MARTIN CRUZ SMITH LOS ALAMOS (Stallion Gate, 1986) Per Neil, Luisa e Sam Ringraziamenti Desidero ringraziare per la loro...
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MARTIN CRUZ SMITH LOS ALAMOS (Stallion Gate, 1986) Per Neil, Luisa e Sam Ringraziamenti Desidero ringraziare per la loro collaborazione il dottor Norris Bradbury, Jon Else, il maggior generale Niles Fulwyler, John Michnovich, il dottor John Manley e sua moglie Kay, Sir Rudolph e Lady Peirls, Alfonso Popolato, Bob Porton, il dottor Raemer Schreiber, Jack e Louise Smith. Uno speciale ringraziamento è dovuto a Bob Krohn, R.C., a Harriett P. Smith e a Françoise Ulam e al suo compianto marito Stan. Inoltre, ho un grosso debito di gratitudine verso quegli amici che non posso nominare. Anche se questo libro non sarebbe stato mai scritto senza l'aiuto generoso di tutti, non devono essere ritenuti responsabili di quella che in realtà è soltanto l'invenzione di un narratore. Novembre 1943 1 La cella di Leavenworth era un metro e venti per due metri e mezzo, grande appena quanto bastava perché Joe potesse stare seduto su un secchio rovesciato, ma nel buio c'era spazio per un cerchio di figure. Vicino a Joe c'era un puma grigio e bianco come una nevicata notturna. La spina dorsale del felino era un serpente a sonagli, e la testa squamosa del serpente sbirciava al di sopra della spalla del puma. C'era una donna dal corpo di rondine. Aveva un bel viso triangolare e teneva gli occhi pudicamente abbassati per non guardare Joe, che indossava soltanto un lurido paio di shorts militari. Di fronte alla donna c'era un minotauro, un uomo blu dall'irsuta testa di bisonte. In fondo alla cella stava un ufficiale che s'era portato una sedia per sedersi. L'ufficiale aveva la testa allungata, la carnagione olivastra e le orecchie quasi appiattite contro i corti capelli neri. Aveva i modi pazienti e l'uniforme confezionata su misura del classico ufficiale di carriera, e non sembrava per nulla infastidito dal cerchio di bacchette d'oro
che aleggiavano sopra la sua testa e si urtavano lanciando sprazzi di luce. «Lei è del New Mexico, sergente Peña?» chiese il capitano. «Sissignore» disse Joe. Il minotauro borbottò sommessamente e si dondolò. Joe si sforzò di non badargli e il capitano non lo degnò di un'occhiata. «Conosce le Jemez Mountains, sergente?» «Sissignore.» «Sergente Peña, a quanto mi risulta lei è finito qui per insubordinazione» disse il capitano. «Ma la verità è che andava a letto con la moglie di un ufficiale.» «Non in questi ultimi tempi, signore. Sono al fresco da venti giorni, e da dieci sono in isolamento e non mi danno altro che acqua.» «Se l'è cercata. La stupidaggine più grossa che si può commettere nell'esercito è farsela con la moglie d'un superiore, vorrà ammetterlo.» «Sissignore.» «Qualche effetto spiacevole?» «Qualche allucinazione.» Joe aveva incominciato a vedere strane cose dopo il quinto giorno d'isolamento. Le guardie battevano sulla porta ogni volta che si sdraiava, e quindi non aveva neppure potuto dormire. Per primo era apparso il puma. Joe aveva pensato che il puzzo della cella avrebbe messo in fuga persino un fantasma; e invece dopo il puma era comparsa la donna alata. Non era un'esperienza religiosa: era un affollamento. «Ha la sensazione che non uscirà mai di qui, sergente?» «A volte sì, signore. Mi scusi, signore, ma non ho afferrato il suo nome.» «Augustino.» «È un avvocato difensore?» «Non avrebbero neppure voluto dirmi che era al fresco, sergente. In pratica l'hanno sepolto e dimenticato. No, non sono avvocato, ma posso tirarla fuori.» Il serpente girò la testa e fissò il capitano con una curiosità più intensa. «Perché non mi spiega come farà, signore?» chiese Joe. «È tornato nel New Mexico di recente?» «No, non ci vado da anni.» «Non era interessante?» «Non troppo.» Mentre il serpente a sonagli continuava a osservare il capitano, il grosso
felino girò verso Joe i languidi occhi gialli. «Capisco quello che intende dire, sergente. Io sono del Texas.» «Davvero, signore?» «E appena compii sedici anni, feci domanda per essere ammesso alla Citadel.» «Davvero, signore?» «Dalla Citadel escono ufficiali anche migliori di quelli che sfornano a West Point.» «Interessante, signore. Può tirarmi fuori da questo buco schifoso o no?» «Sì, sono autorizzato a scegliere chi voglio. Sergente, lei ricorda un certo J. Robert Oppenheimer?» «No.» «Un ragazzo ebreo di New York. Era malato di tubercolosi, e la sua famiglia lo mandò nel New Mexico.» «Ah, sì. Ero ragazzo anch'io. È stato molto tempo fa. Andavamo a cavallo.» «A Los Alamos?» «Un po' dappertutto, sì.» «È tornato.» «E con ciò?» «Sergente, l'Esercito sta organizzando un progetto a Los Alamos. Il responsabile è il dottor Oppenheimer, e avrà bisogno di un autista. Lei è l'uomo ideale più o meno sotto ogni aspetto. Abbastanza violento per fargli da guardia del corpo. Abbastanza ignorante per non capire una parola quando ascolterà informazioni riservate. Farà da collegamento.» «Con chi?» «Con gli indiani. Con chi, se no? E soprattutto, è possibile che Oppenheimer riconosca il suo nome e decida di potersi fidare di lei. L'ho messo nell'elenco. Vedremo.» «E se Oppenheimer non si fiderà?» «Allora resterà qui a marcire. Se invece la sceglierà, immagino che tornerà alle sue bravate, sergente. Le andrà tutto liscio. Ma non scordi chi è stato a scovarla in questo buco. Voglio che sia il mio fedelissimo. Chiaro?» «Sissignore.» Il capitano bussò alla porta per uscire. Mentre attendeva che la guardia gli aprisse, soggiunse: «So che sua madre è Dolores la Vasaia. Ho alcuni pezzi suoi, molto belli. Come sta?».
«Non saprei, signore. Non sono più tornato a Santiago dall'inizio della guerra.» «Lei non fabbrica vasi?» «Nossignore.» «Non è un indiano di quel genere?» «Mai stato, signore.» Quando uscì, il capitano si portò via la sedia. Joe si assestò sul secchio e chiuse gli occhi per non vedere le figure che affollavano la cella. Sentiva arrivare nuove apparizioni. Poi socchiuse una palpebra e vide che la ragazza dal corpo di rondine alzava gli occhi e lo guardava con aria malinconica. Joe rise. Non sapeva molto delle visioni, ma conosceva le donne. Sarebbe uscito. Dicembre 1944 2 Il sergente Joe Peña suonava il piano al ballo di Natale. Aveva la faccia piuttosto affilata per un indiano Pueblo, gli zigomi sporgenti, la bocca larga e gli occhi distanti. I capelli erano neri, e un sopracciglio portava il segno d'una vecchia ferita rimarginata. L'uniforme era impeccabile, i galloni sulla manica brillavano come se fossero stati tirati a lucido, la cravatta era infilata nella camicia tra il secondo e il terzo bottone. Nel vederlo così, mentre suonava ballate sul pianoforte a coda, si aveva l'impressione di un colosso simpatico e attraente. E anche d'una merce un po' avariata. Le pareti e le colonne della sala avevano lo splendore biondo del legno di pino ponderosa ben verniciato. In armonia con lo spirito natalizio, festoni di crespo rosso e verde ornavano i lampadari a ruota di carro e le balconate del primo piano. Ai tappeti navajo appesi alle pareti erano appuntate renne di carta. Sull'altissima mensola del camino di pietra un Babbo Natale di porcellana spiccava tra i vasi indiani. «Ci sono tutti.» Foote si appoggiò al piano. Era un inglese magro dall'aria cavallina e dallo smoking liso. «Non tutti» rispose Joe senza smettere di suonare. «Dici? E chi manca?» «Mancano i soldati, e quelli della polizia militare, e le ausiliarie, i meccanici e gli indiani.» «Certo che mancano: non li vorremmo neppure. La bomba non è mica
loro. È già uno strazio che abbiamo il comando militare. Soprattutto quel capitano Augustino che se ne va in giro come se fosse il grande inquisitore.» «Io sono pronto.» Harvey Pillsbury portò un bourbon a Joe. Nell'altra mano teneva un clarinetto. «Le sono davvero grato per avermi dato un'altra possibilità, Joe.» «Basta che suoni. L'ultima volta era così silenzioso che sembrava di suonare con un pupazzo di neve.» Harvey aveva effettivamente la sagoma d'un pupazzo di neve, i capelli lanuginosi e l'accento acuto e nasale del Texas occidentale. «Si prepari ad assistere a un miglioramento quantistico.» «Qualunque cosa significhi.» Joe trangugiò il bourbon in un'unica sorsata. Suonò Machine Gun Butch e tutti cantarono. «... was a rough and ready Yankee, He'll never let the old flag touch the ground. And he always will remember the seventh of December, With his rat-tat-tat-tat-tat-tat, and he'll mow them down.» I tedeschi e gli italiani cantavano più forte di tutti, e la cosa strana era che Joe li trovava tutti simpatici, incluso Foote e soprattutto Harvey. In maggioranza erano americani, quasi tutti ragazzini usciti freschi freschi dall'università. I giovani avevano le cravatte slacciate e le facce lustre di sudore; le ragazze avevano le gonne corte e portavano i capelli pettinati a banana intorno alle fronti ampie e levigate. Non si poteva paragonare a una festa ad Harlem, però ce la mettevano tutta. Harvey era rimasto in piedi ad attendere durante A String of Pearls con il clarinetto accostato alle labbra, assolutamente muto. Quando venne il momento di Don't Sit Under the Apple Tree, umettò l'ancia, poi emise uno squittio, due note consecutive, poi tre. A metà di This Joint is Jumpin' Joe passò a un ritmo di contrabbasso, costringendolo a suonare con la fretta convulsa d'una farfalla in fuga. E alla fine Harvey sorrise trionfante, tutto rosso in viso. «White Christmas?» suggerì. Joe proruppe in un gemito esasperato. «Ecco il guaio, quando qualcuno sa poco e presume di sapere tutto.» In fondo alla sala ci fu un certo trambusto. Erano arrivati Oppy e Kitty. Più che un trambusto era un tributo di venerazione. Il direttore del Progetto Los Alamos era alto e magro, con i capelli cortissimi e il naso adunco che faceva spiccare gli occhi un po' obliqui, di un azzurro sorprendente. I giovani fisici che lo seguivano cercavano di imitare il portamento curvo delle
spalle, la sua aria distratta. Kitty Oppenheimer aveva un viso piatto e grazioso, un abito sciupato e i capelli scuri e folti. Le sue amiche erano le mogli europee dei collaboratori del marito e la circondavano come tante guardie del corpo. Un dito passò lungo la spina dorsale di Joe. C'erano diverse persone intorno al pianoforte, ma stavano guardando le coppie che ballavano o gli Oppenheimer. Harvey concentrava tutta l'attenzione sul clarinetto. Adesso era un'unghia, quella che passava sulla spina dorsale di Joe. Joe alzò gli occhi e vide la signora Augustino, la moglie del capitano. Sembrava uscita da una copertina di "Life", magari da una copertina dedicata a un servizio tipo «"Life" nella Terra delle Magnolie», con quei riccioli ossigenati, gli occhi azzurri e l'abito a pois dai volants sulle spalle. In apparenza, osservava con attenzione le coppie che ballavano. Ma il dito era suo. «Che cos'è questo progetto segreto, sergente?» chiese a voce così bassa che soltanto Joe la sentì. «Cosa crede che stiano facendo?» «Perché non lo chiede a suo marito?» «La settimana scorsa il capitano Augustino mi ha portata in un nightclub di Albuquerque.» L'unghia continuava a passare su e giù lungo la spina dorsale di Joe come un temperino. «E lei suonava. Mi ha colpito la delicatezza con cui suonava. Forse perché ha le dita così grandi?» «Non suonavo con delicatezza, ma con prudenza. Cerco di stare alla larga dai guai.» Joe si girò sullo sgabello per guardarla, e riuscì a sottrarsi a quell'unghia. Che peccato: poteva avere diciannove o vent'anni, ed era già la classica moglie d'un ufficiale che sta morendo di noia. «Lei cosa pensa che facciano qui, signora Augustino? Qual è la sua opinione?» Lei si scostò i riccioli dal viso e si guardò intorno. «Per me è tutto un imbroglio. Per non farsi arruolare. Tutti questi cosiddetti scienziati si sono messi d'accordo e l'hanno data da bere all'esercito. Sono abbastanza furbi per fare una cosa del genere.» «Sì» dovette ammettere Joe. «Questo è vero.» Durante l'intervallo, Joe arrivò al bar girando intorno ad alcuni dei "cosiddetti scienziati". L'ungherese, Teller, con le sopracciglia che si alzavano come ventagli, rideva fragorosamente a una battuta di Fermi. Fermi era basso, solido, già un po' calvo. Portava un vestito a doppio petto di stoffa ruvida, e le scarpe dalle suole spesse erano un po' incurvate in punta come quelle dei contadini italiani. Ma gli altri fisici lo chiamavano "il Papa". Oppy stava mostrando a un gruppo di ammiratori come si prepara un martini perfetto.
«Le istruzioni inderogabili dovrebbero essere sempre impartite in tedesco.» Oppy aveva l'abitudine di abbassare la voce in modo che gli ascoltatori fossero costretti a tendersi verso di lui. Versò il gin fin quasi all'orlo del bicchiere. «Am wichtigsten, der Gin solite gekühlt sein, kein Eis.» «Bourbon» disse Joe a Foote che forse era sbronzo ma comunque badava al bar. «Zweì Tröpfeln Wermut, nicht mehr, nicht weniger, und eine Olive.» Oppy aggiunse quel tanto di vermut che bastava per creare nel gin un minuscolo vortice oleoso, poi porse l'intruglio a una donna che dava nell'occhio perché la tuta nera la faceva sembrare un'amazzone o un'operaia di una fabbrica dove assumevano solo gente in lutto, oppure una reduce da un tuffo nell'inchiostro. Ma in realtà era il taglio intellettuale del suo viso a renderla meritevole d'attenzione. I capelli nerissimi scendevano in una austera frangetta intorno agli occhi grigio azzurri con gli orli più scuri, che si dilatavano per la disapprovazione come quelli d'un gatto. Il naso era energico, la bocca carnosa e la carnagione chiara, una carnagione che non andava d'accordo con il sole. «Uno doppio» disse Joe a Foote. Oppy disse: «Joe, questa è la dottoressa Anna Weiss. Joe è il più vecchio amico che io abbia qui, Anna». Anna Weiss e Joe, con i rispettivi bicchieri in mano, si liquidarono reciprocamente con un cenno secco. «Dovetti perdere il primo anno ad Harvard» continuò Oppy. «I miei mi mandarono nel New Mexico per ragioni di salute. Si misero d'accordo con il padre di Joe, che era un famoso contrabbandiere di alcolici.» «Davvero?» Anna Weiss aveva la voce bassa, l'accento tedesco e non mostrava il minimo interesse. «Raccontaglielo, Joe» disse Oppy. «Mio padre affittava anche cavalli da soma e guide esperte per i gruppi di turisti» disse Joe. «La guida esperta ero io. Avevo dodici anni. Una delle prime volte che uscii, mi capitò un ragazzo di New York. Aveva sedici anni ed era così alto e magro che quando lo vidi per la prima volta in calzoncini da bagno pensai che sarebbe morto durante l'escursione.» «Non sapevo andare a cavallo» disse Oppy. «Non sapeva assolutamente andare a cavallo» continuò Joe, «ma la notte gli piaceva uscire per guardare le stelle, e ci vedeva così poco che ero costretto a scostare i rami perché non andasse a sbattere. Una notte ci sorprese un acquazzone e io mi misi sotto il mio cavallo per ripararmi. E lui, in-
tanto, gridava come un matto sotto la pioggia.» «Credevo che mi avesse abbandonato» disse Oppy. «Gli dissi di venire a ripararsi sotto il cavallo insieme a me. Arrivò bagnato fradicio e disse "Gesummio!" Non aveva mai pensato alla possibilità di ripararsi sotto un cavallo, quando pioveva. Gli sembrava un'idea geniale.» «Mi sembrò un'offerta di eterna amicizia» disse Oppy. «Quando smise di piovere, mi accompagnò proprio qui, alla Ranch School, a bere un caffè e a mettermi addosso qualcosa di asciutto. E tutto questo accadde vent'anni fa.» Anna Weiss girò lo sguardo dall'uno all'altro come se stessero raccontando un'esistenza anteriore vissuta da idioti. «È meglio che torni al tedesco» disse Joe a Oppy, e si portò il bicchiere nel patio. La luna era bassa sulle montagne e nell'aria regnava una frescura liquida. Accanto al patio c'era un giardino ombreggiato dai pioppi. Los Alamos significa "I Pioppi". Che cosa fanno qui? Una bomba atomica, un ordigno nucleare, qualunque cosa significhino queste parole. Joe aveva assimilato un po' la terminologia perché era l'autista di Oppy e tante volte ascoltava le conversazioni incomprensibili che si svolgevano sul sedile posteriore della macchina. Reazioni a catena? Neutroni veloci e neutroni lenti? Era una lingua completamente diversa come il sanscrito. Naturalmente, Oppy conosceva il sanscrito. Joe posò il bicchiere su una pietra della pavimentazione e accese la prima sigaretta della giornata. Aveva conservato le abitudini del pugile che cerca di tenersi in forma, sebbene non sapesse bene perché lo faceva. Teller uscì dalla porta. «Sai, Joe, potresti prendere lezioni e diventare un pianista vero. Potresti suonare Beethoven.» «Ah, la musica seria» disse Joe. Non appena poté, riprese il bicchiere e se la squagliò per non essere costretto ad ascoltare una dissertazione sul jitterbug americano. Teller aveva una gamba di legno. Era quasi arrivato alla porta quando si trovò la strada bloccata da Anna Weiss, la donna che Oppy aveva istruito circa la preparazione dei martini. Adesso era in compagnia di un altro emigrato, un tipo dalla faccia blanda e pallida, i capelli di stoppa e gli occhiali cerchiati d'oro. Si chiamava Klaus Fuchs. Joe non ricordava di aver mai scambiato una parola con lui; ma a quanto sembrava Fuchs aveva fatto da guida a Fräulein Weiss secondo la consuetudine: Quelle sono le montagne, quelle sono le mesas, quello è un
indiano. «Davvero è stato lei il primo a portare qui Oppy?» chiese Anna Weiss a Joe. Joe annuì. «A quei tempi era una scuola privata. Un anno alla Ranch School costava più di Harvard. Ma poi è stata chiusa per via della guerra.» «E Oppy l'ha riportata qui. Non è un'ironia?» «No, è lo stile tipico dell'Esercito.» I due avevano l'aria di squadrare Joe dall'alto dell'estremità opposta della scala dell'intelligenza. «Teller va raccontando a tutti che lei ha un talento musicale» disse Anna Weiss. «Secondo Klaus, invece, non ha grandi doti.» Fuchs scrollò le spalle. «Dovrebbero bastare per un eroe della guerra.» «È molto gentile» disse Joe. «Certo, in guerra è importante essere dalla parte giusta.» «Qui imparano a usare i fucili fin da piccoli, dottor Fuchs» disse una voce che veniva da un angolo buio del giardino. «È molto semplice diventare un eroe in guerra se si sa sparare con un fucile.» «Io non ho mai sparato a niente» disse Fuchs. «È naturale.» Il capitano Augustino avanzò d'un passo verso il patio, quanto bastava perché gli altri lo vedessero. «Anzi, siamo in piena stagione della caccia. È meglio non gironzolare nei boschi.» «Certamente» dise Fuchs. «Con una luna come questa, e magari con la neve, tutti gli indiani saranno in giro a sparare ai cervi. Potrebbe essere pericoloso.» «Sì, sì.» Fuchs sembrava guardare Augustino con la stessa espressione con cui guardava Joe. Il capitano aveva il viso olivastro, i capelli folti e lucidi come una pelliccia, e la stessa aria animalesca del sergente. Sembrava quasi che Fuchs e Anna Weiss si fossero evoluti su un gradino superiore della specie umana, lasciandosi indietro Joe e il capitano come se non fossero altro che due predatori. «Posso parlare da solo al sergente?» La sigaretta di Augustino descrisse un arco per indicare a Joe di staccarsi dagli altri. «Prego» disse Fuchs. Sebbene il terreno fosse gelato, Augustino non aveva il cappotto. Joe non riusciva a immaginare per quanto tempo fosse rimasto là fuori al buio ad ascoltare. «I nostri tedeschi. Devo riconoscere una cosa: Fuchs è scrupoloso per
quanto riguarda la sicurezza, diversamente da certi altri. Sergente, si rende conto dei miglioramenti nel tenore di vita degli abitanti dei pueblos locali che si sono avuti da quando è arrivato qui? Sigarette, pneumatici del nostro parco macchine, zucchero dello spaccio. E c'è una voce particolarmente preoccupante: gli indiani hanno riaperto alcune delle vecchie miniere di turchesi.» «Non le piacciono i gioielli indiani, signore?» «Non mi piace l'idea che aprano le miniere con esplosivi ad alto potenziale. In questa zona del paese c'è un solo posto dove possono procurarsi l'esplosivo, sergente, ed è la Collina. Non vorrei dover pensare che qualcuno dei miei uomini ruba materiale di proprietà dell'Esercito per venderlo con profitto personale.» «Gli indiani sono molto poveri, signore. Non può guadagnarci molto.» «Allora è anche stupido.» «Se è tanto stupido, commetterà uno sbaglio. Terrò gli occhi aperti, signore.» «Bene. Intanto il generale Groves è arrivato alla foresteria. Dia un taglio alla musica. Dato che domani accompagnerà il generale e il dottor Oppenheimer a vedere il territorio di Alamogordo, voglio che stanotte si faccia una buona dormita. Porterà su quella macchina il destino del mondo, quindi sarà meglio che sia sobrio e lucido. D'accordo?» «Sissignore.» «Glielo ricordo, sergente: non sono molto soddisfatto delle informazioni che mi sta passando da qualche tempo. Tra di noi c'è un patto. È stato assegnato a me provvisoriamente. In libertà vigilata. Posso rispedirla al fresco quando voglio. E adesso torni indietro, suoni un altro paio di pezzi e rimandi a casa soddisfatti i nostri bravi borghesi. A proposito, conosce la differenza tra un negro che suona il piano e un indiano che suona il piano?» «Nossignore.» «È strano, non la conosco neppure io.» Joe si sforzò di pensare alla musica per quell'ultima serie di balli. Si impegnò con I Got It Bad trasformando il ritornello in una quinta bemolle bebop, poi continuò con il ritmo da tam-tam di Cherokee, passò alle acque tranquille di More Than You Know. Gli appassionati di balli scatenati ebbero un ultimo contentino con The G.I. Jive prima che Joe cambiasse registro con Funny Valentine e si lanciasse nell'ultimo pezzo della serata, Every Time We Say Good-bye. Fuchs stava eseguendo un numero da sala da
ballo asburgica con Anna Weiss, come se danzasse al suono del Danubio blu. Lei sembrava abbastanza aggraziata tra le sue braccia, e sorrideva come se lo giudicasse divertente o ridicolo. Oppy, nell'angolo opposto della sala, seguiva Fuchs e la ragazza con una concentrazione che era insolita persino per lui. E Kitty gli stava alle spalle e osservava lui e la ragazza. Forse era per via della sensazione di una faccia nuova, forse era la tuta bizzarra, ma sembrava che tutti osservassero Anna Weiss. Sulla pista da ballo pareva che fosse l'unica completamente viva. Era uno scherzo della luce che seguiva dovunque una persona. Joe aveva già visto altre volte quella caratteristica: era rara, ma non sconosciuta. Every time we say good-bye... Cole Porter aveva composto una ballata intima per gli innamorati che si separavano nelle stazioni, sui moli davanti alle navi-tradotta, nei letti. Le altre volte che aveva visto ballare Fuchs, Joe aveva giudicato ridicolo il suo stile; quella sera gli appariva irritante. Quando li vide slanciarsi verso un "casqué" saltò una battuta, continuò per altre quattro, poi inserì le note omesse e proseguì. Fuchs aveva l'aria d'un uomo bloccato a un semaforo. La ragazza guardò Joe. Gli altri ballerini non se ne accorsero neppure, perché ballavano adagio e stretti stretti. Quando Fuchs si voltò a fissare il piano, Joe tirò in lungo il motivo, che era ricco di deliziosi accordi in la minore. Accennò ad Henry di tenere un mi e discese lungo la tastiera sulle none, come Tatum, tornò ad afferrare la nota morente di Harvey e la protrasse nella melodia con la mano destra, mentre faceva saltellare dolcemente la sinistra sui tasti, come un coniglio. Harvey smise di suonare, restò con l'ancia nella bocca aperta e spalancò gli occhi. Joe prese a balzare da un accordo all'altro, dolcemente come se suonasse una ninnananna, fino a riprendere la melodia; la rilanciò e Fuchs non poté far altro che rimettersi a ballare. Quando vide che il tedesco stava piroettando, Joe passò al Valzer dei pattinatori, di nuovo in la minore. La ragazza rideva e stava al gioco. Fuchs tentò di fermarsi ma lei non lo lasciò fare. Anche Oppy rideva tanto che doveva asciugarsi gli occhi. Lentamente, come se una forza estranea assumesse il controllo, incominciò un ritmo sincopato; il valzer divenne un rag sognante, poi sfuggì in un andamento comico e Fuchs non seppe più dove mettere i piedi fino a che Joe non riordinò le note in un risoluto due-quarti e le condusse in un valzer vero e proprio: quindi le abbandonò e riprese Cole Porter come se non fosse accaduto nulla; e quando lo interruppe fece un cenno ad Harvey che si esibì in un arpeggio flautato. Joe batté sui tasti un ultimo accordo e tutto finì.
3 All'inizio, Oppy aveva pensato di poter costruire la bomba con la collaborazione di altri cinque fisici, non di più. Si sarebbero insediati nelle case degli insegnanti e avrebbero mangiato nella sede della scuola. I laboratori necessari sarebbero stati inseriti tra il bordo del canyon e il laghetto artificiale che stava davanti all'entrata. Dopo una riflessione più approfondita, Oppy raddoppiò e poi quadruplicò il numero dei fisici e aggiunse diversi matematici, chimici e specialisti in metallurgia. L'Esercito mandò un distaccamento di genieri per prestare servizio nei laboratori, mandare avanti la centrale elettrica, occuparsi della manutenzione delle strade e guidare i camion. Per motivi di sicurezza vennero aggiunti duecento MP. Arrivarono le ausiliarie per sbrigare i lavori d'ufficio; e poi fu necessario aumentare il personale addetto un po' a tutto, perché non era possibile affidare certi lavori al mondo esterno, il mondo lontano dal New Mexico. I bulldozer scavarono il tufo vulcanico per costruire le fonderie. I ciclotroni e gli acceleratori di particelle vennero trasportati lungo la strada del canyon. Arrivò la missione britannica. Furono costruiti dormitori, un ospedale, una scuola, e incominciarono a nascere i bambini. Il numero dei soldati, degli MP e delle ausiliarie raddoppiò di nuovo e furono necessari altri alloggiamenti, mense, spacci, teatri. I meccanici civili che si occupavano degli esplosivi ad alto potenziale se ne sarebbero andati se non avessero avuto alloggi tutti per loro. E bisognava sistemare anche i dipendenti del governo. Nel dicembre 1944 sulla mesa c'erano cinquemila persone, ma non c'era neppure un lampione perché l'Esercito stava ancora cercando di tener nascosto il suo progetto più segreto. Quando lasciò il ballo, Joe attraversò il campo da football, girò intorno allo spaccio e si diresse verso l'area dove sorgevano le baracche Quonset, basse e arrotondate, le cosiddette "baracche del Pacifico" che erano state progettate per le isole dei Tropici, non certo per l'inverno del New Mexico. Lì dovevano vivere gli operai che costruivano gli alloggi per tutti gli altri. Joe arrivò sul posto dove si stava svolgendo l'incontro. Fu il chiasso a guidarlo. Il ring era nella sala ricreazione della baracca centrale. Il sergente Ray Stingo si batteva con uno degli operai. Come Joe, Ray era autista e guardia del corpo con l'autorizzazione della sicurezza e prima della guerra era stato un pugile professionista della categoria dei massimi. Ostentava un ciuffo
nero che gli spioveva sul naso schiacciato e aveva lo stomaco ancora duro come un'asse per il bucato, ma doveva avere dieci anni di più dello sfidante. Joe socchiuse la porta quanto bastava per vedere la scena. Nella baracca regnava il puzzo acido e intenso della birra rancida e delle sigarette spente. Gli operai dei cantieri si alternavano di continuo, e l'ultima infornata veniva da Dallas. Per l'occasione avevano indossato i cappellacci alla cowboy e gli stivali e stavano in piedi su divani e sedie per incitare il loro campione. I tifosi di Ray erano tutti MP, un branco di gorilla in uniforme che accanto ai texani sembravano quasi civilizzati. Sebbene fossero armati di elmetti e sfollagente, di solito gli MP giravano alla larga dalle baracche, il sabato sera. Joe vide che gli esponenti delle due fazioni si passavano somme di denaro. Le scommesse per l'incontro ammontavano probabilmente a due o tremila dollari. Il ragazzo era mancino, svelto, aggressivo. La faccia non era gran che: sopracciglia folte, occhi opachi, naso schiacciato, capelli di stoppa e orecchie a sventola. Portava una canottiera e i blue jeans, e le cose più notevoli erano i muscoli del collo e delle spalle. Un peso massimo naturale. Poteva avere vent'anni, forse meno. Ray tentò di colpirlo con un jab destro, ma il ragazzo schivò e ripartì all'attacco fra un coro di urli di cowboy. Joe aveva sempre pensato che i cappellacci e il sole del Texas contribuissero a cuocere il cervello dei texani e a ridurlo alle dimensioni di un uovo sodo. Ma lì c'era di mezzo un mistero anche più profondo. L'Esercito arruolava uomini cui mancavano varie dita delle mani o dei piedi e altre appendici. In fureria c'era un dattilografo che aveva soltanto due dita. Joe non poteva contare quante dita ci fossero dentro un guantone da boxe, ma quel ragazzo sembrava esattamente il tipo del maniaco post-adolescente che avrebbe dovuto trovarsi su un atollo a sbudellare giapponesi. Ray le stava buscando. Ray continuava a girare sulla sinistra, e così si portava direttamente a tiro del jab del ragazzo. A New York era stato un solido pugile di medio calibro, uno di quelli che tiravano al corpo. Non aveva mai avuto paura di niente al mondo fino a quando era arrrivato lì e aveva seguito il corso di sicurezza sulle radiazioni. Adesso pagava gli altri autisti perché lo sostituissero ogni volta che c'era la possibilità di arrivare a meno di cinquanta metri dal materiale radioattivo, e quindi doveva vincere per forza. Quella sera sembrava vecchio, con un'espressione disperata negli occhi e i muscoli gonfi. Chiazze rosse gli apparivano sulla pelle nei punti dov'era stato
colpito. Evitò di stretta misura un jab, schivò, prese in pieno un sinistro e finì seduto a terra, con le gambe larghe, puntellandosi sui guantoni. Il ragazzo gli saltellava intorno e gli faceva cenno di alzarsi. Joe era già uscito nell'oscurità. Attraverso la porta socchiusa la scena sembrava più piccola, come un combattimento di galli con gli scommettitori che si sporgevano, alcuni con l'aria lugubre, altri che urlavano ancora da farsi scoppiare i tendini del collo. Era deprimente. C'era qualcosa, nella guerra, nei massacri su vasta scala, che faceva apparire superfluo e sordido un incontro di pugilato. Il vento soffiava freddo nella notte. Dall'altra parte della valle, la catena di Sangre de Cristo era come una spina che puntava verso Santa Fe, al sud. Alle spalle di Joe, le Jemez Mountains erano una tenebrosa massa vulcanica. Tra una catena e l'altra la luna appariva pesante, pronta a precipitare. Perché si era divertito alle spalle di Fuchs? Perché era irritato e il tedesco era il primo, facile bersaglio che aveva adocchiato sulla pista da ballo. Gesù, fino a che punto sarebbe diventato sfacciato prima che la guerra finisse? Dato che doveva tenersi ventiquattr'ore su ventiquattro a disposizione di Oppy per portarlo in giro in macchina e risolvere gli eventuali problemi con gli "indigeni", Joe non viveva nella caserma: aveva una stanza tutta sua nel seminterrato del Teatro numero 2, l'edificio tuttofare a disposizione dei militari. Il corridoio del seminterrato era una nera galleria piena di reti per pallavolo e di leggii per la musica. Joe non si soffermò per accendere la luce in camera sua; andò diritto all'armadietto e aprì una bottiglia nuova di bourbon e una stecca di sigarette. La fiammella del cerino illuminò un poster degli Esquire All-Stars con le immagini di Art Tatum e di Coleman Hawkins. Hawkins teneva tra le mani un sax tenore. Il poster era una porta sul passato e sul futuro: ma, sicuro come l'inferno, non era il presente. Joe soffiò sulla fiammella. Sulla parete i negri scomparvero, e Joe ebbe la sensazione di scomparire a sua volta. Al centro della stanza, quasi invisibile, era appeso un pesante sacco. Joe posò il bicchiere e la sigaretta, si tolse la giacca e la camicia. Colpì il sacco con un jab e lo sentì dondolare, appeso alla catena. Quel sacco si chiamava MacArthur. Lo colpì con un gancio sinistro e ascoltò il piacevole scricchiolio del cuoio e del kapok. Un altro gancio sinistro, e poi un cross di destro, e MacArthur sussultò. Jab, gancio, cross, finta, un altro cross. L'aria uscì sibilando dalle cuciture. Al di sopra della catena, il soffitto cigola-
va. Un sacco così pesante esigeva un notevole impegno: se lo si colpiva con una mossa incerta, c'era da spezzarsi il polso. Joe lo spostò all'indietro, si avventò per colpirlo ancora, scivolò e per poco non cadde. Il sacco gli rimbalzò sulla spalla quando Joe si chinò verso il pavimento e si trovò tra le mani seta e tulle. La seta era a pois, come un giglio maculato. «Voglio aiutarla a indovinare. Non sono Eleanor Roosevelt.» La signora Augustino si accese una sigaretta. Aveva un accendino d'argento e un portasigarette d'argento, e niente altro. La moglie del capitano era sdraiata tutta nuda sulla branda. Era inverno, ma lei aveva una di quelle abbronzature che si prendono con un costume da bagno a due pezzi ed era una bionda autentica. Spense l'accendino, ma Joe non sarebbe rimasto sorpreso se l'avesse vista splendere nel buio come un'insegna al neon. La moglie di un ufficiale era molto pericolosa. Quasi gli sembrava di sentire l'insegna al neon che sfrigolava. «Non dovrebbe essere qui.» Joe ansava ancora per lo sforzo dei pugni inferti al sacco. «Provi a buttarmi fuori, sergente, e urlerò alla violenza, così forte che mi sentiranno anche a Santa Fe.» «Avanti, urli.» Adesso, Joe poteva vedere quasi esclusivamente lo scintillio degli occhi azzurri. «Aiuto» disse lei, sottovoce. «Signora Augustino...» «Chiamami Celeste.» «Signora Augustino...» «Ho vent'anni, sono carina, mio marito è capitano. E sono qui da ore ad aspettare che un sergente venga a letto.» «Non gliel'ho chiesto io. La conosco appena.» «Non mi conosce quasi nessuno, sergente. Questa è una base dell'esercito e io dovrei essere al vertice della scala sociale. Invece, con tutti quegli stranieri e quegli scienziati, mi trattano come una montanara ignorante, come un disastro intellettuale. Questa sera al ballo mi sono guardata intorno in cerca di un uomo che se ne infischiasse di tutti quei genii e quei padreterni di latta e ne ho trovato uno solo, sergente. Te.» Joe incominciò a provare un certo interesse. «Lo pensa davvero?» «Ho visto quando parlavi con Fuchs. Li detesti.» «Può darsi che Fuchs mi sia antipatico.» «E anche la tedesca che era con lui.» «Non è il mio tipo.»
«Questo è il fatto. Io sono il tuo tipo, sergente.» Be', questo era abbastanza vero. Lei si sollevò a sedere. Gli occhi di Joe si erano abituati alla luce fioca della sigaretta. I seni erano cosparsi da uno spolverio di lentiggini. «Sono molto lusingato, signora Augustino. Davvero, ma...» «Fuori fa tanto freddo. Una signora può almeno bere qualcosa, prima di doversene andare umiliata?» Joe le portò il bourbon che aveva versato per sé. Padreterni di latta e genii? E ogni tanto un sergente, l'ex pugile che adesso sta alla larga dai guai, un uomo che da tempo fila diritto. Considerando la situazione in quel modo, Celeste Augustino era un'oasi di peccato in un deserto. «Dov'è il capitano?» chiese Joe. «E chi lo sa?» Contro la parete c'era un grammofono, e i dischi a 78 giri disposti in ordine, Joe aveva molta cura dei suoi dischi e non aveva bisogno di luce per metterne uno sul piatto e abbassare la puntina. Dal grammofono uscirono sussurrando le note di Mood Indigo. «Allora forse abbiamo tempo per fare un ballo». Joe le tolse dalla mano il bicchiere vuoto. Così scalza, la signora Augustino non gli arrivava neppure al mento. «Pronta?» Joe l'attirò più vicina. Urtarono contro il sacco, che oscillò sulla catena. «Quello è il generale Groves?» rise lei. «No, è il generale MacArthur.» «Non è un nome adatto per un sacco. È il più grande americano vivente.» «Appunto.» 4 Durante la notte era caduta una spolverata di neve, e su quella neve si avviò cautamente la signora Augustino, nel buio che precede lo spuntar del giorno. Quando Joe ritornò nella sua stanza era furioso con se stesso per aver ceduto così stupidamente al desiderio. Sollevò la coperta; il portasigarette d'argento scivolò fuori, umido e freddo al tatto, e Joe ebbe la certezza che non avrebbe più voluto rivedere quella donna. Con il portasigarette in mano percorse precipitosamente il corridoio del seminterrato scostando le reti
da pallavolo, salì le scale e attraversò il teatro, dove fra poche ore le panche sarebbero state utilizzate per i servizi religiosi domenicali. Spalancò la porta secondaria dalla quale lei era uscita. Troppo tardi: non c'era altro che la neve e l'aria fredda della notte. E lui aveva addosso soltanto gli shorts e un sudore diaccio. Le nubi temporalesche s'erano diradate. Dall'altra parte della strada c'era il comando militare, una costruzione a forma di E. I tetti erano romboidi bianchi che spiccavano sopra il nero. Fra due bracci della E un motore si accese e i pneumatici incominciarono a girare. Un veicolo attraversò la strada semibuia e si fermò a tre metri da Joe. I fari si accesero abbagliandolo. Il motore rombò con la marcia innestata; poi passò in folle. Il capitano Augustino scese a terra ed esalò un sospiro che si cristallizzò in una nuvoletta di vapore. «Questa neve è ideale per seguire le tracce, sergente.» Il capitano scrutò la sottile coltre candida che si stendeva sulla strada e le impronte di due scarpe da donna che si allontanavano dalla porta. «Per andare a caccia, signore?» Joe teneva il portasigarette dietro la schiena. «È appunto quello che stavo pensando. Vada a vestirsi, sergente. Non vogliamo perderci l'alba.» «Adesso, signore?» «È la giornata più adatta.» «Non ho un fucile, signore.» «Gliene ho portato uno io. È meglio che vada a vestirsi.» «Alle undici devo passare a prendere il direttore.» «Saremo di ritorno in tempo.» Mentre andava a vestirsi, Joe pensò al significato di quella spedizione. C'era poco da illudersi. Se la signora Augustino era venuta a letto con lui, era possibile che il capitano fosse molto distante? L'invito che la donna aveva rivolto a Joe era diventato, non appena lui s'era messo fra le sue gambe, un invito dello stesso Joe al capitano. La situazione aveva una sua inevitabilità abbagliante che gli eccitava il sangue, come se il sangue ascendesse con la luna, come se il suo disprezzo per se stesso s'innalzasse nitido e fulgido. Se non altro, la sua carriera d'informatore stava per terminare. Comunque, secondo altri principi etici, avrebbe dovuto stare lontano dalle mogli degli ufficiali. MacArthur ridacchiò quando gli passò accanto. Meritava di finire davanti a un plotone d'esecuzione.
Il veicolo procedeva in salita verso ovest, in direzione della Valle. Tra le montagne la neve era più alta e i pini formavano una specie di galleria luminosa davanti ai fari. La faccia del capitano Augustino aveva un suo chiarore lunare, l'intensità della faccia di un marito che non aveva dormito durante la nevicata di quella notte. «Lei sa che è vietato, sergente?» «Che cosa, signore?» «Andare a caccia. Adesso questo è territorio militare. Naturalmente, gli indiani continuano ad andare a caccia da queste parti.» «Davvero, signore?» «Vengono di nascosto. Per i suoi amici è difficile rinunciare alle vecchie abitudini.» «Sissignore.» «È bracconaggio, come ai tempi di Robin Hood. È come la foresta di Sherwood.» «Davvero, signore?» «Lei non è appassionato di storia, sergente.» «Non proprio, signore.» «La storia si ripete: la prima volta è una tragedia, la seconda una farsa. Non fu un indiano a dirlo.» «Non fu un indiano pueblo?» «Karl Marx. Mai sentito nominare? «È del New Mexico, signore?» «No.» «Del Texas?» «No.» «Un musicista?» «Forse suonava il violino in salotto. Non ha mai sentito parlare del Capitale o del Manifesto del partito comunista?» «Una volta o l'altra dovrò decidermi a farmi una cultura, signore.» I pini si ergevano come ombre cariche di neve. Augustino era un abile guidatore e portava il veicolo oltre le curve senza perdere lo slancio e il controllo. Sul sedile posteriore c'erano un Marlin e un Winchester, e una cassetta di .30-30. «Comunque, sergente, non ha scrupoli a fare qualcosa di vietato?» «No, se lo faccio con la persona giusta, signore.» «L'immaginavo. Ha detto che preferisce sparare al collo oppure al cuore?»
«Non ricordo, signore.» «Io preferisco sparare alla spina dorsale. Mi piace vedere un grosso animale che crolla subito e non corre per un chilometro costringendomi a inseguirlo. Ha mai sparato a un cervo nel sedere?» «Nossignore, però so che lo chiamano tiro al cuore alla texana.» Augustino rise. «Be', una volta mio suocero sparò nel sedere a un messicano e poi dovette inseguirlo per sedici chilometri lungo il Rio Bravo prima d'inchiodarlo.» «A Brownsville?» «Ormai era fuori Brownsville quando lo raggiunse. Forse era uno del New Mexico. Vede, sergente, per noi in sostanza quelli del New Mexico sono messicani che si trovano dalla parte sbagliata del confine. Inoltre, siamo profondamente convinti che gli indiani non siano niente altro che negri dalla pelle rossa. Ecco perché sbavano tanto dietro alle donne bianche: questo lo dimostra. Comunque io sono un tiratore molto più abile del padre della signora Augustino.» Lasciarono il veicolo sul bordo della strada e si avviarono a passo lento su per un prato in pendenza. La Valle era pervasa dal blu che precede l'alba e in lontananza le vette più alte delle Jemez Mountains erano imbandierate di nebbia. Joe aveva il Winchester e una manciata di munizioni in tasca; il capitano aveva scelto il Marlin. Nonostante tutto, l'aria pungente e la neve esaltavano Joe. Era la mattina ideale per la caccia e lo spuntar del giorno era l'ora migliore. Per quanto sembrasse ridicolo, vedeva la stessa smania anche in Augustino. Procedettero rapidamente fino al bordo nero degli alberi e si acquattarono. Era più probabile che gli wapiti attraversassero il prato; i cervi-muli facevano più chiasso quando si muovevano tra gli alberi. Joe continuò a procedere lungo il limitare degli alberi, sempre controvento, e Augustino lo seguiva con naturalezza, come se l'avesse ingaggiato per fargli da guida. Si fermarono nel tratto dove gli alberi formavano una specie di lingua al margine del prato e dominavano cento gradi di pendio bianco e un'altra linea di alberi, lontana non più di sessanta metri. C'era uno svantaggio: si sarebbero trovati in pieno sole rispetto alla fila degli alberi di fronte. Ma non si poteva avere tutto. Il mirino del Winchester era regolato sui 150 metri. Avrebbe mirato basso per colpire i cervi che uscivano dagli alberi. Forse non avrebbe fatto centro; non aveva mai sparato con quel fucile e non sapeva se deviava a destra o a sinistra, verso l'alto o verso il basso. Augustino indicò le lievi depressioni nella neve ai loro piedi. Joe s'inginocchiò e soffiò via gli ultimi
fiocchi che si erano posati, mettendo allo scoperto le impronte che avevano la forma di doppie mezzelune allungate. «Cavallo?» accennò Augustino muovendo le labbra in silenzio. «Wapiti» rispose Joe. Era passato di lì da non più di un'ora. Non più di un'ora. Quella era la parte più affascinante della caccia: l'analisi logica del tempo. Probabilmente aveva cacciato con suo padre, vent'anni prima, in quella stessa lingua di abeti e pini. Quando le forme solide erano così indistinte, era facile vedere nel ricordo. Era la qualità dell'ora, che non era notte e non era giorno, a conferire peso a ogni secondo. Gli occhi sembravano diventare più grandi ed efficienti anche quando si lasciavano ingannare dallo stormire di un ramo. Un gufo volò zigzagando tra gli alberi. A Joe non importava nulla, anche se i cervi o la luce non sarebbero mai apparsi. Se qualcuno aveva intenzione di sparargli alla testa, quello era il momento più opportuno, ma il capitano sembrava assorto e concentrato quanto lui. Naturalmente i topi, i toporagni e i ratti correvano avanti e indietro per tutta la notte e al mattino i cacciatori vedevano soltanto le loro tracce sulla neve. Allo spuntar del giorno un uomo ci vedeva appena a sufficienza per sparare a qualcosa che avesse le sue dimensioni. Le ombre appena nate erano tenaci. Quando la realtà e l'ombra erano egualmente incerte, un uomo poteva incontrare il suo contrario, pensò Joe. Come quell'ufficiale bianco e razzista di Brownsville, Texas. Augustino e Joe potevano starsene acquattati sotto lo stesso ramo d'abete. «Mi dica, sergente» bisbigliò il capitano, «ha mai pensato che questo è il secolo degli Ebrei?» «No.» «Marx era di sangue ebreo, lo sa? Il movimento comunista mondiale incominciò con Marx. La rivoluzione russa fu capeggiata soprattutto da ebrei come Trotsky. Ogni paese della terra, inclusa la Cina, lotta contro Marx per difendere la propria anima.» «Inclusa la Cina?» «La storia si svolge come un'avventura meravigliosa e terribile. Vi sono grandi ritmi e grandi cicli. Ogni secolo è diverso.» «E il secolo scorso che cos'era?» «Era il Secolo dell'Uomo Bianco.» Joe non riusciva a immaginare cosa c'entrasse tutto questo con la signora Augustino. «Non era certo il Secolo del Pellerossa.» «No. Ma ora siamo tutti nella stessa barca, sergente. Prima, Marx sov-
verte l'autorità e la religione tradizionali; poi un altro ebreo annienta gli assoluti delle leggi scientifiche.» «Davvero?» «La scienza era basata su leggi assolute, prima delle teorie della relatività di Einstein e la fisica quantistica. Marx ed Einstein. Ora non c'è più nulla in cui possa credere un uomo intelligente, nella religione o nella scienza. In greco, la parola "atomo" significa indivisibile, lo sapeva?» «Nossignore.» «Tutto questo» continuò il capitano Augustino, assestandosi a fianco di Joe, «tutto questo non significa che non abbiano sofferto. Quando sento parlare delle sofferenze subite dagli ebrei sotto Hitler, vorrei essere ebreo anch'io. Vede, nel Secolo degli Ebrei hanno preso i nostri cuori quando avevano già le nostre menti. E ora vede come tutto si sta concretando, proprio qui.» «Qui?» «Sto parlando del Terzo Grande Ebreo, sergente. Cosa risponderebbe se le dicessi che J. Robert Oppenheimer è l'uomo più geniale che io e lei e chiunque altro, qui, abbiamo mai conosciuto?» «È possibile, signore.» «Sergente, cosa risponderebbe se le dicessi che Oppenheimer è un agente dell'Unione Sovietica, deciso a realizzare un'arma atomica al solo scopo di poter consegnare i piani completi ai suoi amici russi?» Joe non sapeva cosa dire. Erano sprofondati in un abisso di demenza al quale era del tutto impreparato. «Penserebbe che sono pazzo, non è così, sergente?» «E...» Joe scelse con cura ogni parola. «E ha espresso la sua opinione al generale Groves, signore?» «Sì, come l'ha fatto l'FBI. Ma il generale è incantato da Oppenheimer. Come tutti. I premi Nobel sono i suoi cagnolini e l'intero esercito degli Stati Uniti è stato impacchettato per essergli offerto in dono. Io stesso mi sono accorto del suo fascino.» «Davvero, signore?» «Le conversazioni più avvincenti della mia vita sono state quelle che ho fatto con Oppenheimer su argomenti storici. Ha letto Declino e caduta dell'Impero romano durante un viaggio in treno da New York a Los Angeles, e Il capitano nel viaggio di ritorno. Ed è un fisico glielo ricordo.» «È vero» disse Joe. Oppy cercava sempre di intavolare discussioni difficili.
«Ha mai notato che possiede un certo potere ipnotico, sergente? S'è accorto che la gente entra nel suo ufficio dicendo una cosa e quando esce sostiene il contrario? S'è accorto che tutti lo imitano? Che si è creato un suo impero? Qui, in questo punto focale della storia?» «Lei è agli ordini dell'FBI o di qualcuno di Washington, signore?» «Non ho bisogno degli ordini di nessuno. Tutti quanti, nei servizi segreti, si sono già accorti del nesso più ovvio. È...» «Stt!» Joe scorse tre sagome che emergevano senza far rumore dal bosco di fronte e si soffermavano al limitare degli alberi. Tre grandi chiazze indistinte che osservavano e ascoltavano. Potevano essere cervi, wapiti o cavalli. Joe si acquattò ancora di più. Il Winchester aveva il mirino aperto sulla canna corta, un colpo in canna e cinque nel caricatore. Joe si chiese se il capitano Augustino sapeva tirare bene con il Marlin. Il primo alito del giorno era una plumbea luce grigia. Le stelle si affievolirono e scomparvero mentre le tre chiazze apparivano più nitide. Wapiti o cervi, a giudicare dal fatto che non facevano il minimo rumore. Stavano aspettando per avere la certezza che sul prato non ci fossero pericoli, come lui aspettava per essere sicuro di non sbagliare il colpo. La luce azzurra si diffondeva nella valle, sollevando granelli minutissimi di neve. A poco a poco li vide: due wapiti maschi e una femmina gravida. Era strano che una femmina fosse in compagnia dei maschi in quella stagione, pensò. Prese di mira il maschio dalla sua parte, immaginando che il capitano avrebbe sparato all'altro. Erano due animali magnifici, con le teste scure e i grandi palchi protesi in avanti dai corpi pelosi. Un colpo al cuore, decise. E il suo cuore si arrestò nell'attesa, mentre guardava il prato digradante e coperto di neve che spiccava contro lo sfondo dei pini. I tre wapiti erano nell'ombra. Quando Augustino sparò, la femmina stramazzò al suolo. I maschi fuggirono nel bosco con un fragore di rami schiantati. «Non ha sparato» disse Augustino. «E lei ha sparato alla femmina.» «Le avevo lasciato i maschi.» Joe si alzò. «Non si spara a una femmina gravida. Era gravida, si vedeva benissimo. E aveva detto d'essere un cacciatore!» «Sergente, lei ha mancato i suoi...» «Non si spara a una femmina gravida. Credevo che fosse almeno un cacciatore. Ho ascoltato tutte le sue fottute fesserie sugli ebrei perché è un ufficiale. Ma non si spara a una femmina gravida. Lei è pazzo furioso, sa, Augustino? Oppy vale dieci volte più di me e di lei. E quelle stronzate su
Marx. Io stavo a New York, e ho marciato per i reduci della guerra civile spagnola. Due studentesse sono venute a letto con me per un mese filato per insegnarmi tutto su Marx, mentre lei se la spassava ancora fra le lenzuola di Brownsville.» «L'avverto...» «Stia zitto!» Joe strappò via il ramo sopra la testa di Augustino e buttò il Winchester contro il tronco. Il fucile si schiantò in due. La canna e la culatta volarono via, il calcio gli restò in mano. Lo gettò a terra. «Stia zitto.» «Avanti» disse il capitano Augustino. Aveva cambiato tono. Non si era mosso quando il fucile gli era passato sopra la testa, anche se il suo pallore si era accentuato e faceva apparire più scure le mezzelune sotto gli occhi. Joe si avviò sulla neve verso la femmina di wapiti. Aveva uno squarcio nella parte alta del collo e teneva le zampe divaricate in tutte le direzioni ma gli occhi erano ancora umidi e vivi. Il ventre gonfio e teso spiccava vistosamente. «Lasci che le dica una cosa» urlò Joe. «Sua moglie dice che ha un arnese non più grosso di un verme. Ma dev'essere due volte più grande del suo cervello.» Affrettò il passo e sbottonò il giaccone per estrarre la calibro 45 infilata nella cintura. Sentì che Augustino, dietro di lui, stava spianando il fucile. Un colpo al cuore? Un colpo alla testa? Quando ebbe estratto la pistola fece di corsa gli ultimi dieci passi. Nel momento in cui Augustino sparò, si stava già buttando a terra. Lo wapiti femmina scalciò quando il secondo proiettile arrivò a segno. Joe toccò il suolo dall'altra parte e si rotolò contro il corpo dell'animale. Il capitano Augustino si alzò in piedi, senza curarsi di restare al coperto, e azionò la leva per inserire in canna un altro colpo. Joe appoggiò la calibro 45 sul corpo dell'animale e puntò il mirino sul capitano sebbene sapesse che non sarebbe servito a molto, data la scarsa precisione di un'automatica. Premette il grilletto. La pistola gli sobbalzò nella mano e un ramo esplose un metro e mezzo al di sopra della testa di Augustino. «Merda!» Joe sparò di nuovo e un frammento di corteccia volò via da un albero vicino al capitano. Augustino scivolò dietro i rami. Joe non vedeva altro che il vapore del suo alito e la canna del fucile. In quanto a lui, il respiro gli usciva dalla bocca come gli sbuffi d'una locomotiva. L'animale era un riparo troppo piccolo. Se Augustino avesse fatto un giro e si fosse avvicinato da un angolo diverso, per lui sarebbe stata la fine.
La canna del fucile venne spianata di nuovo, ma nella direzione in cui erano spariti gli wapiti maschi. Poi Joe vide due uomini che uscivano dai pini, con le racchette da neve ai piedi e le coperte sulle spalle, le facce e le mani annerite, i lunghi capelli sciolti. Sebbene il primo fosse incurvato dagli anni, guidava il secondo con una lunga corda legata al polso come se fosse cieco. Il secondo portava sulle spalle una rete carica di ghiandaie azzurre, tutte morte, e la rete sembrava una fulgida ala blu. C'era anche un gufo nella rete, e un falco notturno, uccelli che potevano essere stati catturati soltanto con la luna. I due uomini dovevano aver sentito gli spari, forse avevano visto le vampate: ma attraversarono il prato, tra lo wapiti e gli alberi dov'era nascosto Augustino, senza rallentare l'andatura e senza fermarsi, e scesero lentamente il pendio innevato con il bottino della loro caccia. Sebbene fossero avviati nella direzione di Santiago, Joe non li riconobbe. Si muovevano come apparizioni o come un breve corteo venuto da un altro mondo. Raggiunsero un filare di pioppi ai piedi del pendio e sparirono. «Sergente!» gridò Augustino. «Ho cambiato idea. Non voglio ucciderla. Cioè, io lo vorrei, ma ho cose più importanti da fare.» «Un accidente.» «Ho un dovere da compiere.» Augustino avanzò nella radura. Teneva il fucile nella mano sinistra, con la canna in alto. «Non posso permettermi di distrarmi, di abbassarmi al suo livello per una vendetta personale.» «L'idea di venire qui è stata sua.» «Se spara a un ufficiale ci rimette la pelle, sergente.» Augustino lasciò cadere il fucile e continuò ad avvicinarsi. «Siamo venuti per uccidere un wapiti e l'abbiamo fatto, ecco tutto. Non è successo niente altro.» «Perché mi ha mancato.» «Ma lei non può accusarmi di niente. No, non può certo farlo un sergente che va a letto con la moglie dell'ufficiale contro il quale formula l'accusa. È un'esperienza che dobbamo lasciarci alle spalle. Una mattinata di caccia, ecco tutto.» Augustino si fermò a sei metri da Joe. «Non si spara a una femmina gravida.» Joe prese la mira. Un colpo alla testa? A quella distanza, una calibro 45 avrebbe sfracellato la testa del capitano dalla fronte in su. «Dobbiamo tornare alla Collina a prendere il direttore e il generale Groves.» Augustino diede un'occhiata all'orologio. «Mia moglie starà andando in chiesa per il servizio domenicale.» «Se vuole liberarsi di me, capitano, perché non mi spedisce nel Pacifico
o in Europa?» «No. Mi è più utile qui.» «Per fare che cosa? Guidare la macchina? Aprire le portiere? Sbattere sua moglie?» «Le informazioni, sergente.» «È inutile.» Joe si alzò in piedi. «No, sergente. Lei è un informatore.» «Dev'esserci sotto qualcos'altro.» «Provi a riflettere. Qui stiamo fabbricando un'arma segreta, giusto? Lei è la mia arma segreta. L'alternativa è la galera, se ha voglia di tornarci.» «Lei è pazzo, capitano.» «E che cosa ci può fare?» Un colpo al cuore? A quella distanza, il proiettile avrebbe dilaniato il cuore, l'aorta e mezzo polmone. Joe abbassò la mano che stringeva la pistola e sparò. Le zampe della femmina ferita sussultarono una volta sola, come una convulsione in un sogno. L'animale protese il collo, e gli occhi si offuscarono nella morte. «Più tardi mi aspetto un resoconto di tutto ciò che dice Oppenheimer... soprattutto le conversazioni con Groves e in particolare i riferimenti politici.» Augustino non aveva battuto ciglio. Trasse il respiro profondo e soddisfatto del cacciatore che si avvia verso casa. «Il solito.» 5 La macchina era una berlina blu Buick con il motore V-8 e gli interni in panno grigio. Sul sedile posteriore c'erano il generale di brigata Leslie Groves e Oppy; davanti c'erano Klaus Fuchs, un radiotelefono e Joe al volante. I vetri dei finestrini erano appannati. Fuori, l'intero New Mexico sembrava digradare dalla mesa di Los Alamos fino alle collinette coperte di pinastri neri sulla neve bianca. Il generale pareva malamente insaccato nell'uniforme. Era molto alto; i capelli grigi erano folti e ondulati, i baffi ispidi e gli occhi erano luminosi come l'acciaio; ma al di sotto del colletto la stoffa era tesa per la pressione del grasso molle. Era affezionato a Los Alamos. Il suo regno si estendeva dai giganteschi stabilimenti di Hanford, Washington, e Oak Ridge, Tennessee, fino ai laboratori di Chicago: ma quelli erano gestiti dall'Union Carbide e dalla Dupont o da quei rompiscatole di europei, mentre Los Alamos era il suo feudo personale diretto da Oppenheimer, un personaggio
di sua scelta, ed era il cuore e l'anima del progetto, il più grande impegno scientifico nella storia dell'umanità. La Buick, che era la berlina più lussuosa del parco macchine, era sempre a sua disposizione quando veniva in visita ed era sempre guidata da Joe. Gli altri pezzi grossi che erano venuti da Washington in compagnia del generale chiamavano Joe "l'indiano di Groves". Si diceva che persino il presidente avesse chiesto a Groves di parlargli del suo "accompagnatore indiano". Oppy portava un vecchio pastrano dell'esercito che avrebbe potuto avvolgerlo due volte e un berretto tondo che sottolineava la linea allungata del cranio. Muoveva nervosamente le mani perché il generale non permetteva che si fumasse in macchina. Klaus Fuchs sembrava seduto sull'attenti, e portava un cappotto, un cappello a larghe tese e occhiali cerchiati d'oro che sembravano appiattire gli occhi. Groves non aveva voluto fra i piedi nessuno della missione britannica (quelli erano convinti che Los Alamos fosse Oxford); ma come aveva f to notare Oppy quand'era passato a prendere il generale, Fuchs non era esattamente inglese. «Domani andrò a parlare con il presidente» disse Groves. «E mi chiederà perché abbiamo bisogno di un esperimento. Avremo a malapena l'uranio sufficiente per un'unica bomba, e al momento siamo quasi completamente a corto di plutonio. Perché dovremmo sprecarli per un collaudo? Lui vorrà saperlo.» «Ci sono due ordigni separati» disse Oppy con lentezza paziente, non tanto perché giudicasse stupido Groves, ma perché sapeva che non era molto eloquente, e voleva che comunicasse a Roosevelt quelle semplici parole. «C'è l'ordigno a uranio, che in sostanza è una specie di canna di fucile. Non prevediamo di poter disporre di uranio raffinato in quantità sufficiente fino al prossimo luglio, ma siamo sicuri che l'ordigno funzionerà. Poi c'è quello al plutonio, che ha una complicata struttura "a implosione". Prima di luglio contiamo di avere abbastanza plutonio per due bombe, e prima di agosto per altre due, e prima di settembre per altre due: ma non abbiamo la certezza che il sistema funzioni. Dobbiamo collaudare l'ordigno al plutonio, e sarà l'arsenale di queste armi che metterà fine alla guerra, non l'unica esplosione del nostro congegno ad uranio. Può dire al presidente che la scelta del luogo per l'esperimento è un segno di fiducia.» «Contiamo molto sul fatto che la località sia quella giusta. Le possibilità alternative sono certe isole al largo della California, alcune barene di sabbia sulle coste del Texas e un tratto pieno di dune nel Colorado. L'ultimo
posto dove vorrei dover nascondere un'esplosione atomica è la California» disse Groves. «Dipende dalla potenza, ovviamente» osservò Oppy. «E che potenza avrà?» chiese il generale. «Secondo la stima attuale, cinquecento tonnellate di tritolo» rispose Fuchs. Era presidente perché faceva parte del gruppo dei teorici che effettuavano le stime della potenza della deflagrazione. «Non potrebbe essere molto di più?» «Teoricamente potrebbe essere cinquemila, cinquantamila tonnellate. Non c'è quasi limite.» «Cinquecento è un buon inizio.» Groves si era rabbonito. «Dirò al presidente che lo farete esplodere il 4 luglio.» «Magnifico» disse Oppy. È un peccato che ci siamo lasciati sfuggire l'occasione di farlo per Natale, pensò Joe. Forse era il momento di dire al generale che, secondo l'opinione meditata del capo della sicurezza della Collina, Robert Oppenheimer era l'agente segreto di Stalin e che quindi avrebbero fatto meglio a fermarsi e a chiarire la faccenda. Anche se non c'era nessuno in grado di prendere il posto di Oppy, anche se l'esperimento del collaudo, la bomba e la vittoria finale sarebbero stati rimandati all'infinito. Ma forse non era il momento più adatto. Forse era meglio continuare a essere un sergente taciturno, "l'accompagnatore indiano". Appena si immisero sull'autostrada a Esperanza, Joe accelerò. Il limite di velocità in tempo di guerra era 60 chilometri orari; ma il generale preferiva sempre filare a 140. Il razionamento della benzina aveva quasi svuotato le strade e la Buick poteva correre al centro d'una strada a due corsie, o anche una corsia sola, lasciando ai lati un margine per il traffico lento... asini, carretti, carri. Santa Fe aveva una luminosità elettrica sotto il cielo cinereo. Un ospedale militare faceva affluire parecchio denaro nella città. Le insegne offrivano bevande, stivali, souvenirs. Mentre Oppy e Groves continuavano a dibattere i problemi dell'isolamento degli isotopi e gli stati allotropici del plutonio, Joe si chiese perché era andato a letto con la signora Augustino. Era proprio lei quella che voleva? O un'altra donna? Una donna qualunque? Un poliziotto in motocicletta emerse come un rimorso di coscienza, a sirene spiegate, dietro un cartellone che annunciava: IL PRESTITO DI GUERRA È UN'ARMA!
Gli spostamenti del generale erano segretissimi; ed era chiaro che non intendeva aver nulla a che fare con qualche giudice locale. Joe schiacciò l'acceleratore a tavoletta. Gli agenti della polizia statale del New Mexico avevano uniformi nere e motociclette nere. A 160 orari la sagoma scura rimpicciolì, rimpicciolì ancora di più nello specchietto retrovisore. Oscillando un po' sul sedile posteriore, Groves e Oppy continuarono a parlare dei tempi di produzione. Fuchs apriva bocca solo quando lo interrogavano. Nei campi, la brezza agitava i filari dei peperoncini che nessuno raccoglieva perché un contadino poteva presentarsi alla sede della Boeing ad Albuquerque, proseguire per Seattle, andare a costruire i B-29 e guadagnare in un mese molto più denaro di quanto avesse mai visto in un anno intero. «Esplosione. Implosione. Due eventi in apparenza contraddittori che avvengono nello stesso momento» stava dicendo Oppy. «Non le consiglio di tentare di spiegarlo al presidente. Comunque, è un concetto affascinante.» Superarono Albuquerque e proseguirono nella valle inferiore, attraversando così spesso il Rio che sembrava una dozzina di fiumi. Oppy e Groves discutevano problemi che andavano dalla produzione del plutonio alle forniture di zucchero per lo spaccio. La macchina avanzava controvento verso le nubi tetre che si accumulavano e si allontanavano allo stesso tempo. Ad Antonio, un centro agricolo con le finestre fiocamente illuminate, lasciarono l'autostrada, si immisero su una corsia unica diretta all'est, varcarono un'ultima volta il Rio ed entrarono in un immenso bacino inclinato pieno di cespugli e di cactus. Le nubi si infittirono e incominciò a cadere la neve, dapprima leggermente e seguendo la direzione del vento, e poi più fitta, fino ad ammucchiarsi sui tergicristalli e ad incrostare i fari. «Se Hitler avesse la bomba...» stava dicendo Groves. «Abbiamo la conferma che l'offensiva invernale dei tedeschi ha lo scopo di guadagnare tempo mentre viene ultimata un'arma segreta. Adesso dispone di aerei a reazione e di nuovi razzi.» «Se Hitler ha la bomba, la userà contro i russi» disse Oppy. «Non sarebbe un'idea tanto malvagia» osservò Groves. Joe lasciò la strada e fermò la macchina con il muso rivolto verso la recinzione di filo spinato e i fiocchi candidi. I pali della recinzione erano di pino grigio come le ossa, spaziati a intervalli di due metri e mezzo e inclinati nella direzione del vento. Non c'erano traverse o cardini: una sezione con due fili spinati si estendeva fino a un bastone appeso con un semplice filo di ferro al palo opposto, in modo che il bastone e la sezione potessero
venire semplicemente staccati e tolti di mezzo. All'interno del recinto c'era un magro terreno da pascolo, chamiza e artemisia che la luce dei fari pareva appiattire. Le spine della iucca ondeggiavano sotto la neve. «Stallion Gate» annunciò Joe. «Non c'è nessuno.» Groves scrutò avanti e indietro, lungo la strada. «Avremmo dovuto trovare ad aspettarci un semicingolato e due jeep.» «Sissignore. Avrebbero dovuto uscire dal cancello.» «È sicuro che sia proprio questo?» «Sissignore.» Joe indicò le doppie tracce leggermente più bianche della strada d'accesso, che passavano sotto il filo spinato più basso. «Ora vedo di mettermi in contatto.» Il radiotelefono era un modello prebellico a manovella, che con il tempo buono aveva una portata di sessantacinque chilometri. La risposta, quando arrivò, era soffocata dalle scariche. Il gruppo partito dalla base di Alamogordo aveva perso un cingolo e parecchio tempo: comunque li avrebbe raggiunti alla recinzione. Groves si riabbandonò sul sedile e la macchina oscillò sugli ammortizzatori. «Domani devo essere a Washington, ed eccoci qui a rigirare i pollici davanti a un cancello di filo spinato.» «Joe, tu sei l'unico che è già stato qui» disse Oppy. «Che cosa ci consigli?» «Il tempo sta peggiorando. Io consiglio di aspettare.» «Sergente, io non ho mai concluso nulla standomene in ozio.» Groves si tese in avanti, con aria decisa. «Per terra non ci sono più di due centimetri di neve. Li incontreremo lungo il percorso.» Joe impiegò dieci minuti per mettere le catene alle ruote posteriori, aprire il cancello, passare e poi richiuderlo, per rispetto all'etichetta. Tutti risalirono in macchina scrollandosi di dosso i fiocchi di neve e si avviarono lungo la pista indistinta che si snodava tortuosa. Joe marciava in seconda e cercava di tenere i fari puntati sui solchi per non entrarci con le ruote. Fuchs studiava una carta topografica del servizio agrario. «Come pensa che abbiano perso un cingolo?» chiese Oppy. «Sarà saltato un perno» disse Groves. «Carri armati, semicingolati, bulldozer... sempre la stessa storia. Se avessero avuto guai con una ruota motrice, sarebbero bloccati.» Joe passò alla prima, mentre la strada scompariva. «Ormai siamo quasi in Messico. Ma quanta neve c'è?» Fuchs pulì il pa-
rabrezza appannato. «Avevano detto che ci sarebbero venuti incontro, no? Ormai dovremmo vederli da un momento all'altro.» Dopo un lungo silenzio, Joe disse: «Avremmo dovuto vederli mezz'ora fa». La neve si avventava in turbini contro la macchina che saliva e scendeva le ondulazioni del terreno. Quando ritrovò la strada, Joe fu ben felice di inserirsi con le ruote nei solchi e di cercare di seguirli. Sporse la testa dal finestrino per evitare Fuchs che continuava a pulire affannosamente il parabrezza. C'erano tracce di mucchi di terra e crateri ammantati di neve. «Sembra di navigare.» Oppy era estasiato. «Lo stesso cielo buio, le stesse onde bianche.» «Ricordo la prima volta che ho viaggiato per mare» disse Fuchs. «Fu quando i britannici ci mandarono in Canada come cittadini nemici, all'inizio della guerra. Gli U-boot attaccarono il convoglio e affondarono la nave che precedeva la nostra.» «Non sapevo che fosse un cittadino nemico» osservò Groves. «Ora sono britannico» gli assicurò Fuchs. «Britannico e tedesco» commentò Groves in tono secco. Implosione. Esplosione. Due eventi contemporanei. Sulla nave-tradotta per Manila, Joe aveva scrutato l'oceano. Si era fermato sul ponte a guardare il mare perché non c'era niente altro da fare: a bordo non c'erano donne e gli ufficiali avevano una fifa blu perché andavano a prestare servizio agli ordini di MacArthur in persona, e non permettevano neppure che si giocasse a carte. Joe aveva cercato di vedere grandi eventi e piccoli eventi, dalle balene che affioravano alle famiglie di delfini, fino ai pesci volanti. Un giorno aveva notato qualcosa di nuovo: la contraddizione. Il vento soffiava teso da ovest e sospingeva file e file di creste bianche da poppa a prua. Ma la nave avanzava, pesantemente come un contadino con gli scarponi ai piedi, attraverso le onde lunghe scatenate da tempeste mille miglia più lontane, a occidente. La superficie dell'acqua, la spuma agitata, si limitava a scivolare ingannevolmente sulla vera intenzione del mare. L'intenzione celata. Joe lo ricordava perché proprio in quel momento si era reso conto che lui e tutti gli altri a bordo della nave forse non sarebbero mai ritornati da Manila. «Signore, credo che siamo arrivati.» Joe spense il motore e i fari. Adesso la neve cadeva più rada, in fiocchi più grossi. Fuchs si raddrizzò di scatto sul sedile e chiese come un comico da avanspettacolo: «Was ist das?».
Da un'altura stavano arrivando verso la macchina tre uomini armati di fucili. «Mescalero» disse Joe. «Apache.» «Parlagli tu» disse Oppy. Mentre Joe scendeva dalla macchina, Groves raccomandò: «Li tenga lontani. Non devono assolutamente riconoscermi». Due degli uomini erano padre e figlio. Erano grandi e grossi quasi quanto Joe e portavano le racchette da neve. Avevano i capelli lunghi, berretti di lana e giacconi bisunti, uno di pelle di pecora e l'altro di velluto a coste. Gli indumenti e i capelli erano incipriati di neve, le facce lucide di sudore. Il terzo uomo aveva la testa un po' più quadrata, i capelli più corti, una giubba scozzese e le mani e i piedi avvolti negli stracci. Un Navajo, pensò Joe. Nessuno dei tre aveva l'aria di essere in grado di riconoscere Groves e di segnalarlo a Tokyo... ma cosa cavolo ci faceva lì un Navajo? «Visti i cavalli?» chiese il vecchio a Joe. «I cavalli?» «Cavalli dappertutto» disse il vecchio. Joe offrì le sigarette. Per lui gli Apache erano cinesi. I Navajo erano ladri. D'altra parte, Apache e Navajo pensavano che tutti i Pueblo fossero donnicciole. Il Navajo si avvicinò quanto era necessario per prendere una sigaretta e indietreggiò. I fiocchi di neve cadevano più lenti. La tormenta si concedeva una pausa, ma non si allontanava. Il Navajo teneva il fucile puntato con noncuranza verso la macchina. «Hanno buttato fuori gli allevatori bianchi» disse il vecchio. Joe sapeva che alludeva all'Esercito. «Però ci sono i cavalli. Se non li prendiamo noi, loro gli sparano.» «Vengono con gli aerei e li mitragliano» disse il figlio. «Certe volte li bombardano. Giorno e notte.» «Forse sono texani» disse Joe. I due Apache scoppiarono a ridere, si scambiarono manate sulle spalle, poi diedero qualche pacca anche sulla schiena di Joe. Persino il Navajo ridacchiò nervosamente. «Bastardi» disse il figlio. «Aerei dell'Esercito. Sono pazzi.» «L'Esercito ha risarcito gli allevatori» confidò il padre. «Però li ha pagati in una sola rata, così gli allevatori hanno dovuto risputare tutto per le tasse, e se cercano di tornare sulla loro terra li bombardano.» «Più a nord ci sono le pecore.» Il Navajo aveva la voce acuta e mangiava le parole a metà. «Qualcuno a Washington ha deciso che un indiano può
avere solo ottantatré pecore. Per via dell'Impegno Bellico. Cosa c'entrano le pecore con la guerra?» «Niente» disse Joe. «Quelli del Servizio Indiano vengono e ammazzano le pecore. E sparano anche a te, se ti metti in mezzo.» Adesso Joe ricordava. Presso Gallup una banda di Navajo aveva preso come ostaggi due del Servizio Indiano ed era sparita. I giornali ne avevano parlato come di una rivolta. Il Servizio Indiano e l'FBI stavano cercando i fuggiaschi a nord, fino a Salt Lake City. Non a sud, con i Mescalero. Il giovane Apache squadrò Joe con attenzione. «Ti sei mai battuto ad Antonio?» «Sì.» «Ti sei battuto con mio fratello. Avevano montato il ring nel garage che sta dietro il caffè. Kid Chino?» «Era sbronzo. Non avrebbe dovuto salire sul ring.» «Però era sobrio, quando tu hai finito.» Il giovane batté il suolo con la racchetta per sottolineare le sue parole. «Non l'avevo mai visto più sobrio di così.» Joe ricordava il fratello, tutto baldanza ed energia nel primo round, e sul punto di vomitare nel secondo. «Ottimo pugile, tuo fratello.» «Un bravo ragazzo.» Il vecchio fissò severamente il figlio che era lì con lui. Joe offrì di nuovo il pacchetto di sigarette. Gli Apache esaminarono l'accendino. Era uno Zippo e portava inciso su un lato "Batteria C, 200° Artiglieria Costiera". «Bataan.» Il figlio restituì l'accendino. Il padre alzò la testa. «Tempo buono. Gli aerei non possono volare ed è facile seguire le tracce sulla neve.» Joe non vedeva nessun segno. Ma, per quanto fosse abile nel riconoscere le tracce, non era un Apache. «È meglio che i cavalli li prendiate voi, piuttosto che non li prenda nessuno.» Finalmente il Navajo rabbrividì e abbassò il fucile. I quattro fumarono assorti nella contemplazione della quiete tra il cielo basso e il terreno coperto di neve. Poi padre e figlio spensero i mozziconi e rivolsero un cenno di saluto a Joe. Il Navajo li seguì. I tre si avviarono verso nord, descrivendo un ampio arco intorno alla macchina. Non sarebbe stata una fine inte-
ressante per la bomba atomica, se Groves e Oppy fossero stati uccisi sulla neve come rappresaglia per lo sterminio delle pecore? Joe aprì la portiera dal lato del generale. «Non credo che l'abbiano riconosciuta, signore. Gli ho detto che si trovavano sul Campo Sperimentale di Alamogordo e che dovevano andarsene.» «Mi è sembrato che avessero cattive intenzioni» disse Oppy. I due Apache e il loro amico stavano già scomparendo sotto la cortina di neve. L'orizzonte poteva essere a cinquecento metri, o mille, o millecinquecento. Oppy scese, accese una sigaretta per sé e una per Fuchs, con un gesto di sollievo. Anche Groves scese nella neve e inclinò la testa per scrutare professionalmente nelle quattro direzioni. Oppy aprì la mappa sul cofano. «Noi siamo qui. Latitudine 33-40-31, longitudine 106-28-29.» «E cioè?» chiese Groves. «A est ci sono le Oscura Mountains.» Joe indicò. «A sud, Mockingbird Gap; a ovest, tre vulcani che gli abitanti della zona chiamano Trinity; a nord, Stallion Gate.» In ogni direzione c'era una muraglia candida. Nel punto dove Joe aveva indicato con il dito, Fuchs tracciò una X con una matita morbida e poi la circondò con un perfetto cerchio a mano libera. «Se questo è il Punto Zero, il punto della detonazione, avremo bisogno di una distanza di dieci chilometri da qui ai primi rifugi di controllo.» Groves piazzò sulla neve un teodolite. Con le tre gambe piantate saldamente, la bolla d'aria era al centro. Un terreno piatto. Sul volto del generale c'era un'espressione sicura; fiutava il vento con un senso d'anticipazione. Aveva dimenticato il piccolo convoglio che avrebbe dovuto arrivare da Alamogordo. «Fu proprio così che scegliemmo Los Alamos» gridò Oppy. «Mandando sul posto gli uomini più importanti.» Mentre Groves scrutava attraverso il cannocchiale, Joe si allontanò di cinquanta metri con un nastro, le bandierine e i paletti. Oppy e Fuchs si avviarono in un'altra direzione. Quando Groves agitò un braccio, Oppy posò una bandierina rossa ai piedi di Joe. «Il capitano Augustino mi ha raccontato che c'è una spia sulla Collina» disse Joe. «Ha detto chi è?» Oppy alzò lo sguardo con due occhi innocenti, gli occhi d'un pulcino in mezzo ai serpenti.
«No» mentì Joe. «Non ha fatto nomi?» «Diciamo che quella persona era un rischio per la sicurezza.» «Dovrebbe essere allontanata dal progetto.» «E la sua reputazione?» «Rovinata. Niente nomi?» «Diciamo che io voglio andarmene dalla Collina. Diciamo che voglio tornare a combattere.» «È una faccenda che riguarda l'Esercito, Joe. La Collina, dopotutto, è una base dell'Esercito e dovresti rivolgerti al capo dell'amministrazione militare.» «Ci risiamo con Augustino.» «Il capitano è un uomo molto potente nel suo piccolo regno.» «Cioè la Collina.» «Davvero non ti ha fatto nessun nome?» «Immagino che lo direbbe a lei, se avesse un nome in mente.» «È vero.» Oppy rivolse a Joe un sogghigno da cospiratore. «Ricorda che il capitano è un ufficiale del servizio segreto. Essere paranoico è suo dovere.» Oppy e Fuchs si scambiarono i posti con la serie successiva di bandierine. «Dev'essere interessante essere indiano.» Fuchs seguì i passi misurati di Joe. «Essere liberi dalla civiltà, vivere semplicemente in armonia con la natura.» «Vuol dire andare in giro nudi?» «No, voglio dire sfidare i criteri di comportamento borghesi. Capisce che cosa intendo per borghesi?» Joe seguì con lo sguardo Oppy che si avviava nella direzione opposta. Era una figura fragile, con il pastrano che gli sventolava attorno. Quando alzò le braccia e si voltò stringendo le bandierine, sembrò che eseguisse una danza sgraziata sulla neve. Crearono un modello del futuro sito dell'esperimento: le bandierine rosse per le direzioni, i paletti con le lettere per indicare le distanze relative dei rifugi di controllo, il campo base, i posti d'osservazione, le strade per l'evacuazione, le zone popolate. Quando si radunarono di nuovo intorno al teodolite la neve aveva quasi smesso di cadere. Groves era energico ed espansivo, come un tecnico impegnato in un'esplorazione. Descrisse, agi-
tando le mani, la torre del collaudo, i chilometri di cavi, le strade e i camion che vedeva con l'immaginazione. Oppy aveva portato una bottiglia di cognac; e persino Groves, che di solito non beveva più di un bicchierino di sherry, accettò un sorso celebrativo. Joe, tutto solo in macchina, chiamò per radio il convoglio che avrebbe dovuto incontrarli diverse ore prima. E mentre cercava tra le scariche stappò la sua borraccia. Vodka. In tempo di guerra i distillatori ricavavano la vodka da patate, mais, melassa, grano, metano e sostanze petrochimiche, e persino dal sudore dei cavalli e dall'urina purificata. I negozi di liquori di Santa Fe non ti vendevano una bottiglia di nessun genere se non ne compravi anche una di vodka. Un'altra congiura sovversiva comunista. «... difficoltà... perduto una ruota motrice... molto presto, passo.» Joe ripeté tra le scariche le coordinate che risultavano sulla sua mappa e chiuse la comunicazione. Il generale, ormai, aveva perso l'aereo. Avrebbe dovuto rimandare l'incontro con Roosevelt. All'improvviso divenne più freddo e più buio. Le nubi defluirono da ogni lato e direttamente sulla perpendicolare apparve una fascia di stelle serotine. Quando Joe tornò, accese un fuoco con lo sterco bovino che aveva disseppellito dalla neve. Gli altri tre, euforici perché avevano completato la ricognizione, stavano ancora scolando il cognac. Joe pensò che quei minuti trascorsi in attesa del convoglio partito dalla base erano probabilmente i primi momenti di distensione, di riposo totale e impotente che Oppy e Groves avessero vissuti in molti anni. «Sto pensando agli alchimisti cinesi che inventarono la polvere da sparo» disse Oppy. «Quand'erano alla vigilia della scoperta, chissà se ebbero la fortuna di una notte bella e tranquilla come questa? Forse l'imperatore aveva mandato i suoi cavalieri a cercarli, come quelle jeep stanno cercando noi. Forse li incontreremo.» «Cosa vorrebbe dire?» chiese Groves. «Einstein sostiene che il tempo si avvolge intorno all'universo in una linea curva, e su quella linea si può andare avanti o indietro. Non ritroveremo più la stessa Stallion Gate, qui; ma potremo sempre trovarla in qualche vertice del tempo. E se fosse davvero possibile, allora incontreremmo anche quei cavalieri cinesi.» «Posso dirle qualcosa io, a proposito dei ritorni al passato» sbuffò Groves, pescando una manciata di caramelle dalla tasca. «Il giorno più amaro della mia vita fu quando ricevetti l'ordine di salvare questo progetto. Appena la settimana prima mi avevano offerto il primo comando in zona del
fronte. Un militare vuole combattere. Mio padre era cappellano dell'Esercito, e persino lui aveva assistito a diversi combattimenti. E io, nato e cresciuto nell'ambiente dell'esercito, avevo ricevuto l'ordine di restare a casa durante la guerra più grande di tutta la storia, per fare da balia a un branco di primedonne della scienza che, per quanto ne sapevo, potevano aver fatto bere al presidente un mucchio di frottole.» Si buttò in bocca una caramella e la sgranocchiò. «Bene, io non mi occupo di progetti fasulli che non diano risultati. Una quantità di scienziati e di cosiddetti genii aveva cercato di vendermi tante idee sul modo di fabbricare questa bomba atomica. Il più grande dei fisici americani è E.O. Lawrence. Apprezzo molto Lawrence. È il padre del ciclotrone e ha vinto il premio Nobel, ma non ha mai prodotto un briciolo di uranio. Comunque, farò in modo che questo progetto sia un trionfo. È tutta una questione di tubature, in fondo, per quanto complicate.» Negli occhi di Oppy c'era una luce divertita. Groves si pulì le dita con la neve. «Anzi, non sono mai stato tanto sicuro del successo quanto lo sono ora, in questo posto.» «Sarà il suo monumento» disse Oppy. «Un monumento?» Groves sospirò. «Dopo aver costruito il Pentagono, ho calcolato che nella mia carriera avevo spostato tanta terra e posato tanto cemento da costruire duecento piramidi di Cheope.» «Questa è una piramide diversa» suggerì Oppy. «È fatta di blocchi differenti... alcuni d'acciaio, altri d'oro, alcuni d'acqua, altri così radioattivi che non può toccarli e neppure avvicinarli... e la piramide dev'essere costruita secondo un modello che nessuno ha mai visto.» «Le dico io qual è il monumento che voglio» disse Groves. «Ho visto le previsioni dei morti e dei feriti che avremo durante l'invasione della Germania e del Giappone. Non mi dispiacerebbe affatto un monumento rappresentato da un milione di vite americane risparmiate.» La sincerità di Groves era ponderosa e autentica, e imponeva il silenzio. Le scintille scivolavano e s'innalzavano dal fuoco. «Gli induisti affermano che la visione finale di Brama sarà nebbia, fumo, sole, folgore e una luna.» Oppy camminava avanti e indietro accanto al fuoco, troppo eccitato per star fermo. «Brama sarebbe un nome adatto per la bomba.» Joe s'era fermato entro l'arco della luce del fuoco. All'esterno di quell'arco c'erano serpenti a sonagli acciambellati, freddi e addormentati sotto la neve. C'era tutto un panorama d'ibernazione: topolini raggomitolati nelle tane, rospi immersi nel fango, caprimulghi nascosti nelle pieghe della ter-
ra. Là fuori c'erano i ricordi, un panorama di donne rannicchiate nel buio. E giapponesi. Per la verità, la vita era stata molto piacevole quand'era arrivato a Manila. Da lui, l'Esercito voleva soprattutto che si dedicasse al pugilato, girasse per le basi aeree facendo esibizioni contro i campioni locali, si battesse ai Boxing Festival annuali nel Rizal Stadium, e suonasse il piano nei circoli ufficiali. Quando le famiglie erano state rispedite in patria, gli ufficiali, come se si fossero trasferiti improvvisamente da un giardinetto domestico a un paradiso terrestre, avevano incominciato ad arrivare con le puttane più belle, filippine color caffellatte e russe bianche cariche di gioielli falsi. Quand'era venuta l'invasione, tre giorni prima di Natale, Joe aveva guidato un plotone di scouts filippini. La prima notte che erano entrati in contatto con il nemico era stato in una piantagione di banane; e nell'oscurità, tra il frusciare delle fronde, aveva sentito le voci: «Ehi, Joe! Vieni qui, Joe». Anche se aveva capito che i giapponesi chiamavano "Joe" tutti gli americani e che non avevano attraversato il Pacifico per cercare lui personalmente, quelle voci erano snervanti, ossessive, come se le tenebre avessero preso vita. Avrebbe voluto poter ascoltare la radio della macchina e sentire qualche orchestra di Albuquerque o, se l'etere fosse stato disposto a favorirlo, una stazione jazz di Kansas City. Ellington, come un indiano nero su una canoa invisibile, che pagaiava tra le nubi. Rema, Duke! Vieni a salvarmi. Groves era arrivato all'ultima caramella. «L'importante è che nessun altro possiede la base industriale, la tecnologia necessaria. Non dimentichiamo l'inefficienza innata del sistema sovietico. Ci metteranno vent'anni per realizzare una bomba atomica, se mai ci riusciranno.» C'era qualcosa tra le nubi, luci fioche che guizzavano, e il brontolio lontano del tuono. «Un mondo senza guerre» disse Oppy. «La Pax Americana» confermò Groves. Le luci riapparvero fra le stelle e le nubi. Sotto le luci, un chiarore più diffuso si estese sulla neve. Più vicino. L'ultima caramella si scioglieva tra le dita del generale. Oppy inclinò la testa, languidamente, come un santo etereo. Fuchs scrutava attraverso le fiamme riflesse dalle lenti degli occhiali. Joe contò fino a quando udì di nuovo il tuono. «Bombardieri, a circa dieci chilometri da qui.» «Qui?» chiese Groves. «È una zona per le esercitazioni dei bombardieri, signori. Un'esercita-
zione notturna.» «E che cosa bombardano, esattamente?» chiese Oppy. «Di notte» disse Joe guardando il fuoco, «bombardano i bersagli illuminati.» Corse alla macchina, si lasciò cadere sul sedile anteriore e girò la manovella del radiotelefono. Attraverso il parabrezza della Buick, vide gli altri tre che prendevano a calci il fuoco per disperderlo. Groves era sorprendentemente agile, Oppy sgraziato come sempre. In lontananza, fiori di luce si spostavano lateralmente sull'orizzonte. La radio lanciò un torrente di scariche, senza una sola parola coerente. Quando Joe tornò dagli altri, del fuoco restava solo un cerchio di fuliggine. Fuchs era inginocchiato e batteva sulle ultime braci. Ora che il fuoco era spento, si vedeva che la luna era sfuggita alle nubi e riempiva la zona d'una foschia opalescente. «Possiamo andarcene?» chiese Groves a Joe. «All'andata ho notato che si divertono a bombardare il tratto di strada dietro di noi. Se accendiamo i fari, cercheranno di scaricarci una bomba da venti chili sul cofano. Se viaggiamo a fari spenti, ci rovesceremo in un fosso. Tanto vale restare qui.» «E se sbagliasse?» Fuchs aveva la faccia sporca di fuliggine e i capelli ritti. «Non si può mettere in pericolo l'intero progetto per uno stupido indiano.» «Zitto, Klaus» disse sottovoce Oppy. Joe disse: «Sono B-29». I bombardieri che si stavano avvicinando erano le cose più grosse che avesse mai visto in aria. Superfortezze, venti tonnellate d'acciaio, grandi il doppio delle Fortezze Volanti, e ognuno dei quattro motori aveva le dimensioni di un caccia. Dai portelloni aperti cadevano i bengala. «Dio» disse Oppy. «È bellissimo.» Perché usavano i bengala? si chiese Joe. Il bombardiere di testa s'innalzò quasi controvoglia e il secondo prese il suo posto, scendendo a quota inferiore come se scrutasse più attentamente il suolo. Perché era così basso? La torretta nel ventre dell'apparecchio ruotò, le canne calibro 50 si mossero avanti e indietro. Joe scorse la luce verde all'interno del muso di plexiglass. Un uomo che appariva completamente verde indicò con il braccio verso il terreno e come se esistesse un collegamento magico con il suo dito una bomba al fosforo, luminosa come cristalli di neve, rischiarò il fondovalle. Da quella direzione giunsero sagome
lanciate a corsa... cavalli lucidi di sudore e investiti dai riflessi della bomba, che si lanciavano al galoppo sotto l'ala. Erano i mustang discesi dai monti per pascolare durante la notte e le giumente che gli allevatori avevano abbandonato. Joe non riusciva a distinguere i singoli animali; vedeva soltanto il movimento collettivo sgroppante, imposto dal bagliore dei bengala e dalla necessità di allontanarsi dal fosforo che bruciava. Erano distanti più d'un chilometro e mezzo, ma Joe aveva l'impressione di sentire non soltanto lo scalpitare furioso degli zoccoli ma anche il loro respiro, sebbene sapesse che era soffocato dai suoni dei pistoni e dei congegni idraulici e dagli spari delle calibro 50. Poi i mustang e i bombardieri passarono oltre, insieme, come un uragano. La lontananza smorzò i suoni e non si vide più nulla, tranne un bagliore che, ogni tanto, appariva come il guizzo d'un fulmine. Ciò che Joe ricordò con particolare chiarezza fu quel che disse Oppy quando rimasero soli ad Alamogordo, dopo che il semicingolato e le jeep erano finalmente arrivati e li avevano accompagnati alla base. «Era spaventoso, ma comunque era bellissimo.» Giugno 1945 6 A Santiago i vitelli venivano castrati prima dello spuntar del giorno, in modo che gli uomini potessero prendere l'autobus del mattino e raggiungere Los Alamos dove lavoravano come custodi e fuochisti. Joe era solo nel secondo corrai, dove venivano portati i manzi per la vendita. Il razionamento della carne aveva creato un mercato per i bovini indiani e Joe aveva il compito di controllare i capi di bestiame con un contatore Geiger. Il contatore consisteva in un'asticciola metallica, un cavetto e una cassetta che conteneva nove chili di batterie. La cassetta aveva un micromisuratore che era inutile in mezzo a una mandria, al buio; ma c'erano anche i clic ben nitidi dei raggi gamma. E li emetteva un manzo. Joe gli passò un cappio intorno al collo, lo condusse fuori dal corrai, intorno a un fienile, dove un sentiero conduceva a un boschetto di cottonwoods e salici. Il giorno prima era piovuto e il fango si incollava alle scarpe. Al centro del boschetto c'erano taniche vuote, molle da materassi, scarpe vecchie e ossa cementate in un grande mucchio di ceneri fradicie. Joe trascinò il manzo, lo fece inginocchiare sulla montagnola, accostò la canna della calibro 45 al
punto dove le vertebre del collo s'innestano alla cupola del cranio e sparò. All'ultimo secondo il manzo, incuriosito, alzò la testa e il proiettile gli tranciò l'arteria del collo. Il sangue fiottò in un getto nero sul petto e sul braccio di Joe. Tenne fermo il manzo e sparò di nuovo. L'animale stramazzò come un macigno. Joe versò sulla carcassa una tanica di cherosene, l'incendiò e indietreggiò barcollando per scostarsi dal fuoco. Nella luce gialla delle fiamme vide che il manzo era chiazzato e aveva la pelle per metà sbiancata. In ogni canyon intorno a Los Alamos c'erano bovini, e in ogni canyon c'erano punti dove finivano gli isotopi velenosi che si spargevano nel suolo e nell'acqua. Era per questa ragione che il personale della Collina si sottoponeva ad analisi continue delle urine, delle feci e del muco nasale; ma per quanto riguardava gli animali che, ignari, capitavano in quelle zone, l'Esercito seguiva un'unica prassi: ucciderli, bruciarli e seppellirli. E Joe era lo strumento ideale di quella prassi. Una pelle che era diventata bianca? Questa era una novità. E poi c'era un'altra cosa: il manzo era una mucca, e attraverso il ruggito avido del fuoco Joe poteva vedere che era gravida. Ricordava perché si era tanto infuriato con Augustino quando erano andati insieme a caccia. Non ci aveva più pensato, da quel giorno. Non sparare a una femmina gravida era una tipica restrizione indiana, un tabù primitivo che vietava non già di stroncare la vita, ma di distruggere il seme della vita. Si mosse istintivamente verso la vacca come se avesse la possibilità di sottrarla alle fiamme, e poi si rese conto che era un impulso stupido e indietreggiò. Gesù, era un pessimo macellaio. Il modo in cui la mucca aveva girato verso di lui i grandi occhi lucidi. Il getto di sangue. Mentre il rogo bruciava crepitando, Joe pensò al secondo cuore racchiuso nel ventre della mucca. Era così vicino al fuoco che la sua camicia fumigava; ma dopo un momento era nel groviglio buio dei salici per dirigersi verso la strada dove aveva lasciato la jeep, senza passare accanto ai corrai dove qualcuno avrebbe potuto vederlo. Quando uscì dal bosco, barcollando un po', la luce di due fari l'investì. I fari deviarono. Una Buick eseguì una sbandata, si fermò con la parte posteriore nel fango del bordo della strada. Prima Ray Stingo e poi Oppy raggiunsero Joe correndo e gridando: «Tutto bene?» «Cos'è successo?» «Svolgevo un'attività di collegamento per conto suo» disse Joe a Oppy. «Il sangue...» «Perché la vacca era bianca?» chiese Joe. «Bianca...»
«La vacca che ho ammazzato perché era radioattiva.» «Il pelo può reagire a bassi livelli di radiazioni. Dunque quello è sangue bovino.» Oppy squadrò Joe. «Dovresti vederti.» «Tu cosa ci fai qui?» chiese Joe a Ray. «Siamo andati alla stazione ferroviaria di Lamy. Per il primo treno da Chicago.» Oppy disse: «Ho chiesto al sergente Stingo di passare di qui, al ritorno, perché volevo pregarti di accompagnare il dottor Pillsbury alle postazioni degli esplosivi ad alto potenziale, oggi. E ricordati che stasera devi fare da scorta a un gruppo.» «D'accordo, ma voglio un permesso per il fine settimana.» «Joe, manca un mese all'esperimento.» «Ho bisogno d'un permesso.» «Perché?» Joe rispose lentamente, una parola per volta. «Per ripulirmi dal sangue. Non mi piace ammazzare le vacche.» «Farò quello che posso.» Oppy guardò la macchina. «Credi di poterci dare una mano a rimetterla in strada?» Quando i tre si avviarono alla Buick, Joe vide che uno dei finestrini posteriori era abbassato. Naturalmente, Ray e Oppy erano andati alla stazione a prendere qualcuno. In quell'ultima fase convulsa prima dell'esperimento arrivava di continuo gente d'ogni genere, da Oak Ridge, New York, Chicago. Nella luce fioca, Joe la riconobbe per i freddi occhi grigi. Era la ragazza che aveva ballato con Fuchs alla festa di Natale. Da quella sera, Joe non l'aveva mai più vista. «Non è successo niente, Anna» dise Oppy. «Il sangue non è suo.» «E di chi è?» chiese lei. Joe si fermò accanto al paraurti. La ruota posteriore destra era affondata nel fango. » Fatela scendere, così potrò spostare la macchina.» «Dottoressa Weiss?» Ray le aprì la portiera. Lei guardò la camicia di Joe come se osservasse il sangue che macchiava un quadrupede. Joe notò l'azalea bianca infilata nei capelli nerissimi. Le azalee erano i fiori preferiti di Oppy. Gli sembrava di vederlo mentre l'offriva alla ragazza appena scesa dal treno. «Un vero gigante riuscirebbe a sollevare anche me.» «Anna» disse Oppy, «sii ragionevole.» «D'accordo» disse Joe. «Resti pure in macchina.»
«Joe, e se noi tre...» disse Ray. Sollevare la ragazza? Joe afferrò il paraurti cromato, fece dondolare la macchina e controllò il risucchio che la fanghiglia esercitava sul pneumatico. Si sentiva in grado di sollevare un elefante e di buttarlo sulla strada a calci nel sedere. Attraverso il finestrino posteriore gli occhi di Anna Weiss scintillarono. Al terzo strattone la gomma si liberò dal fango e, con lo stesso movimento, Joe girò la coda della Buick riportandola sulla strada. Quando la lasciò ricadere la ragazza rise, come se ciò che lui faceva non avesse il potere di sorprenderla e tanto meno di spaventarla. «Non dimenticare Harvey Pillsbury.» Oppy risalì in macchina e lanciò a Joe uno sguardo preoccupato. Ma lui aveva dimenticato Harvey e anche la mucca. Mentre guardava le luci della Buick che si allontanavano, ebbe l'impressione di scorgere la ragazza che si voltava a guardarlo. Sulla Two-Mile Mesa, a sud di Los Alamos, i bulldozer avevano tolto di mezzo piñon, cedri e cactus per far posto alle piazzole e ai bunker di cemento. C'erano i bunker per le fotografie, con paratie d'acciaio a molla che si sarebbero chiuse prima che i detriti scagliati dall'esplosione potessero raggiungere le macchine fotografiche all'interno. C'erano i bunker per le radiografie, che sembravano bare rivestite d'acciaio, simili a corazzate semisprofondate nella sabbia. E c'erano i bunker dei contatori, i bunkermagazzini, i bunker di controllo. Sulla pianura spoglia, i bunker combattevano una loro guerra e sparavano più di dieci tonnellate d'esplosivo ad alto potenziale ogni settimana. L'Hanging Garden, il Giardino Pensile, era il sito più grande dell'esperimento, l'intera cima d'una collina spianata dalle squadre di Jaworski. Sembrava una piramide azteca ampia quaranta metri alla sommità; ma al posto di un altare insanguinato c'era una piazzola d'acciaio annerita dal carbone e dal fuoco dove il ruolo dei sacerdoti era svolto da una dozzina di studenti laureati, in calzoncini e berretti da baseball che, grazie alle loro mansioni, avevano ottenuto il rinvio della chiamata alle armi. Il caos dei cavi bruciati e dei frammenti di vetro creava una falsa impressione di disordine. C'era un disegno preciso. Ai margini esterni erano situati i periscopi per il flash e le cineprese rotanti che avrebbero immortalato ogni microsecondo dell'esplosione. Più vicino alla piazzola c'erano profonde trincee per i contatori di pressione; ancora più vicino, il cavo principale emergeva dal terreno per agganciarsi ai cavi scoperti del detonatore. Quasi a
contatto con la piazzola c'era un bunker per le radiografie, con il caratteristico cono d'alluminio dal quale sarebbero usciti i raggi X per registrare le immagini spettrali. Sulla piattaforma d'acciaio c'era un tavolo di legno che arrivava all'altezza del petto e portava la sigla USED, United States Engineers Detachment. E al centro del tavolo stava un modello in scala quattro a uno di una bomba al plutonio, una sfera di cinquanta centimetri con un involucro d'acciaio di lucide lamine pentagonali imbullonate insieme ai bordi. I giovani con i berretti da baseball stavano collegando i cavi neri del detonatore alle prese di ogni lamina. Leonard Jaworski sfoggiava un paio di bretelle, i capelli grigi dal taglio militaresco e baffi tinti, scuri e diritti come punte di freccia. Aveva combattuto contro il Kaiser Guglielmo II di Germania, lo zar Nicola di Russia e il maresciallo Pilsudski della Polonia. Era l'unico scienziato della Collina che sapesse qualcosa della guerra. «Vede» aveva spiegato a Joe, «una bomba all'uranio è un giocattolo da bambini in confronto a questa. Basta mettere metà dell'uranio all'estremità d'una canna, l'altra metà all'estremità opposta, e spararle l'una contro l'altra con il comune cotone fulminante per ottenere la massa critica e la reazione a catena. Ma il plutonio deve raggiungere la massa critica molto più rapidamente, per mezzo di esplosivi ad alto potenziale, alla velocità di mille metri al secondo. E l'esplosione non è sufficiente. L'esplosivo di questo ordigno comprime e implode un nucleo di plutonio in una massa critica.» «Allora ci vorrà una grande quantità di esplosivo» aveva detto Joe, sforzandosi di fare un'osservazione intelligente. «Joe, l'energia liberata dalla fissione nucleare di un chilogrammo di plutonio equivale a quella di diciassettemila tonnellate di tritolo.» Joe indicò con un cenno il modello sulla piazzola. «Lì dentro il nucleo di plutonio non c'è, vero?» «No.» Harvey arrivò ansando; era tornato alla jeep per prendere il clarinetto che si portava sempre in giro come un frustino. «Leo vuol fare saltare il tavolo, non l'intera mesa.» «Per questa prova ho usato una palla da squash» disse Jaworski. «Presumo che il nucleo del modello regolare avrà le dimensioni d'una palla da croquet.» «Più o meno» disse Harvey. «Più o meno?» Jaworski aveva un'aria inorridita e al tempo stesso deliziata. «Dottor Pillsbury, lei è il capo della commissione per i programmi di lavoro, e non sa neppure quanto sarà grande il nucleo? Saperlo non è com-
pito suo?» «Ci sarà comunque da vergognarci a sufficienza se l'ordigno farà fiasco.» «Harvey, se questo ordigno farà fiasco, nessuno ne sentirà mai parlare. Il Progetto Manhattan verrà insabbiato nel dimenticatoio della storia americana.» «Adesso cosa state collaudando?» chiese Harvey per cambiare argomento. «Adesso? Stiamo collaudando i nuovi detonatori che devono funzionare attraverso un banco di condensatori ad alto voltaggio nello stesso milionesimo di secondo. Stiamo collaudando le lenti di esplosivo Baratol per concentrare l'onda d'urto. E stiamo collaudando una tecnica per fotografare il lampo dell'esplosione.» «Mancano trenta giorni a Trinity. Tutte queste informazioni sono assolutamente indispensabili?» Jaworski si rivolse a Joe. «Hitler finisce all'inferno e il diavolo lo conduce nelle varie grotte per scegliere la punizione. Nella prima c'è Goering inchiodato a una ruota e rotolato nell'olio bollente. Nella seconda, Goebbels viene divorato da gigantesche formiche rosse. Nella terza c'è Stalin che fa l'amore con Greta Garbo. "Ecco quella che preferisco" dice Hitler. "La punizione di Stalin." "Benissimo" risponde il diavolo, "ma per la verità è la punizione di Greta Garbo."» Si girò di nuovo verso Harvey. «Vede, è utile avere tutte le informazioni possibili. Non si preoccupi, collaudo armi da trent'anni. Conosco i militari. Il generale Groves vuole questa bomba. Sono sicuro che la lancerà sul Giappone.» Mentre la squadra di Jaworski collegava i cavi, il cielo era cambiato. Giugno e luglio erano la stagione delle piogge. Quell'anno, la pioggia aveva lasciato il posto ai lampi di calore che scendevano dalle Jemez Mountains e passavano sopra la valle. Due nuvoloni neri si scambiarono fulmini e si diressero verso il Giardino Pensile in uno strano silenzio. Il tuono era così lontano che non si sentiva, e sull'intera mesa regnava la quiete perché c'era l'ordine di non collaudare gli esplosivi ad alto potenziale con tutta quell'elettricità nell'aria. Imperturbabile, Jaworski condusse i suoi uomini a pranzo nel bunker di controllo. «Viene?» chiese Joe a Harvey. Harvey mostrò il clarinetto. «Preferisco restare qui a esercitarmi. Poi suonerò il cessato allarme.» «È il posto più adatto. Vicino a una bomba su una collina durante un
temporale.» «L'ha detto lei che ho bisogno di allenamento. E poi, mi aiuta a pensare.» Mentre scendeva, Joe si voltò a dare un'occhiata. Harvey sembrava un anatroccolo accanto a uno sgraziato uovo grigio. Il Giardino Pensile doveva il suo nome ai gilia scarlatti, ai paintbrush e alle achillee che avevano messo radici nel terreno smosso dei pendii. I fiori selvatici erano un breve, improbabile tripudio di colori in tutte le sfumature di rosso e di arancione brillante e ondeggiavano ogni volta che una brezza spirava sullo squallore brunito della mesa. Si allacciavano intorno ai periscopi, traboccavano e trasformavano in terrazze le strutture di legno di fronte alla collina. Alcuni sostenevano che i fiori prosperavano grazie all'acqua d'una tubatura rotta, altri dicevano che la notte Jaworski andava a innaffiarli di nascosto. Comunque, il Giardino Pensile era così lussureggiante che la piattaforma di carico del bunker costruito nella base della collina sembrava un pergolato. Jaworski invitò Joe a raggiungere la squadra all'ombra della piattaforma di carico per pranzare in compagnia. Ma l'ungherese aveva una predilezione per la carne in scatola e da bere non c'era altro che latte. I soloni dell'Esercito avevano concluso che il latte era un buon antidoto per i rischi che si correvano lavorando a contatto del tritolo, e perciò arrivavano mastelli pieni di ghiaccio e bottiglie di latte fresco. Da una parte delle bottiglie spiccava l'invito: "Sottoscrivete il Prestito di Guerra!". Dopo l'assedio di Stalingrado, su un altro lato delle bottiglie c'era la scritta: "Ammirate la Russia!". Joe rimase solo sullo spiazzo di cemento, l'unico posto del Giardino Pensile dove fosse permesso fumare. I due nuvoloni si avvicinarono ancora di più. Joe cercò con gli occhi un velo iridescente di pioggia, ma non c'era. C'erano soltanto i fulmini, a poco più di tre chilometri di distanza. Sulla strada della mesa si vedevano alcuni MP a cavallo che cercavano un riparo e si muovevano lentamente come possono farlo soltanto i gorilla cittadini quando montano in sella. Di fronte allo spiazzo di cemento c'era un bunker-magazzino: aveva due porte gemelle dello spessore di dieci centimetri, ed era situato ad angolo nella terra, in modo che un'eventuale esplosione accidentale non investisse il bunker di controllo. Vietato fumare era dipinto in rosso sopra la porta. Joe tirò fuori le sigarette e l'accendino e si avvicinò per controllare il lucchetto. Tutto a posto. Aveva scambiato i lucchetti qualche mese prima, e quello era tutto suo.
Nell'attimo in cui accostava la fiamma alla sigaretta, Joe sentì i capelli rizzarglisi sulla testa. Bunker, mesa e cielo si fusero in una sola luce bianca. La fiammella s'inclinò obliquamente, succhiata lontano dall'accendino. Non ebbe il tempo di guardare la sommità del Giardino Pensile... ma lo sentì eruttare, sentì la luce mutare dal bianco al rosso peonia, la sfera di fuoco ascendere ed espandersi nel silenzio maestoso dei timpani compressi mentre persino l'aria nei polmoni pareva volare via. Poi il cerchio dell'onda d'urto si mosse, la sofferenza del suono ritornò e una pioggia di sabbia si rovesciò sullo spiazzo. «Harvey!» urlò Joe mentre correva verso la piazzola del collaudo. Jaworski e gli altri lo seguirono gridando. Il tavolo di legno e la sfera d'acciaio erano scomparsi, cancellati. I cavi scoperti erano spariti e il terreno intorno alla piazzola era calcinato e riverberante; non c'era più un filo d'erba o una formica, ma soltanto un tremolio di particelle finissime di grafite e oro. In un raggio più ampio erano sparsi frammenti di vetro e le virgole metalliche dei contatori distrutti. Ai margini della sommità, i gilia e l'artemisia bruciavano. In alto i nuvoloni neri erano svaniti, come se l'esplosione li avesse eliminati dal cielo. Le montagne sembravano sollevarsi e riabbassarsi sulle ondate di calore. Di Harvey non c'era traccia. «È stato il fulmine.» Jaworski raggiunse Joe in quel momento. «Una scarica elettrica.» «Cordite!» gridò qualcuno, e tutti si buttarono a terra. La cordite rappresentava un altro dei pericoli del Giardino Pensile. Non esisteva un esplosivo più affidabile della cordite del tipo slotted-tube, ma aveva l'abitudine di uscire indenne da un'esplosione per prendere fuoco e detonare durante un esperimento successivo. Joe, bocconi con la faccia contro il terriccio, vide il fumo che si alzava a sbuffi accanto a una trincea dove scorrevano i cavi. L'odore era quello dell'acetone contenuto nella cordite. Una figura bizzarra si alzò dalla trincea. Teneva metà del clarinetto in una mano e metà nell'altra. La testa sembrava un girasole, con la faccia annerita di fuliggine e circondata dai capelli biondi e irti, e un tocco di rosso sotto il naso come un baffo solo. La camicia gli penzolava sul ventre che luccicava nero e dorato. «Harvey!» gridò Joe. «A terra!» Harvey lasciò cadere i due pezzi del clarinetto, si avvicinò alla cordite fumante, pasticciò laboriosamente con l'abbottonatura dei calzoni, estrasse
un organo rosso. Esitò, guardò gli altri stesi al suolo intorno alla piazzola fino a quando scorse Jaworski. «Ci ho pensato. Il nucleo di plutonio avrà le dimensioni esatte di una palla da croquet.» Poi fece schizzare il getto dorato di urina sul cavo che bruciava, fino all'ultimo sprazzo, all'ultima goccia trionfante. 7 «Il soldato giapponese è fanatico, ben addestrato e sicuro della vittoria. Ha occupato la Corea e sconfitto le armate cinesi. Tiene in pugno il territorio da Singapore a Saigon e da Shangai a Peiping, domina paesi asiatici più grandi del suo e ha colto alla sprovvista i britannici. Ma, ed è un grosso ma, deve ancora affrontare le forze ben preparate degli Stati Uniti e delle Filippine.» Joe e una cinquantina di reclute dell'esercito filippino erano radunati sulla piazza del villaggio. Erano venuti a esortarli tre tenenti dello stato maggiore di MacArthur, che si erano alternati sullo spiazzo di cemento del mercato. Dietro i soldati, i venditori attendevano pazienti nel fango. Stavano curvi sotto il peso di pentole, coltelli, mole per affilare, sacchi di zafferano, ceste di pesce, boccette di chinino, santi di gesso, pezze di stoffa olandese, stie di galli da combattimento, noci di cocco, frutti dell'albero del pane, banane verdi, banane rosse, lattine di burro chiarificato, confezioni di tè, cosmetici, filtri d'amore e innaffiatoi. Gli abitanti del villaggio erano piccoli e bruni e avevano il naso camuso. Gli uomini portavano i perizomi, le donne erano avvolte in teli tessuti d'erba e tenevano i figlioletti contro i fianchi. La pioggia caduta il giorno prima si sollevava dalle capanne in un vapore pesante che aveva odore di gelsomini, di pesce marcio e di sterco di maiale. Le mosche ronzavano in un fascio di raggi di sole. Alle reclute erano stati distribuiti calzoncini e finti fucili di bambù. Joe aveva un berretto da campagna e un cinturone; i tenenti sfoggiavano caschi coloniali bianchi e uniformi stirate impeccabilmente. «E il soldato giapponese deve ancora trovarsi a combattere contro i cristiani americani e filippini. Il giapponese, sia buddista, taoista o scintoista, dà poca importanza alla vita. La sua anima non gli appartiene: appartiene all'imperatore.» Gli abitanti del villaggio, i venditori e le reclute annuivano docilmente. Parlavano il tagalog, conoscevano un po' di spagnolo, ma non capivano
l'inglese. Guardavano tutti il teniente del barrio, il capo del villaggio. Quando lui annuiva, lo imitavano. Un cane arrivò sullo spiazzo, fiutò e urinò. Nella sua stia, un gallo scrollò le penne verdi e iridescenti. «Difendere le Filippine è il vostro dovere di cristiani. Sarete addestrati dai migliori istruttori dell'Esercito americano, verrete equipaggiati con le armi più moderne e guidati dal più grande dei generali. Voi sarete il bastione della democrazia e del cristianesimo nel Pacifico. Quando le orde giapponesi piomberanno sulle Filippine, noi le fermeremo sulle spiagge, le ricacceremo in mare, stroncheremo la loro avventura nella baia di Manila.» Il teniente del barrio aveva un'iguana domestica al guinzaglio. Intorno al collo, il lucertolone portava una catena d'oro con un crocifisso. Alzava la cresta e soffiava a ogni lieve strattone del guinzaglio, e la croce luccicava sulla pelle verrucosa. «Questo sergente americano è venuto da un grande deserto al di là dell'oceano per aiutarvi a difendere le vostre isole. Gli è stato assegnato il compito di trasformare i vostri giovani patrioti nei soldati di un grande, nuovo esercito filippino. Ascoltatelo, obbeditegli, seguitelo, e le Filippine non cadranno. Grazie.» Gli ufficiali arretrarono di un passo. Il teniente del barrio esitò, poi applaudì. Anche tutti gli altri applaudirono, un suono leggero come la pioggia. Gli ufficiali salutarono militarmente, Joe rispose al saluto e le reclute seguirono subito il suo esempio. Ma una settimana dopo i giapponesi non comparvero nella baia di Manila: distrussero le basi aeree di Clark Field e Iba, sbarcarono a Vigan e Legaspi, alle due estremità dell'isola di Luzon, e incominciarono a marciare verso Manila, che si trova al centro. Joe ricordava una delle sue reclute che aveva pisciato su una bomba caduta sul campanile di una chiesa. Era un gesto di frustrazione perché le munizioni della contraerea erano vecchie e corrose ed esplodevano al di sotto dei 5000 piedi. I bombardieri Mitsubishi volavano a 6000 piedi d'altitudine e sganciavano bombe tutto il giorno. E così la recluta si era fermata sull'orlo della buca che la bomba inesplosa aveva scavato nella sacrestia e le aveva scaricato addosso quel torrente di disprezzo. Era piuttosto grande e grosso per un filippino, e portava una camicia sciolta, un paio di calzoncini e stivali americani. Joe stava fumando accanto all'altare. Ma la bomba non era inesplosa: era a scoppio ritardato. L'esplosivo ad alto potenziale si era espanso a una velocità di circa 3000 metri al secondo (le esplosioni non erano altro che gas in espansione); ma Joe era sempre stato convinto che doveva esserci stato un momen-
to sia pure brevissimo di shock e di comprensione e di disappunto nella mente di quel ragazzo prima che la bomba trasformasse il campanile nella canna d'un fucile e il ragazzo stesso in un proiettile sparato attraverso di esso. Un attimo di rivelazione. Breve e folgorante. Dall'altra parte della mesa passava lentamente nel pomeriggio una carovana di MP... lentamente per evitare ogni pietra e il pericolo dei serpenti. Quando gli uomini e i cavalli sparirono, Joe lasciò l'ombra di un piñon e scese il pendio del Giardino Pensile, verso lo spiazzo da carico, agitando con una mano un bastone appuntito. Il bunker di controllo era vuoto. Aveva a disposizione mezz'ora di tempo prima di presentarsi a una delle rare feste che Oppy aveva organizzato sulla Collina. Mesi prima aveva sostituito il lucchetto del bunker-magazzino. Aveva lasciato la chiave nella serratura e adesso gli scienziati la custodivano religiosamente come se l'avessero ricevuta dai servizi di sicurezza dell'Esercito. Joe aprì con la sua copia della chiave, oltrepassò la porta, la richiuse, accese una torcia elettrica e la posò sullo scaffale. Tutto intorno, sui ripiani, c'erano contatori, misuratori, schede, rullini di pellicola, tubi di rame e di varie leghe. In una gabbia, in fondo, c'erano gli esplosivi: Torpex, Baratol, Comp B, Pentolite, tutti a base di tritolo. E c'erano anche cordite, Primacord, smoke pots, gelignite, inneschi e polvere da sparo. La gabbia andava dal pavimento fino a una trentina di centimetri dal soffitto, e la porta aveva una serratura a combinazione. Joe poteva arrivare con il braccio al di sopra della gabbia fin quasi a toccare gli esplosivi. Prese dalla tasca un cinghiolo di pelle di daino e lo legò a un'estremità del bastone. Quand'era ragazzino, d'inverno, lui e i suoi amici si nascondevano lungo il Rio e catturavano i juncos. I grassi uccelli grigi amavano affollarsi sulle rive dove si era sciolta la neve. I ragazzi annodavano cappi di crine ai rami dei salici sui bordi del fiume e prendevano due juncos per volta, bruciavano le penne sul fuoco e poi li mangiavano caldi. Delicatamente, Joe fece scivolare il cappio di pelle sopra una stecca di gelignite. L'avrebbe consegnata a Santo Domingo, un pueblo a sud di Santa Fe. Tra i Domingo c'erano diversi veterani, e alcuni di loro erano esperti in esplosivi. La gelignite si rovesciò su un lato. Joe scosse il bastone per stringere il cappio, sollevò delicatamente la stecca dal ripiano e la portò alla sommità della gabbia, a tiro della mano libera. Era fredda come argilla. La seconda stecca scivolò via nel superare la sommità della gabbia e Joe fu pronto ad afferrarla al volo, all'altezza della cintura.
La Guardia Nazionale del New Mexico era arrivata a Manila nel settembre del '41. Li avevano scelti perché quelli del New Mexico erano scuri di carnagione, parlavano spagnolo e avrebbero dovuto integrarsi facilmente con i filippini. Rudy Peña si era arruolato come volontario nella Guardia per via di suo fratello Joe. Joe ricordava Rudy piuttosto vagamente. Aveva dieci anni meno di lui, era grasso e frignava sempre. I capelli neri erano irti come penne di gallo. Bagnava il letto dove dormiva con Joe, e aveva imparato tardi a camminare e a parlare. Durante l'inverno più tremendo, quando i camion dell'Esercito erano venuti a Santiago a buttare sacchi da venti chili di latte in polvere indurito dal gelo come se fosse cemento, Joe aveva trascinato via un sacco per ogni mano, mentre il fratellino gli si aggrappava a una gamba e frignava, con la faccia trasformata in una maschera di moccio ghiacciato. E più Joe cercava di staccarlo prendendolo a calci, e più Rudy si teneva avvinghiato. A sedici anni Joe aveva lasciato il pueblo, e da allora aveva visto Rudy soltanto nelle fotografie che gli spediva Dolores: Rudy e i conigli, Rudy a cavallo, Rudy con la cravatta. La faccia molle e imbronciata era diventata quella di uno sconosciuto dai lineamenti quasi arabi. Dopo gli anni dedicati alla musica e al pugilato a New York, per Joe era stato un colpo venire a sapere che avrebbe rivisto il fratello in mezzo al Pacifico. Joe era uno degli istruttori del nuovo esercito filippino; e quando era tornato a Manila la Guardia Nazionale era già partita per Clark Field. La storia della Guardia era una tragica farsa. Gli uomini venivano dal New Mexico, uno stato dell'entroterra; ma li avevano assegnati all'artiglieria costiera. All'arrivo avevano affidato loro cannoni britannici residuati della Prima Guerra Mondiale. Una settimana dopo l'invasione si erano ritrovati a combattere come fanti nella giungla. Il generale MacArthur aveva dichiarato che le Filippine non sarebbero cadute; e il presidente Roosevelt inviava a Manila convogli di munizioni e rifornimenti. Ma quando erano in alto mare, i convogli invertivano la rotta e si dirigevano verso l'Europa. E così, una notte, MacArthur se n'era andato di nascosto a bordo di una silurante. Rudy era scomparso prima che Joe lo trovasse. L'intera Guardia Nazionale del New Mexico era scomparsa su Bataan. Quando Joe, che era scampato, era tornato negli Stati Uniti e aveva incominciato a fare il giro degli stabilimenti che lavoravano per la Difesa, il colonnello addetto alle pubbliche relazioni lo aveva presentato come un simbolo vivente dell'Esercito, e
a Joe questo sembrava illogico perché era uno dei pochi tornati vivi dalle Filippine mentre migliaia e migliaia non ce l'avevano fatta. Dolores la pensava come lui. Gli aveva scritto di non tornare a Santiago perché per quanto la riguardava il suo unico, vero figlio, Rudy, era morto. E così, anziché tornare a casa, Joe s'era portato a letto la moglie del colonnello ed era finito a Leavenworth. I giapponesi usavano abitualmente un trucco: si legavano tra le fronde d'una palma da cocco. Un cecchino mangiava un pugno di riso e beveva l'acqua della borraccia perché il riso si gonfiasse nello stomaco e gli desse un senso di sazietà. Poi era capace di restare su una palma anche per tre giorni. Ma quel giapponese era lassù da una settimana o forse più. Era legato così stretto che non poteva cadere: dondolava nella brezza e guardava il mondo, guardava gli aerei, le pattuglie, le nubi che passavano. Joe non l'avrebbe visto se non avesse calpestato per caso un fucile e non avesse alzato lo sguardo verso la faccia che scrutava dalla palma. La testa era nera come una noce di cocco, c'erano due buchi al posto degli occhi, un buco al posto della bocca, lo stomaco era squarciato. Una pubblicità turistica per Bataan. Quando, di notte, i giapponesi chiamavano "Ehi, Joe!" "Qui, Joe!", spesso Joe si chiedeva se Rudy Peña aveva mai pensato che ci fosse una certa confusione, che fossero venuti a cercare l'uomo sbagliato. Senza neppure prendersi il disturbo di non far rumore, Joe chiuse la porta del bunker-magazzino, fece scattare il lucchetto e seguì il fascio di luce della torcia elettrica attraverso lo spiazzo, in direzione della Collina. Tanto, lui non doveva niente all'Esercito. 8 Oppy si era insediato nella casa del direttore della vecchia Ranch School, un cottage di pietra e legno dietro un gruppo di abeti in fondo a Bathtub Row. Il sole era appena tramontato dietro le Jemez Mountains, lasciando il cielo illuminato e la mesa immersa nel buio. Joe si era allacciato intorno ai fianchi il cinturone con la calibro 45. Il suo posto di guardia era nel giardino. Osservata attraverso le finestre, la scena del cocktail party ricordava le pagine di un volume illustrato e sfogliato pigramente. Gli Oppenheimer davano feste poco frequenti e piuttosto brevi, e quando lo facevano invita-
vano soltanto il fior fiore della comunità scientifica della Collina. Gli ospiti erano quasi tutti europei. Le facce erano arrossate dalla tensione e dall'alcol. Joe vide Fermi e Foote che discutevano: l'italiano si dondolava impassibile sui tacchi mentre l'inglese gesticolava con la mano che stringeva un highball. La moglie di Fermi e quella di Teller, due donne piccole e brune, si scambiavano confidenze su un divano. L'insieme delle facce cambiava di momento in momento; ma tutti, là dentro, sembravano radiosi. «Deve sentirsi solo, sergente.» Kitty Oppenheimer venne a portargli un whisky. Se avesse sorriso sarebbe stata carina. I capelli bruni erano tutti spettinati. Riusciva ad avere un'aria trasandata e al tempo stesso efficiente. «Grazie.» Joe prese il bicchiere. «Ammazzi gli intrusi.» «Stia certa.» «Accidenti.» Kitty Oppenheimer inciampò in un monopattino e cadde riversa in un'aiuola. «Le mie zinnie! Oggi non ne va bene una. Mi lasci riposare, in nome del cielo.» Fece un cenno, rifiutando la mano che Joe le tendeva per aiutarla a rialzarsi. «Hanno ricominciato a cantare la Marsigliese, là dentro. Mi dia una sigaretta.» Joe posò il bicchiere sull'erba, le mise tra le labbra una sigaretta e gliel'accese. «È incavolata nera» disse. «Ha maledettamente ragione, sono incavolata davvero. Sergente, quando sono uscita volevo dirle che è magnifico. Davvero. Byroniano e tenebroso, tutto solo nel crepuscolo. Lei è molto carina, non è vero, Joe? E giovane. Una volta lui era fidanzato con la sorella. Lo sapeva?» «Chi?» Kitty continuò a parlare, assorta. «Per Anna, credo, era una figura eroica. Gli uomini fanno sempre quell'effetto alle ragazzine. E poi, quando le ragazzine diventano donne, gli uomini si sforzano di rimanere personaggi romantici. Ci sono tanti aspetti psicologici interessanti. Bene, adesso ho ripreso fiato.» Porse la mano a Joe che l'aiutò a rimettersi in piedi. Si diceva che avesse qualche legame di famiglia con la nobiltà europea e fosse imparentata con l'ammiraglio Canaris dell'Abwehr. «Ce la fa a reggersi?» «Ora devo tornare ai miei doveri di padrona di casa della Real Società dei Fisici Castrati.» «Riesce a camminare?»
«La cosa strana è che a un certo punto non ci si preoccupa più delle altre donne. Se si è furbe, ci si preoccupa delle ragazze.» «Provi a respirare profondamente. Oggi la Germania, domani il mondo.» Joe le tolse un fiore dalla spalla. «Vedrà, può farcela.» «Mi sembra d'essere Ofelia.» Kitty proruppe in una risata gutturale, corrosa. «Avevo sempre creduto d'essere Lady Macbeth.» Quando Kitty Oppenheimer rientrò in casa, Joe versò a terra il whisky. Tra poco la festa sarebbe finita e lui sarebbe andato a Santa Fe a consegnare la gelignite che aveva caricato sulla jeep. E avrebbe bevuto qualcosa più tardi. Alcuni invitati stavano uscendo in giardino per godersi la sera, quell'ora tra il caldo della giornata di giugno e il freddo della notte in montagna. La Collina era alta 2100 metri. Le voci sembravano arrivare lontano, o forse erano semplicemente più forti. Da un mese, dopo la sconfitta della Germania e la morte di Hitler, tutti gli immigrati sembravano avviluppati da un ardente patriottismo, come se il loro spirito americano avesse trovato conferma. Avrebbero fatto in modo che Trinity funzionasse, a qualunque costo. Joe vide Kitty nel soggiorno, con Oppy e la donna che quella mattina era a bordo della Buick. Kitty era seduta sullo zoccolo del caminetto e la nuova arrivata era in piedi dalla parte opposta. Tra le due donne, Oppy stava appoggiato alla mensola, quasi contorto. La punta d'un suo stivale sfiorava il ginocchio di Kitty e le lunghe dita accarezzavano il bicchiere che l'altra aveva posato sull'angolo della mensola. Sembrava un poeta intento a dettare, e Kitty aveva l'aria di una musa senza illusioni. La donna più giovane appariva nel contempo diffidente e affascinata. Non portava più l'azalea tra i capelli. «Sarebbe sufficiente lanciare una bomba a mano in questo posto per cambiare la storia della fisica, non è vero, sergente?» Il capitano Augustino era arrivato al cancello e aveva fermato la jeep dietro quella di Joe. Joe salutò militarmente. «Sissignore.» «E adesso cosa stanno facendo?» Qualcuno passò una radio dalla finestra. Il suono d'un pianoforte aleggiò sopra il giardino, fino alle macchine. Joe non s'era accorto fino a quel momento che i grilli della mesa trillavano all'impazzata. Beethoven. Una sonata, e gli insetti attiravano all'aperto tutti quanti, eccettuati Oppy e le due donne. «Credo che sia la stazione della Collina, signore. Mi pare che sia Teller a suonare.»
Los Alamos trasmetteva un segnale che si perdeva prima di raggiungere la valle. Teller aveva una tecnica imperfetta, ma suonava con notevole slancio. «Sergente, cosa risponderebbe se le dicessi che mia moglie è morta? Che le ha sparato un intruso capitato in casa, nel Texas, e che l'intruso è fuggito?» Beethoven era in pieno crescendo. Nel giardino nessuno poteva sentire ciò che dicevano al cancello un capitano e un sergente. «Risponderei che è una menzogna, signore. Perché mai dovrebbe ammazzarla quando può fargliela pagare per tutto il resto della vita?» «Sergente, mi pare che lei prometta piuttosto bene. Si avvicini.» La musica fu seguita da un leggero crepitio di scariche. Poi venne un silenzio d'attesa mentre tutti si raggruppavano intorno alla radio. Le braci delle sigarette brillavano nell'ombra. «Signore?» «Aspetti» disse Augustino. «C'era una volta una foresta tutta scura dove vivevano tre porcellini.» Dall'apparecchio posato sull'erba usciva una voce profonda dall'accento mitteleuropeo. Era sempre Teller: adesso leggeva le favole. «Il primo porcellino era un poeta. Il secondo era un artista. Ma il terzo porcellino era molto pratico e amava lavorare con martello e sega.» «Avanti, sentiamo» disse Augustino a Joe. «Oggi non sono stato io a fare da autista a Oppy e quindi non ho niente da riferire.» «Quando si ha a che fare con il dottor Oppenheimer c'è sempre da riferire qualcosa. È andato fino alla stazione a prendere una certa dottoressa Weiss. Sono passati da Santiago. Lei li ha incontrati. Che cos'hanno detto?» «Niente. La loro macchina era uscita di strada e io li ho aiutati, ecco tutto.» «Sergente, non è stata la misericordia divina a tirarla fuori dalla galera. Sono stato io. E posso rispedirla là dentro quando voglio.» «Ma non hanno detto niente, signore.» «Il porcellino poeta era pigro. Si costruì una casetta tutta di paglia, con le pareti di paglia, i tavoli e le sedie di paglia e una porta di paglia che lasciava sempre aperta...» «L'FBI mi ha segnalato che un corriere sovietico sta per venire alla Collina. E all'improvviso il dottor Oppenheimer trova il tempo di andare a ri-
cevere questa dottoressa Weiss e di accompagnarla qui personalmente. Non ha senso. Lei l'ha vista?» «Era ancora buio, stamattina.» «Adesso è là dentro con gli Oppenheimer. Può darsi che sia una vera e propria riunione di una cellula comunista. Non sarebbe interessante ascoltare ciò che stanno dicendo in questo momento, ascoltare cosa dicono quando credono d'essere soli?» Augustino considerò quella possibilità, poi alzò lo sguardo verso Joe. «Voglio che tenga d'occhio la dottoressa Weiss. Voglio che le stia vicino. Sfrutti tutto il suo fascino d'indiano. E la prossima volta che ci parleremo, sarà meglio che abbia qualcosa da riferirmi.» Il capitano riaccese il motore della jeep, eseguì un'inversione a U e ripartì in direzione della vecchia sede della scuola. In giardino risuonavano le risate. «Altrimenti soffierò!» La voce di Teller si alzò in toni drammatici. «E soffierò! E soffierò! E soffierò...» 9 Santa Fe era distante un'ora di macchina, ma era il centro commerciale e sociale della Collina. Di giorno la gente andava a far acquisti da Woolworth' o Sears, e la sera frequentava l'Hotel La Fonda. Sulla piazza centrale della città, il La Fonda era una specie di fantasia di finti mattoni a tre piani, con le travi a vista e i balconi di legno. E grazie alla Collina, l'albergo era diventato un avamposto dell'FBI. L'FBI aveva il compito di sorvegliare tutti quelli che venivano a Santa Fe dalla Collina. Poiché tutti finivano inevitabilmente nel bar del La Fonda, gli agenti si piazzavano comodi nell'atrio. Quando Joe entrò, cinque o sei agenti si scossero, poi riconobbero la guardia del corpo di Oppy e si riassestarono sulle rustiche poltrone di cuoio. Gli agenti chiamavano "capelloni" gli scienziati della Collina. E tutti quelli della Collina, che li individuavano a prima vista per i loro cappelli di paglia, chiamavano gli agenti "spioni". Il bar era pieno. Santa Fe era la capitale dello Stato, e quindi il bar attirava un buon numero di bevitori accaniti che erano legislatori o lobbisti, oltre ai petrolieri, gli allevatori e i turisti. Il barista era uno "spione" piazzato in posizione strategica, e tutti avevano dovuto soffrire con pazienza in attesa che imparasse a preparare un martini decente. Quella volta, Joe non vide Harvey o altri della Collina. Aveva impiegato due ore per raggiungere
Santa Fe perché aveva bucato due volte sulla scorciatoia di Pojoaque Creek prima di raggiungere l'autostrada. Teneva sotto il braccio le stecche di gelignite avvolte in un giornale. Adesso non voleva fare altro che consegnare l'esplosivo e proseguire per Albuquerque e Casa Mañana. «Un bourbon» ordinò, dato che ormai era lì. «È vietato.» Uno gnomo vestito di bianco s'inerpicò sullo sgabello accanto a Joe. Hilario "Happy" Reyes agitò un panatela avana come se fosse nel soggiorno di casa sua... e in un certo senso il bar del La Fonda lo era veramente. «Oh, oh, servire liquori a un indiano? Ma credo che possiamo fare un'eccezione per il capo.» «E per te» disse Joe. Hilario era il vicegovernatore del New Mexico. Ma era soprattutto una leggenda. Veniva dal pueblo Santiago, e Joe aveva visto le vecchie fotografie che lo ritraevano mentre eseguiva una danza di guerra in costume indiano alla Fiera Mondiale di Omaha nel 1898. Ma quando, nel 1912, il New Mexico era divenuto uno Stato, Hilario era diventato "Happy" Reyes, uomo politico spagnolo, e da allora aveva sempre avuto qualche carica in ogni amministrazione statale... una sola volta aveva dovuto accontentarsi dell'incarico di giudice. Dopo l'inizio del secondo mandato presidenziale di Roosevelt era diventato democratico. Era vecchio e vigoroso, potente come un jolly in un mazzo di carte, un mago sciupacchiato ma ancora capace, una sorta di maligno Grillo Parlante. «Alla patria dei valorosi» Joe prese il bicchiere. «Voglio combinarti un incontro, Joe. Ho per le mani un ragazzo del Texas. Un pugile nato. Mancino. Svelto. Stende gli avversari di destro o di sinistro, indifferentemente. Non ha mai sostenuto un incontro che sia durato quattro round. Lavora su alla Collina con te.» «Hai ricominciato a organizzare incontri?» «Joe, è lo spirito dei tempi. Bisogna pure che la gente si diverta. Il baseball non si è fermato. In questo momento, la squadra dei St. Louis Browns ha un giocatore con un braccio solo. Ma la guerra non ha fermato il baseball.» Dopo tanti anni che portava il cappello bianco da piantatore, come una damigella d'altri tempi che si riparasse dal sole con l'ombrellino, la pelle bruna di Hilario si era schiarita in un pallore che rendeva ancora più penetranti, per contrasto, gli occhi neri come il catrame. «Joe, quando sarai vecchio come me, ti accorgerai che la vita degli esseri umani è molto breve.» «Questo l'avevo già scoperto a Bataan.»
«Allora non è stata un'esperienza sprecata. Adesso è tornato il tempo per spassarsela. Voglio presentarti un tuo ammiratore.» «Harry Gold.» L'amico di Hilario schizzò fuori dietro lo sgabello. Era basso, olivastro e così grasso che sembrava gonfiato nell'abito a doppiopetto. Si dondolò sugli stivali nuovi e si tolse dalla testa lo Statson nuovo per stringere la mano a Joe. Aveva i capelli scuri e ondulati. «Harry è un ebreo di New York» disse Hilario. «L'avevo sentito suonare con Charlie Parker nella Cinquantaduesima» disse Gold a Joe. «E poi, un paio di settimane fa, a Casa Mañana. Mi ero sempre chiesto dove fosse finito.» «Joe era il Joe Louis indiano prima che gli entrasse nel sangue la musica negra. Joe, hai ancora una grande popolarità. Quel ragazzo ha battuto tutti, nel nostro Stato. Tu sei l'unico avversario possibile.» «Hilario, non combatto più da due anni.» «Non è molto grave per un pugile della tua classe. E comunque sei sempre un purosangue.» «Il grande ritorno del capo Joe Peña?» «Non scherzare. Posso organizzare tutto in due giorni e garantirti duemila dollari solo per presentarti sul ring e andare al tappeto.» «Sto cercando qualche occasione per fare investimenti nel New Mexico» disse Gold a Joe. «Perché non mette direttamente i quattrini nelle tasche di Hilario?» «Ecco il tuo problema, Joe» disse Hilario. «Non sai favorire il tuo Stato. Corre voce che un trafficante venda agli indiani esplosivi ad alto potenziale. Ci sono tante aziende regolamentari che non riescono a procurarsi esplosivi in tempo di guerra, appaltatori e costruttori, tipi pieni di soldi. Ti offro questa occasione, Joe, perché quel ragazzo texano ti farà a pezzi.» Mentre Joe riattraversava l'atrio, gli agenti speciali stavano leggendo per l'ennesima volta le pagine sportive dei loro giornali. Il titolo ripiegato annunciava: I B-29 martellano i giapponesi. Un gruppo di signore dagli abiti lavorati all'uncinetto si stavano allontanando da un indiano che vendeva collane. Con i capelli legati all'indietro in una treccia grigia e la camicia lurida abbottonata fino al collo, l'indiano mostrò prima un braccio carico di monili di turchese, poi l'altro. Tutti insieme, le signore e l'indiano passarono oltre un manifesto che raffigurava una ballerina di flamenco e varcarono la porta di vetro a due battenti che conduceva nella sala da pranzo del La Fonda. Joe aveva intenzione di dare soltanto un'occhiata. C'erano una ventina di
tavoli, quanti bastavano per accogliere una Santa Fe artificiale e in miniatura: dame spagnole con le mantiglie ereditate dalle antenate, artisti che erano fuggiti da New York, seguaci di culti bizzarri che erano fuggiti dalla California, avvocati che non erano abbastanza brillanti per esercitare altrove la loro professione; e tutti stavano seduti nel chiarore dei candelieri di latta stampata. Le signore trovarono un tavolo libero. L'indiano si fermò accanto a loro e cominciò a mostrare anelli e spille d'argento. Dal tavolo più vicino alla cucina, Harvey agitò un clarinetto. Con lui c'erano Klaus Fuchs e la donna che Joe aveva visto in macchina, Anna Weiss. Avevano finito di cenare e stavano bevendo il caffè. «Eccomi pronto per ricominciare.» Harvey tese lo strumento perché Joe lo esaminasse. Era un PanAmerican usato con l'orlo cromato, il tipico modello per le scuole medie-superiori. «L'ho trovato in un banco dei pegni.» «Questo dovrebbe bastare ad atterrire l'imperatore» disse Joe, e restituì il clarinetto. «Si sente bene?» «Questo pomeriggio c'è stata una detonazione prematura nel luogo dell'esperimento» spiegò Harvey ad Anna. Poi guardò Joe. «Solo un po' di sangue dal naso. Sto benissimo. Si sieda.» «Sono sicuro che il sergente avrà altro da fare» disse Fuchs. «Prego, si sieda» disse Anna Weiss. Era pallida, ma non aveva la caratteristica carnagione luminosa delle inglesi. Però non era neppure smorta. Il suo era il pallore levigato della porcellana, reso ancora più sensazionale dai capelli neri, neri come quelli di un'indiana, ma più fini e posti maliziosamente in risalto da un pettine di lacca rossa. Indossava una camicia hawaiana con un motivo di palme rosse. Nel complesso aveva qualcosa che doveva mettere a dura prova i nervi di qualunque accompagnatore, soprattutto d'un tipo borioso come Fuchs. Almeno, però, lei aveva un accento più dolce. «Grazie alla lucidità del pensiero e alla prontezza dell'azione, il dottor Pillsbury ha salvato la vita a parecchi uomini questo pomeriggio» disse Joe mentre sedeva. Posò il giornale sul tavolo. «Non ce l'ha raccontato, Harvey» disse Anna. «Glielo racconti, Harvey» disse Joe. «Gli spieghi come ha fatto a spegnere la cordite.» «No, no.» Harvey doveva aver bevuto abbastanza. Un rossore gli salì dal collo. «Il vero eroe della guerra è Joe.» «L'ho visto in azione questa mattina» disse Anna. «Ha sconfitto un'automobile.»
«È incredibile che l'abbiano lasciato entrare.» Fuchs non si era ancora degnato di prendere atto della presenza di Joe, e adesso stava fissando qualcos'altro che lo infastidiva. Cleto Tenorio si accostò al tavolo e mostrò le braccia cariche di collane, noduli di turchese blu e verde infilati su cordoncini annodati. Cleto era di Santo Domingo, e i Domingo vendevano i loro gioielli lungo il Rio e persino nel territorio dei Navajo, nello Utah. Teneva le palpebre abbassate e aveva la camicia macchiata di salsa chili, ma i nastri che gli trattenevano i capelli erano coloratissimi. La direzione del La Fonda non soltanto tollerava Cleto, ma lo incoraggiava ad abbordare gli ospiti purché non assumesse atteggiamenti troppo sprezzanti. «Quanto?» chiese Joe. «Due dollari.» Cleto posò le collane sul tavolo. «È ridicolo.» Fuchs ne prese una, l'accostò alla fiamma della candela, grattò una pietra con l'unghia. «Sai cos'è la turchese?» domandò a Cleto. «Turchese.» «La turchese è un fosfato di rame e alluminio.» «Un dollaro.» Cleto scrollò le spalle. «Vedi? Non sapevi neppure che cosa vendi. Io te l'ho appena detto. Dovresti essere tu a pagarmi. Conosco queste pietre. Cambiano colore, sbiadiscono. Non sono certo diamanti. Sono sassi raccolti per terra.» «Non le raccogliamo per terra.» Joe mostrò una collana. «Dobbiamo estrarle. Il vecchio sistema è accendere un fuoco contro la roccia e poi versare l'acqua. La roccia si spacca, e allora si vede una vena di turchese, come un filo d'acqua azzurra. Sarebbe più facile se si usassero gli esplosivi, ma ormai è impossibile procurarseli.» Mise due dollari sul tavolo e porse la collana ad Anna Weiss. «Per lei.» «È un vero signore, sergente. La ringrazio.» Anna Weiss si passò la collana di turchese sopra la testa e la infilò nello scollo della camicia. Le pietre erano miste: azzurro sera, azzurro lago di montagna, verde mais. Con quella camicia e quel pettine, sembrava una bella rigattiera che avesse raccattato vari oggetti di nazioni diverse. Cleto si affrettò a raccogliere le collane e i due dollari e si allontanò. Fuchs trasse un profondo respiro. «Sergente, a volte la sua ingenuità sembra quasi studiata. Lei possiede quella che in Germania chiamiamo "furberia da contadino". Capisce? Ma c'è una grande diversità tra astuzia e intelligenza. Dove lei vede pietre graziose, io vedo un fosfato. Dove lei vede i "capelloni", io vedo un'élite. Per essere sincero, la guerra sarà vinta
dall'intelligenza, dalla scienza, non dai militari, anche se non intendo denigrare i sacrifici di nessuno.» «Klaus, siamo tutti soldati e ci battiamo per la stessa causa» disse Harvey. «E ognuno di noi ha una sua causa.» Fuchs si rivolse ad Anna Weiss. «Togliti quella collana, è ridicola.» «Willst Du lieber einen gelben Stern haben?» chiese lei. «Oder einen roten?» Nel sentire parlare in tedesco, tutti coloro che si trovavano nella sala da pranzo ammutolirono. Nel silenzio, Harvey bisbigliò: «Joe, il vecchio venditore di collane le ha rubato il giornale». «Allora soffre di allucinazioni. Ha bisogno d'una cura» disse Joe. «Andiamocene da qui. Lasci che l'accompagni a una sorgente calda, una sacra fonte risanatrice. Siete invitati anche voi» continuò rivolgendosi ad Anna Weiss e a Fuchs. «Impossibile» disse Fuchs. «Quando?» chiese Harvey. «Subito» rispose Joe. «Questa notte. Vi porterò con la jeep.» «Sì» disse Anna Weiss. 10 In alto, sopra la strada delle Jemez Mountains, una sorgente calda sgorgava in una conca di roccia. Tra gli aghi dei pini spuntavano i coralroot rosati. I rami degli abeti e la luna sembravano aleggiare sul vapore sulfureo. Joe si era già immerso nell'acqua nera. Harvey galleggiava come un anatroccolo di gomma. Anna Weiss posò gli abiti sull'orlo della conca ed entrò nell'acqua. Era così pallida che sembrava rispecchiare la luce come una seconda luna. Mentre s'immergeva, guardò Joe negli occhi e disse: «La gioia nasce dalla forza». Si lasciò affondare completamente e riaffiorò, con i capelli incollati ai lati del viso. «È un vero peccato che Klaus non abbia voluto lasciare la macchina» disse Harvey. «Sta diventando un po' stizzoso. Sarà la pressione per via di Trinity. Ormai manca appena un mese.» «Perché si chiama Trinity?» chiese Anna. «Perché Oppy ha dato un nome simile al sito dell'esperimento?»
«L'ha tratto da un sonetto inglese. Di John Donne» disse Harvey, e imitò la voce bassa e rauca di Oppy: «Aggredisci il mio cuore, Dio uno e trino, poiché tu bussi e respiri e risplendi e cerchi di risanare». «Non aveva già un nome?» chiese Anna. «Stallion Gate» disse Joe. «Un nome americano. Lo preferisco.» «Anch'io.» «Ecco un esempio perfetto della temperatura media» disse Harvey. «Metà del mio corpo sta andando a lesso, metà è congelata; ma la media è piacevole.» Ogni volta che uno di loro si muoveva l'acqua nera e acre traboccava dalla conca e dilagava sul muschio intriso dello stesso odore pungente. Tra i rami si scorgevano le vette delle Jemez, alcune librate nell'ombra, altre luccicanti di ghiaia. Le nubi portate dal vento dell'est davano la sensazione che le montagne avanzassero come un'onda. «Circa un milione d'anni fa qui c'era un vulcano alto quanto l'Everest.» Joe allargò le braccia lungo il bordo della conca. «Quando esplose, scagliò frammenti di roccia fin nel Kansas. Sotto di noi c'è ancora una bocca vulcanica.» «Come un fuoco sotto la cenere» disse Anna. «E tutte queste colline sono sacre al vecchio popolo. Ci sono santuari nelle grotte. Non si sa mai cosa può capitare di trovare. Un giorno io e mio padre eravamo a caccia quando precipitammo tutti e due in una buca. Una buca nel terreno, e intorno una nuvola di polvere. Eravamo caduti in un vecchio kiva, proprio sul pavimento. E intorno a noi stavano le figure. Un uomo dalla pelle azzurra, azzurra come una cutrettola, e la testa di bisonte. Una rondine viola con la testa di donna. Un puma seduto come un uomo. Il kiva doveva avere cinquecento anni, forse mille, ma i colori erano vivi come se fossero stati dipinti il giorno prima. Però dopo un'ora sbiadirono. Dopo due ore si vedevano a stento. Ormai non saprei neppure ritrovare il posto. Si è riempito di terriccio ed è scomparso; però ce ne sono tanti altri.» Joe era un po' sorpreso perché aveva raccontato quell'episodio. Innanzi tutto era strano che l'avesse ricordato. E in secondo luogo, sapeva tanto del tipico caso del nobile-capo-rosso-che-seduce-la-turista. Comunque, forse era proprio ciò che stava cercando di fare. Senza il minimo dubbio, anzi. «Com'è la religione, qui?» chiese Anna. «Adamo fu creato il sesto giorno? Eva fu creata da una sua costola?»
«È diversa.» «Diversa in che senso?» «Ci sono tante storie diverse, e le ricordo piuttosto male. Ha visto i buffoni nelle danze locali?» «No.» «Ecco, all'inizio del mondo fratello e sorella si misero in cammino tra le montagne. Lui era bello, lei era bellissima. Mentre dormivano sulla vetta della montagna, lui si accorse di amare la sorella. Lei si svegliò, si rese conto della situazione e tentò di fuggire battendo il piede a terra e spaccando in due la montagna in modo che tra loro scorresse un ampio fiume. Ma il fratello era così pazzo d'amore che si buttò a terra, e la faccia gli sanguinò e si gonfiò tutta. La sorella si commosse tanto che attraversò il fiume a nuoto e dormì con lui. Per questo incesto furono messi al bando, e i loro figli nacquero mezzi pazzi e diventarono buffoni. Non è esattamente la stessa storia della Bibbia.» «E gli altri?» «Tutti gli altri uscirono dalla terra... Davvero, non saprei cosa dirle degli indiani.» E soprattutto dell'indiano che stava immerso nell'acqua. Perché diavolo correva tanti rischi per rubare l'esplosivo ad alto potenziale e cederlo a Cleto per niente, quando avrebbe potuto guadagnare soldi a palate vendendolo agli appaltatori di Albuquerque? Ci teneva tanto a farsi scoprire e rispedire a Leavenworth oppure nel Pacifico? C'era un elemento che non era solo autodistruzione, ma anche disprezzo per se stesso. «Io posso dire qualcosa a proposito degli indiani» intervenne Harvey. «Quando avevo otto anni, alcuni Cherokee cosiddetti civilizzati mi buttarono in una cisterna. Le pareti erano alte poco meno di due metri ed era semipiena. Non aveva l'odore di quest'acqua, ma c'era parecchia fanghiglia e quindi pensavano che sarebbe stato divertentissimo vedere come sarei stato ridotto quando ce l'avessi fatta a tirarmi fuori. Quando ne uscii, notai che il livello dell'acqua si abbassava un po'. Mi immersi di nuovo e il livello dell'acqua risalì. Così cominciai a entrare e uscire, entrare e uscire. Poi calcolai il volume dell'acqua spostata e il suo peso e ne dedussi il mio peso e il mio volume. Avevo letto di recente sul "National Geographic", tra le foto delle africane a seno nudo, che i coccodrilli inghiottivano sassi per diventare più pesanti e nuotare rasente al fondo, in modo da avvicinarsi di nascosto a quelle povere negrette. E così gridai ai ragazzi di buttare pietre nella cisterna. Fu quello, il mio battesimo nella fisica. Sa, quest'acqua in-
comincia a sembrarmi gradevole. Significa che sto sudando tanto da liberarmi delle tossine oppure che sono ormai cotto?» Harvey si mosse a nuoto, avanti e indietro, tra Joe e Anna Weiss. «Cos'ha intenzione di fare dopo la guerra, Joe? Sta ancora pensando di aprire un jazz club? Scommetto che avrebbe bisogno di un socio silenzioso.» «Silenzioso fino a che punto? Si riferisce anche al clarinetto?» Harvey si fermò al centro della conca. «Joe, crede che io sia sbronzo?» «Lo è?» «Il pi greco, fino al decimo decimale, è 3,1415926535. Un ubriaco saprebbe dirlo? «Lei l'ha appena detto.» «Ha ragione» mormorò Harvey ad Anna. «Nel Panhandle texano ci sono certi raduni religiosi dove la gente si rotola per terra e parla in ebraico, ittita e gallese. Altro che parlare il semplice alfabeto dell'algebra o il greco pasticciato della fisica! Ma... Joe, Joe, Joe, non voglio metterla nei pasticci.» «E come può mettermi nei pasticci?» «Avrei preferito tacere; ma volevo che capisse, se io sparirò. Perché è mio amico.» «Che cosa sta dicendo?» «Io lascio la Collina.» «Se ne va?» «Nessuno lo ricorda più, ma abbiamo incominciato questo progetto solo perché ne aveva uno anche Hitler, e non volevamo che potesse ricattarci con la sua bomba. E adesso risulta che non l'aveva mai fabbricata. Così diciamo che la useremo contro il Giappone, che non ha nessun progetto del genere.» «Un momento. Questo pomeriggio, nel Giardino Pensile, per poco non ci ha lasciato la pelle lavorando sulla bomba.» «Ero ancora indeciso. Pensavo di lasciare che fosse il Destino a scegliere per me.» «Be', è stata una scena eroica, fra lei e la cordite. Però continuo a non capire. Se i giapponesi avessero la bomba, non crede che ce la sgancerebbero sulla testa?» «Ma non l'hanno. Noi l'abbiamo, e dobbiamo compiere una scelta morale. Joe, non ho lasciato Amarillo per diventare un fisico con lo scopo di disintegrare centomila esseri umani. Quando Oppy venne alla Columbia e mi reclutò, si trattava di costruire una bomba perché Hitler non potesse usare
la sua. È solo per questo che mi sono impegnato; tutti noi ci siamo impegnati per questo e niente di più.» «Senza tener conto dell'Esercito, della Marina e dei Marines, però.» «La scelta morale...» «È un lusso dell'accidente. E i militari non hanno la possibilità di scelta.» «Ma come civile...» «Lei è un civile solo perché Oppy le ha ottenuto la proroga della chiamata alle armi in modo che potesse venire qui a fabbricare la bomba. Io sono suo amico e me ne rallegro per lei. Quindi fabbrichi la bomba e metta fine alla guerra. Il capitano Augustino andrebbe in estasi se potesse assistere a questo dialogo. Augustino la porterebbe via dalla Collina dentro il portabagagli d'una macchina.» «Sono pronto ad affrontare le conseguenze della mia decisione.» «Le conseguenze della sua decisione? Andiamo, Harvey! Ci sono uomini che muoiono su schifosi mucchi di sabbia in tutto il Pacifico. Ci sono uomini ammucchiati nelle stive delle navi in rotta per andare a invadere il Giappone. Io credo che saranno loro a subire le conseguenze della sua decisione. A chi altri l'ha detto?» «Soltanto a me» disse Anna. «E lei ha aiutato Harvey a decidere?» «Lo spero.» «Bene, nel portabagagli della macchina di Augustino dovrebbe esserci spazio per tutti e due. Buona fortuna» disse Joe, e si issò fuori dall'acqua. Raccolse in fretta l'uniforme, il cinturone e le scarpe. Non era quella, la notte idilliaca nella sorgente calda che aveva avuto in mente all'inizio. Per nulla. Harvey si erse nell'acqua con aria di sfida. «Ha intenzione di farci rapporto?» «No, ma lascerò a voi due genii il compito di trovare la strada per scendere da soli.» «Rimanga» implorò Harvey. «Sì, ci racconti altre affascinanti esperienze indiane» disse Anna. «Sollevi altre automobili. Suoni altri valzer.» Sulla strada per la Collina, alcuni cervi sfrecciarono davanti ai fari di Joe. Erano cinque o sei cervi-muli. Joe frenò e sbandò fino all'orlo prima di fermarsi. I fari inquadrarono il volo scarabocchiato delle falene, lo sfrecciare d'un succiacapre; e poi la luce si disperse nel lungo strapiombo fino
al fondo del canyon. Il mondo era pieno di vittime, e tutte erano troppo smaniose di trascinarti con loro. 11 La luce filtrava dalle imposte azzurre e tra la soglia e la porta. La casa era composta da due stanze, una cucina con una grande stufa a legna e una camera più ampia che serviva per tutto il resto. I muri di mattoni cotti erano imbiancati di caolino. C'erano una branda, un cassettone d'acero, un tavolo con il piano smaltato e le relative sedie, secchi impolverati, uno scatolone aperto contenente vasi e un camino d'angolo annerito e vuoto. Alle pareti c'erano un crocifisso, la Madonna, san Michele, san Cristoforo che guadava un fiume portando sulle spalle Gesù bambino, e fotografie di Rudy nell'abito della cresima, abbigliato di piume e sonagli per un ballo, in uniforme con il berretto. Joe aveva saputo che Rudy era morto. I B-17, a Clark Field, erano allineati in file e file con i serbatoi pieni quando erano arrivati i giapponesi. Ognuno dei bombardieri aveva causato l'esplosione di quello vicino; e l'ultimo B-17, nel tentativo di decollare, aveva investito in pieno una batteria contraerea prima di scoppiare. Non avevano ritrovato nessun cadavere. Joe stava seduto sul letto scomodo e fumava, usando un secchio come portacenere. Non alzava lo sguardo e si rendeva conto che lo faceva per timore che Dolores entrasse dalla cucina con uno strofinaccio in mano. E che Rudy apparisse ai piedi del letto piagnucolando perché voleva tirare di boxe. Era la prima volta che Joe tornava in quella casa dopo parecchi anni, ed era proprio squallida come l'aveva immaginata. Più piccola. Non c'era nulla di più claustrofobico del ricordo. Forse Rudy era ancora vivo. Nascosto nella giungla. In un campo di prigionia. In Giappone. Naturalmente Fuchs aveva ragione. Se la bomba avesse funzionato tutti i Rudy Peña del mondo sarebbero apparsi trascurabili in confronto a un Oppy, a un Harvey, allo stesso Fuchs. Era colpa di quello stramaledetto Harvey se Joe era tornato a casa. Il piccolo Harvey e il suo bisogno di approvazione. Perché andare a raccontare a un sergente che hai intenzione di piantarla con la guerra? Joe non era tornato alla Collina. Aveva comprato un paio di bottiglie in un bar e se n'era andato in cerca di qualche disgraziato coyote per fare il tiro a segno.
Aveva immaginato che si sarebbe svegliato in un motel di Esperanza, la cittadina spagnola che sorgeva di fronte a Santiago, dall'altra parte del fiume. Invece s'era svegliato proprio a Santiago, in quella casa. Almeno, una decisione l'aveva presa. L'avrebbe detto ad Augustino. Il capitano voleva sapere qualcosa sul conto di Anna Weiss, e Joe gliel'avrebbe detto. La casa respirava. O forse era il suono del suo respiro? Il kiva nel quale era caduto in quel giorno lontano non era più ossessivo di così. Si frugò in tasca per cercare un'altra sigaretta. La porta si spalancò. Una luce accecante riempì la stanza. Sulla soglia stava un fantasma. «Rudy?» «Chi è?» Joe si riparò gli occhi. «Sono la signora Quist. Joe? È lei?» Il fantasma entrò, divenne una minuscola signora che portava un tailleur bianco alla Lana Turner, turbante e occhiali da sole. «È l'ultima persona che immaginavo di trovare qui.» «Lo stesso vale anche per me.» Joe notò che aveva l'uniforme tutta gualcita e che c'erano mozziconi di sigaretta sparsi sul pavimento. «I vasi, Joe. Questa è sempre la mia prima tappa.» «Mi tolgo subito dai piedi.» Joe si alzò dal letto. Aveva ancora le scarpe. Appena ebbe finito di aprire lo scatolone di vasi sul tavolo per metterli a disposizione della signora Quist, uscì vacillando e raggiunse la pompa dell'acqua. La Hudson della signora Quist era parcheggiata a fianco della sua jeep. Il mattino era spuntato e se n'era andato. Intorno a Santiago salivano sottili colonne di fumo nero perché la calma del mezzogiorno era la più adatta per cuocere le ceramiche. Nel cortile dall'altra parte della strada Sophie Reyes curava un fuoco di pino, di cedro e di pezzi di assicelle ammucchiati intorno a un grande bidone per il latte pieno di vasi. Raccattò un pezzo di legno avvolto dalle fiamme e lo mise dove il fuoco appariva più stento. Quando un frammento di brace rotolava via, lo ributtava nel fuoco con una scopetta di steli di iucca. Teneva in mano una lastra di latta annerita dalla fuliggine per bloccare le brezze indesiderate. Faceva tutto nello stesso modo di Dolores. Dolores e Sophie erano state sorelle, e Sophie aveva lo stesso casco di capelli neri e grigi, indossava lo stesso abito tradizionale che lasciava scoperta una spalla, un grembiule macchiato e scarpe Montgomery Ward. Ben Reyes aprì la porta a zanzariera e uscì nel cortile. Non aveva la ca-
micia ma soltanto un panciotto, un gonnellino, i pantaloni e i mocassini. Di solito l'unico contributo che dava al lavoro di Sophie consisteva nello starsene seduto su una sedia e dividere le piume. Quel giorno invece confabulava con un altro vecchio barcollante che si appoggiava a un bastone. Joe pompò l'acqua, raccolse il getto nelle mani, si sciacquò la bocca e si ravviò i capelli con le dita. Il sole era a perpendicolo e le case di mattoni cotti a un solo piano sembravano ancora più basse. Le scale a pioli appoggiate ai tetti erano sbiancate e storte, e parevano reggersi in equilibrio sulla propria ombra. Il pueblo era un labirinto di stradette sterrate e vicoli, forni all'aperto, corrai e ramadas, e case che si distinguevano l'una dall'altra solo perché una aveva le finestre con l'intelaiatura azzurra, l'altra con l'intelaiatura verde. Le case dei Peña e dei Reyes erano alla periferia del pueblo, ma un vicolo diritto sfociava nella piazza e Joe poteva scorgere il cottonwood con le altalene fatte di vecchi copertoni. Guardò due bambini che attraversavano la piazza correndo, si arrampicavano su un tetto, raccoglievano tutto il loro coraggio con un respiro e balzavano su un tetto più basso. Joe ricordava quando anche lui spiccava quei salti inebrianti, e atterrava sollevando bucce secche e polvere di peperoncino. Santiago. Non aveva importanza che la sua vita da adulto l'avesse vissuta a New York o in giro per l'intero paese, Costa Orientale, Costa Occidentale, Messico e Francia. Prima della guerra era andato a Parigi con il Grande Capo Russell Moore, un suonatore di trombone che pesava poco meno di due quintali. Un Pima di Komatke, Arizona. Al Palais de Sport, Joe aveva fatto volare per tre volte dalle corde il campione francese dei pesi massimi, ma aveva comunque perso ai punti perché i francesi continuavano a ributtare sul ring il loro beniamino come se fosse un pesce troppo piccolo. Il Grande Capo aveva portato il trombone al Palais e ogni volta che la folla ributtava tra le corde il suo pugile suonava una lenta cadenza in crescendo. Quella notte Joe e il Grande Capo avevano bevuto assenzio in bicchieri da cognac in un café senza preoccuparsi minimamente per la guerra perché i francesi avevano un esercito più potente di quello tedesco. Tutto questo era accaduto sei anni prima. Adesso era rotolato come un sasso al punto di partenza. La cosa più strana era che la guerra aveva liberato moltissimi uomini di Santiago, portandoli lontani dai loro campi di fagioli, e aveva rimandato indietro l'unico che se n'era andato. I mulini degli Dei macinavamo lentamente e facevano un gran pasticcio. Il jazz era la liberazione. Joe era sempre stato un pugile che giocava di rimessa, e anche il bebop era così: un gancio per rispondere a un jab. Char-
lie Parker affermava di avere nelle vene un po' di sangue Cherokee o Cree. Tutti gli spogliatoi dei musicisti negri erano pieni di sedicenti indiani. E quelli erano gli indiani di Joe. Aprì gli occhi e si accorse che Ben e il suo amico si stavano avvicinando alla jeep. Si sollevò a sedere per assumere un vago atteggiamento di rispetto. Il compagno di Ben portava una tuta sporca e aveva le trecce e la coperta-mantello di cotone bianco d'un anziano di Taos; ma non era vecchio. Era soltanto cieco e aveva gli occhi chiusi e sprofondati nelle orbite. Tracoma, pensò Joe. Prima dei sulfamidici, il tracoma era stato molto diffuso nei pueblos. Ormai non si ammalava più nessuno, eccettuati i tradizionalisti intransigenti che non si degnavano di usare le medicine anglosassoni. «Sta arrivando la primavera, zio» disse Joe. «Sì, sta arrivando una bella primavera.» Con una smorfia, Ben fece le presentazioni. Il suo amico si chiamava Roberto. I tre uomini parlavano in tewa. Era la lingua di parecchi pueblos del Rio Grande ed era molto espressivo quando si trattava di descrivere la bellezza delle nuvole e della pioggia, dell'acqua e del mais. Il tewa era anche la lingua di un popolo che aveva vagato nel deserto tra dissidi e litigi. Nessun pueblo esisteva mai a lungo senza scindersi in due fazioni che nutrivano disprezzo o almeno diffidenza una per l'altra. Perciò il tewa era anche una lingua ricca di frasi e intonazioni di derisione e di sarcasmo. «È ancora freddo a Taos?» «Un po' più fresco.» La voce di Roberto era interrogativa, come se la usasse per esaminare un oggetto nuovo. «Vieni spesso a Taos?» Taos si credeva al culmine del mondo, magari un gradino al di sotto degli Hopi ma comunque molto vicino al paradiso. Joe pensò che per iniziare la giornata non aveva bisogno di un fanatico religioso, ma di un caffè o di una birra fresca. «Non ti ho visto da molto tempo, zio.» «Io ti ho visto in dicembre. Eri a caccia.» «Ben ha detto che l'altro cacciatore stava dando la caccia a te» disse Roberto. Joe ricordò la battuta in compagnia di Augustino e i due trappers uniti da una corda che erano usciti dai boschi nella luce dell'aurora. Ben e un cieco. «Grazie, zio. Non sapevo che fossi tu. Sei capitato al momento giusto.» «Ringrazia Roberto, non me. Non è stata una mia idea.» «Quell'uomo ti dava la caccia?» chiese Roberto. «Era impazzito?»
«Era un ufficiale. Volete fumare?» Joe cercò un pacchetto di sigarette ma aveva la tasca ancora vuota. «Prendi una delle mie.» Roberto protese nel vuoto una grossa sigaretta arrotolata a mano. «Grazie.» Joe la prese. Avevano sempre sapore di letame, pensò. Roberto se ne mise un'altra tra le labbra e Joe gliel'accese, poi accese la sua. «Ottima.» Joe tossì. «Viene da Taos.» Roberto si aggrappò alla fiancata della jeep. Aveva il naso lungo, da spagnolo. Le mani sembravano straordinariamente forti e le unghie erano incrostate di giallo. Dunque era così che si guadagnava da vivere, pensò Joe: impastando i mattoni a mano. Era un lavoro che poteva fare proprio un cieco fanatico. Con quel sistema Roberto non poteva produrre molti mattoni, ma quello che riusciva a fare era senz'altro di buona qualità. «Sappiamo quello che fate sulla Collina e vogliamo che la smettiate» disse Ben. Joe e Roberto non gli badarono. «Ho conosciuto tua madre» disse Roberto. «Ah si?» «Mi pare che tu fossi a New York. Era una madre del clan, no? Il Clan dell'Inverno?» «Tu sei del Clan dell'Inverno?» «Dell'Estate.» «Lei era dell'Inverno.» Cristo, in quella parte del pueblo erano tutti del Clan dell'Inverno. Poi Joe rammentò che Roberto era cieco. «Qui sono quasi tutti del Clan dell'Inverno.» «Noi vogliamo che tu e l'Esercito la smettiate» disse Ben. «Ecco, Ben» disse Joe, «non credo che abbiate capito quello che sta succedendo sulla Collina, ma se volete che smettano dovete dirlo a un generale, non a un sergente.» «Tua madre faceva vasi magnfici» disse Roberto. «Usava quell'argilla speciale.» «Sì, l'argilla bianca.» «Tu eri l'unico, oltre a lei, che sapesse dove la prendeva» disse Roberto a Joe. «Lei e Sophie.» «State fabbricando un veleno» disse Ben. «Ben» disse Joe a voce più bassa che poteva, «ricordi Pearl Harbor? Ba-
taan?» «Tu suoni il piano, mi disse tua madre» continuò Roberto. «E poi conobbi anche tuo fratello Rudy.» «Ti sto dicendo che dovete smetterla.» Joe si sforzò di dominarsi. «Dovresti andare a parlarne con Roosevelt, Ben. O magari ai ragazzi di Santiago che in questo momento sono lontani a combattere. O alle loro madri.» Ben sputò per terra davanti alla jeep. «Quando parlo con te mi viene in mente un verme. Il verme non ha orecchi e non ha pelle.» «Ecco, Ben, tutti conoscono e apprezzano il contributo che dai tu all'impegno bellico standotene seduto a dividere le piume e a scorreggiare.» «È stato un incontro piacevole» disse Roberto a Joe. Con il bastone da passeggio colpì lo stinco di Ben per individuarlo. «Torna pure quando vuoi» disse Joe. Ben si comportava come se ci fossero ancora moltissime cose da dire; ma Roberto lo abbrancò saldamente per il braccio e, nonostante la cecità, lo ricondusse dall'altra parte della strada, nel cortile di casa. Pazzesco. Prima Harvey e adesso Ben Reyes. «Le darò un dollaro l'uno.» La signora Quist era ferma sulla soglia e si scuoteva la polvere dal tailleur bianco. Era sempre venuta a Santiago dalla California Meridionale, fin da quando Joe era bambino. Un tempo era stata una donna visibile, ogni anno un poco più abbronzata. Adesso era imbacuccata come un'ustionata ambulante. La voce era nasale, come se fosse ustionata anch'essa. Joe scese dalla jeep e la seguì nella casa. Sul tavolo erano allineati cinque pezzi. Un vaso policromo con un serpente piumato che si mordeva la coda. Un piatto nero e lucido come il carbone ma perfettamente rotondo e decorato da un cerchio di cento piume tracciate finemente. Un vaso solcato come un melone e liscio come la pietra levigata. Un alto vaso nuziale con due eleganti colli gemelli. Un piccolo vasetto nero per semi, tondo come una palla, con un piccolo foro. «Questa casa è tutta in disordine. Se la vedesse Dolores...» La signora Quist sospirò infastidita e agitò una mano per allontanare la polvere. «Un dollaro l'uno?» «E ci rimetterò. Se fa il conto delle spese per il viaggio, i tagliandi della benzina, l'albergo, il vitto, la chiusura del negozio, è impossibile che ci guadagni qualcosa. E per via del razionamento della benzina è la prima volta che vengo qui in due anni. Comunque, io e Dolores avevamo un ac-
cordo.» «Ha detto un dollaro.» La signora Quist sistemò meticolosamente il vaso a melone in una scatola imbottita di carta di giornale e trucioli. «Non posso venderli a Santa Fe. Lì non ci sono turisti, soltanto soldati. I soldati comprano le cartoline, non i vasi. Probabilmente quando arriverò a Los Angeles qualcuno si sarà rotto, e così in effetti avrò pagato cinque dollari per due o tre vasi.» La signora Quist incartò il piatto e lo mise con delicatezza sul fondo di un'altra scatola, poi incartò anche il vaso policromo e lo posò sopra il piatto. «Forse non riuscirò a venderne neppure uno. La guerra ha cambiato tutto. I militari tornano dalla Francia e dall'Italia, hanno girato tutto il mondo. E quindi vorranno opere d'arte, vorranno fare collezioni di quadri di Picasso e di Monet, non di vasi indiani.» «Che peccato.» «Così va il mondo, Joe.» Joe non riusciva a vederle gli occhi attraverso le lenti scure. La bocca era un ovale tracciato con il rossetto. Era cresciuto con l'abitudine alle visite annuali della signora Quist e alle sue parole sentenziose. Non riusciva a ricordare se ci fosse mai stata un'annata buona per vendere i vasi. «Ormai quasi tutti i mercanti accettano soltanto merce in deposito, in realtà.» La signora Quist incartò con cura particolare il vaso nuziale. «Non le darebbero niente, capisce?» «Niente invece di cinque dollari?» La signora Quist mise nella scatola anche il vasetto tondo, poi posò i biglietti da un dollaro sul tavolo, nei punti dove prima stavano i vari pezzi. «Ecco.» Le banconote erano sgualcite. Una girò lentamente su se stessa. «Non li prende?» «Più tardi.» La brezza non era altro che un soffio d'aria calda penetrato nel fresco della casa. La banconota roteante si accostò al bordo del tavolo. «Be', sono soldi suoi, ne faccia un po' quello che crede.» «Oh, faccio soltanto quello che farebbe Dolores se fosse qui, signora Quist. Avrebbe ascoltato tutto quello che lei ha detto e avrebbe accettato un dollaro a vaso. Li vende a venti, venticinque dollari al pezzo, no? Ha sempre guadagnato parecchio alle spalle di Dolores. E Dolores lo sapeva. Io glielo dicevo sempre, ma si sentiva troppo imbarazzata per lei e quindi stava zitta. Era imbarazzata per la sua avidità. Però diceva che poteva
prendersi i vasi e quindi se li può prendere. Tranne questo.» Joe tolse il vasetto tondo dalla scatola. «Ecco, il suo dollaro è quello sul pavimento, e può raccattarlo se vuole.» Non aveva avuto l'intenzione di farle paura, ma la signora Quist indietreggiò come se stesse per picchiarla. «No? Allora l'aiuto.» Joe portò le scatole alla Hudson e le posò scrupolosamente sul sedile posteriore. Tenne aperta la portiera mentre la signora Quist si affrettava a mettersi al volante, girava la chiavetta e accendeva il motore. Gli occhiali da sole continuarono a tremare fino a quando lei ebbe ripreso fiato. «Joe, se fossi al suo posto, prenderei quel denaro e ripulirei la casa prima che Dolores la veda.» «Dolores è morta. È morta l'anno scorso.» Joe chiuse la portiera. «Credevo che lo sapesse.» Una Cadillac si stava infilando nel vicolo lungo la staccionata del cortile dei Reyes e Joe non prestò più attenzione alla signora Quist che si allontanava. La Cadillac era un coupé bianco tutto cromature, e manovrò come un aereo da caccia per avvicinarsi alla pompa. Il vetro si abbassò dalla parte del guidatore e un braccio esile e nero si sporse penzolando. Al mignolo scintillava un anello con un diamante. «Ehi, sei proprio tornato, Joe. Ieri sera ti ho cercato a Casa Mañana, ma non c'eri.» Pollack sfoggiò un gran sorriso e scosse la testa, per esprimere emozioni diverse nello stesso momento. «Qualcuno mi ha detto di aver visto la tua jeep qui davanti. Bene. È così bello tornare a casa.» Pollack aveva un subdolo sorriso d'avorio, il naso largo e una fronte piatta che s'incurvava tra i fitti capelli grigi e lasciava trasparire la cute nerobluastra. Quando parlava, le sue mani compivano quei movimenti svolazzanti che ricordavano a Joe i ventagli delle signore ai raduni evangelici; e quando si agitava, sembrava che gli occhi dovessero schizzargli dalle orbite. Indossava sempre una camicia di seta, durante il giorno, e la sera lo smoking. Nel complesso dava l'impressione di un gatto randagio che avesse raggiunto un'età veneranda. «È una gioia rivederti qui.» «E hai fatto tanta strada solo per questo?» «Ti cercavo. Lo sai che non posso salire su quella montagna misteriosa per vederti, e quindi devo agguantarti quando posso. Mi avresti fatto comodo, ieri sera. C'era un pianista che doveva essere tedesco. Sapeva suonare soltanto le polche. Per me era un prigioniero di guerra.» «Mi dispiace.» «Il club è anche tuo, lo sai.»
«Non te lo sentivo dire da molto tempo.» «Non hai diritto a una parte degli utili, è chiaro, solo perché tuo padre Mike non ci ha mai investito un soldo. Però eravamo soci. C'è il suo nome sui documenti. Aveva intenzione di versare una quota ma non ne ha mai avuto la possibilità. Mandavo sempre qualcosina a tua madre, lo sai? Non ero obbligato, però lo facevo. Che cosa stai fumando? Puzza di letame.» «Lo so.» Joe lasciò cadere a terra la sigaretta confezionata a mano e la calpestò. «Una cosa che ho imparato è essere sempre impeccabile. Una persona che sta sotto gli occhi del pubblico ha il dovere d'essere impeccabile.» Joe montò sul predellino. «Dove vuoi arrivare? Ieri sera non sono venuto a Casa Mañana. E con questo?» «La vendo.» Pollack sembrava soddisfatto dello stupore di Joe. «Casa Mañana?» «Già. Eddie junior sta per tornare dall'Italia. E così prenderò un simpatico nightclub ad Harlem.» «Che peccato. Voglio dire, sono contento per Eddie, ma Casa Mañana era il miglior nightclub dello Stato.» «L'unico dove si può ascoltare autentica musica da grande orchestra. Centomila dollari. Compresi la cucina, i tavoli e le sedie, i liquori e la relativa licenza, più il parcheggio, in pratica un intero isolato. Ad Albuquerque ci sarà un boom dopo la guerra, vedrai.» «E perché Eddie junior non viene qui?» «È cresciuto con sua madre e conosce soltanto New York.» Lo sguardo di Pollack era sperduto, assorto. «E l'Italia.» «L'Italia, già.» Pollack s'illuminò. «Un eroe come te. Un reduce. Non sarebbe magnifico se tu venissi a New York a suonare nel nostro nuovo club? C'è solo una cosetta, Joe. Una piccola formalità. Avrò bisogno della tua firma sui documenti, dato che sei l'erede di Mike.» «Il suo erede? E di che cosa? Io non possiedo una parte del club, l'hai detto tu.» «È una formalità.» «Che formalità? Come faccio a essere socio se non ho una parte?» «Ci sarà un riconoscimento per te.» «Quattrini?» «Un riconoscimento.» «Una somma sostanziosa?»
«Considerevole.» «Dimmi una cifra. Cento dollari sono una somma considerevole? Oppure mille? Prova a darmi un'idea.» «Non saprei dirlo.» «So dirtelo io. Posso mandarti all'aria il contratto di vendita?» «Joe, siamo amici. Siamo soci.» «Me ne accorgo adesso.» Joe scrutò la faccia sgomenta di Pollack e batté la mano sul tettuccio della macchina. «Al diavolo. Porta i documenti. Li firmerò. E senza bisogno di nessun "riconoscimento".» «Mi avevi fatto paura.» Pollack era ancora terreo. «Scusami. È che... oggi ho la luna storta.» «Be'...» Pollack non osò aggiungere altro. «Ti sei mai chiesto cosa stanno facendo su quella montagna misteriosa? Sulla Collina? Cosa penseresti se ti dicessi che stanno costruendo una macchina per provocare la fine del mondo? Per farlo saltare in aria?» «Ah, ho capito, stai scherzando.» Pollack avviò di nuovo il motore. Non vedeva l'ora di andarsene. «Sicuro.» «Bene. Adesso che abbiamo sistemato tutto, Joe, sarà meglio che vada. Mi fa piacere vedere che sei tornato a casa.» «Sicuro.» Pollack fece marcia indietro, girò, passò tra il cortile dei Reyes e lo steccato che serviva come confine per le latrine, i mucchi di concime, i campi di mais. Joe seguì con lo sguardo la Cadillac nei varchi tra muri di mattoni cotti, oltre il kiva del Winter Squash, sulla piazza e sotto il cottonwood. Si voltò a guardare la strada sterrata fra le latrine e le case. Prima non aveva notato che la Hudson della signora Quist si era fermata a metà strada contro un cactus cholla. La portiera era aperta e Joe vide che si copriva la faccia con le mani, ma si accorse che piangeva solo quando gli occhiali scuri caddero a terra. Quando lei si chinò per riprenderli, per poco non cadde a sua volta. Era incredibile. La signora Quist aveva sempre derubato Dolores; per anni le aveva pagato un dollaro o cinquanta cents per ogni vaso, un ventesimo di quello che poteva ricavare a Santa Fe o a Los Angeles. Quando Joe pensava a tutto ciò che aveva guadagnato sulla pelle di Dolores... Era un rapporto predatorio. Era come vedere un gatto piangere per un topolino. Pazzesco. Entrò in casa. Sul tavolo c'era il vasetto nero, una luna scura con un foro
grande come un seme. Nell'aria, liberata dai giornali, c'era la polvere dei vasi, l'odore d'amido dell'argilla secca e il sentore schiacciante del ricordo. Dolores era lì, sulla sedia accanto al tavolo; gli sarebbe bastato alzare gli occhi per vederla. Era una donna minuta, con i lineamenti fini, la pelle priva di rughe e una concentrazione totale. Le sue mani lavoravano in fretta, muovevano sopra il vaso la pietra per levigare. Partiva dal fondo e tracciava una linea diritta fino all'orlo, e poi un'altra, e un'altra ancora, esercitando appena la pressione sufficiente perché l'argilla fiorisse più luminosa, fino a quando la superficie del vaso era segnata da centinaia di linee come l'iride di un occhio; e poi le due dita passavano di nuovo sul vaso, seguendo le costolature infinitesimali tra solco e solco. Joe non capiva cosa stava dicendo, ma sentiva il suono musicale della sua voce. Si appoggiò con la schiena al muro e restò a osservare. Dolores non c'era. C'era soltanto il pulviscolo che turbinava lentamente nel fascio di luce sopra il tavolo, la sedia e il vasetto, l'ultimo ed unico pezzo che gli fosse rimasto di tutta l'opera di sua madre. Lo prese e uscì correndo. La Hudson era sparita. Lungo la fila delle latrine e degli steccati stava arrivando una jeep. Al volante c'era il sergente Shapiro, e accanto a lui c'era il caporale Gruber. Gli MP avevano gli elmetti, le pistole e gli sfollagente, e quindi erano in servizio. Erano due tipi da sollevatori di pesi, e respiravano attraverso la bocca. Gruber aveva una faccia tozza, di ceramica, e Shapiro il mento molle e bluastro. Aveva il volto contratto da qualcosa di molto simile alla passione o alla disperazione. Joe non li aveva mai visti nella riserva, prima di quel giorno. La jeep si fermò davanti a lui. Gruber aveva un'aria schifata. Shapiro stentava a trovare le parole. «Capo, mi hai visto l'altro giorno?» «Quando?» Joe sbirciava ancora intorno per cercare la Hudson della signora Quist. «Quando ero di pattuglia. Conducevo il mio cavallo al passo.» «No.» Joe si decise a badargli. «È stato il giorno che hanno rubato l'esplosivo ad alto potenziale nel Giardino Pensile. Non mi hai visto di pattuglia?» «Che giorno era?» «È stato già abbastanza brutto che avessero rubato nel bunker. Ma poi Augustino mi ha visto. Il capitano Augustino ha detto che se non imparo ad andare a cavallo finisco in fanteria, e lui farà in modo che mi mandino nel Pacifico. Ha detto che sarò a bordo del primo fottuto mezzo da sbarco
che toccherà il Giappone.» «Sarà il primo stronzo che finirà in acqua, ha detto il capitano» lo corresse Gruber. «Hai insegnato al dottor Oppenheimer ad andare a cavallo, puoi insegnarlo anche a me» disse Shapiro a Joe. «Domani è domenica. La mia vita è nelle tue mani.» «Domani devo lavorare.» «Capo, non dovrai pentirtene. Chiedimi tutto quello che vuoi. Vedrai.» «Forse nel pomeriggio.» La Hudson non aveva ancora attraversato la piazza. Sembrava che fosse sparita, come se la signora Quist fosse andata in paradiso per comprare direttamente da Dolores. 12 Domenica mattina. Mentre Oppy era a Washington, Joe fu assegnato ai laboratori di Two Mile Mesa. Erano edifici tutti lustri e pervasi da un senso generale di panico a causa dell'imminenza dell'esperimento Trinity. Nel capannone della fonderia le impastatrici commerciali per caramelle dove venivano fusi gli esplosivi ad alto potenziale si erano rotte e le pale erano intasate da una densa poltiglia scura di Baratol, un derivato del tritolo. Una volta fusi, i cunei di esplosivo da 90 chili venivano trasportati su carrelli rossi Radio Flyer ideati per i bambini. Quando un asse cedeva tutti sussultavano. I furgoncini di ricambio erano tenuti in un magazzino riservato al materiale impossibile da riparare. Oltre alla scarsità dei carrelli, c'era quella della vernice Top Bar. Per impedire che si scheggiassero, le forme fuse venivano sempre ricoperte da una mano di vernice, perché non c'era nulla di più fragile dell'esplosivo. Le forme grezze venivano rifinite con seghe di bronzo per ridurre al minimo le scintille. Joe innaffiava una forma con una pompa mentre un meccanico tagliava con estrema delicatezza i rilievi lasciati dallo stampo. Tutti e due notarono la scintilla nello stesso attimo. Joe innaffiò furiosamente la forma fino a quando ebbe la certezza che la scintilla lanciata da un unico cristallo di Baratol non si era propagata. Il meccanico era fradicio di sudore. «C'è una cosa che mi piace in questo lavoro» confidò a Joe. «Anche se mi piscio nei calzoni non se ne accorge nessuno.» Pomeriggio. Un canyon di basalto sovrastato da cedri. Laggiù un corso d'acqua, muschio, violette e un unico salice apache. Joe guardava Shapiro
che si teneva ansiosamente in equilibrio su una cavalla di dodici anni, Dixie. «Così va molto meglio» disse Joe, e girò intorno alla cavalla e al cavaliere. «Il segreto è che Dixie non cadrà nel precipizio. Segue il cavallo che le sta davanti. Non devi mai andare per primo né per ultimo. Dixie è la cavalla più stupida e più lenta che ci sia nelle scuderie degli MP. D'ora in poi sarà tutta tua. Tu sei la sua soma. Non devi far altro che comportarti come un sacco.» Shapiro aggrottò la fronte. «Ma Oppenheimer, con il suo cavallo, galoppa e salta.» «Il suo cavallo si chiama Crisis. Hai voglia di montare un cavallo con un nome simile? Fatti amica Dixie. Portale carote, mele, zollette di zucchero tutti i giorni.» Shapiro si rilassò sulla sella con un po' più di sicurezza. «A Brooklyn mio fratello allevava piccioni» disse. Joe immaginò Shapiro in una piccionaia, su un tetto, con le mani sporche di piume e di sangue. «Benissimo. Adesso fai amicizia con Dixie nello stesso modo.» Lassù in alto i cedri erano una galleria di profili ritagliati contro il cielo. Joe ebbe l'impressione di scorgere qualcosa che li osservava dall'alto. Forse era un corvo. «Capo, vuoi farmi un vero, grosso favore? Aiutami a battermi. Hai visto Ray Stingo battersi con quel ragazzo texano?» «Sicuro.» «Devo battermi con il ragazzo.» «Ti ammazzerà.» «È mancino.» La voce di Shapiro aveva un tono tormentato, come se stesse parlando d'una malattia incurabile. «La prima cosa che ho imparato sul ring è stato schivare il jab e centrare con un diretto. Ma così mi porto dritto dritto incontro al cross d'un mancino. Non lo vedo neppure arrivare.» «Forse hai qualche possibilità.» «C'è sotto Augustino. Lui scommette sul ragazzo. Quei fottuti texani fanno sempre lega tra di loro.» «Smonta.» «Ti sono molto grato, capo.» Shapiro smontò. Si tolsero i berretti, le bandoliere e le calibro 45 e si piazzarono in posizione.
Joe allungò in avanti il piede destro come se fosse un pugile mancino. «La mano destra è troppo bassa. Così va meglio. Fammi vedere come ti muovi.» Allungò un jab lento, a mano aperta, per osservare la reazione di Shapiro. «Non muoverti così. Schiva e spostati sulla tua sinistra. Tieni alta la mano destra. Ancora. Adesso un gancio sinistro.» Shapiro si avventò, pompando con le mani come una mungitrice impazzita. Joe allungò un altro jab al rallentatore. «Schiva, muoviti e tira un gancio.» Ricevette sul braccio il gancio di Shapiro. Il muschio era elastico, screziato dal sole che filtrava tra le fronde del salice. «Credi che abbia qualche possibilità, capo?» «Vediamo.» Joe tirò un jab destro più veloce e toccò il mento di Shapiro. Istintivamente l'MP si spostò sulla destra, e incontrò una sberla della sinistra di Joe. Joe evitò un paio di jabs di Shapiro, poi gli toccò di nuovo il mento e la guancia. Appena vedeva arrivare un colpo, Shapiro ripiombava nella vecchia abitudine e si muoveva in senso antiorario, incontro a un'altra sberla. Joe bloccò due ganci, schivò un jab e colpì di nuovo Shapiro. La guancia destra dell'MP non era più bluastra: era arrossata. «Lascia perdere.» Joe afferrò i polsi di Shapiro. «Lasciar perdere?» Shapiro gonfiò i muscoli, esasperato. «Non puoi farcela. Mi dispiace.» «Aiutami.» «Quante riprese sono?» «Sei.» «Il ragazzo, in sostanza, è un dilettante. Con ogni probabilità non ha mai sostenuto più di tre riprese. Ho sentito che stende tutti gli avversari in due.» «È vero.» «E quindi, se ce la fai ad arrivare al quarto round, il ragazzo sarà sfiatato. Sai contare fino a quattro? Bene. E allora non muoverti a sinistra, non muoverti a destra, non muoverti all'indietro perché non sei abbastanza svelto. Semplicemente, muoviti in avanti e dacci sotto. Ti colpirà, ma puoi reggere. Poi bloccalo. Su, afferrami il braccio. Appoggiati con tutto il tuo peso, strattonalo. Così stanchi i muscoli delle spalle. Continua a darci sotto.» Joe indietreggiò, guizzando prima da un lato e poi dall'altro. «Tre riprese sono nove minuti. Se lo avvinghi per otto minuti, lui potrà massacrarti per un minuto solo. Quando lo abbranchi, non dargli testate. Hai le cicatrici sulle arcate sopraccigliari, come me. Ti taglieresti prima di lui.
Fatti sotto, fatti sotto.» Joe era disgustato con se stesso perché trovava soddisfazione nel rivolo di sudore che gli scorreva sulle costole, nella concentrazione, nei movimenti danzanti del pugilato. Schivò un ramo, evitò un jab. Quando Shapiro si fermò, Joe fece un gesto per invitarlo a continuare. «Avanti, stupido, muoviti.» Shapiro stava guardando alle spalle di Joe. Joe si voltò e vide qualcuno che stava all'esterno dell'ombra del salice. Dovette socchiudere gli occhi perché lei era una figura buia contro il sole. «Klaus è andato a scalare una montagna» disse lei. «Era molto noioso starlo a guardare, e così me ne sono andata.» Per vederla bene, Joe dovette guardarla incominciando dai contorni dell'immagine. La camicia bianca a maniche corte e i calzoni illuminati controluce. I capelli tagliati alla paggio, lisci e neri come l'inchiostro. Gli occhi grigi che lo studiavano. Non portava rossetto. Le labbra tumide avevano la stessa espressione che avrebbero assunto se lei si fosse fermata a guardare la fossa degli orsi allo zoo. «Il capo mi stava insegnando ad andare a cavallo» disse Shapiro. «Un vecchio metodo indiano?» chiese Anna Weiss a Joe. Il sole incandescente le passò dal colletto al lobo d'un orecchio, a una guancia. «Almeno, con il metodo indiano non si annoia nessuno.» disse Joe. Gli scriccioli si lanciavano a capofitto verso l'orlo del canyon, verso i nidi. Molto più in basso e più indietro, Shapiro era avviato tutto solo nella direzione opposta e lasciava che la cavalla seguisse il corso d'acqua fino alla Collina. «Le avevo spiegato» disse Joe, «che una parte del territorio, qui, è ancora utilizzata dalla gente del posto. Che montagna è andato a scalare?» «Non era tanto una montagna quanto la valle vicina.» «Un canyon?» «L'ho dimenticato. Qui non avete valli, ma soltanto canyon. E burroni.» Lassù, oltre la frangia dei cedri, si estendevano le Jemez Mountains. Vette circondate dai pini, e la catena che si addolciva a sud e ingigantiva a nord come un'onda oceanica. Anna si voltò, esilarata dalla salita, per guardare i prati montani sontuosamente colorati dalla porpora dei gigli mariposa. Si voltò come fanno i bambini, pensò Joe, come se il mondo ruotasse intorno a lei. «Si ha l'impressione di poter vedere il mondo da quassù» disse lei. «Ma
per fortuna non è possibile.» «Tornerà a Chicago?» «Molto presto.» Quando Joe le passò davanti, Anna chiese: «Non dovrebbe lasciare la precedenza alle signore?». «Ci sono i serpenti a sonagli.» Joe indicò con un cenno le rocce sparse lungo il sentiero. Anna lo seguì. «Dunque, sergente, queste montagne sono casa sua.» «Sì, secondo l'Esercito.» «L'Esercito non le piace.» «Non piace a nessuno che abbia la testa sulle spalle.» «Questa non è una risposta. Mi sembra che il capitano Augustino ami l'Esercito.» «Stia alla larga dal capitano Augustino.» «Gli ha detto di Harvey?» Al capitano interessi tu, non Harvey, pensò Joe. «Non c'era niente da dire.» «Mi parli della signora Augustino» disse Anna. «La signora Augustino ha lasciato la Collina da mesi.» «E in gran fretta, a quanto raccontano.» Si fermarono. Anna Weiss sembrava scrutarlo come se fosse infilzato contro il cielo da uno spillo. «Cos'altro raccontano?» chiese Joe. «Dicono che lei abbia un debole per le mogli degli ufficiali.» «Per le donne.» «Pensa che io sia indiscreta, sergente?» «No, penso che sia interessata.» Il vento le sollevò una punta del colletto e le soffiò contro i capelli. «Forse faremmo meglio a cercare il dottor Fuchs» disse lei. Il sentiero scendeva in un canyon alimentato da una sorgente, dove l'acqua aveva scavato tra gli strati di pomice, arenaria rosa, calcare. Sul fondo del canyon crescevano i sambuchi, e sui fianchi i pini ponderosa. Moltissimi pini delle Jemez Mountains erano stati abbattuti per ricavarne legname, ma non in quel canyon. I ponderosa avevano la corteccia d'un arancione scuro, a scaglie romboidali, ed erano secolari. Nelle pareti di pietra tenera al di sopra delle chiome degli alberi facevano il nido ghiandaie e martin pescatori. Nel tratto più alto e meno accessibile spiccavano gli appigli e le ombre delle cenge. «È qui che Fuchs è andato ad arrampicarsi?»
Lei annuì. «Era molto noioso.» Joe staccò una penna di corvo da un rametto. La penna gli lasciò una sbavatura grigia sulle dita. «Adesso potrebbe essere divertente.» Alla base della parete, dietro una macchia di pini, c'era una rozza scala a pioli costellata di altre piume. Joe disse ad Anna di restare a terra. Salì la scala. Aveva incominciato ad arrampicarsi aggrappandosi agli anfratti della pietra quando sentì che lei lo seguiva. «Perché dovrei perdermi il divertimento?» chiese Anna. I pini ondeggiavano e gli sfioravano la schiena. A una ventina di metri d'altezza superò le cime degli alberi e raggiunse un cornicione di roccia largo tre metri e profondo più di quattro, intagliato nel tufo friabile. Il tetto basso e il fondo erano anneriti di fuliggine frammista a piume. Lì stavano seduti due uomini, uno di fronte all'altro: Klaus Fuchs, con la camicia strappata e sporca, e Roberto, il cieco di Taos. «Gott sei Dank, Du bist hier» disse Fuchs nel vedere Anna. «Sono io, Joe Peña» disse Joe a Roberto. «Ti ho sentito arrivare » disse Roberto. I lunghi capelli di Roberto erano sciolti. Aveva la coperta sulle spalle, e solo quando Joe ebbe aiutato Anna a salire si accorse che Roberto teneva imbracciata una doppietta Marlin con la canna saldamente puntata contro l'inguine di Fuchs. «Non disturbiamo, vero?» chiese Joe. «No, tu no» gli assicurò Roberto. «Sono ospite del governo americano, mi trovo in territorio americano sotto la protezione americana, sì o no?» chiese Fuchs. Fuchs aveva il collo coperto da segni di ditate. C'era stata una lotta. Aveva i capelli ritti per la paura. In un angolo del cornicione erano ammucchiati idoli di legno avvolti in penne rosse e cuoio dipinto. Nella roccia, sotto uno strato di fuliggine, erano intagliate figure spettrali, serpenti che si mordevano la coda, folgori disegnate come stecchi. «Alcune parti di quest'area, in particolare questo canyon, sono riservate alla popolazione locale perché possa continuare i riti della sua religione» disse Joe. «Vuol dire gli indiani» disse Fuchs. «La popolazione locale sono loro.» «Vuol dire...» «Basta.» Roberto premette con la canna del fucile, senza furia, giusto
quanto era sufficiente perché Fuchs si piegasse su se stesso. «Era quassù quando siamo arrivati, Joe.» Joe immaginava la scena. Fuchs era stato scoperto probabilmente da una dozzina di sacerdoti, tra i quali doveva esserci anche Ben Reyes. Era inconsueto ma non inaudito che qualcuno di Taos partecipasse a una cerimonia dei Santiago. Moltissimi uomini facevano parte del servizio religioso. I sacerdoti andavano e venivano tra i pueblo solo per tenere in vita gli antichi rituali. Sul cornicione dovevano esserci stati gli altari che Ben e gli altri avevano portato via. Ben sarebbe tornato. E senza dubbio Roberto e Fuchs non sarebbero andati da nessuna parte. Joe cercò di muoversi e dovette incurvarsi sotto il tetto basso. Se Roberto avesse sparato sarebbe stato un disastro. Il cieco era stato proprio furbo a scegliere uno spazio molto limitato e un'arma a doppia canna. «Perché non lasciamo scendere la signora?» suggerì Joe. «Così corre a cercare aiuto?» disse Roberto. «Posso sedermi?» chiese Anna. «Sì.» Roberto sembrava soddisfatto. Si passò il fucile da un braccio all'altro e le porse la coperta. «Grazie.» Anna stese la coperta e sedette. «Anche tu, Joe» disse Roberto. «Grazie.» Joe obbedì. «È come un picnic» Roberto inclinò il viso verso Anna. Indossava una camicia bianca e calzoni da lavoro. La camicia era abbottonata al collo e ai polsi e lasciava appena intravedere i fregi tracciati sulla pelle con il colore grigio. Gli occhi chiusi erano leggermente incavati. A parte questo era un uomo più bello di quanto fosse parso a Joe a prima vista. La calibro 45 di Joe era in una fondina a scatto. Si chiese quanto poteva essere acuto l'udito di Roberto. «Fa caldo.» Joe notò che il fucile non aveva la sicura. «Sarà un'estate secca» disse Roberto «Io ho ancora una parte d'un campo di fagioli, giù nel pueblo. Credi che i fagioli cresceranno bene?» «È un anno brutto per la pioggia» disse Roberto. «Un anno buono per i fulmini.» «È cieco» bisbigliò Fuchs. «Questo cosa c'entra con il tempo?» chiese Joe. Dietro le lenti, gli occhi chiari di Fuchs erano fissi sulla pistola che Joe portava alla cintura. Joe prese le sigarette. «Vuoi fumare? Sono in debito con te.»
Roberto annuì. «Quello è pazzo» sibilò Fuchs. «E quello è una spia» disse Roberto a Joe. Joe rovesciò il pacchetto per estrarre le ultime sigarette. «Mi dispiace, ne ho appena tre» disse a Fuchs. Le accese tutte e tre e ne passò due ad Anna, che ne mise una tra le labbra di Roberto. Roberto aspirò il fumo e sorrise. «Capisco che è carina. Si sente, quando una donna è carina.» «A me non sembra affatto pazzo» disse Anna a Fuchs. «Non sei divertente» Fuchs fissò la canna del fucile che gli premeva tra le gambe. «È tedesca anche lei?» chiese Roberto ad Anna. «Mi piace il suo accento.» «Preferirei perderlo» disse lei. «Studi Billie Holiday. Si procuri i suoi dischi» disse Joe. Poi si rivolse a Fuchs: «Un po' di Fats Waller le sarebbe molto utile. Stava spiando?». «Ci provava» disse Roberto. «Non spiavo. Sono capitato qui per caso.» «Si è scusato?» chiese Joe. Fuchs sbuffò. In maggioranza i sacerdoti erano vecchi, e avevano dovuto portar via in fretta altari, bastoni da preghiera, pietre, feticci... un carico notevole da calare da uno strapiombo. Rispettosamente, Joe tacque per qualche attimo prima di continuare: «Be', costui è un ignorante, Roberto. Che cosa vuoi fare di lui?». «Sparargli.» «Buon Dio» mormorò Fuchs. «È un'idea» ammise Joe. «Buon Dio» ripeté Fuchs. «È religioso?» gli chiese Roberto. «Suo padre era un ecclesiastico» rispose Anna. «Mormone?» chiese Roberto. «Qui abbiamo molti mormoni.» «Luterano» disse Fuchs. «È interessante. Non pensi che sia interessante, Roberto?» chiese Joe. «Se è un missionario è anche peggio» disse Roberto. «Questo è vero» riconobbe Joe. «Io sono uno scienziato» disse Fuchs in tono implorante. «Non credo in Dio.»
«Deve ammettere che c'è una certa contraddizione fra le cose che dice da un momento all'altro» osservò Joe rivolgendosi a Fuchs. «È un vero peccato che non creda in Dio, perché ci sarebbe un modo di cavarsela. Potrebbe aderire al culto.» «Aderire al culto?» chiese Fuchs. «È così che tanti diventano sacerdoti» spiegò Joe. «Se per caso si imbattono in una cerimonia, devono entrare a far parte del culto. Così non ne riveleranno mai i segreti.» «È come il partito comunista» disse Anna. «Non si può paragonare il partito a un branco di stregoni indiani che ululano su una cengia» ribatté Fuchs. «E dove ulula il partito?» chiese Joe. «Questo non c'entra.» «Com'è suscettibile.» «Perché spiavi gli indiani?» chiese Anna. «E tu, perché ti schieri con questi ignoranti? Perché stai con gli indiani? Perché siete tutti contro di me?» chiese Fuchs. Uno spruzzo di saliva volò verso Roberto. «Stupido cieco! Non avrà il coraggio di premere il grilletto.» Da qualche minuto Joe s'era convinto che Roberto non avrebbe sparato, e quindi restò come paralizzato quando l'indice di Roberto premette il grilletto. Il cane si sollevò, scattò, lanciò un clic metallico lungo la canna vuota, fino al basso ventre di Fuchs. La faccia del fisico diventò di colpo verde e molle come stucco, e il suo primo respiro fu un gemito. «Affascinante» disse Anna. Fuchs gemette in toni più profondi, come un violoncello. Roberto aprì il fucile. La prima canna era vuota, ma nella seconda c'era l'occhio d'ottone di una cartuccia inesplosa. Roberto estrasse la cartuccia, cercò a tentoni la camicia di Fuchs e ve la lasciò cadere all'interno. «Roberto.» Joe scosse la testa. «Così diventerà più religioso o più educato, credo» disse Roberto. Per un momento Joe pensò di buttare il fucile nel vuoto. Ma per acquistarne uno nuovo da Ward's il proprietario avrebbe dovuto spendere dodici o tredici dollari. «Hai altre cartucce?» chiese a Roberto. «No.» «Torneranno a prenderti?» «Sicuro.» Roberto era soddisfatto come se avesse appena terminato di
offrire un ricevimento. «È meglio che ve ne andiate prima che arrivino.» «Sicuro.» «È stato un piacere conoscerla» disse Roberto ad Anna. «Conto di rivedere lei e Joe.» «È possibile.» «Bene.» Roberto tese il braccio verso Fuchs. «Ma lui non conducetelo con voi.» Joe dovette caricarsi Fuchs sulle spalle, come un vigile del fuoco, per portarlo giù dalla parete del canyon. Quando arrivarono finalmente sul fondo, Fuchs corse tra i pini, reprimendo a stento i conati di nausea e sganciandosi la cintura. Anna lo guardò sparire. «Questo è un altro pianeta.» «New Mexico.» Joe cercò a tentoni le sigarette e poi ricordò che aveva fumato l'ultima sulla cengia. «Se avesse premuto l'altro grilletto avrebbe ucciso Klaus.» «Se avesse voluto uccidere Klaus l'avrebbe fatto prima che arrivassimo.» «Lo pensavo anch'io, ma poi...» Anna sorrise. «Roberto è pazzo o non lo è? Eravamo noi ad assecondare lui, oppure lui ad assecondare noi?» «Roberto sa quello che fa.» Joe trasse un profondo respiro e alzò gli occhi verso le lontane cime convergenti dei pini ponderosa. Sul ramo più alto uno scoiattolo si dondolava contro il cielo. Forse era cieco. Forse gli altri scoiattoli sarebbero tornati a prenderlo. «Dicono tutti che lei è così violento, Joe. Ma non lo sembra.» A Joe piaceva il modo in cui Anna impastava insieme le parole: l'accento era sinuoso nella sua bocca, vivo e caldo sotto la superficie fredda. Era la prima volta che lei aveva pronunciato il suo nome, e gli piaceva l'esplosione della J. «Io non sparo ai ciechi.» «Comunque la sua aureola di violenza deve attirare certe donne.» «Sicuro. Prima le sbatto e poi le scalpo.» Joe sospirò. «A volte viceversa.» Anna batté le mani e rise. «Ah, Joe, che selvaggio!» Intorno a loro i rami di ginepro ondeggiavano sotto il peso del vischio. Fuchs, con la camicia macchiata e puzzolente, era rimasto molto indietro. «Oppy era allievo di mio padre a Göttingen. In Germania» disse Anna. «Viveva praticamente in casa nostra. Credevamo che avrebbe sposato la mia sorella maggiore, Emma. Mio padre era preoccupato perché tutti pen-
savano che Oppy avrebbe abbandonato la fisica per la poesia. In Germania era molto tedesco, tranne quando parlava del New Mexico.» «Parlava del New Mexico in Germania?» Joe era sorpreso. «Con mio padre discuteva di fisica, con Emma di poesia, filosofia, psicologia. Con me parlava degli indiani selvaggi. Credo che io fossi la più fortunata.» «Oppy ama parlare.» «Roberto è uno stregone?» «Un sacerdote.» «Lei crede nella medicina indiana?» «Quelle assurdità? No, io credo che Cristo sia morto e sia risorto dopo tre giorni e sia asceso in cielo come un B-19. Ma qui intorno ci sono tante tradizioni indiane. Come Roberto, oggi, come il kiva di cui le avevo parlato.» «Quand'ero ragazzina credevo che se avessi mangiato un gamberetto sarei diventata impura agli occhi di Dio. Una volta mangiai un'aragosta, e mi convinsi che sarei morta durante la notte.» Joe non riusciva a immaginare che Anna potesse aver paura. Con Roberto, lui si era spaventato; Anna no. «E in cosa crede Oppy, secondo lei?» «Be', non è un ebreo molto ortodosso» disse Joe. «Aggira la questione religiosa facendo l'induista. Secondo me, crede veramente nella scienza. È convinto che la scienza possa salvare il mondo. Se ogni scienziato fosse in gamba come Oppy, forse sarei d'accordo.» «È molto in gamba?» «Il migliore.» Erano arrivati all'inizio del pendio che si affacciava su Los Alamos. Gli abeti scuri fiancheggiavano un ripido prato costellato di pioppi che scendeva il fianco della montagna come un raggio di luce. «Ne ho abbastanza degli indiani e delle guide.» Fuchs li raggiunse. «Quello che voglio sapere, sergente, è cosa ha intenzione di fare di quel pazzo che ha cercato di uccidermi.» «Si è limitato a minacciarla.» «Ha tentato di uccidermi mentre lei stava lì senza far niente.» Fuchs si alzò sulla punta dei piedi. «Non c'è motivo di sollevare un vespaio con il pueblo. Perché non dimentichiamo tutto?» «Dimenticarlo? Voglio che lei lo denunci. Sa chi è: lo ha chiamato per
nome. E lui la conosceva.» «Se lo denuncia...» incominciò Joe. «No. Deve denunciarlo lei, sergente» disse Fuchs. «Lei.» Joe aveva deciso di non parlare di Anna Weiss e di evitare Augustino finché poteva. E adesso avrebbe dovuto andare a parlare ad Augustino d'uno stregone? «Lo farebbe?» chiese Anna Weiss. «Se il dottor Fuchs insiste, dovrò riferire l'episodio.» «E manderà in prigione il suo amico?» «Non sta a me decidere» Joe aveva la sensazione di indietreggiare. Roberto non era un amico. Fino a due giorni prima non lo conosceva neppure. «E a chi spetta decidere?» chiese Anna. «All'ufficiale responsabile della sicurezza.» «Il capitano Augustino?» «Sì.» «Ah.» Fuchs si assestò gli occhiali. «Dopo tutte le sue chiacchiere, adesso vediamo che specie di indiano è veramente.» «Non appena ne avrò parlato ad Augustino la faccenda sarà di competenza dell'Esercito» tentò di spiegare Joe ad Anna. «Te l'avevo detto.» Anche Fuchs si rivolse a lei. «Ti avevo avvertita: è lo scagnozzo del capitano Augustino. Bene, sergente, faccia quello che le ho detto.» Fuchs indietreggiò e incominciò a scendere, incespicando nell'erba secca. «Non so che cosa sperassi.» Anna Weiss socchiuse le palpebre come se cercasse di scorgere qualcosa in lontananza. Gli occhi erano grigi con gli orli neri, come carbonizzati. «Il mondo è pieno di gente che prende ordini.» «È un posto dell'Esercito. Molto semplice.» «Ha ragione. Ero sciocca a pensare che fosse diverso.» «Io sono soltanto un sergente.» «L'uomo del capitano Augustino. E l'uomo della signora Augustino. Tante cose, ma non molto indiane.» Anna alzò lo sguardo verso Joe. «La risposta alla sua domanda è: "No, non m'interessa".» Si avviò per seguire Fuchs. Mentre guardava scendere quella figura bianca che passava da un pioppo tremulo all'altro, Joe avrebbe voluto chiamarla come se le parole avessero il potere di raggiungerla e di fermarla. Ma le parole gli mancavano. Lì, sulla cima della sua montagna, era muto come un animale acceso di desiderio.
Augustino non era al comando e non era nella Tech Area. Allo spaccio, Joe sentì dire che il capitano era stato visto in macchina su Bathtub Row. In Bathtub Row non c'era nulla, tranne le lunghe ombre del pomeriggio. Non c'erano cameriere che appendevano il bucato ad asciugare o facevano passeggiare i bambini. Non c'era alcun suono, tranne i versi delle ghiandaie e le grida dei giocatori di softball sul campo sportivo. Mentre passava davanti al cottage di Fermi e alla casa di pietra di Jaworski, Joe ricordò che al cinema davano Biancaneve e i sette nani. Tutti quelli che avevano bambini, compresa Kitty Oppenheimer, erano andati a vederlo. In fondo a Bathtub Row, un giardino pieno di pioppi e di abeti proteggeva l'intimità del cottage degli Oppenheimer. Augustino stava uscendo dalla porta della cucina, e nel modo in cui si muoveva c'era qualcosa che indusse Joe a fermarsi per osservarlo. Augustino teneva in mano un rotolo di filo metallico bianco, più sottile del cavo elettrico che veniva usato sulla Collina. Uscì dal cancelletto posteriore del giardino e s'insinuò fra gli alberi. In mezzo all'aiuola c'era ancora un monopattino. Sembrava inchiodato sul posto dalla ruggine, e i fiori erano spioventi, morti. Joe bussò leggermente alla porta. Non era chiusa a chiave. Le finestre del soggiorno lasciavano entrare la luce del sole che si rispecchiava sul pavimento di legno lucido e sulle pareti di pietra imbiancate a calce. I mobili erano di stile spagnolo rustico e di rattan. C'era una poltrona con un fregio di rami d'alloro, portaceneri a colonna, serape buttati sul divano, scaffali pieni di libri, vasi Santiago sulla mensola del camino. In apparenza non c'era niente fuori dell'ordinario. A Kitty non piaceva che le cameriere riordinassero la camera da letto. Il letto a due piazze troneggiava in mezzo a portacenere, libri aperti, mozziconi di sigarette, bicchieri d'acqua. A una parete era appesa una litografia di Picasso e c'era una libreria in disordine. Ma non c'erano fili bianchi che correvano lungo il battiscopa. Nello studio c'erano un caminetto spagnolo nell'angolo, una scrivania stracarica di carte, due portacenere pieni di mozziconi di sigarette e un terzo con due pipe, una di schiuma e una di radica. Alle pareti erano appese immagini di Krishna e di una barca a vela. La nursery era una veranda riadattata, e aveva ancora la tipica luce gialla delle verande. Una culla da una parte e un letto dall'altra, vari orsacchiotti sparsi su un tappeto, uno scaffale di libri per bambini e, in alto, un ripiano occupato da romanzi tedeschi. Kitty aveva una bambinaia tedesca. Joe tornò in soggiorno e fece il giro, sollevando sedie, tavoli, persino il
divano. Quando spostò la libreria scorse il filo bianco che usciva dal bordo del pavimento, saliva quasi invisibile sul muro imbiancato e spariva dietro il mobile. Provò a frugare fra i dischi nel ripiano più basso: Bach, Beethoven, Fauré. Tolse i libri che stavano più in alto: Austen, Unamuno, L'annuncio a Maria, Thermodynamique, Le Upanishad, L'interpretazione dei sogni. Dietro il volume di Freud c'era il microfono, un bottone di rete metallica non più grande di una monetina. Lo strappò. Seguì il filo sino alla stanza della caldaia, in cantina, e trovò un nuovo collegamento elettrico vicino alla scatola di derivazione e una radio nascosta dietro un bidone del carbone tenero del New Mexico. Joe prese la radio e andò a riordinare i libri. Quando se ne andò, non c'era più nessun segno della sua visita e di quella del capitano; c'erano soltanto una risonanza e una perturbazione ormai quasi svanita come due scie in una camera a nuvola. 13 Il cielo dello Utah era diverso. Tirato a lucido. Salino. E gabbiani al posto degli avvoltoi. Fort Douglas, a Salt Lake City, era diverso da Los Alamos perché era silenzioso. Non c'erano rombi che giungessero da una mesa, non c'erano indiani e non c'erano donne. Soltanto l'apatia in uniforme verde-oliva dell'estrema retroguardia dell'Esercito americano. Il parco macchine era una baracca Quonset con le ali d'acciaio galvanizzato protese sulle ombre e sul bagliore dei saldatori. Joe e Ray Stingo attendevano accanto alle pompe del distributore. Il sole di mezzogiorno sollevava dall'asfalto il lezzo della benzina. Il ciuffo di Ray, che di solito era scolpito con il Wildroot, pendeva afflosciato come un crespo. «Capo, avresti dovuto batterti.» «Hanno chiesto te e me.» «Perché?» Per non stare a discutere, Joe girò intorno alle pompe della benzina. Lui e Ray erano arrivati in aereo da Santa Fe la notte precedente, e durante tutto il viaggio Ray aveva ripetuto sempre la stessa domanda. «Il ragazzo texano ha massacrato Shapiro» disse Ray. «L'ho sentito dire.» Ray si avvicinò di soppiatto a Joe vicino a una latta d'olio. «Il capitano Augustino voleva sicuramente che ti battessi.»
«Il capitano non mi ha mai detto niente.» Joe non aveva più parlato con Augustino dopo il cocktail party di Oppy, la settimana prima. «Senti, mentre Oppy è ancora a Washington, io sono disponibile per questo lavoro.» «Sì, ma io?» «Non ti succederà niente.» Un convoglio si avvicinò ai distributori. Una berlina dell'Esercito, un camion, un'ambulanza e un'altra berlina che erano partiti il giorno prima da Hanford, Washington, e avevano percorso qualcosa come 900 chilometri. A Fort Douglas ci sarebbe stato il cambio. «Troppo tardi» gemette Ray. I tempi del programma erano rigorosi. Non appena la berlina di testa arrivò davanti alla prima pompa, quattro tenenti balzarono a terra e altri quattro presero il loro posto. I meccanici si calarono con aria stanca dal camion, un Dodge 6 X 6 dai parafanghi spioventi. I due uomini che Joe e Ray dovevano sostituire tirarono insieme il freno a mano dell'ambulanza e saltarono giù. Joe e Ray salirono a bordo; Joe si mise al volante. La parte posteriore dell'ambulanza era dipinta di verde militare. Niente croce bianca, niente brande o barelle o medicinali. C'erano soltanto due sedili pieghevoli e, più indietro, quasi tutto lo spazio era occupato da un cubo aperto d'acciaio, di un metro e venti per lato, imbullonato al pavimento e fissato alle pareti. Le cinghie di nailon con una resistenza fin quasi a mezza tonnellata si protendevano dagli otto spigoli del cubo e si agganciavano al centro a una tanica sospesa da ventidue chili. La tanica era foderata di grafite e piombo e, all'interno d'una cavità piena d'acqua, conteneva una capsula d'acciaio inossidabile rivestita di piombo con i dieci grammi di nitrato di plutonio gelatinoso che gli autisti chiamavano "la lumaca". I due sergenti arrivati da Hanford avevano gli occhi lucidi, la barba ispida e l'aria di essere risuscitati dalla morte. «Ne vuoi qualcuna?» Uno dei due si avvicinò al finestrino dalla parte di Ray e gli offrì una manciata di compresse bianche d'anfetamina. Ray ne prese tre e le inghiottì. «È meglio che prendi anche questo.» Il sergente passò il fucile mitragliatore che il secondo autista doveva portare con sé. «Controllare il convoglio!» si gridarono l'un l'altro i tenenti. Erano ragazzi passati dall'università ai servizi segreti, e non avrebbero mai visto la guerra. Mentre correvano di qua e di là con le calibro 45 e i fucili mitragliatori, Joe pensò per associazione d'idee ai ragazzini che portavano i guantoni da baseball alle partite della Divisione nazionale. I meccanici salirono sul camion. Era carico di pezzi di ricambio per tutto, l'ambulanza, il
camion stesso e le macchine, nell'eventualità che ci fosse un guasto lungo il percorso. Gli ordini, emanati come sempre da Groves, erano di non fermarsi. «Cristo, andiamo!» Ray strinse il fucile mitragliatore. Aveva i capelli incollati alla fronte dal sudore. Il suo volto si era chiuso in un cipiglio torvo, minaccioso. Rifiutava di voltarsi a guardare la tanica a otto braccia sospesa nella parte posteriore dell'ambulanza. «Aspettate un momento.» Un uomo dai capelli bianchi che indossava una giacca di tweed e teneva in mano una cartelletta metallica uscì correndo dal garage e raggiunse l'ambulanza. «Babbo Natale!» esclamò Joe. «L'ammazzo» disse Ray. Babbo Natale era lo psichiatra della Collina. Aveva sempre dato l'impressione di far parte dell'arredamento della sede centrale: un amabile strizzacervelli sempre a disposizione per fornire serenità emotiva debitamente autorizzata dal servizio di sicurezza a tutti i capelloni affetti da malinconia. Joe non riusciva a immaginare cosa ci facesse a Fort Douglas. Si aspettava che i tenenti lo bloccassero in gran fretta perché nessuno del resto del convoglio poteva avvicinarsi all'ambulanza. Ma gli ufficiali gli fecero segno di passare. «Posso salire a bordo?» Babbo Natale sfilò una lettera dalla cartella e la passò a Joe, dal finestrino di Ray. La lettera era un lasciapassare che autorizzava il dottor Delmore Bonney ad accompagnare gli autisti dell'ambulanza dell'Esercito Y03 da Fort Douglas alla Località Y (Los Alamos) e l'ordine portava le firme di Oppy e di Groves. «Penso che starebbe più comodo su una delle macchine.» Joe restituì la lettera. Babbo Natale scrollò allegramente le spalle. «Gli ordini sono ordini. Qualche volta devono soffrire anche i borghesi.» «Il sergente Stingo non si sente troppo bene. Potrebbe essere contagioso» avvertì Joe. Babbo Natale inarcò le soppracciglia candide. «Potrebbe essere un disturbo psicosomatico.» Joe aprì con una spinta la portiera dalla parte di Ray. Ray s'inclinò legnosamente da una parte in modo che Babbo Natale potesse salire e prendere posto su un sedile pieghevole perché la berlina di testa e il camion, l'ambulanza e la berlina di coda stavano già girando intorno ai distributori
per percorrere i 720 chilometri che ancora restavano fino al New Mexico e alla Collina. «Tamponi nasali, ragazzi.» Babbo Natale porse i batuffoli di ovatta. «Ordinaria amministrazione.» Joe e Ray si misero i tamponi nel naso e poi li restituirono a Babbo Natale che li mise in due buste separate. «Non è ordinaria amministrazione che noi dobbiamo fare questo viaggio» disse Joe. «E non è ordinaria amministrazione che lo faccia anche lei.» «Noi siamo guardie del corpo» disse Ray a denti stretti. «Non siamo cavie. Avevano tanti camionisti pazzi a disposizione per questo tragitto.» «Perché pensa che abbiano scelto lei, sergente Stingo?» Babbo Natale si curvò sopra la spalla di Ray. «Perché mi odiano.» «Se l'odiassero non mi avrebbe incaricato di farle i tamponi nasali. Serve per frenare in tempo la radioattività respiratoria. Quando arriverà, le preleveranno un campione di sangue e forse bruceranno gli indumenti che ha addosso. Prenderebbero tutte queste precauzioni se non avessero interesse per la sua salute?» «È vero.» Ray si rabbonì un poco. «Aveva semplicemente bisogno di un passaggio da Salt Lake City?» chiese Joe quando Babbo Natale si spostò dietro di lui. «Come mai è qui?» «Le spiego io perché mi odiano» disse Ray. Le anfetamine avevano attizzato la sua paranoia e gli avevano colorato di rosa il bianco degli occhi. «Per la prima volta in vita mia sto vincendo. Mio padre guida un camion dell'immondizia, i miei tre fratelli guidano camion dell'immondizia e guadagnano cinquanta dollari la settimana. Io ho vinto diecimila dollari a poker. E sto per venire fuori da questa fottuta guerra ancora tutto intero. Quando tornerò a Jersey City potrò comprarmi un negozio di liquori. Magari farò da impresario a qualche pugile, mi arrangerò. Mi comprerò una barca, mi sposerò e avrò tanti figli. E loro non vogliono che io abbia tutto questo.» «Perché non ha parlato di sua madre?» Babbo Natale si portò alle spalle di Ray. «Cos'ha da dire su mia madre?» Ray si voltò di scatto. Teneva ancora il fucile mitragliatore; la canna puntò sullo psichiatra. «Non chieda mai a un uomo di sua madre» disse Joe a Babbo Natale, e spinse la canna verso l'alto.
«Perché pensa che il sergente Stingo sia tanto nervoso?» «Perché l'Esercito odia gli uomini arruolati con la coscrizione obbligatoria. E lei invece non lo è.» «Allora perché è qui?» chiese Ray. Babbo Natale sorrise con aria paziente, e due ventagli di rughe si formarono intorno agli occhi celesti. Il naso e le guance avevano il colorito roseo che potevano conferire soltanto le lunghe passeggiate sotto il sole dolce della baia di San Francisco. La giacca di tweed aveva l'odore di un miscuglio di tabacco da pipa e di lozione. I capelli sembravano trucioli candidi, radi in alto, folti ai lati e con i ciuffetti che spuntavano dagli orecchi. Sulla Collina tutti l'avevano soprannominato Babbo Natale. Tutti tranne Harvey, che lo chiamava "Bugs Bonney". «Sono profondamente entusiasta all'idea del viaggio che faremo insieme» disse Babbo Natale. «So che passeremo attraverso località spettacolari. Anzi, quand'ero nel garage ho sentito uno degli ufficiali che alludeva a queste spedizioni di...» Lo psichiatra si schiarì la gola per alludere al plutonio sospeso nella tanica dietro di lui. «L'ho sentito chiamarlo l'Espresso della Baldoria.» «Vede qualche ufficiale, qui a bordo?» borbottò Ray. «È il fottuto Espresso degli Stronzi.» Il Tempio mormone parve deviare a nord e rimpicciolì fino ad assumere le dimensioni di un paletto sotto l'immenso pomeriggio dello Utah. Le montagne incominciarono enormi, e divennero ancora più grandi. Mentre il convoglio accelerava attraverso l'ampia Jordan Valley, Ray aveva l'aria di chi si accinge a entrare in un tunnel tenebroso. Il cubo e le cinghie avevano la funzione di proteggere dagli urti la tanica sospesa, ma non proteggevano gli autisti dalla vista della tanica. Tremava a mezz'aria quando l'ambulanza superava una cunetta, oscillava a ogni svolta della strada. Nonostante fosse così levigata, la tanica sembrava gravida. Joe immaginava che la "lumaca" nascosta all'interno fosse viva. Era un concetto interessante: un metallo vivo. Non era semplicemente una sostanza capace di dare una reazione chimica, ma era così viva di attività alpha che l'acqua intorno alla "lumaca" era salita alla temperatura di trentotto gradi. «Magnifico, il sole e le Wasatch Mountains.» Babbo Natale si girava di qua e di là per vedere meglio. «Ragazzi, immagino che questo viaggio vi piaccia un mondo.» «Machine Gun Joe era un pellerossa molto duro» canticchiò sottovoce
Joe. «Non lascerà mai che il plutonio tocchi terra. Ricorderà sempre il sette di dicembre. E con il suo be-bop-a-rebop li falcerà tutti. Te lo dico io dove saremmo se non stessimo facendo questo viaggio» disse a Ray. «Saremmo in qualche angolo del Pacifico meridionale a scavare fosse comuni in una scogliera corallina. Dovremmo seppellire pezzi di cadaveri rimasti insepolti per sei mesi, con un unico badile spuntato fra tutti e due.» «Il Pacifico meridionale, dice?» chiese Babbo Natale. «In qualche buco dove nessuno ci troverebbe prima che la guerra fosse finita da un anno» disse Joe a Ray. «E giocheremmo a poker con le conchiglie per posta.» Il bianco degli occhi di Ray stava sfumando dal rosa al rosso acido. «Perché proprio noi?» chiese. Contrariamente alle sue abitudini, Babbo Natale stette zitto. Il convoglio salì ad altitudini notevoli ai villaggi mormoni di Orem, Provo ed Helper, scese a toccare il fiume Colorado a Moab e poi salì di nuovo su per le La Sal Mountains. Il sangue continuava ad affluire negli occhi di Ray. Indicava con il fucile mitragliatore tutte le carcasse di coniglio che incontravano lungo la strada e rideva fragorosamente. Le anfetamine avevano peggiorato l'umore di Ray, ma comunque non era molto peggio del primo trasporto che aveva fatto con Joe, quando aveva singhiozzato per tutto il viaggio. Era un siciliano primitivo ed era convinto che le radiazioni, tutte le radiazioni, causassero il cancro. Con le somme che vinceva a poker poteva permettersi di pagare altri commilitoni perché si addossassero le mansioni rischiose al posto suo. Non si avvicinava mai a meno di cento metri dal materiale radioattivo... tranne quando lui e Joe ricevevano l'ordine di trasportare la "lumaca". La notte scese a Cortez, Colorado, ai margini delle San Juan Mountains, dove la pietra saliva in logori scalini verso la luna calante. Lì la formazione delle montagne era recente; anzi era ancora in atto, e consumava e sfrangiava il manto stradale. Le nubi passavano veloci come vapori esalati dalle caldaie della terra e i venti scagliavano i sassi giù per i pendii a rincorrere i pneumatici e a tamburellare sul tetto dell'ambulanza. Joe seguiva i fanalini rossi del camion che lo precedeva, ma spesso sparivano dietro una muraglia di pietra o lampeggiavano disperatamente quando il camion affrontava una discesa. Da una parte si ergeva il granito, dall'altra c'era il buio implacabile di un abisso. A volte la strada si snodava su una cresta e il vuoto nero si spalancava su entrambi i lati; lì il ghiaccio aveva scalpellato la strada, lasciando appena lo spazio sufficiente perché il camion avan-
zasse a passo d'uomo. Il vento saliva dagli strapiombi sottostanti e faceva fracasso come se sospingesse i macigni verso l'alto. Il convoglio aveva fatto una sosta a Moab per uno spuntino; ma Ray non aveva mangiato o bevuto o pisciato o cagato, né l'avrebbe fatto fino al termine del viaggio. Almeno, pensò Joe, la notte avrebbe raffreddato il sudore di Ray e il buio avrebbe nascosto la tanica che ballonzolava dietro di loro. «Permettetemi di confidarmi e di spiegarvi perché siete qui» disse Babbo Natale infrangendo il silenzio. «Perché avete avuto l'ordine di rifare questo viaggio anche se non rientra nei vostri compiti normali. Siete stati scelti perché avete un benestare della sicurezza superiore a quelli degli altri autisti e perché avete un'idea della vera natura del progetto e del carico di oggi. Via via che ci avviciniamo al momento dell'esplosione sperimentale, un numero sempre maggiore di militari, sulla Collina e a Trinity, avrà un'idea della natura del progetto. Sentirete le storie più assurde. Per esempio, forse sentirete dire che una volta il dottor Teller cercò di far bloccare il progetto perché i suoi calcoli indicavano che un ordigno del genere avrebbe incendiato l'atmosfera.» «Davvero?» chiese Joe. «Sì, però i calcoli successivi dimostrarono che questo pericolo non esiste.» «Non esiste assolutamente?» «Assolutamente. Ecco come nascono certe dicerie. Per la verità...» Babbo Natale ridacchiò. «Il dottor Teller vuole una bomba cento volte più potente, quindi non ha paura.» «Cos'ha detto?» Ray si scosse dalle sue fantasticherie. «Teller non ha paura» disse Joe. «Paura di che cosa?» Ray rabbrividì mentre Joe schivava una buca. «Comunque, potrebbero esserci casi di apprensione tra i militari, via via che saranno più numerosi quelli che entreranno in contatto con questo genere di carico.» «Lo pensa davvero?» «C'è questa possibilità» disse Babbo Natale. «È vero che le radiazioni causano il cancro dei tessuti, delle ossa e del sangue e una morte rapida o lenta?» chiese Joe. «Teoricamente» ammise Babbo Natale. «Ma finora il plutonio è risultato innocuo per la salute.» «Esiste appena da cinque mesi» osservò Joe. «Io e Ray abbiamo fatto il primo trasporto.»
«Con la fottutissima neve» disse Ray. Più avanti, il camion sbandava di continuo sui sassi. «Ma tra poche settimane» disse Babbo Natale, «a Trinity ci saranno centinaia di GI e tutti si chiederanno perché ci sono e che cosa faranno. Parleranno con gli MP, e questi sentiranno ciò che dicono gli scienziati... è inevitabile. E ci sarà una certa preoccupazione perché i GI non sono scienziati e avranno paura di trovarsi in prossimità di un'esplosione nucleare. Vedete, le radiazioni non causeranno problemi; ma ci sarà un problema psicologico. Anche se sanno benissimo che l'Esercito non metterebbe i suoi uomini in una situazione anche lontanamente pericolosa. Dopotutto, si tratta di una bomba che dovrebbe annientare un'intera città con qualche chilo di minerale raffinato. Mi chiedevo cosa ne pensate voi due.» «La faccenda della città mi sta bene» disse Ray. «Non venga a chiederlo a noi» disse Joe. «Però potreste sentirvi in ansia» insistette Babbo Natale. «Siete voi, quelli che trasportano il minerale raffinato. Potreste sentirvi in ansia anche se sapete di essere circondati e protetti da ufficiali coscienziosi.» «Lei non si sente in ansia?» chiese Joe. «No» gli assicurò Babbo Natale. «Neppure un po'.» Joe girò la testa. Dietro lo psichiatra, la tanica dondolava al sicuro nella rete di cinghie e nella struttura d'acciaio. «Non c'è nessun ufficiale coscienzioso a bordo di questo fottuto furgone, a quanto vedo» disse Ray. «Allora lei, sergente Stingo, ammette un'ambivalenza.» «Prima era un'ambulanza» disse Ray. «Ma adesso l'hanno trasformata in un furgone.» «No. Io intendevo ambivalenza.» «Lo era prima. Adesso non lo è più.» Ray si agitò. Tutta la paranoia che fino a quel momento era rimasta allo stato libero incominciava a concentrarsi e a trovare un obiettivo dopo trecento chilometri e più. Non si era condensata e non si era fissata completamente, ma Ray si girò sul sedile per vedere meglio Babbo Natale. «Ho detto ambivalenza, sergente. Volere contemporaneamente due cose diverse.» «Già» borbottò Ray. «Due ambulanze. Potremmo portare il doppio di quella roba.» «Comunque» perseverò lo psichiatra che non aveva scorto nessun segnale ammonitore negli occhi rossi fissi su di lui, «mi sono chiesto: Come
posso curare un problema quando non ne so niente? Come possiamo prepararci alle possibili crisi collettive sul sito dell'esperimento senza vedere almeno come reagiscono alcuni militari nelle immediate vicinanze di materiale radioattivo pericoloso?» «È per questo che siamo qui?» chiese Ray. «Perché soltanto lei e il sergente Peña sapete esattamente cos'è il carico. Gli autisti regolari e persino gli ufficiali della sicurezza sanno soltanto che è indispensabile per l'impegno bellico.» «Allora siamo qui per causa sua?» chiese Ray. «È appunto quello che stavo dicendo.» «Siamo qui per causa sua?» Ray voleva essere ben sicuro. «L'ho appena detto.» «Per causa sua?» Ray girò di scatto gli occhi sulla strada quando Joe investì un coniglio. Strinse convulsamente le dita sull'impugnatura del fucile mitragliatore. «Per causa mia» disse Babbo Natale con bonaria fermezza, per evitare altre possibili confusioni semantiche. Joe si era accorto che Ray aveva intenzione di voltarsi per uccidere lo psichiatra non appena si fosse fidato a distogliere gli occhi dalla strada, che ormai era ridotta ad un nastro sterrato. L'estate precedente un'autobotte del Servizio Autostrade del Colorado aveva sparso petrolio come agglutinante leggero; ma poi era trascorso un inverno delle Montagne Rocciose e quel po' di petrolio rimasto formava chiazze lisce e scure fra i lunghi tratti di ghiaccio levigato su di una strada che scendeva con una pendenza di venti gradi per il fianco della montagna; e restare su quella strada richiedeva a Ray la massima concentrazione sebbene fosse soltanto un passeggero. Se anche Joe avesse avuto l'intenzione di fermarsi e di togliere il fucile mitragliatore dalle mani di Ray, la berlina che li seguiva li avrebbe tamponati e li avrebbe scaraventati fuori strada, nella tenebra che si estendeva intorno a loro come un mare. Babbo Natale sembrava completamente dimentico della strada, delle montagne, del buio, come se il pericolo e i fenomeni naturali rientrassero nella competenza esclusiva di Joe. Ogni tanto aveva fatto qualche commento a proposito del chiaro di luna su una vetta innevata, o del luccichio di un fiume trecento metri più in basso; ma a parte questo, si comportava come se Joe avesse premurosamente scelto un percorso interessante. «Lei!» Ray tentò di staccare gli occhi dalla strada per voltarsi e uccidere lo psi-
chiatra, ma l'erosione aveva divorato la corsia esterna e gli stop del camion lampeggiavano freneticamente e calamitavano la sua attenzione. «Può credermi sulla parola, sergente.» Dietro Joe vi fu un movimento, poi si sentì l'odore intenso del tabacco da pipa. «Vi dispiace se fumo?» Una fiammella guizzò per un momento. Joe pensò che, se si fosse voltato in quel momento, forse avrebbe visto un plaid e un cagnolino sulle ginocchia di Babbo Natale. «Noi tre siamo come Elio, che trasportava il sole attraverso il cielo. Un sole nuovo, naturalmente. Come diciamo che c'è la luna nuova quando non possiamo vederla. C'è un'immane sincronia che si accumula verso Trinity, una tensione psichica. Voi uomini la sentite, e la sento anch'io.» «Vuole sentire una cosa?» Ray incominciò a girare il fucile mitragliatore; ma una frana aveva invaso in parte una curva strettissima e Joe dovette frenare per svoltare. «Ecco perché prevedo che i nostri problemi a Trinity saranno soprattutto psicologici.» Si sentì un fruscio di fogli. «Vi dispiace se vi faccio qualche domanda?» Joe scalò la marcia. L'ambulanza slittò sui sassi verso il bordo della strada. Altre pietre più grandi rimbalzarono davanti alle ruote anteriori e urtarono con un suono secco il basamento del motore. «Sergente Stingo, se sapesse di essere in prossimità di materiale radioattivo, si sentirebbe tranquillo, preoccupato, un po' ansioso, molto ansioso?» «Merda» disse Joe. I fanalini rossi di coda del camion sbandarono pazzamente. «Un macigno» disse Joe. Era grosso quanto un canile ed era piazzato al centro della strada. Il camion passò sulla destra, lo evitò, e andò a sbattere contro la parete di granito sollevando una pioggia di scintille. Joe puntò verso lo stesso varco, slittò, strinse il volante. Ray e il suo fucile mitragliatore erano schiacciati contro il parabrezza. Nell'attimo in cui l'ambulanza superava il masso, Joe vide il camion urtare di nuovo la parete di roccia. Chiavi inglesi, cric e pneumatici schizzarono via da sotto il telone e rimbalzarono sui fari dell'ambulanza. Quando il camion si arrestò con il muso contro il granito, l'ambulanza slittò tra la sua sponda posteriore e l'orlo del precipizio. La macchina di testa si era fermata in mezzo alla strada. Joe sterzò verso l'interno, frenò e tirò nello stesso istante anche il freno a mano, fermandosi contro il paraurti della berlina un secondo prima che l'altra macchina, quella di coda, tamponasse l'ambulanza. Un pneumatico uscì saltellando dalle
tenebre e passò nella luce dei fari. Gli ufficiali della sicurezza corsero avanti e indietro brandendo torce elettriche e fucili mitragliatori. Persino Ray si distrasse. Un urlo nel contempo femmineo e disumano eruppe vicino all'orecchio di Joe, seguito dal possente clangore di un gong quando Babbo Natale volò via dal sedile e andò a sbattere con la testa contro il tetto dell'ambulanza. Sembrava ancora sospeso a mezz'aria quando Joe si voltò a guardare e vide il cubo d'acciaio vuoto e le otto cinghie penzolanti. La tanica con il plutonio si era staccata ed era rotolata avanti, tutta lucida e calda, fino a toccare i mocassini e i calzini dello psichiatra. Il plutonio non poteva esplodere. Joe sarebbe stato ben lieto di spiegarlo a Babbo Natale per attenuare la sua tensione psichica, ma Babbo Natale era stramazzato sul pavimento dell'ambulanza. «Cristo» disse Ray. «Abbiamo ordine di non fermarci per nessuna ragione» disse il tenente che comandava il convoglio quando Joe gli indicò la figura accasciata dello psichiatra. «È già a bordo di un'ambulanza. Lasciamolo dov'è.» «Ma ha perso i sensi, signore. Probabilmente ha una commozione cerebrale.» «Sergente, è già una fortuna che nessuno, sul camion, ci abbia lasciato la pelle.» «E quella?» Joe indicò la tanica. «I ganci delle cinghie si sono spezzati.» «Dio! Non possiamo permettere che quel coso rotoli di qua e di là. Qualcuno dovrà tenerlo fermo. Stiamo perdendo tempo. Decidetevi: uno di voi due dovrà bloccarlo. Oppure mettere qualcosa che lo fissi.» Il camion, con un parafango accartocciato, stava già girando intorno all'ambulanza. Il tenente corse alla berlina di testa. Il convoglio si stava ricomponendo. «Penso io a bloccare la tanica.» Gli occhi di Ray erano rossi ma decisi. Mentre Joe innestava la marcia, Ray scavalcò il sedile e si portò sul fondo dell'ambulanza. I veicoli ripresero a scendere con prudenza la montagna. Le nubi si sparpagliarono sulle stelle. Joe sentì un fruscio di stoffa e uno scricchiolio di metallo sul pavimento dell'ambulanza. Girò la testa e vide che Ray stava sistemando Babbo Natale in un angolo. Non vide la tanica. Ray ansimava quando tornò a sedersi. «Era calda, capo. Come una gavetta di minestra.» Joe sapeva che non avrebbe dovuto rompere i ganci. Otto ganci d'acciaio
non avrebbero dovuto spezzarsi così. Sembrava che la tanica fosse schizzata avanti appena ne aveva avuto l'occasione. Dirò a Oppy di Augustino, pensò Joe. Se mi spediranno via dalla Collina, non avrò niente da perdere se non la fosforescenza. «Come una gavetta di minestra calda, capo. Come se fosse viva.» Per tutto il resto delle curve di montagna fino a Durango e poi fino alle colline di Tierra Amarilla, New Mexico, dal fondo continuò a giungere il rumore di Babbo Natale che dondolava pesantemente come se l'ambulanza fosse un carro funebre lanciato a velocità sfrenata. Luglio 1945 14 I sei buffoni erano dipinti di bianco con strisce orizzontali nere intorno alle braccia, le gambe e il torace. Avevano cerchi neri intorno agli occhi e alle bocche. I copricapi di cotone bianco e nero erano attorcigliati come corna. Corte sciarpe nere annodate intorno al collo, alle ginocchia e ai polsi. Lunghi perizomi neri che penzolavano dietro. Sonagli ricavati da zoccoli di cervi e legati alla vita. Mocassini. Tutti insieme, i buffoni spinsero i danzatori in un grande cerchio al centro della piazza. Gli uomini portavano calzoni da lavoro ben puliti e fazzoletti legati intorno alla fronte. Le donne indossavano abiti colorati. Un uomo, una donna, un uomo, una donna, e ognuno teneva con una mano una pannocchia di mais e con l'altra uno zigzag di legno giallo che rappresentava il fulmine. Gli anziani, i cantori e un suonatore con un grande tamburo cochiti erano schierati sul lato nord. La piazza e il cottonwood incorniciavano il cielo. Un tocco nuovo era dato dai patriottici bracciali azzurri con le "V" d'oro, "V" come Vittoria, portati da tutti i danzatori. Un uomo si era fatto avanti senza togliersi gli occhiali da sole. Un buffone gli rubò gli occhiali, li mise a un altro buffone mentre incominciava il rullo del tamburo. Si levarono voci profonde e i danzatori incominciarono a girare in senso antiorario, come una ruota. «Non abbiamo bisogno del capitano Augustino e del suo apparato di sicurezza» disse Oppy ad Anna. «Los Alamos ha una difesa molto più efficiente. La Collina non è un luogo: è una distorsione temporale. Noi siamo il futuro circondato da una terra e da un popolo che sono immutati da un
millennio. Intorno a noi c'è il fossato invisibile del tempo. Chiunque venga dal presente, qualunque spia, può raggiungerci solo attraversando il passato. Siamo protetti dalla quarta dimensione.» Oppy e Anna e Joe e gli altri turisti assistevano allo spettacolo dall'ombra ampia del cottonwood, sul lato meridionale della piazza. Oppy, che era tornato da Washington quella mattina, si era cambiato e si era vestito di nuovo in stile western: jeans, stivali, fibbia d'argento, cappello sghembo. Anna indossava quella sua tuta bizzarra e un cappello da uomo. «È perfettamente animistico» disse Oppy. «Un antico rito greco della fertilità. Per questo è meraviglioso. Le pannocchie, ovviamente, sono simboli fallici.» Da Washington era arrivata la voce che i consiglieri militari di Truman affermavano che Trinity era tempo perso, che la bomba era una frode scientifica, una truffa, un fiasco. Oppy sfoggiava un sorriso impassibile. «Non balla?» chiese Anna a Joe. Non era niente di più che educata con lui, come se non si conoscessero. «No.» «Joe è diverso» disse Oppy. «È un indiano progressista. Un indiano del bebop.» Si rivolse a Joe e abbassò la voce. «A proposito, quando andremo a Trinity, Groves vuole che tu vada in giro in cerca di Apache. Sembra che gli sia rimasto impresso nella mente quell'episodio in mezzo alla neve. È convinto che occorra un indiano per fermare un altro indiano.» Non era una cerimonia importante, o la festa d'un santo o una danza dei canestri; era soltanto una danza per l'ultima semina, aperta al pubblico ma non preannunciata. Le cameriere avevano detto a quelli della Collina che «sarebbe successo qualcosa». Tra i cento e più spettatori, Joe scorse Fermi e Teller. Foote ostentava i calzoncini corti dell'esercito britannico e un sombrero. I danzatori si muovevano: un passo, un saltello, una giravolta. Mancavano gli uomini giovani che erano sotto le armi. Nonni e ragazze ballavano allegramente al ritmo sonoro e sollevavano vortici di polvere. Un saltello, un passo strascicato. Quella monotonia aveva sempre esasperato Joe. Un placido girotondo di indiani addomesticati e di pannocchie. Passo strascicato, giravolta. «Chi sono quelli tutti dipinti?» chiese Anna a Joe. «Buffoni.» «Per voi che cosa rappresentano?» «Gli antichi greci.»
I buffoni si stavano sbizzarrendo in fiacche mattane all'interno del cerchio dei danzatori. Joe ricordava il tempo in cui erano mimi arrabbiati e imitavano i Navajo, i turisti, i preti cattolici, quando mettevano almeno un po' di calore nel lattemiele del pueblo. Le foglie del cottonwood stormivano; nella giornata più calda, un cottonwood poteva produrre un suono di pioggia. Parecchie signore venute da Santa Fe, spettatrici veterane dello spettacolo, aprivano i seggiolini pieghevoli. Oppy mormorò qualcosa che fece ridere Anna, e Joe si scusò e andò a fare due passi. Dietro un muretto di pietra e un piccolo camposanto, la missione di Santiago sorgeva all'estremità occidentale della piazza. Con i muri di mattoni cotti che alla base avevano uno spessore di due metri e più, la chiesa sembrava un monolito alto dieci metri. Era una specie di fortezza, in realtà, e risaliva al tempo in cui gli Apache facevano frequenti scorrerie nella valle del Rio Grande. Sul tetto spiccavano un'elegante croce di ferro e una campana, fuse in Spagna. Durante le danze, la porta restava chiusa. Nel camposanto c'erano tumuli con un nome e tumuli senza nome, e un certo numero di croci bianche nuove, per i soldati. Due cowboy voltavano le spalle alla piazza, e fumavano seduti su due lapidi. Erano uomini magri e solidi, con i cappelli macchiati di sudore. Il più vecchio era sulla sessantina, e aveva le mani callose e un collo grinzoso. Il più giovane aveva lunghi capelli biondi e una camicia del tipo di quelle che Roy Rogers indossava abitualmente per cantare. Il raso si era trasformato in un'iridescenza torbida, e molti pezzi di passamaneria s'erano staccati. «Sergente Joe Peña» disse Joe, e tese la mano. «Non avevo mai visto un cowboy a una danza indiana prima d'ora.» «Io sono Al.» Il vecchio strinse la mano di Joe, molto in fretta. «Questo è Billy.» Billy inclinò la testa come se quel gesto potesse rimpicciolire Joe. Torse il naso, quando sorrise. «Fuori dai piedi.» «Potete vedere meglio la danza dalla piazza» disse Joe. «Avevamo già visto indiani prima» disse Billy. La camicia era logora ma pateticamente romantica. Nessuno l'avrebbe indossata se non avesse pensato di farsi vedere da una ragazza indiana. Joe era disposto a dargli ogni possibilità. «Servizio Indiano? «chiese. «Chi lo dice?» Al rialzò la testa, spinse il cappello all'indietro rivelando i capelli lisci incollati alla fronte umida e pallida. «Siete guardie del Servizio a cavallo» disse Joe.
Billy lasciò cadere la sigaretta e la calpestò. «Non l'ha detto nessuno.» «Non è difficile» disse Joe. «Due cowboy qui. Ma non siete venuti per la danza e non avete simpatia per gli indiani. E puzzate di sterco di pecora. Giusto: siete stati in giro a sparare alle pecore dei Navajo. Con quella?» Fissò la pistola che Al portava alla cintura, una Colt calibro 45 macchiata di ruggine. «Per dare un contributo alla vittoria?» «Anche se ti hanno accettato nell'Esercito...» attaccò Billy. «Ma questa non è la riserva dei Navajo» disse Joe. «Non ci sono Navajo, qui. Vi siete perduti.» «Peña» disse Al come per imprimersi il nome nella memoria. «Lavora sulla montagna incantata dell'Esercito.» «Vi mostro la strada per uscire» disse Joe. «Tu non...» Billy si alzò. «A proposito, quella camicia» disse Joe. «Sembra merda e spaghetti mischiati in un piatto.» «Io gliel'avevo detto» osservò Al. Si alzò dalla lapide, si stirò e si avviò verso il cancello del camposanto. «Ci vediamo più tardi, sergente.» Per quanto avesse l'aria frastornata e riluttante, Billy seguì l'altro. Aveva quasi raggiunto il cancello quando si voltò per dire: «Abbiamo fregato quei Navajo, tutti quanti». La lapide dove si era seduto Al era una lastra di marmo sciupata dalle intemperie con la scritta "Miguel Peña, 1895-1935." Dolores aveva acquistato la pietra più bianca di Santa Fe e, finché era vissuta, l'aveva sempre tenuta lustra. Billy si era seduto su una lapide più piccola, di marmo rosa, che diceva "Dolores Reyes Peña, 1899-1943." L'aveva comprata insieme a quella di Mike; per Dolores non c'era nulla di più esotico d'una rosa. Joe raccattò il mozzicone che Billy aveva lasciato cadere, lo sbriciolò e soffiò via il tabacco. Quando Joe tornò, la danza aveva assunto una certa definizione, un certo carattere. Un buffone nero e bianco stringeva una macchina fotografica e stava inquadrando Foote. Poi la puntò come una pistola. Il buffone con gli occhiali da sole si fingeva cieco e barcollava appoggiato a un bastone, lungo la prima fila dei turisti, pizzicando ora una gonna, ora una camicetta. Nella fila dei danzatori, le donne ridacchiavano. Scivolata, mezza punta, giravolta. Un terzo buffone uscì dal cerchio. Aveva un cuscino legato sul sedere, un altro sul ventre. Si era incollato sul labbro un paio di baffi finti e stelle d'oro sulle spalle, e in testa portava un berretto da ufficiale dell'Esercito
con una stella di carta. Con movimenti gravi, si incamminò in senso orario intorno ai danzatori per passarli in rivista. Quando scrollò il cuscino legato al sedere, il modo in cui impersonava il generale Groves divenne completo. Gli altri buffoni s'inchinarono profondamente. Anna rideva, ma Oppy aveva un'aria costernata. Davanti alla missione si fermò una Buick a quattro porte. Al volante c'era Fuchs, e accanto a lui c'era Augustino. Le macchine non erano autorizzate ad avvicinarsi tanto. Quando un poliziotto tribale si avvicinò e accennò di proseguire, il vetro del finestrino posteriore si abbassò e Joe vide l'uomo del Servizio Indiano, quello che si chiamava Al. La macchina rimase. Il buffone con gli occhiali da sole tirò fuori un piccolo petardo. Un secondo lo prese, un terzo lo benedisse, e un quarto lo posò a terra e finse di accenderlo mentre il buffone che impersonava Groves si portava il binocolo agli occhi cerchiati di nero per osservare. Tutti gli altri buffoni, eccettuato quello con gli occhiali da sole, si tapparono gli orecchi con le dita. Niente. Il buffone tentò con un secondo fiammifero. Un terzo. Un quarto. Fiasco. Uno dopo l'altro, i buffoni esaminarono il petardo e se lo passarono fino a quando arrivò nelle mani di quello che impersonava Groves e che lo studiò con il binocolo prima di consegnarlo al buffone con gli occhiali da sole. Questi si voltò e l'offrì a Oppy. La folla si fece più vicina per vedere. I danzatori non si erano fermati e i cantori non avevano smesso la melodia; ma anche loro fissavano Oppy. Joe non aveva mai visto Oppy arrossire prima di quel momento. Il buffone con gli occhiali da sole s'inginocchiò e implorò. «Avanti, Oppy!» gridò Foote. «Stai allo scherzo!» Augustino, dalla macchina, indicò il buffone con gli occhiali da sole. Anna porse a Oppy un accendino. Gli altri buffoni si gettarono in ginocchio per supplicare. Con un sorriso forzato, Oppy accese la corta miccia e lanciò in aria il petardo che esplose con uno sbuffo di fumo. Forse la scena del mortaretto era capitata per caso alla conclusione della danza della mattinata, forse era il segnale della fine; comunque, il cerchio si sciolse all'improvviso e i danzatori si dispersero per andare a pranzo. I buffoni si allontanarono in fila, aggrappandosi l'uno alla lunga coda nera del perizoma dell'altro, e sparirono in un vicolo sul lato nord della piazza, vietato ai turisti.
La Buick di Fuchs era scomparsa. «Dovrebbe essere orgoglioso» disse Jaworski, stringendo la mano di Oppy. «Hanno ballato per la nostra vittoria e per il nostro successo.» «Non c'era anche un elemento di minaccia?» chiese Teller. «Che assurdità» disse Foote. «Oppy, hai fatto la tua parte splendidamente, addirittura con modestia.» Oppy rese l'accendino ad Anna e le disse: «Anna, devo andare». «Io resto. Sono molto più vivi di quanto avessi detto tu.» Augustino aveva raggiunto il gruppo. «Sono vivi, certamente. Possiamo parlare un attimo, dottor Oppenheimer? Io, lei e il sergente Peña?» Il parcheggio era un campo d'avena ormai ridotta in polvere. Le macchine in arrivo erano più numerose di quelle che se ne andavano. La jeep di Augustino era accanto alla berlina grigia dell'Esercito con la quale Joe aveva accompagnato Oppy. E ancora non riusciva a trovare la Buick di Fuchs. Augustino chiese: «Quelli dipinti con il cerone nero e bianco, sergente... sono idioti o traditori?». «I buffoni?» «In ogni caso» continuò Augustino, «è stata una grave violazione della sicurezza. Hanno additato il dottor Oppenheimer all'attenzione di tutti, in pubblico, e l'hanno identificato con gli esplosivi. Un estraneo con un minimo di conoscenza della fisica non poteva fare a meno di notare lui e Teller. L'imitazione del generale è stata di pessimo gusto. Quale sarebbe lo scopo religioso di queta bravata?» «Dovrebbe chiederlo a loro, signore.» «Mi piacerebbe moltissimo. Chi sono?» «Non lo so, signore.» «Un segreto tribale?» «Penso di sì, signore.» «Ci sono parecchie cose che lei non mi dice da un po' di tempo, sergente. Balleranno ancora?» «Questo pomeriggio, signore.» «Gli stessi buffoni, la stessa gente?» «Sissignore.» «Allora penso sia consigliabile che lei riaccompagni subito alla Collina il direttore, prima che succeda qualche altro incidente. È d'accordo, dottor Oppenheimer?»
Oppy guardava la piazza. «Credevo che fossimo in buoni rapporti con questa gente. Credevo che fossimo amici.» «Quale altro incidente, signore?» chiese Joe ad Augustino. «Accompagni il direttore alla Collina. Mi segua» disse il capitano dopo un attimo di silenzio. Augustino si avviò per primo con la jeep, ma tutte le macchine che lasciavano il parcheggio per raggiungere l'autostrada dovevano transitare per una strettoia. Joe si fermò per lasciar passare alcune macchine in arrivo mentre la jeep si allontanava. Come sempre, quando erano soli, Oppy si era seduto davanti a fianco di Joe. Tamburellava con le dita sul cruscotto, spazientito come se un branco di idioti lo trattenesse. Si era sparsa in giro la notizia della danza. Da Santa Fe arrivavano autobus aperti e i turisti scendevano a frotte e proseguivano a piedi. Joe riconobbe un uomo basso, con la macchina fotografica e il binocolo al collo. Lo aveva conosciuto al bar del La Fonda. Era il newyorkese, Harry Gold. Joe si frugò in tasca e porse a Oppy un oggetto che sembrava un bottone ricoperto di rete metallica. «È un microfono che Augustino le aveva piazzato in casa durante la sua assenza. È ora che sappia quello che succede intorno a lei.» Oppy accostò il microfono al parabrezza per vederlo meglio, come se esaminasse un manufatto un po' curioso. «Era nascosto» disse Joe. «Non era stato messo là per proteggerla. Augustino la sorveglia. Le sta dietro.» «Lo so.» La voce di Oppy s'era abbassata in un bisbiglio. Rigirò più volte tra le mani il piccolo microfono. «Lo dica al generale Groves» continuò Joe. «Dica al generale che il suo capo del servizio segreto la crede una spia dei russi.» «Il generale lo sa.» Oppy rivolse a Joe un'occhiata di rassegnazione e di disprezzo. Un'occhiata meditabonda. Sporse la mano dal finestrino aperto e lasciò cadere il microfono sulla strada. «Tu non puoi aiutarmi, Joe.» «È il responsabile del laboratorio più importante della guerra e ha paura d'un capitano? Non possono fare niente senza di lei. Lei è quella dannata bomba.» «È ... una situazione temporanea.» Il passaggio si stava sgombrando. La jeep di Augustino attendeva più avanti sulla strada. Joe smontò. «Allora aiuterò Augustino.»
Oppy si mise al voltante. «Aiutarlo?» chiese. «Vuol sapere chi sono quei buffoni. Occorre un indiano per fermare un indiano, giusto?» «Joe...» Oppy fece per protestare, poi cambiò idea. «Joe, ancora venti giorni. Dopo Trinity, nessuno potrà più toccarci.» Mentre tornava indietro, Joe fece un ampio giro in Santiago. La macchina di Fuchs non c'era più: probabilmente era già a metà strada, verso la Collina. I due del Servizio Indiano, Billy e Al, bevevano birra dietro una macchina della polizia tribale, in un vicolo. Tutto intorno alla piazza, gli indiani mangiavano pane fritto sui tetti delle loro case. Sotto il cottonwood, in un'isola d'ombra, i turisti mangiavano sandwich. I rettangoli di carta oleata svolazzavano sul terreno, portati da ondate di polvere e di calore. 15 Intorno al fascio di luce solare che scendeva lungo la scala appoggiata al tetto del kiva, tre buffoni restauravano le strisce nere e bianche attingendo ai barattoli di cerone. Altri due, senza i berretti in testa, riposavano sulle panche contro le pareti. L'ultimo era in piedi, nell'angolo: beveva una Coca Cola e pisciava in un secchio. Tutti si voltarono verso la porta laterale quando entrò Joe. Non aveva messo piede in un kiva da quasi vent'anni. All'esterno, il kiva dei buffoni era una semplice casa di mattoni cotti. Ma all'interno le pareti erano coperte d'immagini dipinte che parevano incombere nell'oscurità. Serpenti. Rondini, Montagne a gradini e nubi rosse e bianche. I fulmini di legno a zigzag, tolti a un altare smantellato, stavano tra cofani spagnoli di bastoni da preghiera e di bacchette per la danza. In mezzo al pavimento c'era il tradizionale buco che conduceva al centro della terra. I buffoni sembravano figure dimezzate: blocchi bianchi e barre nere. Ma anche così Joe vide che uno dei buffoni senza copricapo, un uomo dai capelli grigi sciolti, il ventre voluminoso e le gambe esili, era Ben Reyes. «Psoot-bah!» disse Ben. Era l'ordine per scacciare un cane. «Vattene!» «Fuori ci sono due cowboy del Servizio Indiano» disse Joe all'altro buffone senza copricapo. «Credo che siano venuti per arrestarti.» «Lo hai indicato tu» disse Ben. «Ti ha indicato Fuchs» disse Joe all'altro buffone. I lunghi capelli bruni del buffone gli cadevano sulle spalle. Nonostante l'oscurità all'interno del kiva, portava ancora gli occhiali da sole. Inclinò la
testa e sorrise a Joe come se accettasse uno scherzo. «Hai dato il petardo a Oppenheimer e non hai cercato di riprenderlo» disse Joe. «Anche se là fuori fingevi soltanto di essere cieco, sei andato a urtare contro troppa gente.» «Comunque, niente male per un cieco vero» disse Roberto. «Sì, niente male.» «Davvero avrebbero il coraggio di fare una cosa simile?» «Hai puntato il fucile contro il crucco sbagliato. È un crucco nostro, e c'è in corso una guerra. Non so come sapesse che avresti danzato, ma lo sapeva e lo sapeva anche il capitano responsabile della sicurezza sulla Collina, e loro ti hanno indicato a due guardie del Servizio Indiano. Non preoccuparti: Fuchs e il capitano ti hanno segnalato e poi se la sono filata. I cowboy hanno assistito alla danza per cinque secondi e ti hanno visto soltanto da lontano. Fatti sostituire da qualcuno, per l'altra danza. Avrai tutto il pomeriggio a disposizione per tornare a Taos.» «Vuoi un po' di Coca?» chiese Roberto. «Hai sete?» «No, grazie.» «Fa caldo là fuori, no?» «Se devi trovare qualcuno che ti sostituisca, è meglio che lo faccia subito.» Roberto si tolse gli occhiali scuri e li posò sulla panca. Gli occhi infossati sembravano cancellati dalla pittura. «Be', non è tanto semplice, Joe. Nessuno può entrare o uscire finché i buffoni sono qui. Non credo che nessuno, te escluso, oserebbe infrangere le regole.» «E se da qui non usciranno sei buffoni, le guardie entreranno a cercarti.» «Danza tu» disse Roberto. «Lui?» chiese Ben. «Non c'è nessun altro» disse Roberto. «Sarebbe uno scherzo» disse Ben. «Ti mostrerò che cosa devi fare» spiegò Roberto. I tre buffoni accanto alla scala a pioli si accosciarono e confabularono tra loro. Sarebbe stato un grave disonore includere in una cerimonia un individuo ignorante come Joe Peña. D'altra parte, sarebbe stato un disonore ancora più grande permettere che un anziano di un altro pueblo venisse arrestato a Santiago. «No» disse Joe. «Una volta tanto ha ragione Ben. Sono venuto solo per avvertirti.»
Roberto assunse un'espressione sconcertata. «A che cosa serve un avvertimento se non vuoi aiutarmi?» chiese. «È un falso avvertimento.» «Dato da un falso indiano» disse Ben. «È un avvertimento onesto.» Joe alzò la mano, fece un cenno e si avviò alla porta. «Da questo momento io non ti conosco neppure.» «Quando è partito era indiano e quando è tornato era negro» disse Ben. «Poi si è arruolato nell'Esercito ed è diventato un bianco. Forse non è più nessuno. Suo fratello sì che era un indiano.» «Ben» disse Joe e scrollò la testa. «È una fortuna per sua madre essere morta prima di questo giorno» disse Ben. Joe si girò sulla soglia. «Ben, Ben, Ben, non aggiungere un'altra parola.» «Ho bisogno del tuo aiuto» disse Roberto. Il cerone era untuoso e denso, e Joe aveva la sensazione che tutto il suo corpo fosse una maschera. I capelli erano nascosti dal copricapo a strisce, trattenuto da una cinghia nera sotto il mento. Gli altri buffoni gli dipinsero contorni neri intorno agli occhi e la bocca, gli annodarono sciarpe nere al collo, ai polsi e alle caviglie. Non riesco a crederlo, pensò Joe: tutto questo sta accadendo a un altro. Gli sembrava di essere distaccato da se stesso e di vedersi mentre lo preparavano. Era come se avesse dato in prestito il proprio corpo. La coda del lungo perizoma nero toccava il pavimento. Non avevano trovato un paio di mocassini abbastanza grandi, e quindi sarebbe rimasto scalzo. Roberto gli aveva suggerito di trattenersi il più possibile all'interno del cerchio dei danzatori. Tutti si radunarono intorno alla scala a pioli e si passarono di mano in mano un'ultima sigaretta. Roberto aveva indossato la sua tipica coperta bianca ed era pronto a uscire da solo. Uno degli altri buffoni aveva inforcato gli occhiali scuri. Ben si mise sotto il braccio una frusta per tori. Il sole s'era spostato verso occidente e la luce che penetrava dal tetto era più fioca e giungeva ad un angolo più netto. Joe aveva l'impressione che il kiva si stesse chiudendo sopra di lui. Finalmente salirono la scala uno a uno. Joe fu l'ultimo. Balzarono dal tetto e si avviarono lungo un vicolo, mentre cani e bambini correvano al loro fianco. Per quanto Joe si sforzasse di restare indietro, la lunghezza dei suoi passi lo portò in testa al gruppo. C'era un tunnel d'ombra, poi il caldo fulgido e ronzante della piazza, e una folla ancora più numerosa. Tutti i tetti sul lato nord erano pieni di gente. I forestieri erano raddoppiati lungo l'intero lato sud della piazza. Soltanto i sacerdoti e gli
anziani erano gli stessi, come se non si fossero mossi dalla mattina. Joe si aspettava che da un momento all'altro qualcuno gridasse: «Quello non è un buffone vero, è Joe Peña!». Rincorse una vecchia e una ragazzina per farle entrare nella linea dei danzatori. La piazza pareva roteare intorno a lui. Il cerone era già coperto di sudore. Rivide Foote. Erano arrivati anche Jaworski e Harvey. Il tamburo incominciò a rullare. All'estremità orientale della piazza, tra gli ultimi turisti, scorse la guardia del Servizio Indiano che si chiamava Al. Billy era all'estremità opposta. Continuerò giusto il tempo necessario perché Roberto arrivi alla casa, si disse Joe. Quando il cerchio dei danzatori incominciò a girare, s'insinuò nel mezzo e lo usò come uno schermo. Non era difficile seguire i passi: un lento ritmo a quattro quarti. Saltello, scivolata, mezza giravolta. All'improvviso, cantori e suonatore di tamburo passarono a un rapido tre quarti, poi tornarono al lento quattro quarti. Joe inciampò, ma la folla l'interpretò come uno scherzo: dopotutto era un buffone. L'idea fondamentale della danza era che ognuno eseguiva esattamente lo stesso passo nello stesso modo, senza abbellimenti, senza mettersi in vista. Il cerchio era un ingranaggio cosmico che muoveva le nubi, attirava la selvaggina, faceva crescere il mais. Ogni individualità era una vite allentata. «Fiori di nuvole si estendono sopra le montagne, fiori di nuvole sbocciano sulle montagne. Prima il fulmine lampeggia a nord, poi romba il tuono, poi cade la pioggia perché i fiori sbocciano» intonarono i cantori. Sebbene in cielo non vi fosse neppure l'ombra d'una nube, i danzatori saltellavano allegramente, piroettavano stringendo in una mano una pannocchia, nell'altra un simbolo del fulmine. Gli abiti da lavoro lisi e puliti li facevano sembrare pupazzi industriosi. Le donne e le ragazze non sollevavano le ginocchia quanto gli uomini e non battevano i talloni con la stessa forza. Ma avevano riconosciuto Joe; vedeva che lo guardavano furtivamente e sentiva i loro bisbigli appena si voltava. «Nei campi potete vedere i fiori del melone» intonarono i cantori. «Nei campi potete vedere i fiori del mais. Nei campi canta l'uccello acquatico e in alto crescono le nubi nere». I cento danzatori facevano vibrare leggermente il suolo. Ancora una rivoluzione del cerchio e poi se ne sarebbe andato, decise Joe. Ma il cerchio si muoveva con estrema lentezza. Sembrava fosse presente tutta la popolazione di Santiago, sulla piazza o sui tetti, e lo circondava e attendeva che lui facesse qualcosa. Molte donne somigliavano a
Dolores. Non soltanto a Dolores, la famosa vasaia, ma a Dolores giovane, a Dolores ragazza. Mezza punta, giravolta. Due dei buffoni portarono via i seggiolini pieghevoli alle signore di Santa Fe e sedettero fingendo di spettegolare, darsi il rossetto, aggiustarsi i reggicalze. Un terzo pattugliava i margini della piazza e teneva indietro la fila straripante di turisti. Minacciò uno spettatore che aveva lasciato l'estremità orientale per avvicinarsi al cerchio. Era Billy, che cercava di vedere meglio Joe; e non badava al vecchio buffone grasso che si sbracciava per rimandarlo indietro. Quando il buffone snodò una frusta e la fece schioccare ai piedi di Billy, il cowboy lo stese con un pugno. L'intero cerchio rallentò per seguire lo scontro. Joe vide che i poliziotti tribali esitavano; non volevano una rissa con il Servizio Indiano. Senza neppure accorgersi di ciò che faceva, Joe passò tra i danzatori e in pochi passi coprì la distanza che lo separava da Ben. Billy puntò l'indice verso di lui per bloccarlo, ma Joe scavalcò Ben, afferrò il cowboy per la camicia e lo sollevò di peso. Billy scalciò e mulinò i pugni, ma Joe lo portò verso il punto dove la maggior parte dei turisti assisteva alla scena stando all'ombra del cottonwood. Aveva avuto l'intenzione di posarlo gentilmente ma, quando lo lasciò, Billy volò al di sopra delle prime due file di spettatori, fino ai piedi dell'albero. Mentre la folla indietreggiava, il sombrero di Foote rotolò per terra. I seggiolini pieghevoli si chiusero con scatti secchi. Qualcuno rise. Al si fece largo e raggiunse Billy, continuando a ridere come se il suo amico avesse partecipato a uno scherzo divertente. Anche i buffoni si unirono a quell'ilarità. Foote e gli altri della Collina, Harvey Gold e i turisti venuti da Santa Fe ridevano ansiosamente perché volevano convincersi che fosse tutta una commedia e che quel buffone colossale non fosse pericoloso. Anna Weiss non sorrideva. Non aveva indietreggiato. Fissava Joe come se fosse un gigante disceso dal cielo azzurro. Il suonatore di tamburo non perse neppure una battuta. Il cerchio continuò a ruotare. Più tardi, i buffoni andarono a lavarsi nel fiume a circa tre chilometri da Santiago. Joe, poiché non era un vero buffone, si lavò da solo in un punto dove i tronchi di cottonwood e la sabbia avevano formato una piccola pozza. I cardi dai boccioli bianchi e simili a carta crescevano fitti intorno alle rive. Il cerone nero si arrese lentamente al sapone, alla farina d'avena e a una spazzola di iucca. Il sole batteva abbagliante sulla superficie del Rio. Passò un po' di tempo
prima che Joe si accorgesse di non essere solo e vedesse Anna seduta a osservarlo su un tronco liscio che affiorava dalla sabbia. 16 Nel cottage numero 20 del Motel Cordoba, la luce del giorno tracciava un bordo incandescente intorno alle tapparelle. Lei si contorse e si distese quando si abbassò su di lui, Joe le posò le mani sui fianchi e l'aiutò. Gli occhi spalancati di Anna non si staccavano mai dai suoi. Nonostante le tapparelle abbassate, era così pallida che risplendeva, come se Joe tenesse una fiamma. Eppure gli occhi erano luminosamente scuri, i capelli erano scuri, erano scuri i capezzoli dei seni bianchi. Ormai affondato dentro di lei, Joe si sollevò ancora. Come se fosse caduto da un edificio altissimo molto tempo prima e soltanto ora piombasse al suolo. Precipitava e s'innalzava nello stesso momento. «È la prima volta che faccio l'amore con un gigante.» Joe la girò sul dorso e si spinse ancora di più dentro di lei. Il sudore le luccicava tra i seni. Quando lo avvinghiò con le gambe, il letto cigolò. Anna lo strinse forte con le mani, fino a quando Joe la sollevò ogni volta che affondava in lei. Le scarpe e il cappello di Anna erano accanto alla porta, dove li aveva lasciati cadere appena entrata. La tuta era stesa sul pavimento. L'uniforme di Joe era su una sedia. Fuori il pomeriggio si oscurava. Nella stanza un grigiore perlaceo si insinuava sulle pareti decorate di fotografie dell'Alhambra. Le fotografie tremavano mentre Joe la teneva contro una parete, in modo che lei toccasse appena il pavimento con la punta dei piedi. Il muro tremava come un lenzuolo verticale. Lei era senza peso e fortissima. Sembrava che lo circondasse e lo inghiottisse e nel contempo venisse inghiottita. Quando si scostarono, sulla parete rimasero le impronte umide della schiena di Anna e delle mani di Joe. Il corpo di lei aveva un pallore azzurrino e lo splendore della vita. Contro il suo ventre, il ventre di Joe sembrava nero. Quando la sollevava, tutta la stanza sembrava innalzarli. E più affondava in lei, più ancora affondava la volta seguente. La radio, la console Capehart, sembrava un vecchio suonatore di trombone che sonnecchiava su una sedia.
Le pareti parevano carta, pronta a bruciare o a strapparsi o a ripiegarsi per farlo precipitare nel vuoto. «Sei pazza a fare così» disse Joe. «Oh, sì, sono una pazza riconosciuta.» «Riconosciuta?» «Ufficialmente» disse lei e sorrise. Era il momento della conoscenza. La scoperta di gambe, mani, pelle, sudore, quando il corpo diventa il terreno e lo scopo ossessivo dell'attenzione. Ogni parola echeggia all'infinito e assume il colore dell'azione. I respiri si sincronizzano e le lenzuola si attorcigliano. Si erano seduti sul letto a gambe incrociate e tra loro c'erano il portacenere e una nebbia di fumo. Il caldo del giorno si era dileguato, ma erano lucidi di sudore. «Ero innamorata» disse Anna. Gli accese una sigaretta e gliela mise tra le labbra. «Amavo un ragazzo francese. Era molto poetico. Amavo un ragazzo tedesco. Era molto depresso. Era divertente essere innamorata. Mi piaceva l'elemento d'irrazionalità. Questo non è amore: è irrazionalità pura.» Joe aspirò, si saturò i polmoni ed esalò il fumo in modo che il suo respiro riempisse la stanza. Di una cosa era assolutamente certo. «Non sei mai stata innamorata prima d'ora» disse. Gli occhi grigi di Anna l'osservavano da una distanza felina. Poi si chiusero e lei s'inarcò. Con i capelli ributtati all'indietro, la fronte sembrava più alta e pallida, la fronte altera del genio, e solo quei capelli neri la tradivano ondeggiando come una bandiera di giaietto che sferzava l'oscurità sopra di lui, fino a quando Joe le abbassò la testa e le aprì la bocca con la bocca, e Anna gli affondò le dita tra i capelli e prolungò il bacio. Lei chiese: «Sei mai stato innamorato?». «È stato un volo alla luna, una notte di giugno. Dita gelide che mi scorrevano su e giù per la spina dorsale, la stessa antica stregoneria di quando i tuoi occhi incontrano i miei.» Anna gli posò la punta dell'indice tra gli occhi. «Questa è l'ultima notte di giugno.» «Sapevo che una di quelle notti era la notte giusta.» Nell'oscurità totale Anna gli giaceva addosso e lo teneva ancora dentro
di sé nell'ultima, protratta confusione dell'atto d'amore. Così profondamente uniti, erano ognuno la metà dell'altro. Non c'erano altri suoni che il rombo del traffico sull'autostrada e il battito energico e rallentato dei loro cuori. La macchina era una Plymouth a due porte che Anna si era fatta prestare da Teller al pueblo. Joe aveva trovato alla radio una stazione che trasmetteva jazz. Le stelle illuminavano la strada. Il vento agitava i capelli intorno al volto di Anna. «Ero innamorata di King Kong» disse lei. «Avrei preso volentieri il posto di quella ragazza. King Kong era molto popolare in Germania. E tu sai anche suonare il piano.» «Magnifico.» «E sei un pugile. Mi sono informata sul tuo conto.» «Ero un pugile.» «Eri bravo?» «Abbastanza. Poi mi sono interessato ad altre cose.» «La musica?» «Amo il piano. Amo il suo peso, la sua forma. C'è qualcosa di straordinario in un piano a coda da concerto che suona un mi acuto in una casa vuota.» «E le donne? È la stessa cosa? Un mi acuto in una casa vuota?» «Be', sì, un poco. Come sei finita sulla Collina?» Lei rifletté per un momento, ma a Joe già sembrava di sentire la sua voce. Per lui era importante che una donna avesse una sua voce, e non ne aveva mai sentita una come quella. «Riuscivo a vedere sempre i numeri. È come avere un mondo tutto tuo o un mondo che hai in comune con pochissimi altri. Numeri primi. Numeri positivi e numeri negativi in strutture come la fisica. Una volta, quando avevo sedici anni, per passare il tempo scrissi una dissertazione sulla moltiplicazione delle reazioni. Ero in clinica.» «Perché?» «Isteria. Anemia. Gravidanza. Dipendeva dal medico con cui parlavi. Ero stato fortunata a finire nella clinica perché non avrebbero dovuto accettare gli ebrei. Ma mio padre, anche se aveva perduto la cattedra all'università, era così rispettato che mi ricoverarono. Un tempo la clinica era stata un monastero con giardini e frutteti che digradavano a terrazze fino al fiume, l'Elba. C'erano persino i limoni. In uno dei giardini c'era una pergo-
la di caprifoglio che brulicava d'api. Mi rifugiavo là. Cercavo di pensare a cose tanto piccole e insignificanti da essere quasi concetti matematici puri e da non avere nulla a che fare con il mondo della realtà. Guardavo le api passare di fiore in fiore, Poco prima era stato pubblicato l'articolo di Meitner-Frisch sulla fissione ... lo ricordi?» «Quel giorno avevo un incontro di pugilato a Chicago, mi pare. Dev'essermi sfuggito.» «Api e neutroni si somigliano un po'. Il mio saggio era di poche pagine, e non poté essere pubblicato perché ero ebrea. Cinque anni dopo, a New York, venne a cercarmi Oppenheimer.» «Fu una sorpresa?» «Era così strano rivederlo, perché una volta aveva i capelli lunghi. Bruni, ricciuti e lunghi. Si era tagliato i capelli come Giovanna d'Arco per andare in guerra. Sì, come Giovanna d'Arco! Teneva in mano una copia del saggio che avevo scritto da ragazzina. Prima mi chiese se desideravo vedere i miei numeri prendere vita, e poi m'invitò a lavorare per il progetto.» «È un seduttore nato.» «Sì.» Per un momento Anna scrutò il canyon e le montagne, i lampi lontani che guizzavano intorno a una vetta. «Non l'hai detto a nessuno, vero? A proposito di Harvey? E non hai neppure denunciato il tuo amico Roberto, no?» «Questo non significa che sia d'accordo con Roberto.» «O con Harvey e con me.» «Mancano appena due settimane a Trinity, e allora tutto sarà finito. Forse sarà un fiasco.» Joe sentiva il disappunto di Anna. «Odio le discussioni. Sono un vigliacco. Le discussioni sono piene di parole, e ognuno è sicuro d'essere l'unico a conoscerne il significato. Ogni parola, per me, è un canestro di anguille. Ognuno si butta per afferrare un'anguilla, la sua interpretazione, ed è pronto a battersi a morte per quella. Roberto è di Taos, e crede che questo gli dia il diritto di affermare che il bianco e nero. Harvey è del Texas, e perciò è stranissimo che io e lui possiamo dichiararci d'accordo su qualcosa. E io e te?» «Sì.» «Ecco perché amo la musica. Suoni un do ed è un do e niente altro. È come parlare chiaramente per la prima volta. Essere intelligenti. Comprendere. Un Mozart o un Art Tatum si siede al piano e ne trae la verità innegabile.» «Sentirai parlare di me» disse lentamente Anna. «Sentirai dire che sono
una pazza e una sgualdrina. Non m'interessa quello che dice la gente, ma voglio farti sapere che è vera una sola delle due cose.» «Quale?» «Qual è più importante per te?» Joe esitò a lungo, e proprio allora arrivarono al primo posto di blocco. Dato che aveva sempre fornito agli MP sigarette e tagliandi delle razioni, si aspettava che gli facessero segno di passare, come al solito. Ma quella sera il posto di blocco sembrava una scena western organizzata ad uso dei turisti: la luce gialla che filtrava da una baracca investiva un gruppo di uomini a cavallo. Gli uomini erano curvi e stanchi, i cavalli fumigavano nell'aria notturna. Le jeep con i fari accesi erano piazzate sulla strada ai due lati della baracca. Joe si fermò ma non spense i fari della Plymouth. «Tu resta qui» disse ad Anna, e scese. «Se qualcuno te lo chiede siamo stati in giro in macchina, e non sai esattamente dove.» Nella luce dei fari i cavalli brillavano di sudore. Tra i cavalieri c'era il sergente Shapiro. Il caporale Gruber aveva un braccio al collo. Shapiro rise. «È caduto da cavallo, capo. Si è rotto il braccio.» Quando Joe entrò nella baracca, il capitano Augustino alzò gli occhi dalla carta topografica che stava studiando con Billy e Al. Il capitano era tutto azzimato e portava un giubbotto alla Eisenhower. I due cowboy erano luridi dopo una giornata passata in sella. Al teneva gli occhietti socchiusi, le labbra strette, e sul mento gli spuntava una barba ispida bianca. I capelli di Billy erano spioventi, d'un giallo sporco. «Si parla del diavolo e ne spunta la coda.» Augustino sembrava soddisfatto come se dopo una giornata stancante si trovasse di fronte a un meritato divertimento. «Venga, venga, sergente Peña. Conosce già i nostri amici Al e Billy del Servizio Indiano. Billy è quello che ha scaraventato a terra come un sacco di letame durante la danza.» La baracca era un po' troppo piccola per quattro uomini e una stufa panciuta. L'unica illuminazione era data da una lampadina nuda. Alle pareti c'erano un orologio, una carta topografica, il telefono, un manifesto ingiallito che mostrava le sagome degli aerei tedeschi, tabelle con vecchi ordini del giorno, elenchi di licenze, fogli d'uscita e d'entrata. Joe sospettava che gli unici nomi di persone uscite e non rientrate fossero il suo e quello di Anna. Augustino prolungò il silenzio per intensificare il disagio generale. «Si è perso il divertimento, sergente.» «Davvero, signore?»
«Certo, sergente. C'era stata un'autentica caccia all'uomo, una retata per cercare un suo amico indiano. Sa, quel suo amico che ha aggredito uno dei nostri ospiti con una doppietta. Lo stesso amico che lei ha sostituito nella danza. Ma non avrebbe dovuto fare da autista al direttore?» «Voleva conoscere l'identità dei danzatori, signore. Per questo ho partecipato anch'io.» «Appunto. Ha scoperto l'identità di qualcuno?» «Nossignore. Non si sono tolti né le maschere né il cerone in mia presenza.» Al sbuffò: «Non sapeva che il danzatore che ha sostituito stava per essere arrestato?». «E come potevo saperlo?» «Ecco una domanda acuta, sergente» disse Augustino. «Così acuta che noi ce la siamo posta per tutto il giorno. Questi signori sospettano che ci sia stato un informatore; ma io sono convinto che loro siano stupidi e lei furbo. Chi crede che abbia ragione?» «Non saprei neppure questo, signore.» «Bene, io ho una grande stima per lei, sergente, davvero.» Augustino spianò con le mani la carta topografica. «Ora, abbiamo passato una giornata molto intensa su tutte le autostrade del New Mexico settentrionale e su tutte le strade sterrate e gli arroyos intorno al pueblo Santiago. Abbiamo incontrato qualche serpente a sonagli. E mi pare che il caporale Gruber abbia fatto una brutta caduta. Ma il suo amico sembra sparito.» «Dev'essere molto svelto, signore.» «E anche cieco, sergente. Strano e sensazionale. E lei come ha passato la giornata, sergente? Ha avuto molto da fare?» «Sissignore. Ho cercato di obbedire alla richiesta del direttore. Purtroppo non ho ottenuto nessun risultato.» «Dovunque sia andato, è là che troveremo il suo amico cieco» disse Billy ad Augustino. «E così non saremo costretti a frugare di nuovo ogni pisciatoio di rovina indiana.» «Era solo, sergente?» Augustino lanciò un'occhiata all'esterno, verso la Plymouth. «Era solo in questa sua ricerca?» Staccò dal gancio il foglio d'uscita. «Non risponda. Non faccia niente fino al mio ritorno.» Uscì e si avviò a passo svelto verso i fari della Plymouth. Joe scorse la silhouette di Anna a bordo della macchina. «Mi hai buttato a terra come un sacco di merda, eh?» chiese Billy. «Così ha detto il capitano» mormorò Joe e guardò Augustino sporgersi
all'interno della Plymouth. «Ecco, oggi Billy si è comportato da vero idiota, intromettendosi in una cerimonia, e vorrei scusarmi.» Al aveva una voce affannosa, cantilenante. «In cambio, deve dirmi chi le ha soffiato che stavamo per beccare il suo amico cieco. Qualcuno deve averglielo detto, perché non può esserci arrivato da solo. Conosco gli indiani. Sono vent'anni che li prendo a calci nel sedere. E si volti, quando le parlo.» Al aveva impugnato la Colt arrugginita a canna corta, un modello antiquato conosciuto come "l'amica del bottegaio". Al era piccolo - i cowboy avevano la tendenza a usurarsi come i pali degli steccati - ma la pistola lo faceva apparire un po' più imponente, come se levitasse. Billy s'inclinò all'indietro. «Questo è territorio indiano» disse Al. «Il Servizio Indiano è l'unica cosa che riesca a dargli una parvenza di civiltà. Se maltratta il Servizio Indiano, mina alla base il sistema che vi tiene in vita tutti quanti.» Joe guardò dalla finestra. A giudicare dai suoi gesti, Augustino stava chiedendo ad Anna di scendere dalla macchina. «Alla base del sistema c'è il rispetto. Io e Billy passiamo settimane e settimane circondati dagli indiani, per far applicare le leggi. Le leggi sulle pecore, sui liquori, sull'istruzione obbligatoria. L'unica cosa che ci protegge dai bravacci indiani ubriachi è il rispetto. Diavolo, altrimenti ogni volta dovrebbero farci scortare dalla cavalleria, no? E mi guardi.» Al teneva gli occhi socchiusi nella foga di comunicare. Il cappellaccio gli era scivolato indietro, e rivelava i capelli appiattiti come penne sulla pallida metà superiore della fronte. «Ecco perché quello che ha fatto oggi a Billy è così pericoloso: perché ha minato il rispetto per noi. Anche se alla scena hanno assistito soltanto indiani Pueblo. Grazie a Dio erano Pueblo, non Navajo o Apache. Perciò Billy si scusa.» «Chiedoscusa» disse in fretta Billy, come se fosse un'unica parola. «E adesso» continuò Al, «ci dica chi le ha passato la soffiata e ci dica dov'è il suo amico cieco.» Dalla finestra, Joe vide Augustino scostarsi come se Anna stesse per scendere dalla macchina. «Figlio di puttana, mi guardi!» Al spianò la pistola verso lo stomaco di Joe. «Stia a sentire, per me è soltanto un bravaccio indiano, un eroe da bar. Tornate tutti qui a raccontare le vostre storie come se non ci fossero mai state altre guerre. Altri bravacci indiani sono tornati dalla prima guerra
mondiale dandosi le stesse arie, e io li ho rimessi in riga alla svelta. Se non vuol parlare, le sparo alle palle. Perché è un fottuto indiano, e io sono il Servizio Indiano e non me la racconta giusta.» La mano di Al era sicura, larga, callosa. Alzò il cane della pistola. «No» disse Joe. «No. Questo è un posto di blocco dell'Esercito degli Stati Uniti. Io sono un sergente che esegue gli ordini del direttore di un progetto dell'Esercito. E lei è un mangiamerda che sbatte le pecore, e non farà un bel niente.» Al scosse la testa, abbassò la Colt e spinse leggermente il cane. La porta si riaprì alle spalle di Joe e Angustino rientrò, solo. Al rise. «Aveva ragione» disse ad Augustino. «Dopo la fine della guerra ci vorrà un bel po' per riportare le cose alla normalità.» Augustino guardò la pistola. «Fuori» disse ad Al. «Stavo solo...» «Fuori tutti e due.» Mentre i cowboy passavano accanto a Joe e uscivano, Augustino sedette sulla carta topografica. Prese una sigaretta, l'accese e sospirò. «Tutti scherzi, sergente, tutti scherzi. Non è il caso di prenderli sul serio. Quei due spostati farebbero la coda per la minestra se non lavorassero alle dipendenze del governo. Almeno sanno stare in sella, e non si può dire altrettanto dei nostri MP. Certe volte penso che ci tocchino sempre i falliti in uniforme.» Augustino girò gli occhi verso la porta e la macchina ferma. «La dottoressa ha detto che le ha chiesto di accompagnarla un po' in giro. Ha detto che è stato un autista impeccabile per tutto il giorno e per tutta la notte. Il dottor Oppenheimer ha detto che l'aveva rimandato indietro per controllare i danzatori. La stanno coprendo tutti, sergente.» «Sissignore.» Il capitano si tolse il berretto come per creare un clima privo di formalità. Nella luce della lampadina i suoi occhi infossati erano nascosti. Le guance magre avevano un riflesso bluastro. Dai polsini, sul dorso delle mani, spuntavano ciuffi di pelo. «Vede, sergente, l'incidente tra Fuchs e il suo amico stregone mi sembra un esempio classico di malinteso tra due razze diverse. Ora, lei funge da collegamento non ufficiale tra il dottor Oppenheimer e il pueblo. Capisco che la sua intenzione era risolvere il problema senza chiasso. Però ho saputo che domenica, dopo aver lasciato Fuchs, era venuto a cercarmi. Mi ha trovato?» «Nossignore.»
«Le avevano detto che ero in Bathtub Row. È andato a cercarmi là?» «Sissignore.» «E chi ha visto?» «Non c'era nessuno in casa, signore.» «E poi non mi ha più cercato?» «Mi è sfuggito dalla mente, signore.» Augustino scosse la testa come un confessore addolorato. «Sergente, credo che abbia passato il segno. Lascia che Fuchs venga minacciato con un fucile. Non poteva sopraffare un cieco? E aggredisce un funzionario del Servizio Indiano. Partecipa a una danza indiana. Lei! Lasci che glielo dica, sergente: questa notte era già tornato in quel buco a Leavenworth, insabbiato ancora più profondamente di prima. Ma poi è arrivato al volante di quella macchina.» Joe seguì lo sguardo del capitano verso la Plymouth. «Signore?» «Oggi, mentre correvo avanti e indietro sulle autostrade, sono passato da Esperanza e ho visto quel coupé nel parcheggio di un motel. Conosco tutte le macchine della Collina e ho preso nota della targa e dell'ora.» «Forse c'eravamo fermati per prendere un caffè, signore.» «Stasera sono ripassato davanti al motel. Il coupé c'era ancora. Adesso è qui. Vedo che ha seguito le mie istruzioni, dopotutto.» «Non è affatto così, signore.» «Non voglio sapere come ha fatto, ma voglio tutti i dettagli personali della vita della dottoressa Weiss, i suoi legami con il partito e i suoi rapporti con il dottor Oppenheimer.» «Sono cose che non mi dirà.» «Gliele dirà. Credo che abbia uno speciale talento con le donne, sergente. Prima che lei abbia finito, scommetto che le avrà detto tutto.» La strada illuminata sembrava ondeggiare come neve quando Joe uscì dalla baracca. Balzò in macchina, innestò la marcia e chiuse la portiera. Non trovò il coraggio di guardare Anna. I cavalli sbuffarono e si scostarono dai fasci di luce dei fari quando la Plymouth si mosse. Gli MP si girarono sulle selle per guardare. Al e Billy rimasero fermi ai due lati della macchina quando passò davanti alla baracca. «Non mi hai risposto» disse Anna. «Secondo te che cosa sono, una pazza o una sgualdrina?» «Vuoi rivedermi?» chiese Joe. «Sì.»
«Allora devi essere pazza.» 17 Nel capannone del montaggio dell'esplosivo, sulla Two Mile Mesa, Joe teneva fermo un modello della bomba di Trinity su un materassino per la lotta libera. Era una sfera di cinquanta centimetri, fatta di lamine d'acciaio imbullonate agli orli. Sembrava una grossa spora d'acciaio, oppure un vaso per semi con l'orlo seghettato perché Foote e un soldato semplice, un certo Eberly, stavano ancora aggiungendo le ultime lenti di esplosivo ad alto potenziale. All'interno dell'edificio di cemento precompresso la temperatura era di poco inferiore ai cinquanta gradi e i tre uomini, a torso nudo, avevano addosso una seconda, fluida epidermide di sudore. Foote era un baronetto, il gradino più basso nella scala della nobiltà britannica, e ostentava il numero più elevato di eccentricità che si potessero incontrare sulla Collina. Al sole portava un sombrero messicano; nel capannone portava una catenella tintinnante di medagliette religiose. Eberly era uno studente laureato che era venuto per la prima volta sulla Collina come scienziato civile senza un pensiero al mondo, e poi era stato arruolato e rispedito lì con una paga che era un quarto del precedente stipendio. Era dinoccolato, aveva la testa rapata e il collo quasi più lungo della testa. Il suo pomo d'Adamo, adesso, andava continuamente su e giù per l'indignazione. Le lenti erano cunei fusi di Baratol e di Composition B, due esplosivi a base di tritolo che avevano tuttavia diverse velocità di esplosione. Come le lenti di vetro piegavano e concentravano la luce, le lenti grigiastre dell'esplosivo ad alto potenziale concentravano le loro onde d'urto dalla circonferenza esterna della bomba al centro, causando un'implosione. Naturalmente, quello era solo un modello da far esplodere sulla mesa, e perciò al posto di un nucleo di plutonio c'era una palla da baseball. Sugli altri materassini erano sparsi altri modelli della bomba in diversi stadi di montaggio, utensili di bronzo che non provocavano scintille, carrelli rossi, vasche d'acqua e bottiglie di latte tiepido. Sulle pareti spiccavano diagrammi, radiografie spettrali, un'effigie della Madonna di Guadalupe, una preziosa foto di Hedy Lamarr nuda e, a intervalli di sei metri, un estintore e un secchio di sabbia. Questi ultimi oggetti avevano una funzione puramente ornamentale perché tutti sapevano che, se mai ci fosse stato un incidente nel capannone del montaggio, tutti sarebbero volati all'altitudine dei cirrostrati prima che qualcuno avesse il tempo di gridare: «Al fuo-
co!». Foote preparava ogni lente, e inseriva un pezzetto di carta velina in un foro, sistemava un frammento di scotch su una crepa. Quando l'aveva inserita al suo posto, Eberly impugnava una chiave inglese di bronzo e avvitava una lamina d'acciaio sopra la lente. Le lamine pentagonali si incastravano l'una nell'altra come i frammenti di un puzzle risolto lentamente, e formavano le pareti della sfera. Il compito di Joe era impedire che la sfera rotolasse via. «Io odio l'Esercito» disse Eberly. «L'Esercito vuole che tu lo odii» disse Joe. «È il suo sistema. È questo che ci lega tutti insieme e fa di noi un'unità combattente.» «No, è una questione individuale» insistette Eberly. «Sai qual è la nuova campagna della sicurezza? Le lesbiche! Con tutte le ausiliarie che ci sono qui, quelli della sicurezza non vanno a pescare proprio la mia ragazza per chiederle se è lesbica?» «Joe, le sono davvero grato del suo aiuto.» Foote cambiò argomento per delicatezza e inserì un'altra lente: l'estremità concava toccava la palla da baseball. «Oppy continua a mandare i miei ragazzi a Trinity. Mi hanno detto che è un posto infernale. Gli spagnoli lo chiamavano Jornada de Muerto, il Viaggio del Morto. Scorpioni, deserto, serpenti, formiche feroci, indiani ostili. Mi domando come mai tutto questo lo distingue dal resto del New Mexico. A proposito, l'ho vista danzare. Sensazionale.» «Si fa tutto il possibile per accontentare i turisti.» «Cosa farà dopo la guerra un uomo come lei? Certo, è troppo vecchio e intelligente per tornare a fare il pugile. È il sergente più inverosimile che abbia mai conosciuto.» «Groves diventerà famoso come il generale atomico. Forse io sarò il sergente atomico.» «E la mia ragazza potrebbe essere la lesbica atomica» disse Eberly. «Riusciranno a finire in tempo?» chiese Joe. «L'ordigno a uranio è molto più semplice» disse Foote. «Qui bisogna comprimere una sfera solida di plutonio in una massa supercritica più densa, e questo è teoricamente concepibile se la sfera viene compressa da un'onda d'urto perfettamente simmetrica. Il che può avvenire se ognuna di queste lenti viene fatta esplodere nello stesso milionesimo di secondo.» «"Critica", "simmetrica". Ma in fondo è soltanto una bomba, giusto? Quando ho accompagnato Oppy e Groves a Trinity, per Natale, parlavano di un'esplosione equivalente all'incirca a cinquecento tonnellate di tritolo.
Oh, è grossa, sì, ma non fantastica.» «È tutto cambiato. Adesso la previsione è cinquemila tonnellate. Un'altra differenza è che una bomba normale genera temperature di poche migliaia di gradi. Un'esplosione nucleare può arrivare a dieci milioni di gradi. Tutta un'altra cosa.» Eberly incipriò l'ultima lente con borotalco per neonati. Mentre l'inseriva nell'ultimo spazio vuoto, Foote ne guidò la punta con un calzascarpe. «E se la mia ragazza è lesbica» disse Eberly, «io che cosa sono?» La lente si bloccò quando mancavano ancora un paio di centimetri. Foote appoggiò sulla lente l'ultima lamina e prese un martelletto rivestito di pelle scamosciata. Il sudore gli sgocciolava dalla punta del naso. Come un tagliatore di diamanti che batte su una gemma, doveva martellare la lente ostinata abbastanza forte per farla muovere, ma non tanto da incrinarla. Tenuto conto del costo del progetto, quella lente valeva almeno come un diamante. Ma un tagliatore di diamanti non doveva preoccuparsi delle scintille. Foote si umettò le labbra. «Lesbiche, già.» Batté sulla lamina. La lente di esplosivo che stava sotto parve scrollarsi e poi scivolò al suo posto. Eberly allineò la lamina e incominciò a imbullonarla. «Credo che gradirei una buona sigaretta» disse Joe, alzandosi fiaccamente dal materassino. «Faccia pure. Finiremo noi.» Era vietato fumare all'interno del capannone e anche all'esterno, entro un raggio di quindici metri; ma tutti si concedevano pause nervose per fumarsi una sigaretta sopra un secchio di sabbia, contro la parete di fondo. Joe andò ad accendere. Sul muro, sopra il secchio, Hedy Lamarr galleggiava sull'acqua, stesa sul dorso. Poco lontano c'erano cinque radiografie fissate con le puntine; e un'annotazione scarabocchiata precisava che erano state fatte a distanza d'un milionesimo di secondo l'una dall'altra, in un bunker delle radiografie del Giardino Pensile. Sulla prima pellicola nera c'erano dodici luci, come un cerchio di bengala. Era l'esplosione. I raggi X avevano convertito in luce pura le onde d'urto. Nella seconda pellicola le luci si erano espanse, congiungendosi per formare la sagoma d'un fiore, una margherita ardente. Nella terza, le luci erano divenute dodici linee protese verso il centro. Nella quarta, le luci delineavano un disco scuro, un nucleo metallico; e
alcune riverberavano come in una corona solare. Nell'ultima pellicola il nucleo era compresso a metà della grandezza iniziale, e i raggi vorticavano. Era un collasso, non già nella tenebra ma nella luce. Joe si voltò a guardare la bomba posata sul materassino. Così ultimata, era una sfera di sessanta centimetri di diametro e di duecentocinquanta chili di peso, formata da lamine d'acciaio. Forse una sfera a incastro o un'opaca spora metallica. Non sembrava affatto come la rivelavano le radiografie... un piccolo sole. Quella sera, tutti si accalcarono nel Teatro 2 per vedere un filmato appena arrivato da Washington. Robert P. Patterson, il sottosegretario della Guerra, la sua scrivania e la sua bandiera riempivano lo schermo. Patterson aveva la faccia rincagnata, un ciuffo di capelli grigi e due grosse mani intrecciate al centro di uno schieramento di penne e di telefoni. Il filmato era granuloso, il sonoro irregolare, e questo contribuiva a creare un'atmosfera di urgenza. «L'importanza di questo progetto non è tramontata con il tracollo della Germania.» Il sottosegretario si protese in avanti. «Voi sapete che genere di guerra è quella che ci troviamo a combattere nel Pacifico. Abbiamo incominciato a far pagare ai giapponesi la loro brutalità e i massacri dei civili indifesi e dei prigionieri di guerra.» Patterson scrollò la testa con fare deciso. «Non desisteremo prima di averli schiacciati completamente.» Strinse le mani a pugno. «Voi avrete un ruolo importante nella loro disfatta, e non dovranno esservi cedimenti.» I film della serata erano Ritorno a Bataan e un cartone animato di Bugs Bunny. Ma Joe e Anna se n'erano già andati. 18 Nella luce della fiamma, la stanza sembrava vibrare. Anna girò lo sguardo sul crocifisso e sui santi appesi ai muri di mattoni cotti, le travi basse del soffitto, la coperta a righe sulla branda, Joe che sistemava i ciocchi di piñon in una V capovolta sopra i legnetti accesi nel camino d'angolo. Attraverso le imposte giungevano i suoni della sera: bambini in lontananza, una porta che sbatteva, qualcuno che scacciava un cane. Quando adagiò Anna sulla coperta ruvida, Joe le baciò la bocca socchiusa, il collo, i piccoli capezzoli scuri. Le passò la mano sul ventre pallido,
fino alle gambe e al mistero essenziale, un triangolo nero su una morbida incudine bianca. «Benvenuta a Santiago.» Joe dormiva cingendo Anna con le braccia e sognava Augustino. Il capitano lo seguiva con il fucile spianato mentre lui saliva un'erta collina innevata per raggiungere Anna. Joe ed Anna erano nudi, mentre Augustino era vestito come un Apache, con una giacca di velluto a coste e un cappello dalla cupola alta. La neve si trasformò in cenere. Anna scomparve, e sopra la cresta della collina arrivò un branco di mustang immersi nel vapore e nella luce d'una bomba al fosforo. Il tuono echeggiava come se la terra s'incrinasse in lontananza. Nel camino c'era il chiarore smorzato e cupo delle braci. Anna non era a letto e i suoi indumenti non erano sulla sedia. Le imposte erano spalancate alla luna piena. Era mezzanotte passata e Joe non sapeva dove fosse Anna, a meno che fosse andata alla latrina; ma dalla sua parte il letto era freddo, e lui aveva l'impressione che si fosse alzata da diverso tempo. Indossò i calzoni e la camicia e uscì. Il pueblo era azzurro. Azzurri i mattoni, azzurre le staccionate, azzurri gli alberi. Joe alzò una mano: azzurra. I lampi guizzavano sopra le Jemez Mountains, ma il resto del cielo era sereno e le stelle erano affievolite soltanto a causa dello splendore della luna. Il suolo sembrava ghiaccio. La jeep era ancora vicino alla pompa. Joe passò correndo davanti alla casa dei Reyes per raggiungere le latrine, ma Anna non c'era. Mentre tornava indietro notò un'ombra eretta nella notte, una colonna di fumo intrecciata a scintille che saliva dal cortile dei Reyes. Su due sedie ai lati del fuoco c'erano Anna e Sophie Reyes, e parlavano a voce bassa. Sophie era la moglie di Ben, la sorella taciturna di Dolores; era così timida da essere praticamente un segreto di famiglia. Se non fosse stato per i vasi che le sue nipoti andavano a vendere sotto il portal a Santa Fe, probabilmente nessuno al di fuori di Santiago avrebbe saputo della sua esistenza. Aveva i capelli corti e grigi, striati di nero e di bianco, un viso molle ed esitante, e portava un grembiule macchiato sopra la camicia di cotone e il tradizionale abito che lasciava una spalla scoperta. Il fuoco era soffocato: sterco bovino ammucchiato sopra la legna per conferire ai vasi una tinta nera, ricca di carbonio. Joe non avrebbe saputo dire che cosa fosse più inverosimile: il fatto che Sophie cuoceva i vasi nel cuore della notte o che
parlava con Anna. Le due donne lo guardarono mentre varcava il cancelletto. «Non riuscivo a dormire» sussurrò Anna. Tutte e due tenevano in mano stecchi anneriti, come se avessero attizzato distrattamente il fuoco mentre parlavano. I vasi già cotti erano allineati su rastrelliere carbonizzate su un lato del cortile, e sul lato opposto c'erano vasi ancora crudi, di forme diverse. Pannocchie di mais, sfilze di peperoncini e mazzi di camomilla secca pendevano tra le ombre screziate della luna sotto una ramada. Accanto alle sedie c'erano secchielli di colori a tempera, cocci e argilla fresca avvolta in carta da giornale. «Cosa state facendo?» chiese Joe. «Lo vedi anche tu, che cosa sto facendo.» Sophie si appoggiò alla spalliera della sedia per scrutarlo. Joe non ricordava che lo sguardo di sua zia fosse così franco. «Al buio?» «La luce è sufficiente. Mi sentivo sola. Sono contenta che lei sia venuta. Parla senza far rumore, e questo è molto bello. Non svegliamo nessuno.» «Fa freddo.» «Allora torna a letto» disse Sophie. Joe non raccolse il suggerimento. E poi era abbastanza caldo intorno al fuoco coperto e quasi invisibile. «La tua donna è buona» disse Sophie. «Pensa i numeri.» «È una matematica.» «E io che cosa ho detto? Come Donna Pensante.» «Donna Pensante?» chiese Anna. «Donna Pensante pensò il mondo» spiegò Joe. «I suoi pensieri divennero terra, acqua, animali, persone. Tutto ciò che pensava divenne reale.» «Come te.» Sophie batté lo stecco contro lo stecco di Anna. «Le altre sue donne erano tutte sgualdrine.» «Grazie» disse Joe. «È successo perché se ne è andato a New York e poi nell'Esercito» disse Sophie ad Anna. Alzò gli occhi verso Joe e gli chiese: «Perché ti sei arruolato nell'Esercito?». «Sì, Joe» disse Anna. «Perché?» Quella conversazione che fioriva nella notte era irreale, pensò lui. «È complicato.» «Eri nell'Esercito già allo scoppio della guerra» disse Anna. «Quindi dovevi esserti arruolato di tua iniziativa.»
«Lo vedi com'è intelligente?» disse Sophie. «Non mi sono arruolato proprio di mia iniziativa.» «Allora dovevi essere nei guai» insistette Anna. «Vedi?» disse Sophie. «E va bene. Ero con certi amici miei a New York. Decidemmo di offrire un concerto gratis ai militari del New Jersey, a Fort Dix. Soldati negri. Pensavamo di fargli ascoltare un po' di jazz, magari una parata.» «Vi eravate messi d'accordo con gli ufficiali, Joe?» «No. Il nostro arrivo non era previsto.» «E che ora era, Joe?» «Verso le tre del mattino. Più o meno a quest'ora. Quando si fanno le cose più stupide.» «Vuoi dire che eravate ubriachi, Joe.» «Vedi?» disse Sophie. «Ci furono molti danni, Joe?» «Alcuni degli strumenti musicali si conciarono piuttosto male quando andammo a sbattere contro il cancello. Ricordo vagamente una rissa sul percorso per la piazza d'armi, e un'azione di contenimento intorno al chiosco della banda. Poi ricordo soprattutto settanta o ottanta MP che mi stavano seduti addosso. Comunque, l'Esercito aveva bisogno di uomini. Ci offrirono un'alternativa: arruolarci o finire in galera. Scegliemmo tutti l'arruolamento. Io fui l'unico a superare la visita medica.» «È un modo pazzesco di arruolarsi nell'esercito.» «Arruolarsi quando si è sobri è ancora più pazzesco.» «Gli uomini sono così stupidi» disse Sophie ad Anna. «Mio marito dovrebbe essere qui dove avrebbe tante cose da fare, ma vuole andare a nascondersi nei canyon, vuol fare l'eroe. Gli uomini non parlano con le donne, capisce? Sono troppo superiori. A volte penso che passino tutta la vita preparandosi una bella morte. In un modo o nell'altro, qui finiscono tutti per ammazzarsi. Ben è vecchio e questa potrebbe essere la sua ultima occasione. E tocca a me camminare tutto il giorno per portargli viveri e sigarette.» «È con Roberto?» chiese Joe. «E dove potrebbe essere, se no?» Dunque era per questa ragione che Sophie cuoceva i vasi di notte. Le cose acquistavano un senso, se avevi la pazienza di aspettare. «Il Servizio Indiano ha mandato le guardie a cavallo da qui allo Utah per cercare Roberto, e tu trotti a portargli uova e pancetta?»
«Gli passi sotto il naso?» chiese Anna. «Sì. Non badano a una vecchia che va a prendere l'argilla. Cercano Joe.» «Io non ho niente a che fare con Roberto.» «Roberto non la racconta così» disse Sophie ad Anna. «Parla sempre di Joe.» «Senti molto la mancanza di tuo marito» disse Anna. «Sì. Questa notte il diavolo è passato davanti alla mia finestra. Aveva la pelle gialla, le corna d'argento e il fucile.» Joe disse: «Sophie, fammi un favore. La prossima volta che vedi Roberto, digli che io non c'entro. Lui ha voglia di giocare ai cowboy e agli indiani. Io no. È una faccenda che non mi riguarda». Quando tornarono nella sua casa, Joe accese una lampada a cherosene e versò lo scotch in due bicchieri mentre Anna guardava le fotografie alle pareti. «Non c'è neppure una tua foto.» «Sono di mio fratello Rudy. Non credo che ce l'abbia fatta a salvarsi a Bataan. È strano: riesco a immaginarlo meglio di notte che di giorno perché qui fuori tenevamo gli animali. Io badavo ai cavalli. Rudy aveva una conigliera. Andavamo a portargli da mangiare la sera, e mi sembra ancora di vedere Rudy e quelle coniglie bianche, il loro bianco lanoso nell'oscurità.» «Ma neppure una fotografia tua?» «Me n'ero andato da casa. Avevo quindici anni quando andai a El Paso. C'era un circo che svernava là e io cominciai a portare l'acqua e il fieno.» «Doveva essere emozionante.» «Portare il fieno per gli elefanti? Ricordo soprattutto quanto sternutivo» disse Joe, porgendo un bicchiere. «Bene, non avevo mai sentito Sophie parlare tanto. Ti fa piacere essere Donna Pensante?» «Mi piace immaginare che sono stata io a inventarti con il pensiero, che tu sei una mia idea.» «Una tua idea?» «La mia idea più grande. Cos'altro facevi, al circo? Mi sento responsabile.» «C'era un vecchio pugile. I giovani del posto pagavano cinque dollari con la speranza di vincerne cinquanta se fossero riusciti a stenderlo. Nessuno ci riusciva mai. Fu lui a insegnarmi i primi rudimenti del pugilato, e probabilmente è per questo che tiro soprattutto di rimessa. Ma il migliore
di tutti era il direttore dell'orchestra del circo. Qui, in chiesa, avevo suonato un po' un organo a pedali, ma lui m'insegnò a suonare il pianoforte. Amava definirsi "un gentiluomo di fede negra" e faceva impazzire di rabbia i texani perché si vestiva meglio ed era più fine di tutti loro. Suonava il ragtime. E lo stride. Tutto. Non gli andava che io praticassi il pugilato, ma era quello che poteva farmi guadagnare: era il mio biglietto per arrivare al nord.» «Dovevi essere un bravo pugile. Ti ho chiesto due volte delle fotografie, e hai sempre schivato la domanda. Immagino che nessuno riuscisse mai a colpirti.» Joe scrutò una foto di Rudy a cavallo. «Sai, Sophie ha ragione. Gli uomini indiani coltivano la loro dignità. Non parlano molto. Come direbbe Oppy, sono non-verbali. Interiorizzano tutto e con gli estranei, che possono includere anche le donne, non dicono una parola. Bevono fino a morirne o finiscono con la macchina in un burrone; ma lo fanno con un senso di silenziosa dignità. Io non sono un indiano di quel tipo. Ho passato metà della mia vita lontano da qui. Ormai ho la mentalità d'un mezzosangue. Ho perduto l'antica dignità naturale.» «Hai qualcosa di meglio: hai l'invulnerabilità.» Joe la fissò sbalordito. «Io?» «A quanto sembra, tu sei il gigante che ha attirato sulla Collina tutti gli uomini di qui.» «Senti, Santiago è un villaggio molto povero. Qui c'è ancora la Depressione. C'è sempre stata. Negli ultimi vent'anni di reddito più sicuro è sempre stato quello prodotto dai vasi, e sono le donne a farli. Una delle ragioni per cui gli uomini tengono tanto alla loro dignità è che non hanno niente altro. Poi è arrivato l'Esercito e ha occupato la Collina e adesso gli uomini sono ben contenti di lavorare lassù: non hanno bisogno di me come attrazione. Naturalmente c'è un prezzo: se sulla Collina la casta inferiore è quella dei soldati semplici, più in basso di loro ci sono soltanto gli indiani.» «Sei mai stato colpito, o ferito, o toccato?» «Al di sotto degli indiani ci sono io perché in realtà non appartengo né a un posto né all'altro; servo esclusivamente da intermediario. Gli uomini di Santiago, almeno, sanno chi sono e hanno una casa dove tornare. Chi sono io? Un autista, un pagliaccio, una mascotte. Sono l'individuo più insignificante che ci sia sulla Collina. Sono un ex pugile, un musicista così-così che per tutto il resto della sua vita dovrà cercarsi una scrittura nei night-
club. Un gigante? Che scherzo! Ho l'impressione di perpetrare una truffa continuata, perché in fondo sono un vigliacco. Gli uomini si lasciano ingannare, si lasciano ingannare anche Oppy e Roberto, ma tu non devi farlo. Non avevo intenzione di arruolarmi, non ho fatto l'eroe a Bataan, e ho concluso una specie di patto per uscire dal carcere militare. Sono come la Gestapo... in questo aveva ragione Fuchs. Non è disprezzo per me stesso: è onestà pura e semplice. Rudy si era lasciato ingannare. Si arruolò nella Guardia Nazionale perché voleva diventare come suo fratello. Dolores non c'èra cascata. Diceva che Rudy sarebbe rimasto a casa al sicuro se non fosse stato per me. Quando scappai, le portai via un figlio. Quando partì Rudy, le tolsi anche l'altro. Mi scrisse in ospedale, in Australia, e mi disse che per lei ero morto come Rudy. Era inutile che scrivessi e tornassi a casa. Allora mi sembrò ingiusto; ma dopo un po' capii che c'era un granello di verità in quel che diceva. Avevo cercato di staccarmi da tutto ciò che era indiano, e forse Rudy era stato travolto proprio da questo. Vedi, Dolores aveva capito. Quindi ecco perché qui non ci sono mie fotografie. Quando Rudy tornerà a casa, allora la mia foto troverà un posto.» «Tua madre è morta. Hai detto che è morto anche tuo fratello. Come è possibile che trovi un posto la tua foto?» «Non sei Donna Pensante? Quindi pensa qualcosa. E comunque, sono stato colpito e ferito. E tu, tu potresti annientarmi completamente.» Anna sedeva a tavola di fronte a lui. La luna, nella parabola discendente, non penetrava più nella casa. L'unica luce era la fiamma della lampada. «Io non sono fuggita da casa. La mia infanzia è stata molto tranquilla e borghese in confronto alla tua. Fantasticavo. Pensavo che sarei diventata un'attrice come Marlene Dietrich e avrei avuto amanti ricchissimi. Poi pensavo di diventare un'aviatrice; e sarei precipitata nella giungla e avrei dovuto vivere con una specie di Tarzan mentre il resto del mondo cercava di ritrovarmi. Quando mi avessero salvato, avrebbero capito che ero stata costretta a sottomettermi. E forse nella mia fantasia c'era anche qualche indiano selvaggio.» «Come in tutte le fantasie che si rispettino.» Anna trasse un profondo respiro. «Ma dai quattordici anni in poi, la mia fantasia fondamentale era la paura. Non l'ansia: la paura. Pensavo che tutti volessero farmi male, uccidermi. Non mia madre o mio padre, naturalmente, o i miei parenti, ma tutti gli altri... il giardiniere, il tranviere, il postino. Gli spazzini, le commesse della pasticceria e i poliziotti, naturalmen-
te. Smisi di andare a scuola per settimane. Il nostro dottore diceva che soffrivo di un'isteria imprecisata. Venne un alienista da Berlino e disse che soffrivo d'un complesso di castrazione femminile. Forse era vero, ma io ero convinta che volesse torturarmi. Una ragazzina pazza! Mi portarono via le matite, le forbici, persino le calze. «Mio padre conosceva Freud. Gli scrisse a Vienna. Freud rispose che ero affetta da "un motivo di fuga". Erano sempre più numerosi gli ebrei tedeschi, disse, che soffrivano di "motivo di fuga", ma secondo lui le brutalità dei nazisti stavano diminuendo e una ragazza doveva ignorare le minacce pubblicate dai giornali e pensare quanto sarebbe stato piacevole essere una profuga. E aggiunse in un poscritto, lo ricordo ancora, che dell'America lui non aveva desiderato di vedere altro che le Cascate del Niagara. È piuttosto affascinante l'idea di Freud che contempla la grande doccia delle Cascate del Niagara. I miei genitori si sentivano tranquilli perché erano prima tedeschi e poi ebrei. Così mi mandarono nella clinica, dove a volte ci facevano l'idroterapia e a volte la cura del sonno, e io mi nascondevo sotto il pergolato pieno di api e di numeri. A pranzo ascoltavamo gli altoparlanti che trasmettevano i discorsi radio di Goebbels. Era obbligatorio. «Per essere sincera, i dottori erano gentili. Uno, che era comunista, mi suggerì di andare in Svezia. Falsificò i documenti senza dirlo ai miei genitori; ma credo sapessero che mi aveva fatta passare per ariana. Altrimenti non avrei avuto il permesso di partire. Ci voleva proprio un comunista per sapere come organizzare certe cose. Anche lui intendeva fuggire, e quindi non lo fece per pura bontà d'animo. E fu una cosa strana. Quando sbarcammo a Stoccolma, di colpo io non era più pazza. Ora mi domando, Joe, perché io? Perché di tutta la mia famiglia, una famiglia di gente buona e razionale, zie e zii, rabbini e professori e bambini piccoli, io sono stata l'unica a scamparla? E mi chiedo: Dio mi ha salvata o si è semplicemente dimenticato di me? Quindi eccomi pronta per un nuovo Dio. Donna Pensante mi sembra un notevole passo avanti.» «E rivedesti più il dottore che ti aveva fatta uscire dalla Germania?» «Mi sedusse. Molti uomini mi sedussero, all'inizio.» «Comunisti?» «Chissà? Il mondo è pieno di comunisti. In Germania, gli unici a opporsi al nazismo erano i comunisti.» «E Oppy?» «Cosa vorresti dire?» «Come hai ritrovato Oppy?»
«Aveva bisogno di un matematico. Stava raccogliendo profughi come se fossero gatti randagi. Sai qual è il mio lavoro? Trasformo le mie equazioni in programmi per un calcolatore elettronico. Trasformo ogni milionesimo di secondo di un'immaginaria Trinity in un mazzo di schede perforate perché possiamo stimare cosa succederà nella Trinity vera. Capisci? Tutti gli altri lavorano per Trinity. Oppy ispira tutti a lavorare con tanto impegno.» «Oppy ha un sentimento personale per la bomba. La bomba non esisterebbe senza di lui.» Anna riempì di nuovo i due bicchieri. «E Oppy non esisterebbe senza la bomba. Qui ci sono altri fisici più geniali di lui.» «Oh, andiamo. Se Harvey incomincia una frase, è Oppy a finirla.» «È sempre pronto a concludere i pensieri degli altri, ma sono sempre pensieri altrui, appunto. Ma ciò che volevo dire è che nessuno pensa a ciò che succederà dopo che la bomba verrà usata. Nessuno si domanda se la bomba dovrebbe essere usata o almeno se sarebbe il caso di darne una dimostrazione ai giapponesi. Vedi, non sono ancora arrivati all'evento di Trinity e quindi non pensano alle conseguenze. Io sì. Sulle schede perforate non ci sono soltanto la sfera di fuoco, l'onda d'urto, le radiazioni, ma anche una città immaginaria... tante strutture d'acciaio, di legno, di cemento. Le case crollano sotto onde d'urto di un decimo, un quinto di atmosfera. Per le costruzioni d'acciaio, è importante la durata. Se l'onda d'urto si protrae per diversi secondi, la quantità decisiva è la pressione massima. Io posso arrestare l'esplosione a qualunque punto, posso andare avanti o indietro. Nessun altro lo vede: è come se non fossero capaci d'immaginare un'ombra prima che sia sorto il sole. Io lo vedo ogni giorno. Ogni giorno io uccido migliaia e migliaia di persone immaginarie. L'unico modo per farlo è avere la certezza che sono puramente immaginarie, niente altro che numeri. Purtroppo, questo rafforza una mia nuova fantasia. In certi momenti ho la sensazione di essere un numero in una delle colonne di una scheda perforata che vola attraverso la macchina. E mi sembra di dileguarmi.» «Per finire dove?» «In Germania. Freud aveva ragione, dopotutto. È difficile essere un profugo quando pensi d'essere morto.» Joe tirò fuori una cassetta che stava sotto il letto ed estrasse una specie di palla avvolta in un giornale. Tolse la carta e posò sul tavolo, accanto alla lampada, un piccolo, lucido vaso nero con un minuscolo foro in alto. «È un vaso per semi. È l'ultimo che mi sia rimasto, di tuttavia produzione di mia madre.»
«È bello.» «Avevo deciso di venderlo con gli altri, ma non ne sono stato capace. Volevo conservare qualcosa di suo.» «È un'opera d'arte.» «È una minuscola Terra levigata. Grazioso, eh?» Joe lasciò che Anna ammirasse il vasetto per un altro secondo, poi spense la lampada e indietreggiò. «Che cosa fai?» «Sto per lanciarti un vaso.» «Non ci vedo.» «Anch'io non ti vedo. Potrebbe essere interessante.» «Non posso...» «Prendi!» Joe lanciò il vaso con leggerezza. Gli rotolò via dalle dita e volò nel buio. Un ultimo, fievole alone di chiaro di luna aderiva ancora alla finestra aperta. Joe vide il vasetto roteare al di là del barlume fioco e scomparire nella tenebra dalla parte opposta. Attese l'esplosione della terracotta. Dall'altra parte della stanza gli giunse un'esclamazione soffocata, nient'altro. Si avviò, tese le braccia nel buio e incontrò le mani di Anna. Lei aveva afferrato il vaso all'altezza dell'orecchio e lo teneva ancora stretto così, un po' sbilanciata. Quando era andato a frugare nella cassa, Joe non sapeva che cosa avrebbe fatto. Era stato un impulso, l'inizio di un arco, l'occasione di rischiare tutto. Anna tremava. «È stata una pazzia.» «Può darsi. Ma abbiamo dimostrato che tu sei qui.» Staccò la mano dalle sue, la passò sulla collana e sulla camicetta e sul peso e il calore del seno. Sentì il ritmo accelerato del cuore «E sei viva.» L'alone alla finestra divenne più intenso e nitido. Per un momento Joe pensò che forse la luna era tornata indietro, richiamata dal volo buio del vasetto, da una forza di gravità contrastante. Se lui aveva il potere di risuscitare i morti, poteva innalzare montagne e influire sui corpi celesti. L'alone divenne un raggio di luce che sondava delicatamente i contorni indistinti della lampada, il tavolo, la spalliera della sedia, e poi un fascio di chiarore bianco che penetrava dalla finestra e riempiva la stanza. Fuori c'era una macchina con il motore al minimo. Doveva essere scesa in folle, sullo slancio, dalla strada dietro il cortile dei Reyes. «Chi è?» domandò Anna. Joe posò il vasetto sul tavolo e socchiuse la porta per guardare fuori, ma
i fari erano troppo brillanti e chi stava in macchina non ne usciva. «Non vedo» disse. Estrasse la calibro 45 dalla fondina e l'infilò nei calzoni, poi si acquattò al di sotto della luce e trascinò Anna in cucina. Attraverso le imposte sopra il lavello vide la sua jeep parcheggiata sul fianco della casa, un campo di mais con gli steli schierati e il cortile dei Reyes. Nel cortile non c'era più fumo. Ricordò l'incubo di Sophie e lo decifrò. Sophie aveva dette di aver visto un diavolo con la pelle gialla e un fucile. Le corna d'argento erano i gradi di capitano e il diavolo era Augustino. Non sapeva perché il capitano fosse venuto lì, ma ormai aveva deciso. Spalancò la finestra. «Perché non aspetti di aver scoperto chi è?» mormorò Anna. «Perché credo di saperlo.» Joe uscì dalla finestra con la testa in avanti e rotolò fra la jeep e il muro della casa. Non c'erano altre macchine e non si sentivano passi, ma Augustino era capace d'essere venuto solo. Joe si alzò, scivolando con la schiena contro l'angolo del muro. Sfilò la pistola dalla cintura, la caricò, tolse la sicura. Il vento soffiò sul campo, e le file del mais s'inchinarono frusciando. I cani tacevano. Joe non sentiva niente nel corrai, niente sul tetto. Con un unico, lungo passo girò intorno all'angolo della casa, attraversò il fascio di luce dei fari e piantò la pistola in faccia al guidatore, un negro in smoking. La macchina era una Cadillac. «Joe?» chiese Pollack. Gli occhi si spalancarono, bianchi, e parvero traboccare dalle orbite. «Joe, non sparare al tuo miglior amico. Non sparare.» «Joe lasciò ricadere il braccio. «Cosa diavolo ci fai qui a quest'ora?» «Ero venuto a lasciarti un biglietto.» La stilografica e la carta erano ancora raggelate nelle esili mani nere di Pollack. «Come faccio, se no, a comunicare con te, visto che lavori sulla Collina? Là non posso venire. Non posso far altro che lasciarti un biglietto.» «A quest'ora?» «Non sapevo che ci fossi. Dovevi passare da Casa Mañana, sabato o domenica, per firmare quei documenti.» «Ho avuto da fare sulla Collina, scusami. Se hai qui i documenti, te li firmo subito.» «Sì, li ho» disse Pollack, ma non si mosse per prenderli, ora che aveva ritrovato la compostezza. «Sai cosa vogliono fare i compratori? Vogliono demolire il club e costruire un quartiere giardino. I quattrini li hanno.» «Questo è l'importante.» Pollack sospirò. «Una fine molto triste per Casa Mañana.»
«Avrai un club nuovo a New York.» «Ma sarà uno dei tanti buoni club di New York. E c'era un solo club come si deve nel New Mexico. Era il migliore, giusto?» «Il migliore. Hai i documenti?» «Il solo jazz autentico del New Mexico. Anche se me ne andrò, sarebbe una soddisfazione.» «Vuoi che firmi o no?» «I compratori sono di Fort Worth. Li ho sentiti parlare fra di loro. Mi chiamano "sacco di carbone" e "sporco negro", nel mio club. Joe, ce la fai a mettere le mani su cinquantamila dollari? Se ce la fai, Casa Mañana è tua. Club, licenza, parcheggio, tutto quanto.» Joe rimise prudentemente la sicura alla pistola e la infilò nei calzoni. «A metà prezzo?» «Per te, sì.» «Dici sul serio?» «Ho mai scherzato quando c'è di mezzo il club?» «Le leggi vietano agli indiani di bere liquori e tanto più di servirli.» «Ci sono anche leggi che vietano il contrabbando, e tuo padre era contrabbandiere. Hai paura?» Pollack sfoggiò un sorriso giallastro. «Lo vuoi o non lo vuoi?» «Lo voglio» disse Joe e nello stesso tempo comprese che il futuro era lì. Il futuro era giunto a lui nella notte a bordo di una Cadillac silenziosa. «Lo voglio.» «Hai i cinquantamila dollari?» «Ho bisogno di un mese.» «Una settimana. Eddie junior sta per tornare dall'Italia e io voglio essere al porto ad accoglierlo.» Tra i risparmi e i guadagni della borsa nera Joe aveva da parte un po' più di quindicimila dollari. Anche se avesse venduto tutti i copertoni e tutte le calze di nailon su cui fosse riuscito a mettere le mani, non ce l'avrebbe fatta a rimediare altri cinquecento dollari in una settimana. E fra dieci giorni sarebbe andato a Trinity. «Due settimane. E se allora non avrò l'intera somma da darti, potrai sempre vendere per il doppio e scialacquare la differenza nella festa di bentornato per Eddie.» Pollack gli tese la mano dal finestrino. «Due settimane, Joe, non un giorno di più. Gliela faremo vedere noi, alla feccia bianca, che cosa significa questa guerra.»
Joe seguì con lo sguardo la Cadillac che proseguiva lungo la strada e attraversava la piazza buia. Quando si voltò, Anna era sulla soglia. Non sapeva da quanto tempo fosse lì e che cosa avesse sentito. Lo spettro della luce dei fari pareva guizzare ancora su di lei e sulla casa. Anna e la casa splendevano. Casa Mañana di Joe Peña. 19 Omega era un hangar in fondo a Los Alamos Canyon, una trincea naturale di basalto e di pini abbastanza profonda e stretta per riparare da qualunque esplosione la Tech Area, distante un chilometro e mezzo. L'hangar era diviso in due da una barriera di cemento. Un lato era occupato dal reattore in miniatura che Fermi chiamava "lo scaldabagno". L'altra parte era riservata a un banco di interruttori che comandavano a distanza il reattore e ad un esperimento di Harvey che veniva chiamato "fare il solletico alla Coda del Drago". Il Drago era un nucleo di plutonio grande come una palla da croquet e rivestito di nichelio luccicante. Stava comodamente annidato in una calotta di paraffina del diametro di cinquanta centimetri, in cima a un pistone idraulico. Sopra quella calotta, sospeso a una catena, c'era un altro recipiente concavo di paraffina. Lo scopo era controllare se una sfera esterna di "lenti" di esplosivo ad alto potenziale, per il semplice fatto di essere situata intorno a una massa pressoché critica, avrebbe riflesso una quantità sufficiente di neutroni perché il plutonio raggiungesse quella massa critica ed esplodesse prematuramente e in modo relativamente privo di efficacia. La paraffina era mescolata a una farina grigiastra di carbone in modo che avesse sostanzialmente la stessa struttura atomica dell'esplosivo ad alto potenziale senza il rischio di distruggere l'hangar, il canyon e la mesa. Nell'hangar c'erano soltanto Harvey, Oppy e Joe. L'équipe di Harvey era a pranzo, e quella di Fermi rifiutava di avvicinarsi a Omega quando era in corso la Coda del Drago. Harvey aveva sostenuto che all'esperimento dovevano essere presenti almeno due fisici, e Oppy aveva risposto che, sebbene il generale Groves avesse fatto tutto il possibile per trasformarlo in un amministratore, era pur sempre un fisico. Ed era stato Oppy a chiedere a Joe di restare e di svolgere quella che chiamava "la mansione non specializzata" di premere i pulsanti idraulici destinati a sollevare la calotta inferiore contenente il Drago fino alla calotta sospesa.
Accanto al Drago, su vari tavoli d'acciaio, c'erano un contatore Geiger, un neutron scaler che misurava le radiazioni con una serie di sei spie luminose rosse, e un altro misuratore di radiazioni che tracciava una linea rossa su un cilindro di carta. Se il Drago si fosse scaldato troppo e Joe non avesse reagito in tempo, i tre contatori erano regolati in modo da abbassare sul pavimento il pistone idraulico, la calotta inferiore e il nucleo. Harvey, che indossava un camice bianco da laboratorio, era in piedi accanto ai contatori e stava tracciando la curva della criticità con un regolo trigonometrico e una cartelletta. «Lo sollevi di venticinque centimetri» disse. Joe premette il pulsante verde mentre Oppy continuava la discussione che durava fin dal primo mattino. «Tu dici, Harvey, che i giapponesi sono praticamente sconfitti. Secondo ogni criterio razionale dovrebbe essere così, lo ammetto. Sei convinto che sarebbe utile far esplodere la bomba nel corso di una dimostrazione annunciata pubblicamente. Un'isola nella baia di Tokyo sarebbe l'ideale, un posto dove loro potrebbero portare gli scienziati più illustri e i generali. Se dobbiamo sganciare la bomba sul Giappone, vorresti che venisse impiegata contro un obiettivo remoto ed esclusivamente militare, una base lontana il più possibile dai civili. Non capisci perché donne e bambini dovrebbero morire al solo scopo di confermare ciò che intendiamo dire al mondo. E aggiungi che ci sono prigionieri americani in molte delle città giapponesi, possibili bersagli dell'attacco. Pensi che se saremo la prima nazione a usare quest'arma verremo bollati dalla storia, e perderemo le simpatie del mondo intero. Peggio ancora: temi che si verifichi una corsa agli armamenti, un succedersi di armi terribili quali l'umanità non ha mai conosciuto e cui non potrebbe sopravvivere. E usando in guerra un'arma simile distruggeremmo ogni speranza di un accordo internazionale per il futuro controllo di tali ordigni apocalittici. E infine, noi abbiamo la piena e diretta responsabilità di queste armi perché siamo stati noi a crearle. Chi, se non noi, ha il diritto e il dovere di dire se e come dovrebbero essere usate? È un riepilogo chiaro e obiettivo delle tue argomentazioni?» In effetti erano esposte anche meglio di quanto avesse fatto lo stesso Harvey. Imbarazzato, non staccò gli occhi dalla cartelletta. «Altri venti centimetri.» «Abbiamo tutti gli stessi incubi» disse Oppy mentre, con le mani nelle tasche della giacca, girava intorno a Harvey, ai tavoli e al Drago. «Questi sono gli anni degli incubi e non sono ancora finiti. Se te ne andassi prima
di Trinity, non ti biasimerei. T'invidierei.» Oppy alzò il viso magro e stanco. «T'invidieremmo tutti.» Forse la soluzione stava negli esplosivi ad alto potenziale. Hilario aveva parlato di certi appaltatori di Albuquerque. Con un paio di muli, pensò Joe, avrebbe potuto ripulire i bunker-magazzini di Two Mile Mesa. «Salire per un anno tra i monti» disse Oppy. «Non vedere un giornale e non ascoltare una radio. E non ritornare fino a che questa storia spaventosa non sarà terminata.» Harvey lanciò un'occhiata a Joe per invocare il suo appoggio morale. «Dodici centimetri.» Anche se avesse rimediato la somma necessaria, c'era il problema dei musicisti. Joe poteva permettersi di scritturare soltanto un paio di uomini di New York o di Kansas City. Avrebbe dovuto servirsi di qualche messicano. Suonatori di cornetta. C'era una tramvia che andava da Ciudad Juarez a El Paso, e avrebbe potuto farli passare sotto il naso delle guardie di frontiera. Quando le due calotte arrivarono a una trentina di centimetri l'una dall'altra, il contatore Geiger incominciò a concentrarsi con vivo interesse su ciò che stava succedendo. Lo scaler misurava i neutroni veloci per mezzo della moltiplicazione. Una spia per due neutroni, due per quattro, e su fino a sei spie per sessantaquattro particelle; quindi ricominciava daccapo. Le spie rosse ammiccavano come occhi appena destati dal sonno. «Non finirà presto.» La voce di Oppy assunse un tono più secco. «I giapponesi non hanno ceduto facilmente né a Iwo Jima né a Okinawa. Sulle loro isole si batteranno con un accanimento dieci volte più grande. E non ci saranno soltanto gli aerei kamikaze. Il servizio segreto dell'Esercito riferisce che stanno costruendo imbarcazioni kamikaze e istruiscono gli uomini a legarsi al petto i candelotti di dinamite. Le stime che ho visto per l'invasione prevedono un milione di morti. Giapponesi e americani, militari e civili.» «Dieci centimetri» disse Harvey. E c'erano un bar e una cucina da rifornire. I servizi, l'acqua, la biancheria da tavola. Poteva rivelarsi difficile aggirare le leggi che vietavano i liquori agli indiani. Forse non sarebbe stato autorizzato a versarli dalle bottiglie anche se era il proprietario del locale. Il Drago splendeva come una sfera di ghiaccio. «Una dimostrazione su un'isola sembra una buona idea, a prima vista» disse Oppy. «Con un bunker per l'imperatore e i suoi generali. Ma se un'u-
nica, enorme esplosione non convincesse i giapponesi che è stata causata da una sola arma? Già stentiamo a convincere i nostri generali, figurarsi i loro. E se la bomba facesse cilecca?» «Critico all'ottanta per cento.» Harvey osservò la linea rossa sulla carta millimetrata, poi rispose a Oppy per la prima volta. «La bomba all'uranio funziona.» «Abbiamo due bombe. Pensiamo che quella all'uranio funzioni, e speriamo che quella al plutonio funzionerà. Non abbiamo abbastanza uranio raffinato per costruirne un'altra. La bomba al plutonio dev'essere collaudata a Trinity. Possiamo procurarci altro plutonio: tuttavia non avrà importanza, se a Trinity andrà male. Il fatto è che non ne abbiamo tanto da utilizzarlo per le buone intenzioni e i fuochi artificiali dimostrativi.» Oppy aveva un tono velato dalla stanchezza. «Dio sa se vorrei che l'avessimo. Ma l'invasione avrà inizio prima che il maltempo colpisca l'arcipelago nipponico. Non verrà rinviata in attesa che noi costruiamo altre bombe o negoziamo per stabilire quando e dove l'imperatore dovrebbe assistere a una dimostrazione pacifica. Dovrebbe venire a Trinity? Trinity è fra dodici giorni. Ferma il tempo, Harvey. Dammi altre bombe e un cuscino per far accomodare il divino imperatore.» Joe aveva sempre goduto del privilegio dei musicisti, il diritto di mandare al diavolo i proprietari dei club e di suonare quello che gli pareva, vale a dire il bop quando loro volevano lo swing. Se avesse avuto un club tutto suo, avrebbe dovuto suonare tanti arrangiamenti di Miller e di Dorsey per far contenti tutti. String of Pearls, Sentimental Journey. «Ancora sette centimetri e mezzo, Joe. E allora, Oppy, almeno una base, non una città.» «Uno spreco. Sprecata la bomba, sprecati i militari. I giapponesi censurerebbero le notizie e resterebbero soltanto chiacchiere e dicerie. Conosci gli effetti dell'esplosione, Harvey. Non ci sarebbe neppure molto da vedere in un accampamento... non sarebbe come una città.» «E come i civili?» «Un obiettivo del genere segnerà la fine della guerra, Harvey.» «Civili giapponesi e prigionieri di guerra americani?» «Manderanno prigionieri di guerra in tutte le città. E quanti altri prigionieri morti e feriti ci saranno dopo l'invasione? Quante città cancelleremo dalla carta geografica con le bombe convenzionali? Quante tombe americane ci saranno?» «Io non sono diventato un fisico per imparare a disintegrare i giappone-
si.» La voce di Harvey si alzò. «Questo vale per tutti noi.» Oppy aveva un tono quasi affettuoso. «Ma vai a dire alla madre d'un giovane soldato morto sulle spiagge del Giappone, e ce ne saranno migliaia e migliaia... vai a dirle che avevi una bomba capace di porre fine alla guerra e che hai deciso di non usarla. Vai a dirlo a sua moglie. Ai suoi figli.» Il contatore Geiger ticchettava come un orologio accelerato. Le spie dello scaler moltiplicavano rapidamente, ora che le due calotte erano distanti appena venti centimetri. Nell'ombra in mezzo la sfera luccicava ancora come una nota tra i due piatti del cembalo. Una reazione a catena di un chilogrammo di plutonio liberava l'energia di quindici milioni di tonnellate di tritolo, così aveva sentito dire Joe. Una percussione sensazionale. «Il problema non è l'arma, Harvey, ma la guerra. Fare in modo che la guerra finisca e risparmiarci un atroce massacro.» La conseguenza di quell'energia era una radiazione alpha che poteva distruggere prima il midollo osseo, poi i reni. Tutti sapevano che i medici della Collina rifiutavano ogni responsabilità per il Drago. «Critico all'ottantotto per cento a sette centimetri e mezzo.» Harvey esaminò il tracciato del grafico. «Il problema è il futuro dopo la guerra. Cinque centimetri, Joe.» Dopo la guerra, l'Esercito avrebbe chiuso le basi, pensò Joe. Naturalmente la guerra aveva svolto la sua funzione sociale schiudendo il mondo al jazz americano. La guerra sarebbe accorsa a Casa Mañana. «Teller aveva le stesse paure. Ti dirò la stessa cosa che ho detto a lui: se il problema è il futuro postbellico, e riconosco che lo è, l'unico modo per dimostrare la mancanza di plausibilità di altre guerre consiste nell'usare questa bomba facendo in modo che tutta l'umanità ne sia testimone. Questa, finalmente, sarà la guerra che metterà fine a tutte le guerre. Edward Teller sarà con noi a Trinity. E per la verità avevo sperato che fossi tu a fare il conto alla rovescia dell'esperimento.» «Ottantanove» annunciò Harvey. Il contatore Geiger emetteva il suono di un archetto fatto scorrere su una corda di contrabbasso. Le spie dello scaler guizzavano tracciando nervose linee rosse. «Due centimetri e mezzo, Joe» disse Harvey. «Dopo la guerra dovrà esserci un controllo internazionale su tutti gli ordigni nucleari, e collaborazione internazionale per gli usi pacifici dell'atomo. E questo sarà possibille, quando il mondo sarà reso più razionale dalla
paura, Harvey. Ma noi dovremo assumerci la guida morale. Spartiremo le informazioni con i nostri alleati.» «Con la Russia?» chiese Joe. «Sì, con la Russia. Naturalmente» disse Oppy. «Novanta per cento. Un centimetro e un quarto, molto adagio.» Il contatore Geiger echeggiava un'ondata scattante e accelerata di elettroni. «Il futuro è futuro» disse Oppy. «La guerra è il presente. I giapponesi userebbero la bomba se l'avessero. Non esiterebbero. Sono stati loro ad attaccare. La nostra causa è giusta. Nella Bhagavad Gita è scritto: "Vi è una guerra che spalanca le porte del cielo. Beati i guerrieri il cui destino è combattere tale guerra. Non combattere per il bene significa ripudiare il dovere e l'onore". Noi scienziati siamo soldati, niente altro. Siamo su questa mesa per un caso della storia, perché la nostra nazione è stata attaccata. Non abbiamo una particolare competenza negli affari politici, sociali o militari. Non siamo stati eletti per prendere decisioni del genere e non siamo neppure preparati a farlo. Non siamo un'élite scelta divinamente per governare l'umanità solo perché siamo fisici.» «Fermo.» Accostate a meno di due centimetri, le due calotte del Drago formavano un'unica luna grigia che quasi nascondeva una luna interna più luminosa. Il segnale del Geiger divenne leggermente più acuto, le spie rosse un po' più isteriche. «Ancora novanta per cento» annunciò soddisfatto Harvey. Era esattamente ciò che aveva previsto. «Sì?» chiese Oppy. «Non lo so.» «Chiedilo a Joe. È per questo che ho voluto Joe con me, perché è l'unico tra quelli che tu conosci che abbia veramente combattuto. Se dovessi parlare a nome degli uomini destinati a sbarcare in Giappone tra qualche mese, Joe, che cosa diresti ad Harvey?» Furbo figlio di puttana, pensò Joe. Staccò la mano dal pulsante e si accorse che il pollice era attanagliato da un crampo. Aveva ascoltato il ticchettio delle particelle atomiche, ma a saturare l'hangar erano state le parole, una rete di parole che si estendeva dal tetto al pavimento. E tutti quei preamboli erano serviti a invischiare Harvey perché Joe potesse sferrare il colpo finale. «Mi dica, Joe» chiese Harvey.
«Parlando a nome dei ragazzi imbarcati» dichiarò Joe, «direi che lei è falso, direi che è peggio di un giapponese, direi che in realtà lei è un traditore.» Harvey deglutì. Il Geiger amplificava gli elettroni all'anodo, gli ioni al catodo. I neutroni danzavano al ritmo delle luci. «D'altra parte...» Joe si avvicinò al pistone. «Parlando da amico non credo che lei dovrebbe preoccuparsi di quello che dicono.» Si sporse al di sopra del Drago, la quasi-luna grigia, il nucleo semisepolto. «Se lei pensa realmente che la bomba sia un male, allora...» Il ticchettio salì, divenne un gemito. L'ago schizzò via dalla carta millimetrata. Le sei spie dello scaler erano d'un rosso fisso: lampeggiavano così rapide che non si notavano gli intervalli. Il pistone idraulico si abbassò portando con sé la calotta inferiore e scosse la base di cemento. Il nucleo argenteo subbalzò fino all'orlo della cavità della calotta, descrisse un pigro giro e poi ripiombò pesantemente al suo posto. Il gemito ronzante precipitò. Le spie rosse ripresero a lampeggiare con un palpito lento, regolare. «Cosa diavolo è successo?» Joe guardò l'ago che vibrava ancora, libero. Una linea rossa debordava dalla carta. «Il Drago è partito tutto da solo.» «Non si muova!» Harvey incominciò a scarabocchiare sulla cartelletta. Joe gli era abbastanza vicino per vedere che stava schizzando una pianta della camera, la posizione di ognuno di loro tre intorno al Drago, equazioni, una curva di criticità. L'aria era ammorbata da un odore untuoso e immondo, un gusto di paraffina fusa. Joe avrebbe voluto concludere quel che stava per dire; ma ormai il momento era passato. Imploso. Oppy lo sapeva; lo rivelava il suo sguardo azzurro. Quello era il colore dei suoi occhi, pensò Joe: azzurro-ione. «Mi ha preso in giro.» «Ti ho chiesto di dire la verità e tu l'hai fatto» rispose Oppy. «Non ho ancora finito.» «E invece sì.» Harvey alzò la testa dai suoi scarabocchi. «È stato lei!» disse a Joe. «Io?» «Il nucleo era già vicino al margine di criticità. Il corpo umano è composto principalmente di acqua - biossido d'idrogeno - che riflette i neutroni. Oppy e io non contavamo. Ma lei è più grosso. Quando si è chinato sul Drago, ha fatto diventare isterici i contatori.» «Sei un fattore più imprevedibile di quanto avessi pensato» disse Oppy. «Non ha importanza» disse Harvey. «Abbiamo i dati.»
«E adesso siamo radioattivi?» chiese Joe. «Siamo indenni» disse Harvey. «In realtà non è successo niente.» «In realtà non è successo niente» confermò Oppy. Guardarono Joe con identico distacco scientifico; all'improvviso, una linea chiara si stabilì tra lui e i due. Ricambiò lo sguardo; per la prima volta era impegnato con tutta la mente. Era ovvio che Oppy aveva vinto. La cosa interessante era la resa di Harvey, il suo sollievo. «Sa» disse Harvey, rivolgendosi a Oppy, «sto pensando che probabilmente la bomba verrebbe portata fin sopra il Giappone da un aereo. E se l'aereo precipitasse? Forse dovrei provare a collaudare il Drago nell'acqua salata.» Persino le acute tonalità texane di Harvey sembravano mutare sottilmente in un'imitazione inconscia dei toni gracchianti, orientali di Oppy. Cambiò posizione. Il suo entusiasmo crebbe. Lo sforzo di riconquistare Harvey aveva lasciato un segno su Oppy. Ogni crisi sembrava sottrargli un'oncia di carne, e adesso appariva cadaverico e più deciso che mai. Annuì con orgoglio, incoraggiando il flusso di idee che era tipico di Harvey, fino a quando Harvey chiese: «Davvero voleva che facessi io il conto alla rovescia a Trinity?». «Volevo che lo facesse un fisico americano» rispose Oppy. «E ho pensato a lei. Una voce americana.» «Ascoltate.» Joe spezzò quell'atmosfera. «Che cosa?» scattò Oppy. «Ascoltate.» Omega era nascosto tra i pini altissimi, tra i richiami delle ghiandaie e degli scriccioli e il vento che faceva stormire le cime degli alberi. Passò un momento prima che sentissero la sirena. «Un incendio.» Contarono insieme i fischi. Oppy sorrideva ironicamente come se un disastro fosse prevedibile. «Tech Area» disse Joe. Al centro della Collina, tra Main Drive e l'orlo meridionale della mesa, la Tech Area comprendeva ventisei edifici anonimi. Ogni struttura era distinta da un cartello con le lettere dalla "A" alla "Z", ma quella era l'unica cosa che avesse un senso d'ordine. Per metà erano compensato bianco militare, per metà cemento precompresso verde. Erano piazzate agli angoli più vari l'una rispetto alle altre, ed erano accomunate dallo stile militare che
imponeva l'eguaglianza di tutti i lati. Stava bruciando un trasformatore. In un certo senso l'incendio era localizzato nel punto migliore; nella parte posteriore della Tech Area, lontano dalle scorte di benzina, dal ciclotrone e dall'acceleratore di particelle, vicino alla stazione antincendio e agli idranti. Ma era stato necessario un po' di tempo per togliere l'energia al trasformatore e quando arrivarono sul posto Joe e Oppy i tralicci di sostegno, i cavi, gli interruttori e l'alto steccato di legno lanciavano nella luce del pomeriggio alte fiamme e fumo nero di creosoto. E lo steccato impediva ai vigili del fuoco di arrivare con le pompe vicino al trasformatore. A guardare l'incendio e i vigili del fuoco c'era tutta la popolazione della Tech Area: fisici della baracca del ciclotrone, soldati, medici, impiegati e, schierati compatti e impassibili in prima fila, gli indiani che spazzavano tutti i vari edifici. Un camion carico di operai edili arrivò e si unì agli spettatori. Oppy fissava le fiamme. «No, no, no» mormorava. La sua preghiera venne esaudita. I texani saltarono giù dal pianale del camion. Appena furono scesi, l'autista suonò il clacson e si avviò verso il fuoco. Il camion era un vecchio Reo con il paraurti robusto come una trave; e mentre i vigili del fuoco si scostavano in fretta, il veicolo accelerò, sfondò lo steccato in fiamme e urtò contro la barriera di cemento che circondava il trasformatore. Poi indietreggiò, avanzò di nuovo pesantemente e piombò sul cancello incendiato della recinzione. L'autista urtò contro il fuoco ancora una volta, divelse gli altri pali dello steccato e scaraventò altri rottami sul trasformatore e alla base dei tralicci. Fece marcia indietro fino a portarsi al sicuro, spalancò la portiera con una pedata e saltò giù come un cowboy che ha appena castrato un vitello a tempo di primato. Era grande e grosso, e indossava i jeans e una camicia blu da lavoro: era l'unico tra gli operai a portare la camicia. Alzò il pugno sinistro. Era mancino. Mentre i tecnici si affollavano intorno a Oppy come se la comparsa tempestiva del camion fosse stata una manifestazione della sua volontà, Joe si tenne in disparte e quasi subito fu raggiunto da Felix Tafoya. Sulla Collina, con gli abiti da lavoro color cachi e la ramazza, Felix era invisibile; a Santiago era quello che castrava i vitelli, un personaggio rispettato. Il naso gli era stato fratturato quarant'anni prima da un colpo di zoccolo. Le mani che stringevano la ramazza erano sfregiate e poderose. «Quel tejano» disse a Joe, «è il pugile di Hilario.» «Hai visto Hilario ultimamente?»
«Domani castro i vitelli, e Hilario porterà qualcuno che vuol vedere come si fa secondo la tradizione.» Il capo dei vigili del fuoco era un civile che si chiamava Daley, un irlandese dal naso rosso e affilato. Condusse Oppy e Joe a vedere i resti del trasformatore. I due tralicci dell'alta tensione erano carbonizzati e iridescenti. I cavi bruciati galleggiavano nella fanghiglia. Joe immaginò che Daley facesse quel giro per abitudine professionale, come se si stessero muovendo tra i mattoni fumanti di un caseggiato distrutto. «Ecco quello che volevo mostrare a lei e al sergente.» Daley raccattò dal fango un pezzo di legno intagliato a zigzag, per metà annerito e per metà rivestito da una doratura scrostata. «I danzatori li tenevano in mano, al pueblo» disse Oppy. «E uno scettro della folgore. Dovrebbe lanciare fulmini» spiegò Joe. «È andata così?» «C'è stato chi ha visto il fulmine colpire il trasformatore» rispose Daley. Oppy si voltò a guardare il suo ufficio con aria impaziente. Quando si girò di nuovo, sorrideva. «Joe, un incendio doloso causato da uno scettro indiano è competenza tua. Pensaci tu. Io proseguo a piedi.» «Prima che se ne vada» si affrettò a dire Joe, «ho saputo che domani a Santiago castreranno i vitelli. Dovrei andarci, caso mai ce ne fosse qualcuno radioattivo.» «I bovini e le bacchette magiche sono sotto la tua responsabilità. Ma vedi di arrivare al La Fonda per le undici. Avremo visite.» Oppy uscì dal fango, scosse la fuliggine dal cappello e si avviò verso la sede dell'amministrazione. «Il capitano Augustino parla di interventi dolosi» disse Daley a Joe. «Ha trovato una dozzina di queste bacchette in vari incendi. Incendi di sterpaglie. Adesso dovrebbe essere qui, ma è andato a Trinity.» «Questo non è uno strumento da incendiario» disse Joe, e prese la bacchetta. «È soltanto un bastone. Qualcuno l'avrà buttato nel fuoco. Ci sono tanti indiani quassù.» «Sono davvero convinti di poter attirare il fulmine?» «Sono convinti di essere loro a far girare il mondo. Il fulmine è una cosetta da niente.» Joe notò che il colore rimasto sul legno aveva un luccichio di mica, un tocco fantasioso tipico degli indiani di Taos. «Se lo dice lei.» Daley sputò, sorrise e si passò la mano sul mento. «Diavolo, dovrebbe intendersene.»
20 Dopo tre ore a cavallo Joe arrivò sul lato più lontano del Santiago Canyon. Le collinette tra il canyon e le montagne s'innalzavano in onde brune costellate di piñon, ginepro, ed erbaccia che cresceva in ciuffi fibrosi. Aveva preso il cavallo di Oppy, un baio alto e robusto che si chiamava Crisis. Lo stallone non era uscito da un mese e aveva divorato la distanza. Quando smontò per abbeverare Crisis a una cisterna, Joe vide le guardie del Servizio Indiano che attraversavano il dosso più avanti. Al e Billy si fermarono, si ersero sulle staffe e scrutarono la cisterna con i binocoli, poi proseguirono. Joe attese ancora cinque minuti all'ombra della cisterna fino a che passarono altri due uomini del Servizio Indiano. Quando anche quelli sparirono, montò in sella a Crisis e continuò verso le Jemez Mountains. Sebbene cavalcasse sotto una luce solare calda e cristallina, sulle montagne stava cadendo una delle rare piogge di quelle zone che copriva le vette d'un grigio tenue come le onde d'una pietra. La pista salì e incontrò pini ponderosa, cedri, ossa di bovini e una nuova profusione di fiori selvatici. Nel punto dove il canyon si inseriva nella montagna c'era una mesa che ricordava vagamente una corazzata. Joe spronò il cavallo su per un tratto ripido cosparso di pietre, fino alla cima. La mesa non era lunga più di un chilometro e mezzo, e non superava i cento metri nel tratto più ampio. I cedri e i ginepri si affollavano sopra la salvia nana. I cedri erano contorti e vigorosi, mezzi morti e mezzi vivi. Anche i cholla erano così, per metà verdi e per metà vuoti. Un sistema per sopravvivere nella parte alta del deserto consisteva nel fiorire e morire contemporaneamente. Il cedro dava un'ottima legna da ardere. Un ramo secco di cedro poteva durare anni, se non toccava il suolo. Joe legò Crisis a un ramo vivo e proseguì a piedi. Al centro della mesa c'erano le rovine, una logora grata di muri di pietra che arrivavano all'altezza del ginocchio. Le pietre erano di cenere vulcanica. I mattoni cotti erano stati spazzati via dalle intemperie già da molto tempo, e non era più possibile riconoscere quale degli edifici era stato un magazzino e quale un'abitazione. Ormai era un mosaico rompicapo, pensò Joe. Le pepite bianche tra le pietre erano braci consumate, vecchie d'un milione di anni. Quando ne prese una, gli si sbriciolò in polvere di talco fra le dita. Gli unici scavi, sulla mesa, li avevano effettuati gli animali. Tra i muri
c'erano i monticelli di terra soffice delle tane dei roditori, e alla terra erano mescolati cocci di vasellame neri, bianchi, brunorossicci, e frammenti di ossidiana sparsi come gemme. Un piccolo serpente a sonagli, verde come un filo d'erba novella, guizzava da un cespuglio all'altro. Joe sedette a fumare accanto a un kiva invaso da un arbusto d'uva spina. Il sole scese dietro le Jemez, tingendo a poco a poco le nubi di rosso. «Salve, Joe.» Roberto e Ben Reyes uscirono dal gruppo di cedri. Avevano le coperte sulle spalle e i capelli a trecce. «Vi ho portato qualche sigaretta.» «Come hai saputo che eravamo qui?» chiese Ben. «L'argilla. Sophie viene da te e intanto si procura l'argilla. Il posto è questo.» «Sapevo che saresti venuto» disse Roberto. «Sono venuto perché hanno trovato le tue bacchette sulla Collina.» «Che marca di sigarette?» chiese Ben. «Nei luoghi degli incendi sulla Collina. Lucky Strike.» Joe porse il pacchetto a Ben che estrasse una sigaretta con fare sospettoso. «Come hai capito che erano mie?» Roberto si accosciò a fianco di Joe. «C'è la mica nel colore. Una tipica fesseria di Taos.» «Sì.» Roberto sogghignò. Aveva il naso così lungo e i capelli così corti castani che doveva esserci qualche mercante francese o qualche mormone donnaiolo fra i suoi antenti, pensò Joe. «A me piacciono le Chesterfield.» Ben intascò due sigarette, ne mise una tra le labbra e restituì il pacchetto. «Prego. Siete davvero un temibile paio di desperados.» Joe porse l'accendino a Ben. «Dovreste nascondervi e non cacciarvi in altri guai. Per quella gente gli incendi sono una faccenda seria.» «Lui pensa che siamo noi a causare i fulmini?» Ben si accese la sigaretta. «Chi?» Joe riprese l'accendino. «Il dottore.» «Oppenheimer? Si rende conto che è quanto gli si vuol far credere.» «È abbastanza sveglio.» Roberto alzò due dita per chiedere da fumare. «Non so se devo ridere o piangere.» Joe accese una sigaretta per Roberto e una per sé. «Avevi detto che saresti scappato, non che avresti attaccato l'Esercito degli Stati Uniti. Stai attento. Per ora voi due vi nascondete dal Servizio Indiano. E questo è niente. Ma l'Esercito manderà il capitano Augustino. Augustino vi troverà. E vorrà sapere chi vi aiuta sulla Collina,
seminando una di quelle bacchette ogni volta che scoppia un incendio.» «Tu pensi che facciamo così? Prima il fulmine e poi la bacchetta?» chiese Roberto. «È la prima possibilità che mi viene in mente.» «Ti hanno mandato loro?» chiese Ben. «Non mi ha mandato nessuno. In questo momento dovrei essere in servizio.» «Però hanno notato il fulmine?» chiese Roberto. «Sicuro.» «Allora stiamo facendo un buon lavoro.» Roberto esalò un lungo pennacchio di fumo. «Ottima, questa sigaretta.» Nella valle scese l'oscurità e dai Sangres spuntò la luna piena. Si accamparono all'estremità orientale della mesa, dove i vecchi raccoglitori d'acqua piovana s'innalzavano in logori gradini. Ben preparò il fuoco in un anfratto della roccia e si servì di varie pietre per puntellare i rametti e la corteccia di cedro. Joe diede fuoco alla corteccia con l'accendino. Le fiamme divamparono subito, ma sarebbe stato impossibile scorgerle da lontano. Ben preparò uno stufato di chili e carne secca dentro una latta. Oltre il Rio Grande si scorgevano le luci delle lampade a Santiago ed Esperanza, e persino il villaggio di Truchas sulle balze dei Sangres, e il pulviscolo luminoso di Santa Fe all'estremità della catena. Los Alamos era invisibile. Attesero che lo stufato bollisse, e ripararono con le mani le braci delle sigarette. «Vi procurerò due biglietti d'autobus per Tucson. Non vi piace Tucson? E Los Angeles? Voi due non potete dire di aver vissuto se non avete visto il Pacifico. E cosa avete contro la Collina, comunque?» «Quello che stanno facendo» disse Ben. «Non sapete cosa stanno facendo. È un segreto. È il più grande segreto della guerra.» «Io ho sognato che stavano preparando una zucca piena di ceneri» disse Roberto. «Una zucca piena di ceneri?» «L'ho sognato a Taos. Due Hopi hanno fatto lo stesso sogno. Due anziani. E anche una donna di Acoma.» «Quattro sogni.» Joe annuì come se quella conversazione fosse razionale. Ben continuò a rimestare lo stufato. Ascoltava. Roberto alzò la testa «E in ogni sogno portano la zucca in cima a una scala altissima e la rompono. Le ceneri velenose cadono e coprono tutta la terra.»
«Davvero?» «Davvero.» «Allora posso tranquillizzarti. Ho visto cosa stanno facendo, e non è una zucca piena di ceneri. Lasciate che vi procuri quei biglietti d'autobus.» «C'è dell'altro.» «Lo temevo.» «Nel mio sogno c'era un gigante.» «O magari biglietti del treno?» «Appena ti ho incontrato, ho capito che quel gigante eri tu.» «Roberto.» Joe si tratteneva a stento. «Roberto, sei un tipo simpatico e intelligente e sono sicuro che sei sincero. Ma stai giocando a fare lo stregone in mezzo a una guerra. Là fuori, nel mondo vero, ci sono soldati che muoiono, città che bruciano, donne che vengono violentate. Sulla Collina cercano di far finire la guerra. Se tu e Ben siete intestarditi a fare i selvaggi pazzi, padronissimi. Ma non dovete coinvolgermi.» «Attento che scotta!» Ben spinse un piatto verso Joe. «Ma le ceneri avveleneranno le nubi e l'acqua e il suolo e tutto ciò che ci vive. Tutti i sogni concordano» disse Roberto. «Si direbbe una prova scientifica.» Non c'erano forchette. Joe incominciò a pescare con le dita le fumanti strisce di carne grigioverdastre. «Innalzeranno nel cielo una grande scala. E poi, nel mio sogno, un gigante sale lassù.» «Non è male» disse Joe a Ben. «La fame è il condimento migliore. Solo nel tuo sogno?» chiese rivolgendosi a Roberto. «Io non sono un sognatore più ispirato degli altri: ma posso concentrarmi sui sogni. Perché sono cieco. Per me non c'è la stessa differenza tra il giorno e la notte, la veglia e il sonno. L'uno porta all'altro.» «Sogni e realtà?» «Due aspetti della stessa cosa. Non sei d'accordo?» «Io direi che in questo momento la differenza principale al mondo non è essere svegli o addormentati, ma essere vivi o morti. E non è che l'uno porti all'altro come una mano porta a un guanto. Diciamo che è un moncherino che porta a un guanto.» Joe posò il piatto. «Quindi non sognare un gigante su una scala. Sogna il Giappone. Sogna centomila uomini morti che galleggiano nell'acqua. Sogna spiagge rosse di sangue, cariche al grido di "banzai", kamikaze, città di carta e B-29. Introduci un contatore nel tuo sogno. Un milione di morti, due milioni, tre. Vedi, non mi dispiace che tu sogni: ma non mi vanno i sogni troppo facili.»
Be', sono un pessimo invitato, pensò Joe. Sulla festa era scesa un'atmosfera lugubre. Ben sembrava sul punto di soffocarsi. O gli era andato di traverso un boccone oppure era furibondo. «Devo andare ad assistere a una castratura a Santiago.» Joe si alzò. «Questo è stato l'ultimo avvertimento. Buona fortuna.» Roberto alzò gli occhi infossati. «Comunque, tu eri nel mio sogno» disse. Joe ritornò su una cresta tra i canyon, sotto il chiaro di luna. Intorno a lui c'era un paesaggio marino di dossi, con una brillantezza di spuma sulle rocce e sui ginepri. Gli sembrava di sentire ancora la propria voce che ripeteva le parole di Oppy: invasione, morti, kamikaze. La pensava davvero così, ma le parole suonavano come una formula. Per la verità, Roberto non aveva affatto parlato della guerra. Gli stavano a cuore i suoi preziosi Pueblo, e il resto del mondo poteva andare all'inferno. Da parte sua, Oppy apprezzava gli indiani, come se fossero un popolo scaturito da una distorsione temporale. Sophie aveva ragione, pensò Joe: sembrava che lui non possedesse parole sue. Come se non esistessero parole per ciò che era: e non era un indiano, non era Oppy, era in un mondo che non era un mondo, su di un'alta cresta, nella luce dolce del plenilunio. Scese nei pressi di un canale per l'irrigazione dove i prati di alfalfa, costellati di fiori azzurri, ondeggiavano nella brezza notturna. Mise Crisis nel pascolo, e portò la sella e i finimenti nella scuderia della Collina. Aveva ancora il tempo di prendere una jeep e di arrivare a Santiago per vedere Felix che castrava i vitelli. Avrebbe portato un contatore Geiger e avrebbe controllato qualche bovino, tanto per giustificare il viaggio. Nel magazzino dei finimenti, le borse della sella si aprirono e si rovesciarono. I cavalli si agitarono un po'. Joe fece scattare l'accendino. Per terra c'erano scatole di chiodi per ferrare, morsi piegati, redini rotte e due zigzag gialli. Scettri della folgore. Doveva essere stato Roberto a metterli nelle borse della sella. L'istinto gli suggeriva di bruciarli, ma aveva troppa fretta. Li mise nella camicia e uscì dalla scuderia. Aveva ancora le bacchette quando raggiunse il parco macchine. Le chiavi erano tutte inserite. Caricò a bordo un contatore Geiger. Mise sotto il sedile le bacchette, per poterle prendere facilmente e buttarle via sulla strada di Santiago.
21 Gli uomini stavano seduti sullo steccato del corrai e incitavano a gran voce i ragazzi che inseguivano i vitelli nell'oscurità. La castratura e la marchiatura venivano effettuate a quell'ora perché all'alba partiva per la Collina l'autobus che portava i pendolari. C'erano due fuochi accesi, uno all'esterno del corrai per fare il caffè, l'altro all'interno, per Felix Tafoya. Gli uomini intorno al fuoco del caffè giostrarono con le tazze e gli spargisale per tendere la mano a Joe e dirgli buongiorno. I ragazzi nel corrai, che stavano rincorrendo un vitello, lanciarono a Joe un'occhiata frettolosa. Joe notò che il più alto aveva cuciti alla manica i galloni da sergente confezionati in casa e portava il fazzoletto con le punte infilate nella camicia, come se fosse una cravatta militare. A Santiago tutti avevano qualche parente sotto le armi, e Joe sapeva che per loro non era soltanto un eroe, ma anche la prova vivente che si poteva tornare vivi dalla guerra. I vitelli erano Hereford con i musi candidi come cotone che sembravano un branco di piccoli spettri fluttuanti. A uno a uno, i ragazzi li prendevano con il lazo, li legavano e li trascinavano accanto al fuoco. Felix, con un grembiule di cuoio che gli proteggeva la tuta da lavoro, stava inginocchiato accanto alle braci. Scelse un coltello con il manico avvolto nelle strisce di pelle e affilò la lama sul grembiule. Braccia e zoccoli si avvicinarono. Il fuoco sembrava conferire a Felix la solennità d'un magistero. «Coont-da, hitos!» Mentre i ragazzi tenevano immobile il vitello, Felix strinse i testicoli in fondo al sacco scrotale, li tranciò e li gettò sul fuoco, poi spalmò di pece la ferita. L'estremità arancione d'un ferro per marchiare affondò nel fianco del vitello e il lezzo del pelo bruciato si mescolò all'odore del caffè e a quello dello sterco bovino. Hilario Reyes, immacolato nell'abito e nel cappello bianchi, scese dallo steccato con l'agilità di una lucertola. «Il capo in persona! Hai visto il mio ragazzo, ieri? Ho saputo che ha spento un incendio e ha salvato l'intera Collina.» «Mi è sembrato efficiente.» «Grande, vorrai dire. Cosa ci fai qui?» «L'Esercito mi manda a tener d'occhio i bovini. E cosa ci fa qui il vicegovernatore del New Mexico?» «Ho un grande rispetto per le antiche usanze e le tradizioni della gente di qui. Sai, non ho mai perso una danza di Santiago. E soprattutto mi piace il
sapore dei testicoli.» Hilario sfoggiò un sogghigno di franca, energica venalità prima di andare a parlare con gli uomini radunati intorno al fuoco del caffè... per scoprire la vera ragione della sua presenza al corrai, pensò Joe. Hilario amava fare il pescatore, non il pesce. Joe si appoggiò allo steccato e rimase a guardare mentre il ragazzo armato di lazo tentava un peal, un lancio difficile che doveva imprigionare le zampe posteriori. Invece, prese il vitello alla testa e per poco non volò via quando, l'animale continuò la corsa. Felix si avvicinò alla staccionata e offrì a Joe uno stecco sul quale erano infilzati due oggetti che sembravano castagne bruciate. «Joe, se hai parlato con Hilario, hai bisogno d'un bel po' di guevos.» Un uomo che stava seduto sullo steccato lanciò uno spargisale e Joe l'afferrò al volo. «Coont-da!» «L'amico di Hilario non ha resistito a lungo» disse Felix. «È andato a guardare le vecchie mucche nel recinto.» Joe sbucciò la pelle annerita e cosparse abbondantemente di sale l'interno madreperlaceo. Era una cerimonia bizzarra, la castratura dei vitelli e la distribuzione fra i presenti della loro mascolinità. Era una segreta cerimonia virile, ancora più efficace in quell'ora mattutina, primordiale e vergognosa e potente. I testicoli arrostiti avevano la consistenza delle ostriche e il sapore delle noci. «Presto gli eroi invaderanno il mercato.» Hilario era ritornato. Non somigliava tanto a una lucertola, pensò Joe, quanto a un elfo incorreggibilmente maligno. Persino il candore dell'abbigliamento contribuiva a dargli un'aria da folletto cattivo. «Non potrai più fare un passo senza andare a sbattere contro un eroe. E tutti con le loro cicatrici, i nastrini e le loro storie. Sai, mi sto già preparando a conquistare il voto dei reduci. Sarò l'amico dei veterani, ma prima di tutto voglio essere tuo amico.» Felix rise e ritornò al suo fuoco, dove i ragazzi stavano lottando con un altro vitello. «E come?» chiese Joe. «Ti insegnerò a misurare il tuo senso della realtà. E l'unica misura equa della realtà è il profitto. Il valore di mercato, capo. Il valore di un ex non è alto, ma ti aiuterò a sfruttarlo al meglio. Sto parlando di duemila dollari pronta cassa.» Il terreno intorno al fuoco della marchiatura era secco. I ragazzi e il vitello lottavano tra esplosioni di polvere.
Duemila dollari? Non sarebbero bastati a comprare la vernice e le tovaglie per Casa Mañana. «Perché?» «Perché non c'è un bravo abitante del New Mexico che non sarebbe pronto a scommettere su di te il suo ultimo dollaro. Eri l'ottavo peso massimo del mondo! Una grande serata nella palestra di Santa Fe, folle di amici e ammiratori, una quantità di sacerdoti... servono sempre a dare tono a un incontro. Non so immaginare un modo migliore per festeggiare la fine imminente della guerra: il combattimento d'addio del capo Joe Peña.» «Mi sono ritirato.» «Sto parlando di un incontro con il ragazzo texano.» «Io aspiro a migliorare i rapporti tra Texas e New Mexico.» «Allora lascia che ti faccia una domanda.» Hilario alzò la voce in modo che lo sentissero tutti, nel corrai. «Per pura curiosità. Riusciresti a vincere se ti battessi con lui? Lo chiedo per curiosità.» Joe alzò le spalle. Lungo lo steccato gli uomini si tesero, tenendo in mano gli spargisale e le sigarette. Felix, che aveva impugnato un coltello, alzò la testa. Persino il vitello era immobile. «Perché io credo che ti massacrerebbe» disse Hilario. «È mancino, ha dieci anni meno di te, è più svelto. Tu hai l'aria molle e stanca. Dovresti aver paura di quel ragazzo. Non è divertente farsi pestare in pubblico.» «E dici di essere mio amico?» «Non vorrei che ti facessi massacrare senza essere ben pagato.» «Vuoi dire, senza che tu ci guadagnassi parecchio.» «Sì, anche questo.» Joe tirò fuori una sigaretta e l'accese. Aveva davvero l'aria così ammosciata? si chiese. Adesso si rammaricava di non aver prestato più attenzione quando il ragazzo aveva battuto Ray. Ricordava la figura che si allontanava con fare baldanzoso dal camion, davanti al trasformatore, le spalle larghe e ondeggianti, il pugno alto. Gli dispiaceva di non avergli visto la faccia. La faccia rivelava sempre molte cose. «Dammi una risposta sincera» disse Hilario. «Vedi, è questo che intendo quando parlo di mettere alla prova la realtà. Ce la faresti a vincere?» «Davvero vuoi saperlo?» «Sto parlando di questo, no?» Joe esitava ancora. Hilario disse: «Cinquemila dollari, Joe. E puoi organizzarti qualche scommessa in proprio».
«Diecimila. Chi vince se li prende tutti.» «Sei pazzo. Stiamo parlando della realtà.» «Zio, la realtà è che la guerra è finita e i soldati tornano a casa. Tu sei una formica nel deserto che vede i campeggiatori andarsene dopo il picnic. Il ragazzo crede di potermi battere?» «Sa di poterlo fare.» «Allora dovrebbe essere d'accordo sulla mia proposta: chi vince si prende tutto.» «In questo caso, il resto delle regole le stabilisco io. Niente sacerdoti, niente guantoni, niente ring e niente arbitro. Un avvenimento sportivo riservato agli interessati. Comunque, tu sai sfruttare il ring: bloccheresti alle corde un avversario più svelto di te. Un arbitro sta fra i piedi e basta. Le riprese le cronometro io.» «Quante riprese?» «Tante quanto dura l'incontro.» «Tra una settimana» disse Joe. «Impossibile.» «Ci battiamo fra una settimana. Mi avevi detto che avresti potuto combinare l'incontro in due giorni.» «Ho bisogno dei quattrini del Texas, di El Paso, di Lubbock. Ci vuole un po' di tempo perché arrivino.» «Ti faciliterò le cose. Ci batteremo a metà strada, a sud di Socorro, all'Owl Café. La sera del quindici. Nel retro. Sì o no?» Joe ebbe l'impressione che Hilario intendesse tirarsi indietro all'ultimo momento. «Sei venuto fin qui per metterci d'accordo, figlio di puttana. Sei venuto a cercarmi apposta. Io sto già pensando al dopoguerra, Hilario, proprio come te.» «D'accordo.» Hilario annuì rivolgendosi a Joe e poi aggiunse un altro cenno perché i presenti ne prendessero atto. «D'accordo. Piazza le tue scommesse, Joe. Credo che ti sorprenderà vedere quante buone puntate potrai ottenere sul famoso capo Joe Peña.» Il vitello, con le zampe legate, sembrava cercasse di nuotare per terra. Felix strinse il sacco scrotale, lasciando spazio al filo sfrigolante del coltello. Hilario avrebbe combinato l'incontro. Non era una questione di faccia: era una questione di affari, di gente pronta a scommettere sugli unici due pugili dello Stato. Gli occhi del vitello parvero schizzare dalla testa. Joe si addentrò fra i cottonwoods per orinare. Avrebbe dovuto incomin-
ciare ad avere più riguardi per i suoi reni. Ancora un combattimento. E avrebbe dovuto dormire di più. Una stella mattutina brillava bassa sul fiume. Giove? Venere? E se non ci fosse stata la luna? Gli uomini erano vincolati dalla gravità della terra, ma venivano leggermente attratti dalla massa della luna. E se non ci fosse stata la luna, ma solo la pesante, monotona catena della Terra? Se la notte non ci fosse stata una luce migliore delle stelle che dicevano "Siamo fredde e lontane"? E se avesse perduto? Per farsi un alibi, prese dalla jeep il contatore Geiger e raggiunse il recinto dalla parte opposta. Anche nella semioscurità vide che i bovini erano gli animali più vecchi e sbandati di Felix, quelli che provenivano dai canyon più alti e più aridi. L'uomo accanto al recinto era altrettanto inverosimile: una figura bassa in giacca e calzoni da passeggio. Voltava le spalle a Joe e accarezzava i bovini attraverso lo steccato... saggiamente, perché quegli animali erano abbastanza selvatici per calpestarlo se si fosse azzardato a entrare. No, non li accarezzava, pensò Joe: li pettinava, e buttava in una busta i peli che si staccavano. «Capo! Oh! Capo!» L'uomo si voltò, sorpreso. Aveva la faccia olivastra, a cuore, il labbro inferiore carnoso e i capelli neri così ondulati che sembravano quasi arricciati artificialmente. Quando si girò, il pettine e la busta erano spariti. Portava gli stivali da cowboy con l'abito a doppiopetto. Avanzò d'un passo, barcollando un po', e porse a Joe la mano grassoccia. «Non l'avevo sentita avvicinarsi. Ci siamo conosciuti al La Fonda, nel bar. Harry Gold.» «Di New York.» «Sono venuto con Happy.» «Con Hilario. Come va?» Harry Gold si lasciò sfuggire un risolino. «Ho perduto il mio cappello nuovo.» Joe sbirciò nel recinto. C'erano cinque bovini, neri e bruni; un misto di Angus e di Hereford, un gruppo di veterani sfregiati e diffidenti. Quello con l'aria più incattivita teneva una zampa su uno Stetson schiacciato. «Voleva comprare un manzo?» «Stavo pensando di organizzare un barbecue.» «Felix sta castrando i vitelli. Ne prenda uno.» «Buona idea» disse Gold. «Ci penserà lui a macellarlo e a prepararlo. È abilissimo.» «Questi animali mi sembravano un po'vecchi.» Non erano soltanto vecchi. La luce era un po' più viva, e Joe si accorse
che due o tre erano chiazzati sullo stomaco e sui fianchi. Di solito, un bovino ingrigiva prima intorno al muso. Quando Joe aprì il cancelletto, il bue più vicino abbassò le grandi corna muschiose e indietreggiò. Joe avanzò in mezzo agli animali e scostò qualche ciuffo di pelo bianco. La pelle era nera. Erano chiazzati come la mucca che aveva ucciso l'altra volta. «Il suo cappello.» Uscì dal recinto porgendo una massa contorta di feltro. «Grazie» disse Gold. Arretrò d'un passo e calpestò un mucchietto di sterco. Abbassò lo sguardo. «E anche gli stivali sono nuovi.» «Li bagni e li tenga addosso» consigliò Joe. «Proverò. Adiós.» «Assolutamente.» Joe aveva continuato a tenere in mano il contatore Geiger. Se uno non avesse saputo cos'era lo avrebbe chiesto, pensò Joe. Harry Gold lo sapeva. 22 Quando Joe arrivò a Santa Fe, le donne indiane stavano stendendo le loro coperte sotto il portal, il porticato del vecchio palazzo del governatore sul lato nord della piazza. Gli "spioni", gli agenti dell'FBI in borghese con i cappelli calcati sugli occhi stavano prendendo posto sulle panchine, sotto i cottonwoods. Gli agenti aspettavano lì perché il pullman dell'Esercito proveniente dalla Collina scaricava i "capelloni" mezzo isolato più indietro, in Palace Avenue, e tutti i negozi erano intorno alla piazza. Quando avevano terminato di fare acquisti, tutti andavano sempre al La Fonda a bere qualcosa. Joe diede il cambio a Ray Stingo, il quale era così eccitato all'idea del prossimo incontro di pugilato che non aveva nessuna voglia di andare all'aeroporto a ricevere i VIP in arrivo per l'esperimento Trinity. A Santa Fe potevano atterrare soltanto piccoli aerei e il volo sulle montagne era così turbolento che lo chiamavano "la Cometa del Vomito". Oppy era al La Fonda con un gruppo di psichiatri e di esperti dell'Office of War Information che erano già arrivati a Lamy con il treno del mattino. Anziché sparare ai bovini e bruciarli, Joe li aveva inseguiti lungo il Santiago Creek, sperando che ritrovassero la strada per il loro canyon. Sporco, sudato e stanco, raggiunse l'ombra dell'obelisco al centro della piazza. Da lì poteva tener d'occhio il La Fonda. Tirò fuori una sigaretta, poi la rimise
nel pacchetto. Non doveva più fumare. Aveva creduto di odiare la boxe; ma adesso, sebbene fosse esausto, sentiva il proprio corpo esaltarsi alla prospettiva di un incontro, come se avesse sofferto per la mancanza di degni avversari. I primi turisti si stavano avviando verso il portal. Per il momento i militari non erano ancora comparsi. Joe vide Hilario che faceva scendere Harry Gold davanti al La Fonda e poi proseguiva con la macchina mentre Gold entrava nell'albergo. Nella piazza, gli "spioni" sembravano assorti nella lettura dei giornali; il titolo di quella mattina annunciava che Truman era arrivato a Berlino. Una spia? Una vera spia, dopo tutto quel tempo? Erano necessarie ben altre prove che il ciuffetto di pelo d'un bovino radioattivo. Un uomo dall'aureola di capelli argentei si avvicinò all'obelisco. Joe ci mise un momento per riconoscere Babbo Natale perché lo psichiatra della Collina aveva la faccia coperta di vesciche bianche e portava guanti di cotone. «Orticaria» spiegò a Joe. «Puramente psicosomatica. Non è contagiosa. Ce l'ho da quando abbiamo fatto quella corsa tra le montagne in compagnia di quello che lei sa.» «È sicuro? Si è fatto vedere dai dottori?» Joe si era sempre sentito in colpa, dopo quel viaggio. «Tutti i giorni» bisbigliò Babbo Natale. «In questo momento dovrei essere con Oppy a impartire istruzioni ai nostri. Abbiamo diversi uomini ragguardevoli... junghiani, alienisti, alcuni freudiani ortodossi. Il generale Groves ha preparato vari comunicati stampa, e li stiamo esaminando per valutare i possibili effetti psicologici. Naturalmente, se la bomba farà fiasco non ci saranno comunicati. Se la bomba farà un grosso botto, diremo che un deposito di munizioni è esploso senza fare vittime. Se faremo saltare il deserto e tutti quelli che ci stanno dentro, dovremo raccontare una versione differente. L'importante è evitare il panico e mandare le nostre équipe, che saranno quasi tutte piazzate a distanza di sicurezza dall'esplosione, nelle città che risentiranno più di tutte dell'eventuale fallout. Credo di potermi confidare con lei.» «Sì?» «In quest'ultimo caso, un comunicato stampa dovrebbe scegliere una spiegazione alternativa e assimilabile. "Epidemia", "acqua inquinata", "guerra chimica". Io credo che dovremmo parlare subito di "guerra chimica" perché la gente non crederà a un'epidemia. I freudiani, naturalmente, vogliono che si parli di "acqua inquinata".» Gold uscì dal La Fonda. Aveva un paio di scarpe, non più gli stivali, e
cappello normale al posto del defunto Stetson. Fumava un sigaro e teneva sotto un braccio un giornale piegato. Attraversò la piazza ed entrò in un piccolo edificio all'angolo di fronte, la biglietteria della Santa Fe Railroad. «Si starà chiedendo» disse Babbo Natale, «perché sono qui fuori, mentre là dentro stanno succedendo tante cose interessanti.» «Sì?» mormorò distrattamente Joe. «Scelgono i volontari per l'équipe che andrà a Trinity. Mi giudica un vigliacco?» «Lei cosa ne pensa?» Babbo Natale ridacchiò. «Sapevo che avrebbe risposto così.» Gold uscì dalla biglietteria, si fermò all'angolo, consultò l'orologio da polso e poi guardò l'orologio pubblico su una colonna davanti a una gioielleria, sul lato sud della piazza. Accennò a riattraversare la strada per tornare al La Fonda, cambiò idea e proseguì sul lato sud, passando davanti a un negozio di souvenir e al gioielliere. Entrò da Woolworth's e sedette al banco. «Però è piacevole avere qualcuno con cui parlare» disse Babbo Natale. «Mi scusi.» Quando Joe vide una cameriera che portava un caffè a Gold, lasciò l'obelisco e andò nella biglietteria. L'impiegata era una spagnola dall'aria della brava nonna; spiegò a Joe che l'amico da lui descritto se n'era appena andato, però avrebbe potuto fargli un biglietto per lo stesso treno del giorno 17, diretto a Kansas City e a New York. Joe rispose che non sapeva se avrebbe potuto partire con lui, e comunque le raccomandò di non dir niente al suo amico, caso mai fosse tornato, perché aveva intenzione di fargli una sorpresa. Quando uscì di nuovo sulla piazza scorse Babbo Natale che spariva nella direzione opposta e si muoveva a passi rigidi come se fosse completamente ingessato. Da Woolworth's, Gold stava ancora centellinando il caffè. Aveva un giornale che doveva essere il "New Mexican", a giudicare dall'aquila bene in vista sulla testata, ma non si degnava di leggerlo. Teneva lo sguardo fisso sui gelati di gesso colorato e il labbro inferiore pendeva in un'espressione pensierosa. Poi batté l'indice sul vetro dell'orologio, lasciò sul banco qualche moneta e uscì. La piazza si andava animando. I turisti sembravano materializzarsi all'improvviso sotto il portal, e i ragazzini armati di pistole-giocattolo correvano intorno al palco della banda. Sul lato est la banca aprì i battenti. I furgoni della posta arrivarono dall'ufficio postale che si trovava a un isolato di distanza, di fronte alla cattedrale. Non esistevano semafori: macchine e camion giravano intorno alla piazza in senso antiorario e poi si incanala-
vano agli angoli per le diverse destinazioni. Gold si fermò sul marciapiedi, pronto ad attraversare di corsa in mezzo al traffico per puntare verso l'obelisco e Joe. Passarono un camion del latte e una macchina stracarica di Navajo. Gold s'incamminò, superò l'orologio pubblico, i tamburi indiani allineati nelle vetrine del negozio di souvenir, raggiunse di nuovo la biglietteria all'angolo. Poi decise senza dubbio di prendersela comoda. Passò oltre la biglietteria e Thunderbird Curios e le colonne ioniche della banca, attraversò Palace Avenue e fece una deviazione lungo una strada laterale, fino a Maytag's. Joe non sapeva perché lo stava seguendo. Era curiosità? Oppure la sensazione che Gold fosse completamente fasullo? Gli sembrava di essere trascinato dalla scia di quell'ometto grasso. Da Maytag's vendevano lavatrici in un settore del negozio, musica nell'altro. Gold esaminò l'elenco dell'Hit Parade fissato con lo scotch all'interno della vetrina, e finalmente ritornò verso la piazza e l'attrazione principale di Santa Fe, gli indiani sotto il portal. Il portal era un portico ombroso. Le donne venute dai pueblo della valle del Rio Grande stavano sedute contro il fresco muro di mattoni cotti. Ognuna aveva una coperta o un tappeto stesi davanti e lei, dov'erano in mostra vasi rossi di San Juan, vasi neri di Santiago, vasi nuziali a doppio collo di Santa Clara, gioielli di turchesi di Santo Domingo o cinture Navajo d'argento battuto. Alcune delle venditrici indossavano l'abito che lasciava scoperta una spalla; ma in maggioranza portavano vestiti di cotone, grembiuli e maglioni. Sbadigliavano, leggevano riviste di cinema o chiacchieravano, e prestavano scarsa attenzione agli anglos che si curvavano o s'inginocchiavano per toccare o criticare la merce esposta. Dato che era un avvenimento importante delle loro vacanze, gli aspiranti compratori erano vestiti tutti in ghingheri e curiosavano con impegno. Gold si avvicinò a tre sergenti che stavano esaminando orecchini, bracciali e fermagli per capelli ammucchiati su una coperta. La cupola del suo cappello arrivava sì e no all'altezza delle spalle dei soldati. Uno dei sergenti era perduto nell'ammirazione di un fermaglio d'argento a forma di coda di pavone. Joe passò fra le macchine parcheggiate a spina di pesce lungo il marciapiedi del portal. La tettoia di mattoni cotti era sostenuta da massicci pilastri di pino ponderosa levigati da generazioni di turisti, e Joe poteva sbirciare di sbieco tra le colonne senza farsi vedere. Riconobbe alcune delle venditrici di vasi. Quasi di fronte a lui c'era una ragazza grassottella con la frangetta nera, una sua cugina adolescente che si chiamava Polly, inteso come vezzeggiativo di Paulina. La ragazza aveva posato una copia di
"Modern Screen" per mostrare uno dei vasi di Sophie Reyes, lucido e scuro come ossidiana, a un uomo inginocchiato che aveva in testa un panama. Gold si avvicinò, girando gli occhi da una coperta all'altra. Si fermò, prese in mano un portasigari d'argento e lo esaminò. Sembrava che lo interessasse molto; lo posò sulla coperta con aria di rammarico. Poi sostò a osservare alcuni crocifissi d'argento insieme a due suore, e assunse un'espressione di amichevole reverenza. Sembrava assimilare con entusiasmo gli stati d'animo altrui. Si lasciò bonariamente convincere a provare un fermacravatte. Il fermacravatte era un minuscolo bombardiere d'argento; la sua cravatta aveva un fregio di palme dipinte a mano. Restituì il fermacravatte e si chinò sulla coperta accanto, quella di Polly. «È una fruttiera?» Gold prese in mano una ciotola con un serpente inciso intorno al bordo. Polly scrollò le spalle, ma l'uomo dal panama disse: «Lei metterebbe la frutta su un Rubens? Quella è una ciotola di Sophie Reyes». «È famosa?» Gold pareva impressionato. «Sì, fra i collezionisti.» «Lei colleziona questa roba?» Gold rigirò la ciotola tra le mani. «Colleziono i vasi di Dolores. Ormai è morta e i suoi pezzi sono molto difficili da trovare.» «Come se fossero opere d'arte?» «Sono opere d'arte.» L'uomo dal panama prese la ciotola dalle mani di Gold e alzò la testa, e Joe vide che era il capitano Augustino in borghese. «Questi vasi sono un'espressione della concezione indigena della terra e della nascita dell'uomo dalla terra. Ognuno di essi è al tempo stesso terra e grembo materno. Una concezione molto bella e potente.» «La decorazione...» «Non è una decorazione» interruppe Augustino. «È una rappresentazione. Il serpente è il ciclo infinito del mondo. È una raffigurazione del fulmine. Il fulmine porta la pioggia. La pioggia porta il mais. In questo simbolo può vedere unite le contraddizioni tra la violenza e la fecondità. La ciotola è una visione dell'armonia primordiale... anche se non è splendida come le opere di Dolores.» «Quelle che colleziona lei?» «Posso mostrarle la collezione, se vuole.» «La ringrazio, ma sono qui a Santa Fe per un giorno solo...» Gold passò oltre le ultime coperte, uscì dal portal all'angolo e controllò di nuovo l'orologio. In quel punto era fermo un autobus turistico aperto e la
guida stava gridando qualcosa di incomprensibile con un megafono. C'era una selva di macchine fotografiche puntate. Se Gold fosse salito sull'autobus, Joe non avrebbe potuto continuare a stargli vicino senza farsi notare. Ma nello stesso tempo si chiedeva cosa faceva lì Augustino. Il capitano avrebbe dovuto trovarsi a Trinity, oltre trecento chilometri più a sud. L'autobus ripartì senza Gold. Adesso l'ometto si era incamminato in fretta, con i calzoni che gli sventolavano intorno alle gambe corte. Joe si voltò. Augustino era sparito dal portal Joe attraversò veloce la piazza e vide Gold che si dirigeva verso Woolworth's, il suo punto di partenza; poi svoltò a destra, dopo Rexall Drugs, quindi a sinistra in Don Gaspar Street che non era molto più ampia d'un vicolo, e procedette passando davanti ai bar e ai banchi dei pegni. Joe si teneva a un isolato di distanza ma Gold pareva non rendersi conto della possibilità che qualcuno lo seguisse. A due isolati dalla piazza, lungo l'avenue chiamata Alameda, il fiume Santa Fe sembrava una via di mezzo tra una fogna a cielo aperto e un torrente in secca. Pietre, rovi e lattine arrugginite riempivano il letto del fiume, ma i cottonwoods crescevano lussureggianti sulla riva sfruttando l'umidità sotterranea. Una campata di cemento, Castillo Bridge, conduceva alla riva opposta orlata di pioppi e, più oltre, alla cupola bianca del Campidoglio statale. Al centro del ponte, Klaus Fuchs fumava una sigaretta e contemplava assorto uno scooter abbandonato o trascinato da qualche vecchia piena che aveva gonfiato il fiume. Le gomme non c'erano più; forse erano state portate via per una delle raccolte di guerra. Fuchs teneva un piede appoggiato sul tondino di ferro centrale, dei tre che formavano il parapetto. Aveva sotto un braccio un giornale piegato. Joe si fermò a osservare all'ombra dei cottonwoods. Gold s'incamminò sul ponte e incominciò a frugarsi le tasche della giacca e dei calzoni e il taschino della camicia. Una sigaretta gli penzolava dalle labbra. Raggiunse Fuchs. Fuchs si frugò a sua volta nelle tasche, trovò un fiammifero, accese la sigaretta di Gold e non attese neppure un ringraziamento prima di andarsene come un torvo pupazzo in marcia verso l'Alameda. Gold assunse la stessa posa, con un piede sulla barra, gli occhi fissi sullo scooter abbandonato tra le pietre asciutte sotto la campata. Più avanti, sull'Alameda, Fuchs salì sulla sua Buick. Non era venuto con l'autobus e aveva evitato completamente la piazza. Sul ponte, pensò Joe, non potevano essersi scambiati più di due parole. Gold contemplava il fiume, i rami che s'inarcavano nel cielo e, al di là del filare dei pioppi, la cupola lontana del Campidoglio. Sorrise a due ragazzine in bicicletta. L'au-
tobus turistico passò, lasciandosi indietro una scia di notizie e di date mentre le teste dei passeggeri giravano di qua e di là. Gold si voltò a lanciare un'occhiata in direzione di Joe, ma per prudenza istintiva, non perché l'avesse visto muoversi. Poi si rilassò, finì la sigaretta, represse uno sbadiglio che si concluse in un sorriso di sollievo, gettò via il mozzicone e lasciò il ponte. Gold percorse l'Alameda, svoltò in Guadalupe Street e poi di nuovo in San Francisco Street, tornando di nuovo verso la piazza. Quando arrivò al Lensic Theater si fermò a guardare il cartellone di un film di Gianni e Pinotto. Notò la propria immagine riflessa nel vetro e si passò la mano sulla guancia bluastra. Joe passò un momento più tardi e si vide: un sergente dall'uniforme spiegazzata, i capelli lisci, la faccia torva. La piazza era ancora più animata. I turisti uscivano da Woolworth's per fermare gli indiani e invitarli a lasciarsi fotografare. Come un nuotatore che sfida le onde, Cleto, il venditore di collane di Santo Domingo, era fermo in mezzo al marciapiedi e tendeva le braccia grondanti di collane di turchesi. La treccia grigia si era disfatta, la camicia era macchiata di chili, ma Cleto riusciva a conservare un'espressione di maestoso disprezzo. Gold evitò la folla che circondava il venditore di collane, e poi dovette attendere che passassero i camion militari. Dall'altra parte della strada, all'entrata secondaria del La Fonda, i facchini con i panciotti da mariachi scaricavano valigie. Joe passò a fianco di Cleto. Quando fosse entrato nell'albergo, Gold sarebbe stato irraggiungibile. Sul ponte era accaduto qualcosa, sebbene Joe non sapesse che cosa, esattamente. Gold salì sul marciapiedi stringendo il quotidiano sotto il braccio. Era l'"Albuquerque Journal". Quando si era avviato al ponte, Gold aveva con sé il "New Mexican". Joe rievocò mentalmente la scena: Gold, con la sigaretta tra le labbra, si frugava nelle tasche in cerca di un fiammifero, arrivava al centro del ponte e raggiungeva Klaus Fuchs, che gli passava il giornale per poter cercare meglio un fiammifero, e poi gli accendeva la sigaretta, riprendeva il suo giornale e lasciava Gold a contemplare in solitudine il fiume Santa Fe. Ma il giornale non era più il suo: era quello di Gold. Li avevano scambiati. Davanti all'ingresso secondario dell'albergo Joe posò una mano sulla spalla di Gold, che sussultò per la sorpresa. «Speravo di rivederla» disse Joe. «Davvero?» Altre macchine si fermavano, altre valigie venivano scaricate. Joe cinse
con un braccio le spalle di Gold e cercò di condurlo via. «Pensavo allo Stetson che ha perduto. Un mio amico ha un negozio qui dietro l'angolo. Venga... le troveremo un cappello nuovo.» «Non vorrei disturbarla.» «Nessun disturbo.» Gold cercò di svincolarsi con discrezione. Cercare di trattenerlo era come stringere un pallone da spiaggia. «Devo fare una telefonata.» «È proprio qui, girato l'angolo. Ci vorrà un minuto.» «Joe! Eccomi!» Era la voce di Anna. Era ferma sul marciapiedi di fronte e portava la collana di turchesi che le aveva regalato Joe; tra i capelli aveva il fermaglio d'argento che lui aveva notato sotto il portal e teneva fra le mani il vaso nero che aveva destato l'ammirazione di Augustino. Con la camicia hawaiana, aveva un fascino pueblo-ebraico-polinesiano bizzarro e incantevole. Aveva anche un sacchetto con il marchio di Maytag's. Era sabato; perché mai Anna non avrebbe dovuto essere venuta in città a far acquisti? Attraversò la strada e girò intorno a un autobus turistico che si fermava di fronte all'albergo. L'agente dell'FBI che le stava dietro attese un momento prima di attraversare: seguirla non sarebbe stato difficile. «È un vaso di Sophie.» Anna aveva il sorriso soddisfatto di chi prende possesso all'improvviso d'una città nuova dopo aver deciso di fermarsi per un po' di tempo e si trova imprevedibilmente a suo agio. «Va' al bar» le disse Joe. «Ti raggiungo subito.» «E guarda!» Anna ripose delicatamente il vaso nel sacchetto e tirò fuori un disco di Billie Holiday, Lover Man. «La mia educazione americana.» Gold si liberò una mano e la tese ad Anna. «Harry Gold.» Joe stava tentando di pilotare Anna verso il La Fonda quando Oppy uscì dall'albergo, vide i tre sul marciapiedi e sfoggiò un sorriso forzato. Gli occhi cerchiati avevano un'espressione esausta. «Dove diavolo sei stato, Joe? È mezz'ora che ti aspetto.» «Harry Gold» disse Gold, tendendo la mano a Oppy. «Disturbo?» chiese Oppy. Non badò ad Anna e ignorò la mano di Gold. «Babbo Natale mi ha detto che eri qui fuori. Sei andato a fare una passeggiata, a bere qualcosa o a far spese?» «Può aspettare un minuto?» chiese Joe. Cleto si parò davanti a Gold e gli presentò un braccio drappeggiato di collane. «Due dollari.»
Numerosi turisti scesi dall'autobus si raccolsero intorno a Cleto e spinsero da parte Gold. «Devo prendere appuntamento con un sergente?» chiese Oppy. «Con il mio autista? E dov'eri la scorsa notte? Sono passato dalla tua stanza e non c'eri.» «Ero uscito un momento.» «Sono passato due volte» disse Oppy. «Ti ho cercato dappertutto e non ti ho trovato. Nell'Esercito questo non si chiama abbandono di posto, per caso?» «Chiedilo a me, dov'era» disse Anna. Oppy arrossì come se lo avesse schiaffeggiato. L'autobus turistico si mosse e Cleto passò oltre. «Su, chiedilo a me» insistette Anna. Oppy reclinò la testa come un crocifisso. «No?» disse lei. «Bene, se ti viene in mente qualche domanda, mi troverai al bar a bere con molto anticipo un martini non tanto perfetto. Tornerò più tardi alla Collina con Klaus. Dato che vuoi sempre sapere dove sono tutti quanti.» Oppy non rialzò la testa se non quando Anna si fu allontanata; poi batté le palpebre come se cercasse di scacciare il ricordo di quella scena. «Joe, dove sei stato?» Gold era già andato. Joe lo vide trotterellare lungo la strada e passare davanti a un negozio di macchine fotografiche; e quando l'autobus turistico gli transitò accanto, Gold si staccò dal marciapiedi e saltò sul predellino, con il giornale stretto sotto il braccio. «Ho scoperto una spia» disse Joe. Joe e Oppy percorsero a piedi un isolato fino ai vecchi cortili spagnoli di Palace Avenue. Lì c'era la fermata dell'autobus della Collina, e la jeep di Joe era parcheggiata all'esterno, ma Oppy aprì il cancelletto di ferro battuto del cortile più piccolo, uno stretto passaggio di travi scolpite e di fiori intorno a un prato brunito dal sole. La porta all'estremità interna del cortile era l'anonimo recapito della Collina a Santa Fe. «Ti riferisci a Gold» disse Oppy a voce bassa, sebbene nel cortile non ci fosse nessun altro. «Augustino mi ha parlato di lui. Se ne sta occupando. Non capisco come tu ci sia immischiato.» «Stamattina Gold era a Santiago.» «Augustino si sta occupando di tutto. La cosa migliore che tu possa fare è stare alla larga dal capitano. Mi auguro che non abbia spaventato Gold.
Vedi, Joe, ci stiamo avvicinando al punto culminante di questa enorme impresa. Non ho più né il tempo né la pazienza di star dietro a te e alle tue avventure quando sono in gioco gli sforzi di migliaia di persone e le vite di decine di migliaia di soldati. Tu sei l'ultima rotella dell'ingranaggio di Trinity. Per piacere, non rovinare tutto. Stai alla larga da me, stai alla larga del capitano Augustino e, se vuoi fare un grosso favore ad Anna Weiss, stai alla larga anche da lei.» 23 «How high the moon?» Chiesero le cornette. I tavoli erano disposti in file circolari intorno alla pista da ballo e al podio dell'orchestra, e ogni tavolo era apparecchiato con la tovaglia rossa e le candele. Su alcuni troneggiavano i secchielli roridi contenenti bottiglie di champagne. «How high the moon?» mormorarono i tromboni. I camerieri in giacca rossa tenevano in equilibrio i vassoi con le bistecche. Le appliques di ferro battuto illuminavano la parete curva di finti mattoni cotti. Sulla pista, i giovani ufficiali ballavano con donne dalle gonne ampie e le spalle imbottite: le bionde erano pettinate come Ginger Rogers, le brune come Dorothy Lamour. Nel club c'era posto per duecento persone, fra i tavoli e la pista da ballo, e per altre quaranta al bar. La sezione sax interpretò l'interrogativo come «How high the moon?» Il sax solista si alzò per approfondire la questione con un balbettio di riffs. Quando il clarinetto lo contraddisse in toni acuti, Joe pensò ad Harvey. Il bassista martellò la domanda musicale, la passò al batterista che la batté sul piatto, la fece scivolare sul tamburo e poi, di rimbalzo, l'affondò nella grancassa. «How high the moon?» Sullo sfondo del sipario di velluto rosso i suonatori portavano giacche bianche, i leggii erano bianchi con fregi scintillanti di chiavi musicali e il pianoforte era bianco candido sebbene il pianista fosse in kaki. Joe raccolse la melodia nella mano destra, su su per la tastiera, come se tutto quanto fosse stato soltanto un'introduzione delicata. Attaccò il motivo come Count Basie, come un pulcino che becchetta un diamante, e poi passò al boogiewoogie, fece una pausa per lasciare spazio a una ripresa della cornetta e, all'ultimo ansito metallico dello strumento, ridiscese i tasti in accordi minori che si raggruppavano lentamente. «Ricordi come mi sono arruolato? Il concerto di mezzanotte?» aveva chiesto Joe ad Anna. La cosa interessante non era che lui fosse stato dispo-
sto a corrompere Shapiro per poter lasciare la Collina e andare ad Albuquerque cinque giorni prima di Trinity, ma il fatto che Anna avesse accettato di andare con lui. Per l'occasione aveva indossato il fermaglio d'argento e una lunga gonna navajo di velluto verde. Pollack le aveva offerto una gardenia da mettere nei capelli, e adesso era seduta con il proprietario di Casa Mañana al suo tavolo sul fondo, accanto al bar. Pollack, in smoking, aveva l'aria dell'ambasciatore africano più che del padrone d'un nightclub; versava lo champagne ad Anna e beveva seltzer. «Ancora!» gridò il sassofonista. Questa volta Joe suonò Moon inserendo brani di Blues in the Night, Swingin' the Blues, Blowin' the Blues Away nella melodia luminosa. Aveva la sensazione che tutti si muovessero con lui, come se il club fosse stato scoperchiato sotto un cielo ceruleo e stellato; erano tutti pronti ad accettare l'impossibile. La luna di luglio era meglio della luna di giugno. La guerra era durata cinque anni, ma adesso era finita in Europa e stava per finire anche nel Pacifico. Joe inserì Blue Skies Smilin' at Me e parve che l'intero club ascendesse nell'aria. Se i cieli azzurri stavano per esplodere sopra di loro, almeno erano preparati; e quindi suonò... bluebirds singin' a song mentre guidava Moon giù giù per una discesa cromatica, un accordo per volta. I motivi si fusero e si separarono di nuovo, accelerarono fino a che la tastiera e la folla oscillarono tra un volo e un tuffo; poi Joe diede un segnale ai cornettisti che si alzarono e attaccarono i riffs alla Charlie Parker risolvendo la discussione e chiedendo How high the Moon? How high the Moon? come se fosse il sole. «Questa è Casa Mañana?» chiese Pollack a Joe quando tornò al tavolo. «Non è un club magnifico?» «Il migliore.» Joe rifiutò un drink con un cenno. «Ha detto che era socio del padre di Joe.» Anna giocherellava con il nuovo fermaglio per capelli. L'aveva tolto per mettere la gardenia. «Con Mike Peña» disse Pollack. «E di che cosa si occupava?» Pollack lanciò un'occhiata a Joe. «Distribuzione, soprattutto.» «Un'attività pericolosa» disse Joe. «Mike stava distribuendo un carico di Schenley arrivato dal Messico, una notte, quando gli scoppiò una gomma o forse investì una mucca, o qualcuno gli si affiancò con la macchina e gli sparò alla testa. Il camion andò a sbattere e la benzina e l'alcol esplosero come una bottiglia Molotov.» «Non si è mai saputo se avessero trovato un proiettile» disse Pollack.
«L'indagine fu diretta dal giudice Hilario Reyes» spiegò Joe. «Non fu esattamente conclusiva.» «Io mandai Joe a El Paso prima che si mettesse nei guai» disse Pollack ad Anna. «Avevo un fratello che lavorava nel circo. Pensavo che Joe avrebbe dato da mangiare agli elefanti, invece si buttò subito sulla musica. Certo, anche prima suonava l'organo nel pueblo. Era uno dei chierichetti.» «A Mike piaceva la tua musica?» chiese Anna. «No.» Joe rise. «La detestava.» La condusse sulla pista. Ballarono Flamingo nella versione di Duke Ellington. «Ci sono club come questo a Chicago?» chiese Anna. «Ce ne sono di formidabili.» «Ti piacerebbe andare a Chicago a suonare?» «No. Quando mi congederanno dall'Esercito, non prenderò più ordini da nessuno. Avrò un club tutto mio. Per la prima volta nella mia vita, so che cosa voglio.» «E che cos'è?» «Questo.» Joe girò gli occhi sulla fila serafica dei leggii bianchi contro lo sfondo di velluto rosso, il languore caldo delle donne dai capelli lunghi e dagli abiti corti, i camerieri che sembravano pattinare sotto i vassoi di drink con ghiaccio mentre la musica si avvolgeva all'interno delle pareti circolari rivestite di mattoni cotti che facevano molto Hollywood, e fluiva e rifluiva in echi invocanti un brusco riff del pianoforte, la stilettata di un accordo minore. «Dev'essere meraviglioso sapere ciò che si vuole.» «Basterà un combattimento per pagarlo.» «E poi Casa Mañana ti arricchirà?» «Lo faccio per la musica, non per i quattrini. Prima o poi, un grande club perde il denaro come un bel palloncino colorato perde l'aria. Ti dispiace che abbia accettato l'incontro?» «Mi sembra uno di quei brutti film che vedevamo in Germania. Il campione si batte un'ultima volta per pagare l'operazione che renderà la vista alla sorella. Naturalmente, diventa cieco lui.» «Io vincerò. E non diventerò cieco e non mi fratturerò le mani.» «Se è ciò che vuoi davvero...» «Sì.» «Allora credo che nessuno al mondo riuscirebbe a fermarti.»
Era mezzanotte quando uscirono dal club e si avviarono nel parcheggio. Quella parte della Central Avenue di Albuquerque era chiamata "Città Vecchia", come se il Vecchio West fosse stato popolato di negozi di souvenir e di banchi dei pegni dalle saracinesche d'acciaio. Di notte la strada era deserta e buia, se si escludevano le tende di luce intorno ai lampioni. Anna salì sulla jeep e si passò la mano sui capelli. «Il mio fermaglio nuovo. L'ho dimenticato sul tavolo.» Joe tornò a prenderlo e, quando uscì di nuovo dal club, passò dalla cucina e dalla porta di servizio. Da quella parte c'erano poche macchine, i catorci dei camerieri e degli sguatteri. All'improvviso sentì un suono di voci, una risata, e poi il tonfo di qualcosa che cadeva a terra. Tra due Ford, un sottile raggio di luce guizzò da una faccia orizzontale a una camicia, a una giacca doppio petto, a una mano nella tasca della giacca. Mentre Joe si avvicinava, il raggio passò sulla faccia rotonda come un piatto. Il labbro superiore e il mento avevano una colorazione sottocutanea bluastra, gli occhi erano chiusi, la bocca semiaperta. Sul petto dell'uomo erano sparpagliati la patente, i biglietti da visita, due o tre cartoline, un mucchietto di denaro. Inginocchiato accanto a lui stava il capitano Augustino, in borghese. «Harry Gold.» Augustino lesse i documenti, illuminandoli con la torcia elettrica. «Harry Gold della Philadelphia Sugar Company. Harry Gold, patente rilasciata dallo Stato della Pennsylvania. Carta topografica di Santa Fe. Milleduecentocinquanta dollari in contanti. Harry Gold in vacanza.» Una bottiglia di champagne rotolò lontano dal ginocchio di Augustino e andò a fermarsi contro una ruota. Joe immaginò che il capitano l'avesse usata per dare una botta in testa a Gold. «Allora lo conosce» disse Joe. «Heinrich Golodnitsky, sergente, per la precisione.» Augustino puntò di nuovo il raggio di luce sulla faccia grassa e sul cappello sgualcito. «Heinrich Golodnitsky, di famiglia ebreo-russa. Golodnitsky, che all'età di tre anni arrivò in un'America ricca di dolci occasioni per cercare l'oro per le strade. Golodnitsky, Gold. Heinrich, Harry.» Quando Augustino puntò la torcia elettrica verso Joe, un po' di luce sfuggì, gli sfiorò la faccia magra e appassionata. «Vede, sergente? Lei aveva sempre pensato che fossi pazzo. E invece, ecco qui. È come catturare un diavolo vero. Un diavolo di modesta importanza, ma pur sempre un diavolo. Eravamo al bar. Lei ha suonato bene. La dottoressa Weiss era incantevole.» «La credevo a Trinity, signore.»
Augustino aprì la portiera posteriore della Ford più vicina. «E io la credevo sulla Collina. Mi aiuti a caricarlo in macchina.» Dal parcheggio si sentiva vagamente l'orchestra. Joe riusciva a distinguere il ritmo ma non il motivo: un tempo di due quarti, un sussurro di cornette. Sollevò tra le braccia Harry Gold e lo adagiò sul sedile. «Che cosa gli dirà quando riprenderà i sensi?» «La botta eliminerà tutti i ricordi a breve termine. Gli dirò che si è ubriacato, è caduto e ha battuto la testa. Era ubriaco veramente.» «Lui non le crederà. Correrà dai russi.» «Certo, non mi crederà. Ma a parte il fatto che è un traditore, Harry Gold è un chimico da due soldi, una nullità, uno zero. Il giorno più fortunato della sua vita è stato quello in cui è diventato una spia. Crede che voglia perdere la sua unica qualità preziosa? Non dirà niente ai russi. Stanotte non è successo niente.» «Lo stesso vale anche per noi, signore. Io non l'ho vista e lei non mi ha visto.» «Perché dovrei rovinarle un romanzetto sentimentale, quando giochiamo nella stessa squadra?» Mentre facevano ritorno alla Collina, si fermarono a fare il bagno nel Rio, nel tratto in cui disegnava una profonda ansa tra le sponde sabbiose, a monte di Santiago. Sulla superficie nera dell'acqua galleggiavano petali bianchi. Mancavano appena cinque giorni a Trinity e i minuti parevano affrettarsi come se scorressero in un canale cronologico più rapido. «Eri un chierichetto? Non riesco a crederlo» disse Anna. «We'll go to Harlem an' we'll go struttin'» cantò Joe, «an' there'll be nothin' too good for you.» Anna era fresca e senza peso e gli sfuggiva dalle mani. C'era qualcosa che non andava, e Joe non capiva cosa fosse. «A volte mi chiedo che cosa sognasse per me mio padre» disse lei. «Una cattedra all'Istituto di Matematica. Dotte discussioni con altri professori mentre guardavamo Gòttingen abbandonarsi al crepuscolo.» «Sembra un documentario di viaggi.» «I ricordi di un profugo sono un documentario di viaggi. Comunque, un marito professore, due figli e una villa in Wilhelm Weber Strasse con le cassette di clematidi sui davanzali. Non credo che mio padre abbia mai sognato il Rio Grande e te. Mi mancherà.»
«Ti mancherà? Che cosa vuoi dire?» «Questo posto mi mancherà.» «Te ne vai?» «Se ne andranno tutti, poco dopo Trinity. Io me ne andrò prima. L'ho detto soltanto a Oppy e a te.» «Questo non significa che tu debba lasciare il New Mexico.» «Sì, invece.» «E noi?» «Noi? Qui c'è la tua casa, e adesso c'è anche la tua musica. Non è la mia casa, e il mio lavoro non è qui.» Joe galleggiava, ma aveva la sensazione di stare per sprofondare nell'acqua. «Questa sera sei venuta per dirmi addio?» «Sì.» «No. Mi hai chiesto di venire a Chicago. È a questo che volevi arrivare mentre stavamo ballando.» «Joe, ci conosciamo da un mese... o meglio da due settimane. Non è la fine di una lunga relazione. Stavamo appena incominciando a conoscerci. Non ti avevo mai visto felice come stasera.» «Pensavo che anche tu lo fossi.» «Non come te. Dev'essere meraviglioso essere così innamorati della musica.» «Tu te ne vai per formulare una specie di affermazione etica riguardo Trinity, è vero? Ti senti obbligata ad andare via?» «Sì, si potrebbe dire così.» «Allora ritorna.» «E cosa farei? Dovrei vendere le sigarette in un night, club?» «Non sarebbe necessario che facessi niente.» «Ma io faccio qualcosa. Sono una matematica e lavoro a un certo livello. Se escludi la Collina, qui non c'è un posto per me. Potrei lavorare con te? Non capiresti neppure quello che dico. Non voglio offenderti. Ma io non ti chiedo di abbandonare la musica per trasferirti a Chicago e cancellarmi le scritte sulle lavagne.» «E allora al diavolo il club. Verrò con te, non appena mi sarò congedato dall'Esercito.» «Quando io ho scoperto che il club è ciò che più desideri nella vita? Oh, no.» «Ti amo. Potrà sempre esserci un'altra Casa Mañana.» «Non credo. Penso che questa sia la tua occasione. Se vi rinunciassi per
seguirmi... saresti una versione sminuita di Joe Peña. Sai, la prima volta che ti ho visto, al ballo di Natale, Klaus Fuchs ti ha indicato e ha detto: "Quello là è il capo indiano, colossale, stupido e pericoloso". Non sei stupido, ma pericoloso e colossale lo sei davvero. E non voglio che tu cambi. Non voglio che diventi più piccolo del capo Joe Peña.» «Comincio ad avere l'impressione di essere stato per te una specie di conquista. Un passatempo. Una parte del tuo soggiorno nel territorio indiano.» «Non è vero.» «È molto semplice. Io ti amo e sono disposto a partire. Se tu mi amassi, resteresti.» Anna gli tese le braccia. «Ti amo. Possiamo fare l'amore, ora.» Anche Joe lo desiderava. L'acqua stava diventando sempre più fredda. Anna vi aleggiava come una fiamma. «Allora resta.» Joe riuscì a sopportare il silenzio solo per pochi attimi, poi si voltò. «E allora vattene. Vattene da qui. Fai i bagagli e parti.» Anna lo seguì a riva, e lui fu il primo a vedere le due figure accosciate sulla sabbia. «Salve, Joe.» 24 Sotto la luce d'un quarto di luna, Roberto e Ben Reyes mostravano i segni della stanchezza d'una fuga. Avevano i capelli sciolti, le teste reclinate. Sophie Reyes si teneva più indietro, seminascosta da un tronco. Joe raccolse la gonna di Anna. «Uno è cieco. L'altro è così vecchio che non conta.» «Hanno bisogno del tuo aiuto» disse Sophie. «Davvero?» chiese Joe. Infilò i calzoni. «Be', la signora ha molta fretta. Quindi scusateci, ma dobbiamo andare.» «Sono stati quelli del Servizio Indiano. Sono venuti al tramonto» disse Roberto. «Per fortuna sono arrivati da est, e Ben li ha visti.» «Ho visto il luccichio di una fibbia» disse Ben. Joe raccolse la camicia. «Davvero? E voi desperados ve la siete filata? Quanti erano?» «Due soli» disse Ben. «Quelle due guardie.» «Nessuno li seguiva? Avete avuto proprio una bella fortuna. Due co-
wboy che arrivano con il sole in faccia. Voi due state scappando e nessuno vi insegue. Eravate tornati a casa?» «A casa tua» disse Roberto. «Immaginavamo che sorvegliassero quella di Ben.» «Naturalmente. Avreste potuto continuare a tirare dritto.» Anna si abbottonò la camicetta. «Joe» disse «È cieco.» «Cieco e pazzo.» «Sei ancora salito sulla scala del mio sogno?» chiese Roberto a Joe. «Capisci, adesso, che cosa voglio dire?» chiese Joe ad Anna. «Quelli del servizio si sono presentati con un mandato federale» disse Sophie. «Parlavano di sabotaggio e dell'FBI. Hanno detto che sorvegliavano le stazioni degli autobus e quindi Ben e Roberto avrebbero fatto meglio a costituirsi.» «Tu l'hai visto, il mandato?» chiese Joe. «So leggere» rispose Sophie, irritata. «Hanno bisogno del tuo aiuto, Joe» disse Anna. «Per fare che cosa? Gli avevo offerto due possibilità di fuggire, ma loro hanno voluto giocare agli indiani e ai cowboy. Adesso però il gioco si sta facendo un po' duro. Gli avevo detto che c'era una guerra, ma non hanno voluto credermi. Che cosa te ne importa? Un minuto fa non vedevi l'ora di andartene. Vieni, ti accompagno. Stai gelando.» «Ho raccolto un po' di fascine» disse Sophie. «Possiamo scaldarci, se tu hai un fiammifero.» «Devi aiutarli, Joe» disse Anna. «Io non devo fare un accidente. Non sono responsabile per loro. Non venirmi a dire che cosa devo fare. Ho fatto la figura dello scemo con te, ma ormai è finita, giusto? È finita e tu te ne vai. Non voglio più sentirti parlare di scelte morali. Voglio soltanto caricarti sulla jeep e poi su un treno.» «Joe» disse Sophie. «Ti prego.» In un avvallamento della sabbia c'era un mucchio di rami gettati a riva dal fiume che sembrava una massa di corni ramificati. Joe sospirò, s'inginocchiò, appiccò il fuoco con l'accendino ai trucioli che stavano sotto. Le fiamme gialle si diramarono di fuscello in fuscello. In quella luce, il volto di Ben apparve impolverato e scorticato. Le mani di Roberto erano avvolte in bende insanguinate. Joe alzò la testa. L'intero universo era indiano, oppure c'era qualche raro cratere di razionalità? Roberto girò gli occhi verso il calore. «Lo spione che era salito sulla cengia. Che è stato di lui?»
«Si riferisce a Fuchs» disse Joe ad Anna. «Finora, Roberto, sembra che se la sia cavata, e non posso dire altrettanto di voi due. Un mandato federale? Dovrete rifugiarvi in un altro paese, almeno fino a che sarà sbollita questa faccenda.» «Hai da fumare?» chiese Ben. Joe gli porse le sue Lucky Strike. «Tieni il pacchetto.» «Preferisco le Chesterfield» disse Ben, ma intascò le sigarette. «Come sarebbe, un altro paese?» «Il più vicino è il Messico. Potresti diventare un nuovo Pancho Villa, zio.» «Il Messico non mi piace. Là fanno qualcosa di strano ai fagioli.» «Sicuro, li schiacciano nella merda e ci versano sopra le mosche. Ecco perché la loro birra è così buona. Zio, mi ascolti o no? Il Messico è l'unica possibilità che vi resta. La guerra finirà presto, tutti si calmeranno e allora potrete ritornare.» «Li accompagnerai tu?» chiese Anna. «Be', questo non ti riguarda, vero?» disse Joe. «Tanto, tu sarai a Chicago o chissà dove. Noi saremo un piacevole ricordo. Potrai guardare il tuo vaso e il tuo fermaglio d'argento e pensare a noi. E Dio lo sa, sarai sempre grata al cielo per il tuo breve ma affascinante soggiorno a Santiago.» «Smettila, Joe» disse lei. «La rivelazione dei misteri indiani, la cottura delle terrecotte.» «Smettila, ti prego.» «Le notti esotiche con un autentico capo indiano.» «Scusami.» «Joe, li accompagnerai tu?» chiese Sophie. «Sì. D'accordo, d'accordo. Non è tanto difficile. Si tratta di arrivare a El Paso e di prendere il tram per Juarez. Metteremo un paio di occhiali da sole a Roberto e una coperta addosso a Ben. Sarà facile. Ma non potrò accompagnarli prima di domenica notte.» «È la notte dell'esperimento» disse Anna, in tono guardingo. «La sera del tuo incontro.» «Quale esperimento?» chiese Roberto. «L'arma» disse Joe. «La zucca piena di ceneri?» «Appunto.» «E la scala? Salirai sulla scala per raggiungere la zucca?» «Non salirò su nessuna scala. Non mi troverò neppure nelle vicinanze
dell'esplosione. Il generale vuole che me ne vada in giro ad assicurarmi che nessun Apache selvaggio sconfini nella zona dove si svolgerà l'esperimento. Ecco perchè avrò la possibilità di squagliarmela e sostenere l'incontro. E dopo l'incontro raggiungeremo la frontiera. L'importante è che vi teniate nascosti fino a quel momento, e che veniate con una macchina nel posto dove combatterò.» «Una coperta?» borbottò Ben. Aveva già assunto gli atteggiamenti di un imperatore in partenza per l'esilio. «Dove combatterai?» «Dopo Socorro c'è un paesetto che si chiama Antonio. Ha una sola via trasversale. Svolta a sinistra e prosegui per ottocento metri fino all'Owl Café. Dietro c'è un motel. L'incontro comincerà nel cortile del motel alle otto di sera. Prima delle nove dovrebbe essere finito e le macchine dovrebbero essere andate via. Allora comparirete voi.» «E se tu non potessi andare?» chiese Anna. «Se ci fosse qualche problema?» Joe la ignorò. «Parcheggia nel cortile e spegni i fari. Aspetta cinque minuti e non di più. Ci saranno MP dappertutto. Se non potrò raggiungervi entro cinque minuti, vorrà dire che c'è un grosso problema. Non ci sarà, non preoccupatevi; ma nel caso che ci fosse, di' all'autista di tornare all'autostrada, di svoltare a sud fino a El Paso e di portarvi al tram. Quando vi sarete sistemati a Juarez, telefona a Casa Mañana ad Albuquerque e lascia detto dove alloggiate. Se invece ci sarà un cambio di piani in precedenza, avvertirò Felix Tafoya, che a quanto pare non sa soltanto usare una ramazza, ma anche fare il buffone e seminare gli scettri della folgore.» «Bene.» Roberto sogghignò soddisfatto. «Hai capito anche questo.» «Già. A proposito, Ben, il tuo ex fratello Hilario mi ha detto l'altro giorno che non è mai mancato a una delle danze di Santiago. Non l'avevo visto alla danza quando sono venuti a cercare Roberto, ma proviamo un po' a immaginare che Hilario abbia detto distrattamente la verità quando ha affermato di essere stato presente ogni volta. Allora è stato lui a segnalare Roberto, e poi se n'è andato. Sarà all'incontro, quindi non farti vedere.» Sophie uscì dal buio, e si tolse la coperta che portava come uno scialle. Joe pensò che si fosse finalmente decisa a sedersi con loro; invece buttò la coperta sulle fiamme e la calpestò per soffocare il fuoco. «Il Servizio Indiano» disse ad Anna. «Davvero posso tenere le sigarette?» chiese Ben. «Sì, ma filate» disse Joe. «Sei generoso» disse Ben in tewa. «Sei un bravo ragazzo.»
Ormai tutti i cani della parte est del pueblo stavano abbaiando. Sophie e Ben condussero Roberto lungo la riva del fiume, verso monte, intorno a una macchia di arbusti. Joe e Anna salirono sulla jeep e si infilarono le scarpe. «Sai, questo è molto più interessante di Göttingen» disse lei. «A Göttingen non ci sono molti cowboy;» Joe mise in moto la jeep. A fari spenti, passarono tra i cottonwoods e le cisterne, e proseguirono su una strada sterrata tra il pueblo e i campi d'orzo e sorgo. Al di sopra dei peschi s'intravedeva il basso frontone della chiesa. Nell'aria c'era odore di peperoni arrostiti. Joe fiancheggiò un canale per l'irrigazione, in direzione del ponticello d'assi che scavalcava un fosso trasversale. Le assi cigolarono al passaggio della jeep. «Eccoli là!» disse Anna. Cinquanta metri più avanti c'erano le due guardie a cavallo del Servizio. Al, il più vecchio, agitò le braccia per intimare a Joe di fermarsi. Billy, adesso, aveva una pistola dalla canna lunga e lucida. Joe svoltò dietro un filare frangivento di girasoli. Se l'avessero fermato, avrebbe avuto grane a non finire per abbandono di posto, e Anna per essere venuta meno alle regole della sicurezza. Nello stesso tempo, aveva capito cosa intendevano fare le guardie. Sophie, Ben e Roberto si erano avviati nel fosso, e Billy e Al stavano aspettando che ne uscissero. I campi erano un labirinto di canaletti tutti alimentati dal fosso principale che scorreva all'estremità nord lungo l'autostrada. Se i fuggiaschi avessero raggiunto i campi di mais, dove gli steli arrivavano all'altezza delle spalle, le guardie non sarebbero mai riuscite a prenderli. Joe si avviò lentamente in mezzo al sorgo. Le piante battevano contro le ruote. Le guardie non prestarono attenzione. La jeep avanzò nel mais, falciando un filare. Gli steli si piegarono e si spezzarono: mais rosso, mais azzurro, mais nero, mais periato, mais indiano. Quando arrivò in fondo al filare si fermò. Alla sua destra, una ventina di metri più indietro lungo la strada sterrata, Al stava gridando: «Apri, Billy!». Sulla sinistra, trenta metri più avanti, Billy si stava sporgendo dalla sella per girare il volantino che avrebbe alzato la chiusa di legno del canale. Roberto, Sophie e Ben erano in trappola. L'afflusso dell'acqua li avrebbe annegati o li avrebbe costretti a fuggire in direzione di Al. «Scendi» disse Joe ad Anna. «Tornerò a prenderti.» «Voglio venire con te.» «Non voglio che tu venga con me e non ho tempo di discutere. Voglio
che mi aspetti qui fino a quando tornerò e ti accompagnerò tranquillamente alla Collina, così domattina non perderai il treno.» Anna si aggrappò al parabrezza. «No.» «E va bene.» Joe riportò la jeep sulla strada, girò e premette l'acceleratore. Billy si stava sporgento ancora dal cavallo per tirare con forza il volantino della chiusa quando sentì il rombo del motore che si avvicinava. Appena arrivò a sei metri di distanza, Joe accese gli abbaglianti. Il cowboy aveva una camicia di raso dorato e un'espressione sbalordita. Il suo cavallo s'impennò, si rovesciò all'indietro e scomparve. Joe sentì il tonfo quando l'uomo e l'animale piombarono nell'acqua del fosso principale; poi la jeep superò il ponticello di tavole e sfrecciò sulla strada asfaltata, puntando verso nord. Dopo cento metri Joe spense i fari e girò: doveva tornare indietro lungo la strada asfaltata, fiancheggiando il fosso principale, per raggiungere la Collina. Billy, intanto, urlava che non sapeva nuotare. Al si era avvicinato al canale e, sotto la luce pallida della luna, attendeva paziente in sella, stringendo la pistola con entrambe le mani. Era una Colt macchiata di ruggine, ricordò Joe. Il cowboy non poteva sparare davvero, pensò, a una jeep dell'esercito. Quando passò davanti ad Al, Joe cambiò idea. Spense di nuovo i fari e schiacciò il freno. La pistola lampeggiò, sobbalzò, lampeggiò di nuovo. Joe premette l'acceleratore a tavoletta. Il terzo sparo risuonò precipitoso dietro la jeep. Gli ultimi tre avevano il suono d'un secchio di latta preso a calci per sfogare una rabbia impotente. Per molti chilometri proseguirono a fari spenti e senza scambiarsi una parola, come se l'oscurità e il silenzio prolungassero il momento della fuga e procrastinassero quello dell'addio. Loro due erano così diversi, pensò Joe, che qualunque parola li avrebbe divisi. Il fatto che si fossero incontrati era una prova della stranezza della Collina. Era giusto lasciare che quell'ultimo, piccolo trionfo si protraesse a lungo... per sempre, se era possibile. Joe dovette riaccendere i fari quando affrontarono i tornanti. Mentre la jeep saliva, Anna si diede da fare per raccogliere dal pavimento i frammenti degli steli di mais. E trovò due zigzag di legno intagliato che erano scivolati fuori dallo spazio sotto il sedile. «Che cosa sono?» chiese, senza guardare gli occhi di Joe. È così che finisce, pensò lui... senza parole vere, senza neppure uno sguardo. «Le bacchette di quel pazzo di Roberto.» «A che cosa dovrebbero servirvi?»
«Per chiamare il fulmine. Portare l'acqua ai campi. Far ritornare i bisonti. Fermare la bomba.» «Puoi farlo davvero?» Joe le prese dalle mani le bacchette e le gettò via. Le bacchette rotearono nell'aria, luccicando, e precipitarono nella tenebra del canyon. «Ora non più» disse. Venerdì 13 luglio 25 C'era l'ordine di non fermarsi lungo il percorso, ma quando Joe attraversò Antonio rallentò nei pressi dell'Owl Bar and Café il tempo sufficiente per vedere i genieri e gli MP dislocati nel cortile del motel. Accelerò di nuovo alla testa del convoglio composto da due jeep, due berline, un camion carico di pezzi di ricambio e un altro camion coperto che trasportava Jaworski e la sfera d'acciaio e d'esplosivo ad alto potenziale, l'involucro implosivo della bomba. «Gli MP sono sul posto per fare evacuare il paese nel caso che... be', lo sai...» Ray Stingo era sulla prima jeep con Joe. «Come vanno le cose quaggiù?» chiese Joe. Ray era andato e venuto continuamente da Trinity per una settimana. «I soliti casini dell'Esercito. C'era un gruppetto di scienziati, compresi un paio di geni da un milione di dollari, che posavano i cavi fra i cespugli quando ti arriva un B-29 a caccia di antilopi con le mitragliere calibro cinquanta. E gli scienziati a scappare come disperati. Vedi, il resto dell'Esercito non sa niente di quello che facciamo.» Erano già usciti da Antonio. Ray girò la testa per guardare il lontano orizzonte piatto di "erba dei bisonti", artemisia grigia, foglie lanceolate di iucca. «È un posto fottuto per un esperimento. La mattina devi scuotere le scarpe per buttare fuori gli scorpioni. Devi battere sulla jeep con una chiave inglese per far scappare i serpenti a sonagli. L'acqua contiene tanto gesso da intasarti l'intestino. Ogni cinque minuti devi correre fra i cespugli, e ci sei daccapo, tu e la merda e i serpenti a sonagli.» L'acqua aveva anche un alto contenuto di alcali. Il ciuffo che Ray si teneva sempre ben leccato con la saliva era indurito come gesso. «L'arma sarà anche nuova, ma l'Esercito è sempre il solito.» «Come vanno le scommesse per l'incontro?» chiese Joe.
«È strano. Le puntate sono incominciate due a uno per te, e adesso ti danno uno a due. Le previsioni ti sono così favorevoli da farmi paura. Sai, stavo pensando che forse potrei aver trovato una sistemazione sulla Collina. Se tornassi nel New Jersey butterei via i miei quattrini in fretta. Credo che resterò.» «Dopo la guerra la Collina smetterà di esistere.» «Capo, in tutta la mia vita ho avuto una sola idea intelligente. Vuoi sentirla? Non abbiamo fabbricato questa bomba per i giapponesi, ma per i rossi. E non abbiamo ancora incominciato a combatterli.» A parte il convoglio, Joe non aveva visto altri mezzi dell'Esercito lungo la strada. Stallion Gate era un po' cambiata: filo spinato nuovo, pali nuovi, un posto di blocco che consisteva in una specie di riparo protetto da un telone per fornire un misero spicchio d'ombra. Gli MP portavano caschi coloniali. Prima di lasciare la Collina, ognuno degli uomini del convoglio aveva ricevuto un lasciapassare rosa con una "T" che indicava "Trinity". Al cancello scambiarono i lasciapassare con i distintivi bianchi e rotondi. «Sembra di essere nella Legione Straniera, capo.» Il caporale Gruber era uno degli MP di servizio all'entrata. Aveva ancora il braccio al collo e gli occhi arrossati dalla polvere alcalina. «Trentotto gradi all'ombra ogni santo giorno da due settimane. Distintivi? Sicurezza? Ogni notte saranno almeno cinquanta quelli che lasciano il deserto per andare a farsi una birra. Passano in fila indiana in mezzo ai serpenti.» Scrisse il nome di Joe, la data e l'ora sulla cartelletta. «Venerdì tredici. La giornata più adatta per collaudare la bomba. Come va, capo? In forma?» «Abbastanza.» Gruber si umettò le labbra aride. «È una questione di fiducia in se stessi, giusto?» «Fino a un certo punto.» Gruber gli accennò di passare. «Ancora un combattimento, non chiediamo di più.» La strada d'accesso che Joe ricordava come vaga pista nella neve era stata rifatta e ricoperta di colichi, un misto di sabbia e d'argilla che si era subito disintegrato in una fine cipria bianca. Le nubi di polvere indicavano il movimento di un altro convoglio, più avanti. Jaworski salì sulla jeep di testa con Joe e Ray. Aveva una radio portatile a modulazione di frequenza, e teneva appesi al collo gli occhialoni rossi Polaroid che erano stati distribuiti per l'esperimento. «Abbiamo l'ordine di ascoltare di continuo la radio, qui, caso mai ci fos-
se un incidente» disse Jaworski. «E non si devono togliere le chiavi dalle macchine nell'eventualità di un'evacuazione improvvisa. Ecco perché le strade sono così larghe. Però vorrei sapere cosa devi fare se ti capita un incidente, e non sei vicino a una strada e non hai una ricetrasmittente che ti permetta di avvertire qualcuno.» La radio a modulazione di frequenza emetteva suoni inframmezzati da scariche. Erano musiche... Carmen Miranda. «Non lo chieda a me» disse Ray. «L'Esercito ha impiegato mesi a trovare un canale tutto per noi. Ma è lo stesso canale della Voce dell'America. Edizione latina. Abbiamo l'ordine di ignorare i samba e i bombardieri.» Joe chiese a Jaworski: «Be', che cosa si deve fare se ci si trova bloccati allo scoperto e la bomba esplode accidentalmente?». «Il lampo, i raggi gamma e i neutroni ucciderebbero qualunque essere vivente entro un raggio di due chilometri e mezzo dalla torre. Se riuscisse ad allontanarsi di tre chilometri o più e a trovare una depressione, un ruscello...» «Un ruscello nella Jornada del Muerto? Che razza di pianificazione! Ma non possono succedere incidenti, vero?» «Ieri, Joe, stavano collaudando i circuiti del detonatore su una bomba fasulla in cima alla torre. E all'improvviso, ecco che ti arriva un fulmine. Immaginate cosa sarebbe successo se fosse stata la bomba vera. A proposito, Anna mi ha detto di salutarla. È partita per Chicago questa mattina presto. Si è fatta prestare la macchina di Teller. Altrimenti, immagino che l'avrebbe accompagnata alla stazione.» «Sì, credo di sì.» A Trinity c'erano duecento uomini, più o meno; ma erano così sparpagliati su centinaia di ettari che se ne vedevano soltanto pochi alla volta. Tuttavia, più il convoglio si avvicinava al Punto Zero e più si scorgevano le testimonianze dell'attività in corso: un cavo teso lungo un'interminabile fila di pali; il primo misuratore dell'onda d'urto, un congegno costruito in modo da rimbalzare entro le molle d'un cerchio; i bunker per le fotografie, grigi come conchiglie su una spiaggia, con i periscopi puntati a sud verso una torre distante undici chilometri che si ergeva nell'aria limpida e tremolante. A sei miglia dalla torre, il convoglio raggiunse il rifugio dei 10.000 metri Nord, un bunker di tronchi sprofondato in una pendenza protettiva di terra smossa. I bulldozer andavano avanti e indietro sul pendio per renderlo compatto. Da 10.000 Nord, una nuova strada asfaltata puntava diritta verso la torre. I cavi si moltiplicavano. Tra le artemisie morte c'era un
bunker con la strumentazione automatica, un blocco di cemento con gli oblò per le cineprese. «L'Occhio dello Splendore Celeste.» Jaworski indicò l'unica presa rivolta nella direzione opposta a quella della torre. «Per misurare la dispersione generale dei neutroni.» Lo Splendore Celeste? Era un nome amabile, e faceva pensare al luccichio di una manciata di lustrini gettati in aria. «Nervoso?» chiese Joe. «Le cose sono molto cambiate» disse Jaworski. «Una volta facevamo esplodere le bombe usando una lunga corda. Nessuno aveva un contatore. Una carica scoppiava oppure non scoppiava. Non c'erano oscilloscopi o camere di ionizzazione. Una sola cosa non è cambiata: ci sarà un pugno di uomini a montare la bomba. Altri cento strilleranno che questo sismografo ha un'importanza vitale o che quel misuratore di pressione dev'essere riparato, ma l'unica cosa che conta è la bomba, giusto? Naturalmente, nella guerra contro il Kaiser non lanciavamo dagli aerei niente che fosse più grosso d'una bomba a mano, e comunque non c'era la dispersione dei neutroni.» La torre chiamata Punto Zero sembrava una torre per le trivellazioni petrolifere priva dei tubi: un'esile struttura di travi d'acciaio e di traverse che s'innalzava per trenta metri fino a una baracca di ferro galvanizzato appollaiata nel cielo. C'era una scala a pioli metallica che saliva fino alla cima, con i pianerottoli ogni sei metri. Una scaletta di legno collegava il pianerottolo più basso al terreno dove Foote era in attesa, con il solito sombrero e i soliti calzoncini militari britannici. I suoi specialisti degli esplosivi ad alto potenziale, una mezza dozzina, se ne stavano seduti in canottiera, mutandine da bagno e fazzoletti legati intorno alla testa come i pirati. Quando il convoglio girò intorno alla base della torre e si fermò, dalle due berline del servizio di sicurezza schizzarono fuori gli ufficiali che si disposero in una linea da scaramuccia, puntando i fucili mitragliatori contro i cactus e gli arbusti. Foote passò alle loro spalle. «La cercan di qua, la cercan di là, ma dove sia nessun lo sa. Che catturare mai non si possa, questa dannata Primula Rossa? Joe, ha portato la mia roba?» Il camion andò a fermarsi sotto le ampie ganasce di una catena a puleggia sospesa al centro della torre. Quando il telone che copriva il camion fu rimosso, Joe e Ray imbullonarono le ganasce alla bomba. Il cavo cigolò girando nella scanalatura della puleggia. Il camion si allontanò e la bomba
sospesa venne calata su un supporto d'acciaio che arrivava al ginocchio. Sembrava un mappamondo, una luna grigia e opaca d'un metro e quaranta di diametro, con due orli e le toppe dove le prese dei detonatori erano coperte da nastro adesivo. Non appena Ray staccò le ganasce e la puleggia si sollevò, gli uomini di Foote rizzarono una tenda intorno alla bomba e le macchine della sicurezza si allontanarono. «Vuol partecipare alle scommesse?» chiese Foote a Joe. «Un dollaro a puntata.» «Per che cosa?» «La potenza dell'esplosione, che altro? La nuova stima ufficiale va dalle cinquemila alle diecimila tonnellate di tritolo. Io e Jaworski abbiamo scommesso su diecimila e credo sia la prima volta che ci troviamo d'accordo su qualcosa. Teller ha scommesso su quarantamila tonnellate, ma Edward è sempre stato un ottimista.» «Oppy?» Joe avrebbe dovuto andare a cercarlo, adesso che era arrivato a Trinity. «Oppy ha predetto trecento tonnellate. Trecento tonnellate è un fiasco. Siamo un po' preoccupati per Oppy.» Harvey e il nucleo di plutonio erano arrivati quella mattina presto in un ranch situato circa un chilometro e mezzo a sud del Punto Zero. Il proprietario era stato risarcito e sfrattato ma, a parte la Plymouth di Harvey e le quattro jeep parcheggiate con la coda verso la casa e il motore acceso, in apparenza non era cambiato nulla: stalla e corrai, un mulino a vento per pompare l'acqua, una cisterna per contenerla, una casa a un solo piano circondata da un muretto di pietre. All'interno, le pareti del salotto erano celesti con una delicata fascia bianca sotto il soffitto. Il pavimento di quercia era stato pulito con l'aspirapolvere, le finestre sigillate con fogli di plastica e nastro adesivo. Tutti i mobili erano stati portati via, tranne il tavolo che adesso era coperto di carta gialla da macellaio. Harvey, in camice bianco da chirurgo e con i guanti di gomma, aveva già unito i due emisferi di plutonio rivestiti d'argento in una sfera grande quanto una palla da croquet del peso di cinque chili, e adesso stava tappando i fori nella superficie lucida con minuscoli pezzi di fazzolettini di carta. Sul pavimento, i contatori Geiger ciangottavano. Sei uomini taciturni nei camici da laboratorio sorvegliavano i contatori e passavano gli utensili ad Harvey. L'unico che non aveva niente da fare era Oppy. Sebbene fosse alto più d'un metro e ottanta, ormai non pesava più di quarantacinque chili. La faccia sembrava scarna e nel contempo gonfia, troppo grande per il col-
lo che spuntava dal camice. Rigirava tra le mani una pipa di radica spenta. Qualcuno aveva piantato un chiodo nel muro perché potesse appendervi il basco, come nel suo ufficio sulla Collina. Il berretto era appeso, infatti; ma Oppy sembrava stranamente fuori posto e avvilito, tutt'altro che trionfante. «Non dimentichi il Drago» disse Harvey, sebbene non avesse alzato gli occhi quand'era entrato Joe. Joe rimase indietro, accanto al muro che aveva uno spessore di trenta centimetri e manteneva nella stanza una relativa frescura, poco più di trentatré gradi. La finestra coperta di plastica era dalla parte delle macchine con i motori accesi, pronte alla fuga se mai Harvey avesse commesso una svista. L'ordine di missione di Joe a Trinity era restare sempre con Oppy e fare in modo che il direttore del progetto sopravvivesse a ogni eventuale incidente. Harvey diede un'ultima lucidata al nucleo con uno straccio smerigliato. «Ho regalato il mio clarinetto.» «È un peccato. Era un suonatore molto promettente» disse Joe. I collaboratori di Harvey seguivano ogni suo movimento con l'attenzione intensa d'un gruppo di pulcini che guardano la chioccia girare un uovo. Uno di loro posò sul tavolo una lunga pinza di ottone e una cassetta antiurto tempestata di prese; poi aprì la serratura della cassettina e sollevò il coperchio. Su un letto di gommapiuma c'era una grossa perla, una sferetta di polonio rivestito di platino del diametro di due centimetri e mezzo. Quello era il nucleo del nucleo, l'"iniziatore" che avrebbe emesso una raffica di neutroni nel primo milionesimo di secondo della detonazione. «Ho deciso di continuare a fare il mio mestiere» disse Harvey. Aprì di nuovo il nucleo più grande e sostenne con l'indice l'emisfero superiore. Con la mano libera raccolse la pinza, strinse la sferula tra i rebbi di ottone e la sollevò. Ora doveva collocare l'"iniziatore" nel suo nido al centro del nucleo, e l'inserimento doveva essere effettuato al rallentatore mentre veniva controllato l'aumento delle radiazioni. Harvey batté le palpebre perché il sudore non gli penetrasse negli occhi; ma le sue mani non avevano esitazioni. Alzò un poco di più con l'indice l'emisfero superiore mentre sospingeva in avanti la sferetta e la pinza. Il ticchettio dei contatori Geiger salì come un palpito di cuori eccitati. Oppy sembrava sul punto di crollare svenuto. «Gli atomi gelidi mi scorrono su e giù per la schiena» canticchiò sottovoce Harvey. «L'azzurro degli ioni quando i tuoi occhi incontrano i miei. Lo strano, nuovo formicolio che sento dentro, e poi incomincia la ra-
diazione.» La pipa di Oppy cadde sul pavimento e roteò. Harvey restò immobile, con le dita nelle fauci dei due emisferi. «Joe, le dispiace accompagnare Oppy a fare due passi?» Fuori, nell'aria rovente e secca, Joe si accorse di avere la camicia intrisa di sudore. Oppy sedette sul muretto di pietre e si appoggiò il berretto sul ginocchio. «Sospetto che prima del suo volo Icaro non facesse altro che vomitare. Vorrei che potessimo andare a fare una galoppata tra le montagne, Joe, come un tempo. Quest'anno sono salito una sola volta sul mio cavallo. So che lì dentro non hanno bisogno di me, ma è il mio esperimento.» Alzò lo sguardo verso Joe. Era ridotto pelle e ossa e vestiti, e gli occhi azzurri avevano l'intensità della sofferenza. «Ho chiesto a Groves un'altra settimana o almeno quattro giorni. Quando sarà finito, andremo a cavallo.» «Sicuro.» Harvey richiamò in casa Joe. Il nucleo era chiuso e completo, e adesso stava in una cassetta di legno foderata di piombo. «È in quello stato da quando è arrivato qui. Forse sarebbe meglio se tornasse alla Collina.» «Ma è il suo esperimento» disse Joe. Caricarono la cassetta su una barella, la portarono alla macchina di Harvey e la posarono sul sedile posteriore. Joe prese Oppy a bordo della jeep e partì per primo in direzione della torre. La brezza del tardo pomeriggio si andava rinforzando, e vortici di polvere saettavano intorno alla base dei tralicci. Nella tenda, Foote e Jaworski avevano rimosso la calotta superiore della bomba e avevano estratto un tappo di bronzo a vite per poter inserire il nucleo di plutonio. Harvey aprì la cassetta e collegò il nucleo a una coppa a vuoto pneumatico. Nessuno voleva danneggiare il prezioso nucleo con viti o bulloni; e poiché erano scienziati si fidavano del vuoto. Harvey controllò il sigillo della coppa, poi agganciò agli occhielli la catena di un paranco a mano. Si tolse il camice, l'allontanò con un calcio e controllò di nuovo il sigillo. Sembrava un ragazzo paffuto e innocente, con il sudore che gli scorreva sul ventre e i fini peli biondi eretti come se fossero magnetizzati. Foote girò la manovella e sollevò il nucleo dalla cassetta. Da un angolo della tenda, Oppy e Joe videro Jaworski che teneva fermo il nucleo con una matita mentre Foote lo spostava sopra la bomba. Il vento batteva sui teli della tenda. «Basterebbero un vortice di polvere
e qualche granello di sabbia perché noi possiamo buttare nel cesso la nostra implosione simmetrica» disse Foote. Incominciò a calare il nucleo. Per un momento rimase librato sopra la bomba come una luna su un astro più grande; poi incominciò a scendere appeso alla catena, a scendere nell'interno. E si bloccò. Jaworski alzò la mano. I suoi baffi avevano incominciato ad afflosciarsi. Foote azionò la manovella, sollevò il nucleo, lo calò di nuovo nella bomba. Il nucleo si bloccò. Foote lo sollevò a metà, fece scattare il dente d'arresto del paranco e meticolosamente riprese a far scorrere la catena. Il nucleo ridiscese lentamente, sfiorando le lenti di esplosivo ad alto potenziale. E si bloccò. Il nucleo di plutonio era troppo grande, d'un millimetro o giù di lì, oppure era troppo piccola la cavità all'interno della bomba. «Non posso crederlo» disse Oppy, e fissò prima la bomba, poi Foote. «Non è possibile. Avete sbagliato le misure?» I teli della tenda tremavano. Le misure erano sbagliate? Il nucleo non sarebbe entrato? Joe immaginò quello che sarebbe successo quando qualcuno lo avesse annunciato al generale Groves. E sospettava che anche tutti gli altri immaginassero la stessa scena. Harvey rise. «È il caldo del deserto. Il plutonio è caldo, dilatato. Questa è fisica da scuole elementari. Lasciate il nucleo dov'è: si raffredderà.» Dopo cinque minuti, la temperatura del plutonio e dell'esplosivo ad alto potenziale divennero uguali e il nucleo scivolò docilmente al suo posto. Jaworski dissigillò la coppa a vuoto pneumatico e, mentre Foote sollevava la catena, Harvey inserì un metro di filo di manganese fino al nucleo per effettuare il conto dei neutroni. Collegato a un contatore Geiger, il filo segnalò una cascata di ioni, simile al ronzio di un alveare. «Io ho finito.» Harvey estrasse il filo. Si soffermò accanto all'apertura come se non riuscisse a credere a quel momento, poi uscì in fretta dalla tenda. Foote e Jaworski incominciarono subito a rimettere a posto l'esplosivo. Fissarono con il nastro adesivo le lenti che non apparivano ben salde. Il lavoro si protrasse nella sera, e vennero portate le lampade. Si sentiva il tuono che scorrazzava nella valle. «L'Italia ha appena dichiarato guerra al Giappone.» Harvey era rientrato nella tenda. «Diavolo, questa guerra è davvero quasi finita» disse Joe.
Sabato 14 luglio 26 Joe correva nel chiarore del primo mattino; si allenava ogni volta che ne aveva la possibilità. Prendeva a pugni l'aria, schivava, tirava colpi a destra e a sinistra. Il sudore gli ruscellava sul petto. Mentre correva, suonava mentalmente la sua musica. Stava lavorando su una Fugue for Night. Pensava che potesse essere bebop; invece divenne un doppio valzer con accordi in minore che cambiavano continuamente, e salivano e scendevano perché c'erano tanti tipi diversi di notte. La notte in montagna. La notte nel deserto. Persino la profonda notte viscida delle Filippine aveva molte variazioni. E poi c'era il vuoto interiore senza luna e senza cuore che era la vita senza Anna. A volte la reazione fisica si instaurava ancora prima del pensiero: un bruciore alla gola, una costrizione nel petto, e quindi il ricordo. Se lei stava andando a Chicago in macchina, era ancora in viaggio. Joe aveva la sensazione che il suo corpo lo tradisse. A volte gli occhi gli dicevano che la vedevano nell'oscurità, come se la speranza avesse il potere di catturare le ombre e di assumere una forma umana. Poi le ombre si dileguavano e lui era di nuovo solo in un vuoto arido. Qualche volta, tra il sudore e la concentrazione, riusciva a non pensare affatto a lei. Trascinò giù la luna dal cielo in una serie di quinte in bemolle. Grondava sudore. Alle otto del mattino Foote smontò la tenda alla base della torre e Joe agganciò il cavo di una puleggia all'orlo della bomba. Poiché scendeva per trenta metri dalla botola della piattaforma, ed era una distanza notevole per sollevare duemiladuecento chili di acciaio ed esplosivo e cinque chili di plutonio, il cavo era stabilizzato per mezzo di funi che lo collegavano ai pattini su due gambe della torre. Il cielo era di un azzurro paralizzante, l'azzurro di uno spruzzo d'acqua, e non si era ancora levato in volo neppure un falco delle praterie. Si scorgevano solo i puntolini dei palloni meteorologici che si crogiolavano al sole. Quando Foote diede il segnale, il motore a due tempi della puleggia incominciò a funzionare sulla piattaforma. Il cavo si tese, la sfera e il supporto si staccarono dal suolo e un camion si avvicinò a marcia indietro alla torre. I collaboratori di Foote incominciarono a scaricare i materassi milita-
ri dal pianale. La bomba ascese un centimetro per volta, mentre Joe e Foote le piazzavano sotto i materassi. «Questo è il più grande programma scientifico nella storia dell'umanità?» chiese Joe. «Nel modo più assoluto» rispose Foote. «E se il cavo si spezza, conta di neutralizzare una bomba da due tonnellate e mezzo con un mucchio di materassi?» «Riconosco che forse siamo arrivati a un punto di esaurimento mentale.» Foote seguì con gli occhi la bomba che saliva. «Mi ricorda la compianta regina Vittoria issata più o meno in questo modo a bordo di una nave. È una sensazione a metà strada fra il religioso e il ridicolo.» L'esaurimento era concentrato principalmente accanto alla torre, a bordo della jeep dove Oppy stava parlando con Jaworski. Il viso di Oppy era terreo, gli occhi arrossati dalla polvere alcalina. La bomba saliva regolarmente come un piombino, le funi laterali erano ben fissate ai pattini che avanzavano sussultando lungo le rotaie all'interno dei due supporti principali di sostegno della torre. Joe e Foote riuscirono ad ammucchiare i materassi fino a un'altezza di tre metri e non di più. La bomba, oscillando dolcemente nell'aria, salì a sei metri, a quindici. Dopo tutte le misure di sicurezza alla Collina, Joe pensò che quello era il bersaglio più facile della guerra: se un sabotatore stava cercando l'occasione buona, l'aveva lì a portata di mano. «Dov'è Augustino?» chiese quando Oppy si avvicinò alla catasta di materassi. «Questa notte i nostri rimasti sulla Collina hanno collaudato un facsimile dei detonatori» disse Oppy a Foote, senza rispondere a Joe. «Non c'è stata un'onda d'urto simmetrica. Cinque minuti fa ho saputo che abbiamo per le mani un fiasco.» «Funzionerà.» Foote sollevò la tesa del sombrero per non perdere d'occhio la bomba. «Due miliardi di dollari.» Oppy rise. La risata si mutò in una tosse che parve dilaniargli i polmoni. Accese una sigaretta mentre era ancora piegato su se stesso. «No, Joe, per rispondere a una domanda del tutto non pertinente, non ho visto il capitano Augustino. Per favore, mettiti in testa una volta per tutte che non m'importa niente del capitano. Non mi riguarda.» «Credo che riguardi Joe.» Foote girò il collo. «Se devo dar ascolto alle voci che ho sentito, credo che gli piacerebbe inchiodare l'uccello di Joe a terra e sparargli alla testa.»
«Al capitano interessa ben altra selvaggina» disse Joe. La bomba tremò. Un pattino scorse sferragliando giù per la rotaia, e la sua fune sferzò l'aria fino a quando il pattino andò a seppellirsi nel terreno alla base della torre. A un'altezza di quindici metri, la bomba dondolava lentamente da una parte all'altra, ancora trattenuta dal secondo pattino, e girava su se stessa con una nuova inerzia. «Madonna santa» disse qualcuno. «Povero me» disse Foote. Le ossa del viso di Oppy parvero sciogliersi come cera. «Il cavo è bloccato!» gridò l'uomo sulla piattaforma. «Si sta staccando dalla puleggia. Dovrò liberare l'altro pattino.» Questo era il soldato semplice Eberly; goffo e dinoccolato nei calzoncini corti, scese tuttavia le scalette d'acciaio come un eroe, affrontando ogni rampa con lo stile della Marina. Al secondo pianerottolo si trovò allo stesso livello della bomba sbilenca, ma dal lato opposto. Avrebbe dovuto percorrere una stretta trave orizzontale dell'impalcatura a quindici metri dal suolo. C'erano supporti diagonali cui avrebbe potuto aggrapparsi per quasi tutta la distanza; ma al centro, dove i supporti s'innalzavano al di fuori della sua portata, sarebbe stato costretto a procedere come un funambolo. Perché no? Dopo che l'arma più potente del mondo aveva lasciato le mani di Oppy, Fermi e Foote, perché mai il suo destino non poteva dipendere dal sangue freddo di un soldato semplice? Tanto valeva permettere a Eberly di diventare l'uomo del giorno. Jaworski si staccò dalla jeep e arrivò correndo. «Non provarci!» «Prova» sussurrò Oppy. Eberly si afferrò alla traversa finché gli fu possibile; poi spalancò le braccia per tenersi in equilibrio. La trave d'acciaio aveva una larghezza d'una decina di centimetri ed Eberly si muoveva ansiosamente, tenendo divaricate le dita dei piedi. Non fermarti, pensò Joe. Il soldato s'inclinò, ritrovò l'equilibrio e restò immobile al centro della trave orizzontale. Non guardare giù, pensò Joe. Con gli occhi fissi davanti a sé, Eberly si avviò di nuovo. Sbagliò un passo. Riportò il piede sulla superficie d'acciaio, ma ormai si era fermato. Sbatté le braccia come le ali di un'anitra. Guardò giù e si tuffò. Eberly si girò a mezz'aria e cadde di schiena sul mucchio dei materassi, poi si lasciò scivolare a terra, in ginocchio. Era sfiatato ma indenne. «Joe?» disse Oppy. Joe stava già salendo la scala a pioli. Raggiunse i gradini d'acciaio, arri-
vò al secondo pianerottolo dove pochi minuti prima stava Eberly. Era più alto e quindi poté sfruttare più a lungo il sostegno della trave diagonale. A quindici metri d'altezza la brezza era più forte di quanto si aspettasse. La sfera d'acciaio ruotava lentamente; e sebbene sapesse che dal basso lo stavano guardando, Joe si sentiva stranamente solo con la bomba, come se lo avesse atteso. Spalancò le braccia e camminò in equilibrio sulla trave a passo svelto e deciso, fino alla trave diagonale discendente e all'altro supporto della torre. Il pattino si era incastrato. Joe gridò perché gli lanciassero un martello e l'afferrò al volo quando salì vorticando nell'aria. Batté sul pattino, che subito si liberò. La bomba oscillò dolcemente verso il centro della torre. Joe infilò il martello nella cintura e si avviò di nuovo lungo la trave, a braccia tese. Si accorse vagamente che qualcuno, a terra, gli stava gridando «Bravo». Continuò a salire la scala della torre, fino al secondo pianerottolo, al terzo, fino alla piattaforma. Era quasi completamente occupata da una baracca di lamiera ondulata che misurava due metri e mezzo per tre e mezzo. All'esterno c'erano il motore e il paranco. Accese il motore. La puleggia girò, il cavo si reinserì nel solco. Joe vide che la bomba aveva ricominciato a salire lentamente. Tenne il tacco sopra l'interruttore, pronto a fermare il motore se il pattino si fosse incastrato per la seconda volta. Verso ovest si scorgevano in lontananza alcuni coni vulcanici. A sud il panorama era più interessante. Una chiazza sul fondo del deserto mostrava il punto dove il giorno della vittoria in Europa era stata fatta esplodere una carica sperimentale, niente più di cento tonnellate di tritolo mischiato a vari isotopi. Tutto intorno al punto dell'esplosione erano state scavate trincee antincendio che davano al sito l'aspetto d'un bersaglio per il tiro a segno. Più oltre c'era la casa dove Harvey, il giorno prima, aveva montato il nucleo. C'erano gli sfregi caotici lasciati dai copertoni e una strada asfaltata che terminava nella media distanza a 10.000 Sud, il bunker di controllo lontano dieci chilometri dal quale avrebbero fatto esplodere la bomba. Più lontano, Joe riusciva appena a scorgere le baracche prefabbricate e il mulino a vento del Campo Base, lontano sedici chilometri. Al di là del campo si estendeva un mare arido di arbusti e di polvere che giungeva a lambire le Oscuras Mountains. Basse e spezzate, scure come indicava il loro nome, le montagne sembravano immerse nell'ombra di altri monti più alti e invisibili. Era una terra d'illusioni. Dall'altra parte delle Oscuras c'erano dune nivee chiamate White Sands. Joe notò altre strade asfaltate che puntavano
a ovest e a nord della torre, nuove strade virtualmente prive di traffico che dovevano la loro esistenza soltanto alla possibilità d'un disastro. «Per essere sincero, ho paura dell'altezza» Eberly era risalito sulla piattaforma. «L'altezza è l'ultima cosa di cui devi aver paura da queste parti» disse Joe. Mentre la bomba passava adagio adagio attraverso la piattaforma, Eberly rimosse una botola dal tetto della baracca. Poi la bomba venne fermata al culmine del paranco; Joe ed Eberly girarono delicatamente il paranco di centottanta gradi in modo che la sfera fosse sospesa al di sopra del tetto aperto. Finalmente Eberly la fece discendere, e Joe imbullonò il sostegno sul pavimento della baracca, formato da solide assi di quercia. Oppy, Jaworski e Foote arrivarono sulla piattaforma mentre Eberly e Joe giravano nuovamente il paranco per issare il pesante congegno detonatore. L'équipe addetta al montaggio degli esplosivi portò i rotoli di fili elettrici e il cavo coassiale. Harvey arrivò a sua volta per aprire la calotta superiore della bomba, estrarre il filo di manganese e ricontrollare il calcolo dei neutroni. «Quaranta ore» mormorò Foote a Joe. «Ce la farete.» «Oh, lo so che la bomba ce la farà. Ma io alludevo a lui.» Oppy stava appoggiato alla parete della baracca, con gli occhi fissi sulla bomba. La stanchezza gli aveva piallato le guance. Le maniche rimboccate della camicia mostravano i polsi esili come stecchi. Tutto il suo corpo sembrava conservare un'esistenza evanescente il cui unico scopo era sostenere il cranio dove covavano pensieri angosciosi. Joe fece una corsa d'allenamento, quella notte, e sulla strada incontrò qualcuno. In un primo momento pensò che fosse Einstein; ma era Babbo Natale, con i capelli bianchi più radi e afflosciati, la bocca che mordicchiava distrattamente i baffi. Camminava a passi incerti lungo i margini dell'asfalto, e portava una giacca e una lunga sciarpa. «Come va la sua pelle?» chiese Joe. «L'orticaria? Molto meglio. È sotto controllo, davvero. Fino al mento. Sono una medicazione ambulante.» «Non credevo che si sarebbe offerto volontario per Trinity.» «Non ero presente al La Fonda» disse Babbo Natale, «e così qualcun altro, naturalmente, ha proposto il mio nome. Mi hanno assegnato una ba-
racca giù al Campo Base. Mi stanno già capitando casi interessanti... soldati semplici che hanno sentito parlare gli scienziati e di conseguenza convergono le loro ansie sulla fine del mondo.» «Come aveva previsto.» «Grazie. Quindi, in effetti, è andato tutto bene. Per la verità è una grande occasione essere qui. Se pensi che in pratica la nostra storia psicologica è fondata sulle ansie di natura sessuale o religiosa o tutte e due. Può darsi che stiamo assistendo alla nascita dell'ansia fondamentale del resto della storia.» Joe proseguì la corsa fino alla postazione di Shapiro, al bunker 10.000 Nord. Durante il tratto di ritorno non incontrò nessuno. Il fondovalle era vuoto nella mezzaluce della falce di luna. Oltre i monti, da entrambi i lati, c'erano temporali; e i fulmini avvolti dalle nubi erano lontanissimi e silenziosi. Rivedeva con gli occhi della mente Anna che usciva dal Rio, grondante d'acqua e di luce. Nel ricordo il fiume era nero e pieno di coralli, conchiglie e turchesi. Domenica 15 luglio 27 Dopo i servizi religiosi celebrati sui tavoli da picnic del Campo Base, ora che la bomba era al suo posto in cima alla torre e attendeva soltanto l'arrivo del generale Groves, diversi uomini trascorsero quelle ore prima di Trinity dando la caccia alle antilopi o battendo la zona in cerca di punte di freccia e di miniere d'argento. Oppy cercò Fermi. E Joe guidava. «Abbiamo lasciato sulla Collina i modelli dei detonatori e degli attivatori.» Oppy parlava più a se stesso che a Joe. «Ieri mattina, il modello del detonatore ha fatto fiasco. Ieri pomeriggio ha fatto fiasco l'attivatore. Truman è a Berlino ad attendere l'annuncio del nostro grande trionfo e io so già che sarà un fallimento. Se anche Fermi la pensa come me, sospenderò tutto.» «Fermi sta controllando gli apparecchi per le misurazioni dell'esplosione. Chissà dov'è» disse Joe. «Allora batteremo tutta la zona. Qui sembrano tutti convinti di essere a un campeggio estivo. Sarebbe una bella cosa parlare con una persona seria.» Quando arrivarono al riparo che costituiva la stazione degli MP a 10.000 Nord, il sergente Shapiro disse che non aveva visto Fermi. «Però questa
notte abbiamo avuto qualche intruso. Potrebbero essere del posto, magari indiani.» «O forse conigli, o cervi, o cactus visti al chiaro di luna?» chiese Oppy. «Può darsi.» Shapiro non insistette. Oppy indicò la distesa di cespugli e Joe guidò la jeep fuori dalla strada, manovrando per tenersi alla periferia del raggio di dieci chilometri dalla torre dove si stavano effettuando le ultime regolazioni degli strumenti. Joe pensò che forse Oppy aveva deciso di andare in cerca di Fermi soprattutto per allontanarsi dalla torre e dal Campo Base. La bomba non era l'unica cosa che fosse prossima al collasso. «A che ora arriverà il generale Groves?» chiese Joe. «Il nostro generale arriverà questa sera in compagnia d'un gruppo di consiglieri presidenziali. Il nostro fallimento avrà un buon numero di testimoni. Ci sarà persino un inviato del "New York Times" che osserverà da una collina a trenta chilometri di distanza.» Oppy lanciò un'occhiata a Joe. «Hai idea di quali intrusi stava cianciando quell'MP?» «Mescalero.» Joe frenò di colpo per evitare d'investire un uomo annerito dal sole che stava steso a terra e infilava un cavo coassiale all'interno di un tubo del tipo usato per innaffiare i giardini. Aveva le gambe e le braccia coperte di vaselina e terriccio, e un distintivo appuntato ai calzoncini indicava che anche lui era uno scienziato dell'élite di Trinity. L'uomo continuò a infilare il cavo e borbottò: «In questo momento, in qualche girone dell'inferno ci sono dannati che stanno facendo lo stesso lavoro. Possiamo ringraziare Foote e gli altri fottuti britannici, perché tutti i cavi che hanno preteso di importare e di usare si sono squagliati sotto il sole del New Mexico e adesso è necessario isolarli di nuovo infilandoli dentro diecimila metri di tubo. Avete mai provato a mettere un catetere nel culo di un serpente lungo dieci chilometri?» Un po' più avanti trovarono altri fisici impegnati a dissotterrare i cavi che avevano sepolto il giorno prima, perché li avevano posati troppo tesi e si erano spezzati sotto il peso della terra. Altri due scienziati stavano con aria sconsolata accanto ad un argenteo pallone da sbarramento. Il pallone gonfio d'elio aveva il compito di portare contatori di neutroni; ma l'altitudine di Trinity era così elevata e l'aria così rarefatta che il pallone non voleva saperne di staccarsi dal fondo del deserto. Su un dosso costellato di piñon, un radiologo aveva teso fili metallici tra i rami e vi stava appendendo per la coda numerosi topolini bianchi per determinare l'effetto dell'e-
splosione sugli organismi viventi. I primi topi erano già morti per il caldo. «Anche lui è rimasto troppo al sole» commentò Joe dopo che Oppy ebbe rimandato l'uomo e i suoi topi al Campo Base. «Sulla carta sembra tutto così logico e razionale. Hai qualcosa da bere, Joe?» «No, mi dispiace.» «Da quando te ne vai in giro senza una borraccia? All'improvviso, mi sembri in forma smagliante. Tutto il contrario di me. Due giorni fa ho toccato il plutonio. Ho detto a Harvey che tremava. Lui ha detto che ero io a tremare.» Oppy trasse un profondo respiro. «Dunque erano Mescalero?» «Proprio quello che temeva Groves, credo. Sono ancora convinti che questa sia Stallion Gate. Inseguono ancora i cavalli giù dalle montagne e li radunano qui.» «Ricordo quei mustang che abbiamo visto.» «I Mescalero arrivano verso l'imbrunire e restano fino all'alba. È inevitabile che vedano l'esplosione se non riuscirò a tenerli lontani.» «Questo significa che non torneresti fino al mattino. E così rischierai di perderti Trinity.» «Non vorrà che qualche Apache finisca arrosto, per caso?» Al bunker 10.000 Ovest, Oppy scese dalla jeep per parlare con i meteorologi che lanciavano i palloni. I palloni salivano rimbalzando, come se rotolassero su per una collina invisibile. Dietro il bunker, Ray Stingo era a bordo di uno Sherman in manovra che schiacciava i cactus sotto i cingoli. Il carro armato era dipinto di bianco. Il cannone era stato tolto, e al posto delle mitragliatrici c'erano fari d'automobile. Sui fianchi della corazza erano fissate le bombole d'ossigeno per gli uomini dell'equipaggio. Dietro alla torretta era allineata una fila di razzi. Ray balzò a terra. «Non è sensazionale, capo? Rivestimento di piombo, filtri e condizionatori per l'aria. Sarà il primo a farsi sotto dopo l'esplosione, per andare a prelevare i campioni. Arriveranno fino al cratere, e lanceranno i razzi con gli scoops per i prelievi da una parte e i cavi dall'altra. Poi non dovranno far altro che tirare indietro i razzi. Che razza di camion per la spazzatura!» «Forse è il camion per la spazzatura del futuro.» Joe scrutò l'orlo nero sopra le montagne. Erano le nubi della notte prima. Nubi pazienti. Ray salì sulla jeep. «Mancano appena otto ore all'incontro. Adesso il tuo
vecchio amico Hilario esige scommesse minime di mille dollari da ogni spettatore, solo per ridurre un po' il traffico. C'è una folla di texani, capo.» «Benissimo. È utile per le quote. A quanto siamo, adesso?» «Sempre due a uno. C'è molta fiducia nel ragazzo. Tutta quella folla non mi piace, capo.» «Copriremo le scommesse. Non preoccuparti per la folla, noi abbiamo gli MP.» Ray seguì con lo sguardo Oppy che tornava indietro fra gli arbusti. «Sono così nervoso che piscerei una biglia.» «Il tendone che avevano steso sopra i tavoli da picnic questa mattina per i servizi religiosi» disse Joe. «Pensi di poterlo prendere per l'incontro?» «Sicuro. Perché?» «Pioverà.» Mentre Oppy passava accanto al carro armato, il veicolo virò di novanta gradi, travolse un ironwood e puntò su di lui. Ray stava studiano il cielo a bocca aperta. Joe era dall'altra parte della jeep. Oppy si voltò e restò a guardare, indifeso e stupito, mentre il carro armato avanzava sferragliando. Joe si aspettava di dover salvare Oppy da un incidente nucleare, ma non da uno Sherman albino e sdentato. Nel momento in cui lo Sherman incombeva ormai su Oppy, si fermò. Un portello si aprì di colpo e spuntò una testa con un berretto di cotone bianco e un paio di occhialoni. «Dal laboratorio che un fiasco ha prodotto» declamò il carrista con un forte accento italiano, «offrirono il collo alla scure di Truman. Il mortaretto lanciarono ed ecco che tutti nel mondo sentirono il botto.» Tutti conoscevano quella filastrocca, sulla Collina. Il carrista si tolse gli occhialoni e il berretto e rivelò un paio d'occhi vivaci e gli scuri capelli radi. Era Fermi. «Per la precisione, calcolo che le probabilità d'incendiare l'atmosfera terrestre siano una su tremila. Accettabile. Quelle d'incenerire il New Mexico sono una su trenta. La bomba funzionerà.» Fermi si batté la mano sulla calvizie. «Il grosso problema è la lozione abbronzante. Teller ha comprato le ultime bottiglie per non scottarsi mentre osserverà l'esplosione. Edward è davvero convinto che la bomba funzionerà.» Fermi mise di nuovo berretto e occhialoni. «E adesso lasciatemi divertire con il mio nuovo giocattolo.» La botola si chiuse. Il carro armato manovrò a marcia indietro e Ray corse a raggiungerlo. Alle quattro del pomeriggio, quattro ore prima dell'incontro di pugilato e
dieci ore prima di Trinity, Oppy e Joe salirono sulla torre. I detonatori erano stati fissati e i cavi si avvolgevano intorno alla sfera grigia della bomba. Altri cavi, casse e funi per puleggia affollavano la baracca. Joe uscì sulla piattaforma. Al paranco era appeso un binocolo da artiglieria, e Joe lo prese per scrutare la zona dell'esperimento. Oppy lo seguì. «Ho l'impressione che noi due stiamo salendo insieme sulla forca» disse. «Tutti gli altri sono così fiduciosi. Hai visto l'ordine diramato per oggi? "Cercate quadrifogli".» Joe scorgeva tratti lanosi d'erba dei bisonti, cespugli, foglie lanceolate di iucca. E buche artificiali dov'erano stati sepolti misuratori a pressione, tubi con misuratori a cristalli e cavi elettrici che andavano da 10.000 Sud alla base della torre. Neppure un quadrifoglio. Giù, al ranch dov'era stato montato il nucleo, un uomo nuotava nella cisterna. Era una cisterna di cemento con doppi serbatoi per il bestiame che un tempo apparteneva all'allevamento. L'uomo nuotò avanti e indietro, instancabile, per diversi minuti; poi uscì, si asciugò, indossò una tuta bianca, berretto, stivaletti e guanti. Harvey salì su un coupé Dodge, raggiunse la strada asfaltata e si diresse verso 10.000 Sud. Dovunque Joe guardava, c'erano veicoli e uomini a piedi che lasciavano il raggio di dieci chilometri intorno alla torre. Sulla strada asfaltata a ovest stava correndo una jeep carica di soldati. Più avanti, nella stessa direzione, nubi scure salivano sopra le vette vulcaniche. Contro quello sfondo e contro la nebbia delle Oscuras, Trinity era una fascia dorata investita dall'ultima luce. Ma si stavano avvicinando i mulinelli di polvere che vorticavano intorno agli strumenti abbandonati e il tuono diventava più regolare. «Là fuori c'è un mondo invisibile. Una nuova mappa, una cartografia di contatori Geiger, sismografi, misuratori. Joe, ho pensato a quei Mescalero. Se cominci a cercarli, può darsi che non ce la farai a tornare per un giorno o due. Tu e io ne abbiamo passate tante, insieme, e sarebbe tragico se non spartissimo il momento supremo.» Joe si augurò che la torre fosse più alta e il binocolo più potente, perché allora avrebbe potuto vedere Hilario che arrivava in macchina da Santa Fe. Probabilmente la macchina del vicegovernatore aveva al volante un agente della polizia statale. Gli spettatori sarebbero arrivati dal Texas... allevatori con rotoli di banconote grossi come pugni. E in quel momento Pollack stava salendo a bordo della sua Cadillac. «Farò in modo di tornare in tempo.» Oppy si appoggiò alla ringhiera. «Il futuro è qui, questa notte. Il mondo
intero orbiterà intorno a noi. Non credi che bastino gli MP per cercare gli Apache?» «Gli MP non sanno dove guardare.» Joe immaginò Roberto e Ben che si nascondevano su una vecchia Ford modello T. O forse su un furgoncino che avanzava sull'autostrada con Felix alla guida e un paio di mucche dietro. Anna doveva essere arrivata a Chicago, fra i grattacieli di cemento che si ergevano in riva al lago. «È un problema loro. Voglio che tu stia con me» disse Oppy. «Fino alla conclusione dell'esperimento. Lascia perdere gli indiani: resta con me.» Joe scrutò il terreno circostante. «Non credo.» «Cosa vorresti dire?» chiese Oppy come se non fosse sicuro di aver capito. «Le dirò che cosa vedo. Vedo polvere, cespugli, ratti, serpenti. Nel mondo reale, a New York, il futuro è già incominciato. Una calda sera azzurra. Qualcuno che pesta su una tastiera e scarabocchia sulla carta da musica. La sezione delle cornette sibila. Ha mai sentito sibilare una sezione delle cornette? Mezzo-forte. Il contrabbassista sta tendendo le corde. E lo stesso succede a Philadelphia, a Kansas City, persino ad Albuquerque. Dovunque tranne qui... Ecco Groves.» Con il binocolo, Joe aveva ritrovato la Dodge di Harvey. Dalla direzione opposta stava giungendo un convoglio di jeep. Sulla prima sventolava una bandierina con una stella. Il generale Leslie Groves era arrivato a Trinity. Joe ed Oppy dovettero scendere immediatamente per accoglierlo al Punto Zero. «Pensa che quei matti ce l'abbiano fatta, sergente?» Groves rispose al saluto militare di Joe. «Sissignore.» Groves aveva la solita voce plumbea, lo stesso passo lento e le stesse spalle curve; ma era diventato più snello, dopo l'inverno. C'erano più fili d'argento nei capelli ondulati e nei baffi, un'aria più decisa negli occhi grigi. Non era più tornato sul luogo dell'esperimento da quando l'aveva scelto ed era troppo pesante per arrampicarsi sulle scalette e ispezionare la bomba, ma condusse Oppy e Joe e una dozzina di colonnelli e di maggiori intorno alla base della torre con la sicurezza di un ingegnere il cui progetto è stato realizzato fedelmente. «Sembra un cesso.» Groves sbirciò una grande cassa di legno alta due metri e mezzo, sistemata ritta ai piedi della torre. «È così che lo chiamano gli uomini.» Oppy indicò il cavo che entrava
nella parte superiore del "cesso". «Protegge l'interruttore dell'accensione. Volevamo ripararlo dalla polvere.» «Vorrà dire dalla pioggia» osservò Groves. «I meteorologi ci hanno delusi. Ho portato diversi pezzi grossi da Washington e quel giornalista del "Times". Mi auguro che possano vedere qualcosa.» «Lo vedranno.» «L'altra mia preoccupazione è la sicurezza della torre.» «A quest'ora, tutti stanno ben lontani da qui» disse Oppy. «Ovviamente lei è uno scienziato, non un ufficiale della sicurezza. È appunto l'occasione ideale per un sabotatore efficiente. Voglio un riflettore sulla torre e quaggiù vari uomini con i fucili mitragliatori. D'ora in poi, sicurezza e segretezza devono avere la precedenza su tutto.» Groves si rivolse ai suoi aiutanti. «Vi viene in mente qualcos'altro?» «I Mescalero, signore» disse Joe. «Gli Apache della zona.» «Sì, lo ricordo. Li vedemmo quando venimmo qui in dicembre. Credevo che se ne occupasse lei, sergente.» «Sissignore. Se potessi prendere con me un paio d'uomini di mia scelta, signore... I Mescalero scendono quasi sempre dalle colline all'imbrunire. Dovrei muovermi subito.» «Allora si muova. Assegnerò qualcun altro a fare da autista al direttore.» Oppy raggiunse Joe alla jeep. Parlò a voce bassa, voltando le spalle agli ufficiali. «Che cosa hai intenzione di combinare?» Joe avviò il motore. «Una volta stavo per dire a Harvey che se voleva piantarla in asso non doveva dirlo; doveva andarsene e basta.» «Ma è per questo, è per questo che abbiamo lavorato tutti quanti.» «Ha lavorato lei. La bomba è sua, non mia.» Joe si avviò, si allontanò e puntò verso la strada asfaltata a nord. Dopo sei metri frenò e si fermò. «Oppy!» Oppy stava tornando verso Groves. Si voltò nel sentirsi chiamare. Adesso sembrava pateticamente fuori posto contro lo sfondo della torre e del deserto e degli uomini in uniforme. «Buona fortuna!» gridò Joe, e premette di nuovo l'acceleratore. Avrebbe caricato Shapiro e Gruber al posto di guardia. Ray doveva essere già arrivato ad Antonio. Joe vedeva i primi fulmini che balenavano sulle Oscuras, ma finalmente si era sganciato. 28
Joe non riusciva a sfuggire al jab di destro. Girò sulla destra, come aveva insegnato a Shapiro, e incocciò un gancio. Sentì un ansito equino e riconobbe il suono dei propri polmoni; erano polmoni di dieci anni più vecchi di quelli del ragazzo, dieci anni di fumo di sigarette racchiusi in dieci anni di grasso accumulato dalla birra, quel tipo di grasso che si faceva notare solo quando un ragazzo di novanta chili sparava un gancio alle costole. Gli piaceva il modo in cui il ragazzo teneva gli occhi e le spalle ben diritti, il jab alto e pronto a scattare. Gli occhi erano intensi e lacrimosi, pallidi nella luce dei fari, neri nel buio. Joe evitò il jab con una finta. E si ritrovò seduto per terra. Non sapeva se era stato colpito di destro o di sinistro. Ricordava soltanto di aver visto arrivare un pugno e di essersi mosso troppo lentamente per evitarlo. A terra aveva una prospettiva nuova, più vicina ai piedi plumbei e al sacco martellante del cuore. Il macadam bagnato aveva un luccichio di diamanti. Ray aveva requisito il tendone della mensa del Campo Base e le macchine erano parcheggiate al riparo in un cerchio di luce. La tela tamburellava sotto la pioggia. Joe rotolò via per evitare un pugno micidiale e si rialzò. Chi c'era? C'erano tutti. Spettatori del Texas e del New Mexico, militari. Non c'era neppure uno scienziato, ma quell'incontro non li riguardava. «Tempo!» gridò Hilario. Ray fece sedere Joe sul paraurti di una jeep e gli premette un asciugamani contro l'orecchio. L'orecchio bruciava, quindi c'era un taglio. Avevano i pugni fasciati ma non portavano i guantoni. I tagli sarebbero stati numerosi. «Dovrebbe esserci un vero ring, dovrebbe esserci un arbitro. Questa sembra una fottuta rissa tra cani» borbottò Ray. «Qui le risse tra cani sono molto popolari.» Hilario era appollaiato su una macchina della polizia, come si conveniva alla sua posizione ufficiale. Sembrava una lucertola bianca su un sasso. C'erano diverse facce note di Santa Fe, ma gli spettatori erano soprattutto allevatori di Amarillo e di El Paso. Facce segnate, cappelli di feltro e grossi pollici su rotoli di banconote. Facce più adatte a una fiera di campagna che a un'arena. Appassionati di sport che si aspettavano un po' di sangue in cambio del loro denaro guadagnato con gli appalti delle forniture belliche. Hilario era il cronometrista ideale per loro, perché interrompeva una ripresa solo quando pensava che fosse il momento opportuno per altre scommesse. Non aveva il minimo senso d'imparzialità, ma aveva un notevole i-
stinto drammatico. Di fronte a Hilario, Pollack assisteva a bordo della sua Cadillac bianca. Gli MP se ne stavano un po' indietro, come aveva raccomandato Joe. «Tempo» gridò Hilario. Il ragazzo schizzò avanti, saettando di nuovo con il jab destro. Aveva la testa tozza e i capelli corti e sporchi, e riccioli sporchi sulle spalle ampie e lungo tutto il collo taurino. Un naso piccolo e una fronte tonda, da pugile nato. Il mento stretto coperto da una barba ispida color sabbia. Labbra sottili e un ampio sorriso. Diciannove anni, forse venti. Aveva uno stomaco di muscoli bianchi come serpi e, al centro, una radice rosea di lucido tessuto cicatriziale che saliva dalla cintura. Il risultato di un incidente o di un'operazione eseguita da un macellaio. Joe evitò il jab, tirò un gancio, un cross, e un altro gancio senza colpire il ragazzo neppure una volta. Il ragazzo tirò a sua volta un jab e incontrò la spaccatura nel sopracciglio di Joe. Era una falla promettente, e il ragazzo la toccò ancora due volte prima che Joe si coprisse. Allora attaccò alle costole, cercando di costringere Joe ad abbassare la guardia per martellare di nuovo il sopracciglio. Un combattimento aveva diversi livelli filosofici. Joe riteneva importante comprendere da dove proveniva la forza di un avversario. Certi pugili avevano forza soltanto nelle braccia; altri dovevano slanciarsi in avanti attingendola alle gambe. Il ragazzo aveva velocità ed equilibrio, ma Joe sospettava che ci fosse in lui una dose di follia, ancora di più della tipica, scervellata follia texana. Avrebbe avuto bisogno di un po' di tempo per individuarne la fonte; ma un combattimento fra due colossi doveva avere il ritmo d'una conversazione lunga e penetrante. Il ragazzo costrinse Joe a indietreggiare contro il radiatore d'un camion. Quando Joe lo bloccò, stringendogli i pugni sotto le ascelle, quello avventò in avanti la testa tozza e lo colpì alla tempia. Joe cadde su un ginocchio, ma non vide alcun fiotto di sangue sgorgare fino a terra; quindi non era successo niente di grave. Si rialzò, fece marcia indietro e insistette con i jabs fino a quando Hilario gridò «Tempo». Joe sedette e Ray gli spalmò la fronte con gelatina di petrolio. «Sta cercando di tagliarti.» «Prova a dirmi qualcosa che non so.» Joe si passò la lingua sui denti per contarli. «C'è il capitano Augustino. È seduto al bar.» Le grida e i movimenti delle mani indicavano che le quotazioni erano cambiate. Tre dita. Hilario scrisse una ricevuta per un torvo Navajo dalla
camicia di velluto. Shapiro si era avvicinato e aveva l'aria di star succhiando una pillola di cianuro o di aver scommesso sul perdente. Dall'altra parte del cortile, il ragazzo non voleva saperne di riposare. Continuò a saltellare sulle punte dei piedi fino a quando Hilario li chiamò di nuovo. Il ragazzo aveva furia e velocità. Joe si spostò a lato, ma il ragazzo era lì davanti a lui. Quando arretrò, il ragazzo gli stava di fronte. La cicatrice sullo stomaco era diventata d'un rosso cupo come se avesse una vita propria, e Joe pensò che poteva essere quella l'origine, la fonte possente della follia. Sembrava una lacerazione causata dalla cornata d'un bovino. Per quanto il ragazzo fosse bravo non avrebbe mai fatto carriera nel pugilato, con quella ferita allo stomaco. Anzi, avrebbero dovuto riformarlo alla visita di leva. In che modo doveva vederlo un professionista in declino, un capo indiano fasullo? Non era sorprendente che torcesse le labbra per lo sforzo mentre si caricava per il gancio, con i muscoli del petto gonfiati in uno slancio che partiva dalla gamba più arretrata e avventava tutto il suo peso senza sbilanciarsi, per trasfondere nel pugno tutto il suo odio e convogliarlo sulla vecchia ferita al sopracciglio sinistro di Joe. Il combattimento era un'arte sottile; e prima o poi un uomo finiva per dominare il centro del ring e quindi il resto, un angolo dopo l'altro. Persino sotto un tendone battuto dalla pioggia c'era un andamento centrifugo nei passi, nelle finte, nella concentrazione mentale. L'odio era un contributo utile da riversare in un incontro. Il sopracciglio di Joe si spaccò sotto un colpo che non era più d'un tocco. Un attimo prima vedeva normalmente, un attimo dopo il suo occhio era un pozzo di sangue. Il ragazzo si buttò su di lui senza ascoltare Hilario che gridava «Tempo» per poter raccogliere una nuova tornata di scommesse. Finalmente Joe costrinse il ragazzo a indietreggiare con un jab. «Che ore sono?» Ray strinse con le dita il sopracciglio di Joe, lo incerottò, lo spalmò di gelatina, poi gli asciugò la faccia. «Le otto e venti, le otto e mezzo. Tu non hai bisogno di un orologio, hai bisogno di una chiusura lampo.» «Gli ultimi quattrini che abbiamo. Scommettili un po' con tutti.» «Potremo avere quotazioni favorevoli, adesso che stai morendo dissanguato.» «Scommettili.» Joe era solo. Le luci dei fari si fondevano al centro del cortile e gli insetti volteggiavano sopra il pulviscolo bianco come se fosse uno stagno. Dalla
parte opposta, il ragazzo socchiuse gli occhi. Quel jab era stato il primo tocco della rivelazione? La piccola folla rumoreggiava più che mai. Joe aveva avuto sempre la sensazione che verso la fine di un incontro il pubblico pagante smaniasse di salire sul ring per sferrare gli ultimi colpi decisivi. Ricordava che una volta, sulla mesa, un cavallo si era fratturato le zampe e lui e gli altri ragazzi avevano dovuto ucciderlo a sassate. C'era voluto parecchio tempo per ammazzare un cavallo a colpi di pietra. Il ragazzo si avventò sulla ferita. Al centro del cortile, Joe indietreggiò e tirò un jab. Arrivò contro le macchine, si coprì, bloccando i pugni davanti alle guance, i gomiti sul plesso solare, subendo il martellamento alle costole fino a quando riuscì a sfuggire all'avversario. Il ragazzo sferrò dapprima combinazioni di colpi e poi colpi singoli. Un'effusione, una riserva inesauribile di furore, un gancio al rene, all'orecchio, poi un cross alla ferita, come uno scultore affannosamente all'opera su una statua odiata. Joe barcollò, schivò, lo trattenne, indietreggiò fino a quando Hilario gridò di nuovo «Tempo». Hilario era seduto sul cofano della macchina della polizia, e aveva le tasche sformate dal denaro che vi aveva riposto. Scrutava attentamente Joe e il ragazzo. Ray massaggiò la schiena e le braccia di Joe. «Stendi quel fottuto.» Il ragazzo si avventò con un'altra successione di colpi, e ogni pugno era il lamento di una piccola anima appassita. Joe rispose con un jab fluido, due volte più veloce di quelli precedenti, e tuttavia molle, forte quanto bastava per dire al ragazzo: Capisco. La comprensione era contagiosa. Il ragazzo gli girò intorno anziché avventarsi. Per quanto fosse efficiente, non aveva mai sostenuto più di tre riprese. Quella era la quarta. Colpiva ancora duro, ma si appoggiava sul jab e si caricava per il gancio. Joe evitò il gancio e replicò con un colpo diretto al cuore, un sondaggio, un gesto d'interesse crescente per la condizione del ragazzo. Ed era ancora un annuncio: Siamo a un nuovo livello. Il ragazzo tirava jabs per prendere tempo, per avere la possibilità di riconsiderare la situazione che mutava. I suoi jabs erano corti. Joe gliene sparò uno al naso e per un momento gli occhietti divennero vitrei. Il ragazzo rispose con jab-e-cross e staccò il cerotto dalla ferita di Joe. L'occhio di Joe si riempì di sangue che schizzò intorno a spruzzi, quando lui schivò. Il ragazzo si fece sotto per finire l'opera. Quando colpiscono, i mancini tendono a sbandare sulla destra. Una questione di fisica, una delle leggi di Newton. E più sono stanchi e più sbandano incontrollabilmente.
Muovendosi lentamente per la sua mole, Joe evitò un gancio e si erse, affondando il pugno e una brutale curiosità nello stomaco indifeso del ragazzo, nella cicatrice rossa. Il ragazzo s'inarcò. Una metà del suo corpo continuò a seguire la parabola dello swing mentre l'altra metà cercava di piegarsi all'indietro per sfuggire a Joe, che colpì ancora la cicatrice corallina e continuò a darci sotto, tenendosi basso e martellando lo stomaco che si ammollava e si afflosciava. In alto, il ragazzo non aveva spazio per muoversi. Joe avventò un gancio dal basso, sollevandosi. L'inevitabile giunse con un grugnito e con il suono di un piolo piantato nella terra fradicia, quando Joe lo colpì. E appena Joe si fermò, il ragazzo passò dall'imponderabilità al vincolo della gravità e stramazzò nella luce dei fari come una figura sott'acqua. La repentinità della fine portò il silenzio sotto il tendone. Joe premette il dorso della mano contro il sangue che usciva a fiotti dal taglio al sopracciglio. Ray e gli MP incominciarono a incassare le vincite. Anche Hilario stava incassando. Joe aveva lasciato gli abiti nella cucina del caffè. Si lavò, s'incerottò e si vestì accanto al lavello mentre Ray sbarazzava il tavolo dalle latte di pesche sciroppate, di lardo e fagioli, e contava il denaro dividendolo secondo i tagli. Il piano smaltato della lunga cucina era coperto da mazzetti di banconote. «Capo, avresti dovuto vedere Shapiro e Gruber. Sono piombati su quei cowboy come due agenti della Gestapo e gli hanno portato via tutto tranne gli orologi. Ecco fatto.» Ray arretrò d'un passo dal tavolo come il visitatore d'un museo che vuole ammirare meglio una grande tela di Rembrandt. «Mio Dio, non avevo mai visto tanti quattrini in vita mia. Sessantaseimila dollari per te. Quasi come un combattimento per il titolo. Dovresti fondare una banca.» «Io avevo in mente qualcos'altro.» Joe si infilò la cravatta nella camicia e si tastò delicatamente la fronte incerottata. «Be', alla salute del capo Joe Peña.» Ray prese due bicchieri dal lavello e li riempì di whisky Black Label. «Al più grande peso massimo dell'Esercito. È stata la tua serata, capo.» Pollack entrò dalla porta della cucina. Aveva i capelli stirati di fresco; sembravano pettinati con un rasoio. Portava una giacca color canarino e un anello con brillante a ogni mano. Così abbigliato come un uomo che si accinge a viaggiare comodo, girò rispettosamente intorno al tavolo, a passo
lento, e posò tre documenti ripiegati. «Atto di proprietà. Ricevuta. Licenza per gli alcolici.» Pollack toccò per un momento un mucchietto di banconote verdi, come per accertarne la realtà. «Congratulazioni: sei padrone di un nightclub. Vorrei tanto potermi fermare per aiutarti con i miei consigli.» «Parti stanotte?» «Ti avevo detto che voglio essere al porto quando arriverà Eddie junior. In macchina è un viaggio di tre giorni, Kansas City, Pittsburgh, New York. Se lui ce l'ha fatta a tornare dall'Italia, io voglio farcela a essere al porto a riceverlo.» Pollack contò cinquantamila dollari e li ripose in una cintura portadenaro mentre Joe controllava i documenti. Erano già firmati. «Non avrei mai pensato di dire addio a Casa Mañana o al New Mexico, Joe. Sta succedendo qualcos'altro qui, stanotte? C'è una quantità di camion militari nascosti lungo la strada.» «È una zona per le esercitazioni dei bombardieri, lo sai.» «Mi è sembrato di riconoscere parecchi soldati della Collina.» «Può darsi.» Joe mise i documenti nella camicia. Pollack si drappeggiò sul braccio la cintura portadenaro. Non la metteva mai di fronte ad altri: teneva troppo alla sua dignità. Così come non avrebbe mai attraversato gli Stati Uniti in treno perché non voleva che qualche viaggiatore lo scambiasse per un facchino. «Te la caverai bene, Joe. D'ora in poi ti andrà tutto bene.» «Ne siamo usciti vivi.» Joe gli strinse la mano con cautela perché il pugno gli faceva male. «Grazie di tutto.» Quando fu sulla soglia, Pollack esitò. «È stato l'ultimo combattimento del grande capo Joe Peña?» «Sì, l'ultimo.» «Bene. Ho avuto l'impressione che questa volta abbia vinto per miracolo.» «Figlio di puttana» disse Ray quando Pollack fu uscito. «Hai comprato Casa Mañana? Hai concluso un affare così grosso?» «Devo andare.» Erano le nove. Joe contò mille dollari e ammucchiò il resto del suo denaro con quello di Ray. «Tienimeli tu per un paio di giorni. E dimentica i camion dell'immondizia. Ti trasformerò in un maitre. Dopo l'esperimento dovrai accompagnare qualcuno in macchina all'Hilton di Albuquerque? Vai a Casa Mañana e resta attaccato al registratore di cassa fino al mio arrivo.» «Parli sul serio?»
«E ricordati, se qualcuno te lo domandasse, rispondi che ero in giro a caccia di Apache.» «Parli sul serio per quello che riguarda me?» «La gente farà la fila per ungere la mano di Raymond, il maitre.» «E indosserò lo smoking?» «Naturalmente.» «È molto meglio della spazzatura.» «Certe volte le cose vanno così, Ray. Certe volte va tutto liscio.» «Però è una sorpresa quando succede» insistette Ray. Il tendone troneggiava ancora nel cortile deserto. Le casette del motel erano buie perché gli occupanti erano gli MP che adesso stavano sull'autostrada a dirigere il traffico; rispedivano i perdenti nel Texas e smistavano verso Trinity altri camion carichi di soldati semplici. L'unico veicolo rimasto nel cortile era la jeep di Joe, con il tettuccio alzato per ripararla dalla pioggia. Lampi e tuoni scorrevano nel cielo sotto la falce di luna. Non c'era l'ombra di un catorcio o di un camioncino, e Joe pensò all'improvviso che forse Ben e Roberto non sarebbero comparsi. No, era la serata di Joe Peña, pensò: e come se gli rispondesse, la pioggia rallentò d'intensità per un momento. Casa Mañana di Joe Peña. Mentre attraversava il cortile per raggiungere la jeep, le gocce di pioggia parvero schiudersi come un sipario, come se il mondo si spalancasse esclusivamente per lui. Joe balzò sulla jeep. Nel buio, sul sedile accanto a lui c'era un fioco scintillio giallo a forma di serpente. Due scettri della folgore. «Il ragazzo non aveva nessuna speranza, sergente» disse il capitano Augustino dal sedile posteriore. «Lei l'ha fatto fesso. Quello non sapeva con chi si stava battendo.» «Ha assistito all'incontro, capitano?» Sembravano proprio gli scettri di Roberto. «Non era necessario.» «Ha perso molto?» «No, avevo scommesso su di lei.» «Ha trovato gli stregoni che stava cercando?» «No. Ho trovato le bacchette dove si erano nascosti. Magia.» Augustino batté una sigaretta su un astuccio d'argento. Sembrava lo stesso portasigarette che Joe aveva visto nelle mani di sua moglie; e vi batteva sopra come aveva fatto lei. La fiammella del cerino fece scintillare le bacchette sul sedile; ma a parte questo, la fiamma irradiava all'interno della jeep un chiaro-
re dolce e confidenziale, un'illusione di tepore aureo contro l'acqua che tracciava merletti sul parabrezza. Augustino si protese. Il viso olivastro era illluminato da un sorriso d'intesa e gli occhi erano colmi di qualcosa di molto simile all'ammirazione. «Non voglio mettere l'Esercito in condizione di credere che uno stregone può chiamare il fuoco dal cielo. Anche se è tentato sabotaggio, uno stregone non sa fare di più.» «Io devo andare a cercare i Mescalero. Ordine di Groves.» Una macchina con i fari spenti svoltò nel cortile e si fermò accanto all'Owl Café, al di là del tendone. Era una Plymouth a due portiere. «Sergente, io posso trovare divertente una cosa come un incontro di pugilato in una notte come questa, ma il generale l'interpreterebbe come abbandono del servizio.» Anche Augustino aveva visto la macchina, come Joe. Come Joe, conosceva le macchine della Collina, e quella era la Plymouth di Teller. Sembrava che a bordo ci fosse una persona sola. Due mani bianche stringevano il volante. «Dovrebbe arrestare metà degli MP che si trovano nella zona. E questo non lo farà.» «È vero. Ho altre cose per la testa.» Era straordinario che potesse riconoscerla dalle mani. Nel buio, scorse gli occhi grigi che scrutavano il cortile e fissavano la jeep. «Allora, dato che quei bastoncini non sono miei» disse Joe, e indicò con un cenno le bacchette, «e dato che non pianterà grane per l'incontro, sarà meglio che io vada in cerca di quegli Apache.» «Buona caccia, sergente.» Joe accese il motore della jeep. Sarebbe uscito dal cortile e avrebbe atteso sull'autostrada che lei lo raggiungesse. Era tornata. Quella rivelazione dilagava dentro di lui come un respiro, come se fosse morto nel momento in cui era partita e adesso fosse di nuovo vivo. «Una domanda sola» disse Augustino, «e poi potrà andare. Una domanda sola... d'accordo?» «Sentiamo.» «Ha mai visto insieme Harry Gold e Oppenheimer?» «Insiste ancora a battere quel chiodo?» «Conosce Harry Gold, noto anche come Heinrich Golodnitsky?» «Sì.» «E non l'ha mai visto in compagnia del nostro dottor Oppenheimer?»
«No.» Qualcosa cadde sulle bacchette. Augustino accese una torcia elettrica e la puntò su una fotografia di Oppy, Joe e Harry Gold. I tre erano fermi all'angolo davanti al La Fonda. «Credo di aver diritto a un'altra domanda, sergente. Ha mai visto Harry Gold con la dottoressa Weiss?» Joe si appoggiò alla spalliera e si chiese dove poteva essere nascosto il fotografo, quel giorno a Santa Fe. Il capitano lasciò cadere una seconda foto. C'erano Joe e Harry Gold e Anna allo stesso angolo. Lei aveva il fermacapelli d'argento comprato sotto il portal. «Il giro turistico» disse Joe. «I forestieri con le macchine fotografiche.» «Sì. Lo abbiamo fatto seguire da un paio di autobus. Siamo stati fortunati, tenendo conto del fatto che non potevano restargli sempre vicini.» Una terza fotografia cadde sul sedile. In quella Joe e Gold erano soli, e la mano di Joe era posata sul giornale sotto il braccio di Gold. «Vede, non è una semplice coincidenza se un corriere sovietico s'incontra con Julius Robert Oppenheimer, direttore di un progetto segreto dell'Esercito americano, o con Anna Weiss, che lavora a quel progetto. Ecco perché lei mi ha risposto "no". Ecco perché mi ha mentito.» «Io stavo parlando con Gold. La dottoressa Weiss ci ha raggiunti per parlare con me.» «Non dovrà dire altro. Ha assistito a un incontro fra Anna Weiss e un corriere sovietivo. Ha fatto bene a dirmelo.» Joe spense il motore. Adesso la pioggia cadeva con un sibilo più costante, un suono paziente e protratto sul macadam. Nonostante la distanza e il buio, scorse due teste che spuntavano dietro la spalliera del sedile anteriore della Plymouth. «Ha dimenticato Fuchs» disse Joe ad Augustino. «Gold si è incontrato con Fuchs su un ponte, a pochi isolati dalla piazza. Si sono scambiati i giornali. Io stavo cercando di prendere il giornale a Gold per vedere che cosa gli aveva passato Fuchs.» «Fuchs non m'interessa.» «È lui, l'uomo che Gold doveva incontrare. Li ho visti io.» «Fuchs non m'interessa.» «Quando lei ha visto Gold sotto il portal, aveva un giornale di Santa Fe. Al ponte...» «Fuchs non m'interessa.» Quante volte un uomo può vedere un esempio concreto d'amore? Un ri-
schio corso per lui? Anche se il pericolo era molto più grande di quanto lei immaginasse. «Lasci in pace la dottoressa Weiss» disse Joe ad Augustino. «Allora decida. O la dottoressa Weiss o Oppenheimer. Scelga.» «Ho bisogno di un po' di tempo.» Il parabrezza si appannò davanti al volto di Anna. Le gocce di pioggia confluirono pigramente e ruscellarono giù per il vetro. Va', pensò Joe. Grazie, ora va'. Augustino disse: «Questa notte. Sa bene che tutti i collaudi effettuati sulla Collina negli ultimi due giorni presagiscono un fallimento ignominioso. Siamo alla vigilia di uno storico fiasco, sergente. Miliardi di dollari sprecati. La fine della speranza di concludere presto la guerra. Ecco perché Julius Oppenheimer sta andando a pezzi, perché sa che la bomba non funzionerà. E la prima domanda del generale Groves sarà: Chi è il responsabile? Oppenheimer è un maestro, quando si tratta di sfuggire alle responsabilità. Sua moglie è comunista, suo fratello è comunista, i suoi amici e i suoi allievi sono comunisti, ma lui dice di non essere comunista, ed eccolo qui a dirigere il nostro progetto più importante. Harry Gold non l'ho inventato io, sergente. Harry Gold è venuto qui con un messaggio. Se Trinity fallirà, non sarà un insuccesso della scienza americana: sarà un risultato degli ordini sovietici. Quando fallirà, stanotte, io farò la mia parte. I miei uomini sono a Santa Fe in attesa di arrestare Gold. Io arresterò i suoi complici. Questa è sempre stata la mia missione fin dall'inizio». Vattene, implorò silenziosamente Joe. Va'! «Nessuno crederà alle accuse contro Anna Weiss.» «Nessuno la difenderà. Una profuga uscita da una clinica psichiatrica nazista? Uno scandalo vivente? Le mogli della Collina insorgeranno per mandarla al rogo, e Kitty Oppenheimer lancerà la prima torcia. Sergente, ho una certa esperienza in fatto di sicurezza, e posso garantirle una cosa: nell'atmosfera che si creerà dopo il fiasco, sarà un sollievo per tutti trovare un colpevole.» «In base a quali prove?» «Gold, Weiss, lei. Corriere, contatto, testimone. L'evidenza indica questo sordido triangolo.» Finalmente la Plymouth si mosse, ancora a fari spenti, come un'ombra che svoltò riluttante dal viale dell'Ovvi Café. I suoni del suo movimento erano coperti dalla pioggia. L'ultima cosa che Joe vide furono i fanalini posteriori, piccole chiazze rosse che svanirono. Dopo dieci secondi, una
berlina dell'esercito con i fari spenti girò dietro una casetta del motel, dall'altra parte del cortile, e seguì la Plymouth. C'erano ottocento metri per arrivare all'autostrada. Per la prima volta, adesso che se ne era andata, Augustino mostrò d'essersi accorto di Anna. «Noi presumiamo che vada ad accompagnare al confine quei due stregoni. Ho detto ai miei uomini di non arrestarla senza un mio ordine preciso, ma lei l'ha indubbiamente incriminata. E la incriminerà ancora di più. La incriminerà come solo un amante può fare. Come ha fatto a fuggire dalla Germania? E da quando è arrivata qui, si è data da fare per impedire la realizzazione della bomba o per prevenirne l'utilizzazione, oppure ha influenzato qualcun altro perché lo facesse?» «Che cosa vuole?» «Gold, Oppenheimer, lei. Sarebbe l'ideale.» Joe trasse un profondo respiro. «Mi faccia vedere di nuovo la foto.» Augustino prese le fotografie e puntò il raggio della torcia elettrica su quella che mostrava Gold e Joe davanti all'albergo, a Santa Fe. Nella lucida copia in bianco e nero, Oppy aveva l'aria irritata, Gold avvilita. Se qualcuno avesse tagliato via l'immagine di Joe, sarebbe sembrato che i due stessero conversando animatamente. «A me è sembrato un incontro casuale» disse Joe. «Ho bisogno di qualcosa di più.» Augustino lasciò cadere sulla fotografia un biglietto da visita con un nome stampato: Harry Gold. «Voglio che questo biglietto da visita finisca nella tasca di Oppenheimer. La tasca dei calzoni o della giacca, non importa. Vede, ho prove a sufficienza per convincere me stesso. Per gli altri ho bisogno di qualche piccolo indizio, qualche elemento concreto per l'incriminazione.» «Quando ha messo fuori combattimento Gold con una bottigliata in testa a Casa Mañana, non l'ha fatto solo per perquisirlo. Gli ha preso il biglietto da visita.» «Sì. Quando l'ho tirata fuori dal carcere militare, le ho detto che aveva una missione. La mattina della caccia, quando l'ho lasciata vivere perché accompagnasse qui Oppenheimer e il generale Groves, l'ho fatto perché lei compisse la stessa missione. Per consegnare questo biglietto da visita. O qualcosa di simile. Una prova.» «E le informazioni che continuava a chiedere?» «Sergente, lei è troppo violento per essere un informatore attendibile. Però le cose importanti le sa fare bene. Oppenheimer e la dottoressa Weiss.
Quale sceglie?» La pioggia cadeva più fitta, di stravento. Joe aveva quasi la sensazione di vedere Anna che svoltava verso sud, verso il Messico. Il biglietto da visita era un bristol scadente, sciupato agli angoli. Si adattò perfettamente al palmo di Joe, scivolò in tasca senza difficoltà. Joe riaccese il motore. «Torniamo alla torre?» chiese ad Augustino. «Al nostro dovere.» 29 Alle dieci di sera, per prevenire qualche sabotaggio, una lampada venne appesa al primo pianerottolo della torre, perché vi puntassero i riflettori piazzati a dieci chilometri di distanza. I raggi fiochi che penetravano la pioggia illuminavano una jeep scoperta dove stava seduto Eberly, bagnato fradicio e con un fucile mitragliatore sulle ginocchia. Jaworski e Foote, con gli abiti inzuppati e i cappelli sgocciolanti, avevano aperto lo sportello della cassa diritta chiamata "il cesso" alla base della torre. Oppy li osservava, con una sigaretta bagnata tra le labbra e il basco intriso di pioggia. La portiera di una berlina militare si aprì quando Joe e Augustino sopraggiunsero con la jeep. «Venga qui, sergente!» gridò Groves. «Ha finito con gli Apache?» «Sissignore.» «Si direbbe che ne abbia incontrato qualcuno.» Groves lanciò un'occhiata al cerotto sul sopracciglio di Joe, mentre Joe s'infilava sul sedile posteriore. La macchina era piccola e satura di umidità e l'uniforme del generale sembrava quasi un accappatoio. «Sissignore.» «Il problema non sono gli indiani sbandati.» Groves ripulì il finestrino appannato per guardare i tre uomini intorno alla cassa. «Il dottor Oppenheimer, lei mi capisce, è molto teso. Basta un niente per farlo scattare, a questo punto. Deve decidere se è il caso di sospendere l'esperimento, e tutti quegli svitati al Campo Base vogliono che lo faccia. Perciò l'ho portato qui; perché possa prendere una decisione serena e razionale.» Attraverso il vetro, Joe sbirciò il capitano Augustino che era rimasto a bordo della jeep. Era il momento più adatto per dire: Generale, il suo capo della sicurezza vuole arrestare il direttore del progetto sostenendo che è una spia dei rossi? No. Tutto il piano di Augustino dipendeva dal risultato dell'esperimento, e non era possibile che l'esperimento venisse effettuato
con quel tempaccio. Per quella notte non doveva far altro che procrastinare. L'indomani, quando tutti sarebbero stati asciutti e razionali, avrebbe inchiodato a dovere il capitano. «Sta piovendo, signore.» «Passerà. Il dottor Oppenheimer non ha bisogno di ascoltare altre chiacchiere di scienziati; ha bisogno di consigli sensati. Fermi si è messo a profetizzare la fine del mondo e adesso abbiamo una quantità di soldati che se la filano fino a Tularosa. Gli parli; a lei dà ascolto. Lo tranquillizzi. Lo tenga lontano dai pessimisti.» Mentre Joe scendeva dalla macchina, la torre d'acciaio divenne bianca come gesso. Due secondi più tardi, il tuono squassò il fondovalle. Era molto vicino. «Non è piovuto per tutta la primavera e tutta l'estate.» Oppy alzò il viso verso lo scroscio. «Eccoci qui: mancano quattro ore all'Ora Zero, e diluvia.» All'interno del "cesso", i fili elettrici umidi si snodavano in volute nere dal cavo coassiale. Mentre Javorski tagliava i fili pendenti, Foote riavvolgeva il cavo con il nastro isolante. «Nel deserto ci aspettavamo serpenti e colpi di sole» disse Foote. «L'umidità ci ha colti di sorpresa.» «E i fulmini?» chiese Joe. «Le ho già detto che un fulmine ci ha rovinato una simulazione.» Jaworski continuò a tagliare. «La scarica elettrica d'un fulmine potrebbe certamente attivare l'esplosivo.» «Assurdo.» Foote asciugò il nastro isolante con un fazzolettino di carta. «La torre ha i cavi che scaricano a terra.» «Silenzio!» scattò Oppy. «La bomba è un fiasco. Lo sapete e io lo so; lo sanno tutti, tranne il generale. Come faccio a pensare se voi due non fate altro che beccarvi?» La scala a pioli di legno era appoggiata al primo pianerottolo della torre. Oppy salì e poi si arrampicò su per i gradini d'acciaio verso la baracca. Quando ebbe superato il secondo pianerottolo e i deboli fasci di luce dei riflettori, scomparve nelle tenebre. Foote finì in silenzio di sistemare il nastro isolante e controllò che l'interruttore fosse aperto, prima di richiudere la porta del "cesso" e di mettere il lucchetto. Groves arrivò dalla sua berlina mentre Augustino lasciava la jeep. «Lo segua» disse il generale a Joe. «Signore, se posso permettermi di dare un suggerimento» disse il capi-
tano, «perché non assegnare al sergente Peña il compito di sorvegliare la bomba? Così avrà un motivo plausibile per restare con il dottor Oppenheimer.» «Comunque, salga lassù» ordinò il generale. La pioggia assalì Joe, i gradini freddi oscillarono. All'altezza di trenta metri la torre sembrava inclinata. La lampadina da 60 watt, nella baracca, illuminava il pavimento invaso da pulegge, cavi e funi, le pareti di lamiera ondulata e la bomba sul suo supporto. Dall'ultima volta che l'aveva vista, la bomba aveva perduto la levigatezza lunare perché erano stati imbullonati due detonatori esterni. I cavi collegavano le sessantaquattro prese della sfera ai detonatori, e dai quadri dei detonatori altrettanti cavi scendevano fino all'unità d'alimentazione, una cassa d'alluminio chiusa da un lucchetto ai piedi del supporto. Fuori, allo scoperto sulla piattaforma, Oppy teneva stretto il paranco con una mano e il berretto con l'altra. «Mi sembra il capitano Achab aggrappato alle sartie.» Joe gli si affiancò. Lassù, sulla piattaforma, pareva che i fulmini cadessero ovunque, come se le nubi basse, nere come il fumo di un incendio, stessero sferrando un attacco climatico. In ogni arco dell'orizzonte cadeva una folgore. Un rombo di tuono soffocava l'altro. A un chilometro e mezzo di distanza, l'argenteo pallone da sbarramento che prima era inchiodato al suolo era stato sollevato dai venti. Il pallone era ancorato a una jeep che spenzolava e toccava terra soltanto con le ruote posteriori. Due uomini stavano cercando di salvare il veicolo, ma i fulmini causavano scariche d'elettricità statica che scendevano lungo il cavo d'acciaio ed esplodevano come cannonate sotto le ruote sussultanti. «Il generale Groves ha congedato i meteorologi.» Oppy si asciugò il volto bagnato e sorrise. «Adesso è lui, il meteorologo di Trinity.» «Comunque spetta a lei decidere, no?» «È quello che continua a ripetermi.» Oppy distolse lo sguardo. Chinò la testa, si frugò nelle tasche e accostò un fiammifero alla sigaretta. «Ti ringrazio d'essere tornato.» «Sospenda l'esperimento.» Joe seguì con gli occhi i due uomini che fuggivano lontano dalla jeep. «Non potremmo rimandare a domani. Per arrivare alle stesse condizioni, per preparare di nuovo gli uomini e l'equipaggiamento ci vorrebbe almeno una settimana.» «Ha detto che la bomba è un fiasco. Ha detto che in ogni caso avrebbe avuto bisogno di un'altra settimana.»
«Come il capitano Achab?» Oppy rise. «Sembrava tutto lui.» «Ho navigato un po', da ragazzo, lo sai? Avevo uno sloop e navigavo intorno a Long Island.» Oppy guardò le nubi. «Il tempo che mi piaceva di più era proprio questo, anzi. Mi facevo portare fuori dal vento e dalla marea solo per la soddisfazione di rientrare lottando con gli elementi, un tratto dopo l'altro. In particolare, c'era un'insenatura che bisognava superare. La marea ti si avviluppava attorno e tentava di trascinarti in mezzo ai frangenti. Fu allora che, per la prima volta, scoprii di avere coraggio. Per la prima volta lo dimostrai a me stesso.» Incurvò le mani intorno alla sigaretta per ripararla dalla pioggia. «Occorrevano ore per superare quell'insenatura e raggiungere la baia. Vedi, l'importante era la lotta: la pazienza e la forza necessarie per scoprire l'angolo giusto, il giusto tratto d'acqua, il vento giusto. Ed è la stessa cosa che stiamo facendo ora, Joe. Stiamo lottando.» Una massa di nubi, bassa e gonfia e ininterrotta, si estendeva da un'estremità della valle all'altra. Sembrava che discendessero oppresse dal loro stesso peso, e portassero una seconda notte ancora più densa. Joe scorgeva minuscoli punti luminosi a terra, dove altri uomini avevano abbandonato una seconda jeep e correvano di qua e di là brandendo le torce elettriche. «Le ho mai detto come me ne sono andato da Bataan?» chiese Joe. «No. Non l'hai mai raccontato a nessuno. Pensavo che fosse una questione d'onore.» «Non è una questione d'onore. È una storia marinara.» «A Bataan?» «Ero stato ferito al sedere e alla schiena, e poi mi buscai un malanno tipico della giungla e una febbre.» Joe accese una sigaretta con la sigaretta di Oppy. «Avevo con me cinque scouts filippini, e un pezzo da campagna che spostavamo da una collina all'altra per tenere il fronte anche se ormai non c'era nessun fronte da tenere. E quando mi ammalai di febbre e incominciai a delirare, i filippini abbandonarono l'arma per portare me. Il guaio era che non avevano nessun posto dove portarmi. Gli ultimi pontoni da sbarco se n'erano andati a Corregidor ed eravamo troppo lontani dal deposito di Mariveles e da Manila. Sapevo che i giapponesi mi avrebbero ammazzato senza tanti riguardi perché non ce la facevo a camminare. E così gli scouts mi portarono al mare, perché non si poteva andare da nessun'altra parte. Rubarono una barca da pesca e mi caricarono a bordo. Io riuscivo appena a stare seduto e tentavo ancora di dare gli ordini... come un ufficia-
le, sa. C'era la bassa marea. Vedevo le reti antisqualo che sporgevano dall'acqua, e sapevo che c'erano le mine, sotto la superficie. C'erano sempre mine, intorno a tutte le spiagge.» Joe abbassò la voce come faceva Oppy per costringere gli ascoltatori a tendersi verso di lui. Oppy si accostò, incurvandosi un poco. «Appena si fece buio, i filippini spinsero in acqua me e la barca. Niente motore, niente remi. Non volevo credere che i miei scouts avessero deciso di uccidermi, ma sembrava che avessero proprio quell'intenzione. Voglio dire, se avessero voluto uccidermi non avrei potuto impedirlo. Avrebbero potuto portare la mia testa ai giapponesi e guadagnarci qualcosa. Tentai di remare con le mani per tornare a riva perché mi pareva di vedere i depositi di munizioni che esplodevano a Mariveles, i depositi di carburante che esplodevano a Manila, e i "Long Tom", i pezzi da 155 millimetri, che rispondevano da Corregidor, e tutto si specchiava nell'acqua come se fosse la fine del mondo, e volevo tornare a combattere. «Ha mai avuto la dissenteria? Perdi i sensi e caghi sangue. Alla fine non ce la feci più a stare seduto, nonostante tutto. Stavo sdraiato nella merda e nel piscio, su una barca che andava alla deriva sotto i fuochi artificiali. Nella rete antisquali c'erano le brecce da dove erano passati i giapponesi quand'erano sbarcati. Quand'erano arrivati la prima volta li avevano sorpresi sull'acqua, e gli squali li avevano seguiti e li avevano finiti. E una volta entrati, gli squali non erano più andati via. Urtavano contro la barca e la facevano girare. Era una barca piena di piccole falle. Gli squali hanno un olfatto straordinario. Alzavo la testa, e attorno a me dovevano esserci cinquanta squali che nuotavano lentamente in cerchio. Vedevo il lato comico della situazione. Voglio dire, quanti indiani del New Mexico finiscono divorati dagli squali? continuavo a pensare. Mi auguravo di avere una pagaia, un fucile, un paio di ali. Se almeno avessi potuto uccidermi, pensavo, ma non avevo la forza di trattenere il respiro, L'importante era continuare a riflettere, mi dicevo. Continuare a lottare. Il guaio era che ogni volta che mi muovevo, gli squali si mettevano in agitazione. Quei fottuti filippini avrebbero dovuto avvertirmi.» Joe s'interruppe per seguire con lo sguardo il fascio di luce d'un riflettore che passava al di sopra del bunker 10.000 Ovest. Il raggio riuscì ad inquadrare per un momento l'ascesa diagonale e irregolare d'un pallone meteorologico prima che sparisse fra le nubi. «E cosa avrebbero dovuto dirti?» chiese Oppy. «Che dovevo smettere di lottare. Durante la notte la marea salì, sollevò
la barca al di sopra delle reti antisqualo e poi, quando rifluì verso il largo, mi trascinò nella baia. Mi raccolse una cannoniera, e poi mi caricarono su un sottomarino, e fu così che fuggii eroicamente da Bataan, scoprendo che lottare contro la marea non era una prova di coraggio ma una manifestazione di stupidità. E quella fu l'ultima volta che andai in barca.» Joe mostrò il mozzicone bagnato. «Figlia di puttana, s'è spenta.» «Vorresti dire che lottare contro la pioggia è come lottare contro la marea? Vorresti insinuare che sono uno stupido?» «Ho detto così?» «Non riesco a capire fino a che punto tu sia subdolo.» «Be'.» Joe gettò via il mozzicone e guardò il vento che lo trascinava nell'oscurità. «Se la bomba funziona, allora adesso ha l'angolazione giusta e il vento giusto per trasportare le radiazioni fino ad Amarillo.» Oppy gli voltò le spalle per appoggiarsi alla ringhiera. Gli abiti gli sventolavano intorno come un sudario. In un primo momento, Joe pensò che fosse in preda a uno spasmo polmonare; ma quando Oppy si girò di nuovo vide che rideva. Quelle che gli scorrevano sulle guance potevano essere lacrime o gocce di pioggia. «Hai ragione. Sospenderò l'esperimento.» Oppy si asciugò il viso con la manica. «Scendiamo insieme.» «Io ho l'ordine di far da balia alla bestiaccia. Vada pure.» Quando Oppy scese e se ne andò con Groves verso 10.000 Sud, Joe rientrò nella baracca, si sistemò a sedere sulle funi arrotolate e accese una sigaretta asciutta. Metà dello spazio era occupato dalla bomba, dal supporto, dalle spire dei cavi. La bomba che doveva venire sganciata sul Giappone sarebbe stata inserita in un involucro a goccia, con le alette poco voluminose, per passare dal portellone d'un B-29. A parte quel dettaglio, sarebbe stata le gemella di questa: lo stesso guscio grigio opaco, le lenti di esplosivo concentrate verso l'interno, lo stesso caldo, argenteo cuore del Drago. Dall'unità di alimentazione emergeva il cavo coassiale che passava attraverso il pavimento e scendeva fino all'interruttore aperto nel "cesso", un interruttore che non sarebbe scattato se non tra una settimana, ormai, se la previsione di Oppy era esatta. La radio ricevente a modulazione di frequenza continuava a mescolare comunicazioni di servizio e la Voce dell'America. Paul Robeson intonò I battellieri del Volga mentre qualcuno faceva il controllo dei misuratori dei raggi gamma. C'erano più di trecento chilometri da Antonio a El Paso, quattro ore di macchna per Anna e i suoi passeggeri. Ma in quelle zone ogni pioggia portava improvvise piene tor-
renziali, e quindi si poteva calcolare che avrebbero impiegato il doppio del tempo. Ma non aveva importanza. Sarebbe trascorsa una settimana prima di un altro esperimento; e nel frattempo lui avrebbe sistemato Augustino. L'indomani avrebbe accompagnato Groves all'Hilton di Albuquerque e gli avrebbe spifferato tutto sul conto del capitano. Augustino avrebbe negato tutto, ma sarebbe stato inchiodato dalla stessa prova che aveva progettato di usare contro Oppy. A mezzanotte, la radio diede l'annuncio. «L'Ora Zero è stata rinviata. A causa delle condizioni meteorologiche, l'Ora Zero è stata spostata dalle 0200 alle 0400. L'Ora Zero adesso è 0400.» Due ore? si chiese Joe. Oppy aveva rimandato l'esplosione dalle due alle quattro del mattino. Soltanto? Be', il tempo non sarebbe migliorato. Il vento investiva la torre di fianco. La lampadina oscillava e la bomba, nel suo supporto, sembrava camminare faticosamente come un uomo grasso dalle gambe corte. Trinity, 16 luglio 30 L'acquazzone continuò e l'esperimento fu rinviato di un'altra ora, dalle quattro alle cinque. Dall'alto della piattaforma Joe seguì con il binocolo un uomo massiccio in uniforme e un uomo scarno in borghese che camminavano nervosamente avanti e indietro nel fascio della luce dei fari di una berlina, davanti al rifugio 10.000 Sud. Non soltanto la pioggia scrosciava rabbiosa come prima, ma i venti si erano rinforzati. Joe sapeva che Groves si ostinava a tenere Oppy all'aperto perché tutti, dentro quel bunker, volevano che annullasse l'esperimento. Era uno spettacolo interessante, pensò Joe: loro due soli, sotto la pioggia, e da lontano sembravano quasi maschio e femmina, dal modo in cui Groves cercava di placare il nervosismo di Oppy. Alle quattro, un fulmine scoppiò vicino alla torre. Joe si aggrappò al paranco e rammentò ciò che aveva detto Jaworski a proposito dei duemila e più chili d'esplosivo ad alto potenziale che c'erano nella baracca. Ma il fulmine fece saltare soltanto la luce-bersaglio sul primo pianerottolo della torre. Joe scese la scala per sostituire la lampadina. I riflettori puntati sulla luce-bersaglio lo abbagliarono, e impiegò un momento per accorgersi che Eberly era salito sulla scaletta di legno. Le gocce d'acqua gli scorrevano
dal poncho, dal naso, dal pomo d'Adamo e dalla canna del fucile mitragliatore. «Pensavo che dovesse saperlo, capo. Il capitano Augustino ha chiamato alla radio da campo che sta vicino al "cesso" e mi ha detto di andare a dare un'occhiata alla sua jeep per controllare se c'erano un paio di bastoncini gialli. Poi mi ha ordinato di spararle, se cercasse di lasciare la torre. Non capisco. Se pensa che lei sia un sabotatore, perché è qui a guardia della bomba? Se la guardia è lei, perché devo sorvegliarla? È questo, il sistema dell'Esercito?» «È il sistema di Augustino.» Se Joe fosse morto, sarebbe stato un incendiario, come avrebbe attestato la presenza degli scettri della folgore sulla jeep; e anche una spia, perché aveva in tasca il biglietto da visita di Gold. «Non sparare, torno subito.» Joe scese la scaletta a pioli e corse alla jeep. Le fotografie non c'erano più, ma le bacchette erano sempre sul sedile anteriore. Le prese e tornò indietro. Eberly aveva visto tutto. Quando Joe raggiunse il pianerottolo, gli disse: «Odio l'Esercito». Dall'alto della piattaforma, Joe vide ciò che si aspettava. Oppy e Groves non erano più davanti a 10.000 Sud. Due fari si stavano avvicinando sulla strada asfaltata. Nella baracca, la radio annunciò che l'esperimento era stato rimandato ancora; adesso era fissato per le 0530. Joe nascose le bacchette dietro un mucchio di corde e infilò in tasca il mozzicone. «Le cinque e mezzo del mattino sono il momento migliore.» La giacca pendeva addosso a Oppy come un cencio fradicio, ma lui si aggirava nello spazio limitato della baracca, intorno alla bomba, con una sicurezza nuova. «Il capitano Augustino è tornato con lei?» chiese Joe. «Sì, è qui sotto con Groves. Vedi, alle cinque e trenta sarà abbastanza buio perché sia possibile fotografare accuratamente l'esplosione, e poco dopo avremo la luce del giorno che ci permetterà di far avanzare il carro armato ed effettuare le altre operazioni di recupero.» «Vuol dire che le cinque e mezzo sono l'ultimo momento utile per effettuare quell'esperimento stramaledetto, se il tempo migliorerà.» «E sarà anche il momento ideale. Avremmo dovuto pensarci prima.» Oppy si fermò, tossì come se volesse svuotarsi i polmoni. Dalla tasca della giacca spuntava un volumetto tascabile, una raccolta di poesie: Les fleurs du mal. Se Joe avesse voluto mettergli addosso di nascosto il bigliet-
to da visita di Gold, la tasca era quella. «È così che ha deciso di atteggiarsi per il conto alla rovescia? L'amante della poesia?» chiese Joe. «Conosci Baudelaire? È perfetto.» Oppy aprì la porta della piattaforma. «Io sono come il re d'un paese piovoso, ricco ma indifeso, giovane e saturo di morte.» «Sta diluviando. I cavi andranno in corto circuito, le macchine fotografiche non vedranno una merda e l'aereo osservatore non riuscirà neppure a trovare la torre.» «È quello che dicono tutti.» «E allora sospenda l'esperimento.» «Il generale dice che il tempo migliorerà. Il generale vuole condizioni ottimali.» «Il generale ha bisogno di Trinity. Ne ha bisogno perché non è mai stato in combattimento e l'Esercito lo retrocederà a colonnello se non fornirà quella bomba.» «Io dico che il tempo si schiarirà.» «Dice che si schiarirà? Adesso è lei il meteorologo?» «Sono uno scienziato. Dovremmo aspettare fino all'ultimo...» «Ha intenzione di parlarmi ancora della sua fottuta barca a vela? È qui a trenta metri d'altezza, sotto la pioggia, in compagnia di una bomba. Non sta rievocando la sua giovinezza felice.» Oppy si appoggiò alla porta e si rivolse a Joe. «Il pivello di Riverside Drive? Te lo ricordi?» «Sicuro.» «Il ragazzo ebreo che trasformasti in un cowboy? Ma il mondo pretende un successo su una scala ben più grandiosa. Joe, io ho bisogno di Trinity. Ho bisogno di far finire la guerra prima che finisca senza il mio intervento. Ecco perché tenteremo questa notte.» «Augustino vuole che lei tenti questa notte.» «È stato il capitano a suggerire che tornassimo alla torre. Groves voleva allontanarmi dalla folla.» Oppy attraversò la baracca e posò la mano sulla bomba. «E io volevo rivederla.» «Augustino sostiene che la bomba farà fiasco e che lei è uno spione di Stalin. Ha intenzione di portarla diritto da Trinity alla galera. Sospenda l'esperimento e ci penserò io a sistemarle Augustino.» Oppy ricominciò a camminare avanti e indietro. «Se la bomba funziona, lui non potrà toccarmi.»
«Non è obbligato a correre questo rischio.» Quando Oppy inciampò su un mucchio di corde, due bacchette gialle scivolarono sul pavimento. La loro apparizione fu sorprendente. Luccicavano sul tavolato di quercia come fossero due serpenti dorati che si erano arrampicati sulla torre. «Sono gli scettri dello stregone pazzo. Augustino diceva che eri coinvolto anche tu.» «È stato Augustino a portarli.» Adagio, come se si accostasse a qualcosa di vivo, Oppy si chinò e raccolse le bacchette. «Il capitano non è neppure salito quassù nella baracca. Non posso credere che sia stato tu.» «Lei non capisce. E se non fosse così maledettamente maldestro...» «È assolutamente ridicola l'idea di te che collabori con me e Harvey e Fermi e al tempo stesso con uno stregone.» Quando Oppy sollevò le bacchette, scintillarono nella luce della lampadina. «Il capo Joe Peña. Hai scelto il momento più stupido per ridiventare indiano.» «Me le restituisca.» «Credi davvero che sia disposto a permettere che l'impegno di tanti uomini capaci venga messo in pericolo da una ... tribù?» «Non si tratta soltanto di lei, ma anche di Anna. Augustino sa che ha lasciato la Collina.» «Naturalmente. Gliel'ho detto io. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era una pazza che minacciava la riuscita del progetto e faceva la puttana con i militari.» Mentre Oppy tentava di passargli accanto, Joe lo colpì con un manrovescio. Fu come schiaffeggiare una mosca. Oppy cadde sulle corde piegandosi in due. Le bacchette volarono sui cavi, il berretto e il libro sotto il supporto della bomba. «Scusi» disse Joe. Oppy si premette le mani sul petto e ansimò come un asmatico per riprendere fiato. Ci sono uomini che vivono tutta una vita senza essere mai colpiti, pensò Joe. Dicono ciò che vogliono, fanno ciò che vogliono e non si aspettano mai di buscarsi un pugno, ma sono pronti a far esplodere il mondo. «Davvero, mi dispiace» disse Joe. Esaminò le bacchette. Il colore giallo e brillante di mica non era neppure incrinato. Recuperò il berretto e il libro sotto il supporto della bomba, poi s'inginocchiò e rimise gentilmente il libro nella tasca di Oppy.
«Bastardo.» Oppy guardò la calibro 45 che Joe aveva alla cintura. «E adesso che cosa conti di fare? Spararmi?» «Mi ascolti» disse Joe. «Lasci perdere quelle bacchette. Non vorrà raccontare a Groves che quassù c'è un indiano pazzo; altrimenti quello manderà su Eberly con il fucile mitragliatore... e allora che sarà della sua preziosa bomba?» Rimise in piedi Oppy, gli posò il berretto sulla testa, gli spolverò le spalle e lo guidò oltre la porta. «E soprattutto non dica niente ad Augustino. Tra un'ora l'esperimento verrà sospeso e allora le spiegherò tutto.» «Ti credevo mio amico. Il capitano Augustino mi aveva messo in guardia; ma io mi fidavo di te.» Il fulmine colpì un bunker poco lontano. Oppy vacillò. «È Fuchs» disse Joe. Dubitava che Oppy l'avesse sentito, fra i rombi del tuono. Ma non aveva importanza. Mentre aiutava Oppy ad avviarsi giù per i primi gradini, vide Groves che attendeva ansiosamente alla base della torre. Quando Oppy arrivò a terra, liquidò con una scrollata di spalle quel che gli stava dicendo il generale e si avviò verso la berlina. Non appena i due ebbero preso posto sul sedile posteriore, la macchina si mosse e si diresse verso 10.000 Sud. Tra le due jeep era rimasto soltanto Eberly, che continuava a montare la guardia camminando malinconicamente nel fango. Joe ritornò nella baracca e aprì la mano. "Harry Gold" dicevano le lettere nere. Quando aveva rimesso il libro nella tasca di Oppy aveva considerato, solo per un momento, di piazzarvi il biglietto da visita. Ma era stato un momento solo. Posò il biglietto sulla radio a modulazione di frequenza perché aveva i calzoni infradiciati dalla pioggia. Cadde un altro fulmine, molto vicino. La lampadina della baracca irradiò una luce azzurra e si spense. La pioggia triplicò d'intensità. Un ritmo di valzer, pensò Joe. L'interno della baracca era buio; ma tutto intorno alla torre i fulmini brillavano come steli di fiori in un giardino nero. Joe raccolse un pezzo di corda dal pavimento e legò le bacchette gialle ai detonatori, con le teste dei serpenti rivolte verso l'alto. La Voce dell'America era temporaneamente ammutolita, e per la prima volta la radio riusciva a comunicare su una frequenza libera. Il Campo Base chiese se qualcuno sapeva qualcosa a proposito d'un tendone da mensa che era sparito. Stavano servendo la colazione un po' in anticipo, e i toast e le uova si bagnavano. Joe provò un inatteso senso di piacere nel vedere le bacchette sull'altare
improvvisato. Via via che i fulmini si avvicinavano alla torre la baracca sembrava sollevarsi e ricadere a ogni schianto. Il breve, ardente chiarore che penetrava dalla porta dava l'impressione che la sfera levitasse e che le bacchette, fulgide come oro, prendessero vita. L'ombra sulla parete era una testa di capelli attorcigliati, sovrastata da una corona di scettri. L'ombra d'un danzatore che scatenava il tuono. Tutti si ostinavano a dire che lui era indiano, e quindi... perché no? Inghirlanda l'atomo con un paio di serpenti elettrici, e lascia che danzi su gambe lunghe trenta metri. Lascia che danzi nel deserto e squassi la terra. Avrebbe desiderato conoscere la preghiera giusta, il canto giusto: doveva esserci una musica apposita, o forse lui poteva improvvisarla. La bella musica e la buona religione, pensava, nascevano sempre dai momenti di tensione. Roberto sarebbe stato fiero di lui. C'erano quasi sette ore di macchina per arrivare al confine messicano, rispettando sempre i limiti di velocità. Il traffico fra Él Paso e Juarez continuava per tutta la notte. Più o meno in quel momento, Anna stava facendo salire Ben e Roberto sul tram per Juarez, o forse li portava in macchina oltre frontiera. Sarebbe stato meglio per lei se fosse rimasta in Messico. Joe la immaginava avvolta in una coperta. «Trenta minuti all'Ora Zero» annunciò la radio. Joe si strinse la cintura con la calibro 45 e decise che, ordini o non ordini, era il momento di andare. «Il deserto sta sobbalzando» canticchiò. Un fulmine cadde a est della torre ma, nel riquadro della porta, il bagliore era bloccato da un uomo avvolto in un poncho. «Non l'avevo sentita salire» gridò Joe, nello scroscio del tuono. «È logico, sergente, con questo temporale.» Il capitano Augustino entrò mentre la baracca ripiombava nelle tenebre. «Credevo che se ne fosse andato con Oppy e il generale Groves.» «Li ha accompagnati il soldato Eberly.» L'acqua sgocciolò a terra quando Augustino si tolse il cappuccio. «Ha dato il biglietto a Oppenheimer, sergente?» Il capitano non aveva portato con sé il fucile mitragliatore. «Trinity non ci sarà, signore.» «Il dottor Oppenheimer pensa di sì. Anche il generale Groves pensa di sì. E lo penso anch'io. Non gli ha dato il biglietto da visita?» «Gliel'ho messo nella giacca.» Joe si spostò per nascondere al capitano la radio e il biglietto, sebbene la baracca fosse buia. «Nella tasca dove teneva il libro.»
La luce bianca dilagò dalla porta spalancata, riempì la baracca come se fosse un pozzo, avvolse la bomba, il supporto, le bacchette, il cavo in una luminosità abbagliante; e in quel fascio di luce, all'esterno, Joe non scorse neppure una goccia. Non pioveva più. Mentre la luce si dissolveva nel suono, le ali del poncho di Augustino si allargarono. Joe estrasse la calibro 45, ma Augustino teneva in mano solo un accendino. Accostò l'accendino alla bomba, in modo che la fiamma si riflettesse fiocamente sulla sfera d'acciaio e facesse scintillare le bacchette. Il capitano le liberò dalla corda per esaminarle. «Magia, sergente?» «Ormai sono ridotto a questo, signore.» «Siamo tutti ridotti allo stesso punto. Poco fa ho visto un paio di scienziati letteralmente inginocchiati nei bunker a pregare questa torre. La magia aleggia nell'aria, stanotte.» Augustino spezzò in due le bacchette. «Perché correre rischi? Vede, sergente, sono pronto a concedere a chiunque il beneficio del dubbio... stregoni, fisici, per me non c'è differenza. Credo che, come razza, non facciamo altro che passare da una caverna a un'altra caverna più grande, da un fuoco a un altro fuoco più grande. E fuori c'è sempre qualcosa che ci spaventa. A proposito, forse non l'ha notato, ma è cambiato il tempo.» 31 Il tuono divenne una marea che si ritirava. Gli ultimi fulmini erano svogliati e smorzati. «Non ha dato a Oppy il biglietto da visita di Gold» disse Augustino. «L'ho visto.» «È vero, signore.» Joe prese il biglietto da visita bagnato che aveva posato sulla radio. Sospinse il capitano verso la piattaforma esterna. «Mancano trenta minuti. Arriveremo con la jeep a dieci chilometri da qui e ci nasconderemo dietro un bunker fino a quando l'esperimento sarà terminato, signore.» Non pioveva più e il vento era cambiato. La mezza luna veleggiava da una nube all'altra e le ombre delle nuvole scorrevano sulla valle. Un riflettore protendeva il suo fascio di luce da 10.000 Ovest, ma la luce-bersaglio si era spenta di nuovo e il raggio non sfiorava neppure la torre. All'improvviso, la radio nella baracca cantò: «Oh, say can you see?». La domanda echeggiava da ogni direzione perché la Voce dell'America aveva ripreso
a trasmettere. «...by the dawn's early lìght.» La voce riecheggiava sui cactus e sui cavi, fino ai coni vulcanici da una parte, sino ai primi contrafforti delle Oscuras, e gli echi si sovrapponevano nella torre. «...what so proudly we hail.» Joe rise. Augustino, che stava accanto alla scala, sorrise e gridò per farsi sentire. «Possiamo ancora mettere quel biglietto addosso a Oppenheimer.» Intascò l'accendino e scese d'un balzo un paio di gradini. «Può ancora salvare Anna Weiss. È la sua ultima occasione.» «Tenga le mani bene in vista, signore.» Augustino sollevò la mano che stringeva una calibro 22 nichelata. Un'arma piccola e luccicante, come poteva averla un ufficiale, pensò Joe. «Mentre lei sosteneva quell'incontro di pugilato, sergente, ho trovato la sua uniforme e la pistola, e ho vuotato il caricatore.» Joe mirò agli occhi del capitano e premette il grilletto. Il cane della calibro 45 batté a vuoto. Augustino proseguì imperturbabile: «In questo momento Anna Weiss è arrivata al confine. Una telefonata può ancora servire a farla arrestare. Sergente, non avrebbe mai dovuto toccare la signora Augustino». Sparò. Alla testa. I capelli di Joe sferzarono da un lato in un fiotto di sangue. Un altro colpo diretto al cuore. Joe si voltò, come se avesse deciso di schivare, e si lasciò cadere. Il primo proiettile era passato tra il cranio e la massa dei capelli. Il secondo penetrò nei muscoli massicci del torace e scalfì le costole. Nell'attimo in cui piombava sulla piattaforma, Joe tese le braccia e afferrò il capitano per la gola. Il terzo colpo si perse nell'aria. «Oh, say does that star...» La voce echeggiò sulla pianura mentre due fari arrivavano ai piedi della torre. Era la jeep degli uomini che venivano ad armare l'ordigno. Il motore e i fari restarono accesi mentre gli uomini balzavano a terra. Si sentì lo sferragliare frettoloso d'una serratura, il cigolio dei cardini. Mentre Augustino gli premeva contro la fronte la canna lucente della calibro 22, Joe lo spinse via dai gradini, lo tenne sospeso in aria nella sua stretta, a trenta metri da terra. «Collegamento effettuato.» Jaworski parlò nel radiotelefono del "cesso". Dagli altoparlanti, nel buio, fluì un tremulo «...home of the brave. Buongiorno e buenos dias.» Con la mano libera, Augustino stringeva il polso di Joe per non farsi strangolare.
«...trasmissioni latino-americane della Stazione KCBA di Delano, Cali...» La voce si perse in uno stridore di manopole. Attraverso gli altoparlanti e dalla radio nella baracca, Harvey rispose: «Ricevuto, collegamento effettuato». «Interruttore d'attivazione chiuso e pronto» disse Jaworski. «Interruttore d'attivazione chiuso e pronto» rispose Harvey dalla radio e dagli altoparlanti. Joe e Augustino tacevano. Era uno strano silenzio, lì sull'orlo della piattaforma, pensò Joe: come due assassini che ammutoliscono per non infastidire una levatrice nella camera accanto. «Qui c'è un'altra jeep» disse Jaworski. «Non manca nessuno» rispose Harvey. «Joe?» chiese Jaworski. «Ha chiamato Augustino dieci minuti fa e ha detto che l'ha portato via lui» disse Harvey. «E allora perché qui c'è una jeep?» insistette Jaworski. «Li non c'è nessuno» disse una voce nuova attraverso la radio. Era Oppy, e ansimava. «Se l'interruttore è chiuso, andatevene più in fretta che potete. Se vi capitasse un guasto, dovrete correre via a piedi.» «Allora prenderemo anche l'altra jeep» disse Jaworski. «No.» Oppy impiegò un momento per decidere. «Lasciate la jeep. Chiudete e andate.» Uno sportello sbatté. Una serratura scattò. Un motore rombò, la jeep invertì la marcia, raggiunse il nastro asfaltato, poi accelerò verso 10.000 Sud. Soli, soli, ora siamo soli, pensò Joe. Noi due soli. «Dammi il biglietto» disse Augustino. «La pistola.» Joe tese la mano libera. Augustino si lanciò verso i gradini; ma nell'attimo in cui sparò, Joe colpì la canna dal basso in alto. I due proiettili si persero nella notte. Con uno sforzo, Augustino riabbassò la canna verso la testa di Joe, ma quando tentò di sparare la pistola fece cilecca. Era una piccola automatica e aveva cinque colpi. Fu come concludere un lungo dialogo con un balbettio. Augustino lasciò cadere l'arma e artigliò la mano di Joe, si liberò, si torse, non verso la torre ma nella direzione opposta. Fissò Joe con occhi che sembravano fanali. Rimase sospeso nell'aria senza sostegno, così a lungo che Joe pensò fosse capace di volare. Poi precipitò, girandosi nel vuoto una volta, due volte, prima di piombare al suolo.
Mentre Joe scendeva con un braccio intorpidito, la Voce dell'America trasmetteva la Suite dello Schiaccianoci. La jeep era dove l'aveva lasciata Jaworski. Non appena qualcuno avesse visto altri fari accesi ai piedi della torre, l'esperimento sarebbe stato sospeso. E se no, Joe avrebbe avuto comunque il tempo di mettersi al sicuro. Altri riflettori si accesero a 10.000 Ovest. Joe stava pensando a quello che avrebbe detto al generale Groves. Mi scusi, signore, per il ritardo che ho causato all'impegno bellico, per lo spreco di milioni di dollari e la morte di un capitano. Era difficile credere che nessuno lo vedesse scendere dalla torre. Come per rispondergli, il pilota di un aereo osservatore, un B-29, interruppe Ciaikovski per far sapere che non riusciva a trovare Trinity. Nell'oscurità della valle s'intrecciavano dialoghi amplificati a proposito di manometri e contatori. Anna doveva essere arrivata al sicuro a Juarez, anche se la sicurezza a Juarez era una cosa molto relativa. Sull'ultimo pianerottolo della torre Joe si fermò e si frugò nella camicia per toccare i documenti che gli aveva consegnato Pollack. Casa Mañana era lì, ripiegata, nascosta. Joe soffriva per lo shock più che per il dolore. La ferita alla testa non sanguinava più, era un grumo di capelli fradici. Immaginava la reazione che avrebbe provocato al suo arrivo al bunker. Mentre scendeva la scala a pioli di legno che portava a terra, udì un suono nuovo, come di un dito che passasse sui denti di un pettine. Non era il B-29 sperduto. Una volta l'anno le piogge svegliavano una generazione di rospi. Si destavano nelle tane del deserto, si radunavano intorno alle pozzanghere effimere, cantavano e si accoppiavano e trascorrevano tutta la loro vita conscia in un'unica notte. Quella notte. Faticosamente, Joe si mise al volante della jeep e tese la mano sinistra per girare la chiave. La chiave non c'era. Non poteva essere sparita; c'era l'ordine di lasciare sempre le chiavi nell'accensione. Cercò a tentoni sotto il sedile. Scese dalla jeep e tastò per terra. La chiave non c'era. Era stato l'ultimo a guidare la jeep. Augustino era stato l'ultimo a salirvi. Il capitano giaceva con le braccia e le gambe larghe, la faccia premuta al suolo come per ripararsi dalle luci. Joe gli rovesciò le tasche. La chiave non era neppure lì. Il radiotelefono. Joe corse al "cesso", la pesante cassa che conteneva l'interruttore. Il radiotelefono non c'era più. Naturalmente. Jaworski era un vecchio militare; sapeva che doveva portarsi via il radiotelefono, per precauzione.
Lo sportello della cassa era chiuso da un lucchetto. Tra le ombre delle travature della torre Joe non riusciva a vedere sbarre o martelli. Il cavo coassiale usciva dalla parte superiore della cassa alta due metri e mezzo e saliva perpendicolarmente fino alla baracca; e dal fondo passava in una conduttura sepolta. In entrambi i casi era al di fuori della sua portata. Joe si appoggiò alla cassa e tentò di rovesciarla, e si accorse d'essere debolissimo. Com'è grande la valle, pensò mentre si allontanava barcollando dalla torre. Montagne che digradavano verso la pianura. Lontani echi elettrici tra il canto dei rospi. Cominciò a correre. 32 L'ampia strada scavata si protendeva in un rettilineo fino a 10.000 Sud. Le banchine erano orlate da piante di iucca. Nell'aria c'era l'odore dei fiori di cactus, e il fremito d'ali delle falene e dei pipistrelli. I proiettili dovevano essere calibro 22 corto, pensò Joe. La corsa aveva causato la ripresa dell'emorragia: se ne accorgeva per il freddo. Gli altoparlanti latravano. Lui ascoltava soprattutto il proprio cuore e i polmoni e il suono delle scarpe sull'asfalto. Ormai era a più d'un chilometro e mezzo dalla torre. Un bengala si librò nell'aria come una stella. Vi fu un breve ululato di sirena. Cinque minuti. Joe si sforzò di rammentare ciò che aveva detto Jaworski a proposito dei posti dove nascondersi, delle depressioni e del lampo. Ma era troppo vicino e non riusciva a scorgere nulla tra i cespugli, se non la terra piatta e calcinata. E rospi, avviati in una migrazione molle e decisa, dovunque guardasse. Era ingiusto. Un anno intero incapsulati nella terra indurita, in attesa che si trasformasse in fango, per salire liberi alla superficie e vedere la luna e cantare in un coro appassionato sul bordo di un'effimera pozzanghera nel deserto... e solo per venire arrostiti dal generale Groves. La Voce dell'America andava e veniva distrattamente, come uno spettatore che non riesce a concentrare l'attenzione sullo spettacolo. Adesso stava suonando Sentimental Journey. Una lepre sfrecciò davanti a Joe, si voltò allarmata a guardarlo e saettò via diagonalmente.
Un lungo ululato di sirena segnalò a tutti di nascondersi nelle trincee dietro i rifugi e il Campo Base. Soltanto pochi uomini, inclusi Harvey e Oppy, sarebbero rimasti a 10.000 Sud. Tre minuti. Non avevo mai saputo che il mio cuore fosse capace di tanta nostalgia, confessò Joe. I rospi erano sempre più numerosi tra i suoi piedi. Attraversavano la strada, soli e in gruppi, e si fermavano a cantare. A volte sembrava che il suolo stesso si muovesse. Quando un rospo saltellò davanti a Joe, vide Groves piombare sul ventre con i piedi puntati verso la torre. L'ultimo bengala salì scoppiettando nel cielo. Il canto dei rospi era un tremolio potente e sonoro. Violoncello e flauto suonati contemporaneamente. «Non guardate l'esplosione» stava raccomandando Harvey. «Quando guardate, usate gli occhialoni rossi o un vetro da saldatore.» L'ultimo gong di avvertimento risuonò frenetico. La Voce dell'America passò alla musica classica d'archi, svegliando dovunque i latini insonnoliti. Messicani, peruviani, fuegini alzarono gli occhialoni rossi Polaroid e guardarono verso nord. «Dieci.» Cirri e stratocirri fluttuavano nell'oscurità. I serpenti a sonagli s'irrigidivano attenti. «Nove.» Joe si voltò. La torre aleggiava su una nuvola, circondata da un'orbita impaziente di gocce di luce. «Otto.» Joe sentì Oppy vacillare, con gli occhi fissi su una porta che avrebbe captato senza pericoli l'immagine trasmessa da un periscopio. Il respiro trattenuto, un filo bruciato che si snodava attraverso il cuore. Fuchs che osservava da una collina lontana più di trenta chilometri, l'unico lì per contemplare l'esplosione. Harry Gold che passeggiava sull'Alameda e guardava verso sud. «Sette.» Dolores aveva lasciato i vasi nel fuoco. Una raffica di vento si insinuava tra le braci del legno di cedro e l'argilla, gettando le scintille intorno a Rudy. C'era il camion d'un contrabbandiere nel corrai, e nel recinto i conigli erano ammassati come neve. «Sei.» Billy e Al si premevano i cappellacci sul cuore e non si accorgevano che
dovunque, tutto intorno, figure furtive salivano alla superficie dai kivas bui. «Cinque.» La macchina sfondò il cancello e i suonatori corsero verso la piazza d'armi, pagliacci con la giacca a strisce armati di tromboni, sassofoni, clarinetti. Nel Palais de Sport ad Harlem il peso massimo francese piombava verso le corde, con i calzoncini di raso sgargianti come le piume di un'ara macao. «Quattro.» Un pianoforte navigava sul Rio Grande, con il coperchio sollevato come una vela nera. «Tre.» Donna Pensante indossava un abito messicano ricamato, con la collana di turchesi e il fermacapelli d'argento e finalmente c'era colore a sufficienza persino per lei. «Due.» Era una trincea scavata per il cavo coassiale, che nessuno si era preso il disturbo di riempire. Resi folli dalla vicinanza della destinazione, mille rospi scalarono l'alto argine di terra e di paletti abbandonati e, sulla cresta, cantarono con le gole palpitanti. Quelli che erano dall'altra parte scivolarono in delirio nel miracolo dell'acqua. «Uno.» L'ultimo passo. L'ultimo battito del cuore. L'ultimo respiro. «Zero!» Dall'occhio del nuovo sole, un'ombra in volo. FINE