Kurt Vonnegut
MADRE NOTTE
Universale Economica Feltrinelli
Titolo dell'opera originale MOTHER NIGHT Copyright © Kurt ...
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Kurt Vonnegut
MADRE NOTTE
Universale Economica Feltrinelli
Titolo dell'opera originale MOTHER NIGHT Copyright © Kurt Vonnegut Jr., 1961, 1966 Questa traduzione è pubblicata d'accordo con The Bantam Dell Publishing Group, a division of Random House, Inc. Traduzione dall'inglese di LUIGI BALLERINI © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nell’'"Universale Economica" aprile 2007 ISBN 978-88-07-81956-8
1
Introduzione dell'Autore
Questo è l'unico dei miei racconti di cui conosca la morale. Non è una morale meravigliosa, non credo; si dà soltanto il caso ch'io sappia di quale morale si tratti: noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere. La mia esperienza personale con i traffici e gli imbrogli dei nazisti è stata molto limitata. A Indianapolis, la mia città natale, c'era, negli anni trenta, qualche spregevole e chiassoso fascista d'origine americana; mi ricordo che qualcuno mi passò sottobanco una copia di The Protocols of the Elders of Zion 1, che avrebbe dovuto essere il piano segreto degli ebrei per la conquista del mondo. E mi ricordo di aver riso alle spalle di una mia zia che per sposare un tedesco della Germania dovette scrivere a Indianapolis per ottenere testimonianza che nelle sue vene non scorreva sangue ebraico. Il sindaco di Indianapolis la conosceva fin dai tempi del liceo e della scuola di ballo e si divertì a riempire di nastri e di sigilli ufficiali i documenti richiesti dai tedeschi, tanto che finirono per sembrare dei trattati di pace del diciottesimo secolo. Dopo un po' venne la guerra e io mi ci trovai dentro; fui preso prigioniero ed ebbi modo di vedere un po' di Germania, dall'interno; intanto la guerra continuava. Ero soldato semplice, esploratore di battaglione, e secondo la convenzione di Ginevra dovevo lavorare per il mantenimento, il che fu un bene, non un male. Non dovetti starmene sempre chiuso in qualche prigione isolata in mezzo alla campagna. Potei andare in una città, Dresda, e vedere la gente e quel che faceva. Nella mia squadra di lavoro eravamo circa un centinaio di persone; fummo destinati a una fabbrica che produceva uno sciroppo di malto arricchito di vitamine, per donne incinte. Sapeva di miele diluito mischiato al fumo del noce americano. Era buono. Vorrei averne un po' adesso. La città era graziosa, tutta ricamata, come Parigi, e la guerra non l'aveva neppure sfiorata. Si trattava
Letteralmente: I Protocolli degli anziani di Sion. Raccolta di scritti apocrifi compilati da un gruppo di reazionari russi nel 1903 e messi in circolazione da propagandisti antisemiti come i verbali di certe riunioni tenute a Basilea nel 1897 in cui ebrei e massoni - si diceva - avevano formulato un piano per la distruzione della civiltà cristiana. 1
2
probabilmente di una città "aperta", che non poteva essere attaccata, visto che non ospitava né centri di raccolta delle truppe, né industrie militari. Tuttavia la notte del 13 febbraio 1945, circa ventun anni fa, potenti esplosivi furono sganciati su Dresda da apparecchi inglesi e americani. Non c'erano obiettivi particolari per le bombe. La speranza era di appiccare il fuoco un po' dappertutto e di costringere i pompieri a starsene rintanati sottoterra. Poi sui fuochi avviati furono rovesciate centinaia di migliaia di piccole bombe incendiarie, come semi su di una zolla appena rivoltata. Altre bombe furono sganciate per trattenere i pompieri nelle loro tane, e i fuochi poterono ingrandirsi e unirsi l'uno all'altro, e diventare una sola apocalittica fiammata. E in un attimo: tempesta di fuoco. Tra parentesi, fu il più colossale massacro di tutta la storia d'Europa. Ah sì, e allora? Noi non riuscimmo a vedere il fuoco. Eravamo in un fresco deposito di carne, sotto il mattatoio, insieme con i nostri sei custodi e file e file di mucche, maiali, cavalli, pecore, macellati e squartati. Sentivamo le bombe che saltavano qua e là sopra di noi. Di tanto in tanto cadeva una lieve pioggerella di calcina. Se fossimo saliti
a
dare
un'occhiata,
ci
saremmo
trasformati
in
altrettanti
oggetti
caratteristici degli incendi; pezzi accartocciati di legna da ardere lunghi settanta, ottanta centimetri... esseri umani assurdamente piccoli, o, se preferite, colossali cavallette arrostite. La fabbrica di sciroppo di malto era sparita. Tutto era sparito, tranne le cantine dove centotrentacinquemila Hansel e Gretel erano stati cotti al forno come altrettanti omini di pan di zenzero. Sicché fummo messi a lavorare come minatori di cadaveri; sfondavamo i rifugi e ne tiravamo fuori i corpi. Ebbi occasione di vedere tedeschi di tutte le età, così come la morte li aveva trovati, di solito con in grembo gli oggetti preziosi. A volte i parenti venivano a vederci scavare. Anche loro erano interessanti. Questo per ciò che riguarda i miei rapporti con i nazisti. Suppongo che se fossi nato in Germania, sarei stato nazista, e avrei massacrato ebrei, zingari e polacchi, lasciando sporgere i loro stivali dai cumuli di neve, riscaldandomi all'idea della mia segreta virtù. Così è la vita. C ’ è un'altra morale, evidente, in fondo a questo racconto, ora che ci penso: quando sei morto, sei morto. 3
E ancora un'altra me ne viene in mente adesso: fai all'amore quando puoi. Ti fa bene. Iowa City, 1966
4
Avvertenza del Curatore
Nel preparare l'edizione americana delle confessioni di Howard W. Campbell, jr., mi sono accorto di maneggiare scritti che non sono intesi soltanto a informare, o a ingannare, a seconda dei casi. Campbell era uno scrittore, oltre che una persona accusata di crimini estremamente gravi, un ex commediografo che godeva di una certa stima. Dire che era uno scrittore equivale a sostenere che le esigenze della sua arte sarebbero bastate, da sole, a fare di lui un bugiardo, cioè a farlo mentire senza vedere, in questa pratica, alcunché di male. Dicendo poi che era un commediografo siamo sicuri di dare al lettore un ammonimento anche più decisivo, perché nessuno può essere più impostore di un uomo che deformi la vita e i suoi sentimenti, le sue passioni, in qualcosa di così grottescamente artificioso come il teatro. Detto questo sul mentire, affermerò che le bugie raccontate per ottenere effetti artistici - a teatro, per esempio, o nelle confessioni di Campbell, forse - possono essere, a un livello più alto, la più seducente forma di verità. Non m'importa di dimostrare questo assunto. Il mio compito come curatore dell'opera esclude ogni spirito polemico. Devo soltanto trasmettere ad altri, e nel modo più soddisfacente, le confessioni di Campbell. Di libertà, per quanto riguarda il testo, me ne sono concesse molto poche. Ho corretto alcune grafie e ho tolto qualche punto esclamativo. I corsivi però sono tutti miei. In parecchi casi ho mutato i nomi, per risparmiare imbarazzi, o cose anche peggiori, a persone innocenti che ancora vivono. I nomi Bernard B. O'Hare, Harold J. Sparrow, e dottor Abraham Epstein, per esempio, sono inventati, almeno per quanto riguarda questa storia. Sono anche inventati il numero della piastrina di Sparrow e il nome che ho dato, nel testo, a una sezione dell'Associazione
ex
combattenti:
a
Brookline
non
c'è
nessuna
sezione
dell'Associazione suddetta intitolata a Francis X. Donovan. C ’ è un punto in cui, più che di quella di Howard Campbell, jr., si potrebbe dubitare della mia precisione. Questo punto è il capitolo ventiduesimo, laddove Campbell cita tre sue poesie, scritte in tedesco. Queste poesie, trascritte da 5
Campbell a memoria, sono così confuse e farcite di varianti che, più spesso che no, non si riesce a leggerle. Campbell era orgoglioso di potersi considerare uno scrittore di lingua tedesca, mentre di esser bravo in inglese non gli importava gran che. Nel tentativo di giustificare questo suo orgoglio, continuò fino all'ultimo a rivedere le sue poesie, ma, a quanto pare, non riuscì mai ad attingere una forma che lo soddisfacesse pienamente. Cosicché, in questa edizione, per poter dare un'idea di quel che dovevano essere le poesie in tedesco, ho dovuto affidare a qualcuno il delicato compito di restaurarle. La persona che ha eseguito questo lavoro, che, per così dire, ha ricomposto dei vasi da dei semplici cocci, è la signora Bowley, di Cotuit, Massachusetts, sensibile linguista e poetessa più che rispettabile lei stessa. Solo in due posti ho fatto dei tagli di qualche consistenza. Uno al capitolo trentanovesimo, perché così ha insistito l'avvocato del mio editore. Nella stesura originale di quel capitolo, Campbell presenta una delle Guardie di ferro dei figli bianchi della costituzione americana2 che urla a un G-man: "Io sono un americano migliore di te! Mio padre ha ideato la 'giornata del cittadino americano'". I testimoni sono d'accordo nell'affermare che tale rivendicazione fu effettivamente fatta, ma sostengono che fosse senza alcun fondamento, campata in aria. L'avvocato è del parere che riprodurre la rivendicazione nel testo sarebbe come calunniare quelle persone che effettivamente idearono la "giornata del cittadino americano". Tra parentesi: stando alle testimonianze Campbell, nel riprodurre i discorsi altrui, tocca un vertice di fedeltà proprio in questo capitolo. L'unico altro taglio che mi sono permesso riguarda il capitolo ventitreesimo che, nell'originale, era decisamente pornografico. Io, dico la verità, non mi sarei sentito affatto disonorato a pubblicare integralmente il capitolo, ma è stato Campbell stesso, nel corso della narrazione, a formulare la richiesta che qualche curatore operasse questa evirazione. Il titolo del libro è di Campbell. L'ha preso da un discorso di Mefistofele nel Faust di Goethe.
Il nome di questa organizzazione è modellato, con evidente ironia, su quello di certe associazioni veramente esistenti tra cui la più famosa è quella delle Figlie della rivoluzione americana, di cui fa parte soltanto una stretta oligarchia femminile che può vantare ascendenti americani fin dai tempi della guerra d'indipendenza. 2
6
[...] io sono una parte della parte che in principio era tutto, una parte delle tenebre che generarono la luce, l'orgogliosa luce che ora contende alla madre notte l'antico rango e lo spazio. Eppure non le riesce perché essa, per quanto tenda e operi, resta imprigionata entro i corpi. Dai corpi emana essa e li fa belli ed ogni corpo ne intercetta il passare. Così, lo spero, non durerà a lungo e se ne andrà, coi corpi, in rovina 3.
Anche la dedica del libro è di Campbell. In un capitolo che in seguito eliminò, Campbell scriveva di questa dedica quel che segue: Prima di capire che tipo di libro sarebbe venuto fuori, scrissi la dedica A Mata Hari. Che si prostituì per servire la causa dello spionaggio. Come me. Adesso che il libro comincia a prender forma, vorrei dedicarlo a qualcuno di meno esotico, meno fantastico, più vicino a noi... Qualcuno che non fosse così scopertamente una creatura del film muto.
Preferirei dedicarlo a qualcuno dall'aria più familiare, maschio o femmina, qualcuno noto a tutti come una persona che faceva del male dicendo tra sé: "Un'anima buona, la mia vera natura, un altro me stesso fabbricato in paradiso, è nascosto nelle mie viscere". Mi vengono in mente un mucchio di esempi, potrei snocciolarvene quanti ne volete, come nelle canzonette di Gilbert e Sullivan 4. Ma un nome singolo a cui ragionevolmente dedicare questo libro non riesco a trovarlo... a parte il mio stesso nome. Concedetemi quindi che mi tributi quest'onore: Questo libro è ridedicato a Howard W. Campbell, jr., un uomo che servì troppo scopertamente il male, e troppo segretamente il bene, il crimine del suo tempo. Kurt Vonnegut, jr.
3 4
Traduzione di Giovanni V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1965, p. 69. Due celebri autori di commedie musicali della seconda metà del diciannovesimo secolo.
7
LE CONFESSIONI DI HOWARD W. CAMPBELL, JR.
A Mata Hari
8
Esiste un uomo, dall'anima tanto ottenebrata che non abbia mai detto a se stesso "Questa è la mia terra, la terra natia!", il cui cuore non abbia mai palpitato al momento di volgere le sue orme verso la patria dopo aver errato per contrade straniere? SIR WALTER SCOTT
9
Tiglatpileser III…
Mi chiamo Howard W. Campbell, jr. Ho fama di nazista, sono americano di nascita e apolide per inclinazione naturale. L'anno in cui scrivo è il 1961. Voglio dedicare questo mio libro al signor Tuvia Friedmann, direttore dell'Istituto per la documentazione dei crimini di guerra, di Haifa, e a chiunque altro possa interessare. Perché al signor Friedmann dovrebbe importargli qualcosa di questo libro? Perché sull'uomo che lo sta scrivendo grava il sospetto che sia stato un criminale di guerra. Il signor Friedmann è uno specialista di questi casi. E ha manifestato più che un desiderio, l'impaziente ardore di avere qualsiasi scritto con cui volessi prendermi la briga di arricchire il suo archivio di barbarie naziste. La sua smania di averlo è tale che mi mette a disposizione una macchina per scrivere, un servizio gratuito di assistenza stenografica e la collaborazione di assistenti che rintracceranno qualunque cosa mi occorra per far sì che il racconto riesca completo e senza inesattezze. Mi trovo al fresco. Dietro
le
sbarre
di
una
graziosa
e
nuovissima
prigione
della
vecchia
Gerusalemme. Sono in attesa di essere processato dalla Repubblica di Israele per i miei crimini di guerra. È curiosa la macchina per scrivere che mi ha dato il signor Friedmann... proprio adatta al mio caso. È chiaro che fu fabbricata in Germania durante la Seconda guerra mondiale. Come faccio a saperlo? Semplicissimo: ti fa trovare sotto i polpastrelli delle dita un tasto che nessuna macchina per scrivere ha mai avuto prima del terzo Reich, e che dopo di lui non si troverà più su nessun'altra macchina. Imprime sulla carta una coppia di fulmini, il simbolo delle temutissime ss, la Schutzstaffel, l'ala più fanatica del nazismo. In Germania ho adoperato una macchina per scrivere come questa per tutta la durata della guerra. Tutte le volte che mi capitava di parlare della Schutzstaffel, il 10
che facevo spesso e con entusiasmo, non l'abbreviavo mai in ss, ma battevo sul tasto ben più terribile e magico della coppia di fulmini. Storia antica. Sono circondato dalla storia antica. Benché la cella in cui marcisco sia nuova, mi dicono che alcune delle pietre che la compongono furono tagliate ai tempi di re Salomone. E a volte, quando guardo fuori dalla finestra della mia cella e vedo l'allegra e chiassosa gioventù di questa Repubblica d'Israele appena nata, mi pare che anche i miei crimini di guerra siano antichi come le vecchie pietre grigie di Salomone. Quanto tempo è passato da quella Seconda guerra mondiale! Quanto tempo dai crimini che ho commesso! Parrebbe quasi tutto dimenticato, persino dagli ebrei... i giovani, voglio dire. Uno degli ebrei che mi sorveglia non sa nulla di quella guerra. Non gliene importa. Si chiama Arnold Marx. Ha i capelli rossi rossi. Ha solo diciott'anni, il che vuol dire che, quando Hitler morì, ne aveva tre e che non era nemmeno venuto al mondo quando cominciò la mia carriera di criminale di guerra. Monta la guardia dalle sei di mattina fino a mezzogiorno. Arnold è nato in Israele. E non ne è mai uscito. Sua madre e suo padre abbandonarono la Germania poco dopo il 1930. Suo nonno, mi ha detto Arnold, si guadagnò una croce di ferro nella Prima guerra mondiale. Arnold studia legge. Ma il suo hobby, e quello di suo padre, un armaiolo, è l'archeologia. Padre e figlio passano la maggior parte del tempo libero a scavare le rovine di Hazor. Ciò avviene sotto la direzione di Ygael Yadin, che fu capo di stato maggiore dell'esercito israeliano durante la guerra contro gli stati arabi. Hazor, mi ha detto Arnold, era una città canaanita della Palestina settentrionale che
esisteva
già
almeno
millenovecento
anni
prima
di
Cristo.
Circa
millequattrocento anni prima di Cristo, mi ha detto Arnold, un esercito israelita si impadronì di Hazor, ammazzò tutti i quarantamila abitanti e appiccò il fuoco alla città radendola al suolo. "Salomone la ricostruì," aggiunse Arnold, "ma nel 732 a.C. Tiglatpileser III la incendiò di nuovo." 11
"Chi?" chiesi io. "Tiglatpileser III," rispose Arnold. "L'assiro," puntualizzò dando un colpetto d'intesa alla mia memoria. "Ah," dissi io. "Quel Tiglatpileser lì." "Sembrerebbe quasi che non l'abbia mai sentito nominare," disse Arnold. "Infatti," dissi. E mi strinsi umilmente nelle spalle. "Immagino che sia piuttosto grave." "Be'..." disse Arnold, aggrottando le sopracciglia come un maestro di scuola, "direi proprio che si tratta di qualcuno che tutti dovrebbero conoscere. Con ogni probabilità è l'uomo più importante che gli Assiri abbiano mai prodotto." "Ah," dissi. "Le porterò un libro su di lui, se le interessa," disse lui. "Molto gentile da parte sua," risposi. "Forse, più avanti, avrò tempo di pensare agli Assiri importanti. Adesso ho già la mente piena di tedeschi importanti." "Chi, per esempio?" chiese lui. "Be', di questi tempi ho pensato molto al mio vecchio capo, Paul Joseph Goebbels." Arnold mi guardò senza espressione. "Chi?" Mi sembrò che la polvere della Terra Santa, penetrando da ogni fessura, avanzasse per seppellirmi, e sentii quanto sarebbe stata pesante la coperta di polvere e macerie che un giorno mi sarei trovato addosso. Era come se sopra di me ci fossero dieci o dodici metri di città distrutte; e sotto, qualche mucchio d'ossa e di ciottoli, un tempio o due... e poi... Tiglatpileser III.
12
Battaglione speciale…
La guardia che dà il cambio ad Arnold Marx a mezzogiorno ha pressappoco la mia stessa età, cioè quarantotto anni. Lui la guerra se la ricorda, eccome, anche se non gli piace ripensarci. Si chiama Andor Gutman. Andor è un ebreo estone, sempre mezzo addormentato e non molto intelligente. È stato due anni al campo di sterminio di Auschwitz. Stando a quel che dice, ma ne parla sempre contro voglia, c ’ è mancato un pelo che non finisse dentro il fumaiolo di un crematorio: "M'avevano appena assegnato al Sonderkommando," mi ha detto, "quando arrivò l'ordine di Himmler di chiudere i forni". Sonderkommando vuol dire battaglione speciale. Ad Auschwitz poi era speciale davvero... era composto di prigionieri il cui compito era quello di guidare i condannati alle camere a gas, e poi di estrarne i cadaveri. Quando il lavoro era terminato, i componenti del Sonderkommando venivano uccisi a loro volta. Il primo compito dei loro successori consisteva nello sbarazzarsi delle loro spoglie. Gutman mi confidò che molti si offrivano spontaneamente di far parte del Sonderkommando. "Perché?" gli chiesi. "Se ci scrivesse su un libro," disse, "e riuscisse a trovare la risposta a questa domanda, questo 'perché'... allora sì che potrebbe dire di aver scritto un gran libro." "E lei la conosce la risposta?" dissi. "No," disse. "Proprio per questo pagherei non so che cosa per un libro che me la desse." "Nessuna idea?" "No," disse guardandomi dritto negli occhi, "benché sia anch'io uno di quelli che si offrirono volontari." Si allontanò per un poco, dopo questa confessione. E pensò ad Auschwitz, la cosa cui meno gli piaceva pensare. Poi tornò e mi disse: "C'erano altoparlanti dappertutto e non tacevano mai a lungo. Trasmettevano sempre un sacco di 13
musica. Quelli che se ne intendevano, dicevano che era quasi sempre molto buona... a volte la migliore". "Interessante," dissi. "Ma niente musica scritta da ebrei," disse. "Quella era proibita." "Naturalmente," dissi. "E la musica si fermava sempre a metà," disse, "e allora trasmettevano qualche comunicato. Tutto il giorno, musica e comunicati, musica e comunicati." "Molto moderno," dissi. Chiuse gli occhi, si sforzò di ricordare. "Uno dei comunicati era come una cantilena, una filastrocca. Veniva trasmesso non so quante volte al giorno. Era la chiamata del Sonderkommando." "Ovverosia?" dissi io. "Leichenträger zur Wache, "cantilenò, con gli occhi sempre chiusi. Traduzione: "Portacadaveri al corpo di guardia". In un istituto il cui scopo era di sterminare milioni di esseri umani, doveva essere un richiamo piuttosto comune, ragionevolmente accettabile. "Dopo due anni che uno sentiva lo stesso comunicato trasmesso tra due brani di musica," mi disse Gutman, "fare il portacadaveri sembrò tutto a un tratto un lavoro magnifico." "Me lo immagino," dissi. "Davvero?" disse. Scosse la testa. "Io non ci riesco," disse. "Me ne vergognerò sempre. Offrirmi volontario
per il Sonderkommando... c'è veramente da
vergognarsene." "Non credo," dissi. "Io invece credo di sì," disse. "Vergognoso," disse. "Non voglio riparlarne mai più."
14
Mattonelle…
Arpad Kovacs è la guardia che ogni sera alle sei dà il cambio ad Andor Gutman. Arpad è una specie di candela romana, un tipo chiassoso e allegro. Ieri sera quando montò di guardia mi chiese che gli facessi vedere quel che avevo scritto. Gli passai le poche pagine che avevo e Arpad cominciò a camminare su e giù per il corridoio, agitando i fogli e facendo stravaganti elogi al loro contenuto. Non li aveva neanche letti. Li lodava per quel che immaginava contenessero. "Dagli addosso a quei bastardi sempre disposti a sottomettersi," mi disse ieri sera. "Cantagliele a quelle mattonelle presuntuose!" Per mattonelle lui intende tutti quelli che non hanno fatto nulla per salvare la propria o l'altrui pelle quando i nazisti s'impadronirono del potere, quelli che accettarono senza ribellarsi di andare a finire nelle camere a gas, visto e considerato che quello era il posto dove i nazisti volevano che andassero. Una mattonella, naturalmente, è un blocco rettangolare di polvere di carbone compressa, il non plus ultra della comodità, quando si presenta il problema del trasporto, dell'immagazzinaggio e della stessa combustione. Arpad, dovendo risolvere la sua situazione di ebreo nell'Ungheria occupata dai nazisti, non diventò una mattonella. Al contrario, si procurò dei falsi documenti e si arruolò nelle ss ungheresi. Questo fatto spiega in qualche modo la simpatia che prova per me. "Vedi un po' che cosa non è capace di fare un uomo, per salvare la pelle! Cosa c'è di tanto nobile nel fare la mattonella?" mi ha detto ieri sera. "Hai mai sentito qualcuna delle mie trasmissioni?" gli ho chiesto. Il mezzo di cui mi sono servito per i miei crimini di guerra sono state le trasmissioni radiofoniche. Ero uno che faceva propaganda alla radio, un astuto e odioso antisemita. "No," ha risposto. Allora gli ho fatto vedere il testo di una trasmissione, testo fornitomi dall'Istituto di Haifa. "Leggilo," gli ho detto. "Non ce n ’ è bisogno," ha risposto. "A quei tempi non si faceva che ripetere tutti quanti le stesse cose, migliaia e migliaia di volte." 15
"Leggilo lo stesso... per favore," gli ho detto. Allora lo lesse, e la sua faccia diventava sempre più aspra, man mano che procedeva. Me lo restituì. "Mi hai deluso," disse. "Oh?" dissi. "È così debole!" disse. "Non ha nerbo, non ha pepe, è sciapo! Credevo che fossi un maestro dell'invettiva razzista!" "Non lo sono?" "Se qualcuno del mio plotone di ss avesse parlato degli ebrei in termini così cordiali, avrei dovuto fucilarlo per tradimento! Goebbels avrebbe dovuto licenziarti e assumere me come sferza radiofonica contro gli ebrei. Io avrei riempito di vesciche la pelle del mondo!" "Tu hai fatto la tua parte con quel tuo plotone di ss," dissi. Ricordando i giorni in cui era stato una ss, Arpad diventò raggiante. "Io sì che ero un ariano!" disse. "Nessuno ha mai avuto dei sospetti?" chiesi. "Come avrebbero potuto?" disse. "Ero un ariano così puro e terribile che mi hanno messo addirittura in un distaccamento speciale. Dovevamo scoprire come facevano gli ebrei a sapere sempre in anticipo quel che avrebbero fatto le ss. C'era una falla da qualche parte. E noi dovevamo tamponarla." Sembrava che il ricordo lo amareggiasse, lo offendesse addirittura, quasi che fosse stato lui stesso quella falla. "E il distaccamento riuscì a compiere la propria missione?" dissi. "Sono felice di poter affermare," disse Arpad, "che quattordici ss furono fucilate dietro nostro suggerimento. Adolf Eichmann in persona venne a congratularsi con noi." "Allora tu l'hai incontrato?" dissi. "Sì..." disse Arpad, "e mi dispiace che a quell'epoca non sapevo quanto fosse importante." "Perché?" "L'avrei ucciso," disse Arpad.
16
Cinghie di cuoio…
Anche Bernard Mengel, un ebreo polacco che monta la guardia da mezzanotte alle sei di mattina, è un uomo della mia età. Una volta, durante la Seconda guerra mondiale, riuscì a salvare la pelle fingendo così bene di essere morto che un soldato tedesco gli strappò tre denti senza neppur sospettare che Mengel non fosse un cadavere. Il soldato voleva le sue tre capsule d'oro. Le ebbe. Mengel mi dice che soffio e mi agito e parlo tutta la notte. "Lei, che io sappia, è l'unica persona," mi ha detto Mengel stamattina, "a cui morda la coscienza per quel che ha fatto durante la guerra. Tutti gli altri, non importa da che parte stessero, e nemmeno quel che hanno fatto, sono convinti che chiunque al posto loro non avrebbe agito diversamente." "Cosa le fa pensare che io abbia la coscienza sporca?" ho detto. "Il modo come dorme... il modo come sogna," ha detto. "Nemmeno Höss dormiva così. Anzi lui ha continuato a dormire come un santo fino alla fine." Mengel si riferiva a Rudolf Franz Höss, il comandante del campo di sterminio di Auschwitz. Affidati alle sue tenere cure, sono stati asfissiati milioni (alla lettera) di ebrei. Mengel sa qualcosa di Höss. Prima di emigrare in Israele nel 1947, Mengel dette una mano a impiccare Höss. Lo fece senza tante cerimonie. Gli bastarono le sue grosse mani pesanti. "Quando Höss fu impiccato," mi ha detto, "la cinghia che aveva intorno alle caviglie... sono stato io a mettergliela e a stringerla." "È rimasto molto soddisfatto?" ho detto. "No," ha detto. "Anch'io, più o meno, ero come tutti gli altri scampati alla guerra." "Che vuol dire?" ho chiesto. "Che ero diventato insensibile a tutto," ha detto Mengel: "Il lavoro era lavoro e basta, e non ce n'era neanche uno che fosse meglio o peggio di qualche altro." "Quando finimmo di impiccare Höss," ha proseguito Mengel, "riposi gli abiti per andarmene a casa. La molla della valigia era rotta, e così la chiusi con una grossa 17
cinghia di cuoio. In un'ora, due volte lo stesso lavoro... una volta su Höss e una volta sulla mia valigia. E tutte e due le volte provai su per giù la stessa emozione."
18
Colmata l'ultima misura…
Conoscevo anch'io Rudolf Höss, comandante di Auschwitz. L'avevo incontrato a una festa dell'ultimo dell'anno a Varsavia, durante la guerra... all'inizio del 1944. Höss aveva sentito dire che ero uno scrittore e, alla festa, mi prese da parte per dirmi che anche a lui sarebbe piaciuto saper scrivere. "Quanto invidio quelli che sanno creare..." mi disse. "La facoltà di creare è un dono degli dei." Höss mi disse che aveva da raccontare delle storie meravigliose. Mi disse anche che erano tutte vere, ma così straordinarie che la gente non ci avrebbe creduto. Höss non poteva raccontarmele, finché non avessimo vinto la guerra. Dopo la guerra, disse, avremmo potuto collaborare. "A raccontare riesco," disse, "a scrivere no." E mi guardò con gli occhi di chi cerca comprensione. "Quando mi metto al tavolino per scrivere," disse, "mi irrigidisco." Come mai ero a Varsavia? C'ero andato per ordine del mio capo, il Reichsleiter dottor Paul Joseph Goebbels, ministro di Germania per la Cultura popolare e la Propaganda. Avevo una discreta dose di ingegno come drammaturgo e il dottor Goebbels voleva che la mettessi in pratica. Il dottor Goebbels voleva che scrivessi una specie di sacra rappresentazione per onorare i soldati tedeschi che avevano colmato la loro ultima misura di devozione - in altre parole, che erano morti - nel reprimere l'insurrezione degli ebrei nel ghetto di Varsavia. Il dottor Goebbels sognava di metterla in scena ogni anno, dopo la guerra, e di utilizzare come scenario, invariabile, le rovine stesse del ghetto. "Dovranno esserci degli ebrei nella rappresentazione?" gli chiesi. "Certamente," disse. "A migliaia." "Posso chiederle, signore," dissi io, "dove pensa di trovare degli ebrei, dopo la guerra?" Intuì lo spirito della mia battuta. "Domanda più che giusta," disse ridacchiando. "La gireremo a Höss," disse. "A chi?" dissi. Non ero ancora stato a Varsavia, non avevo ancora incontrato Fratello Höss. 19
"Lui dirige una piccola casa di cura per ebrei, in Polonia," disse Goebbels. "Dobbiamo chiedergli a tutti i costi di salvarcene qualcuno." Devo aggiungere anche questa orrenda rappresentazione ai miei crimini di guerra? No, grazie a Dio. Non riuscii mai a spingermi oltre il titolo provvisorio: Colmata l'ultima misura. Sono comunque disposto ad ammettere che l'avrei probabilmente scritta, se solo avessi avuto abbastanza tempo, se cioè i miei capi mi avessero sollecitato di più. Oggi come oggi, sono disposto ad ammettere qualsiasi cosa. A proposito di questa rappresentazione: un risultato ci fu, molto particolare. Goebbels e poi lo stesso Hitler si interessarono al discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln5. Goebbels mi domandò dove avessi pescato il titolo, e io gli tradussi tutto il discorso di Gettysburg, che lo contiene. Lo lesse, senza smettere un attimo di muovere le labbra. "Sa una cosa," mi disse, "questo è un ottimo esempio di propaganda. Non si è mai abbastanza moderni, mai così avanti sul passato, come ci illudiamo di essere." "Dalle mie parti è un discorso molto famoso," dissi.
5
II famoso discorso che Abraham Lincoln pronunciò il 19 novembre 1863, in occasione della commemorazione dei soldati caduti nella battaglia di Gettysburg, durante la guerra civile.
20
Purgatorio…
A proposito del mio purgatorio a New York: ci restai per quindici anni. Scomparvi dalla Germania alla fine della Seconda guerra mondiale. E spuntai fuori, senza che nessuno mi riconoscesse, al Greenwich Village. Affittai un deprimente appartamento all'ultimo piano pieno di topi che squittivano e girovagavano nei muri. Continuai ad abitare in quell'appartamento fino a un mese fa, quando mi portarono in Israele per processarmi. Una cosa piacevole di quell'appartamento infestato dai topi: la finestra che dava sul retro dominava un piccolo parco privato, un piccolo Eden formato da cortili congiunti. Quel parco, quell'Eden era completamente isolato da un giro di case che lo proteggevano come una muraglia. Era abbastanza grande perché i bambini ci giocassero a nascondersi. Da quel cortile si alzava spesso un grido, il grido di un bambino che mi costringeva a smettere quel che stavo facendo e ad ascoltare. Era il grido dolcemente triste che indicava la fine del gioco a nascondersi; quelli che ancora se ne stavano acquattati potevano venir fuori, era tempo di andare a casa. Il grido era questo: "Fuori tutti!". E io che mi nascondevo a molte persone che forse volevano farmi del male o uccidermi, sentivo spesso un gran desiderio che qualcuno lanciasse quel grido per me, che ponesse fine al mio continuo giocare a nascondermi con un dolce e triste... "Fuori tutti!"
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Autobiografìa…
Io, Howard W. Campbell, jr, nacqui a Schenectady, nello stato di New York, il 16 febbraio 1912. Mio padre, che era figlio di un pastore battista ed era cresciuto nel Tennessee, era ingegnere e lavorava nel Reparto assistenza tecnica della General Electric. Il lavoro svolto dal Reparto assistenza tecnica consisteva nell'istallare, mantenere in ordine e riparare gli impianti per l'industria pesante venduti dalla General Electric in tutto il mondo. Mio padre, che da principio viaggiava solo negli Stati Uniti, non era quasi mai a casa. Il suo lavoro richiedeva un tale multiforme impiego di abilità tecnica, che non gli restava tempo né fantasia per nessun'altra attività. L'uomo era il lavoro e il lavoro era l'uomo. L'unico libro non tecnico che gli abbia mai visto per le mani è una storia illustrata della Prima guerra mondiale: un grosso volume con delle fotografie alte un buon trenta centimetri e larghe anche mezzo metro. Sembrava che mio padre non si stancasse mai di guardare quel libro, benché i n guerra lui non ci fosse stato. Non mi confidò mai che significato avesse, per lui, quel libro, né io glielo chiesi. In proposito mi disse solo che non era un libro per ragazzi e che non dovevo guardarlo. Sicché, logicamente, lo guardavo tutte le volte che mi trovavo a casa da solo. C'erano fotografie di uomini infilzati sul filo spinato, donne mutilate, corpi accatastati come assi di legno... Tutto il solito repertorio delle guerre mondiali. Mia madre, da signorina, si chiamava Virginia Crocker ed era figlia di un fotografo ritrattista di Indianapolis. Donna di casa e violoncellista per diletto. Suonava il violoncello nella Schenectady Symphony Orchestra e sognava che diventassi anch'io un violoncellista. La mia carriera come violoncellista si risolse subito in un disastro perché, come mio padre, non ho orecchio. Non avevo né fratelli né sorelle, e mio padre a casa lo si vedeva pochissimo. Così per parecchi anni fui quasi l'unico compagno di mia madre. Era una bella donna, piena di talento, ma d'istinti morbosi. Credo che fosse quasi sempre ubriaca. Mi ricordo che una volta sparse su un piattino un miscuglio di alcol denaturato e 22
sale da cucina. Mise il piattino sul tavolo della cucina, spense tutte le luci, e mi fece sedere davanti a lei, dall'altra parte del tavolo. E poi intinse un fiammifero acceso nella mistura. Si sprigionò una fiamma d'un giallo quasi puro, una fiamma di sodio; attraverso di essa mia madre mi apparve come un cadavere e anch'io dovetti apparire a lei come tale. "Ecco..." disse. "Questo sarà il nostro aspetto dopo morti." Questo bizzarro esperimento spaventò non soltanto me, ma anche lei. Mia madre si spaventò della sua stessa bizzarria, e da quel momento io cessai di essere suo compagno. Da quel momento in poi non mi rivolse quasi più la parola... mi escluse completamente, per paura, sono certo, di fare o di dire qualcosa di ancora più pazzo. Tutto ciò accadde a Schenectady, prima che compissi i dieci anni. Nel 1923, avevo allora undici anni, la General Electric trasferì mio padre a Berlino. Da allora in poi, la mia educazione, i miei amici, la mia lingua principale furono tedeschi. Col passare del tempo divenni un drammaturgo di lingua tedesca, e presi in moglie una tedesca, l'attrice Helga Noth. Helga Noth era la maggiore delle due figlie di Werner Noth, capo della polizia di Berlino. Mio padre e mia madre lasciarono la Germania nel 1939, quando scoppiò la guerra. Mia moglie e io restammo. Fino alla fine della guerra nel 1945 mi guadagnai da vivere come scrittore e facendo trasmissioni in lingua inglese di propaganda nazista. Ero l'esperto di problemi americani presso il ministero della Cultura popolare e della Propaganda. Verso la fine delle ostilità, mi trovai tra i primi nella lista dei criminali di guerra, grazie soprattutto al fatto che le mie offese erano così oscenamente pubbliche. Fui preso prigioniero vicino a Hersfeld da un certo tenente Bernard B. O'Hare della terza armata, il 12 aprile 1945. Stavo in sella a una motocicletta e non ero armato. Benché autorizzato a vestire l'uniforme - me ne spettava una blu e oro in quel momento non ne indossavo alcuna. Ero in borghese: un abito di saia blu e un pastrano mangiato dalle tarme, con il collo di pelliccia. Era successo che due giorni prima la terza armata aveva occupato Ohrdruf, il primo campo di sterminio che capitò sotto gli occhi degli americani. Io fui portato 23
lì e costretto a guardarlo da cima a fondo... le fosse comuni, le forche, la pedana di flagellazione... e i mucchi di morti sbudellati, scabbiosi, deformi. L'intenzione era quella di mostrarmi le conseguenze di quel che avevo fatto. Le forche di Ohrdruf potevano impiccare anche sei persone alla volta. Quando le vidi io, a ognuno dei cappi era appeso il cadavere di una guardia del campo. Era logico pensare che anch'io vi sarei stato appeso molto presto. E io, logicamente, lo pensavo, per cui cercai di trovare attraente la pace delle sei guardie appese alle corde. Erano morti alla svelta. Mi fecero una fotografia mentre contemplavo le forche. Il tenente O'Hare stava in piedi dietro di me, magro come un cucciolo di lupo e pieno di odio come un serpente a sonagli. La fotografia finì sulla copertina di "Life" e ci mancò poco che vincesse un premio Pulitzer.
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Auf Wiedersehen…
Non mi impiccarono. Ero colpevole di alto tradimento, avevo commesso crimini contro l'umanità, contro la mia coscienza, eppure fino a oggi sono riuscito a scamparla. Sono riuscito a scamparla perché, per tutta la durata della guerra, io fui una spia americana. Le mie trasmissioni erano un veicolo per trasmettere messaggi cifrati fuori della Germania. Il codice si fondava sul mio modo di intercalare il discorso, sulle pause, sul particolare risalto che davo a certi periodi, sui colpetti di tosse, e sui balbettamenti inseriti nelle frasi più importanti. Persone che non vidi mai in faccia, mi dicevano in quali frasi della trasmissione dovevo inserire un modo di dire o l'altro. Ancor oggi non so quali informazioni passarono i confini per mezzo della mia voce. Dalla semplicità di quasi tutte le istruzioni che ricevevo deduco che per lo più davo semplici risposte affermative o negative alle domande poste, da fuori, all'organizzazione spionistica. Qualche volta, per esempio durante la preparazione dello sbarco in Normandia, le istruzioni si facevano un po' più complicate e il mio fraseggio, la mia dizione, dettero certamente l'impressione di un malato di polmonite doppia, giunto all'ultimo stadio. Questo fu tutto il mio contributo alla causa degli alleati. E fu questo contributo a salvarmi la pelle. Mi offrirono asilo. Non fui mai riconosciuto come agente americano, ma l'accusa di tradimento che gravava su di me fu, per così dire, sabotata. Fui liberato in seguito a certi cavilli senza fondamento riguardanti la mia nazionalità e aiutato a sparire dalla circolazione. Mi stabilii a New York sotto falso nome. E, solo per modo di dire, cominciai una nuova vita in quell'attico tutto sgangherato che s'affacciava sul giardino segreto. Fui lasciato in pace... a tal punto che potei riprendere il mio vero nome senza che nessuno domandasse se non ero per caso io il famigerato Howard W. Campbell, jr. Ogni tanto leggevo il mio nome su un giornale o su di una rivista... ma non ero mai citato come una personalità di rilievo; era solo un nome, come tanti altri, in 25
una lunga lista di criminali di guerra di cui non si sapeva più nulla. Correvano voci che mi trovassi in Iran, o in Argentina, o in Irlanda... e si diceva anche che la polizia d'Israele mi stava cercando per mare e per terra. Comunque stessero le cose, nessun agente israelita venne mai a bussare alla mia porta, benché il mio nome fosse esposto chiaro e tondo sulla cassetta della posta e tutti potessero vederlo: Howard W. Campbell, jr. Fin proprio alla fine del mio purgatorio al Greenwich Village, solo una volta corsi qualche rischio che la mia infamia venisse scoperta e fu quando consultai un dottore ebreo che abitava nella mia stessa casa. M'era venuta un'infezione a un pollice. Il dottore si chiamava Abraham Epstein. Viveva con sua madre al secondo piano. Erano arrivati da poco. Quando gli dissi come mi chiamavo, non fece neanche una piega; qualcosa invece scattò dentro sua madre. Epstein era giovane, appena uscito dall'università. Sua madre era vecchia... pesante, lenta, grinzosa con gli occhi tristi, sempre vigilanti e pieni di amarezza. "Lei ha un nome famoso," disse. "Dovrebbe saperlo." "Prego?" "Non conosce nessun altro che si chiami Howard W. Campbell, jr.?" disse. "Immagino che ce ne siano degli altri," dissi. "Quanti anni ha?" Glielo dissi. "Allora è abbastanza vecchio per ricordarsi la guerra," disse. "Lascia perdere la guerra," le disse affettuosamente, ma con decisione, suo figlio. Stava bendandomi il pollice. "E non ha mai sentito qualche trasmissione da Berlino di Howard W. Campbell, jr.?" mi disse. "Ah, sì, ora ricordo... certo. L'avevo dimenticato. È passato tanto tempo. Non l'ascoltavo mai, ma ricordo che si parlava di lui sui giornali. Sono cose che escono di mente alla svelta." "Meno male," disse il giovane dottor Epstein. "Sono cose che appartengono a un passato di follia, bisogna dimenticarsele più in fretta che si può." "Auschwitz," disse la madre.
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"Lascia perdere Auschwitz," disse il dottor Epstein. "Lei sa che cos'era Auschwitz?" mi chiese sua madre. "Sì," dissi. "È lì che mi hanno distrutto gli anni più belli della vita," disse. "Ed è stato lì che mio figlio, il dottore, ha passato la sua infanzia." "Io non ci penso mai," disse bruscamente il dottore. "Ecco fatto... tra un paio di giorni non avrà più niente. Lo tenga al caldo e non lo bagni." E mi sospinse verso la porta. "Sprechen Sie Deutsch?" mi gridò dietro sua madre mentre stavo uscendo. "Prego?" dissi. "Le ho chiesto se parla tedesco," disse. "Ah," dissi. "No... temo proprio di no," dissi. Tentai timidamente di spiaccicare qualcosa in tedesco. "Nein?" dissi. "Vuol dire no, vero?" "Molto bene," disse. "Auf Wiedersehen," dissi. "E questo significa addio, non è vero?" "Arrivederci," disse. "Oh," dissi. "Allora... Auf Wiedersehen." "Auf Wiedersehen," disse.
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Entra la mia fata turchina…
Fui reclutato come spia al servizio dell'America nel 1938, tre anni prima che il paese entrasse in guerra. Fui reclutato un giorno di primavera, nel Tiergarten di Berlino. Mi ero sposato con Helga Noth da un mese. Avevo ventisei anni. Come commediografo riscuotevo un discreto successo, scrivendo nella lingua che mi riesce meglio, il tedesco. Uno dei miei drammi, Il calice, si rappresentava contemporaneamente a Dresda e a Berlino. Un altro, La rosa delle nevi, lo stavano allestendo, sempre a Berlino. E ne avevo appena finito un terzo, Settanta volte sette. Erano tutti e tre d'argomento cavalleresco, ambientati nel medioevo; e non contenevano più riferimenti politici di quanti ne contenga una meringa al cioccolato. Quel giorno me ne stavo seduto a godermi il sole su una panchina del parco, e pensavo già a un quarto dramma che cominciava a dipanarmisi nel cervello. Avevo già il titolo, Das Reich der Zwei, qualcosa come Uno stato a due. Avrebbe dovuto mostrare come due amanti in un mondo impazzito possono sopravvivere restando fedeli unicamente a uno stato composto da se stessi... una nazione fatta di due persone soltanto. Sulla panchina al di là del vialetto sedeva un americano di mezza età. Sembrava un pallone gonfiato con la faccia da stupido. Si sciolse le stringhe delle scarpe per far riposare i piedi, e cominciò a leggere una copia del "Sunday Tribune" di Chicago, vecchia d'un mese. Tre giovani ufficiali delle ss passarono lungo il vialetto che ci divideva. Quando si furono allontanati, l'uomo mise giù il giornale e mi parlò in inglese, con il tipico accento nasale della gente di Chicago. "Bei ragazzi," disse. "Già," dissi. "Capisce l'inglese?" "Sì," dissi.
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"Ringrazio Iddio che mi ha fatto trovare una persona che parla inglese," disse. "Non so quante che sto cercando qualcuno con cui fare due chiacchiere, credevo d'impazzire." "Davvero?" dissi. "Che ne pensa di tutto questo..." disse, "o è consigliabile non andare in giro a far certe domande?" "Tutto cosa?" dissi. "Quel che succede in Germania," disse. "Hitler e gli ebrei e tutto il resto." "Sono cose che sfuggono al mio controllo," dissi, "e così non sto nemmeno a pensarci su." Fece un cenno d'intesa col capo. "Sono gatte che non deve pelare lei, è così?" "Prego?" dissi. "Affari che non la riguardano," disse. "Esatto," dissi. "Non ha afferrato, eh, quando ho detto 'gatte che non deve pelare lei'?" disse. "È un'espressione comune?" dissi. "In America lo è," disse. "Le dispiace se vengo dalla sua parte, così non dovremo strillare?" "Come preferisce," dissi. "Come preferisce," ripeté, venendo a sedersi sulla mia panchina. "Una frase così discreta che la si direbbe inglese." "Sono americano," dissi. Spalancò tanto d'occhi. "Sul serio? Stavo cercando di indovinare di che paese fosse, ma americano non l'avrei detto proprio." "Grazie," dissi. "L'ha preso per un complimento?" disse. "È per questo che mi ha detto 'grazie'?" "Non un complimento... e nemmeno un insulto," dissi. "Le nazionalità non mi interessano quanto probabilmente dovrebbero." Sembrò che questa affermazione lo stupisse. "Se non m'impiccio troppo degli affari suoi, posso chiederle di cosa si occupa?" "Scrivo," dissi.
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"Sul serio?" disse. "Pensi che strana coincidenza. Mentre me ne stavo lì seduto pensavo a quanto mi piacerebbe saper scrivere: il fatto è che m e venuta in mente una trama che potrebbe diventare un bel romanzo poliziesco." "Davvero?" dissi. "Sa che faccio? La racconto a lei," disse. "Tanto io non la scriverò mai." "Ho già in testa tutto il materiale cui riesco a tener dietro," dissi. "Be', chi sa, magari un giorno o l'altro resterà all'asciutto e allora le verrà buona questa mia storiella. Dunque, c'è questo giovanotto americano che si trova in Germania da tanto di quel tempo che praticamente è quasi un tedesco. Scrive drammi in tedesco, si è sposato con una bellissima attrice tedesca, e conosce un mucchio di pezzi grossi tra i nazisti che frequentano volentieri la gente di teatro." E snocciolò una fila di nomi di nazisti, grandi e piccoli... che io e Helga conoscevamo tutti piuttosto bene. Non che Helga e io andassimo matti per i nazisti. Ma non posso dire d'altra parte che li odiavamo. Erano una larga ed entusiasta porzione del nostro pubblico, e anche persone importanti nell'ambiente in cui vivevamo. Erano persone. Solo ripensandoci adesso riesco a immaginarli come un mucchio di gente che ricopriva il mondo d'immondizie. A essere sincero non riesco a vederli in questa luce nemmeno adesso. Li conoscevo troppo bene come persone, ero troppo impegnato, allora, a ottenere la loro fiducia e il loro applauso. Troppo impegnato. Amen. Troppo impegnato. "Ma chi è lei?" dissi all'uomo nel parco. "Lasci prima che finisca di raccontarle la storia," disse. "Dunque, il giovanotto sa che scoppierà una guerra, e prevede che l'America si troverà da una parte e la Germania dall'altra. Così quest'americano che fino a quel momento è sempre stato molto gentile con i nazisti, decide di far finta di essere nazista pure lui, e quando la guerra arriva, lui resta in Germania e diventa una utilissima spia americana." "Lei sa chi sono io?" dissi.
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"Certo," disse. Tirò fuori il portafoglio e mi mostrò una carta d'identità rilasciata dal ministero della Guerra degli Stati Uniti in cui si dichiarava che il latore era il maggiore Frank Wirtanen; il reparto non era specificato. "Così adesso sa chi sono. Mr. Campbell, le chiedo di diventare un agente dello spionaggio americano." "Cristo," esplosi, con rabbia e fatalismo. Mi accasciai. Quando mi ritirai su, dissi: "Ridicolo. No... all'inferno, no". "Bene..." disse. "Ma non ho intenzione di rinunciare a lei così presto; tra l'altro non è oggi che mi deve dare una risposta definitiva." "Se lei spera ch'io vada a casa a pensarci su," dissi, "si sbaglia. Quando andrò a casa, mi farò un bel pranzetto con la mia bellissima moglie, sentirò della musica, farò l'amore con mia moglie e poi mi farò una dormita solenne. Io non sono né un soldato, né un uomo politico. Sono un artista. Se verrà la guerra, non farò proprio niente per aiutarla a ingrandirsi. Se proprio verrà mi troverà come sempre occupato nel mio pacifico lavoro." Scosse la testa. "Le auguro tutta la fortuna di questo mondo, Mr. Campbell," disse, "ma questa guerra non permetterà a nessuno di continuare il proprio pacifico lavoro. E mi spiace di doverle dire," continuò, "che più s'allargano questi nazisti e meno frequenti saranno le sue solenni dormite." "Vedremo," tagliai corto. "Proprio... vedremo," disse. "Per questo le dicevo che non è oggi che darà la sua ultima risposta. Questa risposta lei dovrà viverla. Se deciderà di accettare, dovrà continuare assolutamente da solo, a cercare di introdursi nell'organizzazione nazista, più in alto che potrà." "Affascinante," dissi. "Be'... di affascinante c'è soltanto questo..." disse, "che sarebbe un vero autentico eroe, centomila volte più coraggioso di qualsiasi altro uomo." Un generale della Wehrmacht magro come un chiodo e un grasso tedesco in borghese
che
reggeva
una
cartella
ci
passarono
davanti
parlando
con
un'eccitazione a stento repressa. "Salute," disse loro, gentilmente, il maggiore Wirtanen. Quelli bofonchiarono qualcosa con disprezzo e tirarono avanti. "Si offrirà lei stesso come volontario, candidato alla morte, appena comincerà la guerra. E anche se riuscirà a scampare per tutta la guerra senza farsi prendere, 31
alla fine troverà la sua reputazione rovinata, e probabilmente non molte altre cose per cui valga vivere," disse. "Lei sa come rendere attraente una prospettiva," dissi. "Non è del tutto impossibile che l'abbia resa attraente per lei. Ho visto il suo dramma che viene rappresentato in questi giorni, e ho letto il testo di quello che andrà in scena tra poco." "Ah!" dissi. "E che cosa ne ha dedotto?" Sorrise. "Che lei ammira i cuori puri e gli eroi," disse. "Che lei ama il bene e odia il male," disse, "e che lei crede nelle avventure cavalleresche." Non fece menzione della ragione più vera per cui s'aspettava che accettassi di diventare una spia. Tale ragione è che sono un attore nato. Diventando una spia del tipo che m'aveva descritto, avrei avuto l'occasione di recitare in un dramma grandioso. La mia superba interpretazione della parte del nazista avrebbe tratto in inganno chiunque, in Germania e all'estero. E infatti ingannai tutti. Cominciai subito a camminare impettito come fossi il braccio destro di Hitler, e nessuno s'accorse mai dell'anima onesta che nascondevo nel più profondo me stesso. Posso dimostrare di essere stato una spia americana? Il mio collo latteo, ancora tutto intero, è il primo documento della mia innocenza. Ed è anche l'unico documento che posseggo. Coloro che sono incaricati di condannarmi, o di trovarmi innocente, per i crimini commessi contro l'umanità, sono cordialmente invitati a esaminarlo con ogni attenzione. Il governo degli Stati Uniti non nega e neppure conferma ch'io sia stato un agente alle sue dipendenze. E che non lo neghi mi sembra già qualcosa di positivo. Ma poi mi chiude anche questo spiraglio negando di aver mai avuto alle proprie dipendenze Frank Wirtanen. Nessuno crede in lui, tranne me. Sicché d'ora innanzi ne parlerò spesso come della "mia fata turchina". Una delle tante cose che la mia fata turchina mi disse fu la frase con cui il mio informatore mi avrebbe identificato e le risposte con cui io avrei identificato lui, se la guerra fosse veramente scoppiata. La frase era: "Cercati nuovi amici". La risposta era: "Ma serba quelli vecchi".
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Il mio avvocato, qui in Israele, il dotto consigliere alla difesa, è un certo signor Alvin Dobrowitz. È cresciuto in America, diversamente da me; bene: il signor Dobrowitz mi ha detto che la frase e la risposta fanno parte di una canzonetta che cantano spesso le ragazze di un'organizzazione scoutistica americana, The Brownies. Il testo completo della lirica, secondo la versione del signor Dobrowitz, è il seguente: Make new friends, But keep the old. One is si-il-ver, The o-ther's gold6.
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Fatti nuovi amici, / ma serba quelli vecchi. /I primi son d'argento, / gli altri d'oro.
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Idillio…
Mia moglie non seppe mai che ero una spia. Ma anche a dirglielo non ci avrei perso nulla. Non per questo mi avrebbe amato di meno. Non per questo avrei corso dei pericoli. Avrei semplicemente scombinato il mondo della mia divina Helga, al cui confronto perfino il libro dell'Apocalisse sembrava una volgarità. C'era già la guerra, ci mancava che aggiungessi anche questo. La mia Helga pensava che io credessi per davvero a tutte quelle cose imbecilli che dicevo alla radio, o alle feste. Non facevamo altro che andare alle feste. Eravamo una coppia molto popolare, allegra e piena di patriottismo. La gente diceva che noi la tiravamo su di morale, che le facevamo venir voglia di proseguire. Del resto Helga non passava mica tutto il tempo a trastullarsi. Dava spettacoli per i soldati, e spesso così vicino al fronte che si sentiva il rombo dei cannoni del nemico. Del nemico? Be', insomma a qualcuno appartenevano. Fu così che la persi. Stava facendo uno spettacolo per le truppe in Crimea, quando i russi si ripresero la penisola. La mia Helga fu data per morta; presumibilmente. Dopo la guerra pagai un mucchio di soldi a un'agenzia d'investigazioni di Berlino ovest per avere anche la più esile notizia sulla sua sorte. Risultato: zero. Ero disposto a pagare anche diecimila dollari - ma nessuno poté pretenderli - pur di avere qualche prova sicura che Helga fosse o viva o morta. Chiuso. La mia Helga pensava che io credessi per davvero le cose che dicevo sulle razze umane e sulle macchine della storia... e io gliene ero grato. Non importa cosa fossi in realtà, non importa quel che volessi veramente dire, un amore senza riserve era quello di cui avevo bisogno... e Helga era l'angelo che me lo offriva. In abbondanza. Nessun giovane sulla faccia della terra è così perfetto, sotto ogni punto di vista, da non aver bisogno di un amore senza riserve. Buon Dio... quando i giovani 34
diventano interpreti di tragedie politiche che mettono in scena milioni di personaggi, un amore senza riserve è l'unico vero tesoro a cui possano aspirare. Das Reich der Zwei, lo stato di due persone... il suo territorio, un territorio che la mia Helga e io difendevamo tanto gelosamente, non si spingeva molto più in là dei confini del nostro grande letto a due piazze. Un paese piccolo, molleggiato, piatto, con qualche ciuffo d'erba, e la mia Helga e io per montagne. E poiché nella mia vita, all'infuori dell'amore non c'era altro che avesse qualche significato, che perfetto studente di geografia posso dire di essere stato! Che carta avrei potuto disegnare per un turista alto un micron, un men che microscopico Wandervogel che andasse a spasso in bicicletta tra un neo e un ricciolo biondo sull'uno o l'altro lato dell'ombelico della mia Helga! Se questa immagine è di cattivo gusto, Dio m'aiuti. Tutti quelli che vogliono preservarsi in buona salute mentale dovrebbero fare ogni tanto qualche giochetto. Io ho semplicemente descritto il nostro gioco, una versione per adulti di Occhietto bello, suo fratello. Oh, quanto eravamo uniti, la mia Helga e io... e con quanta disattenzione restavamo uniti. Non sentivamo neppure le nostre reciproche parole. Solo la melodia delle nostre voci. Le parole che avremmo dovuto ascoltare non avrebbero significato molto di più delle fusa o dei gorgoglii di due grossi gatti. Se avessimo cercato di sentire di più, di riflettere su quel che sentivamo, come ci saremmo nauseati presto l'uno dell'altra! Lontano dal territorio sovrano del nostro stato a due, parlavamo anche noi come tutti quei folli imbottiti di patriottismo che ci stavano attorno. Ma questo non contava. Una sola cosa contava... Il nostro stato a due. E quando questo stato non poté più essere, io diventai quel che sono oggi, e che continuerò a essere, un apolide. Non posso dire che non mi avessero avvertito. L'uomo che mi arruolò quel giorno di primavera di tanto tempo fa, nel Tiergarten... quell'uomo era stato piuttosto chiaro nel predirmi il futuro che m'aspettava.
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"Per far bene il suo lavoro," disse la mia fata turchina, "dovrà rendersi responsabile di alto tradimento, servendo fedelmente il nemico. E questo non potrà mai esserle perdonato, perché non esiste una procedura legale che contempli un caso del genere. "Tutto quel che si potrà fare per lei," disse, "sarà di salvarle la vita. Ma per lei non verrà mai il magico momento in cui l'America la chiamerà fuori dal nascondiglio con un allegro: 'Fuori tutti!'."
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Residuati di guerra..
Mio padre e mia madre morirono. Alcuni dicono di crepacuore. A ogni modo morirono entrambi sui sessantacinque anni, quando i cuori si crepano facilmente. Non vissero abbastanza per vedere la fine della guerra, e così non poterono più nemmeno riabbracciare il loro sorridente figliolo. Non mi diseredarono, anche se dovettero sentire tutta l'amara tentazione di farlo. Lasciarono in eredità a Howard W. Campbell, jr., il famigerato antisemita, voltabandiera e divo della radio, azioni, terreni, contanti e proprietà personali che, nel 1945, l'anno dell'omologazione del testamento, ammontavano a quarantottomila dollari. Gli interessi e l'inflazione pensarono a moltiplicare il gruzzolo che oggi vale quattro volte tanto, e mi frutta settemila dollari all'anno, assolutamente non sudati. Dite quel che volete sul mio conto, ma non ho mai intaccato il capitale. Durante gli anni subito dopo la guerra, quando me ne stavo rinchiuso come uno scarafaggio, al Greenwich Village campavo con quattro dollari al giorno, compreso l'affitto, e avevo perfino la televisione. Anche i miei mobili, come me, erano dei residuati di guerra... una stretta rete metallica su cui dormire, coperte militari con su stampato
USA
e delle seggiole
pieghevoli, da campo. Per cucinare e mangiare adoperavo gamelle militari. Perfino la mia biblioteca era un residuato di guerra, cioè ricavata in gran parte da cassette di materiale ricreativo destinato alle truppe d'oltremare. E poiché in queste cassette inutilizzate c'erano anche dei dischi, mi procurai un giradischi residuato, portatile e impermeabile, di cui si garantiva il funzionamento in ogni sorta di clima, dallo stretto di Bering al mare d'Arafura. Siccome queste cassette di materiale ricreativo erano regolarmente sigillate e bisognava comperarle a occhi chiusi, entrai in possesso di ventisei incisioni di Bianco Natale cantato da Bing Crosby. Cappotto, impermeabile, giacca, calze e biancheria, erano anch'essi residuati di guerra. 37
Acquistando una cassetta residuata di pronto soccorso del valore di un dollaro, entrai anche in possesso di una certa quantità di morfina. Le iene che s'erano messe in affari vendendo residuati di guerra erano così sazie di carogne che non se ne accorsero nemmeno. Fui tentato di prendere la morfina, pensando che se m'avesse procurato qualche momento di felicità, avrei pur sempre avuto abbastanza denaro per soddisfare le esigenze dell'assuefazione. Ma poi mi resi conto di essere già drogato. Non sentivo alcun dolore. D mio narcotico era tutto quel che m'era piovuto addosso durante la guerra; era la capacità di fare in modo che la mia quiete emotiva fosse turbata da una sola cosa: il mio amore per Helga. Questa concentrazione di emozioni su un'area così limitata dapprima era soltanto la felice illusione di un giovane amante, poi, durante la guerra, si era trasformata in un sistema per proteggermi dalla follia, e ora era divenuta l'asse permanente intorno a cui ruotavano i miei pensieri. E così, con la mia Helga presumibilmente morta, diventai un adoratore della morte, soddisfatto come un bigotto di qualsiasi altra religione. Sempre solo, bevevo alla sua salute, le dicevo buon giorno, le auguravo buona notte, suonavo un po' di musica per lei, e non mi importava assolutamente niente di tutto il resto. E poi un giorno nel 1958, dopo tredici anni che vivevo in questo modo, comprai una cassetta residuata di strumenti per intagliare il legno. Non era un residuato della Seconda guerra mondiale, ma di quella in Corea. La pagai tre dollari. La portai a casa, cominciai a intarsiare, senza uno scopo preciso, il manico della scopa. E tutto a un tratto mi venne in mente di fare degli scacchi. Dico tutto a un tratto perché ero veramente sorpreso di scoprire che avevo ancora addosso dell'entusiasmo. Ero così entusiasta che continuai a intarsiare per dodici ore filate, e almeno una dozzina di volte m'infilai quegli strumenti aguzzi nel palmo della mano sinistra. Eppure non volevo saperne di smettere. Quando finii ero esultante e insanguinato come un macellaio. Come frutto delle mie fatiche potevo mostrare due magnifiche squadre di scacchi. E ancora mi sentii invadere da un altro strano impulso. Sentii la necessità di far vedere a qualcuno, che ancora avesse contatti con il mondo dei vivi, il bellissimo lavoro che avevo fatto. 38
Sicché, reso tracotante sia dalla mia capacità di creare sia da quel che avevo bevuto, andai dabbasso e pestai sulla porta del mio vicino, senza nemmeno sapere chi fosse. Il mio vicino era un vecchio furbo che rispondeva al nome di George Kraft. Ma questo era uno soltanto dei suoi nomi. Il vero nome del vecchio era colonnello Iona Potapov. Questo decrepito figlio d'un cane era una spia russa che operava in America fin dal 1935. Io non lo sapevo. E nemmeno lui sapeva, all'inizio, chi fossi io. Il nostro incontro fu veramente un colpo di fortuna. Niente macchinazioni, dunque, da principio. Fui io che bussai alla sua porta, io che irruppi nella sua intimità. E se non avessi intagliato quegli scacchi non ci saremmo mai incontrati. Kraft, lo chiamerò sempre così d'ora in poi perché è con questo nome che penso a lui, teneva sulla porta d'entrata tre o quattro serrature. Lo convinsi ad aprirmi chiedendogli se giocasse a scacchi. Ancora un altro colpo cieco di fortuna. Per nient'altro al mondo mi avrebbe aperto. Tra parentesi, la gente che mi aiuta oggi nelle ricerche mi dice che il nome di Iona Potapov era ben noto tra i giocatori di scacchi europei negli anni dopo il '30. Infatti a Rotterdam, nel 1931, riuscì perfino a battere il grande maestro Tartakover. Quando mi aprì, vidi subito che era un pittore. Al centro del soggiorno c'era un cavalletto con sopra una tela appena finita, e a ogni parete erano appesi altri suoi quadri, meravigliosi. Quando parlo di Kraft, alias Potapov, mi sento molto meglio di quando parlo di Wirtanen, alias diosachi. Wirtanen ha lasciato dietro di sé una traccia non più larga di un bruco che attraversi un tavolo da bigliardo. Le impronte di Kraft sono invece dappertutto. Mi dicono che, proprio di questi tempi, a New York, i quadri di Kraft si vendono a diecimila dollari l'uno. Ho a portata di mano un ritaglio del "New York Herald Tribune" del 3 marzo, circa due settimane fa, in cui un critico parla di Kraft, pittore, in questi termini: Ecco
finalmente
un
capace
e
devoto
erede
dell'inventiva
fantastica
e
dello
sperimentalismo pittorico degli ultimi cento anni. Si dice che Aristotele sia stato l'ultimo uomo in grado di capire tutta intera la cultura del suo tempo. George Kraft è certamente
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il primo uomo che capisca tutta intera l'arte moderna... che la capisca fin nel midollo delle ossa. Con incredibile grazia e fermezza egli riunisce le intuizioni di una dozzina di scuole pittoriche in contrasto, passate e presenti. Egli ci esalta e ci umilia con le sue armonie, e sembra volerci dire: Se volete un altro Rinascimento, i risultati di una pittura che sappia esprimerne il suo vero spirito non potranno essere diversi da così. George Kraft, alias Iona Potapov, è stato messo in condizione di poter continuare la sua superba carriera artistica nel penitenziario federale di Fort Leavenworth. Tutti, e insieme a noi senza dubbio lo stesso Kraft-Potapov, possiamo ben pensare come questa sua carriera sarebbe stata inevitabilmente soffocata in qualche lontana prigione del suo paese natio, la Russia.
Bene... quando Kraft mi aprì la porta, capii subito che i suoi quadri erano buoni. Non sapevo che lo fossero fino a questo punto. E sospetto che l'articolo di cui sopra sia stato scritto da qualche pederasta con un po' troppi Alexander in pancia. "Non sapevo che ci fosse un pittore sotto di me," dissi a Kraft. "Forse non c'è veramente," disse. "I suoi quadri sono stupendi!" dissi. "Dove espone?" "Non ho mai esposto," disse. "Guadagnerebbe una fortuna se lo facesse." "Lei è molto gentile a dirmi queste cose," disse, "ma ho cominciato a dipingere troppo tardi." Poi mi raccontò quella che avrebbe dovuto essere la storia della sua vita, ma era tutta falsa. Disse che era un vedovo di Indianapolis. Da giovane, disse, voleva diventare un artista, ma aveva finito per occuparsi di affari... vernici e carte da parati. "Mia moglie è morta due anni fa," disse e riuscì a inumidirsi, tutt'intorno, gli occhi. Aveva una moglie, d'accordo, ma non era sepolta a Indianapolis. Sua moglie stava più bene che mai a Borisoglebsk. E lui non la vedeva da venticinque anni. "Quando morì," disse, "mi sembrò che il mio spirito potesse decidere solamente tra due alternative... suicidio o i sogni che avevo fatto in gioventù. Così adesso sono un vecchio pazzo che vive di sogni presi in prestito a un pazzo giovane. Mi comperai un po' di tela, un po' di colore, e mi stabilii al Greenwich Village." "Niente figli?" dissi. 40
"No," disse con tristezza. La verità è che aveva tre figli e nove nipoti. Il suo figliolo più grande, Ilya, è un celebre esperto di missili. "L'unico parente che abbia in questo mondo è l'arte," disse, "e io sono il parente più povero che l'arte abbia mai avuto." Non voleva dire che non aveva soldi ma solo che era un cattivo pittore. Aveva un sacco di soldi, mi disse. Aveva venduto la sua fabbrica a Indianapolis, per un prezzo molto buono, disse. "Scacchi..." disse, "ha detto qualcosa a proposito degli scacchi?" Tenevo gli scacchi che avevo tagliuzzato in una scatola per scarpe. Glieli mostrai. "Li ho appena fatti," dissi, "e adesso m ’ è venuta una smania tremenda di giocarci." "Lei gioca piuttosto bene agli scacchi e ne è orgoglioso, non è vero?" disse. "È un bel pezzo che non gioco," dissi. A scacchi, in pratica, giocavo soltanto con Werner Noth, mio suocero, il capo della polizia di Berlino. Di solito riuscivo a batterlo... la domenica pomeriggio quando la mia Helga e io andavamo a trovarlo. L'unico torneo a cui presi parte fu una gara interna per i dipendenti del ministero per la Cultura popolare e la Propaganda. Terminai undicesimo, su sessantacinque concorrenti. A ping-pong andavo molto meglio. Fui campione di ping-pong del ministero per quattro anni consecutivi, nel singolare e anche nel doppio. Giocavo in coppia con Heinz Schildknecht, esperto diffusore di propaganda tra gli australiani e neozelandesi. Una volta Heinz e io battemmo una coppia formata dal Reichsleiter Goebbels e dall'Oberdiensleiter Karl Hederich. Li mettemmo in ginocchio: 21-2, 21-1,11-0. La storia e lo sport procedono spesso tenendosi per mano. Kraft aveva una scacchiera. Ci disponemmo sopra i miei scacchi e cominciammo a giocare. Le pareti spesse, setolose, grigioverdi del bozzolo che mi ero costruito cominciarono a sfilacciarsi, e a lasciar trapelare un po' di luce. Mi appassionai al gioco e riuscii anche a immaginare qualche mossa abbastanza interessante perché il mio nuovo amico, pur battendomi con facilità, si divertisse anche lui. Dopo quella volta, Kraft e io cominciammo a giocare almeno tre volte al giorno, tutti i giorni per un anno intero. E si stabilì tra noi una specie di patetica 41
intimità, di cui tutti e due sentivamo il bisogno. Cominciammo di nuovo ad apprezzare la tavola, e dividevamo sempre tra di noi i prodotti che andavamo scoprendo nelle varie salsamenterie. Quando venne la stagione delle fragole, mi ricordo che Kraft e io gridammo di gioia come se fosse tornato Gesù Cristo. Particolarmente toccante era la situazione che si venne a creare tra di noi in materia di vini. Kraft se ne intendeva molto più di me, e spesso portava a casa qualche tesoro avvolto in ragnatele, particolarmente indicato per un certo piatto. Ma, benché Kraft se ne tenesse sempre davanti un bicchiere pieno, il vino era tutto per me. Kraft era alcolizzato. Non riusciva a mandarne giù nemmeno un goccio senza buttarsi a corpo morto in una sbronza che avrebbe potuto durare anche un mese. Di tutto quel che mi disse di se stesso, questo almeno era vero. Faceva parte dell'Anonima Alcolisti ormai da sedici anni. Pur sfruttando le riunioni della
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come luoghi d'appuntamento per la sua attività spionistica, il suo desiderio di attingere a quel che tali riunioni offrivano spiritualmente era genuino. Una volta mi disse, in tutta sincerità, che l'invenzione della
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era il più grande contributo
dell'America alla civiltà, un contributo che sarebbe stato ricordato a distanza di migliaia di anni. Era normale che uno schizofrenico come lui sfruttasse un istituto che tanto ammirava per scopi spionistici. Era normale che una spia schizofrenica come lui diventasse per me un vero amico, e che in seguito cercasse il modo di incrudelire contro di me, pur di far progredire la causa della Russia.
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Strani avvenimenti nella mia cassetta della posta…
Per un po' non dissi a Kraft chi fossi veramente e che cosa avessi fatto. Ma la nostra amicizia diventava sempre più profonda, e così alla svelta, che gli confessai ben presto tutto. "Che ingiustizia!" disse. "Mi fa vergognare di essere americano! Perché mai il governo si rifiuta di farsi avanti e dire: 'Ecco qua, l'uomo su cui fino a oggi avete sputato, è un eroe!'." Era indignato, e a quel che mi risulta, la sua indignazione era sincera. "Nessuno sputa su di me," dissi. "Non sanno nemmeno se sono ancora al mondo." Volle vedere a tutti i costi i miei lavori teatrali. Quando' gli dissi che non ne avevo più neanche una copia, insisté perché glieli descrivessi, scena per scena... e addirittura me li fece recitare. Disse di trovarli meravigliosi. Forse era sincero. Non so. A me sembravano insulsi, ma non è escluso che a lui piacessero davvero. Quel che più lo eccitava era l'idea dell'arte, e non quel che ne avevo ricavato. "L'arte, l'arte, l'arte..." mi disse una sera. "Non capisco come mai mi ci sia voluto tutto questo tempo per capire quanto sia importante. Quand'ero giovane, infatti, non facevo che disprezzarla con tutta l'anima. Adesso, tutte le volte che penso all'arte, mi vien voglia di mettermi in ginocchio e di piangere." L'autunno stava per finire. Era di nuovo la stagione delle ostriche, e noi stavamo godendocene una bella dozzina per ciascuno. Conoscevo Kraft da un anno circa. "Howard..." mi disse, "le civiltà future - civiltà migliori della nostra giudicheranno tutti gli uomini a seconda della sensibilità che avranno avuto nei riguardi dell'arte. Tu e io, se qualche futuro archeologo scoprirà i nostri lavori miracolosamente conservati in qualche deposito d'immondizie, saremo giudicati in base alla qualità delle nostre creazioni. Nient'altro delle nostre vite conterà." "Uhm," dissi. "Devi ricominciare a scrivere, "disse. "Così come le margherite rispuntano e sono ancora margherite, e le rose sbocciano e sono ancora rose... anche tu devi risbocciare come scrittore e io come pittore. Tutto il resto non ci riguarda, non è interessante." 43
"I morti, di solito, non scrivono molto bene," dissi. "Tu non sei morto!" disse. "Sei pieno di idee. Puoi parlare per ore e ore, difilato." "Sciocchezze," dissi. "Niente affatto," disse scaldandosi. "Tutto quel che ti manca per ricominciare a scrivere, a scrivere meglio di quanto hai fatto finora, è una donna." "Una cosa?" dissi. "Una donna," disse. "Ma cosa ti salta in mente..." dissi, "ti fanno quest'effetto le ostriche? Se te ne procuri una tu, me la procuro anch'io," dissi. "Che ne dici?" "Io sono troppo vecchio perché una donna possa giovarmi in qualche modo," disse, "ma per te è diverso." Ancora una volta, nel tentativo di separare il vero dal falso, devo dichiarare che era effettivamente convinto di quel che diceva. Desiderava veramente che io ricominciassi a scrivere, e pensava in tutta onestà che una donna avrebbe potuto fare il miracolo. "Sarei quasi disposto a umiliarmi fino a tentare ancora di essere ancora uomo per una donna," disse, "se fossi disposto anche tu a prendertene una." "Ne ho già una," dissi. "L'avevi una volta," disse. "C'è una bella differenza." "Non voglio parlarne," dissi. "Ma io ne parlerò ugualmente," disse. "D'accordo, ma lo farai da solo," dissi alzandomi da tavola. "Divertiti pure a fare il paraninfo. Io scendo a vedere che cosa m'ha portato di buono la posta, oggi." Ero irritato e scesi le scale fino alla cassetta della posta, solo per scrollarmi di dosso l'irritazione. Della posta non m'importava nulla. Certe volte lasciavo passare anche delle settimane senza controllare se ne fosse arrivata. Nella mia cassetta non giungevano altro che assegni per la liquidazione dei dividendi, avvisi delle riunioni degli azionisti, cartacce varie indirizzate all'intestatario della cassetta e volantini pubblicitari per libri o materiale definito utile nel campo dell'insegnamento. Come mai ricevevo questa pubblicità di materiale didattico? Una volta avevo fatto domanda per insegnare il tedesco in una scuola privata di New York. Doveva essere il 1950, più o meno.
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Non
ottenni il posto, e nemmeno
lo
volevo. Feci la
domanda, credo,
semplicemente per dimostrare a me stesso che, in fondo, esistevo ancora. Nella domanda raccontai, ovviamente, un sacco di falsità; era un tale intrico di menzogne che la scuola non si prese nemmeno la briga di dirmi che era inaccettabile. Ma sia come sia, il mio nome riuscì a infilarsi in una lista di persone che si supponeva fossero insegnanti e da quel momento i volantini non la smisero più di volare fino a casa mia. Aprii la cassetta ed estrassi la posta che si era accumulata negli ultimi tre o quattro giorni. C'era un assegno dalla Coca-Cola, un avviso di riunione di tutti gli azionisti della General Motors, una richiesta della Standard Oil del New Jersey che approvassi il piano dei dirigenti della società per un allargamento opzionale del pacchetto azionario, e un dépliant pubblicitario concernente un aggeggio camuffato da libro di testo, del peso di quattro chili. Lo scopo del peso era quello di dare in mano ai bambini qualcosa con cui fare un po' di ginnastica tra una lezione e l'altra. Il dépliant faceva presente che la complessione fisica dei bambini americani era inferiore a quella dei bambini di quasi tutto il mondo. Ma il dépliant per questo strano peso non era la cosa più strana che trovai nella cassetta della posta. C'erano dentro cose molto ma molto più strane. Una veniva dalla sezione Francis X. Donovan della Associazione ex combattenti di Brookline, Massachusetts: una lettera contenuta in una busta di formato regolare. Un'altra era un giornaletto arrotolato e imbucato alla Grand Central Station. Aprii per prima cosa il giornale. Era "The White Christian Minuteman"7, un fogliaccio antisemita, antinegro, anticattolico, traboccante di odio, e perfino sgrammaticato, pubblicato dal reverendo dottor Lionel J.D. Jones, odontoiatra. La corte suprema ci vuole tutti bastardi! diceva il titolo più grande. Dopo questo il titolo che spiccava di più diceva: La Croce Rossa dà ai bianchi sangue negro! Titoli che del resto non mi facevano grande impressione. Erano pressappoco le stesse cose che avevo detto per sbarcare il lunario in Germania. Anche più affine 7
"Il Minuteman Bianco e Cristiano". Si chiamavano minutemen i cittadini americani disposti a
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allo spirito del vecchio Howard W. Campbell, jr., era tuttavia il titolo di un articoletto in un angolo della prima pagina. Diceva: Il giudaismo internazionale unico vincitore della Seconda guerra mondiale. Aprii quindi la lettera dell'Associazione ex combattenti. Diceva: Caro Howard, la notizia che lei non è ancora morto mi ha profondamente sorpreso e deluso. Quando penso a tutta la brava gente che è morta nella Seconda guerra mondiale, e poi penso che lei è ancora vivo e addirittura abita nel paese che ha tradito, mi vien voglia di vomitare. Sarà felice di apprendere che ieri sera qui in sezione abbiamo deciso all'unanimità di richiedere che lei venga o impiccato oppure deportato in Germania, nel paese cioè che lei ama tanto. Ora che so dove abita verrò a farle visita molto presto. Sarà piacevole riparlare dei vecchi tempi. Stasera, quando andrà a letto, vecchia fetida carogna, le auguro di sognare il campo di concentramento di Ohrdruf. Avrei dovuto spingerla in quella fossa comune quando ne ebbi l'occasione. Con tutta sincerità, suo Bernard B. O'Hare Presidente della sezione locale
Copie per conoscenza a: J. Edgar Hoover, FBI, Washington, D.C. Direttore della Central Intelligence Agency, Washington, D.C. Direttore di "Time", New York Direttore di "Newsweek", New York Direttore di "Infantry Journal", Washington, D.C. Direttore di "The Legion Magazine", Indianapolis, Indiana Capo investigatore del comitato per le attività antiamericane, Washington, D.C. Direttore di "The White Christian Minuteman", 395 Bleeker Street, New York Bernard B. O'Hare, naturalmente, era lo stesso giovanotto che mi aveva fatto prigioniero alla fine della guerra, lo stesso che mi aveva fatto saltellare come una rana per il campo di sterminio di Ohrdruf, e ancora lo stesso che era stato immortalato insieme a me in una foto apparsa sulla copertina di "Life". Non riuscivo a spiegarmi come avesse fatto a scoprire il mio nascondiglio. presentarsi alle armi (guerra d'indipendenza) "con un solo minuto di preavviso".
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Sfogliai il "White Christian Minuteman" e mi resi conto che O'Hare non era l'unica persona che avesse riscoperto Howard W Campbell, jr. A pagina tre del "Minuteman", sotto lo scarno titolo di Tragedia americana si leggeva questo trafiletto: Howard W. Campbell, jr., un grande scrittore e uno dei più audaci patrioti che la storia americana possa vantare, vive oggi in povertà e solitudine in un attico al n. 27 di Bethune Street. Questo è il destino di uomini di pensiero abbastanza coraggiosi per dire apertamente la verità sulla congiura dei banchieri ebrei e dei comunisti ebrei di tutto il mondo che non si daranno pace finché il sistema circolatorio di ogni americano non sarà definitivamente inquinato con sangue negro e/o orientale.
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Il reverendo dottor Lionel Jason David Jones, odontoiatra e teologo...
Devo ringraziare l'Istituto di Haifa per la documentazione dei crimini di guerra, che mi ha fornito il materiale di consultazione, se oggi mi è possibile includere, in questo resoconto, una biografia del dottor Jones, direttore del "White Christian Minuteman". Sul conto di Jones, benché non sia soggetto a nessuna persecuzione come criminale di guerra, esiste un dossier piuttosto ben fornito. Sfogliando quel museo, quella banca di ricordi, ho trovato valide testimonianze di quanto segue. Il reverendo dottor Lionel Jason David Jones, odontoiatra e teologo, nacque a Haverhill, Massachusetts, nel 1889, e fu educato nella religione metodista. Era il figlio più giovane di un dentista, nipote di due dentisti, fratello di due dentisti, e cognato di tre dentisti. E anche lui fu avviato alla carriera del dentista, ma venne espulso dall'Istituto odontoiatrico dell'Università di Pittsburgh nel 1910, a causa di quel che oggi verrebbe molto probabilmente diagnosticato come paranoia. Allora fu allontanato invece semplicemente per scarso rendimento scolastico. La sindrome della sua deficienza di rendimento era tutt'altro che semplice. Le tesi che presentò all'esame erano molto probabilmente i saggi più lunghi che siano stati scritti in tutta la storia dell'insegnamento odontoiatrico, e, altrettanto probabilmente, anche i più inutili. Cominciavano, abbastanza ragionevolmente, parlando dell'argomento che il candidato doveva discutere. Ma poi, qualunque fosse
quest'argomento,
Jones
riusciva
sempre
a
svincolarsene
e
finiva
invariabilmente col proporre una sua teoria, tutta particolare... cioè che i denti degli ebrei e dei negri provavano al di là di ogni dubbio che questi due gruppi etnici erano entrambi corrotti. Il suo lavoro dentistico era però di fattura eccellente, per cui il corpo accademico sperò che un giorno o l'altro Jones riuscisse a superare questa interpretazione politica dei denti. La cosa invece peggiorò, finché i suoi scritti non divennero veri e propri opuscoli stilati da un invasato che invitava tutti gli anglosassoni protestanti a unirsi contro la dominazione degli ebrei e dei negri. 48
Quando Jones cominciò a scoprire prove di degenerazione nei denti dei cattolici e degli unitariani, e quando gli si trovarono cinque pistole cariche e una baionetta sotto il materasso, si decise finalmente che bisognava buttarlo fuori. I genitori di Jones lo diseredarono, cosa cui i miei non giunsero mai. Senza un soldo in tasca, Jones trovò lavoro come apprendista imbalsamatore nella compagnia di pompe funebri Scharff Brothers, di Pittsburgh. Nel giro di due anni ne divenne il direttore. Dopo un altr'anno sposò la proprietaria Hattie Scharff, una vedova. Allora Hattie aveva cinquantotto anni e Jones ventiquattro. I molti investigatori che hanno frugato nella vita di Jones, quasi tutti tutt'altro che ben intenzionati nei suoi riguardi, sono stati costretti a concludere che Jones amò veramente la sua Hattie. Il matrimonio che durò fino alla morte di Hattie, nel 1928, fu felice. In effetti fu uno stato a due così felice, così compatto, così autosufficiente che durante questo periodo Jones non fece quasi nulla per proteggere la stirpe anglosassone. Sembra addirittura che si sia accontentato di limitare i suoi commenti in materia di faccende razziali a qualche dileggio che si concedeva con i cadaveri che gli arrivavano in laboratorio, dileggio che, tra l'altro, pare sia una pratica usuale anche negli stabilimenti d'imbalsamazione più liberali. Erano anni d'oro, non solo affettivamente e finanziariamente, ma anche dal punto di vista dell'inventiva. Lavorando con un chimico che risponde al nome di Lomar Horthy, Jones inventò la Viverina, un fluido per imbalsamare, e il Gengi-va-Vit, una meravigliosa sostanza simile alla gomma da usarsi nella fabbricazione di denti falsi, che a stento si sarebbero potuti riconoscere da quelli naturali. Dopo la morte della moglie, Jones sentì un gran desiderio di rinascere. E nella sua rinascita trovarono sfogo quelle tendenze del suo spirito che fino ad allora aveva inconsciamente soffocato. Jones divenne quel tipo di agitatore razziale che, come si dice, sbuca fuori tutta un tratto dal nulla. Jones sbucò fuori dal suo nulla nel 1928. Vendette l'impresa di pompe funebri per ottantaquattromila dollari e fondò il "White Christian Minuteman". Jones dovette soccombere al crollo di borsa del 1929. Il suo giornale sospese la pubblicazione dopo quattordici numeri. I quattordici numeri erano stati inviati gratuitamente a tutte le persone che si trovano sul Who's Who. Le uniche illustrazioni erano fotografie o diagrammi di denti e gli articoli erano tutti delle 49
interpretazioni di qualche avvenimento in base alle teorie di Jones sulla dentizione delle razze. Nello stelloncino del direttore responsabile dell'ultimo numero Jones si autodefinì come "Dr. Lionel J.D. Jones, odontoiatra". Di nuovo senza un soldo, a quarant’anni, Jones rispose a un'inserzione apparsa su di una rivista professionale dell'industria funeraria. Cercavano un direttore per una scuola d'imbalsamazione a Little Rock, Arkansas. La richiesta era firmata dalla vedova del precedente direttore e proprietario della scuola. Jones ottenne il posto e anche la vedova. La vedova si chiamava Mary Alice Shoup. Quando Jones la sposò aveva sessantotto anni. E Jones divenne nuovamente un marito devoto, un uomo solido, felice e tranquillo. La scuola di cui era capo si chiamava, senza tante complicazioni, Scuola d'imbalsamazione di Little Rock e perdeva ogni anno ottomila dollari. Jones decise che non poteva più allignare nelle sfere troppo alte dell'insegnamento imbalsamatorio, e ve la tolse; vendette i terreni che ne facevano parte, e dette un nuovo ordinamento all'istituto che si chiamò da allora Università teologica dell'emisfero occidentale. L'università non teneva lezioni, non insegnava niente, sbrigava tutti i suoi affari per corrispondenza. Affari che consistevano nel conferire lauree in teologia, complete di vetro e cornice, per soli ottanta dollari al titolo. Jones si conferì naturalmente una laurea della predetta università, prelevando liberamente dalle scorte, per così dire. Quando gli morì anche la seconda moglie, e lui riprese a stampare il "White Christian Minuteman", nello stelloncino del direttore apparve questa scritta: "Reverendo Dr. Lionel J.D. Jones, odontoiatra e teologo". E scrisse e pubblicò a proprie spese un libro in cui si combinavano non solo l'odontoiatria e la teologia, ma anche le arti figurative. Il titolo del libro: Cristo non era ebreo. Dimostrava il suo assunto riproducendo nel testo una cinquantina di quadri famosi con Gesù come soggetto. Stando a Jones neanche uno di quei quadri mostrava un Gesù con mascella e denti ebraici. I primi numeri della nuova serie del "White Christian Minuteman" erano altrettanto illeggibili quanto quelli della vecchia serie. Ma poi avvenne un 50
miracolo. Il "Minute-man" passò da quattro pagine a otto. La composizione, la disposizione tipografica, la carta, tutto diventò agile e ben presentabile. I diagrammi dei denti furono sostituiti da fotografie di grande attualità, e le pagine si riempirono di informazioni e di servizi da tutto il mondo. La spiegazione era semplice... e ovvia. Jones era stato reclutato come agente propagandistico del terzo Reich che si andava allora consolidando nelle mani di Hitler. Le notizie di Jones, le fotografie, le vignette, uscivano direttamente dalla fucina della propaganda nazista, a Erfurt, in Germania. È molto probabile, tra l'altro, che gran parte di quel materiale ripugnante l'abbia scritto io. Jones continuò la sua attività di agente della propaganda tedesca anche dopo che gli Stati Uniti entrarono nella Seconda guerra mondiale. Non venne arrestato fino al luglio del 1942, quando insieme ad altre ventisette persone fu accusato di: Aver cospirato per distruggere il morale, la fede e la fiducia dei membri delle forze armate e della marina degli Stati Uniti, e di aver minato la fiducia che i cittadini degli Stati Uniti ponevano nei loro pubblici ufficiali e nella forma di governo repubblicano; di aver cospirato per impadronirsi e fare uso illegittimo della libertà di parola e di stampa, al fine di diffondere dottrine sleali, secondo le quali una nazione che permetta ai suoi cittadini di esercitare il diritto di libertà di parola sarebbe incapace di difendersi dai nemici mascherati da patrioti; e di aver tentato di ostacolare, intralciare, spezzare, distruggere il giusto funzionamento della sua forma di governo repubblicana, fingendo di criticarne onestamente le istituzioni; di aver cospirato per privare il governo degli Stati Uniti della fede e della fiducia dei membri delle forze armate e della marina, e dei cittadini, e pertanto di mettere il governo in condizioni di non poter difendere la nazione o i cittadini da attacchi armati dall'estero, o dal tradimento di gruppi interni.
Jones fu condannato. A quattordici anni; ne scontò otto. Quando fu liberato, ad Atlanta nel 1950, poteva dirsi un uomo ricco. La Viverina, il suo liquido per imbalsamare, e i l Gengiva-Vit, la sostanza gommosa per la fabbricazione di denti artificiali, dominavano da tempo i loro rispettivi mercati. Nel 1955 riprese a pubblicare il "White Christian Minuteman".
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Cinque anni dopo, un ricco signore di settantun anni, un vecchietto arzillo senza rimpianti, il reverendo dottor Lionel J.D. Jones, odontoiatra e teologo, venne a farmi visita. Perché mai gli ho concesso l'onore di una biografia in piena regola? Per mettere in risalto la differenza esistente tra me e un razzista ignorante e pazzo. Io non sono né ignorante né pazzo. Gli ordini che eseguii in Germania mi venivano dettati ila individui altrettanto pazzi e ignoranti quanto il dottor Jones. E io lo sapevo. Dio mi perdoni, se seguii ugualmente le loro istruzioni.
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Dall'alto delle scale…
Una settimana dopo la scoperta di quanto fosse divenuto imbarazzante il contenuto della mia cassetta delle lettere, Jones venne a trovarmi. Fui però io a cercare di vederlo per primo. Pubblicava il suo squallido giornale a pochi isolati di distanza dal mio attico: mi recai da lui per pregarlo di ritrattare quel che aveva scritto sul mio conto. Non lo trovai. Quando tornai a casa, la mia cassetta rigurgitava di lettere, scrittemi quasi tutte da abbonati al "White Christian Minuteman". Il ritornello comune era che non dovevo considerarmi solo, che non ero senza amici. Una donna di Mount Vernon, poco fuori di New York, mi assicurava che in paradiso avevano preparato un trono tutto per me. Un tale di Norfolk riconosceva in me il nuovo Patrick Henry 8. Un'altra donna, di St. Paul, mi mandò due dollari perché potessi continuare la mia opera. Si scusava. Diceva che era tutto il denaro di cui disponeva. Un uomo di Bartlesville, nell'Oklahoma, mi chiedeva cosa aspettassi a lasciare Jew 9 York e andare a vivere nel paese di Dio. Non riuscivo a capire come mai Jones fosse riuscito a scovarmi. Anche Kraft sosteneva la parte di chi non ci capisce nulla. Invece capiva. Era stato lui a scrivere a Jones sotto le vesti di un anonimo compatriota, e gli aveva comunicato la felice notizia che io ero ancora vivo. Aveva anche espresso il desiderio che Jones mandasse una copia omaggio del suo grande giornale a Bernard B. O'Hare della sezione Francis X. Donovan dell'Associazione americana ex combattenti. Kraft pensava al mio futuro. E proprio a quell'epoca stava facendomi un ritratto che, senza dubbio, rivelava una capacità di comprensione e una disponibilità affettiva molto più profonda di quanto sarebbe mai riuscito a emanare il semplice desiderio di far fesso un imbecille.
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Statista americano del Settecento che disse una volta: "Datemi la libertà o la morte". Jew = ebreo.
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Quando Jones si fece vivo stavo posando per il ritratto. Kraft aveva appena rovesciato una boccetta di trementina e avevo aperto la porta per disperdere più alla svelta le esalazioni. Dalle scale e fin dentro la stanza giungeva una specie di strana salmodia. Mi affacciai sul pianerottolo davanti alla porta e guardai, di sotto, la chiocciola di legno di quercia e intonaco che correva lungo il vano delle scale. Riuscii a scorgere soltanto le mani di quattro persone... mani che salivano appoggiandosi alla ringhiera. Il gruppo era composto da Jones e da tre amici suoi. Le mani si muovevano in cadenza con la bizzarra salmodia. Percorrevano circa dodici centimetri di ringhiera, si fermavano, e cedevano il passo alla musica. La salmodia era una semplice conta fino a venti, col fiato mozzo. Due del gruppo di Jones, la sua guardia del corpo e il segretario, soffrivano di cuore. Per impedire che i loro poveri e vecchi ventricoli scoppiassero, dovevano fermarsi ogni due o tre gradini e misurare la pausa contando fino a venti. La guardia del corpo di Jones si chiamava August Krapptauer10, ex vice Bundesführer del Bund tedescoamericano. Krapptauer aveva sessantatré anni, di cui dodici scontati ad Atlanta, e pareva che dovesse tirare le cuoia da un momento all'altro. Pure aveva un aspetto sgargiante, da ragazzino, come uno che si faccia abitualmente truccare da un estetista delle pompe funebri. Il più grande successo della sua vita era stata l'organizzazione di un'assemblea congiunta del Bund e del Ku Klux Klan; in New Jersey, nel 1940. In quell'occasione Krapptauer dichiarò che il papa era un ebreo e che gli ebrei possedevano un'ipoteca di quindici milioni di dollari sul Vaticano. L'elezione di nuovi papi e undici anni passati nella lavanderia di un penitenziario non erano bastati a fargli mutare opinione. Il segretario di Jones era un certo Patrick Keeley, un frate paulista sospeso a divinis. "Padre Keeley", come il suo principale si ostinava a chiamarlo, aveva settantatré anni. Era un alcolizzato. Prima della Seconda guerra mondiale era stato cappellano in un circolo di cacciatori di Detroit che, come si venne a scoprire, era organizzato da spie naziste. Il sogno degli iscritti, a quanto pare, era quello di sparare agli ebrei. Una delle preghiere lette da padre Keeley durante una riunione del circolo fu trascritta da un reporter e pubblicata per intero il giorno 10
Krapptauer suona come l'inglese crup tower la cui traduzione letterale è "torre di sterco".
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dopo. La preghiera si rivolgeva a un Dio così perfido e bigotto, che attrasse financo la sbigottita attenzione di Pio xi. Keeley fu sospeso a divinis e il papa mandò una lunga lettera al clero americano in cui, tra l'altro, diceva: "Nessun vero cattolico prenderà parte alla persecuzione contro i suoi connazionali ebrei. Perseguitare gli ebrei significa infierire contro tutta quanta l'umanità". Keeley non finì in galera, ci andarono invece molti dei suoi amici più cari. Così mentre questi ultimi poterono abitare in celle riscaldate, dormire tra lenzuola pulite e cibarsi regolarmente a spese del governo, Keeley dovette patire il freddo, il prurito e la fame, ubriacandosi come un dannato nei bassifondi di mezza America. E si sarebbe trovato lì anche adesso, o in una fossa comune al cimitero, se Jones e Krapptauer non l'avessero trovato e tratto in salvo. Tra parentesi, la famosa preghiera di Keeley era la parafrasi di una poesia satirica composta da me e affidata, qualche tempo prima, alle onde corte. E visto che mi trovo ad annotare i miei contributi alla letteratura di quegli anni, non sarà inopportuno aggiungere l'affermazione del vice Bundesführer Krapptauer secondo cui le faccende del papa e dell'ipoteca sul Vaticano erano anche quelle mie invenzioni. Ecco dunque questa gente che viene a trovarmi, salmodiando. "Uno, due, tre, quattro..." Per quanto lento fosse il loro procedere, il quarto membro del gruppo non riusciva a tenere il passo. Era una donna. Potevo scorgerne soltanto la mano, pallida e senza anello. La mano più avanzata era quella di Jones. Le sue dita luccicanti di anelli ricordavano quelle di un principe bizantino. Un inventario dei gioielli che le ricoprivano avrebbe tenuto conto di due fedi matrimoniali, uno zaffiro tagliato a stella regalatogli nel 1940 dalle madrine dell'Associazione dei Gentili militanti Paul Revere11, una svastica di diamante incastonata in un fondo di onice, regalatagli nel 1939 dal barone Manfred Freiherr von Killinger, console generale tedesco a San Francisco, e un'aquila americana di giada montata in argento, un prodotto dell'artigianato nipponico regalatogli da Robert Stirling Wilson. Wilson, noto come "il Führer di Harlem", era un negro che finì in galera nel 1942 come spia al servizio del Giappone. 11
Famoso patriota americano, fautore della guerra d'indipendenza contro l'Inghilterra.
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La mano ingioiellata di Jones si staccò dalla ringhiera. Jones saltellò indietro di qualche gradino verso la donna e le disse qualcosa che non riuscii ad afferrare. Poi riprese a salire, settuagenario ancora pieno di così formidabili energie. Ci trovammo dunque faccia a faccia. Sorrise mostrandomi una fila di nivei denti cesellati in Gengiva-Vit. "Campbell?" chiese, senza quasi aver bisogno di riprender fiato. "Sì," dissi. "Sono il dottor Jones. Ho una sorpresa per lei," disse. "Ho già ricevuto il suo giornale," dissi. "No... non si tratta del giornale," disse. "Una sorpresa più grossa." Ora, anche padre Keeley e il vice Bundesführer Krapptauer comparvero all'orizzonte, ansimando e bisbigliando a scatti per contare fino a venti. "Una sorpresa più grossa?" dissi, mentre mi accingevo a squadrarlo così selvaggiamente che non mi avrebbe mai più considerato uno della sua stessa razza. "La donna che ho portato con me..." disse. "Sì..." dissi. "È sua moglie," disse. "Mi sono messo in contatto con lei..." disse Jones, "e mi ha pregato di non anticiparle nulla. Ha insistito perché facessimo così: lei arriva, punto e basta." "Volevo rendermi conto da me se avrei trovato ancora posto nella tua vita," disse Helga. "Se non ce n'è, ti dirò semplicemente addio, scomparirò di nuovo e non ti darò mai più fastidio."
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La macchina del tempo…
Se la mano pallida e senza anelli che avevo visto sulla ringhiera era davvero quella della mia Helga, allora doveva essere la mano di una donna di quarantacinque anni. La mano di una donna di mezza età che era stata prigioniera dei russi per sedici anni... se era la mano di Helga. Era inconcepibile che la mia Helga fosse ancora avvenente e allegra. Se Helga era sopravvissuta all'attacco dei russi in Crimea, se era riuscita a sottrarsi a tutti quegli aggeggi di guerra che strisciano, esplodono, fischiano, ronzano, serpeggiano, rumoreggiano, rimbalzano, gracchiano, gli aggeggi che uccidono alla svelta, allora il suo destino avrebbe dovuto essere un male più lento, che uccide come la lebbra. Non era certo necessario che mi sforzassi per indovinare di quale condanna dovesse trattarsi. Non è una novità per nessuno, e viene regolarmente inflitta a tutte le donne cadute prigioniere sul fronte russo... fa parte dell'orrenda routine a cui si piegano tutte le nazioni perfettamente moderne, perfettamente scientifiche, perfettamente asessuate impegnate in una guerra perfettamente attuale. Se la mia Helga era scampata alla battaglia, quelli che l'avevano catturata dovevano certamente averla aggregata a una delle tante squadre di lavoro, dopo averla spinta innanzi per chissà quanta strada con la canna del fucile. Dovevano certamente averla ammassata in uno degli innumeri cumuli di maligni, grumosi, luridi stracci senza speranza di cui pullulava la Madre Russia... dovevano certamente aver ridotto la mia Helga in una spigolatrice di radici china su campi di gelo, in una sgombratrice di macerie, un essere con i piedi di piombo, con le dita sformate, un traino umano, senza nome, senza sesso, per carri cigolanti. "Mia moglie?" dissi a Jones. "Non le credo." "Le sarà abbastanza facile dimostrare che sono un bugiardo, se lo sono davvero," disse amabilmente. "Dia un'occhiata lei stesso." Scesi le scale con passo fermo e regolare. Ora vedevo bene la donna. Mi sorrise, alzando il mento per mostrarmi con franchezza i suoi lineamenti. Aveva i capelli bianchi come la neve. 57
A parte questo, era proprio la mia Helga: il tempo non l'aveva neppure toccata. A parte questo, era la stessa Helga flessuosa e ridente come il fiore che avevo conosciuto la prima notte di nozze.
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Una donna ben conservata…
Piangemmo come bambini, salimmo fino al mio appartamento quasi lottando l'uno con l'altra. Passando accanto a padre Keeley e al vice Bundesführer Krapptauer m'accorsi che Keeley stava piangendo. Krapptauer irrigidito sull'attenti rendeva omaggio alla famiglia anglosassone. Jones, qualche gradino più in su, era raggiante di soddisfazione per il miracolo che aveva operato, lì prese a sfregarsi con foga le dita inanellate. "Mia... mia moglie," dissi al vecchio amico Kraft, entrando in casa con la mia Helga. E Kraft, nel tentativo di trattenere le lacrime, con un morso fece in due pezzi il cannello della sua pipa di pannocchia. Piangere non pianse, ma ci arrivò molto vicino... e in tutta sincerità, io credo. Jones, Krapptauer e Keeley ci seguirono. "Com'è," dissi a Jones, "che è proprio lei a restituirmi mia moglie?" "Una fantastica coincidenza..." disse Jones. "Un giorno appresi la notizia che lei era ancora vivo. Un mese dopo vengo a sapere che anche sua moglie è viva. Una combinazione così non si può attribuirla che alla mano di Dio, no?" "Non so," dissi. "Il mio giornale viene letto anche nella Germania occidentale," disse Jones. "Uno degli abbonati ha saputo di voi e mi ha mandato un telegramma, chiedendomi se ero al corrente che sua moglie era da poco rientrata, come profuga, da Berlino ovest." "Ma perché non l'ha mandato a me, il telegramma?" dissi rivolgendomi a Helga. "Tesoro..." dissi in tedesco, "perché non mi hai telegrafato tu stessa?" "Eravamo divisi da così tanto tempo... mi avevi creduta morta così a lungo," disse in inglese, "che ero convinta che ti fossi rifatto una vita, che non ci fosse più posto per me, anzi lo speravo addirittura." "Nella mia vita non c’è posto che per te," dissi. "Nessun'altra riuscirebbe a riempirla." 59
"Quante cose abbiamo da dirci, da raccontarci..." disse appoggiandosi a me con tenerezza. La osservai meravigliato. Aveva la pelle morbida e bianca. Per essere una donna di quarantacinque anni era davvero ben conservata. Ma la storia di come aveva passato gli ultimi quindici anni della sua esistenza rendeva il suo stato di conservazione ancora più straordinario. Era stata catturata e violentata in Crimea, disse. Poi l'avevano chiusa in un carro merci e l'avevano spedita in Ucraina dove era stata aggregata a una squadra di lavoro. "Eravamo come dei ruderi che nemmeno si reggevano in piedi," disse, "infangate come tante scrofe. Quando la guerra finì, nessuno si prese la briga di comunicarcelo. La nostra era una tragedia permanente. Non eravamo nemmeno registrate da qualche parte. Ci trascinavamo tra villaggi in rovina, senza una meta. Chiunque avesse da fare qualche lavoro pesante, magari senza scopo, bastava che ci facesse segno con la mano, e noi eravamo costrette a farlo." Si staccò da me per poter accompagnare con gesti più imponenti la storia che stava raccontando. Io mi avvicinai alla finestra che dava sulla strada e continuavo ad ascoltare... Ascoltavo e guardavo attraverso i vetri i rami di un albero senza foglie, evitato dagli uccelli. Una svastica, una falce e martello e una bandiera a stelle e strisce erano rozzamente disegnate sulla polvere che copriva i vetri della finestra. Ero stato io, settimane addietro, a tracciare quei tre simboli, concludendo una discussione sul patriottismo che avevo avuto con Kraft. Tre volte avevo gridato il mio entusiasmo per i tre simboli, dimostrando a Kraft quale fosse il significato del patriottismo, rispettivamente, per un nazista, un comunista e un americano. "Urrà, urrà, urrà," avevo detto. E Helga continuava a raccontare, intessendo la propria biografia sul folle telaio della storia contemporanea. Dopo due anni era riuscita a fuggire dalla squadra di lavoro, disse, ma venne ripresa il giorno dopo da una pattuglia di frenastenici mongoloidi armati di fucili mitragliatori e preceduti da cani poliziotto. Passò tre anni in prigione, disse, dopo di che fu spedita in Siberia come interprete e archivista in un enorme campo di prigionia. Benché la guerra fosse ormai finita da anni i russi trattenevano ancora prigionieri in quel campo ottomila ss. 60
"Ci restai otto anni," disse Helga, "pietosamente ipnotizzata dalla routine quotidiana. Tenevo magnifiche testimonianze di tutti quei prigionieri, di tutte quelle vite senza senso ammucchiate dietro i fili spinati. Quegli ss, un tempo così giovani, così smilzi, così perfidi, si facevano di giorno in giorno più grigi, più teneri, sempre più pronti a piangersi addosso... mariti senza mogli, padri senza figli, negozianti senza negozio, commercianti senza commercio." Col pensiero rivolto alla prostrazione di quegli ss, Helga si ripropose l'indovinello della sfinge. "Quale creatura cammina su quattro piedi al mattino, su due a mezzogiorno, su tre alla sera?" "L'uomo," disse con voce rauca Helga. Poi raccontò del suo rimpatrio... rimpatrio di un certo tipo però. Non la mandarono a Berlino, ma a Dresda, nella Germania orientale. Dove fu messa a lavorare in una manifattura tabacchi che descrisse fin nei particolari più opprimenti. Un giorno scappò a Berlino est, poi traversò il muro. Qualche giorno dopo era in volo per raggiungermi. "Chi ti ha pagato il viaggio?" dissi. "Certi suoi ammiratori, signor Campbell," disse Jones con calore. "Non si preoccupi di doverli ringraziare. Sentono di avere nei suoi confronti un debito di riconoscenza così grosso che non riusciranno mai a estinguerlo." "Per che cosa?" dissi. "Per aver avuto il coraggio di dire la verità, durante la guerra," disse Jones, "mentre tutti gli altri mentivano spudoratamente."
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August Krapptauer ascende al Valhalla…
Il vice Bundesführer, di sua spontanea iniziativa, rifece tutte quelle scale per andare a prendere il bagaglio di Helga che era rimasto sulla limousine di Jones. Pareva che la mia riunione con Helga lo avesse ringiovanito risuscitandogli dentro tutta la sua galanteria. Nessuno s'accorse di quel che stava facendo finché non riapparve sull'uscio con in mano due valigie. Jones e Keeley si lasciarono prendere dalla costernazione, per via del vecchio cuore di Krapptauer, prossimo alla sincope come uno stantuffo che perde. Il vice Bundesführer era rosso come un pomodoro. "Sei impazzito?" disse Jones. "No, no... sto benone," disse Krapptauer, sorridendo. "Perché non hai lasciato che lo facesse Robert?" disse Jones. Robert era il suo autista, e stava seduto al volante della limousine. Robert era un uomo di colore e aveva settantatré anni. Robert, cioè a dire Robert Stirling Wilson, ex galeotto, spia nipponica, meglio noto come "il Führer di Harlem". "Avresti dovuto dire a Robert di portarli su lui i bagagli," disse Jones. "Diavolo... perché vuoi rischiare la vita in questo modo?" "È un onore rischiare la vita," disse Krapptauer, "per la moglie di un uomo che ha servito Adolf Hitler come Howard Campbell." E schiattò sul pavimento. Cercammo di rianimarlo, ma era più morto di un sasso, con la bocca aperta, e l'espressione orrenda di un minorato. Corsi giù al secondo piano dove vivevano il dottor Epstein e sua madre. Il dottore era
in
casa.
Il
dottor
Epstein
trattò
il
povero
Krapptauer
piuttosto
indelicatamente, per costringerlo a dimostrarci fino a che punto fosse ormai da considerarsi un cadavere. Epstein era ebreo, e io temevo che Jones e Keeley gli dicessero qualcosa per il modo in cui maltrattava e pizzicava Krapptauer. Ma quei due vecchi fascisti se ne stettero buoni come ragazzini rispettosi e sottomessi. 62
L'unica cosa, o pressappoco, che Jones disse a Epstein, dopo che questi ebbe dichiarato Krapptauer morto anche più del normale, fu: "Si dà il caso che io sia dentista, dottore". "Davvero?" disse Epstein. Non gliene importava gran che. E se ne tornò al suo studio per chiamare un'ambulanza. Jones coprì Krapptauer con una delle mie coperte residuate di guerra. "Proprio adesso che le cose ricominciavano ad andargli bene," disse commentando la sua morte. "In che senso?" "Aveva ricostituito una piccola organizzazione, e ora cominciava a funzionare," disse Jones. "Non una gran cosa ma fedele, devota, leale." "Come si chiamava?" dissi. "La Guardia di ferro dei figli bianchi della costituzione americana," disse Jones. "Aveva un talento speciale per forgiare dei comuni ragazzi e fonderli in un'unica forza disciplinata e decisa." Jones scosse tristemente la testa. "E i giovani ormai lo seguivano così bene..." "Amava i giovani e ne era amato," disse padre Keeley. Che stava ancora piangendo. "Bisognerebbe inciderlo come epitaffio sulla sua tomba," disse Jones. "Lavorava con i ragazzi nella mia cantina. Dovrebbe vedere come l'aveva messa a posto bene... erano ragazzi come tanti altri, dalle origini più diverse." "Ragazzi che altrimenti sarebbero stati per strada a cacciarsi in chissà quali pasticci," disse padre Keeley. "Era uno dei più fervidi ammiratori che lei abbia mai avuto," mi disse Jones. "Davvero?" dissi. "Ai tempi in cui lei parlava alla radio, non perdeva mai neanche una trasmissione. Quando andò in prigione, la prima cosa che fece fu quella di costruirsi un apparecchio ricevente a onde corte, per poter continuare l'ascolto. Non passava giorno che non rimuginasse le cose che lei aveva trasmesso la sera prima." "No!" dissi. "Lei era come un faro luminoso, signor Campbell," disse Jones con passione. "Capisce com'era importante avere un faro come lei in tutti quegli anni oscuri?" 63
"N... no," dissi. "Krapptauer sperava che lei avrebbe accettato di diventare Ufficiale ispiratore della Guardia di ferro," disse Jones. "Io sono il cappellano," disse Keeley. "Oh, chi, chi, chi guiderà la Guardia di ferro, adesso?" disse Jones. "Chi balzerà in avanti a raccogliere la fiaccola caduta?" Qualcuno bussò con forza alla porta. Andai ad aprire e mi trovai davanti l'autista di Jones, un negro vecchio e rugoso, con due malevoli occhi gialli. Indossava un'uniforme nera con profili bianchi, un cinturone da ufficiale, un fischietto di nichel placcato, un cappello della Luftwaffe, senza gradi, e mollettiere di cuoio nero. Non si scorgeva alcun segno dell'antico zio Tom in questo vecchio negro con i capelli bianchi, di cotone. Entrò con passo artritico, ma tenendo i pollici infilati nel cinturone militare e il mento alto, proiettato, quasi, verso di noi, e senza levarsi il cappello. "Tutto tranquillo quassù?" disse a Jones. "Non vi ho più visto scendere." "Non tutto," disse laconicamente Jones. "August Krapptauer è morto." Il Führer di Harlem accolse la notizia senza una smorfia. "Muoiono tutti, muoiono tutti," disse. "Chi raccoglierà la fiaccola caduta, quando saremo tutti morti?" "Mi sono appena chiesto la stessa cosa," disse Jones. E mi presentò a Robert. Robert non mi diede la mano. "Ho sentito parlare di lei," disse, "ma non l'ho mai ascoltata alla radio." "Be'..." dissi, "purtroppo non è sempre possibile accontentare tutti." "Noi stavamo in campi avversi," disse Robert. "Capisco," dissi. Non sapevo nulla sul suo conto e, a qualunque parte gli fosse piaciuto appartenere, a me andava bene. "Io stavo dalla parte della gente di colore," disse. "Stavo con i giapponesi." "Ah," dissi. "Avevamo bisogno di voi, e voi di noialtri..." disse, a proposito dell'alleanza stretta dalla Germania e dal Giappone durante la Seconda guerra mondiale. "Ma c'era un mucchio di cose che non potevano andarci bene, come si dice." "Immagino," dissi.
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"Voglio dire questo: che lei diceva che la gente di colore non era tanto per la quale," disse Robert. "Via, via," intervenne Jones con intenti pacifisti. "Che cosa ci guadagniamo ad accapigliarci tra di noi? Quel che dobbiamo fare invece è stare uniti." "Voglio solo dirgli quel che dico a te," disse Robert. "Dico la stessa cosa ogni mattina a questo reverendo signore qui, la stessa cosa che ti dico adesso. Gli porto la colazione e poi gli dico: 'Spinta da giusta ira, la gente di colore si innalzerà e s'impadronirà del mondo. I bianchi perderanno, per sempre!'." "D'accordo, Robert," disse Jones con calma. "La gente di colore si costruirà le sue bombe all'idrogeno," disse. "Ci stanno lavorando anche in questo momento. Non passerà tanto che toccherà al Giappone di sganciarne una. Tutti gli altri popoli di colore gli concederanno l'onore di sganciare la prima." "Dove hanno intenzione di sganciarla?" dissi. "Sulla Cina, con ogni probabilità," disse. "Su altra gente di colore?" dissi. Mi lanciò uno sguardo pieno di compassione. "Chi ti ha mai detto che i cinesi sono gente di colore?" disse.
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Il bellissimo vaso azzurro di Werner Noth…
Finalmente Helga e io fummo lasciati soli. Ci sentivamo timidi. Essendo
un
uomo
già
avanti con
gli
anni,
e
avendone passati
tanti
nell'osservanza del celibato, dire che ero timido è dir poco. Avevo paura di mettere alla prova la mia forza amatoria. E la paura era oltretutto ingigantita dall'eccezionale numero di giovanili attributi che la mia Helga aveva miracolosamente conservato. "È così... è questo che si prova quando si ricomincia a conoscersi," dissi. Parlavamo in tedesco. "Sì," disse lei. Si era avvicinata alla finestra che dava sulla strada, e stava osservando i patriottici disegni che avevo tracciato sul vetro polveroso. "Quale di questi è il tuo adesso, Howard?" "Prego?" dissi. "La falce e il martello, la svastica, o le stelle e le strisce..." disse, "qual è quello che preferisci?" "Fammi delle domande sulla musica," dissi. "Che cosa?" disse. "Chiedimi qual è la musica che preferisco di questi tempi," dissi. "Infatti di musica posso dare qualche giudizio. Sulla politica invece, niente del tutto." "Capisco," disse. "Va bene... che tipo di musica preferisci di questi tempi?" "Bianco Natale... Bianco Natale di Bing Crosby." "Non capisco," disse. "È il brano che mi piace di più," dissi. "Mi piace a tal punto che ne ho ventisei copie." Mi guardò come chi non ha capito. "Davvero?" disse. "È... è una specie di scherzo personale," dissi con fatica. "Ah," disse. "Personale..." dissi. "Ho vissuto solo così a lungo che tutto quel che mi circonda è personale, privato. Non mi meraviglierei se non ci fosse più nessuno in grado di capire quel che dico." 66
"Io ti capirò," disse con tenerezza. "Dammi solo un po' di tempo... non molto, solo un po'... e capirò tutto quello che dirai." Si strinse nelle spalle. "Ho anch'io un mio modo personale di scherzare..." "Da oggi in avanti..." dissi, "uniremo di nuovo i nostri codici privati e ricostruiremo un'intimità a due." "Sarà molto carino," disse. "Ancora uno stato a due," dissi. "Sì," disse. "Dimmi una cosa..." "Tutto quello che vuoi," dissi. "So come è morto mio padre, ma non sono riuscita a sapere nulla di mia madre e di Resi," disse. "Puoi dirmi qualcosa tu?" "Niente," dissi. "Quando li hai visti per l'ultima volta?" disse. Tornai indietro nella memoria e fui in grado di rintracciare la data esatta del giorno in cui avevo visto per l'ultima volta il padre di Helga, la madre, e la sua simpatica e fantasiosa sorellina, Resi Noth. "Il 12 febbraio 1945," dissi, e le raccontai di quel giorno. Faceva così freddo che mi dolevano perfino le ossa. Rubai una motocicletta e andai a trovare la famiglia di mia moglie, la famiglia di Werner Noth, capo della polizia di Berlino. Werner Noth viveva alla periferia di Berlino, molto al di fuori della zona bersagliata dagli aerei. Viveva con la moglie e la figlia in una casa bianca, cinta da un muro, che aveva la stessa monolitica e tetragona maestosità della tomba di un nobile romano. In cinque anni di guerra, in quella casa non era andato rotto neanche il vetro di una finestra. Le alte finestre del lato sud, ben incastonate negli spessi muri, incorniciavano un orto compreso nella cinta. Quelle che guardavano a nord incorniciavano invece gli scheggiati monumenti che si ergevano tra le rovine di Berlino. Avevo indosso un'uniforme. Dalla cintura mi pendeva un piccolo revolver e un largo pugnale da cerimonia. Di solito non portavo uniformi benché me ne spettasse una... l'uniforme azzurra e oro di maggiore del Corpo americano dei liberi combattenti.
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Il Corpo americano dei liberi combattenti era un sogno nazista... il sogno di un reparto di soldati composto principalmente di prigionieri di guerra americani. Si sarebbero arruolati solo volontari. L'unità sarebbe stata impiegata solo sul fronte russo. Avrebbe voluto essere una specie di macchina da guerra cui l'amore per la civiltà
occidentale e l'odio
per
le orde mongoliche avrebbero
procurato
un'altissima tenuta morale. Tra parentesi, quando definisco questo reparto come un sogno dei nazisti, vuol dire che sono in preda a un attacco di schizofrenia... l'idea del Corpo americano dei liberi combattenti, infatti, è nata da me. Io ne suggerii la creazione, ne disegnai le uniformi e le insegne, io ne scrissi il testo del giuramento. Una professione di fede che cominciava: "Io, come i miei onorati progenitori americani, credo nella vera libertà...". Il Corpo americano dei liberi combattenti non fu un successo strepitoso. I prigionieri di guerra americani che si arruolarono furono soltanto tre. Immagino che fossero tutti morti il giorno che andai a trovare la famiglia di mia moglie e che pertanto io fossi l'unico superstite del reparto. Il giorno della visita, i russi erano a sole venti miglia da Berlino. Sapevo che la guerra stava per finire e avevo deciso che era tempo di cessare anche la mia attività spionistica. M'ero messo addosso l'uniforme con l'intenzione di confondere gli eventuali tedeschi che avessero tentato di impedirmi l'uscita da Berlino. Il pacco con gli abiti civili lo tenevo legato al parafango della motocicletta rubata. La mia visita ai Noth non aveva comunque nulla a che vedere con l'astuzia. Volevo veramente salutarli ed esserne a mia volta salutato. Erano persone che mi interessavano, per cui nutrivo compassione... e a cui, a mio modo, volevo bene. I cancelli di ferro della grande casa bianca erano aperti. Werner Noth in persona stava lì accanto, in piedi, con le mani sui fianchi. Stava tenendo d'occhio una squadra di lavoro composta di forzate polacche e russe. Dalla casa le donne trascinavano bauli e mobili fino a tre carri trainati da cavalli, in attesa di partire. I guidatori dei carri erano piccoli mongoli d'un color giallo oro, le prime prede della campagna di Russia. Sovrintendeva il lavoro delle donne un olandese di mezza età, grasso, e rinchiuso in un completo grigio che aveva conosciuto giorni migliori.
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Un uomo alto e antico teneva le donne sotto la protezione del suo fucile, un residuato della guerra francoprussiana. Sul petto sofferto della vecchia guardia ciondolava una croce di ferro. Una delle schiave si trascinò fuori della casa reggendo un vaso azzurro di luminosa bellezza. Portava ai piedi degli zoccoli di legno e tela. Era come un sacco di stracci, senza nome, senza età, senza sesso. Gli occhi parevano due ostriche. Il gelo le aveva scorticato il naso maculato di bianco e rosso come una ciliegia. Il vaso era in pericolo; sembrava che la donna dovesse insaccarsi dentro di sé da un momento all'altro lasciandoselo semplicemente scivolare dalle mani. Mio suocero vide che il vaso stava per cadere e si precipitò dalla donna come una sirena antifurto. Strillò che Dio avesse pietà di lui, che facesse le cose con criterio, per una volta, che gli mostrasse almeno un altro essere umano dotato di intelligenza e di energia. Strappò il vaso dalle mani della donna, stupefatta. Prossimo alle lacrime, e senza provarne vergogna, chiese quindi a noi tutti che adorassimo il vaso azzurro di cui, per la pigrizia di una donna, il mondo aveva corso il rischio di essere privato. Il frusto olandese, quel fantoccio di guardia, si avvicinò alla donna e le ripeté, parola per parola, strillo per strillo, quel che mio suocero aveva detto. Con lui si fece avanti anche il vecchio soldato, in rappresentanza della forza che si sarebbe, se necessario, abbattuta sulla donna. Il modo con cui alla fine si decisero a punirla è piuttosto curioso. Non le fecero del male. Le tolsero soltanto l'onore di trasportare altri oggetti di Werner Noth. Le ordinarono di mettersi da parte mentre agli altri continuavano a essere affidati veri e propri tesori. La punizione consisteva nel farle sentire quanto fosse stupida. Le si era presentata un'occasione per dare un contributo alla civiltà e aveva fatto fiasco. "Sono venuto a salutarvi," dissi a Noth. "Saluti," disse. "Vado al fronte," dissi. "Dritto, da quella parte," disse facendo segno verso est. "Da qui è una vera passeggiata. Ce la farai in un giorno, e avrai anche il tempo di fermarti a raccogliere margherite." 69
"È molto improbabile che ci si riveda ancora, suppongo," dissi. "E allora?" disse. Mi strinsi nelle spalle. "E allora niente," dissi. "Esattamente," disse. "Niente di niente di niente." "Posso chiedervi dove state traslocando?" dissi. "Io resto qui," disse. "Mia moglie e la figliola andranno da mio fratello, vicino a Colonia." "C'è qualcosa che posso fare per voi?" dissi. "Sì," disse. "Puoi sparare al cane di Resi. Non possono portarselo dietro. A me non interessa e comunque non potrei dedicargli tutta la cura e l'amicizia cui Resi l'ha abituato. Per cui ti prego di ammazzarlo." "Dov'è?" dissi. "Penso che lo troverai nella sala di musica, con Resi. Lei sa già che dev'essere ammazzato. Non ti darà noie." "D'accordo," dissi. "Che bella uniforme!" disse. "Grazie," dissi. "Se non sono troppo indelicato, potresti dirmi che cosa rappresenta?" disse. Non l'avevo mai indossata in sua presenza. Glielo spiegai e gli mostrai il fregio sull'elsa del mio pugnale. Il fregio, argento su noce, ritraeva un'aquila americana che stringeva una svastica nell'artiglio destro e divorava il serpente che aveva in quello sinistro. Il serpente voleva essere il simbolo del comunismo ebraico internazionale. Intorno al capo dell'aquila c'erano tredici stelle, che rappresentavano le prime tredici colonie americane. Avevo fatto io stesso lo schizzo del fregio, e, siccome non disegno molto bene, le stelle le avevo fatte a sei punte, come quella di David, anziché a cinque come quelle della bandiera americana. L'argentiere, pur avendo generosamente migliorato la sagoma dell'aquila, aveva riprodotto scrupolosamente le stelle a sei punte. E furono le stelle che stuzzicarono la fantasia di mio suocero. "Queste rappresentano i tredici ebrei che fanno parte del gabinetto di Franklin Roosevelt," disse. "Che strana idea," dissi. "Tutti pensano che i tedeschi non abbiano senso dell'humour," disse. 70
"La Germania è il paese più incompreso del mondo," dissi. "Tu sei uno dei pochi stranieri che veramente ci capiscono," disse. "Sarei felice di meritare questo complimento," dissi. "È un complimento che non ti sei guadagnato molto facilmente," disse. "Mi hai spezzato il cuore quando hai sposato mia figlia. Io volevo che mio genero fosse un soldato tedesco." "Mi dispiace," dissi. "L'hai resa felice," disse. "Lo spero," dissi. "Per questo ti ho odiato ancora di più," disse. "In guerra non c'è posto per la felicità." "Mi dispiace," dissi. "E poiché ti odiavo così tanto," disse, "cominciai a studiarti. Ascoltavo tutto quello che dicevi. Non ho perso neanche una delle tue trasmissioni." "Non lo sapevo," dissi. "Non si può sapere tutto," disse. "Sapevi," disse, "che quasi fino a questo momento niente mi avrebbe fatto più piacere che dimostrare che eri una spia, e assistere alla tua fucilazione?" "No," dissi. "E sai perché adesso non mi importa più di sapere se eri o non eri una spia?" disse. "Adesso potresti anche dirmi che eri una spia, e noi continueremmo tranquillamente a parlare, come stiamo facendo. E ti lascerei andare dovunque vadano le spie quando la guerra è finita. Sai perché?" disse. "No," dissi. "Perché per quanto bene tu possa aver servito il nemico, per noi hai fatto di più," disse. "Mi rendo conto adesso che quasi tutte le idee che ho in testa, e che non mi fanno vergognare di nessuna cosa che io, come nazista, abbia sentito o fatto, non vengono da Hitler, non da Goebbels, e nemmeno da Himmler... vengono da te." Mi prese la mano. "Solamente tu hai saputo impedirmi di pensare che la Germania fosse impazzita, tutta quanta." All'improvviso si staccò da me. Si diresse verso la donna dagli occhi d'ostrica che per poco non aveva lasciato cadere il vaso azzurro. Stava in piedi contro un muro come le avevano ordinato di fare, interpretando stupidamente la parte dello scolaretto punito. 71
Werner Noth la scosse un po', cercando di suscitare in lei un atomo, almeno, d'intelligenza. Indicò un'altra donna che stava trasportando un ributtante cane cinese di legno di quercia, con tale attenzione che si sarebbe pensato a un bambino. "Vedi?" disse Noth a quella rincitrullita. Ma non che volesse coscientemente tormentarla. Stava tentando di farne, malgrado la sua stupidità, un essere umano più utile, più completo. "Vedi?" disse di nuovo con serietà, per aiutarla, quasi pregandola di capire. "È così che si maneggiano gli oggetti preziosi."
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La piccola Resi Noth…
Entrai nella sala da musica della casa di Werner Noth, che si stava svuotando, e vi trovai la piccola Resi e il suo cane. La piccola Resi aveva allora dieci anni. Se ne stava raggomitolata in una poltrona accanto alla finestra. Non guardava verso le rovine di Berlino, guardava il giardino cinto dal muro e i ricami delle cime degli alberi bianchi di neve. Il riscaldamento era spento. Resi era involtolata in cappotto, sciarpa e spesse calze di lana. Aveva accanto a sé una piccola valigia. Quando i tre carri là fuori fossero stati pronti per partire, lei sarebbe stata pronta per salirci. S'era levata i guanti, e li aveva riposti con cura sul bracciolo della poltrona. Stava a mani nude per poter carezzare il cane che teneva in grembo. Il cane era un bassotto che, per via della dieta del tempo di guerra, aveva perduto tutto il pelo ed era praticamente paralizzato da un accumulo di grasso idropico. Sembrava una specie di primordiale anfibio destinato a guazzare nella fanghiglia. Mentre Resi lo accarezzava i suoi occhi marroni si dilatavano in estatica cecità. Ogni atomo della sua consapevolezza seguiva come un ditale la punta del dito che gli carezzava la pelle. Resi non la conoscevo molto bene. Una volta mi aveva fatto gelare il sangue nelle vene - la guerra era appena iniziata - e lei, che a stento sapeva parlare, mi aveva chiamato spia americana. Da allora avevo cercato di trovarmi il meno che potevo davanti allo sguardo penetrante dei suoi occhi infantili. Quando entrai nella sala da musica fui sorpreso di vedere quanto, col tempo, venisse ad assomigliare alla mia Helga. "Resi?..." dissi. "Lo so," disse senza nemmeno alzare gli occhi verso di me. "È arrivato il momento di uccidere il cane." "Non è che sia proprio entusiasta dell'idea," dissi. "Lo farai tu," disse, "o lo farai fare a qualcun altro?" "Tuo padre mi ha chiesto che lo facessi io," dissi. Si girò per guardarmi. "Sei un soldato, adesso," disse. "Sì," dissi. "Ti sei messo la divisa solo per uccidere il cane?" disse. 73
"Vado al fronte," dissi. "Sono passato a salutarvi." "Quale fronte?" disse. "Dove ci sono i russi." "Morirai," disse. "È probabile," dissi. "Ma forse no." "Chiunque non sia già morto, lo sarà molto presto," disse. Non sembrava preoccuparsene molto. "Non moriremo mica tutti," dissi. "Io sì," disse. "Mi auguro di no," dissi. "Sono sicuro che te la caverai," dissi. "Non proverò dolore, quando mi ammazzeranno," disse. "All'improvviso non ci sarò più, ecco tutto," disse. Si tolse il cane dal grembo. Lo spinse via. E quello cadde a terra senza la minima reazione, come un Knackwurst12. "Prendilo," disse. "Non me mai neanche piaciuto. Mi ha sempre fatto pena e basta." Raccolsi il cane. "Starà molto meglio da morto," disse. "Credo che tu abbia ragione," dissi. "Anche per me sarà meglio quando sarò morta," disse. "Qui mi pare che sbagli," dissi. "Vuoi che ti dica una cosa?" disse. "Certo," dissi. "Dal momento che nessuno vivrà ancora molto a lungo," disse, "posso anche dirtelo: ti amo." "Sei molto dolce," dissi. "Voglio dire che ti amo sul serio," disse. "Quando Helga era ancora viva e venivate a trovarci, voi due insieme, provavo una grande invidia. Quando Helga morì cominciai a sognare che sarei diventata grande, e ti avrei sposato, che sarei diventata una grande attrice e tu avresti scritto per me le tue commedie." "Mi sento onorato," dissi.
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Salsiccia di carne di maiale, un po' più grossa di un normale wurstel.
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"Sì, ma non vuol dire niente," disse. "Non c'è più niente che abbia senso. Ora vai a uccidere il cane." M'inchinai per uscire, tirandomi dietro il cane. Lo portai fuori, nell'orto; lo posai sulla neve ed estrassi il mio piccolo revolver. C'erano tre persone a guardarmi. Una era Resi, in piedi accanto alla finestra della sala da musica. Un'altra era il vecchio soldato che doveva far la guardia alle russe e alle polacche. La terza era mia suocera, Eva Noth. Stava alla finestra del secondo piano. Come il cane di Resi, anche Eva Noth, a furia di mangiare cibo di guerra, era diventata una sagoma idropica di grasso. La poveretta, trasformata in una salsiccia dall'inclemenza della storia, era impalata sull'attenti e pareva considerare l'esecuzione del cane come una cerimonia di qualche importanza. Sparai al cane sul retro del collo. La pistola emise uno sparo misero, da due soldi, un fragile scaracchio degno di una scacciacani. Il cane morì senza un tremito. Il vecchio soldato si fece vicino, a esprimere il suo interesse professionale per il tipo di ferita prodotto da una pistola tanto piccola. Con lo stivale rivoltò il cane, trovò il proiettile nella neve, mormorò qualcosa, assennatamente, come se avessi fatto qualcosa di interessante, o di istruttivo. Poi cominciò a discutere di non so quante ferite che aveva visto o di cui aveva inteso parlare, ogni tipo di buco praticato in creature che un tempo erano state vive. "Ha intenzione di seppellirlo?" disse. "Penso che sia meglio," dissi. "Altrimenti," disse, "qualcuno se lo mangerà."
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Donne boia per il boia di Berlino…
Ho scoperto di recente, nel 1958 o nel 1959, i particolari della morte di mio suocero. Sapevo che era morto. L'agenzia di investigazione cui mi ero rivolto per avere notizie di Helga mi aveva saputo dire soltanto questo... che Werner Noth era morto. Fu per caso che venni a sapere come. Nel negozio di un barbiere del Greenwich Village. Stavo sfogliando una rivista piena di donnine, ammiravo compiaciuto la loro linea e aspettavo che venisse il mio turno di tagliarmi i capelli. La storia annunciata sulla copertina della rivista si chiamava Donne boia per il boia di Berlino. Non avevo alcun motivo di sospettare che la storia riguardasse mio suocero. Non si era mai occupato di impiccagioni. Trovai l'articolo. E rimasi a lungo con gli occhi fissi su di una tetra fotografia di Werner Noth appeso a un melo, senza sospettare che l'impiccato fosse lui. Guardai le facce dei presenti all'impiccagione. La più parte erano donne, informi mucchi di stracci senza nome. Per gioco, cominciai a contare tutti i modi in cui il titolo sulla copertina era riuscito a tradire la verità. Prima di tutto non erano donne quelle che lo stavano impiccando. Bensì tre scheletrici individui anche loro coperti di stracci. In secondo luogo le donne nella fotografia non erano belle, mentre quelle in copertina lo erano. Le donne boia della copertina avevano seni come meloni, fianchi come violoncelli, e gli stracci che avevano indosso non erano che patetici lembi di camicie da notte disegnate dalla Schiaparelli. Le donne della fotografia interna erano attraenti come dei pesci gatto avvolti in tela per materassi. Poi, un attimo prima che mi decidessi a leggere la storia, cominciai timidamente, ma con una certa riluttanza, a riconoscere l'edificio diroccato che si scorgeva sullo sfondo. Dietro il boia, c'era come una bocca piena di denti rotti, tutto quel che restava della casa di Werner Noth, la casa dove Helga era cresciuta nel rispetto delle leggi tedesche, la casa dove avevo detto addio a una nichilista di dieci anni di nome Resi. Lessi. 76
L'articolo era firmato da un certo Ian Westlake, ed era fatto bene. Westlake, un prigioniero di guerra inglese, aveva assistito all'impiccagione di Noth poco dopo essere stato liberato dai russi. Anche le fotografie erano sue. Noth, diceva, era stato impiccato al melo che cresceva nel suo orto da un gruppo di lavoratrici forzate, per lo più polacche e russe, acquartierate nei dintorni. Westlake non definiva mio suocero "il boia di Berlino". Westlake s'era preoccupato di scoprire quali crimini Noth avesse commesso ed era giunto alla conclusione che quest'uomo non era né meglio né peggio di qualsiasi altro capo della polizia di una grande città. "Il terrore e la tortura erano province di altre branche della polizia tedesca," diceva Westlake. "La provincia di Werner Noth era quel che in ogni grande città viene normalmente considerato rispetto dell'ordine e della legge. Gli uomini che comandava erano nemici giurati degli ubriaconi, dei ladri, degli assassini, degli stupratori, dei rapinatori, delle spie, delle prostitute e di altri disturbatori della quiete; uomini che, oltretutto, facevano tutto quel che potevano per far andare le cose per il giusto verso. "Il principale errore commesso da Noth," diceva Westlake, "è stato l'aver introdotto persone sospette di cattiva condotta e di atti criminali in un sistema di tribunali e istituti penali completamente folle. Noth fece del suo meglio per distinguere il colpevole dall'innocente, usando i più moderni metodi di polizia. Ma le persone cui affidava i suoi prigionieri trovarono che una simile distinzione era priva di significato. Essere in guardina, con o senza processo, era considerato di per se stesso un crimine. I detenuti, per qualunque motivo fossero finiti in cella, dovevano essere umiliati, sfiancati, uccisi." Westlake continuava dicendo che le donne che avevano impiccato Noth non sapevano nemmeno chi fosse, a parte il fatto che era una persona importante. Lo impiccarono per cavarsi il gusto di impiccare qualcuno d'importante. La casa di Noth, diceva Westlake, era stata disfatta dall'artiglieria russa, ma mio suocero aveva continuato ad abitare in una stanza rimasta intatta, sul retro della casa. Westlake faceva un inventario degli oggetti che vi furono trovati: un letto, un tavolo, una bugia. Sul tavolo c'era una cornice con le fotografie di Helga, Resi, e della moglie di Noth.
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C'era anche un libro: una traduzione in tedesco dei Colloqui con se stesso di Marco Aurelio. Non ci si spiegava come mai un così bel servizio fosse finito su di una rivista tanto squallida. Ma era chiaro che la rivista sapeva che la descrizione vera e propria dell'impiccagione non avrebbe deluso i suoi lettori. Mio suocero stava in piedi su di uno sgabello alto una dozzina di centimetri. Gli avevano passato intorno al collo la corda che poi era stata legata ben stretta a un ramo fiorito del melo. Poi qualcuno aveva dato un calcio allo sgabello. Noth poteva quasi danzare sulle punte dei piedi mentre moriva strangolato. Bene? Fu fatto rinvenire otto volte, e impiccato nove. Solo dopo l'ottava impiccagione scomparvero anche le ultime briciole di coraggio, di dignità. Solo dopo l'ottava impiccagione si comportò come un bambino sottoposto alla tortura. "Per tale condotta," diceva Westlake, "si vide ricompensato con ciò che più desiderava a questo mondo. Fu ricompensato con la morte. Morì con il membro in erezione e i piedi nudi." Girai la pagina per vedere se c'era dell'altro. C'era dell'altro, ma non sullo stesso argomento. C'era la foto a pagina piena di una bella donna con le cosce aperte e la lingua fuori. Il barbiere mi chiamò. Scosse i capelli di un altro cliente dall'asciugamano che mi avrebbe messo intorno al collo. "Avanti il prossimo," disse.
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Il mio migliore amico…
Ho detto di aver rubato la motocicletta con cui mi recai a salutare per l'ultima volta Werner Noth. Devo fare una precisazione. Non è che l'avessi proprio rubata. L'avevo solo presa in prestito per l'eternità da Heinz Schildknecht, che giocava in coppia con me a ping-pong, il migliore amico che avessi in Germania. Insieme andavamo a bere: insieme stavamo su a parlare di notte, per ore interminabili, specialmente dopo che tutti e due avevamo perso le nostre mogli. "Sento che a te potrei confidare qualsiasi cosa... veramente, qualsiasi cosa," mi disse una sera verso il finire della guerra. "Anch'io provo la stessa cosa nei tuoi riguardi, Heinz," dissi. "Tutto quello che mi appartiene è tuo," disse. "Tutto quello che mi appartiene è tuo," dissi. L'ammontare delle nostre proprietà era comunque trascurabile. Nessuno dei due aveva una casa. Le nostre proprietà immobiliari insieme con la mobilia erano andate, letteralmente, in frantumi. A me era rimasto un orologio, una macchina per scrivere, una bicicletta, niente altro. Heinz aveva da tempo barattato al mercato nero l'orologio, la macchina per scrivere e perfino la fede nuziale in cambio di sigarette. Tutto quel che gli restava in questa valle di lacrime, a parte la mia amicizia e i vestiti che aveva addosso, era una motocicletta. "Se dovesse succedere qualcosa alla motocicletta," mi disse, "allora sarò povero." Si guardò attorno per vedere se qualcuno ci stesse ad ascoltare. "Voglio dirti qualcosa di terribile," disse. "Non farlo se non vuoi," dissi. "Lo voglio," disse. "Tu sei l'unica persona cui posso raccontare delle cose terribili. Sto per dirti qualcosa di semplicemente atroce." Il luogo in cui stavamo bevendo e chiacchierando era una casamatta vicino al dormitorio dove tutti e due passavamo le notti. L'avevano costruita da poco per la difesa di Berlino, erano stati quelli dei lavori forzati a costruirla. Ma ancora non ci avevano messo né armi né uomini. I russi non erano ancora così vicini. 79
Heinz e io ce ne stavamo seduti lì divisi da una bottiglia e da una candela, quando mi disse questa cosa tremenda. Era ubriaco. "Howard..." disse. "Voglio più bene alla mia motocicletta di quanto ne abbia mai voluto a mia moglie." "Tu lo sai che ti sono amico, Heinz, e che credo a tutto quello che dici," gli dissi, "ma questo proprio mi rifiuto di crederlo. Facciamo finta che tu non l'abbia neanche detto, perché non è vero." "No," disse, "questo è uno di quei momenti in cui uno dice veramente la verità, uno di quei rari momenti. La gente non dice quasi mai la verità, ma io ora la sto dicendo. Se tu sei quell'amico che dici di essere, mi farai l'onore di credere all'amico che credo di essere quando dico la verità." "D'accordo," dissi. Aveva il volto rigato di lacrime. "Ho venduto i suoi gioielli, i mobili che aveva più cari, una volta perfino la sua razione di carne... tutto per comprarmi le sigarette," disse. "Tutti abbiamo fatto cose di cui ci vergogniamo," dissi io. "Non avrei mica smesso di fumare per amor suo," disse Heinz. "Abbiamo tutti delle cattive abitudini," dissi. "Quando la bomba colpì la nostra casa, lei morì e io restai solo con la mia motocicletta," disse, "uno della borsa nera mi offrì quattromila sigarette in cambio della moto." "Lo so," dissi. Mi diceva la stessa storia tutte le volte che si ubriacava. "E io ho smesso immediatamente di fumare," disse, "amavo troppo la mia motocicletta." "C'è sempre qualcosa cui siamo attaccati," dissi io. "Qualcosa di sbagliato..." disse, "e poi si comincia sempre ad attaccarsi quando è troppo tardi. Ti dirò una cosa in cui credo più che a tutte le altre in cui si può credere." "D'accordo," dissi. "La gente è tutta matta," disse. "Qualunque cosa gli passa per la testa, la fa, in qualsiasi momento; e Dio abbia pietà di quelli che cercano spiegazioni logiche." E ora due parole sulla donna che era stata la moglie di Heinz: io la conoscevo solo superficialmente benché la vedessi piuttosto di frequente. Era una parlatrice 80
senza freni, per cui era molto difficile studiarla. Il tema delle sue chiacchiere era sempre lo stesso: la gente che aveva successo, la gente che vedeva dove c'erano le occasioni buone e le afferrava con decisione, persone che, diversamente da suo marito, erano importanti e ricche. "Il giovane Kurt Ehrens ha solo ventisei anni ed è già colonnello delle ss." Questo era il suo genere di discorso. "E suo fratello Heinrich, non può avere più di trentaquattro unni, e ha già sotto di sé diciottomila stranieri che lavorano alla costruzione di trappole per carri armati. Dicono che ne sappia più Heinrich di trappole per carri armati di qualsiasi altro uomo sulla terra. E io ballavo spesso con lui, un tempo." E andava avanti con questi discorsi per ore e ore, mentre il povero Heinz, sullo sfondo, fumava come un ossesso l'Ino a intossicarsi il cervello. Su di me un effetto lo produsse, quello di rendermi insensibile a tutte le storie sulla gente di successo. Le persone del cui successo in questo mondo meraviglioso lei prendeva atto, dopotutto, non erano ricompensate che con la qualifica di specialisti in schiavitù, distruzione, e morte. Non reputo di successo la gente l 'Ile si occupa di queste cose. Con l'avvicinarsi della fine della guerra Heinz e io non potemmo più andare a bere nella nostra casamatta. Ci avevano piazzato un mortaio da ottantotto e lo avevano affidato a dei ragazzi di non più di quindici-sedici anni. Sarebbe stata una magnifica storia di successo per la moglie di Heinz... ragazzi così giovani, eppure già in divisa e con una trappola di morte perfettamente munita, tutta per loro. Così Heinz e io dovemmo continuare a parlare e a bere nel dormitorio, un vecchio maneggio coperto, affollato di impiegati statali sinistrati, che dormivano su materassi di paglia. Le bottiglie le tenevamo nascoste, visto che non ci avrebbe fatto molto piacere dividerle con altri. "Heinz..." gli dissi una sera, "mi domando fino a che punto tu mi sia veramente amico." Ci rimase male. "Perché mi chiedi una cosa del genere?" disse. "Perché devo chiederti un favore... un grande favore... e non so se faccio bene," dissi. "Devi assolutamente chiedermelo," disse. "Prestami la moto, domani vorrei andare a trovare i parenti di mia moglie," dissi. 81
Heinz non si sgomentò, non ebbe un attimo d'incertezza. "Prendila," disse. Il che feci, la mattina seguente. Partimmo insieme, la mattina seguente, uno di fianco all'altro. Heinz sulla mia bicicletta e io sulla sua moto. Scalciai contro la leva dell'avviamento, misi la marcia e me ne andai, seppellendo il sorriso del mio migliore amico in una nuvola bluastra di gas combusto. Partii... bruum, bem, bem, trrbem... aaaambruuum! Heinz non rivide più né la sua motocicletta né il suo migliore amico. Ho chiesto all'Istituto di Haifa per la documentazione dei crimini di guerra se avessero per caso sue notizie, benché Heinz non contasse poi molto come criminale di guerra. Con mia grande gioia ho potuto apprendere che si trova in Irlanda, dove lavora come capo guardiaboschi del barone Ulrich Werther von Schefelbad. Von Schefelbad, dopo la guerra, si comprò un'enorme tenuta in Irlanda. Dall'Istituto mi hanno fatto sapere che Heinz è considerato un esperto sulla morte di Hitler, in quanto gli capitò di trovarsi nel suo bunker proprio quando il corpo del Führer, impregnato di benzina, cominciò a bruciare e il suo aspetto era ancora riconoscibile. Salute, Heinz, caso mai ti vengano per le mani queste righe, laggiù in Irlanda. Mi eri veramente molto simpatico, nei limiti almeno in cui sono capace di trovare simpatico qualcuno. Dai un bacio a Blarney Stone13 da parte mia. Ma che ci facevi nel bunker di Hitler... cercavi la tua moto e il tuo migliore amico?
Una pietra nella torre di Blarney, un villaggio a cinque miglia da Cork (Irlanda). Chi la bacia dice la tradizione - diventa un formidabile e persuasivo parlatore. 13
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Il contenuto di un vecchio baule…
"Sai," dissi alla mia Helga nell'appartamento del Greenwich Village, dopo che le ebbi raccontato quel poco che sapevo di sua madre, suo padre e sua sorella, "questo attico, così com'è, non potrà mai diventare un nido d'amore, nemmeno per una notte. Prendiamo un tassì e trasferiamoci in un albergo. Domani sbattiamo fuori tutta questa robaccia, e compriamo tutto nuovo. Poi ci cercheremo un posto veramente bello dove andare a vivere." "Ma io sto bene anche qui," disse. "Domani," dissi, "ci troveremo un letto come quello che avevamo... largo due miglia e lungo tre, con la testiera come un tramonto italiano. Ti ricordi... mio Dio, ti ricordi?" "Sì," disse. "Stasera in un albergo," dissi. "Domani sera in un letto come il nostro." "Ce ne andiamo subito?" disse. "Come vuoi tu," dissi. "Posso prima mostrarti i miei regali?" disse. "Regali?" dissi. "Per te," disse. "Tu sei il mio regalo," dissi. "Che altro posso volere?" "Potresti volere anche questi," disse facendo saltare le molle di una valigia. "Spero che tu li voglia." Aprì la valigia e mi fece vedere che era piena di manoscritti. Mi aveva portato in regalo tutti i miei lavori, al completo, tutte le mie opere serie, praticamente ogni singola parola che fosse sgorgata dal cuore, dalla penna del defunto Howard W. Campbell, jr. Poesie, racconti, drammi, lettere, un libro ancora non pubblicato... tutto quel che avevo scritto quand'ero giovane, allegro, pieno di risorse. "Mi dà una strana sensazione, tutto questo," dissi. "Non avrei dovuto portarli?" disse. "Non lo so neanch'io," dissi. "Una volta queste carte erano tutto me stesso." Presi il manoscritto del libro, un bizzarro esperimento intitolato Memorie di un Casanova monogamo. "Questo avresti dovuto bruciarlo," dissi. 83
"Mi sarei bruciata più volentieri il braccio destro," disse. Misi da parte il libro e presi in mano una raccolta di poesie. "Cosa può dirci della vita questo giovane straniero?" dissi e lessi una poesia, una poesia in tedesco, ad alta voce: Kühl und hell der Sonnenaufgang, leis und süss der Glocke Klang. Ein Magdlein hold, Krug in der Hand, sitzt an des tiefen Brunnens Rand 14.
Lessi la poesia a voce alta, poi ne lessi un'altra. Ero e sono tuttora un pessimo poeta. Ma non le avevo scritte per farmi ammirare. La seconda poesia che lessi era, se mi ricordo, la penultima di tutte quelle che scrissi. Recava la data del 1937 e s'intitolava: Gedanken uber unseren Abstand vom Ziegtgeschehen, cioè a dire: Riflessioni sul non immischiarsi negli eventi del proprio tempo. Diceva: Eine mächtige Dampfwalze naht und schwärtz der Sonne Pfad, rollt über geduckte Menschen dahin, will keiner ihr entfliehn. Mein Lieb und ich schaun starren Blickes das Rätsel dieses Blutgeschickes. "Kommt mit herab," die Menschheit schreit, "Die Walze ist die Geschichte der Zeit!" Main Lieb und ich gehn auf die Flucht, wo keine Dampfwalze uns sucht, und leben auf den Bergeshöhen, getrennt vom schwarzen Zeitgeschehen. Sollen wir bleiben mit den andern zu sterben? Doch nein, wir zwei wollen nicht verderben! Nun ist's vorbei! – Wir sehn mit Erbleichen die Opfer der Walze, verfaulte Leichen 15. Fresco, vivido sorgere del sole, / dolce, flebile suono di campana. / Un'amabile ragazza con brocca / siede accanto a una fresca, profonda fontana. 14
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"Come hai fatto," dissi a Helga, "a trovare tutte queste cose?" "Quando passai a Berlino ovest," disse, "andai al teatro per vedere se fosse rimasto ancora in piedi... e se c'era ancora qualcuno che conoscevo... che potesse darmi tue notizie." Non era necessario che mi spiegasse di quale locale si trattava. Si riferiva al piccolo teatro dove mettevano in scena i miei drammi, dove Helga era stata tante volte acclamata. "So che è rimasto in piedi per quasi tutta la guerra," dissi. "C'è ancora?" "Sì," disse. "Però di te non sapevano nulla. E quando gli dissi che cosa avevi rappresentato tu, un tempo, per quel teatro, qualcuno si ricordò che in solaio c'era un baule con su scritto il tuo nome." Carezzai i manoscritti. "E li hai trovati lì dentro?" dissi. Adesso mi ricordavo del baule, mi ricordavo quando l'avevo chiuso all'inizio della guerra, mi ricordavo di aver pensato a quel baule come a una bara per un giovanotto che non sarebbe esistito mai più. "Ne avevi già delle altre copie?" disse. "No," dissi. "Neanche una riga." "Hai smesso di scrivere?" disse. "Non avevo più niente da dire," dissi. "Dopo tutto quello che hai visto, tutto quello che hai passato, tesoro?" disse. "È proprio quello che ho visto, tutto quello che ho passato, che mi blocca, che mi impedisce di scrivere ancora. Non riesco a dire più niente che abbia un qualche significato. Col mondo civile io non parlo, farfuglio soltanto, e quello mi risponde allo stesso modo." "C'era un'altra poesia, dev'essere l'ultima che hai fatto..." disse, "scritta con una matita per gli occhi sull'interno del coperchio del baule." "Ah sì?" dissi. Me la recitò:
Vidi un compressore stradale così grande / che cancellava il sole, / la gente restava sdraiata per terra, / nessuno che cercasse di scappare. / Il mio amore e io guardammo meravigliati / questa cruenta scena misteriosa. / "A terra, a terra!" gridavano tutti. / "La grande macchina è la storia!" / Il mio amore e io scappammo / e quel motore non riuscì a trovarci, / corremmo fino in cima alla montagna, / e ci lasciammo la storia alle spalle. / Forse avremmo dovuto restare e morire? / Ma qualcosa di dentro ci disse di no! / Tornammo a vedere dov'era passata la storia / e, mio Dio, 15
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Heir liegt Howard Campbells Geist geborgen, frei von des Körpers quälenden Sorgen. Sein leerer Leib durchstreift die Welt, und kargen Lohn dafür erhält. Triffst du die beiden getrennt allerwärts verbrenn den Leib, dock schone dies, sein Herz? 16
Qualcuno bussò alla porta. Chi bussava era George Kraft; lo feci entrare. Era fuori di sé per la scomparsa della sua pipa di pannocchia. Era la prima volta che lo vedevo senza la pipa, la prima volta che m'accorgevo di quanto la sua tranquillità fosse legata a quella pipa. Era così in apprensione che guaiva. "Qualcuno deve averla presa, o fatta cadere, o... che ne so... non riesco a immaginare perché qualcuno avrebbe dovuto toccarla," mugolò. Si aspettava che Helga e io condividessimo la sua ansietà, che considerassimo la scomparsa della sua pipa come l'avvenimento più importante della giornata. Era insopportabile. "Perché mai qualcuno dovrebbe averla presa?" disse. "Cosa potrebbe farsene?" Chiudeva e apriva continuamente i pugni, batteva ogni due minuti le palpebre, soffiava, sembrava un drogato con sintomi di astinenza, benché in realtà non ci fumasse mai nulla, in quella pipa che ora non si riusciva a trovare. "Sapresti dirmi..." disse, "perché qualcuno avrebbe dovuto prendere la mia pipa?" "Non so, George," dissi stizzito. "Se la troviamo te lo faremo sapere." "Vi disturbo se mi metto a cercarla?" disse. "Accomodati," dissi. Buttò tutto all'aria; fece risuonare tegami e pignatte, sbatté le porte degli armadietti della cucina, con un attizzatoio frugò dietro i termosifoni, facendo un rumore del diavolo. L'operazione sortì su Helga e su di me l'effetto di avvicinarci.. . Ci sollecitò a una dimestichezza che altrimenti sarebbe forse giunta molto più tardi.
quanto puzzavano i morti. 16 Qui giace lo spirito di Howard Campbell, / liberato dal fastidio chiassoso del suo corpo. / Il suo corpo vuoto vaga furtivo sulla terra, / riscuotendo quel che un corpo vale. / Se corpo e spirito non si ricongiungeranno / bruciate pure il corpo, ma risparmiate il suo cuore.
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Rimanemmo l'uno a fianco dell'altra, offesi da quella invasione del nostro stato a due. "Non era una pipa di gran valore, o sbaglio?" dissi. "Certo che lo era... per me almeno," disse. "Comprane un'altra," dissi. "Voglio quella," disse. "Ci sono affezionato. Voglio quella e basta." Aprì la madia e ci guardò dentro. "Forse l'hanno presa gl'infermieri dell'ambulanza," dissi. "Perché avrebbero dovuto farlo?" disse. "Avranno pensato che fosse del morto," dissi. "Gliela avranno infilata in una tasca." "Giusto!" gridò Kraft e si precipitò fuori della porta.
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Capitolo seicentoquarantatré…
Una delle cose che Helga aveva nella valigia, come ho già detto, era il mio libro. Un
manoscritto.
Non
avevo
mai
pensato
di
pubblicarlo.
Lo
ritenevo
impubblicabile... solo dei pornografi avrebbero potuto accettarlo. S'intitolava Memorie di un Casanova monogamo. Parlava delle centinaia di donne che avevo conquistato amando mia moglie, la mia Helga. Era un testo clinico, ossessivo... insano, suggeriva qualcuno. Era un diario in cui avevo registrato, giorno per giorno durante i primi due anni di guerra, la nostra vita erotica... tutto il resto vi era escluso. Non c'era una sola parola che indicasse il secolo in cui era stato scritto, e tanto meno il continente. Parlava di un uomo dai molti umori, e di una donna che ne aveva altrettanti. In qualcuna delle prime annotazioni c'era qualche breve riferimento agli ambienti. Ma poi sparivano del tutto anche le descrizioni di questo genere. Helga sapeva che tenevo questo strano diario. Lo consideravo uno dei tanti accorgimenti per tenere sempre sveglia la nostra vita sessuale. Il libro non è soltanto il resoconto di un'esperienza, ma parte integrante dell'esperienza che descrive... il consapevole esperimento fatto da un uomo e una donna per mantenersi sessualmente eccitanti l'uno per l'altra... Per essere anche qualcosa di più. Per essere, l'uno per l'altra, corpo e anima, ragioni sufficienti di vita, anche se questa vita non dovesse offrire nessun'altra soddisfazione. Pertinente, a questo fine, mi pare l'epigrafe del libro. È una poesia di William Blake che s'intitola La domanda soddisfatta: What is it men in women do require? The lineaments of Gratifìed Desire. What is it women do in men require? The lineaments of Gratifìed Desire 17.
Cosa cercano gli uomini nelle donne? / Il profilo del desiderio soddisfatto. / Cosa cercano negli uomini le donne? / Il profilo del desiderio soddisfatto. 17
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Mi pare questo il luogo più adatto per aggiungere l'ultimo capitolo a quelle memorie, il capitolo seicentoquarantatré in cui si descrive la notte che passai con la mia Helga in un albergo di New York, dopo essere stato lontano da lei per tanti anni. Mi affido al gusto e alla delicatezza del curatore perché sostituisca con innocenti puntini di sospensione quelle parti che dovesse ritenere offensive per la morale. MEMORIE DI UN CASANOVA MONOGAMO, CAPITOLO 643 Non ci vedevamo da sedici anni. Quella notte il primo insorgere della concupiscenza lo avvertii nei polpastrelli delle dita. Altre parti del mio corpo... che furono più tardi appagate, lo furono in un modo che direi rituale, compiutamente, con... perfezione clinica. Nessuna parte di me ebbe da lamentarsi, e anche per ciò che riguarda mia moglie, credo che nessuna parte del suo corpo dovette lagnarsi di essere stata trascurata, o usata soltanto per tenerla occupata, per ingannare il tempo... o per dare anche a essa un sia pur miserabile contentino. Comunque quella notte il meglio lo ebbero i polpastrelli delle dita. Il che non vuol dire che scoprii di essere un vecchio... incapace, se gli capitava una donna da far godere, di superare i limiti del preludio. Al contrario, fui un amante così… come un ragazzo di diciassette anni... come un ragazzo di diciassette anni... con la... della sua... ragazza. E altrettanto pieno di meraviglia. Ed era nei polpastrelli delle mie dita che la meraviglia viveva. Calmi, pieni di risorse, giudiziosi, questi... esploratori, questi... strateghi, questi... scout, questi... guerriglieri, si sparpagliarono sul... terreno. E tutte le notizie che raccolsero furono buone... Quella notte mia moglie fu come una schiava... a letto con un imperatore, apparentemente colpita da un attacco di afasia, assolutamente incapace di pronunziare una sola parola della mia lingua. Eppure, come era eloquente: lasciava che i suoi occhi, il suo respiro... esprimessero quel che dovevano, incapace di impedirgli di esprimere quel che dovevano...
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E come fu semplice, sublime, familiare il racconto narrato dal suo... corpo! Fu come se la brezza raccontasse cos'è la brezza, come se la rosa raccontasse quel che è la rosa... Dopo le mie dita astute, assennate, riconoscenti vennero cose più bramose, strumenti di piacere senza memoria, senza maniere, senza pazienza. Strumenti che la mia schiava accolse con uno slancio di uguale... bramosia... finché madre natura che ci sollecitò con le più stravaganti suggestioni, non poté domandare di più. Madre natura in persona... dichiarò che il gioco era finito... Ci staccammo l'uno dall'altra... Per la prima volta da che eravamo saliti sul letto riuscimmo a dire qualcosa di logico. "Salve," disse lei. "Salve," dissi io. "Bentornato a casa," disse lei. Fine del capitolo seicentoquarantatré. Il mattino dopo il cielo sulla città era terso, duro e luminoso; sembrava una cupola incantata che un semplice tocco avrebbe mandato in frantumi, o fatto risuonare come un'immensa campana di vetro. La mia Helga e io sgusciammo svelti sul marciapiede davanti all'albergo. Ero dovizioso nelle mie manifestazioni di cortesia e la mia Helga non fu meno signorile per rispetto e gratitudine. Avevamo passato una notte meravigliosa. Non avevo indosso vecchi abiti militari. M'ero messo i vestiti che portavo quando scappai da Berlino, dopo aver gettato da qualche parte la divisa del Corpo americano dei liberi combattenti. M'ero messo i vestiti - il mantello da impresario con il collo di pelliccia e l'abito blu di saia - che avevo addosso quando mi catturarono. Per sfizio, mi portavo in giro anche un bastone da passeggio. Col bastone feci dei numeri meravigliosi: evoluzioni rococò nel maneggio delle armi, piroette alla Charlie Chaplin, colpi di polo per gettare le immondizie nei tombini. Per tutto il tempo la mano di Helga restò appoggiata al mio saldo braccio sinistro, e s'insinuò in una continua esplorazione erotica nell'area pruriginosa compresa tra l'interno del gomito e il rilievo fibroso del mio bicipite.
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Stavamo andando a comperarci un letto, un letto come quello che avevamo a Berlino. Ma tutti i negozi erano chiusi. Però non era domenica e non riuscivo a immaginare nessun'altra festività. Quando sbucammo nella Quinta strada fummo accolti da uno sventolio di bandiere americane che si perdevano oltre il nostro sguardo. "Buon Dio onnipotente," dissi, chiedendomi tra me cosa stesse succedendo. "Che vorrà dire?" domandò Helga. "Sarà scoppiata la guerra," dissi. Sentii le sue dita stringersi convulsamente al mio braccio. "Non dirai davvero?" disse. Pensava che fosse possibile. "Scherzavo," dissi. "Si tratterà di qualche festa." "Che festa?" Avevo la testa vuota. "Come tuo ospite in questa nostra meravigliosa terra," dissi, "dovrei spiegarti il profondo significato di questo giorno nella nostra vita nazionale, ma non riesco a ricordare niente." "Niente?" disse. "Non sono meno sorpreso di te," dissi. "È come se fossi il sovrano di Cambogia." Un negro in divisa stava scopando il marciapiede davanti a una casa. La sua uniforme blu e oro assomigliava in modo impressionante a quella del Corpo americano dei liberi combattenti, di cui ripeteva perfino la striscia d'un color lavanda pallido che scendeva lungo i lati esterni dei calzoni. Sopra il taschino della giacca spiccava il nome della residenza. Si chiamava Sylvan House benché l'unica pianta in vista fosse un alberello tutto fasciato, corazzato e cinto di filo spinato. Gli chiesi che giorno fosse. Mi disse che era la giornata del veterano. "Ma quanti ne abbiamo?" dissi. "È l'11 di novembre, signore," disse. "L'11 di novembre è la giornata dell'armistizio, non quella del veterano," dissi io. "Ma da dove viene lei?" disse. "L'hanno cambiata non so quanti anni fa!" "La giornata del veterano," dissi a Helga riprendendo a camminare. "Una volta si chiamava giornata dell'armistizio. Adesso è del veterano." 91
"Ti dà fastidio?" disse. "Ah, perdio, è così volgare... così tipico del resto," dissi. "L'11 di novembre era un giorno dedicato ai caduti nella guerra mondiale, ma i vivi non hanno saputo trattenersi dall'affondarci dentro le loro luride mani; hanno voluto arraffare anche la gloria che spettava ai morti. Così tipico, così tipico. Tutte le volte che in questo paese si manifesta qualcosa di dignitoso, bisogna che lo facciano a pezzi e che lo buttino in pasto alla folla." "Tu odi l'America, non è vero?" disse. "Odiarla sarebbe stupido almeno quanto amarla," dissi. "Non riesco a provare nessuna emozione: il terreno di per sé non mi interessa. Sono certo che si tratta di una grande lacuna nella mia personalità, ma non riesco a pensare in termini di confini. Per me quelle linee immaginarie non sono più reali degli elfi e dei folletti. Non posso credere che indichino veramente l'inizio o la fine di qualche cosa di importante per un essere umano. Le virtù e i vizi, il piacere e il dolore attraversano le frontiere a loro piacimento." "Come sei cambiato," disse. "Le guerre mondiali serviranno pure a qualcosa," dissi. "Altrimenti che scopo avrebbero?" "Forse sei così cambiato che non mi ami più," disse. "Forse sono molto cambiata anch'io..." "Dopo una notte come quella che abbiamo passato," dissi, "come puoi sospettare una cosa del genere?" "Be', non è che ne abbiamo parlato molto..." disse. "E di che cosa dovremmo parlare?" dissi. "Niente potrebbe costringermi ad amarti di più o di meno, qualunque cosa tu dicessi. Il nostro amore è troppo profondo perché le parole riescano a toccarlo. È l'amore dell'anima." Sospirò. "Come sarebbe bello... se fosse vero," avvicinò le mani una all'altra, ma senza farle combaciare. "Le nostre anime innamorate." "Un amore che può sopportare qualsiasi cosa," dissi. "E la tua anima sente amore per la mia, adesso?" disse. "Certamente," dissi. "E non potresti ingannarti?" disse. "Sei sicuro che non te ne pentirai?" "Nessun pericolo," dissi. 92
"E niente che io dica potrà rovinarlo?" disse. "Niente," dissi. "Va bene, c'è qualcosa che devo dirti: finora me ne è mancato il coraggio. Ora non ho più paura." "Avanti, dilla," dissi con noncuranza. "Non sono Helga: sono Resi, la sua sorellina."
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Un Casanova poligamo…
Appresa una simile notizia, m'infilai con Resi in un bar lì vicino dove potemmo metterci seduti, a parlare. Il soffitto era alto, le luci spietate. C'era un frastuono del diavolo. "Come hai potuto farmi questo?" dissi. "Perché ti amo," disse. "Come puoi amarmi?" dissi. "Ti ho sempre amato... fin da piccola," disse. Mi misi le mani nei capelli. "È terribile," dissi. "Io... io pensavo che fosse meraviglioso," disse. "Che facciamo adesso?" dissi. "Non possiamo continuare?" disse. "Oh, Cristo... chi ci capisce più niente?" dissi. "Le mie parole hanno spento un amore che non poteva morire, non è vero?" disse. "Non so," dissi. Scossi la testa. "Quale strano delitto ho commesso?" "Sono io quella che ha commesso il delitto," disse. "Devo essere impazzita. Quando sono passata a Berlino ovest, quando mi fecero riempire un modulo, mi chiesero chi ero, che cosa ero... se conoscevo qualcuno..." "Allora tutta quella storia che m'hai raccontato..." dissi, "in Russia, a Dresda... ma c'è niente di vero?" "La manifattura tabacchi a Dresda... quella è vera," disse. "Anche la mia fuga a Berlino è vera. Non molto altro. La manifattura tabacchi è la più vera di tutte... dieci ore al giorno, sei giorni alla settimana, dieci anni." "Mi dispiace," dissi. "Sono io che me ne dispiaccio," disse. "Ne ho passate troppe per permettermi il lusso di sentirmi colpevole. I rimorsi di coscienza sono al di là delle mie possibilità quanto una pelliccia di visone. Solo i sogni potevano aiutarmi a continuare, giorno dopo giorno, e non avevo alcun diritto di sognare." "Perché no?" dissi. "Perché sognavo di essere qualcuno che non ero." "Non ci vedo niente di male," dissi. 94
"Non ci vedi niente di male?" disse. "Pensa a te stesso. Pensa a me. Pensa al nostro amore. Io sognavo di essere Helga, mia sorella Helga, Helga, Helga... ecco chi ero io. La bell'attrice sposata a un affascinante scrittore, ecco chi ero io. Resi, l'operaia della manifattura tabacchi, si era semplicemente dissolta." "Avresti potuto fare una scelta peggiore, non c'è dubbio." Assunse quindi un'aria coraggiosa. "Io sono lei," disse. "Lei. Sono Helga, Helga, Helga. L'hai creduto anche tu. Esiste forse una prova più convincente? Non sono stata Helga, per te?" "Che razza di domande da fare a un gentiluomo," dissi. "Non ho il diritto di sapere la risposta?" disse. "Hai diritto di sapere che la risposta è sì," dissi. "Non posso risponderti che sì, ma devo anche ammettere di non avere il pieno controllo di me stesso. È chiaro che la mia capacità di giudizio, i miei sensi, il mio intuito, non rispondono più come potrebbero." "Ma forse rispondono come dovrebbero," disse. "Forse non sei stato affatto ingannato." "Dimmi cosa hai saputo di Helga," dissi. "Morta," disse. "Sei sicura?" dissi. "Non lo è forse?" disse. "Non lo so," dissi. "Non s'è mai fatta viva," disse. "E con te?" "Mai," dissi. "I vivi danno notizie di sé, non credi?" disse. "Specialmente se amano qualcuno come ti amava Helga." "Parrebbe logico," dissi. "Io ti amo come ti amava Helga," disse. "Grazie," dissi. "E io mi sono fatta viva," disse. "C’è voluto un po', ma mi sono fatta viva." "Certo," dissi. "Quando passai a Berlino ovest," disse, "e mi dettero il modulo da riempire nome, occupazione, il più stretto congiunto ancora al mondo - potei finalmente 95
scegliere. Potevo restare Resi Noth, operaia della manifattura tabacchi, senza parenti al mondo. Oppure diventare Helga Noth, attrice, moglie di un attraente, adorabile, brillante commediografo che viveva negli Stati Uniti." Si chinò verso di me. "Dimmi tu..." disse, "quale delle due avrei dovuto scegliere?" Dio mi perdoni, accettai Resi al posto della mia Helga. Ottenuta questa seconda accettazione, Resi cominciò tuttavia a mostrare, in mille modi diversi, che la sua identificazione con Helga non era così perfetta come aveva detto. E si sentì libera, un po' per volta, di abituarmi a una personalità che non era quella di Helga, ma la sua propria. Questa graduale rivelazione, questo svezzamento dal ricordo di Helga, cominciò non appena fummo usciti dal bar. Mi domandò a bruciapelo qualcosa di tremendamente pratico: "Preferisci che continui a tingermi i capelli di bianco," disse, "o posso farli tornare del mio colore naturale?". "Qual è il tuo colore naturale?" dissi. "Miele," disse. "Un bel colore," dissi. "Anche Helga li aveva così." "I miei tendono di più al rosso," disse. "Sarei curioso di vederli." Camminammo lungo la Quinta strada e dopo un po' mi disse: "Scriverai qualche volta una commedia per me?". "Non so se riuscirò ancora a scrivere," dissi. "Ma non era Helga che ti stimolava a scrivere?" disse. "Non a scrivere, ma a scrivere in un certo modo," dissi. "Scrivevi in un modo particolare... così lei poteva interpretare meglio le parti," disse. "Proprio," dissi. "Scrivevo parti su misura per Helga in modo che, in scena, lei poteva essere la quintessenza di se stessa." "Devi farlo anche per me qualche volta," disse. "Chissà, forse proverò," dissi. "La quintessenza di Resi," disse. "Resi Noth." Guardammo la parata del veterano sfilare lungo la Quinta strada, e per la prima volta sentii ridere Resi. Il suo riso non aveva niente da spartire con quello di 96
Helga, che era come uno stormire di foglie. Il riso di Resi era melodioso, pieno di luce. A divertirla tanto erano state le tamburine della sfilata che incedevano proiettando le gambe a mezz'aria, scodinzolando, e lanciando in alto i loro bastoni cromati. "Non ho mai visto uno spettacolo del genere," mi disse. "Per gli americani la guerra dev'essere stata un'esperienza molto sexy." Continuava a ridere e sporgeva il petto per vedere se anche lei avrebbe potuto andar bene come tamburina. Diventava più giovane ogni minuto che passava, più allegra, più irriverente. I suoi capelli bianchi che poco prima mi avevano fatto pensare a una prematura senescenza, adesso s'erano come rimodernati, tradivano un mondo di acqua ossigenata, di ragazze che scappano di casa per andare a Hollywood. Volgendo le spalle alla parata ci trovammo davanti alla vetrina di un negozio in cui campeggiava un letto dorato, molto simile a quello che avevamo avuto Helga e io. E la vetrina non solo mostrava quel letto wagneriano, ma rifletteva anche due immagini spettrali, Resi e io, dietro cui sfilava uno spettrale corteo. Le pallide ghirlande e la mole massiccia del letto formavano un quadro sconvolgente. Sembrava un'allegoria di marca vittoriana; un dipinto, non brutto, di quelli che si vedono appesi nei bar, con le bandiere sventolanti, il letto dorato, e i due spettri, uno maschio e l'altro femmina. Cosa volesse indicare, quell'allegoria, non saprei dirlo. Però posso offrire qualche suggerimento. Lo spettro maschio sembrava maledettamente vecchio, affamato, corroso dalle tarme. Lo spettro femmina invece, abbastanza giovane per essere sua figlia, era morbido, pieno di salute, scatenato.
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L'antidoto per il comunismo…
Resi e io non avevamo alcuna premura di tornare a casa. Ogni tanto ci fermavamo a guardare le vetrine di mobili, oppure a berci qualcosa. In un bar Resi dovette assentarsi un istante e mi lasciò solo. Mi si avvicinò uno di quei perditempo che stanno tutto il giorno al caffè. "Lo sa lei come si combatte il comunismo?" mi domandò. "N... no," dissi. "Col riarmo morale," disse. "E che diavolo è?" dissi. "È un movimento," disse. "In che direzione?" dissi. "Il movimento del riarmo morale," disse, "propugna la più assoluta onestà, la più assoluta purezza, la più assoluta generosità, l'amore più assoluto." "Gli auguro tutta la fortuna di questo mondo," dissi. In un altro bar Resi e io incontrammo un tale che sosteneva di saper soddisfare, pienamente, sette donne in una sola notte, purché fossero tutte diverse tra loro. "Però devono essere veramente diverse," disse. Mio Dio... le vite che ci si sforza di condurre! Mio Dio... e in che razza di mondo ci si sforza di vivere!
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In cui si racconta del soldato semplice Irving Buchanon e di altri...
Non tornammo a casa che dopo cena; era già buio. Avevamo deciso di passare un'altra notte in albergo. Ci tornammo perché Resi voleva fantasticare un po' su come avremmo riammobiliato l'appartamento, voleva giocare alla casa. "Finalmente ho una casa," disse. "Bisogna viverci dentro un bel po'," dissi, "prima che un appartamento si trasformi nella propria casa." La cassetta della posta era di nuovo piena. Non toccai neanche una lettera. "Chi può averlo fatto?" disse Resi. "Fatto che cosa?" dissi io. "Guarda," disse indicando la targhettina della cassetta con su il mio nome. Qualcuno ci aveva disegnato sopra una svastica d'inchiostro blu. "È l'ultima novità," dissi con fatica. "Forse sarà meglio non salire. Chiunque l'abbia fatto, è probabile che sia lassù ad aspettarci." "Non capisco," disse. "Hai scelto un momento ben disgraziato per venire da me, Resi," dissi. "Avevo questa tana dove tu e io avremmo potuto starcene in pace..." "Una tana?" disse. "Sì, un buco nel terreno, un posto segreto e tranquillo," dissi. "Dio, Dio!..." dissi angosciato, "proprio mentre stavi per raggiungermi, è successo qualcosa che ha spalancato la porta del mio nascondiglio!" Le raccontai come si fosse nuovamente diffusa la mia notorietà. "Adesso i carnivori hanno fiutato la pista e mi stanno accerchiando." "Vai a vivere in un altro paese," disse. "Quale altro paese?" dissi. "Uno qualsiasi," disse. "Non ti mancano mica i soldi per andare dove vuoi." "Dove voglio..." dissi. Proprio allora comparve un omaccione, rugoso e con pochi capelli in testa, con in mano una borsa della spesa. Spinse Resi e me lontano dalla cassetta delle lettere, scusandosi con un tono di voce così grossolano e arrogante che poteva significare tutto tranne che una scusa. 99
"Scusate," disse. Lesse i nomi sulle cassette come un bambino della prima elementare, percorrendoli con il dito, e studiandoli a lungo uno per uno. "Campbell!" disse alla fine, con evidente soddisfazione. "Howard W. Campbell." Si girò verso di me con uno sguardo accusatore. "Lo conosce?" disse. "No," dissi. "Ah no," disse, mentre il viso gli si inondava di malignità. "Eppure lei sembra il suo gemello, tale e quale." Prese una copia del "Daily News" dalla sporta, lo piegò a una delle pagine interne e lo porse a Resi. "Dica un po', sto tipo qui non assomiglia per caso al signore che l'accompagna?" le disse. "Mi faccia vedere," dissi. Presi il giornale dalle dita quasi inerti di Resi e vidi una fotografia di tanti anni prima: eravamo io e il tenente O'Hare, in piedi, davanti alle forche di Ohrdruf. La didascalia sotto la foto diceva che il governo israeliano, dopo quindici anni di ricerche, mi aveva finalmente localizzato. Lo stesso governo aveva già chiesto, a quello degli Stati Uniti, il permesso di estradarmi in Israele dove sarei stato processato. Di che cosa dovevo rispondere? Complicità nell'eccidio di sei milioni di ebrei. L'omaccione mi colpì attraverso il giornale prima che potessi aprire bocca. Mi accasciai, sbattendo la testa contro un bidone della spazzatura. L'uomo incombeva su di me. "Prima che gli ebrei ti mettano in gabbia, o allo zoo, o qualunque altra fine abbiano intenzione di farti fare," disse, "voglio cavarmi il gusto di giocare un po' con te." Scossi la testa, per cercare di chiarirmi le idee. "Un bel colpo, eh, l'hai sentito?" disse. “Sì”, dissi. "Era da parte del soldato semplice Buchanon," disse. "Felice di conoscerla," dissi. "Buchanon è morto," disse. "Era il migliore amico che abbia mai avuto. A cinque miglia da Omaha Beach i tedeschi gli hanno tagliato le balle e l'hanno appeso a un palo del telegrafo." Mi diede un calcio nelle costole, mentre con un braccio teneva lontana Resi. "Questo è da parte di Ansel Brewer," disse, "stritolato da un carro armato, ad Aachen."
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Mi dette un altro calcio. "Da parte di Eddie McCarty, falciato da una pistola automatica, nelle Ardenne," disse. "Gli mancava poco per diventare dottore." Ritrasse il suo enorme piede per colpirmi alla testa. "E questo qui..." disse, e fu tutto quello che ricordo. Il calcio era da parte di qualche altro morto in guerra. Mi mise fuori combattimento. In seguito, Resi mi raccontò le altre cose dette da quell'uomo e mi descrisse il regalo che aveva portato per me nella sua borsa della spesa. "Io sono uno di quelli che la guerra non l'hanno dimenticata," mi diceva benché io non potessi sentirlo. "Tutti gli altri se la sono dimenticata, a quanto mi risulta... ma io no." "Ti ho portato questo," disse, "così potrai risparmiare a tutti un mucchio di seccature." E se ne andò. Resi gettò il cappio nel bidone dei rifiuti dove fu trovato il mattino dopo da uno spazzino di nome Lazio Szombathy. Szombathy, effettivamente, ci si impiccò... ma è un'altra storia. Per quanto mi riguarda: Ripresi conoscenza su di una branda tutta scalcagnata, in una stanza surriscaldata e umida alle cui pareti erano appese bandiere naziste coperte di muffa. C'era un caminetto di cartone, che, assicurano nei grandi magazzini, è quel che ci vuole per passare un buon Natale. Dentro c'erano dei tronchi di betulla, sempre di cartone, una lampadina rossa e la versione in cellophane del fuoco eterno. Sopra il caminetto una cromolitografia di Adolf Hitler, incorniciata da un drappeggio di seta nera. Non avevo indosso che la mia biancheria militare, e un copriletto di finta pelle di leopardo. Gemetti e mi alzai a sedere: nel mio cervello incrociavano centinaia di missili. Abbassai gli occhi sulla pelle di leopardo e bofonchiai qualcosa. "Che cosa dici, tesoro?" disse Resi. Era seduta accanto al letto, ma fino allora non m'ero accorto di lei. "Non dirmi..." implorai coprendomi meglio con la pelle di leopardo, "che sono finito tra gli ottentotti."
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Chi trova ride, chi è trovato piange…
I miei assistenti alle ricerche, giovanotti svegli e pieni d'iniziativa, mi hanno procurato una copia fotostatica dell'articolo apparso sul "New York Times" a proposito della morte di Lazio Szombathy, l'uomo che s'impiccò con la corda di cui avrei dovuto servirmi io. Così anche questa storia sono sicuro di non essermela sognata. Szombathy giocò il suo tiro mancino la sera dopo che io fui pestato. Secondo quel che scriveva il "Times", era venuto in America dopo aver combattuto per la libertà, in Ungheria, contro i russi. Sempre secondo il "Times", Szombathy era un fratricida, avendo ucciso suo fratello Miklos, sottosegretario alla Pubblica istruzione. Prima di concedersi il sonno eterno, Szombathy scrisse un biglietto e se l'appuntò alla gamba dei calzoni. Del suo presunto fratricidio non parlava per niente. Si lamentava invece perché, pur essendo stato uno stimato veterinario al suo paese, qui in America non gli avevano concesso di esercitare la professione. Diceva cose piuttosto spiacevoli a proposito della libertà in America. Pensava che fosse una pura illusione. In un ultimo fandango di paranoia e masochismo, Szombathy terminava l'appunto sostenendo, sia pur velatamente, di conoscere il sistema per curare il cancro. Ma i dottori americani, scriveva, l'avevano sempre preso in giro, tutte le volte che aveva tentato di spiegarglielo. E con questo chiudiamo la storia di Szombathy. Per quanto riguarda invece la stanza in cui mi svegliai dopo la batosta, essa era la cantina in cui il defunto August Krapptauer organizzava l'attività della Guardia di ferro dei figli bianchi della costituzione americana, cioè la cantina del dottor Lionel J.D. Jones, odontoiatra e teologo. Da qualche parte, al piano di sopra, una rotativa stava sfornando copie del "White Christian Minuteman". Da qualche altra stanza dell'interrato, isolata acusticamente solo in parte, giungeva il monotono e irritante rumore di un'esercitazione di tiro al bersaglio. Il primo a prestarmi aiuto, dopo la scarica di botte che avevo preso, era stato il dottor Epstein, lo stesso che aveva stilato l'atto di morte per Krapptauer. 102
Dall'appartamento del dottore, Resi aveva telefonato al dottor Jones per chiedergli consigli e aiuto. "Perché a Jones?" "È l'unica persona che conosca in questo paese di cui potessi fidarmi," disse Resi. "L'unico di cui sapessi con certezza che era dalla tua parte." "Cos'è mai la vita senza amici?" dissi. Io non ricordo, ma Resi sostiene che ripresi conoscenza in casa del dottor Epstein. Jones venne a prenderci con la sua limousine, mi portò all'ospedale dove mi fecero i raggi x. Avevo tre costole rotte. Me le sistemarono. Dopo di che fui portato nella cantina di Jones e messo a letto. "Perché proprio qui?" dissi. "Perché qui siamo al sicuro," disse Resi. "Da che cosa?" dissi. "Dagli ebrei," disse. A questo punto entrò l'autista di Jones, il Führer di Harlem; reggeva un vassoio con sopra delle uova, pane tostato e caffè bollente. Lo posò su di un tavolo. "Mal di testa?" mi chiese. "Sì," dissi. "Prenda un'aspirina," disse. "Grazie per il consiglio," dissi. "C'è ben poco a questo mondo che funzioni..." disse, "ma l'aspirina si salva." "La... la Repubblica d'Israele mi sta proprio alle costole..." dissi a Resi amareggiato. "È vero che vogliono... vogliono processarmi per... quello che dicono i giornali?" "Il dottor Jones dice che il governo americano non glielo permetterà," disse Resi, "però gli ebrei ti faranno rapire, come è successo con Adolf Eichmann." "Un prigioniero di così poco conto..." mormorai. "Non si tratta soltanto di avere un ebreo qui e uno là, che ti danno la caccia," disse il Führer di Harlem. "Che cosa?" dissi. "Voglio dire che adesso hanno un paese anche loro. Ci sono navi da guerra ebree, aeroplani ebrei, carri armati ebrei. Gli ebrei possono sguinzagliarti dietro tutto quello che vogliono; gli manca solo la bomba all'idrogeno." 103
"Ma in nome del cielo, chi è che continua a sparare in questo modo?" dissi. "Non può smettere fin che non mi passa un po' il mal di testa?" "È il tuo amico," disse Resi. "Il dottor Jones?" dissi. "George Kraft," disse. "Kraft?" dissi. "E che ci fa qui?" "Verrà con noi," disse Resi. "E dove?" dissi. "È tutto deciso ormai," disse Resi. "Siamo tutti d'accordo, tesoro... la cosa migliore per noi è andarcene da questo paese. Il dottor Jones ha già preso accordi." "Che genere di accordi?" dissi. "Ha un amico che ha un aereo. Appena ti sentirai meglio, ci saliremo sopra, ci trasferiremo in qualche posto meraviglioso dove non ti conosce nessuno... e cominceremo insieme una nuova vita."
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Bersaglio…
Volli vedere George Kraft, laggiù, nella cantina di Jones. Lo trovai all'entrata di un lungo corridoio sul cui fondo stavano ammucchiati dei sacchi di sabbia. Applicato ai sacchi di sabbia c'era un bersaglio, la sagoma ritagliata di un uomo. Era la caricatura di un ebreo che fuma il sigaro. L'ebreo stava in piedi su un cumulo di croci spezzate e di piccole donne nude. In una mano reggeva un sacco di soldi con su l'etichetta: "Istituto Bancario Internazionale". Nell'altra una bandiera russa. Dalle tasche del vestito piccole figure di padri, madri, bambini, tutti in scala con le donnine che aveva sotto i piedi, imploravano pietà. Non è che si potessero scorgere tutti questi particolari stando all'entrata del corridoio, eppure per rendermene conto non fu necessario che mi avvicinassi. Ero stato io a disegnare quel bersaglio, nel 1941 circa. In Germania ne avevano stampate milioni di copie. I miei superiori ne erano rimasti così entusiasti che mi dettero in premio un prosciutto di cinque chili, cento litri di benzina e una settimana di vacanza, completamente spesata, per me e mia moglie, allo Schreiberhau nei Riesengebirge. Devo ammettere che questo bersaglio rappresenta, per così dire, un eccesso di zelo, visto che i nazisti non mi avevano dato nessun incarico di ordine grafico. Lo riporto soltanto come prova a mio carico. Immagino che nemmeno l'Istituto di Haifa per la documentazione dei crimini di guerra sapesse, fino a questo momento, a chi attribuire la paternità di quel fantoccio. Aggiungo tuttavia che ho disegnato il mostro solo per rinsaldare la mia reputazione di nazista. Praticamente era una caricatura e in tutto il resto del mondo, a parte la Germania e la cantina del dottor Jones, avrebbe certamente suscitato il riso; oltretutto
lo
disegnai
molto
più
dilettantescamente
di
quanto
potessi
effettivamente fare. Comunque ebbe successo. Un successo che mi lasciò sbalordito. La Hitler-Jugend e le reclute delle ss non sparavano praticamente a niente altro, e ricordo che perfino Heinrich Himmler mi mandò una lettera di ringraziamento.
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"Ha migliorato la mia mira del cento per cento," scriveva. "Quale ariano puro potrà guardare questo meraviglioso bersaglio senza sentirsi chiamato a sparare per uccidere?" Guardando Kraft che sparava contro il bersaglio riuscii a cogliere per la prima volta il segreto della sua popolarità. Quel quid di dilettantesco che conteneva lo faceva assomigliare a una figura disegnata sui muri di un gabinetto pubblico, richiamava alla mente la puzza, la penombra malsana, la ripugnante intimità di un orinatoio... illustrava perfettamente la condizione spirituale degli uomini in guerra. L'avevo disegnato meglio di quanto non mi rendessi conto. Kraft, senza accorgersi di me che me ne stavo avvolto nella mia pelle di leopardo, sparò di nuovo. Impugnava una Luger grande quanto un obice da assedio. Comunque era caricata con pallottole calibro ventidue e snocciolava una serie di piccolissimi bang bang. Kraft sparò di nuovo e da un sacco a un buon sessanta centimetri sulla sinistra dell'obiettivo, uscì un fiotto di sabbia. "Prova a tenere gli occhi aperti la prossima volta che spari," dissi. "Oh..." disse abbassando la pistola, "già a spasso?" "Sì," dissi. "Mi dispiace per quel che è successo," disse. "Anche a me," dissi. "Ma forse anche questo male non è venuto per nuocere," disse. "Può darsi che ci metteremo tutti quanti a ringraziare Iddio che sia andata così." "E perché mai?" dissi. "Perché ci ha sbalzato fuori dai cardini," disse. "Su questo non c ’ è alcun dubbio," dissi. "Quando sarai uscito da questo paese con la tua donna, ti circonderai di nuovi oggetti, di nuovi orizzonti, avrai una nuova identità... comincerai di nuovo a scrivere," disse, "e scriverai cento volte meglio di quanto hai fatto fino a oggi. Pensa alla nuova maturazione che potrai trasfondere nella scrittura!" "Mi fa troppo male la testa per..." dissi. "Ti passerà presto," disse. "Non è mica rotta, e potrà comprendere se stessa e il mondo intero con una chiarezza e una passione tali da strappare le lacrime." "Uhm," dissi. 106
"Anche la mia pittura migliorerà con questo cambiamento," disse. "Non sono mai stato ai tropici... quella brutale orgia di colori, il caldo che si vede, che si sente..." "Cos'è questa storia dei tropici?" dissi. "Pensavo che fossimo diretti lì," disse. "Anche Resi vuole andarci." "Vieni anche tu?" dissi. "Ti dispiace?" disse. "Certo che non avete perso tempo mentre dormivo," dissi. "Abbiamo fatto male?" disse Kraft. "Abbiamo forse programmato qualcosa che potrebbe nuocerti?" "George..." dissi, "perché mai tu dovresti spartire con noi la sorte che ci attende? Perché sei sceso anche tu in questa cantina piena di scarafaggi? Tu non hai nemici. Ma se rimarrai con noi, George, allora sarà come invitare i miei nemici a diventare anche i tuoi." Mi mise una mano sulla spalla e mi guardò profondamente negli occhi. "Howard..." disse, "quando mia moglie morì, io non riconobbi più alcun vincolo col mondo. Anch'io ero l'insignificante frammento di uno stato a due. "E poi ho scoperto qualcosa che non avevo mai conosciuto prima... quel che vuol dire avere un amico," disse. "Sono contento di poter condividere la tua sorte, amico. Non mi interessa niente altro. Niente altro mi attrae, neanche minimamente. Con il tuo permesso, io e la mia pittura non chiediamo niente di meglio che di venire con te, dovunque il Fato vorrà spingerti." "Questa... questa è vera amicizia," dissi. "Lo spero," disse.
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Io e Adolf Eichmann…
Passai due giorni in quell'incredibile cantina... i due giorni di un invalido pensoso. La batosta che avevo subito aveva irreparabilmente danneggiato i miei abiti. Così me ne furono dati degli altri prelevati dalle scorte di Jones. Padre Keeley mi dette un paio di calzoni neri, lucidi; il dottor Jones una camicia d'argento, che faceva parte della divisa di un defunto movimento fascista americano chiamato, senza tante cerimonie, Camicie d'argento. Anche il Führer di Harlem contribuì al mio guardaroba con una minuscola giacca sportiva di colore arancione che mi faceva sembrare una di quelle scimmiette che girano le manovelle degli organetti. Resi Noth e George Kraft mi tenevano teneramente compagnia... non solo mi curavano, ma s'erano assunti anche il compito di sognare in mia vece e di pianificarmi il futuro. Il grande sogno era quello di fuggire dall'America al più presto. Le conversazioni, cui partecipavo ben poco, sembravano una specie di roulette in cui invece dei numeri si chiamavano i nomi di certe località piene di sole che passavano per altrettanti paradisi terrestri: Acapulco... Minorca... Rodi... perfino la valle del Kashmir, Zanzibar, e le Isole Andamane. Le notizie che mi venivano dal mondo esterno non erano tali da rendere attraente - e anzi, nemmeno concepibile - uria mia eventuale permanenza negli Stati Uniti. Padre Keeley usciva a comprare i giornali più volte al giorno, e, se proprio avessimo desiderato ulteriori chiarimenti, non avevamo che da accendere la radio. La Repubblica d'Israele, incoraggiata dall'opinione abbastanza diffusa secondo cui io non ero cittadino americano, e anzi non ero cittadino di nessuno stato, aveva richiesto più volte di potermi estradare. I testi delle domande erano stilati in modo da potersi considerare anche sotto una certa luce pedagogica... poiché sostenevano che un propagandista come me era da considerarsi un assassino alla stessa stregua di Heydrich, di Eichmann, di Himmler, insomma di uno qualsiasi di quei grotteschi caporioni. Può darsi. Io, come speaker radiofonico, avevo sperato di essere soltanto ridicolo, ma viviamo in un mondo in cui essere ridicoli non è facile; ci sono troppi esseri 108
umani che non vogliono ridere, che non riescono a pensare; vogliono soltanto credere, arrabbiarsi, odiare. Troppa gente aveva voluto credere in me. Dite quel che volete del sublime miracolo di una fede senza dubbi, ma io continuerò a ritenerla una cosa assolutamente spaventosa e vile. Anche la Germania occidentale chiese al governo degli Stati Uniti se non potessi essere per caso un suo cittadino. Non esistevano testimonianze né in un senso né nell'altro, poiché tutti i miei documenti erano andati distrutti durante la guerra. Se ero un loro concittadino, dicevano i tedeschi, sarebbero stati lieti di processarmi, non meno degli ebrei. Se ero un tedesco, dicevano infatti, non potevano che vergognarsi di avermi come concittadino. La Russia, con un breve comunicato in cui le parole avevano il suono di cuscinetti a sfere caduti su della ghiaia bagnata, sosteneva che non c'era affatto bisogno di processo. Un fascista come me, dicevano i russi, andava schiacciato come uno scarafaggio. Ma era soprattutto la rabbia dei miei vicini che puzzava veramente di morte. I più barbari tra i quotidiani pubblicavano senza alcun commento le lettere che ricevevano da persone che avrebbero voluto rinchiudermi in una gabbia di ferro per farmi girare gli Stati Uniti da una costa all'altra; da eroi che si offrivano volontariamente di far parte del plotone d'esecuzione, come se l'uso di armi portatili fosse una pratica di cui pochi conoscevano il segreto; e ancora da altri che pur non volendomi fare nulla di persona, avevano abbastanza fiducia nella civiltà americana per sapere che c'erano altri, più giovani e più forti di loro, che avrebbero saputo trattarmi come meritavo. La fiducia di questi patrioti che ho menzionato per ultimi, era, ovviamente, giustificata. Mi domando se sia mai esistita una società priva di uomini forti e giovani, desiderosi di fare esperienze omicide, ammettendo, ben inteso, che poi non ci siano pene da scontare. Secondo quanto affermavano i giornali e la radio, persone giustamente irate avevano già fatto contro di me tutto quel che potevano: erano penetrati nel mio malconcio appartamento, mi avevano fracassato le finestre, e distrutto, o prelevato, tutti i miei beni terreni. L'odiato appartamento era ora vigilato dalla polizia ventiquattrore su ventiquattro. 109
Il "Post" di New York uscì con un editoriale in cui spiegava che la polizia non era certo in grado di offrirmi tutta la protezione di cui avevo bisogno, tanto erano numerosi i miei nemici, e tanto, a ragione, desiderosi di uccidermi. Quel che ci voleva, insisteva lugubremente il "Post", era un battaglione di marines che mi stesse intorno per il resto della mia vita. Il "Daily News", sempre di New York, suggeriva che il mio crimine più grande era quello di non essermi ancora tolto la vita, come ogni gentiluomo avrebbe fatto. Evidentemente consideravano Hitler un gentiluomo. Tra parentesi, il "Daily News" pubblicò una lettera di Bernard B. O'Hare, lo stesso che mi aveva fatto prigioniero in Germania, lo stesso che mi aveva scritto, non molto tempo addietro, distribuendo tutte quelle copie per conoscenza. "Lo voglio tutto per me," scriveva O'Hare. "Mi spetta di averlo tutto per me. Io sono quello che l'ha beccato in Germania. Se avessi saputo che se la sarebbe cavata, gliele avrei fatte saltare allora le cervella. Chiunque veda Campbell prima di me, gli dica che Bernie O'Hare sta arrivando direttamente da Boston in aereo." Il "New York Times" diceva che tollerare e perfino proteggere un verme come me era una delle più irritanti necessità di una società veramente libera. Il governo degli Stati Uniti, come aveva detto Resi, non aveva intenzione di consegnarmi alla Repubblica di Israele. La legge non prevedeva un caso del genere. Tuttavia il governo degli Stati Uniti promise di esaminare scrupolosamente la mia situazione, così imbarazzante, per scoprire con esattezza quale fosse la mia posizione, e per scoprire come mai non fossi stato ancora processato. Il governo espresse addirittura una certa imbarazzata sorpresa nell'apprendere che mi trovavo ancora in territorio statunitense. Il "New York Times" pubblicò una mia foto, di quand'ero molto più giovane: il mio volto ufficiale, come nazista e come idolo delle onde corte internazionali. Posso tentare solo approssimativamente di ricordare la data in cui fu scattata la foto... il 1941, credo. Arndt Klopfer, il fotografo che la scattò, fece del suo meglio per ritrarmi come un Gesù Cristo rionale, ricoperto di crema emolliente. Mi fece perfino un alone, una zona di luce nebulosa sapientemente diffusa dietro di me. L'alone tuttavia non era
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un effetto riservato a me soltanto. Tutti quelli che si servivano da Klopfer avevano diritto a un alone, incluso Adolf Eichmann. Per quanto riguarda Eichmann posso affermarlo con tutta certezza, senza chiedere conferma all'Istituto per la documentazione dei crimini di guerra, perché Eichmann entrò nello studio di Klopfer, per farsi fotografare, proprio davanti a me. Fu l'unica volta che l'incontrai... in Germania voglio dire. L'ho rincontrato qui in Israele... due settimane fa, quando fui rinchiuso, solo per poco, nel carcere di Tel Aviv. A proposito di questo incontro: a Tel Aviv mi tennero dentro per ventiquattrore. Mentre andavo verso la cella, le guardie che m'accompagnavano mi fecero fermare davanti alla porta di Eichmann per sentire quel che ci saremmo detti, se mai ci fossimo detti qualcosa. Non ci riconoscemmo e le guardie furono costrette a presentarci. Eichmann stava scrivendo la storia della sua vita, proprio come sto facendo io adesso. Quel vecchio avvoltoio spelacchiato e senza mento che doveva giustificare la scomparsa di sei milioni di ebrei mi sorrise santamente. Mostrava un tenero interesse per il suo lavoro, per me, per i questurini, per la prigione, per tutto e per tutti. Mi sorrise, raggiante, e disse: "Non ce l'ho con nessuno". "Giusto, è così che bisogna fare," dissi. "Ho un consiglio da darle," disse. "Mi farà piacere ascoltarlo," dissi. "Si rilassi," disse, raggiante, luminoso, "si rilassi." "È così che sono finito qua dentro," dissi. "Nella vita si attraversano molte fasi," disse. "Ognuna è diversa dalle altre, e bisogna saper riconoscere quel che siamo tenuti a fare in ciascuna di esse. Questo è il segreto per vivere bene." "È molto gentile da parte sua dividere con me questo segreto," dissi. "Sono uno scrittore adesso," disse. "Non avevo mai pensato di mettermi a scrivere." "Posso farle una domanda personale?" dissi.
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"Certo," disse benignamente. "È proprio la fase in cui mi trovo adesso. L'ora del pensiero e delle risposte. Chieda pure tutto ciò che vuole." "Si sente colpevole dell'assassinio di sei milioni di ebrei?" dissi. "Niente affatto," disse l'architetto di Auschwitz, colui che introdusse i tapis roulant nei crematori, il più grande acquirente, in tutto il mondo, di un gas chiamato Zyklon-B. Per sondare meglio quel che aveva in testa, cercai di stuzzicarlo con quel che mi sembrava un'esoterica illazione. "Lei era un semplice soldato..." dissi, "uno che prendeva ordini dai superiori, come tutti i soldati di questo mondo, non è vero?" Eichmann si girò verso una delle guardie e cominciò a parlare in yiddish, a crepitare in yiddish, come se avesse preso fuoco. Se avesse parlato più adagio, avrei potuto capire anch'io, ma parlava troppo svelto. "Cosa ha detto?" domandai al questurino. "Mi ha chiesto se le abbiamo fatto vedere la sua deposizione," disse la guardia. "Ci ha fatto promettere di non mostrarla a nessuno prima che fosse finita." "Ma non l'ho vista," dissi a Eichmann. "Allora come fa a sapere quale sarà la mia linea di difesa?" disse. Quest'uomo credeva veramente di aver pensato, lui solo, a una difesa tanto ovvia. Senza rendersi conto che tutta una nazione di più di novanta milioni di persone s'era difesa nello stesso identico modo, prima di lui. Talmente meschina era la sua comprensione del divino atto dell'invenzione. Più penso a Eichmann e a me, più mi convinco che Eichmann dovrebbe essere ricoverato al manicomio, e che sono io il tipo di persona per cui gli uomini giusti, onesti, hanno ideato i castighi. Come amico del tribunale che giudicherà Eichmann, sottoscrivo qui la mia opinione che Eichmann non è in grado di distinguere il bene dal male... che non solo il giusto e lo sbagliato, ma anche il vero e il falso, la speranza e la disperazione, il bello e il brutto, la bontà d'animo e la crudeltà, la commedia e la tragedia,
tutto
viene
vagliato
dalla
mente
di
Eichmann
senza
alcuna
discriminazione, come lo sparo di un revolver sepolto da un suono di tromba. Il mio caso è diverso. Quando dico una bugia io me ne rendo sempre conto, e sono capace di immaginarmi le crudeli conseguenze in cui incapperà chiunque creda alle mie bugie, e so anche che la crudeltà è male. Non potrei mentire senza 112
accorgermene così come non riuscirei a evacuare, senza avvertirlo, un calcolo renale. Se c'è un'altra vita, dopo questa, mi piacerebbe molto, nella prossima, essere quel tipo di persona di cui si può dire: "Perdonatelo... poiché non sa quello che fa". Il che non si può dire di me, oggi. L'unico vantaggio che ho tratto dal riconoscere la differenza tra ragione e torto, è, se non vado errato, che riesco ancora a ridere di situazioni in cui Eichmann non vede niente di spiritoso. "Lei scrive ancora?" mi domandò Eichmann a Tel Aviv. "Un ultimo libro..." dissi, "una specie di lavoro su commissione, ordinatomi dagli archivi di stato." "Lei è uno scrittore professionista?" disse. "Così si dice," dissi. "Mi dica..." disse, "lei dedica allo scrivere una certa parte della giornata, regolarmente, anche se non si sente in vena... o aspetta che arrivi l'ispirazione, giorno e notte?" "Stabilisco un orario," dissi, ricordandomi di tanti anni addietro. Riebbi un poco della sua stima. "Certo, certo..." disse, facendo di sì con la testa, "un orario. Sono giunto anch'io alla stessa conclusione. Certe volte non faccio altro che fissare il bianco dei fogli, eppure sto lì seduto a guardare per tutto il tempo che avevo destinato allo scrivere. E dica, è di qualche aiuto l'alcol?" "Soltanto in apparenza... uno stimolo che dura tutt'al più mezz'ora," dissi. Anche questa opinione, riemergeva allora dagli anni della giovinezza. Eichmann disse una battuta di spirito. "Senta..." disse, "a proposito di quei sei milioni di ebrei..." “Sì?” dissi. "Potrei risparmiarne un po' per il suo libro," disse. "Non penso che mi occorreranno proprio tutti." Offro questa battuta alla storia, supponendo che nessun registratore abbia inciso la nostra conversazione. Fu questo uno dei memorabili detti del Gengis Khan della burocrazia. È anche possibile del resto che Eichmann volesse farmi ammettere di aver ammazzato un mucchio di persone. Ma per quante altre qualità gli si vogliano 113
attribuire, dubito fortemente che fosse così astuto. Penso anzi, che se ne avessimo veramente discusso, dei sei milioni di omicidi che generalmente gli si imputano, non me ne avrebbe concesso neanche uno. Dopo tutto se avesse cominciato a disfarsi di tutti quegli omicidi, allora sarebbe scomparso anche Eichmann, cioè l'idea che Eichmann aveva di se stesso. Poi le guardie mi portarono via, e l'unico altro contatto che ebbi con l'uomo del secolo, fu sotto forma di un biglietto, misteriosamente contrabbandato dalla prigione di Tel Aviv fino alla mia, a Gerusalemme. Il biglietto fu lasciato cadere ai miei piedi da uno sconosciuto, nel cortile della ricreazione. Lo raccolsi, lo lessi; ecco quello che diceva: "Pensa che un agente letterario sia assolutamente indispensabile?". Il biglietto era firmato da Eichmann. Questa
fu
la
mia
risposta:
"Per
i
club
del
libro,
cinematografiche, negli Stati Uniti d'America, certamente sì".
114
eventuali
riduzioni
Don Chisciotte…
Saremmo andati a Città del Messico... Kraft, Resi e io. Questo il piano prescelto. Il dottor Jones non solo ci metteva a disposizione il mezzo di trasporto, ma avrebbe anche fatto in modo che qualcuno venisse a prenderci, una volta giunti a destinazione. Da Città del Messico avremmo esplorato il paese in automobile, per cercarci qualche tranquillo villaggio dove passare il resto dei nostri giorni. Il piano rispondeva certamente al sogno favoloso che avevo fatto tante volte a occhi aperti. E sembrava non solamente possibile, ma certo addirittura, che avrei ripreso a scrivere. Lo dissi, timidamente, a Resi. Lei pianse di gioia. Di vera gioia? Chi lo sa. Posso solo garantire che le lacrime erano bagnate e sapevano di sale. "Ho forse avuto qualche parte anch'io nel compiersi di questo stupendo, divino miracolo?" disse. "Sei tu che l'hai compiuto," dissi tenendola stretta. "No, no... ho fatto molto poco," disse, "però un po', grazie a Dio, l'ho fatto. Il grande miracolo è il talento con cui sei nato." "Il grande miracolo," dissi, "è il tuo potere di risuscitare i morti." "L'amore ha questo potere," disse. "Ha risuscitato anche me. Credevi che fossi viva... prima di incontrarti?" "Forse scriverò proprio di questo," dissi, "nel nostro villaggio là in Messico, sull'orlo del Pacifico... non credi che sia la prima cosa di cui debba scrivere?" "Oh sì... sì, sì... tesoro, tesoro," disse. "Vedrai come avrò cura di te, mentre tu scriverai. Ti avanzerà... ti resterà un po' di tempo per me?" "I pomeriggi, le sere, e le notti," dissi. "Potrò darti tutto questo tempo." "Hai già pensato a un nome?" disse. "A un nome?" dissi. "Il tuo nuovo nome... il nome del nuovo scrittore i cui stupendi lavori provengono misteriosamente dal Messico," disse. "Io sarò la signora..." "Señora..." dissi. 115
"Señora chi?" disse. "Señor e Señora chi?" "Battezzaci tu," dissi. "È troppo importante perché lo decida in quattro e quattr'otto," disse. A questo punto entrò Kraft. Resi gli chiese di suggerirmi uno pseudonimo. "Che direste di Don Chisciotte?" disse. "Il che," disse a Resi, "farebbe di te Dulcinea del Toboso, e io firmerei i miei quadri col nome di Sancio Panza." Poi entrò il dottor Jones, accompagnato da padre Keeley. "L'aereo sarà a vostra disposizione domattina," disse. "È sicuro di sentirsi abbastanza bene per viaggiare?" "Sto già bene adesso," dissi. "L'uomo che verrà a prendervi a Città del Messico si chiama Arndt Klopfer," disse Jones. "Cercate di ricordarvelo." "Il fotografo?" dissi. "Lo conosce?" disse Jones. "È lui che ha fatto la mia fotografia ufficiale, a Berlino," dissi. "Adesso è il più grande fabbricante di birra di tutto il Messico," disse Jones. "All'anima," dissi. "L'ultima volta che ne sentii parlare fu quando il suo studio venne colpito da una bomba da cinquecento libbre." "Non si possono frenare gli uomini in gamba," disse Jones. "Ora padre Keeley e io avremo un favore particolare da chiederle." "Cioè?" dissi. "Stasera c'è l'adunanza settimanale della Guardia di ferro dei figli bianchi della costituzione americana," disse Jones. "Padre Keeley e io vorremmo organizzare una specie di cerimonia commemorativa per il povero August Krapptauer." "Capisco," dissi. "Padre Keeley e io pensiamo che né io né lui avremmo la forza di tesserne il panegirico senza scoppiare in lacrime," disse Jones. "Sarebbe per noi due uno sforzo emotivo superiore alle nostre forze. Ci domandavamo se lei, un celeberrimo conferenziere, un uomo dalla lingua d'oro, se si può dire... ci chiedevamo se avrebbe accettato l'onore di dire due parole." Come avrei potuto rifiutare. "Grazie, signori," dissi. "Un panegirico?" "Padre Keeley ha già pensato a un tema: se le può essere di aiuto..."
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"Di grande aiuto, lo sarebbe senz'altro," dissi. "Voglio dire che mi farebbe comodo." Padre Keeley si schiarì la gola. "Penso," disse quel vecchio prete scervellato, "che il tema debba essere: La sua fede vincerà."
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La sua fede vincerà…
La Guardia di ferro dei figli bianchi della costituzione americana prese posto sulle sedie pieghevoli disposte a file nella sala caldaie del seminterrato del dottor Jones. Erano venti ragazzi in tutto, dai sedici ai ventanni. Erano tutti biondi. Erano tutti sopra il metro e ottanta. Vestivano piuttosto bene: abito completo, camicia bianca e cravatta. L'unico particolare che li identificava come appartenenti alla Guardia di ferro, era un pezzetto di nastro dorato infilato nell'occhiello del risvolto destro della giacca. Non avrei notato questo strano fregio nell'occhiello del risvolto destro, risvolto che di solito è senza occhiello, se il dottor Jones non me lo avesse fatto notare. "È così che si identificano a vicenda, anche quando non portano il nastrino," disse. "E possono veder aumentare le loro fila," disse, "senza che nessun altro se ne accorga." "E devono andare tutti dal sarto e insistere che gli faccia un occhiello nel risvolto destro?" dissi. "Se lo fanno fare dalla mamma," disse padre Keeley. Keeley, Jones, Resi e io stavamo seduti su di una piattaforma rialzata davanti alle Guardie di ferro, con la schiena rivolta alle caldaie. Resi sedeva anche lei sulla piattaforma, perché aveva accettato di dire ai ragazzi due parole sulle esperienze di prima mano che aveva avuto col comunismo, oltre la cortina di ferro. "I sarti sono quasi tutti ebrei," disse il dottor Jones. "Non vogliamo abbassarci a questi compromessi." "Oltretutto..." disse padre Keeley, "è bene che anche le madri partecipino in qualche modo." Per il momento l'autista di Jones, il Führer di Harlem, era anche lui sulla piattaforma, e stava appendendo un gran telone alle nostre spalle, agganciandone gli anelli fissati agli angoli alle condutture del riscaldamento. Ecco quel che c'era scritto sopra: "Istruitevi più che potete. Siate sempre i primi della classe in tutto. Tenete pulito e forte il vostro corpo. Pensate ai fatti vostri". "Sono tutti ragazzi del vicinato?" chiesi a Jones. 118
"Oh, no," disse Jones. "Ce ne sono soltanto otto di New York. Nove sono del New Jersey, due vengono da Peekskill - i gemelli - e uno nientemeno che da Filadelfia." "E viene tutte le settimane da Filadelfia?" dissi. "Dove altro potrebbe trovare quel che August Krapptauer gli offriva qui?" disse Jones. "Come sono stati arruolati?" dissi. "Tramite il mio giornale," disse Jones, "ma la verità è che si sono arruolati da soli. Genitori coscienziosi e preoccupati continuavano a scrivere al 'White Christian Minute-man' per chiedermi se non esistesse per caso qualche movimento giovanile inteso a vigilare sulla purezza del sangue americano. Una delle lettere più strazianti che abbia mai letto, me la scrisse una donna di Bernardsville, nel New Jersey. Aveva permesso al suo ragazzo di diventare boy scout senza rendersi conto che il vero nome dell'associazione
BSA
(Boys Scouts of America) dovrebbe
essere: Balordi e Semiti d'America. Il ragazzo diventò dunque uno scout scelto, poi andò sotto le armi e fu mandato in Giappone. Se ne tornò a casa con una moglie giapponese." "Quando August Krapptauer lesse quella lettera, scoppiò in lacrime," disse padre Keeley. "Fu allora che capì, vecchio e stanco com'era, che doveva ricominciare a lavorare per i giovani." Padre Keeley invitò l'adunanza al silenzio, e ci fece pregare. Era una preghiera convenzionale in cui si domandava coraggio per affrontare le orde nemiche. Però conteneva lo stesso una nota che convenzionale non poteva dirsi: qualcosa che non avevo mai sentito prima, nemmeno in Germania. Il Führer di Harlem stava in piedi in fondo alla stanza davanti a un tamburo. Il timpano era coperto... coperto, guardacaso, dalla finta pelle di leopardo che avevo indossato poco prima come vestaglia da camera. Alla fine di ogni strofa della preghiera, il Führer dei negri percuoteva il tamburo infagottato. Il discorso di Resi sugli orrori della vita dietro la cortina di ferro fu breve, insulso, e così insoddisfacente da un punto di vista educativo che Jones dovette soccorrerla più volte con dei suggerimenti. "I comunisti più convinti e più attivi sono gli ebrei e gli orientali, non è vero?" le chiese. "Che cosa?" disse. 119
"Naturale che lo sono," disse Jones. "Non c'è neanche bisogno di dirlo," disse, e concluse per lei piuttosto bruscamente. Dov'era George Kraft? Seduto in platea, nell'ultima fila, vicino al tamburo infagottato. Fu quindi la mia volta. Jones mi presentò come un uomo per cui ogni presentazione era superflua. Ma disse che non dovevo ancora cominciare a parlare perché prima dovevano mostrarmi una sorpresa. Fu veramente una sorpresa. Il Führer dei negri abbandonò il tamburo, si diresse a un reostato accanto all'interruttore, e mentre Jones parlava, lui gradualmente attenuava le luci. Jones parlò, nel buio che si addensava, del clima intellettuale e morale dell'America durante la Secondai guerra mondiale. Disse come, per i loro ideali, venissero perseguitati uomini bianchi d'ingegno, colmi di spirito patriottico, e come, alla fine, fosse impossibile trovare un solo patriota americano che non stesse marcendo in qualche carcere federale. "Non c'era luogo dove gli americani potessero trovare la verità," disse. Ora la stanza era immersa nel buio più totale. "Quasi nessun posto," disse Jones nella tenebra. "A meno che uno non fosse così fortunato da avere una radio a onde corte," disse, "allora gli restava una fonte di verità... una soltanto." Poi, nel buio, si cominciarono a udire gli scricchiolii e i sussurri, le tipiche interferenze dei programmi a onde corte, un brano di francese, un frammento di tedesco, un brano della prima sinfonia di Brahms che sembrava suonata con degli zufoli... poi, chiaro e squillante... È Howard W. Campbell, jr., uno dei pochi americani rimasti liberi, che vi parla dalla libera Berlino. Desidero dare il benvenuto ai miei compatrioti, il che vuol dire ai gentili di pelle bianca della Centoseiesima divisione che questa sera si accamperà davanti a St. Vith. Posso assicurare i genitori dei ragazzi di questa verde divisione che la zona è al momento
tranquilla.
Il
Quattrocentoquarantaduesimo
e
il
Quattrocento-
quarantaquattresimo reggimento formano la prima linea... il Quattrocentoventitreesimo è di rincalzo. C'è un bell'articolo sul numero del "Reader's Digest" di questa settimana, intitolato: Non ci sono atei nelle trincee. Vorrei ampliare un poco il discorso e dirvi che, sebbene questa guerra l'abbiano voluta gli ebrei, e sebbene siano loro gli unici che pos-
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sano vincerla, pure nelle trincee non ci sono ebrei. I fucilieri della Centoseiesima divisione possono confermarvelo. Gli ebrei sono così occupati a fare l'inventario delle loro merci, in fureria, oppure a contare soldi, negli uffici paga, o ancora a vendere sigarette alla borsa nera, o calze di nailon a Parigi, che non avranno mai il tempo per poter dare uno sguardo al fronte, nemmeno da cento miglia di distanza. Voi che siete nelle vostre case, genitori e parenti dei ragazzi al fronte... voglio che pensiate a tutti gli ebrei di vostra conoscenza. Voglio che ci pensiate bene. Ora, lasciate che vi chieda... la guerra li sta facendo diventare più ricchi o più poveri? Mangiano meglio o peggio di voi che avete il cibo razionato? Si vestono meglio o peggio di voi? Vi pare che abbiano più o meno benzina di voi? Le risposte a tutte queste domande io le conosco già, e anche voi le saprete, se solo aprirete gli occhi e ci penserete sopra per un minuto. Ora lasciate che vi chieda questo: Conoscete una sola famiglia ebrea che abbia ricevuto un telegramma da Washington, una volta capitale di un popolo libero... conoscete una sola famiglia ebrea che abbia ricevuto un telegramma da Washington, che cominci così: Il sottosegretario alla Guerra mi chiede di esprimerle il suo profondo rincrescimento per la perdita di...
E così via. La voce di Howard W. Campbell, jr., l'americano libero, riempì il buio della cantina per quindici minuti buoni. E se butto lì, tanto per dire, un "e così via" non lo faccio certo per cercare di sopprimere la mia infamia. L'Istituto di Haifa per la documentazione dei crimini di guerra possiede le registrazioni di tutte le trasmissioni che Howard W. Campbell, jr., abbia mandato in onda. Se qualcuno volesse esaminare dette trasmissioni, per enuclearne le mie più vergognose affermazioni, non ho alcuna obiezione se tali estratti verranno stampati in appendice al presente racconto. Non mi sogno neppure di negare di averle fatte. Tutto quel che posso dire è che non ci credevo, che sapevo fin troppo bene di dire cose stupide, distruttive, e così ridicole da essere perfino oscene. L'esperienza di starmene seduto, al buio, ad ascoltare le cose che avevo detto, non mi scosse. Sarà forse di qualche aiuto per la mia difesa affermare che cominciai tutta un tratto a sudare freddo, o qualche altra sciocchezza del genere. Ma mi sono sempre reso conto di quel che stavo facendo. Sono sempre stato 121
capace di sopportare quel che facevo. Come? Grazie al semplice e diffuso beneficio di cui gode tutta l'odierna umanità: la schizofrenia. In quel buio, mi accadde anche qualcosa che vale la pena di riportare. Qualcuno mi ficcò in tasca un biglietto, e lo fece con intenzionale goffaggine, proprio per farmi capire che mi aveva messo in tasca un biglietto. Quando si riaccese la luce, non riuscii assolutamente a indovinare chi potesse avermelo passato. Tessi l'elogio di August Krapptauer, dicendo, tra l'altro, di essere convinto che il tipo di verità propugnato da Krapptauer non si sarebbe probabilmente mai più allontanato dall’umanità, almeno finché ci fossero stati uomini e donne capaci di ascoltare la voce del cuore, anziché quella della mente. L'uditorio mi applaudì a lungo e il Führer dei negri fece eco con un brontolio di tamburo. Andai alla toeletta per leggere il biglietto. Il messaggio era scritto a stampatello su un foglietto di carta rigata, strappato da un block-notes. Diceva: "Porta della carbonaia aperta. Esca subito. L'aspetto in un negozio vuoto dall'altra parte della strada. Urgente. La sua vita è in pericolo. Inghiotta questo messaggio". Era firmato dalla mia fata turchina, dal colonnello Frank Wirtanen.
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Rosenfeld…
Alvin Dobrowitz, il mio avvocato qui a Gerusalemme, dice che se riuscissi a produrre una testimonianza, anche una sola, di qualcuno che mi abbia visto con l'uomo noto come colonnello Frank Wirtanen, allora verrei sicuramente assolto. Incontrai Frank Wirtanen tre volte: prima della guerra, subito dopo, e da ultimo nel retro di un negozio vuoto, di fronte alla casa del reverendo dottor Lionel J.D. Jones, odontoiatra e teologo. Soltanto la prima volta, la volta della panchina nel parco, ci fu qualcuno che ci vide insieme. Ma non erano certo i tipi da trattenere le nostre immagini nella memoria, almeno non più di quanto potessero farlo gli uccelli o gli scoiattoli. La seconda volta che lo incontrai fu a Wiesbaden, in Germania. Eravamo nel refettorio di ciò che un tempo era stata una scuola allievi ufficiali del reparto genieri della Wehrmacht. C'era un grande mosaico sulla parete del salone: un carro armato che avanzava lungo un dolce e tortuoso viottolo di campagna. Il sole brillava. Il cielo era terso. Quella scena bucolica stava per essere ridotta in frantumi. In un boschetto, in primo piano, era effigiato un allegro gruppetto di Robin Hood con in testa elmetti d'acciaio, genieri la cui prossima birichinata sarebbe stata quella di minare il viottolo, e di completare la festa ormai imminente con un cannone anticarro e una mitragliatrice leggera. Erano così contenti... Come mai mi trovavo a Wiesbaden? Ero stato prelevato il 15 di aprile da un recinto di prigionieri di guerra della terza armata, vicino a Ohrdruf, tre giorni dopo essere stato catturato dal tenente Bernard B. O'Hare. Fui portato a Wiesbaden su di una jeep, sotto la custodia di un tenente il cui nome mi è sconosciuto. Ci scambiammo sì e no due parole. Il tenente non mi trovava molto interessante. Per quasi tutto il viaggio sembrò semisoffocato da una rabbia di cui io non ero per niente responsabile. Che fosse stato disprezzato, insultato, imbrogliato, diffamato, penosamente incompreso? Chi lo sa! A ogni modo, non credo che come testimone sarebbe di grande aiuto. Stava eseguendo ordini che lo annoiavano. Chiese la strada per raggiungere il campo, e 123
poi quella che portava al refettorio. Mi lasciò sulla porta del refettorio, dicendomi di entrare e di aspettare. Poi se ne andò sulla jeep, lasciandomi senza scorta. Entrai, ma avrei potuto tranquillamente andarmene a zonzo per la campagna. Dentro quel melanconico granaio adattato a refettorio, tutta sola, seduta su di un tavolo proprio sotto il mosaico, c'era la mia fata turchina. Wirtanen aveva indosso l'uniforme militare... giubba con cerniera lampo, calzoni e camicia grigioverdi (la camicia era slacciata), stivali da combattimento. Non portava armi. E nemmeno mostrine che ne indicassero il grado o il reparto. Aveva le gambe corte. Quando lo vidi le teneva penzoloni giù dal tavolo, e i piedi erano un bel po' sollevati da terra. Doveva avere al minimo un cinquantacinque anni, sette di più da quando l'avevo visto per la prima volta. Era calvo. Era anche ingrassato. Il colonnello Frank Wirtanen aveva quello sguardo strafottente e rosato, come quello di un bambino, che la vittoria, e una tenuta di guerra americana, riescono a conferire a tanti uomini già avanti con gli anni. Era felice di vedermi e mi strinse la mano con calore. Disse: "Be'... che gliene è parso di questa guerra, Campbell?". "Avrei preferito restarne fuori," dissi. "Sono contento, comunque, che sia riuscito a scamparla," disse. "Un sacco di gente, invece, non ce l'ha fatta." "Lo so," dissi. "Mia moglie per esempio." "Mi dispiace," disse. "Ho saputo della sua scomparsa lo stesso giorno che l'ha saputo lei." “E come?” "Da lei," disse. "Fu una delle informazioni che trasmise quella sera." Sapere che avevo trasmesso la notizia cifrata della scomparsa della mia Helga, senza nemmeno rendermene conto, per un motivo o per l'altro, mi dette più fastidio di qualsiasi altro episodio di quell'avventura. Mi dà fastidio anche adesso, solo a pensarci. Perché, non lo so. Forse perché sottolineava quanto fossero distanti tra loro le diverse parti che interpretavo nella vita. In quel momento cruciale della mia esistenza, quando dovevo assuefarmi all'idea che la mia Helga era morta, avrei voluto disperarmi come un'anima torturata, 124
indivisibile. Ma no. Una parte di me comunicava al mondo il messaggio cifrato della tragedia. Il resto non si accorgeva neanche che stava trasmettendo una notizia. "Erano queste le informazioni militari così preziose che dovevano uscire dalla Germania, a rischio di farmici rimettere l'osso del collo?" dissi a Wirtanen. "Certamente," disse. "Cominciammo ad agire nel momento stesso in cui la ricevemmo." "Ad agire?" dissi, senza aver capito. "Ad agire come?" "Per trovare qualcuno che potesse sostituirla," disse Wirtanen. "Eravamo convinti che si sarebbe tolto la vita prima del nuovo sorgere del sole." "Avrei dovuto," dissi. "È centomila volte meglio così," disse. "È centomila volte peggio," dissi. "Non pensa anche lei che un uomo come me, che ha passato tanto della sua vita in teatro, dovrebbe saper riconoscere esattamente il momento in cui l'eroe deve morire?... se vuol essere un vero eroe." Feci schioccare leggermente le dita. "Così fallisce il dramma scritto su di Helga e su di me, Uno stato a due, " dissi, "perché non ho raccolto l'invito per la grande scena del suicidio." "Non ammiro il suicidio," disse Wirtanen. "Io ammiro la forma," dissi. "Ammiro le cose che hanno un principio, una metà, e una fine... e, tutte le volte che si può, anche una morale." "Forse c'è ancora qualche probabilità che sia viva," disse Wirtanen. "Un finale a piacere," dissi. "Non ha importanza. Il dramma è terminato." "Ha detto qualcosa a proposito di morale?" disse. "Se mi fossi ucciso quando lei s'aspettava che lo facessi," dissi, "forse gliene sarebbe venuta in mente una." "Devo pensarci su..." disse. "Faccia con comodo," dissi. "Non sono abituato a considerare il lato formale delle cose, o la loro morale," disse. "Se lei fosse morto, avrei probabilmente detto qualcosa come: 'Maledizione, e adesso cosa facciamo?'. È già abbastanza faticoso seppellire la gente, senza dover trarre una morale da ogni morte," disse. "Metà dei cadaveri non si sa neanche come si chiamano. Forse avrei detto che lei era un buon soldato." 125
"Lo ero?" dissi. "Di tutti gli agenti che consideravo, per così dire, i miei pupilli, lei è l'unico che non ci abbia tradito e abbia superato vivo la guerra," disse. "Ieri sera ho fatto qualche calcolo, Campbell... e mi sono accorto che di persone come lei, vive cioè, e di cui ci si possa fidare, ce n'è una ogni quarantadue." "E cosa è successo a quelli che mi passavano le informazioni?" dissi. "Morti, tutti morti," disse. "Erano donne, tra l'altro. Sette in tutto... e ognuna di loro, prima che venisse presa, viveva per l'unico scopo di passarle delle informazioni. Ci pensi, Campbell... sette donne che lei non deluse mai... e alla fine morirono per una missione cui lei soltanto aveva il potere di dare significato. E non ce ne fu una che, fatta prigioniera, la tradisse. Pensi anche a questo." "Non posso accettare la sua gentile offerta di materiale cui pensare," dissi a Wirtanen. "Non voglio detrarre nulla alla sua statura di maestro e di filosofo, ma avevo già alcune cose cui pensare, anche prima di questo nostro felice incontro. Così, adesso cosa mi capiterà?" "Lei è già bell'e scomparso un'altra volta," disse. "Non è più prigioniero della terza armata, e qui non ci sono documenti comprovanti il suo arrivo." Distese le palme delle mani. "Dove le piacerebbe andare, e chi vorrebbe essere?" "Immagino che non mi aspetti nessuna ovazione, né a casa né altrove." "Difficile," disse. "Notizie dei miei genitori?" dissi. "Mi dispiace doverle comunicare..." disse, "che sono morti quattro mesi fa." "Tutti e due?" dissi. "Prima morì suo padre... sua madre ventiquattro ore dopo. Cuore in entrambi i casi," disse. Piansi un poco, poi scrollai la testa. "Nessuno gli ha mai detto quale fosse il mio vero lavoro?" "Una nostra emittente, nel cuore di Berlino, era molto più importante della tranquillità di due vecchi," disse. "Ne dubito," dissi. "Lei può dubitarne finché crede," disse. "Io no." "E quanti erano a sapere del mio lavoro?" dissi. "Di quello buono, o di quello cattivo?" disse. 126
"Quello buono," dissi. "Eravamo in tre a saperlo," disse. "Così tanti?" dissi. "Fin troppi," disse. "Eravamo, io, il generale Donovan e un altro." "In tutto il mondo c'erano tre persone soltanto che mi conoscevano," dissi. "E tutti gli altri..." mi strinsi nelle spalle. "La conoscevano anche per quello che lei era veramente," disse brusco Wirtanen. "Non io, un altro individuo," dissi sorpreso dal suo tono sgarbato. "Chiunque fosse..." disse, "era uno dei più fottuti bastardi che siano mai esistiti." Non credevo ai miei occhi, Wirtanen era livido di rabbia. "Lei se la prende con me... dopo tutto quel che sa?" dissi. "Come avrei potuto sopravvivere, altrimenti?" "Un problema che riguardava lei," disse. "Pochi uomini avrebbero saputo risolverlo con tanta perfezione." "Lei pensa che io fossi un nazista?" dissi. "Certamente che lo era," disse. "Uno storico che abbia un po' di sale in zucca non potrebbe classificarla diversamente. Mi permetta una domanda..." "Quante ne vuole," dissi. "Se la Germania avesse vinto, se avesse davvero conquistato il mondo..." s'interruppe, inclinò la testa. "Immagino che abbia già capito dove voglio arrivare." "Come sarei vissuto?" dissi. "Che sentimenti avrei provato? Cosa avrei fatto?" "Per l'appunto,"
disse. "Lei ci
avrà
certamente pensato, quando
si ha
un'immaginazione come la sua..." "La mia immaginazione non è più quella di una volta," dissi. "Una delle prime cose che imparai quando divenni una spia fu che non avrei più potuto concedermi il lusso di immaginare." "Non sa rispondere alla mia domanda?" disse. "Questa occasione non è peggiore di tante altre per vedere se me ne è rimasta qualche briciola," dissi. "Mi lasci riflettere un minuto..." "Tutto il tempo che le occorre," disse. Cercai di proiettarmi nella situazione cui alludeva Wirtanen, e da quel che rimaneva della mia immaginazione emerse una risposta corrosiva e cinica. "È 127
molto probabile," dissi, "che sarei diventato una specie di Edgar Guest 18 del nazismo, e avrei scritto per qualche giornale degli editoriali pieni di ottimistiche baggianate. Poi, all'affacciarsi della senilità - il tramonto della vita, come dicono avrei forse cominciato a credere a quel che affermavo nei miei distici: che ogni cosa andava, con ogni probabilità, nel migliore dei modi." Mi strinsi di nuovo nelle spalle. "Avrei ammazzato qualcuno? Ne dubito. Avrei organizzato un attentato dinamitardo? Questo è già più probabile; ma devo dire che pur avendo sentito esplodere un mucchio di bombe, non mi hanno mai dato l'impressione di essere mezzi efficaci per far funzionare il mondo. Solo di una cosa posso assicurarla. Che non avrei mai più scritto un altro dramma. Non ne sarò mai più capace. "L'unica possibilità che compissi qualcosa di violento a favore della verità e della giustizia," dissi alla mia fata turchina, "sarebbe stata imputabile a follia congiunta a furia omicida. E sarebbe potuto succedere benissimo. Nella situazione che lei suggerisce, un bel giorno, trovandomi a camminare in una strada perfettamente tranquilla, avrei potuto mettermi a correre all'impazzata con in mano un'arma micidiale. Ma solo la fortuna più cieca avrebbe potuto decidere se l'omicidio di cui fossi stato responsabile sarebbe in qualche modo servito a migliorare il mondo. "Ritiene che abbia risposto abbastanza onestamente alla sua domanda?" gli chiesi. Si, grazie, disse. "Mi classifichi pure sotto la voce nazista," dissi con stanchezza. "Classifichi come le pare. M'impicchi, se pensa che ciò servirebbe ad alzare il livello generale della moralità. Questa vita non è poi un tesoro così grande. Non ho piani per il dopoguerra." "Voglio solo che cerchi di capire quanto poco possiamo fare per lei," disse. "E vedo che capisce." "Quanto poco?" dissi. "Una falsa identità, qualche suggerimento per sviare le tracce, e un passaggio dovunque pensa di poter ricominciare una nuova vita..." disse. "Un po' di soldi. Non molti, un po'." "Soldi?" dissi. "A che punto sono arrivate le quotazioni per i miei servizi?" 18
Verseggiatore americano (1881-1959). Scrisse ottimistiche poesiole d'argomento casalingo.
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"È l'usanza," disse. "Un'usanza che risale ai tempi della guerra civile." "Cioè?" dissi. "La paga di un soldato semplice," disse. "Basta che io lo dichiari e le verrà retribuita dal giorno in cui ci siamo incontrati al Tiergarten fino a oggi." "Molto generoso," dissi. "La generosità non c'entra in questa faccenda," disse. "Alle spie veramente in gamba dei soldi non gliene importa niente. Farebbe una gran differenza se le pagassimo gli arretrati di un generale?" "No," dissi. "O se non la pagassimo del tutto?" "Nessuna differenza," dissi. "Non si tratta quasi mai di soldi," disse Wirtanen. "E nemmeno di patriottismo." "Di cosa si tratta allora?" "Ognuno deve rispondere per sé," disse. "Di solito lo spionaggio offre all'uomo la possibilità di sfogare la propria pazzia. È una tentazione così forte che quasi tutti la trovano irresistibile." "Interessante," dissi, tanto per parlare. Batté le mani per spezzare l'atmosfera vacua in cui stavo precipitando. "Allora..." disse, "a proposito del passaggio, dove vuole andare?" "Tahiti?" dissi. "Se, lo dice lei," disse. "Io suggerisco New York. Lì può confondersi senza tanti sforzi, e c'è un sacco di lavoro, se ne vuole." "D'accordo... New York," dissi. "Bene, allora facciamo le foto per il passaporto. Fra tre ore sarà a bordo di un aereo, lontano da qui," disse. Attraversammo insieme il campo d'addestramento, deserto, su cui si sollevavano qua e là dei mulinelli di polvere. Cominciai a fantasticare. Mi pareva che i mulinelli fossero spettri di cadetti morti in guerra, che piroettavano e danzavano sul campo d'addestramento, ognuno per conto proprio. Danzavano senza tanto rispetto per le regole marziali, ma così, come gli piaceva. "Quando le ho detto che eravamo solo in tre a conoscere il segreto delle sue trasmissioni cifrate..." disse Wirtanen. "Be'?" dissi. 129
"Non mi ha chiesto chi fosse il terzo," disse. "È qualcuno di cui ho sentito parlare?" dissi. "Certo," disse. "Ora è morto, purtroppo. Lei lo prendeva di mira in quasi tutte le sue trasmissioni." "Eh?" dissi. "Si
chiamava
Franklin
Delano
Roosevelt,"
allegramente, tutte le sere."
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disse
Wirtanen.
"L'ascoltava
Il comunismo solleva il capo…
La terza e, secondo tutte le indicazioni, ultima volta che incontrai la mia fata turchina, fu, come ho detto, in quel negozio vuoto sull'altro lato della strada di Jones; sull'altro lato della strada dove Resi, George Kraft e io stavamo nascosti. Prima di infilarmi in quell'antro nero ci pensai due volte. M'aspettavo, a ragione, di trovarci dentro di tutto, tranne che amici: forse un drappello di ex combattenti dell'omonima Associazione, forse un plotone di paracadutisti israeliani pronti a balzarmi addosso. Avevo con me una pistola, una delle Luger della Guardia di ferro, caricata con proiettili calibro ventidue. Non la tenevo in tasca, ma in mano, carica, senza la sicura, pronta per l'uso. Raggiunsi la facciata del negozio senza espormi. L'entrata era buia. Poi avanzai verso il retro schizzando da un mucchio di bidoni d'immondizie all'altro. Chiunque avesse tentato di saltarmi addosso, di saltare addosso a Howard W. Campbell, jr., l'avrei riempito di buchi, come una stoffa crivellata dall'ago della macchina per cucire. Debbo anche dire che fu allora, in quella serie di piccole corse e di balzi per mettermi al coperto, che cominciai ad apprezzare la fanteria, qualsiasi fanteria. L'uomo, io credo, è un animale da fanteria. Scorsi una luce nel retro del negozio. Guardai attraverso la finestra e potei osservare una scena di grande serenità. Il colonnello Frank Wirtanen, la mia fata turchina, stava di nuovo seduto su un tavolo, e di nuovo aspettava me. Era vecchio ormai, e lucido e senza un capello, come Buddha. Entrai. "Avrei giurato che fosse in pensione da tempo," dissi. "Lo sono..." disse. "Già da otto anni. Mi sono fatto una casa in riva a un lago, nel Maine, con le mie sole braccia, un'accetta e un piccone. Ma sono stato richiamato per un po' come specialista." "In che cosa?" dissi. "In lei," disse. "Perché questo improvviso interesse per me?" dissi. "È proprio quello che sono incaricato di scoprire," disse. 131
"Non è un mistero per nessuno il perché Israele mi stia dando la caccia," dissi. "D'accordo," disse. "Il mistero è un altro; non riusciamo a capire perché i russi la ritengano una preda così ambita." "Russi?" dissi. "Quali russi?" "La ragazza, Resi Noth... e il vecchio, il pittore, quello che chiamano George Kraft," disse Wirtanen. "Sono due spie comuniste. È dal 1941 che teniamo d'occhio quello che si fa chiamare Kraft. E la ragazza, siamo stati noi a facilitarle l'ingresso negli Stati Uniti, proprio per scoprire quel che c'era venuta a fare."
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Alles kaputt…
Mi sedetti costernato su una cassa. "Con poche parole ben scelte," dissi, "lei mi ha distrutto. Solo due minuti fa mi sentivo un padreterno, e ora... "Amico, sogni, amante..." aggiunsi, "alles kaputt." "Le è rimasto l'amico," disse Wirtanen. "Che cosa vuol dire?" dissi. "È uguale a lei," disse Wirtanen. "Può vivere diverse vite, tutte insieme... e con sincerità." Sorrise. "È un dono." "Che piani aveva per me?" "Voleva toglierla da questo paese, e portarla in un altro dove avrebbero potuto rapirla senza suscitare troppe complicazioni internazionali. Ha raccontato a Jones di lei, gli ha detto dove abitava, ha solleticato O'Hare e gli altri patrioti... faceva tutto parte di un piano per poterla togliere di qui." "Il Messico... era riuscito a ficcarmelo in testa," dissi. "Lo so," disse Wirtanen. "C'è un aereo a Città del Messico che la sta già aspettando. Se decidesse di andarci non rimarrebbe a terra più di due minuti. Ripartirebbe immediatamente per Mosca col primo jet, senza neanche spendere un soldo." "Anche il dottor Jones fa parte della cricca?" dissi. "No," disse Wirtanen. "Jones la considera veramente prezioso e vuole proteggerla. È una delle poche persone di cui può fidarsi." "E perché vorrebbero portarmi a Mosca?" dissi. "Che cosa vogliono da me i russi... da un vecchio residuato della Seconda guerra mondiale, ormai completamente ammuffito?" "Vogliono mostrare al mondo quale razza di fascisti accolga il nostro paese," disse Wirtanen. "Sperano anche di farle ammettere l'esistenza di chissà quali strani intrallazzi tra gli americani e i nazisti, all'inizio del regime hitleriano." "Perché dovrei confessare una cosa del genere?" dissi. "Pensano forse di costringermi? E come?" "È semplice," disse Wirtanen. "È ovvio." "Tortura?" dissi. 133
"Probabilmente no," disse Wirtanen. "Solo morte." "Non ho paura," dissi. "Ma non ammazzerebbero mica lei," disse Wirtanen. "E chi allora?" dissi. "La ragazza di cui è innamorato, e che è innamorata di lei..." disse Wirtanen. "La morte, nel caso che lei non volesse collaborare, toccherebbe alla piccola Resi Noth."
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Quaranta rubli in più…
"Il suo compito era di farmi innamorare?" "Sì," disse Wirtanen. "C'è riuscita molto bene..." dissi tristemente, "non che fosse un'impresa molto difficile." "Mi dispiace darle queste notizie," disse Wirtanen. "Ora riesco a spiegarmi certi misteri... non che volessi spiegarli a tutti i costi," dissi. "Sa che cosa aveva nella valigia?" "Tutti i suoi lavori?" disse. "Ma lei sa proprio tutto! Chissà quanto avranno faticato per procurarle delle pezze d'appoggio di quel genere. Come avranno saputo che i manoscritti si trovavano in quel posto e non in un altro?" "I suoi manoscritti non erano più a Berlino. Erano già stati accuratamente riposti su qualche scaffale, a Mosca," disse Wirtanen. "E come sono finiti fin là?" dissi. "Vennero usati come prova a carico nel processo contro Stepan Bodovskov," disse. "Chi?" "Stepan Bodovskov, un caporale interprete che entrò a Berlino con il primo contingente di russi," disse Wirtanen. "Trovò il baule con dentro i suoi scritti nella soffitta di un teatro. Lo tenne come bottino." "Capirà che bottino!" dissi. "Nelle sue mani divenne una fortuna," disse Wirtanen. "Bodovskov parlava il tedesco speditamente. Esaminò il contenuto del baule, e capì che con quel baule per le mani la sua carriera era belle fatta. "Cominciò, timidamente, a tradurre qualche poesia che mandò a una rivista letteraria. Le poesie furono pubblicate e lodate. "Allora Bodovskov tentò con un dramma," disse Wirtanen. "Quale?" dissi.
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"Il calice," disse Wirtanen. "Bodovskov lo tradusse in russo e si guadagnò una villa sul Mar Nero quasi prim'ancora che togliessero i sacchi di sabbia dalle finestre del Cremlino." "Fu messo in scena?" dissi. "Non solo fu messo in scena," disse Wirtanen, "ma continua a esserlo da compagnie sia di dilettanti sia di professionisti, in tutta la Russia. Il calice è l'equivalente, nel teatro russo contemporaneo, di La zia di Carlo. Lei è molto più vivo di quanto pensava, non è vero Campbell?" "La mia fede vincerà," mormorai. "Prego?" disse Wirtanen. "Dico che non ricordo nemmeno la trama del mio dramma," dissi. Me la raccontò Wirtanen. "Una vergine d'immacolata virtù," disse, "fa la guardia al Sacro Graal. Lo concederà solamente a un cavaliere che sia puro come lei. Arriva un cavaliere, ed è abbastanza puro per conquistare il Graal. "Conquistando il Graal, egli fa innamorare di sé la ragazza, e anche lui se ne innamora," disse Wirtanen. "Devo proprio raccontare, a lei che l'ha scritto, come va a finire?" "È... è come se l'avesse scritto Bodovskov..." dissi. "È come se lo sentissi per la prima volta." "Il cavaliere e la giovane..." disse Wirtanen, continuando il racconto, "cominciano a
fare dei pensieri impuri l'uno
nei riguardi dell'altra, tendendo
così,
involontariamente, a dissociare se stessi dall'impegno del Graal. L'eroina sollecita l'eroe a fuggire col Graal, prima di rendersene indegno. L'eroe vorrebbe invece fuggire senza il Graal, lasciando all'eroina tutta la virtù che la rende degna di custodirlo. "È l'eroe che decide per tutti e due," disse Wirtanen, "poiché entrambi erano diventati impuri almeno col pensiero. Il Sacro Graal scompare. Allora, sbalorditi da questa inspiegabile prova della loro depravazione, i due amanti confermano la propria dannazione, di cui sono ormai fermamente convinti, con una tenera notte d'amore. "Il mattino seguente, rassegnati ormai alle fiamme dell'inferno, promettono di rendersi la vita così piacevole l'uno per l'altra che le fiamme dell'inferno saranno un prezzo ben disprezzabile a confronto. A questo punto ricompare il Sacro Graal 136
e gli comunica che in cielo non si condanna un amore così forte come il loro. Poi il Graal se ne va via di nuovo, per sempre, permettendo all'eroe e all'eroina di vivere felici per il resto dei loro giorni." "Mio Dio... l'ho scritto davvero io?" dissi. "Stalin ne era entusiasta," disse Wirtanen. "E gli altri drammi?..." dissi. "Messi in scena, tutti quanti, tutti con successo," disse Wirtanen. "Ma il successo più grande di Bodovskov fu Il calice, è così?" dissi. "No, fu il libro, quello che gli andò meglio di tutto," disse Wirtanen. "Bodovskov ha scritto un libro?" dissi. "No, lo ha scritto lei," disse Wirtanen. "Mai," dissi. "Memorie di un Casanova monogamo?" disse Wirtanen. "Ma era impubblicabile!" dissi. "C'è un editore a Budapest che si sorprenderebbe molto di una simile affermazione," disse Wirtanen. "Credo che abbia tirato qualcosa come mezzo milione di copie." "I comunisti permettono che un libro come quello circoli liberamente?" dissi. "Le Memorie di un Casanova monogamo è un curioso capitoletto di storia russa," disse Wirtanen. "Certo che non poteva avere un'approvazione ufficiale... eppure era un esempio di libro pornografico così attraente, così stranamente morale, così a puntino in una nazione che soffre per la mancanza di tutto tranne che di uomini e donne, che a Budapest si sentirono, come dire, incoraggiati a stamparlo... e nessuno ha mai ordinato di smettere." Wirtanen mi strizzò l'occhio. "Uno dei pochi, maliziosi, divertenti, innocui reati che un russo possa commettere senza correre alcun rischio consiste nel portarsi a casa, clandestinamente, una copia di Memorie di un Casanova monogamo. E per chi fa tutto questo? A chi mostrerà questo bocconcino piccante? Alla sua vecchia amica, alla custode del suo buon umore, sua moglie. "Per anni," disse Wirtanen, "non ci fu che un'edizione russa. Ma oggi lo si può trovare in ungherese, rumeno, lituano, estone e, quel che più meraviglia, anche in tedesco." "E Bodovskov passa per l'autore?" dissi. 137
"È opinione comune che l'abbia scritto lui, benché il libro non rechi indicazione né dell'autore, né dell'editore; anche l'illustratore è apparentemente sconosciuto." "Illustratore?" dissi, fulminato dall'idea che ci fossero immagini di Helga e di me, che saltellavamo nudi. "Quattordici tavole in quadricromia..." disse Wirtanen, "quaranta rubli in più."
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Tutto tranne gli strilli…
"Se almeno non fosse illustrato!" dissi a Wirtanen con rabbia. "Che differenza c'è?" disse. "È una mutilazione!" dissi. "Le immagini non possono fare altro che mutilare le parole. Erano state concepite per vivere da sole, senza figure! Con le immagini, non sono più le stesse parole!" Si strinse nelle spalle. "Credo che non possa farci proprio nulla," disse, "a meno che non voglia dichiarare guerra alla Russia." Ebbi un tremito e chiusi gli occhi. "Com'è che dicono nei mattatoi di Chicago, a proposito dei maiali?" "Non so," disse Wirtanen. "Si vantano di saper utilizzare tutta la bestia, tutto tranne gli strilli," dissi. "È così?" disse Wirtanen. "È così che mi sento adesso..." dissi, "come un maiale squartato che gli esperti hanno saputo utilizzare da capo a piedi. Perdio... credo che di me siano riusciti a utilizzare anche gli strilli. La parte di me che voleva dire la verità è stata adoperata per spargere menzogne. L'amante che viveva in me, è diventato un pornografo. L'artista si è mutato in un tale squallore che raramente il mondo ne ha visto l'eguale. "Perfino i ricordi cui ero più affezionato sono stati tramutati in cibo per gatti, colla e salsicce," dissi. "Quali ricordi?" disse Wirtanen. "Di Helga... la mia Helga," dissi. E piansi. "Resi li ha sacrificati agli interessi dell'Unione Sovietica. Per lei io ho tradito quelle memorie, e non potranno mai più essere le stesse." Aprii gli occhi. "Vadano a farsi fottere tutti quanti," dissi con calma. "Immagino che i maiali e io dovremmo sentirci onorati di avere delle persone che lavorano per dimostrare quanto siamo importanti. Di una cosa sola sono contento..." "Quale?" disse Wirtanen.
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"Sono contento per Bodovskov," dissi. "Sono contento che qualcuno possa vivere come un artista sfruttando quel che avevo fatto io. Ma mi ha detto che l'hanno arrestato, o sbaglio?" "Arrestato, processato e fucilato," disse Wirtanen. "Per plagio?" "No, per originalità," disse Wirtanen. "Il plagio è il più stupido dei reati. Che male c ’ è a scrivere qualcosa che è già stato scritto? La vera originalità, quella sì è una colpa,
che
richiede
molto
spesso
insoliti
e crudeli
castighi,
in
attesa,
naturalmente, del colpo di grazia." "Non capisco," dissi. "Il suo amico Kraft-Potapov capì che l'autore di un mucchio di cose attribuite a Bodovskov era lei," disse Wirtanen. "Informò Mosca dei suoi sospetti. La villa di Bodovskov fu messa sottosopra. Nel pagliaio della stalla fu rinvenuto il magico baule che conteneva i suoi scritti." "E allora?..." dissi. "Ogni parola che lei aveva riposto in quel baule era stata pubblicata," disse Wirtanen. "E allora?..." "Bodovskov aveva cominciato a riempire il baule con delle opere di sua invenzione," disse Wirtanen. "La polizia scoprì così una satira sull'Armata rossa lunga duemila pagine, scritta in stile decisamente non bodovskoviano. Per questa sua condotta non bodovskoviana, Bodovskov è stato fucilato. "Ma ora basta col passato!" disse Wirtanen. "Ascolti quel che devo dirle sul suo futuro. Tra circa mezz'ora," disse dando un'occhiata all'orologio, "la polizia farà un'incursione nella casa di Jones. Il posto è già circondato. Voglio che lei non ci si trovi dentro, sarà un bel caos anche senza di lei." "Ha in mente un posto dove potrei andare?" "Non torni all'appartamento," disse. "I patrioti glielo hanno distrutto. E distruggerebbero probabilmente anche lei se capitasse loro tra le mani." "Che ne sarà di Resi?" dissi. "Verrà soltanto espulsa," disse Wirtanen. "Non ha commesso nessun crimine." "E di Kraft?" dissi. "Una lunga vacanza in galera," disse. "Non c'è da preoccuparsi. Penso che in ogni caso preferirebbe andare in galera piuttosto che tornarsene in patria. Il reverendo 140
Lionel J.D. Jones, odontoiatra e teologo," disse Wirtanen, "tornerà in prigione per possesso illegale di armi da fuoco e tutte le altre infrazioni di natura propriamente criminale che riusciremo a imputargli. Non ci sono piani per quel che riguarda padre Keeley, per cui immagino che finirà nuovamente nei bassifondi. Anche il Führer dei negri si lascerà andare alla deriva." "E le Guardie di ferro?" dissi. "Le Guardie di ferro dei figli bianchi della costituzione americana," disse Wirtanen, "dovranno ascoltare una conferenza che dimostrerà loro in maniera piuttosto efficace come, nel nostro paese, gli eserciti privati, gli omicidi, le mutilazioni, i disordini, il tradimento, e il rovesciamento del governo con la forza, debbano considerarsi illegali. Saranno quindi rispediti a casa a educare i loro genitori, ammesso che sia possibile." Guardò di nuovo l'orologio. "Sarà meglio che vada ora... si allontani dal quartiere." "Posso chiederle chi è la spia in casa di Jones?" dissi. "Chi m'ha fatto scivolare in tasca il messaggio che m'invitava a venire qui?" "Certo che può chiedermelo," disse Wirtanen. "Ma può star sicuro che non glielo dirò." "Non si fida di me fino a questo punto?" dissi. "Come potrei fidarmi di un uomo che è stato una spia così in gamba?" disse Wirtanen. "Eh, come potrei?"
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La vecchia regola d'oro…
Lasciai Wirtanen. Ma fatti pochi passi mi resi conto che l'unico posto dove volessi andare era la cantina di Jones, dov'erano la mia amante e il mio migliore amico. Ora li conoscevo per quel che erano, ma restava il fatto che, comunque, erano tutto quello che avevo. Ripercorsi la stessa strada da cui ero venuto, e m'infilai di nuovo attraverso la porta della carbonaia di Jones. Quando tornai Resi, padre Keeley e il Führer dei negri stavano giocando a carte. Nessuno si era accorto della mia assenza. La Guardia di ferro dei figli bianchi della costituzione americana era ancora riunita nella sala caldaie per una lezione sugli omaggi che si rendono alla bandiera. Faceva lezione uno dei ragazzi. Jones era andato di sopra a scrivere, a creare. Kraft, il gran maestro delle spie russe, stava leggendo un numero di "Life" che aveva in copertina una fotografia di Wernher von Braun. Stava esaminandone le pagine centrali, che teneva spalancate, su cui era riprodotta una palude dell'era dei grandi sauri. Si sentiva la voce di una radiolina. Annunciò una canzone. Il titolo mi si stampò chiaro nella memoria. E il fatto che me lo ricordi non deve considerarsi un miracolo assoluto di memoria. Era un titolo adatto a quel momento... ora che ci penso, ce n'è pochi di momenti per cui non sarebbe adatto. La vecchia regola d'oro. Dietro mia richiesta, l'Istituto di Haifa per la documentazione dei crimini di guerra ha rintracciato quei versi. Dice: Oh, baby, baby, baby, Why do you break my heart this way? You say you want to go steady, But then all you do is stray. I’m so confused, I'm not amused,
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You make me feel like such a fool. You smile and He, You make me cry. Why don't you learn that old Golden Rule?19
"A cosa giocate?" dissi a quelli delle carte. "Peppa Tencia," disse padre Keeley. Giocava con molta serietà. Voleva vincere, e vidi che aveva in mano la regina di picche, la Peppa Tencia. Mi dipingerei come un individuo più umano, cioè a dire più amabile, se a questo punto dichiarassi che mi sentivo prudere dappertutto, che sbattevo le palpebre e stavo quasi per svenire sommerso da un senso di irrealtà. Mi dispiace. Non è vero. Confesso questa mia spaventosa lacuna. Tutto quello che vedo o sento, o assaggio, o tocco, o annuso, per me è reale. Gioco con i miei sensi con una tale credulità che per me, in pratica, di irreale non c'è nulla. È così ben corazzata questa mia credulità che non è mai venuta meno, neanche quando ero ubriaco, o avevo preso una botta in testa, e nemmeno in occasione di una bizzarra avventura, che con questa storia tuttavia non ha nulla a che vedere: la volta che mi trovai sotto l'effetto della cocaina. Laggiù, nella cantina di Jones, Kraft mi mostrò la copertina di "Life" con la fotografia di von Braun e mi domandò se lo conoscevo. "Von Braun?" dissi. "Il Thomas Jefferson dell'età dello spazio? Sicuro. Il barone ha danzato con mia moglie una volta ad Amburgo, alla festa per il compleanno del generale Walter Dornberger." "Balla bene?" disse Kraft. "Più o meno come Topolino..." dissi, "come ballavano con impegno tutti i caporioni nazisti, quando non potevano farne a meno." "Pensi che ti riconoscerebbe?" disse Kraft. "Senza dubbio," dissi. "L'ho incontrato circa un mese fa mentre camminavo lungo la Cinquantesima strada, e mi ha chiamato per nome. Era molto sorpreso di vedermi così mal combinato. Conosce un sacco di gente nelle relazioni pubbliche e s'è offerto di parlare con qualcuno di loro per farmi avere un posto." "Tu saresti molto bravo nelle relazioni pubbliche," disse Kraft. Oh, baby, baby, baby, / perché mi spezzi il cuore? / Dici che vuoi essere la mia ragazza, / ma poi non fai altro che civettare con gli altri. / Sono così confuso, / non mi diverto più, / mi fai sentire come uno stupido. / Sorridi e racconti bugie, / mi fai piangere. / Perché non impari la vecchia regola 19
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"Non ho forti convinzioni personali per cui mi sarebbe abbastanza facile accondiscendere alle richieste dei clienti." Il gioco della Peppa Tencia s'interruppe. Padre Keeley aveva perso. Questo vecchio e illibato signore non era riuscito a spuntarla con la Peppa Tencia. "Be'," disse padre Keeley, con l'aria di chi ha vinto molte altre volte, e sa di poter contare su un futuro ancora ricco di soddisfazioni. "Non si può vincere sempre." Lui e il Fuhrer dei negri andarono di sopra fermandosi a ogni gradino per contare fino a venti. Allora Resi, Kraft-Potapov e io rimanemmo soli. Resi mi venne vicino, mi mise le braccia intorno alla vita e mi appoggiò la guancia sul petto. "Pensa, tesoro..." disse. "Uhm?" dissi. "Domani saremo in Messico," disse. “Ah," dissi. “Mi sembri preoccupato," disse. “Io preoccupato?" dissi. "Sì, preoccupato," disse. "Ti sembro preoccupato?" dissi a Kraft. Stava di nuovo studiando l'illustrazione della palude. "No," disse. "Sono il vecchio Campbell di sempre," dissi. Kraft indicò col dito uno pterodattilo che volteggiava sopra la palude. "Chi penserebbe mai che un bestione del genere potesse volare?" disse. "Chi avrebbe mai pensato che una vecchia scarpa sgangherata come me potesse conquistare il cuore di una così bella ragazza, e avere anche un amico fedele e così pieno di talento?" dissi. "Per me amarti è molto facile," disse Resi. "Lo è sempre stato." "Stavo pensando..." dissi. "A che cosa?" disse Resi. "Forse il Messico non è proprio il paese che fa per noi," dissi. "Non siamo mica obbligati a restarci," disse Kraft. "Forse... all'aeroporto di Città del Messico..." dissi, "forse potremmo prendere subito un altro aereo..." d'oro?
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Kraft ripose la rivista. "Per andare dove?" disse. "Non so," dissi. "Basta andare da qualche parte alla svelta. Sarà forse l'idea di viaggiare che mi eccita. Sono stato fermo per tanto di quel tempo!" "Uhm," disse Kraft. "Potremmo andare a Mosca," dissi. "Che cosa?" disse Kraft non credendo ai suoi orecchi. "Mosca," dissi. "Mi piacerebbe molto vedere Mosca." "Che idea!" disse Kraft. "Non ti andrebbe?" dissi. "Be'... dovrei pensarci su," disse. Resi fece per allontanarsi da me, ma io la tenni stretta. "Facci un pensiero anche tu," le dissi. "Ci penserò, se lo vuoi," disse debolmente. "Per Giuda," dissi, e la scossi un po' per cercare di comunicarle il mio entusiasmo. "Più ci penso e più lo trovo eccitante," dissi. "Se anche stessimo soltanto due minuti a Città del Messico, il tempo di scendere da un aereo e salire su un altro, per me sarebbe più che abbastanza." Kraft si alzò, agitando con cura le dita. "Stai scherzando?" disse. "Credi?" dissi. "Un vecchio amico come te dovrebbe capire se sto scherzando o no." "Stai scherzando," disse. "Cosa c ’ è a Mosca che ti interessa tanto?" "Vorrei rintracciare un mio vecchio amico," dissi. "Non sapevo che avessi un amico a Mosca," disse. "Non so se è proprio a Mosca... so solo che è in Russia," dissi. "Dovrei fare delle ricerche." "Come si chiama?" disse Kraft. "Stepan Bodovskov..." dissi, "lo scrittore." "Ah," disse Kraft. Si rimise seduto e prese di nuovo in mano la rivista. "Ne hai sentito parlare?" dissi. "No," disse. "E di un certo colonnello Iona Potapov?" dissi. Resi si svincolò da me, e si appoggiò con le spalle al muro più lontano. "Conosci Potapov?" le chiesi. 145
"No," disse. "E tu," domandai a Kraft. "No," disse. "Perché me ne parli?" "È una spia comunista," dissi. "Sta tentando di farmi andare a Città del Messico dove qualcuno mi rapirà per portarmi a Mosca, dove poi verrò processato." "No!" disse Resi. "Sta' zitta!" le disse Kraft. Si alzò, gettò via la rivista. Tentò di prendere un piccolo revolver che aveva in tasca, ma io gli avevo già puntato contro la Luger. Lo costrinsi a gettare a terra il revolver. "Guarda un po'..." disse con sorpresa, come uno che si trovasse lì per caso, "cowboy e indiani." "Howard..." disse Resi. "Non dire una parola," l'ammonì Kraft. "Tesoro..." disse Resi in lacrime, "il nostro viaggio in Messico... Era davvero un sogno che stava per divenire realtà! Tutti noi stiamo scappando!" Aprì le braccia. "Domani..." disse debolmente. "Domani..." mormorò di nuovo. Poi si avvicinò a Kraft, come se volesse artigliarlo. Ma non c'era forza nelle sue mani. Lo strinsero con troppa debolezza. "Saremmo tutti quanti rinati a una vita nuova," gli disse con affanno. "Anche tu... non è vero? Non... non lo volevi anche tu? Come potevi parlare con tanto calore delle nostre nuove vite, senza desiderarle veramente?" Kraft non rispose. Resi si voltò verso di me. "Sono una spia comunista... d'accordo. E anche lui. Lui è il colonnello Iona Potapov. E il nostro compito era quello di portarti a Mosca. Ma io non avrei continuato fino in fondo... perché ti amo, perché l'amore che mi hai dato è il solo che abbia mai avuto e che mai avrò. "Ti avevo detto che non sarei andata avanti con questa faccenda, di' la verità," disse a Kraft. "Me lo aveva detto," disse Kraft. "E lui era d'accordo con me," disse Resi. "E gli è venuta in mente questa idea del Messico, dove saremmo stati tutti fuori pericolo... e avremmo vissuto felici per sempre." "Come l'hai scoperto?" mi chiese Kraft. 146
"Il controspionaggio americano non ha perso una sola battuta del vostro gioco," dissi. "Il posto è circondato. Siete fregati."
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Ah, dolce mistero della vita…
Dell'incursione... Di Resi Noth... Di come morì... Di come morì tra le mie braccia, là sotto, nella cantina del reverendo dottor Lionel J.D. Jones, odontoiatra e teologo. Nessuno se l'aspettava. Resi sembrava così favorevole alla vita, così giustamente desiderosa di viverla, che non m'era mai neanche passato per la testa che potesse preferire la morte. Io ero un uomo che conosceva abbastanza il mondo, oppure un uomo abbastanza privo di immaginazione - come preferite - per pensare che una ragazza così giovane, così carina e intelligente, avrebbe saputo godersela, dovunque il destino e la politica l'avessero sbattuta. E, come le dissi, per lei non c'era in serbo niente altro che un'espulsione. "Tutto qua," dissi. "Sono quasi sicuro che non dovrai nemmeno pagarti il viaggio di ritorno." "Non ti dispiace di vedermi partire?" disse. "Certamente che mi dispiace," dissi. "Ma non posso fare assolutamente niente per tenerti con me. Ormai è questione di minuti: la polizia farà irruzione qui dentro e ti arresterà. Non pretenderai mica che mi metta a combattere contro di loro, vero?" "Non combatterai?" disse. "Certo che non combatterò!" dissi. "Quante probabilità avrei di sconfiggerli?" "Importa forse qualcosa?" disse. "Non mi stai chiedendo..." dissi, "perché non muoia anch'io per amore come i cavalieri nei drammi di Howard W. Campbell, jr.?" Mi misi a ridere. "Resi, tesoro," dissi, "hai tutta la vita davanti a te." "Ho tutta una vita dietro di me..." disse, "tutta in queste poche dolci ore con te." "Mi ricorda un verso che avrei potuto scrivere io quando ero giovane," dissi. "È un verso che hai scritto quand'eri giovane," disse. "Un giovane stolto," dissi. "Adoro quel giovane," disse. "Quando te ne innamorasti?" dissi. "Da bambina?" 148
"Da bambina... e poi da grande," disse. "Quando mi dettero tutte le cose che avevi scritto e mi dissero di studiarle, fu allora che mi innamorai di nuovo." "Mi dispiace... non posso congratularmi con te per le tue preferenze letterarie," dissi. "Non credi più che l'amore sia l'unica cosa per cui valga la pena di vivere?" disse. "No," dissi. "Allora dimmi una cosa per cui valga la pena di vivere... una qualunque," implorò. "Non è necessario che sia l'amore. Una cosa qualunque!" E indicò alcuni oggetti di quella
squallida
stanza,
interpretando
con
sottile
drammaturgia
la
mia
sensazione che il mondo non fosse altro che un magazzino di rifiuti. "Vivrò per quella sedia, per quel quadro, per quella conduttura, quel divano, quella crepa nel muro. Dimmi di vivere per uno di questi oggetti e lo farò," gridava. Poi le sue mani senza più forza si strinsero su di me. Teneva gli occhi chiusi e piangeva. "Non dev'essere per forza l'amore," mormorò. "Ma allora suggeriscimi qualcos'altro." "Resi..." dissi gentilmente. "Dimmi!" disse, e le tornò forza nelle mani che si accanirono con dolce violenza sui miei abiti. "Io sono vecchio..." dissi senza convinzione. Mentivo, da vigliacco. Io non sono vecchio. "D'accordo, vecchio... dimmi per cosa dovrei vivere," disse. "Dimmi per cosa vivi tu, e io vivrò per la stessa ragione... qui o diecimila chilometri lontano da qui. Dimmi perché tu vuoi continuare a vivere, così potrò continuare a vivere anch'io!" Fu allora che la polizia penetrò nell'appartamento. Le forze dell'ordine e della legge irruppero da ogni porta, agitando rivoltelle, soffiando nei fischietti, illuminando con fari accecanti un luogo già perfettamente illuminato. Erano un piccolo esercito. Gridavano come bambini intorno all'albero di Natale. Gridavano, con enfasi melodrammatica, per tutti i terribili oggetti di cui era piena la cantina. Resi, Kraft-Potapov e io ce ne trovammo addosso una dozzina, tutti giovani, virtuosi, e con le guance rosse come mele. Mi tolsero la Luger, ci trattarono come bambole di pezza e ci perquisirono per vedere se avessimo indosso altre armi. 149
Altri razziatori scesero giù per le scale spingendosi davanti il reverendo dottor Lionel J.D. Jones, il Führer dei negri e padre Keeley. Il dottor Jones si fermò a metà delle scale e guardò con sdegno i suoi persecutori. "Ho fatto soltanto quel che tutti dovrebbero fare," disse maestosamente. "Cosa dovremmo fare?" domandò uno dei G-men. Era, evidentemente, il comandante della spedizione. "Proteggere la repubblica," disse Jones. "Perché venite a darci fastidio? Tutto quel che facciamo è per rendere più forte il nostro paese. Unitevi a noi, e diamo addosso tutti insieme a quelli che vogliono indebolirlo!" "E chi sarebbero?" disse il G-man. "C'è bisogno che glielo dica?" disse Jones. "Non l'ha ancora scoperto nella pratica del suo lavoro? Gli ebrei! I cattolici! I negri! Gli orientali! Gli unitariani! Tutti gli emigranti che non capiscono niente di democrazia, che fanno il gioco dei socialisti, dei comunisti, degli anarchici, degli anticristi, degli ebrei." "Le faccio presente," disse il G-man con sprezzante superiorità, "che sono ebreo anch'io." "Il che dimostra quel che ho appena finito di dire!" fece Jones. "Come sarebbe?" disse il G-man. "Gli ebrei si sono infiltrati dappertutto," disse Jones sorridendo: il sorriso di un dialettico che sa di non poter essere contraddetto. "Lei parla di cattolici e di negri..." disse il G-man, "eppure due dei suoi migliori amici sono uno cattolico e l'altro negro." "Cosa c'è di tanto strano in questo?" disse Jones. "Ma non li odia?" disse il Gman. "No di certo," disse Jones. "Noi condividiamo le stesse fondamentali verità." "Come, come?" disse il G-man. "Questo nostro paese, un tempo orgoglioso, sta cadendo nelle mani di gente sbagliata," disse Jones. Annuì con la testa, imitato da padre Keeley e dal Führer dei negri. "E se vogliamo che ritorni sulla retta via," disse Jones, "bisognerà decidersi a tagliare qualche testa." Non ho mai visto una più sublime manifestazione di mentalità totalitaria, una mentalità che può paragonarsi a un sistema di ruote dentate con dei denti mancanti, uno qua e uno là. Un meccanismo di pensiero così sdentato, guidato da una libido media, o anche sotto la media, ruota su se stesso con la medesima 150
sussultante, rumorosa, vistosa inutilità che avrebbe all'inferno un orologio a cucù. Il capo dei G-men dedusse erroneamente che le rotelle della mente di Jones non avevano più neanche un dente. "Lei è completamente pazzo," disse. Jones non era completamente pazzo. Quel che più spaventa in una mentalità totalitaria di stampo classico è che una qualsiasi ruota dentata, anche se mutilata, presenta sempre, lungo la sua circonferenza, tratti di denti interi che si conservano a lungo senza morchie e possono funzionare senza alcuna imperfezione. Da qui l'orologio a cucù che segna il tempo all'inferno... scandisce regolarmente il tempo per otto minuti e ventitré secondi, poi scatta in avanti di quattordici minuti, quindi riprende a battere perfettamente per sei secondi, e poi ne salta due, riprende a funzionare perfettamente per due ore e un secondo, e poi scatta in avanti di un anno. I denti mancanti sono, naturalmente, delle verità molto semplici, ovvie addirittura, verità che nella più parte dei casi le capirebbe anche un ragazzino di dieci anni. La volontaria eliminazione dei denti della ruota, l'ostinata volontà di agire pur senza possedere alcune informazioni elementari... Per questo un sodalizio così contraddittorio come quello formato da Jones, padre Keeley, il vice Bundesführer Krapptauer e il Führer dei negri poteva esistere in relativa armonia... Per questo mio suocero poteva ospitare in un solo cervello l'indifferenza verso le lavoratrici forzate e l'amore per un vaso azzurro... Per questo Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, poteva accettare che agli altoparlanti del campo si alternasse musica immortale con le chiamate dei portacadaveri... Per questo la Germania nazista non avvertì alcuna differenza di rilievo tra la civiltà e l'idrofobia... Quando tento di spiegarmi le legioni, le nazioni di pazzi che ho visto ai miei tempi, non riesco ad avvicinarmi più di tanto al bandolo della matassa. E il tentativo che faccio per spiegare la faccenda in modo così meccanico, forse, non è altro che un
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riflesso del padre di cui ero figlio. Sono. Quando mi capita di pensarci, il che avviene di rado, non posso negare di essere, dopo tutto, il figlio di un ingegnere. E dal momento che non c'è nessuno che mi lodi, lo farò da solo... e dirò che non ho mai alterato di un solo dente il meccanismo del mio pensiero. Ci sono certamente dei denti che mi mancano, Dio solo lo sa... certi mi mancano dalla nascita, e non cresceranno mai. Altri mi sono stati strappati dalla storia che a volte cambia marcia senza schiacciare la frizione... Ma non ho mai volontariamente distrutto nessun dente dei miei meccanismi mentali. Non mi sono mai detto: "Posso fare a meno di questa o di quella realtà". Howard W. Campbell, jr., si complimenta con se stesso! È ancora pieno di vita il nostro amico! E dove c e vita... Lì c'è vita.
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Resi Noth esce di scena…
"L'unica cosa che mi dispiace," disse il dottor Jones al capo dei G-men, sulla scala della cantina, "è che ho solo una vita da offrire al mio paese. 20" "Cercheremo noi di trovarle qualche altro dispiacere," disse il capo. La Guardia di ferro dei figli bianchi della costituzione americana cominciò nuovamente ad affluire nella sala caldaie. Qualche Guardia si lasciò prendere dall'isteria. La paranoia che i genitori andavano istillando in loro ormai da anni poteva finalmente sfogarsi. Ecco, erano perseguitati! Un ragazzo afferrò l'asta di una bandiera americana. La sventolò avanti e indietro, facendo sbattere l'aquila che sormontava l'asta contro i tubi delle condutture appesi al soffitto. "Questa è la bandiera del vostro paese!" gridò. "Lo sappiamo anche noi," disse il capo dei G-men. "Toglietegli quella bandiera!" "Questo giorno passerà alla storia!" disse Jones. "Tutti i giorni passano alla storia," disse il capo. "Va bene..." disse, "chi è l'uomo che si fa chiamare George Kraft?" Kraft alzò la mano. Sembrava quasi allegro. "È anche la bandiera del suo paese, questa?" disse biecamente il capo. "Dovrei guardarla più da vicino," disse Kraft. "Che impressione le fa sapere che la sua lunga e onoral a carriera è giunta alla fine?" chiese il capo a Kraft. "Tutte le carriere finiscono prima o dopo," disse Kraft. "L'ho imparato da un pezzo." "Forse faranno un film su di lei," disse il capo. Kraft sorrise. "Forse," disse. "Mi farei dare un mucchio di soldi per i diritti." "C'è un solo attore che potrebbe interpretare una parte del genere," disse il capo. "E non credo che sia tanto facile scritturarlo." "Oh?" disse Kraft. "E chi sarebbe?"
La frase è del patriota americano Nathan Hale, eroe della guerra di indipendenza degli Stati Uniti, impiegato tra l'altro in missioni di spionaggio. Catturato dagli inglesi, Hale pronunciò la frase prima dell'esecuzione capitale. 20
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"Charlie Chaplin," disse il capo. "Chi altro potrebbe fare la parte di una spia che è rimasta ubriaca senza un giorno d'interruzione dal 1941 al 1948? Chi altro potrebbe fare una spia russa che è riuscita a metter su un'organizzazione composta quasi esclusivamente di spie americane?" I modi cortesi di Kraft scomparvero all'istante, ed egli si rivelò per quello che era: un vecchietto pallido e grinzoso. "Non è vero!" disse. "Lo chieda ai suoi superiori, se non mi crede," disse il capo. "L'hanno saputo?" "Se ne sono finalmente accorti," disse il capo. "Se fosse tornato in patria l'avrebbero accolta con una fucilata nel collo." "Perché mi volete salvare?" disse Kraft. "Diciamo per sentimentalismo," disse il capo. Kraft esaminò tra sé la situazione, e aiutandosi con la sua schizofrenia riuscì a trarsi bellamente d'impaccio. "Non m'importa niente di tutto questo," disse, e seppe ritrovare tutta la cortesia di un tempo. "Perché mai?" disse il capo. "Perché sono un pittore," disse Kraft. "Questa è la mia vera identità." "Non dimentichi di portarsi dietro i colori quando andrà in galera," disse il capo. Rivolse quindi l'attenzione a Resi Noth. "Lei, naturalmente, è Resi Noth," disse. "Sì," disse Resi. "È soddisfatta della sua breve permanenza in America?" disse il capo. "Come vuole che le risponda?" disse Resi. "Come preferisce," disse il capo. "Se ha qualcosa di cui lamentarsi, me lo dica, e io lo farò sapere alle autorità competenti. Stiamo cercando di incoraggiare il traffico turistico dall'Europa." "Lei dice cose molto divertenti," disse Resi senza sorridere. "Mi dispiace di non poterle rispondere a tono. Purtroppo in questo momento la mia vita non è molto divertente." "Mi dispiace sentirglielo dire," disse il capo, senza dar troppo peso alle parole. "Non le dispiace affatto," disse Resi. "Io sono l'unica persona cui dispiace davvero. "Mi dispiace di non aver niente per cui vivere," disse Resi. "Posso soltanto amare un uomo che però non mi ama. È così provato dalla vita che non riesce più ad
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amare. Non è rimasto più niente di quel che era, tranne la curiosità e un paio di occhi. "Di divertente, non posso dire nulla, ma posso sempre mostrarvi qualcosa di interessante." Si toccò leggermente le dita con le labbra, o così almeno parve. In effetti si era messa in bocca una pastiglia di cianuro. "Vi mostrerò una donna che si uccide per amore," disse. Resi Noth mi cadde tra le braccia, dura come un sasso.
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Di nuovo in libertà…
Fui arrestato insieme a tutti gli altri che si trovavano nella casa. Un'ora dopo venni rilasciato, grazie, se non sbaglio, all'intervento della mia fata turchina. Il luogo dove fui trattenuto per così poco tempo, era un anonimo ufficio nell'Empire State Building. Un agente mi accompagnò all'ascensore, scese con me fino al marciapiede, e mi restituì alla vita. Feci sì e no una cinquantina di passi lungo il marciapiede, e poi mi bloccai. Mi sentii agghiacciare. Non era un senso di colpa che mi agghiacciava. Avevo imparato a non sentirmi mai colpevole. Non era la spaventosa sensazione di sentirmi ormai inevitabilmente perduto che mi agghiacciava. Avevo imparato a non far tesoro di nulla. Non era l'odio per la morte che mi agghiacciava. Avevo imparato a considerare la morte come un'amica. Non era una rabbia sconsolata che mi agghiacciava. Avevo imparato che un uomo farebbe meglio a cercare tiare tempestate di diamanti in un tombino, piuttosto che aspettarsi giusti castighi e ricompense. Non era il pensiero di essere così poco amato che mi agghiacciava. Avevo imparato a vivere senza amore. Non era l'idea della crudeltà di Dio che mi agghiacciava. Avevo imparato a non aspettarmi mai nulla da Dio. Quel che mi agghiacciava era il fatto di non avere assolutamente alcun motivo per muovermi in una direzione piuttosto che in un'altra. Era stata la curiosità a farmi procedere per tutti quegli anni morti e senza scopo. Adesso si era spenta anche quella. Non saprei dire per quanto tempo rimasi immobile sul marciapiede. Per potermi muovere di nuovo, avrei dovuto trovare qualcuno che me ne desse una ragione. E lo trovai. Un poliziotto stette a guardarmi per un po', poi mi si avvicinò e disse: "Si sente bene?". 156
"Sì," dissi. "È un bel po' che se ne sta lì fermo," disse. "Lo so," dissi. "Aspetta qualcuno?" disse. "No," dissi. "Sarà meglio che se ne vada, allora, non crede?" disse. "Signorsì," dissi. E me ne andai.
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La chimica…
Dall'Empire State Building mi diressi verso il Greenwich Village. Andai a piedi fino a casa, alla vecchia casa di Resi, e mia, e di Kraft. Lungo la via fumai continuamente, finché a un certo punto cominciai a pensare di essere diventato una specie di lucciola. Incontrai molte altre lucciole. A volte ero io che accendevo per primo il segnale rosso, a volte loro. E mi allontanai sempre più dal brusio, come di conchiglia, e dall'aurora boreale che incombe sul cuore della città. Era molto tardi. Cominciai ad avvistare i segnali di altre lucciole intrappolate ai piani superiori degli edifici. Da qualche parte si levò un suono di sirena, un grido di lamento a spese del comune. Quando finalmente arrivai sotto casa, vidi che le finestre erano tutte buie; tutte tranne una al secondo piano. Quella dell'appartamento del giovane dottor Abraham Epstein. Era una lucciola anche lui. S'illuminò. M'illuminai in risposta. Da qualche parte s'avviò il motore di una motocicletta; scoppiettava come una fila di mortaretti. Un grosso gatto nero s'infilò tra me e la porta di casa. "Miao," disse. Anche l'atrio era buio. La lampada attaccata al plafone ignorò i comandi dell'interruttore. Accesi un fiammifero e vidi che qualcuno aveva fracassato le cassette della posta. Nella tremante luce del fiammifero e negli informi contorni del luogo, i cancelletti sfondati delle cassette postali sembravano le porte delle celle di qualche penitenziario. In una città in fiamme. La luce del fiammifero attirò l'attenzione di un metronotte. Era giovane e solitario. "Cosa sta facendo?" disse. "Abito qui," dissi. "È la mia casa." "Documenti?" disse. Glieli mostrai. Gli dissi che abitavo nell'attico. 158
"È lei la causa di tutto questo trambusto." Non è che volesse rimproverarmi. Solo che la faccenda gli interessava. "Se lo dice lei," dissi. "Mi meraviglio che sia tornato," disse. "Me ne andrò via di nuovo," dissi. "Non posso ordinarle di andarsene," disse. "Mi meraviglio solo che sia tornato." "Posso salire?" dissi. "È casa sua," disse. "Nessuno può obbligarla a restarsene fuori." "La ringrazio," dissi. "Non ringrazi me," disse. "Questo è un paese libero, e tutti sono protetti allo stesso modo." Lo disse affabilmente. Stava impartendomi una lezione di educazione civica. "È il modo migliore di governare un paese," dissi. "Non so se mi sta prendendo in giro o meno," disse, "ma quel che ha detto è giusto." "Non la sto affatto prendendo in giro," dissi. "Glielo giuro." Questa semplice dichiarazione di fedeltà lo placò. "Mio padre è morto a Iwo Jima," disse. "Mi dispiace," dissi. "C'erano buoni e cattivi da tutte e due le parti," disse. "Lo credo anch'io," dissi. "Lei pensa che ce ne sarà un'altra?" disse. "Un'altra cosa?" dissi. "Un'altra guerra," disse. "Sì," dissi. "Anch'io," disse. "Non è un inferno?" "Ha scelto la parola giusta," dissi. "Cosa possiamo farci noi?" disse. "Ognuno fa qualche cosa," dissi, "poi succede quel che succede." Sospirò profondamente. "Tutto si accumula," disse. "È questo che la gente non capisce." Scosse la testa. "Cosa bisogna fare?" "Obbedire alla legge," dissi. 159
"Una buona metà della gente non vuol più fare neanche questo," disse. "Le cose che vedo... le cose che mi dicono. Certe volte mi sento proprio scoraggiato." "Capita a tutti ogni tanto," dissi. "Sarà questa chimica del cavolo," disse. "Che cosa?" dissi. "Sentirsi a terra," disse. "Non è questo che stanno scoprendo adesso?... che dipende quasi tutto dalla chimica?" "Non so," dissi. "L'ho letto da qualche parte," disse. "È una delle cose che stanno tirando fuori adesso." "Molto interessante," dissi. "A uno gli fanno prendere certi prodotti chimici e quello diventa matto," disse. "Stanno facendo degli esperimenti. Magari dipende proprio tutto dalla chimica." "È molto probabile," dissi. "Magari è per i diversi prodotti che si adoperano in diversi paesi che la gente si comporta una volta in un modo e un'altra in un altro," disse. "Non ci avevo mai pensato," dissi. "Come spiegherebbe altrimenti che la gente cambia così tanto?" disse. "Mio fratello è stato in Giappone e dice che i giapponesi sono le persone più simpatiche che abbia incontrato, eppure sono stati loro a uccidere nostro padre! Ci pensi un momento." "Certo," dissi. "Deve essere la chimica, che cosa sennò?" disse. "Capisco," dissi. "Sicuro," disse. "Ci pensi su ancora un po'." "D'accordo," dissi. "Io penso sempre alla chimica," disse. "A volte mi dico che dovrei tornarmene a scuola e studiare tutto quello che hanno scoperto fino a oggi sulla chimica." "Dovrebbe farlo," dissi. "Magari, quando scopriranno ancora di più sulla chimica," disse, "non dovranno più esserci né poliziotti, né guerre, né manicomi, né divorzi, né ubriaconi, né delinquenti minorili, né donne perdute, né niente altro." "Sarebbe molto bello," dissi. 160
"È possibile," disse. "Lo credo," dissi. "Come fanno adesso, tutto è possibile, basta che ci stiano dietro... soldi, cervelli fini, e mettersi a lavorare. Un piano di lavoro senza risparmi," disse. "Sono favorevole," dissi. "Pensi un po' come diventano mezze matte certe donne, una volta al mese," disse. "Si sciolgono certe sostanze chimiche e loro non possono fare a meno di comportarsi come fanno. Certe volte una sostanza chimica si scioglie dopo che una donna ha avuto un bambino, e quella ti ammazza il bambino. È capitato la settimana scorsa, a due passi da qui." "Orrendo," dissi. "Non avevo inteso..." "La cosa più innaturale per una donna è ammazzare il proprio bambino, ma quella lo ha fatto," disse. "Certe sostanze chimiche nel sangue l'hanno costretta a farlo, anche se lei non voleva." "Uhm," dissi. "Ci si chiede com'è che il mondo non funziona..." disse, "be', qui abbiamo già un indizio importante."
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Niente colomba, niente alleanza…
Salii al mio attico in rovina, salii per la chiocciola, di quercia e intonaco, delle scale. Se nel passato la colonna d'aria avvolta dalle scale mi si era presentata come un malinconico impasto di polvere di carbone, di odori di cucina, di condutture sudate, adesso era soltanto fredda e tagliente. Nell'appartamento non era rimasta intatta neanche una finestra. Ogni tiepido alito di casa era stato spazzato giù per le scale o fuori delle finestre, quasi risucchiato da una cappa. L'aria era pulita. Non ero nuovo alla sensazione che si prova spalancando all'improvviso un vecchio edificio ammuffito. L'avevo provata abbastanza spesso a Berlino. Helga e io eravamo stati diroccati due volte. E tutte e due le volte la scala era rimasta in piedi. Una volta salimmo fino a un appartamento senza più né tetto né finestre, un appartamento che, a parte questo, era restato miracolosamente intatto. Un'altra volta salimmo a respirare una boccata d'aria fresca, due piani più in basso di dove avevo abitato fino a qualche minuto prima. Due momenti indimenticabili, lassù in cima alle scale, sotto il cielo aperto. Naturalmente si trattò, tutte e due le volte, di sensazioni di breve durata, perché, come qualsiasi altra famiglia umana, anche noi amavamo il nostro nido e ne avevamo bisogno. Comunque, per qualche minuto, Helga e io ci sentimmo come Noè e sua moglie sul monte Ararat. Non conosco sensazioni più piacevoli. Poi squillarono di nuovo gli allarmi aerei e noi ci rendemmo conto di essere dei semplici mortali, senza colombe, senza alleanze divine, e che il diluvio, lungi dall'essere terminato, stava cominciando allora. Mi ricordo una volta che Helga e io ci calammo dal cielo in cima alla scala fino al rifugio, infossato nella terra, mentre le bombe, enormi, cominciavano a fioccarci d'intorno. E cadevano e saltavano, correvano, e sembrava che non avrebbero smesso mai più. Il rifugio era lungo e stretto, come un vagone della ferrovia, ed era pieno. 162
Sulla panchina di fronte a Helga e a me, stavano seduti un uomo, una donna e tre bambini. La donna cominciò a parlare con il soffitto, con le bombe, con gli aeroplani, con il cielo, e con Dio onnipotente, soprattutto. Cominciò a bassa voce, ma senza rivolgersi a nessuno di quelli che stavano nel rifugio. "D'accordo..." disse, "eccoci qui. Siamo proprio qui sotto. E sentiamo cosa succede lassù. Sentiamo che sei arrabbiato." Il tono alto della sua voce rimbalzava stridulo. "Santo Iddio, quanto sei arrabbiato," gridava. Suo marito - un civile macilento, con un occhio coperto da una pezza e il distintivo dell'Unione insegnanti nazisti sul risvolto della giacca - l'ammonì con severità. Lei non lo sentì neppure. "Cosa vuoi che facciamo?" disse rivolta al soffitto e in generale a tutto ciò che stava in alto. "Tutto quello che vuoi," disse, "basta che ce lo dici e noi lo faremo!" Una bomba si schiantò nei paraggi del rifugio e scrollò dal soffitto una pioggerella di calcina: la donna schizzò in piedi strillando, e suo marito con lei. "Ci arrendiamo. Non ne possiamo più," gridò, e un senso di grande sollievo, di felicità, le si dipinse sul volto. "Adesso puoi fermarti," riprese a strillare. "Noi ce ne andiamo! È finita!" Si girò per comunicare ai suoi bambini la lieta novella. Suo marito la stese a terra con un cazzotto. L'insegnante guercio la sistemò quindi sulla panchina appoggiandole la schiena alla parete. Poi si avvicinò a quello tra i presenti che occupava la carica più alta: un viceammiraglio. "È una donna... isterica... alle donne gli succede delle volte... ma non voleva mica dire... ha perfino la medaglia d'oro dell'ordine dei genitori..." disse al viceammiraglio. Ma l'incidente non aveva sorpreso, né tanto meno irritato il viceammiraglio. Il poveraccio fu assolto con grande magnanimità. "Stia tranquillo," disse. "Capisco bene. Non si preoccupi." L'insegnante non riusciva quasi a capire come qualcuno potesse scusare una debolezza del genere. "Heil Hitler, " disse inchinandosi, e tornò al proprio posto. "Heil Hitler," disse il viceammiraglio.
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Poi l'insegnante cominciò a far rinvenire sua moglie. Aveva da darle una buona notizia... che era stata perdonata, che si erano mostrati tutti molto comprensivi. Le bombe continuavano a fioccare senza sosta. I tre figli dell'insegnante non mossero ciglio. Né, pensai, l'avrebbero mai più mosso in futuro. E nemmeno io, pensai. Mai più.
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San Giorgio e il drago…
La porta del mio appartamento era stata scardinata, e fatta scomparire dalla circolazione. L'uomo delle pulizie l'aveva sostituita attaccando agli infissi una piccola tenda da campo e colmando il resto del vano con delle assi inchiodate a zig-zag. La luce del mio fiammifero rivelò quel che ci aveva scritto sopra con un po' di vernice dorata. "Nessuno e niente in casa." Qualcuno aveva staccato un angolo della tenda, in basso, e ora la porta, ridotta a un triangolo di tela fluttuante, ricordava vagamente l'ingresso di una capanna indiana. M'infilai dentro. Anche l'interruttore di casa mia non funzionava. Quel poco di luce che c'era filtrava attraverso i due o tre vetri delle finestre rimasti intatti. Quelli rotti erano stati sostituiti con due vecchi giornali accartocciati, stracci, vestiti, coperte. La brezza notturna crepitava intorno a questi impedimenti. Quel poco di luce che c'era era azzurra. Guardai fuori attraverso le finestre del retro, accanto ai fornelli, guardai il piccolo giardino sottostante, pervaso da una strana magia, quel piccolo Eden privato formato da cortili contigui. Nessuno scendeva a giocare a quell'ora. Nessuno lanciava il richiamo che mi sarebbe piaciuto. "Tutti tutti tutti fuoriii!" Qualcosa si mosse, qualcosa frusciò nell'ombra in cui era sommersa la casa. Pensai che fosse un topo. Mi sbagliavo. Era Bernard B. O'Hare, l'uomo che mi aveva preso prigioniero tanti anni addietro. Era il fruscio della Furia che mi perseguitava, dell'uomo che aveva individuato la più nobile parte di se stesso nell'accanimento con cui mi odiava e mi dava la caccia. Non è per denigrarlo che paragono il rumore prodotto da quell'uomo con quello di un topo. Non ho mai pensato a O'Hare come a un topo, benché le sue azioni contro di me siano sempre state marcate dalla stessa fastidiosa inutilità con cui i topi scatenano le loro cieche passioni nei muri del mio appartamento. Non potevo 165
dire di conoscere O'Hare e nemmeno mi interessava conoscerlo. Il fatto che fosse stato lui ad arrestarmi in Germania non suscitava in me la benché minima curiosità. Non era certo lui l'incarnazione della mia nemesi. La mia storia era finita molto prima che O'Hare diventasse il mio angelo custode. Per me, O'Hare era soltanto uno dei tanti ramazzatoli d'immondizie che il vento deposita lungo le piste della guerra. O'Hare considerava invece il nostro reciproco rapporto sotto una luce di gran lunga più eccitante. E, almeno quand'era ubriaco, vedeva se stesso nei panni di san Giorgio e me in quelli del drago. Quando ne scorsi il profilo tra le ombre dell'appartamento, stava seduto su di un secchio galvanizzato messo sottosopra. Indossava la divisa degli ex combattenti. Aveva con sé una bottiglia di whisky. Sembrava che mi stesse aspettando da molto tempo e che, per ingannare l'attesa, non avesse trovato di meglio che bere e fumare. Era sbronzo, ma la sua uniforme non faceva una grinza. Ben teso il nodo della cravatta. E la bustina messa di sbieco a una giusta inclinazione. Ci teneva alla divisa, la considerava una cosa importante; avrebbe dovuto essere importante anche per me. "Sa chi sono?" disse. Si, dissi. "Non sono più giovane come una volta," disse. "Ma non mi trova molto cambiato, vero?" "No," dissi. Ho già detto in qualche capitolo precedente che assomigliava a un cucciolo di lupo un po' scarno. Quando lo rividi, nel mio appartamento, mi sembrò un po' malandato in salute... era pallido, legnoso, aveva gli occhi stanchi. Più che un lupo, adesso mi pareva un coyote. Il dopoguerra non doveva essere stato molto florido nemmeno per lui. "S'aspettava di vedermi?" disse. "Me lo aveva preannunciato," dissi. Dovevo stare in guardia e mostrarmi gentile. Non potevo fare a meno di supporre che avesse cattive intenzioni. Considerando poi l'uniforme così ben tenuta, e il fatto che era molto più piccolo e leggero di me mi sentivo autorizzato a sospettare che fosse armato... una pistola, con ogni probabilità. Si alzò dal secchio, gli sforzi rovinosi che gli costò l'operazione mi dettero la misura di quanto fosse ubriaco. Fece ruzzolare il secchio. Sorrise. "Mi sogna mai di notte, Campbell?" disse. 166
"Spesso," dissi. Non era vero, naturalmente. "Non è sorpreso di trovarmi qui da solo?" disse. "Sì," dissi. "C'era un mucchio di gente che voleva accompagnarmi," disse. "Tutto un gruppo di Boston. E dopo che sono arrivato a New York, questo pomeriggio, sono entrato in un bar e mi sono messo a parlare con dei forestieri; e anche loro mi hanno chiesto se potevano venire con me." "Ah sì?" dissi. "E sa cosa gli ho detto io?" mi domandò. "N... no," dissi. "Gli ho detto: 'Mi dispiace, ragazzi... ma questa è una faccenda che devo vedermi da solo, con Campbell... Proprio così, io e Campbell da soli, faccia a faccia'." disse. "Ah," dissi. "'È una faccenda che dura da anni,' gli ho detto," disse O'Hare. "'È scritta nel destino,' gli ho detto. 'È scritto che io e Howard Campbell ci dobbiamo incontrare dopo tutti questi anni!' Non è d'accordo anche lei?" mi domandò. "Su che cosa?" dissi. "Che è scritto nel destino," disse. "Dovevamo incontrarci così, proprio qui, in questa stanza, e non avremmo potuto evitarlo, neanche se avessimo tentato." "Forse," dissi. "Proprio quando si pensa che non ci sia più scopo nella vita..." disse, "allora, tutto a un tratto, ci rendiamo conto che stiamo puntando verso qualcosa di preciso." "La capisco bene," dissi. Barcollò, poi si rimise in equilibrio. "Sa qual è il mio mestiere nella vita?" disse. "No," dissi. "Spedisco budini surgelati," disse. "Prego?" dissi. "Una squadra di camion, li mando in giro, nelle fabbriche, sulle spiagge, alle partite... dovunque ci sia gente..." Sembrò per qualche minuto che O'Hare si fosse dimenticato di me, tutto preso a meditare foscamente sulle missioni dei suoi automezzi. "E i budini li facciamo direttamente sui camion," mormorò. "Due gusti soltanto... cioccolato e vaniglia." Il suo stato d'animo era identico a quello della
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povera Resi quando mi parlava del suo spaventoso lavoro alla manifattura tabacchi di Dresda. "Dopo la fine della guerra," mi disse O'Hare, "credevo proprio che in quindici anni sarei diventato qualcosa di ben più importante che uno spedizioniere di budini surgelati." "Abbiamo avuto tutti qualche delusione," dissi. Non raccolse il mio debole invito alla solidarietà. Era preoccupato solo per se stesso. "Volevo diventare medico, avvocato, scrittore, architetto, ingegnere, giornalista..." disse. "Potevo diventare tutto quello che volevo," disse. "Invece mi sono sposato..." disse, "e mia moglie ha cominciato subito a sfornarmi un figlio dietro l'altro. Allora, con un amico, ho aperto una lavanderia per pannolini; l'amico tagliò la corda con tutti i soldi, e mia moglie continuò ad avere figli. E dopo i pannolini vennero le tende alla veneziana, e una volta andata a ramengo l'impresa delle tende alla veneziana, cominciai con i budini surgelati. E intanto mia moglie continuava a mettere al mondo altri figli, e la dannata automobile si guastava un giorno sì e uno no, e gli esattori avanti e indietro, e ogni primavera e autunno le assi del pavimento si riempivano di termiti." "Mi dispiace," dissi. "Allora mi sono domandato: Cosa significa tutto questo? Qual è il mio posto nella vita? Che scopo ha tutta sta roba?" "Me lo chiedo anch'io," dissi a bassa voce e mi avvicinai a un pesante attizzatoio. "Poi qualcuno mi mandò una copia di quel giornale dove c'era scritto che lei era ancora vivo," disse O'Hare, e rivisse per mio beneficio il crudele eccitamento che quella storia gli aveva procurato. "Allora capii..." disse, "perché stavo al mondo, capii qual era il compito che ero chiamato ad assolvere." Fece un passo verso di me, con gli occhi spalancati. "Eccomi qui, Campbell, sbucato fuori dal passato!" "Lieto di vederla," dissi. "Sa cosa rappresenta lei, per me, Campbell?" disse. "No," dissi. "Il male," disse. "Lei è il male allo stato puro." "Grazie," dissi.
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"Ha ragione... è una specie di complimento che le sto facendo," disse. "Di solito anche un uomo perverso ha in sé qualcosa di buono... bene e male quasi si equivalgono. Ma lei..." disse, "lei è il male puro. E per quanta bontà possa esserci in lei, non sarei affatto sorpreso di sapere che mi trovo davanti al diavolo in persona." "Non lo escluderei," dissi. "Crede che non ci abbia pensato?" disse. "Cosa intende fare di me?" gli domandai. "Squartarla," disse ondeggiando sulle piante dei piedi, e muovendo le spalle come stantuffi per scioglierne i muscoli. "Quando ho sentito che era ancora vivo, capii che dovevo fare qualcosa. Non c'era scampo," disse. "Doveva finire così." "Non vedo perché," dissi. "Allora glielo farò vedere io," disse. "Le dimostrerò, perdio, che sono nato apposta per farla a pezzi, qui, in questo momento." Mi dette del vigliacco; mi chiamò nazista. E poi mi apostrofò con la più ingiuriosa combinazione di parole che si possa concepire in lingua inglese. Allora presi l'attizzatoio e gli ruppi un braccio, il destro. È l'unico atto violento che abbia commesso in tutta la mia lunga, lunghissima esistenza. Affrontai O'Hare in singolar tenzone e lo sconfissi. Una vittoria facile. O'Hare era così imbottito di whisky e delle sue fantasie del bene che trionfa sul male, che tutto s'aspettava tranne che io mi difendessi. Quando si rese conto di essere stato colpito e capì che il drago non aveva affatto intenzione di scherzare, san Giorgio ci rimase di stucco. "Ah, è così che la mettiamo..." disse. Poi il dolore per la frattura multipla si diramò nel suo sistema nervoso e gli vennero le lacrime agli occhi. "Se ne vada," dissi. "Se non vuole che le spacchi l'altro braccio e anche la testa..." Gli appoggiai la punta dell'attizzatoio contro la tempia destra e dissi: "E prima che se ne vada farà bene a darmi la pistola, o il pugnale, insomma quello che ha indosso". Scosse la testa. Il dolore era così forte che non poteva parlare. "Non è armato?" dissi.
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Scosse di nuovo la testa. "Combattimento leale," disse con la bocca impastata. "Leale." Gli tastai le tasche: non contenevano armi. San Giorgio aveva pensato di fare a pezzi il drago con la sola forza delle sue mani! "Stupido ubriacone, bastardo, senza un braccio!" dissi. Strappai la tenda dalla porta, e buttai giù le assi. Poi sbattei fuori O'Hare che rotolò fin sul pianerottolo. Andò a sbattere contro la ringhiera. O'Hare dette un'occhiata alla tromba delle scale, fissò quella spirale che lo invitava a precipitare verso una morte sicura. "Io non sono né il diavolo, né il suo destino!" dissi. "Guardi com'è conciato. Era venuto a strozzare il male con le proprie mani e deve andarsene con lo stesso carico di gloria che avrebbe meritato finendo sotto le ruote di un autobus. E non gliene spetta un briciolo di più!" dissi. "A quelli come lei che si mettono in testa di combattere contro il male allo stato puro! "Ci sono centinaia di buoni motivi per combattere," dissi, "ma neanche uno per odiare senza riserve, e per credere che Dio onnipotente sia d'accordo con noi. Dov'è il male? È quella parte di ogni uomo che vuole odiare a tutti i costi, che vuole odiare e avere anche Dio dalla sua. È quella parte di ogni uomo che trova tanto attraente qualsiasi genere di brutalità. "È la parte di ogni imbecille che vuole punire, avvilire, e gode a fare la guerra." Non potrei dire se siano state le mie parole, o l'umiliazione, o l'alcol, o lo shock subito, fatto sta che O'Hare vomitò. Fece una cascata di minestra alta quattro piani. "E adesso pulisca," dissi. Mi guardò con quegli occhi ancora colmi di odio. "Gliela farò pagare, amico," disse. "Può darsi," dissi. "Ma non cambierà il suo futuro di fallimenti, budini surgelati, nugoli di figli, termiti, e mai un soldo in tasca. Se vuole proprio far parte della milizia di Dio, provi con l'Esercito della salvezza," dissi. E O'Hare se ne andò.
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Kahm-boo…
Ai carcerati capita abbastanza spesso, quando si svegliano, di chiedersi come mai siano finiti in galera. La spiegazione che ho cercato di darmi, in simili occasioni, è questa: mi trovo in galera perché non sono riuscito a camminare sul vomito di un altro uomo, o a saltarlo via. Mi riferisco al vomito di Bernard B. O'Hare sul pianerottolo ai piedi della scala. Lasciai l'appartamento poco dopo che O'Hare se ne fu andato. Non avevo alcuna ragione per restarci. Portai via soltanto un souvenir che mi capitò in mano per caso. Sulla soglia di casa urtai col piede contro qualcosa che schizzò fuori sul pianerottolo. Lo raccolsi. Era uno degli scacchi che m'ero fatto intarsiando un manico di scopa. Lo misi in tasca. Ce l'ho ancora. Fu allora, mentre lo infilavo nella tasca, che avvertii la puzzolente testimonianza del comportamento incivile di O'Hare. Più scendevo e più diventava insopportabile. Quando raggiunsi il pianerottolo su cui si affacciava l'appartamento del giovane dottor Epstein, l'uomo che aveva passato l'infanzia ad Auschwitz, la puzza era così forte che dovetti fermarmi. Prima ancora di rendermene conto, mi trovai a bussare alla porta del dottor Epstein. Il dottore venne ad aprirmi in vestaglia e pigiama. A piedi nudi. Era sorpreso di vedermi. "Sì?" disse. "Potrei entrare?" dissi. "Ha bisogno di me come medico?" disse. La porta era trattenuta da una catena. "No," dissi. "È una faccenda personale... politica." "Non si può rimandare?" disse. "Preferirei di no," dissi. "Potrebbe almeno darmi un'idea di cosa si tratta," disse. "Voglio andare in Israele per essere processato," dissi. "Che cosa vuol fare?" disse. 171
"Voglio essere processato per i miei crimini contro l'umanità," dissi. "Sono disposto a partire." "E perché è venuto da me?" "Ho pensato che lei forse conosceva qualcuno... qualcuno cui una simile notizia avrebbe fatto piacere," dissi. "Non sono un rappresentante dello stato di Israele," disse. "Sono americano io. Domani potrà trovare tutti gli israeliti che vuole." "Mi farebbe piacere arrendermi a uno che è stato ad Auschwitz," dissi. Le mie parole lo mandarono fuori dai gangheri. "Allora si trovi qualcuno che pensa sempre ad Auschwitz!" disse. "C'è un mucchio di gente che non pensa a nient'altro. Ma io non ci penso mai!" E mi sbatté la porta in faccia. Mi bloccai di nuovo; ero appena riuscito a prefiggermi uno scopo che già me l'avevano tolto. Comunque era senz'altro vero quel che aveva detto Epstein: l'indomani avrei trovato tutti gli israeliti che volevo... Però c'era la notte da passare, e io non mi muovevo. Sentii che Epstein stava parlando con sua madre. Parlavano in tedesco. Udivo solo frammenti di quel che dicevano. Epstein stava raccontando a sua madre quel che gli era capitato. La cosa che più mi fece impressione era il modo in cui pronunciavano il mio cognome. "Kahm-boo," ripeterono non so quante volte. E Kahm-boo per loro era Campbell. Era quello il maligno che abitava dentro di me, il male che aveva influenzato milioni di persone, la creatura disgustosa che i buoni volevano vedere morta e sepolta al più presto. La madre di Epstein si scaldò tanto a parlare di Kahm-boo e di quel che avrebbe combinato, che venne alla porta. Sono certo che non s'aspettava di vedere Kahmboo in persona. Le sarebbe bastato esecrare l'aria che aveva appena smosso. Aprì la porta. Suo figlio le stava alle spalle e le diceva di non farlo. Quando si trovò davanti Kahm-boo in carne e ossa, Kahm-boo in stato di catalessi, ci mancò poco che svenisse. Epstein la spinse da una parte e uscì come se volesse attaccarmi. "Si può sapere cosa diavolo sta facendo?" disse. "Si tolga dai piedi!" 172
Ma siccome non mi muovevo, non rispondevo, non sbattevo neanche le palpebre, sembrava addirittura che non respirassi, allora cominciò a capire che, dopotutto, avevo bisogno di lui come medico. "O per l'amordiddio!" sì lamentò. Mi lasciai portar dentro, come un automa. Mi scaricò in cucina e mi fece sedere accanto a un tavolino bianco. "Mi sente?" disse. "Sì," dissi. "Sa chi sono io... e dove si trova?" disse. “Sì”, dissi. "È la prima volta che le succede?" disse. "No," dissi. "Lei ha bisogno di uno psichiatra," disse. "Io non sono psichiatra." "Le ho già detto quello di cui ho bisogno," dissi. "Chiami qualcuno... non uno psichiatra, qualcuno che sia disposto a processarmi." Epstein e la madre, una donna molto vecchia, discussero tra di loro cosa avrebbero dovuto fare di me. Sua madre capì immediatamente qual era la mia malattia: non ero io che ero infetto, ma il mondo in cui vivevo. "Non è la prima volta che vedi occhi come questi," disse, in tedesco, a suo figlio, "non è la prima volta che vedi un uomo che non è più capace di muoversi, senza che qualcuno glielo ordini, un uomo che desidera avere qualcuno che gli dica cosa fare, un uomo che farebbe qualsiasi cosa gli venisse comandata. Ne hai visti a migliaia, ad Auschwitz." "Non ricordo," disse Epstein, con durezza. "E va bene..." disse sua madre, "ma permetterai almeno che me ne ricordi io. Io mi ricordo tutto, minuto per minuto. E, da persona che ricorda, mi permetto di dire che in questa sua richiesta dovremmo accontentarlo. Chiama qualcuno." "E chi?" disse Epstein. "Non sono un sionista. Sono contrario addirittura. Neanche quello sono. Non ci penso mai. Sono un medico. Non voglio conoscere nessuno che vada ancora a caccia di vendetta. Non ho che disprezzo per loro. Se ne vada. Non è questo il posto che cerca." "Chiama qualcuno," disse sua madre. "Anche tu desideri ancora vendicarti?" le domandò. 173
"Sì," disse lei. "Voglio essere processato," dissi io. "È tutta una gran commedia," disse esasperato dalla condotta di sua madre e mia. "Non prova assolutamente niente!" "Chiama qualcuno," disse sua madre. Epstein alzò di scatto le braccia. "Va bene, va bene! Chiamerò Sam. Gli dirò che può finalmente diventare un grande eroe sionista. Lo ha sempre desiderato." Non riuscii mai a sapere il cognome di questo Sam. Il dottor Epstein lo chiamò dalla prima stanza che s'incontrava, entrando, e io rimasi in cucina con la vecchia madre. Sua madre si sedette accanto al tavolo, di fronte a me. Ci appoggiò sopra le braccia e studiò il mio volto con malinconica curiosità e soddisfazione. "Hanno tolto tutte le lampadine," mi disse in tedesco. "Che cosa?" dissi. "Quelli che sono entrati nel suo appartamento... hanno tolto tutte le lampadine sulla scala," disse. "Ah," dissi. "Anche in Germania," disse. "Prego?" dissi. "Lo facevano sempre... quando le ss o la Gestapo venivano a prelevare qualcuno," disse. "Non capisco," dissi. "Quelli che volevano fare qualcosa di patriottico," disse. "Entravano in casa e si mettevano a staccare tutte le lampadine. Non se ne dimenticavano mai." Scosse la testa. "Non le sembra strano che facessero sempre la stessa cosa?" Il dottor Epstein ricomparve in cucina, stropicciandosi le mani. "Tutto fatto..." disse. "Riceveremo presto la visita di tre eroi, un sarto, un orologiaio e un pediatra... tutti contenti di poter interpretare la parte di paracadutisti israeliani." "Grazie," dissi. I tre arrivarono dopo circa venti minuti. Non avevano armi, né documenti, a parte il loro aspetto fisico, che li identificassero come agenti d'Israele o di qualsiasi altro stato. L'unica autorizzazione ad agire gliela offrivo io stesso, con la mia infamia e l'ansia che avevo di arrendermi a qualcuno, chiunque fosse. 174
Ora che ricordo, tutta l'operazione dell'arresto si concluse con l'offerta di un letto dove passare il resto della notte... in casa del sarto. Il mattino seguente mi consegnarono, col mio consenso, alle autorità d'Israele. Quando i tre vennero a prendermi a casa del dottor Epstein, bussarono alla porta con violenza. Nel momento stesso in cui sentii bussare, provai un grande sollievo. Ero quasi felice. "Si sente bene adesso?" mi domandò il dottor Epstein prima di lasciarli entrare. "Sì, grazie, dottore," dissi. "Vuole ancora farsi arrestare?", disse. "Sì," dissi. "Deve farsi arrestare," disse sua madre. E si curvò verso di me attraverso il tavolo della cucina. Cantilenò qualcosa in tedesco: sembrava il brano di una canzoncina rusticana, emersa dai ricordi di un'infanzia felice. Ma quel che cantilenava in effetti era questo, un comando che aveva sentito ripetere dagli altoparlanti di Auschwitz chissà quante volte al giorno, per tutti quegli anni. "Leichenträger zur Wache, " canticchiava sommessamente. Gran bella lingua, vero? Traduzione? "Portacadaveri al posto di guardia." Era questo che cantava per me, quella vecchia signora.
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La tartaruga e la lepre…
Per cui, eccomi qui in Israele, di mia spontanea volontà, ancorché chiuso in cella e con guardie armate alla porta. La mia storia l'ho raccontata; ho fatto appena in tempo perché... domani comincia il processo. La lepre della storia raggiunge e sorpassa ancora una volta la tartaruga dell'arte. Non avrò più tempo per scrivere. Devo buttarmi di nuovo allo sbaraglio. Saranno in molti a testimoniare contro di me. A mio favore, nessuno. Mi hanno detto che il pubblico ministero intende cominciare l'istruttoria facendo ascoltare le registrazioni di alcune tra le mie peggiori trasmissioni; in questo caso il più spietato testimone a sfavore sarò io stesso. Bernard B. O'Hare si trova anche lui in città, a sue spese, e infastidisce di continuo l'accusa raccontando tutto eccitato cose di nessuna importanza. E c'è anche Heinz Schildknecht, il mio grande amico di una volta, il mio compagno dei doppi di ping-pong, l'uomo cui rubai la motocicletta. Il mio avvocato dice che Heinz ce l'ha a morte con me, e che, per quanto possa sembrare strano, la sua testimonianza a mio carico verrà considerata degna della massima fede. Come mai gode di tanto credito, quest'uomo che, dopo tutto, lavorava gomito a gomito con me al ministero della Propaganda e della Cultura popolare? Sorpresa: Heinz è un ebreo; faceva parte dell'organizzazione clandestina antinazista e dopo la guerra ha continuato a lavorare alle dipendenze del servizio spionistico israeliano. E può dimostrarlo! Beato lui! Il dottor Lionel J.D. Jones, odontoiatra e teologo, e Iona Potapov, alias George Kraft, non potranno presenziare al processo, essendo entrambi ospiti di un penitenziario federale negli Stati Uniti. Comunque tutti e due hanno fatto pervenire i loro affidavit. Gli affidavit del dottor Jones e di Kraft-Potapov non saranno tuttavia di grande aiuto, per non dire altro. 176
Il dottor Jones dichiara sotto giuramento che sono un santo, un martire votato alla sacra causa del nazismo. E aggiunge anche che possiedo la più perfetta dentatura ariana che si possa vedere, a parte le fotografie di Hitler. Kraft-Potapov dichiara sotto giuramento che il servizio spionistico russo non è mai riuscito a dimostrare ch'io sia stato una spia americana. Suggerisce poi che, per quanto io fossi con ogni probabilità un acceso nazista, tuttavia non dovrei essere ritenuto responsabile delle mie azioni visto che, di politica, ne capisco meno di un imbecille, poiché sono un artista che non riesce a distinguere la realtà dai sogni. I tre uomini che vennero a prendermi nell'appartamento del dottor Epstein, il sarto, l'orologiaio e il pediatra, sono anche loro a disposizione dell'accusa; la loro presenza, tuttavia, è del tutto fuori luogo e più inutile perfino di quella di O'Hare. Howard W. Campbell, jr.... ecco la tua vita. Alvin Dobrowitz, il mio avvocato, israelita anche lui, ha fatto inoltrare fin qui, da New York, tutta la mia corrispondenza, nella irragionevole speranza di trovare in qualche lettera una prova della mia innocenza. Ollallà! Oggi sono arrivate tre lettere. Adesso le aprirò e vi dirò il contenuto di ciascuna. La speranza non muore mai, dicono, nel cuore dell'uomo. E in ogni caso non muore mai nel cuore di Dobrowitz, il che, suppongo, spiega assai bene come mai costa così caro. Tutto quel che mi occorre per riacquistare la libertà, dice Dobrowitz, è dimostrare che esiste veramente una persona di nome Frank Wirtanen e che fu lui ad arruolarmi come spia al servizio degli Stati Uniti. Be', comunque, leggiamo un po' la posta di oggi. La prima lettera attacca con molta affabilità. "Caro amico," mi chiama, malgrado tutte le tremende azioni che mi si attribuiscono. Chi l'ha scritta dà per scontato ch'io sia un insegnante. Credo di aver già detto, in un capitolo precedente, come accadde che il mio nome finisse su una lista di ipotetici pedagoghi, e come, da allora, io non abbia fatto altro che ricevere lettere, circolari, pubblicità di materiali utilissimi per coloro che si occupano dell'educazione dei giovani.
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La lettera di oggi me la manda la Giocattoli Creativi Spa. È indirizzata a mio nome, qui presso la prigione di Gerusalemme. Eccola: Caro amico, sarebbe disposto a favorire la creazione di un ambiente che stimoli l'inventiva dei suoi alunni, nelle loro stesse abitazioni? È certamente di enorme importanza quel che i ragazzi fanno nelle ore in cui non sono a scuola. Lei potrà avere sotto di sé un ragazzo, al massimo, venticinque ore alla settimana, ma i genitori lo controllano per almeno quarantacinque. Lo svolgimento del suo programma può essere ostacolato, o facilitato, dall'uso che un genitore fa di queste ore. Noi crediamo che i giocattoli proposti dalla Giocattoli Creativi Spa costituiranno uno stimolo genuino per creare - nella propria casa - un ambiente che favorisca le loro disposizioni e siamo sicuri che lei, in qualità di educatore, non può fare a meno di approvarli. Com'è che i giocattoli creativi riescono a sortire questo effetto? I nostri giocattoli tengono conto delle necessità fisiologiche di un organismo in fase di sviluppo. I nostri giocattoli aiutano i ragazzi a fare esperienze all'interno della vita familiare e di tutta la comunità. I nostri giocattoli offrono occasioni di espressione individuale che potrebbero anche non presentarsi nella vita di gruppo, a scuola. I nostri giocattoli aiutano i ragazzi a liberarsi della loro aggressività...
Ed ecco la mia risposta: Cari amici, come uno che ha potuto raccogliere abbastanza esperienza, tanto di vita familiare quanto di vita comunitaria, disponendo di persone vere e di situazioni altrettanto rispondenti ai casi della vita, io mi permetto di dubitare che dei giocattoli riescano a preparare un bambino ad affrontare anche soltanto una milionesima parte di ciò contro cui andrà a sbattere, volente o nolente, con il passare degli anni. Io credo che un bambino debba cominciare a misurarsi con persone vere e in comunità reali, fin dalla nascita, se possibile. Solo nel caso che questo materiale non fosse reperibile si dovrebbe ricorrere ai giocattoli. Ma non giocattoli blandi, concilianti, lisci, facilmente usabili, come quelli che illustrate voi, amici! Fate in modo che non ci sia nulla di armonico nei giocattoli dei nostri bambini affinché non crescano aspettandosi un mondo pieno di pace e di ordine e, pertanto, da grandi non si lascino mangiare vivi. Per quanto riguarda poi il fatto che i ragazzi dovrebbero liberarsi della loro aggressività, dico subito che non sono d'accordo. Avranno
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bisogno di tutta l'aggressività di cui sono capaci per scaricarla nel mondo degli adulti. Fatemi il nome di un solo grande uomo della storia che, da ragazzo, non ne abbia fatte di tutti i colori. E concedetemi di aggiungere che i ragazzi che ho sotto tutela io, per circa venticinque ore settimanali, non sono certo tipi da farsi ammansire nelle altre quarantacinque che passano con i loro genitori. Date retta: non stanno mica lì a manovrare animali di legno dentro e fuori dell'arca di Noè. Tengono sempre gli occhi addosso ai grandi, quelli veri, in carne e ossa; e capiscono i motivi per cui combattono, e il perché di tanta avidità, e come fanno a soddisfarla, perché e come mentono; capiscono cos'è che li fa impazzire, i modi diversi in cui impazziscono, eccetera eccetera eccetera. Non posso predire in quale attività emergeranno, ma posso assicurare che tutti, dovunque si troveranno, avranno successo. Porge i suoi saluti il vecchio pedagogo realista Howard W. Campbell, jr.
La seconda lettera? Anche quella si rivolge a Howard W. Campbell, jr. con "Caro amico," dimostrando che, oggi almeno, due scrittori di lettere su tre non ce l'hanno per niente con Howard W. Campbell, jr. Chi mi scrive è un sensale di Toronto, Canada, ma la sua lettera è rivolta soltanto all'io capitalistico che alberga dentro di me. Vorrebbe che comperassi delle azioni di una miniera di tungsteno a Manitoba. Prima di fare una cosa del genere, dovrei conoscere un po' di più la società. Vorrei sapere, per esempio, se è amministrata da gente capace e che gode di una certa stima. Non sono nato ieri. La terza lettera? Me l'hanno indirizzata direttamente qui, in prigione. È... è una lettera veramente curiosa. Vale la pena di riportarla per intero. Caro Howard, la disciplina di tutta una vita crolla a terra come le famose mura di Gerico. Chi è Giosuè, e quale musica suonano le sue trombe? Vorrei saperlo. La musica che ha squarciato quelle vecchie mura non è forte. È una musica tenue, rarefatta, insolita. Potrebbe essere la musica della mia coscienza: ne dubito. Non ho niente da rimproverarmi.
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Forse non è altro che la tentazione di un vecchio soldato di infrangere per una volta il regolamento. Questa lettera è in se stessa un breve tradimento. Scrivendola io violo gli ordini, diretti ed espliciti, che avevo ricevuto; ordini emessi per salvaguardare gli interessi supremi degli Stati Uniti d'America. Le scrivo qui accanto il mio vero nome, e dichiaro di essere l'individuo che lei ha sempre conosciuto come Frank Wirtanen. Il mio vero nome è Harold J. Sparrow. Quando, per raggiunti limiti di età, mi congedai dall'esercito ero colonnello. Il mio numero di matricola è 0-61134. Esisto per davvero. Mi si può vedere, ascoltare, toccare quasi ogni giorno, dentro o nei paraggi dell'unica casa sulle sponde del Goggin's Pond, sei miglia a ovest di Hinkleyville, Maine. Dichiaro, e lo dichiarerò sotto giuramento, che sono stato io ad arruolarla nel servizio spionistico americano, e che lei, a prezzo di grandi sacrifici personali, che la privarono praticamente di tutto, diventò una delle spie più efficienti della Seconda guerra mondiale. Se organizzazioni nazionalistiche desiderose di farsi giustizia vogliono proprio sottoporre a giudizio Howard W. Campbell, jr., va bene, ma il processo che ne verrà fuori sarà un putiferio! Sinceramente suo "Frank"
Così sto per riacquistare la libertà; sarò libero di andarmene dove mi pare. Una prospettiva nauseante. Credo che sia giunta la notte in cui impiccherò Howard W. Campbell, jr., reo di crimini contro se stesso. Anzi sono sicuro che sarà questa notte. Si dice che gli impiccati sentano delle musiche fantastiche. Peccato che io, come mio padre, diversamente da mia madre, non abbia orecchio musicale. Non fa niente, purché non debba riascoltare un'altra volta Bianco Natale cantato da Bing Crosby. Addio, mondo crudele! Auf Wiedersehen?
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INDICE Introduzione dell'Autore ........................................................................................ 2 Avvertenza del Curatore ....................................................................................... 5 Tiglatpileser III… ................................................................................................ 10 Battaglione speciale… ........................................................................................ 13 Mattonelle… ....................................................................................................... 15 Cinghie di cuoio… .............................................................................................. 17 Colmata l'ultima misura… .................................................................................. 19 Purgatorio… ....................................................................................................... 21 Autobiografìa… .................................................................................................. 22 Auf Wiedersehen… ............................................................................................. 25 Entra la mia fata turchina… ............................................................................... 28 Idillio… .............................................................................................................. 34 Residuati di guerra.. ........................................................................................... 37 Strani avvenimenti nella mia cassetta della posta… ............................................ 43 Il reverendo dottor Lionel Jason David Jones, odontoiatra e teologo... .................. 48 Dall'alto delle scale… ......................................................................................... 53 La macchina del tempo….................................................................................... 57 Una donna ben conservata… .............................................................................. 59 August Krapptauer ascende al Valhalla… ........................................................... 62 Il bellissimo vaso azzurro di Werner Noth…......................................................... 66 La piccola Resi Noth… ........................................................................................ 73 Donne boia per il boia di Berlino… ...................................................................... 76 Il mio migliore amico… ........................................................................................ 79 Il contenuto di un vecchio baule… ....................................................................... 83 Capitolo seicentoquarantatré… ........................................................................... 88 Un Casanova poligamo….................................................................................... 94 L'antidoto per il comunismo… ............................................................................. 98 In cui si racconta del soldato semplice Irving Buchanon e di altri... ...................... 99 Chi trova ride, chi è trovato piange… ................................................................ 102 Bersaglio… ...................................................................................................... 105 Io e Adolf Eichmann… ...................................................................................... 108 Don Chisciotte… ............................................................................................... 115 La sua fede vincerà… ....................................................................................... 118 Rosenfeld…...................................................................................................... 123 Il comunismo solleva il capo… .......................................................................... 131 Alles kaputt… .................................................................................................. 133 Quaranta rubli in più…..................................................................................... 135 Tutto tranne gli strilli… ..................................................................................... 139 La vecchia regola d'oro… .................................................................................. 142 Ah, dolce mistero della vita…............................................................................ 148 Resi Noth esce di scena… ................................................................................. 153 Di nuovo in libertà… ......................................................................................... 156 La chimica… .................................................................................................... 158 Niente colomba, niente alleanza… .................................................................... 162 San Giorgio e il drago… .................................................................................... 165 Kahm-boo… ..................................................................................................... 171 La tartaruga e la lepre… ................................................................................... 176 181