Santo Mazzarino
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OD Editori Laterza
Biblioteca Universale Laterza 108
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I:Impero roman...
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Santo Mazzarino
UImp romano i
OD Editori Laterza
Biblioteca Universale Laterza 108
Santo Mazzarino
I:Impero romano volume primo
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Indice sommario
Avvertenza
VIII
INTRODUZIONE Opere generali sulla storia dell'impero
3
1. Dal Godefroy alla storiografia illuministica, p. 3. 2. L'alternanza di « problema della decadenza » e « interpretazione positiva » nella storiografia dell'Ottocento e nell'indagine moderna. Da Burckhardte Mommsen a Seeck, Rostovzev, Piganiol, p. 6. - 3. Considerazioni ulteriori: storia culturale e storia sociale, p. 23.
Parte prima
SAECULUM AUGUSTUM I. Dopo Cesare
35
4. Premesse, p. 35. - 5. « Èlite », popolo, legioni, p. 37. - 6. L'&va-rx del 17 marzo e le ulteriori vicende del 44 a.C., p. 40. - 7. Dalla guerra di Modena al trattato di Bologna, p. 45.
TI. Dalla « potestas » triumvirale alla « potestas » eccezionale di Ottaviano 8. Bellum Philippense e Bellum Perusinum, p. 49. - 9. La lotta tra il figlio di Cesare e il figlio di Pompeo, p. 54. - 10. Dalla spedizione partica di Antonio alla battaglia d'Azio, p. 58. - 11. L'annessione dell'Egitto. La « potestas » eccezionale di Ottaviano nel periodo 29-28 a.C., p. 65.
49
Indice sommario
vi
III. La fine della « potestas » eccezionale e lo stato dell'« auctoritas »
72
12. Le sedute del 13 e 16 gennaio 27 a.C. e la fondazione del principato, p. 72. - 13. La politica estera di Augusto, p. 79. - 14. L'ordinamento militare e sociale, p. 84.
Bibliografia e problemi
96
Parte seconda
L'EPOCA GIULIO-CLAUDIA IL «LUXUS » SENATORIO E LA RIVOLUZIONE BORGHESE
133
Il principato di Tiberio 15. La periodizzazione dell'epoca augustea e tiberiana, p. 133. - 16. La politica di Tiberio sino al 31, p. 135. - 17. Dopo la caduta di Seiano, p. 146. - 18. Il problema della monarchia di Tiberio e la tavola di Heba, p. 149.
Il. La rivoluzione spirituale: ipiixui ed
ot'octi
154
19. La grande antitesi: gli « evangelii di Augusto » [OGIS 458, 401 e l'evangelio di Gesù. La Palestina all'epoca di Gesù. Il lo,gion « Rendete a Cesare », p. 154. - 20. L'epoca dell'apostolo Paolo. Paolo e la « doppia cittadinanza ». Caligola (37-41) e Claudio (41-54), p. 168. - 21. « Tyche » e « pronoia ». Il giudaismo, Paolo e il pensiero di Filone. Conversione senza circoncisione, p. 181. - 22. L'Anticristo (Anti keimenos), Caligola e Paolo. L'Anticristo e Nerone, p. 189. - 23. La comunità cristiana di Roma e l'apostolo Paolo. « Omnis potestas a Deo ». Claudio e Nerone contro il cristianesimo, p. 195.
III. La rivoluzione borghese e la riduzione del « denarius »
211
24. Caratteristiche sociali dell'epoca di Paolo, p. 211. - 25. La politica estera di Nerone e la fine del suo impero, p. 226. - 26. Il « longus et unus annus », p.232.
Bibliografia e problemi
239
VII
Indice sommario
Parte terza I FLAVII E GLI ANTONINI: L'ETTAIA COME IDEALE UMANISTICO I. I Flavii e gli Antonini
281
27. Vespasiano (69-79). I problemi economici e il « metus totius Italiae », p. 281. - 28. L'« aeternitas » di Roma, p. 285. - 29. Berenice, p. 286. - 30. Domiziano (81-96), p. 288. - 31. 11 problema finanziario e la politica di Nerva (96-98), p. 292. - 32. Traiano (98-117), p. 295. - 33. Il problema giudaico e cristiano, da Nerva (96-98) a Traiano (98-117) ad Adriano (117138) ed Antonino Pio (138-161), p. 302. - 34. L'impero
« umanistico» di Adriano (117-138), Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180), p. 316. - 35. L'impero romano e lo stato partico nell'epoca di Vologese iii. Le lotte di Marco Aurelio: Quadi e Marcomanni, p. 334. - 36. L'evoluzione economica e sociale dal i secolo d.C. all'impero umanistico. La cittadinanza. I liberti. La schiavitù, p. 344. - 37. Il proletariato italiano e il servizio militare, p. 347. - 38. Arruolamento volontario e « lingua degli Italiani ». Evoluzione linguistica del i-n secolo. L'« Itala », p. 350. 39. La disciplina delle legioni; la maggiore libertà dei pretoriani e degli « auxilia »; i diplomi militari, p. 354. - 40. Latifondisti, coloni e schiavi dinanzi al problema dell'arruolamento. Le classi dirigenti e l'amministrazione dell'impero, p. 360. - 41. La, città di Roma e l'ideologia imperiale, p. 369.
Bibliografia e problemi
375
Avvertenza
Esaurito da tempo, e sempre richiesto da più parti, questo libro viene riprodotto per concessione dell'Autore senza alcuna modificazione rispetto all'edizione del 1962L'Autore ringrazia i suoi allievi M. A. Cavallaro, A. Fraschetti, A. Giardina per la diligente correzione delle bozze. marzo 1973
INTRODUZIONE
FI
OPERE GENERALI SULLA STORIA DELL'IMPERO *
1.
Dal Gode froy alla storiografia illuministica.
La ricerca sull'impero romano è stata una scienza di gran lunga più precoce che, non quella sulla repubblica romana: ciò si spiega facilmente, se si guarda da una parte al carattere delle fonti sull'impero romano, dall'altra, in genere, alla formazione della cultura moderna. Sulla repubblica romana, per ciò che riguarda l'epoca arcaica, le principali fonti a noi pervenute (per esempio Diodoro, Dionisio, Livio) sono molto tarde rispetto all'epoca di cui si vuole ricostruire la storia; in quel campo, dunque, una ricerca scientifica era impossibile, se prima non si chiariva (il che fu tentato solo con Perizonio) il carattere della narrazione leggendaria e (con Vico e Leibniz) del « concetto poetico » proprio delle epoche in cui gli uomini pensano « con animo perturbato e commosso » prima di raggiungere una vera e propria fase di riflessione « con mente pura »; una tale esigenza non poteva esprimersi compiutamente se non con i presupposti filologici elaborati dal primo romanticismo, k. e soprattutto da Niebuhr, attraverso la sua indagine suil'annalistica confluita in Livio. Viceversa, per l'epoca imperiale già la tradizione manoscritta ha conservato, per ciò che riguarda il tardo impero, splendide fonti giuridiche * Ho cercato di dare una « storia delle stotie » e delle opere generali sull'impero, anziché il semplice elenco, perché riesca sin da principio evidente la problematica fondamentale della ricerca. Appunto per ciò, le pregiudiziali formulate in questa introduzione saranno più chiare nel prosieguo del libro e nell'epilogo.
4
Introduzione
contemporanee. Negli anni 1620-1652 J. Godefroy, riallacciandosi alla grande tradizione romanistica (che dalla dottrina si era già evoluta sin ad esprimere notevoli esigenze di ricerca storica) poté scrivere un mirabile commentario al Codex Theodosianus: questo commentario (da consultare nella edizione del Ritter, 1736 sgg.) resta ancor oggi una vera e propria storia amministrativa del tardo impero romano', e pertanto (essendo il tardo impero come una « chiave » per intendere l'evoluzione dell'impero nel suo complesso) la più compiuta introduzione alla storia stessa dell'impero. D'altra parte, la moderna cultura europea, come quella che sorge dalla grande rivoluzione umanistica e poi dalla polemica cattolico-protestante sull'interpretazione della tradizione evangelica, ben presto fu richiamata allo studio della storia imperiale in quanto tale: su un piano di ricerca filologica 2 e antiquario-archeologica dalla tradizione che si ripeteva dall'umanesimo; su un piano di interpretazione storica dal neostoicismo e dalla polemica sulla tradizione delle chiese. Questa ultima poneva il problema della storia imperiale come problema del trasformarsi di un mondo pagano in una società imperiale cri1 Appunto per questo J. Godefroy, che generalmente viene dimenticato dagli storici della storiografia moderna, deve considerarsi - per ciò che riguarda l'indagine sull'impero romano - il massimo storico del Seicento, e forse di tutti i tempi: egli ha raggiunto dall'interno la più completa conoscenza scientifica dell'ordinamento imperiale ed ecclesiastico. - Va anche rilevato che l'antiquaria secentesca ebbe un lontano precorrimento dell'esigenza (che poi sarà chiara nell'avanzato Ottocento, col Mommsen: in/ra, § 2) di studiare la costruzione politica imperiale nella sua positività, attraverso la ricerca sulla vita romana nelle province; basta pensare alla raccolta di epigrafi curata dal GRUTERO (1603 1 ) e ai lavori di SPON (1673; 1678; 1683). - Un altro insigne erudito, SPANHEIM, discendente da BuDÉ, va ricordato a un tempo per i suoi interessi numismatici (1664) e per la sua insistenza sulla produzione - centrale nel basso impero - di Giuliano l'Apostata (1660; 1690). 2 Si ricordino la famosa indagine del Valli sulla donazione di Costantino; e pel tardo, e ormai ben diverso, umanesimo, il Tacito e il Seneca di Giusto Lipsio.
Opere generali sulla storia dell'impero
5
stiana: le due grandi opere - rispettivamente del tardo Seicento e del tardo Settecento - la Histoire des empereurs di Tiliemont (1690 sgg.) e la History o/ th'e Decline and Fali 0/ the Roman Empire (1782 sgg.) di Gibbon riflettono questa problematica, la quale dunque già con Gibbon si configurava come la problematica del « decline and fail » dell'impero romano. Due punti di vista opposti erano nelle opere del Tillemont (il quale rifletteva il travaglio della precedente ricerca sulla storia ecclesiastica: in/ra, xiii) e del Gibbon: alla mentalità giansenistica ed erudita dello storico francese, il punto essenziale appariva la necessità di stabilire una liaison tra la storia ecclesia • stica e la storia imperiale, com'essa era sentita da « un cristiano che scrive per cristiani »; alla mentalità illuministica • di Gibbon il punto essenziale era quel tramonto della cultura antica, che realmente caratterizza e definisce il processo della storia romana imperiale (di qui le famose poste riori discussioni sull'opera; delle quali è tipico esempio, in Italia, la critica del nostro Spedalieri). Inoltre va notato che l'illuminismo aveva già sentito il « problema della decadenza » come problema del « mutamento delle massime e del governo imperiale » in un breve, famoso scritto del Montesquieu (Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, del 1734): uno
scritto che, accanto ad alcune evidenti ingenuità illuministiche, imposta molto intelligentemente il problema, che ancor oggi è centrale nella storia dell'impero: in che senso la pars occidentale cade, ment l'Oriente sopravvive? (Montesquieu, nel suo celebre capi(olo 19, lo risolveva osservando che « il passaggio dell'Asia era meglio difeso » e che l'Occidente « non aveva forze marittime, trovandosi queste tutte in Oriente: in Egitto, in Fenicia, in lonia, in Grecia, soli paesi in cui era allora commercio ».) Lo 1
3 Da consultare, oggi, nell'edizione di BURY (1897 - 1900).
6
Introduzione
stesso pensiero illuministico, man mano che discopriva l'insufficienza delle dottrine mercantilistiche dell'economia, poneva altresì le basi per la storia sociale dell'impero romano: David Hume, il grande amico di Adam Smith (lo Smith giustamente lo ebbe a definire « by far the most illustrious philosopher and historian of the present age »), ha dato, nel breve ma luminoso lavoro sulla Populousness of Ancient Nations la prima grande ricerca sulla storia sociale e demografica dell'antichità, con particolare riferimento all'impero romano. E nel 1787 il frammentario ma capitale Leitfaden di F. A. Wolf additava nella perdita della Simplicitàt poetica un tipico aspetto della crisi imperiale. 2. L'alternanza di « problema della decadenza » e « interpretazione positiva » nella storiografia dell'Ottocento e nell'indagine moderna. Da Burckhardt e Mommsen a Seeck, Rostovzev, Piganiol. Già il Sei e il Settecento avevano dunque rivelato i tre momenti fondamentali allo studio dell'impero romano: ricerca sull'evoluzione politico-culturale-religiosa, per cui quell'impero si trasformò nell'impero cristiano (Tillemont; Gibbon), e infine cadde nella sua pars occidentale, ma tuttavia rimase (e con Giustiniano parve ricostruirsi ad unità d'Oriente e Occidente) nella sua pars orientale (Montesquieu; Gibbon); esegesi storica del materiale giuridico (soprattutto Godefroy; e già la scoperta cinquecentesca del problema interpolazionistico); indagine sulla storia so ciale-demografica dell'impero romano (Hume). Una tale imponente eredita solo in parte poteva esser svolta dal primo romanticismo. Questo segnò infatti un effettivo progresso soprattutto per aver posto, con la scoperta droyseniana della storia ellenistica (1833-1836), il presupposto necessario all'intellezione della storia imperiale romana (in quanto essa s'inquadri nella storia dell'ultima cultura elle
Opere generali sulla storia dell'impero
4
7
nistica) e per aver dato in tal modo un avvio alla comprensione per esempio delle origini cristiane e dei rapporti fra giudaismo e impero romano (alcuni di questi presupposti furono già svolti dalla storiografia romantica, e confluirono poi - nel 1852 - nell'opera di Burckhardt [in/ra, p. 13]; altri furono svolti più tardi, in/ra, xiii). Quanto al resto', la storia dell'impero romano fu allora interpretata dal punto di vista della Dekadenzidee, dunque dal punto di vista di Gibbon, atteggiato con un tono più appassionatamente ricostruttivo: così, per esempio, dal Niebuhr, che per altro non riuscì a conquistare i presupposti per condurre sino all'impero la sua Rdmische Geschichte; inoltre, il Niebuhr pose le basi per un nuovo studio delle fonti tarde (per esempio, con l'ideazione del Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae); e soprattutto ebbe il merito di proporre la revisione di alcuni particolari ma importanti problemi, come per esempio l'interpretazione della Historia Alexandri di Curzio Rufo e del romanzo di Petronio, opere di cui egli proponeva una postdatazione al iii secolo, spostando così, seppur a torto (infra, § 24 e X; xiii), la « visuale » di molta parte della storia culturale romana. Ad ogni modo, queste erano suggestioni ad una intellezione più profonda della problematica inerente alla storia imperiale romana; altre suggestioni potevano venire dal confuso < simbolismo » creuzeriano, nelle sue applicazioni al simbolismo funerario com'esso fu inteso nella Griibersymbolik (1859) di un tardo romantico, il Bachofen: l'irrazionalismo proto-romantico può (in questo caso e in molti altri analoghi) rivelarsi fecondo, qualora la Grabersymbolik si applichi (come si è fatto scien tificamente anche in tempi recentissimi: in/ra, xxiii) allo Per le grandi trattazioni storiche ottocentesche (per es.
CHAMPAGNY; MERIVALE; e soprattutto DURUY) e per il volumetto di ZELLER, Les empereurs romains, cfr. quanto diremo in/ra,
pp. 20 sgg.
Introduzione
8
studio della religiosità romana di epoca imperiale, religiosità largamente penetrata di esperienze orientali. Per altro, un notevolissimo contributo del primo romanticismo alla ricerca sull'impero romano deve vedersi nell'impulso che quell'indagine riceveva dall'opera del Thierry, come anche dalla rinnovata attenzione (poi culminante nell'opera fondamentale dello Zeuss) sulle popolazioni germaniche. Va inoltre ricordata (« last but not least ») la revisione della storia sociale antica operata dalle indagini della « scuola storica dell'economia » (la cui insistenza sul fenomeno dell'economia domestica nel mondo antico può essere utile alla intellezione del tardo impero, oltre e più che dell'antichità in genere, cui quegli studiosi la applicavano): questa ricerca raggiunse, nella scuola di Rodbertus, una importante fase di scoperta, in quanto riuscì a individuare il principio fondamentale della capitatio-iugatio dioclezianea, la quale si fonda precisamente sulla identità di caput e iugum (ed in astratto di forza umana di lavoro e imponibile). Infine l'erudizione del Bicking riusciva a dare (1839 sgg.) un mirabile commentario alla Notitia dignitatum, commentario che ancor oggi, pur dopo l'edizione critica del Seeck (1876), resta - né più né meno che il già rtcordato commentario gotofrediano al Codex Theodosianus - un necessario strumento di lavoro ' . Quando la storia dell'impero romano si propose come tema complessivo all'indagine di Mommsen, la vera e propria fase romantica era superata in uno storicismo di tinta positivistica, la cui connessione all'esperienza romanParticolarmente RoscilEa, la cui opera principale è del 1843. Nel campo della « storiografia letteraria » va ricordato il Grundriss di BERNHARDY (1830), di spiriti wo1fiani importantissima, in esso, l'indicazione dell'epoca di Commodo (non di Adriano!) come momento iniziale della nuova fase culturale dell'impero. Tale periodizzazione è oggi confermata dallo studio dell'arte figurativa imperiale (cfr. in/ra, App. in) e della storia imperiale in genere (cfr. la Parte quarta di questo libro). 6
Opere generali sulla storia dell'impero
9
tica è, tuttavia, innegabile (come del resto è innegabile l'origine romantica di molta parte delle esigenze stonografiche contemporanee). Questa fase « positiva » dell'indagine sull'impero romano è soprattutto rappresentata dal quinto volume (1885) della Ròmische Geschichte mommseniana: il volume sulle province da Cesare a Diocleziano. Va subito notato un punto importante: Mommsen non scrisse il quarto volume, che doveva essere la vera e propria storia della politica imperiale nel suo sviluppo. La verità è che l'impostazione gibboniana di una storia dell'impero come storia del « decline and fail » dell'impero, appariva al Mommsen insufficiente a raggiungere una definizione storicizzante e autonoma del positivo significato della storia imperiale. Questa impostazione gibboniana coglie senza dubbio l'aspetto più vero e appassionante della storia imperiale: la storia dell'impero pagano che si fa cristiano, e che poi, come tale, si può seguire nelle partes Orientis (pur dopo la perdita di Egitto e Siria nel VII secolo) fino al 1453. Ma ilpositivismo mommseniano a buon diritto sottolineava un'altra esigenza: quella d'intendere il significato profondo della romanizzazione, di studiarla in funzione di se medesima (a intender meglio la differenza, si noti che Gibbon cominciava con Traiano, finiva col 1453; mentre Mommsen cominciava con Cesare ed Augusto, finiva con Diocleziano). Il terzo volume della Ròmische Geschichte è del 1856; il quinto volume è, invece, come dicemmo, del 1885. Trent'anni fra l'opera sull'ultima repubblica, fino a Cesare, e quella sul principato nelle province. La spiegazione di tutto ciò è agevole: per scrivere la storia dell'impero nella sua positività concreta, bisognava appunto raccogliere un materiale che la illustrasse nei suoi aspetti più concreti; bisognava rinnovare su solide basi la scienza numismatica e la scienza epigrafica. Per la prima c'era la Doctrina nummorum veterum di Eckhel, del 1792 sgg.; anch'essa un'opera dell'erudizione
Introduzione
10
antiquaria tardo-illuministica; ma una fondazione della scienza numismatica, al di là dell'antiquariato, doveva importare una storia della monetazione romana vera e propria; e questa fu data solo dal Mommsen stesso, nella Geschichte des ròmischen Mitnzwesens, del 1860: opera ancor oggi fondamentale. Per l'epigrafia, la vecchia erudizione tardo-umanistica aveva dato, nella suggestione dell'insegnamento scaligeriano, l'opera di Grutero; ma ora, a distanza di più di due secoli e mezzo, bisognava fare qualcosa di più moderno, che fosse veramente degno di una scienza che nella fatica del Borghesi ? aveva raggiunto un culmine, ancora oggi paradigmatico, di precisione scientif ica (Mommsen considerava Borghesi come il maestro per eccellenza in questo campo: si ricordi la sua famosa visita all'epigrafista italiano, nel 1845); bisognava redigere il Corpus inscriptionum Latinarum, un'impresa che il grande romanista (ed altresì ispiratore della già ricordata scuola storica dell'economia) Savigny aveva concepito, che Mommsen pensò di attuare, appunto, d'intorno al 1845, e che si realizzò splendidamente dal 1863 in poi, fino ad oggi. Anche lo Staatsrecht del Mommsen medesimo (1871-1875) era un presupposto per intendere la storia dell'impero, che nel suo aspetto costituzionale presenta problemi gravissimi, quali l'illuminismo, con la sua generica interpretazione delle forme monarchiche, non poteva concepire. Senza numismatica e soprattutto senza quel grandioso « archivio di pietra » che è il materiale epigrafico, non si dà storia della romanizzazione, dunque non si dà storia dell'impero romano: sicché il quinto volume della Ròmische Geschichte mommseniana deve considerarsi la compiuta intellezione di questo nuovo aspetto della storia imperiale; e perciò l'anno 1885, in cui esso apparvè, segna un'epoca nella storia di questa storiografia, né più né meno che il 7 Sempre viva e attuale: i-x (1862 sgg.).
BORGHESI,
Oetivres compi., ed. CvQ,
Opere generali sulla storia dell'impero
11
penultimo decennio del XVIII secolo, in cui fu concepito il Decline and Fali di Gibbon. Bisogna poi osservare che, con la scoperta mommseniana della « storia delle province » in quanto « storia della romanizzazione », non era cancellata (come a torto si ritenne e talora si ritiene ancor oggi) l'esigenza di una « storia dell'impero » nella sua evoluzione amministrativa ed economica e culturale unitaria; Mommsen scrisse il quinto volume della sua Geschichte, ma avrebbe voluto scrivere anche il quarto; ed è evidente che, se pur quel gigante non riuscì a raggiungere una unitàfra bistoire des empereurs e storia delle province, tuttavia la ricerca unitaria sulla storia dell'impero resta una esigenza insopprimibile. Insopprimibile, diciamo, anche se la pressoché contemporanea Geschichte der r6mischen Kaiserzeit, i (1 e 2) - ii di Schiller (1883-1887) - opera ancor
oggi da consultare - in nessun modo reggeva il paragone con il quinto volume della Ròmische Geschichte mommseniana. Le posteriori opere generali (alcune cronologicamente limitate) sull'impero romano si muovono, più o meno, fra questi due poli, di « storia degli imperatori » e « storia dell'impero nelle province », dando la prevalenza or all'uno or all'altro momento: di queste opere generali, scritte dopo Mommsen fino ad oggi, alcune saranno ricordate più innanzi in questa introduzione (per es. FERRABINO; MASHKIN; PIGANI0L ecc.; gli Arcana imperii del DE FRANcIscI); qui si ricordano subito le seguenti: COLUMBA, L'imp. rom. dal 44 a.C. al 395 d.C.
(della Storia d'Italia vallardiana); STUART JONES, The Roman Empire (dal 29 d.C. al 76 d.C.) (1908); BURY, A History o/the Roman Empire from its Found. to Death o/ M. Aurelius (1913; DOMASZEWSKI, Gesch. d. rm. Kaiserz. i-ii
(1921-1923); BLOCH,
L'emp. rom. l2vol. et décadence (1922); DESSAU, Gesch. d. ròm. Kaiserzeit (1924 sgg.; fino ai Flavii); Homo, L'emp. rom. (1925); NILssoN, Imperial Rome (trad. ingi., 1925); CAvAIGNAC, La paix romaine (1928); ALBERTINI, L'emp. rom. (1929); STEVENSON, The Roman Empire (1930); PARIBENI, L'Italia
Introduzione
12
imperiale. Da Ottaviano a Teodosio (1938) ; SOLARI, L'impero romano I-IV e Rinnovamento dell'impero romano I- II (1940 sgg.; il Rinnovamento, che è relativo al basso impero da Giuliano a Giustiniano, sotto il titolo di Crisi, già dal 1933 sgg.).
Il periodo da Ottaviano ad Adriano è trattato in
SALMON,
A History o f the Roman World from 30 B.C. to A.D. 138 (19522 ). Nella « Einleitung » di GERCKE-NORDEN la storia imperiale è trattata dal KORNEMANN (ora in VOGT-KORNEMANN, Storia romana, trad. it. a cura di PUGLIESE CARRATELLI; cfr. dello stesso KORNEMANN, Rum. Gesch II). PASSERINI, Linee JEBELEV, Drevnij Rim II, (1923) . di storia imp. (1949) . SERGEEV, Ocerki po istorii dr. R. II (1938). La Kaiserz. di TREVER, PÒHLMANN, nello PFLUGK-HARTTUNG, pp . 507 -631 . A History of Ancient Civilis. II (1939). Fondamentali i voll. x, xI, xii della « Cambridge Ancient History », un'opera in cui la grande pluralità degli autori non nuoce alla unitaria e modernissima visione dell'insieme (ed. by ADCOCK, BAYNES, BURY, CHARLESWORTH). Di quest 'ultimo studioso, il CHARLESWORTH, va segnalato The Roman Empire .
(1951). Nella « Bibliothèque de synthèse historique » l'impero romano (nel senso del v volume mommseniano), l'economia, il diritto , le istituzioni ,la religione , Gesù e la Chiesa, la fine del mondo antico, Bisanzio sono stati curati rispettivamente da CHAPOT, TOUTAIN, DECLAREUIL, HOMO, GRENIER, GUIGNEBERT, LOT , BRÉHIER, in volumi di primissimo ordine; recen-
tissimo è il volume sull'urbanesimo a Roma, del HoMo. Nella Pro pylàenweltgeschichte, II le parti che c'interessano hanno una trattazione eccellente, di HOHL e VON SODEN (1931) . Nella
« Histoire generale » del GLOTZ due tomi sono dedicati alla storia " imperiale: il primo, Le Haut-Empire, del HoMo; il secondo, in due volumi, di BESNIER (dai Severi al 325) e di PIGANIOL (L'empire chrétien, fino a Teodosio). Della « Storia di Roma », a cura dell'Istituto di Studi Romani, sono relativi all'impero, fra quelli finora apparsi, i volumi v, VII, VIII: PARI BENI (L'età di Cesare e di Augusto), CALDERINI (I Severi. La crisi dell'impero nel terzo secolo) PARIBENI (Da Diocleziano 'alla caduta dell'impero d'Occidente); nei voll . XVIII, XXIII xxiv-xxv (sulla religione, la lingua, la letteratura; rispettivamente di TURCHI, DEVOTO, ROSTAGNI-AMATUCCI) è anche ,
.~
Opere generali sulla storia dell'impero
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studiata l'epoca augustea imperiale. Per il resto vanno ricordate le storie del basso impero e di Bisanzio (le due -grandi, il SEECK e lo STEIN, su cui torneremo or ora; il BAYNES, The Byz. Emp. [1926]; il VAsILIEv, Hist. o/ the Byz. Emp. [1952 21; l'OsTRoGoRsKY nel « Handbuch » di MOLLER-OTTO; e via dicendo). In queste opere (s'intende, soprattutto nelle più significative tra quelle dedicate alla storia politico-civile) è dunque una problematica che, più o meno, si eredita (e in diversissima misura si riflette dai diversi autori) o dal Gibbon o dal Momm sen, o dall'uno e dall'altro variamente conciliati. Ma nelle più recenti e vive - e tali sono, per esempio, il breve Byz. Emp. di BAYNES, o l'eminente Emp. chrét. del PIGANIOL, o il volume xii della « Cambridge Ancient History » - c'è qualcosa di più: c'è la problematica della decadenza romana, intesa in modo da rinnovare notevolmente il vecchio problema illuministico impostato dal Gibbon. Il problema della decadenza era il più indicato per proporre una interpretazione della storia romana che, pur inverando » l'esigenza mommseniana, tuttavia si mostrasse più complessa di quella del Mommsen. Abbiamo già ricordato la pubblicazione, nel 1852 (dunque, più che un trentennio prima del quinto volume mommseniano), di una mirabile opera del Burckhardt, Die Zeit Constantins des Grossen, la quale è in verità una Kulturgeschichte - o una storia politica vista kulturgeschichtlich - del trapasso dal principato all'impero cristiano. Tale problematica il Burckhardt ereditava direttamente da Gibbon; ma vale la pena di ripetere che essa si configurava in maniera del tutto nuova per lo storico di Basilea, a cui una profonda esigenza umanistica aveva fatto intendere la unità della fenomenologia storica in rapporto alla Kulturgeschichte; sicché il suo tormentato pessimismo 8 assimilava tuttavia, per questa parte, il meglio dell'esigenza storicistica romantica. Comunque, nell'opera di Burckhardt il 8 SEEL, Jacob Burckhardt und die europàis be Krise (1948).
14
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Introduzione
problema della decadenza era posto, soprattutto, nei termini di una evoluzione culturale fino alla « demonizzazione del paganesimo ». Circa vent'anni dopo 9 , il primo tomo delle I nstitutions politiques de l'ancienne France di Fustel De Coulanges (pubblicato nel 18 7 5) partiva dallo studio della storia imperiale per insistere sulla continuità della cultura romana nel medioevo barbarico: la forte personalità del Coulanges ha lì impostato un problema ancor oggi vivo (gli aspetti della continuità sono stati sottoli, neati, più recentemente, dal Dopsch e da H. Pirenne; in f ra, LXXIV), ma nello stesso tempo chiariva la necessità di studiare a fondo, con un metodo scaltrito dai nuovi accorgimenti filologici e dalla ricerca epigrafica, la storia del tramonto del mondo antico. Così, la fine del secolo xix vide l'inizio di un'opera di Otto Seeck, l'editore della Notitia dignitatum (supra, p. 8); l'opera, che perveniva a un'interpretazione positivistica della decadenza romana, fu la mirabile Geschichte des Untergangs der antíken Welt (i-vi, 1895-1920). La storia dell'impero tornava ad essere ancora la storia del « decline and fall » dell'impero. Questo era stato per Gibbon, innanzi tutto, il problema del rapporto fra cristianesimo e stato romano: basta pensare, per esempio, al cap. xviii della History. Anche per Burckhardt il problema era il medesimo; ma la sua risposta più smaliziata che quella dell'illuminista Gibbon; l'opera di Burckhardt presuppone un approfondimento di scritti anch'essi a loro modo kulturgeschichtlicb (per esempio di nonostante il suo tono d'insiTzschirner), ed esprime esperienze storicistiche in cerstenza sulla Dekadenzidee to modo analoghe a quelle che fanno capo a Hegel, che impegnano l'opera di Droysen e infine di Ranke 1° ; così quello che a Gibbon appariva il problema del « perché » l'impero 9 Per l'importante Histoire des Rosnains di DURUY cfr. in f ra, p. 20. lo Del RANKE si vedano, soprattutto, il Iii e il iv volume (1883) della W el tgeschichte.
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romano cade, a Burckhardt appare piuttosto il problema del « come » l'impero si trasformi, e tra Marco Aurelio e Costantino si verifichi il passaggio dallo stato romano pagano (nella cui interpretazione Burckhardt era anche illuminato da proposizioni romantiche, per esempio del primo Bachofen) allo stato cristiano. La formula di Burckhardt era stata la « demonizzazione del paganesimo ». La formula di Seeck, a distanza di circa un mezzo secolo da Burckhardt, è tutt'altra; com'è tutt'altra la sua formazione spirituale. La vecchia fenomenologia idealistica dello spirito, e lo storicismo di Ranke, e la Kulturgeschichte di Burckhardt parevano in certo modo spazzati via dalla certezza positivistica del dato storico: senza saperlo, forse, e certo senza volerlo, il positivismo seeckiano tornò alla impostazione illuministica. La formula di Seeck guardava alla decadenza romana in quanto tale; in quella decadenza, non c'era luce, o c'era pochissima luce; per Seeck « ultimo epigono dell'epoca illuministica » ", il tramonto del mondo antico ha la sua origine nella « Ausrottung der Besten », nella « eliminazione dei migliori »; nella sua concezione, gli uomini di questo mondo scardinato dalle fondamenta erano biologicamente condannati a svolgere uno stile peggiore di vita. Così il « basso impero » appariva veramente come basso impero, in un senso non solo cronologico, sì anche morfologico; e l'opera dello storico illustrava la fenomenologia di tale decadenza. Questa Geschichte des Untergangs seeckiana, che narrava la storia del basso impero, ' Essii, « Blz.-neugr. Jahrbb. », 1926,' p. 218; « illuminismo », s'intende, filtrato attraverso l'esperienza positivistica; « apertamente razzistica », secondo KUDRJAVTSEY, « Vestnik drevnej istorii », 1953, p. 38; cfr. in/ra, § 103; LXXIV). - Va rilevato che, con tutt'altro presupposto da quelli seeckiani, la scienza italiana dava, nel 1899, Il tramonto della schiavitù del CICCOTTI: la problematica sociologica della schiavitù moderna (soprattutto CAIRNES) e la grande Histoire de l'esclavage dans l'antiquité del \VALLON (1879 2 ) avevano reso attuale la questione della caduta del mondo antico n quanto società schiavistica.
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dava dunque uno dei due volti della storia imperiale romana; l'altro volto era quello « mommseniano »: ché il quinto volume mommseniano, in quanto guardava al principato, era stato non la considerazione della decadenza, ma la rievocazione della diffusione della cultura romana nelle province. Per studiare il processo nella sua manifestazione continua, fu necessario considerare di nuovo il problema della crisi; considerano con maggiore comprensione e più umana. Intanto la discussa opera del Ferrero Grandezza e decadenza di Roma aveva cercato di disegnare già la storia del principato augusteo come emergente dalla lotta di classe nel periodo delle guerre civili (cfr. in/ra, iii), e una no~ tevole Storia romana di Hartmann e Kromayer (trad. it. 1928 3) aveva tratto - nella parte redatta dal Hartmann - le conseguenze degli importanti studi di questo storico intorno alla configurazione sociale dell'impero (del 1913 è il breve ma mirabile saggio del Hartmann, Kapitel vom antiken und mittelalterlichen Staate). Intanto, la prima guerra mondiale aprì nella nostra storia contemporanea una vera e propria epoca di radicale crisi (come sembra, non meno radicale - e forse più violenta - di quella che sconvolse la cultura antica); e dunque un problema di decadenza si presenta a noi in termini assai più complessi che non alla felice epoca dell'illuminismo gibboniano o del positivismo in cui Seeck ebbe a formarsi. Si sono avute così due opere di eccezionale importanza: Ernst Stein, Geschichte des spiitr6mischen Reiches, i (1928), ii (post., ed. Palanque, 1949) e Michail Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano (trad. it., 1933; l'originale, Social and Economic History o/ the Roman Empire, è del 1926). L'opera di Ernst Stein è veramente una grande visione unitaria della storia tardo-imperiale: Ernst Stein non ha trascurato nulla che giovasse a dare una visione di questa vicenda nel suo complesso; è l'opera di un grande studioso che ha superato così il pericolo dell'atomizzazione
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della storia imperiale come anche il pericolo di un astratto illuminismo; lontano idealmente da Burckhardt, egli tuttavia ha saputo rinnovare (se anche su un piano e con un orizzonte meno speculativo e più limitato) l'esigenza burckhardtiana di raggiungere una visione unitaria dell'impero nelle sue manifestazioni politiche e religiose e culturali. L'opera di Rostovzev era più rivoluzionaria; e forse per-ciò ha avuto uneco maggiore fra gli studiosi: essa guardava soprattutto al principato, connettendosi in molti punti al quinto volume mommseniano, ma arricchendone la problematica non soltanto con una magistrale completa (fino al 1925; al 1932, nella trad. it.) utilizzazione del materiale archeologico, sì anche con una particolare sensibilità, del tutto estranea al Mommsen, al problema della crisi imperiale; la. storia imperiale era interpretata dal Rostovzev come storia della lotta di classe fra contadinisoldati e borghesia cittadina, lotta di classe che si annuncia in certo modo nel 69 d.C.- e che culmina nell'anarchia militare del iii secolo, sicché il basso impero sarebbe l'epoca del « dispotismo di stato » originato dalla rivoluzione contadina e caratterizzato dalla tendenza verso l'economia naturale. La conclusione del Rostovzev poneva un problema quanto mai moderno e attuale; il suo libro si chiudeva con la domanda se ogni civiltà non sia destinata a decadere non appena comincia a penetrare nelle masse. Porre questa domanda significava studiare la storia dell'impero romano come storia della società imperiale. Il compito della storiografia nuova era ormai chiaro: operare una sintesi fra le esigenze di Rostovzev e quelle di Burckhardt; evitare l'atomizzazione della storia dell'impero nella storia delle province, che pareva l'ideale a chi guardasse, unilateralmente, al quinto volume mommsenia no; configurare la storia dell'impero nel suo processo evolutivo unitario, anche sul piano sociologico. E la deca denza? Il problema viene affrontato, naturalmente, nelle
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migliori sintesi di storia romana, repubblicana e imperiale, in genere: soprattutto nella mirabile Histoire de Rome del Piganiol (19391; 1949): « il est très important de comprendre comment l'empire fut fondé... - comment, au sein de cet empire, se son déroulés les conflits entre le peuple conquérant et les peuples vaincus, jusqu'au jour où s'évanouit le souvenir des oppositions raciales (cuncti gens una surnus, dit Claudien), - comment se sont poursuivis, parallèlement aux conflits ethniques, les conflits entre les aristocraties et les masses - comment enfin l'empire suc comba, quand la Méditerranée cessa d'étre l'axe principal du commerce du monde ». Per altro il Piganiol, nel citato L'empire chrétien (1947) della Histoire générale di Glotz, ha concluso dando una interpretazione assolutamente positiva del tardo impero, e dunque assumendo che « la civilistion romaine a été assassinée » dai barbari; una formulazione la quale, come ha poi chiarito lo stesso Piganiol 12, va però intesa, o comunque attenuata, nel senso che la storia dell'impero romano conduce al trasferimento della via dei commerci verso l'Europa centrale e ad uno sforzo di progresso sociale, mentre d'altra parte « cet affaiblissement momentané de l'empire n'échappait pas aux peuples étrangers qui attirait nécessairement l'énorme amoncellement des capitaux que la conquéte romaine avait réalisé dans les contrées méditerranennes ». Una spiegazio ne, dunque, a un tempo economico-sociale (nel senso del Rostovzev, ma con sviluppi diversi e spesso opposti) e geopolitica (un aspetto su cui, anche da tutt'altro punto di vista e in senso del tutto diverso, aveva attirato l'attenzione il medievalista Pirenne). In altri termini: questo recente tentativo, sintetico di una Histoire de Rome per l'epoca imperiale pone ancora l'accento sulla fenomenologia economica-sociale-geopolitica, mentre d'altra parte si 12 PIGANI0L, « Grundiagen und Sinn der europàischen Geschichte», 1951, p. 14.
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rileva, proprio in funzione di questa fenomenologia, la grande importanza della pressione barbarica. E sull'aspetto economico-sociale insistono altre moderne opere di sintesi: così - nonostante le differenze, talora profonde - le parti relative all'impero nella Istorija Rima del Kovalev (1948), nella Istorija drevnego Rima del Mashkin (1947), nella recentissima Istorija drevnego mira di D'jakov e Nikolsk (1952); ed alcuni punti della Geschichte des griechisch-ròmischen Altertums (1948) di Kahrstedt e della Kulturgeschicbte der ròmischen Kaiserzeit (1944) di questo stesso autore; mentre viceversa lo sguardo si allarga al mondo extra-romano nel secondo volume della Ròmische Geschichte di Kornemann (1939), e ancor meglio nella più matura Weltgeschichte des Mittelmeerraumes (ed. Bengtson, ii, 1949) di questo stesso autore. Il guaio è che altri studiosi (Altheim) propongono la formula (già espressa dal Ranke, ma a tutt'altro proposito) della « prevalenza della politica estera »: quasi che la storia dell'organismo sociale, che è lo stato, non sia appunto la storia dell'evoluzione di esso organismo, e del suo travaglio interno spirituale e sociale! Un correttivo è rappresentato, a questo proposito, dalla scuola del compianto Wilhelm Weber, il cui problema principale consiste nella definizione dei valori ideali per cui l'impero romano si avviò a divenire impero cristiano: un illustre rappresentante di questa scuola è oggi lo Straub, del quale si attende con grande interesse la trattazione dell'impero nella Geschichte der Ju-brenden Vòlker; dello stesso Straub abbiamo un'opera Vom Herrscherideal in der Spàtantike, che è oggi, insieme con alcune ricerche sociologiche (specialmente di M. Weber), augustee (per esempio di Gagé; Seston), tardoimperiali (per esempio di Ensslin) 13, quanto di meglio ab-
13 Una più precisa indicazione e discussione di questi lavori, e di altri analoghi, sarà data nel corso di questo libro.
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bia dato la storiografia contemporanea sull'evoluzione dell'idea « charismatica » nel nostro periodo. Qual è la differenza capitale fra la storiografia ottocentesca sull'impero e la storiografia contemporanea? Tolti i due grandissimi ed opposti esponenti della storiografia il « pessimista » (tardo romantico) Burckottocentesca , per il resto si può hardt e il « positivista » Mommsen dire che quella storiografia fu spesso l'espressione di un romanticismo di prima maniera, con tendenza politica assai spesso conservatrice. Questa storiografia ottocentesca, oggi in buona parte dimenticata, è insomma la storiografia di uomini come il conte di Champagny, con la sua opera (Les Césars, -iv, 1841 [ 1853 2 ] ; Rome et la Judée, 1858; Les Antonins, 1-I1I, 1863; Les Césars du III e siècle, -I11,
1870), di tendenza spiccatamente confessionale, vicina per esempio a Chateaubriand; oppure di uomini come il Merivale, la cui History (i-vii, 1850 -1862) era, in fondo, una interpretazione tory della storia imperiale (con l'interessante tesi che la decadenza « dates before the fall of the Republic »), salvo a riconoscere nella vittoria del cristianesimo « la conquista di Roma da parte dei suoi sudditi ». (Un posto a parte nella storiografia ottocentesca sull'impero merita l'importantissima opera di Duruy, nella sua seconda redazione, Histoire des Romains, ITi, 3 - vii, 18801885; Duruy non è un conservatore; è anzi uno spirito altamente liberale; egli vede nell'impero « un progresso dell'umanità »; ma la sua opera è accentrata intorno a quelli che gli appaiono « i due mali » dell'impero, « isolement municipal, centralisation excessive » 14 .) Ad ogni modo, la storiografia ottocentesca sull'impero è, per lo più, una storiografia conservatrice. La storiografia di oggi è altra cosa. Non già che gli storici di oggi siano pericolosi dinamitardi. 14 Si può anche ricordare J. S. ZELLER, Les empereurs romains (1863; 1876 4 ), tutto orientato verso il gusto del portrait senza preoccupazioni critiche.
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Ma è chiaro che per essi l'impero romano, lungi dall'essere la roccaforte della conservazione, è piuttosto l'immagine della disgregazione di un mondo, la -storia della classicità che si disfa e muore: il fatto sociologico più rilevante nella storia della nostra cultura. Anzi, lo storico di oggi può porsi nuovi problemi. Egli ha raggiunto un'esperienza « neoumanistica » la quale, come riesce per esempio a riconoscere motivi tardo-repubblicani (ciceroniani) nella grande tradizione del principato (per esempio in Livio: P. Zancan), così può intendere storia culturale e storia sociale nella loro unità (come nell'importante Nuova storia del Ferrabino; cfr. in f ra, § 3). Inoltre, lo storico di oggi ha dietro a sé, a tacer d'altro, un'esperienza di dottrine economiche, opposte talora negli sviluppi teorici o politici per esempio da una parte Keynes, dall'altra Hayek, dall'altra ancora la speculazione materialistica ecc. ecc. , ma comunque attente all'interpretazione dei grandi fatti sociali. Oggi noi sappiamo cosa significhi, per esempio, la « morte della moneta » (quando « l'acquirente non può più scegliere », Hayek), e sappiamo che il crollo dell'impero romano in Occidente è abbastanza vicino a fenomeni di questo genere: Infine, lo storico di oggi si trova dinanzi a fenomeni che involgono, nel loro complesso, tutta la storia del mondo antico, implicando quella esigenza di « synthèse historique » su cui insiste particolarmente la scuola di Lucien Febvre. Poco a poco, le barriere fra le varie scienze « morali » si avviano a cadere. Le nuove esigenze dello studioso di storia imperiale si connettono con i più stretti rapporti fra ricerca storica da una parte, speculazione sociologica e filosofica dall'altra. Basti considerare, a questo riguardo, le dottrine filosofiche e sociologiche oggi più vive: per es. l'esistenzialismo di JASPERS; la scuola di Max WEBER; il materialismo storico; la dottrina delle « social and cultural dynamics » (in rapporto alle « fluttuazioni storiche ») di SOROKIN; lo « spenglerismo agostiniano » di ToYNBEE; la scuola (per eccellenza - « anti-
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Toynbee ») del già ricordato FEBVRE; ecc. Esse si muovono tutte intorno alla necessità di « contemporaneizzare » la storia antica, conciliando il dramma delle varie culture (al centro delle quali è, per l'Europa, la grande crisi della cultura romana) con la loro continuità nella nostra cultura. L'esistenzialismo di JASPERS ha tentato questa conciliazione sulla base dell'« epoca assiale » (vi-ii sec. a.C.), rispetto alla quale l'impero romano sarebbe « Stabilisierung » della stessa cultura assiale nella sua crisi. JASPERS ha ricevuto molte suggestioni dall'insegnamento sociologico di Max WEBER, di gran lunga il più illustre fra gli allievi di MOMMSEN; e senza dubbio, il problema della caratterizzazione della crisi dell'impero romano è centrale nel pensiero di M. WEBER (anche se noi non accoglieremo la sua dottrina sull'aspetto naturale dell'economia burocratica: cfr. per es. in/ra, 55 87-88). - Il materialismo storico ebbe un certo influsso su M. WEBER, come per es. ha rilevato JASPERS nella sua famosa commemorazione dell'amico scomparso; ma è evidente che M. WEBER (di cui è caratteristico, talora, un capovolgimento del punto di vista materialistico) deve considerarsi a sé. Viceversa, il materialismo storico in quanto tale ebbe a suo tempo un insigne rappresentante nel già ricordato HARTMANN (a cui può aggiungersi, pure già ricordato, il CIccoTTI); oggi, tra i motivi più affinati di materialismo storico, può indicarsi l'interesse rivolto alla caratterizzazione economica delle province orientali in rapporto al resto dell'impero (per es. ultimamente SHTAERMAN, « Vestnik drevnej istorii », 1951, n. 2, 84; KUDRJATSEV, ibid., 1953, n. 2, 37) e ai rapporti fra colonato e schiavitù; diversamente, per es., dal vecchio HARTMANN, le più recenti tendenze materialistiche accentuano lo iato fra mondo antico e medioevo. - D'altra parte, il sociologo S0R0KIN (a cui è particolarmente vicina la bella sintesi storica di ALBRIGHT, Von der Steinzeit z. Christentum, trad. ted. 1949; su Sorokin, ultimamente ALBRIGHT, OP. cit., spec. pp. 92-99), nel suo tentativo di definire le « fluctuations of mentality » della cultura europea con un preciso « quantitative appraisal », ha visto nella storia dell'impero romano l'avvio ad un maximum di « mentalità idealistica ». Su TOYNBEE, in/ra, § 3; cfr. la polemica di BERR e FEBVRE contro di lui.
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3. Considerazioni ulteriori: storia culturale e storia sociale.
Una tale problematica, nonostante le divergenti e spesso opposte conclusioni, è ormai così matura che se ne possono trarre le somme, e proporre un'impostazione complessiva. Anche nei limiti di un « trattato », è necessario tentare questa summa. Innanzi tutto, è chiaro che ormai il vecchio disprezzo dei mommseniani ad oltranza per la « storia degli imperatori » non ha più ragion d'essere: la storia dei vari regni (quando, naturalmente, non si studi come una 'curiosità biografica od erudita) è la storia dello stato imperiale nella sua centralità, e dunque nella sua unità funzionale; la politica dei vari regni ha un senso in quanto essa riflette il vario atteggiarsi e la complessa vicenda dei rapporti fra gli ordines e lo stato imperiale. D'altra parte, le indagini relative alla storia dell'arte durante l'impero hanno rivelato, da Wickhoff e Riegi in poi (la Wiener Genesis di Wickhoff è del 1895, la Spàtròmische Kunstindustrie di Riegl del 1901), la peculiare auto nomia dell'arte romana, e l'avviarsi di essa (come diceva Riegl, con una formula forse discutibile, ma per lo meno indicativa) verso la conquista tardo-romana, soprattutto da Costantino in poi, di una espressività « ottica » l' . Così si è raggiunta l'intellezione più profonda dell'autonomia dell'arte romana attraverso lo studio della tardo-romana; e quel concetto si è rivelato quanto mai fecondo per la storia dell'arte antica in genere, fino agli sviluppi recentissimi (per esempio in Bianchi Bandinelli, o in Bettini, o nella Rdmische Kunst di Herbert Koch, e via dicendo): ed inoltre si è inteso assai meglio in seguito alle nuove scoperte 15
Nello stesso senso, ma dal punto di vista della storia della cultura e filosofia e letteratura greca, da ultimo DIANO, Forma ed evento (1952): dove l'« evento » ellenistico prefigura, se pur a distanza di secoli, l'espressività « ottica » tardo-romana. Cfr. in/ra, App. iii.
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(per esempio delle pitture della Sinagoga di Doura Europos, o dei mosaici di Piazza Armerina). Infine: la storia della società d'epoca imperiale (una società che ci è stata rivelata dalle vecchie e nuove 16 scoperte archeologiche), culmina poi, nella sua pagina più significativa e drammatica, nella storia del passaggio dall'impero pagano al cristiano. Il grande rivoluzionario è Costantino. Come si può chiaramente mostrare (cfr. le nostre osservazioni in/ra, Parte quinta), la sua rivoluzione economica spezzò in due la storia dell'impero romano: prima di lui la storia del denarius, moneta della piccola borghesia ma anche moneta del principato; con lui e dopo di lui la storia del solidus, moneta degli honestiores cui la af/licta paupertas invano si oppone. Nello stesso tempo, Costantino è l'autore della grande rivoluzione religiosa che porta la pace alle chiese. Arte e religione da una parte, storia economico-sociale dall'altra, presentano un perfetto parallelismo. Chi voglia intenderlo, dovrà insistere - tanto più oggi, dopo Keynes e Hayek (supra, § 2) - sul fenomeno della storia sociale in quanto essa si riveli nella storia della moneta; anche così si potrà guadagnare un punto fermo e metodicamente preciso (si osservi che nella mirabile, citata opera del Rostovzev, la storia della moneta è, viceversa, appena sfiorata). Ancor una volta: come ai princìpi di questa scienza, che si volge allo studio del mondo antico nella sua epoca imperiale romana, così ancor oggi la « chiave » dell'interpretazione va cercata nel tardo-impero: in quel tardo-impero da cui cominciava, con Godefroy, la grande storiografia moderna relativa all'impero romano. Ormai è chiaro: Burckhardt aveva ragione, quando intitolava quella sua interpretazione storica dell'autunno del paganesimo, or sono 100 anni, Die Zeit Constantins des Grossen. Ma 16 Per es. Roma (specialmente i fori imperiali), Ostia, Pompei Treviri, Thamugadi, Leptis Magna, Sabratha, Cariiunto, Sardi, Efeso, Antiochia, Baalbeck, Palmira, Doura Europos, ecc.
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la sua interpretazione appare, oggi, in certo modo incompleta: quella vicenda di storia romana ha la sua fondamentale caratteristica non solo nella rivoluzione politico-religiosa di Costantino (che era l'obietto della narrazione di Burckhardt), sì anche nella sua grande rivoluzione economico-sociale, e nella definitiva vittoria del solidus aureus sul denarius. Da questo punto di vista, il contrasto metodico tra una particolare accentuazione della politica interna (Rostovzev) e un maggiore rilievo della politica estera (Altheim) non ha ragion d'essere. Un mondo cade solo se è malato. Ma d'altra parte il malato mondo romano ha dato figure luminose, da Marco Aurelio a Diocleziano a Costantino a Giuliano ad Agostino. Ciò si spiega perché quella crisi rimonta a tutta la grande crisi dell'epoca ellenistica e s'inquadra in essa con aspetti e forme nuove: più o meno come hanno intuito ultimamente, ma con diverso orientamento, lo storico Aymard o il sociologo Toynbee Questo grandioso stato bilingue, questo impero romano di cultura ellenistico-romana ha rivelato, nella « cristallizzazione » tardo-imperiale delle sue forme, i vari riposti motivi della sua complessa vitalità. Per altre storie imperiali comprese in manuali o testi generali relativi a tutta la storia romana, si rimanda a GIANNELLI, in GIANNELLI-MAZZARINO, Tratt. d. st. rom., i, 1965; di esse vanno segnalate - oltre quelle già ricordate sopra (fonda mentale la Histoire de Rome di PIGANI0L, su cui cfr. quanto dicemmo a p. 18; e § 103) -, soprattutto la Storia di Roma di T. FRANK (li; trad. it., 1932); il Mondo romano del PARETI (1933;, divulgativo, ma opportunamente atto a disegnare unità di storia culturale e storia politica); la Italia romana (1934) 17 Per il dibattito su Toynbee, possono essere significativi (in senso radicalmente critico il primo, favorevole il secondo): HAMPL, « Hist. Ztschr. », 1952, p. 449; V0GT, « Saeculum », 1951, p. 557. Utile discussione e letteratura su Toynbee in STADTMÙLLEk, « Sae culum », 1950, p. 165.
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e la Nuova storia di Roma, iii (1948) del FERRABINO (con interpretazione della storia imperiale come storia della libertà borghese) e per ultimo, di grande rilievo, gli Arcana imperii del DE FRANcIscI, 111-1V (1947); molta fortuna ha avuto CARY, A History o/ Rome (1935). Delle storie generali dell'antichità, si ricordino quella del RosTovzEv; la bella sintesi Das Altertum (19492) del TAEGER; fino a Tiberio arriva ora la Histoire générale del CAVAIGNAC (1946); la sintesi di PARIImperia (1949); J. PIRENNE, Les grands courants de l'hist. univ., i ( 1944); ed il i volume del recente FREYER, Weltg. Europas (1948), dove l'accento « europeo » batte sulla problematica di una Europa cristiana; ROBINSON, Ancient History (1951). Naturalmente, le storie di singole ma grandi
BENI,
unità territoriali nell'epoca romana, sono molto importanti per la storia dell'impero in genere: pensiamo soprattutto alle tre più notevoli, la Histoire de la Gaule del JULLIAN, l'Arte e civiltà nella Sicilia antica del PACE, e la recente Roman Rule in Asia Minor, i-ii del MAGIE; cfr. letteratura in/ra, LXVIII e passim. - Nello spirito delle più profonde esigenze umanistiche sono concepite le brevi ma fondamentali considerazioni di BERVE, Gestaltende Kriif te d. Antike (1949), spec. pp. 161, 169, 184. - Per la storia del cristianesimo diamo la letteratura in/ra, xiii. - Per la storia generale della religione romana, rimandiamo a GIANNELLI, in GIANNELLI-MAZZARINO, Tratt. d. st . rom., i, cit.; soprattutto si ricordino il WISSOWA, il TURCHI, lo ALTHEIM (ci sono anche buone trattazioni popolari, per es. la recente di ROSE, [19491); cfr. anche LATTE, Die Religion d. R mer u. der Synkretismus der Kaiserzeit (1927);
altra letteratura in/ra, XXIII. - Per la storia dell'arte, oltre gli autori citati (WICKHOFF; RIEGL; BETTINI, Pitt. Paleocr. [1940]; BIANCHI BANDINELLI, Storicità dell'arte classica [1943]; H. KOCH, Rm. Kunst [19492]) si ricordino, per es., WIRTH, Ròmische Wandmalerei (1934); le indagini sulle catacombe, per es. dello STYGER, Die ròm. Katakomben (1933); (cfr. in/ra App. iii); WEST, Ròm. Portratplastik, i-ii (1933); SCHLUNK, Kunst d. Spàtant. im Mittelmeerraum (1939); SCHWEITZER, Die spiitant. Grundl. d. mittelalt. Kunst (1949;
una conferenza di ampio respiro);
RODENWALDT,
per es. nel
postumo Die Leistung Roms f. die europ. Kunst, « Forsch. u.
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Fortschr. » 1947, p. 33; per il resto, si rinvia alle opere di storia dell'arte antica e ai manuali specializzati, per es. del ROBERTSON (1929) per l'architettura, della STR0NG (1923-25) e dell'ARIAs (1943) per la scultura, ecc. Per la storia della cultura, per es. KLINGNER, Ròm. Geisteswelt (1943); C. KOCH, « Gymn. », 1952 (cfr. anche in/ra, v); le storie dell'educazione, ultima (1948) quella del MARROU; HARTKE, Ròm. Kinderkaiser (1950); nuova letteratura fino al 1950 in BÙCHNER-HOFMANN, Lateinische Liter. u. Sprache (1951). E per la storia della cultura in senso più lato BIRT, Das Kulturleben d. Griechen u. Rmer (1928); e il monumentale FRIEDLÀNDER-WISSOWA, Darstell. aus der Sitteng. Roms, 1-1V (1921-23 10 ). Interessante la storia del libro in epoca imperiale, soprattutto la vittoria del codice sul volumen: dell'enorme letteratura, oltre al vecchio BIRT, si ricordino la Storia della tradiz. del PASQUALI e Books and Readers del KENYON: cfr. in/ra, App. ii. - Anche per via numismatica si può illuminare la storia della cultura: cfr. per es. le monete di anniversarii, illustrate da GRANT, Roman Anniversary Issues (1950). Per la storia economica, si ricordino (oltre il fondamentale ROSTOVZEV e il TOUTAIN, già citati): « An Econ. Survey of Anc. Rome » curato dal FRANK (I-v, 1933-1940; autori BROUGHTON, COLLINGWOOD, FRANK, GRENIER, HAYWOOD, JOHNSON, LARSEN); la parte relativa all'impero in HEICHELHEIM, Wirtschaftsgesch. d. Altertums, i-n (1938); GIESECKE, Ant. Geldw. (1938), p. 161; Italia numismatica (1934; solo fino a Nerone); PERSSON, Staat u. Manu/aktur im rm. Reich (1923: per il tardo impero). Io ho tentato un'interpretazione della storia sociale-economica, soprattutto per il basso impero, in Aspetti sociali del IV secolo (1951). Cfr. altra letteratura, in/ra, passim. - Per la numismatica, la vecchia Doctrina nummorum veterum dello ECKHEL; C0HEN, Description historique des monnaies /rappées sous l'emp. rom.2 I-VIlI (1880 sgg.); soprattutto il MATTI NGLY-SYDENHAM, The Roman Imperial Coinage, 1-111, IV, 1-3, v, 1-2, ix (1923 sgg.); l'opera Roman Coins from the Earliest Times to the Fall o/the Western Empire del MATTINGLY stesso; il VETTER (da Dio cleziano a Romolo); BERNHART, Handb. z. Miinzk. d. ròm. Kaiserz., i-ii (1926); PRIDIK, Rimskie monet'i (1908). Ancora indispensabile il Ròm. Miinzw. del MOMMSEN; cfr. anche
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Introduzione
WILLERS, Gesch. d. ròm. Kup/erpr. (1909; fino a Claudio); BAHRFELDT, Die rcim. Goldmiinzepr. (per Augusto) i (1923); SUTHERLAND, Coins in Roman Imperial Policy (1951) ecc. P, necessario seguire i cataloghi e le pubblicazioni edite dai raccoglitori, per es. dal nostro SANTAMARIA, ecc. Per le greche, fino al 270 d.C., la Historia Nummorum del HEAD e, sempre i cataloghi del British Museum; le Kleinas. Miinzen d. ròm. Kaiserzeit del BoscH; le Alexandr. Miinzen del VOGT; ecc. ' 11 Un aspetto rilevante della storia sociale del principato, il carattere dell'ordine equestre, in A. STEIN, Ròm. Ritterstand (1927). Opere imperniate intorno a un problema fondamentale, come per es. SHERWIN WHITE, The Roman Citizenship (1939), con la sua interpretazione più storicistica ed evolutiva del concetto di cittadinanza, possono considerarsi storie generali della romanizzazione. Esse saranno citate volta a volta (per es., per la storia militare in/ra, xxvi) nel corso di questo libro. Allo stesso modo, dei veri e propri aperus di storia imperiale sono le mirabili opere di CARCOPINO e di PA0LI sulla vita in Roma. Per le istituzioni e il diritto, oltre al già citato Homo, si ricordino i molti testi e manuali di storia del diritto romano o di diritto o istituzioni di diritto romano, per es. ARANGIO Rurz; BIONDI; BONFANTE; CHvosTov; CuQ; Di MARZO; GIRARD; GROSSO; GuARIN0; IGLESIAS; jòRs-KUNKEL-WENGER; KARLOWA; KASER; LoNGo; M0NIER; PERETERSKIJ; PEROZZI; P0KR0vSKIJ; SIBER; SOHM-MITTEIS-WENGER; Voci; WEISS; il Dir. di fam. del VOLTERRA; il Textbook of WILLEMS; Roman Law from Augustus to Diocletian (19502) del TAUBEN18 Il catalogo generale di Coins of the Roman Emp. in the Br. Mus. è opera di MATTINGLY (i-v, 1922-1950). - BOSCH, Tiirkiyenin antik dev. meski2katina dair bibliyogra/ya (1949). - De-
gl stati vassalli è particolarmente importante, dal punto di vistai numismatico, il bosporano: cfr. ora ZOGRAF, Anticn'ie monet'i (1951), e per esempio KAR'ISHKovSKIJ, « Vestnik drevnej istorii », 1953, n. 1 (rec. a ZOGRAF); n. 3, p. 179 (con attribuzione a Kotys i della serie con figurazione del Capitolium); e già i lavori di ORESHNIKOV (per es. in « Izv. Ross. Ak. ist. mat. kult. », 1921), di BERT'E DELAGARD (per es. in « Num. sb.», 1911) ecc.; cfr. anche in/ra, vi. - Per l'iconografia imperiale, cfr. la sempre importante Réimische Ikonographie, u, del BERNOULLI; i vari lavori di DELBRÙK, di L'OltANGE, di WEGNER, di GROSS ecc.
Opere generali sulla storia dell'impero
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SCHLAG; ecc.; importanti (specie per il loro richiamo ad una nuova meno astratta concezione del diritto, per la trattazione dell'auctoritas, ecc.) i Principi dello SCHULZ (trad. it. 1949). Da tener presenti, anche, le indagini sulla giurisprudenza romana, per es. la recente History dello SCHULZ (1946); e il problema, agitato da STROUX, dei rapporti fra giurisprudenza e retorica. - Raccolte di testi per es. nei FIRA(ntiqui) di BRUNS-GRADENWITZ, o nei FIRA(ntejustiniani) di RlccoBoNoBAVIERA-ARANGIO Ruiz. Un libro originale è Ernst MEYER,
Ròmischer Staat u. Staatsgedanke (1938). Cronologia: BICKERMANN, Chronologze (nella « Einleitung » [III, 5] di GERCKE-NORDEN) (1933); il vecchio GOYAU, Chronol. de l'emp. rom. (1898); il LIEBENAM, Fasti consulares imperii Romani v. 30 v. Chr. bis 565 n. Chr. (1909); e ora DEGRASSI, I 'fasti consolari dell'impero romano (1952). Cfr. la voce Consules, del VAGLIERI, nel Diz. Epigr.; HARRER-SUSKIN, « Amer. Journ. Arch. », 1939, p. 278. - Uno strumento necessario all'indagine è, pei principato, la Prosopographia imperii Romani: del DESSAU in prima edizione, di GROAG-A. STEIN (fino alla G) in seconda edizione (gli altri scritti prosopografici speciali saranno citati volta a volta 19 ). Per il basso impero esistono solo tentativi geograficamente o cronologicamente limitati, come per es. quelli del SUNDWALL, di GR0AG e miei; un «surrogato » di PIR sono, per esso, i Regesten del SEECK 20 Per l'epigrafia rimandiamo alle introduzioni; classico il Cours del CAGNAT; un'eccellente appendice di orientamento bibliografico dà ora il DEGRASSI nella recente introduzione di CALABI, L'uso storiografico delle iscrizioni latine (1953); un breve quadro « des connaissances actuelles» è dato ora da R. BLOCH, L'épigraphie latine (1952). Lo studioso, che voglia intendere la storia imperiale, potrà rivolgersi, in primo luogo, alla raccolta del DESSAU, Inscriptiones Latinae Selectae (ILS) voli. 1-111 19 Di questi, il LAMBRECHTS e il BARBIERI hanno particolare rilievo (in/ra, xxvii). 20 Sono in preparazione due prosopografie (una civile, una ecclesiastica) per il basso impero. Le voci prosopografiche di basso impero della RE, le quali normalmente possono considerarsi un « surrogato » della PIR, sono ora affidate, per lo più, ad uno specialista, ENSSLIN.
Introduzione
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(1892-1916); ma s'intende ch'egli dovrà familiarizzarsi presto col CIL e con le raccolte speciali: Inscriptiones Italiae; CAGNAT-MERLIN-CHATELAIN (Tripol. Tun. Maroc.); MERLIN jun.); CHATELAIN (Maroc.); GSELL (Alg.); ESPÉRANDIEU (Gaule, Narb.); HOFFILLER-SARIA (Jugosi.); SESTIERI (Alb.); HAUG-SIXT (Wiirttemberg); THYLANDER (port d'Ostie); D'ORs, Epigrafia jur fdica de la Esp. Rom. (1953). Naturalmente l'epigrafia greca pertinente al periodo imperiale è necessaria né più né meno che l'epigrafia romana; anche qui, lo studioso potrà rivolgersi, in primo luogo, alle IGR del CAGNAT ed altresì alle OGIS, 1-II, e alla SIG 3 li-in (iv indd.) del DITTENBERGER; ma s'intende che egli dovrà familiarizzarsi col vecchio CIG e con le IG e con le raccolte speciali (per es. le pontiche greche e latine del LATISCHEV; le Inscr. Cret. della GUARDUCCI; i DAAI dell'OLIvERIo; per l'Asia Minore i MAMA, i TAM, le Inschr. u. Denkm. aus Bithynien del DÒRNER, gli scritti e le raccolte di epigrafisti come BURESCH, KEIL e VON PREMERSTEIN, RAMSAY, ROBERT, OLIVER, il vii di Sardis [BUCKLERROBINsON], le Forschungen in Ephesos, ecc.; per la Siria il JALABERT-MONTERDE, 1-111; per Olimpia il DITTEMBERGERPURGOLD), ecc.; si seguiranno i supplementi annuali e le riviste principali, per es. AÉ, SEG, « Epigr. » « Hellenica », RÉG ecc. Per l'epigrafia cristiana, innanzi tutto le Inscriptiones Latinae Christianae veteres di E. DIEHL; le Inscript.Christ. urbis Romae; il Recueil per l'Asia Minore del GRÉGOIRE; il Corpus d. griech. chrisilichen Inschr. v. Hellas i, 1 (ed. BEES, 1941); CREAGHAN-RAUBITSCHEK, Early Christian Epitaphs from Athens (1947). - Vanno tenuti presenti i testi semitici, egizii, sasanidi, ecc. - Per la letteratura sui papiri rinviamo alle introduzioni alla papirologia; per es. CALDERINI, COLLOMP, D'OR S, GRADENWITZ, PEREMAN S -VERGOTE,PREI S ENDANZ, SCHUBART. Rassegne papirologiche: per es. « Papyri u. Altertumsw. » (1934), ed. W. OTTO-L. WENGER; «Doxa», 1948, 97; 193 (ARANGI0 Rum); ecc. - Per la moderna storia della storiografia relativa all'impero romano, cfr. le storie della storiografia o dell'antiquaria; per es. di CROCE, di FUETER, di VON BELOw, di WEGNER, ecc.; per i rapporti di Kaisergeschichte e Kirchengeschichte, che già risalgono alla problematica della storiografia eusebiana o di tipo eusebiano, cfr. W. WEBER, Rtim. Kaiser,
Opere generali sulla storia dell'impero
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geschichte u. Kirchengeschichte (1929), in cui l'autore insisteva sulla necessità che il « Profanhistoriker » sia anche « Kirchenhistoriker », insomma che lo storico dell'impero sia anche (e soprattutto) storico del cristianesimo; M0MIGLIAN0, « Riv. stor. it. », 1936 3 il, 23. Per la problematica generale, ANTONI, Dallo storicismo alla sociologia (1940). Sul Gibbon, un'eccellente monografia del GIARRIzz0 (1953), e già MEINECKE nella « Festgabe Tònnies », 1936. Si tratta di un campo di studi sinora assai poco esplorato, basti dire che il nome del GODEFROY non figura normalmente nelle storie, della storiografia e della scienza antiquaria. Recenti scritti di storia della storiografia: Geist u. Gesch. di VON SRBIK, I-Il (1951); FORBES, The Liberal Anglican Idea of History (1952); BERNARDINI RIGHI, Il conc. di filol. e di cult. class. nel pens. mod. (19532 ) ; WEGNER, Altertumskunde (1951); ALPATOV, Politiceskie idei frants. burj. istoriogr. XIX b. (1949); PALAZZINI FINETTI, Storia della ric. delle interpol. (1953); cfr. anche GIARRIzzO, « Lo Spettatore italiano», 1952, p. 485; OESTREICH, « Hist. Ztschr. », 1953, p. 18. - Opere generali sulla cultura romana: ultimamente la « Guida allo studio della civiltà romana antica » diretta ora dall'ARNALDI (I, 1952); il Dopo Costantino (1927) dello stesso ARNALDI è un'eccellente introduzione al rapporto principato-basso impero, su cui qui insistiamo. - Rassegne di storia (epigr.) romana (o particolarmente imperiale) nelle principali riviste: per es. di PIGANIOL nella « Rev. hist. »; di WICKERT, di ENSSLIN, di MILTNER (german.) nella « Klio »; di ARANGIO Ruiz e di G. I. LUZZATTO nei « St. doc. hist. et juris »; di VITuccI nella « Doxa », 1948; ecc. Per le fonti sulla storia imperiale, oltre alle introduzioni alla storia antica (il. vecchio WACHSMUTH; e ora BENGTSON 2; - BRECCIA; MANNI), si consultino il fondamentale PETER, Die geschichtliche Literatur iiber die ròm. Kaiserzeit, I-Il (1897); la Einleitung ti. Quellenkunde del ROSENBERG (1921); la bella sintesi di NIESE-HOHL, Grundriss d. rdm. Gesch. nebst Quellenkunde (1923), pp.Z76-282; 380-385.
Parte prima SAECULUM AUGUSTUM
Capitolo primo
DOPO CESARE
4. Premesse.
In senso proprio, l'espressione saeculum Augustum non indica soltanto il periodo, più che cinquantennale, in cui Ottaviano prima emerse, in circostanze eccezionali e con poteri corrispondentemente eccezionali, nell'effettivo governo della repubblica, e poi - dal gennaio 27 a.C. sempre più chiaramente poté fondare in maniera ufficiale quell'o ptimus status di cui desiderava esser considerato l'auctor. Piuttosto, l'espressione saeculum Augustum fu da taluno proposta, subito dopo la morte di Augusto, per indicare tutta l'epoca che fu segnata dalla sua personalità 1 a cominciar dal suo giorno natale - 23 settembre 63 a.C. - fino al suo giorno di morte - 19 agosto 14 d.C. -; come a dire, in ultima analisi, l'epoca cesariana e quella propriamente augustea; e nella proposta di identificare Con la vita di un uomo tutta l'epoca per cui quella vita s'era protratta, si rispecchiò mirabilmente il significato che il mondo romano amava dare alla sua rivoluzione. Veramente, ai Romani di questo tempo la vita di Ottaviano fatto Augusto (questo titolo egli ebbe il 16 gennaio 27 a.C.) apparve come una realtà religiosa nella quale poteva dunque riassumersi il significato di un'epoca. In ciò si esprimeva la trepida gratitudine dei contemporanei al,
Suet., Aug. 100, 3.
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Parte I.
Saeculum Augustum
l'uomo che aveva superato le guerre civili facendosi aucto del novus status; Cesare, che a noi moderni si presenta come il rivoluzionario creatore di un nuovo mondo sociale e politico, appariva ad essi ancor legato all'epoca delle guerre civili e ai conflitti dei partiti. Appunto auctor novi status - secondo la sua stessa terminologia - si considerava Augusto, e di qui aveva particolare rilievo e significato la sua auctoritas; e con questa la fondazione dello stato su nuove basi, e la salvezza dalle guerre civili. Un motivo ellenistico orientale, il motivo del « salvatore » aòrrzp (o addirittura, alla maniera iranica, del saosjant), si configurava come romana aspirazione ad un novus status, come romana esaltazione dello auctor novi status; alla stanchezza degli uomini si offriva il ao.-c-p nelle apparenze del restauratore. La storia dell'opera di Ottaviano - dal 43 a.C. al 28 a.C., prima; dal 27 a.C. in cui è nominato Augustus, al 14 d.C., poi - va dunque intesa come la storia delle vie per cui Ottaviano fece sboccare la rivoluzione in uno status monarchico, dando ad esso un aspetto formale per eccellenza charismatico (Augustus): il fenomeno è tanto più notevole, se si pensa alla tradizionale ripugnanza dei Romani nel riconoscere, alla maniera elle nistica o persino all'antica (già arcaica) maniera ellenica, la possibilità anche lontana che un uomo - sia pur un eccezionale uomo politico o sinanco un mitico eroe - potesse essere cZo 2 Si compirono in questo periodo importantissime tappe nell'evoluzione della società romana: la rivoluzione si placò nella formazione di un'attiva borghesia, nerbo del principato; anche la vita privata del cittadino rientrò nella nuova concezione dello itato, sì che in certo modo si limitassero le forme quiritarie del diritto privato, 2 Si pensi che l'omerico eto, detto di uomini, può tradursi da Andronico solo con adprimus; inconcepibile sarebbe stata una traduzione, per es., con divus, o simili. Cfr. soprattutto la problematica proposta da C. KOCH negli scritti citati e discussi in/ra, v.
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Dopo Cesare
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e per esempio il matrimonio si intendesse, sin dagli ultimi anni dell'impero augusteo, in funzione statale oltre che familiare; si fondò stabilmente il modo di estrazione e di reclutamento della nuova classe dirigente; si ordinò su criterii definitivi il nuovo esercito romano; nonostante un notevole aumento di prezzi (e corrispondente diminuzione del tasso di interesse), si fondò su basi definitive il sistema monetario centrale dell'impero, accanto alle varie monetazioni autonome ad esso coordinate; si fissò l'ordinamento tributario. Fu tutta una costruzione politico-costituzionale, la quale ebbe vita per tre secoli,, i primi tre secoli dell'impero, e solo in epoca costantiniana, dopo le guerre civili del iii secolo d.C., ebbe una sua radicale trasformazione. L'uomo che compì questa sì grandiosa costruzione politico-costituzionale era il figlio (adottivo) di Cesare, si muoveva nel segno e nel solco di Cesare, ma con una fredda tenacia, che Cesare non aveva. Per una strana inversione, molti moderni sono indotti a vedere in Ottaviano il « ciceroniano », nel suo collega e avversario Antonio il rivo luzionario per vocazione; ma in verità il soldato Antonio è ancora uomo dell'epoca delle guerre civili - mentre il politico Ottaviano è, viceversa, l'astuto ed audace affossatore di quell'epoca. 5. « Élite », popolo, legioni.
L'uccisione di Cesare non risolveva i problemi dello stato romano e della rivoluzione. Al contrario, li riproponeva con maggiore gravità. Quella uccisione era un ideale da tragedia (tyrannoktonia) passato dalle scuole degli stoici e dei retori nella curia di Pompeo. Ma essa avrebbe avut significato e peso politico solo in rapporto all'effettiva o rispondenza della élite che aveva espresso i « tirannicidi » alle varie ed ormai consolidate componenti della lotta politica nello stato romano. Or quale era la consistenza etica, e la coerenza morale di quella élite? Accanto ai senatori
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Saeculum Augustum
di antica familiare tradizione, e che più direttamente erano responsabili della congiura contro Cesare, stavano nella Curia i nuovi senatori cesariani; ucciso il dittatore, restavano gli interessi che il dittatore aveva saputo costituire, così attorno al vecchio come attorno al nuovo ceppo della classe senatoriale; e di quei costituitì interessi, non era facile sminuire la solidità. Moltissimi esponenti di questa classe dirigente erano stranamente caratterizzati da una incertezza di ideali politici, che poteva anche diventare opportunismo; vale a dire, « obbedienza alle circostanze », necessitati parere, che certamente poteva ben formularsi con ogni varietà di formule stoiche od epicuree. Un autorevole studioso dell'epistolario di Cicerone (Carcopino) ha di recente riscontrato nel grande arpinate tutti i « difetti di un uomo di stato », soprattutto mancanza di ardenti convinzioni e di fermezza e coraggio; ma bisogna pur riconoscete che tali caratteristiche, se anche vogliano attri buirsi a Cicerone, tuttavia possono meglio definire, per una parte notevolissima, l'attitudine della classe dirigente in questo critico periodo dello stato romano. Proprio la formula, che necessitati parere sem per sapientis est habitum,
la quale si trova in una lettera ciceroniana del 46 a.C., può far da etichetta per la gran parte della classe dirigente romana; ed anzi Cicerone, per il suo stesso dottrinarismo, appare - come mostrerà il seguito della narrazione - un intellettuale idealista, capace di uscir fuori dai limiti di quella generica etichetta. Né poteva aver efficacia il richiamo ad un minore luxus, e ad una maggiore osservanza delle tradizioni aristocratiche romane, come, in questo critico anno 44 a.C., nel periodo di scoramento che seguì l'effettivo insuccesso della uccisione di Cesare, Cicerone lo delineava nel De o/ficus (un'opera che pu considerarsi il manuale destinato alla classe dirigente romana); nonostante il De o/ficus, nonostante l'apparato ideologico della libertas, la classe dirigente romana era sostanzialmente Ca-
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ratterizzata da quei due fondamentali motivi: luxus e necessitati parere (la stessa vita cittadina, che Cicerone, nel De o/ficus, voleva caratterizzata da un'urbanistica meno « estetica » e più produttiva, sempre più si orientava verso quel fasto e quel luxus e quella « estetica », in cui il greco Strabone vedrà poi il segno dell'urbanistica greca in contrapposto alla tradizionale romana). D'altra parte, la proletarizzazione di gran parte fra i cittadini romani, e la crisi economica che era un portato delle guerre civili, avevano finito per contrapporre in maniera sempre più evidente da una parte l'ordine senatorio e i più ricchi cavalieri - vale a dire quelle classi, dalla cui concordia ordinum Cicerone si attendeva una restaurazione sicura della repubblica e dall'altra la plebe romana, e italiana in genere; particolarmente la plebe urbana di Roma, la cui « pubblica opinione » aveva un notevole peso nella lotta politica (e nella quale i collegia avevano rappresentato il principale punto d'appoggio per Cesare), si muoveva, volta a volta, sotto l'impulso di sollecitazioni demagogiche, che avevano sì l'apparenza di ideologie più o meno precisate, ma in realtà si polarizzavano attorno a delle personalità più ricche o fortunate od illustri nell'ambito della classe dirigente. In queste condizioni l'esercito, del quale le guerre civili avevano rivelato la decisiva importanza, si configurava come una forza che poteva far pendere la bilancia del successo da quella parte verso cui la promessa di ricompense o il prestigio di un uomo più facilmente lo faceva rivolgere; si configurava, insomma, come la risultante di forze che attendevano sistemazione e compenso dai singoli capitani che l'assoldavano; sì che proprio da questa vicenda, nella quale il passaggio delle legioni dall'uno all'altro dei warlords (Syme) era un fenomeno tutt'altro che infrequente, si caratterizzava il conflitto delle varie fazioni, al di là delle formule ideologiche che l'una o l'altra tendeva a rappresentare. Le componenti sociologiche erano, tuttavia,
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chiare: la rivoluzione, un portato dei proletarii- soldati e della plebe romana; la conservazione illuminata e progressi va, della borghesia equestre e della piccola borghesia italiana (cfr. in/ra, App. i, n. 10); la conservazione repubblica na, della classe dirigente senatoria. Già la stessa sera del 15 marzo Antonio poteva constatare con gioia l'eccitazione delle classi rivoluzionarie - milites e plebs - contro i congiurati: ce lo fa sapere uno degli stessi congiurati, Decimo Bruto (Cic., Ad fam. xi, 1). 6. L'&ivirrx del 17 marzo e le ulteriori vicende del 44 a.C.
L'euforia dei congiurati dopo la morte di Cesare durò meno di un giorno: D. Bruto, alla mattina del 16 marzo, si prospettava la necessità, o la possibilità, di una fuga dall'Italia (cedendum ex Italia arbitror). Non già che i capi cesariani chiedessero subito la ultio del grande ucciso. Anzi, Antonio - console del 44 a.C. insieme con Cesare, ed ora rimasto unico console - mostrava di saper bene dominare i suoi nervi. A Dolabella, Cesare aveva assegnato il consolato per quel periodo del 44 a.C. che sarebbe seguito alla sua partenza per la spedizione partica; ora, Dolabella temeva che la designazione cesariana fosse annullata e perciò si sbracciava a dichiarare - egli sincero e convinto cesariano - la sua solidarietà coi congiurati. Un'applicazione conseguente del programma dei congiurati fu sostenuta da taluno, nella riunione del senato il 17 marzo: per esempio, fu sostenuta da un senatore di antico ceppo - di un ramo separato dei Claudii - Tiberio Claudio Nerone; ma era chiaro che uomini come Dolabella non avrebbero mai potuto avallare l'abolizione degli atti di Cesare, e che anzi tutto il senato doveva esser solidale nella conferma di quegli atti, in cui per esempio si trovava l'assegnazione della Gallia Citeriore al congiurato D. Bruto, per il 44 a.C. Senza dire che i veterani e la
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plebe, fedeli all'ucciso, ammonivano, col loro atteggiamento ostile, a non deliberar nulla di decisamente anticesariano. In queste condizioni, la seduta senatoriale del 17 marzo si concluse con una soluzione moderata. I due uomini più eminenti che la condussero, il console Antonio e il grande oratore Cicerone, potevano dirsi, alla sua fine, entrambi contenti; difensori rispettivamente dell'idea ce sariana e della congiura anticesariana, essi trovarono (e il suggerimento fu di Cicerone) soluzione ai contrasti nella formula, di origine greca, della &va'r: fossero validi gli atti di Cesare, anche quelli reperibili fra le carte di lui, che Antonio avrebbe cura di pubblicare; si vietasse ogni accusa, e si concedesse appunto « amnistia », per l'uccisione di Cesare. L'applicazione di questo concetto greco dell' &r1a'tx aveva grande importanza (per esempio essa sarà pur evidente più tardi, a distanza di poco meno che tre secoli, quando il senato, in piena costituzione del « principato », dovrà affrontare nel 238 - in nome di una restaurazione che potrebbe dirsi « quasi repubblicana » - le resistenze e i tumulti urbani di Roma: cfr. in/ra, § 62). Ma ancor maggiore importanza aveva, nella seduta del 17 marzo 44 a.C., il riconoscimento della validità degli atti cesariani: anche di quelli che Antonio avrebbe trovato fra le carte lasciate dallo spento dittatore. Il console Antonio aveva salvato la pace e 1'&via-tx si sanzionava privatamente nei banchetti che egli e Lepido offrirono a Cassio e Bruto. Il 18 marzo lo stesso Antonio aprì il testamento di Cesare. Fu un nuovo colpo contro i congiurati, ma anche in Antonio quel testamento poté destare apprensioni. Cesare lasciava un legato di 300 sesterzii a testa alla plebe urbana (150 000 gratificati? 300 000?) e questo era un elemento atto ad eccitare la memore ammirazione della plebe per il dittatore scomparso. Ma in quel testamento era anche il nome dell'uomo prediletto da Cesare: Gaio Ottavio, pro-
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nipote di Cesare per parte femminile, designato figlio adottivo di Cesare, e suo erede per tre quarti (dell'altro quarto erano eredi due cesariani, Pinario e Pedio). Or di fronte all'adozione di Gaio Ottavio, scompariva ogni altro vantaggio di Antonio, quale poteva derivargli dalla sua riconosciuta posizione di uomo eminente fra i cesariani e dal notorio suo avvicinamento a Cesare negli ultimi tempi (nel testamento, tanto Antonio quanto il congiurato Decimo Bruto figuravano come secondi eredi; anche questo, un tipico aspetto di quella contraddittoria situazione che recentemente è stata definita « una delle due fonti della tragedia di Cesare » 3) Il testamento, insomma, poneva nell'ombra il nuovo aspirante alla successione politica di Cesare, il console Antonio, mentre dava risalto al figlio adottivo, que sto Gaio Ottavio, giovinetto non ancora diciannovenne, di origine equestre, oriundo da Velletri. L'ultima decade del marzo 44 a.C. si svolse sotto il segno dell'esaltazione ple beia per il grande morto, Cesare parens patriae; non il discorso di Antonio pei funerali di Cesare (20 mar. 44 a.C.), ma quell'esaltazione religiosa fu all'origine delle sedizioni popolari, che nell'aprile trovarono il loro capo in un sedicente nipote di Mario (fu innalzata un'ara sul luogo in cui Cesare era stato cremato); sinché alla fine il console Antonio punì aspramente quel movimento mezzo anarchico. Ma le vere preoccupazioni di Antonio non erano da quella parte. L'esaltazione popolare per Cesare era ragione di spavento, naturalmente, a Bruto e Cassio, che difatti fuggirono da Roma, e a Cicerone, che si recò a villeggiare a Pozzuoli; ad Antonio, viceversa, era assai più grave e seria preoccupazione l'annunciato arrivo di quell'altro, che non era né un « antoniano », né un amico dei congiurati, ma solo' e soprattutto il figlio adottivo di Cesare: Gaio Ottavio, l'uomo che Cesare avrebbe voluto suo magister equitum nella spedizione partica. ALFÒLDI,
Studien iiber Caesars Monarchie (1953);
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Cesare non aveva scelto male. Il giovinetto Ottavio era, a 18 anni, un politico consumato. Alla notizia del cesaricidio, avrebbe potuto tentare la ultio del padre adottivo, alla testa dell'esercito macedone. Ma le decisioni affrettate non erano nel suo stile. Nato nel 63 a.C., nell'anno della congiura di Catilina, quel giovinetto apparteneva ad una generazione che talun moderno, quasi e contrario, potrebbe chiamare la « generazione. felice », quella in cui si imparavano in un anno le cose che altre generazioni possono apprendere in dieci. Queste generazioni di precocis simi possono dar sorprese che sarebbero inconcepibili in tempi normali; sorprese tanto più facili a realizzare, quando l'interessato è addirittura il figlio di Giulio Cesare dittatore; né, in questi casi, l'ambizione sfrenata di un Antonio può fermare l'attesa impaziente ma prudente di un Ottavio. Antonio pensò allora che era necessario far denari, guadagnarsi soldati; di tra le carte di Cesare trovò (o, piuttosto, finse di trovare) decisioni che gli permisero di distribuire favori, ricevendone alti compensi; e col denaro procedette ad arruolamenti di veterani di Cesare. D'altra parte, non aveva alcuna intenzione di dar a Gaio Ottavio quei tre quarti dell'immensa eredità cesariana. Sperava, con certo suo abile « giuocare » (Cicerone lo chiamava appunto aleator), di tener buoni i conservatori, di addormire gli amici dei congiurati fuggiaschi, sì da garantirsi, con le truppe dei vecchi soldati cesariani, il controllo della situazione; incitato a ciò, del resto, dalla moglie Fulvia (già sposa dei due più eminenti fra i demagoghi: Clodio e Curione), e dal fratello Lucio Antonio, il quale si metteva in vista con una ennesima legge agraria. Ma le difficoltà di Antonio erano proprio in questa complessità della situazione; per cui da una parte bisognava tener a bada i conservatori, dall'altra metter nell'ombra quell'importuno intruso gipvinetto, Gaio Ottavio; tanto più che dietro questo ultimo stava Gaio Marcello (il quale ne
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Parte I.
Saeculum Augustum
aveva sposato la sorella). La forza dei conservatori era nell'esercito di Decimo Bruto, che teneva la Cisalpina, « acropoli » del senato (Appiano); il cervello del loro « partito » era in Cicerone, cui l'aleator Antonio appariva sempre più infido e pericoloso; quando i comizii tributi votarono (1 o 2 giu. 44 a.C.) una lex de permutatione provinciarum, per
mezzo della quale Antonio riceveva, per il 43-39, le Gallie Cisalpina e Comata (in luogo della Macedonia che gli sarebbe spettata), il piano ch'egli si proponeva fu evidente: la lex tribunicia de permutatione provinciarum era un'imitazione della lex Vatinia del 59 a.C. per Cesare. Tuttavia, Antonio voleva salvare la pace: verso l'agosto (o fine luglio) Creta e Cirenaica furono assegnate, come province pretorie per l'anno 43 a.C., a Bruto e Cassio. Ma questi risibili compromessi non facevano che inasprire il dissidio. Due legioni di Macedonia, che Marco Antonio aveva richiamato nell'Italia, si ribellarono a lui e passarono sotto le insegne di Gaio Ottavio; il nuovo arrivato, il figlio di Cesare, preparava, privato consilio et privata impensa, il suo esercito; l'i novembre 44 a.C. fece intendere che quel l'esercito poteva mettersi a disposizione dei conservatori. Mentre Cicerone pronunciava contro Antonio la terza e la quarta Filippica (20 dic.), Antonio era già partito da Roma (notte 28/29 nov.) per strappare la Cisalpina a Decimo Bruto. Cicerone otteneva che il senato dichiarasse nulla la lex de permutatione provinciarum (de provinciis): una
deliberazione senatoria si opponeva ad una deliberazione popolare. Decimo Bruto dichiarava che egli terrebbe la Cisalpina in senatus populique Romani potestate. I conservatori cercavano di tirar dalla loro parte il figlio di Cn. Pompeo: S. Pompeo, praefectus classis et orae maritimae.
.'
Cap. I. 7.
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Dalla guerra di Modena al trattato di Bologna.
La guerra di Modena fu il capolavoro politico di Cicerone: e fu anche la fallita prova di un'ideologia di libertas repubblicana affidata al figlio ed erede del dittatore. Decimo Bruto era assediato a Modena da Antonio, che cer cava invano di ribellare le legioni contro di lui; ma ad Antonio si opponevano le forze legali dello stato, rappresentare dai due consoli del 43 a.C., Irzio e Pansa, e da Ottaviano con imperio propretorio. Le battaglie di Forum Gallorum e poi di Mutina (21 apr. 43 a.C.) liberarono Decimo Bruto dall'assedio. Antonio si ritirò: era questa, per Cicerone, « la vittoria del populus Romanus ». Ma nei combattimenti Irzio era morto, Pansa mortalmente ferito; Decimo Bruto, liberato dall'assedio, non era riuscito ad attaccare Antonio, che aveva condotto mirabilmente, a marce forzate, la sua ritirata. Ben a ragione Cicerone si dichiarò insoddisfatto della condotta della guerra; le forze della libertas avevano saputo vincere, ma non sapevano sfruttare la vittoria. Ad un tratto si verificò il fatto nuovo, anzi una complicazione di fatti nuovi: Ottaviano chiedeva il consolato, e si guastava coi conservatori, naturalmente riluttanti a « bruciare » la legalità in un modo così inatteso; intanto Lepido, il vecchio cesariano, che aveva imp. proc. per la Gallia Narbonese e per la Spagna Citeriore, dopo una lunga alternativa si era riconciliato con Antonio, giustificandosi col dire (ed era, in sostanza, vero) che le sue truppe non avevano voglia né animo di urtarsi con le forze di Antonio. Con un colpo di stato, Ottaviano si fece nominare (in. 19 ag. 43 a.C.) console, e suo collega nel consolato fu l'altro erede di Cesare, Quinto Pedio; da Quinto Pedio fu proposta una legge con cui si condannavano alla interdictio aqua et igni i cesaricidi; 1' &iva'dx del 17 marzo 44 a.C. era cancellata con un colpo di spugna. Automaticamente, tutta la costruzione politica di Cicerone caeva; e all'ultimo tenace difensore della libertas antica d
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non restava che constatare (come poco prima aveva scritto a Marco Bruto, dopo averlo invano esortato a intervenire con le sue truppe in Italia) quanto fosse stato repentino il voltafaccia di quell'Ottaviano « per il quale, mentre era giovinetto e pressoché fanciullo, la repubblica aveva accolto la garanzia » di lui stesso, Cicerone. Tuttavia, il) quella lettera a Marco Bruto, ancora Cicerone mostrava di sperare: diceva che, in ultima analisi, la sua fiducia nel diciannovenne figlio di Cesare non era stata gran temerità: in fondo, nel garantire per la lealtà di Ottavio alla res publica, egli, Cicerone, aveva obbligato « più lui, per il quale diedi garanzia, anziché m stesso ». Ancor una volta, non voleva confessare, quest'uomo d studio e di antica devozione agli ideali, che quell'errore aveva potuto esser fatale. Vero è che l'essersi appoggiati al figlio di Cesare, per combattere contro i cesariani, era un po' nella natura delle cose, ma era anche un segno della irrimediabilità" della crisi, della difficoltà di offrire uno stabile e sicuro praesidium alla crisi dello stato (labenti et inclinatae paene rei publicae); e Cicerone lo sperimentò presto, ché nell'agosto seguì la riconciliazione fra Antonio e Gaio Ottavio, di lì a due mesi la stipulazione, vicino a Bologna, di un trattato fra Antonio, Lepido ed Ottavio. Il trattato privato ebbe sanzione costituzionale subito dopo, mediante un plebiscito (lex Titia de III viris rei publicae constituen dae consulari potestate creandis); i tre ricevevano poteri triumvirali per un quinquennio, sicché la lex Titia (27 nov. 43 a.C.) scadeva al 31 dicembre 38 a.C. Si ebbe così il « secondo triumvirato »: furono divise le province (ad Antonio la Gallia Comata e la Cisalpina;a Lepido, la Narbonese e le due Spagne; a Ottavio, l'Africa, la Numidia, le isole); il consolato deposto da Ottavio per il triumvirato era assunto dall'« antoniano » fervente Ventidio Basso; confermato il consolato dell'autore della lex Pedia contro 1'v-, Q. Pedio. Ed ora, ultimo co
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Dopo Cesare
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ronamento della lex Pedia e del trattato di Bologna, seguirono le proscrizioni: la classe dirigente dello stato falciata, con la condanna di forse 300 senatori e 2000 cavalieri dei ricchissimi; con le confische dei loro beni, i triumviri avevano nuovo denaro per la guerra che si annunciava da combattere, l'ultima e decisiva, contro i cesaricidi nei Balcani. La vittima più illustre di quelle proscrizioni fu Cicerone, il quale così pagava « quella divina, ma per lui rovinosa, seconda Filippica » (Giovenale), ed insomma scontava con la morte tutta la sua aspra e appassionata lotta in difesa della res publica e della libertas. Egli può essere considerato vittima della sua illusione, che il figlio di Cesare fosse una creatura dei suoi consilia: illusione tragica - e sia pur generosa e nobile. Mai come in questo caso un giudizio sull'uomo appare possibile, solo se lo si inquadri in tutta l'età sua. Taluni giudizi negativi su Cicerone, come quelli pronunziati dal Mommsen, od anche - come già si accennava - dal Carcopino, possono valere soltanto se riferiti alla generale impossibilità di difendere in questo periodo e in queste condizioni, la vecchia classe dirigente romana, ormai troppo diversa dall'antica nelle diverse condizioni dello stato; e quanto al resto, alla personalità di Cicerone non può contestarsi volontà decisa di difendere una veneranda tradizione. Le sue con« , traddizioni vanno spiegate e intese in questo senso: prima fra tutte .e fondamentale, quella per cui egli, che pur nel De o/ficus richiamava alla tradizione romana per la quale l'uomo di stato è innanzi tutto guerriero prima che politico, tuttavia nell'intimità (e specialmente ora nella vecchiaia) si dichiarava pronto a difendere la repubblica col suo pensiero, più che col suo braccio: egli creava così quell'immagine dell'uomo di studi che diventa uomo politico (e non viceversa) la quale - in taluni casi con un maggior equilibrio di pensiero e di azione - sarà proseguita, nell'impero, da uomini politici di prim'ordine, come
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per esempio l'imperatore Claudio. L'il maggio 44 a.C., egli aveva scritto all'amico Attico la frase (che comunemente gli si rimprovera) « è preferibile ogni cosa piuttosto che i castra »; e tuttavia ora, compiutasi la guerra mutinense da lui soprattutto voluta, e compiutasi - nonostante la vitj toria di Modena - con suo danno, veramente seppe morire; e preso dal « tedio della fuga e della vita », il 7 di. cembre del 43 a.C. si lasciò uccidere dagli uomini di Antonio.
Capitolo secondo DALLA «POTESTAS» TRIUMVIRALE ALLA «POTESTAS» ECCEZIONALE DI OTTAVIANO
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Bellum Philippense e Bellum Perusinum.
Il 43 a.C. si chiudeva, il 42 a.C. si apriva tra il terrore e il sangue. Nei Balcani e in Oriente i cesaricidi avevano conseguito grandi successi. Già verso la fine del 44 a.C. Bruto si era impadronito della Macedonia, Cassio della Siria: entrambi con assoluto disprezzo di ogni forma legale (eo iure - diceva Cicerone - ut omnia quae rei pubiicae sai utaria essent legitima et iusta haberentur). Nel febbraio 43 a.C. Bruto aveva ricevuto dal senato l'in. carico ufficiale di difendere Illirico, Macedonia, Grecia. A fine aprile 43 a.C. Cassio era stato nominato ufficialmente governatore di Siria, con un imperio eccezionale, da cui dovevano dipendere gli altri governatori asiatici. Così il dominio dei cesaricidi ifi Oriente era stato legalizzato, ai tempi della guerra di Modena; e già nel marzo 43 a.C. Bruto aveva fatto prigioniero il propretore di Macedonia G. Antonio. Verso il luglio 42 a.C. Cassio si sbarazzava del proconsole' di Siria Dolabella. La guerra mortale fra i Che Dolabella dovesse governare la Siria come proconsole, si sapeva già ai primi tempi del suo consolato, nell'aprile 44 a.C. La provincia, dunque, gli era stata assegnata da Cesare: ordinando, in vista della spedizione partica, le magistrature in pluris annos (anche i consoli del 42 a.C.), Cesare avrà pur ordinato le promagi strature più importanti ai fini di quella spedizione - e nessuna era così rilevante come il proconsolato di Siria (diversamente STERN-
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cesariani e cesaricidi fu decisa a Filippi, nella Macedonia orientale. Qui nell'ottobre 42 a.C. Antoniò e Ottaviano si scontrarono con Cassio e Bruto. In una prima battaglia Ottaviano fu sconfitto da Bruto e per poco non fu fatto prigioniero, ma Cassio, sconfitto da Antonio, si uccise; nella seconda battaglia, anche Bruto ebbe la peggio, e si uccise. Antonio era il vero vincitore di Filippi. Ma egli non seppe, o non volle, esautorare il suo compagno d'armi (ciò che viceversa Ottaviano, il rivoluzionario senza scrupoli, farà con Lepido nel settembre 36 a.C.). Ottaviano restava per Antonio, in quel momento di suprema gioia per la ultio del grande capo ucciso, il figlio del dio Cesare. Tuttavia, Antonio conservava una posizione preminente. In Occidente, egli ebbe le Gallie e la parte orientale dell'Africa; Ottaviano, le Spagne, la parte occidentale dell'Africa, le isole di Sicilia (già occupata da Sesto Pompeo sin dall'autunno 43 a.C.) Sardegna, Corsica (che Sesto avrebbe occupate in seguito); nella divisione delle province, Lepido era messo da parte, sotto l'accusa di aver sostenuto Sesto Pompeo. In Oriente, Antonio era signore assoluto, in quanto questa parte dell'impero si considerava non pacata. Una diffusa opinione - il « cliché » a noi tramandato di Antonio - fa di lui un ellenistico amatore dell'Oriente, e così spiega la sistemazione delle province dopo Filippi; come tutti i « clichés », anche questo contiene, almeno in parte, un errore. Antonio sapeva bene che l'anima dell'impero era l'Italia, tanto vero che il 29 novembre 44 a.C. aveva preso l'iniziativa della guerra modenese, per il dominio della Gallia Cisalpina, « acropoli » dell'Italia. Antonio era soprattutto un imitatore di Cesare: egli sognava la grande guerra partica, che il cesaricidio KOPF, « Hermes », 1912, p. 355). Cassio, attaccando Dolabella, implicitamente rifiutava le conclusioni della seduta senatoria del 17 mar. 44 a.C., la quale considerava validi gli atti di Cesare.
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aveva stroncato sul nascere, e credeva che la sua posizione eminente sarebbe stata garantita dal suo compito di pacator orbis (per ciò l'Oriente era considerato « non pacato »), compito che il poeta Virgilio - seguace dell'antoniano Asinio Pollione - gli ha ancora assegnato (cfr. in/ra, App. i, n. 10) nella iv ecloga, scritta nel 40 a..C. Del resto, egli aveva in Italia, appunto, il suo fido amico Asinio Pollione, il quale controllava la Cisalpina, ormai considerata parte d'Italia e non più provincia; ed aveva in Italia i suoi veterani. La distribuzione delle terre d'Italia ai veterani, che non si limitò soltanto a deduzioni coloniarie, era un compito difficile e ingrato, affidato a Ottaviano. Questi veterani - 170 000 uomini, poi circa 210 000 - divenuti così dei bravi contadini accasati, sono una piccola percentuale dei civium kapita di tutto l'impero (cittadini romani maschi adulti), i quali, se nel 69 a.C. assommavano ancora a 910 000 kapita (ma forse con l'inclusione di pupilli pupillae et viduae?), viceversa in questo periodo erano aumentati di molto, in seguito alla estensione della civitas e alla creazione di colonie e municipii ad opera di Cesare: sicché nel 14 d.C. i civium kapita dell'impero (maschi adulti; esclusi pupilli pupillae et viduae) sembrano assommare a 4 100 900 2; e nel periodo della guerra filippense avran 2 È il numero dato dai Fasti Ostienses (1.1. xiii, 1, cur. DEGRASSI, p. 185). Generalmente (quando non si pensa, il che sareb-
be assurdo, ad un errore dei FO), si suole interpretare questo numero come quello dei soli cives Romani residenti in Italia; in questo caso, i 4 937 000 di Res gestae, 8 sarebbero i cives Romani di tutto l'impero (cfr. FUHRMANN, « Arch. Anz. », 1941, pp. 473-474). Il mio calcolo deriva da una diversa interpretazione della divergenza tra FO e RG. In realtà, noi non abbiamo alcun elemento il quale ci autorizzi a ritenere che nei censimenti augustei si facesse distinzione tra civium kapita d'Italia e civium kapita residenti nelle province: per antica tradizione, i civium kapita erano censiti unitariamente, nei tempi più antichi facendo confluire tutti i civium kapita a Roma (Vell., n, 7), e in seguito - definitivamente ad opera di Cesare (cfr. K0RNEMANN, trad. it. in « Bibl. Stor.
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no potuto assommare, diciamo, a ± 3 000 000/3 200 000 kapita, vale a dire (sempre considerando l'approssimativita di questi calcoli) a circa 18-15 volte i veterani accasati in Italia. E tuttavia: quei 170 000/210 000 veterani cui la pertica dell'agrimensore dava in Italia un compenso per la vendetta del divo Cesare, erano, in mezzo ai ± 3 000 000/3 200 000 di civium kapita dell'impero (± 2 000 000 in Italia?), il presidio italiano della rivoluzione vittoriosa. I lamenti della borghesia espropriata dei Virgilii, dei Properzii, dei Tibulli - erano talora conditi di riverenza per il giovine Cesare, il quale - mediocre soldato, ma spietato politico - aveva fatto mozzare la testa al cadavere di Bruto, e mandarla a Roma, ammoniEcon. », Iv, pp. 506-507) - surrogando i magistrati locali al censore urbano. Io non riesco a vedere come la formula dei Fasti Ostienses, secondo cui nel 14 d.C. c(ensa) s(unt) c(ivium) R(omanorum) k(apitum) (quadragies semel centum milia) DCCCC possa non comprendere, putacaso, i romani patres familias di Urso • Turris Libisonis o Taormina o Siracusa o Arelate o Forum lulii • Salona o Filippi ecc.: un calcolo che escluda questi patres familias non sarebbe affatto un calcolo di civium Romanorum kapita, non avrebbe insomma alcun senso giuridico. Per spiegare la differenza tra il numero dato in FO e il numero dato in RG, è dunque necessario rifarsi al concetto romano di censimento. Cosa è, dal punto di vista giuridico, un census romano? É il census di tutti i patres familias (soggetti a servizio militare) con i loro figli maschi adulti (&v f3-tt) ugualmente soggetti a servizio militare (infatti, un pater familias che ha un figlio maschio adulto è duicensus); quando il pater familias è morto, i pupilli pupillae viduae vengono censiti a parte (ai fini della tassazione: ultimam. GABBA, « Ath. », 1949, p. 187) in un elenco di orbi et orbae (ossia pupilli pupillae et viduae). Le nostre fonti in alcuni casi preferiscono dare il numero inclusivo dei p.p. et v., in altri danno il numero esclusivo. Livio, in due casi, ha precisato che egli dà la somma senza contare orbi et orbae (pupilli pupillae et viduae): praeter orbos orbasque (iii, 3,9 per il 465 a.C.), praeter pupilios pupillas et viduas (epit. 59, per il 131 - 130 a.C.). Evidentemente, in altri casi i censi a noi pervenuti attraverso Livio danno somme delle quali non sappiamo se comprendano o no i pupilli pupillae et viduae. Se si pensa al tradizionalismo giuridico dei Romani (cioè al senso della storia romana), si intenderà bene che l'uso di censire a parte i pupili pupillae et viduae dovette anche conservarsi nei censimenti di Augu-
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mento a quelle borghesie cittadine che dopo le idi di Marzo non avevano esitato (per esempio a Pozzuoli o a Teano Si dicino) ad esaltare il cesaricidio. Ma la iniziale ferocia di Ottaviano si ammorbidì poco a poco. Con un provvedimento di tipo cesariano, che avrebbe suscitato le proteste dell'ucciso Cicerone , il nuovo Cesare ordinò ai proprieta rii di condonare i fitti delle case fino a 500 sesterzii in Italia, 2000 a Roma (che era praticamente lo stesso, essendo i fitti in Roma di gran lunga più cari che in Italia): così proletariato italiano, e borghesia proletarizzata dalle espropriazioni, avrebbero potuto salvare qualcosa dei loro risparmi falciati. Egli sapeva unire la « ferocia » dell'uomo di azione all'accorgimento dell'« evergete ». sto: da una parte si censivano i civium kapita teoricamente soggetti a servizio legionario (in/ra, xxvi), dall'altra i pupilli pupillae et viduae. Per questa ragione, io vedo nei 4 100 900 dei FO i patres familias cittadini romani di tutto l'impero con i loro figli maschi adulti (tutti teoricamente soggetti alla leva legionaria); nei 4 937 000 delle RG i suddetti patres familias e filii maschi adulti più la somma dei pupilli pupillae et viduae, sempre di tutto l'impero. In altri termini, i pupilli pupillae et viduae assommavano, nel 14 d.C., a 836 100 kapita. Quanti erano, allora, tutti i cittadini romani dell'impero alla morte di Augusto? Molti di più di quello che pensava il BELOCH, preoccupato com'era di tagliuzzare e ridurre a tutti i costi la popolazione del mondo antico. Infatti ai 4 937 000 delle RG noi dobbiamo aggiungere le mogli ed i filii minorenni dei paires /amilias e dei fui adulti accasati: sicché, in tutto l'impero, si arriverà - so bene, con grande scandalo dei belochiani e dei «ribasisti » in genere - a una somma di cittadini romani (di tutte le età e di tutti i sessi) non lontana dai dieci milioni. - Se queste considerazioni sono nel vero, ne dedurremo che i numeri di c. k. dati da Augusto nelle RG comprendono sempre i pupilli pupillae et viduae; infatti Augusto, nel riferire le somme di c. k. per il 28 a.C. (4 063 000 kapita) e per l'8 a.C. (4 203 000), non può aver seguito un criterio diverso da quello ch'egli preferì per il 14 d.C.: vale a dire preferì sempre indicare (diversamente dai FO) i civium kapzta compresi i pupilli pupillae et viduae anziché i civium kapita praeter p.p. et v. Viceversa, non possiamo decidere con certezza se i 5 984 072 dati da Tac. (Ann., xi, 25) per il lustrum di Claudio siano calcolati con l'inclusione di p.p. et v.: è preferibile pensare che Tacito abbia dato il numero inclusivo. Si ricordi il famoso habitent gratis in alieno.
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L'accorto politico non si arrischiava ad attaccare (come sarebbe stato suo compito) Sesto Pompeo: questo signore del mare, un Demetrio Poliorcete delle guerre civili, gli aveva fatto conoscere la potenza della sua flotta, in una battaglia a Scilleo, già prima di Filippi. Ottaviano pensava piuttosto a consolidare la sua posizione in Italia. Si riconciliò con Lepido. Il prestigio di M. Antonio se ne andava? Il fratello del vincitore di Filippi, L. Antonio, era console nel 41 a.C.; ottenne che le deduzioni di legionarii antoniani fossero affidate ad antoniani; tentò un accordo fra la borghesia degli espropriati italiani e gli antoniani di stretta osservanza. Fulvia, la moglie di M. Antonio, fu l'anima di questo accordo. Contro Ottaviano, uomo della rivoluzione, il console L. Antonio proponeva il ritorno alla normalità, la fine della potestà triumvirale. Umbria e Campania e Roma erano con lui. Ma M. Antonio assunse un atteggiamento incerto. La guerra tra Lucio e Ottaviano (detta di Perugia », città che si schierò con Lucio) fu vinta da Ottaviano nel marzo del 40 a.C.: Lucio, chiuso in Perugia, non resistette all'assedio; la città fu saccheggiata; spietata la vendetta di Ottaviano, anche se Lucio Antonio fu risparmiato. 9. La lotta tra il figlio di Cesare e il figlio di Pompeo.
Fulvia fuggì in Grecia, per attendere il marito ad Atene. Ma molti dei capi che avevan condotto la sollevazione contro Ottaviano, o che comunque eran coinvolti nella responsabilità del bellum Perusinum, si recarono da Sesto Pompeo. Era il conseguente svolgimento di una situa2ione solo in apparenza paradossale: gli « antoniani » più accesi, come or ora avevano tentato di sollevare la borghesia conservatrice italiana pur di fermare l'ascesa di Ottaviano, così da ultimo passavano a quel capitano che, pel nome glorioso del padre, sembrava (e sia pur a torto) l'erede della tradizione conservatrice pompeiana. Così,
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presso Sesto Pompeo si rifugiò la madre di Antonio, si rifugiò Tiberio Claudio Nerone. Tutto, ora, dipendeva dall'atteggiamento di M. Antonio. Dopo Filippi, egli si era dedicato alla sistemazione dell'Oriente: e la sua città preferita era Tarso (già* amica a Dolabella, e perciò punita da Cassio; perciò anche, ora, particolarmente cara ad Antonio): al fedele cesariano la città di Dolabella aveva espresso il suo giubilo per la vittoria di Filippi attraverso un epos del suo più distinto cittadino, Boethos (secondo taluni, la cittadinanza romana dell'apostolo Paolo deriverebbe dalle donazioni di cittadinanza fatte da Antonio a cittadini tarsii: ma cfr. le nostre osservazioni in/ra, § 20). Era possibile un'alleanza del cesariano Antonio con il figlio di Pompeo, contro il figlio di Cesare? Ottaviano corse ai ripari: sposò Scribonia, sorella del suocero di Sesto Pompeo (l'anno precedente, 41 a.C., in seguito al conflitto con Fulvia, aveva ripudiato la circa tredicenne Claudia, figlia di Clodio e Fulvia). Delle guerre civili si era stanchi; e i soldati del figlio di Cesare non amavano combattere contro i soldati dell'amico di Cesare. Ma soprattutto: Antonio, pacator orbis, aveva perduto terreno in Italia (nell'autunno 41 a.C., a Tarso, si era incontrato con Cleopatra, ed allora Boethos aveva offerto il suo epos per la vittoria di Filippi; la hierogamia in Tarso fra i due amanti divinizzati - v&o z6vuao l'uno, Aphrodite l'altra - aveva reso possibile, nell'inverno 41/40 e nel compiacente ambiente di Alessandria, un nuovo « stile » ellenistico della vita di Anto nio). Proprio per questo, l'antico luogotenente di Cesare si alleò con S. Pompeo e con il cesaricida Domizio. Ma a Brindisi non gli riuscì di sbarcare, n il blocco della città gli valse un successo migliore. Come era già accaduto a suo fratello nel bellum Perusinum, la lotta contro Otta viano gli era possibile solo mediante l'accordo con i conservatori; un tale accordo bastava a fargli perdere le sim-
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patie degli unici soldati su cui avrebbe potuto contare, vale a dire dei cesariani più intransigenti; è naturale. che questi, tra il figlio di Cesare e il cesariano alleato dei conservatori, finissero con l'optare (sia pure con esitazioni o deviazioni) per il figlio di Cesare. Tra Ottaviano e Antonio si interposero Cocceio Nerva, Mecenate, Asinio Poilione. Ne venne, in quello stesso 40 a.C. (ottobre), il trattato di Brindisi, in cui si definì la sfera di controllo dei due triumviri, chiarendosi che l'Oriente (Macedonia, Grecia, Bitinia, Asia, Siria, Creta e Cirene) toccava ad Antonio, l'Occidente (comprese, naturalmente, le province, prima antoniane, di Gallia Narbonese e della Comata) ad Ottaviano; l'Africa a Lepido. Era Antonio il più ricco, era Ottaviano il più forte; anche se - a bilanciare la forza dei due - si stabiliva che l'uno e l'altro indifferentemente potessero far leve in Italia. Intanto Fulvia era morta, e la prudente Ottavia, sorella di Ottaviano, sposava Antonio; il caso e la politica familiare sembravano concordare con questa pacificazione tra i due rivali. Il poeta Virgilio, con la sua famosa quarta ecloga, avea creduto di indicare in questo anno 40 a.C., in cui era console Asinio Pollione l'anno della palingenesi e rigenerazione del mondo ormai governato da Apollo (iam regnat Apollo); e con aderenza alle mistiche tendenze dei tempo suo, avea indicato il regno della palingenesi nella nascita di un puer nato da un pacator orbis (cioè da Antonio e Cleopatra: cfr. in/ra, App. i, n. 10). L'anno seguente, 39 a.C., col trattato di Miseno, si riconobbe dai triumviri la posizione di Sesto Pompeo, e il controllo di questi sulle isole: la pace pareva generale e sicura. Era, viceversa, un equilibrio instabile. Impossibile un sincero accordo tra il figlio di Cesare e il figlio di Pompeo. Il 19 gennaio 38 a.C. Ottaviano passò a nuove nozze, abbandonando Scribonia, che pur gli aveva dato una figlia (Giulia), e che, per essere sorella del suocero di Sesto I!
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Pompeo, era un po' l'immagine della tentata pacificazione fra i due ereditari nemici. In compenso, il nuovo matrimonio di Ottaviano sembrò avvicinarlo più direttamente ai conservatori, ché la sua nuova moglie era Livia Drusilla, figlia di un antico avversario dei cesariani, e già sposa di quel Tiberio Claudio Nerone, il quale si era rifugiato presso Sesto Pompeo dopo la guerra di Perugia; l'assenso di Tiberio Claudio Nerone al divorzio e alle immediate nozze di Livia con Ottaviano era suggello dell'avvicinamento tra Ottaviano e il senato (precedentemente Livia aveva avuto da Tiberio Claudio Nerone due figli: Tiberio - il futuro imperatore - e Druso, il quale, secondo una dif fusa - e certo infondata - diceria, sarebbe nato quando già Livia era in casa di Ottaviano). Così l'ostilità con Sesto Pompeo continuò a caratterizzare la storia di questo anno 38 a.C.: finché si ridusse ad una lotta all'ultimo sangue per il controllo della Sici lia, la quale era saldamente tenuta da Sesto, mentre Corsica, Sardegna e tre legioni erano state consegnate ad Ottaviano dall'ammiraglio di Sesto. La lotta per la Sicilia ebbe varia vicenda: e Ottaviano poté sostenersi soltanto perché, attraverso l'intromissione della sorella Ottavia, riuscì a confermare, nel 37 a.C., l'accordo con Antonio, il quale gli lasciava ben centoventi navi al comando di Statilio Tauro (trattato di Taranto); i due cognati rinnovavano il triumvirato per un altro quinquennio (37 a.C.33 a.C.). Ora, con la flotta fornita da Antonio (con base a Taranto), e con quella sua, sapientemente organizzata da M. Vipsanio Agrippa (con base al Portus Iulius), Otta viano poté migliorare le sorti navali della guerra contro Sesto. La quale si concluse a fine agosto (o 3 settembre?) 36 a.C. A Nauloco la flotta di Sesto fu distrutta, ed egli a stento sfuggì con poche navi; destinato a cercare salvezza nel vano tentativo di controllare i Dardanelli, e poi addirittura nel tradimento (egli mise la sua opera al servizio
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dei Parti); morì presto (estate 35 a.C.), -lì in Oriente, ad opera di Antonio: impetu strenuus, manu promptus [ ... ]/ide patri dissimillimus ". Lepido, sin allora sopportato dagli altri due triumviri, fu abbandonato dai suoi soldati che passarono a Ottaviano; perdette la potestà triumvirale; rimase pontefice massimo. Aveva contribuito alla vittoria su Sesto, e con questa azione poteva dirsi finito il suo nuovissimo ruolo politico, che era giovato a formare prima - nel lontano novembre 43 a.C. - un piedistallo per il trattato di Bologna, così come a Nauloco, in quello scorcio dell'estate 36 a.C., aveva fondato ancor più stabilmente il predominio di Ottaviano, potitus rerum omnium (cfr. § 11, n. 5) dopo l'eliminazione del figlio di Pompeo. 10. Dalla spedizione partica di Antonio alla battaglia d'Azio.
Il figlio di Pompeo era eliminato; del tutto annullato il ruolo di Lepido. Restavano i due grandi cesariani: il vecchio soldato M. Antonio e il « figlio di Cesare » G. Ottavio W. Caesar, per i suoi partigiani; Octavius, pei nemici). Le vicende della classe dirigente romana variamente si combinavano con la situazione geopolitica del mondo romano, ormai diviso, dal « confine di Skodra », fra l'Oriente di M. Antonio e l'Occidente di Ottaviano. In Così lo ha caratterizzato lo storico Velleio; cfr. il recentissimo RE xxx, 2245-2250. Va sottolineata l'importanza del suo stato marinaro, dominato da liberti. Il richiamo a Demetrio Poliorcete non è mio; esso era già sentito dallo stesso S. Pompeo; così - piuttosto che con una imitazione di Ottaviano (MILTNER, c. 2249) - io spiego ch'egli si chiamasse « figlio di Nettuno »; cfr. DuRIs, FGHist 76 F 13, p. 142, 3. Nel suo prenome Imp. vedrei un motivo polemico: non Cesare e i suoi discendenti hanno diritto a quel prenome (Dio, XLIII, 44, 3; Suet., 76, 1), piuttosto la discendenza di Pompeo. I seguaci di Ottaviano hanno risposto per es. con la moneta COHEN, Vips., 4. La sua originale costruzione politica ha fornito suggestioni a Ottaviano, più che non n abbia ricevute. MILTNER,
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questo giuoco ebbe un ruolo importantissimo l'ostilità dei Parti all'impero: ché gli sconfitti delle guerre civili si volgevano all'amicizia coi Parti, ed a questi offrivano i loro servigi, secondo una linea politica che potrebbe farsi risalire alla diplomazia di Sertorio il quale nell'alleanza col nemico di Roma (allora, Mitridate) aveva cercato sostegno alla sua lotta politica. Un uomo di importanza apparentemente secondaria, Q. Labieno (figlio del legato di Cesare), divenuto ora accanito anticesariano e avversario della res publica romana, era riuscito a condurre una spedizione partica contro la provincia romana; ciò significava, nel vicino Oriente, lo stabilimento di un equilibrio sfavorevole a Roma; e difatti, la vittoria di Labieno aveva avuto, tra le altre conseguenze, l'affermazione, in Giudea, del legittimo successore di Aristobulo (Antigono, figlio superstite di Aristobulo) al posto dello zio Ircano presso il quale era onnipotente il figlio dell'idumeo Antipatro (il famoso Erode, il futuro Erode il Grande). Il compito di Antonio era dunque chiaramente fissato: egli avrebbe dovuto rintuzzare l'offensiva dei Parti e prendere a sua volta l'iniziativa militare contro questi minacciosi vecchi nemici dell'impero; quando P. Ventidio Basso, nel 39 a.C., ebbe vinto Labieno, e così riassicurata la pace romana all'Asia e alla Siria, Antonio poté registrare un grande successo in questo senso. Il successo fu confermato dalla seconda vittoria di Ventidio Basso, nel 38 a.C., sull'esercito partico. Il trionfo di Ventidio Basso coronò quelle vittorie; era la prima volta che un generale romano trionfasse sui Parti, e l'eco ne rimase (eum primum omnium de Part bis triumphasse). Ottaviano e Antonio erano veramente d'accordo in queste cose: l'interesse della res publica era un
punto d'intesa comune; e l'intesa trovò una sua espressione nella ostilità, in Giudea, contro Antigono, al quale fu sostituito l'« uomo di menzogna » ( infra, App. ii), quell'Erode figlio di Antipatro, che era comune amico di Otta-
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viano e di Antonio stesso. Restava da realizzare la seconda parte del programma di Antonio: l'iniziativa romana nella guerra di offesa contro i Parti. Qui l'ostilità potenziale dei due triumviri tornava, in ogni modo. È indiscutibile che, se veramente Antonio la avesse compiuto l'antico grande sogno di Cesare , certamente la posizione di Ottavittoria sui Parti viano avrebbe subìto una forte scossa. Le tappe della incerta pace fra i due erano state segnate dalla faticosa comprensione di un comune interesse: dal novembre 43 a.C. (secondo triumvirato) all'autunno 40 a.C. (trattato di Brindisi, dopo la guerra di Perugia) al 39 a.C. (trattato fra i due e Sesto Pompeo); il trattato di Taranto, nel bel mezzo del conflitto tra Ottaviano e Sesto Pompeo, fu l'ultima di quelle tappe faticose, e caratterizzò l'anno 37 a.C. Autrice di esso, e quasi simbolo della pace, fu in sostanza, Ottavia; ma la sacra unione con Cleopatra, e l'à4t - os ~iíog che Antonio con essa aveva condotto nel 41/40 ( e che ora, dopo Taranto, si apprestava a riprendere), face vano pensare che questo amore d'oriente dovesse oscurare, nell'animo di Antonio, sinanco gratitudine e rispetto ad Ottavia. Ad ogni modo: nel 36 a.C. Antonio tentò l'impresa partica; ma Ottaviano, o per preconcetta ostilità o per diffidenza, o per l'una e l'altra cosa, non gli mandò i 20 000 uomini che nel trattato di Taranto si era impegnato a fornirgli. Fu il principio della rottura definitiva. Cominciò una sorda lotta, sempre più aspra, senza esclusione di colpi. La posizione di Antonio fu aggravata dal f allimento della sua impresa partica; nell'ottobre 36 a.C. egli se ne tornava sconfitto; unico conforto e rimedio sul piano politico come sul piano sentimentale poté sembrargli, ormai, la sempre più stretta amicizia e unione con la regina d'Egitto. Cominciarono allora le discussioni e polemiche sulle cause dell'insuccesso di Antonio: lo attribuivano gli antoniani al tradimento del re d'Armenia,
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lo attribuivano gli occidentali all'impaziente suo amore per Cleopatra (il punto di vista antoniano è a noi pervenuto attraverso Plutarco, il quale rimonta a uno scritto dell'ufficiale antoniano G. Dellio; i motivi della propaganda di Ottaviano si possono ricostruire soprattutto attraverso lo storico Velleio). Nel 34 a.C. Antonio accennò a ritentar l'impresa partica: conquistò l'Armenia, che fu dichiarata suo dominio, e dell'Atropatene fece uno stato vassallo. Un nuovo sistema di equilibrio fu così concepito da Antonio, un sistema fondato sulla tradizionale collaborazione romano-egizia; egli celebrò il trionfo in Alessandria, e attraverso un inatteso nuovo sistema di « donazioni », fece di Cleopatra e Cesarione (figlio della regina e di Cesare) i basileis di Egitto-Cipro e alcune regioni siriache; di Alessandro Helios il basileus di Armenia (e di Atropatene, in quanto genero del re; anche di Partia, quando questa fosse conquistata); di Tolomeo e Cleopatra Selene (altri figli della regina e di Antonio stesso) i re, rispettivamente, di Fenicia-Cilicia e di Cirenaica. Un punto importante era il posto fatto ad Alessandro Helios in questa costruzione: il puer della iv ed. (in/ra, App. i, n. 10) avrebbe retto l'Oriente non mai conquistato, e ora (com'era prevedibile) « pacato » da Antonio (pacatumque reget patriis virtutibus orbem, aveva detto Virgilio nel 40 a.C.). Così si sarebbe risolto il massimo problema internazionale dello stato romano, vale a dire il problema partico. Ma con le altre donazioni Antonio voleva costituire un nuovo equilibrio di potenze, che fondasse l'Oriente ellenistico sulla collaborazione romano-egiziana. Egli espri meva, da questo punto di vista, una vecchia tradizione romana: la ripugnanza alle conquiste dirette nelle grandi zone ellenistiche orientali; anche in questo caso, Antonio non è quel gran rivoluzionario che da molti si pensa. Ma proprio questo nuovo sistema di stati ellenistici (sia pure di ispirazione romana e affidati a una dinastia egizio-romana)
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prestava il fianco alle critiche di molti: di tutti coloro che vedevano l'avvenire dell'ímpero nel proseguimento della provincializzazione di Siria, Cirenaica, ecc. piuttosto che nella costruzione di stati ellenistici devoti a Roma ma gravitanti verso il nuovo grande regno d'Egitto. Le imprese di Ottaviano in Illirico nel periodo 35-33 a.C., accanto al loro carattere più evidente di penetrazione e sistemazione della Pannonia (e di eliminazione della pirateria dalmatica), avevano un sottinteso significato di ammonimento al collega, il cui territorio proprio lì, nell'Illirico, confinava col territorio di Ottaviano. Man mano che la conquista di Armenia e la creazione di un sistema di stati vassalli nel vicino Oriente rendeva forte la posizione di Antonio, era necessario per Ottaviano lavorare ancor più accortamente presso l'opinione pubblica italiana, sminuendo i successi riportati da Antonio nel 34 a.C. Così, con un'azione di propaganda volta a mettere in cattiva luce il collega fattosi « amante di Cleopatra », Ottaviano poté credere di aver oscurato, se pure in parte, la popolarità di Antonio negli ambienti plebei e militari d'Italia e l'autorità del partito antoniano nel senato. Era una « guerra fredda » (come oggi si ama dire) tanto difficile quanto spietata. Ottaviano avrà pur pensato che quell'ímpresa partica di Antonio, la quale nel 36 a.C. era fallita a causa della defezione armena e del legame fra Atropatene e Partia, ora viceversa potrebbe esser ritentata da Antonio con probabilità di successo, essendosi migliorate le posizioni di Antonio in seguito alla rottura fra Partia e Atropatene, ed al trionfo di Antonio sul re di Armenia. Era facilmente prevedibile che Antonio, reduce da una eventuale impresa fortunata in Partia, appoggiato dal nuovo sistema di alleanze e di stati creati nel vicino Oriente, avrebbe oscurato per sempre, quasi nuovo Alessandro e nuovo Cesare, la posizione di Ottaviano, ed avrebbe instaurato una sua politica personale. D'altra parte, a questi timori di Ottaviano corrispondeva l'apprensio-
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ne di Antonio: questi, se non otteneva il riconoscimento della politica da lui inaugurata nel 34 a.C. in seguito ai successi in Atropatene e in Armenia (se, insomma,-si smentiva ufficialmente tutta la sua politica orientale), doveva cercare di ottenere con la forza quel riconoscimento; non solo la sua posizione personale, ma la stessa grande campagna partica, che sempre si proponeva come mèta suprema, venivano compromesse dall'ostilità di Ottavia no. D'altra parte, Antonio stesso sapeva bene che una guerra civile era di esito incerto, e che, soprattutto, essa avrebbe reso impossibile - per il persistere della minaccia partica - proprio il mantenimento dello statu quo in Oriente, come si configurava dopo la sua campagna armena del 34 a.C. A questo pericolo cercò di porre rimedio- , nel 33 a.C., confermando l'alleanza con l'Atropatene in un incontro con quel re (la cui figliola, si ricordi, era fidanzata di Alessandro Helios); e poi si volse a fronteggiare Ottaviano; il conflitto fra i due rivali romani prese il sopravvento sulle esigenze dell'impresa partica. Solo con un atto di forza, che equivaleva ad un colpo di stato, Ottaviano conservò, nel 32 a.C., poteri eccezionali (cfr. § 11, n. 5); i due consoli e circa trecento senatori fuggirono (marzo-aprile 32 a.C.). Ma nel campo di Antonio sorsero subito contrasti. I senatori fuggiti presso di lui mal soffrivano la presenza di Cleopatra e la sua autorità presso Antonio; tuttavia Cleopatra ebbe sempre modo di prevalere, e questa prevalenza del « partito egiziano » sul « partito romano » trovò espressione in una decisione grave: Antonio ripudiò Ottavia. Ottaviano rispondeva con la sua intelligente azione propagandistica. Già dal 34 a.C. aveva preparato, come vedemmo, la sua propaganda. Ora la compì con un colpo magistrale: la lettura del testamento di Antonio, in cui questi confermava il sistema di stati orientali ottenuto con le donazioni del 34 a.C., in favore di Cleopatra e Cesarione, Alessandro Helios, Tolomeo, Cleopatra
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Selene. Ancor una volta solo un'accorta propaganda su qu.esta « orientalizzazione » di Antonio poteva far dimenticare agli italiani che Ottaviano aveva ostacolato la campagna partica, e che la legalità era dalla parte di Antonio, il cui sistema ellenistico di stati romani poteva ben giustificarsi in funzione della guerra partica, vale a dire del compito in cui Antonio vedeva la parte più viva del patrimonio spirituale lasciato da Cesare. Con questa somma di accorgimenti propagandistici e di opportuni atti di forza, Ottaviano potè crearsi una base solida per la guerra civile: ma la formula su cui fondava questa base non fu il potere triumvirale costituente (scaduto il 31 dic. 33 a.C.), sì invece il consensus di fatto (in/ra, § 11, n. 5) e la tnbunicia potestà, dei quali godeva dal nov. 36 a.C. Egli dichiarò la guerra a Cleopatra e ricevette la coniuratio dell'Italia e delle province occidentali (Gallie, Spagne, Africa, Sicilia, Sardegna), in verba sua. Circa settecento senatori erano rimasti con Ottaviano, circa trecento erano fuggiti da Antonio; i supremi magistrati, cioè i consoli, erano stati favorevoli ad Antonio. Ma la coniuratio Italiae, vale a dire un giuramento di fedeltà che confermasse Ottaviano capo dell'esercito, voleva mostrare che i circa settecento senatori rimasti a militare sub signis di Ottaviano esprimevano il « paese reale » meglio che i trecento circa, fuggiti a militare sub signis di Antonio. L'intensa opera propagandistica svolta da Agrippa e Mecenate riuscì a ottenere che quella coniuratio fosse « spontanea » (un punto su cui Ottaviano insisterà poi nelle Res gestae). Del resto, una tale propaganda era proprio agevolata dalle ultime azioni di Antonio medesimo: non aveva Antonio compromesso il suo prestigio presso molti antoniani con l'affrettata risoluzione di ripudiare Ottavia, mostrando di pre ferire l'egiziana alla uxor romana? La guerra era dichiarata a Cleopatra: Ottaviano non poteva considerarla una guerra civile, giacché egli ripeteva
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il consensus universorum - formula giustificativa dei suoi poteri eccezionali - dall'aver « posto fine alle guerre civili », cioè dalla vittoria in Sicilia nel settembre 36 a.C. Come alleato di Cleopatra, Antonio diveniva, dal punto di vista degli organi statali di parte ottaviana, bostis publicus dello stato romano. Il 2 settembre 31 a.C., ad Azio, le agili navi di Ottaviano vincevano le turrite di Antonio. Anche nello svolgimento della battaglia, in cui fu decisiva la fuga della nave di Cleopatra verso il sud, si era riflesso l'ibridismo del sistema politico romano-egizio concepito da Antonio: ché proprio con la sua fuga verso il sud Cleopatra mostrava di preferire la difesa del nuovo stato egiziano, da lei restaurato e ingrandito per mezzo delle donaioni, ad una tenace solidarietà con Antonio, nella difesa dei comuni interessi. Ed insomma: Antonio, il sognatore di un'impresa partica ispirata alle tradizioni di Alessandro e Cesare, avrebbe dovuto constatare che quelle alleanze ellenistiche su cui aveva fondato la sua politica (e sinanco la sua vita sentimentale) non reggevano alla prova del fuoco di una grande guerra. Ma egli era ormai un uomo finito: di una tale lezione non poté più trarre le conseguenze. Il sogno del vecchio cesariano finì con una vicenda da romanzo d'appendice, sullo sfondo di Alessandria dove i due si erano rifugiati: Antonio si trafisse, alla falsa notizia della morte di Cleopatra; quando Ottaviano ebbe conquistata Alessandria, Cleopatra, dopo inutili tentativi di trattare con lui, si uccise facendosi mordere, com'è tradizione, da un aspide. z
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L'annessione dell'Egitto. La « potestas » eccezionale di Ottaviano nel periodo 29-28 a.C.
Tutta un'antica tradizione romana di politica estera la tradizione dell'alleanza romana con l'Egitto - aveva così termine; tutte le contraddizioni e le difficoltà della politica di Antonio erano la riduzione all'assurdo di una
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politica che volesse continuare quella tradizione. L'unificazione mediterranea sotto Roma non poteva compirsi, se l'ultimo e il più saldo fra gli stati ellenistici fosse rimasto egualmente autonomo e potente. Così Ottaviano, nell'annettere l'Egitto all'impero romano (Aegypto in potestatem populi Romani redacto, negli obelischi del Circo Massimo e di Campo Marzio, dedicati al dio Sole [10/9 a.C.]; Aegyptum imperio populi Romani adieci, nelle Res gestae), non fece che trarre le conseguenze da una situazione politica realisticamente intesa. Per questa parte, egli è di gran lunga più rivoluzionario che Antonio, il quale ancora concepiva la politica estera romana in funzione di un sistema ellenistico di alleanze. D'altra parte, se la vittoria di Ottaviano era un avvenimento capitale nella storia del Mediterraneo antico, questa stessa vittoria, essendo riportata su uno stato di antiche tradizioni come era quello tolemaico, sollevava problemi nuovi, soprattutto dal punto di vista costituzionale. Del resto, non aveva dovuto lo stesso Tolemeo i tener presenti le tradizioni egizie, e venir a patti con esse? Ora Ottaviano trovava, in questo paese di primissima importanza nella storia mondiale, due culture: la egizia e la ellenistica; fuse in alcun caso, in altri semplicemente giustapposte; qui, diversamente che altrove, bisognava concepire un ordinamento provinciale che tenesse conto di quella tradizione e consentisse la stabilità della conquista. Non bastava stanziare tre legioni in Egitto (va sottolineata la particolare importanza difensiva assunta da Nicopoli) per dare una fisionomia costituzionale romana alla nuova provincia; dal punto di vista costituzionale bisognava concedere agli Egizi - agli Alessandrini, come ai metropoliti, come alla massa di tradizione antichissima egizia - un qualcosa che li compensasse della perdita del loro monarca-dio, di questo « dio vivente » che la vittoria di Ottaviano toglieva all'Egitto, spostando lontano dal paese la presenza del
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signore. Non si poteva dare all'Egitto un magistrato alla maniera delle altre province. Ed ancora: troppo il mondo romano aveva sofferto di guerre civili, le quali consistevano, in fondo, nella rivalità fra supremi magistrati senatorii: un nuovo senatore posto a governare la provincia dove avevano regnato i Tolomei sarebbe stato continua minaccia di guerra civile. E perciò, come poi farà (in/ra, § 14) per il comando delle coorti pretorie, anche questo comando dell'Egitto Ottaviano ha affidato a un cavaliere. Così, in quanto era stato « aggiunto all'imperio del popolo romano », l'Egitto riceveva un'amministrazione direttamente ordinata dallo imperator che lo aveva « aggiunto » a quell'imperio: ed Ottaviano lo affidava ad un funzionario di rango equestre, cii una lex data commetteva il governo dell'Egitto. Tale funzionario era il prae/ectus Alexandreae et Aegypti; anzi ai senatori era vietato non soltanto il governo, ma sinanco l'accesso all'Egitto romano. D'altra parte, la stessa prassi tardo-repubblicana, con la eventuale nomina di prae/ecti da parte dei proconsoli, poteva in certo modo costituir un precedente, su cui si fondò Ottaviano nella nomina del prae/ectus per l'Egitto (è notissimo, per esempio, il caso di Bruto che nel 50 a.C. aveva insistito presso Cicerone perché nominasse prefetto un uomo d'affari a lui caro). Il nuovo Egitto dei Romani aveva un volto caratteri stico: un tipico segno della sua tipica condizione di proincia era nella sminuita autorità della casta sacerdotale (in/ra, § 83); la sua tassazione fu anche orientata, in buona parte, verso il mantenimento della plebe di Roma; la sua vita economica si fondò sulla moneta divisionale egiziana, ed ebbe una storia tutta sua, fino a Diocleziano; l'ordinamento tributario in genere e la concessione della cittadi nanza (in/ra, § 91) ebbero particolari caratteristiche. Gli abitanti della vera unica città, Alessandria, possono aver sperato di più dalla conquista romana (nello stesso 30 a.C. v
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gli Alessandrini hanno chiesto ad Ottaviano una P ou í X
autonoma, motivando la richiesta con l'esigenza di limitare l'ammissione, fra gli efebi, di individui tenuti al pagamento della Àocoypocpoc « testatico »; Ottaviano non ha ceduto alla richiesta); ma la particolare posizione di Alessandria e degli Alessandrini rispetto al paese fu certo un compenso alla mancata realizzazione di quelle speranze. In ogni modo, l'istituzione del praefectus Alexandreae et Aegypti è un fatto notevole nella vicenda di questi anni. Ottaviano ha sperimentato allora - nella pienezza del suo potere fondato soprattutto sul consensus universorum (cfr. n. 5) - la necessità di un'organizzazione nuova con carattere di stabilità in una zona dell'impero in cui l'ager publicus, derivato dalla « terra regia » dei Tolomei, era notevolmente più esteso che nelle altre province. La vittoria di Azio e la conquista dell'Egitto segnavano un'epoca nuova. I contemporanei sentivano questa novità; era la fine della grande tragedia, il sorgere della pace in un mondo finora devastato da quegli interna mala che negli ultimi tempi avevano fatto persino disperare dei destini della città, e ad uomini come Sallustio ed Orazio avevano fatto sognare addirittura un rifugio fantastico nelle favolose isole Fortunate. Quando Ottaviano celebrò il trionfo (agosto 29 a.C.), l'opinione pubblica celebrava nella sua vittoria l'èra nuova della pace; egli era, di fatto, Jl signore dello stato romano. *Orazio aveva tratto (30 a.C.) il Cècubo dalle celle avite. ciò che (diceva' « sarebbe stato delitto prima, mentre una regina orientale apprestava folli ruine al Campidoglio e morte all'impero »; ora scriveva C. i, 2 (Elmore). La certezza della stabilità politica e sociale era ormai un fatto acquisito alla pubblica opinione; la « missione » romana del regere populos una realtà ideale senza incrinature; d'allora in poi, Antonio sarebbe apparso colui che « vendette il Lazio ai popoli e rapì i camr Quiriti e per prezzo fece e disfece le leggi » (sono
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di un altro poeta augusteo, Vario: versi che piacquero a Virgilio). La vittoria di Ottaviano era dunque la vittoria della città e dell'Italia, la garanzia che mai l'imperiQ romano avrebbe potuto cercare altrove il suo equilibrio e il suo centro. La borghesia vecchia, quella stessa degli espropriati, come la nuova dei soldati fatti proprietari, celebravano il successo; lo riconosceva la nobilitas. In questa situazione eccezionale Ottaviano deteneva la cosa pubblica: si poteva dire che egli era, dal novembre del 36 a.C., potitus rerum omnium. Ma con quale fondamento giuridico? Egli stesso cercava di spiegarsi la sua posizione costituzionale; ma anche a lui una spiegazione strettamente giuridica dovette apparire, in tutto il periodo che va dal 32 a.C. al 28 a.C., per molti aspetti difficile. Non proprio che in quel periodo egli escludesse una giustificazione al suo potere assoluto; più facilmente rifletteremo il vero, se diremo che Ottaviano si considerava detentore di una potestas eccezionale. Quando più tardi egli dovrà definire la sua posizione in quel periodo, dirà semplicemente che essa si fondava sul consensus universorum . Si richiamerà, cioè, al concetto di consensus, un Noi moderni discutiamo da tempo sulla giustificazione costituzionale dei poteri di Ottaviano, nel periodo 32-28 a.C.: alcuni studiosi ritengono che in quel periodo Ottaviano continuasse ad avere potestà triumvirale (sia pur effettiva, non titolare: così BERVE, nell'importante art. di « Hermes », 1936, p. 250), altri che egli fondasse il suo potere sulla coniuratio Italiae del 32 a.C. (la quale, in tal caso, si identificherebbe col consensus universorum: così STAEDLER, « Ztschr. Sav. St. », RA, 1942, p. 107). Confesso che nessuna di queste soluzioni mi sembra probabile. Per risolvere il problema, bisogna precisarlo, evitando di imporre schemi nostri alla realtà politico-costituzionale di quell'epoca rivoluzionaria. Or l'unica precisazione legittima del problema è la seguente: come giustificava egli stesso, Ottaviano, i suoi poteri del periodo 32-28 a.C.? Al che si può precisamente rispondere: Ottaviano - per lo meno, Ottaviano Augusto - riteneva che il suo potere triumvirale ebbe termine il 31 dic. 33 a.C. (« fui triumviro per dieci anni di seguito »: RG, 6) e d'altra parte dichiarava che « dopo aver estinto le guerre civili » si era « impadronito del potere attraverso il consensus universorum »
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concetto persino ciceroniano, ma in ogni modo insuscettibile di fondare stabilmente il potere giustificando il fatto preciso del potiri rerum omnium. Solo un fatto religioso e costituzionale a un tempo poteva fondare il principato: un fatto che unificasse i presupposti sacerdotali della posi(RG, 34). Ora, il consensus universorum non può coincidere con la coniuratio Italiae, perché in questo caso non si spiegherebbe come
Ottaviano giustificasse il suo potere pel periodo intercorso fra l'i gen. 32 a.C. e la coniuratio Italiae dello stesso 32 a.C.; e per la stessa ragione non può collocarsi ancora più in basso, per esempio nel 29 a.C. (dopo il trionfo su Cleopatra). Dunque, dovremo intendere più semplicemente che Ottaviano riteneva di aver avuto la potestà triumvirale fino al 31 dic. 33 a.C.; e di aver avuto, dall'i gen. del 32 a.C. in poi, un potere fondato soltanto su quel consensus universorum che già aveva sin dal nov. 36 a.C., « dopo che » (postquarn) « aveva posto fine alle guerre civili ». « Dopo che aveva posto fine alle guerre civili » significa « dopo il settembre 36 a.C. »: che per esempio Pollione desse questa interpretazione, è evidente da App., b.c., v, 128 (viceversa, già la generazione di Velleio intendeva anche la guerra aziaca come guerra civile; cfr. FITZLERSEECK, RE, x ) 2, c. 326). Dunque, Ottaviano, al quale i problemi costituzionali giuridici si presentavano in maniera più concreta e meno schematica che a noi moderni, quando voleva giustificare il suo potiri rerum omnium dall'i gen. 32 a.C. in poi, fino al 28 a.C., ricorreva al consensus universorum (cioè ad un fatto extra-costituzionale), di cui si considerava circondato sin dagli ultimi tempi del 36 a.C. Ripeto: noi non possiamo concederci di essere più giuristi di Ottaviano, in questo campo; non possiamo prestargli per es. un potere triumvirale « effettivo » a cui egli non avrebbe mai pensato. E proprio qui è il fatto sorprendente e a prima vista incredibile: le nostre giustificazioni costituzionali sarebbero piaciute ad Antonio, il quale difatti nel 32 a.C. e 31 a.C. si continuava a considerare triumviro; ma non interessavano puntq Ottaviano. Per quanto ciò possa sembrare assurdo (e ben so quanti si meraviglieranno di questa affermazione), Ottaviano è molto più rivoluzionario di Antonio; e il precedente racconto (55 8-11) può giustificare una tale interpretazione. S'intende che nella mia interpretazione postqùan bella civilia extinxeram per consensum universorum potitus rerum omnium va inteso con postquam in senso pregnante: « poiché », e di.nque, in fondo, « sùbito dopo che » « in quanto che »; era quel consensus universorum che, sùbito dopo la « fine delle guerre civili », cioè dopo il settembre 36 a.C., aveva dato
ad Ottaviano, nel novembre di quell'anno 36 a.C., la perpetua tnbunicia potestà (come ci assicura la tradizione liviana, confluita in Orosio). Che se dunque vogliamo dare preciso contenuto giuridico
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zione di Ottaviano (tutti accentrati, sin dal 42-40 a.C., intorno all'augurato, come ha dimostrato lo storico francese Gagé) con le nuove esigenze costituzionali. Già nel 29 a.C. Ottaviano si era messo per questa via, celebrando l'augurium sai utis. Ma la soluzione definitiva poteva cercarsi solo nel raggiungimento di un titolo che desse al charisma religioso un contenuto costituzionale: il titolo sarebbe stato Augustus, e il suo contenuto costituzionale l'auctoritas.
alla formula per consensum universorum poi itus rerum omnium, dovremo pensare alla tribunicia potestà perpetua decretata ad Ottaviano per senatoconsulto (cfr. BIONDI-ARANGI0 Ruiz, in Acta divi Augusti i, p. 228) nel novembre 36 a.C. Nel 27 a.C. Augusto passò dal consensus universorum all'auctoritas: fu l'ultima evoluzione di un processo in cui si riconosce l'orma del grande rivoluzionario. Cioè: egli riteneva di aver avuto, nel novembre 36 a.C., la res publica dal consensus universorum; la restituiva nel gennaio 27 a.C., per riaverla attraverso l'auctoritas; un processo - questo del restituire ciò che si è avuto con la rivoluzione, riottenendolo con la legalità - che sarà sempre chiaro nel principato, per es. ancora nel « manifesto costituzionale » di Filostrato ii (in/ra, § 46, n. 4) in età severiana. - Altra letteratura e discussione in/ra, v; cfr. § 12, n. 1; si aggiunga la letteratura nell'importante studio di DE VISSCHER, Nouv. ét. dr. rom. (1949; scr. 1938), p. 3 (alla cui dottrina, analoga a quella poi formulata da STAEDLER nel 1942, si possono muovere le medesime obiezioni che abbiamo rivolto alla dottrina di STAEDLER).
Capitolo terzo LA FINE DELLA «POTESTAS» ECCEZIONALE E LO STATO DELL'« AUCTORITAS»
12.
Le sedute del 13 e 16 gennaio 27 a.C. e la fondazione del principato.
La soluzione venne ai primi del 27 a.C. Nella seduta del 13 gennaio di quell'anno Ottaviano dichiarò di restituire la res publica all'arbitrium senatus populique Romani. In compenso egli ebbe, tra l'altro, il riconoscimento delle sue virtus, clementia, iustitia, pietas; ma il punto essenziale, fu la sistemazione costituzionale della sua posizione di monarca. Questa posizione veniva garantita attraverso la insistenza sul concetto di auctoritas: restituita la res publicà al senato e al popolo romano, il nuovo Cesare, oltre ad essere console, avrebbe ricevuto, delle normali magistrature repubblicane, la potestas sostanziale, ma con più di auctoritas che non avessero gli altri magistrati. Nella stessa seduta del 13 gennaio il senato gli affidò l'imperium proconsulare decennale per le province « imperiali », vale a dire per quelle non pacatae, in cui era necessario un comando essenzialmente militare'. Nella seduta del Tuttavia l'Africa, provincia senatoria, ebbe anch'essa forze legionarie (legio III Augusta). - La Gallia Cisalpina già da tempo aveva finito di essere- provincia: in linea di diritto, da dopo Filippi (42 a.C.), in linea di fatto da dopo Perugia (40 a.C.; cfr. in/ra, App. i, n. 10. -. Quòque di RG, 34, 3 indica (cfr. in/ra, v) più di una potestà magistratuale (altrimenti troveremmo in magistratu, non già quòque in magistratu) già nel 27 a.C., subito dopo il
Cap. III.
Lo stato dell'« auctoritas »
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16 gennaio egli ebbe, su proposta di Munazio Planco, il titolo di Augustus, vale a dire il titolo medesimo dell'augurium augustum con cui fu fondata Roma (inclita condita Roma est); egli era dunque, in certo senso, un nuovo Romolo, in quanto assumeva per sé il titolo medesimo dell'augurio romuleo. Comunemente, il titolo era inteso nel senso passivo di « venerato », con forte coloritura religiosa (cf3or6). L'importanza della nuova sistemazione giuridica si fece più evidente, com'è naturale, nel corso degli anni. Augusto era console; ed aveva imperium proconsulare decennale per Spagna Tarraconese, Gallia, Siria, Egitto. Degli altri consoli e dei proconsoli aveva la potestas (e in base a questa essi potevano anche dirsi suoi « colleghi nella magistratura »), ma con più di auctoritas. Proprio qui era il fondamento del suo potere. Anche questo di auctoritas, un concetto ciceroniano; ma volto a significazione decisamente monarchica. Nel 23 a.C., egli depose - come sem13 e il 16 gennaio (post id tempus, con valore di successione temporale immediata: « [sùbito] dopo la traslatio della res publica all'arbitrium senatus populique Romani »): dunque, già dopo il 13 gennaio, Ottaviano era detentore di almeno due potestà magistratuali. Poiché la transiatio implicava la sua rinunzia alla tribunicia potestà perpetua corrispondente al consensus universorum di cui aveva goduto dal novembre 36 al 13 gennaio 27 a.C. (cfr. supra, § 11, n. 5), così ne deduco che le almeno due potestà magistratuali di Ottaviano dopo il 13 gennaio erano in realtà due, e cioè cos. e imp. proc. Ciò va detto contro SIBER, che nega l'imp. proc. del 27 a.C. per sostituirlo con un impero « senza nome» (contro SIBER cfr. anche SYME, «Journ. Rom. St. », 1947, spec. pp. 151-152); e va detto contro GRANT, secondo cui l'auctoritas si sostituisce all'vnperium (laddove in realtà, l'auctorztas potenzia la potestas magistratuale contenuta nell'imp. proc.). Cfr. in/ra, v. Nel 23 a.C., riprendendo la potestà tribunicia perpetua deposta nel gennaio 27 a.C., Augusto aggiunge una nuova magistratura: dal luglio 23 a.C. quòque in magistratu significa imp. proc. e trib. pot. (e cos. nei soli anni 5 a.C. e 2 a.C.), non più cos. e imp. proc. S'intende che queste considerazioni cadrebbero, se si rifiutasse la nostra interpretazione del potere eccezionale di Ottaviano nel periodo nov. 36 a.C.-dic. 28 a.C., data supra, § 11, n. 5.
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bra, il 26 giugno - il consolato; abbandonò i compromessi esagerati; prese l'imperium proconsulare anche nelle province senatorie; riprese - ma come cosa del tutto nuova - la tribunicia potestà perpetua deposta il 13 gennaio del 27 a.C. (§ 11, n. 5). La forma magistratuale era tribunicia potestas; quella medesima che (§ 11, n. 5) aveva avuto nel 36 a.C.; ma ora, nel nuovo status fondato sul chiarimento costituzionale del 27 a.C., essa s'inquadrava stabilmente. Non tribuno della plebe, egli aveva tutta la potestas dei tribuni; ma una potestas ben diversa da quella del normale tribuno. Come i normali tribuni, egli, in grazia della potestas di tribuno, poteva far votare plebisciti con vigore di legge, convocare il senato, usare il diritto di veto; ma la sua auctoritas faceva di questa potestas una realtà costituzionale nuova, la realtà nuova che gli uomini del suo tempo, gli « Augustei », cercavano, a salvaguardia dall'oscura tragica vicenda delle guerre civili. Ancor una volta: non proconsole e non tribuno, Augusto aveva la p0testas immanente in quelle magistrature repubblicane, ma potenziata attraverso la sua auctoritas. La forma repubblicana era conservata, la attualità monarchica era assicurata. S'intende, per altro, che di questa attualità monarchica il fondamento costituzionale, all'interno, era sostanzialmente nella tribunicia potestas; a ragione, dunque, egli (come poi i suoi successori fino a Vitellio) calcolava gli anni del suo impero dal giorno in cui la tribunicia potestas gli era stata ufficialmente conferita (dopo Vespasiano si è calcolato sempre sulla base della tribunicia potestas, ma a partire dall'assunzione al trono; dopo Traiano sempre sulla base della tribunicia potestas, ma a partire dalla data in cui entrano in carica i normali tribuni; dai Severi fino a Graziano sempre sulla medesima base, ma con diversità pel punto di partenza). Era questa, difatti, la più significativa potestas del nuovo monarca: e ciò spiega la sua persi stenza attraverso tutto il principato, nonostante le accen-
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nate divergenze nel punto di partenza del calcolo cronologico; potremo persino dire che il principato è l'epoca della tribunicia potestas posta a fondamento del potere monarchico, e pertanto affiancata all'imperium militare. Anche in questo caso Augusto ha posto delle basi stabili e definitive; i suoi contemporanei hanno inteso benissimo quel che significava il consolidamento monarchico del 23 a.C. È molto probabile ' che già nella fondamentale seduta del 13 gennaio 27 a.C. Augusto abbia formulato il suo ideale supremo con le famose parole it4 mihi sai vam ac sospitem rem publicam sistere in sua sede liceat atque eius rei Iructum percipere quem peto ut optimi status auctor dicar et moriens ut feram mecum spem mansura in vesti gio suo fundamenta rei pubiicae quae iecero. Certo, fu
questo il senso profondo, il motivo dominante della sua vita: non solo in pubbliche manifestazioni rha nella intimità di famiglia egli ha sempre insistito su quell'ideale; e l'optimus status, di cui voleva essere auctor, fu saldo e stabile per tre secoli, fu il principato. In una lettera a Gaio Cesare suo futurus successor (in/ra, App. i), egli ritornerà su quel concetto che in ita mihi saivam aveva formulato solennemente: deos autem oro, ut mibi qualecumque superest temporis id saivis nobis traducere liceat in statu rei publicae felicissimo & pyoco&mw u7v xOu 3toca zX o ~tkv<ú v stationem meam; questo suo compito era dunque una statio, un p0' come una scolta o vigilia militare; e suo ideale era l'optimus status, lo status rei publicae felicissimus. La storia costituzionale dell'impero romano è la
storia della via attraversata da questi concetti (cfr. per 43). Augustus è da \/ augeo, come anche da augeo è auc-
es. §
toritas: il primo è termine pertinente alla primitiva sfera 2
Recente ipotesi avanzata dal
MAGDELAIN.
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sacrale, il secondo alla sistemazione logica che concetti sacrali assumono facilmente nella ideologia romana. Un mondo assai antico riviveva nello stato di Augusto; e dava le forme giuridiche a un ordinamento per eccellenza rivoluzionario. In questa rievocazione di forme antiche è il senso profondo dell'umanesimo augusteo. Il mondo degli « Augustei » ha rivelato per la prima volta, nella storia della cultura europea, la gioia della rievocazione di un tempo passato, ai fini della consapevole creazione (esprimentesi nel concetto di auctor) di una realtà culturale e politica la più solida possibile; e questa è anche, in sostanza, la rivelazione dell'umanesimo. La cultura augustea è classicistica; Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, augustei di due diverse generazioni (Howald), sono anche i più insigni rievocatori di un mitico drama che appare in funzione di Roma, e di essa sola. Essi avvertono che Giunone vuole l'esistenza per saecula dei re albani, del Lazio, e della stirpe romana, non però di Troia (Virgilio), che Giunone consente a Romolo l'apoteosi, solo che i bellicosi Quiriti non restaurino Troia (Orazio), che Camillo ha giustamente ammonito a riconoscere nel suolo stesso di Roma la garanzia della potenza, richiamando all'eterno fuoco di Vesta e al Palladio che è nel tempio (Livio); dicono (Ovidio) che l'impe rio segue la statua invisibile della dea (imperium secum trans/eret illa loci), perché Tuo ha solo il tempio e il luogo, mentre Pallade è a Roma. È una polemica contro gli amatori dell'ellenismo e dell'Oriente; e contro i sognatori di favolose ricchezze, che contrappongono l'Oriente a Roma. Ma polemica che si fonda su tutta la rievocazione del passato sacrale romano. Questa strana rivoluzione sostituisce i viri tradizionali ai sogni di palingenesi (cfr. App. i). L'antico è segno tangibile (un filosofo direbbe: nel senso della formalità pura) dell'o ptimus status che ora si costruisce. Augusto, lo stoico (ché certamente egli ha educazione stoica, come mostreranno anche le ultime sue parole al mo-
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mento supremo della morte), è il fondatore. di una concezione umanistica che prenderà tutto l'impero; per questa parte, i più vicini a lui saranno idealmente, tra i suoi successori, gli imperatori filosofi (va sottolineato che, nei Ricordi di Marco Aurelio, lo stoico Areio è menzionato prima di Mecenate, in una rievocazione della « corte » di Augusto: viii, 31, 1). Tale umanesimo augusteo si è espresso, per via epigrafica, nei Fasti Capitolini e negli elogia 3; nella poesia, con l'Eneide, un capolavoro che ha indicato agli uomini (per lo meno, al mondo di lingua latina), d'allora in poi, quell'ideale educativo fondato su valori tradizionalmente consacrati che la cultura greca attingeva più direttamente (e con richiamo ad una grecità arcaica) in Omero. Nell'arte l'umanesimo augusteo si è espresso con la costruzione del monumento della Pace, la quale fu detta pur essa Augusta come « Augusto » era Lo spirito umanistico degli elogia augustei ha preso tutta l'Italia: da Brindisi
(RIBEzzo,
Su un nuovo elogium a Q. Fabio
Massimo [1952]; ViTucci, « Riv. fu. ci . » 1953, p. 43) a Pompei, a Lavinio, ad Arezzo. Ma Tarquinii? La storia dell'Etruria ro mana, paese per eccellenza tradizionalista fino a tutto il basso impero (in/ra, § 107), è ancora da scrivere. Tuttavia, una cosa è molto probabile: ad Arezzo città aùgustea (la città di Mecenate) si oppone ancora Tarquinia, la città che nel 354 a.C. (= 358 a.C. varr.) aveva sacrificato ai suoi dèi 307 romani e che non ha mai dimenticato (nonostante Graviscae) di essere stata la capitale della lega etrusca. Solo così, io credo, si possono spiegare gli elogia tarquiniesi scoperti da ROMANELLI (« Not. sc. », 1948, pp. 261266), tra i quali è particolarmente notevole quello di un praetor (cioè zilath) che da una parte a[d Sutrium???] exerc[i]tum habuit, d'altra parte alte[rum? in] Siciliam duxit primus omnium Etruscorum mare C[arthagin??] traiecit. (Altre integrazioni sono proposte negli importanti studii di HEURGON, « Mél. Éc. Rome », 1951, p. 119; PALLOTTINO « St. Etr. », 1950/1, p. 147; le mie integrazioni - che propongo con tutte le riserve possibili - si fondano sulla narrazione, purtroppo brevissima, di Diod., xx, 61, 6-7, confrontata con Diod., xx, 64, 2, sicché gli Etruschi delle 18 navi avrebbero in parte attraversato il mare Cartaginese insieme con Agatocle.) Nonostante l'assoluta incertezza delle integrazioni possibili, è chiaro che i Tarquiniesi non rinnegavano il loro passato, e preferivano gli elogia dei loro uomini agli elogia dei grandi Romani.
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l'ideatore del monumento. In questa opera (Ara Pacis Augustae: 13-9 a.C.) tipici motivi culturali e religiosi (Faustolo, Marte, Enea, dea Roma, Tellus, Aurae velif i cantes) si aggiungono al motivo storico delle lastre figuranti le processioni, e « bruciano » quella realtà storica in idealizzata immagine di mito; i due f1 1 11 di Augusto, G. e L. Cesari, sono assimilati - come sembra - ad eroi (in/ra, App. i). Dal 14-13 a.C. si introducono, come culto statale, gli honores al Genius Augusti. Sin dal 29 a.C. Ottaviano era venerato come dio nell'Oriente greco (normalmente specie per i cittadini romani - insieme con la dea Roma) 4; ora, nel 12 a.C., il culto della dea Roma e di Augusto fu introdotto nelle province occidentali. in Italia, non solo città greche come Napoli, ma anche la gran parte delle città italiche (persino l'antoniana Bologna) hanno il culto di Augusto vivente. Dal 6 marzo 12 a.C. Augusto è pontefice massimo: per 4 secoli, da lui sino a Graziano, il pontificato massimo resterà, nella titolatura imperiale, la « sanzione » sacerdotale del potere monarchico. In questa atmosfera sacrale s'inquadravano i problemi costituzionali e sociali. Abbiamo già accennato a G. e L. Cesari, eroizzati, come sembra (secondo una importante ipotesi del compianto archeologo G. Moretti) nell'Ara Pacis Augustae. G. e L. Cesari erano figli di Agrippa e lulia, nipoti di sangue di Augusto. Nel 18 a.C. il loro padre la cui umilissima origine sarà stata continuo oggetto di mormorazione fra i suoi colleghi senatori - aveva avuto trib. pot. e imp. proc. per cinque anni. Nel 17 a.C. Augusto li aveva adottati: i suoi nipoti di sangue diventavano suoi filii ; la successione dinastica appariva così assicurata, e ciò spiega l'eroizzazione di G. e L. Cesari - secondo l'accennata ipotesi dell'archeologo G. Moretti - nell'Ara Pacis. Nel 12 a.C. Agrippa morì. Emersero allora, distin Per la discussione sul concetto di hierà snkletos, cfr. in/ra, App. i, n. 8.
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guendosi nelle campagne di Pannonia e di Germania, Tiberio e Druso, figliastri di Augusto: i loro successi mettevano nell'ombra i filii dell'imperatore. Druso morì nel 9 a.C. Tiberio trionfò sui Germani a principio del 7 a.C.; nel 6 a.C. ebbe la trib. pot. per cinque anni; ma si ritirò, come in esilio, a Rodi; egli rinunziava alla-lotta per la successione; Ma nel 2 d.C. L. Cesare morì; nel febbraio 4 d.C. morì G. Cesare, per una ferita riportata in Oriente. Tiberio tornò in primo piano: ebbe la consortio tribuniciae potestatis con Augusto e divenne lílius di Augusto (26 giu. 4 d.C.). Il principio della successione di un optimus (ma sempre scelto nella corte imperiale) trionfava così sul principio della successione per via di sangue. Sebbene la tradizione ci presenti l'adozione di Tiberio come poco gradita al senato, è tuttavia probabile che la gran parte dei senatori tradizionalisti preferissero la successione di un esponente dei Claudii Nerones alla successione dei figli dell'oscuro Agrippa. Difficoltà nei rapporti tra imperatore e senato si espressero, in questo stesso anno 4 d.C., nella cospirazione di Valerio Cinna, che Augusto perdonò e designò console per l'anno seguente 5 d.C. È chiaro che le difficoltà dei rapporti tra imperatore e senato potevano implicare difficoltà dei rapporti fra senato e ordine equestre (il più vicino all'imperatore). Augusto tentò di migliorare i rapporti tra ordine equestre e ordine senatorio, ponendo sullo stesso piano i senatori e cavalieri scelti nella destinatio dei consoli e pretori: fu questo (come cercheremo di mostrare in/ra, App. i) uno degli aspetti più interessanti della lex Valeria Cornelia, del 5 d.C. 13.
La politica estera di Augusto.
Nonostante quel corso « europeo » della politica di Augusto, cui già abbiamo accennato, il problema partico non fu sottovalutato dall'imperatore. Ancora intorno al 40 a.C. lo storico Sallustio (in quella lettera di Mitridate
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al parto Arsace che è uno dei più significativi fra i passi delle Historiae a noi pervenuti) aveva sottolineato indi rettamente, e con l'evidenza dell'arte, cosa potesse significare il pericolo partico quando esso si fosse alleato con un qualche accanito avversario di Roma . Tutti pensavano come Sallustio, a questo proposito: anche coloro che consideravano avventurosi o assurdi i piani partici di Cesare e di Antonio. (Ed in fondo, anche molti moderni sono spesso tentati di porre la vana domanda: cosa sarebbe diventato il mondo antico, se Cesare od Antonio avessero vinto i Parti? Al di là dello stato partico erano la Battriana e l'India, entrambe regioni dove fino a circa il 130 a.C., rispettivamente circa il 90 a.C., splendidi stati greci avevano avuto loro fioritura; regioni, insomma, di cultura ellenistico-indoiranica; la cultura ellenistico-romana non avrebbe realizzato, su un piano più organico e moderno, la concezione largamente « umana » di Alessandro?). Se Augusto voleva concretare il suo ideale di pax, doveva risolvere il problema partico: egli sapeva benissimo che la storia di Roma, nel suo rispetto internazionale, era in gran parte la storia dei rapporti fra Roma e lo stato partico. Ma il problema fu da lui risolto su un piano soprattutto diplomatico, il quale (se anche non lo chiudeva definitivamente, come mostra tutta la posteriore storia dello stato imperiale romano) appariva per il momento il più adeguato e prudente. Nel 20 a.C., il re parto Fraate iv restituì a Tiberio le insegne di Crasso (esse sono perciò raffigurate sulla corazza nella famosa statua loricata 6 di Augusto proveniente dalla villa di Livia a Prima Porta). Nell'anno 1 d.C., per evitare i nuovi contrasti a proposito dell'Armenia, il successore di Fraate iv, suo figlio Cfr. in/ra, App. n, per le speranze riposte dalla setta antiromana della Nuova Alleanza nella vittoria partica sui Romani. 6 Per la cronologia della statua cfr., tuttavia, HOHL, « Klio », 1938, p. 269.
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Fraatace (o Fraate v), dovette accondiscendere a conversazioni con Gaio Cesare in territorio neutrale (fu scelta un'isola dell'Eufrate); queste conversazioni segnarono una netta vittoria diplomatica di Augusto nella questione armena. Poco a poco, sulle basi diplomatiche poste da Augusto, il regno partico, governato dal ramo legittimo arsa cide, si avviava ad una sempre maggiore dipendenza dallo stato romano; dopo le conversazioni con Gaio, Fraatace poté considerarsi un dinasta « romanizzante » per eccellenza; ma le basi poste da Augusto non furono sufficienti ad eliminare l'orgoglio nazionale partico, che si rivelò più tardi, negli ultimissimi tempi di Augusto e nel corso del principato di Tiberio (cfr. in/ra, ix). Anche in altri punti la politica di Augusto si è #volta verso l'Oriente: nel controllo dello stato bosporano e nell'incorporazione della Galazia (25 a.C.), e infine nel problema della via commerciale verso l'India (è significativa l'esistenza di un templum Augusti nel Malabar, attestata dalla tavola peutingeriana; ciò illustra chiaramente la notevole estensione delle fattorie di Romani - Yavana, « Greci », li chiamavano gli Indiani - in zone tamile). Esigenze commerciali, sempre più aperte dopo la conquista dell'Egitto, hanno in parte determinato le campagne contro l'Etiopia meroitica e l'Arabia (anni 25-22 a.C.); campagne, della cui asprezza è testimonianza, tra l'altro, in -iscrizioni meroitiche (in una di queste, la regina o « candace » [krke] Amanirenas sembra vantarsi di aver fatto prigioniero un Qeper, in cui taluno ha visto il vassallo romano della Triakontaschoinos). Augusto, nelle Res " Questo punto va messo in rilievo, anche in relazione alla recente scoperta, che gli Ebrei della Nuova Alleanza chiamavano Kitim (termine generale indicante i Greci: in/ra, App. il) i Romani. Così agli Indiani come agli Ebrei i Romani apparivano Greci. Nessun altro punto, mi sembra, potrebbe chiarire meglio come l'inquadramento della cultura romana nella ellenistica apparisse fatto essenziale già ai contemporanei.
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gestae, dice che in Etiopia fu raggiunto l'oppidum Nabata cui proxima est Meroe (in realtà, Napata è a 25 schoinoi a nord di Meroe), in Arabia l'oppidum Mariba. In ogni modo, le basi dei rapporti fra Roma e Nubia rimasero più o meno costanti dall'epoca di Augusto per un lungo periodo del principato, fino all'avanzato iii secolo; si può dire che la storia della Nubia è anche la storia del controllo romano sulla Dodekaschoinos (la quale sembra rientrare nella Triakontaschoinos). L'opera di Augusto in Etiopia, come ha stabilito il controllo romano sulla Dodekaschoinos, così ha causato, dal punto di vista geopolitico, una gravitazione dello stato meroitico verso il sud (la capitale sarà ormai Meroe, non più Napata). Questo era un successo notevole: Augusto, pur conservando buoni rapporti diplomatici con lo stato meroitico, fondava più stabilmente la sicurezza del dominio romano in Egitto; la crisi della Nubia romana verrà solo nel iii secolo, quando il regno meroitico cadrà sotto i colpi di nuove migrazioni e di attacchi blemyi, finché Diocleziano dovette ricondurre a File la frontiera e stabilire i Nobadi nella Dodekaschoinos. La più grave difficoltà della politica romana era comunque la sistemazione in Europa. Da questo punto di vista, si può soprattutto riconoscere l'impegno « europeo » di Augusto come momento fondamentale nella fondazione dell'Europa romana: egli si è preoccupato non soltanto di consolidare il dominio romano nella Spagna (queste imprese cantabriche e asturiche hanno occupato tutto il periodo 29-19 a.C.), ma soprattutto di affrontare, come già accennammo, il problema delle regioni germaniche e « boeme ». La conquista della libera Germania era un tratto cesariano nella politica di Augusto. Già Giulio Cesare aveva rivelato, nei suoi Commentarii, il selvoso mondo dei Germani; ora Augusto tentava di ereditarne, per questa parte, la politica di conquista, mentre invece rinunciava all'eredità dei piani cesariani per la Partia. Una preparazio
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ne necessaria contro i Germani furono le spedizioni di Druso e Tiberio contro i Reti (15 a.C.) e il riordinamento delle Gallie (16-13 a.C.); il 12 a.C., il giorno i di agosto, fu dedicata da Druso l'ara Romae et Augusti a Lione, e alla dedica del tempio di Lione seguì la conquista della Germania fino all'Elba ad opera di Druso, dal 12 a.C. al 9 a.C.; anche in questo caso, come già nel pensiero di Cesare, il dominio della Gallia e la vittoria sui Germani apparivano realtà interdipendenti. Ma nel 9 a.C. Druso morì. Restava, tuttavia, la speranza (o certezza) che i successi di Druso non sarebbero andati del tutto perduti, e che il confine si potesse mantenere, se non fino all'Elba, almeno fino al Weser. Intanto Tiberio aveva sottomesso, dal 12 a.C. al 9 a.C. (ovatto 16 gen. 8 a.C.?) i Pannonii; nell'8 a.C. prese la condotta della guerra germanica, nel 7 a.C. celebrò il trionfo sui Germani. Nell'attuale Colonia fu fondata l'ara Ubiorum, una tipica rispondenza con l'altare di Roma e Augusto a Lione. La grande conquista di Druso parve assicurata; nel 4-5 d.C. Tiberio, ormai ritornato in primo piano nella vita politica dell'impero, riprese la campagna germanica e arrivò fino all'Elba. Si vide però, allora, la difficoltà di conciliare le conquiste germaniche con i problemi danubiani (si noti che la Mesia era ormai controllata dai Romani). La possibilità strategica di conservare le conquiste fino all'Elba era data solo se si fosse sicuri dalla parte del Danubio; un attacco convergente (6 d.C.) dalle regioni chattiche e dalle pannoniche contro i Marcomanni, di cui era re Marobod, avrebbe dovuto risolvere la situazione. Ma la ribellione pannonica (6-9 d.C.) occupò gravemente Tiberio; in corrispondenza, nel 9 d.C., Arminio - un soldato che aveva combattuto ul servizio romano, ma pur conservava coscienza « nazionale » germanica - chiamò a ribellione i Germani; persino il sacerdote dell'ara Ubiorum (Segimund, figlio del romanizzante Segestes) « strappò le bende sacerdotali, profugo presso i
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ribelli » 8 . Nella foresta di Teutoburgo, verso l'agosto del 9 d.C., Arminio vinse sul comandante romano Varo; tre legioni furono distrutte. La possibilità di romanizzare la « libera Germania » era compromessa. La battaglia di Teutoburgo segnò per sempre la fine della conquista di Druso. Il confine romano in Europa tornò al Reno e al Danubio (nell'epoca flavia sarebbe intervenuta la correzione degli agri decumates); in ogni modo, l'Europa' germanica restò sostanzialmente staccata dall'impero romano. La portata mondiale della battaglia di Teutoburgo è tutta qui; ed è enorme. L'ordinamento militare e sociale.
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L'imperatore deve il titolo I m perator (divenuto, ora, il suo prenome) e la sua stessa posizione alle necessità militari dell'impero: senza province non pacate, e comunque senza province imperiali, non ci sarebbe imperatore. L'ordinamento militare augusteo è quindi l'immagine più precisa del modo in cui Augusto ha concepito le sue funzioni (sembra, addirittura, che egli abbia redatto una Disciplina militare). La stabilità dell'ordinamento militare augusteo nelle sue linee principali e - attraverso notevoli trasf ormazioni per tutto il principato fino a Gallieno dimostra che, anche per questa parte, l'imperatore ha visto giusto. La « spina dorsale » dell'esercito rimasero le legioni: in numero di 28 (dopo Teutoburgo, ridotte di fatto a 25); ogni legione di circa 5 000 uomini, con 10 coorti, ciascuna delle quali era al comando di 5, o 6, o 7 centurioni. L'ufficiale generale della legione ha il titolo di legatus Augusti legionis, ed è tratto dall'ordine senatorio, di tra i pretorii; a lui sono subordinati i tribuni legionis (uno laticlavio, cinque angusticlavii), sicché questa ufficialità superiore (press'a poco con le funzioni dei nostri colonnelli coman8
Tac.
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danti di reggimento 9) si distribuisce nella proporzione di 1: 5 tra ufficiali di rango senatorio e ufficiali di rango equestre. Le venticinque legioni appaiono ordinate in numero d'ordine progressivo, da i a XXII, in maniera però che alcune di esse abbiano lo stesso numero (la III Augusta, la III Cyrenaica, la III Gallica; la V Alaudae e la V Macedonica; la VI Victrix e la VI Ferrata; la X Gemma e la X Fretensis), dal che giustamente si è dedotto che alcune di esse, provenienti dagli eserciti dell'ultima epoca rivoluzionaria, hanno conservato la propria originaria numerazione. Se le legioni sono il fondamento essenziale di questo esercito permanente augusteo, d'altra parte le forze arruolate fra i peregrini, gli auxilia, ne sono il complemento necessario. Le legioni sono arruolate fra i circa 4 milioni di cittadini romani dell'impero (supra, p. 51), in prevalenza italiani; mentre gli auxilia sono levati di tra i peregrini (per i diplomi militari, da Claudio in poi, cfr. in/ra, XXVI). Dopo Augusto, gli ufficiali degli auxilia sono dell'ordine equestre; del resto, normalmente le unità di auxilia sono aggregate alle legioni, sicché anche esse fanno capo al pretorio legatus legionis come ad ufficiale generale. I soldati degli auxilia possono essere fanti e cavalieri; i primi ordinati in coorti, i secondi in ale. Nella carriera equestre, per lo più la prefettura di ala sarà rivestita dopo la prefettura di coorte e il tribunato angusticlavio: così sembra rispecchiarsi nella carriera equestre una superiore importanza - che sempre più si accentuerà nel corso del principato della cavalleria ausiliaria rispetto alla fanteria ausiliaria. In primo luogo milites in castris continere, come aira poi (nel ii secolo) il giurista Macro; ed ancora ad exércitationem producere, castigare, /rumentationibus interesse. Le lunghe discussioni dei moderni sul numero dei centurioni delle coorti (specialmente della prima coorte) non approdano a conclusioni, perché questo numero era oscillante - per lo meno nel corso dell'impero da 5 a 7: Vegezio (in/ra, LXVII) non può buttarsi via, ma non può neanche considerarsi un testo sacro.
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Va rilevato che questa distinzione di legiones e auxilia si è conservata - sebbene già nel u secolo gli auxilia siano largamente composti di cives romani - fino al basso impero (ancora sotto Costantino, nel 325, le due fondamentali forme di servizio militare saranno da una parte l'appartenenza alle legioni, dall'altra l'appartenenza agli auxilia nelle due forme di alares e cohortales: cfr. innanzi, § 91). La distinzione, che col tempo diverrà soprattutto una distinzione di disciplina (cfr. innanzi, XXVI; § 49; § 102), non va senz'altro intesa nel senso che le truppe delle legioni fossero considerate in servizio obbligatorio e quelle alari coortali in servizio ausiliario (la quale interpretazione sembrerebbe suggerita dall'antico concetto protorepubblicano del cittadino-legionario; e di fatto è stata autorevolmente sostenuta) In realtà, con l'ordinamento augusteo (che trae la somma della evoluzione compiutasi nel i secolo a.C.) sono volontari i legionari italiani; sono obbligati al servizio gli ausiliari (in/ra, § 39). C'è appena bisogno di dire che l'organizzazione militare augustea era anche, specie per ciò che riguarda il rapporto tra la truppa e l'ufficialità, un riflesso della nuova organizzazione sociale dell'impero. Solo chi apparteneva all'ordine senatorio (e cioè chi - per via agnatizia o adottiva - era figlio o nipote o pronipote di senatore; oppure chi riceveva il conferimento del latus clavus da parte dell'ìmperatore) assumeva - di regola, dopo il vigintivirato - il tribunato laticlavio della legione, e indi passava, attraverso la normale carriera senatoria (questura; tribunato o edilità;. pretura), al comando della legione; e tra gli ex-pretori (pretorii) si sceglievano i legati Augusti pro praetore delle province imperiali con una sola lgione, tra gli ex-consoli (consolari) i legati Augusti pro praetore delle province imperiali con più legioni; allo stesso modo, tra gli ex-consoli e gli ex-pretori si sceglievano i proconsoli delle province senatorie; il comando della guarnigione di
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una provincia proconsolare era di regola affidato a legati pro praetore del proconsole. Solo chi apparteneva all'ordine equestre (e dunque aveva un censo di 400 000 sesterzii, e la probatio per la lista dei cavalieri redatta dall'imperatore) normalmente aspirava alla prefettura di coorte e, dopo questa, al tribunato angusticlavio e alla prefettura di ala; e gli si aprivano le grandi funzioni amministrative (procuratele). Ognuno dei due ordini aveva i suoi sacerdozii. Lo stato romano venuto fuori dalla rivoluzione cesariano-augustea era dunque fondato sul privilegio delle due classi superiori, la senatoria e l'equestre: superiore per dignitas la prima, particolarmente vicina all'imperatore la seconda. Ancor una volta: sull'armonia dell'uterque ordo, di cui il senatorio esprimeva la tradizione e l'equestre la rivoluzione « borghese », si fonda, dal punto di vista so ciale, il principato augusteo; proprio le incrinature di questa armonia spiegano le vicende della legislazione sull'elezione dei magistrati (in/ra, § 18; App. i) ed anzi, in gran parte, tutta la vicenda del principato. Essa sarà più evidente nei periodi di crisi: nei quali sempre l'imperatore si sentirà più vicino alla classe equestre e la contrapporrà alla senatoria. Di ciò può essere un tipico esempio, tra i molti (e per limitarci al i secolo d.C.), la grave crisi dell'epoca di Nerone, quando questo imperatore, originariamente assai legato alla nobiltà senatoria, si guasterà definitivamente col senato e minaccerà di governare solo mediante l'ordine equestre (e con esso i liberti), eliminando i senatori (se provincias et exercitus equiti Romano ac libertis permissurum 10) Ma il contrasto riappare già at-
traverso l'armonia che Augusto ha cercato di comporre (5 1-2): più che mai evidente nell'ordinamento dell'Egitto, provincia negata ai senatori (supra, § 11), ed in cui al co10 Naturalmente, questa tendenza si evolverà con la vittoria del denarius sull'aureus verso la fine del periodo neroniano (64); su ciò in/ra, 5 24.
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mando generale di ogni legione si troverà un praefectus legionis (non dunque un legatus legionis come nelle normali province imperiali) così come al comando di tutto il complesso militare stanziato in Egitto c'è, naturalmente, il praefectus Alexandreae et Aegypti, il governatore dell'Egitto. Qui in Egitto si esprime nella maniera migliore la diffidenza di Augusto per l'ordine senatorio; e l'ordinamento militare di questa provincia sarà modello a Settimio Severo quando ordinerà la Mesopotamia, da un punto di vista militare, in maniera affine, e per ultimo sarà modello a Gallieno quando eliminerà i senatori (in/ra, 55 6869) dall'esercito e preporrà alla legione un prae/ectus legionis equestre. La prefettura d'Egitto è, all'epoca di Augusto, la suprema fra le magistrature dell'ordine equestre: dopo le funzioni di alta ufficialità nell'esercito, i cavalieri ricoprono le procuratele e hanno, come supremo fastigio della carriera, la prefettura d'Egitto. Ma già all'epoca di Augusto un altro supremo fastigio si presenta all'ordine equestre: la piefettura delle coorti pretorie. Fu questa un'altra grande innovazione dell'o ptimus status concepito da Augusto: dalla cohors praetoria repubblicana, guardia personale del comandante, Augusto ha fatto sorgere il corpo di questi soldati particolarmente vicini all'imperatore, ordinati in 9 coorti (di cui tre stanziate a Roma), al comando del praefectus praetorio estratto dall'ordine equestre. Le coorti pretorie erano il meglio della gioventù italiana che si dava alla carriera militare. Mecenate, il carus Maecenas eques di Orazio, se ne può considerare, in certo modo, il più antico prefetto, e già questa scelta indica la prudente cura con cui Augusto considerava il corpo dei pretoriani, quasi fiore delle forze armate imperiali; in seguito, l'ufficio del prefetto al pretorio, perdendo il carattere piutto sto personale che aveva avuto all'epoca di Mecenate, assunse forma collegiale, e fu affidato a Ostorio Scapula
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(poi prefetto d'Egitto) e Salvio Apro (nominati nel 2 a.C.). Ben presto, sotto il successore di Augusto, Tiberio, il nuovo. ufficio avrebbe assunto, con Seiano, una importanza eccezionale. Del resto, si può dire che Tiberio stesso, riunendo in Roma, al castro pretorio, le coorti pretorie, di cui Augusto aveva permesso solo a tre togatae (non sagatae) la stanza in Roma, portò a compimento una conce zione politico-militare già avviata da Augusto medesimo. Questi cercava nella gioventù italiana, dalla quale si reclutavano i soldati del pretorio, il sostegno della nuova autocrazia e la classe capace di difendere, con lo stato nuovo, le esigenze della sua rivoluzione. Per ciò le coorti pretorie erano destinate ad avere, nell'esercito romano ordinato da Augusto, una importanza, così militare come politica, di prim'ordine; di gran lunga al di sopra delle tre cohortes urbanae, una specie di « picchetti armati » a disposizione del prefetto urbano; per non dire delle sette modeste cohortes vigilum, costituite generalmente di liberti, e destinate a funzioni di piccolo servizio di polizia e di pompieri (una per ogni due delle regioni in cui Augusto divise la città; in realtà, essi in origine non erano che un istituto urbano, sorto per iniziativa di un avventuroso edile del 21 a.C., gladiatori quarn senatori pro pior). Il prefetto urbano era di rango senatorio: così alle quattro grandi prefetture equestri - dei vigili, dell'annona, dei pretoriani, dell'Egitto - si contrapponeva una grande prefettura senatoria, la prefettura urbana, che controllava Roma per un raggio di cento miglia. Anche in questo caso, un compromesso con l'ordine senatorio apparve, dunque, necessario; ma l'impratore aveva sempre, a Roma, le sue coorti pretorie, al comando dell'equestre prefettura al pretorio. Il compromesso era, in fondo, a vantaggio del principe e dell'ordine più vicino al principe, l'ordine equestre. Del resto, nell'ordine equestre erano scelti i praefecti classis, comandanti delle due flotte permanenti stanziate a Mi-
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seno e a Ravenna (città allora naturalmente difesa, perché circondata da lagune); le forze navali romane furono reclutate da Augustà fra gli schiavi, e imbarcate soprattutto su liburnae che, per la loro velocità, ad Azio si erano mostrate superiori alle unità più grandi (altri reparti navali saranno a Fréjus [Forum lulii, nella Provenza], ad Alessandria, al Danubio). La costituzione di un esercito permanente implica una economia accentrata, e soprattutto un impulso all'economia monetaria. Impero comincia a significare, altresì, burocrazia: le procuratele equestri e le funzioni dei liberti vanno remunerate sulla base di compensi monetari che si identificano coi salaria. La magistratura di tipo repubblicano, vale a dire la magistratura vera e propria, era normalmente retribuita con indennizzi, e insomma con cibaria, piuttosto che con salaria; richiedeva, cioè, indennizzi in natura piuttosto che retribuzioni in denaro. E non solo il magistrato repubblicano, ma pur i suoi apparitores e la sua cohors amicorum, dovevano teoricamente preferire, ai sensi di un rigorismo ideale, compensi in natura, ed escludere compensi in denaro (Catone Censore poteva dire di non aver mai dato argentum pro vino con giario ai suoi apparitori ed amici); ancora nel primo secolo avanzato, nella borghese epoca dei Flavii, il fiero suocero dello storico Tacito, Agricola, non ha voluto chiedere le « competenze in denaro normalmente corrisposte ai proconsoli » (salarium proconsulare solitum o//erri). Ma l'istituzione augustea di una vera e propria burocrazia imperiale fosse essa fondata sulle procuratele equestri o sulle attribuzioni speciali di alcuni liberti - stabiliva, in ogni modo, il principio del compenso in denaro ai funzionari; e che questo principio tendesse ad estendersi alle antiche magistrature repubblicane conservate da Augusto, è dimostrato, per esempio, dal citato caso di Agricola: esso chiarisce che anche per i proconsoli il principio della retribuzione
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in denaro si era affermato - sebbene un rigorista dello stampo di Agricola mai vi facesse ricorso. Poco a poco, dunque, il sistema della economia monetaria nelle ricompense ai funzionari - sistema ben naturale nel caso delle procuratele imperiali - si rivelò così attuale da estendersi anche alle magistrature di vecchio stampo repubblicano. La intensificazione della nuova economia monetaria importò anche la sistemazione delle emissioni monetarie, le quali furono stabilizzate nel senso che l'aureus (di 1/40 libbra) equivaleva a 25 denarii di argento (di 1/84 libbra) e a 100 sesterzii di rame; mentre la monetazione di oro e di argento era riserbata all'imperatore, la monetazione ènea italiana spettava al senato. Naturalmente, il denarius, destinato ai minuta ac vilia commercia era soprattutto la moneta della piccola borghesia commerciale, la quale, come vedremo, tenderà sempre a far diminuire il peso del denarius, riducendolo in maniera da aumentare il potere d'acquisto dell'argento a svantaggio dell'oro (in/ra, § 24). Ma anche in questo caso la politica di Augusto ha tentato un equilibrio fra il grande capitale e la piccola borghesia, sia pur un equilibrio che era a tutto vantaggio del grande capitale. Nello stesso tempo, già Augusto ha dato l'avvio alla costituzione del fiscus, ed insomma all'ordinamento delle entrate dell'imperatore, di fronte al vecchio aerarium (in/ra, xvi); il fiscus potrà poi considerarsi definitivamente organizzato sotto Claudio. Alla corresponsione di compensi ai veterani Augusto ha provveduto mediante l'aerarium militare; a questo si destina una tassa indiretta dell'i % sulle vendite, la centesima venalium, sì che il successore d'Augusto, Tiberio, poteva dire « che l'erario militare si fonda tutto su quella tassa » (militare aerarium eo subsidio niti); altra tassa fu la vicesima (5%) 11 Come tale esso è considerato da Tacito (in/ra § 32) e ancora, nel iv secolo, dall'opuscolo de rebus bellicis. - Per i rapporti tra aerarium e /iscus, cfr. in/ra, XVI.
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sulle successioni e donazioni, stabilita da Augusto (ma non senza precedenti) nel 6 d.C. La centesima venalium era grave al populus più che agli ordini privilegiati: ed è significativo che proprio il populus, dopo la morte di Augusto, ai primi tempi del principato di Tiberio, ne chiedesse l'abolizione. A tale richiesta, secondo lo storico Tacito, Tiberio non poté addivenire per la suddetta ragione, che « l'erario militare si fondava tutto su quella tassa », e inoltre per le superiori necessità di mantenimento d'un esercito a ferma ventennale (militare aerarium eo subsidio niti, simul imparem oneri rem publicam, nisi vicesimo militiae anno veterani dimitterentur): è notevole, qui, come la lunga ventennale durata del servizio militare fosse una difficoltà grave per lo stato romano (questo punto della stipendiorum tarditas - come poi dirà un autore del basso impero - è essenziale alla comprensione dei problemi dello stato romano, combattuto tra le necessità della difesa e la necessità di compensare i veterani dopo la lunga ferma). La centesima venalium fu poi abolita da un imperatore particolarmente vicino alla plebecula, Caligola (essa fu in seguito ristabilita, non sappiamo da chi). Viceversa, la vicesima sulle successioni e donazioni, che colpiva le classi più abbienti, rimase sempre; e fu costantemente considerata la tassa più grave pci cittadini romani; sì che Plinio il Giovane ne avrebbe indicato la gravità persino in un panegirico ufficiale a Traiano (tributum - heredibus - domesticis grave). Anche con l'istituzione di questa tassa Augusto indicava che la sua opera di capo d'una rivoluzione non doveva intendersi nell'interesse di questa o quella classe. Egli aveva cercato di fondare stabilmente un optimus status in cui pure le classi privilegiate e la ricca borghesia avessero a subire, per il bene della communitas, delle iniuriae particolari: qui ritroviamo l'« idealista » Augusto, un uomo che, da buon imperatore stoico, concepiva il suo compito come una sta-
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tio o un dovere, al di sopra di quell'ordinamento delle classi privilegiate che tuttavia gli parve necessario proprio per il mantenimento dell'o ptimus status. Del resto, anche la sua famosa legislazione demografica aveva questo significato: la lex lulia (18 a.C.) e la Papia Poppaea (9 d.C.), che diseredavano l'erede celibe o privo di figli, incamerando allo stato i beni del de cuius (tranne che l'erede celibe fosse de' prossimi parenti o affini), erano evidentemente destinate a spiacere alle classi abbienti. Chi consideri l'ordinamento augusteo in alcuni suoi aspetti sarà dunque condotto a vedere in questo stato, il quale in ogni caso veniva da una sanguinosa e tormentata rivoluzione, una costruzione fondata sul privilegio: sul privilegio della classe senatoria, svecchiata ed epurata da Augusto, e sul privilegio della nuova classe « affaristica » dei cavalieri, classe particolarmente vicina e cara all'imperatore. Ed un moderno potrebbe dire che, come per esempio lo stato di Federico di Prussia è, nell'ufficialità militare e nell'ordine sociale, lo stato degli « Junker », così lo stato augusteo si rivela, nell'ufficialità militare e nella struttura sociale, lo stato dei due ordini privilegiati senatorio ed equestre. In una tale considerazione sarebbe molto di vero; certo, il principato romano è, per una notevole parte, la consacrazione del privilegio; l'originario fon do democratico, da cui la rivoluzione era partita, si era in parte perduto. Ma i nuovi privilegiati erano uomini responsabili di fronte al monarca; ed in gran parte, uomini interessati al prevalere dell'economia monetaria borghese sulla parasitica economia senatoria. Del resto, per l'ordine equestre si è potuto attingere, oltre che ai privilegiati dalla nascita (che del resto diventavano cavalieri non di diritto, ma sempre per p?obatio del principe), anche ad una immissione di elementi della migliore sottufficialità nella regolare formazione dei quadri superiori, é indi nell'ordine equestre vero e proprio; e quanto all'or-
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dine senatorio, va rilevato che la adlectio inter quaestorios praetorios, consulares dava al principe la possibilità di svecchiare sempre quell'ordine, immettendovi elementi della più attiva borghesia equestre. Ma soprattutto: le borghesie provinciali, accentrate intorno al culto della dea Roma e di Augusto, fornivano all'impero una continua fonte di rinsanguamento della classe equestre. Inoltre, si rivela fecondo il principio della concessione di cittadinanza, che dà all'impero molti lulii, sulla scia di quell'antica tradizione repubblicana che due secoli prima era apparsa tanto notevole al monarca macedone Filippo v. E come all'antico monarca macedone la manomissione degli schiavi era apparsa un'altra caratteristica dello stato repubblicano, così ora la nuova importanza dei liberti sottolinea larghe possibilità di rinnovamento sociale inerenti allo stato augusteo: dai liberti della casa imperiale, che sono nucleo di una burocrazia centrale (come i cavalieri sono, attraverso le procuratele, il fulcro amministrativo-finanziario delle province), ai liberti che nei vari municipi costituiscono la più spregiudicata e affaristica borghesia, e, come la borghesia dei liberi (ed infine a preferenza dei liberi), forniranno ai municipi la classe dirigente dei culto imperiale. La rivoluzione aveva quadruplicato il numero di cives dello stato romano: circa dieci milioni di uomini fra Italia e province (supra, § 8, n. 2). Che se una definizione di questo stato si vuoi dare, essa si dovrà piuttosto cercare nella volontà di difendere, attraverso l'equiibrio delle classi, quella cultura ellenistico-romana che nell'imperium si concretava, che le guerre civili avevano minacciato di distruggere; e nel prevalere, in questa volontà costruttiva, di nuove classi che -corì concetto moderno noi chiamiamo borghesia, e che veramente costituiscono - dai cavalieri ai liberti - le effettive depositane dell'o ptimus status. La missione culturale affidata a questo status si è configurata allora come missione di l
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civilitas, accentrandosi intorno alla vita cittadina; e tale resterà per tutta la durata dell'impero (in/ra, 55 103 sgg.). S'intende anche che questa cultura ha un suo tono ideale di origine e spiriti aristocratici, proprio quello che dà compostezza e vigore alla urbanitas retorica: della quale ultima il poeta e scrittore augusteo Domizio Marso (autore, appunto, di un'opera De urbanitate) trovava formulazione, per il suo genere medio, in quell'affermazione ciceroniana neque gravem mortem accidere viro forti posse nec immaturam consulari neque miseram sapienti. Cicerone era già « il classico » dei più tardi « Augustei »: sebbene il poeta Virgilio lo avesse ignorato, Cicerone, la vittima più illustre della rivoluzione, aveva saputo morire. Anche ad Augusto la morte non fu grave né immatura né misera. Il consolare sul cui scudo d'oro la curia romana aveva indicato le quattro sue doti (virtus dementia iustitia pietas) aveva anche abbastanza di fortezza e di sapienza per non avere né grave né immatura né misera la morte. L'ultimo giorno della sua vita (19 agosto 14 d.C.) si fece portare uno specchio, si fece pettinare. Chiese agli amici: « Ho rappresentato bene questo mimo della mia vita? ». Ed egli stesso diede la risposta, con due versi greci: « se vi è piaciuto il giuoco, date il vostro plauso, e tutti con gioia accompagnatemi ». E poi a Livia, alla donna amata che aveva conciliato il feroce rivoluzionario col senato: Livia nostri coniugii memor vive ac vale. Era la morte di uno stoico: l'impero romano è stato anche, con Augusto come con Adriano e Marco Aurelio, come poi con Gallieno e soprattutto con Giuliano, uno stato di monarchi-filosofi.
BIBLIOGRAFIA E PROBLEMI
I. FONTI Le principali fonti letterarie pervenute sono le Filippiche e ancora l'epistolario di Cicerone (in f ra, III); Nikolaos di Damasco; Velleio Patercolo 1 (il quale vede gli avvenimenti soprattutto da un punto di vista tiberiano: « egli racconta come se negli anni 4-14 d.C. non fosse avvenuto nulla, all'infuori di ciò che fece Tiberio », WEBER, Princeps [1936]); Appiano, Em ph ylia III -v" (supra, § 11, n. 5) e Ill yriké; Plutarco (Cicerone, Bruto, Antonio); Suetonio 2 ; Cassio Dione 3 (nel LII il famoso discorso di Mecenate: in f ra, § § 48-49; 76; HAMMOND, « Trans. Amer. Phil. Ass. », 1932, p. 88). Per il periodo che precedette immediatamente la morte di Augusto, si aggiunge Tacito, il quale ha dato, in questa occasione, una sua valutazione di tutta l'opera di Augusto. Fonte di prim'ordine la poesia augustea (cfr. per es. PÒSCHL, Die Dichtkunst Vergils [1950]; WILI, Horaz u. die aug. Kultur [1948]; di epoca augustea sembra il de bello Alexandrino parzialmente conservato tra i papiri erco-
lanesi). Si aggiunga il compendio di Floro (per l'interpre1 Cfr., da ultimo, LANA, Velleio Patercolo o della propaganda (1952); M. L. PALADINI, «Acme», 1953, p. 447. 2 Cfr., da ultimo, STEIDLE, cit. più innanzi. 3 Naturalmente,. il problema della validità di Cassio Dione, soprattutto per ciò che riguarda il suo rapporto con gli Acta Senatus, va considerato caso per caso (una valutazione assolutamente favorevole è nella dissertazione di ANDERSEN, Cassius Dio u. die Begritndung des Principatus [ 1938], discussa alla scuola di P. L. STRACK; abbastanza favorevole è anche, da ultimo, l'importante opera di TIBILETTI, Principe e magistrati repubblicani. Ricerca di storia augustea e Liberiana [1953]). In Germania, il più illustre oppositore della tendenza di STRACK (e del suo maestro W. WEBER è il HOHL: ctr. anche « Klio », 1937, p. 323; in Inghilterra, GRANT (cfr. supra, p. 72, n. 1; in fra, v).
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tazione del periodo augusteo in Floro cfr. P. ZANCAN, Floro e Livio [1942], pp. 11-13, che insiste sulla non dipendenza di Floro); e i compendiatori veri e propri, come per es. Euìropio e Orosio (da Livio); l'epitome di Giustino, da Trogo (il poco che apprendiamo da Giustino è però importantissimo, perché Trogo è, come Livio, un contemporaneo; sulla sua personalità cfr. per es., da ultimo, ZEL'IN, « Vestnik drevnej istorii », 1948, n. 4, p. 208). - Ma naturalmente la fonte principale resta la « regina delle iscrizioni », le Res gestae (ed. E. DIEHL, 1910; BARINI, Milano 1930-Roma 1937; VOLKMANN, « Burs. Jahresbb. »), 276, Supplb. 1942 (cfr. ID., « Burs. jahresbb. », 279, 1942, 1) con le osservazioni di GOTTANKA, « Phil. », 1942, p. 230 (non vidi) (cfr. INSTINSKY, « Gn. », 1943, p. 170 [non vidi]); GUARINO (1-13; 25-35), 1948. Basilari l'ed. MOMMSEN 2 , 1883; GAGÉ, 1935; RICCOBONO-FESTA in Acta divi Angusti dell'Accademia d'Italia (i, 1945), e quella del Corpus Paravianum curata dalla MALCOVATI, 1948, nell'edizione 3 p. 105 dei Fragmenta. Si è molto discusso sulla genesi e sul carattere di questa epigrafe (la genesi risale, secondo KORNEMANN, Mausoleum u. Tatenbericht [1921; v. in/ra, v] sino al 28 a.C.); cfr. « Bericht ùber den internat. Kongress f. Arch. », 1940, p. 471; un acuto tentativo di ricostruire la genesi partendo almeno dal 23 sett. 1 a.C. in HOHL, « Neue Jahrbb. f. Ant. u. deutsche Bildung », 1940, p. 136 (si veda, per altro, l'importante saggio di ENSSLIN, « Rh. Mus. », 1932, p. 345, dove sono eliminate molte pretese aporie; cfr. KOLBE, « Gott. Gel. Anz. », 1938 9 p. 167; STEIDLE, Sueton u. die ant. Biographie (1951), p. 128; SCHÒNBAUER, « Sitzungsbb. Wiener Akad. », 1946, p. 112 (interpretazione politica, in contrasto con l'assimilazione a regesti amministrativi data da STAEDLER per es. in « Ztschr. Sav. St. », RA, 1942, p. 82). Il carattere delle Res gestae è assimilato a un'iscrizione funerana per es. in DESSAU, « Klio », 1929, p. 261; a un « Rechenschaftsbenicht » in MOMMSEN, Ges. Schr., iv, p. 247; a iscrizioni orientali, precisamente quella di Dario a Behistun o (in ambito asiatico idelmente più vicino) quella di Antioco di Gommagene, da altri studiosi (KORNEMANN, Op.cit.; BICKEL, Lehrb. d. Gesch. d. Ròm. Lit. [1937], p. 400; LAQUEUR, « Neue Jahrbb. », 1931, p. 489; cfr. LEVI nell'appendice alla edizione ,
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di Suetonio, Divus Augustus [1951], e già « Riv. fu. class. », 1947, p. 189); come « mito del nuovo dio » le RG sono intese da WEBER, op. cit. Per l'assimilazione agli elogia (uno sviluppo, in certo senso, della vecchia dottrina di BORMANN) cfr. ultimamente STEIDLE, loc. cit. Nel dibattito si deve tener presente l'iscrizione di Vardane, della quale discorreremo più innanzi; di essa ci dà notizia Tacito (Ann. xi, 10) come di monimentis quibus (Vardanes) opes suas testabatur (il passo
va aggiunto a quelli comunemente citati dai sostenitori dell'interpretazione orientale); il testo di Tacito dà l'impressione che questo tipo di monumenti orientali attirasse l'attenzione dei Romani e da essi potesse esser considerato come tipo da confrontare con le precedenti Res gestae augustee. Con il concetto di iscrizione monumentale, che si può connettere con il tipo ellenistico, è confluito, nelle Res gestae divi Augusti, il concetto romano dell'elogium. Ma soprattutto direi: Augusto, nella piena coscienza che dopo la morte egli sarà divus dello stato romano, vuol far conoscere - senza preoccuparsi di generi letterarii - il contenuto storico dell'opera compiuta per lo stato in cui sarà divus. Dell'enorme materiale epigrafico si ricordi, per es., la cosidetta Laudatio Turiae (ora ed. DURRY), su cui cfr. per es. ARANGIO Ruiz, « Atti Accad. Pontan. », 1941; VAN OVEN, « Mél. De Visscher », il, 1949, p. 373 (per il problema della agnitio bonorum possessionis). I sette frammenti (uno di recentissima scoperta: A. E. GORDON, « Am. Journ. Arch. », 1950, p. 223) a noi pervenuti ricostruiscono, a un dipresso, tre quarti della Laudatio intera; tuttavia, la parte mancante rende impossibile la soluzione di problemi gravissimi, come quello stesso del nome del marito laudator e della sposa cui s'intitola la Laudatio; infatti la vecchia identificazione della sposa laudata con Turia (moglie di Lucrezio Vespillone console nel 19 a.C.) si presta a dubbi e va incontro ad alcune difficoltà (tuttavia, l'epigrafe si suole designare, per lo più, come Laudatio Turiae; e anche noi l'abbiamo così indicata). L'importanza dell'epigrafe è in ciò, che essa è il più vivo documento dell'epoca del « terrore », insomma delle proscrizioni triumvirali: la sposa laudata ha salvato il marito, proscritto da Lepido, da una inevitabile rovina, nascondendolo mentre infuriava la pro-
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scrizione, e infine ottenendo la grazia ad opera di Ottaviano. Ciò illustra la tensione, durante il 42 a.C., nei rapporti fra Ottaviano e Lepido (quoi nocuit mox ea res); si può dire che tra i punti essenziali va rilevato l'atteggiamento negativo della Laudatio nei riguardi di Lepido. - Raccolte di iscrizioni sul principato: BARROW, A Sei. o/ Lat. Inscr. (1934); RUSHFORTH, Lat. Hist. Inscr. (1893). - Una raccolta di iscrizioni e altri documenti (monete, papiri) in EHRENBERGJONES, Documents Illustr. the Reigns of Aug. a. Tib. (1949). Di alcune importanti epigrafi faremo particolare menzione innanzi. Un posto a parte spetta, nel materiale epigrafico, ai fasti e agli elogia: I. I., xiii, ed. DEGRASSI; cfr. in/ra, v; supra, p. 51, n. 2. Per gli editti ai Cirenei, e per altre iscrizioni particolarmente notevoli, cfr. in/ra. - Pel materiale numismatico, oltre alle opere generali, cfr. BAHRFELDT, Die ròm. Goldmiinzenpr. wiihrend d. Republi/e u. unter Augustus (1923). Pel materiale numismatico del 44 a.C. cfr. ALFÒLDI, Studien iiber Caesars Monarchie (1953); per le emissioni dell'epoca della guerra civile MATTINGLY, « Num. Chron. », 1946, p. 91 (monetazione italiana d'ispirazione antoniana: cfr. in/ra, App. I, n. 10). - LIEGLE, «Jahrbb. d. Inst. », 1941, pp. 91 sgg.; GRANT, From Imp. to Auct. (1946) (su cui in/ra, v); The Six Main Aes Coinages o/ Augustus (1953); il saggio in « Studies in Rom. Econ. Soc. Hist. in Hon. A. Ch. Johnson » (1951), p. 88; R. W. SMITH, Problems Hist. a: Num. in the Reign o/ Augustus (1951; soprattutto per il problema dell'autenticità del « denaro di. Cinna »); SUTHERLAND, Coinage in Roman Imp. Policy 31 B. C. - A. D. 68 (1951); cfr. anche GABRIcI, «Augustus », 1938, p. 379: quest'ultimo ha redatto la parte relativa alla r'es nummaria nel comm. alle RG in Acta Divi Augusti I (1945), cit. Quivi le Res gestae sono edite da RlccoBoNo-FESTA cit.; le leges da BIONDI; 'i senatoconsulti da BIONDI e ARANGIO
Ruiz. significativa la grande perdita di tradizione letteraria diretta. Del de vita sua di Ottaviano ci dà un'idea per es. la (« vita ») che scrisse Nikolao di Damasco. Ma cosa si leggeva negli scritti di Asinio Pollione, Messala Corvino, Livio, Volumnio, Bibulo, Dellio, Saturnino, Nigro, Maratho, G. Druso, Macro? Sopra tutto piacerebbe conoscere gli opposti
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punti di vista dei due storici che anche per altro verso chiaramente si contrappongono: il tradizionalista Livio, il rivoluzionario Pollione (della cui critica a Livio SYME ha dato un'interpretazione politica). (Pollione è confluito in Appiano: eccessiva la svalutazione di Appiano in SCHWARTZ e nei suoi seguaci.) E piacerebbe conoscere il punto di vista degli avversari più decisi di Ottaviano: come esso doveva esprimersi nell'opera di Tito Labieno (per i cui Pompeiani spiritus fu ordinata, nel 12 d.C., la condanna dei suoi libri, sì che egli stesso si uccise: è questo un tipico episodio di opposizione intellettuale sotto Augusto, ed un primo esempio di supplicium de studiis, di « condanna di libri » nell'epoca imperiale; interessante il giudizio formulato da Seneca padre, controv. x praef. 4). Le altre opere di storici oppositori furono abolita da senatoconsulti in epoca immediatamente successiva: così, per es., l'opera De rebus Augusti di Cremuzio Cordo, il famoso senatore processato e suicidatosi nel 25 d.C. (è sua la—tipica espressione C. Cassium Romanorum ultimum; sua l'informazione [pel 18 a.C., in occasione della ricostituzione augustea del Senato] ne admissum quidem tunc quemquam senatorum nisi solum et praetemptato sinu). Anche il conimentarius de vita sua dell'imperatore Tiberio, così come quello dell'imperatore Claudio, come infine la historia del medesimo
Claudio, dovevano essere scritti abbastanza significativi. Le opere storiche di Seneca padre e 'di Aufidio Basso ebbero eccezionale fortuna e importanza; ma noi non possiamo neanche inquadrare il famoso frammento in cui Seneca Romanae urbis tempora distribuit in aetates (HRF 2 ed. Peter li, 91, frg. 1*) e così fondò il concetto della decadenza (senectus) insita nel principato (regimen singularis imperii); tanto vero che ultimamente HARTKE, Ròm. Kinderkaiser (1950), pp. 39 sgg. attribuisce il frammento a Seneca figlio (cfr., pel problema, P. ZANCAN, Floro e Livio [1942], p. 16); in generale, per la tradizione intorno ad Augusto, FERRABINO nel volume « Augustus » (1938, fondamentale); MONTEVERDI, ibid.; HÒNN, Augustus mm Wandel 2 Jabrtausende (1938), da me recensito in « Leonardo », 1953. Naturalmente, va considerata anche la problematica delle fonti su Erode i, problematica la quale si connette con l'indagine sulle differenze, per questa parte,
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fra la Guerra giudaica e l'Archeologia giudaica di Flavio Giuseppe: più vicina la prima all'esaltazione di Erode nella vita di Nikolao, contaminata la seconda con fonti antierodiane (cfr., in generale, l'Introd. del Ricciorri alla sua traduzione della Guerra; ivi letteratura - per es., da noi, i lavori del MoTzo a cui si aggiunga, per il problema delle fonti, per es. OTTO, RE Suppi. il, 1). Oggi, il passo antierodiano relativo a Me nahem, nelle Ant., può meglio riportarsi a fonte di tendenza essenica o zelotica. - Erode e la Nuova Alleanza: in/ra, App. ii. - Il rapporto tra Ant. xv, 254 e F Gr Hist 199, F 1 pone il problema della identificazione dell'oscuro Ptolemaios: se Ptolemaios è il fratello di Nikolao damasceno, il frammento non può intendersi in senso antierodiano, e Ptolemaios non può essere fonte della polemica di Ant. contro Nikolao. Sull'epoca TI. BIBLIOGRAFIA GENERALE (cfr. §S 4-14) di Ottaviano Augusto, oltre alle storie generali della repubblica (là dove esse superano l'epoca cesariana) e dell'impero, si segnalano le monografie intorno ad Augusto: GARDTHAUSEN, Augustus u. seme Zeit (1891-1916); M. GELZER in « Meister der Politik », i ( 1923); RIcE HOLMES, The Architect o/the Roman Empire (1928-1932); LEVI, Ottaviano capoparte, I-Il (1933) e Il tempo di Augusto (1951); BERVE, Kaiser Augustus (1934); Homo, Auguste (1935). Alcuni scritti in occasione del bimillenario: HÒNN, Augustus (1938); ALLEN, Augustus Caesar (1937); BAKER, Augustus, the Golden Age o/ Rome (1937); REHRMANN, Kaiser Augustus (1937); CICCOTTI, Profilo di Augusto (1938); COPPOLA, Augusto (1941). Una monografia, che volge lo sguardo all'ultimissimo Augusto e alle RG, è quella di WEBER, Princeps cit. Nella produzione italiana pel bimillenario emergono il volume, a cura dei Lincei (1938),
« Augustus » (cfr. recensione di LAST, « Journ. Rom. Studies », 1938, p. 212), e le « Conferenze augustee » ( 1939). Di grande utilità i « Quaderni augustei » dell'Istituto di Studi Romani. Da Ultimo, PARIBENI, L'età di Cesare e di Augusto (Ist. St. Rom., Storia di Roma, x [19501); MASHKIN, Printsipat Avgusta (1949). Un recente « Forschungsbericht » su Augusto dà CHILVER, « Historia », 1950, p. 408. Col periodo augusteo si concludono le due principali opere sulla rivoluzione romana:
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il discusso FERRERO, Grand. e decad. di Roma (voli. 111-1V;
1904 sgg.) e il recente SYME, The Roman Revolution (1939; 1952 2) Si ricordi GRAINDOR, Athènes sous Auguste (1927). III (cfr. § 5-10) I problemi particolari relativi a questa ultima fase della « rivoluzione romana » sono spesso originati dalla difficoltà di inquadrare e intendere le relative fonti epigrafiche e letterarie. Per ciò che riguarda le fonti epigrafiche va ricordata l'iscrizione in cui P. Cornelio DolabelJa appare come oxØ.p (imperator) in Asia; già ROBERT ha confrontato con il testo tràdito da los., Ant. xiv, 225; ricorderei che anche l'antoniano Cocceio (PIR p. 291) è imp. in Asia (l'iscrizione di Dolabella in ROBERT, Études anat. [1937] p. 325). - Salme di Irzio e Pansa portate a Roma e dal senato romano fatte tumulare in Campo Marzio: cfr. da ultimo (luglio 1938) la scoperta dei cippi con l'iscrizione A. Hirtius A. I. (AÈ 1941, n.. 102); l'iscrizione funeraria di Pansa, è C VI, 37077). - Anche desta interesse la menzione dei servigi resi a Ottaviano nell'iscrizione del navarca Seleuco di Rhosos (nella Siria settentrionale), dunque in regione di pertinenza di Antonio; l'iscrizione è pubblicata in appendice a C XVI; il decreto sui privilegi viene datato da taluni (per es. ROUSSEL, « Syria », 1934, p. 33; GUARDUCCI, « Rend. Pont. Acc. Arch. », 1938 5 p. 53; NESSELHAUF, «Klio », 1937, p. 314) al 41 a.C., da altri al 36 a.C. (così per es. lo stesso NESSELHAUF nell'edizione in C xvi, p. 145; LEVI,« Riv. fil. class. », 1938, p. 113). (L'iscrizione di Rhosos ha dato luogo a discussioni anche per altre ragioni, soprattutto perché essa sembra un buon argomento a favore della teoria di DE VISSCHER [e SCFIÒNBAUER; in/ra, XXXI], a proposito della doppia cittadinanza. Cfr., per altro, OLIVER, « Amer. Journ. Arch. », 1941, p. 537.) Un interessante testo epigrafico, che suggerisce altre considerazioni su Ottavia-Athena Polias, è studiato da RAUBITSCHEK, « Trans. Amer. Phil. Assoc. », 1946 9 p. 146. - Tra le fonti letterarie prosastiche, basti ricordare i molti problemi suscitati dall'epistolario ciceroniano, soprattutto per ciò che riguarda la data e gli scopi della pubblicazione: cfr. l'importante ed acuta opera di CARc0PIN0, Les secrets de la correspondance de Cicéron, mi (1947), il quale sostiene che questa pubbli
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cazione doveva fornire elementi alla propaganda di Ottaviano contro Antonio nel 34 a.C.; sicché noi avremmo la pubblicazione di un « epistolario di Cicerone contro Cicerone », e ciò spiegherebbe gli elementi negativi per la figura di Cicerone, che possono dedursi dall'epistolario medesimo. Naturalmente, la dottrina del CARCOPINO ha suscitato dissensi e discussioni di grande interesse: cfr. per es. ENSSLIN, « Deutsche Literaturz. », 1949, p. 395, e la polemica del PIGANI0L, Un ennemi de Cicéron, « Rev. hist. », 1949, p. 224. Va comunque rilevato che nel passo - essenziale alla teoria del CARCOPINO (Il, 350) - della corneliana Vita Attici, 16 (i cui primi 18 capitoli furono scritti nel 34 a.C.) la lettura degli undecim volumina è considerata la via migliore all'esaltazione di Cicerone, non già alla propaganda anticiceroniana (non enim Cicero ea solum, quae vivo se acciderunt, futura praedixit, sed etiain quae nunc usu veniunt, cecinit ut vates); appunto
perché epicureo, Attico ha sentito venerazione per la memoria cpÀou 0vx6ro (Epic., dell'amico; ricorderei che Ethica, ed. DIANO, p. 139). - Analogo il problema della Invectiva in Ciceronem, la quale sarebbe opera della propaganda anticiceroniana di Ottaviano secondo SEEL, «Klio », Beih. 34, 1943; contra JACHMANN, « Miscellanea Academia Berolinensia » (1950), pp. 235 sgg., spec. 251. La sensibilità politica dei Romani all'epoca del li triumvirato, con l'esperienza della nuova rivoluzione, si è espressa nel capolavoro della storiografia romana, negli scritti di Sai lustio; specie nelle Historiae, con la loro insistenza sulla discordia come vitium bumani ingenii (e tuttavia questi interna mala [così nella lettera di Mitridate; cfr. supra, § 131 non erano pur riusciti a por fine alla espansione dell'impero) e con l'appassionata rievocazione delle isole Fortunate nell'ideale sertoriano di fuga; oltre alla ricca letteratura sallustiana (per es. gli eccellenti studi di FuNAI0LI; SEEL; SCHUR; LATTE; PALADINI) si cfr. per es. EHRENBERG, Ost U. West (1935), cap. vii, e il brevissimo ma utile cenno (per l'inquadramento nella « metafisica romulea ») di C. KOCH, Roma aeterna (in « Gymnasium », 1952), cap. vii. Dei testi poetici, il più tormentato resta sempre la Iv Bucolica di Virgilio: cfr. in/ra, App. i, n. 10. (La problematica
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di queste indagini è utile anche all'interpretazione di momenti assai avanzati [per es. il prologo delle Georgiche] dell'ideologia ottavianea in Virgilio: cfr. importanti osservazioni, a questo proposito, in BAYET, « Rev. ét. lat. », 1939, p. 141.) Da ultimo KROGMANN, « Classica et Mediaevalia », 1951, p. 51. - Anche lo storico può interessarsi alla problematica della i ecloga (in quanto il campo di Titiro sarebbe ager relictus nel senso dei gromatici, e dunque Titiro uno schiavo di stato: LIEGLE, « Hermes », 1943, p. 209; diversamente MARTIN, « Wùrzburger Jahrbb. », 1946, p. 98; giuste critiche in BÙCHNER-HOFMANN, Lat. Lit. u. Sprache [1951], p. 111); della v (per via del sidus Iulium); della ix (strettamente connessa con la prima), e via dicendo; un problema (o, meglio, una serie di problemi) di storia sociale-politica, oltre che un problema letterario, è quello dell'A ppendix vergiliana (per es. Cat., 8). - Un tipico esempio di connessioni fra problematica storica ed esegesi oraziana può esser dato dalle discussioni su relicta non bene parmula; da ultimo MEISTER, « 'Ep.tivct Regenbogen », 1952, p. 131. Sull'eredità di Cesare, cfr. soprattutto Mo'rzo, « Ann. Fac. Lett. Univ. Cagliari », iv, 1; SCHMITTHENNER, Oktavian u. das Testament Càsars (1952). Vale la pena di sottolineare come la storiografia ufficiale, ad opera di Ottaviano, abbia costituito una tradizione, in cui è a bella posta ignorato che anche Antonio - non soltanto D. Bruto - era in secundis heredibus di Cesare: per es. Suetonio ignora questo punto fondamentale. - Naturalmente, il più grosso problema storico è quello della interpretazione politica e sociale della lotta fra i partiti e fra i loro capi. Un'opera biografico-erudita utile è sempre il DRUMANN-GROEBE. Una ricerca per molti aspetti P originale è, ora, in SYME, Op. cit., con l'interpretazione delle guerre civili come guerre tra warlords con vaste clientele, e altresì (ma con limitazioni) delle proscrizioni come lotta di classe e del bellum Perusinum come l'ultima lotta dell'Italia contro Roma (cfr. anche LEVI, Ottaviano capo parte [1933], cap. V; ID., Il tempo di Augusto [1951], p. 81). Anche sul contrasto fra Ottaviano e Antonio il SYME ha pagine notevoli, soprattuttoper lo sforzo che vi si fa di intendere la politica Li di Antonio da un punto di vista più sereno; in verità le ,
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nostre fonti, più o meno influenzate dal punto di vista di Ottaviano, rendono abbastanza difficile la valutazione obiettiva della personalità di Antonio; il SYME parte da una interpretazione della politica egiziana di Antonio sul presupposto della difficoltà di trasformare l'Egitto in una provincia romana (una critica in ENSSLIN, « Historia », 1950, p. 135); anche altri punti della sua ricostruzione (possibilità della falsificazione nell'apertura del testamento di Antonio; svalutazione della battaglia di Azio) vanno sottolineati. Il nostro punto di vista (Antonio come pacator orbis) è giustificato nel testo; cfr. in/ra, App. I, n. 10. Intorno alle colonie dell'epoca triumvirale, e particolarmente dei veterani di Antonio, cfr. da ultimo GABBA, « Parola del passato », 1953, p. 101. - Acuta ma discutibile la tesi di SYME, A Roman post-mortem (1950), di una ostilità permanente dei cesariani ad Ottaviano: questa tesi può considerarsi la conclusione consequenziaria della dottrina di Ed. MEYER, di un principale contrasto fra Cesare e Ottaviano; ad ogni modo, essa è abbastanza utile (ma non sufficiente) per l'interpretazione dei rapporti fra l'anticesariano Livio ed Augusto (« these men understood each other »; ma fino a qual punto?). - Per la prima propaganda di Ottaviano connessa col sidus Iulium, è importante SCOTT, « Class. Phil. », 1941, p. 257. - Quanto al problema Oriente-Occidente nel conflitto di Ottaviano e Antonio, esso si spiega, fra l'altro, con il posto preminente che la guerra partica occupava nel sistema di Antonio, sì che in funzione di essa egli intendeva la più gran parte dei• problemi politici (sulla campagna partica di Antonio cfr. da ultimo SCHUR, RE, art. Parthia). Non bisogna dimenticare che anche il piano dacico di Antonio (cfr. ALFÒLDI, Zur Gesch. d. Karpathenbeckens [1942], p. 16) era visto in funzione dell'impresa partica. - Per il tipo monetale GRUEBER, CRRep i, 4276, cfr. KOCH, Roma aeterna, « Das Gymn. », 1952, a proposito del concetto tutto alessandrino di Aion. Del resto, la politica di Antonio nei riguardi dello stato egiziano è intesa da taluni nel senso di quel concetto di « protettorato » sull'Egitto cui già tendeva Cassio (OTTO-BENGTSON, Zur Gesch. d. Niederganges d. Ptolemàerreiches, « Abhandl. Bayer. Akad. Wiss. », 1938, pp. 192-193). Sulle donazioni a Cleopatra (per
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la doppia datazione del 37/6 cfr. OTTO-BENGTSON, 52) cfr. da ultimo D0BIM, « Mélanges Bidez », i, 1934, p. 287; recenti caratteristiche di questa sognatrice di un grande stato tole maico in MACURDY, Hellenistic Queens (1932); LARROUY, Antoine et Cléoptre (1934); KORNEMANN, Grosse Frauen (1942) 134; cfr. altresì JEANMAIRE, « Mél. Cumont », i, 1936, p. 297. Per gli ideali dell'età d'oro ed Antonio, in/ra, App. I,
n. 10; TARN, « Journ. Rom. Studies », 1932, p. 135. Altra letteratura su questo periodo sarà ricordata a v, a proposito della genesi del principato augusteo. Per il significato che ha rivestito la battaglia d'Azio nella concezione dei contemporanei, si ricordi per es. l'adozione dell'èra actiaca, notec rpo vix): alla maniera della volmente diffusa (l'èra seleucidica, della arsacidica, della indiana di Moa, essa vuole sottolineare il carattere universale di quel fatto storico; in questo senso ha un rilievo abbastanza maggiore che non, per es., l'era sullana della provincia di Asia. - Mausoleo di Cleopatra ed Antonio: BICKEL, « Rhein. Mus. », 1950, p. 191. Sull'epigramma intorno ad Azio nel papiro 256 del Museo Britannico, ALFONSI, « Aeg. », 1950, p. 72; GATTI, « Parola del passato », 1952, p. 149. Anche la valutazione delle altre personalità si presta a importanti osservazioni. Gigantesca è fra esse la figura di Cicerone, in questo estremo tratto di sua vita; s'intende che, anche e soprattutto per questa ultima e drammaticissima fase dell'azione di Cicerone, bisogna pur dire che oggi tanto i pamphlets (di intonazione più o meno mommseniana) contro Cicerone, quanto le contrapposte rivalutazioni e apologie, possono avere un significato solo se volti ad una interpretazione delle grandi forze sociali che si misurarono nella rivoluzione romana. Soprattutto bisogna tener presente che questo ultimo Cicerone, il quale s'illude Caesarem hunc adulescentem, per quem adhuc sumus, fluxisse ex fonte consiliorum meorum,
anche se ha pagato con la vita la sua illusione, tuttavia ha in qualche modo contribuito - proprio lui, l'ultimo Cicerone, e dunque per eccellenza il Cicerone filosofo - alla formazione ideologica dell'adulescentulus divenuto, poi, princeps (una opportuna valutazione in W. WEBER, Princeps, i [1936] 5 pp. 142 sgg.; cfr., da ultimo, soprattutto WILLRICH, Cicero u.
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Caesar [1944]; per una valutazione complessiva di Cicerone, cfr. da ultimo l'immagine che emerge dal Lesebuch di SEEL, Vox humana [1949]; altra letteratura nel citato volume di GIANNELLI). Di grande importanza è la figura di Sesto Pompeo, su cui HADAS, Sextus Pompey (1930), e ora l'eccellente articolo di MILTNER nella RE. Anche le figure minori meritano uno studio accurato. Così il cesariano P. Cornelio Dolabella (per l'iscrizione ove egli appare come cfr. quanto dicemmo supra); così il fuoruscito Q. Labieno, fattosi generale partico: cfr. MONZER, RE, xii, c. 258; Asinio Pollione (cfr. da ultimo ANDRÉ, « Rev. ét. lat. », 1947, p. 122; La vie et l'oeuvre d'Asinius Pollion [1949]; caratteristico il suo atteggiamento [App. i, n. 101 nel bellum Perusinum); e ancora G. Sosio, su cui SHIPLEY, « Wash. Univ. Studies », 1930, p. 84; T. Pomponio Attico (monografia di miss BYRNE, 1920; cfr. ROSTOVZEV, Storia econ. e soc., pp. 16, 17), il quale, appunto come esponente del grande capitalismo tradizionalista, ha significato, col suo avvicinamento a Ottaviano, il compromesso tra la' vecchia classe e la nuova rivoluzione (la Vita di Attico di Cornelio Nepote riproduce questo punto di vista, sebbene, naturalmente, sembri accettarlo a denti stretti); così (alla fine del periodo rivoluzionario, e poi nel periodo augusteo) il vincitore di Paraitonio, Cornelio GalJo, primo nella serie dei prefetti d'Egitto (su lui SYME, « Class. Quart. », 1938, p. 39; CAsTIGLI0NI, in «Egitto antico e moderno », 1941, pp. 261 sgg.; per altra letteratura si rimanda alle storie, letterarie). Su Erode cfr. OTTO, RE, Suppi. ii, 1913, 1; in/ra, App. i'; - della letteratura più recente, per es., A. H. M. JONES, The Herods o/ Judaea (1938).
IV (cfr. § 11) Il problema dell'ordinamento augusteo dell'Egitto è già presente, naturalmente, nel quinto volume mommseniano: MOMMSEN, Le province romane da Augusto a Diocleziano (trad. it., 1904). Nuova attenzione è stata dedicata al problema della posizione giuridica delle metro poleis in rapporto alla ellenizzazione dei loro ceti dirigenti: SCHÒNBAUER, « Epigr. », 1949, p. 115; HOMBERT - PRÉAUX, Recherches sur le recensement dans l'Égypte romaine (1952). - Si è molto studiata la questione dei itpo ytJ.roc aatX'cov tolemaici che
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sono ancora menzionati nel Gnomon dell'Idios Logos (LENGER, « Mél. De Visscher », ii, 1949, p. 69, spec. 78), continuità che, pel carattere augusteo dell'originale (cfr. quanto diremo innanzi), illustra una precisa volontà di Augusto 4 . Sull'Egitto romano la letteratura è enorme: anche ricerche relative a periodi posteriori ad Augusto giovano a illustrare l'opera iniziale del conquistatore e primo ordinatore della provincia. Cfr . in genere MILNE, A History o/ Egypt under Roman Rule (1924 3 ). Per i rapporti di diritto pubblico si possono consultare, per es., LEVI, « Aeg. », 1924, p. 233; SOLAZZI, « Aegyptus », 1928, p. 296; REINMUTH, The Prae f ect of Egypt, « Klio », Beiheft, 34, 1935 e ora A . STEIN, Die Prae f . von Agypten in der rum. Kaiserzeit, « Diss. Bern. »,
S. i, 1, 1950 ; BALOGH-PFLAUM, « Rev. hist. droit fr. étr. », 1952 , p . 117 ; WILCKEN, « Journ . Rom . St. », 1937 , p. 138; FRANK, « Journ. Rom. St. », 1933, p. 143. Particolare rilievo ha il carattere del culto imperiale di Augusto in Egitto; cfr. NoCK, «.Harvard Studies in Cl. Phil. », 1930, p. 18; interessanti aspetti della diffusione del rituale faraonico nel principato in L 'ORANGE, « Symb. Osl. », 1941 , p. 105; pel dies Augustus in genere cfr . SCHWARTZ, « Rev. ét. anc. », 1944, p. 266; 1946, p. 91. Aspetti del culto di Augusto in Egitto : GATTI, DESSAU, Gesch. « Parola del passato », 1952, p. 149 cit. L'opera principale d. rum. Kaiserz II, 2 (1930), p. 635. è ora TAUBENSCHLAG, The Law of Graeco-Roman Egypt in the Light 0/ the Papyri I- II (1944-1948). Si ricordi di HOHLWEIN, L' Égypte romaine (1912); H. I . BELL, in CAH, x, p. 284; ancor utile A . STEIN, Untersuch. zur Gesch. Aeg. u. Verw. (1915). Il problema economico dell'Egitto romano è studiato non solo nell'opera di Ro S TOVZEV e (su un piano giuridico) TAUBENSCHLAG cit., ma anche in opere particolari di cui .
4
Sui 7rpoa,r3ty[£o
cs~îv cfr. altresì AMELOT-BINGEN-LEN-
« Chron. Ég. », 1950, p. 317. -- Su alcuni punti del Gnomon, importanti per il problema generale della concessione di civitas, e su altri documenti egiziani relativi allo stesso problema, cfr. in f ra, xxvi. Il problema della cittadinanza è sempre connesso Applicazione con la storia della capitazione: cfr. in f ra, xxxi. del diritto romano in Egitto : ARANGIO Ruiz, « Bull. Inst. Ég. », 1946-7, p. 83. Identificazione degli rza'roí : ARANGIO Rutz,
GER,
« Mél. De Visscher »,, III , '1950, p. 7. -
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notevoli i molti saggi del MILNE (per es. « Journ. Eg. Arch. », 1927, p. 135; « Num. Chron. », 1930, p. 300; « Journ. Rom. St. », 1927, p. 1; ecc.); MARTIN, La fisc. rom. en Égypte (1926); WALLACE, Taxation in Roman Egypt (1936); HEICHELHEIM, Wirtsch. Schwankungen der Zeit von Alex. bis Aug. (1936); JOHNSON, in « An Econ. Surv. of Anc. Rome », ii (1936); BOERNER, Der staatl. Korntr. im griecb.-ròm. Aeg. (1939); PRÉAUX, « Rev. int. dr. ant. », 1948, p. 189. WEST-JOHNSON, Currency in Rom. a. Byz. Egypt (1944). Il problema militare è strettamente connesso con l'inter-
pretazione della spedizione ordinata da Augusto contro l'Arabia, e di quella contro l'Etiopia (cfr. in/ra, vi), a proposito del nuovo papiro scoperto ed illustrato, insieme con gli altri documenti relativi allo stesso problema, dal VOGLIANO, Un papiro storico greco della raccolta milanese (1940; e ora STROUX, Das bistorische Fragment des Papyrus 40 der Mailànder Samml., [19531); in/ra, VI. Per l'esercito augusteo in Egitto cfr. in/ra, XXVI; LESQUIER, L'armée romaine d'Égypte (1918); SYME, « Journ. Rom. St. », 1933, pp. 24 e 31 (articolo
importante per l'esercito augusteo in genere). Ad Augusto (più probabilmente, all'ultimo periodo del suo impero) risale l'originale del Gnomon dell'Idios Logos: yvc.tovo, 8v 6
-t- t 'ro3 t&ou X6you &i-poit
(11. 1-2: cfr. SECKEL, « Sitzungsbb. Preuss. Akad. Wiss. », 1928, p. 425; la vasta letteratura sul Gnomon, e larga discussione, in RlccoBoNo jr., Il Gnomon dell'Idios Logos [1950]; ad essa si aggiunga, da ultimo, RANOVIC, Gnomon Idiologa, « Vestnik drevnej istorii », 1948, n. 4, p. 65). Cfr. anche BRECCIA, Egitto greco e romano (s.d.), pp. 230 sgg.; VocT, R'm. Pol. in Aegypten (1924); SCHUBART, « Klio », 1937, p. 54. Una bibliografia più completa sull'Egitto romano nei manuali di papirologia, per es. in CALDERINI, Papiri (1944). Un'ottima Introduccion al éstudio de los documentos del Egypto romano (1948) si deve al D'ORs. Altra letteratura in/ra, LXVIII.
V (cfr. SS 11-12) 11 problema della rivoluzione augustea è anche il problema (per esprimerci con la formula recentis sima di WICKERT, Der Prinzipat u. die Freiheit, « Symb. Colon.
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Jos. Kroll. oblata », 1949, p. 111) del rapporto fra la libertas difesa dal principato e l'antica (« attuale ») libertas dello stato repubblicano 5; fino a che punto può essere legittima questa netta contrapposizione? La soluzione può esser data da una interpretazione della costituzione augustea: problema dei più gravi che si presentino allo studioso di storia imperiale. La difficoltà è già nell'interpretazione del passo cruciale RG 34, 1-3: In consulatu sexto et septimo (28 a.C. e 27 a.C.) po[stquam be]lla [civil]ia exstinxeram per consensum universorum [potitus reru]m om[n]ium, rem publicam ex mea potestate in senat[us populique Rom]ani [a]rbitrium transtuli. Quo pro merito meo, senatu[s consulto Au]gust[us appe]llatus sum et laureis postes aedium mearum v[estiti] publ[ice coronaq]ue civica super ianuam meam fixa est [et clu]peus [aureu]s in [c]uria lulia positus, quem mibi senatum pop[ ulumq]ue Rom[anu] m dare virtutis clement[ iaequ ]e iustitiae et pieta[tis cau]sa testatu[ mi est pe[ r e]ius clupei [inscription]em. Post id tem[pus] (27 a.C.) [a]uctoritate [ornnibus praestiti, potest]atis au[tem n]ihilo ampliu[s habu]i quam cet[eri qui m]ihi quoque in ma[gis]tra[t]u conlegae
f[uerunt]. Le difficoltà principali, anche linguistiche, vertono sull'esegesi di 34,3: come va inteso quoque? è ablativo di quisque (quòque) o congiunzione (quòque)? Nel primo caso Augusto direbbe di aver avuto « non più di potestas di quella che avevano gli altri i quali gli furono colleghi nelle magistrature rispettive », vale a dire nelle varie magistrature (proconsolato; tribunato dal 23 a.C.) delle quali egli ha avuto la potestas o che ha collegialmente rivestito (consolato); nel secondo caso, si tradurrebbe « non ebbi più di potestas di quella che ebbero gli altri che furono anche a me colleghi nella loro magistratura », ed allora il termine ma,gistratu, come il termine conlegae, andrebbe spiegato in senso stretto, e conlegae si dovrebbe riferire o al solo consolato (giacché, in senso strettamente giuridico, Augusto ha rivestito solo questa magistratura in cui avesse dei colleghi; ma egli fu console nel 43 a.C. e 33-23 a.C. e poi nel 5 e 2 a.C.) oppure bisognerebbe riferire Cfr. anche, in genere, HAMMOND, City-State a. World State
in Greek a. Roman Political Theory until Augustus (1951).
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il termine conlegae ad Agrippa e poi a Tiberio intendendo conle,gae « correggenti ». Il punto di vista secondo cui quoque in magistratu andrebbe inteso con quòque pronome è per es. nell'articolo di GAGÉ, De César à Auguste, « Rev. hist. », 1936, p. 279; ad esso si suole obiettare che la potestas di Augusto era, in realtà, superiore a quella degli effettivi proconsoli e degli effettivi tribuni; e si obietta, altresì, che l'espressione « colleghi nelle rispettive magistrature » (letteralmente: « colleghi in ogni singola magistratura ») implicherebbe che Augusto fosse effettivamente proconsole o tribuno, mentre egli non era né proconsole né tribuno. Il punto di vista secondo cui quoque sarebbe congiunzione, e l'espressione « fossero anche a me colleghi nella magistratura » si riferirebbe al solo consolato (giacché Augusto fu effettivamente console, mentre non fu né proconsole né tribuno) è sostenuto dalla maggior parte degli studiosi, e tra essi per es. dal più autorevole specialista delle Res gestae, il VON PREMERSTEIN, nel suo lavoro postumo e fondamentale Vom Werden und Wesen des Prinzipats (sz Abhandi. d. Bayer. Akad. d. Wissensch. », Philol. Hist. Abt. NF. xv, 1937); molto autorevole è anche l'adesione (inquadrata in una geniale concezione unitaria del principato) del DE FRANcisci, Genesi e struttura del principato augusteo (« Atti Reale Accad. Italia », Memorie, 1941) 6 A questa teoria si obietta che, se proprio Augusto alludesse al consolato, conseguente6 Come il lettore avrà già osservato dal testo, e ancor meglio si vedrà dal prosieguo di queste note, la nostra interpretazione del principato augusteo si connette soprattutto, e in linea di massima coincide, con quella del DE FRANcIscI; anche se io intendo quòque in magistratu e non già mibi quòque. Gli è che intendendo quòque in magistratu nel senso che noi riteniamo (« nelle rispettive magistrature ») si guadagna un punto fondamentale a sostegno proprio dell'interpretazione del principato augusteo data dal DE FRANcIscI, vale a dire dell'insistenza su auctoritas a scapito della potestas. In altri termini, noi riteniamo che la lettura quòque in magistratu, in tutto il contesto auctoritate - conlegae ci dia la definizione del principato augusteo data da Augusto medesimo: « più di auctoritas, ma eguale potestas, nei confronti degli altri proconsoli e pur degli altri tribuni » (cioè nell'esercizio dell'imp. proc. e della trib. pot.): che è. proprio l'esigenza peculiare dell'interpretazione di DE FRANCISCI. Per il periodo nov. 36 a.C.-28 a.C. cfr. supra, 5 11, n. 5. - Il carattere coscientemente monarchico dello sta-
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mente dovremmo considerare il passo (come faceva il KORNEMANN e tende a fare il DE FRANGI s cI) come scritto nel 23 a.C.; del resto, il consolato non ha, dopo il 23 a.C., grande parte nel sistema di Augusto; post id tempus non sarebbe stato lasciato da Augusto nell'ultima redazione delle RG proposta da KORNEMANN. Il punto di vista, infine, secondo -cui quoque sarebbe congiunzione, ma l'espressione « furono anche a me colleghi nella magistratura » alluderebbe ad Agrippa e poi a Tiberio, è stato proposto, con grande ingegnosità ed acutezza, da MAGDELAIN, Auctoritas principis (1947); ed esso mi sembra l'unico possibile (a meno di ammettere la teoria genetica delle RG proposta dal KORNEMANN), se si vede in quoque una congiunzione. Per mio conto, tuttavia, atteso lo stile delle RG rifuggente da zeppe inopportune, non vedrei in quoque una congiunzione; « i quali furono anche a me colleghi nella magistratura » difficilmente avrebbe senso (nonostante SPREY, « Mnemosyne », 1935, p. 291; HOHL, « Mus. Helv. », 1947, p. 101); e quanto alla interpretazione di MAGDELAIN, a chi altri potevano essere colleghi Agrippa e poi Tiberio? Se dunque l'unica interpretazione possibile di mihi quóque è quella di MAGDELAIN, e se questa s'imbatte nella grave difficoltà di non trovare una sufficiente spiegazione per la congiunzione « anche » (che presupporrebbe altri possibili colleghi oltre Augusto), così ne deriva che bisogna intendere non già mibi quóque ma quòque in magistratu. Del resto, in questo passo Augusto vuole spiegare il fondamento del principato; non è possibile, dunque, che egli ignori l'importanza che in esso avevano imperium proconsulare e tribunicia potestas, per la quale ultima, nelle stesse RG diceva et sacrosanctu [ s in per p ] etum [ ut essem et q] uoad viverem tribunicia potestas mibi [ esset, per legem sanctum est]; all'istesso modo come soprattutto insisteva « quasi scongiurando » (fast beschwòrend : WEBER, Princeps [ 1936], p. 162) nel dire nullum magistratum contra morem maiorum delatum recepi. Cfr. supra, pp. 72 sg., n. 1. Concludiamo: quoque in magistratu va inteso « nelle rispettive to augusteo non avrebbe mai dovuto esser discusso: basta pensare al concetto augusteo della successione del filius, come appare, per es., dalla lettera a G. Cesare che abbiamo citato a § 12 (successione nella statio).
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magistrature »; e su questo si fonda la interpretazione della politica interna augustea da noi data nel testo. In questa interpretazione, il per consensum universorum del citato cap. 34 è riferito - anche per ragioni linguistiche - non già a quanto precede, ma piuttosto al periodo nov. 36-28 a.C. (cfr. la dimostrazione data supra, § 11, n. 5). Questa interpretazione della politica interna augustea, fondandosi dunque su quòque in magistratu, riconosce, in astratto, il carattere repubblicano a un tempo e monarchico (repubblicano sotto l'aspetto della potestas, monarchico sotto l'aspetto dell'auctoritas) del principato di Augusto. Ma il momento repubblicano è solo una formula giuridica, il momento monarchico (per via dell'auctoritas) è il fatto essenziale (cfr. DE FRANcIscI, op. cit.). Augusto intende dire: « io fui console, ebbi imp. procons. e poi (dal 23 a.C) trib. potestà; fondai il mio potere su queste magistrature e titolature repubblicane; ma fu potere monarchico, perché avevo più autorità degli altri cdnsoli, dei proconsoli e dei tribuni ». Con la nostra interpretazione di quòque in magistratu cade l'osservazione, che talora viene formulata (così, da ultimo, nell'importante SCHÒNBAUER, « Sitzungsbb. Wiener Akad. », 1946, pp. 111 sgg., già citato), secondo cui l'imperium proconsulare non sarebbe indicato nelle Res gestae; in realtà, l'imp. procons. è indicato (e con esso la tribunicia potestas) in quanto Augusto afferma di aver avuto la medesima potestas - ma con più di auctoritas - dei suoi quòque in magistratu conlegae. Per quanto conlegae sia termine piuttosto improprio (Augusto non fu effettivo proconsole né tribuno), esso va inteso in maniera elastica, nel senso di conlegae per la potestas (cfr. ultimamente sul concetto HERNÀNDEZ TEJERO, « Ann. hist. derecho esp. », 1946, p. 605) implicita nelle rispettive magistrature; né Augusto avrebbe potuto esprimersi altrimenti. Cfr. ADCOCK, « journ. Rom. St. », 1952, p. 10. In verità la storia della storiografia più recente su questo problema ha attraversato varie fasi: sebbene già il MOMMSEN avesse parlato di « diarchia . » di imperatore e senato, tuttavia il carattere « non cesariano » del principato augusteo non era stato sottolineato con eccessiva insistenza fino alla pubblicazione (1904) del iii volume di FERRER0, Grandezza e decadenza di Roma, in cui, già nella
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prefazione, l'autore dichiarava: « io considero come una leg genda, che non ha fondamento alcuno nei documenti, l'affermazione tante volte ripetuta che Augusto fu l'esecutore dei disegni di Cesare - un altro grande errore, che ha travisato tutta la storia della prima parte dell'Impero, giudico poi l'altra idea, comunemente accettata, che Augusto sia il fondatore della monarchia a Roma; egli fu invece l'autore di una restaurazione repubblicana, vera e non formale ». Tutto ciò è errato. Col ravvicinamento (già stabilito dal FERRERO) fra il De re publica ciceroniano e « l'idea fondamentale della riforma politica di Ottaviano », si approfondirono le indagini sul concetto del princeps (« re senza corona ») nella concezione ciceroniana nello stato di Augusto: cfr. REITZENSTEIN, Die Idee des Prinzipats bei Cicero u. Augustus, « Nachr. Kòn. Ges. Wiss. Gott. », 1917, pp. 399, 481 (secondo cui l'idea del principato si ripete dalla dignitas), O. Th. SCHULTZ, Das Wesen des r6m. Kaisertums d. ersten 2 Jbdte (1916), e la famosa dottrina di Ed. MEYER secondo cui l'idea augustea del princeps continuerebbe l'idea pompeiana di principato (MEYER, Caesars Monarchie ti. das Prinzipat des Pompeius [1922]; il punto di vista
dell'influenza diretta ciceroniana è ripreso per es. da OLTRAMARE, « Rev. ét. lat. », 1932, pp. 58 sgg.; contra GAGÉ, loc. cit., e il cap. xxii dell'opera di SYME; ma il .rapporto Cicerone Livio [cfr. P. ZANCAN, Tito Livio, 19401 è una controprova dell'influenza ciceroniana nell'ideologia degli Augustei). Un curioso incontro di indagine positiva epigrafica ed esperienze politiche attuali determinò, nel. 1924, un nuovo corso degli studi augustei: che da una parte il VON PREMERSTEIN poté, con l'ausilio del Monumentum Antiochenum, restituire auctoritate nel citato fondamentale cap. 34 delle RG (nella traduzione greca &p.x- 7tVTh)V &vryxc: MOMMSEN aveva integrato dignitate: già il FRANZ, nel 1843, aveva visto giusto): dall'altra la tragica tendenza alla formazione di regimi autoritari borghesi in alcuni stati europei attirò l'attenzione sulla possibilità di conservazione di forme « liberali », svuotate di contenuto, in organismi statali « autoritari »; infine, nuove esigenze di indagine sociologica (come poi furono sempre più chiare nel pensiero di Max WEBER [non si confonda con lo storico, W. WEBER!]) rendevano possibile la comprensione di forme cha-
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rismatiche nello stato romano imperiale. Ne venne, nella nuova fase di ricerche, una particolare insistenza sull'auctoritas augu stea, sia che la si intendesse come charisma etico-politico ed a carattere personale, sia che la s'intendesse senz'altro come nuovo elemento di diritto pubblico (e pertanto non puramente personale, ma fornita di preciso contenuto giuridico e di carattere non personale). Dei principali studiosi per cui l'auctoritas è da intendere su un piano non giuridico ma soprattutto etico-politico e personale, vanno ricordati HEINZE, Auctoritas, « Hermes », 1925, pp. 348 sgg.; STUART JONES, «Cambr. Anc. Hist. », x, 1934, la cui trattazione si può considerare, con quelle (per altro divergenti, del VON PREMERSTEIN, del DE FRANcIscI, e in certo modo del DE VISSCHER) la più espressiva fra le interpretazioni « monarchiche » dello stato di Augusto; DE MARTINO, Lo stato di Augusto (1936); SIBER, Zur Entwicklung d. ròm. Prinzipatver/assung (« Abhandl. Phil. Hist. Kl. Sàchs. Akad. Wiss. », 1933: tre imperia: il proconso ì lare per le province senatorie; il consolare vitalizio dal 19 a.C. per l'Italia; il «terzo ignoto » per le province imperiali, decennale dal 27 a.C. e poi rinnovato [vitalizio pei successori]; monarchico quest'ultimo, diarchica la potestà legislativa, repubblicana l'amministrazione dell'Italia e delle province senatorie; cfr., per altro, la recensione dello stesso SIBER al libro del DE MARTINO in «Zeitschr. Sav. St. », 1937, p. 449; e più recentemente Das Fiihreramt des Augustus [1940]; ma cfr. supra, pp. 72 sg., n. 1, critica a SIBER per es. in SYME, • Journ. Rom. Studies », 1946, p. 151; cfr. anche DE LAET, • L'ant. ci. », 1943, p. 150); KOLBE, Von der Republik z. Monarchie (1931; cfr. più di recente, « Klio », 1943 5 p. 26); SYME, The Roman Revolution (1939), cap. xxii; WICKERT, « Neue Jahrbb. f. Ant. u. deutsche Bildung », 1941, p. 23 (cfr. anche « Klio », 1943, p. 1, sul concetto di princeps nei suoi rapporti con concezioni greche 7 : un problema su cui v. anche GAGÉ, loc. cit.; GRENADE, « Mél. Èc. fran. Rome », 1940, p. 32; HAMMOND, In questo quadro può rientrare l'interessante confronto con lo stato pergameno in CARDINALI, Elementi originali ed elementi derivati nell'organizzazione imperiale romana (lezione nella Academia das Ciéncias di Lisbona, 1941), confronto ripreso ora in TIBILETTI, Principe e magistrati repubblicani (1953) su cui in/ra,
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« Mem. Am. Acad. Rome », 1940, 1; BÉRANGER, « Rev. ét. lat. », 1943-4, p. 144; l'influsso della Stoa è negato da SYME, Op. cit.; si vedano PÒSCHL, Rm. Staat u. ghriech. Staatsdenken bei Cicero [1936]; VoGT, Ciceros Glaube an Rom [1935]; BÙCHNER, « Hermes », 1952, p. 343); e soprattutto MAGDELAIN, Op. cit., in cui giustamente si rileva che l'auctoritas è divenuta
una istituzione solo quando ha ricevuto una sistemazione costituzionale, e dunque si studia l'auctoritas di Augusto in confronto con la sistemazione posteriore nel corso della storia imperiale. Dall'altra parte, i principali avversari della dottrina di HEINZE, ed insomma sostenitori del concetto dell'auctoritas augustea come giuridicamente precisata, sono VON PREMERSTEIN, op. cit., e DE FRANcIscI, Op.cit.; cfr. anche STAEDLER, Zum Rechtsbegri// d. Aug. Auctoritas, 1943, pp. 384 sgg.; GRANT, From Imperium to Auctoritas (1946): supra, p. 72, n. 1. Una formula giuridica molto accorta, la quale opererebbe una sintesi fra res publica e auctoritas imperiale nel principato augusteo, è stata brillantemente cercata da ARANGIO Ruiz, Storia del diritto romano (1937), p. 203 nel concetto ellenistico del rpo'ri 'ro3 tou: Augusto apparirebbe dunque come il « protettore » della res publica. Una interpretazione equilibrata fra la « repubblicana » di FERRERO e la « monarchica » degli studiosi più recenti, da ultimo nella sintesi di PARIBENI, L'età di Cesare e di Augusto (1950), p. 443. Interessante il cenno del WEBER, Op. cit., p. 73, al confronto con Pericle itpo &vp nello stato ateniese (a illustrazione del concetto che il principe è l'optimus degli optimi cives); FERRABINO, « Nuova antol. », luglio 1931; PIGANI0L, « Journal des savants », 1937, pp. 151 sgg., con opportuna insistenza sul carattere complesso (cubes de mosaique) delle legge completanti i poteri del princeps; RlccoBoNo jr., « Ann. Sem. Giur. Univ. Pal. », 1936, p. 363. La fondazione del principato può definirsi come passaggio dal consensus universorum (che noi proponiamo di datare dagli ultimi del 36 a.C. a tutto il 28 a.C.: supra, § 11, n. 5) all'auctoritas (gli universi che danno il consensus sono il App.
i.
- Un ritorno al « dualismo » mommseniano è ora in
VON LÙBTOW,
spec. 77.
Bliite u. Ver/aIl d. ròm. Freiheit (1953), pp. 74 sgg.,
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populus del panegirico di Vario [ap. Hor., Ep. i, 16, 271, dove anche il concetto te saivum - cfr. § 12, e gli sviluppi, che
mostreremo a suo luogo, nel iii secolo e nel basso impero ha carattere ufficiale). Così consensus come auctoritas sono concetti volti ormai a significazione monarchica: ma il consensus dà ad Ottaviano potestas eccezionale; mentre l'auctoritas dà ad Augusto potestas aequa con imperium potenziato (non deposto: contro GRANT, cit. in/ra). - Mistica imp. sotto Ottaviano: MANNI, « Mondo cl. », 1933, p. 1; GAGÉ, « Mél. Èc. Rome », 1930, p. 138; 1931, p. 75; MULLFR (e GRoss), « Reall. », di KLAUSER 7, 1950, 993. - Motivi ciceroniani: cfr., su questo punto, supra, e altresì le osservazioni del MAGDELAIN, op. cit.; da ultimo il iv capitolo di Ernst MEYER, Rm. Staat u. Staats,gedanke cit.; il concetto della sintesi di « catonismo » e « cesarismo » nel principato, in TAYL0R, Party Politics in the Age 0/ Caesar (1949), cap. 8 (ma cfr. CARCOPINO, « Rev. ét. anc. », 1951, p. 152); l'interpretazione fortemente monarchica di BIONDI, « Conf: Aug. », 1939, p. 41; WIRszuBsKI, Libertas as a Political Idea at Rome during the Late Rep. a. the Early Princ. (1950); e (per i precedenti repubblicani) BALSDON,
brevemente in « Class. Rev.
», 1949, p. 14
e
JA-
SHEMSKi, The Origins a. History o/the Proc. a. the Pro praet. Imperium (1950). Per la tribunicia potestas cfr. STRACK, « Klio », 1939, p. 358; Roos, « Meded. Nederl. Ak. », 1941, p. 675; DE VISSCHER, Nouv. ét. dr. rom. (1949; scr. 1939),
p.
27.
Un tipico esempio del contrasto fra « concezione unitaria » del potere del principe e interpretazione del principato come complesso eterogeneo di funzioni è nella recente opposizione del DE ROBERTIS, « Mél. De Visscher », iii, 1950, p. 409 alla « concezione unitaria » per es. del DE FitANcIscI; il DE RoBERTIS parte da una contrapposizione di potere personale nel principato, e istituzionale nell'impero tardo. Una nuova impostazione dei problemi ha tentato GRANT, From Imperium to Auctoritas (1946), in cui, sulla base del materiale numismatico, si interpreta la fondazione del principato come passaggio dallo imperium maius alla auctoritas principis: dal 27 a.C. solo Augusto può apparire come costitutore di città romane, non più altri portatori di imperium: GRANT, 107 interpreta CA
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sulle monete con lo svolgimento C(aesaris) a(uctoritate), anziché per es. C(aesar) A(ugustus). Questa dottrina (crit. supra, p. 75, n. i è stata largamente discussa in vario senso: per es. CROCK, « Class. Rev. », 1953, p. 10; e già DE LAET, « Ant. class. », 1946, p. 371; HAMMOND, «Am. Journ. Phil. », 1948, p. 317; VITTINGHOFF, « Gnomon », 1950, p. 260; cfr., per altro, la nota di LAST, « Journ. Rom. St. », 1947, p. 157 (dello stesso LAST, « Rend. Ist. Lomb. Sc. Lett. », 1951, p. 93). Al materiale numismatico si fa altresì riferimento nello scritto di ALFÒLDI, « Corvina », 1952, p. 24. L'interpretazione augustea del rapporto patria-res publica è delineata, per ultimo, da KRATTINGER, Der Begriff des Vateri. im rep. Rom. (1944). Per un approfondimento del concetto rem publicam in potestatem s. p. q. R. transtuli del cap. 34 di Res gestae, B1RANGER, « Mus. Helv. », 1949, p. 178 (cfr. « Rev. ét. lat. », 1943, p. 144). JONES, « Journ. Rom. Studies ». 1951, p. 112. Un posto a parte occupa la concezione di K0RNEMANN, Doppelprinzipat u. Reichsteilung im I. R. (1930), secondo cui saremmo in presenza di un «doppio principato», nel quale sarebbe da sottolineare il fenomeno della correggenza (AugustoAgrippa; Augusto-Tiberio), del resto già tipico nel periodo 36-31 a.C. (Ottaviano-Antonio) e in qualche modo da connettere con la diade Occidente-Oriente (ma è tesi, se pur di grande rilievo, per la concreta interpretazione del concetto di correggenza, incapace di esaurire in sé il carattere del cosiddetto Doppelprinzipat augusteo nella sua complessità; cfr. contra, SYME, The Rom. Revol., cap. 23, spec. p. 345; il libro del KORNEMANN è importante più per la storia del doppio principato attraverso l'impero, che non per l'epoca augustea in sé); più direttamente si avvicina al mondo costituzionale augusteo il saggio dello stesso KORNEMANN, « Klio », 1938, p. 81 (con opportuno rilievo del concetto princeps-ysuv; naturalmente, altre osservazioni del K0RNEMANN vanno considerate in rapporto alla sua teoria genetica delle RG). Tentativo di interpretare la rivoluzione augustea operando coi concetti di « classe dominante e ceto di governo » è da ultimo in LEVI, Il tempo di Augusto (1951), dove si propone di « rinunciare alle questioni di formalismo giuridico », risolvendole soprattutto col presupposto che ceto dominante e classe di governo
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(cfr. lo stesso LEVI, « Acme », 1948, p. 87) possono non coincidere, sicché nell'epoca di Augusto la nobilitas costringerebbe il ceto dominante a riconoscerla come esecutrice. Comunque, risorge sempre l'esigenza di definire la formula del cosiddetto compromesso fra Augusto e la nobilitas, ossia (con la terminologia del LEVI) fra ceto dominante e classe di governo; e una tale definizione non può non trovarsi sul piano della auctoritas augustea e della fenomenologia economico-sociale che le corrisponde. Cfr. in f ra, §§ 15, 18, 20; App. i. DELL'ORO, « St. doc. hist. juris », 1947-8, p. 316. ERKELL, Augustus, Felicitas, Fortuna, Lat. Wortst. (1952). Rech. sur l'aspect idéol. du princ. (1953).
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Naturalmente, i problemi particolari sono tutti connessi con l'interpretazione generale del « principato » e della formulazione di RG 34, 1-3. Così il problema del rapporto fra ideologia romulea (novus Romulus; da ultimo NORBERG, « Eranos », 1946, p. 388; ALFÒLDI, « Mus. Helv. », 1950, p. 1; e già, per es., SCOTT, « Trans. Proc. Am. Phil. Ass. », 1925, p. 82; GAGÉ, « Mél. Éc. Rome », 1930, p. 138, cit.; cfr. DEGRASSI, « Bull. Com . », 1939, p. 10) e gli ideali del principato: problema che si connette, d'altra parte, con la datazione e valutazione di quello scritto propagandistico « romuleo » che, enucleato dal POHLENZ nel « Romulusabschnitt » di Dionigi d'Alicarnasso (II, 7-29), è stato datato dal VON PREMERSTEIN all'epoca di Augusto (anzi precisamente al 28 a.C.), senza che, tuttavia, questa datazione possa dirsi assolutamente sicura (la datazione di VON PREMERSTEIN è accolta, come già dal KORNEMANN, Zum Augustusjahr cit., così ora per es. da SESTON, « La parola del passato », 1950, p. 180; contro di essa si dichiarano per es. WICKERT, « Neue Jahrbùcher », 1941, p. 16 e GABBA (« Ath. », 1951, p. 240). Il problema meriterebbe una nuova indagine. Quanto alla « puntualizzazione » dell'inizio del principato, è anche questo un problema da definire (o, più precisamente, un problema non sempre ben posto; cfr., per altro, in f ra, § 18), il quale dipende dalla valutazione del rapporto fra la formula costituzionale del 27 a.C. e quella del 23 a.C.: per es. SYME, tende a periodizzare il principato partendo dal 23 a.C. piuttosto che dal 27 a.C.; STAEDLER, « Ztschr. Sav. St. », 1947, p. 327, dal 32 a.C. e,
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per l'auctoritas, dal 27 a.C.; GRANT, naturalmente, dal 27 a.C. (op. cit.; in Roman Anniversary Issues [1950], lo stesso studioso ha mostrato la commemorazione dell'anno 27 a.C. attra verso lo studio della monetazione di Augusto medesimo, di Vespasiano, di Adriano, Marco Aurelio, Severo Alessandro, Aureliano; col quale ultimo si tocca il trecentesimo anniversario). Il rapporto coi « correggenti » appare naturalmente diverso, a seconda che ci si avvicini o no alla teoria del Doppelprinzipat di KORNEMANN; l'opera del SYME (cfr. supra), per questa parte, insiste opportunamente sulle incrinature nei Del rapporti fra Augusto e Agrippa, Augusto e Tiberio. materiale epigrafico si ricordino specialmente gli editti ai Cirenei: LUZZATTO, Ep. giur. gr. e rom. (1942), p. 239; ARANGIO Ruiz, « Riv. fu. class. », 1928 2 p. 321; STROUXWENGER, « Abhandl. Bayer. Akad. », 1928; VON PREMERSTEIN, «Zeitschr. Sav. St.», RA, 1928, p. 419; 1931, p. 431; DE VISSCHER, Les édits d'Aug. déc. a Cyr. (1940); RoMANELL!, La Gr. rom. (1943), p. 80; OLIVER, « Mem. Am. Acad. Rome », 1949 9 p. 105; MASHKIN, « Vestnik drevnej istorii », 1938, n. 3, p. 180. Il famoso XctToupytv &.L .tfper. T7r. -tTv 'Ell'v<»v aorrt nel iii editto va certamente inteso nel senso che i Cirenei donati di cittadinanza romana dovranno pagare a.ucrt: ricorderei per es. la tassa personale (rT)t. in App., Lib. 135) degli Elleni; cfr. DE VISSCHER, op. cit.; che si tratti della tassa personale, è anche evidente da 4'. .'.épc'., t.t. indicante il .'.cp'..'.6, cioè « la tassazione distribuita egualmente fra la popolazione tributaria », in questo caso greca (si ricordi t ie p t a~£6q nei documenti egizii di epoca romana; cfr. PREISIGKE, Wb. li, 72). Il III editto di Cirene mostra dunque che il problema principale della donazione di cittadinanza consisteva, fin dai tempi di Augusto, nei rapporti fra donazione di cittadinanza e 1' vctpopx che i nuovi cittadini credevano di ottenere: questo punto sarà alla base della nostra interpretazione di PGiss 40 (in/ra, xxxi). Augusto ha dunque esercitato la sua autorità su questa provincia senatoria, e ciò in virtù dell'imp. proc. maius et infinitum del 23 a.C., in quanto tale imperium aveva più di auctoritas (pure se Per uguale potestas) che quello normale del proconsole. la storia del calcolo cronologico della tribunicia potestas cfr. -
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HAMMOND, The Tribunician Day During the Early Emp. in « Mein. Amer. Acad. Rome », 1938, p. 23; altra letteratura
sotto i vari imperatori; specialmente in/ra, xxi. - L'iscrizione di Leptis Magna (viii), in cui tribunicia potestas = « al posto del potere dei 10 potenti », in LEVI DELLA VIDA, « Afr. ital. », 1935, p. 4 8; cfr. da ultimo GOOSSENS, « La nouv. Clio », 1952, p. 143, il quale richiama i mwshlj dei Kittim (« Romani »: cfr. in/ra, App. Il) nel commentario di Habacuc recentemente scoperto. - Non è priva d'interesse - anche ai fini dell'indagine sulla politica sociale - la questione della eventuale provectio del pomerio: LABROUSSE, « Mél. tc. Rome », 1937, p. 167; DEGRASSI, « Doxa », 1949, p. 85. - Del medesimo DEGRASSI, cfr. « Epigr. », 1946, p. 34, per i consoli suffetti del 13 d.C.; « Ath. », 1948, p. 254, pei rescritti di Vardacate. Infine, con l'interpretazione della politica interna di Augusto è collegata, naturalmente, l'interpretazione della genesi dei Fasti Capitolini: sul quale punto, essendo ormai certo che i Fasti Capitolini non erano incisi sui muri della Regia ma piuttosto (dimostrazione in DEGRASSI, L'edificio dei Fasti Capitolini, « Rend. Pont. Acc. », 1945-6, p. 57; cfr. Ross TAYLOR, « Class. Phil. ») 1946, p. 1; 1950, p. 84; 1951, p. 73; HOLLAND, « Amer. Journ. Arch. », 1946, p. 52; 1953, p. 1; GORDON, « Amer. Journ. Arch. », 1951, p. 279) sulle pareti interne dei passaggi laterali dell'arco di Ottaviano eretto nel Foro nel 30 a.C., resterà solo da stabilire se i Fasti furono incisi (come ritiene il DEGRASSI) nello stesso 30 a.C. o non piuttosto, come ritiene la citata miss TAYLOR, nel 20-17 a.C.; 8 Nella sua magistrale edizione dell'epigrafe, il LEvI DELLA VIDA pone allo studioso di epigrafia romana il quesito: « perché qui » (nell'iscrizione di Leptis) « si abbia » (nella titolatura di Augusto) « l'ordine cos. imp. trib. pot., è questione che potranno risolvere gli epigrafisti romani » ( LEvI DELLA VIDA, 9, 2). Io risolverei il quesito, rinviando a C 'i, 6416 (arco di Ticinum), C XI, 367 (ponte di Rimini sul Marecchia), ecc., nelle quali iscrizioni troviamo appunto l'ordine cos. imp. trib. pot. - Nello stesso articolo il LEVI DELLA VIDA ha magistralmente illustrato un'altra iscrizione punica di Leptis, con menzione di statue di Augusto ormai morto (divus) e della sua famiglia: qui lulia è, a mio giudizio, la moglie (cfr. per es. IIS, 120; 121; IGR iv, 180, ecc.), non la figlia di Augusto (diversamente LEVI DELLA VIDA, loc. cit.).
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nel primo caso, già nel 30 a.C. avremmo un corso politico in certo modo tradizionalista, e rispettoso della nobilitas ( i cui antenati sono appunto glorificati nei Fasti); nel secondo caso, i Fasti rifletterebbero una concezione politica da attribuire ad « Augusto » (e ad un Augusto ormai a più che un quinquennio dalla nuova titolatura) anziché al senato dopo Azio. I nuovi scavi hanno risolto il problema in senso decisamente favorevole alla dottrina del DEGRASSI: le quattro edicole dei Fasti consolari prima decorarono le pareti dell'arco aziaco eretto nel 30 a.C. e dunque furono inscritte, come aveva intuito DEGRASSI, nel 30 a.C.; poi decorarono il fornice centrale dell'arco partico: cfr. DEGRASSI, « Actes du deuxième congrès intern. d'épigr. ' grecque et latine », 1953, p. 97. Analogo problema si pone per statue ed elogia degli illustri Romani nel Foro di Augusto: concepiti verso il 29 a.C. (in relazione con la concezione e con la stesura dell'Eneide: ROWELL, « Am. Journ. Phil. », 1941, pp. 261 sgg.; sulla leggenda di Enea da ultimo il « ribassista » PERRET, Les origines de la lég. troyenne [fino al 31 a.C.] [1942]; per il trionfo di Ottavio nel 29 a.C., e la coincidenza del giorno con la venuta di Enea a Roma secondo Virgílio, e con la festa annuale dell'ara maxima, cfr. GRIMAL, « Rev. ét. anc. », 1951, p. 51): o non piuttosto gli elogia furono concepiti ben più tardi del 29 a.C.? (così, con ottimi argomenti, DEGRASSI, « Epigraphica », 1945, p. 88; cfr. ora SMITH, Problems Hist. a. Num. in the R. o/ A. [ 1951 ] pp. 194-204). Naturalmente, questi problemi di politica interna augustea sono tutt'uno coi problemi della cultura augustea: ora rinnovati, per ciò che riguarda la poesia, da KLINGNER; PÒSCHL; WILI; ecc.; per ciò che riguarda l'arte, da RODENWALDT, Kunst um Augustus 2 (1943) e da CHARBONNEAUX, L'art au siècle d'Auguste (1948). Per l'ara Pacis Augustae (Eov cfr. ROBERT, « Hellenica », II, 1946, p. 77, 1) dedicata il 30 gen. 9 a.C. si rinvia ai trattati di storia dell'arte romana; qui basti citare la vecchia (1902) ma sempre fondamentale opera del PETERSEN e ora l'edizione del compianto MORETTI, Ara Pacis Augustae I-II, (1948); interessante impostazione in SIEVEKING, « Phil. Woch. », 1937,
Bibliograf ia e problemi
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p. 655 (a proposito dello studio di HANELL); pei concetti di constitutio/dedicatio, WELIN, « Dragma Nilsson », I, 1939, p. 500. Cfr. in f ra, App. I; RIEMANN, RE XVIII, 2, 2082. Pei ludi secolari, mngrf. di PIGHI (1940) e, fondamentale, Recherches di GAGÉ (1934). L'aspetto gentilizio del culto augusteo di Apollo è posto in rilievo da LAMBRECHTS, « Latomus », 1947, p. 177 con importanti osservazioni (cfr. infra, per il sistema dello stesso LAMBRECHTS sullo sfondo gentilizio dell'identificazione Livia-Cibele). Anche sul culto apollineo di Ottaviano insiste SCHENK VON STAUFFENBERG, Dtchtung u. Staat in d. ant. Welt (s.d., ma circa 1945); per l'interpretazione apollinea di C Ix, 703 cfr. RIBEZZO, « Riv. indo greco it. », 1937, p. 117 (connessione [ ma cfr. in f ra, App. i, n. 10 ] del culto lauriniense di Ottaviano, in C x, 1238, con il virgiliano erit ille miti semper deus). Sul processo religioso che caratterizza il passaggio all'impero cfr. da ultimo gli eccellenti saggi di K. KOCH, « Das Neue Bild der Antike », II (1942) e, dello stesso studioso, Roma aeterna, in « Gymnasium », 1952, Heft 2-3; saggi dei quali si può dire, con termine oggi in voga, che essi veramente « fanno epoca »; il KOCH ha impostato il problema soprattutto dal punto di vista dell'origine e degli sviluppi da attribuire al concetto di Roma aeterna, negando che questo concetto si ripeta dall'Aion alessandrino (nel qual caso si dovrebbe accentuare l'importanza della mediazione di Nigidio Figulo, il Pythagoricus et magus), e proponendo un'interpretazione romana (romana persino in senso polemico) fondata sull'augustum augurium. Non c'è dubbio che ogni futura indagine sulla religiosità degli Augustei dovrà partire da questa nuova problematica proposta dal KocH; anche se in qualche particolare si potrà chiedere un approfondimento e sinanco revisione (per es., in che senso l'imperium sine fine vergiliano sarebbe per eccellenza « acosmico »? un influsso della Stoa, e almeno in questo senso una portata cosmica del concetto, sembra da riconoscere anche nell'epoca augustea, tanto più che una concezione augustea « acosmica » implicherebbe l'evidente hiatus fra la concezione ciceroniana e quella f lavio-antonina; e ancora: la stessa condizionalità della formula salva arce et urbe = incolumi I ove et urbe Roma [ Hor. ] non
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implica una valutazione del contributo umano alla aeternitas urbis et imperii? Ancor una volta, una conciliazione delle aporie mi sembra possibile nella continuità di formule come per es. salvo Caesare in Prop.; per altro, il Romano ha il suo imperio proprio in quanto egli si sa inchinare alla divinità [sesta ode civile di Orazio: dis te minorem quod geris, imperas], e per lo meno in questo senso gli Augustei riconoscono il « Mittun » dell'uomo). Io insisterei sulla progressiva « cristallizzazione » della formula salvo Caesare fino al basso impero: in/ra, § 43 (cfr. § 12). - Per quello che chiamerei uno sviluppo « haptico » (e dunque formale) della religiosità augustea, va considerato soprattutto il concetto dei pignora (sui precedenti ideali del Palladium cfr. BRELICH, « Stud. mat. st . rel. », 1939, p. 30 [spec. p. 391 ). Una interpretazione della religiosità augustea come fondata sulla idea del saeculum (dunque, come esperienza religiosa più largamente cosmica) è data da IVANKA, « Sodalitas Erasmiana », i (1949, Atti della riunione costitutiva), p. 142 (cfr. in genere, anche, il lavoro del BRELICH sull'« altro nome» di Roma). Per la religiosità di Livio (da ultimo KOCH, Die Darst. d. politischen Sendung Roms b. Livius [1951])
cfr. trattazioni del problema: Rizzo, La base di Augusto, « Buli. Com . », 1932, p. 7 (interpretazione della base di Sorrento); GIANNELLI, Augusto e la religione, in « Conferenze augustee nel bimillenario della nascita » (1939), p. 65 (rapporto tra religione e charisma); da ultimo, assai importante, LAMBRECHTS, « Latomus », 1947, cit. Sul culto imperiale di Augusto, oltre HERZOG-HAUSER, RE, Supplb. iv, 820, cfr., da Ultimo, LAMBRECHTS, « La nouv. Clio », 1953, p. 65 (con distinzione, in rapporto alle già citate indagini di LIEGLE, di un periodo « repubblicano », 27-12 a.C. [nel quale scompare l'assimilazione dell'imperatore ad Apollo], di un periodo più propriamente « monarchico » e « apollineo [in cui si ritorna,
C'è appena bisogno di dire che uno studio sui presupposti religiosi del principato dovrebbe tener presente, ora, anche la problematica delle prime origini repubblicane del concetto di libertas, agitata nello studio di PAOLI, « Rev. ét. lat. », 1945, p. 150 sulla statua di Marsia al foro.
Bibliografia e problemi
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appunto, ad Apollo] dopo il 12 a.C.); v. anche ALFÒLDI, «Mus. Helv. », 1951-3 (spec. 1952, p. 231). Della precedente letteratura si ricordino: OTTO, Augustus soter, « Hermes », 1910, p. 448; HEÌNEN, Zur Begriindung des r"m. Kaiserkultes, «Klio », 1911, p. 129 (spec. p. 139); SCOTT, Mercur Augustus u. Horaz (a proposito dell'oraziano almae filius Maiae) in «Hermes », 1928 9 p. 15; DEGRASSI « Ath. », 1937, p. 284; TAYLOR, The Divinity o/the Roman Emperor (1931); vari saggi di PIPPIDI, ripubblicati in Recherches sur le culte imp. (1939); M. SEGRE, «Rend. Pont. Accad. arch. », 1940, p. 25 (con riferimento a un decreto di Calimno, nuovamente integrato e interpretato); un'interpretazione del genius e del numen aeterni Caesaris sempre connessa con l'interpretazione generale della politica di Augusto con sviluppi, per es. in senso ellenistico, in HAMMOND, « Mem. Amer. Acad. Rome », 1940 ) i, cit. Si discute sulla datazione dell'ara numinis Augusti, attestata nel calendario prenestino (cfr. la polemica di PIPPIDI, Op. cit., contro miss TAYLOR); un eccellente inquadramento di 'tutta la
problematica in ENSSLIN, Gottkaiser u. Kaiser von Gottes Gnaden, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1943, H. 6. - O'BRIEN MOORE, « Yale Class. St. », 1942, p. 23 (spec. p. 31). - Sull'idea di adventus, importanti osservazioni in STAUFFER, Christus u. die Caesaren (1952 3), p. 88. In particolare, la problematica della religione degli Augustei si risolve in quella dei rapporti di culto fra le varie divinità sotto Augusto: uno studio di eccezionale interesse è, ultimamente, in LAMBRECHTS, LivieCybèle, « La nouv. Clio », 1952, p. 251 (a proposito di un onyx di Vienna), secondo cui la diffusione del culto di CybeleRhea per gli Augustei è (in quanto culto « claudio ») inver samente proporzionale alla diffusione del culto (« giulio ») di Venere; cfr. anche in/ra, xi. Il culto di Livia, nella sua funzione paradigmatica, è particolarmente studiato da GRETHER, « Amer. Journ. Phil. », 1946, p. 222. L'importanza del segno zodiacale (Capricorno per Augusto, Scorpione per Tiberio, e via dicendo) va studiata nel quadro del culto imperiale; cfr., per le coorti pretorie, in/ra, x; riflessi letterari studiati in BAYET, « Rev. ét. lat. », 1939, p. 141. L'apotéosi si connette col paradigma romuleo, come mostra la visione di Numerius Atticus (per suggerimento, si badi, di Livia); ma l'idea del
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sidus Iulium (cfr. ultimamente SUTHERLAND, « Class. Rev. », 1944, p. 48), a cui si aggiungono motivi ellenistici, ha anche la sua parte. Nel quadro della propaganda (cfr. il citato studio del GIANNELLI) e degli ideali, anche a tinta religiosa, del principato, rientra la ricerca sulle « virtù cardinali » del principe, virtutes che hanno un paradigma augusteo: cfr. per es. MARKOWSKI, « Eos », 1936, p. 109; CHARLESWORTH, « Har vard Theol. Rev. », 1936, p. 107 e « Journ. Rom. Stud. », 1943, p. 1 (in questi scritti di CHARLESWORTH emerge il ca-
rattere universale di providentia, aeternitas, pietas, /elicitas, e
via dicendo): sono ideali che hanno una loro storia (e un presupposto immediato nell'epoca della rivoluzione; per la pietas lulia, in connessione con la fondazione di Pola nel 42-41 a.C. cfr. DEGRASSI, « Atti Ist. Ven. », 1942-3, p. 667); in genere cfr. GAGÉ, « Rev. ét. anc. », 1937, p. 90; MATTINGLY, « Harv. Theol. Rev. », 1937, p. 103. L'arcaismo manieristico e antiquario dell'epoca augustea non ci autorizza, naturalmente, a concentrare in essa, in genere, testi epigrafici con caratteri arcaizzanti: cfr. per es. le osservazioni di ROBERT in « Hellenica », ii, 1946, pp. 132-133. Sul problema successorio le osservazioni, cui già accennammo, di SYME, op. cit. Si desidererebbe uno studio su G. e L. Cesari (per l'iconografia, in/ra, App. I; in connessione coi reperti di Cassino, cfr. CARETTONI, « Not. sc. », 1939/40, p. 112; PIETRANGELI, « Bull. Com . », 1946-8, p. 57; su un nouvel bommage ^du Valais à Caius Caesar, COLLART, « Mél. Gilliard », p. 38; per recenti problemi epigrafici v. letteratura in DEGRASSI, « Doxa », 1949, pp. 78-79; cfr. anche, per es., l'ambasciata di Sardi e la risposta di Augusto nell'epigrafe studiata da BUCKLER, « Am. Journ. Arch. », 1914, p. 321; per la stefanoforia di G. Cesare a Mileto, cfr. REHM, « Sitzungsbb. Bayer. Ak. », 1939, n. 8; in generale, sul concetto princeps iuventutis, e su iuventus, LAMBRECHTS, « Ant. ci. », 1948, p. 355). La crisi del problema successorio nei 7 a.C. sarebbe da interpretare anche alla luce della gemma Augustea di Vienna, qualora per la striscia superiore si accogliesse l'interpretazione del giovine loricato come G. Cesare (Tiberio scende dal carro trionfale, C. Cesare ne prenderà il posto: PIGANI0L, Hist. de Rome, p. 263); altri studiosi identificano
Bibliografia e problemi
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il loricato con Germanico (cfr. da ultimo LIPPOLD, Zum « Schwert d. Tiberius » in « Festschr. Rim.-Germ. Zentralmuseums in Mainz z. Feier seines 100 ja**hr. Best. », 1952, I); in questo caso, dovremmo datare al 12 d.C. Ma la datazione al 7 a.C. è di gran lunga preferibile; il loricato ha un aspetto adolescente, laddove Germanico nel 12 d.C. era ventisettenne; cfr. CHARBONNEAUX, L'art au siècle d'Auguste, p. 84. Cfr., pel rapporto fra Augusto e l'adottato Tiberio vincitore dei Vindelici, la « spada di Tiberio al Br. Mus. » su cui LIPPOLD, Zum « Schwert d. Tiberius » cit., il quale giustamente parte dalla sicura identificazione di Augusto nel medaglione, e pertanto vede nella figura stante Tiberio, cui rimane la felicitas della vittoria (/elicitas Tiberii) mentre la vittoria stessa (victo ria Augusti) appartiene ad Augusto (in altro senso GAGi nel fondamentale studio « Rev. Arch. », 1930, spec. p. 8; GAGi data la spada di Tiberio allo stesso periodo che noi assumiamo - in fra, App. i - per il gran cammeo di Francia, cioè al terzo anno di Tiberio). Per la lex Valeria Cornelia cfr. la discussione sulla tabula Hebana innanzi, App. i. Per i presupposti della politica romana VI (cfr. § 13) con la Partia, cfr. sopra tutto DEBEVOISE, A Polit. Hist. of Parthia (1938), cap. 7; e l'articolo di SCHUR, Parthia (la parte ellenistica è dei compianto JUNGE) nella RE. - Sulla politica asiatica di Augusto cfr. il cap. 20 (e le rispondenti note, al u voi.) in MAGIE, Roman Rule in Asia Minor (1950). Un papiro storico che sembra relativo alle campagne augustee in Nubia è quello pubblicato e commentato da VOGLIANO, Un papiro storico greco della raccolta milanese e le campagne dei Romani in Etiopia (1940). Il problema preliminare per lo
studio di queste spedizioni è quello delle fonti relative. Osserverei che sulle spedizioni in Nubia, Strabone e Plinio sono divergenti: ciò può mostrarsi per la diversa forma di 11P-J[1vLq (Strabone; in Plinio Primi) e per la diversa ubicazione di Forum Cambusi nei due testi. D'altra parte, la fonte di Plinio difficilmente può essere la medesima di Cassio Dione: per es., Plinio ha P. Petronius, mentre Dione gli dà il prenome Fkto, che lascia pensare a 'fonte greca piuttosto che romana (ciò
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se il prenome dato da Plinio è nel vero, come pensa il Cfr. supra, Iv; MONNERET DE VILLARD, Storia
VOGLIANO).
della Nubia cristiana (1938), pp. 1-15. 6?c.to all'epoca di Augusto ha attirato Il Mpxptx l'attenzione in seguito alla scoperta dell'epigrafe SEG ix, 63 (da cfr. con OGIS, 767): si veda per es. ROMANELLI, La
Cir. rom. (1943), p. 77. È ormai classico l'articolo iniziale degli « Hellenica » di ROBERT. Per il commercio con l'India cfr. soprattutto il materiale nelle due opere principali WARMINGTON, The Commerce bet ween the Roman Empire a. India (1928); CHARLESWORTH, Les routes et le tra/ic comm. dans l'Emp. rom. (trad. franc., 1939;
dello stesso autore il recente saggio in « Studies in Rom. Econ. A Soc. Hist in Hon. of A. Ch. Johnson » [1951], p. 131); anche ultimamente FILLI0zAT, Les échanges de l'Indie et de l'emp. rom. aux premiers siècles de l'è. {hr., « Rev. Hist. », 1949, pp. 8 sgg. Della restante copiosa letteratura basti ricordare., da ultimo, (sugli scavi di Arikamedu) CASAL, « ComptesRendus Acad. Inscr. Belles lettres », 1949, pp. 142-147 (emporio romano di età augustea). Naturalmente, questi problemi sono connessi con la storia della geografia nel periodo augusteo, per es. con l'opera di Isidoro di Charax (cfr., da ultimo, THOMPSON,
History of Anc. Geogr. [1948], p. 286).
Per il problema dello stato bosporano e dei suoi rapporti con Roma, cfr., da ultimo, KALLISTOV, « Vestnik drevnej istorii », 1940, n. 2, p. 65; GOLUBTSOVA, Severnoe Pricernom. i Rim na rubeje n.e. (1951), dove si tentano nuove interpretazioni numismatiche e si attribuisce allo stato bosporano una qualche relativa autonomia (ivi anche buone osservazioni sulla situazione dopo l'8 a.C. - morte di Polemon - e sui suoi successori Asandros [8 a.C.-7 d.C.] e Aspourgos [10-36 d.C.]; caratteristica di Dynamis). In generale, da ultimo, KALLISTOV, Severnoe Pricernom. v anticnuiu epochu (1952); cfr. anche supra, p. 28, n. 18; GAJDUKEVIC, Bosporskoje tsarstvo (1949). Su Dynamis cfr. MACURDY, Vassal Queens (1937). Su Arminio cfr. da ultimo soprattutto HOHL, « Hist. Zeitschr. », 1943, 457; « Sitzungsbb. Deutscher Akad. Ber lin », 1951, 1; ENSSLIN, « Das Gymnasium », 1943/4, p. 64;
B/Wlogriz/ld e probleirn
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Arminius (1943);
BICKEL, «Rhein. Mus.», 1952, « Mitt. a. d. lipp. Gesch. u. Landesk. », 1951; su Teutoburgo, per es., JUDEICH, « Rhein. Mus. », 1931, p. 301; cfr. anche FERRARI, « St. ital. fu. class. », 1936, p. 283 (critica WOCKERT,
p. 97; WEETH,
a LEMCKE, Die Varusschlacht. Eine Que11enuntersucbung z. Bericht d. Fiorus [1936]). Il problema delle fonti - preferire Floro o Dione? - è qui particolarmente grave. Del resto, c'è appena bisogno di dire che pochissimi argomenti hanno avuto sì ricca bibliografia come questa importantissima battaglia; una letteratura ulteriore negli scritti citati. All'autunno 9 d.C. è datata la battaglia in HOHL, «Sitzungsbb. Deutscher Akad. Berlin », 1952 ) 1; al maggio-giugno 10 d.C. in SCHWARTZ, « Rev. Phil. », 1945, p. 71. In verità, l'anno è certamente quello indicato dal HOHL (già MOMMSEN considerava indubbia la datazione al 9 d.C.; e che si tratti dell'autunno, è evidente da Veil. ii, 107). Per il trofeo Alpium cfr. CASIMIR, Le trophée d'Aug. à la Turbie (1932); GIGLI0LI, « Palladio », 1940, p. 147; e soprattutto, ora, FORMIGÉ, Le trophée des Alpes (1949). Si noti che anche in questo caso, come nei trofei degli Apostoli (App. In) e già nei Pompei tropaea (GOESSLER, RE xxi, 2, 2045), il termine tropaeum è usato al plurale; questo plurale si conserva nel toponimo La Turbia. Cfr. anche PICARD, « Rev. Arch. », 1949, n, p. 151. Bellum Cantabricum e bellum Asturicum (26-25 a.C.): SYME, « Am. Journ. Phil. », 1934, p. 293. VII (cfr. § 11) Per l'esercito del principato cfr. letteratura e problematica in/ra, XXVI. - Per l'evoluzione socialeeconomica in/ra, § 36; XVI; XXV. - Qui basterà rilevare come sulla formazione del latifondo imperiale di Livia ed Augusto per jamnia, Azoto (l'antica Ashdod) e Faselide sia stata attirata l'attenzione, anche di recente, dagli studi sul procuratore C. Herennius Capito (FRACCARO, « Ath. », 1940, p. 136; FUHRMANN, « Epigr. », 1940, p. 25); e osservare come la concezione augustea non ereditaria (A. STEIN, ultimamente «Am. Journ. Phil. », 1946, p. 361) dell'ordine equestre limiti naturalmente, per via del primipilato (cfr. DE LAET, « Rev.
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beige phil. hist. », 1941, p. 509; « Ant. ci. », 1941, p. 13)10, il privilegio della nascita. - Sulla legislazione demografica si rimanda a SCHILLER, RE, Supplb. vi (1935), 227. - In generale, gli studi di diritto familiare, per es. di VOLTERRA e di CORBETT; cfr. anche CALDERINI, « Conf. Aug. » dell'Univ. Catt., 1939, p. 121. - Per i problemi del censimento della Giudea, ACCAME, « Riv. fu. class. », 1944-46, p. 138, in cui si esamina la posizione del legato di Siria, Quirinio, in relazione al problema del censimento universale nell'impero; mentre miss Ross TAYLOR, « Am. Journ. Phil. », 1933, p. 120 (cfr. CORBISHLEY, « Klio », 1936, p. 88) sostiene l'universalità del censimento, l'ACCAME la nega. - Quanto al censimento del 14, si discute sulla differenza nel numero di cives Romani dato dalle Res gestae e dai Fasti Ostiensi (4 937 000 nelle RG; 4 100 900 nei FO: cfr. l'interpretazione da me proposta supra, pp. 51 sgg., n. 2 - Il materiale di certificati di nascita d'epoca imperiale (tavolette cerate, ma anche un papiro) si accresce mirabilmente: esso ci chiarisce, tra l'altro, che la legislazione demografica augustea impediva pro fessio in albo pei figli illegittimi: cfr. CUQ, « Mél. Fournier », 1929, p. 119, letter., da ultimo, in MONTEVECCHI, « Aegyptus », 1948, p. 113. Di questi documenti a noi pervenuti il più antico è di epoca neroniana (precisamente del 62 d.C.), il più tardo del 242. Si è discusso sull'esatto svolgimento dell'abbreviazione CREADK, che in essi appare: cre(scentes) ad K(alendas), secondo SCHUBART, c(ivem) R(omanum) e(sse) ad K(alendarium), secondo SCHULZ: questi seconda è lettura indiscutibilmente migliore (cfr. da ultimo MONTEVECCHI, loc. cit.). Per la politica monetaria ed economica di Augusto cfr. letteratura data supra, i, a proposito della numismatica augustea.
« Désormais il devient possible aux caligati d'entrer dans l'ordre equestre. Le pont qui relie les deux classes, est le pri mipilat », DE LAET. Anche questo spiega l'importanza del conflitto senatori-cavalieri, con cui spiegheremo, nella Parte seconda, le vicende dell'epoca giulio-claudia.
Parte seconda
L'EPOCA GIULIO-CLAUDIA IL « LUXUS » SENATORIO E LA RIVOLUZIONE BORGHESE
Capitolo primo IL PRINCIPATO DI TIBERIO
15. (cfr. § 18) La periodizzazione dell'epoca augustea e tiberiana.
La monarchia di Augusto solo lentamente si era liberata dall'esperienza del periodo rivoluzionario: nel 27 a.C. con l'inizio « augusteo », nel 23 a.C. con il consolidamento degli istituti del novus status e la ferma volontà di stabilirli per sempre. Questo primo periodo « augusteo » segnò la fine della lotta politica tardo-repubblicana; in termini di storia artistico-religiosa lo si potrebbe definire il periodo dell' « ordinamento » parietale (nella pittura pompeiana)' e dell'ordinamento religioso tradizionalista e in certo modo non personalmente legato all' « individuo » Augusto. Nel 13 a.C. si comincia a porre l'Ara Pacis Augustae, e d'intorno a quel periodo possiamo far cominciare un'epoca, che si chiamerebbe della « monarchia fondata sulla religiosità classicistica »; nel 5 d.C. i comizii per la destinazione dei consoli e dei pretori sono senatoriiequestri, e quella destinazione appare come una sors (né più né meno che per alcuni sacerdozii), si direbbe quasi un « oracolo » (cfr. la dimostrazione in/ra, App. i), dei la « Spatphase » del secondo stile pompeiano, secondo la nuova classificazione di SCHEFOLD, Pompeianische Malerei (1952); si può dire che, in genere, le nuove classificazioni di SCHEFOLD hanno più importanza storica che le vecchie di MAu (che SCHEFOLD
Conserva per ragioni, diciamo così, didattiche).
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Parte 11.
L'epoca giulio-claudia
principes iuventutis scomparsi nel 2 d.C. e 4 d.C.,. G. e L. Cesari (assimilati ad Ascanio e Romolo nell'Ara Pacis);
è questa, nella pittura pompeiana, l'epoca classicheggiante per eccellenza. Ancora il « tono » politico-culturale degli Augustei domina il regno di Tiberio, all'incirca per un decennio e più (diciamo, all'incirca 14-30 d.C. [?])2; gli uomini continuano a credere che la rivoluzione augustea si sia composta nell'armonia delle classi dirigenti senatoria ed equestre, entrambe collaboratrici all'elezione dei consoli e pretori, nel segno della religiosità augustea, e per esempio (nel caso delle elezioni suddette) nel segno « oracolare » dei giovani eroi (cui Tiberio, nel 19, aggiunge Germanico; nel 23, Druso). L'ultima epoca di Tiberio (31?-37) segna la cesura; come nella pittura pompeiana le figure cominciano ad acquistare una maggiore libertà, così nella vita politica e sociale tramonta il tempo delle grandi illusioni « classicistiche ». Il consolato di Seiano (31) coronò il fallimento dell'augustea collaborazione senatorio-equestre, e d'ora in poi la elezione dei consoli e pretori (con una parentesi « democratica » sotto Caligola) passerà, per tutta l'epoca imperiale, al senato. I due ordines, senatorio ed equestre, l'ordo della tradizione e quello della finanza, accentuano, così, la loro distinta fisionomia. Nell'o ptimus status, fondato da Augusto, ci si muove ormai più libe ramente; e il luxus senatorio è la caratteristica dell'economia statale romana fino all'epoca neroniana, in cui si registra, secondo l'espressione di Tacito, la fine di un « ciclo » (in/ra, 55 16-18) della storia economica imperiale. D'intorno al 30 circa si è dunque compiuta, nello stato romano, una trasformazione radicale. L'eliminazione dei cavalieri dalle elezioni dei consoli e dei pretori non è che un aspetto - senza dubbio, di grande rilievo - di questa trasformazione, la quale, nel suo complesso, ha 2 Terminus POSI quem è, comunque, il, 23 d.C., in cui Tiberio aggiunge altre centurie destinatrici; cfr. in/ra. App. I.
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avuto una grande importanza in quanto incideva - come mostrerà la seguente indagine - su tutto il clima culturale e sociale dell'epoca giulio-claudia. Si può dire che allora, con l'abbandono dell'ideologia augusteo-tiberiana degli eroi giulio-claudii, il vecchio clima augusteo è scom parso, anche se è rimasto il fondamentale ordinamento augusteo dello stato romano. Se tuttavia noi trattiamo il lungo regno di Tiberio come una unità, ciò è dovuto, oltre che alle pratiche necessità dell'esposizione, all'interesse che questa personalità di imperatore suscita già nel suo complesso, caratterizzata com'è dalle difficoltà inerenti alla successione di Augusto, e dalla costante ripugnanza del nuovo imperatore ad ereditare alcune forme decisamente monarchiche dell'ideologia augustea, per esempio la titolatura di pater patriae (assunta da Augusto nel 2 a.C.) e il prenome di Imp(erator). 16. La politica di Tiberio sino al 31.
Con la morte di Augusto cominciava, il 19 agosto del 14, l'interregnum; e alfine, dopo circa un mese; si chiu-
deva con la conferma del principato al successore designato, Tiberio. A lungo Tiberio aveva esitato, prima di accettare; come già Augusto, ma con convinzione di gran lunga più salda, aveva mostrato di voler evitare il grave peso; uno scrittore molto vicino a Tiberio (lo storico Velleio) è certamente nel vero (per lo meno dal punto di vista formale), quando ci presenta Tiberio, in quella occasione, desideroso di rendersi utile come aequalis civis piuttosto che come eminens princeps. Infine aveva vinto il senato; e Tiberio si era piegato al compito suo con l'animo del senatore di antico ceppo che era stato, sì, collega di Augusto, ma era anche cosciente di seppellire per sempre, con la sua accettazione, l'antica libertas senatoria già scardinata da Augusto. Per intendere il turbamento di Tiberio dinanzi al grande passo, e la sua rela-
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tiva sincerità in questa che Velleio chiamava la « lotta » (luctatio) fra il principe e il senato che gli conferisce l'imperium, bisogna tener presenti due cose: l'origine di Tiberio, da un lato, e dall'altro la enorme difficoltà di assumere ora, da solo, quella posizione che ben più agevolmente egli aveva coperto prima, come « correggente » di Augusto. Rampollo di una famiglia patrizia, accettò il principato con il tono del patrizio che sostenesse una magistratura, non già con la sicurezza del princeps ambizioso di essere, già nel prenome, Imp(erator). Così, rinunziando al prenome Imp(erator), egli implicitamente rif fiutava il privilegio già accordato a Cesare nell'estremo di poter trasmettere quel prenome periodo di sua vita ai suoi discendenti (cfr. supra, § 9, n. 4). Persino sull'accettazione del cognome Augustus fu incerto (Suet., Tib., 26; cfr. C xl, 3303); non accettò il titolo di pater patriae. Eliminando ciò che riteneva superfluo nella titolatura, si preoccupava della definizione giuridica del suo potere, fondato sempre sulla tribunicia potestà (vitalizia a un tempo e annuale) e sull'imperium proconsulare maius et infinitum 3
.
3 L'interpretazione delle caratteristiche attribuite da Tiberio all'imp. proc. maius et infinitum dipende strettamente dall'interpretazione dello stato augusteo. Come a suo luogo abbiamo chiarito, Ottaviano (che dal nov. 36 a.C. al 28 a.C. era potitus rerum omnium per l'eccezionale consensus universorum connesso con una tribunicia potestà vitalizia), alle idi di gennaio del 27 a.C. rinunziò definitivamente a questa posizione eccezionale e del tutto rivoluzionaria (la quale solo fino al 33 a.C. aveva potuto essere coperta con la potestà triumvirale). Ottenne allora, in compenso, l'imp. proc. per le province non pacate (imperiali), rinnovabile a intervalli di 5 o 10 anni, e connesso (secondo la testimonianza di Dione, che nulla ci autorizza ad infirmare) con la irpoaraaíx Twv xotvi7v. Nel 13 d.C. questo imp. proc. per le province imperiali, già precedentemente rirnovato, fu per l'ultima volta rinnovato ad Augusto e a Tiberio per 10 anni. Ma Tiberio nel 24 d.C. non ne chiese rinnovazione alcuna (Dio, LVII, 24, 1). (Io proporrei, se pur con riserve, di connettere questa tiberiana abolizione della rinnovazione dell'imp. proc, per le province imperiali con la precedente orazione di Tiberio
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Di questo tormentato imperatore, triste (e apparentemente strano) è il destino. Ispirandosi a devotus animus (cfr. § 18) verso il senato, egli ha cercato di limitare le sue competenze di monarca; non è stato creduto, ed è stato considerato ipocrita e bugiardo. Senatore fra senatori, nobile fra gli altri esponenti della nobilitas, egli ha cercato di assentire alle deliberazioni del senato nella forma più ampia, senza riserve né infingimenti. Ma un tale sistema presentava inconvenienti assai gravi: primo inconveniente proprio questo, che (come avviene in ogni forma di potere bipartito) le competenze dei due poteri - quello del princeps e quello del senatus - potevano talvolta interferire, sì da creare incomprensioni più gravi delle crisi che si erano verificate (per esempio 4 d.C.) in un regime più decisamente monarchico, come l'augusteo. Così nel 23 [dopo la morte del figlio Druso], orazione in cui l'imperatore, sempre ispirato a devotus animus verso il senato, parlava tra l'altro de reddenda re publica [Tac., Ann., iv, 91; in tal caso, l'abolizione della rinnovazione di imp. proc. decennale per le province imperiali sarebbe intesa, per lo meno nelle intenzioni generiche di Tiberio, poacax -rv xovcv a provocar una certa decadenza della [tutela rei publicae] decennale connessa con l'imp. proc. decennale nelle province imperiali.) Al solito, Tiberio non amava le formule superflue. Cosa si conservava, nel 24 d.C., dei poteri di Augusto? Rinunziando nel 24 d.C. all'imp. proc. rinnovabile nelle province imperiali Tiberio conservava, naturalmente, l'imp. proc. maius et infinitum vitalizio (&xcì x&rx) dato ad Augusto nel 23 a.C.:imperio, cioè, che non si fermava al pomerio e che Tiberio considerava dunque (accanto alla fondamentale tribunicia potestas, vitaizia a un tempo ed annuale) il vero caposaldo del potere monarchico. Naturalmente, restavano tutti gli altri poteri tenuti da Augusto: l
/oedus cum quibus volet lacere; senatum ha bere relationem facere ecc.; ed anche - nonostante il teorico de reddenda re publica del 23 d.C. - agere lacere quacumque ex usu rei publicae - esse censebit: cfr. la lex de imp. Vespasiani (C vi, 930). - Le lunghe discussioni di noi moderni sui rapporti tra l'imp. proc.
per le province non pacate dato ad Ottaviano il 13 gen. 27 a.C. e
l'imp. proc. maius et infinitum dato ad Ottaviano nel 23 a.C. deri-
vano da ciò, che noi moderni non riusciamo a comprendere come fosse necessario ad Augusto mantenere la formula dell'imp. proc. rinnovabile per le province imperiali del 27 a.C., mentre d'altra parte
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si spiega perché la tradizione senatoriale, confluita in una grande opera storica come quella di Tacito, od anche nella notevole rievocazione biografica di Suetonio,- abbia f rainteso spesso gli ideali di questo princeps. Come tutti gli uomini incerti, egli è apparso o vile o mendace; come tutti i dubbiosi (egli si doveva sentire assai piccolo in conf ronto col suo grande predecessore), è apparso un ipocrita. Diverso da lui, l'uomo di Velletri, Ottaviano Augusto, era certamente un rivoluzionario; e perciò la successione doveva apparire a Tiberio un gravissimo peso, laddove tanto più agevole gli era stata la correggenza. Non bisogna dimenticare che il pater naturalis di Tiberio era di origine senatoria, mentre il pater naturalis di Ottaviano era di origine equestre, « borghese ». La diversità fra Augusto e Tiberio è fatta di sfumature; l'imp. proc. del 23 a.C., essendo inf initumn (cioè non fermato dal pomerium ), era a maggior ragione comprensivo delle province sena-
torie e delle imperiali. Per questa ragione, molti studiosi pensano, per es., che l'imp. proc. del 23 a.C. non comprendesse se non le province senatorie; altri altrimenti. La soluzione dell'aporia va cercata, al solito, all'infuori dei nostri schemi di moderni. L'imp. proc. del 27 a.C. faceva di Ottaviano il signore delle province imperiali, mentre per il resto egli doveva fondarsi sul suo effettivo potere di console. L'imp. proc. del 23 a.C., cumulato con la tribunicia potestà e col diritto di senatum habere relationem facere (cfr. la lex de imp. Vespasiani), rendeva superfluo il consolato di Augusto (il quale, di fatti, aveva allora deposto il consolato, né più lo riprese, salvo che nel 5 a.C. e nel 2 a.C.): si accentuava, come già vedemmo a suo luogo, il concetto che l'imperatore detiene la potestas immanente nel proconsolato potenziata dalla àuctoritas. Ma la necessità di nominare legati Augusti pro praetore nelle province imperiali rendeva ancora necessario, secondo Augusto, il mantenimento dell'imperio speciale rinnovabile per le province imperiali. È chiaro, dunque, in che consista la novità di Tiberio rispetto ad Augusto: Tiberio ha inteso che il conferimento dell'imperio speciale rinnovabile per le province imperiali poteva considerarsi compreso nello imp. proc. maius et in f initum, e che dunque era superflua ogni rinnovazione di esso. A questa conclusione, però, si è arrivati solo nel 24 d.C., non già nell'epoca augustea (SIBER) o nel settembre 14 d.C. (PA S SERINI ); possiamo dire che l'anno 24 d.C. fa testo nella storia- costituzionale dell'imp. proc.
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ma sono sfumature di un certo rilievo. Ai contemporanei esse sfuggivano; essi guardavano alla sostanza, non alle divergenze formali; così, ad esempio, Strabone, la cui Geografia fu compiuta nei primi tempi del regno di Tiberio, vedeva nella « potestà assoluta » la comune caratteristica dell'impero di Augusto e di quello di Tiberio (« l'impero fu affidato a un solo uomo come a padre » - con riferimento, forse, al titolo di pater patriae - « sicché* Augusto imperatore lo tenne con potestà assoluta, e poi lo trasmise ai suoi successori, Tiberio assistito dai figli Germanico e Druso »)'. Ma in realtà Tiberio ha voluto fare dei passi indietro rispetto ad Augusto: la sua rinuncia al prenome Imp. come al titolo di pater patriae è un fatto indicativo perché investe - in un mondo formalistico come il romano - la sostanza stessa del principato; ed infatti i successori di Tiberio dovranno recuperare, poco a poco, quei due elementi della titolatura augustea (per ciò che riguarda p.p., tardo-augustea), i quali infine, ancora per la tarda romanità, sono sempre considerati (per esempio H. A., Vita Probi 12, 8) tra i momenti costitutivi di ogni nomina imperiale. La necessità e i benefici dello optimus status così confermato, ed insomma della concordia ordinum garantita dal monarca, apparivano un'esigenza di conservazione. « Non fu a lungo oscuro ciò che avremmo sofferto, se non avessimo ottenuto l'accettazione di Tiberio; e ciò che avevamo guadagnato, ottenendola »: anche in questo caso, la considerazione di Velleio, nonostante il suo tono adulatorio, ci apre uno spiraglio sulla condizione delle cose nel settembre 14 d.C. Se lo stato chiedeva un princeps, ciò era dovuto in primo luogo a quella presenza deP. 228 C; il concetto, analogo, di &oux aùroxpa.TnC anche in Philo, leg. 190, ma con la problematica del governo jicrù v6(.u.0v di Augusto e Tiberio. Sul concetto di oux in genere, cfr. anche in/ra, §§ 22-23.
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gli exercitus, che per tutto il i secolo a.C., pur nel consolidarsi ed estendersi dell'imperio romano, aveva scosso e turbato - per la rivalità dei duces partium divenuti condottieri d'armata - l'Italia e lo stato. Or presto gli exercitus di Germania e di Pannonia si rivoltarono; « chiedevano nuovo status, chiedevano nuova res publica ». Ma la rivolta fu sopita; e brillò, nel domarla, così la guida di Tiberio, come il senno dei suoi due fi lii, Germanico (adottivo) e Druso. Più grave a domarsi quella delle legioni di Germania (le quali insistevano sulla tenuità dello stipendio rispetto a quello dei pretoriani), sicché Germanico dovette pensare a metter al sicuro Agrippina, sua sposa, mandandola a Treviri, e fu costretto ad agire energicamente contro due legioni ancora ribelli. Più agevole la repressione della rivolta delle legioni pannoniche. Per altro, la necessità di sterminare i ribelli dell'esercito romano apparve evidente dalla situazione militare, che richiedeva un'energica azione di Germanico al di là del Reno; nonostante i conflitti fra capi germanici (il romanofilo Segeste contro Arminio, che gli aveva rapita la figlia Thusnelda), tuttavia l'opera del principe dei Cheruschi Arminio ha potuto quasi assumere l'aspetto di una « guerra d'indipendenza » (Arminio appare a Tacito come liberator haut dubie Germaniae); i Romani, pur vincitori nel campo Idistaviso (16 d.C.), non hanno potuto compiere - com'era il piano di Germanico - la sottomissione dei popoli germanici fino all'Elba; e presto Germanico fu richiamato da Tiberio. E ciò soprattutto perché Tiberio vedeva nelle imprese del figlio adottivo una guerra di ultio, « vendetta » per Teutoburgo, anziché una guerra di conquista: e poiché, secondo la concezione augustea, le guerre affidate al ductus (« condotta ») dei generali si compiono sempre per gli auspicia del monarca (per esempio ductu Germanici, auspiciis Tiberii), così il punto di vista di Tiberio era deci-
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sivo. Il piano di conquistare la Germania libera (transdanubiana) sarà un giorno ripreso da Marco Aurelio, ma in tutt'altro periodo storico e con tutt'altri presupposti (Marco Aurelio è stato costretto da nuovi movimenti migratori); sarà ripreso, nel in sec., da Massimino il Trace, ed anche allora senza risultato. Ma il fallimento di Germanico è tanto più evidente e degno di rilievo, in quanto sanzionò per sempre le conseguenze della sconfitta di Teutoburgo sotto Augusto. L'atteggiamento dei circoli ufficiali romani rispetto alla libera Germania può considerarsi riflesso in un passo di Velleio, in cui lo storico tiberiano orgogliosamente sottolinea le commosse parole di un germano che aveva voluto vedere il «dio » Tiberio (durante la sua campagna germanica del 5 d.C.), e ha gridato alla follia della gioventù germanica, che adora il nume dei duci romani assenti, e dei presenti teme le armi, anziché lealmente obbedire. In questa situazione, non è improbabile che Tiberio facesse affidamento, piuttosto che su avventure di guerra, sui conflitti e le rivalità fra tribù e stirpi germaniche: quei conflitti, che opposero i Cheruschi ai Marcomanni, il cui capo Marbod finì poi a Ravenna la sua avventurosa vita e per cui infine Arminio cadde ad opera di un suo congiunto. Richiamato già nel 16 d.C. dal comando renano, Germanico celebrò il trionfo l'anno seguente (26 maggio). Tierio e Livia (lulia) lo inviarono (cfr. in/ra, App. i) in Oriente, con imperium proconsulare maius. Il punto fondamentale della politica estera era la definizione dei rapporti con lo stato partico. Qui il re Artabano (che comunemente indichiamo come Artabano iii) aveva operato una vera e propria rivoluzione. Negli ultimi tempi, e lungo il corso del principato augusteo, sempre più lo stato partico era entrato nell'orbita del romano: tipico il caso di Fraate iv, che aveva mandato a Roma quattro suoi figli e quattro nipoti, col duplice risultato di ottenere l'appog-
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gio romano e di evitare la possibilità di eventuali sollevazioni, che in uno stato feudale come quello partico fatalmente si sarebbero appoggiate ad alcuno dei figli non destinati al trono; tipico il caso del « romanizzante » Fraate v o Fraatace. Il più deciso tentativo di trasformare questa situazione in un permanente stato di amicizia (e persino, in certo modo, vassallaggio) dello stato partico, era stato compiuto da Augusto nel 9 d.C.: l'imperatore destinò allo stato partico il suo protetto Vonone, figlio di Fraate iv, così come all'Atropatene destinò un rampollo dei filoromani dinasti atropatidi. Ma il signore dell'Atropatene Artabano, oriundo da una gente dell'Iran orientale e per parte di madre imparentato cogli Arsacidi, ebbe allora il coraggio di ribellarsi apertamente al sovrano partico destinato da Roma; raggiunse (11112 d.C.) la vittoria su Vonone; divenuto signore dello stato partico, diede impulso ad una tendenza radicalmente nazionale-partica in senso antiromano, la quale si esprime dal ramo cadetto, solo per parte di madre arsacidico, fondato da lui (laddove i Romani sostengono i loro ospiti, figli di Fraate iv, o suoi nipoti, di diretta discendenza arsacidica). Tiberio e soprattutto Livia (in/ra, App. i) intesero subito l'importanza della rivoluzione di Artabano iii. Germanico ha tentato una soluzione, incoronando un re di Armenia filoromano ed arrivando, nel 18, ad una entente cordiale con Artabano iii. In questa entente, come pare, l'unico sacrificio romano fu l'allontanamento dell'antico nemico di Artabano iii, il romanofilo Vonone, che rappresentava sempre, per Artabano, la minaccia della diretta discendenza arsacidica pronta a contendergli il trono. La situazione del 19 era così riassunta dal geografo-storico Strabone : N.
Strabo, 749 C. - Morte di Vonone nel 19 d.C.: Tac., Ann., rr, 68. - La mia interpretazione del passo straboniano si fonda su pctv « sopravvivono ». Generalmente si pensa (sin da PAI5, Intorno al tempo e al luogo in cui Strabone compose la geogr. stor.
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« dei figli di Fraate [iv], quelli che sopravvivono » (Vonone morì nello stesso 19) « sono onorati regalmente a Roma, a pubbliche spese; gli altri re parti » (quelli, cioè, che successero a Fraate Iv) « hanno inviato ambascerie e son venuti a conversazioni diplomatiche »; dove, nel l'ultima proposizione, ci par evidente l'allusione alle conversazioni fra Germanico e Artabano iii. Dopo un viaggio in Egitto (19 d.C.), Germanico tornò in Siria (sempre nel 19 d.C.); ne seguirono aspre discordie col governatore della Siria, Pisone, ed infine, la misteriosa morte (10 ott. 19 d.C.) di Germanico. Il giovanissimo principe era più popolare del nobile di vecchio stampo, Tiberio; figlio di Druso e nipote di Antonio, appariva, agli occhi di molti, come un nuovo Alessandro; come vir inlustris ingenii fu celebrato ed esaltato (in/ra, App. i). Ben si comprende che la sua scomparsa misteriosa abbia sollevato sospetti contro Pisone, e addirittura contro Ti berio: più tardi lo storico Tacito, nel suo accanimento contro Tiberio, ha rilevato la circostanza che Tiberio è rimasto in casa nell'occasione del lutto per Germanico. Un vigile governo delle province caratterizza, per altro, questo primo decennio del governo di Tiberio: repressa una ribellione in Gallia (21); ordinata a provincia la Mesia; domata in Africa l'insurrezione dei Musulamii (17-22 d.C.; 24 d.C.); in Oriente regolati - ad ope ra di Germanico - gravi problemi economici (per esempkrv « sono parole che convengono [1890] 19) che laor. al tempo che precede l'8 d.C. » (il passo, in tal caso, non sarebbe unitario). Ma « sopravvivono » indica che Vonone (il quale di fatti era andato via da Roma: in Partia, in Armenia, in Siria, a Pompeiopoli; in fine, la fuga) era già morto: dunque 6ot 7repLetatv è posteriore al 19 d.C. Da ciò deduco, altresì, che C vi, L. è posteriore al 19 d.C. Naturalmente, quando Strabone scriveva, 6GOL 7rsptetatv erano non solo Seraspadane e Rodaspe, ma anche Fraate, che nel 35 fu poi contrapposto - appunto come figlio di Fraate - al cadetto Artabano iii (Tac., Ann., vi, 31: Roma poscebant). - Per la politica economica di Germanico in Oriente, cfr. le mie osservazioni sulla tariffa di Palmira in/ra, xii.
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pio il pagamento dei dazii a Palmira). In politica interna il grosso problema consisteva nel contemperamento fra lo stato monarchico (sorto dalla rivoluzione, appoggiato ai cavalieri) e la dignitas senatoria, quel tentativo insomma di moderatio, che già dicemmo: il quale finiva col sovrapporre il princeps e la nobilitas allo stato, inquadrando in rigidi schemi di tradizionalismo gerarchico la vita dell'impero; e scontentando, tra gli altri, lulia Augusta (Livia), la sposa di Augusto che Augusto medesimo aveva per testamento adottata. Di questo contrasto con la madre, Tiberio ha sentito profondamente la gravità; esso era anche, come sembra, un contrasto di ideali politici, giacché Livia aveva tendenze monarchiche alquanto contrastanti con la moderatio. La politica di Tiberio giovò a chiarire, una volta per sempre, punti fondamentali per il diritto sacrale romano: per esempio, che le -rt.tcoá dovute all'imperatore vivente vanno ben distinte dalla Fùaépstocper l'imperatore morto e divinizzato. Ma questa moderatio, tuttavia, non poteva evitare che in nome della libertas, o sinanco di più o meno chiare ambizioni, una sorda (o talora anche aperta) opposizione si facesse sentire: Tiberio ha finito col sollecitare e promuovere la più spietata applicazione della lex maiestatis. Gli uomini a lui più vicini non sapevano spiegarsi tali difficoltà di un regno che voleva ispirarsi a moderatio; Velleio, redigendo il « bilancio » ideale del governo di Tiberio nei primi sedici anni, si chiedeva come potessero aver origine congiure e macchinazioni contro l'imperatore (quid hic meruit, primum ut scelerata Drusus Libo iniret consilia? deinde ut Silium Pisonemque tam alterius dignitatem constituit, auxit alterius?). Una considerazione più
fredda e lontana può spiegare alquanto meglio queste difficoltà e tragiche vicende del primo fra i successori di Augusto: la sua rigida nobiliare concezione della vita nel quadro della res publica, la sua incertezza tra le forme an-
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tiche costituzionali e le necessità del governo monarchico, la sua ostilità con la madre (morta poi nel 29), quella fine di Germanico così misteriosa ed oscura, l'altra oscura morte del suo stesso figlio Druso, il ritiro dell'imperatore a Capri (dal 27), la tragica fine della famiglia di Germanico (della quale morì in esilio la sposa di Germanico, Agrippina; Caligola - nato da Germanico e Agrippina il 31 ag. 12 d.C. - si-salvò' prima presso la bisava Livia, poi presso la nonna Antonia). E soprattutto l'enorme potenza di Seiano, prefetto delle coorti pretorie; gli ulteriori successi, per cui questo cavaliere di sangue etrusco era riuscito ad avere nel 31 il consolato con l'imperatore (consolato da rinnovare quinto quoque anno). Questa speciale distinzione - il consolato rinnovabile quinto quoque anno - implicava già, per lo meno di fatto, l'abolizione del sistema di elezioni consolari in base alla lex Valeria Cornelia del 5 (cfr. 5§ 12; 15; 18; App. I); e di fatti, Seiano fu eletto console non al Campo Marzio, ma all'Aventino. Del resto, già dal 27 circa Tiberio non provvedeva più a integrare le decurie dei cavalieri giudici, votanti nelle elezioni consolari in base alla lex Valeria Cornelia. Il vecchio mondo augusteo, che si era espresso nella lex Valeria Cornelia, spariva, seppellito dalle ambizioni di Seiano. Questi appariva ormai come il successore designato, 1'« Agrippa » di Tiberio; oltre al consolato quinto quoque anno, gli furono date molte altre distinzioni (per esempio l'imperio proconsolare). Alfine si svegliò in Tiberio il suo orgoglio di senatore contro l'uomo di origine equestre; la vecchia Antonia accusò Seiano, che fu arrestato ed ucciso (18 ott. 31). Già dallo stesso 31 Caligola godeva l'amicizia dell'imperatore. Di questo fosco conflitto di palazzo, tra la famiglia del morto Germanico e il possente prefetto al pretorio, riusciva dunque vincitrice, nella vecchia Antonia e nel gio vinetto Caligola (diciannovenne), la famiglia di Germani-
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co. Ma di Seiano restava, memorabile, la sua opera di prefetto al pretorio: prima in collegialità col padre, L. Seio Strabone, poi solo. Proprio la nuova organizzazione delle coorti pretorie, concentrate a Roma con l'istituzione dei castra praetoria, dà la misura della contraddizione interna al regno di Tiberio. L'imperatore della moderatio ha dovuto concentrare in unico campo le coorti pretorie, dando così ad esse, e alla prefettura pretoriana, quella nuova importanza che Tacito ha sottolineato come opera di Seiano (vim prae f ecturae, modicam antea, intendit, nova in castra conducendo), che uno storico del basso impero 6
(di epoca, dunque, in cui la prefettura al pretorio era massima milizia civile dell'impero) considera addirittura creazione di Tiberio. Ed in verità da alcuni indizi (l'emblema dello scorpione, segno zodiacale del mese in cui Tiberio nacque) sembrerebbe (anche se la conclusione non è certa) che i pretoriani considerassero Tiberio come fondatore della loro milizia. 17. Dopo la caduta di Seiano.
La politica finanziaria di Tiberio ebbe il medesimo carattere: tradizionalismo e tentativo di ridurre a « indennizzi » in natura i salaria in denaro dei suoi comites; lotta contro il rialzo dei prezzi; e d'altra parte, proprio per quella sua moderatio nei riguardi degli ottimati, esitazione e anzi rinunzia a prendere rigidi provvedimenti contro il lusso delle dites familiae nobilium aut claritudine insignes ?. Delle nuove esigenze, fu particolarmente incoraggiato il commercio con l'India, come chiaramente attestano i reperti numismatici in quella regione. In queste condizioni, il lamento che la moneta pregiata prendesse le 6 Aur. Vict., de Caess. 2, 4: qua tenebantur praef ecturam appellans, vel augens, praetorio; nam ceteros paritorum praesidesque Augustus instituerat. ? Tac., Ann. in, 55.
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vie dei mercati stranieri (pecuniae nostrae ad externas aut hostiles gentes transferuntur) restava una protesta platonica, e denunziava un « drenaggio di oro » a cui Tiberlo stesso dichiarava di non poter porre un rimedio. Lo stesso Tacito, con grande acutezza, ha osservato che questo « stile » economico si può considerar dominante all'incirca per un secolo (egli dice, con concetto stoico, « per un corso »: forte rebus cunctis inest quidam velut orbis), dal 30 a.C. al 68 d.C.; or proprio questo « stile » mostra la potenza della nobilitas accanto a quella del prin-
ce ps, in una maniera che Tacito, nel delineare la figura di Tiberio, non ha sufficientemente inteso. Lo stato tibe nano è lo stato del princeps e della nobilitas; anche degli equites, le cui ditte (societates) tengono saldamente l'appalto delle entrate; le crisi economiche - rese più gravi 8 da infecunditas terrarum o da aspera maris - colpiscono soprattutto la piccola borghesia (sicché ai due ordini privilegiati sembra contrapporsi, inasprita, la plebe: nel 32, la gravitas annonae stava quasi per determinare una sommossa). Contrariamente a ciò che in genere si ritiene, l'indice demografico degli schiavi è in questo periodo largamente aumentato, nonostante la tendenza ad una politica estera non troppo avventurosa; l'indice demografico della piccola borghesia di liberi è viceversa notevolmente ridotto; anche qui Tacito, nel commentare una rivolta di schiavi in quel di Brindisi, ha notato assai bene il fenomeno . Una grande crisi scoppiò nel 33: i latifondi coltivati da schiavi rendevano impossibile una qualunque concorrenza da parte dei piccoli proprietari; questi si erano indebitati, ricorrendo a prestiti dei latifondisti senatori, sebbene ai senatori fosse proibita l'usura. Temendo i ri 8
Tac., Ann. iv, 6. Ann. iv, 27: urbem - iam trepidam ob multitudinem familiarum, quae ,gliscebat immensum, minore in dies plebe ingenua.
Ciò che vale per Roma, ove era più facile la vita, a maggior ragione ha da valere per il resto dell'Italia.
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gori della legge, i senatori si affrettarono allora a ritirare i capitali dati a prestito, e a comprare campi in Italia, secondo le disposizioni per cui 2/3 del capitale andavano impiegati nell'acquisto di campi in Italia. Ne derivò la rovina di molti piccoli proprietari, i quali svendevano i campi per pagare i debiti (anche qui, Tacito '° ha acutamente notato che la legge della domanda e dell'offerta cagionava necessariamente un rinvilio dei terreni; che la copia vendendi cagionava vilitas). Tiberio ha ovviato alla crisi, mettendo 100 000 000 di sesterzi a disposizione delle banche, contro una cauzione in terreni per un valore doppio. La soluzione di Tiberio - l'unica possibile - limitava per il momento le gravi conseguenze della crisi; ma restava comunque una difficoltà di livellamento, per la piccola borghesia, fra le esigenze dell'economia monetaria minuta, e le difficoltà di un'economia agricola che dovesse far fronte ai sempre crescenti latifondi senatoriali. Per tutta l'epoca giulio-claudia queste difficoltà hanno continuato a caratterizzare la storia dell'impero; esse si sono risolte (cfr. in/ra, § 24) solo nella tarda epoca neroniana, quando l'economia parasitica delle domus senatorie ha dovuto cedere alla forte pressione della grande e piccola borghesia, soprattutto provinciale. Gli ultimi tempi di Tiberio videro un più energico tentativo (35) di politica estera: l'invio di un pretendente al trono partico, Tiridate, del ramo primogenito arsacidico, contrapposto all'esponente del « nazionalismo » iranico Artabano iii. L'azione dovette aver origine, fra l'altro, dalle accresciute esigenze del commercio con l'India; ma giocarono anche le pretese di Artabano iii sull'Armenia. Riuscito per ciò che riguarda l'Armenia, il tentativo fallì nella Ami. VI, 16 sgg.: questa esegesi del testo mi sembra l'unica possibile, anche se può apparire modernizzante; già per Senofonte il fluttuare dei prezzi è connesso col giuoco della domanda e del l'offerta. Cfr. Dio, LVIII, 21; Suet., Tib. 48.
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Partia: dopo un effimero insediamento sul trono partico, Tiridate fu presto allontanato, Artabano iii richiamato al trono. Ancor una volta, la coscienza nazionale partica, nonostante i dissensi feudali di quella nobiltà, aveva il sopravvento sul legittimismo della primogenitura arsacidica legata ai Romani (supra, § 16). L'unico successo romano fu l'allontanamento della città di Seleucia dall'obbedienza allo stato partico: per ben sei anni Seleucia - e più precisamente la fazione democratica della città - ha resistito ai Parti; nel 42 ha ceduto al successore di Artabano in, Vardane. Anche il fallimento della sua politica partica può aver amareggiato la fine di Tiberio; difficilmente il vecchio im peratore avrà trovato conforto in eventuali difficoltà interne di Artabano. Inoltre, certamente,già da molto tempo egli avrà considerato anche la sua politica interna come un sostanziale fallimento; i processi hanno avuto, negli ultimi anni di Tiberio, un ritmo intenso, e hanno mostrato con chiarezza l'effettiva difficoltà - sia pure con le migliori intenzioni all'inizio - di una politica interna di moderatio. Il 16 marzo 37 Tiberio finiva in un isolamento senza luce; e lasciava, legati al suo nome, il ricordo della legge di maestà e della nuova organizzazione del pretorio: ricordi di spietato dispotismo. 18.
Il problema della monarchia di Tiberio e la tavola di Heba.
Il periodo del regno di Tiberio appare così un periodo denso di contraddizioni, uno dei più difficili a interpretare per lo studioso di storia antica. Né potrebbe essere diversamente: Tiberio ha dovuto attuare la monarchia augustea, cioè l'ultima conclusione della grande rivolta proletario-borghese del i secolo a.C., senza tuttavia godere del prestigio indiscusso che aveva circondato la personalità di Augusto. Egli stesso ha sentito quanto fosse grave il peso
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della successione ad Augusto, per un uomo come lui, il quale non veniva dall'esperienza della rivoluzione, ma piuttosto apparteneva alla generazione « di Filippi » (era nato nel 42 a.C.), alla generazione che aveva trovato una rivoluzione già compiuta e un optimus status da attuare, non da instaurare. Perciò egli ha eseguito tutti i piani di Augusto, con convinzione e dedizione assoluta, ma con piena coscienza del le gravi difficoltà - assai più gravi di quelle incontrate da Augusto - che avrebbero intralciato la sua opera. I fondamenti della sua posizione costituzionale e religiosa erano i medesimi che quelli posti da Augusto e poi rimasti sempre a fondamento del principato: imperio proconsolare e tribunicia potestà, cognomen di Augustus, salutazioni imperatorie, pontificato massimo. Respiriamo dunque, da questo .punto di vista, la medesima atmosfera che aveva caatterizzato lo stato augusteo, sin dal 23 a.C. e anzi (se consideriamo il pontificato massimo) dal 12 a.C. L'ideologia della Pax Augusta, che è espressione dello stato augusteo a partire dal 12 a.C., è anche l'ideologia dello stato tiberiano. Ma, mentre Augusto è pater patriae sin dal '2 a.C., e sulla base di questo titolo consolida la rinnovabile cura et tutela rei publicae, d'altra parte Tiberio non vuole essere pater patriae e nel 23 parla al senato de reddenda re publica: in questa fondamentale limitazione è la sua mor
deratio.
Nel regno di Tiberio c'è una grande cesura, che già indicammo (cfr. § 12) e che può additarci la via maestra per l'interpretazione di questo periodo. La tavola di Heba ci mostra come nel 19 d.C. la destinazione dei consoli e dei pretori, supreme magistrature repubblicane, fosse affidata a 15 centurie senatorio-equestri, le quali tutte votavano, ma una soltanto (secondo la interpretazione data in/ra, App. i), scelta a sorte, parlava in nome o degli eroi C. e L. Cesan (se apparteneva alle 10 centurie di C. e L. Cesari)
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oppure a nome di Germanico (se apparteneva alle cinque di Germanico, aggiunte appunto nello stesso dicembre del 19 d.C.). Così il concetto religioso della destinatio dei magistrati come responso « religioso » (se ci è lecito questo termine) degli eroi morti era strettamente legato con il concetto politico-sociale della destinatio di supremi magistrati senatorii da parte anche di cavalieri. Il legame fra i due concetti era una innovazione di Augusto, attuata con la lex Valeria Cornelia del 5 d.C.; chi pensi ai conflitti fra i senatori e cavalieri nell'epoca tardo-repubblicana, e consideri come i cavalieri siano ritenuti (sin dai Gracchi) la classe-guida della rivoluzione popolare, intenderà il grande significato di questa innovazione augustea, che Tiberio ha allargato nel 19 d.C., con la rogatio della nostra tavola di Heba, ed ha convalidato ulteriormente nel 23 d.C., aggiungendo 5 centurie di Druso alle dieci (augustee) di C. e L. Cesari e alle cinque di Germanico da lui istituite nel 19 d.C. Qui c'è ancora il Tiberio che cammina, sia pure con la sua moderatio, lungo la via segnata da Augusto; c'è l'atmosfera della Pax Augusta, con la sua fondazione del principato su basi religiose tradizionali. Ad un certo momento (§ 15) i cavalieri scompaiono dai comitia che destinano consoli e pretori. Il senato ha vinto sulla classe equestre: d'ora in . poi (con una breve eccezione per il regno di Caligola) la parola comitia indicherà l'elezione dei magistrati senatorii da parte del solo senato. L'atmosfera che fondava lo stato sulla collaborazione dei due ordini nei comitia destinanti, simboleggiata nel quasi « responso comiziale » degli eroi giovinetti, l'atmosfera che fondeva religione degli eroi e politica in una realtà unitaria, è ormai scomparsa. La grande cesura dev'essersi verificata in connessione con il consolato di Seiano, il cavaliere che ha raggiunto il fastigio della carriera equestre (la prefettura al pretorio), ma ha anche saputo raggiungere la suprema carica senatoria. Verso il 30-31, J due ordines
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dividono le loro strade. Ripetiamo: ai « responsi » gli uomini non credono più; ambizioni di senatori e rivalità fra senatori in ordine al raggiungimento delle cariche saranno ora decise nei più o meno contrastati comitia di soli senatori. Solo su questa base si può realizzare il grande ideale, la concordia; e sui tardi sesterzi di Tiberio figura il tempio della dea a lui carissima (sin dal 7 d.C.), la Concordia. Nei fatti sociali si rispecchiano sempre le vicende politiche: si rispecchiano, anzi, con più di « necessità » e di evidente - quasi matematica - determinazione. I cavalieri erano la suprema espressione della grande rivoluzione romana - la rivoluzione proletario-borghese - che aveva sconvolto il i secolo a.C. La scomparsa dei cavalieri dai comitia per la destinatio segna dunque la vittoria politica del senatò. Parallelamente, nel 33 d.C. noi assistiamo, come già mostrammo, ad una grave crisi economica, in cui i senatori vincono sui piccoli proprietari proletarizzati e oppressi dai debiti. Ormai il senato ha nelle mani, o crede di avere, il grande stato sorto dalla rivoluzione augustea: difenderà con tutti i mezzi questa sua posizione, ma negli ultimi tempi di Nerone la sua epoca d'oro finirà, per ciò che riguarda il predominio economico; e lo storico senatorio Tacito potrà poi sottolineare (Ann. iii, 55) questa fine. Tiberio, l'uomo delle contraddizioni in un'epoca di contraddizioni, resta sempre più isolato dopo la vittoria silenziosa (ma tanto più grave quanto più silenziosa) riportata da quel senato, che egli devoto animo (sono sue parole: Suet., Tib. 67, 4) venera e rispetta. L'antica acerbitas et intolerantia morum, che già Augusto gli rimprove rava, si inasprisce: è il destino di tutti i consequenziarii. Egli, che ha dato l'apoteosi al morto Augusto, non avrà alcuna apoteosi. In quell'apoteosi del suo predecessore e pater, Tiberio aveva sentito una necessità religiosa (sacra-
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vit parentem suum non imperio sed religione: Veli. il, 126); ma di questo « tono » religioso, che aveva caratte-
rizzato la sua successione ad Augusto, le caratteristiche proprie saranno presto dimenticate; ed uno scrittore dell'epoca traianea dirà che « Tiberio consacrò Augusto, ma solo per procedere alle accuse di lesa maestà » (PL, Pan. 11, U
Capitolo secondo
LA RIVOLUZIONE SPIRITUALE: 'FTXH ED EOTIAI (Paul., Rom. 13, 1)
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La grande antitesi: gli « evangelii di Augusto (OGIS 458, 40) e l'evangelio di Gesù. La Palestina all'epoca di Gesù. Il logion « Rendete a Cesare
Se la nostra interpretazione della tavola di Heba (cfr. cap. prec.; in/ra, App. i) coglie nel vero, noi possiamo definire l'epoca di Tiberio, nella sua ultima fase, come una definitiva rinuncia ad alcuni motivi che avevano caratte rizzato l'atteggiamento spirituale e la concezione sociale di Augusto. In un certo senso, questo giudizio può estendersi a tutta l'epoca tiberiana: la rigida distinzione fatta da Tiberio (iscrizione di Gytheion) fra la sùaépsm per il morto Augusto e le semplici rtod per l'imperatore vivente significa la rinuncia ad una gran parte dell'ideologia augustea del culto imperiale: a differenza da Tiberio, l'Imp. Augustus vivente aveva ricevuto nelle province templi e culto, accanto alla dea Roma, ed in Italia sacerdoti e culto, di cui il documento più insigne è il calendario cumano (C x, 8375) delle i.pou. EspmarocL Ed anche nel semplice culto del numen Augusti, com'esso è a noi attestato per esempio dall'ara di Narbona, si erano fatte sentire concezioni sociali-religiose tipicamente augustee: nella citata ara di Narbona, avvicinamento di equites a plebe e di libertini nell'offerta del sacrificio (tre equites e tre libertini come rappresentanti della plebs), avvicinamento della plebs ai
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decurioni nei iudicia (quod iudicia piebis decurionibus coniunxit): quella stessa esigenza di componimento di « classi » sociali che ispirava, su un piano di gran lunga più rilevante, l'avvicinamento di senatori e cavalieri nelle centurie intitolate ai morti principes iuventutis Gaio e Lucio Cesari. Della teologia (se così possiamo chiamarla) del culto imperiale augusteo, Tiberio conservò la parte che gli sembrava più costituzionale, vale a dire l'adorazione per l'imperatore morto, sì che il culto del divus Augustus si aggiunse a quello del divus Iulius; ma la limitazione del culto dell'imperatore vivente a semplici Toc, e la scomparsa (d'intorno al 30) dell'ideologia dei morti principes iuventutis come titolari delle centurie destinanti consoli o pretori, erano entrambe il segno di una parziale « demitizzazione » della teologia imperiale augustea. L'imperatore vivente scendeva dal mondo degli dèi al costituzionale (e razionale) mondo degli uomini mortali. Ancora una volta: si demitizzava, se pur in parte, quell'esaltazione religiosa che, dal 27 a.C. in poi, aveva accompagnato la fondazione del principato. Ma quell'esaltazione religiosa, che aveva « fatto » il principato, non era un capriccio di Augusto e degli Augustei. Essa era radicata nel travaglio spirituale di tutto il mondo antico, da gran tempo sconvolto e stanco. Tiberio riduceva il principato a forme costituzionali, strappate alla stanca attesa religiosa dei tempi augustei: ma non poteva sopprimere quella stanchezza e quella soteriologica attesa. Qual.-era stato lo sviluppo più originale del culto di Augusto vivente? Noi abbiamo, a questo riguardo, un importa tissimo documento epigrafico bilingue, pervenuto fram- n mentariamente in varie copie: una lettera del proconsole d'Asia nel 9 a.C., Paullus Fabius Maximus', e le connesse deliberazioni del koinon d'Asia. Questa iscrizione, che in-
Su questo personaggio, ultim. PIR2 in (1943), p. 103.
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troduce nella provincia d'Asia il calendario giuliano-asiafico, ci rivela l'aspetto più significativo del nuovo culto: l'importanza ideologica del giorno natale dell'imperatore (4p.p c3ow-r-t ); l'iscrizione è tutta un inno all'èra nuova, che è cominciata con Augusto. « Ormai gli uomini non si pentivano più d'esser nati », ed il giorno natale di Augusto (che viene introdotto come principio del nuovo anno giuliano-asianico) si può considerar uguale, quanto a importanza, « al principio del mondo ». Il proconsole del 9 a.C., che così formulava l'interpretazione del principato augusteo, era imparentato con Augusto, e può considerarsi un autorevolissimo esponente della religiosità romana; egli morì poco prima di Augusto; ma il concetto del saeculum Augustum (Suet., Aug. 100, 3; cfr. supra, § 4), concetto che fu espresso subito dopo la morte di Augusto, rientra in qualche modo nella ideologia espressa dalla sua lettera e dalle applicazioni di essa in terra asianica. Per questa con cezione, « il giorno natale del dio Augusto » (23 sett. 63 a.C.) « fu per il mondo, il principio degli evangelii » (annunzi di felicità) « trasmessi per opera di lui (-rcv &' oc-rv c y-ycX[v]) ». Anche in questo caso, solo oggi noi possiamo intendere appieno l'importanza di una tale «teologia » imperiale: solo oggi, perché nel 1940 2 stato pubblicato il Feriale Duranum, uno dei più importanti testi papiracei provenienti dagli archivi della cohors XX Palmyrenorum di Doura Europos. Il Feriale Duranum si data al periodo 224/235 (224/227?) più che due secoli dopo la morte di Augusto: è un elenco di giorni sacri, ufficialmente osservati dall'esercito romano, giorni fra i quali emergono le ricorrenze di pubblici anniversarii . Ma
2 FINK-HOEY-SNYDER, « Yale Classica! Studies », 7, 1940, 1; cfr. per es. OLIVER, « Amer. Journ. Arch. », 1941, pp. 540-541; FiNK,. « Amer. Journ. Arch. », 1944, p. 18. SNYDER, « Yale Classical Studies », 7, 1940, p. 223; cfr. le ricerche numismatiche di GRANT, Roman Anniversary Issues (1950).
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fra gli anniversarii di dies natales, quello di Augusto non occupa, nel Feriale Duranum, un posto maggiore che la ricorrenza di dies natales di altri imperatori. L'antica venerazione per i giorni 23 e 24 settembre è ridotta alla ce. lebrazione del solo giorno 23 settembre, sommersa tra la folla degli altri anniversarii e conguagliata con essi. Lo spirito della esaltazione di Paullus Fabius Maximus se ne è andato: dov'è più il rilievo particolare del dies natalis augusteo, che gli uomini della cerchia di Paullus Fabius Maximus consideravano pari, per importanza, al principio del mondo? L'aspetto soteriologico del dies natalis di Augusto si era attenuato, nel corso della storia imperiale, in una rituale celebrazione. Non poteva essere altrimenti: ogni imperatore ha i suoi cyy&?t , e fra questi molti Suotyy E il 'Xtoc non si può isolarne uno, per porlo a fondamento di una rivoluzione spirituale. Per una rivoluzione spirituale, com'essa era chiesta dal secolare travaglio elle nistico-romano, occorreva un yy&Mov, che non fosse « divisibile » nel tempo, ma si ponesse alla fine dei tempi, che non « sminuzzasse » l'attesa soteriologica in una commemorazione, sia pure rituale, di plurimi anniversarii' . Per. Dur. iii, 7; cfr. FINK-HOEY-SNYDER, P. 159.
Vale la pena di insistere su questo punto, fondamentale alla comprensione del rapporto fra il senso classico del tempo, e il senso giudaico-cri stiano (cfr. DELLING, Das Zeitverstiindnis des N.T., 1940; ultim. CULLMANN, Christus u. die Zeit, 1946; BOMAN, Das hebr. Denken im Vergleici, mit dem griech., 1954; Rissi, Zeit u. Gesch. in d. Offenbarung d. Job., 1952; DIANO, « Grande Antologia filosofica », ii, 1954, pp. 248-404, spec. p. 261; PUEH, « Eranos-Jahrbuch », xxi, 1952, pp. 57-113; QUISPEL, ibid. pp. 115-140); da ciò che svolgiamo nel testo, discende la necessità di chiarire il rapporto fra gli ccxyyéX greco-romani e lo cyycXLcv giudaico-cristiano (SCHNIEWIND, Euangelion, i-il, 1927-1931; ASTING, The Verkùndigung des Wortes, 1939, pp. 300-457, spec. pp. 307 e 312; ultim., per es., GRossouw, « Bibel-Lexikon », in, 1953, pp. 448-449). In linea di massima, si può dire che la migliore formulazione del contrasto fra i due tipi di « evangelii » sia stata raggiunta da A5TING, nel senso che per la religiosità giudaica l'annunzio di salvezza è soprattutto volto al futuro, laddove « il concetto
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Solo in questo caso, un cr?ov, avrebbe potuto sollevarsi all'altezza richiesta dagli uomini di Paullus Fabius Maximus: all'altezza e all'importanza del giorno della creazione del mondo. Ed un tale cyyXtov non poteva venire dall'esperienza religiosa-soteriologica del mondo classico greco-romano. Nel grande impero, solo un popolo - senza dubbio, il più travagliato (e perciò il più ricco di vita religiosa)
greco » di evangelio « è rivolto più al passato che all'avvenire » (ASTING, pp. 312-313). Ma questa formulazione va limitata, almeno in parte, nel senso che anche il giorno natale di Augusto, nella concezione di Paullus Fabius Maximus, è inizio del tempo -rò &rò -Mq &xcvou y[cv&] cca &pcv 'r% ß'wt rv pòvov (cfr. l'oraziano nil oriturum alias, nil ortum tale /atentes, sempre a proposito del culto di Augusto), giacché Augusto supera ogni uomo che verrà dopo di lui (-rot &ao&voL) e dunque (dovremo dedurre) anche i suoi xyy)c superano tutti i futuri ci'yXcx.Mai come in questo caso il concetto greco del tempo si è avvicinato al giudaico. E tuttavia, il concetto greco resta necessariamente inferiore al giudaico, quanto alla possibilità di fondare stabilmente un'attesa soteriologica: giacché la concezione dei circoli di Paullus Fabius Maximus, che Augusto è superiore TO o&vo; non poteva riuscire (nonostante ogni convinzione di Paullus Fabius Maximus) ad eliminare la necessità che, volta a volta, la /elicitas di un saeculum si concludesse nel circolo segnato dalla salus dell'imperatore. Insomma: ogni imperatore è portatore di « evangelii », anche se non è dio vivente come l'Augusto di Paullus Fabius Maximus nell'iscrizione di Priene; come la saeculi felicitas ha dato, nel 23 settembre, Augusto al mondo (C xii, 4333), così anche, per es., i tempora di un saeculum concluso (huius: Curt. Ruf. x, 9, 6; per l'interpretazione cfr. in/ra, § 24) garantiscono la publica felicitas dell'impero di Claudio; e via di questo passo, sino ad arrivare ai vernantia saecula e alla beatitudo ternporum degli imperatori del basso impero (per es. C x, 7014, degli anni 337-340, oppure 367-378, 379-383, 388-395 [alquanto diversamente CANTA RELLI, La dioc. italic., 1901, p. 1961; C x, 7200, del 348-357; ecc.). Siamo sempre in presenza di tempora felici la cui durata si commisura con la durata del governo (o della vita) degli imperatori: è quel concetto te salvo et securi sumus, su cui cfr. per es. in/ra, § 43. Viceversa, nella concezione cristiana, il nuovo cxkv è (cfr. soprattutto CULLMANN, op. cit., p. 39) tempo infinito, sicché nella concezione paolina della storia (Rom. 11) l'elezione e poi il rip ToZ Jvctv p-rcoux giudaico si continuano nella e ne sono la garanzia.
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nella storia del mondo ellenistico-romano - restava estraneo all'ideologia del culto imperiale: il popolo giudaico. La sua attesa soteriologica si volgeva in senso messianico: essa si partiva dal messianismo profetico, e culminava ora nell'attesa del Figlio dell'Uomo, che sarebbe apparso, al compiersi dei tempi, come Messia. L'ellenismo aveva messo gli Ebrei a contatto con idee nuove; resurrezione dei corpi (alla maniera iranica) e astrologia erano entrate nella viva problematica del giudaismo; anche l'accentuato dualismo Jahve-Belíar si deve, forse, ad influssi iranici. E persino motivi pitagorici entravano fra le idee del nuovo giudaismo. Erano sorte, o sorgevano, quelle che lo storico Flavio Giuseppe chiamerà poi le « filosofie » degli Ebrei: preminenti su tutte, e già da tempo precisate, la « filosofia » dei Farisei - ellenisticamente preoccupati di precisare e completare la Thora, sicuri di una vita futura con distinzione dei buoni e dei malvagi - e la « filosofia » dei Sadducei, che viceversa si limitavano al puro rispetto della Thora scritta, e decisamente negavano, quasi epicurei del giudaismo, vita futura e resurrezione dei corpi. Ma messianismo e apocalittica erano sostanzialmente il volto di questo travagliato giudaismo. Nel 63 a.C. si era compiuto il grande fatto nuovo: Pompeo aveva distrutto lo stato seleucidico, aveva ordinato lo stato giudaico nel sistema dei territorii vassalli. Messianismo ed apocalittica si trovavano in presenza del grande fatto nuovo: gli pseudepigrafi « Salmi di Salomone », in un canto che sarà stato composto subito dopo il 48 a.C., vedevano in Pompeo il « serpente ». A meno di un secolo di distanza dalla conquista di Pompeo, si verificò nel mondo giudaico l'avvenimento più rivoluzionario della storia mondiale: la predicazione di Gesù (biennale o triennale?) e la sua condanna (probabilmente nel 30 o 31; 27 o 29 o 33, secondo altri studiosi). L'ambiente in cui s'inquadra la predicazione dell'evangelio di Gesù era a noi noto, fino ad alcuni anni fa, so-
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prattutto dai testi neotestamentarii cristiani e dalle informazioni dello storico Flavio Giuseppe, il quale però solo occasionalmente 6 ha fatto menzione di Gesù. Le condizioni in cui lo storico lavora sono, oggi, di gran lunga migliorate, in seguito alla scoperta, nel 1947 sgg., dei « manoscritti del Mar Morto » . Noi possiamo finalmente intendere l'antico problema della « Palestina all'epoca di Gesù », se inquadriamo nella narrazione di Flavio Giuseppe questi « manoscritti del M. Morto », provenienti da una setta giudaica (una « filosofia », direbbe Flavio Giuseppe) detta della Nuova Alleanza - una setta, la quale già nel suo nome ricorda il concetto neotestamentario della «Nuova Alleanza nel sangue del Cristo» (' xxv ihxì1 èV -t7n Zpo'ux-rt, v -rCIL &.u7 .tou, Luc. 22, 20; t*x Paul., 1 Cor. 11,25; cfr. Marc. 14,24; Matth. 26,28). Manoscritti del Mar Morto, testi neotestamentarii, Antichità e Guerra giudaica di Flavio Giuseppe, vanno ormai studiati in un nesso inscindibile - pur tenendo conto della loro diversa ispirazione (rispettivamente: « protozelotica » [ in/ra, App. u], cristiana, farisaico-romanofila) e delle diverse epoche in cui i singoli testi furono redatti. Nella seguente esposizione si tenta una sintesi sulla base della considerazione unitaria dei testi suddetti; i dati illustrati (o, in qualche caso, addirittura rivelati) dai « manoscritti del Mar Morto » (secondo l'interpretazione che noi giustifichiamo in/ra, App. li) sono segnati con asterisco. La conquista pompeiana della Siria, nel 63 a.C., aveva dato Gerusalemme nelle mani del sommo sacerdote Ircano Il; le speranze di Aristobulo, fratello e accanito nemico di Ircano il, erano andate deluse. Poco a poco, Ircano ui e la gran parte dei Farisei assunsero, nel paese, il ruolo di 6 A proposito di Giacomo fratello di Gesù; ma non nell'interpolato testimonium Flavianum. In/ra, App. 11.
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leali alleati dei Romani; ministro di Ircano ii era l'idumeo Antipatro, coi suoi figli Fasael ed Erode. Il territorio giudaico comprendeva, grosso modo, Perea e Giudea, e d'altra parte Galilea; era nel mezzo la Samaria, eterna dissidente dalla comunità cultuale di Gerusalemme, ed indipendente dal territorio giudaico • Nel 47 a.C. si verificò il primo grande conflitto tra il jahvismo intransigente e la tendenza romanofila rappresentata da Antipatro e dai suoi due figli. Un galileo, di nome Ezekia, si ribellò; Erode lo fece uccidere; i sacerdoti non riuscirono ad ottenere che Ircano n, sommo sacerdote, condannasse Erode per l'uccisione del ribelle. D'allora in poi, gli jahvisti di tendenza antiromana videro in Erode « l'uomo di menzogna », in Tr cano ii il « sacerdote empio »; si cominciò a formare un movimento di pensiero, il quale accentuava il dualismo fra mondo della luce e mondo delle tenebre; esso sperava ansiosamente nella caduta del dominio romano, e nella corrispondente sconfitta di Erode e del suo sostenitore Trcano ii. Così, attorno alla figura del ribelle giustiziato da Erode e dei suoi seguaci, si creò un'atmosfera di postuma esaltazione. Nel 40 a.C. Ircano ii fu spodestato da Antigono, figlio del morto Aristobulo; Antigono gli inflisse una mutilazione (« vendette sul suo corpo di carne » )*, che lo rendeva incapace di assumere oltre il sommo sacerdozio; Erode fuggì a Roma; la vittoria di Antigono si era compiuta con l'aiuto dei Parti, e dunque assumeva un chiaro carattere di ostilità ai Romani. Ma nel 37 a.C. Erode, che i Romani avevano già nominato re di Giudea, ri conquistò il paese; Antigono fu ucciso; Erode godeva la piena fiducia del pacator orbis Antonio, prima, e poi (dal 30 a.C.) di Ottaviano, divenuto ormai unico signore della res publica romana. Con l'aggiunta della Samaria, di territori del Nord-Est (Gaulanitis, Trachonitis, Batanaia), delle città costiere, delle poleis di Gadara e Hippos, il nuovo stato di Erode, ordinato e come protetto da Ottaviano, formò un grande complesso unitario di tendenza romano-
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fila, di coloritura ellenistica Ma i vecchi nemici di Erode, che non riuscivano a dimenticare la condanna di Ezekia il galileo, continuavano a vedere nello stato erodiano il mondo delle tenebre; il loro movimento predicava la Nuova Alleanza tra jahve e il suo popolo, e sperava in una sconfitta dei Romani ad opera dei Parti; il loro rituale era caratterizzato dal battesimo e dai pasti in comune*. Erode, con le sue nuove fondazioni (soprattutto Samaria-Sebaste e Cesarea sulla costa), diede un carattere ellenistico allo stato; a Gerusalemme costruì a nuovo il Tempio, nel cui penetrale nessun estraneo alla comunità giudaica poteva entrare 8 - ma d'altra parte fondò un tempio di Augusto *; gli uomini della Nuova Alleanza, naturalmente, non amavano questa città erodiana, « città di vanità » costruita da un « uomo di menzogna ». Nel 4 a.C. Erode morì. Il suo regno andò diviso fra tre suoi figli: Archelao, etnarca, ebbe Giudea, con Samaria e Idumea, ma fu deposto nel 6 d.C. da Augusto, e la Iudaea divenne procuratela romana; Erode Antipa, tetrarca, ebbe Galilea e Perea, territori in cui si mantenne fino al 39 d.C. (in questo anno fu deposto da Caligola); Filippo, tetrarca, ebbe i territori del Nord-Est (Gaulanitis, Trachonitis, Batanaia), e morì nel 34 d.C. Di questi territori, il più fervido di vita spirituale jahvistica, e focolaio di grandi esperienze religiose, era quello, di Erode Antipa: la Galilea soprattutto. Qui la popolazione israelitica era ancor viva, anzi più che mai viva; nelle campagne ' ; e, come talor accade nella periferia, mostrava più ardente passione per la tradizione jahvista - quella passione che già si era espressa, nel 47 a.C., nella rivolta del galileo Ezekia. Appunto in Galilea si formò, nel 6 d.C., un movimento di ribelli condotto dal figlio di Ezekia; è questo il movimento di Giuda 8
L'iscrizione ultimam. in GALLING, Textbuch (1950), n. 52. ALT, Kleine Schriften z. Gesch. d. Volkes Israel, ii (1953), p. 436: contro le buaggini, secondo cui la Galilea non avrebbe avuto popolazione israelitica.
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il Galileo e dobbiamo vedere in esso una stretta connessione con le idee agitate dalla Nuova Alleanza; Giuda -il Galileo, fu considerato fondatore della setta (« filosofia ») degli « Zeloti ». Il governo di Erode Antipa era, dunque, tutt'altro che facile; gli Zeloti, come già la Nuova Alleanza, avversavano apertamente il dominio romano. D'altra parte , l'idea della purificazione attraverso il battesimo, che aveva avuto particolare rilievo nel movimento della Nuova Alleanza , fu pure al centro di un nuovo movimento religioso, che si svolse all'altro estremo del territorio di Antipa, la Perea: anima di esso fu Giovanni il Battezzatore, il quale cominciò a predicare nel 28 (?). È chiaro che il concetto del Battesimo come una purificazione implicava una specie di « aggiunta » alla Thora: le forme dell'antica Legge non bastavano a confermare, da sole, l'alleanza tra Dio e il suo popolo. Il Battezzatore fu condannato (già nel 29?) da Erode Antipa, per l'intervento - secondo la tradizione - della moglie di questi, Erodiade (nata da un altro figlio di Erode), e di Salomè (figlia di Erodiade). Nell'altra parte del territorio di Antipa, la Galilea, si iniziò la predicazione di Gesù l'Unto (Cristo); poi Gesù passò in Giudea, a Gerusalemme; la sua predicazione si con netteva con la predicazione del Battezzatore, ma altresì se ne distingueva perché, annunciando l'avvento del Regno di Dio, si concludeva nell'idea della « Nuova Alleanza » nel sangue di Gesù stesso, l'Unto. A Gerusalemme il sinedrio condannò Gesù; e il procuratore di Giudea, Ponzio Pilato, diede esecuzione alla condanna attraverso la crocifissione. Il drama del popolo giudaico si muoveva, così, verso una nuova svolta; e in questo drama aveva avuto un peso enorme il giudaismo della periferia, il giudaismo galilaico. Noi abbiamo così toccato l'altro momento dell'attesa soteriologica nell'impero romano. Alla soteriologia « classica » greco-romana (che si esemplava negli « evangelii » di Augusto e nella saeculi felicitas), questa piccola grande
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octpcac.q giudaica dei Nazorei (così detta da Gesù Nazoreo, « di Nazareth ») contrapponeva, attraverso un travaglio spirituale che incideva nel suo sangue e nella sua carne, un nuovo « evangelio » di salvezza, fondato sull'annuncio del Regno di Dio. Or qual era l'atteggiamento di Gesù rispetto all'impero romano? La questione si connette, in parte, con quella della validità delle nostre fonti neotestamentarie sulla predicazione (l'« evangelio » di salvezza) di Gesù: nella quale discussione la storiografia moderna va dalla tendenza tradizionalista ad altre tendenze « temperate » (e comunque, intese alla ricerca delle fonti primarie: soprattutto lo « Urmarkus » e la cosiddetta « Fonte Q ») ed infine alle più impensate negazioni (sinanco dell'esistenza storica di Gesù: per esempio Drews, Couchoud, ecc.). Ma l'esistenza storica di Gesù, nel quadro e nell'ambiente che abbiamo delineato sopra, è in verità innegabile; e del resto, tutta l'opera dell'apostolo Paolo sarebbe incomprensibile senza la presenza di un preciso fatto storico 10 - vale a dire, della crocifissione di Gesù. 10 Viceversa, i negatori dell'esistenza storica di Gesù interpretano, per es., il passo cruciale I Cor. 11, 23 (&yc yp 7xpàXoc3ov
&7rò 'roi3 Kup(ou, 6 xcxì 7rocpéSwxoc ù£ -tv, 6rt. ò KipLo 'I-Iaoùg &v IrTì t vux-rI pe8c'to c43c'. 6lprov x-rX.) come documento
della « costruzione » di una vita di Gesù, dedotta dalla visione di Paolo. Ma l'opposto è vero: Paolo non avrebbe mai insistito su tale visione, se la passione di Gesù non fosse stata, per lui, un dato storicamente certo: egli dice di aver ricevuto (irp?x43ov) dal Kyrios, nella sua visione, quel racconto storico che la comunità già tramandava per la diretta esperienza dei dodici. Appunto perché egli, nella sua visione, ha ricevuto direttamente da Gesù (Gai. 1, 12) un evangelio che conferma le precedenti tradizioni storiche e visioni della comunità cristiana (I Cor. 15, 3-8), appunto per questo egli si può considerare 6 &?ya'ro rC»v òtnoaróìcov (I Cor. 15, 9; sul concetto di apostolo, ultim. VON CAMPENHAUSEN, « Stud. Theol. », 1946, p. 96). - Per altro, ciò non significa che nelle dichiarazioni paoline di paradosis il xa (della formula 6 xczì 7tcLp&wxcx ùJ.tv, I Cor. 11, 23; 6 xxì pa(3ov, I Cor. 15, 3) indichi perfetta analogia tra il modo in cui Paolo ha ricevuto la tradizione e il modo in cui la ricevono i suoi fedeli (vale a dire, attraverso una mediazione umana): questa interpretazione (ultim. sostenuta da
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Proprio la storicità di Gesù può farci intendere il punto centrale della storia europea: cioè, la necessità di un primo-incontro, nella tormentata esperienza giudeo-cristiana, tra la comunità dei credenti nel Regno di Dio e la problematica dell'impero romano sotto Tiberio - di quell impero, il cui vassallo Antipa aveva ucciso il Battezza- ' tore e certamente era ostile a Gesù stesso. Questo incontro è sottolineato in quel famoso logion che i vangelii sinottici attribuiscono a Gesù (e del quale è ancor un'eco in Paolo), relativo al pagamento del tributo giudaico di capitazione. Il racconto evangelico" di questo logion è universalmente noto: Farisei ed Erodiani fanno porre a Gesù, « per prenderlo in trappola » (voc &yptv), la questione se si debba o no pagare il tributo di capitazione; Gesù si fa portare un denario (di Tiberio) « e domandò ad essi "di chi è questo ritratto, e di chi la leggenda (brtypocp ) sulla moneta? " , ed essi dissero "di Cesare", e Gesù disse ad essi "restituite ( &t68o-r) a Cesare le cose di Cesare, e al Dio le cose del Dio" ». Perché &7t6oe, Tradition, 1954, pp. 13-20) appare aliena dallo spirito della predicazione paolina, che sempre insiste sulla diretta paradosis del Kyrios all'apostolo Paolo; io traduco xal con «a mia volta », il che lascia sussistere la differenza tra la diretta paradosis del Kyrios a Paolo e la paradosis umana di Paolo ai suoi fedeli. Il concetto paolino è chiaro: Paolo ha ricevuto dal Kyrios (I Cor. 11, 23) Gesù Cristo (Gal. 1, 13) una paradosis la quale coincide con quella della comunità cristiana; Paolo stesso ha tramandato (pé&s.) a sua volta (xx) ai suoi fedeli quella paradosis che egli aveva ricevuto dal Kyrios (I Cor. 11, 23) e che dunque i fedeli a loro volta ricevono (6 xaì 7rapE:XCX'peTE:, I Cor. 15, 1). " Per la redazione del logion in Pap. Egerton 2, frg. 2 recto - frammento di un ignoto evangelio apocrifo (BELL-SKEAT, Fragmts. 0/ an Unknown Gospel, 1935, spec. 11-13), diffuso in Egitto nel periodo 125/165, e comunque dipendente dai sinottici - cfr. ora MAYEDA, Das Leben Jesu-Frgm in P Eg. 2, 1946; BELL, «Harv. Theol. Rev. », 1949, p. 53; STAUFFER (cit. in/ra, n. 12) ha giustamente notato che &ir[o&tcv in questo frammento trasferisce agli interroganti il concetto dell'&7roo3vL, che nei sinottici è proprio di Gesù, e dunque disperde la pointe originaria. CULLMANN,
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« restituite »? Del logion di Gesù si sono date le più diverse spiegazioni: di recente si è pensato che &7ró3o're, « restituite », presupponga, da parte di Gesù, il riconoscimento che il tributo di capitazione, in quanto caratteristico dei popoli sottomessi, rientra nei diritti dell'imperatore romano (Stauffer). Questo sarebbe il « sì » di Gesù all'impero romano (Stauffer: « das Ja zum Imperium ») 12 Ma una tale spiegazione strapperebbe, quasi con violenza, Gesù dal quadro dei movimenti jahvistici del suo tempo, e non darebbe ragione dell'opposizione del sinedrio (convalidata da Ponzío Pilato, il procuratore romano) alla pre12 STAUFFER, Christus u. die Caesaren (19523 ), p. 121 (spec. p. 141): che è, accanto a DIBELIUS, Rom u. die Christen im 1 Jhdt. (« Sitzungsbb. Heidelb. Akad. », 1941 / 1942, 3), la più importante delle recenti trattazioni di questo problema. Secondo STAUFFER (come già secondo G. KITTEL, Christus u. Imperator, 1939, pp. 12-18) la risposta di Gesù implica un riconoscimento dei diritti dello stato romano (STAUFFER trova questo riconoscimento in òCn6So-rc « restituite », che indicherebbe, secondo lui, una « restituzione » di ciò che è dovuto all'impero; G. KITTEL vede nella risposta di Gesù un riconoscimento dello « Eigenrecht des Staates »). Al contrario, DIBELIUS vede nel logion di Gesù un ironico rimprovero ai Giudei perché si ' preoccupano di questioni terrene, le quali passeranno col sopravvenire dell'èra nuova. L'interpretazione del logion, che io propongo nel testo, e che toglie valore all'esegesi staufferiana di &7t6 o-re , si giustifica con l'antica concezione della moneta come proprietà di colui che la mette in circolazione; per es. della polis nella città-stato isonomica, del tiranno nella città organizzata a tirannide, del monarca achemenide nello stato persiano, dell'imperatore nell'impero romano ecc. Cfr. per es. il de rebus bellicis, dove si insiste sul concetto che la moneta imperiale è signata col vultus degli imperatori, ecc. - Naturalmente, STAUFFER, p. 137, accentua un « carattere mitologico » del denario di Tiberio (con figurazione di Tiberio nel r., Livia-Iulia nel v.): « perché chi è figlio di dèi da parte di entrambi i genitori (il che è più di quel che la Chiesapretende per il Figlio di Dio e di Maria!), è certamente di dignità divina » ecc. Io non mi sentirei di sottoscrivere queste parole: Tiberio ha risolutamente negato ogni consacrazione della madre morta (Tac., Ann. v, 2), la quale (morta nel 29) appare nelle sue monete solo in quanto correggente, senza alcun significato « mitologico ». Del resto, come a più riprese ho sottoTiberio ha cercato di depotenziare al massimo il culto dell'imperatore vivente.
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dicazione del Messia galileo. Lo Stauffer ragiona così: se Gesù ha detto &t6o-s « restituite », ciò significa che egli riconosce il pagamento del tributo come « restituzione » di un vero e proprio « debito » degli Ebrei all'impero romano; vale a dire, che egli afferma l'obbligo dei popoli sottomessi al pagamento di un tributo (se i popoli sono stati risparmiati dal vincitore, essi hanno verso di lui un « debito » che si esprime nel tributo); ed in questo riconoscimento consisterebbe « il sì di Gesù all'impero romano ». Ma un tale sillogismo, su cui Stauffer fonda la sua dottrina del « sì di Gesù all'impero romano », si basa, sostanzialmente, su una errata interpretazione di &7c6o-s, « restituite »: se noi interpretiamo rettamente 0k7r6o-tc, il « sì all'impero romano » scompare o si attenua. Ed in realtà: &r6o'rc, « restituite », indica semplicemente il concetto che la moneta, in quanto signata col vultus dell'imperatore, è anche proprietà dell'imperatore 13: un concetto che caratterizza la dottrina monetaria dell'epoca imperiale romana, per cui ogni emissione di monete imperiale è largitas dell'imperatore (perciò, nel basso impero, la moneta sarà sacra moneta), e deve intendersi in questo senso. L OC7Cóaort y « restituite », del logion di Gesù significa dunque semplicemente che la moneta di Tiberio è proprietà di Tiberio ': nulla di più, nulla di meno. La predicazione del Regno di Dio, in cui consiste la Nuova Alleanza fondata da Gesù nel suo sangue (v -7 oc.i.oc .ou) fu sen&Xcxf. tita dunque, da Erode Antipa (« la volpe », di cui il galileo Gesù era suddito) come dai [Luc. 13, 321, 13
Per la giustificazione dell'esegesi che qui propongo, cfr. n. 12.
Sacra moneta è nel de rebus bellicis; cfr. le sacrae largitiones ecc. 14 La mia interpretazione del logion può illustrarsi, per altro, con un passo che, stranamente, è sempre sfuggito ai moderni commentatori di esso: Suet., Tib., 58: - capitalia - nummo vel anulo ef/igiem impressam latrinae aut lupanari intulisse. Tiberio ha
considerato capitale l'offesa all'effigies del dio Augusto riprodotta sulle monete.
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Farisei, in maniera non diversa dal modo in cui era stata sentita, nello stesso regno di Erode Antipa, l'opposizione di Giuda il Galileo nel 6 d.C. o la predicazione di Giovanni il Battezzatore d'intorno al 28 d.C. Di fronte allo stato romano come dominatore del popolo giudaico, Gesù ha preso un atteggiamento neutrale - pur esprimendo una sua superiore generosità verso gli esponenti dell'oppres sione, per esempio il centurione di Cafarnao. In ogni caso Gesù sa benissimo che il vincitore romano è il sostenitore di quell'Erode Antipa, che ha ucciso il Battezzatore, e di quei Farisei ed Erodiani, cui egli si contrappone. Dopo Gesù (e ancor più chiaramente, come vedremo, dopo le missioni dell'apostolo Paolo), la storia dell'impero romano è ormai segnata da due parallele: la vicenda dell'impero di cultura ellenistico-romana, e la vicenda della comunità cultuale giudeo-cristiana. Nel i secolo, le due parallele si distinguono spesso, ma spesso s'incontrano. Dal ii secolo in poi, le due parallele si confondono: la storia romana è allora la storia di una cultura che si avvia a diventare cristiana nella sostanza (iii secolo) e infine nella forma costituzionale (iv secolo sgg.). 20.
L'epoca dell'apostolo Paolo. Paolo e la « doppia cittadinanza ». Caligola (37-41) e Claudio (41-54).
Questa immagine delle « due parallele », nonostante il suo carattere in certo modo convenzionale e provvisorio, può aiutarci a intendere la complicata storia dell'epoca che tenne dietro alla morte di Gesù. Essa è dominata da una grande personalità, l'apostolo Paolo 15 Nessun cittadino romano ha avuto nella storia dell'impero quell'importanza decisiva che noi dobbiamo assegnare a Paolo: e tuttavia, è molto probabile che nessuno degli imperatori 15 Delle monografie sull'apostolo Paolo basti citare i classici lavori del RAMSAY e i recenti di ALLO, di RIccIoTTI, di DIBELIusKÙMMEL.
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sotto i quali egli compì la sua opera missionaria (all'incirca, dal 32/33 - anno della sua visione sulla via di Damasco - ad un anno ignoto del regno di Nerone) abbia avuto un qualche interesse per questo gigante della storia mondiale. C'è di più: nessuno degli storici romani (e neanche l'ebreo romano Flavio Giuseppe) ha avuto un qualche sospetto che valesse la pena di ricordare la sua opera opera, ripetiamo, di un cittadino romano - a proposito per esempio degli imperatori Claudio o Nerone. Anche per questa ragione noi sappiamo pochissimo sulla vita di Paolo prima della conversione; su tutta l'atti vità di Paolo, uniche nostre fonti sono le Praxeis degli Apostoli, e le sue mirabili lettere, oltre a qualche dato tradizionale. Così, ci resta oscuro proprio il punto su cui lo storico amerebbe meglio essere informato: quali siano le origini della cittadinanza romana di Paolo, e del suo stesso cognome 18 Paullus. Nonostante le ricerche di due insigni conoscitori della storia imperiale (Mommsen e Dessau) 17, le origini della cittadinanza romana di Paolo restano, di fatti, assai oscure; e l'unico dato certo è la circostanza, attestata nelle Praxeis degli Apostoli, che Paolo si considerava civis Romanus sin dalla nascita (Praxeis 22, 28), avvenuta a Tarso, capitale della Cilicia, all'incirca 16 Confesso di essermi chiesto se, anziché di un cognome, si tratti semplicemente di un prenome (come nel caso di Paullus Fabius Maximus: l'ipotesi sarebbe suggestiva, giacché mostrerebbe un qualche rapporto tra la famiglia dell'apostolo e il proconsole d'Asia del 10 a.C., il quale - come già vedemmo - aveva sottolineato l'importanza degli « evangelii di Augusto », come l'apostolo ha sempre insistito sul concetto dell'« evangelio di Gesù »). Ma Sibas (Sh'jl')-Silvanus, il cui caso va considerato del tutto analogo a quello di Paolo, è designato, nell'indirizzo della i lettera ai Tessalonicesi, col cognome Silvanus (« Paolo e Silvano e Timoteo alla chiesa dei Tessalonicesi »; così anche nell'indirizzo della ii ai Tessalonicesi, sulla cui autenticità cfr. in/ra, § 22); sicché l'ipotesi che Paullus sia un prenome va esclusa. 17 MoMr1sEN, Ges. Schr. iii, p. 431 (scritto nel 1901); DEssAU, « Hermes », 1910, p. 363.
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nel primo decennio d.C. Egli era nato da genitori ebrei: «io sono Israelita, del seme di Abramo, della tribù di Beniamino » (Rom. 11, 1), « circonciso all'ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo secondo la legge » (PU. 3, 5); ed aveva ricevuto - naturalmente, nel giorno della sua circoncisione - il nome del grande re ebraico, unico della tribù di Beniamino, Saul (ocÀo). Come civis Romanus, egli aveva tria nomina, di cui conosciamo solo il cognome Paullus; sì che egli poteva esser designato come EocW.og ó xod 11oc3Xo « Saul detto anche Paolo » 18 • Se sull'origine della cittadinanza romana di Paolo noi sappiamo ben poco, in compenso siamo nella condizione di intendere con chiarezza la « funzione », per così dire, della civitas romana nella vita di Paolo. Ciò è soprattutto possibile oggi, dopo la pubblicazione (nel 1934) dell'ormai famosa iscrizione sulla civitas romana concessa da Ottaviano ad un altro cilicio, il navarco Seleuco della polis di Rhosos. Questa iscrizione contiene, tra l'altro, un documento del 36 a.C., una copia del quale doveva essere inviata alle tre città di Tarso, Antiochia e forse Seleucia: è un testo, in cui il triumviro Ottaviano, in considerazione dei servizi resi dal navarco Seleuco di Rhosos, gli conl ' Le due opposte tesi di MOMMSEN e di DESSAU possono formularsi nel seguente modo: secondo MOMMSEN, il cognome Paullus sarebbe stato dato per assonanza con xi3)o; secondo DESSAU, l'apostolo si chiamerebbe Paullus solo dopo il suo incontro (verso il 45) con il proconsole di Cipro Sergius Paulus. In realtà, le Praxeis dànno all'apostolo il nome di I-IaRog sin dal suo incontro con Sergius Paulus (e questa potrebbe sembrare la conferma migliore della tesi di DEssAu); ma non accennano affatto (come ci aspetteremmo, se la tesi di DESSAU fosse nel vero) ad un'assunzione del cognome. Paullus dopo quell'incontro. Probabilmente, le Praxeis vedono solo un fatto provvidenziale nell'incontro fra quei due personaggi così diversi - l'apostolo e il proconsole - dallo stesso cognome: nulla di più. Il cognome di Paulus poteva ben essere originario, così come, in questi stessi tempi ma in tutt'altro ambiente, era originario per il batavo regia stirpe (Tac., Hist. Iv, 13) Iulius Paulus.
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cede la cittadinanza romana e la immunità dai tributi (che erano segno di sudditanza) e dalla militia e dai munera publica, ed a queste concessioni aggiunge, come cosa a parte, la conferma delle precedenti esenzioni dalle liturgie in Rhosos e dei sacerdozii ed onori già goduti da Seleuco in Rhosos stessa 19 L'aggiunta di questa conferma delle 19
Letteratura sull'iscrizione di Rhosos (cfr. supra, v) in
DE
Nouvelies études de droit romain public et prive (1949), pp. 53 sgg. Il documento principale è nelle linee 19-35, e si può
VISSCHER,
confrontare, paragrafo per paragrafo, con il testo papiraceo in cui Ottaviano concede la cittadinanza a veterani, riprodotto in C XVI, App. 10 (RoussEL, « Syria », 1934, p. 48). La corrispondenza dei due testi si può riassumere nel seguente modo: Iscrizione di Rhosos
Papiro C XVI App. 10
a) 11. 19-23: concessione di 7ro- a) 11. 8-11: concessione di immunità (immunitatem omnium reXcvrrx ed &vca(popx a Seleuco, rum) e di cittadinanza romana coi suoi genitori figli discenai veterani, coi loro genitori denti e moglie; precisazione figli e mogli, e con precisazioche si tratta di cittadinanza ne che si tratta di cittadinanza romana 'tT. &p-tn Vó [ICOL romana optimo iure opti[m]aesenzione *TE: &xck; que legis (sic!); esenzione daldalla milizia rpx'ttoc) e dai la milizia (liberi s[unto miii]muneri publica dello stato rotiae) e dai munera publica ocx mano cL'roupyloc -re (muneribusque publicis)_ dello stato romano; b) 11. 24-27: iscrizione di Seleuco b) li. 12-15: iscrizione dei veterani in una tribù e concessione genitori figli e discedenti nella di essere censiti anche se as tribù Cornelia, concessione di senti; ciò s'intende anche dei essere censiti anche se assenti; loro genitori mogli figli; c) Il. 28-32: esenzione di Seleuco c) 11. 15-19: item quernmotum veterani immunes esinteor... esse moglie genitori figli e discenvolui quecunque sacer[d]otza denti dagli obblighi da cui era qu[o]sque hon[or]es queque stato esonerato prima di divenpraemia [b]ene/icia commotar cittadino romano (7rpò 'o3 o?.'r-z V Pcotloczolr, &vpopo
c[lv]xL); sempre che egli voglia continuare a godere di tali esenzioni; e concessione che egli possa fruire(xpc) di quei sacerdozii onori beneficii di cui aveva goduto (prima di diventar cittadino ro mano);
ta (!) habuerunt, item ut habeant utantur fruanturque permit[t]i do;
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precedenti esenzioni e sacerdozii ed onori già goduti da Seleuco in Rhosos dimostra che Ottaviano considerava la civitas romana come una concessione non capace di escludere, già per se stessa, gli obblighi di Seleuco verso la citd) 1. 35 esenzione dagli obblighi d) 11. 19-22: esenzione dagli ob-
di ospitare magistrati ecc. blighi di ospitare magistrati ecc. Purtroppo, la disposizione che abbiamo indicato con c è, nella sua prima parte, di difficile ricostruzione: è infatti mutila nell'iscrizione, oscurissima nel papiro. E di fatti, il DE VIsscHER, nella sua eccellente trattazione, ha negato (p. 66, 30; p. 85, 90) che vi si alluda ad esenzione da obblighi locali; egli considera sacerdotia honores praemia come soggetto di esse in esse volui. Ma in questo caso item vi habeant utantur fruanturgue permitti do sarebbe inutile ripetizione. Io credo che a 11. 15-16 il papiro, anziché deformare un essent in esint (come generalmente si pensa), abbia deformato in esint... un qualche ablativo con e(ex), sicché il testo originario andrebbe inteso «inoltre ho voluto che essi, in quanto veterani, fossero immuni (item quem ad modum veterani immunes esse vcilui) da (di),...» (penserei che in esinteor... si nasconda un ex integro oppure un e synteliis); le immunità indicate alle 11. 15-16
del papiro non possono riferirsi ad obblighi verso lo stato romano, come quelle indicate alle 11. 8-11 del papiro stesso; esse devono dunque riferirsi alla cittadinanza originaria dei veterani di cui si tratta. Insomma: le 11. 8-11 del papiro (e le corrispondenti 19-23 dell'iscrizione per Seleuco) non possono dare se non le immunità da obblighi degli interessati verso lo stato romano; le immunità riferibili alla cittadinanza originaria degli interessati sono prospettate in c (prima parte), non già in a. Si torna così, se pure per via alquanto diversa, all'interpretazione del § 3 (il nostro c) data da ROUSSEL ecc. Ma nella sostanza, ciò non contrasta con l'interpretazione generale di DE VISSCHER; anzi la conferma. - Quanto alla data del decreto di Ottaviano triumviro per Seleuco, taluni studiosi (RoussEL) propendono per il 41 a.C., taluni altri (LEVI) per il 36 a.C.; oggi si preferisce generalmente il 41 a.C. Ma la datazione al 36 a.C. è di gran lunga preferibile. Nell'iscrizione di Rhosos, infatti, il decreto è seguito da due lettere di Ottaviano ai Rhosei: la prima, della fine 31 a.C., in cui Ottaviano, tra l'altro, elogia « Seleuco il mio navarco, che per tutto il tempo della guerra » (dunque della guerra a.ziaca: siamo alla fine del 31 a.C.) « ha combattuto insieme con me »; la seconda, del 30 a.C., in cui Ottaviano dichiara, tra l'altro, che « Seleuco, il vostro concittadino e mio (4t51) navarco, che in tutte le guerre combatte insieme con me e (mi) diede molte dimostrazioni di attaccamento e fedeltà e valore, ha avuto, in compenso, immunità e cittadinanza romana, come si conveniva a quelli che hanno combattuto insieme con noi (.tcv) ».
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tà cilicia di cui era nativo, ed anzi capace di accompagnarsi con i sacerdozii ed onori goduti da Seleuco nella sua città; sicché alcuni studiosi moderni parlano, e non a torto, di « doppia cittadinanza ». Per lo meno, si può dire che la cittadinanza romana concessa ad un peregrino non escludeva, in linea di massima, i legami del nuovo civis Romanus con la città originaria; così come, viceversa, un civis Rornanus poteva ricevere, a sua volta, la cittadinanza, putacaso, di Delfi o di Pisa elea o di Antiochia ecc. (la cosiddetta « cittadinanza onoraria ») ". Solo se si parte da questo presupposto si riesce a intendere l'atteggiamento di Paolo dinanzi alla cittadinanza romana. Quando, molto probabilmente nel 58 (cfr. in/ra), l'apostolo viene attaccato dalla folla giudaica in Gerusalemme, ed arrestato dal tribuno della coorte stanziata nella cittadella Antonia, allora - secondo il racconto delle Praxeis - Paolo dichiara al tribuno: « io sono un uomo giudeo, cittadino di Tarso, città cilicia non priva d'importanza; ti prego, fammi parlare al popolo ». Solo più tardi, quando i Giudei interromperanno il suo discorso e il tribuno ordinerà la flagellazione dell'accusato, Paolo dichiarerà - sempre secondo le Praxeis la sua cittadinanza romana, la quale impedisce la sua flagellazione; e all'incirca due anni dopo, appellerà all'imperatore (Nerone). La civitas romana è dunque, per Paolo, un fatto giuridico di enorme importanza; ma egli sottolinea questo fatto (almeno secondo il Come si vede. Ottaviano, per indicare se stesso, usa a volte il singolare (iot), a volte il pluralis maiestatis (icv); sicché anche nel decreto (1. 12 dell'iscrizione) l'espressione « combatté insieme con noi i.cv)» sembra indicare una aip -ttLx insieme con Ottaviano; dalla lettera del 30 a.C., Seleuco appare uomo particolarmente legato a Ottaviano, « in tutte le guerre » da Ottaviano combattute. Dopo Nauloco, il decreto è ben comprensibile, come espressione della gratitudine di Ottaviano: Seleuco sarà stato navarco nella flotta delle 120+10 navi donate da Antonio a Ottaviano (App. v, 95, 396). 20 Cfr. in/ra, xxxi. Un tipico esempio: Syll. 3 830 = ILS 9473.
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racconto delle Praxeis, che in questo caso interpretano abbastanza fedelmente il suo pensiero) solo nei momenti di estrema necessità 21 Del resto, egli è soprattutto « un uomo giudeo, cittadino di Tarso, città cilicia non priva d'importanza ». Per il navarco cilicio Seleuco, la cittadinanza romana significava, con la conservazione della sua originaria cittadinanza di Rhosos, la possibilità di assicurare a Rhosos la benevolenza e i più alti benefici di Ottaviano; viceversa, per l'apostolo cilicio Paolo, la cittadinanza romana significa, con la conservazione della sua originaria cittadinanza di Tarso, una precisazione dei doveri dello stato romano verso i suoi cives. Paolo ha spezzato coraggiosamente i limiti classici della città antica. Naturalmente, non solo la « doppia cittadinanza » di Roma e di Tarso - ma anche (e soprattutto) l'appartenenza alla grande tradizione giudaica caratterizza la concezione paolina della cittadinanza. Il civis romano di religione giudaica ha, sin dai tempi della tarda repubblica, una concezione più aperta della civitas romana: nel 49 a.C. il console Lucio Lentulo ha esonerato dal servizio militare, ca.t.ov(oc 'vxoc (« per ragioni religiose »), i Giudei di Asia forniti di cittadinanza romana ` . Ancor una volta: senza i precedenti dell'epoca di Ircano ii non si intenderebbe la grande rivoluzione cristiana dell'epoca di Paolo. Già poco tempo dopo la morte di Gesù la comunità cristiana di Gerusalemme contava un buon numero di giudei che parlavano il greco (« Ellenisti »), per lo più originarii dell'Asia Minore, e addirittura di greci proseliti del giudaismo (asNLsvot: di uno di questi, che fu eletto diacono, conosciamo il nome e la patria: Nicodemo di Antiochia); non è escluso che qualcuno di questi primissimi cristiani fosse fornito di civitas romana " . Quando - con ogni 21
Così già nella colonia romana di Filippi: Praxeis 16, 39. los., Ant. xiv, 10, 13 sgg. 23 Già prima della conversione di Paolo (dunque, prima del 33) erano cristiani Andronikos e Iuniàs, che all'epoca dell'epistola 22
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probabilità, nel 33 Ca. - Paolo ebbe la sua visione (« apocalissi ») sulla via da Gerusalemme a Damasco, quasi alle porte di quest'ultima città, il nuovo convertito del 33 ca.24 non era dunque, per se stesso, una personalità molto diversa dagli altri cristiani « ellenisti », ed eventualmente ai Romani risiedevano a Roma e che Paolo (16, 7) chiama suoi aiyycvrt (perché giudei? perché cilicii? la seconda ipotesi è più probabile, giacché nella stessa epistola Aquila, giudeo di yévo pontico [Praxeis 18, 21, non è chiamato a yycv);almeno il secondo di essi, a giudicare dal nome (Iunis = Iunianus), potrebbe essere cittadino romano. Ma il punto veramente interessante è proprio questo: che i giudeocristiàni, dei quali il prenome o il cognome può farci sospettare la cittadinanza romana, mai insistono su questa loro eventuale civitas: lo stesso Paolo nelle sue lettere non accenna mai alla sua civitas romana, mentre insiste sulla sua origine israelita di « Ebreo da Ebrei, della tribù di Beniamino »; e noi non sapremmo mai (tranne che per induzione dal nome) che egli era civis Romanus, se le Praxeis non dovessero spiegarci, menzionando appunto la cittadinanza romana, l'improvviso timore dei magistrati di Filippi che avevano battuto lui e l'altro civis Romanus SilasSilvanus (16, 37-38) e l'improvviso timore del tribuno (22, 29) che era in procinto di flagellarlo a Gerusalemme. 24 A L xcckpcov &c.7.v, in Gai. 2, 1, dev'essere calcolato, come mostra écr.'ra « dopo ciò », dall'ultimo avvenimento narrato: dunque, non già dall'anno della conversione, sì invece dal primo incontro con Cefa a Gerusalemme. Sicché, essendosi tenuto il concilio degli apostoli nel 49 (all'incirca, due anni prima dell'accusa dei Giudei a Paolo presso il proconsole L. Iunius Gallio Annaeanus in Corinto: l'accusa ebbe luogo [GROAG, Die rm. Reichsb. v. Achaia bis auf Diokletian, 1939, p. 341 verso il luglio 51), noi dovremo calcolare (con computazione inclusiva, come del resto è confermato da Stá che indica inclusione dell'anno a quo e dell'anno ad quein) il primo incontro con Cefa nell'anno 36 (infatti 49 + 1 - 14 = 36) e la conversione di Paolo (di tre anni precedente al primo incontro con Cefa) al 33 o 34 (a seconda che si ponga il primo incontro Gai. 1,18). con Cefa al principio o alla fine del 36: wr& TX Ripeto: il punto essenziale è rcvnx di Gai. 2, 1: « dopo ciò », vale a dire « dopo l'ultimo avvenimento narrato ». Del resto, tutto ci autorizza a pensare che l'apocalissi di Paolo sulla via di Damasco non fosse molto lontana, nel tempo, dalle altre visioni (di cui era 7rcpcì -r7M. x'rpp.cx'r) di Cefa, ai dodici, ai cinquel'ultima, cento, a lakobo, agli apostoli; e noi dobbiamo mettere tutte queste visioni ben vicino alla morte di Gesù (lakobo era addirittura il « fratello di Gesù » e colonna della comunità cristiana); cfr. i Cor. 15, 5-8, su cui supra, 5 19. '1
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cittadini romani, della comunità nazorea; il fatto veramente nuovo consisteva nella circostanza che egli « Ebreo da Ebrei, fariseo secondo la legge », aveva precedentemente perseguitato questa oc"L'PcaLg giudaica dei Nazorei. Dopo l'apocalissi, Paolo si recò in Arabia, e di lì nuovamente tornò a Damasco: in tutto tre anni, dal 33/34 al 35/36, di predicazione del cristianesimo in territorio arabico-da masceno, soggetto al re Areta. Ma che carattere assumeva questa predicazione, fatta da un giudeocristiano che era altresì civis Romanus? Paolo è un santo, ma è anche un lealissimo civis Romanus. La politica dell'imperatore romano Tiberio è, negli ultimi tempi, antiarabica: il re arabo Areta strappa Damasco ai Romani; Tiberio sostiene Erode Antipa nella guerra contro Areta. Alcuni Giudei parteggiavano per il re arabo ` . In queste condizioni, la predicazione di Paolo in Arabia e a Damasco suscitava l'ira di Areta e degli uomini di Areta; Paolo, civis Romanus, veniva considerato, da essi, come un esponente del giudaismo filoromano in opposizione ai Giudei antiromani di Damasco. Lo stesso Paolo, all'incirca un ventennio dopo, ha così narrato questa prima grave vicenda del suo apostolato: « a Damasco, l'etnarca del re Areta sorvegliava la città dei Damasceni per arrestarmi, ed io fui tirato giù, in una cesta, da una finestra, attraverso il muro; e gli sfuggii » (2 Cor. ii, 32-33). È una vicenda che ricorda analoghe storie di accordi fra talune scolte di una città fortificata e i nemici della città 26 ma in nessun caso della storia antica noi co25 È
il caso degli &v8p7v puy&&.vdi cui los., Ani. XVIII, 5, 1. Gli uomini della Nuova Alleanza (Nuova Alleanza nel paese di Damasco) erano naturalmente, per Areta, contro Erode e contro
i Romani. 26 Per citare un testo « di attualità », (il frgm. C dei papiri fiorentini delle « Elleniche di Ossirinco »): la storia degli accordi tra gli esuli ateniesi che, a turno con i cittadini di Selimbria (?), erano di scolta durante l'assedio della città (ad opera di Alcibiade?); essi si accordarono con Alcibiade (?), nel senso che la scolta ate-
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gliamo, con tanta evidenza, l'influsso di una forte personalità sulla vita di una polis. Stavolta, infatti, le scolte che contravvenivano agli ordini dell'etnarca tirando giù la cesta con dentro l'apostolo Paolo, erano « discepoli » (Praxeis 9, 25) dell'apostolo; discepoli, che in questo modo abbandonavano il normale atteggiamento antiromano dei Giudei di Damasco (la setta della Nuova Alleanza poteva considerarsi addirittura la Nuova Alleanza nel paese di Damasco) per salvare un civis Romanus in un momento di grave tensione tra l'impero romano e la città di Damasco. Sin dai tempi di questa oscura predicazione « arabica » del 34-36, l'apostolo Paolo aderisce -- con grave rischio della sua vita - alla politica dell'imperatore romano (§ 23). Dopo la fuga da Damasco, egli sentì il bisogno di incontrarsi, nello stesso anno 36, con Cefa-Pietro e con Giacomo, il fratello di Gesù, a Gerusalemme. Poi si ritirò in Siria e in Cilicia; e dovette avere gran parte nell'evangelizzazione del suo paese natale e della Siria. All'incirca in quegli anni, i credenti nell'« evangelio » di Gesù di Nazareth (« Nazorei ») ricevettero, ad Antiochia, il nome di Cristiani. Nel 37 (16 marzo) moriva Tiberio. Un nuovo « evangelio », « notizia di gioia », si diffuse nell'impero: la no tizia dell'avvento al trono di Caligola, il figlio del popolare ed « eroizzato » Germanico. Pur in questo caso, a noi moderni appare chiara la distanza (cfr. supra, § 19) tra il concetto giudaico-cristiano e il concetto classico-romano di « evangelio ». Ma non dobbiamo dimenticare che anche il potente successore di Tiberio, come la setta, allora nascente dei giudeocristiani, credeva di interpretare, a suo modo, il grande sogno soteriologico del mondo romano. Tiberio aveva demitizzato il culto dell'imperatore vivente; niese, quando fosse venuto il suo turno, avrebbe tirato giù attraverso il muro una corda, eventualmente con una comunicazione. Ma il caso di Paolo è infinitamente più avventuroso.
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aveva ridotto il culto imperiale a eùaép Eta per l'imperatore morto; a oc per l'imperatore vivente; ed egli stesso non ricevette apoteosi. Caligola non doveva la sua successione alla designazione di Tiberio, il cui testamento politico fu annullato (in questo testamento Tiberio aveva designato alla successione Caligola insieme con Tiberio Gemello, figlio di Druso Minore); l'« evangelio » della successione di Caligola era dovuto all'acclamazione dell'esercito e al riconoscimento di lui da parte del senato. Il nuovo imperatore poteva battere le vie che Tiberio aveva abbandonato. Non solo egli, nel segreto del suo animo, detestava il morto predecessore (per tutta la sua giovane vita aveva trascinato con sé il ricordo della persecuzione contro la sua famiglia straziata da Tiberio); ma detestava - possiamo esserne certi - la sua politica. Inaugurò una nuova politica, tutta fondata sul culto dell'imperatore vivente in quanto dominus (xpv). Caligola voleva finirla, a tutti i costi, con il devotus animus di Tiberio verso il senato, con l'eterno fare e disfare di quel puritano senatorio e ragionatore. Il nuovo imperatore si considerava, tra l'altro, Giove Laziare: come rappresentante terreno di Giove Laziare, riteneva di dover ripristinare istituti arcaici della religione latina (il rex Nemorensis), o di ridurre il tempio dei Dioscuri a vestibolo della sua casa; ed anche di altre divinità si considerava rappresentante, per esempio di Nettuno, il dio di Sesto Pompeo - egli che credeva di aggiogar il mare (fece costruire un ponte di navi tra Pozzuoli e Bauli) e che aveva, tra i suoi piani, la conquista della Britannia. Arricchita di motivi culturali egizii (Caligola fece costruire un Iseo al Campo Marzio), la teologia, per così dire, del culto imperiale tornava in onore: opera di un megalomane forsennato, come pensarono gli antichi; opera di un megalomane di spiriti ellenistici, come aggiungono gli studiosi moderni. Nei quali giudizi c'è del vero, senza dubbio: Caligola - figlio di Agrippina, che era na-
i-
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ta dalla viziosa Giulia e da Agrippa -- poteva ben avere nel sangue materno delle tare ereditarie; ed è assolutamente certo che il modello ellenistico (tolemaico) ispirò molti punti della « teologia » imperiale di Caligola (per esempio, lo hieròs gamos di Caligola con la sorella Drusilla). Ma c'è anche, nell'atteggiamento di questo imperatore megalomane e tristo, qualcosa che antichi e moderni non hanno sufficientemente sottolineato: il ritorno, dopo la « demitizzazione » tiberiana (supra, §§ 15-18; cfr. in/ra, App. i), alla problematica augustea del culto dell'imperatore vivente. Naturalmente, il megalomane Caligola non ha la misura (che significa anche il genio) del grande rivoluzionario Augusto (la misura è una caratteristica dei rivoluzionari autentici, che parlano poco e molto operano); tuttavia, il suo ritorno all'esaltazione dell'imperatore vivente è un fatto storico di grande importanza, un fatto che ha lasciato tracce essenziali nella storia dell'impero. Con Caligola, l'imperatore torna ad essere (com'era stato Augusto) un portatore di « evangelii », di cui il primo e principale è l'« evangelio » del suo avvento al trono: e questo concetto resta, nella storia del principato romano. Con Caligola, l'imperatore torna ad essere pater patriae: Augusto lo era stato, sin dal 2 a.C., e poi Tiberio aveva rifiutato il titolo; ma da Caligola in poi l'appellativo di pater patriae entra nella normale titolatura imperiale, fino al basso impero. Queste considerazioni ci autorizzano dunque ad una conclusione notevole, anche se sorprendente: con Caligola, attraverso le velleità di un imperatore che sembra (ed in un certo senso è) un forsennato, tornano forme augu stee, che Tiberio aveva abbandonato e che d'ora in poi saranno accolte senza riserve nella normale ideologia dell'impero romano. Non fu accolto, viceversa (salvo gli sviluppi del iii e iv secolo d.C.), il culto dell'imperatore vivente, com'esso era stato concepito da Augusto e come Caligola voleva,
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con esagerazioni di ogni genere, ripristinano. Ma, anche in questo caso, dobbiamo sforzarci di intendere la problematica « teologica » del culto imperiale. Non si può fondare un ideale soteriologico definitivo sulle sabbie mobili del culto ad un imperatore (ad un uomo) morto (cfr. supra, § 19). In un'epoca che anela ad una soluzione soteriologica dei problemi costituzionali, il culto all'imperatore vivente è un fatto comprensibile: Augusto non era un forsennato, anche se Caligola in certo modo lo era. Il dramma del l'impero romano è proprio qui: che il tentativo di Augusto, e a maggior ragione il folle tentativo di Caligola, di ottenere un vero e proprio culto dell'imperatore vivente (e non già semplicemente del suo numen o del suo Genius), siano entrambi falliti. La ragione ha vinto sui presupposti soteriologici del culto imperiale. Lo stato romano ha dovuto contentarsi di venerare i suoi imperatori morti (naturalmente, se e quando essi ricevano apoteosi), e degli imperatori viventi il numen oppure il Genius. La opposizione al culto dell'imperatore vivente, e perciò anche l'opposizione a Caligola, veniva dalle più opposte parti: dalla classe dirigente italiana come dalla grande tradizione giudaica. Mentre Caligola si appoggiava sulla plebe (egli è, ancora nel basso impero, l'imperatore della plebe romana, l'imperatore esaltato nei « contorniati ») e persino sugli schiavi (egli li autorizza ad accusare i padroni: anche questo, un punto che avrà importanza nella storia del l'impero 27), d'altra parte si concentrava contro di lui l'opposizione delle classi dirigenti italiane: anche le italianissime coorti pretorie, nelle quali egli avrà immesso elementi di origine provinciale, gli erano in parte ostili. Un tribuno delle coorti pretorie (con altri tribuni e centurioni dei pretoriani) lo uccise (24 gen. 41). Ma la morte di 27 Cfr., per il basso impero, ciò che osserveremo a suo luogo, a proposito di Magnenzio; ed inoltre C. Th. ix, 6. - Sui contorniati, cfr. quanto diremo innanzi, a proposito della concezione paolina dell'Antikeimenos.
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Caligola, nonostante le speranze del senato e le prospettive di una guerra civile, non restituì la libertà allo stato romano. Le coorti pretorie « trovarono » il nuovo imperatore: un fratello di Germanico, l'imperatòre Claudio. Claudio non fu, com'era stato Caligola, un dio vivente. Paullus Fabius Persicus, figlio di quel Paullus Fabius Maximus che ci ha lasciato (supra, § 19) la più chiara interpretazione degli « evangelii di Augusto », e che fu proconsole d'Asia come il suo padre, ha emanato verso il 44 un editto ai provinciali d'Asia, in cui Claudio appare « il principe potentissimo e veramente giustissimo il quale, prendendosi cura di tutto il genere umano, dona (agli uomini), tra i principali e a tutti gratissimi benefici (pLpczro, neutro), anche quello di restituire ad ognuno il suo ». La demitizzazione del culto imperiale è qui evidente: l'esaltazione dell'imperatore è posta su un piano chiaramente razionale; e ciò è tanto più notevole, in quanto questo editto è emanato dal figlio di Paullus Fabius Maximus, e nella stessa provincia dove aveva governato Paullus Fabius Maximus. 21. « Tyche » e « pronoia ». Il giudaismo, Paolo e il pensiero di Filone. Conversione senza circoncisione. Durante l'impero di Caligola, il mondo giudaico aveva vissuto anni di tragica angoscia. Lo spettro dell'umiliazione suprema, il culto dell'imperatore-dio, non era stato mai così minaccioso per gli adoratori dell'unico dio di Israele. In apparenza, si poteva sperare che Caligola avesse una qualche comprensione per le esigenze religiose della comunità giudaica, giacché Erode Agrippa - up giovane nipote del grande Erode, e fratello della sposa di Erode Antipa, Erodiade - poteva considerarsi, sin dagli ultimi tempi di Tiberio, il miglior amico di Caligola, a cui aveva dato forti somme di denaro. Ed in realtà, Caligola aveva dimostrato la sua gratitudine per quel suo giovane amico,
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dandogli subito, nel 37, la tetrarchia di Filippo (che nel 34, per la morte di Filippo, era stata incorporata nella provincia di Siria) e poi, nel 39, la tetrarchia di Erode Antipa (che contemporaneamente fu deposto); Erode Agrippa era divenuto, così, signore (col titolo di re) di tutto il vecchio stato del grande Erode, ad eccezione della Giudea (con Idumea e Samaria) la quale restava incorpo rata, come procuratela, nella provincia di Syria. Ma cosa significava una tale donazione, nei confronti delle pretese di Caligola ad un culto divino? Praticamente, assai poco; Caligola non rinunziava al suo ruolo di dio vivente, e pretendeva che questo ruolo fosse riconosciuto in tutto l'impero. La popolazione pagana di Alessandria attaccò, in nome del culto dovuto a Caligola, la comunità giudaica di quella città, e pretese che statue dell'imperatore fossero introdotte nelle sinagoghe alessandrine. Tutta la « teologia » del culto imperiale fu mobilitata contro i Giudei alessandrini; nel genetliaco dell'imperatore (un anniversario cultuale per eccellenza: cfr. supra, § 19) si perpetrarono le più gravi offese contro i Giudei, con la connivenza del prefetto d'Egitto Flacco. Caligola richiamò Flacco e lo punì; infine lo condannò a morte. Ma l'ostilità degli Alessandrini contro i Giudei continuava ad avvelenare la vita della città; gli Alessandrini prètendevano che ai Giudei alessandrini (organizzati in politeuma) fosse tolta la cittadinanza alessandrina (senza la quale, nessun egizio poteva ottenere la romana). D'un tratto, Caligola si volse contro i Giudei di Alessandria. Una delegazione di questi, condotta dal filosofo Filone, non ebbe alcun successo presso l'imperatore. Caligola pretese addirittura che la sua statua fosse introdotta nel cuore del cuore di tutta la comunità cultuale giudaica, nel tempio di Gerusalemme. Erano tornati, per la comunità cultuale giudaica, i tempi della desolazione senza rimedio, i tempi di Antioco iv. La resistenza giudaica fu degna della tradizione dei Maccabei: lo stesso
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legato di Siria, Petronio, ne ricevette un'impressione enorme, e disobbedì a Caligola. L'uccisione di Caligola, nel gennaio 41, fu un sollievo: Claudio, subito dopo il suo avvento, confermò i privilegi della comunità giudaica di Alessandria, e desistette da ogni introduzione del culto imperiale nel tempio di Gerusalemme: egli dichiarò di considerare « follia » il tentativo di Caligola. Ormai, questo mondo giudaico, e la comunità giudeocristiana che ne derivava, potevano dire all'impero romano la loro parola. Fallita l'adorazione dell'imperatore come dio vivente, l'uomo antico doveva cercare altrove, nell'interiorità della sua coscienza e della sua fede, la soluzione del suo problema soteriologico. Filone, il grande filosofo del giudaismo stoico-platonico, aveva elaborato un sistema di pensiero in cui si chiariva tutta la vicenda della storia antica, come dominata dalla provvidenza (pronoia) divina: egli distingueva il caso (tyche), nel quale potevano verificarsi tragici avvenimenti come l'offesa di Caligola al tempio di Gerusalemme, e la provvidenza (pronoia) divina, la quale si esplica nel regno della physis (natura) stoica, ed infine condurrà alla vittoria morale (non armata) del popolo giudaico. Nel mondo della pronoia divina le persecuzioni contro il giudaismo devono condurre i Giudei all'affinamento delle loro virtù: si spezzano le barriere con i popoli di altra stirpe, in quanto i proseliti del giudaismo, con la loro metanoi, entrano in possesso delle virtù giudaiche; e la morte di Caligola in quanto punizione divina, può considerarsi, platonicamente, una « palinodia» dell'offesa di Caligola al Dio e al suo popolo. L'importanza di questi concetti nella storia della cultura è evidente: tra l'altro, con la sua distinzione tra il mondo della tyche e il mondo della pronoia, Filone « estraeva » dalla vicenda storica (tyche) quella che per i Cristiani sarà essenzialmente la « storia sacra », dominata dalla divina provvidenza; che è un punto fondamentale per l'intendimento della nozione
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giudaica del tempo (supra, § 19) e di quella cristiana, che da essa deriva. Il pensiero di Filone, nella sua sistemazione definitiva, recava le tracce della suprema tragica esperienza di lui e di tutto il giudaismo: l'offesa di Caligola al tempio di Gerusalemme. Questa tragica vicenda ebbe infatti un'importan za eccezionale nella storia dell'umanità. Non solo, come già vedemmo, essa aveva determinato una resistenza giudaica così forte da indurre il legato di Siria alla disubbidienza; ma ormai tutto il mondo giudaico, compresa natu ralmente la setta (ocpo) dei Cristiani, aveva la 'prova che il Dio d'Israele aveva vendicato, con la morte di Caligola (la « palinodia » di cui Filone parlava), la terribile offesa. Se si vuole avere una idea di quel che significasse, per questo mondo, il tempio di Gerusalemme, basti pensare alla circostanza che Filone, nella sua descrizione del tempio, aveva evitato di rivelare la vera struttura d'esso al di là del peribolo: ché sarebbe stato sacrilegio rivelare ai gentili (agli EXXvec ), cui si volgevano i suoi scritti, la struttura del tempio erodiano al di là del peribolo 28: l'iscrizione del (secondo) peribolo ammoniva che « nessuno non giudeo (ìì.'koycv--I ) entrasse dentro il tryphakt e il peribolo che stanno attorno al tempio », sotto pena di morte. Noi dovremo ricordarci di questo punto, se vorremo intendere il dramma supremo della vita di Paolo, nel 58. La predicazione di Paolo, che nel 34-36 si era volta all'Arabia antierodiana (supra, § 20), e dopo si era limi t1
28 LEISEGANG, « Gòtt. Gel. Anz. », 1934, p. 133, crede invece che veramente Filone non abbia visto il tempio di Gerusalemme al di là del peribolo. La mia spiegazione, che Filone noii abbia voluto rivelare a non-ebrei la struttura del tempio, si fonda su una circostanza particolare: Filone è stato dentro il tempio c6trv6 'tc xx come dice egli stesso nel rrcp. rrpovoLoc (Eus., Praep. evang. viii, 14, 64). L'iscrizione del secondo peribolo ora in GALLING, Textbìwh, n. 52.
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tata alla Siria e alla Cilicia, cominciò ad assumere una nuova importanza dopo l'esperienza dell'impero di Caligola e le vicende che seguirono la morte dell'imperatore-dio. Nel 41 era stato ucciso Caligola; nel 44 moriva Erode Agrippa. Sebbene Erode Agrippa avesse protestato contro il suo amico imperatore per l'offesa al tempio di Gerusalemme, tuttavia la comunità cultuale giudaica, compresa in essa la ottpscng dei Cristiani, non dimenticava l'amicizia che aveva legato l'imperatore-dio con il nipote del grande Erode. Subito prima della morte, Erode Agrippa era stato acclamato dio dai Greci di Cesarea (anche in questa città, come ad Alessandria, 'coesistevano Greci e Giudei, gli uni e gli altri cittadini della polis); alle acclamazioni divine egli non si era opposto con quell'energia che Giudei e Cristiani avrebbero desiderato; sicché la sua morte apparve, a Giudei e Cristiani, come un segno di punizione divina (questo punto è sottolineato con pari evidenza dal giudeo Flavio Giuseppe come dalle cristiane Praxeis degli Apostoli). Allora Paolo sentì venuta l'ora dei suoi grandi viaggi missionarii; e furono al centro della sua predicazione proprio quei concetti di « buona coscienza » (&x& auvciai.) e di « fede in dio » ( m aC;Où ) 29, che erano stati ignoti al mondo classico, che sono la sostanza del mondo moderno. Così il concetto fi loniano della metanoia del proselito giudaico assumeva, nella predicazione cristiana, un'importanza decisiva per la storia dell'umanità. Restavano da chiarire i rapporti tra gli « apostoli » della predicazione giudaico-cristiana e i proseliti che ad essi venivano dal mondo dei gentili. La legge di Mosè prescriveva la circoncisione: come andavano considerati i proseliti non circoncisi? Paolo, e gli altri apostoli di cui ci dà notizia la tradi29 SNELL, « Gnomon », 1930, p. 21; SPICQ, « Rev. bibl. », 1938, p. 50; DIBELIus, « Neue Jahrbb. f. Wiss. u. Jugendb. », 1931, p. 683.
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zione cristiana, non erano i soli a porsi questo essenziale problema. Poco prima del 44 (l'anno che segnò la morte di Erode Agrippa e l'inizio dei grandi viaggi missionarii di Paolo), si era verificato un fatto notevole: il re dell'Adiabene, uno stato-vassallo dell'impero partico, si era convertito al giudaismo. Autore della sua conversione era un mercante giudeo di nome Chananja (Ananias); e non è escluso che questo Chananja (Ananias) fosse quel medesimo Ananias che a Damasco aveva battezzato, nel 33/34, subito dopo l« apocalissi», l'apostolo Paolo. Ma assai più importante di questa coincidenza di nomi, che in realtà potrebbe essere una mera coincidenza, è la circostanza che Chananja aveva persuaso il re dell'Adiabene ad astenersi dalla circoncisione, pur convertendosi, per tutto il resto, al giudaismo: « diceva infatti che poteva seguire il giudaismo ('rò ctov c3c.v 30), solo che decidesse di obbedire alle tradizioni (-r& -p.o) dei Giudei; e che questo punto era più essenziale della circoncisione; il Dio lo avrebbe perdonato, giacché egli faceva ciò per necessità e per timore dei suoi sudditi ». Sebbene la personalità di Chananja resti per noi oscura, è tuttavia chiaro che egli poneva in un secondo piano la circoncisione, come cosa meno essenziale della conversione vera e propria. Il giudaismo ufficiale non poteva accettare un tale sovvertimento dell'antica Legge: in un secondo momento, lo stesso re di Adiabene, per i consigli di un altro missionario giudaico, ritenne opportuno allontanarsi dalla dottrina di Chananja, e si fece circoncidere. Egli può forse considerarsi - per il periodo in cui restò legato alla dottrina di Chananja e rinunziò alla circoncisione - il primo monarca della storia mondiale, il quale abbia avuto tendenze cri stiane, o addirittura (se Chananja va identificato con l'omonimo battezzatore di Paolo) il primo monarca cri30 los., Ant. xx, 2, 5: il termine è tecnico (a3cax ròv per indicare la caratteristica dei proseliti o a6cvo. 'òv
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stiano della storia mondiale: e ciò potrebbe essere confermato dalla Cronaca di Arbela, che attesta diffusione del cristianesimo nell'Adiabene intorno al 100 Il sovvertimento della Legge antica, che era implicito nella rinuncia alla circoncisione secondo la dottrina di Chananja, era ad ogni modo inevitabile nella predicazione giudeocristiana agli incirconcisi. Ciò che Chananja aveva suggerito al re di Adiabene, era praticamente necessario, persino nella predicazione di uomini come Cefa-Pietro (il principale fra i discepoli di Gesù), i quali tuttavia volevano restare, nei limiti del possibile, ossequienti all'antica Legge. Paolo trasse definitivamente le conseguenze di questa situazione. Egli volle spezzare le barriere tra Giudei e gentili, tra « gli uomini della peritomé (circoncisione) » e « gli uomini della akrobystia ». In un primo viaggio missionario (tra il 44 e il 47 circa) evangelizzò, insieme con Barnaba, Cipro, Panfilia, Pisidia, Licaonia; secondo le Praxeis, anche il proconsole di Cipro, Sergius Paulus, « credette ». Ormai, questo concetto della conversione senza circoncisione - diciamo così il concetto che aveva ispirato Chananja alla corte del re di Adiabene - diventava il senso e lo scopo della sua vita: egli riteneva che il dio di Israele aveva affidato a lui « l'evangelio della akrobystia » così come aveva affidato a Cefa-Pietro « l'evangelio della peritomé ». Ma le difficoltà che Chananja aveva incontrato alla corte di Adiabene si presentarono per lui nei rapporti con la comunità madre cristiana, la comunità di Gerusalemme. Nel 49 ebbe una nuova « apocalissi », in seguito alla quale si recò a Gerusalemme; in un « concilio degli apostoli », lakobo (il fratello di Gesù) e Cefa e Giovanni, « colonne » della comunità, riconobbero la validità di questo suo evangelio della akrobystia. Ciò non impedì che egli avesse poco dopo uno scontro con Cefa in Antio31 MESSINA, « Civ. Catt. », 1932, p. 362; «Orientalia Christ. Periodica », 1936, p. 5.
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chia, e ribadisse in quello scontro il suo punto di vista, che i gentili non fossero obbligati « a giudaizzare »; in questo scontro, Barnaba si era schierato dalla parte di Cefa. Nello stesso anno 49, ormai staccato da Barnaba, Paolo iniziò il suo secondo viaggio missionario; attraversò l'Asia Minore (Cilicia, Licaonia, Frigia, Galazia, e poi a occidente sino alla Troade); di poi si volse al continente classico, le province di Macedonia ed Acaia: Filippi (dove fu arrestato e fustigato, e solo infine dichiarò la sua cittadinanza romana), Tessalonica, Berea, Atene (la città per eccellenza restia al suo messaggio), Corinto. Di queste città, Filippi e Corinto erano sede di colonie romane dedotte già nel 42-41 a.C. e nel 44 a.C.; la predicazione dell'apostolo cominciava sempre dalle sinagoghe, con un successo relativo (per esempio a Corinto, Paolo battezzò l'archisinagogo Crispo e, come sembra, il proselito G. Tizio Giusto 32; ma la comunità giudaica lo accusò al tribunale del proconsole Gallione); il buon successo che Paolo ebbe a Corinto, e la consistenza della comunità cristiana in questa colonia (sebbene presto la comunità tendesse a scindersi in vari partiti: di Paolo, di Apollòs, di Cefa, di Cristo), ci dicono che la predicazione cristiana aveva una grande eco nella piccola borghesia cittadina, per esempio fra i libertini (la colonia di Corinto era composta soprattutto di libertini). Anzi, a Corinto la comunità paolina poté annoverare tra i fratelli lo Tng no;kecúg cui era affidata l'arka (cassa pubblica) della colonia. Un tale personaggio doveva essere molto ricco: infatti, la cura dell'arka di una città era considerata piuttosto un onere che un onore. L'ospite di Paolo, un certo Aquila con la sua sposa Prisca (Priscilla), era un piccolo industriale tessile, come Paolo stesso.
GOODSPEED, « Journ. Bibl. Lit. », 1950, p. 382.
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L'Anticristo (Antikeimenos), Caligola e Paolo. L'Anticristo e Nerone.
Il secondo viaggio missionario di Paolo culminò dunque nella predicazione dell'« evangelio dell'akrobystia » a Corinto, nel 51. Molto probabilmente, Paolo ha scritto allora quella « seconda lettera ai Tessalonicesi », che qualche moderno a torto ha considerato spuria, e che viceversa deve considerarsi il più interessante (e il più antico) documento della concezione paolina della storia imperiale più recente. La sostanza del messaggio cristiano consisteva nell'attesa del Regno di Dio: la preghiera centrale nel culto della comunità paolina di Corinto (e di tutte le altre comunità cristiane) era il Marana tha (gpXou Kpc 'Iiaoi3). Ma quando si sarebbe verificato l'avvento del Regno? Paolo, se, come cristiano, credeva nell'avvento del Regno di Dio e nella conversione delle genti e di Israelé, tuttavia, come responsabile apostolo, non si sentiva di considerar imminente il Regno di Dio. « Noi vi preghiamo, o fratelli, per la presenza del nostro Kyrios Gesù Cristo e la nostra riunione in lui, perché non veniate in errore e non vi lasciate atterrire (per spirito, o discorso, o lettera a noi attribuita) dal pensiero che già venne il giorno del Kyrios. Nessuno in nessun modo vi inganni: ché prima deve venire la Ribellione » (s'intende, la Ribellione alla Legge antica e nuova: apostasia) « e deve rivelarsi l'uomo del l'errore, il figlio della rovina, colui che si oppone a Dio (Antikeimenos) e si innalza su tutto ciò che è chiamato Dio o sébasma (oggetto di culto), sì da sedersi nel tempio del Dio mostrando se stesso come Dio. Non vi ricordate che quando ero con voi vi dicevo queste cose? Epperò ora » (anche ora?) « sapete ciò che lo trattiene, perché egli (l'Antikeimenos) si riveli nel tempo suo. Infatti già opera il mysterio della opposizione alla Legge: solo c'è quello che ora lo trattiene (xtv), fino a che (quello che lo trattiene) sarà tolto di mezzo. Epperò allora si ri-
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velerà il nemico della Legge, che il Kyrios Gesù ucciderà con lo spirito della bocca santa e distruggerà con l'epifania della sua presenza (parusia). La presenza del nemico della Legge si compie secondo l'opera dell'Oppositore (Satá*n), in tutta la possanza e i segni e i miracoli della menzogna, e in tutto l'inganno dell'ingiustizia, per coloro che sono perduti, giacché essi non accolsero (in sé) l'amore della verità per la loro salvezza. E perciò il Dio manda ad essi l'opera dell'errore, perché credano nella menzogna, affinché siano giudicati tutti coloro che non credettero alla verità ma consentirono all'ingiustizia ». In queste parole di colore oscuro è l'interpretazione paolina della storia contemporanea; ed in verità, ogni ricerca sui rapporti tra Paolo e l'impero romano deve partire da questo passo della « seconda lettera ai Tessalonicesi ». Quei moderni che negano l'autenticità paolina della lettera si fondano proprio su questo passo apocalittico, che essi considerano estraneo alla problematica paolina: ma ciò significa straniare Paolo dalla tragedia del suo tempo, significa - in ultima analisi - non intendere Paolo. Nel suo secondo viaggio, Paolo ha parlato coi Tessalonicesi di quel problema che era l'essenziale del messaggio cristiano, l'avvento del Regno di Dio. Egli ha detto allora, verso il 50, che questo avvento dev'essere preceduto dall'avvento di un Antikeimenos, di un Anticristo come poi si dirà nella normale apocalittica cristiana; per ora, l'Antikeimenos non si rivela, giacché c'è chi lo trattiene. Nella sua « seconda lettera ai Tessalonicesi », probabilmente nel 51, Paolo non fa dunque che ripetere un punto fondamentale del suo insegnamento missionario. Or qual era l'avvenimento cruciale, che gli aveva suggerito questa speculazione? Egli stesso ce lo fa intendere: il suo Antikeimenos si siederà (rrc xacz.) -ròv vxòv T05 €ot « nel tempio di Dio », mostrando sé come Dio. Che era proprio ciò che aveva voluto fare Caligola: cr&v ocrro3 &vpvv'tcx &v -c7 vcxi TO ®cot come dice lo storico Flavio Giuseppe,
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col risultato di opporsi sempre più al Dio ( -rò v ®cv &vpc&yc.v) con la costrizione a trasgredire la Legge ( 7ra pavoliE:-tv) con la persecuzione del culto divino (ac p á_ a~ttov) col presentarsi come dio (&docs8è &u-6v) ed offendere ogni oggetto di culto anche ellenico (,rèov Sè kp&v EÀÀvLxv oèv 9,rt &a?yrov xr&Xcrcv) 33 . Questa coincidenza di concetti tra Paolo e Flavio Giuseppe è significativa: Paolo, « fariseo secondo la Legge » ed apostolo cristiano, dà al suo Antikeimenos gli stessi tratti caratteristici che la tradizione giudaica, mirabilmente espressa dal fariseo Flavio Giuseppe, ha dato al tentativo sacrilego di Caligola. Se, come già vedemmo, i concetti di palinodia e di pronoia dominano l'interpretazione filoniana del tentativo di Caligola, d'altra parte questa apocalissi della « seconda lettera paolina ai Tes salonicesi » ci dà la misura di ciò che aveva significato il tentativo di Caligola per l'apostolo Paolo. La statua di Caligola, nel « tempio del Dio », nel tempio di Gerusalemme: questo sacrilego progetto era certamente, per Giudei e Cristiani (considerati sempre, non si dimentichi, una ottps a tq dei Giudei), il fatto dominante di tutta la storia dell'impero. E tuttavia, Caligola non era riuscito. Paolo, scrivendo qualche decennio dopo la morte di lui, sottolineava che il tempo dell'Antikeimenos, il tempo in cui l'Antikeimenos si sarebbe seduto nel tempio di Gerusalemme, era ancora da venire. C'era, per ora, « ciò che lo tratteneva », « quello che lo tratteneva »: 'tò xc'rov, o x'r&yi.v; vale a dire, una componente storica che poteva esprimersi, indifferentemente, con un neutro o con un maschile. Qual era questa componente, che aveva trattenuto ed ancora tratteneva l'Antikeimenos? e che infine sarebbe stata « tolta di mezzo » dall'Antikeimenos? Si è pensato, da antichi e da moderni, che questo xTXov Il
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(x ocore X<úv) paolino intenda alludere all'impero romano ma. ciò è molto improbabile Ancor di recente (cfr. in/ra, § 23), l'imperatore Claudio aveva perseguitato, cacciandola da Roma, la comunità giudaico-cristiana dell'Urbe: questo provvedimento persecutorio va posto verso il 48; ed esso mostrava che l'impero romano, in quanto tale, accomunava, in casi di persecuzione, i Giudei e i Cristiani; anzi, perseguitava i Giudei in quanto « tumultuanti sotto la spinta di Cristo ». Ad ogni modo, è molto improbabile che l'impero, o un qualche organo di esso (per esempio, la Pou>,~ : femminile!) sia il katech6n-katevh6n paolino. Una spiegazione di gran lunga più naturale, e anzi sicura, è suggerita dallo stesso contesto paolino: il xocovnon può essere che il )6c, « popolo », dei Giudei, il quale con eroica forza si era opposto (anche in questo caso, basta rileggere Flavio Giuseppe) al tentativo di Caligola, e certo con eroica forza si sarebbe sempre opposto ad ogni tentativo di occupare il santo tempio del Dio in Gerusalemme. Solo quando questo katechon sarà « tolto di mezzo », l'Antikeimenos potrà sedersi, come dio, nel tempio del Dio in Gerusalemme. Paolo, l'apostolo dell'akrobystia, ha qui esaltato la forza indomita del suo popolo, la quale aveva scritto, con l'opposizione al tentativo di Caligola, la pagina più eroica di tutta la storia dele forse di tutta la storia mondiale. l'epoca di Paolo Più tardi, verso la fine della sua opera di missionario, agli ultimi del 57 o ai primi del 58, Paolo, apostolo del l'akrobystia ma « Israelita del seme di Abramo, della tribù di Beniamino », prevederà la conversione, « la pienezza » .
-
Per l'identificazione del xcx'r&ov (r&av) con l'impero romano v. KITTEL, Christ. u. Imp. (1939), p. 23. Tra l'altro, la &ouax (femminile!) dei Romani difficilmente potrebbe esprimersi con un neutro e nello stesso tempo con un maschile. Inoltre, il tentativo di Caligola stava proprio lì, a dimostrare che l'imperatore romano stesso, lungi dall'essere un poteva ben essere, egli stesso, un'espressione del « mysterion dell'opposizione alla Legge », un Antikeimenos in potenza.
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pia.) di questo Xa6g giudaico, « popolo » di Dio: (-rò conversione tanto più agevole, in quanto esso non viene dall'oleastro, come gli uomini dell'akroby stia, ma dalla buona oliva dell'elezione . Quando egli scriveva queste cose (nella Lettera ai Romani), Claudio era già morto (13 ott. 54), e da circa tre anni gli era successo Nerone. In questa stessa Lettera ai Romani, Paolo esortava la comunità cristiana all'obbedienza verso le autorità romane: un punto, come or ora vedremo, di grande importanza per la storia dei rapporti fra cristianesimo e impero. Ma, al di là della sottomissione alle autorità romane, restava sempre, per i Cristiani, il problema centrale, l'avvento del Regno di Dio. E il connesso problema dell'Antikeimenos (Anticristo). Caligola, il sacrilego, dominava ancora, a quasi un ventennio dalla sua morte, le fantasie che il suo tentativo aveva tormentato e sconvolto. Né solo Cristiani e Giudei, ma tutto l'impero partecipava a quell'inquietudine senza pace. Caligola aveva sfidato il dio di Gerusalemme; non era riuscito; si diffuse il concetto che il regnum Hierosolymorum dovesse avere una gran parte nella storia dell'impero. In certe manifestazioni esteriori, Nerone (pur seguendo una sua politica diversa) sembrava ricalcare Caligola: per il popolino di Roma, egli era il restauratore dei giuochi circensi, come Caligola; era colui che aveva portato a termine il circo del Vaticano, opera di Caligola. Noi abbiamo, fortunatamente, la possibilità di conoscere questa interpretazione data dalla plebe romana all'opera di Nerone come continuatore di Caligola, perché una tale interpretazione è rimasta sino a tutto il basso impero, in cui è espressa dai « contorniati », pseudomonete in cui domina il ricordo, appunto, di Caligola e di Nerone, entrambi restauratori dei giuochi circensi ". D'altra parte, sap36
Rom. 11, 1-25. Die Kontorniaten, ein verkanntes Pro pagandamittel der stadtrcim. heidn. Aristokratie (1942), p. 90, 40, ha pensato (così ALFÒLDI,
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piamo con assoluta certezza che astrologi di Nerone dichiaravano che a questo imperatore, in caso di una grande crisi politica, i fati riserbavano precisamente (nominatim) il regnum Hierosolymorum (Suet., N., 40, 2). Caligola aveva ordinato che la sua statua fosse posta nel tempio di Gerusalemme; verso il 51, l'apostolo Paolo, proiettando nel futuro le ultime conseguenze di una tale &vop., aveva immaginato un Antikeimenos (diciamo, l'« Anticristo ») che si insediava nel tempio di Gerusalemme; gli astrologi di Nerone attribuivano al loro imperatore questa eventuale funzione di « re di Gerusalemme ». Il « mysterio dell'Anomia » (opposizione alla Legge) era considerato un motivo immanente alla storia dell'impero. Il mito dell'Anticristo era così delineato, e il suo punto di riferimento era sempre quel tempio di Gerusalemme, che Augusto aveva accomunato al suo contemptus per le pere grinae caerimoniae 38• Nella posteriore storia dell'impero romano, il mito dell'Anticristo avrà sempre un'importanza notevole; e perciò era opportuno delinearne, in queste pagine, la protostoria, anche V0G'r, « Gn. », 1949, p. 29) che i coniatori dei contorniati avrebbero visto in Caius Caesar il celebre Cesare, non già Caligola. Ma si può osservare che i contorniati riflettono il mondo ludico urbano di Roma, in genere (« Doxa », 1951, pp. 132-147, spec. pp. 139-140), non soltanto il mondo aristocratico in senso proprio; e Caligola, aborrito dall'aristocrazia senatoria, era sempre caro alla plebe come antico restauratore dei giuochi circensi. Per il buon ricordo di Caligola, i contorniati hanno anche copiato le sue monete configurazioni di Agrippina, sua madre: la plebe romana sapeva bene il grande amore di Caligola per la sua madre infelice (C VI, 886; e soprattutto - eccellente illustrazione alle monete di Caligola con testa di sua madre al r. e carpentum al v. - matri Circenses carpentumque quo in pompa traduceretur, in Suet., Cal., 15; i Circenses matri ci indicano la ragione di questi contorniati di Agrippina). 38 Aveva lodato Gaio Cesare quod apud Hierosolymam non supplicaret: Suet., Aug., 93. - Si noti che la nostra interpretazione spiega il concetto dell'Anticristo come redivivus: Nerone è un po' un Caligola redivivo (in quanto realizza il sogno di Gerusalemme); dopo Nerone, il concetto dell'Anticristo si coprirà con quello di Nero redivivus.
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che si riconduce, come tutta la storia dell'impero, alla gigantesca figura dell'apostolo Paolo. Ormai, la grande vicenda spirituale dell'impero si rispecchierà chiaramente nella vicenda del mito dell'Anticristo: quando la predicazione cristiana si sarà allontanata dall'antica venerazione per il tempio di Gerusalemme (come per esempio è chiaro dalla « lettera di Barnaba », del n secolo), allora l'Anticristo non sarà più configurato come un imperatore pagano, ma piuttosto (basti pensare all'Anticristo del vesco vo romano Ippolito, su cui in/ra, § 59), come un giudeo. Ma nel tempo dell'apostolo Paolo, in questa tormentata epoca di Caligola Claudio e Nerone, il tempio di Gerusalemme era elemento essenziale alla comunità cultuale dei Giudei come dei Cristiani, considerati ancora una setta (0CtpEaLg) giudaica; e la stessa vita dell'apostolo Paolo, come vedremo a suo luogo (infra, § 23) fu segnata dal suo rapporto con il tempio di Gerusalemme, dinanzi al quale egli fu arrestato, intorno al 58, sotto l'imperatore Nerone. 23. La comunità cristiana di Roma e l'apostolo Paolo. « Omnis potestas a Deo ». Claudio e Nerone contro il cristianesimo.
Quando Paolo scriveva quella sua pagina sull'Antikeimenos (« Anticristo »), diciamo, verso il 51, si era già verificato un primo notevole conflitto fra lo stato romano ed una intera comunità cristiana, la comunità di Roma. Come già vedemmo, Claudio - un nevrastenico, ma anche (come del resto tutti i « Proust » di tutti i tempi) un intellettuale - aveva comprensione e rispetto per la comunità cultuale giudaica; era suo amico Erode Agrippa (morto nel 44); ai Giudei alessandrini confermò la cittadinanza di Alessandria e gli altri privilegi, condannando .i più accaniti persecutori del giudaismo in Alessandria. Ma come imperatore preoccupato del mantenimento dell'ordine in tutto l'impero, egli voleva evitare ad ogni costo tumulti di
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carattere religioso: quando nel 44 morì Erode Agrippa, il quale aveva avuto da lui anche il territorio della procuratela romana di Giudea, tutto il territorio del sovrano fu dato all'amministrazione romana, restituendosi così la procuratela romana di Giudea (ingrandita); Claudio temeva che il figlio di Erode Agrippa, Agrippa n, fosse troppo giovine per governare in quella tumultuosa terra di Palestina; e solo nel 53 si decise a concedergli una grande « fetta » del regno avito, la « tetrarchia di Filippo » (in cambio di Chalkis, che aveva avuto nel 49; inoltre, Agrippa ii aveva la E'ZoucrL'm del tempio di Gerusalemme e la potestà di nominare il sommo sacerdote). La stessa cura di evitare tumulti di carattere religioso nell'ambito del giudaismo era evidente, del resto, sin dai primi tempi di Claudio, nella sua stessa concessione dei privilegi ai Giudei alessandrini: nella vera e propria concessione dei privilegi, l'imperatore aveva insistito « che non si verifichi alcun tumulto (-rpoc)C'í) » da parte dei Giudei e degli Elleni loro nemici, in una successiva lettera agli Alessandrini aveva raccomandato che i Giudei alessandrini « non tumultuassero contro i giuochi diretti dal ginnasiarca e dal Kosmeta » » Così interpreto &arnxLpcv: « tumultuare » ( rrocLpcLv) « contro compreso in &t apc) gli agoni ecc. ». Generalmente si interpreta in altro modo: l'imperatore proibirebbe ai Giudei alessandrini di « partecipare alle lotte atletiche » (BELL; « to intrude into », STUART JONES) o di «parteggiare per l'una o l'altra fazione di giuocatori » (DE SANcTI5). Ma a me sembra evidente che i Giudei alessandrini dovevano assumere nei riguardi dei giuochi un atteggiamento antiludico, né più né meno come faranno poi i Cristiani, la cui ostilità ai giuochi pagani è un aspetto essenziale dell'avversione cristiana alla città antica. Sulla lettera di Claudio agli Alessandrini: BELL, Jews a. Christians in Egypt, 1924; DE SANcTI5, « Riv. fil. class. », 1924, p. 473; STUART JONES, « Journ. Rom. St. », 1926, p. 18; altra letteratura in/ra, xi. Che i Giudei alessandrini godessero della cittadinanza di Alessandria è cosa per me sicura, anche se il contrario è stato sostenuto con argomenti acutissimi ma sforzatissimi: Flavio Giuseppe non si può buttar via d'un tratto; e del resto, un Ti. Iulius Alexander, o già suo padre l'alabarco (lo troviamo nel consilium del prefetto di Egitto; cfr. BALOGH-PFLAUM, (&7t(,
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(giuochi il cui carattere per eccellenza pagano offendeva la sensibilità religiosa giudaica) e « non facessero venire o chiamassero Giudei provenienti dalla Siria o dall'Egitto...; altrimenti » (aggiungeva) « li punirò come quelli che de stano una peste universale del mondo (xotw ì V TLVOC oxou&vi v6a0v) ». Delle tormentate esperienze religioe giudaiche (e quindi anche cristiane), il buon pagano Claudio non capiva, certo, gran che; ma come acuto e lungimirante intellettuale, egli intuiva confusamente che lì dentro si muoveva una problematica spirituale che avrebbe trasformato il mondo classico; e minacciava, egli uomo di spiriti liberali, punizioni decise. Nella comunità giudaica di Alessandria c'erano, sì, uomini come Filone, tutti volti a innestare concetti stoici, come quello della pronoia, nella grande tradizione religiosa giudaica (cfr. supra, § 21), a identificare nel Giuseppe biblico l'immagine ideale del politico, e via dicendo, ma c'erano anche uomini di tempra più rivoluzionaria, uomini che avevano sentito, dalla Palestina, la grande eco della predicazione, per esempio, di Giovanni il Battezzatore. Claudio si volgeva appunto contro questi uomini, che ascoltavano e sollecitavano la venuta di nuovi correligionari e di nuove idee dalla Palestina. Nell'immensa oscurità in cui noi moderni ci troviamo dinanzi a tali vicende (che sono le vicende storiche del primitivo cristianesimo), un nome si è salvato: il nome di Apollòs, un giudeo alessandrino, il quale si era imbevuto delle dottrine di Giovanni il Battezzatore, e le andava predicando nel mondo (una vera vóaoq m q AM
s
« Rev. hist. dr. fr . étr. », 1952, p. 123), non avrebbero potuto essere cittadini romani se non avessero goduto la piena cittadinanza alessandrina (essenziale perché un uomo di natio egiziana - com'è appunto considerato Ti. Iiulius Alexander da Tac., Hist. i, 11 pervenisse alla cittadinanza romana). Se un giudeo di Alessandria avesse dovuto dare le proprie generalità, egli avrebbe certamente indicato la sua cittadinanza alessandrina, come l'apostolo Paolo la sua cittadinanza tarsia: « sono di Tarso, città non priva d'importanza ».
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otxouvi, avrebbe detto Claudio); verso il 54, egli le predicava nelle sinagoghe di Efeso e di lì, avendo ricevuto la piena rivelazione cristiana, si recò a Corinto. Di questi Giudei alessandrini che eran presi dalle nuove idee, Apollòs era certo il più illustre (nella comunità cristiana di Corinto, intorno al 57, si distinguevano quattro fazioni: « di Paolo, di Apollòs, di Cefa, di Cristo »); ma non era il solo, se già nel 41 Claudio aveva minacciato le più gravi punizioni contro questi seguaci dei nuovi correligionari provenienti dalla Siria e propagandisti delle nuove idee. Con i debiti adattamenti, noi dobbiamo immaginare in maniera analoga la prima formazione della comunità giudeocristiana in Roma. Tenebre le più oscure circondano questa vicenda, capitale in tutta la storia del mondo: possiamo solo congetturare, con estrema probabilità di cogliere nel vero, che alcuni fra i Giudei (e proseliti) fondatori della comunità cristiana di Roma godessero già della cittadinanza romana, e che la predicazione di essi cominciò prestissimo, poco dopo la morte di Gesù ° Roma era un grande centro del giu40 Nel 58 (o fine 57) troviamo a Roma due ebrei cristiani, Andronikos e Iunis (Iunianus), il cui battesimo è anteriore a quello di Paolo (Rom. 16, 7), dunque anteriore al 33; è probabile che la loro presenza a Roma sia anche abbastanza antica, come antica (in ogni caso, anteriore al 49) era la predicazione a Roma di Aquila, che pur si trovava a Roma nello stesso 58 (Rom. 16, 3), insieme con la moglie Prisca. È naturale che, dopo la parentesi dell'espulsione avvenuta nel 49 circa, la comunità cristiana di Roma si ricomponesse ad opera di quei medesimi Cristiani, che erano stati espulsi da Claudio. L'eterna questione agitata dai moderni, se la comunità cristiana di Roma fosse giudeocristiana o paganocristiana, è male impostata: per i Romani, sono Iudaei tanto i veri e propri Giudei quanto i proseliti; ed è evidente che anche la comunità di Roma, come tutte le comunità cristiane di questo periodo, fosse sostanzialmente costituita di Giudei e di proseliti del giudaismo, i quali accoglievano la octpeag giudaica dei Cristiani (Nazorei), anziché, putacaso, la &L`pecrv, giudaica dei Farisei o la pc giudaica dei Sadducei ecc. (per il concetto di <xYpE:atg « setta » cfr. sempre Praxeis 5, 17; 15 ) 5; 26, 5; dove il termine è rispettivamente usato
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daismo; ed era anche la città signora dell'impero, di grande importanza per la conquista degli spiriti (così anche nel ii secolo, quando per esempio Marcione vorrà propagandare la sua dottrina, egli verrà a Roma). Come ad Alessandria considerava i Giudei solidalmente responsabili della diffusione di idee nuove alla maniera di quelle propagandate da Apollòs, così anche a Roma Claudio considerava i Giudei solidalmente responsabili della diffusione di idee battiste e nazoree, che confluivano nella predicazione cristiana. Si ricordi la sua minaccia ai Giudei di Alessandria: « li punirò come quelli che destano una peste universale del mondo». A Roma, la città classica per eccellenza, quella « peste » gli sembrava ancora più detestabile. Fu tentato di « punire » i Giudei di Roma già a principio del suo governo, nel 41; ma si limitò, allora, a proibire « che si raccogliessero insieme » - una proibizione di cui non riusciamo a cogliere il pieno significato 41 Ad ogni modo, una proibizione che era solo un palliativo. Gli editti non fermano le idee. A Roma c'era un gran numero di sinagoghe, più che una decina; i Giudei avevano proseliti anche tra le famiglie più illustri (una Fulvia, all'epoca di Tiberio, era stata di questi proseliti, ed aveva dato a Tiberio il pretesto per la cacciata dei Giudei da Roma). Inoltre, questi Giua indicare Sadducei, Farisei, Cristiani). I nomi dei Cristiani di Roma nella citata Rom. 16 sono spesso cognomi (in 16, 15 anche un nome: lulia) romani: è un indizio che alcuni di essi avessero civitas romana. 41 Dio, LX, 6, 6: poLca»at. Non escluderei che qui lo storico Cassio Dione abbia reso alquanto inesattamente il concetto che Claudio aveva espresso a proposito dei Giudei alessandrini: che non accogliessero nella comunità i nuovi missionari dalla Siria tczL renderebbe inesattao dall'Egitto; in questo caso .tì &po &7CO&XL ecc. della lettera agli Alessandrini. Ma allo mente stato delle nostre conoscenze, è preferibile dare al testo di Cassio Dione il suo senso più naturale: che ogni sinagoga romana si riunisse per suo conto, e non si radunassero insieme i Giudei di tutte le sinagoghe romane.
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dei di Roma non escludevano dalla loro comunità elementi giudaici che fossero in contrasto con il sinedrio di Gerusalemme (per esempio, la suddetta Fulvia era legata ad un giudeo fuggito dalla Palestina); e dobbiamo anche pensare che avessero una grande tolleranza per le idee nuove, come queste che ora si agitavano dalla anpeatq dei Nazorei. Era questa, comunque, una octpratg allo stesso titolo, per esempio, di quella dei Farisei o di quella dei Sadducei; e in molte sinagoghe doveva avere seguaci. Verso il 49 Claudio fece il passo decisivo. Fece contro i Giudei di Roma quel che aveva minacciato di fare contro i Giudei di Alessandria: li « punì ». Li cacciò via da Roma. Sotto quale accusa? Le solite tenebre circondano questo primo provvedimento anticristiano dell'impero; lo storico Suetonio ci dice solo che « Claudio espulse da Roma i Giudei, i quali spesso tumultuavano sotto la spinta di Chrestus (impulsore Chresto tumultuantes) ». Non c'è dubbio che Suetonio dipenda qui da ottima ed antichissima fonte: una fonte la quale non ha capito (e proprio per questo si rivela antichissima, precedente comunque alla persecuzione neroniana, che rese ben nota la personalità di Gesù Cristo) che si trattava di seguaci di Cristo, non già di ribelli spinti da un Chrestus. I Giudeocristiani di Roma avranno detto di sé (più o meno, come una delle già ricordate fazioni dei Cristiani in Corinto): « io sono di Cristo ». La fonte di Suetonio (e così pure moltissimi pagani di questo periodo) avrà creduto che Cristo, anzi Chrestus, fosse un qualunque impulsor di tumulti giudaici in Roma. La cacciata dei Giudei dalla Roma di Claudio è un provvedimento antigiudaico od anticristiano? Lo storico 42 CI. 25, 4. Suetonio intende che i Giudei tumultuano, non già (come ritengono per lo più i moderni) che sono agitati da discordie fra loro: per l'espressione cfr. tumultuantes detto della Britannia, in Cl. 17, 1.
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• fariseo Flavio Giuseppe, il quale per esempio ci racconta la cacciata dei Giudei da Roma sotto Tiberio, non fa alcuna menzione del provvedimento di Claudio, ed anzi considera questo imperatore come un aperto e coerente protettore del giudaismo. D'altra parte, le Praxeis degli Apostoli, che riflettono il punto di vista dei primi Cristiani, considerano il provvedimento di Claudio come un fatto esclusivamente antigiudaico, senza accennare neanche lontanamente alla ragione di esso, che si riduce esclusivamente alla propaganda cristiana in seno al giudaismo. In altri termini il giudeo Flavio Giuseppe non ha considerato il provvedimento di Claudio come un provvedimento antigiudaico; le cristiane Praxeis non lo hanno considerato un provvedimento anticristiano. Tutto ciò si capisce benissimo. Gli è che Claudio ha sempre considerato - com'è chiaro dalla già citata lettera agli Alessandrini - i Giudei come solidalmente responsabili dei tumultus e della v6aoc prodotti dalla nuova cxtpFaL g giudaica dei Cristiani; egli puniva i Giudei per punire i Cristiani. Si può addirittura dire: puniva i Giudei, in quanto cumulava su essi la responsabilità della propaganda missionaria cristiana. Appunto per questo, noi moderni possiamo e dobbiamo considerare il provvedimento di Claudio come il primo atto nello scontro fra l'impero e il cristianesimo. Dopo Claudio, quando ormai il giudaismo avrà ripetutamente fatto intendere che la o'•Zpcat cristiana è cosa ben diversa dalle vere e proprie giudaiche (Farisei, Sadducei, Esseni, Nuova AlleanzaZeloti), le persecuzioni contro i Cristiani saranno esclusivamente persecuzioni contro i Cristiani: a cominciare da quella di Nerone.
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Fa eccezione, in un certo senso, la persecuzione di Domiziano, nella quale, per ragioni che vedremo a suo luogo, i 'Ioo&xtx& f&r accomuneranno, in un certo senso, proseliti giudaici e cristiani.
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• La distinzione fra la oc.'pr.q giudaica dei Cristiani e le altre quattro opa (o p.Xoaopoc, come anche le chiamava Flavio Giuseppe) del giudaismo, era in realtà inevitabile. Paolo predicava nelle sinagoghe, ma non riusciva a convertire la grande massa dei suoi correligionari: a Corinto, come vedemmo, egli poté convertire un archi sinigogo, ma un altro archisinagogo lo accusò al proconsole. Questa dottrina della conversione senza circoncisione incontrava sempre quegli ostacoli che Chananja aveva incontrato alla corte del re di Adiabene. Così, la atpaatg dei Cristiani tendeva ad uscire dalla grande religio (paxc(cx) giudaica in cui rientravano le altre quat tro Oupeaug . La vita dell'apostolo Paolo fu segnata da questa vicenda, e deve ad essa quella che in termine tragico si chiamerebbe la sua « peripezia ». Nel 58, al termine di un suo terzo e importantissimo viaggio missionario (53-58), Paolo si recò a Gerusalemme, per purificarsi, con quattro nazorei. Egli venerava questo tempio supremo del Dio, questo tempio che solo l'Antikeimenos avrebbe potuto violare ', ed in cui si illuminava l'eroica volontà del Xocóg di Israele xv dell'Antikeimenos. Egli sapeva bene che questo tempio, al di là del peribolo, 4
Si ricordi quanto osservammo sopra, a proposito dell'Antikeimenos nella seconda lettera ai Tessalonicesi. - La datazione dell'arresto di Paolo alla pentecoste del 58 è, a mio giudizio, sicura (nonostante per es. LAMBERTZ, RE xxii, 1953, c. 225); tra l'altro, una datazione al 54 costringerebbe in troppo breve tempo la ricostituzione e rifioritura della comunità cristiana di Roma (con il ritorno di Aquila), che è presupposta in Rom. 16, 3 sgg.; Aquila, infatti, era passato da Corinto ad Efeso, prima di tornare a Roma. Del resto, nel 52 si fece un senatoconsulto atrox et irritunt (Tac., Ami. xii, 52) de mathematicis Italia peliendis; questi astrologi non potevano essere legati all'aruspicina, che Claudio esaltava sopra ogni altra cosa, sì invece alla scienza dei Chaldaei (cfr. Tac., ibid.) più o meno connessa con la religiosità orientale; in queste condizioni, è difficile che Claudio, mentre cacciava i Chaldaei, facesse ritornare a Roma uomini come Aquila. Molto probabilmente, Aquila e i suoi saranno tornati a Roma solo con Nerone.
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era precluso ai non circoncisi, sotto pena di morte; che anzi (come mostrammo a proposito della descrizione di esso in Filone) un giudeo non poteva rivelarne la struttura agli dEÀ?v. Ma era stato visto nella città con un cristiano non circonciso. Si diffuse la voce che aveva condotto un 'EXÀv nel santuario; fu malmenato; il tribuno della coorte stanziata a Gerusalemme lo arrestò (non poté fustigarlo, perché Paolo dichiarò la sua cittadinanza romana: supra, § 20). Invano Paolo dichiarò al sinedrio la sua professione di fede farisaica (egli pensava che l'appartenenza alla ottpFatg giudaica dei Cristiani non escludesse la sua appartenenza ideale allaotipeatq o pr.Xoaopx dei Farisei); la maggioranza dei Farisei lo considerava un apostata. Così, implicitamente, il cristianesimo di tendenza paolina veniva escluso dalle normali sette giudaiche della comunità cultuale di Gerusalemme. Nel 60 appellò all'imperatore, Nerone; si incontrò (e sembra sia stato benevolmente ascoltato) con Agrippa n e con la sorella di lui Berenice (la futura amante dell'imperatore Tito); nel 61 arrivò a Roma, per esser giudicato in appello. Noi non sappiamo quale sia stata la sentenza del giovanissimo (ventitreenne) Nerone nella causa di Paolo. Molto probabilmente, fu una sentenza favorevole all'accusato, o per lo meno non eccessivamente aspra. Vale la pena di insistere su quanto osservammo sopra: la comunità giudaica di Roma non era così intransigente come quella di Gerusalemme; all'epoca di Tiberio, essa aveva persino accolto un giudeo accusato in patria di 7rapóCpaatq v6tù.w; ed è anche probabile che nei riguardi di Paolo essa non fosse mal disposta. Soprattutto, non bisogna dimenticare che sotto Claudio i Giudei erano stati espulsi da Roma per l'accusa di tumultus impulsore Il
Praxeis 23, 6: &ycì pput6 cts.
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Chresto; ora che la comunità giudaica era ritornata a
Roma (forse per nuova concessione dello stesso Claudio? più probabilmente, per concessione di Nerone), potevano essersi riallacciati i rapporti antichi fra Giudei (e proseliti) e la oc'tpraLq giudaica dei Cristiani. Per l'evangelio dell'akroby stia, Roma era meglio disposta che Gerusalemme. Non è escluso che, con la sua abituale larghezza di concezioni, l'apostolo Paolo, liberato di prigionia, ab bia tentato allora di predicare il suo evangelio anche nell'estremo occidente, nella provincia di Spagna, ormai for nita di un'ottima rete stradale 46 ad opera di Tiberio, Caligola e Claudio; certo, nel 57-58, scrivendo alla comunità cristiana di Roma, egli aveva espresso la sua speranza che la comunità romana gli procurasse i mezzi per un viaggio in Spagna. Questa lettera che Paolo aveva scritto nel 57-58 alla comunità cristiana di Roma è il più insigne documento, che a noi sia pervenuto, per la storia dei rapporti fra cristianesimo e impero romano; forse (insieme con la seconda lettera ai Tessalonicesi, della quale già proponemmo un'interpretazione nel quadro della storia imperiale) il più insigne documento della storia imperiale stessa. E ben se n'intende la ragione. L'impero romano è sempre rimasto - una cosa evidente, ma che noi moderni troppo spesso si -dimentica - il signorile impero della città di Roma (ciò, in un certo senso, fino a tutto il basso impero, in cui ancora il popolino di Roma è « mantenuto » gratuitamente con prestazioni provinciali); in conseguenza, la comunità cristiana di Roma assumeva una fisionomia peculiare, in quanto comunità di residenti nella città patrona del mondo. Verso il 48, come vedemmo, questi giudeo46 SUTHERLAND, The Romans in Spain (1939), p. 170. - Sul problema della predicazione spagnola di Paolo, cfr. per es. BARNICOL, Spanienreise 'i. Romerbrief (1934); NOCK, Paulus (1940), p. 112; Ed. MEYER, Ursprung u. Anfange des Christentums iii (1923), p. 121.
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cristiani di Roma erano stati espulsi dall'imperatore Claudio: anzi più precisamente, Claudio aveva cacciato i Iudaei (comprendendo, in questo concetto, i proseliti), in quanto ritenuti responsabili della propaganda cristiana. Dobbiamo tener presente questa circostanza, se vogliamo intendere la lettera di Paolo alla ricostituita comunità romana. Era veramente minacciosa, per la struttura politico-sociale dell'impero, questa comunità di credenti? Il civis Romanus Paolo lo escludeva nettamente. Anche noi possiamo porci la stessa domanda. Il concetto della « restituzione a Cesare », formulato nel famoso logion di Gesù, non implica (se è nel vero l'esegesi che ne abbiamo dato supra, § 19) nessun riconoscimento dei diritti dell'impero sui popoli dominati; non è, insomma, un « ja zum Imperium » (Stauffer). Ma non è neanche un « no ». Esso è un concetto bivalente, che può anche svolgersi nel senso di un'assoluta lealtà all'impero. Il rispetto all'éKoua[ot romana è fondamentale - salva la distinzione tra pronoia e tyche - nel pensiero del giudeo Filone (supra, § 21); ed è anche fondamentale - salva la concezione del Katechon e dell'Antikeimenos - nel pensiero dell'apostolo cristiano Paolo. Scrivendo la Lettera ai Romani verso gli ultimi del 57 o i primi del 58, Paolo riassume in essa tutta la sua esperienza di missionario cristiano (il quale continua a considerarsi fariseo) e di civis Romanus, che ha vissuto l'epoca di Caligola e di Claudio e i primi anni di Nerone - quasi nell'oscuro presentimento dell'arresto. Dice ai Cristiani di Roma: « ogni psyché (anima) sia sot toposta alle exousiai (autorità) superiori; infatti,, non c'è autorità se non da Dio, e quelle che ci sono sono ordintò ®oi, Oct nate da Dio (o y&p a'rtv &.ouax y&vot div; trad. vulg. non è ooct. U7rO 0c05 est enim potestas nisi a Deo; quae autem sunt a Deo ordinatae sunt). Sicché chi si oppone all'autorità si oppone
all'ordinamento del Dio; e quelli che si oppongono sa-
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ranno puniti. Infatti, coloro che comandano non sono terrore per le buone opere, ma per le cattive. Vuoi non temere l'autorità? Fa' il bene, e avrai lode da essa: essa infatti ti è ministra di Dio all'opera buona. Ché se fai il male, allora sì abbine timore: non a caso l'autorità porta la spada, e nell'ira punisce chi fa il male. Perciò è necessario sottomettersi all'autorità: non solo per l'ira (òpyí)v) (con cui ti può punire), ma anche per la coscienza (auvs(8-jaM . Anche per questo infatti pagate i tributi: persino quando fanno questo (le autorità), sono al servizio di Dio. Rendete a tutti ciò che dovete: a chi dovete il tributo, date il tributo; a chi dovete le tasse (-ò -r&Xoc "tassa indiretta"), date le tasse; a chi il timoroso 'rispetto ( ,rò'v p63ov), date timoroso rispetto; a chi l'onore, date l'onore ». Scrivendo dunque alla comunità cristiana di Roma - l'unica comunità cristiana che era stata oggetto, sotto Claudio, di una persecuzione ufficiale da parte dell'imperatore - Paolo insiste sulla necessità che i Cristiani siano soggetti alle autorità romane; e formula il concetto, fondamentale nella storia dell'impero, che omnis potestas a Deo '.
Degli studiosi moderni, nessuno meglio di Martin Dibelius ha posto il grande problema del rapporto tra il cristianesimo paolino e lo stato romano (cioè, in fondo, il problema di questa Lettera ai Romani): « perché questi Cristiani, che pur hanno avuto esperienze come la prigionia di Paolo a Filippi (Praxeis 16, 28), non divengono antiromani? ». E Dibelius stesso ha risolto, sul piano dell'esegesi teologica, questo problema: nel pensiero paolino, il cristiano non può imporre a Dio una cessazione degli organi statali, giacché una tale cessazione può esser de47 Per la problematica « regno di Dio - regno della terra » nel NT., ora WENDLAND, « Festschr. Wilh. Stàhlin », 1953, p. 23; cfr. BIEDER, Ekklesia u. polis in N.T. (1941). - La più recente edizione della Lettera ai Romani è del GAUGLER.
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cisa solo ed esclusivamente da Dio stesso. Ma sul pian storico-giuridico si può aggiungere, a questa soluzione li Dibelius, un'altra più concreta: lo stato romano è, per 1 civis Romanus Paolo, la via di conservazione delle forme giuridiche, nelle quali consistono le buone opere (-ò &yoc6v: di fatti, le autorità romane « non sono terrore per le buone opere, ma per le cattive »); e Paolo sente il bisogno di rilevare questo punto in una lettera a quella comunità romana, che, come già abbiamo sottolineato, era entrata in conflitto con le autorità romane sotto Claudio. Egli voleva evitare che la predicazione cristiana desse luogo a quei tumulti (Iudaeos impulsore Chresto tumultuantes) che avevano indotto Claudio ad espellere da
Roma la nascente comunità giudeocristiana, e con essa (anzi, per essa) i Giudei. Per altro, Paolo sapeva benissimo che i conflitti tra comunità cristiane ed autorità romane erano, in taluni casi, inevitabili. Quando Claudio cacciò da Roma la nascente comunità cristiana, il più notevole (o per lo meno, uno dei più notevoli) fra gli espulsi fu quel giudeo del Ponto, Aquila, cui già aècennammo. Egli si rifugiò a Corinto; e nella comunità cristiana di Corinto (la quale era divisa tra vani partiti: « quelli di Cristo »; « quelli di Cefa » - cioè Pietro -, « quelli di Paolo », ed infine « quelli di Apollòs » - quest'ultimo un giudeo alessan drino, convertito al cristianesimo dagli stessi Paolo ed Aquila), Aquila fu sempre l'esponente della tendenza paolina. All'epoca in cui Paolo redigeva la sua Lettera ai Romani, Aquila era tornato a Roma; e Paolo sapeva bene che tra i destinatarii delle sua lettera c'era legato a lui da vincoli particolari - anche il suo Aquila, vittima del primo scontro ufficiale tra cristianesimo e imperatore, e molti altri come Aquila. C'è di più: lo stesso Paolo, scrivendo alla comunità cristiana di Corinto, aveva sottolineato, in una lettera scritta verso la Pasqua del 57 (dun-
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que, poco prima della Lettera ai Romani), la necessità che i Cristiani di Corinto non ricorressero, nelle loro liti, alle autorità romane; ed in un'altra, scritta forse verso la fine del 57 (dunque, subito prima della Lettera ai Romani), aveva ricordato, a mo' di apologia, la sua lunga e tormentata vita di apostolo e, tra l'altro, le tre fustigazioni ( ,rp'Lg èpoc38íiv) che egli aveva subìto dall'autorità romana (con allusione al suo arresto in Filippi, durante il secondo viaggio missionario; ed eventualmente, ad altri arresti a noi ignoti). Egli stesso, dunque, sapeva benissimo, per esperienza personale, che le autorità dello stato possono essere terrore per le buone opere del cristiano, non solo per le cattive. Ma nella Lettera ai Romani, formulando l'opposto concetto che « le autorità sono terrore solo per le cattive opere », voleva esprimere la sua suprema ed ottimistica speranza che una conciliazione fra il cristianesimo e le exousiai (« autorità ») romane fosse in realtà possibile. In ultima analisi, egli si incontrava, in alcuni suoi concetti, con un formulano ufficiale dello stato: Paolo parlava dell'« ira » ( òpyíì ) dell'autorità, come Claudio aveva minacciato la sua 6py - nella lettera agli Alessandrini, ed anzi aveva impostato tutto un suo editto sulla distinzione fra ira e iracundia; Paolo parlava di ubbidienza all'autorità « per coscienza (auvF.'L8-IaLv) non solo per l'ira », così .come Claudio, per esempio, aveva ammonito i senatori indesiderabili ad allontanarsi « non per severa costrizione (ex severitate), ma per spontanea considerazione di se medesimi (quisque de se consultaret) »
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48 Qui Tacito (Ann. xi, 25) riferisce certamente autentici concetti claudliani. Quanto all'editto di Claudio su ira e iracundia, esso fu determinato dalla uccisione (ispirata dal liberto Narcisso) di Silano: Suet., Ci. 38, 1. Se si fossero tenuti presenti, nelle discussioni sulla Lettera ai Romani, questi riflessi attuali dei concetti di òpy ,í e di auvrL, si sarebbe evitato l'errore di intendere
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Le speranze di Paolo andarono deluse. Come già dicemmo, è molto probabile che Nerone lo abbia assolto nel 61, e che l'apostolo abbia addirittura compiuto quel viaggio missionario in Ispagna, che nel 57/58 aveva già concepito, con l'aiuto finanziario della comunità cristiana di Roma; ma di lì a poco, nel 64, tornarono per questa comunità i giorni tristi. Nerone non ripeté il provvedimento di Claudio: ormai era impossibile coinvolgere tutti i Giudei di Roma nella persecuzione alla loro ocZpEo cristiana. Ormai era anche chiaro che i Giudei sconfessavano definitivamente, e aspramente contrastavano, questa nuova atpsatg giudaica: il processo di Paolo ne era la prova più clamorosa e più recente. Nel 64 scoppiò a Roma un incendio, cosa non infrequentissima nella storia della città; Nerone riversò la colpa sulla comunità cristiana della città; i componenti di essa furono sottoposti ad atroci supplizii. La tradizione cristiana, della quale non v'è ragione di dubitare (essa rimonta alla I Lettera di Clemente, scritta, come sembra, negli ultimi tempi di Domiziano; dunque, a un trentennio di distanza dalla persecuzione) pone tra i martiri gli apostoli Pietro e Paolo. Già con Claudio e Nerone comincia, dunque, il conflitto tra cristianesimo e impero romano: con due persecuzioni, di cui la prima (che coinvolgeva i Giudei di Roma) fu incruenta, mentre fu atroce la seconda. Nell'un caso e nell'altro, si tratta di persecuzione contro la comunità cristiana di Roma. Nell'un caso e nell'altro, nonostante l'oscurità della tradizione, possiamo formulare l'ipotesi che gli imperatori si sentissero minacciati dall'attesa
exousiai in senso evangelico: proprio il confronto, che qui propongo, con Suet., Ci. 38 2 1, mi sembra decisivo contro BARTH. 49 I Clem. 5, 4-7 allude certamente alla stessa persecuzione cui si allude subito dopo (6, 1-3); dunque (per il confronto con Tac., Ann. xv, 44: cfr. specialmente novissima exempla) alla persecuzione del 64.
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cristiana del Regno di Dio, attesa che diventava spasmodica e insofferente in certi casi (come quello della comunità di Tessalonica, a cui si rivolgeva, preoccupato, l'apostolo Paolo nella ii lettera ai Tessalonicesi, come già vedemmo); Nerone, per esempio, avrà connesso l'attesa cristiana del Regno con quella funzione di « Anticristo », che alcuni astrologi (supra, § 22) consideravano destinata a lui, quando avesse perduto il trono Claudio e Nerone non volevano cattivi profeti. Ma soprattutto: essi intuivano - più chiaramente, l'intellettuale Claudio, più confusamente il torbido Nerone - che 'i predicazione cristiana distruggeva la sostanza della città antica, cioè della città pagana. Essi non erano che i protagonisti di un dramma grande, infinitamente più grande di loro. Una silenziosa rivoluzione sociale, che or ora studieremo, rientrava anche nel grande dramma della loro epoca.
° La cacciata dei mathematici ad opera di Claudio nel 52 (cfr. quanto già osservato a proposito della cronologia paolina) era dovuta al timore di perdere effettivamente il trono o la vita: connessa, appunto, con la condanna di Sulla quasi finem principis per Chaldaeos scrutaretur. A Nerone, certo, le profezie astrologiche sul suo regnum Hierosolymorum non erano gradite. In questo periodo > Chaldaei ed attesa escatologica dovevano essere abbastanza vicini.
Capitolo tergo
LA RIVOLUZIONE BORGHESE E LA RIDUZIONE DEL «DENARIUS» 24.
Caratteristiche sociali dell'epoca di Paolo.
L'epoca dell'apostolo Paolo (cioè, in sostanza, l'epoca dei due imperatori Claudii: Claudio e Domizio Nerone, da lui adottato) è, senza dubbio, l'epoca « più difficile » della storia mondiale. La personalità che la domina - cioè, appunto, la personalità di Paolo - non è neanche ricordata dagli storici contemporanei; solo noi, che vediamo le cose di lontano, possiamo intenderne la posizione preminente. Di altre personalità notevolissime, alle quali accennammo nel precedente capitolo, sappiamo molto poco: tale, per esempio, quell'Apollòs, che nella comunità cristiana della colonia di Corinto era posto sullo stesso piano di Paolo, e che ci aiutò ad intendere la Lettera agli Alessandrini dell'imperatore Claudio. Quanto agli imperatori giulio-claudii, la tradizione ci presenta un Tiberio ipocrita, un Caligola pazzo, un Claudio imbecille, un Nerone istrionico e sanguinano. È una tradizione che nasce con un difetto d'origine: è impossibile giudicare « obiettivamente » uomini che hanno dovuto affrontare il problema di donar pace ad un mondo stanco, dominato da un'attesa soteniologica e agitato dalla pressione di nuove forze sociali. Non si può contentar tutti: ed è naturale che gli imperatori giulio-claudii scontentassero tutti (tranne - per ciò che riguarda Caligola e Nerone - la plebe romana).
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Flavio Giuseppe, che ha vissuto intensamente lo scorcio dell'epoca claudia (era nato nel 37), ha sentito assai bene la difficoltà di quest'epoca: « molti hanno scritto la storia di Nerone; alcuni mentendo per benevolenza (&pt); altri per odio (tZaoc) contro di lui, riprovevoli anch'essi; e non mi meraviglia che abbiano mentito, giacché mentirono anche a proposito dei suoi predecessori, sebbene scrivessero molto tempo dopo di essi » Solo se noi consideriamo la sostanza sociale di questo mondo dei Claudii, possiamo intendere l'epoca di Paolo; la X aptg e il i.Zao, di cui parlava Flavio Giuseppe, si fermano dinanzi alla definizione delle componenti sociali. Caligola, già lo vedemmo, aveva voluto essere dio vivente, tornando in un certo senso ad Augusto, ma senza la misura e il genio di Augusto 2; Claudio non era dio vivente, ma tuttavia consentiva che uomini a lui molto vicini, come il medico Scribonio Largo, in opere di carattere ufficiale (o semiuf ficiale 3), lo chiamassero costantemente deus noster Caesar, e indulgeva in qualche caso (soprattutto a Camulodunum, sua colonia nella Britannia, da lui conquistata) all'erezione di un suo tempio; Nerone (nonostante il suo iniziale lealismo senatorio, anzi proprio per deliberazione senatoria) aveva acconsentito, già ai primi tempi del suo impero, che si ponesse una sua statua, grande come quella del dio, nel tempio di Mars Ultor. C'era qui, come pure vedemmo, il grosso problema ideologico del culto imperiale; era possibile spezzettare la grande attesa soteriologica in infiniti saecula, in tutti i saecula dei vani imperatòri? Caligola Ant-. xx, 8, 3. S'intende che in tutta la nostra ricostruzione della storia imperiale, è centrale l'interpretazione dell'opera di Augusto: che è fondamentalmente diversa, come a più riprese mostrammo, dall'Augusto ciceroniano di Ed. MEYER e della comune opinione. Le Compositiones sono dirette al potentissimo liberto di Claudio, Giulio Callisto; altri scritti di Scribonio, a noi non pervenuti, erano stati presentati da Callisto all'imperatore (tradendo scri pia mea Latina medicinalia deo nostro Caesari). 2
Cap. III.
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era stato ucciso; Claudio, come si diceva (e molto probabilmente a ragione), era stato avvelenato; questi saecula che finivano così male indebolivano un'attesa soteriologica fondata sul culto imperiale. Quando Nerone saprà di aver perduto il trono, spezzerà nell'ira due calici artistici; Plinio il Vecchio, che ci ha tramandato l'episodio, commenta: « quasi che punisse il suo saeculum » (N. H. xxxvii, 2, 29). Quanto più deludevano questi saecula imperiali, tanto più si sentiva il bisogno di un rinnovamento spirituale o sociale. Chi erano gli uomini a cui parlava questo bisogno? Alcuni erano Giudei (coi proseliti) o Cristiani; come già vedemmo, non tutti estratti dagli strati poverissimi; a Corinto, era cristiano il tesoriere della colonia; i Cristiani della paolina Lettera ai Romani pagavano tasse dirette e indirette. Altri, per ora l'enorme maggioranza nel grande impero, non si sentivano di saltare il fosso, di abbandonare la tradizione della città antica; agli ludaica sacra non pensavano neppure, od al cristianesimo; ma ugualmente si muovevano per una nuova società. Nella pace dei saecula imperiali vedevano la via per spezzare i limiti sociologici di questo stato romano, che era, per certi aspetti, lo stato del privilegio - dei due drdini (senatorio ed equestre) rispetto all'ordine plebeio, dei cives Romani rispetto ai peregrini, dei padroni rispetto ai liberti e agli schiavi. La pressione di una borghesia nuova e di un proletariato attivissimo segnava di sé l'epoca giulio-claudia; più particolarmente e decisamente l'epoca dei due Claudii, che la conclusero. Appunto Plinio il Vecchio, di cui abbiamo citato l'aspra condanna del saeculum neroniano, ci ha tramandato un vivo documento di questa pressione irresistibile. In un passo che (a prescindere dalla topica esaltazione dell'economia naturale) può definirsi un interessante squarcio di
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storia sociale scritta da autore antico , questo cavaliere dell'Italia settentrionale, freddo e saggio, ci ha descritto (na turalmente con disdegno) le ambizioni e la luxuria dei nuovi ricchi dell'epoca claudia. La sua carriera equestre, interrotta sotto Nerone, era splendida: prefetto d'ala sotto Claudio; procuratore e prefetto della flotta sotto i Flavii . Come esponente dell'altissima borghesia equestre, egli Si intendeva di fatti economici. Nella travagliata epoca giulioclaudia, gli sembrava dominante l'ambizione di tutti, di portar anuli aurei, che in verità sono distintivi dei cavalieri: sotto Tiberio si era stabilito che solo i nati liberi e di libero avo, con censo equestre e facoltà di sedere nei 14 ordines al teatro (vale a dire, solo i veri e propri cavalieri), potessero portare anuli aurei; con Caligola, anche i liberti avevano avuto quegli ornamenta, « ciò che prima non era avvenuto mai »; all'epoca di Claudio (che era stato anche censore), ben 400 persone furono accusate per questo abuso. Nonostante i provvedimenti di Tiberio, i liberti erano dunque decisi a « sfondare », anche contro legge; e al solito, il principato di Caligola aveva aperto ad essi la strada; « l'ordine equestre », commentava Plinio, « Si voleva distinguere dal resto dei liberi, e doveva subire l'inN. H. XXXIII, 1, 8-36. - Una proposizione oggi molto diffusa a, secondo cui nell'antichità « si ebbero incunaboli di storia è quell della filosofia e della letteratura; ma non è dato alcun risalto ad una storiografia economica, quantunque riferimenti di storia economica si trovino in vani libri » (CROCE, « Quaderni della critica », 1950, nov., p. 116). In un certo senso (e ciò sia detto con ogni rispetto per Croce, a cui tutti dobbiamo molto), proprio l'opposto è vero. Basta pensare, per es. all'archeologia di Tucidide, tutta fondata su achrematia e chremton ktésis; concetti che lì sono fondamentali, non già semplici riferimenti. Tacito (come mostrammo a proposito di Tiberio), Plinio il Vecchio (come cerchiamo di mostrare qui) hanno interpretato con acutezza i fatti sociali dell'epoca giulio-claudia; Cassio Dione ridurrà la costituzione di Caracalla a un fatto economico. Viceversa, una storia organica della letteratura e della filosofia come continuità è stata solo possibile dopo il cristianesimo, nell'epoca moderna, che ha scoperto l'interior bomo. Sulla sua personalità cfr. in/ra, a proposito di Tito.
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trusione dei liberti! ». Oppure: quelli che non appartengono all'ordine equestre non si fanno scrupolo di firmare con l'anulus, dalla parte ove è l'oro: « una trovata dell'epoca di Claudio »; « ed anche i servi portano anuli coperti, all'esterno, di oro » (la stessa nota troviamo nel Satyricon di Petronio). C'è di più: quando traccia una breve storia dei « grandi ricchi » (xxxiii, 10, 134), Plinio deve ricordare soprattutto i tre liberti di Claudio, effettivi padroni dell'impero all'epoca di Claudio: sono Callisto, Pallante, Narcisso; e Plinio deve anche notare. la favolosa lanx argentea di un servus di Claudio (N. H. xxxiii, 11, 145). Certo, quei tre liberti di Claudio, Callisto Pallante Narcisso, sono stati gli autentici dispensatori di grazie imperiali, anche per i cittadini eminenti: essi davano il ius admissionis liberae a coloro che dovean conferire con l'imperatore; e chi avesse un tale ius poteva portare l'imago principis ex auro in anulo (N. H. xxxiii, 3, 41). La storia degli anelli d'oro: il più interessante capitolo di storia del costume dell'epoca imperiale, particolarmente dell'epoca giulio-claudia. Plinio, il procuratore Plinio, protesta: quanto all'ultimo punto - il ius admissionis liberae - egli aggiunge che l'avvento di Vespasiano (nel 69) ha finalmente eliminato questo sconcio. Ma egli, nonostante il suo sdegno, ci ha offerto, in queste sue pagine, unii « chiave » eccellente per intendere (e, se volete, giustificare) molte delle stranezze della irrequieta epoca dei Claudii. Claudio eredita da Caligola, ed affina e organizza, il predominio dei liberti imperiali nella corte. Ma dietro quei tre potentissimi liberti c'è la grande massa di tutti i liberti, imperiali o non, in tutto l'impero. Sono una borghesia affaristica e prepotente Affrontano talora i rischi della legge, pur di portare l'anulus aureus, gabellandosi per cavalieri. La pressione di questa borghesia significa soprattutto una cosa: l'intensificazione dell'economia monetaria. In termini di moderna teoria eco-
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nomica, possiamo dire che il numero indice della quantità di beni economici in epoca claudia è direttamente propor, zionale alla trasformazione dell'organismo imperiale in senso burocratico e d'altra parte all'attivazione degli scambi di ogni genere di beni. Vale a dire (anche se ciò potrà sembrare, a noi moderni, alquanto strano): burocrazia (questa burocrazia dei liberti imperiali) significa economia monetaria, intensità di circolazione dei mezzi legali di pagamento. L'economia naturale delle grosse domus senatorie è colpita a morte. Intensità di circolazione richiede abbondanza di metallo. Claudio, seguace di Caligola anche in questo caso, ordina la ricerca di nuove miniere, intensifica lo sfruttamento delle vecchie (pure su questo punto, Plinio ci dà particolari preziosi). Curzio Rufo, un uomo nuovo, « nato da se stesso », cerca vene argentifere, nel 46, nella zona di Wiesbaden; è uomo grato alla corte, è legato di Germania Superiore; egli ha ricambiato Claudio, dedicandogli, nelle sue Historiae Alexandri Magni (di quell'Alessandro, che Caligola ammirava), alcune righe tra le più note della letteratura panegiristica antica 6 Claudio, intellettuale, non lega bene con gli intellettuali; per esempio, non va d'accordo con Seneca, che esilia ma poi richiama; in compenso, capisce perfettamente gli intellettuali senza grandi tradizioni, come Curzio Rufo e il medico Scribonio Largo. L'ideale di questi cortigiani di Claudio è, come direbbe Scribonio Largo, conciliazione della humanitas con l'etica antica del miles et civis bonus, nel rispetto della sublimis Romanorum maiestas 7; mentre a Lunae Portus s'imbarca 6 L'imperatore delle Historiae Alexandri (x, 9, 3-6) non può essere che Claudio: i rapporti letterarii tra H. Al. e Seneca sono troppo evidenti; e nel i secolo solo di Claudio poteva dirsi che egli aveva spento (subito dopo l'uccisione di Caligola) fiaccole e riposto spade (di un Vespasiano si sarebbe detto di più; di Tiberio o Caligola, nulla o diversamente) al momento della successione; cfr. in/ra, x. L'interesse alla scoperta di miniere si adatta bene al narratore delle Historiae Alexandri. Scrib., p. 2, 22 H; ap. Marc., De medic., p. 20 H.
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con l'imperatore per l'impresa britannica, Scribonio ha modo di osservare scientificamente quel paese di Toscana. Una borghesia, insomma, ricca di iniziative-economiche o di curiosità enciclopedica, o di entrambe. Claudio aggiunge all'impero Britannia, Mauretania, Tracia; fonda Colonia; sono nuovi sbocchi per la nuova borghesia. La quale non è solo composta di cittadini romani ingenui o liberti; sì anche di peregrini. Ma non è difficilissimo, ai peregrini, ottenere la cittadinanza romana: i ricchi la possono comprare, s'intende a caro prezzo 8 (uno di questi compratori di cittadinanza, che ha fatto una buona carriera militare, è il tribuno che arrestò a Gerusalemme l'apostolo Paolo); pei soldati ausiliarii o classiarii congedati, Claudio (sulla base di quei principii augustei che illustrammo trattando l'iscrizione di Rhosos) istituisce i « diplomi militari » (in/ra, xxvi); cittadinanza acquistata con denaro o con servizio negli auxilia o nella flotta è sempre cittadinanza data a uomini che sanno il latino e hanno svolto un'attività, economica o militare, nell'ambito dell'impero. Invadenza dei liberti, cittadinanza a peregrini ricchi o vete rani: ma di lì a due o tre generazioni, chi avrebbe più ricordato l'origine libertina o peregrina dei nuovi cittadini? Anche il senato va rinnovato con forze nuove: vi entreranno senatori gallici. E molti privilegii del senato accennano ad andarsene: i cavalieri che sono giunti alle procu ratele ottengono da Claudio parem vim rerum a procuratoribus suis iudicatarum ac si ipse statuisset. S'intende che molti protestano: i cittadini romani contro le concessioni di cittadinanza, i senatori e cavalieri contro l'invadenza dei liberti, i senatori contro questa equiparazione delle res iudicatae dai procuratori . Ma noi dobbiamo ri xccxXocou: Praxeis 22, 28. Tipica la nota protesta del senatore Tacito (Ann. xii, 60) da confrontare con le già ricordate proteste del cavaliere Plinio contro i liberti. 8
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conoscere che proprio le nuove esigenze sociali hanno giustamente ispirato l'opera di Claudio - di questo nevra stenico intellettuale, disprezzato da Augusto e sfortunato con le donne, ma comunque tutt'altro che indegno del trono imperiale. Due mogli dominarono Claudio durante il suo impero: Messalina, tutta amorazzi e dentifricii, poi - uccisa Mes salma - l'ambiziosa nipote Agrippina, sorella di Caligola. Messalina gli aveva dato un figlio, Britannico, Agrippina aveva già avuto un figlio da un precedente matrimonio con Domizio Enobarbo. Questo figlio di Agrippina nel 50 fu adottato da Claudio; nel 53, a quindici anni, sposò la figlia di Claudio, Ottavia; ebbe come maestro il filosofo Seneca, che Claudio aveva esiliato per suggestione di Messalma e richiamato a Roma nel 49 per le insistenze di Agrippina. Quando, il 13 ottobre 54, Claudio morì, il giovanissimo figlio di Agrippina fu acclamato imperatore dal1 coorti pretorie, il cui prefetto era Burro. Il nuovo imper tore, Nerone, era un ragazzo: aveva sedici anni e diecia mesi. È l'età in cui si crede ciecamente ai maestri, specialmente se questi maestri si chiamano Seneca. Seneca già pretore nel 49; nel 56 fu console - divenne l'effettivo signore dello stato, insieme con Burro. Il predominio dei liberti, con la tendenza accentratrice di Claudio, parve finito; Seneca sognava, in realtà, una specie di diarchia tra gli organi imperiali e il senato; teneret antiqua munia senatus fu l'essenza del discorso programmatico di Nerone. Claudio fu dichiarato divus; l'apoteosi dell'imperatore morto appariva ufficialmente necessaria, giacché non c'era stata apoteosi né per Tiberio né per Caligola; ma in compenso, Seneca scrisse una caricatura del dio Claudio lO Agrippina perdette presto il suo influsso a corte; ai primi '° Del resto, l'apoteosi di Claudio fu di fatto svalutata: cfr. per es. l'iscrizione di Veranio pubblicata ora da GORDON, Quintus Veranius (1952), con le osservazioni dell'autore a p. 246.
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del 55 Britannico fu avvelenato; Nerone si fece un'amante grata a Seneca (la liberta Acte), dimenticando Ottavia. Seneca ei senecani volevano seppellire il mondo di Claudio (Britannico è considerato da Tacito supremus Claudiorum sanguis, « l'ultimo della famiglia dei Claudii»). Ma in realtà Seneca aveva idee politiche confuse. Egli (o già suo padre, che poi è lo stesso) vedeva nella fine della repubblica un segno della « vecchiaia » di Roma; sognava libertas senatoria e pieno ritorno alla costituzionalità; anche per questo detestava Claudio, il monarca della burocrazia libertina Ma finiva col cadere, senza accorgersene, nell'utopia talora, talora nella violenza. Il risultato più interessante della nuova ideologia senecana di summa libertas fu un piano utopistico, proposto dal ventenne Nerone al senato nel 58: abolire le tasse indirette; un piano che, se realizzato, avrebbe sconvolto tutta l'economia dello stato ed esasperato buona parte dell'ordine equestre. I senatori, che in via teorica avrebbero potuto approvare un tale piano (una bella rivincita sui cavalieri, tanto accarezzati da Claudio!), ebbero il buon senso di respingere questo piano utopistico, riducendolo in termini ragionevoli. Non diremmo senz'altro che esso derivasse da un suggerimento di Seneca; ma certamente era una conseguenza del suo insegnamento; Nerone, come tutti i ventenni che sanno di avere un grande maestro, era un conseguenziario - era più senecano di Seneca. Questa sua bella utopia, se si fosse realizzata, avrebbe prodotto nell'ordine equestre una scissione tra i publicani-appaltatori dei vectigalia e i procuratori-funzionarii; ma l'ordine equestre re11 t inesatto dire che Seneca sognasse un ritorno ad Augusto: egli voleva che il principato neroniano fosse di gran lunga più costituzionale che l'augusteo. Non è punto retorica la sua esaltazione della innocentia neroniana, sin allora non concessa a nessun imperatore, dunque neanche ad Augusto (nulli principum concessam: De clem. 1, 5); e riconoscendo che l'imperatore è deorum vice (1, 2), voleva che la libertas rei publicae fosse la massima possibile (1, 8), summa libertas.
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sto solidale nella sua caratteristica di ordine accentrato sull'economia monetaria 12 Non era possibile spezzare i presupposti economici dello stato: ancor qualche mese prima, l'apostolo Paolo - un giudeo-romano, che in questo caso capiva i problemi dell'impero meglio dell'imperatore Nerone o del senatore Seneca - -aveva insistito coi suoi fedeli di Roma (come già vedemmo) sulla necessità che si corrispondessero allo stato così le tasse dirette come le indirette. Ad un certo momento, Nerone cominciò a sentire il vuoto intorno a sé. Ai primi del 55 aveva ucciso Britannico. Nel marzo 59 fece uccidere la madre. Il terribile delitto fu giustificato (e forse era stato consigliato) da Seneca: questi dichiarò che Agrippina era responsabile, tra l'altro, della politica di Claudio. Ma le giustificazioni e le ideologie di Seneca cominciavano a stancare Nerone. Il matricida cercò nuove vie di assenso, cercò il plauso della plebe romana: introdusse a Roma agoni di tipo greco (i « Neroneia »). Cominciava la carriera di Nerone auriga e citaredo. Passò qualche anno; agli ultimi del 62 Seneca si ritirò definitivamente dalla vita politica, confes12 J vectigalia (pecuniae vectigales) erano sempre affidati alle societates equitum Romanorum (Tac., Ann. i v, 6): di qui la nostra interpretazione dell'utopia del 58 come ami-equestre (nonostante
l'amicizia di Seneca per es. con Lucilio). Antisenatoria (nonostante le considerazioni, per altro molto importanti, di LEVI, Nerone, p. 143) essa non può essere: infatti i senatori, anziché temere un aumento delle imposte dirette (come pensa LEVI, P. 143), temono piuttosto che anche queste scompaiano (tributorum abolitio: Ann. xiii, 50). Del resto, nello stesso torno di tempo il prevalere delle ideologie economiche senatorie, sempre fondate sulla riduzione delle largità monetarie, è evidente dal fatto che si trovassero senatori disposti ad appoggiare la ridicola (anche secondo Tacito: Ann. XIII, 49) opposizione di Trasea Peto allo edere Syracusanos spectacula largius; il punto di vista di questi senatori, che naturalmente non ebbero successo, è l'eterna ideologia anti-largitaria del senato, come poi la troveremo, sullo stesso argomento, all'epoca di Marco (cfr. in/ra, Bibliogr. e probl. a proposito di Marco). Degli studiosi moderni, si può anche ricordare HOHL, RE Suppi. III, c. 366; SUTHERLAND, Coinage in Roman Imp. Policy (1951). p. 157.
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sando apertamente il suo fallimento; il ricchissimo filosofo diceva di preferire, ormai, l'otium. Quest'epoca di tempesta gli appariva incurabile; dalle cure della res pubuca si rifugiava nella sua cosmopoli stoica; come il poeta Persio, come il poeta (e suo nipote) Lucano ". Anche nel 62 morì Burro: la prefettura al pretorio fu coperta collegialmente, da Fenio Rufo (di tendenza conservatrice, non troppo lontana da quella di Burro) e dal siciliano Tigellino, un ricchissimo privo di scrupoli. Inoltre, nel 62 Nerone ripudiava Ottavia, e la faceva uccidere; sposava Poppea, moglie del senatore Otone. Nel 64, la crudelissima persecuzione dei Cristiani, che già vedemmo. Nel 65 un grande bagno di sangue, in occasione della congiura « pisoniana S>; vi perirono senatori e cavalieri; tra gli altri Lucano e Fenio Rufo, e poi Seneca. L'ucciso Fenio Rufo fu sostituito, alla prefettura al pretorio, con un ufficiale di origine libertina, Nimfidio Sabino. Nel 66 si uccise il senatore Petronio. Il fallimento della politica senecana, cioè della politica ultrasenatoria 14, ha un chiaro sfondo sociale. Nel 58, tutto preso dalle utopie senecane, Nerone aveva stabilito una pensione annua per alcune famiglie senatorie, che avevano dissipato le ricchezze degli avi. Il sostanziale parassitismo dell'economia senatoria, tutta fondata sullo sfruttamento dei latifondi per mezzo di schiavi, era un peso per lo stato. Nel 61 Nerone cercò persino di difendere 13 Per il rapporto fra stato e cosmopoli in Seneca, cfr. soprattutto DAHLMANN, « Das neue Bild der Antike » ii, 1942, p. 296. L'avversione agli storici di Alessandro ecc., nelle Naturales iyuaestiones (libro iii), sottintende una punta contro Curzio Rufo, naturalmente non nominato. Ma soprattutto significativa è l'avversione alle
guerre in Ep. 95, 30.
Esso va connesso col cambiamento iconografico: cfr. L'ORAN57; e per altro J. M. C. 160. Si noti che Seneca (cfr. nota precedente) non ama gli storici di Alessandro: una interessante illustrazione del cambiamento iconografico? 14
GE, Apotheosis in Anc. Portr. (1947), p. TOYNBEE, « Journ. Rom. St. », 1948, p.
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qualche rampollo di famiglia senatoria implicato in uno scandalo per falsificazione di testamenti. Il luxus della aristocrazia senatoria determinava un continuo « drenaggio » di metalli preziosi verso l'estero, ché proprio merci orientali dovevano soddisfare quel luxus (ciò è stato opportunamente sottolineato dallo storico Tacito: cfr. supra, § 5 16-18). La luxuria di Nerone non era che un grosso aspetto di questo luxus. Ad un certo punto, Nerone, che non aveva disgusto di se stesso (o lo affogava nella sua imperiale fisima di auriga e citaredo alla maniera elleni sta), ebbe disgusto di quella società aristocratica (o per lo meno si guastò con essa). L'aspetto più significativo della rottura è la fine (nel 62/63) della monetazione nero niana di aurei e denarii con la leggenda ex s(enatus) c( onsulto).
Questa monetazione è un evidente indizio che la interpretazione del principato neroniano come « ultrasenatono » per tutta l'epoca senecana (e cioè fino al 62) è nel vero: con quella che chiamammo « l'utopia del 58 » (abolizione dei portoria), e con le altre provvidenze di tendenza senatoria, va appaiata l'emissione ex s. c. per tutta l'epoca senecana. Tanto più significativa è la rottura sopravvenuta nel 63. I ventitre anni di Nerone si vendicavano delle utopie senecane sin allora più o meno ufficialmente avallate. Cosa si sostituì, nel 64, a quelle utopie? Una riforma monetaria, che ha avuto enoime importanza nella storia dell'impero. Nerone diminuì il piede dell'au reus da 1/40 libbra (d'oro) a 1/45, del denarius da 1/84 libbra (d'argento) a 1/96. Lo stato guadagnò moltissimo da questa riforma. Noi moderni siamo avvezzi, come per malintesa caparbietà di « moderni », a sottovalutare gli accorgimenti finanziarii degli stati antichi: ma in realtà, non v'ha dubbio (basta dare uno sguardo ai Poroi di Senofonte o al secondo libro dei pseudoaristotelici Economici) che gli antichi sapévan
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bene cosa significassero i fenomeni monetarii. Nel nostro caso, il già citato Plinio ci assicura che gli uomini dell'epoca neroniana sapevan bene cosa significasse la diminuzione di peso di una moneta: egli infatti ha valutato come un effettivo guadagno per lo stato le diminuzioni di peso effettuate dallo stato romano in epoca repubblicana, dichiarando che il pondus imminutum conduceva a un lucrum della res publica (res p. lucrata est) e ad una dissolutio dell'aes alienum 15 Lo stesso dobbiamo pensare di questa riforma neroniana. L'imperatore ha così realizzato un buon guadagno per lo stato: mentre prima egli dava 25 denarii d'argento di circa 3,70 grammi per un aureus di circa 7,70 grammi d'oro, ora egli poteva cambiare un aureus di circa 7,30 grammi con 25 denarii di argento di soli 3,25 grammi. La moneta peggiore scaccia la migliore: la gente tesaurizzava i vecchi denarii e i vecchi aurei, e pagava coi nuovi denarii e aurei di peso imminutum. Ma c'è di più: il piccolo risparmiatore, che metteva da parte denarii e non aurei, era avvantaggiato, giacché il rapporto AU : ARG era cambiato a favore dei detentori di moneta d'argento: ormai, 25 pezzi di 3,25 grammi d'argento compravano un bel pezzo d'oro di 7,30 grammi. Così, il denarius neroniano dominava l'economia all'interno dell'impero (i vecchi denarii anteriori al 64 si riserbavano per il commercio estero). Il denarius, cioè la moneta della piccola e della media borghesia: Nerone aveva fatto una riforma che avvantaggiava lo stato, ma che con lo stato avvantaggiava le nuove classi sociali economicamente più povere ma più attive. L'imperatore ultra15 N. H. xxxiii, 3, 44-45. A 3, 47 Plinio conosce la riforma di Nerone per l'aureus; a 9, 132 dichiara iustum il pondus del denario anteriore al 64. Si direbbe, dunque, che in 9, 132 Plinio non ha ritoccato una redazione anteriore al 64, oppure che a bella posta ha taciuto, per il denarius, la riforma neroniana; ma la prima spiegazione è di gran lunga la più probabile. Che egli, procuratore, ignorasse la riforma neroniana del denarius è cosa assurda.
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senatorio di un tempo avallava ora la fine del luxus parasitico dei detentori d'oro. Sorge spontaneo il confronto con la crisi del 33, quando Tiberio aveva salvato la piccola borghesia indebitata coi senatori, offrendole un mutuo garantito dai piccoli agri degli indebitati. Lo stato non poteva sacrificare questa piccola borghesia. I fatti sociali sono' più forti di ogni ideologia politica. Nel 56, l'anno del consolato di Seneca, si era pensato addirittura che i padroni potessero revocare la libertà ai manomessi; nel 57, sempre ai tempi della politica ultrasenatoria di Nerone, un senatoconsulto aveva ordinato supplizio anche per i conservi manomessi per testamentum, nel caso dell'uccisione del dominus. Ma ormai tutti pensavano che et servi homines sunt. E del resto, lo stesso Seneca insegnava che anche i servi possono beneficiare i padroni. Il Satyricon di Petronio è il romanzo dei liberti, scritto da un senatore. La nuova società, nonostante le esagerazioni senatorie di-Nerone fino al 62, e le esagerazioni antisenatorie dello stesso Nerone dal 64 in poi, si doveva fondare sulla morte dell'economia parasitica, sull'incremento di una solida economia monetaria. E la sua moneta era il denarius neroniano di 1/96 libbra. Anche per ciò che riguarda la questione sociale, l'apostolo Paolo aveva visto assai meglio, egli giudeo-romano, dei reazionari senatori romani che nel 56 avevano addirittura pensato alla possibilità di una revoca delle manomissioni. Egli vedeva sul serio, negli schiavi, degli homines. Diceva: « o schiavi, obbedite ai vostri padroni nella carne; o padroni, date agli schiavi giustizia e comprensione (taóTn -ra uguaglianza"), sapendo che anche voi avete un padrone (Kyrion) in cielo »; e ad un agiato cristiano, raccomandandogli uno schiavo che gli era fuggito: «egli fuggì, forse, per ritornare a te in eterno, non più come schiavo, ma come fratello amato oltre lo schiavo ». Paolo gerarchizza tutto, giacché per lui (si ricordi la Lettera ai Romani) ogni potestà è da Dio; questa, che noi chiameremo
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« prospettiva charismatica » trionferà definitivamente solo nel basso impero (infra, App. III); ma nella questione degli schiavi essa interpreta mirabilmente le esigenze dell'epoca giulio-claudia, che per esempio aveva visto, ai tempi di Tiberio, una rivoluzione di schiavi nella Puglia. Ancor una volta: l'apostolo Paolo ci appare il gigante del tempo suo. Nel secolo scorso, la scuola di Bruno Bauer la medesima che negò l'esistenza storica di Gesù - ha negato autenticità alle lettere di Paolo, spostandole al n secolo; anche nel secolo scorso, Niehuhr spostò il Satyricon di Petronio e le Historiae Alexandri di Curzio Rufo al iii secolo. Per ciò che riguarda Paolo, Bruno Bauer oggi non ha (o per lo meno, non dovrebbe avere) seguaci; Niebuhr ha ancora seguaci, anche tra studiosi assai acuti. Ma lo « spostamento » in basso di Paolo ha, in realtà, la medesima ragione che lo « spostamento » in basso di Petronio e di Curzio Rufo: e la ragione è questa, che la società di Paolo e di Petronio è, per ogni moderno, una incredibile rivelazione. È una società che noi moderni, abituati a misurare tutto col metro romantico della progressiva e razionale evoluzione, osserviamo meravigliati e quasi increduli. Trovate, in questa società , l'ideale del monarca-dio e nello stesso tempo l'ideale repubblicano: affiorano insieme e cozzano tra loro, non si conciliano mai. Trovate un mondo irrequieto, di gente che vuole spezzare troppo presto le antiche barriere, e di altri che a tutti i costi vogliono confermarle artificiosamente. Trovate questa grecità insospettata, anche sul piano linguistico, dell'apostolo Paolo: tutta scatti e nervi, capace di esprimere concetti modernissimi - che corrisponde, più o meno, alla modernissima latinità di Seneca e di Petronio. Quest'epoca, che ha scoperto la possibilità di spiritualizzare il linguaggio delle parole più concrete, quest'epoca che con Paolo ha scoperto il concetto di una peritomé spirituale (sì che l'akroby stia può diventare peritomé), è difficile proprio per le sue contraddizioni apparentemente assurde. Con la
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terminologia sociologica della scuola di Sorokin, si potrebbe dire (o si dovrebbe) che in questa epoca « idealismo » e « realismo », nuovo idealismo e vecchio realismo, si confondono in patterns fra loro non composti; con una terminologia economica, potremmo dire che economia monetaria-burocratica ed economia parasitico-senatoria convivono, in questa epoca, senza fondersi; ma non coglieremmo mai, con queste definizioni, il dramma angoscioso dell'epoca di Paolo. 25. La politica estera di Nerone e la fine del suo impero.
Il luxus senatorio implicava (come già ha visto Tacito; cfr. supra, 55 16-18) « drenaggio » di oro verso l'Oriente; Nerone dovette fare una politica forte nel Mar Nero (dove lo stato bosporano fu ridotto a condizioni di clientela), tentare un controllo del Mar Rosso, e soprattutto una energica difesa degli interessi romani nei rapporti con lo stato partico. Qui la rivolta nazionale-iranica di Artabano iii aveva dato i suoi frutti; successore di Artabano in era stato un suo figlio adottivo, Gotarze, a cui si era contrapposto Vardane, molto probabilmente figlio (non adottivo) di Artabano III; Vardane aveva avuto il sopravvento, ma alla sua morte era successo Gotarze; l'uno e l'altro esprimevano sempre la tendenza nazionale iranica. Insomma, nonostante un certo parallelismo con lo stato romano (si noti per esempio l'importanza dell'adozione, nel caso di Gotarze, o la circostanza che Vardane ha lasciato delle Res ,gestae, purtroppo per noi perdute) 16, questo stato ellenistico dei Parti conservava la sua fisionomia nazionale-iranica, e si contrapponeva all'impero romano. Invano Claudio nel 49 (come già Tiberio nel 35) aveva tentato di 16 La problematica dei rapporti tra X varanab e imperium, per ciò che riguarda l'epoca sasanide, è proposta da PAGLIARO, « Atene e Roma », 1930, p. 171; per l'epoca arsacidica, sono significativi i parallelismi che qui ho notato.
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restituire in esso la primogenitura arsacidica, naturalmente romanofila, imponendo un nipote di Fraate iv (Meherdate); questo estremo tentativo di controllare dall'interno lo staio partico era fallito; in compenso Claudio riuscì a controllare l'Armenia. Se la coscienza nazionale-iranica era stata risvegliata dalla grande costruzione politica di Arta bano iii e dei suoi successori, d'altra parte la struttura feudale dello stato partico ne indeboliva la compagine. Morto Gotarze, gli successe Vologese, oriundo della Media Atropatene; ma come a Gotarze si era opposto Vardane, così a Vologese si era opposto, nel 54, il figlio di Vardane. Intanto Vologese sosteneva la candidatura di suo fratello Tiridate al trono di Armenia. Scoppiava così il conflitto tra Vologese e Nerone per l'Armenia; conflitto in cui si distinse il generale Corbulone; Nerone puntava soprattutto sulle difficoltà interne di Vologese. Queste difficoltà erano certamente gravi. Soprattutto il separatismo della Ircania (forse animato dal figlio stesso di Vardane) ha occupato il re Vologese, sì da impedirgli di sostenere con successo la candidatura di suo fratello Tiridate al trono d'Armenia. Nel 59/60 ambasciatori di Ircania chiesero societas allo stato romano, indicando, come pignus amicitiae, la loro attività contro Vologese; al ritorno, essi furono accompagnati da un presidio romano usque ad litora maris rubri, sì da raggiungere l'Ircania senza attraversare lo stato di Vologese (ciò dimostra che questi non controllava l'Iran sud-orientale, che gli ambasciatori dovevano attraversare necessariamente per raggiungere il loro stato; e d'altra parte, lo stato del dinasta indiano Gondophares, che intorno al 30 d.C. aveva raggiunto una notevole estensione in Iran orientale, ormai non rappresentava una minaccia per queste regioni). Sebbene noi non abbiamo alcun motivo di ritenere duratura la formazione di questo stato ircano (esso è probabilmente caduto, più tardi, sotto l'alto controllo dei Kushan signori della Battriana), tuttavia il definitivo distacco dell'Ircania
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dallo stato partico è un fenomeno di certa importanza: l'impero di Nerone ha dunque visto il tentativo, per altro non portato a compimento, di accerchiare lo stato partico a occidente (attraverso la campagna di Armenia) e a oriente (attraverso l'alleanza con l'Ircania separatista e signora del Mar Caspio). Nel 62 Vologese ha tentato di evitare questo accerchiamento, stipulando la pace con gli Ircani, e concentrando le sue forze verso occidente; nonostante i suoi successi di quell'anno, egli dovette poi cedere dinanzi all'offensiva di Corbulone nel 63; si giunse ad una entente cordiale, nella quale i Romani rinunziavano al loro candidato al trono d'Armenia (un principe cappadoce ), mentre d'altra parte Tiridate riconosceva l'alta sovranità romana, e dichiarava di ricevere da Roma l'investitura del suo regno armeno, sì da deporre il diadema regio sotto l'effigie di Nerone, per poi riceverlo a Roma da Nerone stesso. Il successo di Corbulone parve allora, e certamente era di fatto, il più splendido evento dell'epoca neroniana. La composizione feudale dello stato partico rende abbastanza difficile, allo storico, l'interpretazione, nei particolari, della sua organizzazione e delle forme costituzionali; e a questa difficoltà si connettono le complesse discussioni, fra gli studiosi, sull'origine di Gotarze (e in genere sugli sviluppi della secondogenitura arsacidica fondata da Artabano III). Ma in verità un passo 17 di Tacito (la cui importanza non sembra dai moderni sufficientemente rilevata) ci assicura che l'autorità di comando regio, o iranicamente xvaranah) era concepita in questo periodo nel senso di una gradazione fra tre re (iranicamente diremo, Xvatày), i quali venivano nominati nella stessa famiglia: detentore del supremo xvaranah è il re dei Parti, secondo dopo di lui il re della Media Atropatene, terzo il re di Armenia. Questo principio deve essersi 17
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imposto già con Artabano iii, il quale così avrà dato la Media Atropatene ad un membro della sua famiglia (forse al suo figlio adottivo Gotarze?), mentre aveva destinato l'Armenia (ma, come vedemmo, senza successo; cfr. in/ra, ix) al figlio Orode; il meccanismo di una, tale tripartizione funzionava, fors'anche, nel senso che, alla morte del re dei Parti, succedeva il dinasta già preposto alla Media Atropatene, e così via. Or in questa concezione (la quale era stata ulteriormente ostacolata, per ciò che riguarda l'Armenia, dalla politica di intervento di Claudio), l'Armenia aveva una posizione di eccezionale importanza, in quanto il Xvaranab del suo re veniva ad essere come una emanazione del supremo Xvardnah del re dei Parti: per così dire, una « terza » emanazione, laddove la « seconda » emanazione era propria del re della Media Atropatene. L'entente cordiale del 63, in cui Tiri date riconosceva il suo regno come graziosa investitura da parte del princeps romano, determinava una profonda trasformazione di questi principii: ora Tiridate ripeteva da Nerone il Xvardnah della sua legittimità; ciò significava anche l'eventualità di una revisione dei rapporti fra Nerone e la stessa monarchia dei Parti. L'ideologia romana del rex Armeniis datus minacciava dunque la stessa concezione del varnah com'essa si era configurata nella stato partico. Cfr. in/ra, xx.
In effetti, quando, nel 66, Tiridate ricevette a Roma la definitiva investitura del suo regno armeno, e dichiarò di riconoscere in Nerone un suo dio ed inoltre la sua g oZpa e (nei quali due concetti ad un tempo, e non solo nel secondo, è da vedere la traduzione greca di Xvardnah) allora Nerone sottolineò che né Vologese né suo fratello Pacoro (il re dell'Atropatene) potevano ritirare o concedere l'investitura del trono armeno (il xvarnah), ma solo lui, Nerone, poteva darla. Le conseguenze dell'investitura furono poi più evidenti dall'invito di Nerone a Vologese, perché questi venisse a Roma (va notato che Tiridate aveva condotto a Roma, nel 66, non
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solo i suoi figli, ma anche quelli di Vologese e di Pacoro); naturalmente, l'invito fu declinato da Vologese, per il quale quella proposta avrà forse suonato come una pretesa di Nerone a concedere l'investitura, oltre che dello stato armeno, anche dello stesso stato partico. Comunque, nonostante la chiusura del tempio di Giano già nel 64, grandi piani per l'Oriente balenavano alla mente di Nerone: determinarne con precisione il contenuto non è possibile, anche se si deve riconoscere che piani di questo genere si ispirano ad Alessandro Magno. La rivolta degli Ebrei, nell'autunno 66, frustrò, per il momento, quei piani; ma ad essi (i quali si arricchirono di una più larga concezione geopolitica, con due marce esplorative di pretoriani al Nilo superiore) Nerone volle preludere con l'accentuata sua esaltazione della grecità: nel 67, in un suo famoso viaggio in Grecia, l'imperatore proclamò la libertà della Grecia, sì che al posto della provincia senatoria di Achaia il senato ricevette la Sardegna (che era provincia imperiale). Riassumiamo. Il principato di Nerone è l'immagine dell'epoca giulio-claudia: pieno di contraddizioni (l'imperatore, che è venuto al trono con propositi diarchici, ha assunto ideali ellenistici ed è diventato l'esponente per eccellenza dell'ostilità alla libertas senatoria); preannuncio di trasformazioni radicali nella cultura e nella vita dell'impero (già evidente la penetrazione cristiana; sempre più tenace la resistenza ebraica); movimento e turbolenze delle classi servili (gli schiavi, che già sotto Caligola si erano avvezzi ad accusare i loro domini, e che per il prevalere di dottrine stoiche od orientali acquistano coscienza dei loro diritti, devono esser tenuti a freno con rigidi provvedimenti); rinnovamento sociale, di cui sono un aspetto i molti Trimalchioni. Il romanzo petroniano, il già citato Satyricon, è l'epopea di questo mondo, in cui i contrasti, lungi daL placarsi, danno vita e colore alla società che si viene formando o già in parte s'è formata; in cui i parvenus, i Trimalchioni insomma, tipicamente
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contrastano con la vecchia classe dirigente, e pur con essa si appaiano, per quanto riguarda le inattese e capricciose richieste di luxus (Tacito, che probabilmente non ha letto mai il romanzo, credeva di sapere che il mondo del Satyricon fosse parodia degli uomini stessi di Nerone); in cui la nova simplicitas, che arieggia la cultura degli Epicurei, schiettamente contrasta con la rigida severità dello stoicismo di un Trasea, ed entrambe, variamente penetrate nel le classi dirigenti, comunque rappresentano la tradizionale cultura ellenistico-romana, di fronte al proselitismo orientale e particolarmente giudaico o cristiano. Alla umana commedia, che nel Satyricon di Petronio si muove, fa riscontro la tragica vicenda dell'organismo politico-sociale di questo scorcio dell'età giulio-claudia. E questa si compose nel crollo di quell'organismo attraverso i tumultuosi avvenimenti degli ultimi tempi di Nerone. Tipica l'insurrezione di Giulio Vindice, un galloromano che volle esprimere la protesta delle province galliche oppresse dai tributi, e ad un tempo credette di interpretare l'insoddisfazione del senatus populusque di fronte al governo di Nerone. Sebbene domata dal legato della Germania Superiore, Virginio Rufo, quell'insurrezione valse a dar il segno di una rivolta più generale, in cui il senatore Sulpicio Galba, governatore della Tarraconese, espresse a un tempo, e con adeguata autorità, l'insoddisfazione della provincia per l'oppressione tributaria da parte dei procuratori di Nerone, e la generica aspirazione alla libertas in nome del senatus populusque Rornanus. Gli ufficiali del pretorio furono stavolta, in maniera più concorde che non nella notte dell'uccisione di Caligola, decisamente ostili all'imperatore: sì che, dei due prefetti al pretorio, Tigellino e Nimfidio Sabino, il primo, leale a Nerone, fu facilmente oscurato dal secondo. Il 3 aprile Galba era insorto; l'8 giugno si ebbe, da parte del senato, la condanna di Nerone come hostis publicus e la proclamazione di Galba; il giorno dopo Nerone si uccise con
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l'aiuto di un liberto, in una villa in cui si era rifugiato; Nimfidio Sabino fece deporre Tigellino, e ottenne dal senato particolari privilegi, in quanto benefattore dello stato romano. Si ripeteva così quel che s'era constatato alla morte di Caligola: la solidità del regime si fondava sull'armonia delle legioni (renane; ma fra poco interverranno le danubiane) e delle coorti pretorie ,e dell'organo costituzionale senatorio; turbata questa armonia, tutta la vita dello stato tendeva a porsi su basi nuove. E tuttavia: come Caligola, anche Nerone rimase caro al ricordo della plebe romana; come di Caligola, così anche di Nerone i « contorniati », pseudomonete del basso impero, serbano grato ricordo; e su lui fantasiosa si formò la leggenda, sino a fargli assumere, tragica e piena di mistero, la funzione dell'Anticristo. Rimase di lui, definitiva fino a tutto il ii secolo, la rivoluzionaria politica economica del 64. 26. Il « longus et unus annus ».
Nimfidio Sabino, nonostante i particolari privilegi a lui concessi dal senato, non riuscì ad imporsi su Galba. La sua richiesta di essere nominato unico prefetto al pretorio già si scontrava con la nomina, decisa da Galba, di un nuovo prefetto al pretorio. Ne seguì, da parte di Nimfidio, un tentativo di usurpare il principato; ma il tentativo fallì miseramente, perché Nimfidio non aveva un vero e proprio seguito nella ufficialità pretoriana. Così accadde che le coorti pretorie, le quali prima (per la suggestione della tradizione italiana e dell'accordo fra il senato e il loro prefetto Nimfidio) avevano tradito Nerone, ora viceversa abbandonavano il loro prefetto Nimfidio, in leale riconoscimento del vecchio senatore Galba (non così i soldati della flotta, che- -- di origine per lo più servile e dunque ostilissimi al senato - apertamente si opposero a Galba). L'accordo fra Galba (entrato a Roma intorno all'ottobre del 68) e le coorti pretorie non durò a lungo. Il vecchio nobile
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della gens Sulpicia era soprattutto l'imperatore della liber tas senatoria (la sua monetazione fa riferimento alla libertas), ed a questa tendenza ispirava la sua azione (interessante l'adozione di Pisone, il 10 gennaio, la quale presuppo neva l'ideologia che l'elezione del migliore dovesse compiersi all'infuori del principio dinastico, e che proprio l'adozione era un'immagine di libertà: « in luogo della libertas », secondo una formula che Tacito pone in bocca a Galba per questa occasione). Fu presto chiaro che tanto alle coorti pretorie quanto alle legioni renane il carattere dell'impero di Galba appariva in certo modo un anacronismo. E precisamente: come già nella breve notte della morte di Caligola, anche stavolta abbastanza breve fu la collaborazione fra coorti pretorie e senato; il 15 gennaio i pretoriani elessero il « loro » imperatore, Otone (l'exmarito di Poppea). Le coorti pretorie furono così, ancor una volta, l'espressione delle classi borghesi in opposizione all'ordine senatorio; Otone è il senatore che doveva sanzionare il prevalere della borghesia equestre sulla nobiltà senatoria. La nuova posizione della borghesia equestre si espresse anche in una importantissima riforma otoniana, per la quale la burocrazia centrale, normalmente affidata a li berti, accolse, in qualche ufficio (lo ah epistulis 18), un personaggio scelto tra i cavalieri, e non più tra i liberti. A loro volta, le legioni renane, così come non avevano grandi simpatie per Galba (il quale appariva sempre come un sostenitore del già vinto Vindice), neanche gradirono l'elevazione di Otone, che ai loro occhi appariva come il rappresen18 Nonostante A. STEIN, Ritterst. 387, 5: l'orator di Quint. 10, 3, 13 non può non identificarsi con « il retore » di Plut., Otho, 9. La documentazione (della fonte) di Tac., Hist. i, 58 faceva risalire al 69 (sia pur a Vitellio) la riforma. Non si dimentichi che ancora il bisavo di Otone era cavaliere: l'imperatore dei pretoriani dovette considerarsi abbastanza amico dell'ordine equestre. - La prima documentazione epigrafica della riforma, che sia a noi pervenuta, ci riporta (PFLAUM, Proc. 60) a Domiziano; ma la riforma aveva precedenti nell'anno longus.
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tante delle coorti pretorie. Ai primi del gennaio 69 le legioni renane nominarono imperatore il legato della Germania Superiore, Vitellio. Contro quest'ultimo si mosse Otone, il 24 marzo di quell'anno. Erano con lui 7 coorti pretorie (le altre 5, insieme con la legio I Adiutrix e con le altre formazioni - anche il de/orme auxilium, come dice Tacito, di 2 000 gladiatori -, lo avevano preceduto), e inoltre ingens numerus di classici; altri contingenti furono da Otone mandati nella Narbonese. A queste truppe si aggiunsero ancora, a quanto sembra (su questo punto la nostra fonte principale, Tacito, è alquanto oscura) tre delle legioni danubiane; non fecero in tempo ad arrivare, dell'armata danubiana, i quartadecumani (e fu questa certo la più grave perdita per Otone, ché appunto la legione xiv Gemina aveva fama di straordinario valore e capacità, per aver domato la rivolta dei Britanni sotto Nerone, e per il suo carattere di corpo scelto). Nella battaglia che seguì, a Bedriaco, Otone fu sconfitto, il 14 aprile: più che l'inferiorità numerica (la quale non sembra essere stata eccessiva), nocque ad Otone una serie di errori tattici dei suoi generali; si distinsero, invece, i generali di Vitellio. La vittoria di Vitellio a Bedriaco era la vittoria delle legioni renane sull'esercito d'Italia ed anche (sebbene i quartadecumani non avessero combattuto) del Danubio. Sebbene noi moderni si sia tentati di dare ad un conflitto come quello di vitelliani contro otoniani significati più o meno profondi (« avanzata delle province contro l'Italia », « vittoria del proletariato rurale sulla borghesia cittadina »), in ultima analisi non bisogna dimenticare che in questo periodo tanto le truppe legionarie quanto le coorti pretorie si reclutavano fra italiani (cfr. in/ra, 55 37-38) sicché, nel conflitto che contrappose vitelliani e otoniani, la lotta si svolgeva comunque, secondo una famosa immagine di Tacito, tra fratelli e fratelli, tra figli e padri. Naturalmente, i pretoriani, come corpo scelto, possono in certo modo avvicinarsi al concetto di « borghesia », a differenza dai legio-
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nari del Reno; ma anche una netta distinzione in questo senso sembra piuttosto astratta. Se della vicenda di Galba e Otone e Vitellio, come poi di Vespasiano, vogliamo dare un'interpretazione adeguata, questa più semplicemente andrà cercata in un turbamento dell'armonia tra le forze essenziali componenti lo stato imperiale romano. Questo tur bamento si era già profilato dopo la morte di Augusto (ribellione delle legioni renane da una parte, delle danubiane dall'altra), o meglio ancora si era accennato dopo la morte di Caligola (insoddisfazione dell'alta ufficialità pretoriana, che esprimeva la tradizione borghese italiana; nello sfondo, una congiura del legato della Germania Superiore), ed ora ritornava chiarendosi con gli eventi che avevano seguito la rivolta di Vindice. La nuova crisi si svolse più chiaramente; nel conflitto fra Otone e Vitellio, si schieravano - italiani contro italiani - da una parte i pretoriani e le legioni danubiane, dall'altra le legioni renane. La lotta politica si configurava, dunque, come un ritorno alle guerre civili di tarda epoca repubblicana, con la differenza che, essendo ormai invalso l'istituto del principato (neanche gli scrupoli di Galba avevano in alcun modo limitato la necessità dell'istituto), or più chiaramente appariva che nelle mani degli eserciti poteva anche essere l'elezione del principe, e che insomma il principe poteva acclamarsi anche fuori di Roma (posse principem alibi quam Romae fieri). Era questo (come già vide Tacito) l'arcanum imperii: ogni soldato di Vitellio avrà visto, nella vittoria del suo generale, un miglioramento delle proprie condizioni di vita ed un successo di quell'armata a cui si sentiva legato per spirito di corpo. Tanto vero che alla vittoria dei vitelliani seguì la riforma delle coorti pretorie: legionari vitelliani furono immessi nelle coorti pretorie, coronando così, con un trasferimento nel corpo privilegiato dell'esercito imperiale, un sogno che essi avevano certamente carezzato da tempo. Se Galba era stato il legatus senatus populique R. (ed insomma l'espressione degli ideali senatorii), se Otone era
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stato l'imperatore dei pretoriani (e, sotto certi aspetti, uomo legato a tradizioni neroniane: non è un caso che egli fosse stato lo sfortunato marito di Poppea), ora Vitellio era l'espressione dell'esercito legionario renano. Ma tutti e tre questi imperatori erano uomini della vecchia classe dirigente senatoria: né più né meno che il loro predecessore, Domizio di sangue e Claudio di adozione, Nerone. Un uomo nuovo sorse allora all'orizzonte: Flavio Vespasiano, il comandante delle truppe operanti in Giudea, proclamato imperatore l'i di luglio. Questi non aveva molto a che fare con la vecchia classe senatoria. Suo padre, un sabino di Rieti, era un publicano; di ceppo migliore (soprattutto per via di uno zio) era la madre; egli, nativo di Rieti come il padre, aveva saputo penetrare nel senato all'epoca di Caligola, un po' come tutti questi uomini nuovi che all'epoca giulio-claudia avevano saputo « nascere da se stessi » (come diceva Tiberio di Curzio Rufo), ma con j in più quella autorità maggiore che gli derivava dalla famiglia materna e soprattutto dalla sua perizia militare. Ciò può spiegare il largo successo di Vespasiano. Proclamato imperatore, egli fu riconosciuto dal legato di Siria, Muciano; fu riconosciuto dalle legioni danubiane ancora legate al ricordo di Otone, ed ostili a Vitellio. Naturalmente, Vespasiano sollecitò anche i vecchi pretoriani di Otone, « epurati » da Vitellio, ad abbracciar la sua parte. Il legato di una legione danubiana (la VII Galbiana), Antonio Primo, nativo di Tolosa, invase l'Italia, mentre Vespasiano si trovava in Egitto (donde gli era possibile controllare gli invii di grano, economicamente necessari all'Italia). Nell'ottobre, in una seconda battaglia a Bedriaco, Antonio Primo vinceva i vitelliani; il 21 dicembre entrava a Roma. Con la morte di Vitellio (la indimenticabile pagina in cui essa è descritta da Tacito rivela l'impressione destata dall'avve nimento), un periodo della storia romana si concludeva; la vittoria di Antonio Primo per conto di Vespasiano ne apriva uno nuovo. Presto il senato riconobbe Vespasiano; il
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legato di Siria, Muciano, sopravvenne a governare in nome dell'imperatore insieme con Domiziano, figlio minore di Vespasiano. L'opera di Muciano eliminò, poco a poco, ogni influsso di Antonio Primo: quest'ultimo, il vincitore della seconda battaglia di Bedriaco, e per tal via compositore della guerra civile che aveva tormentato il 69 (sino a presentarlo come annum rei publicae prope supremum), rimase, per la storia di Roma, l'uomo pace pessimus, bello non spernendus. Viceversa il governo di Muciano presto si distinse nella repressione di una rivolta, di cui era capo il batavo-romano Giulio Civile, nella quale per l'ultima volta si verificò ancor un tentativo druidico di insurrezione anti romana; la fedeltà dei Sequani, e la diversità di intenti fra i rivoluzionari (naturalmente, i Batavi e in genere i Germani erano alleati assai scomodi per i Celti), prepararono la vittoria del generale inviato da Muciano, riportata nell'autunno del 70 a Castra Vetera. Il bilancio della guerra civile era, sotto tutti gli aspetti, disastroso. Saccheggiata Cremona da Antonio Primo, incendiato il Campidoglio dai vitelliani (in questo incendio perì Flavio Sabino, prefetto di Roma e fratello di Vespasiano). L'opera di Vespasiano fu volta alla restituzione dell'ordine: la clementia del nuovo imperator ha risparmiato o restituito al potere alcuni fra i vitelliani (al contrario, come già si vide, un flaviano della prima ora, Antonio Primo, fu eliminato come pace pessimus, anche se bello non spernendus). La pacificazione degli animi fu comunque il segno della nuova politica di Vespasiano, e può considerarsi l'inizio di un nuovo periodo della storia imperiale romana: il periodo' in, cui al luxus della vecchia classe dirigente senatoria e alle incertezze della politica interna succede una avveduta politica di concordia degli ordini ed un intelligente controllo dello stato da parte della borghesia cittadina. Il clima della rivoluzione augustea era scomparso d'intorno al 30, quando i senatori avevano ottenuto che non il « responso comiziale » degli eroi romani Gaio
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e Lucio, Germanico, Druso, ma esclusivamente la maggioranza dei loro voti bastasse a destinare i consoli e i pretori; l'epoca ultima di Tiberio, e i regni di Caligola e Claudio e Nerone, avevano visto, attraverso contraddizioni e tormentate crisi, la perdita di un'armonia sociale e culturale « augustea » - avevano visto la maggior penetrazione di culti orientali, lo squilibrio fra estremismo monarchico (Caligola) ed estremismo diarchico (quinquennium di Nerone), l'assurda resistenza dell'economia di luxus senatorio alle classi della finanza ed alla borghesia in genere. Ora, con Vespasiano, questi squilibri si dileguavano; cominciava un'epoca nuova, classicheggiante anche nelle sue manifestazioni artistiche (l'avanzato quarto stile pompeiano); un mondo composto e ordinato nel segno della nuova borghesia.
BIBLIOGRAFIA E PROBLEMI
VIII. FONTI LETTERARIE Le fonti principali pervenute per l'epoca giulio-claudia sono il Ludus de morte Claudii di Seneca (per Claudio); e le opere storiche di \elleio Patercolo (pubblicate nel 30), di Tacito, di Suetonio, di Cassio Dione (fino al 46, con lac., in trad. mscr.; dal 47, in Zon., Xiph., Exc. Const.). Per la problematica delle fonti, cfr. la bibliografia nei manuali di introduzione alla storia antica, per es. in quelli recenti di BENGTSON; BRECCIA; MANNI. - Il problema essenziale consiste nello studio delle fonti storiche primarie, per noi perdute, cui attingevano Tacito, Suetonio, Cassio Dione; la ricerca deve partire da FABIA, Les sources de Tacite (1893); cfr. MOMIGLIANO, « Rend. Acc. Linc. », 1932, p. 293; « Atti ii Congr. Naz. St. Rom. », 1931; per un avvio dell'indagine in senso stilistico cfr. MARTIN, «Studien zu Tacitus. Carl Hosius z. 70 Geburtstag dargebracht » ( 1936). Un atteggiamento piuttosto scettico su questo tipo di indagini in LEVI, Nerone e i suoi tempi (1949). Comunque, si può dire in genere che negli Annali Tacito, oltre agli Acta senatus, agli Acta diurna, ai discorsi di Tiberio, alle memorie di Agrippina e a quelle di Corbulone, ha soprattutto tenuto presente Aufidio Basso e Servilio Noniano per il primo periodo, Fabio Rustico, Plinio il Vecchio e Cluvio Rufo per il periodo più recente. - Quanto al suo metodo, vale la pena di insistere su passi come Ann. XIII, 20, in cui (siamo nell'anno 55) si descrive l'apprensione di Nerone dinanzi alle ventilate colpe di Agrippina', appren sione sì grande - dice Tacito - ut non tantum matrem -
inter/icere sed Burrum etiam demovere prae/ectura destinaret, tamquam Agrippinae gratia provectum et vicem reddentem.
Ma subito Tacito stesso aggiunge che particolari su una ventilata rimozione di Burro dava Fabio Rustico, laddove Plinio e Cluvio Rufo nibil dubitatum de fide prae/ecti re/erunt.
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Nella narrazione, dunque, in cui ha detto che Nerone Burrum etiam demovere praefeclura destinaret, Tacito ha seguito Fabio Rustico; salvo ad aggiungere, come a commento, che Plinio e Cluvio Rufo erano di avviso opposto. In un caso come questo, diremo che, se ad una « fonte principale » si deve pensare, questa non può essere né Plinio né Rufo, ma piuttosto Rustico; Tacito indicava, per così dire, come fatto sicuro, la versione di Fabio Rustico - solo che a metà poi si è fermato, ed ha informato, a guisa di commento, che Plinio e Cluvio qui dissentivano da Fabio Rustico. Si pensi, del resto, che, come autore più recente, Fabio Rustico era idealmente più vicino a Tacito (alla stessa maniera, putacaso, che all'altro grande annalista romano, Livio, era più vicino un Valerio Anziate che non per es. un Fabio Pittore o un Cincio Alimento): Tacito medesimo (A,gr. 10) sa dirci che Livius veterum, Fabius Rusticus recentium eloquentissimi auctores. In ogni caso: si tratta sempre di fonti più o meno congeniali con l'ideale tacitiano (cfr. le monografie su Tacito di ARNALDI; BOIssIER; DE REGIBUS; MARCHESI; la postuma di FABIA ed. WUILLEUMIER [1949]; GREVS [1946]; PARATORE [1951]; WALSER, Rom, das Reich u. die /remden Vòlker in d. Geschichtsschreibung d. /riihen Kaiserzeit [1951] 1), della libertas senatoria; nonostante tutte le loro buone intenzioni, i principi giulio-claudii apparvero alla storiografia senatoriale i seppellitori della libertas. Per Suetonio cfr. il recentissimo STEIDLE, Sueton u. die antike Biographie (1951), con rivalutazione generale dell'opera suetoniana. Naturalmente, si consulteranno, anche dal punto di vista della storia politico-sociale, le opere letterarie di epoca giulio-claudia: per es. per l'epoca tiberiana è assai significativo che nella seconda edizione della sua opera (la prima edizione è del 19), Valerio Massimo abbia sentito il Recente letteratura su Tacito: fino al
1938, KOESTERMANN,
« Bursian's Jahresbb. », 282 (1943) 78; fino al 1949, il già citato
BÙCHNER-HOFMANN, Lateinische Literatur u. Sprache (1951), p. 159; va consultato anche LAISTNER, The Greater Roman Historians (1947). Da ultimo WALKER, The Annais of Tacitus (1952); PARATORE, « Maia », 1952, p. 32; SYME, « Latomus », 1953, p. 35.
Il problema dell'autorità di Tacito è ora tanto più difficile, dopo la scoperta della tavola di Heba: in/ra, App. i (e già questa Parte seconda, passim).
Bibliografia e problemi
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bisogno di aggiungere un attacco contro Seiano. C'è appena bisogno di rilevare l'importanza delle opere di Filone, di tutta l'opera letteraria di Seneca, di Calpurnio Siculo, Persio, dei medici. - Naturalmente, Flavio Giuseppe è fonte di primissimo ordine. - Di raccolte epigrafiche e di documenti in genere si ricordino soprattutto i già citati Documents per Augusto e Tiberio di EHRENBERG-JONES (1949) e i Documents per Claudio e Nerone di CHARLESWORTH. Monografie su Tiberio: IX. TIBERIO (cfr. 55 15-18) si va dalle vecchie monografie di GENTILE (1887), IHNE (1892), TARvER (1902), TUXEN (1896) a quelle di MARSH, The Reign o/ Tiberius (1931) (importante per i motivi di conflitto fra Tiberio e Germanico) e CIACERI, Tiberio successore di Augusto (1944 2 ) ; THIEL, «Mnemos. », 1935, p. 245; 1935/36, p. 177; 1936/37, p. 18; PIPPIDI, Autour de Tibère (1944; su cui PIGANIOL, « Rev. ét. lat. », 1946 9 p. 374; PASSERINI, « Ath. », 1948, p. 140); cfr. Ch. E. SMITH, Tiberius a. the Roman Empire (1942). DE LAET, Aspects de la vie sociale et écon. sous Au guste et Tibère (1944) (dello stesso autore lo studio sul primipilato « Ant. class. », 1940, p. 13; e quello sul senato, che citeremo fra poco). - Intorno alla propaganda imperiale, ROGERS, Studies in the Reign of Tiberius (1943), pp. 1-88 e già SUTHERLAND, « journ. Rom. St. », 1938, p. 129 (naturalmente il problema si connette con quello delle virtù cardinali di Augusto). - Dello stesso SUTHERLAND si ricordi il già citato Coinage in Rom. Imp. Policy 31 B. C. - A. D. 68 (1951). - ALLEN jr., « Trans. Amer. Phil. Assoc. », 1941, p. 1. Un posto eminente nella ricerca occupa lo studio di GRANT, Aspects o/the Principate of Tiberius (1950), il quale ha dimostrato che, in fondo, anche sul piano numismatico (tipi del divus Augustus), Tiberio è soprattutto il successore di Augusto, ed ha accentuato il rapporto Tiberio-auctoritas senatus, considerandolo l'ultimo (« last », p. 131) esperimento di questo tipo 2 - Cfr. CESANO, « Atti v Congr. St. Rom. », n, p. 323, per la 2 « L'ultimo », tuttavia, non si può dire: basti pensare ai primi tempi di Nerone (sull'alta società neroniana, ultimamente Poglady nobilitas okresu Nerona [1952]; BIEzuNSKA-MALOWIST, altra letter. mira, XII).
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monetazione giulio-claudia al nome del divus Augustus. - A differenza dal MATTINGLY, il GRANT ritiene che Tiberio non ha soppresso la monetazione municipale in Africa e Gallia dopo le rivolte di Tacfarinas e Sacrovir. - Un aspetto della politica di Tiberio in Occidente: GRENIER, Tibère et la Gaule, « Rev. ét. lat. », 1936, p. 373. (Di recente, HEURGON, « Rev. e' t. anc. », 1948, p. 101, ha studiato ILS, 9463, interessante per Tiberio e la Gallia in epoca augustea). - Base tiberiana di Pozzuoli: SPINAZZOLA, « Atti Accad. Arch. Lett. Belle Arti Napoli », 1902 ) ii, 1090. - Di grande importanza per l'interpretazione della politica tiberiana, e di tutta la politica giulio-claudia, gli studi sulla composizione del senato in questo periodo; studi che, specie nell'indagine più recente, tendono anche a rivedere tutto il problema della politica dell'imperatore nelle province senatorie, mentre d'altra parte chiariscono meglio la crisi della nobilitas (un concetto il cui carattere tradizionale repubblicano fu chiarito in una importante ricerca di GELZER, « Hermes », 1915, p. 395; contro quest'ultimo, OTTO, «Hermes », 1916, p. 73 ha cercato di escludere che nobiles fossero soltanto i discendenti - anche ex /emina - da magistrati repubblicani; ma la dottrina. di GELZER fu giustamente ribadita da E. STEIN, « Hermes », 1916, p. 564); cfr. SCHNEIDER, Zusammensetzung d. ròm. Sen. von Tib. bis Nero (1942: dissert. alla scuola di Ernst Meyer) e DE LAET, De Samenstelling van den rom. Sen. gedurende de eerste Eeuw van het Princ. (1941); con le osservazioni per es. di BROUGHTON, « Class. Phil. », 1949, p. 127; DE LAET ha esagerato nel contrapporre una politica conservatrice (Augusto e Claudio) ad una innovatrice di Tiberio (e Nerone), ma la novità degli ultimi tempi di Tiberio coglie nel vero. Naturalmente la composizione del senato in epoca giulioclaudia va studiata in connessione éon l'epoca seguente; cfr., per l'età da Vespasiano a Traiano, STECH, « Klio », Beih. x, 1912, e per il resto letteratura e discussione in/ra, xxvii. Quanto ai giuristi (che per la loro importanza in questo periodo pongono interessanti problemi: v. quanto osserviamo supra, § 16) cfr. le opere generali di storia del diritto o della giurisprudenza (da ultimo, l'opera di KUNKEL citata, in/ra, xxvii). La interpretazione delle forme e dei modi in cui si attuò la successione di Tiberio (cfr. FABIA, « Rev. phil. », 1909,
Bibliografia e problemi
-
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p. 28; HOHL, « Hermes », 1933, p. 106; e da ultimo KORNEMANN, Der Prinzipat d. Tiberius u. d. Genius Senatus,
in
« Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1947, p. 1) dipende, naturalmente, dalla interpretazione dei poteri di Tiberio nell'estremo tempo del principato augusteo; e si connette, pertanto, col problema dei caratteri da attribuire alla correggenza di Tiberio nel 13 d.C. Il punto di vista del . medesimo Tiberio, per quel che riguarda i poteri a lui attribuiti nel 13 d.C. (per la data DIECKMANN, « Klio », 1919, pp. 339 sgg.), è reso molto bene in Vell. ii, 121, 1: cum senatus populusque Romanus postulante patre eius, ut aequum ei ius in omnibus provinciis exercitibusque esset, quam erat ipsi, decreto complexus esset (etenim absurdum erat non esse sub illo, quae ab illo vindicabantur, et qui ad opem ferendam primus erat, ad vindicandum honorem non iudicari parem) . Le formule aequum tus, ad vindicandum honorem parem presentano la correg-
genza di Augustb e Tiberio, nella sua ultima fase, come una collegialità uguale; e questa dunque sembrerebbe da riconoscere come contenuta nella legge del 13 d.C. sull'imperium di Tiberio; così, in effetti, molti studiosi (per es. da ultimo DE FRANGI SCI,
Genesi e struttura del principato augusteo, in
« Mem. Reale Accad. It. », 1941, p. 113; cfr. GELZER, « Hist. Zeitschr. », cxviii, p. 280) ritengono « che da un punto di vista formale non vi fosse differenza tra i poteri di Tiberio e quelli di Augusto ». Viceversa, si ritiene da altri che la disparità fra l'imperium detenuto da Augusto e i poteri di Tiberio fosse nel 13 d.C. conservata: così dal DIECKMANN, loc. cit., con insistenza sulla circostanza che Tiberio ebbe, di fatto, una limitazione del suo imperium all'Illirico; un tale argomento non è per sé sufficiente (cfr. la critica di PAS SERINI, « Studi giurid. in mem. di P. Ciapessoni » [ 1947], p. 204). Lo stesso PASSERINI, loc. cit., ha cercato di dimostrare la tesi del DIECKMANN per altra via: e cioè mediante l'osservazione che Tiberio nel decennale del suo governo non rinnovò l'imperium speciale che abilitava al comando degli eserciti e delle province imperiali,- laddove viceversa Augusto nel 13 d.C. ( e dunque, a fortiori, Tiberio) ancora considerava questo im perium speciale come rinnovabile e dunque non vitalizio. Del resto (cfr. § 16), una ulteriore impostazione di questo problema
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si dovrebbe connettere con l'interpretazione della struttura giuridica del principato augusteo: secondo noi, nel 13 d.C. Augusto ha, sì, rinnovato la &p, ma in quanto questa &p o imperium, a lui concesso nel 27 a.C., contiene come obietto, ossia provincia specialmente assegnata, la cura et tutela rei publicae, in questo senso rinnovata già negli anni 18 a.C., 13 a.C., 8 a.C., 3 d.C. ed infine nel 13 d.C.; quanto al resto, Augusto era detentore, sin dal 23 a.C. dell'imperium proconsulare maius et infinitum vitalizio, il quale (connettendosi de facto con il titolo di imperator) gli dà l'effettivo comando in omnibus provinciis (non solo sulle senatorie). Ne deriva che, quando Tiberio, nel decennale del suo governo, « non chiese alcun decreto per il rinnovamento della sua (Dio, LVII, 24, 1), egli in effetti lasciò cadere il rinnovamento della cura et tutela rei publicae, considerando già sufficiente, alla conservazione del suo potere nelle province, l'imperium proconsulare maius et infinitum, il quale ora, nella evoluzione politica compiutasi fino al 23 d.C., appariva per se stesso indicativo della somma di poteri nelle province'. Naturalmente, queste nostre considerazioni andrebbero del tutto rivedute, qualora non si accettasse la dottrina di VON PREMERSTEIN e del DE FRANcIscI sul carattere e sulla struttura dell'imperium augusteo. In questo caso, l'interpretazione già svolta da noi (supra, § 16) fa della mancata rinnovazione dell'imperium non già un atteggiamento antisenatorio (così, in un rapido acuto cenno, LAST, « Journ. Rom. St. », 1943, p. 104), ma, al contrario, una preoccupazione costituzionale de reddenda re publica. Infine, il problema della estensione e del carattere dei poteri di Tiberio imperatore, in confronto coi poteri da Nello stesso senso va anche interpretata la ripugnanza di Tiberio per la patria appellatio, vale a dire per il titolo di pater patriae (Suet., Tib. 67, 4): sin dai primi tempi del suo governo, Tiberio ha sentito benissimo che questo titolo accentua cura et tutela rei publicae ed è dunque in aperta contraddizione con il suo anirnus devotus verso il senato. Si confronti, per connasto, Caligola (v. le nostre osservazioni supra, § 20). Va sottolineato che questa moderatio di Tiberio era apertamente dichiarata e cosciente, in contrapposto alla tendenza monarchica di Augusto: anche l'abbandono del prenome Imperator rientra in questo quacito (cfr. supra, 5 16).
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lui detenuti nel 13 d.C. quale correggente di Augusto, sembra presentare un duplice aspetto: da un lato si tratta di vedere se la collegialità del 13 d.C. fosse una collegialità uguale: dall'altro si tratta di riconoscere in che cosa il principato di Tiberio si distinguesse, quanto a energia di poteri, dal principato di Augusto. Or nonostante le già riferite aporie, sembra necessario concludere, quanto al primo punto, che la collegialità del 13 d.C. fu una collegialità teoricamente pari, o che almeno era sentita come tale per es. da un portavoce del punto di vista di Tiberio, vale a dire da Velleio Patercolo (del resto, anche Suetonio ha communiter, al medesimo proposito); dal che, per altro, non consegue che il principato di Tiberio abbia avuto inizio nel 13 d.C., essendo certo che il medesimo Tiberio calcolasse il suo principato dal riconoscimento senatoriale, un mese circa dopo la morte di Augusto (cfr. HOHL, « Hermes », 1933, pp. 106 sgg.; l'interregnum va dunque dal 19 agosto al 18 settembre 14); e dunque, sarà più semplice considerare che la collegialità, teoricamente pari, del 13 d.C. di fatto non toglieva a Tiberio il carattere di correggente (cfr. Tac., Ann. i, 11: se in partem curarum - vocatum e tuttavia con l'onus regendi cuncta: correggenza con equità di imperio), e quindi rendeva necessaria, al momento della successione, una investitura senatoriale la quale, anche per ragioni politiche, doveva apparire un fatto nuovo e l'effettivo inizio del principato di Tiberio (tanto vero che in Dio, LVI, 33, 4 il quarto libellus di Augusto è interpretato nel senso che k &vx &vp'tv
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p?; cfr. soprattutto HOHL, « Hermes », 1933, p. 113, e da ultimo HARTKE, Rm. Kinderk. [1950], p. 117, 2; noi vedremmo nel passo una generica preoccupazione per il problema successorio, la quale poteva attribuirsi ad Augusto, sì da coonestare il sistema « moderato » di Tiberio). Quanto poi al secondo punto, cioè alle eventuali differenze tra il principato di Tiberio e quello di Augusto, la circostanza che Tiberio nel decennale non rinnovò l'imperium può assumere un carattere di devotus animus verso il senato, se si accetta la spiegazione che ne abbiamo data, come di procedimento per cui si lasciava cadere la cura et tutela rei publicae, considerandosi già necessario e suffi7TOCO(VTO
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ciente l'imperium proconsulare maius et infinitum, con validità per tutte le province; inoltre, noi ricorderemmo, di contro al passo di Dione (LVII, 24, 1), la notizia di Tacito, secondo cui nel 23 d.C. (dunque nell'imminenza del decennale) ci si presenta Tiberio, nel raccomandar al senato i figli di Germanico, ad vana et totiens inrisa revolutus, de reddenda re publica, utque consules seu quis alius regimen susciperent (Ann. iv, 9). Purtroppo, il modo in cui lo storico avverso a
Tiberio ha presentato questo discorso tiberiano impedisce di valutare meglio quel proposito de reddenda re publica, utque consules scu quis alius regimen susciperent; ma s'intende che da Tiberio quel proposito era « sentito » come necessità formale, all'istesso modo in cui, nella riunione senatoriale del 14 d.C., lo stesso Tiberio (secondo la tradizione suetoniana) avrebbe considerato il suo potere suscettibile di termine (sia pure in via teorica) « quando al senato paresse cosa giusta dare qualche riposo alla sua vecchiezza », e certamente al senato aveva chiesto anche una limitazione del suo governo (si ricordi l'interruzione di Asinio Gallo). È molto significativo, a questo riguardo, il passo di Velleio ricordato nel testo: Velleio presuppone che nel 14 d.C. Tiberio esitasse nell'accettare, ed in questo senso presenta la luctatio civ jtatis pugnantis cum Caesare senatus populique Romani ut stationi paternae succederet, illius, ut potius aequalem civem quam eminentem liceret agere principem (Vell. lI, 124, 2); in que-
sto senso il Tiberio velleiano cede perché vede l'impossibilità di lasciare alcunché dell'imperium (un particolare che può illustrare l'episodio di Asinio Gallo nella tradizione tacitiana), cum quidquid tuendum non suscepisset, periturum videret.
Va sottolineato il tipico caso di Haterio che abbraccia le ginocchia del principe, per indurlo ad accettare (Tac., Ann. I, 13) e in genere del senato che tende le mani ad genua ipsius (Tac., Ann. i, 11). Un problema particolare può esser costituito dallo speciale carattere della adozione (cfr. PREVOST, Les adoptions politiques à Rome sous la rép. et le princ. [19491) e successione di Tiberio nell'ambito della famiglia giulio-claudia, a proposito dell'interpretazione di Tac., Hist. i, 16 (discorso di Galba; cfr. da ultimo TREU, Tacitus u. d. An/ang d. Historien, « Atti
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Accad. Pelor. », 1947-50, p. 6, 1; ivi letter.): sub Tiberio et Gaio et Claudio unius familiae quasi hereditas fuimus: loco libertatis erit quod eligi coepimus; et finita luliorum Claudiorumque domo optimum quemque adoptio inveniet; dove appunto la mancanza di Augusto nella serie sub Tiberio et Gaio et Claudio mostrerebbe, secondo K0RNHARDT, « Phibl. », 1943, p. 287, una idealizzazione tacitiana di Augusto; la quale dottrina è corretta da HARTKE, Rm. Kinderk. (1950), p. 145 nel senso che Tacito vorrebbe sottolineare come Augusto abbia designato alla successione un uomo di sangue estraneo (Tiberio), laddove Tiberio e Claudio hanno cercato i successori in domo. Entrambe tesi difficiJmente accettabili. Quella di KORNHARDT, perché è innegabile che Augusto designasse (sia pure con eventuale preoccupazione costituzionale) un suo successore, e precisamente Tiberio. Quella di HARTKE, perché il testo tacitiano dice « noi (principi) sotto Tiberio e Gaio e Claudio fummo come l'eredità di una sola famiglia; ora, la possibilità di venir eletti può essere come un surrogato di libertà »; ma se Tacito volesse distinguere Augusto dai tre imperatori Tiberio Gaio Claudio perché Augusto ha chiamato alla successione Tiberio, di sangue estraneo, non s'intenderebbe la menzione di Gaio (giacché anche questi dovrebbe essere distinto, non avendo egli chiamato alla successione nessuno) né soprattutto s'intenderebbe la menzione di Claudio, il cui successore era legato a Claudio né più né meno come Tiberio ad Augusto, vale a dire non per consanguineità ma per adozione (cfr. in genere BRANGER, « Rev. ét. lat. », 1939, p. 171; SIBER, « Zeitschr. Sav. St. », R.A., 1944, p. 266; PREVOST, Op. cit.); si veda quanto osserviamo a proposito del concetto di posteritas in Curzio Rufo, e di supremus Claudiorum sanguis in Tacito, supra, § 24. A me sembra che Augusto non venga nominato da Tacito, perché questi vuol notare i successori di Augusto fino a Claudio (non oltre: Britannico era l'ultimo della famiglia [S 241 claudia; lo stesso Tac., Ann. xiii, 1,
sottolinea che Silano era e Caesarum posteris: quippe - divi Augusti abnepos erat).
Quanto al culto imperiale, e alla tendenza di Tiberio a rifiutare l'associazione al culto per Augusto, è tipica la documentazione offerta dalle due iscrizioni della cittadina laconica
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di Gytheion: cfr. ROSTOVZEV, L'empereur Tibère et le culte imperial, «Rev. hist. », 1930, pp. 26 sgg.; KORNEMANN, Neue Dokumente z. lakon. Kaiserkult, « Abhandl. d. siichs. Gesellsch. f. vateri. Kultur », i, 1929, p. 15; da ultimo CHARLESWORTH, « Ann. Br. Sch. Rome », 1939, p. 1; MONTEVECCHI, « Epigr. », 1945, p. 104; sebbene nella sua lettera (come poi Claudio nella lettera agli Alessandrini) Tiberio rifiuti gli onori divini, tuttavia il decreto, pur non assimilandolo agli dèi, lo lascia partecipare agli onori; Livia (« organizzatrice dell'idolatria », LAMBRECHTS, « La nouv. Clio », 1952, p. 257; cfr. GRETHER, « Amer. journ. Phil. », 1946, p. 233; si noti la differenza tra l'atteggiamento dell'Augusta adottata per testamento dal marito Augusto, e l'atteggiamento di suo figlio Tiberio) è divinizzata come Tyche della città (cfr. anche GRANT, op. cit.). Tiberio magister in un frammento di atti degli Arvali (16 d.C.): GHISLANZONI, «Ath. », 1946, pp. 188 sgg.; cfr. DEGRASSI, «Doxa », 1949, p. 95; altri testi arvalici di epoca tiberiana sono i numeri 2-8 della raccolta di PAs0LI, Acta /ratrum Arvalium q. p. a. 1874 rep. sunt (1950). Va inoltre considerata l'inserzione del nome di Germanico (dopo la morte) nei Carmina Saliaria, attestata dalla tavola Hebana, 1, 4 sgg. (cfr. in/ra, App. I; ivi anche discussione sul grande cammeo di Parigi). Per la restante documentazione cfr. ALFÒLDI, « Rom. Mitt. », 1933; 1935. In genere, sul culto imperiale, si ricordino i lavori di BEURLIER, di miss TAYLOR, di ENSSLIN, più volte citati. Come era schivo di onori, così anche Tiberio era restìo alle costruzioni: un tratto che caratterizza la sua gestione finanziaria; cfr. tuttavia LUGLI, « Bull. Com . », 1941, p. 37; da ultimo DEGRASSI, « Doxa », 1949, p. 75. Gli editti di Germanico (SB, 3924) in Egitto in Documents Illustr. the Reigns 0/ Aug. a. Tib., coil. by EHRENBERG a. JONES (1949), nr. 320; cfr. HOHL, Ein ròm. Prinzin Ag., « Preuss. Jhb. », 1920, pp. 344 sgg.; WILCKEN, Zum Germanicus-Papyrus, « Hermes », 1928, pp. 48 sgg.; l'entusiasmo dell'Egitto è facilmente comprensibile. Per le sue conseguenze finanziarie, la visita di Germanico è ancor piùistruttiva: Tacito (Ann. n, 59) ha notato che levavit apertis horreis pretia frugum; la documentazione già ricordata (SB, 3924) e un papiro contenente una ricevuta per requisizione aderata
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Chr. 413) attestano il verificarsi di requisizioni, che Germanico stesso voleva limitate secondo gli ordini del suo segretario Baebius. Come tali requisizioni potessero condurre a un ribasso di prezzi, alla maniera del tacitiano levavit pretia frugum, è difficile a intendere; o la notizia d Tacito è derivata da simpatia dello storico per Germanico, o anche si può pensare che le requisizioni operate dallo stato maggiore di Germanico fossero per lo più aderate (come nel testo citato WILCKEN, Chr. 413), sì da non indurre rarefazione di merci, o infine si cercherà la spiegazione nell'apertura degli borrea (cfr. WILCKEN, « Hermes », 1928, loc. cit.; il problema merita un ulteriore approfondimento). Sull'identificazione Germanicus-Nike (come anche DrususAphrodite) sarà opportuno richiamare (cfr. OTTO-BENGTSON, Zur Gesch. d. Nieder,ganges des Ptolemiierreiches, « Abhandl. Bayer. Akad. Wiss. », 1938) l'identificazione Philometor-Dikaiosyne. Sull'attività di Germanico in Antiochia può gettar luce la nuova fioritura edilizia della città, anche sotto suo figlio Caligola: GR0AG, « Wiener Studien », 1932, p. 204. Sulla politica « palmirena » di Germanico cfr. in/ra, xii. Com'è oscura la morte di Germanico, così anche quella di Druso minore (analisi del racconto tacitiano in PASSERINI, «Studi giurid. in mem. Ciapessoni », 1947, pp. 228-229; da ultimo EISENHUT, « Mus. Helv. », 1950, pp. 123-128). Per Mera Ludovisi e Antonia minore (la madre di Germanico), cfr. RuMPF, « Abh. Preuss. Akad. », 1941. Iconografia di Druso minore: PIETRANGELI, « BuIl. mus. imp. », 1936, p. 61; pel ritratto di Puerto Genil, GARdA 'i BELLIDO, Esculturas romanas de Esp. (1949). Anche il giudizio sulla politica estera di Tiberio dipende in parte dalla valutazione della tradizione tacitiana sull'opera di Germanico in Oriente. Così di recente KAHRSTEDT, Ariabanos III u. seme Erben (nelle « Dissertationes Bernenses », ser. I, fasc. 2, 1950, p. 18) ha sottoposto a critica la tradizione tacitiana (Tac., Ann. il, 58) ritenendo che nelle trattative del 18 d.C., se da una parte Artabano iii rinunziava ad un re armeno d'investitura partica, d'altra parte Germanico avrebbe rinunziato alla dinastia romanofila degli Atropatidi in Atro(WILCKEN,
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patene. Per mio conto, insisterei piuttosto sulla circostanza che in Tac., Ann. vi, 31, all'anno 35 d.C., nel narrare le vicende che condussero all'invio del re Tiridate, di parte romanofila, e di primogenitura arsacidica, contro Artabano iii, ci vien presentato Artabano come un re che di recente ha ottenuto successi, in seguito ai quali ha assunto superbiam nei riguardi di Roma (is metu Germanici fidus Romanis ) aequabilis in suos, mox superbiam in nos, saevitiam in populares sumpsit, fretus bellis, quae secunda adversum circumiectas nationes exercuerat, et senectutem Tiberii ut inermem despiciens avidusque Armeniae cui, defuncto rege Artaxia, Arsacen, liberorum suorum veterrimum, imposuit). Nella formula bellis, quae secunda adversum circumiectas nationes exercuerat Tacito può
aver compreso un'azione contro l'Atropatene, in seguito alla quale in Atropatene venne scacciata la romanofila dinastia degli Atropatidi; nella interpretazione che noi proponiamo, la definitiva cacciata degli Atropatidi verrebbe abbassata di circa un decennio, e forse più, dopo l'entente cordiale fra Germanico e Artabano nel 19 d.C. La questione si connette con la generale interpretazione delle vicende del regno di Artabano III: fra le tradizioni apparentemente opposte, che ne fanno un rampollo dei Dahae (dunque, dell'Iran nordorientale), o viceversa un re di Atropatene prima dell'assunzione al regno partico - tradizioni che possono designarsi, rispettivamente, come « tacitiana» e « iosephiana » - noi non vedremmo necessariamente un contrasto; viceversa, è ben possibile che Artabano iii, arsacide per parte di madre (sulla qual cosa non è alcun dubbio), e di origine iranico-orientale per parte di padre, si fosse ad un certo momento insediato nell'Atropatene (dalla quale gli Atropatidi già erano stati cacciati una prima volta, in seguito al loro atteggiamento romanofilo, d'intorno al 31 a.C.). Così Artabano potrebbe esser salito sul trono di Atropatene in un momento indeterminato (poniamo, d'intorno all'inizio dell'èra volgare), come rampollo della dinastia amiromana che lì si era insediata nel 31 a.C., in seguito alla cacciata degli Atropatidi. Se ammettiamo che gli Atropatidi furono restituiti in Atropatene d'intorno al 9 d.C. (ciò è stato reso molto probabile da KAHRSTEDT, op. cit., 18), ne conseguirà, secondo la nostra ricostruzione, che Artabano appartiene ad un
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ramo iranico-orientale, il quale dal re arsacida fu insediato nello stato occidentale vassallo dell'Atropatene intorno al 30 a.C.; questo ramo iranico-orientale, imparentato con gli Arsacidi in quanto il padre di Artabano aveva sposato una principessa arsacidica, rappresentava in Atropatene la tendenza antiromana; quando, nel 9 d.C., Augusto insediò gli Atropatidi in Atropatene e Vonone sul trono partico, Artabano iii, che in quel momento regnava in Atropatene, inalberò la bandiera nazionale iranica contro Vonone; e la sua vittoria nel 11/12 d.C. lo portò direttamente sul trono partico, mentre però in Atro patene restava la dinastia atropatide insediata da Augusto nel 9 d.C. Questa dinastia fu dunque l'ultimo resto del grandioso tentativo augusteo del 9 d.C.; e si protrasse - secondo la ricostruzione da noi qui proposta - fin verso il 30 d.C., od anche oltre; nel 35 d.C., certamente, non esisteva più, ed era stata sostituita con una dinastia vassalla del trono di Ctesi phonte. Così Artabano iii aveva compiuto la sua opera volta a rovinare il tentativo augusteo del 9 d.C. in nome dell'avita tradizione iranica. È anche assai significativo, nel ricordato passo di Tac., Ann. VI, 31, il tono di Artabano iii, che - pur esponente di una secondogenitura arsacidica - ormai si considera successore di Ciro e di Alessandro. Questo grandissimo fra i dinasti parti ha dunque operato una rivoluzione nazionale, la quale si estese decisamente verso gli ultimi anni di Tiberio; da Germanico ha ottenuto l'eliminazione di Vonone, l'esponente della primogenitura partica romanofila e non più nazionale-iranica; negli ultimi anni di Tiberio ha potuto eliminare l'ultimo avamposto romanofilo in terra iranica, la dinastia atropatide in Atropatene; nel 35 ha infine posto la candidatura del figlio al trono armeno; ma allora ha dovuto sostenere l'urto dello stato di Tiberio, il quale con l'invio dell'esponente del ramo primogenito arsacidico (Fraate; e poi Tiridate), e con la vittoriosa azione in Armenia, riuscì temporaneamente ad allontanarlo dal trono. Ma presto Artabano ritornò al potere per il richiamo del partito nazionale partico. In conclusione: quanto alla perdita dell'Atropatene da parte della dinastia atropatide (ed insomma dei suoi protettori romani), noi tenderemmo a datarla in epoca di circa un decennio, o più, posteriore alle trattative con Germanico; e in questo senso po-
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tremmo anche accogliere il tacitiano metu Germanici fidus Romanis; con la limitazione, però, che evidentemente si offre dell'opera di Germanico nei confronti del misero Vonone (il quale insuccesso da Suetonio sarà addossato a Tiberio). Per la letteratura su questo punto, va ricordato soprattutto, dei più recenti, il già citato KAHRSTEDT; si aggiunga, pure recentissimo, SCHUR, Parthia, in RE; sempre da tener presenti il vecchio, ma grande « Altmeister » GUTSCHMID, e dei moderni la Political History o/ Parthia del DEBEVOISE. Il commercio con l'India è stato, sotto Tiberio, particolarmente attivo. È interessante notare che le monete di Tiberio, così di oro come di argento, dominano fra i reperti di monete romane in India, e superano, quanto a numero, le monete dei suoi successori. La spiegazione di questo problema non è univoca: pensano alcuni che le monete dei successori di Tiberio fossero più facilmente fuse che non quelle dello stesso Tiberio (e già di Augusto), le quali avevano sapore di novità e prime s'imponevano all'attenzione; pensano altri che monete di Tiberio siano state coniate dai Romani come specialmente pertinenti al commercio indiano (cfr. sulla questione WARMINGTON, The Commerce between the Roman Empire a. India [1928], pp. 276 sgg.; MIcKwI'rz, Geld u. Wirtsch. [1932], p. 29);
io cerco la spiegazione nel fatto che gli Indiani preferivano pecuniam veterem et diu notam (cfr. i Germani: in/ra, § 32;
e xii, sull'editto di [Mu? ]ciano). In ogni caso, si può ben dire (pur tenendo conto dei precedenti augustei) che il regno di Tiberio si presenta come « epocale » per il commercio fra l'impero e l'India. Un problema assai interessante relativo al regno di Tiberio riguarda il suo atteggiamento nei rispetti del messaggio cristiano (per la generale problematica sulle origini cristiane cfr. in/ra, XIII; App. ii). Il testo da cui si parte è Tert., Apol. v, 1-2: Tiberius ergo, cuius tempore nomen christianum in saeculum introivit, adnuntiatum sibi ex Syria Palaestina, quod illic veritatem ipsius divinitatis revelaverat, detulit ad senatum cum praero,gativa su//ragii sui. Senatus quia non ipse probaverat, respuit. Caesar in sententia mansit, comminatus periculum accusatoribus Christianorum. La comune opinione (per es. CUMONT, «Rev. hist. », 1930 5 p. 265; GUARDUCCI,
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« Rend. Pont. Accad. », 1941-2, p. 94) considera priva di valore questa notizia, mettendola in rapporto con gli apocrifi Acta Pilati, e con altri documenti apocrifi, e rilevando il silenzio di Tacito, Seneca, Filone, Flavio Giuseppe (CIAcERI, Tiberio, pp. 343 sgg.), come anche l'improprietà del termine Syria Palaestina che dovrebbe essere posteriore a Tito (CIACERI, p. 345). Contro questa communis opinio si è tentata di recente (VOLTERRA, «Scritti in on. di C. Ferrini », Univ. Catt. S. Cuore [1946] estr.) un'acuta ed interessante rivalutazione della notizia. Il VOLTERRA ha sottolineato che nel secondo secolo l'inventore di una decisione per cui si respingeva la divinità del Cristo avrebbe proceduto alla falsificazione con criteri diversi, e soprattutto avrebbe attribuito la decisione non già al senato, ma all'imperatore medesimo: « sembra strano che nel secondo secolo, immaginando una decisione dell'autorità romana, la si fosse attribuita al senato e non all'imperatore, il quale in quell'epoca aveva già assunto un'importanza assai superiore a quella della curia e che, comunque, agli occhi dei sudditi appariva già come l'unico supremo potere »; tanto più, poi, che Tiberio « non ha mai goduto la simpatia dei Christiani ». Inoltre, il VOLTERRA ha attirato l'attenzione (cfr. già GUARDUCCI, loc. cit., 96) sul passo di Thallos (F Gr Hist 2, 56, F 1), storico di incerta identificazione e di oscura tendenza (LAQUEUR, RE Ix, 1225), in cui Africano, il famoso cronografo cristiano dell'epoca severiana (in/ra, xxix), ha ravvisato un travisamento della tenebra diffusa alla morte di Cristo. Un analogo punto di vista, fuori della cerchia degli specialisti, è per es. in PAPINI, « Nuova antologia », gen.-feb. 1934, pp.
40 sgg: Naturalmente, per chi rivaluta la notizia di Tertulliano, la proposta avanzata da Tiberio sarebbe da intendere come un tentativo di equiparare sotto, l'aspetto religioso le popolazioni ebraiche; essa inoltre potrebbe indurre a datare sotto Tiberio (o Caligola) il Ka ~a apog conservato in un'epigrafe che
il Froehner aveva ricevuto da Nazareth e comminante pena xcr Àc?¼ux&nx & »cùtp&rro capitale &kv rouq xcx t&vou &cpptp96'tx d &répou T&rcou (6)ct ovpt secx6-rx &,r &&xoct TnL rTv xcx cufvv Xo .tcr -tt• ecx6'rx (da ultimo GuAIuuccI, loc. cit., passim; ivi letter.). Il carattere di questo rcxy, e la sua provenienza da Naza,
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reth o comunque dalla Palestina, e il rigore della pena, specie 'répou ¶67rou, hanno fatto pensare ad una conl'accenno nessione con la resurrezione di Cristo; in tal caso, l'attribuzione all'estremo tempo di Tiberio o al periodo di Caligola (e questa, anzi, ancor meglio) potrebbe confortare l'accoglimento della notizia tertullianea nel senso proposto dal VOLTERRA. E tuttavia: il silenzio di Tacito e Suetonio è grave; di Tacito, il quale non si sarebbe lasciata sfuggire questa occasione, per ancor meglio infamare gli ultimi anni di Tiberio; di Suetonio, il quale sa informarci sulla politica di Claudio nei riguardi del cristianesimo, e certo, da buon segretario degli archivi imperiali, avrebbe ben potuto conoscere, se autentico, il senatoconsulto di cui parla Tertulliano. Inoltre, non si vede chiaramente perché Tiberio volendo pareggiare gli Ebrei sul piano religioso, pensasse alla divinizzazione di Cristo, e non anche al dio ebraico in primo luogo. Ancora: sotto l'influsso di Seiano (STAUFFER, « La nouv. Clio », 1949-50, p. 495) Tiberio ha perseguitato i Giudei dal 15, e più ancora dal 19 in poi (los., Ant. XVIII, 3, 5; Tac., Ann. li, 85; Suet., Tib. 36) fino al 31 circa, in cui confermò ad essi i privilegi concessi da Cesare e da Augusto; in questo quadro, ponendo nel 35 (secondo il Chron. Pasch.) il preteso senatoconsulto di cui parla Tertulliano, si sarebbe tentati d'interpretare quel senatocon sulto come una reazione alla precedente politica d'influsso seianeo (Seiano è caduto nell'ottobre 31); ma difficilmente si spiegherebbe la divinizzazione del Cristo, a sì poca distanza (diciamo 5 anni) dalla morte, anziché per es. la esaltazione di un « Maestro » processato già ai primissimi tempi di Erode, voglio dire (secondo la mia interpret.: in/ra, App. ii) il Maestro della Nuova Alleanza. Infine: Filone ebreo non parla di Gesù; non ne parlava Giusto di Tiberiade; difficilmente, già nel 35, senatori romani avrebbero parlato di Cristo come di un eventuale dio. Comunque - e questo è un punto decisivo - la impossibilità di un senatoconsulto sul Cristo (il quale presupporrebbe idee chiare sul Cristo stesso) appare dall'oscurità della documentazione suetoniana nel famoso impulsore Chresto per l'epoca di Claudio (in/ra, App. il). In queste condizioni, è preferibile continuar a considerare la notizia data da Tertulliano come una falsificazione. Restano,
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tuttavia, i problemi acutamente posti dal VOLTERRA: perché l'attribuzione della proposta a Tiberio? perché il rilievo dato all'attività senatoriale, rilievo che meno si addice ad una falsificazione del n secolo? In risposta a questi problemi, noi rimanderemo alla notizia suetoniana, che Domiziano aveva soprattutto attenzione per i commentarii e gli acta di Tiberio (Suetonio dice addirittura che Domiziano non leggeva altro all'infuori di questi); in epoca domizianea, dunque, l'opera legislativa del regno di Tiberio fu messa in eccezionale, e anzi esclusivo, rilievo. Or la invenzione di un senatoconsulto, in cui si respingesse la proposta tiberiana di accogliere Cristo fra le divinità, ben poteva immaginarsi da ambienti come quelli più vicini alla corte domizianea, nella quale Flavio Clemente, il padre dei successori designati di Domiziano, era cristiano, e cristiana Domitilla, e via dicendo; la invenzione ben si porrebbe, dunque, sotto l'impero di Domiziano, quando alla corte prevalevano elementi cristiani come Flavio Clemente, e insomma prima della persecuzione (la quale, come colpì in Roma per es. Flavio Clemente, così in Palestina colpì la famiglia di Gesù). In questo periodo era interesse della falsificazione presentare il senato come quello che respuit la proposta, e additare in Tiberio - i cui Acta erano eccezionalmente esaltati da Domiziano - l'autore della proposta di divinizzare Cristo. In conclusione, il periodo domizianeo si presenta come il più adeguato a datare l'invenzione del senatoconsulto ritenuto autentico da Tertulliano per due ragioni: a) perché in esso sono particolarmente ed esclusivamente esaltati il ricordo e la lettura degli Acta tiberiani; b) perché in esso si sono verificate (nel periodo del predominio di elementi ebraizzanti-cristiani alla corte) le condizioni necessarie e sufficienti per indicare, nell'ammirato Tiberio, l'autore di una proposta filocristiana, e nell'avversato ambiente senatoriale, la ragione del fallimento di una tale proposta. Cfr. anche in/ra, xviii. K cxpoc già della collezione Quanto infine al Froehner, una sua particolare datazione non è agevole: né dunque se ne possono trarre conclusioni per una ricostruzione dei rapporti fra lo stato romano e il cristianesimo in questi primissimi tempi; se mai si può dire che, se l'iscrizione proviene precisamente da Nazareth (donde fu inviata al Froehner),
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essa è posteriore al 44
(DE SANCTIS, « Rend. Pont. Acc. », 1931, p. 15; GUARDUCCI, loc. cit., p. 89), e dunque (poiché
questa provenienza precisa è di gran lunga la più probabile) il Koccp che ha emanato l'editto sarà da riconoscere in Claudio piuttosto che in Tiberio o Caligola. Cfr. in/ra, xi. Per ciò che riguarda la politica tiberiana nei riguardi degli Ebrei, un importante aspetto è stato messo in luce, di recente, da STAUFFER, Christus u.. die Caesaren (1952 3); « La nouv. Clio », 1949/50, cit.: come si spiega la monetazione ènea (con figu razione di simpulum e lituus) del procuratore Ponzio Pilato? Essendo tale monetazione del tutto isolata (per il suo carattere troppo chiaramente pagano) fra le altre emissioni procuratorie di Giudea, ne deriva un carattere propagandistico, che STAUFFER considera provocazione antisemitica (l'osservazione di STAUFFER è, senza dubbio, giusta; ma gli ambienti romani hanno voluto la provocazione in quanto tale? il lituus, come bastone augurale, entrava nella cerchia cui apparteneva il concetto stesso di Au,gustus, e non era perciò direttamente provocatorio, ma piuttosto propagandistico) '. Un tipico episodio dell'incomprensione di Pilato per la sensibilità religiosa giudaica è l'introduzione a Gerusalemme dei vessilli con l'effige dell'imperatore; la gravità della cosa è ora tanto più comprensibile, dopo le recentissime scoperte del Mar Morto, in quanto nel § 18 del Commentario di Habacuc (che sarà stato redatto una settantina di anni prima della procuratela di Pilato) una tipica caratterizzazione dei detestati Kittim (e cioè dei Romani) è proprio il culto delle insegne (per la discussione sul Commentario di Habacuc, cfr. in/ra, App. Il; sull'ostilità ebraica al culto delle insegne cfr. per altro KRAELING, « Harv. Theol. Rev. », 1942, p. 263). Interpretazioni della perX. CALIGOLA (cfr. 55 20-24) sonalità di Caligola: WILLRICH, « Klio », 1903, pp. 85, 288, 397;
Caligola (1906 2); LINNERT, Beitr. z. Gesch. Caligulas (1909); BALSDON, The Emperor Gaius (1934); GELZER, VENTURINI,
Si osservi, per es., che Tiberio appare con lituuv nella citata sardonica di Parigi, che noi dateremo all'incirca al terzo anno di Tiberio (dimostrazione in/ra, App. I).
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(1940); cfr. anche », 1932, p. 203; il commentario alla Vita suetoniana di Caligola (1-21) del MAURER (1949); LUGAND, « Rev. ét. anc. », 1930, p. 9; CROCE, • Quaderni della critica », 1949, luglio, 15, 16. La successione di Caligola, in quanto si differenzia dalla • senatoriale » successione di Tiberio, pone il problema del nuovo rapporto fra imperatore e cohortes: in questo senso, l'indagine dovrebbe partire dallo studio dei tipi numismatici; è notevole il parallelismo con Nerone, anche in questo caso; è istruttivo il confronto col tipo imper. recept. di Claudio (e praetor. recept.). Per la numismatica di Caligola, da ultimo SCHWARZ, « Rev. num. », 1951, p. 37. La tendenza « democratica » di Caligola (supra, § 20) è anche illustrata dalla monetazione con pileus; per la sua interpretazione nel quadro della storia dei comizi, cfr. quanto osserviamo nell'App. I. innegabile che Caligola ha seguito, coscientemente, una politica che lo contrapponesse a Tiberio. Citerei, come caso tipico fra i molti, da una parte l'ostilità di Tiberio contro il culto di Iside a Roma (los., Ant. Iud. XVIII, 4), dall'altra l'Iseum Campense di Caligola. La tradizione su Caligola è, naturalmente, tutta da riesaminare: basti citare, per es., il suo preteso assassinio di Tiberio, che era ignorato dalla storiografia più antica (e manca ancora in Tacito), che troviamo riferito (come sospetto) in Suetonio, che è diventato precisa certezza in Cassio Dione. - Così si spiega la difficoltà, pci moderni, di intendere alcune sue decisioni. Per esempio, è a tutti noto, sin dalla famosa opera del FRAZER, The Golden Bough (ora in ediz. ital. a cura di CocCHIARA, 1950), l'intervento di Caligola per il ritorno all'antico costume nell'arcaico sacerdozio del rex Nemorensis (su cui, RE x, 381; PAssERINI, Caligola e Claudio MOMIGLIANO, « Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa
1
ultimamente, il mio Dalla mon. allo stato rep., 1945, p. 30; BERNARDI, « Ath. », 1953, p. 273). Tuttavia, è difficile, per
lo studioso moderno, intendere le ragioni profonde di quell'intervento (cfr. per es. i tentativi di spiegazione di WILLRICH, Arcaico, ma non anteriore - come si è pensato - all'addomesticamento del cavallo: il divieto di avvicinare i cavalli al sacro bosco ha un senso, come tabù, proprio in quanto il cavallo è già animale addomesticato; cfr. il caso del dictator.
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p. 447; BERNARDI, loc. cit.). Noi proporremmo di spiegarlo collegandolo con l'identificazione Caligola = luppiter Latiaris (chiaramente attestata da Cassio Dione; cfr. anche Suet., C. 22 5 2); come Giove Laziare, Caligola doveva curare il regolamento del sacerdozio nemorense, riportandolo alle forme arcaiche. Nello stesso modo spiegheremo il culto di Caligola pci Dioscuri (connesso con il ponte di legno da lui costruito fra il Campidoglio e la ingrandita domus tiberiana:
loc. cit.,
cfr.
LUGLI,
Roma antica. Il centro monum., 1946, p. 186).
Tutto ciò presuppone larga cultura antiquaria in questo giovanissimo imperatore (il suo zio e successore, il,dotto etrusco logo Claudio, era sacerdote di Giove Laziare: un altro aspetto dei legami, su cui torneremo, fra zio e nipote). Noi possiamo dunque parlare di un « tentativo ellenistico » di Caligola, ma solo a patto di tener presenti i motivi arcaico-romani che si connettono a quel tentativo; Caligola non è soltanto l'adoratore di Iside (sull'Iseum del Campo Marzio, GATTI, « Rend. Pont. Acc. Arch. », 1943-44, p. 116) ma anche il rappresentante terreno di Giove Laziare. Per il tentativo di configurare in maniera ellenistica il culto del monarca cfr. EITREM, Zur, Apotheose, « Symb. Osi. », 1932, p. 11; L'ORANGE, «Symb. Osi.», 1941, p. 105. La statua nel tempio gerosolimitano, così come le statue nelle sinagoghe, sono in certo modo concepite come sostituenti l'imperatore stesso, nel senso che poi fu sempre tipico per il culto imperiale in genere: cfr. ultimamente le osservazioni di ENSS LIN, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1943, H. 6, pp. 28-29. Un problema particolare è posto da GAGÉ, « Rev. arch. », 34, 1931 ) 20, con importanti conclusioni sulla concezione imperiale giulio-claudia. - Tempio di Caligola a Mileto: ROBERT, « Helienica », VII, 1949Stretti rapporti tra Caligola imperatore e suo zio Claudio, da lui chiamato al consolato, sono attestati in PRy1 il, 148 (40 d.C.), relativo ad una loro oa in Egitto (da cfr. con le molte oxr(oct di altri imperatori giulio-claudii e di membri della famiglia imperiale: elenco in ROSTOVZEV, Storia econ. e soc., pp. 339 sgg.). Delle sue fantastiche ordinanze, talune potranno spiegarsi nel quadro di esigenze religiose per iniziati; per es. il ponte
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di Baia che si potrebbe connettere con la supplicatio (secondo una breve ma acuta suggestione di GAGÉ, Huit recherches [1950], p. 109, 1; del resto il ponte di Baia appartiene, nella narrazione di Suetonio, alle « ordinanze da imperatore » e non da monstrum). Anche la domanda di stipes (cfr. lo stesso GAGÉ, p. 163, 1) e talune altre stranezze, potranno avere spiegazione in particolari sfere di interessi religiosi. Cfr. anche ONORATO, La pazzia di Caligola (1934). Da un papiro di Giessen parte VON PREMERSTEIN, Alex. Geronten v. Kaiser Gaius (1939).
Sui rapporti fra lo stato romano e la Giudea
GINSBURG,
Rome et la Judée (1928). Altra letter. in/ra, App. il. La kategoria di Apione fu introdotta nel terzo libro dei suoi Aigyptiak: MoTzo, « Atti Accad. Torino », 1913. Sul « decline and fali of the city coinage in Spain »: GRANT, • Num. Chron. », 1949, p. 93.
Sul ricordo di Caligola nel tardo impero cfr. S. MAZZARINO, «Doxa», 1951, p. 128. Quanto al passo di Curzio Rufo, illustrato a § 24, e al connesso problema della datazione della Historia Aiexandri di questo autore, la più recente bibliografia in GITTI, Alessandro Magno all'oasi di Siwab (1951), 15, 2; pp. 170-171. L'idenaticazione col proconsole di Africa, oltre che sulle ragioni addotte nel testo, si può anche fondare sulla seguente considerazione: Pi., Ep. VII, 27 non menzionerebbe Quintus Curtius tout court (presupponendo dunque un solo personaggio veramente notevole, di questo nome), qualora si fossero avuti, in epoca « senecana », due personaggi di questo nome. t vero, sì, che il passo di Curzio, secondo la dimostrazione di STROUX, « Philol. », 1929, pp. 233 sgg. presuppone un effettivo pericolo di bella civilia; ma per ciò non è necessario ricorrere alle vicende del 69. Proprio la morte di Caligola, secondo l'interoca pretazione da noi svolta a § 20, aveva fatto prevedere vi.Lpu?ov (los., Ant. XIX, 228): in queste circostanze, il T67ro della nox quam paene supremam habuimus, può anche aver un'accezione pregnante. Il confronto più significativo resta dunque con Seneca: sidus hoc quod praecipitato in pro! undum et demerso in tenebras orbi re/ulsit, semper luceat (Cons. ad Poi. 13, 1), ed ancora nibii ex domo sua mortale
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esse sentiat. rectorem Romano imperio /iiium longa fide approbet et ante ilium consortem patris quam successorem aspiciat (Cons. ad Poi. 12, 5); dove a Claudio si attribuiscono qualità di crwTnp e si augura successione ex domo sua, come nel passo delle Historiae Aiexandri. Da questo punto di vista, è fondamentale DAHLMANN, Studien zu Senecas Cons. ad Poi., « Hermes », 1937, spec. pp. 311 sgg. Naturalmente, il razionalismo (opposizione alla mantica!) delle Historiae Aiexandri
non contrasta con la tradizione sulla « predizione » del proconsolato di Curzio Rufo: questa tradizione non implica che lo stesso Curzio credesse nella mantica; anzi, proprio l'opposizione delle Historiae Alexandri ai vates potrebbe essere un motivo polemico, che Curzio Rufo opponeva alle dicerie sul suo conto. Quanto all'atteggiamento dei pretoriani nei confronti di Caligola, le nostre osservazioni nel testo si fondano sulla circostanza, sicura, che ad un certo momento le coorti pretorie furono portate, da 9 che erano sotto Tiberio, a 12: questo momento è anteriore al 65 (in cui appare un tribuno della 12 coorte pretoria). Ma esso sembra datarsi più probabilmente nel decennio 37-47, per cui Tacito si è perduto (si attenderebbe che un aumento delle coorti pretorie si trovasse menzionato da Tacito; poiché egli non ce ne fa menzione nei libri pervenuti, ciò sembra significare che quell'aumento era ricordato nei libri perduti). Or tra Caligola e Claudio (per il quale ultimo propende PASSERINI, Le coorti pretorie [1939], 53, 2) noi preferiremmo Caligola, per la coincidenza della receptio di Claudio ad opera di un centurione pretoriano d'origine epirota, e dell'iscrizione C VI, 2767, in cui un pretoriano di Heraclea Sentica appare come Iulius (non Claudius), dunque ha ricevuto la cittadinanza da un imperatore della gens lulia; l'iscrizione C VI, 2767 non può considerarsi da sola, senza il confronto con il dato sul centurione pretoriano che trovò Claudio; entrambi sembrano suggerire che l'ammissione di altri provinciali nelle coorti pretorie era intervenuta nell'epoca di Caligola. È interessante notare che, scrivendo nell'epoca di Costanzo, lo storico Aurelio Vittore ha veduto le vicende della morte di Caligola sotto l'aspetto - d'attualità ai suoi tempi - della preminenza di un elemento militare alogeno
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sulla tradizione repubblicana: secondo lo storico dell'epoca di Costanzo, la libertas repubblicana si sarebbe restituita, se non fossero intervenuti i soldati di origine allogena (Aurelio Vittore sottolinea appunto che il centurione il quale Titum Claudium occultantem se repperit, era di origine epirota; e premette, a mo' di commento, che dopo la morte di Caligola relatum excellens Bruti facinus eiecto Tarquinio foret, si per Quirites modo militia exerceretur). Naturalmente, Aurelio Vittore qui fa una considerazione di attualità pei suoi tempi, in cui elementi stranieri (soprattutto germanici) tendono a predominare sui soldati romani chiamati alla leva per protostasia; ma la sua considerazione è stata possibile, perché in verità nelle coorti pretorie di Caligola erano penetrati, sia pur in piccola misura, elementi non italiani; una tale immissione dovette fermarsi sotto i successori di Caligola, tanto vero che fino alla riforma di Severo i provinciali furono sempre una percentuale o assai ridotta o talora senz'altro esigua rispetto agli Italiani (si ricordi Tacito: le coorti pretorie sono Italiae alumni). In questo senso si potranno accogliere, anche se con le dovute riserve, le osservazioni di DURRY, Les coh. prét. (1938), p. 256; contra PASSERINI, op. cit., pp. 159 sgg. Cfr. in/ra, xviii, n. 2. XI. CLAUDIO
(cfr. 55 20-25)
Monografie:
LEHMANN,
Claudius u. Nero u. ihre Zeit (1858); MOMIGLIANO, L'opera dell'imp. Claudio (1932); STÀHELIN, Kaiser Claudius (1933); THIEL, « Tijdschrift voor geschiedenis », 1938 ) I; SCRAMUZZA, The Emperor Claudius (1940), dove il problema è impostato
anche dal punto di vista delle fonti (riconoscimento in Cassio Dione di una tradizione più equa che non quella seguita da Tacito; cfr. anche dello stesso SCRAMUZZA, « Harv. St. Ferguson », 1940, p. 261, sull'editto di Fabio Persico); (JANs SEN)GALAMA, Uit de Rom. Keizertijd (1951). Sulla monetazione ènea cfr. SUTHERLAND, « Journ. Rom. St. », 1941, p. 70. CHARLESWORTH, Documents Illustr. the Reigns of Claudius a. Nero (1939). - La politica di Claudio nei riguardi del cristianesimo fu, com'è naturale in questo periodo, un aspetto della sua politica ebraica. Ciò è abbastanza chiaro in Roma (Iudaeos impulsore Chresto tumultuantes Roma expulit; cfr.
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« Harv. Theol. Rev. », 1944, p. 341, spec. pp. 348349). Anche in Alessandria il problema doveva porsi in questi termini: documento fondamentale la lettera di Claudio agli Alessandrini, pervenuta in un papiro del British Museum. Questa famosa lettera agli Alessandrini è stata studiata anche in connessione col 8vk-rcx2 Kit 'aaQoq cui già accennammo supra, Ix; ma il grosso problema consiste sempre nella difficoltà di intendere, nella lettera, la xotv ti OXr)JL&V7 V6GOV (Paolo è loim6s in Pr. 24,5; cfr. col concetto del « contagio » cristiano nella famosa lettera di Plinio a Traianò) Sulla lettera agli Alessandrini H. IDRIs BELL, jews and Christians in Egypt (1924); « Harv. Theol. Rev. », 1944, p. 185; SWAIN,
Cults a. Creeds in Gr.-Rom. Egypt (1953), p. 78; REINACH, « Rev. hist. rei. », 1924, n, p. 108; GUIGNEBERT, « Rev. hist. rel. », 1924 9 li, p. 123; DE SANCTIS, « Riv. fu. class. », 1924 9 p. 473; STUART JONES, « Journ. Rom. St. », 1926, p. 17; BRECCIA, Egitto greco e romano, (s.d.); SESTON, « Rev. hist. phil. rei. », 1931, p. 275. N/ao, ad ogni modo, va messo
in connessione con i proselitismi ebraico e cristiano (in questo periodo ancora collegati fra loro). Naturalmente, l'interpretazione dell'epistola di Claudio deve inquadrarsi nella problematica generale delle condizioni del proselitismo giudaico durante il principato (da ultimo KITTEL, « Theol. Lit.-Zt. », 1944, p. 10) e della posizione data ai politeumata ebraici (TCHERIKOVER, The jews in Eg. in the Hellen.-Rom. Age [1945]; ROBERT, « Hell. », I, 1945, p. 18; J.G. Roux, « Rev. et. gr. », 1949, p. 281; e il libro del SIMON, che citeremo
a suo luogo). - Viceversa pel 8tócrotyuKo'ipo (cfr. supra, IX) è del tutto incerta l'interpretazione: esso potrebbe essere, secondo alcuni studiosi (GUIGNEBERT, « Rev. hist. », 1937, p. 280), privo di vero interesse in connessione coi grandi fenomeni del proselitismo ebraico e dell'apostolato cristiano; laddove, secondo altri studiosi (per es. GUARDUCCI, « Rend. Pont. Acc. », 1941/2, p. 85), l'interpretazione cristiana sarebbe preferibile. Una interpretazione del 8tótToty1iot è stata tentata da PARROT, Maléd. et viol. de tombes (1939), nei quadro della generale problematica sulla violazione dei sepolcri. Per la letteratura generale sul problema cristiano in/ra, XIII; App. li. In realtà, il va inteso in riferimento alla nozione ro-
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mana della violatio sepuicri, sebbene esso contenga altresì elementi non propriamente romani (tymborychia: DE VISSCHER, « Nouv. Clio », 1953, p. 18). - Sulla personalità di Balbillus, che fece parte della legazione degli Alessandrini (per la richiesta della boulé cfr. l'epoca di Ottaviano: supra, § 11), si veda soprattutto PIGANI0L, « Mél. Glotz », ii, 1923, p. 723; in questo Balbillus, che ha concluso la sua carriera con la prefettura d'Egitto, il PIGANI0L, sviluppando un breve cenno di RENAN, tende a vedere la bestia a corna d'agnello dell'Apocalisse (in/ra, App. ii). Cfr. le serie dei prefetti d'Egitto del REINMUTH e da ultimo di A. STEIN. Su tipici aspetti della politica religiosa di Claudio (riforma del culto ufficiale della Madre) ha attirato l'attenzione CARCOPINO, Aspects mystiques de la Roma paienne (1941), da illustrare per es. col recentissimo Livie-Cybèle di LAMBRECHTS, « Nouv. Clio », 1952, p. 259 (ottime osservazioni sul culto della Madre presso la gens Claudia); CARCOPINO ha mostrato che K)acLo ò in Lyd., De mens. iv, 59, p. 113 è Claudio I terzo successore di Augusto (e non Claudio n Gotico), tanto vero che su Claudio (questo, e non già il Gotico) Lydo sa persino particolari relativi alla corrispondenza di lui col re dei Nabatei Areta. Sulla farmacopea attribuita ad Areta, letteratura, ultimamente, in ROBERT, « Hellenica », il, 1946, p. 47, 3, a proposito dell'epigrafe tasia di Rufino arabo oionoskopo. Proprio la corrispondenza con Areta mostra che Claudio si preoccupava per disturbi nervosi. Sul suo medico Xenophon di Cos, che ha ottenuto l'immunità per i Coi, cfr. HERZOG, « Hist. Zeitschr. », 1922, k. 216. - Per l'annessione della Rezia cfr. HEUBERGER, « Klio », 1941, p. 290. - Si discute se nella Tingitana Claudio trovasse o no ordinamenti punici: no, secondo TOUTAIN, « Mél. Grat », i, 1946, p. 39; comunque, è indiscutibile che il fondo libico era culturalmente pe nizzato. Si osservi che il M. Valerio Severo dell'iscrizione studiata da TOUTAIN ottiene ai suoi civitas e connubium; qui troviamo il Claudio autore dei diplomi militari, su cui in/ra, XXVI. La più antica iscrizione mesica datata (42-43 d.C.) ora in BESHEVLIEV, Epigra/ski prinosi (1952), n. 75. Per la politica urbana di Claudio, si discute intorno alle
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frumentazioni: l'indagine parte dalla dottrina di HIRSCHFELD, Verwaltungsg. i, 134, secondo cui Claudio avrebbe addossato al fisco le spese per le frumentazioni e le avrebbe poste sotto la direzione del prae/ectus annonae; ma si può obiettare che in Seneca (De brev. vitae 18; 19, 1), tra le questioni di competenza del praefectus annonae Pompeo Paolino, le frumentazioni non sono espressamente menzionate (salvo a riconoscerle nella ratio publici frumenti); cfr. ora da una parte VAN BERCHEM, Les distributions de blé et d'arg. à la plèbe rom. sous l'emp. (1939), p. 71 (seguito da ultimo da GRIMAL, « Rev. ét. lat. », 1950, p. 185), il quale sostiene la dottrina di HIRSCHFELD in modo conseguenziale (sicché la riforma
di Claudio avrebbe posto le frumentazioni sotto la direzione del praefectus annonae), e viceversa VITuccI, « Riv. fu. class. », 1947, p. 267, in cui si arrecano interessanti argomenti della continuata esistenza di una prefettura frumenti dandi ex s.c. sotto Claudio 6 Naturalmente, il problema si connette con l'interpretazione dei citati capitoli del De brevitate vitae, di cui comunque difficilmente può accogliersi la datazione al 62, proposta da HERRMANN (« Rev. ét. lat. », 1947, pp. 164 sgg.), e fondata sull'ipotesi che dai capitoli citati Paolino non appaia come praefectus annonae, sì invece come controllore senatoriale dei vectigalia. - Sull'estensione del pomerio cfr. MAY, « Rev. hist. droit fran. et étr. », 1944, p. 101. - Sulla con6 La prefettura frumenti dandi ex s.c. (istituto di evidente tendenza senatoria, in contrasto con la equestre praefectura annonae) fu mai abolita nel i secolo? Nella dottrina di VAN BERCHEM essa, abolita da Claudio, sarebbe stata ripristinata da Nerva nel 97; nella dottrina di VITuCcI (e già di CARDINALI) essa non sarebbe stata abolita mai. Io prospetterei una terza possibilità: ch'essa fosse in vigore sotto Nerone (per lo meno durante il quinquennium Neronis, periodo per eccellenza senatorio della storia romana: supra, S 24; la prefettura I. d. ex s.c. di M. Iulius Romulus sembra di questo periodo, cfr. Virucci, pp. 269-270), e che scomparisse sotto i Flavii (e ancora sotto Nerva? si pensi agli borrea Nervae) per riapparire sotto Traiano. In tal caso, le lacune della documentazione epigrafica non sarebbero fortuite. Il problema resta aperto per l'epoca di Claudio: Nerone potrebbe aver ripristinato un istituto abolito dall'accentratore Claudio (cfr. per es. Tac., Ann. xiii, 29); ma nulla si può dire, finché è oscuro ratio publici frumenti nel passo senecano.
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cessione del privilegio di saltare la questura, cfr. DEGRASSI, • Doxa », 1949, p. 89. Oratio sulla riforma giudiziaria: STROUX, • Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1929, H. 8 (a proposito del testo, WILCKEN, Chrestom. 370). Per la posizione delle figure femminili si può citare un libro relativo a tutta l'epoca giulioclaudià, SANDELS, Die Stellung der Frauen a. d. jul.-claud. Hause (1912).
Monografie: HENDERSON, XII. NERONE (cfr. 55 20-25) Li/e and Principate o/the Emp. Nero (1903); l'eccellente articolo di HOHL nella RE; LEVI, Nerone e i suoi tempi (1949); LEPORE, « La par. del pass. », 1948, p. 81. Il gapitolo di Tac., Ann. xiii, 6 è un tipico aspetto della ideologia, che HARTKE ha chiamato dei Kinderkaiser nel libro di questo titolo; la giovane età di Nerone ne fa uno dei Kinderkaiser, intorno al quale possono proporsi questioni come quelle illustrate (a proposito dell'imminente conflitto coi Parti) nel citato capitolo di Tacito; cfr. HARTKE, op. cit., p. 207, per l'inquadramento di questo nella struttura ideologica del principato. Per il resto, la problematica costituzionale e sociale s'inquadra nella generale problematica del principato. Le nostre osservazioni, svolte nel testo (cfr. in/ra, §S 31-32) fanno del 64 l'anno della vittoria borghese, e dunque l'« epoca » nella storia del principato in genere - sebbene Nerone avesse iniziato con sincere intenzioni senatorie -. Una interessante dedica alla Tyche di Nerone è pubblicata da HEICHELHEIM, «journ. Hell. St. », 1942, p. 17. - Un frammento dei Fasti dei sodales Augustales Claudiales, del 64-65, in DEGRASSI, «Epigraph. », 1942, p. 18. Il problema più grave per la storia della cultura (e dunque, anche, per l'interpretazione generale) dell'età neroniana è quello della datazione del Satyricon; da quando NIEBUHR, fondandosi soprattutto su antescholanus e su un'epigrafe del in secolo, insisté per la postdatazione (cfr. supra, Introd.), l'indagine ha ondeggiato fra la soluzione tradizionale e quella niebuhriana. Gli argomenti per la datazione tradizionale sono mirabilmente riassunti, per es. in KNOCHE, Die r6m. Sat. (1949); per altra letteratura si rimanda ai testi di storia letteraria. Dal punto di vista storico, si noti: 1) la caratteristica economica del Satyricon è il lavoro schiavo (BR0wNING), non ancora il lati-
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fondo lavorato da coloni (Eumolpo finge di aver in Numidia tanti schiavi da poter espugnare Cartagine); se noi non avessimo indicazioni sull'età di Apuleio, basterebbe il presupposto economico di qualche novella del suo romanzo (lavoro colonico) per datano al u secolo; a fortiori, non possiamo postdatare il Satyricon; 2) malui esse civis quam tributarius si spiega solo se il civis è nettamente distinto dal provinciale, dunque prima di Caracalla; 3) Tacito dà ai codicilli del suo Petronio il contenuto pornografico che ha, effettivamente, il Satyricon (il vero, aristocratico non legge romanzi - questo è un genus che l'aristocrazia disprezza - ma tuttavia Tacito si compiace di presentare il contenuto del romanzo sotto forma di protesta contro Nerone). Il romanzo del III secolo è la « Suche nach dem Wunder » dei lettori di romanzi di oggi (questa espressione è dello SZERB); è, insomma, « forma aperta » (ALTHEIM), tale la Historia Apollonii; quella che legge la Historia Apollonii non può essere la medesima società che legge il Satyricon. Da ultimo CRUM, « Class. Weekly », 1952, p. 161. Nella Graeca urbs della Campania vedrei Pozzuoli: infatti l'espressione (cap. 82) commilito ex qua legione es aut cuius centuria? presuppone regolare stanziamento legionario di poli-
zia, che in questo periodo è tipico a Pozzuoli, non già a Cuma o Napoli. Allo stesso modo in cui il Satyricon di Petronio ha dato luogo a datazioni divergenti fra l'epoca neroniana e il iii secolo, così anche una tipica opera d'arte, il cammeo di Nancy, sebbene già da FURTWÀNGLER attribuito a Nerone, ha dato luogo, da ultimo, a datazione di in secolo (Caracalla) in BRUNS, « 104 Benliner Winckelmanns Programm »; ciò può esser significativo per lo storico, in quanto dimostra come l'epoca neroniana (e anzi, tutta la giulio-claudia) presentasse motivi per molti rispetti « anomali » e nuovi; infatti, l'argomento della BRUNS contro l'identificazione con Nerone è la figurazione di Nerone sull'aquila, figurazione che però si spiega con il tentativo di introdurre in maniera ellenistica il « motivo » di Nerone-luppiter con l'egida (cfr. LIPPOLD, Zum « Schwert des Tiberius » cit.).
La personalità di Seneca pone il problema del rapporto fra la Stoa e la condotta dello stato: per la letteratura v. in/ra, Parte terza. Il problema della politica orientale di Nerone è stato
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sollevato più volte, da Mommsen in poi: cfr. soprattutto SCHUR per ultimo nell'articolo Parthia della RE (ivi precedente letteratura), e ora KUDRJAVTSEV, « Vestnik drevnej istorii », 1948, n. 3, p. 52; 1949, n. 3, p. 46. KUDRJAVTSEV insiste sulle varie fasi della politica estera di Nerone; lo SCHUR (in connessione col punto di vista del suo maestro KORNEMANN) insisteva sullo sfondo economico dell'impresa. La nostra ricostruzione nel testo parte dall'interpretazione generale della situazione sociale sotto Nerone (luxus delle classi dirigenti) e, per ciò che riguarda la Partia, dall'interpretazione « emanativa » del rapporto PartiaAtropatene-Armenia: la giustificazione di questo punto di vista è nel nostro testo, § 25. - Sulle esplorazioni al Nilo superiore, SCHUMANN, Helien. u. griech. Elem. in d. Reg. Neros (1930); ma si osservi che il rex Aethiopiae senecano non deve essere necessariamente il re di Axum (così SCHUMANN); potrebbe benissimo essere il re della Triakontaschoinos, o sinanco il principe consorte (GRIFFITH, Mer. inscr. i, 40) meroitico. Inoltre, SCHUMANN svaluta il carattere politico delle due esplorazioni, perché crede i pretoriani « verweichlichte Truppe » (p. 20): ma si pensi a Bedriaco e ai pretoriani di Domiziano. Il problema della crisi economica sotto Nerone va anche posto a proposito dell'editto (68) di Tib. Iulius Alexander (sulla cui personalità cfr. A. STEIN, cit. supra); in questo senso cfr. BELL, «Journ. Rom. Studies », 1938, p. 1 (sull'editto cfr. altresì REINMUTH, « Trans. a. Proc. Amer. Philol. Assoc. », 1934, p. 248; AMUSSIN, « Vestnik drevnej istorii », 1949, n. 1, p. 73; tanto il REINMUTH quanto l'AMUSSIN riferiscono l'editto non ai soli Alessandrini, ma all'Egitto; cfr. anche SCHUBART, « Arch. f. Papyrusf. », 1941, p. 36). Fondamentale l'editto di C. [Licinio Mu? ]ciano nella tariffa di Palmira: SEYRIG, « Syria », 1941, p. 155; PIGANI0L, « Rev. hist. », 1945, p. 10. Se veramente questo editto (OGIS, 629, 122 sgg.; CIS il, 3913, 74 sgg.) si deve a Licinio Muciano, esso dovrà datarsi agli ultimissimi tempi di Nerone, o all'annus lon,gus; ma l'interesse dell'epoca neroniana al portorium di Palmira è evidente dall'intervento di Corbulone, attestato dal medesimo editto. Questo intervento è in certo modo analogo a quello (pur attestato nell'editto) di Germanico in epoca tiberiana: in entrambi i casi, si precisa che il paga-
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mento si effettua in denarii romani; dopo il 63, il pagamento in denarii neroniani divenne utilissimo agli 9v7ropot e sfavorevole ai pubblicani; e così spiegherei la necessità, da parte di Corbulone, di confermare la decisione di Germanico. Sulla coniazione di Nerone: SouTzo, « Rev. Num. », 1898, p. 659 (secondo cui, « pour comprendre les dissemblances et la raison d'étre du nouveau système, il faut étudier le còté grec des monnaies de Néron »); SYDENHAM, « Num. Chron. », 1916, il quale ammette, con SouTzo, che la riforma neroniana aveva lo scopo di unificare la coniazione in tutto l'impero (con particolare riguardo alle poleis greche), ma non esclude che la riforma avesse, altresì, lo scopo di arginare l'afflusso di denaro verso oriente; RABossI, « Acme », 1953, p. 479, secondo cui l'imperatore perseguiva lo scopo unificatorio già indicato dal Sou'rzo, ma anche voleva avere denaro a disposizione in grande quantità. L'interpretazione « sociale » da me proposta è giustificata nel testo: supra, § 24; in/ra, § 32; cfr. l'interpretazione dell'editto di Muciano da noi or ora proposta. XIII (cfr. §S 19-24) La storiografia delle origini e della diffusione del cristianesimo dovrebbe comprendere anzitutto le grandi opere di storia ecclesiastica, sin dagli studiosi et pii viri in Urbe Magdeburgica, autori della famosa Historia ecclesiastica secundum centurias, e sollecitati alla loro fatica di « centuriatori » dal travaglio connesso alla riforma luterana; alla loro opera (1559 sgg.) risposero, da parte cattolica, nel 1588 sgg., gli Annales di BARONIO. Le critiche del cronografo gesuita PETAVIO a BAR0NI0, e soprattutto le indagini dello stesso PETAVIO sulla storia dei dogmi (si ricordi anche la sua eccellente edizione di Epifanio), mostrano come la storiografia ecclesiastica si muovesse liberamente, anche nellò stesso campo cattolico, nei primi del Seicento. Alla fine di quel secolo, un momento importante nella storia della storiografia ecclesiastica è rappresentato dai Mémoires del TILLEMONT. Questi hanno concluso, nell'estremo scorcio del Seicento, il travaglio di un secolo che fu memorabile, tra l'altro, per le ricerche neotestamentarie del SIMON (1689; 1690; 1693; 1695) e per l'indagine di archeologia cristiana (la Roma sotterranea del Bosro è del 1632). Ma i Mémoires del TILLEMONT, con quel
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loro tipico rigorismo di colorito giansenistico, con il loro carattere di opera essenzialmente erudita (di un'erudizione che si ripete dalla ricerca secentesca di chiarezza e distinzione), impostavano il problema delle origini cristiane su un piano piuttosto filologico (per es. il testimonium flavianum) che largamente storico. - L'illuminismo rivelò, nell'opera di GIBBON, un notevole interesse (anche se di origine, assai spesso, polemica; anche se essenzialmente legato a DODWELL) ai problemi della storia ecclesiastica, ma solo in quanto essa illuminasse il « decline and fall » dell'impero (non si dimentichi che GIBB0N cominciava dal ii secolo). Anche in questo caso, le origini cristiane restavano alquanto nell'ombra (si impostavano, viceversa, alcuni aspetti del problema delle persecuzioni). Esse attiravano l'attenzione, piuttosto, nella Nuova ipotesi del LEs SING e nella fiera polemica (1778) che ne seguì: ma anche in questo caso, la spiegazione razionalistica del miracolo ammoniva che non si era superata la fase illuministica e polemica; comunque, lo scritto di LESSING si ricorda perché da esso e dall'opera di REIMARUS si ripete la scuola di Tubinga. - Man mano che si chiariva il processo formativo dell'uomo antico, anche la storiografia relativa al cristianesimo si orientava verso il problema delle origini: ciò fu possibile soprattutto quando il DROYSEN, nel 1836, ebbe scoperto (e narrato) il momento ellenistico della storia antica (il nome gli venne suggerito - e a torto - da &Toc negli Atti degli Apostoli). Così, spezzati gli schemi classicistici della storiografia relativa al mondo greco, era possibile intendere il rapporto fra l'Evangelio e la cultura classica. Tuttavia, altri motivi romantici (non ultimi alcuni motivi creuzeriani) contribuivano alla formazione della storiografia relativa al cristianesimo: per es., senza CREUZER (1810) non s'intenderebbe il Génie di QUINET (1842). Nel 1835 apparve la Vita di Gesù di STRAUSS: opera ancora negativa e polemica, ma tuttavia ormai chiaramente fuori degli astratti schemi illuministici; solo se si considerano questi superamenti dell'illuminismo, e la maturità di alcuni motivi hegeliani , il fiero svevo può entrare in una storia del problema delle origini cristiane. Ma la sua " Per altro, il più notevole contributo della storiografia « he-
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tendenza negativa e la « metafisica » della sua « fede » potevano anche allontanare da una esigenza concretamente storica; e si capisce, in questo senso, l'autorità di opere che stavano, come quella del duca di Broglie, dall'altra parte della barricata. Nel 1863 apparve la Vie de Jésus di RENAN; classicista (si ricordi la Preghiera dell'Acropoli) e orientalista, RENAN avrebbe potuto intendere gli aspetti estremi del problema (cfr. da ultimo DUSSAUD, L'oeuvre scienti/ique d'E. Renan [19511); ma il suo limite gravissimo, oltre che nella tendenza psicologistica, era in quella tipica concezione astrattamente razionale, per cui il giudaismo gli appariva qualcosa di fermo ed esclusivo, da misurare, più o meno, col solo metro del Talmud. Questa parte è - da un punto di vista moderno - la più debole delle Origines di RENAN (alquanto più attuale può essere il Saint Paul, del 1869; sebbene noi oggi non si possa certo sottoscrivere la svalutazione delle fondazioni di Chiese ad opera di Paolo). Ad ogni modo, con le Origines del RENAN (il capolavoro è il Marc-Aurèle del 1881; in/ra, xxiii) l'epoca « eroica » dell'indagine sulle « origines du christianisme » può considerarsi chiusa (anche l'opera di HAVET, del 1871, appartiene a quella fase). Il problema delle origini cristiane, e quindi di una storia ecclesiastica che da esso partisse, è dunque un problema tutto moderno. Si sono avute, così, le numerose opere generali di storia della chiesa, che oggi sono base di consultazione; basti ricordare, in ordine alfabetico (ma di diversissimo valore), quelle di ALBERS-HEDDE; APPEL; (FuNK) BIHLMEYER-TÙCHLE; BOULENGER; BuoNAluTi; DUCHESNE; DUFOURCQ; HERGENRÒTHER-KIRSCH; KIRSCH; KRtGER; LIE'rzMANN; MOURRET; K. MOLLER; ROHRBACHER; SABA; ToDEsco;
la grande opera Mission u. Ausbreitung d. Christ. di HARNACK; la Geschichte des Papsttums di CASPAR (si ricordi anche Das Papsttum di HALLER); e i lavori di TROELTSCH coronati dalla geliana » alla storia del primitivo cristianesimo fu l'impostazione del problema petrinismo-paolinismo nel Paulus (1645) di F. C. BAUR. - La sinistra hegeliana diede i primi tentativi di interpretazione materialistica (soprattutto ENGELS, Sulle origini del cristian., ora in trad. it., 1953). - Per la fondazione del problema sinottico e LACHMANN, cfr. tuttavia ALBRIGHT, Von der Steinzeit z. Christ. cit. (1949), d. 460, 75 a.
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grande opera Le dottrine sociali delle Chiese e dei gruppi cristiani (trad. it., 1936); per l'antichità, soprattutto il cap. I; su Troeltsch cfr. ANTONI, Dallo storicismo alla sociol. cit. Opera di notevole interesse è la recente History 0/ the Expansion of Christianity di K. SCOTT LATOURETTE (per l'antichità il i voi., del 1938). Una recente storia ecclesiastica di molti autori è quella diretta da FLICHE e MARTIN; due autori (FERRARIS e R0sADINI) hanno curato la storia del cristianesimo nel TACCHI VENTURI. Da ricordare altresì le introduzioni bibliche e specialmente al Nuovo Testamento (per es. CORNELY-MERK; DTBELIUS; FEINE; GÀCHTER; GOGUEL; GOODSPEED; JOLICHER; KNOPF-LIETZMANN-WEINEL; WIKENHAUSER; lo STRACK-BILLERBECK; il comm. dir. da BONNARD-CULLMANN; SCHLATTER [1948 sgg.]); le storie della patrist. e lett. cristiana (ALTANER; BARDENHEWER; CAYRÉ; HARNACK; JORDAN; SIN0P0LI DI GIUNTA); per la latina il DE LABRIOLLE, per la greca il PUECH; oltre alle
generali storie letterarie; il HAAG (1951 sgg.) e gli altri dizionari (quello di CABROL-LECLERCQ, la cui continuazione conclusiva è ora affidata al MARROU; il CHEYNE-BLACK; il Reall. /. Ant. u. Chr. edito da Theodor KLAUSER; la grande Realenc. I. prot. Theol. u. Kirche del HAUCK; il Theol. Wòrterb. z. N.T. del KITTEL). - In particolare, per le origini, oltre gli innumerevoli tentativi di interpretare la vita e l'opera di Gesù (per es. CADOUX; DIBELIUS; GOGUEL; GUIGNEBERT; HEADLAM; RICCIOTTI; SCHLATTER), il recentissimo SCHMITTLEIN, Circostances et causes de la mort du Christ (1950); sempre classica l'opera di E. MEYER; Ursprung u. An/unge d. Christ. 1-111 (1921-1923; l'insigne storico ha qui scritto pagine di grande rilievo, anche se non sempre accettabili, per es. sui rapporti con l'iranismo, e sulla posizione di Pietro e Paolo). Nella Pro pylàenweltgeschichte ii (1931) le origini del cristianesimo sono trattate da VON SODEN (la « Kaiserzeit » dal HOHL). - Dei libri più recenti, soprattutto GOGUEL, jésus et les origines du Christian. 1-11-111 (1932; 1946; 1947); Les premiers temps de l'Eglise (1949); cfr. KLAUSNER, From Jesus
to Paul (1946 2) Sulla necessità d'inquadrare l'etica cristiana in una esperienza storica precedente, cfr. BOLKESTEIN, Wohltàtigk. u. Armenp/lege im vorchr. Alt. (1939). Il grosso problema è sempre (da qualunque punto di vista si parta) il pro-
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biema del rapporto fra motivi giudaici e motivi ellenistici nella storia del cristianesimo in ambiente imperiale romano; esso è il motivo essenziale '(il « Lebenswerk ») dell'indagine di studiosi come REITZENSTEIN, BOUSSET, Loisy, e si connette con le indagini per es. di GUMONT e di BIDEz; del pensiero di Loisy in una fase abbastanza evoluta può dar un'idea per es. il volume Le origini del cristianesimo (trad. it., 1942). Cfr. anche ACHELIS, Das Christentum in den ersten drei Jabrbunderten (1912). Un eccellente quadro della problematica re-
lativa alla cultura « ambientale » è nell'articolo di
LIETZMANN,
« Die Antike », 1932, p. 254. Cfr. WENDLAND, Die bellenistische Kultur in ihren Beziebungen zu Jud. u. Christ. (1912 3)• Altra letteratura e discussione in/ra, xxii. - I presupposti etico-
sociali (diversi in Oriente e in Occidente, e comunque confluiti a unità per l'inserirsi in essi dell'esigenza cristiana di caritas) sono studiati nel citato libro di BOLKESTEIN, Wohltàtigkeit u. Armenp/lege im vorchristl. Alt. (1939); per la cui problematica cfr. ora SCHWER nel « Reall. » di KLAUSER, 5, 1953, 689 e altresì GUIRE, « Am. Journ. Phil. », 1946, p. 129. Il BOLKESTEIN, in alcuni punti, relativi al rapporto di Oriente e Occidente, rischia di cadere nell'astratto; la polis greca di epoca romana è caratterizzata da liturgie di contenuto sociale; tuttavia, su un piano tipologico, BOLKESTEIN è nel vero; io connetterei la philanthro pia greca con la precocità della polis (ca. 650-600 a.C.) nell'economia monetaria, « obiettiva ». Una interessante considerazione (dal punto di vista « strutturale ») dei presupposti culturali del cristianesimo in HESSEN, Platonismus te. Prophetismus (1939). Una interpretazione acuta e originale è negli studi cristologici del FERRABINO. (Una speculazione « filosofico-religiosa », e tuttavia, per la sua umana attualità, di certo interesse per lo storico, è ora svolta da Leopold ZIEGLER, Menschwerdung i-ii [1948]; Von Platos Staatheit zum christl. Staat [1948]; appunto la contrapposizione della nostra « epoca della interpretazione » all'impero romano « epoca della rivelazione » vorrebbe dar un contenuto
storico alla polarità metaistorica-particolare, che caratterizza il pensiero di ZIEGLER; cfr. anche KÒHLER, « Saeculum », 1951, p. 517.) Un problema dei più significativi, e che potrebbe esser avvicinato a quello impostato recentemente (1952) da DIANO
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su Forma ed evento nell'epoca classica, è il problema Christ et le temps, vale a dire la intellezione dell'atteggiamento giudeo-
cristiano nella concezione della storia: si ricordino LABERTHONNIÈRE e CULLMANN; da questo medesimo punto di vista anche il padre HENRY ha tentato l'interpretazione del pensiero paolino. Sul problema Christ et le temps, il nostro punto di vista è esposto in/ra, App. iii. - C'e appena bisogno di dire che la reale esistenza di Gesù non costituisce un problema: essa è un fatto storico dei più sicuri, anche se studiosi egregi (per es. KOVALEV) tornano spesso a negarla (cfr. in/ra, App. il); piuttosto, oggi si continua a discutere se sia possibile scrivere una vera e propria vita di Gesù (così per es. RIccIoTTI; OMoDEO; GOGUEL) o se non sia necessario un certo pessimismo sulle possibilità della ricostruzione (Loisy; GUIGNEBERT). La tesi dello EISLER, fondata sulla tradizione slava di Giuseppe Flavio, non ha avuto molto seguito; cfr. quanto osserviamo in/ra, App. Il; ivi altre considerazioni e letteratura sulle fonti intorno a Gesù ed alle origini del cristianesimo. - Un'eccellente recentissima opera di storia delle religioni, e del cristianesimo fra esse, è Christus u. die Religionen der Erde diretta dal PRUMM. La precisa portata del proselitismo cristiano in questo primo periodo si presta facilmente a discussione: mentre non c'è dubbio sulla grande espansione cristiana in Asia Minore, s'i discute, viceversa, sulle proporzioni della prima penetrazione cristiana in Occidente, specie in Italia. Un aspetto di questa complessa problematica, e non già un problema a sé, è per es. la ormai famosa questione del segno cruciforme su una parete ad Ercolano: inteso come simbolo cristiano da MAIuRI (cfr. per es. « Roma », 1941, p. 399) e ROMANELLI (« Studium », 1942, p. 148) mentre in senso diverso si esprimono studiosi come da ultimo DE BRUYNE, « Rend. Pont. Accad. Archeol. », 1945-46, p. 15. In un ambiente come questo campano dell'età di Nerone, la presenza di un simbolo cristiano non stupirebbe, tutt'altro. Petronio, che ha ambientato in una Graeca urbs di Campania una parte notevolissima (la più notevole di quella a noi pervenuta) del suo romanzo, e che certo era familiarizzato con l'ambiente campano, dedicava alla figura del Iudaeus versi singolarmente tipici dell'ambiente
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neroniano; purtroppo, non possiamo collocare con precisione questi versi in una qualche parte del romanzo (cfr. su essi, da ultimo, A. MAZZARINO, Analecta [1950], p. 13; per l'identificazione Graeca urbs = Pozzuoli cfr. supra, xii) 8 Comunque, presenza di Ebrei per es. a Pozzuoli mostra facilità di diffusione del cristianesimo. L'epoca di Nerone imposta già chiaramente il problema delle persecuzioni: la storia delle quali è stata trattata, di recente, nei due importanti lavori di STAUFFER, Christus u. die Caesaren (1950); e GR1GOIRE, Les persécutions dans l'emp. rom. (1950); della precedente letteratura sulle persecuzioni (letteratura che diamo qui una volta per tutte, con riferimento anche ad opere relative ai periodi seguenti) si ricordino ALLARD, Storia crit. delle persecuzioni i-u (trad. it., 1914-24); BOUCHÉLECLERCQ, L'intol. rel. et la p01. (1911); BREZZI, Cristianesimo e imp. rom. (1942); COSTA, Relig. e polit. nell'imp. rom. (1923); DUFOURCQ, Le cbrist. et l'empire (1930); FRACASSINI, L'imp. .e il crist. da Nerva a Costantino (1913); Homo, Les empereurs rom. et le christ. (1931) e altresì De la Rome paienne à la Rome chrét. (1950); NEUMANN, Der rm. Staat u. die allg. Kirche, bis auf Diokl. i ( 1890); SCHOENAICH, Der Kamp/ zw. Rim. u. Christ. (1927); ZEILLER, L'emp. rom. et l'Eglise (1928); inoltre, anche sul problema Chiesa-Stato, Di BELIUS,
« Sitzungsbb. Heid. Akad. », Phil.-Hist. Klasse, 1941-42,
PIEPER, Urkirche Christus u. Imperator (1939); EHRHARD, Die Kirche der Màrtyrer (1932); RAHNER, Abendi. Kirchenfreiheit (1943). Per il problema della « prospettiva paolina », cfr. ELERT, cit., in/ra, App. Il, e discussione ivi.
p. 2 (Rom u. die Christen im i jbdt); K.
u. Staat
(1935); KITTEL,
Per la problematica generale, si vedano ancora GIANNELLI, « Nuovo didaskaleion », 1951; GRÉGOIRE-ORGELS, « Buli. Acad. R. Belg. », Lettres, 1952; e già WEINEL, Die Stellung d. Urchristentums z. Staat (1908); SALVATORELLI, « Bilvchnis », 8 Connesso è il problema di Sator Arepo a Pompei, su cui ultimamente FOCKE, « Wùrzb. Jahrbb. », 1948, p. 366; DORNSEIFF,
« Rh. Mus. », 1953, p. 373; CARCOPINO, Études d'bistoire chrétienne (1953), il quale ha proposto di datare l'iscrizione a dopo
il 79. Il mio argomento per identificare la G. u. di Petronio con Pozzuoli è esposto supra, xii.
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1920, n. 43; MoTzo, « Atene e Roma », 1921, p. I; PINCHERLE, «Buli. Comm. Int. sciences hist. », f. 1933, p. 32; PARIBENI, «Riv. int. filosof. dir. », 1929, p. 534; RiccloTTi, « Problemi storici e orientam. storiogr.», 1942, p. 111; ZEILLER in «Miscellanea Mercati » (1946); altra letteratura e discussione (soprattutto per ciò che riguarda l'institutum neronianum e il problema giuridico delle persecuzioni) in/ra, 5§ 33; 46; XXII; XXX. La problematica sulle persecuzioni si muove soprattutto su due punti: entità di esse (numero dei cristiani perseguitati) e fondamento giuridico dal quale partivano (il quale, secondo gli uni, sarebbe da ricercare in un editto speciale [sul tipo non licet esse vos] di Nerone o Domiziano; mentre secondo altri consisterebbe nell'applicazione dileggi già esistenti, come quella di sacrilegio o quella di maestà; questo secondo era, com'è noto, il punto di vista del MOMMSEN, « Hist. Zeitschr. », 1890 9 p. 389; il primo era già chiaramente formulato da BoIssIER, « Rev. Arch. », XXXI, 1876, p. 119). In particolare, sulla persecuzione neroniana si è discusso se veramente i Cristiani abbiano la responsabilità dell'incendio (il quale così deriverebbe dall'odio cristiano contro la nuova Babilonia, Roma): per questa polemica, che fu assai viva ai primi del nostro secolo, cfr. per es. PASCAL, « Atene e Roma », 1901, p. 137; PROFUMO, « Riv. st. ant. », 1909, p. 3; COSTANZI, L'incendio
di- Roma e i primi cristiani. Briciole polemiche (1910); NoGARA, « Roma », 1943, p. 85; HERRMAN, «Rev. Belge Phil. Hist. », 1949. È chiaro che il problema, così impostato, non è suscettibile di soluzione: Tacito dice solo forte an dolo principis incertum; se un accanito anticristiano come Tacito non ha sospettato i Cristiani, tanto meno noi moderni abbiamo elementi sicuri per avanzare dei sospetti; si osservi che l'odio antigiudaico è poi subito manifesto, nella politica di Nerone, all'anno 66, con l'inizio della campagna giudaica (e i Cristiani, quos per fla,gitia invisos vulgus Christianos appellabat erano strettamente connessi, dal punto di vista romano, con i « senza dèi » giudaizzanti). L'incendio va piuttosto confrontato con incendi verificatisi sotto altri imperatori (Tiberio, Traiano, Commodo, Carino). Cfr. le osservazioni di VAN DER HARST e di NICOLAAS, in « Hermeneus », 1942-43. Per altro, anche gli specialisti di topografia romana esprimono opinioni contra-
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stanti: per es. HUELSEN propendevi per il forte, LUGLI propende per il dolo principis (sulla domus aurea L'ORANGE, « Symb. Osi. », 1942; BOETHIUS, « Eranos Rudbergianus », 1945, p. 442). L'aspetto più notevole della persecuzione nero niana è, dal punto di vista tradizionale, la esecuzione degli apostoli Pietro e Paolo: contro il vecchio scetticismo si è ora rivolta la storiografia protestante, con la monografia del CuLLMANN su san Pietro, del 1952; su essa cfr. in fra, App. III; degli altri scritti recenti va segnalato SCHINDLER, Petrus (trad. it. ) 1951). Il problema della tradizione su Pietro a Roma si connette con quello del martyrium dell'apostolo Pietro. I recentissimi scavi sotto l'area della basilica di S. Pietro hanno dato luogo alla pubblicazione degli Scavi sotto la confessione di S. Pietro (1951), su cui in fra, App.
iii.
XIV. (cfr. § 26) Il bilancio di una famosa polemica fra e MOMMSEN in CANTARELLI, « Riv. fu. class. », 1888, i (ivi letter.); cfr. inoltre FABIA, « Klio », 1904, p. 42; « Rev.
SCHILLER
de phil. », 1912, p. 78; HENDERSON, Civil War and Rebellion in the Rom. Emp. (1908) e da ultimo HOHL, « Klio», 1939, p. 307; P. ZANCAN, La crisi del principato (1941); MANFRÈ, La crisi politica dell'anno 68-69 (1947); MANNI, « Riv. fu. class. », 1946, p. 112; TREU, « Atti Accad. Pelor. », 1949-50. La problematica è presentata in ZANCAN, op. cit., con una trattazione
della storia della storiografia su questo periodo di crisi. Si discute ancora su molti punti: la rivolta di Vindice può chiamarsi, alla maniera di Mommsen, « l'ultima lotta per la repubblica »? In che senso ideologie di portata generale (per es. Roma aeterna, su cui supra, v [su KocH]; salus generis humani, su cui INSTINSKY, « Hamb. Beitr. z. Numismatik », 1947) hanno operato in questo periodo? Come vanno intese le battaglie del 69, nelle quali Mommsen vedeva soltanto « truppe contro truppe »? Se il significato della crisi non è nell'aspirazione repubblicana (per l'ideologia relativa cfr. ora WICKERT, « Symb. Col. Kroll », 1949, p. 111), se ne può indicare la caratteristica nella « potenza reale » dell'esercito (Homo), o non piuttosto in una riscossa della borghesia contro la classe curule (FERRABINO)? E ancora: l'ideologia del discorso di Galba riflette il pensiero di Galba stesso (così, per es., MANFRÈ)
Bibliografia e problemi
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o non piuttosto l'ideologia traianea (tacitiano-pliniana: H0HL, « Rh. Mus. », 1913 2 p. 461)? - C'è appena bisogno di rilevare che, per intendere Galba, bisogna tener presente la tradizione dei Sulpicii (sull'avo cfr. OLIVER, « Am. journ. Arch. », 1942, p. 380). - Si discute sulla politica di Galba in Ispagna: cfr. TIENNE, « Rev. ét. anc. », 1951, p. 64 (a proposito di DE LAET, Portorium, 1949). - Per le battaglie di Bedriacum, PAssERINI, « St. ant. class. offerti a Em. Ciaceri », 1940. Una interessante conferma epigrafica al tacitiano nunc pro Othone an pro Vitellio in tempia ituros?, è ora sottolineata da ARNALDI, « Atti accad. arch. Nap. », 1952. - Sulla personalità di Antonio Primo, TREU, « Wùrzb. Jahrbb. », 1948, p. 241. Forse Antonio Primo, eliminato dalla scena politica nel 70, è vissuto sino a Domiziano (nonostante HOUSMANS). JOUGUET, « Mél. Ernout », 1940, p. 201; « Bull. Inst. Ég. », 1942, p. 21. - SHTAERMAN, « Vestnik drevnej istorii », 1951, n. 3, p. 8.
Parte terza FLAVII E GLI ANTONINI: L' ETTAIA COME IDEALE UMANISTICO
Capitolo primo
I FLAVII E GLI ANTONINI
27. Vespasiano (69-79) . I problemi economici e il « metus totius Italiae ». La storia romana ha un suo tessuto connettivo: la colonizzazione. Da Mario in poi, questa era soprattutto colonizzazione di veterani; ed anche Flavio Vespasiano, come i suoi predecessori, dedusse colonie di suoi veterani dal vicino Sannio alla Pannonia. Ma questi coloni vespasianei del Sannio (come già i veterani di Cesare, nel 44 a.C.) erano uomini abbastanza spregiudicati: non tenevano gran conto della forma (« carta ») di deduzione coloniaria; vendevano e compravano le terre, entro i limites della colonia, correggendo a proprio arbitrio i confini della proprietà a ciascuno assegnata. I vecchi soldati erano divenuti dei bravi impresarii agricoli, liberi da scrupoli. Vespasiano, il loro imperatore, somigliava un po' ad essi. A differenza dai suoi predecessori, egli era di origine borghese (5 26): suo nonno un centurione, suo padre un cavaliere; ed anch'egli, come i suoi soldati, non aveva troppi scrupoli quando si trattava di far danaro. La sua avidità aveva un solo fine raggiungere (e forse superare) i quattrocento milioni di sesterzii del bilancio statale (in fra, xvi); ed un solo mezzo rivendicare allo stato terre « usurpate » da privati. Sin dai tempi della colonizzazione repubblicana, i terreni -che restavano fuori della limitazione coloniaria (o che, dentro la limitazione, eranoi considerati inassegnabili) erano
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soggetti ad uno speciale ius subsecivorum; di questi terreni avean preso possesso gli antichi coloni od anche i possessores vicini; Vespasiano negò validità a tali prese di possesso'. Rivendicò i subseciva allo stato, per poi venderli al migliore offerente: in qualche caso (per esempio nel territorio di una colonia d'epoca repubblicana, fondata da G. Mario in Corsica) li vendette agli abitanti peregrini, a scapito dei vecchi coloni. Ma i coloni vecchi resistevano decisamente; in qualche caso ebbero successo: per esempio, in Lusitania i coloni di Emerita riuscirono a conservare gratis i subseciva posti sulle rive della Guadiana. Comunque, Corsica e Lusitania erano suolo provinciale; l'opposizione contro la politica di Vespasiano fu assai più decisa e fortunata in Italia, paese classico della tradizione coloniaria e di tutte le tradizioni. Contro il sequestro dei subseciva si sollevò un cumulo di proteste, da numerose città italiane. L'imperatore, che nel 69 era stato accolto come un « salvatore », appariva a molti italiani un amministratore esoso. Tuttavia non si piegò: era tiomo troppo autoritario per cedere su un punto essenziale; si limitò a sospendere alcune delle sue rivendicazioni di subseciva in Italia. (Nonostante tutto, il grande amministratore amava le città della sua Italia: a Pompei ed a Canne egli restituì luoghi pubblici che erano in possesso di privati). Dei suoi successori, Tito continuò (o sembrò continuare) la politica vespasianea di rivendicazione statale dei subseciva; comunque, la sua monarchia (79-81) fu troppo breve, perché si possa parlare di un suo preciso atteggiamento ne' riguardi di un problema così grave. Ma il successore di Tito, Domiziano (81-96), seguì una politica del tutto opposta a quella di Vespasiano: Anche se esse si fossero verificate, in origine (per es. nell'epoca augustea) mediante regolare vendita dei subseciva da parte dei coloni ai possessores. Tale il caso dei subseciva posseduti dai falerionesi in seguito a regolare vendita da parte dei coloni veterani di Azio: Domiziano, poi, reintegrò i falerionesi nei loro possessi (C ix, 5420; cfr. RITTERLING, RE xii, 1549).
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Domiziano fondava la sua autorità sull'appoggio dei piccoli proprietarii (possessores) italiani, proteggendoli - tra l'altro - dalla concorrenza delle province; e perciò, sin dai primi tempi del suo governo, riconobbe il possesso dei subseciva ai possessores che li avevano occupati. Con la sua politica di rivendicazione dei subseciva allo stato, Vespasiano aveva dunque seminato « il terrore » fra i piccoli proprietarii italiani (totius Italiae metum); un autore di epoca flavia dice che Domiziano, con la sua politica opposta a quella del padre, « liberò tutta l'Italia dal terrore ». La politica di rivendicazione statale dei subseciva si era spezzata nell'urto con la consuetudine: a Vespasiano, che aveva' terrorizzato il piccolo proprietario italiano, si opponeva Domiziano, che potrebbe chiamarsi l'imperatore dei piccoli proprietarii d'Italia ' . Ma in compenso la rivoluzione vespasianea nel campo del diritto agrario lasciò altri frutti duraturi: i primi scritti scientifici di agrimensura sono dell'epoca flavia. Ed infine: ciò che nòn poté ottenere nel campo del ius subsecivorum coloniario, Vespasiano ottenne definitivamente nei terreni non-coloniarii (arcifinii, e dunque esclusi dal ius subsecivorum) delle province; per esempio, in Cirenaica sequestrò gli agri di « terra regia » occupati dai privati: in quella provincia, dappertutto s'incontravano (e restarono definitivamente) le epigrafi con l'indicazione che Vespasiano « restituì allo stato romano i terre ni occupati dai privati ». Nella personalità di Vespasiano è prepotente il talento dell'amministratore (infra, xvi). Sapeva sorridere anche del2
L'avvicinamento della politica di Vespasiano a quella di ROSTOVZEV, Storia econ. e soc., pp. 234-235), è dunque discutibile: Domiziano si oppone volutamente, e con piena coscienza, alla pplitica di suo padre. Vespasiano era stato - nonostante la restituzione, per es., degli agri publici a Canne - l'imperatore di Roma città (Roma resurgens: la Roma dell'Anfiteatro Flavio), non già dell'Italia contadina, che ricordava con metus il suo impero. La devozione dei possessores italiani a Domiziano (cfr. la famosa epigrafe di L. Domitius Phaon) era sincerissima.
Domiziano (per es.
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la sua caparbietà nel voler risanare, con tutti i mezzi, il malandato bilancio statale: « volete erigermi una statua? eccovi la base, la mia mano ». Amava l'attiva borghesia delle province: diede la latinità a tutta la Spagna. Era l'uomo più energico che l'impero avesse avuto, dopo Augusto: la lex de imperio Vespasiani è un vero e proprio « condensato » di tutte le prerogative dell'imperatore (come si erano configurate sotto Augusto e i suoi successori). Allargò i confini, estese il pomerio. Condannò a morte un illustre oppositore: Elvidio Prisco, il genero di Trasea Peto. Consolidò la dinastia, dando a suo figlio Tito la prefettura al pretorio (un caso isolato nella storia dell'impero) ed una specie di correggenza. La prefettura al pretorio di Tito piacque a senatori e a cavalieri: ai senatori, perché così un senatore era prefetto al pretorio (anche il predecessore di Tito nella prefettura pretoriana era stato, del resto, un senatore); ai cavalieri, perché Tito rendeva così un omaggio « al padre ed all'ordine equestre » ( patri pariter atque equestri ordini). Certamente per volontà di Vespasiano, i suoi due figli facevano a gara in pubbliche dimostrazioni di concordia: Domiziano cantò le lodi di Tito, Tito (che già allora faceva parlare della sua bontà: cunctis prodesse) celebrò il padre ed il fratello. Così, sotto l'impero di Vespasiano, sembravano appianati i contrasti fra gli ordini e le rivalità dinastiche. Morto Vespasiano, o per lo meno sotto Domiziano (81-96), la prefettura al pretorio tornò nelle mani dei cavalieri, secondo la tradizione fondamentale del principato.
Va osservato, per altro, che uno dei prefetti al pretorio di Domiziano era cavaliere di origine senatoria, ed aveva avuto le insegne pretorie.
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28. L'« aeternitas » di Roma.
In quest'epoca flavia, in cui Stazio darà un'interpretazione « cosmica » dell'eternità di Roma (un concetto già formatosi ad opera degli Augustei), Plinio il Vecchio sognava l'aeternitas di Roma; ma al suo pensiero di freddo indagatore (egli sapeva l'asprezza delle lotte germaniche), l'aeternitas apparve come la grande speranza che potea farsi certezza, non già senz'altro la assoluta certezza; era una preghiera agli déi in nome di questi Romani che furono dati quasi altera lux alla vicenda degli uomini (aeternum quaeso deorum sit munus istud. adeo Romanos velut alteram lucem dedisse rebus humanis videntur). La stessa trepida speranza che più tardi, nei primordi dell'impero traianeo, si sentirà, tra le righe della Germania di Tacito. Tito (79-81) era già noto, durante l'impero di suo padre, per la sua generosità (cunctis proa!esse). Nel primo anno del suo impero, un cataclisma si abbatté su una fioridissima terra italiana: l'eruzione del Vesuvio. La grande tragedia seppelliva Pompei ed Ercolano. Tito rivelò allora tutte le sue capacità di organizzatore, già sperimentate attraverso la lunga pratica di governo sotto il padre. Ma il fatto più significativo di tutta quella vicenda fu il « sacrificio scientifico » di Plinio il Vecchio. Per amore della scienza e per generosità verso le popolazioni colpite, Plinio sacrificò la sua vita. Il sacrificio di Plinio è una pagina luminosa: lo « stile » dell'epoca flavia era nella « filosofica » e composta fierezza della sua classe dirigente. Per altro, il breve impero di Tito sembrava caratterizzato da una maggiore influenza del senato, influenza che meravigliò tan L'espressione è di C. KocH; cfr. supra, v. Le moderne svalutazioni del « sacrificio scientifico » di Plinio peccano di ipercritica: un asmatico che affronta la morte per amore del vero e per generosità verso le popolazioni colpite compie, in ultima analisi, un vero e proprio sacrificio. Egli sapeva di andar incontro a un tale. sacrificio.
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to più in quanto Tito, già ricco di gloria per aver domato l'eroica rivolta degli Ebrei (riconquista di Gerusalemme: agosto-settembre 70), era stato - come vedemmo - prefetto al pretorio sotto Vespasiano, e sembrava aver dato l'impressione di un deciso autoritarismo; senza dire che aveva sentito fortissimo l'influsso di una grande figura femminile ebraica, Berenice. 29.
Berenice.
Berenice era figlia di Agrippa i, sorella del re Erode Agrippa li. Aveva ascoltato l'apostolo cristiano Paolo, quando questi si trovava arrestato a Cesarea di Palestina; allora Berenice, come lo stesso Agrippa 11, aveva mostrato grande comprensione per Paolo e lo aveva ricono sciuto innocente (Agrippa avrebbe detto a Paolo: « poco manca che tu mi faccia divenire cristiano »). L'incontro di Berenice e Paolo era avvenuto verso la fine del quinquennium Neronis. Non è escluso che verso il 68, quando Berenice si incontrò con Tito, le simpatie di lei per il cristianesimo fossero divenute ancor maggiori. Ad ogni modo, l'enorme influenza di lei presso Tito dovette essere benefica per la posizione degli Ebrei a Roma, posizione che per se stessa era assai grave, dopo la presa di Gerusalemme strenuamente difesa e il crudele trattamento degli Ebrei (considerati come dediticii?) da parte dei vincitori (invano Tito aveva cercato di fermare la violenza dei soldati, e di salvare il « santo dei santi »). Questa Iudaea capta, della quale Tito aveva trionfato nel 71, e della cui città santa i ruderi erano occupati dalla legio X Fretensis, era ancor fiduciosa nella sua missione jahvistica, tanto che il abbi Jochanan ben Zakkaj poté impetrare da Vespasiano la fondazione della scuola dottrinaria di jamnia (località di latifondo imperiale); sicché pur dopo la tragedia immane fu assicurata la continuità dottrinale del giudaismo. Ancora: questa Iudaea capta era tuttavia così viva, che Tito si era
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perdutamente innamorato della bella e infamata Berenice, senza dubbio la più notevole fra le regine ellenistiche del i secolo d.C.; dotata di grande influsso su Tito, « quasi moglie di lui » (Cassio Dione). Ebrea strettamente osservante (uno dei suoi mariti, il re di Cilicia, aveva dovuto circoncidersi per sposarla), Berenice dové dunque mitigare, fin dove era possibile, l'ostilità dei Romani contro gli Ebrei, e anche contro i Cristiani, che a Berenice dovevano apparire, più o meno, un adattamento della grande tradizione ebraica (un movimento, insomma, aperto ai gentili; e comunque, meno intransigente che la setta « zelotica » della Nuova Alleanza). Quando si vide che l'imperatore, nonostante le previsioni, tuttavia non la sposava, i circoli senatorii tradizionalisti dovettero considerare con grande ammirazione la rinuncia dell'innamorato. Certo, trassero un respiro di sollievo; non era Berenice una nuova Cleopatra per l'impero romano? Appunto per questa loro av versione, Tito aveva dovuto rimandarla, in un primo momento. Poi, ella era tornata, e tuttavia l'imperatore non la sposava. La vecchia tradizione romana poteva essere soddisfatta: l'imperatore non aveva compiuto il gran passo, il passo di Antonio. Così si spiega come Tito, cioè un imperatore che amava il cunctis prodesse, ma condito di autorità, tuttavia sia passato come l'imperatore per eccellenza « buono », vale a dire buono dal punto di vista senatoriale; il suo distacco, più o meno apparente, dalla donna orientale che egli amava, ha fatto dimenticare il vero aspetto, tutt'altro che tradizionalista , della sua personalità. Il carattere non-tradizionalista dell'impero di Tito è evidente, per altro, dall'istituto del testamento militare; la dimostrazione in/ra, xxvi (cfr. xvi); ciò non esclude il già accennato compromesso coi senatori. Ma proprio la tradizione senatoria ha incredibilmente oscurato le cose più rilevanti per intendere la personalità di Tito: cfr. ciò che diremo innanzi (xviii; cfr. § 30) intorno a lulia T. filia. Di questa ultima, che ha grande importanza (come mostrano epigrafia e iconografia ad essa relative), sappiamo solo che era figlia di Tito. Ma perché il nomen lulia? La mutatio nominis,
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30. Domiziano (81-96).
Ma il problema del rapporto fra impero e religiosità ebraica (problema che in questo periodo è ancora strettamente connesso col rapporto fra l'impero e la nuova religiosità cristiana) restava vivo. Berenice aveva abitato nel palatium, aveva dominato nella corte flavia: questo era un punto fermo, che non si cancellava d'un tratto. Quella grande figura femminile aveva avuto un'importanza che noi moderni riconosciamo solo per frammenti, che tuttavia ci permette di intendere la problematica dell'impero di Domiziano. Successo al fratello nell'81, Domiziano portava con sé, accanto all'orgoglio della sua prima giovinezza coraggiosa (aveva rappresentato la parte flavia nel periodo e nel punto estremamente pericoloso dell'annus bngus, a Roma), tutta l'eredità spirituale del fratello. Egli ha amato la figlia di Tito, una lulia (il cui nome, come già osservammo [§ 291 deve in qualche modo connettersi all'amore di Tito per Berenice); ma non l'ha sposata. Anche qui, la forte tradizione senatoriale (assai più delle preoccupazioni giuridiche, che già Claudio, in un caso analogo, aveva legalmente superato) ebbe senza1tro vittoria; e Domiziano, non sposò la nipote. Sposò, invece, una donna di alta tradizione senatoria, una Domizia. Ma ancor una volta: Berenice aveva dominato la corte flavia; ed erano in questa molte personalità conquistate dal fascino delle idee nuove, conquistate dalla gloriosa tradizione del profetismo se ci fu, vale a dire se lulia era figlia legittima (la filia che Suetonio dice nata da Marcia Furnilla), dovette significare, nel pensiero di Tito, un particolare avvicinamento di lulia alla gente di Berenice? O persino (quantunque ciò appaia stranissimo, e credo impossibile) si potrebbe pensare che lulia fosse figlia naturalis (avuta con Berenice), e pertanto portasse il nomen genhis della madre. O per connessione con i Giulio-Claudii (cfr. - pel figlio di Flavio Clemente - S 41)? —Cfr., ora, LEVI, « Par. d. pass. », 1954, p. 288. -- Va sottolineato che Tito era un adoratore di Api (diversamente da Augusto: cfr. § 30). Per il cunctis prodesse, attribuito a Tito già sotto Vespasiano, cfr. 5 27.
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ebraico, cui l'escatologia cristiana dava aspetto di moderna novità; tale era, come sembra, il console Flavio Clemente, i cui figli da Domiziano medesimo erano stati destinati alla successione 6 tale era anche Flavia Domitilla sposa di Clemente. La tolleranza religiosa dello stato romano poteva spiegare tutto ciò: il dio giudaico, all'apparenza, non era meno peregrinus di altri dèi che ormai avevano culto preminente (per esempio degli dèi egizi; più tardi Suetonio accomunava, quasi fossero tutt'uno, la negligenza di Augusto per l'egiziano Api e il disprezzo di Augusto medesimo per il dio giudaico in Gerusalemme). Ma nella pratica religiosa, e nella concezione della vita, giudaismo e cristianesimo esprimevano un'esperienza religiosa ben più complessa e profonda che altre peregrinae caerimoniae; e figure come Clemente e Domitilla non potevano conciliarsi facilmente con la tradizione romana. Al tradizionalismo pagano queste figure, e quelle più vicine ad esse, saranno apparse come inspiegabili esempi di contemptissima iner tia (così si 'diceva di Flavio Clemente: più o meno come di Pomponia Graecina, dell'epoca di Nerone); o anche di masmQ addirittura; come sempre accade di una realtà spirituale nuova, che si faccia strada in un mondo malato ma ancora lontanissimo dalla consunzione. Quanto poi a Domiziano, egli stesso, sebbene non fosse di quei « senza dèi », sebbene inasprisse il liscus Iudaicus, tuttavia 6 La lettera della comunità cristiana di Roma ai Corinzi, lettera che va sotto il nome di un Clemente, è stata postdatata da Lois agli anni 130-135; ma proprio l'interpretazione delle vicende alla corte flavia, come qui la proponiamo soprattutto in base all'influsso di Berenice e con essa dei circoli giudeo-cristiani, rende molto autorevole l'opinione tradizionale, che data la lettera d'intorno al 95 e la attribuisce ad un Clemente (forse liberto di Flavio Clemente sposo di Domitilla?), capo della comunità romana. Si noti: la lettera sa di un cristianesimo in certo modo giudaizzante (vi si citano anche testi tardo-giudaici non entrati nel canone), e d'altra parte abbastanza leale nei confronti dello stato romano: proprio lo « stile » del cristianesimo romano sotto Domiziano, subito prima della persecuzione. Cfr. mIra, xviii.
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non poteva essere gradito al tradizionalismo senatoriale: adoratore di Minerva-Iside, era già troppo preso da ideali ellenistici, perché i senatori si acconciassero a riconoscere, nel suo impero, quel vecchio paternalismo vespasianeo che Domiziano trasformava in vero e proprio culto di se medesimo come dominus et deus alla maniera ellenistica (t9sòg xod xúp Log) . Come nell'epoca neroniana (ma con diversa intensità), l'incomposto emergere di forze spirituali rivoluzionarie ancora immature e, dall'altra parte, di tradizionalismo intransigente e assai saldo, finiva col creare una situazione insostenibile. In queste condizioni solo grandi successi militari ' avrebbero potuto consolidare, all'interno, lo stato. Nonostante i successi nella guerra britannica (già cominciata sotto Vespasiano, e condotta a termine, dagli ultimi tempi di Vespasiano sino all'anno 84, dal generale Agricola), nonostante la vittoria sui Chatti e la creazione degli agri decumates, tuttavia non si può dire che l'epoca domizianea sia stata eccessivamente fortunata sul piano militare. Gli anni 85-87 videro sconfitte nella Mesia e nella Dacia; solo l'anno 89 portò un joedus col re dei Daci, Decebalo; ma quella pace poteva sembrare « comprata », dovendosi pagare l'alleanza dacica con una corresponsione che aveva, per gli oppositori di Domiziano, l'aspetto di un tributo. La difficoltà era, al solito, nella necessità di affrontare a un tempo i problemi del limes renano e del danubiano : per questa parte, Domiziano ha acquistato un grande merito con la fondazione degli agri decumates; di grande importanza è stata la sua opera di sistemazione delle province Germania Superior (con gli a. d.) e I nf erior. Ma, come si disse, ciò non bastava a superare le difficoltà inVa osservato che Domiziano aumentò il soldo militare (che fin allora era stato, pei legionarii, di 225 denarii annui) a 300 denarii: addidit et quartum stipendium militi aureos, ternos (Suetonio). Un fatto tipico: il trionfo sui Chatti fu celebrato nell'83, ma la guerra continuava ancora nell'84 (dimostrazione in BRAUNERT, « Bonner Jahrbuch », 153, 1954, p. 97).
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terne: restavano, per esempio, insolute le difficoltà della guerra contro i « Suebi », cioè soprattutto Marcomanni e Quadi (questo bellum Suebicum fu poi concluso da Nerva). Ad ogni modo, la situazione interna si faceva sempre più difficile. Domiziano poteva contare sulla devozione dei piccoli proprietari italiani (5 27). Ma l'opposizione era forte, nelle province e nel senato. Nell'89 Domiziano ebbe a reprimere la ribellione di Antonio Saturnino a Magonza. Le sue vicende sentimentali - soprattutto il suo divorzio dalla moglie Domizia - inasprirono i senatori, essendo Domizia - come Livia per Augusto - la voce del senato nella corte; ne venne la condanna dei più intransigenti « filosofi », tra gli altri di Elvidio Prisco minore (figlio di quell'Elvidio Prisco che era stato condannato da Vespasiano) perché si sospettava, in un suo componimento teatrale, un'allusione mordace al divorzio da Domizia (per intendere tale attaccamento dei senatori a Domizia, si rifletta che i Domizii erano, nel senato, tra le poche gentes superstiti di epoca repubblicana). Questo avveniva nel 93: i senatori non avrebbero perdonato mai una tale persecuzione. Può darsi che Domiziano abbia allora cercato di cattivarsi nuovamente l'amicizia del senato, trovando dei capri espiatorii per la persecuzione di cui era stato vittima Elvidio Prisco minore; sicché, alla fine, egli finì col venir in odio al senato e ai suoi personali amici nel medesimo tempo. Certo è che nel 95 Domiziano ha ritenuto di poter salvare la situazione infierendo proprio contro quei circoli di « senza dèi », che pur rientravano nel suo più diretto entourage di corte, ed ai quali apparteneva addirittura, come già dicemmo, Flavio Clemente. Così, per compiacere i circoli senatorii più tradizionalisti, il dominus et deus Domiziano ha perseguitato proprio gli elementi di idee moderne, che forse avrebbero potuto esprimere i motivi più originali della sua epoca; e ha scatenato quella sua famosa (anche se non violentissima) persecuzione contro i Cristiani, accusati di &c6-t-r
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e di « costumi giudaici » ('Iou8oc*L*xó'c T ). Flavio Clemente fu una delle vittime 8 . L'anno seguente, il 18 settembre 96, Domiziano fu ucciso dal procuratore di Domitilla (la moglie di Clemente) e da altri congiurati. Due correnti diverse, ed anzi opposte, si erano dunque ritrovate nell'odio contro Domiziano: i tradizionalisti da una parte, i Cristiani e Giudei dall'altra. Un accordo strano; ma per quel momento, e ancora per qualche anno, stabile: il successore di Domiziano, il senatore Cocceio Nerva, è l'esponente del tradizionalismo senatorio, e tuttavia è autore dell'abolizione del fiscus I udaicus (f isci I udaici calumnia sublata nella sua monetazione). Solo ai piccoli possessores (§ 27) italiani Domiziano lasciava qualche buon ricordo. 31. Il problema finanziario e la politica di Nerva (96-98)'. Il i secolo aveva visto, nell'Occidente romano, un grande fenomeno la cui portata e « dialettica » geopoliticoeconomica sarà da noi studiata, nelle sue ulteriori conseguenze, più avanti (in f ra, § 36): aveva visto la nuova organizzazione economica delle Gallie, la loro trasformazione agricola e industriale, e inoltre la perdita, da parte dell'Italia, del diretto controllo economico sulle province renane e danubiane pur affermandosi sempre più l'enorme importanza di centri commerciali come per esempio Aquileia. Alla crisi economica italiana Domiziano aveva cercato di porre rimedio con provvedimenti intesi a risolvere per esempio la crisi vinicola italiana; del resto, della cultura sativa in genere Domiziano si è anche preoccupato, con particolare riguardo all'Italia. Ma s'intende che 8 Naturalmente, la persecuzione non si è limitata all'ambiente romano (nel quale va ricordato, tra le vittime, anche il consolare Acilio Glabrione); essa colpì l'Asia Minore, che ormai era il più importante centro della propaganda cristiana (l'Apocalisse è, probabilmente, documento di queste persecuzioni in Asia Minore); dalla Palestina la famiglia di Gesù fu chiamata a Roma, ma prosciolta. Sull'Apocalisse, cfr. §g 58-59.
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provvidenze particolari non potevano correggere una congiuntura economica la quale si connetteva ad un fenomeno di sì grande portata com'era la romanizzazione, e la conseguente autonomia economico-industriale, delle province rispetto all'Italia. È innegabile che difficoltà finanziarie si facessero sentire anche allo scorcio dell'epoca claudia e sotto l'amministrazione, del resto ottima, dei Flavii: la crisi delle ditte ifidustriali italiane, le quali contavano soprattutto sull'esportazione nelle province, era anche la crisi di tutta la concezione « italiana » (supra, § 27) dell'impero. Come già si vide, con Nerone l'aureus fu ridotto da 1/40 di libbra (g. 8 c.) a 1/45 (g. 7,40 c.), mentre il denarius fu ridotto da 1/84 (g. 3,88) a 1/96 di libbra (g. 3,4), e praticamente fu legato in misura del 5%-10%. Fu questa una grande riforma, la cui stabilità rimase salda sino a Settimio Severo. Noi conosciamo già il risultato di questa riforma: mettendo in circolazione nuovi denarii della medesima capacità d'acquisto dei precedenti, e però con peso e titolo inferiore, Nerone aveva aiutato i soldati e la piccola borghesia industriale italiana detentrice di denarii; infatti, il soldo per le truppe era pagato in denarii (anche se conteggiato in aurei), e il denario era la moneta borghese. I senatori, e in genere gli uomini del grande capitale, quando ebbero visto una tale difesa dell'argento a tutto svantaggio dell'oro, si erano sentiti confermati nell'opposizione contro Nerone, ed avevano rovesciato (sia pur con l'appoggio di altri elementi: supra, 55 23-25), a soli quattro anni di distanza dalla riforma, l'imperatore della piccola borghesia. Ma la politica sociale di Nerone - proprio la politica degli ultimi anni del « cattivo » imperatore - aveva, per questa parte, ragione; la difesa del denario contro l'aureo, cioè dei soldati e della borghesia contro il luxus nobiliare, era così rispondente alla nuova realtà storica, che proprio la borghesia venne al potere in seguito alla caduta di Nerone, e fu senz'altro rappresentata dai Flavii. Non solo: ma la
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stabilità della riforma neroniana per più che 130 anni, dimostra che quella riforma monetaria era quanto mai vitale e rispondente alle esigenze dell'impero. E tuttavia: è risaputo che un'accorta politica monetaria non basta a risolvere il complesso dei problemi sociali da cui essa emerge. Ciò può spiegare perché difficoltà economiche possono ancora intravvedersi nella politica finanziaria dei Flavii: anche se questi hanno sopperito con una notevole pressione fiscale, come per esempio con l'insistenza, da noi già ricordata, nella riscossione del fiscus Iudaicus. Dopo la caduta di Domiziano, l'impero è stato affidato a Nerva, il quale ha cercato di diminuire questa pressione fiscale, anche per sottolineare, su un piano finanziario, il nuovo « corso » della sua politica: egli ha soppresso - come già accennammo - il fiscus Iudaicus (fisci ludaici calumnia sublata). Quanto agli italiani, Nerva ha alleggerito l'obbligo del cursus publicus in Italia (vebiculatione Italiae remissa: già Claudio aveva tentato qualcosa del genere), ha accordato immunità della vicesima hereditatium, ecc. Le conseguenze di questi sgravi fiscali si sono fatte sentire. Sebbene essi in parte fossero attuati nell'interesse della stessa borghesia cittadina italiana, tuttavia è innegabile che la gestione finanziaria ha subìto un certo squilibrio: nello stato antico la tssazione diretta colpisce gli agri vectigales e il suolo peregrino, mentre la tassazione indiretta caratterizza il contributo fiscale dei cittadini; bastano piccoli squilibri per determinare una crisi economica di considerevole portata. Il meglio degli italiani erano ormai nelle province, soldati 'e discendenti di soldati; romanizzavano, con la « lingua degli italiani » (in/ra, § 38), quelle regioni; ma il proletario italiano si trovava in miseria e protestava (§ 27; § 37). C'era ancora da provvedere alla continuazione della guerra « suebica », c'erano vecchie e nuove spese da affrontare... Nerva ha ritenuto di poter provvedere con l'istituzione di V viri minuendis publicis surnptibus e con assegnazioni di terre.
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Nerva morì nel 98, dopo aver adottato e chiamato a correggente Traiano. Questi apparteneva all'aristocrazia romana provinciale (era nato in Ispagna), mentre Nerva apparteneva all'aristocrazia senatoria italiana. 32. Traiano (98-117).
Finora, solo imperatori italiani si erano avuti: di estrazione nobiliare nell'epoca giulio-claudia, di estrazione borg ese i Flavii. Il secondo secolo sarà caratterizzato dalla h notevole presenza di imperatori dell'aristocrazia italianoprovinciale: prima due spagnoli (Traiano, Adriano), poi un italiano (ma d'origine gallo-romana per parte di madre), infine la famiglia di Marco Aurelio (di origine spa gnola). Questo fatto chiarisce la compiutezza e maturità della romanizzazione nell'Occidente. Solo uomini delle classi dirigenti romano-provinciali potevano intendere veramente i problemi di un impero in cui l'Italia non aveva più l'assoluta guida economica; senza dire, poi, che l'aristocrazia provinciale romana era assai più vicina ai ceti borghesi che non la vecchia e miope aristocrazia del luxus di epoca giulio-claudia. Nello stesso tempo, per ciò che riguarda i diretti problemi dell'epoca di Nerva, solo un generale come Traiano, che non a torto si suole avvicinare a Cesare, avrebbe tentato una soluzione militare dei problemi sociali e finanziarii, cui la istituzione dei V viri minuendis publicis sutnptibus non poteva certamente bastare. All'istesso modo in cui il problema sociale consisteva nell'equilibrio fra i ceti del grande capitale e la borghesia cittadina, così la proiezione di questo problema sul piano finanziario e monetario consisteva nell'equilibrio fra l'emissione di aurei e l'emissione di denarii: fra oro e argento. Tutto ciò implicava la necessità di assicurare da una parte un notevole rifornimento di oro, in maniera che la riforma neroniana, consistente nella vit toria del denarius sull'aureus, ricevesse stabilità e giusti-
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ficazione economica dall'aumento dell'oro disponibile nello stato romano. In corrispondenza, bisognava conquistare regioni particolarmente ricche d'oro, come la Dacia; e, d'altra parte, bisognava consolidare il limes coi Parti, già saldamente costruito dai Flavii, e infine stabilire un controllo sulla via marittima del commercio con l'India. Di questi tre problemi, l'ultimo già risaliva a Nerone; il primo, più recente e attuale, era stato impostato da Domiziano; Traiano ha tentato una soluzione coerente, e certo la più audace che l'impero romano abbia mai concepito. Non aveva osservato lo storico senatoriale Tacito, in uno scritto (la Germania) pubblicato già nel 98, che i Germani tendevano a rifiutare il denarius neroniano di poco più che 3 grammi d'argento (pecuniam probant veterem et diu notam)? Questo commercio coi Germani (la cui importanza e caratteristica è anche confermata dai reperti numismatici nella Germania libera) era soprattutto - lo notava Tacito stesso - commercio di piccole cose, promiscua ac vilia; dunque, commercio in denarii piuttosto che in aurei, commercio fondato sull'argento più che sull'oro; esso era, insomma, una continua minaccia per la stabilità della moneta argentea neroniana, in quanto richiamava alla coscienza del commerciante romano l'effettiva inferiorità del valore intrinseco del denarius neroniano rispetto a quel suo valore nominale, e comunemente accettato all'interno dell'impero, di 1/25 di aureus. Ancor una volta: solo un aumento della riserva d'oro poteva giustificare il rapporto riconosciuto nello stato romano fra l'aureus e il denarius, rapporto per cui si poteva cambiare un aureus (g. 7,24 d'oro) con appena 25 monete d'argento di g. 3,40 (e di lega non molto buona, che poi Traiano avrebbe ancora peggiorato riducendo il titolo del denarius all'88-78% di argento). In altri termini (è necessario insistere su questo punto, giacché esso è la misura di tutta la congiuntura economica da Nerone a Commodo, e vuoi essere un leit-motiv di questo libro): la borghesia italiana
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aveva, ottenuto nel 64 d.C. una vittoria iivoluzionaria sul luxus del grande capitale, in quanto era riuscita a far trionfare la sua moneta (la moneta dei commerci pro-
miscua ac vilia, secondo la citata espressione di Tacito) nei confronti del senato; sì che aveva abbassato il rapporto AU: AR da poco più che 12½: 1, com'era nell'epoca giulioclaudia fino al 65, a poco più che 10½: 1 (considerando il relativo peggioramento della lega sotto Nerone; con l'ulteriore peggioramento sotto Traiano, il rapporto sarà ancor più favorevole al denario, e potrà calcolarsi intorno a 10:1, e anche meno) Ma una tale vittoria della borghesia (e dei promiscua ac vilia commercia) sui grande capitale (e sui commercia di luxus) poteva mantenersi soltanto se l'aumento dei giacimenti auriferi avesse effettivamente giustificato una diminuzione di prezzo dell'oro; questo motivo, accanto a considerazioni di carattere militare e di spiriti cesariani, rendeva particolarmente utile la conquista della Dacia. Gli studiosi moderni, che insistono sulle conseguenze economiche della conquista della Dacia, hanno certamente ragione (specie se si guardi ad alcune acute considerazioni dello storico francese Carcopino) nel rilevare gli effetti dell'azione militare traianea sulla « caduta dell'oro »; ma bisogna pur rilevare che l'aumento della qtrantità di oro esistente nell'impero romano in seguito alla conquista dacica non ha soltanto determinato una « caduta » generale dell'oro (caduta che, per altro, era assai meno grave di quel che si pensi, perché essa era subito compensata dalle maggiori possibilità d'impiego e di assorbimento del nuovo oro disponibile). Il punto essenziale è questo, che l'aumento della quantità di oro appariva necessario per sostenere, in forme non autoritarie, la politica monetaria iniziata da Nerone nel 64, cioè per sostenere la politica della borghesia e dei soldati. Oltre che sulle conseguenze della conquista traianea, bisogna dunque insistere sulle sue premesse sociali, le quali rimontano alla vittoria della borghesia (già sottolineata dallo sto-
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rico senatoriale Tacito) verso la fine dell'epoca neroniana; ancor una volta, la storia numismatica ed economica ha un significato solo se essa si configura come storia sociale. Lo stato di Nerva e di Traiano presta il capitale ai proprietari, e con le rendite alleva i figli della borghesia decaduta e del proletariato italiano: questa istituzione (gli alimenta), la cui importanza fuè sottolineata ufficialmente (essa è stata esaltata, per esempio, sull'arco di Benevento), può essere un metro per intendere i riflessi economici della politica di questo impero « umanistico ». D'altra parte, per un interessante fenomeno che qualche moderno chiamerebbe « dialettico », proprio la soluzione militare del problema finanziario costringeva ad aumentare l'aggravio fiscale in vista delle campagne da intraprendere. Se Traiano ha rimesso l'imposta di successione ai nuovi provinciali cui donava la cittadinanza, d'altra parte le sue guerre (come anche quell'attività edilizia, che gli valse il nome di berba parietina) fanno gravare sulla borghesia il peso di un fiscalismo abbastanza notevole (già Plinio attesta le difficoltà dei curiali; si introducono in alcune città dei curatores r. p., grecam. Xoyc-); si verificano, per ragioni militari, casi di coemplio (cioè di acquisto a prezzi bassi fissati dall'autorità statale) che si attua « a compera di molto più bassa che quella del libero mercato » (iro? ù rfjc 0UO-Iq ¶4 r. cv6'rcpov, come si esprime un'iscrizione dell'epoca di Adriano). Gli arretrati delle imposte (debita) toccano punte enormi: già da soli, essi arrivano al triplo (o più) delle normali entrate di bilancio sotto Augusto; una monumentale espressione di gratitudine accoglierà, poi, la loro remissio ad opera di Adriano, primus omnium principum et solus in quest'opera generosa. La conquista traianea della Dacia si è compiuta a due riprese: nel 101-102, con la prima guerra dacica, lo stato di Decebalo fu ridotto a stato cliente; nel 105-106 si ebbe la seconda dacica, che si concluse con la riduzione della Dacia a provincia romana. Si pensa da alcuni studiosi che
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i Daci rimasti nel paese sarebbero stati eliminati: ma in realtà, noi abbiamo buoni elementi (cfr. in/ra, LXVIII) per constatare che essi furono ridotti nella condizione di dediticii; e del resto la colonna Traiana conclude il suo racconto figurato con l'immagine dei Daci che tornano alle loro case. Per altro, mentre la colonna Traiana ci ha conservato la più splendida illustrazione di queste campagne daciche, viceversa si è perduta quasi tutta la documentazione letteraria contemporanea che le illustrava (per esempio si sono perduti i Dacica di Traiano stesso; si è perduto un componimento greco del poeta Carminio Rufo). Abbiamo però pochi frammenti di Getikà del medico di Traiano. Kriton; ed è significativo come, nel più notevole di questi frammenti, si sottolinei la ricchezza del bottino fatto da Traiano: «5 000 000 di libbre d'oro, il doppio di argento, tazze e vasellame di valore inestimabile »; a cui si aggiungevano « armi e più che mezzo milione di uomini bellicosissimi ». Se l'annessione della Dacia assicurava l'impero a settentrione ed aumentava la quantità di oro disponibile, d'altra parte si rendeva necessaria una soluzione dei problemi orientali. Per le città carovaniere di Petra e Bostra il problema fu risolto nel 106 stesso, con la riduzione di antico territorio nabateo a provincia, la provincia Arabia (Petraea). Restava sempre il problema partico. Questo era un problema economico, ma anche (e soprattutto) politicomilitare. E precisamente: il problema economico poteva consistere per Traiano (come un secolo dopo per Cara calla, secondo lo storico Erodiano) nell' « unificare » e consolidare la produzione partica e la romana; ma al pensiero di Traiano si presentava, in prima linea, un interesse politico - il mantenimento dell'equilibrio al limes orientale - che nell'impresa partica di Caracalla (la quale pot va giovarsi delle conquiste di Settimio Severo) sarebbee mancato. All'epoca di Traiano il problema armeno era gravissimo. Il compromesso di Nerone nei riguardi del-
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l'Armenia era inteso a garantire la conservazione di un equilibrio fra Romani e Parti nel Vicino Oriente. Ma dopo il regno di Vologese i, sotto il quale si era compiuta quell'entente dei Parti con Nerone e con lo stato romano in generale, il suo successore Pacoro aveva seguito una linea politica assai meno conciliante coi Romani (per esempio, già nell'anno 89 aveva sostenuto un « falso Nerone » contro Domiziano); sicché, quando nel 105 apparve contro di lui un anti-re, Chosroe (figlio di Vologese i), la nuova situazione (per altro, ben comune nello stato partico, a struttura feudale) dovette riuscire gradita a Traiano e Chosroe (Osroe) fu considerato dai Romani il monarca legittimo. Infine, morto Pacoro nel 110, Chosroe divenne senz'altro il monarca legittimo. Sul trono di Armenia si era insediato (dopo la morte del vecchio Tiridate consacrato da Nerone) un arsacide, figlio di Pacoro, di nome Axedares; quest'ultimo, però, appariva legato alla politica piuttosto antiromana del padre; né suo fratello Parthamasiris, che fu proposto da Chosroe, parve a Traiano migliore di Axedares. Piuttosto, l'imperatore decise di tagliar corto a questo eterno conflitto di competenze per uno stato cuscinetto, e di risolvere il problema armeno (e gli altri con questo connessi) attraverso una campagna partica la quale riprendesse il piano di Cesare (e di Antonio), ma con una impostazione strategica abbastanza diversa. La situazione interna dello stato partico era anche favorevole ai piani di Traiano, perché Chosroe aveva da combattere contro un oppositore di seguito assai largo: Vologese 11, un altro dei figli di Pacoro. L'anabasi ebbe presto un grandioso successo. Nel 114 l'Armenia fu redatta in forma di provincia romana, nel 115 (cfr. xxi) furono conquistate la Mesopotamia superiore e l'Assyria, e occupata la capitale stessa dello stato partico, Ctesifonte; il trono d'oro dei re parti fu asportato (ciò significava che il Xvaranah degli Arsacidi passava adesso sotto il controllo romano). Nel 116 scoppiò una ribellione nella
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Mesopotamia. Come detentore del Xvarnah arsacidico, Traiano pensò di nominare Parthamaspate, esponente partico della tendenza filoromana; egli sperava che questa investitura e l'insediamento di Parthamaspate in Ctesifonte, riuscissero a sedare, per questa parte, i tumulti. Ma era vana speranza, tanto più che una estesa ribellione di Ebrei (in Egitto, Cirene, Cipro) costringeva i Romani a ritornare indietro, e dava impulso - anche per la presenza di Ebrei in Mesopotamia - alla ribellione nei territori di nuova conquista. La solidarietà fra l'impero partico e gli eroici Ebrei aspiranti all'indipendenza - solidarietà che i nuovi testi della Nuova Alleanza ci attestano già per l'epoca erodiana (cfr. in/ra, App. ii) - si rivelò operante. Dalla Mesopotamia a Cipro un tremendo tumulto agitava il mondo romano, nel momento della sua massima espansione. Sebbene un eccellente soldato di origine maura, Lusius Quietus, comandante della cavalleria, riuscisse a tenere saldamente Nisibi e Edessa e Seleucia, tuttavia la politica di conquista dovette essere, almeno per il momento, moderata. Ai primi dell'agosto 117 il grande conquistatore, l'imperatore Traiano optimus e Germanicus Dacicus Parthicus, si spegneva a Selinunte di Cilicia. Il suo successore, Adriano, rinunciò alle nuove province, e pose Parthamaspate in Armenia, la quale così tornava ad essere uno stato cuscinetto sotto un dinasta nominato dall'imperatore romano. La rinuncia di Adriano sanzionava l'insuccesso della spedizione partica traianea; e questo insuccesso (che fu coronato dall'ostilità di Adriano per Lusius Quietus) era dovuto, in gran parte, alla coraggiosa rivolta della diaspora giudaica. Ancor una volta si faceva sentire l'importanza del rapporto fra l'impero pagano e il movimento giudaico all'interno dell'impero medesimo; un rapporto che richiamava, per stretta connessione, l'atteggiamento dell'impero rispetto a quell'altro movimento spirituale, che pur esso si opponeva al culto degli « idoli »
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e del genius dell'imperatore - vale a dire il movimento spirituale cristiano. 33. Il problema giudaico e cristiano, da Nerva (96-98) a Traiano (98-117) ad Adriano (117-138) ed Antonino Pio (138-161).
Il breve governo di Nerva aveva visto una conciliazione fra gli interessi del tradizionalismo senatorio, che appunto si esprimeva in quell'imperatore, e le forze della rivoluzione spirituale giudaiche o giudaizzanti o cristiane; già notammo che questo strano accordo di tradizionalismo e proselitismo giudaico-cristiano, come aveva determinato la caduta di Domiziano, così pure, conseguentemente, aveva caratterizzato la breve politica di Nerva. Sotto Traiano quell'accordo innaturale si spezzò; la classe dirigente senatoria, rinnovata ormai e ben avvicinata all'imperatore, poté condurre, d'accordo con lui, una politica tradizionalista manifestamente ostile alle forze del proselitismo giudaico cristiano. Era lontano il tempo in cui una Berenice, pur dopo le giornate del Loos 70, aveva potuto essere « quasi moglie » di Tito; era lontano il tempo in cui lo stesso Domiziano aveva designato a successori i figli del cristiano Flavio Clemente, e si era sentito particolarmente legato a quella Giulia, in cui proponemmo di vedere una figlia di Berenice. Dall'alta diffusione nelle classi dirigenti flavie, giudaismo e cristianesimo si erano ripiegati soprattutto verso le regioni dove erano rispettivamente più forti: Giudea ed Egitto (soprattutto Alessandria) e Cirene pel giudaismo; l'Asia Minore, ed in genere l'Oriente vicino, pel cristianesimo. Nello stesso tempo, un distacco sempre maggiore, e persino contrapposizione, caratterizzava i due movimenti, giudaico e cristiano, che ancor all'epoca di Domiziano potevano sembrare, all'occhio della tradizione ellenistico-romana, intimamente accomunati.
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Le tragiche vicende del primo periodo giulio-claudio, con la stessa condanna di Gesù ad opera del sinedrio giudaico e del procuratore romano sotto Tiberio, avevano affinato l'esperienza umana del giudaismo. Nel 66, allo scoppio della rivolta giudaica sotto Nerone, o forse anche prima, sembra essersi compiuta, nell'ambito del giudaismo, la eliminazione del codice penale dei Sadducei, improntato alla rigidezza tipica di questi puri osservanti della Legge scritta; la dottrina dei Farisei - più comprensiva e rispettosa della tradizione orale - ebbe allora la vittoria sulla esclusiva considerazione della Legge scritta. Nell'epoca traianea e adrianea il giudaismo, ormai sempre più ricco di motivi umani che pur si ripetono dalla antica tradizione di questo popolo, si avvia verso quella codificazione che poi, circa la fine del n secolo, si esprimerà splendidamente nella redazione della Mishna. Man mano che si rielaboravano i valori fondamentali della sua cultura, il giudaismo, sotto la guida dei dottori che hanno riordinato il suo grande patrimonio spirituale (già jochanan ben Zakkaj: supra, 55 27; 29), si è riavuto dalla disfatta subita nel 70. D'altra parte, le tradizioni religiose giudaiche impedivano agli Ebrei prestazioni contrastanti con, i it&.-ptoc 9 D-I: impedivano, per esempio, il servizio militare dgli Ebrei negli auxilia. Si ebbe, nel 115, quella rivolta della diaspora ebraica, le cui conseguenze sulla spedizione partica di Traiano furono già illustrate supra, § 32). La asprezza della lotta (la quale fu evidente soprattutto a Cirene, a Cipro e ad Alessandria) attesta chiaramente la grande portata del movimento giudaico, religioso a un tempo e nazionale. L'avvento di Adriano, come sottolineò l'ostilità del nuovo imperatore a una politica intransigente in senso traianeo (della quale era esponente Lusius Quietus), così poté, in qualche modo, placare gli animi; sebbene il nuovo imperatore, come or ora vedremo, fosse destinato a com-
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piere, negli ultimi anni del suo impero, la più accanita repressione antiebraica di tutta la storia romana Nello stesso periodo, giudaismo e cristianesimo si andavano sempre più contrapponendo fra loro, anche nella coscienza romana. Già la Didachè (« Dottrina dei dodici Apostoli »), una specie di catechismo del primitivo cristianesimo, contrappone i digiuni degli Ebrei a quelli dei Cristiani, la preghiera degli Ebrei a quella dei Cristiani (que st'ultima consistente nel Pater Noster, da recitare tre volte al giorno). Del resto, sin dall'epoca di Domiziano la distinzione fra Ebrei e Cristiani si era fatta abbastanza evidente, soprattutto per ciò che riguarda l'atteggiamento rispetto alla Thorah: di cui osservavano soprattutto il decalogo (altre particolari prescrizioni apparendo ad essi comprensibili nell'interiorità della legge nuova), mentre il giudaismo ufficiale insisteva nella sua necessità dell'osservanza generale di tutta la Thorah (in polemica col cristia nesimo, il patriarca giudaico Gamliel ii escluse allora la recitazione del decalogo dall'ufficio diurno). Se tuttavia Domiziano aveva ancora potuto accomunare, e quasi confondere, Giudei e Cristiani nella sua persecuzione, e se corrispondentemente Nerva aveva finito con l'accomunarli nella sospensione di procedimenti persecutorii, viceversa già con Traiano la distinzione netta fra Ebrei e Cristiani è qualcosa di evidente e indiscutibile. L'immane tragedia che si era abbattuta sull'ebraismo nel 70 d.C. ha una grande parte nella sempre più evidente distinzione fra giudaismo e cristianesimo. In seguito a quella tragedia, il giudaismo si era chiuso nella geserah, e da questo dolore aveva attinto - come già accennammo - le forze per una sempre maggiore accentuazione delle sue premesse Si è pensato, sulla base di Or. Syb. v, 47-48, che al principio del suo regno Adriano fosse considerato, dagli Ebrei, come un Messia; ma quel passo è scritto non all'inizio dell'impero di Adriano, sì piuttosto all'epoca avanzata di Marco Aurelio (v, 49-51 non si può scindere da V, 47-48).
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nazionali in senso spirituale; così, si è avuta quella contrapposizione del giudaismo tradizionale alla minuth, che accentua il momento nazionale a scapito del proselitismo giudaico su larga scala. Viceversa, proprio allora il proselitismo cristiano si fa quanto mai aperto e si diffonde soprattutto in Siria e in Asia Minore e anche in Africa. Per le classi colte e per le inferiori a un tempo, esso signifi cava non solo una forma di religiosità interna (una « fede »), sì anche una superiore coscienza morale; il vecchio culto per gli dèi e la supplicatio all'imago dell'imperatore apparivano ai credenti cristiani forme insostenibili di superstizione, così come d'altra parte il tradizionalismo romano considerava la nuova religione nibil aliud quam superstitionem pravam immodicam. Questa espressione noi troviamo in una famosa lettera di Plinio il Giovane a Traiano. Qui il nipote e figlio adottivo del praefectus classis morto nel 79 domanda a Traiano le modalità in cui si debbano eseguire le disposizioni emanate dall'imperatore contro le hetaeriae, e dunque anche contro i Cristiani; ed espone le sue esperienze al riguardo, nel governo da lui assunto - egli aveva fatto la carriera senatoria - in qualità di legatus Augusti pro praetore della Bitinia. Questa lettera di Plinio il Giovane è il più importante documento per la storia dei rapporti fra impero e cristiane simo del periodo traianeo; ma è anche un documento di prim'ordine sull'effettivo carattere delle comunità cristiane di epoca traianea. Una superiore esigenza etica vi appare la ragione profonda del proselitismo cristiano (gli interrogati adfirmabant hanc fuisse summam vel cui pae suae vel erroris) quod essent soliti stato die ante lucem convenire carmenque, Christo quasi deo dicere secum mvicern seque sàcrarnento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria cornrnitterent ne fidem fallerent ne depositum appellati. abnegarent; que-
sta è dunque soprattutto una comunità di Santi, i quali nel nome di Cristo giurano di non peccare); la nuova fede
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è enormemente diffusa (sì che Plinio parla di prope iam desolata tempia), e fa proseliti così fra le classi medie (presso le civitates; del resto, ciò può anche dedursi dal giuramento ne depositum appellati abnegarent) come anche fra i proletari e nelle campagne (neque civitates tantum, sed vicos etiam atque agros superstitionis istius contagio pervagata est). S'intende che, con un imperatore come Traiano, tale diffusione di un movimento ostile al culto per l'imago imperatoris e pei deorum simulacra, fosse perseguita e repressa con decisa energia. L'impero traianeo non aveva più da affrontare quei problemi costituzionali accentrati intorno ai rapporti col senato che avevano reso difficile la vita dei Giulio-Claudii e di Domiziano; la nuova composizione del senato rendeva possibile una condotta autoritaria dell'imperio, e nello stesso tempo una maggiore coerenza costituzionale. Così si spiega come, anche nei rispetti della persecuzione anticristiana, Plinio abbia sentito il bisogno di rivolgersi a Traiano perché questi potesse « regolare le sue incertezze o dar ordini alla sua ignoranza » (cunctationem meam regere vel ignorantiam instruere). La risposta dell'imperatore fu moderata: non bisogna cercare i Cristiani, ma punirli se sono accusati con denunzie regolarmente firmate; del resto, i Cristiani apostati, che sacrificano agli dèi, devono essere rilasciati (conquirendi non sunt; si de/erantur et arguantur, puniendi sunt, ita tamen ut qui negaverit se Christianum esse id que re i psa mani f estum lecerit ., id est suppli- cando diis nostris, quamvis suspectus in praeteritum, veniam ex poenitentia im petret ). L'impero aveva ormai definito, assai più chiaramente che all'epoca di Nerone e di Domiziano, il suo atteggiamento nei riguardi del cristianesimo. La « persecuzione » fu piuttosto energica in Siria, il paese d'origine della nuova fede: il più che centenario vescovo di Gerusalemme, appartenente alla famiglia di Gesù, Simeone, fu crocifisso; fu chiamato a Roma, e ivi gettato alle fiere (110), il vescovo di Antiochia, Igna-
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zio. Le lettere che Ignazio ha scritto nella via pel martirio, dirette alle comunità di Efeso Magnesia Tralleis Roma, sono (se, come sembra, vanno abbandonati i dubbi sulla loro autenticità) un significativo documento della vita cristiana in epoca traianea, quando il cristianesimo si contrappone più chiaramente al giudaismo e soprattutto, sotto la spinta della persecuzione, s'impone stabilmente quell'ordinamento gerarchico, che va dall'episcopo (il presidente degli « anziani ») al presbytero (1' « anziano ») al diacono (1' « aiuto ») Alquanto più moderata è stata la persecuzione al cristianesimo sotto Adriano ed il suo successore Antonino Pio. Adriano è l'imperatore • iniziato ai misteri eleusini « alla maniera di Ercole e di Filippo il Macedone », come si esprime la sua biografia nella Historia Augusta (exetnpio Herculis Phiiippique). Ma questo suo ellenismo, che il biografo connette al dio vincitore dell'India e al monarca signore della Grecia, va molto al di là della reverentia di un Augusto, anch'egli initiatus ai misteri eleusini. Sotto Adriano più che mai l'impero ha vissuto la sua grande giornata romano-ellenistica. Egli è soprattutto l'Olympios (ha questo titolo dal 129); è il grande viaggiatore dell'impero, sin da un primo ciclo di viaggi in cui ha attraversato dalle province occidentali (121-122) a Cirene Creta Asia Minore Siria e (con una punta in Dalmazia e Pan nonia) Grecia (122-125); infine, nel 125, Sicilia (con l'ascensione dell'Etna). Tuttavia, nei riguardi del cristianesimo l'imperatore ha assunto un atteggiamento alquanto moderato. All'incirca verso il 124/125 egli ha inviato al proconsole d'Asia, Minucio Fundano, un famoso rescritto relativo ai processi di cristianesimo (la data si deduce dal fatto che Fundano era stato console sotto Traiano nel lO L'autenticità delle lei ere di Ignazio è messa in dubbio, per es., da TURMEL e Lois Ma persino in tal 'aso lo stabilirsi della gerarchia ecclesiastica i questo periodo noi dovrebbe mettersi in dubbio.
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maggio-giugno-agosto 107; tra consolato e proconsolato dovremo porre, in questo periodo, un intervallo di circa diciotto anni o poco meno); in tale rescritto (che poi l'apologeta Giustino citerà a conclusione della sua Apologia ad Antonino Pio) l'imperatore cerca di normalizzare la procedura delle accuse di cristianesimo, stabilendo che esse vadano esaminate nei particolari, e i Cristiani siano perseguiti « se si dimostra qualche loro offesa alle leggi ». Non è escluso che questo atteggiamento « illuminato » di Adriano fosse sollecitato dalla meditazione del più antico scritto di apologetica cristiana, quello di Quadrato,,consegnato all'imperatore in occasione di un suo viaggio in Asia Minore, forse quello del 123 o del 124 (l'Apologia di Quadrato è forse da riconoscere nella lettera a Dio gneto, a noi pervenuta con errata attribuzione a Giustino). Ad ogni modo, com'è naturale, la tendenza moderata di Adriano (come poi quella analoga del suo successore Antonino Pio) non poteva impedire la condanna di cristiani più intransigenti (la tradizione ecclesiastica pone sotto Adriano il martirio del capo della comunità romana, Telesforo). Viceversa, il giudaismo ha subìto nell'epoca di Adriano un tremendo colpo, paragonabile soltanto a quello inferto da Tito nel 70. Anche in questo caso, come nel 66 e nel 115, una eroica rivolta jahvistica domina la storia romana. La rivolta, che Adriano prevedeva già nel 129/130 fece Il Cfr. n. 12. - Quale fu l'origine della rivolta di Bar Kosebah? Secondo Cassio Dione (Lxix, 12), la decisione di Adriano di fondare Aelia Capitolina, in occasione del suo viaggio in Oriente (130); lo storico aggiunge che i Giudei 4&/cov mentre Adriano era ancora in Oriente, ma già allora preparavano la rivolta. Secondo la H. A., invece, la decisione di Adriano di proibire la circoncisione. Molti moderni dubitano così di Cassio come della H. A. Ma la notizia di Cassio deve considerarsi esatta; non solo, come già fu osservato, per via dell'epigrafe sull'arco di trionfo di Gerasa (« Buil. Amer. Sch. Or. Res. », 1934, p. 15; cfr. ultimamente NOTH, Gesch. Israels, 1950, p. 381), ma anche, e soprattutto, perché PSI 1026 attesta passaggio di classici egizii alla legio X Fretensis nel 129/130 (misura eccezionale, a cui si era tatto ricorso già nella prima rivolta giudaica:
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centro su Gerusalemme. Jamnia, la località di latifondo imperiale, non aveva potuto sostituire la città di David. Il condottiero della rivolta, Shimon Bar Kosebah (il patronimico, di cui prima si discuteva, è ora assicurato dal ritrovamento di una sua lettera) è certamente una delle più interessanti personalità della storia antica (accanto a lui, ha anche un grande rilievo la figura di Rabbi 'Aqib, il quale ha dichiarato guerra messianica la rivoluzione). Bar Kosebah è l'animatore di larghissime schiere di partigiani ebrei, in una guerriglia che in un primo momento sconcertò le forze armate romane, e solo dopo una lunga lotta (132-135) poté essere domata (le perdite romane furono sì gravi che Adriano, nella comunicazione al senato, non usò 'la formula consueta « noi e l'esercito stiamo bene »). Non solo Bar Kosebah ha perduto la vita nella lotta, sì anche l'ultima grande speranza ebraica di una restituzione all'indipendenza (quella speranza che appunto si era espressa nell'approvazione del rabbino 'Aqib) è morta con lui. Il più illustre dei « martiri » fu lo stesso 'Aqib, che è morto gridando la' sua fede jahvistica (« unico dio jahve »). Gerusalemme fu ridotta a Aelia Capitouna. La tradizione cristiana 12, che già con Giustino (dunLS 9059); il provvedimento eccezionale, dovuto alle particolari esigenze della guerra partigiana, e considerato in PSI 1026 (su questo testo cfr. in/ra, xxvi) come indulgentia divi Hadrianz, dimostra che l'imperatore prevedeva già l'eroica resistenza giudaica al suo tentativo di paganizzare la città santa. Adriano ha dunque preso l'iniziativa, da cui ebbe origine la rivolta di Bar Kosebah: ciò è importante per la caratteristica del suo atteggiamento spirituale:non si dimentichi che il suo segretario, lo storico Suetonio, ha insistito sull'ostilità di Augusto (anch'egli, come Adriano, mystes degli Eleusinia sacra) contro il dio di Gerusalemme. Quanto alla notizia della H. A., anch'essa sembra cogliere nel vero: l'avversione di Bar Kosebah per i giudeo-cristiani (cfr. n. 12) si spiega benissimo con la tolleranza di essi nei riguardi degli incirconcisi. 12 Confermata, ora, dalla lettera di Bar Kosebah a Jeshua ben Gilgolah trovata fra i documenti di Wadi Murabba'at (HABERMANN, «Ha'ares », 18 sett. 1953): proprio la tradizione cristiana autorizza a vedere i Giudeocristiani nei « Galilei » di questa lettera. I
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que in epoca vicinissima alla vicenda) considera Bar Kosebah un persecutore dei Cristiani, ci illumina, d'altra parte, sull'avvenuto definitivo distacco, in terra palestinese, del cristianesimo dal giudaismo; Bar Kosebah ha visto nei Giudeocristiani di Palestina dei nemici della sua rivoluzione. Non è improbabile che la lettera di « Barnaba », un documento dell'antico cristianesimo particolarmente avverso al giudaismo, vada attribuita agli ultimi tempi di Adriano (nel 138 la poneva il Lietzmann) o comunque all'epoca di Adriano (nel 131, secondo Harnack); certo, essa presenta il contrasto cristianesimo-giudaismo in una fase così matura da rendere ben comprensibile l'ostilità anticristiana di Bar Kosebah. La sconfitta di quest'ultimo dovette apparire, ai Cristiani, una prova ulteriore che l'antica Thorah era in certo modo superata, e che un'interpretazione di essa, in senso più spirituale che letterale, doveva essere svolta dalla nuova fede. Contemporaneamente, si andava verificando un processo di « ellenizzazione del cristianesimo ». Man mano che questo si allontanava dal giudaismo, si imponeva altresì una maggiore integrazione con i motivi del pensiero e della cultura ellenistica. Tale processo di « ellenizzazione del cristianesimo » (Harnack) coincide, in linea di massima, col fenomeno della gnosi. La scissione di giudaismo e cristianesimo, ormai definitiva all'epoca della rivolta di Shi mon Bar Kosebah, e resa più acre dall'insuccesso di quella rivolta, fu così condotta a conseguenze teoriche eccezionalmente audaci dal più accanito avversario del giudaismo nell'ambito del cristianesimo ellenizzante: Marcione. Questo massimo esponente della « gnosi » (qualora tale termine di « gnosi » si intenda in senso lato) è un tipico figlio della ricca borghesia cristiana d'Asia Minore, ma anche un tipico prodotto dell'ostilità antigiudaica suscitata dalle due grandi rivolte del 115 e del 132; la sua condanna da parte della chiesa ufficiale ha ristabilito un equilibrio necessario al mantenimento della religiosità cristiana, la quale non si
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poteva assolutamente staccare (come Marcione avrebbe voluto) dall'Antico Testamento di spiriti e tradizione giu daica. Nello stesso tempo va sottolineato che la predicazione di Marcione ha avuto una diffusione enorme in tutto l'impero. Ciò s'intende benissimo, se teniamo presente il suo sfondo politico: la predicazione marcionitica, se in realtà strappava la dottrina cristiana alle sue origini profonde, tuttavia si presentava particolarmente attraente per gli f.hr71 che le recenti rivoluzioni giudaiche avevano reso sempre più ostili al giudaismo (per avere un'idea di questa ostilità, si pensi, per esempio, che a Cipro, dopo le fanatiche lotte della rivoluzione del 115-117, non si volle più accogliere alcun ebreo). Va rilevato che le chiese marcionitiche si diffondono (oltre che in Italia e a Roma, sede di Marcione medesimo) soprattutto nelle terre toccate dalla rivolta giudaica del 115-117: Cipro, Egitto, Siria in modo particolare (del resto le chiese marcionite hanno avuto uno sviluppo impressionante: secondo taluno, anche i Pauliciani del medioevo deriverebbero da esse). Infine, un'ultima considerazione può illustrare il significato del movimento marcionitico: Marcione, un grande armatore, apparteneva, come già dicemmo, alla ricca borghesia d'Asia Minore; e tuttavia, il suo ideale religioso doveva configurarsi, sul piano sociale, come un comunismo di carità, in maniera analoga (ma con una concezione più complessa) ad altri movimenti gnostici (per esempio i carpocraziani). Ciò significa che l'abbandono della Thorah giudaica, e la tendenza della gnosi all'idealismo ellenico, avrebbe sospinto il cristianesimo di epoca imperiale verso una radicale svalutazione del contenuto economfto dell'intrapresa e della mentalità affaristica; questo « comunismo di carità » era, sì, caratteristico dell'antico cristianesimo (tutti ricordano 7t&v-rx xotva negli Atti degli Apostoli); ma la sua formulazione più radicale era il motivo dominante delle forme più ellenistiche di cristianesimo, e insomma della gnosi più radicale. Le comunità di Marcione - di que
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st'uomo fattosi con l'intrapresa, che abbandona lo spirito dell'intrapresa - sono una dimostrazione del modo unilaterale in cui gli avversari radicali della Thorah ebraica interpretavano i fatti economici in quest'epoca notevolmente « capitalistica » dell'impero romano. I « compagni di miseria » di Marcione significano dunque una interpretazione piuttosto astratta dei rapporti sociali nell'ambito della predicazione cristiana; e lo stesso può dirsi, più o meno, per le altre dottrine gnostiche. La religione cristiana poteva conciliare comunismo di carità e rivalutazione dell'attività affaristica, solo se si fondasse sul vecchio edificio dell'Antico Testamento, sia pure del tutto rinnovato nell'esperienza del Nuovo. In altri termini, sul piano sociale la tendenza comunistica di carità - che nel cristianesimo ufficiale era contenuta entro i limiti necessari alla continuazione di una società fondata sull'economia monetaria e sull'intrapresa - caratterizzava gli ideali gno stici, ed anche per questo rendeva difficile un effettivo inserimento delle comunità gnostiche nella società dell'impero. Proprio il « comunismo di carità », se voleva immergersi in una realtà concreta, doveva incoraggiare lo spirito di intrapresa, che rendesse possibile un'attuazione pratica della carità. L'aspra lotta fra Marcione e la Chiesa ufficiale, pur tra difficoltà grandi, si concluse, alla fine, con la vittoria della Chiesa, di gran lunga più aperta alle forme tramandate dell'esperienza sociale (come poi sarà chiaro nel Quis dives salvetur di Clemente alessandrino). La fondazione della chiesa marcionitica si è verificata a Roma sotto Antonino Pio, nei 144: a meno che un decennio dalla definitiva sconfitta di Bar Kosebah (del resto, anche Antonino Pio, già designato da Adriano nel 138 e a lui successo in quell'anno, ha dovuto domare - pur non muovendosi mai dall'Italia - alcuni moti ebraici). È molto significativo che Marcione scegliesse Roma come centro della sua predicazione: prima di fondare la sua chiesa, egli
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aveva anzi tentato di conquistare la comunità dei presbyteri romani, alla quale aveva donato 200 000 sesterzi (equivalenti allo stipendio annuo di circa 170 legionari). Gli sorrideva la speranza che una sua affermazione a Roma gli avrebbe garantito le altre (o almeno una notevole parte delle altre) comunità cristiane. In realtà, la comunità romana aveva una posizione eccezionalmente forte: come Roma e l'Italia erano a capo dell'impero, così anche al centro della cristianità, su cui emergeva la potentior principalitas, era costituita la comunità romana (di altre comunità episcopali va ricordata, in Italia, la ravennate, che proprio allora si andava consolidando). Le parole potentior principalitas sono traduzione latina di un termine con cui più tardi - tra Marco Aurelio e Commodo - il vescovo Ireneo di Lione esprimerà la posizione della comunità romana, basata sulla sua fondazione ad opera dei due principes fra gli Apostoli, Pietro e Paolo (potentior principalitas traduce qualcosa come 8uv-t'r&p ovtot con insistenza sul fatto che la comunità romana fu fondata dai principes Pietro e Paolo; non si dimentichi che princeps = 'cu.v, nel linguaggio ufficiale dell'impero). La potentior principalitas esprime dunque la coscienza della superiorità di una tradizione come quella romana, basata sulla fondazione di quella comunità ad opera degli apostoli principes Pietro e Paolo, e illuminata dall'enorme importanza di Roma come signora dell'impero: e quando il presbyterio di Roma, con a capo il suo vescovo Pio (si noti la coincidenza col titolo Pius, che era stato dato all'imperatore sin dalla sua presentazione al senato, ai primi del 138), decise di respingere le conclusioni di Mar cione, questo atteggiamento ebbe un grande peso nella posteriore storia delle comunità cristiane. Più tardi (sotto il vescovo romano Aniceto, successore di Pio) Egesippo, un giudeocristiano, verrà a Roma, e redigerà un elenco delle &cx&y,x(, « successioni » episcopali di Roma; la sua forte personalità - egli può considerarsi il fondatore della
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storiografia ecclesiastica - ha sanzionato l'equilibrio fra Antico e Nuovo Testamento, che nella chiesa cristiana si richiamava alla tradizione apostolica di Pietro e Paolo in Roma, ed escludeva per sempre dalla comunità ortodossa i tentativi gnostici (sempre che s'intenda la parola « gnosi » in senso lato) sul tipo marcionita (e tanto più i tentativi gnostici in senso stretto, sul tipo per esempio insegnato da Valentino a Roma, pure in quel torno di tempo). Già allora questa comunità cristiana di Roma, composta in maggioranza di orientali e di greci, questa comunità la cui lingua è il greco e non il latino, ha tuttavia rappresentato una tradizione « romana » di grande rilievo. Di essa ci danno un'idea le due Apologie di Giustino, un cristiano di Flavia Neapolis, venuto a insegnare a Roma; sono indirizzate la prima ad Antonino Pio e la seconda (in occasione della condanna di tre cristiani della comunità romana ad opera del prefetto urbano Lollio Urbico) al senato di Roma. Anche il problema dei rapporti fra cristianesimo e giudaismo, com'essi si presentavano in seguito alla sconfitta di Bar Kosebah nel 135, e alla conseguente riduzione di Gerusalemme ad Aelia Capitolina, è stato affrontato da Giustino nel suo Dialogo con Trifone ebreo 13: qui l'avversione dell'apologeta all'antigiudaismo marcionita non esclude un'aperta polemica contro l'interpretazione giudaica della Legge; Giustino segue una interpretazione « spirituale » (< allegorica ») per esempio della circoncisione, e accetta lo stato di cose seguìto alla vittoria di Adriano sui partigiani di Bar Kosebah. Ancor una volta: la scissione del cristianesimo dal giudaismo era ormai un 13 Può essere utile un confronto con la contemporanea Apologia di Aristide. Qui la critica alla religione degli Ebrei (uno dei quattro « popoli » di Aristide: Barbari, Elleni, Giudei, Cristiani) si limita al culto degli angeli, ed è caratterizzata da grande ammirazione. Aristide esprime l'ambiente cristiano ateniese del ti secolo; Sulla datazione dell'Apologia di Aristide cfr. le nostre osservazioni in/ra; XXII.
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fatto compiuto e irreparabile; quando, sotto lo stesso Antonino Pio (o, secondo altri, sotto il suo successore Marco Aurelio) fu condannato il vescovo di Smirne Poli carpo, anche i Giudei della città, e non solo i pagani, si trovarono aspramente ostili al martire cristiano. E tuttavia, il fatto storico più significativo è nella circostanza che la scissione di cristianesimo e giudaismo non abbia provocato quella estrema ellenizzazione del cristianesimo, a cui avrebbe condotto un trionfo della gnosi od anche una vittoria dell'eresia marcionitica. La misura della maturità raggiunta dalla rivoluzione cristiana in questo periodo si trova nel suo stesso equilibrio spirituale, a cui contribuisce non poco la presenza della potentior principalitas romana. La gnosi caratterizza il ii secolo, sebbene abbia ancora un notevole seguito nel in secolo e nel basso impero. Proprio questo è il significato storico della gnosi: in pieno impero umanistico, esso ha posto in maniera pressoché drammatica il problema del rapporto fra rivoluzione spirituale cristiana e cultura ellenica. Per il pensiero ellenico, per la norma mentale ellenica, la materia, che è il male per eccellenza, non può unirsi con lo spirito; ne è separata a priori, per un distacco che impedisce ogni incontro: nella predicazione di Valentino si insegnava che Cristo-Aion si unisce con Gesù, ma non con il corporeo Cristo degli Evangelii. Il portato storico della gnosi è soprattutto qui: nell'aver acutizzato il problema del rapporto fra Pneuma e Sarx, fra Logos e Soma, facendo risaltare, attraverso la sua opposizione alla comune coscienza cristiana, il carattere veramente rivoluzionario di questa coscienza e la sua irri ducibilità alle pure forme del pensiero ellenico. In questi gnostici, che non intendono come l'Uomo corporeo possa essere Dio, si preannunciano in certo modo (se pur di lontano) le posizioni del monarchianismo modalistico, per cui il Cristo dio non è che un « modo » dell'unico Dio, e dunque del Padre. Quando la tempesta gnostica sarà
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superata, la Chiesa ufficiale potrà combattere le battaglie del pensiero su un piano assai più chiaramente delimitato - ma in cui le posizioni spirituali devono sempre far i conti con quel razionalismo ellenistico da cui proveniva la gnosi. Tutto sommato, il marcionismo non è che la fusione più possente di dualismo iranico e razionalità ellenica nel quadro di un dichiarato antigiudaismo; e il Gesù delle Antitesi di Marcione, il « dio buono » vestito - ma non più che vestito - di forma umana, preannuncia anch'esso quel monarchianismo modalistico contro cui si batteranno, nel in secolo, Tertulliano e Ippolito e Origene. Non è un caso che Tertulliano, autore dello scritto anti modalistico adversus Praxeam, sia anche il violento autore dell'adversus Marcionem. Così, si cominciano a intuire, nel ii secolo, alcuni momenti di quella discussione cristologica, la quale si farà sempre più serrata nel iii secolo, per poi dominare tutta la storia politico-religiosa del basso impero. 34. L'impero « umanistico » di Adriano (117-138), Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180).
Già lo studio dell'evoluzione politica imperiale nei riguardi del cristianesimo ci ha mostrato come Adriano seguisse un « corso » politico in certo modo diverso da quello del suo predecessore. Del resto, Traiano lo ha designato solo all'ultimo momento, e - secondo la tradizione - non tanto per spontanea scelta quanto per suggerimento della moglie Plotina. Questa tarda e discussa designazione dà l'impressione di una travagliata incertezza, di una notevole esitazione di Traiano; ma forse può indicare qualcosa più che non una personale diffidenza. Traiano ha forse intuito che Adriano avrebbe dato, in alcuni punti, un « nuovo corso » alla politica dell'impero. In realtà, alla decisa opposizione traianea contro le eterie, e
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dunque contro il cristianesimo, seguì, con Adriano, una chiara, illuminata tolleranza: anche se questa va intesa, come del resto vedemmo, entro certi limiti. Ma l'allontanamento della politica adrianea dalle vie di Traiano è più evidente in altri campi. Adriano, questo ottimo soldato che era ben capace di vivere sotto la sua tenda contentandosi di un poco di lardo, preferì dare al suo regno un carattere il più possibile pacifico: appunto perché era buon soldato (della sua sensibilità alla vita militare ci dà un'idea il famoso « ordine del giorno » alla terza legione, in lapidi di Lambesi), appunto perché ritereva di possedere senz'altro un prestigio militare di eccezione, poteva considerare superflua la ricerca di gloria nella conquista illimitata, e dare maggior peso alla costruzione di città e campi e trincee al limes dell'impero (s'intende che la cura adrianea del limes è anche un aspetto dell'umanesimo di questo imperatore: difatti, la tradizione storiografica la interpreterà come una volontà di distinzione della civiltà dal mondo barbarico, e la Historia Augusta vedrà appunto in Adriano l'imperatore che murum duxit, qui barbaros Romanosque divideret). All'imperatore « nuovo Dioniso », come si era presentato il conquistatore della Partia Traiano, si opponeva 1' « Olimpio » innamorato della Grecia. Al primato della politica estera, si opponeva il priinato della politica interna: Adriano affidò al giurista Salvio Giuliano il compito di redigere l'editto dei pretori (una redazione che non dovette piacere molto al senato, giacché limitava fortemente l'arbitrio magistratuale); un'altra riforma di grande importanza, ai fini amministrativi e giurisdizionali, fu la divisione dell'Italia in quattro distretti, ciascuno dei quali fu affidato a un consularis (la riforma, che poteva sembrare un avvio alla provincializza zione dell'Italia, fu abolita da Antonino Pio, ma tornò in vigore ad opera di Marco Aurelio, con la sola differenza che al posto dei quattro consulares si ebbero cinque
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o più iuridici) 14 Allo stesso modo in cui al primato della politica di conquista seguiva il primato della politica di riforme, così pure al soldato Traiano, succedeva il « viaggiatore » Adriano; al sognatore di conquiste « cesariane », il turista senza riposo. Non si insisterà mai abbastanza sullo « stile » dei viaggi di Adriano. Le tradizioni degli uomini e il bello della natura attiravano ugualmente l'interesse e la passione di questo imperatore, sia ch'egli componesse un'iscrizione per la tomba mantineese di Epaminonda, o restituisse la tomba di Aiace a Troia, o andasse a vedere le Piramidi in Egitto, o scalasse, -da buon alpinista, l'Etna o il monte Casio. Naturalmente, tale attività « turistica »' aveva molto di umanistico, anzi era il segno della vitalità dello spirito umanistico: e chi considera, per esempio, le decorazioni del podio della cella nel tempio di Adriano erettogli da Antonino Pio in 'campo Martis (precisamente, nell'attuale piazza di Pietra a Roma; le decorazioni sono sparse pei vari musei, per esempio a Napoli, ai Conservatori, al Vaticano), si rende conto dell'equilibrio fra classicismo e• « storicistica » realtà, che caratterizza quelle figure di province di antica e nuovissima civilizzazione, dall'Egitto alla Bitinia alla Dacia alla Spagna e via dicendo. Antonino Pio non poteva interpretare meglio l'epoca di Adriano: l'imperatore rivive nella umanistica figurazione delle province romane, alla cui esplorazione egli aveva dedicato la sua brillante ma pensosa esistenza. Quello spirito dionisiaco che aveva animato Traiano si era convertito, per Adriano, nella composta gioia di ordinare, come arconte, le feste di Dioniso in Atene. Traiano era stato l'uomo dalle formule incisive e forti (si citano sempre le sue famose parole ad Attio Suburano, nell'atto di nominarlo prefetto al pretorio consegnandogli la spada: tibi istum ad munimentum mei com14
Questo officio del iuridicus si manterrà, come semb:a, fino Gallieno.
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mitto, si recte agam, sin aliter, in ne magis); viceversa,
Adriano è il poeta decadente dai modi attenuati, l'uomo che, morente, avrebbe volto un saluto alla sua,« animuccia » cui il corpo dava ospizio - e ne riceveva compagnia - mentre ora sarebbe andata a finir nei luoghi « palliducci e freddi e nudetti » (animula vagula biandula, hospes comesque corporis, quae nunc abibis in loca pallidula rigida nudula, nec ut soles dabis iocos). Questa
non è leziosità arcadica, come penserebbe chi partisse dall'esperienza delle letterature moderne; questa è piuttosto stoica considerazione della fragilità delle cose umane; animula è termine tecnico della filosofia stoica, come il corrispondente u&p.ov in Marco Aurelio e già in Epitteto (cfr. anche C vi, 17985a, 34112). L'ideale che Adriano impersonava in tal modo non era soltanto un capriccio della sua natura abbastanza chiusa e come distaccata (il letterato Frontone dirà di essersi sentito impacciato alla sua presenza); ma anche, nel complesso, un ideale di monarca che pur la stoica figura di Augusto (come già, nel mondo ellenistico del iii secolo a.C., il monarca macedone Antigono Gonata) in qualche modo annunziava. Esso s'inquadra in quella esaltazione della conoscenza filosofica, che nel il secolo ha ancora un tono aristocratico (in quanto rientra nello &poxp-coc 'riSto) e che si « democratizzerà » (come vedremo a suo luogo) nel in secolo. Comunque, il monarca filosofo (nel caso di Adriano, il monarca letteratofilosofo) è un ideale tutto romano, così come poteva configurarsi in questo n secolo, che è il culmine dell'esperienza culturale ellenistico-romana; esso si continuerà poi per tutto l'impero in alcune personalità tipiche, come Gal lieno nel iii secolo e specialmente Giuliano nel IV. Nessun altro organismo statale, nella storia del mondo, ha realizzato il « tipo » del monarca filosofo come l'impero romano dell'epoca antonina: da questo punto di vista, sembrerebbe di trovarsi in presenza di uno stato ideale
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alla maniera platonica, con una classe dirigente di saggi . Mai il mondo antico ha potuto esprimere una costruzione
altrettanto razionale, un « concentrato » altrettanto maturo di tutte le sue idealità politiche, più o meno improntate a concezioni intellettualistiche della vita morale e dello stato. Se vogliamo veramente intendere questo stato romano del ii secolo d.C., dobbiamo soprattutto renderci conto che esso poteva esprimersi in una classe dirigente di filosofi-scienziati e di umanisti come Adriano o come Marco Aurelio: di uomini che, come Adriano, riponevano loro gloria nell'inventare un collirio, oppure, come Marco Aurelio, sapevano dissolvere la gloria di una vittoria militare o dello stesso comando imperiale nel pensoso superiore ammonimento a se medesimi «r àzroxa~aapc» (« non cesarizzarti »). Quando Marco Aurelio si fa ad esporre le molte cose che egli deve all'insegnamento pratico del suo padre adottivo Antonino Pio, abbastanza in vista tra quelle molte cose egli pone « l'onore dovuto ai veri filosofi, senza ingiurie ma anche senza concessioni ideali agli -altri » (1, 16: Tò TL~l.71TLXÓV -c v àc x p .XoaopOÚVTG)V, roL &XÌIotC oixKovet&a -rtxv OU e i.rvEÚ-
7apoty0y0v ú7 ' ocú-rcùv). In un tale stato, dunque, l'atteggiamento nei riguardi della cultura filosofica era in primo piano fra le occupazioni del monarca (anche se, conseguentemente, lo stesso monarca doveva prendere posizione nei riguardi di quelli che riteneva « veri filosofi » e degli « altri » filosofi, che apparivano non vicini alla verità). Appunto perciò, l'epoca di Marco Aurelio è anche l'epoca di Claudio Galeno, il filosofo peripatetico che, come medico ufficiale, lo ha accompagnato nelle sue imprese ed ha sistemato l'antica scienza medica con i criterii della razionalità aristotelica. In quel già citato primo libro delle « conversazioni con se stesso » (c &auT6v), Marco Aurelio ci sa dire qual è il suo debito, oltre che verso gli uomini della sua famiglia, verso gli uomini di pensiero con cui ha avuto la fortuna di incontrarsi e di formarsi agli ideali
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supremi della vita filosofica: tra l'altro, verso il filosofo peripatetico Severo, che gli ha indicato l'amore per la grande tradizione repubblicana interpretata filosoficamente (Trasea e suo genero Elvidio Prisco, i perseguitati da Vespasiano, sono da lui ricordati tra i primi esponenti di questa tradizione, accanto a Dione di Prusa, e ai due avversari di Cesare, Catone uticense e Bruto); l'ideale che Severo ha saputo insegnargli è anche un ideale di libertà e di uguaglianza pei sudditi dell'impero. « A Severo io devo - l'aver concepito l'ideale di uno stato isonomo, governato secondo l'uguaglianza e la libertà di parola; e di una monarchia che sopra tutto esalti la libertà dei governati » (cpav-rocat'ocv Xxr3tv 7roXvrsíag La0V0p.0U xoc-r' a6-r-r -rx xx -iyopxv 8L 0LXmIé Vng X0CL P0Ca0,£(0Cg -
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Xtaroc 'r- v acuacplocv rv &pop.vv:
i 14). '1a6riq ed Xcup: questi non sono concetti esclusivi di Marco Aurelio; sono i motivi profondi della politica dell'impero « umanistico » 15 con quel suo guardare alle classi inferiori con comprensione largamente umana e generosa. Non già - si badi - che qui la cultura antica volesse piegarsi a forme inferiori di vita economica e sociale; al contrario, l'impero umanistico del secondo secolo vuole avvicinare gli humiliores alla cultura superiore, in tutti i modi in cui ciò è possibile. Adriano ha espresso questa esigenza nella famosa lex Hadriana de rudibus agris, per l'Africa; allo stesso modo, l'imperatore filelleno ha creduto di rinnovare un motivo della legislazione soloniana proibendo l'esportazione dell'olio, nociva alle classi inferiori, da Atene; così pure, la illuminata provvidenza per le classi inferiori ispirava le misure da lui adottate nella lex metalli Vipascensis per le miniere, e la tendenza a creare in Egitto delle proprietà in certo 15
Appunto per ciò, l'ideale isonomico resta sempre ancorato - come nella sua prima formulazione, del vi secolo a.C. (cfr. Fra Oriente e Occidente, 1947, p. 222) - all'etica aristocratica, allo &pLaoxpa-rx
'fl.')7VO4.
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rodo private pur nel quadro dellay5PocatXtx' (la quale diventava in questi casi &vrx &xocktn &xpopÀvv). Ad ogni modo, l'ispirazione profonda di questi provvedimenti è intonata ad un ideale filosofico-politico di umanità: quello stesso per cui Marco Aurelio ha celebrato il modo urbano in cui Antonino Pio aveva trattato il pubblicano che gli rivolgeva una petizione a Tusculo; quello stesso, in ultima analisi, che animava (sulla base di precedenti di Nerva e Traiano) l'istituzione delle puellae alimentariae Faustinianae - una tipica fondazione di soccorso per ragazze povere - da parte di Antonino Pio (141). Di questo ideale Marco Aurelio ha dato la più cosciente e concisa definizione in quella k6-Mg« uguaglianza », e ayopLx « libertà di parola » che gli sembravano - come già vedemmo - il meglio dell'insegnamento di filosofia politica attinta a Severo (anche gli umilissimi hanno una certa coscienza di questo ideale umanitario dell'impero di Marco, come vediamo dalla petizione che i contadini del saltus Burunitanus - una proprietà imperiale in Africa - rivolgono in un primo momento a Marco, poi per rinnovarla, con maggior fortuna, sotto suo figlio Commodo: in/ra, § 42). Comunque, I"taórrig esaltata da Marco, è un ideale concepito platonicamente, anche se, com'è naturale, Marco stesso (e così, certo, già i suoi predecessori) ha considerato assurda e utopistica la dottrina politica di Platone (ix, 29: IZI-r-v flX&mvo irococv L?C). I sapienti di Platone, attraverso la meditazione stoi ca, sono ora divenuti propriamente la classe dirigente dello stato; anzi, non solo di Roma, sì idealmente, della cosmopoli: essi vivono nella comunità, e per essa nella cosmopoli umana (Marco Aurelio sa appunto che « se la polis non è danneggiata, neanche io sono danneggiato »: £1 V") -dróXtg X&c-roct, oè &' Mai un uomo politico ha sentito con tanta partecipazione il richiamo ad una filosofia politica come punto di riferimento nella condotta dello stato. Lo stesso confronto con la moderna
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monarchia illuminata tocca solo l'esterno, non l'intimo significato di questo atteggiamento; se un confronto si può fare, esso sarà più agevole nell'ambito della stessa storia romana, per esempio con l'ascesi filosofico-politica di Giuliano nel iv secolo. Del resto,, l'ideale che Marco configura nei concetti di ta6T-r ed 'to-nyoptot è quel medesimo che il retore Aristide aveva esaltato come proprio dell'impero romano, ed in esso attuato secondo una concezione del diritto - soprattutto del ricorso in appello che gli appariva superiore allo stesso ideale ellenico di democrazia. Comunque, la coscienza della unità culturale ellenico-roniana ha grande parte nelle esperienze spirituali dell'impero « umanistico ». Perfetta è in questo secondo secolo l'unità di cultura in lingua greca e cultura in lingua romana; l'impero è bilingue (bilingue soprattutto dal punto di vista « aristocratico », ché la lingua dell'esercito è solo la « italiana »; in/ra, § 38): e gli imperatori « umanisti » amano la grecità (la grecità dell'Alta Atene, ma anche l'umile dell'Euboico di Dione Crisostomo) come la voce più pura della tradizione che essi sanno di rappresentare. È l'epoca in cui Plutarco ed Epitteto sono i grandi esponenti della cultura romana; in cui il greco di Bitinia Arnano, il discepolo di Epitteto, figura tra i migliori generali dell'impero; in cui Adriano, l'Olimpio, appare come Zeus Panhellenios, appare in Asia Minore come Panionios; e Atene può celebrare, sotto questo « secondo Teseo », la sua nuova vita. L'essere imperatore filosofo coincide con l'essere imperatore filelleno. Ciò che Nerone avrebbe voluto essere, fu, in maniera assai più completa, Adriano: ktistes di nuove città greche, soprattutto di Antinooupolis in Egitto, ma anche di Adrianopoli in Tracia, di Hadrianoutherai in Asia Minore. È questa l'epoca in cui ogni magistrato romano in Acaia si considera fortunato di essere a contatto con quei mondo da cui tutto il bello e il buono è venuto alla cultura romana: se si vuoi avere un'idea di questo umanesimo dell'amministrazione.
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romana, basti pensare alla famosa lettera di Plinio il Giovane a quel Massimo, che da Traiano è inviato come corrector ad ordinandum statum civitatium liberarum provinciae Achaiae, oppure ai praecepta gerendae rei publicae di Plutarco (con la chiara eco della sua amicizia col proconsole d'Acaia), oppure all'amicizia di Erode Attico col quaestor Achaiae Iulianus, o infine all'amicizia di Lucio col proconsole di Acaia nella famosa novella (pseudo?) lucianea. La cosciente differenza della nuova epoca rispetto al i secolo può essere sottolineata dalla vita Apollonii di Filostrato ii (redatta nel iii secolo, ma sulla base di scritti precedenti), là dove ci si presenta, come per contrasto, un proconsole di Acaia, nell'epoca neroniana, ignorante delle cose greche e della stesa lingua greca. Sotto l'impero umanistico, il greco è la lingua in cui il citato retore Aristide scrive quel suo splendido e famoso Encomio di Roma, ed Appiano quella sua Storia, nel cui proemio è l'esaltazione dell'impero dei Romani sopra ogni altro che mai sia stato, l'esaltazione insomma di un impero che per splendore e ampiezza e fortuna supera ogni precedente (un passo innanzi rispetto allo stesso Plutarco, intendiamo al Plutarco degli opuscoli sulla Fortuna di Roma e sulla Fortuna di Alessandro). Il mondo greco d'Asia Minore partecipa attivamente a questo risveglio umanisticò: d'ora in poi Smyrne sarà un centro culturale come pochi; l'asianico Pausania scrive la sua Guida alle antichità greche. La formazione spirituale dell'uomo antico, come si concepisce nel quadro della pedagogia plutarchea e della seconda sofistica, vuoi essere, nelle più varie forme greco-asiatiche, soprattutto una formazione umanistica. Scrive in greco Favorino di Arelate; scrive in greco (ciò che è assai più significativo) un latino di Preneste, Eliano. Il capolavoro di questa epoca, il libro che ne riassume il travaglio e l'esperienza sofferta ma classicamente composta, è un'operetta greca dell'imperatore romano: è, appunto, lo c UT6V di Marco Aurelio.
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Questo ci spiega la Continuità ideale Che lega, nonostante la diversità dei temperamenti e delle vicende, i tre imperi di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio: essi sono gli imperatori-filosofi o amici dei filosofi. Con quel suo « nuovo corso » rispetto alla politica traianea, Adriano ha inaugurato il nuovo tipo di monarca, che cosciente mente si richiama ad Augusto e lo contrappone a Cesare (.t- & ox po); non era Augusto l'imperatore dell'umana saggezza, l'amico gtande del filosofo Areio e del letterato Mecenate? Viceversa, in Cesare questi imperatori « adrianei » vedevano più assai il cotlquistatore che il pensatore; la fortuna' Caesaris diceva ad essi ben poco; persino la clementia Caesaris sembrava attenuarsi, rispetto alle grandi virtù ideali che ci lasciano costruire, « pezzo a pezzo », la nostra vita. Adriano ha viaggiato molto, Antonino Pio poco o nulla, Marco Aurelio ha compiuto personalmente splendide azioni di guerra; ma la diversità dei tre imperatori è attenuata dalla presenza delle « virtù filosofiche » nel loro ideale di vita. (Del resto, anche Adriano, a un certo momento, nel 136, ha smesso di viaggiare, e ha trascorso a Tivoli quest'ultimo scorcio della sua vita; ogni turista moderno conosce Adriano più per la villa Adriana di Tivoli che non per le sue fatiche di turista antico.) Un'altra differenza tra Adriano e Antonino Pio è nella operosa attività edilizia di Adriano (operosità che sembra rimontare, come hanno mostrato certi scavi [1951] in Ungheria, al periodo anteriore alla sua assunzione al trono), di contro alla misurata economia di Antonino Pio. (Marco Aurelio rilevava - con una punta di critica ad Adriano - « la non-irrequietezza » e la « non tendenza a costruire » di Antonino Pio: -r 'r67rQL XOCL 7rpcyLaf. TOLg otùro"Lg F.v8tocrpL7rrLXOV e l'essere ot ptXotxo6to: qualità che evidentemente apprezzava, sicché per questa parte Marco Aurelio andrà avvicinato ad Antonino Pio piuttosto che ad Adriano.) Va anzi rilevato che Antonino Pio ha sacrificato alle sue preoccupazioni economiche fi-
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nanco un tipico aspetto « umanistico » dell'impero: i privilegi immunitarii (excusationes) accordati ai retori furono da lui limitati. Ancora: Antonino Pio è assai meno autoritario di Adriano, il quale nell'ultimo periodo della sua vita ha preso un atteggiamento antisenatoriale (sì che poi il senato apparve riluttante a concedergli l'apoteosi) ed ha ucciso l'ottantenne cognato e il giovanissimo nipote. E certo, nonostante una rivolta spagnuola contro Antonino Pio, non sarebbe facile immagi,are quest'ultimo circondato da quegli odii, che pur dovettero farsi piuttosto aspri contro Adriano; n lo immagineremmo in contrasto con uomini di pensiero e di cultura, come sappiamo dei contrasti di Adriano con Septicio Claro o Suetonio; né gli sapremmo attribuire quel teatrale gusto per la caccia che rese famose le « cacce di Adriano » (esse diedero nome alla città di Hadrianoutherai in Mesia), e onorata su stele ed epigrammi la tomba del suo cavallo Boristene. Ma tuttavia, è bene ribadire che queste differenze non tolgono unanimità di indirizzo umanistico fra i tre imperatori diversissimi, fra il sospettoso Adriano e il sobrio Antonino e l'ascetico Marco Aurelio; il comune denominatore che li avvicina è quel filosofico -txpxcc v icxv-d xoc pxtp6v, che Marco Aurelio esalta in Antonino Pio e che potrebbe dirsi, all'istesso mddo, di Adriano e di Marco. Tutto sommato, l'essere « romano » si identifica, ormai, con la matura virilità e compostezza del filosofo: « il dio che è in te » può dire Marco Aurelio « sia guida di un animale vii'ile e maturo e politico e romano e comandante che abbia messo in ordine il suo io ». Le forme costituzionali di questo mondo per eccellenza umanistico furono date dalla tradizione romana. Una tipica combinazione del caso con la mentalità illuminata degli imperatori permise l'attuazione di un ideale romano, la monarchia « adottiva »: un riflesso, dal punto di vista ideologico, della riluttanza romana alla pura concezione dinastica. Tutti ricordano il famoso discorso di Galba adot-
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tante Pisone, nel primo libro delle Historiae di Tacito: lì è un po' il manifesto di quella ideologia romana, per cui l'impero deve considerarsi non già « eredità di una sola famiglia » (unius familiae hereditas), ma nobilissima missione che l'imperatore destina all'o ptimus, da lui prescelto, attraverso le forme dell'adozione. Anche qui, un concetto già augusteo veniva interpretato e svolto con umanistica coerenza e con un chiaro richiamo alla illuminata razionalità delle esigenze costituzionali romane. Già Nerva, già Traiano non avevano avuto figli: e Nerva aveva adottato Traiano, come poi Traiano (in punto di morte, e per suggestione della sua sposa, l'epicureizzante Plotina) adottava Adriano (si è pensato anche che questa adozione in extremis fosse una montatura dello stesso Adriano, d'accordo con Plotina). Anche il matrimonio di Adriano con Sabina (figlia di Matidia, una nipote di Traiano) fu infecondo: e Adriano adottò prima Elio Vero, poi, dopo la morte di quest'ultimo, Antonino (che ebbe il soprannome di Pio 16 per la sua pietas verso Adriano e le pressioni da lui esercitate sul senato ai fini dell'apoteosi di Adriano stesso). Antonino Pio ebbe, dal suo matrimonio con Faustina Maggiore, due figli maschi e due figlie; ma i due maschi e la maggiore delle femmine morirono; sicché anch'egli fu costretto ad adottare i suoi destinati successori, e precisamente i futuri Marco Aurelio (sposo dell'unica figlia di Antonino rimasta in vita: Faustina Minore) e Lucio Vero (figlio di quell'Elio Vero, che Adriano aveva adottato prima di adottare, in seguito alla morte di lui, Antonino stesso). Stavolta il caso e l'ideologia si alleavano ancor meglio a configurar in senso tradizionale l'ideale monarchico dello stato romano: non soltanto la successione di Antonino Pio era concepita sul piano dell'adozione. dell'o ptimus prescelto a continuare la statio 16 Interessante la già notata coincidenza col vescovo cristiano di Roma: supra, S 33.
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faticosa dell'imperatore; ma inoltre la successione di due optimi si configurava in maniera diarchica, con una maggior garanzia di costituzionalità, in aderenza a ideali tipici del senato romano (la forma più compiuta di una tale diarchia « di tipo senatorio » si avrà nel 111 secolo, con Pupieno e Balbino: in/ra, §S 60-61). In realtà, la preparazione di tale successione diarchica non si presenta con quei caratteri di assoluta e preordinata coerenza che si sarebbe indotti a postulare (per esempio, normalmente la posizione di « successore designato » è indicata per Marco Aurelio col termine di Caesar, per Lucio Vero col termine di Augusti fillus; sebbene in talune epigrafi tanto Vero - cioè il futuro Marco Aurelio -, quanto Commodo, cioè Lucio Vero, siano indicati entrambi come Cesari). Tuttavia si può dire che l'ideale di una successione diarchica era abbastanza chiaro, nel senso che tanto lo Augusti filius quanto il Caesar erano entrambi, sostanzialmente, « Cesari », destinati ad accogliere la successione dell'Augustus Antonino Pio. Fu questa l'ultima e più complessa esperienza costituzionale propriamente adottiva del u secolo. Non solo l'ideale diarchico, ma persino la successione per adozione scomparvero senz'altro dopo il regno di Lucio Vero (161-169) e Marco Aurelio (161-180): ché Marco Aurelio ebbe la Ventura di avere, dal suo matrimonio con Faustina Minore, molti figli, tra cui Commodo; e quest'ultimo assunse l'impero, dal 177 al 180 in diarchia col padre Marco Aurelio, dal 180 in poi (dopo la morte del padre) con autorità monarchica. La grande crisi dell'impero, crisi che certamente si inizia con Commodo, ha avuto, tra l'altro, la sua espressione costituzionale nell'abbandono del principio adottivo, che era anche un abbandono dell'ideale illuminato di governo; è significativo che questo abbandono fosse opera dell'ultimo (e certo del più illustre) fra gli imperatori illuminati - fosse opera di Marco Aurelio. Vero è che, di sotto alla luminosa facciata dell'impero
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adottivo, si facevano sentire motivi non conciliabili con quell'umanistico rinnovamento, o non riducibili ad esso. Le personalità degli imperatori .adottivi appaiono, sì, composte in esperienze di vita classicheggianti, condotte da ideali che una tradizione aveva consacrato e che una chiara volontà umanistica « olimpicamente » rievocava. Ma questa era la vita morale e la cultura delle classi superiori: una cultura aristocratica di filosofi, che si irradiava sulla vita di tutto l'impero, ma non la assorbiva nel suo complesso. Alcunché di torbido restava al di fuori di quella cultura per cui il ii secolo si era ammantato di forme classicheggianti dell'antica tradizione ellenistico-romana. Questo non so che di oscuro e di « demonico » era penetrato nella stessa classe dirigente, nonostante l'aúrotpxsg che ispirava, nelle pure concezioni della Stoa o del Kepos, l'ideale etico di essa. Tanto vero che per esempio lo stesso Marco Aurelio considera un beneficio degli dèi « il non essere stato a lungo educato presso la concubina del nonno »; tanto vero che difficoltà politiche non mancarono, non solo (come già vedemmo) negli ultimi tempi di Adriano e, sotto Antonino, ad opera di un legato della Spagna Citenore (145), ma pur sotto Marco per la rivolta di Avidio Cassio. Od anche: nonostante il diffondersi di ideali stoicoumanistici, non mancavano i governatori avidi e corrotti: nel 100, proprio agli inizi del secolo, si era celebrato un famoso processo, una specie di processo di Verre, contro un proconsole d'Africa colpevole di estorsioni e di corruzione (l'accusa fu anche sostenuta da Plinio il Giovane Cornelio Tacito). Ma, soprattutto, le difficoltà e i limiti alla pienezza di una vita morale umanistico-illuminata venivano dall'agitarsi di esigenze spirituali del tutto nuove. Noi già vedemmo come la rivoluzione spirituale cristiana avesse impresso il suo volto a gran parte del l'Oriente, com'essa anche a Roma - dov'era proprio la sede della potentior principalitas - e nell'Occidente (specie nell'Africa) ormai avanzasse alla conquista di larghis-
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simi strati della popolazione; or è chiaro che, sebbene l'illuminata tolleranza di Adriano e di Antonino Pio e la cultura classica degli apologeti evitassero una decisiva rottura di ponti fra la tradizione e lo spirito cristiano, tuttavia gli ideali del vecchio umanesimo filosofico si presentavano necessariamente in conflitto con le grandi esigenze del cristianesimo. Così accade di constatare che proprio Marco Aurelio, l'imperatore che impersona meglio di ogni altro il suo secolo, si sentisse ostile alla nuova religione. Sotto di lui, nel 177, la massa anticristiana dei cittadini di Lione ha chiesto e ottenuto dalle autorità un vero e proprio massacro di alcuni cristiani; questi subirono il martirio « saldi come colonne », secondo l'espressione della lettera in cui la comunità ha poi narrato il massacro ai fratelli della provincia d'Asia (e specialmente di Frigia ond'erano, per la più parte, originarii). Marco Aurelio non ha inteso la gioia di sacrificio che animava questi uomini rinnovati da una fede; e dinanzi al più tragico fra i misteri umani - quello della morte - non ha mancato di sottolineare la sua aspra opposizione alla concezione cristiana, riducendo l'eroismo dei martiri ad una incomprensibile « lotta alla leggera » contraria ai suoi ideali di « ragionevolezza e serietà e compostezza » (-rò TOtOV ToliTo XXT& qILx íì v p&-nxtv oí xp -rvo, &ÀX& )oyk.wg xx ac.tv7 xod. - &pon: xi, 3). Ciò, naturalmente, non toglieva che uomini come l'apologeta Giustino, di larga cultura ellenistica, si lasciassero decapitare per la fede cristiana. Anche la polemica filosofica sottolineava la penetrazione del cristianesimo nei circoli del l'antica cultura: nonostante le critiche anticristiane del « Vero discorso » AÀ4 ?6yo) di Celso, nonostante il disprezzo del medico Claudio Galeno -'--- anche in ciò vicinissimo al suo imperatore - per ques{a comunità cristiana degli « incolti », tuttavia scritti come quelli degli apologeti cristiani Atenagora, Melitone, Milziade, indirizzati appunto a Marco Aurelio, avevano difttsione nei cir( 9
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coli della borghesia colta - e potevano convincere anche più che i composti ragionamenti di Gelso. Lo spirito più vivace di questo tardo impero umanistico fu Luciano, nella cui concezione della vita il vecchio epicureismo assumeva toni di dissolvente umorismo o di distaccata ironia un amico di Gelso, un nemico dei Cristiani; ma anche Luciano - quest'uomo che faceva di Cristo un sofista e criticava (né più né meno che il suo imperatore) il disprezzo cristiano per la morte - è in fondo un uomo profondamente triste, insoddisfatto degli ideali tramandati dalla cultura antica. Se si vuol sentire come si configurasse la crisi della cultura tradizionale, si pensi al modo in cui Luciano concepiva la storia, alle sue aspre critiche contro i contemporanei sofisti tutti paghi nell'umanistica ripetizione di motivi tucididei, per esempio a proposito della guerra partica di Marco Aurelio; all'ideale storiografico della seconda sofistica Luciano oppone un ideale che ad un'epoca malata non dice alcunché, l'ideale della obiettività pura; questa poteva avere un senso all'epoca di Tucidide, ma non aveva senso in un periodo che nella imitazione paludata cercava di nascondere la minaccia di una dissoluzione delle forme antiche. Al contrario, quelle forme antiche potevano avere un senso se fatte contemporanee, se rese vive Ji una considerazione attuale della storia culturale classica; timi ciò era possibile solo in sede di una revisione totale della problematica antica, e si era espresso assai bene nel cristiano Giustino, cui per esempio il pensiero di Socrate si presentava come cosa tutta viva e moderna e, appunto, attuale. Epoche di appassionata revisione dei valori si manifestano, prop:"o, attraverso la difficoltà di una ricostruzione « obiettiva » dei fatti umani, cioè della storia; Luciano denunciava una crisi che non poteva risolversi in termini di cultura esclusivamente umanistica. Il volto di questo mondo era, sostanzialmente, duplice: era da una parte nell'umanesimo filosofico di Marco
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Aurelio, nella composta classicità della cultura di una classe dirigente; dall'altra, in quello stesso ccxtiv 7r cp a£oúg che Antonino Pio (come Marco Aurelio amava sottolineare) aveva evitato a tutti i costi. L'uomo di quest'epoca era assillato dal torbido bisogno di rifugiarsi in una fede, la quale ricomponesse la sua solitudine senza speranze. La stessa esperienza ropitagorica, già nel grande taumaturgo dell'epoca flavia Apollonio di Tyana, assumeva aspetti fideistici. Non meraviglia 17 che un neopitagorico platonizzante del secondo secolo, Numenio di Apamea, considerasse altamente la rivoluzione spirituale giudaica-(cristiana) sino al punto da vedere in Platone « un Mosè che scrive in attico »; del resto, la gnosi era consistita nel tentativo di assorbire i motivi giudaico-cristiani in un grande tentativo di ellenizzazione (i Carpocraziani, per esempio, veneravano l'immagine di Cristo insieme a Pitagora e Platone e Aristotele). Wa anche i più decisi avversari delle idee giudaiche e cristiane erano presi dall'ansia di una « fede ». Sotto Marco, il caldeo Giuliano ha predicato una « religione del fuoco », che poi, nel tardo neoplatonismo, avrà uno svolgimento particolare (Giuliano l'apostata cercherà di procurarsi un libro di Giamblico sul caldeo Giuliano). Il più grande romanzo latino dell'epoca di Marco è l'opera di un umanista (e « sofista »), che da buon accademico presta al suo personaggio sinanco la di scendenza da Plutarco, ma sente il bisogno di concludere la sua opera con un'autobiografia o storia della propria iniziazione ai misteri di Iside. Attraverso il nuovo senso del religioso, l'« io » penetrava nella letteratura antica: l'« io », questa parola che la classicità greca non ha avuto, come non ha avuto, nell'esperienza religiosa, la parola « fede », né, nell'esperienza letteraria, il genere dell'autobiografia come racconto di una vicenda spirituale. Troviamo, in quel romanzo (le Metamorfosi di Apuleio), mo17
Cfr. le considerazioni svolte in/ra, App. u.
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tivi che sottolineano la soddisfazione della tarda cultura antica nei rispetti dell'impero umanistico: così (per citare un esempio dei mille) il motivo della clementia Caesaris, dell'imperatore che ridà prestigio a un suo procurator già pervenuto alla ducena, e poi caduto in disgrazia; troviamo pure l'ostilità dell'umanista antico al cristianesimo, o per lo meno alla religiosità monoteistica guidaico-cristiana in genere (una donna scellerata è presentata come colei che compiva « vuote » observationes religiose spretis atque calcatis divinis numinibus in vicem certae religionis mentita sacrilega praesumptione dei, quem praedicaret uni-
cum). Ma ciò non toglie che nel complesso dell'opera la religiosità antica e la stessa società pagana appaiano scosse da una crisi profonda. Che l'ultimo paganesimo dovesse rifugiarsi in forme di sensibilità religiosa orientale, è il più significativo aspetto di questa crisi: non solo il culto isiaco, ma anche la dea di Bambyke (la « dea Siria » di Luciano), come il culto di Attis (si ricordi il famoso inno conservatoci poi dal cristiano Ippolito di Roma), come il culto iranico di Mitra (attraverso le vie fluviali del limes), sono l'aspetto-limite della religiosità tardo-pagana, in questo momento in cui l'uomo si sente per eccellenza strumento della heimarmene (assai più che della tyche), e nella sua stessa angoscia scopre il fondo tormentato del suo « io ». Un richiamo alle divinità tradizionali propriamente romane, come in un certo modo fu tentato da Antonino Pio, non poteva varcare i confini della religiosità ufficiale, per esempio della religiosità dell'esercito; ma i soldati si lasciavano ugualmente conquistare dal sincretismo orientalizzante, e proprio l'esercito è stato il veicolo decisivo per la diffusione del culto, per esempio, di Mitra. Del resto, lo stesso Marco Aurelio, nella stessa Roma, aveva dedicato un tempio a Hermes come interpretazione del dio egiziano Toth. La grande costruzione umanistica del ii secolo va dunque considerata in tutta la sua complessità. L'eredità spi-
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rituale classica fu allora esaltata nella sua grande tradizione, greca e romana: il senso dell'impero di Adriano resta sempre nell'avvenuta perfetta fusione del mondo classico, di Grecia e Roma, in una compiuta paradigmatica unità. Se Traiano è l'imperatore optimus e vittorioso (Germanicus Dacicus Parthicus), Adriano è soprattutto l'imperatore della grande cultura classica, 'O?uo HvsX?dvLo quel titolo Hv€X?dvf.o (datogli nel 132) è la più compiuta definizione di lui e del suo tempo. Su questa via si muove l'impero fino a Marco Aurelio. Ma gli ideali della classe dirigente non bastano a placare la convulsione spirituale del mondo antico. Del resto, una crisi analoga scuote l'altro grande stato di cultura, pur esso erede dell'ellenismo: lo stato partico. Non già che qui, in Partia, si sentisse il bisogno dell'assolutamente nuovo: ma il vecchio stato arsacidico perdette, poco a poco, la capacità di esprimere adeguatamente le nuove esigenze ideali e politiche dell'iranismo. Anche sotto questo aspetto i rapporti tra impero romano « umanistico » e stato partico sono stati di grande importanza per la storia del mondo antico. 35. L'impero romano e lo stato partico nell'epoca di Vologese III. Le lotte di Marco Aurelio.' Quadi e Marcomanni.
Il sovrano arsacidico di questo periodo, Vologese in, ha qualcosa in comune con i grandi monarchi che preannunziano la crisi e l'agonia di uno stato; la sua forte perso nalità ricorda quella di altri monarchi, che parvero segnar una ascesa e tuttavia annunziarono la morte di grandi compagini statali ellenistiche (per esempio Antioco Iv). Il lungo regno di Vologese iii - dal 148 al 193 - è parallelo, grosso modo, a più che la seconda metà del governo di Antonino Pio e ai governi di Marco Aurelio e di Commodo: tre periodi di governo imperiale romano, i
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quali videro a un tempo l'aperta minaccia - anche se limitata - dello stato arsacidico contro Roma, e il più evidente insuccesso di quella minaccia. Il preannuncio del conflitto fu già evidente d'intorno al 150, quando Vologese iii inoltrò pretese partiche alla sistemazione del trono armeno e richiese il trono d'oro di Ctesifonte, che Traia no aveva asportato e che Adriano, nel 128, aveva promesso di restituire a Chosroe (la promessa di Adriano non era stata adempiuta, forse per la sopravvenuta successione di Vologese n a Chosroe nel 129); Antonino Pio ha declinato decisamente entrambe le richieste di Vologese iii, ed in Osroene ha posto - alla morte di Partamaspate lì insediato da Adriano - il fido vassallo Ahgar vii. Già questo rigido atteggiamento prelude alla politica di Marco Aurelio, che sarà impostata sulla eliminazione della minaccia partica contro l'impero, e sulla garanzia del commercio romano con l'Oriente. Il re degli iberi Farasmane, venuto a Roma a sacrificare sul Campidoglio, ricevette l'onore di una statua equestre nel tempio di Bellona; nello stesso tempo, Antonino Pio ha annodato rapporti diplomatici (come già, poco meno di un secolo prima, Nerone) con l'Ircania. Anche lo stato dei Kushana (in Battriana) e l'India sono rientrati allora nella cerchia di rapporti diplomatici costituita da Antonino Pio. Va ricordato che un aureo di Antonino Pio spicca fra i reperti di recenti scavi non lungi dal delta del Mekong, nell'estremo sud della penisola indocinese;, e già all'epoca di Antonino Pio furono redatte le tavole astronomiche di Tolomeo, nelle quali appare - poi precisata, quanto a posizione e inquadramento, nell'opera geografica dell'epoca di Marco - una isola « di argento », che sembra corrispondere a Sumatra. La morte di Antonino Pio parve a Vologese iii l'occasione migliore per l'attuazione de' suoi piani di predominio nell'Oriente. Lo stato partico, che all'epoca di Tiberio e di Claudio (nonostante la grande energia di Arta-
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bano iii e l'azione di Gotarze) ancora aveva dovuto resistere alla pretesa romana di designare il re della Partia, viceversa già all'epoca di Nerone aveva assunto atteggiamenti di chiara e decisa politica nazionale; né lo splendido successo della politica di Nerone in Armenia, né le vittorie di Traiano in quella sua grandiosa spedizione partica, né la politica dignitosa di Adriano o addirittura forte di Antonino Pio aveva piegato la coscienza nazionale ira nica-(ellenistica) dei Parti. Una persistente debolezza, ma gravissima, restava, per lo stato arsacidico, la sua struttura feudale; questa si era manifestata assai pericolosa in circo stanzé cruciali come l'anabasi di Traiano. Ora Vologese in credette giunta, con la morte di Antonino Pio, la possibilità di una politica di iniziativa, ed anzi di aggressione, contro le posizioni romane in Oriente. Sconfitti i governatori della Cappadocia e della Siria, le truppe partiche occuparono Edessa: le pretese di Vologese iii al controllo della Osroene, le quali erano state frustrate dal deciso atteggiamento di Antonino Pio, erano ora soddisfatte. Nel 162, Lucio Vero intavolò trattative con Vologese III; i sogni dello stato arsacidico parvero realizzarsi. Ma un grande sforzo militare dello stato romano rivelò presto, a distanza di un anno appena, l'inconsistenza di quella minac cia partica, che era sembrata irresistibile nel 162; l'occupazione dell'Armenia (163), nella quale fu installato un re fedele a Roma, Sohaemus, rese possibile un grandioso piano di marcia sul territorio partico. Un corpo di truppa si diresse verso Oriente, partendo da Edessa e Nisibi verso l'Adiabene e oltre; un altro, dopo una splendida vittoria a Doura-Europos, continuò la marcia lungo l'Eufrate. Se leucia al Tigri e Ctesifonte furono occupate; il controllo dell'Eufrate (anche come via fluviale del commercio con l'Oriente) sembrava una conquista definitiva; sulla carta di Tolomeo non solo la Mesopotamia, ma altresì la Babilonia e l'Arabia deserta, appaiono considerate come pertinenti all'impero romano (Altheim).
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Ma anche stavolta fu necessaria una limitazione e, su molti punti, una rinunzia. L'atteggiamento di Seleucia al Tigri nei confronti dello stato romano era ormai del tutto cambiato rispetto all'epoca di Tiberio: un secolo, e più, non era passato invano. Se allora, all'epoca di Tiberio (supra, ix), gli abitanti di Seleucia avevano acclamato il re partico proposto da Roma, e poi avevano a lungo resistito contro Artabano iii e il suo successore Vardane (una resistenza all'incirca settennale), ora viceversa l'antica città greca si era fortemente orientalizzata; e se da una parte aveva accolto i contingenti romani (condotti da Avi dio Cassio) « come amici » (così, almeno, secondo una tradizione che sembra fededegna), d'altra parte, nel dicembre 165, si ribellò ai Romani e fu dovuta prendere con la forza. Ne seguì il saccheggio di Seleucia, il quale rimase famoso e fu cagione di accuse e polemiche sull'opera di Avidio Cassio. Tra l'altro, una nota tradizione romana riconduceva al saccheggio di Seleucia l'origine della peste che allora si diffuse dall'Oriente per tutto l'impero: in questo modo, la peste veniva connessa con l'oscura scienza dei Chaldaei, che i soldati romani avrebbero violato in Seleucia. Naturalmente, la scienza dei Chaldaei c'entrava, in questo caso, più o meno come gli untori entrano nella peste dei Promessi Sposi; ed anzi, un frammento dello storico Crepereio Calpurniano (uno dei contemporanei che tentarono una narrazione dell'impresa di Vero, e furono attaccati nel già citato scritto di Luciano) suggerisce la conclusione che la peste partisse dall'Egitto, e dunque avesse già centro di diffusione in questa provincia dell'impero romano. Ma è indubbio che la campagna partica, compiendosi in un territorio dove la peste veramente infuriava (lo stesso Crepereio ha potuto scrivere una sua « pagina di effetto » sulla peste di Nisibi), agevolò di gran lunga la diffusione di quel male, e che questa diffusione ha avuto (come vedremo fra poco) ripercussioni gravissime sul potenziale demografico dell'impero.
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Così accadde che Marco Aurelio e Lucio Vero celebravano, il 12 ottobre 166, un trionfo dimezzato: le truppe romane avevano dovuto sgombrare la Parapotamia e la Babilonia; la peste si era mostrata più forte che gli eserciti feudali di Vologese in. Tuttavia, la Mesopotamia fu resa vassalla: questo era un successo notevolissimo. La spedizione di Vero dimostrava la sostanziale debolezza dello stato feudale arsacidico, e allontanava definitivamente la minaccia concepita da Vologese in contro le posizioni orientali romane. Se poi la peste aveva impedito di compire la offensiva stabilendo salde posizioni in Babilonia, in compenso Marco Aurelio annodava ora relazioni diplomatiche con lo stato cinese degli Han: diretti rapporti marittimi con la Cina avrebbero evitato il costante pericolo della via « terrestre » del commercio con l'Oriente attraverso il territorio partico. È un peccato che la nostra informazione su questo grandioso piano commerciale di Marco Aurelio - contemporaneo all'ultima produzione geografica di Tolomeo - debba limitarsi alle sole notizie che ne appaiono nei testi cinesi, dove comunque questa legazione di Ta-tsin (l'impero romano) inviata dall'imperatore Au-tun (Marco Aurelio) è opportunamente posta in rilievo; ma appare certo che l'imperatore romano pensasse ad una via marittima la quale, girando l'India, e poi facendo scalo a Kattigara (Singapore), dovesse arrivare a Canton. L'Indocina e Sumatra, che già si erano aperte al commercio romano sotto l'impero di Antonino Pio 18, rientravano anche, naturalmente, nel suo piano di 18 Del resto, anche la via terrestre del commercio orientale ha un certo rilievo nell'epoca dell'impero umanistico. In corrispondenza, concetti del protocollo imperiale romano sono penetrati nel protocollo dei Kushana: nella famosa iscrizione di Kanishka ii i due ultimi termini del protocollo devaputrasa [Ka]i[sa]rasd mostrano penetrazione non solo di Caesar, ma anche (piuttosto che di concetti cinesi, com'è comune opinione: LEVI, « Journ. as. », 1934, 1; MONNERET DE VILLARD, « Orientalia », 1948, 219, 1) di divi filius.
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regolamento di questa via marittima. D'altra parte, è da ritenere che le vittorie romane negli anni 164 e 165 ab • biano indotto Vologese iii ad accettare una specie di entente cordiale, la quale garantisse anche la via terrestre del commercio con l'Oriente; con questa limitazione, però, che proprio la sconfitta e l'umiliazione (si pensi alla conquista di Ctesifonte, la quale ripeteva le peggiori giornate dello stato partico all'epoca della spedizione di Traiano) hanno certamente sminuito il prestigio di Vologese iii rispetto ai suoi vassalli, e quindi avranno dato minor valore ad eventuali impegni diplomatici da lui contratti. Il bilancio della spedizione partica era, per molti aspetti, positivo: infeudamento della Mesopotamia, definitiva umiliazione dello stato partico; e si accompagnava ad un enorme allargamento degli orizzonti commerciali e geografici dell'impero, con la prospettiva di una soluzione dell'eterno problema del commercio orientale, intorno al quale si muoveva in gran parte la politica estera di Roma, da Augusto in poi. Ma anche momenti negativi si presentavano chiaramente, a conclusione della campagna. Già ne indicammo uno: il contagio della peste, del resto - nella sua origine - indipendente dalla campagna partica in sé; sebbene si. manchi di ogni indicazione utile a un calcolo statistico, tuttavia è da ritenere che la peste riducesse di una buona metà, o anche più, la popolazione dell'impero. Non solo si trattava, come sembra, della prima peste bubbonica nella storia del bacino mediterraneo (la peste di Atene descritta da Tucidide non sembra una peste vero e propria, ma piuttosto un'epidemia di vaiuolo e di febbre petecchiale con esso combinata; viceversa, certamente peste bubbonica fu quella, pur essa gravissima, scoppiata poi sotto Giustiniano nel vi secolo); non solo, dunque, più difficile appariva la difesa contro un male sinora D'altra parte, un aureus di Antonino Pio ha il nimbo, alla maniera dei Kushana (EVANS, « Num. Chron. », 1930 ) 236).
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ignoto, o pressoché ignoto; ma soprattutto la peste colpiva un mondo in vario modo offeso da altri fenomeni pato logici, un mondo in cui la configurazione biologica della popolazione presentava un quadro clinico fortemente Ca ratterjz z ato da tendenza a crisi neuropsichiche (e, corrispondentemente, da forme di « demonismo» nell'interpretazione dei fatti patologici). La stessa tovL 7ccpì di cui già parlammo, non era che un aspetto di questa crisi anche patologica, contro cui Marco Aurelio tentava invano di reagire. Ad un tale mondo, l'arte di Galeno appare come una via verso la liberazione; una peste così violenta, e originata dalla terra del religioso Egitto, appare come un'oscura superiore minaccia, che acuisce l'angoscia e sollecita l'ansia di una inattesa salvazione. Anche per questa ragione, la compostezza umanistica dell'epoca antonina era nuovamente scossa: una collettività su cui si abbatte la morte è una collettività che cerca il miracolo, e lo ravvisa a tutti i costi (basti pensare al famoso « miracolo della pioggia », raffigurato nella colonna di Marco Aurelio). Una diretta conseguenza della campagna orientale fu il rincrudire della minaccia barbarica; soprattutto il confine danubiano era rimasto sguarnito di truppe in occasione della campagna partica 164-165, ed è ben naturale che i barbari profittassero del momento. Cominciò allora,' e si protrasse fino alla morte dell'imperatore, la grande lotta contro l'ondata barbarica. In qualche momento, la tempesta sembrò arrivare al cuore dell'impero: nel 168-169 Marcomanni e Quadi arrivarono fino ad Aquileia, fino a Verona; nel 170 i Bastarni toccarono l'Asia Minore, gli iranici Costoboci l'Ellade. L'energia dell'imperatore e dei suoi uomini migliori (il suo collega Lucio Vero morì nel 168; Claudio Pompeiano. che ne ha sposato la vedova, fu anche lui fra i generali più distinti) ha scongiurato il pericolo, e ricacciato i barbari al di là del confine. Marco poté, anzi, concepire il grande piano di creare una Marco. ~
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mannia e una Sarmatia, annettendo all'impero le grandi matrici delle invasioni barbariche, gli stati dei Marco manni e dei Quadi e degli jazygi e Roxolani: si trattava, su un piano geopolitico, di colmare i corridoi tra Pannonia e Dacia, tra Dacia e Mar Nero settentrionale, e di garantire, con un balzo in avanti nella Marcomannia, la stabilità del confine a nord del Danubio. Qualcuno pensava ad una soluzione radicale, che conducesse fino all'Oceano. L'imperatore cercò di realizzare con grande costanza questi piani: ma, nel fondo del suo animo, egli sentiva questa impresa come un suo grande dovere - il suo dovere di Romano - assai pii che come un adempimento della sua missione umana. Proprio al suo umanesimo ripugnava quel prendere i barbari, come i ragni prendono le mosche: « il ragno si ringalluzzisce quando ha preso una mosca, talun áltro quando ha preso un leprotto, talun altro per un'acciuga nella rete, un altro pei porcellini, un altro per gli orsi, un altro per dei Sarmati: questi cacciatori non son forse tutti ladroni, se guardi alla verità filosofica (6)? ». Prender Sarmati, come i ragni le mosche: questa è cosa che può turbare la concezione stoica della vita; si tratta, tutto sommato, di un atto da ladroni (tuttavia Marco ha effettivamente «,messo una taglia » di 500-1000 aurei sulla testa del re jazyge Ariogaiso). Solo può giustificarlo la desolazione dell'impero già devastato nella Rezia, nel Norico, nelle Ires Daciae, già colpito sinanco nell'Italia Settentrionale e nell'Asia Minore e nella Grecia. Solo può giustificarlo quella peste che spazza via metà e più della popolazione dell'impero: i barbari vinti saranno stanziati, in qualità di laeti, entro l'impero stesso, a restituirne il vigore demografico e a godere i benefici della cultura romana. Così l'imperatore stoico ha interpretato la sua grande fatica di soldato e politico. Nel 175 una crisi interna scoppiò. Il vecchio legato di Siria Avidio Cassio (il condottiero che nell'impresa partica aveva conquistato Ctesifonte) aveva una posizione eccezio
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nale, con l'incarico di sovrintendere a tutta l'Asia (un uf ficio che in certo modo preannunzia il correttorato di tutto l'Oriente dell'avanzato iii secolo); nell'enorme potenza che gli dava la nuova posizione, egli usurpò il trono (si mormorava che agisse d'accordo con la mater castrorum Fautina, la sposa di Marco). In realtà, Avidio Cassio, col suo gesto, intendeva giovarsi dell'Oriente contro la parte occidentale dell'impero. Per la prima volta questa contrapposizione Oriente-Occidente affiorò allora: più che altro, la rivoluzione di Avidio Cassio è significativa in questo senso; è un colpo dato alla definitiva fusione di Oriente e Occidente, che voleva essere il portato dell'impero umanistico, da Adriano in poi. La rivolta ebbe però l'energica opposizione di Pertinace, allora governatore di Cappadocia. Vologese iii non intervenne; evidentemente, le conseguenze della sconfitta subita nel 164-165 avevano scosso la compagine dello stato partico. Così, nel 176 la rivolta di Avidio fu domata. Il ribelle fu decapitato; ma l'imperatore filosofo, cui l'ideale di vita appariva non volle guardare quella testa mozza, e si limitò a condannare all'esilio il principale sostenitore di Avidio, il pre fetto d'Egitto Calvisiano. Marco sistemò allora alcuni problemi interni, che erano affiorati con la rivolta di Avidio (poiché Avidio Cassio era oriundo di Siria - secondo la tradizione, invalsa appunto nel ii secolo, di affidare le province orientali a personaggi da esse originarii -, fu ora deliberato che non si nominassero nelle province governatori oriundi da esse; ma la deliberazione non ebbe, poi, una troppo conseguente applicazione 19) Sistemò anche le cose d'Oriente; « stipulando la pace s'incontrò con tutti i re e i legati dei Persiani »; questa espressione del biografo s
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Dio, Lxx, 31, 1: il passo va tenuto presente per la proble-
matica su cui LAMBRECHTS, Composition dii sénat rom., Parte I (117-192), 1936 5 202; Parte ii (193-284) 1937, 88. BARBIERI, Albo,
Un passo di Sinesio mostra la vitalità della deliberazione di Marco ancora nel v secolo. 1952 9 465 9 8.
W.
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della Historia Augusta lascia intendere come nello stato arsacidico le vicende del 164-165 avessero dato una certa autonomia ai vassalli di Vologese, sì che la pace potesse intendersi stipulata « coi re », anziché soltanto col grande re parto. Vincitore dei barbari danubiani, vincitore di un ribelle, Marco Aurelio era anche in Oriente l'ordinaìore della pace, questo supremo ideale della sua filosofia politica. Ma s'intende che pei suoi sudditi egli restava sempre l'animatore della lotta antimarcomannica, l'imperatore cui si doveva l'allontanamento della tempesta barbarica dal territorio dell'impero. Appunto come il vincitore dei barbari danubiani - e anzi, vincitore per volontà e intervento divino - egli ci è presentato nel grande monumento che si lega al suo nome, nella colonna Aurelia. Più precisamente: come vincitore dei Germani nel 171-172, nella miracolosa vittoria sui barbari assedianti colpiti da fulmine, o nella miracolosa marcia che Giove Pluvio benedice della sua acqua; come vincitore dei Sarmati nel 173-175... Dal suo grande filosofo il mondo romano, già spiritualmente malato, falciato dalla peste e minacciato dall'ondata dei barbari, ha creduto di ottenere ciò che ogni malato cerca: il miracolo. Da se stesso, il filosofo ha creduto di ottenere, ed ha ottenuto, l'admpimento del suo compito, fino all'ultimo. È morto al Danubio, nei preparativi della lotta definitiva per la conquista della Marcomannia: il 17 marzo 180, di peste (si mormorò, certamente a torto, di un complotto di medici). La conquista della Marcomannia e quella della Sarm tia, tanto meno poi la romanizzazione della libera Ger- a mania, sono rimaste dei sogni: ma l'allontanamento della minaccia barbarica (senza dubbio un risultato che fu raggiunto pel suo amore allo stato e per la sua dedizione senza limiti) deve considerarsi la più splendida (anche se l'ultima) ed eroica pagina dell'impero romano umanistico.
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36. L'evoluzione economica e sociale dal I secolo d.C. all'impero umanistico. La cittadinanza. I liberti. La schiavitù. Per approfondire ancor meglio il significato e il. carattere dell'epoca di Marco Aurelio, come conclusione (e crisi) di un grande processo storico che riassume l'esperienza dei primi due secoli dell'impero, è necessario uno sguardo retrospettivo all'evoluzione economica. La storia della storiografia relativa all'impero romano ci ha insegnato (cfr. supra, Introd.) quale esigenza metodica possa aiutarci a studiare la storia sociale ed economica dell'impero: nelle sue concrete applicazioni, questa esigenza ha mostrato (specialmente supra, § 24) come già l'epoca di Nerone (dopo il 64) e soprattutto, poi, l'avvento dei Flavii, segnino la vittoria della borghesia dell'impero - e anche, s'intende, della piccola borghesia - sulla parasitica classe senatoria dell'epoca dei Giulio-Claudii. Questa vittoria fu appunto confermata e resa stabile dalle conquiste di Traiano e dagli ordinamenti dei suoi successori. Ma un punto importante è che ad una tale vittoria si accompagnarono dei fenomeni economici, per cui si compì ancor meglio quel processo di romaflizzazione delle province, che opportunamente è stato chiamato really sei/-Romanisation 20• Ed in realtà, la storia del commercio fra l'Italia (che era un po' essa stessa l'urbs Roma 21) e le province aveva segnato di sé questo processo. In un primo momento si era consolidata la iniziale invasione del. mercato provinciale, per esempio gallico, da parte dell'Italia; ma questa invasione ebbe presto termine, man mano che il contadino gallico imparò a produrre da sé il suo vino, man mano che l'industria gallica imparò a produrre da sé i vari
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SHERWIN WHITE:
L'urbs sacra, in contrapposto al mondo provinciale.- così in un'iscrizione dell'epoca di Marco (C v, 7643). 21
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prodotti (soprattutto le sue ricercatissime ceramiche), e ad inondare di esse i mercati di tutto l'impero. Questo processo di « decentralizzazione », già iniziato nell'epoca flavia, caratterizza il secondo secolo. È un fenomeno che risponde ad una fondamentale legge economica. (In un libro recente di un finanziere contemporaneo sono riportate interessanti parole di un esportatore amburghese: « In gioventù esportavo in Argentina birra in bottiglie; poi gli Argentini cominciarono a impiantare fabbriche di birra, ed allora esportai macchinari e apparecchi per la fabbricazione della birra; quando questi 'furono installati, mi limitai alla fornitura delle bottiglie di birra vuote; adesso fornisco unicamente le etichette per le bottiglie ». È evidente che queste parole possono benissimo adattarsi all'esportatore italiano del i-ii secolo d.C., solo che si sostituiscano, per esempio, le parole « vino ceramiche » alle parole « birra bottiglie », e la parola « Gallia » alla parola « Argentina »). Bisogna anche considerare la contemporanea invasione di un nuovo « gusto », e di nuove tendenze nell'alimentazione, man mano che l'Oriente rivelava al mondo italiano, e a tutto l'impero, nuovi generi di produzione agricola. Il nuovo « gusto » si manifestò con la richiesta intensificata di vari prodotti, per esempio di frutta d'antica e nuova introduzione: pesche, prugne, mele, albicocche, pere, ciliege, noci, nel corso del i secolo; esportate anche in territorio germanico (per esempio pesche, pere, ciliege: P/irsich, Birne, Kirsche); la lista si conservò (ed aumentò per nuove esigenze) in tutto il principato; al principio del quarto secolo, il nostro principale (e purtroppo, nel suo genere unico) documento della storia economica romana - l'editto dioclezianeo - attesterà richiesta di cedri (citrium), meloni, cocomeri e via dicendo, ormai diffusi per tutto l'impero. Naturalmente, anche qui si verifica il fenomeno tipico, che innovazioni relative al gusto alimentare presentano diverso grado di « ofelimità », a seconda delle classi sociali e del fondo
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etnico a cui si rivolgono: per esempio il contadino celtico conserva accanto al prunum il suo beloce, conserva la sua cervoise e il suo lie accanto al vino; mentre viceversa il « yoghurt » (milca) dei Germani conquisterà il mondo romano e anche (oxygala) il greco. I due fenomeni erano dunque: diminuzione, o addirittura chiusura, di grande parte del mercato occidentale (soprattutto gallico), per i prodotti vinarii, olearii, industriali dell'Italia; nuova richiesta, sopravvenuta nel corso del primo e del secondo secolo, di alcune specialità. I riflessi dei due fenomeni sull'economia italiana dovettero essere ben notevoli. Nello stesso tempo, alla coltivazione dei terreni per mezzo di schiavi si sostituisce, in gran parte, ed in tutto l'impero, una coltivazione per mezzo di liberi coloni: mentre nell'epoca neroniana il Satyricon di Petronio ci presenta un'economia fondamentalmente schiavistica, viceversa nelle Metamorfosi di Apuleio l'economia colonica appare prevalente sull'economia schiavistica. Questo processo si inizia dall'epoca flavia in poi; ed è parallelo a quel deciso prevalere della borghesia, anche piccola, che già per altro rispetto notammo e che si può far datare dalla riforma neroniana, cioè dalla « vittoria del denarius sull'aureus » nel 64. A questa si è accompagnato un notevole risveglio del libero contadiname, pur nel quadro dell'economia latifondistica; appariva possibile, in queste condizioni, un miglioramento di vita anche per il libero proletariato contadino; nell'opera di agricoltura scritta da Columella, l'economia colonica è considerata preferibile all'economia servile. La civitas romana, grande aspirazione dei sudditi dell'impero e degli schiavi, ha varie gradazioni: cittadini ro mani, liberti e (senza limitazione di diritto) i loro figli, cittadini di diritto latino, liberti di diritto latino juniano. Fuori di queste categorie sono i dediticii peregrini (e barbari) e i liberti dediticii. Restano gli schiavi. Questi ultimi, in linea di principio, non sono uomini, nell'antichità; ma
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va rilevato che sin dall'epoca giulio-claudia la loro condizione era notevolmente migliorata, soprattutto per la dif fusione delle idee stoiche (cfr. supra, p. 27) e cristiane: in alcune epigrafi i rapporti fra dominus e schiavo si esprimevano in termini abbastanza cordiali, nel senso che l'essere schiavo non era odioso (la servitus non era invidia 22 ), e anzi lo schiavo poteva esser tenuto loco filii 23 Già Golumella aveva insistito sulla necessità di trattar bene gli schiavi addetti all'agricoltura, nei casi che non si potesse o volesse passare ad un regime di coltivazione colonica: i motivi economici a cui si rifaceva Columella, erano tutt'uno coi motivi ideali di humanitas. Allo stesso modo, la tendenza a favorire, nel caso di dubbio, le manomissioni, era ad un tempo espressione di momenti umanistici e di preferenza per l'economia non servile: è una tendenza che lo stesso Pomponio, un giurista di età adrianea, ha ricondotto allo humanitatis intuitus. In campo cristiano, il concetto che gli schiavi sono spiritu fratres, religione conservi (che sarà così formulato, d'intorno al 310, da Lattanzio) appare già, per esempio, nell'Apologia dell'ateniese Aristide, dedicata (cfr. xxii) ad Antonino Pio. 37. Il proletariato italiano e il servizio militare.
Quali furono, in questa evoluzione, i destini del proletariato italiano, che aveva compiuto la grande opera di formazione dell'impero stesso, e sostenuto la rivoluzione del i secolo a.C.? Una certa crisi dell'economia agricola italiana in questo periodo è indiscutibile, attestata com'è da testi famosi. Tali sono il celebre passo di Plinio il Vecchio latifundia perdidere Italiam, iam vero et provincias e ancor meglio il passo tacitiano, in cui lo storico 22 23
C xiii, 7119. C VI, 18754.
Sotto Settimio Severo, l'iscrizione di Mylasa contro i « borsari neri » di monete (OGIS 515; cfr. in fra, § 45) prevederà il caso che il padrone sia solidale con il servo reo, e non lo consegni ai magistrati.
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lamenta che hercule olim Italia legionibus longinquas in provincias commeatus portabat, nec nunc infecunditate laboratur, sed Africam potius et Aegyptum exercemus, navibusque et casibus vita populi Romani permissa est; od infine l'altro passo tacitiano, in cui lo storico commenta amaramente il fatto che nel 60 d.C. i veterani adscripti a Taranto e ad Anzio abbandonarono quei loca alla consueta povertà demografica e si recarono nelle province in quibus stipendia expleverant 24 Una ragione di questa crisi dell'economia italiana è stata universalmente riconosciuta dagli studiosi moderni in quel decentramento economico di cui già parlammo, decentramento economico per via del quale il mercato per esempio gallico, resosi indipendente, era in gran parte chiuso all'esportazione italiana. Si può aggiungere un altro fenomeno, forse ancor più decisivo: il modo di arruolamento delle forze legionarie. Nel i secolo, le legioni romane venivano sempre arruolate, per lo più, fra gli italiani. Ma il loro lungo servizio nelle province (dai venti ai venticinque anni) le rendeva estranee al paese di origine, e stabiliva nuovi vincoli di attaccamento alle province a cui amavano tornare, dilapsis pluribus in provincias in quibus stipèndia expleverant, come appunto notava Tacito (nell'ultimo dei passi citati); i soldati perdevano così auel tanto di compattezza e di unità morale che era necess2r10 alla deduzione di colonie di veterani 25, Erano (sono sempre 24
Sia notato di passata: bastano questi luoghi per rendere verosimile che Tacito fosse italiano, non provinciale, per lo meno non provinciale in senso stretto. Sul problema della patria di Tacito, da ultimo, cfr. la letteratura citata in PARATORE, Tacito, 1951, p. 44, il quale però propende per la Gallia Narbonese; ma questa provincia è comunque, secondo la famosa formula pliniana, Italia verius quam provincia. 25 Il confronto del passo tacitiano (Ann. xiv, 27) con Suet., Nero, 9 (cfr. le iscrizioni C x, 6671-6673) avverte che si tratta, in prevalenza, di ex-pretoriani. Ad ogni modo, ciò che Tacito dice, se anche può valere per gli adscripti e praetorio, a maggior ragione deve valere per gli adscripti ex-legionarii.
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le parole di Tacito) numerus magis quam colonia. Ma soprattutto: i campi italiani venivano così privati, per venti-venticinque anni, delle braccia che avrebbero dovuto coltivarli; il lare del loro paese d'origine veniva dimenticato e trascurato per i nuovi luoghi cui s'erano abituati ed anche particolarmente affezionati; l'antico esercito legionario, si provincializzava sempre più, la terra d'origine italiana si spopolava di braccia atte alla coltivazione dei campi e al lavoro redditizio. Noi abbiamo dato, così, una interpretazione dell'arruolamento delle legioni romane, la quale per molti rispetti si potrebbe chiamare « non-mommseniana ». L'interpretazione mommseniana di questo punto, decisivo per la comprensione della storia dell'impero, partiva dal presupposto che sin da Augusto le legioni fossero largamente composte di elementi non arruolati fra i cittadini di pieno diritto, e che insomma fin da Angusto l'Italia, il paese per eccellenza dei cittadini di pieno diritto, non contribuisse decisivamente alla coscrizione dei legionarií. Nonostante la critica rivolta al Mommsen da Otto Seeck, questa dottrina mommseniana si può considerale ancor oggi una dottrina molto diffusa; per lo meno, è ancor oggi largamente diffusa 1'opinione secondo cui il cuore dell'esercito romano, soprattutto da Vespasiano in poi, è costituito di elementi. provinciali. Ma già Otto Seeck, in quella citata critica al Mommsen, osservava che gli arruolamenti augustei di legionaríi provinciali si limitano, a tenore della nostra documentazione, a legionari che erano stati già arruolati da Antonio e non furono dimessi da Augusto; quanto al resto, il Seeck osservava che ancora per l'epoca dei Flavii la documentazione epigrafica ci permette di constatare, in linea generale, il permanere degli Italiani nelle legioni. Senza dubbio, pur dopo il nuovo materiale epigraf ico e nonostante il diffuso ritorno alla dottrina mommseniana, quelle conclusioni di Seeck possono considerarsi in qualche modo valide: si intende, con notevoli corre-
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zioni. È vero, sì, che già in epoca flavio-traianea elementi non italiani costituiscono in maniera definitiva la parte preponderante delle legioni (per i presupposti di questo processo in f ra, § 39). Ma ciò non deve farci ritenere che gli Italiani spariscano allora definitivamente dall'esercito. Ancora sotto Adriano e soprattutto Marco Aurelio troveremo dilectatores in Italia, troveremo insomma arruolamenti di iuventus italiana (specie nella Transpadana); ancora nel III secolo, sotto Severo Alessandro, l'Italia continua a fornire una certa aliquota di iuniores, e la Campania, sotto Valeriano (dunque nel 260), appare tra le regioni fornitrici dei soldati per la spedizione persiana. Bastano questi dati per mostrare come la storia dell'arruolamento legionario, molto meno semplice di quel che si potrebbe credere, sia da ricostruire all'infuori dello schema « mommseniano »; e ciò spiega l'interesse che questa materia ha suscitato, anche in importanti studia recentissimi (Forni). Ma soprattutto: cosa s'intende per « Italiani »? Quei soldati « provinciali », che hanno la preponderanza nelle legioni del ii secolo, sono in parte, discendenti da italiani dilapsi in provincias, o comunque sono educati in un ambiente « italiano » (alludo soprattutto ai soldati di regioni illiriciane). A questo riguardo, bisogna attirare l'attenzione su un punto che in genere non viene abbastanza considerato dagli storici: il riflesso linguistico dell'arruolamento legionario. 38.
Arruolamento volontario e « lingua degli Italiani ». Evoluzione linguistica 4 d el 1-11 secolo. L'« Itala ».
In realtà, il problema dell'origo dei soldati legipnarii nel i secolo non va considerato soltanto nel quadro della loro precisa origine dall'Italia. Esso è di gran lunga più complesso: si connette con quello della romanizzazione linguistica di tutto l'impero nella sua parte non-greca. Su questo punto l'indagine linguistica è pervenuta a risultati
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più concreti che non l'indagine strettamente storica: essa ha riconosciuto (Devoto) che nella romanità linguistica « nuove onde si fanno sentire quando non sono più la capitale o élites cittadine che diffondono il latino, ma le legioni e le colonie dei veterani; nelle quali dall'età di Augusto e fino all'assoldamento dei primi contingenti barbarici » (lo storico preferirebbe dire: fino ai Flavii) « gli oriundi dall'Italia hanno costituito la parte preminente ». Questi risultati si possono benissimo conciliare con la docunientazione storica. Uno scrittore del ii secolo, il già ricordato Apuleio, quando vuole presentarci un soldato romano che parla latino in terra greca, gli fa pronunciare un grosso svarione: un ubi in valore di avverbio di moto a luogo, come poi nelle lingue romanze. Questo è, di fatti, quel latino volgare, da cui si differenzieranno in seguito varie zone dialettali, che un giorno saranno i centri delle lingue romanze. Or come era considerato questo latino volgare? Anche qui, un testo parallelo, pure del secondo secolo (P 3'0vog che va sotto il nome di Luciano), ci dà senz'altro la possibilità di rispondere. Questo linguaggio del soldato che per esempio usa ubi pci moto a luogo veniva designato come 'I'rcXTv « lingua degli Italiani ». Esso era, in realtà, la lingua del proletariato contadino italiano, arruolato nelle legioni del i secolo e principale autore della forma diffusa dilatino parlato: proprio tale comune designazione 'I-rxÀv 9ov1, che si è conservata fino al v secolo (conie « lingua degli Italiani » io storico Prisco designerà il linguaggio della ripa Dacica), dà la certezza che, nella comune opinione, il linguaggio del legionario era caratterizzato da quelle movenze che corrispondevano al sermo vulgaris del proletariato italiano, ed in origine erano state diffuse da esso nelle regioni illiriciane. Noi abbiamo la possibilità di constatare ancor meglio come il fondo linguistico che presiede alla formazione della lingua rumena corrisponda sostanzialmente alla lingua del proletariato italiano. A differenza per esempio dalla Sardegna
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dalla Spagna e dalla Francia, la cui romanizzazione si è compiuta sotto la guida del vecchio ceppo romano tradizionale, la odierna Romania ci presenta un linguaggio neolatino che ha eliminato nella flessione la s finale, né più né meno che l'italiano: così nello esempio classico del rumeno doi e dell'italiano due, di contro al logudorese duos, allo spagnuolo dos e al francese deux. Questa impressionante caratteristica, che accomuna in maniera decisiva l'italiano e il rumeno, non può non ricondursi al linguaggio parlato dai legionarii e dai commercianti a cui rimonta la parte principale nella formazione dei fermenti linguistici che diedero luogo (per riflesso medievale dal sud del Danubio; cfr. in/ra, § 105) alla formazione dell'attuale lingua rumena. Il linguaggio parlato nelle regioni illiriciane, padre dell'attuale rumeno, era dunque per eccellenza la 'kxXTv pv (AU9 a0VUOV pv), « lingua degli Italiani » contadini, la quale, di fatti, sin dal iii secolo a.C. aveva mostrato, in alcune zone, tendenza alla caduta della s finale. Mentre la romanizzazione delle province occidentali si era compiuta sotto il segno della romanità linguistica, viceversa la romanizzazione delle province danubiane, che caratterizza il principato, si poté compiere sotto il segno della italianità linguistica. In altri termini: gli uomini che hanno colonizzato le zone danubiane e illiriciane parlavano una 'I'nxÀTv cpr4, che già si era differenziata dal linguaggio volgare delle province occidentali dell'impero, come Sardegna Spagna Gallia; essi parlavano la « lingua degli Italiani », già nel u secolo d.C. caratterizzata (per una tendenza che rimontava a parecchi secoli prima) dal citato fenomeno che ancor oggi la distingue, vale a dire dalla caduta della s finale nella flessione. Basta questo fatto per chiarire l'importanza che ha avuto l'elemento di origine (sia pur indirettamente) italiana nella formazione delle legioni e nella costituzione delle canabae; ad entrambi questi elementi - legioni e canabae - risale, ripe-
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tiamo, la formazione dei fermenti linguistici che han dato luogo alla neolatinità rumena. Naturalmente, non dappertutto il « linguaggio degli Italiani » aveva le stesse caratteristiche: il termine « linguaggio degli Italiani » indica piuttosto confusamente la esistenza di un sermo vulgaris, che si parte da quello del proletariato contadino italiano, ma non sempre si identifica con esso. La stessa resistenza della s in Italia Settentrionale (ed anche, con ondeggiamenti, in città dell'Italia Meridionale), in Gallia, Spagna, probabilmente in Africa (la quale è strettamente connessa, quanto al suo latino linguistico, con la Spagna), ci indica come il più antico strato di romanizzazione linguistica reagisse alla « lingua degli Italiani », con resistenze che traevano origine dalla lingua delle città. Comunque, .questa lingua volgare in cui putacaso si usava ubi pel moto a luogo, o si diceva vetlus anziché vetulus, era dappertutto indicata come «lingua, degli Italiani »,,anche se per esempio in Italia meridionale e nei Balcani essa eliminava la s, mentre la conservava, per esempio, nella Spagna. Ed il punto importante resta sempre quello: l'arruolamento dei contadini italiani nelle legioni del i secolo, e il loro predominio in tutte le province imperiali dell'impero, ha sostituito, nella vita di ogni giorno, un linguaggio volgare-contadino « degli Italiani » alla lingua delle classi dirigenti romane; una consuetudo vulgaris, contro cui Plinio il Vecchio reagiva 26, alla consuetudo linguistica delle élites, che Plinio viceversa amava; ed insomma, una « lingua degli Italiani » alla « lingua dei Latini » (Latinitas).
L'importanza di questo fenomeno nella storia dell'impero è enorme. Esso veniva a maturazione nel ii secolo, quando ormai il cristianesimo si diffondeva largamente, anche nelle province occidentali, soprattutto nell'Africa. E i predicatori cristiani parlavano al popolo nella lingua 26
Debbo questa indicazione a mio fratello,
A. MAZZARINO.
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del popolo; Ireneo parlava addirittura in celtico, ai contadini della Gallia; in generale, essi parlavano in lingua latina volgare. Così, il linguaggio dei cristiani dava le sue inovenze al « linguaggio degli Italiani ». Si tradusse allora, negli ultimi decenni del secondo secolo, la Bibbia; forse il traduttore fu un africano; ma la traduzione ebbe il nome di Itala. Si è a lungo discusso su questo nome; soprattutto, maraviglia che una traduzione fatta probabilmente in Africa si chiamasse Itala; qualche studioso moderno vorrebbe addirittura negare la esistenza di questo nome. Ma ormai noi possiamo intenderlo facilmente. Itala vuol dire « traduzione in lingua degli Italiani », cioè « in lingua volgare »; al tempo in cui si redigeva la traduzione, il termine Itala era considerato sinonimo di vulgaris. Allo stesso modo, la traduzione che poi fece Girolamo, negli ultimi del iv secolo, e che in un primo momento fu solo revisione dell'Itala, si chiamò Vulgata. i due termini sono dunque equipollenti: ma nel termine Itala, del n secolo, si rispecchia la convinzione che il linguaggio volgare è sempre, più o meno, « il linguaggio degli Italiani »; laddove nel termine Vulgata, del tardo impero, si rispecchia la circostanza che ormai quell'unitaria « lingua degli Italiani », la lingua dei legionarii italici del i secolo e dei loro discendenti, non poteva più designare la consuetudo viiigaris in genere - perché nell'ambito di quella consuetudo vulgaris già tendevano a differenziarsi molte varietà dialettali. Ma anche allora, nel tardo impero (v sec.), Prisco continuava a considerare « lingua degli Italiani » il latino parlato nella ripa Dacica, cioè l'antenato del rumeno attuale. 39. La disciplina delle legioni; la maggiore libertà aez pretoriani e degli « auxilia »; i diplomi militari.
Come già dicemmo, sin da Traiano gli elementi non italiani - ma ancora, in gran parte, discendenti da italiani
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- predominano nelle legioni, e continuano quel compito di romanizzazione, che già era stato iniziato dai portatori della « lingua degli Italiani », i soldati e i mercanti del i secolo. Questo processo di provincializzazione dell'esercito non era del tutto nuovo, essendosi iniziato già nel i secolo, sin dall'epoca giulio-claudia (come mostra, per citare un qualunque esempio, il caso della legio IV Macedonica, che fu sciolta nel 70 d.C., e nella quale già si trovavano uomini da Lugdunum, dalla norica Teurnia, e dal Norico in genere). Ma solo nel ii secolo esso diventava decisivo. Nella storia dell'esercito legionario si rispec chia la vicenda dello stato romano imperiale: la quale consiste nel continuo rapporto di integrazione fra l'Italia, da cui parte il nucleo base dell'organizzazione politica, e le province che, poco a poco, si conguagliano con l'Italia fino a sostituirla. Proprio per questa ragione, i problemi dell'organizzazione militare si fanno sempre più complessi. Il quadro dell'esercito romano, sin dalla riforma augustea, è rimasto il medesimo: da una parte i soldati legionani, dall'altra gli alari e coortali (cavalleria e fanteria) degli auxilia; e inoltre le truppe speciali: coorti pretorie (il corpo a cui ogni soldato italiano soprattutto aspira) ed urbane, da una parte - dall'altra le cohortes civium Romanorum ed infine la flotta. Il cittadino romano di pieno diritto, e nel i secolo soprattutto l'italiano, si arruola nelle legioni (talora nelle cohortes civium Roma norum), e nei casi migliori nelle coorti pretorie: è questo il servizio militare volontario, di almeno sedici anni nelle coorti pretorie, di almeno venti nelle legioni. I peregrini sono arruolati nelle ale e nelle coorti, insomma negli auxilia: è questo il servizio militare (25 anni) cui sono tenuti 27 uomini delle nazioni sottomesse, orientali traci 27 Chi è chiamato a questa coscrizione non può sottrarvisi: per es. basti ricordare, per l'epoca di Tiberio, los., A. I. XVIII, 3, 5 (tra i 1000 Ebrei di Roma costretti al servizio militare, vengono puniti quelli che si rifiutano). (Il passo, che in genere viene trascu-
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pannonii breuci dalmatini norici reti galli spagnuoli, e via dicendo (schiavi e peregrini servono anche nella flotta, con la ferma più lunga di iutti: 26 anni). Ma poco a poco si crea un certo avvicinamento fra le truppe costituite da Romani (le truppe cioè legionarie) e le truppe di peregrini (vale a dire le ausiliarie). Già all'epoca di Tiberio si pone il problema dell'arruolamento legionario: Tacito attribuisce a questo imperatore l'osservazione che i volontari delle legioni non son facili a reclutare, e non sono sempre i migliori, ché proprio gli indigenti e i vagabondi preferiscono la carriera militare (voluntarium militem deesse ac, si suppeditet, non eadem viri ute ac modestia agere, quia plerumque inopes ac vagi sponte militiam sumant). D'altra parte, le truppe ausiliarie tendono a perdere quel carattere nazionale, che avevano all'inizio: ben presto, il soldato peregrino che presta servizio negli auxiha tenderà a snazionalizzarsi; compiuti i suoi venticinque anni, egli normalmente diventa cittadino romano, e in taluni casi lo è già (lo è normalmente sin dalla seconda metà del u secolo). Così, nell'epoca antonina, si può dire che tanto le legioni quanto gli auxihia sono arruolati con criterio regionale: questa riforma, che normalmente attribuiamo ad Adriano, non è che il risultato di un'evoluzione già iniziata precedentemente. Quando Elio Aristide, in quel suo Encomio di Roma, si volge a descrivere l'originalità dell'ordinamento militare romano, la distinzione fra legioni ed auxihia non si presenta al suo pensiero. Egli insiste, piuttosto, sulla romanizzazione degli ausiliarii attraverso la concessione della cittadinanza: « il vostro sistema di reclutamento è caratterizzato dal fatto che, in tutte le regioni sottomesse voi cercaste coloro che fossero disposti al servizio militare, e trovatili, li staccaste dalla rato, è anche importante come punto di partenza per il calcolo approssimativo della comunità ebraica di Roma, in seno alla quale si formò poi la prima comunità cristiana della città). - Si noti che già la gemma Augustea raffigura insieme leginarii ed ausiliarii.
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loro patria dando loro, in compenso, la cittadinanza romana, sì da indurli a vergognarsi della loro origine; li avete fatti soldati, in quanto li avete fatti cittadini ». Anche da questo punto di vista, la storia dell'esercito romano è parallela alla storia della cittadinanza romana. Noi abbiamo dei tipici documenti di questa storia: i diplomi militari, i quali, a servizio compiuto, concedono civitas e connubium con peregrine a soldati degli auxiia ed a classici, oppure connubium con peregrine a soldati del pretorio. I legionari non ricevono di questi diplomi: essi sono sempre la truppa-base dello stato romano, quella in cui l'antica disciplina si conserva nella maniera più rigida, e pertanto non consente connubiurn con donne peregrine. È interessante questa persistenza di un antico principio disciplinare nelle legioni, sì che esse si contrappongono, per tal via, non solo agli auxilia e alla flotta (vale a dire a formazioni di origine, almeno in linea teorica, peregrina), ma anche ai pretoriani (vale a dire a formazioni di origine italiana: Italiae alumni, dice Tacito). La coscienza della diversa disciplina delle legioni è un motivo centrale di tutta la storia romana: essa è ancor viva d'intorno al 400 d.C. (cfr. in/ra, § 90). La storia della concessione dei diplomi può essere illuminata, oltre che dalle particolari considerazioni che svolgeremo in sede problematica (in/ra, xxvi), anche da questo diverso senso della disciplina. Il soldato dell'esercito romano, a qualunque corpo egli appartenga, per principio non può contrarre unioni coniugali nel periodo della ferma: in questa concezione, che rimane ferma per tutto il il secolo, si accordano così la rigida disciplina delle legioni come la privilegiata posizione del pretoriano come infine la condizione dell'alare e del coortale (unica eccezione - ma non sappiamo da quando - è, nell'epoca antonina, la consuetudo dei soldati della flotta con le loro donne). Ma, naturalmente, è difficile che uomini lontani dal loro lare per 20 o 25 anni (a seconda che si tratti di legionarii o auxilia), e anche più,
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non contraggano vincoli con una qualche donna, non abbiano una contubernalis o locaria: anzi, proprio dalle loro stazioni di confine si sono formati forti nuclei cittadini, veicolo della civilizzazione romana. Al momento del congedo, il soldato legionario ha una posizione giuridicamente chiara: egli può regolarizzare il suo rapporto con la contubernalis, se essa è cittadina romana; non può regolarizzarlo vale a dire, non può aver figli cittadini - se essa è peregrina; e ciò allo scopo di evitare che la truppa legionaria, pronta ad affezionarsi alle province in quibus stipendia expleverant 28, preferisca in quelle province la unione con donne peregrine anziché con cittadine. Diversa è la condizione dell'alare o del coortale, insomma degli auxilia: pel soldato degli auxilia sono naturali le unioni con donne peregrine, ed a lui (che in compenso presta servizio militare di più lunga durata) lo stato concede, attraverso i diplomi militari, la civitas al momento del congedo (se già non la possiede) e il connubium, col diritto che i figli di quel connubium siano senz'altro cittadini romani. È probabile che l'istituzione di questi diplomi militari di congedo per soldati degli auxilia (ai quali si aggiungono quelli della flotta) debba attribuirsi alla saggia generosità dell'imperatore Claudio. Sull'esempio degli ausiliarii, i pretoriani vollero poi partecipare del diritto di connubium con peregrine, in quanto alcuni di essi avranno avuto tendenza a questo genere di unioni; né lo stato ebbe, nella concessione ai pretoriani del connubium con peregrine, quello scrupolo di principio che sempre ebbe nei riguardi dei legionarii. Ciò si spiega facilmente: il numero dei pretoriani era ben minore che quello dei legionarii; e le loro donne (le quali in buona parte saranno state scelte addirittura a Roma) erano, anche se peregrine, assai più vicine alla cultura romana che non le peregrine provinciali, cui si sarebbero volte, se lo stato lo avesse permesso, 28
Si ricordi il passo di Tacito citato supra, 5 37.
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le preferenze dei legionarii. Ne derivò che ormai taluni cittadini romani preferirono arruolarsi negli auxilia: qui più libera la disciplina, più larga la possibilità di scegliere la loro donna, anche peregrina. Del resto, nel 140 Antonino Pio innovò notevolmente la prassi dei diplomi militari di congedo pei soldati ausiliarii, stabilendo che si concedeva la cittadinanza ai figli ch'essi avrebbero avuto dopo il congedo, non già a quelli che avevano avuto in precedenza: un passo indietro che ristabiliva un certo equilibrio a favore della disciplina militare. Una importante innovazione in tutta questa materia (anche se essa 'appare meno evidente nella documentazione, la quale conosce diplomi militari nel iii secolo) fu arrecata più tardi, attraverso la concessione ufficiale di contrarre unioni durante il servizio militare, ad opera di Settimio Severo (in/ra, § 45); infatti questo imperatore concederà ufficialmente ai soldati il diritto di convivere con le loro donne; ma non bisogna dimenticare che tale concessione precede di poco la esten sione, della cittadinanza agli abitanti dell'impero (tranne i dediticii), che fu attuata nel 212 dal figlio di Settimio Severo, Caracalla. In verità, una gran parte della storia dell'esercito romano muove dalla lunghezza del servizio militare prestato (dai 16 anni dei pretoriani ai 20 dei legionarii ai 25 degli alari e coortali ai 26 dei classici): questi uomini dell'esercito di mestiere non riescono a rassegnarsi facilmente al distacco di ogni occupazione, ed alla rinunzia ad ogni legame di connubio durante la ferma. Di qui la grande aspirazione del soldato romano: la vita nella città. La carriera più ambita sarà dunque quella dei pretoriani, di questa decina di migliaia di uomini (tanti essi restano fino alla riforma di Settimio Severo) i quali - oltre ai molti privilegi - possono godere gli agi della vita urbana (anzi, addirittura, della vita urbana di Roma) e, coi diplomi militari, possono ottenere il riconoscimento della cittadinan za ai figli che avranno, dopo il congedo, da peregrine. Ma
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invece l'uomo delle legioni non ha conforti o compensi al rigore della disciplina: se calcoliamo 33 legioni di 5 000 uomini ciascuna, siamo in presenza di 165 000 uomini che portano con sé l'onore e l'onere della difesa, mentre per un ventennio la loro vita si svolge nelle province (e soprattutto nelle regioni di confine), senza che possano godere le gioie offerte dalla grande città, senza che possano unirsi ad una focaria peregrina nella speranza di trasmettere, quando saranno congedati, la civitas romana ai figli nati da quell'unione. Si capisce bene come fosse più facile reclutarli dalle province, e come già per questa via si preparasse quel prevalere delle truppe illiriciane (le meno ricche di esperienze cittadine, ma tuttavia assai aperte alla romanizzazione) che caratterizzò, poi, il iii secolo d.C. E si capisce anche come gli auxilia acquistassero sempre più d'importanza e divenissero (con la concessione dei diplomi) grande veicolo di romanizzazione. Ed infine - un punto di grande rilievo - appar evidente come la prosperità dell'impero si fondasse, in un certo senso, sull'equilibrio fra il numero di uomini che erano mobilitati per sì lungo tempo, e la produttività agricola ed economica in genere dei suoi abitanti: fenomeni come la peste o le grandi guerre barbariche potevano spostare questo equilibrio con conseguenze assai gravi per la produttività economica (Marco Aurelio fu costretto a mobilitare anche in Italia; la Vita Marci nella Historia Augusta parla anche di una sua mobilitazione di schiavi, la qual cosa normalmente appariva inaudita e offensiva al prestigio del soldato). 40.
Latifondisti, coloni e schiavi dinanzi al problema dell'arruolamento. Le classi dirigenti e l'amministrazione dell'impero.
È naturale che un esercito come quello imperiale romano tenda sempre più a reclutarsi soprattutto nelle
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campagne, dove è meno grande l'assuefazione degli uomini agli agi e alle gioie della vita cittadina: questa caratteristica doveva già essere evidente nel ti secolo d.C. Ma tuttavia, il carattere in buona parte coattivo dell'arruolamento dovette farsi sentire già in questo periodo come particolarmente pesante: un passo (come sembra) di Giulio Frontino, il noto gromatico morto sui primi del ti secolo, ci documenta la controversia fra le curiae cittadine e i vici, quando si tratta di « scegliere la recluta nel villaggio » (legere tironem ex vico) e chiarisce come quella controversia faccia schierare da una parte il dominus e il colono (entrambi interessati a eludere il servizio militare che grava sui vicani), dall'altra la curia, su cui in effetti pesa l'obbligo di legere tironem. In altri termini: le curiae cittadine, organi che dirigono la vita ed esprimono l'anima delle città, cominciano a sentire, tra gli altri oneri, il peso della fornitura di reclute: il principio del servizio obbligatorio negli auxilia si estende sempre più, e colpisce notevolmente le curie cittadine. I riflessi del fenomeno (che andrebbero studiati in una indagine a parte, purtroppo sinora mancante) dovevano incidere largamente sulla vita delle province. Si pensi, per esempio, alla circostanza C he d'intorno al 100 d.C., in seguito alle considerazioni già svolte per esempio da Columella, l'economia agricola schiavistica tende (cfr. supra, § 36) ad essere sostituita dal libero colonato. In queste condizioni, è naturale che i domini (o le curiae incaricate di legere tirones ex vico) tendessero a dare schiavi al posto dei coloni; liberarsi di schiavi, o comunque di manodopera meno redditizia, dandoli allo stato in cambio (come vicarii) delle reclute, doveva apparire cosa molto comoda; già Traiano ha dovuto reagire contro questa tendenza, sebbene nel caso in ispecie (ricordato dalla sua corrispondenza con Plinio il Giovane) non sia chiaro se l'intromissione di due schiavi fra le nuove reclute sia errore di coloro che hanno fatto la leva (dilectus), o dei domini che li avrebbero dati come vicarii, o
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infine dei due schiavi stessi (Traiano raccomanda a Plinio di fare l'indagine, e punire i colpevoli). Ancor una volta: la coattività di questa « tassa di leva » già nell'epoca dell'impero 'umanistico comincia a farsi sentire, e pesa gravemente sulle classi dirigenti. Inoltre, essa determina una tipica solidarietà tra colono e latifondista, inconcepibile in tempi moderni ` . Questo è solo un esempio degli oneri che gravano sul senato di una città, su una curia. Quegli oneri sono assai più larghi: si può dire che un aspetto dell'impero umanistico è nella stoica fermezza con cui gli uomini dei vari senati cittadini, curiales, accettano questi loro onori che tendono a diventare liturgie o munera particolarmente gravosi. In ciò si celebra ancora una volta lo spirito della polis antica, nella quale appunto la mancanza (sia pur entro certi limiti) di tassazione diretta importava, come unica concreta forma di tassazione djyetta, la libera contribuzione delle classi dirigenti e in ultima analisi la liturgia; Ma la liturgia di epoca romana imperiale si differenzia dall'antica liturgia della polis perché s'inquadra in un sistema coattivo, che rischia di soffocare jo spirito della liturgia antica. Entrare nel senato cittadino è la grande gioia dell'uomo antico, che è per eccellenza cittadino; ma già ora, nel ii secolo, questa gioia di essere curiale è diventata la coscienza di honores che si fanno munera; col generico trasferimento della collazione delle tasse dai publicani ai curiali, si è definito stabilmente l'aspetto liturgico degli honores curiali. Esser esonerato dai munera municipali è un'ambizione abbastanza diffusa: già Vespasiano ha creduto di legare a sé, con un tale esonero, la classe dei professori; e Plinio il Giovane ci attesta la stanchezza delle classi dirigenti cittadine dinanzi ai munera. Vale la pena di ribadire che appunto lo spirito stoico - quel medesimo per cui Marco affrontava il suo com29
Cfr. in/ra, 5 61.
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pito di imperatore come un munus - ci aiuta a spiegare la compatta lealtà delle classi dirigenti in questa epoca « umanistica » dell'impero. La verità è che queste classi dirigenti sapevano di costruire una realtà statale che sommava in sé l'intero travaglio del pensiero antico, nella formulazione cosmopolitica che la Stoa aveva elaborato. In questo stoico imperocosmopoli del ii secolo, così Orientali da una parte come Italiani e Occidentali e Africani dall'altra contribuivano alla formazione della classe dirigente: c'erano orientali nel senato, orientali nell'ordine equestre. L'ellenizzazione dell'impero « umanistico » si rifletteva, necessariamente, nell'adeguata partecipazione degli Orientali alla civitas ed alla sua amministrazione: appunto per il rilievo particolare acquistato dalle regioni di lingua greca (supra, § 34), era necessario che queste avessero governatori e funzionari esperti della lingua e dei costumi e della vita locale. Così si spiega la penetrazione degli Orientali nel senato e nella carriera equestre. Le recenti indagini statistiche sulla composizione del senato nel ii secolo hanno opportunamente insistito (Lambrechts) sull'importanza dell'impero di Tra iano per l'assunzione di senatori provinciali. Da Traiano e Adriano in poi questo processo (del quale Claudio può, per la Gallia comata, considerarsi un precursore) si continua stabilmente, ed inoltreè caratterizzato dalla presenza di moltissimi orientali fra i senatori d'origine provinciale; finché nell'epoca di Settimio Severo e Caracalla, la quale segue all'antonina e ne raccoglie le somme, troveremo un senato composto addirittura per una metà circa di elementi orientali (ciò s'illustra con un passo di Erodiano, su cui cfr. in/ra, § 47). Il processo di « orientalizzazione » delle classi dirigenti continuò sempre, in maniera che si direbbe rettilinea, fino al basso impero; poco a poco facendosi sempre più personale il rapporto tra magistratus e imperatore - ci si accorse, anche, che la vecchia tradizione « feudale » iranica delle province di Cappadocia
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e del Ponto, passata al vaglio dell'ellenismo, dava eccellenti amministratori e uomini di governo, e che lo stesso poteva dirsi della classe dirigente d'estrazione galatica 30, posta come a « ponte » celtico fra grecità e iranismo in Asia Minore. Due secoli dopo Antonino, d'intorno al 350 (anche in questo caso, il basso impero illumina l'evoluzione del principato), la Expositio totius mundi potrà dire che nel comitatus imperiale « non si trovano uomini delle altre città e province, quanti ce ne sono di Pont'(ci o Paflagoni e Cappadoci e Galati: sunt enim valde fideles debitis ». Così, alla preferenza pei « magistrati di cultura ellenica » si è pur aggiunta la ricerca di magistrati fideles. La stessa penetrazione di elementi provinciali, ed orientali fra essi, si è verificata nelle cariche equestri. L'importanza delle quali si accresce costantemente in questi primi due secoli del principato: dalle 25 procuratele dell'epoca di Augusto si va a 39 procuratele sotto Claudio, a 49 sotto Nerone, 55 sotto Vespasiano, 62 sotto Domiziano, 80 sotto Traiano, 107 sotto Adriano, 127 sotto Marco Aurelio (si arriverà a 174 sotto Settimio Severo: calcoli di Pflaum.). La burocratizzazione dello stato va parallela con l'incremento delle retribuzioni monetarie fisse: burocrazia vuoi dire accentramento economico monetario, e appunto a seconda del trattamento economico si avranno procuratori ducenarii, centenarii, sexagenarii (rispettivamente 36, 37, 35 sotto Adriano). Accanto ai cavalieri che, attraverso le tre militiae equestres (talora ridotte) - prefettura di coorte, tribunato angusticlavio, prefettura d'ala arrivano alle procuratele, troviamo uomini del pretorio cui lo stesso tribunato del pretorio apre quella via; e c'è anche quello che è stato chiamato (Pflaum) il « reclutamento civile », caratteristico per procuratele di carattere per così dire « culto » (così, per citare un qualche esempio, il procurator ab epistulis Dionisio, il famoso autore 30
Cfr. per es. VITTINGHOFF, « Gn. »; 1939, 508.
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della Periegesi in cui è anche un'allusione alle vittorie di Traiano sui Parti). S'intende bene l'importanza che questo « reclutamento civile » ha avuto nell'impero « umanistico », con l'evoluzione delle procuratele urbane (anche nella seguente epoca severiana tale importanza sarà evidente per l'assunzione di colti orientali al fastigio della carriera equestre: giuristi come Papiniano e Ulpiano sono così entrati nella vita dello stato); ma l'importanza delle procuratele equestri è proprio nella loro varietà, che porta in tutti i punti 'll'impero uomini di fiducia dell'imperatore, ai quali si attida il tessuto connettivo e il controllo economico dello stato. La classe equestre era il portato della rivoluzione che aveva costituito il principato sulla crisi degli ordinamenti repubblicani: era l'anima dell'organismo imperiale. I culmina della carriera equestre, la prefettura d'Egitto e so prattutto la prefettura del pretorio, possono riassumere in sé le formule nuove create dall'impero augusteo: il comando della provincia per eccellenza imperiale e il comando delle coorti pretorie, quest'ultimo così denso di elementi giurisdizionali civili (ch pure saranno già chiari nell'epoca successiva dei Severi, appunto con uomini come Ulpiano). Tuttavia l'impero umanistico è caratterizzato dall'equilibrio fra la vecchia classe senatoria e la equestre. Sebbene anche ora si facciano sentire alcuni sintomi di contrasto fra l'organo imperiale e la classe senatoria (per esempio i senatori patricii, i più distinti nella loro classe, non hanno di regola importanti comandi militari; e, da Traiano in poi, il servizio militare non è più un requisito assolutamente necessario per la carriera senatoria), tuttavia i senatori hanno coperto splendidamente così le legazioni di legioni come le superiori legazioni di province imperiali (di rango pretorio o consolare) come il proconsolato (di rango pretorio o consolare) delle pacate province senatone. Legati di legione, o governatori di province imperiali o senatorie, essi hanno conservato quella tradizione magi-
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stratuale che concorre con la burocrazia equestre, ma non è ancora entrata con essa in quel contrasto che poi caratterizzerà il iii secolo. Appunto per ciò, in questo secondo secolo dell'impero, il composto equilibrio delle due classi dirigenti - la senatoria e l'equestre - ha reso possibile la formazione di una burocrazia (che era, appunto, lo sviluppo necessario della creazione augustea di un chiuso ordine equestre) accanto alla « magistratuale » classe senatoria. Ma è una burocrazia che si inquadra nella formula di un ordo equestre; essa non si è ancora del tutto « cristallizzata » in una titolatura che la distingua più nettamente dal resto dell'ordo. L'esigenza di questa titolatura si fece sentire nell'epoca di Marco: come gli appartenenti all'ordo senatorio avevano (già nel corso del i secolo d.C.) il titolo ereditario di vir clarissimus, così ora, sotto l'impero di Marco, le alte burocrazie provenienti dall'ordo equestre ebbero i titoli (non ereditari) di vir eminentissimus, vir per fectissimus, vir egregius. Così si veniva a creare, entro lo stesso ordine equestre, una speciale distinzione, o un gruppo di speciali distinzioni, che ancor meglio caratterizzavano l'ordinamento burocratico, già largamente promosso da Adriano. L'eminentissimato si riservava ai soli prefetti al pretorio.. Alle altre prefetture (tolta la prefettura urbana che, come sappiamo, era magistratura senatoria, dunque dotata di clarissimato) spettava normalmente il perfettissimato: così alla prefettura d'Egitto; così alle due prefetture che erano in Roma accanto alla urbana (poi, nel basso impero, da questa dipendenti), vogliamo dire la prefettura dell'annona (preposta all'anhona della città, e in prosieguo di tempo sempre più connessa al controllo della corporazione dei pistores) e alla prefettura dei vigili (il capo della polizia restava sempre il prefetto urbano, vir clarissimus, normale giudice della città e del suo territorio fino al centesimo miglio); così (per lo meno nel iii secolo) alla prefettura della flotta di Miseno. Alte procuratele più elevate, come anche ai dirigenti dei grandi uf-
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fici centrali della corte (gli scrinia: ab epistulis, tanto La/mis quanto Graecis; libeliorum; a studiis; memoriae),
toccava invece, da Marco in poi e an'cor più chiaramente nella evoluzione gerarchica posteriore a lui, il titolo del perfettissimato. Le altre cariche equestri conferivano l'egre______ giato. Questa creazione della titolatura stabile all'epoca di Marco ha dunque un'importanza eccezionale: essa coglie definitivamente quello che è il contenuto essenziale ad ogni ordinamento burocratico, vale a dire la definizione gerarchica del rango. Lo stato romano, che era per molti aspetti lo stato del privilegio (nei due ordines fondamentali augustei: il senatorio e l'equestre), si avvia così a diventare uno stato burocratico con gerarchia stabile, secondo delle formule gerarchiche che si « cristallizzano », per così dire, sempre più. Naturalmente, la remora principale alla definitiva burocratizzazione era costituita dal gran problema: come armonizzare il clarissimato, titolo ereditario senatorio, con l'eminentissimato, perfettissimato ed egregiato, titoli (non ereditari) equestri? Come armonizzare un titolo onorario (magistratuale ed ereditario) con dei titoli per eccellenza burocratici? In ultima analisi: come conciliare la carriera senatoria, che era espressione delle vecchie magistrature repubblicane, con la carriera equestre, che è burocrazia e non magistratura? All'epoca di Marco queste difficoltà non erano evidenti; esse cominceranno ad essere, in certo modo, sentite nel in secolo, finché si arriverà alla definitiva burocratizzazione « scalare » nel iv e v secolo. Ma già Marco aveva chiarito, comunque, una precisa esigenza gerarchica come contenuto della titolatura equestre da lui stabilizzata. Nello stesso modo in cui egli la fissava, così pure stabiliva che gli eminentissimi e i per/ectissimi, come i loro agnati, fossero esonerati dalle punizioni e dalle quaestiones dei plebei. Si delineava la distinzione delle pene pro qualitate personarum, che poi culminerà nel iii secolo, ed infine, nel basso impero, diverrà
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mantenimento di particolari privilegi sulle poenae dal punto di vista della dignitas e delle fortunae. Nel travaglio dell'epoca di Marco c'è già, in potenza, la tarda romanità. Ma nel i secolo, e nel it fino a lui, lo stato romano può, sì, chiamarsi lo stato del privilegio, nei suoi due ordines senatorio ed equestre; ma ancora non può senz'altro chia marsi - se non entro certi limiti, e, se mai, da Adriano in poi - uno stato gerarchico-burocratico. Perché sia chiaro questo concetto, basterà accentuare i seguenti due punti. La classe dirigente romana del iii secolo, ormai più avanzata nella gerarchizzazione, può tripartirsi (come appunto faceva l'imperatore Valeriano nel 257 31) nelle categorie dei senatores, egregii viri, equites Romani; viceversa, la classe dirigente fino ad Antonino Pio si sarebbe semplicemente definita secondo senatores ed equites Romani, vale a dire secondo i due ordines, senza l'enucleazione e distinzione, entro l'ordine equestre della « burocrazia » vera e propria dotata di egregiato (e perfettissimato e addirittura eminenti ssimato); la distinzione degli e,gregii viri dagli equites Romani caratterizza dunque il in secolo (rispetto ai primi due fino alla riforma di Marco) 32• Altro punto interessante: nella « cristallizzazione » di questa titolatura, la riforma di Marco ha avuto grandissima importanza, ma essa assume definitività sistematica solo nella successiva 31 È il secondo editto di Valeriano contro i Cristiani, conservato a noi da Cipriano. Valeriano ha indicato con egregii viri la « burocrazia equestre » in genere, riassumendo in questo concetto il perfettissimato e l'eminentissimato (press'a poco come nel basso imoero clarissimi viri riassume altresì illustrissimato e spettabilità); è difficile che nella trascrizione ciprianea siano caduti peri ectissimi ed eminentissimi. L'espressione di Valeriano andrà tradotta, dunque, nel seguente modo: « i senatori, la burocrazia equestre, i cavalieri ». In altri termini: nei primi due secoli fino alla riforma di Marco, esistono solo i due ordines: dopo Marco, abbiamo l'ordine senatorio, i burocrati (egregii viri), l'ordine equestre. Si osservi, inoltre, la differenza sostanziale fra ordine senatorio e ordine equestre: nella formula valerianea appare naturale la distinzione di egregii viri ed equites; ma sarebbe impossibile e assurda la distinzione di clarissimi viri e senatores.
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epoca di Commodo e soprattutto dei Severi: la storia dell'impero romano è, in questo caso, un processo del tutto rettilineo. 41.
La città di Roma e l'ideologia imperiale.
Tale era, dunque, la classe dirigente che amministrava l'impero e garantiva la pace romana. E al centro di essa era Roma: una città popolosa ed estesa come non mai nel mondo antico; tanto popolosa da potersi dire - è una espressione di Elio Aristide nel suo famosd Encomio di Roma - che « Roma quasi supera, quanto a popolazione, tutta la razza ellenica ». Basta un'affermazione di questo genere per mostrare quanto sia assurda l'opinione tenacemente sostenuta da alcuni studiosi moderni (Lot), secondo cui Roma non avrebbe mai superato i 300 000 abitanti, e anzi non avrebbe neanche raggiunto tale cifra. La grande densità demografica di Roma è il presupposto di molte dichiarazioni di autori antichi, da Tacito nell'epoca traianea a Erodiano nel iii secolo; ed è un dato connesso con la grande importanza che ancora nel ii secolo (e poi nel iii e nel basso impero) si attribuirà all'essere civis Romanus domo Roma, con il relativo diritto alle distribuzioni gratuite di frumento e ai congiarii. Si sente ancora, si continuerà a sentire per tutto l'impero, che Roma è la città fondatrice dell'impero romano, la città che ha conquistato il mondo e gli ha dato la pace. La sua popolazione è sì grande, perché, accanto ai peregrini e ai numerosi schiavi (gli schiavi delle case senatorie e dei maggiorenti), è già notevole il numero dei cives Romani domo Roma; potremo calcolare a 900 000 circa la popolazione complessiva, a 200 000 circa i cives Romani gratificati di frumentazioni. Gli scavi di Ostia ci hanno fatto intendere come fosse possibile l'esistenza di appartamenti in cui trovasse posto un notevole numero di inquilini (basti pensare, per esempio, alla Casa di Diana, con la sua tipica balconata e col suo piccolo san-
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tuario di Mitra); a Roma, questi appartamenti hanno raggiunto un'altezza considerevole, come la famosa insula Felicles proverbiale in Tertulliano. Anche qui si riflette l'evoluzione economico-sociale che si è compiuta nei primi due secoli dell'impero. L'insula è il riflesso architettonico dell'urbanesimo che caratterizza la società imperiale. Non è facile dire, dal punto di vista puramente edilizio, se l'insula sia uno sviluppo delle case ad atrio, o non sia, viceversa, la radicale negazione del tipo di casa ad atrio (che è la dottrina - a nostro giudizio più probabile - sostenuta ora dallo studioso svedese Boèthius). Ma è certo che, nella diffusione delle insulae che arrivano a diventar grattacieli, si rispecchia l'affermazione sempre più evidente della borghesia piccola e media; d'altra parte, le grandi domus signorili dell'aristocrazia romana rispecchiano la continuità di quella classe dirigente il cui luxus fu l'espres sione caratteristica della società imperiale soprattutto nei primi tempi. I differenti redditi degli honestiores e degli humiliores si riflettono anche, in maniera pressoché matematica, nella enorme elasticità di spesa fra le signorili domus (od anche le insulae con appartamenti eleganti) e i fitti relativamente bassi di molte insulae. Lo storico Vel leio, nell'epoca -di Tiberio, lamentava il sempre maggior aumento di « ofelimità » (come direbbe un sociologo moderno) delle case eleganti da parte dei senatores (mentre nel 125 a.C. una casa con fitto di 6 000 sesterzi appariva un lusso, ora, al suo tempo, lo stesso prezzo sarebbe parso indegno di un senatore); ben si capisce come questa vecchia classe senatoria entrasse presto in quella grave crisi che, come vedemmo, la caratterizzò all'epoca di Nerone. L'epoca « borghese » dei Flavii e degli Antonini, naturalmente, non ha distrutto il luxus, ma piuttosto ha creato una classe dirigente capace di dare a quel luxus un aspetto meno parassitario e un contatto immediato con la viva realtà economica dell'impero. Il fenomeno urbanistico ha contemporaneamente caratterizzato le metropoli floridissi
Cap. I.
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me dell'Oriente, prime fra tutte le città di Antiochia e di Alessandria, capaci di gareggiare con Roma. Ma il senso della continuità imperiale ha continuato sempre a distinguere nettamente Roma da tutte le città, anche da quelle due grandissime, dell'impero: essa è la città signora; e le gratifiche di frumento ai suoi abitanti sono il correlato della continuata coscienza di dominio del CiViS Romanus domo Roma. L'evoluzione di questa coscienza dal principato sino al basso impero - al iv, al v secolo - è uno dei punti più istruttivi della storia romana imperiale. La preminenza della città di Roma (ed insomma il senso della continuità imperiale in questa città) sarà dunque affidata, nel basso impero, alla speciale condizione dei suoi cittadini domo Roma (soprattutto alle gratifiche che essi, teoricamente signori dell'impero, continuano a ricevere) ed al fasto e alla reverenza con cui gli imperatori del iv e del v secolo - per esempio Costanzo ii od Onorio - si recheranno in visita nella città « signora del mondo » e sede dell'antico senato; ed in Roma si celebreranno i quinquennalia e decennalia imperiali. Anche per questa parte, il basso impero ci aiuta a comprendere il principato, del quale esso è continuazione e tuttavia trasformazione profonda. Allora, nel basso impero (diciamo iv e v secolo), Roma non sarà più la effettiva residenza imperiale (dal 325 in poi, si avrà anche la « nuova Roma », Costantinopoli) ma conserverà tuttavia la speciale dignità antica per cui sinanco il modo di vestire entro la città sarà regolato da precise disposizioni: essa è sempre la capitale dell'impero, in quanto signora di esso (nell'impero romano, il concetto moderno di « capitale » è assolu- ' tamente inapplicabile). Ma nel principato, e tanto più nel periodo di esso da noi studiato sinora, Roma è anche, so prattutto, la città di residenza dell'imperatore; e tale continuerà ad essere nell'epoca di Commodo e dei Severi e ancor oltre nel in secolo, sino alla tetrarchia. Ad ogni modo, la connessione della persona dell'imperatore e della
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sua domus (la domus divina) con Roma capitale è un momento essenziale, che caratterizza a un tempo l'ideologia imperiale e la vita della città per tutta l'epoca da noi sinora studiata (dai Giulio-Claudii a Marco) e per l'epoca che seguirà (da Commodo alla cosiddetta anarchia militare: due esempi significativi possono considerarsi nel fatto che Commodo, dopo la morte di Marco, riterrà necessario tornare dal fronte danubiano a Roma e che all'istesso modo i due figli di Settimio Severo, dopo la morte del padre, riterranno necessario tornare dal fronte britannico a Roma; diversamente Massimino Trace). Perché in Roma, nel suo senato e nel suo popolo urbano, è la sanzione charismatica dell'auctoritas imperiale. Nell'epoca dell'impero umanistico questa connessione di Roma e del charisma imperiale fu sottolineata anche in rapporto al problema della successione: in questo caso, l'opera di Adriano è particolarmente degna di rilievo, per la costruzione dello Hadrianeum o Mausoleo di Adriano. L'indagine più recente ha opportunamente rilevato come, nei rispetti dell'ideologia imperiale, ci si trovi in presenza di una evoluzione la quale da Nerva a Marco si caratterizza nel seguente modo: il charisma augusteo era diventato (sin dai Giulio-Claudii e Flavii) un vero e proprio « charisma istituzionale » che ora, nell'epoca da Nerva a Marco, acquistava carattere di opposizione al concetto domizianeo dell'imperatore dominus et deus vivente (,aeol» xciJ xp.o) ma tuttavia, specie con Adriano, lasciava emergere in prima linea il culto imperiale delle province e accentuava (con l'esaltazione della cultura ellenistica) il punto di vista greco nel culto dell'imperatore (si ricordi che Adriano è Zeus Panhellenios, Olympios, Eleutherios). Ma solo col successore di Marco, suo figlio Commodo, tornerà il concetto domizianeo del monarca-dio: Commodo È la nota espressione del sociologo Max WEBER: ora confermata dalla indagini del MAGDELAIN sulla auctoritas principis.
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scrive sacrae litterae. La caratteristica dell'ideologia imperiale (che emerge soprattutto da un'eccellente monografia dello Ensslin) riceve un ulteriore chiarimento se consideriamo alcuni altri aspetti, come la costruzione del Mausoleo di Adriano. La tomba monumentale dei Giulio-Claudii, quel mirabile Mausoleo di Augusto dove, sui pilastri dell'ingresso, erano incise le Res ,gestae, non aveva accolto né i resti di Nerone (seppellito nella tomba dei Domizii) né i resti dei Flavii (solo Vespasiano vi fu seppellito, in via del tutto provvisoria; sono oscure le ragioni per cui vi fu pure seppellito almeno uno dei due figli di Flavio Clemente, da Domiziano destinati [supra, § 301 alla successione; lulia figlia di Tito fu sepolta nel templum Flaviae gentis). Comunque; i Flavii furono normalmente seppelliti nel loro sepolcro gentilizio alla Alta Semita; e solo Nerva era tornato a concepire una successione ideale, quanto al sepolcro, coi Giulio-Claudii, facendo porre le sue ceneri nei Mausoleo di Augusto; Traiano aveva nuovamente abbandonato questo principio, ed era stato deposto nel basamento della colonna Traianea. Ora Adriano costruiva il suo Mausoleo, ma legava questa costruzione all'ideologia adottiva dell'impero umanistico. Tutti gli imperatori dopo di lui saranno seppelliti in esso: Antonino Pio, Lucio Vero, Marco (del cui seppellimento nel Mausoleo di Adriano non può dubitarsi, per l'esplicita testimonianza dello storico Erodiano), Commodo, Settimio Severo (il quale si è autoadottato fra gli Antonini), Geta, l'Antoninus Magnus (Caracalla). Il Mausoleo di Adriano è diventato così, come dice Erodiano, « il tempio dove si mostrano le sacre memorie di Marco e dei suoi predecessori »; e, possiamo aggiungere, dei suoi successori, per lo meno fino a Caracalla. Ciò vuoi dire che il concetto di successione imperiale ha assunto un aspetto più stabile e fermo, giacché la ideologia adottiva permetteva di uscire definitivamente dalla concezione gentilizia che aveva caratterizzato per
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esempio la costruzione del sepolcro dei Flavii all'Alta Semita. Nello stesso tempo il concetto dell'apoteosi, di questo tipico deorum honos che si dà al principe defunto e divenuto divus, si arricchiva di una coloritura speciale: l'apoteosi diventerà, nella concezione del già citato storico del iii secolo, Erodiano un onore dovuto « a quelli, fra gli imperatori, che muoiono ' lasciando figli o successori » In questo sviluppo dell'ldeologia imperiale, la condizione necessaria e sufficiente per l'apoteosi è nel fatto stesso che l'imperatore abbia designato, nella sua vita terrena, il successore o i successori: alla continuità della successione imperiale si connette l'idea della divinità dell'imperatore defunto. Naturalmente, questo momento non esaurisce tutti i complessi aspetti dell'apoteosi: specie di quell'apoteosi che si riferisce ad imperatrici anziché ad imperatori. Ma anche in questo caso è significativo che, nei famosi rilievi del cosiddetto arco (dell'ambasciata) di Portogallo, la consacrazione della diva Augusta Sabina fa pendant alla presenza (oltre che di Adriano il quale pronuncia l'elogio dell'estinta) anche di Elio Vero successore designato. Nella vita urbana di Roma, nel quadro di un'antica tradizione che per esempio si rivelava, nella sua tradizio nale maestà, in occasione dell'esposizione della maschera di cera dell'imperatore defunto, l'ideologia imperiale riceveva la sua consacrazione ufficiale. Ciò vale per tutti gli altri aspetti di quell'ideologia: non c'è impero senza il Genius del senato e senza il Genzus del popolo romano. Nell'impero umanistico questa continuità accentrata intorno alla vita urbana di Roma ha avuto la sua celebrazione più alta. (così nelle ' Herod., iv, 2, 1. Generalmente si espunge edizioni Bekker e Stavenhagen); ma è espunzione arbitraria; Erodiano indica con iroct& figli per sangue, cor StAoyot i successori designati per adozione.
BIBLIOGRAFIA E PROBLEMI
Sui Flavii, fonte principale a noi XV (cfr. SS 27-30) pervenuta sono le Vitae di Vespasiano, Tito, Domiziano di Suetonio; si aggiungono le reliquie dei libri 65-67 di Cassio Dione; come anche, al solito, i compendii di storia romana. Su Suetonio cfr. GRAF, Kaiser Vespasian, Unters. zu Suetons Vita (1937); STEIDLE, Sueton u. die ant. Biogr. (1951), pp. 94, 102. Si ricordino anche le notizie date da Filostrato 11: specie nella vita di ApoJlonio di Tiana: GROSSO, « Acme », 1954, pp. 333532. Per la guerra giudaica, abbiamo una fonte di eccezionale valore: Flavio Giuseppe, il cui punto di vista (in polemica con Giusto di Tiberiade) fu accettato ufficialmente da Tito (era dunque il punto di vista di Berenice e - come Giuseppe diceva esplicitamente - di Agrippa n). Cfr. LAQUEUR, Per jiidische W. WEBER, josepkus u. Historiker Flavius J Vespasian (1921); DRXLER, « Klio », 1924. p. 277; l'eccellente introduzione e commento alla Guerra Giudaica, del nostro RIcCI0TTI (voli. 1-111, 1949); MoTzo, Saggi di storia e letterat. giudeo-ellenistica (1924); per la valutazione di Flavio Giuseppe e il suo atteggiamento v. le nostre osservazioni in/ra, App. li. - Cfr. M. GELZER, « Hermes », 1952, p 67. - Intanto, il cristianesimo comincia a diventare una realtà storica di enorme importanza: fonte principale la Storia ecclesiastica di Eusebio (per l'epoca dei Flavii il libro 'i') con larghe citazioni, tra l'altro, da Flavio Giuseppe a proposito della guerra giudaica, e da Egesippo, il fondatore della storiografia ecclesiastica. Dei testi letterarii, va ricordato in primo luogo Dione Crisostomo; ma anche Quintiliano e Plinio e Frontino e Stazio e Marziale e Giovenale (si ricordi la famosa « satira del rombo »). Naturalmente, la storia della Stoa in questo periodo si identifica con la storia culturale e politica dell'impero (cfr. soprattutto BARTH-GOEDECKEMEYER, Die Stoa [1946]; P0H-
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LENZ, Die Stoa i-u [1948]); una traduzione dal Manuale di Epitteto dà ora, nella Bibliothek dello Artemis-Verlag, CAPELLE, Ep. Teles u. Mus. (1948). - Su Giovenale, LEVI, « Studi Funaioli », 1954. - Vanno considerati i primi scritti dei Padri Apostolici (la lettera di Clemente su cui cfr. S 30; la lettera di Barnaba, pei cui rapporti con la Didaché cfr. per es. recenti considerazioni di ROBINSON); in generale, si consultino le opere di patrologia e letteratura cristiana; per es. il BARDENHEWER, il KRÙGER, il HARNACK, 1'ALTANER. Per questo periodo, come per il seguente degli Antonini, si ricordino sempre le storie generali dell'impero (SS 2-3): il vecchio TILLEMONT; lo CHAMPAGNY; il DURUY; lo SCHILLER; il VON D0MASZEWSKI; il PÒHLMANN; io STUART JONES (1908); la fondamentale Histoire de Rome di PIGANIOL; Le Haut-Emp. del HoMo (1933) nella « 1-listoire generale » del GLOTZ; ALBERtINI, L'emp. rom. .( 1938 3); il voi. XI della « Cambr. Anc. Hist.», 1936, dal 70 al 192; SOLARI, L'Imp. rom. in (1945), dal 69 al 193; PARIBENI, L'italia imperiale (s.d.); Imperia (1949). Si ricordino anche la Weltg. dei RANKE; e le storie di Roma in genere, come il NIESE-HOHL (1923); il CARY (1935); la Nuova storia di Roma del FERRABINO; gli Arcana imperii del DE FRANCISCI (fondamentale); la Rdm. Gesch. il del KORNEMANN (1939); e la mirabile Weltg. d. Mittelmeerraumes ii, ed. BENGTSON (1949), dello stesso KORNEMANN; TAEGER, Das Altertum (1950 4); la Storia di Roma di KOVALEV (trad. it., ii, 1953); MASHKIN, Istorija drevnego Rima (1949); la Weltg. Eur. di FREYER (1948) ecc. Un recentissimo successo letterario, ispirato all'epoca flavia, è il romanzo di Otto EICHHORN, Credo (1949).
XVI (cfr. SS
27-28)
La più recente monografia su Ve-
spasiano è Hoio, Vespasien, l'empereur du bon sens (1949); cfr. già BERSANETTI, Vespasiano (1941). Sulla guerra giudaica cfr. per es. W. WEBER, Josephus u. Vespasian (1921) cit.
La dichiarazione delle esigenze finanziarie dello stato, fatta da Vespasiano all'inizio del suo principato, è stata tramandata da Suetonio, nel noto passo Vesp. 16, 3: passo fondamentale (perché è l'unica indicazione diretta di un bilancio nell'epoca del principato) e difficilissimo. La tradizione manoscritta suetoniana ha quadrin,genties milies, « quaranta mi-
Bibliografia e problemi
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liardi » di sesterzii; e questa enorme somma è accolta anche dai moderni (per es. FRANK, « Econ; Surv. », v, 1940, p. 45); io stesso, in un primo momento, ho creduto possibile difenderla. Ma qui noi siamo in presenza di una precisa dichiarazione (pro /essus) di Vespasiano su quello che noi chiameremmo « bilancio di previsione »; e per un bilancio di previsione (o anche di competenza) la somma è assurda. Anche correggendo quadragies, « quattro miliardi », siamo sempre in presenza di una somma assurda. Le entrate dell'impero, all'epoca di Velleio (diciamo, intorno al 30 d.C.) erano tali, che questo senatore poteva considerarle (ii, 39, 1) quasi eguali a quelle della sola Gallia, a parte l'Egitto il quale sotto Augusto dava tanto quanto la Gallia (ii, 39, 3); e poiché l'Egitto dava intorno a 20 000 000 modii di frumento all'anno, che possiamo ritenere equivalenti a circa 40 000 000-50 000 000 sesterzii (di fatti, lo stipendium della Gallia è valutato anch'esso a 40 000 000 sesterzii: Suet., lui. 25, 1), così, anche con un calcolo altissimo, dovremo con cludere che le entrate dell'impero non superarono mai, in periodo tiberiano o augusteo, i 300 000 000 sesterzii all'anno; più o meno in pareggio con le uscite. Da questa somma ai quaranta miliardi che la tradizione manoscritta attribuisce al bilancio di Vespasiano, c'è un abisso incolmabile. Credo che la soluzione dell'aporia sia offerta dallo stesso Suetonio, il quale ci fa sapere che, quando i numeri sono dati in tre cifre (notata) e non per esteso (rescripta), si verifica normalmente una confusione tra « migliaia » e « centinaia di migliaia » (Gaiba, 5): fenomeno, del resto, ben noto agli epigrafisti. Nel nostro caso, la tradizione manoscritta ha trasformato in quattrocento « centinaia di » milioni (= 40 000 000 000) la somma originariamente scritta in cifre, di soli quattrocento milioni (400 000 000). (Che Suetonio normalmente scrivesse in cifre, è chiaro proprio dal citato passo lui. 25, 1.) La situazione di competenza sotto Vespasiano era dunque la seguente: si considerava necessaria e sufficiente la riscossione di entrate (tributi, multe, ecc.) annue per quattrocento milioni di sesterzii: che è già molto rispetto al bilancio di epoca tiberiana (il quale, come dicemmo, anche con un calcolo altissimo non potrà considerarsi superiore a 300 000 000 sesterzii). Si noti, per altro, che il risparmiatore Vespasiano ha saputo limitare le voci del bilancio militare: il soldo è stato aumentato, poi, da Domiziano.
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Un confronto istruttivo può essere, a un secolo e mezzo di distanza, la dichiarazione di Macrino, il quale considerava gravissimo l'aumento di 70 000 000 denarii (= 280 000 000 sesterzii) sulle uscite del bilancio militare: ma allora era già sopravvenuta la grande inflazione del iii secolo d.C. Il bilancio di competenza dell'epoca di Vespasiano dà grande rilievo al liscus imperiale: con questo imperatore l'organizzazione centrale di Claudio è divenuta operante. All'epoca di Augusto le entrate si classificavano in tre categorie: entrate confluenti nell'aerarium o tesoro dello stato; entrate confluenti nei lisci o « casse » imperiali (con cui era anche connesso l'aerarium militare); entrate confluenti nei residua (« arretrati »?) vectigaliorum. (Dei particolari sappiamo poco: ma è certo che nell'aerarium o tesoro dello stato confluivano le tasse in natura - anche se aderate - delle province così senatorie come imperiali.) Poco a poco, i vectigaliorum residua confluirono nei lisci (questo termine ancora in un'iscrizione ufficiale di remissio debitorum, dell'epoca di Adriano: C VI, 967, 6); accanto all'espressione lisci si usò il termine collettivo fiscus, pur restando la distinzione tra i vani lisci (nell'epoca flavia troviamo il liscus Alexandrinus, il I. Iudaicus, il I. Asiaticus, tutti relativi alle tasse di capitazione - capitularium, traduzione di epikephalaion - « divise » per merism6s). Così, le « casse » imperiali (lisci) di epoca augustea, nelle quali confluivano i redditi dei demanii e della capitazione, assorbirono i residua vectigaliorum; e il bilancio si ridusse alle due voci essenziali, aerarium e lisci (liscus), con tendenza alla vittoria del fiscus sull'erario statale. Questa vittoria del liscus sarà assoluta nel corso del iii secolo, col prevalere delle indizioni, e nel IV, con la unificazione dioclezianeo-costantiniana fra le indizioni e la capitazione tipica già dei lisci di epoca flavia. Il contrasto tra aerarium e fiscus rivela un tipico aspetto della continuità della storia imperiale: come per es. all'epoca di Tiberio si discute se i beni di Seiano debbano toccare all'aerarium o al liscus, così anche la H. A., scritta nel basso impero elogia ancora i « buoni imperatori » del iii secolo, che hanno avuto rispetto per l'aerarium. - Sull'evoluzione dei lisci da Augusto in poi, c'è una notevole letteratura (talora divergente dai punti di vista qui esposti); soprattutto, da ultimo, BOLILA, Pie Entwicklung des Fiskus zum Privatrechtssubjekt (1938); LAsT,
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« Journ. Rom. St. », 1944, p. 51; SUTHERLAND, « Amer. Journ. Phil. », 1945, p. 151; JONES, « Journ. Rom. St. », 1950, p. 22: GARZETTI, « Ath. », 1953, p. 298; cfr. ENSSLIN, «Rh. Mus. », 1932, p. 341; sempre fondamentale l'opera di HIRSCHFELD sui
Verwaltungsbeamten (1905 2) Sulla lex de imperio Vespasiani (C vi, 930) cfr. per es. LEVI, « Ath. », 1938 ) pp. 85 sgg.; MAGDELAIN, Auctorita principis cit. Il problema fondamentale consiste nell'interpreazione della lex: conferma dei poteri già attribuiti ad Augusto (che è la tesi più comune, ribadita per es. da WESTERMANN, «Am. Journ. Phil. », 1938, p. 1) oppure «carta del principato» con caratteristiche particolari in relazione alla crisi del longus et unus annus (che è la dottrina di LAST, accolta dal LEVI, nell'art. cit.)? - La scoperta della tabula Hebana, e gli studi su di essa, su cui in/ra, App. i, hanno attirato l'attenzione sull'aspetto formale della lex de imperio che è, come la tabula Hebana, un senatoconsulto convertito in legge. - Sui principii dell'impero di Vespasiano LEVI, « Riv. fu. class. », 1938, p. 1; MANNI, « Rend. Acc. Bologna », 1938-39, p. 40; cfr, letteratura citata supra, XIV. Sull'azione militare di Vespasiano, FABRICIUS, Die Besitznahme Badens durch die Rmer (1905). Per i rapporti con la regione bosporana, che si collegano con la politica di Nerone, vanno anche considerate le fonti numismatiche: cfr. per es. la recentissima rec. di KAR'ISHKOVSKIJ (a ZOGRAF, cit. supra, S 3) in « Vestnik drevnej ist. », 1953, n. 1, p. 110. - Intorno al flaminato augustale nella Narbonese in epoca flavia: AYMARD, « Bufl. Soc. Arch. du Midi de la France », 1942/5, p. 513 (cfr. « Ann. épigr. », 1947, p. 69). - Secondo Homo, op. cit., la lex Manciana è dell'epoca di Vespasiano; essa si ritrova ancora in epoca vandalica (culturis Mancianis nelle tavole Al bertini). Su Plinio il Vecchio e le vicende del suo tempo cfr. FABIA, « Rev. Phil. », 1892, p. 149; il recente articolo dello ZIEGLER nella RE ecc. t
XVII (cfr. S 29) La storia delle figure femminili deve fare gran parte a Berenice, così come (e quasi più) che all'egiziana Cleopatra o alle donne dei Severi. Ma Berenice significa la diffusione di nuove idee, di 'Iou&vx& , nella corte dei Flavii
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e dunque in Roma, sede della potenhior principalitas, in un momento quanto mai critico per il giudaismo e il cristianesimo. Intorno alla personalità di Berenice MACURDY, « Am. journ. Phil. », 1935, p. 246; CR00K, « Am. Journ. Phil. », 1951, p. 162.
Su Domiziano cfr. soprattutto GSELL, XVIII (cfr. § 30) Essai sur le règne de Dom. (1934); GIANNELLI, Domiziano (1941), nella collana Gli imp. rom. dell'Ist. St. Rom.; A1UAs, Domiziano. Saggio stor. con trad. e comm. della « Vita » di Suet. (1945); gli articoli del WEYNAND nella RE e del CORRADI nel « Diz epigr. ». - Guerre danubiane: K0STLIN, Die Donaukriege Domitians (1910); PATSCH, « Sitzungsber. Wiener Akad. », 1937, p. 1; la letteratura sulla Mesia citata in/ra, LXVIII.
Un posto preminente nelle indagini recentissime su Domiziano è occupato dalla pubblicazione dei rilievi Flavii del Palazzo della Cancelleria, a cura di MAGI, I ril. /1. del Pal. d. Canc. (1945); cfr. SCHEFOLD, « Atlantis », 1949, p. 546; BANDINELLI, I rilievi domizianei del Pal. d. Canc. (1949); KXHLER, « Gnomon », 1950, p. 30. In uno dei fregi (A) è raffigurata la prof ectio, o meglio l'adventus, di Domiziano poi trasformato, per la sopravvenuta abolitio memoriae, in Nerva - in occasione di un'impresa militare (accanto all'imperatore si trova la divinità per eccellenza domizianea, Minerva; assai notevole, dal punto di vista storico, la presenza dei pretoriani; presenti il Genius Populi e il Genius Senatus). Nell'altro (B) l'incontro di Vespasiano con Domiziano gidvinetto, il quale ha corso sì grave pericolo nella difesa del partito flavio a. Roma, anch'esso si caratterizza per la presenza, fra altri, del Genius Populi e del Genius Senatus (l'incontro, che è avvenuto a Brindisi - così Flavio Giuseppe, mentre Cassio Dione lo localizza a Benevento - è qui idealizzato, con la presenza della dea Roma; anche questa idealizzazione accenna ad epoca tarda del fregio). Si noti soprattutto l'importanza che, in questi rilievi, si dà al Genius Senatus; ciò significa che Domiziano non ha abbandonato l'ideologia costituzionale di Vespasiano, nelle cui monete ritorna il tipo, iniziato da Galba (KORNEMANN, « Sitzungsbb. bayer. Akad. », 1947, H. 1, p. 20), del Genius senatus coronante l'imperator. Quanto alla mancata
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« trasformazione » di Domiziano nel fregio B, essa suole spiegarsi col fatto che la fisionomia di Domiziano giovinetto più facilmente poteva dimenticarsi; noi penseremmo, piuttosto, che la trasformazione non è stata compiuta perché Domiziano giovinetto non era colpito dalla abol. mem., mentre ne era colpito Domiziano in quanto imperator. Questò punto darebbe un interessante illustrazione del concetto di abolitio memoriae pel quale cfr. VITTINGHOFF Der Staatsfeind in d rom Kaiser zeit (1936). Infine, quanto all'ad ventus, penseremmo che esso possa con probabilità datarsi, in base alla figurazione dei pretoriani: da Suet., Domit. 6, 1 appare infatti che la campagna dacica affidata a Cornelio Fusco praefecto cohortium praetorianarum fu continuata di Domiziano medesimo Le coorti pretorie, che da Caligola - come sembra - erano state aumentate a 12 (cfr. supra, x), da Vitellio a 16 (Tac., Hist. il, 93), sono soltanto 9 nel 76: evidentemente, per una radicale riduzione e riforma operata da Vespasiano (cfr. tuttavia PASSERINI, Le coorti pretorie cit., 56). In un diploma che si data fra l'89 e il 134 (o, fors'anche, fra l'89 e il 101: C XVI, 81) sono dieci; e tante resteranno, d'allora in poi, per circa due secoli, fino al loro scioglimento ad opera di Costantino. L'imperatore che ha stabilito definitivamente il numero delle coorti pretorie, portandolo a dieci, potrebbe essere, piuttosto che Traiano (così PASSERINI, Op. cit.), Domiziano medesimo. Certamente, questo imperatore ha lasciato una larga orma, e definitiva, in altre cose di questo genere: per es., *gli ha stabilito definitivamente il luogo in cui vengono depositati, dal 90 in poi, per circa due secoli, gli archetipi dei diplomi militari (tanto quelli di civitas e connubium per ausiliar.ii e classici, quanto quelli di connubium per pretoriani). (Il luogo, è, com'è noto, ad Minervam: per l'identificazione, cfr. le acute osservazioni di CECCHELLI, Mater Christi I, 1946, sulla zona di S. Maria Antiqua.) Va rilevato che, comunque si identifichi l'imperatore che portò a dieci il numero delle coorti pretorie, egli è senza dubbio il medesimo che ha cambiato il formulario dei diplomi militari per pretoriani, sostituendo a nomina speculatorum qui in praetorio meo militaverunt, item militum qui in cohortibus novem praetoriis et quattuor urbanis, la formula nomina militum qui in praetorio meo militaverunt in cohortibus (con o senza item decem I Il III IV V VI VII VIII IX X urbanis ecc.); con M. Aurelio troviamo un ulteriore cambiamento, ma di più lieve momento (si sopprime in praetorio meo, e in compenso si aggiunge praetoriis, rispettivamente urbanis). Dun-
que, l'imperatore che portò a dieci il numero delle coorti pretorie ha contemporaneamente incorporato gli speculatores (spie)
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Un problema quanto mai seducente (cfr. S 30) è l'atteggiamento di Domiziano nei riguardi del fratello Tito. Si suole insistere sull'avversione di Domiziano a Tito: ed in questo senso il MAGI, nella citata monumentale edizione dei rilievi Flavii della Cancelleria, ha pensato che l'arco di Tito debba attribuirsi all'epoca di Nerva, piuttosto che all'epoca di Domi ziano, tanto più che l'arte « illusionistica » (nel senso di WIcKH0FF) dei rilievi dell'arco di Tito nettamente li differenzia dal classicismo dei rilievi della Cancelleria. Da un punto di vista storico, sembra però assai difficile che l'arco di Tito (monumento caratterizzato dall'apoteosi dell'imperatore flavio e dalla celebrazione di una vittoria che onorava tutta la gens Flavia) sia opera posteriore a Domiziano; piuttosto, come svolgiamo nel testo, ci sembra da distinguere l'impero di Domiziano in due periodi, dei quali il primo è ancora ispirato a rispetto reverenziale per la memoria del fratello Tito. E questo primo periodo è l'« illusionistico » in arte, laddove il secondo è il classicistico. (Si noti che il NOGARA, nella prima ricerca sulle scoperte della Cancelleria, aveva proposto precedenza dell'arco rispetto ai rilievi della Cancelleria: Mon. rom. scop. negli anni 1938-9 nell'area del Pal. della Canc. [1941], p. 25). Il documento principale della venerazione di Domiziano pel fratello è l'esaltazione che Domiziano stesso ne aveva fatto nel componimento poetico sulla guerra giudaica; va anche rilevato l'amore per la figlia di Tito lulia (cfr. § 29; e quanto or ora diremo per la politica religiosa); questo amore era in Domiziano superiore all'amore per la corrotta Domizia (Suet., Dom. 22: ardentissime paiamque dilexit; cfr. 17, 3: cadaver eius - Phyllis nutrix - in suburbano suo Latina via funeravit, sed reliquias tempio Fiaviae gentis clam intuiit cineribusque Iuliae Titi filiae, quam et ipsam educarat, commiscuit). Per la persecuzione di Domiziano cfr. FRIEDMANN, « Atene e Roma », 1931, p. 69; ultimamente MOREAU, « La nouv. Clio », 1953, p. 121. I rapporti fra Domiziano e l'ebraismo dovrebbero essere ulteriormente approfonditi (è in essi la chiave nelle coorti pretorie, in maniera da controllare queste ultime 'dall'interno': il che si adatta benissimo a Domiziano. La riforma degli speculatores già da HIRSCHFELD fu considerata contemporanea alla introduzione degli equites singulares come corpo speciale: anche questo si adatterebbe benissimo a Domiziano.
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per l'intendimento della politica religiosa domizianea nelle sue fasi). Su Domiziano e i ludi secolari cfr. ora RYBERG, « Mcm. Amer. Acad. Rome », 1955, p. 174. Su « Domiziano e Giovanni », STAUFFER, op. cit., pp. 160208; altra letteratura in/ra, § 59. Forse il cristianesimo era penetrato nella familia di Domizia, moglie di Domiziano? Il titolo funebre di un paggetto di Domizia, morto in età tenerissima (come spesso accadeva di questi delicia), pubblicato da ALLORA, « Ath. », 1953, p. 256, presenta l'immagine di un vaso con due ansette: l'editrice ha pensato, ma con giuste riserve, ad un eventuale simbolo di cristianesimo. A Roma, giudaismo e cristianesimo sono ancora, in questo periodo, abbastanza congiunti (cfr. letter. a XXII): la loro separazione, se anche non può datarsi con assoluta precisione, comunque va considerata un fatto definito solo dopo la persecuzione domizianea, nella quale i Cristiani sono accusati come giudaizzanti (cfr. PARKES, The Con/lict o/the Church a. the Sirnagogue, 1934; SCHOEPS, Aus /riihchristl. Zeit, 1950; altra
letteratura in App. ri). Sul limes fra lo stato romano e il partico nell'epoca flavia, e sulla difficoltà di contrapporre, per questa parte, politica domizianea e politica traianea, cfr. ultimamente LEPPER, Trajan's Parthian War (1948).
Tacito, Agricola e Domiziano: NESSELHAUF, « Hermes », 1952, p. 222; altra letteratura e discussione, per es., nella citata monografia di PARATORE su Tacito. Sul codicillo domizianeo PBerl 8834, cfr. « Comptes Rendus Acad. Inscr. », 1947, p. 376.
PIGANIOL,
Per l'epoca da Nerva a Marco AuXIX (cfr. SS 31-41) relio, le reliquie di Cassio Dione (libri 68-71) presentano una grave lacuna al libro 70, per gli anni 138-161 (regno di Antonino Pio), e al libro 71, per gli anni 161-165 (primi tempi di Marco Aurelio); infatti ci viene a mancare - ' ti. .sbcò C rv 3q3Xcov - il testo di Xifilino, che poi riprende al libro 72 (sicché pei libri 70-71 le reliquie vanno ricostruite solo in base a Petro Patricio, a Zonara e alla Suda). Va ricordato che Zonara, da Nerva in poi (cioè dal libro 68 di Dione),
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non attinge più direttamente a Dione, sì a Xifilino (BoIssE« Hermes », 1891, p. 440; ed. iii, p. 187). Da Adriano in poi, fonte essenziale per la storia imperiale romana del ti e in secolo è la Historia Augusta: una serie di vite degli imperatori, da Adriano a Carino e Numeriano, cioè dal 117 al 285, con una lacuna per le vite di Filippo l'Arabo, Decio, Gallo e Volusiano (cioè dal 249 al 253; MA'rTINGLY, « Harv. Theol. Rev. », 1946, p. 213, spiega questa lacuna come dovuta alla difficoltà di trattare con adeguata prudenza un periodo di quasi vittoria del cristianesimo - sotto Filippo - e poi di estrema tensione - sotto Decio). Queste vite della H. A. si presentano come scritte da sei autori (Sparziano, Capitolino, Vulcacio Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco) che le avrebbero compilate in epoca dioclezianea o costantiniana; sono ispirate al peggiore biografismo, quello che sa dirci quante libbre di carne mangiava un imperatore, e che ama inventare « lettere » e documenti, anche se spesso (specie nella prima serie di biografie) conserva ottima tradizione e persino, talora, qualche documento autentico. È naturale che, in queste condizioni, l'opera abbia destato un'infinità di discussioni:perché essa resta, nonostante tutto, fonte essenziale per la storia del principato da Adriano in poi. La grande revisione del problema fu dovuta ad un classico articolo di DESSAU, « Hermes », 1889, p. 337, in cui si proponeva di attribuire la H. A. ad un falsario di epoca teodosiana. D'allora in poi, la bibliografia sulla H. A. è diventata enorme; si schierò a favore della teoria di Dessau, con ulteriori adattamenti, il SEECK (redazione alla tarda epoca stiliconiana); a favore della dottrina tradizionale-pluralista degli autori e composizione in epoca dioclezianeo-costantiniana il KLEBS, il DE SANCTIS (che è il più autorevole sostehitore della dottrina tradizionale « moderata »: « Riv. fu. class. », 1927, p. 402), il LcRIvAIN; un punto di vista intermedio fu sostenuto dal MOMMSEN, il quale aderiva alla tesi tradizionale, ma ammettendo un « redattore » di epoca teodosiana. La fase più recente dell'indagine è stata iniziata da BAYNEs, The Historia Augusta, Its Date a. Purpose (1926), il quale osservò una generale connessione fra la H. A. (specie la vita dell'idealizzato Severo Alessandro) e l'opera dell'imperatore Giuliano l'Apostata. Eccellenti messe a punto in LAMBRECHTS, VAIN,
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« Ant. class. », 1934, p. 503; HOHL, « Burs. Jahresbb. », 1915, p. 95; 1924, p. 167; 1937, p. 127. Oggi, a 'prescindere dalla dottrina tradizionale (della quale il DE SANCTIS è, come già dicemmo, l'esponente più autorevole; cfr. anche MANNI nell'ed. delle Vitae di Valeriano e di Gallieno, 1951, p. 5; « Par. del pass. », 1953, p. 71) il problema della H. A. si pone di solito sul piano di un'alternativa fra la dottrina esposta dal BAYNES, op. cit., secondo cui l'opera sarebbe stata scritta sotto Giuliano, e la dottrina di DESSAU e SEECK, secondo cui bisogna scendere al periodo teodosiano o stiliconiano. Per la datazione giulianea si veda soprattutto ENSSLIN, « Gn. », 1942, p. 248; SESTON, « Rev. et. anc. », 19' p. 224; 1943, p. 49. Per la datazione più tarda, da ultimo HAItTKE, Rm. Kinderkaiser (1951, cfr. già Gesch. u. Poi. im spàtant. Rom, 1940), secondo cui si tratterebbe di un'opera di Nicomaco Flaviano junior, scritta nel 394-395; ALFÒLDI, Die Kontorniaten (1943; cfr. le mie osservazioni in « Doxa », 1951, p. 121); STRAUB, Studien zur Historia Augusta, Dissertationes Bernenses i, 4 (1952) attribuisce l'opera ad un grammaticus - s'intende un ,grammaticus dei circoli senatorii - di epoca postteodosiana. Non c'è dubbio che l'« autore » della H. A., cioè il « Redaktor » mommseniano (ma con un'attività « redattoriale » assai più larga di quella proposta da Mommsen), abbia attinto nella sua opera a Mario Massimo, autore di biografie imperiali da Nerva a Elagabalo (forse anche a Severo Alessandro); né c'è dubbio che egli esprima i circoli senatoriali tardo-romani. Or poiché Ammiano Marcellino (xxviii, 4, 14), scrivendo nel 392/393, biasima nei nobili romani l'abito di leggere Mario Massimo, mi sembra evidente che questo genere di « biografie romanzate », di mythistoriae, era rappresentato, pei circoli senatoriali romani del 392 circa, dalle biografie di Mario Massimo, e che la Historia Augusta ha soppiantato e sostituito Mario Massimo dopo quel periodo (all'incirca come Livio sostituì Valerio Anziate). In altri termini: l'opera di Mario Massimo era di spiriti senatoriali-romani, ed era l'opera di genere biografico-imperiale letta dai senatori nel 392/393; la Historia Augusta è pure di spiriti senatoriali-romani, ed ha sostituito l'opera di Mario Massimo nel suo stesso ambiente; questo è forse (cfr. « Doxa », 1951, loc. cit.) un ìmportante argomento per la datazione della H. A. in epoca postteodosiana, per lo
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meno dopo il 392/3. Cfr. anche Aspetti sociali del quarto secolo (1951), p. 345; e le osservazioni svolte in/ra, § 99: la menzione dei tremisses ci riporta certamente ad epoca postteodosiana. - Va rilevato come questo genere « biograficoromanzato » (mythistoricon) fosse coscientemente distinto, nell'antichità, dal genere propriamente storico: ciò è evidente dal disprezzo di Ammiano per Massimo (è il disprezzo della cultura aristocratica per la novella e per il romanzo in genere); la H. A. sa benissimo di questa inferiorità, ed è anche interessante il suo cenno di polemica con Mario Massimo il quale è aspramente criticato nelle Quadr. tyr.) . Un posto a parte occupa, nella ricerca moderna sulla H. A., la dottrina di Do MASZEWSKI, che scendeva ad epoca barbarica. Nella questione della H. A., com'essa è impostata oggi, ha grande parte l'avver sione dell'autore (o, mommsenianamente, del « Redaktor ») per i principes pueri (cfr. in/ra, § 109); cfr. soprattutto ENSSLIN, « Gn. », 1942, cit. e il libro di HARTKE, che s'intitola appunto Kinderkaiser cit.; farei osservare che la stessa implicita avversione al rex puer, e stavolta con la precisazione che si tratta di Valentiniano ir, è in un testo scritto da Agostino in epoca stiliconiana (Con/. Ix, 7, 15, 5): la critica al princeps puer 2 Mario Massimo (forse il console del 223; forse quello del 232) è fonte di poca importanza per la H. A., o ne è fonte essen-
ziale? Noi propendiamo per la seconda ipotesi; ma purtroppo il problema resta sempre aperto, giacché, noi conosciamo Mario Massimo solo attraverso la H. A.: lo conosciamo, cioè, solo attraverso quel tanto che di lui ci fa sapere un'opera la quale effettivamente si è sostituita all'opera di Mario Massimo stesso. Un'opera biografico-storica, che tende al romanzesco, com'è appunto la H. A., cita solo là dove fa comodo citare; cita, talora, per mostrare di esser « meglio informata » dell'oper4 rivale. Per aver un'idea, si pensi, appunto, che dal cosiddetto « Vopisco » l'opera di Mario Massimo in genere è considerata vendica nella Vita Probi, è aspramente criticata nelle Quadr. tyr. Questa Historia Augusta ha un modo assolutamente capriccioso cli giudizio e di citazione (per es. la mancanza di citazione nella Vita di Caracalla non implica che per questa Vita Mario Massimo non fosse utilizzato). In conclusione: una cosa è sicura, ed una soltanto: nel 393 i senatori romani leggevano, tutti, Mario Massimo; ma ad un certo momento la H. A., opera romana e senatoria come quella di Mario Massimo, ma qualitativamente peggiore, ha sostituito, negli stessi ambienti, il testo di Mario Massimo.
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è dunque un motivo comune al pagano « Redaktor » della H. A. e al cristiano Agostino; è un motivo diffuso in epoca stiliconiana. Ad ogni modo, questo breve passo di Agostino dev'essere pure utilizzato nella discussione sulla data della redazione della H. A. Da, ultimo, sulla H. A., quattro notevoli lavori: BARBIERI, Mario Massimo, « Riv. fil. class. », 1953 (il BARBIERI considera Mario Massimo una fonte secondaria della H. A.); MANNI, « Par. del pass. », 1953, p. 71 (rassegna di recenti studii); DEMOUGÉOT, « Ant. class. », 1953, p. 361 (Flavio Vopisco come « portaparola » di Nicomaco Flaviano jr.; sull'otium di quest'ultimo cfr. « Rend. Linc. », 1943, p. 420); STERN, Date et destinataire de l'H. A. (1953), importante per il confronto col De rebus bellicis, e con i Natales Caesarum del cronografo del 354; discutibile nelle conclusioni. In questi lavori è citata altra letteratura. - Il problema del cosiddetto ultimo grande storico di Roma (KORNEMANN, Kaiser Hadrian
u. d. letzte grosse Historiker von Rom [1905]; 0. Th. SCHULZ, Das Kaiserhaus d. Antonine u. der letzte grosse Historiker von Rom [1907]; come se l'ultimo grande storico di Roma non fosse Ammiano) è impostato su presupposti discutibili: BARBIERI, • Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa », 1934, p. 525. - MOMIGLIANO, • journ. Warb. Inst. », 1954. Date le condizioni delle nostre fonti, acquistano importanza, già nello studio di questo periodo, le epitomi di storia romana generale ed imperiale, come il Breviario di Eutropio, Aurelio Vittore Liber de Caesaribus, l'Epitome de Caesaribus, il Breviariiim rerum gestarum populi Romani di Rufio Festo, le Historiae adversus paganos di Orosio (in genere da Eutropio). Lo storico bizantino Malala (cfr. SCHENK vON STAUFFENBERG, Die r6m. Kaiserg. bei Malalas [19311) dev'essere anche considerato in modo particolare; così anche lo storico armeno Mosè di Choren. Cfr. i testi cronografici, e fra essi la storia urbana di Roma inclusa nel Cronografo del 354. Grande importanza hanno i testi letterarii: le lettere di Plinio e di Frontone (anche per la storia amministrativa: cfr. da ultimo PFLAUM, Les procur. éq. sous le Haut-Emp. rom. [1950], p. 198), gli scritti dei sofisti, ecc. Per la storia ecclesiastica fonte essenziale è la Storia ecclesiastica di Eusebio, ancora nel terzo libro (fino a Traiano: citazioni, fra l'altro, da Egesippo, dall'epistolario di Plinio e
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Traiano, da Clemente, da Ignazio, da Papia); nel quarto (dal 12U anno di Traiano a Marco Aurelio); nel quinto (Marco Aurelio e Commodo). Per i testi patristico-apostolici (Ignazio, Policrpo), apologetici (Aristide, Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo), apocalittici, edificatorii o evangelici o antieretici (la Apocalisse di Giovanni; Hermas; il perduto Diatessaron del già ricordato Taziano; Ireneo), si rimanda alle opere di patrologia e letteratura cristiana antica; per la lettera a Diogneto cfr. ora MEECHAM, The Epistie to Diognetus (1949). Su Aristide in particolare in/ra, xxii. Le più importanti opere moderne su questo periodo sono: W. WEBER, Rom. Herrschertum u. Reich (1927); STRACK, Untersuch. z. rm. Reichspr. d. zw . jabrh. i-in (1931 sgg.); cfr. HoMo, Le siècle d'or de l'emp. rom. (1947) e già i] vecchio DE CHAMPAGNY, Les Antonins (1875). Una periodizzazione alquanto diversa dalla nostra in GUEY, « Rev. ét. anc. », 1948, p. 60. Per le storie generali cfr. supra, SS 2-3; da Antonino Pio in poi si aggiunge PARKER, A Hist. o/the Roman World A. D. 138-337 (1935). Traiano e Adriano, con Tiberio Gaio e Nerone, sono trattati in HENDERSON, Five Roman Emperors (1927). Pagine capitali per la storia della cultura in POHLENZ, Die Stoa cit.; cfr. altra letteratura supra, Xv; anche Tacito va inquadrato in questo movimento culturale stoico (THEILER, « Phyllobolia v. der Miihll z. 60 Geburtstag », 1945, p. 35; cfr. BEGUIN, « L'ant. class. », 1951 9 p. 315). XX (cfi. § 31) Una monografia su Nerva ha dato il GARZETTI (1950). Il problema principale consiste nell'interpretazione della politica finanziaria: oltre alla citata monogra fia del GARZETTI, cfr. SUTHERLAND, « Journ. Rom. St. », 1935, p. 150; BIRAGHI, « La parola d1 passato », 1951, p. 257; cfr. ora HAMMOND, « Mem. Amer. Acad. Rome », 1953, p. 148; importante SYME, « Journ. Rom. St. », 1930, p. 55. - Si discute sulle ragioni per cui Nerva ha accolto, nel rovescio di sue monete, tipi già domizianei: il problema è connesso con quello dell'indipendenza dell'officina monetaria senatoriale sotto Domiziano, indipendenza che secondo alcuni fu tolta da Domiziano e non più restituita (MERLIN, in una tesi parigina su questi Revers monétaires, 1906), secondo altri (così giusta-
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mente MATTINGLY, Roman coins cit., p. 133) sarebbe stata riconcessa da Domiziano, nell'83; cfr. ora BIRAtHI, « Acme », 1953, p. 489 - Per il problema militare cfr. per es., da ultimo, HATT, « Comptes Rendus Acad. inscr. », 1949, p. 132 (alleanza della ribelle legio XXI Rapax con elementi germanici, e di qui incendio del campo di Argentorato). Il padre di Nerva è il famoso giureconsulto Nerva filius, console verso il 40 d.C. (Chr. MEIER in KUNKEL, Herkunft u. soz. Stellung. d. ròm. Jur. [1952], pp. 378-384; cfr. DEGRASSI, « Epigr. », 1946, 37, 20). XXI (cfr. § 32) Una eccellente monografia su Traiano è PARIBENI, Optimus princeps i-ii (1926-1927); cfr. anche il vecchio DE LA BERGE, Essai sur le règne de Trajan (1877). Per le campagne danubiane di Traiano cfr. PATSH, « Sitzungsbb. Wiener Akad. », 1937, Abh. i. Sulla colonna di Traiano, si rimanda, per la letteratura, ai trattati di archeologia, o più particolarmente di scultura romana (per es. al citato ARIAS, 1943); qui basti ricordare la classica edizione del CICH0RIUS e le ricerche di PETERSEN e l'op. cit. del PARIBENI, da ultimo HAMBERGH, Studies in Roman Imperial Art (1945); cfr. il fascicolo della Dir. Gen. Arti, La colonna Traiana (1942); e BIANCHI BANDINELLI, Storicità dell'arte classica (1943). - Sul grande fregio di Traiano, PALLOTTINO, Il grande fregio di Traiano (1939) = « Bull. Com . », 1939; CAGIAN0 DE AZEVEDO, « Rend. Pont. Acc. Arch. », 1943-44, p. 221. Sull'iscrizione della colonna, tanto discussa, ultimamente DEGRASSI, «Rend. Pont. Acc.», 1946/7, p. 173; R. BL0CH, L'épigr. lat. (1952), p. 48. - DEGRASSI, « Rend. Pont. Acc. », 1936, p. 179. - Alle Prrtx& di Kriton attribuirei anche la prima parte del frammento FGr Hist. 200 F 8: a'atq sembrerebbe mostrare che i due frammenti sono in connessione. Né va dimenticato che Kriton era interessato all'ordinamento delle cose asiatiche (-ra rv ú5rrxówv xzl -rv flp v &.tcz xii.vo), essendo egli di Eraclea, la quale città fu particolarmente curata da Traiano proprio per influsso di Kriton; oggi ciò è più chiaro per via del materiale epigrafico su cui ROBERT, « Hellenica », III, 1946, p. 5.— Che se anche la prima parte di FGr Hist. 200 F 8 è da Kriton, ne viene confermata la ricostruzione della sua personalità fatta dal ROBERT in base al materiale epigrafico.
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Quanto alla campagna partica di Traiano (per l'itinerario da Efeso alla Panfilia, cfr. da ultimo R0BERT, « Helien. » iii, 1946, p. 5, a proposito di Ulpia Heraclea), le difficoltà di ricostruzione dipendono soprattutto dalla diversa valutazione di una fonte tarda, ma in questo caso fondamentale, Maiala: la questione si pone e per i precedenti immediati della campagna e per la cronologia. Tra gli studiosi più o meno seguaci di Malala si può ricordare il vecchio ma importante VON Gu'rSCHMID, e più di recente SCHENK VON STAUFFENBERG, Die ròm. Kaiserg. bei Malalas (1931); una critica radicale di Malala era invece presupposta in MOMMSEN, RG v, 4011n e in LONGDEN, « Journ. Rom. St. », 1931, p. 1. La questione essenziale è « Parthicus after Batnae or at Ctesiphon? » (LEPPER, Tra jan's Parthian War [1948], p. 48), vale a dire la determinazione del rapporto cronologico fra il titolo di Parthicus - che, come sappiamo dai Fasti Ostienses xxiii U.I. xiii 11, ed. DEGRASSI, 1947, p. 203: Par[thicus appell(atus)], fu conferito a Traiano dal senato il 20 (21) feb. 116 - e la conquista di Ctesifonte. Tale problema può formularsi nel seguente modo: Cassio Dione dice a LXVIII, 23, 2 che Traiano &o - IIY.paLx'Q dopo la presa di Nisibi e Batnae (cioè dopo la campagna mesopotamica), ma a LXVIII, 28, 2 dice che Traiano rv &Lx)a 'ro3 11cpDtxri' &Lc)az'r dopo la conquista di Ctesifonte; il Parthicus appellatus est dei Fasti Ostienses va riferito a L(1XTO? Oggi si suole ritenere che il Parthicus oppure a & appellatus est dei Fasti Ostienses corrisponda a ed insomma sia ben anteriore a cuacro; sicché la presa di Ctesifonte andrebbe posta dopo il febbraio 116 (GUEY, Essai sur la guerre parth. de Trajan [1937], p. 150; HENDERSON, « Journ. Rom. St. », 1949, p. 122; LEPPER, Op. cii., è
incerto, ma propende per la soluzione di GUEY). Io credo, tuttavia, che questa equazione Parthicus appellatus est dei FO tcac-ro) di Dione divenga per lo (anziché meno dubbia, se consideriamo nel contesto (e non gia nella sola notizia sul titolo di Parthicus) lo ìr3cPocL di Dione LXVIII, 28, 2; di fatti, trovo un parallelismo fra l'intero passo dei FO relativo al senatoconsulto e il contesto di Dione (senatore!) LXVIfl, 28, 2 sulle deliberazioni del senato. Nei
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FO il senato, ricevute le laureatae (cioè litterae laureatae) di Traiano, a cui consegue l'appellatio di Parthicus, fa un senato consulto pro salute eius e delibera ludi, circenses, missus; in
Dione (Xit ) LXVIII, 28 2 Traiano dopo la presa di Ctesifonte « ebbe la conferma ufficiale » (& c3aro, med.; cfr. l'uso di cxv,tv -rv « confermare ufficialmente il titolo », nel retore Aristide) « del titolo Parthicus, e il senato deliberò, fra l'altro, ludi di celebrazione della vittoria, quanti egli voleva (&cXrrtc, Sturzius) ». Se, con GUEY e HENDERSON, riferis simo Parthicus appellatus dei FO a dovremmo duplicare la celebrazione dei giuochi; ma proprio il fatto che Xifilino conserva soltanto ricordo del senatoconsulto dopo Ctesifonte rende probabilissimo che solo questo senatoconsulto, con connessa deliberazione dei giuochi celebrativi, avesse rilievo in Dione, scrittore senatorio; FO XXIII e Dio, LXVIII, 28, 2 sono, ripetiamo, testi paralleli. Se queste considerazioni sono nel vero, concluderemo che la presa di Ctesifonte precedette il conferimento ufficiale (20 o 21 feb. 116) del titolo di Parthicus, e che dunque va posta verso la fine del 115. Resta oscura la valutazione dei dati di Malala sul terremoto di Antiochia. Le spedizioni partiche dei Romani hanno anche interesse economico (cfr. già Erodiano su Caracalla); ma nel caso di Traiano il preminente interesse politico è mirabilmente rilevato da ANDREOTTI, « Riv. fil. class. », 1952, p. 82. Le rinunce di Adriano sarebbero state previste da Traiano secondo il RosTovzEv; contra, DEGRAS SI. « Riv. fil. class. », 1936, p. 410; GR0AG, « Klio », 1936, p. 232.
Per l'ideale traianeo cfr. il frammento studiato da CuM0NT, « Rev. ét. anc. », 1940 9 p. 408. L'interessante aspetto « dionisiaco » della spedizione orientale è chiaro alla coscienza dei contemporanei: il monumento più significativo, fra quelli di scoperta recente, è fornito dai mosaici delle terme traianee di Acholla in Tunisia (PICÀRD, « Comptes Rendus Acad. Inscr. .», 1947, p. 557), configurazioni della spedizione indiana di Dioniso, e certo in connessione con l'impresa partica di TraiaIÀO. Cfr. GAGÉ, « Rev. ét. anc. », 1940, p. 425 (spec. p. 433). La politica « costituzionale » di Traiano riceve un'ulteriore illustrazione se si accetta la dottrina di MOMMSEN-PICK, se-
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condo cui egli per primo avrebbe calcolato la potestà tribunicia dal giorno di nomina dei normali tribuni (contra MATTINGLY, « Journ. Rom. Studies », 1930, p. 80) anziché dalla data di conferimento della potestà tribunicia medesima. Per la questione della potestà tribunicia in genere, in tutta la storia imperiale, è ormai classica l'opposizione fra la dottrina di Mommsen (fino a Nerva, l'anno tribunicio si calcola dal primo conferimento; da Traiano in poi, viceversa, dal 10 dicembre) e la dottrina di STOBBE (« Phil. », 1873, pp. 1 sgg.: anno tribu nicio come anno regnale, che dunque si ripete da una data variante da imperatore a imperatore, e strettamente connessa con la nomina di correggenti); dopo MATTINGLY, la ricerca è stata ripresa da HAMMOND, The Trib. Day During the Early Empire, - « Mcm. Amer. Acad. Rome », 1938, p. 23, secondo il
quale sotto i Giulio-Claudii si calcola in base al primo conferimento, da Vespasiano in poi in base all'assunzione al trono (che per Vespasiano è l'acclamazione delle truppe in Egitto), da Traiano in poi fino a Caracalla (con anomalie sotto Commodo) in base al giorno di nomina dei normali tribuni (10 dicembre; dunque, ritorno alla dottrina di MOMMSEN). Cfr., per altro, dello stesso HAMMOND, The Tribunician Day from Domitian through Antoninus: A Reexamination, « Mcm. Amer.
Acad. Rome », 1949, p. 35. Altro aspetto della politica costituzionale traianea: proconsul nella titolatura imperiale: cfr. in/ra, xxvi. Lavori stradali: DEGRASSI, « Rend. Pont. Acc. », 1946-7, p. 179. Amministrazione patrimoniale d'Africa: C viii, 25902; cfr. ora SAUMAGNE, in COURTOIS-LESCH1-PERRAT-SAUMAGNE, Tablettes Albertini (1952). - Sul « trofeo di Traiano » ad Adamklissi, per es. FERRI, « Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa », 1933 (con datazione al iv secolo); DEGRAS SI, loc. cit., p. 182. Suli anaglypha Traiani, così importanti per la politica finanziaria, SESTON, « Mél. Èc. Rome », 1927, p. 154; cfr. ora HAMMOND, « Mcm. Amer. Acad. Rome », 1953Sui riflessi della rivolta giudaica è interessante, per l'insediamento dei veterani in Cirene, l'epigrafe di Adalia su cui ROBERT, « Revue ét. grecques », 1948, p. 201. Cfr. anche APPLEBAUM, « Journ. of Jewish Studies », 1951, p. 177. Su Lusius Quietus cfr. IORDANESCU, Lusius Quíetus (1941);
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si discute (a torto, perché Mpo non significa « negro », né siamo autorizzati a ritenere scorretto l'epitomatore di Cassio Dione) se egli sia un abissinQ (DEN BOER, « Mnem. », 1950, p. 263; nel vero Roos, « Mnem. », 1950, p. 158). Per la letteratura sulla storia del criXXII (cfr. § 33) xiii. Soprattutto si ricordino le supra, stianesimo in genere cfr. principali storie della Chiesa, e la grande opera del HARNACK, Mission u. Ausbreitung des Christentums (1923 4; trad. it., 1924).Una buona antologia è il recente DEN BOER, Scriptorum
paganorum 1-1V saecc. de Christianis testimpnia (1948). In genere, per le reazioni intellettuali pagane al cristianesimo in tutta l'epoca imperiale, cfr. AUBÉ, Hist, des persécutions de
l'Égiise. La polémique pazenne à la fin du Ile siècle (1878); GEFFCKEN, Das Christentum im Kampf u. Ausgleich mit d. griechisch-r6m. Welt (1920); CLEMEN, Heidnische Polemik u. chr:stl Apologetik (1925) HITCHOCK « The Church Quart Rev. », 1930, p. 300 (Tacito e i Cristiani); H. FUCHS, « Vig. Christ » 1950 p 65 (sempre a proposito di Tacito) SOMMER Heidnische Kritiker des Christentums (1923); DE LABRIOLLE,
La reaction pazenne Étude sur la polemique antzchretzenne du ler au VIe siècle (1940). Intorno alla politica di Adriano nei confronti del cristianesimo, cfr. ora BAGNANI, « Historia », 1955, p. 107; SCHMID, « Maia », 1955, p. 5. Intorno a Marcione: BLACKMAN, Marcion a. bis. In /1. (1949). Si discute se la gnosi o l'apologetica abbiano determinato « l'ellenizzazione del cristianesimo »; del resto, l'apolo getica, specie di epoca severiana, è una forma ortodossa di gnosi (cfr. POHLENZ, « Nachr. Gòtt. Ak. », 1943, Nr. 3). Ma la vera e propria gnosi, la gnosi del ii secolo, è infinitamente più complessa. Oggi, l'indagine deve partire dai nuovi testi gnostici in copto scoperti a Nag Hammadi (Egitto superiore) nel 1946: fondamentali, per es., per l'Apokryphon lobannis (cfr. TILL, « Par. del pass. », 1949 9 p. 231; DORESSE, « Buil. Inst. Eg. », 1949, p. 409; « Comptes Rendus Ac. Inscr. », 1949, p. 176; QUISPEL, Gnosis als Weltreligion [1951]; PUECH, « Coptic Studies Crum », 1950, p. 91, cit.). Il concetto tipico della gnosi, -t-spx attraverso la yvCnc. è una fusione di motivi anticola egiziani (da ultimo MORENZ, Die Zauberfl6te, 1952, p. 79, cit.)
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e di. intellettualismo greco; la liberazione dal mondo delle tenebre è platonica; ma il suo contenuto è orientale (Ennoia Barbelo, Sophia-Achamoth). t indiscutibile che dalla gnosi in senso lato si è svolto, nel in secolo, il manicheismo (l'indagine futura dovrà illuminare sempre meglio questo punto; cfr. QUISPEL, op. cit.; si può dire che l'imperatore Teo dosio riduceva sotto il concetto di manicheismo anche sette gnostiche come gli Encratiti, C.Th. xvi, 5, 7). Ma ciò nn toglie che la gnosi faccia capò all'esperienza religiosa cristiana; se la gnosi fosse, nella sua origine, a-cristiana, dovrebbe altresì essere precristiana; del resto, anche un'origine « simoniana » (QuIsPEL; così già Ireneo) ci ricondurrebbe al mondo giudeocristiano. (Motivi ellenici possono entrare anche nel più intransigente giudaismo: per es. motivi pitagorici nella Nuova Alleanza, secondo DUPONT-SOMMER; in/ra, App. ii.) - Cfr. per altro BOUSSET, Hauptprobleme der Gnosis (1907); DE FAYE, Gnostiques et gnosticisme (1925 2); PUECH, « Mél. Cumont », 1936, p. 935. - Naturalmente, la gnosi va studiata alla luce del mandeismo (in/ra, App. li), dell'ermetismo (in/ra, xxiii), della magia (cfr. ultimamente BONNER, Studies in Magical Amuiets Chie/ly Graeco-Eg. [19501), della religiosità egizio romana in genere (ultimamente IDRIS BELL, Cults a. Creeds in Gr.-Rom. Egypt [1953]). - Concetto della storia in Marcione
(che solo in senso lato può considerarsi gnostico):
FRIEDELL,
Kulturg. Àgyptens u. d. alten Orients (1953), pp. 8-23. - Il superamento della crisi gnostica (cfr. ora, per le Lettere pastorali, VON CAMPENHAUSEN, « Sitzungsbb. Heid. Akad. », 1951, p. 2), ha tipici aspetti semantici: apokriphon, cioè « libro segreto »,
« rivelazione », passa a significare (cfr. ultimamente l'articolo di BARDY nel Reali. di KLAUSER) « libro non canonico ». Sul sincretismo del Il e In secolo: in/ra, App. n (sul « Christusbild. » degli Apocrifi cfr. ora KOLLWITZ, Das Christusbiid des 3en Jbdts [1953], p. 1). Ultima esperienza gnostica nella Roma del iv secolo: QUISPEL, « Mél. de Ghellinck », 1951; sull'epigrafe di Flavia Sophe (cfr. già FERRUA, « Riv. arch. crist. », 1945, p. 176). Per la storia della gnosi a Roma, oltre la fondamentale opera del CECCHELLI, Monumenti crist.-er. di Roma cit., cfr. sempre
WÙNSCH,
Sethianische Ver/luchungstafeln (1898).
Attraverso la confusione col manicheismo (C. Th. xv', 5, 7,
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cit.), motivi gnostici arrivano ai movimenti ereticali del Medioevo; cfr. le ricerche di DÒLLINGER; Tocco; VOLPE; SÒDERBEG; MORGHEN; ecc. Si osservi, per altro, che i movimenti ereticali del Medioevo non si rifarebbero direttamente alla gnosi, ma, semmai, a dottrine, per eccellenza charismatiche, del in secolo, soprattutto ai « Catari » seguaci di Novaziano (la cui vitalità nel v secolo è chiara per es. da Socrate). Per ciò che riguarda l'altro aspetto dell'< ellenizzazione del cristianesimo » (cfr. POHLENZ cit.), vale a dire l'apologetica cristiana (GEFFCKEN, Zwei griech. Apologeten [1907]; PUECH, Les apologistes grecques du Ile siècle [1912]; WENDLAND, op. cit., 12; ultimamente per es., RAPISARDA, Teofilo di Antiochia, testo ecc. 1939; GRANT, « Harv. Theol. Rev. », 1950, p. 179; VILLER-RAHNER, Askese u. Mystik [1939]; CASAMASSA, Gli apoiog. greci, 1943-44; BARDY, Athénagore, intr. trad., 1943; « Apologetik » nel Reali. di KLAUSER; PELLEGRINO, Gli apologeti greci [19471), l'interpretazione di questa
va tentata nel quadro del generale processo della cultura antica. in quanto « dialogo » fra Oriente e grecità (cfr., per l'epoca arcaica, il mio Fra Oriente e Occidente, 1947; per l'ellenismo, letteratura in GIANNELLI, Trattato di storia greca, LXXXIII e App.; da ultimo, per una interpretazione generale, VOLTERRA, « Riv. it. sc. giur. », 1951, p. 134). Il mondo greco arcaico aveva sempre riconosciuto la maggiore antichità e superiorità della cultura orientale (Fra Or. e Oc.c., 1947, spec. capp. Il; III; viii), finché le guerre persiane diedero ai Greci l'opposta coscienza dl una superiorità degli « Elleni » sui « barbari ». Questa superiorità ellenica fu un tipico motivo della cultura greca « classica », diciamo dal 480 a.C. al 380 a.C. circa. Ma nel IV secolo a.C. il concetto della superiorità ellenica cominciò a perdere il suo specifico contenuto etnico; e l'« ellenismo » (già ai primi decenni del iv secolo a.C.: LAQUEUR) riportò sul terreno l'antica esaltazione del mondo orientale, com'è evidente per es. dai rapporti dell'Accademia platonica con l'iranismo (ma anche con motivi orientali in genere, già da tempo mediati attraverso zone di incontro come per es. la Panfilia: cfr. per es. tradizione urartea del re Ara vinto da Sammuramat - mito di Er; l'etacismo riporta la mediazione a non dopo il vi secolo a.C.). Così, la parentesi classica della
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cultura greca fu chiusa: il iv secolo a.C. si ricongiungeva col vi secolo a.C. Ma in questa epoca « ellenistica » il mondo giudaico acquistò un rilievo particolare (basta confrontare, a questo proposito, l'immagine degli Ebrei in Ecateo di Mileto - e quindi in Erodoto e Cherilo - con lo scritto d'interesse giudaico attribuito a Ecateo di Abdera: Fra Or. e Occ., pp. 299-302; 406, n. 885); d'allora in poi si riconobbe che Greci ed Ebrei sono i massimi popoli della storia culturale d'Occidente. Il mondo romano, che è esso stesso mondo ellenistico di forma italiana, continua a svolgere questo punto di vista. Così, le tipiche « apologie » del giudaismo (Filone; Giuseppe Flavio) preludono all'apologetica cristiana. Come Artapano identificava Mosè con Museo, il maestro di Orfeo, così nel Lararium di Severo Alessandro si troverà Abramo con Orfeo con Cristo ecc. (in/ra, App. ii). L'Oriente celebrato dalla grecità di epoca arcaica, specie dalla Periegesi di Ecateo di Mileto (circa 510 a.C.), diede alla cultura romano-cristiana tipici motivi, per es. quello della Fenice simbolo della Resurrezione (cfr. in/ra, App. iii, a proposito di una epigrafe recentemente trovata nel mausoleo vaticano dei Valerii). Ma l'Oriente rivelato in epoca ellenistica diede infinitamente di più: diede, con le apologie giudaiche, un modello notevole per l'apologetica cristiana; diede la importantissima concezione del popolo ebraico contrapposto all'ellenico. Questa concezione si trova già nel Kerygma Petri (cfr. DOBSCHÙTZ, « Texte u. Unters. », XL, p. 1, 1894), in cui i Cristiani appaiono come la terza stirpe, accanto alla giudaica e all'ellenica. Nello stesso tempo, la filosofia ellenistica, soprattutto stoica, offre all'apologetica cristiana motivi di critica al culto pagano tradizionale. Il motivo paolino dell'Agnostos Theos (su cui NORDEN, A. Th., 1913 1) è un primo avvio in questo senso. La nuova concezione della storia si esprime, su un piano universale, nel citato concetto apologetico dei tre popoli culturalmente dominanti, Efleni Giudei e Cristiani (cfr. KuKULA, « Festschr. Gomperz », 1902, p. 359). Questi tre popoli diventano quatrr' nell'Apologia di Aristide, aggiungendosi ad essi i « Barbari » (soprattutto iranici). È l'Apologia di Aristide un documento dell'età adrianea? Vale a dire: è la più antica delle apologie a noi pervenute? (Le due apologie di Giustino, come
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anche il Dialogo con Trifone dello stesso Giustino, sono dell'epoca di Antonino Pio) In realtà, secondo Eusebio i Apo lo,gza di Aristide sarebbe stata indirizzata ad Adriano; e questa è oggi l'opinione dominante. Ma la versione siriaca (che è, del resto, la base per il testo dell'Apologia di Aristide) dà all'imperatore di questa Apologia di Aristide il prenome Tito e il cognome Antonino; si tratta, dunque, di Antonino Pio, la cui titolatura è Imp. Caesar T. Aelius Hadrianus Antoninus Aug. Pius (il prenome originario di Adriano è invece P., per altro mancante nella titolatura ufficiale). Quegli studiosi, che accettano la tradizione eusebiana secondo cui l'Apologia sarebbe stata indirizzata ad Adriano, dovrebbero spiegare come mai il prenome T. e il cognome Antoninus sono penetrati nel prescritto della traduzione siriaca. L'errore di Eusebio è derivato da un prescritto semplificato sul tipo di quello che troviamo nella traduzione armena a « Imp. Ces. Adriano ». Sul problema, da ultimo VONA, L'Apologia di Aristide (1950), il quale, come già HAASE, « Theol. Quartalschr. », 1917-8, p. 422, sostiene la datazione eusebiana; cfr. anche PELLEGRINO, Gli Apologeti greci del 11 secolo (1947), p. 19; il più recente scritto su Aristide è l'articolo di ALTANER, nel « Realiexikon f. Ant. u. Christentum » di KLAUSER, p. 652 (altra letteratura nel BARDENHEWER e nella Patrol. di ALTANER). Evidentemente, se la nostra datazione è nei vero, la versione siriaca di Aristide è anteriore alla formazione della tradizione « canonica » eusebiana: infatti, se Eusebio (o la sua fonte) avesse avuto ancora la possibilità di leggere un testo greco con prescritto completo (come ciò fu agevole al traduttore siriaco), difficilmente sarebbe incorso nel suo errore. « Onnipotente » nei prescritto della traduzione siriaca è rendimento di autokrator; il plurale « venerabili misericordiosi », nello stesso prescritto, può derivare dalla caduta della menzione (normalmente trascurata, in questo periodo) del Cesare, caduta che poté essere « compensata » dalla formulazione ai plurale di Augustus Pius nella titolatura dell'Augusto. - S'intende che la datazione di Aristide sotto Antonino Pio non infirma in alcun modo la datazione della perduta Apologia di Quadrato sotto Adriano (forse la lettera a Diogneto?): Eusebio (o la sua fonte) ha errato sulla data di Aristide, ma ciò non implica che abbia
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errato sulla datazione dell'Apologia di Quadrato; cfr. BARDY, « Mél. Grégoire », i, 1949, p. 75. - La caratteristica delle apologie cristiane nei loro riflessi storici s deduce dall'atteggiamento di esse nei riguardi dell'ellenismo: si va da Aristide e Giustino sotto Antonino Pio a Taziano, Atenagora, Melitone sotto Marco, a Teofilo nell'èra della pace (in/ra, § 42) di Commodo; il in secolo darà le prime apologie in latino (Minucio; Tertulliano) e in greco (Clemente e Origene). Un importante problema è quello del carattere biblico del battesimo per bambini: in senso positivo, per es., CULLMANN, Die Tauflehre des N. T. (1948; contro BARTH); la dottrina del battesimo nel iii secolo (RAHNER, « Z. Askese u. Mystik », 1932, p. 205) illumina l'evoluzione precedente. - Cfr., in genere, letteratura data supra, xiii. Due opere classiche sono il già citato Agnostos Theos di NORDEN; e 1' IXO- TE di F.J. DOLGER. Ideale monoteistico: PETERSON, ET OEO (1926). Per gli scavi di S. Pietro in Vaticano, pubblicati nelle Esplorazioni (1949), e per i problemi connessi, cfr. in fra, App. iii. Un'idea delle gravi e vivaci polemiche provocate dalla espressione potentior principalitas in Ireneo può dare HALLER, Das Papsttum (1950), p. 487; ma è arbitrario negare - persino il HALLER in certo modo lo ammette - che quell'espressione indichi assoluta fiducia nella continuità della tradizione fondata dal massimo apostolo in Roma; è evidente che questa continuità dava una particolare posizione al vescovo successore di Pietro (quanto ai criteri da seguire nel « ritradurre » potentior principalitas, essi dovranno partire dalla considerazione delle caratteristiche di questa traduzione latina di Ireneo: cfr. LUNDSTR6M). Letter. in LUDWIG, Primatw. (1952), pp. 8-10. Naturalmente, lo studio della religiosità giudaica è essenziale all'intendimento della nuova sensibilità religiosa del n e in secolo e del basso impero: cfr. per es. il Corpus Inscriptionum Iudaicarum del FREY. S'intende che il materiale giudaico andrà sempre confrontato col cristiano. Un bell'esempio, di moltissimi che si potrebbero citare, è la spiegazione di tcX)ctxoi3 in un'epigrafe giudaica di Siracusa, come ctxo3 scii. xpi.oc-ro (cfr. letteratura e discussione in ROBERT, « Hellenica »,
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1946, p. 98) 3 . Testi d'interesse attuale: DEL MEDICO, « Méi. Grégoire », i, 1949, p . 179 (cristiano-giud.; scrittura aramaica); e un'iscrizione ebraica siciliana ora pubblicata dai CALDERONE, « Rend. Acad. Linc. », 1955. Importante il confronto fra le catacombe ebraiche (per es. quella Torlonia studiata da LIE'rzMANN ecc.) e le cristiane. - Cfr. soprattutto SIM0N, Verus
Israel cit. (1948). - Sul rapporto Jabvè Meshiah KèpLou Xpterròc Ki5ptog cfr. DANIÉLOU, « Mélanges Jules Lebreton » (« Rech. sc. rei. », 1951 ) 1952), i, p. 339.
La fonte principale per AdriaXXIII Adriano (cfr. § 34) no, accanto a ciò che può ricostruirsi da Cassio Dione, e ai breviarii di storia romana (o anche solo imperiale), è soprattutto la Vita nella Historia Augusta; e comincia dunque con Adriano, dal punto di vista del problema delle fonti, la difficoltà di precisare il valore storico delle vite imperiali nella Historia Augusta. Nel caso della Vita Hadriani una veridicità della tradizione conservata dalla Historia Augusta appare in genere riconoscibile, nonostante un certo tono apologetico (per indiretta influenza dell'autobiografia di Adriano?) in alcuni punti, ostile per lo più. Espressioni come sacra peregrina contempsjt riflettono certamente, con qualche inesattezza, ideologia adrianea (modellata su Augusto: Suet., Aug., 93). - Per altro, si riscontrano tipici errori o fraintendimenti; tale per es. in Vita Hadr., 5 l'indicazione di Parthamasiris come il re parto nominato da Traiano (e da Adriano assegnato proximis gentibus - vale a dire alla Osrhoene - quod eum non magni pcnderis apud Parthos videret), dove evidentemente Parthamasiris è fraintendimento di Parthamaspates (un fraintendimento opposto a quello che SCHENK VON STAUFFENBERG attribuisce a Malala: cfr. supra, xix). Del resto, proprio la politica estera di Adriano ci è presentata dalla Historia Augusta in
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Oggi, potremo illustrare questo rcwhv mediante un confronto con l'escatologia della Nuova Alleanza, su cui cfr. App. il. Si noti che xx'r& dell'imprecazione nelle due epigrafi giudaiche siracusanee corrisponde a per dell'espressione adiuro vos per licem ecc. nell'epigrafe giudaica catanese di Aurelius Samoil (epoca teodosiana; ed. LIBERTINI [e LEVI DELLA VIDA] in « Atti Accad. Torino», 1928-9).
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maniera sufficiente a farcene un'idea completa: nel 117, la rinunzia alle conquiste di Traiano, exemplo (ut dicebat) Catonis; nel 123 composizione di dissensi coi Parti per mezzo di conversazioni diplomatiche (colloquio: 12, 8); nel 128 toparchas et reges ad amicitiam invitavit, invitato etiam Cosrhoe rege Parthorum remissaque illi filia, quam Traianus ceperat, ac promissa sella quae itidem capta luerat (13, 8). L'invito a Chosroe rientrava dunque in quella politica di amicitia con
lo stato partico, che però non escludeva un certo atteggiamento di romana superiorità, tanto vero che Adriano promette l'invio del trono (sul cui significato supra, § 25; Ix; xxi), ma non lo invia di fatto; del resto, ancor nell'epoca di Adriano si continuava, come sappiamo dalla monetazione partica, il conflitto fra Osroe (Chosroe), e Vologese suo nipote;- quest'ultimo, che aveva sempre nella Media la sua base (cfr. anche MAC DoWELL, Coins from Seleucia, p. 19), nel 129 ebbe il sopravvento. Ma la scomparsa di Osroe e l'avvento di Vologese ii non hanno cambiato, nelle linee generali, la politica di amicitia di Adriano; in Oriente l'unico re veramente ostile ad Adriano è rimasto Farasmane di Iberia, del quale la Historia Augusta sa che ha superbamente disprezzato l'invito di Adriano; Vologese li, se anche non ha accolto l'invito che Adriano aveva rivolto a Osroe nel 128, tuttavia ha cercato l'appoggio romano contro Farasmane che aveva chiamato gli Alani (Dio, Lxix, 15; cfr. supra, § 35). Una trattazione su Adriano dà D'ORGEVAL, L'empereur Hadrien. Oeuvre législ. et admin. (1950); cfr. anche la rec. di KUNKEL, « Gn. », 1952, p. 486. O. Th. SCHULZ, Leben des Kaisers Hadrian (1904); KORNEMANN, Kaiser Hadr. u. d. letzte grosse Hist. v. Rom (1905); HENDERSON, The Li f e and Principate o f the Emperor Hadrian (1923). DURR, Die Reisen d. Kaiser Hadrian (1881); W. WEBER, Unters. z. Gesch. d. Kaiser Hadrian (1907); cfr. anche GREN, Kleinasien u. Ostbalkan in d. wirtsch. Entw. d. Kaiserz. (1941), p. 116; il secondo volume delle già cit. Untersuch. z. rum. Reichspriigung d. II Jhdts
(1933) del « weberiano » STRACK. Un recentissimo grande successo letterario è il libro della scrittrice francese DE YoURCENAR : sebbene non si tratti di una ricerca scientifica, esso merita di essere ricordato anche qui, perché l'autrice ha sentito
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la tormentata problematica della spiritualità romana d'epoca adrianea. Giustamente, questa spiritualità anche alla scrittrice francese sembra emergere dalla villa imperiale di Tivoli. Su questa cfr. mngrf. di AURIGEMMA (1948); LUGLI, « Bull. Com . », 1928, p. 139; HERTER, « Rhein. Mus. », 1953, p. I. Per l'arte di epoca adrianea, fondamentale J. M. C. TOYNBEE, The Hadrianic School (1934). Per l'editto pretorio e Salvio Giuliano, da ultimo GUARINO, Salvius Iulianus (1946), con un tentativo di dimostrare l'estraneità di Giuliano al riordinamento sistematico dell'editto (di questo riordinamento non parlano né Pomponio né Gaio). Per i presupposti WIEACKER, « Die Antike », 1944 ) p. 40; REGGI, « Studi parmensi », li, 1951 9 p. 105. Fondamentale la lex metalli Vipascensis (ILS, 6891): D'ORs, « lura », 1951, p. 127; cfr. l'altra lex di Aljustrel scoperta da Burthe: FIRA(ntejust) I (R.), p. 498, n. 104.
Sulle riforme militari di Adriano, cfr. la letteratura generale a XXVI. Buone osservazioni nei già citati HENDERSON e WEBER; SANDER, « Phil. », 1932, p. 372, ha confrontato C viii, 2532 con Veg. iii, 8, accentuando l'importanza delle constitutiones di Adriano. - Una personalità di origine galatica (su ciò cfr. supra, § 40) sembra C. Iulius Bassus, su cui VON PREMERSTEIN, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1934, H. 3: egli ha avuto grandissima parte nell'ordinamento della Dacia. La rivolta giudaica ha ricevuto ora una nuova luce dalle esplorazioni di DE VAUX e HARDING a Wadi Murabba'at: di qui la giusta ortografia Bar Kozebah (anziché, come si faceva sinòra, pur con dubbio, Bar Kochbah); di questo grande capo della rivolta le scoperte di Wadi Murabba'at hanno rivelato una lettera inviata a Jeshua ben Gilgola (in questa lettera si fa riferimento ai goijm, che sono i romani, come i Kittim del Commentario di Habacuc scoperto ad Ain Feshka): cfr. supra, § 33.
Il problema più grave è di intendere fino a che punto l'antigiudaismo di Adriano si connetta col suo filellenismo. Exem pio Herculis Phiiippique, su cui attirò l'attenzione W. WEBER, è un punto importante della Vita adrianea nella H. A. (non direi, con OLIVER, « Amer. Journ. Philol. », 1950, p. 297, che si debba leggere Philopappi; se mai avesse voluto indicare
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un personaggio di epoca imperiale, il biografo avrebbe pensato ad Augusto, che era anche iniziato agli Eleusinia sacra; ma il biografo vuole indicare due figure ormai lontane nel tempo, una anzi mitica). Problema dell'adozione di Adriano, connesso con l'èra della sua potestà tribunicia dal 18/25 feb. 117 d.C.: cfr. per es. MATTINGLY, « Journ. Rom. St. », 1930, p. 82; e, per altro, i lavori di HAMMOND citati supra, XXI. Innumerevoli le illustrazioni possibili dell'ellenismo di Adriano: per es. patronomia a Sparta (WOODWARD, « Ann. Br. Sch. Ath. ») 1948, p. 209); figlio di Zeus Eleutherios (RAuBITSCHEK, « Am. Journ. Arch. », 1945, p. 128); l'interesse ai culti misterici (GUARDUCCI, « Buli. Com . », 1945, p. 144). Adriano e Cirene: FRASER, « Journ. Rom. St. », 1950, p. 77. Si discute se il Pota0,Lxòq %)6 tioc. di Pergamo (OGIS, 483) sia di età (traianeo-)adrianea o viceversa, com'è più comune opinione, ellenistica: da ultimo le opposte tesi in OLIVER, « Am. Journ. Phil. », 1951, p. 200 e MAGIE, Roman Rule in Asia Minor (1950), p. 40; in realtà si tratta di uno dei tanti casi di conferma di un vótirn precedente di secoli, com'è tradizione in Asia Minore (per es. la ripubblicazione della lettera di Dario a Gadata). Cfr. ora KLAFFENBACH, Die Astynomeninschr. v. Pergamon (1954).
Il governo di Adriano è « epocale » (HARTKE, Rm. Kinderkaiser cit., p. 8) per molti rispetti, anche nell'evoluzione interna dell'impero. Perciò si pensa da alcuni studiosi che sotto Adriano l'abbandono della politica di Traiano non si sia verificato solo nel campo della politica estera, sì anche sul piano della politica successoria. Su questa STRACK, Op.cit., iii (1937), pp. 25, 45, 123; ultimamente CARCOPINO, « Mélanges Grégoire », (in « Ann. Inst. Phil. Hist. Or. Sl. », 1949) I, pp. 109-121, dove si sottolinea la scomparsa del gentilizio originario di Antonino Pio in seguito all'adozione; e si spiega la precedente adozione (nel 136) del mediocre e malato Commodus Verus con l'ipotesi che si tratti di un figlio illegittimo di Adriano; quanto alla adozione (nel 138, dopo la morte di Ccmmodus Verus) del giovane T. Aurelius Boionius Antoninus (il futuro Antonino Pio), il CARCOPINO la spiega con l'ipotesi che, essendo la sorella di Sabina indicata, come matertera di Antonino, se ne dedur-
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rebbe che Rupilia Faustina era sorellastra di Sabina, sì che Antonino Pio fosse considerato « nipote di Adriano » in quanto « genero » di una sorellastra di Sabin. Sebbene taluna di queste ipotesi possa restare incerta, tuttavia l'eccellente studio del CARCOPINO propone una problematica interessante, anche per chi ne dissenta. Noi imposteremmo la questione nel modo seguente. Il maximum dell'ideale costituzionale raggiungibile è presentato da Tacito attraverso il famoso discorso di Galba nelle Historiae I: consiste nell'evitare che l'impero sia unius /amiliae hereditas, nell'adottare e dunque scegliere l'optimus (loco libertatis erit quod eligi coepimus); questo ideale è, appunto, rappresentato nell'adozione di Pisone da parte di Galba. Ma Pisone, già in bona et nomen adscitus, in quanto arrogato per testamento, aveva perduto il suo gentilizio originario (Caipurnio) per assumere quello di Galba; era, dunque, Ser. Sulpicius Galba Caesar; se ne deduce che nell'epoca di Nerva, sotto cui Tacito fu console, e di Traiano, sotto cui Tacito scrisse le Historiae, la perdita del gentilizio da parte dei successore « scelto » non era considerata come un momento «meno costituzionale » nel quadro dell'impero adottivo. Che se Traiano e Adriano conservano i loro gentilizi, rispettivamente Ulpius e Aelius, ciò rientra in un uso normale sin dall'epoca della tarda repubblica, secondo cui l'adozione non implica necessariamente perdita del gentilizio (così per es. T. Pomponio Attico è rimasto un Pomponio, pur essendo stato adottato per testamento dallo zio Cecilio; ecc.; per l'epoca traianea si può citare la famosa clausola del testamento di P. Dasumio [si eum pater nome]n meum laturum po[llicitus erit] (FIRA[ntejust] in ed., AR, p. 133). Del resto, nella titolatura ufficiale di Traiano non appare Ulpius, né in quella di Adriano appare Aelius: anzi, nella titolatura di Traiano Imp. Caesar Nerva Traianus Aug., e in quella di Adriano Imp. Caesar Traianus Hadrianus Aug., i rispettivi cognomi Nerva e Traianus avranno potuto esser sentiti come un'ottima
sostituzione del gentilizio dell'adottante, più o meno come un'effettiva sostituzione del gentilizio col cognome dell'adottante si poteva avere in certi casi (tipico il gentilizio Cae pio di Bruto, l'uccisore di Cesare, dopo l'adozione da parte di Q. Servilius Caepio:
DOER,
Die ròmische Namengebung [1937],
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p. 89, importante per la nomenclatura in genere: sulla quale, ultimamente, DEGRASSI, « Epigr. », 1941, p. 23). In ultima analisi: quando il futuro Antonino Pio, in seguito all'adozione da parte di Adriano, è divenuto T. Aelius Hadrianus Antoninus Pius, perdendo i suoi gentilizi originari (Aurelius, Boionius, Arrius; preminente Aurelius), questa perdita non dava un corso dinastico all'ideologia successoria, tanto più che Antonino Pio manteneva il suo prenome; essa era sulla scia dell'ideologia successoria di un Galba. - In sostanza, l'ideologia dell'o ptimus non è se non l'interpretazione ufficiale del sistema adottivo: Tacito l'applicava a Galba, e così l'avrebbe applicata al sistema adottivo di Nerva ecc.; ma in realtà un Galba e Nerva e Traiano e Adriano e Antonino Pio, nell'applicare il sistema adottivo, non fanno altro che seguire l'esempio di Augusto e di Claudio. Cfr. supra, Ix; sul discorso di Galba, ultimamente HARTKE, op. cit., p. 142; PARATORE, Tacito cit., p. 446 (ivi altra letter., di cui importante, a questo riguardo, VoGT). - L'ideologia dell'optimus è dunque una « sovrastruttura », ed è sentita come tale; nell'ideologia imperiale, l'essenziale è il charisma (l'imperatore è ormai sacratissimus imperator, come nella già citata legge scoperta da Burthe ad Aljustrel); M. Aurelio « eleggerà » suo figlio, come già Antonino Pio sposa l'« eletto » a sua figlia. Nel basso impero le proteste del senato si volgeranno contro i principes pueri: e allora l'ideologia senatoria dell'o ptimus tornerà più insistente; ma coi risultati che vedremo. (L'acuta dottrina del HARTKE, p. 199, secondo cui la H. A. ha volutamente trascurato la precisa indicazione dell'età di Commodo - volutamente, appunto per evitare critiche alla designazione di Marco - va limitata nel senso che la H. A. dichiara, comunque, che Commodo fu designato puer; per il problema dei principes pueri nella H. A. cfr. supra, xviii.) Per la titolatura di Adriano, v. quanto abbiamo osservato a xxii, a proposito dell'apologia di Aristide; PERRET, La titulature imperiale d'Hadrien (1929). - Cfr. anche PRÉv0sT, Les adoptions politiques à Rome sous la République et le Principat (1949); GRENADE, « Rev. ét. anc. », 1950, p. 258. Un'interessante questione, e nello stesso tempo un tipico aspetto della storia economica di epoca antonina, è presentata dalla datazione nell'epigrafia doliare: tale datazione (natural-
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mente col nome dei consoli), per iniziativa del prefetto d'Egitto Rutilio Lupo, s'inizia già nel 110 d.C. e raggiunge nell'epoca di Adriano (specie col consolato di Paetinus et Apronianus' il suo culmine, per continuare fino ai primi anni di Marco Aurelio. Ci si domanda da quali precise esigenze sorga l'innovazione, la quale dovrebbe avere, comunque, lo scopo di garantire il materiale laterizio (B0ETHIus) in un periodo (DEGRASSI) di forte concorrenza; e se l'uso regolare di età adria nea fosse determinato da un intervento di Adriano stesso o del prefetto urbano Annio Vero. Cfr., da ultimo, B0ÉTHIus, « Eranos », 1941, p. 152; BLOCH, I bolli laterizi (1947); DEGRASSI, « Doxa », 1949, p. 130. La crisi degli ultimi tempi di Adriano si specchia nelle difficoltà della sua apoteosi: VITTINGHOFF, Der Staats/eind in d. r6m. Kaiserzeit (1936), p. 87. Antonino Pio - HÙTTL, Ant. Pius i-ii (1936); aspetti
rilevanti della sua opera sono stati messi in luce nelle citate Unters. dello STRACK (III). Il dio Phoulbos venerato a Tessalo nica potrebbe essere o il figlio di Antonino Pio (figlio premorto all'adozione imperiale del padre) oppure uno dei figli di Marco Aurelio, nato nel 161; la prima ipotesi in EDSON, « Harv. Stud. Class. Phil. », 1941; la seconda (più probabile, perché si tratterebbe del figlio di un imperatore; non del semplice T. Aurelius Fulvus Arrius Antoninus) in ROBERT, « Hellenica » Il, 1946, p. 38. - Ultimamente AÉ 1952, 122. - Senatoconsulto de nundinis saltus Beguensis: C VIII, p. 270. Senato consulto de postulatione Kyzicenor(um) ex Asia, affinché il corpus ciziceno dei Neoi venga confermato dalla auctoritas del senato romano: ILS, 7190; cfr. DE R0BERTIS, Il diritto associativo romano (1938), p. 394; è un interessante aspetto dell'auctoritas del senato romano nella concezione delle poleis greco-asianiche (in/ra, App. i). - Sui congiarii, POESCHL, « Hermes », 1941 ) p. 423. - Per le due Faustine, un saggio di PARATORE, Plotina, Sabina e le due Faustine nella collana « Le donne di Roma » dell'Ist. Studi Rom.; cfr. anche MA'rTINGLY, « Harv. Theol. Rev. », 1948, p. 147. La politica orientale di Antonino Pio si ricostruisce soprattutto in base alle informazioni date dalla Vita Antonini; per i rapporti con l'Ircania, la Battriana, l'India, importante
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il cenno della Epitome de Caesaribus, 15, 4. Gli scavi nella regione di Oc-Eo, condotti non lungi dal delta del Mekong, sono utilizzati in C0ÈDEs, Les états Hzndouzsés d'Indoch. et d'Indon. (1949). Una valutazione dell'opera di Vologese iii, da ultimo in SCHUR, RE xviii, 2, 2024 (per la datazione di questo monarca 148-193 sono punto di partenza le monete di Seleicia, come sempre in questi casi: MAC DOWELL, Coins from Seleucia 198). Sul problema dell'isola Argyre nella opera di Tolomeo, cfr. ALTHEIM, Weltg. Asiens im griech. Zeitalter, i (1947), p. 48. Sulle vicende daciche sotto Antonino Pio cfr. da ultimo DMITREV, « Vestnik drevnej istorii », 1949, n. 1, p. 76. Marco Aurelio - È stata pubblicata postuma, a cura di REES, l'opera di FARQUHARSON, Marcus Aureiius, His Lif e and His World (1951). Delle vecchie monografie, emerge sempre il Marc-Aurèle di RENAN (1881), senza dubbio il capolavoro delle Ori gines di cui è l'ultimo libro: è un'opera di alta poesia, sia ch'essa per es. descriva i martini di Lione, sia che viceversa si sforzi di attingere il motivo profondo dell'etica di Marco Aurelio (« il ne permit au devoir de dépendre d'aucune opinior métaphysique »); nello sfondo è sempre il problema della cultura antica, che a Renan sembra esaurirsi in questo effort désespéré e frenesie de renoncement di Marco Aurelio, mentre intanto si inizia la vera e propria storia della Chiesa cristiana. Altre monografie su Marco: la recentissima, ed eccellente, di CARRATA THOMES, Il regno di Marco Aurelio (1953); delle precedenti, DARTIGUE-PEYRON, Marc-Aurèle dans ses rapports avec le christianisme (1897); EBERLEIN, Kaiser Mark Aurei u. die Christen (Diss. Breslau 1914); SEDGWICK, Marcus Aurelius, a Biography (1921); SCHWENDEMANN, Der bistorische Wert der Vita Marci bei den Script. Hist. Aug. (1913, ed. 1923); L0IsEL, La vie de Marc-Aurèie (1929); WILAMOWITZ-MOELLENDORF, Kaiser Marcus (1931). Naturalmente, gli studi sugli ck sono la migliore introduzione a Marco. Si possono ancora ricordare i vecchi saggi di liberale divulgazione, ispirati in genere a una rielaborazione dei presupposti di Renan: tipico, per es., I ricordi di Marco Aurelio e le Confessioni di S. Agostino in NEGRI, Meditazioni vagabonde (1897): dove Marco è considerato « in fondo, nel pensiero e nell'azione, cristiano»,
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e ispirato ad una tristezza che lo caratterizzerebbe sostanzialmente. Ad ogni modo, è naturale che il « probleùìa di Marco Aurelio » si muova sempre intorno ai suoi rapporti col cristianesimo: cfr. anche HIRSCHFELD, Kleine Schri/ten (1913), p. 154; KAHRSTEDT, « Rhein. Mus. », 1913, p. 395; CHAGNY, Les martyrs de Lyon de 177 (1936); DELEHAYE, «Anal. Bolland. », 1940, p. 142; GRGOIRE, « Anal. Bolland. », 1951 5 1. Edizioni e traduzioni più recenti dei commentarii di Marco: FARQUHARSON (1944); MAZZANTINI (1948); THEILER (1951). Cfr. in/ra, xxiv. - L'ideale umanistico si riflette nella politica finanziaria: omnis pecunia horum, principum pura est: cfr. l'oratio (ILS, 9340, Sardis vii, 1, 16) e il senatoconsulto (ILS, 5163) de sumptibus gladiatorum minuendis; importanti osservazioni in PIGANI0L, Rech. sur les jeux rom.
« Emerita », 1950, p. 311. Nel senatoconsulto si propone di ridurre ancor più il prezzo chiesto dal lanista (nell'oratio 1. 8-9 integreremo qualcosa come lanista autem
(1923); D'ORs,
pro trinquo n[e accipiat plus III? milibus nec quaestui curet...] plus adque vitae; nel senatoconsulto troviamo la pro posta di ridurre a 2000 sesterzii il prezzo chiesto dal lanista).
In conclusione, l'economia senatoria tende per eccellenza alla deflazione. - Lettera ai magistrati di Sepino (cfr. in/ra, § 60): PASSERINI,
Le coorti pretorie cit., p. 251. Finis vectigali fori-
culiari(i) et ansarii, ad eliminazione delle controversie inter mercatores et rnancipes: C vi, 31227. L'impero umanistico in generale - Per il Massimo inviato da Traiano ad ordinandum statum civitatium liberarum provinciae Achaiae, cfr. T0D, « Anat. studies Buckier », 1939,
p. 333. In genere, sull'umanesimo di questo periodo si possono consultare le storie della letteratura e della cultura; cfr. per es. il tentativo di KAHRSTEDT, Die Kultur der Antoninenzeit ( Neue Wege z. Antike III). Naturalmente, le opere fondamentali restano le già citate Darstellungen aus der Sitteng. Roms I-iv (da Augusto agli Antonini) del FRIEDLAENDEP (1921 Il sgg.); cfr. per es. GRUPP, Kulturgesch. d. ròm. Kaiserzeit i-u, 1903-1904 (1 3 , 1921); DILL, Roman Society to Marcus Aurelius (1925): KAHRSTEDT, Kulturg. d. rom. Kaiserzeit (1944); H0wALD, Die Kultur d. Antike (1948 2 ). Aspetti tipici della vita romana sotto l'impero: AYMARD, Essai sur les chasses rom. (1951);
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GRIMAL, Les jardins romains à la fin de la Rép. et aux deux prem. siècles de l'Empire (1943). ROBERT, Les gladiateurs dans l'Orient grec (1940). - Immunità dei grammatici, retori e medici: fondamentale l'editto di Vespasiano, FIRA(nteiust), 73;
limitato da Domiziano
(ARANGIO
Ruiz, « St. doc. hist. et
iuris », 1939, p. 597). - Adriano e la secta Epicuri: C III, 12283. - Un'opera importante è PERETTI, Luciano (1948),
dove si mette in rilievo l'opposizione intellettuale contro. Roma; cfr. H. FUCHS, Der geistige Widerstand gegen Rom in d. antiken Welt (1938). SERGEEV, « Istoriceskij jurnal », 1940, n. 3, p. 109. - Aspetti sociali in alcuni testi letterarii: C0LIN, • Atti Accad. Torino », 1952/3; « Latomus », 1953, p. 282; • Riv. fil. ci . », 1953, p. 97. Il problema religioso - Per il cristianesimo, che, nel suo stesso esclusivismo, va considerato particolarmente, supra, xxii. Cfr. FESTUGIÈRE-FABRE, Le monde greco-rom. au temps de Notre Seigneur i-ii (1944 sgg.; del FESTUGIÈRE si ricordi L'idéal religieux des Grecs et l'Évangile [19321); PRÙMM, Religionsg. Handb. I. d. Raum der christl. Welt (1943); Die Religion des Helienismus in « Christus u. die Religionen d.
Erde » del KÒNIG n, 1952, p. 173. Naturalmente, vanno consultate le opere di storia della religione romana (per es. WlssowA, TURCHI, ALTHEIM); cfr. TOUTAIN, Les cultes paiens dans l'emp. rom. 1-111 (1907 sgg.); Boia SIER, La religion romaine d'Auguste aux Antonins i-li (1884 7) In genere, il nuovò atteggiarsi della sensibilità religiosa dell'impero romano nel ii e III secolo (naturalmente, la letteratura che qui diamo vale anche per il III secolo), è stato il « problema della vita » di F. CUMONT: si può dire che una rievocazione e bibliografia di questo studioso sia anche una grandissima parte della problematica relativa alla trasformazione religiosa intervenuta nel corso dei primi tre secoli dell'impero (naturalmente, non bisogna dimenticare gli altri studiosi dei misteri: REITZENSTEIN, DE JONG, EISLER). L'opera principale del CUMONT è Les religions orientales dans le paganisme romain (1 929 anche trad. it.). Un tipico aspetto della nuova sensibilità religiosa è il simbolismo: CUMONT, Recherches sur le symbolisme funéraire des Romains (1942): dove giustamente si insiste sul
presupposto del simbolismo nei motivi funerarii di contenuto
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« mitico » (anche se non sempre figurazioni mitiche si possono costringere nel letto di Procuste di una interpretazione simbolistica: cfr. da ultimo NOCK, «Amer. Journ. Arch. », 1946, p. 140), e acutamente se ne cerca la determinazione attraverso i testi neo-pitagorici. (Un aspetto metodicamente interessante della problematica connessa al simbolismo funerario è presentato ultimamente dalla polemica tra LAMBRECHTS e BEN0IT, • L'ant. class. ». 1951, p. 107; 1952, p. 84, a proposito delle • Gigantensiiulen »; LAMBRECHTS è certamente nel vero, quando nega eroizzazione dei defunti in questo tipo di monumenti; BENOIT, viceversa, considerava l'anguipede delle « Sàulen » come animale psicagogo; cfr. il suo interessante libro Les mythes de l'autre-tombe. Le cavalier anguipède et l'écuyère Epona, 1950.) Cfr. anche, del medesimo CuM0NT, Lux perpetua (1949);
nello stesso senso, SESTON, « Homm. Bidez-Cumont », 1949 ) p. 313. (Su Ercole funerario, BAYET, « Méi. &. Franq. Rome », 1921/22, p. 219; 1923, p. 19; sulla Venus funeraria, PICARD, « Mél. Èc. Frani. Rome », 1939, p. 121.) Fondamentale HATT, La tombe gallo-romaine (1951). RICHMOND, Archeol. a. Christian Li/e in Pagan a. Christian Imag. (1950). Un esempio caratteristi-
co della problematica connessa al sincretismo è il rilievo di Modena su cui NILssoN, « Symb. Osi. », 1945, p. 1. Un tipico caso di testo sincretistico (vixit in pace in epigrafe pagana d'accenti virgiliani) è, per es., fra quelli d'interesse recente, l'epigrafe « Comptes Rendus Acad. Inscr. », 1946, p. 460. Tipici casi di sincretismo in CAMPBELL BONNER, Studies in Magica! Amulets Chiefly Graeco-Egyptian (1950). HOPFNER, Griech-àgypt. O//enbarungszauber i-ii (1921; 1924); testi in PREISENDANZ, Papyri Graecae magicae i-ii (1928-31). - KUN, Predshestvenniki christianstva (1922).
Sulle religioni misteriche di epoca ellenistico-romana: Die helien. Mysterienreligionen nach ihren Grundi. u. Wirkun,gen (1927 3); queste indagini erano alquanto REITZENSTEIN,
viziate da una eccessiva tendenza iranistica; il REITZENSTEIN credeva di trovare la spiegazione delle origini del cristianesimo in un « mistero iranico della salvazione » (Das iranische Erlòsungsmysterium [19211), credeva di interpretare la favola apuleiana di Amore e Psiche con un richiamo, certamente errato, a motivi iranici (Gottin Psyche [19171); anche il suo
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richiamo al mandaismo (in fra, App. li) è molto discutibile. Culto eleusino: da ultimo PICARD, « Ant. class. », 1951, p. 351 (importante per l'esegesi della patera di Aquileia). - Ermetismo: FESTUGIÈRE, La révéiation d'Hermes Trismégiste I2 II (1950; 1949); si veda la recente edizione dèl Corpus Hermeticum. - Sul Giove di Doliche: DEMIRCTOGLU, Der Gott auf dem Stier (1939); KAN, juppiter Dolichenus (1943); MERLAT, Répert. des inscr. et mon. figures du culte de J.D. i (1951): come
il culto mitriaco, anche questo si diffonde per le vie militari del limes. - Su Serapide, per es. HÒFLER, D. Serapishymnos d. Arist. (1935): HOMBERT, « Ant. class. », 1945 9 p. 319; ROWE, Discovery of the Famous Tempie and Enci. of Sera pis at Aiexandria (1946); per Iside e il romanzo di Apuleio, per es. KERENYI, D. griech.-orient. Romanliteratur (1927). WITTMANN, Das Isisbuch d. Apuleius von Madaura (1938); A. MAZZARINO, La Milesia e Apuleio (1950) (per l'Iseo Campense GATTI, « Rend. Pont. Acc. », 1942-43). - Cibele: GRAILLOT, Le culte de Cybèle (1912); e l'importante opera di CARCOPINO, Aspects myst. de la Rome paienne (1942). HEPDING, Attis. Seme Mythen u. sein Kult (1903). - Adone: BAuDIssIN, Adonis u. Esmun (1912). - Mitra: cfr. CUMONT, Textes et mon. rei. aux Mystères de Mithra i-ii (1896-1899); LATTE, Die Mysterien des Mithra (1923 3); SAXL, Mithras, Typengesch. Unters. (1931); SCHNEIDER, « Arch. f. Religionsw. », 1939, p. 300; THEVENOT, « La Nouv. Clio », 1950, p. 602; VERMASEREN, « Ant. class. », 1951,
p. 343; c'è appena bisogno di dire che nuove scoperte, anche romane, ne rendono più complessa la problematica (un esempio, fra molti, le epigrafi AÉ 1941, 75-78; 1946, 83-84; ultimamente, METZGER, « Amer. Journ. Phil. », 1945, p. 225; VERMASEREN, De Mithrasdienst in Rome [dissert. Utrecht], 1951); pel mitreo di Doura Europos cfr. WATZINGER, RE Supplb. vii, 163. - Importante l'iscrizione di tiaso bacchico del Metrop. Museum di New York: VOGLIANO e CUMONT, « Am. Journ. Arch. », 1933, pp. 215; 232. - TAYLOR, The Cuits of Ostia (1912). - Giove, Mitra, Cibele, Malagbel, Iside ecc. nei culti dacoromani: FLORA, « Eph. dacorom. », 1935, p. 204; cfr. ora, per es., AÉ 1950, n. 178. - Una certa crisi dei culti pagani vedrei nei frequenti casi di sacerdote xwraX0r'v r& 8pixcac del Gnomon Idiu logu SS 74; 75
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76. - Fondamentale CARCOPINO, La basilique pythagoricienne dé la Porte Majeure (1944). - Teurgia e neoplatonismo: EITREM, « Symb. Osi. », 1942, p. 49; DODDS, « journ. Rom. Aspetti sociali dei vecchi culti (Ercole): St. », 1947, p. 55. SHTAERMAN, « Vestnik drevnej istorii », 1949, n. 2, p. 60 (cfr. ora LENTSMAN, ibid., 1953, n. 2, p. 120, 1). Il problema centrale dell'epoca è: conversione o sincretismo (due termini non inconciliabili). La prima dà titolo al bel libro di NOCK, Conversion cit. (1933); il secondo a LATTE, Die Rei. d. Ròmer u. d. Synkretismus d. Kaiserzeit (1927); cfr. anche BARDY, La conv. au christ. cit. (1949). Con questa problematica si connette in genere la difficoltà di valutare i rapporti fra religioni misteriche pagane, u'r/ptov ebraico (in un'iscrizione ebraica di Siracusa, in greco, ap.ov indica il mistero dell'oltretomba e il giudizio divino), e religiosità cristiana sacramentale. Già la speculazione della riforma ha attirato l'attenzione sui rapporti fra cristianesimo e religiosità misterica (Casaubono); il problema si è poi impostato diversamente dopo l'Agiaophamus del LOBECK (1829); ma proprio in epoca protoromantica (anche per le suggestioni di ZOEGA, ad es. in (Jher die den Dienst des Mithras betre/fenden Kunstdenkmàier [1805]; cfr. anche tJber den uran/àngiichen Gott der Orphiker; e Tyche u. Nemesis), la confusa sensibilità alle antiche espe-
rienze misteriche penetrò nell'interpretazione di tutta la storia antica e diede lùogo a quel « simbolismo » del CREUZER (Symbolik u. Mythologie d. alter Vòlker [18111); il nuovo impulso dato alle ricerche di storia del cristianesimo (supra, xiii) rese poi possibile, a distanza di circa un cinquantennio, un'impostazione scientifica del problema « religioni misteriche-cristianesimo ». Come già accennammo, lo svolgimento « iranizzante » che fu dato al problema dal REITZENSTEIN è oggi abbastanza lontano dalle nostre esigenze scientifiche; cfr. già la critica di CLEMEN, Der Ein/iuss der Mysterienreiigionen auf das alteste Christentum (1913); anche se, naturalmente, sarebbe pericoloso dimenticare del tutto alcune esigenze di quelle ricerche, che hanno reso attuali problemi di fondamentale importanza, come ad es. quello della religione mandaica. Ad ogni modo, il REITZENSTEIN resta sempre il maggior esponente della triade di studiosi che hanno fatto dei rapporti fra misteri
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pagani e cristianesimo l'opera della loro vita: gli altri due
sono BOUSSET (Kyrios Christos, 1921 2) e Lois (Les mystères paiens et le mystère chrétien, 1930 2 ). Con le ricerche di questi
due dotti, il problema della religiosità misterica pagana si avvicina a quello dell'« ellenizzazione del cristianesimo »; nel BOUSSET, con maggior riferimento al contenuto dottrinale e all'essenza pneumatica del paolinismo; nel Loisy, con una notevole impostazione del problema su un piano di storia rituale e con atteggiamento eccessivamente critico rispetto all'autenticità del materiale paolino. Cfr. anche LEIPOLDT, Sterbende u. auferstehende G6tter (1923); ANGUS, The Mystery-Religions a. Christianity (1928 3)• Il correttivo ad una radicale immer-
sione dell'esperienza religiosa giudaico-cristiana nelle forme misteriche pagane è rappresentato da PRÙMM, Der christliche Glaube u. die altheidnische Welt i-ii (1935); Religionsgesch. Handb. I. d. Raum d. altchristl. Welt (1943); da ultimo Die Religion des Hellenismus, « Christus u. die Religionen d. Erde » di F. KÒNIG, 11, cit.; RAHNER, GriechischeMythen in christlicher Deutung (1945); la necessità di una prudenza metodica è stata ribadita da KITTEL, Die Religionsgeschichte u. das Urchristentum (1932). Una interessante posizione, che si oserebbe dire « modernistica alla rovescia » ma comunque integralmente cat-
tolica, è oggi quella dei monaci di Laach: per es. CASEL, « Bayr. Biatter fùr d. Gymnasialschr. », 1927, p. 329; dove Pero non è abbastanza rilevata la profonda differenza tra religiosità misterica pagana e cristianesimo; cfr. anche SOHNGEN, Symbol u. Wirklichkeit im Kultmysterium (1937). Cfr. Mo RENZ cit. Su questa problematica si accentrano così la rivista come il « Realiexikon f. Antike u. Christentum » del compianto F. J. DÒLGER e risp. di KLAUSER. Tutta la religiosità misterica tardo-pagana è, comunque il volto decadente di un'esperienza religiosa che ormai non si appaga di se stessa; proprio la possibilità di avvicinarla al mistero cristiano (da qualunque punto di vista si consideri tale avvicinamento) ci dice che siamo in presenza di un paganesimo demonizzato e stanco. La tragedia spirituale di Giuliano l'apostata e dei neoplatonici è tutta qui. Va da sé che, sebbene questa problematica sia inerita in un capitolo relativo al ii secolo, la ricerca sulla religiosità decadente pagana è tutt'uno con la
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ricerca sul basso impero: deve guidarci proprio la formula di BURCKHARDT, la « Dmonisierung des Heidentums »; le opere fondamentali sono BoIssIER, La fin du paganisme (1903 4 ); GEFFCKEN, Der Ausgang d. griech.-r6m. Heidentums (1929); cfr. EITREM, Orakel u. Mysterien am Ausgang der Antike (1947); v. anche infra, App. ii. Naturalmente, trattandosi di un mondo caratterizzato da forti tendenze sincretistiche, ogni formulazione generale di fenomeni religiosi corre il pericolo di non tenere conto delle nuances e differenze particolari, che hanno tuttavia somma importanza: ne è un esempio la comune formulazione generale del « dio cavaliere » micrasiatico, o addirittura del dio cavaliere, contro cui reagisce da ultimo ROBERT, « Hellenica », III, 1946, p. 38 (a proposito del culto di Kakasbos e Sozon). Va comunque rilevato il carattere complesso, tendenzialmente astrattistico, dei culti micrasiatici. Sempre l'ambiente orientale mette in rilievo, sul piano religioso, la tendenza a personificare l'astratto, in altri termini un aspetto numinoso formale, che assume un tono caratteristico nell'epoca tardo-romana: cfr. l'articolo Personifikationen nel Roscher; WEINREICH, « Arch. f. Religionsw. », 1938, p. 307; da ultimo ROBERT, « Hellenica », ix, 1950, p. 55 (a proposito di f3c.tòv Mv xx?.oi Koùoxci.pou in un'epigrafe di Attaleia 4; si badi che Koc16xoctpoc è l'antenato del nostro « Calogero »).
' In Klesippos vedrei l'artista che ha fatto il 3o.t6v: l'iscrizione sarebbe una firma. Si noti che in un'epigrafe confessionale del tempio di Apollo Lairbeno in Frigia (MAMA iv, 282) un hieròs confessa, in cattivo greco, un peccato cultuale di offesa al khorion del dio; intenderei (nonostante BUCKLER, « Class. Rev. », 1933, p. 7, che pensa a conversione ad altra religione) wriaTPECP0V fri&x v r 'A+ro)vou IS(v) F4v (o -rv?) Kcou xcxì Tpr961-1v) t3kxc8o; wt?.. « voltai le spalle » (rpov =
(
« nel vedere la Gé » (o « la statua »?) « (opera) di Klesippos e mi voltai nel vedere la grandezza di Apollo »; insomma il penitente ha commesso peccato per non avere riverito oggetti di culto. Questa interpretazione ha il vantaggio di spiegare in che consista l'offesa al khorion divino, in che consista il sacrilegio; è interessante che in essa ritorni menzione di un artista Klesippos (forse della stessa famiglia che quello ricordato ad Attaleia? o addirittura lo stesso?).
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Parte III.
I Flavii e gli Antonini
XXIV (cfr. § 35): Per la politica partica di Antonino Pio, cfr. letteratura supra, al § 8. L'impresa di Lucio Vero si collega con la diffusione della peste: sul problema clinico, cfr. KAPHAHN, Zwischen Antike u. Jvlittelalter (1947), p. 31. Non è un caso che la più recente indagine epigrafica abbia attirato l'attenzione sulla diffusione dei medici greci in Occidente: ROBERT, « Hellenica », u, 1946, p. 108. Pel problema demografico: LANDRY, « Rev. Hist. », 1936, p. 1; i miei Aspetti soc. del IV secolo, cap. v; fondamentali i lavori (tra cui la trad. della Bevòlkerung di BELOCH) raccolti nella « Bibl. Stor. Econ. » (li CICCOTTI-PARETO, iv, 1909. Demografia gallica sotto Cesare: PARETI, « Ath. », 1944, p. 69. Per la politica demografica di Marco e i certificati di nascita cfr. letteratura data supra, VII; per la storia militare in/ra, xxvi. Le guerre marcomannico-sarmatiche di Marco Aurelio segnano un'epoca nella storia dei rapporti fra Romani e Germani. Per questi rapporti in genere si ricorra sempre alla grande Gesch. d. germ. Stàmme bis zum Ausgang d. Vòlkerw. dello SCHMIDT; cfr. KLOSE, Roms Klientel- u. Randstaaten am Rhein u. an der Donau (1934); SCHENK VON STAUFFENBERG, Dat Imperium u. die Vòlkerw. (s.d., ma 1945; già pubbl. in « Welt als Gesch. », 1935-1936). Sulla colonna di Marco Aurelio, questo primo monumento dell'arte espressionistica tardo-romana, ZWIKKER, Studien z. Markussàule i (1941); HAMBERG, Studies in Roman Imp. Art (1945); per la ricostruzione storica (cfr. il tentativo di VON ROHDE, Die Markomannenkriege M. Aurels [19241) è necessario interpretare (cfr. da ultimo M0RRIS, « Journ. of Warburg Inst. », 1952, p. 33) il monumento in accordo con la tradizione (Cassio Dione; la Vita Marci) e con il materiale numismatico (DODD, « Num. Chron. », 1913, p. 162); quest'ultimo è decisivo per la cronologia. (Nuova discussione sui problemi delle guerre di Marco è ora in CARRATA THOMES, Per la critica di Marco Aurelio [1955].) Interessante Vertuno (Neptuno?) nell'epigrafe arvalica di cui PIGANIOL, « Mél. Picard », ii, 1949, p. 822: l'umanesimo di questo periodo si volge anche alle antichità sacrali italiche, tutti ricordano il Silvano-Antinoo del Museo delle Terme.
Bibliografia e problemi
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XXV (cfr. §S 36 e 40 e anche la letteratura relativa a Parte L'opera a cui bisogna sempre rifarsi è quinta, 55103-107) la grande Storia econ. e soc. del ROSTOVZEV. Si aggiungano: F« Econ. Survey of Anc. Rome », i-v, cit.; SALvI0LI, Il capitalismo antico (trad. it., 1929; con la tendenza, derivata dal Rodbertus, a negare esperienze capitalistiche nel mondo antico, e anche nel romano; cfr., per i presupposti di questa dottrina, i miei Aspetti sociali, 1951, pp. 212-214); HEITLAND, Agricola (1921); GREN, op. cit.; gli eccellenti studi del DE ROBERTIS, La organizzazione e la tecnica produttiva. Le forze di lavoro e i salari nel mondo romano (1946); La prcw/uzione agricola in Italia dalla crisi del III secolo all'età dei Carolingi (1948; utile anche pei primi due secoli); MICKWITZ, Geld u. Wirtschaft cit., (1932); HEICHELHEIM, « Econ. Hist. », iii, 1934-1937, e nella Wirtscha/tsg. d. Alt. i-ii (1933). Un recente tentativo di storia economico-culturale dell'impero è KAHRSTEDT, Kulturg.
cit. Cfr. anche le opere di storia economica generale: per es. FANFANI, Storia economica (1943); 'KNIGHT, Histoire économ. de l'Europe iusqu'á la fin du moyen áge (1930); LEMOS SE, « Histoire du commerce », ii (1950), di LACOUR-GAYET (ivi
altra letteratura).
TOUTAIN, L'économie antique (1927). LOANE, Industry a. Commerce o/the City o! Rome (1938). Due eccellenti capitoli sono quelli di OERTEL nella « Cambr. Anc. Hist. »
x e xii. Per la storia monetaria, sempre fondamentale il vecchio Ròmisches Miinzwesen del MOMMSEN, cit. Cfr. altresì MATRoman Coins from the Earliest Times to the Fall o/the Roman Empire (1927); WEST, Gold and Silver Coin Standards in the Roman Empire (1941); WEST-JOHNSON, Currency in Roman a. Byzantine Egypt (1944); cfr. anche XX; LI; I.V. - Per le miniere: DAVIES, Roman Mines in Europe (1935); FORBES, Metallurgy in Antiquity (1950). Per l'attività commerciale: CHARLESWORTH, Trade Routes a. Comm. o/the Roman Emp. (1924); WARMINGTON, The Comm. between the Roman Empire a. India (1928); cfr. per es. vetri di origine forse alessandrina (SEYRIG, « Syria », 1941, p. 261) in Afghanistan; ecc.; e letteratura supra, VI. - Tutta l'interpretazione TINGLY,
della politica commerciale romana merita ancora un approfondimento: per es., resta ancora oscura, in alcuni punti, la tariffa di Palmira OGIS, 629 (da ultimo SEYRIG. « Siria »,
Parte III.
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I Flavii e gli Antonini
1941, p. 155; PIGANI0L, « Rev. hist. », 1945, p. 10; cfr. discussione supra, XII). I rapporti commerciali col mondo della libera Germania erano anche rapporti culturali (se pur entro limiti ben definiti): da ultimo ROSENFELD, « Rhein. Mus. », 1952, p.
193
(spec. p. 207). EGGERS, Der r6mische Import (1951). Monete romane nella libera Ger-
im freien Germanien mania:
BOLIN,
Fynden av romerska mynt i det fria Germ.
(1920) 5 . - Porti del Mediterraneo orientale:
POIDEBARD-
LAUFFRAY-MOUTERDE, Sidon. Aménagements antiques du port de 5., prec. da Aperu hist. sur les ports anc. de la Méd. or. (pref. 'ABD-EL-'AL) (1951). - LEFEBVRE DE NOÈTTES, L'attelage: le cheval de selle à travers les aAges (1931); De la marine antique à la marine moderne (1935). KÒSTER, art. Seewesen nella RE. - Aerarium e fiscus: GARZETTI, « Ath. », 1953; supra, xvi, a proposito del bilancio di Vespasiano. Per la politica adrianea di remissione di tasse cfr. anche OGIS, 837; tipiper i yeo)pyoL della ca dell'impero umanistico la pvpo valle del Nilo (POslo 78), dello stesso Adriano. - Per i
catasti, fondamentale l'editto del prefetto d'Egitto Mettio Rufo (POxy 237). Cfr. DÉLÉAGE in « tudes de papyroiogie », 1934. Katagr.: SCHÒNBAUER, « Atti iv Congr. Papirol. », 1936, p. 435. - Couwrois, LESCHI, PERRAT, SAUMAGNE, Tabi. Alb. cit. - Una esauriente monografia sul portorium in DE LAET, Portorium (1949); in genere, sulle tasse indirette, resta utile la trattazione- di CAGNAT, riprodotta nel voi. v della « Bibl. St. Econ. » di PARETO e CIccoTTI. Sull'ordinamento tributario in genere cfr. l'interpretazione da me svolta in questo libro Parte quarta. - Sul cursus publicus: PFLAUM, Essai sur le cursus publicus sous le Haut-Emp. (1940). - Per le tavole alimentari: MOMMSEN, Ges. Schr. V, p. 123; DE PACHTÈRE, La table hypoth. de Velleia (1920). - Aspetti negativi della vita sociale e brigantaggio (manifesti nel iii secolo): DMITREV, « Vestnik drevnej istorii », 1951, p. 61; cfr. 1940, n. 3-4, p. 101. Per i munera cfr. in genere OERTEL, Die Liturgie (1917); Per l'Europa orientale, ultimam.
MAEVSKI,
Importy rzymskie
na ziemiach slouviaiskich (1949; con l'importante rec. di
xvic nel « Vestnik drevnej ist. », 1951, n. « Archeologija », in, 1950, p. 93.
GAJDU2, p. 187); BRAICEVSKIJ,
Bibliografia e problemi
417
intorno a questo problema si muovono la Stiidterverwaltung in ròm. Kaiserzeit del LIEBENAM (1900) e la Storia econ. e soc. del ROSTOVZEV (cfr. già la Gesch. d. Staatspacht, « Philol. », Erg. ix, 1902). Sulle municipalità in genere, REID, The Muni cipalities o/the Roman Empire (1913); ABBOTT- JOHNSON, The Munic. Admin. in the Roman Emp. (1926); JONES, The Greek City (1940). HEITLAND, Last Words on Roman Municipalities (1928; dello stesso autore, e nello stesso senso, The Roman Fate [1922]; Iterum [1925]); e i capitoli del DEGRASSI e del ROMANELLI nella « Guida allo studio della civiltà romana antica », i, 1952. Cfr. da ultimo LUCAS, « Jouin. Rom. St. », 1940, p. 56; CAssARIN0, « Ann. Sem. Giur. Cat. », 1947/8, p.
338.
Le osservazioni svolte nel testo a proposito dell'economia schiavistica valgono a limitare alquanto le conclusioni dello studio di CIccoTTI, Il tramonto della schiavitù (1940'); in senso « ciccottiano », ora, TUDOR, negli « Studii si cercetàri de istoria veche » di Tassi, 1950, p. 205. Un punto da rilevare (e di cui in genere non si parla) è la circostanza che l'accomunamento degli schiavi e non-cittadini nella capitazione attenuava notevolmente l'inferiorità degli schiavi. Sempre da con sultare il vecchio WALLON, Histoire de l'esclavage dans l'antiquité, 11-111 2 (1879); ALLARD, Gli schiavi cristiani (trad. it., 1916); BUCKLAND, The Roman Law of Slavery (1908); Co SENTINI, Studi sui liberti i-ii (1948 sgg.); ultimamente LAPIcKI, « Studi Arangio Ruiz », i, 1953, p. 245. WESTERMANN, RE, Supplb. vi, 994. GORDON, « Journ. Rom. St. », 1924, p. 102. BARROW, Si. in the R.E. (1928). Gli Esseni (su cui in/ra, App. I') avversavano la schiavitù; per altra problematica dottrinale, ultimamente LEIPOLDT, Der soz. Ged. in d. christl. Kirche (1952). Sulla composizione del senato cfr. letteratura in/ra, xxvii;
e App. i. In genere DE ROBERTIS, « St. doc. hist. iuris », 1942, 255. - Apparitori: JONES, « Journ. Rom. St. », 1949, p. 38. Per il problema della cittadinanza romana cfr. letteratura in/ra, XXVI; xxxi; in genere HAMPL, « Rhein. Mus. », 1952, p. 52; VITTINGHOFF, « Zeitschr. Sav. $t. » R. A., 1951, p. 437. Fondamentali le leggi domizianee dei municipii di Salpensa (ILS, 6088) e di Malaca (ILS, 6089).
p.
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Parte III.
I Flavii e gli Antonini
Per la storia amministrativa in genere, restano fondamentali (1881 2 sgg.); i primi due in terza edizione); cfr. CARDINALI, Amministrazione territoriale e finanziaria nell'« Augustus, Studi in occasione del bimillenario augusteo » dei Lincei (1938); e i già citati capitoli del DEGRASSI e del ROMANELLI nella « Guida ». Naturalmente, vanno consultate le storie del diritto romano (DE FRANCISCI, J0*'RSKUNKEL, ARANGIO Ruiz ecc.). Applicazione delle costituzioni imperiali: LUZZATTO, « Scritti di diritto romano in onore di C. Ferrini pubblicati dalla Regia Università di Pavia » (1943), p. 265; cfr. in/ra, XLIX. - Province senatorie: da ultimo GROAG, « Serta Hoffilleriana », p. 217. Il grande merito di avere attirato l'attenzione sulle cariche equestri è di HIRSCHFELD, Die Kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diokletian (19052), e in vari saggi delle Kleine Schriften (1913); da Hirschfeld parte tutta l'indagine posteriore: DOMASZEWSKI, Die Rangordnung d. rmischen Heeres (1908); STEIN, Der r6mische Ritterstand (1927; e le indagini prosopografiche di questo studioso, citate in/ra, nella letteratura relativa a Parte quinta, 5§ 103-107); SHERWIN-WHITE, « Papers of British School at Rome », 1939; HOROVITZ, « Rev. phil. », 1939, pp. 47; 218; ZWICKY, Zur M.ARQUARDT, Ròmische Staatsverwaltung, 1-111 MOMMSEN, Ròm. Staatsrecht, 1-111 (1887-1888;
Verwendung des Militirs in der Verwaltung d. ròmischen Kaiserzeit (1944); PFLAUM, Les procurateurs équestres dans le Haut-Empire Romain (1950); cfr. LACEY, The Eq. 0/ ficials of Traian a. Hadrian (1917). Sul praefectus orae maritimae, da
ultimo BARBIERI, « Riv. fu. class. », 1946, p. 166. In genere, cfr. ora Ernst MEYER, Rm. Staat u. Staatsgedank (1948; ed in « Eumusia Howald », 1948). XXVI (cfr. 55 36-41) Opere complessive sull'esercito romano: MARQUARDT, R6m. Staatsverw. (ed. DOMASZEWSKI, 1884 2); KROMAYER-VEITH-NISCHER, Heerwesen u. Kriegfuhr ung d. Gr. u. Rmer (1928); DELBRUECK, Geschichte der Kriegskunst, i-ii (1920-21 3), eccellente. Lo studio della coscri-
zione romana è una fondazione del
MOMMSEN:
cfr. special-
mente Ges. Schr. vi, 20 (e già HARSTER, Die Nationen d. Rmerr. in den Heeren d. Kz. [18731). La critica del SEECK,
cui accenniamo nel testo, è in « Hermes » 1893, p. 602; cfr.
Bibliografia e problemi
419
in senso mommseniano, CUNTZ, « jahresb. bsterr. Inst. », 1929, p. 70 6• Carriera: DOMASZEWSKI, « Bonn. Jahrbb. », 1908, p. 1; WEGELEBEN,
Rangordn. d. rm. Centurionen (1913); Lo
« Mél. arch. hist. », 1938, p. 131. Legioni: FILow, « Klio », Beih. 6, 1906; PARKER, The Roman Le,gions (1928); RITTERLING (fino a Diocleziano) e KUBITSCHEK, RE, SV.; SYME, « Journ. Rom. St. », 1933 2 p. 5; PASSERINI, « Diz. epigr. »; DE RuxuERo, Legio. - Alari e coortali: CHEESMAN, The Aux. PUSZANSKI,
o/the Rom. Imp. Army (1914); WAGNER, Die Disiokation d. rtim. Auxiliarf. in d. Prov. Noricum Pannonia Moesien Dacien von Augustus bis Gailienus (1938); gli articoli Ala e Cohors della RE (CIcHoRIus); KRAFT, Zur Rekrutierung der Alen u. Coh. an Rhein u. Donau (1951). VITTINGHOFF, « Historia », 1950, p. 389 ha giustamente osservato che il termine numerus non indica barbarizzazione; ciò è confermato dall'evoluzione posteriore. Si pensi al fatto che l'esercito regolare, ancora con Costantino, si distingue soltanto in legionarii e auxilia; numeri è designazione di soldati romani; e anzi nel basso impero può indicare addirittura tanto i legionari quanto gli auxilia, come mostra un semplice sguardo per es. a Not. dign. Occ. vii, e il significato di &pt9.tof in epoca bizantina (per legiones e auxilia nel basso impero cfr. in/ra, § 90). - Pretoriani: DURRY, Les coh. prét. (1938); PASSERINI, Le coorti pretorie (1939). Cfr. BICKEL, « Rhein. Mus. », 1952, p. 102. - Vigili: REYNOLDS, The Vigiles o/ Imp. Rome (1926). - Flotta: da Ultimo STARR, The Roman imp. Navy 31 B.C.-A.D. 324 (1941); WICKERT, « Wùrzb. Jahrbb. », 1940/50, p. 100; FITZARDINGE, « journ. ,Rom. Studies », 1951, p. 18. - Soldo: DOMASZEWSKI, « Neue Heid. Jahrbb. », 1900, p. 218; PASSERINI, « Ath. », 1946, p. 145. Diplomi: l'edizione di NESSELHAUF in C xvi, e ora Suppi. Cfr. soprattutto SESTON, « Rev. phil. », 1933, p. 375. DEGRASSI, « Aeg. », 1929, p. 242; «Riv. fil. class. », 1934, p. 194; « Epigr. », 1942, p. 154. Si discute sulle ragioni per cui i legionani non ricevono diplomi. Pagine fondamentali su questo punto in PASSERINI, Le coorti pretorie cit., il quale spiegava pen6 Ora, FORNI, Il reclutamento delle legioni da Augusto a Diocleziano (1953), con esauriente documentazione epigrafica e ricca
letteratura.
Parte III.
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I Flavii e gli Antonini
sando che i legionarii erano ancora reclutati secondo un principio di leva obbligatoria. In realtà il problema ha una grande importanza per la comprensione degli istituti militari romani (come anche delle caratteristiche della civitas: SHERWIN WHITE, The Rom. Citizenship cit.; CASTELLO, L'acquisto della cittadin. e i suoi ri/i. famil. nel dir. rom., [1951]; VOLTERRA, « St. Redenti », II, p. 415; altra discussione in/ra, xxxi). Il punto di partenza è assolutamente certo: i legionarii non ricevono, normalmente, diplomi di bronzo: questa conclusione è evidente dal materiale; essa è stata definitivamente raggiunta dal DEGRASSI e poi confermata negli eccellenti studi del SESTON, del NESSELHAUF (locc. citt.) ecc. (cfr. già, per es., CARCOPINO, « Rev. ét. anc. », 1921, p. 73; 1922, p. 216). Ma si può discutere sul termine o'erpvol y tùpic yxXxv nell'epikrisis (« esame » censuale) del 148 trascritta nel testo papiraceo WILCKEN, Chrestom. i, 2, 459 (= C xvi, app. 5). Questi oc'rp#oì z w p'tg xocXx &; «, veterani senza bronzi (= senza diplomi di bronzo) » sono i legionarii congedati in genere? Che si tratti anche di alcuni casi speciali di legionarii congedati, è possibile, ma che si tratti in genere di tutti i legionarii congedati, va escluso. Di fatti, questi o'rrpvol xcùpk xcxxv sono v3v [xcxì ocrot fr.ì] -ia. 6v-rcc Avo T~q 'P.OJ.XkOV rro cx (cfr. gli 5" TEZOL ocpv' di WILCKEN i, 2, 458 = C xvi, app. 4); anche se non si legga vi3v (si è pensato a 7rv-ts), il termine &rtTu X6vTc -r. T. 7r. (= civitate donati) non può adattarsi ai veterani delle legioni in genere. Del resto, perché il papiro dovrebbe dire « veterani senza bronzi » anziché precisare che si tratta di « veterani delle legioni » (come precedentemente ha precisato per i « veterani delle ale e delle coorti » donati di cittadinanza con o senza figli)? In realtà, i normali veterani delle legioni si presentano alla epikrisis come '1.aixrn « Romani », tout court; essi non avevano bisogno, normalmente, di presentarsi nella categoria speciale dei veterani, con o senza bronzi. Di regola, il legionario è un cittadino romano, sempre (un cittadino romano, il quale, anche se fosse alieni iuris in Per es., tale doveva essere il caso di M. Longinio Valente, di cui in/ra. '
Bibliogra f ia e problemi
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da Augusto in quanto filius familias, ha facoltà di testare poi sul suo peculium castrense; facoltà che, da Adriano in poi, egli continua a godere da veterano; sul peculium castrense cfr. la vecchia monografia di FITTING, 1871; ultimamente LA ROSA, I peculii speciali in dir. rom. [1953]). Quando questo cittadino romano viene congedato, egli si presenterà alla eventuale epikrisis nella categoria dei `Po.ta:o ; non in quelle dei « veterani » con speciali concessioni (le categorie di persone che si presentano alle epikriseis egiziane sono cinque: veterani, Romani, liberti, schiavi, « altri »: cfr. per es. WILCKEN 1, 2, 458-460). Sicché, a nostro giudizio, i « veterani senza bronzi » del citato papiro sono semplicemente « quei veterani che non provengono da corpi a cui furono concessi civitas e connubium, e c1ie tuttavia sono riusciti a ottenere viritim, personalmente, la cittadinanza, ma per sé soltanto ». (Ripetiamo: in nessun caso, dei normali veterani ex legionibus avrebbero « ottenuto », e « per sé soli », la cittadinanza: essi già l'avevano, per sé e per tutta la loro famiglia.) Sarà utile addurre alcuni concreti esempi del rapporto fra cittadinanza e servizio militare. All'epoca in cui fu redatto il § 55 del Gnomon Idiu Logu, un egizio il quale si arf ruolasse in una classis diversa dalla Misenese restava necesj sariamente compreso fra gli Egizii, in quanto, in quell'epoca (diversamente che, per es., in epoca f lavia : C xvi, 24; 32), soldati come i classici qui militant in Aegypto normalmente non ricevevano diplomi. Orbene, un tale egizio doveva consi:' derarsi « veterano senza bronzi », e tuttavia, per una speciale concessione imperiale (per esempio, attraverso il passaggio in una legione), poteva, in casi speciali, riuscire a & vru ctvv della civitas a titolo personale; egli avrebbe potuto presentarsi, in tal caso, come uno dei oúc•rpavrìi xwpìq xaXxwv & tvruhv-rcS tiovoL T `Pcò j.aíwv oX! rri xS. Ma normalmente, il veterano Gnomon, § 55. egizio senza diplomi resta egizio: Nello p g 8 studiare i diplomi, noi dobbiamo tener presente che i diplomi sono editti speciali, emanati per alcuni corpi e non, per es., per « tutti » i classiarii; in questo senso, il citato § 55 dello Gnomon è di grande importanza. In tutta questa materia, bisogna dunque partire da due premesse metodiche: la prima, che ogni peregrino, aspirava alla cittadinanza romana, -e faceva
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Parte III.
I Flavii e gli Antonini
di tutto per conseguirla anche attraverso il servizio militare; la seconda, che non bisogna sovrapporre nostre schematizzazioni astratte alla realtà, assai più complessa. Per es., come già accennammo, noi moderni discutiamo sul « perché » della mancata concessione di bronzi ai legionarii; ma viceversa, dovremmo stupirci se i bronzi fossero stati concessi ai legionarii. Si faccia il confronto con il moderno esercito francese: dovremmo stupirci se lo stato francese concedesse speciali diplomi al normale poilu, che è già in partenza cittadino francese; mentre invece è del tutto naturale che lo stato francese possa dare speciali concessioni di cittadinanza al veterano della legione straniera. Così anche nell'esercito romano. Il legionario normale (e così pure l'ausiliario dopo Commodo) è già in partenza un cittadino romano; che ragione c'era di dargli un diploma con civitas? Il legionario normale, tenuto a disciplina più rigida che l'ausiliario o il classiario, è anche tenuto a rispettare formalmente la proibizione di coniugium per i soldati (fino a Settimio Severo); a maggior ragione (anche dopo Settimio Severo), egli non può unirsi a peregrine (il caso dei pretonani è diverso: supra, nel testo); che ragione c'era di dargli un diploma con connubium? Non bisogna dimenticare che, in compenso della rigida disciplina, il legionario riceve un soldo alquanto più elevato che l'ausiliario o il classico (nella proporzione 120 : 100), ha una ferma di molto minore, ha - soprattutto - l'aquila (cfr. Suet., Galba 12; e in/ra, App. I') (si ricordi il leitmotiv dell'opera di Vegezio, in piena epoca teodosiana: in/ra, § 102; Lxvii). Può darsi il caso che un peregrino o sinanco uno schiavo riesca a entrare nelle legioni, dichiaran dos i cittadino romano (allo stesso modo in cui si danno casi di peregrini che sposano una Romana gabellandosi per cittadini romani: Gnomon Idiu Logu, § 47); supponiamo che egli riesca a farla franca (il che non sempre è facile: per lo schiavo, sono possibili rigori come quelli a cui accennammo supra, nel testo; per il peregrino, cfr. « Chron. d'Eg. », 1949 ) p. 296); in tal caso - quand'anche, cioè, egli sia riuscito a czcv farsi passare per cittadino romano mentre non lo è Gnomon Idiu Logu, § 55) - il congedo lo restituirà, normalmente, alla condizione di peregrino o di schiavo, ed egli pagherà il fio della sua falsificazione (a meno che non inter-
Bibliografia e problemi
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venga una donazione di cittadinanza per « veterani senza bronzi »). (Si badi che il peregrino arruolato in un corpo militare riceve sempre, in epoca avanzata, nomenclatura romana: HIRSCHFELD, Ki. Schr., 95, 2.) Od anche: può darsi che dei non-romani, per es. già arruotati fra i classici, riescano ad entrare nelle legioni, ex indulgentia (PSI, 1026) dell'imperatore 8; in tal caso, essi hanno un trattamento speciale; nel 69-70, in quanto arruolati in legioni (le due adiutrici, i e Ii) costituite con questo criterio, finiscono con l'ottenere normali bronzi come gli ausiliari (C xvi, 7-11); in epoca di Domiziano, ricevono cittadinanV e immunità estensibili (ILS, 9059: ipsi coniu,ges liberique eorum parentes qui conubia [eo]rum sument, omni optumo iure c. R. esse possint ecc.; si tratta
di veterani d'origine peregrina arruolati nella legione x Fretense in occasione della guerra giudaica; per la caratteristica di Domiziano optumus princeps in materia militare, cfr. quanto osservammo supra, Xviii; e altresì la nuova epigrafe BRUSIN, « Not. sc. », 1951, 1); in epoca di Antonino Pio, alcuni di essi ricevono, dalla hurnanitas del magistrato, una dichiarazione (subscriptio) e in seguito un instrumentum, dai quali appaia la loro qualità di veterani ex legionibus (PSI, 1026, dell'anno 150: sportulam et instrumentum dabo p[roxirn?]e 9; si tratta di veterani d'origine peregrina passati dalla classis Misenensis alla legione x Fretense verso il 129, in previsione della grande rivolta giudaica che scoppiò pochi anni dopo; molti dei gojim - « Rev. Bibi. », 1953, p. 269 - contro cui combattevano le forze di Bar Kosebah saranno stati arruolati da Adriano fra questi peregrini orientali, più adatti alla guerra partigiana). Un caso di peregrino arruolato nelle legioni, e pertanto divenuto cittadino romano, è quello di M. Longinio Valente, attestato da P. Bad. 72, dell'epoca di Adriano: dovremo considerare questo caso alla stregua di quelli, or ora citati, di PSI, 8 J veterani di PSI, 1026 furono arruolati tra i classici nel 125 e 126; passarono alla legione nel 129 circa, militando in essa 20 anni e alcuni mesi o giorni (così va inteso annos su per XX). Si noti che, mentre i peregrini delle due legioni adiutrici hanno ricevuto i tria nomina dopo la concessione dei bronzi, viceversa i veterani di ILS, 9059 (Domiziano) e PSI, 1026 (Antonino Pio) sembrano aver ricevuto i tria nomina all'atto dell'arruolamento nella legione.
Parte III.
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I Flavii e gli Antonini
1026. Orbene: in P. Bad., 72 i figli di questo legionario M. Longinio Valente, essendo egizii, insistono sul fatto, che il loro padre era originariamente egizio, allo scopo di riceverne l'eredità: infatti i peregrini potevano ereditare da un ex legionario, sempre che fossero 6i.69uXot (Gnomon Idiu Logu § 34; cfr. Gai. ii, 110), vale a dire della sua stessa origo: dunque, per es., eredi peregrini egizii per il legionario-cittadino romano di origo egizia. (Su questo testo si hanno importanti trattazioni moderne 10; ma le discussioni sono spesso viziate dal presupposto che i figli, essendo egizii, non potessero ereditare da un legionario cittadino romano; è vero proprio il contrario, trattandosi di i6rp'iXot. I figli di M. Longinio Valente si richiamano alla libera testamenti /actio del legionario.) - La libera testamenti factio per il legionario è, appunto (come mostra il passo Gai. il, 110: cfr. 114), capacità di testare non solo all'infuori della iuris civilis regula, ma anche a favore di peregrini e di Latini (luniani); questa concessione, che fu già ideata da Tito 11 , e che troviamo presupposta in P. Bad., 72 (dove sembra ricondotta a una deliberazione domizianea del 91), è la più tipica dimostrazione della provincializzazione delle legioni (anche se, come vedemmo a suo luogo, molti legionarii sono discendenti da italiani, e la lingua delle legiohi è - soprattutto in regioni illiriciane - la « lingua degli Italiani »). Sul testamentum militis cfr. da ultimo HERNANDEZGIL, EI testam. militar (1946); e soprattutto ARANGIO Ruiz, 10 Da ultimo M. SEGRE, « Riv. It. Sc. Giur. », 1949, p. 482 (cfr. ora FORNI, Op. cit., p. 103). Tito riprendeva una tendenza, che non aveva avuto seguito (era stata solo temporalis), caratteristica di Cesare: anche in questo, egli si mostrava un autentico rivoluzionario. Si osservi che il P. Bad., 72 mostra come, dal punto di vista degli interessati, il peregrino-legionario era considerato cittadino romano a preferenza dei diplomati: questi infatti - ausiliarii o classici - ricevono diploma solo col congedo, i legionarii sono cittadini romani in forza del loro servizio legionario (così intendo 11. 30-31). Naturalmente, anche i problemi della storia militare romana vanno studiati in connessione col rapporto tra ius gentium e nozione giuridica del connubium (su cui VOLTERRA, « Studi Albertario », n, p. 347). - Cfr. anche quanto abbiamo già osservato, sulla ostilità degli Ebrei al servizio militare negli auxilia 0 39); e inoltre le discussioni in/ra, 55 47-50; xxxi; ecc. li AA
Bibliografia e problemi
425
« Buil. Ist. Dir. Rom. », 1906; GUARINO, « Rend. Ist. Lomb. », 1938-39, p. 355; altra letteratura in LA RosA, O. cit.; Ricco BONO jr., Il Gn. dell'Idios Logos (1950), p. 163. - Non si
può dire che il servizio militare fosse normalmente svantaggioso dal punto di vista economico; in tal caso, non si intenderebbero passi come Iuv., Sat. 16, 54 (caccia all'eredità del miles da parte del pater), né le discussioni dei giuristi sul peculium castrense; gli schiavi attestati epigraficamente per i soldati sono i servi castrenses dei testi giuridici, entrati nel peculium castrense attraverso il servizio dei soldati in castris, e dimostrano il grande vantaggio rappresentato dal bottino e dai risparmii del soldato 12 Dopo il servizio, il peculium castrense manteneva, da Adriano in poi, la sua fisionomia; vanno sottolineate le immunità ed eventuali concessioni (tipica, per l'epoca antonina, la concessione di C xvi, 132, per ausiliarii). - Sulla disciplina nel i secolo cfr. la monografia di SULSER (1930). - Centurioni legionarii: BIRLEY, The Origins of Legionary Centurions (nelle Dissertat. Pannon.), (1941). F forse utile insistere, in questo contesto, sull'importanza dell'aquila, caratteristica delle legioni. Anche in questo caso, il problema della « continuità » fra principato e basso impero ci aiuta a intendere molte cose. Prendiamo la Notitia dignitatum, la sui redazione definitiva è del v secolo: ebbene, persino in questa tarda epoca troviamo che l'aquila appare (salvo due eccezioni) solo in insegne di corpi legionarii: Iouiani iuniores, Herculiani iuniores, Quartodecímani, Constantini seniores, Diuitenses Gailicani in Oriente; Iouiani seniores, Herculiani seniores in Occidente; fanno solo eccezione i Sagittarii venatores e i Latini (aux. pal.) nell'Occidente (che in cose militari è
sempre rivoluzionario, nel basso impero). Questa circostanza può aver un certo rilievo, e va studiata particolarmente. Per la storia militare sotto Antonino Pio è importante il testo epigrafico pubblicato in BESHEVLIEV, Epigrafski prinosi (1952), n. 55, p. 33 (ordinamento di praesidia, burgi, pruri lungo il limes, ob tutelam provinciae Thraciae, precisamente per fines civitatis [S]erd[ic]ensium regione Dyptens.; i praesidia stanno
12
Cfr. tuttavia, da ultimo, le interessanti osservazioni di FORNI,
op. cit. (1953), p. 35.
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I Flavii e gli Antonini
ai burgi e ai pruri rispettivamente come 4: 12 e. 4: 109). Esercito romano di Egitto: LESQUIER, L'armée rom. d'Ég. d'Aug. à Diocl. (1918); MARICHAL, L'occupation romaine de la Basse Egypte (1945); di Germania: E. STEIN, Die kaiserl. Beamten u. Truppenk. im ròm. Deutschland unter dem Prinzi pat; di Dalmazia: BETZ, « Abh. arch.-epigr. Seminars Univ. Wien », N.F., H 3, 1939. Per l'epoca da Gallieno in poi,
cfr. letteratura a XLVI. - Religione militare: DOMASZEWSKI, « Westd. Zschr. », 1895; cristianesimo al pretorio (ma per il iii secolo): MERCURELLI, « Riv. Arch. crist. », 1939; si badi che ìificialmente la religione militare è tradizionalista (il culto imperiale va considerato a parte), come mostra il Feriale Duranum (H0EY, « Trans. Amer. Phil. Assoc. », 1939; FINKHOEY-SNYDER, « Yale Class. St. » 1940; sl4pra, § 19). - Problemi tattici: LAMMERT, « Phil. », Suppl. XXIII, 1932, H. 2; RE, s.v. Schlachtordnung; sulle armi: CouIssIN, Les armes romaines (1926). Tra i molti lavori di linguistica, che potrebbero confermare l'interpretazione storica proposta a § 37, si possono citare, per es., WARTBURG, « Zeitschr. f. Roman. Philol. » LVI, p. 1; Les origines des peuples romans (trad. franc., 1941); DEVOTO, Storia della lingua di Roma (1940) cap. 9; cfr. ricerche come per es. HOFMANN, Lat. Umgangssprache (1951 3); in generale, la problematica, anche linguistica, si muove intorno ai concetti di « latino volgare » e « latino dell'uso corrente »; cfr. da ultimo SILVA NETO, Fontes do lat. vulg. (1946); PIGHI, « Convivium », 1951, p. 103; « Actes du ler Congr. Intern. Èt. Class. », 1950; MOHRMANN, ibid.; DIAz Y DIAz, Antologia del Latin Vulg. (1950); ROHLFS, Romanische Philologie i (1950); SCHMECK, « Atene e Roma », 1953, p. 8; va sempre ricordato il classico M. G. BARTOLI, Das Dalmatische (1906); ERNOUT, « Mém. Soc. Ling. », 1905 (Preneste); WIcK, « Atti Acc. Arch. Napoli », 1905 (Pompei); VXXNXNEN, « Ann. Acad. Scient. Fennicae », 1937 (Pompei); PESENTI, « Riv. indo-greco-it. », 1921, f. 34; 1923, f. 3-4 (Lombardia); PIRs0N, La langue des inscr. de la Gaule (1901); MACCARRONE, « Studi romanzi », 1911 (Sicilia); PROSKAUER, Das auslautende S (1910). - Il nostro presupposto, che qui chiamiamo della 'I-c?v pcv, si concilia difficilmente con tendenze come per es. quelle esclusivamente « medievaliste » di H. F. MOLLER
Bibliografia e problemi
427
(cfr. in/ra, Parte quinta). Una sintesi di grande interesse storico in DEVOTO, Profilo di storia linguistica italiana (1953). Sull'Itala cfr. per es. STUMMER, Einfiihrung in die lat. Bibel
(1928); naturalmente, la nostra interpretazione del nome esclude ogni corruzione nel testo del famoso passo di Agostino, MOHRMANN, « Vigiliae Christianae », 1948, pp. 89, 163; 1949, pp. 67, 163; STENZEL, « Vig. Chr. », 1952, p. 20, il quale però crede Itala la trad. di Girolamo, perché Girolamo l'avrebbe cominciata in Italia. Le vecchie Bibliorurn Sacrorum Latinae versiones sono ora nuovamente pubblicate dall'abbazia Beuron: FISCHER, Vetus Latina. Die Cfr. BARDY, La question des
Reste d. altlat. Bibel (i-ii 1949). langues i ( 1948); HIGGINs, « Vig.
Chr. », 1951, p. 1. Per le recenti impostazioni del problema della latinità cristiana, cfr. soprattutto i lavori dello SCHRIJNEN da una parte, di Christine MOHRMANN dall'altra: per es., ultimamente, MOHRMANN, L'étude de la latinité chrétienne. Conférences (195.1).
Per i presupposti teoretici del concetto di monarchia cfr. Stud. z. Entw. u. theor. Begriindung d. Monarchie im Altertum, « Hist. Bibl. » vi, 1898, p. 93; per i suoi presup-
KAERST,
posti ellenistici e il confronto con l'Oriente cfr. ultimamente FESTUGIÈRE,, « Mél. Lebreton » i, 1951 ) p. 31. Sul culto imperiale in genere - pel quale bisogna sempre distinguere tra l'imperatore, e il suo Genius - si veda BEURLIER, Le culte imp. depuis Auguste jusqu'à Dioci. (1921); TAYLOR« Amer. Journ. Arch. », 1926, p. 23; TAYLOR, The Divinity of the Roman Emperor (1931); STUART, « Amer. WEST,
Journ. Arch. », 1939, p. 601, e soprattutto ENSSLIN, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1943, H. 6. Cfr. anche NILssoN, « Harvard. Theol. Rev. », 1943, p. 256; 1945, p. 63; TONDRIAU, « The Rev. of Rel. », 1948 ) p. 35; GIOFFREDI, « St. doc. hist. iuris », 1946, p. 187; PIPPIDI, « St. Mat. St. Rel. », 1947-48, p. 77; e la letteratura data supra, a proposito del culto imperiale di Augusto, e in/ra, a proposito dell'idea monarchica di Aureliano (soprattutto importante STRAUB, Vom Herrscherideal in d. Spàtantike [19391). L'ORANGE, Apoth. in Ancient Portr. (1947). Un'eccellente interpretazione dei presipposti dello « Herrscherkult » nell'articolo di HERZOG-HAUSER, RE, Suppl. iv, 806. Cfr. anche BICKERMANN, « Archiv. f. Religions-
i
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Parte III.
I Flavii e gli Antonini
wiss. », 1929, p. 1. - Col problema del culto imperiale si connette quello dei seviri Augustales (c'è appena bisogno di dire che la storia dei seviri Augustales è anche la storia delle borghesie municipali; cfr. anche GEIGER, De sacerdotibus Au,gustorum municipalibus, diss. 1914; TAYLOR, « Trans. Proc. Amer. Phil. Assoc. », 1914, p. 231; « Journ. Rom. St. », 1924, p. 158; NOCK, « Mél. Bidez » ii, 1934, p. 627) e dei concilia provinciali (GUIRAUD, Les assemblées provinciales dans l'emp. [1887]). - La vecchia questione se 'Api e 'AaL',xq si identifichino è ora decisa in senso affermativo: anche in questo caso, un testo del basso impero (un editto di Valente: SCHULTEN, « Jahresh. d. isterr. Inst. », 1906, p. 61) risolve un problema che interessa pure il principato (una conferma è l'epigrafe « Forsch. in Eph. » III, 63). - La necessità del principatus (il quale non è inconciliabile con la libertas) è considerata, nel u sec., indubbia (così, per es.,
Tacito); cfr. WIRszuBsKI, Libertas as a Political Idea at Rome During the Late Republic a. the Early Principale (1950);
quanto al problema (già augusteo) del « rifiuto dei poteri », cfr. BRANGER, « Mus. Helv. », 1949, p. 178; « Rev. &. lat. », 1939, p. 171. - Il fondamento giuridico del principato è stato studiato da O. Th. SCHULZ, Das Wesen des rm. Kaiser tums der ersten zwei jabrb. (1916), in polemica col concetto mommseniano di diarchia; dello stesso autore, Die Rechtstitel u. Regierun,gsprogr. auf rcim. Kaiserm. (1925). Si ricordi la letteratura citata sul principato augusteo, e NESSELHAUF, « Klio », 1937, p. 306; ALFÒLDI, « Ròm. Mitt. », 1934 (sul cerimoniale) e 1935 (su Insignien u. Tracht). CHARLESWORTH, « Journ. Rom. St. », 1943, p. 1; BRUCK, « Seminar », 1949 ) p. 1; per la problematica « impero ed eternità », e la sua evoluzione nell'epoca severiana, INSTINSKY, « Hermes », 1941, p. 313. Per le virtù, BIEBER, « Am. journ. Arch. », 1945 ) p. 25 (e letter. supra, v). Anche per gli ideali etici e la virtus imperiale ha un significato la caccia: AYMARD, Essai sur les chasses romaines des ori,gines à la fin du siècle des Antonins
(1951). - Il feriale Duranum ha aiutato a porre il problema degli anniversaries anche in senso retrospettivo, per tutto il principato: SNYDER, « Yale Class. St. », 1940, p. 225; e la già citata opera del Giwn' su Anniversary Issues.
Bibliografia e problemi
429
Per l'aspetto ludico della vita urbana di Roma vanno tenute presenti alcune interpretazioni culturali di HuIzINGA, Homo ludens (trad. it., 1946). Non è un caso che l'ultima lotta del paganesimo contro la nuova sensibilità cristiana si volgesse nell'ambito della esperienza ludica: il fondo religioso dell'esperienza ludica stessa è stato messo in rilievo, da ultimo, attraverso l'interpretazione del concetto di lustrum (K. KocH) e la sua connessiòne coi circensi (SzAB0); cfr. le mie osservazioni in « Doxa », 1951, a proposito dell'opera di ALFÒLDI, Die Kontorniaten (1941). Va da sé che la migliore introduzione alla vita romana sono gli studi di topografia romana: cfr. i lavori di PLATNER-ASHBY e LUGLI, cit.; e per es. Das antike Rom di L. CURTIUS (1943). Abbiamo due opere fondamentali sulla vita quotidiana a Roma: CARCOPINO, La vie quotidienne à Rome à l'apogée de l'Empire (1938; trad. it., 1947 2); PAOLI Aspetti di vita romana antica (1941); cfr. POULSEN, Glimpses of Roman Culture (trad. ingi., 1950),
p. 99; Homo, Rome impérial et l'urbanisme dans l'antiquité
(1951). Per il calcolo della popolazione romana, la discussione parte a) dal calcolo dei cittadini favoriti di distribuzioni gratuite di grano; b) dall'indagine sull'area della città e sul numero di edifici d'abitazione che essa poteva contenere; c) dai dati sul consumo di grano che si faceva complessivamente: da ultimo VON GERKAN, « Rom. Mitt. », 1940, p. 149; Lo'r, « Ann. Hist. Soc. », 1945, « Homm. Bloch » li, 23; CALZA e LUGLI, « Bull. Com . », 1941, p. 142; « Rend. Pont. Acc. », 1941-42 ) p. 191; LuGLI, « Riv. del catasto », 1946 3 p. 33. Gli studiosi « ribassisti » intendono insulae (le quali arrivavano a più che 46 000) come « appartamento » o come « vano »; gli altri intendono insula come la casa d'affitto a più appartamenti, sicché, da queste opposte interpretazioni, derivano opposti risultati di calcolo (il « ribassista » Lo'r calcola 220 000264 000 abitanti; LUGLI quasi un milione e mezzo). Gli studiosi « ribassisti » hanno certamente torto; LUGLI è di gran lunga più vicino al vero che LOT. Su questo punto mi sia lecito rinviare ai miei Aspetti sociali del quarto secolo (1951),
p. 217, dove ho proposto un quarto metodo di calcolo, applicabile al basso impero:, il calcolo dei cittadini gratificati di caro porcina; esso porta, pel iv secolo, a circa 300 000 gra-
Parte III.
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I Flavii e gli Antonini
tificati, dunque a qualche milione di abitanti; questo numero di abitanti, e anche più, si dovrà ritenere, a fortiori, pel ii secolo d.C. Per le frumentazioni e congiarii VAN BERCHEM, Les distributions de blé et d'argent à la plebe romaine (1939);
non c'è soluzione di continuità fra principato e basso impero (per il quale ultimo periodo - cfr. in fra, Parte quinta - si veda anche BIG0T, Rome ant. au IVe siècle [1942]; e il vecchio GEBHARDT, Studien 'iiber das Verpflegungswesen von Rom u. Constantinopel in d. spiiteren Kaiserzeit); cfr. CARDINALI, « Diz. ep. »; DE RUGGIERO, art. Frumentatio. I gratificati
dovevano essere normalmente compresi (come mostriamo al § 67, per Alessandria), più o meno, fra i 14 e gli 80 anni. Di grande importanza il cimitero rivelato da LUGLI, « Not. Sc. », 1919, p. 285, e la necropoli dell'Isola Sacra (monografia di CALZA, 1934). - Per i foreign groups a Roma, cfr. LA PIANA, « Harv. Theol. Rev. », 1927. - BOÈTHIUS, « Goteborgs Hogskolas Aarsskrift », 1944; «Acta archaeologica », 1932. Sono classiche le Darstellungen aus der Sitteng. Roms del FRIEDLÀNDER, già citate. - Cfr. anche SHOWERMAN, Rome a. the Rornans (1932).
Un aspetto essenziale della posizione di Roma e dell'Italia, qui illustrata a § 41, è l'apparizione di proconsul, per indicare l'assenza dell'imperatore da Roma e dall'Italia, a cominciare dall'avanzato impero di Traiano, per tutto il li secolo: cfr. MOMMSEN, p. 306.
Staatsrecht
lI,
777; NESSELHAUF, « Klio », 1937,
L'ideologia dell'o ptimus princeps è già notevole in epoca domizianea: ILS, 9059 (su questo testo supra, a proposito dei diplomi militari). La titolatura dei Flavii era stata caratterizzata, come già quella di Claudio, dall'indicazione della censura dell'imperatore: la scomparsa di questa indicazione dalla titolatura è significativa. Corrispondentemente, si forma un nuovo concetto della potestà tribunicia, concetto che trova espressione nel nuovo calcolo di essa (supra, xxi). Per il concetto di adozione supra, XXIII. Rapporti fra cerimoniale magistratuale e cerimoniale imperiale: ALFÒLDI, lo. cit.; ANTI, « Festschrift Egger », I, 1952, p. 189 (spèc. p. 200).
INDICE
VIII
Avvertenza
INTRODUZIONE I
I. Opere generali sulla storia dell'impero
3
Parte prima
SAECULUM AUGUSTUM 35
I. Dopo Cesare II. Dalla « potestas » triumvirale alla « potestas » eccezionale di Ottaviano III. La fine della « potestas » eccezionale e lo stato dell'« auctoritas »
. 49
Bibliografia e problemi
96
72
Parte seconda L'EPOCA GIULIO-CLAUDIA. IL « LUXUS » SENATORIO E LA RIVOLUZIONE BORGHESE 133 154
I. Il principato di Tiberio oi,oku TI. La rivoluzione spirituale: iPiJXuÌ ed III. La rivoluzione borghese e la riduzione del « denarius »
211
Bibliografia e problemi
239
Parte terza I FLAVII E GLI ANTONINI: L'ETTAIA COME IDEALE UMANISTICO
I. I Flavii e gli Antonini Bibliografia e problemi
281 375
I Biblioteca Universale Laterza
ultimi volumi pubblicati 510. 511.
Gentile, E., Il mito dello Stato nuovo Luperini, R., Il dialogo e il conflitto. Per un'ermeneutica materialistica
512. Schmitt, J.-C., Il gesto nel Medioevo 513. Vovelle, M., La mentalità rivoluzionaria. Società e mentalità durante la Rivoluzione francese
514. 515. 516. 517. 518. 519. 520. 521. 522. 523. 524. 525. 526. 527. 528. 529. 530. 531. 532. 533.
Luperini, R., Pirandello Filoramo, G. (a cura di), Ebraismo Mannheim, K., Le strutture del pensiero Hegel, G.W.F., Lezioni di estetica. Corso del 1823. Nella trascrizione di H. G. Hotho Colarizi, S., L'opinione degli italiani sotto il regime. 7929-1943 Schmitt, J.-C., Religione, folklore e società nell'Occidente medievale Capovilla, G., Pascoli Filoramo, G. (a cura di), Cristianesimo Lòwith, K., Storia e fede Ferrone, V., I profeti dell'illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano Zunino, PG., Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime Lanzillo, ML., Voltaire. La politica della tolleranza Bravo, A. - Bruzzone, A.M., In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 Héritier, F., Maschile e femminile. Il pensiero della differenza Terzoli, MA., Foscolo Broszat, M., Da Weimar a Hitler Fichte, j.G., La destinazione dell'uomo Miglio, B., IFisiocratici Rorty, R., La filosofia dopo, la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà Surdich, L., Boccaccio
534. 535.
Bretone, M., Ifondamenti del diritto romano. Le cose e la natura Marcuse, H., Davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 19401948
536. Plessner, H., I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale
537. Filoramo, G. (a cura di), Buddhismo 538. Frege, F.L.G., Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici 539. Oestreich, G., Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali
540. 541. 542. 543. 544. 545. 546. 547.
Alessi, G., Il processo penale. Profilo storico Lord Acton, Storia e libertà Filoramo, G. (a cura di), Hinduismo Savarese, N., Il teatro euroasiano Ernst, G., Tommaso Campanella. Il libro e il corpo della natura Marshafl, T.H., Cittadinanza e classe sociale Cambi, F., L'autobiografia come metodo formativo Spaemann, R., L'origine della sociologia dallo spirito della Restaurazione
548. Hegel, G.W.F., Lezioni sulla filosofia della storia 549. Benevolo, L. - Albrecht, B., Le origini dell'architettura 550. Jellinek, O., La Dichiarazione dei diritti dell'gomo e del cittadino 551. Santoianni, F. - Striano, M., Modelli teorici e metodologici dell'apprendimento
552. Fichte, J.G., Discorsi alla nazione tedesca 553. Strauss, L., La critica della religione in Spinoza 554. Schino, M., La nascita della regia teatrale 555. Galetti, P., Uomini e case nel Medioevo tra Occidente e Oriente 556. Taylor, A.J.P., Bismarck. L'uomo e lo statista 557. Giardina, A., L'Italia romana. Storie di un'identita' incompiuta 558. Peroni, R., L'Italia alle soglie della storia 559. Firpo, M., Artisti gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma
560.
Volpi, E., Il nichilismo
561. Bedeschi, G., Storia del pensiero liberale 562. Fraschetti, A., La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana 563. Pontremoli, A., La danza. Storia, teoria, estetica nel Novecento 564. L6with, K., Jacob Burckhardt. L'uomo nel mezzo della storia 565. Weber, M., Dalla terra alla fabbrica. Scritti sui lavoratori agricoli e lo Stato nazionale (1892-1897)
566. 567. 568. 569. 570. 571.
Tessari, R., Teatro e avanguardie storiche. Traiettorie dell'eresia Setta, 5., L'Uomo qualunque. 1944-1948 Luperini, R., Verga moderno Nietzsche, F., I filosofi preplatonici Guarino, R., Il teatro nella storia. Gli spazi, le culture, la memoria Fraschetti, A., Roma e il principe
572. 573. 574. 575. 576. 577. 578. 579. 580.
de Saussure, F., Scritti inediti di linguistica generale Fisichella, D., Joseph de Maistre pensatore europeo Del Corso, L., La lettura nel mondo ellenistico Ghisalberti, C., Istituzioni e società civile nell'età del Risorgimento Paduano, G., Il teatro antico. Guida alle opere Spaemann, R., Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno» Losurdo, D., Controstoria del liberalismo Connors J., Alleanze e inimicizie. L'urbanistica di Roma barocca Canfora, D., Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica
581. Muntoni, A., Lineamenti di storia dell'architettura contemporanea 582. Alonge, G. - Carluccio, G., Il cinema americano classico 583. Ocone, C. - Urbinati, N. (a cura di), La libertà e isuoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio
584. 585. 586. 587. 588. 589. 590. 591.
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Santo Mazzarino affronta i grandi temi della civiltà occidentale, dal «saeculum augustum» alla fondazione degli Stati romano-barbarici nel V secolo d. C., in una sintesi che salda la storia dell'Impero alla storia della Chiesa cristiana. Economia e storia della cultura si intrecciano in questa organica narrazione del lento sfaldarsi delle istituzioni romane e dei primissimi albori delle strutture feudali.
ISBN 978-88-420-2377-7
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9'7 8 8842 023777
€ 24,00 (LL)
Santo Mazzarino (1916-1987) è stato ordinario di Storia romana j$ìffl25'/ presso la facoltà di Lettere di Roma. Tra le sue opere: Stilicone (1942); Dalla monarchia allo Stato repubblicano (1945); Fra Oriente e Occidente (1947); Aspetti sociali del lVsecolo (1951); La fine del mondo antico (1959); Antico, Tardo-antico edera costantiniana (2 voli., 1974-1980). Per i nostri tipi, in questa stessa collana, Il pensiero storico classico (3 voll.).