stai scherzando? E cosa sa fare, oltre che sco...» «Non è una puttana per sua scelta» lo interruppe Mazza infuriato. «Aveva una vita normale, prima che quel bastardo di suo marito si stancasse di lei e pagasse uno degli schiavi per dire che era il suo amante in modo da poterla ripudiare per legge. Se non fosse venuta a Forent, sarebbe stata messa al rogo.» «Hanno tutte una storia lacrimevole» intervenne Dogo. «Non ci mettono molto a inventarsi un paio di bugie ben fatte per fare appello alla bontà del prossimo e spillargli qualche altro soldo, e questa Gia sembra averti catturato nella sua rete meglio di una bella femmina di ragno. Annuisci, sorridi e scopatela finché puoi, dico io. Ma non credere alle sue fandonie, o finirò per pensare che sei più stupido di quello che sembri.» Mazza si fermò all'improvviso. Quando si voltò, la luce della luna illuminò appieno il suo viso massiccio. «Di' un'altra parola su di lei e ti ritroverai senza la lingua.» Dogo si strinse nelle spalle. Poi i suoi occhi si spostarono alla destra del suo compagno e il suo viso divenne una maschera di ferocia. Ringhiando di rabbia, sguainò uno dei coltelli che portava legato alla coscia e fece un balzo lontano da Mazza, che lo fissò sbalordito. Fu la sua ultima espressione. Un istante dopo la sua faccia urtò le pietre della strada con un tremendo tonfo e Mazza morì chiedendosi cosa avesse causato quell'improvviso dolore alla schiena e se Gia l'avrebbe giudicato maleducato, se si fosse presentato con del fango sulla camicia. La pietra dell'umore che portava al collo cambiò rapidamente colore, passando dal verde a un cupo grigio a un bianco immacolato, come se tutto il colore si fosse disciolto nella pozza scura che si era formata intorno al corpo di Mazza. Nessuno dei suoi compagni lo notò, perché stavano combattendo per la loro vita.
Quando Joz aprì con una spallata la porta della saletta comune, con in mano un vassoio con pane, carne e brodo e due fiaschi del miglior vino del taverniere in precario equilibrio sotto ciascun braccio, impiegò diversi secondi per capire cosa stava succedendo. Mam era in ginocchio al centro della stanza di fronte a un uomo scuro e muscoloso che la teneva per i capelli, costringendola a tirare indietro la testa. Per un assurdo istante di pazzia, Joz si chiese se il loro capo fosse impegnato in un inconcepibile atto sessuale; poi vide il sangue che colava dal collo e il luccichio argenteo dell'arma nella mano destra dell'uomo. Con un ruggito, scagliò le vettovaglie contro l'intruso. Il vassoio sfiorò la testa di Mam, facendole piovere addosso pane e brodo. Uno dei fiaschi di vino finì a terra, ma l'altro colpì l'uomo di striscio, si infranse contro la parete dietro di lui e schizzò l'intonaco col suo liquido rosso simile a sangue. Indietreggiando lontano dal suo assalitore, Mam si strinse una mano sul collo e inveì contro Joz. Il sangue le colava copiosamente tra le dita e il brodo tra i capelli. «Cosa cazzo credi di fare?» gridò con voce roca. «Non tentare di affogare questo bastardo... infilzalo con la tua spada!» Il Drago di Wen era ancora sulla panca accanto alla porta, dove Joz l'aveva lasciato. Il mercenario sentì la sua presenza dietro di sé come se fosse una cosa viva. E vide gli occhi neri dell'assassino posarsi per un istante sull'arma. In quello stesso istante, Joz fece la sua mossa: non si gettò verso il capolavoro di Katla Aransen, ma direttamente contro l'uomo delle colline, colpendolo allo stomaco con la testa e facendo quindi sfoggio di un'antica e ben poco subdola manovra eyrana di lotta. Poi la sua mano sinistra si strinse intorno al polso dell'uomo, torcendolo senza pietà. Le ossa si infransero; il sicario urlò. La lama curva, tipica dell'Impero del Sud, cadde rumorosamente a terra, ormai inutile. Spinto indietro dal potente slancio di Joz Manodiorso, l'uomo delle colline perse l'equilibrio e cadde pesantemente sotto il mercenario. Joz serrò le ginocchia intorno al collo dell'uomo e si preparò a strizzargli via la vita dal corpo... ma un momento dopo si ritrovò a terra, spinto da un calcio improvviso. Non fece in tempo a rimettersi in piedi che l'uomo era già morto. Ansimando furiosamente, Mam era in piedi sopra il sicario, appoggiata alla spada che aveva spinto con tale forza nel petto di quell'uomo da conficcarla per almeno mezza mano nelle assi del pavimento. Con le dita che accarezzavano il lupo morente tra le spire del drago meravigliosamente intarsiato sull'elsa, la donna fissava il nemico che per poco non l'aveva uccisa con un strano accenno di sorriso stampato sul volto sporco di sangue e di brodo. Nell'innaturale silenzio che
seguì, Joz sentì il costante gocciolio della ferita di Mam sul pavimento. «Faresti meglio a fasciarti quella...» cominciò a dire, ma lei si portò un dito alle labbra. Dei passi risuonarono sulle scale, pesanti e goffi. Con terrificante determinazione, Mam posò il piede sul petto del morto e tirò il Drago di Wen con quel poco di forza che le era rimasta, girando la lama da una parte all'altra tanto che il metallo stridette in modo orribile contro l'osso; ma la spada rimase incastrata. Joz le tese la sua spada corta dalla parte dell'elsa. Mam gli lanciò uno sguardo ostinato. Poi, con una scrollata di spalle, prese l'arma del suo compagno e fece un passo indietro. Joz liberò il Drago con un solo strattone e prese posto di fronte alla porta. Un attimo dopo apparve Fiatodicane, spingendo davanti a sé con la punta del suo pugnale un uomo alto con un mantello e il viso completamente tatuato. Dietro di lui c'era Doc, con un corpo di traverso sulla spalla. Le gambe di Mam cedettero all'improvviso e la donna crollò a terra. Joz le fu accanto in un istante, ma sembrava che non fosse stata solo la perdita di sangue a causarle il collasso. «Persoa» mormorò. «Pensavo fossi morto.» Il sicario avvolto nel mantello sorrise a fior di labbra. «Diverse volte» disse in un eyrano dal pesante accento straniero. «Proprio come la proverbiale Bast: ho nove vite.» «Allora questa deve essere la tua nona» ringhiò Doc, gettando il cadavere di Mazza sul pavimento. Il corpo del mercenario cadde con un tonfo e giacque tra di loro come un'accusa. Il ciondolo appeso al laccetto di cuoio sbatté sulle tavole di legno, la pietra priva di vita come gli occhi del suo proprietario. «Pensavo che volessi interrogare di persona questo bastardo, dal momento che afferma di conoscerti» aggiunse girandosi verso Mam. Poi sgranò gli occhi alla vista della tunica intrisa di sangue e della ferita sul collo della donna. «Per i sette inferni, cosa è successo qui?» Non aveva mai visto il suo capo ferito: per un momento, il mondo gli sembrò andare a rovescio. Mam gli lanciò uno spettrale sorriso, reso ancora più spaventoso dal sangue che le bagnava i denti. Poi si legò un fazzoletto intorno al collo e strisciò verso Mazza. Inclinando la testa, studiò il cadavere. «Niente cinturone per la spada?» chiese alla fine. «Ha detto che a Gia facevano paura le armi.» Dogo soffocò una risatina di pessimo gusto. Mam gli lanciò un'occhiataccia, poi passò con delicatezza le dita sul viso
del morto. Quando ritirò la mano, gli occhi di Mazza erano chiusi. «Perché l'avete riportato qui?» «Pensavo che avresti voluto interrogarlo» ripeté Doc. «Scoprire chi l'ha pagato.» Mam alzò gli occhi al cielo, irritata. «Non lui, stupido: Mazza.» Doc guardò sbalordito Joz. «Non potevamo lasciarlo in mezzo alla strada... non era giusto.» Il capo del mercenari si raddrizzò e lo guardò negli occhi. «Giusto? E da quando ci interessa quello che è giusto? Noi siamo spade in vendita, e Mazza è morto perché ha dimenticato questo semplice fatto. Niente spada, morte certa. Semplice, no? Se muori da spada in vendita, vieni lasciato sul campo di battaglia. Noi non facciamo funerali: uccidiamo la gente.» Si chinò e tolse il ciondolo dal collo di Mazza, lo soppesò nel palmo e se lo mise in tasca. «Il risparmio è il miglior guadagno.» L'uomo delle colline fece uno scongiuro. «Porta sfortuna» disse. Mam lo guardò con ostilità. «Non ricordo che tu avessi scrupoli del genere nella tua vita precedente. Anzi, mi azzarderei a dire che sei l'uomo con meno scrupoli che abbia mai conosciuto. Il che è tutto dire. Tu e Rui Finco fate una bella squadra.» Persoa sorrise. A parte per i tatuaggi rituali della sua tribù, che si estendevano in complicate volute e ghirigori dal mento alla fronte, aveva il viso di un uomo giovane: pelle liscia, tesa sopra zigomi affilati e un'espressione maliziosa. Leggere rughe d'espressione segnavano i lati della bocca che si produceva in un affascinante sorriso e gli angoli dei grandi occhi marroni. I tatuaggi tendevano a spaventare il prossimo, perciò l'uomo aveva imparato ben presto come far sì che la gente si fidasse di lui: il fascino era a volte un'arma ben più potente del miglior acciaio di Forent. Ma i suoi occhi erano vecchi di almeno cent'anni, poiché avevano visto cose che avrebbero fatto impazzire menti più deboli. «Non sono mai riuscito a ingannarti.» «Te la sei cavata piuttosto bene a Jetra.» «E chi stava ingannando l'altro? Io ero stregato, affascinato, sedotto.» Mam arrossì. Fiatodicane fece una smorfia a Joz Manodiorso, che lo ricambiò con un occhiolino. Doc fissò a bocca aperta il suo capo, non riuscendo a credere ai proprio occhi né alle proprie orecchie. Mam e questo... uomo del Sud? Mam... affascinante? «Così stregato che una mattina sei uscito a prendere del pane per la colazione e non sei più tornato» disse la donna con voce roca.
Gli occhi di Persoa la fissarono con serietà. «Non avevo altra scelta.» «E avevi scelta quando hai accettato questa piccola commissione dal nostro Signore di Forent?» «Se avessi saputo...» «Oh, ma tu lo sapevi» dichiarò Mam. «Tu lo sai sempre.» Persoa ammise il fatto con un cenno del capo e una scrollata di spalle appena percettibile. «Spero che Rui ti abbia pagato maledettamente bene» ringhiò Mam. «L'ha fatto.» Doc sollevò una pesante cintura cui erano agganciati diversi sacchi di monete. La soppesò per qualche istante. «L'ho costretto a consegnarci questa. Non ho avuto l'occasione di contarli, ma direi che dentro ci sono almeno quattromila cantari.» L'uomo delle colline si accigliò. «Non avrei accettato di meno per una tale... sfida.» Mam rise, poi trasalì per il dolore. «Non hai avuto il coraggio di affrontarmi di persona, però.» «Forse non volevo vederti morire.» «Oh, come mi commuovi!» «Hami non è mai stato così bravo come gli piaceva credere.» Il sangue del sicario morto aveva formato un'enorme pozza sul pavimento. Sotto il colore scuro della sua pelle, il volto aveva cominciato ad assumere un pallore mortale, mentre le guance si stavano incavando e gli occhi fissavano senza vedere le travi del soffitto. Tutti guardarono il cadavere con indifferenza. «Per poco non è riuscito a farmi fuori» mormorò Mam. «Sto diventando lenta e sorda: probabilmente è colpa dell'età.» Sfilò il pugnale che portava legato alla coscia sinistra e provò il filo della lama sul suo pollice. Una sottile linea rossa apparve sulla pelle. Mam si succhiò le gocce di sangue, pensierosa. «A me sembri giovane e bella come sempre» disse con galanteria Persoa. Fiatodicane fece una risatina, poi tentò di mascherare la sua mancanza di tatto con un colpo di tosse. «Be', a pensarci bene è un'affermazione che corrisponde a verità, anche se formulata nel modo ambiguo degno di un nobile del Sud. Perché in realtà io non sono mai stata né giovane né bella.» «Per me sì.» «Hai davvero così poca voglia di vivere?» chiese con curiosità Mam,
posando la punta del coltello sotto il mento dell'uomo delle colline e premendo con forza tale da costringerlo a sollevare la testa per esporre tutta la lunghezza del collo. L'estremità sinistra del tatuaggio che rivelava la sua appartenenza al clan Catto, del quadrante sudest delle Alture di Farem, si arricciava pigramente dietro l'orecchio dell'uomo per poi sparire verso il basso tra le pieghe del mantello. Mam fece scorrere lentamente la lama lungo il collo, seguendo la linea del disegno. Il pugnale solleticò la pelle, poi raggiunse la stoffa e scivolò improvvisamente verso il basso, tagliando il nastro che teneva legato il mantello. L'indumento cadde a terra ai piedi di Persoa. Piccole gocce di sudore imperlarono la fronte dell'uomo. Mam sorrise. La lama tremò, poi continuò il suo percorso lungo il tatuaggio fino all'altezza della clavicola, dove il ghirigoro finiva in una delicata biforcazione e tre puntini allungati. «Mi sono sempre piaciuti i tuoi tatuaggi» disse in tono nostalgico. «Me lo ricordo» rispose Persoa, ormai evidentemente innervosito. «Hai ancora tutti gli altri?» Era una domanda retorica. Una volta eseguito dal capotribù, solo uno scuoiamento avrebbe potuto rimuovere un disegno farem. Il sicario annuì. Mam sollevò un sopracciglio, poi tagliò il davanti della sua camicia fino alla vita. Joz fece un fischio. Perché mentre dal collo in su i disegni apparivano astratti e stilizzati, quelli coperti dagli indumenti dell'uomo erano invece figurativi ed estremamente dettagliati. Rappresentavano una scena di una leggenda delle montagne: l'imprigionamento del dio Sirio sotto il Picco Rosso e la fuga di sua sorella, la dea Falla. La coda e le zampe posteriori del suo magico gatto, Bast, si intravedevano appena dalla vita dei pantaloni attillati di Persoa. Mam conosceva bene quei tatuaggi: aveva passato ore ad accarezzarli sulla pelle liscia e scura di quell'uomo. E sapeva esattamente cosa c'era tra le zampe anteriori del gatto. Ah, sì, quello lo ricordava fin troppo bene... «Diamine, Persoa, sei sempre un'opera d'arte» disse sorridendo. «Sarebbe un peccato sprecare un tale capolavoro.» Il sicario si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. «Anche se ovviamente potremmo scuoiarti e tenere la tua pelle come souvenir, in ricordo di tempi... interessanti.» Mam distolse lo sguardo dal viso allarmato di Persoa e vide le espressioni curiose dei suoi uomini. «Che dite, lo risparmiamo, ragazzi, ora che siamo rimasti con un uomo in meno?» Doc fissò il cadavere che aveva riportato dal vicolo della Tigre. «Preferi-
rei farlo fuori e andarmene da questo posto schifoso» disse conciso. Fiatodicane si accarezzò il pugnale sulla gamba. «E io sarei felice di fargli questo favore.» Il viso di Joz rimaneva duro come la pietra. «Mazza è morto, e niente potrà riportarlo in vita. Ma immagino che Persoa stesse facendo il lavoro che era stato pagato per fare, proprio come noi: noi tutti abbiamo preso il denaro del Signore di Forent e fatto anche di peggio.» Mam annuì. «Se dobbiamo rubare una nave e andarcene di qui prima dell'alba, ci servirà tutto l'aiuto possibile.» «Rubare una nave?» le fece eco Doc, incredulo. Il capo dei mercenari sorrise. «Ah, sì, non ho avuto il tempo di esporvi il piano che avevo appena elaborato» disse. «Andremo giù al molo con... be', avevo intenzione di investire una parte dei nostri sudati guadagni in quest'impresa, ma dal momento che Sur ha ritenuto giusto fornirci una fonte inattesa di cantari» indicò la cintura carica di denaro in mano a Doc «e un navigatore particolarmente abile» indicò l'uomo delle colline «sarebbe da stupidi non sfruttare al massimo la nostra fortuna.» «Un navigatore?» Ora fu il turno di Joz di mostrarsi scettico. «Quell'uomo viene dalle montagne: come accidenti fa a sapere come si attraversa un oceano?» Persoa chinò la testa. «Io ho...» S'interruppe. Se avesse ammesso la verità alla presenza di chiunque in Istria sarebbe di certo stato lapidato o messo al rogo. Ma i mercenari di Finna Fallsen non erano gente qualunque. Fece un profondo respiro. «Ho una certa affinità con le rocce e i metalli.» «E in parole povere cosa vorrebbe dire? Cos'è questa... 'affinità'?» chiese Dogo, sottolineando l'ultima parola con la voce in falsetto. «Tra le tribù delle colline delle Alture di Farem esistono persone nate con la magica capacità di percepire la terra: gente capace di 'vedere' ogni aspetto del terreno anche quando è nascosto alla vista. Loro li chiamano eldianni, 'veggenti della terra' e Persoa è uno dei migliori. Significa che può percepire le rocce... sotto l'acqua, dall'altra parte del mare, nel bel mezzo di un deserto. Può seguire con la sua mente una vena di minerale per centinaia di chilometri: percepisce isole, continenti, scogliere» dichiarò Mam con un certo orgoglio. «In Eyra un uomo come lui sarebbe prezioso più dell'oro; in Istria da ragazzo si mise nei guai scavando cristalli e pietre preziose sulle montagne d'Oro... e come risultato numerosi membri della sua tribù sono stati assassinati o resi schiavi.» Doc lanciò all'uomo delle colline uno sguardo feroce. «Tu hai accoltella-
to Mazza alla schiena anche se non aveva un'arma. Ma se sei davvero in grado di fare quello che detto Mam e non ci darai problemi, potrei anche sopportarti.» Dogo sorrise al sicario. «Sei stato piuttosto efficiente, comunque, a farlo fuori così. Ti terrò d'occhio.» «Mazza era un mio amico» disse Joz Manodiorso con tono pacato. «E non molti si sono guadagnati questo appellativo. Un uomo che uccide un mio amico dovrebbe per definizione essere considerato un mio nemico, e i miei nemici raramente vivono a lungo. Sarà meglio che ti dimostri insostituibile per la nostra squadra, o ti taglierò personalmente la gola.» Persoa studiò l'omone con sguardo circospetto. Poi gli tese la mano. Joz annuì e avviluppò la mano snella dell'uomo delle colline con la sua grande zampa. «Benvenuto nel nostro mondo.» Il mondo era rosso e pieno di dolore, ma quando aprì gli occhi, tutto divenne di un bianco accecante. La donna batté le palpebre e tossì, poi batté di nuovo le palpebre. Rosso, bianco, rosso, bianco, rosso. Il petto le bruciava come se gliel'avessero aperto ed esposto ai venti, ed era gelata fino al midollo. Quando tentò di muoversi si ritrovò in qualche modo impossibilitata a farlo e fu presa dal panico. Rotolò e gemette, e il mondo si mosse con lei. «Seleni Seleni» Forti mani le strinsero le spalle. Un volto le si parò dinanzi. Era un bel viso, dai lineamenti forti e dall'aspetto pieno di salute: un uomo, con lunghi capelli, una barba chiara e ispida e la carnagione scurita dal sole. I suoi occhi grigio-blu erano colmi di ansia. Selen tentò di parlare, ma le parole non volevano uscire. Quando cercò ancora di divincolarsi, l'uomo si chinò e allentò le corde che la tenevano legata, le mise un braccio intorno alle spalle e l'aiutò a mettersi a sedere. L'ombra di lui fornì ai suoi occhi un po' di sollievo. Si guardò intorno e si rese conto che erano su una piccola barca, il che spiegava il rollio. Le sembrava molto familiare, eppure allo stesso tempo estremamente bizzarra. «Grazie a Sur sei viva! Pensavo che fossi morta. Non ho mai pregato veramente per chiedere qualcosa prima d'ora. Forse c'è davvero un dio, dopo tutto.» Selen si accigliò. Sur? Chi era Sur? Morta? Di cosa stava parlando? «Chi sei tu?» Le parole le uscirono in un gracidio inintelligibile. Selen vide l'uomo aggrottare la fronte nel tentativo di capirla. Con uno sforzo
immenso, si concentrò sui suoi ultimi ricordi e le venne in mente solamente l'immagine di un uomo di carnagione scura con il naso aquilino che le veniva incontro con una striscia di cuoio in mano e gli occhi neri pieni di malvagità. Non era l'uomo che vedeva di fronte a lei in quel momento; ma oltre quello, niente al mondo le sembrava certo. Tentò di nuovo. «Chi sono io?» Questa volta le parole riuscirono a separarsi in suoni distinti, anche se non aveva idea del perché avesse posto quella particolare domanda, dal momento che non era quella che aveva fatto all'inizio... e non era neppure sicura di voler conoscere la risposta. «Selen. Selen Issian» disse l'uomo. «Non ricordi?» Selen scosse la testa e tossì di nuovo. Le sembrava di avere dei carboni ardenti in gola. Quasi come se le avesse letto nel pensiero, l'uomo le offrì un otre con qualcosa di liquido. Lei ne bevve un sorso e scoprì che conteneva acqua dolce. Non aveva mai assaggiato niente di così meraviglioso in vita sua, di qualunque vita si trattasse. Rise. L'uomo sembrò sorpreso. «Selen Issian» ripeté lei. «Che nome ridicolo!» Non era il giorno migliore per tentare di fuggire indisturbati dalla città di Forent con una nave lunga rubata al pericoloso signore di quella provincia e un misero equipaggio di malfattori e buoni a nulla, anche se il sole splendeva caldo nel cielo e il cielo era di un blu perfetto, senza nuvole. Ma non c'era un alito di vento, e così avevano dovuto remare per tutta la maledetta strada fuori dal porto finché non erano sfuggiti alla vista dei probabili inseguitori. A giudicare dall'altezza di quell'impietoso disco dorato, avevano remato senza posa per oltre tre ore ed era ancora possibile vedere in lontananza la sagoma del castello di Forent dietro di loro, simile a una strana, geometrica estensione delle alte scogliere nere. Le braccia di Mam, scure e nodose come rami di una vecchia quercia, bruciavano per lo sforzo. La schiena le doleva. I palmi delle mani erano scorticati. Sulla nuca, sopra la benda, sentiva il caldo respiro dell'uomo la cui sola presenza un tempo la faceva fremere di desiderio, anche se non l'avrebbe mai, mai ammesso, né con lui né con nessun altro. Un uomo, però, ricordò ancora una volta a se stessa, che aveva appena causato la morte di uno dei suoi mercenari e aveva mandato uno dei suoi a far fuori lei e Joz. «Non avrei potuto farlo io» le aveva sussurrato, la testa leggermente inclinata in quel suo modo impudente che lei ricordava fin troppo bene. «Troppi ricordi piacevoli.» Lo aveva quasi ucciso sui due piedi per la sua insolenza.
«Laggiù! Guardate, laggiù a poppa...» Mam trasalì e per poco non perse la presa sul remo. L'uomo che aveva gridato era un marinaio dalla carnagione scura proveniente dalle colline ai piedi delle montagne d'Oro, arruolato forzatamente circa vent'anni prima da un avido mercante istriano bisognoso di nuovi membri dell'equipaggio in seguito a un viaggio disastroso attraverso la famigerata zona delle tempeste nel mare Gilano. La testa gli doleva per l'otre di vino che si era scolato a spese dei mercenari nella locanda Skarn la notte prima, e la sbronza rendeva la sua antica lingua dal forte accento istriano ancor più difficile da capire. «Cosa?» L'uomo fece un gesto di impazienza. Non era affatto felice di essersi svegliato a bordo di una nave rubata ed essere stato costretto a mettersi di nuovo ai remi, ma c'erano delle monete che tintinnavano nella sua sacca e altre gli erano state promesse una volta raggiunto l'Eyra, e inoltre, anche se i suoi nuovi datori di lavoro erano una squadra sgangherata (un gruppo di mercenari eyrani e un eldianni dalle alture di Farem!) almeno non avevano un addetto alla frusta come quel bastardo di Oranio. L'uomo disse ancora qualcosa di incomprensibile nella sua lingua e indicò verso le acque luccicanti. Mam si riparò gli occhi con la mano e guardò dove l'uomo aveva indicato. «Una piccola barca» disse dopo un po'. «Mi sembra una piccola barca.» «È una faering» corresse Doc dalla panca alla sua destra. «Una faering eyrana.» «Accostiamoci» ordinò Mam ai rematori. «Svelti, ora.» Non aveva idea di cosa avrebbe trovato sul minuscolo vascello che oscillava lentamente sulle onde, ma mai avrebbe immaginato quello che vide. All'interno della faering c'era un uomo robusto i cui capelli biondi erano stati tinti di nero da mani poco esperte, perché in contrasto con le ciocche mezze colorate sulla sua testa, la barba che gli stava spuntando sul mento era così chiara da sembrare d'oro bianco. E accanto a lui c'era una ragazza dai capelli neri con un lacero abito rosso, enormi occhi neri e un lungo collo dal portamento orgoglioso. «Io ti conosco» sussurrò Mam, fissando l'uomo. «Ne sono sicura: ti conosco.» L'uomo chinò il capo, poi la guardò negli occhi. «Erno Hamson» le rispose infine. «Del clan dei Rocciacaduta.» Joz Manodiorso scoppiò a ridere. «Per Sur, che strani nodi la vita riesce
a fare a volte!» «E tu?» chiese Mam alla donna. «Il mio nome non ha alcuna importanza» rispose la ragazza dai capelli neri in un'antica lingua piuttosto ampollosa. «Io sono una donna libera, e come tale costruirò da sola il mio futuro.» Mam sorrise. «Brava ragazza. Eppure» aggiunse fissando la morbida curva della pancia della ragazza nel punto in cui la stoffa rosa si era incollata alla sua pelle, «sembra che qualcuno abbia avuto altre idee sul concederti il pieno controllo della tua vita.» Selen arrossì. «Avete la vista acuta.» Si posò una mano sulla pancia e sembrò riflettere. «Anche questo bambino deciderà da solo il suo futuro» disse alla fine. «È tuo il bambino?» chiese Mam con curiosità a Erno. L'uomo sembrò inorridito. «No... no, certo che no.» Mam rise. «Mi piacciono i misteri. Inoltre sembrate entrambi abbastanza robusti da manovrare un remo. Se non troviamo presto un po' di vento, dovremo remare per tutta la strada fino a Halbo. Se remerete con noi nei momenti in cui non c'è vento, vi offriremo un passaggio.» Era un buon affare. Il cuore di Erno prese a battere forte. Questa era l'occasione che aspettava per tornare al suo paese, ma se avesse dovuto contare sul carattere volubile di Selen Issian, avrebbero potuto ritrovarsi ancora una volta da soli, abbandonati in mare. Aspettò il suo solito scoppio d'indignazione all'idea di dover eseguire un compito che di certo considerava troppo umile per la figlia di un nobile istriano. Se scorticare un coniglio era un qualcosa che si degnava a malapena di fare, anche se era necessario per mangiare, come avrebbe reagito all'idea di imparare a maneggiare un remo su una nave mercantile, di esser trattata come un normale membro dell'equipaggio e per di più nelle sue delicate condizioni? Erno non osava neppure immaginarlo. Trattenne quasi involontariamente il fiato, sentì il lamentoso grido di un gabbiano che volava sopra la loro testa in cerca di prede, percepì un improvviso e pungente odore di sale e sudore provenire dalla nave accanto a loro e rimase in attesa. Selen non disse nulla. Si alzò invece a fatica in piedi, si raddrizzò appoggiandosi alla spalla di Erno e aspettò che la faering smettesse di ondeggiare. Poi mise un piede sulla frisata, prese la mano tesa di Mam e salì a bordo della nave mercantile. Per un istante si guardò intorno, accigliata. Poi sorrise. Quell'espressione le sembrava inconsueta per lei... ma era come se ora per lei tutto fosse strano e inconsueto. Si voltò verso il capo dei
mercenari. «Non ho idea di come usare un remo, ma sono certa che voi mi insegnerete. Mi chiamo Selen Issian, e questo sarà l'inizio di una nuova vita per me.» «Spero che tu abbia qualcosa di più pratico da indossare.» 10 I Tre Avevano dovuto fare una lunga deviazione per evitare Gibeon, e ora le loro provviste si stavano esaurendo. Alisha Uccello del Mattino si passò una mano stanca sul viso, si sistemò una ciocca di capelli ricci dietro l'orecchio, strinse di nuovo la pietra e tentò di concentrarsi. Il cristallo era molto meno comunicativo del solito quel giorno, e l'immagine del proprio interno che offriva ai suoi occhi infiammati era striata, buia e sfocata come il cielo in una giornata di pioggia. «Cosa vedi, mamma?» Alisha quasi trasalì, tanto Falo le era arrivato silenziosamente alle spalle. Che razza di veggente era, se non riusciva neppure a prevedere gli andirivieni di suo figlio? Tese il braccio verso il bambino, lo attirò a sé e seppellì il naso nei suoi profumati capelli crespi. «Niente, tesoro mio. Proprio niente.» Ed era la verità, per quanto tragica. Sin da quando la vecchia, sua madre, Fezack Cantastelle, era morta durante il viaggio sulle montagne d'Oro, gridando qualcosa di inintelligibile sui Tre mentre cadeva dal carro, era stato come se il cristallo avesse ingoiato l'essenza della donna e l'avesse frapposta tra le capacità di veggente di Alisha e il mondo di Elda. Come chiromante della carovana, la giovane si stava dimostrando davvero poco utile. Le visioni che la pietra le concedeva erano frammentarie e insoddisfacenti: scene così fuggevoli che a volte non riusciva a determinare la città e neppure la regione che le veniva mostrata. Non che i suoi compagni la criticassero per i suoi fallimenti... ma Alisha si ritrovava piena di dubbi e paure e sempre meno fiduciosa nella provvidenza. Sospettava però che tale sfiducia potesse essere dovuta in parte alla sua origine, perché i dubbi e i timori erano insoliti per i veri Viaggiatori, i quali sapevano con assoluta certezza che il loro posto nel mondo era unico e predestinato, e che ognuno di loro era parte del tessuto di Elda come un singolo, perfetto punto in un
enorme arazzo. Ma il soldato istriano che aveva preso la sua povera madre con la forza, quel giorno fatale in cui i suoi nonni avevano trovato il grande cristallo, era probabilmente un uomo turbato da sensi di colpa e da un senso di inutilità, qualità che il suo seme aveva portato con sé nel grembo di Fezack e da lì nell'anima della sua unica figlia. O forse non era colpa sua se la pietra era recalcitrante; forse era vero quello che si diceva, ossia che le pietre della visione davvero potenti si concedevano con pienezza solo a coloro con cui si legavano durante la vita, e che con la morte del veggente principale, il potere del cristallo diminuiva e si offuscava. Ma Alisha avvertiva che c'era più di questo. Aveva cominciato a sentirsi a disagio in presenza della grande pietra, come se fosse davvero infestata dallo spirito di Fezack, o da qualcosa di peggio... Sin dall'incidente tra le montagne, Alisha era stata ossessionata dalla sensazione che qualcuno inseguisse la carovana, che in qualche modo la morte di sua madre avesse aperto nel cristallo una specie di passaggio, attraverso il quale qualcosa di potente e forse maligno poteva avere accesso al mondo. Ma il fatto che Falo non mostrava di aver paura della grande pietra le era comunque di conforto. «Fammi vedere, mamma.» Falo le si arrampicò sulle ginocchia. Sta diventando troppo grande per farlo, pensò Alisha mentre i piedini del bimbo si piantavano dolorosamente nelle sue cosce, e quando emise un gridolino di protesta, lui si voltò e le fece un luminoso sorriso. Era un sorriso solare, di straordinario fascino, e come sempre risvegliò in lei i ricordi dolorosi del suo carismatico e bellissimo padre. Ricordi lontani, ovviamente. Il loro legame era stato breve, e lei lo rimpiangeva. Come nomade non avrebbe dovuto rimpiangere queste cose, lo sapeva bene, e interpretò il fatto come un'altra prova del proprio sangue misto. Guardò il bambino afferrare il cristallo con una sicurezza derivante dalle ore trascorse a guardare sua madre e sua nonna davanti alla pietra, e vide strani bagliori e strane ombre rincorrersi sulla pelle di Falo. A volte sembrava più piccolo dei suoi sei anni, entusiasta, innocente e aperto alla vita. Alisha sperava che sarebbe durata. Sperava che suo figlio avrebbe avuto la possibilità di sperimentare quanto di meglio la condizione di Viaggiatore avesse da offrire, prima di essere costretto a sperimentarne gli aspetti peggiori. «Vedi niente, Falo?» L'espressione del bambino era di assorta concentrazione. La punta della
lingua gli spuntava dalla bocca e gli occhi erano sgranati. Il piccolo scosse la testa impaziente e spostò le mani sulla pietra, sollevando leggermente una spalla come per escludere Alisha dalla visione. Alisha si appoggiò contro la parete del carro e si lasciò cullare dal ritmo della marcia. Dopo un momento chiuse gli occhi. Doveva decidere il da farsi, dove sarebbe stato meglio andare per procurarsi del cibo. Gibeon era stata la loro opportunità migliore; ma c'erano state striature rosse nel cielo quella mattina, e Elida aveva sognato delle poiane che si posavano su un cadavere. Quando aveva interrogato il cristallo, esso le aveva offerto una breve visione di fiamme e una donna che correva, la bocca spalancata in un muto grido, poi era diventato nero e inutile, e tutto ciò che aveva potuto scorgere al suo interno era stata una pioggia di scintille rosse simili a uno sciame di lucciole. Tre cattivi presagi, aveva deciso Alisha; così avevano preso la mulattiera a sud della città degli schiavi attraversando le colline che li avrebbero portati attraverso la pianura di Tilsen e i villaggi dove era meno probabile che le loro piccole magie venissero guardate con superstizioso orrore. Era anche probabile, però, che morissero di fame prima di arrivarci: tutte le provviste acquisite col baratto alla Grande Fiera era finite ormai da lungo tempo. L'unico membro della carovana che avevano perduto di recente per fame era il loro più vecchio yeka, Un Occhio Marrone Un Occhio Verde, il cui spirito l'aveva abbandonato mentre scendevano dai ripidi monti Skarn, e che lì era stato seppellito, perché i Viaggiatori non mangiavano i propri compagni, né carne di alcun tipo. La carovana era in costante movimento oramai da quattro cicli lunari: raramente si erano fermati in un posto per più di una notte ed erano passati sempre alle periferie di città e paesi, commerciando con molta cautela e senza vendere incantesimi. Si erano fermati a Cantara per un po', dal momento che il suo famigerato Signore era via, al Nord, e la gente della città era sembrava più disposta a commerciare con i nomadi in sua assenza. Alcune delle danzatrici avevano fatto ottimi affari lì, perché in città non c'erano postriboli e la vista di un volto di donna senza velo era una grande novità per quei ragazzi più giovani che non avevano ancora compiuto il loro viaggio annuale alla Grande Fiera, e molte di loro avevano deciso di fermarsi lì, riducendo la dimensione della carovana ancora di più. Avevano mangiato bene a Cantara, e ricevuto generosi doni dalla padrona del Castello, l'anziana madre del nobile Tycho, Constanta Issian. La benefattrice aveva mandato vini speziati e saporiti piatti di riso, un grande cesto di dolci appena fatti e torte piene di frutta secca. Era interessante, pensò ora Ali-
sha, che avesse scelto il cibo con tale cognizione di causa. Non aveva mandato carne, né pesce né cacciagione. Era possibile che la Signora di Cantara trascorresse il suo tempo in biblioteca, leggendo dei loro usi e costumi negli antichi libri che raccontavano quelle cose, ma Alisha l'aveva vista per un istante, nel cristallo, e sospettava che la conoscenza della donna avesse tutt'altra origine. «Oh!» L'esclamazione del bambino la riportò bruscamente alla realtà. «Cosa c'è, Falo? Cosa vedi?» «Guarda, mamma. Guarda lì.» Falo indicò un punto con un dito titubante. Alisha allungò il collo. Non riusciva a vedere altro che un movimento nel globo e un lampo di luce: era come intravedere un pesce luccicante nelle profondità di uno stagno fangoso. Si accigliò e posò le mani accanto a quelle del figlio. La grande pietra era calda al tocco, e in principio Alisha pensò che fossero state le mani di Falo a trasferire quel calore; ma poi il cristallo cominciò a fremere, tanto che le ossa dei suoi avambracci vibrarono e pulsarono sotto quel tremore. La donna socchiuse gli occhi e si costrinse ad aprire la mente alla pietra. E poi si sentì cadere dentro di essa... Un grande occhio verde dorato stava sostenendo il suo sguardo. La sua pupilla era verticale, una fessura nera lucente che spiccava in tutto quel luminoso colore. Sotto il suo sguardo attento, Alisha si sentì avvampare, poi raggelare. L'occhio si chiuse, una volta, poi indietreggiò come per darle la possibilità di ampliare la visuale, e lei si ritrovò a fissare il volto di un gatto. Non era un piccolo animale domestico questo, però, un gattino che aggirandosi nei pressi di un'altra pietra della visione aveva premuto il muso curioso sul cristallo per vedere meglio il proprio riflesso. No, questo era un felino completamente diverso. Torreggiava sopra il globo di cristallo sul tavolo di legno intagliato davanti a sé come un'aquila potrebbe incombere su un topolino, e i suoi occhi erano antichi, e intelligenti. Aveva il pelo nero come la notte e quando aprì la bocca per ruggire, l'interno delle sue fauci apparve caldo e bruciante come il cuore di un fuoco. Dal cristallo non emanava alcun suono, ma nella sua testa, come il fantasma di un formicolio, Alisha sentì una voce. Alisha, diceva. Conosceva il suo nome. Alisha si accorse di stare tremando. Alisha, ascoltami. Noi siamo i Tre nel mondo, diceva. Il Potere è qui, ma diviso. La Signora è stata portata a nord; il Signore giace nella sua pri-
gione di pietra. E io, che sono piena del Potere, mi ritrovo prosciugata per meschini inganni e giochi crudeli. Lei non conosce se stessa, lui non può liberarsi e io sono nelle mani di incompetenti, di sciocchi e di coloro che camminano sulla superficie di Elda quando avrebbero dovuto passare oltre... La voce si interruppe bruscamente e la visione nel globo vacillò e si spostò lateralmente. Quando riapparve, il gatto era diventato minuscolo e sembrava agitato. Dietro di lui una grossa figura si muoveva nell'ombra. Jetra, disse la voce nella mente di Alisha, e il timbro era lo stesso di quando il gatto era enorme. Mi stanno portando alla Città Eterna... Il cristallo nella stanza si mosse, sollevandosi in aria. Una mano apparve intorno a esso, poi un volto. Alisha gridò e staccò le mani dalla pietra. «Mamma? Mamma?» Falo la stava guardando con gli occhi spalancati. «Va tutto bene, passerotto mio» lo rassicurò con voce tremante. «Va tutto bene.» Rimase seduta e abbracciò suo figlio, aspettando che il cuore smettesse di batterle all'impazzata. Il cristallo era ancora sul tavolo di fronte a loro e la sua superficie era tornata opaca ancora una volta. «Hai visto il gatto, mamma?» chiese Falo eccitato. «L'hai sentito parlare? Non sapevo che i gatti sapessero parlare. Posso avere un gatto parlante?» Alisha si raddrizzò di scatto. «L'hai sentito parlare?» chiese sbalordita. Falo annuì. «Vuole che andiamo a Jetra» rispose allegramente. Poi rifletté per un momento. «Forse potremmo prendere un gatto parlante a Jetra.» Sua madre sorrise, anche se l'ansia la divorava. «Forse» disse. Sembrava la risposta più facile da dare. 11 Dagli abissi Katla voltò la faccia verso il vento e sentì gli schizzi d'acqua salmastra delle onde turbolente pizzicarle la pelle. I capelli, che ora le arrivavano all'altezza del mento, troppo corti per essere legati sulla testa in modo da non darle fastidio, le sferzavano dolorosamente le guance, ma gli occhi le brillavano e le mani stringevano il buon legno della prua del Lupo delle
Terre Innevate più per l'eccitazione che per trarne sicurezza. Aveva cominciato a sentire il collegamento tra la terra e le antiche tavole di quercia della barca attraverso il movimento del mare. Era un qualcosa che non sarebbe mai riuscita a spiegare a nessuno senza ritrovarsi additata come pazza, ma era anche stranamente esilarante. Non si era mai sentita così viva. Un buon aliseo gonfiava la vela tanto che il lupo che vi era disegnato sembrava pieno di orgoglio per aver catturato la sua preda: un grande drago rosso che si dibatteva, la coda intrecciata in maniera stravagante tra le zampe del predatore e tutto intorno al bordo della tela. Sarebbero arrivati a casa in quattro giorni o anche meno, se quel forte vento continuava, ma Katla avrebbe tanto voluto poter andare avanti a navigare fino a cadere oltre i confini del mondo. Non era perché temeva il ritorno a Rocciacaduta, come avrebbe fatto una qualunque altra figlia disobbediente, anche se Katla, in fondo, non aveva mai considerato l'obbedienza una priorità; la sua riluttanza era dovuta al fatto che la prospettiva dell'inverno a terra, senza nessun evento emozionante da aspettare con ansia almeno fino a primavera, quando ci sarebbe stato il varo della nuova nave, stava diventando per lei sempre più una tetra ossessione. Negli ultimi sei cicli lunari la sua esistenza era stata un drammatico susseguirsi di trionfi e disastri. Era stata una vita in cui niente poteva essere dato per scontato. Un po' come scalare una scogliera, rifletté ora: c'erano sempre degli ostacoli inattesi, un pericolo in agguato, un appiglio perfetto da trovare, mentre sotto di lei il mare ruggiva e si muoveva avanti e indietro come un lupo affamato in attesa che lo scalatore facesse un errore e cadesse nelle sue fauci. Katla sospettava di aver sviluppato una certa assuefazione all'eccitazione che le dava quel genere di vita; la deliziosa paura di non sapere cosa sarebbe accaduto l'indomani era molto più divertente dell'infinita sequela di lavori domestici da sbrigare e della compagnia che sarebbe stata obbligata a sopportare in inverno a Rocciacaduta. Ma almeno avrebbero potuto cominciare a lavorare sulla nave per la spedizione: la nave che l'avrebbe portata via dalle acque di casa verso i mari ghiacciati dell'estremo nord. Quella sì che sarebbe stata un'avventura. Avrebbe dovuto essere paziente e compiere tutti i suoi noiosi doveri così bene che suo padre non avrebbe avuto scuse per lasciarla a casa. Sarebbe di certo stato più che felice, pensò, della facilità con cui avevano portato a compimento la loro missione. Ogni volta che con la mente andava all'ingegnoso rapimento del costruttore di navi, alla veloce partenza, alla stupefacente mancanza di inseguitori, le veniva voglia di ridere e congratularsi
con se stessa. Riusciva persino a immaginare l'entusiasmo che avrebbe suscitato l'annuncio del loro ritorno dato dalle sentinelle appostate sul Dente del Segugio, e aveva davanti agli occhi la gioia di suo padre quando avrebbe visto il Lupo delle Terre Innevate superare il promontorio ed entrare trionfante in porto, seguito dalle due grosse chiatte del cantiere navale piene zeppe del miglior legno di quercia di tutta l'Eyra. Le chiatte stavano avendo maggiori difficoltà ad affrontare il viaggio della nave di Tam Volpe; anche proteggendosi gli occhi, Katla riusciva a malapena a distinguerle nella nebbia lontana dietro di loro; ma erano resistenti, in grado di affrontare qualunque mare e governate da due esperti capitani che Tam, con la sua consueta lungimiranza, aveva assunto a Halbo, uomini che conoscevano bene gli infidi canali che portavano a Rocciacaduta e che avrebbero senz'altro trovato la rotta anche nella nebbia. Katla si voltò per guardare il loro prigioniero. Morten Danson era scomodamente raggomitolato a metà della nave, con le ginocchia tirate su fino al mento, gli occhi chiusi contro il mondo, le braccia che stringevano l'enorme albero contro cui teneva premuta la guancia come se fosse l'unica cosa solida in tutto quell'ondeggiante, ribollente, incostante universo. Da quando avevano lasciato Halbo, si era rifiutato di accettare anche il più piccolo boccone di cibo da chiunque. Katla presumeva che Danson volesse che il suo gesto fosse interpretato come una nobile protesta contro l'ignominia di quel rapimento, ma sospettava anche che la verità era che non aveva lo stomaco adatto per affrontare il mare, dal momento che persino l'acqua che beveva con tanta parsimonia sembrava tornare su con regolare monotonia sotto forma di pallido vomito. Era paradossale, in realtà, rifletté Katla, che un costruttore di navi fosse così poco adatto alla vita sull'oceano. Morten Danson non era l'unico a soffrire. Accanto a lei, Katla udì un altro gemito soffocato, seguito da un preoccupante attacco di tosse. La giovane si scoprì a ridere poco pietosamente. «Oh, Jenna, povera Jenna... Pensavo che fossero solo i tuoi capelli a diventare verdi!» Il Lupo delle Terre Innevate colpì un'altra onda e la sua amica fece un'orribile smorfia. Jenna Finnsen era riuscita a trattenere il contenuto del suo stomaco negli ultimi giorni: Katla non aveva mai visto nessuno così determinato a non rovinarsi i vestiti. Ma era fatica sprecata, perché il bell'abito blu di Jenna, l'unica cosa davvero sua da quando era stata portava via da Halbo durante la festa con solo quello che aveva indosso nono-
stante le vivaci proteste, era già macchiato di sale per gli inevitabili schizzi delle onde. Ciò che Jenna ancora non sapeva, dal momento che non c'erano specchi a bordo della nave, era che una bella striatura di guano di gabbiano si era depositata sul morbido velluto dell'abito dalla spalla fino al sedere. Solo Sur sapeva cosa avesse mangiato quell'uccello, perché era una quantità davvero prodigiosa. Eppure, ragionò Katla, era tutta colpa della sua amica, dal momento che si era rifiutata di prendere in prestito un capo d'abbigliamento più consono tra quelli che Katla e le altre donne dell'equipaggio di Tam Volpe le avevano offerto quando era salita a bordo, gridando con orrore alla vista dei goffi pantaloni, delle camicie macchiate di sudore e sale e dei consunti farsetti di pelle. «Non posso indossare roba del genere!» aveva esclamato quando Katla le aveva mostrato una tunica sgualcita, ma relativamente pulita, di lino verde chiaro. «Mi farebbe sembrare così slavata!» Invece si sarebbe perfettamente intonata con la carnagione che aveva in quel momento, rifletté Katla. Katla sapeva perché Jenna si stava comportando in quel modo. Era per vanità, questo sì, ma non una vanità che scaturiva da una smisurata percezione della propria bellezza: si trattava piuttosto di ansia, un'ansia che sembrava sempre dipendere da un uomo o da un altro. Alla Grande Fiera, quando aveva scioccamente acquistato da una nomade un incantesimo che aveva trasformato le sue trecce dorate nella perfetta copia di un campo di grano, completa di topi e spighe verdi, era stata la sua ossessione per Ravn Asharson a spingerla a quel gesto. E ora Katla aveva ben più di un vago sentore che ci fosse suo fratello nei pensieri di Jenna. Il loro ricongiungimento non era stato l'evento felice che lei aveva sperato. «Vi sentite male, bambina?» Era di nuovo Urse, l'enorme vice di Tam Volpe. Sembrava aver preso Jenna fin troppo in simpatia, e anche se il primo giorno lei aveva gridato alla vista del suo volto deturpato, ora pareva essersi abituata al suo strano aspetto e non faceva un granché per scoraggiarlo. Katla la guardò sorridere in modo sciocco e affettato e protestare che no, stava bene, era solo un po' stanca e infreddolita, e l'omone le offrì il suo mantello, dicendo che era un peccato nascondere un così bel corpo, ma che non sopportava di vederla tremare. Katla alzò gli occhi al cielo. Jenna sapeva essere una smorfiosa civetta quando voleva. Halli Aranson raccolse gli astragali nel suo enorme pugno, li strinse nel-
la mano e li scosse rumorosamente. Stava tentando di concentrarsi sul gioco, ma la sua mente continuava a vagare come una pecora smarrita. Aveva già perso otto cantari contro Tam Volpe e sapeva che avrebbe dovuto smettere, dal momento che il capo dei teatranti era un esperto baro che non aveva scrupoli nel trattare con amici o nemici; ma smettere significava doversi alzare dal sacco di grano su cui era seduto e dover passare accanto a Jenna Finnsen, che era in piedi a pochi metri di distanza vicino alla frisata, sorridendo a quel grosso orso del gruppo di Tam... e lui non aveva proprio idea di cosa dire o fare. Era rimasto sbalordito nel vedere la sua ex innamorata a bordo del Lupo delle Terre Innevate: era letteralmente l'ultimo posto su Elda in cui si sarebbe aspettato di trovarla, e non solo per le voci di un suo imminente matrimonio nella capitale. Perché Jenna, nonostante fosse la figlia del defunto costruttore di navi del re, odiava il mare e non avrebbe mai messo volontariamente piede a bordo di una nave se non in caso di estrema necessità. Mentre guidava la prima chiatta lungo la costa lontano da Halbo per andare incontro alla nave di Tam Volpe, Halli era di pessimo umore. Eccomi qui, aveva pensato, a rubare legname, uomini e strumenti, cose per il cui furto potrei incorrere in una spiacevole causa legale, e tutto per far sì che mio padre possa trascinarmi in una folle spedizione che potrebbe costarmi la vita oppure fare di me un uomo ricco oltre ogni immaginazione. E anche in quest'ultimo caso sarebbe stato tutto inutile, perché Halli non desiderava sposare nessun'altra. Così, quando aveva visto l'inconfondibile chioma bionda mossa dal vento accanto a quella rossa di sua sorella, aveva pensato di soffrire di allucinazioni, di avere una di quelle strane visioni che capitano ai marinai quando sono in mare da troppo tempo senza cibo né sonno. Solo che lui aveva mangiato e dormito piuttosto bene negli ultimi giorni, nonostante tutto. A bordo Katla gli era corsa incontro, eccitata e smaniosa come il gatto matto della vecchia Ma Hallasen, trascinando la sua amica riluttante con sé. «Guarda chi ho qui, Halli! La bella Jenna... vedi? L'ho salvata! L'ho salvata dal matrimonio con una puzzolente vecchia capra!» Aveva saltellato intorno a entrambi finché a Halli non aveva cominciato a girare la testa. «Ora è tutta tua, fratello, da amare e proteggere, rapita proprio sotto il naso di quel suo brutto fidanzato ricco e del re... non che lui avrebbe notato se gli avessimo portato via il trono da sotto il sedere, dato che non ha occhi che per la sua pallida regina nomade! Ho improvvisato... Credo che sia stata quella la parola usata da Tam Volpe dopo che ne ha usate una carret-
tata molto più volgari. L'ho fatta cadere dentro un buco nel pavimento della Grande Sala che finiva giù in cantina e poi siamo scappati, e ora eccola qui! Adesso non puoi dire che non penso a te!» Halli aveva fissato gli occhi luminosi di Katla e il dolce e imbarazzato viso di Jenna Finnsen, e aveva sentito il suo cuore riempirsi di gioia e cominciare a battere forte. Aveva aperto la bocca per dire qualcosa, ma non era stato in grado di proferire parola. E Jenna, fraintendendo la sua confusione e il suo silenzio per qualcosa di peggio, aveva abbassato lo sguardo e aveva indietreggiato, arrossendo fino alla radice dei capelli. Alla fine lui era riuscito a salutarla piuttosto burberamente, poi si era defilato, borbottando qualcosa sul fatto che doveva trovare Tam Volpe e fare rapporto. E da allora, anche se tutte le belle parole che avrebbe dovuto dirle se non fosse stato preso così alla sprovvista continuavano a echeggiargli nella mente, non era riuscito a costringersi a rivolgerle le parola. Ma aveva notato che gli altri uomini non avevano tali inibizioni. Aveva visto Tam Volpe farla ridere, aveva ascoltato, scuro in volto, l'enorme braccio destro di Tam dal volto sfigurato che le rivolgeva complimenti sui suoi capelli e sulle mani e sulla figura prosperosa; e aveva stretto i denti e maledetto se stesso per essere un tale sciocco e continuare a tacere. Ma era come se qualcuno gli avesse fatto una fattura: il giovane allegro e sicuro di sé che aveva corteggiato Jenna alla Grande Fiera e l'aveva presa in giro quando l'aveva colta a baciare l'immagine di Ravn Asharson nello specchio che lui le aveva regalato era svanito, e al suo posto c'era il timido bamboccio che una volta lei l'aveva accusato di essere. Halli gettò gli ossi e, niente affatto sorpreso, li guardò atterrare entrambi sul lato di valore minore. Tam Volpe rise. «Dieci cantari!» Si chinò e raccolse gli astragali, li gettò in aria e li prese al volo. Poi li fece tintinnare nel palmo della mano, mentre le sue grosse dita tozze accarezzavano le lisce curve marroni e gli spuntoni come se stesse instillando in loro della magia. E forse, pensò Halli, era proprio quello che stava facendo. Non aveva mai visto il capo dei teatranti perdere agli astragali, e anche se era possibile che avesse semplicemente la destrezza di lanciarli in modo che atterrassero sempre come voleva, Halli stranamente ne dubitava. Tam Volpe era di certo un uomo misterioso. Non solo era scaltro e sfuggente come l'animale da cui prendeva il nome, ma aveva anche una fortuna stupefacente, sia al gioco che con le donne. Katla era probabilmente l'unica che l'aveva rifiutato, pensò Halli. «Dieci cantari, amico mio!» esclamò Tam sorridendo, gli affilati denti
bianchi che spiccavano tra le complesse trecce della barba. «Ma cosa ti succede oggi? Sembra che un gabbiano ti abbia rubato la fortuna, un gatto ti abbia mangiato la lingua e un orso ti abbia portato via la ragazza!» Halli sorrise sconsolato e fece per infilare le mani nella scarsella per saldare il debito. «No, aspetta!» Il capo dei teatranti lo afferrò per un braccio. «Ho un'idea migliore. Facciamo il doppio o pari.» Halli scosse la testa. «Non sono bravo in questo gioco, e non ho intenzione di regalarti altro denaro. Tam Volpe rise. «Ho qualcosa di diverso in mente.» I suoi occhi brillavano. «È più un affare che un gioco di fortuna.» Si chinò verso Halli e gli sussurrò qualcosa. Halli batté le palpebre per la sorpresa e le sue folte sopracciglia divennero un'unica linea nera per la concentrazione. Per un istante sembrò sul punto di dare un pugno al teatrante; poi però il suo volto si illuminò. «Va bene» disse infine. «Affare fatto.» Katla lasciò la sua amica alle cure di Urse. Nonostante la stazza, l'uomo era innocuo: e poi chi avrebbe potuto fare qualcosa di male sul Lupo delle Terre Innevate? L'unico luogo chiuso era la tenda delle abluzioni e di certo non era un posto romantico. Sentì la risata di Jenna tintinnare come il campanello di una pecora e scorse la testa di suo fratello sollevarsi di scatto dopo aver interrotto la conversazione col capo dei teatranti e i suoi occhi neri posarsi con avidità sull'amata. Povero Halli. Combinare matrimoni non era la specialità di Katla, ma era davvero irritante vedere due persone che chiaramente si volevano bene comportarsi in modo così stupido. Prese la decisione di fare qualsiasi cosa per farli riavvicinare durante il viaggio. L'idea di trascorrere l'inverno nella casa di Rocciacaduta a stretto contatto con quei due che tentavano di evitarsi era fin troppo ridicola da immaginare, anche se doveva ammettere che trascorrere l'inverno con una coppia che si faceva gli occhi dolci e sussurrava segretamente negli angoli avrebbe potuto essere anche peggio. Superò agilmente un rotolo di corda disteso sul ponte come un serpente addormentato, afferrò un secchio vuoto, lo rovesciò e ci si sedette sopra, sorridendo come un folletto. «Hai perso di nuovo, eh, fratello?» Halli la incenerì con lo sguardo.
«È solo un gioco.» «Ah, non erano gli astragali che intendevo.» «E come sta oggi il mio troll dalla lingua lunga preferito?» Tam Volpe si appoggiò contro la paratia, allungò voluttuosamente le lunghe gambe e la studiò apertamente. Era vestito con diversi strati di lana e lino color crema, e una bella spilla d'argento con una luccicante pietra blu teneva chiuso l'enorme mantello bordato di pelliccia sul collo. Goccioline d'acqua salata brillavano nei suoi folti capelli color sabbia e sulle conchiglie e le ossa che li adornavano. I suoi occhi, del verde argento di un lago nella foresta, la analizzarono in dettaglio. Katla divenne improvvisamente conscia di quanto le stesse stretta la tunica (gliel'aveva prestata Bella, che era più minuta di lei, mentre la sua era rimasta ad asciugarsi dopo che l'aveva lavata per l'ennesima volta per liberarla del puzzo di Fent) e di quanto le tirasse in particolar modo sul seno; e del buco che aveva nei pantaloni, dal quale era chiaramente visibile un bel pezzo di pelle abbronzata. Katla vide lo sguardo di Tam posarsi sulla parte strappata, come se le avesse letto nel pensiero. Quando lei posò la mano in quel punto per nasconderlo, l'uomo sollevò lo sguardo e la fissò senza malizia, con l'espressione innocente di un bambino. Poi un lato della sua bocca si incurvò verso l'alto in un sorriso furbo che scoprì un singolo canino appuntito. Chinando la testa di lato, Tam le diede un'ultima, lenta occhiata di apprezzamento che la fece sentire nuda come un verme. Per mascherare la propria confusione, Katla chiese: «Che isola è quella laggiù?» Una sagoma scura si profilava all'orizzonte, grossa e arrotondata come la schiena di una balena. «Quella è l'isola delle Chiglie» disse Tam Volpe, distogliendo per un istante lo sguardo da lei. «Luogo di molti naufragi.» Raccolse le gambe sotto di sé e si alzò in piedi, agile come un gatto. «Gettiamo l'ancora!» ordinò al suo equipaggio. Poi fissò di nuovo Katla. «Questa sera banchetteremo e dormiremo in tutta comodità!» L'isola delle Chiglie era fedele al suo nome. Mentre si avvicinavano, Katla aveva intravisto le chiglie di una dozzina o più di navi naufragate. Il legno aveva assunto in alcune un colore scuro e una consistenza simile alla torba e in altre un argento opaco, quasi sfaldato. Altre carcasse di imbarcazioni ingombravano la spiaggia nera, disseminate sul terreno vulcanico come le gabbie toraciche di balene arenate. Il legname giaceva aggrovi-
gliato in fantastiche volute e la sua forma originale era stata addolcita e levigata dal mare come se fosse stata lucidata dalla mano di un gigante. Qua e là delle ossa spuntavano dalla sabbia nera. Sembrava un luogo strano, abbandonato da Sur, inadatto a fermarsi per la notte, ma Tam Volpe pareva alquanto a suo agio su quell'isola: in primo luogo aveva saputo esattamente dove gettare l'ancora per impedire che la nave finisse contro gli scogli taglienti, poi aveva mandato una squadra a raccogliere legna per i fuochi e un'altra a riempire i secchi di pelle con l'acqua di un ruscello che scendeva dalle ripide scogliere nere. Altri uomini erano stati inviati a piantare le tende e a portare a riva la birra. Al calare del sole, mentre una luce cremisi bagnava l'isola, un'aria festosa aleggiava sull'equipaggio. In spiaggia era stato acceso un enorme falò, da cui si levavano spirali di scintille nel cielo dell'imbrunire; i pesci sfrigolavano sugli spiedi; un barile di birra era già stato svuotato e giaceva rovesciato sulla spiaggia. Bella e Silva Manoleggera stavano eseguendo capriole e salti mortali; Flint Erson si era dilettato con una serie di ruote ben riuscite, finché non era finito contro Min Facciadipesce e lei si era infuriata e l'aveva inseguito in acqua, dove lui era inciampato e caduto lungo disteso; e uno dei giocolieri stava tentando di insegnare a Jenna a lanciare in aria e a riprendere agilmente tre palle colorate imbottite di fagioli secchi, ma senza molto successo. Morten Danson sedeva in disparte dagli altri, e inceneriva con lo sguardo chiunque gli passasse accanto. Sembrava però che l'appetito gli fosse tornato, ora che erano sulla terraferma: davanti a lui c'erano le lische di almeno tre sgombri, le teste colorate che fissavano con i piccoli occhi vuoti verso il mare. Il buio non era calato da molto e Katla era già al suo quinto boccale di birra e cominciava a sentirsi piacevolmente stordita. Qualcuno stava battendo un motivetto su un paio di tamburi e i musicisti avevano recuperato i loro flauti e le trombe dalla nave e l'avevano seguito. Un gruppo stava ballando intorno al fuoco. Anche i costumi erano stati tirati fuori, notò Katla con sua grande sorpresa. Tam Volpe era quasi sempre piuttosto severo con il suo equipaggio, e i costumi, dopo essere stati avvolti in panni di lino e poi in tela oleata per proteggerli dal mare e dalle intemperie, erano stati riposti con molta cura nella grossa cassa di legno e ottone in cui Tam teneva anche la Spada Rossa di Katla, che sembrava essere stata una parte significativa del compenso che Aran aveva dato al capo dei teatranti per il rapimento di Danson. Qualcuno indossava la gigantesca testa rossa del costume da Drago di Wen e stava inseguendo una delle cantanti dentro e
fuori dalle tende, mentre qualcun altro, avvolto nel mantello blu e verde della Madre Oceano, sembrava in procinto di accoppiarsi in un'unione empia e contro natura con la Signora del Fuoco. Katla si versò un altro boccale di birra speziata e si concentrò sulla meravigliosa sensazione del liquido che le scendeva giù per la gola. «Vacci piano, laggiù!» Katla si voltò, troppo in fretta. Il mondo le girò attorno e la giovane cadde goffamente a terra. «Ooops» disse sorridendo a suo fratello maggiore. «Ciao, Halli.» Il giovane si sedette accanto a lei. «Sei ubriaca» l'accusò. «No. Non proprio.» Katla scosse la testa. La sensazione non fu affatto piacevole, per cui si bloccò di colpo e lo fissò. «Solo un tantino su di giri. Mi reggo ancora in piedi» aggiunse solennemente dopo un po'. Halli scoppiò a ridere. «Lo vedo! Be', come vuoi tu. Sono venuto per portarti i saluti di Tam Volpe e l'invito a cenare con lui.» «Ho già mangiato... credo.» Katla era perplessa. Era vero? Ricordava di aver visto degli sgombri che arrostivano e lische bianche sparse intorno al fuoco e di aver pensato di volerne uno, ma poi era stata distratta dall'arrivo della birra. Si accigliò e si annusò le mani. Odoravano di sale, ma era normale, dato che erano giorni che maneggiava corde bagnate, però non c'era traccia di squame né di olio. Scrollò le spalle, strinse gli occhi e cercò il capo dei teatranti tra la folla. Non le sembrò di vederlo accanto al fuoco col resto dell'equipaggio, anche se la luce delle fiamme creava un alone rosso intorno alle teste di tutti i presenti, perciò sarebbe stato difficile distinguerlo tra gli altri. Una fredda brezza portò improvvisamente con sé un inconfondibile odore di agnello arrosto e lo stomaco di Katla brontolò. Agnello! Quella sì che era una vera leccornia dopo giorni di spinaroli e anguille. «Va bene: portami da lui.» Tentò di alzarsi, riuscì a mettersi in piedi, ma barcollò goffamente. Halli, sempre più morigerato di sua sorella, l'afferrò prima che potesse cadere di nuovo. «Penso davvero che sarebbe una buona idea mangiare qualcosa» ripeté Halli. «Prima che la sbornia peggiori.» Katla inclinò la testa da un lato e lo guardò fisso. In un istante quel viso divenne sfocato, e poi Katla vide due giovani imbronciati davanti a sé e quattro occhi che la guardavano con severità. Si sentiva molto a disagio di fronte a quello sguardo, come una bambina colta a fare qualcosa che non avrebbe dovuto. Solo concentrandosi molto riuscì a far riunire le due figure in un unico Halli. «Tu sai essere molto... noioso a volte» disse pronun-
ciando con attenzione ogni parola. «Molto... adulto.» «Qualcuno deve pur esserlo» rispose stizzito il fratello, pensando a quell'esaltato di suo padre, a quel pazzo di Fent, a questa sua sorella così irresponsabile. Tam aveva ragione: era tempo che si sposasse e si sistemasse. Tam Volpe aveva acceso un fuoco tutto suo a poca distanza dall'altro, ed era da lì che proveniva l'odore di agnello arrostito: una gustosa carcassa stava sfrigolando sulle fiamme. Il capo dei teatranti girò lo spiedo, poi si mise a sedere. Aveva costruito una spaziosa tenda con un grosso pezzo di tela e alcuni remi, e poco al di fuori aveva creato dei comodi posti a sedere con morbidi sacchi ricoperti di pellicce e mantelli: era lì che giaceva, completamente a suo agio, con un fiasco di vino da una parte e un piatto di carne fumante dall'altra. La carne non sembrava molto cotta: c'era del sangue che riluceva sul piatto di stagno, o almeno così sembrava, anche se in effetti potevano essere le fiamme che si riflettevano nel sugo di cottura. La luce del fuoco danzava anche sul viso di Tam, illuminando i suoi zigomi alti, la fronte spaziosa e le miriadi di trecce e decorazioni nella folta barba e negli altrettanto folti capelli; si rifletteva nella fascia d'argento che portava al collo, tingendola d'oro, e accendeva rosse scintille nei profondi occhi verdi dell'uomo, il quale pareva un magnifico felino di guardia a una preda appena catturata, con un misto di grazia e indolente potenza. Katla trattenne il fiato. La donna che era con lui era riccamente vestita, come una regina, avvolta in un abbondante abito bianco con l'orlo e dalle maniche adornate di broccato color argento. La scollatura era piuttosto profonda e metteva in mostra buona parte di un bel paio di seni bianchi. Katla strinse gli occhi. Aveva riconosciuto il vestito: era quello indossato, insieme a una ridicola parrucca di paglia gialla, da Flint Erson quando a Rocciacaduta aveva fatto finta di essere la Rosa Eldi. Ma la compagna di Tam Volpe non assomigliava affatto all'irsuto Flint: c'era fin troppa morbida pelle femminile in mostra perché qualcuno potesse confonderli. E non era neppure la regina nomade. Schermandosi gli occhi dall'ingannevole luce delle fiamme, Katla si avvicinò per osservare meglio l'ospite di Tam Volpe. Con sua grande sorpresa si rese conto che era Jenna Finnsen. Le guance di Jenna erano arrossate e la ragazza continuava ad avvolgere una ciocca dei suoi lunghi capelli dorati intorno a un dito mentre rideva scioccamente per qualcosa che il capo dei teatranti aveva detto. Quando vide Katla e Halli si bloccò immediatamente e sgranò gli occhi. «Cavoli, Jenna,» borbottò Katla «ti sei cambiata d'abito, a quanto vedo.»
Jenna arrossì ancora di più. «Avresti potuto dirmi che il mio era tutto sporco di cacca d'uccello!» replicò, sulla difensiva. «Tam è stato così gentile da farmelo notare e Silva l'ha portato via per lavarlo.» Sorrise all'uomo fulvo da sotto le ciglia. «Lui si sta prendendo buona cura di me: mi ha detto che ero pallida e che mi servivano della buona carne rossa e del buon vino per riacquistare colore.» «Ho detto anche che le serviva un uomo che apprezzi la sua bellezza e la colmi col suo seme, per darle una nidiata di bei bambini grassi.» Jenna per poco non si strozzò: cominciò a tossire così forte che un rivolo di vino le uscì dalla bocca e le scivolò lungo il mento. Poi si coprì il viso con le mani. «Ma che sfacciato!» esclamò, guardandolo tra le dita. Era evidente che le faceva piacere essere stuzzicata in quel modo, pensò Katla. «Credo che tu sia l'uomo più rozzo che abbia mai conosciuto!» Il capo della compagnia lanciò a Halli uno sguardo che sembrava di incoraggiamento. «Non sono un uomo adatto a stare in compagnia di gente ben educata, questo è vero» ammise. «Ho trascorso fin troppo tempo in mare con i più umili tra gli umili. E sono chiaramente troppo rozzo e sboccato per poter fare la corte a una giovane donna così bella e beneducata. Quello che ti serve, mia cara, come ti ripeto ormai da più di un'ora, è un giovane non ancora guastato dalle vicissitudini della vita, un uomo onesto e giusto, un uomo che ti sposi e ti dia una vera casa. Un uomo, infatti, proprio come il bell'Halli Aranson qui presente...» Tam si alzò in piedi e fece spazio per il giovane dei Rocciacaduta, e quando Halli esitò lo prese per un braccio e lo trascinò giù con tanta forza che per poco non lo fece cadere nell'abbondante grembo di Jenna. Katla ridacchiò. Allora era questo il loro gioco, e non era certo difficile da capire: far ubriacare Jenna con il vino e i generosi complimenti di Tam per poi lasciare spazio a Halli. Con un po' di fortuna il tentativo di Tam di accoppiare i due avrebbe potuto avere più successo del suo, perché anche se Jenna era sembrata un po' perplessa dalla facilità con cui il capo dei teatranti l'aveva piantata in asso, non appariva affatto dispiaciuta di trovarsi così vicina al giovane Aranson; anzi, stava facendo la smorfiosa come una verginella quattordicenne. Katla stava per farglielo notare, tanto per prenderla un po' in giro, quando delle braccia potenti l'afferrarono e la fecero voltare tanto bruscamente che inciampò e per poco non cadde sui cuscini. Un istante dopo il mondo smise di girare e lei si ritrovò stretta tra le solide braccia di Tam Volpe. Tam si girò e produsse miracolosamente altri due fiaschi di vino, pas-
sandoli ai due giovani di Rocciacaduta. «Sangue di stallone?» chiese Halli annusandolo con sospetto. Raramente aveva assaggiato altro vino se non quello leggero e amaro che nelle isole del Nord veniva chiamato con quel bizzarro nome. Tam Volpe sbuffò. «Sarò pure un brigante e un ladro, un giullare e uno sciocco, ma non sono certo taccagno col mio denaro né disposto a farmi venire il mal di pancia! Il sangue di stallone è buono solo per marinare le aringhe e fissare le tinture: questo, questo, amici miei, è uno dei migliori vini d'annata di Jetra, risalente al regno di Raik Crinedicavallo che lo trafugò personalmente dalle cantine del Signore della Città Eterna. È arrivato fino a me per vie traverse e non propriamente legali, perciò non sprecatene neppure una goccia e non scolatevelo come se fosse birra. Prendetevi tutto il tempo per assaporare il suo ricco aroma di more; concedete al vostro palato il lusso di cogliere il suo raffinato retrogusto!» Poi diede una dimostrazione di degustazione talmente teatrale che Halli e Katla si guardarono e poi scoppiarono a ridere. «A dire il vero a me piace il sangue di stallone» dichiarò allegramente Katla, che non credeva a una parola delle stupidaggini che aveva raccontato Tam. «Lo trovo... corroborante.» Bevve un grosso sorso dal fiasco, si sciacquò la bocca per qualche secondo e poi fece dei gargarismi in modo molto poco femminile. Un istante dopo il vino le andò di traverso e Katla si ritrovò a tossire come un gatto che tenta di sputare una palla di pelo particolarmente molesta. Jenna cominciò a batterle sulla schiena, un po' troppo forte per i suoi gusti. Tam Volpe andò a tagliare dei pezzi di agnello dalla carcassa che arrostiva sullo spiedo. Offrì il piatto pieno e il suo coltello a una Katla ora silenziosa, che lo guardò con sospetto. «Sei sicuro che ti fidi a darmi il tuo coltello?» gli chiese con malizia. «Specialmente nello stato in cui sono?» «Ho sentito che le tue dita contengono tanta magia da poter prendere la più inoffensiva delle lame e trasformarla in un'arma mortale.» Il capo della compagnia teatrale la fissò senza sorridere, ma i suoi occhi brillavano. «Mi piacerebbe mettere alla prova la tua tempra col mio... metallo.» Katla si accigliò, perplessa. Di cosa stava parlando? «Io forgio spade» disse. «Questo è vero.» Se l'era immaginato, o lui le aveva appena fatto l'occhiolino? Lo scrutò, stordita dall'alcool e irritata perché non riusciva a capire quello che stava succedendo, e fu stregata dall'intensità di quello sguardo. Aveva degli oc-
chi straordinari, si ritrovò a pensare suo malgrado, profondi e affascinanti come quelli di un felino. Non si sarebbe affatto meravigliata se le sue pupille fossero state delle fessure verticali, né se la luce della luna si fosse riflessa in essi per trasformarli in due dischi d'argento. «Mangia, prima che si freddi» la esortò Tam, e le porse il piatto. Katla lo prese, chiedendosi cosa fosse appena successo tra di loro che lei non riusciva a capire; ma prima che potesse riflettere ulteriormente sulla faccenda, sentì Halli bisbigliare qualcosa a Jenna, poi alzarsi e tirarla in piedi. La ragazza era malferma sulle gambe e l'abito era piuttosto ingombrante, ma Halli le mise un braccio attorno alla vita per sorreggerla e lei si abbandonò a lui e Katla pensò che formavano davvero una bella coppia, così diversi eppure complementari: Halli alto e scuro, i capelli neri sollevati da una leggera brezza, Jenna avvolta nell'oro e nel bianco, ed entrambi stagliati contro la pallida luna, con la spiaggia buia che si estendeva a perdita d'occhio dietro di loro e le onde bianche che si infrangevano sulla spiaggia. Poi Halli si chinò e baciò Jenna, e Katla sentì il proprio cuore contrarsi in qualcosa di simile al rammarico. «Stanno proprio bene insieme» disse Tam Volpe come se le leggesse nel pensiero, e la sua voce era calda e melodiosa. Si sedettero vicini per un po' in un amichevole silenzio, rotto solamente dal crepitio del fuoco e dai suoni soffocati della festa. Poi Tam si voltò verso Katla e le chiese: «Farai da testimone a tuo fratello?» Lei lo guardò con gli occhi sgranati. «Per cosa?» «Domani ci sarà la giunzione delle mani con Jenna.» Katla rise. «Halli dovrà aspettare il ritorno a Rocciacaduta per la giunzione delle mani, e questo ovviamente solo se mio padre e Jenna acconsentiranno.» «Come capitano del Lupo delle Terre Innevate che viaggia lungo il sentiero della luna di Sur e sul quale Halli presta servizio come membro dell'equipaggio e Jenna viaggia come ospite, il dio mi ha dato l'autorità di legarli uno all'altra, se lo desiderano» spiegò Tam con dolcezza. Katla sollevò un sopracciglio. «E se lei non volesse?» Tam Volpe si strinse nelle spalle. «Peggio per lei. Ma io credo che lo vorrà. Ha un gran bisogno dell'affetto di un uomo e chiunque, a meno che non fosse cieco, vedrebbe che tuo fratello la ama davvero.» «Sei un così grande esperto dell'amore?» Katla masticò un pezzo di agnello, poi bevve un altro sorso di vino per mandarlo giù. La carne era calda e piena di grasso e Katla si affrettò a ingoiarla prima che le venisse
da vomitare. «Alcuni potrebbero considerarmi tale.» «Ma non ti sposerai mai.» «In un'altra vita l'ho fatto.» Katla era sorpresa. Alzò gli occhi dal piatto e scoprì che lo sguardo del suo ospite era perso nel vuoto. La sua espressione si era addolcita e lo faceva sembrare allo stesso tempo più giovane e più vecchio dell'età che aveva. «E cosa è successo? Dov'è ora, tua moglie?» Tam Volpe scosse la testa. «Non è un argomento adatto a una serata piacevole come questa. Preferirei parlare di te, Katla Aransen.» «Di me?» Il capo dei teatranti le tolse di mano il piatto e lo posò a terra. Poi le prese entrambe le mani tra le sue. Erano grandi, quelle mani, e molto calde, con dita squadrate e flessuose decorate con diversi anelli d'argento di foggia complessa. Katla trovò un grande conforto in quella stretta... Ma se era così confortante, perché il cuore le batteva in quel modo? «Katla, tu sei una donna molto bella.» Katla rimase senza fiato. 'Bella' non era una parola che avrebbe mai usato per definire se stessa, né avrebbe mai pensato che qualcuno potesse impiegarla per lei. Forse Erno l'aveva considerata tale, ma in quell'occasione c'era stata di mezzo la magia dei nomadi... Il giovane Istriano, Saro Vingo, l'aveva guardata in un modo che l'aveva fatta sentire davvero bella; ma quello era stato prima del rogo, prima che lui le venisse incontro tra le fiamme con la spada sguainata. Cacciò via l'ossessionante ricordo degli occhi neri e intensi dell'Istriano. Tam Volpe era tutta un'altra faccenda. Lei aveva sempre saputo di piacergli, ma non aveva mai creduto che fosse un sentimento importante, perché lo riteneva un impenitente donnaiolo. Ora però, dopo aver trascorso un mese in sua compagnia e non averlo mai visto con un'altra donna, né aver mai sentito pettegolezzi riguardo alle sue avventure amorose, Katla cominciava a rendersi conto che forse avrebbe dovuto cambiare idea sul suo conto. Non che un mese fosse sufficiente per esprimere un giudizio su una persona... ma stranamente Katla si era accorta che non le importava. «Il giorno in cui siamo arrivati a Halbo sono stato rozzo e intempestivo» continuò Tam, la voce calda che si faceva poco più di un sussurro. «Ma trovarmi così vicino a te sulla nave mi aveva reso avventato.» Le sfiorò la guancia con una mano e Katla sentì il sangue fluire rapidamente dentro di
lei fino a farla avvampare. All'improvviso il volto di Tam Volpe fu stranamente vicino al suo: Katla sentì il respiro caldo di lui sul collo, sentì il profumo inebriante del vino mentre le parlava, ma qualunque cosa stesse dicendo si era trasformato ora in un mucchio di suoni senza senso. Tutto ciò che Katla vedeva era quella bocca, mentre il resto era deliziosamente sfocato... E si ritrovò a fissare il labbro superiore dalla linea netta, seminascosto dalla folta barba rosso dorato, e quello inferiore lungo e carnoso, con la morbida pelle pallida e leggermente screpolata. Poi, senza staccare gli occhi da quella bocca affascinante, Katla posò lentamente il fiasco di vino a terra, prese con delicatezza il viso dell'uomo tra le mani e lo baciò. Quella bocca era proprio come l'aveva immaginata: calda e muscolosa, con un sapore inebriante di spezie e fumo. E poi si abbandonò alla lingua e alle mani insistenti di Tam, afferrò selvaggiamente i suoi folti capelli, le trecce e le conchiglie e tutto il resto, e si strinse a lui finché non le sembrò che il calore del suo corpo potesse bruciare tutti i loro vestiti. Solo più tardi, quando sentì la leggera brezza marina sfiorarle la pelle, si accorse che lui era riuscito a toglierle la tunica e i pantaloni senza che lei se ne rendesse conto. Quando si svegliò, la mattina dopo, un'orda di minuscoli troll stava scavando dolorosamente nel suo cranio con piccoli e crudeli scalpelli. Ogni martellata la faceva trasalire, e questo ancora prima di aprire gli occhi. Quando tentò di farlo, la luce del sole le trafisse le pupille come un ago infuocato e Katla si affrettò a richiuderli, solo per essere assalita da un orribile rosso fuoco dietro le palpebre. Aveva la bocca impastata, come se fosse piena di quella stessa pelliccia su cui era distesa, e in generale provava un incontenibile desiderio di urinare, vomitare o più semplicemente morire. Sentendo qualcosa di duro che le premeva dolorosamente contro il sedere nudo, spostò il peso e cercò tastando cosa fosse. Le sue dita si chiusero su una serie di piccoli oggetti non identificabili. Aprì di nuovo gli occhi, molto lentamente questa volta, riparandosi dalla luce con l'altra mano, e sollevò gli oggetti davanti a sé. Vide un paio di rosee conchiglie di ciprea e un pezzo di filo d'argento con una ciocca di lunghi capelli rossi ancora attaccata. Altre conchiglie erano sparse sulla coperta intorno a lei, e sul cuscino c'era persino una pelle di serpente stropicciata. Sbalordita, Katla si guardò intorno. Le ci volle un po' per capire dove fosse, e in compagnia di chi. All'interno della tenda di fortuna fatta con una vela e dei remi intrec-
ciati, il capo della compagnia teatrale giaceva disteso sulle coperte, e la fissava sollevato su un gomito con un enorme sorriso soddisfatto stampato sul viso. Alcune delle sue trecce erano disfatte e i suoi capelli erano scompigliati. Gli eventi della notte precedente cominciarono a tornarle in mente in brevi sequenze allucinatorie, e all'improvviso Katla si rese conto che l'unico indumento che ancora indossava sembrava essere un calzino di feltro, che penzolava dal suo piede sinistro. La ragazza gemette. Ora la morte le sembrava l'alternativa migliore. «Be', questo sì che è un bel buon giorno, Katla Aransen. Buon giorno anche a te. E finora mi è sembrato davvero tale: il sole brilla, il vento soffia costante e c'è una ragazza nuda nel mio letto. Non è affatto un brutto modo per iniziare la giornata.» «Noi abbiamo...?» Era una domanda sciocca. La pelle d'orso sotto la sua coscia era ancora umida e viscida. Katla non era una verginella ignara di tutto: sapeva cosa doveva significare. Questa volta il suo gemito fu più forte. «Per Sur, devo essere stata davvero ubriaca.» Tam Volpe la studiò con curiosità. «Non riesci a immaginare di stare con me senza essere completamente ciucca?» Quello era un termine piuttosto pittoresco, usato principalmente dagli abitanti delle Isole Belle. Katla si chiese se Tam non fosse originario di quel luogo, un pensiero piuttosto irrilevante nel caos che era la sua testa. Una risata breve e amara fu la sua unica risposta: di certo quella era una domanda retorica. Ma quando Tam si fece più vicino e tese una mano verso il suo viso, Katla si ritrasse come una puledra agitata. «Ah» disse lui. «Capisco. Ciononostante, forse chiederò nuovamente a tuo padre la tua mano, quando torneremo.» «Nuovamente?» Tam annuì. Katla era sbalordita. «Perché, cosa ha detto la prima volta?» Il teatrante si picchiettò il naso. «Questo è un segreto.» «Io non mi sposerò mai» esclamò Katla con veemenza. «Mai?» «Mai.» Tam inarcò le sopracciglia. «Se questa è la tua scelta, allora la rispetterò. Ma sarebbe comunque un terribile spreco se un corpo così bello non scaldasse il letto di un uomo in modo regolare, e preferibilmente il mio...»
Poi spinse indietro le coperte e uscì dalla tenda per crogiolarsi nudo al sole. La luce guizzò sui suoi muscoli possenti, sulla vita stretta e il sedere ben delineato. Aveva un bel corpo, questo era innegabile, ma a colpire davvero Katla fu la massa di cicatrici che aveva sulla schiena e sulle spalle. Lo chiamò per nome per attirare la sua attenzione, con l'intenzione di chiedergli cosa aveva causato tutti quei segni, ma non appena lui si girò verso di lei la domanda le sfuggì dalla mente. Quando poi lui sorrise, tornò nella tenda, si infilò nuovamente sotto le pellicce accanto a lei e fece scorrere le grosse mani sopra i suoi fianchi, lei accennò solamente a una protesta. Più tardi fu lei a sollevarsi su un gomito e studiare l'assonnato viso di Tam. «Non ti fare strane idee che questo possa significare più di quanto significhi. Non mi sposerò ugualmente, né con te né con nessun altro uomo.» «Significa già abbastanza; e abbastanza, come ripeteva sempre mia madre, è già molto.» Sorrise come un gatto che ha leccato la crema. «Inoltre ho solo detto che forse l'avrei chiesto a tuo padre. Potrei aver cambiato idea, ora che ho assaggiato la merce.» Katla lo prese a pugni, furiosa, e si vestì con tanta fretta che solo dopo essersi incamminata in preda alla rabbia lungo la spiaggia, con la risata di Tam che le risuonava nelle orecchie, si rese conto di essersi infilata i pantaloni al contrario e che lo strappo doveva aver rivelato a chiunque passasse (e c'era parecchia gente in giro, di cui diversi probabilmente erano al corrente, dai sorrisetti che le avevano rivolto, di dove e con chi aveva trascorso la notte) una considerevole fetta del suo posteriore nudo. Salparono dall'Isola delle Chiglie intorno a mezzogiorno e veleggiarono verso ovest-sudovest finché il sole non cominciò la sua lenta discesa verso l'orizzonte. Il viaggio era stato piuttosto breve, tutto sommato: un vento forte aveva gonfiato le vele per tutto il tempo, facendoli sfrecciare a una tale velocità che Katla avrebbe potuto giurare che la prua del Lupo delle Terre Innevate avesse a malapena sfiorato la superficie del mare. L'indomani sarebbero stati a casa a quella stessa ora. Katla riusciva a percepire l'attrazione delle isole nelle ossa, simile a un aroma nell'aria la cui natura era ancora impossibile da identificare. Halli doveva aver pensato la stessa cosa, anche se la sua stima della posizione era di certo frutto di calcoli e dell'esperienza di navigazione più che
di una qualche misteriosa intuizione. Katla lo guardò prendere da parte Tam Volpe, vide i due impegnati in un'intensa conversazione al termine della quale l'uomo più anziano afferrò una manciata di capelli di Halli e li recise con il suo coltello. Katla si accigliò, ricordando quando una cosa del genere era accaduta a lei. Poco più tardi Tam andò dall'altra parte della nave e tirò fuori un vecchio rotolo di spago dal fondo della cassa dei costumi e lo passò a Urse, che percorse senza una parola tutta la lunghezza del Lupo delle Terre Innevate, legò accuratamente un capo dello spago al dritto di prora e gettò l'altro capo fuori bordo perché venisse trascinato in mare dietro di loro. Poi nessuno fece niente per quasi un'ora, tranne Jenna, che aveva indossato nuovamente il suo abito blu e ora si stava sistemando i capelli. Katla marciò coraggiosamente verso Tam Volpe, che era seduto sulla cassa e intrecciava insieme una ciocca di capelli neri e una di capelli biondi. «Cosa sta succedendo?» chiese con le mani piantate sui fianchi. Il capo dei teatranti non sollevò neppure lo sguardo. «Lo vedrai.» «Vedrò cosa?» insisté Katla. Tam non le rispose. Le sue dita esperte intrecciarono abilmente le ciocche fino alla fine della treccia, poi la chiusero con un nodo molto complesso. Alla fine Tam sventolò il suo capolavoro davanti al naso di Katla, lo scostò rapidamente prima che lei potesse afferrarlo e se lo mise nella scarsella. «Aspetta e vedrai.» Con quelle parole balzò in piedi e tornò verso la prora, dove tirò a bordo lo spago bagnato, lo slegò dalla polena e lo riportò al centro della nave. Lì, lo strizzò fino a creare una piccola pozza d'acqua di mare ai suoi piedi; poi chiamò a sé Jenna e Halli. Katla stette a guardare con curiosità mentre Tam metteva i due uno di fronte all'altra e legava lo spago bagnato intorno ai loro polsi in una complicata serie di otto, in modo che i loro palmi fossero inestricabilmente premuti tra loro. Infine si accucciò, si bagnò le dita nella pozza d'acqua salata e bagnò la coppia sulla fronte e sulla lingua. A quel punto un nutrito gruppo di teatranti si era riunito intorno al capitano e ai due innamorati: Katla dovette farsi agilmente strada tra la folla per mettersi davanti a tutti in tempo per sentire Tam Volpe intonare: «Il sale che gustate è per ricordare che nostro Signore Sur ha assistito allo scambio delle vostre promesse.» Poi alzò la voce. «Il Signore delle Acque, il Signore delle Tempeste, il Signore delle Isole è testimone delle promesse
nuziali che tu, Halli Aranson, e tu, Jenna Finnsen, farete in questo giorno della vostra giunzione delle mani. Lo spago che ho legato intorno a voi è simbolo dell'infinito cerchio della vita, che è un dono di nostro Signore. In cambio, io offro a te, Sur, questa treccia, come pegno della loro promessa di diventare marito e moglie entro un anno da questo giorno e di onorare il nome di Sur con le loro vite e le vite dei figli che porteranno nel tuo mondo.» Estrasse la treccia di capelli neri e dorati dalla sua scarsella e la sollevò in modo che tutti potessero vederla. Poi la gettò fuoribordo. Jenna seguì con gli occhi la sua caduta, con il viso illuminato dalla luce dorata del sole del tramonto. Sulle sue labbra, incurvate in un sorriso di beatitudine, brillava ancora l'acqua di mare. L'espressione sul volto di Halli era di pura gioia: Katla rivide in lui il bambino che era una volta, a parte la barba e la mascella pronunciata... La treccia fluttuò per qualche secondo sulle onde lucenti, poi si inzuppò e svanì lentamente sott'acqua. I presenti cominciarono a parlare tutti insieme, rivolgendo le proprie congratulazioni alla coppia, facendo commenti su come Tam li aveva legati ben stretti e sull'insolita configurazione dei nodi. «Guardate,» stava dicendo Min Facciadipesce, «c'è anche il nodo per augurare loro cinque bambini! Cinque! Immaginate un po'!» «Sei sicura che non siano cinque agnellini?» disse qualcuno. «I nodi di 'bambini' e 'agnellini' sono molto simili...» Tutti scoppiarono a ridere. Katla si unì a loro, anche se era ancora piuttosto irritata perché nessuno l'aveva messa a parte dei loro progetti prima di portarli a compimento. Era in procinto di ingoiare il proprio malumore e fare gli auguri a suo fratello e alla sua amica quando sentì un leggero tremito sotto i suoi piedi. La vibrazione penetrò in lei attraverso la suola degli stivali per risalire lungo le ossa delle gambe, una sensazione quasi dolorosa. La nave ondeggiò lievemente, poi la vibrazione sparì. Katla si accigliò e spostò i piedi. Quando alzò gli occhi, scoprì che Tam la stava fissando con curiosità e distolse in fretta lo sguardo, appena in tempo per intravedere una coda stranamente biforcuta emergere dalla schiuma delle onde a poppa e poi svanire di nuovo. Katla corse alla frisata e guardò verso il mare. Niente. Niente, tranne una sfilza di grosse onde tinte di rosso dalla luce del sole morente e il bianco della schiuma della nave. Ma il legno sotto i suoi palmi dicevano ben altro. Le assi erano piene di una strana energia; le mani di Katla formicolavano,
anche se non nel modo ormai familiare che denotava l'avvicinamento alla terra, il passaggio della nave su un banco di scogli o una vena di cristalli o di metallo sepolta in profondità sotto una montagna. Quell'energia era meno lineare, come se fosse confusa, caotica, piena di correnti incrociate, addirittura contorta. Così, quando la superficie del mare cominciò a comportarsi in modo strano, gonfiandosi in lenti e ampi cerchi e sollevandosi verso l'alto come un geyser in eruzione, Katla trattenne il fiato e restò a guardare, stregata, ipnotizzata, incapace di muoversi. Gradualmente le onde si divisero rivelando ciò che li stava seguendo, ciò che aveva sfiorato la chiglia della nave pochi momenti prima, e che possedeva la coda biforcuta che Katla aveva intravisto... Era enorme: in principio la giovane pensò che fosse una sorta di balena, anche se di una specie molto più grande di quelle che venivano normalmente catturate al largo di Rocciacaduta e persino più grande di quell'enorme bestia grigia che era stata trovata spiaggiata sulla costa settentrionale dell'isola qualche anno prima e che aveva fornito alla sua gente carne e olio per un intero inverno. Ma quando la creatura sollevò la testa dall'acqua, capì che non era una balena, né un qualsiasi altro essere presente in natura. Il suo smisurato corpo era striato da ogni possibile sfumatura di grigio e verde, tanto che sembrava cosparso di licheni e muschio; e in effetti, mentre si avvicinava al Lupo delle Terre Innevate, Katla vide delle grosse macchie di vegetazione, probabilmente alghe di un qualche tipo, attaccate alla creatura come se fossero cresciute su di essa e che si trascinavano nella sua scia come il bordo lacero di un enorme mantello. Una lunga serie di pinne si alternava lungo la nodosa spina dorsale del mostro con quelli che sembravano i tentacoli di un enorme calamaro che poteva essere stato in qualche modo assorbito da quell'essere, digerito e poi rigettato in parte fuori. La coda biforcuta che Katla aveva visto muoversi tra le onde serviva solo a trarre in inganno circa le reali dimensioni dell'essere, perché era solo una delle numerose piccole appendici attaccate a quel corpo, ciascuna con un'estremità diversa: morbide fronde, un brutto nodo, perfino quella che sembrava una mano. La sua vera coda, ammesso che ne avesse una, restava sott'acqua, ma era chiaro che un qualche enorme arto fosse in movimento sotto la parte visibile del mostro, perché intorno a esso l'acqua mulinava vorticosa. Mentre la creatura si sollevava dall'acqua, le sue fauci si aprirono per rivelare una nera caverna al posto della bocca, contornata da denti dall'aspetto letale che circondavano una lingua squamosa e grigia. Katla,
alla quale in quell'istante sembrò di vedere tutto con una sconcertante chiarezza, notò che alcune parti della sua pelle erano lisce e luccicanti e respingevano l'acqua proprio come la pelliccia di una foca, mentre altri punti, gonfi e chiazzati per l'umidità trattenuta, sembravano porosi, come se quell'essere si fosse solo parzialmente adattato alla vita nell'oceano. La creatura, un'enorme figura stagliata contro il sole rosso del tramonto, si sollevò ancora di più sulla superficie dell'acqua e rivelò un ventre verde e bianco, costellato da altre bocche. Alle sue spalle, Katla fu vagamente cosciente delle grida di orrore e di disperazione degli altri membri dell'equipaggio, poi vide Tam Volpe al suo fianco, con un remo rovesciato in mano e i capelli infuocati dal sole morente. Qualcuno tirò una fiocina verso il mostro. La lama si conficcò nella sua schiena, in uno dei punti porosi della sua pelle, e acqua e altri liquidi dall'aspetto orribile fuoriuscirono all'istante dal foro. Qualcosa di argentato saettò accanto alla testa di Katla, seguito da un altro oggetto e poi da un altro ancora. Katla si voltò e vide che Min Facciadipesce si era arrampicata sull'albero della nave e ora, reggendosi a esso con un braccio e una gamba, stava tirando i suoi coltelli da lancio con micidiale precisione verso il mostro, urlando per tutto il tempo in tono di sfida: «Vattene, vigliacco di un calamaro, brutto merluzzo, tonno troppo cresciuto, abominio di un rombo! Torna nelle profondità dell'oceano a cui appartieni!» In un istante una dozzina di fiotti di sangue cominciarono a sgorgare dalla pelle dell'essere, che gridò tutto il suo dolore con un ruggito sinistro. Per un momento sembrò che il peggio fosse passato, perché la creatura si voltò e si immerse sotto la barca, lasciando una scia di rosso dietro di sé. Katla ebbe il tempo di girarsi e passare in rassegna i volti dei suoi compagni, pietrificati, eccitati, terrorizzati o, nel caso di Min, pieni di gioia. «Così impara, quel brutto sgombro!» La lanciatrice di coltelli scivolò giù dall'albero con gli occhi che le brillavano. «Quella grossa aguglia non si farà più vedere!» Si sbagliava. Un attimo dopo sì udì un tremendo scricchiolio, e ogni asse della nave protestò con un gemito. Un fiotto d'acqua zampillò tra le tavole del ponte ai piedi di Katla. Qualcuno ruzzolò accanto a lei, imprecando. La nave si inclinò pericolosamente, poi si raddrizzò con un tonfo assordante. L'acqua spostata dal brusco movimento volò verso l'alto come una fontana, poi ricadde su di loro schizzandoli con un miscuglio di acqua salata e sangue della creatura, mentre il sole morente si riflesse su di loro trasformandoli in spaventose creature rosse.
Katla capì istintivamente che, a dispetto delle circostante e nonostante tutto quello che sapeva dei grandi pesci dell'oceano, la bestia aveva deliberatamente cercato di farli rovesciare invece di fuggire via per mettersi in salvo. Quella non poteva essere una normale creatura. All'improvviso le tornò in mente l'aumento spropositato dei racconti superstiziosi che aveva sentito di recente intorno al fuoco: bizzarri avvistamenti, strani corpi ritrovati su spiagge deserte, misteriosi oggetti impigliati nelle reti da pesca. La creatura non li avrebbe mai lasciati in pace: bisognava agire. La gente correva di qua e di là, tentando di mettere in salvo i remi e gli oggetti personali, le casse di indumenti e le merci che erano state sparse per tutto il ponte dalla furia del colpo. Nel mezzo del caos i due giovani ancora legati dopo la cerimonia si stringevano l'uno all'altra, e Jenna aveva nascosto la testa nella spalla di Halli come per non vedere la terribile realtà che la circondava. Alcuni stavano brandendo spade, remi e bastoni seguendo le istruzioni di Tam Volpe. Quest'ultimo camminava per il ponte dando ordini come un uomo nato per comandare, la corta spada che portava abitualmente, un'arma brutalmente letale a distanza ravvicinata, che gli sbatteva sulla coscia mentre si muoveva. Uno strano ronzio si accese nel cranio di Katla, un sibilo di energia, un richiamo. La Spada Rossa. Katla sentiva la sua lama che la chiamava a sé. Istintivamente seppe dove si trovava: nello scrigno che Fent aveva portato a bordo al porto di Rocciacaduta e lei aveva creduto che sarebbe stato donato a re Ravn. Ma chiaramente il capo dei teatranti aveva altre idee. Zigzagando tra pentole e padelle che rotolavano, rotoli di corda e membri dell'equipaggio che correvano trafelati, Katla si ritrovò a poppa... e vi scoprì lo scrigno, ancora saldamente assicurato con una fune. Con dita forti e salda determinazione, disfece i nodi bagnati, aprì il coperchio e liberò la spada. Alla luce del sole morente l'arma brillava di un color rosso sangue, come se stesse già pregustando il danno che avrebbe provocato. Era perfetta nel palmo della sua mano, proprio come lei la ricordava, nella levigata bellezza del pomo con la corniola incastonata adagiata comodamente contro il suo palmo e la guardia che premeva sul suo pugno. Un'ondata di entusiasmo la pervase, scorrendole nelle vene come una canzone inebriante dalla mano destra su per il braccio e la spalla, fino al collo e alla testa, per poi percorrere tutto il suo corpo come acciaio fuso. La Spada Rossa! Con quell'arma che le vibrava in mano si sentiva invincibile. Scosse la testa, tentando di schiarirsi le idee e cacciare via l'incantesimo del metallo. Brandire la spada con la corniola era già un passo avanti, ma
sarebbe stato difficile avvicinarsi alla creatura abbastanza da poterla infilzare... Afferrando la corda con cui era legato lo scrigno, Katla tornò di corsa al dritto di prora, dove la bestia era tornata a torreggiare sulla nave, emergendo da una schiuma rosata, gli aculei e i tentacoli che tremavano per la rabbia, l'enorme e vuota fronte che schiacciava la prua del Lupo delle Terre Innevate, nascondendo l'enorme testa di drago della polena come un gufo delle nevi che dispiega le ali sopra un passerotto. Un remo che rotolava via per poco non fece cadere Katla, e anche se riuscì a saltarlo, ricevette un terribile colpo sullo stinco. Imprecando furiosamente, la ragazza si gettò sul ponte accanto al remo e tirò fuori il suo coltello. In pochi secondi riuscì a tagliare un grosso pezzo di buon legno di quercia. L'interno del legno crudelmente violato spiccava per il suo biancore tra l'oro più intenso dell'esterno stagionato dalle intemperie, ma Katla non era dell'umore per apprezzare un tale contrasto. Mentre Tam Volpe e i suoi uomini lanciavano frecce contro la creatura con i pochi archi che avevano a bordo, Katla infilò l'elsa della Spada Rossa nella cavità che aveva ricavato nel pezzo di remo e la legò con la corda che aveva preso dallo scrigno, facendo tutti i nodi più resistenti che conosceva. Poi si sentì un altro forte tonfo, seguito da urla di terrore. Il mostro aveva colpito nuovamente la nave. Le assi gridarono la loro protesta; poi, con un assordante schianto, la prua si spaccò. Katla alzò lo sguardo appena in tempo per vedere Flint Erson volare fuoribordo, nel mare spumeggiante, dove scomparve silenziosamente sotto la schiuma bianca. Infuriato per la perdita di uno dei suoi uomini, oltretutto uno dei migliori funamboli, Tam Volpe imprecò furiosamente contro il mostro e gli gettò contro la sua spada con tale forza che l'arma sprofondò senza lasciare traccia nella guancia branchiata della creatura... ma l'essere continuò ad avanzare. Katla balzò in piedi con quell'arpione di fortuna in mano e si avviò verso la prua mutilata. Lì, per un istante, si ritrovò davanti a uno degli occhi della creatura. In principio non vide che il proprio riflesso, un'orrenda parodia rossa che agitava un patetico pezzo di legno con uno spillo sulla punta; poi il suo cuore fece un balzo. Perché stava fissando, senza alcun dubbio, un occhio umano. Esso la guardò. Era di un bel marrone vellutato, il marrone di quello di una mucca, ma intorno all'iride la cornea bianca era bene in vista da entrambi i lati. L'occhio era contornato da ciglia. La sua palpebra batté per un istante, come se la creatura fosse rimasta sorpresa da quell'intimo contatto,
poi Katla sentì una voce stranamente familiare nella propria testa. La stava chiamando per nome, stentatamente, supplichevole, e in tono così basso da sembrare un rombo sotterraneo che non proveniva dalla creatura di fronte a lei, ma da centinaia di miglia di distanza, dal profondo, sotto la superficie di Elda. Poi l'occhio si riempì di acqua e la palpebra si chiuse di nuovo. Quella che era orribilmente simile alla più grande lacrima del mondo rotolò lentamente lungo l'enorme faccia della creatura. La giovane si ritrovò combattuta tra la compassione e il disgusto, ma la Spada Rossa sapeva cosa doveva fare. Il braccio di Katla, come mosso dalla volontà di quella lama, tirò indietro l'arpione che aveva costruito e lo scagliò con forza brutale. La spada con la corniola volò nell'aria e si piantò fino all'elsa nell'occhio del mostro. Per un istante il mondo si fermò. Il Lupo delle Terre Innevate smise di ondeggiare: tutti trassero un sospiro di sollievo. Poi la creatura sollevò la testa e il suo grido d'agonia lacerò l'aria. E continuò a emergere, spinta quasi in verticale dal movimento frenetico delle sue molte code e pinne, mentre tutte le bocche si aprivano e si chiudevano all'unisono, proferendo ciascuna un diverso grido di dolore. Katla rimase aggrappata alla frisata contro cui era stata spinta dalla forza del colpo, avvolta dall'ombra del mostro. Anche con quell'essere che torreggiava sopra di lei, scoprì che non riusciva a muoversi. «Katla!» Quella voce le sembrava lontanissima, soffocata com'era dalla quantità di suoni emessi dalla bestia ferita. Poi la creatura cadde. La mano libera di Halli si strinse intorno alla caviglia di Katla, trascinandola via proprio mentre il mostro crollava. Volando all'indietro, e rendendosi a malapena conto del dolore quando atterrò sulla schiena, sbattendo i gomiti e la spalla sinistra, Katla guardò la creatura abbattersi sul Lupo delle Terre Innevate e vide il dritto di prora già spaccato premere delicatamente contro la pelle chiazzata della pancia del mostro, increspando l'area tra due bocche spalancate. Poi la pelle cedette e inghiottì la trave, e la creatura rimase impalata sulla prua distrutta. Con un ultimo grido di dolore e un fiotto di fluidi dall'odore orribile, il mostro morì. Ma il peggio doveva ancora venire. Sotto quel peso la nave si inclinò violentemente. Ci fu un momento di strana quiete, poi la vela si staccò dal sartiame e si abbatté, spazzando fuoribordo Bella e altri due acrobati. Barili e scatole si sparsero dappertutto; un calderone di ferro col suo treppiede rotolò per tutta la lunghezza della
nave, prendendo velocità, e si schiantò sull'altra metà della testa deturpata di Urse. La creatura cominciò ad affondare trascinando con sé nella distruzione e nella morte il Lupo delle Terre Innevate. Il supporto dell'albero, costruito due secoli prima dal maestro d'ascia di Hedebu con il durame della più grande quercia del suo cantiere navale, si spaccò con un gemito. Non più saldamente ancorato, l'albero ondeggiò disperatamente, poi piombò sul ponte, ricoprendo la nave con l'enorme vela. La tela cominciò immediatamente a contorcersi mentre gli uomini rimasti sotto tentavano di liberarsi, cosicché il lupo e il serpente sembrarono lottare ancora una volta per il destino del mondo. Poi la nave si inclinò nuovamente, e l'albero, insieme alla vela, scivolò via e si schiantò contro la frisata di sinistra, portando con sé una mezza dozzina di figure urlanti. Lasciò nella sua scia due uomini disperati tra rottami di legno infranto e corde attorcigliate: Katla poté scorgere il bianco delle loro ossa brillare in mezzo a un caos di tela e sangue. L'ultima cosa che Katla vide quando l'acqua invase la bella nave che una volta era stata il Lupo delle Terre Innevate fu suo fratello, con Jenna aggrappata a lui come un gattino bagnato, che cercava disperatamente di tagliare lo spago ben annodato che li teneva uniti. Poi il mare spazzò il ponte e li trascinò tutti via con sé. 12 Il Padrone Abbandonato da ciò che aveva creato, da ciò che aveva rubato e dalla bestia in cui aveva immagazzinato la maggior parte della sua magia, il Padrone passeggia su e giù per le stanze della glaciale fortezza di Santuario come un folle. Per alleviare la solitudine, negli ultimi mesi ha tentato di crearsi dei nuovi compagni, con terra, saliva e un pochino, ma solo un pochino del suo sangue per dar loro la vita, ma senza la presenza del gatto si è trattato di esperimenti infruttuosi, creature deformi che sbattono contro le pareti e si staccano parti del loro colpo, che affogano nel lago o si allontanano arrancando tra le distese ghiacciate per non tornare mai più; oppure semplicemente si bloccano, fissando il vuoto come se avessero appena scoperto l'esistenza di un mondo completamente diverso. Il Padrone non fa alcuno sforzo per riportarle in vita o rimetterle a posto; anzi, non si cura neppure di ripulire la fortezza dai loro resti, così i tunnel e le stanze sono
ora ingombri di quelle povere creature mal riuscite in vari stati di decomposizione. Il lungo sonno sembra aver prosciugato tutta l'energia e la volontà del mago, che ora ha rinunciato anche ai suoi esperimenti, poiché anche la migliore delle sue creazioni non è riuscita a mettere insieme neppure due parole. È della conversazione che ha bisogno, ripete mentendo a se stesso: un vivace scambio di opinioni e non la semplice compagnia... in fondo per quella ci sono gli uccelli marini, le foche e qualche rara balena. Ma la notte, durante l'irregolare riposo, è il corpo della Rosa Eldi che vede, pallido e splendente, snello e invitante, sempre pronto per lui, mai recalcitrante, mentre la perduta volontà della donna rinforza la sua. E ogni mattina si sveglia più indebolito di quanto non fosse prima di coricarsi. La maggior parte delle volte deve fare un grande sforzo di volontà per rovistare tra i giardini ora trascurati di cui si occupava Virelai e procurarsi così gli ingredienti per mettere insieme un misero pasto. Non c'è rimasto molto, dopo che hanno imperversato i venti artici e gli esseri che ha creato e poi dimenticato di disfare si sono nutriti. Spesso mangia crudo quello che trova, azzannandolo come farebbe un ratto, e quando riesce a trovare la forza per bollire delle rape o arrostire delle cipolle, è sempre senza alcun artifizio né condimento. Ogni cosa sa di cenere... E in fondo che scopo avrebbe mascherare il sapore della verità? Ha fallito in ogni cosa che ha tentato... Perché aveva tutto il mondo e quella che avrebbe dovuto essere la ricetta dell'eterna felicità nel palmo della sua mano, ma se li è lasciati sfuggire. Perduti, perduti, perduti per sempre. Il Padrone trascorre molti giorni solitari nella stanza della torre, osservando il mondo che una volta considerava suo attraverso il complicato congegno di cristalli, leve e vetro riflettente, ed è di volta in volta turbato e angustiato da quello che vede. Muove le leve per guardare le brulle isole del Nord, ma a parte l'apparizione di uno strano mostro marino (c'era da aspettarselo, dato l'innaturale ritorno della magia nel mondo) non vede niente di particolarmente sorprendente: gente che pesca, gente che combatte, gente che partorisce e muore praticamente allo stesso modo in cui è sempre accaduto durante quelle patetiche, misere esistenze. Nell'Impero del Sud cerca la Rosa Eldi, ma invano. Invece, dopo aver molto manovrato i suoi congegni, trova il suo sventurato apprendista, impegnato in un pasticciato tentativo di operare la magia per un uomo che sembra in procinto di perdere la pazienza. E lì si sofferma per un po', a guardare. Alla fine trova anche il maledetto gatto.
Ma neppure la vista di Virelai che tenta di usare la magia che ha rubato riesce a tenere desto il suo interesse a lungo. Senza pace, egli cerca ancora la donna, la Perfetta, ma pur scrutando in lungo e in largo l'Impero del Sud, che è di certo l'unico posto che una donna di tale perversa raffinatezza potrebbe veramente apprezzare, non riesce a trovarne traccia... tranne che per i piccoli episodi di quella magia che sembra essere filtrata nel tessuto del mondo dando vita a bizzarre e contorte manifestazioni. Ruotando il cristallo in maniera casuale, scorge pozzi e corsi d'acqua nel profondo sud del mondo che una volta erano puri e potabili e ora sono stati avvelenati dai metalli pesanti, rigettati dalle profondità di Elda; scopre ruscelli in cui i pesci hanno sviluppato delle gambe e polli feroci fuggiti dalle stie per rifugiarsi nei boschi e nei prati. Si imbatte in altre stranezze e fenomeni che suscitano la curiosità per un po', poi riprende la sua ricerca della Rosa del Mondo, passando nuovamente in rassegna le città e i paesi dell'Istria. Ancora una volta, o almeno così sembra, il popolo del Sud sta preparando la guerra: gente infuriata senza alcun motivo, che preferisce distogliere l'attenzione dai piccoli contrattempi della sua vita inveendo contro gli odiati vicini del Nord per un'altra colpa immaginaria. Qualcosa che ha a che fare, sempre che il Padrone abbia letto bene sulle labbra, con un re barbaro che ha respinto un cigno. Una questione sciocca, chiaramente, come lo sono di solito le inezie che causano tali guerre. Il Padrone ricorda ancora la distruzione di due interi clan nelle isole del Nord a seguito di una faida causata da un uomo ubriaco che aveva pisciato su un pezzo di terra definita 'sacra' da un altro maledetto idiota. Come se quegli sciocchi avessero la minima idea di cosa significhi veramente la parola 'sacro'... Perché se lo sapessero, di certo non si preoccuperebbero dei piccoli pezzi di terra, oh no! Annoiato dalle meschine furie e dalla mancanza di umanità della gente del Sud, il Padrone passa a osservare i nomadi, quel popolo di viaggiatori che lui era riuscito fin troppo facilmente a scacciare dalle sue terre, spingendolo a vagare per il mondo, e trova piccole file di carri simili a formiche che attraversano i deserti, evitando le città dove è facile imbattersi nuovamente in persecuzioni e crudeltà. Sembra che il fervore che ha contagiato ancora una volta la gente del Sud abbia causato un rinnovato odio per gli stranieri e paura della più piccola magia, e persino di qualsiasi cosa non immediatamente comprensibile a quelle menti ottuse. Il Padrone sospira. È sempre stato così. I maghi e i loro simili sono stati disprezzati fin dall'inizio dei tempi: lui stesso era stato costretto a essere molto più duro
con la sua gente di quanto avrebbe voluto quando dimorava nel mondo. Un piccolo assaggio di dolore, un terrificante barlume di quello che poteva essere: quello era stato l'unico modo per tenerli sotto controllo. E indirizzare il loro odio verso una terza persona, o gruppo di persone, era stato forse il metodo più efficace. Il Padrone muove il sistema di leve e porta in primo piano una piccola carovana di yeka. Sul primo siede una giovane donna, con i capelli e la pelle di uno strano colore rossiccio, che suggerisce un incrocio di razze. Ha persino gli occhi chiari, a differenza della maggior parte della sua gente. Ma il bambino seduto accanto a lei è senza dubbio un nomade: capelli scuri, occhi neri, viso asciutto. Poi passa in rassegna il resto del gruppo e nota che nessuno sembra particolarmente in carne: si tratta di un gruppetto piuttosto scheletrico, tutti ossa e visi affilati, muscoli flosci e seni cadenti. Gli ultimi tempi sono stati duri per loro. Non gli è rimasta neppure una bestia senza finimenti, una vera disgrazia, data l'inevitabile zoppia di quelle che tirano i carri e la necessità di far riposare gli animali da cavalcare. Di certo devono aver perso diverse bestie lungo la strada; probabilmente se le sono fatte rubare... (ammesso che sia fattibile: quando lui viveva in Elda, c'era poca gente così stupida da provare a danneggiare un mago. Anche se uno o due erano stati così arroganti da tentare...) Seguendo questa linea di pensiero, il Padrone sposta la visuale dei cristalli verso il profondo Sud, nelle montagne, e più precisamente ai piedi del Picco Rosso. Lì ci sono altre tracce di sconvolgimenti, e questa volta un brivido lo percorre, facendogli venire la pelle d'oca. Piccoli crepe e voragini si sono aperte sui fianchi della grande montagna, rivelando all'interno di essa il sangue del mondo, rosso e ribollente. Proprio sopra la cima, l'apertura più profonda di tutte sta sputando fuori nuvole di mefitici vapori gialli, vapori che, sotto gli occhi del Padrone, uccidono un uccello tanto sciocco da attraversare quella nebbia, e in maniera così repentina che l'animale un istante prima veleggiava nell'aria della sera sulle sue potenti ali e un momento dopo cadeva a capofitto sulla montagna, per scomparire nelle sue rosse fauci. Il Padrone ora si accascia sulla sua sedia, le mani tremanti. Non può fare niente per evitare il disastro che sta per avvenire? Forse un centinaio d'anni prima, quando si sentiva più forte e sicuro dei propri poteri, più ottimista riguardo al proprio futuro, avrebbe potuto raccogliere le energie e la magia che gli erano rimaste e salpare per il Sud; vendicarsi del suo stupido servitore e riportare indietro il gatto con la forza, poi correre il più in fretta pos-
sibile in quella zona brulla e inospitale di Elda e rinforzare gli antichi incantesimi che aveva posto a guardia della montagna. Ma dalla prospettiva della sua veneranda età e della sua infinita stanchezza, ora gli sembra un compito enorme, un'impresa fin troppo grande da intraprendere per lui. Ma se non lo farà... Sprofonda la testa tra le mani. Per la prima volta in duecento anni, il più grande mago che il mondo abbia mai conosciuto, Rahe il Magnifico, come gli piaceva farsi chiamare all'apice del suo splendore, sprofonda la testa tra le mani e piange. 13 Fantasmi «Ah!» Il volto aquilino del Signore di Forent risplendeva di trionfo. Con un gesto stravagante passò un rotolo di pergamena a Tycho Issian. L'inconfondibile nastro verde e rosso, segno che la missiva proveniva dal duca di Cera in persona, cadde svolazzando sul pavimento in piastrelle del bagno. Al centro della stanza, immerso fino al petto in una vasca piena di un miscuglio schiumoso di bromo e aglio orsino, sedeva il Signore di Cantara. La donna che si stava occupando di Tycho, una vecchia ricurva a giudicare dall'aspetto, anche se era avvolta nella tradizionale sabatka di ruvida stoffa nera usata dalle schiave, lanciò una sola occhiata a Rui Finco e fuggì dalla stanza come se ne andasse della sua vita. «Puhhh!» Rui si sventolò una mano sotto il naso. «Nel nome di Falla, cos'ha aggiunto quella vecchiaccia al tuo trattamento?» «Aglio selvatico» rispose tristemente Tycho, tendendo la mano verso un telo di lino che era fuori dalla sua portata. La vasca ondeggiò pericolosamente. Rivoletti di acqua di colore verde pallido cominciarono a colare da un lato, seguiti da un'insalata di foglie schiacciate. Il Signore di Forent evitò con cura di passare su quell'acqua puzzolente, afferrò l'asciugamano e lo tese a Tycho. L'accordo che aveva preso con la vecchia era che, se qualsiasi tentativo di placare l'insaziabile ardore del nobile del Sud fosse fallito, lei avrebbe dovuto assicurarsi in un altro modo che l'uomo divenisse indesiderabile anche per la più abietta delle prostitute, per non parlare poi delle schizzinose donne dell'harem di Rui. Immerso com'era in quel pestifero liquido, era improbabile che si liberasse dell'odo-
re dell'aglio per molti giorni a venire. Il Signore di Cantara uscì dalla vasca e si avvolse precipitosamente nel telo, ma per quanto tentasse di nasconderlo, per Rui fu facile notare che nessuno dei rimedi della vecchia era riuscito ad alleviare la patologia dell'uomo: quell'erezione rimaneva ostinata come sempre. Rui non poté fare a meno di sorridere: se non si fossero sbrigati a dichiarare guerra al Nord e a recuperare la puttana nomade, quell'uomo sarebbe di certo esploso. «Ancora nessun sollievo, mio signore?» chiese con cortesia. Tycho lo incenerì con lo sguardo e strinse ancora di più il telo intorno al corpo. «No» rispose succinto. Poi guardò il rotolo che il Signore di Forent teneva ancora in mano. «Cosa c'è nella lettera?» «Il nobile Lodono, duca di Cera, e i nobili Dystra chiamano a convegno per divino editto emanato dal Consiglio di Governo tutti i nobili d'Istria in occasione di un'assemblea conciliare che si terrà il giorno dopo la prossima luna piena nella Grande Sala del castello dell'Alba nella Città Eterna di Jetra» intonò Rui in tono pomposo, senza neppure srotolare la pergamena. «O qualche altra sciocchezza del genere. La cosa particolarmente interessante, a mio parere, è che hanno intenzione di tenere questa cosiddetta 'assemblea' proprio a Jetra. Non siete d'accordo?» Tycho lo guardò perplesso. «Per onorare il Cigno?» «Dev'essere sicuramente un consiglio di guerra.» Il Signore di Forent rilesse velocemente il contenuto della pergamena. «Anche se in effetti qui non lo dice. Ma perché altrimenti tenerlo nella città natale dei Dystra e della loro bellissima nipote, così ignobilmente rifiutata dal re barbaro?» Sollevò di nuovo lo sguardo e i suoi occhi brillavano. «E voi, mio signore, siete stato scelto per una menzione speciale.» «Io?» Tycho era sorpreso. Il duca di Cera si era a malapena degnato di rivolgergli la parola fino a quel momento, e questo perché, mentre Lodono poteva vantare antenati risalenti ai gloriosi tempi della Guerra dei Cento Giorni, durante la quale la sua famiglia aveva sgominato e massacrato ogni clan risiedente sulle ricche colline ai piedi dei monti Skarn fino all'ultimo bambino, lui, Tycho Issian, non avrebbe mai potuto rivelare il vero nome né la razza di suo padre. Strappò la pergamena dalle mani del signore di Forent e la lesse ad alta voce: «Al nobile Tycho Issian, che amministra con tanta abilità la città di Cantara, offriamo il nostro particolare benvenuto, ricordandogli che gli siamo vicini nel dolore per la sua grave perdita.» Tycho impallidì.
«Quale grave perdita?» Si guardò forsennatamente intorno, terrorizzato dall'idea che il vergognoso desiderio che provava per la Rosa Eldi fosse stato scoperto. Poi capì cosa si intendeva nella missiva. «Ah... no... Selen! Hanno per caso avuto notizie di mia figlia? È peggio di quello che temevo? Hanno forse trovato il suo povero corpo su una qualche spiaggia desolata?» Rui scosse la testa. «Non fatevi prendere dal panico, amico mio. Sento puzza di politica qui, non di disgrazia. Dite al mago di consultare la sua pietra magica, se può servire a calmarvi. A me sembra invece che il Consiglio intenda usarvi come elemento di aggregazione per il popolo, in modo da far leva sui loro buoni sentimenti con un commovente racconto di violenza e rapimento...» Rui si interruppe e sembrò riflettere. «O forse, ma dico forse, la nostra tattica ha funzionato meglio di quanto speravamo e l'opinione pubblica sta forzando loro la mano: non posso credere che la vecchia guardia sia felice di una nuova guerra. Ci dev'essere di certo una considerevole agitazione tra il popolo per spingerli a chiedere a tutti noi di abbandonare i nostri doveri con così breve preavviso. 'Il giorno dopo la prossima luna piena'... una settimana scarsa. Dovremmo provvedere al più presto all'organizzazione del viaggio.» Poi diede una forte pacca sulle spalle al Signore di Cantara, lasciandogli una chiara impronta sulla schiena nuda. «Belle notizie, eh, Tycho? Tenetevi pronto a predicare e a tuonare su ogni piazza del mercato da qui fino a Jetra per alimentare le fiamme. Sarà meglio chiedere alla vecchia di prepararvi un nuovo impiastro che non cacci via le folle!» «Più forza, ragazzo, più forza. Mettici un po' di muscoli!» «Oh, per l'amor di Falla!» Saro Vingo si abbatté sul terreno del campo di addestramento con un tonfo, sollevando una nuvola di polvere rossa. Il capitano Galo Bastido era in piedi sopra di lui, con un sorriso folle sul volto deturpato, le enormi mani strette intorno all'elsa di una gigantesca spada di legno con cui Saro era appena stato colpito. Le braccia del giovane dolevano, e così le spalle e la testa. E ora i suoi stinchi avevano aggiunto la loro protesta al grido generale del corpo... Erano sul campo da più di un'ora e mezzo senza sosta, e per tutto il tempo Saro non era riuscito a far altro che raggiungere di striscio il suo avversario. Per il capitano invece era stato il contrario. Il colpo che lo aveva fatto ruzzolare in quel modo ignominioso era solo l'ultima di una lunga sfilza di umiliazioni che sembravano destinate a dimostrare agli uo-
mini che guardavano, ossia suo padre, suo zio e un gruppo di commercianti di cavalli in visita, che il minore dei Vingo non avrebbe mai avuto la forza, la capacità né il fegato di compensare la tragica disabilità di suo fratello maggiore, e che invece di vedere il titolo di capitano della milizia alteana assegnato a quel patetico esemplare d'uomo, avrebbe dovuto essere lui, Galo Bastido, a reclamare quel prestigioso (e remunerativo) ruolo come suo di diritto. Saro afferrò la spada che aveva lasciato cadere e la usò per rimettersi stancamente in piedi. «Di nuovo!» gridò il Bastardo, e prese posizione. Saro guardò verso suo padre per cercare un po' di respiro, ma Favio lo fissò con durezza; anzi, sembrò non vederlo neppure, ma fissare oltre lui, verso il recinto dove i migliori cavalli purosangue dei Vingo brucavano felici l'unica erba per chilometri in ogni direzione. Saro sapeva bene che non era un'esagerazione: lui stesso l'anno precedente aveva aiutato a costruire il sistema di irrigazione che manteneva quel prato verde mentre il resto della terra si inaridiva sotto il sole di fine autunno. Tanto, ovviamente, non aveva dovuto occuparsi di un lavoro tanto umile: mentre Saro attaccava il terreno roccioso con vanga e piccone, lui aveva trascorso i caldi pomeriggi a cavalcare uno dei cavalli castrati verso la tenuta vicina, dove aveva sedotto l'ultimo acquisto di quella casa, una schiava che si diceva avesse trascorso del tempo nel serraglio di Forent e fosse quindi una cortigiana esperta e piena di immaginazione... o almeno così aveva raccontato Tanto all'epoca. Allora Saro aveva avuto dei dubbi sulla veridicità di quegli osceni racconti, ma ora, dopo settimane di impietosa esposizione ai recessi più luridi della memoria e dell'immaginazione di suo fratello, che sembravano due entità quasi indistinguibili in quella mente perversa, Saro si stava convincendo che ciò che aveva raccontato di quegli afosi pomeriggi non fosse che una piccola parte della verità. Tanto era ora sul congegno che Favio e Fabel avevano fatto costruire appositamente per lui: una lunga sedia di vimini con due piccole ruote, sulla quale l'invalido sarebbe stato in grado di muoversi autonomamente lungo i sentieri meno impervi che circondavano la villa. O almeno quella era l'idea: ma Tanto non si era affatto sforzato di essere autosufficiente, e aveva insistito per avere due servitori che seguissero la sedia tutto il tempo per aiutarlo a scendere i gradini o superare una soglia e persino per spingere il veicolo quando non aveva più voglia di farlo da solo. Una leva a entrambi i lati frenava la sedia e la bloccava al suolo, e se Tanto fosse stato
sopraffatto dalla stanchezza per tutti quegli sforzi, un'altra leva gli avrebbe permesso di inclinare lo schienale fino a trasformare il tutto in un comodo letto su ruote. Favio aveva lavorato a quel progetto per ore, disegnandolo su pergamene con piume d'oca e costosi inchiostri, prima di affidare i suoi progetti a un uomo di Altea che era specializzato nella costruzione di carri da corsa trainati da cavalli. La sedia era costata alla famiglia una piccola fortuna che però non avevano: Saro aveva sentito suo padre e suo zio discutere fino a tarda notte sulla funesta situazione in cui versavano le loro finanze. La vendita di Messaggero della Notte, il loro migliore cavallo, non era più stata conclusa, e nessuno sembrava aver molta voglia di comprare in quei tempi. C'era troppa incertezza nell'aria, troppi discorsi di guerra perché chiunque volesse impegnare dei capitali nei programmi di allevamento o in frivolezze come le corse; ma Favio aveva insistito sulla necessità di fornire al suo amato figlio un mezzo di trasporto tutto suo per muoversi per la tenuta. «Gli farà bene riacquistare un po' di indipendenza, vedrete.» Tuttavia a Saro sembrava solo che fosse servito a fornire a suo fratello una scusa per farsi seguire da lui dappertutto e assicurarsi che i suoi tormenti non avessero mai fine. Trasalendo per il dolore, si raddrizzò e sollevò la spada per segnalare che era pronto a continuare l'allenamento. Era così esausto che, quando il Bastardo gli si avventò di nuovo contro, l'istinto prese il sopravvento e lo fece automaticamente scartare di lato, con un gesto del tutto involontario. All'improvviso si trovò davanti l'ampia schiena del capitano e calò la spada di legno su di lui mentre passava. Le braccia gli formicolarono per il momentaneo contatto, poi tornò in sé, sbalordito dalle grida di sorpresa provenienti dallo steccato. «Colpito!» «Per la Dea, ragazzo, l'hai preso!» Saro sollevò lo sguardo e vide Fabel con un ampio sorriso stampato in faccia. «Forza, ragazzo!» gridò suo zio. «Ormai ce l'hai in pugno!» A Saro sembrava altamente improbabile, ma non poté fare a meno di provare un breve momento di stupefatta soddisfazione. Un istante dopo si accorse di non riuscire a respirare. Fingendo un complicato contrattacco, il Bastardo gli aveva assestato un violento pugno nello stomaco, il cui effetto era studiato affinché agli occhi dei astanti sembrasse che Saro fosse stato colto a poltrire in un momento di trionfo. Il pubblico alla staccionata ge-
mette rassegnato. Il fendente inferto al capitano era stato chiaramente un'anomalia, un colpo di fortuna. Sentendo che le ginocchia gli cedevano, Saro si aggrappò al braccio del suo avversario per ritrovare l'equilibrio. Capì che era stato un errore nell'istante in cui chiuse le dita sui muscoli di Bastido. Un'ondata di rabbiosa ambizione lo avvolse, amara come la bile; orgoglio ferito, smisurata arroganza... perché lui, il capitano Galo Bastido, il più abile guerriero della provincia, era lì, costretto a baloccarsi con quella creatura misera che strisciava a terra di fronte a lui, quando invece avrebbe dovuto di diritto allenare le truppe che era nato per guidare, e sfilare in parata per le strade di Altea con un elmo smagliante dal cimiero rosso e un elegante mantello bordato in seta, mentre le donne avrebbero commentato la sua bella presenza e gli uomini avrebbero ammirato la sua fierezza. Era insopportabile. Era ingiusto. Non poteva permettere che l'onore passasse a questo bamboccio codardo... Saro vide il tremendo colpo, un fendente preciso, assestato in modo da calare sul ginocchio e spaccarlo di netto... Rotolò via appena in tempo. La pesante arma da addestramento del Bastardo calò con un sibilo, gli sfiorò uno stinco e si piantò nel suolo rosso con un tonfo. L'espressione negli occhi dell'uomo mentre indietreggiava fu sufficiente a confermare i suoi sospetti: Galo Bastido aveva tentato davvero di renderlo invalido per tutta la vita. «Basta!» Favio Vingo entrò nel recinto e si avviò stancamente verso di loro, le spalle curve che denotavano disincanto e rassegnazione. Il ragazzo era senza speranza, ma sarebbe stato davvero un peccato che la milizia alteana fosse comandata da qualcuno che non fosse un Vingo, come Tanto continuava a ricordargli... Il messaggero era arrivato da Jetra quel pomeriggio. I Vingo erano stati convocati all'assemblea del Consiglio nella Città Eterna. «Stanno raschiando il fondo del barile, fratello,» disse Fabel, sollevando gli occhi dalla missiva «altrimenti non richiederebbero la nostra presenza.» Loro non erano membri del Consiglio di Governo, ma solo del governatorato degli stati provinciali: l'apporto di Altea alle casse del Consiglio era infatti esiguo, anche nelle annate migliori. «Deve di certo significare guerra» replicò tetro Favio, prendendo la pergamena dalle mani di suo fratello e passando in rassegna il breve invito
con espressione sospettosa, come per cercare qualche altro messaggio scritto con un inchiostro che solo lui poteva vedere. «Ma se è così, perché non lo dicono apertamente? Non voglio fare tutta quella strada senza una buona ragione.» Tanto batté il pugno sul tavolo. «Spero proprio che sia la guerra!» Sorrise a Saro, che sedeva sulla panca che avevano condiviso durante il pasto in equilibrio precario, nel disperato tentativo di evitare anche il minimo contatto con suo fratello. Da parte sua, Tanto aveva continuato per tutto il tempo a spostarsi pian piano verso di lui e ora si stava godendo il suo evidente disagio. «Perché mai, figlio mio?» Favio guardò perplesso il suo figlio preferito. «Così Saro potrà vendicare le mie ferite su quegli stessi barbari che mi hanno ridotto in queste deplorevoli condizioni.» Fabel annuì saggiamente. «Senz'altro. Sono certo che tuo fratello sia impaziente di farlo. In fondo non si è allenato così duramente in queste ultime settimane proprio per avere una tale opportunità?» Non mi è nemmeno passata per la mente una cosa del genere, pensò Saro. Tutto il contrario: se non fosse per le sofferenze che ho dovuto sopportare in seguito all'incidente, benedirei la persona che ha ridotto il mio amato fratello in questo stato. Invece di dire una cosa del genere, ovviamente, Saro sorrise e chinò la testa in un cenno di assenso. «Naturalmente, zio, anche se mi sembra di avere ben poco talento per la guerra.» In circostanze normali, Tanto sarebbe stato più che felice di cogliere quell'occasione per umiliare ulteriormente suo fratello. Ma ora, invece di concordare con l'incontestabile affermazione di Saro, disse: «Eccellente, fratello. Sapevo che non mi avresti deluso. Tu ci renderai tutti orgogliosi.» E lo guardò con un'espressione indecifrabile negli occhi. Ma il giovane Vingo lo conosceva abbastanza bene da sapere che aveva qualche altra cosa in mente. Così guardò con sospetto suo fratello che si chinava sul tavolo verso loro padre e gli sussurrava qualcosa a voce troppo bassa per poter cogliere le parole che pronunciava. Poi, con un movimento goffo, l'invalido spostò le sue gambe apparentemente inanimate dall'altra parte della panca e schioccò le dita. I due servitori personali, che in quel momento stavano oziando vicino al camino, si misero in azione con una prontezza derivante da una lunga consuetudine agli scatti d'ira di Tanto, e lo collocarono sulla sedia a rotelle prima che avesse il tempo di proferire l'ordine. Favio si alzò in piedi, ma quando Saro fece altrettanto, suo padre agitò
impaziente le mani. «No, no... resta qui e intrattieni i nostri ospiti, caro figliolo. Ritorneremo fra poco.» Saro non riusciva a ricordare l'ultima volta che Favio l'aveva chiamato in quel modo. C'era sicuramente qualcosa che non andava. Tornò a sedersi e osservò suo padre e suo fratello sparire dalla porta con lo stomaco attanagliato da una tremenda sensazione di gelo. Gli ospiti di quella sera erano due commercianti di cavalli provenienti dal nordest del paese. Avevano deciso di acquistare tre giumente che sarebbero andate ad arricchire la loro scuderia, ma non avevano bisogno di altri stalloni, perciò alla fine della giornata ai Vingo era rimasto Messaggero della Notte da mantenere e ben poco guadagno nelle casse. Il solo costo del pasto, sontuoso, come d'obbligo, avrebbe probabilmente azzerato qualunque profitto, ma almeno gli uomini erano di buona compagnia. Si trattava di una coppia amichevole e vivace: uno corpulento e dal malizioso senso dell'umorismo, l'altro magro come un chiodo, con una risata che pareva il rantolo di una cornacchia. Erano in affari insieme sin dall'ultima guerra e sembravano più intimi di marito e moglie, perché quando uno cominciava una frase l'altro la finiva e avevano l'aria di divertirsi a farsi da spalla uno all'altro nelle battute umoristiche e le barzellette sporche. Era praticamente inutile intrattenerli, ma come sempre Fabel fu un ospite amabile. «Allora» disse in quel momento, sfregandosi le mani come se pregustasse un interessante racconto, «qual è stato il migliore affare che avete concluso nelle ultime settimane?» L'uomo tracagnotto, Dano, fece l'occhiolino al suo socio. «Meglio non fare menzione della vedova, eh, Gabrio?» La rauca risata dell'uomo magro echeggiò in tutta la sala. «O di quella sua sciocca figlia... Ah, no, ma il baio...» «...con la stella; pensavo che si sarebbe spaccato la schiena!» «Trenta cantari...» «Trentuno... non dimenticare quell'uno!» «Trentuno: hai ragione come sempre, amico mio.» «Era una donna grossa...» «Enorme. Sono sicuro che la schiena di Figuero era tutta piegata quando alla fine lei è smontata.» «Non più di quanto lo fossero le gambe di lei prima ancora che gli montasse sopra...» «Allora sarebbe perfetta per te, Dano!»
I due scoppiarono a ridere. Saro guardò disperato verso suo zio, che alzò gli occhi al cielo e tentò un approccio diverso. «Allora avete detto che siete passati da Jetra prima di venire qui, vero, signori?» L'uomo magro, Gabrio, smise improvvisamente di ridere e fissò Fabel con solennità. «Ah, sì, la Città Eterna, il fiore dell'Impero. Strano trovare una città così famosa per la sua tranquillità in un tale fermento.» «Fermento?» «Non ho mai visto tanti nobili riuniti in un unico posto: Cera, Prionan, Gila, l'Orso, persino uno dei nobili circesiani; e poi i Dystra, naturalmente, tutti che si preparavano a questa riunione del Consiglio, suppongo.» Fabel si accigliò. «E che mi dite di Rui Finco, il Signore di Forent?» Dano si chinò sul tavolo verso di lui. «Si accompagna con un folle, dicono.» «Oh?» «Il Signore di Cantara... che non è mai stato uno dei membri del Consiglio Supremo, se la memoria non m'inganna.» Gabrio si grattò la testa. «Ad ogni modo, erano entrambi in viaggio verso sud quando noi siamo partiti, e stavano predicando e tuonando contro i barbari per tutta la strada.» «Predicando? Rui Finco? Impossibile. Quell'uomo è un libertino, tutto l'opposto di Tycho Issian.» Dano inarcò un sopracciglio. «Il Signore di Cantara è un vostro amico?» chiese, soppesando le parole. Fabel fece una smorfia di disprezzo. «Niente affatto.» Un'espressione di sollievo si diffuse sul volto del mercante. «Allora è tutto a posto. È un folle, come non ne ho mai visti. Istigava le folle intorno a Forent, chiedendo a gran voce una guerra santa contro il Nord.» «Una guerra santa?» chiese Saro. L'ultima volta che aveva sentito parlare di lui, Tycho stava sollecitando incursioni contro l'Eyra come rappresaglia per il rapimento di sua figlia Selen. Una vendetta più che comprensibile, ma di certo non una causa santa. «Si porta sempre con sé, dovunque va...» «...un uomo alto e pallido, che se ne sta lì in piedi...» «...dietro di lui. Con un gatto.» «Sì, con un gatto in braccio, legato come un salame...» «...povera bestia.» «E cosa fanno, l'uomo pallido e il gatto?» chiese Saro. «Be', niente» rispose Dano. «È come...»
«...a teatro» concluse Gabrio e i due uomini si scambiarono un sorriso. «Fa scena. Serve ad attirare l'attenzione della gente. E tiene il pubblico inchiodato lì, come stregato.» Saro e suo zio si scambiarono uno sguardo perplesso. «Una strana alleanza» disse alla fine Fabel. «E si parla davvero di guerra?» «La gente sembra volerla» rispose Dano con semplicità. «Non il Consiglio però: loro sono molto più cauti.» «I nobili più anziani ci sono già passati» aggiunse Gabrio. «Hanno visto quello che può fare una guerra, le atrocità, la distruzione. Sono meno ansiosi. In più conoscono bene lo stato delle finanze del paese. Niente affatto roseo.» «Niente affatto roseo» gli fece eco Dano. «La guerra è una faccenda costosa.» «Ma fornisce delle opportunità» replicò allegramente Gabrio. «Denaro da guadagnare...» «...potere da acquisire.» Saro rabbrividì. Se ci fosse stata una guerra, lui avrebbe dovuto combattere sul serio. Si immaginò a parare i colpi di un robusto veterano del Nord che brandiva un'ascia macchiata di sangue, un uomo dagli occhi smaniosi di vendetta e la morte nelle mani. Avrebbe fatto meglio a cominciare ad allenarsi a correre più in fretta. Ci fu un certo trambusto alla porta e uno scambio di voci annunciò il ritorno di suo padre e di suo fratello. Poi entrò la sedia a rotelle di Tanto, carica di oggetti che brillavano alla luce delle candele come un forziere pieno di tesori. I due mercanti fischiarono sbalorditi. «Per te, fratello» disse Tanto con voce suadente, sistemandosi in modo da bloccare qualsiasi via di fuga. «Tutto per te.» Era l'armatura di Platino Vingo, il leggendario eroe della loro casata, il Signore di Altea, Pex e Talsea e capo del Consiglio Supremo nei giorni lontani prima che le fortune dei Vingo andassero perdute e la siccità aggredisse la loro terra come un cane rabbioso. Sopra a una cotta di lino sbiadito nei colori blu e argento della famiglia c'era un corsaletto di bronzo cesellato d'argento con il disegno di un falco in procinto di spiccare il volo, un sinuoso serpente tra gli artigli. In grembo a Tanto c'erano i cannoni di antibraccio e gli schinieri in cuoio lavorato, insieme alle manopole e agli stivali rivestiti di maglia metallica. Posato sull'armatura c'era l'elmo: un possente copricapo in bronzo e ferro, sinistro quanto una testa mozzata,
con la fessura oculare della celata spaventosamente vuota e il cimiero di crine di cavallo del rosso sbiadito di una stoffa lasciata troppo a lungo al sole. Saro rimase senza fiato. «Poiché non avrò mai l'onore di indossare quest'armatura, credo sia giusto che passi a te, fratello» disse Tanto sorridendo. Nonostante il suo pallore e le guance infossate, appariva solare e innocente come un bambino che offre un mazzo di fiori a sua madre. Incapace di sostenere lo sguardo penetrante di suo fratello, Saro fissò invece la celata, notando i piccoli graffi e le ammaccature che ne deturpavano la lucida superficie, le scanalature sul cimiero e sulle protezioni delle guance dove le armi del nemico avevano sferrato colpi di striscio, e lo squarcio dai bordi frastagliati all'estremità destra della fessura oculare. Quando sollevò di nuovo lo sguardo, vide che Tanto lo fissava ancora, e ora nei suoi occhi si leggeva una forte emozione. «Ecco» disse il maggiore. Prese l'elmo e glielo tese. «Prendilo. È tuo ora, fratello.» Saro guardò oltre le spalle di Tanto e scorse Favio sulla soglia. Suo padre lo scrutò con freddezza, poi annuì, con un gesto quasi impercettibile. «Dai, ragazzo» lo esortò Fabel in tono allegro. «Sarà anche d'antiquariato, ma non ne vedrai mai uno migliore. È stato forgiato da Culto, sai: dicono che sia il suo ultimo pezzo da apprendista prima di diventare il fabbro di Costantin.» Saro fece un rapido calcolo: erano trascorsi centosessant'anni da quando l'Istria aveva deposto il suo ultimo imperatore, dunque l'armatura aveva più di centottant'anni. Fissò l'oggetto, riluttante a prenderlo tra le mani che avevano cominciato a tremare. «C'è un bel po' di storia in quell'elmo» continuò. Fabel, ignaro del disagio di Saro. «Ha visto la Battaglia delle Sei Colline, i Guadi di Alta, la Guerra dei Corvi e solo la Signora sa quanti altri conflitti.» Non c'era via di scampo: Saro sentì le pareti della stanza chiudersi su di lui e il peso di quattro curiose paia di occhi. Stringendo i denti allungò una mano verso il manufatto... ma Tanto fu più veloce. Con una finta allontanò l'elmo dalle mani tese di Saro e con una manovra fin troppo abile per un invalido lo infilò con forza sulla testa di suo fratello. La morte fluì intorno a Saro, come una gelida marea. Nitriti di cavalli, clangore di spade, grida di uomini.... Da una decina di epoche diverse, da luoghi differenti, proveniva lo stesso stridore: una confusione di suoni che
esprimevano agonia, disperazione, rabbia. L'odore dolce e penetrante del sangue riempiva le sue narici, misto all'aspro sudore degli uomini e dei cavalli, al fetore del letame e al profumo della terra smossa. In una di quelle epoche sentì le ossa del suo braccio tremare mentre incrociava la spada con quella di un altro uomo; in un'altra qualcosa di appuntito gli penetrò nella schiena. Gli anelli della cotta di maglia furono schiacciati contro il suo petto dal selvaggio colpo di una scure; poi vide la punta della spada che portava la morte inclinarsi per penetrare nella fessura oculare dell'elmo, grattando sul bronzo. Scintille luminose contro un mare nero. Un'ondata di disperazione l'avvolse, disperazione e incredulità, e un fiume di domande che non avrebbero mai avuto risposta: Questa è davvero la fine, avviene con così tanta semplicità? Uno stupido errore... non ho visto la seconda arma. E perché stavamo combattendo questa battaglia? Non girava voce che avevamo già vinto la guerra, ieri, a Talsea? Avrei dovuto bloccare l'ultimo affondo e spostarmi a sinistra. Se cado, sarò calpestato. Reggiti all'arcione, reggiti forte. Perché non sento più le mie dita? È un corvo quello lassù che gira, o un gabbiano? I miei occhi... Ci vedo sempre peggio. Chi penserà al raccolto? Pali sarà in grado di gestire la tenuta? Ah, Falla, ora so cosa significa il dolore. Rivedrò mai la mia Corazon... i miei figli... i miei amati cani? È tutta qui la fine? Un grido sottile e acuto riverberò da una parte all'altra dell'elmo, diventando sempre più forte, come lo scampanellio della campana del Gridatore. Saro poté percepire l'oscurità e un meraviglioso silenzio tendersi verso di lui per afferrarlo. Qualcosa in lui lo incitò a raggiungere quel posto tranquillo che lo chiamava... ma poi delle mani gli si posarono addosso e le immagini di guerra e morte divennero di preoccupazione e angoscia. Tutte tranne una, un tocco leggero, un lieve sfiorare di dita sulla pelle del suo collo. Poi una voce risuonò chiara nella sua testa. «Vedi, fratello, cosa sono capace di fare? La pagherai, e cara.» E poi venne un'ondata di rumori, seguita da uno strattone e da un momento di acuto disagio; infine l'elmo venne via e tutte le immagini svanirono. 14
La Città Eterna Virelai aveva sognato di entrare nella Città Eterna sin da quando aveva trovato per caso una minuscola acquaforte infilata tra le pagine di un trattato sull'anatomia dei cani che aveva rubato una notte dallo studio del Padrone. Nessuno dei due concetti, 'cane' e 'città', aveva un qualche significato per lui a quel tempo, dal momento che il Padrone non gli aveva ancora mostrato il miracoloso dispositivo di visione che teneva nella sua stanza segreta, e quindi non conosceva nessun altro posto che non fossero le distese ghiacciate di Santuario né alcuna creatura che non fosse Bëte; ma l'avevano affascinato i dettagliati disegni di pelli scorticate e rosseggianti organi, e l'idea stessa che tali strane parti potessero essere contenute in un unico essere vivente... e poi il disegno della città era scivolato fuori dal libro, fluttuando ai suoi piedi. In principio Virelai non era stato sicuro di cosa rappresentasse quell'acquaforte: un vasto insieme di blocchi e curve, punte e archi, che brillavano in una metà della figura ed erano ripetuti al contrario e più sottili nella metà inferiore. Aveva raccolto la pergamena per esaminarla più da vicino e impiegò qualche momento, dopo averla girata e rigirata un'infinità di volte tra le mani, per rendersi conto che stava guardando l'immagine capovolta e che, invece di rappresentare qualcosa di astratto, l'acquaforte mostrava una specie di castello scavato nella roccia su cui poggiava una cittadella che sorgeva sul bordo di un lago, cosicché le sue guglie e le sue merlature si riflettevano nell'acqua sottostante dando vita a un'immagine perfettamente speculare di quello che c'era sopra. Qualcosa in quel disegno gli piacque immensamente; qualcosa nel suo equilibrio e nella simmetria sembrava al contempo misterioso e rassicurante, anche se Virelai non aveva le parole per esprimere quei concetti. Da allora quell'immagine aveva tormentato le sue notti, e spesso in sogno aveva percorso i corridoi di Santuario per ritrovarsi improvvisamente davanti all'enorme cancello intarsiato del disegno, a fissare la gigantesca porta, attirato dai misteri che percepiva dietro di essa. E ora era lì, a poco più di un chilometro da quel luogo tanto sognato, ad affrontare una ripida gola tra un labirinto di massi e cespugli di rovi, con le cosce e il sedere che gli dolevano per gli incessanti sobbalzi del pony su cui il suo nuovo padrone l'aveva costretto a salire... e invece di pregustare con gioia quella vista, si sentiva a disagio come mai in tutta la sua vita.
Neppure dopo cinque giorni di viaggio era riuscito a imparare a destreggiarsi sulla sua cavalcatura. Non aveva mai montato un animale prima d'ora: quando aveva guidato gli yeka, l'aveva sempre fatto seduto comodamente sul carro, ma Tycho si era dimostrato insensibile al problema, ovviamente. Per coprire ogni possibile luogo di aggregazione sulla strada tra Forent e Jetra e arrivare comunque in tempo per l'assemblea del Consiglio, era necessario prendere la via più veloce, che comportava l'attraversamento di terreni rocciosi e fitte foreste, sentieri stretti e gole ripide, per i quali utilizzare qualsiasi veicolo su ruote era fuori questione; perciò Virelai era stato costretto a legare la cassa di vimini di Bëte a un lato del basto che avevano messo sopra l'animale (un pony dal pessimo carattere, dal mantello bianco sporco e brutti denti gialli che gli piaceva mostrare spesso) e i suoi libri di magia dall'altro, e poi ad arrampicarsi faticosamente sulla sella, dove sedeva ormai da alcuni giorni, sentendosi in equilibrio precario quanto un masso in bilico sul fianco di una collina. A volte pensava che non sarebbe stato più in grado di camminare né di stare seduto come prima. Il gatto, tuttavia, nel suo solito fare perverso, non si era lamentato affatto. Anzi, sembrava che il dondolio del cavallo lo cullasse in un sonno ipnotico: Virelai non aveva sentito neppure un miagolio per tutto il tempo, anche se ovviamente estrarlo dalla scatola e rimettercelo dentro durante le soste era tutta un'altra faccenda. Virelai quasi invidiava la bestiola per la sua comoda prigionia, una capiente gabbia rivestita di morbida stoffa. Stava pensando proprio a questo quando il cavallo inciampò su un sasso e tentò di catapultarlo giù dalla sella. Le redini gli sfuggirono di mano e Virelai si aggrappò freneticamente al mantello dell'animale. Il sottopancia del cavallo si allentò. Quando un istante dopo aprì gli occhi, Virelai si ritrovò appeso a testa in giù sotto la pancia sudata del pony, fissando dall'altra parte della pianura quella stessa immagine della Città Eterna che aveva visto per la prima volta sull'acquaforte del Padrone. Il clan dei Vingo aveva viaggiato verso la Città Eterna attraversando la pianura di Altan, costeggiando le gole rocciose del Picco Bianco e attraversando le montagne d'Oro a Gibeon, dove Fabel aveva saldato un piccolo debito (e quindi messo a tacere un altro creditore per un po') e si erano fermati per la notte alla Locanda delle Tre Signore; si diceva fosse stata un famigerato bordello ai tempi del nobile Faro, come Tanto non faceva che ripetere con un lampo malizioso negli occhi, ma ora era alquanto rinomata
in tutta l'Istria per il suo cibo e il vino eccellente. «Ci meritiamo una notte di lusso,» aveva dichiarato Favio quando suo fratello si era lamentato per il costo «dopo tre giorni di faticoso viaggio.» Anche dopo aver mandato giù diversi bicchieri di ricco vino rosso per il quale la regione era famosa, Saro non riuscì a dormire. Essere costretto a dividere la stanza con Tanto non gli fu di grande aiuto, anche se suo fratello, esausto per gli scossoni del carro e per lo sforzo necessario a scolarsi tre bottiglie del vino più costoso della casa, russava sonoramente. L'episodio dell'elmo di Platino sembrava averlo reso ancora più sensibile alle eco dei ricordi che lo circondavano: riusciva a sentire le migliaia di vite che si erano distese sul letto su cui avrebbe dovuto riposare. Molti di loro avevano fatto molto più che dormire su quel giaciglio, ovviamente. Le tracce di sé che avevano lasciato, simili a incisioni nel legno, erano confuse e sfocate, ma sufficienti a togliergli la quiete. Alla fine Saro cercò un po' di tranquillità nelle stalle e trascorse la notte con i cavalli: i loro ricordi erano brevi e le loro vite semplici, e persino Messaggero della Notte, solitamente irrequieto, non gli diede problemi. La mattina dopo, mentre prendevano l'antica via commerciale che serpeggiava tra le colline dove la catena montuosa delle montagne d'Oro emergeva sulla pianura Tilsen, intravidero una carovana di nomadi che si muoveva con lenta grazia attraverso l'infinita distesa verde. Colorati pony brucavano indisturbati dal passaggio dei Viaggiatori, mentre nel cielo uno stormo di oche tipiche di quella regione volava tranquillo, i lunghi colli tesi e le ampie ali che battevano l'aria. Gran parte del gruppo prestò molta più attenzione a queste ultime che ai nomadi: le oche jetrane erano un ottimo bottino di caccia e da esse si ricavavano le penne con cui i grandi fabbricanti di frecce erano soliti produrre i loro manufatti più costosi... Tanto stava proprio dissertando su quell'argomento. Saro si schermò gli occhi dal sole e si concentrò sui Viaggiatori. Contò solo cinque carri e mezza dozzina di yeka, che dovevano sicuramente rappresentare l'avanguardia di una carovana più lunga. Scrutò l'orizzonte in cerca degli altri, perché aveva letto che i nomadi viaggiavano in grandi carovane, a volte composte da più di cinquanta carri, mentre i pelosi animali che li tiravano erano tre volte più numerosi. Di certo il gruppo che aveva visto arrivare alla Grande Fiera si adattava perfettamente a quella descrizione, ma Saro aveva sentito che negli ultimi mesi quelle enormi carovane si erano divise in gruppi più piccoli nel tentativo di attirare meno l'attenzione e di confondersi meglio con il paesaggio quando c'erano guai in vista. Le persecuzioni
erano sempre più diffuse, ma di certo viaggiare in così pochi non offriva alcuna protezione. In ogni caso, se i cinque carri facevano da apripista, non c'era traccia dei loro compagni in nessuna direzione. Erano forse partiti con un gruppo più numeroso? E in quel caso cosa era accaduto agli altri? Con un brivido Saro ricordò i corpi mutilati e in decomposizione che aveva visto lungo la riva sud del Pex durante il loro viaggio di ritorno dalla Grande Fiera e si ritrovò a pregare che la piccola Guaya non fosse tra i morti. Sopra l'acqua di un blu stupefacente - il blu di Jetra, pensò Virelai (di nuovo in sella e con le redini saldamente tra le mani dopo aver stretto il sottopancia del cavallo), ricordando improvvisamente i nomi esotici delle boccette d'inchiostro accatastate sugli scaffali dello studio di Rahe - si ergevano pareti ocra e rosse; riflessi dalle stesse sfumature brillavano nel lago. Ombre di colore viola e marrone scuro contrastavano nettamente con la pietra bagnata dal sole, accentuavano i dettagli degli intarsi, delle feritoie e delle cariatidi. Torri merlate costellavano le mura; guglie arabescate trafiggevano l'orizzonte. La bocca di Virelai si spalancò. Davanti a lui i nobili Tycho Issian e Rui Finco continuavano a cavalcare, indifferenti a tanta magnificenza. Avevano visto Jetra fin troppe volte per essere presi dal suo incantesimo: la città aveva ben poco mistero per loro, ormai. Mentre passavano sotto il Cancello dell'Aurora, Virelai per poco non cadde di nuovo da cavallo, questa volta perché si era chinato un po' troppo all'indietro per tentare di esaminare con attenzione i complessi intarsi che adornavano il passaggio. Da lontano gli erano sembrati motivi astratti che si intrecciavano tra di loro e quindi di difficile interpretazione, ma man mano che si avvicinavano era riuscito a distinguere figure e creature di ogni tipo: un uomo che afferrava gli artigli di un enorme rapace, una donna stretta tra le spire di un serpente dalla testa di gatto, o un felino con il corpo di serpente, grandi bestie alate troppo grandi per essere aquile, ammesso che fossero in scala con i cavalli e gli yeka che costellavano l'arco... draghi, forse, o altri mostri mitologici? Virelai all'improvviso provò il desiderio di aver studiato meglio i libri del Padrone. Ma per quanto fissasse con entusiasta concentrazione alcuni degli intarsi, essi restavano incomprensibili: i loro dettagli sembravano cancellati dalla mano di un gigante, anche se molto più probabilmente erano stati secoli di tempeste di sabbia a eroderli. Erano arrivati da sud attraverso il Picco Blu, superando le Colline Bian-
che, poi avevano seguito la scoscesa valle scavata dal fiume Tilsen, fermandosi a riposare solo nelle città ritenute strategiche dai due nobili per risvegliare lo zelo religioso. In ogni piazza Virelai aveva riunito quantità incredibili di persone per Tycho, attirando la gente fuori dalle proprie case con un improvviso e misterioso desiderio di comprare del pane, delle uova o delle piume d'oca di cui in realtà non avevano bisogno, il tutto accarezzando la gola di Bëte per estrarne un altro Incantesimo di Richiamo. Quando poi un numero sufficiente di persone si era materializzato nella piazza del mercato, sembrava non esserci più bisogno della magia, perché la vista di gente riunita in un luogo pubblico non mancava di attirarne dell'altra per pura curiosità, e Virelai aveva ben presto scoperto di essere in grado di riempire una zona di ampie dimensioni in meno di mezz'ora. A quel punto Tycho cominciava il suo vibrante sermone, facendo leva sui buoni sentimenti del suo pubblico (col terribile rapimento e probabile stupro della sua unica figlia a opera dei barbari) e allo stesso tempo soffiando sul fuoco del loro astio per gli stranieri nel nome di Falla (la tesi della liberazione delle donne del Nord dall'eretico trattamento dei loro uomini, che le tenevano scandalosamente discinte di fronte alla Signora, di cui non avevano alcun rispetto). Non c'era alcun bisogno di aggiungere a quella miscela già esplosiva un Incantesimo di Violenza, ma Virelai lo faceva comunque: Tycho non era un padrone benevolo e la prudenza non era mai troppa. Man mano che le terre divenivano più densamente popolate all'approssimarsi alla Città Eterna, Tycho aveva cominciato a fare il suo spettacolo anche tre volte al giorno, spingendo i cavalli al galoppo tra le varie città, ed era per questo che Virelai si ritrovava così dolorante. Dovunque fossero andati, avevano lasciato dietro di sé un fermento di fanatismo, intolleranza e intenzioni omicide. All'interno del Salone delle Stelle erano già radunati molti dei signori dell'Istria e del loro seguito, e mentre alcuni si aggiravano per la sala versandosi dell'araque o mangiucchiando i biscotti di mandorle, altri erano immersi in accese discussioni. Molti ancora sarebbero arrivati più tardi quello stesso giorno: l'assemblea del Consiglio avrebbe infatti avuto luogo il giorno dopo la Prima Preghiera. Saro si guardò intorno sbalordito. Era la sua prima visita alla Città Eterna, anche se aveva letto diverse storie che ne parlavano e conosceva bene l'opera del poeta Fano Cirio, che serviva il Cigno alla corte jetrana.
Insegnami, oh mia Signora Falla, a vedere in tutte le cose la tua bellezza, nei pilastri intarsiati della tua città, nelle nobili antichità di questa fortezza. Un uomo che guarda un vetro jetrano può soffermarsi la sua grazia ad ammirare o, se può, la sua bellezza trascendere e in esso il tuo paradiso ravvisare. Questa è la famosa Città Eterna che in oro nei secoli tutto ha trasformato perché ciò che la Signora possiede non può per meno essere raccontato. Un modo piuttosto furbo per ottenere di essere pagato dai nobili per cui aveva creato e recitato quella poesia, pensò Saro comprendendo per la prima volta appieno quegli ultimi due versi. Il giovane spaziò ora con lo sguardo dalle meravigliose colonne dorate ai favolosi arazzi che tappezzavano le pareti, dai massicci mobili intarsiati con le caratteristiche gambe a zampa di leone (tipici degli artigiani delle Foreste Bianche) all'intricato soffitto con la volta a ventaglio a ben quindici metri sopra la sua testa, adornato da costellazioni di luminose stelle argentate dalle quali la sala prendeva il nome. Non era affatto sorprendente che Cirio fosse stato così ispirato. Saro stesso si sentiva piccolo e insignificante e stregato da quell'atmosfera fiabesca. Era come se riuscisse a sentire la veneranda età di quel luogo, la sua 'nobile antichità' in ogni dettaglio. Le incisioni che si intrecciavano intorno alle colonne e fiorivano sulle pareti, scivolando sotto gli arazzi e riemergendo intorno alle alte finestre, erano di foggia troppo semplice per essere davvero istriane. Animali ed esseri umani si intersecavano gli uni con gli altri formando motivi che a prima vista apparivano astratti, poi improvvisamente sembravano scomporsi e rivelare cani, cavalli, yeka e creature alate, cacciatori e guerrieri. Un pannello in particolare attirò l'attenzione di Saro. Dall'altro lato della sala era raffigurato un gruppo di uomini con lunghe tuniche i quali brandivano delle lance elegantemente disposte in parallelo e parevano inseguire una figura misteriosamente nascosta dietro uno degli arazzi. Dell'essere in fuga era visibile solo un
piede perfetto, una caviglia sottile e una piccola parte di un polpaccio. Quel bassorilievo lo incuriosì. Si guardò intorno. Dietro di lui suo padre e suo zio erano impegnati in una fitta conversazione col nobile Sestran, mentre Tanto si stava riposando nelle loro stanze. Saro sapeva, per un breve contatto che Tanto aveva deciso di concedergli, che suo fratello aveva notato una schiava particolarmente attraente e che, anche se dal punto di vista pratico c'era molto poco che potesse fare per avvalersi dei suoi servigi, aveva comunque l'intenzione di tentare in qualche modo di molestarla. Perciò il giovane Vingo in persona era andato da lei prima di scendere nel Salone delle Stelle con l'intenzione di metterla in guardia da suo fratello, ma la ragazza non parlava istriano e conosceva sì e no un paio di parole nell'Antica Lingua: così gli aveva risposto con sibili e schiocchi delle labbra che gli avevano ricordato nientemeno che il modo di parlare della nonna di Guaya. Perciò se n'era andato senza riuscire a spiegarle niente, e per di più con l'orribile sospetto che la giovane avesse frainteso e pensasse che fosse lui a volerla molestare. Quell'ansia non l'aveva ancora abbandonato quando si staccò dal gruppo dei suoi parenti e attraversò la sala diretto a quel particolare pannello sulla parete. L'arazzo che ricopriva la figura del fuggitivo era particolarmente bello: lo sfondo era per lo più in color cremisi, mentre i dettagli erano stati intessuti in un brillante verde e oro. Un cartamo e una rosa del deserto si intrecciavano intorno ai piedi di Bast e della Signora; grossi alberi fiorivano sopra le loro teste, lasciando cadere una pioggia di petali bianchi; delicati uccelli erano sui rami, volavano tra un albero e l'altro, si posavano a terra... Eppure non era l'arazzo ad aver attirato l'attenzione di Saro, bensì quel piede privo di corpo. Infilandosi dietro al nobile Varyx e a un uomo alto e magro con una lucida testa pelata, Saro sollevò leggermente l'arazzo dalla parete e sbirciò dietro di esso. La figura che fuggiva, nuda e ridente, voltata per metà all'indietro per incitare i suoi inseguitori, era un uomo con un'enorme erezione. E davanti a lui c'era un altro uomo, e un altro, e un altro ancora, tutti ugualmente ben dotati. Saro trattenne il fiato e lasciò ricadere l'arazzo. Aveva le guance in fiamme. Le figure erano impresse nella sua mente come se qualcuno gliele avesse tatuate dietro le palpebre. I rapporti tra uomini erano proibiti in Istria e tale legge vigeva da più di un centinaio d'anni ormai, anche se c'erano molti antichi racconti in cui l'eroe aveva un compagno speciale, da difendere o vendicare a seconda degli eventi. Inoltre il concetto generale, meno sgradito appunto perché più distante dalla sua esperienza, fu improvvisamente sostituito dal particolare,
ossia dal fuggevole ricordo di Tanto che costringeva uno schiavo a un rapporto nell'aranceto. Saro provò un tremendo disgusto a quell'immagine e si voltò in fretta in cerca di un posto discreto, un vaso, forse, o un finestra aperta, dove poter sputare il fiotto di bile che gli era salito alla bocca. «Tu devi essere il figlio sopravvissuto dei Vingo.» La voce era raffinata quanto una porcellana di Jetra. Saro si voltò di scatto e trovò il Signore di Forent che lo fissava con curiosità. Deglutì. «Mio fratello è ancora vivo» rispose con freddezza. Rui Finco sollevò un sopracciglio. «Non molti sopravvivono alle cure del Cerusico Brigo. È un uomo fortunato.» Saro pensò al corpo mutilato di suo fratello, alla ferita in continua suppurazione e al suo carattere sempre più velenoso e fece una risatina amara. «Non direi.» In quel momento un'altra figura spuntò da dietro le spalle del Signore di Forent e la sua notevole statura bloccò la luce proveniente dalla feritoia dietro di lui. Saro sentì l'ombra che gli si proiettava addosso ancora prima di esserne toccato. L'uomo che era apparso così silenziosamente era alto e pallido, bianco e curvo quanto un fiore di ghiaccio di Farem, e i suoi capelli erano dello stesso colore giallastro della pelliccia di un orso delle nevi, mentre gli occhi somigliavano a quelli di una seppia. Quando sorrise, Saro fu percorso da un brivido. Sotto un braccio l'uomo portava un piccolo gatto nero cui era stato messo un elaborato guinzaglio rosso con museruola. Incapace di guardare l'uomo pallido per via di quegli occhi inquietanti, Saro si ritrovò a fissare il gatto. Tutto nel suo atteggiamento denotava disagio: il pelo arruffato lungo la schiena, gli spasmi convulsi della coda nera, il modo in cui allontanava la testa dalle dita bianche della mano destra dell'uomo che si muovevano ritmicamente su e giù per il collo. Notò che i suoi artigli, di un rosa periato e tremendamente affilati, si flettevano e si conficcavano nell'avambraccio dell'uomo a ogni carezza, mentre i suoi occhi intensi brillavano di indignazione per quell'ingiusto imprigionamento... e ricordò che i commercianti di cavalli avevano parlato di un uomo pallido con un gatto 'tutto legato come un salame' che stava sempre in piedi dietro Tycho Issian quando invocava a gran voce la guerra contro il Nord. Quando Saro sollevò nuovamente lo sguardo, scoprì che gli occhi dell'uomo erano puntati su di lui; non fissavano il suo viso, però, ma l'esatto punto sopra il suo cuore dove, ben nascosto sotto la tunica, c'era il ciondolo rinchiuso nella custodia di pelle. Era come se quegli occhi slavati potes-
sero vedere attraverso la veste e intuire la natura dell'oggetto che vi era nascosto. E da parte sua anche la pietra dell'umore sembrò percepire la vicinanza del nuovo arrivato, perché emanò un improvviso gelo che si diffuse nel petto di Saro e cominciò a pulsare, un battito costante e persistente che lo fece sentire stordito. Ancora una volta il ragazzo provò l'impellente bisogno di fuggire verso un luogo appartato. Si voltò per andarsene, ma si ritrovò faccia a faccia col nobile Tycho Issian. Il Signore di Cantara degnò a malapena Saro di uno sguardo; afferrò invece con frenesia il braccio di Rui Finco e lo tirò da parte. Sembrava che avesse bevuto un gallone di araque, o fumato un intero campo di dolcefumo, perché i suoi occhi erano sgranati, lucidi e accesi di una qualche passione, mentre il volto di solito così freddo e riservato era rosso e pieno di eccitazione. «Il nostro stratagemma sta funzionando meglio di quanto avevamo sperato!» fu tutto ciò che Saro riuscì a sentire della loro conversazione, perché quasi nello stesso momento in cui Tycho Issian cominciò a parlare, l'uomo pallido si chinò verso di lui e gli posò una mano sulla spalla. Un'ondata di ghiaccio invase le ossa di Saro. All'improvviso si sentì come se gli avessero versato secchiate di neve nelle vene, riempendogli gli arti, il ventre, la cavità del petto. Non poteva muoversi; riusciva a malapena a respirare. Aspettò che un torrente di immagini si riversasse su di lui, il tipico diluvio di ricordi e desideri, pensieri casuali e bisogni incontrollati, invece non ci fu altro che un tenibile e paralizzante vuoto, e immagini così vaghe da non essere che fantasmi della sua stessa mente. Poi, altrettanto velocemente come quando l'aveva avvolto, il freddo lo abbandonò. Saro si rese conto che l'uomo pallido aveva ritirato la mano come se si fosse scottato, e stava persino indietreggiando con passo malfermo, tanto che il gatto, percependo la distrazione di colui che lo teneva imprigionato, si divincolò abilmente sfuggendo alla presa per correre a nascondersi sotto il tavolo, col guinzaglio rosso che strisciava dietro di lui. L'uomo, però, non sembrò aver notato quella fuga, perché i suoi occhi erano fissi su Saro e la loro espressione era di puro terrore. Saro aveva visto uno sguardo del genere negli occhi degli schiavi che Tanto tormentava, o in quelli di un coniglio ferito, ma non a morte, durante una caccia. L'ultima volta che l'aveva vista con tanta chiarezza era stato negli occhi delle vecchia nomade che Favio aveva portato a bordo della chiatta a Pex per curare Tanto quando era ancora privo di conoscenza. La pietra della morte, ecco come aveva chiamato il suo ciondolo quella vecchia, fuggendo, e da quel giorno i sogni di Saro erano
tormentati dai fantasmi degli uomini che aveva ucciso inconsapevolmente alla Grande Fiera. La sua mano si strinse automaticamente intorno alla pietra nascosta sotto la tunica e l'uomo pallido cominciò a farfugliare, come se pensasse che Saro fosse in procinto di tirare fuori il talismano e ucciderlo in quell'istante. «Per l'amore della Signora, Virelai» sibilò infuriato il Signore di Forent, fissando il mago dietro Tycho Issian. «Cerca di non fare la figura dello sciocco e di non farla fare a noi, specialmente in questa augusta compagnia.» Poi i suoi occhi si strinsero e il suo sguardo scese verso il pavimento, dove una coda nera spuntava da una tovaglia damascata. «E posso suggerirti di recuperare il tuo animale e metterlo al sicuro nella tua stanza?» L'uomo pallido, Virelai, esitò. Era necessario recuperare il gatto, ma non aveva alcuna voglia di passare accanto al giovane del Sud che portava l'arma più terribile del mondo intorno al collo con tale noncuranza, come se fosse un ninnolo qualsiasi. Saro osservò il disagio dell'uomo con curiosità. Poi colse l'opportunità di accostarsi. «Scusate» disse, e chinò la testa verso il Signore di Forent, che lo stava fissando con espressione sospettosa, e verso il Signore di Cantara, che non lo guardava affatto, allontanandosi poi il più in fretta possibile. «Io sono passato da Monvia venendo qui e c'era gente in strada che chiedeva a gran voce la guerra. Sembravano un branco di lupi famelici.» «Hanno bruciato l'effigie del re del Nord nella piazza del mercato di Ina, nelle Foreste Blu.» «E anche a Yeta.» «Io vengo da Gibeon e persino lì, dove di solito alla gente importa poco di queste cose, stavano imprecando contro i barbari.» «Il Signore di Cantara è piuttosto noto a Gibeon; è normale che prendano come un'offesa personale il rapimento di sua figlia.» «Il Duca non autorizzerà un inizio delle ostilità... che ne pensi?» «Cera è vulnerabile a un attacco eyrano.» «Sì, ma chi dice che attaccheranno? Ravn è impegnatissimo con il suo nuovo acquisto, a quanto sostengono.» «Questo ha fatto infuriare parecchia gente. Preferire una nomade al Cigno di Jetra è un abominio.» «Quel viso, però...»
«Viro, stai attento a quello che dici o ti ritroverai a bruciare su un rogo.» «Le casse dell'Impero non sopporteranno il costo di un'altra guerra.» «Potrebbe non esserci altra scelta: la gente la vuole e tutti noi sappiamo benissimo che il nostro popolo è molto determinato quando prende a cuore qualcosa. Guai al capo di una provincia che si mette contro i desideri del suo popolo.» «A cuore, appunto: è qui che sta il problema. Tutti questi discorsi di guerra sono alimentati da pericolose passioni, non da valide argomentazioni di ordine economico. Cosa ci guadagniamo a mettere a sacco il Nord? Non hanno più niente che possa interessarci. Li abbiamo cacciati su quattro sassi nel bel mezzo di un mare feroce.» «Potrebbero navigare attraverso la Via del Corpo per conto nostro...» «Ancora con quel ridicolo progetto di Forent! Io non credo nemmeno all'esistenza di questo leggendario 'Estremo Occidente', e tutti sanno che l'oro è un mito. Inoltre se muoviamo guerra al Nord, sarà difficile che ci rivelino i loro segreti volontariamente, e chi si fiderebbe di informazioni estorte con la violenza? No: questo è puro fanatismo religioso sfuggito al controllo. Io voterò contro l'idea stessa di una guerra, anche se dovessi essere l'unico: abbiamo impiegato vent'anni per riprenderci dall'ultima.» «Povera donna: rapita da quei cani per i loro sordidi piaceri. Non sopporto neppure di pensare a cosa possa esserle accaduto. Guarda suo padre, laggiù, un uomo distrutto dall'orrore. Dicono che stia predicando la buona causa, persuadendo la gente a pregare con lui la Signora per il ritorno della nobile Selen sana e salva.» «O in alternativa per mandare delle navi al Nord e riprendersela con la forza.» «E salvare quante più donne delle Isole sarà possibile.» «I. bordelli di Sestria avrebbero bisogno di sangue nuovo.» «Varyx, è una cosa davvero disdicevole da dire!» «Be', quale credi sarà il loro destino quando le 'libereremo' dal barbaro giogo dei loro uomini?» «Be', offriremo loro protezione e le affideremo alle Sorelle perché le istruiscano nella fede di Falla.» «Ah! Dubito che le Sorelle saranno felici dell'improvvisa intrusione di un migliaio di eretiche puttanelle eyrane nei loro preziosi Parchi di Contemplazione.»
«Varyx, tu sei un blasfemo lestofante.» «Pragmatico, Palto: preferisco pragmatico.» «Ci vorrebbero sei mesi o più per costruire una flotta. Una flotta che non possiamo permetterci.» «I nobili Issian e Finco sembrano ben provvisti di fondi e piuttosto favorevoli a un conflitto.» «Questo, devo dire, è un curioso capovolgimento di fortune. Qualcuno ha idea da dove provenga tutta quella ricchezza? L'ultima volta che ho sentito parlare di Issian, Prionan e Cera avevano richiesto l'immediata, seppure tardiva, restituzione del debito di Cantara nei confronti del Consiglio. Balto Miron si stava già sfregando le mani al pensiero di acquisire un nuovo castello.» «Ma sei rimasto indietro! Il Signore di Cantara, a quanto dicono, ha scoperto una miniera d'argento nelle sue terre. Quello che è certo è che tutti i suoi debiti sono stati ripagati completamente e che di recente lui è stato molto generoso verso un certo numero di cause caritatevoli.» «Ma la loro alleanza sembra strana solo a me? Dopo tutto in questi anni Rui Finco si è costruito una solida reputazione come l'uomo più licenzioso dell'Istria. Di certo a questo punto deve aver generato un'intera dinastia di bastardi.» «Posso suggerirti di tenere la voce bassa, Gabran? Sono proprio dietro di noi! Vieni, spostiamoci nei giardini. Ora ascolta: da quello che ho sentito dire il Signore di Forent ha cambiato vita, fa i suoi sacrifici ogni giorno e trascorre la maggior parte del suo tempo a esortare il popolo ad agire e a pensare secondo i dettami di Falla.» «A predicare la guerra, vorrai dire.» «Be', certamente: per portare la Parola della Signora alle isole pagane.» «Per portare fuoco e spada, vorrai dire.» «Se è necessario per civilizzare i nostri vicini del Nord, allora hanno tutto il mio appoggio.» «Questa cicatrice risale all'ultima guerra con l'Eyra.» «Mio padre ci è morto, in quella guerra.» «Le mie tenute non si sono più riprese dopo la distruzione che vi hanno portato gli uomini del Nord.» «E non desideri poterti vendicare? Io ho giurato di cercare gli uomini che hanno ucciso mio padre. Se sarà dichiarata la guerra, mi offro volonta-
rio per salpare con la prima nave diretta a nord!» «E cosa ne sai tu di navigazione, Festran? Moriresti di mal di mare ancora prima di uscire dal porto di Hedera.» L'assemblea fu convocata alla fine della Prima Preghiera. L'eco dei Gridatori ancora risuonava tra le mura rosate della città quando i nobili dell'Istria e i loro figli, nipoti e cugini presero posto nella Sala del Consiglio, e la stanza fu piena zeppa di uomini e del brusio delle loro conversazioni. Oltre cento tra i più potenti dell'Istria erano lì riuniti: aristocratici e nobili i cui casati risalivano ai giorni della Prima Dinastia, capiclan che rappresentavano le principali città di ogni provincia dell'impero. A capo del tavolo posto al centro della sala, un mobile enorme che si diceva fosse stato ricavato da un'unica, enorme quercia delle foreste che crescevano intorno a Sestria prima che la costruzione della nuova flotta per la Terza Guerra avesse decimato gli alberi di quella zona, sedevano il nobile Prionan, il duca di Cera e i nobili di Jetra, Greving e Hesto Dystra. Questi ultimi sembravano essere invecchiati di colpo nello spazio di pochi mesi: già piuttosto anziani, ora apparivano curvi e fragili, e i loro capelli erano poco più che sottili strisce di grigio sulle identiche cupole rosa delle loro teste. Avevano preso molto male l'insulto rivolto alla loro nipotina, dicevano alcuni, mentre altri sostenevano che la donna era stata molto fortunata e che se fosse stata portata via in Eyra di certo sarebbero stati molto più addolorati per la sua perdita. Prionan, diversamente dai due, pareva essersela passata fin troppo bene. Già florido di carnagione e di costituzione robusta, ora sembrava che da un momento all'altro potesse prorompere dalla sua elaborata tunica di rappresentanza. Il duca di Cera era invece l'eleganza personificata: snello e mai eccessivo nel suo abito blu notte e argento, sedeva con la grazia naturale di uno dei suoi leopardi della neve, gli occhi neri che saettavano per tutta la stanza come a voler valutare ogni sfumatura dell'atmosfera, ogni dettaglio dei volti dei presenti, ogni pensiero che si annidava nelle menti di quegli uomini. Non era affatto favorevole alla guerra: come Hedera, Cera aveva molto da perdere da un eventuale scontro col Nord, come era stato ripetutamente provato dagli eventi nei secoli passati. Le mura della città, governata dalla sua famiglia da duecentocinquant'anni, sin da quando avevano cacciato i barbari dalle loro case, erano state scalate e distrutte in quattro diverse occasioni e ricostruite sempre più alte dopo ogni attacco. Le pareti stesse del castello portavano ancora i segni del fuoco e dell'assedio; nuovi pozzi avevano dovuto essere scavati dopo che le
riserve d'acqua erano state avvelenate. E per la prima volta in tanti anni, c'erano fondi sufficienti per costruire la voliera che aveva sempre desiderato... Preferiva di gran lunga trascorrere i suoi ultimi anni con le creature che amava, piuttosto che combattendo in una guerra impossibile da vincere. A Saro era stato assegnato un posto all'estremità di una panca ad appena una fila di distanza dal tavolo, mentre suo fratello era stato collocato al suo fianco, delicatamente sistemato sulla sedia a rotelle che avevano portato per tutta la strada da Altea. Saro pensò che fosse un improbabile onore per loro essere stati messi così vicini al centro del potere: forse si era trattato di un errore da parte di un funzionario poco zelante. In quanto al Signore di Cantara, se si aspettava che gli venisse offerto un posto al tavolo dei potenti, sarebbe rimasto profondamente deluso: quando infatti entrò nella sala con passo sicuro al fianco di Rui Forent, il quale si diresse alla sinistra del duca, il nobile Issian fu discretamente condotto alla fila dove era seduto il clan dei Vingo, cosicché Favio e Fabel furono costretti ad alzarsi per lasciarlo passare. Saro vide il volto di suo padre incupirsi mentre il nobile del Sud gli passava accanto, e capì con chiarezza ciò che pensava di quell'uomo. Poi si alzò in piedi per consentire a Tycho di sedersi accanto a suo fratello; ma il Signore di Cantara diede una sola, sbigottita occhiata alla creatura pallida, grassa e senza capelli accomodata nella sedia a rotelle e si sedette bruscamente, senza dire una parola, tra Saro e suo zio. Gli occhi di Tanto lampeggiarono di rabbia; un attimo dopo conficcò un dito maligno nella coscia del fratello. Fu un tocco momentaneo, ma un fiotto di bile percorse ugualmente il giovane. «Fatti indietro, così che possa parlare col Signore di Cantara.» Saro avrebbe dato qualunque cosa per potersi sedere da tutt'altra parte, ma si piegò il più possibile all'indietro. «Mio signore» cominciò Tanto con la sua nuova vocetta stridula. Tycho finse di non capire che si stava rivolgendo a lui. Tanto fece un colpo di tosse e parlò a voce più alta, «Mio signore di Cantara.» Era impossibile ignorarlo: altre persone si stavano agitando ai loro posti, tendendo il collo per ascoltare la conversazione. Dopo tutto, quello era l'eroe della Grande Fiera, l'uomo che era quasi morto per tentare di salvare la figlia di Tycho Issian dal disonore portato da malfattori eyrani, colui
che, per di più, una volta era il fior fiore della gioventù istriana e che ora, si diceva, non avrebbe camminato mai più né avrebbe generato figli. Era un destino scandaloso, una vergogna, una vera e propria tragedia. Tycho chinò la testa con tutta la grazia che poté. «Tanto Vingo: è un onore rivederti.» «Quali notizie ci sono di vostra figlia, mio signore?» La voce di Tanto risuonò per tutta la Sala del Consiglio, cosicché parecchi si bloccarono nel bel mezzo di discussioni importanti e si guardarono intorno per vedere chi avesse osato alzare tanto la voce. Tycho si costrinse a non mostrare la gioia che provava nel vedersi rivolta una simile domanda in pubblico: non avrebbe potuto orchestrare meglio la situazione, neppure se si fosse trovato a capo di quella tavola. Alzando il tono in modo che si sentisse ben oltre la breve distanza che separava lui e Tanto, rispose: «Non ci sono notizie, ragazzo mio. Di nessun tipo. Temo oramai che sia morta, o peggio, resa schiava da quei malvagi infedeli che l'hanno rapita e hanno assassinato la sua dama di compagnia. Non ho più riposato per una notte intera da quando me l'hanno portata via. Faccio sacrifici alla Dea ogni giorno perché mi dia un segno che è sopravvissuta, ma per ora non sono stato esaudito.» «Sono dei mostri!» gridò Tanto. «Non possiamo starcene seduti qui e lasciare che un tale affronto rimanga impunito. Se fossi abile come una volta, porterei io stesso la fiamma della Signora sulle loro sponde, ma come vedete, le loro velenose lame mi hanno ridotto in questo miserabile stato. Mio fratello, tuttavia, ha giurato che non desidera altro che prendere le armi e attraversare i mari diretto alle Isole del Nord per ripagarli del male che hanno fatto alla vostra famiglia e alla mia.» Saro non ebbe né il tempo né la possibilità di protestare che era un'orrenda menzogna, perché il Signore di Cantara si voltò verso di lui con gli occhi lucidi, abbracciandolo poi tra i singhiozzi. Immediatamente Saro fu invaso da ogni più malvagio pensiero e desiderio di quell'uomo all'apparenza così nobile e pio. Non c'era alcuna preoccupazione per sua figlia in lui, nessuna brama di giustizia, dignità o equità. Il faro che brillava con tanto ardore nell'animo del nobile non era né devozione, né onore: era un inferno di lussuria e desiderio che avrebbe messo in pericolo l'equilibrio stesso del mondo, disposto a calpestare e Uccidere ogni uomo, donna o bambino su Elda se fosse stato necessario. E al centro di quel devastante appetito c'era l'immagine della donna che, nel bel mezzo della carneficina intorno al rogo di Katla Aransen sulle cineree spiagge
della Pianura della Luna Caduta, aveva teso la mano per toccare la pietra che Saro portava intorno al collo e, in qualche inspiegabile maniera, ne aveva reso i poteri magici mortalmente distruttivi. Ma la donna che aveva visto allora, pallida e bella come un paesaggio ghiacciato, con i capelli biondo argento e i tristi occhi verdi, nell'animo del Signore di Cantara era diventata una puttana a malapena riconoscibile, una gaudente e sfacciata libertina che sfilava nuda davanti a lui, offrendogli prima il suo seno dai capezzoli rosati e poi allargando le lunghe gambe bianche per regalargli una vista scioccante, sacrilega e assolutamente mozzafiato. Poi ci fu la visione allucinatoria di re Ravn Asharson com'era apparso al Raduno, affascinante e imponente nei suoi abiti eyrani, con i lunghi capelli neri, i muscoli ben evidenti e gli occhi penetranti, e della donna che brillava accanto a lui alla luce delle candele, con una mano posata in maniera possessiva su un braccio del suo uomo; e all'improvviso quel bel quadretto fu sostituito dall'immagine dello stesso Ravin, squartato e senza occhi, appeso a testa in giù a un palo mentre Tycho, con le mani infilate nel suo ventre, tirava fuori le interiora dalla sua carne ancora viva. Con un gemito, Saro interruppe il contatto con il nobile del Sud, ma le immagini continuarono a ossessionarlo per tutta l'ora successiva, circondandolo come un olezzo mefitico e ripresentandosi in dettagli sempre più precisi, violenti e sacrileghi. Fu così che a malapena si rese conto che i Signori di Jetra avevano cominciato a farfugliare circa le offese che erano state recate al Sud con la profanazione del giardino che avevano fatto costruire per il Cigno, da considerare un insulto alla Dea stessa. Mentre il duca di Gila si lamentava delle sue entrate al collasso e della mancanza di risorse necessarie al benessere stesso del suo popolo, ancor prima che della formazione di un esercito, Saro vide nuovamente città bruciate, uomini urlanti e gli occhi verdi della donna sovrapposti a quelle immagini. Quando Cera parlò con la sua voce chiara e forte della necessità di riflettere attentamente sulla loro posizione e di non prendere decisioni affrettate, la vide ancora aprire le gambe davanti a sé. Mentre Rui Finco si alzava in piedi e chiedeva giustizia a nome del suo amico, e per ogni uomo, donna e bambino dell'Istria, mentre infiammava gli animi dei presenti con il discorso più appassionato e persuasivo negli annali del Consiglio, mentre si votava e la decisione veniva approvata a grande maggioranza, mentre ai Signori di Forent e Cantara veniva assegnato il comando congiunto della flotta che avrebbe portato le armi, il sacro fuoco e la Parola della Dea alle isole d'Eyra, e
mentre il suo stesso nome veniva annunciato come quello del luogotenente personale del nobile Issian, Saro rimase seduto, sordo e cieco a quanto accadeva intorno a lui, avvolto da una nebbia di orrori che lo disorientava. L'ultima visione che gli si presentò dinanzi, prima che una pioggia di complimenti, pacche sulle spalle e strette di mano lo assalisse e lo riportasse a una relativa normalità, fu quella del Signore di Cantara accanto all'uomo alto e pallido di nome Virelai, con la donna nomade tra le braccia, in cima a una montagna che sovrastava una pianura ove era in corso una feroce battaglia. Centinaia di metri sotto di loro, una grande orda di Eyrani e Istriani combatteva e cadeva, possenti cariche venivano eseguite e respinte. Fiotti incessanti di frecce volavano come corvi nell'aria. Le spade risuonavano e le lance lampeggiavano al sole. Il sangue scorreva a fiumi e i cavalli nitrivano spaventati. Poi su tutto cadde un silenzio sovrannaturale, e Tycho Issian sollevò in alto la stessa pietra dell'umore che Saro portava intorno al collo e, chiamando a raccolta tutto il potere che riuscì a incanalare dal mago, dal suo gatto e dalla donna priva di conoscenza, lanciò i suoi bianchi raggi sulla pianura avvolta dalle ombre e distrusse ogni essere vivente su di essa. 15 Legami «Cosa c'è, amore mio? Sembri così triste.» Ravn attraversò la stanza a grandi passi e strinse sua moglie tra le braccia. Invece di abbandonarsi passivamente a quell'abbraccio com'era solita fare, la Rosa Eldi si voltò a guardare suo marito, con i grandi occhi verdi pieni di inquietudine. Ma mentre stava per parlare, la vestaglia dal costosissimo bordo di ermellino bianco che il re aveva commissionato per lei scivolò in maniera seducente da una morbida spalla color crema, denudando la parte superiore del suo seno. La donna l'afferrò costernata, ma quel momento era già stampato in modo indelebile nella mente di suo marito. Osservò Ravn abbassare lo sguardo, attirato automaticamente dal bordo della pelliccia che cadeva; poi lo vide sgranare gli occhi e sollevare una mano per accarezzare il seno nudo. In quell'atteggiamento, con il desiderio che rendeva il suo bel viso scialbo e insignificante, non diverso da quello di qualsiasi altro uomo, e che cancellava in lui qualunque traccia della sua vera personalità così come le
onde spazzano via le alghe, le conchiglie e le impronte rimaste sulla spiaggia, lasciando dietro di sé un'informe distesa di sabbia, la Rosa Eldi provava un'immensa tristezza. Mentre le mani di Ravn abbassavano l'altro lato della vestaglia per farla cadere in terra, mentre la sua bocca calda si posava ripetutamente sul suo collo e il suo membro si induriva contro di lei, la donna ebbe la sensazione che invece di possedere lo spirito di quell'uomo, come aveva creduto quando l'aveva stregato quella prima volta, invece che suggellare per sempre il loro legame, anime e corpi uniti in un nodo inestricabile, lei lo stava perdendo, non riuscendo a cogliere la sua vera essenza. E non era tutto. La cosa davvero bizzarra di questa faccenda era che mentre cadevano sul letto e la bocca di lui si posava avidamente sulla sua, lei avvertiva di stare perdendo anche se stessa. Di tutte le lezioni d'amore che il Padrone le aveva impartito nella sua gelida fortezza in capo al mondo, nessuna aveva riguardato le sensazioni che la Rosa Eldi avrebbe potuto provare durante gli atti che venivano eseguiti su di lei. Di conseguenza non si aspettava di sentire niente, e nessuna delle esperienze avute, con Rahe e poi con gli uomini a cui Virelai l'aveva venduta durante i loro viaggi, l'aveva minimamente toccata. Fino all'incontro con Ravn. Sulla nave che l'aveva portata via dalla pianura della Luna Caduta, aveva scoperto che il tocco di Ravn era capace di risvegliare qualcosa in lei. In principio aveva creduto che fosse l'effetto del dolce ritmo delle onde sotto lo scafo della barca, o forse la vicinanza dell'enorme vastità dell'oceano stesso. Ma poi, quando erano sbarcati sulla terraferma e si erano comodamente sistemati tra le alte mura del castello di Halbo, quella strana sensazione si era fatta annunciare da una miriade di differenti segnali. In principio si era resa conto di provare uno strano vuoto quando suo marito non era al suo fianco, perché, nonostante la corte del Nord fosse un bel posto dove vivere, in cui la gente per la maggior parte diceva quello che pensava, si comportava in modo naturale e non ostentava atteggiamenti artificiosi né faceva inutili cerimonie, lei era consapevole nel profondo del suo cuore che quella non era né sarebbe mai potuta essere la sua casa... anche se era impossibile sapere se mai ne avrebbe avuta una. Ma quando era con lui stranamente si sentiva più a suo agio, più... completa. Poi aveva cominciato a notare che quando vedeva Ravn parlare con un'altra donna, o se addirittura lui le posava una mano su un braccio o una spalla, anche in modo chiaramente innocente, avvertiva una specie di fitta nel petto o nello sto-
maco, un gelo, come se un vento freddo soffiasse dentro di lei. E quando lui giaceva con lei, ogni notte e la mattina presto o in quei brevi momenti rubati durante il pomeriggio o prima di vestirsi per la cena, il suo tocco le faceva bruciare la pelle, come se il suo sangue bollente risalisse a incontrare quello di lui, quasi a voler consumare ogni barriera fisica tra di loro in modo che potessero diventare un'unica entità. Inoltre, con frequenza sempre maggiore, si ritrovava travolta dalla passione. Sensazioni straordinarie nascevano in lei, prendendo possesso della parte cosciente della sua mente, tanto che si sentiva spinta a eguagliare suo marito nei suoi sforzi e alla fine il respiro le usciva in faticose ondate, la sua pelle incomparabilmente bianca si arrossava dalla testa ai piedi e le sue grida, simili a quelle di un uccello marino che sfiorasse mari solitari, facevano eco a quelle di lui. A volte le sembrava di perdersi completamente, di diventare quell'uccello, povera creatura in balia degli elementi, sballottato dai venti di tempesta, e spesso esultava, scoprendosi così perduta e impotente. Ma era sempre più difficile resistere alla tentazione di scivolare sotto quelle acque scure e non tornare mai più. Quando tornava in sé, dopo quei momenti di passione, si sentiva molto spaventata. Aveva perduto la vita e non per colpa sua: cosa ne sarebbe stato di lei, ora, se si fosse lasciata andare per sempre tra quelle onde? Così quella volta, quando la bocca di lui si chiuse sulla sua ed entrambi caddero nudi e smaniosi sulle pellicce che coprivano il letto, lei combatté contro la propria volontà. Per il suo bene, e per quello di Ravn, avrebbe dovuto attenuare almeno in parte il potere ammaliante che aveva su di lui e riportarlo in sé. Solo in quel modo avrebbe potuto imparare qualcosa di più sulla vera natura dell'uomo a cui era legata. E allora, ma solo allora, avrebbe capito la reale portata dei propri poteri e la vera reazione di suo marito nei confronti di lei come donna, e non della maga che credeva, e temeva, di essere. Il banchetto di quella sera era stato organizzato per festeggiare il matrimonio del conte di Isola Nera, una miserevole sporgenza rocciosa che sorgeva nei canali orientali tra il continente e le Isole Belle, e la figlia del più vecchio e più fidato consigliere di Ravn, il conte di Capotempesta. Avevano fatto del loro meglio con Breta Bransen, ma il materiale su cui avevano dovuto lavorare non era certo dei migliori. La figlia di Capotempesta avrebbe potuto essere una ragazza attraente, essendo ampia di spalle e di fianchi e alta come uno dei migliori guerrieri di Ravn. Ma sembrava
vergognarsi talmente delle proprie dimensioni che si sarebbe potuto crederla gobba, tanto camminava china in avanti. I suoi capelli, di un pallido color stoppa come quelli di suo padre e altrettanto ispidi e difficili da pettinare, erano stati acconciati in una serie di trecce, legate con nastri d'argento intorno al capo, nelle quali erano stati intrecciati dei piccoli ramoscelli di fiori celesti. Su qualsiasi altra donna quell'acconciatura sarebbe apparsa incantevole e molto femminile, ma su di lei dava l'impressione che la povera ragazza fosse stata trascinata attraverso un'aiuola e si fosse involontariamente portata via metà dei fiori. I capelli ispidi sfuggivano qua e là dalle trecce in poco attraenti ciuffi, e i fiori stavano cominciando a sciuparsi per il calore dei fuochi della sala. L'avevano vestita con un abito di lino celeste, il colore del mare calmo di Sur, per buon augurio; ma la stoffa si era stropicciata in maniera impressionante. Sopra l'abito, la faccia grossa e goffa di Breta era il ritratto dell'infelicità. Non desiderava affatto sposarsi, e meno che mai con Brin Fallson, il conte di Isola Nera, un uomo con la testa perennemente sudata e la risata di un asino sofferente. Non che fosse un uomo crudele o detestabile (in generale le era assolutamente indifferente), ma per lei rappresentava la conferma, se gliene serviva una, che al mondo tutto l'amore, l'intelligenza e la gentilezza che una persona era in grado di possedere non avrebbero mai potuto compensare la mancanza di bellezza. In sostanza, lei era bruttina e insignificante, e quell'unico, ingiusto incidente di nascita, ossia il fatto di aver ereditato la robustezza di suo padre invece della delicata bellezza di sua madre, pesava molto di più sul piatto della bilancia di tutti gli altri suoi attributi, agli occhi dell'uomo che lei veramente desiderava. Era innamorata di Ravn Asharson da quando aveva sette anni, anche se per lui non era mai stata altro che una sciocca, goffa e debole compagna di giochi con cui si era divertito a nascondersi e tendere agguati, a giocare al cacciatore e alla preda, a lottare e a duellare. Lei aveva sopportato tutte le prese in giro, la mancanza di riguardo e le angherie con rassegnazione, ma il tempo non aveva cancellato né alleviato il dolore di sapere che la sua adorazione non era contraccambiata. Aveva ammesso con se stessa già da tempo che Ravn non l'avrebbe mai guardata come un oggetto di desiderio, ma aveva sperato di poterlo conquistare con l'amicizia e la generosità di spirito. Ma purtroppo, rifletté ora, molto probabilmente lui non l'aveva mai considerata davvero una donna, per non parlare poi di una potenziale innamorata, finché suo padre non l'aveva presentata al Raduno della Grande Fiera. Ravn era stato gentile con lei, quella volta, lodando persino il taglio del suo abito
invece di riderle in faccia; ma era stata ugualmente un'esperienza umiliante. Il suo fidanzato, invece, a quanto sembrava, l'aveva guardata avvicinarsi al palco con trepidazione, e tale era stato il suo sollievo quando il re del Nord aveva scelto un'altra donna come sua sposa che aveva cercato immediatamente il conte di Capotempesta e gli aveva chiesto il permesso di corteggiare sua figlia al loro ritorno alle Isole. Che un uomo fosse così preso da lei era una novità per Breta, ma questo evento, invece di consolarla, l'aveva spinta a disperarsi ancora di più per l'apparente impenetrabilità della mente degli uomini. Tuttavia, nonostante il conte avesse dodici anni più di lei e stesse perdendo rapidamente i capelli sulla sommità della grande testa, in realtà non c'era motivo per rifiutarlo come pretendente. Sin dal terribile momento in cui aveva visto Ravn guardare negli occhi la donna pallida e innamorarsene perdutamente, aveva perso ogni speranza al mondo. E così, quando suo padre era venuto da lei con la proposta di Brin Fallson, lei si era limitata a stringersi nelle spalle e aveva accettato. Se non poteva avere l'unico uomo che amava, allora si sarebbe data al primo che l'avesse chiesta, senza curarsi delle conseguenze. Ma anche se tentava con tutte le forze di non pensarci, l'imminente prospettiva del Congiungimento la tormentava. Una volta che la festa fosse finita, la sposa e lo sposo sarebbero stati portati via dalla sala tra grasse risate e battute scurrili e sarebbero stati legati insieme nella migliore camera degli ospiti, annodati mano con mano e piede con piede (con un certo spazio di manovra) con cordicelle blu e verdi, simboli del matrimonio del mare e della terra, della donna e dell'uomo, agli occhi di Sur. Sarebbero stati slegati solo quando il sole avesse raggiunto il suo punto più alto il giorno successivo. Breta rabbrividì e si spostò per sedersi al posto d'onore accanto alla nuova regina del suo amato, il cui compito, per tradizione, era trascorrere la serata dando alla sposa consigli da donna a donna. Dover sopportare che la moglie del suo amato, ridendo, le sussurrasse nell'orecchio i modi migliori per compiacere un uomo, come toccarlo e dove fosse meglio posare le labbra, sarebbe stato insopportabile per lei. L'unica consolazione della serata, pensò Breta, era che la donna pallida non sapeva fare conversazione: raramente diceva più di due parole in fila, quindi era molto poco probabile che le confidasse un qualche lascivo segreto. Chinò con cortesia il capo per salutare la Rosa del Mondo e si sedette. La regina le sorrise, poi i suoi occhi si posarono sulle corde nuziali blu
legate intorno alla vita di Breta, e all'improvviso un ricordo chiarissimo come mai ne aveva avuti prima si accese nella sua mente, e rivisse la festa del suo matrimonio, la folla, il rumore, le risate, le canzoni oscene... e l'espressione negli occhi della madre di Ravn quando aveva legato il primo nodo secondo la tradizione. In quel momento aveva provato paura, un sentimento che non aveva avuto niente a che fare con il matrimonio stesso, causato dall'insicurezza che le dava il fatto di trovarsi in mezzo a troppe persone su cui non aveva alcuna influenza... perché sembrava che il suo fascino avesse ben poco effetto sulle donne. E ricordando quel momento, la Rosa Eldi si sentì nuovamente a disagio. C'era troppa gente attorno a lei, e aveva l'allarmante impressione che tutti la stessero guardando e parlassero di lei alle sue spalle. Continuava a cogliere frammenti di conversazione, ma anche quando si concentrava, non riusciva a udire tutto quello che dicevano. «Notte e giorno» riuscì a cogliere, e «Sono quattro mesi ormai», «Avrebbe dovuto scegliere la ragazza degli Acquachiara» e poi, con maggiore chiarezza: «Se non procreerà, dovrà scegliersene un'altra.» Ma lo sguardo torvo della nobile Auda era la cosa più snervante di tutte. Quella sera, la madre vedova del re era stata fatta accomodare, per un terribile errore o perché lei stessa l'aveva voluto, proprio di fronte alla nuova regina, e i suoi occhi viola sembravano sempre fissi sulla Rosa del Mondo, che avvertiva quello sguardo gelido su di sé ogni volta che era in compagnia della donna e istintivamente aveva capito cosa significava: avversione alimentata da un sentimento di possessività nei confronti di chi aveva usurpato la sua posizione. Auda sedeva lì con quel volto scarno e avvizzito, simile a un'elegante tarantola che aveva perduto la sua tela, i capelli scuri striati di bianco legati in modo severo in un'elaborata crocchia, le labbra così serrate che sembravano strette in una morsa. Emanava regale disapprovazione, e la nuova regina delle Isole del Nord era chiaramente l'oggetto della sua avversione. In tutto quel tempo, da quando la Rosa Eldi era arrivata a Halbo, Auda le aveva a malapena rivolto tre frasi. La prima, la sera in cui aveva messo piede nella Grande Sala non appena sbarcata sul suolo eyrano, era stata: «Se pensi che con i tuoi trucchetti da puttana nomade riuscirai a tenerti mio figlio, ti sbagli di grosso.» La seconda era stata quella tradizionale con cui la madre di un uomo affidava suo figlio alle cure di un'altra donna, ed era stata pronunciata a denti stretti. Dopodiché Auda si era ritirata nelle sue stanze, rifiutandosi di condividere
la tavola, una stanza o persino la stessa aria con la moglie di suo figlio. E la terza frase, poche settimane prima, era stata pronunciata solo dopo che Ravn aveva ordinato che le stanze della nobile Auda fossero rinfrescate con nuove tende e tappeti circesiani, il che aveva comportato la rimozione di tutti i mobili e della padrona stessa dai suoi appartamenti, e con quel trucco il re aveva persuaso sua madre a scendere nel suo studio dove la donna, stringendo le dita della Rosa Eldi nella sua mano fino a farle male, era stata costretta a borbottare: «Benvenuta a Halbo, moglie di mio figlio.» L'ultima parte del tradizionale saluto, 'e mia regina', era stata volontariamente omessa e la Rosa del Mondo aveva notato che suo marito se n'era dispiaciuto, ma non aveva avuto l'animo né il coraggio di insistere. Da quella volta Ravn aveva imposto a sua madre di essere presente in tutte le occasioni ufficiali, e lei aveva obbedito a malincuore, facendo sfoggio di un comportamento altezzoso e continuando a fissare la Rosa del Mondo senza mai rivolgerle direttamente la parola. Quella sera sembrava particolarmente scontrosa, ma c'era una strana luce nei suoi occhi. Poco dopo che il pasto fu servito, all'improvviso si girò verso l'altra parte del tavolo e, senza degnarsi di rivolgere un cenno di saluto a sua nuora, si rivolse al conte di Isola delle Pecore, che era seduto alla destra del re. «La schiena ti fa ancora male, Egg?» Egg ammise che era così, ma disse che era colpa dell'età e degli spifferi della sua camera da letto. Fece per includere la regina nella conversazione chiedendole se trovava il castello freddo, quando Auda lo interruppe. «Be', solo la magia potrebbe rimediare a un acciacco dovuto all'età.» Gettò uno sguardo allusivo alla Rosa Eldi, e quando vide che non provocava alcuna risposta, si lanciò in una lunga dissertazione sulle erbe che, aggiunte al bagno, avrebbero potuto alleviare i disturbi della schiena. «E assicurati di controllare la temperatura dell'acqua prima di entrare: troppo freddo e ti si bloccheranno i muscoli, troppo caldo e non farai che peggiorare la situazione.» Egg la ringraziò. «Questa non è certo magia» disse ad alta voce l'ex regina. «Niente trucchetti come quelli dei nomadi: i buoni vecchi metodi eyrani sono sempre i migliori.» Il conte di Isola delle Pecore sembrò a disagio, ma Ravn era preso da una conversazione con alcune persone dall'altra parte del tavolo e non diede segno di aver sentito la frecciatina di sua madre.
Auda fece ulteriori osservazioni sull'argomento rivolgendosi a una signora seduta non lontano da lei, poi chiamò la sua cameriera personale, una donna egualmente velenosa che si chiamava - senza alcuna ragione apparente, perché non somigliava affatto a un giglio, robusta e scura com'era - Gilgja, e le chiese di «passarle il vino accanto al piatto di quella donna». La serva obbedì, urtando goffamente la spalla della Rosa Eldi mentre prendeva il fiasco. La Rosa del Mondo si voltò, allarmata, ma Gilgja era già andata via. Pochi minuti dopo, Auda alzò ancora la voce. «Portami un cucchiaio che non è stato toccato dalla mano di quella donna!» Su quel lato del tavolo calò il silenzio. Questa volta aveva sentito anche Ravn. «Madre» disse in tono minaccioso. Breta Bransen, seduta alla destra della nuova regina, passò silenziosamente il proprio cucchiaio ad Auda, accigliandosi. Lei non poteva dire di amare la donna che occupava il letto e tutti i pensieri di Ravn, ma una tale scortesia poteva rovinare una serata che già di per sé era abbastanza penosa per lei. Auda prese il cucchiaio senza dire una parola. Pochi minuti dopo, chiamò Gilgja e le sussurrò qualcosa nell'orecchio, al che la cameriera fece un sorrisetto poco rassicurante e corse via. «Vorrete subito dei bambini, immagino» disse l'ex regina a Breta, che arrossì. «Bisogna sbrigarsi, finché si è ancora in tempo. Ci hai messo parecchio a sposarti, eh, ragazza mia? Quanti anni hai, ventitré, ventiquattro?» Breta annuì, imbarazzata. «La stessa età del mio figliolo. Ho sempre sospettato che tu avessi un debole per lui» continuò spietatamente. «E perché mai non ha dovuto scegliere te o un'altra come te lo sa solo Sur. Di buona razza, ecco come sei, e io gliel'ho detto. È di questo che il regno avrebbe avuto bisogno: buon sangue eyrano e un paio di fianchi robusti. Tu gli avresti dato tutti i bambini che voleva per salvare il suo trono... Ma lui è sempre stato il tipo da perdersi dietro un bel faccino, e ora si è preso una moglie che somiglia più a un bianco serpente tutt'ossa che a una vera donna. Eppure sono sicuro che imparerà la lezione a sue spese: con gli uomini è sempre così.» Breta si guardò intorno disperata, le guance in fiamme, ma l'oggetto di quelle considerazioni in quel momento stava offrendo a sua moglie un bocconcino di pollo dal proprio piatto e sembrava non aver sentito le osservazioni della madre. Cercò di pensare a qualcosa da dire all'anziana
donna, ma fu salvata dal ritorno di Gilgja Mersen che portava una nuova caraffa di vino scuro prodotto nei vigneti delle valli intorno ad Acquachiara. A un gesto di Auda, la cameriera riempì le coppe degli astanti; ma quando arrivò accanto alla nuova regina, la donna inciampò, imprecando ad alta voce. Il vino si sparse sulla Rosa del Mondo, sui suoi capelli, che portava sciolti sulle spalle come una ragazzina, sulle spalle, sulla tunica chiara e sulla stola di ermellino, che si impregnò avidamente di quel liquido diventando di un orrendo color rosso sangue. Piccoli rivoli della bevanda corsero giù sulla pelle bianca della Rosa Eldi per sparire sotto il corpetto ricamato nel delicato spazio tra i suoi seni. Tutte le conversazioni cessarono. Auda gemette e sembrò restare senza fiato. I suoi occhi si spalancarono, come se fosse rimasta scioccata dalla goffaggine della sua cameriera. Poi si sporse sul tavolo e afferrò il polso della Rosa Eldi così forte che la fece gridare. Ma invece di mormorare parole di scusa, la vecchia regina dichiarò: «Il sangue verrà dal Sud, e macchierà le nevi di Elda; la pelle bianca si lacererà e si farà rossa. La magia si è risvegliata ed è ormai fuori controllo, la magia selvaggia ci circonda. Il fuoco si abbatterà su Halbo. I cuori avvizziranno e molti periranno.» Poi rovesciò gli occhi all'indietro e si accasciò sulla sua sedia. Se tutto questo era stato orchestrato, pensò Breta Bransen ricordando la conversazione tra Auda e la sua cameriera personale, il piano era stato eseguito alla perfezione. Ciononostante, spettava a lei come ospite d'onore, informarsi dello stato di salute di Auda. «State bene, mia signora? Posso aiutarvi in qualche modo?» Ma l'anziana donna non si mosse. Incuriosita, Breta si chinò verso di lei e le prese una mano. Sembrava così fragile e senza vita e il sangue pulsava leggero e rapido sotto la sua pelle, come le ali di una farfalla intrappolata. Auda rimase immobile. La giovane si guardò intorno preoccupata, ma il re sembrava tutto preso da sua moglie, e non solo per il danno provocato dal vino al suo abito. Perché quando l'anziana donna aveva pronunciato quelle tremende parole, la Rosa del Mondo aveva sgranato i begli occhi verdi e aveva cominciato a tremare da capo a piedi. Fu Brin Fallson a correre al fianco della vecchia regina, a sollevarle la testa e sbirciare sotto le sue palpebre tremanti, per poi dichiarare che era svenuta e doveva essere portata in un luogo tranquillo e confortevole. Breta guardò l'uomo cui sarebbe stata legata, quella notte e in futuro, mentre prendeva con grande tatto il controllo della situazione, mandando
un ragazzo a chiamare il guaritore personale del re, spedendo i servitori ad attizzare il fuoco nel camino in camera di Auda e a farle preparare cibo e vino da consumare quando si fosse ripresa a sufficienza, e poi portando via egli stesso la donna dalla sala con la massima cura e il minimo sforzo, come se fosse stata una bambina; e pensò per la prima volta che, dopo tutto, forse non aveva fatto un pessimo affare per il resto della sua vita. I festeggiamenti erano stati conclusi in fretta e furia: i bicchieri erano stati scolati in rapidi sorsi e il cibo lasciato lì per i cani. La coppia di novelli sposi era stata accompagnata nella sua stanza con molte meno cerimonie e allegria di quanto accadeva di solito. Poiché sua madre non era più in vita, Breta era stata costretta a chiedere alla Rosa Eldi di legare il primo nodo, un otto che rappresentava l'eternità, e di passare attraverso di esso le estremità della corda blu che avrebbe legato la sua mano destra alla sinistra del suo compagno. Ma la regina delle Isole del Nord non aveva mai fatto un nodo in vita sua, e la sposa aveva dovuto fare quasi tutto da sola, tenendole i capi della corda e poi spiegandole il percorso che avrebbero dovuto seguire, il che non le era parso affatto di buon auspicio. Suo padre aveva legato la corda verde al polso di Brin e poi si era girato verso di lei. Le aveva stretto la mano mentre faceva l'intricato nodo e aveva abbassato la sua voce solitamente altisonante sussurrandole: «È un brav'uomo, mia cara. Non ti farà del male.» Breta aveva sentito le lacrime bruciarle gli occhi, ma aveva annuito continuando a sorridere mentre il re faceva un passo verso di lei e la benediceva con un bacio sulla fronte e con l'ultimo nodo, che doveva essere piuttosto complicato, composto da un doppio nodo da vela intrecciato con l'ancora di Sur per augurare buon vento e sicuro approdo, ma che in questo caso fu un semplice nodo a margherita realizzato da Ravn in un paio di secondi prima di correre dietro a sua moglie che si era già allontanata. La Rosa Eldi provava un insolito dolore che le tormentava le tempie. Sentiva battere furiosamente il sangue in quel punto... sempre ammesso che fosse sangue quello che scorreva dentro di lei. Aveva cominciato a dubitarne. Da quando Virelai l'aveva portata via a Rane, da quando avevano lasciato Santuario in quella minuscola barca, con lei chiusa nella cassa di quercia in cui il Padrone la teneva nascosta, la Rosa del Mondo aveva vagato come in un sogno, curandosi ben poco del mondo o della gente intorno a lei: era tutto troppo confuso, troppo strano. E si era curata ben poco anche del passare del tempo. La sua vita era stata migliore nel perio-
do in cui avevano viaggiato con i nomadi, perché almeno Virelai non aveva potuto vendere il suo corpo a ogni uomo che lo desiderava: tra i Viaggiatori non si usava denaro, anche se molti degli uomini le avevano chiesto se volesse trascorrere del tempo con loro. Ma Virelai, quando aveva capito che non avrebbe potuto trarne alcuno profitto, li aveva mandati via infuriato, e lei era stata lasciata in pace. Poco prima di arrivare alla Grande Fiera, la figlia della vecchia veggente, Alisha, che a volte aveva condiviso il suo corpo con Virelai, era andata da lei di mattina e le aveva chiesto se le servisse un incantesimo contro il concepimento. E quando la Rosa del Mondo le aveva chiesto che cosa intendesse dire, Alisha aveva riso e le aveva mostrato la sacchetta di erbe essiccate che portava intorno al collo. «Come questa: linaria, mirride e garofano rampicante. Indossa una di queste e non dovrai più preoccuparti dei bambini.» Anche dopo quella spiegazione la Rosa Eldi l'aveva guardata perplessa. Forse quelle erbe respingevano i bambini come il profumo dell'arancia sembrava respingere i gatti? Alisha aveva battuto le mani divertita e aveva riso. Ma quando poi aveva visto che la donna pallida aveva parlato sul serio, le aveva fatto altre domande. Le sue mestruazioni erano normali? E quando anche in quel caso la Rosa Eldi era sembrata non capire, Alisha le aveva spiegato diverse cose, sulle maree, sulla luna, sul movimento del sangue nel corpo di una donna e su come il suo grembo si preparasse ogni mese a ricevere il seme di un uomo che avrebbe dovuto mettere le radici al suo interno. La Rosa del Mondo si era accigliata e aveva replicato, «Io non ho sangue» prima di voltarsi e lasciare Alisha a bocca aperta fuori dal carro. Ora si chiese se quell'affermazione non fosse proprio la verità. Aveva imparato molte cose del mondo nei mesi trascorsi da quel giorno. Erano passati quattro cicli lunari da quando Ravn Asharson era partito con lei dalla pianura della Luna Caduta, quattro cicli lunari durante i quali lui aveva versato il suo seme in lei ogni notte e spesso anche diverse volte durante il giorno. Eppure la sua pancia rimaneva piatta come una tavola e la sua vita sottile come sempre. A corte le ragazze che si erano sposate e avevano giaciuto con i loro uomini dopo il suo arrivo a Halbo si vantavano già della loro fertilità e se ne andavano in giro pavoneggiandosi per le curve più prosperose dei loro corpi. Lei aveva imparato a mentire con le donne che venivano discretamente da lei a chiederle i suoi panni assorbenti da lavare dicendo loro che le piaceva pensarci da sola. Ma dai frammenti di conversazione che aveva sentito anche quella sera, le voci cominciavano a girare.
E la nobile Auda sarebbe diventata sempre più insistente col passare del tempo. «Bambini per salvare il trono» ripeté a se stessa, anche se non capiva completamente cosa l'anziana donna avesse voluto dire. «Cosa hai detto, mia colomba?» Ravn era entrato silenziosamente nella stanza dietro di lei: la donna si voltò di scatto, portandosi una mano alla bocca. «Chi sono io?» gli chiese allora. Era una domanda che non aveva più avuto bisogno di fargli da settimane. Ravn attraversò la stanza, le posò con delicatezza le mani sulle spalle e la tenne a distanza di braccia per poterla guardare in viso alla luce delle torce che ardevano sulle pareti. «Tu sei la Rosa Eldi, la Rosa del Mondo, la regina delle Isole del Nord e del mio cuore.» Era la risposta che di solito la calmava... ma non quella sera. «E non sono abbastanza per te?» Ravn si accigliò. «Cosa intendi dire? Tu sei tutto ciò che avrei mai potuto desiderare, la donna più bella, la moglie più perfetta che ogni uomo, ogni re, potrebbe desiderare.» «Ma ti servono dei bambini per salvare il trono.» Lo disse senza alcuna intonazione, per lasciare che le parole acquistassero per lui quel senso che per lei non avevano. «Bambini per salvare il trono? Ah! Dei figli da te: per assicurare la mia successione, per fermare i lupi che mi girano intorno incessanti.» Le sorrise, i denti bianchi che spiccavano tra la corta barba nera. «Cosa mi stai dicendo, amore mio?» La Rosa del Mondo non poté fare a meno di rispondere al sorriso di suo marito, con un gesto del tutto involontario. Il viso di Ravn si illuminò all'improvviso. Fu come se qualcuno avesse acceso un fuoco dentro di lui: i suoi occhi brillarono di un'improvvisa, incontrollata felicità. La luce dorata delle candele si riflesse nelle sue iridi scure, addolcendo gli zigomi affilati e la mascella volitiva. Il re gettò indietro la testa e fece una grande risata. La Rosa del Mondo osservò sgomenta quell'improvviso scoppio di gioia. Lui aveva frainteso qualcosa che lei aveva detto, qualcosa che lei non aveva capito... Ma ora che finalmente capiva era troppo tardi. Quando la abbracciò e la portò con tenerezza sul letto, non seppe cosa dire. Quando lui la svestì con cura esagerata e le accarezzò con dolcezza i fianchi snelli,
non poté far altro che continuare a sorridere. Ma quando lui posò la testa sulla sua pancia e si addormentò in quel modo senza toccarla in nessun altro modo, dell'acqua cominciò a colarle dagli occhi. Lei ricacciò indietro quell'umidità battendo furiosamente le palpebre, scossa dall'improvvisa emozione che le dava quella sensazione così sconosciuta. Grosse lacrime le caddero lungo il viso e nella bocca. Erano calde e salate, e inattese. Poi ricordò qualcosa. Era tutto sfocato, impossibile da definire, ma era un ricordo, di quello era certa. Lei era in piedi sul ciglio di una voragine ricoperta di pietre e guardava in basso. La polvere intorno a lei stava appena cominciando a posarsi e si sentiva un suono distante, un rimbombo coperto dal rumore delle rocce che cadevano. Ricordò che aveva provato un dolore fisico nel petto, una strana sensazione in gola come se avesse ingoiato una di quelle rocce, un fastidioso bruciore agli occhi e poi quella stessa acqua calda e salata che ne usciva. I suoi piedi erano coperti di polvere. Era polvere rossa e sottile, e si era attaccata anche all'orlo della sua tunica bianca. Era a piedi nudi. Una goccia d'acqua cadde, lenta come una piuma, e le bagnò un piede, lasciando un segno nella polvere. E poi una mano crudele l'aveva trascinata via e lei si era incamminata alla cieca, la vista annebbiata dalle prime lacrime che avesse mai versato in tutta la sua vita. 16 Sopravvissuti Solo la metà dell'equipaggio del Lupo delle Terre Innevate, la migliore nave che Morten Danson avesse mai costruito, riuscì a tornare a Rocciacaduta. Tam Volpe era perduto, e con lui Silva Manoleggera, Min Facciadipesce e una mezza dozzina dei migliori acrobati e giocolieri di Elda, le cui abilità non sarebbero servite a nulla nelle profondità del mare che li aveva inghiottiti. Bella, il Gatto di Fuoco, e altre due donne erano sopravvissute, insieme a Jad, al funambolo e al costruttore di navi per il quale era stata organizzata l'intera spedizione. Una delle scialuppe era rimasta intatta; il resto dei sopravvissuti si era aggrappato all'albero spezzato e a pezzi di assi galleggianti finché Urse, che ora aveva un nuovo taglio sul viso già deturpato, non aveva riportato tutti a bordo. Katla Aransen era rimasta seduta a prua per ore, anche dopo che Urse e uno degli acrobati di cui non
conosceva il nome avevano preso un remo per ciascuno e avevano cominciato a remare, scrutando le onde alla ricerca del loro capo, di Halli e di quella che era appena diventata la sua promessa sposa, Jenna Finnsen. Nonostante Katla ne fosse stata personalmente testimone, perché l'ultima volta che aveva visto Halli e Jenna erano legati inestricabilmente dalle corde rituali e venivano trascinati fuoribordo da una potente ondata, le sembrava ancora impossibile credere che fossero annegati. E Tam Volpe aveva una tale forza vitale, una personalità e un fisico così potente che di certo non poteva essere morto. Katla vide per un istante il suo viso su di lei nell'oscurità, le trecce che ondeggiavano al vento e gli occhi che brillavano alla luce della luna, poi chiuse gli occhi e scacciò via quell'immagine. Remarono per tre giorni senza cibo né acqua. Il secondo giorno piovve e tutti puntarono i volti verso il cielo e bevvero quanto riuscì loro di raccogliere con la bocca. Si alternarono ai remi a intervalli di poche ore. L'acqua salata piagò le palme delle loro mani. Alcune delle donne piansero, ma il loro lamento non commosse Katla, facendola sentire invece ancora più svuotata, inaridita. Stringeva il suo remo e fissava le onde grigie, continuando a non provare alcuna emozione. Perché? Nello spazio di pochi minuti aveva perso il suo amato fratello, la sua amica e... Non aveva idea di come definire Tam Volpe, perciò cercò di non pensare affatto a lui. Stranamente, per Jenna provava molto poco: vedere suo fratello soffrire per la sua sciocca incostanza sembrava aver indebolito l'amicizia che c'era tra loro. I ricordi di Halli, invece, la circondavano: in fondo, il mare era il suo elemento. Un centinaio di volte o più avevano remato insieme fuori dal porto di Rocciacaduta nella piccola faering che Aran aveva costruito per il figlio quando aveva sei anni. Amavano andare a pescare intorno ai banchi di scogli e oltre, dove non avrebbero dovuto avventurarsi. Riportavano a riva sgombri, merlani neri e, di tanto in tanto, dopo una breve lotta, delle grosse spigole. Una volta Halli aveva catturato un'aguglia e, mentre la creatura dallo strano muso si agitava impazzita all'interno della barca, lui si era gettato in acqua per la paura, lasciando Katla a tentare di afferrare quella cosa, toglierle l'amo dalla bocca e rigettarla in mare. Solo che, ovviamente, invece che ributtarla semplicemente tra le onde, Katla aveva aspettato che Halli tornasse su e gliel'aveva gettata addosso, colpendolo proprio sulla testa. Riusciva ancora a ricordare il secco rumore come di un ceffone, il grido d'angoscia di Halli, gli spruzzi che aveva fatto quando si era immerso di nuovo per sfuggire a quella strana creatura. Era sempre stato un ottimo
nuotatore: era già arrivato a metà strada per Rocciacaduta, prima che lei riuscisse a girare la barca e a raggiungerlo. Sorrise a quel ricordo, all'immagine del volto furioso del fratello, a come l'aveva tirata giù dalla barca e l'aveva costretta a nuotare fino a casa, a come avevano spruzzato acqua per tutta casa come un paio di gattini bagnati, e a come la loro madre li aveva rimproverati per aver rovinato i tappeti di giunco nuovi che aveva messo proprio quel pomeriggio. «Così va meglio, ragazza mia.» Urse si chinò verso di lei e le diede una pacca sul ginocchio. «Guarda il lato bello della faccenda. Sono con Sur ora, siamo ancora vivi e respiriamo la sua aria.» Katla accennò un debole sorriso, incerta su quale dei due stati fosse preferibile. Qualche tempo dopo incontrarono un peschereccio che gettava le reti intorno all'isola di Cullin, furono presi a bordo e portati a vele spiegate a Rocciacaduta. Entrare nel porto di casa, dove le due chiatte del cantiere navale erano già ancorate; gli sguardi della gente radunata sulla banchina, incuriosita dal fatto che due grandi barche cariche di legna fossero arrivate prima di un vascello veloce; barcollare dentro casa al braccio di Urse; il grido di dolore di sua madre, la tacita infelicità di Aran, il volto pallido e sconvolto di Fent, il silenzio innaturale della fattoria dove tutti andavano in giro in punta di piedi, senza sapere cosa dire... Ricordava molto poco di quei momenti, tranne che alla fine aveva tracannato una caraffa di latte, aveva vomitato all'istante e poi aveva dormito come morta per quasi due giorni consecutivi. «Doveva toccare a me» disse Fent per l'ennesima volta. «La maledizione della seither era destinata a me, non a Halli.» Katla era stufa di sentirlo ripetere sempre le stesse cose, stufa di parlarne ancora: si sentiva esausta e con i nervi a fior di pelle. Fent l'aveva costretta a descrivere l'attacco della creatura, la loro difesa, il rovesciamento della nave e le sue conseguenze così tante volte che la sequenza degli eventi stava cominciando a sembrarle sempre più confusa, come se in qualche modo, mentre lo descriveva, suo fratello cercasse di appropriarsi del suo racconto, perché era geloso del ruolo fondamentale che Katla aveva avuto. Pareva quasi che Fent desiderasse essere parte del dramma che non aveva vissuto, cercando di reclamarne una parte per sé. «Non puoi crederci davvero. È solo superstizione.» «Katla!» Fent sembrava atterrito. «Non dire queste cose: se parli così at-
tirerai di certo il disastro sulle nostre teste.» «E quale peggior disastro potrebbe capitarci? Davvero, Fent, è stato solo un enorme narvalo o qualcosa del genere, e parecchia sfortuna. Non c'era niente che avremmo potuto fare per evitarlo.» Raccolse un pezzo di legno e lo tirò attraverso il pascolo perché Ferg lo rincorresse, ma il vecchio segugio si limitò a guardar volare il bastoncino senza troppo interesse, poi si sedette a leccarsi i genitali. Non si era staccato da Katla neppure per un istante da quando era tornata, e la sua silenziosa presenza le era di maggior conforto di qualsiasi parola o contatto umano. «E allora le chiatte?» insisté Fent. «Di certo devono aver assistito all'attacco.» «Il Lupo delle Terre Innevate ha fatto una tappa durante il viaggio di ritorno» replicò Katla a denti stretti. Non aveva intenzione di parlare di quella notte, non a Fent. L'ansia la logorava: era come un sassolino appuntito che continuava a rotolare avanti e indietro nella sua testa. Irritata, la scacciò. «Le chiatte invece hanno continuato per la loro strada: non possono aver visto niente.» Era strano come il ricordo che ciascuno aveva della creatura marina fosse differente da quello degli altri, come se fossero stati attaccati da una dozzina di bestie diverse. Già sulla scialuppa, a poche ore dall'incidente, le impressioni dei sopravvissuti avevano cominciato a divergere da ciò che Katla stessa ricordava. E da quel momento l'intero episodio sembrava aver assunto vita propria: gli scampati al naufragio continuavano ad aggiungere dettagli su dettagli, e la storia veniva poi abbellita dagli ascoltatori stessi e raccontata in decine di versioni leggermente o del tutto diverse alla gente degli altri insediamenti e ai mercanti che passavano di lì, alle donne al mercato e ai marinai dei vascelli ancorati al porto. Katla aveva sentito Fotur Kerilson raccontare al maggiore degli Erlingson che il Lupo delle Terre Innevate era stato rovesciato da un'onda anomala, e sapeva anche che Urse, la cui versione dei fatti era sempre stata estremamente precisa, conosceva il vecchio Erlingson; Stein Garson insisteva invece che la nave era stata attaccata da una schiera di sirene ornate di alghe e teschi umani che erano venute a rimpinguare la loro collezione di marinai e pescatori. Dopotutto, il tempo era bello ormai da mesi e nessuna nave delle isole era affondata sin da quanto la Edredone era colata a picco al largo di Punta Alta... Da parte sua Katla non vedeva motivo di alimentare ancor più la ridda di ipotesi con le proprie bizzarre osservazioni sulla creatura... anche perché
nessuno sembrava aver notato i suoi occhi. Col passare dei giorni aveva persino cominciato a pensare che quel particolare fosse frutto di uno scherzo della luce o addirittura della sua immaginazione. Ma poi ricordava la strana energia che aveva percepito nel legno della nave e nelle acque sotto la chiglia e l'assoluta certezza che aveva avuto a prima vista che quello non era un essere naturale, e veniva nuovamente assalita da una terribile ansia. Le riusciva sempre più difficile scuotersi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato nel mondo, come se la realtà si stesse deformando, e che un aspetto di quella deformazione avesse scelto di manifestarsi a lei e nel farlo si fosse portato via suo fratello, la sua sposa e Tam Volpe, nonché metà della compagnia di quest'ultimo. Fu proprio quella sensazione che la spinse a essere così brusca con Fent in quel momento: aveva messo il dito nella piaga. Guardò il suo gemello allontanarsi irritato, scalciando i sassi mentre camminava. Non era mai riuscito a sopportare che lei non volesse giocare insieme a lui, e crescendo il suo carattere non era cambiato. Halli aveva sempre fatto da scudo e da arbitro tra i due, facendo in modo che le loro dispute non diventassero mai troppo violente. Katla si chiese come sarebbe stato senza di lui, e scoprì che non riusciva neppure a pensarci. Si ritrovò invece a riflettere su un'altra questione, un problema che stava cominciando a tormentarla sempre più col passare dei giorni. Aveva tentato di ignorarlo, ma non appena aveva un momento di quiete, di solito al risveglio o prima di addormentarsi, quel pensiero tornava da lei con forza sempre maggiore. Voltando la schiena alla figura sempre più lontana di suo fratello, tornò verso la casa. Mentre si avvicinava al cortile vide una sagoma familiare seduta fuori dalla porta. Sembrava che sua nonna si fosse stancata della compagnia delle altre donne e avesse trascinato fuori la sua pesante sedia per prendere un po' d'aria finché il tempo ancora lo permetteva. Era seduta lì, con il volto verso il sole, e la luce dorata che le inondava il viso sembrava levigare le profonde rughe dell'età, facendola apparire molto più simile a sua figlia che a una donna in età avanzata. In grembo aveva un pettine d'osso ingiallito, che stringeva pigramente tra le mani. Ai suoi piedi c'era un cumulo di quella lana oleosa e marrone che cresceva abbondantemente sui dorsi delle pecore di Rocciacaduta. Katla sorrise. Sembrava così in pace. Ma sentendo i passi della ragazza avvicinarsi, Hesta Rolfsen aprì di scatto gli occhi e fissò la nipote con sguardo penetrante. «Non posso neppure chiudere gli occhi per un secondo senza essere di-
sturbata?» «Mi dispiace, nonna. Ti lascio sola.» La mano artritica della vecchia scattò rapida come un serpente per stringersi intorno al braccio di Katla. «Tanto vale che resti con me, ora che hai disturbato il mio riposo.» E quando Katla esitò, «Be', siediti, bambina» aggiunse. «Mi copri il sole.» Katla si sedette a gambe incrociate ai piedi di sua nonna. «Perché sei qui fuori e non dentro con le altre? Ne hanno forse avuto abbastanza della tua lingua tagliente e ti hanno trascinata fuori, con la sedia e tutto il resto?» «Creatura impudente! Si dà il caso che non riuscissi a sopportare un minuto di più di restare là dentro in quella buia sala a filare la mia lana mentre Magia Ferinsen con quella sua vocetta lamentosa non smetteva di lamentarsi del fatto che salare il pesce sta rovinando la sua 'morbida pelle'. Maledetta donna. Come se ci fosse qualcosa da rovinare, brutta com'è, con quel nasone e gli occhi da stupida mucca!» «Nonna!» Hesta Rolfsen fece una smorfia. «In effetti, mia cara, la verità è che non riesco a stare troppo tempo con tua madre, in questo periodo. Ognuno ha il suo modo di soffrire per le proprie perdite, e io preferisco starmene qui all'aria aperta con il mio dolore piuttosto che guardare Bera che tenta con tutte le sue forze di non crollare. Continuo ad aspettarmi che prima o poi si sfasci come una di quelle maledette navi di Morten Danson.» Non era un'analogia confortante. Ma una volta che nonna Rolfsen cominciava, non c'era modo di fermarla. «E quel malnato che continua a entrare e a uscire come se fosse a casa sua e a servirsi grandi piatti di stufato o pezzi di pane senza una parola di ringraziamento... Non fa altro che incenerirci tutti con lo sguardo e poi andarsene via; e Aran non osa dire una parola per paura che smetta di lavorare su quella dannata nave e tua madre che ci sta sempre più male. Cosa che non mi sorprende affatto: se mio marito persistesse nel suo sciocco piano anche dopo aver perso un figlio in mare per colpa della sua follia, io lo butterei fuori di casa all'istante e rinnegherei le mie promesse matrimoniali senza alcun rimpianto.» Per una volta Katla non seppe cosa dire. I suoi genitori la malapena si parlavano ancora: sua madre continuava a sbrigare le sue faccende in silenzio e gli occhi cerchiati di rosso erano l'unico indizio della sua estrema infelicità, mentre suo padre se ne andava in giro per la fattoria come un camminatore della notte e trascorreva le sue notti a dormire da solo nel
granaio. Il silenzio tra di loro era imbarazzante per tutti coloro che gli stavano intorno. Alla luce di ciò che sua nonna aveva appena detto, Katla si sentì una stupida a tormentarsi per quella che probabilmente era una sciocchezza. Stava per inventare una scusa e tornare al porto a pescare i granchi, quando Hesta aggiunse irritata: «Be', se hai intenzione di startene seduta lì, tanto vale che ti renda utile.» Tese il pettine per cardare a una titubante Katla e poi si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. La giovane allora prese un grosso bioccolo di lana grezza, arricciando il naso per il puzzo, e cominciò a cardarlo con il pettine. Entro pochi minuti, però, l'ammasso si era trasformato prima in un insieme di nodi e poi in una specie di batuffolo inestricabile dal quale era quasi impossibile separare i capi. Imprecando tra i denti, Katla gettò via quel pasticcio e prese una manciata di lana molto più contenuta e provò di nuovo. Ma per quanto si sforzasse, quella roba sembrava avere una volontà propria: ora si era intrecciata intorno ai denti del pettine e anche intorno alle sue dita. «Per le palle di Sur!» Nonna Rolfsen ridacchiò. «Cosa tenti di fare, ragazza mia, di mettermi nei guai con tua madre?» Katla fece una smorfia triste. «A quanto pare non ho ereditato praticamente nessuna delle sue capacità» ammise. «Tu le somigli molto più di quanto non credi.» «Davvero?» A Katla sembrava improbabile. «Pensavo di aver preso da lei solo i capelli.» Anche sotto uno stress tanto terribile da fiaccare qualsiasi donna, Bera riusciva a gestire la casa in modo impeccabile, destreggiandosi tra i compiti più disparati, come pulire il pesce e contemporaneamente manovrare il liccio, con la stessa facilità con cui Silva Manoleggera eseguiva le sue piroette quando era in forma. Maledizione. Katla chiuse gli occhi con un sospiro ripensando all'acrobata che eseguiva il suo ultimo, leggiadro salto nelle acque profonde del mare. «E il suo carattere. La sua tremenda impazienza. Non sono mai riuscita a insegnare a Bera niente di niente: era sempre convinta di saper fare tutto da sola. E poi correva in giro per l'isola come un maschiaccio, tanto che ho sempre creduto che non si sarebbe mai sistemata, che non avrebbe mai preso marito. Sembrava che nessuno fosse degno di lei, né Gor Larson, né Joz Ketilson, e neppure Lars Hoplison, anche se suo padre gli aveva lasciato la fattoria più grande delle Isole Occidentali. Li ha fatti impazzire tutti. Finché non è arrivato tuo padre...»
Katla si appoggiò la testa sulle ginocchia con fare pensoso. L'idea di sua madre, così misurata, così organizzata, così severa, che se ne andava in giro come un maschiaccio era davvero incredibile. «E ha fatto impazzire anche lui?» Hesta Rolfsen ridacchiò. «Povero Aran, aveva perso la testa. Sai com'è fatto: una volta che si mette in testa qualcosa non riesce a pensare ad altro finché non l'ha avuto. Faceva su e giù da qui a casa nostra tutti i giorni in groppa a quel suo minuscolo pony, con le lunghe gambe che penzolavano così vicine al terreno che tanto valeva camminasse invece di cavalcare, e a volte lei scappava dalla porta sul retro e spariva tra le colline come un folletto, e aspettava che il sole calasse e lui se ne fosse andato prima di riapparire. Altre volte invece faceva delle collane di margherite per lui e gliele intrecciava tra i capelli. Il povero ragazzo non sapeva dove sbattere la testa: l'amava alla follia, e lei continuava a dire di no alla sua proposta. È un bell'uomo, le dicevo io: pensa a quanto saranno belli i vostri bambini; e poi è così forte e affidabile. Ma lei continuava a ripetere che non voleva dei bambini e che era già forte di suo. Il mio Rolf era via all'epoca, ma lei mi ascoltava? Niente affatto: avrei potuto parlare istriano per quanto le importava dei miei consigli.» «E tu le consigliavi di accettare la proposta di matrimonio ed essere felice?» «È un brav'uomo, tuo padre, nonostante le sue pericolose ossessioni.» «Lo so.» Tacquero per qualche momento. Una nuvola passò davanti al sole, e un istante dopo un gruppo di storni si levò rumorosamente in volo dagli alberi che circondavano il cortile. Katla raccolse tutto il suo coraggio. «Nonna?» La vecchia notò il cambiamento di tono nella voce di sua nipote. Aprì gli occhi e fissò il volto titubante di Katla. «Un uomo?» Katla arrossì. Poi annuì. Hesta Rolfsen inclinò la testa da un lato e i suoi occhi brillarono come quelli di un falco che avvista una preda. «All'inizio pensavo che fosse il dolore per la perdita di tuo fratello a renderti così spenta, così triste. Ma poi ho avuto l'impressione che ci fosse qualcosa di più.» «Volevo bene a Halli con tutto il cuore.» «Lo so, cara. Tutti noi lo amavamo: era così simile a tuo padre.» Due grosse lacrime cominciarono a scivolare lungo le guance di Katla, e all'improvviso la giovane sembrò incapace di fermare il fiume che era an-
dato ingrossandosi in lei dal giorno del disastro: così tante lacrime che fu come se tutta l'acqua spostata dal Lupo delle Terre Innevate nell'inabissarsi le sgorgasse inaspettatamente dagli occhi. Dopo diversi minuti durante i quali sua nonna l'aveva tenuta stretta dondolando avanti e indietro e Ferg era arrivato di corsa dai campi e aveva preso a girare loro intorno con la coda bassa, il poderoso abbaio ridotto a un guaito perplesso, Katla riuscì a gemere tra i singhiozzi: «È anche per Tam. Tam Volpe.» A quel punto nonna Rolfsen l'allontanò da sé e la fissò con occhi così penetranti che Katla dovette distogliere lo sguardo. «Ah» disse l'anziana donna. «Allora è così. Non mi sorprende affatto: è un uomo notevole, pieno di energia, pieno di vita. Occhi irresistibili. E quelle mani... Ah, mia cara, è così dura perderli. Molto dura. Il mare si porta via sempre i migliori.» L'unico ricordo che Katla aveva di suo nonno materno era quello di un uomo alto, severo, con i capelli color del bronzo striati d'argento e una barba folta e ispida che non riusciva a nascondere la mascella allungata e la fossetta sul mento; un uomo il cui viso poteva trasformarsi in un istante, quando rideva. Lei l'aveva visto solo poche volte tra un viaggio e l'altro, poi il mare l'aveva chiamato a sé, come accadeva di tradizione per gli uomini di Rocciacaduta, pescatori e navigatori, dal primo all'ultimo. E ricordando la perdita di sua nonna e la morte di Jenna, nonché quella di Halli, di Tam e di tutti gli altri membri della compagnia teatrale, Katla si sentì all'improvviso meschina e profondamente egoista. In fondo sapeva bene perché era andata da Hesta Rolfsen: perché non poteva parlare di quello che la turbava né con sua madre, né - Sur non voglia! - con suo padre. Serrando i denti alla fine sbottò: «È ancora peggio. Nonna, temo di essere incinta.» Per un istante fu come se l'intera isola trattenesse il fiato, poi nonna Rolfsen sorrise. Era un sorriso di beatitudine, di assoluta serenità, e all'improvviso il peso che aveva oppresso Katla negli ultimi tempi le cadde dalle spalle, per rotolare sull'erba ed essere portato via dal vento. «È solo un'altra vita, bambina.» Prese la mano destra di sua nipote, quella mano che era stata menomata fino a quando la seither non l'aveva guarita con la magia, e la strinse delicatamente. «Quando hai avuto le tue cose l'ultima volta?» Katla fece una smorfia. «Non ne sono sicura. Non sono proprio capace a star dietro a queste faccende. E non sono neppure certa che Sur volesse farmi nascere donna!» Hesta Rolfsen fece schioccare la lingua in un gesto di rimprovero. «An-
dremo a trovare la vecchia Ma Hallasen e vedremo cosa avrà da dire. Fa miracoli con le capre e le pecore, quella donna: non ne sbaglia mai una.» Katla stava per protestare che non era né una capra né una pecora, quando l'improvviso arrivo di suo padre pose fine alla conversazione. Aran Aranson sembrava non dormire da settimane. C'erano delle ombre nere sotto gli occhi innaturalmente lucidi; la sua pelle appariva pallida e tirata, e la barba era incolta, mentre i lunghi capelli neri erano arruffati. Non si era fatto la tradizionale treccia del ricordo per il suo primo figlio, notò Katla per la prima volta, ricordando con una fitta di dispiacere quella che Erno Hamson aveva fatto per sua madre quando era morta. A volte si chiedeva cosa ne fosse stato di Erno, ma era un altro argomento su cui non osava soffermarsi a lungo. «Mi serve che mi forgi degli altri rivetti, Katla, e dei rinforzi per la prua.» Katla allargò le mani. «I rivetti li so fare, ma i rinforzi?» «Danson ti mostrerà come fare» fu la risposta di suo padre; poi l'uomo girò sui tacchi e ridiscese lungo la collina. Katla lo guardò allontanarsi costernata. Si voltò verso sua nonna, ma Hesta si limitò a stringersi nelle spalle. «Meglio fare come dice, bambina. Non si fermerà finché quella maledetta nave non sarà costruita e non avrà imbarcato ogni stolto dell'isola per la sua folle spedizione.» Morten Danson la stava già aspettando alla fucina. Anzi, sembrava che la stesse aspettando già da parecchio, perché era in piedi a braccia conserte e con un'espressione piuttosto imbronciata, e sembrava aver preso a calci tutti sassi del cortile davanti alla fucina. Non aveva niente con sé, né una corda per prendere le misure né un pezzo di legno segnato con delle tacche. Katla si chiese se la sua impazienza fosse dovuta al ritardo con cui era arrivata lei o a quello del caposquadra, Orm Nasopiatto, che di certo doveva portare i necessari calcoli. Tutto quello che Morten disse fu: «Aran Aranson mi ha detto che tu sei il fabbro migliore di tutte le isole del Nord, e io gli ho risposto che una tale vanteria non gli sarebbe servita a niente se non fosse stata la verità.» Poi la guardò con derisione, sollevando il labbro in un mezzo sorriso che le fece accapponare la pelle. «Io gli ho offerto i servigi del mio fabbro, ma lui ha disprezzato il mio suggerimento. Tuo padre dev'essere impaziente di visitare il palazzo di Sur sul fondo del mare se ha intenzione di affidare un compito così importante a un'adolescente, e per di più a una che di certo è più brava a usare quello che ha tra le gambe per farsi strada nella vita piut-
tosto che manovrare un martello su un'incudine.» Katla non lo prese a pugni in faccia, come avrebbe fatto normalmente se qualcuno l'avesse insultata in quel modo, e questo fatto la sorprese non poco. L'offesa era talmente grave che Danson si sarebbe meritato di essere sfidato a duello da lei o da uno dei suo familiari; ma dal modo in cui te sorrideva, con quei denti bianchi che spuntavano dalla barba meticolosamente curata, era chiaro che sapeva di essere al riparo da ogni pericolo, nel suo ruolo di costruttore di navi del Signore di Rocciacaduta... almeno finché la nave non fosse stata completata e varata. E a quel punto, pensò Katla, vedremo quanto sei coraggioso. Lo fissò con durezza e gli passò accanto per entrare nella fucina, urtandolo con noncuranza. Dentro era buio e soffocante e l'aria era densa di fumo. Aran aveva assegnato a Ulf Fostason una nuova mansione, ossia tenere il fuoco sempre acceso: così ora il ragazzino stava fallendo in entrambi i suoi compiti, perché senza dubbio le sue capre vagavano per la brughiera o, peggio, stavamo mangiucchiando ogni nuovo germoglio nei campi, mentre il fuoco si era ridotto a poco più di un debole bagliore. Ulf, che sembrava annoiarsi a morte, era in piedi appoggiato sul mantice, col viso illuminato di rosso dal carbone ancora caldo, ma non appena Katla entrò si raddrizzò all'istante e iniziò a soffiare sul fuoco. Piccoli riccioli di cenere volarono indisturbati nell'aria e i carboni brillarono avidamente. Katla lo salutò con un cenno del capo, poi si guardò intorno per vedere in che stato fosse la sua fucina, ora colma dei riflessi del fuoco che ardeva. Pezzettini di ghisa grezza erano sparsi su tutto il pavimento di pietra; qualcuno aveva rovesciato metà di un secchio di rondelle e rivetti nuovi tra le scorie della lavorazione e non si era curato di raccattarli. Tutti gli strumenti erano disseminati per la fucina e qualcuno piuttosto maldestro aveva mancato un colpo col pesante martello da lamina e aveva staccato un angolo della sua migliore incudine di granito. Katla aveva un fondato sospetto su chi potesse essere il colpevole: suo padre sembrava posseduto da un demone per quanto riguardava questa nave. Imprecando tra i denti, Katla prese una scopa e riunì i pezzetti di ghisa, le rondelle e i rivetti in un'unica pila e si accucciò per dividere i bulloni e i chiodi dallo sfrido, e poi passò in rassegna anche quest'ultimo per cercare pezzi di qualità che potessero essere nuovamente fusi. Poi raccolse tutti gli strumenti e li rimise al loro posto sullo scaffale, e alla fine girò la grossa incudine, ansimando e sbuffando per la fatica, in modo che l'angolo mancante fosse dalla sua parte e quindi le desse meno problemi. In ultimo si
alzò e si ripulì le mani sui pantaloni. «Allora» disse a Morten Danson con quanta meno cortesia poté. «Dove sono le misure per questi rinforzi?» Il maestro d'ascia si picchiettò la fronte. Katla lo guardò, perplessa. Era difficile capire cosa intendesse con quel gesto: voleva forse dire che era pazza, 'toccata' come avrebbe detto nonna Rolfsen, o che lo era lui? «Cosa?» gli chiese sgarbatamente. «Tutto quello che c'è da sapere sulla fabbricazione di ogni pezzo di una nave è qui, nella mia testa» disse Danson, sorridendo con insopportabile compiacimento. «Be', non è così che lavoro io» rispose Katla infuriata. «A meno che non sia anche nella mia testa. Come posso calcolare la quantità di ferro che devo fondere, o la forma e lo spessore da ricavare con il mio martello?» Danson si strinse nelle spalle. «Te lo dirò io.» Prendere ordini da chiunque non faceva per Katla. «Non credo che funzionerà» disse irritata. «E allora cosa suggerisci?» chiese bruscamente il costruttore di navi. «Devo vedere come il rinforzo dovrà incastrarsi nel legno, come sarà fissato, la sollecitazione a cui sarà soggetto dal movimento della nave.» Danson la fissò sorpreso. Non era affatto quello che si era aspettato: era abituato al fatto che la maggior parte dei suoi uomini facessero esattamente quello che lui diceva loro come se non avessero più cervello di una pecora, e ora che una donna pensasse di prendere attivamente parte alla fabbricazione... Bene, allora! Le avrebbe mostrato lo stato dei lavori e le avrebbe lasciato fare la figura della sciocca, come inevitabilmente sarebbe successo, data la sua arroganza. «Vieni con me» disse bruscamente, e girò sui tacchi. «Tieni quel fuoco caldo, Ulf» ordinò Katla sorridendo al guardiano delle capre e trotterellò dietro il costruttore di navi. Era ormai più di una settimana che non si recava al terreno della sua famiglia vicino alla Spiaggia della Balena per rendersi conto di come procedeva la costruzione della nave. Ciò che la tormentava aveva oscurato tutto il resto. L'ultima volta che era stata lì non aveva trovato molto da vedere. Quattro dei grandi tronchi che avevano trafugato dal cantiere navale di Danson erano stati portati a terra; una delle querce più grandi, un bestione di due metri e mezzo o più e dritta come una corda tesa, era stata tagliata a metà per scoprire il durame, dorato, profumato e compatto. Gli operai avevano grattato via la corteccia dal secondo grande tronco, una quercia cre-
sciuta anch'essa perfettamente dritta. Gli altri due fusti invece si incurvavano leggermente per l'intera lunghezza, un fatto che aveva sorpreso Katla: quest'ultimo paio infatti non sembrava in grado di produrre dei buoni corsi di fasciame, la cui delicata curvatura veniva realizzata tramite attenta esposizione al vapore. C'erano state decine di uomini impegnati con accette e scuri, e l'aria era piena del buon odore del legno appena tagliato; ma Katla, incapace di concentrarsi a lungo su qualsiasi cosa che non fosse la sua attuale preoccupazione, si era ritrovata a vagare altrove con la mente e aveva lasciato che i suoi piedi seguissero il loro desiderio di fuggire dal caos e dal rumore. Ora però c'era molto di più. Almeno due dozzine di uomini erano al lavoro sul prato verde che sovrastava la spiaggia impiastrata di alghe. Uno sparuto gruppetto proveniva direttamente dal cantiere navale di Morten Danson e aveva viaggiato sulle chiatte, attirato dalla promessa di un compenso adeguato all'esperienza; ma la maggior parte era costituita da abitanti di Rocciacaduta da generazioni: uomini scuri, alti e forti, con mani abili e volti scolpiti nella pietra. Lavoravano con le barche da tutta la vita, anche se non erano carpentieri provetti, e la possibilità di prendere parte all'ambizioso progetto di Aran Aranson appariva loro un buon mezzo per rendere omaggio alla perdita di quel figlio tanto benvoluto sull'isola. Diversi speravano anche in cuor loro di essere scelti per la spedizione: non solo avevano sentito raccontare storie sull'Isola dell'Oro, ma molti erano figli minori di povere famiglie con poca speranza di ereditare della terra a meno che, Sur non volesse, una disgrazia non portasse via parecchi dei loro fratelli. Così lavoravano tutti con molta cura e orgoglio per costruire una grande nave per il Signore di Rocciacaduta. Ricavavano ottime tavole dagli enormi tronchi d'albero con sicuri colpi di ascia; chi sapeva usare un'accetta e un cesello ricavava gallocce e scalmi per i remi, mentre i meno abili bagnavano il vimini in acqua di mare e olio per renderlo sufficientemente flessibile da poter essere usato come rizze; altri erano invece impegnati a riscaldare il legno di pino appena tagliato, tanto che un pungente odore di resina si mischiava con il fresco profumo del legno sgrossato. Katla conosceva la maggior parte degli uomini che lavoravano lì: con loro era cresciuta e li vedeva tutti i giorni in giro per Rocciacaduta. C'erano Bran Mattson e Stein e Kotil Garson, Lars Hoplison, Finn Erlgingson e suo fratello Rolf, gli affascinanti Stenson dal nord dell'isola, Felin Navegrigia e i suoi figli Gar e Bran, e persino Kar Piededialbero e lo zio Margan erano lì, anche se avevano la loro terra a cui badare e non avrebbero dovuto la-
sciarsi coinvolgere nel folle progetto di Aran. Katla sorrise: sua zia Gwenna, la sorella di Bera, era una donna formidabile, e lo zio Margan sarebbe stato nei guai quando fosse tornato a casa, se mai avesse osato farlo. Il cuore prese a batterle forte mentre osservava la scena. L'entusiasmo era palpabile: un'avventura prendeva forma davanti ai suoi occhi. Questa spedizione apparteneva a ogni uomo presente e ciascuno ne avrebbe fatto tesoro nel proprio animo: tutti qui partecipavano al sogno di suo padre. Il romanticismo insito in quell'idea le piacque e la spinse a fare un ampio sorriso. E laggiù, a malapena visibile al centro del capannello di uomini che vi lavoravano intorno, c'era il cuore di tutta l'impresa: la cosa più elegante che Katla avesse mai visto, inclusi i gioielli più costosi indossati dalle nobili alla corte di Halbo, i pony di razza più pregiata dell'isola e la migliore spada che aveva forgiato. Appoggiata su una struttura di pino sgrossato e sorretta da travi incrociate alle due estremità c'erano la spina dorsale, la testa e la coda di una magnifica nave. Facendosi strada come in trance tra uomini indaffarati e pile di legname, e superando senza neppure guardare pezzi di legno di scarto, strumenti e sacchi di lana e crine di cavallo, alla fine Katla si bloccò sotto l'ossatura della prua e allungò il collo verso l'alto. Ricavato da un singolo tronco d'albero, il dritto di prora si curvava verso l'esterno alla base, e poi di nuovo su se stesso, simile al collo pieno di grazia di un nobile cigno. Katla ne seguì la linea verso il terreno. La chiglia profonda e massiccia doveva essere stata senza dubbio ricavata dall'enorme quercia che l'ultima volta aveva visto tagliata a metà sulla spiaggia, e doveva essere stato un provetto carpentiere a fare quel lavoro, perché era stata ricavata da un singolo pezzo, nonostante fosse quasi venti metri di lunghezza. Nelle isole del Nord non c'erano più alberi così possenti: quella quercia doveva essere stata abbattuta nel bosco sacro sopra Promontorio Grande. Istintivamente Katla fece un segno scaramantico e sperò che tutti gli spiriti tutelari dell'antico bosco fossero stati convenientemente propiziati quando l'enorme albero era stato abbattuto. E poi non poté fare a meno di tendere la mano e toccarlo. Immediatamente sentì una scossa di energia percorrerle il braccio. Rimase senza fiato, invasa dalla meravigliosa ondata di vita che percepì nel legno. Allo stesso tempo, però, riuscì a mantenere un distacco sufficiente per ammirare l'opera dell'artigiano che aveva preso un bell'albero e ne aveva ricavato una forma così elegante. Dove la prua incontrava la chiglia era stata fatta una giunzione a regola d'arte: le estremità del legno erano state levigate alla perfezione e i rivetti incassati così bene che quando si inginocchiò per passarvi sopra una mano
quasi non sentì alcuna differenza sotto le dita. L'intera struttura sembrava vibrare contro la sua pelle come un gatto che fa le fusa. All'improvviso la tentazione di restare lì seduta per il resto del giorno e continuare ad accarezzare quella cosa fu fin troppo forte... Con un enorme sforzo di volontà tolse la mano dalla prua e fissò sbalordita il costruttore navale. «È straordinaria.» Danson si limitò a chinare la testa in risposta. Katla si sentiva stordita, euforica. Si raddrizzò lentamente, per paura di perdere l'equilibrio e finire lunga distesa a terra davanti a lui. «Allora: mostratemi dove dovranno andare questi rinforzi» disse alla fine, cercando di riprendere il controllo di sé. L'uomo indicò l'incavo all'interno della nave, dove la chiglia incontrava il dritto di prua e dove il primo dei torelli era stato inchiodato al suo posto. «Qui e qui, e lungo l'ammorsatura della chiglia per rafforzare la prua in modo che supporti il rompighiaccio. Dovrebbe partire da qui» indicò un punto sopra la seconda tavola «e qui» una trentina di centimetri dopo l'ammorsatura. «Servono pezzi a croce qui e qui per rafforzare, e sarebbe meglio se fossero ricavati da un pezzo unico invece che saldati, se sei in grado di farlo.» Sapeva perfettamente che era impossibile: non lo avrebbe mai chiesto neppure al proprio fabbro, ma avrebbe goduto immensamente a vederla fallire. «Poi rivetteremo il pezzo esterno attraverso il legno fino al rinforzo interno. Renderà la prua meno flessibile di quanto vorrei, ma tuo padre insiste che il rompighiaccio è necessario.» Katla andò dall'altra parte della nave e sbirciò da sopra il corso di fasciame superiore, meravigliandosi di come i differenti pezzi di legno tagliati a mano si fondessero insieme in modo straordinariamente perfetto, e la sua opinione dell'odiato costruttore di navi si trasformò in riluttante ammirazione. Afferrando un secchio di legno vuoto che puzzava di pesce, lo rovesciò e ci salì sopra, fino a raggiungere il punto sul quale il rinforzo in ferro sarebbe stato fissato. Poi chiuse gli occhi e fece scorrere le mani su e giù sopra le travi. Danson la guardò, con un sopracciglio sollevato che esprimeva incredulità. Quella ragazza era pazza, oppure era geniale, anche se lui propendeva senza dubbio per la prima ipotesi. Che facesse pure del suo peggio: dopo che lei avesse sprecato una notevole quantità di ferro per produrre un'inutile mostruosità impossibile da montare, allora lui si sarebbe assicurato che quell'ottuso di suo padre si rendesse conto della verità. Scuotendo la testa, si allontanò per controllare i progressi del suo caposquadra con la piegatu-
ra al vapore delle assi. Katla tornò alla fucina come una sonnambula, e quando Ulf Fostason le parlò lei si limitò a salutarlo con un cenno del capo. Per tutto il pomeriggio la fucina rimbombò del suono del martello sull'incudine, mentre fumo e cenere fuoriuscivano dalle finestre. Quando il sole calò dietro il Dente del Segugio e gli uomini tornarono stanchi dal loro lavoro per rifocillarsi in casa, il guardiano delle capre barcollò fuori nel crepuscolo, con gli arti che gli tremavano per la stanchezza. Alla luce della torcia, con il viso e le braccia lucidi di sudore e i capelli fradici e scompigliati, Katla raffreddò il pezzo di metallo in catrame di pino e olio di semi di lino e guardò soddisfatta il proprio lavoro. Mentre Aran Aranson conversava con Morten Danson e Orm Nasopiatto a cena, discutendo di quale fosse il miglior rapporto di vela e albero con la chiglia per sfidare i forti venti del nord, sua figlia barcollò giù verso la Spiaggia della Balena con uno stranissimo affare in mano. L'oggetto che aveva forgiato somigliava infatti ben poco al semplice supporto di ferro che Danson aveva chiesto. Era molto più leggero di quanto si era aspettata quando aveva cominciato a forgiarlo con il suo martello dal semplice metallo fuso, perché l'aveva riscaldato finché non era diventato blu, poi l'aveva battuto e raffreddato tagliando via le parti in eccesso; poi l'aveva battuto di nuovo, rendendolo ancora più sottile, e l'aveva raffreddato ancora; però era forte, molto più resistente della struttura robusta ma rozza che era stata progettata originariamente. E anche se l'aveva reso così sottile, aveva eliminato tutte le impurità con la fusione in modo così completo che era certa che il metallo avrebbe sopportato prima l'onta della chiodatura e poi la sollecitazione del legno in movimento e infine la contropressione del rompighiaccio che sarebbe stato aggiunto alla chiglia sotto il pelo dell'acqua. Quella era la parte più rischiosa del progetto: anche la nave più perfetta poteva essere rovinata da una tale aggiunta, specialmente se il rompighiaccio veniva fabbricato da mani inesperte; ma poi Katla ricordò lo stupendo lavoro di falegnameria e le eleganti linee della nave e capì che Danson era un uomo troppo orgoglioso per permettere che la scarsa fattura di un pezzo deturpasse la sua creazione. Isolata sulla sua goffa culla di pino sulla spiaggia vuota, con la luce della luna che delineava la sua elegante struttura, l'ossatura della nave di Aran Aranson appariva più austera che mai. Katla respirò profondamente e si avvicinò con una certa trepidazione. Qualcosa l'aveva spinta ad andare a
posizionare l'armatura che aveva creato all'interno della nave in un momento in cui non ci sarebbero stati testimoni della sua azione; ma se fosse stato per paura che il pezzo non andasse bene e che i suoi sforzi fossero messi in ridicolo oppure per un qualche oscuro e quasi religioso bisogno di entrare in comunione con il legno e il ferro, elementi nati entrambi dalle radici di Elda, Katla non avrebbe saputo dirlo, ma entrambe le prospettive erano comunque terrificanti. E perciò, in bilico sul secchio rovesciato che era ancora dove l'aveva lasciato, la giovane sollevò l'armatura sulle tavole rivettate, notando con la parte della sua mente non ancora paralizzata dalla paura che due nuove tavole erano state aggiunte da quanto se n'era andata quel pomeriggio, e la posizionò all'interno della prua. La scossa che percorse le sue mani quando il legno e il metallo si toccarono per poco non la fece cadere dal secchio. Fu come se la quercia, persino in questa sua forma mutilata e lavorata dall'uomo, si tendesse verso il ferro, lo abbracciasse e lo accogliesse dentro di sé. Il rinforzo si adattava come una seconda pelle, persino all'altezza dei rilievi, nel punto in cui il fasciame si sovrapponeva. Katla rimase in piedi sul secchio, con le palme delle mani che brillavano contro il metallo, sentendo la vita nel legno sotto di esso e la vita del mondo ancora più sotto, dove la chiglia incontrava la struttura di pino e la struttura stessa incontrava il terreno, dove le vene rocciose sotto la spiaggia si gettavano nel mare e giù, sempre più giù, nel cuore di Elda stessa... E poi arrivò la voce. Non salpare con questa nave, Katla Aransen, perché io ho bisogno di te. La testa di Katla si sollevò di scatto e involontariamente la ragazza si guardò intorno per vedere chi avesse parlato, anche se sapeva benissimo che non c'era nessun altro in quel posto immerso nell'oscurità. Quella notte ebbe un sonno irrequieto, e i suoi sogni furono ossessionati da mari in tempesta, dal suono del legno che si spezzava e dalle grida di uomini morenti. Si svegliò alla grigia luce dell'alba con dei dolorosi crampi alla pancia, e quando uscì per urinare prima che il resto della famiglia fosse sveglio, scoprì che il suo flusso mensile era tornato, e più forte che mai. 17 Veggenti Il gelo aveva disegnato delicati motivi sul lastricato del giardino e indu-
rito le pozze d'acqua lasciate sul terreno dalla grandine della sera precedente. La Rosa del Mondo guardava il proprio respiro addensarsi nell'aria, consapevole che quelli erano tutti segni di una temperatura molto rigida, ma non sentiva affatto il mutamento del clima. Forse la ragione stava nel modo in cui era vestita: su un sottabito in morbido lino bianco e una tunica di velluto rosso indossava un pesante mantello con il bordo di pelliccia di ermellino e visone: più di duecento bestie erano state uccise per ottenere quell'allegro motivo a quadretti bianchi e neri. E mentre la regina usciva dal castello, suo marito aveva insistito che si avvolgesse intorno alle spalle una cappa di pelle di foca con un ampio cappuccio in pelliccia d'orso bianco che lui stesso aveva sistemato sui suoi capelli dorati. Poi l'aveva baciata sulla fronte e si era allontanato in fretta, prima di essere sopraffatto dal desiderio. Sin dalla notte in cui si era erroneamente convinto che lei portasse in grembo l'erede delle Isole del Nord, Ravn Asharson era stato tremendamente premuroso con lei, e invece di dirgli la verità e spezzargli il cuore, la Rosa Eldi aveva accettato di indossare tutti gli abiti pesanti che lui voleva. Inoltre Ravn aveva cominciato a esercitare su di sé un notevole autocontrollo. Da quella notte, avevano giaciuto insieme solo una volta, e nel buio più totale, in modo che lui non vedesse l'immacolata piattezza della sua pancia. La Rosa del Mondo stava iniziando a dubitare del proprio magico fascino e il fatto che non fosse stata in grado di concepire, per quanto avesse provato in ogni modo, non aveva di certo placato la sua mente. Non era solo per mantenere l'illusione di desiderare un figlio e neppure per compiacere il suo signore, anche se voleva disperatamente farlo, sempre di più ogni giorno che passava, perché non nutriva alcun dubbio nella sua mente e in qualunque cosa avesse al posto del cuore che lo amava di un amore totale... Ma aveva cominciato a temere per la propria incolumità nel regno del Nord. L'annuncio della gravidanza le avrebbe fornito un po' di protezione, ma lei aveva fatto giurare a suo marito di mantenere il segreto finché, gli aveva detto, 'non ne fosse stata sicura'; ma sarebbe stato difficile far passare troppo tempo senza che lui si insospettisse. E aveva tutte le ragioni per essere preoccupata. Ora che Ravn si era in qualche modo liberato dal suo magico fascino, lei si era ritrovata molto più libera di vagare per le sale e i labirintici corridoi del grande castello, e di conseguenza aveva ascoltato diverse conversazioni che non avrebbe dovuto sentire. Era vero che il suo udito era straordinario e il suo passo leggero; ma sembrava che si imbattesse in nuovi bisbigli e nuove cospirazioni ogni volta che met-
teva piede fuori dalle sue stanze. Le manovre di Erol Bardson non erano una grande sorpresa, anche per una come lei, così poco esperta della complessità degli intrighi di corte: aveva infatti sentito molte volte i nobili consiglieri di Ravn avvertirlo dei complotti di suo cugino ed esortare il re a cacciarlo via con un pretesto, prima che potesse radunare sostenitori a sufficienza per reclamare il trono. Quello che l'aveva sorpresa era stato accorgersi di quanti altri nobili e plebei parlassero male del re quando credevano che nessuno li ascoltasse. Ravn non era popolare, neppure nel cuore della sua stessa capitale, neppure dentro le spesse mura della fortezza di Halbo. Ed era lei la maggiore imputata, in modo più che evidente. 'La maga', la chiamavano, e la 'seither bianca'; quest'ultimo era un termine che non aveva mai sentito, e la sconcertava non poco. Com'era solita fare con tutto quello che non comprendeva, la Rosa Eldi l'aveva messo da parte a futura memoria e aveva continuato ad ascoltare. Alcune delle donne erano state davvero maligne nei loro commenti. «Una strega pagana, ecco cos'è» aveva dichiarato un'ossuta creatura con un orrendo vestito giallo alla sua compagna, una donna enorme tutta fianchi e seno e niente in mezzo per differenziare le due forme. «L'ha intrappolato tra le sue gambe e gli ha strizzato fuori la vita. Un tempo correva su e giù per questi passaggi la notte, infilandosi in una camera da letto dopo l'altra e facendosi ogni donna che incontrava!» La sua compagna aveva vigorosamente annuito, anche se persino all'occhio poco allenato della Rosa Eldi era sembrato estremamente improbabile che lo Stallone del Nord fosse stato così a corto d'avena da dare anche solo un'annusata a quelle due. «Be', in ogni caso,» aveva continuato quella vestita da dente di leone «se non gli darà un figlio nel primo anno di matrimonio, dovrà di certo cacciarla via e prendere in moglie una donna più fertile.» «Se fosse per la nobile Auda non aspetterebbe neppure così tanto» aveva convenuto allegramente la donna grassa. E poi aveva abbassato la voce al punto che la Rosa Eldi aveva dovuto trattenere il fiato per riuscire a sentire le sue parole. «Dicono che la nostra stimata ex regina ha mandato a chiamare una seither.» «Davvero?» La donna magra sembrava incuriosita. «Una seither per curare una seither? Questa è nuova.» Un brivido aveva percorso la schiena della Rosa Eldi nell'udire quelle frasi, e non a causa del freddo invernale. Era la seconda volta che sentiva quella parola, e il contesto non prometteva niente di buono.
«Curare? Per aiutare la regina a concepire, intendi? No, sciocchina!» La donna grassa aveva riso incredula. «Per ricorrere alle erbe ed eliminarla in modo che sembri morta di cause naturali prima che il seme del re attecchisca, cosa che Auda teme più di ogni altra, perché in quel caso non oserebbe mai toccarla. 'Quella puttana nomade', ecco come la chiama la nobile Auda. Detesta lei e tutte quelle come lei.» «Le puttane?» «No, le nomadi, Sera, le nomadi e le loro stregonerie.» «Ma perché? Io non avevo mai visto una nomade in vita mia finché non è arrivata questa e, per quanto ne so, Auda non ha mai lasciato le Isole.» La donna magra sembrava perplessa. «E poi, se odia così tanto la magia, perché chiedere aiuto a una seither?» «La buona vecchia magia del Nord è tutt'altra cosa rispetto alle sordide pratiche degli Erranti» dichiarò con sicurezza la sua compagna. «È risaputo che le seither si limitano ad attingere all'energia naturale del mondo, mentre i nomadi... Be', loro non si fermano davanti a niente e usano persino il sangue e il seme degli uomini per le loro magie. Si dice che il vecchio re Ashar si fosse innamorato di una di loro quando andò a razziare l'Istria. Da quello che ho sentito, non si avvicinò più al letto di sua moglie neppure una volta al suo ritorno, tanto era pieno di desiderio per la sua strega che era a migliaia di miglia di distanza.» «No!» «Sì! ed ecco perché la nobile Auda odia le nomadi» concluse trionfante la donna grassa. «Non può sopportare di vedere suo figlio seguire l'esempio del padre e donare il suo cuore a una di loro.» «Il suo cuore? Il suo cazzo, direi!» «Sera!» Le due erano scoppiate a ridere, poi avevano continuato parlando d'altro. La Rosa Eldi non aveva mai conosciuto l'ansia, ma ora stava cominciando a imparare quanto potesse essere potente. Oltre a ciò era stata visitata da strani pensieri di recente... era difficile considerarli sogni, perché lei non dormiva mai veramente. Erano immagini che le comparivano all'improvviso nella mente, e con maggiore frequenza da quando aveva avuto quella terribile visione della caverna ricoperta dalle rocce. Non aveva idea di come interpretarle, perché non corrispondevano a niente di ciò in cui si era imbattuta da quando aveva lasciato Santuario. Vedeva una città d'oro, con le torri che brillavano alla luce del sole. Vedeva alberi giganteschi che si ergevano nel cielo d'estate. Vedeva scogliere così bianche che sembra-
vano fatte di ghiaccio, ma erano invece calde e vibranti, costellate di fiori colorati e di edera, assai diverse dalle gelide rocce dell'isola magica del Padrone. Più di una volta aveva visto l'immagine di una donna con un abito rosso, i lunghi capelli chiari ornati di boccioli, che si specchiava nelle chiare acque di un lago. La testa della donna era gettata all'indietro perché stava ridendo, quindi la Rosa del Mondo non aveva potuto scorgere il suo viso; ma c'era qualcosa in lei di terribilmente familiare, e che le aveva fatto accelerare i battiti del cuore. Accanto a lei, un passo indietro, c'era un uomo alto vestito di blu, con lunghi capelli biondissimi sciolti al vento. Poggiava una mano sulla vita della donna, con un gesto affettuoso e al contempo possessivo. Ai suoi piedi c'era un'enorme bestia dalla nera pelliccia lucente. L'animale si stiracchiava e sbadigliava, e lei vedeva l'interno rosso scuro della sua bocca, i denti affilati, la lingua lunga. Quella visione continuava a ripresentarsi in maniera leggermente diversa giorno e notte, ma non riusciva mai a distinguere chiaramente il volto della donna, né a riconoscerla dalla figura, anche se qualcosa le diceva che era lei stessa quella che vedeva, lo sapeva con assoluta certezza, come quando si guardava allo specchio. Ma davvero una volta era stata così felice? La donna della sua visione sembrava potente, allegra, libera. Non era in grado di collegare quell'immagine alla persona che era ora, né aveva idea di chi potesse essere l'uomo insieme a lei. Che si trattasse di suo marito in un altro tempo, un'altra vita, le sembrava un crudele scherzo del destino. E ancora più crudele era stato l'inconfondibile ingrossamento della sua pancia. In quell'altro tempo, in quell'altro luogo, con quell'altro marito, lei aveva concepito un figlio. E se era così, perché ora non ci riusciva? Sospirò e si premette la mano contro la deprimente piattezza dell'addome. «Cresci» sussurrò con ferocia. «Cresci.» Ma a che poteva servire un simile comando, se non c'era seme nel suo grembo? Erano quasi due settimane che Ravn non faceva l'amore con lei, e quell'ultima volta si era ritratto senza eiaculare, borbottando qualcosa su certe chiacchiere da vecchie comari secondo le quali il seme dell'uomo poteva deformare il bambino che cresceva nell'utero. E quando lei l'aveva fissato incredula, Ravn si era limitato ad accarezzarla e a rassicurarla che una volta nato il bambino avrebbero tratto ancora più piacere di prima l'uno dall'altro, dal momento che nessuno avrebbe potuto risentirsene tanto, con un erede forte e robusto come visibile conseguenza del loro diletto. La Rosa Eldi fu riscossa dai suoi pensieri da qualcosa che si muoveva
sotto la mano che aveva posato tra le erbe medicinali nel grosso vaso di argilla cui si era appoggiata. Batté le palpebre e guardò in basso. Un vigoroso germoglio verde si era fatto strada tra il suo indice e il medio e stava continuando a crescere a vista d'occhio. La Rosa Eldi indietreggiò, impaurita e affascinata allo stesso tempo. E il germoglio crebbe ancora: aprì il suo cappino verde, tirò fuori un paio di minuscole foglie dal gambo, poi altre due. Un attimo dopo l'erba appena nata aveva prodotto altri getti e minuscoli boccioli; e poi, nel bel mezzo del gelido inverno eyrano, circondata da piante annerite e avvizzite per il freddo, sbocciò in una dozzina di piccoli fiori dal colore tenue. La Rosa del Mondo osservò quel miracolo, poi si guardò la mano. Si chinò per toccare la pianta e il dolce profumo dei suoi fiori l'avvolse. Non era una visione, allora. Le sue dita formicolavano. Le posò a titolo di prova su una pianta nuda e rinsecchita di timo. «Cresci» sussurrò di nuovo. E la pianta crebbe. La Rosa Eldi fissò l'erba con gli occhi sgranati. Poi, come se le fosse venuto in mente qualcosa, sorrise. Se era in grado di trarre da se stessa così tanta magia da riportare in vita una povera piantina, non avrebbe dovuto essere in grado di incanalare quello stesso potere, o anche di più, su di lei? Tornò alle sue stanze con le guance arrossate da qualcosa di più della semplice aria fredda e, trovando suo marito appena tornato dalla caccia e in procinto di cambiarsi gli abiti sporchi di fango, gettò le pellicce e la tunica a terra e lo abbracciò in modo tale che in nessun caso avrebbe potuto resistere. Re Ravn Asharson, Signore delle Isole del Nord, annunciò la gravidanza di sua moglie quella sera stessa: mandò corvi e messaggeri per tutta la terraferma e in ogni isola eyrana con la gioiosa notizia che la sua regina, la Rosa del Mondo, aveva concepito un erede. Fu programmata una grande festa per celebrare l'evento. Per tutto il regno molti avrebbero tirato un sospiro di sollievo. Ma ce n'erano altri ancora che auguravano del male alla coppia reale e i cui piani avrebbero potuto essere sventati da quella novità. La madre del re si rinchiuse nelle sue stanze adducendo a pretesto una febbre e aspettò la visita di chi aveva convocato con impazienza ancora maggiore. La magia continuò a fluire. La Rosa del Mondo fece crescere mele nel giardino gelato, poi le seppellì per i vermi. Curò uno dei cani del castello
che era stato aggredito da un cinghiale e la cui ferita si era infettata. Nessuno lo venne mai a sapere, perché l'animale era stato lasciato nelle stalle a morire o a sopravvivere con le sue forze: il responsabile dei cani da caccia fu molto felice la mattina dopo, quando trovò la sua bestiola preferita viva e vegeta, anche se zoppicante: la Rosa Eldi non aveva ritenuto saggio far sembrare la guarigione troppo miracolosa. Il ghiaccio strinse poi la terra in una morsa tanto forte che il pozzo del castello si prosciugò. Senza essere vista, la Rosa del Mondo posò le sue mani sul pavimento di pietra della stanza del pozzo e indirizzò i suoi pensieri giù nella terra. Spaziando tra le vene rocciose, la sua mente trovò alla fine un piccolo ruscello che scendeva dalle montagne che sovrastavano la città e poi deviava attraverso le foreste per riversarsi con una spettacolare cascata in un cala ricoperta di muschio sopra il mare. Creando un emissario del ruscello, la Rosa Eldi lo guidò in profondità sotto lo strato di ghiaccio permanente, attraverso le antiche rocce vulcaniche su cui Halbo era posata e poi, in modo alquanto innaturale, verso l'alto, così che sbucasse nel pozzo. Tutti gioirono per la straordinaria purezza di quell'acqua potabile. Quest'ultimo miracolo la stancò molto, ma fu anche estremamente esaltante. La eccitava il profondo legame che avvertiva con il mondo che portava il suo nome, ed era sicura che qualcosa nel cuore di quella terra aveva sentito il suo richiamo e aveva risposto. E di certo, se era in grado di spostare le rocce e deviare un corso d'acqua, e in generale di manipolare la natura a suo piacimento, sarebbe anche riuscita a portare la vita dentro di sé... Ma, nonostante tutti i suoi sforzi, la regina non notò il minimo cambiamento nel proprio corpo. La pancia rimaneva piatta e vuota come sempre e ora la Rosa Eldi cominciava a conoscere il vero volto della disperazione. E la voce che l'aveva chiamata quando aveva posato le sue mani sulla roccia e aveva condotto verso di lei l'acqua, e che ora la cercava, piena di gioia inaspettata, di speranza e di immenso desiderio, rimase inascoltata. Qualche giorno dopo una piccola nave entrò nel porto della capitale nel cuore della notte, con la vela gonfia nonostante l'assenza di vento. Si mosse dolcemente a ridosso del frangiflutti e toccò delicatamente il pontile di pietra mentre il suo occupante sbarcava sul molo ricoperto dalle alghe, poi si allontanò nuovamente nell'oscurità come se avesse un volontà propria. E, probabilmente, era così. Un'ombra alta e sottile precedeva la figura che, dopo essere sbarcata, si
incamminava per le strade addormentate. Più di un gatto interruppe la sua passeggiata notturna e si bloccò come paralizzato, con una zampa sollevata, la coda tremante, gli occhi argentei sotto la luce della luna, fissando la figura che passava... e poi corse a nascondersi in un posto sicuro, da cui non uscì fino alla mattina dopo. I cani del castello, solitamente irrequieti e fastidiosi con il loro incessante ululare alla luna, tacquero all'improvviso quando il cancello orientale si aprì scricchiolando e si richiuse, e nel momento in cui l'ombra passò accanto a una o due delle cagne più vecchie esse alzarono la testa, annusarono l'aria e la riconobbero con un flebile guaito. Le guardie in servizio all'entrata del castello non notarono nulla di strano quella notte, anche se un osservatore esterno avrebbe potuto giurare che la loro conversazione era cessata per pochi secondi e i loro occhi si erano chiusi all'improvviso... ma poi l'acceso dibattito sui meriti della birra servita alla Testa di Cervo in paragone a quella che si poteva bere alla Gamba del Nemico riprese a metà di una frase, come se non ci fosse stata alcuna interruzione. La Rosa Eldi, però, avvertì come un formicolio nella sua testa, una leggera vibrazione nelle ossa, uno strano calore nel corpo. Si raddrizzò all'improvviso sul letto che condivideva col re di Eyra e, simili a quelli di un felino, i suoi occhi neri si spalancarono e riflessero la luce della luna. Proprio come un gatto, la donna tremò; se avesse avuto i baffi, di certo li avrebbe contratti per avvertire il movimento delle correnti d'aria attraverso le pareti del castello; ma in quanto donna, si mise in ascolto e guardò mentre ogni poro del suo corpo si apriva per sentire cosa c'era lì fuori... e cosa era entrato in quel momento nel castello di Ravn. I palmi delle sue mani cominciarono a surriscaldarsi, la base della spina dorsale fremeva: la Rosa Eldi sentiva che la magia si stava avvicinando come avrebbe notato un cambiamento della pressione atmosferica, o l'arrivo di un temporale. Lentamente si alzò dal letto, si infilò la vestaglia che aveva imparato a indossare per decenza quando usciva dalle sue stanze e scivolò fuori, nel corridoio. Non c'erano guardie all'esterno della stanza reale: Ravn preferiva evitare tali formalità nella sua casa, anche se Capotempesta e il conte di Isola delle Pecore avrebbero di certo avuto la meglio in un'eventuale altra discussione in merito a tale mancanza, ora che la regina era incinta. Nessuno vide la Rosa del Mondo percorrere silenziosamente i corridoi della fortezza di Halbo, i piedi nudi bianchi e fragili contro le massicce pietre del lastricato. Voci, volutamente basse, le giunsero attraverso l'aria rarefat-
ta della notte: una piena di disprezzo, l'altra dolce come un frutto maturato al sole. Il formicolio nella testa e sulle mani divenne sempre più forte: un calore pulsava nella sua spina dorsale, diffondendosi verso le estremità. Qualcosa che ricordava, qualcosa che sapeva... Svoltando a un angolo, vide che alla fine di un corridoio si diffondeva una luce tremolante: quella di una candela che lottava contro lo spiffero proveniente da una finestra aperta. C'era una grossa bisaccia appoggiata contro una parete, un affare di iuta logoro e rattoppato. La Rosa Eldi si diresse verso quell'oggetto, attenta e all'erta, frugando furiosamente nella propria mente alla ricerca di un recalcitrante ricordo. Giunta alla porta si fermò. Quella era la stanza di Auda: non vi aveva mai messo piede prima, ma lo capì all'istante dal forte profumo di gigli che permeava l'aria. Il fatto di essere arrivata fin lì non fu una grande sorpresa per lei: quello che le mozzò il fiato fu invece l'ombra che danzava sulla parete di fronte alla porta, un'ombra alta, fin troppo alta, e sottile, ma inequivocabilmente quella di una donna. E fu travolta da un fiume di parole: veggente, indovina, seither... Come se l'avesse chiamata, l'ombra si voltò. La Rosa Eldi poté scorgere il suo profilo con estrema chiarezza: naso affilato, fronte piatta, mascella ben definita, lunghi capelli legati in una coda di cavallo. Altre parole le si affacciarono alla mente, ma non un suono uscì dalla sua bocca: Tu! Non può essere... Eppure lo sapevo: ti ho sentito per tutta la strada mentre venivo qui, sotto i miei piedi, nell'aria... Poi la figura uscì dalla porta e la fissò con il suo unico occhio. La Rosa del Mondo cadde a terra, come un sasso. «Rajeesh, mina kuenna. Segthu mer. Mina dea, mina dea: rajeesh...» Le pallide palpebre si mossero, rivelando un paio d'occhi verde smeraldo. Le squisite labbra si aprirono, formarono una domanda, la sussurrarono nell'aria. «Hverju? Hvi segthu?» La seither esitò, come se improvvisamente fosse incerta sul da farsi. «Jeh Festrin er, Kalas dottri, Brigs sun, Iels sun, Felins sun, Heniks sun...» «Henik?» I magnifici occhi si spalancarono e Festrin Occhiosolo indietreggiò, spaventata. «Cosa? Cosa state dicendo?» La nobile Auda si infilò tra le due donne: il
pallore accentuava la spigolosità dei suoi lineamenti. «Che bizzarra lingua è mai questa che state parlando?» Guardò la seither con sospetto. «Sembra... straniera. Di certo non è eyrano, né un dialetto della nostra lingua che io abbia mai sentito.» Festrin posò il suo occhio sulla madre del re e fu soddisfatta nel vedere la donna trasalire sotto il suo sguardo penetrante. «Quella, mia signora, era la lingua più antica di questo mondo. Esisteva già un migliaio d'anni prima che l'Eyra e l'Istria nascessero, prima ancora che l'umanità trovasse la strada per superare la Spina Dorsale del Drago e sciamasse nella vastità del Deserto delle Ossa come una colonia di formiche; un'eternità prima che la Città Eterna fosse fondata o che la terra fosse coltivata; quando i draghi pattugliavano le fortezze di montagna e grandi mandrie di yeka selvaggi vagavano per le pianure. Non ha nome: non aveva bisogno di averlo, perché quando fu parlata per la prima volta non esisteva altra lingua su Elda.» Gli occhi di Auda si strinsero. Non credeva a una parola, ma insistere significava lasciarsi coinvolgere in quella follia. «E chi è lei? Tu la conosci?» Guardò con disprezzo la moglie di suo figlio, poi spostò lo sguardo sulla seither. «Io... no» rispose Festrin, eludendo l'avido desiderio di sapere della vecchia regina. S'inginocchiò accanto alla Rosa del Mondo e fece per toccarla, ma poi ritirò la mano come se avesse paura. «Non ci siamo mai incontrate. Ma, mia signora» si rivolse alla donna a terra «credo che il mio bis-bisbisnonno possa avervi conosciuto.» «Sei generazioni fa?» Auda sbuffò di disprezzo. «Quella ragazza non avrà più di ventidue anni, e persino tuo padre è morto ormai da quarant'anni o più. Hai perso completamente la testa?» Festrin batté la palpebra del suo grande occhio. «Se anche fosse una sola generazione, io non sento parlare tale lingua su queste isole dalla morte di mio padre: pensavo che nessuno la conoscesse ancora.» «Sudrinni, alla ieldri segthir» disse all'improvviso la Rosa Eldi. Qualcosa nel suo atteggiamento era cambiato durante gli ultimi minuti: una luce sembrava brillare in lei, una nuova sicurezza, o qualcosa di ancora più importante. «Alla?» «I Istrianni.» La seither sembrò sbalordita. «Non ho viaggiato tanto quanto avrei dovuto. Sono stata molto sciocca. Se solo avessi saputo...» La madre del re mosse gli occhi da una donna all'altra, guardandole co-
me se fossero entrambe impazzite. «Non ho tempo per queste sciocchezze nel cuore della notte» esclamò furiosa. Poi incenerì la seither con lo sguardo. «A cosa stavo pensando quando ho chiesto il tuo aiuto, non riesco a immaginarlo. E in quanto a te,» arricciò il labbro superiore, rivolta alla nuora «non credere di avermi ingannata con questa commedia di te che aspetti un figlio dal mio ragazzo. Chiunque possieda anche solo mezzo occhio è in grado di accorgersi che non sei incinta. Be', la tua manovra disperata presto sarà chiara a tutti: ci sbarazzeremo di te e io non avrò bisogno di questa bizzarra creatura... bella veggente che è: mi sembra che il suo grande occhio abbia una vista di gran lunga peggiore dei miei due poveri globi cisposi!» E detto questo ritornò come una furia in camera sua e chiuse con un tonfo la pesante porta di legno. La Rosa Eldi si mise in piedi a fatica. «È vero» confermò alla seither nella lingua del Nord. «Non c'è alcun bambino in me.» «Ah, mia signora.» Festrin chinò il capo. «Se voi siete chi io credo, allora c'è un'ottima ragione per tale triste verità.» La regina sembrò affranta. «Se non riuscirò a concepire, allora la mia vita è in pericolo.» «Potrei aiutarvi a lasciare questo posto...» A quelle parole la disperazione della Rosa del Mondo aumentò. «No! Non posso andarmene: non credere di potermi costringere.» Il pensiero di essere separata da Ravn provocava nel suo petto qualcosa di simile al dolore fisico. Festrin sollevò le mani in un gesto pacificatore. «Nessuno può costringervi a fare qualcosa che non desiderate, mia signora.» La Rosa del Mondo la guardò con curiosità. «Non capisco cosa intendi con questo» disse, pensando al modo in cui Rahe l'aveva tenuta segregata in una cassa di legno, facendola uscire solo per il suo piacere; a come Virelai l'aveva venduta in lungo e in largo per tutta la costa istriana; a come il capriccio degli uomini l'aveva sballottata di qua e di là, simile a una foglia al vento. «Forse posso aiutarvi in un'altra maniera» si offrì Festrin, anche se non le veniva in mente niente di miracoloso. Sollevò la bisaccia che aveva lasciato accanto alla porta e la accarezzò premurosamente, ringraziando tutto ciò che c'era di sacro per aver avuto l'intuizione di lasciarla fuori dalla stanza della vecchia. L'idea che il suo cristallo più prezioso e gli intrecci di erbe fatti dal suo bisnonno finissero
nelle avide grinfie di quella donna così sgradevole non era un pensiero confortante. «È una nave!» esclamò la Rosa Eldi. A Festrin sembrò eccitata come una bambina che veda la sua prima immagine muoversi in un cristallo, e in effetti per molti versi era una bambina, solo in parte formata, una creatura che imparava ogni giorno cose nuove e acquisiva nuove capacità. Nello spazio di pochi minuti da quando l'aveva incontrata, Festrin aveva deciso che interrompere quel delicato processo rivelandole quello che credeva di sapere sul suo conto sarebbe stato pericoloso e nocivo per lei e per gli altri. Così tenne a freno la lingua e i pensieri e si concentrò sulla divinazione. «Lasciatemi guardare.» Posò le mani su entrambi i lati della sfera (un piccolo globo di quarzo che portava sempre con sé, perché preferiva lasciare il cristallo più potente al sicuro nella sua caverna circondata dal mare sull'isola nascosta di Spiaggia Nera) e si ritrasse all'istante. Il cristallo crepitava di strane energie. Minuscole luci lampeggiavano al suo interno, come se in esso si stesse scatenando una tempesta in miniatura. Aspettò per qualche istante che l'elettricità si scaricasse, poi posò nuovamente le mani e guardò nelle profondità della pietra. L'immagine era sfocata, come se la vedesse attraverso la nebbia, ma lo strano effetto sembrava causato da una reazione all'ultima persona che l'aveva usato, perché, quando lei focalizzò tutta la sua attenzione sul cristallo, la nebbia svanì pian piano, strato dopo strato, finché non solo fu in grado di vedere la nave, ma anche tutto ciò che c'era a bordo con eccezionale chiarezza. La nave sembrava eyrana, almeno nella struttura, ma l'equipaggio che la governava era piuttosto variegato. Festrin non aveva mai viaggiato oltre le Isole del Nord: allontanarsi troppo dalla sua rocciosa patria le sembrava come abbandonare il fulcro di tutti i suoi poteri, perché essi fluivano in lei dal suolo stesso di Elda. Ma riconobbe ugualmente la diversa provenienza della gente a bordo dalle descrizioni che aveva letto sulle corde annodate e sulle pergamene che il suo bis-bisnonno aveva portato con sé durante la sua fuga dal Sud, e dalle esperienze che lei stessa aveva avuto vagando tra i moli e le banchine di Halbo e i porti circostanti, dove marinai e mercanti dell'Impero avevano spesso attraccato negli anni passati. Al timone c'era un uomo dalla carnagione scura con i tatuaggi tipici dei clan delle tribù delle colline di Farem, il che era già di per sé affascinante, e intorno a lui un gruppo di eterogenei marinai di imprecisata provenienza. Un uomo basso e rotondetto con uno
zucchetto di ferro aveva un aspetto vagamente familiare... ma l'uomo a prua lo conosceva bene. Joz Manodiorso! Lo ricordava da piccolo, alla fattoria di Capo delle Balene, mentre combatteva contro suo fratello con un bastone riuscendo sempre a vincere, anche se l'altro ragazzo aveva parecchi anni più di lui. Ma non era diventato un mercenario? Festrin si accigliò. La sua memoria stava peggiorando. Aveva perso il conto dei propri anni già da un po', ma sapeva che molti seither vivevano ben oltre i centoventi anni ed era sicura di non esserci ancora arrivata. Se quella era una nave mercenaria, allora ecco spiegato l'equipaggio stranamente assortito. Ma perché il cristallo aveva scelto di mostrare alla Rosa del Mondo quella particolare immagine? Osservò con più attenzione gli altri occupanti del vascello, soffermandosi su una donna alta, dalle spalle larghe, con i capelli legati in un complicato insieme di trecce e una bocca di denti affilati; poi i suoi occhi si spostarono sulla figura con cui quella donna dal pauroso aspetto stava conversando. Quest'ultima era una bella ragazza, con lunghi capelli scuri sciolti al vento e caldi occhi marroni. Indossava una tunica informe e stivali troppo grandi per lei; eppure non era la stranezza della sua presenza su una nave piena di vecchi marinai e avventurieri che lasciò Festrin senza fiato, ma il rigonfiamento nella pancia della donna, ben nascosto a uno sguardo menò attento sotto le pieghe dell'enorme tunica. «Ci sono forze misteriose che operano nel mondo» sussurrò la seither. Tolse le mani dal cristallo e guardò sbalordita la Rosa Eldi, mentre uno stratagemma alquanto bizzarro stava già cominciando a prendere forma nella sua testa. «Chi siete voi, e perché vi presentate alla mia porta a quest'ora?» Rui Finco era appena uscito da un lungo bagno in acqua profumata con petali di rosa, aiutato da due ragazze velate che avevano passato più di un'ora a strofinargli con insistenza la schiena cospargendolo di oli aromatici, un gesto che Rui sperava ardentemente fosse il preludio a qualcosa di più interessante. Le usanze jetrane solitamente non incontravano i suoi gusti, perché lui era una persona più pratica: un bagno era utile per rimuovere la sporcizia di una giornata di fatiche, e bastava dell'acqua calda senza altre aggiunte che non fossero una spugna e una compagna nuda e disponibile; preferiva trascorrere il tempo risparmiato nel bagno in modo molto più produttivo, sotto le lenzuola. Ma le schiave di Jetra avevano modi più esotici di quelle di Forent, che erano ormai abituate all'atteggiamento pragmatico del loro signore verso il bagno inteso come preliminare al ses-
so, e lui stava cominciando a diventare insofferente. Si avvolse più strettamente la vestaglia di seta intorno al corpo muscoloso, il che servì solo a evidenziare la sua impazienza, e guardò colui che aveva interrotto la sua promettente serata con manifesta ostilità. L'uomo, dalla pelle scura, i capelli scompigliati e il naso deformato, sembrava un tipo rude e bastardo. Rui gli diede all'incirca trentotto anni, o qualcosa di più: a giudicare dalle numerose cicatrici sulle braccia e sul viso, doveva aver visto parecchia azione in vita sua, anche se nessuno dei segni sembrava recente, il che significava che era un veterano dell'ultima guerra o un mercenario così abile con la spada che negli ultimi tempi nessuno era riuscito ad avvicinarsi a lui abbastanza da colpirlo. Forse erano vere entrambe le cose. E questo poteva essergli utile in qualche modo... sempre ammesso che non fosse un sicario, per di più uno con del fegato, capace di marciare nelle sue stanze e ucciderlo come se niente fosse. Gli occhi di Rui si spostarono sulla spada che aveva lasciato appoggiata accanto allo stipite della porta; si chiese se i suoi riflessi sarebbero stati sufficientemente rapidi da salvarsi la pelle, e si rispose che se il sicario era abile non avrebbe avuto la minima possibilità. Quando tornò a sollevare lo sguardo, vide che anche l'altro uomo stava guardando da quella parte. Rui allora lo fissò, aspettando un qualche segnale, ma il visitatore sollevò le mani. Non portava armi. «Le mie scuse per avervi disturbato a quest'ora tarda, mio signore. Il mio nome è Galo Bastido» disse con voce burbera nell'istriano dal forte accento parlato sulle coste settentrionali. Il Signore di Forent rimase in attesa. «Fino a poco tempo fa ero il capitano della milizia alteana.» Quella era una sorpresa, dato l'accento. Rui pensò in fretta. Altea: capitale delle terre dei Vingo, nell'estremo sud del paese, il figlio maggiore della famiglia un invalido, il più giovane attualmente assegnato, insieme agli uomini che la sua famiglia possedeva, al comando di Tycho Issian. Dunque Galo Bastido si trovava senza una posizione e molto probabilmente senza una paga, perché non gli sembrava il tipo di uomo capace di rinunciare al proprio orgoglio e accettare un grado inferiore sotto il comando di un qualche giovane alle prime armi. «E venite da me a cercare il mio favore?» «Ho una proposta per voi, mio signore.» Le schiave lo stavano aspettando. Le loro calde bocche e i loro corpi snelli lo chiamavano, esigendo la sua attenzione. Rui scacciò quel pensie-
ro. In fondo qualche altro minuto di attesa dopo quel dannato massaggio non avrebbe costituito un problema. «Entrate» disse il Signore di Forent dopo un istante, e fece accomodare Bastido nell'anticamera. Le ragazze, ben addestrate com'erano, diedero una sola occhiata al nuovo arrivato, capirono che la situazione non richiedeva la loro immediata presenza e si affrettarono a passare nella stanza da letto, dove rimasero a malapena celate dalle tende leggere che separavano le due camere. Rui Finco si sedette pesantemente su uno dei due lunghi divani e aspettò. «Allora?» disse. Galo Bastido si costrinse a distogliere lo sguardo dalla camera da letto. Ecco cosa significava essere un nobile nella Città Eterna. Era solo il denaro, si chiese, o era il titolo nobiliare a fare la differenza? In quel caso era fregato; ma se era il primo a contare, allora forse aveva ancora una possibilità di prendere in mano il proprio destino. «Vi serviranno delle navi, mio signore, se dovrete attaccare il Nord.» «Ovviamente. I nostri costruttori si sono messi in moto per acquisire il materiale necessario all'allestimento della flotta. Stiamo lavorando sui progetti.» «Sì, signore, sui progetti; ma non sulle navi.» Rui guardò l'uomo con diffidenza. «Cosa mi state dicendo?» «Mio padre era un capitano di mare. Io ho imparato tutto quello che sapeva navigando al suo fianco sulla nave della mia famiglia, e commerciando con le Isole del Nord prima della guerra. Poi egli morì in battaglia e noi perdemmo quello che avevamo conquistato. Io finii ad Altea, a vendere le mie capacità di guerriero, e ci sono rimasto per vent'anni, facendomi strada dalla gavetta.» Dunque era più vecchio di quello che sembrava. «Andate avanti.» «So governare una nave bene quanto un eyrano, mio signore.» Rui sospirò tra sé. «Sono sicuro che il vostro talento sarà messo a frutto quando verrà il momento, Bastido; assicuratevi di tornare da me quando avremo la nostra flotta.» La conversazione non stava andando come Bastido aveva programmato. Così, con un po' meno diplomazia di quanta sarebbe stata necessaria davanti a un membro della nobiltà, il capitano si affrettò a dire: «Io ho... amici, mio signore, nella vostra città. Mi sono imbattuto in alcuni di loro sulla strada per Jetra e mi hanno riferito qualcosa che potrebbe interessarvi.»
Il Signore di Forent inclinò la testa e lasciò che tra loro calasse il silenzio per indicare la sua disponibilità ad ascoltare quello che l'uomo aveva da dire. Galo Bastido si schiarì la voce. «Il re eyrano ha un costruttore di navi,» proseguì «solo che ora non ce l'ha più.» Gli occhi di Rui si strinsero. «Questo lo so» rispose, ricordando la gioia della mercenaria nel riferire la notizia. «Io so dov'è. Me l'ha detto mio cugino, che l'ha appreso da un mercenario incontrato in una taverna. Rocciacaduta, ha detto, la più grande delle Isole Occidentali. Ecco dove si trova ora il costruttore di navi.» «So anche questo» replicò Rui in tono irritato. «E sarà meglio che aggiungiate qualcosa di nuovo a tali notizie o farò in modo che siate punito per questa violazione del mio domicilio.» La spiacevole minaccia sembrò non turbare affatto Galo Bastido. «La nave di mio padre è nel bacino di carenaggio della Baia di Laniso, mio signore. È lì ormai da molti anni, da quando mio fratello maggiore è morto e l'ha lasciata a me, ma io guadagnavo troppo bene con il mio lavoro ad Altea per essere interessato a prendere di nuovo il mare. Datemi degli uomini, mio signore, e io li condurrò a Rocciacaduta e porterò il costruttore di navi del re del Nord a Forent per voi.» Bastido fece una pausa e abbassò la voce. «E quante donne barbare vorrete. Ho sentito dire che sono selvagge, mio signore, molto selvagge.» Galo Bastido vide gli occhi del Signore di Forent brillare di interesse e poi farsi pensosi. Era la prospettiva di una flotta progettata alla maniera eyrana ad averne acceso l'immaginazione, o il pensiero di riempire il suo serraglio di puttane del Nord? In un modo o nell'altro, la sua ardita richiesta sembrava aver incontrato il favore del nobile. Il giorno successivo, dopo aver speso alcune delle monete che aveva ricevuto come anticipo per la sua missione con un trio di esperte puttane e un otre del miglior vino che avesse mai gustato, il Bastardo lasciò la Città Eterna con quindici uomini armati e una missiva che gli dava il diritto di scegliersi gli elementi migliori della milizia di Forent. La nave probabilmente avrebbe avuto bisogno di riparazioni, rifletté Bastido, e la partenza non sarebbe stata immediata. Ai bei tempi era già una vecchia carretta sgangherata, e i bei tempi erano stati più di vent'anni prima, ma di certo c'erano uomini a Forent in grado di rimetterla in sesto in modo da farle affrontare di nuovo il mare. E poi, cosa ci poteva essere di meglio che avere un po' di denaro in tasca e una nuova città da esplorare mentre aspettava
di partire per la sua missione, finanziata da uno dei più importanti nobili dell'Impero? In uno stato d'animo migliore di quanto gli accadesse da anni, Galo Bastido diede di sperone al suo cavallo fino a farlo sanguinare e spinse la sua nuova squadra al galoppo. Mentre la nave arrivava in vista delle enormi colonne-sentinella di Halbo, l'equipaggio tirò giù la minacciosa polena che dava all'Orso dei Ghiacci il suo nome. «Meglio non cercare guai» aveva detto laconica Mam. Sperava che il re avesse dimenticato la piccola faccenda di Dogo e Mazza che avevano sollevato quel gran polverone tentando di rubare la sua nave l'ultima volta che erano stati in città. Forse, nella peggiore delle ipotesi, portargli l'imbarcazione che Rui Finco aveva pensato di usare come modello per la flotta istriana avrebbe potuto aiutarli a riconquistare la fiducia di Ravn, anche se Mam aveva tutte le intenzioni di tenersi la nave per sé. Navigare per mari perigliosi era una cosa a cui non si sarebbe mai abituata, ma era comunque il modo più efficace per fuggire da una situazione potenzialmente imbarazzante che fosse mai stato escogitato. Mam e i cavalli non andavano affatto d'accordo. Da parte sua, Persoa continuava a fissare affascinato le enormi colonne ricavate nelle scogliere, con le loro scalinate e le minuscole finestre. Non si sarebbe mai aspettato di trovare un'architettura così imponente: perfino nella ricca Istria nessuno aveva avuto tanta ambizione da modificare fino a quel punto un paesaggio naturale. Lui non riusciva a immaginare come fosse trovarsi dentro la roccia vivente: l'idea gli faceva venire la pelle d'oca. Selen raccolse le pieghe dell'enorme tunica di Mam intorno alla pancia e poi indossò anche il mantello di Erno. Voleva giudicare da sola in che tipo di posto fosse arrivata e che genere di persone fossero gli Eyrani prima di rivelare la sua condizione. Non tutti potevano essere uomini d'onore come Erno Hamson, né schietti e semplici come la squadra di mercenari. Ricordando ben poco della sua vita precedente, non si sorprese di aver formulato un simile pensiero: la Selen Issian che si era lasciata alle spalle nei mari della sua patria sarebbe rimasta atterrita all'idea di partire con una banda di mascalzoni e tagliagole, ma lei li aveva trovati di ottima compagnia. Forse un tantino volgari... E le piaceva molto il suo nuovo nome: Leta Aladigabbiano. Persoa le aveva suggerito la prima parte del nome: era quello di sua sorella, le aveva detto facendosi all'improvviso molto serio, perché lei gliela
ricordava un poco. Ma quando Selen gli aveva chiesto dove si trovava ora e che tipo di vita conduceva sua sorella, lui aveva taciuto e poi aveva cambiato argomento. 'Aladigabbiano' era venuto da Mam, e quando lei gliene aveva chiesto il motivo, il capo dei mercenari si era stretta nelle spalle. «Ce n'era uno che passava sopra di noi quando ti abbiamo presa a bordo» fu tutto ciò che riuscì a dire. Crearsi una nuova identità fu più problematico. Capelli e occhi scuri erano una combinazione rara in Eyra, perciò avevano deciso che il suo luogo di origine sarebbero state le Isole Galiane, in particolare dopo che Erno aveva preso da parte Mam e le aveva spiegato quello che sapeva della vera famiglia di Selen. «Suo padre è un uomo estremamente spiacevole» aveva convenuto Mam. «Avevo sentito parlare di lui anche prima del Raduno. Un bigotto, un fanatico e un prepotente. È un bene che sia sfuggita alle sue grinfie, e io farò il possibile perché non ci ritorni.» Erno provava sentimenti contrastanti circa il ritorno in patria. Da una parte sarebbe stato tra la sua gente e senza dubbio avrebbe trovato un modo per guadagnarsi da vivere a Halbo; ma avrebbe tanto voluto tornare a Rocciacaduta, se non altro per toccare ancora la terra su cui una volta camminava Katla Aransen, per entrare nella casa in cui era nata, per ricordarla mentre rideva sul prato e si bagnava sulla spiaggia. Ma sapeva bene che non avrebbe mai più potuto mettere piede sull'isola dov'era cresciuto: sarebbe stato di certo bandito dal clan di Rocciacaduta per la parte avuta nella morte della giovane. E, in ultimo, era consapevole che non avrebbe mai potuto guardare il temibile Aran Aranson negli occhi. La parola d'ordine era cambiata dall'ultima volta che erano stati a Halbo, ma Joz si mise a chiacchierare allegramente con gli uomini di guardia e il gruppo poté entrare. Non sarebbe mai stato così facile all'epoca di Ashar Stenson, pensò cupa Mam, ricordando il vecchio e severo re. Sarebbe bastata la vista di un gruppo di Istriani su una nave sconosciuta e l'intera guardia reale sarebbe salita a bordo della nave prima che qualcuno potesse dire 'cazzo di Sur'. Ora invece riuscirono ad ancorare l'Orso dei Ghiacci all'avamporto, ma aspettarono comunque il calar del sole prima di sbarcare: il buio era sempre la migliore copertura. Alcuni curiosi si erano radunati sul molo,' e anche se una parte se n'era già andata spazientita quando Mam aveva finalmente dato l'ordine di calare le scialuppe in mare, c'era ancora un capannello di una ventina di astanti. In gran parte erano fannulloni e mercanti di vario genere in cerca di clienti: venditori ambulanti di ambigue merci e donne di dubbia virtù.
Mam si fece strada in mezzo a loro senza degnarli di uno sguardo. Ma quando Selen ed Erno sbarcarono dalla faering, una figura molto alta e dal volto nascosto in un cappuccio si staccò dalla folla e li seguì nelle silenziose stradine del porto. «Provaci ancora, maledizione! Quanto può essere difficile, per l'amor di Falla? È a Halbo... non è come se la dovessi anche cercare!» Virelai sospirò. Era inutile tentare di spiegare al Signore di Cantara che i cristalli non lavoravano seguendo un criterio geografico: era tutta una questione di concentrazione, di guidare le vibrazioni della roccia con la volontà e chiarezza di intenti. Si chinò nuovamente sul globo e pensò fortemente alla Rosa Eldi. Da quando Rui Finco aveva messo fine alla contraffazione delle schiave per alleviare l'ossessivo desiderio di Tycho Issian, a Virelai sembrava che il Signore di Cantara avesse cominciato a uscire di senno. Incapace di trovare sollievo ai tormenti della carne e dell'immaginazione, Tycho aveva preso a camminare su e giù per i corridoi del castello di Jetra a tutte le ore del giorno e della notte, di solito finendo nelle stanze di Virelai per chiedergli una nuova pozione o di mostrargli il suo amore nel cristallo. A volte si limitava a sedersi sul letto e accarezzava il gatto, il quale, legato com'era, era costretto a sopportare con insofferenza le sue attenzioni. Per due volte Virelai era riuscito a visualizzare la Rosa Eldi, ma in entrambe le occasioni la donna era avvinta in un passionale abbraccio con il re del Nord e, piuttosto che sopportare la rabbia violenta di Tycho, Virelai aveva disperatamente cercato un'altra immagine che potesse distrarlo. La prima volta aveva fatto in modo di sviare il Signore di Cantara con l'immagine di una turba riunita nella piazza della sua città intorno a un'enorme pira sulla quale una mezza dozzina di donne nomadi venivamo immolate, mentre i sacerdoti gettavano cartamo tra le fiamme per consacrare il rogo. Tycho era stato entusiasta di quella visione e aveva insistito affinché Virelai trascorresse il resto della notte a cercare altri eventi del genere. Non era stato difficile trovare molte scene come quella, su cui il suo padrone potesse sbavare a piacimento, perché una febbre di fanatismo sembrava aver infettato tutto l'Impero: gli stranieri e gli eretici non erano più i benvenuti nei suoi confini, gli uomini venivano passati a fil di spada e le donne che non accettavano gli insegnamenti della Dea (ossia che non si davano liberamente a ogni uomo timoroso di Falla nei dintorni) venivano rimesse alla sua pietà attraverso i sacri roghi.
Ma durante l'ultima di queste visioni si era imbattuto in qualcosa di piuttosto curioso. Lo aveva allarmato, anche se non avrebbe saputo indicarne il motivo, perché in effetti era un'immagine di certo meno angosciante di molte di quelle che aveva visto negli ultimi giorni. Era una città di pietra dorata, immersa nel sole del tardo pomeriggio, anche se lì, a Jetra, erano nel cuore della notte, il che era difficile da capire, perché il cristallo raramente mostrava scene che non si riferissero al momento presente. Affascinato, Virelai aveva inclinato il globo da una parte e dall'altra e aveva ammirato le eleganti guglie e gli aggraziati minareti, gli ampi laghetti e i favolosi giardini affollati di statue e piante esotiche. Jetra era una bella città, ma non era niente paragonata a questa. Stringendo gli occhi fino a che non avevano preso a bruciargli, Virelai aveva continuato a guardare, finché con la sola forza della concentrazione non aveva piegato il cristallo al suo volere e l'aveva costretto a mostrargli la città nei minimi dettagli. Ma quell'esame più minuzioso, invece di ricompensare i suoi sforzi con maggiori meraviglie, si era rivelato una delusione: le case stavano cadendo in rovina, i laghi erano soffocati da alghe e rifiuti, mentre erbacce e ortiche avevano invaso i giardini. Nell'aria, sopra il paesaggio diroccato, avvoltoi barbati si lasciavano trasportare dai venti caldi, le penne maestre tese come le dita di una mano; neri corvi erano appollaiati in cima alle torri cadenti e gatti selvatici magri come chiodi pattugliavano le strade e le piazze in cerca di una preda. Ma degli abitanti della città non c'era alcuna traccia. 18 Alleanze «Chi siete voi, e perché mi avete portato qui?» Selen Issian fissò i magnetici occhi verdi della donna che era davanti a lei e sentì tutta la rabbia e la paura cominciare a scemare. Sul molo, quando la figura incappucciata si era parata davanti al suo gruppo e con il semplice tocco di una mano aveva fatto crollare al suolo Erno, quell'uomo così forte e coraggioso, che non era riuscito a fare altro che emettere un breve mormorio di protesta, Selen era stata sulle prime sopraffatta dal terrore e poi, mentre veniva spinta tra le strade deserte verso una destinazione ignota, da una crescente e insolita rabbia. L'alta figura, la cui stretta sull'avambraccio le aveva dato l'impressione della gelida mano della morte, non aveva detto una parola per tutta la strada, il che aveva reso ancora più fu-
riosa Selen, o Leta, come insisteva per farsi chiamare ora. Quando era stata introdotta senza tante cerimonie nelle eleganti camere in cui si trovava in quel momento, era pronta ad avventarsi contro l'autore del rapimento con le unghie e con i denti e un paio di paroline bene assestate; ma era bastato uno sguardo alla bella donna seduta in silenzio sulla grande sedia di legno e il terrore e il risentimento erano svaniti, lasciando il posto a una grande curiosità. La porta si chiuse con un tonfo sommesso e qualcuno tirò il chiavistello. Selen sentiva ancora dietro di sé la presenza dell'alta figura che l'aveva portata lì, avvertiva quel suo sguardo penetrante come un respiro gelido alla base del collo, ma non poteva voltarsi, perché la donna sulla sedia, nonostante la sua apparente fragilità e l'aspetto innocuo, sembrava esigere tutta la sua attenzione. «Io sono la Rosa Eldi, la Rosa del Mondo» mormorò la donna pallida, e a Selen parvero parole arcane, come pronunciate in un sogno, parole che significavano più di quanto appariva, ma cui non riusciva a dare un senso. «È inoltre la regina delle Isole del Nord e la moglie di re Ravn Asharson» disse una voce dietro di lei, e Selen si rese conto con sorpresa che anche la figura incappucciata era una donna. Fino a quel momento era stata sicura, dall'altezza e dalla forza della sua presa, che si trattasse di un uomo. «E cosa volete da me?» chiese di nuovo, ancora più perplessa ora che sapeva chi era la donna pallida. Per tutta risposta la Rosa Eldi si protese in avanti e aprì il mantello di Selen. La giovane istriana si sentì all'improvviso nuda, vulnerabile. Fu assalita da un impellente desiderio di nascondere il proprio stato, ma le sue mani rimasero ferme lungo i fianchi come prive di volontà. La regina del Nord allargò le sue dita lunghe e pallide sulla pancia dilatata. «Ah» disse. «Ah.» Un calore si sprigionò allora dal grembo di Selen, diffondendosi in ogni vena e arteria, in ogni muscolo e poro della sua pelle. Sentì il bambino dentro di lei muoversi per la prima volta, un movimento leggero, quasi impercettibile, simile alle ali di un minuscolo uccello, e persino lei, che non sapeva niente di bambini e del viaggio che intraprendevano verso la vita, capì che quel movimento era inconsueto, prematuro, innaturale. La donna allontanò lentamente la sua mano. Quando sollevò nuovamente gli occhi su Selen, la giovane istriana fu sbigottita nel vedere che il freddo colore verde della giada ora si era fatto più caldo e luminoso. Non c'erano lacrime in quegli occhi, ma stranamente la loro assenza denotava
un'emozione più forte di un semplice dispiacere. «Devo avere il tuo bambino.» Il cuore di Selen sussultò. Cosa voleva dire? Nel lungo silenzio che seguì quell'affermazione e la sua incapacità di rispondere in qualche modo, si udì un fruscio di stoffa, poi l'alta figura le si avvicinò. Mentre si voltava verso di lei il cappuccio si abbassò all'improvviso. Selen rimase senza fiato. Era davvero una donna quella che torreggiava su di lei, una donna così alta che dovette gettare indietro la testa per riuscire a vedere il suo unico occhio penetrante. Un brivido la percorse, perché quell'inquietante sguardo era impossibile da sostenere. E poi il suo cuore cominciò a battere all'impazzata, le ginocchia le cedettero e Selen cominciò a cadere. Con una velocità sorprendente, la donna pallida balzò dalla sedia. La donna alta si chinò in avanti e le mise una mano intorno alla vita, poi insieme afferrarono Selen e la fecero sedere nel posto lasciato libero dalla regina. «Non temere» disse la donna con un occhio solo. «Non vogliamo fare del male né a te né a tuo figlio. Anzi, il contrario. Abbiamo un patto molto speciale da proporti, un patto che porterà la prosperità e la gioia a entrambi.» Poi, mentre la regina delle isole del Nord, la donna con quello strano nome, rimaneva seduta ai suoi piedi come una schiava, Selen Issian ascoltò tutto ciò che la seither aveva da offrirle. Era quasi l'alba quando Erno Hamson riprese conoscenza e riuscì a barcollare dentro la più vicina locanda, a balbettare di fronte allo scorbutico ragazzino lasciato a guardia del bar ora silenzioso che aveva bisogno di un letto, e a crollare in un oblio più naturale sopra un giaciglio di paglia infestato dalle pulci nella stanza sul retro. Non aveva memoria alcuna di come fosse finito a faccia in giù sulle fredde pietre del porto di Halbo con la neve che gli si depositava sul mantello e l'acqua sporca di una pozzanghera che gli penetrava nell'unico paio di stivali che aveva, né rammentava dove potessero essere gli altri membri dell'equipaggio dell'Orso dei Ghiacci; e, in particolare, non aveva alcun ricordo di una ragazza un tempo chiamata Selen Issian. Ma durante il sonno vide un volto: occhi ridenti, capelli che volavano al vento dell'oceano, in principio apparentemente neri, ma che a seconda della luce potevano sembrare rossi... si raggomitolò su se stesso e si sentì confortato.
Poco prima dell'alba una figura alta e incappucciata emerse dalla camera della regina e, provvista delle informazioni ottenute grazie all'attenta lettura del cristallo appena compiuta, si diresse verso la Gamba del Nemico, una taverna di dubbia reputazione vicino al porto. Lì, come aveva previsto, l'equipaggio della nave con cui era arrivata la donna incinta che si faceva chiamare Leta Aladigabbiano giaceva in tutta la sua ebbra gloria, russando come ghiri ammucchiati sul pavimento tra boccali, caraffe, stivali e bisacce. La donna si mosse tra di loro, toccandoli per un istante, uno su una spalla, l'altro sul capo. Esitò per qualche secondo con una mano su una guancia di una donna robusta con anelli alle orecchie e una massa di capelli gialli raccolti in spaventose trecce, che giaceva con la testa appoggiata sullo stomaco di un uomo piccolo e rotondo che soffiava rumorosamente aria dalla bocca. Il suo viso si intenerì. Sarebbe riuscita ad alleviare la sofferenza che leggeva dentro quei lineamenti all'apparenza così duri e feroci? Aveva il diritto di farlo? Sollevò la mano con una certa riluttanza. Il dolore era ciò che aveva reso quella donna la magnifica combattente che era: non stava a lei cambiare il carattere di quella guerriera. Come seither il suo impegno verso il mondo era di non fare del male... a meno che non vi fosse costretta. Né le era possibile cancellare del tutto il ricordo della donna incinta: poteva solo confonderlo e renderlo nebuloso. Alcuni avrebbero ricordato di aver viaggiato fin lì con un altro compagno, ma non sarebbero stati in grado, almeno per qualche tempo, di ricordare se quella persona fosse maschio o femmina: rammentare addirittura che era una donna dell'Impero del Sud con un bambino in grembo sarebbe stato fuori questione. Nelle notti che seguirono, Festrin operò sugli abitanti della fortezza di Halbo, suggerendo con fermezza a ogni uomo o donna, mentre giacevano addormentati, che la regina aveva davvero un bell'aspetto in gravidanza, che la sua pelle era più luminosa che mai e il suo corpo si era dolcemente arrotondato negli ultimi due mesi: più indietro nel tempo non era potuta andare, perché i corvi messaggeri erano stati mandati solo da poco ad annunciare la felice notizia che la moglie del re aspettava un figlio. In quanto all'aspetto, l'illusione sarebbe dovuta bastare; e in più avrebbe dovuto insegnare alla sua padrona a incanalare i propri poteri verso la percezione che suo marito aveva di lei quando giacevano insieme nudi nel letto reale. Non sarebbe stato così difficile: era chiaro persino a una come lei (per cui l'os-
sessione del sesso era la più aliena delle emozioni) che Ravn Asharson vedeva sua moglie attraverso molti veli di fantasia e illusione. E gli uomini che desideravano tanto qualcosa come lui voleva questo figlio erano ancora più inclini alla suggestione di tali magie: no, non sarebbe stato affatto difficile. Più difficile sarebbe stato convincere la nobile Auda, perché l'anziana ex regina, ben conoscendo la natura della visitatrice che lei stessa aveva convocato, aveva sbarrato la porta della sua stanza con tale efficacia che Festrin non era riuscita a entrarvi mentre dormiva; neppure gli incantesimi di una seither potevano passare attraverso il buon legno di quercia e il ferro, come inefficace era anche l'intrico di erbe antimagia che la donna, presa dal panico, aveva sparso sulla soglia della sua camera. Bene, che insistesse pure a strepitare che la regina era una ciarlatana: nessuno avrebbe ascoltato una vecchia mossa dall'odio verso la nuova moglie di suo figlio, una ex regina detronizzata senza troppe cerimonie da una puttana nomade. E per quanto riguardava il bambino? Quale bene poteva nascere da una violenza, dal seme piantato in così terribili circostanze da un uomo malvagio? Eppure il piccolo non aveva colpa. Avrebbe potuto ugualmente crescere retto e degno di rispetto se fosse stato allevato nella corte del Nord che, per quanto poco sofisticata e composta dalle persone più disparate, non era affatto il posto peggiore del mondo... persino in un mondo che sembrava sull'orlo di una guerra. Nessuno oltre lei avrebbe dovuto sapere la verità, ossia che il bambino non era il frutto del matrimonio del re eyrano con la sua sposa nomade, e questo non solo per la vera natura di quest'ultima, ma perché niente di tangibile avrebbe mai potuto nascere dall'unione di un uomo e della donna che al momento si presentava come la regina del Nord. Perché quella non era un'unione tra pari, e non in senso nobiliare: come infatti gatti e cani, topi e balene, yeka e draghi non avrebbero mai potuto accoppiarsi, così nessun uomo avrebbe mai potuto generare un bambino con una creatura così rara, oscura e sconosciuta come la Rosa Eldi. Festrin si chiese per l'ennesima volta se la Rosa del Mondo avrebbe mai recuperato la coscienza di sé, i suoi ricordi, per quanto dolorosi dovessero essere, e se sarebbe mai tornata pienamente nel mondo. E rabbrividì al pensiero di cosa sarebbe accaduto in quel caso. La morbida notte avvolgeva la Città Eterna. La generosa pietra delle spesse mura di Jetra assorbiva la luce e il calore trattenendoli per protegge-
re i suoi abitanti dal gelo dell'oscurità, attutendo ogni suono, addolcendo il respiro, placando i sensi. Sembrava assorbire il rumore dei suoi passi mentre scivolava lungo i corridoi silenziosi, come un fuggitivo. Svoltando a un altro angolo in quel labirinto di corridoi, si sentì disorientato, confuso, temendo che da un momento all'altro, entrando in un nuovo corridoio, potesse ritrovarsi in un'altra era... il che sarebbe stata una vera benedizione, date le circostanze. Persino il tempo sembrava sospeso, in quell'antica città: forse era quella la ragione del suo appellativo, pensò Virelai, insieme al fatto che era sopravvissuta a dispetto delle circostanze ai venti di guerra che avevano ripetutamente spazzato la vasta pianura in cui risiedeva. Il giovane scese una rampa di scale di logora pietra immersa nel buio e si ritrovò all'improvviso davanti a una spessa porta di legno adornata da bande di ferro lavorato. Attraverso l'enorme buco della serratura il giovane mago percepiva il richiamo del mondo esterno. La porta si aprì con un lieve scricchiolio. Non c'era nessuno di guardia, perché la chiamata alle armi aveva spinto ogni combattente a recarsi a Cera a piedi o a cavallo per la grande adunata, oppure a dirigersi verso una delle province dell'Impero per il reclutamento e l'addestramento degli uomini abili affinché fossero pronti ad affrontare l'imminente guerra. Un addestramento, pensò Virelai con sarcasmo, che probabilmente avrebbe incluso imparare a nuotare attraverso l'Oceano del Nord, data l'ormai nota mancanza di navi disponibili per la forza di invasione che avrebbe dovuto prendere d'assalto l'Eyra. Il guaio non era che i signori dell'Istria non si rendevano conto di questo inconveniente, ma che sembravano non curarsene più di tanto, avendo creduto alla rassicurante affermazione del Signore di Forent che la flotta sarebbe stata costruita in pochissimo tempo. Perciò i capi militari che avrebbero elaborato la strategia dell'avanguardia d'assalto si stavano tranquillamente dedicando alla predisposizione di macchinosi piani per l'assedio di Halbo invece di preoccuparsi di come avrebbero raggiunto la capitale di Ravn, dalla quale li separavano diverse centinaia di miglia di burrascoso oceano. Virelai sapeva cosa sarebbe successo di lì a poco: aveva visto i suoi due padroni discuterne quando lo credevano impegnato in altre faccende. Avevano dimenticato la pietra della visione, ovviamente, e non avevano avuto alcuna ragione di sospettare che lui avesse imparato a leggere le labbra. In principio era stato sopraffatto dal panico. Cosa poteva sapere lui, Virelai, apprendista mago in fuga ed ex venditore di false mappe, della costruzione di una nave? Assolutamente niente: era un'arte delle popolazioni del Nord, non un qualcosa che poteva aver imparato dal Padrone. E anche se non
aveva idea delle origini di Rahe, certamente non proveniva dalle isole del Nord, la patria appunto della costruzione navale. Il minuscolo sloop su cui era fuggito da Santuario imbarcava acqua e aveva fatto una grande fatica ad attraversare l'oceano: solo con la magia e con una buona dose di fortuna Virelai era riuscito a sbarcare sulla terraferma. E nessuno dei libri di magia che aveva sottratto dalla biblioteca del Padrone conteneva la parola 'nave', né il minimo accenno a come fosse possibile crearne una con le scienze occulte. Il costruttore di navi a cui quel compito doveva essere giustamente assegnato era morto, il suo successore era misteriosamente scomparso e non c'era neppure un modello su cui lavorare, da quando quelle maledette spade in vendita avevano trafugato l'unica nave eyrana che Rui Finco aveva comprato per quello scopo a carissimo prezzo. Virelai aveva visto quella nave nel suo cristallo una notte, mentre salpava verso nord, governata da un equipaggio male assortito di mercenari, disertori e poveri disperati. E la ragazza. La bella ragazza scura con gli occhi luminosi e le curve prosperose. La figlia perduta di Tycho Issian, ora ritrovata, ma da lui soltanto, perché quella era una notizia che aveva tenuto per sé. Tuttavia non era la paura delle probabili conseguenze del fallimento dell'immenso compito che l'attendeva ad averlo spinto a uscire quella notte, ma qualcosa di più urgente e personale. Virelai era costretto a salvarsi la pelle, letteralmente. Quando la luce della torcia che portava con sé illuminò la mano che spingeva il cancello dell'entrata posteriore, il giovane si accorse di nuovo con terrore a malapena celato del modo in cui la sua pelle si stava ingrigendo e squamando come quella di un serpente durante la muta stagionale. Solo che sotto lo strato morto non c'era quello nuovo, fresco e luminoso, ma un altro, anch'esso vecchio e opaco, sfaldato e friabile al tocco. Aveva tentato ogni incantesimo a lui noto e anche diversi che non conosceva, sortilegi che aveva reperito nei libri trafugati al Padrone e nelle antiche pergamene che aveva segretamente consultato nella grande libreria di Jetra... ma senza risultato. Persino quando il gatto era più collaborativo - il che avveniva sempre più raramente, perché ora che sentiva che la forza di Virelai veniva meno sembrava determinato a rovesciare l'equilibrio del potere in suo favore - niente sembrava in grado di fermare la decomposizione... ammesso che si trattasse di questo. Ciò che lo spaventava non era solo l'orrore della decadenza fisica che minacciava di distruggerlo, ma il fatto che essa potesse essere il preludio a una più terribile espressione della maledizione di Rahe e che i demoni urlanti che il Padrone gli aveva prean-
nunciato potessero calare su di lui da un momento all'altro. Solo una persona era capace di operare il tipo di divinazione in grado di individuare la loro presenza; solo lei avrebbe forse potuto curare la sua povera pelle e solo lei l'avrebbe fatto per semplice amicizia. Perché lui non aveva denaro: Tycho si era assicurato che non ne avesse per legarlo ancora di più a sé. Alisha. Era stato uno shock vederla di nuovo nella pietra. E questa volta lei non aveva visto lui, occupata com'era con Falo e con un taglio che il bambino si era procurato durante il viaggio; Quando si era reso conto che le mura rosate che scorgeva sullo sfondo della scena erano quelle della grande fortezza di Jetra, si era sentito sollevato per la prima volta da mesi, ed era per questo che ora che la notte era calata sulla Città Eterna Virelai stava sgattaiolando furtivamente nelle scuderie. Si guardò intorno per un istante, poi si affrettò a sellare uno di quegli odiati animali e lo spinse al galoppo, spronato dall'idea che aveva solo quattro ore per trovare Alisha, rivelarle la sua terribile condizione e tornare in fretta e silenziosamente com'era venuto. Il campo nomade che aveva osservato nel cristallo si trovava a diversi chilometri fuori dalle mura di Jetra ed era ben camuffato alla vista da un boschetto di salici vicino all'ansa del fiume. Non c'era nessun fuoco acceso, nulla che determinasse la loro posizione, ma Virelai trovò la curva del fiume che aveva visto grazie a una specie di sesto senso che aveva scoperto di avere. E senza cadere neppure una volta da cavallo, un fatto che lo rese piuttosto orgoglioso. Legò l'animale a un ontano a poche centinaia di metri di distanza dal gruppo di yeka che pascolavano sul prato e dai carri immersi nell'oscurità, e si avviò a piedi verso l'accampamento. La carovana con cui aveva viaggiato fino alla Grande Fiera era irriconoscibile: dove prima c'erano più di venti carri, ora non ne erano rimasti che quattro. I nomadi dovevano essersi divisi per sicurezza, immaginò Virelai, che aveva visto numerose scene di persecuzione nel cristallo. Sembrava che al mondo non ci fosse più un luogo sicuro per gli Erranti. E lui stesso, andando a cercare questo particolare gruppo, li stava mettendo tutti in pericolo. Ma non aveva scelta. Il carro in cui lui e la veggente avevano trascorso diversi pomeriggi tranquilli non c'era; ma Virelai riconobbe gli indumenti intimi messi ad asciugare su un filo attaccato da una parte a un ramo di salice e dall'altra alla maniglia della porta di un carro di fattura più tradizionale con un ela-
borato disegno raffigurante la luna e le stelle dipinto sulla porta. Era sicuro che quello era il carro una volta occupato da Fezack Cantastelle, ma gli indumenti intimi, bordati di pizzo galiano e chiaramente adatti a forme piuttosto abbondanti, non potevano essere quelli dell'anziana donna... Facendosi coraggio, Virelai salì i gradini di legno fino alla porta con la luna e le stelle e bussò leggermente nel modo che avevano concordato tanto tempo prima. In principio gli rispose il silenzio; ma era un silenzio che indicava che l'occupante del carro stava trattenendo ansiosamente il fiato e si era messo in ascolto. «Sono io» sussurrò. «Virelai.» Ci fu un rumore all'interno, poi una fessura si aprì nella porta. La luce della luna illuminò un occhio che guardava fuori. Virelai lo vide spalancarsi e poi, un secondo dopo, la porta fece altrettanto. In piedi sulla soglia c'era Alisha Uccello del Mattino, con indosso una tunica leggera e un grosso scialle, i capelli ribelli arruffati dal sonno inquieto e la bocca spalancata in un'espressione di incredulità. La donna riacquistò quasi immediatamente la sua compostezza, al punto di passarsi le mani tra i capelli cercando di pettinarseli. Poi si posò un dito sulle labbra, prese il giovane per un braccio e lo trascinò attraverso il campo finché non furono lontani dagli altri carri. Si fermarono in un boschetto di salici sulla riva del fiume. Sotto di loro l'acqua scorreva impetuosa nel suo incessante viaggio verso il mare. «Mi serve il tuo aiuto» disse Virelai mentre contemporaneamente Alisha chiedeva, «Dove sei stato?» Si guardarono sgomenti, finché alla fine Virelai ripeté la sua richiesta. «Sto cadendo a pezzi» aggiunse. «La vita è stata dura per tutti noi» rispose lei automaticamente, ma lui scosse la testa. «No, no... Guarda...» La luna era piena, e la sua luce si rifletteva sulla superficie del fiume, illuminando l'aria tra di loro. Virelai arrotolò le maniche, rivelando l'orrore nascosto sotto di esse. Alisha rimase senza fiato. «Che tipo di malattia è mai questa?» chiese, ma lui si limitò a scuotere angosciato la testa. Per quella domanda non aveva alcuna risposta. «Sono settimane che non fa che peggiorare» fu tutto ciò che poté dire. «Temo che ci sia una maledizione su di me.» E poi, per la prima volta, anche se erano stati intimi molte volte in altri modi, le raccontò di Santuario, del Padrone e delle maledizioni che sospettava di aver attirato su di sé. Alisha lo ascoltò attentamente, accigliandosi e annuendo. Aveva sempre creduto che la donna pallida fosse la sorella di Virelai, ma la storia che le
stava raccontando era molto più strana. Quando alla fine le riferì i suoi attuali timori, lei impallidì. «Mi vieni a parlare di demoni, come se non ci fossero già abbastanza guai per la mia gente?» Lui chinò la testa, sconsolato. «Non ho nessun altro a cui rivolgermi.» «E che mi dici del gatto?» Virelai spalancò gli occhi: non si era mai reso conto che lei aveva capito la natura magica della bestia. Dopo qualche istante rispose semplicemente: «Mi odia. L'ho usato troppo spesso contro la sua volontà e ora mi nega la sua magia. E anzi, temo che se gli chiedessi di sputare un incantesimo per riparare la mia pelle, potrebbe rivolgerlo contro di me per danneggiarmi, e allora cosa farei?» Mentre un altro pensiero lo colpiva, aggiunse: «In verità il gatto mi spaventa più della prospettiva dei demoni.» Alisha sollevò le sopracciglia. «Ti spaventa? Una creaturina come quella?» Virelai rabbrividì. «Tu non l'hai visto come l'ho visto io.» Un'improvvisa immagine della bestia nera come la notte con la sua bocca di fuoco si insinuò nei recessi della mente della nomade. Era un'immagine demoniaca... Ma Bëte? Sembrava impossibile. Dopo tutto avevano viaggiato insieme per mesi e mesi: di certo in tutto quel tempo avrebbe dovuto capire se il gatto nascondeva in sé la mostruosa presenza che Falo aveva visto nel cristallo. Inoltre Virelai non era mai andato d'accordo con gli animali: qualcosa in lui li rendeva inquieti e nervosi, e i gatti erano famosi per la loro irritabilità anche quando erano dell'umore migliore. Alisha scosse leggermente la testa per scacciare quell'immagine. Era un gesto che a Virelai ricordò molto la madre di lei. «Come sta Fezack?» chiese allora. «Ho visto che ti sei trasferita nel suo vecchio carro.» «Mia madre è morta» rispose Alisha con voce priva di espressione. «Oh. Mi dispiace.» Un imbarazzato silenzio calò su di loro. Più per dovere che per genuino interesse, Virelai chiese: «E Falo?» «Sta bene e dorme» tagliò corto lei. «E io vorrei che restasse tutto così. Aspettami qui.» E a quelle parole si sollevò la tunica e corse verso il carro, i piedi e i polpacci bianchi che spiccavano contro l'erba scura. Pochi minuti dopo tornò portando un oggetto grosso e pesante che posò a terra tra di loro. Virelai rabbrividì, riconoscendo la grande pietra. Era un cristallo ben più potente del suo: ne sapeva la storia. «Posaci sopra le mani» ordinò Alisha. «Qui, tra le mie.» Lui fece come gli era stato detto, ma diversi minuti dopo il cristallo era ancora inerte, privo di qualsiasi reazione. La donna si accigliò, perplessa. «Concentrati»
lo rimproverò, ma la pietra non dava segni di vita. Alisha fece allora schioccare la lingua, irritata, e Virelai concentrò tutti i suoi pensieri sul cristallo. Come se il grosso globo si stesse risvegliando da un sonno, all'improvviso delle piccole luci brillarono sulla sua superficie e l'interno si accese di un fuoco luminoso. Strani giochi di colore ne illuminarono le sfaccettature, diffondendo una luce rosa e porpora, azzurro e oro sul terreno tutto intorno a loro. Quando alla fine la nomade tolse le mani dalla pietra e si sedette sui calcagni, il suo viso era pallido e teso. Virelai studiò ansiosamente la sua espressione. Lui non aveva scorto altro che nebbie colorate, come se il cristallo avesse voluto deliberatamente tenergli nascosti i suoi segreti. «Cosa hai visto?» chiese alla fine. «Nessun demone» mormorò lei, e il suo viso era pieno di paura e di meraviglia. E forse anche di un leggero disgusto. «Povero Virelai. Non ci sono demoni. Né alcun segno di maledizioni.» Quella risposta lo confuse alquanto. Se non c'erano maledizioni né demoni, allora da dove veniva quella malattia? Aprì la bocca per chiederglielo, ma la donna si chinò verso di lui e dopo aver esitato per un istante gli posò un dito sulla bocca. «Devi andare a nord» disse. «E portare il gatto con te. Solo la Rosa del Mondo può guarirti.» «Ma lei...» balbettò costernato. La Rosa Eldi era la sua nemesi, di questo era sicuro. Se non l'avesse mai vista nelle stanze di Rahe non sarebbe stato tentato di drogare il Padrone per fuggire con lei da Santuario: sarebbe rimasto al sicuro in quella magica fortezza, protetto da questo terribile e disorientante mondo in cui gli uomini tramavano per farsi del male e che il suo stesso corpo sembrava incapace di sopportare. Poi un nuovo pensiero si aprì un varco nella sua mente: e se fosse riuscito a impadronirsi nuovamente della Rosa del Mondo, a portarla via al re del Nord quando i suoi nuovi padroni avessero lanciato il loro attacco contro la sua capitale, e poi, in qualche modo, fosse riuscito a strapparla alle grinfie del nobile Tycho Issian? E se l'avesse presa, insieme a Bëte, le avesse riportate entrambe a Santuario e lì si fosse gettato ai piedi del Padrone, chiedendo umilmente il suo perdono? Fu a quel punto che la sua immaginazione si fermò: era impossibile sapere cosa sarebbe accaduto. Il Padrone non era un uomo misericordioso per natura... ma forse sarebbe stato felice del ritorno della sua donna e del gatto, anche se accompagnati dal suo errabondo apprendista... Era il piano migliore che gli riusciva di concepire. La Rosa l'avrebbe guarito e, una volta riacquistate le forze, sa-
rebbe stato in grado di tirare fuori dal gatto una magia che gli avrebbe consentito di sfuggire alle grinfie dei suoi persecutori. L'ordine che aveva conosciuto per tutta la vita sarebbe stato restituito al mondo: il danno che aveva fatto sarebbe stato riparato. Tutto sarebbe andato al suo posto. Sorrise ad Alisha Uccello del Mattino, che lo stava guardando con curiosità. «Grazie» le disse. «Ora so cosa devo fare. Non riesco a immaginare perché non ci ho pensato prima.» E si voltò per andarsene. Alisha lo fissò incredula. Tipico di un uomo: cercarla, pieno di dubbi e paure e bisognoso di conforto, per poi scappare di nuovo una volta che lei aveva sistemato le cose, con il pensiero interamente concentrato sul suo nuovo futuro e nessuna considerazione per lei. «Aspetta!» gridò, combattuta tra l'irritazione e la preoccupazione. «Non andrai molto lontano senza il mio aiuto.» Virelai si voltò. La sua fronte di un bianco immacolato era aggrottata. A vederlo così, la rabbia di Alisha svanì all'istante. Almeno il suo viso non era stato toccato dalla malattia, pensò. Nonostante il suo aspetto inconsueto, a lei era sempre sembrato bello. Era proprio la sua stranezza ad affascinarla, se ne rendeva conto solo ora; era il mistero che lo avvolgeva, le sue molteplici contraddizioni. Era un uomo che poteva fare qualunque cosa, essere qualunque cosa. E non c'era da meravigliarsene, date le sue bizzarre origini... Con una certa difficoltà Alisha distolse lo sguardo da quegli occhi penetranti. «La tua pelle» gli ricordò, come se lui potesse dimenticare una cosa così fondamentale. «Ti servirà dell'unguento.» Lui sorrise e lei ricordò all'improvviso una bella mattina di sole in cui avevano giaciuto insieme e la luce era penetrata attraverso le persiane del carro, trasformando gli occhi pallidi di lui in due globi d'oro e lei aveva sentito il proprio stomaco contrarsi per il desiderio e qualcosa di simile a un timore reverenziale. Fu colta allora da una terribile tristezza per quello che avrebbe potuto essere e si voltò, incapace di sopportare la vista di quel viso così pieno di gioia e il suono di quella voce piena di determinazione. «Mi dispiace» disse lui. «Non ci avevo pensato.» Virelai guardò Alisha scomparire nuovamente nell'ombra all'interno del carro, sentì un tintinnio di pentole e bicchieri, il rumore del pestello nel mortaio, una dolce rassicurazione al bambino che si era svegliato. Poi tornò fuori e con dita delicate applicò il composto che aveva preparato alle mani e agli avambracci del giovane, dove il danno prodotto dalla malattia era più evidente. Come sempre il tocco delle sue dita lo lasciò senza fiato,
e il suo sangue sembrò affluire in superficie per incontrare quello di lei. Quando ebbe finito, Virelai rimase immobile per un momento, come in trance. «Tu non sei cattivo» mormorò Alisha. «Ti prego, ricordalo quando tutto intorno a te ti sembrerà buio. Quello che sei non è colpa tua: non importa come veniamo a questo mondo, siamo . solo noi che scegliamo cosa fare della nostra vita. Io non ho visto demoni nel cristallo, a parte gli uomini stessi. Presto dovrai compiere una scelta importante, da cui dipenderà tutto ciò che vale la pena di essere salvato in questo mondo. Scegli con il cuore, e fai del tuo meglio.» E poi gli mise in mano un vasetto con l'unguento che aveva preparato e fuggì via da lui, chiudendo la porta del carro dietro di sé. Rimase immobile per diversi minuti con la schiena premuta contro il freddo legno e il cuore che le batteva all'impazzata, ascoltando il rumore dei suoi passi che si allontanavano sull'erba. Per tutta la strada di ritorno alla Città Eterna, abbassandosi automaticamente per evitare i rami più bassi e incurante dei suoni delle creature della notte svegliate dal suo passaggio, Virelai rimase seduto sul suo cavallo riflettendo intensamente su cosa avesse mai voluto dire Alisha Uccello del Mattino con quella sua affermazione criptica e stranamente solenne. E neppure al levar del sole, dopo che aveva rimesso il destriero nelle scuderie ed era tornato non visto nella sua stanza, era ancora riuscito a capire il vero significato di quelle parole. Ma nel frattempo un piano si stava formando nella sua testa, un piano che prevedeva non solo di riprendersi la Rosa Eldi e restituire lei e il gatto al Padrone, ma coinvolgeva anche un ragazzo di nome Saro, e la potente pietra che portava al collo... Quella stessa sera il Signore di Cantara venne da lui. Entrò precipitosamente dalla porta senza bussare, ansimante e stranamente in disordine per un uomo sempre così pignolo riguardo al proprio aspetto, e specialmente per uno che aveva appena reso onore alla sua Dea. Virelai notò infatti le macchie di cartamo sulle sue mani, le tracce di polline arancione sul davanti della sua tunica e qualcos'altro... Qualcosa di più scuro e più resistente, perché mentre le tracce del cartamo erano quasi scomparse, come se qualcuno avesse tentato di ripulirle con la mano, quelle altre macchie sembravano impresse indelebilmente sulla stoffa. All'occhio poco esperto, ma acuto di Virelai parvero inequivocabilmente delle macchie di sangue. Un
sacrificio. Un altro, e così erano tre di seguito. Virelai sapeva del galletto e dell'agnello: lui stesso aveva avuto il terribile compito di scegliere e acquistare entrambe le povere creature, e poi di lavarle con tutte le cure necessarie prima che venissero portate in uno dei giardini di meditazione e donate a Falla, di solito recalcitranti e tra grandi strepiti, da uno dei suoi sacerdoti dal volto tetro. Quel giorno, invece, sembrava che il Signore di Cantara avesse fatto il sacrificio da solo invece di richiedere l'assistenza di un sant'uomo. Il giovane mago si chiese quale povera bestia avesse avuto il privilegio di essere spedita alla Dea dalla mano di Tycho Issian, e rabbrividì. Stava succedendo qualcosa, ed era chiaro non solo per l'elevato numero dei sacrifici: il Signore di Cantara infatti odiava la sporcizia, eppure in questo caso non si era nemmeno lavato le mani o cambiato d'abito. Inoltre aveva gli occhi fuori dalle orbite e una strana protuberanza sul davanti della tunica... Virelai osservò tutto questo nei pochi secondi che il suo padrone impiegò ad attraversare la stanza. Il giovane aveva imparato a capire al volo gli umori di Tycho Issian: per lui era in gioco la sopravvivenza. Anche la protuberanza nella tunica era causa di preoccupazione. Virelai non era contrario all'idea che due uomini traessero piacere l'uno dall'altro (tra i nomadi in fondo queste cose erano piuttosto normali e sembrava che non ci fosse niente di male), ma il Signore di Cantara lo terrorizzava, e non riusciva a immaginare che qualcuno potesse guardarlo con desiderio. Istintivamente si mise tra il nobile e l'elegante scrivania su cui era posata la pietra della visione, al sicuro dietro la sua massiccia presenza. «Mostramela!» La voce di Tycho Issian era roca e affannata. «Mio signore...» «Mostramela, adesso! Devo vederla.» Il Signore di Cantara si strinse la testa tra le mani, come se gli dolesse terribilmente, e cominciò a camminare su e giù per la stanza. «Non ho mai provato una tale passione per nessuna donna... È vero che le femmine sono state sempre una maledizione per me, con le loro bocche provocanti e i loro corpi lussuriosi... ma di solito adoro la Dea con loro e poi il mio desiderio è saziato, per un po'. Non ho mai avuto interesse per una donna che non potessi comprare, anche a caro prezzo. Ma lei... lei è diversa... Non riesco a togliermela di mente. Non vedo che lei, tutto il giorno, e di notte popola i miei sogni. Sento il suo profumo ovunque vado, sento la sua voce, anche se non l'ho mai sentita parlare... È una follia...» Si fermò all'improvviso e si voltò per fissare Vire-
lai, mentre le mani gli cadevano impotenti lungo i fianchi. «Sto impazzendo» esclamò angosciato. Virelai non sapeva cosa dire. «Di certo no, mio signore» fu tutto ciò che riuscì a balbettare, anche se era consapevole che si trattava di una bugia. Era pazzo, sì, e molto di più... «Lei mi fa ardere.» Tycho serrò i pugni e li spinse entrambi contro il proprio inguine, costringendo la protuberanza ad abbassarsi. Poi si avvicinò al tavolo con una tale velocità che Virelai trasalì e indietreggiò, spaventato; ma il Signore di Cantara si limitò ad afferrarlo per le spalle e a gracchiare, abbassando la voce: «Io non credo... non credo che sia del tutto umana, la Rosa Eldi. Credo che sia stata toccata dal divino. E perciò, capisci, io devo averla. Devo salvare la sua anima. È un mio sacro dovere.» Dopodiché costrinse Virelai a sedersi davanti a lui e a togliere il velo che nascondeva la pietra. Il giovane mago lo fece con mani tremanti e non solo perché l'erezione del nobile premeva fastidiosamente contro la sua schiena, ma anche perché aveva paura che Tycho facesse commenti sul loro stato. Nei punti in cui Alisha aveva applicato il suo unguento la pelle si stava squamando molto meno di prima, ma aveva comunque una strana tonalità di grigio e anche alle tenue luce delle candele era impossibile che qualcuno non lo notasse. Aveva infilato un paio di guanti, ma per usare la pietra della visione avrebbe dovuto toccarla a mani nude. Con riluttanza se le scoprì, ma il Signore di Cantara non mosse un muscolo e non fece alcun commento. La presa sulle sue spalle non vacillò, e quasi come se l'ossessiva passione del nobile guidasse la pietra usando Virelai come tramite, il cristallo mostrò la Rosa Eldi con sorprendente facilità. Lei era lì, davanti a loro, con quel suo strano sorriso perplesso che le avevano visto spesso sul viso da quando era fuggita, e si trovava in una grande sala le cui pareti erano ornate da antichi arazzi e armi di pregevole fattura, lance con barbigli e asce bipenne, spade disposte elegantemente a ventaglio, alabarde e picche, tutte collocate non troppo in alto, come per fornire agli occupanti un istantaneo mezzo di difesa in caso di attacco improvviso. Tra tutti quei simboli di morte che la circondavano, la Rosa Eldi era pallida e perfetta, aggraziata come un giglio, luminosa come un fiore di cartamo. Virelai sospirò di sollievo: almeno l'avevano trovata in un luogo pubblico, completamente vestita e mentre dimostrava un certo contegno, e non nuda a fare le capriole con il suo appassionato consorte, come era sempre accaduto finora tutte le volte che l'aveva cercata nel cristallo. Come se la sola vista della Rosa del Mondo fosse un sollievo al suo tor-
mento, il Signore di Cantara allentò la stretta sulle spalle di Virelai. Poi, «Ah» disse sospirando. «Eccola. Eccola!» Una folla era radunata intorno a lei, decine di persone, tutte impazienti di renderle omaggio. Indossavano ricchi abiti e preziosi gioielli: un frastuono di colori e riflessi che brillavano alla luce delle torce e delle fiamme che ardevano nei camini. Così tanto fuoco, pensò Virelai. Nella sua mente era una scena infernale, ma il nobile dietro di lui sussurrò impressionato: «Guarda, guarda... È Falla che sorge dai fuochi della Montagna Sacra. 'I piedi nudi sui carboni ardenti rosse nubi tra i capelli lucenti leggiadre membra del bianco di una perla quale uomo o dio potrà mai averla?' «È magnifica... Ah...» La folla si addensava, roteava, fluiva come un mare; e poi comparve il re barbaro, Ravn Asharson, che si mosse con disinvolta grazia tra i suoi cortigiani diretto verso la moglie, i lunghi capelli che brillavano sotto il cerchietto d'argento, la massa del mantello in pelle di lupo che sottolineava la robustezza delle sue spalle. Come affascinato da lui, il cristallo seguì ogni suo passo, cambiando il punto di vista in modo tale da allinearsi con la Rosa del Mondo, mostrando solo il re eyrano che camminava in mezzo alla sua gente, il nobile viso, mentre la luce del fuoco ne illuminava gli occhi, gli zigomi, la fierezza del sorriso. «Maledetto cristallo!» ringhiò Tycho. «Riportala indietro... Non voglio vedere lui, quel moccioso vigliacco! Mostrami la Rosa Eldi.» Con ogni atomo della propria forza di volontà Virelai combatté il cristallo che sembrava essersi fissato sullo Stallone del Nord finché alla fine non lo costrinse a mutare bruscamente prospettiva. Ma la visione che gli offrì non era quella della Rosa del Mondo: al suo posto c'era una stanza silenziosa, modestamente ammobiliata, nella quale una ragazza magra dai capelli scuri sedeva su una panca a giocare agli astragali con una donna robusta impegnata a pulirsi i denti servendosi di un bastoncino affilato mentre la sua compagna gettava le ossa. Il Signore di Cantara emise un fischio di disapprovazione... e proprio in quel momento il contingente di Altea fece irruzione nella stanza, guidato da Favio Vingo che spingeva davanti a sé il figlio maggiore su una bizzarra sedia dotata di ruote. Il volto dell'uomo anziano era tirato per l'evidente antipatia che provava per il nobile del Sud, ma gli occhi del ragazzo brillavano di entusiasmo.
«Mio signore,» cominciò Tanto «mi hanno detto che vi avrei trovato qui. Ho avuto l'idea di una grande sfera in cui diversi Erranti potrebbero venire bruciati insieme...» Tycho non distolse neppure gli occhi dal cristallo per salutare i suoi visitatori. Tanto però non aveva intenzione di lasciarsi scoraggiare. Allontanando suo padre e manovrando lui stesso le ruote, avvicinò la sedia al tavolo per poter vedere cosa stava catturando in quel modo l'attenzione del Signore di Cantara. «Ah» esclamò deliziato. «Visione con l'aiuto di un cristallo: interessante. Cos'è che state cercando di vedere?» Allungò il collo sul tavolo verso la pietra e per un istante sembrò confuso dalle sue strane luci e bizzarre prospettive. Poi si ritrovò a spalancare la bocca per la sorpresa. «Selen» mormorò. Era davvero lei. E quando pronunciò il suo nome, la figlia di Tycho Issian sollevò la testa dal gioco e una leggera ruga le comparve sulla fronte, come se si stesse concentrando su qualcosa, o stesse tentando di ascoltare una voce lontana. Tanto per poco non si lanciò sul tavolo per afferrare la pietra... ma ricordò appena in tempo che doveva fare la parte dell'invalido e tornò ad accasciarsi sulla sedia. «Mia figlia!» gridò il Signore di Cantara. «Quindi è stata davvero rapita da briganti eyrani!» A quel punto, come di propria volontà, il cristallo cambiò bruscamente prospettiva, offrendo tutta una serie di immagini in sequenza. Prima ci fu una mano guantata che apriva la porta di una stalla nel buio, poi mostrò di nuovo la Grande Sala del castello di Halbo illuminata dai fuochi, salendo su per il soffitto a volta sopra la nuova regina d'Eyra, in modo che gli spettatori si ritrovarono a fissare dall'alto la sommità del suo capo. Era un'angolazione bizzarra, ingannevole; ma Virelai capì che c'era qualcosa di strano, perché l'immagine, almeno per lui, cominciò ad annebbiarsi e a vacillare. Laggiù stava operando della magia: una magia potente. «Per le tette di Falla!» esclamò Tanto all'improvviso. Ma il pio Signore di Cantara era così sbigottito dalla vista della Rosa Eldi che il cristallo gli stava offrendo che non notò neppure la bestemmia. «Non ha sprecato il suo tempo: l'ha ingravidata per bene...» Tycho stava battendo rapidamente le palpebre, come se non credesse ai propri occhi. Poi, «È incinta!» gemette. «Il bastardo ha messo incinta il mio amore...»
Tutti, tranne Virelai, videro ora con chiarezza che la pancia della Rosa del Mondo era dolcemente incurvata, e la prominenza era resa ancora più evidente dalla stoffa aderente del suo abito bianco. Ravn Asharson le si avvicinò, la baciò con gioia su entrambe le guance e poi sulla bocca, mentre la sua mano destra si posava con un gesto possessivo sulla pancia ingrossata. Virelai sentì all'improvviso un grande fragore. Poi il tavolo si rovesciò e al suono si unì quello del cristallo che rovinava a terra e si infrangeva in mille di pezzi. Il rumore del cristallo che si rompeva riverberò tra le mura del castello, echeggiò nei corridoi e sulle scale, poi si perse nella notte. I cani si agitarono inquieti, la coda tra le gambe; i gatti saltarono qua e là nei cortili; le oche spiccarono il volo dal lago di Jetra, spaventate. Nel Salone delle Stelle, Rui Finco, impegnato in un'avvincente conversazione col nobile Prionan sulle tattiche di assedio, sollevò il capo e trasalì per un'improvvisa fitta di dolore alla testa; alcuni uomini gridarono, chiedendosi subito dopo perché l'avessero fatto, mentre altri si guardarono improvvisamente intorno, disorientati. Hesto Greving lasciò cadere il calice di oro speziato che aveva sorseggiato nell'ultima ora come se scottasse, e fissò sgomento la chiazza lucente che si era formata ai suoi piedi e nonostante il dolore che gli serrava le ossa si ritrovò a quantificare lo spreco: almeno trentadue cantari, anche se aveva già bevuto all'incirca la metà del contenuto della coppa. Più lontano, fuori dalla città, una donna attraversò il carro per calmare suo figlio, che si era svegliato in lacrime per un brutto sogno; e molto più lontano un vecchio imprecò furiosamente mentre la sua visione di una parte del mondo si oscurava e moriva. Nel buio delle scuderie Saro Vingo serrò le mani intorno alla pietra che portava al collo, mentre intorno a lui i cavalli nitrivano e battevano gli zoccoli allarmati, ma neppure la spessa stoffa dei guanti che aveva cominciato a indossare giorno e notte per tenere lontano il mondo riuscì a soffocare la fiammeggiante luce che saettò verso il soffitto della stalla, avvolgendo i suoi occupanti in un caldo rossore. La pietra dell'umore brillò tra le sue dita, al punto che persino attraverso i guanti Saro vide il profilo delle proprie ossa all'interno, e il suo cuore mancò un battito, ricordando quel fatidico giorno alla Grande Fiera: i corpi che cadevano, gli occhi rovesciati a mostrare solo il bianco. Se avesse toccato un qualsiasi essere vivente mentre la pietra brillava ancora, questo sarebbe sicuramente morto. I ca-
valli sembravano averlo capito: indietreggiarono spaventati, sbattendo l'uno contro l'altro finché non si ritrovarono contro le pareti della stalla e non ebbero dove fuggire. Poi, all'improvviso, così com'era venuta, la strana luce morì, gettando le scuderie in un'oscurità ancora più profonda di prima. Saro ripose il pendente col cuore che gli batteva forte. Poi, muovendosi a tentoni nel fioco chiarore, si fece strada verso la posta dove era legato Messaggero della Notte. Lo stallone indietreggiò, scalciando ed espellendo aria dalle narici in grandi getti esplosivi. «Shhh, calmo, amico mio.» Tese la mano, la posò sul collo sudato dell'animale e accarezzò quella pelle vibrante, sentendo le pulsazioni dello stallone che acceleravano sotto le sue dita e avvertendo l'inquietudine dell'animale per quella forza sconosciuta che l'aveva disturbato. Quasi si aspettava che la bestia si impennasse al suo tocco, ma Messaggero della Notte, imprevedibile come sempre, si tranquillizzò. Ancor prima che lo stallone si muovesse, Saro sentì la massa della sua testa nell'aria sopra di lui; poi il baio gli strofinò il muso contro, cercandogli addosso delle carrube come se niente di strano fosse accaduto. Facendogli scivolare la cavezza sopra la testa, Saro lo condusse silenziosamente fuori dalle scuderie deserte, legò la corda a un palo e tornò a prendere le briglie e la sella. Trovare la sella di Messaggero della Notte tra centinaia di altre nel buio più completo sarebbe stato impossibile per chiunque, ma per una volta il dono del vecchio nomade gli fu utile. Si tolse i guanti e passò velocemente le mani sul cuoio levigato, lasciando che le immagini sprigionate dalle selle lo toccassero come una brezza calda e profumata. Per poche frazioni di secondo 'vide' un uomo grasso con occhi neri ravvicinati, un ragazzo alto in blu, una donna, con la schiena dritta e i capelli neri sciolti al vento... una sella piuttosto antica, quella, dato che erano almeno un centinaio d'anni o più che a una donna istriana non veniva permesso di cavalcare un cavallo in maniera così indecorosa. Poi percepì dei conflitti e tolse in fretta le mani. Una sella gli offrì l'immagine di un uomo colpito da una lancia che si aggrappava disperatamente all'arcione prima di scivolare tra un gruppo di combattenti. Vide bambini a malapena in grado di sedere a cavalcioni di una qualsiasi creatura, per non parlare di un cavallo adulto di razza Tilsen, correre come demoni su una spiaggia spazzata dal vento; vide una colonna di uomini che si allungava a perdita d'occhio, con i vessilli che sventolavano da lance sollevate con orgoglio; e poi, in modo alquanto bizzarro, si ritrovò dentro se stesso, mentre un uomo veniva verso di lui su un cavallo pezzato di grigio. Era un ricordo così vi-
vido che Saro si abbassò istintivamente, come aveva tentato di fare alla Grande Fiera. Tolse le mani dalla sella prima di rivivere anche il tremendo dolore inflittogli dal pugno del cavaliere eyrano sotto le costole; si rimise i guanti, prese la sella e la portò fuori nella notte. L'empatia diventava ogni giorno più forte. Persino gli oggetti più comuni si risvegliavano sotto il suo tocco e gli raccontavano la loro storia. E lui non era in grado di difendersi in alcun modo: poteva solo ordinare la propria vita nel modo più semplice possibile, e indossare i guanti non appena se ne presentava l'occasione. Aveva resistito a fatica fino a quella notte: gli era sembrato di non potersi liberare dalla compagnia dei Signori di Forent e Cantara, che avevano insistito per includerlo nei loro piani, e quel fatto, insieme al dover dividere la stanza con Tanto, aveva reso impossibile una sua fuga fino a quel momento. Da quando aveva avuto la straziante visione del massacro che un giorno Tycho Issian avrebbe potuto compiere incanalando il potere della pietra dell'umore, non riusciva a dormire né a mangiare. Dal loro arrivo, quando l'uomo alto e pallido con la mano fredda e l'anima morta l'aveva toccato nel Salone di Jetra e lui aveva visto i suoi occhi quasi incolori illuminarsi nel comprendere il potere dell'oggetto che indossava, Saro aveva vissuto nel costante terrore che quella creatura riferisse l'informazione al suo padrone. E una volta che il Signore di Cantara avesse scoperto la natura della pietra dell'umore, non si sarebbe fermato davanti a niente pur di averla. L'uomo cortese ed elegante che aveva incontrato alla Grande Fiera era irriconoscibile: sembrava spinto da un qualche strano fervore, una passione selvaggia, spaventosa, che gli faceva brillare gli occhi e rendeva ogni suo gesto brusco e impaziente. E Saro l'aveva sentito parlare della gente del Nord in termini che non riusciva a conciliare con le proprie esperienze, seppur limitate, e che trasudavano un odio dalle radici ben più profonde dell'antica inimicizia tra i due popoli. E il ruolo che Tycho aveva tratteggiato per Saro in questo dramma, ossia inganni, tradimenti, assassini a sangue freddo, era inimmaginabile per lui. Il desiderio di fuggire, sempre più impellente, lo spinse a misurare ogni movimento, a muoversi con studiata lentezza, mentre teneva tutti i sensi in allerta. Sellò il cavallo, strinse il sottopancia, poi legò il piccolo sacco di provviste e beni di prima necessità sul dorso dell'animale. Infine gettò indietro la testa e fece un profondo respiro. In alto nel firmamento le costellazioni erano più luminose che mai, e il cielo era nero e vasto come l'intero mondo. La Croce del Nord era allo zenit, e le sue sette stelle minori danzavano irregolari intorno all'astro più luminoso di tutti, quello che gli Eyrani
chiamavano 'Stella del Navigante' e lì nel Sud era noto come 'Occhio di Falla'. È tipico della gente del Nord, pensò per la prima volta, considerare il proprio mondo tanto benevolo da fornire loro guida e assistenza, invece di infliggere la sua continua e assillante presenza. Andrò in Eyra. Erano oramai svanite tutte le motivazioni con cui si era sempre tarpato le ali fino a quel momento: se doveva tenere la pietra al di fuori della portata di Tycho Issian e impedire l'avverarsi di quell'apocalittica visione del futuro, allontanarsi il più possibile dal Signore di Cantara gli sembrava l'unica linea di condotta possibile. Che le stelle di quella notte sembrassero offrirgli il loro incoraggiamento non fece che aumentare la sua determinazione, cosicché, in pochi istanti, quell'idea improvvisa assunse tutta la forza di una rivelazione e divenne una decisione irrinunciabile quanto qualsiasi altra presa dopo mesi di prudente pianificazione. 19 Il Lungo Serpente Katla, che a notte fonda stava ancora lavorando nella sua fucina sulla spada che si era ripromessa di fare per la famiglia di Tor Leeson, per onorare la sua memoria o perché la rivendessero al prezzo che avrebbero voluto, cessò di battere e si mise in ascolto. C'era una specie di sibilo nella sua testa, qualcosa di indefinibile e che non aveva niente a che vedere con l'eco del martello che picchiava sull'incudine né con le vibrazioni che il suo corpo aveva assorbito dal ferro... qualcosa nell'aria forse, o nel terreno sotto i suoi piedi. Mise giù gli strumenti, posò con cura la spada non ancora finita sul bancone e appoggiò le mani sul pavimento di pietra nel tentativo di individuare e identificare quella sensazione; ma era svanita, lasciando dietro di sé solo una debolissima eco nelle vene di quarzo che correvano in profondità sotto l'isola. Katla si accigliò. Qualcosa nel mondo le sembrava fuori posto, sottosopra. Guardò la sua spada. Era un bel pezzo: buono, ma non eccelso. L'aveva sempre saputo, sin da quando aveva cominciato a fonderla. Niente di quello che aveva tentato di realizzare da quando era tornata a Rocciacaduta dopo il naufragio sembrava soddisfare i suoi sempre più raffinati criteri di giudizio, anche se gli altri avevano ripetutamente ammirato i suoi esperimenti di niellatura e gli intricati disegni in filo d'argento che si avvolgeva-
no come serpenti intorno all'elsa e lungo la scanalatura. La verità era che non ci metteva più il cuore. Era come se il mostro marino avesse portato una parte di lei negli abissi dell'oceano, insieme con suo fratello e i suoi amici. Si ripulì le mani sulla tunica, spense il fuoco e lasciò la fucina. La lunga casa era immersa nell'oscurità, ma lei non era abbastanza stanca per voler andare a letto. Si avvolse invece in uno spesso mantello e scelse il sentiero che portava alla Spiaggia della Balena. Alla luce della luna che giganteggiava sull'isola si fece strada verso le scogliere, seguendo il sentiero di sabbia chiara tra le ginestre e i cespugli, e poi, col respiro che si addensava nell'aria gelida, prese il viottolo più largo che sbucava sulla spiaggia. Lì trovò la grande nave rompighiaccio del Signore di Rocciacaduta, completa tranne che per l'albero, che si stagliava contro il mare argenteo come un vascello uscito da una leggenda. «Bella, no?» Katla sobbalzò nel sentire quella voce. Si voltò di scatto portandosi entrambe le mani alla bocca per soffocare il grido che minacciava di sfuggirle. Aran Aranson era seduto con la schiena appoggiata a una pila di legname, così immobile da sembrare egli stesso un pezzo di legno. «Per Sur, papà, mi hai fatto prendere un colpo!» Suo padre sorrise, ma non staccò gli occhi dalla nave. L'espressione del suo viso era sognante, estatica: sembrava un sonnambulo, pensò Katla. «La chiamerò il Lungo Serpente» aggiunse lui a voce bassa. Katla si sedette accanto a lui in modo da poter ammirare il lungo scafo e le eleganti curve della nave dalla sua stessa angolazione. «Hmm» disse in tono di approvazione. «Di certo è sinuosa come un serpente... Ma non è un nome infausto per una nave?» Una ruga apparve sull'ampia fronte di Aran. «Infausto?» «Ti pare saggio chiamare la tua nave col nome del più grande nemico di Sur?» «Sur ha prestato ben poca attenzione alle mie preghiere negli ultimi anni» disse suo padre con amarezza. «Quindi perché non ingraziarci il mostro che fece capovolgere il suo prezioso Corvo e lo fece finire nell'Oceano del Nord? Potrebbe lasciarci in pace quando viaggeremo nelle sue pericolose acque. Non è il caso di perdere un'altra bella nave, non credi?» La sua voce era dura e priva di espressione. Katla non l'aveva mai sentito fare un qualche riferimento alla perdita del Lupo delle Terre Innevate e di suo figlio maggiore, prima di allora.
Katla fece una smorfia. «È un bel nome, papà: mitico e coraggioso, come si addice a una nave destinata a una così grande spedizione.» Aspettò qualche secondo prima di chiedere, «Quando partirete?» Sapeva che suo padre aveva già scelto la maggior parte dell'equipaggio: ventiquattro uomini di Rocciacaduta e delle isole circostanti. Erano ormai settimane che si presentavano alla fattoria, attirati dalle voci che si erano diffuse per tutte le Isole Occidentali di fama e fortuna in attesa di essere conquistate in una misteriosa terra artica piena di antichi tesori: giovani e vecchi, marinai esperti e giovani di primo pelo, tutti assetati d'avventura e di gesta eroiche. La maggior parte di loro aveva mogli e figli a casa; molti avevano terra e bestiame a cui badare, ma molti altri non avevano una donna né un soldo a loro nome e speravano di guadagnare in fretta denaro sufficiente a rifornirsi di terra, moglie e una nave tutta loro. E tutti avevano il mare nel sangue: la leggenda di Santuario era una di quelle storie che avevano sentito raccontare sulle ginocchia delle loro madri. Anche l'uomo più giudizioso trovava difficile resistere al richiamo dell'avventura. C'erano ancora dei posti da assegnare se suo padre voleva un equipaggio completo, e Katla non aveva ancora osato domandare se uno di quei posti sarebbe stato per lei. Aran sorrise, un lampo di bianco nell'oscurità. «Presto.» «Quanto presto?» «Tra una settimana o due.» «Ma i mari saranno tutti ghiacciati da qui fino a Capo delle Balene...» «Perché pensi che abbia fatto fare un rompighiaccio per la mia nave? Non posso certo aspettare fino a Primo Sole per salpare: altri arriverebbero lì per primi. Alcuni potrebbero essere già partiti: ogni giorno che passa è un giorno sprecato per me.» «Cosa intendi dire?» A quel punto lui si voltò verso di lei, incupito. «Non posso starmene qui senza far niente, Katla: Rocciacaduta non ha più niente da offrirmi, ora.» «Papà!» «Mio figlio è perduto; mia moglie sta impazzendo di dolore e io non posso fare niente per rimettere a posto le cose. Perché starmene disteso al calduccio di fronte al fuoco a nutrire un corpo che sta invecchiando davanti ai miei occhi, aspettando che la morte mi reclami un po' più di un pezzo alla volta?» «Così affronterai l'Oceano del Nord in pieno inverno e ti offrirai a lei tutto intero, come una pecora al macello? In questo modo sì che rimetterai a posto le cose!»
«Se resterò qui impazzirò anch'io.» Katla si morse il labbro per evitare di dire quello che pensava veramente: che il Signore di Rocciacaduta probabilmente aveva già oltrepassato quella soglia. Ma mentre la sua testa le ripeteva che quel piano era nel migliore dei casi una follia e nel peggiore una deliberata idiozia, il suo cuore cominciò a battere più forte e i palmi delle sue mani cominciarono a pruderle: era la sensazione che sentiva spesso prima di tentare una scalata progettata per giorni. In quanto al ricordo della voce che la esortava a restare, Katla lo scacciò, confinandolo in quel piccolo scomparto in fondo alla sua mente in cui teneva tutti i dubbi e le paure e qualsiasi altro pensiero che avrebbe potuto distrarla mentre cominciava la sua ascesa. «Non c'è più niente neppure per me qui, papà. Portami con te. Io so remare, manovrare il sartiame e aiutare nella navigazione. Sono forte come qualsiasi uomo e tu sai che non mi lamenterò mai, neppure nelle peggiori condizioni. A cosa servo qui? Starei solo d'intralcio alla mamma. Lei mi guarda sempre con aria di rimprovero, qualunque cosa faccia. Non so cucinare, né cucire, né filare, né comportarmi come vuole lei. Non voglio un marito e ho perso tanto quanto te: lascia che venga con voi.» Aran Aranson guardò sua figlia, e nella pallida luce della luna vide che il suo viso brillava di passione. Era così simile a lui da farlo star male. Sentì un bruciore agli occhi e dovette distogliere lo sguardo. «Non posso. Tua madre non mi perdonerebbe mai, se dovessi perdere un altro dei suoi figli in mare.» «E che mi dici di Fent?» «Gli ho promesso un posto.» Katla era furiosa. «Ma non è giusto! Perché Fent può rischiare la vita e io no? Porta me invece di lui: sai che ti sarei molto più utile!» «Ho le mie ragioni.» Nella sua mente vide Festrin Occhiosolo che lo rimproverava, dicendogli di aver cura di sua figlia. Non l'avrebbe mai ammesso con anima viva, ma l'idea della seither che tornava a Rocciacaduta gli faceva venire la pelle d'oca. Inoltre Katla gli aveva già disobbedito una volta per quanto riguardava le spedizioni in mare: non le avrebbe permesso di ripetere quel giochetto. E Fent stava diventando un peso a casa, dove niente riusciva ad assorbire le sue energie sempre più distruttive. Ci sarebbe stata più di una ragazza con un bambino dai capelli rossi l'estate seguente, e tutte avrebbero dovuto essere mantenute. «Ho deciso, Katla, perciò non tentare di convincermi con le moine e non farti venire in mente di salire a bordo con un trucco. Io non sono un tipo compiacente come
Tam Volpe: non avrei esitato un momento a gettarti fuoribordo.» Sentire il nome del capo dei teatranti riempì Katla di una tremenda disperazione. Se un uomo così forte e pieno di vita come Tam Volpe poteva essere preso dal mare, che possibilità aveva chiunque altro? Si ritrovò a fissare il Lungo Serpente con occhi diversi. Era bello, sì, ma mortale, un sottile ramoscello di legno che sarebbe stato sballottato a piacimento da onde e tempeste. Voleva davvero aggrapparsi alle sue sottili frisate mentre il vento le fischiava intorno alle orecchie e la ricopriva di ghiaccio e fredda spuma? Ma nel suo cuore sapeva già la risposta. Non aveva importanza quali sarebbero state le conseguenze: sì, sì, sì. Nei giorni seguenti Katla si tenne alla larga da suo padre. Non poteva lasciare che capisse in che misura la sua ossessione aveva contagiato anche lei: era convinta che gli sarebbe bastato guardarla in faccia per capire le sue intenzioni e rinchiuderla in uno dei capannoni finché il Lungo Serpente non fosse già stato in alto mare. Nel frattempo Aran e sua moglie avevano interrotto il lungo silenzio: prima con una furiosa discussione, poi con lacrime e parole dolci, ma per quanto Bera ostentasse coraggio di fronte al mondo, Katla vedeva la paura nei suoi occhi, paura che, dopo aver perso il suo amato Halli, presto avrebbe perso anche l'uomo che gliel'aveva dato, e molto probabilmente anche Fent. La voce della partenza imminente si sparse presto per tutta l'isola. Gli uomini che erano stati scelti per l'equipaggio manifestarono sorpresa per il fatto di doversi mettere in mare così presto, malgrado le tempeste e il ghiaccio che avrebbero incontrato; ma nonostante i mugugni, l'eccitazione nell'aria era palpabile. Come il Signore di Rocciacaduta, anche loro non amavano la prospettiva di un inverno trascorso nel chiuso delle loro case: l'avventura li chiamava e loro avrebbero seguito Aran Aranson dovunque li avesse condotti. La casa brulicava di voci e attività. Il lavoro di tessitura della nuova vela andò avanti giorno e notte: Aran aveva optato per una vela semplice, senza disegni, perché aveva fretta di vederla completata. La mattina in cui fu ultimata le donne la portarono fuori in cortile e passarono sul lato sottovento del grasso di montone, affinché tenesse il vento. I remi furono ingrassati e lucidati per scorrere nell'acqua e le corde che li avrebbero tenuti al loro posto all'interno della nave furono trattate con olio di balena per renderle elastiche e impermeabili. L'ultimo calafataggio fu fatto il giorno
successivo, tanto che l'intera isola sembrò puzzare di catrame di pino e lana bagnata. La mattina dopo fu installato l'enorme supporto per l'albero, in cui fu infilato e bloccato con estrema cura l'albero stesso sotto l'attenta supervisione di Morten Danson. Se l'albero fosse crollato per i forti venti di tempesta e se non fosse stata eseguita l'installazione in modo appropriato sarebbero andati perduti la nave e ogni membro del suo equipaggio; e anche se il costruttore di navi non aveva simpatia per l'uomo che l'aveva fatto rapire, né per coloro che sarebbero partiti con lui, non avrebbe mai permesso che la sua reputazione fosse compromessa. La vela fu assicurata al pennone e issata, finché si gonfiò al freddo vento che spirava dal largo. Katla rimase a guardare, con le dita che le prudevano, mentre uno degli acrobati, Jad, si arrampicava con agilità fino in cima all'albero per controllare i nodi intorno al rakki e legare abilmente le sartie. Gli ultimi tronchi di quercia che erano stati portati fin lì dal cantiere navale furono depositati sulla spiaggia di ciottoli dal dritto di prua della nave fino all'acqua. Il giorno seguente ogni uomo dell'isola afferrò una corda e aiutò a trascinare la nave in mare e fu così che il Lungo Serpente fu varato, nello stretto di Rocciacaduta. Sulla spiaggia tutti gridarono di gioia: il varo di un'imbarcazione così bella era un evento da ricordare. Il Signore di Rocciacaduta, Morten Danson e il suo caposquadra, Orm Nasopiatto, controllarono l'assetto della nave sull'acqua ed esaminarono i comenti (se troppo larghi, la nave avrebbe imbarcato troppa acqua; se troppo stretti, quando il legno si fosse gonfiato con tutta probabilità sarebbero saltate via delle tavole, specialmente in condizioni atmosferiche avverse), mentre una mezza dozzina di uomini dell'equipaggio rizzava l'albero e issava la vela. Alla fine la nave venne ancorata accanto al Dono di Fulmar. Il Serpente era più grande e pesante di chiglia per compensare il peso del rompighiaccio, ma era comunque la più elegante dei due vascelli. Al paragone, il Dono di Fulmar appariva per quel che era: una vecchia nave costruita con materiali di qualità inferiore e per uno scopo meno glorioso, ordinaria e mediocre, con lo scafo annerito dagli anni e segnato dai ripetuti impatti con scogli, rocce e asce. Per tre giorni gli uomini fecero la spola avanti e indietro dal Lungo Serpente con le faering, portando con sé secchi di luto per calafatare i corsi di fasciame e catrame per i comenti, mentre Morten Danson e Orm, un omone con delle mani simili a zampe d'orso, larghe e muscolose, e dalle dita tozze e forti, controllavano i lavori del timone, fissavano il sartiame e discutevano su come sistemare esattamente il pennone inferiore. Quando
tutti furono soddisfatti, seguirono le casse da marinaio e la legna da ardere, e poi le pelli conciate e i sacchi a pelo di pelle di foca per fornire quel poco di protezione possibile sui mari artici; infine le provviste per il viaggio. Lunghe file di donne e bambini erano allineate lungo il sentiero che dalla fattoria portava alla spiaggia, e si passavano di mano in mano cestini di pane di segale e merluzzo, molva e merluzzo carbonaro sotto sale, sanguinaccio, montone e vitello in salamoia, manzo essiccato, una ruota di formaggio, uova di gabbiano e di gallina, gazze marine salate e conigli interi essiccati, una foca conservata in acqua di mare. Una moltitudine di pesanti barilotti contenenti acqua del ruscello che scendeva direttamente dalle montagne dietro la lunga casa fu immagazzinata a poppa in un compartimento che il costruttore di navi aveva fatto ricavare in quel punto per controbilanciare il peso del rompighiaccio. Seguì una piccola quantità di sangue di stallone e un barile di buona birra. Sarebbe stato un bene per il morale dell'equipaggio, decise Aran, potersi scaldare un po' con una buona bevuta dopo una giornata passata ai remi. Su ordine della Signora di Rocciacaduta furono caricati a bordo anche due enormi sacchi di rape, cavoli, cipolle e porri selvatici, per compensare l'ingente quantità di carne, anche se la moglie del re aveva ben poche speranze che gli uomini cuocessero e mangiassero quelle verdure senza nessuna donna a bordo a insistere perché lo facessero. Alla fine un grande sacco profumato con i famosi panbiondi di Bera fu passato lungo la catena, accompagnato da molti commenti invidiosi. Era forse il miglior indizio che la moglie del Signore di Rocciacaduta si era probabilmente rassegnata ad accettare la pericolosa avventura del marito. Ma nessuno sapeva che era stata la madre di Bera, Hesta Rolfsen, colei che aveva insegnato a sua figlia a cucinare quelle prelibatezze, a sovrintendere alla preparazione dei dolci. Aran Aranson aveva preso con sé altri due uomini: Urse, l'enorme braccio destro di Tam Volpe dal viso sfigurato, che aveva detto al Signore di Rocciacaduta di non aver fortuna con le donne e di dover quindi guadagnare un vero e proprio capitale per comprarsi una moglie, e il figlio maggiore di Felin Navegrigia, Gar, un muscoloso ragazzo di diciannove anni che a malapena riusciva a mettere in fila due parole, ma sapeva legare una bolina con una mano sola e a occhi chiusi. Contro la volontà di sua madre anche Fent avrebbe accompagnato Aran. Rimaneva così solo una manciata di posti da riempire, e oltre un centinaio di uomini e ragazzi erano accampati intorno alla fattoria a contendersi l'onore. Ogni volta che Aran usciva di
casa ne trovava di nuovi. All'inizio era con una dozzina di uomini di Rocciacaduta, gente che conosceva da anni, così come le loro famiglie. Erano persone tranquille e ossequiose con il Signore di Rocciacaduta, e lo salutavano chinando il capo, nella speranza che ricordasse il buon nome della loro discendenza e gli stenti che avevano dovuto sopportare negli anni. Coloro che erano arrivati da più lontano erano meno riservati. Gridavano, supplicavano o si vantavano delle loro prodezze, mostrando i muscoli che si erano fatti remando e giurando di saper navigare con la nebbia e con la pioggia battente. Aran parlò con tutti, a tu per tu, con calma e a lungo. Tra questi ultimi arrivi alla fine scelse un altro uomo il giorno prima della partenza: Pol Garson, un cugino di Tor Leeson, che aveva partecipato a diverse spedizioni e se l'era cavata abbastanza bene da potersi permettere una nave tutta sua, finché non aveva fatto naufragio al largo dell'isola di Cullin tre anni prima durante una tempesta particolarmente forte. L'uomo era in grado di navigare in base alla posizione del sole e delle stelle e alle caratteristiche naturali del paesaggio, e i calli sulle mani dimostravano che non era troppo orgoglioso da rifiutarsi di remare. Di certo non aveva perso la nave per sua colpa e, quando fosse tornato con la sua parte di tesori da Santuario, avrebbe provveduto a Sera Wulfsen e al resto della famiglia di Tor: nel complesso ad Aran era sembrata una scelta equa e misurata. Dopodiché, Aran tornò alla sua casa, chiuse la porta dietro di sé e ci si appoggiò contro. «Ecco fatto» commentò. «Non posso fare di più. Preferisco restare con un uomo in meno.» «Be', di' agli altri di andarsene, allora» ribatté sua moglie. Lui sembrò dispiaciuto. «Di certo dovremmo prima dare loro qualcosa da mangiare.» Bera Rolfsen si piantò le mani sui fianchi. «Non è rimasto niente. È tutto a bordo della tua maledetta nave.» «Non litighiamo il mio ultimo giorno a Rocciacaduta.» «La mia preoccupazione è che sia veramente il tuo ultimo giorno qui. Non vuoi aspettare almeno il disgelo?» Aran la guardò con severità. «Ne abbiamo già parlato, moglie. Hopli Garson e Fenil Soronson hanno commissionato una nave a Danson prima di noi: sono salpati dal suo cantiere navale circa un mese prima che Halli lo rapisse. E si vocifera che sono state organizzate altre spedizioni. Avranno già preso il mare: ogni giorno che resto qui è un giorno di vantaggio per loro. Devo partire ora, o mai più.»
«Allora scegli il mai più!» Gli occhi di Bera lampeggiarono. «Sai che non posso farlo.» «Non puoi? Non vuoi, mi dirai. È solo la tua volontà a spingerti in quest'avventura: la tua caparbia, ostinata volontà. L'ho detto prima e lo ripeto: la mappa che hai preso alla fiera non è che un trucco per ingannare gli stolti. Santuario non esiste, e non esiste neppure l'oro che tu sogni, eppure sei disposto a gettare al vento tutto quello che abbiamo guadagnato in questi anni di duro lavoro e, ciò che è peggio, sei disposto a spendere la più rara delle monete: la vita degli uomini della tua famiglia e di Rocciacaduta, da cui dipendono altre famiglie, solo per perseguire questa folle ossessione. Perché la tua spedizione non è altro che questo, Aran Aranson: la ricerca di una chimera, di una leggenda, una folle corsa dietro a un sogno. Nel migliore dei casi sarebbe pura follia; ma questo è il peggiore dei casi, con tuo figlio maggiore perduto nel mare crudele e grida di guerra che si levano dalla nostra capitale. «Oh, non guardarmi così, come se fossi una donnetta ignorante che riferisce un qualche ridicolo pettegolezzo sentito al mercato: io ho orecchie, lingua e il cervello per usarli entrambi e so quello che tutti stanno dicendo: che non passerà molto tempo prima che gli Istriani diano seguito alle minacce fatte alla Grande Fiera, e che non appena i mari saranno liberi dal ghiaccio porteranno le loro navi a nord per incrociare le spade con noi come in passato. E dove sarai tu allora? Qui a difendere la tua famiglia, o a inseguire dei fantasmi nel mare del Nord?» Durante quella requisitoria, Aran aveva stretto i pugni così forte che le nocche gli erano diventate bianche. Ora, quando Bera si fermò per riprendere fiato, il coltello che lei teneva in mano si spezzò in due con un rumore secco e schegge di avorio volarono per tutta la stanza. Una colpì Bera alla guancia, proprio sotto l'occhio, e anche se la ferita non era profonda, il sangue cominciò a sgorgarne copiosamente. La donna si portò una mano al viso, vide che le dita che avevano toccato la ferita erano rosse di sangue e cominciò a urlare. «Ossa rotte e sangue versato!» gridò. «È un cattivo presagio, ma non mi aspetto che tu ne tenga conto, perché sei sordo e cieco a tutto, tranne che al tuo sogno!» «Taci, moglie!» ruggì Aran. «Non ho tempo per queste sciocchezze!» Si voltò e fece per andarsene, ma in quel momento qualcuno gridò: «Un coltello rotto è una vita perduta!» Aran si voltò di scatto. Nonna Rolfsen, che era rimasta seduta insolita-
mente silenziosa durante il litigio, nascosta dietro il telaio, ora si alzò, si piantò a gambe larghe davanti a suo genero e lo prese per le braccia con una tale ferocia che lo fece trasalire. Erano uno strano quadretto, simili a due danzatori congelati nel bel mezzo di un ballo, o come una coppia di orsi delle nevi sollevati sulle zampe posteriori in un principio di lotta, anche se l'anziana donna arrivava a malapena al petto dell'uomo. Niente affatto turbata dalla differenza di altezza e corporatura, Hesta Rolfsen scosse Aran con tutte le sue forze. «Vuoi davvero mandare tutto in rovina, Aran Aranson, con il tuo folle piano?» gli chiese. «Abbiamo già perduto Halli come conseguenza della tua follia; e ora porterai con te anche Fent. In quanto a me, non m'importa un fico secco che tu possa morire in questa impresa, perché è evidente che le tue facoltà mentali, quelle poche che avevi, sono già finite in fondo al mare in fervente attesa che il tuo disgraziato corpo le raggiunga; ma pensa a tua moglie e a tua figlia: come se la caveranno senza il Signore di Rocciacaduta, come faranno le altre donne delle Isole a crescere i loro figli e ad allevare il loro bestiame quando tu avrai portato via i loro mariti, i loro padri e i loro figli per farli inghiottire dalle profondità dell'oceano? Hai preso da tuo padre tutte le qualità peggiori: Aran Stenson era ostinato come un cavallo col paraocchi e stupido come una gallina, quando voleva. E ricorderai com'è finita la sua ultima, folle impresa...» Il precedente Signore di Rocciacaduta aveva rischiato di morire durante la caccia a un gigantesco narvalo che si diceva avesse un corno d'oro. Ben tre dozzine di uomini avevano visto la bestia e avevano confermato la presenza della portentosa appendice; molti di loro avevano voluto far parte dell'equipaggio di Aran Stenson quando il narvalo era stato nuovamente avvistato e gli avevano dato la caccia, riuscendo alla fine ad arpionarlo... un mostro che si diceva fosse più grande anche della balena che si era arenata sulla spiaggia di Rocciacaduta nell'anno della grande tempesta, da cui poi quel tratto di costa aveva preso il nome. La bestia era però riuscita a conficcare il suo corno 'd'oro' nella chiglia della nave e l'aveva danneggiata irreparabilmente. L'acqua era penetrata con violenza, i corsi di fasciame erano saltati via e l'imbarcazione era finita in fondo al mare. Di un equipaggio di trentotto uomini solo quattro erano sopravvissuti, incluso il Signore di Rocciacaduta. Il narvalo aveva lasciato un grosso pezzo del suo corno conficcato nelle tavole della nave, i cui resti erano stati ripescati tra le scogliere a nord di Isola Nera; ma gli uomini che li avevano ritrovati erano stati tutti concordi nell'affermare che, lungi dall'essere d'oro, il corno
era solo un pezzo d'osso ingiallito per l'età che valeva ancora meno di una zanna di tricheco, perché era così vecchio e delicato che non avrebbe potuto essere intagliato. Aran Stenson era quasi morto di vergogna, e quando era tornato a Rocciacaduta era diventato sempre più taciturno, gli occhi spenti: l'ombra di se stesso. Era morto tre anni dopo nella guerra contro l'Impero istriano. Alcuni dicevano che avesse visto il colpo arrivare e non avesse fatto alcuno sforzo per difendersi; altri dicevano che aveva combattuto con coraggio e tenacia. Suo figlio l'aveva visto cadere, e conosceva la verità. Aran Aranson chinò la testa. Per un istante sembrò vacillare nel suo proposito... poi, lentamente, si liberò dalle mani di Hesta Rolfsen e la allontanò da sé. Senza dire una parola si voltò e lasciò la fattoria. Katla lo guardò uscire in cortile con le sopracciglia aggrottate in un'unica linea nera, come quando era veramente infuriato; vide gli uomini speranzosi radunati là fuori affollarsi intorno a lui come avvoltoi intorno a una preda, sentì suo padre urlare loro di fare i bagagli e tornare a casa dalle loro famiglie, perché non aveva più bisogno di nessuno. Notò le espressioni sbalordite sui loro volti per le parole scortesi del Signore di Rocciacaduta, poi seguì con lo sguardo il padrone allontanarsi lungo il sentiero che portava alla spiaggia, col passo rigido per la rabbia. Fent si unì a lei allo steccato del recinto, con una pietra per affilare i coltelli in una mano e uno dei migliori pugnali di Katla nell'altra. Gliel'aveva dato lei in segno di riconciliazione per la botta in testa che le aveva permesso di prendere il suo posto sul Lupo delle Terre Innevate, ma poi se n'era pentita. Era un bel pezzo, uno di quelli che aveva fatto prima del naufragio; ma nelle mani del suo gemello era diventato una pericolosa estensione di lui, e aveva già ferito in due diverse risse. «Sembra che ci metteremo in cammino piuttosto presto» disse allegramente Fent, allontanando il pugnale da sé per ispezionarne la lama. L'arma brillò lugubremente nel freddo sole invernale. «Mamma e papà hanno fatto una tremenda litigata: li ho sentiti addirittura dal fienile!» aggiunse, e quando sollevò lo sguardo, trovò gli occhi di sua sorella su di sé, e la loro espressione non era affatto benevola. «Cosa c'è?» chiese. «So che ricordi le parole che ti ha detto la seither.» Fent arrossì violentemente. Per nascondere il suo turbamento si affaccendò con il fodero del pugnale. Che tutte le tue imprese possano culminare nel disastro. «Hai ugualmente intenzione di accompagnare papà?»
«È la sua impresa, non la mia» tagliò corto Fent. «Perciò non conta.» «Ma tu non vuoi davvero andare» insisté Katla. «Odi le navi, l'hai sempre detto. Potresti gestire la fattoria mentre lui è via, diventare l'uomo della famiglia...» Fent rise. «E perché, affinché tu possa partire al mio posto? Non hai già fatto abbastanza? Dopo che abbiamo assillato Urse perché ci raccontasse la vera storia, ora tutti parlano di come la mia coraggiosa sorellina ha ucciso un mostro marino con una delle spade da lei stessa forgiata. Tu hai preso il mio posto nell'ultimo viaggio: questa volta tocca a me dimostrare il mio valore.» Sollevò la testa e la guardò con sfrontatezza. «Papà mi ha detto queste esatte parole, dopo quella storia col padre di Fela.» Fela era una bella ragazza di sedici anni, alta e snella, la figlia di un mezzadro che lavorava la terra a due valli di distanza. In primavera sarebbe stata molto meno snella: la sua gravidanza di tre mesi stava già diventando evidente. Quando si era accorta di essere incinta ed era corsa piangendo alla fattoria, Fent l'aveva mandata via con freddezza, dichiarando che non l'avrebbe mai sposata. Dopodiché il padre di lei era andato a trovare Aran e tra i due uomini erano volate parole grosse. Katla annuì. Dunque per suo fratello era più semplice affrontare i tempestosi mari del nord che un uomo furioso e la sua disperata figlia. «Non ti porterà mai con sé, e lo sai» disse Fent, come se le leggesse nel pensiero. «Sei solo una ragazza.» Erano passati i giorni in cui Katla avrebbe reagito con un pugno a una tale osservazione. Lo incenerì invece con lo sguardo. «Almeno sono una ragazza che conosce la differenza tra un nodo piano e un nodo scorsoio e tra una gassa e un nodo vaccaio.» Un'espressione indecifrabile illuminò il volto di suo fratello. «Ho una sfida per te» disse dopo un momento di pausa, e c'era una strana luce nei suoi occhi. «Vediamoci domani all'alba in cima al Dente del Segugio. E porta una corda.» Katla lo fissò con curiosità. Cosa aveva in mente? Suo fratello non aveva mai dimostrato il minimo interesse per le scalate prima di allora. Ma lui la guardò negli occhi con il sorriso aperto e schietto di quando erano bambini. «Va bene» rispose lei. «Ci sarò.» Katla Aranson non era il tipo da rinunciare a una sfida. Il Lungo Serpente sarebbe salpato con l'alta marea il giorno successivo,
annunciò Aran Aranson, quando il mare gli avrebbe permesso di evitare le basse scogliere dell'isola e il vento di terra l'avrebbe spinto nel vasto abbraccio dell'oceano. Gli occhi di sua moglie erano cerchiati di rosso e c'era un taglio infiammato sulla sua guancia sinistra, ma la donna continuava a lavorare a testa alta come se niente fosse accaduto, anche se gli uomini non osavano guardarla e le donne bisbigliavano alle sue spalle che doveva aver provocato terribilmente suo marito perché la colpisse così forte da farle uscire il sangue. Aran li ignorò tutti e andò a fare una lunga passeggiata nella sua tenuta mentre il sole cominciava a tramontare, per dare disposizioni ai ragazzi che sarebbero rimasti a casa su come curare la terra e il bestiame; si spinse fino alla valle accanto e saldò i suoi debiti col fratello di Bera, Margan, restando a parlare con lui fino a quando la luna non fu alta nel cielo. Katla lo incontrò sulla via del ritorno. L'aveva aspettato per tre ore seduta su un ramo del vecchio melo. Dopo la prima ora Ferg aveva rinunciato a uggiolarle di scendere e si era addormentato tra le radici contorte dell'albero. Di tanto in tanto le sue zampe si muovevano e il suo respiro si faceva più affannoso, come se nel sogno inseguisse degli immaginari conigli. La ragazza invidiava la semplicità di quei sogni: sapeva che lei non sarebbe riuscita a dormire quella notte, almeno non fino a quando non avesse parlato di nuovo con suo padre per convincerlo a portarla con sé sul rompighiaccio. Ma il volto di Aran era cupo alla luce della luna mentre camminava a passo deciso tra le felci, e quando Katla si lasciò cadere dall'albero di fronte a lui, svegliando di soprassalto Ferg che cominciò ad abbaiare tanto forte da svegliare i morti, Aran imprecò violentemente e le passò accanto senza degnarla di una parola, tanto che lei dovette correre per raggiungerlo. «Papà, papà, per favore, fermati.» «Non sono dell'umore per altre chiacchiere» tagliò corto Aran senza rallentare il passo. «Devi portarmi a Santuario!» gemette Katla, gettando al vento nella sua disperazione tutte le argomentazioni accuratamente preparate. «Per favore, papà: non salpare senza di me. Non potrei sopportarlo!» Lo afferrò per una manica. Aran Aranson si fermò. Si voltò e prese la figlia per le braccia. Sembrava disperato. «Desideri così tanto morire?» le chiese. «Morirò se mi lascerai qui» dichiarò lei drammaticamente. Suo padre sospirò. «Noi due siamo troppo simili» disse dopo un lungo
silenzio. Katla trattenne il fiato, chiedendosi cosa sarebbe successo. «Tu non vuoi un matrimonio; e io non ne ho più uno.» Sua figlia si accigliò, perplessa. «Cosa vuoi dire?» All'improvviso sentiva lo stomaco stretto in una morsa di gelo. Aran fece un'aspra risata. «Tua madre mi ripudiato: ha dichiarato che non siamo più marito e moglie.» Katla lo fissò a bocca aperta. Nelle isole del Nord una donna poteva divorziare da suo marito per tre motivi: per infedeltà, per infermità mentale o per violenza contro di lei. Di certo doveva essere la seconda di quelle ragioni che aveva spinto sua madre a compiere quel passo, per la lite sulla sua folle spedizione... poteva sembrare infermità mentale a caldo, durante il litigio, ma Bera non poteva volerlo veramente. «Oh, papà» mormorò. «Tu sai com'è la mamma... ormai si sarà calmata, lo fa sempre...» «Tuo zio Margan sta sovrintendendo all'accordo di separazione.» Lo disse in tono così categorico che Katla capì che doveva essere vero. Non sapeva cosa pensare: i suoi genitori che vivevano separati l'uno dall'altro? E che, forse, si sarebbero scelti addirittura dei nuovi compagni di vita? Le sembrava che il mondo fosse impazzito. All'improvviso l'idea del viaggio le apparve un controsenso. «E tu hai ugualmente intenzione di andare a Santuario?» gli chiese sbalordita. Aran annuì. «Ho il mio orgoglio.» I suoi occhi brillavano alla luce della luna. Quando si voltò verso di lei, erano di un argento così luminoso che le sembrò di guardare nelle orbite vuote di un camminatore della notte. «Se vuoi ancora un posto nella spedizione, è tuo» disse semplicemente, poi se ne andò, lasciandola sola e frastornata. Katla si ritrovò senza fiato. Un'ora prima, dieci minuti prima, quella risposta era tutto ciò che aveva sognato di ricevere... ma adesso? Lui l'aveva fatto per vendicarsi di sua moglie, Katla lo sapeva bene: per dimostrare il proprio potere e la giustezza della spedizione. La giovane si sentì all'improvviso stordita, sconvolta dalla scelta che doveva fare: andare, e arrendersi così alla follia che aveva già distrutto la sua famiglia, o restare a casa con una madre infuriata e addolorata e sostenere la parte della brava figlia? Katla sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare, come figlia e come donna. Ma sapeva anche che se fosse rimasta a Rocciacaduta, il suo spirito si sarebbe spento lentamente. «Verrò con te!» gridò a suo padre che si allontanava. Ma, se l'aveva sentita, Aran non lo diede a vedere.
L'alba del giorno dopo vide Katla che si arrampicava sulla scogliera con un rotolo di corda intorno alle spalle. Per una volta il buonsenso aveva prevalso sull'istinto e la giovane aveva evitato di seguire il suo percorso preferito verso la cima del Dente del Segugio, quello che dava sulla ripida parete a picco sul mare, in favore del sentiero più battuto, quello dei vecchi, come lo chiamava lei, e stava camminando a passo tranquillo verso la sommità del promontorio. Non aveva idea di cosa avesse in mente suo fratello, né le importava: era già un piacere allontanarsi dalla tenuta, e da quella sua atmosfera di amarezza e pettegolezzo. Forse lei e Fent se ne sarebbero stati semplicemente seduti sulla cima nel sole del mattino a parlare della separazione dei loro genitori e magari avrebbero trovato un modo per mediare tra i due: persuadere Aran a rimandare la spedizione di qualche giorno, forse, o almeno finché non si fosse riconciliato con la moglie. Ciononostante lei aveva preparato la sua cassa da marinaio nel caso l'ora stabilita per la partenza, a mezzogiorno, fosse stata rispettata. E, naturalmente, non aveva dormito affatto. Fu sorpresa di trovare suo fratello già lì, e ancora più sorpresa di vedere che per qualche bizzarra e oscura ragione aveva trascinato con sé lungo il sentiero una pesante sedia di legno, su cui sedeva ora come un re senza terre. Katla lo fissò, sbalordita. «Perché cavolo hai portato quassù quella sedia?» gli chiese. Fent, dondolando sul suo trono, a malapena diede segno di averla sentita, e continuò a guardare verso l'oceano come se non avesse una preoccupazione al mondo. «Bel panorama, no?» disse laconico dopo un po'. Katla si accigliò. Il suo gemello non era mai stato interessato ai paesaggi. L'irritazione la riempì di livore. «Come puoi startene seduto lì con tutto quello che sta succedendo?» Fent girò lentamente la testa verso di lei. «Non c'è molto che possa fare, non credi? Faranno pace: è sempre andata così. E poi ho altre cose a cui pensare.» Con un improvviso scatto di energia, si alzò dalla sedia. «Vedo che non eri così presa dal dramma da dimenticarti di portare la corda» osservò. «Cominciamo pure la nostra sfida.» Katla lo guardò con interesse. «Be', sono curiosa. Quale sarebbe la natura di questa gara che hai preparato per me?» «Nodi» annunciò allegramente Fent. «Hai detto che non conoscevo la differenza tra 'un nodo piano e un nodo scorsoio e tra una gassa e un nodo vaccaio'. Perciò ho escogitato un giochetto per mettere alla prova le nostre rispettive capacità in questo campo.»
«In realtà» lo corresse Katla irritata «ho detto che almeno io la conoscevo. Ho solo sottinteso che tu non la conoscevi.» Poi sorrise. «Però sono sicura che tu non la conosca!» Invece di abboccare all'amo, Fent tornò a sedersi sulla sedia e allungò le braccia lungo la struttura di legno. «Mi libererò da qualsiasi nodo con cui tu vorrai legarmi.» «Ah!» «E poi tu dovrai liberarti dai miei.» Troppo facile, pensò allegramente Katla. Era un gioco che facevano spesso da bambini, e Fent perdeva sempre. Ma forse nel frattempo si era allenato. Decise di non esagerare: dopotutto avrebbero dovuto condividere un lungo e faticoso viaggio se il Lungo Serpente fosse salpato a mezzogiorno e non c'era motivo che ci fosse cattivo sangue tra loro, se poteva evitarlo. Slegò la corda, un pezzo sottile ma robusto di pelle di foca intrecciata e legata con crine di cavallo per dare elasticità e resistenza, e cominciò a far passare un'estremità intorno al bracciolo della sedia. Lasciando un bel pezzo di corda per chiudere i nodi alla fine, legò il braccio di Fent alla sedia con una serie di nodi scorsoi, poi gli passò la corda due volte intorno alla vita e allo schienale della sedia, sollevò una delle gambe in modo da poter fare un nodo che assicurasse saldamente le due estremità e si mise a lavorare su un'elaborata combinazione di gasse e nodi a otto. Alla fine concluse con un bel nodo del pescatore, usando il pezzo di corda avanzato, e indietreggiò per ammirare il proprio lavoro. Non troppo difficile... ma di certo Fent avrebbe impiegato un bel po' per liberarsi. Il fratello le sorrise, e i suoi lineamenti erano spigolosi e infidi come quelli di una volpe. «Vatti a sedere al sole, sorellina. Ti raggiungerò tra poco.» Katla si strinse nelle spalle e si allontanò. Il suo masso preferito la chiamava: giaceva in una pozza di luce che faceva brillare le piccole rose di licheni gialli che vi crescevano sopra come tante monete d'oro. C'era un avvallamento nel granito in cui si poteva infilare una spalla e posare la testa: piuttosto comodo, per essere una roccia. Per quanto tempo dormì, Katla non avrebbe saputo dirlo, ma quando si svegliò una gelida ombra era calata su di lei. Aprì gli occhi e trovò suo fratello che la guardava. Si raddrizzò, sorpresa. La corda giaceva a terra intorno alla sedia e non mostrava segni di sleale manomissione. «Sono impressionata» disse Katla. «E fai bene» replicò Fent. «Mi ci è voluto parecchio per uscirne. Ora
tocca a te.» Le balenò l'idea di rinunciare alla sfida e lasciarlo vincere, perché c'era qualcosa nell'espressione di suo fratello che non le piaceva. In quel momento, e non per la prima volta, pensò che Fent, che per la maggior parte della sua vita le era sembrato un'estensione di se stessa, come lei lo era di lui, di recente era diventato un essere completamente diverso, alieno e sconosciuto, come un estraneo. Ma la parte più testarda di lei non voleva concedergli quella piccola soddisfazione. Prese il suo posto sulla sedia e guardò sorridendo suo fratello che faceva una serie di goffi nodi. «E quello sarebbe un nodo vaccaio...» cominciò a dire, ma a un tratto si ritrovò qualcosa in bocca e un odore di terra e sudore l'assali. Forti mani l'afferrarono da dietro, e un'altra corda cominciò ad avvolgersi intorno al suo corpo. Non la sua, il che la confuse non poco, ma una spessa corda di canapa intrecciata e, a confonderla maggiormente, Fent era ancora di fronte a lei: chi... L'uomo che l'aveva legata alla sedia in modo molto più abile del suo gemello le si parò improvvisamente davanti. Katla lo fissò furiosa da sopra il pezzo di stoffa che le aveva ficcato in bocca, e non fu molto sorpresa di non riconoscerlo. Era alto e muscoloso, con la pelle scura da vecchio marinaio e una testa di capelli biondi molto ricci e sporchi. Portava un grosso orecchino d'argento. Fent diede una pacca sulle spalle dell'uomo. «Ben fatto, Marit. Direi che ti sei guadagnato il tuo posto sul Serpente, non credi?» L'altro sorrise, e Katla vide che gli mancavano i due incisivi. «Ti farò saltare anche gli altri denti, bastardo!» tentò di gridare mentre si divincolava, ma non si udì altro che un gemito soffocato... e i nodi non cedettero di un millimetro. Suo fratello si mise di fronte alla sedia, gli occhi blu che brillavano di cattiveria. «Come ho detto, c'è un bel panorama da qui. È il punto perfetto da cui guardare il Lungo Serpente mentre salpa. Grazie all'esperienza di Marit Fennson, dubito che riuscirai a liberarti, perché se ti agiterai troppo i nodi non faranno che stringersi ancora di più. Immagino che qualcuno penserà di venirti a cercare dopo un po'. O forse no. Ma se rimarrai senza sostentamento abbastanza a lungo potresti perdere il peso necessario a scivolare tra le corde e tornare strisciando a Rocciacaduta. In ogni caso avrai tutto il tempo per ricordare quella volta in cui tu e il mio caro fratello defunto mi avete dato una botta in testa e mi avete legato al palo del fienile con questo stesso pezzo di stoffa in bocca, in modo che tu potessi rubare il
mio posto a bordo del Lupo delle Terre Innevate. «Passerà molto tempo prima che tu mi faccia fare ancora la figura dello sciocco, sorellina. Addio.» 20 Fuga Approfittando della distruzione del cristallo e della confusione che ne era seguita, Virelai scese di corsa le scale che portavano al cortile, i piedi che scivolavano sul marmo levigato dall'usura, le mani premute contro le pareti per tenersi in equilibrio. Solo una persona in tutto il castello indossava guanti come quelli che aveva visto nella pietra prima che il cristallo offrisse a tutta la compagnia lì riunita l'immagine della Rosa del Mondo che esibiva la sua grossa pancia dinanzi alla corte del Nord; e mentre gli altri erano rimasti impietriti a quella stupefacente vista, Virelai aveva riflettuto terrorizzato su quel frammento di visione, all'apparenza così ordinario. Saro Vingo stava fuggendo da Jetra. Virelai aveva visto il piano che aveva appena progettato, così elegante e perfetto, cadere a pezzi davanti ai suoi occhi. Ogni cosa sembrava combaciare alla perfezione come in uno di quegli splendidi puzzle di legno che vendevano per il divertimento dei figli dei ricchi al mercato di Cera, e la chiave di tutto era la pietra dell'umore che il ragazzo portava su di sé. O, come la definiva il libro degli incantesimi che aveva rubato dalla biblioteca di Rahe, la 'eldistan'. Dopo il primo, terrificante incontro con il ragazzo nel Salone delle Stelle di Jetra, Virelai era rimasto ossessionato dal gioiello che Saro portava al collo con quell'apparente noncuranza, e aveva cercato riga per riga in uno dei testi di magia del Padrone finché non aveva trovato questo passaggio: In Alchimia Naturale (Idin Haban, Anno del Cigno 953) si menzionano pietre dell'umore / pietre incanalatrici, chiamate, nelle reg. dell'estremo Sud di mont. da cui provengono, 'eldistaner'. Hanno proprietà estremamente mutevoli. Così scriveva Rahe nella sua tipica prosa concisa e piena di abbreviazioni.
Solo 'più giovani' sono semplici pietre dell'umore, da usare per divertimento. Mostrano all'esterno desideri e capricci di chi le tiene in mano. Prendono calore da mani. Possono assumere tinte molto diverse da stato naturale. Di seguito mie osservazioni: Bianco = Morte Grigio = Mente vuota, salute in declino Azzurro = Serenità Verde = Integrità Giallo = Malattia, ma Oro = Benessere (necessarie ult. osserv.) Vermiglio = Ansia/paura/cambio umore Carminio = Ira Viola, molto scuro = Emozioni turbolente; se tende al blu, denota Attività intellettuale. Seguivano altre annotazioni del genere che Virelai aveva tralasciato, impaziente. Il successivo passaggio che l'aveva colpito era stato il seguente: Eldistaner: 'più anziane'. Estruse da profondità della terra, di solito da piedi o sommità mont. di fuoco e spec. zona circostante Picco Rosso, dove si trova il Cuore di Elda. Più grandi del normale, più scure, quando levigate mostrano grana compatta e uniforme. Pesano di più e sono calde anche se non toccate da ore. Idin Haban parla di possibilità di leggere futuro con alcune di esse, altre aprono la mente di chi le possiede verso gli altri e una partic. potente gli ha consentito di creare fuoco incanalando magia. Con la mia magia ho incanalato potere sufficiente a bruciare insetti, uccelli, ratti e persino ridurre in cenere una foca, ma la mente di V. rimane chiusa per me, ammesso che ne abbia una.» Quell'ultima frase aveva fatto trasalire Virelai. Davvero Rahe aveva fatto esperimenti del genere con lui, e se era così, quando era avvenuto? E perché lui non ricordava niente? Era possibile, aveva riflettuto, che la pietra avesse cancellato la sua memoria, e per quanto ne sapeva non c'erano altri esseri a cui il Padrone avrebbe potuto riferirsi scrivendo 'V. Ma l'idea che il mago l'avesse considerato così poco importante da mettere a rischio la sua vita, o peggio, che avesse desiderato la sua distruzione, l'aveva profon-
damente turbato. Era come se, per il vecchio, lui non valesse più degli insetti, degli uccelli o dei ratti che aveva elencato così freddamente. Quel pensiero l'aveva fatto infuriare, e dubitare della linea di condotta che era determinato a perseguire, perciò aveva allontanato quel dubbio e aveva continuato a leggere. Era seguita una lista dettagliata di ogni uccello, animale e creatura marina che il Padrone era riuscito a ridurre in cenere, insieme con i periodi di riposo che gli erano stati necessari dopo ciascun esperimento. Più in basso nella pagina seguente, Virelai si era imbattuto in questa annotazione: Più interessante ancora è il resoconto di Xanon nella sua Storia del Mondo Antico, cap. 13, Tra i Nomadi, in cui racconta di come una vecchia, seppellendo la mano nella profondità della terra, fece brillare una pietra formando un enorme arco e uccidendo un intero stormo di piccioni che volava a diverse centinaia di metri sopra la sua testa. Immagina che arma sarebbe la pietra in altre mani. Poteva essere la stessa pietra che Saro portava intorno al collo?, si era chiesto Virelai. La potenza emanata da quell'oggetto gli aveva in effetti procurato le più terribili visioni di morte. Un'arma del genere nelle mani sbagliate... Quel pensiero lo aveva portato a un altro: e se Tycho Issian si fosse impadronito di quella pietra? Virelai rabbrividì. Con il Signore di Cantara in quel suo stato di instabilità mentale, nessuna creatura vivente su Elda sarebbe stata al sicuro. Era imperativo che ne fosse allontanato il più possibile. Atterrito, Virelai aveva continuato a leggere, aspettandosi altre mostruosità. Invece, alcune pagine dopo si era imbattuto in un'altra annotazione, formulata in modo criptico. L'aveva letta e riletta molte volte, nel timore di aver capito male. Ma le sue implicazioni erano innegabili. Un piano aveva cominciato a prendere forma nella sua mente, e i dettagli si erano incastrati alla perfezione. Con la pietra, se non proprio nelle sue mani almeno accanto a lui, avrebbe potuto salvarsi la pelle. Sarebbe tornato a Santuario senza paura di vendette o dell'ira del Padrone. Tutto sarebbe andato al suo posto. Un'ondata di sollievo l'aveva avvolto. Ricordò la beatitudine momentanea che gli aveva dato quella sensazione prima che l'ansia gli serrasse di nuovo lo stomaco. Il suo piano poggiava sulle fragili spalle di Saro Vingo: se avesse perso il ragazzo avrebbe perso anche la pietra, e con essa ogni possibilità di so-
pravvivenza. Raddoppiando i suoi sforzi, si bloccò davanti al cancello posteriore con il cuore che gli batteva forte e i polmoni in fiamme, e guardò fuori. Era buio pesto e non si muoveva una foglia. Virelai imprecò tra sé. Era possibile che il ragazzo fosse già lontano, in così breve tempo? Era vero che le pietre della visione potevano ingannare, e quindi ciò che aveva visto magari si riferiva a un'altra ora di quella stessa notte: Saro poteva essere distante, oppure ancora addormentato nel suo letto, sognando di fuggire non appena possibile. Virelai annusò l'aria. C'era un debole puzzo di letame di cavallo da qualche parte, e di sudore. Forse la porta delle scuderie era ancora aperta? Uscì nell'oscurità. Messaggero della Notte era di umore allegro. C'erano delle giumente a un paio di recinti di distanza e ne sentiva l'odore. Quando il ragazzo era entrato nella sua stalla aveva creduto che l'avrebbe portato a trovarle e l'aveva seguito con entusiasmo, senza neppure lamentarsi quando gli aveva messo una briglia intorno alla testa. Perciò era rimasto sorpreso quando si era ritrovato una sella sulla schiena e una cinghia intorno alla pancia; ma era stato solo non appena il ragazzo l'aveva afferrato per il collo ed era salito sulla staffa che aveva capito che qualcosa non andava. Voltando la testa, Messaggero della Notte tentò di mordere il suo cavaliere a una gamba in segno di protesta, sbuffando allo stesso tempo tanto forte da svegliare i morti. Saro strinse le ginocchia sui fianchi dello stallone e cercò invano di calmarlo. Un attimo dopo sentì delle voci provenire dalle mura sopra di loro e il respiro gli si mozzò in gola. Si preparò a spingere l'animale a un galoppo disperato... ma poi i suoni diminuirono e divennero più distanti: gli uomini erano passati senza fermarsi e nessuna torcia accesa o grido d'allarme era seguito al loro passaggio nel castello. Cercando di riprendere il controllo di sé, Saro spinse il cavallo al passo, dirigendosi verso il cancello occidentale e la pianura dall'altra parte. Ma prima che potessero raggiungere il muro di cinta, le orecchie dello stallone cominciarono a drizzarsi. Poi l'animale sollevò di scatto la testa e iniziò una strana danza all'indietro. Saro lottò per fermarlo, poi scrutò nel buio per vedere cosa l'avesse terrorizzato. A circa sei metri di distanza, fiocamente delineata dalla luce della luna, c'era un'enorme figura scura. Un paio di fiammeggianti occhi dorati brillavano nel buio, e Saro si sentì accapponare la pelle. Era una reazione istintiva, quella della preda di fronte
al predatore. Un rivolo di sudore freddo gli colò lungo la schiena. All'improvviso desiderò con tutto il cuore, e per la prima volta in vita sua, di avere una spada. Per diversi secondi cavallo e cavaliere rimasero paralizzati... poi la bestia aprì le fauci. La sua bocca era immensa: pur non vedendola chiaramente Saro lo capì dall'enorme distanza tra le sue lucenti zanne. Messaggero della Notte spostò il suo peso da zoccolo a zoccolo e agitò nervosamente la coda, ma non diede altri segni di voler fuggire. Saro aspettò che un tremendo ruggito uscisse da quella bocca cavernosa e si preparò all'inevitabile attacco che ne sarebbe seguito, ma non accadde niente del genere. La creatura richiuse le fauci con un leggero scatto dei denti. Saro ebbe l'improvviso e assurdo sospetto che la bestia avesse sbadigliato. Era davvero così sicura di poter uccidere lui e lo stallone? Mentre stava pensando questo, l'oscurità riempì lo spazio tra di loro, come se qualcosa si fosse messo tra il poderoso animale e la sua preda. Il riflesso di una figura alta e pallida... La pietra dell'umore cominciò a brillare. «Bëte, desisti!» La voce era profonda e autoritaria. Lo stallone si calmò come per magia e Saro sentì la propria volontà venire meno, e le mani, che aveva sollevato per proteggere la pietra, gli ricaddero lungo i fianchi come morte. Poi la figura si allontanò dalla sua visuale e improvvisamente la bestia svanì. Quando una nuvola, passando, scoprì la mezza luna sopra di loro, Saro si accorse che l'uomo chiamato Virelai era di fronte a lui. In braccio aveva un piccolo gatto nero. Saro guardò dietro l'uomo, ma l'enorme predatore non c'era più: era scomparso silenziosamente nella notte, così come era apparso. «Vieni con me» disse l'uomo pallido con lo stesso tono di voce che aveva usato poco prima, e anche se qualcosa nella mente di Saro rabbrividì a quell'idea, le sue mani si strinsero sulle redini e il giovane sentì la propria voce rispondere: «Sì, verrò.» Era stato molto più semplice di quanto Virelai avesse potuto immaginare. Usare la voce di comando del Padrone poteva essere un azzardo... ma ora il gatto era arrendevole tra le sue mani e il ragazzo e il suo cavallo lo seguivano docili al riparo di un aranceto sotto le mura della città. Lì potevano restare per un po' senza essere visti mentre lui si precipitava al castello e recuperava le sue cose: il libro degli incantesimi, almeno, e quanto più
falso argento gli fosse riuscito di trasportare. Su nella sua camera, ansimando terribilmente per aver salito di corsa ventitré rampe di scale, Virelai infilò il gatto nella gabbia di vimini, ancora meravigliato che non fosse uscito dalla trance e non avesse tentato di morderlo col suo solito rancore, e mise in una robusta sacca il libro degli incantesimi, degli indumenti, l'unguento per la pelle, un mantello, un coltello, due grossi lingotti di stagno trasformato in argento, i suoi erbari, penna e inchiostro, accuratamente tappato per evitare che si versasse, e una serie di pergamene su cui stava lavorando e che avrebbero potuto costituire un'accusa nei suoi confronti se fossero state trovate, per esempio, dai Signori di Forent e Cantara. Poi affrontò di nuovo le scale. All'incirca a metà strada si rese conto che avrebbe dovuto prendere qualcosa per Alisha: sarebbe stato già abbastanza scortese presentarsi alla sua porta senza preavviso, e con il ragazzo, per di più: due bocche da sfamare in tempi così duri e senza considerare poi il pericolo in cui si sarebbero trovati quando fosse stato dato l'allarme... Certo, date le circostanze un dono non sarebbe stato che un semplice palliativo, ma almeno avrebbe dimostrato un minimo di comprensione per l'enormità del favore che stava per chiederle. Al terzo piano infilò una porta laterale e corse per il tortuoso corridoio più silenziosamente che poté con la gabbia del gatto che gli sbatteva sulla schiena e la sacca stretta al petto. Sapeva esattamente che cosa la donna avrebbe apprezzato di più. Le cucine erano silenziose, a parte il russare dei giovani schiavi vicino al forno del pane. Anche se mancavano ancora diverse ore all'alba, presto sarebbero stati di nuovo in piedi a infornare: il pane fresco e la squisita pasticceria che si potevano gustare al castello di Jetra erano rinomati in tutta l'Istria, ricordati con nostalgia da coloro che li avevano assaporati e con desiderio da coloro che non ne avevano avuto l'occasione; non apparivano ogni mattina al tavolo della colazione dei nobili per magia, bensì come risultato di un duro lavoro. Virelai aggirò in punta di piedi i ragazzi che dormivano ed entrò nella dispensa dove venivano tenute le spezie più rare. Appese al soffitto, in fasci aromatici verdi, rosa e oro, c'erano ghirlande di cartamo, mazzolini di canapa e di verbena e di lisimachia; dietro di essi, enormi piatti di ceramica blu jetrana contenevano il raccolto di crochi di quell'anno, il cui stame ambrato rimosso con cura e messo a essiccare dava colore e gusto a dozzine di piatti esotici. Ma Virelai conosceva un altro uso di quella polvere gialla. Prese uno dei pesanti contenitori e versò il suo contenuto in un fazzoletto, lo legò stretto, poi posò il vaso. Ad alisha sarebbe piaciuto quel bel colore blu, però non poteva portare con sé anche
quello. Infilò il pacchetto nella sacca e si voltò per andarsene... ma l'uscita era bloccata. Davanti a lui c'era uno dei cani del castello: non uno degli eleganti segugi dei nobili, ma un grosso meticcio nero e marrone dall'aspetto violento, con la mascella quadrata e una brutta testa informe. Dalle sue fauci ringhianti usciva un filo di saliva. Virelai sorrise. «A cuccia» suggerì. «Dormi.» Ma non fu la potente voce del Padrone a uscire dalla sua bocca, bensì un'esile e acuta imitazione. Invece di fare come gli era stato ordinato, il cane si mise a ringhiare e avanzò di un passo verso l'entrata della dispensa. Virelai indietreggiò. All'interno della sua gabbietta, il gatto cominciò ad agitarsi. I cani erano una specie di creature di Elda che Virelai aveva sempre trovato problematica. Loro lo odiavano, d'istinto. In effetti, la maggior parte degli animali provava una certa antipatia nei suoi confronti, senza nessuna ragione apparente, perché lui cercava sempre di trattarli bene e non era portato a essere crudele; ma i cani avevano grossi denti e potevano infliggere notevoli danni con un solo morso ben assestato, un po' come il Signore di Cantara, e l'ansietà che essi gli causavano sembrava renderli più nervosi. Quando poteva Virelai li evitava o tentava di rendersi invisibile. Questa bestia, tuttavia, aveva deciso di cercarlo e affrontarlo: sarebbe stato difficile sottrarsi con qualche semplice trucco. La paura scatenò in lui una furiosa ridda di pensieri. La voce non funzionava: quale altra possibilità gli era rimasta? Il libro degli incantesimi era ben avvolto e nascosto in fondo alla sacca: ci sarebbe voluto troppo tempo per estrarlo e trovare l'incantesimo appropriato. E anche in quel caso gli sarebbe servito l'aiuto del gatto... e l'idea di toglierlo dalla gabbia di fronte a quel mostro era pura follia. Il suo cervello continuò a lavorare febbrilmente. Una tintura fatta con i pistilli che aveva appena rubato avrebbe causato sonnolenza o anche peggio... ma non aveva il tempo né i mezzi per preparare un simile impasto. Dal momento che tutte le soluzioni più pacifiche gli erano precluse, l'unica via rimasta sembrava essere l'insensata violenza. Si guardò disperatamente intorno per cercare qualcosa che potesse servirgli da arma. Oggetti in vetro, vasi, fiori secchi... niente. Il tanto desiderato matterello, il ramaiolo o il coltello da cucina non erano da nessuna parte. I piatti erano pesanti, questo era vero; ma il rumore di porcellana infranta e il caos che sarebbe scoppiato se non avesse ucciso il cane al primo colpo significavano quasi sicuramente essere scoperto, catturato e
il fallimento del piano. E con la costosa erba nascosta nella sacca, anche un'accusa di furto. Il cane continuò a ringhiare, un suono gorgogliante, profondo. Le sue orecchie si appiattirono contro il cranio. Virelai vide il suo posteriore abbassarsi e cominciare a dimenarsi in una maniera che sarebbe stata comica, se non avesse preannunciato con tanta chiarezza un attacco. Senza riflettere sulle conseguenze, prese il recipiente più grosso che riuscì a trovare e lo scagliò con tutte le sue forze contro la bestia. La porcellana di Jetra era famosa in tutto il mondo civilizzato per la sua eleganza e lo stupefacente blu del suo smalto, che era esclusivo delle ceramiche della Città Eterna. La parola 'blu' nell'antica lingua della pianura di Tilsen era la stessa che indicava 'cielo', e in particolare il colore profondo e perfetto del cielo del settimo mese. Ciò per cui non era rinomata era la sua robustezza: la ciotola colpì il cane dritto sull'enorme testa e si infranse in centinaia di fragili pezzi. Lo zafferano si sparse ovunque, ricoprendo gli scaffali della dispensa, le gigantesche zampe del cane, il pavimento. Ma se Virelai aveva sperato di distrarre la bestia con quell'aromatico polline, se non con il recipiente stesso, rimase ben presto tristemente deluso. Infuriato per la botta in testa, che gli aveva fatto mordere la lingua, e confuso da quella polvere gialla che gli aveva invaso le narici facendolo starnutire, il cane si avvicinò ringhiando e sputando saliva e sangue mentre avanzava. Virelai protese la gabbietta con il gatto davanti a sé. Era un atto di codardia e probabilmente del tutto inutile, ma fu l'unico gesto che gli venne in mente. Il cane e le sbarre di vimini si scontrarono con tale forza che il mago fu spinto all'indietro e finì a terra, urtando i gomiti contro gli scaffali e battendo dolorosamente la testa sul freddo pavimento di pietra. Lì si ritrovò intrappolato dalla gabbia che si era incastrata di traverso tra le strette pareti e dall'immenso peso del cane che si era gettato sopra di lui. Confusi sibili e ringhi riempirono l'aria, poi la gabbia si spezzò e Virelai sentì le zampe della bestia piantarsi nella sua pancia nuda. Tutto il fiato gli uscì di colpo dai polmoni; la vista cominciò ad annebbiarglisi e credette di essere sul punto di vomitare. E proprio quando si era ormai convinto che era così che sarebbe morto, con ignominia, sul pavimento di una dispensa, colto nell'atto di rubare delle erbe nel cuore della notte, la gola squarciata da un cane rabbioso, sentì un'improvvisa leggerezza invadergli il corpo. Il respiro ritornò, seguito da un gemito distante che avrebbe potuto essere il suo: era così confuso che era difficile stabilirlo.
Dopo alcuni momenti di delizioso silenzio, alcune voci risuonarono nelle cucine: non sapeva se fosse una semplice conversazione tra i due panettieri che si erano appena svegliati o le grida di altri che erano stati destati dalla confusione provocata dal cane. Virelai si mise a sedere con molta cautela. Del cane non c'era più alcuna traccia, a parte le viscide pozze di sangue e saliva che aveva lasciato sul pavimento. Pezzi di vimini rotto giacevano sparsi sul pavimento. Bëte era scomparsa. Al suo posto c'era la Bestia, grande come un leone e nera come la notte. Le sue fauci erano rosse, gli occhi colmi di saggezza. Alzati, disse la Bestia nella sua mente, e Virelai sentì una stretta allo stomaco. Dietro di te c'è una porta che dà sul mondo esterno. Aprila. Il mago mosse la testa di pochi millimetri, non osando distogliere gli occhi da quella visione per paura che potesse saltargli alla gola. Solo Elda sapeva se meritava un tale destino per aver gettato il povero gatto indifeso in cui la Bestia aveva albergato fino a un attimo prima contro quel cane ringhioso. E se quell'animale fosse stato capace di portare rancore? Se fosse stato così, era già morto. Affrettati. Appoggiandosi agli scaffali, Virelai riuscì a tirarsi su. Sentendosi più sicuro di sé ora che era di nuovo in piedi (un sentimento del tutto illogico, dato che la Bestia era in grado di muoversi mille volte più velocemente di lui nel caso avesse tentato una fuga) si voltò e studiò la parete di fondo della dispensa. E in effetti vi era una minuscola porta, chiusa con un semplice catenaccio di ferro. Che stupido a non averla notata prima. Il suono di voci in cucina divenne più forte e all'improvviso la Bestia fu nella dispensa con lui, e lo sfiorava con la fredda pelliccia e il respiro caldo. Allontanandosi dall'animale, Virelai recuperò la sacca e se la mise goffamente sulle spalle. Poi, dopo un momento di riflessione, tese le mani verso l'alto e tirò giù due grossi fasci di canapa essiccata che si infilò nella sacca. Aveva la sensazione che gli sarebbero stati utili. Poi tolse il catenaccio alla porta. Questa si aprì verso l'esterno con appena uno scricchiolio, e improvvisamente si ritrovarono fuori nella notte. Una fredda brezza li avvolse con l'inebriante profumo degli aranci. Bene, disse la Bestia. Ora andiamo a sud. Virelai batté le palpebre, perplesso. «No» rispose ad alta voce. «È a nord che dobbiamo andare, a nord, a Santuario, dal tuo padrone.»
Qualcosa formicolò nel suo cranio. Era come avere una falena intrappolata lì dentro, una presenza piccola, leggera e niente affatto minacciosa. Dopo qualche istante di perplessità, Virelai si rese conto che era il riflesso del divertimento che il grande felino aveva provato di fronte a quell'affermazione. Come per chiarire la questione, l'animale dichiarò: Io non ho padroni. Io sono la Bestia. 21 Segni e prodigi A mezzogiorno i cieli erano striati di nubi sottili ben evidenti sopra l'orizzonte. Si era levata una gelida brezza di terra: se si fosse mantenuta, il Lungo Serpente avrebbe fatto una promettente partenza da Rocciacaduta, uscendo dal porto a vele spiegate dirigendosi a nord. Mentre gli uomini si imbarcavano e caricavano gli ultimi averi e le due robuste scialuppe, Aran Aranson era in piedi a prua con il viso rivolto verso l'oceano, e un'espressione intensa, pensierosa. In una mano stringeva un oggetto ben nascosto nel colletto della sua tunica; i suoi occhi chiari riflettevano il cielo. Dietro di lui, gli uomini del suo equipaggio si stavano mettendo in posizione, alla ricerca dei volti dei propri cari che erano riuniti lungo il molo. Alcune donne piangevano; altre sembravano pietrificate. Un po' più in disparte c'era un capannello di altre più anziane, in piedi a braccia conserte, gli sguardi rassegnati. Avevano visto molte partenze come quella nel corso degli anni. A volte i marinai tornavano a casa; più spesso non era così. Non sembrava esserci modo di prevedere né di influenzare l'esito di tali spedizioni, anche se in gioventù anche loro, come le mogli più giovani, avevano tagliato ciocche dei propri capelli per ricavarne trecce e poi immergerle nel sangue e nell'acqua di mare e praticare ogni nodo che conoscevano affinché quei talismani portassero bel tempo e felice ritorno. Le braccia incrociate e i volti disillusi ponevano una tacita domanda: perché gli uomini erano così sciocchi da non essere mai soddisfatti della vita che conducevano? Cosa li spingeva a disprezzare la terra sotto i loro piedi, le vicende quotidiane delle fattorie e delle famiglie, ad abbandonare tutto e a prendere il mare alla ricerca di qualcosa di sfuggente e fantomatico? Le anziane conoscevano la risposta, ovviamente: erano proprio quelle stesse cose che loro tanto apprezzavano a spingere gli uomini a partire, la semplicità di una vita in cui l'emozione più grande poteva venire dal danno
arrecato da un ariete fuggito dal recinto, dall'arrivo di una tempesta, o da una malattia. Le più giovani prendevano la decisione dei loro uomini come una questione personale: alcuni matrimoni non resistevano alla lontananza, non importava quali tesori venissero riportati a casa, quali storie di gloria e onori fossero raccontate intorno al fuoco. Erano ormai molti anni che Bera Rolfsen si era resa conto dell'irrequietezza di suo marito; l'aveva visto reprimere i suoi desideri, imbracciare l'aratro e impegnarsi col viso cupo nel duro lavoro quotidiano, da cui l'unica possibilità di fuga era stato l'annuale viaggio alla Grande Fiera. Aveva sempre saputo che questo giorno prima o poi sarebbe arrivato, che il distacco di lui dalla vita che si erano costruiti insieme sarebbe avvenuto in maniera inutilmente drammatica. Così ora lo guardò mentre era in piedi a prua della nave che era costata la vita del loro figlio maggiore, e tentò di restare impassibile, ma strinse la mano di sua madre così forte che la punta delle dita di nonna Rolfsen divenne porpora, poi bianca e poi blu. Ma non una volta il Signore di Rocciacaduta si volse indietro verso la fattoria; non una volta i suoi occhi cercarono il viso di sua moglie tra la gente allineata lungo il frangiflutti. Aran Aranson tenne invece lo sguardo fisso sull'orizzonte settentrionale, lontano, oltre le distanti scogliere dove l'oceano e il cielo si fondevano in una grigia foschia, e il suo profilo era severo e fiero come le statue degli antichi re, uomini austeri con occhi freddi e barbe prominenti, che erano periti eroicamente e non avevano lasciato dietro di sé nient'altro che le loro immagini in legno e pietra. Poi la mano di Aran lasciò andare l'oggetto nascosto all'interno della sua camicia e fu come se un incantesimo si fosse spezzato, perché lui si voltò all'improvviso, e sembrò essere tornato un uomo. I suoi occhi esaminarono la scena dietro di lui, la gente che si affollava sul molo, le braccia che si agitavano in segno di saluto, le donne in lacrime, e si posarono per qualche istante sulla figura della moglie, avvolta nel suo migliore mantello blu, il cappuccio abbassato cosicché i bei capelli rossi erano scompigliati dalla brezza. La vide mentre cercava di sistemarseli con la mano libera, e i loro sguardi si incrociarono per un istante. Qualcosa passò tra di loro, qualcosa che avrebbe potuto essere accettazione, o almeno una qualche forma di comprensione, poi lui distolse a fatica lo sguardo e, rivolgendo la propria attenzione all'equipaggio, gridò: «Su il pennone!» e s'incamminò lungo la nave. Gli uomini si precipitarono ai loro posti e Aran si concentrò sui dettagli pratici dell'uscita dal porto, la regolazione della vela e dell'albero, la dispo-
sizione delle sartie e del cordame, la manovra del timone. Guardò l'equipaggio, osservando chi si muoveva a suo agio sulla nave e chi arrancava goffamente, sperando che questi ultimi si adattassero presto alla vita in mare. Mentre passavano sotto le alte scogliere avvolte dall'ombra e tappezzate di guano e licheni, la vela catturò appieno il vento e la nave scivolò accanto al Dente del Segugio con superba eleganza, riempendo d'orgoglio il cuore del Signore di Rocciacaduta. Aran non fece caso al corvo che sorvolò la nave, diretto verso terra rapido e sicuro, le penne maestre distese come dita di una mano. Né si rese conto che sua figlia non era a bordo fino a diverso tempo dopo che furono passati oltre il grande pinnacolo su cui era seduta, saldamente legata, anche se i suoi occhi brucianti di lacrime erano rimasti fissi su di lui dal promontorio roccioso e avevano seguito disperati la nave finché non era sparita all'orizzonte. «L'hai vista?» Fent diede una gomitata all'uomo biondo. Marit Fennson annuì. «È ancora lì, come ti avevo assicurato. I miei nodi terrebbero fermo un toro infuriato, figuriamoci tua sorella. Parlerai ad Aran Aranson per me, ora?» Fent sembrò preoccupato. «Meglio aspettare un po'. Non voglio che torni indietro a prenderla o che ti butti a mare.» Un'ombra cadde su di loro. Il fratello di Katla sollevò la testa e si ritrovò a fissare il volto sfigurato di Urse Orecchiomozzo. L'omone sorrise. Era uno spettacolo orribile e Fent si sentiva già parecchio nervoso: vedere un uomo con a malapena mezza faccia sorridere in modo da far brillare i suoi canini come zanne lo faceva sentire come un cucciolo di foca alla mercé di un orso delle nevi. «Dov'è la ragazza?» chiese con dolcezza Urse. «Non l'ho vista a bordo, anche se suo padre ha detto che ci sarebbe stata.» Marit se la diede a gambe. Fent lo guardò farsi abilmente strada verso il suo posto ai remi superando i rotoli di corda, i barilotti, le casse e gli utensili da cucina, e capì che avrebbe dovuto affrontare la situazione da solo. Nascondendo il panico, tentò disperatamente di ripetere la plausibile scusa che aveva inventato per suo padre. «Non si sentiva bene» cominciò, ma dovette fermarsi quando vide gli occhi dell'uomo stringersi pericolosamente. Tossì e ricominciò: «Ha ritenuto fosse meglio restare con sua madre.» «Non c'era sul molo, anche se ho visto la signora di Rocciacaduta e la
sua genitrice fianco a fianco.» Fent si strinse nelle spalle. «Chi sa cosa passa nella testa di Katla? È volubile quanto il tempo.» Ci fu una lunga, imbarazzante pausa, poi Urse disse: «In alcune isole si crede che i gemelli appena nati abbiano una sola anima e che Sur debba decidere quale bambino dovrà averla. Da dove vengo io si tira a sorte. Un bambino rimane a succhiare dalla tetta di sua madre. E l'altro viene donato al mare.» Urse si chinò, posò una delle sue enorme mani su una spalla del ragazzo e la strinse finché Fent non trasalì. In apparenza l'uomo stava sorridendo, ma i suoi occhi circondati da cicatrici erano duri come topazi. «Vorrei proprio sapere come hai fatto a tornare a terra, Fent Senz'anima. Forse è arrivato il momento che nostro signore Sur si decida una volta per tutte.» Sostenne lo sguardo del ragazzo per qualche altro secondo, poi lo lasciò andare e si allontanò lentamente. Fent sentì un brivido lungo la spina dorsale. Avrebbe dovuto parlare subito con suo padre, prima che lo facesse Urse. Trovò Aran Aranson seduto su un barile rovesciato a mezza-nave. Sulle sue ginocchia c'era un quadrato di pergamena sgualcita o di qualche altro materiale similmente vecchio e ingiallito. Il Signore di Rocciacaduta stava passando un dito su una serie di linee disegnate sulla parte superiore della pergamena e ogni tanto guardava verso dritta per poi tornare a osservare il disegno, che a volte spostava di pochi millimetri verso il basso o a destra, come per orientare la piatta rappresentazione di ciò che vedeva sulla mappa. Fent fece un sospiro di sollievo e si avvicinò. Suo padre era ossessionato da quella mappa: ogni volta che la guardava ne veniva assorbito al tal punto da non essere più in grado di esercitare alcuna volontà né tantomeno di infuriarsi. Quello era il miglior momento possibile per rifilargli la sua bugia su Katla. «Papà» cominciò, ma Aran Aranson agitò una mano come se stesse cacciando via una mosca fastidiosa, e Fent si interruppe. Il Signore di Rocciacaduta osservò la posizione del sole, pescò in tasca uno dei tanti pezzetti di corda che aveva scelto con molta cura, poi passò le dita su e giù sui nodi che vi erano stati praticati, gli occhi chiusi che denotavano grande concentrazione. Quando li riaprì regolò la posizione della mappa, fece un piccolo segno sulla carta con l'unghia del pollice e sorrise a
suo figlio. «Isola dello Spirito» disse, indicando un minuscolo contorno frastagliato sulla mappa. Fent non aveva mai visto la pergamena da vicino, prima: suo padre era tremendamente geloso di quell'oggetto e lo teneva scrupolosamente per sé. Ma doveva ammettere che era bella e misteriosa... ammesso che si fosse interessati a dei pezzi di carta, o di qualunque altro materiale, che pretendevano di mostrare com'era fatto il mondo. Fent preferiva vedere con i propri occhi le meraviglie di Elda: l'astratto non rivestiva alcun interesse per lui. Ciononostante allungò il collo e guardò Aran passare con amore le dita sulla mappa. Sull'angolo superiore destro c'era una rosa dei venti, col braccio meridionale posizionato diagonalmente verso l'angolo sinistro mancante. Intorno a essa Fent vide una serie di strane parole. Alcune non avevano senso per lui, il che non era affatto sorprendente, visto il poco tempo che aveva dedicato agli studi; ma le parole 'Isenfelt', 'Oceana' e 'Sanctuarii' erano abbastanza chiare: campi di ghiaccio, oceano, Santuario. Sembrava tutto così semplice, specialmente se era possibile individuare un'isola così piccola come quella dello Spirito tra quei ghirigori d'inchiostro. Fent batté le palpebre e sollevò lo sguardo: tentò di paragonare le linee sulla mappa con quelle che vedeva all'orizzonte, ma non giunse a nessuna conclusione. Vedeva un'isola, e sembrava essercene una all'incirca in quella stessa posizione sulla mappa: questo era tutto ciò che riusciva a capire. Mentre un uomo dell'equipaggio, Kalo, un rematore taciturno e di carnagione scura, passava loro accanto, Fent guardò suo padre appoggiare una mano sulla mappa, quasi a proteggerla, e poi richiuderla in fretta, e sentì un dubbio insinuarsi in lui. Poteva davvero un oggetto così fragile e inconsistente indicare un sicuro passaggio verso un luogo leggendario? O aveva forse praticato uno strano incantesimo su suo padre? Una luce rossa delineava le nubi nere che si addensavano all'orizzonte mentre il sole cominciava a calare: l'aria era diventata gelida. «Papà» disse nuovamente Fent. «Riguardo a Katla...» Il tempo innaturalmente buono che aveva benedetto le Isole Occidentali negli ultimi mesi aveva portato a una serie di nascite di agnelli fuori dall'ordinario. Anche prima che Aran Aranson conducesse con sé la maggior parte degli uomini migliori nella sua spedizione verso Santuario, le greggi erano diventate piuttosto difficili da governare per i due pastori incaricati della loro cura. Fili Kolson e il suo anziano cane, Breda, dopo ore
di peripezie, erano finalmente riusciti a radunare tutte le pecore nella capanna ai piedi del Dente del Segugio... tutte tranne un agnellino, che si era spaventato nel vedere un gabbiano che volava particolarmente basso ed era corso su per il roccioso picco spinto dal panico. Breda era corso dietro all'agnello per più di dieci metri, ma poi, quando il terreno aveva cominciato a farsi troppo ripido, aveva rinunciato ed era tornato da Fili con la lingua penzoloni. Il ragazzo non aveva potuto far altro che scuotere la testa: quando l'animale decideva che era stanco, non c'era niente che potesse fargli cambiare idea. Con le gambe già doloranti per la settimana trascorsa sulle colline, il giovane aveva sospirato e si era messo a inseguire l'agnello: molto probabilmente ora che il Signore di Rocciacaduta era partito nessuno avrebbe notato la mancanza di un animale, ma lui non poteva fare a meno di sentirsi orgoglioso del compito che gli era stato assegnato; inoltre, se anche nessuno l'avesse scoperto, quell'agnellino avrebbe tormentato i suoi sogni. Quella creatura era tremendamente stupida: ogni volta che lui stava per afferrarla scattava via terrorizzata, salendo sempre più in alto sul promontorio. Al tramonto l'agnellino li aveva condotti entrambi a un tiro di schioppo dalla cima e Fili era praticamente pronto a far avverare le peggiori paure dell'animale, strangolandolo e mangiandolo seduta stante. Il ragazzo lo guardò balzare su un masso di granito sul quale delle rosette di licheni risplendevano dorate alla luce della sera e svanire dietro di esso. Un attimo dopo stava belando furiosamente. «Per le palle di Sur» imprecò Fili con tutto il cuore. Riprese fiato e si precipitò verso la cima, scalò il masso e si ritrovò in uno spazio verde. L'agnello era lì, ansimante, gli occhi rotondi e spalancati. Dalla sua piccola bocca scura uscivano flebili belati. Fili non gli diede il tempo di muoversi e gli si gettò addosso. Lo afferrò per la collottola e se lo mise sotto un braccio prima che potesse protestare. Stranamente docile, la bestiola rimase immobile, come morta: soltanto la sua testa continuava a muoversi a destra e sinistra, come se cercasse qualcosa sul promontorio. Fili gli legò le zampe e solo dopo che si fu alzato notò dove era diretto lo sguardo dell'agnello. Quando guardò anche lui in quella direzione, per poco non lasciò cadere l'animale per lo spavento: c'era una strana forma nella luce fioca del tramonto. Pareva una grossa sedia, anche se la cosa non aveva alcun senso, e c'era di più: qualcuno sembrava legato a essa, gli occhi che brillavano in maniera allarmante nella semioscurità. Fili era un ragazzo intelligente: era in grado di fare due dozzine di nodi
diversi e creare falsi vermi e false mosche per le esche. E sapeva anche che se ci si imbatteva in un camminatore della notte quando la luce stava per svanire, l'unica cosa da fare era correre più veloce del vento, perché chi fosse stato raggiunto dalle sue grosse mani nere e fosse finito a terra sotto quel corpo gonfio di sangue, ben presto si sarebbe ritrovato ad accompagnarlo nelle sue scorribande notturne e la sua famiglia avrebbe preferito fargli staccare la testa e seppellirla a un campo di distanza dal corpo che invitarlo a sedere con loro accanto al fuoco. Ma la figura sostenne il suo sguardo, e non appena la luna spuntò da dietro una nuvola il ragazzo si rese conto con sgomento che davanti a lui non c'era un camminatore della notte, ma la figlia del capoclan, Katla Aransen. Posò l'agnellino sulla morbida torba e si inginocchiò accanto a lei. La prima cosa che le tolse fu il bavaglio, anche se quando una sfilza di roche imprecazioni lacerò l'aria si pentì di non averlo lasciato per ultimo. Katla arrivò alla fattoria fremente di rabbia, pronta a litigare con chiunque e per qualunque cosa, anche se era tanto stanca che sarebbe potuta cadere a terra stremata da un minuto all'altro. Ma l'atmosfera che trovò quando entrò nella casa lunga fu così sconcertante che la rabbia sbollì quasi all'istante. Nessuno sembrava particolarmente sorpreso che fosse ritornata a quell'ora tarda dopo essere sparita così all'improvviso; nessuno sembrò neppure interessato a chiederle dove era stata. Le donne si erano riunite in tanti gruppetti e parlavano a bassa voce, gli occhi spalancati e pieni di preoccupazione. I vari lavori domestici parevano lasciati a metà o non cominciati affatto: dove di norma avrebbe dovuto esserci una febbrile attività, per la preparazione del pasto serale, l'attizzamento dei fuochi, con gente che entrava e usciva, l'infinita opera di cucito e riparazione, e persino i più piccoli dettagli come riempire di olio di foca i vasi di steatite con lo stoppino che illuminavano la sala, tutto sembrava sospeso, come in attesa di una qualche dichiarazione o di un evento. Il fuoco per cucinare era spento; lo spiedo era vuoto e il grosso paiolo di ferro giaceva su un lato tra la cenere fredda. Katla si guardò intorno, sbalordita. La cosa più strana di tutte, probabilmente, era che la massiccia sedia di suo padre era occupata. E non da Aran Aranson, ma da sua moglie. La signora di Rocciacaduta sedeva sull'enorme sedia intarsiata con i gomiti appoggiati sui robusti braccioli di legno di quercia, il mento sulle mani, e fissava nel vuoto con una strana intensità nello sguardo. Tutti si tene-
vano accuratamente a distanza da lei. Katla si accigliò. Per un tacito accordo, che tuttavia le era sempre parso vincolante quanto una vera e propria legge, nessuno si sedeva mai sulla sedia del Signore di Rocciacaduta in sua assenza. Era una violazione piuttosto sconcertante, e compiuta con tale deliberazione da lasciar presagire cattive novità. Katla si avvicinò a sua madre con una certa preoccupazione. Bera non mosse neppure gli occhi. «Dove sei stata?» chiese la donna, e il suo tono di voce era freddo e piatto. Katla batté le palpebre, sorpresa. «Legata a una sedia» rispose senza fare giri di parole. Se si aspettava una qualche reazione, un segno di sorpresa, rimase parecchio delusa. «In cima al Dente del Segugio» continuò. «Mi ci ha lasciata il mio amato fratello.» Le sopracciglia di Bera si sollevarono all'improvviso, ma le sole parole che pronunciò furono: «È arrivato un corvo.» «Un corvo?» «Da Halbo.» Bera aprì le dita della mano destra, come le fronde di una felce che si distendono al sole. Nel suo palmo c'era un pezzo di corda che doveva aver tenuto stretto per parecchio tempo. Su di esso erano stati praticati diversi nodi di varia complessità, costellati da altri piccoli nodi in rosso e argento per indicare che il messaggio veniva dalla corte reale. Katla lo prese con circospezione, lo allungò e studiò la disposizione dei nodi con sempre maggiore sbalordimento. Poi girò il pezzo di corda sottosopra e lo guardò da quell'angolazione, il petto stretto in una morsa, sapendo mentre lo ricontrollava che la prima volta non si era sbagliata. Quando alzò lo sguardo trovò gli occhi di sua madre fissi su di lei. «Dobbiamo mandare una barca ad avvertirli... Siamo ancora in tempo. Potremmo raggiungerli prima dell'alba, se il vento rimane costante. Prenderò il Dono di Fulmar, Fili, Perto...» Si interruppe per pensare a quale dei ragazzi di Rocciacaduta non era partito per la spedizione e avrebbe potuto esserle di aiuto su una nave. «No.» La voce di Bera era dura come la pietra. «Cosa?» «Anche se riuscissi a raggiungerlo e gli consegnassi il messaggio, lui non tornerebbe mai indietro. È testardo come un toro in calore e ha poco
rispetto per il nostro re.» «Allora cosa faremo?» Sua madre fece un movimento impercettibile che sembrava una minuscola scrollata di spalle. «Riunirò tutti gli uomini che riuscirò a trovare sulle isole e li manderò ad Halbo. Inventerò delle scuse e chiederò il perdono del re, anche se doverlo fare mi secca non poco. E gestirò questa casa meglio che potrò finché mio marito non ritornerà.» Bera serrò la mascella e sollevò il mento finché i tendini ai lati del collo non divennero fin troppo evidenti. Per la prima volta, Katla notò quanto sua madre era dimagrita di recente, quanto erano scure le ombre sotto le palpebre e quanto erano scavate le sue guance rosee. Una ragnatela di rughe partiva dall'esterno dei suoi occhi, segnava la fronte una volta liscia e creava profondi solchi lungo gli angoli della bocca. Stava invecchiando in fretta, e la partenza di Aran Aranson, insieme alle tremende notizie arrivate, avevano accelerato il processo. «Se mai tornerà» aggiunse amaramente. Katla non sapeva cosa dire, né in difesa di suo padre né per confortare sua madre. Le sue dita tornarono a posarsi sul messaggio scritto nella corda. «Siamo in guerra con l'Istria» diceva. «Vi ordiniamo di cedere al vostro re ogni uomo e nave delle Isole Occidentali e di inviarli immediatamente a Halbo. Chiunque non ottempererà a questo editto non verrà più ritenuto cittadino di Eyra e sarà privato di ogni suo bene e della vita. Per ordine di Ravn Asharson, Signore delle Isole del Nord.» Il vento resse per tutta la notte, cambiando di forza e direzione solo di pochissimo, e Aran sfruttò quei mutamenti a proprio vantaggio, bordeggiando lungo le onde e scivolando su di esse con eleganza, cosicché il Lungo Serpente sembrava volare sul mare come la mitica creatura da cui aveva preso il nome. A volte pareva quasi che il grande vascello fosse trasportato dall'aria: con il cielo notturno così profondo e nero e le stelle d'argento che si rispecchiavano sull'acqua scura era impossibile capire a prima vista in quale elemento si muovesse. Fent finì il suo turno di guardia due ore dopo l'alta luna, ma non riuscì a dormire, e non solo a causa del fastidioso movimento della nave o dello schiocco delle vele sopra la sua testa. Non appena cominciava a scivolare nel sonno sentiva una voce, troppo vicina e forte. A volte gli sembrava quella di una donna, bassa, profonda e sconosciuta; a volte si trasformava
in quella di Urse Orecchiomozzo. Per un attimo sentì il respiro del gigante sul suo collo e si raddrizzò all'improvviso, colto dal panico. Non c'era nessuno accanto a lui, nessuno tranne Gar Felinson, che russava a bocca aperta; e quand'era sveglio Fent sapeva bene che era impossibile che l'ex braccio destro di Tam Volpe mettesse in atto la sua minaccia proprio lì, a bordo della nave di suo padre e davanti al resto dell'equipaggio. Ma di notte, col brutto tempo, lo provocò la sua mente traditrice, chi avrebbe notato la sua scomparsa? In fondo Aran aveva accettato la scusa di Fent per la scomparsa di sua sorella senza dire una parola ed era sembrato a malapena sorpreso, e tanto meno infuriato o deluso. Era invece tornato a concentrarsi sulla mappa, individuando sulla sua superficie la costa settentrionale del Promontorio delle Tempeste mentre passavano accanto alle alte scogliere di arenaria che risplendevano di una misteriosa luce arancio fuoco; e si era accigliato per l'assenza di qualsiasi segno che indicasse la lunga serie di banchi di scogli che spuntavano dall'acqua per mezzo miglio di schiuma e onde tumultuose. Quell'evidente lacuna della sua preziosa mappa aveva tenuto in pensiero il Signore di Rocciacaduta per più di un'ora. Aran si era rannuvolato e si era fatto scontroso e irritabile; le sue sopracciglia si erano unite in una sinistra linea scura che avrebbe scoraggiato qualsiasi interruzione o commento. Aveva poi gridato conto Sten Arnason per un apparente errore con le cime e si era guadagnato uno sguardo infuriato dall'uomo biondo, che era arrossito per la vergogna. E infine aveva abbaiato un ordine inutile a Urse, che l'aveva guardato perplesso, ma aveva tenuto a freno la lingua. Ne aveva visti, lui, di capitani eccentrici: a meno che non fossero veramente dei pazzi, quei piccoli scoppi d'ira si placavano ben presto, come brevi piovaschi. E in effetti, pochi minuti dopo, Aran Aranson era raggiante. Si era colpito la coscia con un pugno e «Ah!» aveva esclamato deliziato. «Naturalmente! Questa non è una mappa fatta per semplici avventurieri, ma per marinai esperti che conoscono il mare. Perché segnare ogni più piccolo banco di scogli? Che gli sciocchi vadano pure in malora, che le loro navi affondino, che le loro imprese falliscano!» Dopodiché aveva arrotolato la pergamena con infinita cura e se l'era infilata nella tunica, vicino al cuore. Poi era andato a sedersi a poppa, appoggiato contro la scialuppa, a osservare il cielo notturno e la fedele Stella del Navigante come se con la sua costante attenzione e la sua salda volontà potesse tenere la nave sulla giusta rotta. E anche in piena notte, ogni volta
che Fent guardava a poppa suo padre era lì, immobile come una statua, con la luce della luna che faceva brillare i suoi occhi penetranti. Normalmente il fatto che il loro capitano vegliasse su di loro avrebbe dovuto rassicurare gli uomini dell'equipaggio, ma l'aspetto sinistro di Aran sembrava invece metterli a disagio. Alcuni si fecero addirittura dei segni di scongiuro contro le possessioni demoniache; altri si rivolsero al loro compagno di remi e trovarono conforto nelle parole. «Ma non dorme mai?» chiese Marit a Flint Hakason, un uomo delle isole settentrionali con spesse trecce sulla barba e le mani piene di cicatrici che si vantava di conoscere il Signore di Rocciacaduta da più di vent'anni e di aver visto il limite del mondo, anche se nessuno gli credeva. Era risaputo che Flint vedeva parecchie cose nel fondo di un boccale vuoto. Il vecchio marinaio rise. «Secondo me ha due paia di occhi come la madre di Sada, così può stare di guardia notte e giorno!» «Se hai la virtù di una dea a cui badare, allora lo capisco; ma con una nave in acque tranquille e un equipaggio decente in cui riporre la propria fiducia, potrebbe anche schiacciare un pisolino, no?» «Decente, hai detto bene. Alcuni di questi marinai d'acqua dolce non hanno mai lasciato lo stretto di Rocciacaduta in vita loro. Che, nel caso di parecchi di questi ragazzi, a malapena è lunga quanto il mio dito.» E lanciò uno sguardo significativo verso babordo, dove Gar Felinson e Jad l'acrobata erano impegnati in un silenzioso, ma intenso gioco di 'sasso bianco, sasso nero'. «Faremmo meglio a pregare che il tempo tenga: che Sur ci aiuti se incontreremo una tempesta.» Ma il tempo fu propizio per molti giorni ancora, e un frizzante vento di libeccio li portò da un punto di riferimento all'altro come se Sur stesso benedicesse la loro impresa e stesse facilitando il loro passaggio attraverso l'Oceano del Nord in ogni modo possibile. Il sole brillava, l'aria era fresca e nitida: di giorno i punti di riferimento erano visibili da miglia e miglia di distanza, e di notte le stelle offrivano volentieri le loro configurazioni nel grande mappamondo celeste. Passarono l'Isola delle Balene senza trovare traccia di ghiaccio. Due giorni dopo si imbatterono in isole che nessuno a bordo aveva mai visto né sentito nominare prima: terre che si ergevano dalle onde blu in alte e ripide scogliere solcate da strisce regolari di rosso, bianco e nero. Impiegarono quasi un'ora per superare la più grande, e per tutto il tempo l'equipaggio non fece che guardare con gli occhi sgranati e pregare Aran di fare scalo in modo da poter investigare sulla vera natura di
quelle rocce... Perché sembravano di pura sardonica, e se quelle isole erano veramente composte di tale costosa pietra, che bisogno c'era di andare a cercare fortuna più a nord in acque inesplorate piene di ghiaccio e di chissà quali altri pericoli? Ma il Signore di Rocciacaduta voltò la schiena alle isole e continuò la sua rotta verso il settentrione senza mostrare il minimo interesse, lasciando gli uomini a bisbigliare infuriati tra di loro finché Haki Ulfson non fece notare che le isole sarebbero state relativamente semplici da ritrovare quando fossero tornati dalla spedizione, e che se erano davvero fatte di sardonica ce n'era più che a sufficienza per rendere ogni uomo a bordo, insieme a moglie, figli, cani e polli, ricchi come re Rahay. Poi cominciarono a presentarsi le prime tracce del ghiaccio: piccoli e innocui banchi galleggiavano sulla superficie delle onde, fragili, opachi e sporchi, pieni di detriti e schiuma di mare in gelidi cristalli. Affascinato, Fent si allungò dalla frisata e ne recuperò un pezzo. Era così freddo che gli bruciò le mani, e il giovane gridò mentre gli altri ridevano per la sua ingenuità, ma le risate si mutarono ben presto in esclamazioni di meraviglia quando Fent sollevò il disco verso il sole e intravidero le sagome di minuscoli gamberetti intrappolati nel ghiaccio. «Continua a pescarne» disse il cuoco, Mag Linguadiserpente «e non scarseggeranno nei miei brodi. Ma la prossima volta cerca di trovarmi qualcosa di un po' più grande su cui lavorare, eh?» I giorni continuarono così miti e sereni che la nave passò accanto a gruppi di foche che si crogiolavano all'anomalo sole invernale in mare aperto, tanto pacifiche e soddisfatte che nessuno ebbe il coraggio di attaccarle con l'arpione o la fiocina. Uccelli marini volavano intorno alla nave per tutto il giorno, tanto che l'equipaggio si era abituato alla vista delle procellarie, dei gabbiani e degli albatri: un'abbondanza di cibo, se mai si fossero trovati ad averne bisogno. Secondo i calcoli di Aran, basati sul sole, sulle stelle e sulla portentosa mappa, erano a due settimane di viaggio dalla loro destinazione, avendo già coperto un terzo della distanza alla velocità maggiore e nelle migliori condizioni che ogni marinaio avesse potuto desiderare. Persino Fent, che non era mai stato felice di navigare prima, cominciò a pensare di potersi abituare a una vita in mare: c'era ben poco lavoro da fare quando il vento teneva (e lui non era abbastanza esperto per manovrare le cime); la temperatura era straordinariamente mite per essere già pieno inverno, quando Rocciacaduta, pur riparata, di solito era stretta nella morsa del gelo, e in più Mag Linguadiserpente si era rivelato più bravo in cucina di quanto il
suo nome o il suo aspetto tetro lasciassero presagire e, inoltre, aveva riportato sufficienti quantità di erbe e spezie dal suo viaggio alla Grande Fiera da rendere delizioso anche il più insipido dei pasti. Inoltre Fent era diventato un esperto nel gioco degli astragali e dei sassi e ben presto la maggior parte dell'equipaggio gli divenne debitrice di considerevoli somme, che furono più che felici di promettergli al loro ritorno alle isole. In fondo, con tutta quella sardonica da estrarre, a nessuno sarebbe dispiaciuto dover restituire pochi cantari e neppure privarsi del miglior bestiame che aveva. Indipendentemente dall'esito della spedizione, in un modo o nell'altro ci sarebbe stata ricchezza per tutti. Erano i più fortunati tra gli uomini, si dissero sfregandosi le mani. Ma la loro fortuna non avrebbe retto. Fu il vento ad abbandonarli per primo. Per giorni di seguito non ne spirò neppure il più piccolo alito, lasciando le acque piatte e grigie. Poi uno spesso strato di nuvole pallide ricoprì il cielo da orizzonte a orizzonte e non diede segno di volersene andare, rendendo così la navigazione notturna impossibile, perché non c'erano stelle da seguire. Di giorno non era molto meglio, perché il sole si nascondeva e l'unica cosa che ne indicava la posizione era un flebile bagliore dietro le nubi. Le ore di luce sembrarono diventare sempre più brevi: il sole sorgeva lentamente a sud e poi scompariva nello stesso punto, come una balena che si rotola nel sonno. Nei due giorni successivi cadde un'incessante pioggia che infradiciò tutto e tutti a bordo. Aran camminava su e giù per la nave di pessimo umore, tormentandosi per il tempo che perdevano e avvertendo il peso del vantaggio che con ogni minuto perso le altre navi, di certo partite per Santuario prima di loro, avrebbero guadagnato. Come risultato costrinse l'equipaggio a una fatica massacrante. Misero in mare i remi e li spinsero fino al calar del sole e poi durante tutta la lunga notte, senza neppure fermarsi per cucinare un pasto. Quando gli uomini cominciarono a lamentarsi della mancanza del buon cibo caldo a cui erano abituati, Aran li incenerì con lo sguardo; subito si placarono e si fecero bastare il pane duro e le salsicce fredde che Mag Linguadiserpente distribuiva in giro, bagnati da un boccale di birra. I muscoli di Fent, niente affatto allenati a un tale castigo, sembravano andare a fuoco. Di tanto in tanto, lasciava di nascosto che la pala del suo remo sfiorasse appena la superficie dell'acqua per dare un po' di tregua alle proprie braccia; ma poi Tor Bolson, che sedeva ai remi di fronte a lui, co-
minciò a prenderlo in giro per quella che considerava semplice imperizia. Allora Fent raddoppiò gli sforzi e imprecò contro se stesso per tutta l'ora successiva. Al quinto giorno gli uomini lamentavano dolorose piaghe alle mani per il costante attrito della pelle bagnata di acqua di mare contro il legno, anch'esso intriso d'acqua salata, ma Aran non permise a nessuno di riposare e anzi prese lui stesso un remo, aumentando ancora di più il ritmo, finché anche le sue mani non furono ridotte come quelle del suo equipaggio. Le piaghe generarono altre piaghe, poi si diffusero, divennero più profonde, si infettarono, si fecero terribilmente dolorose. Anche quando si avvolgevano le mani con strisce di stoffa intinta nel puzzolente unguento che Hesta Rolfsen aveva preparato e imbottigliato lei stessa in un grande vaso di terracotta chiuso da un tappo di corda oliata, le cose non miglioravano affatto. Poi le piaghe cominciarono a formarsi anche sulle natiche, e il loro sconforto fu totale. Quando alla fine Aran cedette e consentì agli uomini di remare un po' per volta e di dormire tra un turno e l'altro, coloro che si muovevano per la nave sembravano dei vecchi artritici, con le mani strette contro il corpo come se fossero morte. Ma continuarono a remare. Tre ore dopo l'alba, Urse Orecchiomozzo disse al suo vicino: «Zampe di gatto.» Il suo compagno di remo era un giovane inesperto che veniva da Isola dei Pesci e aveva molti muscoli ma poca coordinazione, e nonostante avesse vantato grandi avventure con i suoi cugini in alto mare durante la caccia alle balene e una volta persino a un narvalo, sembrava il tipo che sarebbe stato molto più a suo agio con un bue e un aratro. «Cosa?» «Guarda, laggiù.» Urse indicò con la testa il tratto di mare che avevano attraversato quel giorno. Lontano, oltre la schiuma bianca della loro scia, minuscoli riccioli d'acqua stavano creando piccole turbolenze sulla superficie dell'oceano. «È così che nascono le onde, sai.» Il ragazzo, Emer Bretison, rise. «Quelle cosine così piccole? Più zampe di micetto, direi.» «Quelle cosine così piccole cattureranno il vento e cresceranno. Potranno anche non essere più grandi delle zampe di un gattino ora, ma entro questa sera saremo circondati da leoni.» Emer non aveva idea di cosa fosse un leone, ma non voleva mostrare la
sua ignoranza. «Il Lungo Serpente se li mangerà e li risputerà» dichiarò. Urse lanciò un'occhiata silenziosa all'orizzonte sempre più nero. Poco dopo si levò una leggera brezza, fresca al punto da congelare loro il viso, ma non abbastanza tesa da permettere di issare la vela. Era un vento incostante, che prima soffiava da sudovest, il che sarebbe stato perfetto per la loro rotta, se si fosse rafforzato, ma che poi cominciò a spirare da ovest e divenne del tutto inutile per loro. Lontano, a sud, alte nubi cominciarono a radunarsi in imponenti torri di morbido grigio che poi assunsero il colore di un livido, nere, bluastre e porpora scuro. La luna, che era al suo ultimo quarto e dunque forniva ben poca illuminazione anche quando il cielo era chiaro, sorse e si andò a nascondere dietro i banchi di nubi, offrendo solo un tenue bagliore di luce mentre il vento cominciava a spirare da sud e le nuvole iniziavano a correre nel cielo verso il Lungo Serpente. Vento, finalmente. «Disarmare i remi!» gridò impaziente Aran Aranson. Poi: «Su il pennone!» L'equipaggio obbedì con gioia a quegli ordini, con il poco lungimirante sollievo di uomini che erano stufi di remare. Ma Urse Orecchiomozzo e Flint Hakason si scambiarono uno sguardo preoccupato. Loro conoscevano bene i segni di una tempesta in arrivo, anche se gli altri sembravano non averli notati o non curarsene affatto. Urse tossì una volta, e poiché Aran parve non accorgersi di quell'espediente discreto per attirare la sua attenzione, lo fece di nuovo, in modo più forte e più orribile. Aran lo fissò con sospetto. Urse scosse la testa. L'altro si accigliò. Urse lanciò uno sguardo significativo verso il lato di dritta della nave, dove il mare in lontananza cominciava a gonfiarsi e ad avanzare come un enorme esercito. Aran seguì il suo sguardo, poi si girò volutamente e sgarbatamente di schiena per non vedere l'uomo di Tam e gridò: «Tre mani di terzarolo alla vela!» Urse sollevò un sopracciglio, poi si strinse nelle spalle e andò verso il pennone. «È un pazzo» sussurrò a Haki Ulfson mentre manovravano le cime. «Se questa tempesta sarà forte come sembra, perderemo la vela. E se perderemo la vela, saremo tutti condannati.» «Aran Aranson è un ottimo marinaio» rispose Haki con noncuranza. «Con tre mani di terzarolo dovrebbe tenere. Ho visto di peggio: molto probabilmente riusciremo a sfuggire alla tempesta... questa è una buona nave.»
«Vero» ammise Urse. «Ma non è mai stata collaudata.» «Be', è arrivato il momento che Aran ne dimostri il valore.» «Anche a rischio delle nostre vite?» «Dov'è finito il tuo desiderio d'avventura, amico?» Urse tacque, ma la sua espressione era più che eloquente. La prima onda colpì la nave al fianco e fece ondeggiare le assi, che protestarono con sonori scricchiolii. La successiva la raggiunse a poppa, sul timone, e la fece deviare dalla sua rotta. «Tieni i bracci!» ordinò Aran a Gar Felinson, e il ragazzo si precipitò a obbedire, afferrando le corde che si dimenavano finché non sembrò che tentasse di trattenere con le sue sole forze uno stallone recalcitrante. Gli uomini incaricati di manovrare le cime, il timone e il beitass, il palo usato per posizionare la vela, si sistemarono ai loro posti. Fent, che non era affatto un marinaio esperto e dunque non aveva alcun compito specifico a parte quello di aggottare, si ritrovò improvvisamente senza un ruolo. Si guardò intorno, cercando di capire dove fosse meglio rifugiarsi per affrontare il mare mosso. Un'altra onda colpì la nave, con più forza della precedente: un enorme spruzzo superò improvvisamente la frisata e lo infradiciò da capo a piedi. Imprecando furiosamente, Fent corse a poppa e s'infilò sotto una delle scialuppe. Lì almeno sarebbe stato al coperto, se la tempesta li avesse davvero raggiunti. Ne aveva osservate abbastanza da terra, dove di certo era più sicuro, da non volersi ritrovare ad affrontarne una in mare senza alcun riparo. Aveva visto tremende bufere spazzare le coste di Rocciacaduta con orribile regolarità negli inverni più duri, strappare i tetti delle case, abbattere alberi, distruggere navi ancorate anche nelle baie più protette, spingere balene e foche sulle spiagge ben oltre la solita linea di marea. Inoltre sentiva di aver fatto il proprio dovere e anche di più negli ultimi giorni. Che vantaggio c'era nell'essere il figlio del capitano, se non poteva prendersi un po' di pausa di tanto in tanto? Ogni fibra del suo corpo era dolorante, le sue mani non sarebbero più state le stesse, ne era certo, e in quanto allo stomaco... Con tutti i movimenti causati da quel mare così agitato, stava cominciando a provare una leggera nausea. Inoltre sotto la scialuppa era nascosto alla vista di Urse Orecchiomozzo il quale, con un po' di fortuna, si sarebbe dimenticato di lui. Aran, al contrario, amava le burrasche. Guardò l'equipaggio muoversi abilmente sul ponte, ogni uomo concentrato sul proprio compito, e sentì di potersi concedere un piccolo lusso. Con il passo sicuro di un marinaio esperto, attraversò la nave e prese posizione sulla prua dall'elegante curva e,
stringendo con la mano destra la frisata, rivolse il viso verso lo scuro orizzonte settentrionale, mentre il vento lo sferzava nella schiena. Sotto la suola degli stivali sentiva il modo in cui le tavole di quercia si adattavano alle potenti correnti e la chiglia si fletteva, elastica come la spina dorsale di un gatto. Il Lungo Serpente! La sua nave: era fiera e indomabile, e lui l'aveva realizzata dal nulla... o meglio, dal disastro e dalla disperazione. E tutto per ciò che aveva aspettato per una vita intera: questo sentimento di trionfo. Era il comandante di una nave superba, il padrone dei mari... il signore del proprio destino. Un tuono brontolò in lontananza e pochi istanti dopo un lampo di luce bianca fendette il cielo. Ora il vento li attaccava in violente folate. Una di esse coincise con una potente ondata che colpì la nave al fianco e la fece inclinare così tanto che l'acqua si rovesciò all'interno da sopra la frisata e corse come un fiume lungo il ponte. Gli uomini si spostarono in ogni direzione, aggottando furiosamente. Ma il Lungo Serpente, da perfetta nave qual era, si raddrizzò all'istante e si mise nella direzione del vento, tagliando la cima delle onde e scattando in avanti come una puledra nervosa. La mano libera di Aran Aranson si posò quasi di propria volontà sulla sacchetta appesa all'interno della tunica e, mentre le sue dita si chiudevano sulla pergamena arrotolata all'interno, l'espressione cupa del suo viso si trasformò in una di pura esultanza. Ancora un tuono, e quasi simultaneamente un altro fulmine lacerò le nubi, illuminando una scena da incubo, perché le onde stavano aumentando a vista d'occhio e diventavano sempre più alte. Con un grande schiocco, la vela si gonfiò con violenza tale che il grasso con cui la lana era stata resa impermeabile schizzò verso il lato sottovento, colpendo l'equipaggio nelle vicinanze con dolorose palline solidificate. Le cime sfuggirono dalle mani degli uomini e sferzarono rabbiosamente il ponte. Una colpì in pieno viso Haki Ulfson, che gridò e barcollò. Un attimo dopo era sparito. «Uomo in mare!» Il grido fece tornare bruscamente Aran alla realtà. Lasciando andare la piccola sacca con la mappa, si voltò e vide Urse Orecchiomozzo e un uomo biondo di cui non ricordava il nome che allungavano a fatica un remo oltre la poppa, mentre altri li tenevano ben stretti per la vita e per le gambe. Per un istante riuscì a intravedere nell'oscurità una mano bianca che si sollevava sulle onde scure, poi l'uomo scomparve del tutto, per riemergere subito dopo a circa sei metri di distanza dietro di loro, gli occhi e la bocca
spalancati per il terrore, ma ormai fuori portata, perché il vento li spingeva sempre più avanti. Non c'era niente che potessero fare. Assalito da un'enorme ondata nera come la notte stessa, Haki Ulfson fu inghiottito dal mare. Per un breve momento gli uomini fissarono increduli il tratto di mare in cui avevano visto sparire il loro compagno... poi la tempesta li colpì con l'intera sua potenza. «Legate tutto ciò che potete!» gridò Aran, correndo per la nave. «E legatevi anche voi!» L'equipaggio non aveva bisogno di incoraggiamento in quel senso. Legarono le provviste meglio che poterono e il più velocemente possibile, e poi si assicurarono agli anelli delle scalmiere, all'albero e al possente supporto dell'albero. Gli uomini più esperti usarono nodi che avrebbero potuto sciogliere con facilità se la nave si fosse rovesciata; i meno esperti si legarono con ogni nodo che riuscirono a ricordare. Aran e Urse Orecchiomozzo si ritrovarono entrambi vicino al timone. Il gigante fece un passo indietro. Un'onda li colpì di traverso, inzuppandoli entrambi. Aran scosse la testa. «No!» gridò. «Prendilo tu.» Urse era il più forte tra i due: se fosse stato necessario lottare per rimettere in rotta il Lungo Serpente, sarebbe stato lui ad avere maggiori possibilità contro la violenza delle onde. Aran si legò invece a poppa, tra le due scialuppe. Voltandosi, si ritrovò a guardare un'enorme onda che veniva verso di lui. Un pensiero del tutto irrilevante gli attraversò la mente nei pochi secondi che il muro d'acqua impiegò ad avanzare verso la nave: quell'onda era alta quanto le grandi querce della Piantagione della Collina da cui proveniva il legname con cui era stato costruito il Lungo Serpente. In pratica la sua altezza corrispondeva alla lunghezza della nave. Ricordò il giorno in cui, sette estati prima, era andato con Margan ad ammirare una delle meraviglie di Elda e come aveva sollevato gli occhi pieni di timore verso quei meravigliosi giganti. Quello era un luogo sacro, un tempo: Aran si chiese ora se la distruzione di quel boschetto avesse potuto far infuriare, se non Sur stesso, almeno gli spiriti guardiani del luogo. Quella prima onda si infilò sotto la poppa e li portò con sé in alto, nell'aria, tanto che Aran si ritrovò a cadere all'indietro, legato alla nave solo dall'imbracatura di fortuna, lo sguardo rivolto verso il cupo cielo notturno oltre la vertiginosa linea della vela e dell'albero. Per un istante la nave sembrò riacquistare un precario equilibrio, raddrizzandosi sulla cresta dell'onda... ma alla fine ricadde, inclinandosi così tanto in avanti che questa
volta Aran vide davanti a sé, alla fine della nave, l'oscura fossa dell'oceano che sembrava ansiosa di inghiottirli come aveva fatto con Haki Ulfson solo poco tempo prima. Precipitarono con uno schianto che gli rintronò dolorosamente nella testa e lo mandò a sbattere contro il ponte lasciandolo senza fiato; ma il Lungo Serpente tenne bene. Nuove onde seguirono la prima, schiantandosi violentemente l'una contro l'altra, e Aran le fissò, provando paura per la prima volta: se la nave fosse rimasta intrappolata tra due onde lui sapeva che si sarebbe spezzata come un fuscello. E se anche una si fosse infranta direttamente sopra di essa e le assi avessero retto all'impatto, il Lungo Serpente sarebbe stato ugualmente trascinato giù, rovesciato e tenuto sott'acqua dalla forza della risacca. Aran non aveva mai visto onde del genere, né mai sentito un vento così impetuoso. Era così forte che i capelli del capitano erano completamente dritti e i piedi continuavano a sollevarsi dal ponte; e infrangeva il ghiaccio che trovava a galleggiare sulla superficie delle onde come una fionda. Il Signore di Rocciacaduta tentò di gridare un ordine ai suoi uomini; ma la sua voce fu rubata da quel vento furioso come una falena risucchiata nella notte. Non potendo far altro che essere testimone silenzioso del disastro imminente, Aran vide barili, remi e utensili di ogni genere che venivano sollevati in aria; li vide roteare uno accanto all'altro, come presi da un gorgo, e poi svanire nell'oscurità. La nave beccheggiava e rullava. Le assi scricchiolavano e stridevano. L'acqua precipitava a cascata sul ponte. Aran scorse Urse, con la testa circondata da un alone di schiuma gialla, lottare col timone, e vide come l'omone, pur sballottato dalla tremenda furia degli elementi, riusciva ugualmente a tenere la nave in acqua. Poi la vela si liberò dalle cime e cominciò a sbattere intorno all'albero come una belva infuriata. Ora erano completamente alla mercé della tempesta. Aran si guardò intorno, studiando il luogo dove presto sarebbe morto. Fu sorpreso nello scoprire che non provava alcuna forte emozione a quell'idea, ma piuttosto una vaga sensazione di rammarico e un ancor più debole senso di colpa per le vite degli altri uomini di cui era responsabile. Le sue dita si dischiusero lentamente e Aran si rese conto che per un qualche strano istinto, nel bel mezzo della tempesta, aveva stretto il sacchetto con la mappa, come se toccarla potesse offrirgli un qualche oscuro e soprannaturale conforto. C'era sicuramente della magia in quella pergamena, pensò nuovamente; e qualcosa in lui ebbe l'improvvisa certezza che qualunque
incantesimo fosse contenuto in quella mappa li avrebbe aiutati a superare illesi quel disastro. Era una magia che offriva Santuario in cambio della sua cieca fiducia. La pergamena era il suo amuleto, il suo talismano. Il mare, però, sembrava non conoscere l'esistenza di quel patto. Era violento, impetuoso, spaventoso con la sua enorme potenza distruttiva. Avrebbe potuto schiacciarli tutti in un istante. Eppure le onde si mantenevano intatte: a parte l'abbondanza di schiuma che il vento sollevava via dalle loro creste, esse continuavano a non infrangersi. Anzi, ben presto cominciarono a sbattere una contro l'altra e ad accumularsi in un enorme caos. Per un po' sembrò che il mare venisse da tutte le direzioni allo stesso tempo. La nave beccheggiava con violenza. La luna si seppellì così in profondità nelle nubi che nessuna luce cadde sulle acque ribollenti... e il tempo sembrò fermarsi. Aran perse ogni senso dell'orientamento. Un forte scontro di onde liberò una delle scialuppe dai sostegni, il vento si insinuò sotto di essa rovesciandola e minacciando di trascinare il Signore di Rocciacaduta con sé. Aran si resse caparbiamente alle corde, felice di essersi legato alla robusta frisata e non alla faering... a differenza del povero Marit Fennson, il cui grido di terrore svanì in lontananza, coperto dal rombo degli elementi. Il bombardamento continuò, incessante, punteggiato da vividi scoppi di luce e tuoni assordanti. Aran non poté far altro che osservare impotente mentre l'uomo biondo che aveva tentato di salvare Haki Ulfson finiva a sua volta in mare quando la corda con cui si era legato strettamente all'albero della nave si spezzò sotto una sollecitazione che non era progettata per sopportare. Un altro uomo del suo equipaggio, forse Pol Garson, perse la presa su un braccio e fu sollevato dal vento come una bambola di pezza e si andò a schiantare contro il ponte. Il suo braccio destro ciondolava in un modo che faceva pensare che la spalla si fosse slogata e l'arto rotto sotto il gomito. Il sangue che gli colava sul viso fu quasi istantaneamente lavato via da un altro assalto delle onde, che trascinarono il corpo inerte pericolosamente vicino al bordo della frisata. Lì altri due uomini, Erl Fostison e suo cugino Fall, gli sembrò, anche se era quasi impossibile distinguerli in mezzo alla pioggia sferzante e le onde che li colpivano, lo afferrarono e gli salvarono la vita legandogli intorno alla cintola l'estremità della corda che li teneva uniti alla nave. Non sarebbe stato di grande utilità ai remi, si ritrovò a pensare Aran poco caritatevolmente, anche se fosse sopravvissuto. I suoi occhi perlustrarono il caos sul ponte alla ricerca dei capelli rossi di Fent, ma suo figlio minore non si vedeva da nessuna parte, il che non era
certo sorprendente, dal momento che la maggior parte degli uomini era acquattata in qualche posto nel disperato tentativo di evitare il grosso del vento. Al sorgere di quella che veniva considerata l'alba in quella regione dimenticata da Sur, la tempesta si placò e il vento si ridusse a poco più di una brezza che spirava da sud. Aran Aranson impiegò diversi minuti per slegarsi dalla frisata. Aveva le mani congelate e le dita livide e scorticate. Si sentiva privo di forze e provava dolore dappertutto. La corda era fradicia e si era gonfiata, perciò, anche se si era premurato di usare dei nodi facili da slegare in caso di emergenza, l'influenza degli elementi aveva prevalso, rendendoli ostinati e resistenti. Alla fine barcollò lungo il ponte con le gambe molli e si mise a controllare i non pochi danni subiti, non sentendosi più l'eroe che era in piedi al timone della sua nave solo poche ore prima. Per qualche miracolo o il favore del dio, sembrava che il Lungo Serpente e la maggior parte del suo equipaggio fossero sopravvissuti al peggio che l'Oceano del Nord aveva offerto loro. 22 Bestie Non tentare di usare di nuovo la voce del vecchio con me, o ti morderò. «Prometto che non lo farò, se ritornerai alla tua vera forma.» Sono certa che tu mi preferisca minuscola, in modo da potermi intrappolare e domare, ma io non voglio più adottare quelle sembianze. Questo è il mio vero aspetto. Qual è il tuo? «Io sono quello che sono. Cosa intendi dire?» Non hai l'odore che dovrebbe avere un uomo. Per certi versi hai l'odore giusto, ma sai più di vermi e terra. E anzi, non sono nemmeno sicura di volerti mordere troppo forte, per paura che il tuo sapore mi rimanga in bocca. «Sei diventata straordinariamente loquace da quando hai assunto questa nuova forma.» La bestia agitò impaziente la coda, ma non rispose. Lui riprovò. «Se tu dovessi uccidermi, come faresti a tornare dalla tua padrona? Lei è dall'altra parte dell'oceano, e persino un gatto grande come te non potrebbe nuotare fin lì.»
La Bestia parve divertita. Prima un padrone, ora una padrona. Tu pensi davvero alla Rosa del Mondo in quel modo? Come sei strano, uomoverme. Un verme, nella terra della rosa, nella terra del mondo. No, noi andremo a sud, al Picco Rosso. «Non voglio andare al Picco Rosso: ho letto che è tutto cenere, fuoco e rocce in movimento. Perché qualcuno avrebbe intenzione di recarsi laggiù, se non per morire? Noi andiamo a nord, ad Halbo, e poi da Rahe.» Noi andremo a sud. «Nor... Aaaah!» Ti ho detto di non usare la voce del Padrone. Quello era appena un piccolo morso, rispetto a quello che potrei farti. Noi andremo dove dico io, ossia non attraverso l'oceano. A nessun gatto piace nuotare e io non salirò mai più su una barca con te finché il mare non si prosciugherà. Saro si guardò intorno. Si sentiva stordito, come se si fosse svegliato dopo una sbornia. Batté le palpebre e tentò di capire dove fosse. Si trovava in un boschetto fuori dalle mura di Jetra ed era buio. A poca distanza da lui c'era un cavallo... sì, era Messaggero della Notte, ed era legato a un albero: si stava strofinando il dorso contro la corteccia con così tanta forza che i rami ondeggiavano. Due o tre frutti di un qualche tipo caddero a terra in una serie di leggeri tonfi e poi un forte profumo di arance troppo mature riempì l'aria. A casa sua, ad Altea, dove il raccolto era più tardo e meno sicuro e dove ogni cantari aveva la sua importanza, a quest'ora tutti i frutti che potevano essere venduti, spremuti per ricavarne il succo o bolliti e conservati per il lungo inverno sarebbero stati già raccolti; ma a Jetra li lasciavano marcire sugli alberi. Era una città ricca, questa; ricca, forestiera e dissipatrice delle proprie ricchezze. Il forte odore di agrume servì a schiarire la mente di Saro. Un vago ricordo di quando era uscito di nascosto dal cancello e aveva sellato lo stallone lo assalì improvvisamente: Saro rammentò persino di aver guardato la Stella del Navigante. Gli sembrava anche di aver deciso di dirigersi a nord... ma perché mai gli fosse venuta in mente una simile assurdità non riusciva davvero a immaginarlo. A nord, verso l'Eyra, la terra dei barbari, con i quali presto sarebbero stati in guerra: perché aveva avuto quest'idea? Eppure c'era qualcosa che continuava a tormentarlo e non era in grado di definire, qualcosa che gli parlava di disastro e rovina se non si fosse allontanato da lì il più presto possibile. Tentò di afferrare quel pensiero, non ci riuscì, e fu invece assalito da un bizzarro insieme di immagini e suoni, e
fra tutti spiccava la voce di un uomo che gli diceva: aspetta qui il mio ritorno. L'ordine era stato imperativo, impossibile da ignorare, così lui aveva atteso. Ma ora cominciava a chiedersi perché, e chi, stesse aspettando. La necessità di fuggire che l'aveva spinto a lasciare la Città Eterna ore prima era tornata a farsi sentire, più forte che mai. Le sue gambe non vedevano l'ora di muoversi, eppure sembravano aver messo radici come quegli alberi. Concentrarsi anche sul più semplice dei movimenti gli riusciva impossibile. Dopo un po' Saro cominciò a irritarsi. «Per le tette di Falla!» esclamò con rabbia, tentando disperatamente di sollevare un piede, ma il suo stivale rimaneva caparbiamente ancorato al suolo. Come se quell'imprecazione avesse risvegliato un qualche demone, un ringhio sordo si levò nell'oscurità dietro di lui... e in quel momento Saro cominciò a ricordare ciò che la sua mente aveva pensato fosse meglio dimenticare. Stringendo gli occhi guardò nell'oscurità e scoprì che quello che aveva creduto fosse un parto della sua fantasia era invece reale e percorreva le strade di Elda. Come se avesse il potere di materializzarsi a suo piacimento, ora si mostrò nella forma di un enorme felino, una grande bestia nera con occhi dorati e massicce zampe, e quasi non fosse abbastanza, aveva al suo fianco l'uomo alto e pallido che Saro aveva inavvertitamente toccato nel Salone delle Stelle, un contatto che da allora aveva disturbato i suoi sogni, come se fosse stato infettato da una qualche malattia di cui l'uomo era portatore. La pietra tuttavia sembrò rispondere in maniera più positiva. Cominciò a brillare anch'essa, emettendo una luce di un verde dorato. Illuminato da quel misterioso bagliore, il mago sembrava stanco e nervoso, anche se era difficile attribuire quella sensazione a qualcosa di specifico: il volto dell'uomo non rivelava infatti nessuno dei normali segni della stanchezza e neppure quelli dell'età, perché non c'erano rughe di espressione sulla sua fronte, né intorno agli occhi, e le sue guance immacolate non erano incavate né raggrinzite. Virelai sollevò la mano come per bloccare un eventuale movimento di Saro. «Ti prego» disse, gli occhi fissi sulla pietra dell'umore. «Non farlo.» A quel punto l'enorme felino si accosciò a terra, sollevò una grossa zampa e cominciò a leccarsi le parti intime con un'enorme lingua ruvida, talmente concentrato in quell'attività che al suono rasposo delle leccate si unì ben presto un brontolio sordo che riempì l'aria della notte ed echeggiò nel petto di Saro. Dopo un po' le fusa del grosso gatto e contemporaneamente
la semplicità del gesto della bestia ebbero l'effetto di far rilassare Saro, che scoprì che la voce dell'uomo pallido aveva sempre meno potere su di lui. La facoltà di movimento ritornò gradualmente, ma invece di sollevare i piedi, Saro strinse istintivamente la mano sulla pietra dell'umore, serrando le dita così violentemente che la luce cominciò a sprizzare tra di esse, livida e accesa. «No!» Quella parola parve dotata di una strana forza, perché la mano di Saro ricadde immediatamente, come se la pietra dell'umore scottasse. Sia la mano che il ciondolo gli sembrarono a un tratto freddi e pesanti come il piombo. Saro si accigliò. «Tu sai della pietra» disse a voce bassa. Nella grigia luce che precedeva l'alba, il mago sostenne il suo sguardo e annuì lentamente. «Cosa sai?» Ma gli occhi di Virelai si fecero subito privi di espressione, piatti e morti quanto quelli di una triglia che Saro aveva pescato una volta nelle acque stagnati della palude dei Corvi. Il mago ruppe il collegamento tra di loro con la stessa efficacia, abbassando lo sguardo e dirigendosi verso l'albero dove era legato il cavallo. Messaggero della Notte cominciò a indietreggiare, innervosito, ma Virelai tese una mano. «Shi-rajen» comandò al cavallo, che si calmò all'istante. Poi l'uomo pallido si voltò e guardò il ragazzo. «Vieni» disse, e come se appartenessero al mago invece che a lui, i piedi di Saro iniziarono a trascinarsi in avanti. Dietro di loro il gatto emise un basso ruggito. Puoi usarla con lui, si rivolse alla mente di Virelai, e sul suo stupido cavallo; ma ricorda quello che ti ho detto. L'alba si preannunciò in modo insolito. Arrivò dall'oceano del Sud, accese l'ampio estuario del fiume Tilsen di un bel rosa fuoco e diffuse i suoi raggi come la benedizione stessa di Falla sulla flottiglia di barche da pesca che stavano per uscire nelle placide acque costiere per recuperare le nasse per le aragoste e i granchi che avevano messo in acqua la sera prima. Riscaldò le colline terrazzate sopra Lullea, facendo brillare il suolo vermiglio come se su di esso fosse spuntato uno strano raccolto, mentre più giù, nelle valli ancora in ombra, i boschetti di ulivi e melograni e i frutteti con gli alberi di mele, lime e limoni rilasciavano nell'aria fresca del mattino i loro
ricchi profumi. Nell'entroterra, a sudest di Jetra, nella piccola cittadina di Crocevia del Nobiluomo con i suoi stretti e contorti vicoli di case bianche e il suo tempio riccamente decorato, la torre che dominava il paese gettava la sua lunga, lunghissima ombra sulla strada principale, simile a un dito puntato. Un mercante a dorso di mulo, in partenza per il villaggio di Tana del Falco sulle colline per portare al mercato il carro pieno di cachi, voltò la testa al momento giusto - non seppe mai per quale strano istinto - e fu ricompensato con la breve apparizione di una strana carovana di figure che si stagliavano contro il sole in lontananza. Quella sera, nella taverna Ala dello Sparviero di Crocevia del Nobiluomo, circondato da un chiassoso gruppo di suoi colleghi che si erano già bevuti ben più della metà dei profitti del giorno, il mercante insisteva nell'affermare di aver visto «...il più grande gatto delle montagne dell'Istria, mentre camminava quieto quieto al fianco di un paio di uomini che portavano con sé un cavallo che sembrava in tutto e per tutto un esemplare di corridore della migliore razza.» I gatti di montagna non erano rari a nord, ma tendevano a essere di piccole dimensioni, povere creature spelacchiate cacciate dai loro habitat naturali dai loro simili più grandi e più forti; e poi chi mai aveva sentito parlare di qualcuno che fosse riuscito a domare una di quelle bestie, se non il Signore di Cera? «Lodu, domani dovresti andare a trovare Mamma Sed: fatti dare qualcosa per migliorare la vista!» «Esercita ancora?» chiese Lodu. La maggior parte dei nomadi se n'era andata ben prima dell'attuale successione di editti ed esecuzioni. «Non l'ho vista mettere su il suo banchetto stamattina.» L'uomo tacque per un istante. «In effetti non l'ho vista affatto oggi.» Il suo amico si strinse nelle spalle. «Io non la vedo da settimane» ammise. «Ho sentito che è bruciata bene» disse una voce sconosciuta dal fondo della stanza. Lodu si voltò a guardare chi aveva parlato, curioso di capire chi potesse essere dotato di un udito così fine da aver sentito quel frammento di una conversazione privata quasi quanto lo era di scoprire il destino della guaritrice, e si ritrovò a fissare un uomo alto, dalla carnagione scura, con occhi infossati e una bocca sottile che in quel momento era incurvata in un sorriso crudele, come se l'idea di una vecchia che bruciava come una torcia su una delle pire della Dea gli riscaldasse il cuore. «Hanno ucciso la vecchia Mamma Sed?» Gli sembrava incredibile.
«È quello che facciamo a questi maledetti Erranti. Hai vissuto in una caverna nel Deserto delle Ossa per tutto questo tempo?» Quella battuta fece indignare Lodu. «Non ha mai fatto del male a nessuno.» Un altro uomo si unì alla conversazione. «Praticava la stregoneria, amico, e come tale era una creatura innaturale la cui sola presenza sulla faccia di Elda mortificava la nostra signora Falla. La magia è l'arte della Dea: è un sacrilegio che chiunque altro attinga alle sue riserve. Ora lei è stata purificata, restituita alla Signora.» E fece una pia genuflessione. «Stregoneria?» Lodu rise suo malgrado. «Preparava semplici pozioni d'amore per le ragazzine sciocche e vendeva le erbe che crescevano nel suo giardino: se questa è stregoneria allora mia moglie farebbe meglio a stare attenta!» L'uomo scuro strinse gli occhi. «Forse sì, amico mio. Forse sì.» Virelai imprecò. Anche se erano riusciti a lasciare la Città Eterna e addentrarsi nell'entroterra senza essere inseguiti, non tutto stava andando secondo i suoi piani. Quando erano arrivati all'ansa del fiume dove i grossi salici avevano mascherato il campo di Alisha, il luogo era ormai abbandonato: i nomadi se n'erano andati da tempo, lasciando dietro di sé nient'altro che le fredde pietre annerite del loro fuoco da campo, un'area di terreno brullo dove gli yeka avevano brucato l'erba fino alle radici e i solchi delle ruote dei loro carri. Virelai diede un calcio a una delle pietre. Sentì dolore, ma non tanto quando avrebbe dovuto. Ebbe perciò lo spiacevole sospetto che, se avesse esaminato la pelle del piede, l'avrebbe trovata grigia come l'ala di un piccione. Saro si guardò intorno. Era una zona desolata. «Perché siamo venuti qui?» chiese in tono lamentoso. Il mago si era mostrato ben poco cordiale durante il viaggio, che era stato lento e faticoso a piedi, soprattutto dal momento che a ogni passo che faceva verso sud Saro aveva la sensazione di andare nella direzione sbagliata. Ciononostante, e contro quel poco di volontà che gli era rimasto, si era sentito costretto ad accompagnare l'uomo, senza sapere perché. «Speravo di trovare degli amici» rispose Virelai con voce tetra. Saro fu piuttosto sorpreso: il mago sembrava a malapena un essere umano, e tanto meno il tipo di uomo che potesse avere degli amici. Ma dopo
gli eventi della scorsa notte non avrebbe dovuto più sorprendersi di niente. Il felino, enorme, nero e ancora più terrificante alla luce del sole di quando era avvolto dalle ombre della notte, era rimasto con loro per tutto il viaggio da Jetra, e stranamente si era rivelato più socievole e meno minaccioso dell'uomo pallido, il che contrastava apertamente con l'ordine naturale delle cose cui era abituato. Virelai si accasciò a terra e si prese la testa tra le mani, allungando le dita come tentacoli sul cranio, e fu in quel momento che Saro notò un livido e tracce di sangue alla base del pollice destro del mago e quelli che sembravano segni di denti. «Siamo perduti» gemette Virelai. «Ora ci troveranno di certo. E se ci cattureranno si impadroniranno della pietra...» Si portò immediatamente le mani alla bocca, ma era tardi: aveva parlato troppo. «La pietra» mormorò Saro. Qualcosa si agitò nei recessi della sua mente, si solidificò, prese forma... e all'improvviso tutto ebbe un senso, orribile e improvviso. La pietra dell'umore. Nella mano di un altro uomo, una mano scura, elegante, e una luce bianca che cominciava a pulsare tra le sue dita... Con un tremendo sforzo di concentrazione, Saro riuscì ad ampliare la prospettiva e vide nuovamente, e con nuovi e più agghiaccianti dettagli, la visione che l'aveva spinto a lasciare la città. Uno scintillio di colori aggredì i suoi occhi, seguito dal suono sinistro di gemiti e grida. E le immagini continuarono a giungere a lui, dissipando l'incantesimo che l'aveva soggiogato sin dalla sera precedente. «No!» Con immane fatica Saro si strappò da quell'incubo e trovò gli strani occhi chiari di Virelai cerchiati da bianche ciglia fissi su di lui, spalancati per la sorpresa. Accanto a lui, il felino si era sollevato sulle zampe e sembrava che da un momento all'altro potesse saltargli alla gola o fuggire in fretta e furia. Lampi di luce come quelli del sole in uno specchio danzavano intorno a loro. Quando guardò in basso, Saro scoprì che stava stringendo la pietra dell'umore così forte che le sue nocche erano diventate bianche tra le screziature di colore. «Ti prego, non usarla!» Terrorizzato, Saro infilò nuovamente il ciondolo sotto la camicia; ma invece di tornare inerte, la pietra continuò a pulsare di una forte luce, chiaramente visibile anche attraverso la spessa stoffa. «Non vuole smettere!» Una sorta di intesa passò tra Virelai e la bestia, poi l'enorme felino cominciò a correre e, con un turbinare di polvere e acqua, superò con un uni-
co balzo i salici e il ruscello. Saro lo guardò affrontare la bassa collina sull'altra riva e poi scomparire dietro di essa, e provò un certo sollievo. Le luci provenienti dalla pietra tremolarono e svanirono lentamente. «Quella che porti intorno al collo è una pietra della morte» disse alla fine il mago. «È un oggetto raro e pericoloso.» Una pietra della morte. Era lo stesso termine usato dalla vecchia guaritrice nomade di Pex, che era fuggita terrorizzata da lui dopo avergli mostrato l'orribile immagine degli uomini che egli stesso aveva assassinato, a sua insaputa, sulla pianura della Luna Caduta. La pietra aveva ucciso tre persone quella volta, ma ne avrebbe uccise migliaia, nelle mani di Tycho Issian. Ora una vera e terribile paura si impadronì di lui: per quale altro motivo Virelai l'aveva portato in quel posto dimenticato dalla Dea se non per ucciderlo e impadronirsi della pietra? Il suo corpo non sarebbe stato scoperto per giorni e giorni: nessuno avrebbe mai saputo... Ma perché allora mandare via il grosso gatto? Una morte causata dagli artigli e dalle zanne di un animale selvaggio: quale alibi migliore per il mago? Non avrebbe dovuto far altro che lasciare che la bestia lo uccidesse e poi recuperare la pietra. Non aveva senso... la sua mente era ancora confusa. Ma di una cosa era sicuro: il ciondolo non doveva finire nelle mani di Tycho Issian. «Stai indietro!» gridò al mago. «Tu sei il servitore del Signore di Cantara e preferirei uccidere o morire io stesso piuttosto che permettere che questa pietra cada nelle mani di un uomo così malvagio.» «Non ho intenzione di farti del male» disse Virelai. «L'ultima cosa che voglio è che Tycho Issian abbia la pietra della morte. Quell'uomo è un pazzo, un mostro.» Saro fu piuttosto sorpreso da quelle parole... Ma chi poteva conoscere le perfide macchinazioni della mente di un mago? «Dammi la tua mano» esclamò all'improvviso. Virelai lo guardò con diffidenza. «Tu vuoi uccidermi» mormorò, indietreggiando. L'impazienza rese il giovane Vingo coraggioso. Prima che l'altro potesse allontanarsi, lo prese per un polso. Il contatto fu più forte di quello che avrebbe desiderato, più di quando si erano inavvertitamente sfiorati nel Salone delle Stelle. Il torrente di immagini che di solito lo assaliva quando toccava un altro essere vivente stranamente non si era manifestato in quell'occasione, ma ora Saro era determinato a scoprire quello che voleva. Stringendo i denti, piegò per la prima volta la pietra al suo volere. In principio non captò altro che echi, simili a bisbigli da una stanza lontana o a
brevi riflessi sulla superficie di un fiume tumultuoso... e poi un freddo, un terribile freddo che gelava le ossa. Ma Saro continuò, ignorando il gelo e concentrandosi sulle fuggevoli immagini. Con un tremendo sforzo ne isolò una e la esaminò. Era sbiadita e confusa, un debole ricordo, sottile come un filo di fumo: le ginocchia di un ragazzo magro premute contro un gelido pavimento e delle piccole mani che lucidavano, lucidavano... Un'altra: un uomo vecchio con un'immensa testa dai tratti marcati e una sontuosa barba, chino su un tavolo pieno di pergamene e oggetti diversi che lo cacciava via con una pioggia di insulti silenziosi; una mano che calava su di lui; brevi sprazzi di dolore. Fame e remote sofferenze; un'improvvisa fitta di solitudine; un dito tagliato che non sanguinava. Neve e ghiaccio dappertutto; fitte nebbie, un mare burrascoso. Pelle che veniva via in squame da un braccio ingrigito. Un cane nero, con la bava che gli colava dalle fauci. Una donna nuda, seminascosta da capelli lunghi, molto lunghi. Un gatto nero, grosso, poi piccolo. Tycho Issian, una folle luce nello sguardo, che lo colpiva selvaggiamente con una frusta. Poi vide se stesso, ingrandito dal terrore del mago fino a farlo apparire un uomo potente, che brandiva la pietra dell'umore accesa di una luce bianca... Saro interruppe il contatto e si accasciò a terra, sudato, tentando di dare un senso a ciò che aveva visto. Paura: tanta paura, di tutto e di tutti. Miseria e sconforto, dolore e tristezza; ma in mezzo a tutte quelle sensazioni non c'era neppure un accenno di cattiveria, macchinazione o minaccia. All'improvviso Virelai fu scosso da forti conati di vomito. Quando alla fine si calmò, dopo aver sputato un sottile rivolo di bile, s'inginocchiò, con le braccia strette penosamente intorno al corpo. Poi guardò verso Saro con aria di rimprovero e si ripulì la bocca col dorso di una mano, lasciando una viscida scia sul guanto. «Hai finito di frugare dentro di me?» chiese stancamente. Saro sospirò. «Mi dispiace» disse. «Dovevo assicurarmi che non fossi stato mandato per uccidermi e prendere la pietra. Io so cosa è capace di fare: ho visto il tuo padrone distruggere il mondo con essa.» Virelai sembrò scioccato. «Rahe? Non farebbe mai una cosa del genere, nonostante sia vecchio e bisbetico e si lamenti sempre della malvagità della gente.» «Rahe?» Quel nome gli era vagamente familiare, come se l'avesse sentito molto tempo prima. Ora gli sfuggiva, ma non aveva importanza; perciò chiese: «Chi è Rahe? Io pensavo che il tuo padrone fosse il Signore di Cantara.»
«Lo è ora» rispose tristemente Virelai. «Ma Tycho Issian è peggio del vecchio: è perfettamente capace di ridurre in cenere qualunque cosa gli impedisca di riprendersi la sua Rosa Eldi. Ecco perché ti ho condotto qui: per assicurarmi che non riesca a portarti via la pietra della morte e la usi per i suoi scopi.» La Rosa Eldi. La donna nomade che re Ravn Asharson d'Eyra aveva preso in moglie. Ma cosa aveva a che fare Tycho Issian con una creatura di così umili natali? All'improvviso l'immagine oscena che si era presentata a Saro quando il Signore di Cantare l'aveva abbracciato nella sala del Consiglio ritornò, luminosa, tra le precedenti visioni di carneficina: una donna alta e dalla pelle diafana, le gambe spalancate per ricevere... Si affrettò ad allontanare quella scena dalla sua mente: ormai il collegamento era fin troppo evidente. Ma davvero la semplice lussuria poteva spingere un uomo a compiere tali atrocità? Lui non l'avrebbe mai creduto possibile, ma era sempre stato così ingenuo... Dopo tutte le immagini che aveva visto nella mente sporca e caotica di suo fratello, non avrebbe mai più potuto dubitare della capacità di un essere umano di operare il male. Una verità più vasta gli si presentò ora nella sua evidenza, mentre compiva quel ragionamento. Era tutto talmente spaventoso che Saro si ritrovò stordito per la vergogna e l'orrore: vergogna per il suo genere e la sua razza, e orrore per il destino del mondo. Perché all'improvviso gli fu chiaro il motivo per il quale Tycho Issian aveva progettato quella guerra e aveva spinto tutto l'impero del Sud a saltare nuovamente alla gola dell'antico nemico: la sua lussuria. E il fatto che avesse invocato la Dea per ottenere il suo scopo dimostrava non solo l'assurdità della loro religione, ma anche la vendicativa stupidità e la credulità dei suoi compatrioti, capaci di lasciarsi affascinare dalle parole di un qualsiasi nobile che invocava quella che definiva una giusta causa, non importa quanto debole, artefatta o vuota, e di amplificare il loro odio cento, mille volte e poi ancora mille, finché le grida di guerra non si fossero levate in un'intera nazione. A migliaia sarebbero morti nell'imminente conflitto, e per cosa? Per l'ossessione di un folle per le parti intime di una donna. La sua pelle si infuocò, poi tornò fredda e madida di sudore, e Saro credette di essere sul punto di svenire. La pietra che portava intorno al collo poteva essere l'unica speranza per arrestare quella follia. Lui era un uomo pacifico e di natura mite, ma sapeva con assoluta certezza che doveva agire. La sua destra si posò sul sacchetto di pelle e sentì la pietra della morte pulsare arrendevole. «Per tutto quanto c'è di giusto e buono a questo mon-
do, Virelai, giuro che lo fermerò, con qualunque mezzo avrò in mio potere» disse, posando gli occhi sul mago. «E tu devi aiutarmi.» 23 Partenze Nelle isole del Nord non si era mai visto un inverno così bello. Banchi e banchi di aringhe venivano portati a riva dalle flotte di pescherecci di Baia della Sabbia e Isola del Cavallo; intorno alle coste di Isola Bella, dove di solito l'oceano spumeggiava e gorgogliava, creando pericolose correnti e infidi mulinelli, le acque erano così chiare che si potevano osservare gli sgombri muoversi nelle secche: persino i bambini nelle loro faering in miniatura e nelle loro barchette di vimini riuscivano a remare in quel tratto di mare e pescarli in tutta sicurezza, gettando una lenza dopo l'altra tra grida di gioia. Le balene si riversavano a riva percorrendo acque lisce come la seta, e la popolazione di foche prosperava. Giganteschi trichechi furono avvistati nello Stretto degli Squali, molto più a sud di quanto fossero mai stati visti prima. I bimbi crescevano col buon latte di mucca: vitelli e agnellini continuavano a nascere, anche fuori stagione. Gazze marine e urie si allineavano lungo le cornici delle scogliere a nord di Capo dei Lupi, una zona che di solito abbandonavano alla fine del nono mese per emigrare in regioni più calde. Il sole sembrava brillare più a lungo del solito in quelle giornate; ma forse era un'illusione causata dal fatto che tutti riuscivano a svolgere molto più lavoro di quanto si erano aspettati al risveglio, e lo facevano di buon umore, per di più. Nei giardini intorno al castello di Halbo le rose erano fiorite in tale profusione che il loro profumo pervadeva perfino l'aria nelle strade intorno al porto, coprendo i consueti odori dell'umanità che lo popolava. In seguito a un'inattesa fioritura, i frutteti fuori dal cancello occidentale della città produssero un secondo raccolto di mele. La gente delle isole del Nord fece festa e gioì: le dispense e i magazzini erano pieni, i loro figli in buona salute e la pancia della moglie straniera del re sempre più florida, tanto che sembrava che il tempo del bambino dovesse arrivare presto. Che importanza aveva se l'Impero del Sud aveva dichiarato guerra contro di loro? Tutti sapevano che gli Istriani non possedevano le navi adatte né l'esperienza per portarle attraverso l'Oceano del Nord e muovere loro battaglia. Che fremessero pure di rabbia e sollevassero un gran polverone: a Eyra
tutto andava per il meglio. Per i mercenari, invece, era una noia mortale. Era stato impossibile trovare del lavoro in gruppo, perciò si erano separati e avevano accettato quello che erano riusciti a ottenere. Di certo non erano i soli in quella situazione: tutta Halbo sembrava invasa da spade in vendita stufe di sbrigare commissioni e ingaggiare meschini duelli per nobili troppo incapaci o spaventati per combatterli di persona. Per la maggior parte del tempo i mercenari non facevano che azzuffarsi tra loro per incontri di cani, partite a carte, birra versata, alloggi e puttane spartite non equamente; per una parola fuori posto, i capelli del colore sbagliato o uno sguardo bieco. Fican lo strabico, il cui nome era fonte perenne di prese in giro, era stato coinvolto nelle risse così tante volte che alla fine aveva dichiarato che quella città era 'un buco puzzolente' e se n'era andato a Budella d'Orso, lungo la costa, con una faering che aveva 'preso in prestito' da Caldaio Jarn, il quale l'aveva ferito alla gamba la settimana prima. Con Joz Manodiorso e Doc che facevano da guardie del corpo a Erol Bardson, e Dogo che era stato visto l'ultima volta ubriaco fradicio e portato di peso da due floride prostitute al più schifoso bordello del porto e da allora non aveva più dato notizie di sé, Mam e Persoa erano rimasti praticamente soli. Erno al momento li stava guardando dalla parte opposta della fumosa sala superiore della Testa dell'Istriano - una locanda un tantino più salubre della Gamba del Nemico perché si trovava in posizione elevata sulla collina rispetto al porto, nel luogo in cui si diceva fosse atterrata la testa di uno degli Istriani squartati per ordine di re Sten - e per la centesima volta si meravigliava della strana coppia che formavano quei due. Mentre il capo dei mercenari era di corporatura robusta - un fisico imponente perfino per un uomo - Persoa aveva la costituzione flessuosa e asciutta della gente delle colline. Lei era bionda, lui scuro; mentre i capelli della donna erano ornati da una disordinata profusione di ciocche intrecciate con ossa e conchiglie, quelli di Persoa erano molto corti, ma sulla nuca aveva una lunga coda, ornata alle due estremità da sottili fasce d'oro, che gli arrivava a metà della schiena. Lei aveva lineamenti marcati e affilati, lui eleganti e cesellati; mentre gli occhi di lei erano blu, quelli di lui erano neri. Inoltre Persoa era il sicario più cortese e istruito che Erno avesse mai incontrato, mentre Mam... Le loro teste erano vicine e l'uomo aveva posato una mano su una gamba del capo dei mercenari mentre inclinava l'orecchio verso di lei per sentire cosa stava dicendo nel frastuono generale. Erno non riusciva a immaginare
che qualcuno potesse tornarsene a casa con tutte le dita al loro posto dopo aver compiuto un gesto del genere... e a nessun altro sarebbe mai venuto in mente di toccarla in quel modo. Minacciosa, scurrile e in possesso di una terrificante bocca di denti affilati, Mam non era certo il primo porto in cui un uomo sobrio e dalla vista buona avrebbe fatto scalo se fosse stato sopraffatto dalla lussuria; ma Persoa sembrava affascinato da lei. I due avevano iniziato a dividere la stessa stanza un paio di settimane dopo essere arrivati in porto, e da allora la donna sembrava sempre sorridente e disposta a scherzare, il che, come aveva detto Dogo, era un po' come guardare uno squalo farti l'occhiolino e sorridere prima di staccarti la testa, ossia maledettamente preoccupante e tremendamente innaturale. Come se avesse avvertito su di sé gli occhi di Erno, Mam sollevò immediatamente lo sguardo. Sorrise, poi disse qualcosa all'uomo delle colline, che gettò indietro la testa e rise. Erno si sentì sconcertato e vagamente irritato: cosa aveva fatto perché ridessero di lui? Poi il capo dei mercenari si alzò in piedi, posò una mano sul pesante tavolo di quercia che le intralciava la strada e lo superò con un agile balzo, atterrando con un tonfo che fece scricchiolare le assi del pavimento e versare la birra dalle caraffe dei tavoli vicini. Nessuno osò pronunciare una sola parola di protesta nonostante l'aria generale di ostilità causata dalla noia, tranne un uomo che, di spalle rispetto a lei, imprecò ad alta voce e si voltò con i pugni stretti, pronto alla lite. Erno guardò l'uomo allibire rendendosi conto del proprio errore, e lo vide tornare prontamente verso il proprio tavolo per concentrarsi con aria assorta sugli astragali sparsi di fronte a lui, come se il fatto che il suo lancio vincente fosse stato così sgarbatamente interrotto non fosse che un interessante dilemma su cui riflettere con molta attenzione. «Non possiamo starcene seduti con le mani in mano per tutto il giorno» annunciò allegramente Mam. «Abbiamo da fare.» Strizzò l'occhio a Persoa, poi si toccò un sopracciglio e il lato di una guancia. Erno vide l'uomo delle colline annuire e gesticolare in modo piuttosto complicato, poi dirigersi verso le scale di servizio come un serpente che si fa sinuosamente strada attraverso l'erba. Quando tornò a guardare in direzione di Mam, lei era svanita. Non cessava mai di meravigliarlo che una donna tanto robusta fosse in grado di muoversi così silenziosamente e con tale rapidità: un'ottima qualità in un combattimento corpo a corpo, ma meno utile quando si chiedeva a qualcuno di seguirti. Senza rifletterci troppo, Erno scelse la porta che conduceva agli alloggi, facendosi largo tra la folla con molta più circospezione di quella impiegata
da Mam. Non che fosse gracile, tutt'altro, perché era alto più della maggioranza dei presenti, ma non era una spada in vendita per professione né di natura, e preferiva evitare le risse ogni volta che poteva. Quando alla fine emerse dalla porta in fondo alla sala, trovò Mam ad aspettarlo con una smorfia di impazienza sul viso e un mucchio di armi addosso. Prima che lui potesse aprire bocca, la donna gli lanciò un sacco a pelo. Erno lo fissò con espressione idiota. «Forza» gli disse la donna. «Abbiamo un lavoro.» Giù ai moli trovarono il resto della banda già riunito: Joz Manodiorso, Doc, Dogo e Persoa... e circa una dozzina di altri uomini male assortiti, più una donna. Stavano tutti caricando un paio di faering con viveri e armi... un po' troppe per un equipaggio così piccolo, pensò Erno. «Cosa sta succedendo?» chiese in tono sospettoso a Mam. Il capo dei mercenari gli sorrise. «Be', questo dipende dalla persona a cui lo chiedi.» «Lo sto chiedendo a te.» Mam fece una smorfia. «Ti risponderò quando saremo a bordo.» «A bordo di cosa? E chi ti dice che abbia intenzione di lasciare la città, a piedi, a cavallo o su una maledetta nave?» «Non c'è molto da fare qui a Halbo, a meno che tu non voglia continuare a guardare un mucchio di nobili tracotanti e ambiziosi e di stupidi avventurieri che tramano alle spalle del nostro amato e inebetito re e dei suoi vecchi e inutili consiglieri.» Erno inarcò un sopracciglio. La differenza tra avventuriero e spada in vendita doveva essere piuttosto sottile. «Inoltre» continuò Mam «pensavo che avresti preferito andare a Rocciacaduta a trovare Katla Aransen piuttosto che startene qui senza far niente.» Erno guardò Mam così intensamente che la sua vista si annebbiò. Per diversi secondi il viso della donna fluttuò di fronte a lui, diventando sottile e abbronzato, e il sorriso malizioso fu sostituito da un altro molto più affascinante. Capelli rosso fuoco, corti e arruffati, presero il posto delle lunghe trecce bionde. Erno si sentì confuso, poi pieno di speranza, infine terrorizzato all'idea che la donna lo stesse deridendo crudelmente. Poi la paura si trasformò in rabbia. «Katla Aransen è morta alla Grande Fiera!» gridò disperato. «Io l'amavo e se non l'avessi abbandonata oggi sarebbe ancora viva. Eppure tu mi tormenti così! Ho sempre saputo che eri una donna dura, ma non ho mai pensato che fossi anche crudele!»
Il capo dei mercenari fu colto alla sprovvista da quello scoppio d'ira. Erno era sempre stato silenzioso e affidabile, un giovane cortese che probabilmente sarebbe stato abile nell'usare una spada in caso di necessità, ma che mai avrebbe creduto capace di reagire con violenza. Eppure ora le sue guance erano arrossate, gli occhi accesi di un'indecifrabile emozione... e sembrava pronto a colpirla in pieno viso. Mam fece giudiziosamente un passo indietro: il suo motto era evitare l'evitabile, e di certo non avrebbe giovato alla sua influenza sul resto dei suoi uomini se uno di loro l'avesse attaccata di fronte agli altri, soprattutto con le nuove reclute presenti. In quel caso avrebbe dovuto ferirlo, per lo meno; ma la delicatezza necessaria a infliggere una ferita leggera era una qualità che non aveva mai avuto: se provocata, era più facile che privasse un uomo di un braccio, o di una gamba... «Fermo lì!» Mam sollevò una mano, con le dita ben allargate. «Chi ti ha detto che Katla Aransen è morta? Si è un po' bruciacchiata, questo è vero; ma l'ultima volta che l'ho vista era vispa come un fringuello, e si beveva una 'Vecchia acqua di sentina' dopo l'altra insieme a noi altri alla Gamba del Nemico.» Erno ebbe un sussulto. «Come?» disse, e «Quando?» aggiunse in tono sospettoso. Mam fece un breve calcolo, poi si strinse nelle spalle. «Era a Halbo in visita a dei parenti, così mi ha detto, ma sapevo che era una fandonia. Stranamente il costruttore di navi del re è sparito poco tempo dopo. Un paio di mesi fa, mi pare. Ma che importanza ha?» Gli occhi di Erno si spalancarono come quelli di un bambino sperduto, poi il giovane cominciò a tremare. Per un istante Mam pensò che avrebbe addirittura pianto. Poi: «È viva» mormorò. «Viva.» «Metteteci un po' di lena!» La frusta schioccò una, due volte, e l'uomo gridò. Quando lo staffile tornò indietro, minuscole goccioline rosse volarono pigramente nell'aria prima di ricadere sulle tavole del ponte, dove si confusero con il colore della nave. La galea del padre del capitano Galo Bastido era stata attrezzata per la guerra in ossequio alle antiche tradizioni, che includevano dipingere le assi di un rosso ocra scuro, perché si diceva che, se si fosse impedito agli uomini di vedere il sangue che scorreva sui ponti in battaglia era meno probabile che fossero presi dal panico e si arrendessero. Il Bastardo avrebbe preferito che lasciassero il legno del suo colore naturale: la vista di un
po' di sangue non avrebbe fatto che giovare alla disciplina tra quegli schiavi non addestrati. Anche con l'uso generoso che faceva della frusta, non si muovevano in fretta quanto lui avrebbe voluto. Il tempo non li aveva favoriti: era stato mite, mentre un forte vento meridionale sarebbe stato di gran lunga preferibile. Da giorni, perciò, erano costretti a remare, e lui li faceva sudare anche di notte. Avevano perso solo due uomini: uno che in qualche modo si era liberato dai ceppi ed era saltato in mare mentre passavano a nord di Ixa, e l'altro che era caduto vittima di una qualche disgustosa malattia. L'avevano buttato loro in mare il quarto giorno, quando era ormai chiaro che non sarebbe migliorato e che avrebbe potuto infettare gli altri. Avere due uomini in meno era un problema: Bastido aveva pensato di fare scalo a Cera e arruolare a forza un paio di ubriachi. Ma avrebbe significato sprecare un altro giorno, ed era troppo difficile resistere alla sete d'avventura e all'attrattiva rappresentata dal resto del denaro promessogli dal Signore di Forent, per non parlare poi della fama e del successo che di certo lo attendevano al completamento della sua missione. Così aveva brandito egli stesso lo staffile a un'estremità della galea e aveva affidato la parte tra la poppa e mezzanave a Baranguet, un uomo tarchiato con le braccia piene di muscoli e pelose come quelle di una scimmia gilana e un pessimo carattere: una combinazione pericolosa, in altre circostanze. Quando sorrideva, la bocca che mostrava era quella di un topo di fogna, con tutti quei denti gialli e ricurvi. Baranguet fabbricava da solo le sue fruste e aveva persino termini diversi, che Bastido non aveva mai sentito prima, per indicare i vari tipi di colpo che si potevano infliggere. Era un individuo spregevole, ma piuttosto utile. Il resto dell'equipaggio era costituito per la maggior parte da uomini di Forent, prestati da Rui Finco in persona. Erano tutti originari delle coste settentrionali, omoni dalla carnagione scura abituati più al pattugliamento delle strade e a lavori di vigilanza che alla vita a bordo di una nave. Da questo punto di vista era un bene che il tempo fosse stato così clemente: la metà di loro aveva sofferto per giorni di mal di mare e persino gli schiavi ne avevano riso, finché Baranguet non aveva avuto campo libero. Ora un gruppo sedeva pigramente accasciato sul ponte di prua, a giocare con le pietre rosse e bianche del popolare passatempo delle puledre e degli stalloni; gli altri, probabilmente, si stavano facendo a turno le due puttane che avevano portato clandestinamente a bordo. Bastido disapprovava quel comportamento, non per le donne, ovviamente, ma perché quell'iniziativa
non autorizzata rappresentava una grave inosservanza della disciplina, tanto che aveva persino pensato di gettare le ragazze a mare per scoraggiare ogni ulteriore atto di ribellione, finché non aveva capito che molto probabilmente quel gesto avrebbe causato un ammutinamento. Ormai conosceva bene i suoi uomini: Pisto, il più scuro di tutti, che parlava raramente e aveva una brutta cicatrice lungo una guancia che gli sollevava un angolo della bocca in un ghigno crudele; Clermano, dai capelli brizzolati molto corti e che aveva un segno su un avambraccio per ogni uomo che aveva ucciso; Nuno Forin e suo fratello Milo, che sembravano trascorrere più tempo di chiunque sotto coperta con le donne e che chiacchieravano tra loro in un dialetto incomprensibile agli altri; il grosso Casto Agen, un uomo all'apparenza mite che aveva fama di aver vinto un migliaio di risse a mani nude prima di essere arruolata nella Guardia di Forent; tre guardapesca, Gaido, Falco e Breseno, che avrebbero dovuto sapere qualcosa di navi e navigazione, ma erano caduti preda del mal di mare più in fretta dei compagni; un paio di spadaccini originari della città di Forent, che si consideravano superiori a tutti gli altri e si tenevano in disparte; e Gasto Costan, la cui moglie l'aveva lasciato per suo fratello. Lui aveva portato il caso davanti ai sacerdoti delle Sorelle, e la coppia era stata catturata e messa al rogo, fatto che sembrava aver reso enormemente felice Gasto. «Ogni anno, quello stesso giorno, arrostisco un maiale» si era vantato allegramente. «Mi ricorda il loro odore.» Gli altri erano scoppiati in grasse risate. Galo Bastido, sedicente bastardo, si era invece scoperto, con sua grande sorpresa, assai disgustato dalla loro superficialità e ancora di più dalla propria reazione istintiva, che era stata di cacciarlo dalla nave il più in fretta possibile. Ma non erano certo bambinaie quelle che gli servivano per il suo scopo. Rivolgendo lo sguardo verso l'orizzonte lontano cercò qualche traccia delle isole eyrane, ma non ne vide. Otto giorni erano più di quanto avesse mai trascorso sull'acqua in vita sua, mentre ora lo aspettava quella vasta distesa di nulla. Era facile credere nell'esistenza di un dio protettore di questo elemento, un dio delle tempeste e dei venti e delle maree, un dio che popolava il suo regno di anime strappate ai naufragi e alle bocche di bestie marine. Dov'era la Dea, quando più serviva? E di che utilità potevano essere fuoco, cenere e un'orda di eleganti gatti dai denti affilati in un ambiente simile? Il Bastardo rabbrividì di fronte alle sconfinate profondità dell'Oceano del Nord sotto i suoi piedi, e sollevò ancora una volta la sua frusta.
Era bello sentire ancora l'aria frizzante dell'Oceano del Nord sul viso, il sangue scorrere nuovamente nelle vene, il proprio cuore battere di gioia. Non erano riusciti a partire dai moli di Halbo abbastanza in fretta, per i gusti di Erno Hamson: il giovane aveva camminato impaziente lungo il ponte per tutto il tempo e aveva imprecato ad alta voce quando qualcuno dell'equipaggio aveva versato delle granaglie da un sacco mentre cercava di portarlo a bordo, ma si era passato una mano sgomenta sul viso quando una pioggia di coltelli era caduta dal sacco subito dopo l'orzo, e per poco non si era precipitato sul molo ad aiutare a nascondere quell'illecito carico. «Sta' calmo!» Erno si voltò, ma non vide nessuno. Poi guardò in basso. L'ometto piccolo e rotondo, Dogo, era accanto a lui e sorrideva maliziosamente. «Non puoi mettere fretta al vento» gli si rivolse il mercenario in tono saggio. Era un detto che Erno non aveva mai sentito prima, nonostante sua nonna avesse usato con lui tutti i proverbi che esistevano al mondo e probabilmente ne aveva inventati di nuovi lei stessa. «La ragazza non andrà mica a male, sta' pur certo.» Erno fissò il piccoletto con severità. «Cosa ne sai tu di questa storia?» chiese a brutto muso. Dogo si toccò il lato del naso. «Tutto ciò che non so sulle donne è qualcosa che non vale la pena di sapere» dichiarò con modestia. «A ogni modo, chi altro vorrebbe una ragazza magra come un chiodo, con i capelli di uno scopettone da latrina e il temperamento di una belva in trappola?» E schivò il colpo di Erno con un'agilità stupefacente per un uomo così rotondetto. «Come mai lo sanno tutti?» chiese Erno in tono lamentoso a Mam quella sera, quando ormai si erano lasciati la costa Istriana alle spalle e la Stella del Navigante li guidava a nord da un limpidissimo cielo invernale. Mam scoppiò a ridere. «Joz ti ha visto con lei alla Grande Fiera» rivelò alla fine. «Ha notato che la guardavi, e si è accorto che vi baciavate fuori dal Raduno. È un tipo romantico, il nostro Joz.» Erno sentì che stava per arrossire furiosamente: un terribile calore gli si sprigionò nel petto, poi salì verso il collo e finì per fare delle sue orecchie dei grossi fari rossi. L'imbarazzo di essere stato visto era una cosa; ma la vergogna che ancora provava nel ripensare a Katla che l'aveva scoperto con il talismano d'amore che l'aveva spinta tra le sue braccia era ancor peggio. «Non è così» protestò. «Io... lei... non significava niente.»
Il capo dei mercenari gli posò una mano su un braccio. «È una ragazza stupenda, ma spietata, Katla Aransen» disse. «Sarà meglio che le mostri il tuo lato forte, quando la vedrai: non è tipo da aprire le gambe per un uomo... debole.» Mam scoppiò nuovamente a ridere e lo lasciò a chiedersi cosa intendesse esattamente con quella parola. Più tardi, quella notte, Erno giaceva sul ponte nell'oscurità, avvolto in un sacco di pelle di pecora per proteggersi dal freddo, e ascoltava i mercenari che parlavano a bassa voce nel codice da loro ideato per non farsi intendere da eventuali ascoltatori indiscreti. Lui lo conosceva abbastanza da seguire la discussione, anche se non capiva i dettagli più complicati. Sembrava che fossero riusciti a farsi dare il denaro per la spedizione, inclusa la nave, le paghe dell'equipaggio e il carico, da due diverse fonti, il conte di Capotempesta ed Erol Bardson, e per due scopi completamente diversi. Bardson era stato indotto a credere che sarebbero andati alle Isole Belle e all'Insenatura del Lupo che e avrebbero fatto leva sul malcontento popolare per armare gli insoddisfatti con ciò che portavano nascosto nei sacchi di grano. I ribelli sarebbero poi tornati con loro, sarebbero sbarcati sulla costa e avrebbero marciato via terra per entrare a Halbo dal cancello settentrionale nove notti dopo, quando nel cielo non ci sarebbe stata la luna. Erno sorrise suo malgrado, immaginando l'antipatico Bardson che aspettava invano nella notte buia, sognando la sua futura incoronazione. Con un po' di fortuna, pensò Erno, sarebbe stato colto con le mani nel sacco vicino al cancello e giustiziato da traditore, come meritava. Il conte di Capotempesta, invece, aveva più speranze di ricavare un qualche profitto dal suo investimento, considerato che il suo piano si confaceva ai progetti delle spade in vendita, o meglio, al capriccio di Mam di riunire Erno con Katla Aransen e guadagnarci anche un bel sacchetto di cantari. Il loro compito? Riportare a Capotempesta il costruttore di navi, Morten Danson, che la gente di Rocciacaduta aveva rapito sotto il naso del re. Se Ravn Asharson, che aveva visto troppo poco del mondo, non era interessato alla guerra dichiarata dall'Istria contro di loro, Capotempesta, che invece aveva visto fin troppo, sembrava determinato a prendere in mano la situazione. Il vecchio si era già mosso per rinforzare la flotta del Nord: con Danson a sovrintendere alla costruzione di nuove navi non solo avrebbero potuto difendersi dall'attacco, ma anche portare le armi e la paura sin nel cuore dell'Impero Istriano. Era davvero un'ironia della sorte, rifletté Erno, che i piani di Mam dovessero coincidere con il bene dell'Eyra: in base ai valori con cui era stato
cresciuto, i mercenari erano gente senza principi, senza patria, dei banditi indegni di fiducia. Eppure si sentiva stranamente a suo agio in loro compagnia: non gli chiedevano mai più di quanto poteva dare e nel tempo che aveva trascorso insieme a essi aveva trovato così tanta pace e gioia come non avrebbe mai creduto possibile. Era vero che in quel periodo i loro incarichi erano stati meno ignobili del solito, ma anche in questo modo non poteva fare a meno di trovarli simpatici. Si sollevò su un gomito e tirò fuori un pezzetto di corda rossa dalla sacca che stava usando come cuscino. Lo tenne in mano per alcuni minuti, poi cominciò ad annodare recitando: «Questo è per Mam dai denti affilati, la più feroce, non teme il nemico, anche se il suo cuore è irto di spine grande è la gioia di essergli amico.» Fece una pausa, poi riprese: «Questo è per Joz Manodiorso, branditore di draghi, uomo possente, fiero nel guerreggiare, allegro e amabile tessitore di racconti... Chi mai della sua giustizia potrà dubitare?» Doc si rivelò più difficile, perché Erno aveva trascorso meno tempo in sua compagnia e l'aveva trovato alternativamente arcigno e molto poco cordiale o tremendamente sbronzo e loquace dispensatore di ogni genere di inutili informazioni. Non riusciva a trovare niente che gli piacesse per descriverlo, ma alla fine si decise per: «Questo è per Doc, così alto e severo, miniera di coraggio, cervello poderoso mite e gentile, ma abile guerriero, spadaccino provetto e grande studioso. «Questo è per Dogo, il piccolo, lo sciocco, nessuno nel bere a batterlo riuscirà. Temibile col pugnale, dispensatore di morte, grandi risate a tutti elargirà.»
A questo punto si fermò, perché sentì su di sé gli occhi penetranti di qualcuno: quando alzò lo sguardo, scoprì che Persoa lo stava fissando intensamente, con la testa leggermente inclinata, come un rapace che scruta un topolino. Poi l'uomo delle colline fece calare una palpebra in una lenta e deliberata strizzatina d'occhio e sollevò il piffero che aveva in bocca. Seduto a gambe incrociate, illuminato dalla tremula luce del fuoco, era identico al disegno dell'uomo-capra che Erno aveva visto in un libro di pergamena rilegata acquistato da un venditore al mercato di Isola del Cavallo, intitolato La canzone della fiamma e che raccoglieva molte antiche leggende e racconti del Sud. All'improvviso le sue dita si misero di nuovo in movimento. «Persoa l'assassino, l'uomo tatuato come Panios seduto il suo flauto a suonare. Eldianna, mago, enigma del passato, grande sacerdote, il futuro può divinare.» Erno guardò la corda e si accigliò. Non aveva idea del perché avesse praticato quegli ultimi nodi... Era come se le sue dita fossero state spinte a muoversi. Si precipitò allora ad avvolgere la corda intorno a una mano e poi tornò a ficcarla nella sacca, posandoci sopra la testa come a voler interrompere quel sapere in cui si era involontariamente imbattuto. Quella notte faticò a prendere sonno. E quando si addormentò, sognò Katla Aransen, anche se si era ripromesso che non l'avrebbe fatto. 24 Fantasmi Riuscirono a rimettere a posto la spalla di Pol Garson, ma le sue grida laceranti spaventarono persino gli albatri appollaiati sull'albero della nave, e quando fu fasciato l'osso rotto sotto il gomito il pover'uomo svenne. «Non ci sarà più di alcun aiuto» disse a bassa voce Urse Orecchiomozzo, asciugandosi le mani bagnate di sudore sui pantaloni di pelle che coprivano le enormi cosce. Aran Aranson annuì distrattamente. Avevano perso cinque uomini nella tempesta: Haki Ulfson, Marit Fennson, un uomo biondo di cui non era mai
riuscito a ricordare il nome e due giovani fratelli provenienti dalla parte meridionale dell'isola. Vigli e Jarn Forson. Non aveva idea di cosa avrebbe detto alla loro madre quando, e se, fossero tornati a Rocciacaduta. Gli uomini morivano in mare fin troppo spesso, ma perdere due figli insieme era una disgrazia terribile. Guardò il resto dell'equipaggio affaccendarsi per la nave, riparando le cime, assicurando la vela, riversando in mare l'acqua che fuoriusciva dalle sentine, e passò brevemente in rassegna nella sua mente coloro che erano sopravvissuti. Tor Bolson e Fall Ranson a prua; Emer Bretison, Gar Felinson e Flint Hakason che sollevavano la vela fradicia per lasciarla asciugare in quel poco di brezza che ancora spirava; gli uomini di Isola Nera che avevano efficientemente organizzato una fila da mezzanave a poppa per passarsi i secchi d'acqua; Erl Fostison e un paio di ragazzi di Rocciacaduta che legavano le sagole che si erano sciolte. Guardò Mag Linguadiserpente e un ragazzo della costa est fare un inventario delle scorte per accertarsi di cosa fosse stato portato via dall'acqua durante la tempesta, e all'improvviso gli tornò davanti agli occhi una vivida immagine di quei momenti: Haki che agitava disperatamente le braccia e svaniva tra i flutti... La sua morte era una perdita per tutti loro, perché quell'uomo originario delle Isole Occidentali aveva più conoscenza dei mari artici dell'intero equipaggio; Aran contava sulla sua abilità per attraversare in tutta sicurezza le infide regioni ricoperte di ghiaccio che avrebbero di certo incontrato da lì fino a Santuario. Senza Haki la loro sopravvivenza sarebbe dipesa interamente dalla capacità di giudizio del capitano e da quello che la mappa avrebbe scelto di mostrare loro. La mappa. Aran toccò il sacchetto impermeabile sotto la camicia come per cercare una rassicurazione, anche se sapeva, dal costante calore che sentiva sulla sua pelle, che la mappa all'interno era ancora intatta. Le sue dita cominciarono a pulsare mentre si posavano su di essa, e una corrente di calore gli percorse tutto il braccio per andare a sciogliere i muscoli tesi del suo collo, tanto che per un istante fu come se un sole d'estate avesse fatto la sua comparsa da dietro le nubi e l'avesse rinfrancato con il suo calore. Sentendosi stranamente ottimista, il Signore di Rocciacaduta scrutò l'orizzonte per cercare un qualche segno di terra, sicuro che il mondo stava per rivelargli uno dei suoi segreti. A nord e a est il cielo era screziato di un giallo luminoso cosparso di rosso. Non era il bel cielo limpido che ogni marinaio avrebbe sperato di vedere dopo una burrasca, ripulito dal vento di tempesta e che suggeriva bel tempo e buoni venti a venire: sembrava promettere
altri guai, e ben più gravi dei precedenti. Era come guardare nell'occhio iniettato di sangue di un toro infuriato. Aran distolse lo sguardo, allarmato, e all'improvviso si chiese dove fosse suo figlio. Una fitta di terrore lo prese allo stomaco quando si rese conto che non aveva mai visto Fent durante gli eventi della notte passata; non ricordava di averlo scorto legato al capo di banda o a un braccio o a un sedile dei rematori, né ad aggottare con gli altri dopo la tempesta. Voltandosi lentamente scrutò in lungo e in largo: niente. Dell'unico figlio che gli era rimasto non c'era traccia. Stringendo i denti per combattere il panico, si incamminò verso poppa guardandosi intorno. Gli uomini che si trovarono addosso i suoi penetranti occhi si affrettarono a distogliere lo sguardo e ad affaccendarsi nei loro compiti, perché c'era qualcosa di così pauroso nel suo aspetto che faceva venire loro in mente i racconti delle nonne sui troll e gli spiriti degli alberi. A mezzanave Mag Linguadiserpente, dimostrandosi più coraggioso o più sconsiderato degli altri, lo fermò posandogli una mano su un braccio. «Abbiamo perso i barili d'acqua, signore.» Aran si bloccò, incassando questo nuovo colpo. «Tre su quattro.» Mag fece una smorfia. «Pensavo fossero ben assicurati, ma la corda deve essersi impigliata in qualcosa di tagliente e si è spezzata...» Sollevò le estremità sfilacciate per mostrarle al capitano. Gli occhi di Aran saettarono sui pezzi di corda. Il Signore di Rocciacaduta fece un profondo respiro e il cuoco trasalì, preparandosi all'aspro rimprovero che di certo sarebbe seguito. Ma l'altro proseguì per la sua strada, scuro in volto. Il ragazzo della costa est sbucò fuori da dietro il cuoco e guardò Aran Aranson attraversare la nave. «Ma ti ha ascoltato?» chiese con ansia. Era il suo primo viaggio e si sentiva in colpa, anche se nessuno avrebbe potuto prevedere che la corda si sarebbe rotta in quel modo. Mag Linguadiserpente si strinse nelle spalle. «Se non ordinerà a Urse di tornare indietro e di portarci all'isola più vicina sapremo che non mi ha ascoltato.» Ma il Signore di Rocciacaduta, invece di fermarsi a parlare con il suo enorme luogotenente che era al suo solito posto al timone, proseguì fino a poppa senza neppure voltarsi. «Per le palle di Sur!» Mag serrò la mascella come per prepararsi a ricevere un pugno e si mise in marcia dietro il capitano.
Nel cuore della tempesta aveva battuto la testa contro uno dei sedili dei rematori, e mentre il mondo aveva cominciato ad annebbiarsi intorno a lui, gli era sembrato di udire una voce che lo chiamava... La morte sta arrivando, ma non per te. lo sto venendo da te, o tu da me. Tutto andrà bene, tutto si sistemerà. Poi gli aveva detto molte altre cose, più di quante lui ne volesse sentire, finché non aveva creduto di essere sul punto di impazzire e poi aveva desiderato che fosse davvero così. Il gigante, il folle e lo sciocco da me, portali da me. Quell'ultima frase aveva continuato a ronzargli in testa mentre rotolava dolorosamente sotto la faering in preda al forte vento di burrasca, distorcendo tutto ciò che credeva reale. Quando la luce lo illuminò all'improvviso, fu come un dolore fisico al centro della testa. Chiuse gli occhi e gridò... «Blaterava di morte, di folli e di sciocchi» riferì Mag al capannello di uomini radunati intorno al pentolone quella sera. «Non chiedetemi perché. Ha sbattuto la testa, piuttosto forte, è tutto quello che so: ha un bernoccolo grosso come un uovo d'anatra su un occhio.» «Gli sta bene» ringhiò Tor Bolson. «Imboscarsi in quel modo. Bella prova andarsi a nascondere sotto la scialuppa quando ci serviva l'aiuto di tutti. Proprio da figlio del capitano. Stolto di un ragazzo.» «A me sembra che siamo noi gli stolti, per non averlo gettato in mare quando ne avevamo la possibilità» intervenne Erl, leccandosi la ferita sul braccio dove Fent l'aveva morso. «Prima che suo padre si accorgesse che l'avevamo trovato.» «Sì, è più viscido di un serpente» convenne Flint. «E per di più ora è matto come un cavallo.» «Tieni bassa la voce» esclamò preoccupato Emer, guardando verso il punto in cui il Signore di Rocciacaduta stava chino su suo figlio, a prua della nave. «Dicono che quelli del clan dei Rocciacaduta abbiano strani poteri.» Flint Hakason fece una smorfia di disprezzo. «Non raccontare sciocchezze.» Ma Erl intervenne nuovamente. «Hanno arrostito Katla Aransen alla Grande Fiera e il suo braccio era avvizzito e bruciacchiato come un pezzo di carbone, ho sentito dire; ma poi è tornata sana come un pesce in un batter d'occhio. Non penserai che è normale.» «Ma quello è stato grazie alla seither che è andata a trovarla» dichiarò
Tor con sicurezza. Erl Fostison si fece il segno dell'ancora di Sur. «Porto sicuro» mormorò per scongiurare il male. «I seither portano sfortuna. Secondo me quella donna ha bagnato la chiglia del Lungo Serpente con il sangue, come fece Ashar Stenson con il Troll di Narth.» «Sì, be', in quel caso io non mi lamenterei,» disse allegramente Flint «dato che il Troll è tornato sempre intero dai suoi viaggi.» «E poi» aggiunse uno degli abitanti di Rocciacaduta «la seifher è scomparsa ben prima che fosse costruita la chiglia.» «Ah, sì» convenne Erl con voce cupa. «Ma vi siete mai chiesti dove sia andata a finire?» Se avevano sperato che il Signore di Rocciacaduta ordinasse di tornare a cercare provviste e un porto sicuro, sarebbero rimasti delusi. Ostinato come non mai, Aran Aranson ridusse le razioni d'acqua a una tazza al giorno. «Potrai bere il tuo piscio, se le cose cominciassero ad andare male» ringhiò a Flint Hakason quando l'uomo osò lamentarsi della scarsa saggezza di quella decisione. «Oppure puoi sempre saltare in mare e prendere una balena di passaggio per farti riportare a casa.» Erme, che aveva l'intelligenza di una gallina, si burlò del pessimo carattere di Flint e si mise a pescare dei pezzi di ghiaccio dall'acqua, stringendoseli avidamente al petto. Gar Fostison tentò di ragionare con lui, ma Flint lo prese per un braccio. «Lascia che lo scopra da solo» fu il suo unico commento. «Non lo imparerà in nessun altro modo.» Non era solo il fatto che l'acqua stava finendo. Due quarti di manzo, un barilotto di pane duro e tutto il formaggio erano stati immagazzinati nella scialuppa che era andata persa in mare durante la burrasca. Mag Linguadiserpente calcolò che se avessero razionato le scorte avrebbero avuto cibo sufficiente da arrivare a destinazione, ammesso che il vento avesse tenuto; ma le provviste non sarebbero state abbastanza per il viaggio di ritorno, a meno che la famosa isola di Santuario non contenesse altri tesori più utili del freddo oro. Decise però di tenere quell'informazione per sé, dal momento che il capitano difficilmente avrebbe accolto con gioia tali notizie, e cominciò invece ad allungare gli ingredienti dello stufato giornaliero finché l'equipaggio non iniziò a sostenere che sapeva di acqua di sentina. Per tre giorni i venti soffiarono forti e incessanti, come se Sur stesso dimostrasse la sua approvazione per la follia di Aran. Poi cessarono all'im-
provviso, e il mare divenne liscio e piatto come una tavola e il sole si fece strada tra gli strati di nuvole, mantenendo la temperatura molto più alta di quanto chiunque si sarebbe aspettato. Il ghiaccio era poco più di un tappeto galleggiante, fragile come una trina: mentre remavano, il Lungo Serpente scivolava rapido come in mezzo a semplici lenticchie d'acqua in uno stagno. Passarono accanto al corpo di una balena, con la pelle screziata di grigio e bianco e il lungo muso che spuntava dall'acqua. Gli uomini toccarono i loro amuleti e si fecero il segno dell'ancora, perché era risaputo che un avvistamento del genere non era di buon auspicio per nessuna spedizione. Ci furono parecchie discussioni su un eventuale ammutinamento, ma nessuno aveva il fegato di organizzare una vera e propria rivolta; così continuarono a remare. Il quarto giorno si trovarono in una nebbia così fitta che a malapena si riusciva a capire se era notte o giorno. Senza poter vedere il sole o le stelle, la luna o la terra o qualsiasi altro punto di riferimento per stimare la posizione, era impossibile avanzare. «Con un po' di fortuna» confidò Fall Ranson al suo compagno di remo «torneremo a Rocciacaduta, dopo tutto.» Quando il terzo giorno la nebbia non si fu ancora diradata, Aran si lasciò commuovere e permise all'equipaggio di riposare. Si avvolsero tutti nelle loro pelli di foca e di pecora e si distesero come grasse crisalidi lungo tutto il ponte. Qualcuno dei ragazzi più giovani giocò agli astragali; i più vecchi si misero a intagliare il legno e intrecciarono corde di preghiera per le loro mogli... se mai le avessero riviste. Urse fu il solo a rimanere al suo posto al timone, come una figura scolpita nel granito. Fu durante quel periodo di riposo che Fent, fino a quel momento delirante, si riprese un poco. Un attimo prima le sue pupille erano dilatate e inondavano i suoi occhi di una luce violetta, e un attimo dopo erano tornate del loro normale colore, il blu di un cielo d'inverno o quello argenteo di un coltello appena affilato. Il ragazzo si mise a sedere. Sorrise, mostrando i bianchi e affilati denti da cane tra la rossa fioritura della barba. «Stanno arrivando» disse. Ma quando suo padre insisté per sapere cosa intendesse, non fu in grado di spiegarsi. Poco tempo dopo, il Signore di Rocciacaduta avvertì qualcosa che gli solleticava il polso. Infastidito, agitò la mano e la sensazione passò. Trascorsero alcuni minuti e sentì un lieve ronzio. Ancora una volta percepì una leggera pressione, un prurito. Guardò in basso.
Comodamente posata sul dorso della sua mano, a pulirsi tranquilla le zampette anteriori, c'era una grossa mosca nera. Aran batté le palpebre e la fissò, ma l'insetto non fece alcun tentativo di fuggire. Il Signore di Rocciacaduta impiegò qualche istante per rendersi conto di cosa significava la presenza di quell'insetto, poi alzò lo sguardo, sbalordito, ma esaltato. Terra: dovevano essere vicini alla terra. La mosca volò via, il corpo pesante e le ali che battevano lente nell'aria gelida. «Cosa?» chiese Urse bruscamente. «Cosa c'è?» «Un moscone della carne» disse Aran, esterrefatto. «Era un moscone della carne.» «Impossibile.» L'omone scosse la testa, incredulo. «Come possono esserci delle mosche qui fuori? È troppo freddo, troppo isolato.» Ma ora tutti riuscivano a sentire quel suono: un basso ronzio che echeggiava nei timpani, vibrava nei tendini del collo e riverberava nel cranio. Poi la nebbia si aprì di colpo. L'intero equipaggio rimase pietrificato. Gli astragali caddero rumorosamente sul ponte e nessuno guardò il punteggio che avevano dato; i coltelli si fermarono a mezz'aria sopra gli ossi di balena e le zanne di tricheco; gli aghi restarono sepolti nella pelle e nella lana. Tutti fissarono a bocca aperta l'imbarcazione che virava verso di loro. Silenziosa e agghiacciante, emerse dalla nebbia come una nave fantasma. Il legno della sua chiglia era diventato d'argento per il ghiaccio incrostato; intorno all'albero c'erano filamenti di bianca brina. Cosa la spingesse ad avanzare era impossibile da dire, perché non c'erano rematori né vele sul pennone, a parte pochi laceri resti. Veniva verso di loro con la prua in avanti, facendo sfoggio della polena a forma di testa di drago dalla bocca spalancata; ma nessuna voce li salutò mentre le due navi si avvicinavano, solo quel basso ronzio che si faceva sempre più forte e sembrava paralizzarli tutti. Quando fu a pochi metri di distanza, Aran Aranson balzò in piedi, come per rompere l'incantesimo. «Attenti alla nave!» gridò, e afferrò un remo. Accanto a lui, Urse Orecchiomozzo fece altrettanto. Gli uomini sul ponte si riscossero e li imitarono. Il legno grattò sul legno mentre l'equipaggio del Lungo Serpente cercava di allontanare il vascello che stava per colpirli. Alla fine la nave argentea si fermò oscillando, mentre le onde ornate di ghiaccio dell'Oceano del Nord sbattevano silenziosamente contro i suoi fianchi. Come tante statue di ghiaccio, gli uomini rimasero in attesa, i remi sospesi a mezz'aria come armi, anche se nessuno
aveva il coraggio di immaginare sotto quale forma avrebbero potuto materializzarsi i nemici. Tutti avevano sentito parlare di navi fantasma, storie agghiaccianti di vecchi marinai nelle taverne del porto, di zii dallo sguardo smaliziato, grossi tatuaggi e un dubbio passato, di bardi e teatranti che viaggiavano per le isole e raccoglievano e abbellivano le narrazioni tramandate da dieci generazioni di uomini di mare troppo in là con gli anni per far altro che spaventare i giovani inesperti intenzionati a fare fortuna attraversando l'oceano. Racconti di navi governate da camminatori della notte affamati di carne e di anime dei viventi, cadaveri ingrossati, anneriti e pieni di gas e di spiriti maligni che si trascinavano sul ponte scricchiolante delle loro imbarcazioni in cerca di qualcosa da lacerare e distruggere. Navi abbandonate senza alcuna ragione in mari calmi e cieli sereni, il loro sartiame pronto per una burrasca, le vele gonfiate dal vento, i barili di birra scoperchiati per la razione serale. Storie di navi immense governate da equipaggi di scheletri, le ossa bianche che sbattevano mentre remavano verso riva... «Tenetela ferma!» Aran Aranson era un comandante coraggioso, avrebbero detto i suoi uomini in seguito: o forse avventato, ma in ogni caso il tipo di capitano che chiunque avrebbe voluto, che governava con l'esempio invece di mandare altri a compiere ciò che non aveva il coraggio o la voglia di fare da solo. Così il Signore di Rocciacaduta, con un grande balzo, si ritrovò sul ponte di una nave chiamata Drago Bianco, costruita senza ombra di dubbio (ma Aran stava per accertarsene, pur con crescente timore) nello stesso cantiere navale che lui aveva razziato per creare il Lungo Serpente, una nave con un rompighiaccio installato nell'inconfondibile stile di Morten Danson, allestita dunque con le stesse specifiche e lo stesso scopo della sua. Aran si raddrizzò sul ponte che ondeggiava, lottando contro la paura che gli lacerava il petto come un lupo affamato. Il ronzio ora lo circondava. Era difficile pensare con un rumore del genere, difficile mantenere un piano d'azione o un minimo di razionalità. Aveva una gran voglia di tornare di corsa al sicuro sulla sua nave e lasciare quello spaventoso scafo vuoto a vagare tra le nebbie. Ma sapeva che non poteva permettere che quel mistero rimanesse irrisolto. Non poteva, per pura curiosità morbosa ma anche perché doveva assolvere al suo dovere di capitano verso i suoi uomini, che avrebbero chiesto a lui rassicurazioni e risposte, e verso le famiglie e gli amici dello sfortunato equipaggio di quella nave, cui avrebbe dovuto ripor-
tare le cattive notizie. Preparandosi al peggio, sollevò la testa. Ciò che vide in un primo momento fu piuttosto bizzarro e sconcertante: una nera coperta in movimento sembrava nascondere ogni cosa. Impiegò diversi istanti per comprendere la natura di quella coperta, e quando capì fu travolto da un'ondata di nausea e cominciò a correre per il ponte, agitando le braccia e gridando fino a perdere la voce. I mosconi si sollevarono riluttanti in una grossa nuvola nera e rimasero sospesi nell'aria a pochi centimetri dal loro banchetto, pronti a posarsi nuovamente quando il fastidioso baccano fosse cessato. Ma una volta intravisti gli orrori nascosti dal loro iridescente mantello, il Signore di Rocciacaduta si rese conto di non poter permettere agli insetti di tornare a posarsi. I resti dell'equipaggio del Drago Bianco giacevano sparsi in piccole cataste per tutta la nave, alcuni con le mani sopra la testa come a proteggersi dagli assalitori, altri raggomitolati su se stessi come bambini in preda a un incubo. Ciò che rimaneva delle gambe di un altro paio di persone spuntava dall'unica scialuppa rovesciata della nave. I mosconi ricoprivano barili e casse, secchi e carcasse ormai spolpate di pesci, foche e pecore. Sedevano pomposamente sulla fronte prominente di un cranio di bue e si ripulivano le zampe. Grosse larve strisciavano attraverso le orbite e i fori dove una volta c'erano nasi prominenti; spuntavano dagli spazi tra affilati denti bianchi e da costole appuntite. Un delicato scheletro, raggomitolato su se stesso come una vespa morta, indicava la dipartita del gatto della nave, e non appena notò quel particolare, Aran Aranson seppe con terrificante certezza a chi doveva appartenere l'imbarcazione. L'aveva già sospettato dalla struttura stessa del vascello, ma c'era solo un uomo che conosceva che insisteva per andare dovunque con il suo gatto, un enorme animale rossiccio dai denti affilati e dal pessimo carattere verso chiunque a parte il suo padrone. Una volta che l'iniziale ondata di orrore cominciò ad affievolirsi e riuscì a trattenere il fiotto di bile che minacciava di risalirgli lungo la gola, Aran si mise a girare per tutta la nave alla ricerca del suo capitano. Ma come avrebbe fatto a riconoscerlo in mezzo a quel patetico miscuglio di ossa e gialli tendini sfilacciati? C'era veramente poco che distinguesse quei poveri fardelli su cui la morte aveva così ignominiosamente posto la sua mano. Mentre si chinava per esaminare ciascun cadavere, Aran si rese conto con sorpresa che il puzzo era meno forte di quanto si sarebbe aspettato. C'era una cosa da dire a favore dei mosconi della carne: erano davvero efficienti nel disfarsi delle carogne. Avevano infatti divorato ogni parte molle con
tale voracità e in modo così esperto che dei morti non rimanevano che i tendini più duri e i capelli sulla testa. Fu dalle lunghe trecce bionde che alla fine riuscì a identificare Fenil Soronson, appoggiato contro il timone come in un estremo tentativo di sfuggire al disastro; dalle lunghe trecce e dal caratteristico collare di sardonica che aveva comprato all'ultima Grande Fiera e che portava intorno al collo nello stile dell'Impero, con grande disdoro dei suoi compatrioti, che l'avevano preso in giro senza pietà per essersi ricomprato un po' di quella pietra preziosa che lui stesso probabilmente aveva venduto alla Grande Fiera l'anno prima e per averla pagata un centinaio di volte il suo valore solo per farsela lucidare e intrecciare con nastri di cuoio: in pratica era solo una costosa chincaglieria istriana. Con mani tremanti Aran gliela tolse dal collo e la fece scivolare nella propria scarsella. Fu più difficile identificare Hopli Garson, perché il piccoletto era già quasi calvo, anche prima del ripetuto scempio degli insetti; ma alla fine trovò un cadavere la cui mano destra, ridotta a un desolato insieme di ossa e cartilagine, stringeva il pomo di un'arma fabbricata senza ombra di dubbio da sua figlia Katla. Aran ricordò che quell'uomo l'aveva comprata al mercato di Isola del Ghiaccio tre anni prima: era stata una delle prime armi vendute da Katla e lei era stata entusiasta di aver ottenuto un buon prezzo da Hopli spiegandogli con dovizia di particolari quanto tempo era stato necessario per creare quella complessa combinazione di metallo e cristallo sull'elsa. Era un bel pezzo. Il cuore di Aran si strinse nel vederlo, e per un istante i suoi pensieri volarono lontano da quel terribile posto, verso Rocciacaduta, dalla sua complicata figlia e dall'ancor più complicata moglie, e si chiese se le avrebbe mai più riviste o se il suo destino era di restare lì in eterno, su quel silenzioso e freddo oceano, le sue bianche ossa esposte alla luce della luna e gli occhi vuoti a fissare per sempre nella nebbia. Con un brivido scacciò quell'agghiacciante immagine e si concentrò su ciò che doveva fare. Allentando la stretta del morto sul pomo del pugnale, tanto che le ossa sbatterono rumorosamente l'una contro l'altra e poi caddero sul ponte, Aran prese l'arma e se la infilò nella cintura. Poi continuò la sua tetra perlustrazione della nave. Impiegò un tempo indefinito per portare a termine quella terrificante impresa. A un certo punto qualcuno lo chiamò dal Lungo Serpente, chiedendogli se gli serviva aiuto, ma Aran ignorò quella voce e andò per la sua strada, cacciando a calci le mosche, calpestando le cascate di pallide larve che uscivano dappertutto, prendendo mentalmente nota della disposizione
dei corpi e del modo in cui i remi erano stati tirati in barca e le cime legate. Prestò particolare attenzione all'allineamento delle carcasse che trovò a mezzanave, girandole con una smorfia di disgusto con il piede e guardando morbosamente rapito le larve che sbucavano fuori a frotte, riversandosi sui suoi stivali. Aran le raschiò via con il pugnale e continuò impassibile. Alla fine tornò verso il lato di dritta del Drago Bianco. L'equipaggio del Lungo Serpente lo stava aspettando sulla sua nave, tutti erano allineati lungo il capo di banda in modo tale che il vascello era pericolosamente inclinato. Lo guardavano con occhi sgranati, in attesa che parlasse. Nessuno voleva porre l'inevitabile domanda. Poi Pol Garson ruppe il silenzio. L'uomo stringeva il braccio ferito al petto e lo fissava, convinto che il dolore che provava avesse creato un legame speciale con il suo capitano, come tra commilitoni che combattono fianco a fianco in battaglia. Quel pensiero gli diede il coraggio di aprire bocca, domandando a bassa voce: «Cosa avete trovato, signore?» «Tutti morti» rispose Aran con voce piatta. «Dal primo all'ultimo.» Ora che il silenzio era stato spezzato, come dell'acqua che prorompe da una diga, l'intero equipaggio cominciò a parlare. «Non ci sono sopravvissuti?» chiese un uomo, e «Di chi era questa nave?» gridò un altro. «Cosa gli è successo?» La voce di Urse Orecchiomozzo era più roca di quella degli altri e rimbombò attraverso lo spazio vuoto tra lui e il suo capitano. I suoi occhi si posarono sull'albero privo della vela, sulle sartie sfilacciate, sulle raccapriccianti forme visibili anche attraverso la fitta nebbia. Le mosche ripresero a posarsi. Aran afferrò un remo, lo fece roteare selvaggiamente e ne gettò in mare quante più poté. Urse rabbrividì. «Non è una cosa naturale» disse, esprimendo i pensieri di tutti i presenti. «Mosche in tale abbondanza, e in luogo del genere. Non dovrebbero riuscire a sopravvivere in una regione così settentrionale.» «C'è stato un caldo fuori stagione» replicò Aran, sapendo comunque che non poteva essere l'unica spiegazione. Anche lui aveva percepito qualcosa di innaturale lì, qualcosa che lo faceva rabbrividire. I ricordi di antichi racconti di negromanzia, di seither e di magia del sangue l'avevano accompagnato a ogni passo che faceva su quella maledetta nave. Ma non aveva intenzione di parlarne con il suo equipaggio: i marinai erano più superstiziosi delle vecchie comari... Posò lo sguardo su Gar Fenilson. «Mi dispiace, ragazzo» disse, e vide il volto del giovane impallidire. «È la nave di tuo
padre, e lui è morto.» Alzò la voce in modo che tutti potessero sentire. «Questa è la nave di Fenil Soronson e Hopli Garson» dichiarò, e aspettò che l'equipaggio digerisse la notizia prima di continuare. «È il Drago Bianco, che avevano commissionato a Morten Danson nell'ottavo mese...» Agli uomini quella notizia non piacque affatto: in fondo la nave su cui si trovavano era una gemella di quella fantasma, dalle linee ugualmente eleganti e un rompighiaccio costruito alla stessa maniera. Se un vascello del genere era andato incontro a un così terribile destino, perché anche il loro non avrebbe dovuto tradirli? Ignorando il mormorio delle voci che si levarono tra i suoi uomini, il Signore di Rocciacaduta continuò: «Devono aver organizzato la spedizione con troppa fretta, perché non hanno prestato l'attenzione dovuta alla qualità dei loro rifornimenti. Qualcuno gli deve aver venduto della carne avariata. Le mosche che vedete di certo erano già nella carne sotto forma di uova, poi si sono trasformate in larve e alla fine hanno divorato tutto, i rifornimenti, le sartie, la vela... un pasto davvero prelibato per loro. A giudicare dalle condizioni della nave, direi che la vela era già stata mangiata prima che la tempesta ci colpisse, che erano già in ben altri reami quando è scoppiata la burrasca...» E qui gli uomini strinsero le loro ancore portafortuna e sussurrarono delle preghiere. Aran Aranson indicò i corpi sparsi per il ponte. «Chiunque di voi avesse il coraggio di salire a bordo di questo luogo di morte noterebbe che non c'è un solo stivale intatto da nessuna parte... E quale buon Eyrano si priverebbe volontariamente dei suoi stivali? Non c'è vento che io conosca in grado di togliere le scarpe a un uomo: no, sono state le larve, glieli hanno mangiati addosso. L'intera nave doveva esserne invasa.» Urse era sbalordito. «Ma come può essere? Quale uomo sano di mente permetterebbe che accada una cosa del genere?» Aran si strinse nelle spalle. «L'equipaggio molto probabilmente era già indebolito dall'aver mangiato carne avariata. Parecchi sembrano essere morti nel sonno; altri ai remi, come se avessero tentato invano di allontanarsi dal destino che ormai li aveva nella sua morsa. Ma non hanno avuto fortuna: le uova hanno continuato a schiudersi, le larve hanno continuato a uscire e quando erano belle grasse hanno preso la loro forma definitiva e hanno ripulito ciò che era rimasto.» Immaginò lo stato in cui si era trovato il Drago Bianco: i ponti brulicanti di larve, un giallo tappeto strisciante che divorava qualunque cosa sul suo cammino. Reso esausto dalla malattia e dalla sfortuna, l'equipaggio era
caduto in preda alla pazzia, un triste e volontario declino verso la morte... e poi gli avidi vermi avevano banchettato con la carne dei cadaveri. Aran Aranson rabbrividì e sperò che gli uomini dell'equipaggio della nave di Fenil Soronson fossero già tutti morti quando le creature avevano cominciato i festeggiamenti. Con il girocollo di Fenil nella scarsella e il pugnale di Hopli Garson alla cintura, Aran saltò dalla nave fantasma per tornare sul suo vascello. «Tu e tu!» gridò rivolto a Fall Ranson e al ragazzo della costa settentrionale. «Fate delle strisce con la tela da vela rimasta e bagnatele in olio di balena. Date fuoco alla nave. Forza, sbrigatevi!» I giovani corsero a obbedire a quell'ordine, seguiti da Tor Bolson ed Erl Fostison, lieti di avere un'occasione per spezzare la terribile tensione dell'attesa e delle brutte notizie. A quel punto le mosche stavano già cominciando a emigrare sul Lungo Serpente. Gli uomini imprecarono contro quelle sporche creature, le schiacciarono, le calpestarono, spinti da un istintivo disgusto, cercando di non pensare ai poveri marinai di cui si erano cibati, fino a poco tempo prima. Era comunque molto difficile credere che un pugno di insetti e di larve potesse portare un tale caos, e riuscisse a prendere una nave fiera e potente come la loro, governata da uomini ugualmente forti, e ridurla a una bara che galleggiava senza meta in quel nebbioso limbo, lontano dalla vista e dalla protezione di Sur. Aran accese le torce avvicinandole dal braciere. «Spingetela lontano» gridò, e gli uomini fecero leva sul Drago Bianco con i remi. Quando furono a distanza di sicurezza, il Signore di Rocciacaduta lanciò due torce fiammeggianti, una con ciascuna mano. Le torce rotearono nell'aria, sprizzando scintille, poi caddero con un tonfo sordo sul ponte dell'altra nave. Immediatamente Aran ne lanciò altre due, per essere certo del risultato. Per diversi momenti non accadde nulla. Forse non c'era rimasto niente di infiammabile sul Drago Bianco con cui alimentare il fuoco... L'equipaggio del Lungo Serpente trattenne il fiato. Poi una linea di fiori rossi sbocciò attraverso il ponte e su per l'albero, e tutti gli uomini esultarono. Per mezz'ora continuarono a remare, seguendo il movimento della nave in fiamme grazie all'alone di luce cremisi che si allontanava lentamente a poppa nella nebbia; poi anche quello scomparve. 25
Tra i nomadi Seguirono l'enorme felino per quasi tre giorni su terreni rocciosi, lungo sentieri costellati da cespugli spinosi e su corsi d'acqua asciutti. Costeggiarono foreste di pini e boschetti di ulivi, villaggi abbandonati con le case diroccate coperte di sabbia e rampicanti. Di notte un pungente odore di resina scendeva dalle colline e li avvolgeva; di giorno tutto era polvere e calore, e si udiva solo il respiro di Messaggero della Notte che arrancava dietro di loro a testa bassa e con il bagaglio sulla groppa. Avanzarono pieni di timore lungo il fianco di dirupi, su stretti sentieri ingombri di sassolini che precipitavano nel vuoto a ogni passo; si arrampicarono cautamente su pile di massi e scivolarono lungo i pendii sassosi dall'altra parte; furono assaliti da zanzare accanto all'acqua e da mosconi dove l'acqua non c'era; furono scottati dal sole sul viso e sul collo, graffiati da spine e rovi, riempiti di vesciche dalla sabbia che entrava loro nelle scarpe. Per tutto il tempo il grosso felino saltellò spensierato davanti a loro, con le enormi zampe flosce e rilassate, deviando di tanto in tanto per esaminare un odore alla base di un albero o all'ingresso di una caverna di calcare, prima di continuare ad avanzare come rassicurato sull'esattezza del loro cammino. Mentre camminavano, Saro tentò di fare conversazione con l'uomo pallido, ma questi sembrava preoccupato e distratto. Fu solo quando si imbatterono in un uccellino che si dibatteva a terra con un'ala selvaggiamente strappata (da Bëte o da qualche altro predatore?) che Virelai mostrò una qualche traccia di sensibilità, chinandosi per esaminare la creaturina con genuina preoccupazione. «Dovremmo porre fine ai suoi tormenti» disse Saro con voce pacata. Virelai rivolse il viso verso il suo compagno. C'era un tale dolore nella sua espressione che sembrava sentisse dentro di sé l'agonia dell'uccello. Saro gli porse una pietra, ma il mago indietreggiò e si rifiutò di prenderla, perciò alla fine il ragazzo si fece coraggio e compì il gesto lui stesso. Entrambi rimasero a fissare il corpicino, e quando si alzarono la luce illuminò gli occhi chiari di Virelai, che brillavano di lacrime non versate. «È stato meglio così» mormorò Saro. «Non potevamo lasciarlo in quel modo: sarebbe stato crudele.» Il mago chinò la testa. «So che hai ragione, ma non riuscirei mai a farlo. Ho sofferto abbastanza io stesso da voler evitare di infliggere coscientemente dolore ad altri, per quanto giusta possa essere la causa.» Poi si fermò, come ricordando qualcosa. Alla fine dichiarò: «Ogni creatura ha il
diritto di vivere, non importa com'è venuta a questo mondo.» Saro non era del tutto sicuro di come dovesse interpretare quella frase. Condivideva quell'idea, ovviamente, ma gli sembrava preoccupante trovarsi d'accordo con un personaggio così strano. «Tu come sei venuto a questo mondo?» gli chiese alla fine. «Non ne ho memoria.» Saro rise. «Neanch'io, se è per questo!» Il mago sembrò rinfrancato. «Davvero?» «Dubito che molti se ne ricordino.» Virelai rifletté per un po'. Poi proseguì: «Il Padrone mi ha detto di avermi trovato da piccolo tra le montagne del Sud, abbandonato su un promontorio roccioso sotto le stelle a vivere o morire, secondo il volere degli spiriti. Per caso lui mi vide e mi portò alla sua fortezza per crescermi come suo.» Era più una litania che un vero e proprio racconto: Virelai aveva ripetuto esattamente le stesse parole che Rahe aveva usato tutte le volte che glielo aveva raccontato. Quelle frasi erano ormai scolpite nella sua memoria, ma gli sembravano ugualmente vuote e prive di significato, una semplice sequenza di suoni, perché non aveva immagini nella sua mente ad accompagnare le parole. E non aveva mai scoperto perché il Padrone vagasse per quelle terre desolate dove l'aveva trovato: Rahe era sempre stato molto evasivo in proposito. «Stavo viaggiando verso nord» era tutto quello che gli aveva detto; ma se il suo apprendista gli chiedeva da dove era partito cambiava invariabilmente argomento. «Che crudeltà.» Virelai annuì. «L'ho pensato spesso anch'io, soprattutto quando lui mi trattava con durezza. Sarebbe stato meglio se mi avesse lasciato dove mi aveva trovato cosicché i lupi e le aquile potessero darmi in pasto ai loro piccoli.» Saro era scioccato. «No, no! Mi riferivo alla gente delle colline.» Anche se il fatto di avere Tycho Issian come padrone doveva essere stato senza dubbio il motivo per cui il mago stava fuggendo da Jetra nel cuore della notte. «Ah.» Virelai rifletté per qualche istante. «Mi hanno detto che gli albini sono considerati portatori di cattiva sorte.» Poi si raddrizzò, si spolverò la tunica grigia e si guardò attorno, sconsolato. «Di certo non mi sembra di portare molta fortuna.» «Tu credi nella fortuna?» «Il Padrone diceva sempre che ogni uomo costruisce da solo la propria
fortuna: se è così, devo essere stato un pessimo artigiano.» Il gatto, Bëte, sbucò dagli alberi davanti a loro. Sembrava irritato, come se avesse avuto a che fare con dei cuccioli distratti e incapaci di tenere il passo. Quando si fermò, si mise a fissare prima uno poi l'altro, cercando di capire cosa fosse successo; poi guardò a terra verso l'uccello, annusandolo per capire da quanto tempo era morto. Alla fine con un colpo di zampa lo gettò in aria: la sua bocca si richiuse sul piccolo animale e una pioggia di piume si sparse tutto intorno. Un istante dopo Bëte ricominciò a camminare. Saro e Virelai si guardarono, poi si misero le bisacce in spalla e presero le redini del cavallo. La terza notte videro una spirale di fumo salire dalla valle sotto di loro; il gatto si accosciò e cominciò a pulirsi il viso con assorta concentrazione, leccandosi una zampa e poi strofinandosela sul muso finché il suo pelo non brillò e i baffi non si rizzarono. Da ogni linea del suo corpo Saro riusciva a cogliere i sentimenti senza bisogno della muta conversazione che sembrava intercorrere tra l'animale e il mago. Bëte sembrava allo stesso tempo orgogliosa e indifferente, come se avesse portato a compimento in maniera soddisfacente il compito che si era prefissa e stesse lasciando la parte più facile del lavoro a quegli stupidi umani che l'accompagnavano. «Pensi che siano loro?» chiese Saro a Virelai mentre scendevano lungo la ripida collina il più silenziosamente possibile, nei limiti consentiti dalla notte buia e dal sentiero non battuto. «Se non sono loro» rispose Virelai in tono imbronciato «e se quella maledetta creatura ci ha portato per ben tre giorni fuori strada per qualche perverso senso dell'umorismo felino, giuro che la scuoio con le mie mani e vendo la pelle al prossimo mercato che incontreremo.» Era davvero un campo nomadi, però: una sgangherata accozzaglia di carri riuniti insieme sotto un boschetto di miseri alberi come un gruppo di vecchie al riparo dalla pioggia. Nella radura un gruppetto di yeka, quelle pelose creature delle pianure che tiravano i veicoli, brucavano senza lamentarsi un minuscolo campo di erba rinsecchita, mentre la gente della carovana sedeva a breve distanza intorno ai resti di un fuoco ridotto ormai a un mucchio di tizzoni bluastri. «Hanno cercato di mascherare il loro fuoco con la magia» sussurrò Virelai. «Ma non sono riusciti a eliminare il fumo. Devono essere esausti, o indeboliti in qualche modo.» Si avvicinò comunque con cautela: nessuno era ben disposto verso dei
visitatori che arrivavano inaspettati a un'ora così tarda e, se avevano predisposto delle difese magiche, non voleva finirci dritto in mezzo. Non fecero in tempo a percorrere pochi metri nello spiazzo che una figura si staccò dal gruppo e corse verso di loro. Era un bambino, notò Saro sorpreso, e poi, ancora più sbalordito, riconobbe in lui quello con cui si era scontrato alla Grande Fiera quando aveva portato il denaro di Tanto a Guaya. «Falo!» disse Virelai, anch'egli sorpreso. «Come hai...» Il bambino dalla carnagione scura rise. «Sono tre giorni che vi osservo. È impossibile nascondermi qualcosa» si vantò. «Dov'è il gatto?» Virelai e Saro si scambiarono uno sguardo, ma prima che uno dei due potesse dire una parola, il piccolo stava già guardando dietro di loro e sorrideva felice, gli occhi sgranati. Un'enorme sagoma nera comparve alle loro spalle e un forte brontolio risuonò nell'aria come il rombo di un tuono. «Bëte!» gridò il bambino, cadendo in ginocchio per abbracciare la creatura. «Bëte, sei tornata!» Mentre il bambino compiva quel gesto all'apparenza folle, arrivò una donna, gridando, «Falo, Falo, vieni via! Per Elda, cosa pensi di fare?» La nomade riuscì in qualche modo a inserirsi tra suo figlio e la mostruosa bestia nera, che non diede segno di voler mangiare nessuno dei due, ma li guardò entrambi con apparente magnanimità. Falo si divincolò dalle braccia di sua madre. «È Bëte» insisté, come se lei fosse volutamente lenta di comprendonio. «Vedi, Bëte e Virelai sono tornati.» La donna lanciò al felino un altro sguardo sospettoso, poi, come se avesse deciso che non c'era immediato pericolo, si voltò per esaminare i nuovi arrivati. «Alisha» disse il mago, allargando le braccia in un gesto di supplica. «Mi dispiace, non avevamo altro posto dove andare. Il gatto ci ha condotto da voi.» La nomade lo studiò col viso privo di espressione, come se stesse valutando la veridicità di quell'affermazione, ma non parve sospettare alcuna ambiguità. Fissando invece con un certo timore la grossa bestia nera, pose la domanda che Saro moriva dalla voglia di fare da giorni. «Come può questo mostro essere il piccolo gatto nero che conoscevo come Bëte? Che magia è mai questa, Virelai?» Il mago chinò la testa. «Non so come lo faccia, o perché» ammise. «Non ho alcun controllo su di lei.» La nomade tacque e, quando risollevò la testa, Virelai la vide fissare la
bestia, con la bocca spalancata per lo stupore, gli occhi persi nel vuoto e illuminati da una strana luce. «Alisha...» Fece un passo verso di lei, preoccupato che potesse essersi sentita male per lo spavento, ma la donna tese un braccio con il palmo della mano aperto. Anche se non aveva parlato, il gesto era chiaro: stai indietro, non toccarmi! L'aria tra loro sembrava carica di solennità, ma allo stesso tempo sembrava che una normalissima conversazione si stesse svolgendo nel più completo silenzio. Un attimo dopo l'incantesimo si ruppe. Alisha si passò una mano sul viso come per riprendersi da uno shock e barcollò tra le braccia di Virelai. Saro notò il modo in cui il mago la strinse, e il fatto che lei non si staccò immediatamente. C'era chiaramente un qualche tipo di rapporto tra i due, anche se non aveva idea di quale fosse la sua esatta natura. Qualcosa di più dell'amicizia e meno della completa fiducia era quanto di meglio riusciva a cogliere, ma non sembrava sufficiente. Dal momento che i bambini raramente rispettano i momenti più intimi, fu Falo a infrangere il silenzio. «Mamma, vedi? Avevo ragione, no?» Ma la donna parve non comprendere quelle parole, e si limitò a far cenno a Virelai e Saro di precederla e a richiamare il cavallo, che si era liberato delle briglie e li aveva seguiti in tutta tranquillità, come se fosse curioso quanto Saro di vedere cosa sarebbe successo. Saro guardò sbalordito lo stallone, famoso per la sua diffidenza, il suo carattere imprevedibile e i denti affilati, che strofinava il muso contro la mano della donna e li seguiva attraverso la radura fino al fuoco da campo ormai spento e ai volti incuriositi che li attendevano. I nomadi diedero loro da mangiare: uno stufato caldo con granturco e radici e qualcosa di gommoso e identificabile solo come un altro alimento di origine vegetale, il tutto insaporito con timo e salvia e servito insieme a pane duro, piatto e rotondo che veniva cotto tra le pietre poste sotto il fuoco. Saro fu sorpreso di trovarlo delizioso, cresciuto com'era con una dieta ricca di carne e pane soffice. E anzi, non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva consumato un pasto che non fosse a base di carne... costolette di agnello e fette di montone, cosce di pollo e anatra, paté di fegato d'oca pressato, bistecche di manzo appese finché non diventavano morbide e frolle, cacciagione e cervi, conigli e lepri, succulenti pesci del fiume Marita, sanguinacci di maiale pieni d'aglio. Quando ne parlò ad Alisha, lei rise e disse qualcosa nella cadenzata lingua degli Erranti che fece ridere anche
il resto del gruppo. Saro li guardò perplesso, non sapendo se si stavano prendendo gioco di lui o semplicemente si univano all'allegria generale. Erano un gruppo variegato, non l'esotica e selvaggia carovana di teatranti e intrattenitori che Saro aveva segretamente sperato di incontrare; e Guaya non era tra loro. Anzi, non c'erano altri bambini oltre al piccolo Falo. C'erano invece due vecchi con teste simili a noci tostate e anelli alle orecchie, e un gruppetto di donne così simili nell'aspetto da essere senza dubbio sorelle, con un'età variabile tra i cinquanta e gli ottantacinque anni: Saro non era abituato a guardare le donne in faccia, perciò gli era difficile giudicare. Erano tutte ugualmente scure di carnagione, rugose e segnate dal sole, e adornate con intricati giochi di perline e catene, tatuaggi e fori ingioiellati... nelle orecchie, al naso, sulle labbra, sulle sopracciglia e solo la Signora sapeva in quale altro posto. Indossavano brandelli di stoffa multicolore, portavano conchiglie e piume tra i capelli bianchi, e tutte sibilavano e facevano schioccare la lingua quando ridevano, il che accadeva molto spesso. Non parlavano una parola dell'Antica Lingua. Erano gente di un altro mondo per Saro, ma gli piacevano immensamente, anche se non aveva idea del motivo. Alisha era la più giovane. Quando sorrise a Virelai, Saro provò un'inattesa fitta di invidia per il mago. Aveva un viso generoso, con zigomi ampi e labbra carnose, e occhi di uno straordinario blu-verde che spiccavano come due gemme sulla sua pelle dorata, che era di diverse tonalità più chiara di quella del resto del gruppo. «Noi non mangiamo le creature di questo mondo» gli rispose alla fine la donna. «Noi dividiamo lo spazio vitale equamente con loro come nostri compagni e vicini: sarebbe strano divorare i propri amici, non credi?» Aveva usato la parola 'strano', invece di 'sbagliato', notò Saro, come se non volesse giudicarlo, ma semplicemente offrirgli una sua considerazione, invitandolo a riflettere sulla questione. E in effetti Saro si rese conto di non averci mai pensato molto, a parte quei brevi momenti di dispiacere che provava nel vedere un coniglio o un cervo morente quando andava a caccia sulle colline con suo padre e suo fratello; se invece non vedeva da dove proveniva la carne, la mangiava con piacere e senza particolari remore. Ora però avvertiva un po' di vergogna. Gli piacevano gli animali, ed era buono con loro: i gatti della villa venivano sempre da lui a strofinare il muso sulle sue gambe e a cercare le sue carezze; i cani gli correvano intorno festosi, esortandolo a giocare con loro; i puledri lo seguivano per il recinto, che portasse o meno le carrube che amavano tanto. E dal momento
che i cuochi non gli avevano mai servito piatti fatti con carne di gatto, cane o cavallo, lui non aveva pensato a quello che stava mangiando. L'idea di un animale che soffriva per fornirgli un pasto lo mise improvvisamente a disagio. Sotto la tunica, la pietra dell'umore cominciò a lampeggiare di un rosso purpureo come un secondo cuore, pulsando attraverso la sacchetta e la tela sottile della sua camicia. Come spaventati da un suono improvvisò, tutti smisero di parlare. Gli anziani lo guardarono con curiosità; le donne chinarono la testa all'unisono e fecero dei gesti strani. «Eldistan» disse qualcuno nel silenzio. Alisha strinse gli occhi come se stesse cercando di ricordare qualcosa. «Eri tu allora!» esclamò alla fine. «Alla Grande Fiera...» Si portò le mani alla bocca, tentando di arginare il torrente di parole. Saro la fissò, sgomento. «Cosa hai visto?» Qualcosa nella sua espressione angosciata probabilmente la commosse, perché aggiunse con maggiore delicatezza, «Ero con mia madre, che Elda accolga la sua anima. Stavamo guardando gli eventi della fiera nel nostro cristallo. Come visore non è sempre perfetto e a volte sembra avere una volontà tutta sua, ma quel giorno ci stava mostrando il presente invece di darci visioni del passato o del futuro. Vedemmo te, in mezzo a quel caos, che andavi in giro come un cieco. Eri diretto verso la ragazza sul rogo, quella così piena di forza vitale che l'unico modo che gli uomini dell'Impero potevano avere per distruggerla era bruciarla. In mano stringevi la pietra dell'umore che porti al collo ed essa brillava attraverso le tue dita come un fuoco; ma poi» Alisha si interruppe, aggrottando la fronte confusa nel tentativo di ricordare tutti i dettagli di quell'evento lontano «sembrò esserci una strana rifrazione nel cristallo. Non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo, ma era come se tu fossi venuto in contatto con qualcos'altro, qualcosa di magico, e poi la eldistan prese vita. Da essa cominciò a brillare una luce bianca, una luce di morte...» «Io non volevo ucciderli» disse con semplicità Saro, ricordando gli incubi in cui gli apparivano sempre i tre uomini che aveva toccato con la pietra e che cadevano ai suoi piedi, gli occhi bianchi e privi di vita. «Non sapevo neppure cosa stavo facendo...» Poi si bloccò, perplesso. «Cosa vuol dire 'la eldistan prese vita'?» Guardò Virelai, da cui aveva sentito per la prima volta quel termine, ma il mago si strinse nelle spalle. «La maggioranza delle pietre dell'umore ha pochi poteri, allo stato naturale» spiegò Alisha. «Ma alcune hanno proprietà ben più grandi. Di queste
proprietà alcune sono latenti e non mostreranno mai il loro pieno potenziale. Una pietra della morte...» fece un respiro profondo. «Si dice che solo la Dea possa creare una pietra della morte. Essa diviene la depositaria della sua magia primitiva, la magia selvaggia.» Saro la fissò, la bocca completamente riarsa. «La Dea? Falla?» «Falla, la Signora, Uno dei Tre, la Madre... Ha molti nomi.» «Ma com'è possibile che una dea, la Dea, se ne vada in giro per la Grande Fiera senza che nessuno lo sappia?» gridò Saro, improvvisamente irritato. «Sono solo favole per bambini.» Accanto a loro l'enorme gatto distese le rosse fauci in uno sbadiglio che si trasformò in un gridolino acuto, piuttosto simile a una risata. Alisha tese la mano e accarezzò Bëte dietro le orecchie e sulla fronte. Il gatto strofinò la testa contro il suo palmo, strinse gli occhi in due fessure dorate e fece le fusa. Quando Alisha sollevò lo sguardo, gli occhi di lei erano dello stesso colore di quelli del gatto. «Siamo tutti dei bambini a questo mondo» mormorò. «Comprendiamo così poche cose... anche per me è così. Fino a ora.» Poi fissò Virelai, e nel suo sguardo c'era affetto e comprensione. «Mio caro,» disse con voce roca «tu sei stato fortunato, sai? Perché la donna che viaggiava con te è la Rosa Eldi, la vera Rosa del Mondo: lei è il fiore del cuore di Elda, la Signora in persona.» Virelai batté le palpebre, perplesso. Poi aprì e chiuse la bocca come un pesce fuori dall'acqua, ma senza produrre alcun suono. «E Bëte...» Saro all'improvviso capì e rimase senza fiato. «Ma certo: Bëte... L'antica parola per 'bestia'! L'ho letto in uno dei libri della biblioteca di mio padre. Deriva da 'Bast', che è il nome di...» Il suo cuore mancò un battito quando comprese le implicazioni di ciò che Alisha andava affermando. «Vuoi dire che anche il gatto è uno dei Tre? E la donna...» Vide nuovamente l'oscena immagine di lei nella mente di Tycho Issian... Tutti i nomadi cominciarono a parlare contemporaneamente. Le anziane si avvicinarono per accarezzare l'enorme felino, che si rovesciò sulla schiena e fece le fusa, deliziato. Saro si sentiva disorientato, sconvolto. Com'era possibile che fosse vero? All'improvviso tutto gli sembrava instabile, incerto, come se qualcuno gli avesse rivelato che la sua vera casa era la luna o che gli sarebbero cresciute le ali e le corna e avrebbe cominciato a parlare tutte le lingue degli uomini. Trasformazione e magia... Non erano certo questi i concetti alla base del mondo in cui era cresciuto, un mondo
nel quale era più importante vendere un uomo a buon prezzo come fosse un cavallo, o adorare quotidianamente una divinità che nessuno avrebbe mai visto né, la Signora non voglia, toccato. Sembrava che anche Virelai avesse delle difficoltà a digerire quell'idea. «Lei è una dea?» Il termine aveva poco significato per lui. Nel minuscolo mondo di Santuario, Rahe era stato il suo unico signore e padrone, la divinità di tutto quanto aveva creato. In quel mondo non c'era spazio per una dea. «Non una dea» disse con gentilezza Alisha. «La Dea. Elda incarnata. Uno dei Tre: la personificazione della magia del mondo.» «E il gatto è un altro?» Fissò Bëte con sospetto, come se l'animale avesse architettato tutta quella situazione a suo vantaggio, semplicemente per guadagnarsi le attenzioni di quel gruppo di poveracci. «Allora Sirio è il terzo?» Fu Saro a chiederlo. «Sirio, Sur; il Signore e l'Uomo: sì.» Fu un nuovo shock per il ragazzo. «Ma Sur è il dio della gente del Nord. Non capisco. Come possiamo credere tutti nelle stesse divinità eppure odiarci così tanto?» Alisha tradusse quell'ultima frase per il resto del gruppo; tutti annuirono, sorrisero e si portarono la punta delle dita al petto e alla fronte. «Dicono che sei un giovane molto saggio,» spiegò Alisha «perché sei andato dritto al cuore del problema.» «Ma non ho risposte a questa domanda.» «Forse non c'è una risposta» replicò Alisha. Rifletté per un momento. «Forse non c'è neppure una domanda.» «Non capisco come può essere una dea» li interruppe Virelai, irritato per l'assurdità di quella storia. «Una dea deve avere potere. Gli antichi libri dicono che i Tre crearono Elda e hanno il potere di ricreare il mondo giorno dopo giorno; ma se la Rosa Eldi ha tali facoltà, allora come ha fatto Rahe a renderla sua schiava? Perché non ha usato il suo potere per difendersi? Perché ha viaggiato con me tutti quei mesi, lasciando che gli uomini l'avessero quando volevano? Perché è andata a nord con il re barbaro? Non riesco a capire.» Sembrava sconvolto, sbalordito, assolutamente incredulo. «Potere» ripeté Alisha. «Che cos'è il potere, mi chiedo io? È la capacità di difendere se stessi o gli altri e nel farlo nuocere al prossimo? È far sì che tutti eseguano il proprio volere? È strutturare il mondo secondo i propri desideri, anche se non è così che gli altri lo vorrebbero? Non lo so. So solo che per generazioni la mia gente ha creduto che i Tre fossero perduti, ed è
per questo che le nostre facoltà si sono affievolite; ma qualcosa è cambiato negli ultimi mesi. La magia è tornata. La magia selvaggia: il dono della Dea.» In quel momento, una delle donne più anziane andò da Alisha e le posò una mano su un braccio. Poi sorrise a Saro e a Virelai e rivolse loro delle parole nella lingua dei nomadi. Alla fine tornò a sedersi con un cenno soddisfatto del capo. «Elida capisce il vostro idioma, ma non parla bene l'Antica Lingua» spiegò Alisha. «Ha detto che in passato non c'era alcuna linea di separazione tra uomini e animali, tra la gente e la terra. La nostra natura, la nostra essenza, sono le stesse: noi eravamo incompleti gli uni senza gli altri. I Tre insieme, Uomo, Donna e Bestia, formano un essere unico e perfetto, e ciascuno di noi contiene in sé il meglio e il peggio di loro, e di tutte le cose che ci sono al mondo. Lei dice anche che il potere che abbiamo è conoscere noi stessi, amare e accettare il mondo, lasciarlo fluire in noi e intorno a noi e dare il meglio di noi stessi in cambio. È il potere di essere come i Tre, l'assoluta espressione di noi stessi in tutto ciò che siamo, in tutto ciò in cui crediamo e in tutto ciò che facciamo. Noi tutti in questo modo creiamo il mondo, scegliendo chi siamo ed essendo una parte di tutte le cose. «Elida è un'anima antica: ha visto molto. Mi piace ascoltare quello che dice: sono sempre cose su cui vale la pena di riflettere.» Saro infatti rifletté su quelle parole per diverso tempo. Alla fine osservò: «Quello che lei dice mi sembra riferito più alla felicità che al potere.» Alisha sorrise. «E se fossero la stessa cosa?» Il giovane si accigliò. «Non capisco cosa significa questo per me, per tutti noi.» La nomade fece un ampio gesto per abbracciare tutti. «Tutti noi dobbiamo trovare la nostra strada» replicò con semplicità. «E ciascuno da solo.» Saro si posò la testa tra le mani. Inquietanti pensieri si agitavano nella sua mente, come falene intorno a una candela. Lui sapeva chi o cosa era? Non era neppure sicuro di chi fosse suo padre, né se la sua origine facesse o meno differenza per ciò che riguardava la sua essenza, qualunque potesse essere. Ogni volta che cercava di pensarci, il suo intero essere gli sembrava farsi amorfo, impalpabile, vago. Si sentiva staccato dal mondo, invece che una parte di esso; una persona senza radici, isolata. Il punto era che gli riusciva difficile considerarsi abbastanza importante da avere un io che potesse essere pienamente espresso. In quel momento si sentiva solo il portatore della eldistan, la pietra della morte: un uomo destinato a essere
una pedina nelle mani degli altri. Provò un'improvvisa disperazione. «Credo che se lasciassi fluire il mondo intorno e dentro di me, come dici tu, senza fare niente, non ne verrebbe fuori che un immane disastro.» Sollevò lo sguardo come se sperasse che Alisha potesse rassicurarlo del contrario. «Sai, ho visto un futuro nel quale la mia pietra cadrà nelle mani di un uomo malvagio che la userebbe per distruggere ogni cosa. Lui sta incoraggiando la guerra tra i popoli di questo mondo per poter avere la Dea per sé.» Si interruppe, e rifletté ancora. «Ma non può sapere chi o cosa è! Nessuno lo sa.» Fu allora che Virelai aggiunse, in tono meditativo: «Credo che neppure lei lo sappia.» Alisha sembrò riflettere su quell'ultimo punto. «Immagino che questo sia stato vero per molto, molto tempo» disse dopo un po'. «Ma la magia sta diventando sempre più forte: lei sta tornando in sé.» 26 Naufragi L'aver creato lui stesso quelle nebbie e averle mandate a offuscare i confini del suo mondo, a nascondere Santuario agli occhi dei curiosi, non migliorava il suo umore... perché ora gli impedivano di vedere. Le aveva plasmate in un momento di rabbia, irritato nello scorgere navi che improvvisamente si avvicinavano al suo nascondiglio attraverso mari che egli aveva sempre ritenuto impraticabili nel cuore dell'inverno, costellati com'erano da enormi barricate di ghiaccio e da infinite distese gelate, interrotte solo da infidi canali ed enormi iceberg che si stagliavano contro l'orizzonte come grandi massicci montuosi e si muovevano implacabili verso sud, pronti a schiacciare e affondare, a travolgere e sommergere i più avventati e i meno fortunati... in parole povere, gli intrusi. Ma in qualche modo ora quegli intrusi si stavano avvicinando. Aveva orientato i suoi cristalli nella torre di ghiaccio con una tale rabbia che le luci prismatiche avevano saettato da una parte all'altra, illuminando di viola e oro, turchese e scarlatto una camera caduta in rovina durante il suo lungo sonno. Enormi ragni bianchi pendevano dagli angoli in ombra tra soffitto e pareti, le loro tele simili a enormi tende polverose punteggiate da frammenti di ali o di zampe: i pallidi fantasmi dei mostri che aveva creato nei primi giorni sull'isola e verso i quali aveva poi perso ogni interesse,
così come era accaduto con molte cose in quel posto dimenticato dalla dea. E poi, all'improvviso, eccolo, eccolo lì! A bordo di una nave che aveva avuto l'ardire di sfidare quelle acque, che non avrebbero dovuto essere segnate su nessuna carta, un capitano, un uomo alto, vanitoso, con bionde trecce e un intricato gioiello in calcedonio al collo, che consultava proprio " una mappa. I cristalli potevano essere notevolmente precisi quando lui si premurava di manovrarli con delicatezza: preso da una curiosità così intensa da sembrare una mano che lo stringesse alla gola, aveva mosso la leva di un. soffio a destra e a sinistra, aveva tentato di usare il terzo livello di lenti per la prima volta in vari decenni, aveva imprecato trovandole incrostate di polvere e le aveva pulite d'un botto con uno spietato incantesimo che le aveva rese luccicanti tanto da accecare. Poi le aveva direzionate sulla pergamena che l'uomo alto stringeva in mano, aveva regolato la focale... ed era rimasto sbigottito. Era stato come un pugno nello stomaco. Perché lì, tratteggiata con la grafia che aveva così faticosamente insegnato al suo allievo, al suo unico, al solo, al suo amato ragazzo, al suo Virelai, la sua più grande creazione, c'era una mappa che indicava con abbondanti e precisi dettagli la via attraverso l'Oceano del Nord, la rotta per Santuario. Non era del tutto accurata, ovviamente; ma come avrebbe potuto esserlo? Il suo apprendista aveva potuto basarsi solo sui tentativi di Rahe stesso di registrare il suo strano e movimentato viaggio verso quel luogo selvaggio, e quelle annotazioni erano piene di fantasia oltre che di fatti. Ma in qualche modo... in qualche modo il ragazzo era riuscito a intriderla di magia. Era in grado di percepire l'incantesimo infuso nella mappa dalla maniera in cui l'uomo biondo la guardava, da come la nascondeva persino alla vista del suo navigatore, come se volesse serbare per sé ogni curva del paesaggio, ogni linea della sua rosa dei venti e ogni tratto distintivo della costa, ogni lettera della sua legenda. C'era una sorta di impulso che ne emanava, una specie di illusione. Cosa offriva a quegli uomini? si chiese Rahe, ma lo sapeva ancor prima che la risposta si fosse formata nella sua testa. Era di certo un tesoro, l'oro probabilmente. Era sempre l'oro, per gli uomini. Ne andavano pazzi, venivano rapiti dalla promessa della sua rara lucentezza. Persino furioso com'era per il tradimento e la malizia del ragazzo, non aveva potuto fare a meno di ridere. Una risata amara, la sua, gracchiante quanto il verso di un corvo; aveva echeggiato per la stanza della torre come un pipistrello in una caverna, un essere oscuro che rara-
mente vedeva la luce. Era stato colto di sorpresa da quel moto di ilarità, e si era bloccato così all'improvviso che un grigio silenzio aveva avvolto nuovamente la stanza; e i ragni, che si erano avventurati al centro delle loro tele nel sentire quel suono, come se avessero percepito una qualche forma di vita, erano tornati ancora una volta a nascondersi nell'oscurità. «Non troveranno oro qui» aveva detto ad alta voce, resa roca dalla disidratazione e dal lungo silenzio, ma che non rendeva quelle parole meno vere. Non c'era oro, a Santuario; niente oro, ma pirite, in grosse pepite luccicanti che tempestavano i tunnel e i corridoi della sua fortezza. Falso e privo di valore, fragile e gelido: l'oro degli stolti, l'oro perfetto per gli uomini. L'oro vero proveniva solo da un'unica altra fonte. Lui sapeva bene dove poteva trovarsi, ma la sua mente non aveva alcun desiderio di soffermarsi su quel ricordo, e anzi lo rifuggiva, come un cavallo spaventato. C'erano anche altre navi in quelle acque. Ne aveva riconosciute alcune. Sembrava che all'improvviso ci fossero vascelli dappertutto! Alcune erano antiche; di una parte si erano già sbarazzate le tempeste frequenti in quei mari, e il suo intervento non era stato necessario; altre andavano alla deriva, perdute e senza nessuno al timone. Alcune erano prive di equipaggio; altre si erano avventurate troppo a nord ed erano rimaste bloccate dal ghiaccio. Aveva guardato con soddisfazione la banchisa che si richiudeva sopra un vascello ferito e lo riduceva in pezzi mentre gli uomini a bordo se ne stavano disperati a guardare da una minuscola barca. Che prospettiva di sopravvivenza avevano, in quelle zone desolate? Rahe sorrise. Nessuna, proprio nessuna. Se non li avesse uccisi il freddo, lo avrebbero fatto le tempeste o la fame o la mancanza d'acqua; e prima della fine sarebbe venuta la follia. Anche così, però, non aveva intenzione di correre rischi. Raccogliendo ciò che restava della sua magia, aveva mandato delle nebbie impenetrabili sull'Oceano del Nord per confondere anche il più abile dei navigatori e rendere inutilizzabili i patetici brandelli di incantesimo che Virelai era riuscito a infondere nelle mappe e inoltre aveva creato gelide foschie così fitte da inghiottire qualsiasi vento osasse soffiare vicino a Santuario. E così, confusi e impazziti, gli intrusi avevano reso le loro anime, e i loro spiriti si erano allontanati nelle nebbie come fumo, rendendole ancora più fitte e riempiendole di gemiti e lamenti che i profani avrebbero potuto scambiare per le grida desolate di uccelli marini. Lo sforzo l'aveva stremato, e quando dopo ben tre giorni era tornato in sé si era reso conto del disastro che aveva combinato, trovando la stanza
della torre piena di tremendi odori e dell'eco delle proprie farneticazioni. Si era trascinato sulla piattaforma di visione e in preda alla furia e alla disperazione aveva cercato tra la miriade di immagini finché qualcosa non aveva attirato la sua attenzione... un'eco, una vibrazione. Era ben oltre le nebbie che gli oscuravano la vista, ma aveva ghermito i suoi sensi come un gatto che gli avesse impigliato le unghie nella manica. Qualcosa di raro e di vero: ossessione e follia, un'immensa energia sprecata, una riserva cui attingere. La percepiva con la stessa forza di un magnete. Aveva continuato a scrutare con tenacia, ma le nebbie che aveva creato erano riluttanti a disperdersi. Infuriato, aveva mosso i prismi una, due, cento volte. In mare aperto, una vela, semplice e rossa. Un elegante vascello dalle forme serpentesche. Le leve avevano scricchiolato, e quando aveva attivato delle lenti più precise si era sollevata un'altra nuvola di polvere. Laggiù! Un uomo alto dai capelli scuri con dipinta in volto un'espressione determinata, in piedi a prua con la mano premuta sul cuore. No, non sul cuore: su qualcosa che teneva sotto gli indumenti, ben nascosto, un oggetto che per lui era più prezioso della vita stessa. Gli stava accanto una specie di gigante con il volto devastato e un singolo orecchio rovinato. E alle sue spalle un ragazzo magro dai capelli rossi e gli occhi spietati. C'era un oscuro rancore che bruciava dietro quegli occhi, un intero universo di rancore. Improvvisamente Rahe aveva sentito gli antichi ingranaggi e le leve muoversi non nella sua mano, ma nella sua testa. Era come se la provvidenza stessa gli parlasse dall'origine di tutte le cose. Un folle, un gigante, uno sciocco. Il ritornello di un'antica poesia aveva continuato a risuonargli nelle orecchie, come un mantra o un incantesimo, o una filastrocca da bambini... Uomo, Donna, Bestia, Folle, Gigante, Sciocco quando la Morte banchetterà la magia selvaggia troverà uno sbocco. I cieli si erano oscurati, annunziando uno sconvolgimento naturale fuori, nel mondo, che rispecchiava perfettamente le oscure burrasche che infuriavano dentro di lui. All'improvviso si era sentito più grande di quello che era, più vasto di se stesso, come se la sua mente si estendesse su tutta Elda. Le tempeste interne erano aumentate di intensità fino a prorompere violentemente dagli argini.
La follia era tutto ciò che aveva: dunque era stata follia, quella che aveva sprigionato... Fu solo quando l'ultimo bagliore del vascello divorato dalle larve svanì tra le nebbie che Aran Aranson si voltò per ordinare di issare la vela e si accorse che due uomini del suo equipaggio erano scomparsi. Si guardò intorno sulla nave per cercare Tor Bolson (un uomo robusto che indossava un farsetto rosso, quello 'fortunato', non poteva essere difficile da individuare), ma non lo vide tra il capannello di uomini che si disperdeva a mezza-nave, né al suo posto ai remi. Fu mentre stava facendo mentalmente l'elenco del resto dell'equipaggio che si rese conto che ne mancava un altro: un ragazzo basso dai capelli scuri che veniva dalle isole orientali e che, nonostante la sicura discendenza da qualche schiavo del Sud, era molto abile con il sartiame. «Urse!» L'omone fu al suo fianco in un istante. «Hai visto Tor oppure» si frugò nella memoria «Bran Mattson?» Urse sembrò sorpreso da quella domanda. Poi anche lui si voltò per scrutare il ponte. «L'ultima volta che ho visto Bran, era con Jan ed Emer» rispose lentamente. Aran identificò il ragazzo dell'Isola dei Pesci all'istante. Emer Bretison era alto più di due metri: era difficile non riuscire a vederlo. Accanto a lui un uomo magro con i capelli chiari legati in una coda di cavallo stava lavorando per slegare le sartie dal pennone. Aran si incamminò a grandi passi verso di loro. «Sto cercando Bran» disse in tono sbrigativo. Jan si fermò a fissare il suo capitano, senza capire. «Era...» Guardò alla sua sinistra, poi alla sua destra e si accigliò. «Era proprio accanto a me vicino al capo di banda quando abbiamo dato fuoco al Drago Bianco» disse lentamente. Poi sgranò gli occhi. Erano di un blu intenso, notò Aran: la stessa tonalità di un fiore di veronica e quando, come ora, erano smarriti nel vuoto, lo facevano sembrare un bambino sperduto. Poi, come se qualcosa l'avesse colpito, si voltò all'improvviso, guardando il suo compagno con espressione terrorizzata. «Era con me,» ricominciò «poi...» Si girò di nuovo verso il capitano, inorridito. «Non c'è più. Ma come...?» Le sopracciglia di Aran divennero un'unica linea nera e minacciosa. Si voltò verso Emer. «E tu?» L'uomo si strinse nelle spalle e tornò a occuparsi di quello che stava facendo. «Forse sta schiacciando un pisolino sotto la scialuppa» disse in tono
provocatorio, la testa chinata su una cima. Il fatto che Aran non avesse punito suo figlio per la sua codardia e per aver mancato al proprio dovere non era andato giù al resto dell'equipaggio. Il Signore di Rocciacaduta fissò la nuca di Emer per diversi secondi carichi di tensione. Poi, come se avesse deciso di non iniziare una discussione, si rivolse a Jan. «Non dire niente» lo avvertì, e tornò in fretta da Urse. L'omone scosse la testa in maniera quasi impercettibile quando lo scorse. «Nessuno l'ha visto da prima che voi saliste a bordo del Drago Bianco» spiegò quando Aran lo raggiunse, ma tenne la voce bassa. Nessuno dei due uomini era sotto la scialuppa rimasta, né nascosto tra le provviste e le casse da marinaio. Non erano sull'albero, né avvolti nella tela da vela di riserva, né in alcun altro luogo. Per un terribile istante Aran ebbe una visione di quella coppia inconsueta, uno grasso e biondo, l'altro scuro e magro, in fiamme a bordo della nave fantasma, e la scacciò con fermezza. Era l'unico ad aver messo piede su quel vascello, di questo era assolutamente sicuro. Quando la luna si alzò nel cielo, era ormai chiaro che né Tor né Bran erano più a bordo del Lungo Serpente. L'equipaggio cominciò a parlare di spiriti maligni, di esseri che succhiavano l'anima dalle orecchie, dai pori della pelle, spettri che apparivano sotto forma di seducenti incantatrici vestite di alghe, conchiglie e nebbia marina, capaci di abbracciare con il calore di una donna di terra e di succhiare poi la vita, ogni respiro e ogni battito, con un bacio. Ma persino gli spettri e i camminatori della notte lasciavano corpi vuoti dietro di loro, mentre dei due marinai dispersi non c'era alcuna traccia. Aran stette di guardia per tutta la notte, seduto con la schiena appoggiata contro l'albero. Non c'era niente da vedere al di fuori della nave, né luna né stelle né orizzonte, perché le nebbie li avvolgevano completamente, più impenetrabili che mai. Ma non era dagli spiriti che voleva proteggere la sua imbarcazione, né dai camminatori della notte ritornati dalla nave fantasma, né da qualsiasi altra cosa che potesse venire dal mare. Non erano state coincidenze o interventi sovrannaturali a fargli perdere gli uomini dell'equipaggio, di questo era sicuro. Così rimase seduto, con una mano sul pomo del suo pugnale e l'altra stretta a pugno, e aspettò ciò che il giorno successivo gli avrebbe portato. E come c'era da aspettarsi, la mattina portò con sé un nuovo carico di orrore. Nelle primissime ore dell'alba una seconda nave sbucò dalle nebbie di
fronte a loro, non spinta dal vento né dai remi, e circondata da un alone di luce solare simile a un parelio. Ma quando ebbero remato abbastanza vicino da gettare dei rampini e tirarla verso di loro, fu chiaro che qualunque disastro fosse avvenuto a bordo aveva una causa ben poco sovrannaturale. Le assi della nave danneggiata erano spezzate e inargentate dagli elementi e pochi secondi dopo aver messo piede su quel ponte scricchiolante, Urse e il suo capitano compresero che gli uomini dell'equipaggio erano morti, dal primo all'ultimo. Questa volta i cadaveri avevano ancora la carne addosso, anche se era diventata di un disgustoso viola nerastro, si era rinsecchita quasi al punto di diventare mummificata ed era chiazzata e livida dove le pustole si erano gonfiate, erano scoppiate e poi si erano asciugate. I volti erano la parte peggiore, perché gli occhi, gialli e screpolati come uova di anatra lasciate troppo a lungo nel nido, sembravano essersi disseccati nelle orbite, mentre le palpebre si erano ristrette, inaridite e screpolate come dei vecchi finimenti di cuoio. Tutto ciò che rimaneva delle loro labbra erano sottili linee nere, tese sui denti che spiccavano con il loro bianco accecante contro le gengive annerite ed essiccate. I nasi, se tali potevano ancora essere chiamati, erano raggrinziti e ridotti a orrendi brandelli il cui rivestimento interno era diventato del nero opaco di un tizzone spento. Il resto della pelle era tesa come cuoio sulle ossa infradiciate dall'umidità delle nebbie. I corpi erano accatastati uno sull'altro, intrecciati insieme o raggomitolati in posizione fetale, gli occhi spalancati e le bocche aperte a testimoniare l'agonia prima della morte. Non c'era neppure una larva né una mosca su tutta la nave. C'era ancora del merluzzo sotto sale e carne essiccata stipati in due barilotti sigillati e una dozzina di dure pagnotte non lievitate avvolte nella iuta in una cassa accanto ai corpi; ma i barili d'acqua erano secchi come il deserto e il pezzo di tela usato per filtrare l'acqua di mare conteneva solamente uno spesso strato di sale marino. Urse scosse la testa. «Poveretti» commentò dispiaciuto. Presero il pane, il pesce e la carne e riportarono il tutto con loro sul Lungo Serpente, ma nessuno volle toccarli. Era come se quelle provviste fossero maledette quanto l'equipaggio di quella nave senza nome, come se il cibo potesse contenere la maledizione che li aveva spediti dritti nel Grande Sepolcro di Sur. Più tardi, quella notte, un altro uomo svanì. Urse Orecchiomozzo faceva l'ultimo turno di guardia, ma non vide né sentì niente, e non si rese conto che l'uomo era scomparso finché Pol Garson non lo prese per un braccio la mattina dopo. «Non vedo Erl da nessuna
parte» disse a bassa voce. «E non credo che ci sia qualcosa che non va con la mia vista.» Urse controllò la nave da prua a poppa, poi svegliò il capitano con la brutta notizia. Aran imprecò ferocemente. «Avrei dovuto montare io di guardia per tutta la notte» disse, anche se aveva gli occhi cerchiati di rosso per la mancanza di sonno. L'omone si risentì. «Sono stato all'erta per tutto il tempo.» «Allora stai suggerendo che è sparito durante il mio turno?» Gli occhi del Signore di Rocciacaduta lampeggiarono pericolosamente. Urse si strinse nelle spalle. «Tutto è possibile; per ora non sappiamo qual è la verità.» Il carattere irascibile di Aran era leggendario nelle Isole Occidentali, anche se tutti dicevano che non alzava mai una mano su nessuno senza un giusto motivo. Anche così molti avrebbero pagato per assistere a una rissa tra il Signore di Rocciacaduta e il gigante di Tam Volpe, Urse Orecchiomozzo: con il formidabile carattere dell'uno e la stazza dell'altro sarebbe stato difficile decidere su chi scommettere. Ma in questo caso il capitano si limitò a scuotere la testa. «Sta succedendo qualcosa di orribile, Urse» constatò. «Io non credo alle storie sui non morti o sui demoni in forma di spirito; ma gli uomini non possono semplicemente svanire in questo modo.» «Ho sentito parlare di spedizioni in cui i membri dell'equipaggio hanno perso la testa e il desiderio di vivere e si sono gettati silenziosamente in mare quando gli altri non guardavano» suggerì Urse. «C'è davvero della follia su questa nave,» rispose Aran «ma non credo che fosse negli uomini scomparsi.» Si interruppe per un istante. «Anche se in effetti tutto è possibile, finché non sapremo quale sia la vera causa.» 27 Katla La vita a Rocciacaduta continuava più o meno come prima anche se gli uomini della comunità erano via. Le donne mandavano avanti i lavori dei campi e della fattoria, salavano il pesce, cuocevano il pane, filavano la lana e tessevano le stoffe, scavavano ed essiccavano la torba per il fuoco. Riparavano i muri a secco per tenere dentro le pecore e le stie dei polli per non far entrare le volpi. Aggiustavano il canniccio dei fienili e aggiungevano
nuove zolle al tetto della casa lunga, dove il sole della lunga estate aveva inaridito il verde dell'erba di copertura. Mungevano le mucche e le capre, separavano siero e caglio, avvolgevano il formaggio nella mussola e grattavano via le conchiglie dagli scafi delle barche che tiravano a riva prima dell'arrivo delle tempeste. Ma invece di provare gioia per le nuove responsabilità delle quali era stata investita, Katla odiava ogni minuto di quella forzata vita domestica. Con pochissimi uomini presenti a parte il costruttore di navi e un paio di anziani pescatori ormai stanchi del mare, sembrava mancasse una sorta di equilibrio: a Katla l'atmosfera sembrava chiusa, ristretta, asfissiante. Non si parlava che di argomenti di interesse femminile: chi era incinta e chi no; quale saponaria era più delicata con la pelle e quale camomilla rendeva i capelli più luminosi; come mangiare il fegato dei pesci rendeva gli occhi più splendenti e faceva crescere le unghie; perché era meglio aggiungere sale alle focaccine dolci e miele alle carote; perché un fuso in osso funzionava meglio di uno in legno. Nessuno di quei dettagli aveva la minima attrattiva per la ragazza, la cui paura di aspettare un bambino l'aveva resa diffidente verso tutto ciò che riguardava il sesso. La sua pelle era diventata scura e secca come il guscio di una noce e i capelli le erano cresciuti in una massa ispida e arruffata, come se al loro posto avesse delle alghe rosse. Aveva gli occhi rossi per il fumo e il vento, e le sue unghie, quando non se le mordeva a sangue, erano rotte e irregolari per le arrampicate sulle scogliere dell'isola: gli altri segreti femminili su come aumentare la propria bellezza e attrarre un marito le parevano insulsi e lontani dalla sua mente così come il nodo necessario a serrare una rete da pesca o a fissare un'ancora lo era per le altre donne. E, cosa peggiore di tutte, sembrava impossibile evitare i continui contrasti con sua madre. Qualunque cosa facesse sbagliava: quando cardava la lana le riusciva sempre in modo molto meno preciso di quanto la pignola signora di Rocciacaduta esigeva; quando mondava le verdure per il pasto serale, Bera la rimproverava per aver tolto troppa pelle perdendo così tutto il gusto. Sembrava non essere in grado di spazzare un pavimento nel modo corretto, né di riparare una tunica rotta, per non parlare poi di tessere, cucire o filare come le altre donne, che invece parevano aver imparato quelle misteriose arti alla nascita e senza bisogno di un solo rimprovero da parte delle loro insegnanti. Per sfogarsi, Katla aveva preso a correre in lungo e in largo per l'isola, con l'apparente fine di raccogliere funghi o molluschi o uova di gabbiano, di cacciare conigli o pescare trote, di raccogliere vimini
per i tappeti del pavimento o per nuovi cestini, o giunchi per candele e torce, ma più spesso semplicemente per la semplice voglia di correre, senza neppure sapere da cosa fuggisse. Quel giorno il suo compito era pelare carote: un intero barile di carote. Bera glielo mise davanti senza troppe cerimonie e con uno sguardo torvo che non ammetteva repliche. «Entro mezzogiorno, Katla,» le disse «o aggiungerò anche le rape. E se trovo bucce più spesse della mia unghia, pelerai barbabietole per il resto della settimana, finché non avrai imparato a non sprecare più le nostre preziose riserve.» Katla non riusciva davvero a immaginare per quale motivo fosse necessario bollire un intero barile di carote e tre dozzine di rape, per non parlare delle disgustose barbabietole da foraggio... non le sembrava altro che una punizione per qualche colpa che non sapeva di aver commesso. Fissò la catasta degli odiati vegetali, poi, con sguardo bieco, la schiena di sua madre che si allontanava. Nonna Rolfsen scoppiò a ridere. «Così ti terrai fuori dai guai per qualche ora!» Invece di risponderle, Katla infilò la mano nella tasca della tunica e ne tirò fuori qualcosa che porse a sua nonna. Sul suo palmo c'era un oggetto tirato a lucido, a prima vista un incrocio tra un bastoncino e un coltello. Hesta Rolfsen lo guardò perplessa e lo prese. Lo studiò per qualche istante, poi afferrò una rapa e ci passò sopra l'oggetto, muovendolo verso l'esterno. Il piccolo attrezzo scivolò senza tagliare niente. «È del tutto inutile» commentò disgustata. Katla rise. Prese sia la rapa che lo strumento dalle mani di sua nonna e fece passare la lama sull'ortaggio muovendolo verso di lei, questa volta. Come per magia, un sottile ricciolo di buccia color porpora cadde a terra. La vecchia lanciò un'esclamazione di sorpresa, e dopo un istante constatò: «Pela.» Katla le sorrise e abbassò la voce perché le altre donne presenti non la sentissero. «Sapevo che oggi mi avrebbe fatto fare le carote: l'ho vista prenderle dal granaio ieri sera» disse. «Così sono andata di nascosto nella fucina per inventare qualcosa che potesse semplificare il lavoro. Potrei radere un maiale con questo, per quanto è affilata la lama!» La signora di Rocciacaduta le aveva proibito l'accesso alla fucina per punizione, e quando Katla aveva obiettato sostenendo che ora che gli uomini erano via avrebbe fatto un uso migliore del suo tempo forgiando quante più armi poteva nel caso servissero per difesa, Bera le aveva riso in
faccia. «Ce la vedi Marin Edelsen a brandire una spada contro un razziatore?» le aveva chiesto, e non aveva tutti i torti. Ma Katla si era ostinata ancora di più. «Potrei insegnare io le nozioni fondamentali alle altre donne» aveva detto; ma sua madre non aveva voluto sentire ragioni. «Un maschiaccio in casa mia è più che sufficiente: speravo che la presenza delle altre ragazze potesse addolcirti un po', invece mi sono accorta che, se ti lasciassi campo libero, tutte le altre verrebbero trasformate in piccoli banditi in men che non si dica. Solo lavori domestici per te, ragazza mia, finché non deciderò altrimenti.» E così era stato per una settimana e più. Durante l'ora successiva, anche grazie al nuovo utensile miracoloso, Katla pelò un ortaggio dopo l'altro e nel farlo si tolse anche lo strato superiore di pelle da parecchie dita. Guardò una goccia del proprio sangue scorrere lungo una delle carote e finire sulla catasta. In teoria avrebbe dovuto lavarle con acqua di pozzo, ma in quel momento non ne aveva alcuna voglia. Dato che mi stanno succhiando via l'anima, pensò con amarezza, tanto vale che sentano che sapore ha. Si rimise al lavoro con rinnovato vigore. Per un po' scivolò in una sorta di sonnacchiosa concentrazione e il mucchio di carote da mondare diminuì rapidamente. Un rumore particolarmente forte la fece tornare bruscamente alla realtà. Era Magia Felinsen, che parlava chissà con chi. Era impossibile concentrarsi su qualsiasi altra cosa, perché quella donna aveva un tipo di voce in grado di sovrastare tutte le altre, chiaramente udibile anche con un vento di burrasca o in un bosco in fiamme. «E perciò ho detto a Suna: 'Suna Bransen,' le ho detto 'se vuoi avere l'aspetto del Troll di Isola Nera, sei proprio sulla buona strada. Con capelli come i tuoi devi aggiungere un po' di lanolina durante il risciacquo, così li liscerà un poco'. E sai cosa mi ha risposto?» Magia si piantò le mani sui fianchi, cosicché il mestolo che stava usando per rimescolare il brodo nella pentola finì per posarsi contro il suo grembiule e lasciò gocciolare il suo contenuto a terra. Katla vide uno dei gatti più astuti uscire dall'ombra delle panche e passare indisturbato accanto alla donna per andare a leccare il brodo. Poi lo vide guardare con interesse verso l'alto, dove c'era il mestolo gocciolante, e le sue zampe posteriori tremarono leggermente, come se avesse intenzione di lanciarsi verso l'utensile; ma in quell'istante Magia cominciò a gesticolare e il gatto corse via in fretta e furia. Gocce di grasso volarono nell'aria e caddero sfrigolando nel fuoco. «'Magia Felinsen,' mi ha detto 'se vuoi puzzare di pecora rancida, fai pure, ma io non ne ho alcu-
na voglia; e quando finalmente sarai riuscita a convincere Arni Hamson a chiederti in moglie, allora forse mi rivolgerò a te per avere consigli!'» «Ma che maleducata» commentò Simi Fallsen. «Si vede proprio che la sua gente veniva dall'oriente.» «E che mi dici di quei suoi tremendi capelli, tutti ispidi e arruffati... proprio come la coda di una vecchia giumenta malandata!» aggiunse ridacchiando Hildi la Magra. «Povera Suna. Che zoticona» commentò Kitten Soronsen, scuotendo la sua bella testolina con finto dispiacere. «Così simile alla nostra amata Katla!» Tutte, tranne il soggetto in questione, scoppiarono a ridere: erano ormai abituate a considerare Katla un facile bersaglio quando si trattava di aspetto e buone maniere, e di solito lei accettava di buon grado le loro battute. Nell'ilarità generale, Kitten Soronsen le sorrise nel suo tipico modo equivoco, contraendo in una smorfia maliziosa le labbra perfette e crudeli che facevano tremare le gambe e balbettare parecchi giovanotti del posto. Quando si lasciava andare a commenti del genere era sempre difficile sapere se c'era affetto o semplice cattiveria dietro quelle considerazioni, e nessuno osava mai contraddirla per paura di apparire ancora più stupido di quanto lei l'avesse già fatto sembrare. Katla la incenerì con lo sguardo, notando quella carnagione perfetta e i bei capelli acconciati in eleganti trecce legate con il nastro blu e i minuscoli fiori di seta che un ammiratore le aveva portato dalla Grande Fiera, e rimase fortemente turbata nel provare una fitta di dispiacere per il proprio aspetto, così diverso. Quell'inaspettata invidia la fece montare su tutte le furie. «Perché pensi sempre che tutti vogliano essere come te, Kitten Soronsen? Credi di essere così bella con i tuoi capelli biondi, il tuo viso perfetto e la tua pelle liscia e rosata. Solo perché gli uomini di una mezza dozzina di isole ti fanno la corte, ti comprano regali e annodano poesie per te, credi di essere migliore delle altre. Ma vedrai che finirai anche tu come ogni altra donna posseduta da un uomo: con dei lattanti appesi alle tette, la pancia cadente come quella di una vecchia scrofa e le braccia piene di pannolini puzzolenti di cacca: esattamente ciò che ti meriti.» Anche prima di finire la sua tirata, Katla capì di aver oltrepassato il segno. Kitten era maligna, questo era vero, e vanitosa, ma una stupida battuta sui suoi capelli in disordine non giustificava quelle parole crudeli. Ciononostante fu con una certa soddisfazione che la vide rabbuiarsi e lanciarle uno sguardo inviperito. Poi Kitten le tirò con notevole forza il cucchiaio
che stava usando. Katla, ovviamente, lo evitò. L'utensile volò oltre le sue spalle e colpì Marin Edelsen sul naso, facendola gridare di sorpresa e di dolore. Un fiotto di sangue prese a uscirle dalle narici, gocciolando sul suo migliore grembiule di lino e sulla tunica tesa sopra il seno abbondante, e macchiò la sua vicina Hildi la Magra, a cui bastò una sola occhiata a quelle gocce scarlatte per cadere a terra svenuta. Morten Danson, che come al solito sonnecchiava sulla panca vicino al fuoco, si svegliò all'improvviso e si guardò intorno con espressione smarrita, come se avesse dimenticato nuovamente dove si trovava. Quando si rese conto di aver mancato il bersaglio, Kitten Soronsen si lanciò come un gatto infuriato contro Katla, l'afferrò per i capelli con forza e cominciò a tirare. Attaccare fisicamente la due volte campionessa di lotta dei giochi delle Isole Occidentali non era la mossa più intelligente da fare, ma Kitten Soronsen era più forte di quanto sembrava, ed era più infuriata di un nido di vespe. Katla non si era aspettata un assalto del genere: colta di sorpresa, perse l'equilibrio e cadde a terra imprecando mentre l'altra ragazza era sopra di lei. Le due rovinarono sullo scivoloso mucchio di bucce di carota. Anche un barile si rovesciò, versando il suo contenuto tutto intorno a loro, in modo che quando Kitten tentò di rialzarsi scivolò e finì di nuovo sopra Katla, così bruscamente da toglierle il fiato. Nonna Rolfsen cominciò a ridere, ad ansimare e a battere le mani deliziata. «Una bella rissa! Quanto mi piacciono le risse. Forza, Katla, mostrale quello che vali!» A quel punto intervenne Magia Felinson. «Puttana!» gridò, picchiando Katla alle mani e alle braccia con il mestolo. «Sporca puttana dai capelli da volpe! Colpiscila, Kitten: falle a pezzi quella sua brutta faccia!» Poi cominciò a gemere quando Hesta Rolfsen prese a darle addosso col suo bastone. Anche occupata com'era a cercare di togliersi di dosso Kitten con un colpo di ginocchio, Katla fu sorpresa di scoprire l'antipatia che Magia provava per lei. Cosa mai aveva fatto per causarla, si chiese sgomenta... ma poi le uscì tutto di mente, perché Kitten stava tentando di cavarle gli occhi con unghie dure e affilate come artigli. Forse in fin dei conti quella stupidaggine dell'olio di fegato di merluzzo che rende le unghie più forti è vera, fu l'irrilevante pensiero che le passò per la testa mentre Kitten la colpiva. Chiuse gli occhi e tentò di voltare il capo, ma senza riuscirci. Qualcun altro le stava urlando contro e la prendeva a calci. Sentì indistintamente sua nonna che imprecava come una pescivendola, il rumore del suo bastone
che colpiva, poi un grido scandalizzato quando la vecchia cadde. A quel punto sentì una tremenda rabbia invaderla. Il pavimento cominciò a tremare sotto i suoi muscoli tesi. Il suo respiro si faceva sempre più affannoso e un grande calore sembrava crescere in lei. E poi una voce echeggiò nella sua mente. «Mi servono i tuoi occhi, Katla Aransen» disse. «Attingi la tua forza da me.» Non aveva idea se quella voce venisse dalla sua testa o da fuori, ma in quell'istante avvertì un'ondata di energia invadere il suo corpo attraverso gli indumenti, attraverso le bucce sparse sul pavimento sotto di lei, attraverso le pietre del lastricato... e ancora più giù, dalle profondità di Elda, come se ogni elemento naturale con cui era in contatto stesse unendo le forze per infondere in lei quel particolare vigore: il lino e la lana, le carote e il vimini delle stuoie, il granito e il cristallo e il magma bollente delle viscere della terra. Sentì un'improvvisa leggerezza, un grido, poi un tonfo. Aprì gli occhi e si mise a sedere, finalmente libera da ogni peso. Kitten Soronsen giaceva a terra a dieci metri di distanza, ai piedi di uno dei pilastri centrali di legno che sorreggevano il tetto della casa. Respirava a fatica: era evidente dal modo in cui il davanti della sua tunica ricamata si alzava e si abbassava. Ma a parte questo era completamente immobile. Sulla stanza era calato il silenzio. Katla si guardò intorno, perplessa. «Katla Aransen!» La voce ruppe l'incantesimo. Le donne ricominciarono a parlare tutte insieme. La signora di Rocciacaduta avanzò verso sua figlia. Bera Rolfsen era una donna piccola di statura, ma le sue sfuriate erano famose da Isola Nera all'Isola d'Uomo delle Isole Occidentali. Le astanti si fecero da parte con una certa apprensione. Due di loro, Tian Jensen e la grassa Breta Arnasen, corsero al fianco di Kitten e la misero a sedere appoggiata al pilastro. Katla non poté fare a meno di notare con una certa soddisfazione che la ragazza aveva un grosso livido scuro su una delle guance e l'occhio destro le si era gonfiato. Poi non vide più niente, a parte il viso infuriato di Bera. Una mano calò rapida sul suo viso e il dolore la fece sussultare. Istintivamente si portò una mano al volto. Erano anni che sua madre non la colpiva in quel modo, e precisamente da quella volta che aveva inavvertitamente rovinato l'abito di seta che Aran aveva riportato a sua moglie dalla Grande Fiera, che Bera aveva appeso fuori sul filo per stendere il bucato in modo da eliminare le
grinze. Katla a quell'epoca era impegnata a progettare una nuova tecnica per passare da uno all'altro di quei picchi rocciosi che si ergono dall'acqua, legando l'estremità di una corda in cima a uno dei picchi e lanciando l'altra estremità sulla cima del successivo, stringendo poi il nodo scorsoio con una gassa d'amante per tenere tesa la corda; e infine scivolando lungo di essa con le gambe incrociate sopra la corda, mano dopo mano. Le era sembrato saggio fare pratica nel cortile di casa, a due metri dal suolo, invece che all'Isola di Uomo, con i suoi sessanta metri d'altezza. Il filo del bucato era robusto e nuovo: un bel pezzo di pelle di narvalo, ammorbidita e tesa tra i paletti con la massima cura. Ma Katla non aveva tenuto conto del fatto che il palo che reggeva un'estremità del filo era stato fuori al freddo negli ultimi tre inverni. Il palo si era perciò spezzato con un terribile schiocco, depositando Katla, filo e vestito nel fango sottostante. Katla aveva sopportato l'occhio nero che le aveva fatto sua madre con rassegnazione: sapeva di meritare una punizione e uno schiaffo era immensamente preferibile all'essere confinata in casa per settimane, il tipico castigo che le infliggeva di solito sua madre. Bera si raddrizzò, le mani piantate sui fianchi. «Katla, mi vergogno di te: sei veramente un maschiaccio, peggio di un troll.» Chiazze scarlatte sulle guance attestavano l'intensità della sua ira. I suoi occhi passarono in rassegna tutta la sala, muovendosi da una testa china a un'altra, soffermandosi per un momento sulle mani e sul grembiule coperti di sangue di Marin, poi su nonna Rolfsen; ma la vecchia fece finta di essere impegnata a togliersi qualcosa dalla scarpa e non la guardò negli occhi. La sua espressione era di assoluto disgusto. «Ma guardatevi. Non siete altro che un mucchio di gatte in calore senza un maschio che vi tenga in riga, che soffiano e mostrano le unghie e si strappano il pelo l'una con l'altra.» E in effetti, notò Katla, c'era una manciata di capelli biondi tra il caos delle bucce di carota e delle stuoie di vimini, e a poca distanza una ciocca di capelli rosso scuro. Non ricordava di aver tirato anche lei i capelli a Kitten, ma provava una certa soddisfazione al pensiero di aver inflitto qualche danno a quelle trecce perfette. Bera tornò a voltarsi verso sua figlia. «E tu sei la peggiore di tutte. Ti chiedo di trascorrere la mattinata a portare a termine un semplicissimo compito...» Guardò il disastro ai suoi piedi, dove le carote erano sparse tra bucce, capelli, pezzi di vimini e cibo versato, poi si chinò e, rapida come un serpente, afferrò una delle carote pelate e la sventolò di fronte a Katla. «Vedi questa?»
La carota era parecchio malridotta, ma nonostante ciò sarebbe apparso ovvio anche per un cieco che era stata pelata a dir poco con sciatteria. Piccole strisce di buccia scura spiccavano tra l'arancio del fusto. Katla la guardò con disinteresse. Poi si strinse nelle spalle: era già abbastanza infuriata e poi era stufa marcia di Rocciacaduta, di sua madre e in particolare di quegli stupidi lavoretti. «E allora?» disse in tono sgarbato, proprio come il maschiaccio che Bera l'aveva accusata di essere. «Lo sporco se ne andrà con l'acqua. E per la buccia, quando mai qualcuno è morto per averne mangiata un po'?» Chiaramente sua madre non era d'accordo. Il suo viso divenne ancora più rosso; gli occhi lampeggiarono pericolosamente. «Tu non sai cucinare, non sai cucire, non sai filare né tessere né rattoppare, e non ti si può affidare neppure il più semplice dei compiti. E hai l'aspetto di... Cos'era, Magia, quello che tu hai così pittorescamente suggerito?» La donna si fissò i piedi e non osò rispondere. «Una 'sporca puttana dai capelli da volpe'» riprese Bera. «Non era quella la frase?» La tensione nell'atmosfera era palpabile. Katla non poté fare a meno di sorridere dell'imbarazzo di Magia, e stava ancora sorridendo quando sua madre tornò a voltarsi verso di lei. Osservò lo sguardo delle donna posarsi sui segni che le sue dita le avevano lasciato sulla guancia, ma negli occhi di sua madre non c'era traccia di pentimento per quello schiaffo. «E in effetti... 'Sporca': be', di certo trasandata; 'capelli da volpe', almeno di quello puoi dare la colpa a tua madre, ma la somiglianza fra noi due finisce lì, Katla Aransen. Tu sembri assolutamente incapace di prenderti carico della tua parte di faccende, di avere cura del tuo aspetto, di provare un minimo di orgoglio per quello che fai... Oh, no, questo non voglio farlo, quello non mi piace, questo non è alla mia altezza... E tutto questo per testardaggine, e per la tua strana convinzione di essere in qualche modo diversa da ciascuna di noi, con il nostro seno cascante e le pance molli e le nostre famiglie da crescere e accudire. Cosa ti rende così speciale, Katla, da aspettarti che ti corriamo tutte intorno, per darti da mangiare, da vestire, da dormire? Sarai anche in grado di forgiare una spada decente e di battere i ragazzi ai loro giochi, ma quella che un tempo era una bimba dolce e spensierata ora se ne sta davanti a me con quello sguardo insolente e quella smorfia di disprezzo sul viso... devi aver sbagliato qualcosa, ragazza mia. I troll devono averti preso, Katla Aransen, perché tu non sei mia figlia, lo
giuro. Mi vergogno di te, mi vergogno con tutto il cuore. E non solo perché provochi risse o per questa...» La carota colpì il braccio di Katla e rimbalzò sul pavimento. «Se pensavi che non sapessi di te e di... e di quell'individuo, Tam Volpe, ti sei sbagliata.» Bera era ormai inarrestabile come un fiume in piena: non le importava più cosa gli altri potessero pensare, non le interessava che ogni altra donna nella sala fremesse per lo sforzo di cogliere e memorizzare ogni parola che diceva, pronta a riferire le informazioni a parenti e amici in tutte le Isole Occidentali non appena ne avesse avuto la possibilità. «Mamma!» Katla era sbigottita. «Taci!» Lo shock le paralizzò la mente. Come faceva sua madre a sapere? Tam Volpe era morto sul fondo dell'oceano e lei non l'aveva detto a nessuno... La memoria le tornò all'improvviso, come un pugno nello stomaco. «Nonna, come hai potuto?» Si voltò infuriata verso sua nonna e vide la vecchia fare una smorfia di dispiacere. «Mi dispiace così tanto, tesoro, mi ha colto in fallo.» Hesta Rolfsen si strinse nelle spalle, contrita. «Tu sai quanto sa essere subdola tua madre quando sospetta qualcosa. E determinata.» Katla osservò madre e figlia scambiarsi uno sguardo, una via di mezzo tra trionfo e vergogna da parte di Bera e imbarazzo e rabbia da parte di sua nonna. «Chi potrebbe volerti ora, dopo che hai dormito con un uomo del genere?» continuò Bera disgustata. L'indignazione di Katla proruppe in un grande getto vulcanico. «Un uomo come cosa?» gridò. «Bera...» la ammonì nonna Rolfsen. Ma madre e figlia in questo erano troppo simili: nessuna delle due avrebbe fatto marcia indietro, a quel punto. Sarebbero state dette delle cose impossibili da rimangiarsi, e da perdonare. «Uno degli Antichi» sibilò Bera, e a quelle parole le altre donne bisbigliarono e fecero gesti scaramantici contro il male. «Un vero diavolo.» Katla si accigliò. Un diavolo? Uno degli Antichi? Tam Volpe non era un seither: aveva due occhi perfettamente normali ed era umano quanto qualsiasi uomo lei avesse mai conosciuto. Oppure no? Qualcosa la fece rabbrividire, un brivido improvviso e superstizioso. «Non dovresti parlare male dei morti» mormorò Hesta. Poi toccò il portafortuna di foglie di mais e pelliccia di gatto che portava appeso al collo con una catena. Era un'invocazione a Feya, la buona sorella di Sur, la dea
delle granaglie e della buona sorte. «Morto? Lui? Ci crederò quando vedrò le sue ossa polverizzate e la sua carne putrefatta gettate a riva sulla Spiaggia della Balena!» esclamò Bera con disprezzo. «Potrà anche essersi portato via il mio primogenito come dono a Sur, ma dubito molto che abbia reso la sua anima al Signore delle Tempeste!» «Non puoi dare la colpa a Tam Volpe per quello che è successo a Halli! Io c'ero, tu no: io ho visto quello che è accaduto. Un mostro marino, sorto dalle profondità...» «Questo lo dici tu.» Il volto di sua madre era contorto dal dolore. «Navi e mostri marini e isole piene d'oro... Tu sei peggio degli uomini, sedotti da quei racconti per sempliciotti, pronti ad abbandonare le loro case per una patetica avventura nei mari, lasciando gli altri a portare avanti tutto il lavoro e a tenere insieme ciò che resta della famiglia.» C'era una tremenda tristezza in quelle parole, ma Katla era troppo furiosa per fare un passo indietro e guardare la disperazione di sua madre con un certo distacco. Strinse invece i pugni e gridò: «È tutta colpa tua! Halli non sarebbe morto se non fosse stato per te. Sei stata tu a spingere papà ad andarsene, con tutti i tuoi piagnucolii e le continue critiche e i tuoi insulsi lavori domestici. Almeno lui sognava qualcosa di diverso, qualcosa di entusiasmante, qualcosa di... magico. Qui non c'è che noia, circondati come siamo dai tuoi patetici tentativi di non cambiare di una virgola la tua stupida, meschina vita... riparare i recinti dei maiali e rammendare i grembiuli e imparare a pelare una cazzo di carota nel modo giusto... Come se fosse importante, come se una sola di queste cose fosse importante! E tutte queste stupide smorfiose e i loro squallidi progetti di intrappolare degli uomini e ricominciare il triste ciclo tutto da capo... Io non ce la faccio più a stare qui! Papà sarebbe impazzito se fosse rimasto, proprio come sto impazzendo io al suo posto. Io non voglio che né tu né chiunque altro organizzi la mia vita: ho intenzione di farmela da sola, la mia vita, e non resterò confinata in un luogo piccolo, meschino e sciocco come Rocciacaduta. Sì, sarei salpata con papà se Fent non me l'avesse impedito! E come puoi biasimarlo per essere partito? Tu l'hai cacciato via, l'hai ripudiato... me l'ha detto lui! Lo zio Margan ti sta aiutando a divorziare!» Bera si portò le mani alla bocca, sconvolta da quell'accusa. Ferita e frastornata, si guardò intorno con gli occhi sgranati. La folla di donne la stava fissando, i volti accesi di curiosità. Quello era lo spettacolo migliore cui avessero assistito da diversi anni a questa parte, meglio ancora della Festa
d'Inverno e dei teatranti. Nonna Rolfsen guardò sua nipote con una grande tristezza negli occhi. «Oh, Katla, come hai potuto ferire tua madre così?» Ma Katla le si rivoltò contro. «E tu non sei migliore di lei!» gridò. «Probabilmente avete cospirato insieme per cacciarlo via.» La bocca di Hesta si spalancò, ma Katla aveva già rivolto la propria attenzione alle altre donne. Tutte la guardavano con diffidenza, bramose come un'orda di ratti, pronte a strappare più brandelli di scandalo che potevano da rosicchiare con avidità. Se all'improvviso fossero spuntati loro dei baffi e una pelliccia Katla non ne sarebbe rimasta affatto sorpresa. «Cosa state guardando?» gridò. «Siete tutte uguali: un branco di stupide bigotte, grette e meschine. Non farete mai niente per voi stesse, non lascerete mai le isole, non correrete mai neppure un rischio né farete niente fuori dall'ordinario. Sposerete un uomo noioso e stupido quanto voi e gli darete un branco di bambini noiosi e stupidi e morirete grasse e stanche nei vostri puzzolenti letti. Be', io non voglio saperne niente di tutto questo e non voglio saperne niente di voi!» Le donne la fissarono in silenzio; poi Kitten Soronsen cominciò a ridere. Katla la incenerì con lo sguardo, ma non ottenne altro effetto se non incitare tutte le altre a imitare Kitten, e fu con il suono della loro derisione nelle orecchie, acuto e insistente come il raglio di un branco di asini, che Katla Aransen lasciò la tenuta di Rocciacaduta per l'ultima volta. Corse finché non ce la fece più. Non sapeva neppure dove stava andando finché non si ritrovò giù sulle rocce ricoperte di conchiglie ai piedi del Dente del Segugio, con il mare che lambiva la piattaforma rocciosa del promontorio. Sopra di lei, il grande spuntone di granito si stagliava con i suoi cento e più metri di altezza, luccicante di un improbabile rosa dorato nel sole del pomeriggio. C'erano ancora fiori in boccio sulle cornici a picco sul mare nonostante fosse inverno inoltrato. Katla intravedeva le loro pallide testoline che si agitavano alla brezza: statici e licnidi, i blu lavanda di scabbiose e veccie e tra tutti il giallo luminoso delle rosette di licheni che aveva visto solo nelle Isole Occidentali. All'improvviso le sue dita sembrarono bruciare. I palmi delle mani le formicolavano: era come se la roccia la stesse chiamando. Con molta cautela si mise a tracolla l'arco che aveva preso mentre usciva di corsa dalla casa e se ne infilò un'estremità nella cintura affinché non scivolasse. Rafforzò i nodi che tenevano ferme le frecce, poi si mise a tracolla la faretra sull'altra spalla e sistemò il cinturino
di pelle finché non fu comodamente sistemato sotto il suo seno. Poi, gettando indietro la testa, si mise a esaminare la ripida scogliera, mentre il sole le illuminava col suo calore le guance rivolte verso l'alto. Un gabbiano volteggiò rapido sulla sua testa, proiettando per un istante la sua fredda ombra su di lei, poi Katla salì sulla prima cengia, inserì il pugno nelle fredde profondità di una crepa e rise forte quando una dozzina di minuscoli collemboli sbucarono fuori dalla fessura, correndo sul suo braccio e poi giù sulle rocce sottostanti. L'esplosione di energia che ricevette dal granito la colse di sorpresa. Era ormai abituata a provare un certo piacere quando scalava, a sentire un collegamento con le rocce, con i cristalli e i minerali, con le loro superfici lisce e le ruvide strutture, ma aveva sempre considerato quel fenomeno un'espressione della gioia che le dava il sentirsi libera in quei momenti, come se la forza vitale dentro di lei fosse troppo grande per essere contenuta dalla sola pelle e prorompesse fuori quando toccava una qualunque cosa. Ora però aveva cominciato a capire che non era così semplice. Qualunque cosa le avesse fatto la seither, o qualunque cosa lei stessa avesse fatto alla seither, quello strano e formidabile momento di dono e accettazione aveva in qualche modo coinvolto una terza forza, qualcosa che era arrivato da un altro posto, lontano da Rocciacaduta, e lontano dalle Isole stesse. Ora lo sentì di nuovo, questa volta come una presenza costante che invadeva i muscoli delle sue braccia e delle gambe e trasformava la faticosa e ripida salita in un'impresa molto meno impegnativa del solito. Ogni volta che tendeva la mano verso un appiglio e piegava le dita sopra il bordo era come se la roccia stessa si protendesse verso di lei e si fondesse per un cruciale istante con la sua pelle. Ogni volta che infilava un piede in una crepa o si teneva in equilibrio su una minuscola fenditura, sembrava che il granito fluisse verso l'alto, avvolgendo il suo piede, assicurandosi che non scivolasse. Era come danzare, una lenta e sensuale combinazione di movimenti, elegante e formale come una pavana, un qualcosa in cui Katla non aveva mai eccelso perché la annoiava terribilmente. Quando raggiunse la cima e strinse la mano intorno all'ultimo appiglio, un bordo largo e frastagliato che aveva la bizzarra forma di una testa di coniglio, sentì che il sangue le pulsava lento ma insistentemente in tutto il corpo. La sua mente gioiva, il suo cuore sembrava gonfio di soddisfazione. Sedendosi sul morbido cuscino degli statici con il sole sul viso, il pungente odore della brezza marina nelle narici e i piedi che dondolavano dal bordo, si sentì più viva
di quanto si fosse mai sentita prima. Per pochi secondi fu la gioia più totale; poi il ricordo del litigio con sua madre tornò a eclissare ogni altra cosa come una nuvola nera sul sole. Che sia maledetta, pensò Katla. Si tolse l'arco e la faretra dalle spalle, li posò accanto a lei sull'erba ispida e batté i talloni con forza contro la superficie rocciosa. Che siano maledetti tutti. L'ingiustizia della rivelazione di Bera la fece nuovamente avvampare. Il fatto non era che si vergognava della sua relazione con il capo dei teatranti, tutt'altro: quando ripensava a quella notte e alla mattina dopo, come le capitava di fare di tanto in tanto tirando fuori quel ricordo dalla sua mente come fosse una cordicella della memoria, intrecciata di fiori sbiaditi e ninnoli polverosi, l'unico sentimento che provava era un'infinita tristezza per aver perduto un uomo così vitale, per il fatto che non avrebbe mai più potuto ripetere quell'eccitante rapporto proibito... Ma quelli erano solamente affari suoi, e odiava l'idea che ora tutte avrebbero spettegolato e si sarebbero considerate migliori di lei perché tenevano le gambe chiuse sperando in un buon matrimonio. Sarebbe stata dura tornare alla fattoria. Passò in rassegna le alternative. Erano veramente poche: avrebbe potuto prendere una faering, sperare che il tempo si mantenesse bello e remare per le venti miglia di mare tra lì e Isola Nera. Ma Isola Nera era povera e Katla non sapeva quale genere di lavoro o di rifugio avrebbe potuto trovare lì: la sua gente aveva già abbastanza problemi a provvedere a se stessa nel migliore dei casi e difficilmente avrebbero accolto a braccia aperte un nuovo arrivato, specialmente se era la figlia del Signore di Rocciacaduta, che aveva convinto tutti i loro uomini a seguirlo nella sua folle impresa. Avrebbe potuto remare verso nord nelle acque più turbolente oltre l'Isola d'Uomo e più avanti verso Isola del Ghiaccio; ma era una traversata molto più pericolosa e quell'isola era per lo più deserta. Sarebbe potuta restare a Rocciacaduta e rimettersi alla mercé della vecchia Ma Hallasen, a esempio. Aveva il suo arco e le sue frecce: avrebbe potuto riportarle dei conigli come parte dell'accordo. Ma l'idea di dover dormire con la capra della vecchia pazza e con quel suo branco di strani gatti non era affatto allettante. Anche se il pensiero di tornare alla fattoria era di gran lunga peggiore. Orgoglio: sapeva di averne fin troppo ed era consapevole che era uno dei suoi peggiori difetti, che spesso la spingeva a dire cose che non pensava veramente. Ma poteva anche essere un pregio che la spronava a lavorare più sodo degli altri, e come tale era una benedizione. In entrambi i casi era difficile da soffocare: le serrava il petto come in una morsa e le impediva
di chinare la testa quando avrebbe dovuto. Fu in quel momento che vide la nave. Sbucò alla sua destra, lontano all'orizzonte, dove aveva appena oltrepassato la lunga linea di nere scogliere frastagliate a guardia delle coste orientali di Rocciacaduta. Era una minuscola forma stagliata contro il cielo, ma Katla riuscì ugualmente a distinguere le sue linee asciutte e la singola vela quadra. Il cuore le balzò in gola. Era tornato per lei... Ma sì, era ovvio che fosse tornato, quando si era reso conto dello scherzo crudele di Fent. Oppure si erano scontrati con banchi di ghiaccio troppo impenetrabili in quel periodo dell'anno e avevano deciso di aspettare fino a primavera prima di ripartire. Si alzò e si protesse gli occhi dal sole, fissando l'orizzonte. Era meglio correre giù al porto per accoglierli o salutarli da lassù, dalla cima del Dente del Segugio? In qualche modo le sembrava meglio la seconda idea, ossia agitare freneticamente le braccia dallo stesso punto, metro più metro meno, dove il suo amato gemello l'aveva lasciata legata e imbavagliata. Perciò si sedette e aspettò l'arrivo della nave, con un ampio sorriso stampato sul volto. Avrebbe avuto la possibilità di vedere la mitica Santuario, dopo tutto. Era come un miracolo, come se la voce che aveva sentito nella roccia, con la sua presenza e la sua forza, stesse vegliando su di lei. E lei non poteva fare a meno di sorridere estasiata. Pochi minuti dopo la nave virò di bordo per prendere il vento e Katla vide una seconda vela più piccola legata a una boma. Si portò le mani alla bocca, sbalordita. Non era il Lungo Serpente, allora, e forse non era neppure una nave eyrana. Continuò a fissarla con gli occhi sgranati, incapace di credere a quello che vedeva. Un istante dopo si alzò in piedi e iniziò a correre, gridando a squarciagola, anche se non c'era nessuno per più di un chilometro che potesse sentirla. In basso, alla fattoria e intorno al porto, le donne continuavano il loro lavoro e le loro chiacchiere senza il minimo sospetto che quando il sole sarebbe calato quella sera su Rocciacaduta il corso della loro vita sarebbe cambiato per sempre. 28 Naviganti Mam accarezzò la liscia schiena di Persoa e sospirò. La sua mente era
deliziosamente vuota: per lei quello era il massimo dell'appagamento e della tranquillità. Quella sera, mentre la luce del sole si tingeva del rosso del tramonto, avevano attraccato la nave al largo di un'ampia spiaggia di sabbia dell'isola nota semplicemente come 'Isola Lontana', avevano acceso un fuoco e avevano cucinato il primo pasto caldo da diversi giorni a quella parte. Dopo mezzo barilotto di piscio di stallone, il montone bollito e i porri selvatici le erano parsi quasi saporiti. Poi il resto dell'equipaggio aveva cominciato a dare fondo anche a un secondo barilotto, il che aveva fornito a lei e all'eldianna l'opportunità di erigere una tenda di fortuna con la tela da vela di riserva e alcuni rami per mettersi al riparo da occhi indiscreti. Erano quattro giorni che non si toccavano: la vita a bordo di una nave non favoriva di certo i rapporti sessuali, se non per i più esibizionisti o gli esaltati, e Mam aveva una gran voglia di sentire le mani di Persoa su di lei. Ora, alla luce tremolante di tre stoppini di licheni fluttuanti in una ciotola d'olio di balena, stava esaminando i meravigliosi tatuaggi dell'uomo delle colline, seguendone le linee con dita sorprendentemente delicate per una donna di aspetto così massiccio e feroce. Sulla schiena lunga e scura di Persoa gli intricati ghirigori dei suoi simboli tribali esplodevano in una straordinaria orgia di forme e colori. La prima volta che aveva visto Persoa nudo per poco non le era venuto un colpo: i marinai del Nord a volte tornavano dai climi più esotici con dei tatuaggi che si erano procurati, ubriachi e istupiditi, in qualche bettola di terz'ordine vicina al porto, generoso dono di cosiddetti amici, e di solito erano scritte volgari e piene d'errori di ortografia; alcuni invece si facevano da sé dei semplici disegni con l'inchiostro nei momenti di noia quando erano in mare; ma mai in tutta la sua vita lei aveva visto qualcosa di remotamente simile ai tatuaggi dell'uomo delle colline. Creature e luoghi mitici invadevano tutto il suo torace e la schiena, come in uno degli arazzi della Grande Sala del re. Personalmente lei aveva ben poco interesse per l'arte e ancor meno per gli artisti (non riusciva a immaginare un branco di gente più inutile, più vanitosa e più egocentrica) né tempo da perdere con quei ridicoli racconti di dei e dee, bestie favolose e bizzarre magie che sembravano affascinare il resto della popolazione, sia al Nord che al Sud; ma persino lei doveva ammettere che i tatuaggi di Persoa erano una delle meraviglie di Elda. Aveva dimenticato quell'inquietante bellezza nel periodo in cui erano rimasti separati, o forse l'aveva spinta nei più profondi recessi della sua memoria per buona pace mentale, e successivamente, quando erano a Halbo, era stata troppo presa da altre funzioni dell'anatomia dell'uomo delle
colline per perdere tempo a esaminare i suoi tatuaggi, ma ora, finalmente soddisfatta e curiosa, si scoprì nuovamente affascinata da quei disegni. Sull'ampia schiena dell'uomo le colline di Farem cedevano il passo alle classiche montagne coniche della catena montuosa del Sud, con la loro pioggia di ceneri vulcaniche e le loro fumarole. Sopra di esse fluttuavano nubi scure come un cattivo presagio, costellate da lampi di luce e acquazzoni di pioggia e grandine dorata, mentre giù in basso, lungo il fianco sinistro di Persoa per proseguire poi sulla sua pancia, la scena della fuga di Falla da un invisibile inseguitore era delineata in sfarzosi dettagli. Stava per chiedere all'uomo delle colline di girarsi quando qualcosa attirò la sua attenzione: il Picco Rosso appariva diverso. Guardò più da vicino. La grande montagna sembrava essersi spaccata a metà, mostrando un interno di un fiammeggiante cremisi. Doveva essersi fatto fare un ritocchino recentemente. «Ottimo lavoro» mormorò Mam. «Forent o Cera?» Per un istante non ci fu risposta, poi Persoa bisbigliò con voce assonnata: «Non capisco cosa vuoi dire.» «Il tuo tatuaggio, mio bel selvaggio, il tuo tatuaggio. Ti sei fatto fare quello nuovo a Cera o a Forent?» Persoa rotolò su un fianco e la fissò, perplesso. Mam si ritrovò davanti la magnifica vista di un petto dorato e di una pancia piatta lambita dalle fiamme; e poi fu distratta dal suo uccello grosso e vellutato che tornava in vita. Con mano ferma spinse giù Persoa sulla pancia e lo tenne lì con consumata abilità. L'uomo delle colline voltò il viso verso di lei da sopra una spalla e la luce delle candele si riflesse nelle profondità dei suoi occhi neri. «Come sempre sono tutto tuo, perché tu faccia di me ciò che vuoi, mia micina.» Nessun individuo sano di mente avrebbe mai pensato di chiamare Mam 'mia micina'. Lo zio Garstan una volta aveva provato a chiamarla 'mia gattina' mentre tentava di piegarla su una balla di fieno nella stalla e armeggiava con i suoi mutandoni, e quasi a confermare quel nomignolo lei gli si era rivoltata contro come una bestia feroce e l'aveva graffiato in faccia più forte che aveva potuto. L'amato zio non aveva avuto l'opportunità di ripetere il suo gesto: lei gli aveva dato una bella ginocchiata all'inguine, aveva rubato il suo coltello e un piccolo sacchetto d'argento e aveva lasciato per sempre la sua fattoria. Ma quando Persoa le parlava così, le faceva venire voglia di fare le fusa. «Ti sei fatto modificare il tatuaggio» disse tentando di concentrarsi sul
disegno e di non pensare a quell'altra cosa interessante che aveva visto sul davanti. «Il Picco Rosso sta eruttando.» Persoa era il ritratto dell'incredulità. «Eruttando?» «Ci sono fiamme e fumo che escono dalle sue pendici, e...» Prese una candela e la avvicinò ai suoi glutei. Due o tre gocce d'olio bollente caddero pigramente dalla ciotola. Persoa gridò e si agitò, ma Mam non lo lasciò andare. «E qui» disse seguendo i peli che crescevano tra i due possenti muscoli «c'è qualcos'altro.» Chinandosi su di lui, gli aprì le natiche con le forti dita dell'altra mano e l'uomo delle colline prese a dimenarsi, a disagio. «Stai fermo» lo ammonì Mam. «Non ti farò niente di innaturale.» Tacque per un istante, poi sorrise. «A meno che tu, ovviamente, non lo voglia.» Un'altra goccia di olio di foca cadde su di lui e scivolò lungo il solco. «Ti ringrazio, ma no.» «Be', guarda qui... Ah, non puoi: allora ti dirò io cosa vedo. Il Picco Rosso si è spaccato vicino alla base della montagna e ne sta emergendo qualcosa... una figura, forse, anche se è difficile dirlo, con questa luce. O da questa posizione.» «Una figura?» «Tutta nera e ispida... come un folletto o uno spirito maligno.» In quell'istante Persoa fece uso della sua considerevole forza e, gettando a terra il capo dei mercenari, balzò via verso l'angolo della tenda, il viso contorto dall'orrore. La ciotola di steatite volò nell'aria, versando l'olio bollente tutto intorno a loro e bagnando il bordo della tela da vela. Pochi secondi dopo il fuoco attecchì e il loro rifugio cominciò a bruciare, ma ciononostante l'eldianna rimase dove si trovava, con le ginocchia strette contro il petto, a ripetere ossessivamente, «Il Signore della guerra, il Folle, il Signore della guerra, il Folle: che la Signora ci aiuti tutti...» Mam balzò in piedi e a mani nude strappò la tela in fiamme dalla struttura e la gettò lontana. Strepitò nella notte come una cometa, attirando l'attenzione del resto dell'equipaggio. «Che gli dei mi accechino» mormorò Joz Manodiorso, alzando gli occhi dai suoi astragali per fissare sbalordito il bizzarro quadretto. Non aveva mai visto il suo capo nuda prima d'ora; in effetti non aveva neppure avuto il minimo desiderio di farlo, e ora sapeva perché. A dire la verità a lui piacevano le donne formose, ma non così tanto. Si chiese stupito come cavolo facesse a tenere quelle due cose al loro posto durante una battaglia, e poi ricordò di aver visto delle strisce di rigido lino tra gli oggetti di Mam, e di aver pensato che fossero delle bende. E in effetti erano delle bende, da un
certo punto di vista, ma non per un normale tipo di ferita. «Guarda un po' quelle due tette» mormorò Dogo sbalordito. «Hai mai visto una cosa così mostruosa come - ahi!» «Mostra un po' di rispetto» lo rimproverò Doc. «Se Mam viene a sapere che stavi guardando le sue tette in quel modo, ti ritroverai a corto di due importanti parti del tuo corpo prima che tu possa dire 'passera di Feya'.» Dopodiché tutti tacquero. Stranamente nessuno disse una parola su quell'episodio per il resto della notte, né quando ripartirono la mattina dopo; e nessuno osò chiedere perché l'eldianna se ne andava in giro per la nave a eseguire i suoi compiti con gli occhi sgranati di un uomo che aveva subito un forte shock, né perché la tenda era andata a fuoco. Come uno delle più giovani spade in vendita di Halbo confidò a Erno: «È una donna forte, quella Mam. L'ultima volta che ho visto un uomo ridotto in quello stato fu dopo che si era portato a letto Ketya TreMani e le sue sorelle al Sollievo del Marinaio. Il pover'uomo non ha mai più camminato come prima.» Un capannello di ragazze si era riunito sul molo per salutare e gridare il proprio benvenuto alla nave che si avvicinava: da dove si trovava sul sentiero che scendeva verso terra dal Dente del Segugio, Katla riuscì a distinguere le forme di Kitten Sorensen, Magia Felinsen e Hildi la Magra, che sembrava essersi miracolosamente ripresa dal collasso, insieme con Fonia Stensen, Kit Farsen e Ferra Bransen e due donne più anziane che potevano essere del clan di Roccia della Foca o forse erano la vecchia Ma Hallasen e la sua amica Tian... da quella distanza era difficile dirlo. Quello che riusciva a vedere, però, era che nei pochi minuti intercorsi tra l'avvistamento della vela da parte di qualcuno su alla fattoria e la corsa generale verso il porto, Kitten era riuscita a cambiarsi d'abito e ora indossava la sua migliore tunica di seta scarlatta, che le faceva risaltare gli occhi e i capelli. Probabilmente avrebbe attratto più attenzione di quella che avrebbe voluto con quella roba indosso, pensò Katla torva. E non da parte di un bravo e onesto marinaio del Nord, purtroppo. Aveva rinunciato a tentare di gridare per farsi sentire: erano tutte concentrate verso il mare e nessuna stava guardando nella sua direzione. Socchiudendo gli occhi vide Breta la Grassa scendere ansimando lungo il ripido sentiero che dalla fattoria conduceva al porto in compagnia di Marin Edelsen, e dietro di loro c'era Otter, la madre di Magia, insieme alla signora di Rocciacaduta, Bera Rolfsen in persona; alle sue spalle c'era la vecchia nonna Rolfsen appoggiata al suo robusto
bastone. Stringendo i denti quando un rovo di more le graffiò i polpacci, Katla raddoppiò i propri sforzi. L'imbarcazione era abbastanza vicina ora: possibile che nessuno si rendesse conto che quella non era una nave eyrana, e tanto meno l'elegante rompighiaccio di suo padre? Ma le ragazze non sapevano praticamente niente di navi, e le anziane, cui le navi del Sud erano apparse in quelle acque più di vent'anni prima, purtroppo non avevano più la vista buona di una volta. Katla le maledisse tutte per la loro stupidità e per la vecchiaia. «Non è il Lungo Serpente!» gridò per la centesima volta, anche se sapeva che invece di arrivare agli abitanti di Rocciacaduta in basso la sua voce sarebbe stata portata in alto dal calore dell'aria come il grido di un gabbiano. Sarebbe arrivata giù in tempo per avvertirle? La strada dalla cima del Dente del Segugio al porto era lunga: anche prendendo il sentiero meno impervio c'erano all'incirca cinque chilometri dalla sommità al livello del mare e le ci sarebbe voluta una buona mezz'ora. E oltretutto il sentiero meno impervio sbucava in una parte più settentrionale della scogliera rispetto a quella dove l'aveva condotta il suo percorso preferito per la scalata. Il sentiero che stava percorrendo in quel momento era più diretto, ma molto più ripido e costellato di tane di conigli più che felici di inghiottire un piede e spezzare una caviglia, e di massi e affioramenti di granito nascosti sotto cespugli di rovi, di ginestra e di felci. Se non stava attenta a ogni passo che faceva, era probabile che avrebbe finito per rompersi il collo e morire in quel luogo desolato senza essere di aiuto a nessuno. A un certo punto il sentiero, che finora si era affacciato verso il mare, cominciava ad allontanarsi dalla costa seguendo una gola rocciosa giù nella valle dietro il porto: per diversi minuti Katla non sarebbe riuscita a vedere né la nave né la sua gente, e le sue grida sarebbero state assorbite dalle pareti della gola. Non c'era altro da fare che correre a perdifiato e sperare di raggiungere le donne prima che l'equipaggio della nave riuscisse a sbarcare. E se erano razziatori, allora cosa avrebbe fatto? le ripeté una voce nella sua testa. Nessuna di loro aveva un'arma, né sapeva com'era fatta una spada: che speranza avevano, in quel caso? Forse, insinuò la voce, sarebbe meglio se riducessi le perdite. In fondo non si meritano altro, dopo tutto quello che hanno detto di te e il modo in cui ti hanno trattato. Corri verso l'interno e salvati, sgattaiola alla fattoria, prendi la tua spada e le tue cose, e fuggi via mentre i visitatori sono impegnati giù al porto... Katla ringhiò, infuriata con se stessa. Aveva rinunciato a capire da dove venivano quelle voci, se erano dei dialoghi interni che aveva con se stessa
o se provenivano da tutt'altra fonte. Chiudi il becco! disse severamente alla voce, qualunque origine avesse. Non posso ascoltarti e correre allo stesso tempo. A testa bassa, col respiro che le lacerava dolorosamente il petto, Katla corse. Il Lungo Serpente era in effetti molto, molto lontano dal suo porto d'origine di Rocciacaduta, e non semplicemente dal punto di vista geografico. Le nebbie si erano diradate e gli uomini erano di nuovo ai remi, ma remavano tra i mari ghiacciati in animoso silenzio, e il loro numero era grandemente diminuito. Dalla scomparsa di Bran Mattson e Tor Bolson altri tre erano svaniti, nonostante il capitano montasse la guardia costantemente. Aran Aranson non dormiva da quattro giorni. I suoi occhi erano arrossati e doloranti e le orbite erano circondate da pelle sottile scura come un livido. Non era sempre attento a ciò che si diceva intorno a lui, e quando ascoltava era collerico e irascibile. Mangiava quello che Mag Linguadiserpente gli metteva davanti, ma senza gusto e senza pronunciare una sillaba; declinava ogni offerta di vino o birra; consultava spesso la sua mappa. La maggior parte degli uomini lo evitava; alcuni si riunivano in piccoli gruppi alla fine del loro turno e dicevano che se avessero perso un altro uomo in mare sarebbe stati necessario voltare la nave per tornare a casa. Nessuno avrebbe mai saputo la verità, bisbigliavano tra loro; ma anche se erano arrivati quasi a crederci, nessuno si offriva volontario per fare la prima mossa. Urse li guardò e capì quello che pensavano. Lanciò a Emer Bretison, il capobanda, uno sguardo severo, e vide il ragazzotto sostenerlo per diversi secondi prima di abbassare gli occhi, confuso: in quel momento fu sicuro che non avrebbero fatto niente di concreto. Urse non agiva in quel modo per malriposta lealtà nei confronti di Aran Aranson, ma perché era sua opinione che si fossero uniti alla spedizione di loro volontà, e che mettendo piede a bordo del Lungo Serpente avessero accettato tutte le conseguenze della loro avidità. La misteriosa scomparsa dei loro compagni, tuttavia, andava ben oltre i rischi che normalmente si correvano in una spedizione del genere: Urse non sapeva che pensare di quell'enigma, a parte il fatto che, come il suo capitano, si rifiutava di credere alle storie sui camminatori della notte e sugli spiriti. Una volta, nel cuore della notte, aveva sentito un debole grido e un tonfo, ma la luna era coperta dalle nubi e lui non aveva potuto vedere niente. La mattina dopo Jad l'acrobata era scomparso, anche se nessuno tranne lui
era sembrato notare la sua assenza. Quando alla fine se n'erano accorti, Fall Ranson aveva borbottato frasi sconnesse sul fatto che il ragazzo era esausto per le lunghe giornate trascorse ai remi e disperato all'idea che l'unica destinazione che avrebbero raggiunto sarebbe stato il Grande Sepolcro di Sur, finché Flint Hakason non l'aveva zittito dicendo, «E tu sarai il prossimo?» Ora il ghiaccio stava diventando sempre più spesso e più difficile da affrontare. Enormi lastre bianche, interrotte di tanto in tanto da neri canali liberi dal ghiaccio, si estendevano verso nord, perdendosi in una semioscurità costante. Il Lungo Serpente si gettò nel primo dei canali con Urse al timone, che gridava ordini a un equipaggio come ipnotizzato da quel nuovo paesaggio che lo circondava. Più penetravano in quel labirinto gelido, più le formazioni diventavano bizzarre. In principio erano solo piccole quantità di ghiaccio che sporgevano dalle acque oscure come tanti gioielli. Quando queste colpivano lo scafo provocavano un rimbombo sproporzionato alle loro dimensioni e le assi scricchiolavano come se dovessero spaccarsi da un minuto all'altro. Per ore e ore Aran rimase disteso a prua, sporgendosi per metà fuori dalla nave per allontanare i blocchi più grandi con un lungo raffio, ma anche così un migliaio di pezzetti più piccoli continuavano a sbattere contro lo scafo, graffiando e ammaccandone il duro legno. Sotto un freddo cielo color del peltro, lente spirali di vapore si levavano al passaggio della nave come spettri, attardandosi nell'aria crepuscolare come se aspettassero il momento di solidificarsi in spaventosi mostri assetati di sangue. Si avviluppavano persino intorno alla sagoma prona del Signore di Rocciacaduta, quasi a volersi insinuare in lui per impossessarsi del suo corpo per i loro scopi. Mentre il grigio cedeva il passo al rosa e al viola del tramonto artico, la nave entrò in un territorio completamente diverso, un luogo che prometteva visioni ancor più inquietanti perché era differente da qualsiasi cosa avessero mai visto. In principio arrivarono degli iceberg a torreggiare intorno a loro come gigantesche sentinelle o favolosi castelli dalle lisce pareti di antico ghiaccio tinte d'oro e vermiglio e porpora. Mentre passavano, la scia della nave rullava lungo il canale come onde di marea, e quando queste si scontravano con gli iceberg il fragore era quello di tuoni in lontananza. «Mio Sur,» mormorò Mag Linguadiserpente, gli occhi scuri che riflettevano il formidabile paesaggio davanti a lui, «sembra davvero la fine del mondo.» Ma le stranezze non erano terminate.
Quando la luce del giorno cominciò a sbiadirsi, sentirono quella che sembrava una voce in lontananza. «Sterne?» chiese Jan, guardando verso Flint Hakason. L'uomo dai capelli scuri inclinò la testa come un cane che tenta di ascoltare qualcosa che è oltre la portata del suo udito. «Forse gabbiani» disse dopo un momento. Ma non sembrava convinto. «È troppo buio» dichiarò Aran Aranson, scuro in volto. «E siamo troppo lontani dalla terra.» «Procellarie» asserì Urse. «A me sembrano procellarie.» Il resto dell'equipaggio si mise in ascolto. Per diversi momenti non ci fu altro che il sibilo dell'aria sulla superficie del ghiaccio e il turbinio dei cristalli che sfioravano i loro visi e si impigliavano nelle barbe. Poi tornò quel suono, acuto e spezzato sia dal vento che dalla distanza. Gli uomini del Lungo Serpente tesero le orecchie, immobili e intenti. Poi, «Per Sur,» disse Pol Garson alla fine, la voce piena di terrore, «è una canzone.» Ora la sentivano tutti: il beccheggio e il rollio delle note nel vento, troppo ritmico per essere naturale, troppo melodico per essere casuale, e troppo lontano da qualunque luogo abitato per non raggelare il sangue... ma ancora troppo distante dalla nave per capire cosa fosse veramente. Mag afferrò il braccio del capitano. «Torniamo indietro» gemette, affondando le dita nei bicipiti di Aran. «Andiamocene da qui prima che sia troppo tardi.» «Sì, capitano, mettiamoci subito ai remi!» gridò Gar Felinson, la testa brizzolata che annuiva selvaggiamente a dimostrare il panico che lo attanagliava. Urse Orecchiomozzo sembrò d'accordo. «Non mi piace affatto questa storia.» Ora gli uomini stavano parlando tutti insieme, muovendosi di qua e di là in preda al terrore. Diversi corsero al proprio posto ai remi e si misero in posizione rivolgendosi ansiosi verso il loro capitano; altri corsero ai capi di banda e guardarono spaventati nell'oscurità con le mani sull'elsa dei loro pugnali. Flint Hakason marciò fino all'albero e slegò l'arpione, brandendolo con espressione cupa. Il suono divenne sempre più forte e più facile da distinguere nei suoi più agghiaccianti particolari. Qualunque cosa ci fosse lì nel buio, sembrava avere una certa difficoltà ad andare a tempo, perché le note si facevano a tratti molto flebili o venivano inghiottite dall'oscurità della notte. Ma cio-
nonostante ben presto fu chiaro che le parole erano quelle di una canzone fin troppo nota a ogni uomo a bordo: il Lamento del Marinaio. Era fanciulla libera e leggiadra Bella e fulgente come non ce n'è. Con innocente gioia si donava E un dì felice si promise a me Ma vollero i Fati ch'io dovei partire Per mari fitti di nebbie e di mistero, Lontani dalle isole felici Dov'era l'amor mio, unico e vero Mentre salpavo per mari tempestosi L'amor suo per me morì. Io, misero, sognavo il mio tesoro E lei con un altro mi tradì. Molti compagni nel Nord ho perduto che l'oceano rapì nel suo gelido abbraccio. Ma adesso è la mia rotta che è diretta del grande Sur al sepolcro di ghiaccio. Nulla oramai mi trattiene in questo mondo Tutto ciò che amavo non v'è più. Silenzio, pace e morte io bramo Svanito è il mio amore e la mia gioventù. Mentre le ultime note si affievolivano, dall'oscurità giunse una terribile apparizione: una misera barca con la vela a brandelli mossa da una brezza silenziosa. Era una piccola faering, l'ultima speranza di poveri naufraghi. Le sue assi erano danneggiate e sbiadite dalle intemperie e della nave da cui proveniva non c'era alcuna traccia. Gli uomini del Lungo Serpente si fecero il segno del marinaio contro i disastri e strinsero le loro ancore d'argento come se quei ciondoli avessero il potere di proteggerli da ogni male. Allungarono il collo per vedere chi fosse a cantare, ma per lungo tempo l'oscurità impedì loro di distinguere i particolari. Pochi momenti dopo desiderarono di non aver mai veduto quello che vi-
dero. Una solitaria figura sedeva all'interno della barca. Il suo viso era annerito dagli elementi e gli occhi erano due buie cavità che riflettevano il fuoco della torcia che Aran Aranson teneva in mano. Le labbra inaridite erano tese a mostrare i pochi denti rimasti. I capelli e la barba erano lunghi e ricoperti da una qualche pastosa sostanza che era colata anche su quei pochi stracci che la figura ancora indossava. Gli stivali non c'erano più, e in basso si intravedevano un lungo piede bianco e un orribile moncone dall'altra parte. In mano aveva ciò che sembrava uno strano oggetto in avorio, mentre ammucchiati tutti intorno a lui, come in uno dei leggendari tumuli funerari degli antichi Eyrani, biancheggiavano ossa e crani dalle orbite vuote. «Per gli occhi di Feya!» gridò Emer Bretison, talmente sconvolto dalla terrificante visione da invocare la dea delle donne. Flint Hakason lasciò cadere l'arpione. «Che il dio ci protegga!» «Brutto bastardo assassino!» «Come? Cosa?» chiese Fall Ranson lentamente, gli occhi già sporgenti che sembravano uscirgli dalle orbite. Continuò a fissare l'ossario che circondava la figura nella faering senza capire quello che stava succedendo. «L'equipaggio... Cosa è successo al resto dell'equipaggio?» «Li ha mangiati...» Da quel momento nessuno poté fare a meno di notare anche i più macabri dettagli: come le ossa delle gambe di quei poveretti erano state spezzate e private del midollo; il coltello che sporgeva da ciò che rimaneva di una gabbia toracica; il cranio che era stato spaccato in due, a mostrare una vuota cavità biancastra. E poi, alla fine, Urse, riconoscendo ciò che il sopravvissuto stringeva tra le sue dita ad artiglio, «Per Sur, nostro Signore» mormorò inorridito. «Ha mangiato il suo stesso piede...» «È vero! È vero!» Una folle risata lacerò l'aria. «Si è mangiato il piede! Si è mangiato il piede!» cantilenò Fent, gli occhi accesi di follia. Un istante dopo si udì uno strano sibilo e un tonfo, e il cannibale cadde all'indietro sulla pila di ossa. Il pallido moncone della sua gamba si contrasse convulsamente per pochi secondi, poi il corpo restò immobile. L'arpione gli aveva trapassato lo scheletrico petto e si era conficcato nel legno della faering. Era un'arma progettata per colpire un narvalo o una balena: lanciata contro una così misera preda, la forza con cui colpiva era spropor-
zionata, selvaggia. Di lì a poco scure pozze d'acqua di mare cominciarono a formarsi intorno ai resti del sopravvissuto, e in men che non si dica la faering affondò. Aran Aranson voltò le spalle a quella scena di morte. Camminò a grandi passi lungo il ponte del Lungo Serpente e rimise a posto l'arpione che aveva ritirato sul suo supporto, fissandolo con la corda. Poi si sedette ai remi e cominciò a remare con tutte le sue forze. Gli uomini presero rapidamente posto accanto a lui e si affrettarono a mettere i remi in mare, sollevati di avere qualcosa da fare che potesse distrarli dall'orribile scena a cui avevano assistito. In poco tempo la nave superò il luogo dell'apparizione che avrebbe ossessionato ognuno di loro fino alla morte. Per alcuni, questa sarebbe arrivata prima che per altri. Per Bret, il ragazzo della costa orientale, quella fu l'ultima cosa che i suoi begli occhi blu videro mai; quella, e l'onda nera che lo inghiottì quando Fent Aranson gli mise una mano sulla bocca e con l'altra lo spinse silenziosamente fuori bordo nella tumultuosa scia della nave. 29 Razziatori Quando Katla emerse dalla tortuosa gola nella landa ai piedi della scogliera era già troppo tardi. Il tempo di superare il pantano intorno al ruscello di Zampa di Pecora e correre a rotta di collo giù per il ripido sentiero di ciottoli accanto alla baracca di Ma Hallasen, dove la variopinta collezione di capre e gatti della vecchia la guardò passare con un'espressione ostile negli occhi ugualmente stretti e dorati, e la strana nave era già entrata nel porto e le donne di Rocciacaduta stavano fin troppo lentamente rendendosi conto del loro errore. La nave che stava calando in mare le sue scialuppe non era il Lungo Serpente, né, come Katla aveva capito diversi preziosi minuti prima, una nave del Nord, ma una lunga e goffa imitazione di un vascello, che, a dispetto delle circostanze avverse, aveva affrontato i pericoli dell'Oceano del Nord e ne era uscita indenne. Era capitanata da un uomo che persino i suoi amici (che erano pochi e per la maggior parte morti, oramai) chiamavano 'il Bastardo', e governata da una ciurma di tagliagole, criminali e malfattori provenienti da ogni angolo dell'Impero. Ma invece che capire tutto questo e darsi immediatamente alla fuga, le
donne sul molo erano paralizzate dalla curiosità. I nuovi arrivati erano abbigliati in modo esotico e stranamente ben rasati. Con la loro pelle scura e i capelli ancora più scuri, erano così diversi dai robusti e rozzi uomini dalla carnagione chiara e dalle barbe incolte delle isole del Nord... Invece di tuniche tessute in casa e farsetti di cuoio, indossavano sete e lini dai mille colori che luccicavano di perline e punti metallici. Le loro cinture e catene erano d'argento e bronzo; avevano anelli d'argento alle dita e bracciali d'argento battuto alle mani, collane di calcedonio e orecchini di filigrana con gocce d'ambra incastonate che brillavano come l'oro nel sole del tramonto. Invece di soprasberghe di cuoio consumato indossavano lucenti cotte di maglia, e in luogo di grosse asce di ferro portavano sottili spade d'argento. «Scappate!» grido Hildi la Magra, che era meno stupida di quanto sembrava. «Scappate, presto, o morirete!» Ferra Bransen e Kit Farsen la guardarono con gli occhi sbarrati mentre sollevava le gonne, rivelando calze di lana spaiate e spiegazzate, e correva su per la strada che risaliva dal molo con un gran baccano di zoccoli sporchi di escrementi di maiale sulle pietre del selciato. Lì superò Kitten Soronsen col suo migliore vestito cremisi e Magia Ferinsen, che fissò a bocca aperta il suo sedere magro che si allontanava su per il sentiero. «Che creatura ridicola» sbottò Kitten con alterigia. «Lasciarsi spaventare da un gruppo di mercanti. Chissà cos'hanno portato con loro... Sono abbigliati molto finemente, forse per mostrare parte delle loro merci. Io non disdegnerei qualche nuovo gioiello o una pezza di seta galiana verde smeraldo...» Più in su Hildi la Magra incontrò un capannello di donne che le gridarono dietro, «Dove te ne vai così in fretta, Hildi Piedediconiglio? Ti brucia la casa o il cane ti sta mangiando la cena?» Una delle donne di Roccia della Foca diede di gomito alla vicina e sorrise. «È andata a mettersi dei mutandoni puliti,» ridacchiò lasciva «nel caso la puzza di quelli che porta cacciasse via i nuovi arrivati!» A quella battuta tutte risero allegramente per diversi minuti, ossia il tempo necessario alla prima barca per arrivare al molo e a due uomini per arrampicarsi sulle scalette di ferro, con i coltelli stretti in mezzo ai denti. Neppure la vista dei due feroci tagliagole mise in allarme Magia Ferinsen. Si voltò verso la sua amica per commentare l'eleganza dei loro capelli neri ben oliati sul capo e dei loro profili aquilini e scoprì che Kitten Sorensen non c'era più: la sua figura ammantata di cremisi stava correndo verso
il sentiero che riportava alla fattoria. Quando tornò a voltarsi verso il mare, gli uomini le erano già addosso. Uno di loro l'afferrò rudemente per i polsi e la tenne ferma con una mano, la testa leggermente piegata da un lato mentre la studiava con occhio critico. Con l'altra mano le strinse il seno sinistro con forza. Magia si infuriò. Se un uomo del Nord si fosse comportato in quel modo con lei, anche in preda ai fumi dell'alcool, avrebbe potuto chiedere che i suoi parenti maschi lo punissero con i pugni e i coltelli, o lo bandissero dall'isola o lo costringessero a pagare una sostanziosa multa. Lui e l'intera sua famiglia sarebbero stati disonorati dal suo comportamento. Di certo non sarebbe mai riuscito a sposarsi in quella regione e con tutta probabilità avrebbe dovuto prendere il mare per tutta la vita. Solo un uomo molto coraggioso o molto sciocco avrebbe osato sfidare Magia Ferinsen. La donna era nota in tutte le Isole Occidentali per la sua lingua tagliente e implacabile, e fu con quella che affrontò l'uomo che l'aveva aggredita. «Toglimi le mani di dosso, sporco barbaro! Come osi toccarmi così senza la minima parola di saluto o una presentazione formale? Dovresti vergognarti di te stesso, toccare una donna in questo modo. Non vi insegnano le buone maniere da dove venite voi? E da dove venite, in ogni modo?» L'uomo indietreggiò con espressione disgustata. Allontanando Magia da sé, si voltò verso il suo compagno e disse qualcosa di complesso e inintelligibile nella sibilante lingua del Sud, e l'altro uomo rise e rispose in maniera simile. Poi, con assoluta indifferenza, l'uomo tirò indietro la mano libera e colpì Magia in pieno viso con un pugno. La donna sgranò gli occhi per la sorpresa, poi si accasciò al suolo. La vista di Magia Ferinsen aggredita in quel modo gettò il panico tra le altre donne. Forna Stensen, Kit Farsen e Ferra Bransen gridarono e se la diedero a gambe, quasi raggiungendo Kitten Soronsen nella loro corsa disperata. Le vecchie smisero di farfugliare e guardare con aria imbambolata, si sollevarono le gonne e si precipitarono su per il sentiero a una notevole velocità per donne della loro età, in tutto e per tutto simili a un branco di oche sorprese dalla volpe. Breta la Grassa, tutta rossa in faccia per lo sforzo di correre giù per la collina verso il porto, fece un profondo respiro, si voltò e affrontò ansimando la salita con la piccola Marin Edelsen che la tirava per la mano. Bera Rolfsen, la signora di Rocciacaduta, era stupefatta. Lei e Otter Garsen stavano scendendo lentamente verso il porto, assorte in una conversa-
zione sui meriti delle punizioni e delle ricompense nell'allevare figlie difficili, e di conseguenza non erano state testimoni dell'incidente che aveva coinvolto la figlia ribelle di quest'ultima e il marinaio istriano. Fu solo quando Hildi la Magra passò loro accanto gridando «Razziatori, razziatori!», seguita a breve distanza da Kitten che correva a testa bassa e senza neppure accorgersi dei graffi profondi che i cespugli di rovi stavano procurando alle sue gambe nude, che capirono che c'era qualcosa che non andava. Bera scrutò la scena in basso, vide che anche le vecchie stavano fuggendo via dal porto e capì in un istante la situazione. «Mio Sur, Otter» esclamò, afferrando l'altra donna per un braccio. «Sospetto che i nuovi arrivati non siano il tipo di visitatori che desidereremmo accogliere sulle nostre spiagge e nelle nostre case. Torniamo alla fattoria, barrichiamo le porte e opponiamo una strenua resistenza di cui i nostri mariti sarebbero orgogliosi.» Poi fece cenno alle donne che correvano su per il sentiero verso di lei. «Svelte, svelte... torniamo alla casa!» «Ma...» obiettò Otter, osservando terrorizzata la scena che le si presentava davanti sul molo, «e mia figlia?» Bera guardò con indifferenza verso il porto. «Non credo che ci sia niente che possiamo fare per salvarla in questo momento» disse con fermezza. «E di certo non migliorerà le cose se anche noi ci faremo prendere da questi razziatori.» Tacque per un istante. «Sai usare un arco, Otter?» chiese poi. La donna più anziana la fissò incredula per un momento, la bocca spalancata. Poi rifletté. «Abbastanza...» rispose in tono dubbioso. «Allora» disse Bera Rolfsen stringendole una spalla, «faremo quello che potremo per salvare noi stesse e anche lei.» Dal varco tra i biancospini dove il sentiero deviava bruscamente, Katla riuscì per un istante a intravedere ciò che stava accadendo giù al porto di Rocciacaduta. Due dei visitatori stavano sollevando Magia Ferinsen per depositarla a bordo di una delle loro scialuppe. Si accigliò, perplessa. Era morta? Priva di conoscenza? Cosa era successo? Non riusciva davvero a immaginare perché degli stranieri, o qualsiasi altro uomo, se è per questo, potessero volere Magia Ferinsen, viva o morta, anche se era pronta ad ammettere di avere qualche pregiudizio a riguardo e che ognuno aveva i suoi gusti. Fu tuttavia sollevata di vedere che era accaduto qualcosa che aveva placato la curiosità delle donne e che ora tutte stavano correndo a gambe levate verso la fattoria. Valutò allora le sue possibilità.
Poteva tornarsene silenziosamente in cima al Dente del Segugio e starsene tranquilla finché tutto non fosse finito. Per un breve istante che passò fugace come una farfalla nella brezza l'idea le sembrò attraente, nonostante la voce dentro di lei le gridasse altrimenti. Avrebbe potuto tornare alla fattoria e unirsi alle altre nella raffazzonata difesa che avrebbero tentato di mettere in piedi; ma anche quell'idea fu scartata quasi all'istante. Lei era una delle poche donne che sapeva davvero brandire un'arma e le sue capacità sarebbero state sprecate in una stanza piena di un branco di creature terrorizzate e inutili. E poi avrebbe dovuto soffocare il suo orgoglio e prendere ordini da sua madre: impensabile! Meglio allora restare da sola all'aperto. Là fuori avrebbe potuto correre e usare l'arco e colpire il nemico di sorpresa. E, pensò con una buona dose di agghiacciante realismo, nel peggiore dei casi non sarebbe morta come un coniglio in trappola, rintanata nella casa con le altre donne, ma fuori, con una spada in mano. Katla continuò a correre, cercando un posto adatto per un'imboscata. Esibendo doti di corridore veramente notevoli per una donna relegata per oltre vent'anni alle faccende domestiche e che aveva avuto otto figli, cinque dei quali erano morti durante l'infanzia e il sesto al compimento del venticinquesimo anno d'età, Bera Rolfsen fuggiva lungo il sentiero che risaliva dal porto verso il Bivio di Feya, un crocevia di viottoli a pochi metri dal recinto della fattoria. Lì i biancospini si intersecavano a formare un arco naturale sopra il sentiero che durante il quinto ciclo lunare si riempiva di fiori bianchi che emanavano un profumo forte e sensuale di sangue e calore, l'ideale per delle piante dedicate alla dea della fertilità. In passato era stato tradizione per le ragazze di Rocciacaduta che desideravano prendere marito alzarsi prima dell'alba il primo giorno di primavera e correre giù alla spiaggia a sedersi al buio sulla battigia, pensando al ragazzo che amavano mentre il mare lambiva loro le gambe, e pregando Sur di essere propizio. Bera Rolfsen ricordò il giorno in cui l'aveva fatto lei stessa, sognando un giovane alto con fattezze scolpite e intense e occhi scuri, rammentò che aveva corso nuovamente su per il sentiero ed era rimasta in piedi sotto l'arco di fiori di biancospino finché i primi raggi del sole non erano filtrati tra i rami a illuminarle il viso di una luce rosata, e poi aveva teso la mano e aveva colto un singolo ramoscello di fiori dal centro dell'arco, senza nuocere alle piante e con la benedizione di Feya. E, superstizione o no, il suo desiderio si era avverato: tre giorni dopo Aran Aranson era salito in cima al suo robusto pony e aveva risalito il crinale dell'isola per chiedere la
sua mano. Negli anni, tuttavia, la cima dell'arco era diventata sempre più alta e più difficile da raggiungere come risultato di questo costante sfrondamento del Giorno dei Biancospini, finché solo una ragazza molto atletica sarebbe riuscita a prendere il suo ramoscello senza farsi pungere dalle spine o senza strapparsi l'abito. Entrambe le cose infatti portavano male: una singola goccia di sangue versato significava aborto spontaneo del primo figlio, la stoffa strappata una crepa nel matrimonio o, peggio, nessun matrimonio. Ben presto nessuna era più riuscita a compiere quel gesto senza attirare su di sé una disgrazia e il rituale era stato abbandonato. Ciononostante quello rimaneva un luogo avvolto da un'aura di sacro timore ed eccitazione per le ragazze dell'isola. La signora di Rocciacaduta svoltò all'angolo che portava al Bivio di Feya e per poco non cadde sopra Kitten Soronsen, che era riversa per metà lungo il sentiero e per metà sopra la siepe, tentando febbrilmente di liberare il suo abito cremisi dalle spine senza strappare la stoffa. Una delle sue belle pianelle con le perline, dono di Haki Ulfson e calzatura assolutamente poco pratica per correre a gambe levate su un viottolo dissestato, giaceva infilata sotto una radice affiorante in mezzo al sentiero, come muta testimone della caduta della sua padrona. «Per l'amor di Sur, ragazza mia!» gridò Bera, osservando questo quadretto. «Alzati e corri!» Kitten girò il viso rigato di lacrime verso la signora di Rocciacaduta. «Non posso» singhiozzò. «Il vestito mi si è impigliato tra le spine. È il migliore che ho, e... Oh!» Bera era sopra di lei, con un pezzo di seta strappata nel pugno. Le sue nocche erano bianche. Kitten era inorridita. «Ora non mi sposerò mai!» «Se non arriverai in tempo alla fattoria per metterti in salvo, ti strapperanno qualcosa di più del tuo bel vestito» replicò Bera infuriata, e vide la ragazza trasalire per la paura. «Vai dentro la casa e raduna aste e bastoni e qualsiasi cosa che possa essere tirata per fare del male» continuò, trascinando Kitten in piedi. «O nessuna di noi d'ora in avanti potrà permettersi il lusso di scegliersi l'uomo con cui giacere!» Kitten Soronsen, col viso bianco quanto le nocche di Bera, balzò in piedi e corse via dal sacro biancospino quanto più velocemente poté. Bera prese fiato, poi aumentò l'andatura. In cima alla collina intravide la scarna figura di Hildi la Magra che scavalcava il muretto di cinta della casa.
«Hildi! Hildi!» gridò. In bilico sulla sommità del muretto, la ragazza si guardò indietro da sopra la spalla, si accorse che era la signora di Rocciacaduta che la chiamava in tono così perentorio e prontamente ricadde indietro nel pascolo. Bera superò l'altura, corse attraverso l'erba e scalò il muro di pietra con sorprendente agilità. «Vieni con me!» ordinò, afferrando Hildi per il braccio in modo da tirarla in piedi. Non avendo altra scelta, Hildi obbedì, anche se i suoi piedi facevano fatica a seguire il resto del corpo. Con Bera che continuava a tirare la ragazza per il braccio, le due donne corsero attraverso il pascolo verso la fucina. Una volta dentro, la signora di Rocciacaduta lasciò andare Hildi e prese il mazzo di chiavi appeso alla parete sopra il bancone di lavoro. Le due dozzine di chiavi di ferro tintinnarono rumorosamente. Bera le fissò perplessa, non avendo idea di quali fossero quelle giuste per i lucchetti della casa, del fienile, della fucina e di tutto il resto, poi le gettò a terra. «Non c'è tempo per le sottigliezze» dichiarò, afferrando una barra di ferro dal bancone. Un attimo dopo stava martellando senza troppe cerimonie il massiccio baule di quercia che serviva come deposito delle armi. Due attimi dopo il legno intorno al lucchetto si spaccò. Bera fissò incredula il suo interno cavernoso. «Per i denti di Sur!» imprecò ferocemente. Hildi la Magra si portò le mani alla bocca. Non aveva mai sentito la signora di Rocciacaduta imprecare: era una donna molto raffinata, sempre così scrupolosamente educata anche quando era furiosa. «Per il cazzo gigante e le palle di Sur!» continuò Bera, dando un violento calcio al baule. Il forziere era vuoto, tranne che per un paio di vecchi coltelli arrugginiti e una manciata di frecce spuntate. Qualcuno aveva preso tutto quanto avevano riposto lì per i casi d'emergenza, ma Bera ignorava se le armi fossero state portate via da Aran per la sua spedizione o se fosse stato qualcun altro a sottrarre il contenuto del baule. La cosa più strana era che chiunque avesse saccheggiato il forziere in quel modo si era poi preso la briga di richiudere il lucchetto. Forse non voleva che il furto fosse scoperto. Era inutile perdersi in ulteriori congetture. Bera si guardò intorno con espressione determinata. Sullo scaffale sotto il tavolo da lavoro c'era la bella spada che Katla aveva promesso alla madre di Tor Leeson, e i due pugnali che stava facendo come pezzi d'esposizione. Questi ultimi aspettavano ancora la niellatura di Katla, ed erano opachi e disadorni. Come pu-
gnali ornamentali non avrebbero vinto alcun premio; ma le punte e le lame erano affilate e precise come quelle della più superba delle spade. Tre armi, per quanto ben forgiate, difficilmente avrebbero potuto sconfiggere una banda di spietati razziatori. Archi e frecce, lance e giavellotti: ecco quello che serviva. Dovevano tenere i visitatori a distanza, o sarebbero state perdute, perché non avevano alcuna possibilità in un combattimento corpo a corpo con degli uomini forti e addestrati. Almeno c'erano delle lance, una dozzina o più, allineate lungo la parete orientale. Bera prese i coltelli e la spada e li passò a Hildi. Poi tirò giù una lancia dopo l'altra e le mise tra le braccia della ragazza finché non poté portarne più. «Prendi queste e corri alla casa!» le ordinò in tono concitato, e non perse tempo a guardare la ragazza barcollare lungo il sentiero. Il fienile, pensò all'improvviso. Aran e i ragazzi hanno sempre tenuto i loro archi nel fienile. Mentre correva veloce attraverso il cortile e pregava che non li avessero presi per portarli a bordo del Lungo Serpente (e per cosa? si chiese con ironia. Per tirare ai gabbiani nei momenti di noia tra una tempesta e l'altra?), ebbe all'improvviso un'ottima visuale tra gli alberi e si accorse che parecchie donne erano quasi arrivate in cima alla collina, mentre giù al porto i razziatori erano sbarcati sul molo e si erano divisi in due gruppi. Un gruppo si era diretto a est e stava correndo nella gola che portava vicino al Dente del Segugio. Avrebbero avuto poco da divertirsi in quella direzione, pensò Bera con amarezza. A meno che non avessero un debole per capre e maiali. In effetti di tanto in tanto si sentivano strane cose sui pirati: tutto era possibile e la vecchia Ma Hallasen avrebbe fatto meglio a prepararsi a difendere la sua virtù. Il resto stava inseguendo le donne e aveva quasi raggiunto Ferra Bransen, le cui gonne le impedivano di correre nel modo giusto. Be', lei non poteva farci niente. Stringendo i denti, Bera corse per la novantina di metri che separavano la fucina dal fienile e trovò, grazie a Sur!, il lungo arco da caccia di Aran appeso dove lo teneva sempre e un mucchio di buone frecce avvolte in tela incerata sotto di esso. Srotolò la tela e contò un paio di dozzine di frecce di frassino con penne di cigno. Bene, ma non ancora sufficiente. Quelle frecce erano fatte per il tiro a lunga distanza; avrebbero avuto bisogno anche di robuste frecce di tasso da lanciare a distanza ravvicinata. Una veloce ricognizione nello scomparto dei finimenti le ridiede speranza: altri tre archi corti e un secchio di frecce di vari tipi ed età. Molte erano annerite dal tempo e con le punte piene di ruggine e in
altre i barbigli si erano spezzati su qualche sfortunata preda; ma a Bera Rolfsen non importava un fico secco delle loro condizioni: quello che l'attendeva non era certo una gara in cui avrebbe vinto la capacità o la precisione. Prendendo tutto quel tesoro tra le braccia, la signora di Rocciacaduta corse sul duro terreno tra il fienile e la casa come una diciottenne. Quando raggiunse la porta, il primo dei razziatori stava arrivando in cima alla collina. Non c'era tempo da perdere. «Sbarrate le porte!» gridò, gettando a terra il suo raccolto di archi e frecce, dove caddero rumorosamente. «Ferra non è ancora arrivata...» obiettò qualcuno. «Non possiamo aspettarla!» Bera chiuse la pesante porta di legno e la serrò con il chiavistello. «Le panche!» gridò. «Barricate la porta con le panche!» Le donne fecero come ordinato senza un'altra parola di protesta. Otter Garson si precipitò verso la pila di armi, scelse rapidamente un flessuoso arco lungo di legno d'olmo e si diresse rapidamente all'altra estremità della casa dove una scaletta portava allo spazio del sottotetto. Lassù si arrampicò sul cornicione e col suo coltello cominciò a togliere le zolle dalla parte inferiore. «Aiutatemi!» gridò verso il basso, e una delle donne di Roccia della Foca che capì corse da lei, e insieme praticarono un buco nel tetto. «Chi di voi sai usare un arco?» chiese ad alta voce Bera. La domanda parve cadere nel vuoto. Nessuna rispose. Bera guardò le donne una dopo l'altra e vide che sembravano vergognarsi di loro stesse, percependo una mancanza che mai avrebbero considerato tale prima di allora. Alla fine Tian Jensen disse, «La mia vista non è più quella di una volta, ma da giovane ho cacciato parecchi conigli.» Bera prese un arco lungo e una dozzina di frecce con le penne di ciglio e gliele porse. «Vedrai che i bersagli compenseranno la tua vista meno acuta,» osservò «perché questi uomini sono ben più grandi dei conigli e non possono correre altrettanto velocemente.» Poi si voltò verso Morten Danson, che era seduto in silenzio nell'ombra in fondo alla sala come se stesse cercando di confondersi con le pareti, e gli lanciò uno sguardo penetrante. «E voi, signor costruttore di navi, cosa preferite, un arco da caccia per colpirli dal tetto o un robusto arco corto per una distanza ravvicinata?» Danson sostenne il suo sguardo. «Io non ho niente contro quegli uomini» disse. Bera fece una risata amara. «Ah, ma loro lo sanno?» replicò, quasi come
se parlasse a se stessa. Scelse un arco corto in tasso e corno e glielo tirò. L'uomo lo afferrò maldestramente prima che cadesse al suolo e lo fissò come fosse un grongo e non avesse idea da che parte tenerlo per non farsi mordere. Le frecce che seguirono caddero rumorosamente al suolo intorno a lui. Danson rimase seduto lì per un istante, come frastornato, poi le raccolse e andò a mettersi dietro una delle finestre. Bera valutò le poche armi che avevano accumulato. Poi marciò per tutta la sala distribuendole: una lancia per le più giovani e forti, che avrebbero potuto avere la possibilità di usarla; un pugnale per tutte le altre, tranne le più artritiche, che non sarebbero state in grado di stringerne uno. Kitten Soronsen venne per ultima. «Lancia o pugnale?» le chiese con gentilezza. Il bel viso della ragazza era pallido, sporco del sangue dei graffi causati dalle spine e striato di lacrime. I suoi occhi erano grandi e rotondi come quelli di un gufo. Con mani tremanti Kitten prese uno dei pugnali di Katla. «Non avrei mai pensato di dire una cosa del genere, ma ora vorrei tanto essermi allenata con Katla quando lei me l'ha chiesto» mormorò. Nonna Rolfsen prese una lancia con l'asta di olmo e una punta crudelmente uncinata. «Chiunque incontrerà questa» annunciò «non andrà lontano.» Bera tenne per sé la spada che sua figlia aveva forgiato per la madre di Tor. Le dava una sensazione meravigliosa in mano, ed era sorprendentemente leggera e potente. Il palmo le formicolava al contatto con quell'arma, come fosse una cosa viva. Eseguì alcuni movimenti per valutare la maneggevolezza della lama, ricordando l'unica lezione che suo marito le aveva impartito quasi vent'anni prima quando era salpato con suo padre per la guerra contro l'Impero del Sud. «Le armi eyrane servono per trafiggere e per tagliare» le aveva detto Aran. «Non essere troppo delicata con la spada: tenta di ingaggiare un combattimento con un assalitore usando un elegante gioco di scherma e sarai spacciata. Metti tutto il tuo peso in un colpo e sarai in grado di staccare il braccio o la gamba di un uomo, tagliando persino l'osso di netto. E una volta che l'avrai fatto, non dovrai più preoccuparti di lui.» Bera rabbrividì e rimise la spada nel fodero. Con un po' di fortuna non sarebbe arrivata a tanto. Raccogliendo un arco da caccia e una faretra di frecce, corse su per la scaletta e si infilò nel buco sul tetto per unirsi a Otter e alla donna di Roccia della Foca nell'accogliere i visitatori.
Il vento spirava favorevole da Isola Lontana. Erno era al timone e sentiva la brezza pungente che gli sferzava i capelli intorno al viso. L'unico modo in cui avrebbero potuto andare più veloci era se la nave avesse improvvisamente messo le ali, il che sembrava alquanto improbabile, dal momento che in tutta Elda solo la nave di Sur, il Corvo, un vascello dotato di poteri piuttosto speciali, si diceva l'avesse fatto. Ma con il sole che brillava e un calore fuori stagione che incoraggiava le foche a crogiolarsi nelle acque intorno alle isole, Erno aveva l'assoluta e incontrovertibile sensazione che tutto andasse a gonfie vele e che Katla Aransen, nonostante la strana storia che c'era stata tra di loro, si sarebbe presto ritrovata tra le sue braccia. In fondo, ricordò a se stesso per l'ennesima volta, era stato su suo ordine che era fuggito dalla pianura della Luna Caduta; anche se il perché l'avesse spinto a farlo rimaneva nebuloso nella sua mente. Oramai solo in sogno i ricordi della donna istriana ritornavano a fare capolino, e quando brandelli di quei sogni rimanevano attaccati alla sua coscienza, lui immaginava che quei capelli scuri e quegli occhi dolci non fossero altro che un parto della sua fantasia e il senso di colpa lo inondava come un'onda di tempesta. «Avvisteremo il porto di Rocciacaduta prima dell'alba di domani» disse una voce alle sue spalle. Erno si voltò e trovò Joz Manodiorso dietro di sé. Quell'essere gigantesco era più alto di lui di poco più di mezza mano: i due potevano guardarsi comodamente negli occhi. Quelli grigi dell'uomo più anziano erano cupi e guardinghi. «Sì.» Erno annuì. «Finalmente.» «Spero che saremo in tempo per trovare il costruttore di navi.» «E dove altro potrebbe essere?» «Se è stato rapito per costruire una nave ad Aran Aranson, probabilmente nelle acque dell'oceano, a quest'ora.» «Ho sentito che Morten Danson non è un uomo di mare» replicò Erno sorridendo. «Non ha mai messo piede su una nave che non fosse saldamente ancorata in porto.» Joz scosse la testa. «Non capisco come un uomo del genere possa costruire navi che resistono alle tempeste artiche.» Erno rifletté per un momento. Poi disse, «Katla Aransen che io sappia non è mai stata in guerra, eppure forgia le armi più belle delle isole del Nord.» Joz Manodiorso accarezzò con affetto l'elsa della sua spada, poi si strin-
se nelle spalle. «Ah, è una donna eccezionale, te lo concedo.» «E io la sposerò» aggiunse Erno con fermezza. Il grosso mercenario scoppiò in una fragorosa risata. Erno lo guardò infuriato. «Perché ridi così?» L'uomo più anziano si asciugò gli occhi con la mano. «Ragazzo mio,» replicò «tu hai ancora molto da imparare sul mondo se pensi che la tua vita sarà così semplice. Le donne sono creature strane e ostinate.» Tacque per un istante, come per riflettere sul concetto che aveva espresso, poi continuò: «E Katla Aransen, devo dire, è una delle più strane di quella razza. Ha un carattere tale che non ce la vedo affatto a venire da te come una mite giovenca con una corda dorata al collo.» L'immagine che si formò nella mente di Erno era in effetti ben poco credibile. «Lo so benissimo» rispose con passione, ricordando il carattere battagliero e la volubilità dell'umore di Katla, e in particolare le sue idee poco convenzionali sul matrimonio e i bambini. Poi però ricordò anche i suoi capelli rossi e gli occhi ridenti e la sua aria selvaggia, e il modo in cui l'aveva baciato fuori dalla tenda del re al Raduno. All'improvviso il cuore gli si riempì di gioia. In fondo cosa poteva andare storto? L'aria selvaggia di Katla Aranson era di certo al suo massimo splendore in quel momento. Dopo aver scalato un affioramento di granito che sovrastava il sentiero verso il porto, la giovane aveva preso posizione lassù, nascosta da un fitto cespuglio di ginestre. Aveva permesso a una dozzina di uomini di passare indisturbati sotto di lei: non avrebbero trovato nulla in quella direzione a parte la capanna di Ma Hallasen e le rovine di una vecchia comunità di pescatori a Punta della Foca, abbandonata dai sopravvissuti alla Grande Tempesta che aveva flagellato quella parte dell'isola. Katla si era concentrata sugli uomini che si erano distaccati dal gruppo. Ne teneva uno sotto tiro del suo arco e ne seguiva i movimenti come un falco segue la sua preda tra l'erba. Erano in due. Il primo stava trascinando la povera Ferra Bransen lungo il sentiero, mentre il secondo le tagliava il vestito da dietro con movimenti misurati della sua elegante spada, cosicché strisce di lino fluttuavano al suolo una dopo l'altra. Si stavano divertendo un mondo, quei due, ridendo e scherzando nella loro bella lingua del Sud. Il viso di Ferra era livido nel punto in cui l'avevano colpita e un occhio era gonfio e incrostato di sangue. Katla aspettò che il gruppo principale fosse scomparso dietro la curva del sentiero, poi tirò indietro la mano fino a sen-
tire la perfetta tensione della corda e la rilasciò con un sibilo. La freccia colpì uno dei due con tale precisione che l'uomo non ebbe il tempo di emettere un suono. Incoccando immediatamente un'altra freccia, Katla sorrise e mirò al secondo. Era la prima volta che uccideva coscientemente un altro essere umano e lo trovava altamente soddisfacente. Il secondo uomo si guardò intorno confuso, incapace di capire cosa stava succedendo. Il suo compagno era caduto a testa in giù sul sentiero, con la freccia, un dardo corto e robusto fatto dalla stessa Katla con legno di tasso e ferro per la caccia ai conigli, piantata così in profondità nell'occhio che il capo sembrava posato come nel sonno o come se l'uomo avesse improvvisamente perso i sensi. Nel frattempo Ferra Bransen, che aveva il cervello di una gallina, pensò Katla, invece di fuggire a gambe levate come ogni persona sana di mente avrebbe fatto in quelle circostanze se ne restava lì quasi fosse ancorata al suolo, con la bocca spalancata e le mani che si agitavano freneticamente come se stesse scacciando delle mosche. Con un sospiro, Katla colpì il secondo uomo prima che si rendesse conto dell'imboscata. La freccia lo colse al centro del petto con un rumore sordo, e l'uomo cadde all'indietro tra i rovi. Era fin troppo facile. Di certo più facile che colpire i conigli. Katla aspettò per assicurarsi che nessuno del gruppo sarebbe tornato indietro a cercare i due morti e scoprire il colpevole, poi scese giù lungo il pendio sul retro dell'affioramento roccioso e uscì sul sentiero un secondo dopo con l'arco e la faretra sulle spalle e la spada corta in mano per ogni eventualità. «Vieni, Ferra, ti porto in un posto sicuro» disse, afferrando la ragazza per un braccio. Ma anche se il corpo di Ferra era lì sul sentiero di Punta della Foca, la sua testa sembrava essere altrove. Rimase ferma in piedi come un camminatore della notte, con il sole morente riflesso in una pupilla sgranata, e non si mosse affatto. Katla alzò gli occhi al cielo, irritata. «Per Sur,» brontolò, incuneando la spalla sotto l'ascella di Ferra, «meriteresti che ti lasciassi morire.» Con un enorme sforzo, Katla condusse Ferra Bransen alle capanne di essiccazione del pesce, dove poteva rimanere relativamente al sicuro. La infilò dentro con un sospiro di sollievo, chiuse la porta per impedirle di uscire e andarsene in giro come un fantasma, e corse verso la fattoria. Il capitano Galo Bastido fece cenno ai suoi uomini di fermarsi all'altezza
del muretto che circondava il cortile della fattoria. «Ricordate,» li avvertì «la nostra priorità è catturare un uomo di nome Morten Danson e riportarlo dal nobile Rui Finco vivo e in perfetta salute in modo che possa aiutarci a costruire le navi per la guerra contro il Nord. Quando l'avremo preso e messo al sicuro, allora, e solo allora, potrete fare quello che volete delle donne.» Vide i fratelli Forin, Milo e Nuno, scambiarsi uno sguardo divertito, come se niente di quello che il loro capo potesse dire avrebbe impedito loro di spassarsela come volevano; vide Pisto Dal accarezzarsi pensosamente la cicatrice sulla guancia; e in ultimo vide i due spadaccini fare un passo indietro come in attesa che gli altri facessero il lavoro sporco per loro. E probabilmente sarebbe stato davvero un lavoro sporco, pensò Bastido, studiando quello che avevano di fronte. L'edificio principale della fattoria era una struttura lunga e bassa solidamente costruita con legno, pietra e zolle di terra. Era fatta per sopportare forti venti e piogge battenti e tremende gelate. La porta principale era chiusa e senza dubbio sbarrata e barricata dall'interno. C'erano tre donne sul tetto con delle armi in mano e un'aria di sfida. Non c'era però neppure un uomo in vista, il che appariva piuttosto strano, e anche se si intravedeva una folla di volti alle piccole finestre con i tendaggi in cuoio, Bastido avrebbe potuto giurare che non ce n'era neppure uno con la barba. Ma che la casa fosse occupata da uomini o donne per il Bastardo non faceva differenza. Lui si era già trovato in situazioni simili prima d'ora e sapeva come prendere un simile edificio. E sapeva anche che era impossibile farlo senza considerevoli perdite. Scavalcò il muro e si mise cautamente fuori dalla portata delle frecce. «Salute a voi, gente di Rocciacaduta!» gridò nell'Antica Lingua, e aspettò una risposta. Non ce ne furono. Le donne sul tetto rimasero lì a incoccare le frecce negli archi con la massima disinvoltura, come se stessero per mirare a dei polli per puro divertimento, come facevano lui e suo fratello da bambini alla fattoria del nonno. Una di loro sembrava abbastanza vecchia da essere sua nonna. Fece un profondo respiro e continuò: «Mi chiamo Galo Bastido e sono il capitano di queste truppe. L'Istria ha dichiarato guerra contro le vostre isole e siamo venuti dalla città di Forent per conto del suo Signore per riportare indietro con noi il costruttore di navi, Morten Danson. Mandatelo fuori e noi ce ne andremo e vi lasceremo in pace. Se non lo farete, lo prenderemo con la forza e molti di voi moriranno inutilmente!»
Dietro di lui Baranguet si fece scrocchiare le nocche e si lasciò sfuggire un commento volgare, rivolto al suo vicino. Fu una donna di corporatura esile, una delle tre sul tetto e che portava i capelli color rosso scuro legati in due lunghe trecce, ad assumersi la responsabilità di parlare per la gente dell'isola. «Andatevene!» gridò nell'Antica Lingua e il suo accento eyrano rese le parole aspre e gutturali. «Non abbiamo intenzione di aprirvi le porte né di permettere che qualcuno sia portato via senza lottare.» Bastido rise. «Posso assicurarvi, signora, che non vi conviene ingaggiare una battaglia con noi! Ho qui trenta guerrieri bene addestrati, tutti ansiosi di combattere!» «E io ne ho cinquanta!» mentì Bera. «Cinquanta donne indifese, molto probabilmente!» gridò Baranguet. «E ognuna di loro bella matura da essere colta, se sono tutte come te!» Il capitano si rivoltò contro di lui come una furia, ma tenne la voce bassa. «Sarebbe meglio catturare il costruttore di navi senza colpo ferire, Mastro Frusta; le donne malconce valgono poco al mercato degli schiavi...» Sul tetto, Otter Garson prese la signora di Rocciacaduta per un braccio. «Bera,» le disse in un bisbiglio concitato, affinché neppure la donna di Roccia della Foca accanto a loro la sentisse, «forse dovremo lasciare che il costruttore di navi vada con loro. A cosa ci serve, tranne che a mandare parecchie di noi nella sala della tessitura di Feya per tutta l'eternità?» «No» replicò Bera con ferocia. «Morten Danson ha già subito l'onta di essere rapito dalla mia famiglia e io ho perso uno dei miei figli per quella colpa. Potrà anche non piacermi come persona, ma non lo consegnerò a una banda di mercenari come quelli. Il clan dei Rocciacaduta ha ancora il suo orgoglio.» «Mi sembrano uomini feroci» continuò Otter. «Che possibilità abbiamo contro di loro?» «Questo lo scopriremo ben presto.» «Non puoi almeno mentire e dire che Morten Danson non è qui?» Bera sbuffò. «Noi del clan di Rocciacaduta non mentiamo. È una questione di onore.» «L'onore ci porterà tutte alla tomba.» «Se anche sarà, moriremo con onore.» «E con molti dei nostri nemici morti ai nostri piedi» dichiarò Otter con fermezza. Bera Rolfsen non aggiunse altro. Agitò invece la spada contro gli Istria-
ni. «Possiamo anche essere donne, ma non siamo indifese. Se pensate che saremo un facile raccolto, vi invito a sfidare la sorte con noi, capitano Galo Bastido; ma non troverete niente da cogliere così facilmente, e l'unico raccolto che avrete sarà di lance e frecce!» Bastido si strinse nelle spalle. «Ah, bene, signore» rispose. «Come volete. Non potrete dire che non vi abbiamo dato una possibilità!» Poi si girò verso i suoi uomini. «Cercate di non fare loro troppo male,» ordinò ad alta voce «almeno non dove sia visibile. Ricordate che ognuna di loro viva e in buona salute ci farà guadagnare almeno trecento cantari al mercato di Gibeon!» Mentre gli Istriani cominciavano ad avanzare, uno di loro all'improvviso gridò e cadde. Era uno degli uomini della costa settentrionale, un individuo magro dalla pelle scura noto come 'lo Sbudellatore' perché aveva lavorato per oltre vent'anni con la flotta di pescherecci al largo di Cera ed era molto abile con il coltello per sbudellare. Ironia della sorte, il dardo lo colse proprio nell'addome. L'uomo si agitò come un serpente ferito, stringendo l'asta della freccia con mani sporche di sangue ed emettendo i più orribili suoni finché Baranguet non gli tagliò la testa e lo mise a tacere. «Una ferita al ventre» disse con indifferenza a Bastido, che sembrava leggermente scioccato. «Raramente si sopravvive a una ferita al ventre e stava facendo una confusione terribile.» Pisto Dal rise. «In ogni caso non mi è mai piaciuto molto.» Fu Germano, il più consumato del gruppo, a chiedersi da dove fosse venuta quella freccia. Aveva colpito lo Sbudellatore, che era in fondo al gruppo, sul lato sinistro: sembrava un tiro troppo lungo per essere arrivato dalla casa. Clermano non fu il solo a chiederselo. Otter si voltò verso la donna di Roccia della Foca, ma la sua freccia era ancora incoccata e Bera non aveva ancora aperto la sua faretra. «È stata una di voi a farlo?» gridò in basso verso la casa. «Parlate!» Fu Kitten Soronsen a rispondere. «Nessuna qui ha tirato una freccia: come sia accaduto è un mistero per noi quanto per voi.» Incurante delle spine, Katla Aranson scese in fretta giù dalla sua posizione in cima all'arco di biancospini e corse silenziosamente verso ovest, al riparo di un muro di pietra, con l'arco a tracolla sulle spalle. Dove il muro curvava ad angolo retto nel campo di fronte alla casa si fermò e sbirciò oltre il bordo. Ora si trovava direttamente dietro i razziatori, alcuni dei quali erano impegnati a gettare il corpo senza testa del loro compagno
morto in un fosso, mentre gli altri aprivano le faretre e incoccavano i loro archi decorati secondo lo stile meridionale. Non hanno una grande portata, quegli archi, notò Katla. Dovranno avvicinarsi alla fattoria per poterli usare al meglio. Scorse sua madre e le altre donne sul tetto della casa che avevano gli archi puntati sugli intrusi e annuì contenta. Non aveva mai visto sua madre sotto quella luce, prima. Il suo cuore si riempì di inatteso orgoglio. I razziatori lanciarono alcuni dardi di prova, che volarono dritti e precisi, ma non arrivarono neppure vicino al bersaglio. Il loro capo disse qualcosa agli uomini nella sibilante lingua dell'Impero ed essi iniziarono ad avanzare. Andate, andate, pensò Katla, qualche altro metro... Qualche altro metro e Otter Garsen mantenne la sua promessa, colpendo uno dei razziatori dritto alla gola con una freccia impennata con penne d'oca dalla punta nera. Una delle mie, pensò Katla allegramente, cominciandosi a godere quella situazione. Tirò fuori una freccia simile e la incoccò nel suo arco. Poi mirò a un uomo grosso con i capelli neri legati in una coda di cavallo e un orecchino d'argento all'orecchio destro. Con un sibilo il dardo fendette l'aria tra di loro e colpì l'uomo del Sud tra le scapole. Questa volta non c'era alcun dubbio sulla provenienza della freccia: come una lepre Katla corse lungo il muro, tenendo la testa bassa per tutto il tempo. All'angolo, la sollevò per un istante. Tre dardi saettarono sopra il suo capo: Katla li sentì sfiorarle i capelli. Due dei razziatori si staccarono dal gruppo e corsero verso di lei. «Per le palle di Sur!» imprecò Katla, e si precipitò giù per la collina verso il boschetto, ridendo fragorosamente. Una volta arrivata al riparo sotto le querce, si arrampicò sopra uno di quei mostruosi alberi e si distese su un grosso ramo. Non era semplice lanciare una freccia da quella posizione, ma lei e Halli avevano giocato alla caccia sin da quando Katla aveva quattro anni, e lei vinceva sempre. Il primo uomo irruppe nel bosco come un cinghiale in calore: la giovane lo colpì al petto. Il secondo arrivò alcuni secondi dopo: era impossibile per lei scoccare un'altra freccia in così poco tempo. Infilando il braccio nell'arco affinché non cadesse, tirò fuori dal fodero il coltello che portava legato alla coscia e aspettò il momento opportuno. Quell'uomo era ben più cauto del primo. Non vide il suo compagno finché non gli calpestò un braccio, ma invece di fermarsi a esaminare il corpo, fece un balzo indietro e il coltello di Katla si conficcò nel muschio nel punto in cui l'uomo si trovava un istante prima. Questi guardò verso i rami della quercia. Aveva una brutta cicatrice lun-
go una guancia, tutta raggrinzita e con la pelle da entrambi i lati di un orribile rosa luccicante che contrastava con la sua carnagione color del legno di noce, mentre l'angolo della bocca era sollevato in un ghigno feroce da cui spuntavano due denti gialli e appuntiti come quelli di un ratto. Affascinata dalla disgustosa irregolarità dei suoi lineamenti, Katla ne studiò il volto per diversi istanti, finché non vide con orrore che i suoi occhi neri erano fissi su di lei tra le rade foglie della quercia e che l'angolo sinistro della sua bocca si stava incurvando in un sorriso. «Beccata!» esclamò nell'Antica Lingua. Fu l'ultima parola che Pisto Dal pronunciò. Il secondo coltello di Katla, un oggetto perfettamente equilibrato con un pezzo di sardonica incastonato nell'impugnatura e una lana damascata, si conficcò con un rumore secco nel punto in cui normalmente si trovava il suo naso. Katla vide l'uomo strabuzzare gli occhi per guardare la sua nuova protuberanza, poi le gambe gli si piegarono e cadde in ginocchio, concludendo la sua esistenza nella tradizionale posizione di un devoto adoratore di Falla. «No» mormorò Katla, scendendo lentamente dall'albero. «Io ho beccato te.» Quando tornò in cima alla collina vide che le cose si stavano mettendo al peggio. I razziatori erano arrivati vicini alla casa, troppo vicini per poterli colpire lanciando frecce dalle finestre. Solo due di loro giacevano morti nel prato di fronte alla porta, anche se c'erano diverse dozzine di frecce conficcate nel terreno. C'erano anche parecchie lance tutte intorno, inerti come bastoni. Altri due uomini zoppicavano e avevano dei pezzi di stoffa macchiati di sangue legati intorno alle gambe, rispettivamente intorno a un polpaccio e a una coscia. Alcuni erano arrivati all'angolo della casa ed erano saliti sul basso tetto di zolle d'erba. Di Bera e Otter non c'era traccia. La donna di Roccia della Foca, invece, giaceva morta con due spessi dardi conficcati nel petto. Gli uomini sul tetto stavano scavando tra le zolle. All'interno della casa Bera Rolfsen stava affrontando una specie di ammutinamento. «Mandalo fuori!» gridò nuovamente Tian Jensen. «Lui non è uno di noi: non c'importa cosa gli accadrà.» Da parte sua, Morten Danson sembrava in preda allo shock. Era pallido in volto e gli tremavano le mani. Ciononostante mormorò: «Mandatemi fuori, padrona Bera. Mi vogliono affinché costruisca navi per loro: non possono permettersi di uccidermi.» «Non lo faremo» replicò Bera in tono aspro. «Anche se in questo modo
dovessimo salvare le vite di quelle poche di noi che sono qui dentro, consentire loro di portarvi via causerà la perdita di molte altre vite in futuro se voi li aiuterete a costruire una flotta di navi con cui invadere le coste eyrane.» Il costruttore di navi chinò la testa. Non sapeva cosa dire. Non voleva essere preso prigioniero da quei brutali uomini stranieri, questo era certo, ma non voleva neppure essere responsabile per la morte di quelle folli donne di Rocciacaduta. Inoltre, se i razziatori avessero preso la casa con la forza, chi lo assicurava che non sarebbe morto anche lui, magari accidentalmente? «Potrebbe costruire delle navi fallate per loro» suggerì con malizia Forna Stensen. «Così affonderebbero nell'Oceano del Nord portando i loro maledetti equipaggi con loro e Sur potrebbe puntellare le mura del Grande Sepolcro con le loro ossa.» Morten Danson annuì vigorosamente. «Sì, certo che potrei!» Bera fece una risata amara. «Se pensate che ci lasceranno in pace quando avranno messo le mani su di voi, allora siete ancora più sciocco di quello che io stessa ritenevo, mastro costruttore di navi. Una volta che vi avranno impacchettato per bene, torneranno da noi. Potrebbero accontentarsi del compenso che il Signore di Forent pagherà loro quando voi gli verrete consegnato, ma non credo che questi siano uomini così facili da soddisfare.» Poi si voltò verso le donne riunite intorno a lei e si rivolse a tutte loro. «Dategli un'occhiata. Questi uomini sono gentaglia, un'accozzaglia di mercenari e tagliagole che venderebbero le loro madri, le loro nonne, le loro zie e le loro innamorate per guadagnare anche solo un cantari o un qualche altro tipo di vantaggio. Voi tutte avete sentito raccontare dell'Impero del Sud e degli appetiti proibiti dei loro uomini. Essi rispettano così poco le loro donne che coprono ogni parte del loro corpo, tranne quelle da cui possono ricavare piacere. E avete visto ciò che hanno fatto alla povera Magia Ferinsen» a quelle parole Otter Garsen gemette e si torturò le mani, ma Bera spietatamente continuò «e come hanno trattato l'uomo che era caduto con la freccia nella pancia. Questi non sono guerrieri onorevoli legati a un codice di comportamento: questi uccidono per ottenere quello che vogliono e prendono ciò che rimane per il loro profitto. Ricordate ciò che ho detto e pensate che in questo momento stanno già calcolando quanto varremo noi a un mercato degli schiavi dell'Impero!» Alcune delle donne iniziarono a piangere. Bera si rivoltò contro di loro come una furia.
«Le lacrime non terranno lontani questi razziatori!» gridò, fissando con durezza Breta la Grassa e Marin Edelsen. «Asciugatevi gli occhi e preparatevi a temprare le vostre lame col sangue degli Istriani se volete salvare le vostre vite e la vostra virtù. Io non posso promettervi che prevarremo, ma non faremo vergognare di noi i nostri uomini consegnandoci come vitelli al macello.» Tirando su col naso, le donne guardarono dubbiose le lance e i coltelli che tenevano in mano. Poi strinsero le impugnature con rinnovato vigore e si voltarono con espressione determinata verso le finestre. «Che vengano pure» dichiarò risoluta Hesta Rolfsen, scuotendo la sua lancia verso i razziatori. «E se moriremo, moriremo con coraggio.» Dietro di loro uno degli uomini che erano saliti sul tetto cadde rumorosamente a terra, è si rimise agilmente in piedi. Breta la Grassa lo caricò con la lancia. La punta rimbalzò sulla sua cotta di maglia con uno stridio e la ragazza inciampò sull'asta e finì a gambe all'aria ai piedi dell'uomo. Il razziatore, un giovane snello con occhi a mandorla e un sorriso seducente, le tese cortesemente la mano e Breta la Grassa, a cui nessun uomo aveva mai sorriso prima e di certo nessuno carino come quello, l'afferrò senza riflettere. Un secondo uomo si gettò giù dal tetto in quel momento e sorrise al primo. «Galline in una stia» disse Milo Form a suo fratello nell'incomprensibile dialetto della costa settentrionale, stringendo la mano di Breta la Grassa con fare rassicurante. «E ben nutrite, anche!» Marin Edelsen gli conficcò un pugnale nel fianco e l'uomo cadde, sorpreso. La ragazza lo fissò mentre stramazzava, e sembrava ancora più sorpresa di lui, tanto che il pugnale insanguinato le scivolò dalla mano. Con un ringhio, Nuno Forin si gettò su di lei e la prese per la gola. Guardò con occhi spiritati le donne scioccate intorno a lui, poi suo fratello, che si era rialzato a fatica. La ferita non era profonda, ma il sangue continuava a scorrere. Una lancia fendette l'aria e colpì Milo Forin al petto con tale forza che l'uomo finì conficcato contro uno dei supporti del tetto. Il giovane spirò senza dire una parola. Nonna Rolfsen si strofinò le mani sul grembiule. «Bene,» disse, «sembra che non abbia perso l'allenamento.» Nuno Forin tenne Marin di fronte a sé per proteggersi da simili assalti. Quello che era sembrato un lavoretto relativamente semplice e poco pericoloso aveva improvvisamente preso una brutta piega. Con la mano libera l'Istriano sguainò la spada. «Porta!» disse nell'Antica Lingua. Era una delle poche parole che conosceva.
Nessuno si mosse. «Porta!» gridò di nuovo e agitò la spada. «Non toccate la porta» disse Bera con freddezza. Marin cominciò a gemere. Il razziatore la strinse più forte e la ragazza smise. Poi la trascinò verso la porta sbarrata, guardando con diffidenza le donne intorno a lui, il viso affascinante improvvisamente feroce. Quando arrivò davanti a Kitten Soronsen si fermò, attirato dal bel cremisi della tunica di seta. I suoi occhi neri studiarono la ragazza per un momento. Poi l'Istriano conficcò il suo pugnale nella gola di Marin Edelsen e gettò da parte il suo corpo mandandolo a sbattere contro una delle anziane donne di Roccia della Foca, e creando così un diversivo sufficiente da permettergli di prendere Kitten in ostaggio. La sua mano libera si mosse su e giù sulla seta cremisi, fermandosi per un istante sul morbido sedere della ragazza. Kitten rimase immobile, sconvolta dall'improvvisa morte della sua amica, le dita che si aprivano e si chiudevano sull'asta della lancia che teneva in mano; poi l'arma cadde a terra con un tonfo. Nuno Forin tirò via i bei nastri blu con i minuscoli fiori di seta dai suoi capelli e, torcendole con forza, si avvolse le lunghe trecce di Kitten intorno al pugno, puntandole poi la spada alla gola. Un sottile rivolo di sangue corse lungo la lama per sgocciolare a terra. Hildi la Magra lanciò un grido mentre le ginocchia di Kitten cominciavano a piegarsi. «Porta!» gridò nuovamente, tenendo dritta la ragazza che stava per svenire. Fece il gesto di tagliare via la testa di Kitten se non avessero obbedito. Due delle donne più vicine alla porta cominciarono a rimuovere le panche con cui avevano formato la barricata. «Ferme!» gridò Bera. «Non possiamo stare a guardare mentre la uccide.» «Allora guardate dalla finestra mentre la stuprano davanti ai vostri occhi e poi la uccidono comunque!» replicò Bera infuriata, ma le donne continuarono ugualmente finché la porta non fu aperta e Nuno Forin si aprì un varco verso l'esterno. Mentre passava Otter Garsen tentò di strappare Kitten alla sua presa, ma l'uomo fece roteare la spada e la donna gridò. Tre delle sue dita caddero al suolo, contorcendosi come serpenti, e Otter si accasciò al suolo, scioccata. Fuori i razziatori gridarono di gioia mentre Nuno Forin tornava da loro, spingendo Kitten Soronsen di fronte a sé. «Quante sono là dentro?» chiese Bastido. «Forse venti. Tutte donne» rispose Nuno. Poi sorrise ai suoi compagni.
«Che nessuno tocchi questo fiorellino tranne me. Voi potete avere le vecchie galline rinsecchite e i tacchini grassi.» «E il costruttore di navi?» insisté il Bastardo. Nuno si strinse nelle spalle. «Se ne sta lì a tremare vicino a una finestra come un coniglio paralitico, con gli occhi sgranati per il terrore.» «Forse ha più paura delle dorme di Rocciacaduta che di noi» scherzò Clermano. «Ho sentito che hanno i denti tra le gambe al posto dei peli!» A quel punto Bastido e i suoi uomini decisero di gettare una pioggia di lance e frecce contro la casa, mirando ai buchi che gli uomini avevano fatto nel tetto, ma capirono che non avevano causato grandi danni quando le donne gliele rimandarono indietro, lanciandole dalle finestra o dal tetto. Scese la notte e i razziatori cominciarono a lamentarsi di avere freddo e fame e dei pochi progressi che avevano compiuto. Galo Bastido sapeva cosa significava. Gli erano rimasti ancora due espedienti da mettere in pratica. Uno avrebbe potuto significare consistenti perdite di vite umane, ma l'altro non era di certo più piacevole. Per prima cosa ordinò ai suoi uomini di raccogliere della legna e di accendere un fuoco. Poi prese da parte Baranguet e gli svelò il suo piano. Il suo luogotenente sorrise, poi andò dal gigante, Casto Agen. «Acchiappa Nuno Forin» gli ordinò Baranguet a bassa voce. «E non lasciarlo andare finché non te lo dirò io.» Il grosso pugile non si mosse. La luce danzò sui suoi lineamenti marcati, accentuando l'espressione perplessa. Gli ci volle un po' di tempo per capire l'ordine: mezzo minuto dopo strinse l'uomo della costa settentrionale in una presa al collo finché il viso di Nuno non diventò rosso e il ragazzo cominciò ad ansimare. Galo Bastido tirò Kitten Soronsen in piedi senza staccare gli occhi dalla casa il cui interno era ora illuminato da una luce rossastra che evidenziava i contorni delle donne allineate davanti alle finestre. Poi gridò nell'oscurità: «Ci annoiamo e abbiamo freddo e ci serve un po' d'esercizio per riscaldarci. Fate uscire il costruttore di navi immediatamente o vi metteremo su un bello spettacolino di nostra invenzione!» Poi spinse la ragazza verso gli uomini in attesa. «Spogliatela!» ordinò. Subito un gruppo di razziatori circondò Kitten, tutti con un sorriso folle stampato sul volto. All'improvviso le loro mani furono dappertutto. La ragazza gridò mentre la spingevano dall'uno all'altro e ciascuno strappava via un pezzo del suo abito prima di passarla al successivo, finché non rimase nuda e terrorizzata di fronte a loro. Lividi della forma e delle dimen-
sioni di mani robuste erano evidenti sulla sua pelle chiara; graffi e tagli causati dalle unghie colavano sangue. «Per Sur,» disse Bera a denti stretti «sono dei diavoli.» Mise giù la bella spada che Katla aveva fatto e afferrò un arco da caccia, incoccò una freccia e prese la mira. Il dardo colpì un uomo basso e dalla carnagione scura al braccio, e l'Istriano ululò come un cane. Altre tre frecce seguirono la prima. Uno dei guardapesca cadde in ginocchio con un dardo nel petto; le altre due mancarono il bersaglio. L'uomo grosso che teneva Nuno Forin lo lasciò andare. Due dei razziatori spinsero Kitten Soronsen a terra e la tennero giù mentre il giovane cominciava ad armeggiare con i propri indumenti. Otter Garsen scosse la sua mano bendata fuori dalla finestra. «I vostri cazzi si gonfieranno e diventeranno neri se la toccherete!» gridò nell'Antica Lingua. «Ve lo giuro sul troll di Acquachiara! Le vostre palle si seccheranno e cadranno e il vostro intestino si contorcerà in agonia!» Si fermò un istante per riprendere fiato, poi urlò: «I vostri reni bolliranno e la vostra gabbia toracica scoppierà e spingerà il vostro cuore fuori dal petto e voi morirete nel più inenarrabile dei tormenti!» Bera inarcò un sopracciglio. Non era tanto il contenuto della maledizione che l'aveva colpita, quanto la conoscenza che la donna aveva dell'Antica Lingua, anche delle parole più specialistiche. Vide gli uomini scambiarsi uno sguardo perplesso. Poi Nuno Forin si calò i pantaloni e cadde in ginocchio davanti a Kitten Soronsen. Per un momento pensarono che l'avesse fatto per cominciare lo stupro; poi però videro la freccia spuntare dalla sua schiena. Prima che chiunque potesse reagire, un altro uomo cadde morto. Una figura passò sfrecciando davanti agli uomini come un fantasma e sparì nell'oscurità. «Katla!» mormorò Bera. «Quella era Katla!» Si voltò verso le donne. «Non ci arrenderemo!» dichiarò. «Prendete ogni cosa che si può tirare o lanciare. Facciamogli vedere di cosa è capace la gente di Rocciacaduta!» In pochi istanti una pioggia di proiettili colpì i razziatori. Prima furono bastoni e aste e utensili da cucina; poi tutta una serie di bizzarri oggetti. Nonna Rolfsen sorrise gioiosamente a Breta la Grassa e Forna Stensen che la stavano sorreggendo mentre si sporgeva in maniera precaria dal buco nel tetto. «Tenetemi, ragazze» disse e prese ancora una volta la mira con la vecchia catapulta di Fent. Una grossa palla di letame di mucca che racchiudeva all'interno una tagliente collezione di astragali e sassi colpì Clermano dritto in faccia, gettandolo a terra, se non per la forza con cui era
stata tirata, perlomeno per la sorpresa. Seguì un sacchetto pieno di rivetti e delle pietre annerite dal fuoco del forno per il pane. I razziatori abbandonarono la pallida forma di Kitten Soronsen e andarono a ripararsi dietro il muretto. «Questo è vergognoso!» gridò Baranguet. «Attacchiamo immediatamente la casa!» «No» rispose il suo capitano. «Dobbiamo ricorrere al mio ultimo stratagemma.» Mandò degli uomini giù al bosco a raccogliere rami e bastoni, e altri negli edifici intorno alla fattoria per prendere tutta la paglia secca o il fieno che fossero riusciti a trovare. Questi ultimi li legarono in una serie di fascine. Due degli uomini di Forent corsero con le braccia piene di legna sul lato destro della casa, mentre i restanti due guardapesca, Breseno e Falco, impilavano le fascine sulla sinistra e poi davano loro fuoco. Le donne all'interno corsero a radunare secchi d'acqua per spegnere le fiamme, e quando l'acqua finì gettarono fuori il siero del latte e la zuppa, che furono molto meno efficaci come mezzi antincendio. Di lì a poco il fuoco attecchì sui pilastri che sorreggevano la casa. A quel punto i razziatori lanciarono frecce infuocate sul tetto per completare il lavoro. Ben presto l'interno si riempì di fumo. «Mio signore Sur, Bera, non possiamo farcela» ansimò Otter. «Manda fuori il costruttore di navi, per l'amor di Feya.» In mezzo al fumo sempre più denso Bera Rolfsen fissò la sua vecchia amica, guardando la benda sporca di sangue intorno alla mano ferita, la disperazione sul suo viso, gli occhi bagnati di lacrime. Poi si voltò verso Morten Danson. «Andate» disse con semplicità. Il costruttore di navi la fissò. Sembrava infuriato, ma invece di recriminare andò alla porta e tolse il catenaccio. Aprendola solo di una fessura respirò una boccata d'aria fresca e poi gridò nella notte: «Sono Morten Danson, costruttore navale del re d'Eyra. Sto venendo fuori: tenete a freno le vostre armi se volete riportarmi al vostro signore vivo e vegeto!» Poi uscì. Dopo diversi momenti di silenzio, Bera sentì delle grida di gioia dall'accampamento dei razziatori. Si guardò intorno nella casa. Era difficile vedere attraverso il fumo, perché era così denso che sembrava che spesse tende blu fossero appese nell'aria. Solo nei punti in cui erano accese le lanterne si riuscivano a distinguere i volti: nella foschia Bera vide la fuliggine che segnava il volto di Kit Farsen in due lunghe strisce nere sotto il naso, notò che Hildi la Magra, con notevole sagacia, si era legata una
sciarpa bagnata intorno al naso e alla bocca, e che la più anziana delle donne di Roccia della Foca si stava stringendo il petto come se le dolesse. Sua madre, Hesta, sembrava più spavalda che mai, anche se aveva gli occhi rossi e lacrimosi e doveva appoggiarsi contro un pilastro, mentre Forna Stensen, che aveva un terzo della sua età, pareva dovesse morire da un momento all'altro. In fondo alla sala qualcuno stava ansimando come un asino malato. Quella è di certo Breta la Grassa, pensò Bera irritata. Non c'era altra scelta. Il fuoco aveva avvolto il pilastro centrale e le fiamme ardevano ai margini del tetto dove le zolle erano più secche. Se fossero rimaste all'interno sarebbero morte come scarafaggi in un albero che bruciava; se fossero uscite e si fossero consegnate nelle mani del nemico... Era inimmaginabile, ma era pur sempre vita. «Ascoltatemi!» gridò Bera alla fine, con la voce roca che tentava di superare il fragore delle fiamme. «Non c'è rimasto più niente da fare per poterci salvare, perché se resteremo qui il fuoco ci prenderà, e se usciremo ci prenderanno i razziatori. Ognuna di voi deve fare liberamente la propria scelta.» Tossì e ci mise un po' a riprendersi. Poi concluse con queste parole: «È una brutta scelta, e me ne dispiace. Non avrei mai creduto che saremmo arrivate a questo.» C'erano lacrime negli occhi della signora di Rocciacaduta, notò Otter Garson, e dubitò che fossero solo colpa del fumo. Ciononostante Bera sollevò la testa con coraggio mentre le donne cominciarono a farsi strada verso la porta, lentamente in principio e poi, quando l'aria fresca dall'esterno iniziò a riversarsi dentro, con più decisione, finché non furono in grado di guardare nell'oscurità verso il punto in cui i razziatori, al riparo del muretto della fattoria, erano distesi sull'erba a crogiolarsi al calore del loro fuoco da campo e a sorseggiare rumorosamente fiaschi di vino. Gli Istriani gridarono frasi di incoraggiamento alle donne, ma dal momento che la maggior parte di loro parlava solo la propria lingua, nessuna comprese quello che dicevano, il che probabilmente era un bene. «No!» La voce era senza corpo, invisibile... Difficile capire da dove provenisse, perché sembrava (assurdo!) che scendesse direttamente dal cielo. Le donne si guardarono intorno spaventate, per metà fuori e per metà ancora déntro la soglia della casa. Tian Jensen alzò gli occhi verso l'alto e gridò. «C'è uno spettro lassù: è a cavalcioni delle travi del tetto!» E in effetti quando guardarono tutte in quella direzione ebbero davvero
l'impressione che un camminatore della notte si fosse installato sul tetto, perché una figura scura con i capelli arruffati e irti sulla testa era seduta a cavalcioni della trave centrale, le gambe che penzolavano da entrambi i lati, e con le enormi mani gettava zolle infuocate tutto intorno a loro. «Dev'essere Magia, che è tornata dalla morte per vendicarsi perché non l'abbiamo salvata!» gridò Kit Farsen. Quella possibilità sembrò loro ancora più spaventosa della prospettiva dei razziatori del Sud, che almeno erano di carne e ossa, uomini con appetiti e caratteri pienamente comprensibili. Le donne di Rocciacaduta, cresciute a pane e gloriose superstizioni delle isole del Nord, secondo le quali i morti che non trovavano pace si rifiutavano di giacere nel luogo dove erano caduti o dove erano stati seppelliti e risorgevano furiosi e in decomposizione per portare morte e distruzione alle fattorie, al bestiame e ai loro compatrioti, cominciarono a gridare e a fuggire a gambe levate. «No!» gridò nuovamente la voce. «Tornate indietro e aiutatemi a spegnere l'incendio. Salvatevi!» Ma Breta la Grassa, Hildi la Magra, Kit Farsen e Forna Stensen stavano già correndo attraverso il cortile, e le vecchie di Roccia delle Foca, sorprendentemente arzille per la loro età, le seguivano a ruota. Otter Garsen tuttavia era rimasta come paralizzata, nonostante le zolle infuocate che le piovevano intorno, e guardava con gli occhi sgranati verso il tetto. Quella figura lassù non le sembrava affatto sua figlia: anche se un camminatore della notte poteva cambiare aspetto e modo di parlare, all'improvviso fu sicura che quella non era Magia. «Otter!» gridò la cosa sul tetto. «Dov'è mia madre?» Era Katla Aransen! La bocca di Otter si spalancò. Si voltò e tornò di corsa nella casa. «Bera, Bera!» Il fumo era sempre più denso. Una parte veniva risucchiata verso l'alto dai buchi che Katla aveva fatto sul tetto, ma il resto era fitto e soffocante: Otter guardò ovunque ma non riuscì a vedere la signora di Rocciacaduta. L'edificio sembrava deserto. La donna continuò ad avanzare, con la mano buona premuta sulla faccia. Il pilastro centrale ora era in fiamme dal basso alla cima e il fuoco aveva cominciato a estendersi avidamente lungo le travi laterali, illuminando il sottotetto e il tetto sovrastante. Quando si voltò, Otter non vide più la porta dietro di sé: era svanita in una nuova ondata di fumo. All'improvviso quello che stava facendo le parve assurdo: come poteva esserci qualcuno ancora vivo là dentro? Doveva essere stata distratta dalla vista di Katla sul tetto e non aver notato che Bera Rolfsen aveva
lasciato l'edificio insieme alle altre. Si voltò e inciampò sul corpo del razziatore morto, poi crollò di schianto e mise avanti le mani per attutire la caduta. Un fuoco di agonia le avvolse il braccio quando la mano ferita toccò il suolo. Il dolore sembrò schiarirle la testa. Il fumo era meno denso al livello del pavimento: Otter si guardò intorno e vide due paia di piedi non lontano. Stringendo i denti strisciò da quella parte. Un paio apparteneva alla signora di Rocciacaduta. Bera Rolfsen era in piedi e tossiva e ansimava di fronte alla sua vecchia madre. Le due sembravano impegnate in un'accesa discussione, ma dal basso Otter non riusciva a sentire cosa si stavano dicendo. Lentamente e dolorosamente si rialzò. «Madre, non posso abbandonarti!» Hesta Rolfsen era seduta sulla grande sedia intagliata di Aran Aranson e con le mani stringeva le teste di drago alle estremità dei braccioli come se temesse che sua figlia potesse trascinarla via da lì. Era troppo bassa per quella sedia: i suoi piedi dondolavano come quelli di un bambino e come un bambino l'espressione sul suo volto era di assoluta ostinazione. «Qui sono e qui resterò. Rocciacaduta è la mia casa: sono troppo vecchia per lasciarla.» «Chi dice che dovrai lasciarla? I razziatori non si daranno la pena di prendere te e le donne più vecchie.» «E perché dovrei desiderare di vivere con la mia casa bruciata e mia figlia che mi viene portata via? Dovrei restare qui come una vecchia affranta e inutile, priva di valore persino per un mercato degli schiavi dell'Impero?» Bera Rolfsen emise un suono di assoluta e sterile frustrazione. «Allora morirai qui nell'incendio.» Per tutta risposta l'anziana donna incrociò le braccia e fissò un punto oltre la testa di Bera, e fu in quel momento che vide la sagoma sfocata di Otter Garsen. Un sorriso sdentato le illuminò il viso. «Otter, Otter, mia cara. Sei tornata per morire con me?» «No!» rispose Otter tossendo. «Sono venuta per portarti fuori di qui e riunirti alla tua famiglia. Katla Aransen è sul tetto e cerca da sola di impedire che questo posto bruci del tutto!» «Temo che sia ormai troppo tardi» disse Hesta con tristezza. Tese la mano e prese quella di sua figlia, accarezzandola dolcemente. «Tu salvati meglio che puoi, mia cara ragazza, e salva Katla. Anche se significherà andare con i razziatori, almeno salverete la vostra persona. Io sono troppo vecchia per vedere altro di questo mondo, ma voi avete ancora una vita
davanti e se non sopravviverete, allora chi vendicherà la mia morte?» Impossibile negare che avesse ragione. Bera cadde ai piedi di sua madre per abbracciarla per l'ultima volta, poi si alzò e prendendo Otter per un braccio si fece strada alla cieca nella casa che bruciava. Ma la via per la porta era bloccata: una parte delle travi del tetto era bruciata ed era crollata al centro della stanza. Davanti a loro non c'erano altro che rovine fumanti, dalle quali di tanto in tanto si levavano ancora delle fiamme molto alte, e non sembrava esserci alcun modo di superarle. Quando sollevarono lo sguardo, attraverso i buchi del tetto scorsero le stelle della notte brillare sopra la loro testa. Forse, pensò Bera, questa sarà l'ultima cosa che vedrò: la Stella del Navigante che senza dubbio in questo stesso momento sta illuminando il viaggio di mio marito tra i ghiacci del Nord. In altre circostanze avrebbe potuto essere un pensiero confortante. Ma nell'attuale situazione solo all'idea Bera provò una grande rabbia: una grande rabbia perché era stata costretta ad affrontare quel terribile destino e ancora di più perché Aran l'aveva abbandonata e aveva portato tutti gli uomini con sé, lasciando Rocciacaduta priva di difesa. «Che tu sia maledetto, Aran Aranson!» gridò nella notte. «Maledetto tu e la tua spedizione!» Da sopra apparve una testa. Era sporca e annerita dal fumo, con capelli arruffati e occhi luminosi. Sembrava un folletto. Era Katla. «Madre, Otter, qui!» Una corda in pelle di foca cadde giù dal buco verso le due donne. C'erano dei cappi per tutta la lunghezza a intervalli di un metro. Bera rise. «Vai su, Otter!» Con la mano ferita era difficile per Otter Garsen arrampicarsi sulla scaletta di corda, ma la donna non aveva alcun desiderio di morire nelle rovine fumanti della casa lunga di Rocciacaduta. Perciò si issò faticosamente, afferrando ogni laccio con una foga dettata dal panico e reggendosi con il gomito del braccio destro mentre con la mano sinistra raggiungeva l'appiglio successivo. Alla fine scomparve attraverso il buco nel tetto e un attimo dopo la corda di pelle di foca tornò a cadere giù. Era una stupenda mattina d'inverno. Il sole brillava come oro sopra il mare blu, l'aria era fredda e pulita e una costante brezza gonfiava la vela e li spingeva di buona lena verso lo stretto e l'Isola d'Uomo. Mentre passa-
vano sotto l'ombra dell'enorme faraglione, Erno Hamson guardò in alto, dove la corona rosata del picco brillava al sole e i cristalli incastonati nella roccia mandavano una pioggia di scintille a riversarsi nell'aria, e ricordò che era sempre stato il più grande desiderio di Katla Aransen scalare i cento metri di quella svettante torre. «Ma una volta arrivata lassù, come farai a scendere?» aveva chiesto lui inorridito. Non era mai stato un amante delle altezze e non aveva la minima voglia di essere costretto a salire fino alla sommità di quel terribile pezzo di roccia in mezzo al mare, neppure se fosse per far contenta Katla. La ragazza si era limitata a gettare indietro la testa e a ridere. «Penserò a un modo!» aveva dichiarato allegramente. Era il suo atteggiamento verso ogni cosa. Erno riusciva a immaginarla ora, seduta a cavalcioni sull'acuminata cima del faraglione, con una gamba che penzolava sul lato est e l'altra verso il mare, a guardare i gabbiani passare davanti al suo viso estasiato, soddisfatta come un gatto sazio delle prelibatezze trafugate dalla cucina. Non vedeva l'ora di incontrarla di nuovo. Giunsero al porto di Rocciacaduta un'ora prima di mezzogiorno, un po' più tardi di quanto Mam aveva previsto, a causa di un vento capriccioso che sembrava cambiare direzione ogni volta che orientavano la vela. Il porto era vuoto. La nave lunga di Aran Aranson, il Dono di Fulmar, non c'era e neppure le miriadi di piccole barche solitamente ancorate al molo. Erno immaginò che fossero in mare, a pescare il pesce che la stagione insolitamente calda sembrava ancora offrire in discrete quantità. Scrutò il panorama che gli si presentò dinanzi quando entrarono in porto. Una minacciosa colonna di fumo nero si levava nell'aria sopra la fattoria e veniva portata via sopra le colline dalla brezza. Erno strinse gli occhi: c'era qualcosa che non andava in quella scena. I fuochi nella casa venivano tenuti accesi pressoché ininterrottamente, sia per cucinare che per riscaldarsi, ma quel fitto fumo nero gli sembrava completamente fuori posto. Un brivido improvviso lo scosse. Entrarono nel porto interno. Nessuno uscì dalle case per accoglierli ed Erno sentì un tuffo al cuore. «C'è qualcosa che non va» confidò a Joz Manodiorso. «La gente di Rocciacaduta è sempre ospitale.» «Forse sono semplicemente cauti» suggerì Mam, legandosi la cintura della spada intorno alla vita. Uno stridore sul lato di dritta della prua li fece sobbalzare tutti. Persoa
saltò sopra la frisata e guardò giù. «È un grosso pezzo di legno» disse. «Non capisco da dove possa venire.» Dogo prese il raffio e lui e Joz catturarono l'oggetto e lo portarono in superficie per studiarlo meglio. Erano i resti di una piccola imbarcazione, chiaramente affondata a colpi d'ascia. I mercenari si scambiarono sguardi attoniti. Proseguendo verso il molo, incontrarono altri vascelli affondati: uno skiff, con la chiglia rovesciata e il fasciame rovinato, una faering sprofondata nel fango, una nave da pesca con lo scafo a pezzi. Il viso di Erno era cadaverico. «Qui è accaduto qualcosa di grave» mormorò allibito. «Forse è stata la gente di Rocciacaduta a farlo per impedire che altri le usassero» disse Mam, anche se sembrava non credere neanche lei alle sue parole. Quando la nave urtò la ghiaia della spiaggia leggermente in declivio, Erno fu il primo a gettarsi tra la schiuma, incurante del gelo dell'acqua, di come si sarebbero ridotti gli abiti che aveva accuratamente scelto e di qualunque altra cosa non fosse lo scoprire cos'era accaduto lì. I mercenari lo seguirono, anche se Mam lasciò Persoa a bordo e si assicurò che l'equipaggio fosse armato e pronto all'azione se fosse stato necessario. «Intimate l'alto là a chiunque passi» ordinò. «Chiedete il nome dell'artigiano che fabbrica spade su quest'isola e se non sanno che è una donna o che il suo nome è Katla Aransen, uccideteli.» Mentre correvano su per il sentiero che dal porto saliva alla fattoria, passarono davanti ai capannoni per l'essiccazione del pesce e sentirono qualcosa che gemeva e batteva contro il legno inargentato della terza capanna. «Un cane» disse Joz in tono sbrigativo. «Solo un cane che è rimasto intrappolato.» Aprirono la porta sbarrata con una certa cautela: anche un cane intrappolato poteva mordere. Dall'interno sbucò invece Ferra Bransen con l'abito strappato e pieno di macchie. Aveva il viso gonfio e continuava a balbettare frasi senza senso. C'erano dei lividi neri sulle sue braccia e uno degli occhi era incrostato di sangue. Non riuscirono a farle dire niente di sensato. Doc la avvolse nel suo mantello e la riportò giù al porto da Persoa. Nei cespugli che crescevano lungo il sentiero trovarono il corpo malridotto di un cane bianco e nero e poco più avanti il cadavere del suo compagno, il pastorello, Fili Kolson. Scuri in volto, continuarono per la loro strada. Vicino alla cima della collina c'era l'arco di biancospini del Bivio di Feya. Una striscia di seta
rossa giaceva dimenticata al suolo vicino al cespuglio, calpestata dal passaggio di molti piedi. Erno la raccolse e la fissò, perplesso. Gli ricordava il vestito di fidanzamento che Katla aveva indossato al Raduno; ma l'immagine che apparve nella sua mente con quell'abito indosso fu quella di una donna piccola e dai capelli scuri e questo lo sconcertò ancora di più. Pensosamente, si mise il pezzetto di stoffa in tasca. Poco più avanti la vista che si presentò ai loro occhi era orribile. Sulla cima della collina il cortile della casa era disseminato di armi. Sullo sfondo la Grande Casa di Rocciacaduta era ridotta a un mucchio di macerie ancora fumanti. Assi annerite dal fuoco sporgevano dalle rovine come le costole di un animale morto. Erno emise un grido roco pieno di disperazione. Uno stormo di corvi si levò dal campo in un gran batter d'ali, gracchiando irritato. Non ci voleva molta immaginazione per capire il tipo di banchetto che si stavano godendo prima di essere disturbati. C'erano corpi sparsi dappertutto: di uomini, in abiti del Sud e in tenuta da guerra, e di donne, a faccia in giù e con le gonne arrotolate intorno alla vita cosicché le loro parti intime erano immodestamente esposte allo spietato occhio del luminoso sole di mezzogiorno. Erno Hamson cadde in ginocchio. «Mio signore Sur» mormorò, più e più volte. Mam marciò verso la casa bruciata, la mascella così serrata che sul collo i tendini spiccavano come due grosse corde. Doc e Dogo si aggirarono lentamente tra i cadaveri, rimuovendo un oggetto qui e un oggetto lì. Joz si guardò intorno, l'espressione feroce. Sguainò il Drago di Wen e si spostò da un corpo all'altro risistemando gli abiti delle donne: non si poteva mai sapere cosa sarebbe stato capace di fare Dogo. Ogni corpo che rivoltò apparteneva a una donna più vecchia di quanto si era aspettato nel constatare che aveva subito uno stupro. Sembrava che ai razziatori del Sud fosse importato ben poco dell'età e della dignità delle loro vittime. La cosa non lo sorprese: aveva visto cose ben peggiori di questa. Erno invece no. Seguì il robusto mercenario, la faccia contorta in una smorfia di dolore ogni volta che riconosceva un viso, e sentendosi in colpa per il sollievo che provava ogni volta che non era Katla. Riconobbe Tian Jensen e Otter Garsen e pensò che un paio di altre donne potessero essere della zona di Roccia della Foca. Non ve n'erano di giovani. «Portate via per il mercato degli schiavi» disse Joz in tono burbero come se gli avesse letto nel pensiero. «Prese per essere vendute ai bordelli delle
città del Sud.» Un'ondata di rossa furia avvolse Erno. Di certo Katla sarebbe morta piuttosto che subire un'onta del genere... Ma mentre lo pensava capì che anche se fosse stata catturata, lui avrebbe preferito mille volte vederla viva e maltrattata che morta e inviolata. Alzò lo sguardo, gli occhi sfocati per le lacrime che minacciavano di scendere, e vide Mam uscire dalla casa con una spada in mano. Ne riconobbe lo stile: era indubbiamente uno dei pezzi migliori di Katla Aransen. Il suo cuore mancò un battito. «Cosa c'è?» disse con voce roca. «Cosa hai trovato?» «Sarebbe meglio chiedere chi» rispose Mam, scura in volto. «Ma io non lo so. Devi venire tu e assumerti l'ingrato compito di riconoscerle.» Fu con passo greve che Erno Hamson si avviò verso la dimora dove era stato allevato sin da quando aveva otto anni, il luogo che per lungo tempo aveva considerato la sua casa. Era ormai in rovina. Le travi del tetto erano cadute e così anche il soffitto e la maggior parte delle zolle che ricoprivano il tetto. Piccoli fuochi ancora ardevano qua e là dove una volta c'era il pavimento della casa. La luce attraversava il denso fumo blu a sprazzi, illuminando le gambe di un uomo morto e la mano tesa di una giovane donna. «Oh, no» mormorò Erno, e le lacrime represse cominciarono a scorrere. Sotto le travi c'era il corpo della piccola Marin Edelsen. I suoi occhi blu erano spalancati e l'espressione stupita. Sul collo aveva un'orrenda ferita aperta. E dietro di lei, sulla grande sedia di Rocciacaduta, sedeva Hesta Rolfsen, la nonna di Katla, matriarca e grande tessitrice di intrighi, una formidabile vecchia dalla risata volgare e gli occhi maligni. Si era sempre vantata con coloro che si davano la pena di ascoltarla che li avrebbe seppelliti tutti, che aveva intenzione di sopravvivere a Sur in persona e alla sua battaglia con il lupo e il serpente. Ma ora era morta, assolutamente composta e con le mani strette intorno ai braccioli a forma di testa di drago della sedia. I suoi arti erano bruciati tanto che le ossa brillavano di un bianco avorio tra il nero della cenere, ma mentre la morte la divorava, lei non si era staccata neppure di un millimetro dal suo trono. 30 La caccia Tanto Vingo scoprì che suo fratello era fuggito da Jetra quando mandò
due delle puttane più brutte e più a buon mercato che era riuscito a trovare nella stanza di Saro, vestite con tale indecenza che le loro lingue mozzate e le braccia piene di cicatrici erano bene in vista, sapendo bene che il giorno dopo tutto il castello avrebbe parlato di quello scandalo. Quando le donne tornarono da lui sbalordite e piangenti per dirgli che non l'avevano trovato, Tanto era stato preso da una terribile furia. Si era gettato giù dalla sua sedia a rotelle, schiumando di rabbia; aveva battuto i pugni e le gambe che fingeva di non poter muovere sul pavimento. Dalla sua bocca erano uscite tutte le peggiori imprecazioni possibili: contro la Dea, i suoi adepti, il suo gatto, i suoi fuochi, i suoi fedeli; contro l'Impero del Sud, i suoi nobili, le sue donne e le sue puttane; e infine contro la Città Eterna, il castello di Jetra, le guardie, il nobile Tycho Issian, il suo mago, il suo cristallo, tutti i nomadi operatori di magia, suo padre, suo zio, i suoi antenati e ovviamente suo fratello. Era un attacco di nervi al quale le due donne jetrane non avevano mai assistito prima, né avrebbero mai più voluto assistere... e sì che ne avevano viste di cose al mondo. In principio pensarono che fosse posseduto dai demoni, o dagli spiriti dei morti che percorrevano i freddi corridoi della fortezza quando tutti erano al sicuro nei loro letti. Ma quando Tanto si tirò su e sfogò la sua rabbia sulla puttana di nome Celina, scaraventandola contro la parete e sbattendole la testa contro l'intonaco finché non svenne, l'altra donna, Folana, fuggì terrorizzata e corse a cercare aiuto. Conosceva bene i passaggi del castello: in gioventù era stata abbastanza carina da guadagnarsi qualche cantari giacendo con i nobili della città, prima che la malattia e le punizioni la riducessero in quel misero stato. Perciò, invece di dirigersi verso gli alloggi degli ospiti, corse dai servitori e pregò il secondo sovrintendente dei domestici del castello di intervenire. Frano Filco trovò il padre e lo zio di Tanto Vingo in compagnia dei nobili Rui Finco e Tycho Issian. Frano prestava servizio nel castello di Jetra già da quattordici anni ed era stato frustato solo una volta: era la deferenza in persona. «Mio signore...» disse chinando il capo e rivolgendosi a Favio Vingo. «Mio signore, vostro figlio... non sta bene.» Favio sembrò sorpreso. La sua testa avvolta nel turbante si sollevò di scatto. «Saro? Ha solo un po' di paura, ecco tutto. Non è un amante della guerra: probabilmente è solo un po' indisposto, sapendo che presto dovrà marciare al comando delle sue truppe.» Frano scosse la testa. «No, mio signore, no: l'altro vostro figlio» cercò di ricordare il nome di Tanto senza riuscirvi «quello...» Stava per dire 'quello storpio', ma si bloccò giusto in tempo.
«Tanto?» Favio si alzò di scatto in piedi, l'espressione ansiosa. «Cosa c'è che non va?» Ma Frano non volle riferirgli niente: l'ira dei nobili era imprevedibile e poteva abbattersi su un povero servo anche per una sola parola sbagliata. Condusse invece gli uomini nella camera di Tanto, dove trovarono il suddetto sul pavimento con la prostituta nuda e priva di conoscenza a incidere qualcosa sulla carne morbida della ragazza con un coltello da frutta. Fabel Vingo e Rui Finco distolsero lo sguardo, imbarazzati, mentre Favio cadeva in ginocchio accanto a suo figlio e gli toglieva il coltello dalle mani, sussurrando continuamente, «Tanto, Tanto, calmati, ragazzo mio; andrà tutto bene, vedrai, andrà tutto bene.» Tycho Issian studiò la scena, sollevò un sopracciglio e poi si spostò leggermente sulla sinistra per avere una vista migliore delle gambe della prostituta. «Vai a chiamare Cleran» ordinò a bassa voce il Signore di Forent a Frano. «In fretta. Poi riporta la puttana a casa sua e dalle queste per il suo silenzio...» e fece scivolare una cascata di monete d'argento nelle mani dell'uomo. «E queste sono per te e per Cleran...» e seguirono altre monete. «Il ragazzo è posseduto» osservò Tycho con curiosità. «No, no» negò Favio. «Sta solo poco bene. È stato turbato da qualcosa.» Poi accarezzò la testa di suo figlio. «Tanto, ragazzo mio, dimmi cos'è accaduto.» Guardò in basso verso il braccio della puttana, dove il sangue colava copioso da tre lettere di un nome a lui familiare, e l'istinto gli disse con assoluta e terribile certezza che il suo secondo figlio era fuggito dalla città. Quasi se l'era aspettato negli ultimi giorni, da quando i piani di battaglia per l'imminente conflitto erano stati perfezionati e lui aveva visto Saro impallidire sempre di più mentre il nobile Tycho Issian descriveva le sue idee su come invadere la capitale del Nord e portare la redenzione alle donne d'Eyra. In effetti anche lui aveva avuto i suoi dubbi circa la sanità mentale del Signore di Cantara, in particolare quando aveva cominciato a farneticare sulle punizioni che avrebbe inflitto al re eyrano, e Saro era un ragazzo delicato... troppo delicato, a quanto sembrava, per il compito che gli era stato assegnato. Ciononostante riuscì a fingere una certa sorpresa quando Tanto gridò: «Saro è fuggito, ci è scappato! Quel piccolo bastardo!» Ora toccò al Signore di Cantara fremere dalla rabbia. «Signore!» disse con voce stridula, fissando Favio Vingo con il suo sguardo da folle. «È la
verità? Vostro figlio ha disertato?» Favio fece una smorfia nel sentire quella parola. Per la diserzione in tempo di guerra le pene erano molto severe. Anche se Saro aveva lasciato Jetra, lui preferiva pensare alla sua partenza come a una licenza, un'assenza, un momentaneo allontanamento dalla retta via. «Non lo so, mio signore» rispose. Fabel fece un passo avanti e prese suo fratello per un braccio. «Vado a guardare nelle sue stanze» disse in tono rassicurante. «Sono certo che c'è stato un equivoco. Saro non si sottrarrebbe mai volontariamente ai suoi doveri, per quanto possa trovarli spiacevoli.» E lanciando uno sguardo tagliente al Signore di Cantara che andò completamente sprecato, s'incamminò per il corridoio, felice di allontanarsi per un po' da quella insalubre atmosfera. Ma Saro non era nelle sue stanze, né nelle cucine, né fuori nei giardini. Nessuno l'aveva visto. E quando Fabel scese giù alle scuderie e scoprì che anche il loro stallone migliore era scomparso, fu difficile negare che il ragazzo si fosse dato alla fuga. Inoltre ben presto si sparse la voce che anche lo strano servitore del Signore di Cantara, l'albino di nome Virelai, sembrava sparito. Quelle notizie non fecero che alimentare la rabbia di Tycho Issian. Perdere il ragazzo era una cosa, perché poteva essere facilmente rimpiazzato: c'erano centinaia di figli minori come lui che si contendevano i favori dei più eminenti nobili di quella terra; ma perdere il mago era davvero un disastro. Avevano già ammassato una considerevole quantità di finto argento, questo sì, sufficiente per pagare la costruzione delle navi di cui avevano bisogno; ma il suo piano per strappare la Rosa del Mondo dalle grinfie del re barbaro si basava sull'utilizzo di un incantesimo su cui il mago lavorava ormai da mesi. Lui era indispensabile. Oltrepassando i limiti della sua autorità, Tycho mandò fuori gli araldi ad annunciare una taglia: per la testa di Saro Vingo, settemila cantari, mentre per il ritorno del mago sano e salvo insieme con il gatto nero con cui viaggiava sempre, ventimila. Nessuno osò opporsi. Hesto e Greving Dystra, i capi simbolici del Consiglio di Governo istriano, prima si misero in tremenda agitazione, e alla fine concessero udienza al padre del disertore, aggiungendo poi diecimila cantari per la cattura del ragazzo vivo e vegeto, e altri cinquemila per lo stallone. Le notizie di presunti avvistamenti cominciarono a susseguirsi senza sosta. I tre erano stati visti, sia insieme che da soli, sia nelle Foreste Blu del
Nord che nel Deserto delle Ossa all'estremo Sud. Gruppi di uomini a cavallo partirono dalla Città Eterna in tutte le direzioni. Un grosso contingente su cavalli veloci si mosse verso la città di Altea, nel caso Saro Vingo avesse stupidamente deciso di tornare a casa. Altri partirono per nordest verso le Colline Bianche e da lì verso Forent. Una piccola compagnia di sei cavalieri si indirizzò verso le montagne d'Oro e la Spina Dorsale del Drago, anche se sembrava estremamente improbabile che qualcuno volesse cercare riparo in una zona così selvaggia e inospitale. I Grandi Deserti Meridionali furono lasciati a un gruppo di cacciatori di taglie, perché nessuna truppa regolare aveva intenzione di avventurarsi fin laggiù: da quelle parti se non era il caldo a uccidere i viaggiatori ci avrebbero di certo pensato i mostri che si diceva vagassero per quelle zone deserte. Un altro contingente scese in barca lungo il fiume Tilsen per eventualmente precedere i disertori ai porti di Galia, Tagur o Gila. Il gruppo diretto alle Foreste Blu per indagare su uno dei presunti avvistamenti si fermò nella cittadina di Crocevia del Nobiluomo per abbeverare i cavalli e fece una breve visita alla taverna di Ala dello Sparviero per degustare la rinomata birra locale. In pochi minuti in paese si sparse la voce che i soldati stavano cercando 'un giovane nobile divenuto disertore di nome Saro Vingo, un servitore albino, un gatto nero e lo stallone che aveva vinto alla Grande Fiera.' Uno dei clienti abituali attirò l'attenzione del capitano toccandolo sulla spalla. «È uno stallone da corsa quello che cercate? Nero, per caso?» Il capitano si divincolò dalla presa dell'uomo e lo guardò con diffidenza. Non gli piaceva essere avvicinato da estranei in modo così diretto, e in particolare da una persona che non lo onorava con un cortese 'signore'. «In effetti sì. Cosa ne sapete voi?» chiese senza mezzi termini. «Avete visto un cavallo del genere?» L'uomo era alto e dalla carnagione scura con occhi infossati e una bocca sottile, ora distesa in un poco piacevole sorriso. «Non io personalmente, no; ma qualche giorno fa un tale che si chiamava... Com'era quel nome?» Finse abilmente di rovistare nella propria memoria finché il capitano non divenne impaziente e gettò tre monete sul bancone. L'uomo alto le prese, ne addentò una e la esaminò più da vicino. Poi, come se quel gesto avesse riportato il ricordo alla luce, fece un ampio sorriso. «Lodu» dichiarò. «Lodu li ha visti, o almeno ha detto di averli visti: due uomini, un grosso gatto e uno stallone da corsa.» Nessuno aveva mai specificato che il gatto era grosso, ma il capitano immaginò che la grandezza fosse una cosa relativa. «Questo Lodu... dove
posso trovarlo?» L'uomo alto si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea» replicò, e sorrise di nuovo. «Tana del Falco» biascicò un altro uomo. «Cosa?» «È un piccolo paese di collina a sud di qui. È lì che abita Lodu Balo.» Impiegarono due ore per raggiungere Tana del Falco, e a quel punto gli uomini stavano quasi per ammutinarsi. Per tutto il viaggio lungo le strade calde e polverose dalla Città Eterna a Crocevia del Nobiluomo non avevano sognato altro che qualcosa da bere e una partita a carte: spingerli ad affrontare un ripido sentiero di collina al buio e senza la prospettiva di una birra alla fine della salita fu decisamente una scelta impopolare. Dopo aver sprecato un'altra mezz'ora a cercare la casa di Lodu Balo, che non si trovava all'interno del minuscolo paese, ma a un altro chilometro e mezzo sulla collina lungo un sentiero stretto e infido frequentato da gufi e pipistrelli, il gruppo era davvero di pessimo umore. La donna che aprì loro la porta era piccola, scura e aveva il tatuaggio di un clan di Gola su una guancia e un cristallo intorno al collo. «Un'Errante!» sibilò il sergente. La donna gridò e tentò di richiudere la porta, ma il capitano infilò un piede all'interno e la spalancò con una spallata. Cinque soldati si affollarono dietro di lui. All'interno la casetta era semplice e disadorna. Su un basso tavolino al centro della stanza c'erano numerosi fasci di erbe diverse, rosmarino e timo, origano e maggiorana, basilico e aneto, tutti legati con della rafia e pronti per essere appesi a essiccare. Il capitano ne prese uno e lo annusò con sospetto, poi indietreggiò bruscamente. «Stregoneria!» dichiarò, gettando le erbe a terra e calpestandole con ferocia. Poi si voltò verso i suoi uomini. «Prendete il resto di questa roba e bruciatela.» Tacque per un istante. «E anche lei.» «Cosa?» L'uomo che era entrato nella stanza da quella accanto stava sbattendo rapidamente le palpebre, come se non fosse abituato alla luce. Aveva un accenno di barba sul mento e il suo fiato puzzava di aglio e vino. «Cosa state facendo qui dentro? E dove state portando mia moglie?» chiese Lodu Balo in tono bellicoso. Il sergente lo afferrò per la tunica e lo sollevò finché i suoi piedi non dondolarono nell'aria. «Quella è un'operatrice di magia, una puttana degli Erranti: tu cosa ci fai con lei?»
Lodu sembrò inorridito. «Quella è mia moglie, lo è da vent'anni. Non è una degli Erranti, viene da un clan di collina.» «Allora perché sta armeggiando con questa sporca magia?» «Lei coltiva erbe, che vendiamo al mercato insieme ai nostri prodotti...» «Allora ammetti di vendere incantesimi?» «No...» In quell'istante gli arrivò un pugno nello stomaco che lo fece piegare in due dal dolore. Quando si raddrizzò tre dei soldati avevano già trascinato sua moglie fuori. La sentì urlare, «Lodu, Lodu, salvami!», e poi udì dei gemiti e dei tonfi come se qualcuno la stesse prendendo a calci come si fa con un cane. «Ve lo giuro!» gridò l'uomo. «Ve lo giuro!!!» Il capitano avvicinò il volto a quello di Lodu. «Due uomini, un 'grosso' gatto e uno stallone nero. Significa niente per te?» Gli occhi di Lodu si spalancarono per la sorpresa. «Io...» balbettò. «Io li ho visti, sì, sulle colline a sud di qui.» «Quando?» «Il giorno del mercato, il mese scorso» si affrettò a dire, improvvisamente sollevato, perché non era qualcosa che lui o sua moglie avevano commesso ad aver condotto i soldati lì. «Molto chiaramente, li ho visti. Si stavano dirigendo a sud e quello che mi è sembrato strano, a parte il gatto, ovviamente, è che questi uomini avevano quel bel cavallo con loro e nessuno dei due lo cavalcava; anzi, era chiaro che avevano camminato per tutta la notte. Era poco dopo l'alba e io ero partito presto per il mercato a Crocevia del Nobiluomo per essere certo che la frutta non si rovinasse con il caldo e be', non c'era alcun luogo intorno per chilometri da cui degli uomini così distinti potessero essere arrivati...» «Un giorno di cammino da Jetra, forse, o una notte...» Lodu annuì. «E dove erano diretti?» «A sud» si affrettò a rispondere Lodu. «Sudest. Il sole era alle loro spalle, lo ricordo bene.» Non proveniva più alcun rumore da fuori: dovevano aver lasciato andare via sua moglie. All'improvviso gli venne in mente qualcosa. «C'è una ricompensa per questa informazione?» chiese leccandosi le labbra. Il capitano gli rivolse un sorriso di compassione. «Una ricompensa? La ricompensa di Falla, forse.» Lodu si accigliò, tentando di capire cosa intendesse dire. Non era mai
stato un tipo sveglio... Ma anche se fosse riuscito a cogliere al volo il significato di quella frase non avrebbe fatto molta differenza. Morì con la perplessità stampata sul volto. Il capitano lo colpì alla testa col pomo della sua spada e Lodu si accasciò al suolo. Il capitano diede un paio di colpetti affettuosi alla borsa di monete che portava alla cintura. «Perché un contadino dovrebbe arricchirsi quando siamo noi che svolgiamo tutto il lavoro più duro?» Il sergente gli fece un ampio sorriso. Fuori il cielo notturno era illuminato dal fuoco acceso nella piccola valle sotto la casetta, le cui fiamme lambivano i boschetti di olive e limoni, mischiando i loro profumi a quelli fragranti delle erbe. Ma neppure quegli invitanti aromi potevano mascherare il puzzo di ciò che giaceva in mezzo al fuoco. Insieme il capitano e il suo sergente gettarono il corpo di Lodu Balo sui resti anneriti di sua moglie, si spolverarono le mani e tornarono in casa per cercare delle provviste da portare con sé nel lungo viaggio verso il Sud. Sud ed est. Vicino all'ansa del fiume Tilsen, dove i salici crescevano alti, trovarono i resti di un fuoco e delle tracce sul terreno. Erano le prove di un qualche tipo di accampamento: ma i solchi lasciati dalle ruote dei carri non avevano niente a che fare con due uomini, un gatto e un cavallo. «E ora?» chiese il sergente. Il capitano diede un calcio alle pietre annerite dal fuoco. «Come cazzo faccio a saperlo?» rispose infuriato. «Tu dove andresti se stessi disertando?» Il sergente rise. «Non ho certo intenzione di dirlo a te, capo!» Poi studiò il brullo panorama intorno a loro. «Ma di sicuro non in un posto maledettamente selvaggio come questo, stanne certo.» Un grido si levò dalla riva del fiume. Uno dei soldati aveva trovato delle impronte di zampe e gli altri si erano prontamente radunati intorno a lui per guardare. «Non è normale» osservò uno di loro. «I leoni di montagna non dovrebbero esserci da queste parti.» «Non ci sono montagne per almeno un centinaio di chilometri!» Un uomo posò la mano sul fango indurito. L'impronta della zampa la inghiottì. Il capitano emise un fischio di meraviglia. «Quello non è certo un gatto che vorresti accarezzare, che dici?»
L'uomo rabbrividì e si affrettò a ritirare la mano come se la bestia potesse magicamente materializzarsi dalle sue orme. Il sergente esaminò pensosamente le tracce sul terreno. «Un 'grosso gatto', ha detto il contadino. Un 'grosso gatto'. E in effetti mi ero chiesto come cavolo aveva potuto vedere un gatto domestico da quella distanza. C'è qualcosa di strano qui: si parlava parecchio in caserma dell'albino e di ciò che faceva per il Signore di Cantara...» «Un bel bastardo, quel Tycho Issian» disse qualcuno, e tutti annuirono concordi. «Magia e cose del genere...» «E puttane anche.» «Perciò cosa otteniamo se facciamo due più due?» chiese il capitano, fissando uno a uno i volti dei suoi uomini. Tutti lo guardarono senza capire. Il capitano schioccò la lingua, impaziente. «Otteniamo mutaforma e maghi ed erranti e tradimento.» Poi abbassò la voce e prese da parte il suo sergente. Conosceva Tilo Gaston da quanto erano ragazzi: si erano addestrati, ubriacati e azzuffati fuori da una dozzina di taverne della Città Eterna, sempre insieme. Ma si fidava di lui? Forse non del tutto, eppure il denaro di solito bastava per chiudere la bocca a un uomo. «Otteniamo cospirazione nelle cerchie più alte. Non mi meraviglia che abbiano messo una taglia così consistente sulle loro teste... e immagino che potremmo ricavare anche qualcosa di più se li cattureremo. Il Signore di Cantara ha degli antenati alquanto ambigui, a quanto ho sentito. Qualcuno parla addirittura di un padre nomade...» «Sarà meglio che tu non vada a dirlo in giro in pubblico» sussurrò il sergente, guardandosi con un certo timore alle spalle nel caso gli altri avessero sentito. «La gente scompare intorno a Tycho Issian, e non per magia...» «Ah, no, non avevo intenzione di dirlo in pubblico.» Il capitano strizzò l'occhio e fece tintinnare il sacchetto di monete. Poi alzò la voce. «Scommetto quello che volete che questo era il luogo prefissato per l'incontro» si rivolse ai suoi uomini. «Quelle eleganti impronte di zoccoli non appartengono certo a uno yeka, perciò direi che le nostre prede si sono unite a un gruppo di nomadi. E anche se non fosse così, e le loro strade si sono incrociate solo per caso, il peggio che ci possa capitare se seguiremo queste tracce è di trovare e arrostire qualche Errante. E il meglio? Be', solo la Signora lo sa. Ma se continuate a immaginare cosa potrete fare con i soldi della ricompensa, riuscirete a distogliere la mente da questo terribile caldo e dalle mosche che vi infastidiranno lungo la strada.»
Viaggiare con i nomadi era senza dubbio l'esperienza più piacevole della breve vita di Saro Vingo. Insieme a loro riusciva persino a dimenticare per breve tempo il vero scopo del loro percorso, perché i racconti delle vecchie e le loro infinite conoscenze di tutto ciò che li circondava gli rivelavano un mondo notevolmente diverso da quello in cui era cresciuto... un mondo più vasto e più puro, più misterioso e molto, molto più antico di quanto lui avesse mai immaginato. E ciò alleviava almeno in parte la disperazione che aveva provato sin da quando il dono dell'empatia del vecchio Hiron gli aveva aperto gli occhi sull'orribile natura della maggior parte dell'umanità, tanto che a volte riusciva persino a sentirsi ottimista. Erano ormai due giorni che costeggiavano le basse colline ai piedi delle montagne d'Oro e ora si stavano prendendo un meritato riposo accanto a un ruscello ombreggiato da alti sorbi rossi. «Questi si chiamano billeri dei prati» disse Alisha, mostrandogli un fascio di teneri steli verdi sormontati da delicati fiori rosa. «È una pianta medicinale: ottima per lo stomaco. E anche buona da mangiare.» Ne prese un paio di gambi e glieli porse. Sapevano un po' di crescione, anche se erano più amari. Saro aveva già imparato i nomi e gli usi di una dozzina di funghi e di tre dozzine di piante ed erbe medicinali: abrotano (per i crampi dei muscoli), stramonio (per i problemi di respirazione), giusquiamo nero (per l'ingrossamento dei testicoli), tasso barbasso (per lividi ed emorroidi), raperonzolo (per la febbre e lo scoloramento della pelle). Aveva poi imparato che il garofanino maggiore in polvere poteva fermare un'emorragia, che un decotto di geranio volgare macerato nel vino poteva alleviare i dolori alle articolazioni e che uno di saponaria poteva combattere quelle malattie contratte nei bordelli meno igienici. Tali applicazioni delle piante facevano sembrare il mondo più benevolo verso i suoi abitanti, come se i Tre avessero fornito alla loro gente tutto ciò che poteva essere loro utile, pronto da raccogliere. Da Virelai aveva invece imparato delle nozioni ben più sconvolgenti. Che le pozioni fatte con la radice dell'orchide maschia potevano indurire l'organo genitale maschile per un giorno o più; che la polvere di gambi di euforbia poteva causare l'aborto e che la mercorella bastarda poteva uccidere un topo, un cane o un uomo in modo molto doloroso, a seconda della quantità che ne veniva somministrata. Chiese ad Alisha se quelle cose erano vere, arrossendo quando le parlò dell'orchide. «Non ho davvero idea di dove prenda tutte queste orribili informazioni»
commentò la donna ridendo. «Dai libri, dice lui, i libri del vecchio.» «Chi è questo vecchio?» domandò a voce bassa. Ricordò la visione che aveva avuto quando aveva toccato il mago. Per essere un uomo anziano non gli era sembrato affatto benevolo. Alisha si strinse nelle spalle. «Credo che abbia cresciuto Virelai sin da piccolo, ma ciononostante non parla molto di lui. Non so neppure il suo nome.» «Io sì» disse Saro, sorpreso. «Rahe.» La nomade sgranò gli occhi. «Rahay?» chiese, separando le sillabe. Saro annuì lentamente. Il modo in cui lo diceva gli ricordava qualcosa. «Re Rahay?» «Non credo fosse un re. Lui non ha mai parlato di un re» osservò Saro, perplesso. «L'ho toccato una volta, Virelai intendo, per vedere se ci fosse cattiveria in lui, e mi è arrivato un torrente di immagini... Ho visto un uomo molto, molto vecchio circondato da pergamene e rotoli e bottiglie di ogni tipo, in una fortezza fatta tutta di ghiaccio. E c'era una donna, anche, con lunghi, lunghissimi capelli dorati...» Fece una risatina nervosa. «Assurdo, no? Sembra un'immagine uscita da una fiaba.» Alisha annuì con aria assente. Volse gli occhi verso il mago, che era seduto con le vecchie e le aiutava a torcere il bucato al torrente. Poi tornò a voltarsi verso Saro, guardandolo nel profondo degli occhi. «Io non so esattamente chi o cosa sia Virelai,» disse a voce molto bassa «ma ho forti sospetti riguardo al vecchio. Molto tempo fa, centinaia di anni fa, forse, all'epoca in cui i miei antenati vivevano nell'Estremo Sud di Elda, oltre la Spina Dorsale del Drago...» «Ma non c'è niente oltre la Spina Dorsale del Drago» la interruppe Saro ridendo. «Lo sanno tutti.» Alisha sembrò indignata. «Ma certo che c'è: è da lì che è venuta la mia gente. E anche la tua.» «La mia gente viene da Altea» insisté caparbio Saro. «È la famiglia dominatrice di quella zona da generazioni.» «Ma avere potere sugli altri ha davvero così tanta importanza?» chiese la donna con gentilezza. Ora fu Saro a indignarsi. «Non intendevo dire quello. Volevo solo dire che dal momento che la mia famiglia è considerata importante in quella regione, esistono le registrazioni di ogni nostra nascita, matrimonio o morte: noi siamo orgogliosi del nostro casato. Sappiamo chi siamo e da dove proveniamo.»
«A quanto pare no! Tutta la gente di Elda è venuta dall'Estremo Sud, così tanto tempo fa che le storie di quell'epoca sono diventate leggenda...» «Allora perché le leggende parlano invece di un Estremo Occidente?» insisté Saro, come per volerla cogliere in fallo. Alisha rise. «Questo fatto ci ha sempre divertito. Ti sei mai chiesto perché sia gli Eyrani che il tuo popolo hanno a cuore queste storie dell'Estremo Occidente?» Saro rifletté per qualche istante. «Gli Eyrani sono originari di qui, dell'Istria. Siamo noi ad averli cacciati verso nord e poi da tutto il continente meridionale. Perciò immagino che sia per questo che abbiamo le stesse leggende. E perché Sirio e Sur hanno lo stesso suono. Ma l'Estremo Occidente e l'Estremo Sud... be', lì è impossibile confondersi. Tutti quei navigatori e avventurieri eyrani che progettano di trovare la Via del Corvo per l'Estremo Occidente... non potrebbero di certo far vela attraverso le montagne, non credi?» «Tu non ritieni sia possibile, vero?» replicò di rimando Alisha. «Da quando mia madre è morta... Tu l'avresti adorata, penso: era davvero un personaggio! Portava i capelli in un piccolo ciuffo bianco sulla testa, aveva un centinaio di catene d'argento intorno al collo ed era la più dolce delle donne... Da quando mia madre è morta, dicevo, cerco di ricordare tutto quello che lei mi raccontava, quello che le aveva narrato sua madre e la madre di sua madre prima di lei. E ho parlato con Elida e Jana: anche loro sanno molto. Una cosa che ho scoperto è che Estremo Occidente è una storpiatura di 'estrem occienti', che nell'Antica Lingua significa 'l'antico popolo'. E l'antico popolo proveniva dalle regioni al di là delle montagne a sud di qui.» Saro chiuse gli occhi. C'era un'enorme confusione nella sua testa, un turbinio di parole su cui non aveva alcun controllo. Tutta una serie di informazioni diverse stavano facendo capolino dalla sua memoria, per ricomporsi come i frammenti di un puzzle. Aprì gli occhi di scatto. «Rahay era re dell'Occidente, proprio come nello spettacolo di marionette di Guaya, ma non lo era davvero, era il re del Sud, e il suo nome era Rahe, ed è il mentore di Virelai, il Padrone: è lui che ha trovato la Dea centinaia d'anni fa e l'ha portata via!» Si bloccò e fissò Alisha, consapevole di quello che aveva appena detto. «Ma nessuno vive per centinaia di anni...» Continuò a fissare la donna, aspettandosi che intervenisse o convenisse con lui, ma lei lo guardò con magnanimità e rimase in silenzio, così Saro proseguì nella sua ricostruzione dei fatti, lasciando che le parole gli uscissero di bocca
come un torrente. «E la tua gente, i nomadi, i Viaggiatori, sono il Popolo, proprio come negli antichi libri: quelli con la magia della terra, quelli che incanalano i poteri di Elda. Solo che...» «Solo che in noi c'è rimasta ben poca dell'antica Arte, e anzi, prima che la Rosa Eldi venisse restituita al mondo, avevamo perso quasi del tutto la nostra magia. Sì» continuò Alisha. «E anche voi siete il Popolo, tutti voi, Istriani ed eyrani; ma appartenete a quel gruppo che si è sparso per il mondo intenzionato a condurre un tipo di vita diverso, che ha voltato le spalle alla magia e alle tradizioni e ha deciso invece di farsi la guerra, e che il potere e il denaro e la terra erano più importanti dell'amore e della verità e del cuore di Elda.» «Ma se la Dea è stata restituita al mondo, e la Bestia è con noi, allora se riusciamo a trovare Sirio tutto tornerà come prima, no?» Alisha gli sorrise. «Sembra tutto così semplice, vero?» All'improvviso si sentì un grido da qualche parte sulle colline sopra di loro, dove il sentiero serpeggiava tra le rocce. Saro si alzò di scatto come spinto da una molla, ma non riuscì a vedere niente. Il grido fu seguito da un forte ruggito, poi da urla. «Abbiamo davvero la Bestia con noi, e sembra anche che abbia compagnia» disse Alisha con una smorfia. Poi corse giù verso il resto della carovana. «Abbiamo visite!» gridò, agitando le braccia. «Facciamo fagotto e andiamo via.» In un lampo i nomadi scattarono in piedi e cominciarono a muoversi in fretta. Saro era impressionato dal modo calmo e risoluto in cui stavano reagendo e si chiese se fossero flemmatici per natura o se ormai fossero abituati a questi attacchi. Virelai e gli uomini cominciarono a radunare gli yeka; le donne infilarono i panni ancora bagnati nel retro dei carri e raccolsero gli utensili da cucina e gli effetti personali. Saro slegò lo stallone e poi guardò su verso le colline dove risuonava il ruggito di Bëte. Per un momento non riuscì a vedere niente; poi ci fu un movimento tra le felci e le betulle: cavalieri, con mantelli blu scuro. Allora non era una banda di predoni... «Lasciate i carri!» urlò. «Lasciate tutto e scappate!» Alisha, spingendo Falo sul loro carro, lo guardò sbalordita. «Sono soldati!» gridò Saro, tirando giù il ragazzo, e vide la donna impallidire. «Siamo noi quelli che stanno cercando» aggiunse, sapendo istintivamente che era la verità. «Io e Virelai.» Poteva ben immaginare suo fratello che istigava il Signore di Cantara ad agire così prontamente. Era un
bene che Tanto non fosse in grado di cavalcare, pensò, o ci sarebbe stato lui al comando di quel drappello, e allora nessuno sarebbe stato al sicuro. Guardò verso il mago, che era in piedi dietro la donna e ondeggiava leggermente come un pallido pioppo al vento. «Virelai!» gridò. «Sono venuti per noi... soldati da Jetra. Tu e io dobbiamo affrontarli, tenerli a bada finché possiamo, in modo che questa gente riesca a fuggire.» «Ci servono i nostri carri» disse uno dei vecchi in tono calmo, conducendo il suo paio di yeka presso il veicolo e mettendo loro le briglie con mano sicura. «Tutta la nostra vita è nei nostri carri.» Saro fu avvolto da un'ondata di frustrazione. «Non rimarrete in vita, se non lascerete i vostri carri!» Ma l'uomo continuò nel suo lavoro finché non ebbe legato gli animali nel modo giusto. Un istante dopo il primo soldato sbucò fuori dagli alberi, roteando selvaggiamente la spada. C'era del sangue sulla lama. Poi un secondo soldato apparve dietro di lui. Non aveva potuto sguainare la sua arma: gli servivano entrambe le mani per controllare il suo cavallo, che sembrava impazzito. I nomadi, vedendo la minaccia materializzarsi all'improvviso di fronte a loro, sembrarono riscuotersi, ma non vollero lo stesso abbandonare i loro carri. Saro, che non portava la spada, si guardò disperatamente intorno alla ricerca di un'arma. «Ecco!» Era Falo, che brandiva un bastone lungo e robusto di legno di quercia stagionato. «È di mamma,» disse tendendolo a Saro «anche se non credo che ci abbia mai colpito nessuno con questo.» Le mani di Saro si chiusero sopra il bastone, permettendo all'ondata di ricordi e di esperienze di invaderlo... la luce del sole e un terreno screziato; un uomo giovane; un vecchio; il dolore di un parto; un forte senso di protezione, un profondo legame con il mondo. Contro la pelle del suo petto la pietra della morte iniziò a pulsare di una pallida luce verde... «Scappa» disse Saro al ragazzo, e la sua stessa voce gli sembrava strana, più profonda e più lenta, come se venisse da molto, molto lontano, come se gli venisse tirata fuori da una mano invisibile. E anche Falo dovette aver capito qualcosa, perché sgranò gli occhi e poi si voltò e corse via lungo il fiume. Una mano si chiuse sul suo braccio e Saro trasalì, avvolto da un improvviso gelo. Il mago staccò la mano come se si fosse bruciato. Il suo sguardo era violetto, intenso. «La pietra...» mormorò. «Saro, non usare la pietra...»
Troppo tardi. Le dita del giovane si erano già chiuse sopra il ciondolo. Mentre il primo soldato correva verso di loro, Saro lo tirò fuori e lo puntò verso l'uomo. Un forte chiarore avvolgeva la pietra, che emanava scintille e lampi di luce. Il cavallo del soldato si adombrò e nitrì e scartò bruscamente sulla sinistra, cosicché l'uomo perse la presa sulle staffe e piombò a capofitto nel fiume. Il cavallo corse via al galoppo con gli occhi fuori dalle orbite. Accortosi dell'accaduto, il secondo soldato esitò. Per un breve istante Saro vide con assoluta chiarezza i segni lasciati dagli artigli di Bëte lungo il fianco del cavallo; poi il soldato sguainò la spada e gridò loro qualcosa. Le dita di Saro bruciarono di un improvviso calore che si diffuse lungo il braccio, attraverso la spalla e nei muscoli e nelle ossa del collo e della testa. Saro chiuse gli occhi e desiderò che l'uomo non ci fosse più. Ci fu un grido; un tonfo. Quando il giovane riaprì gli occhi il soldato giaceva a terra immobile, col braccio in cui teneva la spada disteso sopra la testa; l'arma era rotolata via sul terreno. Saro si voltò, scioccato, con l'intenzione di dire qualcosa al mago, ma Virelai stava già correndo via verso gli alberi, dietro ai nomadi. Era solo. Quando tornò a voltarsi verso la collina, altri due soldati erano già sbucati dal boschetto. Dovevano aver visto cosa era successo ai loro compagni, perché si muovevano con circospezione; poi, invece di precipitarsi giù a valle, fecero voltare i cavalli e si diressero verso la cima della collina. Per pochi secondi le loro sagome si stagliarono contro il cielo, poi scomparvero. Saro lasciò andare il pendaglio. Gli faceva male la testa e sentiva un gelo nello stomaco per il terrore. Il primo uomo cui si avvicinò era chiaramente morto: aveva gli occhi rovesciati, e di essi si vedevano solo le cornee ingiallite e un piccolo orlo dell'iride. Il secondo, invece, si stava dibattendo nelle acque basse del fiume. «Aiutatemi!» gridava di tanto in tanto sputando l'acqua. «Sto affogando!» Saro lo tirò fuori dal fiume e l'uomo rimase disteso sulla riva ansimando e tossendo e vomitando rivoli d'acqua e di bile. Una serie di immagini turbinò nella mente di Saro a quel contatto: una sensazione di stanchezza, noia e irritazione, calore e polvere e sete; dolore per il tempo trascorso in sella; un leggero disgusto per il corpo di una donna che bruciava su una pira, a faccia in giù, con le pesanti scarpe da contadina che si muovevano a scatti convulsi; paura quando un enorme gatto nero era balzato fuori dal sottobosco spingendolo a colpire più e più volte con la sua spada... Saro staccò le mani dall'uomo. «Perché siete qui?» chiese.
Il soldato batté le palpebre. «Disertore» rispose poi con voce roca, indicando Saro. «Ci hanno mandati... a riportarti indietro» ansimò «E anche... l'uomo pallido. Devi essere... punito, ecco cosa ha detto... il nobile Tycho. Come esempio... per gli altri.» Tossì di nuovo e si ripulì la bocca col dorso della mano. «Avremmo dovuto riportare anche il gatto.» L'uomo fece una risata amara. «Il guaio è che nessuno ci aveva avvertito di quant'era grosso!» Tirò su la gamba dei suoi pantaloni strappati per ispezionare il danno. «Vedi?» disse. Strisce di pelle pendevano come nastri dalla sua coscia. L'acqua aveva fermato solo in parte l'emorragia: piccoli rivoli di sangue colavano ancora dalla ferita, macchiando l'erba secca sotto di lui. «Ma l'ho beccata, quella maledetta bestia, credo» dichiarò con una certa soddisfazione. «Proprio sul fianco.» Il soldato sembrò riflettere per un momento, poi chiese, «Hai una benda?» Saro lo fissò con sguardo assente. Era possibile che Bëte fosse morta? Non aveva più sentito ruggiti dopo quel primo grido sulla collina e nessun altro tipo di suono provenire da lei. La disperazione tornò ad avvolgerlo come una nuvola nera. Si alzò e si allontanò, lasciando il soldato dov'era. L'uomo rimase seduto a fissarlo, confuso e anche un po' indignato. Lo stallone, Messaggero della Notte, era poco più giù lungo il fiume con la testa chinata sull'acqua, e beveva placidamente. Ma dov'era Virelai? Saro andò verso il boschetto dove aveva visto dirigersi l'uomo pallido, chinandosi per passare sotto i rami e superando radici e rovi. Trovò il mago raggomitolato ai piedi di un enorme sorbo, con le ginocchia strette contro il petto. Si dondolava avanti e indietro come un bambino impaurito. Quando vide Saro in piedi di fronte a lui, sembrò terrorizzato. «Per favore, non usare la pietra su di me» gemette. Saro scosse la testa. «Non lo farò» promise. «Non la userò mai più.» Si tolse la collana dal collo. «Ecco, prendila tu. Io non la voglio, non l'ho mai voluta... Per me non è stata che una maledizione.» Ma Virelai indietreggiò spaventato finché non si ritrovò con la schiena contro l'albero e non ebbe scampo. Il suo viso era contorto in una smorfia di terrore. «Oh, no» protestò. «Io no.» Saro si accigliò. «Allora seppelliamola qui, o gettiamola nel fiume, così nessuno potrà mai più usarla.» Il mago scosse la testa. «Altri potrebbero trovarla, e sarebbe peggio.» «Sei sicuro di non volerla prendere tu?» Virelai pareva inorridito. «Non io» rispose. «È troppo potente per me.»
Demoralizzato, Saro si infilò nuovamente la collana e la nascose sotto la tunica. «Andiamo a cercare Alisha, allora» disse alla fine. «Credo che i soldati se ne siano andati.» Quando uscirono nuovamente sulla riva del fiume, il soldato ferito non era più dove Saro l'aveva lasciato e non c'era più neppure Messaggero della Notte. Ma nel punto in cui aveva visto lo stallone l'ultima volta il terreno era smosso: sembrava che la bestia se la fosse data a gambe e si fosse diretta verso i nomadi. All'ansa del fiume trovarono la carovana. O almeno quello che ne restava. Dei quattro carri, due erano ancora in piedi e parevano intatti; gli altri due giacevano coricati su un fianco, con le ruote che ancora giravano. Tre yeka erano distesi al suolo, con le zampe o il collo rotto; accanto a loro c'erano i due vecchi, ugualmente morti. Elida l'avevano inchiodata a un albero con le loro lance. La vecchia giaceva accasciata contro il tronco, trafitta al petto, alle spalle e alle gambe. Sembrava che qualcuno avesse goffamente tentato di tagliarle la testa, ma poi avesse lasciato perdere. Falo era disteso bocconi al suolo. Era coperto di sangue. A una certa distanza il suo braccio mozzato stringeva ancora un grosso bastone, la cui estremità era piena di sangue e capelli. Di sua madre non c'era traccia. Saro cadde in ginocchio vicino al bambino e lo girò con delicatezza. Il suo viso era immacolato, la pelle tersa come un mattino di primavera. C'era un leggero sorriso sulle sue labbra, come se stesse dormendo e sognasse qualcosa di bello. Era morto. Virelai iniziò a piangere. Forti gemiti di rabbia e dolore sgorgarono da lui come un fiume in piena. Il mago cominciò a correre di qua e di là, spingendo i carri, tirando su coperte e indumenti e il bucato ancora bagnato nel caso Alisha fosse in qualche modo nascosta lì sotto. Saro lo guardò, con la morte nel cuore. Non fu una sorpresa per lui quando i soldati riapparvero: erano dieci, per lo più armati fino ai denti e tre con le frecce puntate su di lui. Il loro comandante gli si avvicinò brandendo la spada con una mano e spingendo Alisha in avanti con l'altra. L'uomo con la gamba ferita montava Messaggero della Notte. Saro si chiese come fosse riuscito a controllare il cavallo al punto da poterlo montare, poi vide il modo crudele in cui la cavezza era stata legata intorno alla bocca e al collo dell'animale. «È lui!» gridò l'uomo ferito, Gesto, indicando Saro. «Ha una pietra magica al collo... L'ha usata per uccidere Foro: l'ho visto!»
Il capitano lo guardò con diffidenza. Anche Isto aveva riferito la stessa cosa, e Isto era di gran lunga più affidabile di Gesto. «Togliti dal collo quel pendaglio e gettalo a terra di fronte a me!» gridò a Saro. «Con cautela, o sgozzo la donna.» I capelli di Alisha erano tutti scompigliati e c'era del sangue su un lato del suo viso. Qualcuno le aveva legato con brutalità le mani: anche da quella distanza Saro riusciva a vedere con terribile chiarezza che le corde le serravano con tanta forza i polsi che le mani le erano diventate viola. Qualcosa dentro di lui gli fece provare il desiderio di usare la pietra, di distruggerli con il suo tremendo calore, di cancellarli dalla faccia di Elda. Tutti loro: Alisha, Virelai e lo stallone e persino se stesso. Una tale distruzione, un tale oblio gli sembrò per un istante tremendamente attraente, un sollievo, la perfetta via di fuga. Poi quel momento passò. Con mani tremanti Saro si tolse la pietra dal collo e la gettò a terra di fronte al capitano, dove giacque sull'erba con la sua fredda luce assassina che si spegneva piano piano. 31 Santuario «Ma sei pazzo?» La voce che gli sibilò nell'orecchio lo fece trasalire con violenza ancora maggiore della mano che gli stringeva la spalla in una morsa d'acciaio. Colto in flagrante mentre gettava la sua ultima vittima fuori bordo, Fent Aranson si voltò di scatto per affrontare colui che l'aveva scoperto. Gli occhi cerchiati per la stanchezza di Aran Aranson erano spalancati per l'orrore, ma in essi brillava una luce tetra, come quella di un tizzone ardente in un fuoco di torba. Il Signore di Rocciacaduta fissò il volto affilato e pallido di suo figlio e poi guardò verso le acque nere e turbolente della scia della nave. Ormai non c'era più speranza per l'uomo in mare: le onde si erano richiuse sopra la testa di Bret Ellison e costui era ormai diretto verso il grande banchetto di Sur. «Sapevo che eri tu» mormorò Aran. «Sono ormai giorni che lo so. Da quando abbiamo perso Tor Bolson, anche se non sono mai riuscito a vederlo con i miei occhi. Ho continuato a chiedermi perché proprio a me era toccata questa maledizione, ma non ho ancora trovato una risposta. Dimmi, Fent, perché hai ucciso tutti questi uomini?»
Invece di essere sopraffatto dalla paura e dal senso di colpa, Fent sembrava estasiato all'idea di poter parlare dei suoi crimini. La sua carnagione pallida brillava come la luna stessa e una folle luce blu splendeva nei suoi occhi. «Lui vuole solo i tre» rispose criptico. «Il folle, il gigante e lo sciocco.» L'ampio sorriso che rivolse a suo padre non lasciò alcun dubbio su chi dei tre Fent potesse rappresentare; e dopo non volle aggiungere altro. Aran Aranson portò suo figlio minore all'albero e lo legò con corde morbide ma robuste, dopo aver spostato l'arpione a distanza di sicurezza. Solo a Urse oltre che a lui fu permesso di prendersi cura del giovane: gli davano da mangiare e lo slegavano due volte al giorno perché potesse fare i suoi bisogni. Il Signore di Rocciacaduta si rifiutò di spiegare all'equipaggio perché aveva preso quei provvedimenti; ma quando nessun altro uomo sparì nella notte, i sopravvissuti trassero le loro conclusioni. Il ghiaccio cominciava a serrarli come in una morsa e i neri canali tra i blocchi galleggianti si facevano sempre più stretti e più difficili da percorrere. La luce pareva costantemente appesa poco sopra l'orizzonte, simile a una fascia di viola e blu che li chiamava, promettendo un'altra vita, un altro mondo appena fuori dalla loro portata. Nelle ore di completa oscurità la Stella del Navigante sembrava a picco sopra di loro... Ma era una guida o un avvertimento? Era così freddo che gli uomini a malapena parlavano per paura di perdere quel poco di calore che i loro corpi ancora riuscivano a conservare. Si avvolsero con tutto ciò che avevano. Ogni centimetro di pelle esposta si arrossava quasi immediatamente; dopo pochi minuti diventava bianca e insensibile. Ogni uomo chiedeva a se stesso, in un costante e terribile monologo interiore, perché era venuto lì, quale pazzia l'aveva colto per aver accettato di propria volontà l'invito di Aran Aranson. Nessuno di loro aveva una risposta soddisfacente: il fascino dell'oro e della ricchezza sembrava assurdo e insensato in quel luogo così ostile. La pura e semplice sopravvivenza annientò gradualmente ogni altro scopo; ma persino la sopravvivenza richiedeva una qualche forma di progresso, ed erano giorni ormai che non ne facevano quasi più. Il vento era cessato e remare era diventato sempre più difficoltoso per la mancanza di acque libere in cui calare i remi o della forza stessa per manovrarli. Spronati ormai soltanto dalla determinazione di Aran Aranson di raggiungere la loro mitica destinazione, un luogo in cui la maggior parte aveva da tempo smesso di credere, gli uomini iniziarono a usare i remi come aste per spingere la nave tra gli
stretti canali; premettero il rompighiaccio contro le lastre più sottili che si incrinavano e poi si spezzavano per l'urto; scivolarono nella scia di enormi iceberg che si facevano strada senza meta tra il ghiaccio; e pian piano cominciarono a perdere la speranza. Alla fine il ghiaccio si chiuse intorno a loro, tanto che neppure il tanto celebrato rompighiaccio poté aiutarli ad avanzare. Il Lungo Serpente si fermò scricchiolando, protestando, contro un solido banco, e il mare gelato gli si affollò intorno per stringerlo nel suo inesorabile abbraccio. Ogni tentativo di liberarsi fu vano: erano inesorabilmente bloccati. Il Signore di Rocciacaduta aspettò una giornata per vedere se il movimento stesso del ghiaccio avrebbe aperto un canale; ma, al contrario, le assi della nave cominciarono a spezzarsi. Non c'era altra scelta: «Sbarcate tutto ciò che potete dalla nave!» ordinò Aran, e insieme evacuarono qualunque cosa fosse di una qualche utilità: la scialuppa restante, i barili di carne e d'acqua ormai congelata, tanto che i recipienti sembravano in procinto di scoppiare, le armi e i bastoni, le sartie e il cordame e persino la grande vela scura. Con quest'ultima fecero una tenda, usando l'albero come palo di sostegno centrale e legandola alle estremità a dei grossi massi di ghiaccio. Per sigillarla alla base foggiarono pareti di ghiaccio e all'interno costruirono letti e sedie ugualmente gelidi. Questi ultimi li ricoprirono con le pellicce, i mantelli e le pelli di foca che non portavano già indosso; in quanto al legname, ne presero più che poterono per il fuoco. Quella febbrile attività li tenne al caldo e occupati per tutta la giornata, sotto un sole che dava così poca luce che il mondo intorno a loro non aveva ombre. Era un luogo agghiacciante, desolato, una sorta di limbo quello in cui si ritrovarono, e la morte graduale della nave stretta dal ghiaccio nel suo gigantesco e fatale pugno riempiva l'aria di terrificanti suoni simili a lamenti, tanto che la maggior parte degli uomini si tappò le orecchie con della lana e cominciò a canticchiare per coprire il rumore. Mentre i suoi uomini si riposavano, Aran Aranson rimase seduto a lungo a guardare il ghiaccio divorare la nave che fino a quel momento aveva trasportato tutti i suoi sogni. Poi prese da parte Mag Linguadiserpente, Pol Garson, Urse Orecchiomozzo e Flint Hakason, gli uomini più esperti del suo equipaggio. «Non possiamo restare qui» disse. «Qui potremmo vivere per un po' con le nostre magre provviste e di quel poco che riusciremo a trovare o a cacciare; ma alla fine moriremo, uno a uno, e di una morte orribile. Ci sono poche probabilità che qualcuno venga a salvarci così a nord: gli unici che potrebbero spingersi fin quassù sono quelli come noi, avven-
turieri diretti all'Isola Nascosta, con poca voglia di prendere a bordo dei naufraghi con cui dover dividere le scarse riserve di cibo e acqua.» Urse annuì lentamente, perché era già giunto da solo a quella conclusione. Anche Pol Garson annuì. «Questa è una terra che divora sia le navi che gli uomini» disse. «Ma se non possiamo restare qui, dove andremo?» «Avanti, a Santuario» rispose Aran. «Via terra.» «Sopra il ghiaccio?» Flint Hakason sembrava sbalordito. «Ma non sappiamo neppure dove si trovi Santuario, ammesso che esista» esclamò Mag Linguadiserpente, esprimendo ad alta voce quello che tutti pensavano, ma non avevano il coraggio di dire. «Io ho una mappa» dichiarò con orgoglio il Signore di Rocciacaduta. Tirò fuori il pezzo di pergamena da sotto i vari strati dei suoi indumenti e la srotolò di fronte a loro, accucciandosi per appiattirla contro la sua coscia. Si riunirono tutti intorno a lui per guardare quel prezioso oggetto. Le Isole Occidentali e il mare circostante erano perfettamente riconoscibili, perché ogni sezione di costa era delineata in modo dettagliato. Anche le isole più a nord e gli angoli del continente erano resi con la stessa accuratezza; ma oltre quei punti di riferimento conosciuti, l'Oceano del Nord lasciava il posto a un mondo di ghiaccio in continuo movimento, e chi mai avrebbe potuto tracciare la mappa di un luogo così mutevole e indicare una rotta sicura da seguire? In effetti la parte più alta della mappa conteneva ben pochi dettagli utili: una linea ondulata qui, una sagoma anonima lì, la strana parola 'isenfeld' scarabocchiata su una grossa distesa di spazio bianco e poi, al centro di una magnifica rosa dei venti nell'angolo in alto a destra, una dicitura: 'Sanct...' Urse allungò una mano per tendere l'angolo della mappa, ma Aran gliela sottrasse bruscamente come un bambino con un giocattolo di cui è molto geloso. Indifferente alla magia contenuta nella pergamena, il gigante fece un passo indietro, perplesso. «È un oggetto molto bello» disse esitante. Flint Hakason era meno impressionato. «È completamente inutile!» sbuffò. «È questa che hai usato per portarci in questo posto dimenticato da Sur?» Aran Aranson balzò in piedi, gli occhi lampeggianti d'ira. Con una mano infilò la mappa all'interno della sua tunica, mentre con l'altra afferrò Flint Hakason per la collottola. «Io sono il capitano di questa spedizione» esclamò a denti stretti. «Stai forse mettendo in dubbio il mio giudizio?» Flint era un duro, che non era facile da intimorire. Si divincolò dalla pre-
sa del Signore di Rocciacaduta e lo incenerì con lo sguardo. «Non ho intenzione di fare un altro passo insieme a te» annunciò con decisione. Poi sollevò il ciondolo che portava al collo, tirandolo fuori dal mantello di folta pelliccia. «Vedi questo?» disse agitando l'ancora d'argento di squisita fattura davanti alla faccia di Aran. «D'ora in poi riporrò la mia fiducia solo in Sur, piuttosto che in te.» E con quelle parole voltò le spalle agli altri quattro uomini e tornò a grandi passi verso l'equipaggio. Poi prese un pezzo di corda e la tagliò in pezzetti di diverse lunghezze che nascose nel suo pugno in modo che solo le estremità superiori fossero visibili. «Me ne vado da questo terribile posto» annunciò. «Lascio questa spedizione maledetta e porterò con me la scialuppa, delle provviste e cinque di voi che vorranno venire. Me ne torno a casa. Chi vuole venire con me?» Per un istante ci fu solo silenzio. Tutti avevano visto l'alterco tra Flint e il capitano e avevano una gran paura di Aran Aranson. Ma nello stato di spossatezza e frustrazione in cui si trovavano, temevano molto di più la morte. All'improvviso ci fu un gran clamore. Una dozzina o più di uomini dell'equipaggio si ridestarono dall'apatia e si affollarono intorno a Flint Hakason, cominciando a tirare uno a uno i pezzetti di corda. Quando ciascuno di loro ne ebbe preso un pezzo, il capo degli ammutinati dichiarò: «Chi ha il più lungo vince un posto sulla barca.» Emer Bretison gridò di gioia. «Ah! Io vengo con te, Flint. A casa.» Flint non si dimostrò affatto contento. «Non aspettarti di avere da mangiare più degli altri, figliolo, nonostante la tua stazza» lo avvertì. Guardò a uno a uno il resto degli uomini che tenevano in mano i pezzetti di corda e parve sollevato. «Ah, Jan! Sembra proprio che tu bilancerai un po' la barca.» Jan era un giovane magro e piccolo come una ragazza, ma con ossa robuste e muscoli forti. Quando sorrise, mostrò dei canini molto affilati tra la rada peluria bionda sul mento. In men che non si dica la barca di Flint Hakason si riempì. Gli uomini presero un barile di carne, un sacco di pane duro e uno dei barili d'acqua e li misero sulla scialuppa, insieme con le loro pellicce e i sacchi a pelo, mentre Aran stava a guardare, le sopracciglia aggrottate in un'unica linea nera. Non fece nessun tentativo di fermarli. Flint Hakason e i suoi cinque ammutinati sollevarono la barca sulle spalle. Era molto pesante con le provviste dentro e loro erano stanchi e indeboliti dal freddo, ma avevano una luce nuova nello sguardo: stavano tornando
a casa, anche se avessero dovuto camminare per giorni prima di trovare un canale tra il ghiaccio. Flint Hakason si voltò verso il resto degli uomini che se ne stavano scomodamente accoccolati sotto la tenda, strofinandosi le mani ed evitando di fissare i loro compagni negli occhi. «Arrivederci, ragazzi» disse in tono spavaldo. «Andiamo ad accendere i fuochi a Rocciacaduta per festeggiare il vostro ritorno.» Poi guardò verso Aran Aranson. «Spero che troverai la tua magica isola» disse, e non c'era traccia di sarcasmo nella sua voce. «Spero che torniate tutti carichi d'oro.» Poi lui e i cinque si avviarono faticosamente verso sud sul ghiaccio, con la neve che scricchiolava sotto le suole dei loro stivali. Aran e il suo equipaggio li osservarono allontanarsi, e nessuno disse una parola. All'alba del giorno dopo Aran Aranson fece un annuncio. «Io continuo con la ricerca» disse, e vide gli uomini guardarsi l'un l'altro con espressione incredula. Aran si schiarì la voce e continuò: «Un capitano senza una nave non è più un capitano: voi siete liberi di scegliere se desiderate o meno accompagnarmi, o se preferite rimanere qui con tutte le provviste e il riparo di cui avrete bisogno finché il tempo non migliorerà e potrete andare via di qui o finché io non ritornerò per riportarvi a casa.» Tacque per un istante, studiando le loro espressioni cupe, i loro sguardi sfiduciati. Eppure quelli erano gli stessi uomini che erano venuti a Rocciacaduta da molto lontano, da centinaia di miglia di distanza in alcuni casi, chiedendo a gran voce di poter partecipare a quella romantica spedizione. Ora che le cose volgevano al peggio, il loro coraggio sembrava misteriosamente svanito e gli uomini dimostravano di avere più paura della morte inaspettata che avrebbero potuto incontrare nelle bianche distese di fronte a loro che della morte certa che li attendeva se fossero rimasti lì. Dal loro silenzio dedusse che avrebbe affrontato il lungo viaggio verso nord da solo. Meglio così. Era disgustato dalla loro codardia e infuriato con se stesso per il dispiacere che gli provocava la loro sfiducia. Prese l'arpione, controllò i suoi coltelli e il suo sacco. All'interno aveva un grosso pezzo di pane ormai duro quanto il legno stagionato, del pesce secco che aveva perduto persino il suo puzzo in quel luogo gelido, un sacchetto di montone affumicato che avrebbe dovuto essere bagnato e riscaldato se non voleva rompercisi i denti. Tre ami da pesca, un pezzo di corda, del grasso di foca da passare sulle parti esposte della faccia. Era pronto. «Io verrò con voi.» Urse Orecchiomozzo fece un passo avanti. «È tutta la vita che viaggio: stare fermo ad aspettare non fa per me.»
«E io non ho intenzione di starmene seduto qui in attesa che le palle mi si congelino e mi cadano» dichiarò Fall Ranson. Anche Pol Garson si alzò in piedi. «Anch'io verrò con voi, capitano. Mia moglie mi ha sempre detto che non mi farò mai un nome. Vorrei dimostrarle che si sbaglia.» Nessun altro parlò. Aran li guardò uno dopo l'altro e tutti distolsero lo sguardo. I suoi occhi si posarono sul cuoco, Mag Linguadiserpente. Mag era un duro, più anziano della maggior parte degli altri, e Aran si fidava di lui. Ma l'espressione dell'uomo era guardinga. «Qualcuno deve cucinare per i ragazzi» si limitò a dire. La mano del Signore di Rocciacaduta si posò istintivamente sulla mappa nascosta sotto i suoi abiti. In un recesso della sua mente sapeva esattamente perché Mag si era rifiutato di accompagnarlo; ma la parte predominante, quella in preda all'ossessione, si rifiutava di riconoscere le sue ragioni. Fece a Mag un breve cenno del capo, poi andò a cercare suo figlio. Fent era seduto su un barile rovesciato e stava colpendo ripetutamente il ghiaccio con un pezzo di legno. Il suo viso era nascosto dal cappuccio bordato di pelliccia. Aran lo chiamò. Il ragazzo non diede segno di averlo sentito, ma continuò a colpire ossessivamente il ghiaccio. Minuscoli frammenti luccicarono nella pallida luce. Aran alzò la voce. «Fent!» La testa del ragazzo si sollevò di scatto e gli occhi blu lampeggiarono tra il bianco della faccia e il rosso scuro dei capelli e della barba. Pareva disorientato, turbato, come fosse stato destato all'improvviso da un sonno profondo. «Raduna le tue cose. Tu vieni con me.» Fent sembrò diffidente, come se avesse intenzione di fuggire da un momento all'altro... come se avesse paura che suo padre potesse spingerlo con l'inganno a seguirlo in un luogo tranquillo dove avrebbe potuto ucciderlo e lasciarlo in pasto agli uccelli. «Dove?» chiese sospettoso. «A Santuario.» Se il Signore di Rocciacaduta si aspettava un caparbio rifiuto da parte di suo figlio minore, sarebbe rimasto molto sorpreso. Invece di protestare Fent Aranson balzò in piedi, con un enorme sorriso stampato sul volto. Il suo atteggiamento era completamente cambiato, da quello di bambino disturbato a quello di un uomo pieno di energia con un compito da eseguire. «Sono pronto!» dichiarò. Non portava niente con sé, né zaino, né armi, né abiti di ricambio. Aran si infilò sotto la tenda e raccolse in fretta qualche oggetto necessario che
mise in una bisaccia di pelle di pecora che si gettò poi a tracolla sulle spalle. Quando uscì trovò Pol Garson ai ferri corti con Gar Felinson per un quarto di montone affumicato. «Noi che restiamo siamo più di voi che partite» ringhiò Gar. «Lascialo lì!» gridò Aran, brandendo l'arpione. «Cattureremo quello che potremo lungo la strada.» Pol Garson si strinse nelle spalle e lasciò andare la carne. «Prenditela pure e buon pro ti faccia» disse a Gar Felinson. «Ho mangiato carne di pecora a sufficienza in vita mia da poterci lastricare la strada tra qui e Santuario!» Poi si voltò verso il Signore di Rocciacaduta. «Fammi strada, Aran Aranson, perché ho voglia di carni più esotiche!» Camminarono per due giorni sul ghiaccio. Era così freddo che faceva male respirare: l'aria che si congelava nei polmoni era come un animale selvaggio che lacerava loro il petto. I peli delle narici si congelavano. Le ciglia e le sopracciglia si incrostavano di ghiaccio: se chiudevano gli occhi per più di qualche secondo, le palpebre si incollavano insieme; sulla barba e sui capelli si formavano lunghi ghiaccioli. Tranne che per le fasi del giorno sottolineate dalla tenue luce del sole e della luna, il paesaggio era immutabile: ghiaccio bianco grigiastro, bianchi spruzzi gelati, banchi di neve accumulata dal vento, bassi picchi frastagliati resi ora romantici, ora spaventosi dal cambio graduale dal rosso al porpora al blu. Il mondo sembrava perennemente sospeso sulle soglie dell'oscurità; poi, alla fine, il sole si immergeva nel mare in lontananza e calava la notte, con la luna che ci metteva così tanto a salire nel cielo che pareva che da un momento all'altro potesse perdere la sua battaglia con il buio e ricadere negli abissi da cui era venuta. Camminarono senza sosta come automi, un piede di fronte all'altro, per ore e ore. Quel lungo e monotono esercizio li sfinì e fece venire loro una grande sete; si riposarono solo per brevi intervalli, mangiarono e bevvero e poi ricominciarono a camminare, senza pensare a razionare le provviste. E per tutto il tempo la Stella del Navigante brillava sopra la loro testa, incitandoli a continuare. Il terzo giorno il ghiaccio si spaccò di fronte a loro, aprendo un lungo canale nero. I cinque scelsero di seguire il lato di destra, e per quella che sembrò un'eternità arrancarono lungo le acque scure. Il quarto giorno la carne che avevano portato con loro dal Lungo Serpente finì. Non avevano visto segni di vita fino a quel momento, ma Aran A-
ranson si rifiutò di lasciarsi abbattere. Rimase seduto accanto al canale per ore, con l'arpione pronto a colpire, ad aspettare delle bollicine nell'acqua che non vennero mai. Andarono avanti; ancora una volta Aran si rimise in posizione di pesca, sedendo nel buio come una statua di ghiaccio. Ma non ebbe fortuna e si ridussero a dover mangiare i resti del pane duro, che bagnarono in pozze di acqua di mare disciolta per renderlo commestibile. Il quinto giorno il canale si restrinse e alla fine si richiuse di nuovo senza neppure aver concesso al gruppo la vista di un pesce o di una foca, e Aran gettò a terra l'arpione in un accesso d'ira e si allontanò, lasciandolo nella neve. Un'espressione maliziosa comparve sul volto di Fent. Il ragazzo scattò in avanti, afferrò l'arpione e se lo strinse al petto; ma con altrettanta prontezza Urse Orecchiomozzo gli si parò dinanzi, gli tolse l'arma di mano con gesti lenti e sicuri e se la mise a tracolla sulle spalle. Più tardi quello stesso giorno trovarono il corpo congelato di una volpe artica, un animaletto minuscolo a malapena più grosso di una lepre delle Isole Occidentali, con un mantello bianco malridotto e un cranio tondo e robusto. Qualcuno le aveva staccato a morsi una delle zampe posteriori e poi, disturbato o annoiato, aveva abbandonato il resto. Urse tirò fuori dalla giacca un paio di pietre focaie e un prezioso fagotto di muschio secco e fece un piccolo fuoco appena sufficiente a scongelare quel poco di carne ancora attaccato al patetico fagotto di ossa, che li sostenne per un'altra notte di faticoso cammino. Alla fine del sesto giorno l'acqua finì. Il sale aveva formato delle croste irregolari intorno ai bordi di alcune pozze che trovavano di tanto in tanto tra il ghiaccio, come se fosse filtrato via dall'acqua disciolta. Aran e Pol provarono a sorseggiare un po' di quel liquido mentre gli altri stavano a guardavano leccandosi le labbra secche. Aspettarono un po' e quando parve che i due non avessero sofferto di alcun effetto collaterale, tutti riempirono i loro otri e continuarono a camminare. L'ottava notte sotto un cielo di stelle Fall Ranson, che sembrava un uomo così robusto, crollò a terra. Urse lo rivoltò, gli occhi spalancati per l'orrore. «È morto stecchito» annunciò. Pol Garson si portò il ciondolo con l'ancora alle labbra screpolate e sussurrò le parole della benedizione di Sur. «Signore degli Oceani, porta quest'uomo, Fall, figlio di Ran, figlio di Grett il Nero, al tuo Grande Sepolcro, e lascia che banchetti con gli eroi.» Ma quel luogo desolato era terra o mare, o una via di mezzo? Potevano solo sperare che Sur prendesse la giusta
decisione. Aran afferrò i coltelli, le pietre focaie e lo zaino del morto, poi ricoprirono il cadavere di neve meglio che poterono e continuarono a camminare. Il giorno successivo, poche ore dopo l'alba, Pol si sedette sul ghiaccio. «Non ce la faccio più» biascicò con voce indistinta, perché aveva la lingua gonfia e il viso intorpidito dal freddo. Senza dire una parola il gigante lo sollevò e se lo mise sulle spalle, e fu così che continuarono per il resto del giorno. Quella notte, mentre il sole e la luna sembravano incerti su chi doveva spuntare, gli uomini si accamparono e si disposero nel modo più comodo che poterono senza riparo, cibo né fuoco. Era difficile dormire. Anche se erano nel bel mezzo del nulla, erano circondati da strani suoni che sembravano crescere di intensità man mano che calava l'oscurità. Il ghiaccio si incrinava e scricchiolava tutto intorno a loro, e sotto di esso a volte si riusciva a sentire il sussurro del mare, a costante ricordo che il terreno su cui camminavano e riposavano galleggiava a pochi centimetri sopra migliaia di metri di gelida acqua nera. In lontananza gli iceberg si spaccavano ruggendo come mostri sbucati da una leggenda, e una volta avevano persino sentito un flebile grido simile a quello di un coniglio catturato da una volpe. Ogni suono era già di per sé inquietante: tutti insieme erano in grado di far impazzire un uomo per l'ansia e il nervosismo. «Questo posto è deprimente.» Urse aveva parlato in tono basso, ma la sua voce sembrava rimbombare in tutto quel vuoto. «Questo non è un luogo fatto per gli uomini» convenne Pol. «Ho come la sensazione che qui non siamo desiderati.» Fent scoppiò in un'agghiacciante risata. «Ah, ma lo siamo, lo siamo!» Si strofinò le mani guantate con entusiasmo. «E siamo quasi arrivati.» Suo padre lo guardò incuriosito. «E tu come fai a saperlo?» Ma gli occhi di Fent si incupirono di nuovo e il ragazzo non rispose. Poco prima della fittizia alba di quella regione, Aran si raddrizzò all'improvviso. Accanto a lui Urse si agitò assonnato. «Che c'è?» sussurrò. «Cosa avete sentito?» Il Signore di Rocciacaduta si portò un dito alle labbra. Nella grigia luce del mattino il suo aspetto era quello di un morto che era stato appena dissotterrato. Ombre nere segnavano il suo viso, delineando le ossa del cranio sottostanti. La sua barba era folta, l'espressione severa. Non era il tipo da immaginarsi le cose, perciò Urse si mise in ascolto. A breve distanza da loro qualcosa si stava muovendo. Sì, ora lo sentiva: uno scricchiolio ritmi-
co attutito dalla neve, brandelli di suoni amplificati dall'immobilità dell'aria. Aran Aranson si piegò lentamente in ginocchio e guardò verso sud con gli occhi socchiusi come quelli di un falco. Un istante dopo la sua mano destra si tese verso l'arpione... Era enorme. Si muoveva con grazia imperiosa. Era il re del suo dominio. Aran aveva visto pellicce del genere in vendita al grande mercato di Halbo. Gli erano sempre sembrate straordinariamente esotiche, con quel bianco striato di giallo che contrastava elegantemente con le pelli scure e più comuni degli orsi del continente eyrano. Erano molto più grandi del normale, con zampe grosse come piatti da portata, il pelo lungo e ispido come il vello di un vecchio montone, le teste compatte e massicce. Ma non l'avevano preparato alla vista del suo primo orso delle nevi dal vivo. Inesorabile, l'animale si dirigeva verso di loro, apparentemente senza alcuna fretta, i piccoli occhi neri fissi sul gruppetto. Mentre si avvicinava il tempo sembrò rallentare, e il Signore di Rocciacaduta fu in grado di percepire anche i più piccoli dettagli: il modo in cui le sue zampe anteriori oscillavano con un movimento fluido e al tempo stesso potente, la pelliccia ondeggiava sui suoi fianchi come un campo di grano spazzato dal vento, il colore del suo pelo variava da un pallido crema sulla schiena a un tenue giallo verso il basso fino a un oro luminoso quanto il granturco maturo alla curva delle sue cosce; il modo in cui la sua testa si incurvava pesantemente sul collo e la pelliccia intorno alla sua bocca nera era macchiata di un inquietante rosso sangue. «Fuggiamo!» gridò Pol Garson, raddrizzandosi di scatto. «No!» replicò Urse, che conosceva gli orsi. «Sdraiatevi, sdraiatevi e copritevi la testa!» E cadde al suolo come se fosse stato colpito da una lancia invisibile, si coprì la testa con le mani guantate e giacque immobile come un sasso. Ma Pol era troppo spaventato per seguire qualunque consiglio, buono o cattivo che fosse. Con i piedi che scivolavano sul ghiaccio ricoperto di neve, cominciò a correre. Non servì altro per risvegliare l'istinto di cacciatore dell'orso. L'animale partì al trotto e divorò il terreno sotto le sue zampe con spaventosa abilità. Il ghiaccio tremò, e gli uomini anche. «Fingete di essere morti!» ripeté Urse, e Aran si gettò sulla neve, e giac-
que lì, con la faccia a terra, il cuore che gli martellava nel petto e le mani sopra la testa, provando al contempo la tremenda sensazione di compiere l'azione più sciocca della sua intera esistenza. Attese. L'orso si faceva sempre più vicino, e il suo passo gli riecheggiava nelle ossa del petto e del collo, gli rimbombava nel cranio. Aran cominciò a mormorare l'unica preghiera che conosceva: la Preghiera del Marinaio, per i naviganti in pericolo sull'oceano: «Padrone dei mari, ascolta la mia preghiera: nella tempesta e nella bufera, nel pericolo e nella sofferenza, nel disagio e nel terrore io ti prego, ascolta le mie parole, o Altissimo, riportami sano e salvo a casa.» L'orso delle nevi gli passò accanto e continuò ad avanzare. Un attimo dopo ci fu un orribile grido. Aran alzò la testa, non riuscì a evitarlo. A cinquanta metri di distanza, o forse meno, l'orso era sopra Pol Garson e lo teneva fermo a terra con la facilità con cui un gatto poteva bloccare un topolino. L'uomo si dibatteva con tutte le sue forze: era evidente dal modo in cui i suoi stivali si agitavano sul ghiaccio. Ma la neve intorno a lui stava diventando sempre più rosata ogni secondo che passava. Aran dubitava che un uomo con entrambe le braccia forti e sane sarebbe riuscito a respingere un tale mostro, e il braccio sinistro di Pol era ancora fuori uso dopo che se l'era slogato, quindi aveva ben poche possibilità. Ciononostante Aran si sentiva responsabile per lui e non poteva certo starsene a guardare mentre veniva mangiato vivo. Consapevole del fatto che un'azione del genere avrebbe potuto costargli la vita se avesse fallito, si mise in spalla l'arpione e corse quanto più vicino poté al massacro. Non era una bella vista. Pol Garson non aveva più bisogno di preoccuparsi del suo braccio, perché l'arto gli era stato strappato di netto e gettato via come se non fosse di alcuna utilità. Cercando di controllare l'ondata di nausea che lo avvolse, Aran lanciò l'arpione. Colpì l'orso in pieno sulla spalla, ma l'animale si limitò a ruggire, infuriato. Abbandonando la sua vittima, si voltò di scatto con fare minaccioso, la testa dondolante e il sangue che gli colava tra i denti. Poi caricò Aran Aranson con una furia omicida negli occhi neri. Aran indietreggiò e si preparò a morire. Nei pochi secondi che la creatura impiegò a divorare la distanza tra di loro, accaddero due cose: un coltello arrivò roteando verso l'orso e lo colpì
sul fondoschiena senza causargli alcun danno, e poi cadde nella neve; e una piccola figura agile e scura si infilò non visto sotto l'orso, recuperò il coltello e con una folle risata lo colpì ripetutamente alla pancia. All'improvviso scoppiò il caos. L'orso lanciò un forte grido di agonia e di terrore e si alzò sulle zampe posteriori tanto che il suo sangue e le sue viscere si riversarono sulla neve. Poi crollò al suolo, e le sue enormi zampe colpirono il ghiaccio con tale forza che la superficie si incrinò e poi si ruppe. Per un istante l'orso delle nevi rimase immobile a cavalcioni della crepa, poi il ghiaccio si spezzò con un gran fragore e la bestia cadde nelle acque nere come la notte, trascinando con sé il suo assalitore. La bocca di Fent si aprì per urlare, ma lo shock dell'immenso gelo gli tolse il fiato. L'orso si voltò a guardarlo con un'espressione di implacabile odio. Poi raccolse tutte le sue forze e si gettò verso il ragazzo. La mano in cui teneva il coltello si sollevò all'improvviso dall'acqua, diretta verso la testa dell'animale, e la lama lampeggiò nella luce fioca del mattino. L'orso manifestò tutto il suo disprezzo con un ruggito, e con un crudele e rapido morso staccò la mano dal polso, coltello e tutto il resto, poi affondò nel mare ghiacciato portando con sé ciò che aveva rubato. Fent ritrovò la voce e cominciò davvero a gridare, gli occhi che spiccavano come due fosse nere sul viso cadaverico. Urse Orecchiomozzo si gettò prono sul ghiaccio, afferrò il cappuccio del ragazzo e cominciò a tirare. «L'ho preso!» gridò ad Aran Aranson, che in quei brevi secondi era rimasto pietrificato dallo sgomento, incapace di muovere un muscolo. Ora, come se il grido dell'omone l'avesse riscosso da un sogno, Aran strisciò sul ghiaccio e afferrò suo figlio per un braccio. Dal moncone della mano destra di Fent usciva un getto copioso di sangue che si rapprendeva quasi all'istante nel gelo artico; gli occhi del ragazzo si stavano chiudendo. Quando lo tirarono fuori dall'acqua gelida, Fent era privo di conoscenza e il suo respiro era flebile e lento. Il suo corpo era scosso da tremiti. Aran lo fissò con gli occhi spalancati, poi guardò Urse con la disperazione stampata sul viso. «Per Sur,» singhiozzò, «non posso sopportare di perdere un altro figlio!» Lo avvolsero con ogni cosa che avevano; gli sfregarono la pelle, poi riscaldarono quel poco di acqua dolce che avevano e la versarono goccia a goccia tra le sue labbra blu e insensibili. Anche se l'emorragia si era arrestata, Urse bruciò il moncherino e lo fasciò, mentre Aran si turava il naso e distoglieva lo sguardo, sbigottito non solo dall'orrore della situazione, ma
anche dalla propria impressionabilità. Alla fine Urse disse: «Dobbiamo continuare. Se resteremo qui moriremo tutti.» Il Signore di Rocciacaduta lo guardò con gli occhi spenti e annuì. Il gigante si mise il corpo di Fent Aranson sulle spalle e insieme continuarono a camminare. Quella notte strane luci si accesero nel cielo a settentrione. Pallide striature di verde e rosa brillarono all'orizzonte come enormi stendardi di seta che si piegavano e dispiegavano con lenta ed eterea grazia, quasi fossero spinti dalla più leggera delle brezze estive. I due uomini rimasero a fissare il cielo come pietrificati per diversi minuti, poi, senza dire una parola, cambiarono di poco la loro direzione in modo da camminare direttamente verso quel bizzarro fenomeno, come attirati da un qualche misterioso potere magnetico. Man mano che avanzavano, le luci danzavano sui loro volti, addolcendo i lineamenti tesi per lo sforzo, mascherando il loro dolore e la loro disperazione, mentre la neve sotto i loro piedi rifletteva i colori del cielo, dando loro l'impressione di camminare in un mondo magico. Alla fine, però, quelle meravigliose luci svanirono e l'oscurità li avvolse di nuovo e quello fu il momento peggiore... Perché erano ormai troppo lontani dalla terra degli uomini, isolati senza possibilità di salvezza, senza sostentamento e senza speranza... tutti i loro sogni destinati al fallimento. Fu in quel terribile stato di disperazione che si imbatterono in un grande buco nel ghiaccio che rivelava le acque nere sottostanti e, lì accanto, scorsero la sagoma immobile di un orso delle nevi. Urse posò delicatamente Fent sul ghiaccio e andò a esaminare la bestia. Non c'era alcun dubbio che fosse morto, e non c'era neppure alcun dubbio che fosse l'orso che li aveva attaccati, perché sulla sua pancia, ripulita dal sangue dalle acque artiche in cui aveva nuotato o dalle quali era stato trasportato fin lì, portava i segni delle ferite inflittegli dal figlio minore di Aran Aranson. «Per gli dèi,» mormorò Urse «forse possiamo ancora sopravvivere.» Fu così che fecero un misero fuoco sacrificando una delle bisacce di pelle e ciò che rimaneva del prezioso muschio di Urse, e iniziarono a macellare la bestia. Ma quando Aran sventrò il mostro, dalle puzzolenti pareti del suo stomaco fuoriuscì una variegata raccolta di lische di pesci e ossa di animali, carne e cibo in vari stati di digestione e in ultimo un manufatto davvero allarmante. Il padrone di Rocciacaduta lo estrasse con estrema cautela e lo studiò con la fronte aggrottata e il naso arricciato per il disgusto. Poi si chino e bagno l'oggetto nell'acqua gelata. Quando riemerse non
era più incrostato di fluidi viscosi e materia organica, ma era lucido e scintillante. Si trattava di un oggetto di metallo lavorato tipico delle isole del Nord, un manufatto in possesso della maggior parte dei marinai. Ma questo in particolare era più caratteristico e familiare di molti: Aran Aranson non aveva potuto fare a meno di notare i particolari che lo adornavano, perché il suo proprietario gliel'aveva sventolato in faccia e aveva dichiarato la propria fiducia nel dio di cui quell'oggetto era il simbolo, invece che in lui. Era il ciondolo di Flint Hakason, l'ancora d'argento di Sur che indossava sempre intorno al collo. Aran indietreggiò inorridito e il ciondolo gli cadde di mano e finì silenziosamente tra la neve. Giacque lì come ricordo di un'altra vita, come un'accusa. Nessun uomo si sarebbe mai separato volontariamente da un tale portafortuna, e Flint Hakason non faceva eccezione. Continuando a scavare nelle viscere dell'orso trovarono altre prove orribili e inconfutabili di quale fosse stato l'ultimo pasto della creatura prima che li attaccasse. «Non posso mangiare quest'orso» dichiarò con foga Aran. «Di certo non c'è niente al mondo che porti più sfortuna che cibarsi di una bestia che ha divorato i propri compagni.» «È peggio morire di fame, con una creatura del genere davanti e i propri compagni invendicati.» «Fent li ha vendicati prendendo la sua vita.» «Sì, e sembra che l'orso sia arrivato tremendamente vicino a prendersi la sua.» Aran rifletté per un momento. Poi annuì. «Mangeremo l'orso. Ma conserva il cuore per mio figlio.» Arrostirono e mangiarono i pezzi di carne migliore che riuscirono a tagliare e alla fine, rinvigoriti, cucinarono il cuore dell'orso e Aran lo tagliò in tanti minuscoli pezzi che infilò a uno a uno nella bocca di suo figlio. Poiché non ci fu alcuna reazione, raddrizzarono Fent e gli tirarono indietro la testa, e Aran gli versò dell'acqua in bocca per mandare giù la carne mentre Urse gli accarezzava la gola per farlo deglutire. Ma il giovane continuava a restare privo di conoscenza, e fu con il cuore pesante che tagliarono quello che potevano della carcassa dell'orso e si avviarono nuovamente nel buio della notte. Fent Aranson era avvolto dall'oscurità e una vena pulsava incessante sul suo collo. Era cosciente, ma non del tutto, e continuava a scivolare in uno stato tra la veglia e il sonno. Si sentiva caldo e freddo allo stesso tempo.
Esisteva in due reami contemporaneamente, quello dei vivi e quello dei morti, ma nessuno di essi sembrava pronto a reclamarlo né lui era in grado di decidere del proprio destino. Perciò giaceva inerte, gettato come un sacco di patate sulla spalla del gigante mentre suo padre camminava di fronte a lui, e non si rese conto del momento in cui oltrepassarono il solitario confine che segnava la fine del mondo degli uomini ed entrarono nella terra della leggenda. Epilogo Un'ora prima della mezzanotte ebbero inizio le doglie della regina. Quando accadde stava parlando con la sua dama di compagnia, una ragazza molto bella e parecchio in carne proveniente dalle Isole Galiane conosciuta con l'insolito nome di Leta Aladigabbiano. La giovane riferì immediatamente la notizia all'alta e impressionante figura che era sempre in piedi dietro il trono della regina. La guaritrice di Spiaggia Nera posò il suo unico occhio sui cortigiani presenti. «L'ora del parto per la nostra regina è arrivata. Leta e io riporteremo la nostra signora nelle sue stanze» disse Festrin con una voce che riecheggiò tra le pareti di pietra e gli alti soffitti della Grande Sala di Halbo. «A nessun altro sarà permesso di assistere all'evento. La regina deve sentirsi completamente a suo agio e rilassata perché questo parto possa andare a buon fine.» «E chi siete voi per prendere una tale decisione?» domandò Erol Bardson, sentendo la magia della seither su di lui e cercando di resistere con tutte le forze. Il suo mento si sollevò con aria ostile. «Si tratta di una questione di stato, non di agio.» Se il suo rivale stava per avere un bambino, lui voleva essere testimone della sua nascita: come molti altri in preda allo scontento aveva cominciato a credere alle voci che giravano circa lo stato della Rosa Eldi, ossia che non era affatto incinta, ma che si era circondata di illusioni che distraevano l'occhio e confondevano la mente. E se c'era davvero un bambino nel grembo di quella donna pallida, il cerusico che aveva pagato per assistere alla nascita sapeva esattamente quello che doveva fare. Nonostante l'invisibile manto di calma che Festrin aveva deposto sui presenti, quella di Bardson non era l'unica voce che si era levata per protestare. Auda, la madre del re, strepitava e inveiva; le nobildonne della corte si lamentavano che era tradizione che fossero presenti per aiutare la regina
nel momento del bisogno; i nobili gridavano a gran voce che era di cruciale importanza che fossero lì a inginocchiarsi davanti al bambino non appena fosse venuto al mondo; ma più d'uno era ispirato non tanto dalla lealtà verso la Corona, quanto dalla pura, morbosa curiosità di vedere cosa ci fosse tra le eleganti gambe della meravigliosa moglie del loro re. Tuttavia Ravn Asharson, re delle Isole del Nord, cadde a terra ai piedi di sua moglie e la abbracciò, posandole la testa sull'enorme pancia. «Mia cara,» disse con tenerezza, «desideri davvero ritirarti con queste due donne soltanto ad assisterti?» La Rosa del Mondo annuì senza dire una parola, e i suoi grandi occhi verdi erano imploranti. Ravn sospirò. Era un sospiro di rammarico, ma anche, e l'avrebbe ammesso solo con se stesso, un sospiro di sollievo. Pur desiderando col tutto il cuore un erede per il trono del Nord, adorava talmente sua moglie che non avrebbe potuto sopportare di vederla soffrire neppure per un istante; e aveva sentito dire che molti uomini, anche quelli induriti da anni di battaglie e spargimenti di sangue e da tutte le atrocità che la guerra aveva da offrire, erano svenuti alla vista di un bambino che si faceva strada con la forza tra le gambe della donna che avevano sposato. Quelle gambe... Rabbrividì al ricordo della loro morbidezza quando si stringevano intorno a lui, e scacciò via quel pensiero. Ben presto avrebbero potuto stare nuovamente insieme, ma prima lei doveva superare felicemente il parto. Rivolse una silenziosa preghiera a Feya, la divinità delle donne, e sperò che Sur non se ne avesse a male. E in quanto a lasciare la sua amata nelle mani della seither... Be', la donna con un occhio solo lo terrorizzava, ma non dubitava affatto delle sue capacità. Si alzò e si rivolse ai presenti. «Sarà come desidera la mia regina» dichiarò. Il bambino nacque appena un'ora dopo. Fu un parto faticoso, e Leta Aladigabbiano perse molto sangue, perché il neonato era molto grande nonostante la gestazione fosse stata leggermente più breve del normale, e anche vigoroso e determinato, e il canale della ragazza era stretto. Ma mentre la Rosa Eldi, che appariva leggermente sgomenta per tutta la situazione, teneva il bambino ancora insanguinato tra le mani e si chiedeva cosa mai dovesse farne, Festrin aveva già tagliato il cordone che lo teneva unito a Selen Issian e, con quell'ultima prova ormai cancellata, si adoperò per curare le ferite dell'Istriana.
Poi la seither avvolse il bambino nel reale blu del casato di Ravn e lo portò nella Grande Sala. «L'Eyra ha un nuovo principe!» annunciò. «Lunga vita a Ravn Asharson, re delle Isole del Nord, e alla sua regina, la Rosa del Mondo, perché la loro unione è stata benedetta dalla nascita di un maschio sano e bello.» Non era esattamente una bugia. Dalla sua finestra nella stanza della torre vide i primi visitatori che fossero mai riusciti a sopravvivere a quel viaggio periglioso, un uomo scuro e il suo enorme compagno che portava la sagoma inerte di un terzo, entrare nel suo regno nascosto percorrendo il sottile istmo di ghiaccio che aveva creato per loro. «Il gigante, il folle e lo sciocco» mormorò con una certa soddisfazione. Si strofinò le mani. Erano fredde, secche e poco curate. Guardò in basso e scoprì che non indossava altro che una leggera tunica tutta macchiata di urina, che la barba gli era cresciuta fin oltre la vita ed era sporca di cibo e qualcosa di peggio; e che l'unghia ingiallita del suo alluce si era allungata a dismisura e spuntava da un buco nelle pantofole logore e consunte. Le avventure dei vari viaggi erano state fin troppo avvincenti negli ultimi tempi e lui non si era preso cura di sé. In qualità di mago più potente del mondo, non poteva certo presentarsi così davanti a loro: era necessaria una certa aria di regalità e supremazia. Raccogliendo gli ultimi brandelli della sua magia, il Signore di Santuario scese la gelida scala a chiocciola e si preparò ad accogliere i suoi ospiti. Ferro e acqua, acqua e ferro. Sale e minerali e cenere. Ecco che gusto ha il mio sangue. Il mio sangue... versato sul suolo e sulla mia gamba. Il sapore è forte e tonificante; mi inebria i sensi. Lecca, lecca ancora. Peli insieme al sangue: fastidioso, ma niente più. Va tutto giù. È tutto nutrimento. La ferita è profonda: sento la tensione del muscolo che si sta risanando quando mi stiracchio. Le fibre si sono risaldate velocemente, forse un po' troppo, perché quelli della mia razza spesso guariscono un po' troppo in fretta per il loro stesso bene. Dovrò ripulirla, morderla e far uscire il pus se dovesse infettarsi. Il sonno mi ha rinvigorito; ma il sonno ha anche portato via gli altri, troppo lontani per poterli inseguire, troppo lontani nella direzione sbagliata. Avverto la loro presenza nel mondo come il tremolio delle zanzare su uno stagno lontano: l'uomo pallido, l'uomo tranquillo e la donna... Ma sono
diretti a nord, a nord con gli uomini crudeli, a nord con la pietra della morte, la lacrima di Falla. Non c'è niente che possa fare per loro, anche se avessi la forza di seguirli, di attaccare, di uccidere. No: la mia strada mi porta a sud, a sud, al Picco Rosso. La mia signora potrà anche essere perduta, ma il mio signore si è risvegliato: percepisco la sua presenza. Se mi metto in ascolto, riesco a sentirlo, nella terra, nelle rocce. Le montagne tremano, la lava sgorga, i massi si frantumano quando si muove. Lui mi chiama, mi chiama e io sto arrivando... FINE