Santo Mazzarino
L'impe io
romano 2 4v
OD Editori Laterza
Biblioteca Universale Laterza 109
Santo Mazzarino
L'Imp...
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Santo Mazzarino
L'impe io
romano 2 4v
OD Editori Laterza
Biblioteca Universale Laterza 109
Santo Mazzarino
L'Impero romano volume secondo
o
Editmi Lao=
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-2401-9
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Indice sommario
Parte quarta LA DEMOCRATIZZAZIONE DELLA CULTURA E LA CRISI DELLO STATO ANTICO I. Da Commodo a Severo Alessandro: « Monarchianismo » e Movpcx (180-235) 42. Commodo (180-192), p. 433. - 43. L'anno 193. La lotta di Settimio Severo contro Nigro e Albino,
p. 434. - 44. La provincia di Mesopotamia. Settimio Severo e l'esercito, p. 435. - 45. Settimio Severo e l'inflazione, p. 436. - 46. Aspetti religiosi e spirituali, p. 437. - 47. Caracalla (211-217), p. 438. - 48. La Constitutio Antoniniana (212), p. 439. - 49. Il diritto tributario, p. 439. - 50. Problemi economici, p. 440. 51. L'impresa partica. Macrino (217-218), p. 441. 52. I sofisti e il governo « illuminato », p. 442. - 53. Elagabalo (218-222), le senatrici e i liberti. Elagabalo e il basso impero, p. 445. - 54. La crisi dell'impero di Elagabalo, p. 447. - 55. Severo Alessandro (222-235), p. 448. - 56. Lo stato neopersiano, p. 449. - 57. La crisi dello stato romano sotto Severo Alessandro, p. 450. 58. Le due economie: la statale e l'ecclesiastica. La banca, l'elemosina e il fisco. « L'epoca di Ippolito » e le « persecuzioni » contro i cristiani, p. 451. - 59. Ippolito e il concetto cristiano del tempo. L'Anticristo e le nazionalità contadine dell'impero. Altri aspetti delle persecuzioni anticristiane e della socialità cristiana, p. 470.
433
vi
Indice sommario
11. Da Massimino a Gallieno (235-268): le guerre civili e l'ideale filosofico
491
60. Massimino il Trace (235-238): religione ed economia, p. 491. - 61. Interpretazioni moderne del triennio di Massimino: Altheim e Rostovzev. I dediticii come « barbari » o « semibarbari ». I coloni e il latifondo, p. 495. - 62. La rivoluzione italiana e il governo (238-244) di Gordiano iii. - La barbarizzazione dell'esercito, p. 509. - 63. I due Filippi (244-249; 247-249). Il manicheismo. Il concetto di « decadenza », p. 516. - 64. I Decii (249-251); Gallo e Volusiano (251-253ì, p. 523. - 65. Valeriano e Gallieno (253-260), p. 526. 66. Gallieno e i Cristiani. Il conflitto dei due Dionisii. Gallieno e il neoplatonismo, p. 528. - 67. Il corretto rato « totius Orientis ». La lettera heortastica di Dionisio a Hierace. Il poeta Commodiano e l'opera di Odenato, p. 533. - 68. I tre « torsi » dell'impero. La politica antisenatoria nella riforma monetaria di Gallieno, p. 543. - 69. Augusto e Gallieno. La soppressione delle legazioni di legione e la loro sostituzione con prefetture di legioni. Le riforme di Gallieno, p. 547. - 70. I princìpi della cristianizzazione dei Visigoti, p. 554. - 71. Paolo di Samosata. La sinodo del 268, p. 556.
III. I restitutores illirici e la disperata difesa del vecchio stato (268-312)
559
72. Claudio Gotico, p. 559. - 73. Caratteristica degli imperatori illirici. L'ideale monarchico nel iii secolo, p. 562. - 74. I primi due anni di Aureliano (270-271), p. 565. - 75. L'ultima vicenda dello stato palmireno (272-273), p. 568. '- 76. La fine dell'« imperium Galliarum ». L'Italia nel iii secolo. Aureliano e la plebe romana. Politica tributaria di Aurdiano, p. 570. - 77. Tacito (275-276), Probo (276-282), p. 578. 78. Probo e gli imperatori illirici nella tradizione senatoria. Le conseguenze della politica barbarica di Probo: la pirateria dei Franchi nel Mediterraneo, p. 582. 79. Caro, Carino e Numeriano (risp. 282-283; 283-285; 283-284). La grande costruzione dioclezianea e la definitiva restaurazione dello stato sotto la tetrarchia (284-304), p. 586. - 80. La politica interna di Diocleziano, p. 588. - 81. La dissoluzione dell'ordinamento tetrarchico, p. 596. Bibliografia e problemi
600
Indice sommario
VII
Parte quinta
IL BASSO IMPERO E LA « PROSPETTIVA CHARISMATICA» I. Dal Milvio al Frigido (312-394)
651
82. La battaglia di Ponte Milvio. La- conversione di Costantino, p. 651. - 83. La politica tributaria e le Chiese cristiane. I donatisti. Il conflitto con Licinio, p. 652. - 84. La monarchia costantiniana. Costantino L1t(0X0JT0 t(7)V &xvS, p. 658. - 85. Il concilio di Nicea. Arianesimo e ortodossia, p. 661. - 86. La rivoluzione monetaria ed economica di Costantino. La politica dei prezzi nel basso impero, p. 666. - 87. L'ordinamento tributario, p. 673. - 88. La società del basso impero. Gli schiavi. Conclusioni sull'ordinamento tributario, p. .675. - 89. La classe dirigente del basso impero. L'ordinamento amministrativo. Critici e apologeti dell'ordinamento giudiziario, p. 679. - 90. L'esercito, p. 686. - 91. La cittadinanza. Principato e basso impero, p. 689. 1 92. Interpretazione della rivoluzione di Costantino: politica, economia, religione, p. 694. 93. I, figli di Costantino, p. 697. - 94. Altri aspetti della politica di Costanzo 'i. L'Egitto. La città di Roma. La guerra persiana, p. 707. - 95. Giulio Cesare, p. 711. - 96. Giuliano imperatore (361-363). La sinodo del 362. La guerra persiana, p. 712. - 97. Gioviano (363-364). Valentiniano i ( 364-375) e Valente (364378); i primi anni di Graziano e Valentiniano ti, p. 725. - 98. Graziano e Teodosio, p. 732. - 99. L'usurpazione di Massimo. Massimo e i priscillianisti. Politica economica di Teodosio, p. 735. - 100. Dalla battaglia di Sciscia (388) alla morte di Teodosio, p. 739. 101. Caratteristiche culturali del basso impero, p. 743. - 102. Ammiano e Vegezio. Il senso della decadenza, p. 748.
Il. Le province romane e la fine del mondo antico 103. Premesse, p. 752. - 104. La prefettura d'Oriente, p. 755. - 105. La Dacia transdanubiana dopo il ritiro dei Romani. Il problema dell'origine e della formazione del popolo rumeno, p. 768. - 106. La prefettura illiriciana, p. 771. - 107. La prefettura d'Italia Illirico ed Africa, p. 774. - 108. La prefettura gallica,, p. 785. 109. 1 « principes pueri ». La tragedia di Stilicone,
752
Indice sommario
VIII
p. 794. - 110. La grande crisi della prefettura gallica e della diocesi africana, p. 798. . 111. La grande crisi
delle regioni danubiane nell'Occidente, p. 802. . 112. L'idea imperiale dopo il 455. La fine della « sedes » occidentale dell'impero, p. 803. . 1'13. La pars d'Oriente. La crisi delle diocesi egiziana e siriaca, p. 807. 114. Il problema della fine del mondo antico, p. 812.
Bibliografia e problemi
816
APPENDICI I. La tavola di Heba e il gran cammeo di Francia Il. I manoscritti del Mar Morto: l'origine degli Zeloti e i problemi del primitivo cristianesimo III. Il problema della sepoltura dell'apostolo Pietro e le recenti esplorazioni. « Archeologia cristiana » e storia antica. « Cristo e il tempo »
855
Addendum
913
869
890
Parte quarta
LA DEMOCRATIZZAZIONE DELLA CULTURA E LA CRISI DELLO STATO ANTICO
Capitolo primo
DA COMMODO A SEVERO ALESSANDRO: « MONARCHIANISMO » E MONAPXfA (180-235)
42. Commodo (180-192).
Il diciottenne figlio e successore di Marco, l'imperatore Commodo, non amava la guerra e « le gelide acque del Danubio »; era dominato da una torbida passione per la vita urbana di Roma. Fece la pace coi barbari: nell'ottobre 180 entrò a Roma. Egli si credeva 1'« Ercole di Roma » e gradì gli appellativi Pius Felix, che poi furono sempre considerati « appellativi di pace », distinti dai cognomina ex virtute (§ 54). In questo amore per la pace lo strano imperatore interpretava la diffusa aspirazione dei suoi sudditi. Verso il 192 uno scrittore cristiano anti montanista poteva dichiarare con gioia: « ormai da tredici anni non si sono avute guerre, né civili né mondiali; e i Cristiani godono pace ». Questo testo ci dà due notizie preziose: Commodo aveva quasi donato la pace ad un mondo esausto, e durante il suo impero le denunce contro i Cristiani erano diminuite d'intensità (almeno in alcune province). In entrambi i casi, il governo dell'« Ercole di Roma » si incontrava con alcune aspirazioni della grande rivoluzione spirituale cristiana. La concubina di Commodo, Marcia, aveva simpatie pel cristianesimo. Commodo fu, soprattutto, l'imperatore della plebe roi
Nonostante guerre sarmatiche, britanniche ecc.
434
Parte IV.
La crisi dello stato antico
mana. Nell'esercito pretoriano c'erano contrasti tra cavalieri e fanti, la plebe appoggiava i fanti; Commodo seguì la volontà della plebe. Anche la sua politica economica cercava di favorire la povera gente: fissò un calmiere, mediante forma censoria dei prezzi (sappiamo, per esempio, che il prezzo di uno schiavo, nella forma censoria di Commodo, era fissato a 500 denarii). Tuttavia, il disagio economico restò grave, a Roma e in tutto l'impero: in Africa, contrasti fra pastori e agricoltori; nelle regioni di Gallia e Spagna, brigantaggio feroce. Le banche fallivano (S 58). L'« Ercole di Roma » divenne un sanguinano eroe da romanzo; fu l'imperatore gladiatore. Quando la sua concubina Marcia lo uccise (31 dicembre 192), la libertà sembrò -ritornare. Il senato condannò la sua memoria, e al posto della statua di Commodo-Ercole eresse la statua della Libertas di fronte alla Curia. 43. L'anno 193. La lotta di Settimio Severo contro Ni gro e Albino.
L'i gennaio 193 i pretoriani acclamarono il nuovo imperatore, Pertinace: un uomo di origine borghese, ma ispirato agli ideali dell'imperatore Marco. I senatori credevano tornata l'èra dell'impero umanistico: « noi siamo sicuri » gridarono a Pertinace « finché tu vivrai (te salvo 2)». Pertinace era devotissimo verso il senato (in un primo momento, avrebbe voluto cedere l'impero al nobilissimo senatore Acilio Glabnione). Nel suo breve governo tentò una politica di colonizzazione ed assegnazione di terre (anche a spese del latifondo imperiale): egli pensava che solo un ritorno alla terra potesse risolvere la crisi economica. Ma i pretoriani non credevano nei grandi programmi; volevano solo, e subito, del denaro. Il 28 marzo 193 lo uc2 Questa formula prepara saivis dominis nostris del basso impero, e tuttavia può già trovarsi, in nuce, nell'epoca augustea (S 12).
Cap. I. Da Commodo a.Severo Alessandro (180-235)
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cisero. Diedero il governo al miglior offerente, il senatore Didio Giuliano. Questi, per contentarli, pose mano alle ricchezze dei templi. Le coorti pretorie, ancora composte di italiani, sembravano impazzite: si credevano signore dell'impero, in un momento di crisi generale. Le province reagirono. I legionarii di Siria acclamarono Pescennio Nigro, legato di Siria. I legionarii illiriciani acclamarono il legato di Pannonia Superiore, Settimio Severo, nativo di Leptis e sposato alla emesena lulia Domna. Settimio Severo credeva nei sogni; ed un sogno gli aveva assicurato ch'egli doveva succedere a Pertinace. Marciò alla conquista dell'Italia. L'i giugno 193 Didio Giuliano fu ucciso. Settimio Severo entrò a Roma, disciolse la vecchia, guardia pretoriana e istituì una nuova guardia pretoriana, composta delle sue truppe illiriciane; stanziò ad Albano una legione di « Albanesi ». Nel 194 egli vinse Pescennio Nigro, presso Isso. Nel 197 vinse presso Lione Clodio Albino, che in un primo tempo aveva nominato Cesare e che ora si era guastato con lui. La rovina dei suoi avversarii fu anche rovina delle città che li sostenevano: la « nigriana » Bisanzio, la « albiniana » Lione soffrirono enormemente. La Siria fu divisa in due province. Settimio Severo, che prima aveva voluto mostrarsi come l'ammiratore di Pertinace, si era poi « autoadottato » nella famiglia di Marco Aurelio. 44. La provincia di Mesopotamia. Settimio Severo e l'esercito.
Severo affrontò decisamente la lotta contro i Parti. Verso la fine del 197 o i primi del 198 conquistò la capitale partica, Ctesifonte. Ma dovette ritornare indietro. Risultato della campagna fu la costituzione della provincia di Mesopotamia, governata da un prae/ectus equestre, come in Egitto. D'ora in poi, egli mantenne con i Parti buoni rapporti diplomatici.
436
Parte IV.
La crisi dello stato antico
Le sue cure furono rivolte ai soldati. Diede ad essi il diritto di portare l'anulus aureus, antica aspirazione dei piccoli borghesi (§ 24). Concesse che potessero convivere con le loro donne: così si spezzava la barriera tra il castro e i non-militari. Ma ciò non significa che i soldati divenissero agricoltori; i prata delle truppe - istituto tutt'altro che nuovo - erano affidati ad un appaltatore-soldato, e ciò dimostra proprio che coltivatori di essi non erano i soldati. La storiografia antica ha rimproverato a Settimio Severo (come poi a Costantino, che a lui si avvicina in molti punti) la sua grande tendenza a favorire i soldati. Ma il grande imperatore romano non faceva che constatare una necessità: lo stato romano ormai era una « comunità fatta per la guerra » (§ 59), e dunque il suo sostegno era nel benessere dei soldati. Del resto, Settimio Severo concede la unione con donne ai legionarii ed ausiliarii; ma non la concede alla truppa preferita (ed ora soggetta a rigida di sciplina), i pretoriani. Egli era un politico freddo, non un benefattore generoso. 45. Settimio Severo e l'inflazione. Tra le altre « beneficenze » di Settimio Severo ai so!dati c'è stato l'aumento del soldo. Anche questa era una necessità: infatti l'aumento dei prezzi era inevitabile (come aveva mostrato l'esperimento di Commodo), e in conseguenza l'imperatore diminuiva (si confronti la moderna « dottrina di Fisher ») il fino della moneta. Il denario di Settimio Severo aveva solo il 50% di fino. In congiunture di questo genere, bisognava salvare l'istituto più delicato, le banche (S 58): infatti i banchieri pagavano sempre un aureus con venticinque cattivi denarii, mentre al « mercato nero » c'era sempre il traffichino disposto a dare non già venticinque, ma (per esempio) trenta cattivi denarii per un aureus. Questa situazione ci è attestata da un'epi
Cap. I. Da Commodo a Severo Alessandro (180-235)
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grafe di Mylasa, in cui l'imperatore comminava pene per chi cambia, in questo modo, alla borsa nera. Il grosso problema dell'inflazione era dunque nel cambio del denarius con l'aureus. Nell'Egitto, su cui siamo meglio documentati, Settimio Severo inquadrò i contadini nei distretti cittadini, ma li esonerò da liturgie nelle rispettive città: egli amava la povera gente e pensava che essa, soprattutto, soffre nelle congiunture di crisi. Sotto di lui (o, per lo meno, nella avanzata epoca di Marco 3) comincia ad apparire in Egitto una tassa speciale, l'annona. Essa ha certamente rapporto con l'annona militare e, sebbene talora pagata in aderazione, tende a incrementare la tassazione in natura, che per altro non era un fatto nuovo '. Anche nelle altre province si verificarono analoghe riforme tributarie.
46. Aspetti religiosi e spirituali. Tra cristianesimo e impero pagano non è possibile un compromesso. C'è di mezzo il culto imperiale; c'è di mezzo lo stile di vita della città antica. I Cristiani non sacrificano al genio o al nume dell'imperatore; e non amano i giuochi, in cui si celebra la vita di una città antica. Nel 202 Settimio Severo emana un dogma (editto o rescritto) contro il proselitismo cristiano e contro il proselitismo giudaico. Tuttavia, i Cristiani esprimono ormai la grande vita spirituale di questo tempo: l'epoca di Tertulliano e di Origene, di Ippolito e di Callisto. La comunità cristiana di Roma, durante l'impero di Settimio Severo, ha avuto due papi: Vittore - che intervenne contro la cele brazione « quartodecimana » della Pasqua - e Zefirino; WO it, 273 può risalire al 185 come al 216. Del resto, l'annona è già in Pi., Pan. Tr. 20. Si pensi a tasse del secondo o dei primi due secoli: per es. la coemptio di frumento, la fornitura di fieno ecc. Il merito di avere « scoperto » l'annona è del VAN BERCHEM.
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Parte IV.
14 crisi dello stato antico
a quest'ultimo, nel 217, succederà Callisto (§ 58). Una intransigenza rigoristica domina il movimento montanista, a cui poi aderisce Tertulliano, a cui si oppone la comunità romana. Mentre nella corte imperiale si tende all'accentramento « monarchico », nella grande rivoluzione cristiana si fa strada la tendenza ad un « monarchianismo » che insista sull'unità di Dio, sì che il Logo sarebbe o un « modo » del Padre o subordinato al Padre. Tertulliano reagisce contro il monarchianismo. Nell'impero pagano ormai si tende a un sincretismo, in cui hanno gran parte i culti orientali. L'imperatrice, luha Domna, è al centro di un circolo d'intellettuali; affida a Filostrato u il compito di scrivere una Vita del taumaturgo pagano Apollonio di Tiana. In questa Vita Filostrato ha espresso, tra l'altro, gli ideali politici del circolo di lulia Domna (v, 36). Essi sono molteplici: governatori distinti nelle due parti dell'impero; monarchia data e poi restituita al popolo (p. 193, 16 K); successione all'impero per areté (non per kieronomia); aristokratia. Questi ideali diventano classici per tutta la cultura illuminata di questa epoca: per esempio, successione per areté, e aristokratia sono concetti che si ritrovano nello storico Erodiano. La distinzione dei governatori nelle due parti dell'impero si ritroverà nel progetto (riferito da Erodiano stesso) di due senati distinti (uno a Roma, l'altro ad Antiochia od Alessandria) per Caracalla e Geta, i due figli e successori di Settimio Severo. 47.
Caracalla (211-217).
I due figli di Settimio Severo non si amavano. Settimio Severo morì ad Eburacum, durante la sua spedizione britannica, nel febbraio 211; Caracalla e Geta tornarono a Roma; ma la loro « concordia » esisteva solo nelle leggende delle monete. lulia Domna cercò invano di conciliarli. Creare un impero con due senati e con due sedi era un
Cap. I. Da Commodo a Severo Alessandro (180-235)
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progetto troppo prematuro. Il 27 febbraio 212 Caracalla fece uccidere Geta fra le braccia della madre. Era basso, feroce nel volto; fu rassomigliato a un gladiatore. Ma aveva idee vaste. Rimasto unico imperatore, volle realizzare sogni unitarii, che si ispiravano all'eroe del suo sogno: Alessandro Magno, al quale fece erigere un tempio in Ilio. 48. La Constitutio Antoniniana (212).
Tra queste idee, la più « umana » (Agostino) fu la concessione della cittadinanza a tutti i sudditi liberi dell'impero, esclusi i dediticii. Il punto più oscuro è la limitazione « esclusi i dediticii ». Secondo alcuni studiosi i dediticii non sarebbero da cercare nelle grandi masse dei sudditi dell'impero. Per esempio, secondo questi studiosi, anche le masse dei contadini egizii avrebbero goduto, tutte, della concessione di Caracalla; i dediticii sarebbero solo i barbari dediticii. Ma si può subito obiettare che ancora nel basso impero, sotto l'imperatore Anastasio, c'era a Cirene (e a maggior ragione in Egitto) netta distinzione fra « Romani » ed « Egizii ». Dunque, gli elementi inferiori delle masse contadine non furono beneficati dalla costituzione di Caracalla (cfr. xxxi). Caracalla aveva lo sguardo rivolto ad Alessandro. Egli venerava dèi celtici come dèi orientali. Come nelle comunità cristiane si discuteva di « monarchianismo » in cielo, così l'imperatore fratricida parlava sempre di tiovocp xtoc sulla terra: « alla monarchia di Zeus deve corrispondere una monarchia fra gli uomini ». Questo principio (cfr. § 84) è centrale nella storia tardo-romana. 49. Il diritto tributario.
Lo storico-senatore Cassio Dione, il quale odiava Caracalla, dice che l'imperatore fece la constitutio non per
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Parte IV.
La crisi dello stato antico
umanità, ma a scopi fiscali, e lamenta che il fiscalismo di Caracalla costringesse i contribuenti a dare non solo ciò che potevano trovare nei loro campi (« gratuitamente », egli dice) ma anche ciò che nei loro campi non era. I senatori dell'epoca di Cassio Dione, dunque, volevano versare all'annona militaris solo quei beni in natura ch'essi trovavano « gratuitamente » nei loro fondi. Tratto essenziale, questo, caratteristico dell'economia domestica latifondista. Anche l'Italia, nonostante i tradizionali privilegii del ius Italicum, era colpita dall'annona militare: ce lo fa sapere lo storico Aurelio Vittore. L'annona non distingueva suolo italico e suolo provinciale. Un testo dell'imperatore Decio chiarisce che le indictiones (s'intende, di annona)* riguardano le res non le personae. Esse, dunque, non danno luogo a maggiorazioni né ad esenzioni per alcuno. I contadini dediticii continuavano a pagare la capitazione; i contadini donati di civitas pagavano, comunque, l'annona; l'evoluzione ulteriore (soprattutto con Diocleziano) congiunse capitazione e annona come prestazioni caratteristiche della « plebe rusticana ». Per una evoluzione che rimonta a Traiano (§ 40), la « tassa di leva » sui con-, tadini diventa ora una forma normale di reclutamento. 50. Problemi economici.
Lo stato del iii secolo ha due normali tipi di entrate: il liscus e la res privata. Si aggiungono le indictiones annonarie. Questi tre tipi di entrate si troveranno fissati, poi, nel basso impero: titoli largizionali, proventi della res privata, entrate dell'arca prefettizia. La continuità è evidente: essa ci conferma che già nel in secolo l'annona (il terzo tipo, corrispondente all'arca prefettizia del basso impero) era affidata, per lo più, al prefetto del pretorio. La tassa più importante è l'annona: infatti, le tasse e multe che vanno al fiscus, anche se talora sono aumentate (e
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Da Commodo a Severo Alessandro (180-235)
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Caracalla ha aumentato alcune tasse), normalmente si tenevano stazionarie nonostante l'inflazione . L'ascesa dei prezzi non si fermava né coi calmieri (Commodo) né con la riduzione del fino del denarius (Settimio Severo). Ormai la gente distingueva, per principio, tra le ricchezze reali e le vili pecuniae divisionali (§ 58). *Per ridare fiducia alla moneta divisionale, Caracalla creò F« antoniniano », una moneta contenente quel tanto di argento che si trovava nel denario di Marco. La soluzione fu molto accorta, ma non bastava a risolvere la crisi. I Germani non accettavano monete « sofisticate »; i sudditi dell'impero sapevano bene che un prezzo di x denarii dell'epoca di Marco, oggi duplicato, non veniva duplicato con antoniniani sostanzialmente equivalenti (nel fino) a denarii di Marco. Nonostante la crisi, anzi proprio per la crisi, i privilegii della città di Roma aumentarono. Soprattutto, si ag giunsero ora le distribuzioni di caro porcina alla plebe romana: esaltate da Filostrato, attestate forse nell'Arco degli argentarii (§ 58). 51.
L'impresa partica. Macrino (217-218).
Caracalla, come già Nerone, istituì una « falange » macedonica. Viveva nel mondo di Alessandro. Voleva inoltre che i prodotti partici (profumi, vesti) si « unissero » coi prodotti industriali romani. Perciò chiese in isposa la figlia di Artabano v, re partico. Al rifiuto rispose con la guerra. Ottenne dei successi; ma l'8 aprile 217 fu ucciso, per istigazione di Opellio Macrino, prefetto al pretorio. Macrino prese la porpora: un cavaliere all'impero. Citerò un esempio tipico: le multe contro chi si opponga a manomissioni nel tempio di Apollo Lairbeno sono sempre rimaste uguali dai tempi di Marco a quelli di Severo Alessandro (sempre 1500 denarii).
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Parte IV.
La crisi dello stato antico
Macrino voleva fare una politica di deflazione: ridurre le tasse (riportò a 1120 la tassa sulle manomissioni), ridurre le spese. I soldati erano scontenti. Ma anche i senatori si scandalizzavano, che un cavaliere fosse imperatore. I soldati del campo di Raphaneiai deposero Macrino; acclamarono il piccolo Elagabalo, nato da una figlia dell'emesena lulia Mesa, sorella di lulia Domna. Nella battaglia tra i rivoltosi e Macrino, questi fuggì (8 giu. 218); fu ucciso. Elagabalo cominciò il suo impero richiamandosi a Marco e ad Augusto. 52. 1 sofisti e il governo « illuminato ». Qual è il significato profondo del breve governo di Macrino e della restaurazione severiana che lo stroncò? Il grande ellenista Wilamowitz ha scritto che questa epoca (« l'epoca di Elagabalo ») è la prima fase nel crollo del mondo classico; certo, essa è dominata da un tragico contrasto fra tradizione e tempi nuovi. I sofisti di età sevenana esaltano l'impero « città celeste » e Roma « epitome delle città » (Ateneo); ma rievocano con amarezza i costumi antichi (Ateneo; Eliano). Si propone, sin dall'epoca di Commodo, il grosso problema se il contadino sia preferibile al soldato (Massimo Tino). L'eroe di Caracalla, Alessandro Magno, appare ad Eliano « un tiranno ». Il governo di Macrino è la voce di questo umanesimo, con la sua ostilità all'inflazione morale ed economica. Macrino aveva spinto questa ostilità fino all'uccisione del suo imperatore e infine all'usurpazione. Appunto per questo, la sua politica consiste in un tentativo di netta rottura col « corso », per dir così, della politica perseguita da Caracalla negli ultimi tempi. Quanto alla politica estera, Macrino ha voluto sostituire una onorevole pace ed un sistema di libera e cordiale entente coi Parti all'ideale di Caracalla, modellato sull'anabasi di Alessandro Magno e sull'« unificazione » romano-partica; quanto alla politica in-
Cap. I.
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terna, Macrino s'è appoggiato soprattutto sulla borghesia provinciale, e ha tentato di resistere alle richieste economiche dell'esercito. Proprio per questa ragione, si è pensato da taluno (Keil) che la famosa orazione tk potatXE'OC (a noi pervenuta nel corpus di orazioni del sofista Elio Aristide, ma certamente pseudepigrafa), nella quale si esalta un imperatore che ha alleggerito il peso delle imposte, si riferisca, di fatto, a Macrino, e possa considerarsi < il manifesto politico » del nuovo imperatore, sostituitosi al valoroso, ma esoso, Caracalla. L'orazione è, in verità, uno scritto che manifesta il punto di vista della popolazione provinciale (l'autore sembra aver di mira' le condizioni dell'Oriente romano), avversa « agli spioni che andavano attorno e stavano a sentire in tutte le città, se alcuno dicesse alcunché », avversa alla forte tassazione (« che aveva svuotato dappertutto i tesori »); sicché su di essa (ma riferendola - come in genere gli studiosi più recenti - a Filip po l'Arabo anziché a Macrino) lo storico contemporaneo Rostovzev ha fondato la ricostruzione, centrale nella sua opera, della crisi della borghesia cittadina nel iii secolo. Sebbene ci sia tanta incertezza sulla effettiva data della orazione, tuttavia essa può ben considerarsi (in/ra, xLl) la tipica espressione dell'ideale di governo tradizionalista e illuminato del iii secolo: questo ideale culminò, come vedremo, sotto Decio, alla metà del secolo; ma già Macrino -se ne deve considerare un esponente. Un tal ideale chiarisce i provvedimenti di Macrino contro le spie del regime di Caracalla, e in favore di una riduzione delle imposte. Il gravame tributario, che aveva caratterizzato l'epoca di Caracalla (si ricordino le parole di Cassio Dione: supra, S 49), era certamente una effettiva ragione di scontento per i provinciali; ed il « nuovo corso » (Macrino ha riportato a 1120 la tassa di manomissione), con i provvedimenti contro le spie, dovette essere salutato come l'instaurazione di un regime illuminato di contro alle tendenze militari ed autocratiche di Caracalla.
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La rivoluzione illuminata di Macrino nel 217, nonostante la sua sconfitta nel 218, dimostra dunque che la tradizione costituzionale ed umanistica era viva. Soprattutto va studiato il sofista Eliano, un esponente dei circoli « umanistici » nella città di Roma (era nato a Preneste: § 34) : se vogliamo farci un'idea della sua « tendenza », basterà ricordare una pagina, in cui egli esalta il concetto che « il regno è nobile servitù »: « chi pensa altrimenti non ha conosciuto un vero uomo regale ». I sofisti all'antica come Eliano contrapponevano l'« uomo regale » all'« uomo tirannico »: perciò odiavano Caracalla. Anche lo storico-senatore Cassio Dione era fra essi. Ed anche il sofista Ateneo, ammiratore dell'impero di Marco, sottintende ideali di libertas, quando, per criticare Commodo, critica addirittura Alessandro Magno. Per lo più, questi umanisti di età severiana credevano nella Provvidenza; non amavano Epicuro; disprezzavano i Cristiani. La storia veramente classica era per essi la storia della libertà greca, che si chiudeva con Alessandro Magno: quella da cui son tratti gli esempi nel famoso manuale di retorica di Apsine. Tali idee umanistico-liberali fondarono per sempre il classicismo tardo-antico. Ma per il resto, questi umanisti non potevano cambiare il volto dell'epoca. L'impero di Elagabalo, che riprese gli ideali assolutistici di Caracalla (ma senza il militarismo di Caracalla), fu per essi insopportabile; ucciso Elagabalo nel 222, Eliano scrisse subito un libello contro di lui; ma un malizioso collega gli domandò ironicamente « Perché non l'hai scritto prima, quel libello? » . Curioso il destino di Apsine, il retore tutto imbevuto di libera storia greca: egli avrà poi gli ornamenti consolari dall'« uomo tirannico » per eccellenza (§ 58), Massimino il Trace. La cultura classicistica difendeva tradizione e libertas; ma si muoveva, irrimediabilmente, in un'epoca di ferro.
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53. Elagabalo (218-222), le senatrici e i liberti. Elagabalo e il basso impero.
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Elagabalo era un ragazzo: nel 218, quando arrivò al trono, aveva 14 anni. In realtà, la signora dell'impero era sua madre, Soemia; accanto ad essa, Mesa. Esse avevano le loro idee: rivoluzionarie, ma immature e confuse: più avventata Soemia, più prudente e calcolatrice la vecchia Mesa. Introdussero a Roma il loro dio, il bolide-Sole di Emesa; i vecchi dèi statali di Roma dovettero rassegnarsi alla compagnia del nuovo dio; il ragazzo-imperatore fu « sacerdote amplissimo » del bolide-Sole. Le idee innovatrici di Soemia non si fermavano qui. Essa non amava troppo la tradizione guerriera dell'impero. Un vescovo (antipapa) cristiano di quel tempo, il quale viveva a Roma ed era in rapporto con una potente « senatrice », dirà poi (§ 59) che purtroppo l'impero romano è un'organizzazione di uomini fatti per la guerra. Anche Soemia, non cristiana, aveva una certa ripugnanza per la guerra e per il sangue. Noi possiamo attribuire ad essa l'ispirazione delle parole di Elagabalo al senato: « non amo appellativi che vengano dalla guerra e dal sangue: contentatevi di chiamarmi Pius Felix ». Il ragazzo-imperatore, consigliato dalla matire, svalutava dunque, senza alcun ritegno, un'antica tradizione gloriosa, tutta, romana 6: i cognomina ex virtute, derivati dai nomi dei popoli vinti; voleva che nella sua titolatura, come già in quella di Commodo, spiccassero i soprannomi etico-religiosi Pius Felix. Soemia intendeva « eticizzare » la titolatura imperiale, mettere in soffitta le virtutes di guerra - anche se le monete di Elagabalo conservano l'ideologia imperiale della Victoria, anche se la sua prima legislazione riafferma taluni privilegii dei soldati. Il ragazzo-imperatore, che aveva cominciato richiamandosi ad Augusto e a Marco, dimenticò presto i prin6
Rara nel mondo ellenistico: per es., Demetrio « l'Etolico ».
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cipii stabiliti da Augusto e la pratica di governo di Marco: Augusto aveva sempre insistito sulle tradizioni antiche del sacerdozio delle Vestali (una lex Augustiana dava alle Vestali parte dell'agro Laurente-Lavinate), ed ora Elaga balo sovvertiva quel sacerdozio, sposando una Vestale; Marco, che pur non amava « prendere i Sarmati alla rete », aveva riempito la sua titolatura di cognomina ex virtute ed aveva combattuto per tutta la sua vita come un antico romano. Anche all'ispirazione di Soemia possiamo attribuire la commistione di carriera equestre e carriera senatoria, che caratterizzò il cursus honorum di alcuni magistrati nominati da Elagabalo: la distinzione fra le due carriere, ed in genere le tradizioni amministrative romane, non significavano gran che per il monarca giovinetto, che preferiva il bolide-Sole di Emesa al Giove dei Romani. Egli e la sua consigliera-madre non sapevano di preludere così, con la breve parentesi del loro governo, ad oscure esigenze amministrative, che sarebbero divenute coerenti e chiare nel basso impero (il quale, di fatti, non conosce distinzione fra carriera equestre e carriera senatoria). Introdussero nella corte romana un cerimoniale tutto accentrato sull'adoratio dell'imperatore: anche questo, un preannuncio confuso di esigenze posteriori. Una torbida sensualità dominava quella corte strana, dove gli amorazzi del principe adolescente si confondevano con i capricci dell'imperatrice-madre Soemia: un mondo tra l'apuleiano e l'orgiastico. Il dominio delle donne - anche questo, un annuncio di basso impero - non si limitava a Soemia. C'era addirittura un « senatino delle donne ». Da alcuni cenni del vescovo cristiano Ippolito, noi conosciamo bene queste donne dell'epoca di Elagabalo (SS 58-59): per lo più spregiudicate e sensuali, alcune cristiane, altre (com'è facile ritenere) di varia tendenza sincretistica. Pareva, questo di Elagabalo, l'impero del femminismo di alta classe. Le spregiudicate senatrici portavano su i loro amanti, talora liberti
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o schiavi; e la classe dei liberti, nel gran rimescolio, conquistava un predominio già ambito da secoli. Le due epoche d'oro dei liberti imperiali sono, nella storia romana, l'impero di Claudio e l'impero di Elagabalo: non è un caso che esse si inseriscano nelle due epoche capitali per la storia religiosa dell'Europa l'epoca dell'apostolo Paolo, parallela all'impero di Claudio, e l'epoca del grande papabanchiere Callisto, che culmina nell'impero di Elagabalo (4 25; § 58). Contro i liberti di Claudio aveva protestato la borghesia equestre dell'impero, e quella vt>ce di protesta è pervenuta a noi nell'opera del cavaliere Plinio il Vecchio (§ 24). Contro i liberti di Elagabalo, si levò anche la protesta della borghesia equestre, accentrata negli ufficiali delle coorti pretorie.
54. La crisi dell'impero di Elagabalo. Elagabalo sapeva benissimo di questa opposizione. Diceva: « il senato, la plebe, gli eserciti provinciali mi amano; ma ai pretoriani, cui dò tutto il possibile, non piaccio ». Possiamo fare delle riserve sul preteso amore degli eserciti provinciali per Elagabalo (se mai, egli poteva essere caro ai soldati che lo avevano sostenuto nella guerra contro Macrino); ma possiamo essere sicuri che i pretoriani (e anche gli Albanensi) disprezzavano profondamente il giovinetto senza ambizioni militari, avverso ai cognomina ex virtute. Allora intervenne la madre di Soemia, Mesa. Questa accorta vecchia trovò un modo radicale per riparare agli errori di Soemia. Essa aveva un'altra figlia, Mamea; e Mamea era madre di un fanciullo, nato nel 209 (o 208 ? ), educato assai più « alla romana » che non Elagabalo. Nel 221 Mesa e Mamea indussero Elagabalo ad adottare questo fanciullo, a nominarlo Cesare: al nuovo Cesare fu dato il nome di Severo Alessandro. Tornava il mito di Alessandro, un altro dei grandi miti di quest'epoca : gli uomini. di allora vedevano in Alessandro Magno
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un demone, lo cercavano d'ogni parte, esaltavano sinanco gli impostori che si camuffassero da démoni col nome di Alessandro. L'adozione di Severo Alessandro poteva dunque salvare il vacillante trono di Elagabalo: le coorti pretorie erano fiere del loro Cesare, nuovo Alessandro, che avrebbe restaurato le grandi tradizioni dell'impero e posto fine al governo delle donne e dei liberti. Ma Soemia non si arrese: non amava la sorella, vedeva male questa intrusione del fanciullo dodicenne, e di Mamea, nelle cose dell'impero. Elagabalo (cioè Soemia) venne in contrasto con Severo Alessandro (cioè con Mamea). I pretoriani si schierarono, naturalmente, dalla parte di Severo Alessandro. Persino uomini che dovevano ad Elagabalo tutta la loro carriera cominciarono ad abbandonare l'imperatore, fecero lega con Mamea. Nel marzo 222 il diciottenne Elagabalo, e con lui Soemia, furono uccisi dai pretoriani. Il cadavere di Elagabalo fu gettato nel Tevere; egli fu colpito dalla damnatio memoriae. Il suo bolide-Sole tornò ad Emesa. 55. Severo Alessandro (222-235).
Ormai il «- ragazzo » Severo Alessandro e sua madre Mamea potevano attuare un nuovo ideale di governo, in senso tradizionalista-illuminato. All'impero dei liberti si sostituì l'impero dei giuristi . Severo Alessandro limitò la tassazione 8: rimise l'aurum negotiatorium. Le tradizioni militari dell'impero tornarono, nonostante la naturale apprensione di Mamea: quando Alessandro ebbe i suoi ventidue anni, egli intraprese una guerra contro i Persiani. Ulpiano è parens dell'imperatore (C. I. Iv, 65, 4: da aggiungere alla documentazione su parens principum nell'importante lavoro di STRAUB, « La nouv. Clio », 1952, p. 96). 8 Un documento di questa tendenza di Severo Alessandro è forse pervenuto a noi, in un papiro, che però da qualche studioso è attribuito a Giuliano l'Apostata: esso attesta remissione di aurum coronarium.
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Anche l'antica tradizione colonizzatrice del mondo romano ebbe un certo risveglio. Sin dai tempi della repubblica sotto Mario, quella tradizione si era espressa nelle colonie di veterani; gli imperatori giulio-claudii, i Flavii, gli adottivi l'avevano continuata; inoltre, Nerva aveva curato assegnazioni di terre a gente povera, e Pertinace aveva curato una deduzione coloniaria nell'agro del Piceno e altre assegnazioni di terre ai contadini in Italia e in tutto l'impero. Severo Alessandro cercò in qualche modo di dar vita nuova alle assegnazioni di terre per i veterani, con un nuovo impulso all'istituto dei castellani nei confini dell'impero. Egli traeva così le conseguenze di quel principio antico (e sempre messo in forse dai coloni, per esempio, di Cesare e di Vespasiano), secondo cui le terre assegnate sono - almeno per un certo tempo - inalienabili: dando le terre ai castellani, si stabiliva un legame indissolubile fra il soldato-colono e la terra. Ancor un trionfo della tradizione. Tuttavia, l'esercito romano non era divenuto un esercito di soldati-contadini. Lo storico Erodiano, infatti, ha sottolineato che, mentre l'esercito persiano « ha solo quei rifornimenti che ognuno può portare con sé », l'esercito romano è invece costituito da truppe professionali. 56. Lo stato neopersiano.
Nel 227 il re parto Artabano v fu vinto e ucciso dal persiano Ardasher i, della casa Sasan. La sostituzione di uno stato neopersiano al vecchio stato partico dava nuovo impulso all'iranismo: una chiesa di stato zoroastriana Caratterizzò lo stato sasanide. Ma ai Romani il nuovo stato persiano appariva una continuazione, del partico: spesso essi indicavano col nome di Parthi anche i nuovi Persiani.
Che sembra rimontare, per altro, a Marco e Commodo.
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Lo stato sasanide, quest'altro « occhio del mondo », era insomma l'espressione dell'iranismo nella sua continuità storica, dai Persiani di Giro ai Parti di Arsace e di Artabano iii. La tattica iranica di combattimento costituiva la forza anche dell'esercito neopersiano; Severo Alessandro dove arruolare disertori partici per dare al suo esercito nuclei capaci di affrontare quella tattica. L'importanza dei soldati osroeni nell'esercito di Severo Alessandro ha anche questa origine. 57. La crisi dello stato romano sotto Severo Alessandro. Severo Alessandro rinunziò, secondo la tradizione, alla « tassa sulle entrate » dei commercianti. Ma in compenso (e questo è un punto certo, documentato per via epigrafica) esigeva il pagamento del fitto di luoghi pubblici occupati dai collegii artigiani di Roma. I collegii resistettero tenacemente. Il disagio della società urbana di Roma era grave. Anche la crisi monetaria aveva la sua importanza: la moneta di oro stava lì a ricordare che il nuovo denario non aveva alcun valore reale. La guerra persiana aveva stremato i contribuenti. L'impero di Alessandro, nonostante le requisizioni di guerra, restavi ispirato a un ideale « aristocratico ». I so' dati volevano ben altro. Severo Alessandro appariva ad essi un avaro. Acclamarono imperatore un gigantesco e rude soldato nativo di Tracia, Massimino. Severo Alessandro e Mamea furono uccisi nei pressi di Magonza (12 marzo 235)
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58. Le due economie: la statale e l'ecclesiastica. La banca, l'elemosina e il fisco. « L'epoca di Ippolito » e le « persecuzioni » contro i Cristiani.
L'interpretazione del periodo storico che va dal 180 al marzo 238 - l'epoca di Commodo e dei Severi - è segnata, per noi moderni, da due date quasi simmetriche: il 1551 e il 1851. Nel 1551 fu infatti scoperta a Roma, tra la Via Nomentana e la Tiburtina, una statua raffigurante un dignitario ecclesiastico, con la riproduzione del suo computo pascale (la cui data di riferimento era il 222, avvento di Severo Alessandro) e l'indicazione delle sue opere: in questo dignitario ecclesiastico dobbiamo vedere Ippolito, che fu « antipapa » nella chiesa di Roma dal 217 al 235. Nel 1851 fu pubblicato a Oxford un testo fondamentale per la storia del cristianesimo, i Philosophumena o « Elenchos contro tutte le eresie », che ben presto il Bunsen e il Dòllinger dimostrarono essere opera di quel medesimo Ippolito raffigurato nella statua scoperta trecento anni prima; l'opera rivelava l'enorme travaglio spirituale del cristianesimo fino ai tempi di Ippolito; e rivelava anche la complessa problematica dell'esperienza religiosa cristiana nell'epoca di Commodo e dei Severi. Il Bunsen ne traeva argomento, per illustrare quel rapporto dialettico di « fede e ricerca », che aveva dominato la storiografia romantica, già in una formulazione di Niebuhr, e che gli sembrava preludere ad un rinnovamento cristiano-protestante condotto dai popoli germanici, in ciò distinti dall'Europa romanza (« l'Europa romanza non si è ringiovanita nel 1789, come invece fecero i popoli germanici nel 1517; epperò il 1789 non ha potuto essere, sinora, un 1688 »). Il bilancio dell'esperienza romantica sembrò, insomma, culminare nell'interpretazione dell'opera di Ippolito, e la recente scoperta dei Philosophumena apparve il suggello di quel bilancio, già per altre ragioni (cfr. supra, 5 5 2-3; xiii) abbastanza notevole.
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do noi moderni discutiamo intorno all'influenza del cristianesimo sul problema della schiavitù, alcuni accentuando, altri riducendo o negando quell'influenza, dimentichiamo spesso la necessità di distinguere tra l'istituto servile in sé, che il cristianesimo non ha distrutto, e il modo del tutto rivoluzionario 15, in cui il cristianesimo ha interpretato - cfr. supra, § 24 - il rapporto morale tra schiavi e liberi, tutti conservi del medesimo Dio.) Un uomo come Callisto, che aveva conosciuto il dolore, ma anche il brivido dell'intrapresa economica, poteva affrontare coraggiosamente il problema tutto « secolare » dell'economia ecclesiastica romana. Dacché la chiesa era entrata risolutamente nel saeculum, la sua economia si era organizzata, in un certo senso, in concorrenza con l'economia dello 1 stato. Cos'erano, dal punto di vista ufficiale, le comunità cristiane? Come già vedemmo, l'indagine moderna ha spesso interpretato i coetus (con gregationes) dei Cristiani come normali collegi religionis causa 16; oppure ha connesso le caratteristiche cultuali dei coetus cristiani con il culto giudaico. Ma accanto a queste interpretazioni, che in molti casi si avvicinano al vero, dobbiamo tener presenti gli aspetti umanistici che l'impero di Commodo e dei Severi ha ereditato dall'epoca degli imperatori adot tivi. Da questo punto di vista, possiamo dire che nel'epoca di Commodo dei Severi le comunità cultuali cristiane sono considerate, in un certo senso, come sectae filosofiche con un proprio didaskaleion o schola (il quale concetto può implicare sempre organizzazione di tipo l
15 S'intende, in accordo con le tendenze più avanzate del pensiero pagano, per cui già in epoca neroniana (Petronio) et servi homines sunt (cfr. anche Iuv. vi, 222). Il cristianesimo del basso impero, in conformità di quella che noi chiamiamo « prospettiva charismatica », ha tuttavia evitato un livellamento del tutto rivoluzionario e antisociale. 16 Cfr. soprattutto le importanti conclusioni del DE ROBERTIS, Il diritto associativo romano (1938); ivi altra letteratura.
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corporativo). La ekklesia si configura come didaskaleion 17• Ma in questi speciali « luoghi di insegnamento » o- scholae di catecumeni cristiani si insegna lo studio delle Scritture (che ora si sistemano in un canone; cfr. § 59), e con esso il culto cristiano; l'insegnamento è organizzato dal vescovo e dagli altri funzionari della comunità (diaconi; presbiteri), che ora hanno assunto anche le funzioni che in un tempo lontano erano spettate ai « profeti e maestri ». Appunto per questo, Ippolito può dire che « Callisto ha organizzato un didaskaleion » e che rimette i peccati a coloro che si recano nella sua « scholé » (schola); naturalmente, per Ippolito si tratta di un « didaskaleion contro la ekklesia », di « un didaskaleion che questi svergognati (seguaci di Callisto) s'attentano a chiamare ekklesia catholica ». In realtà, essendo Callisto il vescovo regolarmente eletto dalla comunità romana, e riconosciuto dalle altre comunità, il suo didaskaleion è la ekklesia caibolica della comunità romana; ed Ippolito deve contentarsi di presiedere la sua comunità con funzioni che noi moderni chiameremmo di « antipapa ». Il grosso della comunità cristiana di Roma resta sempre nelle mani di Callisto e, dopo la sua morte (222), la cathedra Petri resta ai suoi succes17 Secondo la interpretazione che qui propongo, la funzione della ekklesia in quanto didaskaleion della secta cristiana spiegherebbe la possibilità di riunione dei Cristiani sul piano culturale: sebbene il dzdaskaleion abbia come obietto la catechesi, in realtà la connessione di rhema e kerygrna (Paul., Rom. 10, 8; cfr. ora ELERT, Abendmahl u. Kirchengemeinscha/t, 1954, p. 62) finisce col determinare, nell'ambiente umanistico dell'impero, la unificazione progressiva della lettura (di profeti e apostoli; di qui, l'avvio alla fissazione del canone, cfr. in/ra) con il culto eucaristico (il processo di unificazione si può seguire dal tempo di Plinio il Giovane all'epoca di Giustino; cfr. CULLMANN, Il culto nella Chiesa primitiva, 1948, p. 28; fondamentali, per la storia del culto cristiano, le Origines del DUCHE5NE e ora la Liturgiegeschichte del KLAUSER). In conclusione, l'impero doveva vedere nelle riunioni cristiane dei didaskaleia regolari, salvo ad ammettere le denunce private per il crimine di cristianesimo o (nel dogma di Settirnio Severo) di proselitismo cristiano.
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sori, Urbano (222-230) e Ponziano (230-235); è questa la comunità catholica che, facendo perno (come possiamo facilmente congetturare) sull'antico quartiere di Callisto (la piscina publica), può contare fra i suoi aderenti anche le ricchissime donne di rango senatorio (clarissimae lemi-nae) le quali sostengono, in buona parte, la vita economica del cristianesimo romano. È la comunità che, sotto Callisto, può organizzare le nuove areae sepulturarum, il « cimiterio di Callisto »; che, sotto i suoi successori, può acquistare, per esempio, un locus publicus a fini di culto, strappandolo ai popinarii per mezzo di un rescritto dell'imperatore Severo Alessandro ` . È una comunità che si .18
GEFFCKEN, « Hermes », Ultimamente M0MIGLIAN0, « Journ. of the Warbourg a. Courtauld Inst. » 1954, p. 40. Il più importante testo cristiano relativo alla Roma di età severiana è nei versi 7-9 della famosa iscrizione di Abercio, su cui ABEL, « Byz. », 1926, p. 311; GR E'«Byz.», 1933, p. 89; CALDER, «Journ. Rom. St.», 1939, 1; STRATHMANN-KLAUSER, «Reall. f. Ant. u. Chr. », 1 9 1950, p. 12. Non c'è alcun dubbip che questa iscrizione sia cristiana; essa è di epoca vicina ai 216. I versi relativi a Roma si trovano nei seguente contesto: « costui (il Maestro del gregge puro) - il quale Xc 4p9x e a vedere la regina vestita mi mandò a Roma a d'oro e calzata d'oro; lì vidi un popolo che ha ).p.itp&.'v agpayEZ80CV. E io vidi la piana di Siria e tutte le città e Nisibi, passato l'Eufrate. Dappertutto ebbi com[pagni] portando (con me) Paolo su[i carro?] » (ciò significa che nella capsa di Abercio come nel 180 in quella dei martiri scillitani, ci sono libri et epistulae Pauli viri iusti). « La fede mi precedeva dovunque e dovunque mi dava come nutrimento i'Ichthys » ecc. Qui c'è la descrizione di viaggi autentici, di autentiche città viste. E anche la descrizione di Roma deve riferirsi ad autentiche « cose viste ». Cadono dunque le comuni spiegazioni esoteriche od allegoriche. Così come avverte di aver visto Nisibi ai di là dell'Eufrate, allo stesso modo Abercio vuoi avvertire il suo lettore che egli ha potuto osservare il Palatium (leggo dunque f3aaL),ct. &pxt) ed ha visto l'imperatrice, la quale ha quelle vestes auratae che appunto caratterizzano i gynaecea imperiali (pel basso impero, C. Th. x, 21), ed infine che ha visto il populus di Roma con quella toga candida (Xac.tirpv) che è la sua caratteristica (ppaycì&xv). La mia interpretazione (per flaaLXcLcx = reggia, cfr. Lc. 7 2 25; per iitpcv = bianca, cfr. Lc. 23, 11 ecc.) riduce l'epitafio di Abercio nei termini normali di un'evocazione di esperienze missionarie (anche il viaggio a Roma è, a suo modo, un'esperienza
H. A., Vita Alex. Sev., 49, 6, su cui
1920, p. 285.
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è fatta, anche sul piano economico, abbastanza forte; e Callisto è il principale autore di questo benessere in contrasto, ben s'intende, con i rigoristi integrali condotti da Ippolito. Su che si fonda il benessere economico della comunità romana, e in genere delle comunità cristiane più abbienti? La risposta è agevole: l'economia ecclesiastica è, sin dai suoi inizii, economia delle largitiones od operationes di elemosina. La più caratteristica elemosina, di cui ci rimanga memoria, per la comunità cristiana di Roma del I I secolo, è stata (come già vedemmo) l'elemosina di Marcione : 200 000 sesterzii `. Nell'epoca di Commodo, ci si fa innanzi un altro eretico, anch'esso di origine asianica, il quale dispone di molto denaro: è il banchiere Teodoto, che, insieme con altri, costituisce una effimera cathedra episcopale in opposizione alla ekklesia catholica, e la affida al confessore Natalio, offrendogli un salariurn di 150 denarii mensili (= 7 200 sesterzii annui 20 ). Questo Natalio missionaria) raccontate come le Praxeis raccontavano i viaggi di Paolo. Abercio non si rivolgeva a noi dotti, ma ai lettori del suo tempo, i quali sapevano che Roma era la città del popolo in bianca toga (anche stavolta, il basso impero ci aiuta, facendoci notare l'importanza dello habitus quo uti oportet intra urbem sinanche nell'epoca delle brache barbariche, C. T h., xiv, 10; naturalmente, nell'epoca commodiano-severiana l'incomoda toga bianca era lo habitus per eccellenza imposto dalle ordinanze imperiali). Conclusione: questi cristiani di Oriente, quando erano sinceramente antimontanisti (come nel caso di Abercio), esaltavano, o per lo meno rispettavano altamente, la città di Roma, anche nella sua manifestazione urbana più tipica, la toga («l'abito veramente degno dei padroni del mondo »: CARCOPINO, La vita quotidiana, trad. it. 1947, p. 244); come l'antimontanista Gaio contrapponeva a Montano i tropaia di Roma. Ippolito, l'antipapa di Roma, non avrà avuto altrettanto amore per l'anticristica (5 59) padrona del mondo. Altra conclusione: Abercio è riuscito a vedere, forse a visitare, un'imperatrice dei Severi: Iulia Domna? Iulia Mamea, ammiratrice di Origene? ls Tert., Adv. Marc. Iv, 4; De praescr. haeret. 30. 20 Settemiladuecento sesterzi all'anno sono piccolissima cosa in confronto coi 200 000 sesterzi annui di un procurator ducenarius o coi 100 000 di un centenarius o 60 000 di un sexagenarius. E tuttavia, questi 7 200 sesterzii sono addirittura il salarium di un vescovo
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- il primo « antipapa », per così dire, della chiesa romana - ritorna presto in grembo alla comunità catholica, condotta dal papa Zefirino; ma l'episodio è abbastanza notevole, perché mostra ad un tempo l'importanza dei banchieri nelle comunità cristiane cfi questo periodo (si sarebbe tentati di parlare di « banche cristiane ») e la formazione del concetto di salarium per le cariche ecclesiastiche, a imitazione dei salaria per i magistrati e burocrati dell'impero. La banca amministrata da Callisto, quand'egli era ancora schiavo di Carpoforo, rientra in questa congiuntura: anche per essa, si sarebbe tentati di parlare di una « banca cristiana »; giacché è chiaro, dopo le precedenti considerazioni, che queste banche amministrate da cristiani custodivano i deposita dei correligionari 21, ma praticavano il prestito ad interesse (specialmente ad alto interesse) piuttosto con gli altri due « popoli » (giudei e pagani) che con i correligionari cristiani (cfr. in/ra, § 59). La svalutazione monetaria rendeva difficile la vita di tali banche: ed abbiamo illustrato, da questo punto di vista, il fallimento della banca di Callisto. Così, l'economia ecclesiastica dovette fondarsi nuovamente sulle largitiones od operationes elemosiniche, più che sulle intraprese di banchieri cristiani. L'entrata di c1arisimae feminae e di affaristi nelle comunità cristiane era dunque la principale fonte di ricchezza per le comunità stesse: clarissimae di Roma, e per giunta di un vescovo pagato bene (appunto per questo, la fonte di Eusebio riferisce il particolare del salario). Essi equivalgono a sei volte la paga semplice (dunque, senza donativi) di un legionario. Questi dati sono indicativi delle classi di redditi nell'epoca di Commodo: la distanza enorme fra il salario dei procuratori e quello di un vescovo di Roma chiarisce (in termini del metodo traslativo di Ragnar FRIsH) l'altissimo valore numerico della elasticità dell'utilità finale del denaro nell'epoca che studiamo, e la funzione « democratica » dell'economia ecclesiastica di rinunce in questo periodo. 21 Per intendere l'importanza di questo punto, si pensi alla lettera di Plinio: ne depositurn appellati abne,garent; cfr. supra n. 12, 5 58.
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leminae, di buone famiglie senatorie romane (anche se di origine orientale; cfr. in/ra, S 60); affaristi, che in buona
parte potevano essere di origine orientale; si aggiungevano anche dei piccoli borghesi abbienti. A tutti questi, i vescovi raccomandavano la necessità dell'elemosina: alle donne, dichiarando come la salute eterna fosse preferibile ai trucchi e ai belletti; agli uomini, illustrando la stoltezza, per esempio, del giuoco dei dadi (in cui si verifica possessionum amissio et pecuniarium ingentium deperditus,
ed infine indebitamento e nuditas e inopia del perditore) e la necessità delle operationes di elemosina per la conquista del paradiso 22. Una triplice economia aveva caratterizzato il mondo ellenistico (nel suo stato più complesso, il seleucidico): l'economia basilica o centrale (prevalentemente monetaria), l'économia satrapica (prevalentemente naturale), l'eco nomia delle poleis (prevalentemente monetaria). Lo stato romano ha unificato economia basilica ed economia delle casse provinciali, ed ha spesso controllato - più o meno - l'economia delle città: sicché nel suo complesso, esso può considerarsi uno stato ad economia basilica e politica, ma accentrata intorno al fiscus. La secolarizza zione e l'ordinamento gerarchico delle comunità cristiane ha introdotto nella vita economica dell'impero un nuovo 22 Questi concetti sono dominanti nel de aleatoribus pseudociprianeo. L'impressione generale è che questo testo sia proprio dell'epoca di Commodo, o vicino a questa (diversamente, per es., LAMER, RE, sv. Lusoria tabula; LUDWIG, Die Primatw. Mt., 16, 18-19 5 1952, p. 36); nel canone del suo autore rientrano Doctrinae apostolorum, in una redazione a noi non pervenuta. Lo scritto (importante per l'affermazione dello apostolatus ducatus et vicaria Domini sedes nella chiesa romana) è opera di un vescovo di Roma, il quale dunque - a differenza dal Canone Muratori, che non ne fa neanche cenno - considerava canoniche tali Doctrinae apostolorum. Ma anche questa constatazione non ci consente una datazione sicura dell'importante scritto. Vanno notati i moltissimi volgarismi e l'assenza di ogni cenno alle persecuzioni: questa assenza parlerebbe forse per l'epoca di Commodo.
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tipo di economia, che si oppone a quella dello stato: l'economia ecclesiastica, fondata sulle elemosine. Così, noi parleremo, già per il iii secolo, di « due economie »: la statale e l'ecclesiastica. Mentre le entrate dello stato imperiale si destinano al mantenimento della burocrazia e dell'esercito, le entrate della « specie di arca (cassa) » ecclesiastica sono destinate a sostenere vedove e pupilli e poeri e perseguitati, ed a pagare i salaria (o le divisiones mensurnae) e le sportulae per i membri del clero. (Va notata questa distinzione fra il guadagno normale - che può essere espresso in salaria fissi o in divisiones mensurnae variabili - e le sportulae che si aggiungono al guadagno normale; qui, il modo di pagamento dei membri del clero non fa che ripetere, con opportune modifiche « democratiche », il sistema statale di retribuzione dei funzionari imperiali nello stesso terzo secolo e poi per tutto il basso impero, con la tipica duplicità di salaria militiae e sportulae 24 v
.).
Tert., Apol. 39, 7. Un testo fondamentale sul pagamento di presbiteri (ed eventualmente lettori) nel iii secolo è una lettera del vescovo di Cartagine, Cipriano (ep. 39, )), dove appunto si distinguono sportulae e divisiones mensurnae. Altri passi di Cipriano importanti per lo studio dell'economia ecclesiastica: ep. 1, 1 (il clero deve ricevere le decime, ad imitazione della levitica tribus; si noti l'espressione sportulantes /ratres); ep. 34, 4 (divisio mensurna); ep. 41, 2 (stipendia); cfr. de lapsis 6; de babitu virginum, specialmente 8-11; e soprattutto il de opere e! eleemosynis. - La distinzione fra stipendio e sportule, com'è evidente nell'economia ecclesiastica di epoca ciprianea, così doveva essere importante nell'economia burocratica imperiale del terzo secolo (nonostante la proibizione di Costantino - C. Th. i, 16 5 7—, l'aggiunta delle sportule allo stipendio è normale all'época di Giuliano - cfr. i miei Aspetti sociali, pp. 403-404; 165-167 e poi per tutto il basso impero). Così, il parallelismo di economia statale ed economia ecclesiastica ci consente di cogliere un fenomeno tipico di questa congiuntura inflazionistica di epoca imperiale: la moltiplicazione delle « voci » dell'onorario. Poiché lo stipendium non basta più, si aggiungono i guadagni occasionali (noi moderni diremmo: i casuali) o sportulae, fondati sulle contribuzioni personali di« coloro che presentano petizioni ecc. (nel caso dell'economia sta23 24
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Parte N.
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Quali sono state, nello stesso in secolo, le conseguenze dell'introduzione di un tale organismo economico nel vecchio corpo dello stato romano? Questo problema dovrebbe risolversi volta a volta, tenendo conto delle diverse condi zioni di espansione del cristianesimo e della relativa econ mia ecclesiastica. In linea di massima, si può dire che o la nuova economia ecclesiastica ha incoraggiato la migrazione verso le grandi città, le quali avevano, naturalmente, delle comunità cristiane più ricche (ciò-si può dedurre, per l'Africa, da una lettera di Cipriano, vescovo di Cartagine dal 249 al .258). A questa prima conseguenza, che si potrebbe designare come « tendenza all'urbanesimo », se ne può aggiungere un'altra, ancor più importante: la nuova economia ecclesiastica, fondata su opere et eleemosynis, può dare additamentum ed incoraggiamento all'attività del piccolo artigiano rovinato dall'inflazione (anche questo si può dedurre da una lettera di Cipriano). In ultima analisi, la coesistenza di « due economie », la statale e l'ecclesiastica, è stata possibile ed anzi utile, in quanto l'economia ecclesiastica di elemosine compie una funzione « democratica » che all'economia dello stato (fiscale) è assolutamente estranea. Infine, l'economia ecclesiastica sopperisce alle deficienze militari-economiche dello stato: nel 253, Cipriano può destinare 100 000 sesterzii quae collecta sunt come subsidia per la redenzione di una fratres che furono fatti prigionieri dai barbari 25; circostanza che egli ci attesta nella sua lettera 62, la quale potrebbe definirsi il peana dell'economia fondata su opere
tale) o chiedono charismi ecc. (nel caso dell'economia ecclesiastica). In entrambi i casi, agisce l'eterna legge che la spesa regola l'entrata, e non viceversa. 25 È una tipica conseguenza di deficienze statali: precisamente dello scioglimento della legio III Augusta, scioglimento che andò dal 238 al 253 (C viii ) 2634), ed a cui non fu di compenso la presenza di una vexillatio « maura » (C viii, 2716) al posto della
legio.
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et eleemosynis. Lo stesso Cipriano, nel suo scritto De opere et eleemosynis, ci presenta una, diremmo quasi, concorrenza fra economia ecclesiastica ed economia statale: « il patrimonio affidato a Dio, non lo può strappare la res publica né il fisco lo può colpire... » (cap. 19). Res publica e fiscus si contrappongono a economia di carità. Sebbene il problema della coesistenza di queste due economie meriti un approfondimento maggiore (esso è un problema assai complesso, come del resto molti altri punti trattati nel presente paragrafo), tuttavia possiamo concludere con certezza che lespansione di questo inatteso tipo di economia « di elemosina » (la quale rimontava alle collette delle comunità cultuali giudaiche, ma ora assumeva un'ampiezza di grande portata) ha dato al in secolo una impronta originale, e non può esser « liquidata » coi lamenti del pagano Porfirio sulla follia dei ricchi cristiani che buttano al vento i loro beni. Naturalmente, all'epoca di Porfirio (e in genere nella seconda metà del iii secolo), le entrate ecclesiastiche erano ben più definite, nella loro natura economica, che non nell'epoca di Commodo e dei Severi; ma non c'è dubbio che la definitiva organizzazione di esse rimonta già a questa epoca cruciale, la quale può chiamarsi « l'epoca di Ippolito » (autore, tra l'altro, degli ordinamenti contenuti nella famosa Traditio apostolica rivelata da Ed. Schwartz e da R. H. Connolly . « Epoca di Ippolito », ma anche « epoca di Callisto e dei Callistiani ».
26 SCHWARTZ, tiber die pseudoapostolische Kirchenordnung, 1910; CONNOLLY, The so Called Egyptian Church Order, 1916; ultimamente BOTTE, Hipp., La trad. ap., 1946; « Rech. Théol. anc. et méd. », 1949, p. 177.
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Parte IV.
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59. Ippolito e il concetto cristiano del tempo. L'Anticristo e le nazionalità contadine dell'impero. Altri aspetti delle persecuzioni anticristiane e della socialità cristiana.
L'essenza del cristianesimo è l'attesa continua del Regno di Dio: « Signor nostro, vieni » (marana tha; é p X ou Ktp 'Fraot). Ma quando verrà il Kyrios? Già nella Parte seconda di questo libro, l'ansia di quell'attesa è balzata evidente dallo studio dell'escatologia paolina: la comunità cristiana di Tessalonica ritiene imminente l'avvento del Regno, ma l'apostolo Paolo ammonisce - nella seconda lettera ai Tessalonicesi - che non bisogna forzare i tempi: egli avverte che il misterio dell'opposizione alla Legge opera già, ma ancora è rattenuto dal Katechon, vale a dire27dal laos giudaico, sicché l'Antikeimenos (Anticristo) potrà affermarsi solo dopo l'eliminazione di questo Katechon, per essere infine distrutto dallo Pneuma della bocca del Kyrios e dall'epifania della parusia divina. Dopo la seconda lettera ai Tessalonicesi, che ancora respira l'aria del primitivo cristianesimo, molte cose cambiaono radicalmente. L'arresto dell'apostolo Paolo mostrò che il cristianesimo, 0aLpeaLg del giudaismo, era ben diverso dalle altre attpe'faetg giudaiche (Farisei, Sadducei, Esseni, Nuova Alleanza, Zeloti); che era, anzi, inconciliabile con esse; questa nuova atpeaLg non entrava senz'altro nella religio licita giudaica. Nel 64, la persecuzione neroniana. Verso lo scorcio dell'epoca flavia, la persecuzione domizianea, opera di un imperatore che anche i pagani consideravano un altro Nerone, « Nerone il calvo ». In queste condizioni, l'attesa apocalittica del Regno di Dio si pre-
r
27 Se è nel vero l'interpretazione da noi proposta supra, S 22. Oltre alla letteratura già data nella Parte seconda, si tengano presenti le due monografie principali sull'Anticristo: la vecchia del BOUSSET (1895) e la recente del RIGAUX (1932); (del 1932 anche GÙNTERMANN, Die Eschatologie des hi. Paulus).
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sentava sanguinante del martirio dei perseguitati; essa si espresse nell'Apocalisse di Giovanni. Per intendere questo scritto, bisogna tenerpresente
l'ambiente tardo-flavio: il contrastato influsso di Berenice alla corte di Roma, la presenza di molti « giudaizzanti »Cristiani nella corte flavia (Flavio Clemente, Domitilla, Acilio) 28, il grande rilievo che aveva la personalità di Agrippa ii fondatore di Neroniade (l'antica Panion) e persona influentissima (così come la sua sorella Berenice) alla corte dei Flavii. La persecuzione domizianea segnò la rottura fra Roma domizianea e il cristianesimo. L'Apocalisse di Giovanni esprime una netta opposizione dell'ambiente giudeocristiano all'impero di Roma: vede la lotta fra il serpente-satana e la Donna da cui provengono i cristiani; vede che il serpente dà la sua forza a una « bestia dal mare », pantera con tratti di leonessa e di orsa, con sette teste (una delle quali ferita a morte, e tuttavia la sua ferita mortale fu curata) e dieci corna, signora di ogni stirpe e popolo e lingua e nazione, adorata da tutti gli abitanti della terra, bestemmiatrice del Dio; ed all'immagine di questa « bestia dal mare » dà spirito una seconda bestia, « bestia dalla terra », « che ha la ferita della spada e visse », che consente di comprare e vendere « solo a chi abbia il &pyux, il nome della bestia (dal mare) o il numero » (equivalente a 666) « del suo nome ». E a poca distanza da questa visione (capp. 12-13), l'Apocalisse di Giovanni ne ha un'altra (èapp. 16-19): gli angeli che versano le sette fiale dell'ira del Dio sulla terra, ed uno di essi che mostra una donna-meretrice seduta sulle acque e altresì su una bestia con sette teste e dieci corna, tutta inaurata di oro e pietre preziose, ebbra del sangue dei martiri di Gesù; un simbolismo che l'angelo spiega chiaramente, giacché la donna-meretrice è « la città grande Cfr. 5 29.
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Parte IV.
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che ha il, regno sui re della terra », e le sette corna sono i sette colli e inoltre sette re (cinque morti, uno vivente, uno dal breve regno, ed un ottavo che già era uno dei sette); ed un altro angelo annuncia la fine e l'incendio della « città grande, la forte Babilonia », sulla cui morte piangono i mercanti della terra, perché nessuno più comprerà le loro merci. Ogni lettore di Dante sa che questa donna-meretrice, che siede sopra l'acque, e puttaneggia coi regi, e con le sette teste nacque e dalle dieci corna ebbe argomento, è divenuta nel medioevo dantesco l'immagine della Chiesa simoniaca, i cui pastori hanno rinunciato alla virtute e dunque al dono charismatico dei sette sacramenti e dei dieci comandamenti. Il destino del simbolismo apocalittico è proprio caratterizzato da questo spostamento continuo della prospettiva: dall'Apocalisse di Giovanni, scritta ai tempi della persecuzione domizianea (o, se mai, subito dopo), alla Commedia dantesca sono trascorsi dodici secoli, e la prospettiva simbolica ha trasformato l'immagine della donna-meretrice, che nell'Apocalisse di Giovanni indicavà Roma imperiale (coi suoi sette colli e con « sette imperatori » di cui l'ottavo è uno dei sette), nel simbolo della Chiesa simoniaca romana. Il senso cristiano del tempo è segnato dalla eterna contemporaneità e adattabilità di ogni simbolismo storico: questo progressivo « contemporaneiz zarsi » della prospettiva apocalittica basta a rivelarci, meglio di ogni altra considerazione, la continuità del processo culturale per tutta l'epoca moderna, che in realtà ha suo inizio nell'impero romano e si protrae, attraverso il medioevo, sino ai nostri tempi - nei quali ancora la visione apocalittica, se pur « demitizzata », ha potuto conservare (si ricordi Pietro e Alessio di Merezkovskij, o Soloviov, o infine, la recentissima equazione di Hitler con l'Anticristo) la sua attualità contemporanea. E tuttavia: l'inquadramento dell'Apocalisse di Giovanni nel suo tempo, nel tempo domizianeo, non è un'im-
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presa dei tutto disperata. Anzi, al contrario, proprio lo « storico » (come si suoi dire) « profano » può individuarne il contenuto in termini di precisa interpretazione storica. L'Apocalisse di Giovanni ha voluto indicare nella « bestia dai mare » l'impero romano; e nella « bestia dalla terra », la quale favorisce il culto della « bestia dal mare », ha simboleggiato un qualche personaggio, forse di origine giudaica, il quale s'era piegato, esaltandolo, all'impero persecutore (Agrippa ii?) 29; ed infine nella donna-meretrice, che siede sulle acque e pur sulla bestia dalle sette teste e dalle dieci corna, ha simboleggiato Roma di cui la morte è segnata, con l'avvento del Regno di Dio. L'autore dell'Apocalisse di Giovanni pone la sua visione al tempo di Vespasiano, sesto fra gli imperatori romani: il settimo avrà breve regno (Tito); l'ottavo sarà reincarnazione di uno dei sette, sarà il calvus Nero di Giovenale, il Nero redivivus dei Cristiani, Domiziano. Muore ucciso Domiziano; l'impero- romano continua; il Regno di Dio, che l'Apocalisse considerava imminente, tarda ancora. La prospettiva continua a spostarsi. Il mito 29 Fra le interpretazioni sinora proposte, la migliore è indubbiamente quella del PIGANIOL, « Mélanges Glotz », 1932, p. 723, il quale identifica la bestia dalla terra con Balbillo. Ma le due corna simili ad agnello sembrano indicare un personaggio di origine giudaica: e così intendeva Ippolito. Per questa ragione io propongo un'identificazione con Agrippa Il: infatti, la bestia dalla terra « ha T +, v rvXiyfr (6 una ferita della spada e visse » 13 14 , deve intendersi della bestia dalla terra, come mostra il pronome relativo maschile, parallelo al maschile Xéyc.w che pur si riferisce alla bestia dalla terra), così come Aprippa ti, il quale, com'è noto, fu ferito. È naturale che l'intransigente e fanatico giudeocristianesimo vedesse in Agrippa tI, il fondatore di Neroniade, un vero e proprio Anticristo; egli era, insieme con la sorella Berenice, il personaggio più influente nella Roma dei Flavii; ed in questa epoca, in cui tutti si piccavano di profezie (anche il « profetico » Flavio Giuseppe, amico di Agrippa ti) e di magia, egli poteva forse essere accusato di pratiche magico-cultuali a favore degli imperatori suoi amici. - Letteratura sull'Apocalisse di Giovanni, ultimamente in Rissi, Zeit u. Gesch. in der O/fenbarun.g
des Job. (1952).
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del Nero redivivus si allarga nel tempo. Come già sotto Nerone e ai primissimi tempi di Vespasiano, così pure sotto Adriano scorre nella Palestina eroico sangue dei difensori del giudaismo; Adriano trasforma Gerusalemme in Aelia Capitolina. Questo avvenimento non può lasciar indifferenti i Cristiani. È forse un segno della fine del mondo, dell'avvento del Regno divino? Motivi della grande tradizione giudaica riaffiorano nell'escatologia degli apologeti cristiani.. Daniele (che in realtà si riferiva all'epoca maccabaica) è, tra i testi « profetici », il più studiato dal punto di vista dell'escatologia cristiana (accanto, naturalmente, a Isaia); ed a lui si rifà Giustino, nella sua impaziente attesa della vicina parusia di gloria. Absalom, il biblico figlio-nemico di David, era già per il giudaismo simbolo del male (nel Commentario di Habacuc, testo fondamentale per la Nuova Alleanza, i sacerdoti alleati di Erode il grande sono « casa di Absalom »; cfr. la nostra interpretazione supra, § 19; in/ra, App. il); per Melitone, vescovo di Sardi all'epoca di Marco Aurelio, Absalom è il simbolo del diavolo-Anticristo. Il grande sistematore del concetto di Anticristo è Ireneo, il propagatore del cristianesimo presso i contadini celti; egli combina Daniele (la statua vista in sogno da Nabucodonosor; le quattro bestie viste da Daniele) con l'Apocalisse di Giovanni; vede nell'ultima delle quattro bestie di Daniele - una bestia con dieci corna, di tra le quali spunta un corno piccolo, che svellerà tre delle dieci - l'immagine dell'impero romano, che sarà diviso fra dieci re; vede nel piccolo corno l'Anticristo; nella « bestia dal mare » e nella « bestia dalla terra » dell'Apocalisse di Giovanni vede l'Anticristo e il suo pseudoprofeta. Ma Giustino, Melitone, Ireneo sono leali all'impero romano; specialmente Melitone, che sottolinea la concordia ideale tra fondazione dell'impero romano e fondazione del cristianesimo. L'epoca di questi pensatori cristiani è l'epoca dell'impero umanistico, più precisamente l'epoca di Antonino Pio e di Marco; la lotta dell'im-
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pero contro il giudaismo non li turba, appunto perché ormai il cristianesimo si è nettamente separato (come a suo luogo vedemmo) dal giudaismo; lo spirito antiromano della giudeocristiana Apocalisse di Giovanni 30 abbastanza lontano, anche se Ireneo conosce chiaramente l'origine dell'Apocalisse di Giovanni dall'epoca domizianea. Per questi scrittori cristiani del tempo di Antonino Pio e di Marco, impero romano e cristianesimo sono conciliabili, più o meno, nel senso indicato dall'apostolo Paolo (cfr. supra, § 23), che omnis potestas a Deo. L'attesa del Regno divino resta, prolungata nel tempo. Anzi, essa sollecita una nuova interpretazione della storia soteriologica del mondo. Qual è questa interpretazione? Un testo fondamentale (« frammento muratoriano »), che ci dà il canone degli scritti neotestamentarii accettato dalla comunità cristiana di Roma nell'epoca dell'imperatore Marco (o negli ultimissimi tempi di Antonino Pio), ci dà anche l'interpretazione cristiano-romana della storia soteriologica mondiale: esso ci dice infatti che il Pastore di Hermas non può considerarsi pienamente canonico (anche se può leggersi), perché non ha posto « né tra i profeti, il cui numero è ormai completo, né tra gli apostoli, perché ormai siamo alla fine dei tempi ». Dunque: epoca dei profeti, che è in fondo l'epoca di Israele e dell'antica Legge; epoca degli apostoli, che è l'epoca della predicazione prima cristiana; e ora, nell'epoca di Marco tormentata dalla peste e dalle guerre (o, se volete, negli ultimissimi tempi di Antonino Pio), « fine dei tempi », finis temporum. Questa colossale rivoluzione cristiana, la quale trasforma ogni fedele - anche il più povero di spirito - in un rivoluzionario pensatore, ha ormai la 30 Giudeocristiana, anche con il suo concetto gioannitico del Logos: un'ulteriore prova, se ce ne fosse bisogno, che il concetto del Logos (come ha mostrato DiJRR) ha origine giudeocristiana, e non ellenocristiana.
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Parte IV.
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sua filosofia della storia, senza grosse pretese ma anche senza dubbi o incertezze: « epoca dei profeti », « epoca degli apostoli », ed ora finis temporum. Senza pretese, perché questa è la filosofia di ogni cristiano di Roma, sia esso borghese o schiavo (com'è stato uno schiavo il vescovo Pio); senza incertezze, perché questa, che noi moderni chiameremmo « filosofia della storia », non è altro che l'intuizione del tempo la quale si riflette nella fissazione del canone. Proprio il senso della finis temporum sollecita, dunque, la fissazione dei canone: l'attesa del Regno divino si è snodata nel tempo, ma ha condizionato la prospettiva storica con la tripartizione di essa in epoche profetica-apostolica-/mis temporum D'ora in poi, ci p031 Le ragioni della fissazione del canone sono un eterno cavallo di battaglia della polemica confessionale. Dal punto di vista storico, esse. non possono intendersi all'infuori della finis attesa e temuta. La mia datazione del Canone Muratoriano è dovuta a nuperrime di 1. 74; in fine temporum di 1. 80 esclude l'attribuzione di esso a Ippolito, sostenuto a torto da ZAHN, Forsch. x (1929), p. 58; Ippolito scrive in greco (e non già nel latino volgare del Canone Muratoriano), e pone la finis temporum nel 500 d.C.; senza dire, poi, che la grande attività di Ippolitò si svolge ben più tardi del Canone Muratoriano, e che il suo canone non coincide punto col Canone Muratoriano (infatti, Ippolito cita 1 e 2 Petr., e 1 Ioh.). L.ast bui' noi' ieast: l'elenco degli scritti di Ippolito nella statua del Laterano non contiene l'indicazione di un canone, e c x el aac t ypap significa « carmi a (proposito di) tutte le scritture », né più né meno. - Vale forse la pena di tradurre, per maggiore chiarezza, le 11. 73-80 del Canone Muratonano: « il Pastore Io scrisse recentissimamente, ai nostri tempi, in Roma, Hermas, mentre suo fratello il vescovo Pio sedeva sulla cathedra della chiesa della città di Roma: è dunque opportuno leggerlo, ma non può esser pubblicato alla comunità nella chiesa » [come scritto canonico] « (perché non si colloca) tra i profeti, essendo completo il numero di questi, né tra gli apostoli, (essendo stato scritto) alla fine dei tempi »; questa traduzione è l'unica possibile. - Il culto domenicale descritto da Giustino (A poi. i, 67) consiste, per ciò che riguarda la lettura biblica, 'in un'assemblea se in cui si leggono « memorie degli Apostoli » o « scritti dei profeti »; si noti, anche qui, la distinzione, che rispondeva ad una distinzione di epoche. - Al solito, la differenza tra la concezione pagana del tempo, e quella cristiana, si coglie benissimo nell'interpretao
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tranno essere oscillazioni nella fissazione del canone (per esempio, il Canone Muratoriano contiene la lettera di luda, che non troviamo citata da Ippolito; né il Canone Muratoriano né Ippolito indicano la lettera di lakobo; ecc.); ma l'intuizione temporale, che è presupposta nella fissazione del canone, resterà sempre perché connessa con una fissazione di epoche, delle quali le prime due sono per sempre fisse (la profetica e l'apostolica), l'ultima (finis temporum) si considera imminente ma può sempre snodarsi nella grande attesa. Anzi, su che si accentra, ora, la preghiera escatologica delle comunità cristiane? Ce lo dice Tertulliano: i Cristiani, come pregano per la salus dell'imperatore, così anche pregano perché sia ritardata l'imminente finis temporum: pregano pro mora finis. Ma l'epoca di Marco ha sconvolto gli animi. Si può pregare, come dice Tertulliano, pro mora línís; ma non per questo ci si crede lontani dalla fine. Montano sente imminente il crollo di questo mondo, del vecchio mondo; noi già vedemmo l'importanza della sua predicazione. Tutta l'epoca di Commodo e dei Severi porta il segno della grande attesa. Montano fa anche proseliti a Roma: c'è una comunità cristiano-montanista di Roma, condotta da un tale Proclo. Ma il grosso della comunità cristiana di Roma reagisce. Il presbitero Gaio, sotto papa Zefirino (198-217), attacca i montanisti, particolarmente i montanisti di Roma: contrappone ad essi le memorie apostoliche della comunità romana, il « trofeo » di Pietro al Vaicano, il « trofeo » di Paolo alla via Ostiense; nega l'au-
t
zione del concetto di exxyy.ov: cfr. supra, § 19; gli « evangelii » pagani tendono a convertirsi in singoli cycrcx (questo termine nella lettera di Settimio Severo e Caracalla a Nicopoli dell'Istro; cfr. l'elenco di testi in ROBERT, « Bui!. Corr. Hell: », 1936 9 p. 187) festivi, laddove l'« evangelio » cristiano è annunzio del Regno di Dio e dunque della finis temporum. Si ricordino le osservazioni sul Feriale Duranum a § 19. - (t ora apparso un libro
dl QUACQUARELLI su La concezione cristiana della storia nei Padri prima di Agostino.)
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Parte I V .
La crisi dello stato antico
arma precipua tenticità dell'Apocalisse di Giovanni e sinanco dell'Evangelio della predicazione montanista di Giovanni. Ma come si può cacciare dal canone 1'Apocalisse di Giovanni? Questo disperato tentativo antimontanista va troppo lontano: l'Apocalisse di Giovanni (a differenza dall'Apocalisse di Pietro, già attaccata ai tempi del Canone Muratoriano) è ormai entrata tra gli scritti canonici, appunto perché i cristiani la connettono (per via del concetto di Logos) all'Evangelio di Giovanni, stabilmente entrato nel canone. Il presbitero Gaio e tutti i negatori della canonicità di questi testi ioannitici (gli « Alogoi »), non possono avere molti seguaci. Del resto, l'epoca di Settimio Severo, con il dogma anticristiano di questo imperatore nel 202, rafforza l'impressione che l'impero romano è destinato alla fine: proprio come l'Apocalisse di Giovanni aveva predetto. Qui interviene 'Ippolito. Egli è un discepolo di Ireneo: soprattutto gli preme di affermare, contro il presbitero Gaio, la canonicità dell'Apocalisse di Giovanni (e, a maggior ragione, dell'Evangelio di Giovanni). Scrive, contro Gaio, un'opera intorno all'Evangelio secondo Giovanni e all'Apocalisse (di Giovanni). Noi dovremo datare questo scritto di Ippolitò verso l'epoca di Caracalla; in ogni caso, non molto dopo l'episcopato di Zefirino, il quale si è concluso nel 217 (l'anno della morte di Caracalla ). Intanto, si verificano fatti nuovi: ucciso Caracalla, gli succede per breve tempo Opellio Macrino (217-218), poi Elagabalo (218-222) ed infine Severo Alessandro (222235 ). Dopo lo scritto intorno all'Evangelio secondo Giovanni e all'Apocalisse (di Giovanni), Ippolito scrive altri due lavori, uno Intorno ai carismi, un'altro sulla Tradizione apostolica; mentre ferve, dal 217, la lotta fra lui e Callisto. Nel 222 Ippolito scrive la Cronaca; subito dopo, un trattato Sull'Universo, contro gli Elleni e contro Platone, che i manoscritti tramandano sotto il nome di Iosephos (cristianizzazione del nome Hippolytos, giacché il casto
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Ippolito della mitologia pagana è « conguagliato » col casto Giuseppe della Bibbia; questa « cristianizzazione » del nome Ippolito può rimontare all'autore); in quello stesso torno di tempo scrive, in ordine cronologico, un Protreptico a Severina (senza dubbio, una donna di famiglia senatoria: forse la clarissima lemma rivelataci da una fistola urbana 32 scoperta recentemente), un Canone pasquale (che si accentra al 222, inizio dell'impero di Severo Alessandro), delle Odi su tutte le scritture, uno scritto Su Dio e sulla Resurrezione della carne indirizzato a lulia Mamea, la filocristiana madre di Severo Alessandro ed effettiva dominatrice dell'impero. Ancora Ippolito è amico (o per lo meno non è nemico) dell'impero romano: il difensore dell'Apocalisse di Giovanni si muove sempre in una prospettiva di rispetto alle « autorità » dell'impero, nella prospettiva che Ireneo ripeteva dall'omnis potestas a Deo della concezione paolina. Dopo lo scritto a lulia Mamea, il rigorista Ippolito scrive un trattato Intorno al bene e all'origine del male. Ormai, Callisto è morto; e certamente, Ippolito spera di conquistare a s la comunità cristiana di Roma. Dopo la pubblicazione del suo trattato Intorno al bene e all'origine del male, una statua di Ippolito è eretta, con l'elenco delle sue pubblicazioni, in qualche luogo pubblico (potremmo pensare, ma solo a titolo di ipo tesi e con ogni riserva, ad una biblioteca cristiana, o diretta da cristiani, per esempio la biblioteca diretta da Sesto Giulio Africano, con carattere ufficiale, presso le terme di Severo Alessandro). Così, Ippolito riceve un onore ambito dagli scrittori di epoca severiana (per esempio, dal poeta Nestore la cui xv portava l'indicazione che i suoi libri si trovavano nel vex& « tempio »). Ippolito era divenuto una grande personalità della cultura uffi32 « Buil. Com . », 1941, p. 191, nr. 29; cfr. BARBIERI, L'albo senatorio, p. 397, nr. 2277. Se è nel vero l'integrazione da me proposta: infra, xxlx.
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Parte IV.
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ciale dell'epoca di Severo Alessandro: di questo imperatore, il cui governo riconosceva ormai l'enorme significato della predicazione cristiana (lulia Mamea, infatti, venerava il teologo Origene, amico di Ippolito; il cristiano Sesto Giulio Africano, i cui scritti sono connessi con l'opera di Ippolito, era il bibliotecario ufficiale; l'imperatore, come già vedemmo, dava ai Cristiani di Roma un locus publicus preteso dalla corporazione dei popinarii; e nel suo larario, secondo la tradizione della H. A., poneva anche Cristo). Ma l'opera di Ippolito non si fermò al Protreptico a Severina, e allo scritto Su Dio e la resurrezione della carne indirizzato a lulia Mamea, e al trattato Sul bene e l'origine del male. A noi sono pervenuti tre scritti di Ippolito, che rivelano - specie i due ultimi - un convinto nemico dell'impero romano. Sono l'Elenchos contro tutte le eresie, l'Anticristo, il Commentario a Daniele. Già nel precedente paragrafo si è vista la appassionata polemica di Ip polito contro le donne di famiglia senatoria (le clarissimae leminae) che vanno al Didaskaleion di Callisto (e disertano, dobbiamo pensare, la comunità diretta da Ippolito). E ancora, l'Anticristo: qui la « bestia dal mare » e la « bestia dalla terra » dell'Apocalisse di Giovanni sono rispettivamente interpretate come l'impero romano e l'Anticristo, quest'ultimo di origine giudaica, ma con nome Lateinos I due popoli, il pagano e il giudaico, sono dunque accomunati dall'odio contro il popolo cristiano: i due vecchioni che insidiano Susanna, secondo l'espressio, ne del Commentario a Daniele. In quest'ultimo scritto culmina l'ostilità di Ippolito all'impero romano: l'impero romano « domina per la potenza di Satana » (xpotrcZ x-r &v&pytv Tou aovravm: cap. 9), è una contraffazione del cristianesimo perché (a differenza dagli imperi babione Su questo punto, l'importante monografia di D0NINI; e inoltre CECCHELLI, Monum. crzst.-er. di Roma, pp. 35 sgg.; altra letteratura in/ra, xxxv; cfr. già il vecchio NEUMANN.
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se, persiano, greco) non è una sola nazione ma piuttosto un'accolta di nazioni unite allo scopo della guerra (laddove i Cristiani sono, sì, uniti, da tutte le nazioni e le lingue, ma allo scopo di portare nel cuore il nuovo nomen cristiano). Un impero che domina per la potenza di satana, e che è un coacervo di nazioni ai fini della guerra, è destinato alla morte. Ippolito sa quando e corre avverrà la morte di Roma: il mondo deve durare 6000 anni, Cristo è nato nel 5500 dalla creazione de mondo, Roma morrà nel 500 dopo Cristo. Morrà perché il suo impero sarà diviso « secondo nazioni », da dieci re (rò Xov xr& '&wl &cxLpouJk?(ùv), e ricostituito ad unità dall'Anticristo di origine giudaica, per essere presto distrutto dalla parusia divina. Sulla data della morte di Roma, Ippolito ha, grosso modo, indovinato: in fondo, il 500 d.C. è, in media, una data approssimativamente esatta, perché l'impero d'Occidente è in realtà caduto nel 476, e la conquista arabica dell'Egitto e della Siria può datarsi nella prima metà del vii secolo. Pur legato al letto di Procuste della sua esegesi biblica, l'antipapa rigorista ha formulato una data che si Comm. Dan. iv, 9. Questo passo -* il più importante testo di autore del in secolo sull'impero romano -* va considerato alla luce di quello che H. FUCHS chiama Der geistige Widerstand gegen Rom. Ippolito stesso sottolinea, a principio del passo, l'importanza della sua breve digressione. Il punto più importante è bc v-rv -r7v &vcTv (quegli hrr che nel 500 si ribellarono, secondo Ippolito) au1Xèyouacc -roug yevvatoT9croijq x p'rLcL d ir6Xr.ov 'Pou 'ro&rou &ivox o3az. Vale la pena di sottol neare che proprio un atteggiamento spirituale di questo ge- i nere (« i valorosi - chiamati romani », anche se non lo sono) spiega l'evoluzione semantica di Tw [iotLoc, a indicare « soldato » in genere (specie in siriaco, dove putacaso rhòmàjé possono indicare addirittura i soldati del re persiano: cfr. ora SCHAEDER presso ALTHEIM, Niedergang, ii, 1952, p. 511). La pratica dei diplomi mliitari (supra, XXVI; cfr. quello di Massimino che citerò innanzi a § 60), continuatasi del resto pur dopo la constitutio di Caracalla, può aver contribuito ad un'evoluzione semantica Romanus = miles.
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direbbe, grosso modo, profetica. Ciò significa che la prospettiva apocalittica, quanto più attenuava la visione esatta del passato (le interpretazioni storiche di Ippolito sono piene di errori), tanto più acuiva lo sguardo del rigorista sulle interne contraddizioni e sul destino finale dell'impero. Ireneo aveva potuto conservare la sua lealtà all'impero, nel senso che omnis potestas a Deo; ma egli stesso sapeva benissimo di aver predicato in lingua celtica ai contadini celti. Il suo discepolo Ippolito ha intuito che la struttura aristocratica della società ellenistico-romana non poteva all'infinito soddisfare la sostanza democratica di proletariati contadini nazionali come il celtico o l'egiziano o il libico-punico. Anche in un paese fortemente romanizzato, come le Gallie, il proletariato contadino, a cui si volgeva la predicazione cristiana, diceva (per esprimerci in francese moderno) lie e sillon; questi vassalli (la parola è celtica) dei ricchi gallo-romani parlavano celtico. Un uomo della strada poteva anche non capire il significato di queste cose. Ma l'occhio di Ippolito, discepolo di Ireneo e interprete dell'Apocalisse di Giovanni,
le capiva: vedeva molto lontano, a distanza di tre secoli o quattro. Quando noi storici moderni dichiariamo (com'è merito dell'Andreotti) che ancora nel in e iv secolo una « coscienza quasi nazionale » non è riscontrabile nell'impero romano (lo stato gallo-romano di Postumo, che studieremo innanzi, non ha alcun carattere di stato nazionale), indichiamo uno dei tanti paradossi entro cui si muoveva a vita dell'impero romano. Vale a dire: non c'era nessuna vera e propria coscienza nazionale; ma d'altra parte, la cristianizzazione dei proletariati contadini, e altri fenomeni paralleli, sollecitavano una democratizzazione dell'impero, e addirittura suggerivano ad Ippolito l'intuizione « secondo nadi una divisione dell'impero xcrr& zioni », lontana nel tempo, ma in ogni modo sicura. Essa dovrà essere tenuta presente, quando si interpreterà coi presupposti che già ho indicato, a proposito dei dedi-
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ticii di Caracalla (cfr. anche 5 60) la storia del contadiname nell'impero; quando si interpreterà l'ordinamento diocesano dioclezianeo; e infine, quando si studierà (infra, Parte quarta, spec. Capitolo secondo) la morte effettiva dell'impero, nei secoli v-vii. Se in questo paragrafo fu necessario insistere sull'evoluzione spirituale di Ippolito in tutti i suoi particolari, ciò è dovuto ad una considerazione pregiudiziale di enorme importanza. Non esiste epoca, in tutta la storia della nostra cultura, la quale sia così densa di assurdità, pressoché paradossali, come questa sconvolta epoca di Commodo e dei Severi. Lo storico moderno vorrebbe trovar tutto chiaro e ragionato, e si trova dinanzi a fatti incomprensibili. Nell'epoca di Commodo si fa un processo a Callisto; tutti sanno che egli e il suo padrone, il liberto imperiale Carpoforo, sono cristiani; ed ecco che Carpoforo (supra, § 58) si precipita a dichiarare che Callisto non è cristiano. Nel 202 Settimio Severo ha emanato il suo dogma contro il proselitismo cristiano, dogma che lo storico ecclesiastico Eusebio giustamente definirà come quello che « aveva sconvolto le menti dei più » 36 ; ed ecco che nel 212 Tertulliano ci presenta un Settimio Severo Christianorum memor e ci parla di un'educazione di Caracalla lacte Christiano. Oppure: lo scrittore-bibliotecario Sesto Giulio Africano, è, certo, un cristiano, e tuttavia ci riporta formule magiche pagane, accanto ad alcune bibliche (naturalmente, non sono mancati studiosi moderni che hanno trovato assurdo tutto ciò, e hanno convertito Africano in uno scrittore pagano!). Caracalla dichiara di voler dare la cittadinanza a tutti i liberi dell'impero (tolti i d ed iticii ), al fine egli dice di estendere a tutti il culto degli dèi romani; ed ecco che il liberto imperiale Prosenes, morto nel 217, è indicato cristianamente come receptus ad Deum (del resto, Caracalla è considerato da 36
Eus., h. e. vi, 7.
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Tertulliano come imperatore lacte Christiano educatus); e che il legato di Arabia manda lettere ufficiali al vescovo di Alessandria e al prefetto di Egitto perché Origene si rechi a conferire con lui Si potrebbe continuare così, all'infinito. Ed ora, il caso di Ippolito: l'impero di Severo Alessandro (cioè di lulia Mamea) è filocristiano, e tuttavia troviamo che il periodo più antiromano dell'opera di Ippolito si pone proprio dopo il 222, dopo l'avvento di Severo Alessandro, e che nelle opere di questo periodo (specie nel Commentario a Daniele) Ippolito considera ancora in atto la persecuzione contro i Cristiani. Appunto per questa ragione, a prima vista si dovrebbe ritenere che scritti come quello su L'Anticristo o il Commentario a Daniele vadano collocati - proprio al contrario della datazione che qui si è proposta - subito dopo, o comunque non molto dopo, la persecuzione di Settimio Severo (202): diciamo, verso il 202-205. Ma è chiaro che una datazione così « anticipata » deve escludersi senz'altro, e che solo la datazione qui proposta (Anticristo e Commentario a Daniele durante l'impero di Severo Alessandro, anzi piuttosto verso la fine di quest'impero) si concilia con la storia spirituale di Ippolito ". Ed è anche chiaro - cfr. supra, S 58 - che l'accezione « puntuale » del concetto di « persecuzioni » dev'essere rovesciata, o per Io meno rettifiEus., h. e. vi, 19, 15. La mia ricostruzione si fonda altresì sul presupposto che l'elenco delle opere di Ippolito nella statua del Laterano deve essere un elenco cronologico: la mancanza dei Philosophumena, dell'Anticristo del Commentario a Daniele (che è posteriore all'Anticristo), si spiega solo se la statua fu eretta prima che si pubblicassero i Philosophumena (diversamente BovINi, « Buil. Com . », 1940, p. 109); non si può spiegare altrimenti. Per la connessione di libri ed eikdn in questo periodo, cfr. sempre la statua di Ne store, con l'indicazione che i suoi libri si trovano nella biblioteca del tempio (in/ra, xxix). - Per lo losepos di NAUTIN (in/ra, xxxv), basterà osservare quanto già accennammo. losepos è « cri stianizzazione », « traduzione biblica », del nome Hippolytos; per l'identificazione della statua i vecchi argomenti del BUNSEN son sempre validi. 38
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cata. In altri termini: se i moderni (per esempio Lefèvre) pongono il Commentario a Daniele verso il 202 in base alla sua descrizione della persecuzione contro i Cristiani come « persecuzione in atto », e se viceversa (come qui si è mostrato) il Commentario a Daniele va posto nell'epoca di Severo Alessandro, ciò dimostra non solo che la storia di Ippolito dev'essere ricostruita su nuove basi, ma anche che il concetto di « persecuzioni » dev'essere inteso sulla base di quelle pregiudiziali che già si indicarono al § 58 di questo libro. È la solita paradossale ,situazione dell'impero di Commodo e dei Severi ne' rispetti del cristianesimo. Per intendere Severo Alessandro, dobbiamo ricor dare Commodo. Sotto Commodo, addirittura Marcia, la pallaké dell'imperatore e donna la più influente di tutto l'impero, è una filocristiana, devota al vescovo di Roma, e comunque coptX sinanco a giudizio del rigorista Ip polito; sotto Commodo, si può dire che la politica imperiale di eiréne segua un corso non anticristiano, o in qualche caso filocristiano. E tuttavia, ciò non impedisce che Giudei o pagani possano accusare di cristianesimo un qualche loro avversario, e che questi (come è avvenuto per Callisto) venga condannato, in base a quell'accusa, se gli capita di esser giudicato da un magistrato di stretta osser-vanza pagana. Non l'atteggiamento dell'imperatore è determinante, sì invece il ius coercitionis del magistrato. Così pure sotto Severo Alessandro: lulia Mamea è amica divota di Origene, riceve uno scritto di Ippolito sulla resurrezione; Severo Alessandro dà ai Cristiani un locus publicus preteso dai popinarii; ma ciò non toglie che Giu dei o pagani possano accusare di cristianesimo un qualche loro avversario, e ottenerne la condanna da parte di un magistrato zelante e pagano. Se volete trovare la spiegazione di questi paradossi, dovete cercarla in una sola parola che basta a definire lo « stile » di tutta la storia im periale: tradizione. Questo impero sconvolto dalla più drammatica di tutte le rivoluzioni è un impero di forma
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tradizionalista, di sostanza rivoluzionaria. Tradizione significa, anche e soprattutto, diritto. Commodo, l'amante di una cristiana o filocristiana, non può revocare una tradizione giuridica che condanna i Cristiani per il nomen ipsum di cristianesimo. Severo Alessandro, il quale non fa che obbedire a sua madre lulia Mamea filocristiana ed è legatissimo a uno scrittore cristiano come il (diciamo così) « suo bibliotecario » Giulio Africano, non può revocare il dogma di Settimio Severo contro i catecumeni cristiani, dogma che del resto rientra in tutta la tradizione giuridica che condanna i Cristiani. La persecuzione dei due « popoli », giudaico e pagano, contro il terzo popolo, cristiano, ha sempre il suo corso; è, direbbe Ippolito, la persecuzione dei due vecchioni contro Susanna. Ma, naturalmente, una tale persecuzione colpisce a caso, e soltanto a caso: chi potrebbe accusare di cristianesimo le centinaia e migliaia di Cristiani, in blocco? I due popoli, i due vecchioni, ogni tanto entrano in una « chiesa », prendono uno o due o dieci Cristiani, li trascinano al tribunale del magistrato; generalmente, i colpiti sono persone malviste, e anche politicamente non hanno « le spalle al sicuro ». Chi oserebbe accusare, putacaso, un Giulio Africano, persona cara all'imperatore? E poi: chi potrebbe giurare che quel tale cristiano accusato non trovi il modo di « uscirsene », più o meno facilmente? Cristiani che sacrificano se ne trovano parecchi; sono, probabilmente, i più, per lo meno all'epoca di Commodo; sacrificano anche quando non è in giuoco la loro vita, ma semplicemente una banale tradizione mondana - per esempio, il giuoco dei dadi, prima del quale si è soliti sacrificare al dio inventore del giuoco Nell'epoca dei Severi, Cristiani che sacrificano se ne troveranno di meno; ma Cristiani che sanno vivere (e che saprebbero difendersi da un'accusa) se ne troveranno, forse, di più. In queste condizioni, menDeduco questo particolare, al solito, dal de aleatoribus.
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tre il cristianesimo è divenuto la religione dell'oriente romano, e si avvia a conquistare l'impero, i Cristiani possono sfidare l'eventuale accusa; puntano, soprattutto, sulla speranza che l'accusa non verrà; se per avventura venisse, molti di essi (nell'epoca di Severo Alessandro, è questo il caso - come sembra - del « martirio di santa Cecilia » 40) sono preparati al martirio, come già Callisto sotto Commodo. Del resto, la grande arma dei Cristiani è proprio nel proselitismo cristiano: quando il cristianesimo sarà penetrato nelle famiglie senatorie, sarà più difficile trovare magistrati che applichino il dogma di Settimio Severo, e in genere la legislazione contro il nomen ipsum di cristianesimo. E infine: quanti sono quei magistrati pagani i quali, in cuor loro, non pensino che anche il Kyrios dei Cristiani è un possente e adorabile Dio? quanti sono, fra essi, quelli che non abbiano una sposa o una sorella, o comunque dei familiari, regolarmente divoti al Dio dei Cristiani? Uomini della tradizione, i senatori romani si trovano, spesso, il cristianesimo in casa; qualcuno di essi, come un legato di Cappadocia sotto Settimio Severo, reagisce mostrando una severità anticristiana tanto più forte, quanto più è vigorosa la fede cristiana della moglie; ma qualche altro (e doveva essere il caso più frequente) si arrende al cristianesimo, perché non vuoi dispiacere alla moglie. Un caso clamoroso ci è raccontato proprio da Ippolito, nel Commentario a Daniele: un vescovo di Siria è convinto che il Regno di Dio è imminente, che bisogna andare ad incontrar Cristo nel deserto siriaco; trascina con sé i suoi fedeli; queste masse erranti diventano un po' masse di ladroni, disturbano la quiete della provincia; ma il legato di Siria, lungi dal perseguirli per il nomen ipsum di Cristiani, non li perseguita neppure come ladroni. Sua moglie era un'ardente cristiana 41 Le società It. sur le Lég. rom., 1936, p. 194. Hipp., Comm. Dan. iv, 18.
40 DELEHAYE, 41
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che si sfaldano hanno una sola coerenza possibile: il paradosso. Da queste considerazioni discende una chiara conseguenza: solo la diretta conquista dell'ordine senatorio poteva garantire i Cristiani contro l'applicazione del dogma di Settimio Severo e anzi di tutta l'antica e nuova legislazione anticristiana. Ora comprendiamo perché Ippolito abbia scritto, poco prima del 222 o forse nello stesso 222, il protreptico alla clarissima femina Severina; e perché abbia scritto, poco dopo il 222, la sua opera sulla resurrezione a lulia Mamea. Se non si può revocare la legislazione anticristiana, bisogna per lo meno inistere sulla conversione di quelli che dovrebbero applicarla. Ma il rigorista Ippolito non era fatto per attirare le clarissimae leminae, alla sua comunità. Le clarissimae leminae correvano alla comunità di Callisto. Quando morì Callisto, continuarono a « correre » alla comunità dei suoi successori, alla comunità dei Callistiani. Ippolito restò deluso: la comunità dell'ex banchiere aveva maggior successo della sua. Non c'era dubbio: l'impero romano era costituito « secondo la potenza di Satana », xr' èVépyr.LIV rou amrava. Per lo storico moderno, il quale considera (o dovrebbe considerare) queste cose senza passione né ira, il grande fenomeno è sempre quello: la secolarizzazione del cristianesimo. Entrando nelle case senatorie, il cristianesimo compiva l'atto definitivo della sua conquista. Roma, la città che ammorbidisce tutti i contrasti e le rivoluzioni (persino il giudaismo di epoca tiberiana aveva assunto, a Roma, un certo carattere di mondanità " ), ebbe una grande parte nella secolarizzazione; persino i senatori pagani non osavano fare una polemica vera e propria contro il cristianesimo, limitandosi (come vediamo nello storico e senatore pagano Cassio Dione) a designare i Cristiani 42
los., Ant. Iud. xviii, 3, 4.
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come seguaci di « costumi giudaici » o ad attribuire il « miracolo della pioggia » nella guerra quadica di Marco ad influssi magici egizi anziché cristiani, e soprattutto a insistere sulle figure taumaturgiche pagane (Apollonio di Tiana). Le famiglie senatorie romane sono ormai (come già abbiamo visto, per una buona percentuale, quasi la metà) originarie dell'Oriente cristianizzato e altresì (per un'altra metà) dell'Occidente; la conversione delle clarissimae leminae è solo un aspetto della conversione di grande parte dell'impero. Ma soprattutto: l'economia di elemosine, su cui si fondano le comunità cristiane (supra, § 58), abbisogna di fedeli che provengano dalle classi elevate; abbisogna di ricche donne senatorie, di cavalieri, di liberti. Se il cristianesTmo di Ireneo si era rivolto ai contadini celti, il cristianesimo di Callisto entrava signorilmente nelle case senatorie. Del resto, già Clemente, il predecessore di Origene al Didaskaleion di Alessandria, aveva interpretato il famoso logion di Gesù al ricco adolescente (« vendi quello che hai ») 'in un senso tutto pneumatico (quasi significasse: « vendi le tue passioni »); ed in questo senso aveva orientato, a conciliar cristianesimo e classi abbienti, il suo scritto Chi è il ricco che si salva? Tali spiegazioni pneumatiche, che sono nello stile di questa epoca per eccellenza simbolistica, contribuiscono a « calare » il cristianesimo nella grande vita economica dell'impero. Ma resta sempre il grande problema dei proletariati contadini, che continuano a parlare celtico in Gallia e in Galazia, tracio (« besso ») nella Tracia, copto in Egitto, aramaico in Siria, e via dicendo. Fra questi contadini si Nonostante l'aspro conflitto tra Giudei e Cristiani, ancora in questo periodo qualche cristiano sentiva l'attrazione della religione-madre, e si convertiva (anche per sfuggire alle persecuzioni) al giudaismo. - L'insistenza di Cassio Dione su Apollonio di Tiana va confrontata con la presenza di Apollonio e di Cristo a un tempo nel larario di Severo Alessandro secondo la H. A. 29, 2 (in/ra, App. u).
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trovano, appunto, i dediticii di Caracalla. La Lettera di lakobo - una lettera « cattolica » giudeocristiana, che stentò a lungo ad entrare nel canone neotestamentario" - era, fra i testi apostolici, il più « incendiario » dal punto di vista sociale: parlava dell'oppressione dei contadini da parte dei ricchi, sempre pronti a trascinarli in tribunale; minacciava la punizione divina contro i ricchi, perché « la mercede degli operai che hanno lavorato le vostre terre, da voi negata, grida (vendetta) e le grida dei contadini che raccolsero le messi sono arrivate alle orecchie del Kyrios degli eserciti ». I contadini, a cui guarda la Lettera di lakobo, sono i contadini giudeocristiani di Siria dell'epoca claudia; i ricchi che essa attacca sono i proprietarii romani di rango equestre (2, 2: &vp xpuaox'Xt.o; cfr. supra, § 25), ai quali, quando si rechino nella sinagoga dei Cristiani, la Lettera di lakobo vuol negare onori di proedria. Dall'epoca della Lettera di lakobo all'epoca di Ippolito era ormai trascorso, diciamo, un secolo e mezzo; ma il contadiname siriaco era sempre, più o meno, nelle condizioni spirituali e sociali presupposte dalla Lettera di lakobo. Era sempre una « nazione » che aveva la sua lingua (l'aramaica), come le altre « nazioni e lingue », di cui l'impero romano era, secondo Ippolito, un coacervo ai fini della guerra, e che, sempre secondo Ippolito, avrebbero dissolto l'impero, verso il 500 d.C., in un'anarchica divisione fra « democrazie » nazionali. L'esclusione dei dediticii dalla constitutio di Caracalla aveva pure la sua importanza, se inquadrata in una prospettiva lontana.
" Qualcuno ha pensato canone di Ippolito.
(LAGRANGE)
che essa fosse già nel
Capitolo secondo DA MASSIMINO A GALLIENO (235-268): LE GUERRE CIVILI E L'IDEALE FILOSOFICO
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Massimino il Trace (235-238): religione ed economia.
Il vescovo Ippolito aveva avuto una qualche ragione, quando aveva additato nell'impero romano' del suo tempo un organismo tutto rivolto alla guerra: « l'impero che comanda secondo la potenza di Satana, e raccogliendo i più valorosi di tutte le nazioni li arma per la guerra, chiamandoli Romani ». Poco tempo dopo la pubblicazione del Commentario a Daniele, a cui appartengono queste parole, il nuovo imperatore espresso dalla rivolta militare, Massimino il Trace, indirizzò tutte le forze dell'impero alla guerra antigermanica già iniziata dallo sfortunato Severo Alessandro. Per difendersi, l'impero doveva prendere l'offensiva. Massimino non pensò neanche a recarsi "a Roma; la sua sede fu nelle Germanie (poi, nell'inverno 237238, in Pannonia). La figurazione di una sua vittoria ger1 Cfr. supra, § 59. Naturalmente, Ippolito intendeva la sua definizione per tutto l'impero, in genere; ma essa vale, in realtà, per il tempo di ferro in cui egli scriveva. Non possiamo pretendere che il vescovo « rigorista » della comunità di Roma giudicasse obiettivamente le ragioni per cui l'impero romano era divenuto un organismo per eccellenza militare; ma è significativo che egli intuisse il carattere essenzialmente guerresco di tutto l'organismo imperiale in questa epoca di ferro - anche se una tale intuizione si concludeva, per lui, in un'aspra ed ingiusta condanna.
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manica fu posta dinanzi alla Curia romana. Nella concezione di Massimino 2 tutta la vita dell'impero doveva muoversi intorno all'esigenza centrale, la guerra antigermanica. Tutti dovevano giurare per la Fortuna dell'imperatore soldato: bisognava restaurare la tradizione religiosomilitare del vecchio impero. La politica del nuovo imperatore si fondò dunque, in primo luogo, sull'abbandono delle simpatie di Severo Alessandro per i Cristiani: Massimino decretò addirittura l'abolizione della memoria di Severo Alessandro. Ma soprattutto: egli tentò, per la prima volta nella storia dell'impero, un piano sistematico di persecuzione contro il cristianesimo: non più la condanna occasionale di singoli Cristiani accusati da pagani o Giudei, ma viceversa la sistematica persecuzione, da parte dello stato (dunque, non già in base ad accuse individuali) di tutti gli esponenti del clero cristiano. Massimino pensava che, piegando il clero cristiano, avrebbe implicitamente piegato le comunità; i vecchi sistemi di persecuzione, legati all'occasionale accusa di privati, gli sembravano insufficienti. Esigeva che gli esponenti del clero cristiano ne gassero Cristo, riconoscessero il dio Sole (molto probabilmente Sol-Mithras, il dio dei soldati), giurassero per la Fortuna Maximini. Era una pretesa disperata ed assurda: il clero cristiano, espressione della massima rivoluzione spirituale, (specialmente in Oriente e in Africa), era ormai troppo forte per lasciarsi sgomentare da un dogma imperiale. Sì, certo c'erano ecclesiastici che pensavano a restrizioni mentali; un sacrificio a divinità pagane - di cevan costoro - è un sacrificio a semplici nomi; ma ad essi era facile rispondere, con Origene, che gli dèi pagani 2 La presente ricostruzione e interpretazione di Massimino si fonda soprattutto, oltre che su Erodiano, i-usi. Aug., ecc., sul Protre ptico di Origene: da questo deduco, tra l'altro, i particolari sulle richieste di Massimino nella persecuzione ai Cristiani (lo Hclios di Orig., Proir., 7 è il So! invictus [con destra levata in alto] della monetazione di Massi *mino).
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son demoni, i quali si nutrono coi sacrificii, sicché ogni sacrificio agli dèi pagani è un autentico pranzo offerto ai dèmoni che stanno nell'aria d'intorno alla terra. Ridotti gli dèi a demoni, le restrizioni mentali divenivano impossibili. Dalle varie province dell'impero si muovevano ecclesiastici perseguitati, per recarsi nelle province germaniche, dove li attendeva il tribunale dell'imperatore e forse il martirio. Origene esortava due di essi a dire, parafrasando Paolo: « come uomo fui ucciso in Germania ». Soprattutto, li esortava a non aver timore di Massimino: non bisogna aver timore « di uomini che fra poco morranno e saranno consegnati alla meritata punizione » dell'unico e solo Kyrios; i Cristiani sanno ormai di poter « trionfare sulle magistrature e le autorità (dell'impero), che in breve vedrete vinte e sgominate ». Questa reazione dei Cristiani alla persecuzione di Massimino è documentata da Origene nel Protre plico al martirio, per ciò che riguarda due ecclesiastici di Cesarea palestinese, dove allora Origene risiedeva; ma tutte le altre comunità avranno reagito, più o meno, in maniera analoga. I due vescovi di Roma, tanto quello della comunità ufficiale callistiana quanto il suo avversario Ippolito, furono condannati alle miniere di Sardegna. La vana persecuzione ebbe grande importanza perché (com'è evidente dai citati passi di Origene) spezzò per sempre ogni vincolo tra i Cristiani ed ipersecutori, ed inoltre perché iniziò (come già accennammo) un diretto sistema di persecuzione dello stato - e non più dei privati sulla base del dogma imperiale - contro i Cristiani. D'ora in poi, gli imperatori persecutori seguiranno questo sistema, il quale prescinde da accuse di privati: Decio perseguiterà quei Cristiani che non ottengono libelli di sacrificio, Valeriano perseguiterà (con più diretto richiamo a Massimino) gli esponenti del clero cristiano, Diocleziano • i Cristiani in genere. La storiografia antica « profana » sull'impero romano tace del tutto su questa persecuzione contro i Cristiani,
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che èavvenimento essenziale per intendere l'impero di Massimino. La ragione del silenzio va cercata in un atteggiamento che già notammo (supra, § 59) a proposito di Cassio Dione: la storiografia pagana sull'impero assume nei riguardi del cristianesimo un atteggiamento di distacco, quasi di ignoranza - sebbene certamente tutti questi pagani del terzo secolo avessero ben chiara l'enorme importanza di quella che ormai era divenuta, specie nella parte orientale e nell'Africa, la principale religione dell'impero romano. Nel caso dell'impero di Massimino, la fonte contemporanea a noi pervenuta è Erodiano, il quale c'informa che Massimino spogliava i templi degli dèi, mentre tace del tutto sulla persecuzione anticristiana. Naturalmente, è lecito pensare che Massimino, se poteva esser addirittura accusato di spogliazione dei templi pagani, a maggior ragione avrà cercato di metter le mani sui depositi dei Cristiani affidati agli ecclesiastici: del resto, il già ricordato Protreptico di Origene esorta i Cristiani perseguitati ad « accettare con gioia la rapina degli averi » ( Tn'V &p7to4v tv: cap. 44). Un riflesso economico (non già un'origine economica) di questo tipo di persecuzioni è dunque abbastanza chiaro. Noi cogliamo così un altro aspetto della politica di Massimino: il bisogno di requisizioni e l'iùcrudimento della pressione fiscale, evidentemente connessi con le necessità militari della guerra antigermanica. Massimino, questo interprete per eccellenza delle esigenze dei soldati illiriciani, ha tentato in tutti i modi una politica economica che soddisfacesse i soldati. Perciò ha emesso moneta aurea in quantità assai minore dei suoi predecessori credendo così di difendere la moneta divisionale, cioè la moneta dei soldati (cfr. supra, § 57) . In ultima analisi, la politica economica di Massimino si fonda, dunque, sul contrasto fra circolazione aurea e circolazione divisionale: cfr. supra, § 58, n. 13. La « politica avversa all'aureus » è sempre in funzione delle pecuniac con cui si pagano i soldati.
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Ma ciò non bastava. Divennero necessarie requisizioni e requisizioni, le quali colpivano soprattutto i latifondi. La classe senatoria non le sopportò. Nel 238 scoppiò, in Africa Proconsolare, una rivolta; furono acclamati imperatori due senatori (padre e figlio), Antonio Gordiano « senior » (che era proconsole d'Africa) e Antonio Gordiano « iunior ». La rivolta africana si estese all'Italia: a Roma, emissari dei Gordiani uccisero il prefetto al pretorio di Massimino; il senato riconobbe ufficialmente i due Gordiani, e ordinò alle province di far altrettanto. Nonostante la sua tanto conclamata ferocia, Massimino, il quale si trovava in Pannonia, si lasciò indurre 'da sua moglie ad una eccessiva moderazione; la humanitatis via consigliatagli dalla moglie lo indusse a rinunziare all'applicazione di mezzi drastici contro il senato romano ('un mezzo drastico avrebbe potuto consistere, per esempio, nell'immediato intervento presso le coorti pretorie perché rovesciassero il senato). Massimino pensava che bastasse soffocare la rivolta in Africa: e difatti, qui il legato di Numidia, con le sue forze militai composte di legionarii numidi, riuscì a sconfiggere Gordiano « iunior » e ad entrare in Cartagine; Gordiano « iunior » morì in battaglia, Gordiano « senior » si impiccò in Cartagine. Ma l'anima della rivolta non era più in Africa; era a Roma, e di lì si estendeva a tutta l'Italia. 61.
Interpretazioni moderne del triennio di Massimino: Altheim e Rostovzev. I dediticii come « barbari » o « semibarbari ». I coloni e il latifondo.
Di tutto il principato romano, la breve epoca - un triennio - di Massimino è forse la più discussa dall'indagine moderna: per lo meno, è quella su cui sono più gravi le divergenze fra gli studiosi. Due interpretazioni recenti vanno ricordate, quella dello storico tedesco Altheim e quella dello storico russo Rostovzev: la prima, nonostante
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la sua palese assurdità, si può prestare ad interessanti osservazioni; la seconda, a rettifiche e critiche di capitale importanza. Secondo l'Altheim, Massimino sarebbe il primo (e dovremmo aggiungere, l'unico) imperatore romano di origine, per parte di padre, germanica: più precisamente, il padre di Massimino sarebbe goto, la madre alana. Ma noi abbiamo su Massimino una fonte contemporanea piena di rancore contro l'imperatore soldato, vale a dire la Storia di Erodiano; e se ci fosse stata, all'epoca di Erodiano, anche la più incerta ed oscura fama di un'origine germanico-iranica (più precisamente: gotico-alana) di Massimino, Erodiano sarebbe stato felice di gettare quest'altra ombra sull'origine di Massimino. Invece, Erodiano si limita ad informarci che Massimino « era dei Tracii dell'interno, commisti di barbari of3p3&pv) » e che pertanto « era per natura barbaro nel costume, come nella stirpe ». Solo il tardo redattore-autore della Historia Augusta, il quale eredita da Erodiano e dalla tradizione senatoria un accanito rancore contro Massimino, si è concesso il lusso di giuocare col o3xpr3&pw di Erodiano, e di costruire un albero genealogico barbarico per l'imperatore soldato, dandogli un padre gotico e una madre alana, i cui nomi « giuocassero » perfettamente, per assonanza,k col opr3 &pov di Erodiano; sfoggiando le sue conoscenze di nomi barbarici, il redattore della Historia Augusta, ha così creato la discendenza di Massimino da un Mikka goto e da una Hababa alana, in maniera che questi nomi (l'uno e l'altro, autentici nomi gotico e alano) dessero sapore di verità alla sua spiritosa invenzione (né più né meno come i « documenti » riportati nella Historia Augusta vogliono dare sapore di verità alle invenzioni del redattore-autore). Sicché, in ultima analisi, questa « germanizzazione » di Massimino nella Historia Augusta si riduce ad una gustosa esercitazione del suo redattore-autore sulop3&pov di Erodiano. Tutto ciò fu già osservato in alcune criti
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che recenti alla dottrina dello Altheim; ma anche l'errore di Altheim può suggerire una importante osservazione. Cosa vuoi dire Erodiano, quando afferma che Massimino • era dei Traci dell'interno, commisti di barbari » e che • era barbaro nel costume, come nella stirpe »? Non basta dire che « barbaro » implica qui un giudizio etico; c'è qualcosa di più. Dobbiamo rifarci ancora una volta alla constitutio di Caracaila del 212. Questa lasciava fuori della civitas romana i dediticii, popolazioni contadine non conquistate dalla cultura romana. Ce n'erano in Egitto, dove li troveremo ancora nell'epoca dell'imperatore Anastasio; ce n'erano nelle province africane, dove ancora verso il 350 troviamo, in Mauretania, homines barbarorum vitam et mores, tamen Romanis subditi; ce n'erano in Gallia, dove ancora nei v secolo la Notitia dignitatum ci presenta laeti di origine celtica; ce n'erano in Tracia; ed insomma, dovunque sì trovassero comunità contadine non assimilate alla cultura greco-romana (supra, § 59). Queste comunità contadine di dediticii erano rimaste fuori della constitutio di hCaracalla, fuori della civitas (cfr. anche in/ra, xxxi; § 91). Tanto per citare un qualunque esempio dell'epoca di Massimino: l'estratto di un diploma di Massimino (C xvi, 146) - l'unico diploma che ci sia pervenuto di questo imperatore - è indirizzato ad un eques Alludo soprattutto a HOHL. « Klio », 1942, p. 266 (cfr. ultimamente l'edizione e commentario di HOHL, Maximini duo luli Capitolini, 1949, pp. 5-6); ENSSLIN, «Rh. Mus. », 90, 1941 9 1. Mentre il HOHL crede Micca e Hababa una semplice deduzione da opf3ipv, viceversa ENSSLIN concede ad ALTHEIM che Micca e Hababa siano autentici nomi barbari. Come si è visto nel testo, io ritengo che i due punti di vista non si escludano: la oocpp, tirandone fuori due auH. A. ha « giuocato » con tentici nomi barbarici, precisamente il gotico Micca e l'alano Hababa. Forse (ma dico questo con ogni riserva) può aver contribuito al « giuoco » della H. A. il concetto della identità Getae-Gothi, che era un dato comune nell'epoca stiliconiana (cfr. ultimamente A. LIPPOLD, Rom u. die Barbaren in d. Beurteilung des Orosius, diss. Erlangen. 1952, p. 126, n. 268).
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singularis di Ulpia Serdica, oriundo di famiglia dediticia tracica, tanto vero che suo padre non ha prenome romano ma tracio-barbarico. Al solito: dobbiamo dare rilievo ai dediticii indigeni, esclusi dalla cittadinanza anche dopo la costituzione di Caracalla. Questi dediticii sono numerosi (i pretoriani ricevono diplomi di connubio con donne dediticie). Non hanno nulla in comune con le gentes exter nae, ma continuano a vivere all'interno dell'impero, anche se in buona parte molti di essi (ma non tutti) avranno, in corso di tempo, la cittadinanza. Massimino è di origine tracia; è odiato dalle classi dirigenti dell'impero; e queste, nella polemica contro di lui ricostruibile da Erodiano, non esitano a considerano « barbaro », alla stessa stregua dei molti dediticii traci commisti alla popolazione romana nella Tracia. Era egli veramente di origine dediticia? A questa domanda non possiamo rispondere con certezza; ma è preferibile pensare che egli fosse di origine romana, giacché Erodiano, che pur ce lo vorrebbé presentare nella peggiore luce possibile, lo dice « dei Traci commisti coi barbari », anche se poi, per estensione, lo considera « barbaro di stirpe ». Insomma: tutta questa vicenda insegna che « barbari », nella concezione romana del in secolo, sono non soltanto le gentes externae, ma anche gli indigeni non romanizzati; e che Massimino, lungi dall'essere di origine gotico-alana, va considerato un esponente di quelle popolazioni traco-illiriciane, le quali hanno combattuto ad oltranza per la difesa dell'impero in questo tormentato in secolo. Persino se ammettessimo (il che, ripetiamo, non è probabile) che egli fosse oriundo di famiglia dediticia, anche in questo caso noi dovrebbe considerano un soldato romano, né più né meno di un Aureliano o di un Probo o di un Diocleziano; egli è il primo imperatore di questa serie gloriosa; e ha dedicato tutta la sua vita al sogno di Marco (ma senza le preoccupazioni umanitarie di Marco), vale a dire alla conquista della libera Germania. Il suo atteggiamento spirituale è tutto romano, anche se le nostre
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fonti, piene di odio e di rancore, sembrano scritte apposta per impedirci una valutazione obiettiva del suo triennio. Ma già la ricostruzione che tentammo sopra, a § 60, ci consente di trovare in questo triennio i tratti distintivi degli imperatori illiriciani del III secolo: disperata difesa dello stato romano, della moneta divisionale per i soldati, dell'ideale di lotta antigermanica; persino il culto del Sol abbiamo trovato, nella politica anticristiana , di Massimino. E abbiamo trovato un uomo che si lascia indurre a moderazione dalla moglie filosenatoria: un punto di grande rilievo, come dimostra il fatto che il senato decretò l'apoteosi per questa donna amica del senato 5. Ed infine: il suo modello ideale era forse Settimio Severo, come potrebbe mostrare, tra l'altro, la figurazione della sua vittoria germanica in eikones dinanzi alla Curia (come la figura zione del sogno di Settimio Severo in una eikón di bronzo al Foro); il suo rispetto per il senato romano 6 era, almeno formalmente, assai grande, come dimostra la comunicazione delle sue vittorie germaniche al senato (con la erezione delle eikones dinanzi alla Curia) e la moderazione (seppur consigliata dalla moglie) dinanzi alla rivolta senatoria del 238. (Una moderazione, si badi, che gli fu fatale.) Il maestro di suo figlio Massimo (il quale ultimo fu nominato Cesare nel 236) era, anche per tradizione paterna, Molti studi escludono (così, ultimamente, anche
BERSANETTI,
Studi srrll'im p. Massimino, 18, 4) che Paolana sia stata consacrata
dopo la morte di Massimino: ma la moderazione ispirata dalla moglie a Massimino nel 238 è una circostanza a cui le classi dirigenti diedero enorme rilievo, ed è la sola che può spiegare la consacrazione della donna, che era ancor viva (come dimostra, appunto, il suo consiglio di moderazione in Gordianorum actibus) all'epoca della rivolta. 6 È merito del BERSANETTI, op. cit., p. 9, aver criticato la dottrina di un mancato riconoscimento di Massimino da parte del senato nel 235: nulla di più assurdo, come basterebbe a mostrare la comunicazione delle vittorie germaniche al senato, ecc.
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un esponente dell'alta cultura romana '. Insomma: il preteso imperatore goto-alano di Altheim si spiega soltanto nel quadro della più intransigente tradizione militare romana, e va considerato un precursore di Aureliano o Diocleziano . A che cosa è dovuto, allora, il conflitto tra Massimino e il senato? Già lo abbiamo accennato al § 60: le necescompreso l'arruolamensità della guerra antigermanica costringevano l'imperatore a reto di vinti Germani quisizioni assai gravi per i latifondi senatorii. L'imperatore soldato, per la cui origine non-senatoria il senato poteva avere la stessa avversione che già aveva dimostrato per l'origine equestre di Opellio Macrino, attirò contro di sé, nel 238, l'ostilità del senato, accentrata intorno a due regioni tipiche del latifondo senatorio, l'Italia e la provincia di Africa Proconsolare. E qui è opportuna la discussione dell'interpretazione proposta dal Rostovzev per la rivolta senatoria del 238. Come già accennammo a più riprese, lo storico russo ha interpretato la storia dell'impero romano sulla base di quel conflitto tra contadini e borghesia cittadina, che in tempi recentissimi (i primi tempi della rivoluzione bolscevica) ha contrapposto, in Russia, i kulachi alle popolazioni cittadine; nel triennio di Massimino, il Rostovzev ha visto la più chiara affermazione di questa « lotta di classe », che avrebbe contrapposto i contadinisoldati di Massimino ai borghesi delle città. Ma questa dottrina ha il difetto di applicare categorie moderne alla storia antica. L'importante opera del Rostovzev culmina nell'interpretazione della rivoluzione del 238 come rivoluzione delle classi cittadine contro i contadini-soldati di Massimino; ma in realtà, si può dire che la rivoluzione del 238 è venuta dai contadini non meno che dalle classi cittadine. Infatti, la rivoluzione del 238 è scoppiata in Afri? Su questo punto, non dubiterei della notizia su oratore Titiano in Maximini duo 27, 5 della H. A.
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ca Proconsolare, ad opera dei coloni dei latifondi africani, i cui domini hanno proclamato imperatori i due Gordiani padre e figlio. La prospettiva del Rostovzev va dunque rettificata. È bensì vero che i soldati vengono arruolati fra la popolazione contadina, tirones ex vico (i contadini non ancora arruolati sono pagani); ma ciò non significa che i contadini siano per Massimino, i cittadini per i Gordiani. Il fisco opprime ad un tempo contadini e cittadini. Sentiamo Erodiano: « parenti e famigliari ingiuriavano i soldati, pensando che Massimino faceva queste cose proprio per i soldati ( &' 'v p-rovT ¶O Mtvou) »; il legato di Numidia, che reprime la rivolta dei Gordiani, « ordinava ai soldati » (soprattutto, numidi) « di bruciare e saccheggiare campi e villaggi ». Si potrebbe persino sostenere (ma sarebbe anche questa un'esagerazione, e dunque un errore) che la lotta degli uomini fedeli a Massimino è diretta contro le campagne. La verità è che noi dobbiamo evitare di applicare al latifondo antico i concetti moderni della lotta di classe. Quando pensiamo al latifondo romano, noi pensiamo sempre ai latifondi dei nostri giorni; e qui sta l'errore. Il latifondo privato romano, cioè soprattutto il latifondo senatorio, è caratterizzato da. una costante solidarietà dei coloni coi loro domini. Nel basso impero, questa solidarietà appar evidente, per esempio, dalle lettere del vescovo africano Agostino (Ep. 58; 66; 89; 112); nell'epoca di Massimino, essa è evidente proprio dalla rivoluzione dei Gordiani. I coloni dei latifondi senatorii, noncuranti del terribile pericolo, danno la scintilla della rivoluzione contro il truculentus imperatore Massimino: i loro interessi coincidono, in questo caso, con quelli dei senatori domini. Senatori e coloni d'Africa Proconsolare sono uniti, in questa epoca ferrea dell'impero, dalla lotta contro il fisco. In altri termini: la formazione del latifondo senatorio ha impedito, nell'impero romano, la espressione di quella che noi moderni chiameremmo una coscienza di classe contadina antipadronale.
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La storia dell'impero romano è caratterizzata da una tipica concorrenza tra latifondo privato e latifondo imperiale: tra agri senatorii e Caesaris agri. Che significa latifòndo? Significa, soprattutto, la costituzione di organismi rurali autonomi rispetto alle città: organismi con i loro mercati (nundinae), con la villa del dominus e le casae dei coloni, e sinanco con le terme (che il dominus ama dedicare pro salute 8 degli imperatori regnanti) e con luoghi per gli spettacoli di corse, ecc. Questo organismo rurale diventa talora, addirittura, una civitas; nel più comune dei casi, esso si accentra intorno a un vicus. Non è raro che il vicus prenda il nome generico di Casae, per via delle casae coloniche che si trovano in esso; così, per esempio, il più noto documento a noi pervenuto sulla autorizzazione di mercati accordata ai latifondi (un senatoconsulto dell'epoca di Antonino Pio) si riferisce appunto ad un Vicus Casae nel latifondo di un senatore in provincia Africaad Casas (senatoconsulto de nundinis saltus Beguensis). In Sicilia, a poca distanza dall'attuale Piazza Armerina, c'è una località, Casale, il cui nome probabilmente continua un toponimo derivato dalle casae o « casali » di un latifondo tardo-romano, e che ci ha dato la più importante rivelazione archeologica dei nostri tempi: la mirabile villa di un latifondista, villa che dobbiamo immaginare circondata dalle casae o « casali » dei coloni, al centro di un organismo rurale-latifondistico con terme, luoghi per gli spettacoli di corsa, ecc. Così devono interpretarsi, di fatti, gli splendidi mosaici della villa: dove troviamo, per esempio, la ormai famosa figurazione delle « ragazze in bikini », indizio che il proprietario della villa esibiva regolari spettacoli con attrici (scaenicae) « in bikini », come quelle dei grandi spettacoli romani; dove troviamo, altresì, la figurazione di ludi circensi, come quelli di Roma; interessante un'iscrizione (del peristilio) col nome Bonufatius accom 8
C
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pagnato da numeri, iscrizione in cui dovremo .vedere adclamationes (indicate dai numeri) per un personaggio che ha nome Bonu/atius, probabilmente un auriga o comunque un personaggio che ha riportato successi ludici . Insomma: in questi latifondi si vive un'intensa vita rurale, come in una specie di « comune rustico », ma alla maniera romana - vale a dire con una diretta imitazione della vita cittadina, in talun caso (come a Casale presso Piazza Ar merina) con diretto riferimento alla grande vita urbana di Roma. La villa siciliana di Casale va datata all'avanzato iii secolo o al Iv; ma essa ci dà un'indicazione valida per intendere la storia del latifondo romano in tutta la sua portata, e in tutte le province - anche se noi sinora non possiamo decidere se essa appartenga ad un latifondo senatorio (che è l'ipotesi di gran lunga più probabile) o ad Che si tratti di Bonifazio iv (608-615) è ipotesi dell'editore [ivi FERRUA], « Boli. d'arte », 1952, pp. 44-45); ma non è sostenibile, perché nella stessa iscrizione troviamo ii e III, non soltanto - iv. La spiegazione che, qui si propone - adclamationes per un personaggio che ha nome Bonu/atius - ha un carattere « ludico ». Il mondo ludico ha una grande parte nei mosaici di Casale (per es. sala con figurazione dei giuochi circensi, ecc.); quanto al nominativo Bonufatius, esso non solleva difficoltà (per es. nei contorniati si trova, indifferentemente, Bonufatius vincas o Bonufati vincas). -Gli spectacula romani, come sono spesso imitati negli spectacula delle piccole città (per es. C. Th. xv, 5, 4 proibisce -una tale imitazione nella prefettura illiriciana), così dovevano essere cari al proprietario della villa di Casale. I ricchi portano nelle loro grandi domus le tbymelicae di Roma (C. Th. xv, 7, 5); le fidicinae sono così pure sottratte ai loro ministeria in Roma (C. Th. xv, 7, 10: docere sarà da correggere in abducere sull'esempio di C. Th. xv, 7, 5). Inoltre, il proprietario di Casale si passa il gusto di inhonestas adnotare personas (C. Th. xv, 7, 12) nella sua villa privata. Ho voluto insistere su queste cose perché esse mostrano la necessità di studiare la villa di Casale con le consolidazioni giuridiche alla mano. - L'iscrizione pubblicata dal GENTILI, « Boli. d'Arte », 1952, p. 43 come pertinente a Caracalla è, invece, di Commodo: per Caracalla infatti - a differenza che per Commodo - non ci fu damnatio memoriae; integreremo dunque, con riferimento a Commodo, sul tipo (cito un esempio qualunque) di C vi, 2099, a. 183 e 186. (GENTILI
VO
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un latifondo imperiale (si è pensato, come vedremo a suo luogo, ad una villa di Massimiano Erculio).
È naturale che le città si oppongano alla costituzione di questi organismi rurali, i quali rapresentano, nella storia antico-classica, un fatto del tutto nuovo, la grande « invenzione » di Roma. Continui contrasti sorgono, così, tra città e latifondi (siano essi latifondi senatorii od imperiali): le città vogliono che le reclute si prendano dai latifondi, che. nei latifondi si facciano le corvate per il passaggio di truppe e via discorrendo (tali lites de iure territorii ci sono note già da Frontino). Ma il latifondo, specialmente il latifondo privato (cioè senatorio), ha il suo avvenire sicuro, a detrimento delle città. Solo in Italia, che è urbs (una specie di immensa Roma) e non provincia, le città possono resistere al latifondo con qualche speranza di successo: ma è più difficile resistere al latifondo senatorio che non all'imperiale - per lo meno in certi casi. Nel 105, l'avvocato dei Vicentini (Vicenza, però, non è una città del livello di una Padova o Verona) non ha neanche il coraggio di difendere i suoi assistiti contro il potente senatore latifondista Bellicio che vuole istituite nundinae nel suo latifondo; ma viceversa, nel 168 due cittadine del Sannio hanno il coraggio di sequestrare greggi e pastori del latifondo imperiale situato nel loro territorio, e di dichiarare la loro assoluta indifferenza persino nel caso di protesta del liberto imperiale, sicché solo l'intervento dei prefetti al pretorio può ridurle alla ragione. Insomma, già in Italia il latifondo senatorio (privato) sembra avere più fortuna del latifondo imperiale. Ad ogni modo, l'Italia, in tutta questa faccenda dei latifondi, ha una posizione a sé: è il paese in cui, almeno teoricamente, l'autonomia dei latifondi dovrebbe cedere dinanzi alle pretese delle città. Ma nelle province è un'altra cosa: lì, ripetiamo, l'autonomia del latifondo è assicurata. Nel corso dell'impero, il fenomeno dominante è la concorrenza tra latifondo privato (senatorio) e latifondo
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imperiale. Gli imperatori fanno di tutto per agevolare la vita economica dei loro latifondi: vi lasciano costituire delle mensae o banche a cui sono preposti liberti imperiali, accordano esenzioni tributarie ai sovrintendenti delle comunità, molto probabilmente (come poi sarà chiaro nel basso impero) tendono ad esonerare i coloni del latifondo imperiale dal servizio militare. E tuttavia: i coloni del latifondo senatorio sono (come già vedemmo) solidali coi loro domini, mentre viceversa i coloni del latifondo imperiale protestano continuamente contro le praevaricationes degli appaltanti di latifondo imperiale e dei procuratori che proteggono gli appaltanti. A che cosa è dovuta la maggior fortuna per lo meno in alcune regioni del .latifondo privato (senatorio) rispetto al latifondo imperiale? È presto detto: il latifondo senatorio non solo ha amministratori meno esosi degli esosi appaltanti di latifondi imperiali, ma riesce altresì a convogliare attorno a sé 1'ostilità generale contro il fisco. In un certo senso,i può dire che anche le città dimenticano le loro ostilità contro i latifondi senatorii, per concentrare tutte le loro insoddisfazioni contro il fiscalismo imperiale. All'epoca di Massimino, questo processo è ormai maturo, soprattutto in quelle regioni (come l'Africa) dove il latifondo imperiale non è riuscito a stabilire con i coloni imperiali quella solidarietà che invece unisce strettamente i latifondisti senatorii coi loro coloni lo. 10 Anche nella ricerca sulla storia del latifondo, il basso impero illumina, per molti rispetti, il principato. Il principato, infatti, ha fondato, col latifondo autonomo, una specie di comune rustico condotto dai grandi proprietarii e dunque caratterizzato dalla solidarietà fra latifondista e coloni. Il basso impero ha assistito alla vittoria definitiva del latifondo sullo stato, attraverso il movimento di patrocinio, per cui le terre del piccolo proprietario passano, di fatto, al patrono latifondista. A sua volta, lo stato del basso impero ha tentato di difendersi contro la grande proprietà, con la creazione di istituti che volevano contrapporre la solidarietà fra contadini piccoli-proprietarii alla solidarietà fra coloni e latifondista. Il più
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Possiamo ormai, dopo questa indagine, rettificare la formula di Rostovzev. Lo storico russo vedeva nella rivolta africana contro Massimino la lotta delle città contro i contadini. Noi diremmo, piuttosto: lottq dei coloni di latifondo senatorio, alleati con la grande città, contro il fiscalismo imperiale (e dunque, anche, contro il latifondo imperiale). La rivolta è partita dall'Africa Proconsolare, dove il latifondo senatorio riceve dai coloni quell'assenso che invece manca «ál latifondo imperiale. In alcune regioni (come la Spagna Citeriore, la Lusitania, la Betica, la Palestina, la Cappadocia) la rivolta non ha avuto eco: ne dedurremo (se è nel vero l'interpretazione generale qui propost ) che, almeno nel più dei casi, queste regioni fedeli aa Massimino avevano un latifondo imperiale abbastanza accetto ai coloni, ed in condizioni tali da resistere alla concorrenza del latifondo senatorio Il contadino palestinese, che nel i secolo era oppresso dai proprietarii privati (§ 59), va meglio d'accordo col latifondo imperiale. caratteristico di questi istituti escogitati nel basso impero è il diritto di protimesi o preferenza nelle vendite (cfr. monografia di PESCIONE, 1929, e la vecchia di PLATON) agli abitatori convicani delle metrocomie. Donde deriva tale diritto? Deriva dall'antico costume di preferenza ai coeredi (consortes): l'epoca bizantina estende ai convi cani i diritti dei coeredi. Si badi: il costume di preferenza ai coeredi prima non era giuridicamente fissato (Plin., Ep. 7, 2), ma solo praticamente ammesso (tanto vero che Plinio nel luogo citato vuole giustificarsi per aver venduto a Corellia); nel iv secolo era giuridicamente fissato, ma con la pratica contravvenzione di latifondisti come Simmaco (SEECK, Briefe des Libanius, p. 243) e con pentimenti del legislatore (C. Th. iii, 1, 6); nell'epoca bizantina, passando ai convicani, diventa una buona arma contro il latifondo privato. Nel principato, l'arma migliore contro il latifondo privato è stata indicata da Adriano: la coltivazione di terre incolte in alcuni latifondi imperiali. 11 Si noti un altro aspetto della rivoluzione africana contro Massimino: l'Africa Proconsolare è coi Gordiani, i soldati numidi sono per Massimino. Si accenna, così, quel contrasto fra Proconsolare e Numidia che sarà più chiaro nel basso impero, in occasione dello scisma donatista.
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La rivolta africana non- avrebbe avuto successo se l'Italia non fosse stata al fianco dei rivoltosi. L'Italia: cioè Roma, la grande conservatrice. Ed ancora: l'Italia, cioè il paese delle città, destinate (si ricordi la differenza tra la vicenda vicentina del 105 e la vicenda sannita del 168) ad aver ragione - per uno dei tanti paradossi della storia romana - più nei confronti del latifondo imperiale che non nei confronti del latifondo senatorio. Gli imperatori avevano grandi e numerosi latifondi in Italia: anzi, lo storico Tacito notava con amarezza che dai tempi di Tiberio ai suoi il latifondo imperiale aveva fatto grandi passi, quasi a mostrare come il potere imperiale fosse più limitato nei primi tempi (quanto angustius imperitatum). Ma la verità è che il possesso di latifondi in Italia era di gran lunga meno redditizio che il possesso di latifondi nelle province: meno conveniente agli imperatori come ai senatori. E non solo per la generale crisi economica dell'Italia (cfr. Parte terza); sì anche per la maggiore (teoricamente assoluta) potenza delle città nei confronti del latifondo. Né imperatori né senatori consideravano redditizio un latifondo che non potesse godere della grande autonomia propria dei latifondi provinciali. E allora, gli imperatori fa-. cean di tutto per costringere i senatori ad acquistare terre in Italia. Già l'abbiamo visto trattando della crisi economica del. 33, sotto Tiberio (supra, § 25); i buoni senatori, in quella congiuntura, si sentirono come scolaretti sorpresi a commettere una marachella, e si affrettarono ad acquistare terre in Italia, com'era loro dovere. Anche sotto Traiano, qualcosa del genere: l'imperatore ordinò che i senatori candidati agli honores impiegassero il 33,3% del loro patrimonio nell'acquisto di terre in Italia 12 E poi, sotto Marco: l'imperatore ordinò che i senatori di origine 12 Plin., Ep. VI, 19. É strano che gli studiosi di questo testo trascurino il confronto con la crisi del 33 - un confronto senza il quale la lettera di Plinio perde gran parte della sua importanza.
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provinciale, i quali se ne stavano contenti delle loro proprietà in provincia, impiegassero il 25% del loro patrimonio in terre italiane. Ma in tutte queste vicende agiva la legge di Thùnen: i ricchi senatori, quando si vedevano costretti a vendere in provincia per acquistare in Italia, finivano spesso con l'acquistare, sia pure a caro prezzo, proprietà suburbane; l'agronomia italiana non ne aveva un grande giovamento. All'epoca di Massimino, le città italiane furono solidali col senato contro l'imperatore. Anche in questo caso, i senatori erano stati abbastanza furbi per convogliare intorno a sé la solidarietà delle città contro le requisizioni imperiali, e far tacere l'originario contrasto fra comunità cittadine e latifondo senatorio. Morti i due Gor diani, il senato elesse due imperatori, Pupieno e Balbino, scelti tra un corpo di vigintiviri, che era stato nominato per difendere l'Italia contro Massimino. Sembra -che Pupieno e Balbino nominassero prefetto al pretorio un patruelis di Pupieno 13 In V. Maximi et Balbini 5, 5 tanto il Pal. 899 quanto l'altra famiglia hanno la corruttela patris t, che H0HL, con la vulgata, corregge in patrui. Ma difficilmente patrui si sarebbe corrotto in pairis, né il settantaquattrenne. Pupieno poteva nominare prefetto al pretorio un suo zio, ancora più vecchio. Io propongo di leggere patruelis, che più facilmente (forse per la scrittura in compendio) potè dar luogo a patris, e che non si presta a difficoltà dal punto di vista storico. - Altro problema molto discusso è il problema cronologico. Nelle sue linee essenziali, esso si può impostare, credo, nel seguente modo. L'unico Augusto di C iii, 4820 (una sola N!), titolo datato al 23 giugno 238, non può essere Gordiano iii (diversamente MOMMSEN ibid. 1120); infatti, in questo caso bisognerebbe riportare a marzo la elezione di Pupieno e Balbino, il che è assurdo per via del Pap. Yale 156. L'imperatore di C iii, 4820 è dunque Massimino (indicato stavolta senza il Cesare suo figlio); il Norico (provincia che, a quanto sappiamo, non ha eraso il nome diMassimino: cfr. BERSANETTI, Studi sull'imp. Massimino, 1940, p. 67) ancora il 23 giugno non conosceva la morte di Massimino. In conseguenza, è escluso che la morte di Pupieno e Balbino avvenisse nel giugno: la porremo nel luglio o agosto (terminus a. q. il 23 agosto). Inoltre, poiché nel Norico la morte di Massimino era ancora ignota il 23 giugno, e poiché Massimino
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La rivoluzione italiana e il governo (238-244) di Gordiano III. La barbarizzazione dell'esercito.
Tutta l'Italia sostenne la rivoluzione del senato; la leva ebbe buon esito; la penisola, antico centro dell'impe ro, quasi dimentica dell'importanza assunta dalle province nell'epoca dei Severi, riprese coscientemente il suo posto di « nazione-guida » dell'impero romano. La parola d'ordine era che « al senato e al popolo romano » (e particolarmente all'Italia) « spettava per tradizione (&vwúFv) l'impero »: con essa si erano esortate le province ad accettare la nomina dei due Gordiani; con essa, ora, morti i due Gordiani, si organizzava la resistenza a Massimino. Fu pero necessaria una correzione alla formula costituzionale proposta dal senato: la plebe romana era legata a un ideale dinastico, né più intendeva le aspirazioni senatoriali alla libertas 14 di tipo in certo modo repubblicano; sicché ai due imperatori collegiali, Pupieno e Balbino, fu necessario aggiungere, come Cesare, il fanciullo Gordiano iii, nato da una figlia di Gordiano I; la correzione alla formula costituzionale del senato era apparentemente lieiniziò l'attacco contro Aquileia all'epoca dello scioglimento delle nevi, ne deriva che l'assedio di Aquileia durò abbastanza, diciamo Maggio-giugno. - L'assegnazione della prefettura pretoriana ad un patruelis di Pupieno è importante: essa esprime un aristokratias typos che sembra connettersi con esperimenti proprii dello aristokratias typos di Severo Alessandro, l'imperatore di cui Massimino aveva dannato la memoria. Infatti (come cercherò di mostrare a xxxviii) sembra che sotto Severo Alessandro si verificasse l'assegnazione della prefettura egizia (un unicum) e della prefettura pretoriana a Edinio Giuliano già senatore: il che potrebbe spiegare la notizia della H. A. secondo cui Severo Alessandro aveva voluto che i prefetti al pretorio fossero senatori (ut viri clarissimi et esseni et dicerentur: dunque, non soltanto dicerentur, ma anche veramente essent; naturalmente, la H. A., pci suoi fini senatorii, trasforma in norma generale il caso di Edinio Giuliano). Se ciò è vero, l'aristokratias typos di Pupieno e Balbino si connetterebbe direttamente a Severo Alessandro. 14 Si ricordi ciò che dicemmo dell'ideologia di libertas nell'epoca di Pertinace: supra, S 43.
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ve, ma in realtà indicava, con il tenace richiamo al legittimismo dinastico, la notevole distanza fra il tradizionalismo della plebe romana, con i suoi ideali dinastici, e il tradizionalismo senatorio, con il suo ideale dell'imperatore optimus e collegiale. Per altro, neanche la proclamazione del cesarato di Gordiano iii sedò in Roma il malcontento: ché, accanto al senato e alla plebe, era a Roma un altro elemento essenziale alla vita dello stato, vale a dire i pretoriani (quelli che, rimasti a Roma, non si trovavano con Massimino per l'impresa contro i Germani); e si ebbero gravi scontri tra i pretoriani, sospetti di lealtà a. Massimino, e la plebe aizzata dal senato e sostenuta dai gladiatori. Che la brevissima pacificazione fra pretoriani e senatus populusque in Roma (pacificazione la quale, come sembra, sopravvenne ben presto) fosse solo apparente, appar manifesto dagli eventi che seguirono, e che riempiono, con altissimo significato, la complessa vicenda di questo anno 238. Per controllare le forze pretoriane, il senato - come già vedemmo - prepose ad esse un senatore imparentato con Pupieno (forse patruelis di Pupieno: cfr. supra, § 61, n. 13), all'istesso modo in cui, sin da Augusto, era riuscito ad imporre il principio che l'ordine senatorio dovesse fornire il prefetto urbano. L'improvvisata marcia di Massimino per reprimere la insurrezione dell'Italia si concluse con un insuccesso. All'imperatore reduce da vittoriose imprese contro i Germani, sostenuto dalle truppe illiriciane, e dal resto del suo forte esercito (tra cui spiccavano - oltre ai Mauri e agli arcieri osroeni - nuove reclute, e numerosissime, tratte dai vinti Germani), la popolazione italiana opponeva soprattutto il suo tenace tradizionalismo e la sua ostilità implacabile; e con questa forza, una forza soprattutto ideale, raggiunse la vittoria. Una città sostenne l'assedio di Massimino: Aquileia. Qui era come il centro della borghesia e del benessere economico dell'Italia Settentrionale: or la necessità di rifornimento e l'impossibilità di procedere a
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requisizioni di beni in un paese ostile resero difficile la prosecuzione dell'assedio alla città; i contadini avevano portato via tutto, né più nulla si trovava nelle campagne. L'esercito di Massimino, da assediante che era, si trasformò quasi in esercito assediato; il tenace blocco e la mancanza di rifornimenti lo fiaccavano; la inattesa resistenza indeboliva il morale delle truppe, fin al punto che - con mentalità rivelatrice della vita spirituale e religiosa di questo tempo - si diffuse poi la leggenda della visione del dio protettore di Aquileia, Belen, combattente éV &&p. « nel cielo » per la difesa della Città (cfr. in/ra, § 82). Ad un certo momento, i soldati della ii legione Partica, che avevano mogli e figli al monte Albano (gli « Albanensi »), e che già presto si erano del tutto impregnati di tradizionalismo italiano e anzi romano, uccisero Massimino, e con lui il figlio, che egli aveva nominato Cesare. Poco a poco, seguì la riconciliazione delle truppe di Massimino con gli Aquileiesi e in genere con la popolazione italiana: di fuori le mura di Aquileia, finalmente, l'esercito, già affamato pel blocco e per l'ostilità di cittadini e di contadini, poté acquistare generi di prima necessità ed ogni altro prodotto, che la ricca Aquileia offriva agli affamati. Di nuovo l'esercito pareva tornato il servitore, non già il signore, dell'impero. Ad Aquileia, come ad esprimere agli abitanti la gratitudine del paese, venne l'imperatore Pupieno; di lì, congedati in gran parte i soldati italiani ch'erano stati arruolati per la lotta contro Massimino, tornò a Roma; suoi soldati di fiducia - un tratto quanto mai caratteristico erano dei Germani. Scoppiò allora il malcontento dei pretoriani, che si era già manifestato nella lotta tra i pretoriani e il senatus populusque a Roma; Pupieno fu ucciso, e con lui Balbino (sebbene tra i due da qualche tempo non corresse più un vero rapporto di concorde amicizia); il Cesare Gordiano in fu acclamato Augusto. La sua elezione può considerarsi un compromesso fra il tradizionalismo
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degli organi senatoriali e l'effettiva insoddisfazione delle truppe pretoriane; egli ha tuttavia segnato, col suo governo, un ulteriore periodo di grande autorità delle coorti pretorie e della prefettura pretoriana. Appunto per ciò, la storia dell'impero di Gordiano iii è, per molti aspetti, la storia della prefettura al pretorio nel suo tempo. Anche nei riguardi di questo ufficio, un atto quasi rivoluzionario era stato compiuto dal senato nel 238: la prefettura al pretorio era stata affidata a un senatorio (patruelis? [supra, § 61, n. 13] di Pupieno), sicché la carica di tutte la più vicina all'imperatore veniva coperta non già da un cavaliere che diviene clarissimus in via fittizia o in casi particolari, ma invece da un personaggio che già si trovava ad appartenere al clarissimato, e insomma all'ordine senatorio. Tale procedimento, che aveva suoi precedenti nell'epoca flavia, e di recente sotto Severo Alessandro, si deve inquadrare in una ripresa di intransigente orgoglio senatorio contro l'ordine equestre 15: esso riflette una tipica tendenza del senato ad assimilare del tutto la burocrazia più direttamente vicina all'imperatore. estraendola dallo stesso ordine senatorio. La rivolta dei pretoriani sotto Pupieno e Balbino fu dunque una decisa reazione contro il senato, e ad un tempo riaffermazione della figura giuridica della prefettura pretoriana. La nomina di un senatore alla prefettura pretoriana (anziché, viceversa, l'eventuale adlectio del prefetto fra i clarissimi) non era ancora procedimento agevole in questo periodo: proprio perché le attribuzioni della prefettura pretoriana erano sì enormemente aumentate, e sì strettamente si connettevano con l'organismo dell'esercito, tanto più si rendeva necessario consolidare la sua fisionomia di ufficio scelto nell'ordine equestre, secondo la costante normale tradizione (la stessa Historia Augusta, nella Vita Marci, ha riconosciuto come cosa indiscutibile che un se15
Per la dimostrazione in/ra, xxxviii.
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natore non può diventare, in epoca del principato, prefetto al pretorio; anche se, in via fittizia o effettiva, - il prefetto al pretorio può divenir senatore). Di fatto, due cavalieri hanno amministrato l'impero sotto Gordiano in augusto, vale a dire dall'agosto (?) 238 alla fine di febbraio 244: i due prefetti al pretorio, che si son succe duti nel comando sotto di lui, Timesiteo (suocero dell'imperatore) e Filippo. La nuova importanza della prefettura al pretorio, e l'enorme estensione dei suoi poteri, era un' riflesso della evoluzione economica e sociale dell'impero. Il regno di Gordiano iii coniò nuovamente aurei in misura notevolmente maggiore che sotto Massimino; e d'allora in poi la circolazione aurea si è ristabilita in tutto l'impero, pur restando di molto inferiore a quella che si era avuta nei primi due secoli e nell'epoca severiana, come anche a quel-la che s'imporrà con le restaurazioni economiche da Aureliano (e soprattutto da Costantino) in poi. In ogni caso, l'accresciuta coniazione di aurei sotto Gordiano in, richiamando implicitamente l'impossibilità di dare un corso as solutamente forzoso al denario svalutato, ancor una volta metteva in evidenza i contrasti sociali e le difficoltà economiche dell'impero. Ne derivava, necessariamente, una parallela difficoltà di tener bassi i prezzi di mercato; e d'altra parte, le accresciute pretese, e infrenabili, dell'ele mento militare importavano una maggior estensione delle indictiones (cfr. supra, § 49). Queste requisizioni di beni e di servizi consistevano, come sappiamo, nell'annona. Or la posizione dei soldati era divenuta così preminente che attorno ad essa si accentrava, con le requisizioni, la vita stessa dello stato; ed apparve necessario un parallelo accentramento dell'annona militare nelle mani di quella suprema autorità, la quale fin dal primo secolo aveva provveduto a governare il corpo privilegiato per eccellenza del le milizie, vale a dire della prefettura pretoriana (cfr. supra, § 42). All'estensione dei privilegi dei soldati corri-
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spondeva così un incremento nell`estensione delle competenze di chi sovrastava ai soldati per eccellenza privilegiati, cioè ai pretoriani: sicché i prefetti al pretorio di Gordiano in, e in modo particolare Timesiteo prima, Filippo poi, furon di fatto gli arbitri dell'impero. La leva fra contadini romani era insufficiente o difficile. D'intorno al periodo di cui parliamo si fece sempre più notevole nell'esercito romano la presenza di gentiles o gentes barbariche, fornite da federati o arruolate individualmente. Questa barbarizzazione dell'esercito cominciò, in certo modo, nell'epoca di Severo Alessandro, il cui esercito, accanto all'elemento romano provinciale, in prevalenza illiriciano, conteneva, per esempio, disertori partici; accanto a questi, le truppe di clibanarii modellate sulla tattica iraniana dei catafratti (una cavalleria catafratta doveva ben apparire necessaria in un esercito che combatteva contro catafratti: sicché in questo caso, bisogna limitare lo scetticismo dei moderni sulla tradizione); un tipico tratto del nuovo esercito è dato dagli auxiia osroeni che « con le frecce colpivano le nude teste dei Germani e i loro corpi giganteschi con grande facilità e di lontano » (Erodiano). Ma ancora non si può parlare di una barba rizzazione in grande stile. Solo dopo Massimino, la barbarizzazione dell'esercito romano è proceduta a, grandi passi. Se l'esercito di Severo Alessandro si fondava partico larmente sulle truppe illiriciane e su Osroeni e disertori parti e sui Mauri (gentiles provinciali) lanciatori di giavellotto, d'altra parte l'esercito di Massimino il Trace pur sempre fondato soprattutto su legionari illiriciani ha notevolmente aumentato l'importanza della cavalleria catafratta di tipo iranico, ed inoltre si è enormemente arricchito di nuovi elementi, stavolta germanici, assegnati alle formazioni di cavalleria, e in gran numero arruolati tra gli stessi Germani sconfitti da Massimino. La nuova grande importanza della cavalleria, che di regola si suole attribuire all'epoca di Gallieno, è dunque un fenomeno
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che si può considerare compiuto già all'epoca di Massimino il Trace. Ma la preminenza della cavalleria portava con sé, conseguentemente, una tendenza ad accentuare il carattere « mobile » di questo esercito, a spese dell'esercito confinario di tipo adrianeo. Qui bisogna sottolinearè che l'esercito romano di questo periodo è considerato soprattutto esercito di « mercenari » (pLaN9ópot: supra, § 55); accompagnando sempre l'imperatore in guerra, questi mercenari tendono anche ad assumere il carattere di un esercito permanente. Di qui all'arruolamento di mercenari federati di fuori l'impero c'è un breve passo: esso si è compiuto sotto Gordiano in, ed è stato subito sconfessato dopo di lui. Nel 242 Gordiano in condusse una grande spedizione contro i Persiani (a questa spedizione ha partecipato il filosofo neoplatonico Plotino); allora egli ha arruolato le sue truppe da regolari leve di tutto l'impero, ma anche (e furon queste truppe che particolarmente preoccuparono i Persiani) tra i gentiles « goti e germani » (l'iscrizione di Shahpur, che ci dà questa notizia, distingue così Goti da Germani, nei primi vedendo i gentiles a N.-E. dell'impero, nei secondi i gentiles renani): legati da un vincolo di comitatus con l'imperatore, più che da un vincolo di devozione all'impero, questi federati ricevono stipendi che sono un vero e proprio tributo. La vita economica dell'impero ne è scossa; le truppe romane sono scontente della presenza dei federati. Ad un certo punto, verso la fine di febbraio 244, Gordiano xii viene eliminato dai soldati, in una località fra Zaitha e Doura Europos. È probabilmente nel vero la tradizione, pressocché concorde, che attribuisce l'origine della rivolta al prefetto al pretorio M. Giulio Filippo (un hauranita), da poco successo a Timesiteo; certo è che Filippo fu acclamato imperatore, e subito fe' pace con Shahpur. Evidentemente, egli licenziò i « federati » goti (un avvenimento - come
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mostreremo innanzi — gravido di conseguenze) . Preferì pagare 500 000 denarii ai Persiani. 63
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I due Filippi (244-249; 247-249) . Il manicheismo. Il concetto di « decadenza ».
La serie degli imperatori che seguono a Gordiano III è costituita, per gran parte, di coppie imperiali (« Doppelprinzipat », Kornemann). Il « Doppelprinzipat », segue, sul piano costituzionale, la via già indicata per esempio da Antonino con il cesarato di Marco; poi da Marco stesso con la cooptazione di Lucio Vero, suo fratello, e indi del figlio Commodo; da Settimio Severo con la cooptazione di Caracalla e Geta; da Macrino con il cesarato di suo figlio Diadumeniano; da Elagabalo con il cesarato di Severo Alessandro; da Severo Alessandro con il breve cesarato del suocero; da Massimino col cesarato di suo figlio; da Gordiano i con la cooptazione di Gordiano II . Così Filippo (detto l'arabo per la sua origine) nel 247 ha
nominato Augusto il figlio già precedentemente insignito del cesarato; il concetto della necessità di assicurare la successione (un aspetto dell'ideale ~.ovapxíx) e della maggior garanzia che naturalmente è offerta dalla cooptazione del figlio attraverso il titolo di cesare prima, di augusto poi , è ormai stabilmente consolidato. L'impero di Filippo l'Arabo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche dell'epoca dei Severi. Per alcuni aspetti egli si contrappone a Gordiano in, della cui uccisione era forse responsabile: con lui, il massimo esponente della classe equestre si sostituisce all'esponente di una grande famiglia senatoria, così come, a loro volta, i Gordiani erano venuti al potere dalla rivoluzione contro un uomo di carriera militare, Massimino. Ma, quanto al resto, l'impero di Filippo non fa che tirare le somme di quella tendenza all'unificazione (W. Weber) religiosa, che da Caracalla in poi si era affermata con accenti spic-
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catamente sincretistici. Bisogna però aggiungere che di questa tendenza egli rappresenta una « punta estrema »: la tradizione cristiana lo ha considerato addirittura un cristiano, e ha parlato di una sua penitenza in Antiochia (un preannuncio, si direbbe, della penitenza di Teodosio i dopo i massacri di Tessalonica); la corrispondenza epistolare di Origene con lui e con la sua sposa, Marcia Otacilia Severa, può essere in certo modo di conferma a questa tradizione. Ma in che senso un imperatore romano poteva essere cristiano? Certo, si era fatto un gran passo innanzi, dal tempo in cui, sotto Settimio Severo, Tertulliano considerava assurdo che un cristiano potesse divenir imperatore. Ormai (cfr. supra, § 59) la cultura romana trovava la sua coerenza spirituale nell'assurda conciliazione degli opposti. Perciò il governo di Filippo l'arabo, del quale si poteva pensare che fosse cristiano, appare quanto mai istruttivo. Ma non bisogna dimenticare che siamo sempre nel quadro dell'impero sincretistico, il quale aveva assunto forme abbastanza avanzate già all'epoca di Severo Alessandro; anche se la tradizione del cristianesimo di Filippo fosse nel vero, noi non dovremmo parlare tanto di impero cristiano, quanto di impero sincretistico; e l'atto più famoso di Filippo l'arabo - la sua opera di ponti/ex maximus in occasione del saeculum millenario di Roma (248), da lui splendidamente celebrato - resta sempre la caratterizzazione più efficace del suo impero. Esso è l'impero dei saeculares Augusti, come appunto sono indicati i Filippi nelle loro monete. Si « laicizzava » l'esperienza religiosa cristiana? Certo, la lunga pace del cristianesimo (nonostante [cfr. § 60] la persecuzione di Massimino il Trace, il quale relegò in Sardegna così il papa Ponziano come l'« antipapa » e teologo Ippolito) aveva reso possibile un più fiducioso inquadramento della vita cristiana nell'impero. Il sincretismo della avanzata epoca severiana aveva dato i sudi frutti. Del resto, come si poteva far a meno di riconoscere la nuova
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importanza del cristianesimo, come espressione preminente della religiosità dell'impero? Questa preminenza spirituale del cristianesimo - soprattutto nelle regioni orientali veniva confermata dalle travagliate esperienze di quell'altra parte del mondo ellenistico, che ormai si andava organizzando sotto il nuovo stato sasanidico. Già il 20 marzo 242 (?), quando Shahpur i successe ad Ardasher i, il babilonese Mani aveva iniziato la sua predicazione, dopo un periodo missionario in India, in tutto lo stato persiano; e questo non aveva posto ostacoli, in un primo tempo, al suo apostolato. Tale apostolato si fondava, sul presupposto che la religione « dell'Occidente » - vale a dire dell'impero romano - fosse soprattutto la cristiana, che le religioni dell'Oriente fossero sostanzialmente la zarathustriana e la buddhistica; e che la nuova religione manichea, voce di Oriente e di Occidente a un tempo, fosse destinata a fondere, in una sintesi universale, le esperienze religiose predicate da Gesù in Occidente, Da Zarathustra e da Buddha in Oriente. Non era qui il riconoscimento più grave - più grave perché proveniente da fuori dell'impero - della vittoria cristiana nell'impero romano? Tra Gesù da una parte, Zarathustra e Buddha dall'altra, Mani voleva porsi come l'eclettico fondatore di una « chiesa superiore », che non fosse più fondata « in singoli luoghi e in singole città », ma si affermasse - attraverso la universalità* delle lingue, e la pratica dell'arte pittorica e della musica - « in tutte le città e in tutte le regioni ». Inoltre già da tempo il cristianesimo era penetrato in regioni orientali, fuori dell'impero romano. Così, per esempio, d'intorno al 200, il poeta e scrittore « quasi gnostico » Bardesane di Edessa, amico del re di Osroene, aveva potuto parlare, in un suo famoso Dialogo, di diffusione del cristianesimo addirittura fra i Kushan, in quella terra battriana che era stata, un tempo, il limite avanzato della grecità ellenistica; aveva parlato di diffusione del cristianesimo fra i Persiani e i Medi e i Parti.
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Il sorgere della predicazione di Mani sotto .Shahpur i si profilava così, in un certo modo, come l'opporsi di una gnosi di motivi mandeo-iranico-cristiani al puro cristianesimo dell'impero romano: agli occhi dello straniero, il cristianesimo cominciava ad apparire come la religione, diremo così, tipica dell'impero romano. È significativo, per altro, che il manicheismo, con le sue pretese di religione universale, fosse destinato a conquistare in seguito, verso gli ultimi del in secolo e nel basso impero, alcuni strati delle classi colte dell'impero romano; si direbbe che esso sembrava anche esprimere, per la sua stessa attitudine alla sintesi « universalistica » dell'esperienza religiosa, motivi che nel cristianesimo erano affiorati con la predicazione gnostica. Ma se ciò può spiegare la fortuna del manichei smo nell'impero romano, assai più grave è la constatazione che Mani, il predicatore di questa « gnosi iranica », vedesse nel cristianesimo la religione di Occidente. Che dunque Filippo l'arabo, un imperatore romano, fosse così propenso al cristianesimo da potersi considerare cristiano, non può far meraviglia. La pace « sincretistica » dell'avanzata epoca severiana aveva reso possibile un tale fenomeno. Non si dimentichi che un testo antimontani stico dell'epoca di Commodo ci rivelò l'esistenza del concetto di « pace » dei Cristiani già sotto Commodo stesso (concetto ricalcato su Praxeis 14, 2). Origene, nella sua mirabile apologia del cristianesimo contro 1' &Xc ?6yo di Celso, concepiva come possibile la cristianizzazione inte rale dell'impero: « mettiamo l'ipotesi che tutto l'impe- g ro si unifichi nell'adorazione del vero Dio; in questo caso il Signore combatterebbe per i Romani - ed essi vincerebbero più nemici che non Mosè ». Ma all'incirca nello stesso tempo Origene, in una sua omilia, rievocava con nostalgia il buon tempo del martirio, quando « i fedeli erano poco numerosi, ma veramente fedeli ». Il tenace difensore della fede considerava questo scendere della città di Dio fra gli uomini dell'impero più con timore che con
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fiducia. Il cristianesimo noti correva il rischio di secolarizzarsi? Tutto sommato, il saeculum era un'immagine di decadenza, nella quale la città di Dio, come Paolo l'aveva per la prima volta sentita, correva dei rischi evidenti. Proprio in questo periodo, si è fatto quanto mai evidente, non solo nei circoli cristiani ma in tutto l'impero, il concetto che la cultura antica si avviava a un caratteristico declino: il concetto era vecchio (lo si trova già in Seneca - forse Seneca padre - e poi in Floro), ma ora diventava d'accezione universale (è molto interessante il ricorrere del concetto di decadenza nel papiro, dell'epoca di Decio, già citato supra, § 45; esso era dunque diffuso anche fuori dei circoli « intellettuali »; di xXtvov « decadimento » si parla anche in un papiro di remissione dell'aurum coronarium, la cui attribuzione - cfr. supra, §55 - è molto discussa). Anche l'opposizione antiromana, che troviamo per esempio in alcuni passi degli Oracula Sibyllina giudaizzanti, ha molto contribuito alla formazione di questo concetto. Ma esso rispecchiava una realtà tragicamente sentita. Il motivo giudaico di Beliar (Satana), che troviamo dominante già negli scritti della Nuova Al leanza (su cui in/ra, App. ii), si è fuso con l'immagine di Nerone-Anticristo, caratteristica degli Oracula Sibyllina; e questo motivo dell'Anticristo ha avuto a sua volta, nel teologo Ippolito, una « sistemazione » concreta, per cui a Cristo si contrapponeva l'Anticristo re terreno (cfr. supra, § 59). Ma il senso della decadenza ha anche assunto forme meno strettamente « sataniche ». Proprio sotto l'im pero di Filippo l'arabo, un insigne retore di Cartagine, Cipriano, si convertiva al cristianesimo, e redigeva, d'intorno al 247-248, uno scritto - indirizzato a un tal Donato - in cui la sua esperienza religiosa di convertito si configurava in rapporto con la vita del suo tempo. (Qui già affiora, per la prima volta, l'esigenza di un'autobiografia come storia di un'esperienza spirituale: ciò che era già potenzialmente nel racconto apuleiano della conversio
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ne alla religione isiaca, e sarà poi espresso splendidamente nelle Confessioni di Agostino.) In questo libro di Cipriano a Donato, il concetto della decadenza domina e caratterizza l'atteggiamento dell'autore: sebbene egli scriva sotto un imperatore che può addirittura considerarsi cristiano, tuttavia sente un irreparabile sintomo di decadenza nel fatto stesso che guerre e vita militare determinano stragi e uccisioni: « se un tale commette un omicidio, lo si considera un delitto; se l'omicidio si compie in nome dello stato, lo si chiama virtù ». La vita della città antica, in cui si riassume la grande esperienza della cultura greco-romana, è essa stessa, agli occhi di Cipriano, il sintomo manifesto della decadenza: decadenza la gioia dei giuochi e degli spettacoli circensi, decadenza l'arte tragica e i pantomimi con le loro rappresentazioni di Venere e Marte, di Giove e Leda, di Giove e Danae. L'amministrazione della giustizia è ancor un aspetto di decadenza: « le leggi sono inscritte sulle dodici tavole e i diritti sugli editti pubblici - ma il giudice vende il suo voto al miglior offerente »; si falsificano i testamenti; « il diritto ha stretto alleanza con il delitto »... Questo pessimismo di Cipriano è dunque la condanna del saeculum sotto un impero in cui il saeculum sembrava aderire, più o meno coscientemente, e sinano nella fede dell'imperatore, al cristianesimo; ma proprio in questo secolarizzarsi del cristianesimo Cipriano avrà riscontrato un più grave pericolo. Non lamenta egli stesso, nel de lapsis, che la pace aveva corrotto presbiteri e vescovi, che per essa abbondavano i matrimoni tra famiglie cristiane e pagane (« gentili »), che addirittura i vescovi erano avidi di denaro e si davano all'usura? (Cfr. supra, c
§5 58-59; infra, § 67.)
Quando Cipriano scriveva il de lapsis, l'epoca dei Filippi, pur così vicina nel tempo (il de lapsis è del 251), appariva spiritualmente lontana. Essa aveva dovuto far i conti con le gravi difficoltà militari; sempre minacciosa, nonostante la pace, la nuova Persia sotto il comando di
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Shahpur; minacciosi i Goti d'Ucraina, che come federati avevano partecipato alla impresa persiana di Gordiano 111 ed ora apparivano delusi nelle loro pretese e scontenti della pace persiana del 244. Minaccia, dunque, dai Persiani e dal Nord: i punti nevralgici erano due: l'Oriens tutto e le Mesie. Per l'Oriens Filippo creò un nuovo tipo di comando militare, nominando suo fratello Iulius Priscus rector Orientis. Ma questo ordinamento, con gli eventuali oneri fiscali che lo avranno accompagnato, suscitò alla fine, in Siria, un largo scontento: sentiamo parlare, verso il 248249, di un lotapiano (che si diceva discendente, come sembra, da Severo Alessandro) e dell'emeseno Uranio (sacerdote, sembra, di Afrodite) forse imparentato con lotapiano ed anche egli connesso coi Severi. Del resto, molto più che questi ribelli d'Oriente (dei quali lotapiano fu eliminato presto, Uranio sopravvisse a lungo ai Filippi), nocque all'impero l'insoddisfazione dell'esercito di Mesia, la quale probabilmente veniva a combinarsi con l'insofferenza pagana dei circoli tradizionalisti. Un senatore d'origine pannonica, Messio Traiano Decio, legato di Mesie e Panno nie, fu acclamato imperatore. Nel settembre, forse, del 249 Filippo l'arabo fu vinto da Decio a Verona; seguì l'uccisione di suo figlio a Roma, da parte dei pretoriani. Un uomo di carriera senatoria eliminava un imperatore proveniente dalla carriera equestre; un pagano - di origine pannonica, ma sposato con una donna della p ganissima aristocrazia etrusca 18 - eliminava l'imperatore caro ai Cristiani. Decio scatenò una grande persecuzione coitro i Cristiani.
16 DOER, op. cit., 143 (cfr. 162); si aggiunga Perpenna fra i cognomi originari di Ostiliano. Per il tradizionalismo etrusco in/ra, 5 107. Cfr. BARBIERI, Albo sen., nr. 1662; 1595; 1736.
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64. I Decii (249-251); Gallo e Volusiano (251-253).
L'impero di Messio Traiano Decio e dei figli Etrusco Messio Decio (cesare dall'aprile-giugno 250; augusto dal maggio 251) e Ostiliano Messio Quinto (cesare dal 250, e parimenti augusto dal maggio 251) è dunque l'epoca della reazione tradizionalista: ritorna al potere il senato, sia pure rappresentato da un generale d'origine pannonica (ma con parentele italiche), e si delinea una radicale politica anticristiana. La grande persecuzione ebbe in apparenza un notevole successo: molti i lapsi, che salivano ai Capitolia delle città a prestar sacrifizio; molti, a maggior ragione, i libellatici, che riuscivano ad ottenere, dietro pagamento, i libelli o certificati di sacrifizio. Mai lo stato romano era arrivato a tanto di intolleranza: all'intransigenza ideale cristiana si opponeva l'intransigenza di stato pagana. Decio esprimeva (§ 60) un periodo nuovo nella storia delle persecuzioni. E tuttavia, nonostante i lapsi e i libellatici, il successo fu assai limitato; coi nuovi martiri (tra questi il vescovo di Roma, Fabiano; anche il vec ; chio Origene fu incarcerato), la Chiesa acquistò rinnovata forza di proselitismo. Nei primi mesi del 251 la persecuzione poteva dirsi svuotata di ogni mordente: nel marzo 251 17 fu eletto il nuovo vescovo di Roma, Cornelio; intanto Cipriano ritornava al suo seggio episcopale, Cartagine. Naturalmente, si poneva la grave questione del trattamento da accordare a lapsi e libellatici - la questione che Cipriano ha affrontato nel de lapsis, con il conseguente contrasto fra il moderato atteggiamento di un Cornelio e di un Cipriano, e l'intransigente rigorismo dei loro oppositori (a Roma, Cornelio trovò un oppositore in Novaziano). Si aggiunse la questione del « secondo battesimo » (rebaptisma) che già a Roma aveva contrapposto (con tutte le altre) il « ribattezzatore » Callisto all'antipa17
Aprile, sec. LIETZMANN;
ma cfr. DUCHESNE, L. P., I, CCXLVII.
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pa Ippolito. I sacramenti avevano validità obiettiva o semplicemente subiettiva? Il battesimo conferito dagli eretici era valido? Il problema si complicava con le personali posizioni dei vescovi: Cipriano, nel 251 alleato del « moderato » Cornelio (egli ha allora insistito sulla unitas Ecclesiae, sull'episcopatus unus et indivisus), sarà poi un ardente sostenitore del rebaptisma degli eretici, quando al vescovato di Roma sederà Stefano (la questione ebbe poi un grave strascico nel iv secolo, come si vedrà). La controversia diventava aspra: Stefano (254?-257) negherà la comunione (256) ai legati di Cipriano. Ma, in complesso, le comunità cristiane avevano superato il pericolo maggiore, la lotta contro lo stato. L'impero era ormai agitato da un gravissimo problema militare, la resistenza contro i Goti. Questi avevano servito i Romani, in qualità di joederati, nell'impresa di Gordiano in contro i Persiani; ed anzi ne avevano costituito (supra, § 62) il nerbo essenziale. Quando Filippo stipulò la pace coi Persiani, venne a mancare ad essi il soldo cui erano ormai avvezzi come a tributo. Cominciò allora l'ostilità dei Goti all'impero; e sempre rimase, per tutto il in secolo. Casi come questo, di mercenari barbari che muovono contro stati di cultura dopo aver prestato dei servizi divenuti inutili, non erano nuovi al mondo antico; fenomeni del genere si erano già verificati in epoca ellenistica (nella Partia e nella Battriana), e in romanzi ed esercitazioni retoriche del ii secolo d.C. avevano dato luogo al tipico motivo dell'« esercito mercenario » (per esempio di Alani) « non pagato » (a'rp2'rOg &61Lo0c). Ma il caso dei Goti divenne, in questo travagliato stato romano d'intorno alla metà del iii secolo, particolarmente grave; tanto più che essi erano condotti da un capo risoluto e capace, Kniva. Terrorizzati dalle violente incursioni, i provinciali fuggivano dinanzi al barbaro, affidando alla terra le loro più o meno modeste ricchezze. Uno di questi « tesori », frequentissimi nel iii secolo, è stato trovato a
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Nicolaevo 18 in Bulgaria. Presso l'assediata Nicopoli Decio riuscì ad infliggere ai Goti una grave sconfitta. Infine Decio decise di tagliar ai barbari la ritirata. La guerra si av vicinava alle coste del Mar Nero. Ad Abritto in un'aspra battaglia, nel giugno 251 Decio e il suo figlio maggiore morivano. Rimase imperatore il suo figlio minore Osti liano. Treboniano Gallo (di origine italiana), legato delle Mesie, fu acclamato imperatore nello stesso mese: adottò Ostiliano, sì da legittimare la sua elezione. (Questo procedimento adottivo va confrontato con l'autoadozione di Settimio Severo nella famiglia di Marco.) Gallo cooptò altresì il figlio Volusiano, nominandolo prima cesare, e poi - nello stesso anno - augusto). Ai Goti concesse una pace vantaggiosa: tenessero il bottino fatto, e i prigionieri, anche di famiglie chiarissime, che avevano preso nella loro avanzata (parecchi erano della città di Filippopoli); lo stato prometteva ad essi un annuo pagamento in denaro. Di lì a pochi mesi Ostiliano morì (si disse, di peste; o fors'anche, per opera di Gallo); Gallo e Volusiano restavano soli augusti. D'ogni parte l'impero era sconvolto. Infieriva la peste. E alle frontiere erano pur sempre i Goti, pronti a sconfinare nuovamente, quando fossero delusi (o ritenessero di esserlo) nella loro pretesa di tributi; ancora altri barbari 18 SEURE, « Rev. num. », 1923, spec. p. 238. Per il tesoro di Plevna, lett. a XL. - È impossibile (nonostante SEURE, 133) ritenere che la battaglia di Nicopoli sarebbe stata piuttosto una sconfitta romana: noi non possiamo rifiutare la chiara testimonianza di Dexippo, F H G, iii, p. 677 (cfr. Sync.). (Del resto, la tradizione di Zos. i, 23 conosce Decio come vincitore « in tutte le battaglie ».) Allo stesso modo, non possiamo abbandonare la notizia, certamente dexippea (Zos. i, 23), che ad Abritto si combatte in luogo paludoso: LAMMERT, « Klio », 1941, P. 125; cfr. Amm. xxxi, 13, 13. - Gli avvenimenti da Nicopoli in poi (Nicopoli; Berea; perdita di Filippopoli; Abritto) sembrano da concentrare - diversamente (WITTIG, RE XV, 1, 1270) - in circa 5-6 mesi; dunque, tutti nel 251; essi sono un'assoluta unità. La restitutio Daciarum è precedente a Nicopoli, e va posta al 250.
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premevano, all'Oriente, Shahpur si preparava ad un grande attacco. L'ondata persiana e germanica sconvole l'Oriente nel 252/3. I Goti arrivarono ad Efeso, Shahpur era arrivato ad Antiochia (condotto da un fuoruscito antiocheno, Mariades). Al solito, le truppe delle Mesie quelle medesime che avevano sostenuto il pannonico Decio contro i Filippi, l'italiano Gallo alla morte di Decio credettero di trovare il toccasana proclamando imperatore il loro condottiero, il legato delle Mesie: Marco Emilio Emiliano, d'origine romana. Gallo e Volusiano furono uccisi dai loro soldati presso Terni. Ma intanto un altro senatore, Valeriano, al comando di un esercito che doveva aiutare Gallo, veniva acclamato imperatore dopo la morte di quest'ultimo. Emiliano fu ucciso dai suoi soldati. Verso l'ottobre 253 Valeriano restava imperatore, e cooptava al trono suo figlio Licinio Egnazio Gallieno. 65. Valeriano e Gallieno (253-260).
Valeriano era d'origine clarissima, forse italiana, e comunque sposato con una nobile italiana: naturalmente, egli diede al suo governo un indirizzo tradizionalista e senatorio. In conseguenza, anche la sua politica tributaria (cfr. in/ra, § 76) fu una resa dinanzi agli ideali economici dei senatori (come si erano espressi, per esempio, nelle proteste di Cassio Dione contro la politica economica di Caracalla: supra, 55 48-49). Ma tale « resa » danneggiava lo stato, in quel momento e in quelle circostanze. La tempesta barbarica non accennava a placarsi. Franchi e Alemanni premevano alla frontiera gallica, fermati in un primo momento (254) dall'augusto più giovine Gallieno (restitutor- Galliarum), ma più tardi, verso' il 258, ritornati all'attacco, fino ad arrivar in Ispagna e (con la conquista di Tarracona, e della flotta) al Marocco; nel 254 i Goti avanzano mo a Tessalonica, nel 256 li troviamo a Nicomedia e a Prusa; gli Alamanni scendono in Italia, vinti in
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un secondo momento da Gallieno. Anche le tribù berbere della Mauretania Cesariense, non romanizzate (barbari), tornano ad alimentare la guerriglia tipica delle più esposte régioni africane; lo scrittore Gargilio Marziale, che era praepositus di una vexillatio nel territorio di Auzia, è caduto in un agguato. Da tutte le parti bisognava correre ai ripari, colmare falle talora gravissime. Pareva che la vendetta degli dèi, negletti nei loro templi e offesi della vittoria cristiana, si abbattesse sulla cosa pubblica: questo pensiero avrà condotto Valeriano, nell'ordinare, con due editti del 257 e 258, una nuova sanguinosa persecuzione, della quale furono vittime i vescovi Sisto di Roma, Fruttuoso di Tarracona e (dopo avere scritto, nel 257, la famosa Exhortatio ad martyrium a Fortunaziano) Cipriano di Cartagine. Fu, per le chiese cristiane, un'epoca durissima; per alcune comunità gallo-spagnuole, come quella spagnuola di Tarracona, dovette essere un'esperienza addirittura apocalittica, perché pressappoco contemporanea alla sopravvenuta invasione dei Franchi. Consigliere della persecuzione fu il praepositus annonae Macriano. Allude a questi l'enigmatica opera del poeta popolare cristiano Commodiano, con la sua figurazione di un tremendo persecutore rappresentato come Nero redivivus, che per tre anni e mezzo infuria contro i Cristiani: noi dovremo vedere in essa una tipica espressione dell'intrecciarsi di concezioni escatologiche e attualità politico-religiosa in questa tragica epoca dell'impero (per la dimostrazione cfr. in/ra, § 67). Il senso della decadenza, che in Cipriano si configurava anche come esigenza di rinnovamento etico, poteva assumere ora, a contatto con la persecuzione valerianea, forme ispirate ad un tormentato millenarismo. Nel 259/260 Shahpur i tornava a compiere un grande tentativo in forze contro l'impero. Cadde (o forse era già caduta qualche anno prima) Doura Europos; i Persiani occuparono Aptiochia (al seguito di Shahpur si trovava Mani, così come Plotino era stato al seguito di Gordiano in
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nella spedizione del 244). Ed allora avvenne, anche, un fatto inaudito nell'epoca imperiale: Valeriano, che aveva attaccato i Persiani con qualche successo agli inizi, ad un certo momento, in un grave scontro a Edessa, fu fatto prigioniero dai Persiani. Ora si comprendeva quali difficoltà importasse, per il mondo romano, l'ostilità dei Goti: all'epoca della spedizione di Gordiano in, i Goti avevano potuto bilanciare le forze (pur esse largamente costituite di mercenari-vassalli) dell'esercito persiano; dall'epoca della pace di Filippo l'arabo coi Persiani, venuto a mancare l'appoggio gotico, e anzi trasformatisi i Goti in nemici, l'impero si trovava nell'impossibilità di condurre la guerra in Oriente su due fronti - il gotico e il persiano -; ora, un imperatore romano era caduto prigioniero di Shah pur i. D'altra parte, non c'era modo di ricuperare il prigioniero; circa quattrocent'anni prima, quando il seleucide Demetrio n era caduto prigioniero dei Parti, nel 140 a.C., lo stato seleucidico si era dissanguato in una spedizione che avrebbe dovuto liberarlo; il prudente Gallieno non tentò alcuna spedizione del genere, né poteva. 66. Gallieno e i Cristiani. Il conflitto dei due Dionisii. Gallieno - e il neoplatonismo.
Migliaia di uomini dell'impero erano deportati nello stato sasanide: ai deportati romani della precedente incursione si aggiungevano i deportati di quest'altra; ed erano Cristiani, destinati ad alimentare la diffusione del cristianesimo nelle zone di deportazione - nella Susiana (dove furono adibiti alla costruzione della « diga di Cesare » band i Kaisar, cosiddetta perché il lavoro si considerava compiuto in nome dell'imperatore romano che fu appunto deportato in Susiana, a Vahi Andiok Shabuhr = Gundishahpur), nella Perside, nella Babilonia. Anche stavolta, come già in occasione della predicazione di Mani, lo studio dei testi orientali suggerisce una considerazione capitale:
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questo stato romano, il cui imperatore aveva perseguitato i Cristiani, appariva, alla considerazione dei Persiani, un impero di Cristiani: la Cronaca di Seert dirà che « i deportati romani ottennero in Persia un benessere maggiore che nella loro patria - e per la loro opera il cristianesimo fece proseliti in Oriente ». L'impero romano era dunque in questa paradossale situazione: costituito di Cristiani, soprattutto nelle sue parti orientali, esso appariva come l'impero dei Cristiani, a chi lo considerasse dall'esterno; e tuttavia il suo imperatore era stato un persecutore. Il fatto singolare non era solo nella prigionia di un imperatore romano in una città che aveva nome da Shahpur, in Vahi Andiok Shabuhr; era soprattutto nella strana situazione di uno stato di Cristiani (specie nella sua parte orientale) con politica anticristiana. La sconfitta di Valeriano doveva necessariamente apparir una vendetta del dio dei Cristiani. Tutto sommato, questo Cesare aveva combattuto contro il. dio dei suoi sudditi, prima ancora che contro l'esercito di Shahpur I; si poteva continuar in questa politica, la quale poneva l'imperatore su un piano di estraneità ai suoi sudditi - soprattutto agli orientali -, per lo meno alla grande maggioranza di essi? Gallieno trasse le conseguenze: se pure, s'intende, entro certi limiti. La persecuzione fu sospesa; si restituirono i cimiteri e le proprietà ai Cristiani; si restituì libertà di culto. Lo stato romano, che ha sua caratteristica nel tradizionalismo giuridico, ancor una volta sembrava piegarsi ad una realtà che ormai da lungo tempo si era imposta: il tradizionalismo restava (e resterà fino al 312) nel fatto che un imperatore romano non può essere cristiano - ma la restituzione della libertà e dei beni alle chiese, appunto perché veniva compiuta dal figlio di Valeriano, era tanto più significativa. Ci furono, certo, delle eccezioni: ma rare, e non attribuibili a Gallieno, e limitate a quella particolare zona di frizione tra chiesa cristiana e stato, che era costituita dall'esercito (così, per esempio, nel 262 fu con-
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dannato a Cesarea di Palestina un principalis cristiano candidato a centurione; è interessante il fatto che il senatore cristiano Asturio, cui si attribuivano qualità taumaturgiche, abbia sepolto personalmente il principalis condannato; evidentemente, egli disapprovava l'operato del senatorio legato della Siria Palestina, e considerava martire il principalis correligionario). In realtà, le eccezioni non fanno testo: l'editto di Gallieno apriva un lungo periodo di pace per la chiesa cristiana. E, con la pace, si tornava a porre, per le chiese, il problema dei problemi di questa tarda romanità: come si conciliano divinitàcarne, e divinità e corpo, nel Cristo? Già lo vedemmo altrove (supra, SS 33; 46; 58): questo era il problema cruciale della cultura ellenistico-romana, dal momento in cui essa aveva accolto la « misteriosa » dottrina del Logos Sarkotheis ed insomma (per esprimerci coi termini dell' del pagano Celso, dunque già dell'epoca di Marco Aureho) la dottrina di « Dio; che immette il proprio Spirito (Pneuma) in un corpo eguale al nostro » ( 7rvs 1-) ~iot Z&ov &143ocXv cc c71cx Risorte a libertà, le chiese tornarono ancora a discutere, e subito scoppiò (260/261) il « conflitto teologico dei due Dionisii », di Dionisio vescovo di Alessandria e Dionisio vescovo di Roma; ché stavolta, nella sua cura di lottare contro il monarchianismo modalistico, Dionisio di Alessandria sembrava di fatto avvicinarsi al « monarchianismo subordinaziano », alla formula del Cristo « generato e fatto » (il che implicherebbe: subordinato al Padre). Ancor una volta, il conflitto esprimeva soltanto la vitalità della religione dei Cristiani. Col suo editto di tolleranza, l'ellenista Gallieno permetteva che il mondo romano-ellenistico riprendesse quella che appariva, ormai, la sua impronta nuova ma insopprimibile: l'impronta della rivoluzione spirituale monoteistica (< monarchica »), che aveva sconvolto e penetrato quel mondo. In conseguenza, si verificò un fatto apparentemente strano, in realtà molto significativo:
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questa epoca di « anarchia militare », come noi moderni solitamente la chiamiamo, fu l'epoca per eccellenza « filosofica » dell'impero; al mondo che s'ispirava ad Alessandro Magno e al dramma del destino e della morte (il mondo dei Severi: Gerke) segue il mondo dell'ideale filosofico democratizzato. È questa, di fatti, l'epoca dei sarcofagi filosofici: il vecchio ideale dell'impero umanistico si è diffuso, cioè si è democratizzato; all'&pLaoxpx-oc TU 7rO che caratterizzava l'impero filosofico di Marco si contrappone la ovxpyx « democratica » dell'imperatore filosofo Gallieno. Imperatori come Gallieno non hanno avuto, dalla tradizione senatoria, quel che si dice « una buona stampa »: anche Caracalla, come già vedemmo, è un imperatore di questo tipo, attaccato dalla tradizione senatoria, e tuttavia eminente nella travagliata storia di questo periodo imperiale. Ma, a differenza di Caracalla, Gallieno ha avuto, da parte della storiografia moderna, un più obiettivo riconoscimento della sua posizione eminente nell'evoluzione dell'impero romano. A ragione, si sottolineano particolarmente i suoi rapporti di amicizia col filosofo neoplatonico Plotino. In realtà, Gallieno - questo rampollo della buo. na nobiltà senatoria, di sangue italiano (per lo meno da parte di madre; ma anche Valeriano sembra di origine italiana) - è un ellenista (egli sembra ripetere Adriano nel suo amore per Atene), con tendenze rivoluzionarie (come già mostra la sua tolleranza per i Cristiani). Il suo interessante disegno della fondazione di una Platonopoli in Campania - una fondazione ispirata da Plotino, nel quadro della restaurazione di quelle sedi che l'eruzione del 79 aveva distrutto, e che erano state il centro dell'insegnamento filosofico epicureo in Italia - attesta un interesse umanistico da ellenista, un voluto ritorno all'impero filosofico di un Marco, nelle nuove forme cui la filosofia neoplatonica dà vita; Plotino aveva molte relazioni in Sicilia, nella classica terra dove Platone aveva
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tentato il suo esperimento politico sotto il giovine Dionisio. Anche l'atteggiamento neoplatonico, e inoltre cristianeggiante, della sposa di Gallieno, Salonina Chrysogone - probabilmente un'asianica -, ha un forte rilievo a questo proposito: il modello può essere stato lulia Domna protettrice di Ammonio Sakkas, o lulia Mamea protettrice di Origene cristiano. E tuttavia: se vogliamo intendere questa grande figura di imperatore il quale, poco più che quarantenne, si trova a dirigere un impero sconvolto da passioni e da guerre, l'interpretazione della sua opera non potrà affidarsi soltanto all'ideale neoplatonico che l'informava; neanche, in genere, alla sua posizione di ellenista; c'è comunque, nella sua opera, qualcosa che esorbita dalla pura theoria di un neoplatonico. L'atteggiamento di Piotino, il platonico che nega la extramentalità delle idee platoniche, è un passo innanzi nell'avversione del neoplato nismo al cristianesimo; di là all'avversione di Porfirio il maggiore fra i discepoli di Plotino - contro i Cristiani non c'è un'eccessiva distanza (anche se Porfirio ha assunto, nella questione degli intelligibili, un atteggiamento ben lontano da Piotino). La stessa polemica plotiniana contro il capo del neoplatonismo ateniese, il famoso retore Longino, in difesa della non-extramentalità degli intellegibili, potrebbe intendersi come un passo innanzi nella radicale opposizione del neoplatonismo al cristianesimo (nell'insegnamento del fondatore, il Ammonio Sakkas - di origine cristiana, di spiriti tipicamente eclettici una polemica anticristiana non era affatto evidente). Ad ogni modo, a questa avversione anticristiana Plotino ha dato una espressione sistematica - se anche non troppo evidente, perché diretta piuttosto « contro gli gnostici » - nel famoso nono trattato della seconda Enneade; dove la polemica colpisce propriamente pensatori gnostici « tipo Nag Hammadi » (supra, xxii), ma indirettamente potrebbe anche estendersi a quella che si può denominare la « gnosi cristiana » ortodossa (non si dimentichi che in Clemente
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alessandrino, gnostico vale sempre « cristiano »). Qui Piotino vuole attaccare le radici dell'insegnamento e della prat.ica gnostica, in nome di un ideale aristocratico e tradizionalista pagano, al quale ripugna che gli « gnostici » chiamino fratelli gli uomini di più bassa estrazione, e si considerino figli di Dio, e destinati alla città celeste: un atteggiamento che prelude alla polemica anticristiana di Porfirio. Diversamente Gallieno: il plotiniano che ha responsabilità di governo, ha gettato le fondamenta di una tolleranza del cristianesimo che è durata, 'si può dire, per quaranta anni. Così la aristocratica filosofia neoplatonica, che con Plotino in certo modo si incammina per una via anticristiana, non si può identificare senz'altro con l'atteggiamento tollerante e comprensivo di Gallieno; essa è la filosofia di una rinascenza ellenista, che non cerca gli dei pagani nei loro templi, ma non cerca neanche il dio dei Cristiani nelle loro agapi. Plotino cerca il dio nella sua esperienza religiosa interiore di ellenista; ed in questo senso 19 la sua filosofia non basta a darci una chiave per intendere, in tutta la sua completezza, la problematica del politico Gallieno. 67. Il correttorato « totius Orientis ». La lettera beortastica di Dionisio a Hierace. Il poeta Commodiano e l'opera di Odenato.
Una concezione aristocratica della vita - che è poi il senso di tutta l'antica concezione del mondo, non solo del neoplatonismo - non poteva essere l'esclusivo punto di partenza per la sistemazione dell'impero in questo cre19 All'avversione di Plotino per la praxis si aggiunga l'avversione per la « visività » concreta, per es. pel ritratto: ultimamente osservazioni di Raissa CALZA, « Boil. d'arte », 1953, p. 203 (per Ostia culturale nel in sec., su cui R. CALZA, 205, cfr. la nostra interpretazione del « problema epigrafico di Nestore » in/ra, xxix). Per la letteratura sul plotinismo di Gallieno cfr. in/ra, XLIII.
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puscolo del principato. L'ideale filosofico, sceso sulle strade, si democratizzava nelle prediche dei presbiteri e nella nuova concezione della morte. Le difficoltà politiche lo facevano apparire, anzi, come un rifugio necessario. Gallieno era ridotto a controllare di fatto un torso dell'impero. Gli sfuggiva, in certo senso, l'Oriente, dove l'avanzata di Shahpur e la sua inaudita vittoria aveva determinato la rivolta delle truppe, che acclamarono imperatori i figli del loro praepositus annonae, i due Macriani (uno di essi, Macriano, che era passato dall'Oriente alla penisola balcanica, fu sconfitto dal comandante della cavalleria di Gallieno, Aureolo; l'altro fratello, , Quieto, rimasto in Oriente, era stato assediato ad Emesa, ed eliminato dal principe di Palmira, Odenato). In considerazione della situazione del tutto nuova, Gallieno dové dare a Odenato, e alla sua ambiziosa moglie Zenobia, tutta la regione orientale, dall'Asia Minore e dalla Siria al confine coi Persiani. Cominciò allora la grande giornata dello stato palmireno. Odenato, insignito di uno speciale titolo di « condottiero » (imperator) e nominato dux e corrector totius Orientis, ebbe così, in questo grande « correttorato », il compito delicato e difficile di eliminare la minaccia persiana (egli in verità aveva ottenuto a Carre un rilevante successo contro Shahpur) e di allontanare le incursioni gotiche; ma, appunto per ciò, il correttorato totius Orientis (una formula amministrativa, che si connetteva con quella del fratello di Filippo l'arabo, Iulius Priscus rector Orientis; cfr. Avidio sotto Marco) assunse l'aspetto di una grande fascia di confine con una sua fisonomia quasi autonoma rispetto al potere centrale. Nella regione sconvolta da tutti i mali dall'attacco dei Goti, come da quelli dei Persiani, come dalla peste le ultime vicende non fecero che aggravare la coscienza dell'immenso disastro che si abbatteva sull'impero. t quel « senso della decadenza » che noi sottolineammo sopra, per l'epoca di Filippo l'arabo, e già dei Severi: divenuto
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ora più convulso e angoscioso, per le sopravvenute vicende della persecuzione di Valeriano, e della vittoria di Shahpur, e poi della rivolta dei due Macriani contro l'impero, e infine della peste che si aggiungeva a quel tragico sconvolgimento. Era, sì, la decadenza; ma una decadenza che aveva tutto l'aspetto della fine. In Oriente, non solo l'Asia Minore e le Sirie, ma anche l'Egitto, ne erano sconvolte. A noi è pervenuta una lettera pasquale (heortastica) del vescovo Dionisio di Alessandria a Hierace vescovo degli Egizii, tutta bruciante di trepidazione apocalittica: « Si meravigliano e si domandano, donde vengano le pesti continue, le gravi malattie, le morti d'ogni genere, donde il vario ed enorme spopolamento (áV a pM«.o v6X£~&PO g ); si chiedono perché la città abbia in tutto compresi piccolissimi e vecchissimi un numero di abitanti appena uguale a quello dei soli vecchioni d'altri tempi. Gli è che gli uomini tra i quaranta e i settant'anni erano allora tanto più numerosi da superare il numero di quelli che ora sono inscritti alle pubbliche distribuzioni, tra i quattordici e gli ottanta anni; i giovanissimi, oggi, sono i compagni dei vecchissimi ». Se si pensa all'enorme prestigio popolare dei vescovi di Alessandria (cfr. in/ra, § 104) si comprenderà come Dionisio potesse aver a disposizione (per via, per lo menb, indiretta) le informazioni degli archivi alessandrini; egli conferma per noi, con dati precisi, quella 6Xryxv• pcùtL di Egitto la quale già lo vedemmo era lamentata, come segno di decadenza, ai tempi dell'imperatore Decio (« Journ. Eg. Arch. », 1945, p. 234). Ma il regresso demografico 20 si configura per lui che tuttavia, poi, -
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20 Nel 60 i liberi (solo maschi adulti? o non piuttosto tutti i liberi?) di Alessandria erano 300000; bisogna aggiungere, per lo meno, gli schiavi. Urbanesimo e progressi industriali avranno potuto sollevare la cifra, nel i e soprattutto nel ir secolo dell'impero. Il passo dionisiano da noi addotto dimostra regresso di più che il 50% per l'epoca di Gallieno. Nel basso impero si sarà avuta una ripresa, sino ai 600 000 uomini (oltre le donne e i bambini) nel futub Misr arabo.
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escluderà un'interpretazione letterale dell'Apocalisse gioannitica - come l'annunzio eventuale di una scomparsa del genere umano: dello diceva. La rivolta dei Macriani aveva scosso le speranze di un ristabilimento della pace: del resto, non erano essi i figli del rationalis che aveva ispirato Valeriano nella persecuzione dei Cristiani? Quando nel 261 Quieto fu vinto da Odenato (mentre nell'Illirico Aureolo sconfiggeva Macriano), un certo senso di sollievo dovette percorrere tutto l'Oriente, soprattutto l'Oriente cristiano; gli strascichi della rivoluzione dei Macriani (consistenti soprattutto nella rivolta del prefetto d'Egitto, il quale così impediva i rifornimenti frumentarii di Ròma) furono presto superati. Nel 262, nel corso del nono anno di Gallieno, il vescovo Dionisio scriveva con un tono sollevato: « come le nubi oscurano il sole, e poi si dissipano, e il sole riappare, così Macriano si era fatto innanzi, si era appressato alla Pota0,sL'a di Gallieno; ma Macriano non è più, giacché non fu neppure, mentre Gai lieno è sempre come era prima; e come ringiovanita e purificata, la ora meglio fiorisce »; « Macriano è ormai nulla » (si noti questa .preparazione del concetto delle mories persecutorum; cfr. § 60), mentre Gallieno « santo e amico della divinità, ormai si trova al suo nono anno di regno ». Il tono di Dionisio vescovo di Alessandria nei riguardi di Gallieno annuncia il tono di Eusebio vescovo di Cesarea nei riguardi di Costantino. L'impero propriamente cristiano sarà retto da un imperatore « santo e amico della divinità », né più né meno che questo impero tollerante di Gallieno. Ritorna la « pace dei Cristiani », questo termine che già incontrammo in uno scritto antimontanista dell'epoca di Commodo. Ma chi aveva sconfitto Quieto, riaprendo così - nonostante strascichi presto superati - la via della pace all'Oriente? Sì, senza dubbio il vincitore ufficiale era Gallieno « santo e amico della divinità » (OtalcutrFpog xx .pi.Xoc-ctpo) ma di fatto il ristabilimento dell'ordine si
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doveva a Odenato, anche se questi aveva vinto in nome di Gallieno. L'opera di Odenato acquistava dunque (specie per chi non guardasse alle forme ufficiali romane) un rilievo enorme, quasi da leggenda. Proprio in questo quadro dobbiamo intendere un'opera di grande importanza per la storia antica dell:idea di decadimento: il Carmen apologeticum di Commodiano. Insigni studiosi moderni (soprattutto il Courcelle), ed altri tendono a spostare quest'opera all'incirca verso il 410, e dunque ad inquadrarla in tutt'altro ambiente politico-religioso. Ma ciò è certamente da escludere, perché lo stesso Commodiano ci dà A una datazione della sua opera al III secolo, nell'altro suo scritto Instructiones, là dove rimprovera gli stulti pagani di « essere stati in f antes » ( e cioè sciocchi come la parvulitas, che crede ai fulmini di Giove) « per duecento anni » (annis ducentis, in cifra tonda; un autore del 410 avrebbe detto annis trecentis o quadringentis; la data della morte [ § 59 ] di Cristo era un punto fermo). Se dunque Commodiano va necessariamente posto nel III secolo (come del resto conferma lo stesso esame interno del Carmen apologeticum, che or ora vedremo), la parte conclusiva di questo carmen, con la sua interpretazione apocalittica della storia romana dalla septima persecutio in poi, dovrà essere inquadrata in quel tragico sviluppo dell'idea di decadimento, che pure si nota in altri scritti di questo tempo e che già si esprimeva nell'« Anticristo » di Ippolito, ma con un « ritardo » dell'avvento anticristico (supra, § 59). Qual è l'interpretazione . commodianea della storia romana dopo la septima persecutio? Questa è per Commo '" diano l'inizio della fine del mondo: et erit initium sep-tima persecutio nostra. Anche qui è una prova dell'appartenenza di Commodiano al iii secolo. Com'è chiaro da Orosio e da Agostino, nel v secolo si calcolavano concorde-. mente, come dato indiscutibile, dieci persecuzioni contro i Cristiani: uno scrittore che nel 410 parlasse di « settima persecuzione » non avrebbe potuto intendere se non della
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persecuzione di Decio (settima dopo quelle, ormai considerate « ufficiali » dalla tradizione cristiana, di Nerone, Domiziano, Traiano, Marco, Settimio Severo, Massimino Trace). Se dunque Commodiano scrivesse nel v secolo, noi dovremmo pensare che egli fa cominciare la fine del mondo con una persecuzione del iii secolo: il che è assurdo. Evidentemente, la tradizione sulle persecuzioni si andava formando già nel iii secolo; e quando Commodiano considera « attuali » le conseguenze di una persecuzione che è la septima, egli intende certamente della persecuzione di De cio, che poi anche Agostino, più che un secolo e mezzo dopo, avrebbe considerato la settima. L'interpretazione commodianea della storia « contemporanea » conseguente alla septima persecutio è rigidamente coerente: la septima persecutio scatena l'invasione gotica, in cui rex Apolion erit cum ipsis (scil. Gothis) nomine dirus, qui persecutionem dissipet sanctorum in armis. Qui Apolion è il re dei Goti Kniva, « re tremendo anche nel nome » ( nomine dirus: Commodiano ha visto in Apolion = Apollyon dell'Apocalisse ioannita [9, 111 una profezia dell'invasione
gotica 2I) Il punto più significativo della rievocazione com modianea consiste in questo concetto dell'invasione gotica come liberatrice dei Cristiani; anzi, Commodiano vuole insistere sul fatto che i Goti, sebbene gentiies, fraternizzarono lieti coi Cristiani, << fratelli » ( fratres), anziché coi lu-
xuriosi pagani (hi [scil. Gothi] tamen gentiies pascunt Christianos ubique, quos magis ut fratres requirunt gaudio pieni, quam luxuriosos et idola vana colentes). Inoltre, 21 Purtroppo, Kniva non si spiega con quello che noi sappiamo di gotico; ma non è escluso che il suo nome (come quello, per es., di Attila, Wulfila, Totila, ecc.) avesse un senso, e che persino potesse avvicinarsi - a torto od a ragione - con radici indicanti « distruzione » (per es. nwg. knyfa « opprimere », [comunque non attestato in got.]). Ma non credo che Commodiano abbia fatto un tale àvvicinamento: egli ha voluto solo dire che l'Apollyon (Abaddon) dell'Apocalisse indica appunto sterminio.
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Commodiano si compiace della sconfitta e morte dei senatores fatti prigionieri, della sconfitta di Decio: « i Goti perseguitano gli idolatri e prendono prigionieri i senatori » (si tratta, come sappiamo da Zosimo, dei prigionieri di nobile famiglia, specie di quelli fatti a Filippopoli: supra, § 64); « questi mali ricevono gli idolatri, persecutori dei Cristiani; entro 5 mesi essi sono uccisi dal nemico »: (Gothi) persequuntur enim (idola vana colentes) et senatum sub iugo mittunt. haec mala percipiunt, qui sunt persecuti dilectos. mensibus in quinque trucidantur isti sub hoste. In questo passo emerge l'antiromanità di Com modiano: Commodiano vede nei Goti gli alleati contro i senatori pagani ed apertamente si compiace di questi liberatori amici dei Cristiani e persecutori dei nobili « idolatri ». L'invasione 22 e la vittoria gotica su Decio, ad Abritto, erano viste come una grande rivoluzione religiosa e sociale. Anche altri indizi (in/ra, § 70) ci mostrano che i Goti, sebbene gentiles, nelle loro scorrerie simpatizzarono coi Cristiani; e il testo di Commodiano, nell'interpretazione che ne abbiamo data, assurge a documento di eccezionale importanza sui primordi dei rapporti fra cristianesimo e Goti. La prospettiva di Ippolito (S 59), che ritardava l'avvento dell'Anticristo, è ormai abbandonata: già un confessore dell'epoca di Decio aveva visto nell'imperatore Decio il metator Antiehristi (Cypr., Ep. 22, 1), e lo stesso Cipriano aveva avvertito « che s'era avvicinato il tempo dell'Anticristo » (Ep. 58). A Commodiano la vittoria gotica su Decio apparve come vittoria contro un imperatore di spiriti anticristici. Ma questa vittoria dei Goti, che a lui sembra una vittoria cristiana, si interrompe - nella visione di Com modiano - per dar posto a un liberatore del senato (Treboniano Gallo?) e all'Anticristo, il Nerone redivivo. Per 22 La caduta di Filippopoli era attribuita alla connivenza di Prisco coi Goti: questo punto potrebbe essere significativo.
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tre anni e mezzo, il « profeta » Elia predica in Giudea, invocando siccità e peste a punizione degli infedeli; poi, per tre anni e mezzo, il redivivo Nerone infierirà contro i Cristiani, eccitato dal senatus (il quale a sua volta è stato aizzato dai Giudei); partecipi nella persecuzione contro i Cristiani egli aggiunge a sé duo Caesares; la persecuzione ha due fasi (espresse rispettivamente nei vv. 850857; 86 1-877). Ma ecco sopravvenire, alla fine dei tre anni e mezzo, la « vendetta mortale » (vindicta letalis), sì che scompaia « l'impero romano, che ha lacerato l'umanità coi tristi tributi » (imperium, quod per tributa mala diu laceraverat omnes). Autore della vindicta è un « re orientale, già per sé potentissimo » (rex ab orientem, fortissimus ipse), ed inoltre aiutato da molti alleati; sottomette
Tiro e Sidone; ne viene peste, e altre guerre e carestia; tremano Nerone redivivo e il senato; i tre Cesari vanno incontro al rex ab orientem, ma questi li uccide e li dà in pasto agli uccelli; è la fine di Roma, la fine dei potentes, e fine meritata, perché sino allora « Roma godeva, mentre tutta la terra gemeva » (haec quidem [sci; Roma] gaudebat, sed tota terra gemebat). Or il rex ab orientem, che è un persiano (e Persida bomo), si proclama immortale, e vuole persuaderne i Giudei (come il Nerone redivivo era l'Anticristo dei Romani, così questo re persiano è l'Anti cristo dei Giudei); ma ecco che i Giudei stessi, accorgendosi dell'inganno (si tratta, appunto, di un uomo della Perside, non di un immortale), invocano un salvatore. E viene un esercito, l'esercito dei Giudei puri, discendenti dai Giudei dell'esilio; un angelo va innanzi ad essi, sono irresistibili; Dio è con loro; espugnano città e genti, fan preda di oro e di argento; il terribilis tyrannus contro il quale essi muovono fugge verso settentrione, al loro avvicinarsi; gli eserciti di Dio vincono i ribelli. Interea sancti intrant in colonia sancta.
Di questa apocalittica visione alcuni punti si lasciano definire storicamente. L'« Elia », cui Commodiano dà sì
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grande importanza, sarà stato un gran predicatore di Palestina, o anche lo stesso vescovo di Aelia-Gerusalemme (Mazabane). Il Nerone redivivo e il rex ab Orientem (che è anche detto e Persida bomo) sono certamente identificabili; il primo, con Valeriano (più o meno confuso col suo rationalis Macriano padre, il cui ordinamento tributario laceraverat omnes); il secondo, con Shahpur. Ma nel suo apocalittico furore Commodiano ha mescolato il destino di Valeriano con quello dei duo Caesares, in cui non si saprebbe se vedere i due Macriani oppure Gallieno-Salonino (ma la prima ipotesi è di gran lunga preferibile: anche il già ricordato Dionisio vescovo di Alessandria, in una sua lettera, ha continuamente accomunato, a proposito della persecuzione di Valeriano, l'imperatore e i due figli di Macriano, futuri usurpatori). Il punto finale della visione è la marcia dell'esercito dei puri, condotti dall'angelo di Dio, essi stessi invincibili perché Deus ipse cum illis; un punto, su cui Commodiano ha insistito anche nelle Instructiones; dove pure, come nel Carmen, quell'esercito appare vincitore del tyrannus. Quale esercito è questo? Commodiano, nella sua esaltazione, non va troppo per il sottile; egli sa soltanto quello che si dice, in mezzo al trepido trambusto, nella sua comunità di sancti (una comunità, sia detto tra parentesi, certamente patripassiana; dunque assai vicina, per esempio, alle idee della chiesa di Bostra); e questa comunità ha atteso salvezza da un esercito che non fosse né l'esercito di Roma e del suo senatus (di quel senatus e di quella Roma, che sono le bestie nere di questo Carmen), né quello di Shahpur (il quale, come mazdeista, e Persida homo, non può essere caro a Commodiano). L'esercito di Odenato poteva riempire questa aspettativa? Di fatti, una tale esaltazione idealizzata ha avuto Odenato nel xiii e xiv libro degli Oracoli Sibillini. Nell'opera di Commodiano, tale esaltazione non è altrettanto chiara: il populus celatus tempore multo non può essere, senz'altro, l'esercito palmireno; in linea teorica, il populus
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ideale di Commodiano è quel miracoloso popolo che verso la metà del iv secolo ci sarà descritto dalla Expositio totius mundi come popolo eletto, che non ha bisogno di governo (sine imperio, se regentis videlicet) né di lavoro dei campi (neque seminant neque metunt); e difatti, Com-
modiano lo pone ad oriente del Tigri. La storia dell'idea anticristica (supra, 5 5 21-24; 59) culmina in Commodiano. Nel suo canto, così l'impero romano come il persiano appaiono entrambi in funzione anticristica. Ma soprattutto: nella sua concezione apocalittica l'ultima storia di Roma era vista in funzione dell'imminente giudizio divino, giudizio annunziato dalla marcia del populus celatus tempore multo. Pochi scritti sono significativi come questo, in cui l'impero romano del iii secolo appare già come un mondo che l'autore vuole veder morire, che egli anzi ritiene morto - un mondo a cui si preferiscono i Goti fratres dei Cristiani, mentre si attende la liberazione dal populus di Dio celatus tempore multo. Tutta la storia di Roma qui si disperde in un punto: essa è vista da una zona dell'Oriente con lo sguardo di un popolare poeta siriaco-cristiano che non conosce pietà per l'impero (proprio per il particolare rilievo che ha Gerusalemme in questo Carmen, e per il generale carattere siriaco-cristiano di esso, si direbbe che Commodiano sia stato veramente, 'come dice il titolo dell'ultima delle Instructiones, un Gazaeus « uomo di Gaza »). Sono « sfocati », certo, i contorni di quella storia; e nella sua ansia di distruzione Commodiano, che ha sentito parlare di rovine e disastri nell'Italia di Gallieno, parla addirittura della fine di Roma: ma proprio qui si rivela il tono del Carmen e il suo significato storico. Con Commodiano il concetto tertulliarieo della militia Christi è portato alle estreme conseguenze: non è lontanissimo il momento (d'intorno ai primi del iv secolo), in cui ai Cristiani, milites Christi, si opporranno i « borghesi », i « non ancora arruolati », cioè (come si diceva comunemente, per essere i sol-
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dati tratti dai pagi) i pagani. Ma l'evoluzione semantica di paganus, la quale parte da Tertulliano, può ben attribuirsi al in secolo: Tertulliano e Commodiano non erano letti dai letterati, ma dai predicatori e dal popolo cristiano; la cultura cristiana è cultura « democratica ». 68.
I tre « torsi » dell'impero. La politica antisenatoria nella riforma monetaria di Gallieno.
Ad Oriente, dunque, il correttorato totius Orientis aveva una fisonomia quasi autonoma rispettò al potere centrale: come un « torso » dell'impero. Ma più grave era la crisi dell'Occidente. Qui sfuggiva a Gallieno il complesso Britannia-Gallia-Spagna (soltanto Citeriore?); ché già nel 260 (o 259? 258?) un dux del limes germanico, Postumo, si era ribellato in Gallia, proclamandosi Augusto e uccidendo (260? 261?) il figlio di Gallieno, il cesare (nel 260 aug.) Salonino. In questa altra grande « fascia » di province, Postumo era riuscito a creare un impero sotto il suo controllo, con un senato e consoli e pretoriani proprii, con centro a Treviri, nel nome di Roma aeterna; un interessante ricorso, ma con tutt'altri presupposti, di quello che era stato il tentativo sertoriano nella Spagna in epoca repubblicana di guerre civili. Si delineava così, in maniera tumultuaria e caotica ed oscura, il complesso regionale che caratterizzerà il basso impero, con l'organizza zione delle tre grandi compagini prefettizie, l'Oriente le Gallie l'Italia (oppure l'Italia-Illirico): con la differenza che nel basso impero la divisione assumerà un aspetto ordinato e stabile, essendo intesa, anzi, a potenziare l'unità dell'impero; mentre nell'epoca di Gallieno quell'unità, nonostante l'indiscusso permanere dell'ideale di Roma aeterna, appariva di fatto minacciata, e l'imperium Galliarum di Postumo si prestava a suscitare nuove ambizioni e ri23
Ultimamente
DEGRASSI,
I fasti consolari (1952), p. 71.
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poste speranze di futuri usurpatori, come fu chiaro persino dall'ambigua condotta delle operazioni militari contro Postumo da parte di Aureolo, il comandante della cavalleria di Gallieno. Pullulavano gli usurpatori, anche in quel torso dell'impero che effettivamente restava controllato da Gallieno. Se ne ebbero in Pannonia e in Mesia (Ingenuo; Rega- liano);il maggiore dei due Macriani penetrò, come vedemmo, nella penisola balcanica. Furono le vicende degli anni oscuri: il 260 e il 261. Domate quelle rivolte, eliminati quegli usurpatori, restava il problema della riforma nell'organismo dell'impero: c'era qualcosa che non andava, c'era molto da cambiare e da rinnovare. L'anarchia militare aveva sconvolto lo stato perché vecchi ordinamenti si erano consunti, perché la tradizione inceppava le nuove esigenze dell'organismo statale così sul piano militare come sull'amministrativo. Chi poteva rimproverare a Postumo la fondazione di un imperium Galliarum, dal momento che si erano visti i Germani del Reno attraversare il confine, rompere tutte le difese, arrivare sinanco, attraverso la Spagna, nel Marocco? Le città galliche, queste mirabili creature della romanizzazione, doveano difendersi da sé; i loro terrorizzati cittadini seppellivano i risparmi e le ricchezze accumulate da tempo; le loro nuove mura si ergevano come strette cinte fortificate in una trepida dif esa dal nemico barbarico: non era questo il quadro in cui si spiegava, e giustificava, l'imperium Galliarum? E per ciò che riguarda il confine danubiano: non era forse evidente che le continue ribellioni delle truppe danubiane, da Decio in poi, erano in realtà il portato di un acuto nervosismo, di una insofferenza dei soldati illiriciani per la debolezza dell'impero di fronte alle invasioni barbariche? Anche le ribellioni sotto Gallieno, le ribellioni di Ingenuo e di Regaliano e l'impresa di Macriano maggiore, avevano questo significato. Lo stesso vale per l'Oriente. Anch'esso si doveva difendere da sé, se voleva sopravvi-
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vere. Era questo il significato della rivolta dei Macriani, tanto vero che la restaurazione della legalità era stata possibile per l'opera di un principe quasi autonomo, del principe di Palmira fatto corrector totius Orientis. Non un provincialismo capriccioso e semiautonomistico, ma proprio l'amore e la venerazione della romanità può spiegare quel nervosismo di truppe e di uomini, quell'affiorare di tyranni « i trenta tiranni », si disse dalla tradizione), quella instabilità che era diventata una malattia costituzionale. E c'era, alle profonde origini di essa, l'incertezza economica, l'oscurità di una situazione senza uscite: per venire incontro alla rivoluzione dei prezzi, si era svalutato il denarius, ci si muoveva a tentoni fra continui esperimenti di diminuzione del fino argenteo; l'oro si riserbava all'estero e ai donativi militari e alle retribuzioni dei funzionari più eminenti. Ma se il denarius, la gloriosa moneta argentea della borghesia romana, era diventato una moneta mezza di rame (o peggio), come si poteva assicurare la stabilità dei prezzi? come si poteva garantire la contiiuità di un'economia monetaria senza rompere il suo equilibrio con quelle continue indictiones in natura che sembravano fatte apposta per la diminuzione dei beni e l'aumento dei prezzi? Queste considerazioni, che a noi moderni si presentano evidenti, anche a Gallieno si presentavano: ma, per lo più, in altra forma. Al tormentato imperatore, rampollo di venerande famiglie senatorie, la soluzione dei problemi si presentava innanzi tutto dal punto di vista della forma costituzionale assunta dal principato. Nel suo profondo amore per lo stato romano, il filosofo imperatore sentì che il suo compito doveva consistere, al di là della sua persona e delle sue stesse preferenze aristocratiche, nella rinuncia a quelle preferenze e alla tradizione aristocratica da cui egli proveniva. Fu il suo grande sacrificio all'ideale della tradizione romana: un sacrificio che può confrontarsi con le stoiche esperienze di un Marco Aurelio oppure, nel basso impero, con l'ascetica dedizione di un Giu-
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liano l'apostata. Come già Marco Aurelio, come poi Giuliano, anche Gallieno ha considerato il suo compito una superiore fatica, nella quale la sua personalità andava necessariamente annullata. Ma, a differenza da essi, Gallieno ha dovuto compiere, in obbedienza al suo tempo, il sacrificio della sua stessa formazione spirituale aristocratica e senatoria. Egli ha creduto di individuare nella posizione della classe senatoria la principale ragione della crisi che sconvolgeva l'impero. Già nel campo monetario: il denarius e il doppio-denario (l'antoniniano) erano ormai una moneta più di rame che d'argento, e da Gallieno in poi, con una radicale rivoluzione rispetto a Caracalla, gli antoniniani hanno soltanto un contenuto argenteo ridottissimo, che va dal 20% addirittura al 5%. Ma l'imperatore voleva pur difendere questa moneta della piccola borghesia, e per la sua difesa ha ritenuto necessario eliminare l'emissione senatoria della moneta di rame; si rompe per sempre (salvo brevi eccezioni in seguito, ed alcuni ritorni nel basso impero [pseudomonete contorniate]) la tradizione augustea, per cui all'imperatore tocca l'emissione della moneta d'oro e d'argento (l'aureus e il denarius), al senato l'emissione della moneta di rame italiana (il HS nummus). È qui il primo, e più appariscente, dei procedimenti rivoluzionari di Gai lieno: il più nobile fra gli imperatori del iii secolo ha strappato al senato questa importantissima prerogativa monetaria-. Ma egli, che così era portato ad accentuare un aspetto assoluto della sua jiovapXta ellenista, ha dovuto compiere anche una radicale rivoluzione nel campo amministrativo-militare, sempre più strettamente connesso con quello economico. Egli « ha allontanato i senatori dai comandi militari e dai controllo sull'esercito » (senatum militia vetuit et adire exercitum, secondo la famosa espressione dello storico Aurelio Vittore): vale a dire, ha soppresso le legazioni di legione.
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69. Augusto e Gallieno. La soppressione delle legazioni di legione e la loro sostituzione con prefetture di legioni. Le riforme di Gallieno.
Il principato augusteo era sorto dalla grande rivoluzione romano-italiana: dai conflitti fra senatori, che avevano sconvolto lo stato repubblicano nel i secolo a.C., la guerra civile aveva espresso il nuovo stato augusteo, l'o ptimus status rei publicae, in cui Augusto considerò suo primo compito creare una nuova carriera equestre accanto alla senatoria, ed inoltre impedire l'emergere di nuove grandi personalità senatorie, le quali potessero attirare attorno a sé, in Oriente, un seguito popolare e militare particolarmente forte. Augusto aveva escluso i senatori dal comando in Egitto - regione particolarmente adatta come base di operazione; ed allo stesso modo in cui aveva preposto all'Egitto un prefetto di ordine equestre, aveva altresì creato, con la prefettura al pretorio, un comando equestre per la stabile difesa del potere centrale. I due fastigi della carriera equestre - la prefettura pretoriana e l'egiziana -, come anche la netta distinzione di carriera senatoria e carriera equestre, parvero ad Augu sto sufficienti garanzie dell'o ptimus status; più in là. egli non andò, né poteva. La tradizione giuridica romana era troppo forte, perché si potesse trasformare ulteriormente lo stato della città di Roma (vale a dire lo stato magistratuale e dunque senatorio) in uno stato interamente burocratico. Anzi, Augusto aveva compiuto il miracolo: aveva inserito il portato della rivoluzione nel vecchio stato cittadino: e questo era il senso della diade carriera equestrecarriera senatoria, cioè, in ultima analisi, burocrazia-magistrature. Ma così, lo stato magistratuale restava, accanto agli embrioni di stato burocratico evidenti nella carriera equestre e negli offici dei liberti imperiali; lo stato magistratuale era lo stato di Roma città, venerando e intangibile nei suoi limiti ufficialmente riconosciuti. In esso
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non era concepibile la distinzione fra poteri militari e poteri civili. Il magistrato è l'esponente dello stato cittadino, è soldato e amministratore nello stesso tempo; egli non può essere funzionario, come possono esserlo i procuratori equestri; e del resto, la carriera equestre, come la senatoria ) aveva rilevante carattere militare (in virtù, appunto, delle miitiae equestres), ed i suoi due fastigi - la prefettura al pretorio e la prefettura d'Egitto - erano comandi militari e giudicanti nello stesso tempo. In questo compromesso consisteva il principato augusteo, e questo compromesso voleva significare che lo stato della città di Roma continuava a vivere nel principato. Sebbene lo stato tolemaico potesse dare ad Augusto il modello di uno stato ellenistico burocratico, in cui funzioni militari e civili riuscissero ad essere distinte, la tradizione statuale romana era dunque troppo forte, perché Augusto concepisse la possibilità di uno stato romano-ellenistico in senso radicalmente burocratico. L'unità di comando militare e civile, con tutti i suoi inconvenienti, apparve una garanzia di continuità della Roma aeterna nell'impero: anche se, di fatto, i comandanti delle province apparivano assai più militari che iudices, e questa critica veniva formulata già nel i secolo, per esempio in ambienti ebraici 24 Anche Gallieno, come Augusto, veniva dall'esperienza di una tremenda guerra ciyile: di una guerra che aveva contrapposto, come nella rivoluzione romano-italiana del
24 los., Com'ra Apionem, 176: o)oyo3t tv &yvotav (scil. 'riv v6l.tcv). - Tuttavia, anche nel basso impero, quando potere
civile e militare saranno nettamente distinti, ragioni speciali (Amm. xxvi, 8, 12) e petizioni dei provinciali (Amm. xxviii, 6, 11) solleciteranno il ritorno alla cumulazione di potere militare e civile nelle mani di un solo magistrato: il caso classico è la provincia Tripolitania nell'epoca di Valentiniano i (cfr. Amm. loc. cit. e ora l'epigrafe AÈ, 1952 ) 173). Per il v secolo, cfr. Stilicone, 394; 114; per il vi, GITTI, « Bull. Com . », 1932 (cfr. « Diz. Epigr. » s . v. Iustinianus); nel VII si avrò l'ordinamento tematico di Eraclio.
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i secolo a.C., eserciti ad eserciti e senatori condottieri di eserciti ad altri senatori condottieri di eserciti. Ma stavolta la guerra civile si svolgeva su un piano diverso: con la constitutio di Caracalla, lo stato della città di Roma era diventato lo stato di tutti i provinciali liberi, fatti ormai cittadini di Roma, ad esclusione dei dediticii. Tradizionalista come nessun altro nella storia dell'Occidente, lo stato romano aveva tuttavia identificato nell'appartenenza all'impero-oikoumene la condizione sufficiente alla civitas. La peste e la guerra Io avevano sconvolto; ma le sue stesse lotte civili suggerivano la necessità di cominciar a romperla con la vecchia finzione dello stato magistratuale accanto allo stato burocratico. I magistrati del vecchio stato cittadino di Roma, vale a dire i senatori, si potevano ribellare all'infinito, finché anche nelle province più minacciate essi avessero comandi civili e militari a un tempo: Gallieno ha pensato che, in queste condizioni, occorreva escludere i senatori dal comando militare - che dal civile non si poteva, senza togliere allo stato romano il suo profondo contenuto ideale e la configurazione sua propria. Ciò equivaleva a togliere l'aspetto militare alla carriera senatoria, sopprimendo le legazioni di legioni e avviandosi a limitare i poteri militari dei legati di province imperiali. L'imperatore provvedeva, in tal modo, alle esigenze della centralizzazione, contro le guerre civili eternamente risorgenti; egli non rifletteva sull'altro aspetto della questione, la necessità di conciliare centralizzazione militare e decentralizzazione amministrativa. Ma un tale aspetto non poteva considerarsi al suo tempo, mentre l'impero era effettivamente, più che decentralizzato, addirittura spezzato in tronconi, con un imperium Galliarum usurpato da Postumo e con il correttorato totius Orientis affidato al principe di Palmira. cipe La esclusione dei senatori dall'esercito è dunque la riforma preminente nell'opera di Gallieno, in quanto essa implica un lontano avvio alla distinzione di comandi pro-
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vinciali, che sempre dovevano essere affidati ai senatori, e comandi legionarii, da cui essi venivano esclusi. Il significato della riforma può esprimersi nel seguente modo. Sino a Gallieno, due sole province dell'impero - l'Egitto da Augusto in poi, la Mesopotamia da Settimio Severo in poi - avevano sempre avuto uno speciale ordinamento militare, per cui le legioni in esse stanziate erano al comando non già di legati legionis senatorii, sì invece di praefecti legionis equestri. In tutte le altre province, viceversa, il comando di legione era affidato, naturalmente, al legatus legionis senatorio. Anzi, in esse il praefectus legionis equestre era divenuto, poco a poco, un ufficiale di sempre più modeste competenze: comandante di campo legionario (comprendente più legioni) nell'epoca augustea (prae/ectus castrorum imperatoris) egli era poi divenuto praefectus castrorum di una determinata legione, rimanendo del tutto subordinato non solo (com'è naturale) al legatus legionis senatorio, ma anche all'equestre primipilo bis. In altri termini: mentre le province d'Egitto e di Mesopotamia avevano, nei loro prae/ecti legionis, i comandanti equestri delle loro legioni (ed in ciò riflettevano l'antica diffidenza augustea nell'affidare a senatori le funzioni più direttamente vicine all'imperatore), viceversa il resto dell'impero aveva conservato la tradizione repubblicana di comandanti senatorii dei corpi legionarii, e questa tradizione si esprimeva persino nell'accezione bassa del titolo prae/ectus legionis in confronto dell'altissima che si dava a quel titolo nell'Egitto e nella Mesopotamia. Tutt'a un tratto, con Gallieno, scompare il legatus legionis; e al comando delle legioni vengono preposti praefecti legionis equestri `. senatori 25 Gallieno, così facendo, applicava alle legioni stanziate nelle province la situazione della legio Il Parthica stanziata da Settimio Severo in Italia al monte Albano, e posta al comando (come le due Parthicae della Mesopotamia) di un prae/ectus legionis (od anche praefectus legionis vice legati [C viii, 20996, sotto Severo Alessandro] « prefetto di legione con funzioni di legato »). Che Gallieno
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non hanno perdonato a Gallieno questa radicale riforma: lo storico Aurelio Vittore, che scrive quasi un secolo dopo di essa, riflette quell'ostilità della tradizione senatoria quando, nel passo che già citammo, lamenta che Gallieno senatum militia vetuit et adire exercitum. In apparenza, alla classe senatoria restava ancor un modo di controllare l'apparato militare dello stato: il comando delle province, che era anche, secondo l'antica tradizione romana, il comando militare di tutte le legioni stanziate in ogni singola provincia. Alla lotta dell'imperatore contro il legatus legionis senatorio, il senato poteva ancora resistere poggiando sul legatus provinciae senatorio. La definitiva affermazione del punto di vista di Gallieno, ed una ulteriore svolta nella storia dello stato romano, avrebbe potuto essere rappresentata soltanto dalla radicale rottura con la vecchia tradizione: dalla distinzione del potere civile dal militare. Questa fu chiara con Diocleziano. D'ora in poi, nel canovaccio dei retori per le lodi al governatore di provincia mancherà il pistolotto sulle loro imprese militari. Un'altra grande riforma di Gallieno fu lo sviluppo dato alla cavalleria: una cosa tutt'altro che nuovissima, ma comunque divenuta, con Gallieno, assai evidente, per la creazione di reggimenti di cavalleria del tutto autonomi e per l'aumento dei contingenti di cavalleria (di promoti: si noti il nome) assegnati alle singole legioni. Ma soprattutto va segnalata la creazione di un corpo centrale di cavalleria (in cui spiccavano gli equites Dalmatae, e - di-
abbia guardato al modello della legio 11 Parthica è probabile pel fatto che anche il nuovo praefectus legionis posto da Gallieno al comando di legione in provincia può ugualmente chiamarsi prae/ectus legionis vices agens legati. Ciò contribuisce, se non m'inganno, ad escludere la spiegazione di questa aggiunta data dal KEYES (secondo cui essa vorrebbe distinguere il nuovo p. i, dal vecchio p. castrorum). 26 Ne abbiamQ un tipico esempio in Menandro, Rh. Gr. in, 378 Sp.: un testo fondamentale .e (ch'io sappia) dimenticato.
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stinti fin dall'epoca di Severo Alessandro - gli equites Mauri et Osroeni 27), al comando di Aureolo: anche da questo punto di vista, si può dire che l'esigenza della centralizzazione domina l'opera di questo imperatore filosofo e soldato. Alla medesima esigenza si deve l'altra grande innovazione: l'istituto dei protectores divini lateris, una specie di stato maggiore imperiale, costituito soprattutto di centurioni e tribuni di legione e prefetti di legione; sono, questi protectores, in battaglia i difensori della persona dell'imperatore, in pace la « classe » scelta dell'esercito; ne emergeranno i protectores domestici (della domus imperiale). Come per i grandi monarchi ellenistici, le necessità tecniche militari e le preoccupazioni in senso « monarchico » hanno determinato a un tempo l'azione di Gallieno. E tuttavia: se una definizione della sua opera si vuole trovare, questa si cercherà soprattutto in quella decisione per cui senatum militia vetuit et adire exercitum. Il « risveglio del senato » all'epoca di Massimino, e addirittura il tentativo di recuperare nel 238 l'antica libertas
senatoria, era stato tutt'altro che un fuoco di paglia (cfr. per esempio ILS, 7218, del 256; supra, 55 60-61). Dopo Massimino, la lotta si era svolta, in un certo senso, tra il senato tradizionalista (rappresentato per esempio da un imperatore come Gordiano iii) e il rango equestre, più capace di innovazioni, rappresentato dall'uccisore di Gordiano iii, l'arabo Filippo; all'imperatore dei senatori si era opposto il cavaliere imperatore dei soldati, e altresì (si badi bene) dei Cristiani. A sua volta, a Filippo si era opposto il senatore Decio; e senatori comandanti di eserciti erano emersi, l'un contro l'altro armati, dall'anarchia militare dopo Decio: Gallo e suo figlio; Emiliano; Valenano e Gallieno, ed alcuni degli usurpatori sotto Gallieno. Abolendo le legazioni di legione e sostituendole con pre 27 Per gli equites Mauri si risale all'epoca dell'impero umanistico: per es. C xvi, 108; 114 (cfr. NESSELHAUF, ad 1.).
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fetture, Gallieno sapeva bene di non trovare il toccasana della situazione: ma sapeva anche di fare un passo avanti. In realtà, proprio la sua riforma militare, nei limiti in cui essa poteva svolgersi in questo primo momento, è stata fatale a Gallieno: il comandante della cavalleria, Aureolo, si è ribellato a lui, per una sopravvenuta intesa con Postumo. Gallieno si trovava allora nei Balcani. Qui Goti ed Eruli, sebbene fermati in un primo tempo (in una importante battaglia navale al Bosforo: 267), tuttavia, in seguito alla morte del capo della flotta romana, avevano potuto irrompere; ed avevano assalito e saccheggiato le antiche e insigni poleis, tra cui Atene. Si era rivelata allora, nel momento più grave del pericolo, la capacità di resistenza delle città orientali, in cui la coscienza « politica » fu sempre (come sarà evidente anche nel basso impero) un elemento di prim'ordine per la costituzione di milizie cittadine. Infatti, 2000 ateniesi, sotto il comando dello storico Dexippo, seppero organizzare la guerriglia antigotica in maniera brillante: fiduciosi che, secondo la gloriosa tradizione delle poleis elleniche, « le guerre si decidono con il valore (xaprsptat) ben più che col numero » (è una espressione che lo stesso Dexippo attribuisce a sé in quell'occasione, quasi a smentire l'affermazione corrente - e da lui stesso enunciata altrove - che « gli uomini dell'occidente sono tutti più bellicosi, u x(-rcpor, di quelli dell'altra parte dell'impero 28 ») Ma un colpo definitivo all'invasione gotica dei Balcani poté esser dato solo in seguito, quando un generale di Gallieno riuscì a bloccare ai Goti le vie principali verso il Danubio: costretti a muoversi fra Tracia e Macedonia, e disturbati dall'azione delle 28 È la seconda parte del frg. 31 M. Questa, e non la prima, deve attribuirsi a Dexippo: tra l'altro, sarebbe difficile che Dexippo dicesse Bpc rxvc - vi3v cp cac: inoltre, è più naturale che il nome dell'autore preceda (anziché seguirla) la citazione. Diversamente JACOBY, FGrHist 100 F 12.
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milizie cittadine elleniche, essi dovevano essere destinati all'accerchiamento e alla distruzione. A questo punto erano le cose, quando Aureolo prese la porpora a Milano. Gallieno era venuto in Tracia; e al fiume Nesto, tra la catena del Rodope e l'Orbello, aveva sconfitto gli Eruli. Era suo intendimento accerchiare e sterminare i barbari: una politica, come sembra, più radicale che non quella delle precedenti campagne antigotiche. La rivolta di Aureolo lo distolse da questi piani e lo costrinse a ritornare in Italia. Aureolo fu assediato a Milano; ma durante l'assedio gli stessi generali di Gallieno ordirono una congiura contro l'imperatore, e lo uccisero. Era fra essi Aurelio Valerio Claudio (probabilmente comandante della cavalleria), che gli successe (estate 268). Ancor una volta, i generali romani eliminavano il loro imperatore; le riforme di Gallieno, che pur avrebbero segnato di sé la storia futura dell'impero, non erano state sufficienti ad evitare, per il momento, la china dello stato romano verso il prepotere degli eserciti. Da notare che l'autore della crisi - Aureolo - era stavolta ex comandante della cavalleria, il nuovo corpo - con nuovo comandante potenziato appunto da Gallieno; e che il successore di Gallieno, Aurelio Valerio Claudio, era, molto probabilmente il comandante della cavalleria, che Gallieno aveva nominato al posto del ribelle Aureolo. Era scomparso il pericolo delle rivoluzioni condotte da senatori legati di province; ma si era affacciato il pericolo di rivolte animate da quell'autentico dittatore militare che è, nel sistema di Gallieno, il comandante del nuovo corpo di cavalleria. 70. 1 princìpi della cristianizzazione dei Visigoti.
Noi già rilevammo sopra la interessante circostanza che i romani sconfitti da Shahpur e deportati nello stato persiano hanno dato inizio a notevoli nuclei cristiani in quello
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stato: il che conferma ancora l'enorme diffusione e forse l'assoluto predominio del cristianesimo nelle regioni orientali dell'impero romano. Questa osservazione si può ripetere per le incursioni dei barbari nell'impero. I Persiani con le guerre di Shahpur, i barbari (soprattutto goti) con le loro scorrerie, hanno attaccato in questo periodo l'Oriente dell'impero, e deportato romani nei loro stati; ma come i Persiani hanno così costituito dei nuclei fortemente cristiani per esempio a Rev Ardashir, così dobbiamo supporre che pure i Visigoti - i quali allora perseguitavano i nobili pagani, ma consideravano i Cristiani come fratelli (si ricordi Commodiano, supra, § 67) - finessero col trovarsi davanti dei notevoli e rispettati nuclei di deportati (o profughi) cristiani. E la supposizione è confermata. Nel 325, al concilio di Nicea, fra i partecipanti, troviamo un vescovo, di nome Teofilo, e Gothis: il nome greco indica origine romana. O meglio ancora: la definitiva cristianiz zazione dei Goti si è verificata, com'è noto, ad opera del vescovo Wulfila, dal 341 al 389; or il vescovo Wulfila era nipote di cristiani cappadoci, che evidentemente erano stati deportati nello stato gotico in una delle scorrerie compiute dai Goti in Asia Minore negli ultimi tempi di Gallieno (266), o comunque in questo torno di tempo. Così si rivela un aspetto del tutto inatteso delle scorrerie barbariche nell'impero romano. Esse non solo acutizzarono - ed anzi, in parte, determinarono - la crisi delle rivolte militari, sì da risvegliar il bisogno della restaurazione autoritaria attraverso opportune riforme; ma, in maniera apparentemente strana e inattesa, ebbero il risultato di avvicinare idealmente, nell'epoca di Decio, i Cristiani perseguitati ai Goti « liberatori » (si ricordi sempre Commodiano: supra, § 67), e di porre, attraverso le molte deportazioni, alcune prime fondamenta per la cristianizzazione degli stessi barbari. È molto significativo che tale cristianizzazione - maturata, come dicemmo, per opera di Wulfila nel corso del iv secolo - si sia poi compiuta
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sotto il segno del « subordinazionismo », il quale si derivava dalle tendenze ad una cristologia razionalistica. Ciò potrebbe essere indizio (se sono nel vero queste considerazioni sulle origini della cristianizzazione visigotica) che nel in secolo le tendenze (§ 71) « di scuola antiochena » erano penetrate nella maniera più larga fra i Cristiani orientali, o per lo meno nelle comunità da cui provenivano gli ascendenti di Wulfila. 71.
Paolo di Samosata. La sinodo del 268.
Difatti, già l'epoca di Gallieno ha visto la maturazione della problematica cristologica nel pensiero cristiano. Come vedemmo, praticamente Gallieno aveva dovuto cedere il controllo dell'Oriente al corrector totius Orientis Odenato; e tanto più apertamente, dopo la morte di questi (ucciso nel 266 o 267, col figlio della prima moglie, Erode), il dominio della regione era passato alla regina Zenobia. Alla formazione politica di questo stato di Palmira con effettivo controllo sull'Oriente dell'impero (escluso l'Egitto) corrispondeva inoltre, sul piano culturale, la formazione di comunità cristiane fortemente ellenizzanti. I massimi seggi metropolitici dell'impero erano i seggi delle tre grandissime città: Roma, Alessandria, Antiochia - le città che vedemmo considerate come « capitali» quando si discusse il progetto della divisione fra Caracalla e Geta; ed inoltre Cartagine. Zenobia controllava la sede di Antiochia, per mezzo di un funzionario di rango equestre, che fu nominato vescovo della città: Paolo di Samosata. È questo il primo tentativo di collusione fra stato e chiesa, che si registri nella storia dell'impero. Zenobia, regina della aramaica Palmira, va confrontata con la moglie di Gallieno, Salonina: entrambe hanno avuto larghi interessi filosofico-religiosi, che però Salonina non poteva svolgere su larga scala, né, tanto meno, poteva ufficialmente « organizzare » con quella singolare politica sincretistica che
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era naturalissima nello stato siriaco di Palmira. Il centro culturale creato da Zenobia ebbe così, come principali esponenti, il vescovo di Antiochia Paolo samosateno e il professore neoplatonico di Atene, allievo di Ammonios Sakkas, Longino, quanto mai vicino all'autentico insegnamento di Ammonios. Al neoplatonismo di Roma, di tendenza « antignostica » e (sia pure indirettamente) anticristiana, si contrapponeva così un neoplatonismo palmireno, di più stretta osservanza « ammoniana ». Questo implicava, per le comunità cristiane orientali, ritorno di tendenze « razionali », o per lo meno di una forte penetrazione di ellenismo, nella tormentata disputa cristologica. Paolo di Samosata ha espresso, appunto, questo ritorno. Il travaglio del pensiero ellenico sulla formulazione cristologica si ripresentava così, più che mai acuto, nel quadro del neoplatonismo palmireno animato da Zenobia Come si doveva intendere l'incarnarsi del Verbo, il mistero del A6yog apxoc ? Tutta la storia della dogmatica cristiana era dominata da quel problema, dai primi tentativi del ii secolo (anche ad opera di Ignazio di Antiochia) agli Alessandrini (soprattutto Origene) al recente « conflitto dei due Dionisii » (supra, § 66). Il vescovo « zenobiano » di Antiochia pensò di risolverlo con una presa di posizione nettamente monarchianistica, ma subordinaziana. Secondo lui, il Logos era penetrato in Cristo « come in un tempio »; Cristo gli appariva dunque come l'abitazione del Logos, ed il Logos stesso come una 8úvoqitq divina; in ultima analisi, nella dottrina del vescovo di Antiochia, Cristo era uomo più che dio `. Questi teologumeni erano abbastanza aderenti alla mentalità ellenistica e alla « scuola antiochena » (come fu poi chiaro nel iv secolo, con quell'altra forma di monarchianismo subordinaziano, l'ariane 29
Queste formulazioni andrebbero alquanto limitate dopo la DE RIEDMATTEN, Les actes du procès de Paul de Samosate, 1952. pubblicazione di
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simo; e nel v, con l'eresia del nònaco antiocheno Nestorio); ma rispondono ad un'es enza razionale anche se avevano precedenti in tutta la problematica cristologica ellenista. Il vescovo di Antioc iia si fondava comunque sulla tradizione antiochena ed nche, in certo modo, sui « braccio secolare » palmireno. Egli poteva così sperare che i suoi teologumeni fossero ufficialmente riconosciuti nel correttorato totius Orientis. Ma fu sconfessato in una prima sinodo del 264 (present i vescovi di Cesarea di Cappadocia, del Ponto, di Tar o, Iconio, Gerusalemme, Cesarea di Palestina, Bostra; il vescovo di Alessandria, la quale non apparteneva al corr ttorato dell'Oriente, non intervenne); ed in una seconda, la grande sinodo del 268, fu sconfessato e scomunicato d finitivamente. Il risultato della sinodo fu comunicato ai scovi di Roma e di Alessandria. La unità delle Chiese ra ristabilita. Se Gallieno non aveva potuto punire, come avrebbe voluto, l'uccisione di Odenato e il sempre crescente autonomismo di Zeno bia, in compenso l'unità dell'impero - di questo strano impero sostanzialmente cristiano, e tuttavia ufficialmente pagano - era assicurata sul piano religioso, da una deliberazione sinodale « cattolica ». 11 significato della sinodo del 268 è, soprattutto, in questa affermazione unitaria: anche se Paolo, sostenuto da Zenobia, ha conservato il suo seggio fino al 272, quando l'imperatore Aureliano sconfisse la sua ambiziosa protettrice. Tanto più ci appare significativa la personalità di Paolo, tipico esponente della cultura greco-siriaca (« antiochena »), ed animatore di un novimento cristologico orientale che può considerarsi parallelo all'azione autonomistica, nel correttorato totius Orientis, di Zenobia.
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Capitolo terzo I RESTITUTORES ILLIRICI E LA DISPERATA DIFESA DEL VECCHIO STATO (268-312)
72.
Claudio Gotico.
Aurelio Valerio Claudio (comunemente noto sotto il nome di Claudio il Gotico) era un dalmata di origine modesta; e tuttavia la tradizione senatoria, che ha tratteg giato a oscuri caratteri l'impero di Gallieno, ha esaltato in lui l'imperatore ideale; la Vita Claudii nell'Historia Augusta è un vero e proprio panegirico. Ciò si spiega facilmente: la Historia Augusta, e in genere la tradizione senatoria, non ha potuto perdonare Gallieno, che era di nascita e di origine senatoria, che era insomma come un traditore del suo ordine; ma non ha esitato a esaltare alcuni successori di Gallieno, anche se essi, com'è naturale, non potevano che seguire la politica interna indicata da Gallieno medesimo. Certamente, se gli illirici « restitutori » hanno potuto restaurare l'impero sconvolto dall'anarchia militare, ciò è stato possibile in base alle riforme compiute da Gallieno; ma è altrettanto naturale che l'autore di quelle riforme fosse per la tradizione un modello di « tristizia » (improbitas), laddove già Claudio appare, in quella stessa tradizione, vir sanctus ac iure venerabilis. In realtà, il suo breve impero (estate 268-gennaio? 270) è ispirato a una chiara intuizione delle necessità militari; è l'impero di un restitutor. Aureolo si arrese, e fu ucciso dai soldati; gli Alamanni, ch'erano scesi in Italia, forse
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per un foedus stipulato con lui, furono costretti alla ritirata. Goti ed Eruli e altri barbari erano scesi di nuovo sull'impero, con un grande spiegamento di forze (la tradizione parla di 320 000 uomini) e di navi; usciti dal Mar Nero, forzati gli stretti, si erano di nuovo gettati sulla penisQla balcanica, a ricongiungersi coi loro connazionali, che negli ultimi tempi di Gallieno erano stati respinti al Rodope e attaccati al fiume Nesto. Anche stavolta Atene fu occupata dai barbari. Bisognava rafforzare tutto il sistema di difesa. Il punto chiave fu-individuato da Claudio ad Aquincum, dove egli restituì il castro: il perno della difesa era, per questo illiriciano, la regione pannonica. Lì era il saliente avanzato, tra Brigetio ed Aquincum (Budapest) donde il limes danubiano scendeva come a piombo verso mezzogiorno, per poi digradare a Oriente, sulla Mesia; già dai tempi di Gallieno, la Dacia era, in pratica, mezzo abbandonata; e la linea « minima » di difesa, che di fatto si andava costituendo, faceva perno sulla Mesia Superiore, soprattutto Singidunum (Belgrado) e Viminacium, e all'interno si accentrava sulla via che si snoda dalla Mesia Superiore fino alla Tracia. In questa via è Naisso, e lì, ai primi del 269, Claudio poté infliggere ai Goti una sconfitta. Anche in questo caso, il peso maggiore della battaglia è gravato sulla cavalleria, s'intende sugli equites Dalmatae soprattutto; alla fine, fondandosi sulla conoscenza dei luoghi, i Romani hanno potuto uccidere un gran numero di barbari (50 000 secondo la tradizione). Sebbene i barbari continuassero le loro incursioni, limitandosi ora alla campagna anziché alle città, tuttavia in una seconda azione di guerra, dove fu decisivo l'intervento degli equites, Claudio riuscì ad averne definitivamente ra gione. Intanto quei barbari che con le loro navi compivano azioni di pirateria nella zona di Creta, Rodi e Cipro furono attaccati da un valoroso ufficiale di Claudio, Tenaginone Probo; la peste, che li colpì, fece il resto; i sopravvissuti furono accolti nell'impero come soldati « individuali » o
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come laeti. Claudio poteva veramente dirsi Gothicus Maximus.
Ma ancora, anzi ora più che mai, l'impero appariva spezzato in tre tronconi. C'era sempre l'imperium Galliarum: qui a Postumo (260-268?), era successo, dopo il letteralmente effimero impero di Mario (due o tre giorni: fine 268?), un ufficiale del pretorio di Postumo, Piavo nius Victorinus; contro di lui, nel 269, fu inviato il praefectus vigilum di Claudio, Iulius Placidianus. Questa spedizione poteva sperare in quel contrasto fra città, che anche nelle Gallie si riscontra: in questo caso, la città degli Edui, Augustodunum, era « claudiana », in opposizione a Treviri, la città di Postumo. Ma un tale contrasto non poteva bastare a sopprimere le profonde esigenze che si erano costituite nell'imperium Galliarum. Questo, con la accentuazione dei motivi sociali (congiunti con l'originario carattere militare della rivolta di Postumo), aveva preso l'aspetto di uno stato dove avevano grande rilievo i contadini celto-romani, i Bacaudae . Si ricordino le « nazioni » di Ippolito (supra, § 59). Ancor più delicata e difficile era la situazione in Oriente. Qui, come vedemmo, il corrector totius Orientis di Gallieno, Settimio Odenato, era stato ucciso nel 267 (o 268?). La sua ambiziosa vedova, Settimia Zenobia, ebbe così l'effettivo controllo dello stato palmireno e poté dare un nuovo impulso a questa strana compagine statale, in cui motivi orientali erano commisti a concetti romani: suo figlio Settimio Vaballato Atenodoro (il nome greco 'Av6&opoc traduceva il nome orientale, identificando Athena con la dea arabica al-Lat) era difatti non solo corrector totius Orientis e imperator come il padre, ma anche Per il contenuto sociale del movimento cfr. in/ra, § 79. Forse, già il bellum civile sotto Decio (Eutr. ix, 4) era di tipo bacaudico.
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rex; anzi, « re dei re ». S'intende che, in queste condizioni, un compito di enorme difficoltà attendeva Claudio. 73. Caratteristica degli imperatori illirici. L'ideale monarchico nel III secolo. Ma al principio del 270 Claudio Gotico morì, di peste. Il regno di suo fratello Quintillo, che gli successe, durò pochi mesi: gradito al senato, egli era in odio ai soldati, i quali acclamarono (circa nel maggio 270) L. Domizio Aureliano. Anche stavolta, un comandante della cavalleria: come già Aureolo, come già Claudio. Ed anche stavolta, come Claudio, un illirico: ché illirici sono i grandi imperatori di questo quarantennio che va da Claudio all'epoca tetrarchica (oggetto della trattazione del presente capitolo), e di origine illiriciana saranno i Costantinidi e i Valentiniani nel iv secolo (il prevalere di questi imperatori illirici potrebbe considerarsi già annunciato dall'impero del trace Massimino). La frequenza di imperatori di origine illirica si connette anche col fatto che la difesa limitanea costringe l'imperatore a trattenersi spesso nei Balcani (ancora intorno al 350, la Expositio dirà che « la Pannonia è sempre residenza imperiale », habitatio imperatorum). Ma gli imperatori illirici da Claudio all'epoca te trarchica hanno un carattere comune. Questi generali, solidali fra loro (probabilmente Gallieno era stato ucciso per una certa solidarietà dei suoi generali illirici con l'illirico Aureolo), sono tutti presi dalla volontà di restaurare l'impero unitario nel segno della concordia. Sono (cfr. § 60) soldati adoratori del Sol invictus (il culto di Mitra aveva preso le vie del Danubio, ed era largamente penetrato nei castra di frontiera illiriciani, alimentando il culto solare pannonico e assimilando l'emeseno); sono ispirati ad una concezione democratico-militare del loro comando (Aureliano farà decidere dai suoi soldati la pace o la guerra coi Vandali), e seguono una coerente politica di agevolazioni
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sociali per gli humiliores. Come restitutores dell'unità dello stato romano nel iii secolo, essi affrontano questo compito con la stessa tenacia che poi nel iv secolo (precisamente nel decennio fra il 350 e il 359) caratterizza l'atteggiamento dei vescovi cristiani loro corregionali nei confronti dell'unità dell'episcopato allora in crisi. Ma l'insuccesso dei vescovi illiriciani nel iv secolo appare allo storico tanto più evidente, quanto più mirabile è il successo che gli imperatori illirici avevano ottenuto nella unificazione politico-militare dell'impero. Insomma: questi illiriciani riescono meglio nel iii secolo, come guerrieri del genius Illyrici, anziché nel iv come uomini di chiesa. E tuttavia, vedremo presto che il massimo degli imperatori illiricl del iii secolo, Aureliano, ha lasciato larga traccia di sé non solo nella storia politica, ma anche nella religiosa. Ormai, in questo avanzato msecolo, è chiara la coscienza che l'im peratore è tale per la protezione e la grazia della divinità: se si vuol avere un'idea dell'importanza di questo motivo, basti pensare che esso è fondamentale in ogni canovaccio retorico di laudes imperatoris, come quello, a noi pervenuto, di un retore di questo periodo. Nello stesso « canovaccio » si troveranno altri luoghi comuni atti a definir l'ideale imperiale: il carattere ereditario della monarchia 2 la fissazione dell'antico concetto delle quattro virtutes dell'imperatore (òtvspE:L, oc, 8mottoorúVlì , ppov, pp6v7a: delle quali va rilevata la xLOaiv, che è intesa anche in funzione degli humiliores, come e via dicendo. L'alone religioso che circonda il monarca consente la diffusione di motivi orientali, come la conversazione del monarca col profeta su argomenti teologici (,&E:o;koyr.'tv: un motivo che troviamo in uno scritto sull'adorazione delle statue, redatto d'intorno al 300 e confluito nel Corpus Hermeticum: è un tratto che può ricordare i Dialoghi del re Menandro indiani - cfr. in/ra, § 82 - ed ha comun2
Rh. Gr. i, 377, 30; cfr. supra, 5 69.
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que ispirazione orientale). Si insiste particolarmente sul concetto che la statua o la vista del re è per se stessa, secondo l'antica tradizione, un asilo . D'altra parte, l'ideale della x oatw-pÀ pcitx si estende dal monarca a tutti i governatori di provincia: si sottolinea la necessità di una comprensione per gli humiliores, « che nessuno sia ingiustamente buttato in carcere, né il ricco sia privilegiato nei giudizi, né vengano calpestate le giuste ragioni del povero, e si ponga fine alla superbia dei ricchi e alla compassione per la debolezza del povero »: tutti motivi che in certo modo segnano la crisi del concetto della distinzione delle pene pro qualitate personarum (tuttavia caratteristico del iii secolo) e preludono a tipici sviluppi, che indicheremo a suo luogo, nel basso impero. Dal punto di vista economico, l'ideale monarchico va cercato nella conciliazione fra le necessità dell'annona militare e le esigenze dei contribuenti . Naturalmente, non tutti i governi degli imperatori illirici hanno le stesse caratteristiche. Ma i più grandi fra essi - così Aureliano, che ha governato 5 anni e più, come Probo, che governò più che sei anni, come Diocleziano che arrivò ai vicennalia e li superò - sono accomunati, al di là di tutte le differenze, dalla loro volontà - fortunata soprattutto nel caso di Aureliano e di Diocleziano di stabilire saldamente l'unità dell'impero. L'impero degli Illirici aveva duplice aspetto: da una parte si ripeteva dalla acclamazione militare, dalla militaris potentia (caratteristica la consultazione dei soldati nella pace coi Vandali stipulata da Aureliano) - dall'altra aveva una consacra' Corp. Herm. xviii, 16; Rh. Gr. tu, 375, 15 Sp. Naturalmente, va notato il particolare atteggiarsi del concetto del monarcasalvatore: egli salva « come salvano gli Asklepiadi ». 8'r 'ro avripcLou 'rv arpa uci-tcv a#roX&c#raL xxi. 'ro xat. vaxt cpàprt.v roùg ú7r-nxóoug. Si confronti con questo concetto il motivo della solidarietà fra Costanzo Cloro e i ricchi contribuenti nella Vita di Costantino di Eusebio. xop
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zione religiosa che faceva dell'imperatore il deus et dominus natus, il cui Saeculum si configura come poi i vernantia saecula degli imperatori del basso impero. Finché questo secondo aspetto non prevalse con Diocleziano, la militaris potentia ebbe buon giuoco e poté volgersi - nei momenti di crisi o d'ira delle soldatesche - contro l'imperatore soldato: Aureliano e Probo perirono di morte violenta. 74. I primi due anni di Aureliano (270-271).
L'impero di Aureliano cominciò sotto il segno della lotta conclusiva contro i barbari federati. Da quando l'esercito romano aveva considerato la possibilità di un largo arruolamento di barbari (e ciò fu evidente all'epoca di Gordiano 111, le cui truppe migliori erano costituite dai Goti e dai « Germani »: supra, § 62), la storia dell'impero si muoveva attorno a questo dilemma: o pagare regolarmente uno stipendio a questi federati di fuori i confini dell'impero (pagarlo, s'intende, anche nei periodi di pace) - oppure subire di continuo le incursioni dei federati, quando questi non ricevessero quello stipendio, che era di fatto un tributo. Dai tempi di Filippo l'arabo sembrava non ci fosse altra alternativa a questo dilemma: e difatti, tutta la storia esterna dell'impero, da Filippo l'arabo in poi, può interpretarsi come dominata dalla necessità di fermare le incursioni dei federati (soprattutto i Goti), che non si rassegnavano facilmente a perdere gli stipendi. All'epoca di Aureliano, il problema divenne ancora più chiaro, in maniera definitiva, in riguardo ad altri federati, la popolazione alamannica degli Tutungi. Questi invasero l'Italia Settentrionale, per una delle solite scorrerie, le quali, nel loro pensiero, dovevano compensarli dei mancati stipendi. Ma anche stavolta, come sempre, l'impeto iniziale e la violenza barbarica non furono capaci di costituire un pericolo definitivo per la romanità, arroccata nelle sue
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città antiche; compiuta la scorreria, i barbari tornavano nelle loro sedi; « rapide le loro azioni di attacco, ma improvvisi i pentimenti » (così lo storico contemporaneo Dexippo fa dire ad Aureliano, nel suo discorso finale agli lutungi). Aureliano li batté sulla via del ritorno, nella Rezia e al Danubio. Sì venne alla stipulazione della pace, e stavolta Aureliano poté definire chiaramente la sua politica coi federati. Essi chiedevano uno stabile stipendio, in oro in barre e monetato e in argento (&v xpUaOU &a-.Lou XOCL E nLa-11£OU, UasaL xcx pypou: non si dimentichi che per esempio già sotto Caracalla il metallo nobile è sempre richiesto dai Germani; cfr. § 58); in compenso, avrebbero confermato stabilmente il Joedus. Aureliano si rifiutò: egli era nettamente ostile ad ogni transazione di questo genere, che di fatto avrebbe reso l'impero tributario dei suoi federati. Senza dubbio, allora egli ha tenuto ai barbari un discorso analogo a quello, che già citammo, che gli è attribuito da Dexippo: « se veramente volete la pace, perché chiedete denaro (-d t cou xpr odrac,)? Sebbene vinti, voi venite a chiederci tributi. Volete offrirci in acquisto, non già spontaneamente, la vostra amicitia ». Il discorso di Aureliano in Dexippo culmina nella certezza dell'aiuto che l'impero riceverà dalla divinitas (7rot pòC -ro cou). Qui l'impero rappresenta la ragione (Myo.g), di fronte alla violenza (òC.taaL'oc: la vis consili ex pers degli augustei) che è propria dei barbari. È significativo il richiamo alla divinitas, al cZov, questo concetto religioso che certo, con maggior o minore coscienza, doveva essere presente all'imperatore; anche se nella ricostruzione di Dexippo esso acquista un carattere che si direbbe neoplatonico. Così, sin dal 270, Aureliano ha definito le linee direttive della sua politica: porre fine al pagamento di « stipendi », che erano di fatto tributi, ai barbari di oltre confine, mentre per altro sarebbero Stati regolarmente immessi nelle truppe imperiali quelli fra essi che si lascias-
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sero « snazionalizzare » (come poi si dirà nel iv secolo, exterminare); far appello alla tradizione della civiltà romana e alla divinitas che la protegge. Aureliano non ha
smentito questa politica quando di lì a poco, traendo le conseguenze di una situazione che già aveva cominciato a delinearsi con Gallieno, sgombrò definitivamente la Dacia. Come Augusto, rinunciando alla libera Germania, aveva tuttavia fondato la Germania alla sinistra del Reno, così pure Aureliano, sgombrando, nel 271, la Dacia (cfr. § 105), fondò tuttavia una nuova Dacia a sud del Danubio, in due regioni « ritagliate » nella Mosia: la Dacia Ripense e la Mediterranea. Il concetto del confine fluviale ha guidato Aureliano in questa rinunzia, così come aveva già guidato Augusto nella rinunzia alla libera Germania; è il medesimo concetto per cui Aureliano sgombrò anche, definitivamente, gli Agri decumati. Ad ogni modo, già ai primi del suo impero, con la vittoria sui lutungi, Aureliano ha impresso allo stato romano un mirabile impulso di rinnovamento. Poco dopo la prima guerra iutungica, nel 270, si recherà a Roma. Come ogni imperatore precedente, anch'egli rendeva così omaggio al senato da cui sempre, teoricamente, veniva l'approvazione alla nomina imperiale. Ma implicitamente, egli veniva ad ammonire i senatori contro eventuali usurpazioni di autorità nella coniazione di moneta ènea, che da Gallieno in poi era stata sottratta ad essi. Indi tornò nella Pannonia, dove sconfisse i Vandali e concesse ad essi la pace, in seguito a deliberazioni dell'esercito (questa deliberazione ci illumina, come vedemmo, sul concetto della monarchia militare nell'impero di Aureliano); 2000 cavalieri vandali furono accolti nell'esercito romano, gli altri tornarono alle loro sedi. Intanto, i lutungi erano tornati nell'Italia Settentrionale, in grandi forze; quest'inverno tra il 270 e il 271 fu speso per domarli; a Piacenza essi vinsero, ma poi furono sconfitti a Fano e a Pavia. Anche stavolta, con la consultazione dei libri sibillini (gennaio 271), Aureliano aveva fatto appello
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Europa, lasciando al suo prefetto al pretorio Annio Floriano (fratellastro?) il compito di finire la campagna. Mentre intraprendeva la via del ritorno, rimase vittima di un attentato, nel giugno 276. Gli succedeva Annio Floriano. Ma le truppe d'Egitto e di Siria acclamarono un ufficiale di Aureliano, probabilmente investito del ducatus (correttorato?) totius Orientis: Aurelio Probo, originario di Sirmio. Floriano lasciò a mezzo la guerra contro i Goti; si recò a Tarso, dove il suo esercito si scdntrò con quello di Probo. I suoi soldati, colpiti tra l'altro dalle malattie (forse la peste?), e non avvezzi al clima di Cilicia, defezionarono; alla fine, lo uccisero. Probo restava unico imperatore. Era suo -compito riaffermare l'unità, contro il riaffiorare delle guerre interne ed esterne: con uno stratagemma che sa di medioevo o di « machiavellismo », convocò alla sua tavola gli uccisori di Aureliano e di Tacito, li uccise; sistemate le cose dell'Asia Minore, si recò in Occidente. Qui Burgundi e Vandali e Franchi, che avevano invaso la Gallia, furono da lui debellati (277); poi si volse al fronte danubiano, vinse i Sarmati; tornò in Oriente, dove domò la ribellione dei briganti isauri (che alla fine si erano arroccati nella città licia di Kremna e lì sostennero un memorabile assedio), e si dedicò al riordinamento della regione isaura, patria di ottimi soldati ma anche di pericolosi briganti. Indi Probo si recò (o inviò suoi generali) in Egitto, perché le tribù barbariche dei Blemyi avevano stabilito legami con le città di Coptos e Tolemaide. Questo era un altro tipico caso di accordo fra sudditi romani e barbari invasori (come fra romani-cristiani e goti invasori nel Carmen apologeticum di Commodiano). Dei punti deboli dell'impero, in Oriente l'Egitto era il più rilevante; specie da quando Aureliano, in seguito alla grave crisi economica, aveva fondato il benessere della città di Roma sull'accresciuta tassazione in natura, obbligando l'Egitto alla prestazione di anabolicae species. Non può dunque meravigliare che le popolazioni di Coptos e Tolemaide facessero
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causa comune coi Blemyi, né può meravigliare che Probo accentuasse al massimo la pressione sui piccoli contribuenti egiziani, comminando la pena di morte contro chi cercasse di aderare le prestazioni d'opera relative al In realtà, ancor una volta il problema centrale del in secolo è il problema economico-tributario. Nonostante l'energica riforma di Aureliano, la fiducia nella moneta divisionale è scomparsa: nessuno vuoi dar credito a questo vecchio denarius che si è ridotto a rame imbiancato. E anche lo stato, che pure vorrebbe difendere la sua moneta spicciola, si muove in termini di economia naturale, quando chiede ai contribuenti beni in natura e prestazioni in natura. Nell'Egitto sono beni in natura il frumento e le anabolicae species; è prestazione d'opera in natura, tra l'altro, il ttx6v « la tassa per le dighe » di arginatura contro le inondazioni. Questo xo-rx6v era normalmente pagato in aderazione: il prezzo a cui si riscattava la prestazione di opera era di regola poco più che 6 drachme, qualcosa come un denario e mezzo; talora esso scendeva, più frequentemente saliva. Ma nell'Egitto del iii secolo non era facile trovare mano d'opera: noi già abbiamo rilevato il lamento sulla pCi.t in un papiro dell'epoca di Decio, il medesimo lamento (per la città di Alessandria) in una lettera del vescovo d'Alessandria Dionisio. In queste condizioni, nulla avrebbe guadagnato lo stato da una aderazione del xi.x-r.x6v nessun lavoratore avrebbe potuto esser ingaggiato con le entrate di quella tassa. La pena capitale comminata da Probo agli « aderatori » è dunque comprensibile; ma è chiaro che essa non risolveva il problema economico di questa provincia, la quale ormai andava incontro ad una gravissima crisi. Il iv secolo, in cui una forte economia monetaria (ancorata all'oro) prevarrà sulla naturale, porrà il problema economico in termini del tutto differenti, talora opposti a quelli del iii (in taluni casi, i contribuenti preferiranno il pagamento in natura all'aderazione); ma il
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malessere resterà; e ad esso corrisponde quella peculiare fisonomia religiosa dell'Egitto, la quale già nel iii secolo comincia a rivelarsi, con la diffusione di tendenze gnostiche e manichee e con il fanatismo delle stesse plebi cristiane. Se il punto debole dell'impero era, in Oriente, l'Egitto, nell'Occidente il punto debole era la Gallia. Anche qui il regresso demografico rendeva insolubile il problema tributario (s'intende che il confronto tra Egitto e Gallia ha un valore relativo: in sé e per sé, la densità demografica dell'Egitto era sempre di molto più alta che in Gallia). Anche qui, ed in Britannia, si presentarono nuove diffi coltà: sorsero usurpatori, taluno dei quali solidale coi barbari Franchi. Ad ogni modo, l'energico imperatore illirico riuscì a ristabilire prontamente l'unità. È molto probabile che, in connessione con le difficoltà del problema tributario, debba intendersi la sua famosa concessione di intensificare la viticultura nella Gallia (come anche nelle regioni illiriciane). Certo, in questo modo si agevolava l'esazione di vino in natura per le truppe e per l'ufficialità militare; come già a più riprese notammo, sin dai tempi di Cassio Dione i latifondisti si lamentavano di dover fornire generi che non si trovavano nelle loro proprietà, il che importava spese maggiori di trasporto o alti prezzi di aderazione; d'altra parte, erano venuti a mancare quei presupposti economici che due secoli prima (cfr. supra, § 36) avevano indotto Domiziano a limitare la viticultura alle regioni italiane. Probo amava la pace, ed impiegava i suoi soldati anche in opere di pace (lavori di bonifica, ecc.). Essi lo uccisero a Sirmio, verso l'ottobre 282, perché li costringeva al prosciugamento di una palude nelle vicinanze della città. I soldati della Rezia e del Norfto avevano già proclamato imperatore il suo prefetto al pretorio, Aurelio Caro.
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78. Probo e gli imperatori illirici nella tradizione senatoria. Le conseguenze della politica barbarica di Probo: la pirateria dei Franchi nel Mediterraneo.
La tradizione ha presentato Aurelio Probo come un monarca di tendenze favorevoli al senato. È la medesima tradizione senatoria che idealizza tutti questi imperatori illirici, facendone, nonostante tutto, dei rispettosi ammiratori dell'organo costituzione: per, la Historia Augusta, Claudio come Aureliano come Probo sono « buoni » im peratori, e dunque non possono essere nettamente ostili al senato; anche Diocleziano è presentato, verso la fine della Historia Augusta (vita Carini), come il buon imperatore ostile alla largitas, ed insomma alle inutili liberalità ed agli sperperi. Come si spiega questo atteggiamento di un'opera storiografica, che assomma in sé e conclude tutte le caratteristiche della storiografia senatoria nei rispetti dell'impero? Come potevano i senatori romani giudicar ottimi principi quei medesimi che avevano compiuto l'opera antisenatoria di Gallieno? Non aveva, lo stesso Probo, la responsabilità 'diretta dell'uccisione di Floriano, ex-prefetto al pretorio deJl'imperatore senatorio Claudio Tacito? Una risposta a questo problema può darsi agevolmente se si considera che alla tradizione senatoria si è presentato, nel corso del tempo, un problema che parve superiore ad ogni altro, per importanza e gravità, il problema religioso. Quando, nel 312 e negli anni seguenti, Costantino ebbe fondato l'impero cristiano, subito gli imperatori illirici, compreso Diocleziano (e anzi, con Diocleziano in prima linea), apparvero gli uomini del buon tempo antico, i sostenitori della tradizione pagana in questo autunno dello stato pagano. Allora essi furono idealizzati, il loro ricordo fu esaltato fino a snaturare l'effettivo carattere - assai spesso antisenatorio, comunque normalmente non sena-
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tono - del loro impero. È un aspetto di quella che chiameremo 7 « prospettiva charismatica ». Anche un altro elemento contribuì a formare questa tradizione. La politica monetaria degli imperatori del in secolo - la quale culminerà, come vedremo, con Diocleziano - fu sempre imperniata sulla difesa della moneta spicciola, del denarius; la politica del 1V secolo fu del tutto opposta, fu la politica della moneta aurea, a cui si ancorò tutto il sistema monetario. Anche per ciò il iii secolo, questa epoca di crisi monetaria, si avviò verso una certa economia naturale e verso una difesa dell'invilite denarius, sino a presentarsi, agli uomini del basso impero, come l'ideale regno del risparmio e della moneta divisionale; sino a presentarsi, insomma, come il buon tempo antico, in cui non c'era largitas (e cioè larga emissione e circolazione di moneta in metallo pregiato), sì invece deflazione e op. posizione alla largitas. In ciò, anche più che ai senatori, l'idealizzazione del III secolo si deve alla borghesia e al piccolo proletariato: il de rebus bellicis - un'opera che espone brillantemente il disagio degli humiliores nel iv secolo - esalta gli imperatori del III secolo (anzi, in genere, gli imperatori prima di Costantino), perché essi non diedero rilievo alla moneta di metallo nobile (la quale ad honorem regium sacrata permansit) e diedero massima importanza - così per doni militati come per i commerci comuni - alla moneta di rame (aeris materia - ad dona militaria et varia populorum commercia signabatur). C'è della esagerazione; ma nell'insieme il quadro riflette l'ef fettivo abisso che separa la storia dell'impero fino agli imperatori illirici (compresa la tetrarchia dioclezianea) dalla storia dell'impero dopo Costantino. E si comprende bene come gli imperatori illirici fossero idealizzati nella tradizione storiografica senatoria (in questo d'accordo con l'autore, di spiriti borghesi, del de rebus bellicis): erano gli 7
In/ra, App. iii.
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ultimi esponenti del vecchio stato romano, che aveva difeso con essi la sua morta tradizione religiosa come la sua esaurita moneta borghese. Quanto poi a Probo, è molto probabile che egli, sebbene ribelle contro Floriano, seguisse veramente una tendenza meno antisenatoria di Aureliano: per esempio, se le sue disposizioni sulla vinicultura vanno interpretate nel senso da noi proposto (§ 77), dovremo ritenere che egli ha agevolato notevolmente i contribuenti, e soprattutto i grandi latifondisti senatorii. Appunto perché la tradizione senatoria ha così idealizzato l'impero di Probo, noi troviamo molte difficoltà a ricostruire, nelle sue caratteristiche, la concreta politica di questo imperatore. Perché una cosa è evidente: la Historia Augusta ha oscurato tutti i lati del suo impero, che meno si prestassero all'encomio e all'esaltazione. Noi possiamo ben credere, con la Historia Augusta, che egli fosse un uomo preoccupato della pace e della produttività: possiamo crederlo, soprattutto, perché Probo è morto proprio in seguito all'ira dei suoi soldati, che egli impiegava in opere di pace; i soldati avrebbero preferito che quelle opere fossero compiute a spese delle municipalità o dei possessores. (La Historia Augusta è anche nel vero - per lo meno in parte - quando attribuisce a Probo il sogno della pace senza eserciti e senza annona militaris: l'età dell'oro è* veramente un ideale dominante in questo periodo, così come verso la fine delle guerre civili del i secolo a.C. nell'epoca di Orazio.) Ma, quando interroghiamo la Historia Augusta e le altre fonti senatorie, per averne precisazioni sulla politica barbarica di Probo, è naturale 'che queste fonti tacciano. Eppure quella politica barbarica fu causa del più impressionante avvenimento nella storia del Mediterraneo durante l'impero romano. Si tratta di questo: Probo, per compensare il regresso demografico, stanziò - come del resto i suoi predecessori, ma probabilmente con maggiore larghezza che altri - i barbari vinti nel l'impero; erano, al solito, inquilini o gentiles o laeti che
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si consideravano dediticii; ma ecco che, fra essi, i Franchi prigionieri stanziati nel Ponto si ribellarono, si impadronirono di navi e si diedero a devastare la Grecia, l'Asia Minore, l'Africa Settentrionale, ed insomma a scorrazzare per il Mediterraneo. Avvenne allora una cosa inaudita: questo manipolo di Franchi ex prigionieri era una comunità piratesca così forte, da dominare il Mediterraneo, ed occupare la capitale della provincia di Sicilia, Siracusa. È questo, ripetiamo, l'avvenimento più impressionante non solo dell'impero di Probo, ma anche di tutta la storia marittima di Roma durante il principato. Nell'epoca imperiale la Sicilia era stata, sinora, al riparo da incursioni barbariche; né, sul piano politico-militare, aveva mai avuto un qualche rilievo (tranne che per una rivolta di colonischiavi nell'epoca di Gallieno). Al centro dell'impero, essa garantiva, nella sua pigra tranquillità, la quiete stessa dello stato. Ora, per la prima volta nella storia imperiale, quella porfiriana tranquillità era violata, ed era occupata Siracusa. Quando scomparirà il dominio di questi pirati, la Sicilia tornerà - sul piano politico-militare - tranquilla e silenziosa, come prima: ma l'occupazione franca di Siracusa nell'epoca di Probo annuncia, alla considerazione dello sto rico, le incursioni vandaliche in Sicilia nella seconda metà del v secolo. Il crepuscolo del 111 secolo preannuncia il crepuscolo dell'impero romano. Questo scorrazzare dei pirati franchi pel Mediterraneo sconvolse l'opinione pubblica di tutto l'impero. Erano tornati i tempi - tre secoli e mezzo prima - del dominio piratico nel Mediterraneo, quando Delo (come ora la Sicilia), e tutto il mare, era esposto agli attacchi dei pirati di Cilicia e di Creta? Questa dei pirati franchi era veramente « audacia incredibile e fortuna non meritata ». Alla fine scomparvero; sembra che doppiassero lo stretto di Gibilterra. Avevano dominato il mare: un effimero, ma significativo dominio. Del fatto, che tanto impressionò i contemporanei, non è menzione in Aurelio Vittore né nella
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Historia Augusta. Alla storiograf ia tradizionale l'impero di
Probo doveva presentarsi senza macchie. 79. Caro, Carino e Numeriano (risp. 282-283; 283-285; 283-284). La grande costruzione dioclezianea e la definitiva restaurazione dello stato sotto la tetrarchia (284-304).
Ucciso Probo, rimase imperatore il suo prefetto al pretorio Aurelio Caro, che già era stato acclamato dalle truppe della Rezia e del Norico. I soldati furono contenti: ormai essi avrebbero compiuto opere di guerra, non di pace. Caro li condusse contro i Persiani; in una eroica avanzata, prese Seleucia, arrivò a Ctesifonte; ma morì (ucciso?) nell'estate (o autunno) 283. I suoi due figli Numeriano e Carino gli successero come augusti: Numeriano in Oriente, Carino in Occidente. Numeriano condusse la ritirata dalla campagna persiana, ma fu ucciso nel settembre 284, forse a Perinto. Emerse allora un energico ufficiale dalmata, ricco d'ingegno e di iniziativa, Valerio Diocle : questi (che poi assunse il nome di Diocleziano) accusò il prefetto al pretorio, Apro, dell'uccisione di Numeriano.: lo attaccò pubblicamente, lo trafisse. Esaltati, i suoi uomini lo acclàmarono imperatore il 20 novembre 284, a Calcedonia; subito dopo, egli si recò nella città da lui preferita, Nicomedia, che destinava a quarta città dell'impero con Roma, Alessandria, Antiochia. Intanto, Carino, che aveva dato a Roma splendidi giuochi (ludi Romani: come già il padre, egli si appoggiava alla plebecula romana contro il senato), si decise a muovere contro di lui. Vinse in una battaglia presso il fiume Margo, nella Mesia Superiore; ma i suoi soldati, dopo la battaglia, lo uccisero . (maggio-agosto 285 ? ). Diocleziano restava unico imperatore. Un enorme e difficile compito attendeva il geniale restauratore dalmata. Al solito, i punti deboli dell'impero
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erano, nell'Occidente, le Gallie-Britannie. Diocleziano nominò per l'Occidente un cesare, che poi nel 286 fu elevato ad augusto: Massimiano, un rude ufficiale e ignorante (forse non aveva mai sentito parlare di Zama?), ma energico e deciso. Diocleziano si considerava lovio, Massimiano Erculio; alla protezione di Giove su Diocleziano corrispondeva quella di Ercole su Massimiano Erculio. La scelta fu felice: Massimiano Erculio domò la ribellione dei Bacaudae, una reviviscenza dell'imperium Galliarum con accentuazione dei suoi motivi sociali, a rpodo della jacquerie medievale; i rebelies Gallicani, che non si erano rassegnati dopo la grave clades 8 inflitta loro da Aureliano ai campi Catalauni, dovettero piegarsi ancora una volta. Ma la vittoria sui ribelli contadini gallici non risolveva del tutto il problema dell'Occidente romano. Massimiano Erculio dovette fermarsi dinanzi all'insurrezione di un ufficiale batavo-romano, Carausio, che dalla fine del 286 dominava con la sua flotta il mare britannico e la Manica e le coste nordoccidentali della Gallia, facendo perno, sul continente, a Bononia (Boulogne). Carausio era amico dei barbari Franchi. La sua situazione poteva ricordare l'av ventura dei pirati Franchi nel Mediterraneo, all'epoca di Probo; ma ora non si trattava più di una impresa piratesca (anche Carausio era considerato un archipirata), ma di una situazione geopolitica nuova, la quale mostrava le enormi possibilità di dominio per una potenza navale che controllasse la Britannia; i mercanti gallicani appoggiavano Carausio . Così il ribelle rimase signore della Britannia fino al 294, riconosciuto da Massimiano nel 290; ma la situazione cambiò notevolmente nel 293, quando Diocleziano e Massimiano nominarono rispettivamente dei cesari, Mas simiano Galerio per l'Oriente e Costanzo (che si suoi chiamare Cloro) per l'Occidente. Un tal Aliectus, che nei 294 8
Pan. Lat. v, 4, 2-3. Pan. Lat. viii, 12, 1.
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uccise Carausio, fu eliminato nel 296 da un attacco del cesare Costanzo Cloro: la minaccia del predominio britannico scomparve. L'altro punto debole dell'impero era l'Egitto, che si sollevò nel 296; la sollevazione fu domata da Diocleziano (296-297). In seguito a questa vicenda furono sistemate stabilmente le cose d'Egitto. Si abbandonò la Dodekaschoi nos, dove fl3ron chiamati i Nobadi come federati contro i Blemyi (la futura importanza dello stato nobadico sta a dimostrare l'acutezza politica di Diocleziano); fu inquadrato l'Egitto nel nuovo ordinamento tributario dioclezianeo; vi fu introdotta decisamente la monetazione centrale. Nel 296 il cesare Galerio Massimiano mosse contro i Persiani; la campagna fu conclusa nel 298. I Persiani riconobbero il protettorato romano sull'Armenia, dove era re il filoromano Tiridate; i Romani riconquistavano la Mesopotamia, e vi aggiungevano 5 regioni. Ma il principale successo dei Romani, a cui i Persiani invano cercarono di opporsi, fu l'accentramento dei commerci a Nisibi: così la Persia non poté più stabilire dazi sulle esportazioni romane, e fu costretta a liberalizzare il commercio e gli scambi per questa parte. L'impero era veramente restituito alla sua antica potenza: Massimiano Galerio aveva potuto ricordare ai Persiani il verso di Virgilio parcere subiectis et debellare superbos. 80. La politica interna di Diocleziano.
Nell'ordinamento tributario, Diocleziano ha lasciato un'orma incancellabile e di grande importanza non solo per la storia romana ma anche (per le sue applicazioni all'economia sasanide, come infine per i tuoi sviluppi nell'economia slava del mir) nella storia mondiale. Traendo le conseguenze di un'evoluzione che già abbiamo seguito per tutto il iii secolo, egli ha combinato annona e capitazione ed ha così istituito la capitatio-iugatio.
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Su questa istituzione molto si è discusso, fra gli studiosi; e certo, alcuni punti restano ancora oscuri; ma chiarissimo è il fatto fondamentale, cioè l'equivalenza di caput e iugum in questo sistema. Vale a dire: per Diocleziano, una unità di lavoratori è equivalente, ai fini tributarii, ad una unità imponibile fondiaria; una « testa di lavoratorecolono » (caput) equivalente ad una « unità di superficie lavorabile da un lavoratore-colono » (iugum). Se partiamo da questa constatazione, avremo la chiave per un intendimento del sistema stesso. Diocleziano divide l'impero in grandi unità regionali, le diocesi, che possiamo avvicinare « nazioni », di cui parlava il vescovo Ippolito agli (supra, § 59). Le diocesi dioclezianee erano: britannica, due galliche (la viennense e la gallicana), spagnuola (con la Tingitana), italiana, africana, pannonica, mesica (macedonico-dacica), tracica, asiana, pontica, orientale. Per ognuna di queste grandi unità regionali, Diocleziano ha fatto calcolare quanto essa avesse di coloni (hominum numerus) e quanto di terreno imponibile (agrorum modus). Dividendosi lo agrorum modus per lo hominum numerus, e ottenendosi in tal modo l'unità di terreno imponibile per cui ogni caput doveva rispondere, si veniva a stabilire la formula census per ogni singola diocesi; vale a dire, si stabiliva la quota che un caput doveva corrispondere, quota diversa nelle diverse diocesi. Da che dipendeva la diversità? Ormai, se le considerazioni che abbiamo svolto sono nel vero, la risposta è chiara: la diversità dipendeva dalla diversa densità demografica. In conseguenza, nelle varie formulae census diocesane ogni caput è tanto più esteso (e tanto più grave la tassazione), quanto minore è la densità demografica. La premessa teoretica che, più o meno coscientemente, si è espressa in questo ordinamento culminava dunque nell'assimilazione e identificazione di ogni singolo caput, ossia forza lavorativa, ad un'area catastale. Nella diocesi orientale un caput-iugum fu assimilato a 5 jugeri di vigne, 20
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di pianura, 40 di terra montagnosa, 60 di terra di terza qualità ( ,rpt'rl), e così via. Nella diocesi gallicana, prima del cesarato di Giuliano l'apostata (355), un caput doveva dare, in aderazione, 25 solidi, che potrebbero equivalere a ± 300 modii di frumento (se ne deduce '° che il caput gallicano doveva corrispondere a un imponibile molto più esteso del iugum sito, essendo minore la densità demografica gallicana). Questo ordinamento si inquadrava nel principio della responsabilità collettiva applicato con ferreo rigore: non solo ogni singolo caput di colono era obbligato a pagare la quota fissata nella formula census diocesana, ma ogni singola curia era responsabile per il numero dei capita in essa censiti. Dal principio della responsabilità collettiva, per cui i coloni hanno sempre l'obbligo di coltivare le terre abbandonate, si è svolto poi l'istituto della epibolé tanto nella forma di fok oot'ùcv (per i terreni coltivati da schiavi) quanto nella forma di hrr43ok? 6toxjvùv (per i terreni coltivati da liberi coloni). Lo stesso principio della responsabilità collettiva regola la tassa di leva o functio, temonaria, per cui un certo gruppo di contribuenti (capitulum) è tenuto a fornire una recluta: la responsabilità collettiva colpirà, nella functio temonaria, i consortes del capitulum. A questi criteri tributarii si connetterà, poi, il diritto di prelazione (supra, § 61); si connetterà il legame dei coloni alla terra (« servitù della gleba »), sicché essi saranno costretti a inservire terris tanto per il nesso della capitatio-iugatio
10 Per Cicerone, un jugero lentinese - cioè un jugero d'eccezione - dà, con modii 6 di semente, un prodotto di 48-60 modii; per Columella, un jugero normale dà, con modii 5 di semente, un prodotto di 20 modii. I 20 jugeri in cui consisteva il caput siro di buona qualità avranno potuto darè, se calcoliamo una media di 30-40 modii per jugero, un prodotto di 600-800 modii, cioè (sottraendo i 100 di semente) un reddito netto di 500-700 modii: appena il doppio, in media, di quei ± 300 modii che il caput gallicano doveva dare già di solo tributo.
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(tributario nexu) quanto a titolo di colonato
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(nomine et
titulo colonorum). S'intende che le evoluzioni di questo sistema non sempre si presentano del tutto compiute nell'epoca dioclezia nea; ma sono implicite in esso, e si possono senz'altro considerare « dioclezianee ». Per questa parte, l'imperatore dalmata ha veramente lasciato, come già dicemmo, una traccia incancellabile nella storia d'Europa. La equazione dell'unità lavorativa con l'unità fondiaria imponibile è un principio « dioclezianeo », di un « socialismo di stato » come noi moderni diremmo - che reca l'orma di una concezione unitaria e razionale, tipicamente « dioclezianea ». L'impero romano, circondato tutt'attorno di nemici, uscito dalle guerre civili che ancora ne scuotevano la coÉripagine, fu così ordinato come un immenso campo di lavoro, un cantiere dove una plebs rusticana, quella appunto colpita dalla capitatio (la quale, in linea di principio, non pesa mai sulle plebi cittadine), lavorava senza posa al mantenimento della civilitas romana, lavorava a produrre generi alimentari per l'annona militaris e per la civilis. Nello stesso tempo, Diocleziano si preoccupa di ristabilire la fiducia nella moneta. Egli cerca di conciliare l'inconciliabile: da una parte vuole dare un corso elevato alla vile moneta divisionale, il denarius di rame imbiancato, dall'altra vuole fondare un buon sistema monetario con un aureus di 1/60 libbra e un argenteus di 1/96 (come il denario neroniano). Ma come può, la vile moneta divisionale, reggere il confronto con le buone monete di oro e di argento? Al solito, i produttori si rifiutano di vendere ai soldati, e in genere agli acquirenti, ai bassi prezzi espressi in denarii. E allora Diocleziano, il difensore della moneta divisionale, reagisce con l'edictum de pretiis, del 301. Ma lo edictum, come era da prevedere, fu un fallimento; il fallimento della moneta divisionale e con essa delle classi inferiori dello stato. Se si vuole, avere un'idea di questa difesa del denarius, basti pensare alla seguente circostanza, tipica perché fon
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data sui prezzi del grano, base dell'alimentazione: nel 149 d.C. con circa 5 denarii (i denarii argentei « traianei », di g. 3,40 - come i neroniani - di circa 85% di fino) si comprava un modio di frumento; nell'epoca di Settimio Severo e Caracalla, scaduto il fino argenteo al 50%, il costo ebbe a raddoppiare o triplicare; nell'epoca di Diocleziano, quando il denarius non è che una vilissima moneta che pesa (al massimo) 3,8 g. di rame imbiancato (ma forse anche molto meno), il prezzo del frumento è 100 denarii un modio (kastrense). Concludiamo: nel pensiero di Diocleziano, 3,8 g. di rame imbiancato (o molto meno), solo perché denarius - vale a dire moneta dello stato e della povera gente -, avevano un potere d'acquisto all'incirca venti volte minore che 3,40 g. d'argento, con 85% di fino, nel ti secolo. Ciò avrebbe significato un rapporto fra rame e argento di poco meno di 1:20 "; che era un assurdo dal punto di vista dell'economia « naturale », nella quale il rapporto fra argento e rame si aggira su 100: 1, non già su 20: 1. Di fatti, il rapporto « argento: rame = i QO: i » ha sempre caratterizzato l'economia romana tica, e potè essere migliorato in favore del rame (50: 1) solo nei primi due secoli dell'impero, quando la moneta senatoria di rame (sesterzio) fu appoggiata dalla buona moneta divisionale argentea (imperiale), il denarius; scaduto il denarius a moneta di rame, si tendeva a tornare al rapporto « naturale » fra argento e rame, rapporto ben cinque volte maggiore di quel che Diocleziano pensasse. Con il fallimento dell'editto dioclezianeo falliva dunque tutta la disperata e vana difesa del denarius, da Caracalla in poi (supra, SS 49-50). In questo campo, Diocleziano è ancora l'uomo del in secolo: l'uomo dei tempi nuovi, che
O addirittura più, se un modio kastrense fosse - come pensava Bliimner - il doppio dell'italico. In ogni caso, il modio kastrense non doveva allontanarsi troppo dal modio italico.
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cercano valori economici reali anche in termini di economia monetaria, sarà invece Costantino. Non solo nella sua politica monetaria, ma in tutta la sua opera di uomo di stato, Diocleziano è il difensore di una grande tradizione. Difensore ad oltranza, con tutti i mezzi che il suo genio gli suggerisce. C'è da salvare una realtà che egli considera più grande di ogni altra cosa: lo stato romano. Le guerre civili hanno sconvolto questo stato. Ma Diocleziano pensa che se ne possono eliminare, se non le ragioni, le conseguenze disastrose. Non si può governare questa mirabile enorme compagine senza rafforzare il potere centrale, senza sminuzzare l'autorità periferica. Già osservammo (S 69) che il retore Menandro non conosce lodi militari per il governatore di provincia. Ma Diocleziano fa un passo definitivo: raddoppia il numero delle province, spezzandole in frusta; i loro governatori sono funzionari civili, iudices, con l'attuazione conseguente dei presupposti di Gallieno. Anche l'Italia è divisa in vicariati (l'annonario; il romano) e in province. Dalle loro residenze (più comunemente Nicomedia per Diocleziano, Milano per Massimiano Erculio; si badi, trattasi di « residenze », non di « capitali » nel senso moderno della parola) gli augusti possono controllare l'opera dei cesari. A rafforzare la coscienza unitaria si conferma l'obbligatorietà dell'uso della lingua latina. Tuttavia, da più parti (soprattutto dalle classi inferiori) si chiede una fissazione e consolidazione delle norme giuridiche; è questa una esigenza a cui lo stato verrà definitivamente incontro solo nel v secolo, con Teodosio I!; per ora, l'epoca dioclezianea si è contentata del Codex Gregorianus, ben presto seguìto (coi rescritti del 293-294) dal Codex Hermogenianus: libri (codices), che erano opera di privati, ma comunque portavano l'orma della grande volontà costruttrice dioclezianea. Al centro della grande costruzione è l'autorità imperiale: bisogna sottrarla al capriccio soldatesco di un mo-
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mento; solo un mistico alone potrà evitare le continue guerre civili e i conflitti per la porpora. Così Diocleziano insiste particolarmente su quella consuetudo venerationi che ormai una tradizione monarchica ha reso familiare al mondo romano: agli imperatores sacratissimi (sacri vultus), spetta quella adoratio o prosknesis, che Alessandro Ma-
gno aveva introdotto nel mondo occidentale, che nell'impero romano si configura come adoratio della clementia imperiale. Diocleziano contempera il principio adottivo coi matrimoni di sua figlia al cesare Galerio Massimiano, e della figliastra di Massimiano Erculio, Teodora, al cesare Costanzo Cloro (che perciò ha dovuto abbandonare Elena, da cui aveva già avuto il futuro imperatore Costantino). Poco a poco, l'imperatore si accorse che alla salvezza di quel vecchio mondo, nel suo vecchio contenuto, si opponeva soprattutto il grande fatto spirituale: il cristianesimo. Il suo genio di uomo di stato gli suggeriva che non c'era da tentare la lotta: nel 296 egli ha perseguitato il manicheismo, come religione che proveniva e Persica adversaria nobis gente e che, divulgatasi solo di recente, offendeva la tradizione romana (naturalmente, c'era, dietro quella persecuzione antimanichea, la coscienza che il manicheismo era una forma di opposizione religiosa, connessa con la rivolta egiziana). Ma contro il cristianesimo, contro la religione più diffusa dell'impero e quasi signora della sua parte orientale, egli si decise soltanto negli ultimi tempi del suo governo, nel 303. Gli uomini di cultura d'intorno a lui pensavano che ancora si potesse e dovesse tentare; lo scritto di Porfirio contro i Cristiani era il « manifesto » cui essi (per esempio Hierocle) si richiamavano, da cui procedevano, nei loro scritti, ed a cui aggiungevano altri motivi (il cesare Galerio Massimiano era anch'egli un anticristiano convinto). Ma com'era prevedibile, come forse Diocleziano stesso prevedeva, i suoi quattro editti contro i Cristiani - dal primo (del febbraio 303) al quarto (dei primi del 304) - non raggiunsero lo scopo. La per-
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secuzione dioclezianea fu di tutte la più radicale: taNto più grave, quanto più diffusa (e si può dire vittoriosa) era la religione perseguitata; tanto più aspra, quanto più appassionato e tenace era l'amore del grande imperatore per la tradizione classica che egli difendeva. Molti i traditores (si diceva che anche il vescovo di Roma, Marcellino, fosse tra i traditores, « consegnatori » dei libri sacri); ma intatta la forza di resistenza delle comunità cristiane, nel loro complesso. Tra i martiri della persecuzione fu Luciano d'Antiochia, la cui dottrina cristologica (secondo la quale Cristo non ha anima umana, giacché sua anima è lo stesso Logos fatto carne) ha avuto enorme importanza per i posteriori sviluppi delle controversie dogmatiche in seno all'episcopato cristiano, ed ha riportato ancor una volta in primo piano la scuola teologica di Antiochia. Gravi conseguenze, per i posteriori sviluppi scismatici, ha avuto la presenza di traditores nelle chiese africane: nel 311 molte comunità cristiane numidiche si rifiuteranno di riconoscere il vescovo di Cartagine Ceciliano, perché consacrato da un vescovo traditor; e il contrastò fra gli intransigenti sostenitori della validità subiettiva dei sacramenti, e i loro avversari cattolici, segnerà di sé la storia di tutto il basso impero. Con perenne riferimento alla persecuzione dioclezianea, gli intransigenti (donatisti) continueranno sempre a indicar i cattolici col titolo di traditores, e ad inebriarsi, come agonistici, dell'ansia del martirio. E certo, ai contrasti fra traditores e difensori della fede nel corso del iii secolo si deve la coloritura negativa assunta dalla parola traditor nel latino parlato, e infine nelle lingue neolatine: la parola aveva assunto questa coloritura già nel iii secolo stesso. Il 20 novembre 303 ricorrevano i vicennali di Diocleziano: li celebrò, naturalmente, a Roma. Allora il maturo imperatore (aveva ormai 60 anni) incontrò Massimiano Erculio. In quell'incontro si saranno dette molte cose: l'impero aveva fatto tanta strada, sotto la loro guida. Dio-
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cleziano pensava che era opportuno ritirarsi, ormai; vedere quel che sarebbe avvenuto, facendo subentrare alloro posto i due cesari, che così diverrebbero augusti, e nominerebbero altri cesari; vedere, insomma, alla prova del fuoco, se l'ordinamento « tetrarchico » si reggeva saldamente. Massimiano Erculio non era uomo da ideologie; non si sentiva di sacrificare d'un tratto una posizione faticosamente raggiunta; il suo buon senso di soldato si ribellava. Ma cedette, egli Erculio, al collega lovio; nei tempio di Giove Capitolino, dei dio di Diocleziano, giurò che avrebbe consentito all'abdicazione. Nell'aprile del 305 celebrò i suoi vicennali; l'i maggio 305 entrambi abdicarono. Diocleziano si ritirò ad Aspalathos (Spaiato), in quella sua celebre villa-fortezza, deciso veramente (il modello di Sulla può avergli sorriso) alla grande rinunzia; Massi miano Erculio rimase, invece, alle vicinanze di Roma, in una sua villa tra Lucania e Campania (nel Salernitano?). Forse, chissà, qualcuno gli avrà detto che anche Sulla si era fermato, dopo l'abdicazione, in una villa di Campania, a sorvegliare ancora... Certo, Massimiano Erculio voleva « sorvegliare », anche lui. 81.
La dissoluzione dellordinamento tetrarchico.
L'abdicazione e quies di Diocleziano e Massimiano Erculio metteva veramente alla prova la stabilità dell'ordinamento tetrarchico. Naturalmente, ritiratisi i due augusti, i loro cesari diventarono augusti: Massimiano Galerio per l'Oriente, Costanzo Cloro per l'Occidente. Furono nominati due nuovi cesari: Massimino Daia di Galerio Massimiano, e Severo di Costanzo Cloro. Praticamente, il più autorevole dei nuovi augusti era Massimiano Galerio, che aveva anche grande influenza sul cesare di Costanzo Cloro, Severo, sebbene su un piano giuridico Costanzo Cloro fosse il senior Augustus. Ad ogni modo, la nomina di Severo fu un errore, perché questo fedele seguace della politica di
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Diocleziano e di Massimiano Galerio non aveva in Occidente un prestigio tale da poter bilanciare quello di Costantino, figlio illegittimo di Costanzo Cloro, nelle Gallie, e di Massenzio, figlio di Massimiano Erculio, in Roma (specie tra i pretoriani e le coorti urbane) ed in genere in Italia. Così alla morte di Costanzo Cloro, il sistema co minciò a cedere ed anzi a sfasciarsi. Subito, il 25 luglio 306, Costantino fu acclamato augusto dalle sue truppe; d'altra parte, il 28 settembre 306, i pretoriani acclamarono Massenzio, sostenuto anche dalla plebe romana (è interessante che tra i suoi fiancheggiatori si trovasse il tribuno sovrintendente al foro suario). Il principio della successione ereditaria si rivelava più forte dell'aristocratico e razionale principio dell'adozione. Del resto, Massimiano Erculio, nonostante la sua posizione di ex tetrarca e principale sostegno della costruzione dioclezianea, si schierava a favore del principio ereditario: Diocleziano gli appariva un sognatore a spese d'altri, e principalmente di lui Massimiano Erculio. Anzi, pensò di andare più in là: sposare a Costantino la figlia Fausta (che del resto già da tempo gli era stata promessa), ed inoltre considerare il proprio figlio Massenzio come cesare, e farsi riconoscere come l'augusto più anziano. Il vecchio tornava insomma sulle scene, per rinnegare con un colpo di testa la promessa fatta a Diocleziano nel novembre 303. Severo, nel 307, fu eliminato. Ma Massenzio non riconobbe la superiore autorità del padre. Egli era il signore dell'Italia, dell'Africa (dove nel 308 domò una rivolta del vicarius Domizio Alessandro) e di parte della Spagna; a Roma e in Italia aveva sempre un lunghissimo seguito, e molti avranno visto in lui il futuro autore di quel risveglio dell'Italia, che nel in secolo si era celebrato all'epoca dei Gordiani. Anche la sua politica religiosa, ricca di sagace equilibrio e tollerante nei riguardi dei Cristiani, gli avrebbe conciliato molte simpatie. Deluso nei suoi piani, adirato a morte contro il figlio, il vecchio Massimiano Erculio ridiventò
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dioclezianeo », d'un tratto; aderì ad un congresso in Carnunto. In questo congresso, presieduto da Diocleziano (308), i vecchi tetrarchi tentarono di porre un certo ordine nel disordine - ma invano. Il congresso di Carnunto, anzi, peggiorò la situazione. Si nominarono augusti Galerio Massimiano e un ufficiale distintosi nella campagna persiana, Licinio; come cesari si indicarono il superstite dei due cesari del 305 (Massimino) e il rivoluzionario Costantino. Era una soluzione di compromesso. Ma appunto per questo l'errore è più evidente. Riconoscendo Costantino cesare, si riconosceva in parte il principio ereditario. Nominando Licinio augusto, si aggiungeva un nuovo competitore a quelli che già c'erano, ed un competitore che, non potendo in nessun modo controllare l'Italia, l'Africa e la Spagna, si sarebbe dovuto contentare dell'Illirico. Del resto né Costantino né Massimino si appagarono del titolo di cesari; essi si consideravano augusti. Questo sviluppo della situazione era anche troppo naturale, dal momento che a Carnunto si era nominato augusto un uomo come Licinio, che non era stato precedentemente cesare, e che dunque non poteva considerarsi, neanche lui, espressione del puro principio tetrarchico. Intanto nel 310 il vecchio Massimiano Erculio, l'eterno malcontento sempre alla ricerca di quel potere effettivo cui aveva rinunziato nel 305, venne a conflitto con il genero Costantino; questi, che già si riteneva discendente da Claudio Gotico piuttosto che membro adottivo degli Erculii, acquistava sempre più coscienza di una sua missione charismatica, la quale allora gli parve rivelarsi nella visione di un simbolo solare; Massi miano Erculio fu da lui eliminato, o si uccise, in Marsiglia. La situazione precipitò nel 311. Allora Galerio Massimiano si ammalò gravemente. Egli attribuì la malattia alla sua persecuzione contro i Cristiani, ed emanò un editto di tolleranza, sperando di placare così il loro dio (aprile 311); ma di lì a poco moriva. Subito Massimino prese «
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possesso del territorio di Galerio, unificando così tutto l'Oriente, dalla Siria all'Asia Minore. Restavano Licinio, augusto dell'Illirico, Massenzio, « usurpatore » dell'Italia ed Africa, Costantino, augusto di Gallia Spagna Britannia. I principii di Carnunto potevano essere in certo modo salvi, se restavano augusti il vero e proprio augusto collega di Massimiano Galerio a Carnunto - vale a dire Licinio - e i due cesari di Carnunto - vale a dire Massimino e Costantino -. Bisognava dunque eliminare Massenzio, in nome dei tre augusti ufficialmente elencati secondo l'ordine di anzianità al potere - Massimino, Costantino, Licinio. I tre si coalizzarono contro Massenzio, ma il compito della lotta fu assunto da Costantino (312). Questi vinse in una prima battaglia a Torino, in una seconda a Verona. La via verso Roma gli era ormai aperta. Diocleziano viveva ancora, ridotto a puro osservatore. Per alcuni rispetti - nell'ordinamento tetrarchico, nella lotta anticristiana - la sua politica era fallita, o si avviava al fallimento. Anche la sua lotta a sostegno del denarius, cioè della piccola borghesia e del proletariato, si avviava al fallimento. Un vecchio mondo, già da tempo scardinato nei suoi presupposti, aveva trovato in lui la sua ultima difesa. Una difesa disperata e vana: riflessa in quel volti tetrarchici spiritati e tormentati, che tutti ammiriamo nelle sculture di porfido a S. Marco in Venezia.
r BIBLIOGRAFIA E PROBLEMI
XXVII. FONTI E RICERCHE SUL PERIODO 180-235 (SS 42-59
del testo) Il periodo dal 180 al 238 - dall'avvento di Commodo a Pupieno e Balbino - è trattato come « ferreo » e'r& Mpxov krropx di Erodiano: nell'opera un'opera che sin da TILLEMONT Si soleva (e ancor oggi da taluno si suole) considerare con degnazione e quasi con disprezzo (si devono tuttavia riconoscere inesattezze: cfr. BERSANETTI, « Riv. fu. ci . », 1938, p. 357; Hoi-iL, « Phil. Woch. », 1932, 1135). Non bisogna dimenticare che Erodiano ha vissuto molte delle vicende che narra, &v plagxtxocìg rips
ycv6Lsvoc (I, 2, 5); il suo sine ira et studio (lI, 15 ) 7)
va limitato, come abbiamo visto nel nostro racconto. Lo storico senatore Cassio Dione, che ha vissuto intensamente l'epoca dei Severi (console suffetto sotto Settimio Severo, console ordinario nel 229), entra in considerazione per le reliquie dei libri 73 (Commodo), 74 (anno 193), 75-77 (Severo), 78 (Caracalla fino al 215), per il libro 79 (pervenuto in parte notevolissima nel cod. Vat. 1288: tratta la spedizione partica di Caracalla e il regno di Macrino), per il libro 80 (in parte pervenuto, in parte ricostruito con Xifilino e gli « excerpta »: tratta il regno di Elagabalo, e quello di Severo Alessandro fino al 229). Sulla « stratigrafia » di fonti (cfr. sane) nella H. A., O. SCHULZ, Beitr. z. Kritik unserer literar. Ueberl. fiir die Zeit von Comm.'s Sturze bis auf den Tod des M. Aurelius Antoninus
(1903). Comincia ad acquistare importanza Zosimo, il quale attinge alle perdute Cronache di Dexippo (contro il giudizio di Niebuhr su questo importante autore cfr. MANNI, L'impero di Gallieno [1949], p. 81). Si ricordino i manuali di storia romana e imperiale (Aurelio Vittore, Eutropio, epit. de Caesan bus, il settimo libro di Orosio) e i latercoli. La storia ecclesiastica di questo periodo si ricostruisce (oltre che dagli scritti
Bibliografia e problemi
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dei Padri e dagli Atti dei Martiri) dalla Storia ecclesiastica di Eusebio, al quinto libro (Marco Aurelio e Commodo) e al sesto (dai Severi a Decio). - Per le constitutiones principales a noi pervenute attraverso le consolidazioni giuridiche, in/ra, XLIX. Ricerche moderne. All'interpretazione dell'epoca severiana, e, anzi, di tutto il iii sec., ha molto contribuito W. WEBER, con la sua particolare sensibilità a quella che egli chiamava « l'unificazione del mondo religioso » (WEBER, « Probleme der Spiitantike », 1930, p. 67). Nell'ambito di questa indagine, ma anche con spiccati interessi « universalistici » si muove (ma cfr. ENSSLIN, « Hist. Jahrb. », 1941, p. 266) ALTHEIM, già i Soldatenkaiser (1939), da ultimo Niedergang d. alten Welt i-ti (1952). La più recente trattazione dai Severi a Numeriano è del CALDERINI, nel quinto volume della « Storia di Roma » dell'Ist. St. Rom. (I Severi. La crisi dell'imp. nel 30 secolo [1949]); dai Severi al concilio di Nicea va il iv, i della Histoire ancienne di Glotz, curato da BESNIER (1937); si ricordino le altre opere generali (« Cambr. Anc. Hist. » xii); il PARKER (Hist. R.W. [19351); la collana divulgativa dell'Ist. St. Rom. (l'eccellente saggio dell'ANDREOTTI su Commodo; CALDERINI, Settimio Severo; PASSERINI, Severi, ecc.). Coi Severi cominciano due importanti opere sulla composizione del senato: LAMBRECHTS, La compos. du sénat rom. de Sept. Sev. à Dioci. (1937: fa seguito all'altra sua Composition du sénat romain de l'accession au tr6ne d'Hadrien à la mort de Commode, 1936) e BARBIERI, L'albo senat. da Sett. Sev. a Diocl. (1952); cfr. anche, per l'epoca di Settimio Severo
e Caracalla, la dissertazione ben. di SINTENIS (1914). Per il nostro punto di vista su questo problema supra, §5 40, 47. Soprattutto il progetto dei due senati di Caracalla e Geta mostra che i contemporanei avevano coscienza di questa penetrazione orientale nel senato. Appunto questa coscienza mi sembra attenuare la critica al metodo di LAMBRECHTS accennata ulteriormente da ROBERT, « Hellenica » ix, 1950, p. 51, 3: il ROBERT è nel vero quando osserva che molti « Orientali » discendono da coloni romani in Asia Minore, ma ciò non toglie che essi apparissero come Orientali. Cfr. anche HAHN, Ròm. .Beamte griech. u. orient. Abstammung in d. Kaiserzeit (1926). Per gli equites nel iii secolo, cfr. la letteratura supra, xxv, e
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KEYES, The Rise of the Equites in the Third Cent. (1915). La seconda parte di KUNKEL, Herkun/t u. soz. Stellung d. ròm. juristen (1952) è, naturalmente, im-
la diss. Princeton di
portantissima per l'epoca severiana: si verifica la statizzazione dei giurisprudenti. Allo stesso modo, l'evoluzione della prefettura al pretorio nel periodo severiano ha attirato l'attenzione in modo particolare (soprattutto HOWE, The Pretorian Pre/ect fro»z Comm. to Diocletian [1942]; cfr. LAsT, « Journ. Rom. St. », 1944, p. 121): si fa rilevare che il carattere civile della prefettura al pretorio sotto i Severi già preannuncia l'evoluzione di epoca tardo-imperiale. Cfr. in/ra, XXXVIII. Non mi par dubbio che anche Paolo sia stato prefetto al pretorio. Per Ulpiano, occorre rilevare il termine di parens che gli è dato in C . I. iv, 65, 4: ciò può esser utile a illustrare le indagini sul parens principum nei recenti lavori di STRAUB (citati a S 55 e xix); come c'è l'amicus principis, così c'è il parens principis. - DE LAET, « Rev. belge phil. hist. », 1943, p. 73; 1946/7, p. 509; DE- ROCHE, « Rev. ét. anc. », 1949, p. 60. Su Commodo cfr. HEER, « Phil. », XXVIII (cfr. § 42) Suppl. 9, 1901, ed. 1904; (per Vita Comm. 14, 3, cfr. BARBIERI, « St. it. fil. class. », 1936, p. 196); SMITS, Die vita Commodi u. Cassius Dio (1914). Per la designazione successoria: KEIL, « Klio », 1938, p. 293; cfr. anche supra, XXIII. Su Commodo-Ercole cfr.
Ros'rovzEv,
« Journ. Rom. St. »,
1923, p. 90. Importanti le considerazioni di ANDREOTTI citato in/ra, XLV. Per la religiosità di Commodo cfr. ALFÒLDI, A Festival of Isis, p. 44; ALTHEIM, Niedergang cit., p. 253; il nostro punto di vista è chiarito a § 58. - Commodo arconte
ad Atene: RAUBITSCHEK, « Hesperia », Suppl. VIII, 1949, p. 281 (con ricostruzione di una lettera agli Ateniesi, del 187); è un normale esempio di eponimia municipale attribuita ad imperatori, come nei casi studiati da ROBERT, Ét. épigr. et philol., p. 144. Cfr. anche OLIVER, « Am. Journ. Phil. », 1950, p. 170. HAMMOND, « Harv. St. Class. Phil. », 1940, p. 60. La personalità di Bruttia Crispina ha attirato di recente l'attenzione a proposito di un'epigrafe in cui essa appare eponima di Bisanzio: ROBERT, « Hellenica » VIII, 1950, p. 75.
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Viceversa, Marcia attira l'attenzione in quanto pia; da connettere con le altre figure di Cristiani vicine a Commodo, come Prosenes receptus ad Deum, sul cui sarcofago si trova un epitafio « indifferente » (ILCV, 3332a) ed uno cristiano (3332b). Dunque, titoli funerarii pagani o per lo meno indifferenti possono riferirsi a Cristiani. Cfr. supra, S 58; in/ra, xxix. - Ingiurie a Commodo in una moneta: DERICHS, « Rhein. Mus. », 1952, p. 48; PISANI, ibid., p. 286. - Perenne e Commodo: BERSANETTI, « Ath. », 1951, p. 151. Sulla catastrofe di Perenne, le nostre fonti (il transunto di Cassio DioneErodiano; la Vita Commodi nella H. 4.) non presentano di vergenze così grandi da oscurar l'essenziale. Grandi complessi militari dell'impero erano: l'illiriciano, il britannico, il siriaco. Nel 185 solo i primi due hanno avuto una parte notevole: l'illiriciano, direttamente dominato da Perenne attraverso i suoi figli (Herod. i, 9, 4) - e viceversa il britannico, ostile a Perenne. Dione insiste sull'ostilità dei Britannici contro Perenne; in Vita, 6, 1 i legati sono esponenti dell'esercito che combatte bello Britannico; in Erodiano le proteste britanniche diventano delazioni pannoniche. Forse legati della Vita, 6 significa « messi » (cfr. Dione), non « comandanti »; sarebbe un volgarismo linguistico. Il contrasto tra soldati illiriciani e britannici culminerà, poi, nella lotta fra Settimio Severo e Clodio Albino. - Per la catastrofe di Cleandro, la Vita Commodi ha preferito una versione politica (uccisione del senatore Arno Antonino) alla interpretazione economico-sociale (Herod. i, 12, 4). - Nonostante il suo carattere rivoluzionario, da noi mostrato nel testo, l'impero di Commodo (e del resto, tutta l'epoca tardo romana) eredita tipici motivi dell'impero umanistico: per es. la lex Hadriana per i coloni africani, che esprime l'ideologia « filantropica » adrianea (come a suo luogo notammo) e ad essa ispira l'applicazione della lex Manciana, è un punto di riferimento nella petizione dei coloni del saltus Burunitanus (ILS, 6870) e sarà un punto di riferimento per Settimio Severo (C viii, 26416). Cfr. in/ra, S 60. - Per l'iconografia, oltre WEGNER, Die Herrscherbildnisse in anton. Z. (1939), ultimamente DE FRANcIscIs, « Boil. d'arte », 1952 2 p. 288.
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XXIX (SS 43-45) Questa continuità, e pur trasforma zione, di motivi umanistici, che si può mettere in rilievo a proposito di Commodo, non si è perduta nel iii secolo: soltanto, si è adattata (e in parte snaturata) al contatto con la nuova insistenza, costituzionale e religiosa, sull'ideale di ovxpX(x. Così, un motivo « umanistico » è la liberalità di Settimio Severo (egli stesso scrittore-autobiografo - come Clodio Albino era poeta) verso i poeti: la sua pretesa generosità verso Oppiano è entrata nella topica delle virtù imperiali in genere (com'è chiaro dal logos proemiale della Storia ecclesiastica di Sozomeno: un testo di grande importanza per lo « Herrscherideal » tardoromano). - Forse è un poeta di corte quel Settimio Nestore, che una base ostiense (di cui BARBIERI, « Ath. », 1953, p. 158 ha identificato la statua) celebra come autore di una Nascita di Castore e Polluce (sono « oracoli » dei Dioscuri riconoscenti: cfr. per es. 11. 11-12 ycvc-cpt [scil. « geneflogo »] [&tov p?J rd vpx yevaco). Comunque, questo poeta dell'epoca di Settimio Severo era apprezzato anche in una famiglia senatoria (GUARDUCCI, « Riv. fu. class. », 1942, p. 131). Egli ha avuto l'onore di una EXV in Roma, e dell'accoglimento delle sue opere in una biblioteca pubblica annessa a un tempio (ciò deduco da IG xiv, 1869, dove propongo di leggere, nel secondo emistichio, va[t] f(f3)ot &' &yévovo; per l'annessione delle biblioteche pubbliche a un tempio - vct cfr. WENDEL, « Handbuch d. Bibliothekswissensch. » in, 1940; per i ritratti in biblioteche cfr. i Bildnisse di SCHEFOLD). Bastano questi elementi per intendere l'importanza che si attribuiva all'opera ufficiale dei poeta: l'ammissione dei libri in una biblioteca annessa a un tempio è una distinzione ambita (l'antico uso
Fotogr. dell'epigrafe in GUARDUCCI, P. 133. L'acuta integrazione v&[x] del DE SANCTIS (accolta da BARBIERI, loc. cit., p. 168) va incontro a difficoltà metriche (la L breve di f3LXot), semantiche (il verso non darebbe, per sé solo, un senso compiuto; inoltre, £bcv véx « nuovo ritratto » sembra sforzato) ed epigrafiche (una sola lettera mancante alla 1. 2 sarebbe del tutto asimmetrica, rispetto alle 4 mancanti nella 1. 1). E soprattutto: l'orgoglioso Nestore vuoi indicare che « questo è il suo ritratto, i suoi libri sono annessi ai tempio ».
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delle biblioteche templari, per es., di quella del templum Apollinis augusteo, del templum Pacis di Vespasiano, del templum di Traiano sotto Adriano, ecc. diverrà poi, con Severo Alessandro, un momento sincretistico, in quanto la nuova biblioteca al Pantheon sarà diretta dal cristiano Giulio Afri cano). Per altro, va notato che uno scritto come la Nascita di Castore e Polluce, del suddetto Nestore, poteva facilmente aver un'eco alla corte di Settimio Severo: il più potente fra i liberti di Settimio Severo si chiamava Castore (forse un signum?). Commodo-Ercole, a esaltare i suoi amori con Marcia, faceva raffigurare quest'ultima come Amazzone (di qui il signum Amazonius, come Ercole « Amazonio »); non è escluso che, allo stesso modo, Iulia Domna ufficialmente raffigurata sul trono della sposa di Giove: ENSSLIN, Gottkaiser cit., p. 38 potesse suscitare (in quanto madre di Caracalla e Geta) il mitico ricordo di Leda (ed era invece, come poi diranno gli Alessandrini, una infelice Giocasta). In ultima analisi, questi richiami a motivi mitici, e storico-eroizzati, danno un tono particolare all'umanesimo severiano: il più caratteristico è il motivo di Alessandro Magno, che è divenuto un ideale « demonico », dominante sotto gli imperatori Caracalla e (naturalmente) Severo Alessandro (si ricordi Caracalla Magnus, come Alessandro Magno); a questo motivo si è ispirata anche una composizione del suddetto poeta Nestore. Viceversa, il vero e proprio ritorno all'impero umanistico è un ideale fallito, che caratterizzò il breve impero di Pertinace. Sulla Vita di Pertinace nella H. A. cfr. BARBIERI, « St. ítal. fil. cl . », 1936, p. 183. Sulla Vita di Pescennio e su quella di Albino: HASEBROEK, Die Fàlschung d. Vita Nigri u. d. Vita Albini in den SHA (1916). Su Settimio Severo: PLATNAUER, The Li f e a. Time of Septimius Severus (1918) ; HASEBROEK, Unters. z. Gesch. d. Kaisers Septimius Severus (1921); MURPHY, The Reign of the Emp. L. Septimius Severus from the Evid. of Inscr. (1945); HAMMOND, « Harv. Studies », 51, 1940, 137 (carriera); MANNI, « Riv. fil. cl . », 1947, p. 211; « Epigr. », 1950, p. 60; BARBIERI, « Epigr. », 1952, p. 3; BERSANETTI, «Aeg.», 1949, p. 76. Umiliazione di Antiochia: DOWNEY, « Berytus », 1939, p. 3. Famiglia di Settimio Severo: BERSANETTI, « Ath. », 1946, p. 28; GUEY, « Mém. Soc. Nat. Ant.
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France », 1951, p. 161. Severo « proconsole » anche in Italia: NESSELHAUF, « Klio », 1937, p. 320. Conflitto tra Plauziano e Domna: DE REGIBUS, « Ath. », 1946, p. 129. Prost. At.: OLIVER, « Hesperia », 1941, p. 85. Per il concetto di mater castrorum in genere cfr. FINK, « Amer. Journ, Arch. », 1944, p. 17; esso è un'eredità dell'epoca di Marco, ma l'età severiana gli ha dato un «tono » particolare. Cfr. anche, per lulia Domna, OLIVER, « Ath. Stud. Ferguson », 1940, p. 521. Gli atti dei ludi secolari di Settimio Severo sono studiati, ultimamente, da ABAECHERLI BOYCE, « Trans. a. Proc. Am. Philol. Assoc. », 1941, p. 36 (di cui, su imp. XII, « Am. Journ. Arch. », 1949 3 p. 337). - MATTINGLY, « Num. Chron. », 1932; PINK, « Num. Ztschr. », 1933. - Naturalmente, la particolare esaltazione di Ercole e Dioniso, alla maniera di Alessandro, non può bastar a datare l'opera di Curzio Rufo nell'epoca dei Severi: contro ALTHEIM, Liter. u. Ges. in ausg. Alt. i (1948); cfr. supra, § 24. - Sul culto imperiale sotto Settimio Severo, cfr. sempre il saggio, già più volte citato, di ENSSLIN, Gottkaiser ti. Kaiser von Gottes Gnaden, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1943, H. 6. Fra i testi di più recente interesse può citarsi, per es., l'iscrizione del vicus Maracitanus (a circa 20 Km. da Mactar in Tunisia), il cui tempio è dedicato a Settimio Severo-luppiter Optimus Maximus e a lulia Domna-Iuno Regina; cfr. DÉROCHE, « Mél. École Rome », 1948, p. 73. Tesoro di Marengo e cultori della casa imperiale: DEGRASSI, « Ath. », 1939, p. 227. Arco degli argentarii: monografie di HAYNES-HIRST (Porta argentariorum, 1939) e di PALLOTTINO (L'arco degli argentarii, 1946, supra, § 58). Cammeo di Kassel: MÒBIus, « Arch. Anz. », 1948/9, 102.
Per la politica estera cfr. SCHUR, RE, s.v. Parthia. Per lo épstc yuvoctgt auvoLxctv cfr. la letteratura sul connubium dei soldati supra, xxvi. Intorno alla problematica del rapporto contadini-soldati nell'epoca di Severo è accentrata, com'è noto, l'interpretazione di questa epoca (e di tutta la storia imperiale) nella Storia econ. e soc. del RosTovzEv; in connessione, soprattutto, con le indagini di CARCOPINO, « Rev. Arch. », 20, 1924, p. 316; cfr. quanto osserviamo nel testo (anche a proposito di Caracalla e di Severo Alessandro). Per i curatores rei publicae cfr. letteratura a xxv. - Immunità
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a Tyras (e interesse di Settimio Severo al Mar Nero): ILS, 423. - Beneficia coliegii centonariorum: FIRA(nteiust.) i, 87. Per la politica economica di Settimio Severo è importante, tra i documenti citati nel testo, la fondazione dell' hlv6pLov rlLo wx& &opsv tv xupkv; cfr. R0BERT, « Hellenica » li, 1946, p. 135; WILHELM, « Jahresh. òsterr. arch. Inst. », 1948, Beibl. 31. L'epigrafe di Mylasa interpretata nel testo a § 43 è in OGIS, 515. Sull'annona cfr. VAN BERCHEM, « Mém. Soc. Nat. Ant. de France », 1936, p. 1. Naturalmente, le forme dell'annona si saranno svolte in connessione con i viaggi dell'imperatore. Cfr. anche HANNESTAD, « Classica et Mediaevaha », 1944, p. 194. Per aspetti particolari della politica tributari a cfr. anche PRÉAUX, Les ostraca grecs de la coli. Ch.-E. Wilbour au musée de Brooklyn (1935); e in genere il materiale papirologico e di ostraka, a cominciare dai Griindzuge u. Chrestomathie del WILCKEN. Fondamentale, per tutto il III secolo, il saggio di OERTEL, « Cambr. Anc. Hist. » xii. Si discute se la concessione di anulus aureus implichi sempre, e necessariamente, l'ammissione all'ordine equestre: in senso positivo rispondono ALF&DI e già DOMASZEWSKI; in senso negativo A. STEIN nel Ritterstand. Per la storia militare ed economica dell'impero in genere si rimanda alla letteratura in XXVI. XXX (cfr. § 46) Per l'impero e il cristianesimo in genere, cfr. la letteratura già più volte citata; e cfr. particolarmente ALLARD, Hist. des persécutions pendant la le moitié du Ille siècle (1905). Per la Passio SS. Perpetuae et Feiicitatis, oltre alle raccolte di Atti di KNOFF-KRÙGER oppure del COLOMBO,
cfr. per es. l'edizione di VAN BEEK; di recente, il saggio di RUPPRECHT, « Rh. Mus. », 1941, p. 177 che nei capp. 3-13 vede una costruzione letteraria. Si può sempre discutere se autore ne sia Tertulliano: bisogna tener presente che la Passio è del 203. Un commento ad alcuni passi in ROBERT, « Hellenica » iii, 1946, p. 156; PICARD, « Recueil Soc. Arch. Constantine», 1948, p. 117. Sul problema della proprietà ecclesiastica, cfr. soprattutto le brevi osservazioni di VOLTERRA, « St. doc. hist. juris », 1938, p. 271; DE ROBERTIS, Il diritto associativo romano (1938),
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pp. 356 sgg., 366 sgg.; da ultimo BOVINI, La proprietà ecclesiastica e la condiz. giuridica della Chiesa in età precostantiniana (1949). Sul montanismo SCHEPELERN, Der Montanismus u. die phryg. Kulte (1929); l'interesse si è rinnovato, di recente, anche in seguito a nuovi reperti (CALDER e GRÉGOIRE, « Buli. Acad. Royale Belg. », Ci. Lettres, 1952, p. 163). L'ideale teoretico
della divina monarchia è (come sempre sottolineammo nel corso di questo libro) un punto fondamentale; cfr. PETERSON cit.; ultimamente VERHOEVEN, « Vig. Christ. », 1951, p. 43. - Per l'enorme letteratura su Tertuiliano e Origene rimando ai trattati di patrologia e storia letteraria. La monografia più recente su Tertulliano è del SAJDAK (1949); vale anche la pena di ricordare EVANS, Tert. Treatise against Praxeas (1948); cfr., dello stesso autore, « Church Quarterly Review », 1944/5, p. 56; e le mirabili edizioni del De anima di WASZINK (1947), dell'Apologeticum della MOHRMANN (1951); anche MOREL, De Ontwikkeling van de christelijke overlevering volgens Tert. (1946); LABHARDT,
« Mus. Helv. », 1950, p. 159;
STIRNIMANN,
Die Praescriptio Tertullians (1949). Le indagini su Origene
devono ora tener conto delle nuove scoperte papiracee di Toura: SCHERER, Entretien d'Origène avec Héraclide et les évèques ses collègues sur le Père, le Fils et l'Àme (1949). Per Clemente d'Alessandria, CAMELOT, Foi e! Gnose (1945). « Dé saccord de la foi populaire et de la théologie savante »: LEBRETON, « Rev. hist. cccl. », 1923, p. 483. KARPP, Probleme altchristl. Anthropol. (1950). Cf. supra, §S 58-60; xxu; in/ra, App. "i. XXXI (cfr. §S 47-50) 0. TH. SCHULZ, Der ròm. Kaiser Caracalla (1909); REUSCH, Der bistorische Wert der Caracallavita in den SHA, « Klio », Beih. xxiv, 1931; HOHL, Ein politischer Witz auf Caracalla (« Sitzungsbb. Ben. Akad. », 1950); Das Ende Caracallas, eine quellenkritische Studie («Misc. Acad. Berol. », 1950). Tra i monumenti di interesse più attuale è il Geta di Cartagine (« Fasti arch. », 1951, n. 4003). - Una cognitio di Caracalla in Siria è in M1947, p. 182. Caratteri-
stico di Caracalla (così anche di Elagabalo e di Severo Alessandro) è il distinguersi come Aurellius (con due i) dai comuni Aurelii: DEGRASSI, « Ath. », 1921, p. 292. Anche nell'aspetto,
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Caracalla è brutale, assai più umano Geta: BUDDE, Jugendbildnisse d. Caracalla u. Geta (1951). Sui torbidi di Alessandria BENOiT-SCHWARTZ, « Ét. papyr. », 1948, p. 17. Sull'istituzione del foro suario cfr. la mia interpretazione dell'iscr. dell'Arco degli argentarii supra, 5 58. SS 48-49 - Sulla constitutio di Caracalla c'è grave contrasto di opinioni, ed enorme letteratura: cfr. per es. STROUX, « Phil. », 1933, p. 272; SHERWIN WHITE, The Roman Citizensh. (1939), p. 220; SCHUBART, « Aeg. », 1940, p. 31; A. SGRÈ, « Rend. Acc. Pont. », 1940, p. 181; « Riv. it. sc. giur. », 1948, p. 419; BELL, «Journ. Rom. St.», 1947, p. 17; ARANGIO Ruiz, « Buli. Inst. Egypte », 1946/7, p. 83; « Ann. Catania », 1947, p. 28; « Scritti giuridici in onore Carnelutti » iv, 1950, p. 53; SCHÒNBAUER, da ultimo in « Anzeiger \Viener Akad. », 1949, p. 343; 1951, p. 422 (a proposito del papiro della actio condicticia); « jura », 1950, p. 57; « Atti congr. int. dir. rom. », 1948 (1951), p. 105; DE VISSCHER, Nouv. ét. dr. rom. (1949), p. 51; WENGER, « Mél. de Visscher » ii, 1949, p. 521; RANOVIC, « Vestnik drevnej istorii », 1946, 2, p. 66; SHTAERMAN, ibid., p. 81; D'ORs, « Anuario de historia del derecho », 1944, p. 162; 1946, p. 5; TAUBENSCHLAG, da ultimo in « Journ. of jur. Papyrol. », 1951 (R. Authorities a. Local Law bel. a. alter the C. A.); « Zeitschr. Sav. St. », RA, 1952, p. 102; LUZZATTO, « St. doc. hist. et juris », 1951, p. 113. Il problema parte dall'interpretazione di P. Giss 40, in cui (nonostante SHERWIN WHITE, cit.; BICKERMANN, Das Edikt des K. C. in P. Giss 40, 1926) dobbiamo necessariamente vedere una riproduzione della Constitutio Antoniniana. Il punto essenziale è purtroppo lacunoso: iLtt ¶o[v]uv &r[aL -r]v oxoifrsv (= in orbe Romao n qui sunt, ULPIANO) [o).v]ELxv 'Pc,..txLcv []vov- o
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indica l'esclusione dei dediticii da qualcosa: secondo SCHÒNBAUER dalla continuazione dei loro rro tocr (mentre ottengono la cittadinanza), secondo altri dalla cittadinanza stessa. I secondi hanno certamente ragione: noi potremo constatare innanzi una circostanza a prima vista del tutto inattesa, che cioè ancora intorno al 500 d.C., diciamo tre secoli dopo Caracalla, c'è una netta distinzione, in Egitto, fra « Romani » ed [k]
[8s]t-txkv.
Qui
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« Egiziani » (la dimostrazione in/ra, § 91), e questa distinzione dovremo supporre molto probabilmente anche per alcuni indigeni gallici, ancora nel v secolo, e per indigeni di Mauretania ecc. (la dimostrazione in/ra, §5 91; 107-108; cfr. SS 59-60). In conseguenza, è chiaro che la costituzione di Caracalla, 'non estendendo il diritto di cittadinanza ai dediticii, lascia in condizioni di inferiorità tutti i peregrini considerati tali, cioè per es. i contadini egizi soggetti a laografia, i dediticii traiti (cfr. § 61) i laeti gallici indigeni (dunque non soltanto i laeti barbari) considerati dediticii, ecc. Che questi contadini dediticii fossero nell'impero in numero abbastanza notevole, è dimostrato, come già accennammo nel testo, dalla continuità dell'istituto della capitazione, che nello stesso in secolo finirà con l'estendersi a tutta la rusticana plebs, anche se donata di cittadinanza. Quanto alle conseguenze giuridiche della Constitutio, la discussione fra i romanisti parte soprattutto dall'opera classica di Mrrmis, Reichsrecbt und Volksrecht in den tistlichen Provinzen des rmischen Kaiserreiches (1891). I seguaci di MITTEIS (soprattutto ARANGIO Ruiz, locc. citt.; cfr. AMELOTTI, « Studia et documenta historiae et juris », 1949, p. 55)
considerano il diritto romano ufficialmente diffuso in tutto l'impero dopo la Constitutio, sicché i diritti popolari indigeni avrebbero resistito adesso in condizioni, per così dire, illegali. La dottrina opposta (SCHÒNBAUER) sostiene che i vari v6.tot iroXvrxo indigeni sarebbero rimasti con piena legalità accanto al diritto romano, e ciò può giustificarsi con l'integrazione 2 [p]évov'ro [ovò &wrò ro).vrc ccv (od anche dal tipo []vo'rro [notv-Tòq yvo'i 7co?.t -rcui] 4rav) nel PGiss 40; tale dottrina, in quanto insiste sulla continuazione dei vari iroÀvrEt acanto al romano, può anche chiamarsi « della doppia cittadinanza ». In linea di massima, possiamo constatare che la dottrina dell'ARANGIO Ruiz è assai più nel vero che quella di SCHÒNBAUER. Per dare un'idea dell'effettivo stato delle cose, noi porteremmo nel dibattito un testo trascurato, in cui l'autore, il quale scrive nel in secolo avanzato, dissuade il retore dall'elogiare (nelle composizioni volte ad esaltare le città) le leggi originarie e caratteristiche delle varie poleis: WILHELM,
accettata da
DE VISSCHER, WENGER, SCHÒNBAUER
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« questo elogio dei v6ot delle poleis è inutile, ai nostri tempi: le nostre leggi sono quelle comuni dei Romani; variano invece gli i (i costumi, mores), ed a questi il retore potrà far riferimento » (Rh. Gr. in, 363, 7). Allo stesso modo, l'autore riconosce che sarebbe interessante citare, per alcune poleis, le leggi originarie e tipiche riguardanti l'eredità, ma che tuttavia il retore non ne può tener conto perché ormai sono state eliminate dal diritto romano, && -rò -ro xOLvOt ypDoct 'Pxc v6.to (Rh. Gr. iii, 364 9 10 Sp.). Naturalmente, i cives Romani domo Roma (i quali ancora nel basso impero difendono i loro privilegi distinguendosi dai cives di origine provinciale come Ammiano) si continuano a contrapporre, fino a tutto il basso impero, ai cives Romani oriundi di altre civitates: ciò però non deve indurci a insistere eccessivamente sugli effetti giuridici di una eventuale « doppia cittadinanza Come nell'età repubblicana i cittadini dei più antichi municipi mantengono le loro istituzioni , e tuttavia si piegano al A.
Mi sia lecito rinviare a quanto osservavo in Dalla monarchia allo stato repubblicano (1945), pp. 255-256, a proposito dei municipia foederata come Capua: « naturalmente ciò (l'esistenza di un foedus tra un municipio, cioè una comunità di cives Romani, e
Roma) può ripugnare al nostro senso giuridico: nessuno può essere di due civitates, secondo la famosa formula ciceroniana... Ma ciò significa solo che l'incorporazione non è, in origine, distruzione dell'autonomia: e come ad Aricia resta un dictator » ( cioè si continua l'antico politeuma coi suoi ordinamenti, sebbene la città sia divenuta municipio), « così la città può considerarsi unita da un foedus » ( con Roma) « pur essendo composta di cittadini romani ». La storia di Roma è tutta storia di donazioni di civitas romana; ma nel mondo antico la civitas originaria non si cancella con un tratto di penna; e perciò è naturale che alcuni studiosi insistano sulla continuazione della civztas originaria (« doppia cittadinanza »), altri sulla portata rivoluzionaria della donazione di civitas. Solo un'adeguata valutazione di entrambi i momenti può -avvicinarci alla comprensione della storia romana. Cfr. le discussioni sull'epigrafe di Rhosos ricordate supra, § 20. - Per la ideale continuità delle leggi municipali cfr. la caracalliana [ex Lauriacensis (FlRAnteiust. i, p. 22; n. 26). Come nel basso impero resti vivo il senso della polis può mostrare (per citare un esempio fra mille) la famosa petizione degli incolae Orcisti sotto Costantino (FlRAnteiust. I, p. 461, n. 95). - Nel famoso passo di Arist., p. 108, 3 K. nrxoov xocì &p6tcvov corrisponde agli hominum capita stipendii causa ignobilzora di Tertulliano; ad esso si contrappone irowrtxv
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diritto romano, così nel iii secolo i nuovi cittadini romani, gli Aurelii, vedono nel diritto romano il loro diritto ufficiale, in cui tuttavia essi, più o meno coscientemente, introducono lo spirito del loro diritto; e anche per questa parte dobbiamo accogliere la dottrina di ARANGIO Ruiz. Quanto alla integrazione nel PGiss. 40, non si può dunque escludere la lettura Jci'rov yp[LJ -rc7v del tipo [I.L]&vovToc [rxv'r?è yfviu ma solo a patto di intendere, in tal caso, che ?C'tT, mentre sono rimangono le condizioni dei vari esclusi dalla cittadinanza (non già dalla continuazione dei to).LTtx) i dediticii provinciali (e a maggior ragione i dediticii barbari). Ma possono anche accogliersi integrazioni di tutt'altro genere come per es. quella ottima, proposta dal KEIL, « Anzeiger Wiener Akad. », 1948, p. 143 []évovo xp
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&v [c]crxk.v.
Per mio conto, se tfvovro ha - come si ritiene generalmente - un valore intransitivo, proporrei per es. [x]io'rro -r(7)v &pt &Lo [ocv ]rcav y. -r. si osservi che -ryoc è la parola tecnica (Gnomon Idiu Logu, § 55). Ma preferibilmente, dando a i.Wi un viore transitivo, proporrei [.t]évov'o [T03 &ou? 7ràv yévo y.tJck-rv y. -. &; o fors'anche, sempre dando a Avcù un valore transitivo, proporrei un'integrazione del tipo [.t]vov'roc [r& &pou? èv cp/ipn ]Frov xo.p[ì1 .:
'r7v [c]crtxkv (donatione civitatis spectante ad eos qui capitationern suam de/erunt dediticiis exceptis: il tributum ck'rcv: per es. App. Syr. 50). capitis o capitazione è p6po rv Poiché - secondo l'espressione del contemporaneo Tertul liano - hominum capita stipendii causa ignobiliora, l'imperatore si preoccupa di precisare quali dei sudditi (ir'xoot) potranno beneficiare della sua donatio civitatis e quali no; e chiarisce che potranno beneficiarne tutti i non-dediticii. È interessante notare che nel basso impero l'espressione capitatio indica, oltre che la capitazione in cui si continua il tributum
66puÀov, in cui vedremo i donati di civitas (o)vrtxv) o di Latinitas (6t6puov). - So bene che a molti apparirà assutda la presenza di peregrini dediticii in questo periodo (cfr. per es. KÙBLER, RE XIX, 942); ma il testo di Anastasio da me citato è assolutamente decisivo; in/ra, § 91. Cfr. supra, v, a proposito degli editti di Augusto a Cirene; xxvi, a proposito dei diplomi militari.
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capitis, anche il contributo del foraggio: annona e capitum si contrappongono, come anche annona e tributum; si penserebbe che nel iii secolo il tributum capitis si configurasse, in
alcune province, come prestazione del foraggio? Sull'antoniniano, da ultimo LE GENTILHOMME citato in/ra, LI. XXXII (cfr. § 51) La campagna partica di Caracalla (e la conclusione di essa sotto Macrino) è un momento cruciale nella storia dei rapporti fra lo stato romano di epoca severiana e il morente stato arsacidico, ora diviso tra i due figli di Vologese IV, in conflitto fra loro: dei due arsacidi, Vologese v e Arta bano v, quest'ultimo ha sostenuto la lotta antiromana con grande tenacia. Va rilevata, sebbene sorta da una tendenza storiografica ostile a Caracalla, la tradizione erodianea (iv, 11, 1-7) secondo cui Artabano v avrebbe ceduto alla richiesta di Caracalla di sposare la principessa arsacidica, e viceversa Caracalla stesso avrebbe improvvisamente spezzato l'accordo: è molto più probabile, invece, che Artabano abbia persistito nel diniego, com'è evidente dalla tradizione dionea, oppure che egli abbia proposto un compromesso che parve inaccettabile a Caracalla. Che Caracalla abbia concepito l'impresa partica in funzione della tradizione ellenistica, che si esaltava in Alessandro Magno, è comunque pacifico: sull'alta importanza della « idea di Alessandro » nell'opera di Caracalla - già rilevata da Erodiano (v, 7, 3) - cfr. BRUHL, « Mél. Èc. Rome », 1930, p. 202 (spec. p. 214);
ALTHEIM,
Weltgesch. Asiens im griech. Zeitalter
i, pp. 228 sgg. (cfr. Liter. u. Gesch. im ausg. Alt. i, p. 156; dove se ne trae conferma alla datazione « niebuhriana » dell'opera di Curzio Rufo nell'età dei Severi; cfr. però supra, § 24 e problematica relativa). Ciò non esclude l'importanza del fattore economico, confermata per es. dal confronto con Diocleziano (S 79). L'evidente tendenza di Macrino alla pace coi Parti è un tratto tipico della sua ostilità alla politica di Caracalla: ad essa va ricondotta l'accennata tradizione di Erodiano, sulla remissività di Artabano v nelle trattative con Caracalla (in Erodiano, lo stesso Macrino considera Caracalla come colui che ha spezzato gli accordi: iv, 14, 6). La caratteristica del
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governo di Macrino come espressione della borghesia (cfr. in/ra, XXXVIII; XLI) si deduce necessariamente dalla tradizione, per cui Erodiano può addirittura presentare, nella lettera di Macrino al senato, un « manifesto » in favore di un governo di imperatori xpcLrrov, contro lo eùyv)ég degli cpt&n aLXct degeneri (Herod. v, i, 7; cfr. ALTHEIM, Liter. u. Gesch. im ausg. Alt. i, 169) e altresì un manifesto per la correggenza di imperatore e senato (&.to. Sè axo,ròc i8fv -n 7roírrztv &veu r r&pc xotvco' - xo aUL3OtOU ijcv ¶ij r&)v &oxaeo). In Erodiano va anche rilevata - nonostante il suo giudizio negativo su Macrino - ?er es. la documentazione dell'opera di Macrino contro i delatori. Quel poco che si sa sulla sua politica rivela, comunque, un « corso » che dichiaratamente vuol opporsi alla tendenza autocratica di Caracalla; qualcosa che preannunzia il governo illuminato di Severo Alessandro. Ma la sua origine equestre ha oscurato tutte queste cose. Per l'interpretazione dell'orazione elQ ftxa&, cfr. specialmente la Storia econ. e soc. del ROSTOVZEV; la datazione all'epoca di Macrino in KEIL, « Nachr. Gòtt. Ges. », 1905, p. 381; all'epoca di Gallieno (identificazione col prosphonetikòn di Callinico) in DOMASZEWSKI, « Phii. », 1906, p. 344; di Filippo (identificazione col Presbeutikòn di Nicagora) in GROAG, « Wiener Stud. », 1918, p. 20, e nel citato ROSTOVZEV; cfr. l'inquadramento dello scritto in CALDERINI, pp. 255-256, e in OERTEL, « Cambr. Anc. Hist. » XII, p. 263 (i quali credono entrambi alla datazione nell'epoca di Filippo, oggi del resto comunemente accettata); ENSSLIN, « Cambr. Anc. Hist. » XII, p. 89. Io non escluderei altra datazione; in/ra, XLI.
-
Su Elagabalo monografia di XXXIII (cfr. §S 52-54) - Iconografia: L'ORANGE, « Symb. Osi. », 1940, p. 152. Su Severo Alessandro: JARDE', Ét. crit. sur la vie et le regne de Sév. Al. (1925). Per questo imperatore, il problema della veridicità della H. A. è più che mai difficile: giacché proprio nella sua Vita sembrano essersi introdotti, secondo BAYNES, The H. A., its Date a. Purpose cit., tipici tratti attinti alla
.BUTLER (1908).
Bibliografia e problemi
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figura di Giuliano l'Apostata. Importante
HÒNN, Quellenunters. zu d. Viten des Heliog. u. Sev. Al. (1911), il quale però, come allievo del VoN DOMASZEWSKI, pone l'Historia Augusta in
epoca barbarica, e dunque ritiene che il biografo attingerebbe al Codex Theod. come a fonte; laddove le concordanze tra H. A. e C. Th. vanno spiegate come un riflesso della legislazione di epoca stiliconiana (qualora si accetti la datazione data supra, xix; cfr. g 99; Aspetti sociali [1951], cap. vii). Severo Alessandro e il giudaismo (il problema va inquadrato nella politica giudaica di questo periodo: cfr. per Settimio Severo, supra, § 46; mentre per Severo Alessandro è caratteristico il sincretismo del suo lararium; cfr. App. II): da ultimo GAGÉ, « Mél. Cumont », p. 159. L'unica cappella cristiana precostantiniana sicuramente datata ci riporta all'epoca della guerra persiana (o subito dopo) di Severo Alessandro: è la casa di culto di Doura Europos (232-233), su cui per es. SESTON, « Ann. de 1'&cole des Hautes Études de Gand », 1937, p. 161; ROSTOVZEV, Dura Europos a. its Art (1938); GRÉGOIRE, « Byz. », 1938, p. 589; BoviNi, La proprietà ecclesiastica, 1949,
Per la prefettura al pretorio nell'epoca severíana cit., p. 23. in genere, cfr. la letteratura generale data sopra; in particolare si discute su Vita Alex. Sev., 21, 3-5, Praef. . praetorii suis senatoriam addidit dignitatem ut viri clarissimi et essent et dicerentur idcirco senatores esse voluit prae f . praetorio ne quis non senator de Romano senatore iudicaret. Cfr. da ultimo i miei Aspetti sociali (1951), p. 357; inf ra, XXXVIII: Sul Feriale Duranum, ed. da FINK-HOEY-SNYDER, « Yale Class.
St. », 1940, cfr. ultimamente NoCK, « Harv. Theol. Rev. », 1952, p. 187; supra, 5 19; STERN, Date et destinai'. de l'H. A. (1953), p. 52. (MOMIGLIANO, « Journ. of the Warbourg a. Courtauld Inst. », 1954, p. 40.) XXXIV (cfr. § 56) Un'interpretazione dei conflitti romano-persiani nel quadro della « storia universale » in ENSSLIN, « Neue Jahrbb. », 1928, p. 399. Fond. CHRISTENSEN, L'1 ran sous les Sassanides (1944 2 ). Per l'idea di xvaranah presso i Sasanidi, PAGLIARO, « At. e Roma », 1939, p. 171 (pei precedenti partici cfr. supra, g 25; i x ); il PAGLIARO pro-
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La crisi dello stato antico
pone influsso sasanide per il passaggio dagli atti in prima persona al pluralis maiestatis.
Un problema, che meriterebbe d'esser sempre più approfondito pel suo confronto coi rapporti chiesa-stato nell'impero romano cristiano, è costituito, nello stato sasanide, dai rapporti fra gli scritti teologici e la letteratura « nazionale » (< storia »): coincidono,, essi, coi rapporti tra la « Chiesa » zarathustriana e l'aristocrazia sasanide? e fino a che punto? Sull'arte sasanidica, si confronti per es. ROSTOVZEV, « Yale Class. St. », 1935, p. 153; ERDMANN in SCHAEDER, « Der Orient in deutscher Forschung », 1944, p. 178; « Saeculum », 1950, p. 508. Artisti iranici nella sinagoga di Doura Europos: ultimamente PAGLIARO, « Rend. Linc. », 1953. XXXV (cfr. SS 55-59) Per Severo Alessandro, cfr. letteratura a xxxiii sulle corporazioni; supra, 5 58; in/ra, LI. Per la storia ecclesiastica, si rimanda alla letteratura, più volte citata, sul cristianesimo e sui Papi, come anche alle patrologie. « L'enigma di Ippolito » (BARDY, « Mél. Science Religieuse », 1948 1 p. 63) è ora accentrato sulla disputa intorno alla teoria di NAUTIN (Hippolyte et josipe [1947]; Hippolyte, Contre les hérésies [1949]), che dà ad un Josipe (che si identificherebbe con il personaggio della statua trovata nel 1551 tra la Nomentana e la Tiburtina) l'Elenchos, la Cronaca (del 222), il De Universo; cfr. anche CAPELLE, « Recherches de Théologie anc. et méd. », 1950, p. 145; BOTTE, ibid., 1951, p. 5; RICHARD, « Mél. Science Religieuse », 1950, p. 237; 1951 ) p. 19; OGGIONI, « Scuola cattolica », 1950, p. 126; per lo storico ha sempre grande importanza K. J. NEUMANN, Hipp. in seiner Stellung z. Staat u. Welt (1902); cfr. anche ,
D'ALÈs, La Théol. de S. Hipp. (1906); DoNINI, Ippolito di Roma (1925); CECCHELLI, « Sardegna Romana » ii, 1939; HAMEL, Kirche b. Hipp. (1951). - Un'idea della impor-
tanza degli interessi teologici nell'ambito della comunità romana - interessi che si estendono per tutto il iii secolo, da Ippolito a Novaziano e oltre - può dare il « piccolo compendio di teologia » nelle epigrafi del mausoleo dei Valerii (GuAlwuccr, Cristo e S. Pietro in un documento
Bibliografia e problemi
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precostantiniano della necropoli Vaticana [19531); forse del
315 circa? comunque, eco più o meno lontana delle dispute teologiche del iv sec.; cfr. in/ra, App. III; S 98. XXXVI FONTI E RICERCHE SUL PERIODO 235-268 (SS 58-65 del testo) Erodiano finisce la sua trattazione col 238; da questo anno in poi, dobbiamo rifarci, dunque, alla H. A., senza possibilità di confrontare con Erodiano né con Cassio Dione (la cui opera arriva al 229). Per il periodo di Massimino, su cui possiamo ancora confrontare la H. A. con Erodiano, si può tuttavia notare che la H. A., attinge, sì, a Erodiano, ma solo indirettamente. Cfr. per es. Tyranni XXX 32, 1-3:
docet Dexippus, nec Herodianus tacet, omnesque qui talia legenda posteris tradiderunt, Titum, tribunum Maurorum, qui a Maximino inter privatos relictus fuerat, timore violentae mortis, ut illi dicunt, invitum vero, et a militibus coactum imperasse. Qui dunque, a proposito dell'usurpazione di Tito
(Quartino) sotto Massimino la HA. cita non solo Erodiano, ma anche l'altro storico greco Dexippo, autore di una cronaca fino al 270. Ma se il compilatore della H. A. avesse veramente avuti presenti, direttamente, Dexippo ed Erodiano, non si sarebbe contentato di dire - dovendo dedicare, nelle vite dei Tyr. triginta, una sia pur piccola, ma, com'egli stesso vuole, verbosa, monografia su Tito - docet Dexippus nec Herodianus tacet; avrebbe notato la divergenza fra Erodiano (che chiamava l'usurpatore Quartino) e Dexippo (che lo avrà chiamato Tito, o forse Tizio). Così pure, la Maximini duo (13, 4) rimprovera Erodiano di parzialità per Massimino (qui ei, quantum videmus, in odium Alexandri plurimum favit), parzialità che in Erodiano nessuno mai potrà onestamente riscontrare, e che l'autore della H. A. ha ricostruita, dunque, per aver frainteso qualche citazione. Certo, Erodiano non ha mai accusato Massimino di avere ucciso Severo Alessandro (per Erodiano, l'uccisione fu opera di tribuni). Ma questa non era parzialità in favore di Massimino; se mai, anzi, prudenza e diligenza di storico; sicché, quando la vita Maximini ci avverte che Alessandro fu ucciso subito immissis militibus, ut quidam aiunt, ab ipso (Maximino), ut alii, a tribunis barbaris, potremmo vedere nella seconda tradizione (a tribunis
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Parte I V .
La crisi dello stato antico
barbaris) la versione che parte da Erodiano, nella prima (ab ipso Maximino) la versione che si collega a Dexippo; Dexippo era più avverso a Massimino? Per il periodo posteriore a Massimino, la H. A. risale a Dexippo (indirettamente) e,
sempre, alla « storia imperiale dello Enmann » (cfr.
MANNI,
Trebellio Pollione, Le vite di Valer. e Gall. [ 1951 ] ); ma è
giustificato, grosso modo, il vecchio giudizio, secondo cui questa serie di vite vale meno delle prime. Delle altre fonti pervenute, si ricordi Zosimo, 1. i (fino a Carino), che parzialmente attinge a Dexippo; i manuali (Aurelio Vittore; Eutropio; Festo; epitome de Caesaribus; sempre il libro vII di Orosio, che unifica storia civile ed ecclesiastica); i bizantini (Malala, Sincello da Dexippo —, Cedreno, Zonara). Delle fonti primarie, perdute, è fondamentale il già ricordato Dexippo (FGrHist ii, p. 453). Gli escerti maiani di Pietro Patricio ed. in appendice al Cassio Dione (vol. III) del BoI s SEVAIN. Fondamentale Su Iordanis cfr. ENS S LIN citato in f ra, xxxvii .la Storia ecclesiastica di Eusebio: va, nel vi libro, dai Severi a Decio; nel vli, dalla « malvagità di • Decio e Gallo » (si noti anche Gallo, in cui vedremo il personaggio commodianeo qui liberet senatum), a Numeriano, con cenni a Diocleziano. Per i testi letterarii cristiani, si ricordino Dionisio di Alessandria (cfr. § 67), Gregorio Taumaturgo, Ippolito, la Didascalia, Giulio Africano; Cipriano, Novaziano, Commodiano; domina sempre, per gran parte di questo periodo, la forte personalità di Origene (cfr. DE LUBAC, Histoire et Esprit [ 1950 ] ; BERPer i testi TRAND, Myst. de Jésus chez Orig. [1951]). giuridici in f ra, XLIX. In generale, sul periodo da Massimino a Gallo, cfr. DE La crisi del III secolo dalla morte di Severo Alessand ro all'avvento di Valeriano (1945). Si ricordino le già
REGIBUS,
più volte ricordate opere generali: per es. il CALDERINI e il PARKER; soprattutto importanti i contributi di ALF5LDI e di OERTEL nella « Cambr. Anc. Hist. », XII. Per la ritrattistica del III secolo cfr. da ultimo BOVINI, « Mon. Ant. Linc. », 1943. Per la composizione del senato, letteratura supra, xxvli; e si aggiunga, per il periodo da Filippo a Numeriano, PARI S IU S , Senatores Romani qui luerint a. 244-284 (1916). La Storia econ. e soc. del RoSTOVZEV ha il suo centro nell'interpretazione
Bibliografia e problemi
di questo periodo. Cfr. ora
619 PRAUX, «
Chron. Ég. », 1941,
p. 123; DE ROBERTIS, La prod. agr. in Italia dalla crisi del
III secolo all'età dei Carol. (1948); SHTAERMAN, « Vestnik drevnej istorii », 1948 (contrapposizione fra le condizioni sociali di Gallia e di Africa); ALPATOV, « Vcprosj istorii », 1949.
Una rivolta gallica già sotto Decio (Eutr. ix, 4). - C'è appena bisogno di dire che questo periodo prepara, sotto tutti i punti di vista, e nonostante la grave crisi, l'evoluzione ulteriore. Per es., l'indagine moderna ha sottolineato l'importanza del concetto della divinità comes dell'imperatore: ENSSLIN, Gottkaiser ecc., cit.; NOCK, « Journ. Rom. Studies », 1947, p. 102; e supra, § 73; inoltre xxiii; xxvi; LI. - Sulla storia culturale e la diffusione dell'ideale filosofico, cfr. in/ra, xi.ix e App. iii. XXXVII (cfr. SS 60-61) Lo studio della personalità di Massimino il Trace si è accentrato, negli ultimi tempi, intorno alla sua origine: mentre ALTHEIM ha sempre ribadito (da ultimo in Niedergang d. alter Welt li, 1951, p. 294) la sua origine da padre goto e madre alana, secondo una tradizione rappresentata dalla Historia Augusta e dalla Historia Romana di Simmaco, viceversa ENSSLIN, « Rh. Mus. », 1941, p. 2; « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1948, H. 3 (su Sirnmaco fonte di lordane) e HOHL, « Klio », xxxiv, p. 277 (cfr. anche HARTKE, Kinderkaiser, pp. 103, 5) considerano assurda la notizia della Historia Augusta. Discussione supra, § 61. - BERSANETTI, Studi sull'imp. Massimino il Trace (1940) (cfr. BARBIERI, « Epigr. », 1942, p. 88, rec.); « Riv. fil. class. », 1942, p. 214; Di SPIGNO, « Rend. Acc. Linc. », 1948, p. 123. Si discute sulla tradizione, secondo cui Massimino non avrebbe consultato il senato per la convalida dell'elezione: il libro fondamentale sul rapporto imperatore-senato è O. TH. SCHULZ, Vom Prinzipat zum Dominat (1919); cfr. BERSANETTI, op. cit. PFLAUM, Le marbre de Thorigny (1948); cfr.
CARCOPINO,
« Rev. ét. anc. », 1948, p. 336.
XXXVIII (cfr. SS 61-62) Sul bellum Aquileiense contro Massimino; cfr. A. STEIN, « Hermes », 1930 3 p. 228; THE0DORIDES, « Latomus », 1947, p. 31.
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Il prefetto al pretorio di Pupieno è Pinarius Valens, patruelis (S 6 , , n. 56) di Pupieno: il nomen Pinarius, anziché Clodius, non può meravigliare, essendo frequenti più nomina nelle famiglie senatorie di questo in secolo.. (Questa polionimia deriva dall'inserzione dei nomina di . ascendenti da parte maschile come da parte femminile: DOER, op. cit.) Comunque, la notizia della vita Max. Balb. sulla prefettura pretoriana di Pinarius Valens è molto buona, connessa com'è (4, 4) alla sicura notizia della prefettura urbana di Sabinus; e d'altra parte, essendo Pupieno di indiscussa nobiltà senatoria (su questo punto il contemporaneo Erodiano è certamente da pref erire alla polemica vita Max. Balb.), ne deriva che anche il suo patris t prefetto al pretorio era senatore: il che ben s'inquadra nella nostra ricostruzione degli avvenimenti del 238. Generalmente (DOMASZEWSKI; A. STEIN; PAS SERINI ecc.) si considera Edinio Giuliano come prefetto al pretorio del 238. Questa ipotesi è però discutibile, come vedremo fra poco. Se mai Pinarius Valens avesse avuto un collega (il che non sembra probabile, se stiamo alla lettera della vita Max. Balb. 4, 4, dove è menzionato da solo; diversamente che per es. Giuliano e Cresto nella vita di Severo Alessandro), dovremo pensare al Domizio di Aur. Vict., De Caess. 26, 5. La nostra interpretazione storica a § 60 presuppone una notevolissima ripresa di intransigente orgoglio senatorio contro l'ordine equestre: ripresa evidente, per es., dall'indignazione dei senatori contro l'avvento all'impero di uomini come il prefetto al pretorio Macrino (che pur era sinceramente devoto al senato) o, peggio, di un soldato come MF ssimino. Proprio per reazione contro l'avvento di un cavalier c. come Macrino, già Cassio Dione aveva sottolineato, da buon senatore, che l'imperatore deve essere sempre estratto dal senato, e che l'unico errore — -ma gravissimo di Macrino consiste nell'aver spezzato questa tradizione indiscussa e indiscutibile. A maggior ragione, questo risveglio della dignitas senatoria si era fatto sentire ora, nel 238; e perciò l'avvento di Gordiano In Augusto dopo l'uccisione di Pupieno e Balbino va interpretato come un compromesso fra il senato, che ha ottenuto, così, un augusto-senatore, e le coorti pretorie, che hanno imposto prefetti al pretorio di estrazione equestre. Ritorna comunque,
r
Bibliografia e problemi
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ora, quel contrasto senatori-cavalieri, alla luce del quale interpretammo (cfr. anche App. i) molti aspetti dell'epoca giulioclaudia; ritorna, dopo la parentesi di composta concordia che aveva caratterizzato l'impero umanistico. In realtà, il problema del rapporto senato-prefettura pretoriana aveva due soluzioni. La prima: avvicinare il prefetto al pretorio, sempre scegliendolo tra i cavalieri, ai senatorii: cioè farne un vc. in via esclusivamente titolare (concessione di insegne pretorie o di ornamenti consolari: concessione, quest'ultima, che qualche« rivoluzionario » come Plauziano inten deva come un consolato; di fatti, Plauziano considerava « secondo consolato » il suo consolato vero e proprio) oppure in via effettiva (concessione effettiva del consolato durante la prefettura, come nei casi di Seiano, Plauziano, cos li, Comazon; concessione del consolato dopo la prefettura; generica adlectio nel senato, dopo la prefettura). La seconda soluzione: scegliere il prefetto al pretorio tra i senatori. Questa seconda soluzione, del tutto anomala e in contrasto estremo coi principii augustei, fu prima sperimentata dai Flavii (ma in casi eccezionali, sicché non si può parlare, per essi, di « vittoria del senato », ma piuttosto di compromesso fra senato e cavalieri, nelle persone dei prefetti Clemente o Tito); fu poi sperimentata in questo tormentato 238 (ma senza successo, per l'opposizione dei pretoriani: come mostriamo nel testo), essa trionfò infine, in alcuni casi, nel basso impero in cui (come vedremo trattando del iv secolo) le prefetture pretoriane di un Probo o di un Nicomaco Flaviano ecc. si inquadrano nella « vittoria del senato » per alcuni aspetti della militia civile del basso impero. - Quando la Historia Augusta parla della concessione del clarissimato ai prefetti pretoriani di Severo Alessandro, ut viri clarissimi et essent et dicerentur, e pone tale concessione sul piano di quella « vittoria del senato » che fu tipica nei citati casi del iv secolo, essa può aver ragione in qualche punto. Voglio dire che può aver ragione, nel senso che il cavaliere Domizio Onorato, prefetto d'Egitto nel 222, e poi nel 223 prefetto al pretorio, avesse non soltanto il rango titolare di vir clarissimus (attestato per lui dall'albo di Canusio, nel 223) ma -anche l'effettiva appartenenza al senato, per adlectio in amplissimum ordinem: sicché Domizio Onorato non solo diceretur ma anche
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esset v.c. Tutto ciò, per Domizio Onorato, è però indimostrabile. Ma la Historia Augusta sembra alludere, secondo me, a casi come Edinio Giuliano, del quale è certo che fu legatus Augusti nella Gallia Lugdunense e poi prefetto al pretorio;
siccome un Edinio Giuliano fu anche prefetto di Egitto subito dopo Domizio Onorato, e siccome in questo periodo la prefettura al pretorio è spesso data a ex prefetti d'Egitto (così nei casi di Geminio Cresto e Domizio Onorato, entrambi prefetti al pretorio sotto Severo Alessandro), così troveremo naturale che Edinio fosse prefetto al pretorio poco dopo (o subito dopo) la prefettura egiziana, e che egli succedesse a Domizio Onorato nella prefettura pretoriana, come già gli era successo nella egiziana.. Ad ogni modo, il caso di Edinio era ancor più « senatorio » di quello di Domizio, perché Edinio aveva già fatto una carriera senatoria (legazione della Lugdunense), essendo dunque v.c. prima della prefettura pretoriana (come v.c. appare anch'egli, nell'albo di Canusio, pel 223). Nel caso di Edinio, dunque, Severo Alessandro sarebbe già ricorso a quella che noi chiamammo la « seconda soluzione »: soluzione che poi il senato applicò in maniera più energica nel 238, con la nomina di un uomo di autentica nobiltà senatoria, patris t di Pupieno. Comunemente, si suole porre nel 238 la prefettura di Edinio. Anche in questo caso resterebbe il fatto essenziale: che « nei 99 giorni » di Pupieno e Balbino un senatore vero e proprio fu nominato alla prefettura pretoriana. Ma bisognerebbe ammettere uno strano « salto » nella carriera dì Edinio, dal 222-3 (prefettura d'Egitto) al 238; inoltre, la notizia della H. A. sulla nomina di Pinarius Valens è molto buona, come già dicemmo. (Per altre soluzioni e letteratura sulla carriera di Edinio cfr. soprattutto, da ultimo, PFLAUM, Le marbre de Thorigny [1948], cit.; BARBIERI, L'albo senatorio [J952], cit., n. 923; HowE, T he Pret. Pre f . [ 1942], p. 76; A. STEIN, Die Prà f . v. Àg. [1950], p. 27. Cfr. supra, § 61, n. 56; ed inoltre i miei Aspetti, pp. 357 sgg.). Le critiche essenziali alla dottrina centrale della Storia del il III secolo come epoca della lotta del proleRoSTOVZEV sono tariato contadino-militare contro la borghesia cittadina state svolte nel nostro testo a più riprese (soprattutto a proposito del periodo che seguì la morte di Commodo e della
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rivolta dei Gordiani contro Massimino il Trace), e sono presupposte, del resto, nella nostra interpretazione dei riflessi sociali della Constitutio di Caracalla. Qui vale la pena di aggiungere che proprio la importante petizione dei vikani Greseiti a Gordiano in (C III, 12336; SIG 888) come la petizione degli Aragueni ai Filippi (C iii, 14191; OGIS 519) mostrano il conflitto evidente tra gli interessi dei contadini e quelli dei soldati: sono tx'rtot. di contadini contro le requisizioni militari; e opportunamente illustrano il passo di Erodiano da noi citato a § 61, secondo cui « parenti e famigliari (dunque contadini) ingiuriavano i soldati » ecc. XXXIX (cfr. § 62) L'interpretazione che qui è suggerita della progressiva barbarizzazione dell'esercito romano è derivata, oltre che dalle fonti citate nel testo, soprattutto dalle Res gestae del re sasanide Shahpur, grande iscrizione scoperta nella Kasbaa di Zoroastro a Persepoli. Qui Shahpur celebra, nella maniera dei re parti (supra, § 25), le sue imprese. Egli ha vinto gli imperatori e gli eserciti dei romani. La nostra ricostruzione della leva compiuta da Gordiano iii parte dalle Res gestae di Shahpur, 11. 6-7: Fop&vò Kxaxp &rò 7r(X'a-rjg -i Fo'cv -re xx Fcpivv &&vv (&vaq.tv) & (x)'Pcùtcxkov &p [x-réXc?]sv (&xrr&Xcv RosTovzEv): dove non vedo altra
traduzione possibile che « levò da tutto l'impero dei romani e dalle popolazioni dei Goti e dei Germani un esercito »; qui equivale ad esercito, come più innanzi a 1. 23, e si riferisce all'esercito regolare, levato dentro i confini dell'im pero, come anche all'esercito di federati, fatti venire dalla libera Gotia e Germania. Viceversa, il ROSTOVZEV (« Berytus », 1943, p. 22) ha visto nei I'oov Xd Tptocvv vi le unità dell'esercito danubiano e renano, escludendo che si tratti di effettivi barbari mercenari. Tale interpretazione del ROSTOVZEV è certamente inaccettabile. Innanzi tutto, il tono del passo si presta alla traduzione data sopra, e solo ad essa: perché &vc73v potrebbe dipendere da &nò come da vpv; ma una dipendenza da Súvoq.tLv è esclusa perché il concetto « raccolse da tutto » (dunque anche da province come per es. la Spagna o la Mauretania: cfr. 11. 20 sgg., per Valeriano) « l'impero
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romano un esercito di genti gote e germane » non avrebbe senso, in quanto le genti gote e germane non stavano disperse per tutto l'impero (del resto, una tale traduzione - per altro impossibile - sempre dovrebbe vedere in Goti e Germani veri e propri soldati di nazionalità - & v7v - barbarica). Resta allora una sola possibilità: far dipendere &v7v da &rr6: le truppe di Gordiano in sono raccolte per una parte da tutto l'impero, per un'altra parte dalle gentes (&Dvcòv: il traduttore greco qui usa il termine in un senso che può chiarire l'evoluzione semantica, in latino « militare », di gentes e gentiles; laddove a 1. 12 egli usa ''C.',gvrìug in senso più generico) gotogermaniche. Siamo così ricondotti alla traduzione da noi proposta. Inoltre, a ROSTOVZEV Si può opporre che la barbarizzazione dell'esercito già sotto Alessandro e Massimino è attestata da Erodiano, specie nei passi viii, 2, 1 (cfr. vi , 7, 8) e viii, 1, 3, su cui abbiamo fondato la nostra ricostruzione nel testo; e dunque a torto il ROSTOVZEV l'ha minimizzata ed esclusa (cfr.
ENSSLIN,
Zu den Kriegen des Sassaniden Scha pur I,
« Sitzungsberichte d. Bayer. Akad. d. Wissenschaften », 1947, H. 5, p. 95 [il quale, pur considerando ansprechend la dottrina di R0STOVZEV, sembra tuttavia in certo modo limitarla, nella n. 11; « Grundlagen u. Grundfragen d. europ. Gesch. », 1951, p. 23). Questa interpretazione del testo di Shahpur è inoltre confortata dal tono stesso usato dal monarca, il quale vuole distinguere da una parte le forze raccolte &&) irai r45c dall'altra le forze raccolte dai ,gentiles goti 'P().LO)) e germani. Naturalmente, un greco più preciso avrebbe preferito xcxì &irò Fov -vt xxì la formula &rrò rcai 'Pcwxicv &p Fcpvv &w7v: ma non possiamo chiedere eccessive finezze al greco di Shahpur; il TE. che in buon greco congiungerebbe solo Fo'Oav e Fi.xv7v. è equivalente, nella lingua di Shahpur, ad un xczì dopo cpy. Se vogliamo intendere meglio il rapporto &7rò n4a7,9 'Pc.tkv Mpxng - I.Trò Fo&cv TE xOù Fcpixv&v g'vcxLLv. possiamo approfondire il confronto con il resoconto della leva di Valeriano a 11. 20-23 delle Res gestae; l'elenco della origo delle truppe di Valeriano si inizia con l'indicazione && Fcpp.xvTv 9avouq (dove, ancor una volta, vou in certo modo risponde al concetto tardo-romano di gens o gentiles); segue l'indicazione delle regioni dell'impero
Bibliografia e problemi
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in cui si è compiuto l'arruolamento (Rezia, Norico, Dacia, Pannonia, Misia, Amastria, Spagna, Zeugitana, Tracia, Bitinia, Asia, Campania, Siria, Licaonia, Galazia, Licia, Cilicia, Cappadocia, Frigia, Siria [it arruol. ], Fenice, Giudea, Arabia, Mauretania, Germania, Lidia, Asia, Mesopotamia); anche stavolta la parola « esercito » è indicata con vxiav. Mancano i Goti; e ben s'intende, ché all'epoca di Valeriano questi gentiles non erano più federati; laddove federati erano all'epoca di Gordiano In, e in tale qualità potevano arruolarsi come gentes. L'elenco delle province romane in cui si è verificato l'arruolamento è dato da Shahpur secondo l'ordine in cui l'arruolamento si verificò: dal che si deduce che esso cominciò in Rezia. Per i Germani al servizio romano cfr. anche letteratura a XXIV; XLVI.
RG di Shahpur: ultimamente PUGLIESE-CARRATELLI, « La parola del passato », 1947, pp. 209-356; ENSSLIN, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1947, H. 5, cit. (Sono ora apparsi due scritti assai notevoli: GAGÉ, « Buil. Fac. Lettres Strasb. », 1953; MARICQ, Recherches sur les Res gestae divi Saporis [1953]. Un problema da risolvere resta sempre quello della prima conquista di Antiochia.)
XL (cfr. S 63) OLMSTEAD, « Class. Phil. », 1942. p. 254. Per il manicheismo cfr. in generale l'articolo di POLOTSKY, Manichàismus in RE, Suppi. VI, 1935, una rivoluzione nella ricerca hanno portato i Kephalaia in copto (ed. POLOTSKYSCHMIDT, 1935-1940). Dell'enorme letteratura precedente e seguente alla scoperta dei Kephalaia: DE STOOP, Essai sur la diffusion du Manichéisme dans l'emp. rom. (1909); CUMONTKUGENER, Rech. sur le man. 1-111 (1908-1912); ALFARIC, Les écrit. man. i-ri (1918-19); SCHEFTELOWITZ, Die Entstehung d. manich. Rei. (1922); VON WESENDONK, Die Lehre des Mani (1922); BURKITT, The Rei. o/the Manichees (1925); MESSINA, Cristianesimo Buddhismo Manicheismo nell'Asia ant. (1947); PUECH, Le Manichéisme, son fondateur, sa doctrine (1949); SÀVE SÒNDERBERGH, Studies in the Coptic Manichaean Psaimbook (1950); SESTON nelle « Mél. Dussaud », 1938. Cfr. supra,
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in/ra, XLIX. Per l'epoca della diffusione nell'impero romano, da ultimo ALTHEIM, Niedergang d. alten Welt ii (1952), 445, 119.
XXII;
XLI (cfr. § 64) Sulla persecuzione di Decio: GREGG, The Decian Persecution (1897); SCHOENAICH, Die Christenver/. d. Kaisers Decius (1907); P. M. MEYER, Die libelli der decianischen Christenver/., « Abb. Ben. Akad. », 1910; FRONZA, «Ann. Triestini », 1951; 1953. Hanno certamente torto quegli studiosi (per es. BLUDAU, Die iigyptischen Libelli u. die Ver/olgung d. K. Decius [19311), i quali sostengono che l'editto fosse rivolto ai soli Cristiani; in un impero ormai largamente cristianizzato, non era possibile distinguere i « soli » Cristiani dalla grande massa (per lo meno in Oriente): supra, §5 63; 70. Sull'epideixis eíq 3oc)&, e sulla sua datazione, cfr. letteratura supra, XXXII: è stata datata sotto Macrino, sotto Filippo, sotto Gallieno; l'opinione oggi dominante - datazione all'epoca di Filippo - si ronda, soprattutto, sul motivo della pace coi Persiani. Tale argomento è, senza dubbio, assai valido. Tuttavia, io proporrei una datazione sotto Decio, nella prima metà del 250 (in ogni caso, prima che si estendesse il cesarato anche al secondo figlio di Decio). L'imperatore della è un tradizionalista, il quale ritorna alla 'E? vcv ix6c (contro una tendenza a lui precedente) e ravviva la religiosità pagana (vv xxL vypc p p&rcpo xii) così come la più rigida disciplina militare: tratti che forse non si addicono all'« arabo » e filocnistiano Filippo (per la politica culturale si cfr. C.I. X, 53, 3), largo di donativi ai soldati, orgoglioso della sua famiglia (aveva consacrato il padre). Quanto alla pace coi Persiani, già il solo fatto che Decio dovette confermarla (egli conserva l'ideale di pax del suo predecessore: RIC iv, 3, p. 126) potrebbe giustificare l'insistenza dell'e pideixis su questo motivo; del resto, l'epideixis avverte che i Romani non rinunziano alla loro influenza nel territorio &ov Ecpp.-rou ore xcx Typiro &7v&xctvcx 7rpòg &v - o? oxe (un preludio alla crisi della pace - xxì
6
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iroacv, nelle Res ,gestae divi Saporis - e all'&yy di Shahpur nel 252, durante l'impero di Treboniano Gallo); del resto,
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non è escluso che già sotto Filippo l'Arabo si fossero in qualche modo delineate quelle complicazioni, cui allude - in un passo, purtroppo molto discutibile - lo storico Zonara (xiii, 9). Inoltre, il concetto che bisogna combattere con le armi cOc 61oou come i barbari, potrebbe essere un'oscura allusione alla battaglia di Verona. Ad ogni modo, resta assodato un punto, su cui bisogna insistere: gli ideali di impero illuminato propugnati nella epideixis sono gli ideali dell'impero di Decio; le classi tradizionaliste, addolorate per la crisi della 'E)ivù.v (i.éw rv 'E».,vcùv t8eo ) , chiedevano una restaurazione; anche se l'imperatore della epideixis fosse Filippo l'Arabo, anziché Decio, sarebbe sempre significativo questo « decianismo » ante litteram in una epideixis rivolta al suo predecessore, di tendenze assolutamente diverse. Ci avviamo all'epoca dei sarcofagi filosofici, alla democratizzazione dell'antico ideale di cultura: la persecuzione di Decio è una difesa delle forme pagane di quell'ideale antico; la famosa « censura » di Valeriano sotto Decio ne sarebbe un aspetto costituzionale. - In genere, sulle persecuzioni da Decio a Gallieno, ALFÒLDI, « Klio », 1938, p. 323. XLII (cfr. § 65) Sull'acclamazione di Valeriano: BERSANETTI, « Riv. fil. class. », 1948, p. 257; in senso opposto, MANNI, « Riv. fu. class. », 1947, p. 106; « Epigr. », 1949, p. 3. Una caratteristica fiscale della persecuzione di Valeriano è abbastanza probabile, se contenuta entro i limiti in cui la formula, per es., ZEILLER in FLICHE-MARTIN ii (1946), p. 153 (« peut-étre aussi les grandes richesses qu'on attribuait à l'Église - excita-t-elle des convoitises, en une période où l'Empire passait lui-méme par une grave crise économique »). Tale interpretazione economica è svolta, da ultimo, in GRÉGOIRE, Les perséc. dans l'emp. rom. (1951), p. 48: questi rileva la circostanza che la persecuzione fu ispirata dal rationalis Aegypti Fulvius Macrianus (il padre dei due imperatori Macriani sotto Gallieno), e che nel secondo editto si insiste sulla confisca dei beni ai senatori (senza che si dica che i beni saranno restituiti agli eventuali senatori apostati: da ciò il GRÉGOUE deduce che in effetti i beni non venivano restituiti neanche in caso di apostasia); GItÉGoI1u confronta con la persecuzione
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antisemitica di Mussolini. Ma, al solito, non si devono escludere i motivi propriamente religiosi: Valeriano avrà pensato che i mali dell'impero erano pur dovuti alla decadenza del culto ufficiale degli dèi; e sarà stato - ben d'accordo con Macriano che, se alcuno doveva, anche finanziariamente, pagare, costui doveva ben essere cercato fra i maggiorenti della chiesa e gli uomini di fede cristiana della classe dirigente. Personalmente, egli non avrà avuto grandissima simpatia per il cristianesimo: Augusta in pace di Salonina una orientale non può applicarsi a Valeriano suo suocero; se mai, può illuminare la posizione di Gallieno, suo sposo. Per l'identificazione di Valeriano col Nero redivivus commodianeo, ultimamente, GRI GOIRE, « La nouv. Clio », 1950, p. 354. Viceversa, la datazione di Commodiano al iv secolo da ultimo in ALFÒLDI,
Die Kontorniaten (1943), p. 61; COURCELLE, Hist. litt. des inv. germ. (1948), p. 127. La nostra interpretazione è giustificata nel testo, a § 67. LOPUSZANSKI, La date de la capture de Valérien et la chronologie des empereurs gaulois (1951). XLI I I (cfr. § 66) Sulla personalità di Gallieno: DE REGIBUS, « Historia », 1935, p. 446; La monarchia militare di Gallieno (1939); MANNI, L'impero di Gallieno (1949) (cfr. « Epigr. », 1947, p. 113). Cfr. ALFÒLDT, « Num. Chron. », 1929, p. 218; « Fiinfundzw. jahre rbm.-germ. Kommission », 1930, I1; «Rum. Mitt. », 1934, p. 90; « journ. Rom. St.», 1940; MATTINGLY, « Num. Chron. », 1936. MATHEW, « Journ. Rom. St. », 1943, p. 65. Un'eccellente indagine sui problemi dell'occidente dà ANDREOTTI, L'imperatore Postumo nel regno di Gallieno I (1939). Su Plotino: letter. in SCHWYZER, RE xxi, 471. Si discute intorno all'interpretazione « plotiniana » di Gallieno, com'essa è sostenuta soprattutto da ALFÒLDI (da ultimo nella « Cambr. Anc. Hist. » xli ): cfr. contro ALFÒLDI, PUGLIESE-CARRATELLI, « La parola del passato », 1947, p. 61; MANNI, o p. cit. Di recente interesse è il trovamento di Straubing, che dovette essere seppellito in qualcuna delle grandi invasioni ala manniche : KEIM-KLUMBACH, Der rum. Schatzf und von Straubing (1952). -
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XLIV (cfr. § 67)
Sulla personalità di Zenobia: KORNEGrosse Frauen d. Alt. (1942), p. 288; BERSANETTI, « Atti v Congr. St. Rom. » u, 1940. - FÉVRIER, Essai sur l'bistoire poi. et écon. de Palmyre (1931); ROSTOVZEV, Caravan cities (1932; trad. anche in it.); HOYNINGEN-HUENE e D. R0BINSON, Baalbek-Palmyra (1946); SEYRIG, « Journ. Rom. St. », 1950, p. 1; STARCKY, PaImyre (1952). Su Palmira nel i secolo cfr. quanto osservo supra, xii. Per la lingua, cfr. la Grammaire di CANTINEAU (1935) e la Sprache d. paim. Inschr. di ROSENTHAL (1936). MANN,
B0LIN, Die Chronoi. d. gail. Kaiser XLV (cfr. § 68) (1932). Lo studio fondamentale è ANDREOTTI, L'usurpatore Postumo nel regno di Gallieno, i (1939); cfr. LE GENTILHOMME, « Rév. ét. anc. », 1943, p. 233; ultimamente LOPUSZANSKI, La
date de la capture de Vaiérien et la chronologie des empereurs gauiois (1951), cit. Importante, dell'ANDREoTTI, l'indagine sul culto di Ercole nella politica di Postumo (cfr. Commodo)« Studi Ciaceri » cit. Per la monetazione degli imperatori gaI lici ELMER, « Bonn. jahrbb. », 1941, 1. Sulle biografie dei « trenta tiranni » nella H. A., importanti considerazioni in MANNI, Trebellio Pollione, Le Vite di Valeriano e Gailieno cit.; PETER, « Abh. Schs. Ges. Wiss. », 1909, p. 181.
XLVI (cfr. § 69) Si discute se l'innovazione di Gallieno si esprimesse in un editto: ma sembra che sia necessario rispondere in senso affermativo: ANDREOTTI, Op. cit., p. 52, con richiamo al LAMBRECHTS; cfr. BERSANETTI, « Aevum », 1945, p. 384. Per le riforme militari di Gallieno, e in genere per la storia militare del basso impero, l'opera fondamentale è GROSSE,
Ròm. Miiitarg. von Gailienus bis zum Beginn der byz. Themen verI assung (1920). Cfr. anche DE REGIBUS, « Historia », 1935, p. 461; LOPUSZANSKI, «Mél. Èc. Rome», 1938, p. 162. Per ciò che riguarda i protectores divini lateris, l'indagine si è occupata di ristabilirne i rapporti con l'idea germanica del comitatus: SEECK, « Ztschr. Sav. St. », G. A., 1896, p. 97. Cfr. in genere, per i Germani nel servizio militare romano,
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SCHENK VON STAUFFENBERG, Das Imperium u. die Vòlkerw. (s.d., ma 1945; già pubblicato in « Welt als Gesch. », 1935 sgg.), p. 7; e l'eccellente saggio di ENSSLIN in « Grundiagen u. Grundfragen eur. Gesch. », 1950, p. 22 (e già BANG, Die Germ. in ròm. Dienst, 1906). Sul prefetto al pretorio Eracliano, che ha partecipato alla congiura che eliminò Gallieno, cfr. BERSANETTI, « Epigr. », 1942, p. 169.
XLVII (cfr. § 70) La nostra interpretazione dei principii della cristianizzazione presso i Goti già nel iii secolo va connessa con l'interpretazione di Commodiano che già abbiamo dato al § 67. S'intende che la nostra interpretazione non esclude l'enorme importanza della predicazione di Wulfila, e insomma del iv secolo; anzi, vorrebbe spiegarne la genesi nelle più antiche esperienze « cristiane » dei Goti. Così crediamo di spiegare la tendenza gotica all'arianesimo, che è sempre il grosso problema: cfr. GIESECKE, Die Ostgerm. u. d. Arianismus (1939), che invece lo spiega con la naturale spiritualità religiosa dei Goti; IVANKA, Hellenisches u. Christliches im friihbyz. Geistesleben (1948), p. 26, considera il fenomeno come « una anomalia della storia spirituale ». LOOFS, Paulus von Samosata (1924; XLVIII (cfr. § 71) sulle dottrine del LOOFS, cfr. supra, xxii); BARDY, Paul de Samosate (1929 2); ora DE RIEDMATTEN, Les Actes du Procès de Paul de Samosate (1952). XLIX FONTI SUL PERIODO 268-311 (la nostra periodizzazione è giustificata nel testo) Per il periodo fino a Nume nano, sempre la Historia Augusta; cfr., specialmente supra, XIX; § 78. Per l'epoca tetrarchica soprattutto i panegirici a Massimiano e Costanzo (cfr. BAEHRENS, « Burs. Jahresbb. », 1925, p. 100), i Martiri di Palestina di Eusebio e il De mortibus persecutorum di Lattanzio (cfr. MADDALENA, « Atti Ist. Ven. », 1934-5, p. 557; cfr. 1936, p. 247). Per tutto il periodo si ricordino sempre i manuali di storia romana e imperiale (Aurelio Vittore, Eutropio, epit. de Caes.); la 'Ia-ropLx véx di Zosimo (ma una grande lacuna ha preso la prima parte
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è
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del secondo libro - o forse la fine del primo e la prima parte del secondo - sicché ci manca il periodo 284-304; il secondo libro comincia con una digressione sulla mancata celebrazione dei ludi secolari all'intervallo dei 110 anni, causa della decadenza o SuaxXlpíoc dell'impero); i cronisti in genere. Si ricordi che Dexippo finisce col 270; dal 270 al 404 Dexippo è stato continuato dal retore di Sardi, Eunapio, fonte di Zosimo (Fozio dice che Zosimo non ha fatto che p4ct Eunapio). Dei testi documentari pervenuti con tradizione manoscritta si ricordi, per l'epoca dioclezianea, la lista provinciale di Verona (BURY, « Journ. Rom. St. », 1923, p. 127). La Storia ecclesiastica di Eusebio interessa questo periodo per il settimo libro (i cui ultimi capitoli sono dedicati, fra l'altro, a Paolo Samosateno e alla sua deposizione ad opera di Aureliano; come anche alla diffusione del manicheismo èv ro&r, come a dire tra Probo e Diocleziano; difatti, il manicheismo era nuperrima superstitio per Diocleziano) e per l'ottavo, che tratta la persecuzione nell'epoca della tetrarchia, fino all'editto di Galerio nel 311. Delle opere moderne generali già citate interessano questo periodo: il BESNIER; il CALDERINI (fino a Numeriano); la « Cambr. Anc. Hist. » XII; ecc. Generalmente fanno capo a Diocleziano le storie del basso impero, citate sopra nell'introduzione: così il SEECK; lo STEIN; l'viii volume della Storia di Roma dell'Istituto di studi romani, opera del PARIBENI (1942); ecc. Fondamentale è la Ròmische Militàr.g. (fino a Eraclio) del GROSSE, già citata. Per la storià culturale del iii secolo (cfr. S 59) è essenziale, naturalmente, la dialettica sincretismo-cristianesimo, che caratterizza tutta l'epoca. Un notevole campo di ricerca può essere anche offerto dall'esperienza religiosa del paganesimo nella città di Roma, in questo torno di tempo. Per citar un esempio fra mille: il culto « lupercale » con carattere misterico (tanto vero che ad esso è dedicata una basilica - dunque un luogo di culto misterico - tribus fornicibus dal senatore L. Crepereio Rogato: C VI, 1397; cfr. ultimamente DEICHMANN, « Reall. f. Ant. u. Chr. », 8, Abb. 32 ) 1); esso andrà inquadrato nella caratteristica dell'ideologia romulea di epoca tetrarchica (evidente già nel nome del figlio di Massenzio, Romulo); Dea Roma è di fatti caratteristica, per es., nella monetazione
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di Massenzio, è già di Probo. Sempre per la religiosità pagana, un testo epigrafico famoso è la lettera dei quindecemviri ai pretori e magistrati di Cuma (C x, 3698). - Il contributo principale alla definizione stilistica di tutto questo periodo (268-311) è stato fornito dagli storici dell'arte, specialmente negli scritti che citeremo in/ra, App. III: il passaggio dai sarcofagi filosofici a quelli con «democratizzata idea dell'apoeosi » (GERKE) è caratteristico. Noi abbiamo già visto, nel testo, come questi fenomeni rispondano ad una parallela evoluzione politico-sociale-linguistica. In epoca dioclezianea sono stati redatti il codice Gregoriano e l'Ermogeniano, purtroppo perduti: come sul piano editoriale il codex unitario si avvia a vincere sul rotolo (cfr. App. ii), così sul piano giuridico l'idea della consolidazione si fa sempre più viva. L'evoluzione editoriale e la giuridica sono così due aspetti della « democratizzazione della cultura »: si traggono delle « somme », si popolarizza un'esperienza complessa e dispersa. Le scuole giuridiche, come quella celebre di Berito
t
Histoire de l'école de droit de Beyrouth [19251), sono il pendant giuridico della diffusione dell'ideale filosofico in questo iii secolo (in/ra, App. iii), come ideale di cultura sistematica; e lo continuano per tutto il basso impero (cfr. per es. DE FRANcIscI, Vita e studii a Berito, 1912). Perduti per noi i codici Gregoriano ed Ermogeniano, tuttavia una parte di questo mirabile travaglio d'epoca dioclezianea si è salvata per es. attraverso la Lex dei quam deus praecepit ad Moysen (chiamata anche Collatio legum Mosaicarum et Romanarum); questa ci conserva talune constitutiones principales da Caracalla a Diocleziano. Sulla Lex dei cfr. VOLTERRA, « Mem. Acc. Naz. Lincei », 1930 (il quale la pone in epoca costantiniana, considerando aggiunta la costituzione di Teodosio in 5, 3, 1); per la concezione « artapanèa » della storia nella Lex dei, e per un confronto di questa concezione con i monumenti paleocristiani, cfr. quanto osserviamo in/ra, App. iii. - Anche I Fragmenta Vaticana conservano constitutiones principales, precisamente da Settimio Severo a Diocleziano. Il codex lustinianus conserva constitutiones principales da Adriano in poi. - Un importante testo dioclezianeo pervenuto attraverso la Lex dei è l'editto contro i Manichei: LUZZATTO, « Scritti di dir.
(C0LLINET,
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rom. in on. di C. Ferrini Univ. Pavia » (1943), pp. 280-282; SESTON, « Mél. Ernout », 1940, p. 345. L'editto va inquadrato nella legislazione antimanichea del basso impero, su cui cfr. Il testo di questo editto contro supra, XXII; in/ra, App. ii. i manichei è conservato dalla Lex dei nella copia indirizzata al proconsole d'Africa; naturalmente, dovevano esserci altre copie, per es. al prefetto d'Egitto ecc. Si è discusso tra i roma nisti se le costituzioni imperiali per una singola provincia avessero sempre validità per tutto l'impero (ORESTANO) oppure avessero efficacia tutta particolare (VOLTERRA); la seconda dottrina è di gran lunga più vicina al vero; naturalmente, si deve tener conto della differenza, nel basso impero, fra lex generalis (cfr. LUZZATTO, loc. cit.; i miei Aspetti, passim, per es. p. 283) e costituzioni particolari. I compilatori delle raccolte giuridiche hanno proceduto, nella scelta, con i criteri indicati dal SEECK nei Regesten, dunque sempre con copie particolari; questo punto è spesso dimenticato nella dottrina. C'è appena bisogno di dire che l'interpretazione dell'evoluzione giuridica di questo periodo è strettamente connessa con l'interpretazione della constitutio di Caracalla. Infatti, gli studiosi che, come SCHÒNBAUER, ammettono la persistenza dei V6.LOL ,ro)vrLxoL indigeni con piena legalità, tendono a escludere, per lo più, che tali v6 ~£ ot rro)vrtxoL, in quanto zona limitata con proprii particolari sviluppi, in qualche modo penetrassero nel diritto romano: è la dottrina del « Nebeneinander » (non « Gegeneinander ») di diritto romano (il « Reichsrecht » di MI'rTEIs) e di v6.to. rroxo (il « Volksrecht » di MITTEIS). Il testo retorico da noi addotto a xxxi ci assicura, però, che la piena legalità dei 'v6ot ito?vrxoL sostenuta da SCHÒN BAUER (di cui si veda, per es., l'interessante polemica in « Zeitschr. Sav. St. » Rom. Abt., 1942, p. 267) non può venir accettata: infatti, quel testo retorico dimostra con certezza che i v61& ot irolcrwol sono ridotti, in seguito alla Constitutio di Caracalla, a cari . Essi sono, dunque, « Volksrecht » depotenziato. Anche se (com'è probabile) SCHÒNAUER avesse ragione nei particolari (per es. nel negare che Diocleziano abbia precisamente combattuto sopravvivenze di un « Lòsungsrecht » orientale basato sul principio di surrogazione), tuttavia è chiaro che l'aequitas tardo-romana, soprattutto da Costantino in poi, -
I'
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avrà dovuto tenere in conto quei v6 [£ot itoXvrt.xoL provinciali depotenziati a gan e privati di piena legalità. E in ultima analisi: discutono i romanisti, come discutono gli storici dell'arte, se l'evoluzione del diritto romano, rispettivamente dell'arte romana, sia derivata da influssi « orientali » (meglio si direbbe provinciali) o, viceversa, da un interno processo del diritto (per es. RlccoBoNo; SCHÒNBAUER) e dell'arte (per es., da ultimo, D. LEVI: cfr. in/ra, App. In) romani: ma, in realtà, influssi provinciali e interno processo evolutivo sono due aspetti del medesimo fenomeno storico; tanto il diritto romano - per sua natura più conservativo - quanto l'arte romana - per sua natura più « aperta » e libera - sollecitano, a contatto col mondo provinciale, nuove esperienze, e a loro volta ne sono sollecitati. Tutta la storia dell'impero è in questo continuo rapporto: l'evoluzione religiosa ne è l'esempio caratteristico; l'evoluzione tributaria, con la confluenza di capitazione e fondiaria, se ne può considerare (come più volte rile vammo) una vera e propria immagine. Può essere tipica l'inter pretazione, in Egitto, dello ius trium liberorum, come applicabile ad esenzioni tributarie (dalla capitazione che ormai tende a confluire con le indizioni?): AR. 9. L (cfr. S 72) Su Claudio Il: DAMERAU, « Klio », Beih. 20, 1934. Su Tenaginone Probo: A. STEIN, « Klio », 1936 9 p. 237; Die Pràf. Ag.. (1950), p. 148.
LI (cfr. §S 74-76) Oltre l'eccellente articolo del GROAG nella RE (v, 1347), Homo, Essai sur le règne de l'empereur Aurélien (1904); A. STEIN, « Klio », 1927, p. 78. Il problema della riforma monetaria di Aureliano è uno dei più dibattuti. Esso riguarda soprattutto le più importanti delle monete aureliane: la moneta di rame argentato (contenuto argenteo il 3%-4%) di g. 4-4,55, con corona radiata (dunque modellata sul vecchio antoniniano di poco più che g. 5) e con segno xx oppure xxi (xx-i), in greco K. Un punto da tener presente nella questione è che con Diocleziano troviamo una moneta di rame argentato (contenuto argenteo 2%2,5%) di g. 10, con corona di lauro (dunque modellata sul vecchio denarius) e sempre con segno XXI. Ha forse Diocle-
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ziano migliorato la moneta aurelianea, dando ad essa un peso maggiore? Questa è la spiegazione più naturale; essa presuppone che il segno xxi sia un segno di valore, non già - come pensa BRAMBACH, « Frankfurter Mùnzzeitung », 1920, p. 197 l'indicazione del rapporto (1: 20, dunque il 5%) fra argento e rame nella lega. Credo che si possa tranquillamente scartare la dottrina di BRAMBRACH: ciò che interessa all'uomo della strada, la cui moneta è apputo questa di rame imbiancato, è di sapere quanto vale la nuova moneta, non già quale ne sia la lega; essa è la moneta dell'imperatore, e teoricamente non va discussa. Ma, una volta riconosciuto che xx-i è un segno di valore, resta difficile la precisazione del significato: forse che due denarii (2 per 10 = xx) equivalgono ad un sesterzio, e dunque il doppio denario, in cui questa moneta consisterebbe, avrebbe una capacità di acquisto di gran lunga minore del precedente « antoniniano » (il « doppio denario » di Caracalla, od « antoniniano », conservava il vecchio rapporto 1 denarius = 4 sesterzii, e dunque equivaleva a 8 sesterzii)? Oppure, viceversa, si deve intendere che una di queste monete (diciamo pure un « doppio denario » aurelianeo) equivale a 20 sesterzii (e che quindi Aureliano avrebbe dato al suo « doppio denario » un valore nominale discretamente superiore al 7 precedente « antoniniano », facendolo equivalere a ben 5 denarii anziché a 2 denarii soltanto)? La prima dottrina è di SEEcK, « Zeitschr. f. Numisrn. », 1890, pp. 36-113; « Numism. Zeitschrift », 1896 9 p. 71; RE VI, 2829 sgg.; Unt. jj 2 pp. 194 sgg.; la seconda dottrina in KUBITSCHEK, « Monatsbl. Num. Ges. Wien », 1892, p. 137; RE i, 2570; si sono anche formulate altre interpretazioni. La letteratura si identifica con la letteratura generale sulla monetazione del principato e in particolare del m secolo, dal Miinzwesen del MOMMSEN in poi: cfr. SYDENHAM, « Num. Chron. », 1919, p. 114 (spec. p. 143); WEBB, ibid., p. 235; MATTINGLY, « Num. Chron. », 1927, p. 220; ROBERTS-MATTINGLY, « Trans. mt. Num. Congr. », 1926, p. 246 (in connessione con il papiro da ultimo ripubblicato in WEST-JOHNSON, Curr. in Roman a. Byz. E,g. [1944], p. 184); SEGRÈ, Metrol., p. 537; MIcKwITz, Geld u. Wirtsch. im ròm. Reich des IV Jbdts, p. 59; HEICHELHEIM, « Klio », 1933, p. 96; premesse di notevole rilievo, da ultimo, in MATTINGLY,
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« Num. Chron. », 1946, p. 110; « Studies in Roman Econ. a. Soc. History in Hon. of A. Ch. johnson » (1951), p. 275. Delle due interpretazioni principali - quella di SEECK e quella di KUBITSCHEK - la prima mi sembra inaccettabile: il segno xx non può indicare se non il valore della moneta, consistente in « venti » unità, che non possono essere se non « venti sesterzii », essendo appunto il sesterzio l'unità di misura con cui si calcolava; non è possibile che il segno xx indicasse « doppio denario », ché questa spiegazione non era troppo accessibile alle grandi masse, cui era destinata la moneta. Cfr. altresì LE GENTILHOMME, « Rev. num. », 1942, pp. 23;
43;
MANNS,
Miinzk. u. hist. Unters. (1939).
Per l'ordinamento d'Italia sotto Aureliano, ed in genere per la questione del corrector Italiae, cfr. da ultimo DEGRASSI, « Racc. scritti in onore di A. Giussani della Soc. Arch. Comense di Como » ( 1944), p. 165; né vanno dimenticati gli scritti particolari sull'Italia in epoca romana, dal vecchio JULLIAN, Les
transform. poi. de l'Italie sous les empereurs romains (1884) al recentissimo THOMSEN, The Italic Regions from Augustus to the Lombard Invasion (1947). Al solito, le basi della discussione furono poste chiaramente da MOMMSEN, « Eph. Epigr. » i, 1872, p. 130 = Ges. Schr. vm, 229. Cfr. altresì VON PREMERSTEIN, RE iv, 1650. Nella discussione ha un posto rilevante l'epigrafe C x 304* : se fosse falsa, come pensava MOMMSEN, cadrebbe il più forte argomento epigrafico a sostegno dell'istituzione dei correttorati provinciali prima di Diocleziano (un corrector Campaniae sotto Carino). La politica corporativa di Aureliano si deve studiare nel quadro della problematica delle corporazioni romane da Severo Alessandro in poi (per l'epoca di Severo Alessandro i passi fondamentali sono nella Vita di questo imperatore, 24, 33: e soprattutto il secondo, corpora omnium constituit vinariorum lupinariorum ecc.). Per il problema in genere, cfr. soprattutto GROAG, « Vierteljarschr. f. Sozial-und Wirtschaftsg. », 1904, p. 481, dove si troverà un eccellente esame dei passi del giurista Callistrato al riguardo (dunque, per l'epoca di Settimio Severo e Caracalla), come anche un tentativo di confronto fra le condizioni dell'epoca di Settimio Severo e quelle del basso impero; il trapasso è posto da GROAG sotto Aureliano. Contro
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GROAG è stato osservato
(MIcKwITz, Geld u. Wirtschaft im ròm. Reich des IV Jkdts. [1932], p. 188), che il trapasso dal
collegio privato all'obbligatorio sarebbe da porre « dopo il passaggio dello stato all'economia naturale ». Bisogna tuttavia riconoscere che nello stato romano il passaggio all'economia naturale non si caratterizza come tale, ma piuttosto come incremento delle gratifiche in natura (che talora rimontano all'epoca tardo-repubblicana) civili e militari, dell'annona civilis e dell'annona militaris: tale incremento era, all'epoca di Aure liano, abbastanza maturo per una politica corporativa di origo. Ad ogni modo, l'obbligatorietà nei collegi di navicularii è già indiscussa all'epoca di Diocleziano, come appare da privilegio dioclezianeo ai coortali di Siria, citato in C. Th. viii, 4, 11. Cfr. altresì K0RNEMANN, RE iv, 442. Classico sulle corporazioni è il vecchio WALTZING, Étude historique sur les corporations professionelles chez les Romains 1-1V (1895 sgg.); ma noi abbiamo oggi trattazioni aggiornate, tra cui DE ROBERTIS, Il diritto associativo rom. (1928); MONTI, Le corporazioni nell'evo antico e nell'alto medioevo (1934); MiCKWiTZ, Die Kartellfunktionen der Ziinfte (1936), p. 166; STÒCKLE, Berufsvereine nella RE, Supp. iv (dello stesso autore Spiitr. u. byz. Ziinfte, « Klio », Beih. Ix; lo studio delle corporazioni bizantine, che si illustrano soprattutto con l'Eparchikon biblion,
può illuminare, nonostante le grandi differenze, i collegi tardoromani). Sulle aiabolicae species, RosTovzEv, « Rom. Mitt. », 1896,'p. 320 (da &vocf3&.)1ctv « imbarcare »); WILCKEN, Grund zuge i, 1, p. 249 (il quale opponeva che in questo caso avremmo piuttosto embolicae); PERSSON, Staat u. Manufaktur (1923), pp. 35-36; WALLACE, Taxation in Egypt (1938), p. 444.
Vale la pena di osservare che, se è nel vero la nostra interpretazione (supra, § 58) dell'iscrizione dell'Arco degli argentarii, ne deriva un decisivo argomento: la coattività della importazione pei boari qui invehunt già nell'epoca di Caracalla (in cui penso sia avvenuta la sostituzione, nell'epigrafe, di loci qui invehent al semplice loci). Noi pertanto, anche nello studiare Aureliano, dovremmo sempre far capo all'epoca di Caracalla e alla sua politica annonaria; ciò che si accorda con le considerazioni svolte nel testo, passim, spec. SS 47-50. La contrapposizione, svolta nel testo, tra la politica tn-
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butaria di Valeriano e quella di Aureliano si fonda, per ciò che riguarda Valeriano, sulla tradizione in base a cui la Historia Augusta costruisce la lettera di Valeriano a Zosi mione nella Vita Claudii (della quale lettera ho dato una interpretazione in Aspetti sociali del IV secolo [1951], p. 48; contro l'interpretazione di MIcKwITz, Geld und
Wirtscha/t [1932], pp. 167-168), e altresì la lettera di Valeriano a Ragonio Cloro nella Vita Ballistae dei Tyranni tnginta; per ciò che riguarda Aureliano, sulla tradizione con fluita in due noti passi di Ammiano (xxvi, 6, 7; xxx, 8, 8) e nella Vita Aureliani. La concezione « senatoria » delle esazioni tributarie, com'è descritta nel testo § 76 (cfr. §S 48-50), e come forse era veramente attuata da Ballista, aveva una enorme importanza pei senatori: tanto vero che nel fingere la lettera di Valeriano a Ragonio l'Historia Augusta insiste minutamente sulla dispositio Balistae (ut illic equos contineat ubi sunt pabula, illic annonas militum mandet ubi sunt frumenta - ut in locis suis ero gentur quae nascuntur etc.) e conclude id quod publicitus est decretum. Abbia-
mo così un esempio tipico di continuità nelle richieste senatorie, da Cassio Dione all'Histonia Augusta.
L'interpretazione dell'ideologia imperiale di Aureliano è fondamentale per la storia dell'ideale monarchico nel msecolo: si ricordi l'impostazione generale del problema dei rapporti tra imperatori e senato nel iii secolo (in cui la tradizione dava particolare importanza a Massimino - come già vedemmo - e a Caro) in O. Th. SCHULZ, Vom Pninzipat zum Dominat (1919).
Per l'ideologia imperiale in genere, andrebbero ulteriormente studiati i testi retorici; cfr. STRAUB; ENSSLIN, op. cit. letteratura in xxvi. - Si discute da taluno (KUBITSCHEK, « Num. Ztschr. », 1915, pp. 170-176) se Aureliano possa considerarsi un imperatore teocratico, essendo ben rare le monete con dominus et deus (non, dunque, « Vehikel offizieller Stimmungsmacherei »); da altri, all'opposto, si fa cominciare con la sua concezione teocratica una era nuova (BARKER, La concezione romana dell'impero e altri saggi [trad. it., 1938]). In realtà, l'istituzione del culto del Sole a Roma parla chiaramente per la concezione dell'impero dominato dal Sol in-
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victus (cfr. anche STRAUB, Vom Herrscherideal in der Spàtantike [1939], p. 76); ma questo non deve far dimenticare
l'origine militare-democratica (consultazione dei soldati nella pace coi Vandali) del suo impero, e tuttavia la necessità di inquadrarlo nella storia del concetto di ovxpxx nel iii secolo. Cfr. PETERSON, Der Monotheismus als geschichtliches Probiem (1935). La problematica de1l'< unificazione del mondo religioso» nel già citato saggio di W. WEBER, « Probieme der Spàtantike », 1930, p. 90. Con esclusivo riferimento ai
culti arabici, anzi al solo culto di Emesa, è interpretata la religione di Aureliano in ALTHEIM, Aus Spiita,'itike u. Christentum (1951); qui, il problema si configura come quello del rapporto tra il culto di Elagabalo e quello di Aureliano, a metà strada fra i quali sarebbe il romanzo di Eliodoro emeseno (tuttavia, non mancano studiosi, come per es. VAN. DER VALK, che pongono questo romanzo al iv secolo). Ma al culto solare di Aureliano contribuiscono anche motivi mitriaci e anche propriamente pannonici. Cfr. CUMONT, « Mém. Acad. Inscr. Belles Lettres », 1913, p. 447. Certamente arbitraria è la ipotesi dell'ALmEIM secondo cui rimonterebbero ad Au reliano tutte le insegne solari di corpi d'esercito, che sono riportate nella Notitia dignitatum: quelle insegne potevano, in alcuni casi, preesistere a lui; in altri possono essere posteriori. Per il culto solare in genere L'ORANGE, « Symb. Osi. », 1935, p. 86; cfr. GAGÉ, « Rev. hist. », 1933; supra, § 60. Riflessi cristiani della tipologia di Sol Invictus: PERLER, Die Mosaiken der Juliergrult im Vatikan (1953); cfr.
App.
)
LII (cfr. § 77) Su Claudio Tacito, oltre l'eccellente articolo della RE (di A. STEIN iii, 2872), BERSANETTI, « Riv. Indo-greco-ital. », 1935, p. 19; JONES, « Class. Phil. », 1939, p. 366; cfr. KRAMER-JONES, « Am. Journ. Phil. » 1943, p. 80 (utile, anche, in genere per il calcolo della trib. pot. dal 270 al 285; cfr. HAMMOND, locc. citt.). Il famoso discorso che la Historia Augusta attribuisce a Faltonio Nicomaco con il tipico ritorno al discorso tacitiano di Galba (pel concetto ne parvulos tuos, si te citius fata praevenerint, facias Romani heredes imperii) è al centro della discussione nella
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Historia Augusta, e ha dato il titolo alla recente opera di HARTKE, Rom. Kinderkaiser (1950); cfr. anche supra, di-
scussione a
XXIII.
Fondamentale
HOHL, « Klio », 1911, 178.
Su Probo LÉPAULLE, 1tude historique sur M. Aurelius Probus (su base numism.) (1884); DANNHÀUSER, Unters. z. Gesch. d. Kaisers Probus (1909); CREEs, The Reign of the Emp. Probus (1911); e specialmente VITuccI, L'imperatore Probo (1952). Per la cronologia, WESTERMANN, « Aegyptus », 1920, p. 297. Si discute sulla sua politica nei confronti
del senato: scettico si mostra, da ultimo, il VITuccI, nella uz-rLx6v in genere, OERTEL, Liturcitata monografia. Sul gie, p. 71; il documento relativo, capitale per l'interpretazione dell'età di Probo, è POxy 1409; cfr. anche WALLACE, Taxation in Egypt (1938), pp. 363-364. Sulla espansione dei Blemyi nell'epoca dello stato palmireno e dei restauratori Aureliano e Probo, dà luce la famosa epigrafe adulitana CIG 5127, che attesta le vittorie di un re aksumita sui Bega e i Tangaiti (Blemyi), e che deve datarsi all'incirca a questo periodo. Cfr. le opere di storia dell'Etiopia e della Nubia, per es. del CONTI ROSSINI e del MONNERET DE VILLARD.
L'interpretazione da noi svolta LIII (cfr. SS 73-78) della tradizione senatoria sugli imperatori illirici del In secolo è l'opposta di -quella formulata da ALTHEIM, Niedergang n (1952), p. 332, secondo cui il basso impero « guardava dall'alto in basso » i grandi « Soldatenkaiser ». Con la presenza dei Franchi a Siracusa all'epoca di Probo, attestata dal Pan. Max., si può cfr. la presenza dei Franchi in Marocco all'epoca di Gallieno (THOUVENOT, « Rev. et. lat. », 1938, p. 266); per la pirateria nel III sec. cfr. anche DOMASZEWSKI, « Rh. Miss. », 1903, p. 382.
LIV (cfr. 5 79) Su Caro, Carino e Numeriano abbiamo un'eccellente monografia di MELONI, « Ann. Fac. Lett. Univ. Cagliari » xv, 2, 1948. Cfr. WUILLEUMIER, « Re. ét. anc. », 1945, p. 116; R. BARBIERI, « Rend. Linc. », 1946, p. 523. Su Diocleziano: COSTA, Il dalmata fatale (estr. da « Diz. epigr. » il, 1773): un'opera di grande importanza, perché
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ha per la prima volta sfatato il concetto di un Diocleziano « orientalizzante »; STADE, Der Politiker Diokletian u. die letzte grosse Christenverf. (1926); SESTON, Dioclétien et la tetrarchie i (1946); e le molte recc. a questo volume, specie quelle di ANDREOTTI, « Riv. fu. class. », 1948, p. 310,
di CARc0PIN0, « Rev. ét. anc. », 1947, p. 291, di ENSSLIN, « Deutsche Literaturz. », 1949 9 p. 116, di STRAUB, « Histo ria », 1950, p. 487; di PASSERINI, « Acme, Ann. Fac. Lett. Fil. Univ. Mii. », 1948, p. 131. Nella sua importante monografia SESTON accentua il momento militare (a scapito del politico) nell'opera di Diocleziano: questo punto di vista si connette con una generale revisione di tutti i problemi. Ultimamente VAN BERCHEM, L'armée de Dioci. et la ré/. const. (1952). Su SCHÒNBAUER, « Ztschr. Sav. St. » Rom. Aht. 1942, p. 267, cfr. supra, XLIX. - Altra eccellente monografia è il recente articolo di ENSSLIN, RE VII, A, 2419; cfr., di questo stesso autore, gli articoli su Massimiano Erculio in RE xiv, 2486, e su Galerio Massimiano in RE xiv, 2516, e il capitolo nella « Cambr. Anc. 1-list. » xii, 1939. Una eccellente trattazione, anche se divulgativa, in PFISTER, Der Untergang d. ant. Welt (1943). Sul dies imperii di Diocleziano è stata formulata una nuova teoria da SESTON, op. cit., p. 49, il quale lo fissa al 17
settembre anziché al 17 novembre. Diversamente D'AccIN « Riv. fu. ciass. », 1948, p. 244; ENSSLIN, « Aeg. », 1948, p. 178. La documentazione (Lact., De mort. pers. 17, 1; Eus. Mari'. Pal. 1, 5; 2, 4) sembra a sostegno della datazione tradizionale. La discussione sulla recente monografia del SESTON verte soprattutto sulla prevalenza assoluta delle circostanze nella formazione del sistema tetrarchico, com'essa è proposta dal SESTON: alcune limitazioni, per es., nella citata recensione di STRAUB. - Cfr. altresì MELONI, « Studi sardi », 1948, sulla Sardegna in epoca tetrarchica (importante commento di un'iscrizione dedicata al solo Galerìo; per casi analoghi di epoca più tarda e per la loro spiegazione - è sempre possibile la perdita di iscrizioni parallele dedicate ad altri - correggenti - cfr. il mio Stilicone pp. 8 1-86). - Da NI,
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Ultimo MATTINGLY, « Harv. Theol. Rev. », 1952 ) p. 131 (aspetti politici del subordinazionismo). Sui presupposti etnico-sociali dell'origine transdanubiana di Galerio (la madre non sa il latino, e tuttavia ha nome Romula), come di Massimino Daia iam non pecorum sed militum pastor, cfr. ultimamente IVANKA, « Saeculum », 1950 ) p. 349 (spec. pp. 357-361). Si ricordi il caso di Massimino Trace; supra, § 60. Cfr. infra, LXVIII, a proposito del problema della continuità dacica. Su Costanzo Cloro: ANDREOTTI, « Didaskaleion », 1930, p. 157.
Per la campagna persiana di Diocleziano e Massimiano Galerio ENSSLIN, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1942 ) H. i. Per il limes si ricordino le già citate ricerche aeree del PoiDEBARD, La trace de Rome dans le désert de la Syrie, i-il (1934); « Mél. arch. hist. », 1937, p. 5. La discussione sulla capitazione verte, LV (cfr. § 74) sin dal commentario di GODEFROY, sul problema se essa vada considerata una tassa sul caput o non piuttosto una tassa fondiaria; ed è una discussione sempre incerta, perché la capitazione dioclezianea è in verità l'una e l'altra cosa: il caput del colono o dello schiavo, che già prima era calcolato nel ;Lspta ~t 6g di capitazione del principato (si ricordino i capita della laografia egiziana, base del censo), è ormai divenuto l'unità-lavoro su cui si calcola la « rendibilità » di una diocesi. La letteratura è enorme: per es. SEECK, « Zeitschr. f. Sozial- u. Wirtschaftsg. », 1895, p. 275; RE, s. v. Capitatio, Delegatio, Indictio; LEO, Die capitatio plebeia u. die capitatio bumana im r6misch-byz. Steuerrecht (1900); LOT, « Rev. hist. droit frani. et étr. », 1925, 5, 117; L'imp6t foncier et la capitation personnelle sous le Bas-Empire et à l'époque franque (1928); B0T'r, Die Grundz. d. diokiet. Steuerver/. (1928); STEIN, Gesch. d. spiitr. Reiches cit.; PIGANIOL, L'imp6t de Capitation sous le Bas-Empire (1916) fondamentale; « Rev. hist. », 1935 ) 1; DLÉAGE, La capitation du Bas-Emp. (1945); SESTON, op. cit., (1946), p. 261; A. SEGRÈ, «Traditio», 1945, p. 101; MAZZARINO, Aspetti sociali del IV secolo (1951), p. 258. Nell'epoca di Costanzo n un caput galli-
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cano è valutato 25 solidi annui: cfr. la dimostrazione in Aspetti sociali del IV secolo cit., p. 401, n. 36 (un diverso punto di vista in SEECK, « Rh. Mus. », 1894, p. 630: la questione implica un problema filologico, se cioè si debba leggere capitibus o capitulis in Amm. xvi, 5, 14). Nell'Occidente il caput si estende in superficie nel iv secolo: Aspetti, pp. 420, 116; cfr. il contrasto fra STEIN, Studien z. Gesch. d. byz. Reiches (1919), p. 152 e L0T, « Rev. hist. droit fran. et étr. », 1925, p. 31. Il punto fondamentale all'intendimento dell'evoluzione tributaria nell'impero consiste in quella generica con tinuità fra principato e basso impero che rileviamo in/ra, Parte quinta; in questo, la continuità va intesa nel senso che il vecchio principio hominum capita stipendii causa ignobiliora (TERTULLIANO) -Si continua nel basso impero attraverso la limitazione del tributum capitis alla plebe rusticana quae extra muros posita capitationem suam detulit et annonam congruam praestat (così Diocleziano e Massimiano in C. I. XI, 55, 1), mentre la plebs urbana intra muros da Diocleziano stesso (C. Th. XIII, 10, 2) è considerata immunis e non tassabile pro capitatione sua. Cfr. quanto osservammo 55 49; 76. Natural-
mente, ciò può definirsi come il passaggio da una concezione « giuridica » della capitazione (la quale nel principato era imposta, salvo eccezioni, a tutti i peregrini) ad una concezione sociale della capitazione (la quale ora, nel basso impero, viene pagata dai contadini); cfr. la nostra interpretazione della Const. Ant. a XXXI. L'editto de pretiis dioclezianeo può consultarsi nell'edizione di MOMMSEN-BLÙMNER (1893) e in quella dello « Economic Survey of Anc. Rome », v, 1940. Una ricerca classica su esso è il saggio del BUCHER (1899) riprodotto nei suoi Beitriige zur Wirtscha/tsgeschichte (1922). Una recente scoperta rivoluzionaria è « il primo frammento scoperto in Italia » (precisamente, a Pettorano, negli Abruzzi) « dell'editto di Diocleziano »: GUARDUCCI, « Rend. Pont. Acc. », 1940, p. 11; « Buil. Mus. Imp. », 1940, p. 35; cfr. GRASER, « Trans. a. Proc. of the Amer. Philol. Assoc. », 1940, p. 157. Altre scoperte posteriori all'edizione dello « Econ. Surv. »: KERAMOPOULOS, « 'A px. cxLov », 1931, p. 163; MACPHERSON, loc. cit. (da due località euboiche); BINGEN, « Bull. corr. hell. », 1953, p. 647.
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Si discute soprattutto su tre punti: se l'editto de pretiis si estendesse anche all'Italia; se esso si fondasse sulla esistenza di una produzione di stato; se esso potesse essere veramente applicato. Il primo punto è divenuto di attualità in seguito alla scoperta del frammento di Pettorano; come anche il terzo punto, esso riceve spesso (per es. da A. SEGRÈ) risposta negativa nell'indagine; ma bisogna riconoscere che l'imperatore voleva l'applicazione dell'editto, ed evidentemente in tutto l'impero. Nel vero, già prima della scoperta di Pettorano, WEST, «Class. Phil. », 1939, p. 239. Il secondo punto è entrato nella discussione con l'opera di PERSSON, Staat u. Manufaktur (1923); ma il testo dell'editto non fa riferimento a produzione solo statale. Si discute se nell'Edictum una libbra d'oro sia valutata a 10 000 denarii o a 50 000; infatti, una libbra d'oro &vW&vou è valutata 12 000 denarii (xxx, 2), mentre una libbra d'oro ppúCnq &v iyXLot &v ó'Xoxorr(votq è valutata 20 000 denarii (xxx, la); se l'oro èvny.LévoQ è da intendere, come sembra ben naturale, « oro lavorato» (e dunque deve costare qualcosa di più dell'oro &v y'Xo), se ne deduce che uno dei due numeri fu trascritto male dal lapicida. Ma quale? Che sia errore nel numero 50 000 (e debba leggersi 10 000) pensa MATTINGLY, « Numism. Chron. », 1946, p. 111 (articolo molto importante); diversamente WEST, « Studies in Rom. Econ. Soc. a. History in Hon. of johnson », (1951) 5 p. 290 (cfr. JONES, « Class. Rev. », 1953, p. 114). Un argomento in favore della dottrina di MATTINGLY potrebbe essere il seguente: nella Historia Augusta, il prezzo della carne bubula è identico a quello indicato nell'Edictum; d'altra parte, la Historia Augusta dà due indicazioni di prezzi (valori) per il in secolo (precisamente nella Vita Aureliani e nella Vita Heliogabali) le quali corrispondono perfettamente ai prezzi segnati nell'editto dioclezianeo, qualora in questo si tenga il rapporto una libbra oro = 10 000112 000 denarii (la dimostrazione in Aspetti sociali del IV secolo, 1951, p. 349); si direbbe che il redattore senatorio della Historia Augusta, nel fornire queste ghiotte notizie sui prezzi vigenti tunc (così Vita Aur. 45, 5), si sia fondato su una copia dell'editto come quella di Pettorano, o su documentazione analoga; e in tal caso la equazione libbra oro = 10 000 denarii ne verrebbe confermata. Comunque, la
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mia interpretazione di Diocleziano come « difensore del denarius » non si fonda tanto su questa discussa questione della valutazione di una libbra d'oro, quanto sulle considerazioni che ho svolto nel testo (5 80; cfr. Ss 45; 50; ecc.), e sulla storia dei prezzi che cercherò di delineare in seguito, a 5 86. Quanto al rapporto AU: ARG" questo si deduce dal fatto che l'aureo diociezianeo è 1/60 libbra, e l'argenteo dioclezianeo 1/96 libbra (come il neroniano); sicché 1/60 libbra AU = 24 x 1/96 libbra ARG, e dunque i libbra AU = 15 libbre ARG, ossia AU: ARG = 1: 14,4 (cfr. Amm. xx, 4, 18, sotto Giuliano; C. Th. xiii, 2, 1, pci 396). Dimostrazione e discussione in Aspetti sociali, p. 436, n. 13; cfr. LE GENTILHOMME, « Rev. num. », 1943, p. 51. li denarius dioclezianeo è identificato variamente dai numismatici: alcuni (MIcKwITz) lo considerano pari a metà della moneta di rame imbiancato (con corona radiata) di g. 3,89; altri pari alla metà della moneta di rame imbiancato (con l'imperatore laureato) di g. 1,3; ma non si può escludere l'identificazione con la stessa moneta di g. 1, 3, che poteva considerarsi, nominalmente, la metà di quella di g. 3, 89. Per chiarire meglio l'atteggiamento di Diocleziano « difensore dei denarius », io nel testo (5 80) sono partito da un massimo di g. 3,89 per il denarius; ma le mie considerazioni valgono a fortiori se identifichiamo il denarius dioclezianeo con la moneta di g. 1,3; si tratta di monete divisionali per eccellenza, cui lo stato dioclezianeo vuole imporre un corso forzoso. L'introduzione del denarius in Egitto è un tipico esempio della politica dioclezianea di difesa del denarius; il testo più importante è, ora, Antinoopolis Papyri i (1950), n. 38, da ìntendere nel senso che la corporazione degli 4yup 6 Xoo. giura di rispettare i prezzi segnati nell'editto per l'opera di fusione dell'argento (31 denarii a libbra) e di lavorazione dell'argento (62 denarii a libbra). (Si badi: non si tratta di prezzi dell'argento in sé.)
' Intendo il rapporto tra AU monetato e ARG monetato; il rapporto tra AU in barre e ARG in barre era più favorevole all'argento, avvicinandosi al rapporto « oribasiano », i : 12; sicché nella Vita Heliogabali 100 000 sesterzii (= 25 000 denarii), i quali comprano 2,5 libbre oro, sono parificati a 30 libbre di argento.
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Per l'ideale monarchico nel tardo impero, letteratura a LI (soprattutto STRAUB ed ENSSLIN). Cerimoniale e curia tretrar chica: BARTOLI, Curia Romana (1940). Per l'arco di trionfo di Galerio Massimiano, KINCH, L'arc de triomphe de Salonique (1890) VON SCHOENEBECK, « Byz. Zeitschr. », 1937, p. 361. Il ritiro di Diocleziano ad Aspalathos è splendidamente illustrato dal suo palazzo a forma castrense; la città di Aspalathos (Spaiato) è sorta su esso. Cfr. NIEMANN, Der Palast Diokietians in Spaiato (1910); HÉBRARD-ZEILLER, Spaiato. Le palais de Diociétien (1912); PARIBENI, « Ròm. Mitt. », 1940, p. 137; per il tribunal ANTI, « Atti Soc. Istriana », 1949 (con riferimento all'atteggiamento di culto imperiale che si esprime in esso). Il problema del ritiro di Massimiano Erculio dopo l'abdicazione dell'i maggio 305 è diventato un problema d'attualità di recente, avendo proposto il L'ORANGE, « Symb. Osi. », 1952, p. 114, di attribuire a Massimiano Erculio la villa siciliana di Piazza Armerina; Questa villa è senza dubbio la più notevole rivelazione dell'arte tardo-romana venuta alla luce negli ultimi tempi (rivelazione dovuta a Biagio PACE, « Rend. Linc. », nov.dic. 1951; « Gn. », 1951, p. 469; cfr. altresì GENTILI, La villa di Piazza Armerina [1954], e « Not. Sc. », 1950). Ma l'attribuzione della villa a Massimiano Erculio dopo il 305, sec. l'ipotesi avanzata da L'ORANGE, è cosa quanto mai dubbia: nessuna fonte ci autorizza a pensare che Massimiano abbia avuto modo di costruirsi questa splendida villa in Sicilia : il suo ritiro è stato in Italia Meridionale, ma non in Sicilia. Di fatti in pan. vii (vi), Il: Roma « madre » si rivolge a Massimiano con le parole ideone te mibi ille, cuius tot aras, tot tempia, tot nomina colo, Hercules dedit ut tu in suburbano otio sedens usum dicatae mibi virtutis amitteres? Redde te ,gubernacuiis meis... Imperasti pridem rogatus a fra/re, rursus impera missus a ma/re. Così pure Lact,, De mori'. pers. 26, dice apertamente che « Massenzio mandò la porpora al padre Sui Bonu/atius dell'iscrizione nel peristilio della villa e su altri problemi connessi cfr. supra, § 61. (Sui mosaici di Piazza Armerina è ora apparsa una monografia del PACE, I mosaici di Piazza Armerina [19551.)
Bibliografia e problemi
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il quale, deposto il potere, stava in Campania »; Zos. li, 10, 2 conferma che Massimiano Erculio 'r- Aoux #x &v t -r&rc &opx &r r'?v 'Pckouewcx'' ítcL.Queste tre fonti, concordemente, escludono la Sicilia. L'otium o quies di Massimiano Erculio si sarà svolto, se vogliamo conciliare Lattanzio e Zosimo, tra Lucania e Campania; cfr. quanto osserviamo in « Rend. Linc. », 1953, Sull'otium di Massimiano Erculio. Si noti che il panegirista, lungi dal parlare di Siciliensi otio, parla di suburbano otio: dove una adeguata accezione del termine suburbanum non rende probabile un'interpretazione del termine nel senso esteso a tutto il vicariato di Roma (ciò a prescindere dalla famosa questione, vecchia quanto Godefroy -e Sirmond, sul senso stretto di suburbicariae regiones; cfr. DE DoMINIcIs, « Atti v Congr. Intern. Studi Biz. », 1939, il quale ritiene che le suburbicariae regiones indicano solo il territorio amministrato dal prefetto urbano, e non il vicariato di Roma). Il panegirista va illustrato con Lattanzio; né l'uno né l'altro permettono di pensare ad un otium Siciliense di Massimiano Erculio. La cosa è importante, perché mostra che Massimiano stava alle vedette, dunque non era del tutto convinto del giuramento a Giove Capitolino fatto nei vicennali dioclezianei del 303 ed attuato nell'abdicazione dell'i maggio 305, subito dopo i suoi proprii vicennali. LVI (cfr. § 81) Su Massenzio, GROAG, RE xiv, 2417; per la sua politica religiosa PINCHERLE, « St. it. fil. class. », 1929, p. 131; VoN SCHOENEBECK, « Klio », Beih. 43, 1939-
Parte quinta
IL BASSO IMPERO E LA «PROSPETTIVA CHARISMATICA
Capitolo primo DAL MILVIO AL FRIGIDO (312-394)
82.
La battaglia di Ponte Milvio. La conversione di Costantino.
La battaglia decisiva fu data da Massenzio a Roma, nel suo dies imperii, il 28 ottobre 312. È la famosa battaglia del Ponte Milvio. Costantino ebbe allora un nuovo segno delle sua missione charismatica. In sogno gli apparve una visione, in cui egli credette di riconoscere un incoraggiamento del dio dei Cristiani; ciò lo indusse a por re il monogramma cristiano sugli scudi dei suoi soldati. In realtà, egli era convinto che l'aggiunta del monogramma sugli scudi doveva essere garanzia che i suoi soldati sarebbero stati victores (di fatti, noi possiamo farci una idea del modo in cui si presentava tale aggiunta, se consideriamo l'insegna di un corpo militare palatino del basso impero, chiamato proprio Victores; purtroppo, non sappiamo quando, né da chi, fu costituito questo corpo 1) La certezza di Costantino non fu delusa. Nella violenta battaglia, i suoi soldati furono victores; Massenzio annegò nel Tevere. Il vincitore si sentì cristiano, ma non dimenticava il suo vecchio culto del Sole. Nel febbraio 313 egli e Li cinio, a Milano, promulgarono l'editto di tolleranza. Nell'estate 313 morì Massimino Daia. Nel 363 Victores e lovii erano le due principali legioni dell'esercito; all'epoca di Ammiano non più (tunc: xxv, 6, 3); nella ND (dunque, verso il 430) appaiono come auxilia palatina, ed in
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83. La politica tributaria e le Chiese cristiane. I donatisti. 11 conflitto con Licinio.
Se si vuoi avere la misura della rivoluzionaria portata della politica cristiana di Costantino, si deve considerare l'aspetto di essa più nuovo ed originale: l'immunità ecclesiastica. La storia dell'impero romano, soprattutto la storia del basso impero, è anche la storia tributaria di esso: mai come in questo periodo le difficoltà economiche hanno posto il prblema tributario al centro della vita statale (ogni lettore del Codice Teodosiano conosce bene questo punto; del resto, già lo storico antico Ammiano Marcellino ha potuto descrivere il cesarato di un imperatore filosofo come Giuliano prendendo le mosse dalla sua politica tributaria). Orbene, in questo campo Costantino ha condotto, per i presupposti cristiani della sua opera, una politica rivoluzionaria. È necessario fermarsi su questo punto, an che perché esso non viene generalmente considerato nella sua portata rispetto alla precedente storia dell'impero. Il mondo romano anteriore a Costantino conosce particolari privilegia ed immunità, per esempio, per i colle gia dei sacerdoti e delle Vestali in Roma (quei privilegi che poi saranno soppressi dall'imperatore Graziano nell'autun Oriente hanno l'insegna che ci interessa. Chi avrà dato loro tale insegna? Non certo gli imperatori di epoca teodosiana, perché in questa epoca i Victores erano decaduti (cfr. il tunc di Ammiano) dal posto di eccezionale importanza che avevano nel 363, e sarebbe assurdo che la croce segno di vittoria (o il monogramma, se la figurazione della ND è errata) fosse data ad un corpo che non aveva più primas exercitus. Neanche da Valente: infatti gli lovii e Victores lo avevano tradito, giurando per Giove a Procopio (Amm., xxvi, 7, 13). Neanche dal pagano Giuliano, che non avrà tollerato un'insegna cristiana per queste legioni a lui care e devote (Amm. ) xxiv, 4, 23; Zos., iii, 22, 4). Restano Costantino e i suoi figli. Si noti che, anziché il monogramma, gli scudi di questi palatini Victort's portano la croce: così, almeno, nella figurazione a noi pervenuta. Il segno è aggiunto in alto sullo scudo. Così anche, più o meno, il caeleste signum Dei doveva essere aggiunto sugli scudi (notarei in scutis: Lattanzio) dei soldati costantiniani.
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no 382). Ma l'aspetto provinciale (extraromano) di vari culti pagani non dà a questi privilegia dei sacerdozi antichi un assoluto carattere di universalità e di necessità. È molto istruttiva, a questo proposito, la politica di Augusto nel rispetto dei culti egiziani, che egli nettamente contrapponeva ai tradizionali culti romani: la ìcp& y « terra sacra », che del resto era soggetta a tassazione anche sotto i Tolomei (tranne in casi di vera e propria « terra consacrata » &vppv -? y); in parte venne confiscata, in parte diventò terra normalmente sottoposta « a tributi » (è7rt con forse qualche privilegio per la « con sacrata » (otv i epcú ~Le v-j ); la laografia, questo tipico tributum capitis, da cui erano esonerati i cittadini di Alessandria (supra, § 49) e forse i discendenti dei katoikoi ellenomacedoni, viceversa colpiva i sacerdoti egiziani, ad eccezione di 50 più elevati; c'era un grande regresso rispetto alla loro situazione sotto i Tolomei. Nel corso del ii secolo, lo idiologo, che sovrintende alle terre imperiali tooc) ha assunto le funzioni di ca(y y po della comunità sacerdotale (òcp XtepE: uq ) in tutto l'Egitto, quasi a indicare la completa sottomissione della ìep& y al controllo dello stato; e dai sacerdoti erano pagate tasse e sopra tasse particolari, come per esempio icp-tx& eaxpvrtx; c-rwr.xov cpcv.
Purtroppo, anche in questo caso la nostra documentazione sull'ordinamento tributario romano è veramente adeguata solo per l'Egitto; ma, in compenso, si deve considerare che l'Egitto è la terra classica di una vera e propria casta sacerdotale, e che esso ci può dare una misura indicativa per l'atteggiamento romano nel rispetto dei privilegi concessi alle grandi comunità sacerdotali d'Oriente. Ciò non toglie che privilegi e alta considerazione godessero alcuni ricchi templi per esempio di Asia Minore (Adriano ha restituito allo Zeus di Aezani terre già donate dagli Attalidi; si ricordi anche il caso, già ricordato, di
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Apollo Lairbeno ecc.) e di Siria (per esempio, sono tipiche le immunità del tempio di Baitokaike, annesse alla città di Apamea); ma, in complesso, si può dire che lo stato romano non ha seguito una conseguente politica economica di privilegi alle comunità sacerdotali non strettamente romane. Sin da qLlando i Romani misero piede in Oriente, già in epoca repubblicana, i pubblicani hanno insidiato le immunità dei templi privilegiati; l'impero ha in certo modo proseguito questa politica, pur attenuandola notevolmente. Anche qui, Costantino è il grande rivoluzionario. Riconoscendo ufficialmente una religione unitaria, egli crea una classe unitaria di sacerdoti privilegiati. Già nel 313 troviamo una sua lettera al proconsul A/ricae Anulino, in cui si esonerano da ogni liturgia i clerici della comunità « cattolica » presieduta da Ceciliano. Due punti sono qui notevoli. In primo luogo il vecchio concetto di una chiesa « cattolica », vale a dire di una chiesa che conservi per eccellenza la comunione con le altre chiese cristiane (la « grande Chiesa », come già si chiamava ai tempi dello 'AX ?.cyo di Celso), e sia dunque, ora, la « Ufficialmente riconosciuta » dallo stato (perciò, non quella degli haeretici, che nel caso dell'Africa sarebbero i donatisti). Tale concetto di catholica ecclesia, vale a dire « chiesa ufficialmente riconosciuta (universale) », è basilare nella storia dell'impero e della Chiesa stessa. In secondo luogo, va notata l'esenzione dei clerici della ecclesia catholica di Ceciliano dai munera curiali; qui le ragioni del culto (pxx) si considerano superiori a quelle della curia; vale a dire, si riconosce la presenza di un superiore interesse spirituale accanto al contenuto economico-politico dell'ordinamento statale. Entrambi questi -punti sono fondamentali: il primo afferma la necessità dell'esistenza di una Chiesa cristiana ufficialmente riconosciuta dallo stato, contrapponendo implicitamente (anche se ciò non è apertamente detto nella lettera ad Anulino) ecclesia catholica
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da una parte, baeretici e schistnatici dall'altra;il secondo riconosce le necessità del culto cristiano come tali da determinare immunità per i suoi clerici. Siamo ancora nel 313, nell'anno dell'« editto di Milano »; ma si è già compiuta la rivoluzione più radicale nella storia dell'Occidente. Nello stesso tempo, Costantino, accentuando la necessità di una ecclesta catholica, si intrometteva nel conflitto fra donatisti africani e le altre comunità d'Occidente: un conflitto in cui si ripeteva il contrasto fra la passionale intransigenza africana e la composta moderazione della potentior principalitas romana. Le prime avvisaglie di questo contrasto (che in certo modo si era preannunciato nell'intrasigente atteggiamento di Tertulliano rispetto alla dottrina penitenziale del vescovo di Roma, Callisto) si potevano riscontrare nel conflitto di Cipriano vescovo di Cartagine con Stefano vescovo di Roma a proposito del « doppio battesimo » per gli eretici; ma le vicende della persecuzione imprimevano ora al conflitto una violenza maggiore, perché non si trattava semplicemente di considerar valido il battesimo dato da eretici, ma di convalidare il battesimo dato da traditores dell'ultima persecuzione. Alla passionale intransigenza degli Africani, il concetto della validità obiettiva dei sacramenti era, certamente, estra neo: i loro avversari non dovevano essere considerati baptizati, ma tincti 2 E si aggiungeva certo provincialismo africano, e uno sfondo mistico-sociale, che in progresso di tempo avrebbe connesso questi milites Christi, accaniti ere2 La storia di tinctus è interessante: il linguista PAGLIARO ha mostrato la sopravvivenza di questo termine, nel significato generico di « tristo », « malvagio », in un dialetto neolatino, il siciliano: una importante illustrazione del significato del conflitto e dell'estensione di esso. Cfr. PAGLIARO, « Archivum Romanicum », 1934; e le nostre considerazioni su traditor, già svolte precedentemente, a proposito della persecuzione dioclezianea. - Può esser interessante osservare che il non-rigorista Callisto ammetteva il rebaptisma, mentre invece, circa quarant'anni dopo, il rebaptisma diverrà, con Cipriano, la dottrina dei rigoristi.
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di della tradizione africana tertullianea (si noti il concetto tertullianeo di militia Christi), agli agonistici, e ai sobillatori dei coloni intorno alle cellae (circumcelliones). Prendendo posizione nel senso della ecclesia catholica, Costantino si riferiva al giudizio antidonatistico del vescovo di Ro ma (313), poi della sinodo di Arelate (314). I donatisti appellarono a Costantino; ma egli ordinò la distruzione delle loro chiese. La decisione imperiale li inasprì: in seguito alla decisione antidonatistica dell'imperatore, i donatisti sono divenuti i più tenaci difensori dell'indipendenza della ecclesia nei riguardi dell'imperator. Essi hanno poi rappresentato, per tutto il iv secolo, un forte elemento di disordini in Africa. .4 ",ogni modo, la connessione dell'atteggiamento antidonatistico di Costantino con i primi privilegi da lui accòrdati alla Chiesa resta un punto essenziale per la storia del concetto di ecclesia catholica. Ben presto i privilegi della ecclesia catholica si estenderanno sempre più. Documentati la prima volta in questa regione africana dove essi distinguevano nettamente l'ecclesia catholica dagli haeretici (o, più propriamente, schismatici) donatisti, tali privilegi non dovevano fraintendersi nel senso di una esten sione alle Chiese cristiane non ortodosse; tuttavia, contro fraintendimenti del genere l'imperatore dové definitivamente precisare, ancor una volta, che « baeretici e schismatici sono alieni da tali privilegi ». Quando egli emanava questa precisazione (325 o 326), i tempi dell'editto di Milano erano abbastanza lontani: Costantino non era più il signore dell'Occidente, egli era il signore di tutto l'impero. L'evoluzione politica aveva necessariamente condotto alla unificazione. Già nel 314 si era avuto un conflitto tra Costantino e Licinio; i due av versari vennero a giornata a Cibalae (8 ottobre 314), poi a Campus Mardiensis nella Tracia; sinché si arrivò ad un accordo, in base al quale l'Illirico passava a Costantino. L'accordo ha fatto epoca, non solo perché d'allora in poi
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la Tracia è rimasta definitivamente staccata dall'Illirico propriamente detto (vale a dire dalle diocesi pannonica e macedonica-dacica); ma anche perché d'allora in poi rimase fermo il principio che ognuno degli augusti, e non soltanto il senior Augustus, potesse legiferare (comunque, le leggi generales avevano valore - entro i limiti del possibile - in tutto l'impero), e che nessuno dei due augusti po tesse entrare nel territorio dell'altro senza un preventivo consenso. Dal 316 Costantino ha avuto, come residenze preferite, Sirmio e poi (vicinissima alla Tracia, quasi per sorvegliare la pars di Licinio) Serdica. Nella sua pars, così notevolmente ingrandita, egli ha continuato la politica di larghissima protezione della ecclesia catholica, sino ad arrivare, specie dal 320 in poi, alle estreme conseguenze. Mentre nei primi anni l'imperatore, che naturalmente conservava la posizione di ponti/ex maximus, aveva anche accettato formule ufficiali di compromesso con l'antica religione (sicché l'iscrizione del suo arco presentava la vittoria su Massenzio come raggiunta genericamente instinctu divinitatis), ed appariva sinanco possibile un certo sincretismo ufficiale del culto del Dio cristiano, « luce da luce », col culto del Sol invictus (supra, S 82), viceversa già dal 321-324 in poi si ebbe la definitiva cristianizzazione della monetazione costantiniana, e così la rottura ufficiale con la vecchia tradizione pagana. Da parte ecclesiastica, già nel 314 la sinodo convocata ad Arelate stabilì la scomunica pei soldati cristiani che abbandonassero il servizio militare: si verificava la previsione di Origene, che in un impero cristiano il servizio militare sarebbe stato gradito ai Cristiani; anzi, esso diventava obbligatorio dal punto di vista della comunità cristiana medesima. Il 3 luglio 321, Costantino diede alle Chiese la capacità di ricevere legati, sì che le divitiae ecclesiarum, già imponenti, diventavano suscettibili di un incremento enorme; fu inoltre stabilito che nei processi si potesse ricorrere al foro ecclesiastico, qualora la volontà dell'attore e quella del convenuto fos-
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sero consenzienti su questo punto. La comunità dei Cristiani, questo corpus che Tertulliano aveva esaltato come tale, aveva una posizione particolare entro lo stato; e le autorità ecclesiastiche, i clerici e i loro superiori, si distinguevano dai populi (dai « laici », come si diceva con termine greco) in maniera da costituire un organismo parallelo agli organismi statali ed ufficialmente riconosciuto dallo stato. Si cristianizzò la legislazione: come si istituiva, con effetti giuridici, un foro ecclesiastico, così si riconoscevano effetti giuridici alle manomissioni compiute nelle Chiese; si santificava la domenica; si revocavano le leggi di Augusto contro il celibato. Nella pars di Licinio si verificava l'evoluzione opposta: l'augusto già amico dei Cristiani si volgeva, ora, ad una politica anticristiana; tanto più chiaramente la concordia Au,gustorum veniva a mancare. Si venne a conflitto fra i due imperatori. Licinio fu sconfitto una prima volta ad Adrianopoli, il 3 luglio 324; una seconda volta, il 18 settembre 324, a Crisopoli. Suo figlio, che l'i marzo 317 era stato nominato cesare insieme con i figli di Costantino (Crispo e Costantino ii), perdette il cesarato.
84. La monarchia costantiniana. Costantino &yxoto Ewro. Eliminato Licinio, Costantino diventava l'unico augusto. Come nel cielo aveva trionfato la .uivxp -,ix divina, l'unico e vero dio, così sulla terra si realizzava l'unità assoluta di governo, la ovxpyx dell'oikoumene. Era una esigenza che aveva - segnato di sé tutto il principato. Essa aveva assunto una preminente importanza, anche ideologica, nel iii secolo. Non aveva già enunciato Caracalla il principio che « come Zeus, egli solo, ha il regno degli dèi, così pure lo dà ad un solo degli uomini »? . La parola Herod., iv, 5, 7.
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d'ordine del in secolo era stata tanto nelle controversie teologiche (rnonarchiam tenemus 4) quanto negli affannosi tentativi di affermare un potere politico unitario. Il iv secolo dava realtà concreta a questa « parola d'ordine » del insecolo: come già Decio aveva voluto essere « signore di tutta l'oikou;nene » (ai oxouifri tr), così Massenzio e Costantino avevano il titolo di totius orbis imperator. Ma la vera attuazione restava riserbata a Costantino, soprattutto dopo Crisopoli. Nel 324 egli, sconfitto Licinio, ha attuato la monarchia politica universale; nel 325, in occasione del concilio di Nicea, ha partecipato alla definizione del concetto cattolico di .tovcxpyx divina nel quadro del dogma trinitario. Anche per questo, la sua posizione nei confronti con le gerarchie cattoliche appare difficile a definire, e si di scute molto su di essa. Certo, il concetto paolino che omnis potestas a Deo era per eccellenza attuale; ma il nuovo imperatore cristiano doveva fare i conti con l'episcopatus unus et indivisus della formula ciprianea. I moderni discutono l'espressione taxoro -rv &x16 « vescovo di quelli di fuori », espressione con cui Costantino si desi gnava secondo il suo biografo, il vescovo Eusebio di Cesarea. Questa espressione è, certo, la pietra angolare per l'interpretazione di tutto l'atteggiamerto di Costantino nei riguardi della Chiesa: ma appunto per ciò dobbiamo cercare di spiegarla nel quadro dei concetti costantiniani, per quanto è possibile coglierli dalla legislazione dell'imperatore. Or in questa appare una fondamentale distinzione fra i clerici (più largamente, lectores apicum hypodiaconi ceterique clerici) e i populi, fra i clerici e le civitates . Corrispondentemente, dobbiamo ammettere una Tert., Adv. Prax., 3. C. Th. xvi, 2, 6; cfr. xvi, 2, 10. Il famoso passo su Costantino btLsxoiro -rCv &x-r& in Eus., v. Const., 4, 24. Se la nostra interpretazione è nel vero, saeculi necessitates in C. TI,. xvi, 2, 6 va con xoaux (saecularis) &p- in Eus., h. e. vii, 30, 19 (a proposito
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fondamentale distinzione fra gli t(axoiot « sovrintendenti » alle ecciesiae e l'imperatore &irxorro « sovrintendente » al saeculum (alle saeculi necessitates). La distinzione ha dunque una sua base in quella che noi chiamam mo la duplice economia (§ 58) del mondo tardo-romano. Al potere dei vescovi sulle ecclesiae (e sulle ecclesiarum divitiae) si oppone il potere di Costantino sul saeculum ed in genere, su « quelli che sono fuori » dell'organizzazione ecclesiastica. Questo voleva essere un chiarimento preciso dei suoi rapporti con le alte gerarchie ecclesiastiche; ma è evidente che nel sistema da lui elaborato in precedenza c'erano mo menti, come per esempio il foro ecclesiastico, in cui h distinzione fra chiesa e xoattx &pr tendeva ad attenuarsi, e si potevano determinare frizioni tra le due distinte categorie costantiniane. C'erano ormai da una parte il « vescovo dei laici », cioè l'imperatore, dall'altra i rimanenti vescovi « vescovi delle chiese »; ma mentre l'imperatore ri nunziava, appunto, a « sovrintendere » alle chiese (essendo questo un compito degli altri episcopi), viceversa l'istituto del foro ecclesiastico autorizzava una giurisdizione degli altri episcopi anche sui populi. Dopo la vittoria su Licinio, Costantino aveva espresso la sua rinnovata gratitudine al
di Aureliano che decide xta -rx-nx sull'ecclesia di Antiochia). Allo stesso modo, i pauperes appoggiati alle ecciesiarum divitiae di C. Th. XVI, 2, 6 si contrappongono ai poveri 9Fcùaev dell'organizzazione ecclesiastica in Eus., v. Const., 1, 43. Diremo dunque: il concetto o (oac'.), extranei, che nel linguaggio paolino (I Cor. 5, 12) e tertullianeo (A poi. 7) indica i non Cristiani, viceversa indica il saecuium in genere nel linguaggio costantiniano. Mentre ot prima si riferiva alla religione in sé, ora viceversa ol <ù ( ix-r6g si riferisce solo all'organizzazione. Infatti, lo stesso Eusebio ha chiarito, nello stesso passo v. Const., 4, 24, che &7rLax07ro 'rTv &x'r6 indica governo di tutti i sudditi, dunque anche (anzi soprattutto) dei Cristiani (-ro' &pyoiko'i v'rx), in quanto siano fuori dell'organizzazione strettamente ecclesiastica. Del resto, Costantino è per Eusebio oI Tpoct) hrxoiro. xovò (comune a tutte le Interessante il cfr. con Giuliano (PIGANI0L, Emp. chr., 137, 67).
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dio dei Cristiani con un appello in cui si invitavano i sudditi orientali ad abbandonare i templi della menzogna. e ad abbracciare la vera fede; aveva poi emanato una lex super ecclesiasticos catholicos per Orientem, la quale purtroppo non ci è pervenuta, ma può ricostruirsi s perché accentrata intorno al problema dell'immunità dei essa clerici dai munera curialia fu considerata da lui come espressione definitiva del punto di vista dello stato a questo riguardo. Con questi presupposti egli, &axoito Tcàv &x- 6 , partecipa al concilio di Nicea. 85. Il concilio di Nicea. Arianesimo e ortodossia.
Nel concilio di Nicea — il primo concilio ecumenico nella storia della Chiesa si riproponeva (maggio-giugno 325) il grande travaglio che aveva segnato di sé la storia del cristianesimo, dalla gnosi in poi. Fino a che punto si potevano conciliare le esigenze della mentalità ellenica con la tradizione biblico-apostolica? Il punto cruciale delle controversie era stato sempre il problema cristologico. Come era possibile, da un punto di vista razionale, che il Cristo, vale a dire il Logo, « patisse » la Passione e « sentisse » la Resurrezione? Può il Logo-dio patire e. percepire come l'uomo? E d'altra parte: quali erano i rapporti fra il Logo e l'unico Dio? Antiochia ed Alessandria avevano dato sempre i seggi metropoliti dove il problema cristologico si era prospettato in tutti i suoi aspetti più difficili a intendere, con teologúmeni che esprimevano un'inestinguibile ansia di sistemazione razionale o in sede d'indagine 8 Essa deve dedursi, anche per ciò che riguarda il titolo, dal confronto tra C. Th. xvi. 2, 7 de cetero ad similitudinem Orientis con de cetero legem meam super ecclesiasticos catholicos datam custodire mandavi dell'epistola, del tutto parallela, ai vescovi di Numidia. C. Th. xvi, 2, 7 e lettera ai vescovi di Numidia sono del 5 febbraio 330; ma la lex doveva essere stata data già prima di C. Th. xvi, 5, 1 (1 settembre 326), dove sono citati i privilegia concessi precedentemente.
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più realistica (che sarà considerata propria della scuola antiochena) o in sede di interpretazione biblico-allegorica (propria della scuola alessandrina: l'allegorikon). Era ancora recente la grave crisi della Chiesa orientale ai tempi del vescovato antiocheno di Paolo di Samosata, secondo cui il Logo era entrato nel Cristo « come in un tempio »: una forma di monarchianesimo subordinaziano, in cui i vecchi motivi gnostici si erano ripetuti con accentuazione neoplatonizzante (non diceva la gnostica Pistis Sophia che Gesù, privo di anima, aveva al posto di essa la forza divina, più o meno come la &voqi. tr divina di Paolo di Samosata?). Condannati dalla sinodo del 268, i teologimeni del vescovo « zenobiano » di Antiochia avevano ancora dei seguaci, i « pauliciani », la cui condanna fu pure confermata, ora, nel concilio di Nicea. Ma questo doveva occuparsi soprattutto di un'altra forma di monarchianesimo subordinaziano: anch'essa facente capo ad Antiochia, precisamente ai discepoli del presbitero Luciano (i « Colloukianisti ») ed insegnata da uno di essi, il presbitero di Alessandria Ano. Anche Ano predicava che il Logo si era incarnato ma non fatto uomo (pxs ox &vvp 7vcock); vale a dire negava che Cristo avesse anima umana, ma poneva, al posto dell'anima umana in Cristo, il Logo stesso. Conseguenza: il Logo aveva sofferto e percepito; il Logo, dunque, era fattura e fondazione (ktisma) del Padre, non era coeterno col Padre. Così il principio (tipicamente adatto alla mentalità ellenica) che Cristo non avesse anima umana (o per lo meno un interior bomo come gli uomini), ma viceversa avesse il Logo stesso al posto dell'anima, finiva irrimediabilmente col subordinare il Logo al Padre, e culminava nella dottrina ariana che « ci fu un tempo, in cui il Logo non era ». Fu la dottrina del Logo ktisma. L'eresia cristologica divenne così una eresia sul dogma trinitario. Già il vescovo Alessandro di Alessandria, ed una sinodo alessandrina del 318, avevano condannato i teologilmeni di Ano (formulati nella sua opera
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QcXct). Ai primi del 325, una sinodo ad Antiochia ribadiva la condanna. Nel maggio-luglio di quell'anno, il concilio di Nicea condannò definitivamente Ano, e stabilì, in armonia con una regula fidel, il simbolo « niceno » (19 giugno 325). Nelle deliberazioni del concilio, al concetto ariano del Logo « incarnato» ma non fatto uomo (in quanto non dotato di interior bomo come gli uomini) si opponeva il concetto del Logo « incarnato e fatto uomo », e quindi al concetto ariano dello ktisrna e del poiema si opponeva che l'Unigenito era « generato non fatto », coeterno al Padre e consustanziale col Padre. Si aggiungeva il « credo » nello Spirito Santo. Il dogma trinitario era così stabilmente formulato. I difensori della tradizione « ecclesiastica » - soprattutto Eustazio di Antiochia, Marcello di Ancira e il diacono Atanasio di Alessandria - vincevano sulla speculazione ellenizzante di Ano. Anche i seguaci di una dottrina « origeniana » intermedia, erano stati sconfitti; il principale di essi, il già ricordato Eusebio vescovo di Cesarea in Palestina, si piegò alle decisioni del concilio, ma restò sempre avversario della dottrina di Marcello e di Atanasio. Il concilio deliberò altresì sulla definitiva organizzazione episcopale della Chiesa, affidando ai supremi seggi metropoliti di Roma Alessandria ed Antiochia la giurisdizione sugli ecclesiastici rispettivamente d'Occidente, di Egitto, della diocesi orientale escluso l'Egitto. Una posizione speciale avevano i metropoliti di Efeso, delle due Cesaree (di Palestina e Cappadocia), di Eraclea in Tracia. Di Bisanzio come superiore seggio metropolitico non si poteva L ancora parlare, sebbene Costantino già nel 324 avesse pensato di fare di quella città la « nuova Roma », la « città di » (Costantinopoli); il vescovo della « nuova Costantino Roma » (che fu inaugurata l'li maggio 330) restava per ora subordinato al seggio di Eraclea in Tracia. Il concilio di Nicea deve intendersi come interessato soprattutto agli ecclesiastici, secondo la già osservata di-
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stinzione fra organizzazione ecclesiastica e saeculi necessitates, cui corrisponde la distinzione fra episcopi ecclesiastici e l'imperatore x07ro -tv Ex-mq . Perciò le sue del berazioni riguardano non solo la predicazione ufficiale deli dogma trinitario nella ecclesia catholica (cioè nell'episcopatus unus et indivisus della formula ciprianea), ma, come si disse, l'ordinamento dei seggi episcopali, ed inoltre il celibato dei clerici, la punizione dei clerici che prestano a interesse ecc. La questione pasquale, nella quale del resto le resistenze dei Quartodecimaní si erano da tempo superate, fu chiarita con la proibizione delle forme giudaizzanti « protopaschite »; il concetto romano della Pasqua come Pasqua di resurrezione aveva definitivamente trionfato (alcune resistenze protopaschite si conservarono in Mesopo tamia). Non si può dire che Costantino abbia imposto al concilio di Nicea la sua volontà: è7rwxo7rog rcTv b-r6, cioè sovrintendente dei laici (e solo di questi), egli non ha voluto sovrapporsi alle decisioni degli episcopi da lui indipendenti. Costantino riconosceva, così, di non avere autorità ecclesiastico-charismatica, ma solo secolare a Deo. Anche in questo caso, noi possiamo intendere la sua opera solo se partiamo dal presupposto che egli si considerava veramente un servo del dio dei Cristiani, la cui religione, come pubblicamente dichiarava nel concilio di Nicea, era stata preannunciata anche dal grande poeta della romanità, Virgilio (nella quarta ecloga). Personalmente, anzi egli avrà potuto avere persino delle simpatie per le dottrine di Ano, tanto vero che aveva sentito il bisogno di sollecitare la convocazione del concilio ecumenico, sebbene precedentemente Ano fosse stato sconfessato nella sinodo di Alessandria. Del resto, la sua sorellastra Costanza, vedova di Licinio, era di convinzioni ariane. Nel corso del tempo, infine, Costantino si è avvicinato sempre più alle dottrine di Ano. Il concilio di Nicea ; con la formula del Logo consustanziale al Padre (ó' liooúaLo; ), non doveva apparirgli in certo mo-
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do una concessione al monarchianesimo patripassiano? Di fatti, poco a poco, i grandi difensori della formula nicena furono sconfessati. Nel 330 Eustazio di Antiochia fu deposto da una sinodo, e d'allora per un cinquantennio circa - sebbene rimanesse una comunità dissidente di fede nicena, poi sdoppiatasi in due - il seggio « cattolico » (nel senso di « ufficialmente riconosciuto ») di Antiochia fu nelle mani di elettori di fede ariana. Nel 335 una sinodo cos tantinopolitana depose Marcello di Ancira. La stessa sinodo fu diretta contro Atanasio, ormai divenuto vescovo di Alessandria: egli fu mandato in esilio'a Treviri, sotto l'accusa. di aver impedito l'invio dell'annona civilis nella « nuova Roma » (si annunciava così il contrasto fra Alessandria e Costantinopoli). In tutte queste vicende, ha avuto gran parte l'influsso del vescovo ariano Eusebio di Ni comedia, il quale doveva alla fine battezzare l'imperatore poco prima della sua morte. Sia detto tra parentesi: è evidente che questa circostanza del battesimo prima della morte non può essere considerata un argomento per dimostrare che Costantino, « nella sua intimità », non sarebbe stato un cristiano: proprio la circostanza che egli attenda la morte per ricevere il battesimo ci introduce meglio alla comprensione della sua personalità, ansiosa di arrivare presso il suo dio senza macchia, con la recente purificazione del battesimo. Egli aveva servito con fede il Dio dei Cristiani, al quale doveva le sue vittorie. Ma come « vescovo dei laici » doveva tener conto, anche, della popolazione pagana. Nel novembre 324 decise di trasformare la vecchia Bisanzio in « città di Costantino »; vi fece costruire chiese, ma anche templi pagani. La sua città era destinata a diventare la « nuova Roma », con le medesime attribuzioni dell'antica (un senato di viri clari, che poi sarebbero divenuti clarissimi, attuava il vecchio disegno dei « due senati », del tempo di Caracalla e Geta; le gratifiche di pane, l'annona civilis, equiparavano la plebe di Costantinopoli ai cives Ro-
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mani domo Roma).. Erano lontani i tempi in cui i Cristiani avevano goduto della rovina di Bisanzio nella guerra civile fra Settimio Severo e Nigro; l'imperatore cristiano risiedeva nella grande città, e nel Foro di essa era raffigurato come Helios. L'iscrizione della statua al Foro esaltava Costantino « che splende a modo di Helios ». Il grande convertito viveva ancora sotto il fascino della vecchia religiosità solare? Ma il sole, non più dio, era per lui soltanto l'immagine fisica della potenza imperiale. Ora Costantino apportò delle correzioni alla sua politica immunitaria, stabilendo che i ricchi curiali non fossero nominati clerici e così godessero delle immunità (tale disposizione, del resto, non aveva valore retroattivo); in casi come questo l'imperatore ritorna indietro su alcune concessioni, ma non abolisce, in linea di massima, il principio fondamentale a cui si era ispirato. L'episcopato greco ha riconosciuto il carattere cristiano di tutta la sua opera, venerandolo come p xxr.xc-ro &rra-roXo « tredicesimo apostolo », in quella chiesa che egli aveva eretto alla memoria degli Apostoli e dove un sarcofago, in mezzo a dodici stele commemoratrici degli Apostoli, conservava il cadavere dell'imperatore rivoluzionario. 86.
La rivoluzione monetaria ed economica di Costantino. La politica dei prezzi nel basso impero.
Costantino non limitò la sua rivoluzione al campo religioso. Egli si sentiva come investito di una missione: ricostruire su nuove basi questo stato romano dove la tradizione era stata sì forte da imporre forma pagana ad uno stato largamente cristiano, ancora per tutto il iii secolo. Allo stesso modo, Costantino ruppe i legami con tutta la tradizionale economia monetaria del principato. Diocleziano era ancora legato alla tradizione monetaria del in secolo: egli aveva difeso il denarius, ormai moneta divisionale a corso forzoso; anche se, d'altra parte, aveva cercato
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di fondare il sistema monetario sulla solida base dell'aureus di 1/60 di libbra e dell'argenteo di tipo neroniano. Costantino trasse le conclusioni del tentativo dioclezianeo, ma con una mentalità del tutto nuova. Se si voleva fondare il sistema monetario sulla solida base della moneta di metallo pregiato, bisognava (ed era in ciò la novità rivoluzionaria) abbandonare la moneta divisionale al suo destino: essa avrebbe avuto non il valore che lo stato le attribuiva, che Diocleziano aveva disperatamente difeso nel suo edictum de pretiis - ma piuttosto il valore reale che il suo rame aveva, nel mercato, in rapporto con l'oro. Era fallita la politica dioclezianea del compromesso fra la buona moneta d'oro e la cattiva moneta divisionale; Costantino fondava il suo sistema sulla moneta d'oro, e non esitava a far cadere la moneta divisionale attribuendole il suo reale, e mode stissimo, valore. Nel basso impero l'effettivo computo monetario si fonderà, ben più che sul calcolo tradizionale in sesterzii o in denarii (il quale può persistere come « fossile »), essenzialmente sul solidus aureo, questa stabilissima moneta di 4 grammata d'oro, la quale ha veramente caratterizzato tutta la storia del mondo « bizantino ». Poche volte, nella storia dell'Occidente, si è compiuta una rivoluzione economica così radicale. Se la vogliamo intendere, dobbiamo considerare tutta la storia dell'impero romano. Il denarius è la moneta divisionale, la moneta dei vilia commercia; ma è anche, anzi appunto per questo, la moneta dello stato, la moneta che lo stato difende stabilendone il corso ufficiale ed imponendolo ai banchieri. Quando cade il denarius, si ha la crisi del in secolo: nella maniera più disperata, gli imperatori cercano di salvarlo, ricorrendo persino - come a suo luogo notammo - ad emissioni minime di moneta aurea per uso interno (per i rapporti internazionali - per i federati germani come per il commercio orientale - l'emissione di moneta aurea fu sempre necessaria). Ad ogni modo, fino a Diocleziano la moneta divisionale resta la moneta che Io stato difende,
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con quell'accanimento con cui difende tutta la tradizione romana. Con Costantino, tutto ciò scompare: l'imperatore rivoluzionario abdica alla difesa del denarius; d'ora in poi, la vita economica sarà dominata dall'effettivo rapporto fra il solidus aureo e la moneta divisionale. Crolla il potere di acquisto del denario di rame, crollano la piccolissima borghesia e il proletariato. Si crea una nuova società, in cui i detentori di oro, unici, possono effettivamente controllare la vita dello stato; i detentori della moneta di rame sono rovinati. La storia del basso impero, si intende solo se si insiste su questa grande innovazione costantiniana. La nostra documentazione sulla storia dei prezzi, all'infuori dell'Egitto, non è certo così ricca come si vorrebbe: ma essa ci con sente, tuttavia, di misurare l'enorme trasformazione subìta allora dalla economia monetaria. Sotto Costantino, il valore della moneta di rame precipitò: di fatti, per Costantino 75 000 folles - questa è una moneta di rame di molto più elevata che il denarius - equivalgono appena a un paio di buoi, più 100 modii di sementi varie; calcolando in cifra tonda, una tale merce, nell'editto di Diocleziano, sarebbe dovuta costare qualcosa come 20 000 denarii, dunque 2000 o 4000 folles (è incerto se il follis dioclezianeo equivalesse a 10 o a 5 denarii); la moneta di rame ha dunque, con Costantino, un potere d'acquisto circa venti volte minore che nell'editto di Diocleziano, ed anzi, probabilmente, addirittura quaranta volte (a seconda che il follis dioclezianeo si calcoli a 10 o a 5 denarii). È un crollo. spaventoso. Mai il mondo romano aveva visto qualcosa di così grave. Noi studiosi moderni, in genere, non valutiamo abbastanza questo crollo, perché teniamo lo sguardo rivolto alla crisi monetaria del iii secolo; ma questa crisi non faceva che equiparare l'aumento dei prezzi con il contenuto argenteo del denarius; per esempio, si diminuiva al 50% o al 20% il contenuto argenteo del denarius perché si voleva ottenere una dissolutio aeris
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alieni (cfr. § 25); i possessori di denarius erano garantiti, ed anzi - come mostra l'editto dioclezianeo - strenuamente difesi. Invece, con la svalutazione costantiniana della moneta di rame, i possessori di folles e di denarii furono del tutto rovinati. E ben lo sapevano gli antichi; uno scrittore del quarto secolo, l'autore del de rebus bellicis, dice che « l'emissione (largitio) di moneta d'oro, divenuta abbondante (profusa) all'epoca di Costantino, fece dell'oro, non già del rame, la moneta dei vili commerci (aurum pro aere vilibus commerciis adsignavit) », ed attribuisce a questa nuova economia le ribellioni della « oppressa povertà » (afflicta paupertas) la quale sinora fondava la sua vita economica sul vile follis e sul denarius di rame imbiancato (la regione in cui i prezzi erano più che mai alti è la Gallia: infra, § 108). Tutta la storia del basso impero, difatti, consiste negli sforzi condotti dagli imperatori, da Giuliano in poi, per diminuire gli effetti della rivoluzione economica costantiniana, pur dovendosi conservare, come base stabile della moneta, il solidus e non più il denarius. Questa è una « politica dei prezzi », la cui storia è quanto mai interessante, perché ci dà l'idea del modo in cui si tentava disperatamente di controllare, di « dirigere » (come ora si direbbe) la vita economica, sebbene questa dovesse muoversi, sulla base del solidus costantiniano, nel quadro degli effettivi reali rapporti di valore tra le merci e le stesse monete considerate nel loro valore intrinseco. Ecco alcuni esempi (quanto all'Egitto, qui il crollo dei prezzi assume una fisionomia particolare, dipendente dai presupposti della precedente moneta locale; perciò noi abbiamo dato e daremo esempi non-egiziani). Come si ricor derà, nell'editto dioclezianeo 100 denarii di al massimo 4 g. di rame (o forse meno) avrebbero dovuto comprare un modio kastrense di frumento. Valentiniano i (364-375) fissa un calmiere, per cui un modio di frumento si compra
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a Costantinopoli con 1/ 12 di solido ' , cioè k se calcoliamo 1 solidus = circa 7200 nummi, come poi nell'epoca di Valentiniano iii) qualcosa come 600 nummi di rame; il rame ha un potere di acquisto per lo meno sei volte minore di quel che aveva nelle intenzioni di Diocleziano. Vale a dire: con Valentiniano i la moneta di rame non è più caduta di circa 20 (o 40?) volte rispetto alla dioclezianea; ma solo di circa sei volte. Siamo in una congiuntura economica che vuole essere per eccellenza deflazionistica; tra Costantino e Valentiniano i c'è stato di mezzo Giuliano, l'iniziatore di una forte politica deflazionistica (di fatti, Giuliano considerava il prezzo ideale del grano a 1/15 solido per modio). La politica deflazionistica di Giuliano (in/ra, § 94) e di Valentiniano i sarà continuata normalmente in Oriente, dove - fatto economico di alto interesse - il prezzo del grano a Costantinopoli resterà sempre al livello fissato da Valentiniano i, per secoli e secoli, fino alla dinastia macedonica (ix secolo). Diversa la storia dell'Occidente: qui si passerà a un deflazionismo esagerato (in/ra, § 97), sicché sotto lo stesso Valentiniano i, nel 368, si avrà un prezzo di 1/30 solido in Africa (regione produttrice, non importatrice di grano), mentre sotto Valentiniano iii, nel 445, quando ci attenderemmo un aumento per la sopravvenuta gravissima crisi (invasione vandalica), viceversa si fisserà nella stessa Africa il bassissimo calmiere di 1/40 solidò, vale a dire 180 nummi. Così, l'Occidente tornava alla politica economica dioclezianea: con l'editto di Diocleziano (301) 100 denarii dovrebbero comprare un modio di frumento, con il calmiere di Valentiniano in (445) 18 nummi (i quali non avranno pesato più che 100 denarii dioclezianei) dovrebbero altresì comprare un modio di frumento. Lo stesso quadro ci dà la storia di altri generi alimentari. Nell'editto dioclezianeo la caro porcina si valuta a Cfr. i miei Aspetti sociali del IV secolo, p. 191.
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16 denarii la libbra; nel 362, forse, nonostante la tendenza deflazionistica di Giuliano, a qualcosa come 200 nummi (il prezzo preciso è espresso in 6 jolles, unità di rame che più tardi - e forse già sotto Giuliano - vale qualcosa come 30 nummi); nel 3 87/8, sotto Teodosio i (e nell'Illirico), a 1/80 solido (qualcosa come 90 nummi) la libbra; nell'Occidente tende a cadere fortemente, a 50 denarii (= nummi?) nel 419, ad appena 30 nummi (. 1/240 solido) nel 445. Dai frammenti che qui ho addotto, la politica dei prezzi nel basso impero si ricostruisce approssimativamente e comunque è chiara nelle sue linee fondamentali. Anche quando noi ignoriamo con assoluta precisione la valutazione della moneta di rame più grande, il follis, e di quella piccola, il nummus e il denarius (che sembrano essere la stessa cosa), tuttavia possiamo farci un'idea della situazione generale, perché si tratta sempre di vili monete di rame, che si partono dal « formato grande » dei 9,7 g. del Jol lis dioclezianeo sino al piccolo e piccolissimo di 3,8 e 1,3 ai quali faceva capo (non sappiamo con precisione i particolari) il denarius dioclezianeo. Ci si chiede: quale è stato il destino di questi spiccioli che vanno da 9 a 1 g., di questi pezzi della povera gente? Possiamo riassumere nel seguente modo. Nell'epoca di Costantino la nuova economia si fonda sul solidus aureo; diminuisce la convertibilità della moneta di rame in buona moneta d'oro; il valore del rame crolla; da Giuliano comincia la deflazione, moderata in Oriente, precipitosa in Occidente. Ma, nonostante tutte le deflazioni, anzi appunto per esse, ogni cittadino del basso impero « sente » che il solidus è ben altra cosa dai circa 7200 nummi cui ora è equiparato; e nel 424, con una costituzione che caratterizza tutta la congiuntura economica del basso impero, Teodosio n proibirà, perpetuo generalique decreto, che si possano pagare le tasse in vile moneta di rame; lo stato desidera moneta di oro, o se mai contribuzione in natura. L'innovazione costantiniana vive-
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va sempre nella effettiva svalutazione del nummus di rame; queste monetine ènee di 4 o di 2 grammi, come anche i più grossi folles, sono disprezzate proprio dallo stato, che viceversa vorrebbe difenderle nella sua politica dei prezzi. Per esprimermi con termini del mondo contemporaneo: è come se lo stato di o ggi pretendesse di fissare prezzi bassi di calmiere, pagabili in moneta cartacea, mentre poi, all'atto in cui paghiamo le tasse, rifiijtasse di ricevere moneta cartacea, e ci chiedesse oro o, se mai, frumento, ecc. Nella società del basso impero, il solidus (e, in genere, la ricchezza reale) è dunque l'effettivo signore. L'oro, questa favolosa macchina dei romanzi, è il comune denomina sta delle ambizioni degli ultimi Romani. Unica remora sono i tipici casi dei ricchi cristiani (o anche manichei) i quali, in un impeto di ascesi, si sbarazzano del loro oro. Per l'ardente asceta cristiano, può anche darsi che i sacchi di oro non abbiano valore; già Porfirio si era meravigliato dell'ansia di povertà dei ricchi cristiani; e, circa un secolo e più dopo Porfirio, Agostino vescovo lamenterà che i pagani esprimano sempre questa loro sdegnata meraviglia (famose le donazioni della « miliardaria » cristiana Melania juniore e del suo sposo Piniano). Lo stesso Agostino, anzi, quando, ancora manicheo, era professore di retorica alla università di Milano, era rimasto colpito dal disprezzo di un povero cristiano per un sacculus di 200 solidi. Ma, tirate le somme, questi erano casi eccezionali: la società del basso impero resta una società a piramide, il cui ideale è il solidus, il cui vertice è tenuto dai proprietarii di oro, senatori o alti burocrati. L'attività dei banchieri, specie delle banche centrali, attira sempre più l'attenzione: nel 384 i banchieri di Roma chiederanno di poter cambiare il solidus al prezzo di mercato (forense), ora più alto, anziché a quello più basso del periodo precedente; nel 448 il re degli Unni, Attila, chiederà la consegna del « direttore della banca romana » ( ,rpa.7rg 'r4
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xx-rck cPnv rpo T)-roc ),perché questi ha accettato il deposito di vasi d'oro che il barbaro pretende per sé. La economia monetaria tende ad adeguarsi il più possibile ai valori reali: a diventar « naturale ». Sulla politica monetaria di Costantino si può dare, in conclusione, questo giudizio: la sua opera fondò l'economia tardo-romana (e bizantina) sul solidus; la conseguente rovina dei detentori di folles e di denarii indusse i suoi successori, da Giuliano in poi, a tentare una forte deflazione, a fissare calmieri bassi (bassissimi iii' Occidente); fu questa l'unica sostanziale correzione alla politica monetaria costantiniana, la quale, per il resto, rimase - per via del solidus - per secoli e secoli, la politica monetaria tardo-romana e « bizantina ». 87.
L'ordinamento tributario.
Secondo una dottrina oggi molto diffusa (la quale è al centro di alcune considerazioni del grande storico-sociologo Max Weber, come anche di un'eccellente opera del compianto storico finlandese Mickwitz), tutta la storia economica del basso impero si potrebbe riassumere nella polarità di un'economia naturale, che sarebbe nell'interesse della burocrazia e dell'esercito, e di un'economia moneta ria, che sarebbe nell'interesse dei contribuenti. In questo senso, nel iv e v secolo avremmo da una parte la burocrazia e l'esercito, i quali premono per una esazione dei tributi in natura, dall'altra i contribuenti, i quali premono per una adaeratio, o conversione in denaro, dell'annona e in genere dei tributi in natura. Ma tale formulazione può cogliere nel vero per ciò che riguarda il 111 secolo in genere, epoca in cui l'economia monetaria ha il suo cardine nella moneta divisionale; solo parzialmente si applica al basso impero, il quale invece, da Costantino in poi, ha il suo cardine nel solidus aureo. Anzi, è naturale che la burocrazia e gli organi statali, in tempi normali, vedessero
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possibilità di guadagni in un'alta adaeratio dell'annona e dei . tributi; tali guadagni consistono nello interpretium fra l'alto prezzo di adaeratio e il basso prezzo di coemptio (ossia requisizione forzata, secondo un sistema che già riscontrammo per. esempio nel rupc); ày GpOtaT!X/~ ; del principato). Dovremo dunque dire che il riflesso della rivoluzione monetaria costantiniana nell'evoluzione tributaria può definirsi nel seguente modo: adesso i collatores non temono più le sole esazioni in natura (come nel in secolo), ma temono anche, e soprattutto , gli .alti prezzi di aderazione, in quanto questi si esprimono non nella vile moneta divisionale ma viceversa in solidi . Ciò sarà evidente per esempio nel 355-360, quando Giuliano l'Apostata, nominato cesare in Gallia, ridurrà la tassazione da 25 solidi per caput ad appena 7 solidi, imprimendo così un corso deflazionistico (ed un corrispondente andamento debole del. mercato) a tutta la politica economico-tributaria dell'impero. Ma già per il periodo costantiniano esistono documenti dai quali si rileva che in certi casi i contribuenti dovevano temere l'aderazione delle annonicae species, in quanto questa aderazione poteva calcolarsi a prezzi alti da ,parte degli organi burocratici. In linea di massima, si può dire che i contribuenti preferivano ormai una tassazione in natura, la quale però non andasse al di là di ciò che essi potevano direttamente fornire dai loro praedia, e dunque non li costringesse a fornire (in ,satura o in a erazione) roba che nei loro praedia (§ 61) mancava (ut nihil adaeret et si alicubi aliquid defuerit non praestetur nec in nummo exigatur 8 ). Questa è la vecchia aspirazione di
8 Questo passo è tolto dalla Vita Claudii nella H. A.: soggetto di adaeret è il funzionario, in questo caso Claudio. L'essenziale è che il funzionario sia non molestus nello stabilire il tasso di aderazione; l'imperatore Valente è in adaerandis reliquorum debitis non molestus, secondo Amm. xxxi, 14, 2 (diversamente, dunque, dal patricio suo suocero, di cui Amm. xxvi, 6, 7). Sul passo della
Vita Claudii cfr. ora VAN SICKLE, « Ant. cl. », 1954 , p. 47.
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Cassio Dione (supra, SS 49; 76); ma è anche l'avvio ad un sistema economico che fa centro non sulle esigenze dello stato ma su quelle del praedium; ci avviamo a grandi passi verso il prevaler dell'economia domestica. Quanto ai piccoli possessores, questi si sentono sempre più colpiti dalla tassazione, tanto più che le autorità, sfiduciate e intransigenti, non concedono ad essi alcuna dilazione e li co stringono a pagare le tasse senza ritardi (inter ipsa indictorum exordia); dalle enormi difficoltà che essi incontrano per un tale regime tributario (che spesso li costringe a ricorrere a prestiti) si deriverà la tendenza di questi piccoli collatores ad appoggiarsi ai grandi, una tendenza che infine sbocca - nonostante l'opposizione dello stato e dei curiali - nel patrocinium. Anche così ci avviamo a gran passi verso l'economia domestica prevalente. È inoltre evidente che questo sistema tributario conduce sempre più alla fissazione dei coloni alla gleba, in modo che così divengano servi terrae, come vedremo. 88.
La società del basso impero. Gli schiavi. Conclusioni sull'ordinamento tributario.
Ancora una volta: la società del basso impero è una società « a piramide », alla cui base stanno i coloni sempre più colpiti dalla nuova economia di base aurea (af/licta paupertas, secondo il già citato de rebus bellicis); mentre all'apice della piramide sono i ricchi possessores, con le loro proprietà lavorate o da coloni o da schiavi o dagli uni e dagli altri. La condizione degli schiavi è migliorata, seguendo un processo che già a suo luogo sottolineammo, iniziatosi dal i secolo 0 25); a questo miglioramento ha anche contribuito la religione cristiana, per cui i domini considerano gli schiavi come spiritu fratres, religione conservos (così Lattanzio, nell'epoca di Costantino); il papa Leone i dovrà poi proibire (cfr. § 58) che lo schiavo sia consacrato vescovo (metà del v secolo). In complesso, si
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può dire che « i padroni fanno per gli schiavi una vera e propria opera di padri o maestri, allontanandoli dalmale e correggendoli nell'errore; né hanno diritto di ucciderli, come usa presso i barbari » (così Prisco, anche nel v secolo); senza contare il largo uso di manomissioni testamentarie (su cui insiste lo stesso Prisco, nel passo citato). In compenso è peggiorata la condizione dei coloni, divenuti di diritto o di fatto servi terrae: proprio la concorrenza del lavoro servile ha ridotto i loro salari a veri e propri salari di fame (qualcosa come 12 solidi all'anno, senza contare i casi disperati, con un salario ancora minore); come possono pagare, con questi salari, la capita zione, che arriva sinanco a 25 solidi (supra, § 80)? Si verifica insomma un conguaglio di fatto tra le condizioni dei coloni e quelle degli schiavi (caso tipico è la Pannonia: in/ra, § 107): anche nella suddetta terminologia per indicare il colono (servus terrae = 6ouXoq -rèot &yp(). Tuttavia, nei dominii dei grandi latifondisti, la parte lavorata prevalentemente a schiavi tende ad assumere una fisionomia sua propria (quello che sarà l'indominicatum) rispetto alla parte coltivata da liberi coloni. Sarebbe errato pensare che considerazioni di puro carattere economico conducessero sempre all'abbandono*dell'economia servile, giacché questa, accanto agli svantaggi già noti a Columella nel i secolo, ed ora diminuiti di molto, conservava tuttavia il grande vantaggio che gli schiavi (cfr. già l'epoca di Traiano: supra, § 40) normalmente non potevano essere chiamati in servizio militare. Viceversa, i liberi coloni fornivano il contingente principale per l'esercito propriamente romano, essendo questo reclutato per mezzo della pro tostasia-prototy pia, « tassa del sangue ?> a cui essi erano obbligati (quando tale tassa veniva aderata, si aveva, come già nel in secolo, l'aurum tironicum); c'è appena bisogno di dire che il lungo servizio militare, 20-25 anni (stipendiorum tarditas), è rovinoso per la produttività agricola.
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Le città presentano migliori condizioni di vita sociale: già nell'editto dioclezianeo un operaio è pagato il doppio, o anche più, che un operarius di campagna: 50, o più, denarii al giorno (oltre il mantenimento), di fronte ai 25 dell'operarius rusticus. Il basso impero ha accentuato il carattere coattivo dei collegia o corporazioni, che in origine avevano avuto carattere economico, ma, come già si vide, sin dal in secolo si erano inquadrate in un ordinamento, per così dire, dirigistico: specie a Roma, i cui pistores e suarii sono responsabili, rispettivamente, delle gratifiche di pane e di caro porcina ai cives Romani domo Roma. Vive nelle città il commercio; si incontrano in esse i pantopolae, ma molto più còmunemente gli stabili negozi e le aziende, soprattutto le tabernae e gli ergasteria; i cui proprietari, come in genere tutti i negotiatores mercatores, sono tenuti alla auri atque argenti lustralis oblatio - una tassa che però non colpisce quei nego tiatores-coloni i quali vendono i prodotti delle loro terre. Quest'ultimo punto è importante, perché costituisce come un inizio di distinzione fra ecotiomia di mercatores ed economia domestica o curtense. Ci sono resti delle antiche forme tributane indirette, i portoria, ed in genere i vectigalia, che ancora si danno in appalto . Il cursus publicus, con la fornitura dei cavalli per la posta imperiale, è particolarmente gravoso: pestis orbis Romani, secondo lo storico Aurelio Vittore. Campagna e città si distinguono ormai nettamente: da una parte il piccolo contadiname, dall'altra la borghesia curiale ed il proletariato industriale-commerciante cittadino; da una parte la capitatio-iugatio, dall'altra i munera curiali e gli obblighi dei collegiati e la auri et argenti lustralis collatio; da una parte la rusticitas, dall'altra la civilitas. Sui latifondisti senatori premono ancora altre tasse: La traduzione gotica di publicanus, motareis, è dunque perfettamente aderente.
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la praetura (che ormai si poteva considerare una tassa vera e propria, sia pur nell'antica forma liturgica), il follis settatorius. Tutti lamentano il peso enorme della tassazione:si chiede d'ogni parte - come fu chiaro dall'epoca di Giuliano l'Apostata in poi - una riduzione di essa, cioè (essendo tutta l'economia ancorata all'oro) un aumento del potere d'acquisto dell'oro, e in ultima analisi una deflazione del solidus. Ma, nel comune lamento, solo uomini di grande ingegno consideravano a un tempo i gravami della rusticitas e della civzlitas (così l'autore del de rebus bellicis, già ricordato). In generale, l'alta borghesia vedeva nella rusticitas una classe inferiore, quella che avrebbe dovuto effettivamente sopportare il peso tributario; ed è significativo che uno storico competentissimo di diritto tributario, il comes fisci Zosimo, scrivendo nella seconda metà del v secolo, rimproveri a Costantino la lustralis collatio, la praetura, il follis - ma non faccia menzione della capitazione. Vale a dire: le difficoltà economiche dei contadini non interessavano la civilitas; la interessavano, viceversa, gli obblighi tributarii gravanti sull'aristocrazia senatoria e sul proletariato cittadino. (Sebbene le critiche di Zosimo riflettano certamente la sua convinzione personale, e si colleghino con l'abolizione della praetura e del follis senatorius nel 450, tuttavia non è escluso che quelle critiche fossero tradizionali nella storiografia « anticostantiniana » e si trovassero già accennate nella opera storica di Eunapio che è fonte di Zosimo.) In conclusione, la « società a piramide » del basso impero è composta di schiavi; liberti (per la latinità iuniana cfr. supra, § 48); coloni, che ormai diventano per lo più servi terrae, e tra cui si arruolano i soldati romani; proletariato cittadino; piccola borghesia cittadina. E in alto, la classe dirigente: i curiali, su cui grava la responsabilità solidale nell'esazione delle tasse; la burocrazia, al cui fastigio si trovano i clarissimi.
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89. La classe dirigente del basso impero. L'ordinamento amministrativo. Critici e apologeti dell'ordinamento giudiziario. La classe dirigente del principato era costituita in duplice modo: dai senatori e dall'ordine equestre. La duplicità si conserva nell'administratio civile del basso impero. Da una parte ci sono i senatori, la cui carriera si deriva dalla tradizione di famiglia; dall'altra, scomparso l'ordine equestre nel senso del basso impero, ad esso si sostituiscono i servigi resi negli officia burocratici Ma la continuità di principato e basso impero è assicurata dal fatto che in questi officia burocratici si fa carriera, per i vari gradi (matricula decurrente); con una titolatura che continua quella della carriera equestre del principato: si arriva a centenarius e infine a ducenarius, né più né meno che nelle cariche equestri del principato. Sebbene praticamente questa administratio civile (che pur è una militia) non abbia nulla a che fare con l'esercito, tuttavia i funzionari dei vani « ministeri » sono teoricamente arruolati in corpi di esercito; arruolati nella legio I Adiutrix i funzionarii della prefettura pretoriana, come a dire del primo ministro, arruolati nelle cohortes (cohortalini) i funzionarii degli altri « ministeri ». Ma nei gradi supremi, non c'è più distinzione tra senatori e burocrazia: il prefetto al pretorio di origine non senatoria è vir clarissimus come il suo collega di origine senatoria; e lo stesso si dica degli altri supremi funzionarii (questo fenomeno è una colossale generalizzazione del processo di adlectio in amplissimum ordinem, già tipico del principato; i fortunati adlecti inter praetorios « saltano » la praetura e si attirano l'invidia degli autentici senatori). Non più l'appartenenza ad una classe conferisce il diritto ad una carica, come nel principato; ma la carica stessa (administratio) dà il titolo (clarissimus; perI ectissimus) che nel principato caratterizza gli appartenenti rispettivamente alle classi. senatoria ed
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equestre. Tuttavia, come nel principato c'era un latente conflitto tra senatori e ordine equestre, così anche ora c'è una latente oposizione dei senatori alla burocrazia, specie alla burocrazia di palazzo: e il rivoluzionario Costantino, che ha dato incremento alla burocrazia, si attira gli strali della Historia. Augusta, la quale per questa parte non esita ad attaccarlo aspramente (sia pure con i mezzi termini di una compassata prudenza senatoria), avvicinandolo a quell'imperatore che essa, tipica Historia senatoriale, considera il peggiore che mai -sia stato - Elagabalo. In questa società « cristallizzata » noi troviamo dunque i vecchi uffici del principato, ma fissati in più rigide forme gerarchiche. Il grande ideale è diventare, come si diceva nel principato, amici dell'imperatore (il termine è ancora letterariamente usato), come anche si dice, comites imperatoris (al basso impero rimonta la grande titolatura araldica: comites « conti »; duces « duchi »; in seguito anche barones). Separati - già da tempo - gli organismi di corte dagli uffici veri e proprii, troviamo da una parte il praepositus sacri cubiculi, dall'altra il .magister officiorum (alle cui dipendenze sono i vecchi scrinia delle procuratele centrali - memoriae, epistolarum, libeliorum, dispositionum -, J monopolii o fabricae di armi, le scolae della guardia palatina; a lui fanno capo anche gli agenti del servizio segreto, i temutissimi agentes in rebus). Sono nel consistorium principis, accanto al magister officiorum ed ai maestri degli scrinia, le altre supreme cariche centrali: il. quaestor sacri palatii (con competenza di leges dictandae); il comes sacrarutn largitionum (una specie di ministro delle finanze, con competenza anche sulle manifatture tessili di stato); il comes rerum privatarum (che sovrintende ai rationales rei privatae, ai procuratores sai tuum ecc.); i vari comites dell'imperatore. Nel timore che i tribuni et notarii della prefettura pretoriana diano ulteriore potenza a questo organo già per sé potentissimo, Costantino li costituisce in un corpo a parte di tribuni et
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notarii, diretto dal primicerius notariorum. Ma il lastigium della burocrazia resta il medesimo che nel principato, la di prefettura al pretorio: con la differenza che ormai venuta carica civile, anche per lo scioglimento dei prela prefettura acquista, poco a poco, quel carattoriani tere regionale che si addice ad una organizzazione « fede rale prefettizia » dell'impero: così, dal 320 in poi, si sono formate le prefetture d'Oriente, d'Italia, delle Gallie, d'Africa (quest'ultima poi scomparsa sotto i figli di Costantino); i prefetti però continuano ad essere considerati -
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come un corpo collegiale, viri clarissimi prae/ecti praetorio
per esempio (anzi, in qualche periodo del basso impero anche una singola prefettura regioin epoca stiliconiana nale potrà essere occupata collegialmente). Da questi prefetti dipendono i governatori delle diocesi, vicarii; da questi i governatori delle province (consulares, correctores, praesides); una posizione particolare hanno invece i tre proconsoli, di Asia Africa Acaia, vecchi ma venerandi fossili dell'ordinamento repubblicano e dell'augusteo. Naturalmente, essendo ormai basilare il concetto della distinzione fra carriera civile e carriera militare '° (sebbene anmilitia), he la civile sia considerata come vedemmo i prefetti al pretorio e i governatori diocesani e provinciali sono iudices senza alcuna competenza militare: teoricamente soldati, portano il cingulum militiae (unico che abbia la toga è l'esponente del senato, il prefetto urbano). Le iscrizioni ufficiali li lodano per la loro conoscenza delle dodici tavole e dell'editto pretorio e delle constitutiones principum, oppure in genere per la loro « giustizia » (8txon oaúvi~ ), per l'aequitas, la integrilas e via dicendo. Ma nel segreto i provinciali si lamentano per i lavores che -
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10 Salvo preces dei provinciali, come nel caso della Tripolitana sotto Valentiniano I: cfr. citazioni supra, S 69 (la cumulazione a Nepoziano sarà stata concessa in base alle AÉ 1952, 173 stesse preces che già avevano ottenuto la effimera cumulazione per ìl povero Ruricius). -
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essi accordano ai loro protetti e per la loro ingordigia (iudicum pravitas) nell'esazione delle imposte - e si augurano, tra l'altro, una consolidazione delle leggi, come quella che verrà in fine con il Codex Theodosianus sotto Teodosio ii (438). Tuttavia, le consolidazioni giuridiche non bastano a sopprimere l'insoddisfazione dei provinciali per l'ordinamento giudiziario. È interessante il « contrasto » fra un critico e un difensore dell'ordinamento giudiziario in un testo del v secolo: il critico dichiara che « le leggi non si applicano a tutti; se il trasgressore di esse è uno dei ricchi (-rCIv ouTov-rov), egli non paga il fio; se è povero, viene punito, tranne che muoia prima del giudizio, tra le lungaggini e le enormi spese del processo »; l'altro risponde che « le leggi si applicano a tutti, sicché anche l'imperatore deve ubbidire ad esse » e che le spese del processo sono necessarie per pagare gli adsessores dei giudici. La conclusione, che anche noi possiamo trarne, è questa: il principio umanistico della uguaglianza di fronte alla legge si era ormai affermato, abbandonandosi notevolmente la dottrina della distinzione pro qualitate personarum; ma d'altra parte, in una « società a piramide », in una società fondata sul solidus, era impossibile una coerente applicazione del principio teorico umanistico. Naturalmente, nel basso impero non mancano casi di disinteressato attaccamento alla giustizia: per esempio un amico di Agostino, Alipio' nella sua qualità di adsessor del comes sacrarum largitionum, riuscirà a resistere alle pretese di un potentissimus senator; ma proprio il rilievo, con cui Agostino presenta il caso del suo amico (nelle Con fessiones), dimostra che atti di questo genere importavano un certo coraggio. Poiché dignitas e ricchezza tend no a coincidere, la distinzione delle pene pro qualitateo personarum, che era tipica del iii secolo, si limita ora alla concessione di privilegi penali vel dignitate aliqua vel fortunís. I lamenti sull'ordinamento giudiziario non sono che
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un aspetto della generale insofferenza per gli organi burocratici nella società del basso impero. La burocrazia è spesso disprezzata, quasi sempre odiata. Tra tutti gli officiali dei « ministeri », difatti, i più potenti e i più temuti sono i funzionarii di quello che noi chiameremmo « corpo investigativo », gli agentes in rebus, sotto la competenza del magister of/iciorum. Costantino ha considerato il « corpo investigativo » come una specie di tessuto connettivo nella burocrazia dell'impero; i suoi successori agirono nel-, lo spirito del suo sistema, quando - con una riforma che rimase - deputarono il supremo officiale (princeps) degli agentes in rebus a supremo officiale nello o//iciurn della prefettura pretoriana; così, anche questo o/I icium era sottoposto al controllo di uno spione ad esso estraneo. E del resto, in tutti gli officia di funzionari preminenti, uomini degli agentes in rebus controllano l'apparato burocratico. Sempre li accompagna, dovunque essi vadano, l'indignazione dei provinciali; ma accanto all'indignazione è il terrore. Poco a poco, si crea la convinzione che questi officiali sono la « rovina » (così li considera lo storico Aure lio Vittore) dello stato romano. E l'odio contro gli agentes in rebus si estende a tutta la burocrazia in genere. Di questo odio approfitta la grande nobiltà senatoria latifondistica: come già dicemmo, il dualismo fra senatori e ordine equestre si continua, nel basso impero, in una sorda opposizione dei senatori ai burocrati di ordine curiale o anche di bassa estrazione. Ciò porterà (specie nell'Occidente) all'assorbimento delle cariche supreme da parte della nobiltà` senatoria, mentre nell'Oriente ci sarà un equilibrio fra supremi funzionarii di ordine senatorio e altri di più modesta estrazione (nell'epoca di Giustiniano, lo storico Agathias potrà compiacersi di queste possibilità di carriera aperta a uomini colti di origine modesta). La composizione della classe dirigente è dunque soggetta a cambiamenti, in taluni casi e regioni prevalendo la nobiltà senatoria, in taluni altri prevalendo la burocrazia; alla
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quale distinzione corrisponde, sul piano economico, la contrapposizione fra periodi e regioni in cui prevale l'economia domestica-latifondista (senatoria), ed altri in cui prevale l'economia monetaria (burocrazia). Ad ogni modo, la situazione generale è riflessa bene' - nonostante l'esagerazione naturale in un testo di tal genere - in uno scritto ispirato all'intransigente puritanismo cristiano dei pelagiani: (in/ra, § 107) questo scritto (il de divitiis, del 400 a.C. circa.) dichiara che si raggiungono le cariche supreme « o per la ricchezza o per indegni servigi » (aut pecunia aut indigno servitio); alludendo nel primo caso soprattutto ai ricchi senatori e anche, in genere, alla « compera » delle cariche (questa sarà normale in epoca bizantina), nel secondo caso ai servigi degli agentes in rebus e dei burocrati in genere. Siamo dunque in presenza di un tipico tratto del basso impero: il servizio nella burocrazia è considerato indignum servitium; ciò che molto difficilmente poteva dirsi nell'alto impero, quando l'o//icium era vera e propria militia, consacrata nelle tres miitiae equestres e fondata su quelle. Ora, neanche la grande cultura di molti fra questi burocrati riesce a riabilitare, nei mormorii dei critici, l'indignum servitium; e i nobili senatori non si oppongono a quei mormorii. Nel creare il suo forte stato burocratico, Costantino sapeva bene di dover andare incontro a queste critiche: basti pensare che, nel costituire il corpo degli ageines in rebus, egli era cosciente di dar nuova vita a quegli spioni (frumentarii) del principato, che erano divenuti odiosi al punto da dover essere soppressi da Diocleziano. Anzi, i suoi agentes in rebus erano un organismo investigativo di gran lunga più forte che non i frumentarii del principato. Ma, al solito, l'imperatore rivoluzionario nàn si preoccupava delle critiche. Egli sapeva di costituite una nuova società, gerarchizzata anche dal terrore; e questo voleva. A lui, al solito, si contrapporrà (§ 95) Giuliano. Come lo storico Aurelio Vittore, del quale egli apprezzava l'atteg-
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giamento e i consigli, anche Giuliano considerava una « rovina » gli agentes in rebus; umiliò questo corpo di spioni; li ridusse, da qualche migliaio (o più) che erano, a poco più che una decina; diede un tono antiburocratico a tutta la sua opera. Ma in questo « risanamento » l'opera di Giuliano fallì. La società còstantiniana restava la società del basso impero. Del resto, Costantino aveva chiara coscienza di un altro punto fondamentale: che cioè, in un'epoca come la stia, si andava creando un'altra classe dirigente, non meno importante di quella dell'administratio statale, e anzi più importante. Era il clero. Proprio la grande rivoluzione religiosa garantiva l'avvenire di esso. Chi non amava l'indignum servitium della burocrazia, poteva bene volgersi a quella carriera ecclesiastica che tendeva ad accogliere le migliori intelligenze del tempo nuovo. La città dell'uomo invecchiava, con questa sua pesante administratio che si svolge tra le minacce degli agentes in rebus; ma fuori del saeculum era la comunità charismatica dei fedeli, dove i dirigenti misuravano le loro capacità intellettuali, spesso in lotta fra loro, ma sempre in comunione -rV &ykv ". Così accadde che gli uomini migliori del huovo stato cristiano - non, naturalmente, i pagani pervicacissimi -, a poco a poco, si volsero in gran parte verso la vita religiosa, non già verso la carriera civile. Girolamo ci illustra benissimo questo fenomeno, quando - egli stesso, in origine, funzionario civile - ci dichiara di preferire la vita religiosa ad un travagliato posto di amicus principis. E già al suo tempo, verso il 400, questa tendenza era largamente diffusa. La carriera ecclesiastica era anche, potremmo dire, di gran lunga più « democratica » che quella civile. Al suo fastigio è la sarcina episcopatus: la quale •
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Su questo concetto, ultimamente
Kirchengemeinsch., 1954.
ELERT,
Abendmahl
ti.
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non solo dà un massimo di onori e di relativo benessere (sebbene la purezza di molti vescovi rifiuti persino le gioie della mensa), ma anche richiede un alto prestigio presso le popolazioni urbane. Queste infatti chiedono come vescovi gli uomini migliori, anche se non battezzati (come per esempio nel caso di Ambrogio; in/ra, S 97) o addirittura paganeggnti (come nel caso di Sinesio, vescovo di Cirene); li eleggono e letteralmente li « costringono » ad accettare (come nel caso di Agostino nominato presbitero, poi vescovo, di Ippona). Purtroppo, anche qui spesso le cose si svolgono in maniera violenta: e lo storico Am miano commenta con tristezza i 137 morti, in un giorno solo, in un episodio della lotta fra Damaso e Ursino per il seggio episcopale di Roma.
90. L'esercito. Nello stato del basso impero i soldati sono al centro delle preoccupazioni imperiali: essi devono, difendere la civilitas che si va consolidando nel nuovo impero cristiano. Ma anche in questo l'atteggiamento rivoluzionario di Costantino ha saputo romperla con ogni tradizionalismo, a costo persino di attenuare la disciplina dell'esercito. Egli, difatti, togliendo le competenze militari alla prefettura pretoriana, praticamente distingueva l'organo che doveva provvedere alla annona militaris (e tale organo era stato, nel in secolo, la prefettura pretoriana) dai veri e propri comandi militari (duces, comites e, alla sommità, magister equitum e magister peditum); così la disciplina restava nelle mani degli ufficiali e dei comandi militari, solidali coi soldati e per esempio non alieni dal concedere licenze, in maniera che le species aderate spettanti ai soldati in licenza (stellatura) venissero corrisposte agli stessi comandi (questi sono costituiti dai tribuni militari, comunemente nominati di tra i protectores, e posti al comando della legione, ossia praticamente dei distaccamenti legio
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nari; ormai di fatto l'unità militare si riduce a poco più che 1000 uomini). Inoltre Costantino, svolgendo dei principii che già si erano fatti sentire nell'età severiana e ancor più in quella di Gallieno e di Diocleziano, dovette pensare a soddisfare le richieste di civilitas « vita cittadina » dei soldati. Non si era già imposto il principio che le vexillationes distaccate dalle legioni fossero considerate esercito di manovra, che i loro soldati godessero dei teatri e delle terme e insomma di tutti gli agi cittadini? Proprio la civilizzazione rendeva impossibile conservare quella vecchia disciplina romana che staccava gli uomini dalle loro case per un ventennio o più all'incirca, e li buttava a vivere nelle zone di confine, senza alcun autentico rapporto con il mondo della grande civilitas. Così si andò formando l'esercito comitatense, contrapposto a quello limitaneo; ai comitatensi le grandi città, ai limitanei i castra e le cittadine di confine; i critici di Costantino potranno lamentare che ormai i soldati migliori non erano più, come ancora al buon tempo della tetrarchia, ignari auri et lapillorum. Se calcoliamo a 500 000 uomini i soldati del basso impero, dovremo pensare che all'incirca 200 000 di essi erano comitatensi, 300 000 assegnati ai contingenti delle truppe di confine. Tuttavia, in questo caso l'evoluzione non è stata così radicale come generalmente si sarebbe indotti a pensare. Ancora con Costantino le due fondamentali forme di servizio militare restano ufficialmente quelle stesse del principato. Vale a dire: da una parte il servizio nelle legioni (con la sopravvenuta distinzione di truppe comitatensi, o di manovra, e truppe limitanee, o di confine; e gli scelti protectores); dall'altra il servizio - presentale o limitaneo - negli auxilia (con la distinzione, tipica del principato, di alae e cohortes). Solo più tardi, nell'epoca di Valentiniano i e Valente, la nostra documentazione mostra che la distinzione basilare tra legioni ed auxilia è divenuta secondaria rispetto alla distinzione generica fra
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comitatensi (tanto legionari, quanto degli auxilia e dei cunei) e limitanei (anch'essi legionari, degli auxilia e dei cunei) 12 Ad ogni modo, la distinzione costantiniana di comitatensi e limitanei non deve far dimenticare che Costantino ha rivolto al limes una grande cura, combattendo 12 Ho giustificato alcuni di questi punti in Aspetti sociali, cap. vi , spec. p. 337. - Qui devo aggiungere un'osservazione (cfr. quanto osserverò innanzi, a proposito della datazione di Vegezio). Noi conosciamo l'ordinamento militare dell'epoca di Costanzo ii, Giuliano, Valentiniano I-Valente da Ammiano Marcellino; conosciamo l'ordinamento d'intorno al 430 dalla Notitia dignitatum. Orbene: i corpi di truppa in Ammiano appaiono per lo più abbinati: loviani con Herculiani, Divitenses con Tungrecani, due numeri Moesiaci (in cui io vedo Pannoniaci con Moesiaci), Cornuti con Bracchiati, Petulantes con Celtae, Heruli (Aeruli) con Batavi, lovii con Victores, ecc. Insomma, in Ammiano troviamo normalmente duo agmina accoppiati; anzi, almeno in un caso, i duo agmina hanno un solo vexillum (XXVII, 1, 6, Aeruli-Batavi). La Notitia dignitatum, in Occidente, presenta tracce di questo classico sistema (che chiamerò « ammianeo ») di duo agmina accoppiati (NDOcc. vii, 3-14; 16-17); ma sono tracce « sulla carta », tracce « fossili », tanto vero che nella stessa NDOcc. VII la serie di numeri italiani è dispari; tanto vero che in NDOcc. vii, 15 i Mattiaci seniores intramezzano, spezzando la serie, due coppie «ammianee », e che queste tracce sono limitate a corpi seniores; tanto vero (last but not least) che non c'è traccia alcuna dell'importante accoppiamento « ammianeo » di Lanciarii con Mattiarii. Nell'Oriente, la Notitia dignitatum non presenta neanche questo fossile, per l'esercito comitatense; tra i limitanei, troviamo una debole traccia dell'ordinamento accoppiato ammianeo nella relativa vicinanza di Superventores (al comando del duca di Scizia) e Praeventores (al comando del duca di Mesia ii). Riassumo: il più importante avvenimento militare nella storia del basso impero è la scomparsa dell'ordinamento a coppie, ammianeo; la rovina di questo ordinamento ammianeo è dovuta ad un sopravvenuto aumento di numeri, sicché i fossili di esso ci appaiono solo fra i seniores, mai fra gli iuniores (tale rovina dell'ordinamento accoppiato fu evitata nei corpi iuniores ancora sotto Valente: Amm. xxvi, 6, 12; poi, apparve inevitabile); inoltre, vecchi numeri scomparivano, mentre nuovi se ne aggiungevano, ed anche questa fu una ragione della scomparsa dell'ordinamento ammianeo. Conclusione: la definitiva vittoria del sistema comitatense fu parallela alla scomparsa dell'ordinamento accoppiato; essa è posteriore a Valentiniano i, ma ha le sue radici nell'epoca di questo imperatore. Cfr. § 82, sui Victores. - Sull'esercito del basso impero, ultimamente VAN BERCHEM, op. cit.
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contro i Goti nel 322 e 323, ed infine inviando contro di essi, nel 332, il figlio Costantino ii, il quale li sconfisse e costrinse ad un Ioedus. Anche contro i Sarmati danubiani Costantino si è volto con successo; quanto ai Persiani, la pace fu rotta nel 336, l'anno prima della morte di Costantino - e non si può dire che l'imperatore sia stato negligente rispetto a questa delicatissima zona limitanea. La tradizione anticostantiniana ha poi ignorato i meriti militari di Costantino, considerandolo l'imperatore che, per la sua distinzione fra limitanei e c6mitatensi nelle legioni, « aprì l'impero ai barbari »; a ciò ha anche contribuito il grande iispetto dei Goti verso di lui, e la sua tendenza ad immettere barbari nell'esercito, sino alle altissime cariche e addirittura - come poi gli rimproverava Giuliano - ad usque lasces et trabeas consulares. Ma, come già nel iii secolo, anche ora l'accoglimento di barbari nell'esercito era tutt'altro che un capriccio dell'imperatore. Esso si ripeteva sempre dalla difficoltà di reclutare buoni soldati romani tra i contadini cui questa « tassa del sangue » (la già ricordata pro tostasia-prototy pia) appariva una vera e propria rovina, perché li allontanava dalle terre per venti o ventiquattro anni, e rovinava con essi le loro famiglie; anche se Costantino aveva stabilito che i soldati legionari, così comitatensi come limitanei, durante il servizio fossero immuni dalla capitazione personale e da quella del padre della madre e della sposa, e dopo il congedo ricevessero un trattamento immunitario diverso a seconda del tipo di congedo e delle formazioni (comitatensi o limitanee) cui appartenevano (gli ausiliari, così alari come coortali, erano esonerati solo dalla loro capitazione personale). 91.
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La cittadinanza. Principato e basso impero.
Una vecchia tradizione storiografica ci ha abituato a distinguere nettamente principato e basso impero, « prin
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cipato » e « dominato ». Come emerge dalla trattazione precedente, anche noi dobbiamo accettare tale distinzione, con la sola precisazione che l'abisso tra Diocleziano e Costantino va accentuato: sotto tutti i punti di vista - non solo sotto il punto di vista religioso - Diocleziano è ancora, tutto, nel principato, mentre Costantino è il grande rivoluzionario della storia romana - anzi della storia antica. Ma tutto ciò non deve farci dimenticare che nel l'impero « a prospettiva charismatica » di Costantino (in fra, App. iii), ed insomma nel basso impero, si trovano « cristallizzate » le forme di vita del principato. C'è dunque una enorme rivoluzione, la più grave di tutta la storia dell'Occidente; ma in essa si fossilizzano, e fossilizzate vivono, tutte le grandi esperienze del principato. Già abbiamo potuto notare questo fenomeno, quando osservammo che al dualismo del principato « senato-ordine equestre » corrisponde il dualismo del basso impero « senatoburocrazia di origine non senatoria »; anche se chi perviene ai fastigi di questa burocrazia viene assimilato con adlectio (come nel principato) ai clarissimi di origine senatoria. Allo stesso modo, le funzioni della prefettura pretonana non sono che una continuazione delle sue funzioni civili nel iii secolo: sciolto il corpo dei pretoriani, i suoi officiali, ormai funzionari civili, sono teoricamente soldati della le,gio I Adiutrix; ma alla prefettura pretoriana resta, come nel III secolo, l'amministrazione dell'annona militare; ad essa la concorrenza con l'imperatore nella giurisdizione civile, come nel iii secolo. Analoghe osservazioni si possono fare per gli altri officia. Anche il patriziato, questa particolare nobiltà conferita dall'imperatore, s'incontra - ma non più ereditario - nel basso impero; è lo spiendor patriciatus, che conferisce superiorità di rango a quello dei consoli che ne sia insignito; nel v secolo esso finirà con l'avere una particolare importanza 13, se con13
Anche il concetto di parens principis, che avrà grande im-
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nesso col magisterium militum. L'economia è rivoluzionata dal nuovo sistema monetario; ma la dualità di economia monetaria, da una parte, ed economia naturale per l'annona civilis e per l'annona militare, dall'altra, resta, tal quale, come nel in secolo; anzi, alcuni aspetti del rapporto fra le due economie (l'aderazione richiesta dai magistrati) ricordano, addirittura, l'avanzata epoca repubblicana, l'epoca di Verre 14 . Le caratteristiche delle città (come anche delle province, ora divise in frusta e ordinate nelle diocesi) restano le medesime che nel principato ma più chiaramente definite (cfr. Capitolo secondo). Infine, notammo la medesima continuità nel trattare l'ordinamento dell'esercito: anche qui, la vecchia distinzione fra legiones e auxilia rimane, sebbene di fatto divenga secondaria rispetto all'altra distinzione fra comitatenses e limitanei; l'arruolamento si compie sempre fra i contadini, come già sotto Traiano e ancor più chiaramente nel III secolo (supra, § 49) ; anche l'aurum tironicum rimonta al III secolo; la durata del servizio militare è all'incirca la medesima che nel principato. Cosa significa, nel basso impero, la distinzione fra legiones ed auxilia? Nel i secolo essa aveva significato distinzione fra i cittadini romani, arruolati nelle legioni, e i peregrini, arruolati negli auxilia; ma già nel • II secolo tale distinzione aveva cominciato a scomparire. Restava dunque, una distinzione di carattere soprattutto disciplinare: più rigida la disciplina delle legioni, meno rigida quella degli auxilia. Come mostra una costituzione del 325 la portanza sotto Stilicone (cfr. STRAUB, « La Nouv. Clio », 1952, p. 94), ha precedenti in epoca severiana, come già mostrammo trattando di questa. 14 L',indifferenzaa (conguaglio) delle due economie resta un principio teorico valido: si confronti l'epoca neroniana (legato di Elvio, AR 55 c; reddito in frumento dum in aetatem pervenerint, poi in denaro) e C vili 17896, sotto Giuliano l'Apostata (centum modii vel modiorum centum pretium, ecc.).
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quale fu accolta nel codice Teodosiano, la distinzione è considerata da Costantino addirittura basilare per la concessione dei privilegi immunitari, i quali sono maggiori per le legiones, di molto minori per gli auxilia (supra, S 90). Scomparsa la differenza del i secolo che si fondava sulla civitas, Costantino la conservava, dunque, nel rispetto della disciplina e dei privilegi immunitarii. La distinzione fra legioni e auxilia è così rimasta nella coscienza comune; ed errano certamente quegli studiosi moderni, che considerano semplice lavoro di tavolino il famoso passo dello scrittore militare Vegezio (in/ra, § 102; LXVII) in cui si dichiara che « per evitare la disciplina rigida delle legioni, la maggior parte delle reclute preferiscono arruolarsi negli auxilia » (quod vitantes plerique in auxiliis lestinant militaria sacramenta percipere). Vegezio espone qui un fatto caratteristico del tempo in cui scrive (probabilmente 390-395). La cosa è anche troppo naturale: chi ha interesse ad arruolarsi nelle legioni, se anche dagli auxilia si può venire distaccati nei corpi, ben trattati e ben ambientati, delle forze comitatensi? Anche per ciò che riguarda la cittadinanza, del resto, non dobbiamo immaginare un netto contrasto tra il principato e il basso impero. Nel basso impero continuano le distinzioni fra cittadini romani e non romani. Nelle legioni e negli auxilia si arruolano cittadini romani (o comunque uomini che senz'altro ricevono la cittadinanza), con le ricordate immunità `. Ma i corpi composti di gentiles e 15 Naturalmente, non si danno più diplomi; ma un'ideale continuazione di questi (con estensione ai legionarii) è costituita dalle concessioni di immunità, come la già ricordata (C. Th. vii, 20, 4) tavola dei privilegi di Brigetio. Così pure già i Flavii includevano concessione di immunità in regolari diplomi (C xvi, 25) o nella speciale tabula domizianea di civitas per i legionarii della x Fretense (supra, xxvi, cfr. xi, per Claudio). - Non c'è dubbio che la legione Tziannorum (Amm. xxv, 1, 19; non Ziannorum; la T è certa per la corruttela Triariorum; cfr. NDOr. viii, 17 Tzaanni) è arruolata fra cives.
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laeti restano sempre distinti dai soldati romani, ed è proibito il matrimonio fra la donna romana e il gentilis. Così, quando la Notitia dignitatum (un registro statale redatto definitivamente verso il 430) ci presenta dei laeti (cavalieri) e dei gentiles (fanti), noi dobbiamo vedere in questi
corpi limitanei dei soldati che ancora non vengono considerati cittadini romani, sebbene molti fra essi siano già da gran tempo stanziati nell'impero. Anzi, taluni di loro sembrano essere indigeni non ancora donati di cittadinanza : così, almeno a giudicare dal nome,, appaiono, per esempio, i laeti Lingonenses « stanziati in vani luoghi della Belgica. i » (per diversa dispersi Belgicae primae) e i laeti Neruii, nella Belgica secunda. Tutto ciò (cfr. § 59) può dimostrare che la romanizzazione non si è verificata dappertutto in maniera assoluta: in realtà, l'ostilità degli indigeni celti di Armorica (nella Lugdunensis II) alla romanizzazione è quanto mai evidente nel basso impero (inf ra, § 108).
Proprio queste circostanze devono farci riflettere su un fenomeno che non ci attenderemmo; e che ha, tuttavia, un notevole significato. Tutti, a prima vista, saremmo indotti a pensare che Costantino, questo grande rivoluzionario, abbia dato il colpo di grazia alle sopravvivenze della non-cittadinanza, ed insomma all'istituto dei dediticii che Caracalla aveva escluso dalla civitas (supra, § § 48; 58). Ma questa opinione, sebbene universalmente divulgata, è certamente inesatta. Popolazioni indigene non romanizzate ancora nel basso impero sono considerate come barbari « nella vita »: così, d'intorno al 350, i Mauri (infra, § 107). Resta, soprattutto, l'istituto dei dediticii (nel senso della costituzione di Caracalla), fondamentale nella vita dell'impero; ancora nel 406 essi sono distinti dalle più compatte formazioni barbariche dei foederati; ma, come i loederatí, sono considerati estranei alla civitas. La contrapposizione di cittadini e non cittadini è evidente per l'Egitto e la Cirenaica: in Cirenaica, in un
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decreto dell'imperatore Anastasio (491-518), troviamo una netta distinzione tra cives Romani ed Egiziani, tPo&ot e Aiyiro.; questa distinzione aveva dunque un fondamento, nonostante gli innumerevoli Aurelii; se la distinzione è così viva in Cirenaica, a maggior ragione dobbiamo ammetterla per l'Egitto. Gli indigeni non romanizzati (non ellenizzati) sono sempre non-cittadini; anche se - naturalmente - uomini appartenenti a singole comunità di non-cittadini abbiano sùbito la cittadinanza, appena riescono ad uscir fuori dalle loro comunità. Nello stesso tempo, le forme della latinità iuniana continuano, comunissime, nel v secolo (supra, § 48). Solo Giustiniano eliminerà la latina libertas e la dediticia libertas. Queste limitazioni non contraddicono al quadro della rivoluzione di Costantino, come già lo abbiamo delineato. Esse ci aiutano, anzi, a intendere, nelle sue caratteristiche, l'effettiva portata della rivoluzione costantiniana, e a darne un'interpretazione adeguata. 92.
Interpretazione della rivoluzione di Costantino: politica, economia, religione.
Costantino è il più violento rivoluzionario della storia romana: egli ha avuto il coraggio di spezzare con i vecchi schemi, e di accettare senza grandi compromessi il portato dell'enorme trasformazione che si era compiuta nel l'impero. La sua rivoluzione religiosa è parallela alla sua rivoluzione economico-sociale e alla trasformazione degli ordinamenti militari: all'opposto di Diocleziano, egli non si è affannato a spegnere l'incendio che divorava il vecchio mondo, ma viceversa ha costruito il nuovo stato con gli dementi fornitigli da un processo storico conseguente. Perciò non dobbiamo meravigliarci se alla fondazione dell'impero cristiano sotto di lui corrisponde, sul piano economico-sociale, la fondazione di quella che chiamammo « società a piramide », in cui i detentori di oro sono
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all'apice e l'a/flicta paupertas sta alla base, senza avere possibilità di sollevarsene. Il processo storico del in secolo aveva condotto ad accentuare l'esigenza di una l.Lovp/x « potere unitario » centralizzato, che con Costantino diventa monarchia per grazia di Dio, del Dio dei Cristiani; anche la stratificazione sociale rientra nello « stile » di questo stato per eccellenza « monarchico ». Alla società a piramide, in cui dominano l'imperatore per grazia divina ed i potentiores con lui, corrisponde, sino a diventare quasi un simbolo, il nuovo sistema monetario che si fonda sul solidus aureus anziché sul denarius, e che non si caratterizza più dal cambio forzoso fra aureus e moneta divisionale, ma dall'effettivo (si direbbe « naturale ») cambio forense tra la moneta di pregio e la moneta divisionale. Chi considerasse queste cose superficialmente, potrebbe meravigliarsi che ad uno stato per eccellenza « monarchico » corrisponda uno stato che praticamente abdica alla fissazione di un corso forzoso tra moneta aurea e moneta divisionale 16 Ma se si considera più attentamente lo « stile » del basso impero (cioè il carattere della rivoluzione costantiniana), si comprenderà che proprio uno stato per eccellenza « monarchico » doveva fondare la sua stabilità sul rapporto gerarchico fra i detentori di effettiva ricchezza (la quale, in termini di economia monetaria, si esprime nel solidus) e gli humiliores (la cui ricchezza, in termini di economia monetaria, si esprime nella moneta divisionale). Spogliato del suo apparato tradizionale, che si configurava nel privilegio delle due classi dirigenti senatoria ed equestre, lo stato del basso impero diventava una specie di organismo unitario burocratico, in cui fastigi supremi della società sono contrapposti alle condizioni degli humiliores come la moneta 16 Il corso è fissato dallo stato in maniera abbastanza vicina, o addirittura identica, ai prezzi forensi dell'oro; quando questi cambiano, i banchieri chiedono un corrispondente cambiamento.
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d'oro si contrappone a quella di rame; sicché si spezza quella specie di osmosi che aveva caratterizzato il sistema monetario augusteo, fondato sul continuo rapporto, garantito dallo stato, fra aureus e denarius di argento. Nello stesso tempo la nuova formula economica permette di esaltare l'ideale della « cultura », civilitas, continuando (ma anche « cristallizzando ») alcuni ideali dell'impero umanistico; il nuovo stato monarchico già alla fine del iv secolo (dopo Teodosio i) potrà fare a meno di imperatori guerrieri, ma non potrà mai far a meno di una classe dirigente che esalti la cultura. La ricchezza dei senatori è un mezzo alla costruzione delle sontuose ville, in cui essi consumano i loro otia letterarii 17 Lo stato costantiniano, come è « monarchico », così è anche, nella sua configurazione e nel suo principio religioso, « monoteistico ». Vicini al Logo sono ora, per eccellenza, gli episcopi; e l'imperatore può essere accanto ad essi come episcopo per le saeculi necessitates, insomma dei laici (,rcoòv &x-r6, secondo l'interpretazione che ne -abbiamo dato); non può sostituire, a questa gerarchia « ecclesiastica », la sua gerarchia burocratica. Se è scomparso il dualismo delle classi dirigenti senatoria ed equestre (continuandosi esso soltanto nel dualismo tra funzionari di origine senatoria e funzionari di formazione propriamente burocratica), in compenso si affaccia una nuova dualità, ma radicalmente diversa, fra burocrazia dei laici ( ,rc"ùv &x-r6, si potrebbe dire) e gerarchia degli ecclesiastici ossia episcopatus unus et indivisus alla maniera ciprianea. In questa dualità è il primo rivelarsi della polarità, poi basilare in tutta la storia del mondo cristiano fino ad oggi, fra il saeculum (i laici o « secolari ») e la Chiesa (« comunità ») dei Cristiani. La « società a piramide » del basso impero Così per es. verso la fine del iv secolo Teodoro nel Milanese, i Nicomachi in Sicilia; e si potrebbe continuare, per molti e molti altri casi.
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non è che la proiezione concreta della nuova concezione del mondo: la « prospettiva charismatica » (in/ra, App. III). 93. I figli di Costantino.
Dopo la morte della madre Elena, devotamente sepolta nel mausoleo di Tor Pignattara in Roma (via Labi cana), Costantino aveva mutato politica familiare. I suoi fratellastri, nati dal matrimonio del padre con Teodora, furono sempre più favoriti; basta scorrere i fasti consolari dal 333 in poi, per accorgersi della sempre maggiore importanza che questo ramo « cadetto » acquistava nell'impero - nel è console Dalmazio 18, nel 335 Giulio Costanzo, nel 336 Nepoziano (ritroveremo il figlio di quest'ultimo fra gli imperatori del 350). Con la nuova importanza del ramo « cadetto » è connessa la concessione del titolo di nobilissimus ai fratellastri, e in certo modo la stessa creazione del « patriziato » costantiniano. Ma l'atto più significativo, che doveva indicare la nuova importanza attribuita da Costantino al ramo « cadetto » della sua di nastia, era la destinazione di Dalmazio, figlio del console del 333, a successore insieme coi figli di Costantino stesso, mentre accanto ad essi veniva posto come quinto, e col particolare titolo di rex regum, un altro figlio del console del 333, Annibaliano. Dalmazio avrebbe avuto l'Illirico; i figli di Costantino - Costantino il, Costanzo, Costante - il resto dell'impero. La successione si compì in maniera alquanto diversa da quella progettata dall'imperatore. Egli era morto presso Nicomedia il 22 maggio 337; ma « regnò ancora dopo la morte » (Eusebio), e gli atti furono ancora emessi in" suo nome, finché il 9 settembre furono acclamati Augusti i suoi tre figli (il senato ratificò l'acclamazione militare). 18
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il fratellastro, non il nipote di Costantino: cfr. « Aegyptus »,
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Si era verificato, ancor una volta, il tipico caso delle acclamazioni militari: i soldati avevano fatto i loro impe ratori - e precisamente Costantino ir, Costanzo ii e Costante. Pertanto l'acclamazione militare del 9 settembre 337 portava al governo i soli figli di Costantino, ed eliminava dalla scena imperiale i nipoti dell'imperatore. La eliminazione fu violenta: le truppe si sollevarono e massacrarono gli appartenenti al ramo « cadetto » dei Costantinidi, insieme con molte personalità che li sostenevano. Caddero così i fratellastri di Costantino (Giulio Costanzo e Dalmazio) coi figli di quest'ultimo, Dalmazio (destinato alla successione, come dicemmo, nell'Illirico) e Annibaliano (rex re,gum). Furono risparmiati soltanto i due figli di Giulio Costanzo: Gallo di undici e Giuliano (il futuro imperatore) di sei anni. Tutta la politica familiare di Costantino posteriore al 333 veniva cancellata d'un tratto. Intanto Costantino n aveva deciso la liberazione del vescovo Atanasio. Le tendenze ariane degli ultimi tempi di Costantino il grande erano così, almeno in questo primo momento, rinnegate. A Viminacium, si radunò un congresso dei tre fratelli costantinidi: al- primogenito Costantino ii si attribuì definitivamente la prefettura delle Gallie con una specie di tutela sul fratello più piccolo Costante, che ottenne, oltre all'Italia e all'Africa, la diocesi macedonica; Costanzo ebbe, oltre la prefettura d'Oriente, la diocesi tracica. Ma l'interesse del congresso va al di là di questa divisione della parte di Dalmazio fra Costante e Costanzo, e cioè - come allora pareva - fra Costantino 11, esercitante tutela sul fratello più piccolo, e Costanzo; l'interesse del congresso è, piuttosto, nella vittoria del punto di vista occidentale. L'Occidente niceno si oppone all'Oriente ariano: Costantino ii, portavoce di questa ortodossia occidentale ispirata al punto di vista della fede comune, vince su Costanzo, che è il continuatore della politica paterna con le sue tendenze arianeggianti. Così Costanzo ii do-
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vette richiamare Atanasio. La vittoria dei Niceni era, per il momento, evidente. Fu una vittoria dubbia e contrastata. La storia religiosa di questo periodo è la storia delle crisi che seguirono al congresso di Viminacium. Costanzo ri, che aveva ceduto all'ortodossia occidentale a Viminacium, ritirò, poco a poco, le sue concessioni. Il 18 marzo 339 fu deposto Atanasio, per la seconda volta; il 22 marzo 339 il successore designato di Atanasio entrava ad Alessandria, con l'aiuto del « braccio secolare », per l'autorevole intervento di Costanzo ii e per opera del prefetto d'Egitto. Atanasio si rifugiava allora a Roma, presso il papa Giulio I: una sinodo romana dell'autunno 341 dichiarava ingiusta la sua deposizione. Intanto, nuovi avvenimenti avevano mutato la situazione politica. Agli inizi del 340 Costantino ri aveva attaccato il fratello Costante, evidentemente con lo scopo di assicurarsi la pars di lui (unificando in tal modo l'Occidente) o per lo meno - il che fa lo stesso - di esercitare di fatto quella tutela su Costante, a cui il giovane imperatore ormai sfuggiva sempre più. Del padre il figlio primogenito aveva ereditato la audacia e la volontà di potenza. Ma l'incapacità di preparazione e d'ardire, con cui l'impresa fu compiuta, rivelava anche degli errori, che Costantino padre non avrebbe certo compiuto; e l'ostilità italiana a Costantino ii si è espressa in un aspro giudizio dello storico Aurelio Vittore (« per volontà di ruberia egli irruppe in territorio non suo: incauto e crudelmente ambizioso »). La sorte delle armi gli fu avversa: venuto ad Aquileia per sorprendere Costante, egli cadde in agguato, e fu ucciso e gittato nel fiume Alsa, non lontano dalla città. Eliminato, dei tre Costantinidi, il maggiore, restavano ora Costanzo ii e Costante: quest'ultimo, dopo la vittoria di Aquileia, signore ormai di tutto l'Occidente, avendo unito la sua pars a quella di Costantino u. L'avvenimento era altresì importante dal punto di vista reli-
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gioso, in quanto ora Costante, avendo ripreso la politica del fratello sconfitto, poteva sostenere, con le forze riunite di tutto l'Occidente, la causa dei Niceni contro Costanzo u e in genere contro la tendenza ariana in Oriente: nel segno della fede nicena, tutte le partes Occidentis si contrapponevano a Costanzo 11, occupato del resto a combattere i Persiani. Così si poté ottenere il richiamo del vescovo ortodosso di Costantinopoli, Paolo; e quando Costanzo 11, ritornato nuovamente sulla sua decisione, allontanò questo vescovo dalla sua città, Costante poté ottenere la promessa della convocazione di un concilio in Serdica (Sofia), per il ristabilimento dell'unità dell'episcopato. Si trattava di dar un contenuto veramente unitario a quel concetto di catholica lides 19 che Costanzo TI, natu-, ralmente, ribadiva nella sua legislazione. Ma anche le speranze riposte in quel concilio (autunno 343?) ebbero a fallire: i vescovi orientali pronunciarono anatema su Atanasio, Marcello di Ancira e addirittura sul Papa Giulio; viceversa, gli occidentali stabilirono che i vescovi deposti da sinodi provinciali potessero appellare al Papa. Da buon niceno, l'imperatore dell'Occidente celebrò apertamente la Pasqua del 345 con l'esule Atanasio ad Aquileia ed ancora una volta impose -a suo fratello il richiamo dei vescovi esiliati. Nell'ottobre 346 Atanasio, due volte deposto dal seggio episcopale, ritornava finalmente, dopo lungo esilio, nella sua Alessandria: era un altro tentativo di restituire unità nella radicale divergenza fra le due partes dell'impero. Del resto, l'unità era sempre presupposta nella comune lotta contro il paganesimo: l'ostilità antipagana fu inasprita (cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania); questo era un punto di intesa su cui entrambi gli imperatori si incontravano facilmente. Co19 Al solito, il concetto era necessario anche per la legislazione immunitaria: bisognava distinguere immuni, i catholici, da contribuenti, gli 5aeretici (C. TI,. xvi, 2, 11, del 26 feb. 342).
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stante ha anche combattuto lo scisma donatista in Africa. Gravi fenomeni sismici, come il terremoto che colpì Dirrachio nel 346, dovettero avere, in questo tempo, a dif ferenza per esempio dell'eruzione del Vesuvio nel 79, un'eco di religiosa apprensione piuttosto che di compassione umana (un contemporaneo scrive, per esempio, Dyrrachium pro pter habitantium mal itiam a deo mari mersa) 20 Costante incontrò difficoltà in politica interna. Lo storico Aurelio Vittore, dopo aver esaltato l'impero di Costante anche per la sua politica estera, aggiunge: « e questi splendori sarebbero stati certo maggiori, se egli avesse promosso i capi delle province non per il loro denaro, ma per il loro merito ». Ed Eutropio: « l'impero di Costante fu forte per alcun tempo e giusto; ma presto, per la sua cattiva salute e la presenza di amici cattivi, l'imperatore si volse ai vizii, divenne odioso ai provinciali e sgradito ai soldati ». Queste valutazioni sono sostanzialmente esatte, ma si fermano un po' alla superficie. In verità, già lo vedemmo, la riforma monetaria di Costantino il grande, ancorando l'economia dell'impero all'oro, aveva portato la rovina della a/flicta paupertas, e insomma degli bumiliores detentori di moneta divisionale non fornita di alto valore intrinseco. I risparmiatori di moneta divisionale (cioè di rame) erano le vittime designate di una economia monetaria che si commisurava all'effettivo valore del metallo coniato; troppo forte era l'innovazione rispetto alla tradizione del in secolo, specie se si confronti col sistema dioclezianeo. Si poteva tornare indietro? Naturalmente, no; solo, si poteva tentare un miglioramento della moneta di rame, quasi a ridarle nuovo prestigio e maggiori possibilità di acquisto. Proprio questa via tentò Costante 20
Così l'Expositio. Il terremoto, che colpì anche Roma e la Campania, va posto al 346 (Hier., Chron., ed. HeIm, 1913, p. 236); non capisco la datazione al 314 in PHILIPP, RE v, 2, 1887.
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nel 348. Ma c'era un inconveniente: la moneta cattiva scaccia la buona. Con la coniazione di nuova e migliore moneta divisionale, i provinciali tesaurizzavano la moneta di nuova emissione, facevano circolare la vecchia e peggiore; sicché Costante, contemporaneamente alla sua riforma monetaria, dovette anche ritirare la preesistente moneta (pecuniam vetitam) dalla circolazione. Le conseguenze furono disastrose: i provinciali si sentirono derubati di quei loro piccoli, sia pur vilissimi, risparmi in moneta di rame. Era il primo e più grave fallimento della politica economica che affondava le sue radici nel sistema costantiniano: ed era anche una crisi dell'organizzazione burocratica della società, giacché le esazioni tributarie erano affidate ad exactores degli officia prefeziani e soprattutto presidali, laddove i provinciali avrebbero preferito l'esazione diretta da parte delle curie, senza intervento di exactores burocrati. Il malcontento era generale; ma non è un caso che esso si esprimesse soprattutto nelle Gallie, nel territorio, cioè, che aveva già visto la costituzione dell'imperium Galliarum di Postumo e le rivolte dei Bacaudae; in un paese a basso indice demografico, con un contadiname libero in condizioni di effettiva miseria, le la cune del sistema costantiniano affioravano più chiaramente. I prezzi in Gallia erano altissimi. La sollevazione gallica contro Costante ebbe l'aspetto di un tipico pronunciamento militare, che ricorda non mol to da lontano i pronunciamenti del in secolo: lo spirito di quell'età, pur dopo Diocleziano e Costantino, non era ancor tramontato. Il ribelle fu stavolta un semibarbarus, Magnenzio, figlio di una franca e di un celto di Britannia. Il 18 gennaio 350, dopo tredici anni di governo, di cui dieci lo avevano visto assoluto signore dell'Occidente, Costante fu rovesciato. Mentre egli era a caccia vicino ad Autun, Magnenzio con alcuni dignitari, riuniti a banchetto nella città, dichiararono decaduto l'imperatore. Invano Co-
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stante cercò di fuggire in Ispagna: raggiunto ai Pirenei, fu ben presto ucciso. Magnenzio era un semibarbarus, il cui padre apparteneva agli indigeni laeti: un uomo, insomma, di origine dediticia. Aveva con sé non solo i dediticii, ma gli humiliores in genere. Incitava gli schiavi a denunciare ogni evasione fiscale dei padroni 21 Costanzo trovò valido aiuto in sua sorella Costanza, la fondatrice della famosa basilica in Via Nomentana a Roma. Essa non esitò, per salvare la sua dinastia e l'eredità di Costantino, a indurre il vecchio magister editum Vetranione, comandante dell'armata illirica, a prendere (1 mar. 350) la porpora. Così era chiusa a Magnenzio la via verso l'Illirico: ed intanto a Roma il figlio di una sorellastra di Costantino, Nepoziano, prendeva (3 giu. 350) la por pora (non escluderemmo - sebbene le fonti tacciano su questo punto - che anche in questo tentativo « costantinide » fosse presente la vigile cura di Costanza). Magnenzio poté sconfiggere ed eliminare Nepoziano; ma non poté eliminare Vetranione. Ed intanto Costanzo ti aveva buon gioco: accorso in Illirico, egli depose Vetranione e ristabilì in tal modo il prestigio dei Costantinidi in quella regione avanzata dell'Occidente. Ormai era possibile proseguire la lotta contro Magnenzio. Per assicurarsi le spalle in Oriente, Costanzo ii nominò cesare un costantinide (figlio di Giulio Costanzo), sfuggito alle stragi del 337: il nuovo cesare, Gallo, fu sposato a Costanza. Intanto Ma21 lui., Or. i, 34 B. Il problema delle accuse di schiavi ai domini prende tutto l'impero romano: da Caligola a C. Th. ix, 6. - Questa interpretazione dell'origine di Magnenzio (cfr. il lemma ed. da BIDEZ, « Rev. ét. anc. », 1925, p. 312, spec. p. 314) si giustifica con la interpretazione della non-cittadinanza nel basso impero (supra, § 91); se dunque Magnenzio è detto barbaro dalle fonti, ciò ha duplice spiegazione - barbaro in quanto figlio di un indigeno dediticio (così come, in questo torno di tempo, 1Expositzo considera barbari i Mauri; cfr. supra, § 60, a proposito di Massimino), ed inoltre barbaro in quanto figlio di una franca.
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gnenzio, per assicurarsi a sua volta in Gallia, lì aveva nominato cesare suo fratello Decenzio. La lotta fra Costanzo e Magnenzio culminò nella grande battaglia di Mursa, città dell'Illirico, alle rive della Drava. Le forze delle due partes - l'orientale e la occidentale - si scontrarono in una lotta mortale: fu la mischia più sanguinosa che mai si fosse vista nelle guerre civili dai tempi di Bedriacum o dell'« anarchia militare ». Forze enormi stavano dalle due parti: « forze » (osserverà con amarezza Eutropio) « che sarebbero state utilissime per guerre contro gli stranieri, forze tali da procurare immensi trionfi e gloria, e che pur furono distrutte in quella battaglia »; all'incirca si calcolarono 54 000 morti, una somma senza dubbio enorme. Alla fine, la diserzione degli uomini migliori di Magnenzio - condotti dal generale franco Silvano - decise in favore di Costanzo: ed allora il destino di Magnenzio fu in certo modo segnato (28 sett. 351). Egli resistette ancora due anni, rifugiandosi in Italia ed infine in Gallia: alla fine cedette al suo destino e al vincitore. La legittimità dinastica triohfava; con essa, la tradizione sociale e la conservazione. Il figlio di Costantino era ormai, come suo padre dopo la vittoria su Licinio, l'unico signore dell'impero. L'agosto 353 - mese del suicidio di Magnenzio e di Decenzio pareva riportare, sotto un certo punto di vista, la situazione dell'impero unito e indiviso come ai tempi di Costantino, dopo Crisopoli. Piccole e grandi crisi seguirono. Da una parte le difficoltà amministrative incontrate dal cesare Gallo nell'Oriente. Questi seguiva una politica di agevolazioni economiche per gli humiliores, con l'imposizione di calmieri bassi per i prodotti frumentarii che scarseggiavano, in seguito ad una carestia; ma la borghesia antiochena si sentì rovinata dal calmiere, e nascose, per venderli a mercato nero, i generi calmierati. Gallo si abbandonò allora ad eccessi e violenze di ogni sorta. Fu condannato a morte
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a fine 354. In Gallia si ribellò Silvano, il generale che aveva tradito Magnenzio e che ora, per ragioni non molto diverse da quelle che avevano spinto Magnenzio, aveva usurpato la porpora (11 ag. 355): dopo circa quattro settimane, il nuovo tyrannus venne eliminato. Ma piuttosto, gravi giorni attraversava l'impero per le complicazioni che erano seguite alla rivoluzione di Magnenzio. Era compromessa la difesa del limes: Costanzo aveva chiamato i barbari contro Magnenzio, e d'altra parte la battaglia di Mursa aveva così dissanguato le forze armate imperiali, che i barbari, già chiamati contro Magnenzio, potevano ormai agire per proprio conto. Tutt'a un tratto, il pericolo franco ed alamannico si presentò nella sua tragica gravità: Costanzo dové nominare, per le Gallie, un nuovo cesare, Giuliano. Una personalità gigantesca, certamente non inferiore allo zio Costantino, entrava così nella storia 4e1 mondo: teatro della sua azione erano le Gallie, la regione più importante dell'Occidente (di fatti, 50 anni dopo, l'im pero sarà colpito a morte attraverso l'invasione delle Gal-, lie: in/ra, § 108). Ma non solo il limes gallico era minacciato: anche Quadi e Sarmati premevano, al Danubio, contro l'impero; e all'estremo est, si facevano nuovamente minacciosi i Persiani, contro cui Costanzo ri aveva a più riprese combattuto - soprattutto - per la difesa della roccaforte romana, Nisibi - dal 338 al 350. Infine, dopo la vittoria su Magnenzio, Costanzo, ormai unico padrone dell'impero, voleva tentare l'unificazione religiosa dell'episcopatus sulla base di formule che conciliassero le esigenze teoretiche dell'Oriente ariano con l'intransigenza fideistica dell'Occidente niceno. Questo problema lo ha occupato particolarmente. L'arianesimo aveva cercato di affinare le sue esperienze teoretiche, con un richiamo sempre maggiore allo studio diretto delle Scritture, xoc-r& ypp& (un fatto significativo, che può ricordare ---- nonostante la grande differenza di presupposti - la riforma protestante in epoca moderna): ma contemporaneamente
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si era scisso in varie tendenze, che andavano da quella degli Anhomei puri, condotti dall'avventuroso ed acuto dialettico Aezio (ad essi il Figlio appariva decisamente « non simile » al Padre) a quella degli Homei (i quali riconoscevano il Figlio « simile » al Padre nella volontà), a quella ancora più conciliante degli Homoiousiani (i quali riconoscevano il Figlio « simile nella sostanza » al Padre). Nel 351, una sinodo a Sirmio dichiarava: « subordiniamo il Figlio al Padre » (prima formula sirmiana). Nel 357, una nuova sinodo a Sirmio proponeva abbandono della parola usia, ignota alle Scritture, e riconoscimento della superiorità del Padre (seconda formula sirmiana: meizona einai tòn Patera). I vescovi illiriciani erano diventati potentissimi; contemporaneamente, si creò la prefettura illiriciana. Ma la pace dell'episcopato non c'era ancora. Nel 359, una terza sinodo a Sirmio propose la formula homoios katà panta « uguale in tutto »: la terza formula sirmiana. Sulla base di questa si propose una quarta formula sirmiana, che trionfò ai concilii di Rimini e Seleucia (359). Il concilio di Rimini definì, inoltre, la politica immu nitaria imperiale nei riguardi della chiesa catholica. Fu ribadito (30 giu. 360) il principio della distinzione fra le proprietà della Chiesa (iuga et pro fessio quae ad ecclesiam pertinent) e le propriet dei clerici: immuni le prime 22, ma le seconde soggette a regolare funaio. Questo C. Th. xvi, 2, 15. Generalmente (per es. FERRARI DELLE « Atti Ist. Ven. », 1939, p. 109) si interpreta nel senso opposto a quello da noi indicato, quasi che quod nostra videtur dudum sanctio reppulisse significhi che l'imperatore si è opposto alla dispositio della sinodo. Ma quod nostra videtur dudum sanctio rep pulisse significa proprio che la precedente sanctio imperiale (C. Th. xi, 1, 1, anteriore ma del 360) videtur reppulisse la /unctio dei iuga ecclesiae; l'accordo fra imperatore e sinodo è perfetto, in quanto l'imperatore riconosce l'immunità dei iuga ecclesiae mentre viceversa, d'accordo con i vescovi in comitatu, riconosce l'obbligo dei clerici ad universa munia sustinenda. L'imperatore vuole SPADE,
sottolineare che egli non agisce in contrasto con la sinodo, giacché questa si è limitata (usque eo pro,gressa est) a disporre immunità
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principio caratterizza la necessaria evoluzione della legislazione immunitaria di Costantino il grande: ormai, ingrandite le ecclesiarum divitiae, i privilegi già accordati ai clerici si spostano necessariamente verso le proprietà della ecclesia; e le proprietà personali dei clerici sono private di ogni privilegio, passando i clerici possessores sul piano di tutti gli altri contribuenti. Ciò non toglie che, in un momento di gran difficoltà, come quello che poi sopravvenne nel 361, Costanzo II abbia accordato ai clerici di Antiochia particolari privilegi sopra tutto dai munera extraordinaria; il grosso problema restava, per lo stato, la necessità di limitare l'esonero dei clerici dai munera curialia, giacché- (sebbene Costantino avesse talora curato di impedire questo processo) era naturale che i clerici si reclutassero dalla borghesia cittadina. Non era stata la religione cristiana, sin dall'inizio, anche (e in certo senso soprattutto) la religione delle borghesie cittadine orientali? 94.
Altri aspetti della politica. di Costanzo Il. L'Egitto.. La città di Roma. La guerra persiana.
Accanto al suo aspetto religioso, il quale si accentra intorno alla costituzione dell'unità dell'episcopato sulla base di formule di compromesso (ché tale vuol essere so-
delle proprietà ecclesiastiche, non anche delle proprietà private dei clerici. La costituzione è chiara soprattutto nella sua ultima parte, che riassume l'accordo tra l'imperatore e i vescovi in comitatu: id maxime fuste convenire ut praeter (dunque esonero!) ea
iuga et prof essionem quae ad ecclesiam pertinet, ad universa munia sustinenda translationesque faciendas omnes clerici debeant adtineri. Cfr. xi, 1, 1: praeter — ecclesias catholicas nemo ex nostra iussione praecipuis emolumentis f amiliaris iuvetur substantiae. L'espressione dumtaxat provinciales non implica (contro FERRARI DELLE SPADE, p. 117) se non il normale principio tributario per cui la capitazione è dovuta dalla plebs rusticana; dunque non stabilisce immunità pei . clerici cittadini, ma piuttosto definisce il carattere fondiaro della capitazione, la quale colpisce il clericus di città, se questi ha proprietà in campagna.
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prattutto la quarta formula sirmiana), e intorno alla più accorta impostazione data al problema delle immunità ecclesiastiche, la politica di Costanzo u si rivela notevole anche per molti altri motivi. Innanzi tutto, per il motivo economico: sotto questo imperatore, infatti, si è compiuta in Egitto la più radicale inflazione della moneta divisionale, che mai si sia avuta nella storia dell'impero. Sotto il principato, l'Egitto aveva avuto la « sua » moneta, che era una moneta di credito a corso forzoso. L'economia del paese era entrata in crisi, quando Diocleziano vi aveva introdotto la moneta dello stato romano, il denano. Ora sull'Egitto si riflettevano, ma con sviluppi del tutto particolari, quelle difficoltà economiche che abbiamo riscontrato in tutto l'impero. Già vedemmo le difficoltà della politica monetaria seguita da Costante nell'Occidente; analoghe difficoltà ha incontrato Costanzo il, nel lungo periodo del suo impero, dal 337 al 350 nell'Oriente, dal 351/353 al 361 in tutto l'impero da lui unificato. La nostra documentazione papiracea ci permette di seguire il corso della moneta divisionale nei rispetti del solidus aureo sotto Costanzo 11, in Egitto. Nella prima metà del iv secolo, e almeno fino al 346, il denario si muove ancora intorno alla decina di miriadi (100 000) per solidus aureo; ma verso il 360 esso può già valutarsi a 1200 miriadi circa, è dunque caduto di 120 volte; ognuno può immaginare la tragedia dei piccoli proprietari egiziani, che si nasconde dietro questo crollo del denario. Ci si avvia verso quella decadenza del contadiname, che si manifesterà poi nella tendenza dei piccoli proprietari egiziani ad appoggiarsi (patrocinium) ai grandi patroni. Al crollo definitivo del denario l'Egitto reagisce, dunque, con la difficoltà di accettare, per ciò che riguarda la moneta di rame, quel grandioso esperimento deflazionistico, che di lì a poco sarà tentato da Giuliano in tutto l'impero; nel principato, fino a Diocleziano, esso era stato la regione
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tipica dell'economia a corso forzoso, viceversa ora diventa la regione tipica del fenomeno opposto, dell'economia inflazionistica. Ma in termini generici, il suo dramma è il dramma di tutto l'impero: il crollo delle classi inferiori. Costanzo ii ha sentito la necessità di agevolare gli humiliores in maniera affine così in Egitto, come anche (in misura minore) in Africa; infatti in queste regioni, egli sembra aver limitato l'intervento di exactores degli uffici centrali (per lo meno, dei prefeziani) nella riscossione dei tributi. Tuttavia, nonostante questa misura ostile agli uffici burocratici, dobbiamo escludere che egli abbia tentato come farà poi Giuliano una politica sostanzialmente « meno burocratica » di quella iniziata da Costantino il grande: le proteste dello storico Aurelio Vittore (cfr. supra, § 89) sono molto significative. Per altri aspetti, la contrapposizione all'opera di Costantino il grande era un motivo più o meno sentito nell'epoca di Costanzo II. Costantino il grande aveva contrapposto Costantinopoli all'antica Roma: dal 330 in poi, l'antica Roma pareva in qualche modo oscurata rispetto alla nuova. Ma con Costanzo ii l'antica Roma ritorna all'ordine del giorno della vita imperiale: sia per la sua alta posizione tradizionale, sia perché la plebs urbana di Roma (quantunque nel febbraio 350 la prefettura urbana fosse stata occupata da un fido seguace di Magnenzio) aveva comunque tenuto un atteggiamento di non eccessiva solidarietà con Magnenzio e con la plebs rusticana gallica che soprattutto lo sosteneva. Così Costanzo II ha esaltato la città in cui egli era più che mai princeps, alla maniera antica: nel 357 egli ha visitato Roma e le ha donato un obelisco egiziano che (a quanto dice l'iscrizione di esso) era stato 1destinato in origine, da Costantino il grande, al decus cognominis urbis, vale a dir all'ornamento di Cos`tantinopoli. È significativo che la iscrizione dell'obelisco romano (oggi nella piazza di S. Giovanni in Laterano) insista sul fatto che Costantino aveva destinato l'obelisco a Costanti-
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nopoli, che viceversa Costanzo ii lo ha donato a Roma: questa contrapposizione di Costanzo ii a Costantino era dunque « sentita » in ambienti ufficiali romani (anche se lo storico Ammiano Marcellino, riproducendo la versione di altri ambienti senatorii romani, ha poi ritenuto che già Costantino aveva destinato a Roma quel grande obelisco, ed ha così creato una diffusa tradizione che poi fu comunemente - e certamente a torto - accettata). Ciò che soprattutto interessa è dunque la chiara coscienza con cui i Romani hanno qui creduto di contrapporre Costanzo li, quasi particolare amico della loro città, a Costantino il grande. Del resto, in questo stesso periodo la città di Roma ha avuto un eccezionale rinnovamento ludico, col quale si connette la speciale emissione di pseudo-monete, i cosiddetti « contorniati »; la plebe urbana dei cives Romani domo Roma, orgogliosa degli spettacoli ludici e dei suoi diritti alla distribuzione di pane e caro porcina, si sentiva così restituita alla sua suprema posizione di signora del mondo romano (viceversa, Costanzo ti ha ridotto le distribuzioni annonarie alla plebe di Costantinopoli, ciò che non avrebbe mai osato fare con la plebe frumentaria di Roma). Sebbene Roma non avesse del tutto perduta una certa fisonomia pagana (proprio in questo periodo, la Expositio totius mundi caratterizzava Roma con le parole colunt autem deos ex parte, lovem et Solem; anche più tardi, nel v secolo, lo storico cristiano Orosio potrà considerare Roma città di spiriti pagani), tuttavia le particolari provvidenze di Costanzo per la ecclesia Romana (10 nov. 356) facevano tutt'uno con la sua venerazione reverenziale per Roma stessa. In questo senso dobbiamo intendere la conferma, decisa da Costanzo li, dei privilegia concessa ecclesiae urbis Romae et clericis. In questo torno di tempo, un insigne professore di retorica a Roma, il filosofo neoplatonico Mario Vittorino, si convertiva (intorno al 355) al cristianesimo ortodosso, con una evoluzione di pensiero che avrà gran parte, trent'anni dopo, nella
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conversione del suo corregionale africano, Agostino; con l'opera di Vittorino, è scomparsa, specie in Occidente, quella inconciliabilità di cultura neoplatonica e cristianesimo, che pareva dedursi dall'atteggiamento di Porfirio. Al confine orientale, nel 359, il re persiano Shahpur attaccò nuovamente, in forze: dopo un assedio di 73 giorni cadde la fortezza di Amida, nel corso superiore del Tigri. La minaccia era gravissima. Costanzo avrebbe avuto bisogno, contro Shahpur, di tutte le sue forze armate: sarebbe stato opportuno richiamare le truppe galliche, mobilitate per la lotta contro Franchi ed Alamanni. 95. Giuliano Cesare. Ma in Gallia dominava un'altra personalità, Giuliano, fratellastro di Gallo. Come il fratellastro, anche Giuliano aveva nell'animo il peso di una fanciullezza senza sorrisi. Nato nel 332, presto aveva perduto la madre; era bambino di sei anni all'epoca delle stragi del 337, delle quali era caduto vittima anche suo padre, Giulio Costanzo. Aveva trascorso fanciullezza e adolescenza, tra Omero e Bibbia, prima a Nicomedia e Costantinopoli, poi a Macellum, un castello del latifondo imperiale cappadocico. In questo castello si formarono due grandi passioni della sua vita: la considerazione per i coloni (e in genere per gli humiliores), e la cultura ellenista. Era lector di quella comunità cristiana. Poi uscf da Macellum; studiò senza posa, scoprì il mondo spiritùale dei Greci, abbandonò (non uf ficialmente) il cristianesimo. La religione dei Greci, nell'interpretazione neoplatonica, rispondeva a tutte le do. mande del suo spirito malato. Aiutato e protetto dalla sposa di Costanzo, Eusebia, improvvisamente Giuliano fu sottratto da Costanzo ii ai suoi studi: nominato cesare il 6 novembre 355, fu destinato alla difesa della Gallia contro l'invasione franco-alamannica.
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Giuliano vinse gli Alamanni a Strasburgo, nel 357. Cercò di migliorare le condizioni dei contadini di Gallia, oppressi dal gravame tributario: ridusse la capitazione da 25 solidi a 7. Nella Belgica ii affidò le esazioni tributarie alle curie, sottraendole agli uffici burocratici. Queste riforme rispondevano a un'esigenza diffusa: un testo di quel periodo, il de rebus bellicis, ne mostrava la necessità. Nel 359 Costanzo u dovendo preparare l'offensiva contro i Persiani, chiese a Giuliano l'invio di truppe. Ma i soldati di Gallia non vollero abbandonare il giovane Giuliano; nel febbraio 360 lo acclamarono augusto. Costanzo mosse guerra contro l'usurpatore; ma il 3 novembre 361 morì.
96. Giuliano imperatore (361-363). La sinodo del 362. La guerra persiana. Ormai, rimasto unico imperatore, Giuliano poteva dedicarsi alla sua ricostruzione dello stato. Una commissione di elementi che egli considerava puri (fra essi il prefetto al pretorio dell'Illirico, Mamertino, poi divenuto - con la soppressione della prefettura d'Illirico nel 362 prefetto d'Italia, Illirico ed Africa) ha « epurato », a Calcedonia, i burocrati compromessi col precedente regime. Così Giuliano adempiva un desiderio che già lo storico Aurelio Vittore aveva accennato (sia pur con la dovuta prudenza) nella pagina finale della sua opera (composta nel 360). Dichiaratosi manifestamente pagano già nell'estate del 361, il nuovo imperatore si sforzò di ridare prestigio alla vecchia religione dello stato romano; da Costantinopoli, dove risiedette fino al maggio 362, passò in Asia Minore, dove si recò a visitare il tempio della Dea Madre a Pessinunte. La tappa decisiva nella sua politica religiosa fu segnata dalle cure per l'educazione superiore: il giovane intellettuale pensò, che, escludendo i Cristiani dall'insegnamento, 'avrebbe potuto restaurare il vecchio ideale.
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di cultura. Nello stesso tempo, egli perseguiva la sua politica economica di deflazione, già chiaramente concepita durante il cesarato. Aveva alleviato (in Dalmazia) gli enormia pretia di aderazione dei cavalli; aveva rimesso l'aurum coronarium, con grande beneficio delle municipalità; sempre a vantaggio delle municipalità, ha pensato ad una restituzione generale dei vecti,galia e dei fundi ad esse, con l'agevolazione di un autogoverno cittadino abbastanza indipendente dal controllo dei governatori. Questa politica intesa ad aiutare le curie comportava anche - con un tipico richiamo alla tradizione giuridica romana (auctoritas), che egli sempre contrapponeva alla tendenza rivoluzionaria della legislazione di Costantino - l'imposizione della munizione delle vie (de itinere muniendo) ai possessores anziché alle municipalità. D'altra parte, non si trattava di una politica di classe, volta ad agevolare le borghesie cittadine contro i possessores più ricchi; al contrario, la politica di Giuliano cercava di conciliare, sotto il comune denominatore delle necessità dello stato, i contrapposti interessi di classe. Ad Antiochia (dove ha risieduto dal luglio 362 al marzo 363) egli ha tentato addirittura - con grave scontento della borghesia e dei piccoli proprietari - la riduzione del prezzo dei grani, in congiuntura di carestia, da 5 modii un solido a 15 modii un solido. Sempre ad Antiochia egli tentò un'equa distribuzione di 3000 kléroi di territorio incolto; ma poi, accortosi che i kléroi erano stati distribuiti fra persone agiate e per giunta esonerate dalle tasse, li destinò al mantenimento dei cavalli dell'ippodromo: anche qui, con un procedimento che certo non fu gradito ai curiali, ma fu gradito alla plebe. In tal modo, curiali e humiliores erano considerati senza pregiudiziali distinzioni di classe, e Giuliano non esitava a sacrificare interessi dei curiali alla sua politica deflazionistica volta a migliorare le condizioni degli humiliores. Sempre all'interesse dei contribuenti si volge inoltre Giuliano in quei casi in cui consente l'opzione fra correspon-
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sione aderata e corresponsione in natura delle tasse. Di fronte ai senatori egli ha tenuto una posizione di profondo rispetto, concedendo pur ad essi, nei limiti del possibile, delle agevolazioni economiche. In tutta questa po litica ha avuto come consigliere Secundo Saluzio, già suo questore nel cesarato, e ora prefetto al pretorio d'Oriente; a lui ha indirizzato, fra l'altro, la costituzione in cui si restituivano alle curie le loro possessiones e si imponevano le itinerum sollicitudines ai possessores, la costituzione in cui si conferma il senato-consulto claudiano contro le donne che si uniscono a persone di condizione servile, ed una costituzione in cui si sopprimevano le immunità dei decurioni ecclesiastici (decuriones, qui ut Christiani declinani munia, revocentur). Tutti questi uomini del seguito di Giuliano, un Secundo Saluzio od un Mamertino (anche lo storico Aurelio Vittore è tra i funzionarli da lui nominati), debbono considerarsi eccellenti amministratori, ispirati, come il loro imperatore, ad una assoluta dedizione allo stato. Ciò basta a mostrarci come debba evitarsi l'errore, in cui frequentemente cadiamo noi moderni, di considerar Giuliano una parentesi senza gravi conseguenze nella posteriore evoluzione dello stato romano; appunto uomini come un Secundo Saluzio e un Mamertino, si mostrarono così indispensabili che poi, dopo la morte di Giuliano, essi hanno continuato a reggere, pur sotto gli imperatori cristiani Gioviano e Valentiniano-Va lente, la prefettura pretoriana, suprema magistratura dell'impero (dopo la morte di Giuliano, Secundo Saluzio fu addirittura candidato all'impero, ma rifiutò). Ancor una volta, vale la pena di ribadire, che la politica economicoamministrativa di Giuliano e dei suoi diretti seguaci ha avuto un enorme peso nella posteriore storia dell'impero. Naturalmente, la sua politica religiosa reazionaria era destinata ad un grave insuccesso, data la radicale cristia nizzazione delle masse (specie orientali) sin dal iii secolo. Ma anche in questo caso, bisogna tener presente, com'è
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noto, che Giuliano ha cercato di restaurare il paganesimo in forme nuove, con una gerarchizzazione dei sacerdoti che in certo modo voleva imitare l'organizzazione gerarchica della chiesa cristiana. Del resto, questo suo paganesimo, intessuto di richiami alla teurgia per esempio di Giuliano « il caldeo », di quasi due secoli prima (supra, § 34), era sopra tutto ispirato a motivi neoplatonici, accentrato intorno al culto del Sole. Voleva essere un paganesimo nuovo, adatto alla diffusione tra le masse, ma sempre percorso dall'antico spirito ellenista. L'insuccesso di questo tentativo, sebbene Giuliano mettesse in azione altre forze an ticristiane (egli ha anche vagheggiato una politica filoebraica), fu da lui sentito amaramente: ciò spiega l'asprezza di Giuliano nelle sue polemiche, così in quella contro gli Antiocheni (Misopogon) che è una appassionata esposizione dei motivi ideali della sua vita, come in quell'opera Contro i Cristiani (i « Galilei ») che rielabora i motivi polemici di Celso e di Porfirio. Indipendentemente dalle aristocratiche dottrine di Giuliano e dei suoi amici, il cri stianesimo continuava la sua strada: quanto all'Africa, il ritorno dei donatisti (Giuliano concesse questo ritorno, anche perché essi esprimevano le classi inferiori della popolazione) diede nuova vita e passione all'intransigente cristianesimo africano; quanto all'Oriente, Atanasio, liberato ad opera di Giuliano dall'esilio, poté convocare nel 362 una sinodo ad Alessandria, in cui l'unità dottrinaria dell'episcopato fu costituita con la condanna della dottrina ariana come anche della pneumatomachica (« macedoniana », dal suo sostenitore Macedonio già vescovo di Costantinopoli), ed infine della apollinarista. Delle tre dottrine condannate dalla sinodo del 362, quella apollinarista (sostenuta da Apollinario, vescovo di Laodicea di Siria) può considerarsi un tentativo di conciliare, ancor una volta, il pensiero ellenista-cristiano degli Alessandrini (Origene) con i risultati delle recenti dispute pro e contro l'arianesimo. Questo tentativo voleva uscire,
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in un certo senso, dagli schemi delle dispute ariane, le quali si presentavano (in connessione con l'eresia pneumatomachica) come dispute trinitarie. Esso riportava la discussione teologica su quello che fu sempre il suo punto di origine: il problema cristologico. Apollinario partiva dalla speculazione ellenista, che tendeva a negare in Cristo la presenza di un'anima superiore accanto al Logo: anche per Apollinario, come già per Ano, il Logo è l'anima stessa di Cristo. Ma, mentre questa proposizione aveva condotto Ano a « subordinare » il Logo al Padre, con gravi conseguenze per la dottrina trinitaria, viceversa Apol linario, in netta polemica contro Paolo di Samosata e contro gli ariani, prendeva una via opposta di esegesi cristologica. Egli voleva richiamarsi alle conclusioni della sinodo del 268 contro Paolo di Samosata. Nella cristologia apollinarista, il Logo si era fatto carne ma senza assumere la natura di uomo e conservando l'unica sola natura, la divina (« una sola natura del dio Logo incarnata », tci pc rcàu aecìú A6you acpxs&ri). Qui c'era già in germe una dottrina che quasi un secolo dopo avrebbe conquistato, in forma diversa (monofisitica), l'intero Egitto. È molto probabile che tale dottrina dovesse apparire, all'occhio dei razionalisti non rigidamente ortodossi, l'esegesi cristologica più facilmente conciliabile con la ragione. Ma contro di essa, oltre alla condanna formulata nella sinodo del 362, si cominciarono a svolgere teologùmeni sorti nello stesso ambiente del razionalismo esegetico antiocheno, precorsi già da Eusebio di Edessa (un teologo che si era formato ad Alessandria e sin dal 330 viveva in Antiochia) ed allora rappresentati da Diodoro, anche egli in Antiochia (più tardi, sotto Teodosio, divenne vescovo di Tarso). Se si vuole intendere veramente l'esperienza spirituale dell'imperatore Giuliano durante la sua lunga permanenza in Antio chia, bisogna tener presenti queste dispute teologiche, le quali non fecero che acuire la sua avversione alla religione dei « Galilei », e lasciarono tracce nella sua polemica con-
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tro di essi. Perché, mentre Apollinario negava (come del resto avevano negato gli ariani) l'umanità (« corpo e anima ») di Cristo, ma, all'opposto degli ariani, affermava la sua divinità con la formula Lf.X o3 A6you at - o3 viceversa Diodoro insisteva sulla umanità di Cristo, e dunque sulla necessità di separare l'uomo Cristo dal dio Cristo; sicché la Vergine non era tanto «madre di Dio » quanto « madre dell'Uomo » (non tanto 'r6xo, quanto &vp o-6xoc). L'imperatore Giuliano si sentiva sorpreso di questa dottrina, che gli appariva sommamente irrazionale; egli ha attaccato la dottrina di Diodoro non solo nominandolo espressamente in una lettera, ma anche, senza nominarlo, nella sua opera contro i Cristiani. S'intende bene che il punto centrale delle dispute dei Cristiani fra loro (specie nelle comunità orientali) e dei Cristiani contro i pagani. si svolgesse ormai, al di là delle dispute trinitarie, sempre sul punto fondamentale di partenza, sul Logo incarnato (sarkotheìs) del quarto Vangelo; e questo spiega come il quarto Vangelo, a cui Giuliano fa riferimento nella sua polemica contro Diodoro, sia anche un punto centrale della discussione nell'opera di Giuliano contro i Cristiani. La lotta contro i « Galilei » era dunque disperata? Giuliano pensava di poter strappare ai suoi avversari religiosi un segreto del loro successo: la loro « economia di carità », che costituiva quasi una « seconda economia » ( 58) nei confronti dell'economia di stato. Egli volle infatti che la sua chiesa pagana di stato imitasse quegli organismi di elemosina e beneficenza, i quali caratterizzavano l'economia delle comunità cristiane. Inoltre, i suoi sa cerdoti pagani dovevano affrontare, tra i loro teologùmeni, il problema della povertà. Tutti questi espedienti erano vani: egli non riusciva ad avere le masse dalla sua parte. Gli Antiocheni non lo amavano; gli abitanti di Cesarea di Cappadocia gli erano cosi ostili, che egli applicò ad essi la capitazione., propria della plebe rusticana; quando pensò
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di ricostruire il tempio di Gerusalemme, il suo ordine non fu eseguito, perché gli esecutori credettero di vedere i chiari segni dell'opposizione di Cristo ad un ordine chiaramente « anticristico ». Partendo da Antiochia - la città cristiana, capitale (GLM, pp. 109, 8; 111, 9) di Costanzo ii - per la spedizione persiana, avvertì che non sarebbe tornato mai più nella città della sua delusione. Anche se si vuòl intendere la campagna persiana di Giuliano, bisogna considerare le sue preoccupazioni d'ordine sociale e demografico e religioso. In un impero cristianizzato, egli poteva far rientrare i suoi dèi, se questi gli avessero consentito di realizzare l'antico vano sogno dei Romani: il controllo sullo stato iranico. Non poteva risparmiare mezzi e danaro per la spedizione: questa, anzi, gravò terribilmente sul bilancio dello stato 23 Ma doveva risparmiare uomini, e d'altra parte non voleva far troppo affidamento su federati barbarici. A galvanizzare i suoi soldati, egli si proponeva, al solito, di dare l'esempio in battaglia esponendo la propria vita ad un massimo di pericoli e di privazioni, come forse nessun altro condottiero ha mai fatto: un'eroica dedizione poteva far dimenticare, a soldati in gran parte cristiani, il suo conflitto con il Dio dei Cristiani. Partì da Antiochia il 5 marzo 363; il 18 marzo era a Carre. Qui il suo esercito, forte di 65 000 uomini, si divise in due corpi d'armata: uno di 30 000 uomini, al comando del generale Procopio, avrebbe dovuto congiungersi con le forze del re di Armenia, e quindi scendere lungo il Tigri; con l'altro corpo d'armata, di 35 000 uomini, Giuliano avrebbe marciato verso sud, lungo l'Eufrate, e di poi sul Tigri. L'i aprile, brutte notizie: gli arriva, a Cercusio (Circesio), un dispaccio del prefetto al pretorio di Gallia. È un dispaccio pieno di sfiducia. Il prefetto di Gallia lo esorta a tornar indietro, perché ancora non si è 23 Amm. xxx, 8, 8. Molto dispendiosa dovette essere la costruzione di macchine, di navi, ecc.
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ottenuta la pax deorum; questi pagani si sentono franare il terreno sotto i piedi, in mezzo ad una società che non capisce le loro vecchie cose moribonde. Ma Giuliano non tiene conto di quella sfiducia angosciosa ed amara; egli pensa che proprio le sua vittoria persiana concilierà con l'impero i vecchi numi offesi. Parla ai suoi soldati, li entusiasma; destina ad essi un donativo di 130 silique di argento per ciascuno. Silique? Perché non distribuisce solidi d'oro 24, e preferisce dare il suo donativo in queste monetine di argento? Teoricamente le sue 1,30 silique (carati) dovrebbero equivalere a poco più di sei solidi (precisamente: 61/4 solidi); ma quanto a valore intrinseco (reae), valgono, sì e no, all'incirca quattro solidi. Giuliano vuole però che questa monetina divisionale d'argento, la cui creazione era stata sollecitata dal de rebus bellicis ed era in realtà la grande innovazione economica del suo cesarato gallico, diventi l'effettivo mezzo di scambio di tutto l'impero. Vuole che i suoi uomini si abituino a calcolare
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24 Ancora nel febbraio 360, quando le truppe di Gallia lo avevano acclamato augusto, aveva distribuito cinque solidi ed una libbra di argento: dunque, oro monetato e argento a peso, valori reali non divisionali. L'importanza del nuovo tipo di donativo dato da lui nella spedizione persiana è grandissima: essa ci mostra, appunto, la differenza tra i valori monetarii reali, a cui -- nonostante le sue idee - aveva dovuto riferirsi nel 360, e i valori monetarii di credito, a cui nel 363 si riferiva costantemente. Perciò è preziosa l'indicazione di Ammiano, che i soldati non hanno gradito il donativo dopo la presa di Peroz-Shahpur (del donativo di Cercusio. Ammiano non parla affatto). Bastano queste considerazioni per
escludere la dottrina di MIcKwITz, Die Systerne des ròm. Silbergeldes,
(1932), pp. 10 sgg., secondo cui la monetina argentea di g. 1,9 non può essere la siliqua: il MIcKw1Tz era costretto a questa ipotesi, perché egli negava l'esistenza di monete divisionali (di credito) in tutta l'economia imperiale romana. Tuttavia, l'enorme importanza dell'indagine di MIcKwITz anche se se ne dissenta - è evidente proprio dal fatto che questo storico ci ha indicato il punto essenziale della storia sociale romana: il rapporto fra moneta reale e moneta divisionale (di cui egli nega l'esistenza). Va osservato che già nella società greca la moneta divisionale a corso forzoso ha - in epoca ellenistica - una sua importanza: è la formula paracharttein tò n6misma.
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in termini di moneta divisionale, come nel principato si calcolava in termini di denarii, non già di solidi alla maniera costantiniana. I donativi degli imperatori ai soldati erano stati, nel in secolo, donativi di denarii fortemente svalutati (per esempio, i 500 denarii dati da Elagabalo ai suoi soldati dopo la vittoria su Macrino); Giuliano vedeva nella sua siliqua di argento una continuazione ideale di quel vecchio denarus, moneta della borghesia e della povera gente. I soldati, molti dei quali erano gallicani, ed avevano accolto con gioia la rivoluzione economica del suo cesarato gallico, si adattarono al modesto donativo, almeno per ora. La marcia lungo l'Eufrate continuò, trionfale. Le vittorie si succedevano alle vittorie. La più splendida fu la presa di Peroz-Shahpur (una fondazione, sembra, dello stesso Shahpur ii). Ad essa seguì un nuovo donativo, di 100 silique per ogni soldato - sempre la siliqua, la monetina divisionale che si contrapponeva al solidus come Giuliano si contrapponeva a Costantino. Stavolta non mancarono le lamentele dei soldati. Essi volevano solidi: non consentivano all'esaltazione giulianea per la monetina d'argento divisionale. Ma Giuliano non rinunciava alle sue idee, come non rinunciava ai suoi dèi: parlò ai soldati, li convinse ancor una volta: la politica della lesina, diceva, era una necessità, come una necessità era la guerra e la vittoria. Verso gli ultimi di maggio, riportò un'altra splendida vittoria: la conquista di Mahoz-Malka, a occidente del Tigri. Passò il fiume: era alle porte di Ctesifonte, la capitale nemica. I suoi dèi lo avevano condotto al più superbo dei successi? Ma egli dovette rinunciare all'assedio di Ctesifonte: un lungo ed incerto assedio avrebbe abbattuto il morale dei suoi uomini. Aveva bisogno di una grande battaglia campale, che annientasse le truppe di Shahpur. La guerra si trasformò, per qualche giorno, in una caccia snervante al fantomatico esercito persiano. Inoltre, Giuliano voleva congiungersi con le truppe di Procopio, che
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invece si trovavano ancora bloccate nel Nord. Informatori persiani gli avevano detto che l'esercito di Shahpur era non molto lontano, verso l'interno, a oriente del Tigri. Nonostante le incertezze 25 dei suoi stessi sacerdoti, credette di avere in pugno la vittoria; decise di deviare un poco, verso l'interno. Nell'impossibilità di distaccare migliaia e migliaia di uomini per il trasporto della flotta (circa 1250 navi) sul Tigri contro corrente, ricorse ad un espediente estremo: bruciò quelle sue mirabili imbarcazioni, tutte, navi onerarie, da guerra, del genio; solo ne conservò dodici (o ventidue?), che potevano essere trasportate per terra. L'inaudito sacrificio, che a prima vista sembrerebbe inspiegabile, diventa senz'altro chiaro, se riflettiamo che i 35 000 uomini di Giuliano non potevano dare ad un tempo forze sufficienti per il trasporto (e la difesa) della flotta sul fiume contro corrente, e per la grande battaglia cam pale che l'imperatore considerava imminente e necessaria. 25 Un passo del Liber de Caesaribus di Aurelio Vittore (38, 3; cfr. ultimamente MELONI, Il regno di Caro Carino e Numer., p. 112, 1; HARTKE, Rm. Kinderkaiser, p. 218, 1; STRAUB, Studien
(1952, pp. 127-132) dichiara, a proposito della morte dell'imperatore Caro nella spedizione persiana (ch'egli aveva condotto a Ctesifonte e oltre): « alcuni dicono che giustamente Caro sia stato colpito dal fulmine (nella spedizione); infatti gli oracoli avevano ammonito che si può arrivar vittoriosi sino a Ctesifonte, non oltre, ed egli pagò il fio d'esser andato oltre. Ardua cosa è allontanare il fato, e perciò inutile la conoscenza del futuro ». Aurelio Vittore scriveva così nel 360; nel giugno 363, dunque, il timore degli stessi oracoli (la connessione con la campagna di Caro era naturale: Zos. iii ) 23, 4) dovette farsi sentire tra i sacerdoti di Giuliano
z. H. A.
(cfr. lo stesso timore in H. A., vita Cari, 9: vim lati quandam esse, ut Romanus princeps Ctesi/ontern transire non possit; sul passo, ENSSLIN, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1942, FI. I., pp. 44-45; « Gn. », 1942, p. 261; STRAUB, loc. cit.; HARTKE, loc. cit.). Credo che il cenno di Amm. XXIV, 7, 3 ai vetantium dictis quod ob inertiam otz:que desiderium amitti suaderent prope iam parta regna Persidis
si riferisca a timori del genere; cfr., fors'anche, Amm. xxiv, 8, 2 (reuerti debere). Giuliano era, come il suo modello Marco, filosofi[ae] magister (IIS, 751); il contrasto fra aruspici e philosophi in questa campagna è segnalato da Amm. xxiii, 7-14 (relativo al 6 aprile).
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Ma proprio il miraggio di questa grande battaglia campale, che lo costrinse ad allontanarsi momentaneamente dal Tigri e perciò a bruciare la flotta, si dimostrò subito una vana illusione. L'esercito di Shahpur era sparito:• gli informatori persiani avevano detto il falso. Lungi dal dare battaglia campale, i Persiani si limitavano a disturbare l'esercito romano con azioni di guerriglia. Man mano che avanzavano, i Romani trovavano la terra bruciata: i guerriglieri persiani incendiavano, se possibile, fino all'ultimo filo d'erba. L'imperatore passò il Douros (Dialas); si avvicinò di nuovo al Tigri; conquistò una località (Hucumbra) sulla riva del Tigri, riuscì a trovarvi vettovaglie; forse era sua intenzione passare alla riva occidentale del Tigri 26, mettere il fiume tra sé e i guerriglieri. Ma il passaggio del fiume non gli fu possibile. Continuò a marciare sulla riva orientale. Arrivò ad Akkad (Akketes), l'antica città onde era venuto il nome al paese di Akkad: questa antichissima civiltà dell'Oriente pareva risvegliarsi sulle sue venerande città, ad inghiottire l'esercito vittorioso dei Romani. Al so lito, i guerriglieri persiani facevano il deserto intorno a sé. Gli dèi di Giuliano cedevano: secondo Ammiano, Giuliano stesso si sentiva abbandonato da Ares. Il 21 giugno, nel villaggio di Maranga, riportò una splendida vittoria su truppe catafratte persiane; anche questa, una vana vitto ria, in mezzo alla calura e ai pascoli incendiati, mentre i suoi uomini e i cavalli morivano di fame. Tutti rimpiangevano, ormai, la flotta distrutta: solo la flotta avrebbe potuto trasportare le provviste, mentre invece il trasporto per terra era insufficiente e continuamente esposto (alla retroguardia) alle insidie della guerriglia'. Ma ancora una volta, nella marcia degli affamati vittoriosi, l'imperatore dava l'esempio, contentandosi di un rancio vilissimo, che anche l'ultimo dei soldati avrebbe rifiutato. Il 25 giugno, 26 Ciò dedurrei dal fatto che i Persiani distrussero il ponte fra Nisbara e Nischadan1be. - Per l'identificazione di Akkad, cfr. la n. 27 di questo paragrafo.
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al villaggio di Toummara, riportò un'altra vittoria su guerriglieri persiani. Il 26 giugno, un ennesimo attacco persiano alle spalle; egli si muoveva per tutto l'esercito, a rincorare i suoi uomini; una lancia di cavaliere lo colpì. Una lancia di cavaliere persiano, o se mai saraceno; non è probabile che si trattasse di una lancia di soldato romano. Morì il 27 giugno. Di lì a qualche giorno, i suoi uomini raggiunsero, sotto la guida del nuovo imperatore, Gioviano, la cittadella di Samarra (Sumere), una delle più antiche sedi della civiltà mondiale: sull'Oriente antichissimo si era infranta l'impresa dell'ultimo epigono di Alessandro Magno 27 27 La ricostruzione dell'impresa persiana di Giuliano dipende soprattutto, come avrà notato il lettore, dalla ricostruzione del l'itinerario dopo la presa di Mahoz-Malka. Le nostre fonti sono: Magno di Carre presso Malala; Ammiano; Zosimo. Il transunto di Magno in Malala (ultimamente F Gr Hist, 225) è buono nella prima parte, pessimo nella seconda. Il grosso problema è proprio la valutazione di questa seconda parte: un Magnus personatus (MENDELSSOHN) o un racconto da tenere presente (cfr. LAQUEUR, RE xiv, 1, 4919 La verità sta, in un certo senso, nel mezzo; Malala travisa Magno, quando ci presenta l'ultima giornata di Giuliano come dominata dal bisogno di uscire &x -t- pou xpac: Giuliano era già sulla via buona (diciamo, sulla via Bagdad-Samarra), ed aveva abbandonato le mediterraneas vias di Amm. xxiv, 7, 3; infatti, infaustis ductoribus praeviis di Amm. xxiv, 7, 3 corrisponde ad &ryyov acrr6v di Magno in Malala, ma l'itinerario dimostra che l'inganno fu scoperto presto, dapdo ragione - contro il transunto di Magno in Malala - a perI ugae - faterentur di Amm. xxiv, 7, 5. (Tuttavia il contrordine in Amm., 7, 5 extingui iussae potrebbe essere un'invenzione volta a scagionare, in un certo senso, Giuliano; se, come credo, le duodecim naves di Amm. xxiv, 7, 4 sono le medesime duodeczm di Amm. xxiv, 7 1 5 [diversamente KLOTZ, « Rhein. Mus. », 1916, p. 4951, bisogna concludere per un chiaro contrasto fra xxiv, 7, 4 e xxiv, 7, 5: Ammiano cerca inutilmente di conciliare due opposte tradizioni.) Ad ogni modo, due cose mi sembrano certissime: a) senza l'inganno dovuto a in/austis ductoribus praeviis, Giuliano non si sarebbe mai deciso a bruciare la flotta; b) egli, accortosi dell'inganno, si avvicinò di nuovo al Tigri. Quanto alle fonti, quelle avverse a Giuliano accentuavano la sua fatale credulità all'inganno (perciò Malala, riassumendo Magno, ha accentuato questo punto, che in Magno - favorevole a Giuliano - era svolto sobriamente); quelle più favorevoli, come Ammiano, àccentuavano il senso del destino triste e la mancanza della pax deorum (perciò Ammiano
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Con l'impresa persiana, anche la sua politica religiosa era fallita. I suoi dèi si erano rivelati demoni incapaci di vittoria. Restava la sua politica economica: non per il suo estremo tentativo di sostituire il calcolo nella moneta divisionale (la « sua » siliqua, moneta della povera gente) al calcolo in solidi, moneta di Costantino; ma per il suo generale indirizzo di deflazione e riduzione dei prezzi. Questo è il duplice volto della sua grandiosa personalità: aristocratica nel ritorno alla religione e alla cultura degli Eileni (« ellenismo »), ma conscia dell'importanza degli umili e degli oppressi nella conservazione della res publica. insiste sulla lettera del prefetto di Gallia). - Inoltre, i pagani più accesi parlavano dell'avversione dei Cristiani: e qui si propone il famoso problema, se la lancia che uccise Giuliano fosse di un soldato cristiano. Ma Libanio il più acceso accusatore dei Cristiani in questa faccenda (a cui ha dedicato l'orazione « per la timoria di Giuliano »), crede di sapere che l'accusatore fu un Taieno, dunque un soldato dei subsidia arabici: che c'entrano i soldati propriamente romani? Lo stesso Libanio, se avesse avuto argomenti seni sulla responsabilità dei Cristiani, non sarebbe ricorso alle sue modestissime argomentazioni: soprattutto a quella, che lo stesso Shahpur aveva espresso la sua meraviglia per la mancata uccisione degli uomini di scolta di Giuliano; come se i Romani fossero soliti uccidere gli uomini di scolta degli imperatori morti! In realtà, i Persiani, quando avanzavano il sospetto che Giuliano fosse stato ucciso da lancia romana (cristiana), non facevano che ripetere una versione appresa dai pagani romani (Amm. xxv, 6, 6). Io non vedo ragione alcuna per pensare ad una lancia romana, quando lo stesso Libanio ci parla di « un Taieno »; Giuliano è morto in combattimento coi nemici, come il suo magister o//zczorum; il federato taieno (sempre che crediamo a Libanio) ha agito di sua volontà (cfr. Amm. xxv, 6, 9-10: e già, mentre era ancor vivo Giuliano, la battaglia di Noorda). L'errore di Zosimo, che Giuliano sia morto di spada, è errore tendenzioso, volto a far credere, tra le righe, che l'uccisore fosse un romano (cristiano): infatti, i Persiani potevano colpire solo di lontano, con lancia; forse Magno (il quale doveva essere favorevole a Giuliano, o per lo meno sfavorevole a Gioviano, uccisore dell'eroico primicerio di Zos. iii, 22 ) 4 [passo che dipende da Magno]) dava anche lui questa versione erronea, accanto a quella giusta. - La mia proposta, di identificare Akkete& polis con Akkad a oriente del Tigri maraviglierà molti; ma Akketes è rendimento etacistico; cfr. HOMMEL, Geogr. Vorderasiens, indice. Si noti che il nome di Samarra in Ammiano (Sumere) conforta l'identificazione degli abitanti di Samarra calcolitica con i Protoshumeri: sul proble-
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Egli, l'eroe della res publica, e Costantino, l'imperatore isoapostolo di cui avversava la memoria, sono i dominatori del quarto secolo. La antitesi fra il nipote e lo zio è la chiave per intendere la storia dell'impero romano. Gioviano (363-364). Valentiniano I (364-375) e Valente (364-378); i primi anni di Graziano e Valentiniano II. Gíoviano concluse subito la pace coi Persiani, cedendo Nisibi e cinque regioni transtigritane. Triste destino di 97.
ma, ultimamente PARROT, Archéol. méso p. II (1953), p. 308. — Dei lavori moderni sulla spedizione di Giuliano, il migliore è ANDREOTTI, « Historia », 1930, p. 236; per le fonti, oltre agli scritti già citati, ultimamente la monografia di THOMPSON su Ammiano Marcellino; per la topografia, il vol. II dello STRECK e il SARRE-HERZFELD. Ho insistito su questa spedizione, perché in essa si riassume tutta l'anima e la personalità di Giuliano. — Inoltre, essa ha tolto alla guerra romano-persiana ogni eventuale carattere di guerra di religione, fra i Romani « popolo di Dio » e l'« anticristico » stato persiano (tale contrapposizione fra i Romani e i Persiani è tipica di Afraat [ LABOURT, Le christianisme dans l'emp. perse, 1904; SCHWEN, Aphraat, 1907; ultimamente ELERT, Zwischen Gnade u. Ungnade, 1948, p. 66], e induceva Shahpur II a perseguitare i Cristiani di Persia, sospettandoli di « condividere i desiderii di Cesare nostro nemico », e condannando a morte, fra l'altro, il catholicus Simon). Ma, se leggiamo attentamente Ammiano, troveremo che questo storico pagano, le cui idee ci possono far intendere le idee di Giuliano stesso, non riconosce punto un tal carattere di « guerra di religione »: egli sottolinea atteggiamenti filocristiani di Shahpur (Amm. XVIII, 10, 4) e riferisce (ma senza crederci) l'assurdo sospetto di un'intesa fra Shahpur e il vescovo di Bezabde nel 360 (Amm. xx, 7, 9). In realtà, la lunga guerra fra Costanzo II e Shahpur aveva perduto, poco a poco, ogni carattere di guerra di religione: Simon, sebbene condannato a morte da Shahpur, non condivideva le idee di Afraat; il vescovo di Bezabde, come uomo di Dio, si era sentito di mediare tra i Romani della sua città e i Persiani (è lo stesso fenomeno del presbitero legato di Fritigerno a Valente prima di Adrianopoli: Amm. xxxl, 12, 8; naturalmente, alcuni pagani tendevano a considerare queste mediazioni cristiane come veri e propri tradimenti; il che è assurdo, come mostra l'atteggiamento di Shahpur contro i Cristiani di Bezabde, cfr. LABOURT, 78). L'odio dei Cristiani di Nisibi contro il pagano Giuliano ha dato l'ultimo colpo all'ideologia di Afraat.
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Nisibi, città romanissima e cristianissima: essa ha odiato il pagano Giuliano, ha esultato alla notizia della sua morte e della successione dell'imperatore cristiano Gioviano; ora, i suoi abitanti dovranno riconoscersi sudditi del re persiano Shahpur (che però li ha in grazia, proprio per la loro avversione a Giuliano), oppure dovranno migrare dall'antica patria (così il grande avversario di Giuliano, il monaco e poeta Efraem); e il pagano Ammiano scriverà, in commosse pagine dei suoi Annali, l'epicedio di Nisibi romana. Ammiano dirà anzi che l'abbandono di Nisibi è stata una follia, che gli stessi abitanti avrebbero voluto difendere la città sino all'ultimo uomo. Ma in realtà il giovane imperatore Gioviano ha giurato l'umiliante pace coi Persiani, perché il suo compito, almeno per il momento, è compito di politica interna; egli deve restituire all'impero quella fisonomia Cristiana che Giuliano ha cercato di cancellare; deve ritogliere agli dèi i beni che Giuliano aveva destinato ai loro templi; deve preoccuparsi dell'unità dell'episcopato cristiano, diviso fra atanasiani e antiatanasiani. Nel febbraio 364 Gioviano morì. Gli successe Valentiniano i, un ufficiale pannonico il quale cooptò al trono, come augusto (ma, di fatto, di rango inferiore: addirittura apparitor, secondo un'espressione di Ammiano) il fra tello Valente. I nuovi augusti si divisero le due partes; Valentiniano ebbe le due prefetture occidentali (Gallie ed Italia - Illirico - Africa), Valente la orientale. Ben presto Valentiniano i avrebbe aggiunto al trono, come terzo augusto, anche il figlioletto, di appena nove anni, Graziano (367). Procopio, che aveva condotto il distaccamento « mesopotamico » dell'esercito romano nella spedizione persiana di Giuliano, suo parente, ed aveva seppellito a Tarso il cadavere del suo imperatore, non aveva fatto parlare di sé durante l'impero di Gioviano; ma ai primi tempi di Valente si ribellò. Tornava all'orizzonte l'ombra di Giuliano? Molti l'avranno creduto, tanto più che l'impero di Valente
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si annunziava esoso e spietato nelle esazioni tributarie (secondo lo storico Ammiano, si sarebbero calcolati i debiti tributarii sin dal tempo dell'imperatore Aureliano, dunque da poco meno che un secolo in poi). Ma l'alone ideologico che contraddistingue l'opera di Giuliano era ben lontano da Procopio, il quale per giunta si appoggiava agli auxilia dei Goti. Nel 366 la sua rivolta fu domata da Valente (Valentiniano i non aveva voluto intervenire, nono stante le sollecitazioni di molti). Ad ogni modo, l'eredità della politica friilitare ed economica di Giuliano fu accolta da Valentiniano i e Valente. Come vedemmo, Costantino aveva accentuato alquanto (per lo meno, questa impressione egli ha lasciato agli uomini del iv secolo) il carattere comitatense dell'esercito; con Giuliano Cesare, si ritornò coscientemente ad una intensa cura limitum, specie con la ricostruzione dei castella limitanei (anche un capitolo del de rebus bellicis è intitolato de limitum munitionibus). Partendo da questi presupposti, Valentiniano i e Valente hanno costruito un grande sistema difensivo al confine (non è chiaro se in quell'opera essi abbiano impiegati i beni delle municipalità piuttosto che quelli dei possessores). Questa è la loro opera principale, anche se, naturalmente, proprio con essi si è compiuta quell'evoluzione naturale per cui l'esercito romano è fondamentalmente distinto nelle truppe migliori, comitatensi, e nelle meno buone, limitanee. Valentiniano i, che può chiamarsi uno degli « imperatori di Treviri » Uullian), ha così rintuzzato il pericolo alamannico. Il suo generale Teodosio (padre del futuro imperatore) ha combattuto con successo nella Britannia contro gli Scoti, e al Danubio contro gli Alamanni, ed infine in Africa contro il mauro Firmo; poi, venuto in sospetto all'imperatore, è stato ucciso. Valente ha combattuto (367-feb. 370) contro i Goti, in appendice alla guerra contro l'usurpatore Procopio. Nella politica economica, questi imperatori accolsero, ma con notevole moderazione, la tendenza giulianea a ri
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dare alle città diretta amministrazione e controllo dei vectigalia e lundi (limitati, questi ultimi, a un terzo): sì da limitare gli abusi dei governatori. Ciò non deve .indurci a considerare Valentiniano i e Valente come degli esagerati seguaci della politica di radicale alleviamento dei tributi perseguita da Giuliano: anzi lo storico Eutropio, un funzionario di Valente,, sottolinea che Giuliano ebbe « poca cura dell'erario »; ed in qualche caso possiamo constatare che Valente ha imposto prezzi di aderazione tributaria altissimi (tale il caso dell'aderazione dei cavalli, che Giuliano aveva viceversa agevolato in Dalmazia). Ma molti aspetti sociali dell'impero di Valentiniano i e Valente lasciano sentire, tuttavia, l'eco possente delle provvidenze di Giuliano: Valentiniano i, in armonia con la legislazione del fratello, ha voluto che un « calmiere fisso », certa taxatio, limitasse gli abusi degli organi burocratici militari nei prezzi di aderazione, e ha fissato questo calmiere su una base notevolmente bassa. Il calmiere di aderazione è la più importante provvidenza di Valentiniano i e Valente in fatto di politica economica; essa sarà poi confermata molto più tardi, nel 396, dagli imperatori Arcadio e Onorio; al calmiere si accompagna una certa tendenza alla imminutio solidi, cioè una migliore valutazione della moneta spicciola di rame nei confronti del solidus aureo. Siamo dunque nello spirito della politica giulianea. Gli « interessi dei provinciali », provincialium commoda, sono la grande scoperta di Giuliano, ma anche la preoccupazione - senza esagerazioni né eccessi, come già dicemmo - di Valentiniano I; oltre che con la fissazione del calmiere, Valentiniano i provvederà ai provincialium comtnoda concedendo prestazioni in natura - ad essi, generalmente, più vantaggiose - al posto di quelle aderate. Ed anche nell'interesse degli hurniliores è concepita l'istituzione, del 27 aprile 368, del de/ensor plebis, destinato a rappresentare la plebe « contro le offese dei potenti »: anche questa, come il calmiere di aderazione, un'istituzione di enorme rilievo. Inoltre, fu
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accentuata la tendenza, già rivelatasi sotto Costantino, ad escludere i divites dai clerici, che godevano il vantaggio delle immunità. Contro i funzionari disonesti, che tendevano a realizzare lucri nell'amministrazione dei provinciali, Valentiniano i è stato senza pietà. Da ciò un conflitto* contro l'esoso prefetto al pretorio, il senatore Petronio Probo. Nella politica religiosa i due imperatori si rivelarono ferventi cristiani; Valente con un deciso atteggiamento in favore degli Homei (gli Homoiousiani, e tanto più gli ata nasiani, furon da lui perseguitati; il vecchio Atanasio di Alessandria fu per la quinta volta esiliato). Si ripeteva la condizione di cose dei tempi di Costanzo ii e Costante: un Oriente largamente ariano (soprattutto nella forma ho meica), un Occidente atanasiano; con la differenza che, come già vedemmo, l'arianesimo vero e proprio era ormai in crisi, per la diffusione della tendenza homoiousiana in seno ad esso, e che nell'Oriente il problema cristologico, agitato dalle nuove opposte dottrine di Apollinario e di Diodoro, tendeva ad oscurare, in parte, la pura problematica ariana (che tuttavia era partita da esso). Anche per questo, la politica di Valente, nonostante la sua decisa azione in favore dell'arianesimo, ebbe risultati inferiori a quelli che l'imperatore poteva attendersi; certo, l'unità dell'episcopato - che era uno scopo desiderabile per questo come per ogni imperatore (lo era stato fors'anche per il pagano Giuliano) - non poté essere raggiunta per quella via (al contrario, si diffuse il bisogno di un rinnovato «ancoramento » - così si diceva - al simbolo niceno, com'esso era sostenuto nello scritto Ancoratus, pubblicato nel 374, del vescovo di Salamina di Cipro, Epifanio). Valentiniano i si è occupato più realisticamente delle crisi sopravvenute nelle comunità occidentali, soprattutto in quella (particolarmente importante come sede della potentior principalitas) di Roma. Aspra la lotta fra le due partes di questa comunità: nel 366, alla morte del papa Liberio, l'imperatore ha sostenuto la parte di Damaso contro quel-
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la di Ursino; Damaso si è poi rivelato (366-384) un vescovo di grandi capacità. Non solo per la storia dell'Italia Settentrionale, ma in genere per la storia delle comunità cristiane di Occidente, ha grande rilievo l'anno 373, in cui la comunità milanese elesse, alla morte del vescovo ariano Auxenzio, il grande vescovo atanasiano Aurelio Ambrosio (il nostro sant'Ambrogio), già consolare di Emilia e Liguria (suo padre era stato prefetto al pretorio delle Gallie sotto Costantino ii). Il nuovo vescovo di Milano fu battezzato dal suo maestro, il dotto presbitero neoplatonico (già amico di Mario Vittorino) Simpliciano, sicché la sua dottrina cristiana fu largamente ispirata (come hanno dimostrato recenti studi del Courcelle) alla lettura di Plotino e di Porfirio. Ambrogio era destinato a riempire della sua attività e dottrina la storia della Chiesa, e già era un fatto notevolissimo la successione di un atanasiano ad un ariano nel vescovato più importante dell'Italia Settentrionale. Nel 375, il 17 novembre, Valentiniano i morì. Fu nominato Augusto, dalle truppe dell'Illirico, l'altro suo figlio Valentiniano Il: questa proclamazione era un espediente dell'onnipotente prefetto al pretorio Petronio Probo ed un espediente a cui Graziano dovette rassegnarsi. Ad ogni modo, l'impero superò la crisi senza gravi scosse, sotto i tre augusti Valente, Qraziano, e Valentiniano li. Non è escluso (ma non è neanche sicurissimo) che in quell'occasione si tornasse a creare la prefettura separata d'Illirico, in cui Probo voleva conservare le sue posizioni (nella infelice prefettura, si aggiunsero, ai guai dell'amministrazione di Probo, le rovine di una forte scossa sismica, che prese Creta e la Grecia; Atene non ne fu toccata, e i pagani attribuivano la sua salvezza alla protezione della Parthenos e di Achille). Comunque, già verso la fine del 376 Graziano ha potuto occupare la prefettura separata d'Illirico con elementi a lui fidati, cioè Ausonio (padre del suo maestro, il poeta Ausonio, il quale ultimo riceveva la prefet-
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tura di Gallia) ed un cugino di Probo, Olibrio. Il giovane imperatore Graziano rivelò presto una certa attitudine di governo. Egli aveva delle idee nuove, anche se discutibili, in fatto di tattica militare, idee consistenti soprattutto nell'esigenza di un più leggero armamento (qualcosa del genere era stato richiesto nel de rebus bellicis, con la ragione che la pesantezza dell'armamento impediva i movimenti). Si otteneva così (come già aveva tentato Macrino nel 217218) una tattica di combattimento più snodata. Nella politica interna, Graziano stabilì più cordiali rapporti col senato; i privilegia personarutn furono precisamente fissati. La grande crisi dell'impero precipitò nel 377. Una nuova pressione barbarica si fece sentire: possente più che mai. Erano, dietro ad essa, gli Unni. Questi passarono il Volga, vinsero gli Ostrogoti, sospinsero i Visigoti verso il Danubio. Valente intuì il pericolo. Il 2 giugno 375 emanò una costituzione volta a ottenere il maggior numero possibile di uomini (corpora) dalla tassa di leva; si abolirono tutte le immunità e i privilegi da questa tassa, sia nella sua forma aderata sia in quella, preferita dall'imperatore, di corpora veri e propri. Era una generale mobilitazione delle forze dell'impero: Valente ordinò anche l'arruolamento dei monaci dai loro romitaggi: l'imperatore considerava i romitaggi come capitula, -da sottoporre alla tironum praebitio (tassa di leva). Ma ad un certo momento, nel 376, l'imperatore cambiò idea. La mobilitazione era difficile: troppa gente non amava fornire uomini, sottrarre braccia ai campi; l'arruolamento dei monaci era considerato addirittura una persecuzione. L'imperatore pensò, che i Visigoti non chiedevano di meglio se non militare come soldati dell'impero: e li accolse nella Tracia come soldati. Possiamo immaginare (e del resto lo storico Ammiano ce ne parla) i suoi adulatori pronti a prospettargli i vantaggi che si sarebbero avuti dall'arruolamento di quei barbari: le province avrebbero dato oro (aurum pro tironibus, aurum pro militari supplemento) anziché soldati sottratti al lavoro
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dei campi. L'aderazione della tassa di leva si accompagnava dunque con un grandioso esperimento di arruolamento di barbari in massa. Molte regioni, che prima davano uomini (corpora), ora davano pretta, aurum pro tironibus; contente le province, forse - ma il prezzo di aderazione era altissimo (80 solidi?) -; contento l'imperatore, forse ma l'esperimento si rivelava denso di interrogativi -. Di fatti, ben presto la situazione divenne preoccupante. I barbari accolti come soldati dell'impero erano profondamente disprezzati dalla popolazione romana; il conflitto fu inevitabile. La Tracia fu messa a sacco e a fuoco. Ostrogoti, e contingenti unni ed alani, si erano uniti ai Visigoti. Sebbene il generale romano Sebastiano avesse riportato un successo sui Goti all'Ebro in Tracia, tuttavia la situazione non poteva essere ristabilita se non con l'aiuto delle truppe di Graziano. Di fatti quest'ultimo, vinti i Lenziesi Alamanni contro cui si trovava a combattere, mosse in aiuto dello zio. Ma Valente non volle attendere. Presso Adrianopoli, il 9 agosto 378, fu vinto ed ucciso. L'impero romano attraversò la più grave crisi della sua storia nel iv secolo: proditores e trans/ugae passavano ai Goti, sebbene il tristo destino di alcuni di essi sconsigliasse ai più di seguirne l'esempio; i Goti arrivarono alle porte di Costantinopoli. Non poterono prendere la città, ma devastarono i campi. Di lì tornarono indietro, a saccheggiare tutto l'Illirico. L'odio romano contro i barbari prese forme violentissime nell'Oriente: qui, per ordine del magister militum trans Taurum, Iulius, furono massacrati tutti i Goti che precedentemente erano stati accolti nella regione asianica. 98. Graziano e Teodosio.
Non era più possibile scacciare i Goti dai Balcani. Era possibile farne - come si era voluto al momento della loro ammissione, nel 376 - dei joederati stanziati entro l'impero? Dopo una lunga vicenda di combattimenti, il
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nuovo imperatore Teodosio (figlio del magister militum Teodosio vincitore di Firmo), elevato all'impero da Graziano il 19 gennaio 379, dovette riconoscere che solo la via del loedus poteva essere battuta con una speranza di successo. Il loedus fu concluso nel 381. I Goti si stanziarono così, con garanzie legali, nell'Illirico. Restava da vedere se essi avrebbero potuto vivere in armonia con la po polazione romana (dagli screzii con questa aveva avuto inizio la loro rivoluzione nel 377) e con le truppe propriamente romane. Si creava una situazione assolutamente nuova ed incerta. Nello stesso tempo Graziano e Teodosio ebbero cura di risolvere il problema dell'unità religiosa con provvedimenti radicali. Due erano gli aspetti del problema: da una parte la lotta contro le resistenze pagane, che si facevano sentire più chiaramente nella vecchia Roma e tra alcuni dei suoi senatori; dall'altra, la più grave, la necessità di realizzare l'unità dell'episcopato cristiano. Quanto al primo punto, Graziano provvide a revocare le immunità concesse alle Vestali e ai collegi sacerdotali pagani di Roma; abbandonò il titolo di ponti/ex maximus; allontanò l'altare della Vittoria dalla Curia (382). Tutti provvedimenti su cui poté aver un influsso il consiglio del papa Damaso; ma non bisogna dimenticare da una parte l'esempio offerto a Graziano dal suo cristianissimo collega Teodosio (il quale aveva già abbandonato il titolo di pontifex maximus), dall'altra l'altissimo prestigio del vescovo Ambrogio e la sua personale autorità presso l'imperatore (dopo la morte di Graziano, la vana reazione pagana sul problema dell'altare della Vittoria sarà rappresentata, nel 384, dal senatore Simmaco). La stessa politica fu attuata dal cristianissimo Teodosio nell'Oriente. Quanto all'unità dell'episcopato i due imperatori hanno ben presto pensato che essa doveva fondarsi sul simbolo niceno, tanto più che Teodosio, come spagnuolo, era educato al niceno secondo la tradizione episcopale del suo paese (si ricordi Osio di Cordova). Teo
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dosio ha portato nella sua convinzione religiosa l'ardore appunto, della appassionata anima spagnola, e la decisione senza compromessi del vero soldato: sicché l'editto del 28 febbraio 380, in cui l'imperatore dichiarava la necessità che tutti i sudditi accettassero il niceno, secondo la professione di fede seguita dai vescovi Damaso di Roma e Pietro di Alessandria (Atanasio era morto nel 373), ha importanza storica mondiale. L'unità dell'episcopato si specchiava dunque nelle dichiarazioni di fede delle comunità di Roma e di Alessandria. Nel 381 si riunì a Costantinopoli il secondo concilio ecumenico, in cui furono condannate definitivamente la dottrina ariana e la pneumato machica: vi fu accolta la formula del vescovo di Salamina di Cipro, l'antiorigenista Epifanio (cfr. supra, § 97), secondo cui, contro l'opinione dei Macedoniani, lo Spirito Santo
ex Patre procedit, cum Patre et Filio simul adoratur et con glori/icatur, locutus est per prophetas. Questa formula, unita al simbolo niceno, forma a tutt'oggi il simbolo niceno-costantinopolitano (in cui però fu inserito, più che due secoli dopo - 589 - il principio della processione dello Spirito Santo anche dal Logo: un principio, questo, che sembra particolarmente caro alla teologia della comunità romana già di questo periodo 28) Tra le altre eresie colpite da anatema alla sinodo di Costantinopoli fu la dottrina della $ ro F-rjìj Aiyou apxò..L&v, di Apollinario vescovo laodiceno: la quale aveva acquistato sempre più di rilievo, specie ad Antiochia, dove, accanto 28 E anche già dei primi del iv secolo, se Execaterostasis nelle iscrizioni, ora pubblicate, dell'ipogeo dei Valerii (GUARDUCCI, Cristo e San Pietro in un documento precostantiniano, 1953, p. 48) si datasse, come ritiene l'editrice, al 315 ca. (Cfr., su queste iscrizioni, le nostre considerazioni in/ra, App. iii. Un'ottima scelta bibliografica sul problema della processione del Pneuma ultimamente in GUARDUCCI, op. cit.; si aggiunga per es. PEITZ, che citeremo or ora.) - Ad ogni modo, Execaterostasis di quelle iscrizioni va posto nel iv secolo: ciò sembra dar ragione, almeno in parte, a PEITZ, Das vorephesiniscbe Symbol der Papstkanzlei, 1939, il quale proponeva anteriorità del Filioque al 400 'ed autorità romana di esso.
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alle due comunità ortodosse in contrasto, e ad una comunità ariana, c'era una notevole comunità apollinarista sotto il vescovo Vitale (la cosa va notata perché più tardi, viceversa, lo spirito del.l'eresia apollinarista, nella sua forma monofisita, si diffonderà nell'Egi"tto mentre nella Siria eraallora considerato no prevalse le dottrine del vescovo Diodoro di Tarso [cfr. su pra, § 96 ] e del suo ortodosso allievo Teodoro, che nel 392 divenne vescovo di Mopsuestia ). Inoltre, il concilio di Costantinopoli cambiò notevolmente l'ordinamento- episcopale, perché, accanto alla particolare posizione dei vescovi di Roma, Alessandria e Antiochia, fu riconosciuta una posizione eminente al vescovo di Costantinopoli (al « secondo posto d'onore » dopo Roma: ciò avrebbe determinato, in seguito, gravi conflitti tra il seggio di Costantinopoli e quello di Alessandria). Vescovo di Costantinopoli fu eletto il senatore Nettario, che subito ricevette il battesimo e fu insediato nel suo trono con l'alto assenso di Teodosio (in un primo momento era stato eletto Gregorio di Nazianzo): ben presto il « secondo posto d'onore » ebbe anche un aspetto giurisdizionale eminente, tanto vero che Ambrogio vescovo di Milano si rivolgeva a Nettario per la deposizione del vescovo di Nicomedia in Bitinia. Nettario fu il vescovo caro a Teodosio, il quale amava risiedere stabilmente a Costantinopoli piuttosto che ad Antiochia; allo stesso modo in cui Graziano amava risiedere a Milano, presso Ambrogio, piuttos to che a Treviri. 99.
L'usurpazione di Massimo. Massimo e i priscillianisti. Politica economica di Teodosio.
Nel 383 scoppiò in Britannia la rivolta dello spagnuolo Massimo, il quale usurpò il trono; l'esercito di Graziano passò a Massimo, Graziano stesso fu preso a Lione (25 ag. 383) e poi ucciso. Così nell'Occidente restavano a governare Massimo nella prefettura gallica, e Valentiniai
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no n (con la madre Giustina, di fede ariana) nell'italiciana; nell'Oriente Teodosio, che nel 384 riconobbe Massimo, aveva cooptato all'impero, già nel 383, il suo figliuoletto di soli sei anni, Arcadio. L'anno 383 è anche importante perché esso segna l'inizio di un tipico espediente monetario, che ha dietro a sé uno sfondo assai notevole di politica sociale: l'emissione dei trernisses, piccola moneta d'oro di circa i grammo e mezzo. Quale lo scopo di questa emissione di moneta d'oro cosi ridotta rispetto al solidus di g. 4,55? Ce la fa intendere assai bene la Historia Augusta, la quale attribuisce a Severo Alessandro - il principe che in quell'opera è considerato per eccellenza l'optimus ed il più generoso - la prima emissione di tremisses, al fine di una riduzione del canone tributario: per ridurre i tributi, il principe ideale avrebbe coniato la moneta d'oro ridotta (tunc etiam, cum ad tertiam partem auri vectigal decidisset, tremisses [scil. formati stint]: in realtà, Severo Alessandro non ha mai emesso una tale moneta). In altri termini, si riteneva che l'emissione di moneta aurea ridotta si accompagnasse naturalmente con una politica di agevolazioni tributarie. Questa era la politica deflazionistica, che già vedemmo sostenuta energicamente da Giuliano l'apostata. Che Teodosio abbia seguito tale politica è confermato dal resto della sua legislazione, in cui egli ha cercato di impedire che si imponessero ai contribuenti alti prezzi di aderazione (ne sub taxationibus pretiorum dispendiosis occasionibus adquiescant); ciò conferma, ancor una volta, la continuità della politica economica di Giuliano. Ma un punto di grande importanza è questo, che l'emissione di tremisses, una espressione per così dire tattile della politica deflazionistica dell'impero, era destinata, d'allora in poi, a dominare tutta la storia monetaria della pars occidentale assai più che dell'orientale. La deflazione raggiungeva in Occidente il punto estremo della curva. Già lo notammo sopra: questa politica deflazionistica
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tendeva ad assumere in Occidente aspetti-limite: perché di molto minore era l'indice demografico in Occidente, e dunque di molto minore la produttività. La zona più delicata e difficile era la prefettura delle Gallie: la zona dei sussulti e delle usurpazioni, ma anche del minimo indice demografico (nell'epoca costantiniana, il territorio rusticano della diocesi gallicana ha appena 2 112 capita di lavoratori per Km'; dunque circa 3½ abitanti per Km 2 ) e pertanto del più alto livello dei prezzi (dimostraz. in/ra, § 108). Un paese di violente passioni religiose era, nella prefettura gai lica, la Spagna, dove la lotta religiosa assumeva aspetti che già sanno di medievale nel loro colorito tenebroso e mistico. Proprio l'epoca dell'impero di Massimo ha visto, difatti, la prima condanna a morte di eretici, o riconosciuti per tali: il vescovo Priscilliano di Avila nella Lusitania, e sei suoi compagni (385). Come appare dagli scritti d'ispirazione priscillianista conservati in un manoscritto di Wùrzburg, il vescovo di Avila era, assai più che un eretico in grande stile, un appassionato asceta, il quale, nella sua anima ardente di spagnuolo, bruciava nella sofferenza e nel continuato digiuno ogni contatto con la vita. Tuttavia va osservato che motivi in certo modo eretici - ispirati al monarchianesimo modalistico - ed opposti motivi tertullianei potevano penetrare nella tormentata ascesi di Priscilliano. Nel 380 un concilio a Saragozza aveva pronunciato anatema su di lui. In Oriente la cosa si sarebbe fermata, più o meno, qui; o, se si fosse arrivati al sangue, ciò si sarebbe verificato ad opera della folla di qualche grande città come Alessandria. Ma nell'Occidente il problema dell'unità episcopale assumeva facilmente quel contenuto personalistico e quell'aspetto di lotta politica che in Oriente si presentava nelle colte forme delle controversie dottrinarie. Senza le profonde discussioni dottrinane proprie degli orientali, i vescovi spagnuoli tagliarono corto, e accusarono Priscilliano di « manicheismo »; il che poteva in certo modo affermarsi per il confronto
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con lo stile di vita dei manichei, abbastanza numerosi nell'Africa (per esempio a Cartagine, nel 373-374, l'allora diciannovenne Agostino - il futuro vescovo cri'stiano - era passato al manicheismo; lo stesso Agostino, quando poi sarà vescovo cristiano, definirai priscillianisti come « non molto dissimili », nelle loro blasphemiae, dai manichei). Quando l'accusa di manicheismo si fu chiaramente configurata, si presentò ai priscillianisti il dilemma grave, se fosse opportuno sottomettersi al giudizio delle gerarchie ecclesiastiche dei seggi più autorevoli (Milano e soprattutto Roma) o dello stato - al iudicium sanctorum o a quello del saeculum. Dopo molte vicende, Priscilliano finì per ricorrere al saeculum. Ma il saeculum cioè l'imperatore Massimo, lo condannò a morte. Sebbene la notizia non si diffondesse dappertutto con quel carattere sensazionale che noi si penserebbe, tuttavia è innegabile che essa già ai contemporanei fece impressione, e che questo intervento del « braccio secolare » preoccupò certamente uomini come Ambrogio, ed amareggiò spiriti liberali che rifuggivano dal sangue. Per noi moderni l'azione di Massimo nell'affare priscillianista va considerata come un precorrimento di forme medievali di vita: la politica del l'unità dell'episcopato, che fu sempre un obiettivo degli imperatori cristiani, diveotava, nell'intervento di Massimo, politica di violenza e di sangue. In compenso, lo stato di Valentiniano n fu caratterizzato da un più aperto spirito liberale: ne era animatrice l'imperatrice madre Giustina, ariana; ne erano supremi ed autorevoli funzionari i grandi esponenti del paganesimo, soprattutto il prefetto urbano Simmaco; ed è significativo che Simmaco, nell'autunno del 384, raccomandasse con successo il manicheo Agosti no - il giovane retore trentenne che dall'Africa era venuto in Italia, per far carriera - alla cattedra di retorica nella città sede dell'imperatore e capitale del vicariato italiano - Milano. Così l'anno 385, che nello stato di Massimo vedeva la violenta condanna dei priscillianisti,
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si era viceversa iniziato, a Milano, col discorso di Agostino, in presenza di Valentiniano li, per il consolato di Bauto (cfr. Aug., MSL 43, 362); e ancora nel novembre 385 Agostino recitava il panegirico pei decennali dello stesso Valentiniano ii. Ma la fortissima personalità del vescovo Ambrogio riuscì tuttavia, pur in questo stato arianeggiante e di spiriti liberali, a raggiungere enormi successi: il più splendido - anche se non il più appariscente fu, nel 386, la conversione del retore Agostino al cristianesimo ortodosso di spiriti neoplatonici, secondo la tradizione inaugurata da Mario Vittorino ed ora rappresentata da Ambrogio stesso e dal grande amico di Vittorino, il presbitero Simpliciano (Courcelle). 100.
Dalla battaglia di Siscia (388) alla morte di Teodosio.
Nel 387, Massimo invase il territorio italiano; Valentiniano n fuggì in Illirico. Teodosio intervenne a proteggere il giovane principe; vinse le truppe di Massimo a. Siscia e a Petovio; Massimo fu preso vicino ad Aquileia (28 ag. 388). Così l'unità dell'impero era restituita. Ma la guerra aveva ridato particolare potenza e autorità alle truppe dei Ioederati gotici dell'Illirico ed ai loro comandi. Nei preparativi contro Massimo, 387/388, Teodosio ha emanato una costituzione che agevolava finanziariamente, a scapito dei contribuenti provinciali, le sue truppe illiriciane; poiché la costituzione è emanata da Teodosio, e vi si parla di inlustris per Illyricum prae/ectura, cosi se ne dovrebbe dedurre che nel 387/388 la pars orientale ha assorbito definitivamente questa prefettura separata, che ancora nel 386 si trovava nella pars occidentale dell'impero. I rapporti tra questi soldati barbari e i provinciali si inasprivano sempre più: a Tessalonica, capitale dell'Illirico, la popolazione urbana uccise il comandante supremo delle truppe d'Illirico, il barbaro
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Butherich (forse goto? forse addirittura quel « Vithericus » il rendimento di questi nomi barbarici è spesso oscillante che era rex degli Ostrogoti stanziati nell'Illirico? ? ). L'uccisione del magister militum per Illyricum era un grave atto antibarbarico, che poteva avere le stesse conseguenze dei conflitti tra Romani e barbari nel 377. Teodosio pensò di correre ai ripari: nel maggio 390 egli ordinò il massacro dei cittadini di Tessalonica. Certamente, il fervente cattolico Teodosio avrà dato l'ordine con grande dolore: ma il Joedus coi barbari gli sembrava minacciato, ed egli considerava questo joedus qualcosa di vitale per l'impero (tanto più che alcune bande di barbari, già subornati da Massimo, si erano dati al brigantaggio nella Macedonia) . Ma allora si vide che la romanità, anche se per « ragione di stato » doveva essere umiliata da un imperatore come Teodosio (uomo, per altro, di spiriti certamente romani), tuttavia aveva un suo appassionato dif ensore in Ambrogio, l'ex consolare di Liguria che nel vescovato milanese portava l'anima del funzionario romano innamorato della Romania minacciata dai barbari. In tutto questo, come nei casi analoghi (per esempio, un decennio più tardi, nella lotta di Giovanni Crisostomo contro il magister barbaro Gainas), ha avuto anche grande importanza l'ostilità dell'episcopato cattolico contro i barbari ariani. Ambrogio scomunicò Teodosio, e lo costrinse alla penitenza, dopo la quale lo riammise, al Natale dello stesso anno, nella comunità. La penitenza di Teodosio equivaleva, però, ad una sconfessione sia pur entro certi limiti della sua intransigente politica di fedeltà, a tutti i costi, al foedus barbarico; ciò può aver suscitato lo scontento fra i barbari. Forse con questo scontento dobbiamo connettere la rivoluzione dei Visigoti di Alarico nel 391, rivoluzione che fu domata dal generale d'origine vandala Flavio Stilicone (probabilmente di madre romana; del resto, i Vandali erano tradizionalmente ostili ai Goti) ed in seguito alla quale Teodosio stipulò coi
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Goti, nel 392, un nuovo Joedus. È molto probabile che in questo foedus Alarico fosse riconosciuto nuovo magister militum per Illyricum, successore dell'ucciso Butherich. Dall'agosto 388 al giugno 391 Teodosio resta in Italia; solo nel luglio 391 egli ne parte. Ciò dimostra che l'imperatore sentiva come la situazione dell'Occidente fosse instabile, e dunque si rendesse necessaria una diretta sorveglianza dall'Italia stessa, data la debolezza del giovane imperatore Valentiniano li. Teodosio aveva certamente ragione. Al solito, la prefettura gallica era la re gione che, per le difficoltà economiche, poteva dar luogo a gravi crisi di governo. Ad appena undici mesi di di stanza dalla partenza di Teodosio, Valentiniano u fu ucciso (o si uccise?) in seguito a un conflitto col suo generalissimo, il barbaro (franco) Arbogaste (15 mag. 392). Il ribelle Arbogaste proclamò imperatore un cristiano paganeggiante, Eugenio. Ed ora si verificò il caso, quanto mai interessante, che quella nobiltà pagana di Roma, la quale avrebbe dovuto essere custode della tradizione anti barbarica romana, fiancheggiò senza riserve la rivoluzione del barbaro Arbogaste (il fenomeno aveva un precedente: l'amicizia del franco Bauto - magister militum di Va lentiniano ti - con il pagano Simmaco). I Simmachi e i Nicomachi appoggiarono, così, il ribelle: fu prefetto al pretorio d'Italia Vino Nicomaco Flaviano padre (con iterazione onoraria, perché già era stato prefetto al pretoio - probabilmente in collegialità con un altro - prima della rivoluzione); prefetto urbano Vino Nicomaco Flavia no figlio. È un processo apparentemente strano ed invece ben comprensibile. Il vessillo della lotta antibarbarica era agitato dal vescovo Ambrogio, per la sua naturale avversione ai barbari, che erano o pagani (come Arbogaste) o ariani; ai sostenitori del paganesimo sopravvivente nella nobiltà romana, inaspriti contro Ambrogio anche per le ulteriori decisioni antipagane di Teodosio (per esempio, nel 391 era stato distrutto il Serapeo), non restava che
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appoggiarsi alla dittatura militare barbarica di un Arbogaste. Inoltre nell'Occidente la evoluzione militare conduceva via via a dar un carattere dittatoriale al supremo magisterium militare, che era normalmente in mani barbariche. Ciò si spiega anche con la tendenza depressiva dell'indice demografico, che rendeva impossibile l'arruolamento di truppe romane; mentre questo era di gran lunga più agevole nella prefettura d'Oriente (soprattutto nelle diocesi orientale e pontica, in cui si trovavano regioni come l'Isauria e I'Osroene), dove per altro lo stesso carattere del paese rendeva anche possibile la snazionalizzazione dei soldati barbarici. Ad ogni modo, l'alleanza di Arbogaste con gli elementi paganeggianti del senato romano resta un tratto tipico di questo periodo; questa specie di rivoluzione del senato paganeggiante ci dice come tardi senatori prendessero sul serio quella loro educazione pagana, che si esprimeva altresì, per esempio, nella cura con cui emendavano e rencensivano i testi antichi, in un fervore di rinascimento umanistico che illuminava l'ozio delle loro splendide ville. Una cultura aristocratica credeva di inquadrarsi in uno stato militare condotto da un barbaro. La rivoluzione prese le prefetture di Gallia e d'Italia-Africa. Teodosio attese due anni. Marciò contro i ribelli nel 394, e li vinse al fiume Frigido, tra il 5 e il 6 settembre 394. Dopo la battaglia, sarebbe stato necessario un ordinamento complessivo, che sistemasse, dopo questo ultimo sollevamento pagano, i rapporti fra l'impero e l'aristocrazia della vecchia Roma. Ma Teodosio preferì, per ora, un ordinamento provvisorio eccezionale. Di fatti, nominò, al posto dei Nicomachi, un vices agens prae/ectorum praetorio et urbi: una carica tirata fuori dal repertorio erudito delle cariche equestri del in secolo, piuttosto che dalla tradizione amministrativa del iv secolo (quest'ultimo aveva conosciuto il vices agens praefectorum praetorio, ma non ad un tempo praefectorum praetorio et urbi); una carica, comunque, che ben si
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adattava a sostituire ad un tempo i due Nicomachi, il padre (che si era ucciso) ed il figlio. Erano, per altro, ordinamenti provvisori, ai quali sarebbe seguita, certamente, una più stabile sistemazione di questo agitato e sconvolto Occidente (tra l'altro, era da sistemare la questione dell'Illirico orientale, che negli ultimi tempi - possiamo dire, dal 387/388 in poi - aveva di fatto appartenuto alla pars orientale; doveva esso tornare all'Occidente o restare nella pars orientale?). 11 17 gennaio 395 Teodosio morì. Probabilmente, egli se ne andò tI?anquillo, perché raccomandò i due figli, Arcadio (augusto sin dal 383), e Onorio (augusto fin dal 393), al suo fido generale Sti licone: si sa che egli fondava sulla lealtà militare grandissima parte della sua politica. E Ambrogio, il vescovo che lo aveva dominato e ammirato, diceva, quasi a confortare sé ed altri della scomparsa repentina: « pci figli, nulla aveva da deliberare; bastava solo affidarli al loro parens, che era presente » (de filiis nihil babebai novum quod conderet, nisi ut eos praesentz commendaret parenti; il parens è, appunto, Stilicone). Sulla continuità dinastica, sulla fedeltà del parens e magister utriusque militiae Sti licone, riposava l'edificio politico lasciato da Teodosio. 101.
Caratteristiche culturali del basso impero.
La ricostruzione delle vicende politico-sociali-religiose del iv secolo ci ha già mostrato alcuni aspetti della nuova epoca. Momenti della cultura popolare - dalla sensibilità religiosa all'uso del codex (anziché del volumen), sinanco (in certi casi) al linguaggio - sono penetrati nella superiore cultura aristocratica. Questa, in compenso, si avvia a rinunciare, in alcuni casi, a quella assoluta unità ellenistico-romana che aveva caratterizzato l'impero umanistico; in Occidente, non è più facile trovare scrittori che, come il prenestino Eliano nell'epoca antonina, amino redigere in greco le loro opere. Oriente e Occidente, il mondo greco
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e il mondo romano, si vanno straniando anche sul piano linguistico: se l'avo di Libanio scrive in latino, viceversa Libanio conosce molto mediocremente questa lingua (di un imperatore come Giuliano, Ammiano dice che ha conoscenza « sufficiente » del latino); allo stesso modo, menuna getre Ambrogio conosce il greco, già Agostino non ama lo studio di questa lingua. nerazione dopo Auxenzio, il predecessore di Ambrogio, sa poco di latino. Tuttavia, proprio l'Oriente greco ha dato, nell'opera di Ammiano Marcellino, il capolavoro della storiografia annalistica imperiale (non inferiore alle Historiae e agli Annales di Tacito). All'istesso modo l'orientale Claudiano, tribunus et notarius nell'epoca stiliconiana, ci darà il più interessante neoclassicismo di questa latinità tarda: a sua volta l'occidentale Vittorino ha dato una viva interpretazione latina del pensiero neoplatonico, ed uno storico amico di Simmaco ha redatto in latino una storia delle troXL -rcton alla maniera di Aristotele. Si insiste sul concetto che i Romani (come dice Simmaco a proposito di questo scrittore) « hanno preso le leggi dalla patria di Licurgo e di Solone »; è un concetto, che troviamo già in Giuliano, e che si rifà a tutta la tradizione storiografica sulle dodici tavole, interpretata in senso ellenistico. Ma il distacco culturale delle due partes resta. Si nota uria diversa reazione della cultura media occidentale agli sviluppi delle controversie dogmatiche: l'Occidente è ispirato ad una concezione gerarchica dell'unità episcopale nelle questioni cristologica e trinitaria laddove l'Oriente vorrebbe fondar l'unità episcopale sulle discussioni sinodali in base allo studio delle Scritture (xa-r' ypoc pc ). (È interessante, come già notammo, che la rivoluzione protestantica in Europa abbia portato nei paesi riformati, ma con tutt'altro sviluppo, la formula che nel iv secolo caratterizzava la pars orientale e la contrapponeva all'occidentale dell'impero.) Il fenomeno culturale più caratteristico di questo pe-
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nodo è la lenta elaborazione di una distinta esperienza culturale in due grandi zone dell'impero, che poi si staccheranno dalla comunità imperiale romano-bizantina al primo apparire della espansione arabica: la Siria e l'Egitto (esse cadranno sotto gli Arabi rispettivamente nel 636 e nel 642/646: dunque, pochi anni dopo la morte di Maometto, avvenuta nel 632). Nel iv secolo, la formazione di una cultura siriaca e copta si coglie solo nei suoi germi; ma già intorno al 400 essa sarà penetrata nella coscienza culturale romana, ed accanto al latino e al greco anche il siriaco (e, come lingua biblica, l'ebraico) ed il copto saranno comunemente considerate « le lingue dell'impero romano ». Anzi, la caratterizzazione « regionale » delle culture è ancora più ricca: al risveglio copto e al siro si aggiunge l'armeno e l'arabo; ciò è chiaro nell'insegnamento superiore ellenista, per esempio in Atene, dove la studentesca si aggruppa in Sirii, Arabi, Armeno-Pomici (si noti questa appartenenza culturale del Ponto, l'antica terra di Mitridate alleato di Tigrane, al gruppo culturale armeno). L'importanza della predicazione cristiana in un tale risveglio regionale è evidente: si predica in siro, armeno, copto. D'altra parte, la superiorità dell'ellenismo si riconosce sempre nel fatto che, come per esempio nel xi secolo il samosatese Luciano poteva considerarsi « elleno » per esser penetrato di cultura ellenistica, così anche ora il siro Iamblico viene considerato, nella sua scuola della grecissima città di Apamea, spirito ellenista per eccellenza. In chiave di cultura ellenistica si celebra tutto il rinascimento spirituale di cui è massimo esponente l'amico di Iamblico, Giuliano l'apostata. Ma è anche significativo che i concetti giulianei di vt6 e di "'EXXYì vFq si adoperino, ora, in contrapposto ai concetti di cristianesimo e di Cristiani (« Galilei », nella terminologia di Giuliano): anche se per esempio Gregorio di Nazianzo nega ai pagani (precisamente a Giuliano) il diritto di considerarsi essi soli «Elleni ».
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L'af f ermazione di culture regionali come la siriaca, l'armena, la copta ha avuto conseguenze e caratteristiche politiche, che furono poi evidenti, come accennammo ( e vedremo meglio nel seguente capitolo), ai primi tempi dell'espansione islamica. Ma essa non ha un significato esclusivamente politico. Noi dobbiamo intenderla, piuttosto, come la penetrazione di motivi popolari nella cultura aristocratica elaborata dall'ellenismo. Il cristianesimo aveva democratizzato la cultura. Le masse si aprirono una nuova via nella vita spirituale. La lingua e il pensiero degli humiliores è dunque qualcosa, quantunque la loro posizione sociale (specie in Egitto; meno nella Siria) sia normalmente avvilita dal peso dei tributi in una società « a piramide ». Insomma, la rivoluzione costantiniana ha determinato una società « charismatica », ma nello stesso tempo ha permesso che dalla base si aprisse una breccia nella vita culturale delle aristocrazie romano-elleniste dell'impero. Alla fine questa breccia ha travolto gli aspetti classici dell'unità romano-ellenistica. Nel momento stesso in cui l'uomo della strada si poneva per esempio il problema della consustanzialità del Logo, per aderire a questa o a quella comunità di fedeli cristiani, si apriva a lui uomo della strada una problematica spirituale che era la « sua » problematica: qualcosa del genere non sarebbe stato possibile con la vecchia cultura pagana. In seguito, nella tormentata storia del v secolo, le questioni cristologiche dimostreranno ancor meglio la linearità di questo sviluppo: avremo una chiesa siriaca « nestoriana », ed un mondo copto « monofisita », che poi si allarga alla Siria; qui il parallelismo di culture popolari-regionali ed esperienze spirituali cristiane è più evidente che mai. Lo stesso prevalere di aspetti « musicali » nell'alta cultura (specie nella sofistica,. tutta pervasa di ambizioni « melodiche ») è un segno della penetrazione di esigenze che prima si erano elaborate dalle masse cristiane dell'Oriente: tale « vittoria » della musica, che nell'Occidente è stata più difficile
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(nella Chiesa di Milano essa si è verificata solo sotto il vescovo Ambrogio), affonda le sue radici nella sensibilità cristiana-siriaca (di origine in parte giudaica) alla psalmodica e all'innografia. Un fenomeno abbastanza affine è l'affermazione di linguaggi volgari latini nelle grandi regioni d'Occidente. Qui l'uomo della strada non segue questo o quel vescovo a seconda della dottrina trinitaria o cristologica che egli predica: un interesse a discussioni teologiche è, .per le masse dell'Occidente, secondario. Ma in compenso, le dif ferenze sociali acuiscono il premere delle « basi » popolari nella vita del mondo romano. A prescindere dal prevalere del celtismo linguistico in alcune zone contadine della Gallia, c'è comunque, in questa nevralgica zona del l'impero romano, una irrequietezza delle masse che politicamente si esprime, come già nel in secolo, in movimenti di tipo « bacaudico »; nell'Africa, la medesima irrequietezza, che si accentra sui movimenti di Agonisti-Circumcellioni, si cobra di contenuto religioso, fa capo allo scisma donatistico; nella Sicilia, greca nelle poleis e romana nelle campagne, il suo colorito religioso ha persino sfumature teologiche, ché vi si parla (ancora nel v secolo) di arianesimo, e vi si troverà un terreno preparato e fecondo (ma forse solo nelle classi superiori) per la dottrina pelagiana dell'impeccantia. Ad ogni modo, il fenomeno più rilevante nell'Occidente è il formarsi dei germi per la costituzione di linguaggi volgari differenziati, che affondano le loro radici nella precedente storia culturale dell'impero; esse partono dalla colonizzazione « romana » nella Spagna e nella Gallia, dalla « lingua degli Italiani » nell'Italia e nelle regioni illiriciane (per la distinzione cfr. supra, § 38); e più tardi (in/ra, § 108) daranno luogo alle lingue romanze. Questo è il crepuscolo di un mondo. E tuttavia, la continuità di certe esperienze ci assicura che, anche in questo caso, trasformazione non è sempre distruzione. Muore la
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città antica, tutta fervore di agoni e di religiosità festiva. Ma la città cristiana eredita da essa la gioia della cultura e persino (nonostante le proteste dei religiosi) degli agoni (con political theatrical claques, Browning). Le masse cercano di conquistarsi il gran predicatore, felici se per esempio un Agostino potrà predicare nella loro chiesa. Proprio in questo complesso e tormentato periodo, nel basso impero, il mondo antico si è fatto moderno; perduto il classico d'un tempo, lo ha fermato nelle pure forme della cultura cristiana. Il dramma dell'uomo antico si placava nella conquista di un ideale religioso nuovo: la fede. Il monachesimo, contro cui protesterà il pagano Rutilio Namaziano, esprime il tempo nuovo. 102. Ammiano e Vegezio. Il senso della decadenza.
Già a suo luogo illustrammo come il senso della decadenza diventasse un motivo costante e fondamentale della vita romana nel in secolo; in Ippolito e Cipriano e Commodiano e Dionisio vescovo di Alessandria abbiamo potuto indicare gli interpreti principali di questo atteggiamento spirituale. Nel basso impero la coscienza del decadimento degli antichi valori diventa un motivo tipico del pensiero tradizionalista pagano o paganeggiante. Essa spiega il de rebus bellicis - il cui autore, per la sua ostilità a Costantino, si rivela uno spirito paganeggiante (interessante il suo richiamo al divinitatis instinctu, come nell'iscrizione romana per Costantino). Essa spiega le critiche di Aurelio Vittore - come già rilevammo - all'impero burocratico di Costanzo li, le critiche della Historia Augusta all'impero burocratico di Costantinb; spiega insomma tutta l'opera di Giuliano l'Apostata e l'atteggiamento spirituale dei consiglieri e dei seguaci ideali di Giuliano. Il grande monumento della borghesia tradizionalista è l'opera storica di Ammiano Marcellino, con la sua esaltazione delle cure dedicate da Giuliano alla res
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publica che vacilla, con la sua critica della vita urbana di
Roma e del'le violente lotte per il trono episcopale romano (supra, § 89), con la sua insistenza sull'avidità dei soldati (supra, § 90) e della burocrazia, ed infine sui tradi-
menti e sulle diserzioni nell'esercito. Tutto ciò rifletteva l'esperienza spirituale di Ammiano, il quale aveva vissuto la grande giornata giulianea, ma aveva anche « sentito » la gravità della sconfitta di Adrianopoli nel 378. In realtà, questa amara sconfitta riproponeva il « problema-della decadenza » anche per i Cristiani. Noi non abbiamo precise notizie sull'epoca di composizione del trattato militare di Vegezio, scrittore di gran lunga meno illustre di Ammiano, e tuttavia non meno significativo. Ma è indiscutibile che anche il trattato di Vegezio fu suggerito dal « senso della decadenza », fattosi più tormentoso e drastico dopo Adrianopoli. Vi è criticato il morto imperatore Graziano, quasi con tono di diretta polemica. L'autore si rivolge a un imperator che egli considera dominus ac princeps generis humani, domitor omnium gentium barbararum [it p.], fondatore o « rifondatore » iub nomen suum di città [iv p.], esperto nella sagittandi peritia e nella equitandi scientia [iii, 261 sopra tutto nella arma turae exercitatio; ma, nonostante queste caratteristiche
guerriere del suo imperatore, egli ritiene necessario cercare conforto e spiegazione e rimedio alla decadenza degli ordinamenti militari romani. Questo conforto egli trova nel confronto con l'epoca che seguì la prima guerra punica, quando i Romani snervati furono vinti da Annibale (nec aliquis hoc superiore aetate accidisse miretur cum post primum Punicum bellum - pax - Romanos - enerva-
verit: i, 28). Quanto alla spiegazione precisa della decadenza, egli giustamente la indica nel fatto che l'arruolamento dei contadini romani (la « tassa del sangue ») viene sabotato dai possessores: questi non danno i migliori coloni, ma i peggiori. È quel fenomeno che già più volte rilevammo: che risale al tempo di Traiano (come a suo
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luogo vedemmo), ma che ora si è ingigantito. Il ventennale (o più che ventennale) servizio militare allontana dalla terra le braccia migliori; i possessores si difendono, cercando di fornire i peggiori elementi fra i loro coloni (o di non fornirne affatto, pagando aurum pro tironibus). Per Vegezio il rimedio c'è: ritornare all'antica disciplina legionaria; un rimedio cosi generico ed astratto, com'erano state attuali e vive le proposte di risanamento sociale-monetario contenute - molti decenni prima - nel de rebus bellicis. Se il trattato di Vegezio si rivolge, come sembra molto probabile " , a Teodosio i, all'incirca tra il 390 e il 395, noi abbiamo qui un documento significativo della coscienza di decadimento che era propria dell'epoca teodosiana, e nello stesso tempo dell'impossibilità di concreti provvedimenti: l'opera di Vegezio si riduce ad escerti di precedenti scritti sull'esercito legionario Ammiano è un pagano; Vegezio è, almeno formalmente, cristiano. La coscienza della crisi si volge, in entrambi, ai suoi aspetti politico-militari. Le proposte di Vegezio vorrebbero inaugurare una nuova pagina nella storia militare dell'impero: tornare al reclutamento di tirones romani anziché di barbari, « educare alle armi i propri soldati, non comperarne di stranieri » (« costa di meno » [i, 281 erudire armis suos quam alienos mercede conducere); allontanare i soldati dalle attrattive della vita cittadina (procul habendi a civitatis illecebris: che era, invece, il senso profondo della costituzione dell'esercito comitatense). Tutte proposte che, nonostante la loro ingenuità, rivelano una certa fiducia che l'apparato politico dell'impero sia ancora solido e possente: se si tenta, pensa Vegezio, si potrà superare ancora ogni ostacolo (omne opus difficile videtur, antequam temptes [ir, 18]). Ma il « senso della decadenza » diventava assai più tormentoso, se si inquadrava in tutta la crisi spirituale che il mondo antico aveva attra 29
Per la dimostrazione in/ra,
LXVII.
Cap. I.
Dal Milvio al Frigido (312-394)
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versato. I pagani si lamentavano che il cristianesimo avesse minato lo spirito militarista romano: uno di essi (cfr. in/ra, App. iii) rivolgerà questa osservazione ad Agostino vescovo. Dopo Teodosio, di fatti, il senso della decadenza si potrà configurare sempre più come discussione tra pagani e Cristiani; e la discussione sarà aspra, quando, nel 410, Roma sarà caduta sottc l'assedio di Alarico. Allora, la coscienza della crisi che l'impero attraversa si esprimerà da un lato nel già citato carme di Rutilio Namaziano; dall'altro, nell'« apologetica storica » ,(Straub) dei Cristiani, fino al grande capolavoro di questa, in cui Agostino contrapponeva (412-426) la civitas Dei alla città dell'uomo. Ma questa stessa contrapposizione, con tutte le sue conseguenze, era già un annuncio del Medioevo. Al di fuori dell'agostinismo, il pensiero cristiano della decadenza culminerà, nel v secolo, nell'aspirazione ad una più generosa vita sociale, ad una specie di « comunismo di carità »: così, in Oriente, nel pensiero di Giovanni Crisostomo; in Occidente, nel già citato de divitiis del corpus pelagiano, ed in fine - quando ormai comincerà a farsi chiara la rovina della prefettura gallica - nell'opera (in certo modo influenzata da tendenze semipelagianein/ra, § 108) di un presbitero di Marsiglia, Salviano. Na turalmente, questi nuovi sviluppi del concetto di decadenza riflettono costantemente le esperienze politico-religiose dell'epoca post-teodosiana, che or ora vedremo; ma i loro presupposti sono già nel senso generale di smarrimento da cui fu preso il mondo romano dopo il 378.
Capitolo secondo
LE PROVINCE ROMANE E LA FINE DEL MONDO ANTICO
103. Premesse.
La civilitas del basso impero è il grande ideale della romanità; essa tira le somme del lungo travaglio di quest'epoca imperiale; si potrebbe ripetere ciò che Dante diceva del sacrum imperium medievale, che « lo fondamento radicale della imperiale maestà, secondo lo vero, è la necessità della umana civiltà ». Ma nel v secolo noi assistiamo al tramonto della pars occidentale dell'impero e ci avviamo verso la fine del mondo antico. Di questo grande fenomeno sono state date molte spiegazioni: emergono, su tutte, quella del Seeck e di A. Stein, secondo cui esso sarebbe dovuto alla scomparsa dei tipi migliori di umanità, animatori della civiltà del mondo antico; quella del Rostovzev, secondo cui la caduta dell'impero sarebbe dovuta alla lotta dei contadini-soldati contro la città; quella del Mickwitz e già di M. Weber, secondo cui il fatto decisivo consisterebbe nella lotta fra il sistema di economia naturale, desiderato dalla borghesia, e il sistema di economia monetaria, desiderato dai contribuenti. La dottrina del Seeck imposta un problema piuttosto filosofico che storico, se cioè il tramonto di una cultura possa spiegarsi come semplice fatto biologico. A quella del Rostovzev si connette una certa parte di verità, nel senso che i soldati erano effettivamente arruolati tra i contadini; ma le pos-
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siamo opporre (oltre ad alcune particolari considerazioni: supra, 55 43; 61) il tipico fenomeno che i soldati hanno come massimo ideale la residenza nella città (di qui l'esercito comitatense) e che proprio dagli stanziamenti militari di confine sorgono spesso città notevoli (del resto, è da escludere che i soldati limitanei del basso impero vadano considerati, come generalmente si ritiene, dei soldati-contadini). La dottrina del Mickwitz può adattarsi al iii secolo, ma non al basso impero, in cui il pagamento in moneta, espresso in oro, può esser gradito anche alla burocrazia (S 87). Del resto, tutte queste dottrine contengono sempre qualche nocciolo di verità. La difficoltà principale consiste nella necessità di una interpretazione che si adegui a tutto il processo storico, e non solo ad alcuni aspetti. Un insigne studioso (Piganiol) ritiene che la grande civiltà del basso impero, già spostata verso le frontiere settentrionali, fu « assassinata » violentemente dai Germani: questa teoria, che ha il merito di insistere sull'importanza positiva della cultura tardo-romana, deve illuminarsi con la considerazione dei fenomeni sociali; nessun organismo sociale si lascia « assassinare », se non ha in sé i germi che rendono impossibile la sua continuazione. Va osservato che, delle,due partes, la più debole è proprio quella occidentale, che tuttavia poteva in un certo senso considerarsi, in astratto, la parte militarmente più forte (per il gran numero di valorosi soldati barbarici che combattevano sotto le sue insegne) - e che veramente la più forte era considerata ancora alla metà del v secolo': se qui
Già il contemporaneo Prisco, che è stato ambasciatore presso Attila e può considerarsi il più eminente conoscitore della mentalità di questo re, osservava che nel 450 « Attila era indeciso quale dei due imperi dovesse attaccare; ma alla fine gli parve più opportuno volgersi alla guerra più aspra (&7d 'ròv iov i6Xcov) marciando contro l'Occidente ». Questo è comunque (anche se non si volesse considerare l'autentico punto di vista di Attila) il punto di vista di un osservatore acutissimo, come Prisco era.
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Parte V.
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i federati hanno costituito dei regna praticamente indipendenti, ciò è dovuto alla minore capacità interna di « snazionalizzare » i contingenti barbarici immergendoli in una salda compagine politico-militare di tipo schiettamente romano. Questa capacità, che risponde ad una maggiore solidità interna, è molto più notevole nell'impero « bizantino ». La civilitas dell'impero romano consiste nella fondazione e nell'incremento di centri cittadini, con le loro splendide terme - qualcosa tra le nostre « piscine » e le « sale di cultura 2 » -, con gli animati portici, con gli spettacoli agonali del circo, pantomimici dei theatra, gladiatorii degli amphitheatra, con il foro, gli acquedotti, i templi... Già gli antichi sanno chiaramente che in questo incremento della vita cittadina è il senso dell'impero: e insistono sull'importanza delle « città giovanissime, fondate dai Romani » - anzi, alcune, fondate « per necessità », come le cosiddette « carpiche », sul Danubio, « per difesa contro i barbari » (così un retore del iii secolo avanzato 3) Le grandi strade commerciali e militari, le fortificazioni del limes, le flotte fluviali assicurano la solidità di quest'opera « civilizzatrice ». Essa si compie nel quadro del più grande stato « supernazionale » - dall'Atlantico al Reno al Danubio all'Eufrate alla Nubia al Sahara - che il mondo antico abbia visto: uno stato di cultura ellenista-romana. Fino a che punto la diffusione di tale cultura fu solida e integrale? Per quali aspetti essa presenta delle incrinature? Diocleziano « ritagliò » in questo stato le sue unità « amministrative » etnico-territoriali, le diocesi. Inquadrate da Costantino nelle prefetture al pretorio 2 Così nella Campania del Satyricon di Petronio - i secolo come nell'Africa di Agostino - v secolo - troviamo l'uso della declamazione o discussione nelle terme: l'Eumolpo del Satyricon recita versi nel balneum, e ne viene cacciato tamquam de tbeatro; Agostino vi discute contra Fortunatum manichaeum. Rh. Gr. in, 355, 1; 358, 29 Sp.
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regionali, queste diocesi dioclezianee continuano ad esprimere il momento etnico (§ 67) dello stato supernazionale romano; sicché lo storico, partendo da esse, può anch'egli, a sua volta, costituire un « bilancio » di elementi positivi e negativi nell'autunno dell'impero; e solo questo « bilancio » deve suggerirgli la via per la narrazione (cioè l'interpretazione) della crisi ultima che l'impero ebbe ad attraversare. 104.
La prefettura d'Oriente.
a) SGUARDO RETROSPETTIVO. La prefettura al pretorio d'Oriente comprende quattro diocesi: l'orientale, la pontica, l'asiana, la tracica. Tutto questo complesso, se si prescinde dalla diocesi tracica, è l'Oriente anteriore (nel quale appunto, in senso lato, si deve comprendere l'Egitto con la Cirenaica). Già in epoca ellenistica la facies dell'Oriente anteriore era molto complessa: la regione asiana, che dal 241 a.C. faceva perno sul regno di Pergamo, ed era di tutte la più ellenista, per esperienze culturali che, del resto, risalgono in parte all'epoca greco-arcaica e alle grandi poleis elleniche per esempio di Smyrna, Efeso, Mileto; la regione pontico-cappadocica, iranizzante ma con larghe suggestioni elleniche che si partivano da apoikiai come per esempio Sinope ed Amiso; la regione galatica, cuneo di tribù celtiche posto tra l'asiana e la pontico-cappadocica; la siriaca, in cui la cultura ellenista delle nuove poleis si scontrava col fondo etnico ora assorbito dalla lingua aramaica (questa era stata la lingua volgata dell'impero achemenide, tanto più nell'Asia anteriore). La repubblica romana ereditò questa situazione. Quando essa, nel 133 a.C., ebbe la successione testamentaria nel territorio (X(ópot) del regno pergameno, si rivelò subito quella che sarebbe stata la caratteristica di tutto il dominio romano nell'Asia anteriore: la continuazione t stabilizzazione della cultura ellenista sotto il controllo di Roma. Così, la prima pro-
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vincia romana (Asia) era la regione asiana, tutta ispirata alla cultura di quelle poleis elleniche che Roma aveva liberato già nel 180 a.C., quando le aveva sottratte al controllo seleucidico. Seguirono poi le altre redazioni in forma di provincia romana: la Cilicia nel 102 a.C. (cfr. Giannelli, Tratt. di st. rom. cit., p. 359), la Bithynia et Pontus, e la Siria ad opera di Pompeo (definitivamente ordinate nel 63 a.C.), Cipro (58 a.C., annessa alla Cilicia), Galazia (25 a.C.), Cappadocia (18 d.C.), Lycia et Pamphylia (43 d.C.), i vari stati vassalli siriaci poco a poco incorporati (l'ultimo dinasta giudaico fu il fratello di Berenice, Agrippa ii), l'Arabia Petrea (106 d.C.), la Mesopotamia (115116 d.C., e poi dal 198 d.C. in poi), le cinque satrapie dioclezianee (298-363 d.C.). Una grande costruzione le cui caratteristiche furono definite appunto nel basso im pero, con la sistemazione delle due diocesi, asiana e pontica, in Asia Minore, e con la speciale posizione dell'Egitto nel quadro della diocesi orientale. L'epoca ellenistico-romana è, nella storia culturale del Vicino Oriente, un'assoluta unità: dai Seleucidi e Tolomei al vi secolo d.C. In realtà, la differente caratteristica dei due grandi stati dell'Oriente ellenistico, il seleucidico e il tolemaico, pose i presupposti per il diverso sviluppo dell'Oriente anteriore in epoca romana. Lo stato seleucidico era plurinazionale e fortemente ellenista; lo stato tolemaico era na zionale (egiziano, con particolare importanza dell'antica casta sacerdotale egizia), con una forte classe dominante ellenica che faceva capo alla polis di Alessandria. Corrispondentemente, la struttura economico-amministrativa dei due stati era diversa: lo stato seleucidico era ordinato ad economia che potremmo chiamare composita, in ogni caso mista di economia basilica-satrapica-politica (vale a dire economia regia, economia delle « regioni » satrapiche, economia delle sue molte poleis); laddove lo stato tolemaico era ordinato ad economia più accentrata, per molti aspetti manovrata, « basilica » (o basilico-ieratica), essendo in esso
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Alessandria l'unica grande polis vera e propria (anche se si fanno notare Tolemaide, Paraitonion e l'antica colonia ionica di Naucratis). Quasi di mezzo fra questi due era il tipo economico-organizzativo dello stato pergameno: basilico e politico a un tempo. Anche nell'organizzazione ro mana si conservò questa fondamentale differenza: l'Asia anteriore fu caratterizzata dalle molte poleis, quelle antiche che già vi si trovavano (moltissime erano fondazioni seleucidiche) e quelle nuove che i Romani, con deduzioni di colonie, vi ordinarono. Erano, queste poleis, il grande veicolo della ellenizzazione. Anche se talune colonie romane, soprattutto in Siria, hanno conservato il loro carattere romano, in complesso si può dire che nell'Asia anteriore l'opera di Roma consiste nella diffusione della cultura ellenista. Viceversa, nell'Egitto l'ordinamento citta dino si fa strada con gravi difficoltà: resta Alessandria il vero e proprio centro cittadino; ma le metropoli dei nomoi, suddivisioni amministrative governate dallo stratego, tendono a organizzarsi, sotto la guida dei loro « arconti » di cultura ellenista, in forme cittadine, che dall'epoca dei Severi si fanno sempre più notevoli. b) L'ASIA MINORE. Se guardiamo più da vicino la vita dell'Oriente anteriore in epoca romana, queste fondamentali caratteristiche si faranno più evidenti. Cominciamo dall'Asia Minore nel suo complesso, che comprende le due diocesi dioclezianee asiana e pontica. La diocesi dioclezia nea asiana corrisponde, grosso modo, alla parte più ellenista del paese; la diocesi pontica a quella iranizzanteellenista; ma poco a poco, il fervore di vita cittadina aveva conquistato all'ellenismo culturale l'intera penisola anato lica, con un processo già delineato nell'epoca di Pompeio e poi sotto Augusto, e maturato nel Il secolo, durante quello che chiamammo « l'impero umanistico » - la grande giornata della vita cittadina e dell'ellenismo. Ogni lettore di epigrafi conosce la gioia dell'agonale, che anima queste città elleniste di Asia Minore. La stessa varietà dei
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sostrati etnici e delle facies culturali dell'Asia Minore contribuisce qui al trionfo della vita cittadina nelle forme greche: anche se qua e là si rileva il persistere di relitti linguistici anellenici e talora il formarsi di una grecità linguistica « barbarica » (cfr. per esempio l'iscrizione del tempio di Apollo Lairbeno studiata supra, xxiii). Città elleniste o colonie romane ellenizzanti punteggiano la penisola, le danno vita e caratteristica: il concetto che le città d'Asia Minore « quantunque vicine, non tolgono ornamento l'una all'altra » è divenuto addirittura un luogo comune retorico . La regione cilicia ha centri illustri, come Seleucia Soloi e soprattutto Tarso; se ne esportano, per esempio, vini rinomati. Nella regione cappadocica han centro le grandi proprietà imperiali; e tuttavia vi son centri cittadini notevoli (Mazaca-Cesarea soprattutto); tipica l'esportazione di pellami; rigido il clima; la robustezza dei suoi abitanti era già proverbiale nel i secolo. Nella Galazia, anch'essa famosa per la robustezza dei suoi abitanti (così in un testo dell'avanzato iii secolo ' ), la parte orientale dell'impero ha la sua zona celtica (e persistentemente celtica, anche dal punto di vista linguistico); qui aveva centro, durante il principato, il culto della Gran Madre, nel ricco tempio di Pessinunte; sono caratteristiche le grandi proprietà imperiali e templari e private; Ancira è maxirna civitas; la regione dà ottimi soldati e fedeli burocrati (cfr. supra, § 40); se ne esportano tessili; si vanta il pane di Galazia. Nel principato Bitinia e Ponto sono unica provincia in origine senatoria, costellata di fervida vita cittadina a Nicea e Nicomedia, nell'ora Pontica a Si nope ed Amastri (Traiano vi ha inviato suo legato straordinario, Plinio il Giovane; più tardi la provincia divenne imperiale). Specie nella regione pontico-paflagonica, c'è fervore di esperienze religiose (la terra di Marcione); nel Rh. Gr. in, 350, 7 Sp. Rh. Gr. iii, 369, 31 Sp.
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405, Agostino sembra considerare usuali in Paflagonia (che rientra nella regione pontica) forme oscene del culto manicheo, le quali invece lo turbano in Occidente. La grande provincia di Asia - durante il principato, provincia senatoria - dà vino e olio e frumento (dalla zona ellespontica) e porpora; dalla sua zona frigia si esportano i famosi tessili di Laodicea; è la terra ellenica per eccellenza, dove sono le venerande antiche poleis di Efeso (la capitale) e Mileto e Smirna, dove sono Pergamo e Lao dicea di Frigia. In tutta la penisola anatolica, i Romani hanno fatto opera di unificazione culturale ellenista (pur conservando la distinzione fra le due diocesi: l'asiana, fortemente ellenica; la pontica, su fondo hittito iranizzanteellenista). Le invasioni gotiche del iii secolo non hanno spezzato la continuità dell'evoluzione; dal principato al basso impero, vi si continuerà, sulle vie tradizionali, la prosperità economica, fondata anche sulla fervida attività commerciale e nautica delle genti anatoliche - nonostante crisi monetarie (supra, § 45). È qui, sin dalla predicazione paolina (anni 44 sgg.), il cervello della rivoluzione cristiana; nell'Apocalisse (§ 59) Cristo risorto cammina fra i sette candelabri (chiese) dell'Asia Minore. Ed anche nel basso impero, questa terra è vivo crogiuolo del pensiero cristiano; soprattutto della sistemazione ortodossa: basta pensare ai grandi cappadoci, Basilio e i due Gregorii (è significativo che la cristianizzazione dell'Armenia sia partita da Cesarea; essa ha avvicinato l'Armenia all'impero assai più di ogni vicenda militare o politica). Le Insulae (tra cui, naturalmente, non è Creta) sono, nel basso impero, provincia della diocesi asiana; i viaggiatori apprezzano molto i bravi marinai di Carpato; Delo, l'isola commerciale dell'epoca ellenistica, è ancora ottima terra di mercatores. Le diocesi asiana e pontica sono terre leali all'impero (naturalmente, il caso dell'Isauria, terra antica di briganti, non fa testo; del resto, quei briganti isauri sono atti a
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trasformarsi in eccellenti soldati); se in Asia Minore si stanziano barbari, questi vengono exterminati, « snazionalizzati », con relativa facilità - e comunque, la popolazione romana è abbastanza forte (così già nel 378: supra, § 97) per tenerli in soggezione. Naturalmente, nulla c'è d'idilliaco a questo mondo, e bisogna tener presente, per esempio, che nel 370 in Asia Minore le terre di stato presentavano più che un 10% di terreni non coltivati; ma queste non sono deficienze mortali. In complesso, né dalla diocesi pontica né, tanto meno, dall'asiana, potremo attenderci sconvolgimenti che veramente minaccino l'impero romano. c) LA SIRIA. Non si può dire lo stesso per l'altra diocesi dell'Asia anteriore, la diocesis Orientis. Qui i Romani avevano seguito la medesima politica che in Asia Minore; ma con risultati - come fu chiaro nel basso impero - alquanto differenti. La medesima politica, cioè dell'incremento della vita cittadina nel segno dell'ellenismo. Ma il fondo etnico della campagna, il fondo culturale aramaico (che tende ad assorbire, linguisticamente, l'ebraico e il fe nicio), è rimasto solidissimo; esso si risveglia nel basso impero, e darà luogo - come già accennammo - alla letteratura siriaca: Ferve la vita in Antiochia « la grande », seconda o terza città dell'impero (accanto o dopo Alessandria), nonostante la umiliazione subita sotto Settimio Severo (supra, § 43); - anch'essa città per eccellenza agonale; famosa nel principato, per le vivide feste pagane, pel tempio di Apollo nel bosco di Dafne; ma già nel principato centro im portante pel cristianesimo, città dove i Cristiani per, la prima volta aveano avuto questo nome, città del grande vescovo Ignazio e sede di quella scuola teologica antio chena che ha avuto enorme rilievo nella storia dell'impero. L'odio dell'imperatore Giuliano per Antiochia è, in sostanza, amore; o per lo meno sottintesa tristezza, che la città del bosco di Dafne sia diventata la città del
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martire Babila. Proprio il Misopogon di Giuliano sottintende, nonostante tutto, l'insopprimibile fascino di questa città, che nel 438 sarà celebrata da una imperatrice-lette rata, Eudocia (moglie di Teodosio n) nata Atenaide; diffusa è la grande leggenda di Antiochia cristiana, quella Confessione del mago Cipriano che ha del romanzesco e dell'autobiografico, che da un lato ricorda Apuleio e dall'altro prelude alle Confessioni di Agostino (l'imperatrice Eudocia darà ad Antiochia il dono di una sua rielaborazione poetica della Confessione di Cipriano). Ma la Siria ha ancora molte altre città, tutte fiorenti di attività economica e di vita commerciale: a cominciare dalle altre della tetrapoli (Seleucia in Piena, Laodicea al mare, Apamea). Rinomati i prodotti tessili di Scitopoli, Laodicea al mare, Biblo, Tiro, Berito; rinomate le porpore di Sarepta, Ce sarea, Neapoli, Lydda; paese di armatori è l'isola di Cipro; tutta la Siria è la grande via del commercio con l'Oriente. Il principato diede vita alle grandi città carovaniere - Petra, Bostra, Palmira -, la cui vita (eccezion fatta per Palmira) si continua nel basso impero. Dalla avventurosa gente di Siria provengono i ricchi mercanti che hanno dato vita e unità al commercio del Mediterraneo, fino all'estremo occidente; un'altra fonte di ricchezza è costituita, nel basso impero, dalle peregrinationes ad loca sancta, dai molti ricchi pellegrini che si recano devoti al Santo Sepolcro - disposti a qualunque sacrificio per acquistare la salvezza attraverso l'avvicinamento ai luoghi santi ed eventualmente l'acquisto di sante reliquie. Anche per altri rispetti, la Siria è la regione economicamente più splendida dell'impero. Con una attività agricola sbalorditiva, la Siria d'epoca romana ha strappato al deserto grandi distese di terra; esemplare la produzione di frutta; famosa la palma Nicolaus. Nella Siria la latinità ci appare alquanto più forte che nella penisola anatolica; tanto vero che Berito è la città della grande scuola di diritto romano, c'è una letteratura latina di scrittori siri (Publilio Siro e Pro-
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bo il grammatico, rispettivamente nel i secolo a.C. e d.C.); nel basso impero scrittori antiocheni, come Ammiano Marcellino ed Evagrio, amano scrivere (o, rispettivamente, tradurre) in latino. Ma questa è la latinità letteraria; quanto alla solidità della Siria nella compagine statale romana, bisogna dire che essa nel basso impero si rivela inferiore a quella della penisola anatolica. Il iii secolo ha mostrato chiaramente delle incrinature. La esperienza dello stato palmireno fu la prova del fuoco di queste incrinature (ma già prima, le eroiche rivolte giudaiche del i e ii secolo avevano costituito un pericolo per l'impero). Sebbene la Siria sia la regione economicamente più ricca dello stato romano, tuttavia nel iv/v secolo il suo contadiname, di fondo aramaico, è stanco e avvilito dalle esazioni tributarie; sebbene esso abbia talora resistito alla sua riduzione in « servitù della terra » (così in Palestina fino a Teodosio), tuttavia lo vediamo spesso in contrasto con le curie cittadine; lo sentiamo difeso e protetto dal grande antiocheno Giovanni Crisostomo, lo troviamo al centro delle preoccupazioni del vescovo Teodoreto (in una sua lettera alla imperatrice Pulcheria); per avere un'idea dell'importanza del problema sociale, basti pensare agli ideali maturati da Giovanni Crisostomo in questo ambiente. Il riflesso delle incrinature politico-sociali nella vita spirituale siriaca è manifesto nella tormentata esperienza dogmatica del cristianesimo antiocheno; si pensi al iii secolo, all'epoca di Paolo samosateno vescovo di Antiochia; si pensi ad Ano, questo presbitero antiocheno che sconvolge tutta la vita religiosa dell'impero cristiano. E sempre, s'intende, le affermazioni della scuola antiochena si sono scontrate - nel iii come nel iv come nel v secolo - con la tenace ostilità della comunità di Alessandria: 12 rivalità delle due principali città dell'impero dopo Roma (Costantinopoli è diventata residenza imperiale del tutto stabile solo con Teodosio), la rivalità insomma di Antiochia e di Alessandria, è illustrata proprio da questo eterno conflitto fra la scuola di
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Antiochia e la scuola di Alessandria. Il fenomeno sarà chiaro e maturo nel corso del v secolo, con la grande crisi religiosa che fa capo a Nestorio (in/ra, § 113): la storia della crisi interna dell'impero sarà soprattutto, per la sua pars orientale, la storia del conflitto fra l'antiocheno Nestorio e la scuola di Alessandria. Naturalmente, del conflitto fra il thronos di Antiochia e quello di Alessandria profitta il thronos di Aelia, come ancora (sin dai tempi di Adriano) veniva chiamata Gerusalemme: la città che le guerre giudaiche hanno sconvolto, che la repressione adrianea ha snaturato, cacciandone gli Ebrei (tranne che per il giorno della lamentazione). Nel basso impero, le peregrinationes ad loca sancta la fanno città ricca e ricercata; nel v secolo, all'epoca del vescovo Giovenale, il suo thronos avrà enorme incremento di giurisdizione e di prestigio, essendo patriarcato dal 449 in poi (era di Gerusalemme). Gli Ebrei sono ancora esclusi da Gerusalemme nel basso impero; ma vive sempre, fino al 425, la tradizione palestinese rabbi nica, la grande spiritualità giudaica con centro a Tiberiade; mentre a Gerusalemme si è formata una popolazione aramaico-greca di avventurosi mercanti, la cui immoralità turba Gregorio Nisseno e gli fa considerar quasi inutili, ai fini dell'edificazione cristiana, i pellegrinaggi ad loca sancta. d) L'EGITTO. Di tutti i paesi incorporati all'impero, l'Egitto era il più caratteristico: era lo stato ellenistico che più a lungo aveva durato, che sotto la sua ultima regina aveva avuto una sorprendente rifioritura - sia pur attraverso la protezione del romano Antonio. E perciò Augusto aveva dato all'Egitto una speciale posizione (supra, S 11); ancora nel basso impero ne restava la traccia, giacché il prefetto d'Egitto era sempre « prefetto dell'imperatore », praefectus Augustalis. E tuttavia, già Augusto aveva cambiato molte cose, per esempio a proposito dell'economia templare (supra, § 83); i Severi avevano accelerato il processo, cui già accennammo, dell'evoluzione in senso cittadino delle metropoli; e infine Diocleziano aveva posto
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le basi per un rigido inquadramento del paese nel sistema romano, anche dal punto di vista monetario. È la terra del culto di Serapide; e ancora nel basso impero le classi superiori di Alessandria sono legate ai loro dèi. L'antica tradizione vive nella dotta Alessandria. La città è tutta operosa di commerci (specie ad opera degli Ebrei) e di industrie d'ogni genere (cosi già la vede Strabone, il quale nota il prevalere delle esportazioni (anagogai) ad Alessandria in confronto con Dicearchia (Pozzuoli); così anche la vede la Historia Augusta, la quale inventa tutta una lettera dell'imperatore Adriano in proposito: alii vitrum con/lant, aliis charta coni icitur, omnes certe linifiones aut cuiuscumque artis et videntur et habentur. La plebe di
queste città è piena di pretese, ma anche capace di violenze. È la plebe che lo storico Erodiano, nel iii secolo, con siderava sempre pronta a cambiar umore; autrice di civilia iurgia sotto Aureliano. Nel basso impero, essa non esita ad accanirsi in tutti i modi contro il funzionario o il vescovo sgradito; « con fuoco e con pietre », come dice, d'intorno al 350, la Expositio totius mundi; « con fuoco e con pietre », come si è verificato ad esempio nel 453, contro i soldati imperiali, a sostegno del vescovo monofisita (nonostante l'invio di altri 2000 soldati, il prefetto ha dovuto revocare le punizioni da lui inflitte per questa ribellione). Fanatica e spietata, questa plebe non solo vorrebbe sbarazzarsi dei vescovi grati all'imperatore; ma spinge la sua intolleranza fino ad uccidere, nel 415, l'ascetica filo sofessa neoplatonica Ipazia, voce femminile del paganesimo morente. Il grande problema dell'Egitto resta, però, quello dei rapporti fra la popolazione indigena dei contadini sottoposti alla capitazione (la laografia del principato) e i signori greco-romani; tra « gli Egiziani » e « i Romani » (la distinzione fra queste due categorie è ancora netta nel basso impero; la troviamo in un editto d'intorno al 500, per la Cirenaica). Poco 'a poco, nel basso impero, la popolazione egiziana tutta si è stretta sempre più attorno al
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c) LA DIOCESI AFRICANA. L'Italia è un po' il paese del successo per gli abitanti della diocesi africana: là in Italia si reca, per esempio, ambizioso di gloria, il giovane professore Agostino, ancora manicheo (supra, § 99; all'incirca due secoli prima, anche il professore Apuleio ha studiato a Roma ed a Roma ha esercitato avvocatura). Ma amano, questi africani, l'Italia? In verità, la storia dell'Africa romana è uno dei più splendidi capitoli di civilizzazione in tutta la storia mondiale; e per questa parte, ci attenderemmo che l'Africa romana non presenti gravissime incrinature nei rispetti della comunità imperiale. Il dominio romano era antico, dal 146 a.C., nell'Africa Proconsolare, corrispondente allo stato africano cartaginese; Ce sare, e definitivamente Augusto (25 a.C.), avevano annesso la Numidia; Caligola, e definitivamente Claudio, le due Mauretanie (di cui, per ora, non dovremo considerare la Tingitana, che Diocleziano giustamente unì alla diocesi spagnuola). Dappertutto, in queste regioni, l'impero profuse la sua attività civilizzatrice; monumenti come quelli, per esempio, di Leptis Magna, di Sbeitia (Sufetula) Dougga (Thucca) Timgad e jemila (Thamugadi e Cuicul), sono la voce di questa attività meravigliosa così nella Proconsolare (a cui apparteneva, nel principato, anche la Tripolitania; al solito, Diocleziano ha diviso la provincia in frusta, riducendo di molto la vera e propria Proconsolare) come anche nella Numidia. Resta un po' per suo conto, nonostante una città come Cesarea, la Mauretania: qui la op. cit., pp. 81 sgg.) del principe ha il suo parallelo nell'auctoritas del vescovo romano. Naturalmente, tale potior auctoritas MAGDELAIN,
del vescovo romano si fonda sulla origine del trono dal Principe degli apostoli (la potentior principalitas, nella trad. lat. di Ireneo), cioè a dire sullo apostolorum ducatus trasmesso ai vescovi romani secondo la interessante formulazione del de aleatoribus (ti secolo?; cfr. supra, § 58). Su auctoritas vescovile e papale, ultimamente TELLENBACH, «Reall. f. Ant. u. Chr. », 6, 1953, 907-909; importante soprattutto GMELIN, Auctoritas (1936). Sul concetto del primato, ultimamente LUDWIG, Die Primatworte Mt., pp. 16. 18-19 (1952; scr. 1946).
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romanizzazione è superficiale, in molti punti impossibile; i Mauri sono e restano, ancora nel basso impero, barbari (così li designa, d'intorno al 350, la Expositio); « berberi », come ancor oggi diciamo, con chiara corruzione da barbari; spesso di qui i Romani comprano i loro schiavi. Sotto Settimio Severo, che era di Leptis, l'urbanizzazione e civilizzazione dell'Africa romana aveva toccato il suo culmine; e quando Diocleziano costituì la diocesi africana, l'intensa vita delle città africane, punteggianti pezzo a pezzo tutta la diocesi, splendide delle loro basiliche o orgogliose della loro cultura, era un fatto indiscutibile. Era terra ricchissima (per un discepolo di Agostino, Quodvultdeus, l'Africa prevandalica può definirsi toto mundo hortus deliciarum): la maggiore esportatrice di olio del tardo impero. Uno storico del iii secolo (Erodiano) sottolinea il suo alto indice demografico; di qui il gran numero di contadini; e l'indice demografico non dev'essere caduto nel basso impero. Ma mancava qualcosa, in tutta questa grande opera di civilizzazione; mancava un definitivo attaccamento a Roma (a Roma in quanto stato, s'intende) da parte del fondo contadino della popolazione. Questi contadini potevano essere devoti ai loro domini latifondisti; ma non a Roma, né al latifondo imperiale. Erano libi: rampolli di stirpi « capsiane »; i secoli del dominio cartaginese (qualcosa come quattro secoli; ma essi affondavano le loro radici nell'antica colonizzazione fenicia della Tunisia, sin dal 1100 a.C.) li avevano o punizzato o avvicinato alla cultura punica. Finché si rimase nell'ambito della civiltà propriamente pagana, il distacco ideale fra i contadini e la romanità si notava meno: c'era, sì, un tono sensuale e passionale della religiosità pagana africana (per esempio, nel famoso culto della dea Caelestis a Cartagine, sposa a Baal-Saturno: ancor Agostino ce ne ha lasciato un'impressionante descrizione); ma era il tono del luogo, capacissimo di inquadrarsi senza incrinature nella civiltà del restante mondo romano. Con la diffusione del cristianesimo, le cose cambiano;
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questo africano fu un cristianesimo tanto meno patriottico quanto più ardente di intransigenza. Ancora nell'epoca di Agostino un pagano di Madaura poteva giustamente osservare che barbari, dell'antico fondo contadino, erano alcuni nomi di martiri venerati dai Cristiani nomi come Miggin, Sanam, Namphamo. Poco a poco, il contadino berbero ha « sentito » nel cristianesimo una realtà spiridopo la persecuzione diocletuale sua, e se ne è fatto una specie di religione nazionale, tutta intransizianea genza e fervore: la religione dei « donatisti ». Il senso dello scisma donatistico è tutto qui: non questioni cristologiche, ma il concreto problema « autoritario » della validità subiettiva dei sacramenti determina questo scisma, per cui i traditores stanno con Roma e i puri cercano il martirio. Lo scisma ha presto riconosciuto il suo fondo rivoluzionario, perché i donatisti si sono uniti con gli « agonisti » (che appunto cercano il martirio, l'agone) ed i circumcellioni ; la rivoluzione del colonato, e insomma del vecchio contadiname libero, è antiromana nel senso politico e nel religioso (è significativo che essa parta dalla Numidia, e che dal contrasto fra i due episcopati donatisti, di Numidia e della Proconsolare, sia - derivata la più grave scissione interna del donatismo). Com'era possente la fervida origine cristiana dello scisma (si ricordi che il concetto volgarelatino di « traditore » è stato certamente influenzato dall'odio contro i traditores cristiani), tanto più possente diventò, nella rovente terra d'Africa, l'ostilità degli agonisti contro Roma; quando nelle valli risuona il macabro grido di deo laudes (questo usano, in luogo di deo gratias), signif ica che alcuno di essi, bramoso di martirio, si è suicidato lanciandosi nell'abisso ma significa anche che l'accordo con la civitas diaboli non sarà mai raggiunto da questi af ricanissimi fra gli Africani. La loro ostilità alla chiesa cattolica è dunque parallela a tutti gli altri fenomeni dell'insofferenza indigena africana di fronte allo stato tardo romano cui non si vuole più mandare l'annona
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per la plebe romana (il più tipico di questi fenomeni è la rivolta del mauro Firmo sotto Valentiniano i, e poi quella di suo fratello Gildone sotto Onorio, nel 397-398; la forza di questi principi mauri era appoggiata sui numerosi schiavi e contadini del loro immenso latifondo in Mauretania). Ma i donatisti, che amano la rivolta maura (uno dei loro vescovi è chiamato il « gildoniano »), sono, già per se stessi, assai più pericolosi di ogni rivolta politica. Persino il loro grande conterraneo ,Agostino, che ha combattuto contro di essi una lotta intelligente e coraggiosa, ed anche coronata da un successo ufficiale, tuttavia ha risentito una notevole influenza dal loro esegeta Ticonio: ciò è chiaro non solo, per esempio, nel De doctrina Christiana, ma anche nella stessa Civitas Dei. 108.
La prefettura gallica.
Il cuore della prefettura gallica è nella regione delle Gallie, che sotto il principato era ordinata nelle province di Gallia Narbonese, Aquitania, Lugdunense, Belgica, Germanie (la Narbonense senatoria; le altre imperiali). Quano Diocleziano ordina la regione nelle due diocesi gallica e viennense, la Gallia ha già avuto la sua grande ascesa e la sua tragica giornata: l'ascesa economica, che nel ii secolo aveva colpito le industrie italiane (supra, § 36), e le invasioni barbariche del 111 secolo, con l'imperium Gailiarum. Le sue città hanno allora limitato le loro cinte murarie (in media, circa 1500 m.); il suo indice demografico, già basso, è ancora diminuito; l'insofferenza del contadiname celtico oppresso dai tributi, se nei primissimi tempi del principato si era espressa nelle forme dell'opposizione druidica, ora si esprime nella resistenza a stillicidio dei Bacaudae. Ma la vittoria della cultura cittadina 'si esprime nell'assorbimento delle vecchie iorme tribali; ciò è chiaro anche semanticamente, perché ora i vecchi nomi delle tribù tendono spesso a sostituirsi ai nomi delle città, d
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e per esempio non si dice più Lutetia ma Parisii, non Samarobriva ma Ambiani (Amiens), non Durocortorum ma Remi (Reims), non Divona ma Cadurci (Cahors), non Me diolanum (dell'Aquitania ii) ma Santones (Saintes), non Lemonum ma Pictavi (Poitiers). Lione, l'antica colonia del 43 a.C., è in certo modo decaduta, dopo il grave colpo della guerra civile tra Clodio Albino e Settimio Severo; si riavrà del tutto nel v secolo. La città dei Treviri è capitale della diocesi gallicana e sede della prefettura; ma emerge anche, nella diocesi gallicana, Parisii, città cara a Giuliano (la metropoli della provincia parigina è, tutta via, la civitas Senonum; si aggiungono le metropoli delle altre province, la civitas Rotomagensium, la civitas Turonorum, la già ricordata Remi (nella cui provincia è Bononia), la civitas Ma,gontiacensium nella Germania i (dove è Argentoratum), la civitas Agrippinensium (dove è anche la civitas Tungrorum), Vesontio (della Maxima Sequanorum), Darantasia (delle Alpes Graiae et Poenninae, dove è anche Octodurum). Nella diocesi viennense (o, come anche si dice, delle V provinciae ed infine - dopo un'incertezza di denominazione verso gli ultimi del iv secolo VII provinciae), la lotta per la preminenza è tra Vienna, la capitale della diocesi, e Arelate, la città marittima che ormai tende a diventare, nel v secolo, la « Roma di Gallia » ( Gallula Roma). Nella stessa provincia è Massalia, anch'essa, come Arelate, antica città greca (e anzi la più illustre in tutto l'Occidente ligure-iberico); ha l'aspetto di una decadente Graeca urbs (come altre città greche d'Occidente, era teatro del Satyricon petroniano); ma è destinata a grande importanza negli attacchi alla dottrina agostiniana della predestinazione, che agitarono il cristianesimo della Viennense in tutto il v secolo e ancora nei primi del vi secolo (è significativo, per altro, che la dottrina « semipelagiana », e comunque antiagostiniana, dei Massilienses non desse luogo ad una opposizione eccessivamente violenta in senso antiromano: mancavano del tutto i pre-
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supposti di fanatismo che si sarebbero trovati, per esempio, nell'Africa). Delle altre città di questa diocesi spicca Burdigala, soprattutto; ma anche Pictavi (nella Stessa provincia di Burdigala) e le metropoli Narbona, Aquae Sextiae, Ebrodunum. Qua e là nelle Gallie sono stanziati laeti o gentiles barbari: per esempio, la Notitia dignitatum ci presenta Taif ali gentiles a Pictavi (e di fatti proprio nel Poitou noi troviamo, ancora nel basso impero, il pagus Theofalgicus, e oggi la cittadina di Tiffauges). Non tutti i laeti delle Gallie sono dediticii germani; alcuni di essi sembrano essere, come già osservammo (supra, § 91), dediticii celti. Le difficoltà del dominio romano nelle Gallie non si colorano, dunque, di contenuto spiccatamente religioso; esse derivano da un problema militare - la difficilissima difesa del confine - e da un problema economico-etnico (il fatto etnico, per se stesso, non basterebbe a spiegarle: anche i contadini galati d'intorno al 400 parlano celtico, come molti gallici; ma in Galazia il governo romano non incontra crisi di alcun genere). Esse si riassumono in un nome: la Bacauda. Anche qui, al contadino oppresso dal fisco la vittoria dei barbari appare desiderabile, o per lo meno indifferente; quando non può appoggiarsi ai barbari, egli si fa dediticius - o, come celticamente si dice, vassallus - dei ricchi domini; si sente sempre più estraneo a questo stato di esattori. La ragione profonda di tutto ciò è nel regresso demografico del paese, già in origine non sufficientemente popolato per sopperire ai bisogni di un immenso impero, e tanto più disagiato dopo le tremende crisi, dall'epoca di Marco in poi. Ma il contadino oppresso non sa queste cose; egli vede solo la sua miseria, mentre d'intorno a lui sono i ricchi domini, che possono acquistare tutto perché hanno oro e latifondi. La Gallia è certamente il paese in cui i prezzi sono più alti che in ogni altra parte dell'impero. È nota ed elementare legge economica, che il livello dei prezzi sia inversamente pro-
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porzionale alla produttività dei beni (e dunque all'indice demografico); ed è una fortuna, per lo storico; vederla attestata - in ciò che riguarda la Gallia - da un testo del basso impero, l'Expositio totius mundi. Minore la produttività delle Gallie rispetto alle altre regioni dell'impero: ed in corrispondenza, più alti che altrove i prezzi. Con la terminologia moderna, la situazione delle Gallie potrebbe formularsi nel senso che qui c'è massima elasticità (variazione) di spesa tra classi di persone a differenti redditi. Perciò, a differenza dei contadini, i domini e i curiali gallici si sentono quanto mai legati a questa Roma signora di civilitas; i più bei versi a Roma sono stati scritti, già lo ricordammo, da un poeta dell'ultima classe dirigente gallo-romana, Rutilio Namaziano, in quell'interessante De reditu suo che è il canto del cigno della paganità occidentale. Perciò, anche, lo stato romano - in cui tuttavia vige (almeno teoricamente 13) il principio istituito da Marco, di scegliere i governatori di provincia fuo ri della provincia stessa - fa un'eccezione per i Galli, manda ad essi governatori del loro stesso paese; sa della estrema lealtà di questa classe dirigente gallo-romana, e confida di dominare, per suo mezzo, il contadino. È un ottimo ripiego; e di fatti riesce; ma è sempre un ripiego. La Bacauda resta. Nella regione di più superficiale romanizzazione, la Armorica, la popolazione celtica, rinsariguata da nuovo afflusso celtico di Britannia (da cui il nome attuale di Bretagna), nel 409/410 provvederà per suo conto a difendersi dai barbari, ma nello stesso tempo « scaccia i governatori romani, dandosi ordinamento proprio a suo piacimento » (Zosimo). C'è, in questo « ordinamento proprio » « indipendente » (o txc-L0VtoX-rcut), il primo abbozzo di stato coscientemente « nazionale » nella storia d'Europa (gli stanziamenti romano-barbarici del 407 non possono ancora chiamarsi « coscientemente nazionali »); e 13
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questo primo abbozzo si è verificato ad opera di Celti antigermanici, in nome dell'ethnos celtico-. Un altro punto va messo in rilievo, nella storia tardoromana delle Gallie. La divisione fra Gallia settentrionale e Gallia meridionale, fra diocesi gallicana e diocesi vien nense, è segnata da una linea di confine che coincide, press'a poco, con la linea medievale di demarcazione tra la Francia di parlata francese e quella di parlata provenzale. La coincidenza è così impressionante che lo storico sarebbe indotto a riportare indietro il fenomeio di differenziazione linguistica e culturale nella regione gallica. Certo, il contrasto fra città settentrionali e città più meridionali è un fenomeno tipico in tutta la storia gallica d'epoca imperiale: nel 197, è il contrasto fra Treviri, devota a Settimio Severo, e Lione, devota a Clodio Albino; nell'epoca dell'imperium Galliarum, è ancora il contrasto (supra, § 72) fra Treviri e Augustodunum (sebbene questa città sia al di là della Loira, e giustamente fosse assegnata da Diocleziano alla diocesi settentrionale); all'epoca dell'impero di Magnenzio, che è anch'esso una specie di imperium Galliarum (« le Gallie hanno un proprio principe, ex se », diceva la contemporanea Expositio), è ancora il contrasto fra Treviri, la città dei Costantinidi, e Augustodunum, la città di Magnenzio. Si tratta sempre di contrasti fra città, e nulla se ne può ricavare di certissimo su un generale contrasto fra sud e nord; tanto più - ripetiamo - che Augustodunum è situata nella diocesi settentrionale, sia pure verso il confine di questa. Tuttavia, il confronto con il contrasto fra Milano e Roma, dietro al quale è la forte differenza tra vicariato d'Italia e vicariato di Roma, lascia pensare che anche quei conflitti di città gallo-romane nascondano un'analoga differenza. Come in Italia i due vicariati costituiscono unità ben differenziate, così anche in Gallia le due diocesi, chiaramente divise dal confine fluviale (la Loira e il corso superiore del Rodano), sembrano costituire individualità abbastanza distinte. Purtroppo, la
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indagine linguistica moderna non sembra essere pervenuta, sinora, a una definizione concorde. Alcuni suoi cultori, è vero, spiegano la differenziazione medioevale tra francese e provenzale esclusivamente con la penetrazione colonica franco-burgundica che si affermò nella regione di parlata « francese », mentre venne praticamente a mancare in quella provenzale (Wartburg). Ma altri linguisti (Devoto) hanno sottolineato l'importanza dell'ordinamento diocesano dioclezianeo nelle sue conseguenze per la differenziazione linguistica tardo-romana, e quindi anche per quella sopravvenuta nelle Gallíe. La ricerca storica, probabilmente, può svolgere questa seconda dottrina, considerando però non solo le conseguenze, ma anche le premesse dell'ordinamento dioclezianeo. In realtà, con che criterio sono state distinte le diocesi (o vicariati) del basso impero? Certo, né Diocleziano né i suoi successori erano, diciamo così, dei linguisti (sebbene Diocleziano abbia inaugurato una vera e propria politica linguistica); ma il criterio che li guidò nell'ordinare i vicariati fu, in gran parte, il riconoscimento di facies culturali-amministrative (-militari), ormai evidenti nel grande impero: noi abbiamo potuto notare tutto ciò a parecchie riprese. La diocesi iranizzanteellenista del Ponto si contrappone alla ellenica di Asia; la diocesi orientale consiste praticamente nella facies culturale siriaca (la sua regione egiziano-cirenaica è, in sostanza, a parte, per la speciale posizione del praefectus Augustalis); nella regione illiriciana, dove Diocleziano si era fatto guidare da criteri esclusivamente militari, viceversa furono in seguito distinte la diocesi macedonica, di facies culturale in gran parte antico-greca, e la diocesi dacica, di facies culturale meso-romana; e si potrebbe continuare, sempre rilevando come i criteri amministrativo-militari solo in pochi casi contraddicessero ai criteri culturali. Quanto all'Italia, i suoi due vicariati corrispondono, gross modo, a due unità linguistiche che già si erano differenziate nel principato: la settentrionale con conservazione di
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-s (anche con spiccate tendenze ad una larga palatalizzazione di c, g), e la meridionale, con perdita di -s (« lingua degli Italiani » in senso stretto: supra, § 38). La divisione delle Gallie nelle due diocesi è tanto più rilevante, in quanto la vicina diocesi di Spagna comprende un territorio non inferiore a quello delle due diocesi galliche sommate assieme; essa era considerata, dunque, una necessità indiscutibile; la Loira divideva veramente, mentre il Tago non divideva nulla. In queste condizioni, è probabile che non soltanto considerazioni militari (un'eventuale difesa arretrata alla Loira e al Rodano superiore) ma anche differenziazioni culturali in embrione presiedessero alla distinzione fra le due diocesi galliche: la settentrionale, nella quale, ancora nel basso impero, c'è un forte celtismo etnico-linguistico (per esempio a Treviri e all'Armorica) e dunque un maggiore influsso di sostrato nel latino volgare la meridionale, con un celtismo meno tenace. Vale la pena di ricordare che i dediticii indigeni celti che ancora sembrano attestati nel basso impero (supra, § 91) si trovano tutti nella diocesi settentrionale: Belgica n (la provincia di Reims e di Rouen) e Belgica i (la provincia di Treviri, dove i contadini ancora nel 400 parlano celtico); e nella diocesi settentrionale è l'Armorica, questa punta avanzata del celtismo (bisogna però considerare che la regione di Parigi dà ancora l'ultimo dominio romano, quello di Siagrio). Pur riconoscendo l'importanza della colonizzazione burgundica e franca nel settentrione francese dal v e vi secolo in poi, noi potremo dunque riscontrare già in epoca romana i germi delle due grandi individualità culturali della Francia medioevale: non è un caso che, di esse, la settentrionale si svolgerà sotto il segno di Artù, mentre la meridionale farà capo alle tradizioni culturali romane. I riflessi economico-amministrativi delle due individualità regionali sono anche chiari nel basso impero: al predominio di Treviri nel iv secolo si sostituirà, nel v secolo, il predominio di Arelate, che dal 396 diventa capitale di entrambe
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le diocesi; la via commerciale mediterranea vince su quella del Reno, e solo l'epoca carolingia sposterà di nuovo verso il nord, e definitivamente, il centro politico-economico. L'altra diocesi dioclezianea di fondo celtico, la Britannia, è molto meno acquisita alla cultura romana; né le colonie (per esempio Eburacum, Gievum, Camulodunum, ecc.), né le proprietà imperiali della regione, né infine le leve di Britanni bastano a togliere la generale impressione, che la romanizzazione della Britannia fosse alquanto superficiale. I suoi soldati sono, comunque, tra i migliori dell'impero, soprattutto nel in secolo: allora essi sono considerati non inferiori agli Illiriciani (Erodiano); anche negli ultimi tempi dell'impero, troviamo auxilia palatina composti di Britanni. Il dominio romano ha potuto mantenersi grazie al valium Hadriani, solo temporaneamente avanzatQ dal valium di Antonino Pio; a nord del valium Hadriani è la minaccia delle fiere popolazioni celtiche, con il loro attaccamento alle tradizioni antiche (i Romani del in secolo si meravigliano dei loro tatuaggi), con il loro spirito combattivo. La grande giornata della Britannia romana è l'epoca del dominio marinaro dei Britanno-Romani sotto Carausio: sono due anni di autentico dominio del mare (286-287), che rivelano una situazione geopolitica di alto interesse. Inoltre, se consideriamo le posteriori fortune del cristianesimo nell'Irlanda non romana, possiamo forse ritenere che anche la Britannia si avviasse, già nel basso impero, ad una romanizzazione su base cristiana. Tre vescovi britannici partecipano alla sinodo di Arelate nel 314. Un geniale vescovo di Britannia, Pelagio, riesce a scuotere tutto il mondo romano d'intorno al 400, predicando una dottrina che suscita dappertutto consensi e dissensi. Egli nega il peccato originale (impeccantia); probabilmente il suo punto di partenza era la considerazione che a Cristo, in quanto uomo, non possa attribuirsi il peccato originale; la sua dottrina, che egli diffuse da Roma in Italia e in Sicilia, fu aspramente avversata dal vescovo
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di Ippona, Agostino, e condannata ripetutamente cone eresia. Ma, come già vedemmo, essa riesce a dare un volto caratteristico al cristianesimo dei « Marsigliesi », dei « semipelagiani »; anche i suoi sviluppi sociali (supra, § 89) sono di grande interesse. È un fatto curioso della storia mondiale, che nell'epoca moderna l'opposta dottrina calvinistica abbia avuto il suo massimo svolgimento nell'isola britannica; ma bisogna anche rilevare che, se le posizioni teoretiche calviniste sono opposte a quelle di Pelagio, tuttavia Io sviluppo inglese del calvinismo si avvicina allo spirito pelagiano per il vivo puritanesimo che io distingue. Dei tutto diverso è il volto dell'altra diocesi di questa prefettura, la diocesi ispanica (in cui rientra anche la Mau retania Tingitana). Il paese, che Augusto aveva ordinato nelle province di Betica (la Spagna di Cordova; senatoria), di Lusitania (la regione di Merida, di Salamanca, di Osilipo; imperiale), di Tarraconese (la Spagna di Tarracona e Toledo e Saragozza, pur essa imperiale), aveva splendidamente contribuito alla cultura e alla vita romana; aveva dato Seneca, Lucano, Quintiliano, Marziale; aveva dato Traiano. Il cristianesimo vi aveva dato un grande vescovo, Osio; talora vi assumeva quelle forme di appassionata re ligiosità, che abbiamo visto operare nell'affare priscilianista; dalla rigida educazione cristiano-spagnuola viene l'imperatore Teodosio. Spagnuolo è il presbitero Orosio, cui si deve il primo tentativo d'interpretazione « agostiniana » della storia mondiale. « Incluso el ultimo confin de Espa a, la Galicia céltica, aparece pienamente incorporada a la cultura romana a través de la Iglesia » (Bosch Gimpera). La romanizzazione aveva dunque creato nella prefettura gallica il suo grande capolavoro: da essa deriva la fondazione dell'Europa occidentale. Ma i punti oscuri erano gravissimi: soprattutto l'enorme peso fiscale che gravava sulla afflicta paupertas gallicana. Se si colpiva la Gallia, si colpiva il cuore dell'impero: e questo avvenne
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appunto nel 406, sotto l'imperio di Onorio, il princeps puer successo a Teodosio nel 395. 109.
I « principes pueri ». La tragedia di Stilicone.
Teodosio nel 395 aveva affidato i suoi due figli il diciottenne Arcadio in Oriente, l'undicenne Onorio in Occidente - ad un parens « semibarbaro »: questi era il suo provato e fedele generale (e sposo di una sua « nipote »), di origine vandalica, Stilicone. Un tale procedimento si era reso necessario, perché la situazione del 395 era del tutto nuova. Sinora, mai dei principes pueri erano stati imperatori senza uno o più colleghi di età più avanzata (nel 375 il puer Valentiniano ii era stato eletto, ma erano suoi colleghi Valente e Graziano); ora, viceversa, i due principes pteri non avevano colleghi seniores; tutto ciò era abbastanza impressionante, tanto vero che proprio in questo' periodo sentiamo critiche contro la nomina di principes pueri (supra, xix). Così ci spieghiamo le ragioni per cui Teodosio non prese altro provvedimento (sono parole del suo vescovo, Ambrogio) se non quello, così caratteristico, di commendare i due imperatori al parens semibarbaro (era necessario un semibarbaro, per evitare che il parens tendesse a usurpare la porpora: in questo periodo, e sempre fino a Pipino, non è concepibile che un germano diventi imperatore). Ma Teodosio si è ingannato: il maggiore dei due principes, Arcadio, non era propriamente puer, avendo diciotto anni (si è puer ancora a 15 o 16 anni, ma adulescens - sia pure puber - a 18); soprattutto, non voleva rassegnarsi ad esserlo. Perciò Stilicone, il quale - per fedeltà a Teodosio ed insieme per ambizione - volle attenersi al concetto teodosiano della unità dell'impero sotto la sua aiftorità di parens, dovette cozzare contro la decisa opposizione del giovine imperatore della pars orientale e dei suoi accorti funzionari. Così l'errore di Teodosio è diventato fatale, perché ha portato,
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nell'imperium che avrebbe dovuto essere commune imperium divisis tantum sedibus (« l'impero unitario, con la sola divisione delle sedi imperiali »), un tragico conflitto fra le due partes, ormai divenute, in realtà, due imperia (cfr. in/ra, LVII). Di fatto, l'autorità di Stilicone parens fu limitata all'Occidente. Nello stesso anno 395 il capo gotico Alarico invase la prefettura illiriciana. Stilicone accorse a difender la Grecia. La sedes imperiale di Costantinopoli lo sconfessò, perché considerava la prefettura illiriciana come pertinente alla pars orientale, e dunque ve deva in Stilicone un intruso. Di lì ad alcuni anni, la pars orientale, sebbene avesse anch'essa dei magistri utriusque mzlitiae barbarici (e per il momento fosse dominata da uomini di tendenza filobarbarica, condotti dal prefetto al pretorio Cesario), tuttavia si preparava ad una radicale revisione della politica teodosiana filobarbarica: nel 399 il vescovo di Cirene, Sinesio, tenne a Costantinopoli un discorso « intorno all'impero », di spiriti fortemente. antibarbarici. Nel 400 il popolo di Costantinopoli, con un coraggioso slancio di cui fu animatore il suo vescovo Giovanni Crisostomo, cacciò dalla città il magister utriusque militiae gotico, Gainas. Alarico si sentì in pericolo, e si volse contro l'Italia (401). Stilicone lo affrontò a Pollenzo e a Verona, dove lo vinse (402). Tuttavia, dopo la vittoria di Verona, Stilicone non distrusse le forze di Alarico. I suoi avversarii dicevano che non volle distruggerle, e molto probabilmente avevano ragione; Stilicone, come Teodosio, teneva fermo il principio che bisognasse utilizzare il più possibile le forze barbariche federate (del resto, già Teodosio aveva appunto stipulato un foedus con Alarico, dopo la sua ribellione). Il problema era sempre quello: le province romane non vogliono, o non possono, dare corpora di soldati: il vecchio arruolamento di contadini con la tassa di leva non rende più (tanto vero che il poeta ufficiale di Stilicone, il tribunus et notarius Claudiano, proprio nel celebrare la vittoria su Alarico, svaluta il con-
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tadino romano, il quale si reca alla battaglia iaculum vibrans ignobile); l'ideale di Vegezio (supra, § 102) è rimasto un « pezzo » di bello stile retorico. Nel dicembre 405, un esercito di Ostrogoti, condotto da Radagaiso, si riversò sull'Italia, sino in Toscana; Stilicone poté fermarlo e sconfiggerlo a Fiesole (406). Ma nello stesso 406, il 31 dicembre, si riversò sull'impero la tremenda ondata di barbari, che può considerarsi l'origine della fine per la pars occidentale: Suebi (Alamanni), Alani, - Vandali, Burgundi; e con essi contadini romani di Pannonia (supra, § 107). Si ripeté la situazione dell'epoca di Gallieno: i Romani della prefettura gallica acclamarono un loro imperatore, Costantino (l'usurpazione partì dai Celto-Romani di Britannia). Contro i barbari e contro Costantinb sarebbe stato necessario combattere, sguarnendo di truppe l'Italia per gettarle tutte nella prefettura gallica; ma un'azione di questo genere era impossibile, finché non si fosse sicuri dalla parte di Alarico. Un Alarico avversario avrebbe certamente approfittato della situazione per invadere l'Italia sguarnita di forze armate. Non si può combattere su due fronti. Stilicone pensò di sistemare Alarico come magister utriusque militiae per Illyricum,
per poi muovere sicuro alla grande battaglia nella prefettura gallica. Ma Onorio si oppose; nominare Alarico al generalissimato dell'Illirico significava praticamente attaccare la pars orientale dell'impero, da cui la prefettura illiriciana dipendeva (invano Stilicone dichiarava che Teodosio aveva attribuito quella prefettura all'Occidente; in realtà, Teodosio sul letto di morte nibil habebat novum quod conderet, e dunque non aveva modificato lo statu quo per cui, di fatto, la prefettura illiriciana era amministrata dall'Oriente). Alarico si sentì offeso dall'ostilità di Onorio e dei suoi consiglieri milanesi. Si presentò ad Emona (408); esigeva riparazioni, in compenso del mancato adempimento del foedus. Allora si verificò un fatto nuovo; Stilicone chiese l'appoggio del senato alla sua po-
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litica; nonostante l'opposizione di alcuni (un senatore disse che « questa non era pace, ma patteggiamento 1i servitù »), il senato approvò il pagamento di 4000 libbre d'oro per Alarico. Ma l'opposizione milanese non disarmò. Stilicone vedeva diminuire sempre più il suo prestigio. Lo consideravano, ormai, l'amico dei barbari; l'ostilità dei circoli « milanesi » era diffusa dappertutto; anche Agostino, vescovo titolare di Ippona dal 396, gli era ostile (la sua ostilità echeggia ancora nel giudizio del suo discepolo Orosio, per cui Stilicone è un semibarbarus proditor); né gli stessi pagani gli erano veramente amici. A Ticinum (Pavia) stavano le truppe romane, subornate dalla propaganda « milanese », offese da quel disprezzo che sembrava esprimersi - già lo vedemmo - nella svalutazione del contadino romano iaculum vibrans ignobile; a Bologna stavano le truppe dei gentiles, coi loro capi, e con Stilicone. Le truppe romane si ribellarono; uccisero a Pavia, sotto gli occhi di Onorio, tutti i funzionari stiliconiani. Si temette anche per l'imperatore; ma questi si salvò, e del resto era, in un certo senso, d'accordo coi ribelli, dei quali accettò le richieste. Le truppe gentiles di Bologna pensavano di marciare su Pavia, punire i capi della rivoluzione; ma Stilicone non volle. Così andò incontro a morte. Quando i ribelli ottennero da Onorio l'ordine di arresto, si tro vava in una chiesa di Ravenna, dove aveva chiesto asilo; consegnato, fu ucciso (22 ag. 408). La lunga lealtà al suo imperatore, di cui era parens ed in effetti suocero, non valse a salvarlo; avrebbe potuto salvarlo la guerra civile, dei gentiles contro le truppe romane; ma egli non aveva voluto ricorrere a questa via. Stilicone aveva portato alle ultime conseguenze la politica teodosiana; aveva concepito un esercito fortemente barbarizzato, e sostenuto il foedus coi barbari di Alarico. Nelle condizioni di regresso demografico della pars occidentale, questa gli sembrava una soluzione definitiva. Inoltre, come Teodosio, egli riteneva che solo l'unità di tutte
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le forze armate d'Oriente e d'Occidente, e insomma l'unità dell'impero, poteva salvare il mondo romano dalla rovina che ormai si profilava. Con la sua tragedia, egli ha pagato, tra l'altro, il grave errore commesso da Teodosio al letto di morte: perché era stato certamente un errore affidare l'unità dell'impero alla semplice autorità di un parens semibarbaro, lasciando divise le due sedes imperiali, l'antica e la nuova Roma. Come si poteva sperare di stabilire l'unità dell'impero solo rispolverando l'istituto del parens dai ricordi della tradizione « ulpianea » (supra, 55 45; 55)? A stabilire l'unità dell'impero occorreva ben altro... Ma, a sua volta, l'errore di Teodosio era conseguenza della nuova situazione creatasi da quando Costantino aveva contrapposto la sua capitale, la nuova Roma, all'antica. 110.
La grande crisi della prefettura gallica e della diocesi africana.
Ucciso Stilicone, tutte le forze dissolvitrici de1l'Occi dente ebbero vittoria. Nel 410 Alarico marciò su Roma, la prese e saccheggiò (dopo questo saccheggio, la popolazione di Roma diminuì: di fatti, di lì ad alcuni anni, nel 419, troviamo un numero di 120 000 plebei assistiti, contro i circa 300 000 dell'epoca di Valentiniano i). Poi Alarico avanzò verso l'Italia Meridionale; voleva andare in Africa; ma nello stesso anno 410 la morte lo colse, al Busento presso Cosenza. Il suo successore Ataulfo ritornò indietro, portò i Visigoti nella Gallia meridionale (412); come già Alarico, egli intese che i Goti non avrebbero potuto sostituirsi ai Romani, né fondare una Gothia al posto della Romania; e a questo devoto rispetto per l'organizzazione romana diede espressione, sposando - con i dovuti onori - la sorella di Onorio Galla Placidia (414), che Alarico aveva fatta prigioniera e condotto con sé. Nello stesso anno' 414 i Goti passarono in Ispagna. Intan
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to, qui si erano stanziati, dal 409/411, quei barbari che nella grande invasione del 31 dicembre 406 s'erano aperto il varco verso la prefettura gallica: Svevi, Alani, Vandali (i Burgundi si stanziarono prima nella Germania 11, poi attorno a Worms). Ucciso Ataulfo nel 415, gli successe Vallia. Sotto costui i Goti si stanziarono, nel 418, nello stato di Tolosa, dove rimasero stabilmente fino al 507. L'azione, anche eroica, di alcuni generali romani, tra cui emerse Flavio Costanzo (che nel 421 fu da Onorio associato al trono, ed ebbe in isposa Galla Placidia, ormai restituita dai Goti) non era valsa a restituire l'antica unità della prefettura gallica. Un mondo nuovo si formava, annunciato dai Joedera di Teodosio nel 381: si costituivano, nell'ambito dell'impero, i regna romano-barbarici; la forma dello stanziamento si svolgeva in genere secondo gli antichi principii romani, dello hospitium che le popolazioni civili dovevano fornire ai soldati dell'impero. Come i nuovi Joederati erano ben altra cosa dai gentiles e laeti (dediticii), così anche la loro colonizzazione assunse spiccate forme signorili. Fu il trionfo dell'economia curtense. Se l'economia domestica delle villae romane aveva già dato luogo, in Gallia come in Italia e in Africa, alla formazione di villaggi (caratterizzati da toponimi « gentilizi » in -assum, nel nord gallico -anum), ora sorsero nuove comunità dalle villae e mansi che i signori gotici ricevevano, come donativi di guerra, dai loro re (toponimi di tipo -ingos, -villa, villa-, mansus-, castellum-). Si entrava nel 'medioevo. Le due costruzioni principali nelle Gallie erano lo stato burgundico e quello gotico. Nelle Spagne, la forza principale era costituita dallo stato degli Svevi e da quello dei Vandali. Una interessante formazione statale, che potrebbe definirsi il primo stato coscientemente « nazionale » nella storia d'Europa (supra, § 108), era costituita, nella diocesi gallicana, dallo stato celtico di Armori ca (Bretagna): qui nel 410 erano scacciate le autorità ro-
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mane, si combatteva anche contro la pirateria sassone, si chiamavano « connazionali » dalla Britannia insulare. Dalla Spagna vandalica venne l'altro grande colpo contro la pars occidentale dell'impero romano. Morto Onorio (423), gli successe, dopo l'usurpazione del primicerius notariorum Giovanni, il figlio di Galla Placidia e di Costanzo (quest'ultimo era morto alcuni mesi dopo il matrimonio, nel 421) : ancor una volta, un princeps puer, Valentiniano iii, governava sotto la tutela della madre; ed in verità, tutto l'impero romano (anche -come vedemmo nella pars orientale) ha sperimentato, in questo periodo, il dominio di alcune Augustae, donne di forte personalità nelle quali si esprime ancora la capacità di governo dei Teodosidi. Ma Galla Placidia non ha potuto evitare il tremendo colpo che i Vandali portarono all'impero, quando nel magforse invitati dal comes A f ricae Bonifazio; gio 429 certo, profittando di rivolte locali, specie in Mauretania passarono in Africa. Se la crisi della prefettura gallica era essenzialmente militare e sociale (impossibilità di intervenire contro i barbari invasori nel 407 e seguenti; e antico disagio che si esprimeva nella jacquerie dei Bacaudae), viceversa la crisi della diocesi africana fu, sì, militare e sociale, ma anche religiosa. La vecchia agitazione socialereligiosa dei circumcellioni-agonisti-donatisti era stata domata, apparentemente, dall'energico in*ervento delle autorità romane sotto Stilicone e dall'in .ensa opera di persuasione svolta da Agostino; ma essa covava ancora sotto la cenere, e i donatisti d'Africa restavano sempre così ostili allo stato cattolico romano come i Bacaudae delle Gallie. I donatisti africani hanno salutato i Vandali di Genserico, ariani, come liberatori. Nel 430, mentre Ippona veniva assediata, il - suo grande vescovo moriva: moriva da romano, anch'egli trascinato in mezzo alla dissoluzione di quell'impero o « città dell'uomo », di cui aveva interpretato la grave crisi, contrapponendolo alla « città di Dio » nell'opera che porta questo titolo, e che fu concepita in
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seguito alle dispute sorte dopo il saccheggio alariciano di Roma. Questa morte di Agostino è significativa: sebbene « sapesse » la fine dell'impero, tuttavia il cattolico Agostino non moriva da antiromano. Al contrario; l'opposizione a Roma era dall'altra parte, era da parte donatista. Nel 435 il governo romano, che praticamente era controllato dal generalissimo Aezio, riconobbe ufficialmente il capo dei Vandali, Genserico, come rex nelle Maui:etanie e in Numidia; nel 442 Genserico sgombrò queste regioni ed ebbe, in cambio, l'Africa Proconsolare; nel 440 aveva saccheggiato la Sicilia. All'incirca nello stesso tempo (443) si verificò un fatto notevole nelle Gallie: i Burgundi che dal 436 avevano tragicamente perduto il loro stato di Worms (« epopea dei Nibelungi ») - furono regolarmente riconosciuti come signori della Savoia. In conclusione, si erano formati, in base al principio romano dello hospitium, quattro regna romano-barbarici: in Gallia, quello gotico e quello burgundico; in Spagna, quello svevo; in Africa, quello vandalico: quest'ultimo era il più intransigente nella protezione della religione ariana, e dunque il più decisamente antiromano. Lo stato « nazionale » celtico di Armorica, che era stato rioccupato dai Romani, ebbe definitivamente l'indipendenza verso il 450. Ed infine, com'è naturale, anche la Britannia andava per duta, passava sotto il controllo degli Angli e dei Sassoni (definitivamente dopo il 442, e poi sempre, per più di sei secoli, fino alla battaglia di Hastings) - mentre in compenso la cultura romano-cristiana si diffondeva in un paese che non fu mai possesso dei Romani, ma tuttavia era destinato a diventare il caposaldo della cattolicità nordoccidentale d'Europa, l'Irlanda.
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111. La grande crisi delle regioni danubiane nell'Occidente. Intanto la frontiera danubiana era travolta da un'altra popolazione barbarica, gli Unni. Aezio, il quale fondava la stia potenza sulla loro amicizia (come Stilicone, egli cumulava il titolo di parens - anzi parens patriciusque con quello di magister utriusque militiae o generalissimo), riconobbe lo stanziamento unnico nella Pannonia (433). Ma gli Unni, questi cavalieri nomadi di razza, non si fermarono ad uno stanziamento romano-barbarico: da quan do Attila fu loro unico imperatore (444), essi si fecero sempre più minacciosi, costituendo un immenso stato delle popolazioni barbariche fuori dell'impero romano. Minacciavano ad un tempo le due partes dell'impero, all'ul timo si volsero contro l'Occidente (supra, § 103). Nel 451 Attila arrivò nelle Gallie; ma Aezio riuscì a coalizzare contro i suoi amici di un tempo i federati Goti, Burgundi e Franchi; Attila fu sconfitto ai Campi Catalaunici. L'anno seguente (452) Attila marciò sull'Italia; ma qui avvenne un fatto che parve prodigioso, che in realtà ci spiega l'enorme prestigio delle forti personalità cristiane di questo periodo: il vescovo di Roma, Leone, gli andò incontro a Milano e lo fermò. Attila morì nel 453. Il siste. ma danubiano era ormai scosso per sempre: nella Pannonia, agli Unni successero gli Ostrogoti; nel Norico, il mo naco Severino - un altro mirabile esempio dello straordinario prestigio dei capi cristiani in questo periodo - organizzava una resistenza destinata a spezzarsi sotto i colpi degli Alamanni, che avevano occupato la Rezia, e dei Rugi, che esercitavano un'irresistibile pressione sul paese; alla fine, questa lealissima popolazione norica di Celto-Romani sgomberò la sua terra, e nel 488 i Longobardi si stanziarono al posto dei Rugi fortemente fiaccati da' conflitti col nuovo signore dell'Italia, il rex gentiutn Odoacre. Man mano che le regioni danubiane dell'Illirico occi-
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dentale sfuggivano al controllo dell'impero, il retroterra dalmatico si cercava di sistemare in organismo romano di difesa: così la Dalmazia diventava pressoché indipendente sotto, il comes Marcellino, poi sotto suo nipote Giulio Nepote. 112.
L'idea imperiale dopo il 455. La fine della « sedes » occidentale dell'impero.
Come si arrivò al dominio di Odoacre in Italia? L'impero romano,, come Teodosio l'aveva lasctato, era commune imperium divisis tantum sedibus; ma praticamente, essendo fallito il tentativo unitario di Stilicone, si constatò la necessità che ciascuna delle due partes si difendesse da sé. Le cose sembrarono migliorare quando il figlio e successore di Arcadio, Teodosio il, nel 424, aiutò il cesare Valentiniano in a conquistare l'impero contro l'usuratore Giovanni primicerio dei notai, e lo riconobbe (425) come augusto. Ma la restituita unità delle due partes (la quale, del resto, era già stata affermata da Onorio dopo la morte di Stilicone) non valse a salvare la pars occidentale dalla tremenda crisi, che abbiamo descritto; e nulla di sostanzialmente nuovo fu portato dal compimento (437) del matrimonio - già progettato nel 422 - tra Valentiniano in e Eudossia, figlia di Teodosio ne di AtenaideEudocia (cfr. anche supra, § 106); però fu garantita la unità legislativa dell'impero, dove la pars orientale consolidava, col « codice di Teodosio» ti (codex Theodosia nus, 438), la grande esperienza costituente del basso im pero. Nel 454 Valentiniano in si sbarazzò di Aezio, ma nel 455 (marzo) fu ucciso. Allora avvenne un interessante cambiamento in senso costituzionale: esso poneva su basi senatorie l'idea imperiale in Occidente. Nel i e ti secolo l'impero era stato tenuto da senatori la cui auctoritas imperiale, che si tramandava per eredità o per adozione o si acquistava per acclamazione, era riconosciuta dal sep
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nato, e a sua volta lo riconosceva come potere costituente; dopo Commodo, nel in secolo, mentre si erano avuti da una parte i colpi di stato senatorii del gennaio 193 (atrium libertatis: cfr. in/ra, LXXII) e del 238 (col tentativo, da parte del senato, di esprimere da sé il potere imperia le), d'altra parte si era avuto un accentuarsi dell'ideale di ovcxpyx e taluni imperatori (primo fra tutti Macrino, nel 217) erano stati acclamati senza essere senatori; con Gallieno i senatori non potevano più essere comandanti di eserciti; l'impero di Tacito fu solo una parentesi, finita tristemente; con Caro parve anche trascurabile l'approvazione del senato all'acclamazione imperatoria; di qui gravi lamenti dei senatori. Il iv e il v secolo, fino al 455, furono il trionfo del principio ereditario, prima coi Costantinidi, poi coi Valentiniani e Teodosidi. Ma dal 395 questo principio ereditario fu portato alle estreme conseguenze con l'assoluto potere detenuto unicamente da principes pueri (supra, § 109). Di qui ancora nuovi lamenti dei senatori, i quali intanto avevano riaffermato la loro autorità (si ricordi la seduta sotto Stilicone, nel 408: supra, § 109). Nell'Occidente, il senato tornò in primo piano: ma naturalmente, non aveva più l'autorità e la forza con cui aveva organizzato il colpo di stato - del resto assolutamente effimero - del 238. Si ebbero comunque imperatori se natori e grati al senato. Così nel 455, morto Valentiniano in, il senatore Petronio Massimo prese il potere, per sé e per il figlio Palladio; la vedova di Valentiniano in fu costretta a sposare il nuovo imperatore-senatore. Si vociferò che essa, offesa, chiamasse allora Genserico a Roma; certo, nel 455 Genserico, padrone della Proconso lare e anche di Sardegna e Corsica, sbarcò a Porto; Petroa lcittà, portò nio Massimo fu ucciso; Genserico occupò con sé Eudossia e la figlia di lei Eudocia. Ma il principio dell'imperatore-senatore rimase; fu la volta di un imperatore grato ai Goti, il senatore gallico Avito (455-456), che però fu presto deposto e finì vescovo di Piacenza. Intanto
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l'impero era venuto nelle mani di un dittatore alla maniera di Aezio, ma di origine barbarica: Ricimero; questi nel 457 nominò imperatore Maioriano, un generale abbastanza grato al senato, tutto preso da ideali tradizionalisti (ma non già pagani) alla maniera di Giuliano (anch'egli tende ad attenuare i controlli burocratici nell'esazione curiale dei tributi). Intanto la flotta vandala già da tempo minacciava la Sicilia, che così per la prima volta tornava ad essere in Dericolo doDo l'effimero eoisodio della Dirateria franca nel iii secolo, sotto Probo. Nonostante tutti gli sforzi (ai quali per qualche tempo collaborò anche il signore della Dalmazia, Marcellino), non fu possibile colpire lo stato vandalico. Nel 461 Ricimero si sbarazzò di Maioriano, cui successe Libio Severo, imperatore non riconosciuto in Oriente (461-465) e poi - dopo un interregno - il neoplatonico Procopio Antemio, nominato cesare dall'imperatore della pars orientale, Leone, e poi acclamato augusto in Italia (467-472). Intanto il re visigotico Eurico allargava lo stato tolosano a quasi tutta la Spagna, a spese dei Suebi (i qùali furono così limitati al solo nordovest della peniscla). In Africa Genserico era sempre più potente, e continuava a perseguitare i cattolici; dal 455 al 468 aveva devastato campagne e città 14 di Sicilia; dal 468 al 476 l'isola fu dominio vandalico. Nel 472 Procopio Antemio (sostenuto dai romani) e il patricius Ricimero (sostenuto dai milanesi) vennero a conflitto; Ricimero nominò un imperatore-senatore, Olibrio (della famiglia degli Anicii); così Procopio Antemio come Ricimero morirono in quell'anno. Il nuovo patricius, il burIl più significativo testo sulla vastitas vandalica in Sicilia è un'epigrafe catanese sulla scomparsa del gruppo dei Pii Fratres, già celebrato da Claudiano (MORGANO, « Boli. stor. cat. », 1935, p. 111), dal teatro di Catania: i Vandali hanno dunque saccheggiato Catania. L'epigrafe, probabilmente di epoca ostrogotica (comunque, posteriore al 479) è stata da me pubblicata in « Rivista del Comune di Catania », 1954, n. 4. 14
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gundo Gupdobado, nominò Glicerio (3 mar. 473), che però non fu riconosciuto in Oriente. Il 19(?) giugno 474 il patricius Oreste nominò imperatore Giulio Nepote, il signore della Dalmazia, persona grata all'Oriente. Ma il 28 agosto 475 Nepote fuggì in Dalmazia; il 31 ottobre 475 Oreste nominò il proprio figlio, Romolo. Quest'ultimo non ebbe il riconoscimento dell'Oriente, dove era imperatore Zenone. Adesso entrò nella storia il generale sciro Odoacre, un devoto del monaco Severino (che aveva visitato nel Norico); eliminò Oreste (28 ag. 476); depose Romolo, confinandolo in Campania (là dove fu poi seppellito il monaco Severino). Unico imperatore restava quello di Oriente, Zenone; Odoacre era « re dei barbari » (rex gentium) in Italia, e patricius dell'imperatore d'Oriente. Non ci fu più imperatore nella pars occidentale dell'impero. Questa era ormai costituita dagli stati romano-barbarici che in essa si erano formati: degli Svevi, dei Visigoti, dei Burgundi, degli Alamanni, dei Franchi, nella prefettura gallica (tutt'attorno a Parigi era ancora un organismo statale romano, già condotto da Egidio e ora da suo figlio Siagrio); dei Vandali, nell'Africa nella Sardegna e Corsica e in parte della Sicilia; di Odoacre, nell'Italia e Sicilia; degli Ostrogoti, ormai pronti ad avanzare verso l'Italia, nella Pannonia; dei Rugi (e poi, dal 488 dei Longobardi) nel Norico (nella Dalmazia era lo stato romano di Nepote, lì rifugiatosi e morto nel 480); degli Alamanni nella Rezia (dietro ad essi i Bajuvari). Nel 493 l'ostrogoto Téodorico, vinto Odoacre, fonderà il suo stato in Italia; nell'equilibrio fra il suo stato e gli altri romano-barbarici (sopratutto quelli dei Visigoti, Franchi, Vandali), la carta geopolitica tenderà in certo modo a semplificarsi. La storia della pars occidentale non esiste più come tale; essa è ormai la storia degli stati romano-barbarici che vi si sono stanziati. Contrariamente a ciò che si ritiene da molti studiosi, i contemporanei ebbero chiara coscienza della gravità di questo crollo della pars occidentale, e la « pun
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tualizzarono », naturalmente, al 23 agosto 476, data in cui Odoacre fu acclamato re in Italia. 113.
La « pars » d'Oriente. La crisi delle diocesi egiziana e siriaca.
Non così la pars orientale; qui l'impero è saldo, qui nel v secolo non assistiamo a spaventevoli lacerazioni. E tuttavia: vi si verifica, nel v secolo, una crisi spirituale che si vedrà maturare nel vii; è la crisi di una diocesi sua vitale, quella d'Oriente (egiziana e siriaca). Questa crisi emerge dai conflitti teologici e disciplinari fra le due grandi scuole teologiche, quella di Alessandria e quella di Antiochia. Per una interessante combinazione, il conflitto tra le due scuole teologiche si presenta come conflitto fra il thronos episcopale di Alessandria e quello di Costantinopoli (cui tendenzialmente è alleato quello di Antiochia). Così assistiamo al contrasto, sotto l'imperatore Arcadio, tra il vescovo di Alessandria, Teofilo, e l'antiocheno vescovo di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo, discepolo di Diodoro di Tarso e di Teodoro di Mopsuestia; Teofilo accusava Giovanni di « origenismo »; alla fine, Giovanni Crisostomo fu esiliato (407). Ma il grande attacco alla scuola antiochena è stato condotto sotto il successore di Arca dio, Teodosio il; allora, il vescovo di Alessandria Cirillo (successore e nipote di Teofilo) ha accusato di eresia il monaco antiocheno Nestorio (anch'egli discepolo di Teodoro di Mopsuestia), divenuto nel 428 vescovo di Costantinopoli; anche stavolta la lotta del thronos di Alessandria contro la scuola di Antiochia si precisò come lotta contro il thronos di Costantinopoli. In realtà Nestorio portava alle estreme conseguenze la dottrina dello « allos kai alios » di Diodoro e di Teodoro, accentuando la distinzione fra natura umana e natura divina nel Cristo, e sostenendo che la vergine Maria dovesse esser considerata non theotokos, « madre di Dio », ma piuttosto Christo-
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tokos « madre del Cristo ». Tale dottrina, che praticamente limitava l'unione ipostatica delle due nature in Cristo, fu condannata nel concilio di Efeso, del 431. Così la scuola teologica di Alessandria riportò una grande vittoria sulla scuola antiochena; il thronos episcopale di Alessandria su quello di Costantinopoli. Nestorio fu esiliato. Ma nel 451, vent'anni dopo, il thronos episcopale di Alessandria ebbe anch'esso una grave sconfitta. Il vescovo Dioscoro, successore di Cirillo, si oppose al vescovo di Costantinopoli Flaviano. Questi aveva presieduto una sinodo dov'era dichiarata eretica la dottrina « monofisitica » (sostenuta dall'archimandrita Eutiche), secondo cui in Cristo c'era « una sola ed unica natura », la divina. Secondo Dioscoro, la dottrina monofisitica era nel vero, in quanto si opponeva radicalmente alla distinzione nestoriana fra le due nature di Cristo. Sebbene in una nuova sinodo ad Efeso (latrocinium Ephesinum, 449), la città del concilio antinestoriano, Dioscoro ottenesse vittoria e riuscisse a far esiliare il vescovo di Costantinopoli, tuttavia nel 451 la dottrina monofisitica fu definitivamente condannata dal grande concillo ecumenico di Calcedonia (la scelta di questa località richiamava Nicea). Ma il violento popolo di Alessandria, quel medesimo che nel 415 aveva ucciso Ipazia, non si rassegnò alla sconfitta del suo vescovo; esso considerava nestoriana, dunque eretica, la dottrina calcedonense; ed uccise (457) il vescovo di dottrina ortodossa, che gli si era imposto in luogo di Dioscoro. Il grosso problema dello stato bizantino fu sempre, d'allora in poi, quello della riconquista spirituale dell'Egitto e della Siria. Era un problema disperato. In realtà, la crisi teologica dell'Egitto e della Siria era un fatto etnico, non soltanto un fatto « filosofico » 15 . I1 monofisitismo è rimasto sem15 Una spiegazione « filosofica » è data nei lavori, per altro acuti, di IVANKA, per es. Hellen. u. Christliches im f riihbyz. Geistesleben (1948). — Un altro modo di spiegare la crisi dell'Oriente bizantino
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pre la dottrina degli Egiziani. La dottrina opposta, la nestoriana, ha conquistato la « scuola siriaca » dì Edessa e di lì si è irradiata nel mondo sasanidico (la scuola di Edes sa fu chiusa nel 489), per poi arrivare, nel VII secolo, sino all'Estremo Oriente. Ma si badi: mentre a Edessa il clero indigeno siriaco è nestoriano, viceversa il siriaco Isaak di Antiochia è, tutto all'opposto, un monofisita (del resto, non era stata una città di Siria - Laodicea - la terra della predicazione di Apollinario, quel monofisita ante litteram?). Ciò significa che il contenuto teologico-filosofico della cultura indigena siriaca (della cultura, cioè, propria del proletariato siriaco) è relativamente secondario; il prius è sempre la tendenza non ortodossa, vale a dire l'ef fettivo autonomismo spirituale del proletariato aramaico. La regione siriaca si oppone frequentemente - in forma talora nestoriana, talora monofisita - all'ortodossia, cioè all'impero; l'Egitto si rende spiritualmente « autonomo », si fa inguaribilmente monofisita; il soggetto delle due rivolte teologiche è il fondo etnico antico-semitico ed antico-egiziano. Tutti gli imperatori « bizantini » tentano di puntellare la vacillante unità religiosa: da Marciano (morto nel 457) a Leone (457-474) a Zenone l'Isaurico (474-491). Nel 482 Zenone pubblicò l'Henotikon, in cui tentava di « unificare » la dottrina religiosa dell'impero sulla base di potrebbe essere cercato nelle difficoltà militari: così, per es. da ultimo, le brevi ma acute righe di BERNARDI, « St. doc. hist. iuris », 1953, p. 428. Ma il fattore « contadiname », cioè il fattore etnico, resta il prius. Ippolito (S 59) aveva visto bene: r,?j6 Trj.s. ( l'pc)7 f4 & )Xot tovoctv &)vaOv'rcI. - o'iTot 3i',LXcov xx& llvi pouv.évov; e tra questi 'ri = democrazie aveva posto (in base a Daniele, ma con intuito attuale) Egitto e Africa cioè (noi diremmo) proletariato copto e proletariato berbero. - La migliore illustrazione del nostro punto di vista è nell'opera poetica (in siriaco) che va sotto il nome di Isaak antiocheno: essa si rivolge naturalmente, alle plebi siriache; protesta, per es., contro le musiche che esaltano gli onestiores, contro coloro che abbandonano il monofisitismo per far carriera nell'impero, ecc.; è poesia « democratica ».
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una regola di fede concordata tra il patriarca di Alessandria e quello di Costantinopoli, e che in realtà veniva incontro ai monofisiti. Ne seguì, dal 484 al 519 (sotto lo stesso Zenone e sotto il suo successore Anastasio i), la scissione della chiesa orientale da Roma (« scisma acaciano »). Con l'imperatore Giustino (518-527) la Chiesa orientale si riavvicinò a Roma, abbandonando l'Henotikon e riconoscendo il primato papale; in conseguenza il contrasto fra monofisiti e ortodossi si aggravò irreparabilmente. Furono vani tutti gli sforzi e i tentativi di unificazione compiuti dal nipote e successore di Giustino, il grande Giustiniano (527-565), per riconquistare i monofisiti all'unità religiosa dell'impero. Il suo tentativo di avvicinamento ai monofisiti (concilio di Costantinopoli, 553), se suscitò un conflitto (« questione dei tre capitoli ») con l'Occidente e fu causa di umiliazione pel papa Vigilio condotto a Costantinopoli, tuttavia non riuscì a riportare i dissidenti nell'unità spirituale dell'impero; tutt'altro; ché, anzi, proprio allora si formò definitivamente il grande monofisitismo siriaco, detto ancor oggi « gíacobita » dal vescovo Jakob Baradai che lo ebbe ad organizzare. Ancor una volta, possiamo ribadir il punto fondamentale: la Si ria, sebbene terra del nestorianesimo, poteva largamente passare al suo opposto, il monofisitismo, perché in realtà il momento religioso era solo la forma, in cui si manifestava il distacco del fondo etnico aramaico dalla comunità imperiale, dalla comunità (come essi dicono) degli « imperiali » (« melkiti »). L'esigenza dell'« unificazione » domina tutta l'attività di Giustiniano: dai citati vani tentativi di avvicinamento ai monofisiti, alla grande consolidazione giuridica (529533) alla riconquista dell'Africa vandalica (533-534), dell'Italia ostrogotica (535-553), della striscia sud-orientale spagnola (554). Si ricostituiva l'impero romano? Sì e no; da Teodosio ii in poi, la pars orientale dell'impero si è fatta sempre più greca; l'impero di Giustiniano poteva
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essere sentito come opera dei « Bizantini », sia pur in quanto « Romei » ('P.xt) ,oltre e più che come ricostituzione dell'impero romano nel suo antico senso. Del resto, dopo la morte di Giustiniano 565), l'Italia romea fu presto limitata (568) dal balzo in avanti dei Longobardi (in connessione con esso, gli Avari si mossero verso la Pannonia). I grandi problemi che si ponevano all'impero dei « Romei » erano, comunque, nell'Oriente, quelli che si erano posti all'impero romano del v secolo: il pro blema, disperato, della crisi spirituale in Egitto e Siria; e l'eterna tragedia di tutta la storia imperiale, la conciliazione fra le esigenze della produzione (tassazione) e le esigenze del lungo servizio militare, della stipendiorum tarditas. A Giustiniano successero Giustino 11 (565-578) Tiberio Costantino (578-582) Mauricio (582-602) Foca (602-610 * ) ed infine un grandissimo, Eraclio (610-641). Sotto quest'ultimo, una svolta decisiva. Egli concepì la più rivoluzionaria riforma degli ordinamenti militari romani: la riforma « tematica », che spezzò per sempre il contrasto fra necessità economiche e servizio militare; costituì un esercito romano di soldati possessori di p-r'rtx& x'ri.x; insomma un esercito di contadini-soldati. Nella penisola anatolica questa riforma assume caratteri definitivi. Nel 614 i Persiani avevano conquistato Damasco e Gerusalemme; forte del suo esercito rinnovato, nel 627 Eraclio li vince, a Ninive; la Croce di Cristo torna ai « Romei ». Ma un'altra forza avanza, l'Islam: di gran lunga più temibile dei Persiani. Siria ed Egitto, questi paesi che si sono idealmente straniati dall'impero (straniati, sebbene Eraclio tenti l'avvicinamento ai monofisiti in senso « monoteletico »), vengono ora perduti per sempre; conquistata nel 635 Damasco; conquistata definitivamente, nel 646, Alessandria. Nella prefettura orientale, la vecchia diocesi d'Oriente ha ceduto: il sistema tematico, con la sua originale soluzione del contrasto fra servizio militare e produttività economica, ha salvato l'Asia Minore; ma (1
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non è riuscito ad impedire la orientaIizzaione « islamica » di Siria ed Egitto. 114.
Il problema della fine del mondo antico.
Un problema « d'obbligo » in ogni trattazione dell'impero romano è quello della sua caduta. Esso è, già nella sua impostazione, un problema assai difficile: perché l'impero cade nell'Occidente nel 476, mentre nell'Oriente resiste e si consolida, come impero dei « Romei », con l'ordinamento tematico di Eraclio, nonostante la perdita delle regioni siriaca (636) ed egiziana (639-646). Perciò, le spiegazioni della fine del mondo antico hanno sempre (.cfr. supra, §5 61; 103) qualcosa di unilaterale, giacché esse difficilmente possono cogliere il complesso modo in cui la crisi si è verificata ed è arrivata a maturazione. La nostra « soluzione » (e lo stesso va detto per ogni trattazione analoga) è, assai più che nelle monche considerazioni di questo paragrafo, in tutta la precedente tratta zione della storia imperiale: perché ogni storia dell'impero romano è, essa stessa, la tragica contemplazione della fine del mondo antico. Se il problema ha un senso, esso deve studiare le forme per cui si è passati dalla unità imperiale alle divisioni (5 59) « regionali » che caratterizzano i regna romano-barbarici, e inoltre spiegano il separatismo spirituale di Egitto e Siria nel v secolo. La fine del mondo antico è infatti la via dall'unità agli « scismi », nel senso etimologico di questo termine. Bisogna tener presente il punto di partenza, il problema centrale dell'impero, sin da Auguto: fondazione di una unità supernazionale, di cultura romano-ellenistica, il cui ideale è la pax affidata a un esercito permanente. Ciò significa, sul piano culturale, un assoluto dominio della cultura ellenistico-romana non solo in regioni che ora si aprono alla grande cultura, ma anche in paesi di antica cultura orientale conquistati da Alessandro Magno (in questi paesi,
Cap. 11.
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il vecchio fondo etnico vive ancora soprattutto tra i contadini). Sul piano economico, poi, la fondazione dell'unità implica uno sforzo capace di assicurare il mantenimento di un esercito con lunga ferma (venti-venticinque anni) e di una burocrazia che sempre più si sostituisce alla magistratura di vecchio tipo. Fino a che punto il dominio della cultura ellenistico-romana, e la centralizzazione burocratica, po tranno sostenersi senza incrinature? Evidentemente, finché si riesca ad evitare che dai preesistenti fondi etnici, si apra una breccia nella unità culturale, ellenistico-romana, delle classi dirigenti; e finché sia garantito l'equilibrio fra produttività ed economia monetaria fondata su quella che abbiamo chiamato « la moneta della borghesia (piccola borghesia) e del proletariato », il denarius argenteo. Tale equilibrio si esprime definitivamente (64) nella grande riforma monetaria di Nerone, il cui denario (§ 24) ha caratterizzato la vita economica dell'impero per circa un secolo, il secolo « borghese» dello stato romano. Ma già nell'epoca di Marco e Commodo, l'indice demografico si abbassa fortemente, e con esso la produttività; segue l'aumento dei 'prezzi, che invano gli imperatori cercano di attenuare riducendo sempre più il contenuto argenteo del denarius 16, e difendendo disperatamente questa moneta (così ancora, nel 301, Diocleziano). Il rivoluzionario Costantino fonda la nuova economia sull'oro, crea una « società a piramide ». In questa 16 Va ribadito - perché ha grande importanza agli effetti di una valutazione della crisi romana - un punto per noi importante: che cioè all'origine non l'inflazione ha determinato l'aumento dei prezzi, ma viceversa l'aumento dei prezzi (dovuto alla diminuita disponibilità di manodopera) ha accentuato, dopo Commodo, l'inflazione. Cfr. § 58, e passim. - Si noti che la ricostruzione della crisi imperiale dipende dall'interpretazione del iii secolo nel suo complesso (anche se, per es., non si accettasse la mia proposta di datare lo eis basilea pseudoaristideo sotto Decio; l'essenziale non è nel programma ideale tipo Decio, ma nel rapporto fra impero e ethne; dunque, per me, nell'interpretazione, per es., della costituzione di Caracalla, del Comm. Dan. di Ippolito, della lotta fra moneta reale e pecunia). Insomma: il in secolo è il metro della storia imperiale.
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società, la civilztas può essere sostenuta solo a prezzo di enormi sforzi delle masse di contadini, i quali non posseggono oro; può essere sostenuta meglio nel ricco Oriente, più difficilmente nelle campagne spopolate della prefettura gallica o nell'agronomia servile-colònica della Pannonia. Allora, da Giuliano in poi, si ricorre alla minore emissione di moneta aurea (deflazione di moneta d'oro); ma questa, come tutte le deflazioni, può sostenersi solo là dove una maggiore produttività (e dunque un alto indice demografico) possa equilibrarla. In caso contrario, si cadrà sempre più in forme di economia domestica; e questo si verifica nella prefettura gallica, dove la fondazione di stati romano-barba rici nel v secolo, eliminando le alte esigenze economiche della centralizzazione, reca un relativo sollievo al contadiname oppresso dagli alti prezzi (§ 108) e dal fisco. Anche il contadino africano, la cui insofferenza si caratterizza religiosamente come donatismo, subisce nel v secolo un'esperienza analoga. Nell'Oriente, il contadino siriaco e l'egiziano si sentono sempre più estranei a questa compagine statale di cultura greco-romana, la quale richiede ad essi non solo grandi sforzi economici, ma anche un'effettiva umiliazione della loro individualità etnica; i gravi limiti della romaniz zazione sono evidenti, tra l'altro, dal fatto che ancora nel v secolo si distingue, in Egitto, fra « Romani » e dediticii egiziani (supra, § 91). Or i contadini egiziani e siriaci hanno acquistato coscienza di sé nella lotta religiosa divenuta aspra nel v secolo e sollecitata dal definitivo risveglio culturale del loro fondo etnico, « copto » in Egitto e aramaico in Siria; nel VII secolo, l'invasione islamica strappa questo proletariato al dominio della cultura ellenistico-romana. La riforma di Eraclio salva il salvabile dell'impero; ma in forme nuove: « bizantine », « tematiche ». La crisi dell'unità imperiale è dunque crisi culturale (religiosa) ed economica. È caratterizzata da un duplice fenomeno, apparentemente contraddittorio, ed in verità ben coerente: da una parte, fondazione costantiniana di una
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« società a piramide » con' depressione degli humiliores; dall'altra, penetrazione di culture popolari-regionali sollecitate dalla viva partecipazione degli humiliores alla vita spirituale cfistiana e alla corrispondente predicazione (in celtico, in aramaico, in copto, ecc.). Oppresse dai tributi, ma capaci di una loro esperienza culturale, queste masse di hu"niliores sanno dire la loro parola. Naturalmente, la crisi si stende variamente nel tempo (si compie nel v secolo in Occidente, nel vii secolo in Oriente) ed 'ha vario carattere nelle varie regioni. Ha carattere prevalentemente economico alla frontiera pannonica e nella prefettura gallica (qui anche etnico, com'è evidente dalla creazione dello stato armori cano nel 410, il primo stato « nazionale » della storia europea); economico-religioso nella diocesi africana; religioso ed etnico-economico nelle regioni egiziana e siriaca. Essa si connette con lo squilibrio fra le esigenze della produzione e le necessità militari-economiche che si derivano dalla centralizzazione. Nell'Occidente, dove il sistema economico « giulianeo » è stato seguito fino alle estreme conseguenze deflazionistiche, tale squilibrio conduce (nonostante il permanere di una certa economia monetaria nei regna romanobarbarici) alle conseguenze implicite in ogni deflazione senza corrispondente aumento di produttività: all'economia curtense; diciam pure (ma cum grano salis) a forme prevalenti di economia non-monetaria. « Penetrazione dei sostrati etnici sottomessi (celtico, berbero, egizio, aramaico, ecc.) nella cultura ellenisticoromana »; « squilibrio fra produttività ed esigenze di centralizzazione »: anche queste sono formule. Sebbene esse tentino di riassumere descrittivamente la crisi dell'impero, tuttavia conservano quel tanto di astratto e discutibile che è proprio delle formule. La storia preferisce la narrazione alle teorie, la concreta ricostruzione alla ipotesi metafisica.
BIBLIOGRAFIA E PROBLEMI
La fonte greca principale, perduLVII (cfr. SS 82-102) ta, era Eunapio, il continuatore di Dexippo: è confluito in Zosimo, in cui il periodo trattato da noi a 55 82-101 abbraccia i libri ii (fino al 353), iii (fino al 364), iv (fino al 395). La fonte romana principale è l'opera annalistica dell'antiocheno Ammiano Marcellino, protector domesticus sotto Costanzo n e partecipe alla campagna di Giuliano in Persia: questi Annali di Ammiano continuavano Tacito, ma purtroppo sono pervenuti solo dal 353 inpoi (arrivando fino al 378); cfr. SEECK, « Hermes », 1883, p. 289; 1906, p. 481; KLOTZ, « Rhein. Mus. », 1916, p. 461; DE JONGE, Sprachl. u. hist. Kommentar zu Amm. Marc. i-ri (1935 sgg.); PIGHI, Studia Ammianea (1935); Nuovi studi ammianei (1936); I discorsi nelle storie di Ammiano (1936); l'art. di GITTI nella E. I.; supra, 5 96; STRAUB, Vom Herrscherideal cit., p. 220; per una caratteristica, soprattutto ENSSLIN, «Klio», Beih. xvi, 1923, da ultimo THOMPSON, The Hist. Work of Amm. Marc. (1947); Di SPIGNO, « Rend. Acc. Linc. », 1950, p. 394. In questo periodo sono stati scritti i manuali di Aurelio Vittore, Eutropio, Festo. L'Epitome de Caesaribus si chiude con la morte di Teodosio (395): già questa circostanza, come anche il suo vivo e attuale interesse alla personalità di Teodosio, lasciano pensare ad un autore che scriva d'intorno al 400. In tal caso, è interessante, a proposito della successione stabilita
da Teodosio, l'espressione utramque rempublicam utrisque filis - relinquens; essa mostra che già i contemporanei, pur sapendo che si trattava teoricamente di un commune imperium (Orosio), tuttavia hanno « sentito » le due sedes come due res publicae (cfr. supra, 5 102). La Storia ecclesiastica di Eusebio (prima edizione fino al 311?, ultima fino al 324) è stata
Bibliografia e problemi
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continuata da Socrate (fino al 439)i, Sozomeno (fino al 425), Teodoreto di Giro (fino al 428), si ricordi anche l'ariano Filostorgio (rispettivamente editi da HUSSEY, 1853; Id., 1860; PARMENTIER, 1911; BIDEZ, 19.13; cfr. GEPPERT, Die Quellen d. Sokr. Schol.); in latino, fu tradotta e continuata fino al 395 da Rufino di Aquileia (forse con utilizzazione di una storia ecclesiastica di Gelasio vescovo di Cesarea? si veda per altro, DIEKAMP, Analecta Patristica, [1938], p. 16; WAGNER, Ru/inus the Translator). Si aggiungono, naturalmente, la Chronica di Sulpicio Severo (autore anche di una vita di Martino di Tours) e le Historiae adversus paganos di Orosio. Anche si ricordi Gelasio Ciziceno. - Per l'interpretazione cristiana della storia, e in genere per il problema « Cristo e il tempo », in/ra, App. In; supra, 55 19; 59. - Inoltre, vanno ricordati i Panegyrici in genere; il tanto discusso TLo KcavnxvrLvo'i di Eusebio; l'Anonymu Valesianus (ed. MOMMSEN MGH, ix, 1, p. 7); frammentis come per es quello del panegirico di Praxagora a Costantino le opere di Giuliano l'apostata, Libanio (cfr. SEECK Die Briefe des Libanius, 1906; ultimamente, per es., GILLIAM, « Class. Quart. », 1952, p. 142), Imerio, Temistio; il de rebus bellicis; le opere di Simmaco e Ausonio; gli scritti patristici, che sono in realtà la principale fonte per l'intendimento di questo periodo; i cronisti (Eusebio-Girolamo, continuati da Idazio, Pro spero Tirone, ecc.). - Si consultino anche gli Scriptores originum Constantinopolitanarum ed. dal PREGER. - È interessante la per'iodizzazione: tanto le Res gestae di Ammiano quanto il Chronicon di Girolamo arrivano alla morte di Valente, 378. Per il periodo posteriore al 378, così lordane come Marcellino conte Un interessante aspetto della ricerca sull'attendibilità di Socrate (un giurista) è la questione del VL0 sulla bigamia, da lui attribuito a Valentiniano I: poteva Socrate avere informazioni originali sulla legislazione della pars occidentale? (Se mai, il vro sulla bigamia doveva essere limitato a qualche provincia dell'Occiente, in connessione con le esigenze dei soldati; menzione del'i' non si trova in Rufino, fonte principale di Socrate.) In senso positivo, ora, VOLTERRA, « Studi Arangio Ruiz », in, 1953, p. 39. Una compilazione dai tre « sinottici » (Socrate, Sozomeno, Tcodoreto) era la Historia Tripartita di Teodoro Anagnoste (alle cii reliquie dobbiamo la lista dei padri Niceni): cfr. ora Oprrz, RE v, 1869. Su Zacharias Rhetor cfr. l'art. di BARDY nel « Dict. Theol. Cath. » xv, 3676. - Socrate e i Novaziani: supra, xxii. d
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utilizzano la perduta Historia Romana scritta dal senatore Q. Aurelio Memmio Simmaco (discendente dal Simmaco difensore dell'altare della Vittoria); a sua volta, questa Historia Romana di Memmio Simmaco utilizzava, pel periodo teodosiano, l'Epitome de Caesaribus (ciò è confermato dalla citata espressione utramque rem publicam utrisque /ilis relinquens che ritorna in lord., Rom. 318): ENSSLIN, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1948, H. 3. Da ciò si dedurrebbe che l'Epitome de Caesaribus sia un testo di ambiente senatorio romano, come del resto è reso probabile dalla sua lode a Teodosio per il risar cimento dei beni (auri ar,gentique grande pondus) confiscati a
tyranno. Dei testi documentarii pervenuti in tradizione manoscritta, vanno ricordati sopra tutto il Codex Theodosianus e il Codex lustinzanus ; la Notitia dignitatum (che però è del v, non del iv secolo; cfr. in/ra, LXIV); testi giuridici vani (in/ra, App. III); i latercoli. Il codice ha vinto sul rotolo (in/ra, App. III): di qui lè nuove edizioni dei classici, come anche le citate consolidazioni giuridiche; cfr., in campo ecclesiastico, l'attività sinagogico-canonistica (ultimamente PEITZ, Dion. Ex. als Kanonist [19451). Per i concilii, si ricordino sempre la Collectio del MANsI; gli Acta di SCHWARTZ, la cui continuazione è affidata allo STRAUB; la Histoire di HEFELE-LECLERCQ. Delle opere generali moderne già citate si ricordino soprattutto il SEECK; lo STEIN; il PARIBENI; quanto al SoLARI, L'impero rom., il iv voi. (1947) di quest'opera comprende il periodo dal 193 fino al 363, e ad esso fa seguito il Rinnovamento dell'impero romano i, dal 363 fino al 476 (sotto il precedente titolo La crisi dell'imp. rom. [1933], i-ii arrivano al 394). Nella Histoire générale del GLOTZ, il volume del BESNIER, come già dicemmo, arriva al 325; segue il PiGAr;IoL, L'emp. chrét. (dal 325 al 395) (1948). Nella Bibliothèque de synthèse bistorique. l'importante opera del compianto L0T, La /in du monde antique et le début du moyen age (19512). La Storia di Roma nel Medioevo del GREGOROVIUS, opera concepita verso il 1852, e ben presto caduta sotto la grave mora dell'aspro e ingiusto giudizio di Mommsen, appare tuttavia - anche per quella parte, che più direttamente riguarda la nostra indagine - degna di
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ogni rispetto (una recente rivalutazione in VERCAUTEREN, « La Nouv. Clio », 1952, pp.. 199 sgg.; cfr. anche le mie osservazioni in « Doxa », 1951 9 p. 147). Utile il recentissimo Forschungsbericht (1938-1950) di DÒLGER-SCHNEJDER, Byzanz (1952). Naturalmente, si terranno presenti le grandi storie della Chiesa: per es. il DUCHESNE, il KIDD, il KIRSCH, il KRÙGER, il LIETZMANN, il FLICHE-MARTIN, il MOLLER, e le altre citate supra, xiv. Per i rapporti tra cultura tardo-pagana e impero cristiano ho dato una bibliografia in « Doxa », 1951, p. 122 (rassegna su La propaganda senatoriale nel tardo impero); LAISTNER, Christianity a. Pagan Culture in the L. R. Emp. (1951). 11 problema si illustra soprattutto attraverso la H. A. e i contorniati per i quali il vecchio lavoro del SABATIER e il recente - se ne attende seconda edizione - dell'ALFÒLDI; Cf r. VOGT. « Gn. », 1949, p. 25; di questo autore, cfr. anche A Festival o/Isis in Rome u. the Christian Emp. (1937); « Schweiz. Munzhl. », 1951, pp. 57; 92. Eccellenti interpretazioni storico-culturali in KLINGNER, Vom Geistesleben im Rom des ausg. Altert. (1941). THIESS, Das Reich der Dàmonen (1941). Per questo periodo e per tutto il basso impero, noi abbiamo i mirabili Regesten der Kaiser u. Pàpste (1919) del SEECK; qui per la prima volta il maestro ha formulato precisi criteri scientifici per l'accettazione o la cor rezione di date del Codex Theodosianus; su questa base egli ha potuto costruire i Regesti e una prosopografia (limitata, generalmente, alla documentazione del C. Th. e del C. lusi.) del basso impero. Gli errori del giovanile Essai sur la préfecture du prétoire del PALANQUE (1933) hanno giovato a mettere in rilievo la necessità di accettare, in linea di principio, i criteri dei Regesten seeckiani: cfr. E. STE IN, « Byz. », 1934, p. 327; HIGGINs, « Byz. », 1935, p. 621; ENssLIN, « Byz. Ztschr. », 1937 5 p. 423; S. MAZZARINO, Stilicone (1942), p. 337. Serie dei vescovi: GAMS, Series episcoporum Ecclesiae Catholicae (1873). Prosopografia pontificia romana: SANTIFALLER, Saggio di un elenco dei funzionari impiegati e scrittori della canc. ponti!. (1940), pp. 6-8. Fasti episcopali di Du CHESNE (Gallia); LANZONI (Italia); ecc.
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Monografie su Costantino: BURCKLVIII (cfr. § 76) HARDT, Die Zeit Constanti,is des Grossen (1853; cfr. supra, § 2); SEUFFERT, Constantins Gesetze u. das Christentum (1891); MAURICE, Numismatique Constantinienne 1-111 (1908 sgg.); Constantin le Grand (1925); SCHWARTZ, Kaiser Const. u. die christl. Kirche (19362); BURCH, Myth a. Const. the Great (1927); SALVATORELLI, Costantino il Grande (1928); « Ric. rei. », 1928 2 p. 289; K. MOLLER, « Hist. Zeitschr. », 1929, p. 261; BAYNES, Constantin the Great a. the Christ. Church (1929); HÒNN, Konst. d. Gr. (19452); PIGANI0L, L'empereur Const. (1932); SESTON, « Rev. ét. anc. », 1937; « Byz. », 1937, p. 477 (il chi di Brigetio); « Mél. Cumont », 1936, iv, p. 373; VoN STAUFFENBERG, « Festschr. Halier », 1940, p. 70; STRAUB, « Das neue Bild d. Ant. » ii, 1942, p. 374; KANIUTH, Die Beisetzung Konst. d. Gr. (1941); cfr. ENSSLIN, «Gn.», 1944, p. 100; HOLSAPPLE, Const. the Great (1942); ALFÒLDI, The Conv. 0/ Const. a. Pagan Rome (1948); cfr. « Jòurn. Rom. St. », 1932, p. 10; « Pisciculi, Festschr. F. J. Dòlger », 1939, p. 1; « Stud. in Hon. Johnson » cit., 1951, p. 303; BREZZI, La politica religiosa di Costantino (estr. da « St. mat. st . rei. », 1941); V0GT, « Rom. Mitt. », 1943, p. 190; « Festschr. Wenger » ir, 1945, p 118; Const. d. Gr.
u. sein jabrk. (1949); DÒRRIES, Das Seibstzeugnis Kaiser Constantins (1954); DE REGIBUS, Poi. e rel. (1953), uit. c.; JONES, Const. a. the Conv. o/ Eur. (1948); H. KOCH, Konstantin den Store. Pax Romana. Pax Christiana (1952). Rassegne di PIGANIOL, « Historia », 1950, p. 82; STROHEKER, « Saecuium », 1952, p. 654. Il problema oggi più attuale riguarda l'autenticità della Vita Constantini di Eusebio, negata nei lavori di GRÉGOIRE, per es. « Byz. », 1938, p. 551, seguito per es. da SESTON, « Journ. Rom. Studies », 1947, p. 127 (cfr. in/ra, Lx) e da PETIT, « Historia », 1950, p. 562; contra Voo'r, « Rom. Mitt. », 1943, p. 198; « Mél. Grégoire » 1 9 1949, p. 593; « Hermes », 1953, p. 112. Da ultimo FRANCHI DE' CAVALIERI, Constantiniana (1953); CECCHELLI, Il trionfo della Croce (1954). Antonio MAZZARINO mi suggerisce l'ipotesi che In Hoc Signo VinceS corrisponda al monogramma di IHSVS 'Iioi3c: in tal caso questa formula sarebbe anagrammata diversamente hoc vince ¶rJ'Ci vbc. - VrrTIN-
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GHOFF, « Rh. Mus. », 1953 ) p. 330. - MOREAU, « Rev. ét. anc. », 1953, p. 307. - Un nuovo testo papiraceo ha ora
rivoluzionato il problema dell'autenticità dei documenti nella vita eusebiana: ALAND, « Forsch. u. Fortschr. », 1954, p. 213; (e ora un importante lavoro di STRAUB, « Hist. Jahrb. », 1955, p. 653). Sull'editto di Milano, letteratura in ADRIANI, « Studi romani », 1954, p. 18.
Per l'arco di Costantino: L'ORANGE-VON GERKAN, Der spàtant. Bildschmuck d. Konstantinsb. (1939). Costantinopoli non fu fondata come città cristiana, in contrapposto alla pagana Roma: dimostrazione (contro ALFÒLDI) in HAMPL, « Sùdostforsch. », 1955, 10. Del resto, Bisanzio era nota - se mai - come città anticristiana (almeno, nell'epoca di Settimio Severo). LE (cfr. § 77)
Su Licinio e la sua politica religiosa:
ANTONIADES, Kaiser Licinius (1884); GÒRRES, « Phil. », 1913, p. 250; GRÉGOIRE, « Byz. », 1938, p. 51.
Le osservazioni svolte nel testo sulla politica immunitaria di Costantino vorrebbero indicare una via all'interpretazione della sua politica religiosa. Si desidererebbe una indagine approfondita sull'argomento: per ora, FERRARI DELLE SPADE, Immunità ecclesiastiche nel dir. rom. imperiale (estr. da « Atti Ist. Ven. », 1939). Per la data della vittoria di Costantino su Licinio: E. STEIN, « Ztschr. f. neutestam. Wiss. », 1931 9 p. 177. Scisma donatistico ed eresie in Africa (sotto Costantino e dopo di lui): da ultimo FREND, The Donatist Church (1952). Costantino e i giuristi: da ultimo DE FRANCISCI, « St. doc. hist. iuris », 1952, p. 236. La nostra interpretazione di &7rx07ro LX (cfr. § 78) v &XT6, in quanto episcopo dell'organizzazione secolare, contrapposta all'ecclesiastica, è giustificata nel testo; altri (BABuT; PIGANI0L) vede in questa espressione Costantino come « vescovo dei pagani »; altri (LIETZMANN) interpreta « io sono il vostro vescovo per le esigenze terrene »; altri infine (SESTON, « Journ. Rom. St. », 1947, p. 127) la considera
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una prova della non autenticità della Vita eusebiana. Cfr. da ultimo DE FRANCISCI, « St. doc. hist. iuris », 1952, p. 237. In genere, sul problema chiesa-stato, V0IGT, Staat u. Kzrche
von Konstantin d. Grossen bis zum Ende der Karolingerzeit 1940, Phil. ted., 1947), con insistenza modernizzante sui pericoli dell'ideale teocratico; KAMLAH cit. in/ra, LXVI; RAHNER, Abendi. Kirchenfr. - Sull'ideale monarchico del tardo impero, l'importante libro di STRAUB, Vom Herrscherideal in der Spàtantike cit. La problematica del monarcato « bizantino » è al centro dell'opera di TREITINGER, Die ostròm. Kaiser-u. Reichsidee (1938). Il monarcato <(per grazia di Dio » ha trovato una eccellente illustrazione nel già cit. ENSSLIN, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1943, H. 6, il quale giustamente richiama il vegeziano Deo regnat auctore, detto probabilmente di Teodosio i (in/ra, LXVII); da ultimo, ancora ENSSLIN, « Hist. Ztschr. », 1954, p. 449. (1936); LIETZMANN, «Abhandl. Preuss. Akad. », hist. KI. 11; BERKHOF, Kirche u. Kaiser (trad.
MI (cfr. § 86)
Sull'arianesimo in generale, da ultimo i ) 1951, p. 69; p. 647; ivi altra
GRILLMEIER, « Das Konzil v. Chalkedon » GENTZ, « Reali. f. Ant. u. Christ. », i, 1950,
letteratura. LXII (cfr. §§ 87-91) L'interpretazione della rivoluzione monetaria costantiniana, che ho dato nel testo, è svolta, per alcuni punti, in Aspetti sociali cit. (1951). Il mio contrasto con l'interpretazione della storia economica del iv secolo data dal MIcKwITz (nella più volte citata, e fondamentale, Geld u. Wirtscha/t) potrebbe ora formularsi così: che la dottrina del MIcKwITz (secondo cui i funzionari del iv secolo preferiscono pagamento in natura, mentre i contribuenti vorrebbero pagar in denaro) può adattarsi al iii secolo, ma - appunto perché l'economia del basso impero si fonda sul solidus come moneta - non può più adattarsi al iv secolo. (cfr. Lib., Ep. 132, 3, del 359/360); conclusioni analoghe a quelle del MIcKwI'rz furono costantemente formulate da M. WEBER (per es. Die ròm. Agrarg., p. 212; ma assai più nell'articolo del « Handwòrterbuch der Staatsw. », che citeremo in seguito). La nostra interpretazione della « politica dei prez-
Bibliografia e problemi zi » è giustificata nel testo. Cfr.
823 SEGRÌ, «Byz. », 1940-41.
Moneta Mediolanensis (352-498) (1949), su cui DdLGER, « Gn. », 1952, p. 51; WEST-JOHNSON, Currency in Roman a. Byz. Egypt (1944); PIGANIOL, « journal des savants », 1955, 5; JONES, « Econ. Hist. Rev. », 19539 p. 293; MIcKwITz, Die Systeme des ròm. Silbergeldes (1933); ID., « Aeg. », 1933, p. 95 e « Ann. hist. écon. soc. », 19349 p. 235 (sul problema dell'oro); HEICHELHEIM, « Klio », 1936. p. 131; LE GENTILHOMME, « Rev. num. », 1946, p. 51 (contro la dottrina di MICKWITZ, che negava ogni carattere fidu ciario alla moneta d'argento, e perciò considerava la moneta di quasi 2 grammi come ½ siliqua; in tealta, il mondo antico ha ben conosciuto la moneta fiduciaria d'argento); STADE, « Ztschr. Sav. St. » RA, 1954, p. 456; e letteratura già data supra, LV (specialmente l'articolo del MATTINGLY). Ottimo il capitolo di OERTEL, « Cambridge Ancient History », xii, cit. Sul « dirigismo di stato » insiste LAMBRECHTS, « L'Antiquité Classique », 1949, p. 109; cfr. STROHEKER, « Saeculum », 1952, p. 674. Nella mia storia dei prezzi supra, § 86, ho tralasciato la documentazione egiziana, per la posizione particolare dell'Egitto; cfr. JOHNSON, Egypt a. the Roman Empire (1951); ma nel basso impero l'Egitto è meno « isolato » che nel principato. Quanto al diritto tributario del basso impero, è questo un campo in cui c'è ancora molto da lavorare: cfr. per ora, le trattazioni generali: per es. nella Storia del dir. rom. iii del DE FRANcIscI o nell'articolo Tributu,n (SCHWAHN) della RE. Per la capitazione cfr. supra, LV, e passim. Una trattazione spesso utile dà FERRARI DELLE SPADE, citato supra, LIX. È interessante come, anche nel diritto tributario, si assista ad una « cristallizzazione » e fissazione dei principi del principato del basso impero: ciò è chiaro per l'aurum coronarium (n. v. CLAUSER, « R6m. Mitt. », 1944, p. 129); LACOMBRADE, « Rev. et. anc. », 1949, p. 54; da questo punto di vista, la continuità degli istituti offre allo studioso tipiche difficoltà di datazione (per es. PFay 20, col. ii, con remissione dell'aurum coronarium, è attribuito a Severo Alessandro da WILCKEN, « Zeitschr. Sav. St. », RA, 1921, p. 150; SCHIJBART, « Arch. f. Papyrusf.», 1941, p. 45; WALLACE, Taxation in Egypt [1938], p. 249; ULRICH BANSA,
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Il basso impero
p. 283; PRÉAUX, « Cron. d'Eg. », 1941, p. 123; a Giuliano l'apostata da ENSSLIN, « Klio », 1923, p. 129; come una falsificazione di spiriti giulianei è inteso il documento da SESTON, « Rev. ét. anc. », 1942, p. 224). Il problema dell'imposta sulle vendite nel basso impero è divenuto d'attualità con la scoperta della tariffa di Berito: cfr. da ultimo MOUTERDE, « Comptes Rendus Acad. Inscr. », 1945, p. 377. Decurionato e curiali nel basso impero: MOMMSEN, Ges. Schr. iii, p. 43; PACK, « Trans. Am. Phil. Assoc. », 1951 p. 177 (e già Stu-
dies in Libanius a. Ant. Society under Theod. [19351); JONKEERS, Econ. en soc. toestanden in bet Rom. riik (1933), con le osservazioni di MIcKwITz, « Byz. Ztschr. », 1935, p. 409. Naturalmente, poiché la capitazione è base della vita sociale tardo-romana, va consultata la letteratura citata supra, a Cap. vi, § 9 (cfr. anche 'Cap. iv, S 8). His, Die Domànen der ròmischen Kaiserzeit (1896); M. WEBER, Ròmische A,grargeschichte (1891); e l'articolo Agrarverhàltnisse riportato in Gesammelte Au/siitze zur Sozial u. Wirtscha/tsgeschichte (1924); BRISSAUD, Le régime de la terre dans la socie'té étatiste du Bas-Empire (1927); cfr. il saggio Die ròmischen Grundherrscha/ten di SCHULTEN, « Ztschr. f. Sozial. u. Wirtschaftsg. », 1895. Per il patrocinium, DE ZULUETA, De patrociniis vicorum. Patronage in Later Empire (1909); MARTR0YE, « Rev. hist. dr. franais et étr. », 1928, p. 201. Naturalmente, per tutti questi problemi economicò-sociali vanno tenute presenti le storie del di ritto romano: soprattutto ZACHARIX VON LINGENTHÀL (la Gesch. d. griech. r6m. Privatr. [1892]), il KARLOWA, il DE FRANcIscI, l'ARANGIo Ruiz, ecc. - Sul colonato, in quanto servitù della gleba (servitus terrae), c'è un'enorme letteratura. Dai tempi di Cuiacio e di Godefroy, si discute sulla sua origine. Una teoria, che risale a SAVIGNY e fu accolta dal MOMMSEN e in certo modo dal SEECK, cerca il fondamento del colonato nell'inquilinato dei Germani stanziati nell'impero; un'altra teoria (FUSTEL DE COULANGES) lo deduce dalle esigenze dei proprietari, anche in rapporto col fisco; un'altra infine (MIcKwITz) dalla tassazione in natura, alla quale corrisponde il fitto in natura dovuto dai coloni al proprietario. In realtà, il problema dell'« origine del colonato », se cfr. letteratura supra, XXV. In generale
Bibliografia e problemi
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si imposta concretamente, diventa tutt'uno con la storia economica dell'impero. Esso trova la sua spiegazione immediata, naturalmente, nella fuga dei contadini dalle terre. Questa non è fenomeno esclusivo del basso impero: già i lettori del De frumento ciceroniano la possono constatare per la Sicilia nell'epoca tardo-repubblicana; Filone e i papiri egiziani l'attestano per l'epoca giulio-claudia; diventò normale, nel principato, l'esazione della « capitazione dei fuggitivi » ( ~1Ep Laj1òC &vxx . cpp<6mv) nell'Egitto, e qualcosa di simile dovremo supporre per le altre province, su cui siamo meno informati. Fu dunque la pressione fiscale a indurre i contadini alla fuga, sin dall'epoca tardo-repubblicana e del principato. Il basso impero pose a ciò due rimedii stabili: la rLf3oX (adiectio), per cui le tasse dovute dalle terre non lavorate venivano imposte ai contadini presenti, e altresì, per i coloni dei vari possessores, l'obbligo di restar legati all'origo e insomma la servitù della gleba (inservire terris). Poiché il colono non aveva la possibilità di pagare le tasse, si confermò, già nell'epoca di Valeriano, il principio per se stesso conseguente che le tasse vengono pagate dal possessor, non già dal colono; ma il possessor fu garantito per via dalle servitù della gleba, sì da evitare che egli pagasse tasse per coloni fuggiaschi. Il punto essenziale fu sempre l'esazione della capitazione; già Costantino stabilisce che colui che detiene un colono fuggiasco (si tratta, naturalmente, di un altro possessor) deve pagare la capitazione di questo colono per tutto il tempo in cui egli lo ha nascosto. In tutta questa vicenda, la tassazione in natura ha, al solito, una grande importanza pel iii secolo; ma nell'epoca del basso impero alla quale appartiene la vera e propria formazione della servitù della gleba è indifferente che il colono sia tenuto ad una prestazione in natura o in denaro; tanto l'una che l'altra sono insostenibili per lui, che spesso è costretto a ricorrere a prestiti del possessor e proprio pei suoi debiti si rovina. Teodosio (un imperatore che considerava la tassazione in natura più favorevole ai contribuenti che non quella in denaro) ha compiuto l'ultimo atto dell'evoluzione, estendendo la servitù della gleba anche ai coloni di Palestina, che fino ai suoi tempi ne erano esenti. In tutto ciò, inoltre, l'esempio dell'in-
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Il basso impero
quilinato dei Germani non influisce se non indirettamente: influisce, piuttosto, la continuità generica della libertas dediticia, la quale si caratterizza per eccellenza nella capitazione, e, continuando dopo Caracalla, ha assicurato l'inferiorità dei dediticii rusticani, e altresì della romana plebs rusticana, tenuta alla capitazione. Solo per questa parte, dunque, l'inquilinato-colonato germanico (fondato anche esso sulla capitazione dei dediticii) può avvicinarsi al normale colonato-servaggio. Fondamentale ROSTOVZEV, Studien zur Gesch. d. ròm. Kolonates, « Arch. f. Papyrusf. » Beih. i, 1910; cfr. CLAUSING, The Roman Colonate (1925); COLLINET, Le colonat dans l'emp. rom. (1936); GUMMERUS, Die Fronden der Kolonen, « Ofversigt Finska Vetenskaps Societ. Forhandlingar », 1906/7, n. 3; SEEcK, RE, s.v. colonatus, &itrÀ, caput ecc.; MICKWITZ, Op. cit., p. 179; CiccoTTi, Il tramonto della schiavitù cit., p. 481; M. WEBER, Die rmische Agrargesch. cit., p. 212; FABRE,
« Rev. d'hist. et de liter. relig. », 1896, p. 74 (coloni della Chiesa Romana del vi secolo); ultimamente GANSHOF, « L'ant. class. », 1945 9 p. 261; PALLASSE, Orient et Occzdent à propos du colonat romain du Bas-Empire (1950). Cfr. anche SERGEEV, « Vestnik drevnej istorii », 1938, n. 3; SluzluMov, ibid., 1951, n. 4; SHTAERMAN, ibid., 1951, n. 2; 1952, n. 2; 1953, n. 2; KAJDAN, ibid., 1953, n. 3; ARTSICHOVSK, Sotsiologiceskoie znacenie evoliutju zemledelceskich orudy (1927; eventuali connessioni fra storia della tecnica agricola e formazione del colonato). - Il problema del patrimonio ecclesiastico nel basso impero deve studiarsi alla luce della documentazione del vi secolo: MOMMSEN, Ges, Schr. tu, p. 177; SPEARING, The Patrzm. of the Roman Church in the Time o! P. Gregory (1918); FABRE, loc. cit.; per la Chiesa Orientale LEVcENKO, « Vizantijsky vremennik », 1949. - SuIl'epibolé: JOHNSON,
« Aeg. », 1952, p. 67. Per le finanze del basso impero
ANDREADES, Le montant du budget de l'Empire byzantine (1911), con le osservazioni
di E. STEIN, « Byz. Ztschr. », 1924, p. 377. - Com'è naturale, in tutte queste indagini bisogna tener presente anche le dottrine sociali dei Padri e l'atteggiamento della Chiesa: TROELTSCH, Le dottrine sociali delle Chiese e dei gruppi cristiani (trad. it., 1949 2) ha lasciato una grande traccia in questi si udii, dei
Bibliografia e problemi
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quali può addirittura considerarsi il fondatore. Soprattutto si tratta di intendere bene motivi come il « comunismo di carità » (come lo chiama Troeltsch), che presuppongono - appunto per via del concetto di carità - un più e un meno di ricchezza privata: cfr. ora RAHNER, « Schweiz. Rundschau » XLVIII, FI. 2; supra, § 59. Una importante sintesi dei problemi sociali-culturali del basso impero in ANDREOTTI, « Paideia », 1946, p. 143. Per il diritto pubblico tardo-romano, si rimanda ai manuali e alle storie del diritto romano, per es. al WILLEMS e al DE FRANCISCI. - Va ancora consultato il commentario del BÒCKING alla Notitia dignitatum (cfr. in/ra, LXIX). - Sul senato romano nel basso impero: LÉCRIVALN, Le sénat romain depuzs Dioclétzen (1888); STRAUB, Vom Herrscherideal in der Spatantike (1939); DE FRANCISCI, « Rend. Pont. Acc. », 1946-7, p. 275; STROHEKER, Der Spàtròm. Adel im spàtantiken Gallien (1948); DEGRASSI, « BuI!. Com. » 1946/8, 33; cfr. in/ra, LXXII. - Sull'ideale di pei governatori del basso impero cfr. ROBERT, « Hellenica » IV, 1948. - Evoluzione del magisterium militum (equitum e peditum); ENSSLIN, « Klio », 1930, p. 306; 1931, p. 102; HOEPFNER, « Byz. », 1936, p. 483; e in genere MOMMSEN, Ges. Schr., vi, p. 248. - Prefettura' al pretorio: PALANQUE, Essai sur la préfecture du prétoire cit. (sui cui presupposti metodici cfr. supra, LVII); « Méi. Grégoire » ii, 1950, p. 483; e soprattutto E. STEIN, Lintersuch. ùber das O//icium der Pràtorianerprii/. seit Diokletian (1922). - Sugli agentes in rebus: HIRSCHFELD, Kleine Schriften (1913), p. 624. - BOAK, «Harv. St. in Class. Phil.», 1915, p. 73; BOAK-DUNLAP, Two Studies in Later Roman a. Byz. Administration (1924). - Si discute sulla continuità della distinzione delle pene pro qualitate personarum: DE RoBERTIS, « Riv. it. sc. giur. », 1930, p. 92; CARDASCIA, « Rev. hist. droit franais et étranger », 1950, p. 178; il nostro
punto di vista è giustificato nel testo. - Sugli ordinamenti militari, MOMMSEN, Gesch. Schr. vi, p. 207 (scr. 1889); SANDER, « Hermes », 1940, p. 192 (ma cfr. ENSSLIN, « Klio », 1942, p. 75); GIGLI, « Rend. Linc. », 1947, P. 268; e letter. cit. a XXVI e XLVI (specie il GROSSE). L'interpretazione svolta nel testo si fonda sopra tutto su C. Th. VII, 20, 4
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Il basso im'pero
(con l'esegesi in Aspetti sociali cit., p. 334; cfr. JONES, « Class. Rev. », 1953, p. 114) e sugli altri testi implicitamente citati nella trattazione. Ultimamente VAN BERCHEM, L'armée de Diocl. et la réf. constant. (1952); e già PARKER, « journ. Rom. St. », 1933, p. 175. - Il passo del decreto di Anastasio citato
nel testo 'è Doc. ant. Af r. It. ii, 2, 1. 50 (OLIvERI0). GIGLI, L'ortodossia, l'arianesimo LXIII (cfr. SS 93-94) e la politica di Costanzo 11 (337-361) (1949); cfr. Solari, « Rend. Acc. Sc. Bologna », 1924-25, p. 95; CHARLESWORTH, « journ. Rom. St. », 1947, p. 34; ALFÒLDI, Die Kontorniaten (1943), p. 12 (con le mie osservazioni in « Doxa », 1951, p. 126). Sulla collegialità e le divisioni dell'impero, oltre il Doppelprinzipat (1930) di KORNEMANN, già citato, cfr. in genere, per il basso impero, PALANQUE, « Rev. ét anc. », 1944, pp. 47; 280. - Su Gallo: BALDUCCI, « Riv. fil. class. », 1940, p. 264 (cfr. « Rend. Linc. », 1947, p. 523, su Silvano); THOMPSON, « Amer. Journ. Phil. », 1943, p. 302. - Un'iscrizione leptitana in onore di Costanzo Il è stata pubblicata da BERSANETTI, « Epigr. », 1945, p. 39. - Le premesse di questi paragrafi sono, per la massima parte (specie per l'esegesi del de rebus bellicil) in Aspetti sociali del quarto secolo (1951); cfr. ANDREOTTI, « Riv. fil. class. », 1953, p. 164, che può considerarsi una vera e propria trattazione sul de rebus bellicis (ora pubblicato da THOMPSON, A Roman Re/ormer a. Inventor [19521). Uno dei miei argomenti per la datazione del de rebus bellicis sotto Costanzo n la vittoria di questo imperator (unico imperator tra due o più / principes) su tyrannos al plurale: l'osservazione che il plurale potrebbe essere retorico, e che in questo caso si potrebbe trattare della vittoria di Valentiniano i su Firmo (JONES, « Class. Rev. », 1953, p. 113), cade (cfr. già Aspetti, pp. 385, 66) qualora si pensi che il principe dei Mauri Firmo non può considerarsi tyrannus nel senso proprio della parola (« usurpatore »). - Su Atanasio cfr. letteratura data supra, M. - Sul vescovo Valente di Mursa ENSSLIN, RE VII, A 2141. - Su Ilario di Poitiers cfr. per es. SMULDERS, La doctr. trinitaire de S. Hilaire (1944); Arianesimo gallico fra il 356 e il 361: HILTBRUNNER, « Vig. Chr. », 1951, p. 55.
Bibliograf ia e problemi
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LXIV (cfr. §§ 95-96) Su Giuliano abbiamo, oltre le precedenti (per esempio, NEGRI, 1901; GEFFCKEN, 1914), tre eccellenti monografie di epoca più recente : ENS S LIN, « Klio », 1922, p. 104 (sull'attività legislativa); BIDEZ, Vie de Julien (1930); ANDREOTTI, Il regno dell'im peratore Giuliano (1936);
cfr. LATTE, « Antike », 1928, p. 325; SCHISSEL, « Klio », 1929, p. 326; PIGHI, « Aevum », 1934, p. 489; RAEDER, « Classica et Mediaevalia », 1944, p. 179. Egli è vivo nei suoi scritti (antologia in ROSTAGNI, Giuliano l'Apostata [1920], con introd. e comm.; edizione del contra Christianos di NEUMANN [ 1880 ] ; epist. leges poem. f rg. varia di BIDEZ-CUMONT [ 1922 ] ; Oeuvres com plètes I, 1 e 2, di BIDEZ [ 1932, 1924]). GUTZWILER, Die Neujahrsrede des Konsuls Claudius Mamer-
tinus vor dem Kaiser Julian (1942). Più si studia la sua personalità, sempre più ci si accorge che essa non ha nulla dell'episodico, in cui si tende a confinarla, se si considera solo il suo fallimento religioso: la moderna insistenza sulla sua politica sociale (cfr. Aspetti sociali del IV secolo cit.) e sulla sua legislazione (cfr. ANDREOTTI, « Nuova riv. stor. », 1930, p. 352) ha questo significato. Essa s'inquadra così nelle esigenze del suo tempo, e risponde per es. alle lamentele contro il « corso » bùrocratico della politica di Costanzo il, formulate poco prima da Aurelio Vittore (Liber de Caesaribus 39, 44; 42, 24 -25; cfr. la politica di Giuliano contro gli agentes in. rebus, su cui supra, § 89). Allo stesso modo, essa risponde alle richieste del de rebus bellicis (ANDREOTTI, « Riv. f il. class. », 1953, loc. cit.; specialmente 170, con opportuno richiamo della lettera di Giuliano ai Traci) Sull'album ordinis Thamugadensis cfr. LESCHI, « Rev. ét. anc. », 1948, p. 71. Sulla crisi economica ad Antiochia, DE JONGE, « Mnemos. », 1948, p. 238; DOWNEY, « Studies in Roman Econ. a. Soc. Híst. in Hon. Johnson », 1951, p. 312; cfr. HADDAD, Aspects of Soc. Li f e in Ant. (1949). Acclamazione di Giuliano secondo la moda germanica, sullo scudo: ENSSLIN, « Klio », 1942, p. 268. Politica filoebraica di Giuliano: VOGT, Kaiser Julian u. das judentum (1939). Su Saluzio: HOHL, « Gn. », 1943, p. 57. Cf f r. soprattutto FESTUGIÈRE, Trois dévots paiens (1944). Su Teodoro di Mopsuestia e Diodoro di Tarso cfr. ora
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Il basso impero
GRTLLMEIER e DE RIEDMATTEN in « Das Konzil v. Chalch. » i, 1951.
UV (cfr. § 97) Su Valentiniano i, HEERING, Kaiser Valentinian 1 (1927); ANDREOTTI, « Nuova riv. stor. », 1931 ? p. 502; ALFÒLDI, A Con /lict o/ Ideas in the Late Roman Empire (1952); cfr. SCHUURMANS, « L'ant. class. », 1949, p. 25. Sui rapporti fra senatori pagani e comunità cristiana di Roma, che in questo periodo si caratterizzano con l'intervento di Vettio Agorio Pretestato a favore di papa Damaso, cfr. le mie osservazioni in « Doxa », 1951, cit. - Su Vettio Agorio Pretestato: HERZOG, « Trierer Ztschr. »-, 1937 9 p. 127; NICOLAAS, Praetextatus (1940); cfr. ENSSLIN, « Klio », 1942, p. 172. Dei testi di Valentiniano i, il più notevole, fra quelli che hanno attirato l'attenzione di recente, è la tariffa fiscale pubblicata da SAUMANE, « Karthago », 1950, pp. 105-200. Si discute se Valentiniano i abbia spostato truppe illiriche nella Gallia: cfr. il mio S'tilicone (1942), p. 153. Per l'attività al limes cfr. per es., da ultimo, BARB, « jahresh. 6sterr. Inst. », 1948, p. 263; NESSELHAUF, « Abh. Berl. Akad. », 1938, n. 2; FAIDER-FEYTMANS, « Mél. Marouzeau », 1948 9 p. 161. - Su Valente manca una monografia adeguata; cfr. per ora NAGL, RE vii, A 2097. - Per un inquadramento della disfatta di Adnianopoli nella storiografia contemporanea: STRAUB, « Phil.», 1943, p. 255. LXVI (cfr. 55 98 sgg.) Monografie: GÙLDENPENNINGIFFLAND, Kaiser Theod. d. Grosse (1878); RAUSCHEN, jabr-
búcher d. christlichen Kirche unter d. Kaiser Theod. d. Gr. (1897). - Fondamentale il saggio di ENSSLIN, « Sitzungsbb. Bayer. Akad. », 1953, H. 2. Cfr. PIGANI0L, « Byz. Ztschn. », 1953, p. 390. Il pro templis di Libanio è giustamente datato al 386 da PETIT, « Byz. », 1951, p. 285. - Sul supremo comando militare, da ultimo DOlSE, « Mél. éc. Rome », 1949, p. 183. - Politica persiana (spartizione dell'Armenia): DolsE, « Rev. et. anc. », 1945, p. 274. - Prefettura illiniciana: Stilicone cit., I; cfr. DEMOUGEOT, « Rev. hist. », 1947, p. 16; « Actes du congrès intern. ét. -byz. Bruxelles », 1948, p. 87; PALANQUE, « Byz. », 1951, p. 5. - Sulla personalità di Ambrogio: PA-
Bibliografia e problemi LANQUE, GEN,
831
Saini Ambroise et l'emp. rom. (1933);
« Mnem. », 1937, p. 152. Monografia di
VAN HAERINDIJDDEN I-Il
La religione di Ambrògio (1949). Per la questione dell'ara della Vittoria (bisogna distinguere l'ara dalla statua): WYTZES, Der Streit um d. Altar d. Victoria (1936); MALUNOWICZ, De Ara Victoriae in curia Romana quomodo c rtatum sit (1937); ALFÒLDI, A Festival of Isis cit.; il mio !'A ggio su La politica religiosa di Stilicone, « Rend. Ist. Lomb. », 938. - Una storia spirituale di questo periodo, dal punto di vista delle Confessioni di Agostino, in COURCELLE, Rech. sur les Conf. de S. Aug. (1950), p. 78. (1935). PESTALOZZA,
LXVII (cfr. § 102) pra,
Su Ammiano, cfr. letteratura su-
LVII.
Sul trattato militare di Vegezio, soprattutto SEECK, « Rhein. Mus. », 1876, p. 68; cfr. anche, per es., HARTKE, « Klio », Beih. xxxii, 1940, pp. 84, 1. Si desidera una nuova trattazione dell'intero problema di datazione, con cui si connette l'intendimento di tutta l'opera. Le datazioni dei moderni variano enormemente: da quella del SEECK (sotto Valentiniano in) a quelle sotto Teodosio i e sotto Onorio. Importante è il passo in cui Vegezio confronta la posizione del centurio primipili legionario, dopo che egli ha percorso in orbem tutte le coorti, alla posizione del primiscrinius, che egli considera massimo grado (e insomma finis) della carriera in officio praefectorum praetorio. Il confronto vuole esser preciso, perché gli officiali della prefettura al pretorio erano considerati legionarii della legio I Adiutrix, ed essi in realtà percorrevano, matricula decurrente, le diverse scholae, come Vegezio dice del primipilo
(postquam in orbem omnes cohortes per diversas administraverit scholas. Dal confronto si deduce che il primo ufficiale della prefettura pretoriana era, ai tempi di Vegezio, il primiscrinio (primiscrinius in officio praefectorum praetorio ad honestum quaestuosumque militiae pervenit finem). Ma nella Notitia dignitatum il primo ufficiale della prefettura al pretorio (senza contare l'estraneo princeps scholae agentium in rebus destinato all'officium praefecturae e considerato consiliarius) è il cornicularius, il quale vi è indicato subito prima del primi scrinius; la situazione della Notitia dignitatum è perfettamente
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Il basso impero
quella che si riscontra il 26 febbraio 444, in una costituzione di Teodosio ii (C. I. i, 51, 11; cfr. E. STEIN, Unters. [19221, p. 6). Il vir inlustris comes Vegezio, che è un esperto di burocrazia, non può incorrere in inesattezze, sia pure di piccola portata (questa era, in realtà, una piccola inesattezza, perché princeps, cornicularius, primiscrinius sono destinati a costituire l'unità dei tre ufficiali primati); egli riflette una situazione indiscussa quando dice primiscrinius ad finem pervenit anziché cornicularius (o, se mai, cornicularius et primiscrinius - perveniunt). Conclusione: quando Graziano esaltò il primiscriniato (E. STEIN, p. 59), questo venne presto considerato finis della carriera, e dunque superiore al corniculariato; all'epoca della Notitia dignitatum, e poi sempre, il corniculario tornò ad essere preposto al primiscrinius; Vegezio scrive dunque anteriormente alla redazione definitiva della Notitia dignitatum: dunque, per lo meno, prima del 430. Anzi, il ritorno del cornicularius ad una posizione preminente (ormai di pochissimo) rispetto al primiscrinius deve essersi verificato prima del 430. - Ma si può anche anticipare quesfo terminus ante quem. L'imperatore di Vegezio obtinet palmam nell'opera di fundare novas civitates aut ab aliis conditas in nomen suum sub quadam ampli! icatione transferre. Questo non può dirsi
di Onorio, ma si dice benissimo di Teodosio i, fondatore di Teodosiopoli (Erzerum) in Armenia, in seguito alla spartizione di questa regione coi Persiani (c. 390); e a Teodosio i dopo l'impresa armena, si adatta benissimo l'espressione ad sa,gittandi peritiam, quam in serenitate tua Persa miratur. Inoltre, Vegezio non sembra rivolgersi ad un imperatore che governi solo una delle due partes: il suo imperatore non è soltanto domitor omnium gentium barbararum, ma anche dominus ac princeps generis bumani. - I sostenitori della datazione sotto
Onorio si fondano sul passo sub dispositionibus vestrae dementiae quantum pro fecerit murorum elaborata constructio Roma documentum est quae salutem civium Capitolinae arcis del ensione servavit ut gloriosius postea totius orbis possideret imperium; ma non si riesce a capire perché; Vegezio vuol dire soltanto che la costruzione di innumerabiles (si badi!) urbes e di muri sotto la dispositio del suo imperatore è cosa
utilissima, come dimostra il confronto cogli antichi Romani,
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che costruirono la Capitolina arx. Questo è un semplice confronto con gli antichi Romani, come del resto tutto il trattato di Vegezio non è che un continuo richiamo agli ordinamenti di Roma antica; cosa c'entri la costruzione di moenia romane sotto Onorio, non si riesce a intendere. Del resto, Vegezio, quando vuole rassicurare il suo imperatore sulla capacità guerriera dei suoi uomini (i, 28), cita gli antichi italiani e greci, ma anche Macedoni, Tessali, Daci, Mesi, Traci; che significato avrebbe avuto quest'ultima citazione (specie quella dei Traci) per rassicurare un imperatore come Onorio che governava la pars occidentale? Non si dimentichi che l'opera di Vegezio si propone un fine preciso, e che è stata soirecitata dall'imperatore: le sue espressioni non possono essere esclusivamente retoriche; in realtà, il suo imperatore governa su Italiani e su Traci, insomma su entrambe le partes; ed anche questo ci riporta a Teodosio I. LXVIII (cfr. SS 104-108) in
PHILIPPs0N,
Un'acuta visione geopolitica
Das byz. Reich als geogr. Ersch. (1939). Per
le province in genere, la romanizzazione e l'amministrazione di esse, le due opere capitali restano il v volume mommseniano e la Storia economica e sociale del RosTovzEv: sull'inquadramento storico di queste due opere cfr. supra, § 2; purtroppo, si limitano al principato, mentre oggi si desidera una trattazione che illustri la continuità di esperienze provinciali dal principato al basso impero (per es., se MOMMSEN - come giustamente osservata già il NÒLDEKE - non considerò sufficientemente l'elemento aramaico o « siriaco » in epoca ro mana, ciò è dovuto al fatto che Mommsen non sempre ebbe presenti gli ulteriori sviluppi della vita siriaca nel basso impero). Queste due grandi opere, e inoltre il Monde romain dello CHAPOT, come anche la Gesch. ri, 2 di DESSAU, ci possono risparmiare una letteratura eccessivamente minuziosa sulle province romane. Da ultimo, si cfr., in generale, lo « Econ. Survey of Anc. Rome », i-v, di vari autori, sotto la guida del FRANK; v. anche STEVENSON, Roman Provincial Administration tili the Age of the Ant. (1939); e alcuni capitoli della « Cambridge Ancient History » XI; ROMANELLI, nella « Guida » di USSANI-ARNALDI, I, 1952, p. 333; DEGRASSI, ibid., p. 299;
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PACE, ibid., p. 581; altra letter. supra, xxv-xxvl; LIEBENAM, Die Legaten in den ròmischen Provinzen v. Augustus b. Diokletian (188 0 . Su Le grandi strade del mondo romano c'è una raccolta di studii dell'Ist. Studi Romani; vanno anche segnalate, nella stessa collana (Quaderni dell'impero), la raccolta di studi su Il limes romano, quella su Roma e le province, quella su L'impero di Roma e la sua moneta; nella collana Quaderni dell'impero, la raccolta Orme di Roma nel mondo (di essa fanno parte anche la già citata raccolta Gli imperatori romani e quella su Le scienze e la tecnica ai tempi di Roma imperiale). - HAHN, Rom u. Romanismus im griechischròmischen Osten (1906). - KUBITSCHEK, Imperium Romanum tributim descriptum (1882). - Sulla Expositio totius mundi cfr. VÀsILIEv, « Seminarium Kondakovianum » viii, 1936. Un posto d'onore occupa, anche nell'indagine recente, l'Oriente. Così, alla vita cittadina orientale si volge soprattutto JONES, The Cities of the Eastern Roman Provinces (1937); un punto di partenza la ricostruzione della lista augu stea, da isolare in Plinio, e lo studio di Tolomeo; un punto d'arrivo il confronto coi testi tardo romani, col Synecdemus di lerocle (su cui HONIGMANN, 1939) e Giorgio Ciprio. Anche del JONES va ricordato The Greek City (1940). - RANovIc, Vost. provintsii rimskoj imperii v I-Il! vv. (1949). - Costumi tipici: cfr. per es. il caso delle donne velate, su cui ha attirato l'attenzione il p. DE VAUX, « Rev. Bibl. », 1935, p. 397; ROBERT, « Hellenica », 1948, p. 64 (e RONZEVALLE, « Mél. Univ. Beyrouth », 1937-38, p. 112). Sulla Siria, oltre gli articoli della RE, si consultino CHAPOT, La /rontière de l'Euphrate de Pompée à la conq. arabe (1907); BOUCHIER, Syria as a Roman Province (1916); MAYENCE, Scavi recenti in Apamea di Siria (1940); HARRER, Studies in the History of the Roman Province o/ Syria (1915); DALMAN, Arbeit u. Sitte in Paliistina i-iv (1928-1935); ROSTOVZEV, « Rev. hist. », 1935 9 p. 1; HEICHELHEIM, Econ. Surv. o/ Anc. Rome, iv, 1938, p. 123; FELLETTI MAJ, Siria, Pal., Ar. sett. nel per. rom. (1950). - Siria cristiana: LASSUS, Sanctuaires chrétiennes de Syrie (1947). - Vale la pena di attirare l'attenzione su un testo generalmente poco considerato, ma molto utile a illuminare la storia della Siria Palestina nel tardo impero: Rh. Gr. III,
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366, 26 Sp.; qui un retore d'intorno al 300 (o comunque dell'avanzato iii secolo) adduce, come esempio di feste tipiche per l'enorme numero di partecipanti, « la festa degli Ebrei nella Siria Palestina: infatti vi convengono d'ogni parte ». Poiché l'autore ha sempre lo sguardo rivolto al presente (come già notammo, ad altro proposito), è chiaro che negli ultimi del in secolo c'era sempre una grandiosa panégyris, in occasione della quale tutti gli Ebrei della diaspora si ritrovavano, in numero enorme; così come, prima del 70, gli Ebrei convenivano nella gradiosa panégyris a Gerusalemme, fino a raggiungere, secondo Giuseppe Flavio, 5 000 000. Se, come mi sembra naturale, anche la pané.gfris di Rh. Gr. in, 366, 26 si svolgeva a Gerusalemme dobbiamo pensare che negli ultimi del iii secolo la proibizione adrianea era caduta in disuso; Costantino avrebbe limitato la pané,gyris ebraica; Giuliano, con il suo piano di ricostruzione del tempio, avrebbe tentato di restituirla. - Per le peregrinationes ad loca sancta nel basso impero, fondamentali
i due testi famosi: Itinerarium Burdigalense (Itineraria Romana i, ed. CUNTZ), di epoca tardo-costantiniana, e Peregrinatio Aetheriae, dell'epoca di Onorio e Teodosio ji (LÒFSTEDT, Sprachi. Kommentar zur Pere,grinatio Aetheriae [19361); VAC CARI, « Biblica », 1943, p. 388; DEKKERS, « Sacris erudiri », 1948 1 p. 181; PE- TRE', Etherie journal de voyage (1948, su cui MOHRMANN, « Vig. Christ. », 1950, p. 1. 19); WEBER, « Vig. Christ. », 1952, p. 178. - Il patriarcato giudaico palestinese finisce nel 425: da ultimo SIM0N, Verus Israel (1948); cfr. ANDREOTTI, « Riv. fu. class. », 1950 5 p. 171. - HILL, A History of Cyprus i (1940). - ROSTOVZEV, Città carovaniere (trad. it., 1934); FÉVRIER, Essai sur l'hist. poi. de Paimyre (1931); KRAELING (-WELLES), Gerasa, City of the Decapolis (1938); cfr. anche supra, letter. a XLIV. - BRONNOW - DoMASZEWSKI, Die Provincia Arabia i-in (1904 sgg.). - Fondamentale HONIGMANN, Die Ostgrenze des byz. Reiches von 363 bis 1071 nach griech. syr. ar. u. arrn. Quellen, nel Corpus Brux. Hist. Byz. in (1935). - Sull'Asia Minore il vecchio CHAPOT, La prov. rom. proc. d'Asie (1904); « Mél. Martroye », 1941 ) p. 81; GREN, Kleinasien u. Ostbalkan in d. wirtsch. Entwicklung d. ròm. Kaiserzeit (1941); ROBERT, Vilies d'Asie Mineure (1935); Ét. anat. (1937); vari articoli in « Rev. phil. »;
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« Hellenica », passim; i molti lavori di RAMSAY, tino al postumo The Social Basis o/ Roman Power in A.M. (1941);
MAGIE, Roman Rule in Asia Minor i-ii (1950). CADoux, Ancieni Smyrna (1938). - STÀHELIN, Gesch. d. Kleinaszastischen dalater (19072). SHERK, The Le,gates 0/ Galatia /rom Aug. to Dioci. (1953). Sull'Egitto romano cfr. la letteratura supra, iv. - Qui vale la pena di ricordare i recenti studii di WEST- JOHNSON, Currency in Roman a. Byzantine Egypt (1944) e JOHNSON-WEST, Byz. Egypt: Econ. Studies (1949; cfr. ENSSLIN, «Deutsche Literaturz. », 1950 5 p. 457); JOHNSON, Egypt a. the Rornan Empire (1951); la parte notevole che l'Egitto occupa nelle ricerche sulla Constitutio di Caracalla (cfr. supra, xxxi); gli studi sulla cristianizzazione dell'Egitto, specialmente del GHEDINI, Lettere cristiane dai papiri greci del III e 1V secolo (1923); « Scuola cattolica », 1925; p. 261; « Atti Iv Congr. papir. », 1937, p. 333; « Atti v Congr. papir. », 1938, p. 116; « Aeg. », 1937, p. 334; HECKEL, Die Kirche von Agypten bis z. Nicànum (1918); BARDY, «Mémorial Lagrange », 1940, p. 203; l'articolo del BÒHLIG, «Reall. f. Ant. u. Christentum »; HARDY, Christian Eg. (1952); SCHUBART, Agypten von Alexander d. Grossen bis au/ Mohammed (1922); DIEHL, L'Égvpte cbrétienne et byzantine (1933); MASPER0, Organisation miiitaire de i'Égypte byzantine (1912); ROUILLARD, L'administration civile de l'Égypte byzantine cit. - Sulla tassazione: MARTIN, La fiscalité romaine en Égypte aux trois premiers siècles de l'empire (1926); WALLACE, Taxation in Egypt from Augustus to Diocletian (1938); la migliore introduzione all'Egitto bizantino, e anzi al basso impero in genere, resta il breve mirabile libro di M. GELZER, Studien z. byzantinischen Verwaltung Aegyptens (1909). - DAVIS, Race Relations in Ancient Egypt: Greek, Egyptian, Hebrew, Roman (1952). Sulla Cirenaica ROMANELLI, La Cirenaica romana (1943); OLIVERIO, « Doc. Ant. Afr. It. », passim, specialmente li, 2, 1936. Per la zona danubiano-carpatica, ALFÒLDI, Zur Gesch. d. Karpatenbeckens (1942). ZLATKOVSKAJA, Mezija v I-Il vv. n. e. (1951). PÀRVAN, Dacia (1928). Fondamentali le ricerche prosopografico-amministrative del compianto A. STEIN, Ròmische Reichsbeamte d. Provinz Thracia (1928); Die Legaten von
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Moesien (1940); Die Reichsbeamten von Dazien (1944). NESSELHAUF, « Laureae Aquincenses » ii, 1941, p. 40. Cfr. STOUT, The Governors o/ Moesia (1911); JUNG, Fasten der Provinz Dacien (1894). - Sugli auxilia nelle province danubiane sotto il principato cfr. WAGNER citato supra, XXVI. Un'idea della cultura danno per es. le pitture studiate da FROVA, Pittura romana in Bulgaria (1943); ivi altra letteratura. - KALOPOTHAKES, De Thracia provincia romana (1893). - Sulla Dacia aurelianea, divisa in Ripense e Mediterranea, un'eccellente monografia di VETTERS, Dacia ripensis, nelle « Shr. Ba.lkank6mmission » xi, 1950. Problema della Continuità romana in Transilvania: da una parte per la negazione della continuità (tesi « ungherese » ma anche « bulgara ») TAMAS, « Archivum Europae Centro-Orientalis», 1935, p. 1; 1936, pp. 48; 245; DARKO, «Recueil P. Nikov », 1940, p. 173; ALF6LD1, Daci e Romani in Transilvania (1940); Zu den Schicksalen Siebenbiirgens im Altertum (1944); NARTSOVIN, « Istorik Marxist », 1940; MUTAFCIEV, Bui gares et Roumains dans l'histoire des pays danubiens (1932); dall'altra DAlcoviclu, La Transilvania nell'antichità (1943; ed. ted., 1943; ed. franc., 1945); BRATIANU, Un enigma e un miracolo storico: il popolo rumeno (1942); PATscH, Beitràge z. Vòikerkunde von Siidosteuropa I-v;. cfr. PUSCARIU, Etudes de linguistique roumaine (1937); MARIN, «Orizonturi », 1952, n. 1, secondo cui provincialibus (nell'espressione sublato exercitu et provincialibus della V. Aureliani) significherebbe « funzionari »! - un po' una specie di questione etrusca per l'epoca tardo-romana-medioevale, con l'aggravante che qui le passioni nazionali rendono ancora più difficile una soluzione. I Rumeni del tardo medioevo non sapevano nulla sulle loro origini; né nulla sapevano i viaggiatori (Guglielmo da Rubruck e Roger Bacon li consideravano originari dall'« Asia » o dalla Russia meridionale); ma per i Vlacchi balcanici era a tutti noto che « essi dicono di esser coloni degli Italiani di un tempo » (così la Cronaca di Kinnamo) e che « erano stati pastori dei Romani e gli Ungari li avevano scacciati dai loro pascoli » (così nel 1308). Questi sono certamente gli Aromeni, i quali parlano una lingua del tutto unitaria col rumeno. Quanto al problema del sostrato antico dacico, io ritengo (nonostante
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che i Romani non abbiano distrutto i Daci: cfr. Lact., De mors. pers. 23. Città macedoni : KOLIAS , TT r~,~~~3~~y OvLx -r (1935); LEMERLE ,. Phili p pes et la Mac. or. à l'é poque chrétienne et byzantine (1945). Sulla Grecia in epoca romana, soprattutto la recente Gesch. di BENGTSON nel « Handbuch » di W. OTTO; classico FIERTZBERG , Geschichie Griecchenlannds unter der Herrschaf t der Ròmner ( 1866 sgg.). Importante per i presupposti dell'epoca imperiale è ACCAME, Il dominio romano in Grecia dalla guerra acaic a ad Augusto (1946). Una eccellente sintesi KAHRin ARIAS, La Grecia nell'impero di Roma (1940). ALFQLDI)
Aspetti sociali della grecità in STEDT , « Diss. Bern », 1954. epoca romana DA\•, An Econ. Hist. o/ Athens cit. in f ra; « Studies ,johnson » (1951), p. 232; KUDRJAVTSEV, « Vestnik drevnej istorii », 1951, n. 3; 1952, n. 2; 1953, n. 2 (problema demografico, in rapporto, per es., con le dottrine di RANOVIC, di KEIL , ecc.). Le opere prosopografiche fondamentali ,sono
Die ròmischen Reichsbeamten von Achaia bis au f Diokletian (1939); Die Reichsbeamnten von Achaia in spéitròmischer Zeit (1946) . GRAINDOR, Chronol. des Archontes Athéniens sous l'Emptre (1921); Athènes sous Auguste (1927); Athènes de Tibère à Trajan (1932); Athènes sous Hadrien (1934); Hérode Atticus (1936) ; DAY , An Economic History of Athens under Roman Domination (1942). Epiro: PATSCH, « Akad. Wiss. Wien », Schr. Balkankomm. 1904 ; UGOLINI , Albania antica i (1927). Ultimamente STADTMOLLER, « Historia », 1954, p. 236. Per la diocesi pannonica, da consultare passim la maggior parte delle Dissertationes Pannonicae, gli « Jahresh. d. bsterr. Contributi Inst. », e « Der rum. Limes in Oesterreich ». austriaci recenti: EGGER, « Das neve Bild. d. Antike » 1! ; p. 395; KAPHAHN , Zwischen Antike u. Mittelalter (s.d., ma circa 1945); MILTNER, Ròmerzeit in sterreichischen Làndern (1948; una sintesi magistrale); Lavant u. Aguntum (s.d.); Das Am phiUn recente notiziario dà theater v. Carnuntum (1949). PAVAN , La prov. rom. SARIA , « Historia », 1950, p. 436 . della Pannonia Superior (« Mem. Línc. », 1955). Una bella monografia sulla Baviera romana è WAGNER, Die Ròmer in Bayern (1928); cfr. anche letteratura sulla Svizzera GROAG ,
-
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romana in/ ra. Sempre a proposito della Rezia, va ricordata, come scoperta di recente interesse, quella di Straubing: KEIMKLUM BACH, Der ròmische Schatzfund von Straubing ([951). Per l'Italia cfr. letteratura supra. LI; si aggiungano per il principato CHII.VER, Cisalpine Gaul. Social a. Econ. Hstory from 49 b Chr. io the Death of Traian (1941); per il basso impero CANTARF.LII, La diocesi italiciana (estr. da « Studi e documenti di storia e diritto ». 1901). Per le popolazioni alpine, da ultimo GARZETTI, « Ath. », 1948: NENCI, « Rend. Lincei », 1951; LAMBOGI lA. « Riv. studi liguri », 1951. - Per la Sicilia l'opera fondamentale resta PACE, Arte e civiltà della Sicilia antica i-iv (1939 sgg.); da consultare il iii, i della Storia della Sicilia nell'antichità di FIOLM (trad. it., 1901). Per la villa di Piazza Armerina cfr. supra, § 61. Sulla persistenza della grecità, ultimamente ROHLFS. « Sitzungshb. Bayer. Akad. », 1944-46, H. 5. Sicilia e Cirene hanno in comune il flagello dell'idrofobia, com'è attestato da Largo pel i sec. - Per la Sardegna, MOMMSEN, Ges. Schr. v, p. 325 (scritto nel 1867); PAIS, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano (1923); BELLIENI, La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico i (1928). Ultimamente MELONI, « Annali facoltà lett. Cagliari » xxi, p. 2. Un centro importante è Turris Libisonis: MELONI, « Epigr. », 1949, p. 88; cfr. S. MAZZARINO, « Epigr. », 1940, p. 292 (per la ragione ivi addotta a p. 300, 3 sarà decisamente da preferire l'attribuzione dell'epigrafe « langobardica » all'epoca di Costante I!). - Per l'Italia cristiana si ricorre sempre a LANZONI, Le diocesi d'Italia dalle origini all'anno 604 (1927 2), Naturalmente, la migliore introduzione alla vita urbana di Roma, sono le opere di topografia romana: qui basti citare LUGLI, I monum. ant. di Roma e suburbio 1-111; Suppl. (1934 sgg.); Roma ant.: il centro monumentale (1946); Monumenti minori del Foro romano (1947); PLATNER-ASHBY, A Topographical Dictionary 0/ Anc. Rome (1929). Cfr. BIG0T, Rorne antique au IVe siècle après J. Chr. (1949); e letter. supra, XXVI. MÀLE, Rome et ses vieilles églises (1944); HOMO, De la Roma pazenne à la Rome chrétienne (1950). - Fondamentale DEGRASSI, l'i coni. nord, or. dell'Italia, « Diss. Bern. », 1954. Per le province africane: PALLU-DE LESSERT, Fastes des Provinces Africaines sous la domination roinaine i-u (1896
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gg.); GSELL, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord viii (1930: solo primi dee. imp.); CARCOPINO, Le Maroc antique (1943); ALBERTINI, L'Afrique romaine (1950). - PACESERGI-CAPUTO, Scavi sahariani (< Mon. Linc. », 1951). - Non
si volge allo specialista, ma dà un'ottima sintesi complessiva, JULIEN, Histoire de l'Afrique du Nord (1931). - CAGNAT,
L'armée romaine d'Afvique et l'occupation militaire de l'Afrique sous les empereurs cit. - GUEY, « Mél. arch. hist. », 1939, p. 178; BARADEZ, Fossatum Africae (1949). - SALAMA, Les voies romaines de l'Afrique du Nord (1951). - REYGASSE, Monuments funéraires préislamiques de l'Afrique du Nord (1950); cfr. PACE-SERGJ-CAPUTO, op. cit. - SYME, « Studies in
Roman Econ. a Soc. Hist. in Hon. of A. Ch. Johnson » (1951), p. 113. - GSELL, Les monuments antiques de l'Algérie i-ii (1901); Promenades archéol. aux environs d'Alger (1926); DOUEL, L'Algérie romaine. Forurs et basiliques (1930); BERTHIER, L'Algérie et son passé (1951; pr. CARc0PIN0). TOUTAIN, Les cités romaines de la Tunisie (1895); GAUCKLER, Basiliques chrétiennes de Tunisie (1913). BARTÒCCINI, Antichità della Tripol. (1926). - Atlante archeol. d'Algeria del GSELL;
di Tunisia, di BABELON-CAGNAT-REINACH-MERLIN. Africa cristiana: di ultimo A. M. SCHNEIDER nel « Realiexikon » di KLAUSER, p. 174 (ivi, pp. 178-179), letter.; a cui si aggiunga, per es., BRÉHIER, Les vestiges du Christ. ant. dans la Num. (1950). Sulla Gallia c'è un'opera monumentale: JULLIAN, Histoire de la Gaule v-viii (1920 sgg.). - Del GRENIER, oltre l'eccellente sintesi in « Econ. Surv. of Anc. Rome » iii, cfr. il Manuel d'arch. gallo-romaine i-ii, 1, 2 (1931 sgg.); e ora La Gaule province rom. (1946). - Per il basso impero STROHEKER, Der senatorische Adel im spdtantiken Gallien (1948). THEVENOT, Les Gallo-Romains (1948). - LONGNON, Les noms de lieux de la France (1920). - Sui concilia,, CARETTE, Les assemblées provinc. de la Gaule (1895); cfr. anche, per es., AYMARD, « Rev. ét. anc. », 1941, p. 216; il mio Stilicone, p. 115. Importante il rec. DUVAL, La vie quotidienne en Gaule (1953). - Per le « Gigantensulen » cfr. letteratura supra, XXIII; e MOREAU, « La nouv. Clio », 1952, p. 219; BENOIT, Les mythes de l'outre-tombe. Le cavalier à l'anguipède et l'écuyère Epona
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(1950). La religiosità celtica (HUBERT, Les Celtes [1950 2]) S i continua nel culto di Teutates, Cernunno, Epona delle matres; la interpretatio Romana di queste matres dà luogo a una terminologia religiosa talora assolutamente inattesa (un esempio fra molti: il nome greco Lamiae, cfr. le mie osservazioni in « Diz. epigr. » iv, p. 355). - Casi di sincretismo celtico-trace: ALFÒLDI, «Ant. class. », 1939, p. 347. - Sopravvivenze pa-
gane nel basso impero: BOESE, Superstitiones Arelatenses e Caesario collectae (1909). - Cristianizzazione: l'opera classica è DUCHESNE, Fastes épiscopaux de l'ancienne Gaule 1-111 (1894 sgg.). GRIFFE, La Gaule chrétienne à l'époque fomaine i (1947); LEFLON, Histoire de l'Église de Reims du ler au Ve siècle (1942); MALE, La fin du paganisme en Gaule et les plus anciennes basiliques chrétiennes (1950); DE MOREAU, Histoire de l'Église en Belgique 1 (1947); BURG, Histoire de l'Église d'Alsace (1946); DOPPELFELD, Der unterirdische Dom (1948); DE MAEYER nel « Reali. » di KLAUSER L. 9 5 1951, p. 119. Monografie su singole province o regioni o nazioni moderne: WUILLEUMIER, L'administration de la Lyonnaise dans le HautEmpire (1948); H. PIRENNE, La Belgique et l'empire romain (1939); BREUER, La Belgique romaine (1944, divulg.; per i presupposti della storia della Belgica in epoca romana, fondamentali gli studi di PARETI, « Riv. fil. class. », 1943, p. 22, e, per l'entità demografica, « Ath. », 1944-45, p. 69); VAN DE WEERD, Het econ. bloetijdp. v. N. Gallie in d. Rom. Tijd (1946); Inleiding t.d. Gallo-Roman Archeol. d. Nederlanden (1944); BYVANCK, Nederland in d. romeinschen Tijd i-ii (1945); Excerpta Romana. De bronnen d. rom. Geschiedenis van Nederland (i-in). Fondamentale HAUG-SIXT, Die rm. Inschr. u. Bildwerke Wiirttenbergs (1928). L'opera di STÀHELIN, Die Schweiz in rm. Zeit (1948 3) interessa, naturalmente, così il vicariato d'Italia, come la diocesi gallicana. Per la colonizzazione germanica e la differenziazione linguistica soprattutto GAMILLSCHEG, Romania Germanica 1-111 (1934 sg.); Germanische Siedlung in Belgien u. Nordfrankreich (1938); WARTBURG, « Ztschr. f. ròm. Philol. » LIX; un'insistenza sul « ritardo » della differenziazione è nelle dottrine di H. F. MULLER, da ultimo in L'époque mérovingienne. Essai de synthèse de philologie et d'bistoire (1945) con rilievo anche del movimento cristiano;
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un punto di vista diverso, per es. in SOFER, « Die Sprache », p. 23. 11 riferimento a DEVOTO, supra, § 108 è dalla Storia
della lingua di Roma (1940), cit. Britannia romana: HAVERFIELD-MACDONALD, The Romans o/ Roman Britain (1923 4); Tbe Roman Occupation o/ Britain Roman Britain and the English Settlements (1949 1 ). Vanno seguiti i rendiconti annuali su Roman Britain nel « journ. Rom. St. ». - CHARLESWORTH, The Lost Province o/the North 0/ Britain (1949). - RIcHMOND, Roman Britain (1947, divulgativo); WINBOLT, Britain under the Romains (1948; divuig.). - HOME, Roman London
(1924); COLL!NGWOOD (-MYRES),
A. D. 43 to 457 (1948).
FULLBR30K-LEGGAT,
Roman Gloucester
(1946). - Datazione di case britannico-romane: BERRY, «Journ. Rom. St. », 1951, p. 25. - Importante BIRLEY, Roman Britain a. the Roman Army (1953). - KIRSTEN nei «Reali. » di KLAUSER, L. 12, 1953, p. 585; cfr. già CABROL, L'Angieterre chrétienne avant les Normands in Early Britain (1932).
(1909); WILLIAMS,
Christio;iity
Spagna romana: il volume ii della Historia de Espaiia a cura di MENENDEZ PIDAL (1935); BOSCH-GIMPERA, La formaci6n de los pueblos de Espaia (1945); OTHMER, Die Vòlkerstamme von Hispania Tarraconensis in d. Ròmerzeit (1904); OTERO PEDRAYO, Historia de la cultura gallega (1939); SUTHERLAND, The Romans in Spain 217 b. Chr. - A. D. 117 (1939); D'ORS, Epigrafia ;uridica de la Espaia romana (1953). -
Utili anche per lo storico le ricerche dei linguisti: da ultimo GAMILLSCHEG, Romanen u. Basken (« Abhandl. der Akad. d. Wissensch. u. Literatur », 1950, p. 2). - MENENDEZ PIDAL, Origenes del EspaFiol (19292): LECLERCQ, L'Esp. chrét. (1916 2 ); GARdA VILLADA, Hist. ed, de Esp. (1929 sgg.). (WHEELER, Rome Beyond the Imperial Frontiers [19541.)
LXIX (cfr. §S 109-114): Eunapio arrivava al 404; l'egiziano Olimpiodoro, di Tebe, trattò il perido dal 407 al 425 (questi )oyriL 'L'a-roptxot erano dedicati a Teodosio 11); il trace Prisco, di Panion vicino Eraclea, trattò il periodo seguente (a cominciare dal 426?) fino al 473 (iaropx urxx xxì rk xczr& 'A-. 'Xocv; l'ultimo frammento si riferisce al 471); il siro Malco, di Filadelfia, trattò il periodo dai 474 al 480 (morte
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dell'imperatore d'Occidente Nepote); l'isauro Candido, dal 457 al 491; il siro Eustazio, di Epifania, scrisse un'epitome fino al 502; fino a Foca (602-610) arriva Giovanni Antio cheno. Di tutti questi autori abbiamo solo frammenti. Sono pervenuti: Zosimo (fino al 404 da Eunapio; poi fino al 410 - in cui l'opera si ferma, ma senza arrivare alla presa di Roma - da Olimpiodoro); gli storici ecclesiastici (Socrate, Sozomeno, Teodoreto; gli estratti di Filostorgio; Evagrio); la storia, ad un tempo civile ed ecclesiastica, di Orosio, che ha per questo periodo (fino ai 417) una notevole importanza (tipica l'ostilità di questo agostiniano contro Stilicone: cfr. l'atteggiamento dello stesso Agostino in Ep. 97, su cui « Rend. Ist. Lomb. », 1938, p. 28; su Orosio SVENNUNG, Orosiana [1922]; e la dissertazione di Erlangen di A. LIPP0LD, Rom. u. die Barbaren in d. Beurteilung des Orosius [1952]; cfr. LAcR0Ix, « Vig. Chr. », 1951, p. 121); gli storici bizantini (Malala, Cedreno, Teofilatto, Teofane); Chronica minora del MOMMSEN (in MGH). Ma naturalmente fonti di eccezionale importanza sono i testi letterarii: per l'epoca stiliconiana, soprattutto le opere del poeta ufficiale di corte, Claudiano (che ci permette, insieme con Olimpiodoro, una valutazione di Stilicone); per Aezio, quel che ci resta dei panegirici di Merobaude (che appartiene ai grandi esaltatori dei patrzcius, come lo storico Renato Profuturo Frigerido - perduto, ma citato da Gregorio Turonense -; perduti anche i carmi di Quinziano). (Il merito di aver ricostruito l'opera di Merobaude spetta al NIEBUHR.) Per l'epoca seguente, Apollinare Sidonio, genero dell'imperatore Avito, prefetto urbano nel 468, vescovo
di Clermont-Ferrand (civitas Arvernorum, Clarus Mons) dal 470 (L0YEN, Recherches historiques sur les Pané,gyriques de Sidoine Apollinaire [19421). La letteratura patristica è la necessaria introduzione all'intendimento di questo periodo: per es. Girolamo, Paolino di Noia, Agostino, Quodvuirdeus, Orienzio, Salviano, Victor Vitensis (con la sua Historia persecutionis A/rìcartae provinciae), Eugippio (con la sua Vita Severini) hanno sentito nella maniera più viva questa tragica vicenda dell'« epoca delle migrazioni ». Il capolavoro di questa produzione, è, naturalmente, il De Civitate Dei di Agostino su cui letteratura supra, LXVI. - Da ultimo COURCELLE,
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Histoire littéraire des invasions germaniques (1948); FISCHER, Die Volkerwanderung im Urteil der zeitgenòssischen Kirchlichen Schri/tsteller Galliens unter Einbeziehung des hi. Au,gu stinus (1948). Una interessante interpretazione dell'apologetica cristiana, in quanto si inquadri nel problema della crisi romana, in STRAUB, « Historia », 1950, p. 52 (cfr. « Geistige Arbeit », juli 1939, p. 7): questo saggio è una ricerca sulla storia spirituale della decadenza romana. Il problema di Roma aeterna (cfr. supra, v) ha un particolare interesse per l'intendimento delle fonti di questo periodo: cfr. B0LwIN, Die christl. Vorstellungen vom Weltberuf der Roma aeterna (1923); KLINGNER, Ròm. Geisteswelt cit.; ZIEGLER, « Neues Abendland », 1946, 6. - Una ottima antologia dà ZIEGLER, Stimmen aus der Vòlkerwanderung (1950). - Quanto al materiale documentario giuridico, lo storico del v secolo si fonderà sulle due grandi consolidazioni, il Codex Theodosianus (438; ed. MOMMSENKRÙGER, 1905; ed. incomp. di KRÙGER, 1923-26; trad. ingi. di PHARR, 1952; Index del GRADENWITZ; per la genesi del C. Th., già DE FRANCISCI, St. dir. rom. iii, i, 201, 1 ha sottolineato come il de rebus bellicis faccia sentire una esigenza del genere) e il Codex Iustinianus (529; 534; ed. KRÙGER, 1895 1 ), come anche sulle Novellae di Teodosio il, di Valentiniano iii, di Maiorianodi Marciano, di Severo, di Antemio (ed. MOMMSEN-P. MEYER, 1905). - Una idea del travaglio giuridico anteriore al Codex Theodosianus è data, per citare un documento di recente interesse, per es. dal papiro sull'actio condicticia (anteriore al 424) su cui da ultimo ScHÒNBAUER, « Anz. Wiener Akad. », 1951, p. 422. - La Notitia di,gnitatum (ed. SEECK, 1876; ma sempre da consultare quella del BÒCKING) è un testo straordinariamente discusso (letteratura in POLASCHEK, RE xvii, s.v.): il contrasto principale è tra un'interpretazione unitaria (BuRY; E. STEIN) e un'interpretazione evolutiva (Lo'r; POLASCHEK). Certo è che si tratta di un catalogo delle dignitates curato dal primicerius notariorum, e sempre aggiornato; aggiofnato, direi, in maniera che non si cancellasse se non il necessario, e talora neanche questo (un tipico esempio del tradizionalismo giuridico romano), ma d'altra parte si correggesse là dove era opportuno correggere. Ad ogni modo, la redazione definitiva è stata compiuta dopo l'avvento di
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Valentiniano in (425): in Not. dign. Occ. vii, 36 troviamo il numerus dei Placidi Valentinianici felices, che però mancano nell'elenco delle truppe a disposizione del magister peditum praesentalis (v): il cap. vii fu aggiornato, ma non il v. Per le conseguenze da dedurne nell'interpretazione delle vicende dell'impero cfr. GRENIER, « Mél. Thomas », 1930, p. 378; NESSELHAUF, « Abhandl. Preuss. Akad. », 1938, cit.; BYWANCK, « Mnemos. », 1940, pp. 65, 87; il mio Stilicone cit., pp. 134, 187. - Che la Notitia Galliarum sia un latercolo civile, non ecclesiastico, ho cercato di mostrare in Stilicone, pp. 187-195. - Il materiale relativo ai regna romano-barbarici è fonte di primissimo ordine per l'interpretazione, altresì, della storia tardo-romana: le forme di diritto pubblico e anche privato si conservano. Noi non avremmo un'idea completa del diritto pubblico romano senza Cassiodoro: gli Ostgotische Studien di MOMMSEN sono, di fatti, essenziali per la storia del tardo impero. Allo stesso modo, le nostre conoscenze sul tardo impero si sono arricchite enormemente, in questi ultimissimi tempi, con la pubblicazione delle Tablettes Albertini, actes privés de l'époque vandale a cura di COURTOIS-LESCHI-PERRAT-SAUMAGNE (1952). (Sulla Notitia Galliarum cfr. ora VAN BERCHEM, « Rev. suisse d'hist. », 1955, p. 173.) Poiché l'« epoca delle migrazioni » è l'epoca dell'avvio ai regna romano-barbarici, va pure considerata la « storiografia dei regna », che si comincia a delineare nel vi secolo, in quanto storiografia delle gentes barbariche: i Getica di lordanis (scritti nel 551, con utilizzazione di analoga opera di Cassiodoro; per l'utilizzazione di Simmaco nei Romana e nei Getica cfr. supra, LVII); la Historia Gothorum, Vandalorum et Sueborum scritta da Isidoro (vescovo di Siviglia dopo il 601; già ne ricordammo i Chronica); la Historia Ecclesiastica gentis Anglorum dell'anglo benedettino Beda (&73-742; del VI secolo è il De excidio et con questu Britanniae del britanno Gildas; per Nennius e l'Historia Brittonum cfr. monografia di LOT, 1934). La trattazione storiografica generale per argomenti localmente determinati, che nel ii secolo caratterizza per es. l'opera di Appiano, si atomizza ora in singole trattazioni delle gentes barbariche fondatrici di regna; i suoi precedenti sono in opere come per es. gli ExuQqtxí di Dexippo nel iii secolo. - Per il ma-
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DELBRUECK, Die Konsulardiptychen Ostr. Plastik (1941); classici lavori di RIEGL, WICKHOFF e (su un piano opposto) STRZYGOWSKI; i recenti di BETTINI, GERKE, KEMPF; GER STINGER, Die griech. Buchmalerei (1926); KÒMSTEDT, Vormittelalterliche Malerei (1929); in/ra, App. Iii. L'impero « bizantino » dei Romei nel VI secolo e nel VII fino a Eraclio si studia, in questo libro, solo di scorcio, ai fini di un intendimento della crisi generale dell'impero: ciò può esimerci da un elenco: basterà ricordare il Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae di Bonn (oltre agli storici bizantini già citati, vi si trovano per es. Procopio; Agathias - su cui da ultimo LAMMA, Ricerche sulla storia e la cultura del VI secolo, [1950] -; Iohannes Lydus; Costantino Porfirogenito); i poeti, per es. Romano e Paolo Silenziario; le Novelle di Giustiniano e i Basilici ecc.
teriale archeologico per es.
(1929); KOLLWITZ,
LXX. LETTERATURA GENERALE. Si ricordano le opere già più volte citate: SEECK Gesch. d. Untergangs d. antiken Welt (v, 1913; VI, 1920-21); Regesten(1919); STEIN, Gesch. d.
spàtrom. Reiches 1 (1928); Histoire du Bas-Empire li (1949); PARIBENI, Da Diocleziano alla caduta dellim pero d'Occidente (1941); SOLARI, Rinnovamento i (fino al 476) it (fino al 565) (1943). Le principali storie dell'impero bizantino sono: BURY, A History 0/ the Later Roman Empire from the Death of Theodosius I to the Death of justinian i-ii (1923); l'OsTRoGORSKY; il VASILIEV; il JORGA. Cfr. i Reg. di DÒLGER. Sintesi in BAYNES-MOSS, « Byzantium » (1948; rist. 1949); LEVTCHENKO, Byzance des origines à 1453 (trad. franc., 1949); j. LINDSAY, Byzantium into Europe (1952). L'opera capitale sui Germani è il già citato SCHMIDT, Geschichie der deutschen Stamme bis zum Ausgang der Vlkerwanderung; si aggiungono Die Germ. del CAPELLE; per i presupposti, la Germ. Urgesch. in Tac. Germ. e lo Alt gern. di NORDE.N Naturalmente, vanno sempre consultati i lavori di germanistica in senso stretto: per es., da ultimo, SCHNEIDER, Germanische Altertumskunde (1951). - Eccellenti capitoli nella « Cambridge Mediaeval History », i, 1911; PREVITÉ-ORTON, The Shorier Cambridge Medzaeval History (1952). Del compian-
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to LOT, oltre il già citato La fin du monde antique et les débuts du moyen a'ge, va consultato Les invasions germaniques (19452). Sempre utili HODGKING, Italy a. Her lnvaders r-viii (1880 sgg.); GABOTTO, Storia dell'Italia occidentale nel me. i-tr (1911 sgg.). Si ricordino anche LOT-PFINSTERSALVATORELLI, GANSHOF, Histoire dt Moyen Age (1928); L'Italia medievale; CARTEL LIERI, Weltgeschichte als Machtgeshichte 382-911 (1927); FLICHE, La chrétienté médiévale (1929); Moss, La naissance du Moyen Age (trad. franc., 1937); PIRENNE, Histoire de l'Europe (1936); la « Cambridge Medieval History » i, 1924; LATOUCHE, Les grandes invasions et la crise de l'Occident au V siècle (1946). LXX1 (cfr. § 109) Monografie: GÙLDENPENNING, Gesch. d. ostròm. Reiches unter den Kaisern Arkadius u. Theod. Il (1885); ZAKRZEWSKI, Le parti théod. et son antithèse (1931); S. MAZZARINO, Stilicone (1942); NISCHER FALKENHOFF, Stilicho (1947); D1MOUGÉOT, De l'unité à la division de l'empire romain 395-410 (1951). - Un problema importante è se la politica di Stilicone sia stata fondata, sin da principio, sul tentativo di occupare la prefettura illiriciana a spese della pars orientale (così MOMMSEN in « Hermes », 1903) o se invece la politica di Stilicone sia fondata da principio sul mantenimento dell'unità imperiale, e solo in seguito tenda all'occupazione della prefettura illiriciana (così S. MAZZARINO, op. cit., e qui nel testo; cfr. ENSSLIN, « Deutsche Literaturz. », 1943, p. 675; MILTNER, « Gnomon », 1945). - COURCELLE, « Rev. belge phil. hist. », 1953, p. 23. - Dello stesso COURCELLE, sono molto importanti le Recherches sur les Conf. cit., a proposito della personalità di Teodoro. - Su Claudiano ARNALDI, Dopo Costantino cit., p. 242; FARGUES, Claudien. Ét. sur sa poesie et son temps (1933). Si discute se fosse cristiano o pagano: cfr. il mio saggio sulla Politica religiosa di Stilicone (estr. da « Rend. Ist. Lomb. Sc. Lett. », 1938); JANSSEN (-GALAMA), Uit de Romeinse Keizertijd (1951). Su Prudenzio PEEBLES, The Poet Prudentius (1951); RAPISARDA, Introd. alla lettura di Prudenzio i (1951); è ora (1951) apparso il iv volume dell'ed. di LAVARENNE. Su Si nesio, ultimamente, LACOMBRADE, Synesios de Cyrene, hellè-
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ne et chrétien (1951); Le discours sur la royauté de Synesios de Cyrène à l'empereur Arcadios (1951); cfr. già BETTINI, Sinesio (1938). LXXII (cfr. 55 110-112) THIERRY, Alaric, l'agonie de l'empire (18802). Il sacco alariciano di Roma: M0RIN, « Historisches Jahrbuch », 1933, p. 45; da ultimo GOLUBZOVA; «Vestnik drevnej istorii », 1949, n. 4, p. 62; cfr. C0uRcELLE, Histoire litt. cit. Sulle conseguenze del sacco oggi si è molto meno ottimisti che prima (per il regresso della popolazione in seguito al saccheggio cfr. i miei Aspetti sociali cit.). Significativi i restauri sul tipo ricordato ultimamente da DEGRASSI, «Doxa », 1949, p. 93, a proposito di un'iscrizione (cfr. anche il mio Stilicone, pp. 361-362) di cui la data più probabile è il 417. Sulla Curia dopo il 410, DE FRANcisci, «Rend. Pont. Acc. Arch. », 1946-47, p. 298 (da ultimo « Iura », 1952, p. 224); cfr. DEGRASSI, « Bull. Com . », 1946-48, p. 33; BARTOLI, « Rend. Pont. Acc. Arch. », 1945-46, p. 207; cfr. quanto diremo or ora, sulla statua di Aezio. Monografia su Galla Placidia: NAGL (1908). - Santa Melania: monografia del cardinale RAMPOLLA (1905). Le lacune (410412) nella corrispondenza fra Agostino e Paolino di Nola sono messe in rapporto con le vicende politiche da COURCELLE, « Rev. ét. anc. », 1951- - Un documento del 407 è il titolo di Evenzio, fuggito dinanzi ai Vandali (diversamente MARROU, «Rev. ét. anc. », 1952, p. 336; ma contro la cronologia di MARROU cfr. Zos. v, 32, 4; VI, 2). Su Bonifazio: DE LEPPER, De rebus Boni/atii (1941); cfr. ENSSLIN, « Gn. », 1942, p. 139. - Si discute sulla sede originaria dei Burgundi: nel 411 a Mundiacum secondo E. STEIN, « Ròm.Germ. Komm. Ber. », 1929, p. 98; poi in Germania i (letteratura sul limes: supra, LXVIII). - Su Aezio: MOMMSEN, Ges. Schr. iv, p. 531 (= « Hermes », 1901, p. 516); Bu GIANI, Storia di Ezio generale dell'impero sotto Valentiniano III (1905). - La iscrizione di una statua posta dal Senato ad Aezio in atrio Libertatis ha dato luogo a molte discussioni; cfr. BARTOLI, « Rend. Pont. Acc. Arch. », 1946-47, cit.; DEGRASSI, « Rend. Pont. Acc. », 1947-48, cit.; DE FRAN CISCI, « Rend. Pont. Acc. Arch. », 1946-47, cit.; altra lette-
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ratura in CASTAGNOLI, « Doxa », 1950, pp. 73-74. Sembra che si debba porre lo Atrium Libertatis là dove i senatori posero, a fine 192/gennaio 193, la 'E).EucpLoc dxv (Herod. I V 15, 1), cioè (come si deduce dallo stesso Herod. 1, 14, 9) &vrLxp) -rot T-rj q cruyx),ìj -rOU uvc8pou: il passo di Erodiano decide, forse, la questione; come nell'epoca repubblicana, l'imago Libertatis dava il nome all'Atrium. - Su Valentiniano 111: ENSSLIN, RE vii, A, 2232; i miei Aspetti sociali cit., pp. 213, 222. - Su Attila: THOMPSON, A History o/ Attila and the Huns (1948; cfr. ENSSLIN, « Byz. Ztschr. », 1952, p. 72; MERPERT, « Vestnik drevnej istorii », 1953, p. 145); Attila und die Hunnen (1951); cfr. HOMEYER, Attila. Der Hunnenkònig von seinen Zeit,genossen darg.
ALTHEIM,
Si discute sull'identificazione di Hiung-Nu e Unni: da ultimo MAENCHEN-HELFEN, « Gn. », 1952, p. 500. (1952)'.
Genséric, la con quète vandale en Afrique et la destruction de l'emp. d'Occident (1907); L'Occident à l'époque byzantine, Gothes et Vandales (1904); GAUTIER, Genséric, roi des Vandales (1932); LE GALL, « Rev. phil. », 1936, p. 268. SAUMAGNE, « Rev. Tunisienne », 1930, p. 167; cfr. ROBERTI, « Riv. storia dir. ital. », 1938 2 p. 217. GITTI, Ric. sui rapp. tra i Vand. e l'imp. rom. (per l'« intesa cordiale ») MARTROYE,
(1953); « Arch. stor. it. », 1925, p. 1; sull'invito di Eudossia, cfr. il mio Serena e le due Eudossie (1946). - Crisi imperiale degli anni 454/5: CESSI, « Arch. soc. rom. storia patria », 1917, p. 161. - Pagine capitali sulla persistenza della nobiltà romana in Gallia in STROHEKER, Der senatorische Adel im spatantiken Gallien (1948). - Monografia su Maggioriano di CANTARELLI (1883). - Monografia su Eurico, di STROHEKER (1937). - VAsSILI, « Nuova riv. stor. », 1937. LXXIII (cfr. § 106) Letteratura sui concilii di Efeso e Calcedonia, e importanti lavori, in GRILLMEIER-BACHT, « Das Konzil von Chalkedon » i-ii, 1951-1952; (è ora apparso il vol. III). Su Pietro georgiano e il problema dello Pseudoareopagita (dottrina di HONIGMANN) cfr. « Nouv. Clio », 1952, 2
Per l'identificazione del Campus Mauriacus, ultimamente
NIEL, p. 451.
Attila dans les Gaules. La bataille de Troyes (1951).
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p. 310; è ora annunziata una ricerca di TUROLLA. - Poiché, come già dicemmo, l'impero «dei Romei » nel vi secolo e nel vii si studia, in questo libro, solo ai fini di un intendimento della crisi generale dell'impero, basterà limitare le indicazioni bibliografiche su esso all'essenziale: VAsILIEv,
Justin the First. An Jntroduction to the Epoch o! Justinian the Great (1950); DIEHL, justinten et la civzlisation hyzantine au Ve siècle (1901); SCHUBART, fustinian u. Theodora (1943). Su Eraclio, un'eccellente monografia di PERNICE (1905); per la riforma tematica, STEIN, « Byz.-neugr. Jahrbb. », 1920. p. 50; DARKO, «Byz. », 1937, p. 119; 1948, p. 85; cfr. GR E'GOIRE, « Byz. », 1937, p. 642; CHARANIS, «Byz », p. 40; BAYNES, « English Hist. Rev. », 1952.
1944-45,
LXXIV (cfr. §§ 103 e 114) Una rassegna delle varie dottrine sulle « cause » (o diciam meglio, sulle caratteristiche) della crisi romana nella Storia econ. e soc. del ROSTOVZEV (trad. it., 1931), pp. 428; 611; in DE FRANcIscI, Storia del diritto rom. iii, i, 4; nel mio Stilicone cit., p. 324, con ulteriore letteratura; cfr. BAYNES, « Journ. Rom. St. », 1943, p. 29; GIGLI, La crisi dell'impero romano (1947); ALPATOV, « Voprosj istorii », 1949, p. 29. Da ultimo MANNI, Introd.
allo studio della storia greca e romana (1952), p. 19, con particolare riferimento alla « problematica della continuità » che fu in vario modo proposta dalle opere di DOPSCH e di PIRENNE (cfr. LAMBRECIIT9, «Byz. », 1939, p. 513; BoYcE, « Byz. », 1940-41 ) p. 459; LOPEZ, « Speculum », 1943, p. 14; 1945, p. 1; LOMBARD, « Annales », 1948, p. 188; CIPOLLA, «Annales », 1949 5 p. 5; e l'importante messa a punto di STR0HEKER, « Saeculum », 1950, p. 445; ROSING, « Classica et Mediaevalia », 1952, p. 87; AUBIN, Vom Altertum z. Mittelalter [1949]). - Non c'è alcun dubbio che il «problema
della decadenza » è anzitutto il problema del modo in cui la decadenza era « sentita »: cfr soprattutto il già citato studio dello STRAUB sulla « apologetica cristiana della storia » in « Historia », 1950 ) p. 52. - SPENGLER, Untergang des Abendlandes (ora nell'edizione BECK, i-il, 1950), e ora TOYNBEE, con la sua dottrina del « proletariato esterno ed interno » in lotta contro gli stati di cultura, esprimono il trava
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glio culturale della nostra epoca, che sente attuale il problema della fine del mondo antico. Cfr. supra, 5§ 2-3. Appunto per ciò, i sostenitori della continuità - primi fra tutti i ricordati DOPSCH e PIRENNE - hanno soprattutto il torto di non chiarire il grande iato fra antichità romana e medioevo germanico. Nella celebre polemica fra STUTZ e DOPSCH (« Zeitschr. Sav. St. » G. A., 1926 e 1927), il primo, nonostante le sue palesi esagerazioni, aveva ragione in un punto essenziale per la storia economica: l'origine del sistema delle chiese proprie, che caratterizza il diritto ecclesiastico dai Goti in poi (sin dalla fine del v secolo: cfr. ora ENSSLIN, RE viii, A, 1955, 276-277; il documento del 369 citato da FEINE, « Zeitschr. Sav. St. » K. A. ) 1941, pp. 3 5 5 non è decisivo). Infatti, la centralizzazione episcopale (nonostante le fondazioni monastiche: UEDING, « Das Konzil v. Kaichedon » n ) 1953, p. 604) è cosa tutta romana; il sistema delle chiese proprie, che la corrode, è cosa germanica, e non può mai spiegarsi (come credeva DOPSCH) con una genesi con tinuativa-latifondistica. L'inizio del sistema delle chiese proprie (ultimamente FEINE, Kirchliche Rechtsgescb. i,
(1950), p. 131) segna dunque il confine tra l'antichità e il medioevo, tra latifondo di epoca romana e latifondo di epoca germanico-romana.
APPENDICI
Appendice prima LA TAVOLA DI HEBA E IL GRAN CAMMEO DI FRANCIA
Il problema della caratteristica del senato sotto Tiberio è, in buona parte, il problema della composizione dei comizi sotto Tiberio. La ricerca (cfr. già SIBER, « Festschr. Koschaker », 1939, p. 171) è ora dominata da una delle più importanti scoperte epigrafiche degli ultimi tempi: la tavola di I-ieba, contenente la rogazione per le onoranze a Germanico, nel dicembre 19 d.C. Gli onori concessi al morto « eroe » sono molti: le imagines di lui e del suo pater naturalis Druso in porticu quae est ad Apollinis; il suo nome inserito nei carmi Saliari; cinque centurie senatorio-equestri che, votando a suo nome, si aggiungono alle dieci istituite da Augusto (5 d.C.) a nome di C. e L. Cesari, e con esse hanno il compito della destinatio di consoli e pretori; le selle curuli di Germanico tra le sedie dei sodali, nei ludi Augustali; chiusura dei templi all'arrivo delle ossa, e poi ogni anno, all'anniversario della sua morte; ecc. (purtroppo, la tavola è mutila). Larghe onoranze, ma non bastavano a frenare l'immenso dolore del p0pulus: Suetonio allude anche ad esse, quando dice che non solaciis ullis, non edictis inhiberi (< frenarsi ») luctus publicus potuit (Suet., Cal. 6, 2). A noi interessano particolarmente, di quelle onoranze, le cinque centurie senatorioequestri (dei senatori e di cavalieri-giudici nelle decurie iudi-' ciorum publicorum causa) che avevano, insieme con le dieci di C. e L. Cesari, il compito della destinatio. Una pregiudiziale è necessaria. Germanico è qui « eroizzato », con un procedimento tipico, che ci riporta senz'altro all'ambiente religioso augusteo-tiberiano. Noi abbiamo un'opera d'arte, la quale ci aiuta alla ricostruzione di quell'am-
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Appendice I
biente. È il famoso, e tanto discusso, « gran cammeo di Francia » (Parigi, Gabinetto delle Medaglie). Nella striscia superiore di questa sardonica, accanto ad Augusto trasportato dal cosiddetto « Aion », sono tre figure: un giovane guerriero a sinistra, un Cupido (da identificare con un figlioletto, morto puerascens, di Germanico), un altro giovine su Pegaso a destra. Nella striscia centrale attorno a Tiberio e Livia, altre figurazioni, tra cui quella di un generale vincitore; ai piedi di Livia, una figura triste o umiliata. Nella zona più bassa, Germani vinti e Orientali armati: qui c'è riferimento alle imprese di Germanico in Occidente; l'interpretazione della sar donica dev'essere unitaria; la connessione con Germanico è fuori dubbio. Essenziale è l'interpretazione delle figure che nella striscia superiore si trovano attorno ad Augusto trasportato dal cosiddetto Aion (che può essere veramente AionAeternitas, come nelle apoteosi di Sabina e Antonino Pio; cfr. per il concetto augusteo di aeternitas, C. KOCH, già discusso a v '). Sono, queste delle striscia superiore, figure eroizzate: da chi può essere attorniato Augusto divus, se non da eroi della sua famiglia? Difatti, una di queste figure della striscia superiore è il figlioletto, morto puerascens, di Germanico, e raffigurato come Cupido. Restano da identificare le altre due figure: e noi proporremo, come necessaria e suf ficiente, l'identificazione con C. e L. Cesari. In una figurazione relativa ad Augusto divinizzato, è chiaro che C. e L. Cesari non potevano mancare: essi sono gli eroi per eccellenza della casa Giulia, introdotti per bonori/ica memoria nei carmi Saliari (cfr. la tavola di Heba, 1. 5), compianti con iustitium (come poi Germanico nel 19, e nel 23 Druso minore figlio di Tiberio), titolari (come poi lo stesso Germanico nel 19, e Druso minore del 23) di centurie senatorioequestri destinanti i consoli e i pretori. Non potevano mancare, dunque 2; vedremo nel giovane su Pegaso (a destra) Per l'interpretazione ellenistica di Augusto cfr., per es., ANTI, « Conferenze augustee », 1939, p. 111. 2 Druso i non ha avuto onori eroici paragonabili a quelli di C. e L. Cesari (sebbene abbia avuto l'arco marmoreo e l'elogium di Augusto e infine - ma solo nel 19 - l'accoglimento inter imagines virorum znlustr:s ingenti, non però nei carmi Saliari). - Comune-
La tavola di Heba e il gran cammeo di Francia
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C. Cesare (morto in Licia, paese per eccellenza connesso con Pegaso), nel guerriero « portatore di scudo » L. Cesare; Augusto è attorniato, insomma, dai suoi due fuji e dal puerascens-Cupido, dei quali aveva amaramente pianto la morte (Suet. Tib. 23 9 4; Cal. 7). Germanico non è ancora morto: lo cercheremo nella striscia centrale, dinanzi a Tiberio e a Livia seduti. La sardonica di Parigi è stata lavorata, dunque, in un anno del periodo 14-19 (dopo l'apoteosi di Augusto, prima della morte di Germanico): più probabilmente, nell'imminenza del viaggio di Germanico in Oriente . Essa è conepita nello spirito di Livia, dedicatrice dell'effigie del puerascens-Cupido e sostenitrice (cfr. per es. Tac. Ami. n, 42, per la Commagene) della « politica forte » in Oriente, politica che la sardonica sottolinea mediante la triste figura in abito orientale ai piedi di Livia. Al solito, testi e monumenti sono come « bilingui ». Cioè: la politica orientale di Livia si illustra con il citato passo di Tacito e con la sardonica; l'eroizzazione di C. e L. Cesari si illustra con le dieci centurie attestate dalla tavola Hebana e ancora con la striscia superiore della sardonica. Siamo dinanzi alla religiosità augustea, nel suo aspetto di eroizzazione. Questi « eroi » del mondo augusteo si possono
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mente, nel personaggio che io interpreto come C. Cesare si suoi vedere Germanico: così PIGANIOL; HOHL; CHARBONNEAUX. - Sulla sardonica di Francia, cfr. da ultimo, per es., PIGANI01_ , Hzstoire de Rome, p. 263; CHARBONNEAUX, « Mél. Picard » i, 1949 5 p. 170; HOHL, « Arch. Anz. », 1948/9, p. 255; LIPPOLD, Zum « Schwert des Tiberius » cit. - Naturalmente, con l'interpretazione che qui propongo va confrontata tutta l'iconografia di Caio e Lucio Cesari, che la scoperta del ritratto di L. Cesare all'agorà di Taso (CHAMOUX, « Mon. Piot », 1950, p. 83) ha interamente posto su nuove basi (f r. anche CHAMOUX, « Bull. Corr. Hell. », 1950); cfr. anche supra, v. Il merito dell'identificazione di Cupido è di HOHL, « Klio », 1938 9 p. 269; la migliore impostazione del problema in PIGANI0L. - Il compianto MORETTI, Ara Pacis (1948), pp. 271-272 ha giustamente riconosciuto assimilazione di Lucio e Caio a Romolo e Ascanio: un punto abbastanza notevole per lo studio della tavola di Heba. - Fondamentali: C xi, 1420-1421; Il, xiii, 1, p. 183 (Fasti Osi.) a. 2 d.C. Contemporaneo, per es., al primo progetto del « trofeo » di Lugdunum Convenarum (sul quale FERRI, Lugdunum Convenarum [1932]).
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XTTi (così nell'imavvicinare al concetto greco dello p portante articolo di SESTON, « La parola del passato », 1950, p. 171; cfr., dello stesso autore, « Rev. hist. dr. fr . étr. », 1952, p. 159); anche se, naturalmente, il concetto romano del vir scomparso ha qualcosa di più « storico » che il concetto greco di eroe. Per quale scopo Augusto intitola ai suoi fuji eroizzati, C. e L. Cesari, le dieci centurie cui è affidata la destinatio di consoli e di pretori? Per quale scopo, allo stesso modo, Tiberio intitola al suo fillus Germanico nel 19, e poi a suo figlio Druso minore nel 23, le centurie da lui aggiunte per la stessa destinatio? E in che consiste la destinatio? Le dieci centurie (poi, nel 19, quindici; nel 23, venti) senatorio-equestri « destinano » consoli e pretori; in che consiste, allora, il voto del comizio popolare? A questi problemi risponde un passo dello storico Velleio, cavaliere passato - come anche il fratello - nell'ordine senatorio (nel 4 d.C. era ancora praefectus equitum; lo troviamo senatore nei 7 d.C., quando ottenne la questura). Ed è naturale, del resto, che questo cavaliere passato al senato, orgoglioso dell'alta distinzione toccata a lui e al fratello Magio Celere, ci dia anche la più importante indicazione letteraria sui comitia tiberiani. Nel passo capitale (ii, 124, 4) egli dichiara di aver conseguito nel 14 d.C., insieme con il fratello, la pretura: primum principalium eius (scil.
Tiberii) operum fuit ordinatio comitiorum, quam manu sua scriptatn divus Augustus reliquerat. quo tempore mibi fratrique meo, candidatis Caesaris, proxime a nobilissimis ac sacerdotibus viris destinari praetoribus contigit, consecutis (consecutisque A) ut neque post nos quemquam divus Augustus neque ante nos Caesar commendaret Tiberius. Qui io propongo di intendere che Velleio e il fratello furono destinati pretori « in vicinanza con » (cioè, di fatto, « insieme con altri candidati nobilissimi e insigniti di sacerdozi , e che Le interpretazioni date comunemente partono invece dal presupposto che a 'iobzl:ssirnis ac sacerdot:bus viris sia complemento d'agente; l'interpretazione che qui propongo mi sembra tuttavia l'unica possibile per via di proxzme che nell'uso velleiano (cfr. li, 76 ) 4) va generalmente con a e l'abl. -' Naturalmente, Velleio insiste nel dire che è stato destinato « insieme con » uomini nobilissimi, per
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inoltre, ottennero la commendatio già ad essi concessa nel manoscritto di Augusto (ecco, per Velleio, l'importanza dell'or dinatio comitiorum augustea) e confermata subito da Tiberio. Come si vede. Velleio non sente il bisogno di precisare che egli è stato « eletto » pretore; gli basta dire che è stato « destinato »; Velleio sa che ogni suo lettore intende l'atto della destinatio come qualcosa di definitivo (di fatto), tanto vero che non è necessario aggiungere la precisazione creari al semplice destinari. In conclusione, a me sembra fuor di dubbio che la destinatio fosse vincolante, e che di fatto ogni destinatus era poi regolarmente eletto nel grande comizio centuriato, così come, d'altra parte, non poteva essere eletto nessuno che non fosse stato destinato dalle dieci (poi quindici e infine venti) centurie. Vale a dire: la destinatio della tavola di Heba, ad opera delle 15 centurie, dava 12 nomi di pretori. 2 nomi di consoli, che poi venivano (per un 'atto puramente formale) confermati nel grande comizio centuriato. In queste condizioni, è facile intendere come si svolgessero le operazioni di destinatio: facile, anche se la conclusione cui perverremo potrà sembrare sorprendente. Bisogna partire dalla constatazione che anche in queste operazioni di voto domina la sors (per il cui carattere e funzione in questo periodo basti rimandare a EHRENBERG, RE, S V. Losung); la sors stabilisce il modo in cui le 33 tribù (a parte la Sucusana e J'Esquilina) debbano votare nelle 15 centurie; la sors stabilisce quale delle 15 centurie dia la tabella considerata definitiva. Quest'ultimo punto, fondamentale (anche se, ripeto, sorprendente) mi sembra da dedurre in base alle 11. 39-46 della tavola: le quali, per quei supplementi che possono considerarsi sicuri, danno il seguente senso: « il presidente dell'assemblea legga » (fra le quindici tabellae, una per centuria) « quella tabella » (che è uscita a sorte) « regolandosi in base alla legge Valeria Comeha » (scil. la legge del 5 d.C.) « a patto che , se esce una tabula .
mostrare quanto sia grande, agli occhi di Tiberio (e già di Augusto) la sua d:gnitas, nonostante l'origine equestre. C'è un p0' di quel l'orgoglio tradizionale campano, che gli antichi notavano già nel poeta Nevio. Tiberio si preoccupa di precisare che, se la sors fa « uscire » una tabula di centuria di Germanico, quella tabula dev'essere letta
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di centuria di C. e L. Cesari, la legga sotto il nome di C. e L. Cesari e proclami [ognuno?] di quei candidati che furono destinati da quella centuria; se esce una tabula di centuria di Germanico la legga sotto il nome di Germanico e proclami [ognuno?] di quei candidati che furono destinati da quella centuria ». Si badi: la rogatio usa l'espressione quae - tabula centuriae, sempre al singolare, e senza traccia alcuna di una ipotetica lettura di più tabulae. Ne deduco: il presidente proclama come definitivo il risultato di quella tabula centuriae e di quella sola che è stata tratta a sorte. Evidentemente,- la tabula centuriae estratta a sorte dà il responso definitivo di C. e L. Cesari (se è una tabula centuriae di C. e L. Cesari); o di Germanico (se è una tabula centuriae di Germanico). Appunto per ciò, la tabula estratta a sorte viene letta rispettivamente « a nome » (sub nomine) di C. e L. Cesari, oppure « a nome » (sub nomine) di Germanico; il responso è definitivo, perché si tratta del responso di eroi, a cui non si può in nessun caso contraddire 6 Ancor una volta: la sors domina tutta l'operazione: siamo in presenza di quell'alone religioso che caratterizza la politica augustea e tiberiana dal 5 d.C. al 31 d.C. circa. Se si vuole intendere l'epoca di Augusto e di Tiberio, bisogna tener presente quel misto di arcaismo e di rivoluzione che caratterizza lo stato augusteo (a cominciare dallo stesso nome Augustus) : 'imperatore ispirava la lex Valeria Cornelia all'originario carattere equestre della centuria prerogativa, scelta per sorteggio, di tra le 18 centurie di equites; e di fatti, la centuria effettivamente destinante fu ora scelta (ma a fine di votazione) per sorteggio, di tra le 10 centurie equestri-senatorie indicate genericamente come le centurie destinationis f aciendae causa. L'istituto della prerogativa (negli altri comizii, princi pium ), fona nome di Germanico: è questo il punto che va precisato, giacché per il resto rimane in vigore il procedimento della legge Valeria Cornelia. Di qui il dum: « purché », « a patto che », ossia, in sostanza, « nel senso che ». 6 Se la dottrina qui , proposta è nel vero, se ne deduce che ogni tabula di centuria conteneva dodici nomi, se di pretori, e due, se di consoli. Insomma: una sola centuria dava il responso definitivo; ed era quella centuria cui la sors avesse affidato il compito di parlare « a nome » ( sub nomine) di C. e L. Cesari o di Germanico.
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damentale nelle assemblee romane, diventava strumento dell'autocrazia; fu conservato l'istituto dei custodes. Restano da spiegare le informazioni fornite da un grande storico, Tacito (soprattutto Ann. i, 15, i). Le fonti di questo storico sui comitia consolari tiberiani sono gli auctores letterarii e le orazioni di Tiberio (Ann. i, 81), ed egli stesso confessa di non sapersi muovere fra esse (adeo diversa non modo apud auctores, sed in ipsius orationibus reperiuntur): anche, s'intende, perché il fatto giuridico gli sembra relativamente secondario rispetto alla sostanziale perdita di libertas. Un documento come la tavola di Heba lo avrebbe dunque interessato assai meno di quanto possa interessare noi moderni: Tacito cercava di scoprire l'animus di Tiberio, non le forme del diritto pubblico tiberiano (tanto meno, poi, quello che noi chiamiamo lo « stile » dell'epoca di Augusto e Tiberio). In conseguenza, il tacitiano tum primum e campo comitia ad patres transiata sunt si rivela abbastanza inesatto. Tacito, senatore, sa che al suo tempo i comitia si svolgono - tra rumori e discordie di piccole ambizioni - nel senato; sa che sono comitia di patres; egli vuole spiegarsi quando sia cominciato quest'uso, di de/erre i comitia al senato. Trova che sotto Tiberio alcijni consoli venivano considerati ab senatu destinati (come il console di ILS 944); ne deduce che già nel 14 d.C.
per la prima volta comitia e campo ad patres translata sunt. Così, non riesce a rilevare (anche se taluna delle sue contrad ditorie fonti poteva forse in qualche modo suggerirla) la differenza tra i comitia con destinatio da parte di C. e L. Cesari (e poi anche Germanico, e infine - col 23 d.C. - anche Druso), che erano comitia senatorio-equestri, e i ben diversi comitia dei soli senatori. Egli, soprattutto, non aveva un'idea della difficoltà di conciliare, in epoca tiberiana, il ceto senatorio col ceto equestre, difficoltà a cui invano si cercava di porre rimedio facendo entrare i figli dei senatori fra gli equites sino al conseguimento della questura (dopo il quale diventavano senatori) e facendoli votare, con le leggi del 5 d.C., 19 d.C., 23 d.C. (sin verso il 29 d.C.?) insieme con cavalieri-giudici . In un caso come questo, dobbiamo intenderci sul significato della parola « errore ». Tacito commette un « errore » dal nostro punto di vista di storici moderni, a cui la composizione senatorio-
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Il contrasto era insopprimibile, perché aveva radici economiche: era il contrasto fra il luxus parasitico della nobiltà e l'attività energica dell'alta finanza. Nella iuventus si ritrovavano insieme figli di senatori e cavalieri; poiché C. e L. Cesari erano stati principes iuventutis, e pertanto capi dell'ordine equestre, Augusto nel 5 d.C. sperava che l'eponimia di C. e L. Cesari per le 10 centurie destinanti avrebbe assicurato l'avvicinamento dei due ordini. - Letteratura principale sulla tavola di Heba: PIGANI0L, « Comptes Rendus Acad. Inscr. », 1951, p. 204; NESSELHAUF, «Historia», 1950, p. 105; SESTON, art. cit.; LEVI, « La parola del pass. », 1950, p. 158; GATTI, ibid., p. 151; 1953, p. 126; D'ORs, « lura », 1950, p. 280; COLI, « La parola del pass. », 1951, p. 433 (due nuovi frammenti, il maggiore dei quali conferma alcune delle interpretazioni proposte dal COLI - primo editore della tavola: « BuI!. Ist. Dir. Rorn. », 1948, p. 369 - nelle 11. 1-11); « lura », 1952, p. 90; DE VISSCHER, da ultimo in « Studi in on. Arangio Ruiz », 'i (1953) 2 p. 419; MONTENEGRO, « Revista de Estudios Politicos » XL, 1951 5 p. 119; M. GELZER, « Festschr. Egger » 1, 1952, p. 84; SCHÒNBAUER, da ultimo in « Historia », 1953, p. 48. Ultimamente è apparso un libro sull'argomento: TIBILETTI,
Principe e magistrati repubblicani. Ricerca di storia augustea e liberiana (1953); cfr. già dello stesso TIBILETTI, « Ath. », 1949, p. 210.
equestre delle centurie destinanti augustee e tiberiane giustamente appare (o dovrebbe apparire) come il tratto caratteristico di quel l'epoca. Ma già sotto Tiberio stesso qualche senatore, orgoglioso della sua di,gnztatzs senatoria, avrà avuto una certa ripugnanza a considerarsi destinatus a senatori bus iternque equitibus, e avrà preferito accentuare l'aspetto senatorio della destinatio (per es., non si può escludere con certezza che Io ab senatu destinatus di ILS 944 sia stato destinatus, in realtà, da centurie senatorio-equestri). Le centurie sena tori o-equestri erano espressione di un ideale augusteo di « conguaglio » fra i due ordini; a quell'ideale resisteva la dignitas senatoria. Nonostante tutti i vantaggi che il senato potesse ricevere da Sciano, tuttavia la dignitas senatoria non dimenticava che il predominio di Sciano era il predominio di un esponente della classe equestre, il quale restava prefetto al pretorio, anche se nel 31 diventò senatore (console), Le contraddizioni (diversa) delle fonti di Tacito possono esser dovute, in parte, alla tendenza senatoria ad oscurare il duplice aspetto della destinatio senatorio-equestre.
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La storia dei comizi imperiali può, dunque, formularsi - se le precedenti considerazioni sono nel vero - nel seguente modo. I comizi augustei dei tempi del principato furono « democratici » (in questo senso li considerava Dionisio di Alicarnasso), fondandosi sui comizi centuriati; in alcuni casi - così nel 5 a.C. e nel 2 a.C. - si aggiunse, non sappiamo per quali ragioni, il senato. Poi nel 5 d.C., Augusto « inventò » il sistema della destinatio da parte di centurie senatorio-equestri, tra le cui tabellae veniva estratta per sorteggio la tabella definitiva: questa era proclamata « a nome » di « eroi » (viri) dello stato romano, i quali furono, in questo caso C. e L. Cesari; il comizio popolare era formalmente un complemento necessario (per la creatio) del comizio senatorio-equestre, ma in realtà non faceva che approvare la destinatio compiuta da « eroi » (la creatio si riduceva, insomma, a pura formalità). Tale sistema di destinatio a nome di « eroi » si continuò (nonostante alcune crisi sotto lo stesso Augusto) sino a gran parte del regno di Tiberio, il quale lo ampliò con destinatio a nome del vir inlustris ingenii, « eroe », Germanico nel 19, e indi a nome dell'« eroe » Druso minore nel 23; il sorteggio della tabella definitiva decideva se la destinatio si dovesse fare a nome di C. e L. Cesari, o di Germanico, o di Druso: così, per es., in un anno i consoli potevano venir destinati a nome di C. e L. Cesari, in un altro a nome di Germanico, in un altro a nome di Druso; comunque il principio « eroico » restava. Ma nell'estremo periodo del regno di Tiberio (dopo il 29?), il sistema della destinatio a nome di « eroi », ed attraverso le centurie senatorio-equestri, fu sostituito col sistema della semplice destinatio ad opera del senato 6; i nuovi 8 Che ciò sia avvenuto, è chiaro dalla « riforma » di Caligola: se Tiberio non avesse soppresso i comitia popolari (complemento formale dei comitia senatorio-equestri), Caligola non avrebbe avuto nulla da « riformare », « richiamando in vigore i comizii » (comitiorum more revocato). Se lo ah senatu destinatus di ILS 944 va inteso alla lettera, questo console sarebbe stato eletto dopo l'abolizione delle centurie senatorio-equestri. Una crisi della destinatio senatorio-equestre potrebbe già vedersi, del resto, nelle improbae comitiae dell'Aventino (ILS 6044), in cui Seiano fu factus console per il 31. Seiano voleva in certo modo coprire là sua origine equestre (che era stata, in un primo momento, la grande difficoltà alle sue
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destinati non lo erano più in base al responso degli eroi; erano, in senso stretto, ab senatu destinati. A nulla èra gio-
vato unire, fianco a fianco in centurie dedicate ad eroi, i senatori coi cavalieri-giudici; a nulla era giovato « faire parler les morts » (PIGANIOL ); uno « stile » realistico si sostituiva allo « stile » religioso augusteo. Il contrasto fra senatori e cavalieri, tra dignitas e finanza, era abbastanza forte, e si. decideva in questa zona strettamente costituzionale con la vittoria del senato, con le elezioni ad opera del senato (comitia senatus). Limitatamente a questi comitia, la vittoria del senato fu definitiva (se si astrae da un vano tentativo « democratico » di Caligola), per tutta la durata dell'impero (salve, s'intende, le intromissioni del principe) : Plinio il Giovane per l'epoca traianea, Cassio Dione per l'epoca severiana ci mostrano i comitia senatus. Infine, un passo della vita di Severo Alessandro nella H. A. ci fa intendere come il senato, ancora in epoca tarda, avesse coscienza del suo diritto antico, superiore alla commendatio imperiale: di fatti, secondo la H. A., quell'imperatore ideale nominò i consoli ex senatus sententia. Del resto, la legislazione tardo-imperiale mostra che l'elezione dei pretori, ancora nel iv secolo d.C., era oggetto di contesa fra il senato e la burocrazia (C. Th. vi, 4, 8; 22; cfr. 15), e che gli imperatori si preoccupavano di regolare il numero legale dei senatori per l'elezione (per es. C. Th. vi, 4, 12) e il rispetto della maggioranza nel comitium senatus (o, come pur dicevano, senatus consultum) per l'elezione dei pretori (C. Th. vi, 14). Anche in questo caso (delle elezioni cioè di consoli e pretori), si rivela fecondo quel principio metodico che abbiamo posto a base del presente libro: che l'evoluzione sociale ulteriore, compreso il basso impero, illumina i suoi medesimi presupposti nell'epoca del principato. nozze con Livia Iulia : Tac., Ann. iv, 39-40). Non è escluso che, per questa ragione, già Seiano (del resto, fratello di consolari, ed egli stesso « fittizio pretore » — insignito di ornamenti pretorii — nel 20) cercasse di diventar console (e console quinto quoque anno, si badi) appoggiandosi sul senato e su speciali comitiae all'Aventino, anziché sulle centurie senatorio-equestri e sul normale comizio al campo di Marte. In tal caso, il primo colpo alla destinatio senatorio-equestre sarebbe stato dato proprio da un cavaliere, Seiano. Ma nulla si può dire di preciso. Cfr. supra 55 15-18, passim.
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Di fatto, il contrasto fra senato e burocrazia, per l'elezione dei pretori, nel basso impero, è una interessante illustrazione delle difficoltà di collaborazione fra senatori e cavalieri-giudici, per l'elezione dei consoli e pretori, nelle centurie augusteotiberiane votanti sub nomine di C. e L. Cesari, di Germanico, di Druso. Ma soprattutto: il contrasto fra senato e cavalieri, tra l'ordine della conservazione e l'ordine della rivoluzione monarchica, percorre tutta la storia imperiale. Tiberio, l'imperatofe che dà l'assenso alla condanna senatoria di un procuratore imperiale (Tac., Ann. iv, 15), e che a tutto il suo governo vuole imprimere una tendenza senatoria (cfr. supra nel testo; anche la sua politica avversa al salarium indica rigorismo repubblicano: Suet., Tib. 46 - Cato, ORF 171 Malc.), ha riconosciuto necessario, tuttavia, il predominio di Seiano, per un lungo periodo; Caligola è tornato ai cavalieri e alla plebe; il resto dell'epoca giulio-claudia si muove - come vedemmo nel testo - in questa polarità. L'epoca flavio-antonina, borghese, registra distinzione ed equilibrio fra i due ordini. Nel iii secolo ritorna il contrasto (cfr. supra, Parte quarta, passim, per es. xxxviii). Il basso impero lo trasforma nella polarità senatoburocrazia (supra, Parte quinta, passim). La composizione del rapporto senatori-cavalieri, questo problema che ora ci è stato posto dalla scoperta della tavola di Heba, non è solo un problema augusteo-tiberiano : è il problema della classe dirigente Un interessante aspetto della problematica relativa al senato è offerto dalle cosiddette monete imperiali greche « quasi autonome »: in queste emissioni, soprattutto asianiche, è evidente l'alto rispetto per la cp& l39u)d (sacra sinatus) e anzi il culto per esso (,grsòq Cfr. ultimamente il diligente studio di FORNI, « Mem. Acc. Naz. Linc. », 1953 2 p. 49. Il FORNI ritiene che il culto abbia avuto origine in epoca repubblicana, non in epoca imperiale: ciò egli deduce soprattutto dalla cifcostanza che in epoca imperiale & (sottinteso fou)d), laddove 9t6c ci attenderemmo con valore femminile è più comune nei secoli Il-I a. C. Si può tuttavia osservare che in queste emissioni il senato ha figurazione in alcuni casi virile, in altri femminile; l'impero è bilingue, i monetieri sanno bene che senatus è maschile (di qui la figurazione in aspetto virile); se dunque troviamo rò at'r 1'xX-ro, ma a'yxX-ro, ciò significa che essi danno indifferentemente valore maschile o femminile a a'yx)tyo (viceversa dicono talora sacra
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imperiale 10, (Nel periodo trascorso fra la redazione di queste pagine e la correzione delle ultime bozze, sono apparsi il lavoro di HOFFMAN LEWIS, The 0/ /zcial Przests 0/ Rome under the julio - Claudians [1955], e i fondamentali studii di BÉRANGER, Recherchcs sur l'aspeci idéologique du principat [1953], e di \X'ICKERT, RE, xxii, 1954, 1998-2296; la scoperta del clipeus di Aries ha suggerito a SESTON una nuova interpretazione rr'x)-io femminile è dovuto alsinatus). Naturalmente, kp l'influenza della formula cpk (o'iX - , che designa il senato delle rispettive polezs, nelle stesse monete imperiali « quasi autonome Comunque, il culto del senato romano in queste emissioni mi sembra aver uno « stile » tutto augusteo e imperiale. Per il concetto del senato romano in questo mondo orientale ricorderei un testo epigrafico famoso: il senatoconsulto de postulatione Cyz,cenorum (cfr supra, xxiii). 10 Per intendere il cammino politico percorso dalla borghesia italiana nei riguardi di Ottaviano e poi di Tiberio, basta confrontare l'atmosfera religiosa augustea, che circonda la legge Valeria Cornelia del 5 d.C., con l'atmosfera religiosa « antoniana » dell'epoca della guerra di Perugia (inverno 41-40 a.C.). È indubbio che la borghesia equestre italiana - la borghesia dei Tibulli e dei Pro perzii -, erede della tradizione borghese ciceroniana, era in origine ispirata a ideali « liberali » di conservazione, ed avversa a Ottaviano triumviro. Nonostante le sue interne contraddizioni (supra, § 8), la guerra di Perugia aveva visto ancora, nell'inverno 41/40 a.C., la lotta di una parte di questa borghesia, soprattutto in Umbiia e in Campania. contro Ottaviano. Anche la piccola borghesia. la borghesia dei Virgilii, non aveva, durante la guerra, eccessiva simpatia per quest'uomo, che tuttavia di lì a poco avrebbe impersonato la rivoluzione < borghese » alleata con l'autentica rivoluzione dei proletari i-soldati. La tanto discussa ecloga iv di Virgilio è il documento più significativo dell'atteggiamento politico-religioso della piccola borghesia « attendista » nel 40 a.C., prima della pace di Brindisi. - Questo presupposto può anzi risolvere il problema del puer dell'ed. iv, che in genere è oscurato proprio dalla comune tendenza (cfr. però IEANMAiRE, La Szh. el le retour de l'age d'or [1939] a pensar un Virgilio seguace sempre di Ottaviano. Forse la precisazione storica dell'ecloga è meno disperata di quel che si pensi da molti. Sono sicuri alcuni punti: il padre del puer è pacator orhis, e gli trasmetterà il potere (v. 17), sia pur attraverso un cursus honorum romano (v 48); l'ecloga è stata scritta non prima della fine del 41 a.C. e non dopo il 40 a.C. (anno in cui Pollione è console: vv. 11; 13); sotto il puer avrà inizio (v. 8) l'età dell'oro (la quale comincia nel 40 a.C., sotto il consolato di Pollione, v. li), dunque il puer « nasce » (non già « viene concepito ») nello stesso
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della genesi del principato [« Comptes Rendus Acad. Inscr. », 1954, p. 2861; infine, si può citare [per es. per ciò che riguarda l'adventus ecc.] il recentissimo RYBERG, Rites o/ State Religion in Roman Ari' [1955]. Il nuovo impulso alla ricerca si volge dunque da una parte all'ideologia del principato, dall'altra alla « metafisica teologica » di esso; così come aspetti costituzionali e religiosi si incontrano a un tempo nel nostro anno 40 a.C.; sembra, anzi, che il puer sia già nato (tulerunt, perfetto, v. 61), o per lo meno nasca, mentre è scritta l'ecloga (nascenti, v. 8); è anche molto probabile che il v. 10 indichi sincretismo del fanciullo cofi Apollo (od rin genere con divinità so1are) In queste condizioni, è escluso che il puer possa essere (così ultimamente JACHMANN, « Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa », 1952, p. 56; ivi altra letteratura) il figlio atteso da Ottaviano e Scribonia (che poi fu una figlia, Giulia, nata nel 39 a.C.); è anche escluso (nonostante TARN, « Journ. Rom. St. », 1932, p. 135) che possa essere un figlio atteso da Antonio e Ottavia pel 39 a.C. Il puer della iv ecloga è nato nel 40 a.C.; e per esclusione non ci rimane che identificano con Alessandro lielios, figlio di Antonio e Cleopatra (Apollo del v. 10 = Helios; cfr. per es. "ll?a.'c. 'A?Àca'.. PLG 4 III, 5), e nato certamente nei 40 a.C. (nonostante MOMMSEN, Ges. Schr. viii, p. 271). Il punto di vista di Virgiliò è, naturalmente, il punto di vista di Pollione: nel 40 a.C. Poilione ha continuato ad assumere, fino alla pace di Brindisi, un atteggiamento politico-militare (li intransigente lealtà a M. Antonio (Veli. li, 76, 2; cfr. 86, 3). Dunque Virgilio, questo futuro poeta augusteo, è, neil'ecloga iv, il poeta di Antonio pacator orbis, il poeta di Alessandro Helios puer dell'età doro; e i più bei versi dell'ecioga iv, i vv. 60-61, sono dedicati a una madre, che poi è l'Aegvptza Conlu,ix aborrita nel libro viii de1l'Eeide. La borghesia dell'italia Settentrionale - la borghesia, ripetiamo, dei Virgiiii - (cfr. anche CHILVER, Cisalpine Gaul [ 1941], p. 208), durante la tensione del 41-40 a.C. seguiva M. Antonio. La troveremo con Ottaviano dopo la pace di Brindisi: ma ancora Bononia, tenacemente antoniana, non parteciperà alla conzwatio Italiae nel 32 a.C. TARN, loc. cii., ritiene che te duce nella iv ecioga alluda alla pace di Brindisi, sicché questa sarebbe un ierinznus posto quem; ma te duce allude, invece, a previste operazioni militari di Poilione. cfr. sempre Veli, ti, 76, 2. Debole anche l'altro argomento di TARN, che il nuovo saeculum debba cominciare il 39 a.C. perché il periodo secolare varroniano (110 anni) conduce a questa data (149 a.C. - 110 = 39 a.C.): Virgilio ha anticipato di un anno, né più né meno come poi Augusto, anziché porre i ludi saeculares nel 16 a.C. (456 a.C. - [4 x 1001 = 16 a.C.), li ha celebrati con un anno di anticipo (e poi Domiziano con 6 anni di anticipo). - (La i ecloga di Virgilio vede in Ottaviano un deus: cfr. supra, § 8; ma la datazione è incerta:piuttosto che per il 41 a.C. - nel quale
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Appendice I
massimo documento del principato tiberiano, la tavola di Heba. Sulla tavola di Heba si aggiungano, ora, PARETI, Storia di Roma iv [1955], pp. 466-469; LAST, « Journ. Rom. St. », 1954, p., 119; JONES, ibid., 1955, p. 9; OLIvER-PALMER,
« Amer. Journ. Philol. », 1954.) (Sulla iv ecloga di Virgilio cfr. ora BUCHNER, RE viii, A 1195.).
anno non c'era bisogno di favori personali di Ottaviano; bastava la terza concessione di Ottaviano: Dio, xLvzII, 8 - io propenderei per il 39 a.C.) - La religiosità politica augustea, di cui è espressione la lex Valeria Cornelia del 5 d.C., ha dunque sostituito l'ideologia degli eroi giovanetti (già viri), come erano appunto C. e L. Cesari, all'alone di religiosità ellenistica che aveva caratterizzato, quarantacinque anni prima, le speranze nel puer figlio di Antonio e Cleopatra; gli eroi assimilati a Romolo ed Ascanio sono subentrati a Helios-A pollo di quarantacinque anni prima.
Appendice seconda I MANOSCRITTI DEL MAR MORTO: L'ORIGINE DEGLI ZELOTI E I PROBLEMI DEL FRIMITIVO CRISTIANESIMO
In « Bibliografia e problemi » xiii (cfr. § 58) abbiamo osservato come la storia della storiografia relativa al cristianesimo sia strettamente connessa con la storia della moderna ricerca sulla formazione della cultura ellenistica: non è un caso che il concetto stesso di « ellenismo » fosse suggerito a DROYSEN dall'interpretazione (sia pur discutibile) di un passo degli Atti degli Apostoli. È significativo, per altro, che, pressoché contemporanea alla scoperta droyseniana del concetto di « ellenismo », fosse la impostazione del problema del giudeocristianesimo ad opera di Ch. F. BAUR (1831). Qualunque opinione si abbia, oggi, sul contrasto di petrinismo e paolinismo come esso fu posto ( ed in parte svolto) dalla scuola di BAUR, è tuttavia innegabile che le discussioni sul primitivo cristianesimo - purtroppo influenzate assai spesso da convincimenti pregiudiziali - possono essere portate su un piano scientifico solo se si parte dal presupposto che ogni indagine sulle origini cristiane è anche un'indagine sulle caratteristiche del giudaismo nel i secolo a.C. e nel i secolo d.C. Fortunatamente, le scoperte (1948) dei manoscritti nella grotta Ain Feshka - ad appena 2 km. dalla càsta nord-occidentale del M. Morto -, e le ulteriori scoperte nelle altre grotte della regione di Qumran, rivelando l'attività culturale dei « monasteri » di questa regione del deserto di Giuda, hanno anche illustrato la vita spirituale del giudaismo in questo periodo; sicché la ricerca sulle origini cristiane è ora connessa con la esatta interpretazione di questi testi provenienti da una setta ebraica detta dei « figli di Sadoq » o della Nuova Alleanza. Il più significativo di questi mano-
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Appendice 11
scritti, per ciò che riguarda il loro inquadramento storico, è il midrash (commentario) di Habacuc, un commentario in cui l'autore spiega il testo del profeta Habacuc con riferimenti alla storia più. recente. Lo studioso più benemerito di questo documento è, com'è noto, DUPONT SOMMER, soprattutto nelle sue ricerche Aperus préliminaires sur les manuscrits de la Mer Morte (1950); « Vetus Testamentum », 1951, p. 200; Nou veaux aperus sur les manuscrits de la Mer Morte (1953) (per ulteriore bibliografia sui manoscritti del Mar Morto, cfr. innanzi). Difatti dobbiamo a questo studioso l'identificazione dei Kittim del midrash di Habacuc con i Romani: punto essenziale per l'interpretazione del midrash stesso e di tutta la problematica relativa alla setta della Nuova Alleanza. Nel midrash di Habacuc i Kjttim appaiono come gli stranieri invasori prefigurati nei « Caldei » del testo di Habacuc; poiché, secondo l'autore del midrash, questi Kittim « sacrificheranno alle loro insegne, e i loro strumenti di guerra saranno da essi adorati », ne deriva come necessaria l'identificazione, proposta dal DUPONT SOMMER, con i Romani, il cui culto dei szgna e delle aquilae è caratteristica inconfondibile (documentazione letteraria, da ultimo, in DUPONT SOMMER, Nouveaux aperus (1953), p. 42; cfr. altresì alcuni testi epigrafici, come per es. C xiii, 11831 - probabilmente editto di Settimio Severo Disciplijnam castrorum [... ac deos militares cum aquilis ci? s]ignis tuendos; C iii, 7591, dell'anno 224, dove un ex trecenario p(rimus) p(ilus) dedica agli dèi militares al Genius alla Virtus all'aquila sancta e ai signa; inoltre C vi, 417; Vili ) 2634; xiii, 6679, 6690, 6694 9 6708 5 6752, 6762; AÈ 1935, 98; cfr. supra, xxvi). Sicché, in conclusione, è assolutamente certa l'ostilità contro i Romani (Kittim) da parte della setta giudaica cui si devono i manoscritti del Mar Morto, e possiamo tranquillamente escludere altre interpretazioni proposte, soprattutto quella che identifica i Kittim del Commentario di Habacuc con i Seleucidi'. Probabilmente, la riluttanza di alcun studiosi ad accogliere l'identificazione Kzttzm = Romani proposta dal DUPONT S0MMER è connessa col pregiudizio che il concetto di Kitt:m - originariamente indicante « la regione della città di Kittim », cioè Cipro solo lentamente si è esteso a indicare tutta la grecità in genere; ma
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Da questa constatazione bisogna partire per- intendere il
passo del midrash di Habacuc, in cui il commentatore parla degli « ultimi sacerdoti di Gerusalemme, i quali accumuleranno ricchezze illecite saccheggiando i popoli; ma alla fine dei giorni le loro ricchezze e i loro ladrocini saranno dati all'esercito dei Kittim, resto dei popoli ». Passo che si connette con altri, in cui l'autore del midrash parla di un « sacerdote empio » che ha perseguitato il Maestro di Giustizia, ma di questa sua tristizia è stato punito aspramente (cfr. per es. ix, 9: « il prete empio, che, a causa dell'offesa fatta al Maestro di Giustizia e ai membri della sua comunità, Dio hiì dato nelle mani dei suoi nemici perché lo rovinassero con un colpo di distruzione, con amarezza per la sua anima, avendo egli agito in maniera empia a riguardo degli eletti suoi »). Chi è questo « sacerdote empio », che Dio punisce con un colpo di distruzione? DUPONT SOMMER propone di identificarlo con Aristobulo ir, il grande sacerdote asmoneo, che fu vinto dai Kittim « Romani», condotti da Pompeo, nel 63 a.C. e finì avvelenato dai pompeiani nel 49 a.C. Altri studiosi pensano invece ad Alessandro lanneo, padre di Aristobulo ti. A mio giudizio, il « sacerdote empio » deve invece identificarsi sempre e necessariamente con Ircano LI: il testo del Commentario di Habacuc ci riporta al conflitto tra i due figli di Alessandro lanneo, cioè tra Aristo-
si può osservare che già in epoca arcaica - diciamo nell'viii o nel vii secolo a.C. - il concetto di Kittim poteva essere esteso, oltre che nel senso proprio « Cipriotti », anche in un senso lato, come confusa nozione della grecità in genere. (Mi sia lecito rinviare, a questo proposito, a quel che avevo osservato in Fra Oriente e Occ. [1947], p. 11 [e p. 345, n. 3091, dove ero arrivato alla conclusione che l'accezione lata di Kittim come grecità in genere « non è una tarda evoluzione di significato, sibbene una evoluzione assai antica ».) Partendo da questo presupposto, è facile intendere come Kittim potesse significare nel ti/i secolo a.C., dapprima i Greci in genere in quanto « occidentali », poi i loro successori. « occidentali », vale a dire i Romani (così nel nostro midrash dì Habacuc; e altresì nel connesso testo biblico Daniele xi, 30). 11 processo semantico che induceva a dare un senso lato a Kittim era già preparato nell'epoca arcaica, nel vii secolo a.C.; sicché nel i secolo a.C. l'accezione di « Romani » era ben naturale e comprensibile; non era Roma, 'Eì.X-rvt'g « città greca »? e non già per Eraclide Pontico, una erano, i Romani, naturali continuatori dei Greci?
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Appendice II
buio II e Ircano II . E difatti, Ircano ii avversò i Sadducei e si sostenne sui Farisei (mentre Aristobulo ri era sostenuto dai Sadducei); perdette le città ellenistiche di Transgiordania (« le ricchezze illecite » ottenute dagli ultimi sacerdoti di Gerusalemme « saccheggiando i popoli »); ed infine fu colpito con un « colpo di distruzione » dal suo avversario Antigono vincitore nel 40 a.C. in (figlio di Aristobulo Il), il quale gli tagliò le orecchie, seguito all'aiuto ricevuto dai Parti mettendolo così nell'impossibilità di mai più riassumere il posto di gran sacerdote. Mi sembra indiscutibile che questa punizione si esprima appunto nel citato passo ix, 9, in cui « il colpo di distruzione » inferto da Dio al « sacerdote empio » è caratterizzato dall'amarezza (l'aspra umiliazione di esser privato delle orecchie), che riempie l'anima del sacerdote empio medesimo. Ancora: in ix, 1 la punizione inferta al sacerdote empio è compiuta dai suoi avversari « in una maniera empia »: il che ben si adatta al taglio delle orecchie operato, comunque, su un sacerdote. Ma soprattutto: questa punizione si esprime in tutto il passo ix, 1-2, in cui il commentatore' di Habacuc parla delle « vendette sul corpo di carne » del sacerdote empio, com'esse furono compiute dai suoi nemici. Queste <(vendette sul corpo di carne » non possono ridursi all'avvelenamento di Aristobulo II , mentre si adattano benissimo all'« ignominia » (cfr. xi, 12) delle orecchie mozzate (massima offesa per un gran sacerdote!) di Ircano li . Si confronti « vendette sul corpo di carne » del citato passo Ix, 1 2 del midrash Hab . con To>> awµ«-oc in Ios., A. I. xv, 2, 2: il parallelismo fra l'espressione « vendette sul corpo di carne » usata dal midrash e l'espressione « ingiuria del corpo » (î,cúp•r, Toìj Qwu«-) usata dallo storico Flavio Giuseppe mi sembra decisivo (altri argomenti addurremo nel corso di questa stessa Appendice Ir). Sin d'ora possiamo concludere che il sacerdote empio, punito nel corpo, è Ircano II , e che il midrash di Habacuc scoperto fra i manoscritti del Mar Morto è un testo posteriore al 40 a.C., anno in cui Ircano ii, sostenuto dai Romani o Kittim, fu punito dal vincitore Antigono, sostenuto dai Parti, con « vendetta sul suo corpo di carne », -
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aW~OCTOS.
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Se queste considerazioni colgono nel vero 2 , il quadro storico delle origini cristiane ne viene particolarmente chiarito, in base ad altri punti dello stesso midrash e di altri testi con essocollegati. Chi sono questi uomini della Nuova Alleanza, del « Nuovo Testamento », rivelato dai testi del Mar Morto? Essi designano se stessi col nome di « figli di Sadoq ». Il richiamo ai Sadducei è evidente; la Nuova Alleanza si è formata nell'ambito della grande setta dei Sadducei. Orbene: proprio Ircano ti ha iniziato in Giudea quel corso di politica interna, per cui i Sadducei, sino allora effettivi signori dello stato ebraico, furono messi da parte a favore dei perushîm 2 Delle interpoetazioni di « vendetta sul corpo di carne » sinora proposte va ricordata, come una fra le più acute, quella di DUPONT-
SOMMER, il quale, come già dicemmo, vede nel « sacerdote empio » Aristobulo xi e dunque spiega la « vendetta sul corpo di carne »
con la circostanza che Aristobulo xi « fut fait prisonnier par les Romains et mourut dans les fers » (da ultimo Nouveaux aper~us [1953], p. 76, 12). Va rilevato che lo stesso DUPONT-SOMMER aveva notato come alcuni tratti del « prett empio » descritto nel Commentario di Habacuc convenissero tuttavia a Ircano II (cfr. per es. Aper4•us préliminaires [ 1950], pp. 49-53), ed aveva conciliato le due contrastanti identificazigni con l'ipotesi che l'autore del Commentario « vise en realité — sans nullement les confondre — deux personages distincts, deux princes asmonéens : tanto^t Aristobuie I I et tantót son successeur Hyrcan I I » (cfr., nello stesso senso, le belle osservazioni di GoosSENS, ((La nouv. Clio », p. 336). Ma mi sembra da escludere che nello stesso contesto il medesimo autore applichi il termine « prete empio » od affini a due personaggi contrapposti in una lotta spietata e senza quartiere. Noi dovremmo ammettere una duplice identificazione, solo se fosse necessario spiegare I'<< offesa al corpo di carne » come un particolare riferibile ad Aristobulo in; viceversa, come qui cerchiamo di mostrare, è necessario e sufficiente spiegare quel termine (che non -, indica morte, ma punizione nel corpo) come pertinente alla) i3-i ace t -ro; di Ircano II . Ne consegue che il Commentario di Habacuc, il quale
sarebbe anteriore al 40 a.C. se si accettasse l'interpretazione di DUPONT-SOMMER, deve invece considerarsi posteriore a quella data, se si accetta la nostra ricostruzione. — Le considerazioni che svolgiamo in questo paragrafo si rivolgono anche contro altre interpretazioni, per es. contro quella recentissima — per altro assai acuta — di VERMÈS , Les manuscrits du desert de Juda (1953),
p. 94 (cfr. già
BARDTKE,
Die Handschri f ten f u nd e am Toten Meer
[1952], p. 142); ecc. La letteratura sui manoscritti del Mar Morto è enorme: centinaia e centinaia di pubblicazioni si sono occupate di queste scoperte capitali per la storia del giudaismo;
Appendice lI
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o Farisei. Appunto in questo senso l'avvento del grande sacer dote Ircano n, già sotto il regno della madre Alessandra Salome, e per tre mesi dopo la morte di questa, ha segnato un'epoca nella storia giudaica: l'inizio dell'epoca degli scribicompetentissimo in queFarisei. Il fariseo Flavio Giuseppe ha ste cose, anche perché di origine sacerdotale asmonea un chiaro ricordo di Antichità giudaiche, lasciato, nelle sue questa grande rivoluzione nell'ambito del giudaismo (xiii, 15; 16). Naturalmente, la reazione sadducea non si fece attendere: Ircano ir fu deposto, tre mesi dopo la morte della madre, ad opera di suo fratello Aristobulo i!; quando Ircano it venne ad -
-
naturalmente, l'identità della setta con quella a cui si deve il « documento sadoqita » della genizah del Cairo ha riportato alla ribalta, contemporaneamente, il documento sadoqita medesimo. Qui basti ricordare, oltre ai già citati, alcune preminenti edizioni, traduzioni e ricerche o rassegne: DE VAUX, « Rev. bibi. », 1949, p. 586; 1950, p. 427; BURROWS-TREVER-BROWNLEE, The Dead Sea Scrolls o/ St. Mark's Monastery i-ii (1950-51); SUKENIK, Meghilldzh Genz6th mittòkh genìzah qedimah shennimse'ah bemzdbar Yeb'da i-il (1948-1950); S. ZEITLIN, The Zadokite Fragments (1952); DELEssai sur le Mzdrash d'HaCOR, Les manuscrits de la Mer Morte bacuc (1951); ultiniamente in « Rev. hist. rél. », 1953; DEL MEDICO, Essai de t;aduction Deux rnanuscrits hébreux de la Mer Morte di M:i'iuel de Discipline» et du «Commentaire d'Habacuc» (1951); A M. JiABERMANN, 'Edah we- Eduth (1951); MILIK, « Verbum Domini», 1951, p. 129; 1952, pp. 34, 101; K. SCHUBERT, «Zeitschrift fiir kath. Theol. », 1952, ROWLEY, The Zadokite Frgmts. a. the Dead Sea Scrolls (1952); KAHLE, Die hebràzschen Handschrzften aus der Hòhle (1951); FLUSSER, « Israel Explor. Journ. », 1953, p. 30; EISSFELDT, « Theol. Lit.-Ztg. », 1949, p. 95; 1949, p. 595; 1950 ) p. 145; GOOSSENS, « La nouv. Clio », 1949-1950, p. 634; PARROT ap. LODS, Histoire de la litter. hebraique et iuive (1950), p. 1024; VAN DER PL0EG, « Jahrb. Ex Oriente Lux », 1951-52, p. 221; BARTHÉLEraY, « Rev. bibl. », 1952, p. 187; AUDET, « Rev. .~
-
-
bibl.», 1952, p. 219; 1953, p. 41; STAUFFER, «Theol. Lit.-Ztg.», 1951, p. 667; TEICHER, « Journ. jewish Studies », 1951, p. 67 e 1952, iii, p. 139 (interpretazione cristiana); COPPENS, « La nouv. Clio », 1953 5 p. 5; BAUMGARTEN, « Harv. Theol. Rev. », 1953, p. 141; ALTHEIM,
Das erste Au/treten der Hunnen u. ds Alter der fesa/a-
Rolle (1953). Quest'ultimo studioso propone datazione del rotolo di Habacuc (e delle aggiunte sezioni nel rotolo di Isaia) alla prima
metà del in secolo; quasi che questi rotoli ci presentino la prima fissazione del testo manoscritto, che così sarebbe parallela alla codificazione religiosa iranica (Avesta) nel iii secolo d C. (In sé e per sé, tale datazione dei manoscritti non implicherebbe nulla .
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assediare Gerusalemme, Aristobulo n fu sempre sostenuto dai Sadducei (sono i « sacerdoti » di cui parla los., A. I. xiv, 2, 1: v6vTav; icpfav, s'intenkpéc1)v Atofri'iXci. rp L6VO)V t(7)V de, del sangue di Levi e di Aaron). Infine, nella festa del Yom Kippurim, «giorno delle espiazioni (del digiuno)», 63 a.C., Ircano ii riuscì ad entrare in Gerusalemme, con l'aiuto di Pompeo: questa data segnò la sconfitta definitiva dei Sadducei, e la vittoria (accompagnata da stragi) dei Farisei seguaci di Ircano li. Ma molte città conquistate dagli Asmonei e le ricchezze da essi raccolte andarono a finire nelle mani dei Romani: i vinti Sadducei potevano vedere già in questo fatto il castigo di Jahve sui loro avversari. Per altrò, molti dei più intransigenti fra essi dovettero recarsi - quelli che erano per la datazione del periodo in cui fu composto il Comm. 1-lab. [periodo che noi fra il 40 a.C. e il 30 a.C.]; ch eil nostro mscr. del Comm. Hab. potrebbe sempre considerarsi una copia del iii secolo d.C.) Ma alla datazione ritenuta da ALTHEIM si oppongono le scoperte del wadi Murabba cat, dove sono stati trovati testi precisamente datati all'epoca della rivolta giudaica sotto Adriano (supra, § 33), e dal punto di vista paleografico posteriori alla scrittura del rotolo di Isaia. Cadono così tutte le conclusioni che ALTHEIM traeva dalla sua datazione: la contemporaneità fra fissazione del testo masoretico e codificazione religiosa iranica è solo una debole ipotesi, e nulla più. - Non mi è possibile controllare la ipotesi di KAHLE, op. cii., secondo cui tra i manoscritti si troverebbero anche frammenti di codici (papiracei); si vedano le obiezioni del p. DE VAUX, « Rev. bibl. », 1951, p. 439; BARTHLLEMY, « Rev. bibl. », 1952, p. 195. Ma anche se KAHLE avesse ragione, non per questo dovremmo scendere al it secolo: se mai, ne dovremmo dedurre che Ebrei del i secolo hanno precorso l'uso del codice, che insomma questa forma « democratizzata » di libro non è un'innovazione dei gentili (anche se poi gli Ebrei rifuggono dal codice: \TIEILLARD , « Riv. arch. crist. », 1940, P. 143; cfr. Mc CowN, « Harv. TheoL Rev. », 1941, p. 219; in genere, sul problema « books and readers », il libro di KENYON [1932]; DAIN, Les manuscrits [1949]; ora DiR1NGER, The Hand-Produced Book [1953]; ARNS, La technique du livre d'après S. Jérdme [19531). (Mentre correggo le bozze. mi ptrviene l'importante libro di ELLIGER, Studien z. Habakuk-Kommentar [1953], il quale arriva alle mie stesse conclusioni nella critica a DUPONT-SOMMER, senza però trarne quella ch'io ritengo la conclusione principale di questa ricerca: l'identificazione - cfr. in/ra - degli Javan coi Parti, dell'< uomo di menzogna » con Erode, e del Maestro di giustizia con Ezechia, o con un suo seguace. (Si aggiunga infine MICHEL, Le maìtre de yustice [19541.) (Apprendo ora che l'identificazione con Erode è pur sostenuta dal CHARLES.)
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Appendice Il
superstiti - in esilio; e nessuna località, meglio di Damasco, poteva prestarsi ad accogliere gli esuli: Damasco, città contesa fra gli aborriti Romani (sostenitori del « sacerdote empio » Ircano tI) e il re dei Nabatei Areta. Così sorse la Nuova Alleanza nel Paese di Damasco: cioè la setta di cui i documenti del Mar Morto ci danno sì chiara testimonianza. Noi possiamo seguire le caratteristiche della setta anche attraverso il famoso Documento Sadoqita scoperto nella genizah del Vecchio Cairo, e pubblicato nel 1910; anche in esso ci si parla di un « Maestro di Giustizia » contrapposto all'« Uomo di menzogna ». Or quali precisazioni storiche ci dà il Documento Sadoqita? Tra l'altro,, esso commenta un passo del Deuteronomio (xxxii, 33: « il loro vino è fiele di dragoni e veleno di vipere da non guarirne ») come allusivo ad avvenimenti storici precisi: « i dragoni sono i re dei popoli; il loro vino, sono le loro vie; il veleno di vipera è il ,capo dei re di Javan venuto per esercitare la vendetta su essi ». La vendetta sugli empii, dunque, è compiuta dal « capo » dei re di Javan. Ma questi Javan non possono essere la medesima cosa dei Kittim • Romani » del Commentario di Habacuc 3; ché l'espressione • capo dei re » non si adatta a condottieri romani. Gli Javan del Documento Sadoqita devono considerarsi, anzi, tutto l'opposto dei Kittim, e il loro « capo » non può essere che il più forte fra i re « ellenistici » rimasti al di fuori dell'impero romano. In realt&, i figli di Sadoq esuli a Damasco non possono sperare nulla dai Kittim, giacché questi appoggiano Ircano lI con il suo entourage di scribi; pci figli di Sadoq, la speranza è ormai limitata al mondo ellenistico anti-romano, il cui capo è il re dei Parti (è superfluo ricordare che lo stato partico era di cultura ellenistica; aveva anche il, greco come lingua ufficiale; si rappresentavano a Ctesifonte tragedie greche ecc.). La « vendetta » del Documento Sadoqita è in realtà tutt'uno con le « vendette » esercitate « sul corpo di carne » del prete empio secondo il midrash di Habacuc ix, 1-2. La corrispon denza è precisa. (Se si accettano le nostre considerazioni, ne consegue che i Parti, eredi dei Seleucidi, sono designati Javan in senso proprio, e così distinti dai Kittim o Romani.) Diversamente DUPONT-SOMMER, Aper.us prélim., p. 70, e altri studiosi.
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L'organizzazione della comunità della Nuova Alleanza nel paese di Damasco aveva dunque i seguenti caratteri: ostilità ai Kittim « Romani » 4; decisa ostilità ai Farisei e scribi della cerchia romanizzante di Ircano Il; venerazione di un « Maestro di Giustizia » dal quale la setta ripeteva la sua origine,
Da confrontare, per contrasto, col famoso elogio dei Romani in I Macc. d'intorno al 100 a.C.: da ultimo SORDI, « Acme », 1952 7 p. 513; FORNI, « Atti Acc. Linc. », Memorie, 1953, fasc. 3, p. 78. - Un tipico aspetto della continuità di motivi giudaici antiromani nella tradizione cristiana è per es. nell'Apocalisse (5 59), se si accetta l'identificazione della « bestia dal mare » con l'imp. rom. e la probabile identificazione della « bestia dalla terra » con Agrippa Il (S 59) oppure con Balbillo (PIGANI0L, cit. supra, XI); la datazione dell'Apocalisse in epoca domizianea non è argomento decisivo contro PIGANIOL, giacché Balbillo poteva esser considerato persona grata a Vespasiano). (Improbabile l'interpretazione mitica delle due bestie, come per es. in LOHMEYER, Die 0/ /enbar. d. Job, [1953], p. 113.) Del resto, tutta l'apocalittica cristiana è connessa con la giudaica (cfr. ultimamente SICKENBERGER, Apokaliptik nel « Reall. f. Ant. u. Chr. »). Questo Maestro sarebbe Onias il Giusto, secondo una acuta suggestione di GOOSSENS, loc. cit., e dello stesso DUPONT-SOMMER. Tale identificazione di Onias col Maestro di Giustizia sarebbe in accordo con la dottrina da noi proposta, secondo cui il sacerdote empio è sempre Ircano Il, assai più che con la dottrina degli stessi GOOSSENS e DUP0NT-S0MMER, che vedono nel sacerdote empio Aristobulo Il (od anche Aristobulo v); infatti, Onias fu giustiziato proprio dai seguaci di Ircano ii, per essersi rifiutato di maledire Aristobulo li. Se tuttavia noi non accettiamo l'identificazione di Onias col Maestro di Giustizia, ciò è dovuto alle considerazioni ìul « processo di Erode » che svolgeremo fra poco. - Inoltre va osservato che xi, 6 del Commentario di Habacuc potrebbe ben intendersi nel senso che il Maestro di Giustizia è in esilio (non dunque morto nel 65 a.C.), sicché la « persecuzione » alluderebbe a contrasti ideali fra Ircano si e il capo della nuova setta, sul tipo dei contrasti fra il mutilato Ircano Il e « tutta la gente dei Giudei sino all'Eufrate » su cui los., A. I. xv, 2. - Il passo xi, 7-8 del Comm. Hab. è altrettanto oscuro, quanto a traduzione: ma il testo di Habacuc lì commentato lascia pensare che colui il quale « si è presentato » (oppure « è apparso ») alla festa del Yom Kippurim sia sempre un ingiusto, sia dunque il « sacerdote empio »: difatti, in Habacuc il, 15 colui che « osserva » le feste (testo masoretico: « la nudità ») è sempre il tristo. Che se in Comm. Hab. xi, 7-8 colui che « si è presentato » durante il Yom Kippurim è veramente il prete empio », si potrebbe (non dico: si dovrebbe) vedere in questo passo un'allusione ad Ircano ii il quale, entrato a Gerusa-
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richiamo ad una intransigenza che distingue questi nuovi « figlì di Sadoq » dai vecchi sadducei. La nuova setta si caratterizzava anche per altri punti, che ormai sono venuti in chiaro, dopo la pubblicazione del Manuale di disciplina: il lavacro rituale, « battesimale », soprattutto; i pasti in comune, una specie di « agape » avanti lettera, ecc. Questi punti li avvicinano ai Cristiani; ma che essi non siano Gíudeo-Cristiani è evidente (nonostante la dottrina di TEICHER, « Journ. Jewish Studies », cit.) per molte ragioni: tra l'altro, per il fatto che nel Documento Sadoqita l'Unto è Sadoq medesimo (a cui proprio si richiamano questi « figli di Sadoq »), non Gesù (il quale in questi testi della Nuova Alleanza non appare mai). Piuttosto, potremo dire che la Nuova Alleanza nel paese di Damasco, una volta tornata dall'esilio, e organizzatasi in « conventi » del territorio di Giudea, ha assunto un aspetto abbastanza vicino a quello dei « conventuali » esseni: anche se, come mostreremo fra poco, noi vedremo 'nella Nuova Alleanza una setta proto-zelotica, piuttosto che una setta essenica. In base a questi elementi, la datazione del Commentario di Habacuc si pone fra il 40 a.C. (anno in cui Ircano ii subì « la vendetta sul corpo di carne ») e il 30 a.C. (anno in cui l'autorità di Ottaviano nell'impero era assoluta, e dunque il Commentario di Habacuc non avrebbe potuto dire che « i capi dei Kittim si ritireranno l'uno dopo l'altro, per decisione della Casa di Colpa [ = Senato] », con chiara allusione alla vicenda delle guerre fra cesaricidi e triumviri, e al connesso dominio di Cassio prima, poi di Antonio, nell'Oriente). Inoltre, le allusioni del Commentario di Habacuc illuminano chiaramente le condizioni spirituali della Palestina nell'epoca che precedette immediatamente il sorgere del cristianesimo: il Commentario (ix, 4) parla degli « ultimi sacerdoti di Gerusalemme » il che ben si comprende all'epoca in cui Erode il Grande idumeo e amico ai Romani , entrato a Gerusalemme nel Yom Kippurim del 37 a.C., si era mostrato restio lemme nel Yom Kippurim del 63 a.C., « si è presentato » alla comunità sadoqita (seguace di Aristobulo ti) turbando così la festa di essa. Ma riterrei più probabile che xi, 7-8 alluda ad una qualche intromissione di Ircano ii nella festa di Yom Kippurim celebrata dalla Nuova Alleanza con particolari riti e particolare calendario.
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a nominare altri sacerdoti asmonei di Gerusalemme, finché - ma solo nel 35 - si decise a concedere il pontificato all'asmoneo Aristobulo, che subito fece uccidere. In questo periodo la mancanza di sacerdoti asmonei poteva far parlare degli « ultimi sacerdoti di Gerusalemme », come di una stirpe tramontata (nella sua serie di sacerdoti, A. I. xx ) 10, Flavio Giuseppe ha sottolineato due volte l'importanza della nuova politica di Erode nei riguardi del sommo sacerdozio: ox&r ro èy.'(3 '
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Proprio il mutilato Ircano il avrebbe allora potuto essere considerato sommo sacerdote, nel suo esilio partico; e come tale egli era venerato durante il suo esilio (A. I. xv, 2). Ma la mutilazione gli impediva un vero esercizio dell' &p/pCaa'W e quando volle tornare a Gerusalemme, egli si ebbe il disprezzo di Erode e l'odio di quei pii che lo veneravano come sacerdote, ma fuori di Gerusalemme. Per questa via, la nostra interpretazione dei manoscritti del Mar Morto ci conduce ad una grave conclusione: la Nuova Alleanza nel paese di Damasco, la comunità insomma dei nuovi figli di Sadoq, si è costituita in odio alla politica dell'idumeo Erode. Io credo che solo questa premessa possa darci la spiegazione del passo (v, 10-12) in cui l'imprecazione di Habacuc « contro i traditori che stanno a guardare e contro colui che si tace mentre l'empio offende il giusto » è interpretata come allusione alla « casa di Absalom e ai membri del loro partito, i quali si tacquero quando fu punito il Maestro di Giustizia e non l'hanno aiutato contro l'uomo di menzogna che ha offeso la Legge ». Gli uomini della casa di Absalom (Absalom, il biblico ribelle contro David e contro il santo sacerdote Sadoq) e i membri del loro partito non possono non essere i Farisei, che stanno attorno a Ircano ti. L'uomo di menzogna, del quale si dice altrove (Comm. Hab. X > 10) che « ha costruito nel sangue una città di vanità », è Erode, costruttore della Gerusalemme ellenistica, per es. della Torre Antonia (e poi del Tempio con l'aquila d'oro sulla porta). Il silenzio, di cui parla il Comm h'ab. v, 10-12 è appunto il silenzio (< tranquillità », dice Flavio Giuseppe A . J. xiv, 9, 4) dei Farisei d'intorno a Ircano 11, a proposito dell'accusa contro Erode per l'uccisione del ribelle Ezechia e dei suoi
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seguaci, nel 46 a.C. Nel lungo capitolo xiv, 9 delle A. I., Flavio Giuseppe ci fa intendere l'enorme importanza e l'eco profonda di questo processo ad Erode uccisore di Ezechia e dei suoi seguaci contro la legge giudaica (l'accusa suonava, appunto, - 'Erxxv &7réXCLVE 'Hpc8 &rsprv v6.tov), come anche
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l'insistenza delle madri degli uccisi che nel tempio pregavano perché Erode fosse punito, come infine la delusione destata dalla protezione che Ircano ti accordò allora ad Erode; ma, d'altra parte, essendo Flavio Giuseppe un fariseo, è anche naturale che egli ci presenti Ezechia come un &pXi. e così oscuri il carattere jahvisticoantiromano del suo movimento. Indubbiamente, il Maestro di Giustizia era un sostenitore spirituale di Ezechia, più o meno come, all'epoca della ribellione giudaica sotto Adriano, Rabbi Aqiba sarà un sostenitore spirituale del ribelle Shim'on ben Kòsbah; fors'anche - sebbene ciò sembri più difficile - il Maestro di Giustizia era Ezechia medesimo. Nel processo del 46 a.C., Erode si è salvato dalla possente accusa di tutti i superstiti sostenitori e simpatizzanti per Ezechia; tuttavia questi sostenitori di Ezechia erano allora moralmente sì forti, da indurre Erode ad allontanarsi da Gerusalemme, ed anche attaccare Gerusalemme con l'aiuto romano; tornato così Erode a Gerusalemme, i seguaci e simpatizzanti di Ezechia furono costretti all'esilio. Sorse così la Nuova Alleanza nel paese di Damasco; essa sperava nell'aiuto dei Parti, e questo aiuto venne, in realtà, nel 40 a.C., quando Antigono entrò a Gerusalemme e Ircano ti subì la Xcfrt -ro .tocro, il taglio delle orecchie; ma nel 37 a.C. Erode tornava, ancora una volta con l'aiuto dei Romani, e puniva tutti i suoi avversarli. Concludiamo. Con l'avvento di Ircano ii al sacerdozio, già sotto il regno di sua madre, si sposta l'autorità sacerdotale, la quale passa dai Sadducei ai Farisei; i Sadducei appoggiano Aristobulo ii, fratello e avversario di Ircano Il; ma questo ultimo nel 63 a.C. ritorna, appoggiandosi alle truppe romane di Pompeo; l'ostilità della tradizione jahvistica-antiromana sbocca, nel 47 a.C., nella rivolta di Ezechia, repressa dal giovane Erode, e seguita dal processo contro Erode stesso, processo praticamente fallito. Questo fallimento del processo contro Erode viene addebitato alla debolezza di Ircano ti,
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« sacerdote empio », e sollecita la costituzione della setta dei figli di Sadoq, esuli nel paese di Damasco. (Il motivo dell'esilio è essenziale ai testi del Mar Morto: per es. Inno iv, 4-5.) Contro Erode e contro i Romani, i figli di Sadoq sperano nei Parti: l'anno 40 a.C. sembra dar ragione ad essi, perché i Parti riescono a portare al sommo pontificato Antigono, figlio di Aristobulo il, ed Antigono può compiere contro Ircano li la « vendetta sul suo corpo di carne »; ma nel 37 a.C. tornano i Romani, torna Erode. Questi è l'Uomo di Menzogna, l'uomo che poi sulla porta del Tempio innalzerà l'aquila d'oro, l'insegna adorata dai Kittim; la sua vittoria è piena, ma la Nuova Alleanza agita ancora, e continuerà sempre ad agitare, l'ideale dell'antico jahvismo offeso. Il quadro storico, in cui si muovono le origini del cristianesimo, è così chiaramente delineato, alla luce dei manoscritti del Mar Morto. La Nuova Alleanza nel paese di Damasco continuò sempre a inalberare la bandiera dell'indipendenza contro Erode e contro i suoi successori, e contro i Romani che essi appoggiavano: qualora le nostre precedenti considerazioni colgano nel vero, potremo vedere nella grande ribellione galilaica condotta da Giuda figlio di Ezechia (los., B. I. n, 56) un movimento connesso con la Nuova Alleanza nel paese di Damasco, tanto più se - come per molte ragioni si deve ritenere - questo Giuda va identificato con il ribelle Giuda galileo cui Giuseppe attribuisce là rivolta contro i Romani nel 6 d.C. (B. I. il, 118; A. I. xviii, 1, 1) e la connessa fondazione della setta degli Zeloti (il sostenitore sacerdotale di Giuda galileo fu il fariseo Sadduco; si noti il nome); figlio di Giuda il Galileo fu Menahem, anche egli uno Zelota (sicario: secondo Flavio Giuseppe), il quale fu condottiero nella rivolta nel 66 d.C. Dunque, come sembra, una serie ininterrotta di ribelli, che si succedono di padre in figlio: Ezechia, ribelle nel 47 a.C.; Giuda galileo, ribelle nel 6 d.C.; Menahem, ribelle nel 66 d.C.; di questi, Giuda galileo indicato da Giuseppe come fondatore degli Zeloti. Purtroppo, nella sua irriducibile ostilità contro gli Zeloti, lo storico Flavio Giuseppe non ci dice nulla di preciso sulla loro 9oaop.; ma è già significativo che egli, pur considerandoli volgari briganti (sicarii, dicevano i Romani), non può evitare di considerare anche
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Giuda galileo un aoptar, cioè fondatore di una cptXoaopx alla maniera di quella dei Farisei, Sadducei, Esseni. - Una rpcx che Flavio, naturalmente, considera diversissima (e ?.oaopLot giudaiche anzi opposta) a quella delle altre ma che in realtà doveva avere (a parte la sua intransigente bellicosità ed ostilità ai Romani) molti punti di contatto con le altre sette, per es. con gli Esseni e in qualche modo (per ciò che riguarda il sommo rispetto alla Legge scritta) coi Sadducei. I manoscritti del Mar Morto ci mostrano, nella comunità della Nuova Alleanza, un organismo inteso a « amare tutti i figli della luce - e odiare tutti i figli delle tenebre » (Manuale di disciplina i, 10); la comunità dei beni, la confessione, la Cena, il rito lustrale, la scomunica contro i trasgressori, sono in funzione di questo amore e di quest'odio, della benedizione data al partito di Dio e della maledizione al partito di Belial (= Satana); la vita nel deserto indica l'allontanamento dalla « città degli uomini d'iniquità » 6, secondo il versetto di
Isaia Preparate le vie del (Signore), raddrizzate nella solitudine il pensiero al nostro Dio. L'ostilità ai figli delle tenebre ispira, in caratteristici tratti di tono guerresco, gli Inni; infine, la Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre, altro testo trovato fra i manoscritti del Mar Morto, chiarisce (qualunque sia il periodo in cui essa fu scritta) il carattere bellicoso delle comunità. Se dunque di questa comunità noi doves simo dare una precisa identificazione, in rapporto alle « quattro filosofie » di cui parla Flavio Giuseppe (Farisei, Sadducei, Esseni, Zeloti), proporremmo di definirla come una comunità di Proto-zeloti , una comunità legata alla rivolta di Ezechia 6 È la prima chiara contrapposizione della città degli uomini alla città di Dio: il motivo che arriverà, infine, ad Agostino. - La problematica dell'ecclesiologia protocristiana è strettamente connessa con questi motivi: cfr. per es. da una parte GOGUEL, Ler premiers temps de l'Église (1949), dall'altra .BRAUN, Nuovi aspetti del problema della Chiesa (trad. it., 1943). - Per il motivo dualistico, ultimamente importanti considerazioni in ALBRIGHT, Von der Steinzeit z. Christentum (trad. ted., 1949, con agg.), p. 360. " Il problema metodico è il seguente: non è possibile identificare la comunità di Qumran senza tener conto della sua caratteristica guerriera, che è fondamentale (ed ora più evidente dopo la
pubblicazione di IQM in
SUKENIK,
'Osar hammegiloth bagge-
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nel 47 a.C., e poi dei suoi discendenti Giuda nel 6 d.C. e Menahem nel 66 d.C. Ed invero, il qine'ah, « zelo » per il precetto divino, da cui gli Zeloti prendono nome, è quel medesimo «zelo del precetto» che si incontra nel Manuale di disciplina (Ix, 23); e quei miseri frustoli di « filosofia » zelotica che troviamo in Flavio Giuseppe - la volontà di Dio come autrice della storia (delle guerre; cfr. B. I. VII, 327; 359) e Dio unico signore e padrone (A. I. xviii, 1, 6) - hanno riscontro nei testi del Mar Morto (per es. negli Inni)'; l'odio mortale contro i Romani è l'odio contro le labbra incirconcise e la lingua straniera di Meghill6th Geniz6th i, xii, 1-2. Ma, anche con questa formulazione, bisogna insistere sul fatto che la Nuova Alleanza, com'essa ci è presentata nel Commentario di Habacuc, è anteriore ai veri e propri Zeloti, all'incirca di una generazione; mentre gli Zeloti in senso stretto, organizzati da Giuda galileo, si costituirono intorno al 6 d.C., viceversa la Nuova Alleanza si deriva dal movimento di quell'Ezechia che molto probabilmente fu padre del Giuda fondatore degli Zeloti, e che comunque fu ucciso nel 47 a.C. È dunque da ritenere che, nella fase della Nuova Alleanza, noi siamo in presenza di una comunità di tipo essenico (ma con tratti « sadducei »), la quale costituisca un precedente immediato alla formazione delle comunità zelotiche (ispirate anche, secondo Flavio Giuseppe, a motivi farisaici); è naturale che ci fossero continui prestiti e reciproche influenza tra le 4 « filosofie » (Farisei, Sadducei, Esseni, Zeloti). Nello stesso tempo, queste indagini ci mostrano come Flavio Giuseppe •abbia (volutamente?) oscurato l'enorme importanza del movimento zelotico. La Nuova Alleanza è, comunque, una pL?oiopx (persino Flavio Giuseppe deve riconoscerlo, ponendo gli Zeloti fra le 4 quanto alla sua importanza culturale basti ricordare che le aggiunte di mano posteriore al rotolo di Isaia trovato ad Ain Feshka recano il testo masoretico, mostrando nuz6th [1954]; cfr. DELCOR, «Nouv. Rev. Théol.», 1955, p. 372). L'identificazione della Nuova Alleanza cogli Esseni sottovaluta proprio questa caratteristica guerriera della Nuova Alleanza: gli Esseni non hanno nulla di guerriero. Ancora: degli Esseni è caratteristica essenziale l'opposizione alla schiavitù; ma la Nuova Alleanza nel paese di Damasco non esclude la schiavitù.
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dunque come il travaglio spirituale della Nuova Alleanza abbia contribuito alla fissazione del testo masoretico, grande patrimonio spirituale dell'intero giudaismo. Uno « zelota » si trova fra i dodici Apostoli, Simone; questo, come anche altri punti, è un tipico aspetto della connessione fra la Nuova Alleanza dei manoscritti del Mar Morto e la Nuova Alleanza (Nuovo Testamento) dei Cristiani. Ma le connessioni non devono farci dimenticare la differenza profonda fra quella Nuova Alleanza, bellicosa comunità di circoncisi, e la Nuova Alleanza cristiana, aperta sinanco ai pubblicani romani. D'altra parte, il rito lustrale è pur caratteristico, oltre che della Nuova Alleanza (zelotica) e degli Esseni, anche di altre sette giudaiche in epoca tiberiana 8: soprattutto di quella del Battista per eccellenza, Giovanni, la cui predicazione si è svolta nel segno del versetto di Isaia caratteristico per il già citato testo del Manuale di disciplina (per questo motivo del Battesimo, che caratterizza altresì la setta degli Esseni, ed arriva agli Ebionisti-battisti cristiani, come poi al non-cristiano Elchasai, cfr. ultimamente THOMAS, Le mouvement baptiste en Palestine et Syrie [19351; e voce Baptistes in « Reall. f. Ant. u. Christ», 8, 1950 9 1167). Secondo la tradizione, l'arresto del Battista cadrebbe nel 27/28 d.C., e ad esso seguirebbe subito il ministero triennale o piuttosto biennale (ultimamente SUTCLIFFE, A Two-Years Public Ministry Defended [19391), di Gesù, il cui processo andrebbe dunque posto nel 30 (31) d.C. Siamo dunque abbastanza lontani dal 47 a.C., anno della uccisione di Ezechia ad opera di Erode, e dal 6 d.C., anno della rivoluzione di Giuda galileo; il mondo giudaico ha ormai dietro di sé la fondazione della Nuova Alleanza e della setta zelotica in senso stretto; ora, col cristianesimo, esso riceve una predicazione che, specie dopo il 42, si aprirà definitivamente ai gentili, ad opera di Paolo. Per la enorme letteratura sulla Nuova Alleanza, cfr. gli scritti già ricordati. - L'opera fondamentale sulla Palestina in epoca di Cristo 'è sempre SCHÙRER, Gesch. d. jiid. Volkes im Zeitalter jesu Christi i-ui 14 (1901-1909); essenziali anche (STRACK-) BILLERBECK,
1
Kommentar zum Neuen Testament aus
Per altri aspetti della disciplina qumranita, cfr. in/ra, App. in.
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Talmud u. Midrash i-iv (1922-1928); BOUSSE'l-G'RESSMANN, Die Religion des Judentums im spathellenischen Zeitalter (1926 3); LAGRANGE, Le Judaisme avant J.-Cbr. (1931); GUIGNEBERT, Le monde juif vers le temps de Jè*sus (1935); da ultimo SIM0N, Les premier Chrétiens (1952); SCHOEPS, Theologie u. Gesch. des judenchristentums (1949); Aus /rùhchristlicher Zeit (1950); cfr. il saggio di MENOUD, L'Église naissante et le judaisme (1952); e sempre JUSTER, Les Juils dans l'empire romain (1914); vanno tenute presenti le varie storie di Israele (sopra tutto quella dello SCHLATTER, G. I. von Alexander bis Hadrian [1925 3 1; quella recente del N0TH, 1950; quella del nostro RICCIOTTI ecc.). - Naturalmente, il quadro della vita politica che si muove intorno alla Nuova Alleanza aiuta a intendere il processo di Gesù come fenomeno storico: tanto più se coglie nel vero la nostra dottrina della Nuova Alleanza come derivata dal fallito processo contro Erode per la sua uccisione di Ezechia senza consultazione del sinedrio. Mentre nel 47 a.C. l'idumeo Erode uccise Ezechia senza consultare il sinedrio (e ciò, probabilmente, perché temeva di trovare delle difficoltà nel sinedrio stesso), viceversa nel 30/31 d.C. Ponzio Pilato, in quanto procuratore romano, non ha fatto che eseguire il giudizio del sinedrio; che è la prassi romana originaria, fondata sul principio che tribunali provinciali giudicano i provinciali. (Importante, ora, PARETI, St. di Roma iv, 1955, p. 374, con rivalutazione della notizia tertullianea sul senatoconsulto di Tiberio intorno a Cristo - ma cfr. supra, ix - e datazione del processo di Cristo al 26 - ma questa cronologia è in contrasto col sincronismo di Luca fra l'anno 150 di Tiberio e la predicazione del Battista, e con la datazione dell'apocalisse di Paolo al 32/33: cfr. supra, § 20.) Senza consenso di Pilato il processo sinedriale sarebbe stato illegale, come illegale fu nel 62 la condanna sinedriale di Giacomo (Jos., Ant. xx, 9, 1). In questo senso si dovrà risolvere il grosso problema del processo di Cristo, il quale da noi è fambso per via di un interessante libro del R05ADI (Il processo di Gesù [1904]), ma anche da ultimo è stato ripetutamente trattato, così da sostenitori della « responsabilità di Pilato » come da sostenitori della «responsabilità del sinedrio »: ZEITLIN, Who Crucified Jesus? (1947 2 ) ; GOGuEL, «Foie et vie», 1949 5 p. 395; IMBERT,
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Est-ce Pilate qui a condamné N.S.J.-Chr. (1947); VAN PAASSEN, Why Jesus Died (1949); GOLDIN, The Case 0/ the Nazarene Reopened (1948); LEROUX, « Cahiers Sioniens », 1947, p. 102; K. L. SCHMIDT, « Judaica », 1945, p. 1; BLINZLER, Der Prozess Jesu (1951); SCHMITTLEIN, Op. cit. (1950). Ricorderei, a confronto, l'intervento del governatore di Macedonia contro i congiurati di Dyme in epoca repubblicana (115 a.C.; cfr. ACCAME, Il dominio romano in Grecia dalla guerra ocaica ad Augusto [1946], p. 42). - Un classico studio connesso alla indagine sui processo di Gesù è quello del M0MMSEN sugli Acta Pilati, in « Ztschr. f. neutestamentliche Wiss. », 1902, p. 108. - Naturalmente, il problema del processo di Gesù è connesso con l'interpretazione e valutazione dei testi evangelici sulla Passione: studiosi come LIETZMANN si sentiranno più facilmente indotti a svalutare la parte relativa al processo sinedriale; cfr. il famoso saggio dei « Sitzungsbh. Preuss. Akad. », 1931, p. 313. - Anche per ciò che riguarda il processo di Gesù, come in genere per tutta l'indagine sui Vangeli, è essenziale una presa di posizione rispetto al « metodo morfologico » in generale. I due classici sostenitori di questo metodo sono DIBELIUS, per es. « Ztschr. f. neutestamcml Wiss. », 1915, p. 113 (su Herodes u. Pilatus), « Rev. hist. phil. rei. », 1933, p. 30 (La signification religieuse des récits évangéliques de la Passion), Jesus (1939) ecc.; e BuLTMANN, per es. Die Gesch. d. synoptischen Tradition (1931 2 Theologie des Neuen Testaments (1948); Das Jobannesevangelium (1950). Per la critica e discussione, cfr. per es., da ultimo, SCHICK, Formgesch. u. Synoptikerexegese (1940); BENOIT, « Rev. bibi. », 1946 ) p. 481; WIKENHAUSER, Einl. (1953), p. 182 1 . - Antiche testimonianze pagane sul Cristo sono: Tac., Ann. xv, 44 (auctor nominis eius Christus Tiberio im) ;
Naturalmente, anche per altri aspetti la problematica sinottica presenta dei punti di vista inconciliabili: basti pensare da un canto all'opera dei VANNUTELLI e del LAGRANGE; dall'altra, per es., a Loisy. Cfr. per es. GONZAGA DA FONSECA, Quaestio synoptica (1952 3 ). - La dottrina di TORREY, che i vangeli siano traduzioni dall'aramaico è combattuta per es. da LITTMANN, « Z'itschr. f. neut. Wiss. », 1935, p. 20; ultimamente BONSIRVEN, « Biblica », 1949, p. 405
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Peritante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat); Suet., Ci. 25, 4 già citata (supra, ix; xi). Testimonianze queste, di epoca traianea-adrianea. Ad esse sembra di poco precedere la lettera di Mara bar Sarapion, uno stoico siriaco. il quale pone sullo stesso piano l'uccisione di Socrate da parte degli Ateniesi, di Pitagora da parte dei Samii, del « re saggio » degli Ebrei da parte di questi ultimi; sembra precedere, perché nello stesso testo Mara bar Serapion appare come fuggitivo a Seleucia, onde spera di tornare nella nativa Samosata, il che ben si adatterebbe ad un periodo non troppo lontano dal 73 (anno in cui i Romani occuparono Samoiata, togliendo la Commagene al re Antioco e attaccando le truppe dei suoi due figli). Cfr. AUFHAUSER, Antike Jesuszeugnìsse (1925 2) Va osservato che l'avvicinamento Socrate-Pitagora-Cristo ( re saggio degli Ebrei »), fatto da Mara bar Sarapion in questa interessante lettera, non è un unicum; un analogo avvicinamento Cristo-Pitagora-Platone-Aristotele appare (ma su un piano di venerazione culturale) nella setta gnostica dei Carpocraziani (il cui fondatore potrà porsi intorno al 130 d.C.; cfr. LIBORON, Die Karpokratianische Gnosis [1938]); se l'avvicinamento è già divenuto fatto culturale intorno al 130, esso poté essere posto su un piano razionale all'incirca 30-50 anni prima, e ciò confermerebbe la datazione della lettera di Mara bar Sarapion al 80-100 circa. (Il sincretismo tardo-romano darà poi la connessione Apollonio di Tiana-Cristo-Abramo-Orfeo attribuita dalla Historia Augusta al larario di Severo Alessandro; e il confronto fra Pitagora e Cristo si troverà ancora, per es., nella polemica antipagana di Aug., Ep. 102.) Altra testimonianza non-cristiana sul Cristo è il famoso testimonium Flavianum, cioè il testo di los., A. I. xviii, 3, 3, sulla cui autenticità si è tanto discusso. Ad ogni modo, l'altro passo A. I. xx, 9, 1 - relativo al processo intentato, con rigido spirito sadduceo, dal sacerdote Anano contro il fratello di' Gesù, Giacomo - mostra per lo meno che Flavio Giuseppe è abbastanza interessato al problema cristiano; e dunque ma raviglierebbe che egli non parlasse, in un passo di A. I. xviii (sulle vicende di epoca tiberiana), intorno al Cristo. Tuttavia, va osservato che Giuseppe non pone il cristianesimo tra le « filosofie » giudaiche (che per lui sono soltanto quattro:
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sadducea, farisaica, essenica, zelotica); io richiamerei il silenzio del pagano Cassio Dione sui Cristiani; cfr. ultimamente DORNSEIFF, « Zeitschr. f. neutestamenti. Wiss. », 1936, p. 129; BIENERT, Der àlteste nichtchristl. jesusberickt (1936); RIcHARDS, « Journ. Theol. Studies », 1941, p. 70. - EISLER, Jesous basileus ou basileusas i-ti (1929-30) ha sostenuto che Gesù fu
condottiero di un movimento ebraico di indipendenza; ma una tale tesi, fondata sulla traduzione slava di Flavio Giuseppe, non ha avuto molto seguito, ed è per, molti rispetti fantastica. - (Cfr. ora LEBRETON, La vie et l'enseignement de Jésus -
Christ [1952]; GIRARD, Le cadre chronologique du ministère de Je`sus [1953].) Il compianto prof. SUKENIK, così benemerito dei manoscritti del Mar Morto, ha anche scoperto recentemente una tomba familiare d'intorno al 42 d.C., con lamentazioni per la crocifissione di Gesù: « Am. journ. Arch. », 1947, p. 351. Sarebbe, questa, la prima documentazione epigrafica del cristianesimo (per il &dry.ux KcLpo. che da taluni si connette col primitivo cristianesimo, cfr. supra, Ix; xi). In ultima analisi, se si toglie il testimonium Flavianum, le prime testimonianze non-cristiane intorno a Gesù rimontano a Mara bar Sarapion e Tacito, cioè all'epoca (flavio-) traianea. A maggior ragione acquista importanza la recente scoperta dei manoscritti del Mar Morto. Se è nel vero la nostra interpretazione, essa ci riporta alla rivolta di Ezechia, e ci fa assistere al sorgere di una setta protozelotica in reazione alla politica di Erode. Le « prospettive » del cristianesimo di epoca claudia, ed i rapporti fra stato e cristianesimo primitivo, sono da intendere alla luce di questa ricostruzione. Vale a dire: la polarità, in seno al cristianesimo, di « atteggiamento paolino » (lealtà all'impero: cfr. Rom. 13) e atteggiamento millenaristico-apocalittico (ostilità), è un aspetto essenziale dell'epoca neroniana (ELERT, Zwischen Gnade u. Ungnade [1948], p. 38); noi la ricondurremo alla polarità giudaica di « atteggiamento nel senso di Ircano it e di Erode » (rispettivamente, il sacerdote empio e l'uomo di menzogna del Comm. Habacuc) e « atteggiamento nel senso del Comm. Habacuc ». Di fatti, non è un caso che TEICHER abbia identificato (locc. citt.), il sacerdote empio con Paolo: nell'errore di TEICHER c'è pure una parte
I manoscritti del Mar Morto
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di verità, in quanto Paolo riprendeva, su un piano mondiale, l'atteggiamento di lealtà ai Kittim che il Comm. Habacuc rimprovera a Ircano n 10. Di qui la problematica Chiesa-Stato,., per i cui sviluppi, fino al basso impero, cfr. passim in questo libro; e soprattutto il già citato saggio di STRAUB sulla Civitas Dei di Agostino; RAHNER, Abendlàndische Kirchenfreiheit; KAMLAH, Christentum u. Geschichtlichkeit. Tutto ciò sarà più chiaro negli sviluppi del problema « Christ et le temps », su cui in/ra, App. in ".
10
Del resto, molta storia del giudaismo posteriore si muove fra
Kittim e Javan, fra Romani e Parti: come sarà chiaro nell'epoca di Traiano. Si ricordi che la rivolta sotto Adriano è stata provocata (come mostrammo supra, § 33) dall'imperatore romano: allora cristianesimo e giudaismo sono già separati per sempre. 11 Per i rapporti fra cristianesimo primitivo e « Gnosis als Weltreligion » ( QuISPEL) cfr. supra, xxii. - Quanto ai tentativi (soprattutto di REITZENSTEIN) di illustrare il cristianesimo primitivo con la religione mandaica, essi si devono ridurre al riconoscimento che motivi per es. essenici possono aver influito sulla formazione del mandeismo. Poiché l'unico dato storico assclutamente sicuro sui Mandei si riferisce alla persecuzione di essi da parte del <(Cristo romano » ( rwmj'), così noi aggiungeremo questa setta a quelle perseguitate da Teodosio i come sette di tipo manicheo. In tal caso, bisognerà far riferimento a C. Th. xvi, 5 7; 9; 11: cfr. C. Th. xvi, 5, 65 (di Teodosio n). Per lo stato romano, che addirittura considera manichei gli gnostici, i Mandei erano senz'altro dei « Manichei ». Più deboli dei Manichei veri e propri (i quali aevano il vantaggio di un'ampia diffusione in tutto l'impero), i Mandei non hanno resistito troppo a lungo alla persecuzione e infine hanno dovuto abbandonare l'impero: io pongo quindi la loro fuga dall'impero nell'epoca di Teodosio ii o subito dopo. - Anche la letteratura sul mandeismo è enorme: cfr. per es. BRANDT, Die Mandàer, ihre Relzgion u. ihre Geschichte (1915); TONDELLI, Il mandeismo e le origini cristiane (1928); Loisy, Le mandézsrnc et les origines chrét (1934); DR0WER, The Mandaeans of Iraq a, Iran (1937); THOMAS,
op cit.;
FURLANI, « Atti Accad, Lincei », 1948, Mcm., 3; « Studi Arangio Ruiz » iii, 1953, p. 13; or ora è apparso l'articolo sul mandeismo nel « Dictionnaire de la Bible «, Suppi., Fasc. xxvi. I principali testi mandei (Ginz; Johannes/'uch, Mandàische Liturgien) pubblicati da LIDZBARSKI (risp. 1975. 11: 1920) Cfr. anche ALBRIGHT,
op. cii., pp. 362; 455.
Appendice terza IL PROBLEMA DELLA SEPOLTURA DELL'APOSTOLO PIETRO E LE RECENTI ESPLORAZIONI. «ARCHEOLOGIA CRISTIANA» E STORIA ANTICA. « CRISTO E IL TEMPO »
Ai primi tempi dell'epoca severiana, precisamente d'intorno al 200, il presbitero romano Gaio ci dà la prima attestazione sul « trofeo » dell'apostolo Pietro a Roma. Questa attestazione imposta il problema della tradizione sulla tomba dell'apostolo in Roma: un problema che investe tutta la storia dell'impero romano. Che alla comunità di Roma fosse riconosciuta, già da Ireneo, una potentior principalitas, abbiamo già visto in questo libro (cfr. § 58); e sappiamo anche che questa potentior principalitas si fondava teologicamente sulla concorde tradizione dell'insegnamento di Pietro a Roma, tradizione su cui aveva insistito, nell'epoca di Domiziano (supra. § 30), la lettera di Clemente. Sul piano politico, tale potentior principalitas si sostesteneva sulla « eternità di Roma » (cfr. Ammiano, supra § 107); e difatti nel secondo secolo i fondatori di alcuni particolari movimenti cristiani (per es. Valentino, Marcione) hanno sempre tentato, se pur invano, di diffondere il loro pensiero in Roma e attraverso l'autorità della comunità romana; Montano si oppone a tale autorità. Ci resta da vedere come si atteggiass questo problema nel corso del iii secolo, in rapporto al culto di Pietro in quanto martire; e quali fossero gli sviluppi di esso nella tradizione del iv e v secolo; una questione, come oggi si direbbe, « di attualità », specialmente dopo la pubbli-
cazione delle Esplorazioni sotto la Confessione di S. Pietro in Vaticano i-ti di APOLLONJ GHETTI, FERRUA, josi, KIR5cHBAUM (con app. SERAFINI) (1951), che rivelarono (i, p. 138) il « trofeo » attestato da Gaio.
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Lo stato della questione è il seguente. Intorno al 200, come già accennammo, il presbitero romano Gaio, « vissuto all'epoca di Zefirino vescovo di Roma » (Eus., H. E. ii ) 25),. scriveva un dialogo polemico contro il montanista Proclo: poiché i montanisti (cfr. supra, §§ 42; 46) si dichiaravano « pneumatici » e insistevano nell'affermare, contro gli « psichici », che il charisma religioso era ad essi garantito dalla tomba di Filippo c-r(v e delle sue figlie in lerapoli (Eus., H. E. iii, 31: 6 &cYTLV &xcfl,- così Gaio rispondeva a Proclo che l'autorità della comunità di Roma era ben più alta, perché « se vuoi andare alla via del Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei » ( Tp67rwx « le tombe », in corrispondenza a 6 di Filippo e delle sue figlie) « dei fondatori di questa chiesa » (cioè Pietro, e rispettivamente Paolo). Intorno al 200, dunque, la comunità di Roma riteneva concorde, e senza discussione alcuna, che il trofeo o tomba di Pietro era al Vadcano. Ma nella seconda metà del m secolo, e anche dopo nel iv, troviamo culto di Pietro ad Catacumbas, cioè all'attuale S. Sebastiano: esso è lì attestato da numerosissimi graffiti (da ultimo MARICHAL, « La nouv. Clio », 1953, p. 119) nella « triclia » o sala di banchetti funebri in onore di Pietro e Paolo. Questa documentazione epigrafico-archeologica è confermata da due testi del Iv secolo: la Depositio Mari yrum (nel cosiddetto Cronografo del 354) e, posteriore di alcuni decenni, un epigramma del papa Damaso. La Depositio martyrum, infatti, reca: III Kal. lui. Petri in Catacumbas et Pauli Ostense, Tusco e! Basso cons(ulibus): vale a dire, pone la depositio di Pietro ad Catacumbas, e a quella di Paolo aggiunge la data del 258, consolato di Tusco e Basso (si tratta di un errore, sul tipo di quelli dei Konsuiate nei Regesten del SEECK? Effettivamente, l'anno del martirio andava posto intorno al 64, in cui era console un altro Basso, sicché sarebbe ammissibile un errore di data, od anche, meglio, una volontaria correzione 1; Si potrebbe pensare che, per conciliare le opposte tradizioni « vaticana » e ad Catacurnbas, si correggesse Basso et Crasso in Tusco et Basso cons.: in tal modo, la correzione avrebbe trasformato una indicazione di depositio in indicazione di translatio. Nel Martyr. Hieron. lo scambio dei due consolati è evidente: passi sub Nerone Basso et Tusco coss. - Tuttavia, prospetterei un'altra soluzione,
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ad ogni modo, è certo che la Depositio 'martyrum localizzava una depositio di Pietro ad Catacumbas). Non meno importante, anzi in un certo senso più complesso, è un testo del papa Damaso. Questi dichiara, in un suo epigramma, la superiorità (o non inferiorità) di Roma nei riguardi dell'Oriente (Oriens), giacché, egli dice, se gli apostoli vennero dall'Oriente, d'altra parte Roma li può considerare suoi cittadini (suos cives); con l'avvertenza iniziale che « chi cerchi le reliquie » ( nomina: cfr. CARCOPINO,
Etudes d'bistoire chrétienne [1953], p. 261) « di
Pietro e di Paolo, deve sapere che essi precedentemente (przus) erano sepolti (habitasse) ad Catacumbas » (hic: che si tratti della località ad Catacumbas è certo, perché l'epigramma era tradizionalmente riferito a quella località, nelle cui vicinanze ne fu trovata una copia medievale). Dunque, la Depositio e l'epigramma di Damaso localizzano ad Catacumbas: la localizzazione di Gaio, cioè la localizzazione al Vaticano, è considerata da Damaso, per altro, una localizzazione cattedrale e definitiva Damaso[?] dirà altrove: una Petri sedes, s'intende al Vaticano). Nel v secolo sembra essere stato redatto, s'intende per questa parte, il Martyrologium Hieronymianum, il quale sostanzialmente ci riconduce alla localizzazione di Gaio (in Vaticano Petri, Pauli vero in via Ostiensi) ma aggiunge utrumque in Catacumbas. La biografia di papa Cornelio nel Liber Pontificalis racconta che le reliquie di S. Pietro furono trasportate de Catatumhas in Baticanum, « di notte », dal papa Cornelio (251-253): questa tradizione sembra in contrasto con i dati di altre biografie dello stesso Liber Ponti/icalis (così, giustamente, RuysSCHAERT, « Rev. hist. eccl. », 1954, p. 27). D'altra parte, Gregorio Magno pone la localizzazione originaria ad Catacum-
che credo preferibile. La Depositio martyrum indica il 258 nella linea relativa a Paolo, non a Pietro: penserei che essa non conosca alcuna traslazione di Pietro, ma solo una traslazione di Paolo al l'Ostiense nel 258 (che è una tradizione certamente errata - come mostra Gaio - ma tuttavia diffusa, come mostra il Liber Ponti/ica/is, che pone tale traslazione di Paolo nel 251-253, aggiungendovi una pretesa traslazione di Pietro al Vaticano nella stesso 251-253). Secondo l'acuto art. di BETTINI, « Jahrb. òsterr. byz. Ges. », 1951. p. 67 la datazione Tusco et Basso coss. si riferisce agli inizii del culto.
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bas, ma subito dopo (dunque, più o meno, nello stesso periodo 64-68) al Vaticano. Per interpretare queste diverse tradizioni, si sono proposte molte ipotesi: per es. si è pensato (CARc0PIN0; è l'opinione oggi più diffusa) che le reliquie dell'apostolo nel 258 fossero portate dal Vaticano ad Catacumbas (ma allora come si spiegherebbe il prius - che sembra in senso assoluto di Damaso? come la tradizione del Liber Ponti/icalis, che parla, viceìersa, di traslazione al Vaticano nel 251-253?); oppure che prima del 200 le reliquie dell'apostolo fossero portate da ad Catacumbas al Vaticano (ma allora come si spiegherebbe il culto ad Catacumbas nella seconda metà del 111 e nel iv secolo?); ecc. A mio giudizio, è probabile che la questione si riduca a un problema di fonti. Consideriamo Gaio: egli scrive nel 200, ed esprime una indiscussa opinione della comunità romana di quel tempo, opinionè tanto indiscussa che la comunità romana può contrapporla ai montanisti e a chiunque altro'. Consideriamo invece Damaso: egli arriva al vescovato (366-384) in seguito ad una violentissima e sanguinosa lotta contro il suo avversario Ursino; in questa lotta, la quale poteva ben connettersi con contrasti fra « quartieri » di Roma, Ursino era sostenuto dai « trasteve rini » (il suo « centro » principale era, di fatti, S. Maria in Trastevere), mentre Damaso doveva avere séguito (oltre che, naturalmente, nella ix reg.) anche a sud, dal Laterano all'Appia. Or queste lotte violente tra partes, « partiti » (cfr., per l'espressione, Amm. XXVII, 3, 13), non erano qualcosa di nuovo all'epoca di Damaso: avevano caratterizzato la vita della comunità cattolica di Roma nell'epoca immediatamente precedente a Damaso (conflitto fra Liberio e Felice, quest'ultimo sostenuto anch'egfi dai « trasteverini »); ed è probabile che le diverse tradizioni sulla tomba di S. Pietro riflettano contrasti di quartieri. - Altra letter.: CAPOCCI, « St. doc. hist. iuris », 1952, p. 204; TOYNBEE, « Journ. Rom. St.», 1953, p. 1; LAsT, ibid., 1954, p. 114; O'CALLAGHAN, 2 Non importa che Gaio, nella sua polemica antimontanista, andasse oltre, rigettando per es. l'Apocalisse di Giovanni: egli nel suo dialogo vuol esprimere il punto di vista di tutta la comunità di Roma. Cfr. supra, 5 59.
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« Bibl. Arch. », 1953, p. 69; MOHRMANN, « Vig. Christ. », 1954, p. 154; ToLo'rTI, Memorie degli Apostoli in Catacumbas (1953); per una tradizione della H. A. su Elagabalo e le tombe del Vaticano: HARTKE, Rm. Kinderkaiser, p. 389, 3. - Non c'è dubbio che nel 336, in cui fu composta la Depositio martyrum, la depositio di Pietro venisse celebrata ad Catacumbas, e che tuttavia già papa Silvestro, morto nel 335, sia stato l'effettivo restitutore della localizzazione in Vaticano. Ne concluderemo che le nostre fonti riflettono due tendenze: una, con localizzazione in Vaticano (tendenza « tra steverina »); un'altra, che parla di originaria localizzazione ad Catacumbas. La prima tendenza è più antica; è seguita infatti da Gaio presbitero nel 200; è poi rappresentata da Silvestro papa (come dimostra la costruzione della basilica Vaticana) in epoca costantiniana, dal Martyrologium Hieronymianum nel v secolo. La seconda tendenza si è formata dopo la costituzione di partiti nella comunità cristiana di Roma, nel III secolo (cfr. le considerazioni di A. M. SCHNEIDER, « Nachr. Gott. Ak. », 1951; del p. MOHLBERG, discusse ultimamente da GRÉGOIRE, « La Nouv. Clio », 1953, p. 52); essa è rappresentata da Marco (Depositio mari yrum) e Damaso, ammiratore di Marco, ed ha una ricca documentazione archeologica nei numerosissimi graffiti ad Catacumbas della seconda metà del in secolo e dei primi del iv. Rivalità fra « trasteverini », i quali tendono al Vaticano, e « metroniani », i quali tendono ad Catacumbas, è alla base della doppia tradizione; ma la più antica e originariamente accettata è, ripetiamo, quella vaticana. (Si noti che l'importanza del Tra stevere era aumentata con l'inserzione della Regione xiv entro le mura di Aureliano 3) (AuDIN, « Byz. », 1955, p. 265.) Le citate Esplorazioni di APOLLONJ GHETTI-FERRuA-JosIKIRSCHBAUM (1951) hanno rivelatò, appunto, una necropoli pagana con posteriori infiltrazioni cristiane: che è una indiretta conferma dell'affermazione del presbitero Gaio, essendo ben naturale che nel 200 non si rifuggisse dall'indicare la tomba di Pietro in un complesso commisto di tombe pagane, e che solo in un secondo momento - quando (nello stesso Basti rinviare, in genere, alle opere di topografia romana: per es., di LUGLI.
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iii secolo) i Cristiani cominciarono ad avere ripugnanza per le tombe pagane - i « non trasteverini » sostituissero la localizzazione in Vaticano con quella ad Catacumbas. Costantino e il papa Silvestro, con l'erezione della basilica Vaticana, restituirono dunque il culto alla localizzazione attestata da Gaio per il 200. - Tra le tombe rivelate dalle Esplorazioni alcune sono particolarmente notevoli. Soprattutto è importante il mausoleo pagano dei Valerii, dove si trova altresì, in una nicchia, la figurazione di due teste (una delle quali rappresenta l'apostolo Pietro), e ancora un'epigrafe (come sembra, della seconda metà del in secolo) con preghiera all'apostolo Pietro Petrus roga(to?) C( hri)s( tum) pro sanctis hom[ini]bus Chrestianis [ad] co(r)pus tuum sepultis, (GUARDUCCI, Cristo e S. Pietro in un documento precostantiniano della necrop. vaticana, 1953, p. 18), ed altre epigrafi (cfr. supra, S 98, n. 25) fra cui Phoeniceus neus avis (GUARDUCCI 32 4) con allusione alla Fenice simbolo della Resurrezione (in rieus propongo di vedere nient'altro che dato il tono grecizzante di queste epigrafi; dunque, neus avis = « uccello rinato », a cui subito corrisponde vibus « vivo », unicus avis, ecc. 3), Altro sepolcro particolarmente notevole è La benemerita editrice interpreta altrimenti la correzione nic. Nell'interpretazione da me proposta, neus è necessario, l'epigrafe vuol insistere sul concetto di neus « rinato ». La cosa è degna di rilievo, perché in tal modo appar più evidente la connessione delle iscrizioni sulla Fenice, che' intenzionalmente indicano la « rinascita », con le altre teologiche di catabasis, anabasis, anastasis, dexi[o]stasis. Sull'evoluzione dell'idea della Fenice, da Ecateo (Porph. ap. Eus., Praepar. evang. x, 3, 166 B: cfr. il mio Fra Or. e Occ. [1947], pp. 298-299) e poi Erodoto fino al cristianesimo, letteratura in GUARDUCCI 89, n. 71; si può aggiungere la Fenice nella villa di Piazza Armerina (su cui supra, S 61). - (Si noti che, nonostante il contenuto pagano delle figurazioni di Piazza Armerina, la villa non deve necessariamente attribuirsi a un proprietario di religione pagana: ogni latifondista, anche cristiano, non trovava alcuno scrupolo a raffigurare nella sua villa motivi pagani [cfr. « Doxa », 1951, p. 1381. In particolare, per ciò che riguarda la villa di Piazza Armerina, non si può escludere che essa appartenesse ad un latifondista cristiano, per es. a un Sabucius [< Doxa », 1951, p. 1361: così spiegherei il nome del latifondo piazzese Sabuggio; cfr. altresì Casale Sabuci ecc.) - Molte' altre epigrafi rivelate dalle esplorazioni al Vaticano hanno importanza storica: tra esse può ricordarsi l'iscrizione di Evenzio, morto nel luglio-agosto 407 (supra, LXXII).
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quello dei Giulii, con figurazioni cristiane, per es. di ChristusSol, del iii secolo (forse ultimi decenni?): cfr. PERLER cit. supra, LI. Per ulteriori discussioni sul sepolcro di Pietro, si rimanda agli scritti citati nelle ricordate Esplorazioni, in CARCOPINO, Op. cit.; GUARDUCCI, op. cit.; RUYSSCHAERT; MARROU, Fouilles du Vatican, « Dict. arch. chrét. lit. », 1953; CULLMANN, Petrus. júnger-Apostel-Mártyrer (1952); cfr. anche, ultimamente, LEMERLE, « Rev. hist. », ocr. 1952, p. 205; PETERSON, « Schweizer Rundschau », 1952, p. 326; A. M. SCHNEIDER, « Theol. Literaturz. », 1952, p. 321. - Tenta-
tivi di precisare la data della costruzione della basilica costantiniana, riducendola al periodo 322-350, in CARCOPINO, OP. cit., pp. 129-133 (cfr. SESTON, « Cahiers archéol. », 1946, p. 153) e GUARDUCCI, Op.cit., pp. 65-69; è certo che la costruzione ebbe termine sotto un figlio di Costantino (DIEHL, Inscr. Lai. Christ. Vet. 1753), il quale potrebbe essere Costante - ma potrebbe anche essere Costanzo ii dopo il 350 (si noti che un'iscrizione posta da Costante parlerebbe meglio di lui e dei senior Augustus Costanzo ii, piuttosto che di un solo auctor; e che anche l'iscrizione urbana dell'obelisco di Costanzo ii - cfr. i miei Aspetti sociali [1951], pp. 125128 - è caratterizzata dal confronto con l'opera del genitor Costantino). La discussione sulla tomba dell'apostolo Pietro può concludersi con alcune osservazioni generali sulle sepolture cristiane. Nei primi due secoli i Cristiani non hanno avuto alcuna ripugnanza a farsi inumare (essi non hanno mai cremato) nei sepolcreti pagani; né poteva essere altrimenti. Nel III secolo essi hanno le loro areae sepulturarum, che suscitano (come vedemmo supra, § 46) le ire dei pagani; è l'epoca delle catacombe con le loro pitture simbolistiche (ormai è abbandonata la « datazione alta », « datazione DE ROSSI », delle più antiche catacombe; alcuni illustri specialisti - STYGER; CECCHELLI - pongono al 150 circa qualche pittura catacombaie antichissima, come il soffitto con Daniele del doppio cubicolo XY in Lucina; noi propenderemmo per l'epoca da Commodo in poi, in base alle considerazioni svolte a § 58; ad ogni modo, tutti si è d'accordo sull'inizio delle tombe ce meteriali, nella loro stragrande maggioranza, al III secolo).
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In questo stesso 111 secolo, nella seconda metà, si è arrivati a « creare » una nuova tradizione sul sepolcro di Pietro, tradizione sollecitata da conflitti interni della comunità romana (conflitti di quartieri); tale tradizione, contrariamente a ciò che concordemente si riteneva d'intorno al 200, affermò che l'apostolo Pietro era stato sepolto in un cimitero cristiano, ad Catactmbas, e non al Vaticano. Non deve meravigliarci che centinaia di graffiti ad Catacumbas illustrino questa tradizione, né che Damaso le abbia prestato fede: essa è tipica dell'intransigenza sopravvenuta nel corso del iii secolo, e parzialmente continuata nél iv. Ma già in epoca costantiniana il papa Silvestro, localizzando al Vaticano il culto delle reliquie di Pietro, ha ristabilito la localizzazione vaticana attestata e indiscutibile per il 200; e questa localizzazione vaticana ha avuto il sopravvento, nonostante l'oscura insistenza su una localizzazione ad Catacumbas nel famoso ed autorevole epigramma di Damaso, e poi nel Liber Pontificalis. Del resto, ormai la pace cristiana aveva anche reso possibile un fatto di importanza storica mondiale: la definitiva vittoria dell'inuii'azione sull'incinerazione; e proprio a Roma il contrasto fra cristianesimo vittorioso e ultime resistenze paganeggianti era quanto mai attenuato (cfr. su questa attenuazione, le mie considerazioni in « Doxa », 1951, pp. 138-144). qui il luogo di ricordare che la vera e propria ricostruzione della storia culturale tardo-romana, dal In secolo al v, è merito soprattutto delle ricerche di storia dell'arte tardoromana (« cristiana »). Qui si ricordino, oltre WICKHOFF (del quale per es. Arte romana, trad. it. M. ANTI, pref. C. ANTI) e RIEGL (del quale si è ora pubblicata - 1953 - la trad. it. di Industria artistica tardo-romana, con introd. di BETTINI e app. di PACHT), alcuni scritti recenti, dove si troverà ulteriore bibliografia: GERKE, Die Christl. Sarkophage der vorkonstantinischen Zeit (1940); Das heili,ge Antlitz (1940); Christus in d. spàtantiken Plastik (1948); « Ztschr. f. Kir cheng. », 1940, p. 1; WIRTH, Rmische Wandmalerei (1934); WEST, « Gymnasium », 1942, p. 18; BETTINI, L'arte dalla fine del mondo antico (1948); Pittura delle origini cristiane (1942?); BIANCHI BANDINELLI, « Acme », 1952, p. 615; D.
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1950; PACE, soprattutto Lv); GRABAR, Mar(supra, a proposito di Piazza Armerina tyrium i-u (1946); le già citate opere di CECCHELLI (per es. I monum. crisi', eretici di Roma; Mater Christi; importanti per lo storico le ricerche di questo studioso sui mausolei del basso impero in « Atti iii Conv. Naz. St. Archit. », 1940, p. 143; e inoltre la rassegna in « Doxa », 1950; ecc.); cfr. anche l'eccellente rassegna del PALLOTTINO, « Doxa », 1949 (archeol. e storia dell'arte antica) e i lavori sull'arte del iii secolo (anche dello stesso PALLOTTINO) ivi citati'. - Si deve a molte scoperte di « archeologia cristiana » (cioè « tardo-romana ») una gran parte del nostro arricchimento di conoscenze sulla storia culturale dell'impero. Basti pensare all'ipogeo scoperto nel 1919 al Viale Manzoni in Roma, il famoso ipogeo degli Aurelii. Per ciò che riguarda la sua datazione, lo studioso di storia politica può trarne importanti suggestioni. Si sarebbe tentati, forse, di vedere, nei quattro fratres et conliberti sepolti nell'ipogeo, un qualche rapporto con la potente famiglia equestre degli Aurelii Papirii. Infatti, il doppio nomen Aurelius Papirius di uno di essi potrebbe far pensare, forse, ad un rapporto con tale famiglia, la quale, oriunda dall'Asia, aveva dato un prefetto d'Egitto sotto Commodo, e si trova attestata in Roma, in un suo rampollo tribuno al pretorio, per l'epoca di Caracalla od Elagabalo (A. STEIN, Der rm. Ritterstand cit., p. 188; cfr. ultimamente BARBIERI, L'albo senat. cit., n. 1462). Ad ogni modo, si potrà datare l'ipogeo verso l'epoca di Caracalla, od anche più avanti nel iii secolo (la suddetta famiglia è attestata in Roma fin verso l'epoca di Aureliano, intorno alla quale un suo membro è divenuto seLEVI, « Annuario Sc. arch. Atene »,
6 Una bibliografia generale sarebbe qui un fuor d'opera. La migliore introduzione è sempre KAUFMANN, Handbuch d. christl. Arch (1922 2 ). Scritti come quelli di F. J. DÒLGER (il classico IXOT) di KLAUSER (Die Kathedra im Totenkult [19271) ecc. sono di enorme interesse per lo storico. Le opere di DELBRUCK; L'ORANGE; KOLLWITZ sono anche essenziali. Ricerche particolari - per es. di C. ANTI; ARIAs; BECATTI; DE CHIRIc0 ecc. - vanno tenute presenti. 11 problema della formazione dell'arte tardo-romana (come di tutta la cultura tardo-romana) è anche il problema del « fondo » provinciale: cfr. soprattutto FERRI, Arte romana sul Reno e sul
Danubio.
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natore). Le pitture dell'ipogeo sono veramente preziose per lo studioso di storia antica. Interpretazione di tutte la più acuta è quella del CECCHELLI, I monurn. christ.-er. di Roma cit., il quale vede nella seconda scena del i ipogeo l'ingresso dell'Anticristo in Gerusalemme, più o meno come l'Anticristo di Ippolito. (Cfr.. sull'idea anticristica, supra, § 59.) Ma molti punti restano oscuri. Quali sono i rapporti tra questa figurazione anticristica e le figurazioni di adventus (su cui ora RYBERG,
Rites o/ State Religion in Roman Art [19551)?
Quali sono i caratteri della eventuale concezione anticristica in questa figurazione? - Naturalmente, tutti i problemi della storia spirituale cristiana illustrano aspetti culturali della storia imperiale. Per es., i problemi della storia liturgica: è recentissima la scoperta di PAGLIARO (< Rend. Linc. », 1955) che ite missa est indica l'avvenuto invio dell'eucaristia agli assenti e non arieggia formule costituzionali di tipo classico (rinvio di ecclesia). - Cfr. i lavori di storia liturgica di Ei SENHOFER; BAUMSTARK, ecc. - Perciò la storia spirituale del cristianesimo (su cui, ora, un'eccellente sintesi di SCHNE1DER 1-11. 1954) illustra i momenti cruciali per l'impero: il principato pagano si chiude nell'epoca tetrarchica, mentre il cristiano Arnobio condanna aspramente Roma. - Per ciò che riguarda problemi generali, si deve a studii di storia dell'arte tardo-romana, se oggi noi possiamo seguire, per es., il trapasso, intorno al 250, dal mondo della caccia del destino e della morte al mondo dell'ideale filosofico largamente diffuso (si ricordi specialmente. GERKE, Op. cii.; CUMONT, Rech. sur le symb. fun. cit.; cfr. MARROU, Mousikos aner; ecc.); basta questo punto perché si intenda con tutt'altra comprensione quel periodo che siamo abituati a designare come « anarchia militare » (cfr. le nostre osservazioni nel testo, Parte quarta). Allo stesso modo, le ricerche di archeol. crist. aiutano a porre il problema della continuità fra il in secolo e basso impero (sul quale passim in questo libro, e specialmente Parte quinta) anche in aspetti concreti, come per es. nella tormentata questione dell'« origine della basilica costantiniana »: l'architettura basilicale cristiana preesisteva a Costantino (per es. nella basilica di Amwas, che il p. VINCENT pone nel 222), oppure no? fino a che punto l'architettura basilicale cristiana si connette
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con le precedenti basiliche per culti misterici pagani (cfr. per es. supra, XLIX)? Cioè: entro quali limiti Costantino - l'uomo politico più rivoluzionario della storia d'Europa - è stato anche un rivoluzionario nella creazione di un'arte cristia na ? - Ma soprattutto: lo studioso di storia politico-sociale imparerà qualcosa per la storia della tarda romanità, se seguirà il fenomeno che dalla « democratizzazioi* e Lo'Xp/ix » (iii secolo) conduce alla « società a piramide » (impero costantiniano), interpretandolo attraverso i suoi precisi riflessi artistici: giacché il processo della società gerarchizzata è qui del tutto parallelo al processo di quella « prospettiva charismatica », che si esprime artisticamente nella frontalità, « proporzione gerarchica », centralizzazione, vittoria dell'arte po polare ecc., da Commodo in poi. Spiritata brutalità nelle figurazioni dei tetrarchi a S. Marco in Venezia e disperata ultima difesa del denarius (la moneta della borghesia) sono feno meni paralleli; testa grandiosa di Costantino ai Conservatori e vittoria di un ideale charismatico sono altrettanto paralleli. - Infine: la grossa questione dell'« archeologia » cristiana, il contrasto fra interpretazioni fondate sul « simbolismo » (su cui insisteva WILPERT) e interpretazioni fondate sullo « storicismo » (su cui insisteva STYGER), sembra risolversi nella considerazione di una prevalenza simbolistica nel 111 secolo (ma con le limitazioni che possono farsi a proposito dell'ipogeo degli Aurelii), di un tessuto « storico » (narrativo) nel iv secolo (cfr. anche, da ultimo, l'ottimo saggio di K0LLWITZ, Das Christusbild des dritten Jbdts. [1953] cit.). Ma il passaggio dal simbolismo del iii secolo allo « storicismo » del iv non è dovuto (come pensa per es. KOLLWITZ, p. 38, in base ai tràditi schemi storiografici sull'« anarchia militare ») alla distruzione fisica della classe dirigente di iii secolo. Connesso con questo è il problema dei rapporti fra basilica profana e cristiana; cfr. ora LANGLOTZ, « Festschr. Jantzen », p. 30; VON GERKAN, « Rom. Quartalschr. », 1953, p. 129. - Anche per altri rispetti il problema dell'architettura basilicale si converte in problema di storia sociale-politica: per es. la spiegazione « non martiriale » del transetto, e l'eventuale spiegazione « liturgica » di esso SoTIRIou, si connettono con la valutazione della affluenza di fedeli nelle basiliche (ultimamente LEMERLE, « Bull. Corr. Hell. », 1953, p. 650).
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Noi diremo al contrario (come a più riprese illustrammo in questo libro) che la classe dirigente senatoria e alto-borghese di in secolo ha acquistato, nel iv, con la vittoria del solidus, un assoluto dominio sulle classi inferiori, ma appunto per questo è riuscita ad imporre - attraverso la « società a piramide » - una « prospettiva charismatica » la quale può conciliare il simbolo con la diretta realtà. La classe dirigente del iii secolo sarà sostituita, nel iv, da una classe dirigente più « naiv » (uso l'espressione di K0LLwITz) ma non perché le vicende del iii secolo l'abbiano fisicamente distrutta, sì invece perché essa, pur continuando la sua antica duplice tradizione (sena tori a-burocratica), ha comunque superato la crisi, con la creazione di una nuova sociologia. (Sulla schiavitù' cfr. ora WESTERMANN, « Memoirs of the Amer. Philos. Soc. ») 1955.) Pr'oprio la problematica dell'interpretazione « storicistica » nelle contrapposte tendenze di WILPERT e STYGER, e il concetto di una società a « prospettiva charismatica 8 » possono autorizzare una messa a punto sul problema dell'interpre tazione cristiana del tempo, insomma sul problema - oggi particolarmente discusso - « Christ et le temps » (supra, S 59; cfr. § 19). In un suo libro di questo titolo (1947), il CULLMANN ha contrapposto, infatti, « vision hellénique du temps » e interpretazione giudaico-biblica del tempo: la « vision hellénique », in quanto nozione di durata ciclica (a-lineare), penetrerebbe nel cristianesimo in seguito alla ellenizzazione di esso (supra, xxii); viceversa, la nozione giudaico cristiana, nella sua purezza, insisterebbe sulla « puntualità », per così dire, dell'Evento. In questa interpretazione di CULL• MANN, la concezione biblica della storia si muove intorno ad un « centro », caratterizzato dalla « irrepetibilità » dell'evento salutare, e posto a fondamento di tutti gli altri momenti
8 Da connettere con l'interpretazione dell'intuizione spaziale (« anti-spaziale ») teologica, su cui la polemica si è fatta, ora, più viva - pro e contro BETTINI - a proposito della pubblicazione di S. Maria di Castelseprio (BOGNETTI; CHIERICI; DE CAPITANI D'ARzAGo, 1948). - (Sul problema « cristianità e spazio », « cristianità e tempo », cfr. ora BOMAN, Das hebràische Denken im
Vergleich mit dem griech. [1953].)
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salutari. Di qui la nuova interpretazione di limiti temporali (noi diremmo, « puntualizzati ») entro cui CULLMANN riduce la caratteristica di Pietro-pietra nella sua recente monogra-
fia sull'apostolo (Pelrus. Junger-Apostel-Màrtyrer [19521, cit.): secondo CULLMANN, il concetto della « durata divina », e dunque del primato di Pietro (in quanto la successione avrebbe validità assoluta), sarebbe da considerare per eccellenza ellenico, rispetto al concetto giudaico-cristiano di un Pietro fatto pietra dalla Chiesa solo per se medesimo e per un certo tempo (fino al 42, in cui la comunità di Gerusalemme entra sotto la guida di Giacomo). A prescindere dai ri flessi confessionali di questa problematica, va rilevato che essa può definirsi scientificamente solo se ci si limita a sot tolineare la polarità di momento obiettivo e momento subiettivo nella valutazione del charisma. Ma tale polarità (essenziale alla storia dei sacramenti cristiani: supra, § 64) difficilmente può ridursi a polarità di « idealismo greco » e « realismo giudaico-cristiano » (si ricordi LABERTHONNIÈRE): Si tratta, piuttosto, di polarità che si manifestano all'interno della stessa esperienza cristiana, senza che possa ricondursi a precise distinzioni etniche. (Si confrontino le conclusioni del libro di LEUBA, L'institution et l'événetnent [1950], secondo cui si distinguono da una parte « titoli cristologici istituzionali », dall'altra « titoli di evento », e l'evoluzione dogmatica del basso impero sostituisce la categoria neotestamenta ria dell'unità' di Cristo fondata sul tempo con la categoria statica dell'unità di Cristo fondata sulla sostanza.) - In ogni caso, l'importanza del problema « Christ et le temps » nell'interpretazione di CULLMANN consiste nell'accento sul mo mento della Resurrezione come irruzione dell'eterno nella storia, con l'impressione della fine imminente nel cristianesimo primitivo (interessante il cfr., per es., con la recente opera del p. DANILOU, Essai sue le mystère de l'bistoire [1953]); cfr. KAMLAH, op. cit. Infatti, la posizione del tempo nella rivelazione cristiana si chiarisce se teniamo presente la pole-
mica fra i pagani e Agostino de tempore Christianae religionis (Aug., Ep. 102): Agostino risponde col motivo della scienza divina (dunque, con una interpretazione per eccellenza cha rismatica della storia) al problema della salute delle anime
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« Latine e Romane » prima della rivelazione (l'obiezione era già in Porfirio). La stessa « prospettiva charismatica » suggerisce ad Agostino la risposta al senatore pagano Volusiano
de sacri/iciorum distinctione: aliis sacramen/is praenuntiari Christum cum venturus ess't, aliis cum venissel ecc. (Ep. 138). Cioè: si enuclea l'evento salutare (il « centro >, direbbe CULLMANN) e in base ad esso si opera una distinctio nel processo storico, il quale ne risulta dominato. In questo senso, è legittimo contrapporre la prospettiva cristiana della storia alla prospettiva ellenica: il charisma alla pura raziona lità. Il mondo ellenico aveva conquistato attraverso il concetto della metabolé geologica (Senofane, d'intorno al 540 a.C.) e del k 6 pc7Yro storico (Ecateo, d'intorno al 510 a.C.) la categoria della riducibilità del tempo a termini di esperienza razionale concreta. Il punto essenziale del problema è proprio qui. Verso la fine del vi secolo a.C., a coronamento e superamento dell'epoca tirannica, la grecità aveva scoperto la tragedia, la « Kiirperperspektive » (la quale prelude alla seguente prospettiva scenografica: B. SCHWEITZER, Vom Sinn der Perspektive [1953]), la storiografia; il v secolo a.C. andò innanzi in questo senso; si riconobbe così una volta per sempre, che individui e spazio e fatti sono fra loro in rapporto definibile in termini di valutazione razionale. Insomma: la scenografia, questa tipica creazione greca, « razionaliz zava » la grandezza spaziale delle cose in funzione di effetti prospettici (C. ANTI, Teatri greci arcaici [1947]; DIANO, « Scritti in on. di C. Anti » [ 1954]; LAUFFER, « Actes du xième Congrès Intern. de philos. » xii, 1953, p. 37), così come la storiografia « razionalizzava » la grandezza temporale degli eventi e degli uomini (biografia storica: già verso il 490 a.C.: cfr. la mia Introd. alle guerre puniche [1947], p. 18) in funzione di una prospettiva storica. Questa si può chiamare « prospettiva razionale », tipica dei Greci; di contro alla prospettiva charismatica, tipica degli Orientali, per es., degli Shumeri, per cui già intorno al 2700 a.C., l'« uomo grande » (re) di Lagash è rappresentato come più grande degli altri uomini comuni (Gula, Lugalenze, ecc.): la maggiore grandezza del re shumerico è dovuta alla sua posizione nei riguardi della divinità. Così, alla prospettiva ellenica, prospettiva dell'atto
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ordinatore del pensiero, si contrappone la prospettiva orientale, prospettiva del dato di origine divina; mentre nella prospettiva ellenica le proporzioni possono fissarsi in base a leggi scientificamente precisabil i dell 'oxyo pein (Anassagora ), viceversa in quella che noi chiamiamo prospettiva charismatica le proporzioni sono date dal charisma medesimo. La fine del mondo classico è questa: frontalità, centralizzazione, emancicioè « prospettiva charismapazione dallo sfondo (RIEGL) trionferanno nell'arte dell'impero romano, quando tica » questo si sarà cristianizzato; trionferanno, partendo a un tempo da influssi orientali, e altresì dall'arte popolare italiana e renana e danubiana (RODENWALDT; FERRI; KASCHNITZWEINBERG; BIANCHI BANDINELLI). Contemporaneamente, si farà sentire una tendenza alla storiografia non-tucididea (storiografia in arto: HARTKE, Rum. Kinderkaiser cit., p. 22; cfr. STRAUB, « Gn. », 1951, p. 31), anche se scrittori paganeggianti (Ammiano Marcellino) rappresentano ancora l'ideale tucidideo in pieno impero cristiano (grazianeo; supra, § 102; LXVII; la sensibilità storica di Teodosio II, esaltata da Sozomeno, era assolutamente inversa alla precedente prospettiva di un Ammiano; Volusiano, nelle sue critiche prudentemente misurate all'impero cristiano [ Aug., Ep. 136], avrà pensato soprattutto a Teodosio i). In ogni modo, il rapporto fra intuizione del tempo e cristianesimo di epoca romana è così chiaramente definibile. ' Vale la pena di ribadire che sono da escludere contrapposizioni di grecità e cristianesimo (oppure di grecità e « Oriente ») sul presupposto (per es. di SPENGLER) che i Greci sarebbero a-storici : la quale ultima definizione dev'essere anzi perfettamente rovesciata, se per storia s'intende (come dovrebbe intendersi) la « teoria » razionale delle vicende di una comunità umana attraverso il tempo. (Il presupposto che i Greci sarebbero a-storici torna ora, a fondamento della contrapposizione di grecità a cristianesimo, da parte egittologica, in MORENZ, Die Zauber f loté [1952]. Tuttavia, del citato libro di MORENZ è interessante di « consacrala contrapposizione di misteri antico-egizi a misteri tardo-egizi alla maniera apuleiana — di zione » « iniziazione »; solo che si insista, contro MORENZ, sul fatto che l'iniziazione non è solo concetto ellenico, sì anche « orien-
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tale » in genere.) - (Per altre attuali impostazioni del tema cristianesimo-storia cfr. THIEME, Goti und die Geschichte [19471; BUTTERFIELD, Christianity a. History [19491; aspetti di questa problematica sono stati [per es. xxii] sottolineati nel corso di questo libro.) - Un tipico aspetto, forse non abbastanza rilevato, della concezione cristiana della storia può esser dato dalla concezione che presiede alla Lex dei (Collatio legum Mosaicarum et Romanarum), già ricordata supra, XLIX. Quest'opera, che comunemente si pone in epoca teodosiana (e da taluno si attribuisce al vescovo di Milano, Ambrogio: cfr. ultimamente WENGER, Quellen des mmi schen Rechts [1953], p. 545) parte dal presupposto, già tipico di Artapano nel i secolo a.C. (cfr. SCHLATTER, Gesch. Israels [1906], p. 140) ed ereditato dall'apologetica cristiana (supra, xxii), secondo cui l'origine della cultura (anche nel rispetto amministrativo) è nella lex ebraica, Lex dei quam deus praecepit ad Moysen; anche in questo caso richiamerei analoghe concezioni dell'arte paleocristiana, in cui è caratteristico il concetto che Dominus legem dat - per es. nel famoso mosaico di S. Costanza - e questo concetto si svolge nel parallelismo - fondamentale dell'arte paleocristiana di Mosè e Pietro (cfr. il parallelismo Ecclesia ex circumcisione - Ecclesia ex gentibus, famoso per la figurazione nella porta di S. Saba). Come si vede, anche in questo caso una « prospettiva charismatica » si sostituisce ad una « prospettiva razionale » della storia: il concetto della Lex quam dominus dat a Mosè (a Pietro) è l'opposto del concetto greco di aXc'. (Sulla Lex dei o Collatio cfr. il saggio fondamentale di VOLTERRA, « Mem. Acc. Naz. Lincei », 1930, il quale la pone in epoca preteodosiana.) - Un altro aspetto della concezione charismatica della storia nel basso impero si può cogliere nel Libro Siro-Romano di diritto (il cui originale andrebbe posto nell'epoca dell'imperatore Zenone: cfr. per es. NALLINO, « Studi Bonfante » I, p. 203; ultimamente VOLTERRA, « Rend. Linc. », 1953, p. 21): si veda soprattutto a p. 119: « nei tempi antichi, poiché operò la clemenza di Dio, Egli diede saggezza e sapienza ai figli degli uomini, sì che edificassero le città e le cingessero di mura e di torri ecc. ».
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È interessante notare come la problematica storica del romanticismo tardo-hegeliano appaia oggi dal punto di vista del problema « Cristo e il tempo » infinitamente lontana e tuttavia infinitamente attuale. Basti pensare a Bruno BAUER, un hegeliano di destra, del quale fu detto (A. SCHWEITZER) che nessuno come lui sentì il rapporto fra storia del cristianesimo e storia dei Cesari. In realtà, Bruno BAUER intese la storia dell'impero romano come progressiva « Entf remdung » dell'io rispetto alla cosmopoli imperiale: di questa « Entfremdung » egli segnava le tappe in Filone, Seneca, Flavio Giuseppe. Tutto ciò è attuale: non è un caso che il titolo Christus und die Caesaren di una celebre opera del BAUER (1877) ritorni oggi nella recente e mirabile opera, più volte citata in questo libro, di Ethelbert STAUFFER. Ma non più che il titolo e (se si vuole) il tema in generale (v. ora STARR, Civilisation and the Caesars, [ 19541, secondo cui l'impero liberò l'individuo from old bonds; cfr. l'« Entfremdung » e di BAUER); quanto al resto, Bruno BAUER, coi suoi gravissimi errori (§ 25), esprime una concezione della storia imperiale oggi inaccettabile (anche se in qualche punto condivisa, per es., da KovALtov, « Vestnik drevnej istorii », 1953, n. 2, p. 101, in polemica contro altri storici sovietici « tradizionalisti » e avversi -alla dottrina di BAUER). In altri termini : il tardo romanticismo dell'hegeliano Bruno BAUER, se da un lato scopriva il problema « Christus und die Caesaren » nel suo aspetto storico-culturale, d'altra parte perdeva di vista l'autentico processo storico-culturale dell'impero romano, spostando lo « scoppio » della grande rivoluzione spirituale cristiana dall'epoca dei Giulio-Claudii all'epoca dei primi imperatori adottivi, dal i al ii secolo; esso cercava, così, di intendere come evoluzione lineare un processo che invece va studiato nel suo tumultuario sviluppo, dall'« esplosione » paolina nel i secolo d.C., al suo silenzioso. maturare nel corso dell'epoca traianeo-adrianeo-antonina, alla nuova « esplosione » nel III secolo (sin dall'K epoca di Ippolito »). Per noi, oggi, è chiaro che gli scritti di Traiano a Plinio il Giovane e di Adriano a Minicio (« Minucio ») Fundano, lungi dall'essere (come credeva il BAUER) « atto di nascita del cristianesimo » nella storia imperiale, viceversa riflettono un periodo di maturazione
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del cristianesimo, già entrato da gran tempo nell'anima dell'impero romano; e ogni nuovo documento si illumina di questa constatazione. Così, per esempio, le simpatie di Adriano pci cristianesimo, com'esse appaiono nello scritto dell'imperatore a Minicio Fundano, sembrano ora illuminarsi allo studio della breve lettera di Simon bar Kosba (il capo della rivolta giudaica sotto Adriano) a Yeshu ben Galgola: Adriano - ammiratore di Pompeo in odio ai Giudei - poteva ben avere simpatie pei Cristiani (« Galilei »), che nella lettera di Si mon bar Kosba appaiono tendenzialmente estranei (od ostili) alla rivolta giudaica (diversamente GINSBERG, « Bui!. Am. Sch. Or. Res. », 131, ott. 1953, 25; cfr. BARDTKE, « Theol. Lit. Zt. ») 1954, p. 295). Ogni indagine su « Christus und die Caesaren » (e su « Christ et le temps ») deve far perno, innanzi tutto, sull'epoca claudia, ma proprio per intendere, a un tempo, gli scritti di Seneca e quelli di Paolo, non già per staccarli gli uni dagli altri, come nel sistema romantico di Bruno BAuER (l'avvicinamento di Seneca a Paolo è alla base della leggenda del cristianesimo di Seneca; cfr. l'eccellente ricerca di Arnaldo MOMIGLIANO, Contributo alla storia degli studi classici [1955], pp. 13-32). L'epoca trai aneo-an ton ina ha dunque maturato silenziosamente, non già creato, i fermenti da cui derivava la nuova storia spirituale dell'impero romano: perciò essa apparve tranquilla, grande « estate di S. Martino » alla storiografia gibboniana (cfr. GIARRIz20, op. Cit.; MOMIGLIANO, « Historia », 1953-54, pp. 450 sgg.) e a quella mommseniana, laddove la storiografia romantica tendeva, per lo più, a mostrarne le contraddizioni interne 9; la Tanto che Bruno BAUEi vedeva nella lettera di Plinio a Traiano « l'atto di nascita del cristianesimo »: anche il suo gravissimo errore ha un senso. Sulla valutazione dell'epoca antonina, cfr. Piro TREVES, Il mito di Alessandro e la Roma di Augusto (1953),
p. 120 (il libro del TREVES è importante, anche perché sottolinea, nella polarità Livio-Trogo, un aspetto dicotomico di tutta la storia imperiale; cfr. le « nazioni » di Ippolito [supra, § 591, la cui visione etnografica-storica potrebbe definirsi un'interpretazione biblica di tendenze non-liviane). - La valutazione dell'epoca di Adriano è oggi viva nel « romanzo » della YOURCENAR, già citato a suo luogo; fondamentale KÀHLER, Hadrian u. seme Villa bei Tivoli (1950; anche la temperie amministrativa e militare (cfr. per es. PFLAUM,
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verità è nel mezzo, e l'epoca antonina è epoca di una eutaxia (Appiano), dietro la quale maturano le grandi forze nuove. Accanto all'epoca giulio-claudia, l'altra epoca cruciale è l'impero di Elagabalo, col suo folle tentativo di accomunare nel culto del bolide-Sole così il decadente paganesimo come il cristianesimo (e il giudaismo). Anche per questa epoca dei Severi, e in genere per il iii secolo, l'archeologia cristiana può illuminare a un tempo fatti culturali e sociali: per es. la senatrice dell'ipogeo degli Aurelii (CECCHELLI, op. (il., p. 8) fa riscontro al femminismo culminante nel senaculurn mulierum di Elagabalo (coi suoi senatoconsulti sui galateo femminile). D'altra parte, storia dell'episcopato cristiano dal iii se colo in poi e storia imperiale sono come le parallele euclidee: si incontrano. (Il meglio su questo punto è dato ora da INSTINSKY, . Bischofsstuhl und Kaiserthron [1955]: lo INSTINSKY studia il rapporto fra ihronos e titolatura episcopale, thronos e titolatura imperiale. La sua indagine si conclude con lo studio del titolo gloriosissimus dato al papa nel 314. Noi proporremmo di vedere in esso il concetto ecclesiastico paolino dei « gloriosi » in Cristo [I Cor. 4, 101, che ritorna ancora nella I CI., in Hermas, ecc., e infine, divenuto pregnante nell'epoca delle persecuzioni, si configurò nel 314 come appellativo del papa e nel v-vi sec. divenne titolo laico; sicché la sua origine religiosa paolina sopravvisse solo nella generale « prospettiva charismatica » del tardo impero, che riconduce a Dio tutte le glorie umane, e il tempo a Cristo. Cfr. la mia rec. a INSTINSKY, in « lura », 1956). (In aggiunta alla letteratura data in questo libro, vanno ricordate almeno alcune pubblicazioni apparse negli ultimi CRAI 1952, p. 76;
GAGÉ, « Bui!. Fac. Strasbourg », 1952. p. 187) si studia oggi senza pregiudizii « gibboniani »; dietro 101impio
c'è Dionisio (BRUHL, Liber Pater [1953];
JEANMAIRE,
Dionysos
[1952]) e soprattutto ci sono difficoltà ideologiche, evidenti - come ha dimostrato la rivoluzionaria indagine del CARCOPINO (nonostante i dubbi sulla Vita Aelii: HOHL, « Sitzungsbb. Berl. Akad. », 1953, n. 2, pp. 33 sgg.) - nel problema dell'eredità dinastica: la definizione dell'epoca antonina è proprio nel suo duplice volto (cfr. ora le valutazioni di STARR, op. Cit., pp. 233 segg.; AYMARD-AUBOYER,
Rome et son empire [1954], p. 349.)
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O. SEEL Der Raub der Sabinerinnen « Antike u. Abendland », Ix, 1960 9 7 sgg.); METTE, Livius u. Augustus, « G',mnasium », 1961, 269 sgg.; A.D. LEEMAN, Hik 1961, 28 sgg.; P. G. WALSH, Livy, Elis f-Iistorical Aims and Methods (1961); in particolare, sul tema « Livio e i Gracchi », BILINsKI, HIk 1961, ,
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273; altra recente letteratura e discussione in un mio lavoro sulla storiografia classica, d'imminente pubblicazione (a n. 437). - Il problema della cultura augustea è collegato con quello della datazione dei Fasti consolari capitolini nel libro di R. STIEHL, Die Datierung der Kapitolinischen Fasten (Tùbingen 1957): l'autrice, pur ritenendo che l'assenza di#'citazioni liviane dei Fasti non deve, di per sé, indurre ad una datazione verso il 18 a.C., e che i quattro anni dittatoriali non indicano seriosità rispetto a Diodoro, conclude tuttavia - sopra tutto pel j confronto tra i Fasti consolari e trionfali - per una datazione posteriore al 20 a.C. Così, la datazione proposta da L. Ross TAYLOR (datazione pienamente « augustea »: 18-17 a.C.) apparirebbe senz'altro preferibile a quella di A. DEGRASSI (che poneva i Fasti consolari verso il 30 a.C.), sebbene questa fosse sembrata decisamente da preferire per via degli scavi. In realtà, le considerazioni di R. STIEHL hanno un loro peso: già Hirschfeld, anche in polemica con Mommsen, aveva sottolineato l'opportunità di considerare assieme Fasti trionfali capitolini (redatti dopo il trionfo di Cornelio Balbo, 19 a.C.; su questo trionfo J. DESANGES, « Pevue Africaine », 1957, 5 sgg.) e i Fasti consolari capitolini (< beide àusserlich und innerlich auf das engste verbundene Dokumente »: Kleine Schri/ten, 352). Importanti notazioni sulla politica religiosa di Augusto in rapporto con il confine dello ager Romanus antiquus in ALFÒLDI, « Hermes », 1962, 194 sgg.: ALFÒLDI mostra che Augusto non affidò gli Ambarvalia ai fratelli Arvali (tuttavia, la sua accettazione della lezione tràdita in Paul. Fest. p. 5, 1 L. può suscitare dubbi per via dell'imperfetto sacri/icabantur, che sembra richiedere un complemento d'agente non mitico, e comunque analogo al macrobiano ab bis qui pro frugibus faciunt). L'apollinismo di Ottaviano è stato messo in rilievo da j. GAGÉ, Apollon romain (Paris 1955) 479 sgg. (cfr. le rec.
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Addendum
di j. HEURGON, « Journal des savants », 1956, 105; A. CHAs'rAGNOL, « Annales », 1956, 220). Il culto del dio « nuovo » ha avuto ad Azio un punto culminante (cfr. anche M. L. PALADINI, A proposito della tradizione poetica sulla battaglia di Azio,
• Collection Latomus » xxxv, Bruxelles 1958). P. ROMANELLI, • Bollettino d'Arte », 1955, 208 ha pubblicato l'interessante frammento di pittura di Apollo citaredo nell'Antiquario Palatino (cfr. ora G. CARETTONI, JRS, 1960, 202). La religiosità augustea del 27 a.C. s'illustra mirabilmente con l'arco trionfale eretto in onore del principe dalla colonia di Rimini; MANSUELLI, Il monumento augusteo del 27 a.C. (Bologna 1960). - Sulla statua di Prima Porta, eretta dopo il ritorno di Augusto nel 19 a.C. (verso il 17 a.C.), E. SIM0N, ultimamente in Der Augustus von Prima Porta (Bremen 1959). - Contro i dubbi di St. WEINSTOCK (JRS 1960, 44) sulla comune identificazione dell'Ara Pacis Augustae, si veda J. M. C. TOYNBEE, JRS, 1961 9 153; cfr. inoltre K. HANELL, « Acta Inst. R. R. Sueciae », 1960, 31; L. POLACCO, « Atti Ist. Ven. », 1961, 605; quest'ultimo studioso esclude un'interpretazione « cronachistica » del monumento (p. 633: « il 4 luglio del 13 a.C. non c'è stata attorno all'Ara Pacis una cerimonia tale e quale quella ivi rappresentata »), e ne propone piuttosto un'interpretazione che chiameremmo « storica », volta alla sintesi più che alla cronaca minuta (< il ricordo storico della supplicatio che pro reditu Augusti fu levata a Roma »: p. 639). Il problema 'è di portata generale: in che senso possi-amo contrapporre (R. CHEVALLIER, RÉL, 1960 9 478, a proposito di Ch. Ci. VAN ESSEN, Précis d'bistoire de l'art. ant. en Italie, Bruxelles 1960) il fregio delle Panatenee « cortège idéalisé » all'Ara Pacis « expression réaliste d'un moment unique de l'histoire »? - Poco tempo prima di questo reditus Augusti del 13 a.C. fu dedicato il teatro di Cornelio Balbo minore. In una recente indagine (« Capitolium », luglio 1960), G. GATTI, il rivoluzionario innovatore di molte nostre conoscenze sulla topografia romana, ha mostrato che il teatro di Balbo deve collocarsi alle Botteghe Oscure, non in vicinanza alla fine settentrionale dell'Isola Tiberina. Credo che se ne possa dedurre una conseguenza notevole per la valutazione del passo di Cassio Dione sul teatro di Balbo: poiché la dedica del teatro non deve prece-
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dere di molto la costituzione dell'Ara Pacis il 4 luglio del 13 a.C., è chiaro che la fonte di Cassio Dione esagerava volutamente la portata di un'inondazione del Tevere, la quale, essendo avvenuta in epoca posteriore al marzo, difficilmente poté raggiungere senz'altro il teatro di Balbo. In altri termini: direi che, per attaccare Cornelio Balbo minore, la fonte di Cassio Dione insisteva sul « cattivo segno » di un'inondazione a bella posta esagerata: questa insistenza raggiungeva il suo scopo tanto più facilmente, quanto più evidente appariva - in contrasto con quel « cattivo segno » - il carattere religioso delle cerimonie pro reditu (« preghiera e purificazione »: PoLACCO, loc. cit., 638). Su Cornelio Balbo minore, cfr. altresì F. DELLA CORTE ed E. PARATORE, RCCM, 1960, 347 sgg.; DESANGES, loc. cit. - Iconografia: V. POULSEN, Claudische Prinzen (Baden-Baden 1960); POLACCO, Il trionfo di Tiberio nella tazza Rothschild di Boscoreale in « Mem. Acc. Padova », LX Vii.
Su Tiberio, W.
GOLLUB, Tiberius (Miinchen 1959);' E. Tiberius (Stuttgart 1960: postumo cfr. B. DOER, Hkl, 1961, 558). - Sulla tavola di Heba, cfr. supra citazioni da JONES e BRUNT. - Cfr. letteratura citata in/ra, a propoKORNEMANN,
sito di Tacito e Suetonio. - In genere, sul periodo da Tiberio agli Antonini, A.
GARZETTI,
L'impero da Tiberio agli Antonini
(Roma 1960)., - Tutta la dinastia giulio-claudia è studiata da un punto di vista biologico nell'opera di A. ESSER, Càsar u. die julisch-claudischen Kaiser im biologisch-àrztlichen Blickfeld (Leiden 1958): per es. epilessia di Cesare (e tuttavia, in complesso, valetudo prospera; cfr. Suet., Aug. 45), inflatio praecordiorum di Ottaviano Augusto, capacità visiva in tenebris (sed ad breve) di Tiberio (sec. ESSER, 95 sgg. un fatto psico-
logico), epilessia e tendenza schizofrenica (o quasi) di Caligola, oligofrenia e sclerosi multipla di Claudio, angoscia e manifestazioni patologiche di Nerone. I problemi posti dallo ESSER non si possono eludere, oggi, con quel sorriso di sufficienza che forse li avrebbe accompagnati in altri tempi; piuttosto, è interessante notare come queste disposizioni psico-patologiche degli imperatori giulio-claudii si siano incontrate con le contraddizioni, di gran lunga più generali e significative, di tutta questa epoca storica (cfr. specialmente le pp. 211-226 di questo
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Addendum
libro). - Un importante contributo sulla « burocratizzazione » dell'impero ad opera di Claudio in JONES, op. cit., a proposito di procurator Augusti . - Nel quadro dell'impero neroniano, ci si è soffermati sulla politica di Nerone contro i Cristiani; cfr. BEAUJEU, L'incendie de Rome en 64 et les Chrétiens (Bruxelles 1960), rec. da PIGANIOL, RÈL, 1960 ) 449-450 (si veda anche L. HERRMANN, « Latomus », 1961, 817-820). Punto di partenza è, naturalmente, l'interpretazione di Tac., Ann. xv, 44; K. BOCHNER, Humanitas Romana (Heidelberg 1957) 229 sgg., ha osservato che in questo passo di Tacito la plebe appare più umana (dunque, un tratto sallustiano) dell'imperatore; più difficilmente potremo seguirlo nell'espunzione di aut crucibus af/ixi aut flammandi. Contro l'assurda ipotesi che Lucano abbia scritto l'elogio di Nerone con intenzioni ironiche, cfr. P. GRIMAL, RÈL, 1960, 296 sgg. -- Si discute sull'identificazione dell'autore del Satyricon con il Petronio console suffetto verso il 61 d.C.: ultimam. K. F.C. ROSE, « Latomus », 1961, 821. - Problemi dell'età flavia: un avvenimento scientifico di grande importanza è la pubblicazione di J. SAUTEL-A. PIGANI0L, Les inscriptzons cadastrales d'Orange, in « Gallia », 1955; esso aggiunge nuovi tratti alla caratteristica della politica economica di Vespasiano (cfr. p. 281 sgg. di questo libro). - J. M. C. TOYNBEE, The Flavian Reliefs from the Palazzo della Cancelleria (London 1957). - G. TOWNEND, JRS, 1961, 54 sgg. (p. 58, sul problema delle tre Domitille). - G. DELLING-N. WALTER, Zur josepbusForschung um 1700 cit. Ogni ripensamento della storia romana da Tiberio ai Flavii implica una valutazione dell'opera storica del massimo tra i narratori romani: Tacito. In questo senso, il giudizio di Ranke sul significato dell'opera tacitiana è sempre valido - anche se Croce protestava contro di esso. Ancora: un'interpretazione dell'età traianea è possibile solo attraverso lo studio di quella temperie culturale da cui sono 'ispirate Germania, Agricola, Historiae ed infine Annales. Perciò si può dire che, delle nuove ricerche sul principato, è premessa, dopo la monogr. di Su Claudio e l'inclusione dell'Aventino nel pomerio, la breve ma importante notazione di ALFÒLDI, « Gymnasium », 1960, 196 (cfr. SMSR, 1961, 36-39).
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E. PARATORE (immin. la u ed.), una di R. SYME, Tacitus, i-ii (Oxford 1958): nel i volume, « the politica! setting » (< Trajan was the emperor produced and designated by the Empire »: p. 57) 1 « Tacitus and Pliny » (SYME ritiene tacitiano il nontacitiano Dialogus de oratori bus; e delle attribuzioni nontacitiane pensa che « it is all vanity », ii, 670), « the Historiae », « Trajan and Hadrian », « the Annales », « the Annales as history »; nel n volume, « the time of writing », « the author », « the new Romans », e le Appendici; cfr. M. A. LEVI, « Historia », 1959, 251; A. MOMIGLIANO, « Gn. », 1961, 55 sgg. Il SYME (di cui va ricordato, anche su Tacito, il contributo The Senator as Historian in « Histoire et historiens dans l'anti quité », Génève 1956, 187 sgg.; cfr. anche in/ra, pp. 944 sg.) ha tentato soprattutto di inquadrare Tacito in un preciso sfondo ambientale, per ciò che riguarda la sua ragione, e di tempo, per ciò che riguarda I '« attualità » contemporanea della sua opera; ha proposto di considerano d'origine provinciale (forse di Vasio, Vaison) e di postulare negli Annali un'eco della politica degli ultimi tempi di Traiano e di quella adrianea, estremamente autoritaria, sicché la datazione degli Annali verrebbe abbassata (vedendosi un'allusione alla conquista traianea della Mesopotamia, abbandonata da Adriano, nel celebre passo di Ann., lI, 61 - a proposito della visita di Germanico in Egitto - exinventum Elephantinen ac Syenen, claustra olim Romani imperii, quod nunc Rubrum ad mare patescit; e postulandosi l'influsso della monetazione adrianea con la fenice, del 117-118, nella digressione dedicata da Tacito alla fenice in Ann., vi, 34). Questo problema della datazione degli Annales, del resto, è stato agitato più volte nella recente ricerca su Tacito (esso è importante, anche per l'interpretazione dell'idea di « confini della terra » nell'epoca di Tacito); il lavoro più recente è quello di J. BEAUJEU, RÉL, 1960, 200 sgg., il quale giustamente conclude che Rubrum ad mare patescit non deve considerarsi un'allusione alla conquista della Mesopotamia, sì invece alla conquista dell'Arabia Petrea nel 105-106. Infatti, come sottolinea BEAUJEU, il passo sulla visita di Germanico in Egitto pone il regno parto sullo stesso piano dell'impero romano, quanto a potenza militare (quam nunc vi Parthorum aut potentia Romana iubentur: ii, 60); e nelle
Addendum
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osservazioni di
BEAUJEU Si
può solo precisare che in realtà,
con nunc Rubrum ad mare patescit Tacito ha giustamente
messo in rilievo l'importanza della conquista dell'Arabia Petrea, come la vedevano i traianei, i quali avranno salutato quell'avvenimento (la presa di possesso dell'altro lato del Mar Rosso) come la definitiva soluzione del problema dei commerci marittimi con l'India. Insomma, la conquista dell'Arabia Petrea era un po', mutatis mutandis, quel che sarebbe, ad esempio, per l'Irak di oggi l'annessione del Kuwait: tutt'altro che « peu de chose » (secondo l'obiezione solita, BEAUJEU, 212); Tacito accentuava, in piena sincerità, l'interpretazione traianea della conquista - ed è qui il contenuto attuale di Rubrum ad mare patescit (cfr. anche infra p..948). - Altri punti discussi dell'opera di SYME riguardano l'utilizzazione delle fonti e il metodo di lavoro dello storico. t vero che Tacito utilizzò, come sostiene SYME, gli Acta Senatus? Abbiamo ora un eccellente lavoro di C.
QUESTA,
Studi sulle fonti degli Annales di Tacito
(Roma 1960), il quale ad esempio ritiene che Tacito, nella digressione sull'alfabeto, dipende dall'opuscolo di Claudio sull'alfabeto, non già da un'orazione claudiana conservata negli Acta Senatus. Ad ogni modo, dobbiamo ben guardarci dal considerare Tacito sul piano di uno storico moderno, con una documentazione estremamente positiva. - Altre domande sorgono dalle varie considerazioni del SYME. Tacito ha difeso Agricola per difendere se stesso, avendo anche egli fatto carriera sotto Domiziano? Tacito ha visto l'adozione di Pisone con l'occhio di chi aveva vissuto (era stato console nel 97) il « coup d'état » che, secondo SYME, condusse Traiano al potere? Come si concilia il Tacito che avrebbe consultato gli Acta Senatus con il Tacito che, come lo stesso SYME ammette, sa anche « inventare » discorsi? Tacito ha messo negli Annales la sua esperienza asiatica, di proconsole d'Asia (SYME, 11, 466 sgg.; ma cfr. BEAUJEU, 233)? Ancora: SYME sottolinea opportunamente il solenne inizio degli Annales, con le parole urbem Romam a principio reges habuere, libertatem et consu-
latum L. Brutus instituit; cerca di mettere in rapporto l'inte resse di Tacito alla religione romana con il suo quindecemvirato al tempo della pretura (88 d.C.); pone in rilievo la digressione sul luxus, intorno alla quale si veda già il presente libro,
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pp. 146 sgg. - Su Tacito e l'idea di decadenza, l'importante lavoro di PÒSCHL, « Gymn. », 1956, 203; « Wiener Studien », 1956 9 310. - Cfr. anche W. RICHTER, « Gymn. », 1961; W. WIMMEL, « Antike u. Abendland ». 1961, il quale accentua il distacco fra Historiae, che possono non conoscere la profonda tristezza politica senza speranze, e Annales. - Contro le critiche rivolte da HAMPL (« Innsbr. Beitr. z. Altertumswiss. », 1955, 89 sgg.) all'opera di Tacito, cfr. P. VON KLOCHKORNITZ, « Welt als Gesch. », 1961 H. 3, 188 sgg., che vede in Tacito il « Geschichtsschreiber in geschichtsloser Zeit », e tuttavia deciso a scrivere ne virtutes sileantur. - A. MICHEL, RÈA, 1959, 96. - Sulla libertas in Tacito, W. JENS, « Hermes », 1956, 331. - Sul Dzalo,gus de oratoribus, ultimarn. A. MAZZARINO, HIk 1961, 165; 317. - Recente rassegna tacitiana di HANSLIK, « Anz. z. Altertumsw. », 1960, 65. C'è contrasto irreparabile fra storiografia tucididea (« dellè e storiografia tacitiana? Così sembra a DREXLER, « Klio », 1959, 153-178, secondo cui la storiografia di Tacito è « dem Gegenstand der Geschichte inadaquat », addirittura « falsch »; l'opposto, in un certo senso, del Tacito di SYME; ma l'articolo di DREXLER, genialissimo, perde molto nel nostro riassunto. Proprio nella stessa « Klio », 1959, 179, c'è invece avvicinamento di Tacito a Mommsen (ma su tutt'altro piano), secondo W. HARTKE (Der retrospektive Sul des Tacitus: }IARTKE parte da espressioni come victores oh metum). CHEVALLJER, « Latomus », 1961 9 33-51, 266-280 ha studiato Rome et la Germanie au Ier szècle de n. è. Naturalmente, anche a questo riguardo torna il problema dell'interpretazione di Tacito come storico (per es., a proposito di Hist., IV, 62, revolsae imperatorum imagines, inhonora signa, /ulgentibus hinc inde Gailorum vexillis - cuncti qui paulo ante Romanorum nomen horrebant procurrentes ex agris tectisque et undique e/fusi insolito spectaculo nimium fruebantur; cfr. CHEVALLIER, p. 39 « Tacite, qui ignore en général les couches inférieures de la population, est resté insensible à ce phénomène de la civilisation qui s'opérait devant lui »). Cfr. anche BRUNT, Tacitus on the Batavian Revolt in « Latomus », 1960- - Anche gli altri due storici Plutarco e Suetonio hanno particolarmente attirato l'attenzione. Su Plutarco, M. A. LEVI, Plutarco e il V
928
Addendum
Studien z. griech. Biographie (1956); Staats- und Rechtslehre Plutarchs (Bonn 1959); Plutarchs Forschungen in Rom., « Eranos », 1959, 99. (Interessanti conferme della utilità di discusse tradizioni plutarchee sono assai frequenti: per es. E. NIEBEL, Unters. iiber die Bed. der geom. Konstr. in der Antike, Kiiln 1959, a proposito di un tormentato passo del Bios di Marcello.) - Su Suetonio, soprattutto F. DELLA CORTE, Svetonio eques Romanus (Milano-Varese 1958), particolarmente attento alla problematica della storia sociale nel tempo di Suetonio. La colonna di Traiano e quella di Marco Aurelio sono studiate in un'opera notevole anche per lo storico: G. BECATTI, La colonna coclide istoriata cit., 26-82. - M. L. PALADINI, Le votazioni del senato romano nell'età di Traiano, « Ath. », 1959, pp. 3-133. - PEROWNE, Hadrian (London 1960). L'impero degli Antonini, in quanto impero « costituzionale », è oggetto della monografia di M. HAMMOND, The Antonine Monarchy (Am. Acad. in Rome, 1959), che ha implicazioni ancora più ampie di quanto il titolo lasci pensare; cfr. A. PIGANI0L, RÈL, 1960 9 446 sgg.; è merito di M. HAMMOND aver impostato in maniera originale il problema della giustificazione costituzionale dell'impero. - Rivolta giudaica 115-117: FUKS, JRS, 1961, 98. - Decennalia, vicennalia di Antonino Pio (e politica orientale di questo imperatore): P. VEYNE, RÈL, 1960, 306. - Invasione di Longobardi e Obii in Pannonia sotto Marco Aurelio: J. Frrz, « Alba Regia », 1960, 63 sgg. - Su Commodo, un eccellente articolo di J. STRAUB, RAC, iii, 252 sgg. - j. Frrz, Massnahmen zur militarischen Sicherheit von Pannonia inferior unter Commodus, « Klio », 1961, 199 sgg. - J. FiTz. Der Besuch des Septimius Severus in Pannonien im J. 202, « A Arch Hung », 1959, 237. - Sull'opera di Cassio Dione, E. GABBA, « Riv. stor. it. », 1955, 289 sgg.; 1959, 378 sgg; Progetti di riforme economiche e fiscali in uno storico dell'età dei Severi, « Studi in onore di Amintore Fanfani », i,, 1962. - Per le fonti monumentali, cfr., per es., BUDDE, Sever. Relief in Pal. Sacchetti (Berlin 1955). - Cara calla e la constitutio Antoniniana: JONES, Studies in Roman Government and Law (Oxford 1960) 117 sgg. (secondo questo studioso, i dediticii esclusi dalla cittadinanza sono i barbari che
secolo (1955); DIHLE, WEBER, Die C. THEANDER,
H.
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si arresero senza condizioni); Chr. SASSE, Die Constitutio Antoniniana. Eine Untersuchung ùber den Umfang der Bùrgerrechtsverleihung auf Grund des PGiss, 40, i ( Wiesbaden 1958), il quale, mentre cerca di ridurre l'importanza del papiro ai fini di uno studio sulla estensione della civitas, propone comunque 1A, vovo [rv t1cm.' zp[?.dv [8Ej8evrtxícúv: E. KIESSLING, ZSS, R. A., 1961 5 421-429 (cfr. innanzi) integrerebbe sul tipo [1vovTo [&xTou .LT6you co1c.-rv yp[LJ -. S. (v. anche SASSE, 124; H.j. WOLFF, ZSS R. A., 1959 1 579); E. CONDURACHI, «Dacia» 1958, 281 sgg.; esauriente bibliografia e discussione in HÀMMOND, op. cit., 163 sgg., il quale dà rilievo alla nota integraziori'e di OLIVER [..L]&wvTo I-roU xrxXyriu -rTv vo]Tv -,. -. S. Su questi problemi si dovrà ora sospendere il giudizio, in attesa di una discussione sull'epigrafe di Banasa, in cui Marco Aurelio e Commodo concedono la cittadinanza a una berbera (cfr., per ora, SESTON, « Neotestamentica et patristica », 1962, 307). E. KIESSLING, loc. cit., vede nella constitutio Antoniniana uno strumento politico per eccellenza condizionato dalla situazione dell'impero dopo l'uccisione di Geta, sicché i dediticii sarebbero i possibili ribelli, eventualmente da punire con l'esclusione dai benefici della civitas. - Su Elagabalo, K. GROS S, RAC iv (1959) 987 sgg. - « Senatino delle donne » di Soe mia: « XIe Congrès Int. Sciences Historiques », Rapports, 1960, 48. - Sulla storia economica dell'età di Commodo e dei Severi Th. PEKÀRY, « Historia », 1959, 443 sgg., le cui conclusioni confermano l'interpretazione dell'iscrizione di Mylasa, e in genere della congiuntura da Commodo ai Severi, data in questo libro pp. 436 sgg. (cfr. 433), e da me ribadita in Osservazioni sull'età di Commodo e dei Severi (« Annuario Istituto Magistero Catania », 1957/58, pp. 39 sgg .) ; cfr. anche « xIe Congrès Intern. Sciences Historiques », Rapports, 1960, pp. 45 sgg.; GUEY, ibid., pp. 58 e 60. - Su Erodiano, CASSOLA in « Nuova rivista storica » 1957 ) 213 sgg. - Problemi della frontiera pannonica nell'età di Caracalla: FITZ, Il soggiorno di Caracalla in Pannonia nel214 (« Accad. Ungheria Roma », Quaderni di documentazione, dic. 1961). Legati della Pannonia Superiore: J. FITz, « A Ant. Hung. », 1961, 159 sgg.
Addendum
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Un'opera notevolissima anche per lo storico è quella di A. GIULIANO, Catalogo dei ritratti romani del Museo Profano Lateranense (Città del Vaticano 1957). B. M. FELLETTI MAJ ha pubblicato un'importante Icono-
grafia romana imperiale da Severo Alessandro a M. Aurelio Carino (222-285 d.C.) (Roma 1958). Sulle Res gestae divi Saporis, A. MARICQ, « Syria », 1958, 295; J. GUEY, « Syria », Tutta la crisi del terzo 1961, 261; Th. PEKARY, ibid., 275. secolo è oggetto di studio in un lavoro del compianto J. MoREAU, Krise u. Verfall, « Heidelberger Jahrbùcher », 1961, 128 In particolare, sul cesarato dei figli di Gallieno: P. sgg. MELONI, « Ath. », 1959, 135 sgg. Numismatica da Caro a Diocleziano: K. PINK, « Cent. Publ. Am. Num. Soc. », New York 1958, 553; SUTHERLAND, ibid., 627; JRS, 1961, 94. R. Mc MULLEN, Diocl. Edict and the Castrensis Modius, Ideologia del Genius Populi Ro« Aeg. », 1961, 3-5. mani sotto Diocleziano: J.-P. CALLU, Genio Populi Romani M. AMELOTTI, Per l'interpretazione (295-316) (Paris 1960). della legislaz. privatistica di Diocleziano (Milano 1960). Un'eccellente sintesi in W. SESTON, Diocletiànus, RAC III Nuove discussioni, a proposito dell'Albo sena(1957) 1036. torio di BARBIERI, hanno messo in rilievo l'importanza delle ricerche prosopografiche sul i i i secolo: basti ricordare PFLAUM, « Rev. phil. », 1956, 68; e la rassegna di G. I. LUZZATTO in « Iura », 1956. Nuovi risultati si potranno raggiungere . o arricchendo l'Albo del BARBIERI (per es., non è stato osservato ancora che in esso manca Leocadius ), o utilizzando nuovo materiale (su C. Messius Quintus Decius Valerinus cfr. ora lo stesso BARBIERI, Nota sull'imperatore Decio, « Omagiu Daicoviciu », 1960, 11)6, od infine attraverso precisazioni metodiche (per es., non è stato ancora osservato che in certi casi di clarissimato di donne come quelli registrati a p. 380, n. 2169; p. 368, n. 2093 non in casi come quello di p. 332, n. 1903 bisogna dedurre non già che fosse necessariamente clarissimus il padre, come fa BARBIERI, ma piuttosto che era clarissimus o il padre o il primo marito; così pure, bisognerà escludere dall'albo Gessio sposo di Mamea, cfr. « xIe Congrès Intern. Sc. Hist. »,
6
Cfr. ora. ' n senso contrario, B. GEROV, « Klio », 1961, 222 sgg.
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53, n. 70). Infine, sarà opportuno notare che la distinzione tra senatori era sentita, nell'età dei Severi, sopra tutto come distinzione fra senatori « europei » e « asiatici » ( ciò è mostrato dal piano di divisione tra Caracalla e Geta: cfr. su di esso il mio articolo Il nome « Europa » negli studi di storia antica dell'ultimo trentennio, « La parola e le idee », 1960, .23-24): dunque, i Greci erano allora « europei », occidentali; e Bisanzio faceva parte di questo Occidente. Nel basso impero, la situazione sarà ben diversa. Sui procuratori equestri, H. G. PFLAUM, Les carrières procuratoriennes équestres sous le Haut-Empire romain, i-tv (Paris 1960-61).
3.
Cristianesimo e impero. L'impero cristiano.
Abbiamoseguito, in questo addendum, un criterio empirico di distinzione fra « impero da Augusto fino a Diocleziano » (ed all'incontro di Carnuntum, autunno 308) ed « impero da Costantino a Giustiniano » (Costantino era stato acclamato augusto il 25 luglio 306; la sua conversione al cristianesimo è legata alla battaglia di Saxa Rubra, 28 ottobre 312). Con questa distinzione « empirica », abbiamo un « impero pagano » da una parte, dall'altra un « impero cristiano » che inizia col 28 ottobre 312. Come già vedemmo, i problemi della « periodizzazione » sono però più complessi. Non solo nel senso opportunamente indicato da i.-R. PALANQUE nella sua edizione (francese) della Histoire du Bas-Empire di E. STEIN, 12, p. 407 (E. STEIN cominciava con Diocleziano, OSTROGORSKY con Costantino: il primo rilevando « qu'une serie de faits importants considérés comme des créations du Ive siècle existaient déjà au IIIe et en partie encore plus tót »; il secondo, attenuando l'importanta ai fini della periodizzazione di limitazioni derivate dalla sovranità popolare o dal senato o dai demi). Il problema è più complesso, e discende da quella che possiamo chiamare « la place donnée au christianisme » e « la démocratisation de la culture » (A. PIGANIOL, « Iura », 1957, 572-73;. la tendenza a considerare la storia dell'impero per se stessa, senza alcuna considerazione del cristianesimo, può invece collegarsi col Mommsen; cfr. EHRENBERG, citato supra, pp. 917 sg.). Operando con quest'ultimo concetto, possiamo disegnare un quadro
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Addendum
evolutivo capace di spezzare gli schemi empirici. Cristianizzazione della vita e della cultura, e progressiva differenziazione fra Oriente e Occidente, sembrano caratteristiche protobizantine; ma già nell'età dei Severi, Tertulliano ha teorizzato la rivolta contro l'antico (exclusa antiquitas in negotiis in o/ficus) e sul
piano politico si è concepito (nel 211-212) il piano di attribuire a Caracalla l'Europa, a Geta l'Asia. Il cristianesimo è la grande forza rivoluzionaria, da cui deriva la « democratizzazione della cultura »; come già mostrammo in questo libro, la lettera di lakobo voleva evitare che si avesse la fede del Kyrios en prosopolempsiais, insomma nella partigianeria che induce taluni cristiani a rispettare i ricchi dando ad essi un posto d'onore nelle sinagoghe. Il più grande papa del in secolo era stato uno schiavo-banchiere, Callisto. Poi, questa « democratizzazione » viene composta in forme gerarchiche: il più insigne vescovo del iv secolo, Sant'Ambrogio, era figlio, invece, di un prefetto al pretorio, ed egli stesso, di chiara cultura platonica (P. COURCELLE, RL, 1956, 220), era stato raptus de tribunalibus - ad sacerdotium (su di lui, soprattutto RUGGINI, Economia e società nell'Italia annonaria, Milano 1961). Ad ogni modo, la prima decisa espressione epigrafica ed artistica della rivoluzione cristiana non è del iv secolo; è del in (e fine del il), e consiste, per es., nell'iscrizione di Abercio, nelle pitture catacombali, ecc., trovando conferma politica (già verso gli ultimi tempi del ii secolo) nell'enorme autorità goduta da Marcia, philotheos secondo il vescovo cristiano rigorista Ippolito. La differenza fra iii secolo ed età costantinianà è in ciò: che dal binomio « democratizzazione-prospettiva charismatica » il iii secolo accentua il primo elemento, mentre il iv secolo accentua il secondo elemento del binomio. Le già citate ricerche di BIANCHI BANDINELLI possono dare un punto di partenza per la valutazione di questi fenomeni nei loro riflessi artistici; pei riflessi letterarii PARATORE, « Acc. Lincei », q. 52, 239. L'indagine sulle origini cristiane deve sempre partire dalla ricerca sugli Atti (Praxeis) degli Apostoli: va ora segnalato E. TROCM, Les livres des Actes et l'hist. (Paris 1957). Problemi sociali delle origini: soprattutto DONINI, « Vdi », 1958 ) 2, 114. Sui rapporti fra impero e cristianesimo, andrà consultato
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soprattutto il mirabile RAC del KLAUSER; nel 1961, esso è arrivato alla voce Erde. - Sono state pubblicate, a cura di K. ALAND, le Kleine Schri/ten di H. LIETZMANN, i-ti (Berlin 1958); e da ultimo le Ges. Schr. di E. SCHWARTZ, 111-1V (Berlin, 1959 e 1960). - Ferve sempre la ricerca sui manoscritti del Mar Morto e sui loro rapporti col problema del primitivo cristianesimo: una recente letteratura su questi testi è data, ora, da G. PUGLIESE CARRATELLI nell'introduzione alla trad. it. (Firenze 1961) del volume di ALLEGRO sui rotoli del Mar Morto; ricche informazioni nella « Revue bibj,ique », nella « Revue du Qumran » ecc.; cfr. altresì A. D0NINI, Lineam. di st. delle rei. (Roma 1959), 218 sgg. - Sulla persecuzione di Nerone, cfr. letteratura supra, pp. 923 sgg. - Perché erano perseguitati i Cristiani? Per via del nomen? (cfr. la mia Fine del mondo antico, p. 125). Sull'institutum neronianum insiste A. PIGANIOL, « lura », 1957, cit. - M. SORDI, « Studi Romani », 1960, 393. - JUDGE, The Sociai Pattern 0/ Christian Groups in the First Century (London 1960); BROWN, Aspects o/the Christianization o/the Roman Aristocracy, JRS, 1961, i sgg. - CARCOPINO, Le mystère d'un symbole chréthien, l'ascia (Paris 1955); De Pythagore aux Ap6tres (Paris 1956). - GRIFFE, La Gaule chrét. à i'époque romaine, ii, 1 (1957). Un'opera amplissima è stata scritta da J. GAUDEMET, L'Église dans l'empire romain (Paris 1958); il lettore vi troverà affrontati anche temi nuovi, come quei rapporti fra economia ecclesiastica ed economia statale, su cui ci soffermammo in questo libro a pp. 45 1-470. Ormai nessuno studioso del basso impero potrà far a meno del GAUDEMET; l'opera può illustrare moltissimi temi fondamentali di storia tardoromana (per es.: quale l'atteggiamento politico di Costantino o quello di Costanzo ii? si conciliò il contrasto fra fisco e passaggio dei decurioni nel clero? e fra patria potestas e stato ecclesiastico? quale la caratteristica della episcopaiis audientia?). Cfr., dello stesso GAuDEMET, La formation du droit séculier et du droit de l'Église aux IVe et Ve siècies (Paris 1957). L'accentuazione dell'aspetto romanistico nel rapporto fra Chiesa e impero può talora essere discussa: è sempre da insistere su quello che mi sembra il punto decisivo di partenza, vale a dire l'incontro, nell'età di Elagabalo, fra i provvedimenti di Elagabalo per consentire alle
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donne senatorie matrimoni non nobili, e l'analogo provvedimento di papa Callisto, sempre per consentire alle donne sena torie matrimoni non nobili (cfr. La democratiz. della cult. nel « basso impero » cit.). Cfr. A. STEINWENTER, ZSS, K. A. 1958, 363 sgg.; Th. MAYER MALY, ZSS, R.A. 1960, 517 sgg. (con opportuno richiamo, a p. 521, alla problematica interpolazionistica in VOLTERRA, SDHJ 1947/48, 360). - Roma e l'apologetica cristiana: A. QUACQUARELLI, La retorica antica al bivio (1956); Retorica e liturgia antenicena (1960). - Cristianesimo e pensiero storico: R. BULTMANN, Geschichte und Eschatologie (Tùbingen 1958); e la mirabile opera di A. BORST, Der Turmbau von Babel (nel 1960 arrivata a iii, 1): sull'interpretazione del « mistero della storia » nell'Apocalisse, e in genere nel pensiero cristiano, soprattutto FERRABINO, Scritti di filosofia della storia (1962), 681 sgg., spec. 697 - 716 (simbolismo dell'agone cosmico-storico). - Su concetti come reformatio, renasci, revolutio, un'altra opera insigne: G. B. LADNER, The Idea of Reform. Its Impact on Christian Thought and Action in the Age of the Fathers (Cambridge 1960). - E. F. BRUCK, Kirchenvater u. soziales Erbrecht (Berlin 1956). - ORABONA, I passi neotestamentari sulla comunione dei beni nel commento dei Padri della Chiesa, « Annali Facoltà lettere e filosofia »,
1958/59. Un'impostazione originale dei problemi del diritto romano cristiano è ora data in un lavoro di G. CRIFÒ, Diritti della personalità e diritto romano cristiano, « B.I.D.R. Vittorio Scialoja », 1961; CRIFÒ si chiede, in concreto, se si siano effettivamente create nuove categorie di diritti della personalità. Il problema della crittografia mistica, messo in rilievo (accanto a vari altri) nell'opera di M. GuARDuccI, I graffiti sotto la Confessione di S. Pietro in Vaticano, 1-111, è particolarmente attuale: cfr. l'art. della stessa UARDUCCI in « Arch. class. », XIII, 1961, 183 sgg. Ivi, a p. 231, l'autrice ritorna anche sul « costantiniano » ho[c] vin[ce], ch'essa ha letto sul muro g; questa lettura è di grande importanza per lo storico. - Una nuova interpretazione della politica di Costantino, fondata sul riesame del problema dell'editto di Milano, è Napoli
data ora da S. CALDERONE, Costantino e il cattolicesimo, i
(1962); la nuova impostazione consente al CALDERONE di im
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postare su un ampio quadro (concetto romano e africano di ecclesia; amministrazione della beneficenza; organizzazione interecclesiastica; cathedra Petri) il problema degli anni decisivi per la storia del rapporto fra Chiesa e impero, dal 312 al 324. FESTUGIÈRE, Les moines d'Orient, i-li (Paris 1961). - In
genere, sui rapporti fra politica e religiosità in tutto il mondo antico, ed infine nel cristianesimo, EHRHARDT, Polii. Metaphysik von Solon bis Au,gustin, i-ii (Tùbingen 1959). - S. Agostino è, naturalmente, al centro dell'indagine sulla religiosità cristiana del basso impero (cfr., per es., F. MASAI, « Le Moyen à^ge », 1961, 1 sgg.; ma sorprendenti rivelazioni nella storia culturale di quell'epoca possono derivare dall'indagine su un testo in genere poco considerato come la Psychomachia di Prudenzio (pubblicata ora da E. RAPISARDA, Prud. Psychom., testo con introd. e trad., Catania 1962): il RAPISARDA ha sottolineato il significato storico di questa poesia delle personificazioni, in cui già troviamo note che preludono al Medioevo. (Il tema della Psychomachia può interessare anche lo studioso di storia politica: sic e/fata Crucem domini ferventibus o// ert obvia quadriiugis - v. 407 - mi sembra contenere già il
nocciolo dell'idea di crociata, nella sua componente di guerra di religione; ancor una conferma del carattere « medioevale » dell'opera, e della posizione che E. RAPISARDA le ha assegnato nella storia della cultura.) Se questa introduzione alla Psychomachia può forse dirsi il più insigne fra i lavori, sempre ricchi di originali conclusioni, del nostro latinista, d'altra parte va anche sottolineata l'importanza del contributo dello stesso E. RAPISARDA alla ricerca sulla dottrina eucaristica in Prudenzio (in « Convivium Dominicum », 1959;. ivi altri lavori di P. COURCELLE, C. VONA, A. QUACQUARELLI, G. AGNELLO, G. LAZZATI, M. PELLEGRINO, G. STRAMONDO, ecc.) (in/ra, pp. 935 sgg.). - Un'originale interpretazione della classicità cristiana è data da F. ARNALDI, Classicità e cristianesimo. 4. Storia politica del basso impero. La tematica dell'impero cristiano spesso si identifica con quella della storia politica tardoromana. Su Costantino abbiamo la seconda edizione della classica monografia di J. V0G'r, con. un eccellente aggiornamento bibliografico; dello stesso
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autore, Konstantin der Grosse u. das Christentum. Ergebnisse u. Au/gaben der Forschung (1960): Imperator Konstantin ve Hristianlik (Istanbul 1961). H. DÒRRIES, Konst. d. Grosse (Stuttgart 1958). - WINKELMANN, « A Ant. Hung. », 1961, 239 sgg. cerca di mostrare che Zosimo (cioè la sua fonte, Eunapio) sarebbe il primo autore pagano il quale esprima vera e propria ostilità contro Costantino (prima di Eunapio, i pagani avrebbero considerato la politica di Costantino come un male sopportabile); si può obiettare che già il de rebus bellicis (se ne accetta la datazione accolta in questo libro) mostra ostilità a Costantino, nel periodo di Costanzo ii anche se l'ostilità è ispirata dall'idea della lar,gitio inaugurata da Costantino. Su Costantino e la sua politica religiosa cfr. il già citato, importante lavoro di S. CALDERONE (1962). Su Ammiano, per es., Di SPIGN0, « Orpheus », 1960, 133; SoKoLov, v, 1959, n. 4, 43; un'acuta difesa dello storico antiocheno (contro Seeck) si trova ora in L. DILLEMANN, « Syria », 1961, 87 sgg. - BENEDIKTI, Vzjatie Rima Alari chom, « Viz. Vrem. », 1961 9 23 sgg. - Sulla storiografia bizantina in genere, va ricordata la ii edizione dei Byzantinoturcica di MoRAvcsIK. - Su Olimpiodoro, SRZINSKAJA, « Viz. Vrem. », 1956, 223. - L'epoca e la personalità di Galla Placidia sono oggetto dell'ampia trattazione di V. SIRAGO, Galla Placidia e la tras/ormaz. poi. dell'Occ. (Louvain 1961), su cui cfr. in/ra, pp. 942 sgg.; si veda anche l'eminente pubblicazione di J. HEURGON, Le trésor de Ténès (Paris 1958). È merito di R. A. HUMPHREYS e A. D. M0MIGLIAN0 aver raccolto alcuni scritti minori di N. H. BAYNES, Byz. Studies a. other Essays (London 1955): insegnamo sempre moltissimo, come fossero scritti oggi. - Un problema che potrebbe dirsi « baynesiano » è quello dei Vandali in Sicilia (cfr. l'epigrafe ricordata in questo libro, p. 805, n. 14); essi hanno fatto dell'isola una punta avanzata della loro politica mediterranea, mentre d'altra parte essa continuava ad apparire necessaria alla vita economica d'Italia; tutto ciò è mostrato chiaramente da F. GIUNTA, Genserico e la Sicilia (1958). - Le grandi personalità della cultura tardopagana continuano ad attirare l'attenzione: per l'epoca stiliconiana, Claudiano e la sua « poesia storica » (con il problema del rapporto fra « bagaglio reto-
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rico » e « poesia storica » in Claudiano: D. ROMANO, Claudiano, 1958); subito dopo, Rutilio Namaziano (carattere « velleitario » di questa cultura tardopagana nei suoi riflessi politici, secondo I. LANA, R. N., 1961). - Sulla Historia Augusta, SCHWARTZ, « Bui!. Strasburg », 1961. - Tardo paganesimo a Roma: CHASTAGNOL, « Latomus », 1961, 744 sgg.; e il mio articolo Contorniati citato in/ra, pp. 942 sg. - Monetazione ènea: CARSON, HILL, KENT, Late Roman Bronze Coi nage A.D. 324-498 (London 1960). - Sulla città tardoro mana-medioevaie, il volume « Studien zu den Anfngen des eur. Stdtewesens », citato supra, p. 913. Tra i moltissimi studi particolari, un ottimo esempio di ricerca è dato da F. VASSELLE-E. WILL, « Revue du Nord », XL, 1958, 467 sgg., a proposito di Amiens, colpita già nel iii secolo e poi nell'età delle migrazioni. - Sulla finanza bizantina, il lavoro di KARAYANNOPULOS (Mùnchen 1958). Sul grave problema «rivoluzione o continuità» torna ora, con suggestioni originali, STROHEKER, Die geschichtliche Stellung der ostgerm. Staaten, « Saeculum », xii, 140 sgg.; dello stesso autore, Alamannen im rmischen Reichsdienst, « Eranion » (Festschrift H. Hommel), 1961, 127 sgg. - Il mondo vandalico e gotico interessa anche nei suoi aspetti culturali. D. ROMANO ha studiato la praefatio alla Historia di Vittore Vitense (« Atti Accad. Palermo », 1959-60, ed. 1961, 19 sgg); e ha ancora affrontato Io studio di Draconzio, la cui importanza (che può dirsi una scoperta di E. RAPISARDA) appare sempre maggiore nella ricerca sulla cultura dell'Africa vandalica (ROMANO, Studi draconziani, 1958). Un'eccellente sintesi del problema Romania-Gothia, come « chiave » per l'intendimento dell'opera di Iordanes, era stata data da F. GIUNTA, Iordanes e la cultura dell'Alto Medioevo, ed in generale da STRAUB in « Unser Geschichtsbild »; ora si veda, su Cassiodoro, M0MIGLIAN0, « Rend. Lincei », 1956 ) 279 sgg.; io sono tornato su questi temi, da ultimo, in Das Ende der alten Web' (trad. ted., 1961) pp. 57-73. Su Giustiniano abbiamo un'opera capitale: B. RuBIN, Das Zeitalter (ustinians, i ( Berlin 1960). Il RUBIN ha prospettato in termini originali il tema dell'ideale monarchico di Giustiniano. Possiamo dubitare della sua conclusione secondo cui
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con Giustiniano si avrebbe « un uso ridotto » dell'idea di eternità dell'imperatore, e ciò per l'affermarsi di una concezione cristiana dell'imperq (in realtà, l'idea di « aeternitas » dell'imperatore » è più che mai viva nel tempo di Giustiniano: per es. I Syrie, 348; 618; essa non ha nulla che ripugni al cristianesimo, perché indica solo - come rilevò INSTINSKY - la diamone dell'imperatore, e insomma equivale all'idea di semper Augustus). Ma l'importanza di questo primo volume dell'opera di RUBIN resta enorme, anche per il mirabile studio della politica orientale di Giustiniano (questa andrà anche studiata dal punto di vista della storia commerciale, cfr. in/ra, pp. 948 sg.). Il tema dell'ideale monarchico, a cui si ispira gran parte del libro di RUBIN, fu già di attualità nel primo dopoguerra: lo studio sui Rois thaumaturges di M. BLOC1-I è del 1923; in qualche punto il medievalista toccava dei « sacri imperatori » tardoromani (p. 64). Da W. WEBER esso è arrivato, ai nostri tempi, a STRAUB ed a RUBIN; in campo medievalistico, è al centro dell'attività di SCHRAMM; ora, per ciò che riguarda la storia antica, è oggetto di una capitale ricerca di F. TAEGER, Charisma, i-ii (Stuttgart, 1957 e 1960), e dell'opera di CERFAUX-TONDRIAU, Un concurrent du Christianisme (Tournai 195).
5. Economia, società, cultura. La cultura romana è rievocata, in pagine ispirate spesso ad un'ammirazione incondizionata, da P. GRIMAL, La civilisation romaine (Paris 1960); altri lavori di sintesi si devono a M. GRANT, The World 0/ Rome (London 1960) e a MATTINGLY, Roman Imperial Civilisation (London 1957). (Sull'educazione: W. BARCLAY, Educational Ideals [London 19591 143-262.) Un capitolo di storia della cultura imperiale è quello dei rapporti fra grecità e Roma: J. PALM, Rom Ròmertum u. Imperium in der griechischen Literatur der Kaiserzeit (Lund 1959), penetrante analisi di autori del principato (Dionisio, Dione, Plutarco, Luciano, Elio Aristide, Pausania, Galeno, Appiano, Filostrato, Cassio Dione, Erodiano) e del basso impero (Libanio, Ammiano, Giuliano l'Apostata, Temistio, Sinesio, Zosimo, Procopio, Giovanni Lydo), e infine degli
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autori cristiani (Origene, Eusebio, Giovanni Crisostomo, Gregorio Nazianzeno, Teodoreto, Socrate). Naturalmente, « cul tura » è concetto assai vasto; e ogni interpretazione discende spesso da esigenze metodiche complesse, talora diversissime. Ad esempio, l'interpretazione della storiografia come aspetto della cultura romana: da un lato, MATTINGLY, op. cit., 248 sgg., 253 sgg., che sottolinea decadenza e servilismo in tutto il periodo dopo Tacito sino ad Ammiano, e deduce la caratteristica dell'opera di Suetonio dalle limitazioni che le venivano imposte per la politica di Adriano e per il gusto scandalistico di Roma; dall'altro K. BUCHNER, Humanitas Romana (Heidelberg 1957) 282 sgg., il quale insiste sugli aspetti umani interni alla grande storiografia romana - Tacito, soprattutto - in quanto questa storiografia vuole offrire esempi di virtus, e del suo opposto, secondo verità e con chiaro giudizio. Al solito, la difficoltà di valutare i fenomeni « culturali » è nella necessità di intendere a un tempo gli aspetti insigni e quelli più umili della vita antica in età imperiale. La religione pagana di Roma imperiale è stata oggetto di studio, ad esempio, anche in ricerche particolari, come quella di P. MERLAT, Jupiter Dolichenus (Paris 1960), in cui si osserva, tra l'altro come i fedeli di questo dio siano per lo più di estrazione socialmente modesta, pur con il significato cosmico dei suoi emblemi. La religione romana di J. BAYET è stata tradotta in italiano (Torino 1959); è apparsa l'opera di sintesi di K. LATTE; sono stati raccolti saggi fondamentali del compianto C. KocH, Religio (Nurnberg 1960, a cura di SEEL). È stata pubblicata la seconda ediz. di U. KAHRSTEDT, Kulturgesch. d. ròm. Kaiserzeit. (Bern 1958). Lo stesso KAHRSTEDT, in un lavoro recentissimo, ha rivoluzionato il problema della storia della Magna Grecia in età imperiale (KAHRSTEDT, Die wirtscha/tliche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, « Historia » Einzelschr. H. 4., 1960; cfr. già l'articolo dello stesso autore in « Historia », 1959, 174). Egli parte dal contrasto fra il ciceroniano Magna Grecia quae nunc quidem deleta est e le fonti del basso impero, le
quali attestano una notevole attività economica in Bruttiò e Lucania; ed attraverso un'indagine minuta distrugge il mito della decadenza della Magna Grecia in età imperiale, limitando
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la crisi di quella regione al periodo fra annibalico e ciceroniano; crolla così anche l'altro mito della rovina magnagreca in seguito alla malaria (« Eraclea non è morta di malaria, tanto vero che Lagaria divenne più fiorente che mai; la piana di Thurii, terra di malaria in età moderna, pullulava, sotto l'impero, di ville e villaggi »). Torna l'immagine « paradisiaca' » del Mezzogiorno (il paradiso abitato da reprobi), contro la quale reagirono Giustino Fortunato e Benedetto Croce? In verità, la storia del Mezzogiorno non può costruirsi sulla base di presupposti generali, ma piuttosto su dati concreti, come questi messi in luce dal Kahrstedt. Una ricerca sul Mezzogiorno nell'età imperiale può estendersi anche con la con siderazione del confronto tra il Mezzogiorno d'Italia, paese della « exploitation de peu d'étendue », secondo una tradizione che va dall'età tardo-repubblicana sino al basso impero, e la regione del latifondo etrusco-umbro, nel senso che l'autore del, presente volume ha cercato di delineare brevemente in La fine del mondo antico (Milano 1959) pp. 19-20, n. 7. Qui ho fatto anche rilevare che la continuità fra economia italiana del principato e del basso impero può documentarsi per qualche regione (per es. nel caso dei vini cesenati: da un lato Plin., n.b., xiv, 5, 67, dall'altro C. Th., xi, 1 9 6). Appunto i problemi della agronomia e società italiana nell'epoca imperiale sono stati oggetto di particolare ricerca in due lavori recenti: V. SIRAGO, L'Italia agraria sotto Traiano RuGGINI, Economia e società nell'Italia annonaria. Rapporti fra agricoltura e commercio dal IV al VI secolo d . C. (Milano 1961). (La stessa autrice, Ebrei ed Orientali nell'Italia settentrionale fra il IV e il VI secolo d.C., in « Studia et documenta historiae et juris », 1959, 186-308,
(Louvain 1958); L.
aveva già studiato la storia della colonia ebraica di Venetia e Histria, e di Ravenna, come anche il rapporto fra proprietarii e mercanti ebraici; un notevolissimo contributo, soprattutto sulla storia di Aquileia tardoromana.) In un certo senso, si potrebbe dire che allo sfondo di questa problematica è un po' quella che forse potremmo chiamare « questione del Mezzogiorno » (se mai ce ne fu una) dell'antichità. L'economia dell'Italia Settentrionale differisce radicalmente dall'economia del Mezzogiorno e delle isole? Ossia, in termini tardoromani,
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il vicariato d'Italia si contrappone al vicariato di Roma (Italia urbicana)? Il SIRAGO tende a sottolineare un fenomeno, che gli sembra capitale: lo spostarsi della classe dirigente italiana verso l'Italia Settentrionale, all'incirca nell'età di Traiano (cfr. anche, dello stesso SIRAGO, La proprietà di Plinio il Giovane, « L'Antiquité classique », 1957, 40 sgg.); questi grandi proprietarii della Cisalpina hanno, a suo giudizio, basi economiche di gran lunga più solide che non i piccoli proprietarii del Sud (anzi, com'egli dice, della penisola in genere). Nel documentatissimo lavoro della RUGGINI, punto di partenza è la concentrazione latifondistica nell'Italia Settentrionale (quis opulentissimorum non exturbare contendit agellulo suo pauperem?), con opportuno riferimento (RUGGINI, p. 30, n. 39) ad
una certa protezione fiscale accordata all'Italia urbicaria, ma non del pari all'annonaria; di qui la RUGGINI passa a illustrare la prestazione dell'annona vinaria per Roma (con riferimento ai tumulti romani ob inopiam vini, da confrontare con quelli derivati dalle crisi frumentarie: RUGGINI, pp. 48 sgg., 152 sgg.; questo tema è particolarmente trattato da H. P. KOHNS, Versor,gungskrisen und Hungerrevolten im spàtantiken Rom,
Bonn 1961; cfr. J. ROUGÉ, RÈA, 1961, 59); ma il punto centrale del libro della RUGGINI consiste nell'interpretazione del fenomeno « urbanesimo cisalpino » e del connesso stile di vita del latifondista cisalpino d'età tardoromana, diverso dal latifondista pre-feudale, per es. di Africa. Una tale problematica si fonda, in parte notevole, sui testi di Ambrogio e di Simmaco (cfr. anche « Studi Mistrorigo » [1958], 15-82; S. PANCIERA, Vita econ. di Aquileia in età rom., 1957; e l'esemplare indagine di F. SARTORI, Verona romana, 1960); per altro, il problema delle speculazioni dei possessores cisalpini è il leitmotiv del libro della RUGGINI, inquadrandosi nella questione dei rapporti fra libero commercio cisalpino ed annona di stato, sino alla crisi di questi rapporti sotto Teodorico, ed ancor oltre in età longobarda. In un tale quadro, il problema dell'approvvigionamento di Roma, e delle gratifiche date ai cittadini romani domo Roma, entra necessariamente, connesso com'è con la questione dei peregrini che non hanno diritto alle distribuzioni gratuite in Roma, dei quali la RUGGINI si occupa a pp. 120 sgg. di
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Economia e società. Tali distribuzioni gratuite ai cives Romani domo Roma riguardano, fra l'altro, la pecuniam spectaculis
e le distribuzioni di panis populi: fondamentale, a questo riguardo, l'editto di Tarracius Bassus, prefetto urbano (cfr. KOHNS, op. cit., 119; 231). La RUGGINI accetta la lettura dell'editto di Tarracius Bassus data nell'eccellente lavoro di CHASTAGNOL, La préfecture urbaine à Rome (Paris 1960), 273275, lettura che io avevo già proposto, per ciò che riguarda pecuniam spectaculis, nell'articolo Contorniati dell'« Enciclopedia dell'arte antica classica e orientale », ri, Roma 1959 (in cui appunto ritenevo che la pecunia spectaculis, la quale era dovuta alla plebe romana, e da cui i peregrini erano esclusi, debba identificarsi coi contorniati). Com'è naturale, ogni discorso sull'economia italiana, e anzi sull'economia imperiale, deve far capo a una discussione sull'amministrazione e sulla vita urbana di Roma nella stessa età imperiale. Così, ad esempio, il problema della popolazione di Roma resta essenziale per l'interpretazione di tutta l'età imperiale; su esso si veda anche PIGANIOL, « Journal des savants », 1955, 13-14, e ora V. SIRAGO in una appendice al suo importante libro su Galla Placidia (Louvain 1961). Dei problemi urbani di Roma trattano cinque notevoli
lavori: G. VITUCCI, Ricerche sulla praefectura urbi in età imperiale (sec. I-II), Roma 1956, relativo al principato; A. CHASTAGNOL, op. cit. (Paris 1960), relativo al basso impero 7; H. J. KOHNS, op. cit. (Bonn 1961), pur esso relativo al basso impero; F. CASTAGNOLI, Topografia e urbanistica di Roma (Storia di Roma, xxii) (Bologna 1958); G. C. CARETTONI, A. M. COLINI, L. COZZA, G. GATTI, La Pianta Marmorea di Roma antica (Roma 1960), relativo alla Forma Urbis Romae di età severiana: Quest'ultima opera è destinata ad aprire una nuova epoca negli studi della topografia romana di età imperiale; è noto come la ricostruzione della pianta marmorea degli inizi del iii secolo d.C. abbia cambiato radicalmente le nostre conoscenze di topografia romana (cfr. ora H. BLOCH, « journal of Roman Studies », 1961 2 143 sgg.; G. GATTI, « Quaderni del' Su vicariato e prefettura urbana cfr. anche ria », 1959, 97 sgg.
SINMNGEN,
« Histo-
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l'Istituto di Storia dell'Architettura », 1961, 51 sgg.). Lavorando a un tempo con la Forma severiana e con i Fontes ad top. vet. urbis R. pertinentes di LuGLI il topografo potrà conseguire notevoli progressi; e dalla collaborazione fra topografi e storici si guadagnerà un nuovo quadro della vita e della storia urbana di Roma. Su Ostia, per es., R. CALZA-E. NASH, Ostia (1959); MEIGGS, Roman Ostia (Oxford 1960); cfr. P. A. FÉVRIER, Ostie et Porto à la fin de l'antiquité, « Mél. arch. hist. », LXX (1958), 295 sgg. Con l'ambito dei problemi economico-sociali si connettono i lavori di M. LEMOSSE, « Recueils de la soqiété jean Bodin », 1955, 137 sgg.; A. H. M. JONES, ibid., 161 sgg. Il JONES ha dato altri notevoli contributi alla ricerca sulla storia sociale dell'impero romano, affrontando problemi capitali come quelli della schiavitù (in « The Econ. Hist. Rev. », 1956) e del colonato (in « Past and Present », 1958). Sebbene talune sue conclusioni vadano accolte con riserva, il JONEs ha il merito di aver tentato una nuova interpretazione del materiale. Sulla schiavitù nel mondo romano si veda anche F. BÒMER, Unters. iiber die Religion der Sklaven in Griechenland u. Rom, i ( Akademie Mainz. Abhandl., 1957), rec. da G. ALFÒLDY, « A Ant. Hung. », 1960, 460 sgg. Il problema del rapporto fra economia schia vista ed economia di colonato è affrontato nell'opera di E. M. SHTAERMAN, Krizis rabovladel'ceskego stroja v zapadn'ich provintzijach rimskoj imperii (Moskva 1957), in cui l'autrice tratta ordinatamente delle condizioni generali o dell'economia nelle varie province occidentali, per soffermarsi infine sulla crisi del in secolo d.C. Il libro si connette con le tesi già sostenute dalla SHTAERMAN nella discussione svoltasi già nel « Vestnik drevnej istorii », 1953-1955/56, ed in cui il punto di vista della SHTAERMAN Si scontrò già, per es., con quello del KAZDAN (cfr. « Recherches internationales à la lumière du marxisme », 2 ) 1957, 113 sgg.). La SHTAERMAN ritiene che la società schiavista cedesse il posto a quella feudale già nel iii secolo d.C.: la classe progressiva sarebbe rappresentata dai latifondisti pre-feudali. Per ulteriori discussioni di questo punto di vista si può vedere, per es., DJAKOV, « Vestnik drevnej istorii », 1958, n. 4, pp. 22 sgg., e d'altra parte (non marxista) il sostanziale consenso di VITTINGHOFF (< Saeculum », 1960,
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Addendum
126 sgg.) con la tesi fondamentale della SHTAERMAN. S'intende che questi problemi sono collegati con la precisazione di ciò che s'intende per « società schiavista » (essendo chiaro, ad esempio, che la società schiavista della seconda metà del I' secolo a.C. e del i a.C. è cosa assai diversa da quella della prima età imperiale: cfr. la mia Fine del mondo antico, 1959, cit.; per il problema dell'acquisto mediante il servus fugitivus, le importanti ricerche di G. NIcosIA, L'acquisto del possesso mediante i « potestati subiecti », Milano 1960); basterà richiamare i molti lavori particolari sulla schiavitù nell'impero romano apparsi in questi ultimi tempi (per es. M6cs, « A Ant. Hung. », 1956, 221 sgg. e OLIVA, ibid., 1959, 177 sgg.; a illustrazione dei risultati di Mócsy per ciò che riguarda la « Entfalthung » dei rapporti di produzione schiavisti in Pannonia Inferiore, va osservato che la rivoluzione di elementi indigeni è certamente attestata dagli hostes Pannonii del 406: S. MAZZARINO, op. cit. Cfr. anche A. Mécsy, « A Arch. Hung.», 1959, 297-299, nel quadro di un lavoro sulla Mesia Superiore; G. ALFÒLDI, « A Ant. Hung. », 1961, 120 sgg.; VIDMAN, ibid., 153 sgg., per il Norico. Oggi si cerca di intendere la caratteristica dei movimenti rivoluzionarii « dai basso » nell'impero romano: SZÀDECZKY KARDOSS, « A Ant. Hung. », 1955, 233 si è soffermato su res in Sequanis turbatas: v. Marci 22 nella H. A. (dunque, ii secolo d.C.); ma soprattutto importanti sono la Bacauda in Gallia, da Diocleziano al v secolo (cfr. per es., KORSUNSKIJ, Dvienie Bagaudov, « Vdi », 1957, 4, pp. 71 sgg.; SIRAGO, Galla Placidia cit.) e i circumcellioni in Africa (cfr. J.-P. BRIsSON, Autonomisme et Christianisme dans l'Afrique romaine de Septime Sévère à l'invasion vandale, Paris 1958; W. H. C. FREND, per es., in «Wissenschaftliche Zeitschr. d. Martin-Luther-Universitt Halle-Wittenberg », Februar 1961, 43 sgg.; H.J. DIESNER, ibid., Okt. 1959, 1009 sgg.; Aprii 1960, 183 sgg.; Februar 1961, 63 sgg.). In un certo senso, la difficoltà di questa problematica deriva spesso dal fatto che noi « siamo costretti » a operare su qualunque avvenimento storico con concetti, o per lo meno con termini, che non possono non essere nostri, cioè moderni (è la stessa ragione per cui H. DREXLER ha recentemente discusso la stessa possibilità di trattare modernamente storia antica); di qui le aporie segnalate
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945
da A. H. M. JONES,Were Ancient Heresies National or Social Movements in Disquise?, « Journ. of Theol. Studies », 1959, 280 sgg., e tutavia la necessità di intendere quelle rivoluzioni nei loro presupposti sociali, come ho cercato di mostrare nel saggio Si può parlare di rivoluzione sociale alla fine del mondo antico?, ix Sett. di Studi sull'Alto Medioevo, Spoleto 5-12
aprile 1961. Sul fallito tentativo di Totila in favore delle classi inferiori, UDALCOVA, « Akten des xi intern. Byzantinistenkongr. », Miinchen 1958 (ed. 1960). - Da ultimo, una chiara sintesi in A. PETINO, Crepuscolo e crollo dell'economia antica,
« Bulletin de l'Institut Belge de Rome », 1961, 115 sgg. Liberti: VITuccI, « Diz. ep. », iv, 905. Ad intendere la storia sociale dell'impero romano, è necessaria una adeguata ricostruzione della storia amministrativa ed economica e linguistica delle singole province. Per ciò che riguarda la Spagna e il problema « tacitiano » della conquista in genere, anche in rapporto alle esperienze moderne, soprattutto R. SYME, Colonial Elites (London 1958). - R. ETIENNE, Le culte impérial dans la péninsule hibérique d'Auguste à Dioclétien (Paris 1958). Su Munigua, NESSELHAUF, « Madr.
Mitt. », 1960 9 142. - Problema del latifondo di Piazza Armerina: cfr. ora G. V. GENTILI, La villa erculia (Roma 1959); G. MANGANARO, « Arch. class. », 1959 9 241; M. CAGIANO DE AZEVEDO, « Scritti in onore di M. Salmi » (Roma 1961), 15. (Naturalmente, è possibile che la villa abbia cambiato proprietari, nel corso del tempo) 8 - P. MELONI, L'amministrazione della Sardegna da Augusto all'invasione vandalica (Roma 1958). - Vanno messi in rilievo i progressi compiuti, in questi ultimi anni, verso la rievocazione storica dell'Occidente romano: L. HARMAND, L'Occident romain: Gaule, Epagne, Bretagne, A/ri-
que du Nord; 31 av. J. Chr. à 235 après I. Chr. (Paris 1960), e in particolare J.-J. HATT, Hist. de la Gaule romaine (120 av. j,.C. - 451 ap. J.C.): colonisation ou colonialisme? (Paris HARMAND, L'Occident romain: Gaule, Espagne, Bretagne, Afri(Roma 1959); G. Ch. PICARD, La civilisation de l'A/rique romaine (Paris 1959). I risultati a cui G. Ch. PIcAIW è perve8 Per la prosopografia della provincia Sicilia, R. SORACI, I proc. di Sic. da Augusto a Traiano (Catania 1958).
946
Addendum
nuto mostrano la necessità di considerare con nuovi occhi tutta la problematica dell'Africa romana, anche dal punto di vista demografico (più di 6 000 000 di abitanti); come già noi in questo libro, così anche il PICARD (p. 156) riconduce al fenomeno della sovrappopolazione la crisi dell'Africa romana; punto di riferimento, il giudizio di Erodiano (vii, 6, 1; su questo storico, cfr. CASSOLA, « Nuova rivista storica », 1957, cit.), che, come giustamente nota PICARD, 170, non è « une appréciation fantaisiste » dal punto di vista demografico, ma il testo « le plus intéressant » (sull'importanza di questo passo di Erodiano dal punto di vista demografico, cfr. anche quanto avevamo rilevato in questo libro, pp. 782 sg.). Anche la presenza di latifondo imperiale (PFCARD, pp. 60 e 370), è opportunamente messa in rilievo. Soprattutto notevole, nel libro di PICARD, la ricostruzione del passaggio dall'arboricultura al granaio ed all'olivicultura; e l'interpretazione della rivolta del 238 in senso opposto a quello del RosTovzEv, come rivolta dell'esercito di Numidia contro il latifondo privato d'Africa (cfr., in maniera analoga, già questo libro pp. 500 sgg.; ed ora R. CHEVALLIER, « Annales », 1960, 793). - Sull'Africa, cfr. anche B. E. THOMASSON, Die Statthalter der ròm. Prov. Nord-
a/rikas von Augustus bis Dioci. (Lund 1960). - L'introduzione del cammello in Africa e la generalizzazione dei commerci carovanieri in questo paese sono oggetto di studio da parte di E. DEMOUGEOT, « Annales », 1960, 209 sgg.; lavoro assai importante, anche se è errata l'opinione, a p. 234, che un passo di Arnobio e due di Ammiano siano « les trois seuls faisant allusion au chameau. en Afrique du Nord, depuis le Bellum Africum » ( viceversa, bisogna far riferimento, soprattutto, a un passo di Vibio Sequestre, che l'autrice non ha considerato). - Dobbiamo a H. STERN il rinnovato interesse ai mosaici della Gallia romana; il fondamentale Recueil si avvia a sostituire il vecchio Inventaire. - Si vedano anche i Mosaiken di PARLASCA; cfr. STERN, « Journal des savants », 1959 2 112 sgg. - « Neue Ausgrabungen in Deutschland » (specialmente pp. 286 sgg.). - In ii edizione Aus der Schatzkammer des antiken Trier (1959); si veda inoltre VON PETRIKOVITS, Das rmische Rheinland (1960); J. MOREAU, Das Trierer Kornmarktmosaik (Kòln 1960). - W. SCHLEIERMACHER, Der
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947
rdmische Limes in Deutschland (Berlin 1959). - Scavi in Ispagna, per es., di GRÙNHAGEN e di SCHLUNK in « Neue deutsche Ausgrabungen im Mittelmeerg... » (Berlin 1959), 329 sgg., 344 sgg. - Regioni danubiane: « Carnuntina » (Graz... 1956); A. BETZ, Aus Oesterreichs romischer Vergangenheit (Wien 1956). E. B. THOMAS, Arch. Funde in Ungarn (Budapest 1956). Su problemi di amministrazione della Pannonia, ultim. J. Fvrz, « A Ant. Hung. », 1960, 405 sgg., con letteratura più generale. - Cfr. anche supra, pp. 929 sggf. - MIHAESCU, Limba latina in prov. dun. (Bucarest 1960). - La grecità d'epoca romana, ad esempio augustea, suggerisce problemi di vario genere, cfr., per es., G. W. BOWERSOCK, Eurycles o! Sparta, « journ. Rom. St. », 1961, 112 sgg. - Un quadro della vita antiochena nel basso impero è dato da A. J. FESTUGIÈRE, Antioche paienne et chrétienne (Paris 1959); cfr. ora G. DOWNEY, A History o! Antioch in Syria from Seleucus to the Arab Conquest (Princeton 1961). TCHALENKO, Villages antiques de la Syrie du Nord, i-in (1955-1958); cfr. RODINSON, « Syria », 1961 9 170 sgg. Monocultura dell'olivo, enfiteusi e sfruttamento « capitalistico » sono problemi centrali sulla vicenda della Siria romana. Scavi a Resafa: J. KOLLWITZ, « Neue Deutsche Ausgrabungen in Mittelmeergebiet u. im v. Orient », Berlin 1959, 45. - Egitto: ZUCKER, Aegyptien im rmischen Reich (Berlin 1958); S. RlccoBoNo jr., Das ròm. Reichsrecht u. der Gnomon des I. L. (Erlangen 1957). M. MARIN y PESA ha studiato Instit. militares romanas (Madrid 1956). - È apparsa, in seconda edizione, l'importante opera di STARR, The Roman Imperial Navy 31 B.C.-A.D. 324 (London 1960); si tratta solo di « reprint with addenda »; cfr. MEYER, « Gn. », 1961, 815. - Diritto penale militare: E. SANDER, ultimamente in « Rh. Mus. », 1960, 289 sgg. NESSELHAUF, Umriss einer Geschichte des obergermanischen Heeres, « Jahrbuch Zentraimuseums Mainz », vii, 151 sgg. J. Frrz, A Military History o/ Pannonia ( Bi.rdapest 1962); R. E., Suppi. ix, 612 sgg. - A. NEUMANN, ibid., 1957 (veterani). Per la storia dell'economia monetaria, soprattutto S. BOLIN, State and Currency in the Roman Empire to 300 A.D. (Stockholm 1958) (su cui A. CHASTAGNOL, « Annales » 1961 9 613
Addendum
948
sgg.): il BOLIN è un sostenitore della teoria della « moneta fiduciaria », proprio all'opposto di MIcKwITz. Sulla persistenza del rapporto teoretico i aureus = 25 denarii, ultimamente BUTTREY, JRS 1961, 40 sgg. - Popolazione e calcoli demografici: P. MERTENS, Les services de i'état clvii et le contr6le de la pop. à Oxyrh. au Ille siècle de notre ere (Ac. Belgique, Bruxelles 1958). - Un argomento di grande interesse è trattato da I. CALABI LIMENTANI, Studi sulla società romana. Il lavoro artistico (Varese 1958).
Due recenti opere meritano di essere particolarmente segnalate, per il contributo che recano a un tempo (come già precedenti lavori di HAMBERG; PALLOTTINO; RYBERG) alla storia dell'arte imperiale e delle esperienze rituali e religiose che ad essa si collegano: G. Ch. PICARD, Les trophées romains (Paris 1957); G. BECATTI, La colonna coclide istoriata cit. 6. Oriente e Occidente, Asia ed Europa.
La storia dell'idea di Europa ha attirato l'attenzione di molti studiosi: cfr. la mia rassegna e discussione in « La parola e le idee », 1960, i-ir trimestre, pp. 18 sgg. - Sulla intuizione dell'Europa nei testi patristici cristiani, Denis HAY, Europe. The Emergence 0/ an Idea (Edinburg 1957). - Sul mondo germanico, E. SCHWARTZ, Germanische Stammeskunde (Heidelberg 1956). - WEIBULL, Die Auswanderung der Goten aus Schweden (« Gòteborgs Handi. », 1958), partendo dal discorso di Nicolas Ragvaldi al concilio di Basilea, ripropone in termini critici il problema della tradizione di Iordanes sulla migrazione dei Goti dalla Svezia. Il libro di
WHEELER,
Rome beyond the Imperial Frontiers
ha avuto una traduzione francese (Les in/I. rom. au delà des front. imp.); cfr. A. PIGANI0L, RÈL, 1960, 461-462. - Sul commercio carovaniero (ma con particolare riferimento all'Africa), cfr. DEMOUGEOT, cit. supra, pp. 946 sg. - Il commercio fra Roma e l'Oriente nell'età di Traiano è stato anche considerato in rapporto alla datazione degli Annales di Tacito: cfr. BEAuJEU, cit. supra, pp. 925 sg. - In genere, sul commercio orientale dell'impero romano, J. SCHWARTZ, « Annales », 1960, 18 sgg. (eccellente articolo di sintesi, accentrato sul rapporto fra
Studi sull'impero romano 195516-196112
949
naukleroi ed ernporoi palmireni). - DUBS, a cui dobbiamo
importanti rivelazioni sui rapporti fra Roma e Cina (cfr. anche l'articolo China di HERMANN, RAC n, 1708 sgg.), ha ora tentato una ricostruzione storica di Li-chien (DUBS, A Roman City in Ancient China, London 1957). - Discutibile l'ipotesi di un'origine cinese della stadera, formulata da A. MAZAHERI, « Annales », 1960, 833 sgg. - L'Afghanistan dà sempre nuovo materiale sui rapporti fra Roma e Oriente: E. A. VORETZSCH, « Ròm. Mitt. », 1957, 8 sgg., a proposito di un medaglione con ritratto idealizzato di imperatrice. - Sul problema di Virapainam e sulle dottrine' bramaniche secondo Ippolito, J. Fiu.iozr, Les rélations extérieures de l'Inde, i (Pondichéry 1956).
Nella storia romana il problema del commercio con l'Arabia-India-Cina (un drenaggio di 100 000 000 sesterzii secondo Plinio) e in genere rapporti culturali e di commercio con l'Oriente è essenziale; comincia con la spedizione di Grasso ed arriva a Giustiniano ed a Eraclio. Anche in questo campo, l'età di Giustiniano ha tentato una sintesi; non è un caso che essa scopra (o riscopra, se si tiene conto di una notazione di Pausania) il metodo di coltivazione del baco da seta. Il già citato libro di RUBIN su Giustiniano (supra, pp. 938 sg.) è consapevole dell'importanza di questa problematica dei rapporti Roma-Oriente. Una approfondita ricerca sui rapporti fra Roma e l'Europa Settentrionale è tra i compiti più notevoli della scienza contemporanea: cfr. ora (oltre al già citato WHEELER) le relazioni di KLINDT-JENSEN, « Atti vi Congresso di scienze preistoriche e protostoriche », i, 1962, pp. 209 sgg. e di HOLMQVIST, ibid., 329 sgg. Solo ora cominciamo ad avvicinarci, per lo meno, ad una impostazione dei problemi fondamentali, come ad esempio l'inquadramento storico del bacile argenteo di Gundestrup in Danimarca (Jutland, Aalborg). Le linee esseniali per queste indagini sono state indicate da BIANCHI BANDINELLI, Organicità e astrazione (1956): l'astrattismo del 4 bacile di Gundestrup prelude a forme medioevali (p. 98); bisogna ricostruire la linea che conduce da esso al medioevo. E però, la storia della cultura antica appare notevolmente diversa, a seconda che si dati il vaso di Gundestrup
950
Addendum
al i secolo a.C. o invece si scenda a datano nel i secolo d.C. od ancora più tardi, come HOLMQVIST, o addirittura, come NORLING-CHRISTENSEN, nel in secolo d.C. (letteratura sul bacile di Gundestrup in HOLMQVIST 35541) Nel primo caso, si accentuerebbe l'importanza di una via commerciale BalcaniJutland; nel secondo, di un diretto rapporto fra Celti della Gallia e mondo germanico'.
7. Problemi semantici e storia della cultura. Un nuovo aspetto della ricerca contemporanea sulla storia della cultura in età imperiale è il contributo recato dalla ricerca semantica ed onomastica lO• Il campo di indagine così aperto è vastissimo; nei limiti di questo « addendum » basteranno tre esempi. Il nome di Agricius (Agroecius), vescovo di Treviri in età costantiniana, è stato ora studiato nella sua caratteristica semantica, in rapporto con il latino Rusticus oppure con Ruri cius, da INSTINSKY, « Ròm. Quartalschr. », 55, pp. 206 sgg. e da BRAUNERT, ibid., 56, pp. 231 sgg.; nel caso del vescovo di Treviri, il nome sembra attestare provenienza del vescovo dall'Oriente; tuttavia restano da chiarire, per la diffusione del nome in Gallia, eventuali rapporti fra esso e la « agroikia dei Celti » nel basso impero. Così il problema semantico del nome Agroecius, illustrato ora dai due storici tedeschi, si estende a quello dell'influsso greco nella Gallia tardoromana; cfr. letteratura, ultimam., in BRAUNERT 233, e specialmente il recente lavoro di HAARHOFF, Schools 0/ Gaul; va sottolineato che il nome è stato portato altresì da esponenti dell'alta cultura gallica come il maestro di retorica Censonius Atticus Agroecius (Agricius), e il vescovo (Senoniae caput) autore Su questo tema, e su molti altri relativi all'argomento trattati in questo libro, rinvio al mio Il pensiero storico classico, 3 voli., Bari 1972 e 1973. 10 In considerazione della grande importanza dell'area veneta nell'Italia romana (supra, pp. 939 sgg.; per i presupposti di età repubblicana, il fondamentale saggio di F. SARTORI, Galli transalpini transgressi in Venetiam, « Aquileia nostra », 1969), si noti la connessione fra indagine archeologico-epigrafica e ricerca toponomastica su Grodate: ultimamente S. TAVANO, « Studi goriziani », 1961, 157 sgg.
Studi sull'impero romano 195516-196112
951
della celebre ars de orthographia. Un secondo esempio può esser dato dalle ricerche di S. CALDERONE sui concetti cristiani di operatio e di profana tznctio, nel volume Costantino e il cattolicesimo, i (1962), soprattutto pp. 12 sgg., 24 sgg., 272 sgg.
(le caratteristiche semantiche del concetto tinctio erano state indicate dal PAGLIARO nel saggio citato a p. 652, n. 2, del presente libro). Un terzo esempio, ed insigne, è dato dalla scoperta di A. PAGLIARO, Altri saggi di critica semantica (1961)129 sgg., che la formula liturgica ite missa est non ha soggetto plebs - come si riteneva da taluni, con conseguenze di carattere storico assai discusse - ma si riferisce, viceversa, al sacrificio eucaristico, e che pertanto la storia del concetto missa va studiata alla luce « di quella solidarietà cristiana, che ebbe nel sacrificio eucaristico il suo sacramentum unitatis » (PAGLIARO, 181), ed in genere del pensiero sociale dell'antico cristianesimo.
INDICE GENERALE
VIII
Avvertenza
INTRODUZIONE I. Opere generali sulla storia dell'impero
3
Parte prima SAECULUM AUGUSTUM 35
I. Dopo Cesare II. Dalla « potestas » triumvirale alla « potestas » eccezionale di Ottaviano III. La fine della « potestas » eccezionale e lo stato dell'< auctoritas »
49
Bibliografia e problemi
96
72
Parte seconda L'EPOCA GIULIO-CLAUDIA. IL « LUXUS » SENATORIO E LA RIVOLUZIONE BORGHESE 133 154
I. Il principato di Tiberio Il. La rivoluzione spirituale: iui ed eouaLocr. III. La rivoluzione borghese e la riduzione del « denarius »
211
Bibliografia e problemi
239
Indice ge2'era!e
956 Parte terza
I FLAVII E GLI ANTONINI: L'ETTAIA COME IDEALE UMANISTICO I. I Flavii e gli Antonini
Bibliografia e problemi
281
375
Parte quarta
LA DEMOCRATIZZAZIONE DELLA CULTURA E LA CRISI DELLO STATO ANTICO I. Da Commodo a Severo Alessandro: « Monar(180-235) chianismo » e Movxpr Il. Da Massimino a Gallieno (235-268): le guerre civili e l'ideale filosofico III. I restitutores illirici e la disperata difesa del vecchio stato (268-312)
Bibliografia e problemi
433 491
559 600
Parte quinta IL BASSO IMPERO E LA « PROSPETTIVA CHARISMATICA » I. Dal Milvio al Frigido (312-394) III. Le province romane e la fine del mondo antico
651 752
Bibliografia e problemi
816
Indice generale
957
APPENDICI I. La tavola di Heba e il gran cammeo di Francia 855 Il. I manoscritti del Mar Morto: l'origine degli Zeloti e i problemi del primitivo cristianesimo 869 III. Il problema della sepoltura dell'apostolo Pietro e le recenti esplorazioni. « Archeologia cristiana » e storia antica. « Cristo e il tempo» 890 Addendum i
913
Biblioteca Universale Laterza
ultimi volumi pubblicati
370. 371. 372. 373. 374. 375. 376.
Dotti, U., Vita di Petrarca Volpe, G., Medio Evo italiano Molinari, C., L'attore e la recitazione Cassirer, E., Da Talete a Platone Luperini, R., Storia di Montale Fuhrmann, H., Storia dei papi. Da Pietro a Giovanni Paolo 11 Havelock, E.A. - Hershbell, J.P. (a cura di), Arte e comunica-
zione nel mondo antico Peirce, C.S., Categorie Sapegno, N., Ritratto di Manzoni Herder, J.G., Idee per la filosofia della storia dell'umanità Ciliberto, M., Giordano Bruno Leone de Castris, A., Storia di Pirandello Leibniz, G.W., Scritti di logica, voi. I Leibniz, G.W., Scritti di logica, vol. TI 384. Maddoli, G. (a cura di), La civiltà micenea. Guida storica e critica 385. Garin, E., L'Umanesimo italiano 386. D'Holbach, P.T., Elementi di morale universale o catechismo della natura 387. Ghidetti, E. (a cura di), Il caso Svevo 388. Grottanelli, C. - Parise, N.F. (a cura di), Sacrificio e società nel mondo antico 389. Garin, E., Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano 390. Tessari, R., La drammaturgia da Eschilo a Goldoni 391. Vovelle, M., La morte e l'Occidente 392. Banham, R., Ambiente e tecnica nell'architettura moderna 393. Quadri, F., Teatro '92 394. Allegri, L., La drammaturgia da Diderot a Beckett 395. Riccardi, A., Il Vaticano e Mosca 396. Eagle, M.N., La psicoanalisi contemporanea 397. Bruner, J., La mente a più dimensioni 398. Grazzini, G., Cinema '92
377. 378. 379. 380. 381. 382. 383.
399. 400. 401. 402. 403. 404. 405. 406. 407. 408. 409. 410. 411. 412. 413. 414. 415. 416. 417. 418. 419. 420. 421. 422. 423. 424. 425. 426. 427. 428. 429. 430. 431. 432.
Schopenhauer, A., Metafisica della natura Finley, MI., La politica nel mondo antico Burke, P. (a cura di), La storiografia contemporanea Stanisiavskij, K.S., Il lavoro dell'attore sul personaggio Penzo, G., Nietzsche allo specchio Goglia, L. - Grassi, F., Il colonialismo italiano daAdua all'Impero Rousseau, J. -J., Scritti politici, voi. I. Discorso sulle scienze e sulle arti - Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza Discorso sull'economia politica Gentile, E., Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell'Italia fascista Trevor-Roper, H.R., Protestantesimo e trasformazione sociale Rousseau, J.-J., Scritti politici, voi. Il. Manoscritto di Ginevra, Contratto sociale, Frammenti politici, Scritti sull'Abate di SaintPierre Cassese, A., I diritti umani nel mondo contemporaneo Rousseau, J.-J., Scritti politici, voi. III. Lettere dalla montagna, Progetto di costituzione per la Corsica, Considerazioni sul governo di Polonia Villari, R., La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini 1585-1647 Ghisaiberti, C., La codificazione del diritto in Italia. 1865-1942 Grazzini, G., Cinema '93 Nietzsche, F., I filosofi preplatonici Bacone, F., Uomo e natura. Scritti filosofici Fichte, J.G., Diritto naturale Wahi, J., La coscienza infelice nella filosofia di Hegel Mayer, A.J., Il potere dell'Ancien Régime Mosca, G., La classe politica Fichte, J.G., Sistema di etica Sabattini, M. - Santangelo, P., Storia della Cina. Dalle origini alla fondazione della Repubblica Havelock, E.A., La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull'oralità e l'alfabetismo dall'antichità al giorno d'oggi Warrender, H., Il pensiero politico di Hobbes. La teoria dell'obbligazione Tessari, R., Teatro e spettacolo nel Settecento Cusano, N., Il Dio nascosto Euchner, W., La filosofia politica di Locke Setta, 5., L'Uomo qualunque. 1944-1948 Fieidhouse, D.K., Politica ed economia del colonialismo. 18701945 Bayie, P., Pensieri sulla cometa Kezich, T., Cento film 1994 Chasseguet-Smirgei, J., La sessualità femminile Bruno, G., Eroici furori
433. 434. 435. 436. 437. 438. 439.
Caretti, L. (a cura di), Manzoni e gli scrittori da Goethe a Calvino Rosa, M. (a cura di), Clero e società nell'Italia moderna Luperini, R., Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere Bergson, H., Le due fonti della morale e della religione Leibniz, G.W., L'armonia delle lingue Donati, C., L'idea di nobiltà' in Italia Vetta, M. (a cura di), Poesia e simposio nella Grecia antica. Guida storica e critica
440. Klapisch-Zuber, Ch., La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze
441. Kant, I., Scritti di storia, politica e diritto 442. Canfora, L., Ellenismo 443. Yates, FA., Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento
444. Mammarella, G., Europa-Stati Uniti. Un'alleanza difficile. 19451985
445. 446. 447. 448. 449. 450. 451. 452.
Molinari, C., Storia del teatro Simmel, G., I problemi fondamentali della filosofia Alessandro di Afrodisia, L'anima Molinari, C., Bertolt Brecht Attolini, G., Gordon Craig Schelling, F.W.J. von, Criticismo e idealismo Kezich, T., Cento film 1995 Bergson, H., Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito
453. Volpi, F., Il nichilismo 454. Schelling, F.W.J. von, Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna
455. 456. 457. 458. 459. 460. 461. 462. 463. 464.
Cherubini, G., L'Italia rurale del basso Medioevo Verucci, G., L'Italia laica prima e dopo l'Unita'. 1848-1876 Lòwith, K., Nietzsche e l'eterno ritorno Pera, M., Apologia del metodo Pescosolido, G., Agricoltura e industria nell'Italia unita Piretti, MS., Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi Detienne, M. (a cura di), Sapere e scrittura in Grecia Piaget, J., Le scienze dell'uomo Rosa, G., La narrativa degli Scapigliati Brentano, F., La psicologia dal punto di vista empirico, voi. I
465. 466.
Brentano, F., La psicologia dal punto di vista empirico, voi. TI Brentano, F., La psicologia dal punto di vista empirico, voi. III Kezich, T., Cento film 1996 Musti, D., Demokratia. Origini di un'idea Feuerbach, L., L'essenza del cristianesimo Timpanaro, 5., La filologia di Giacomo Leopardi Aliverti, MI., Jacques Copeau
467. 468. 469. 470. 471.
472. 473. 474. 475. 476. 477. 478. 479. 480. 481. 482. 483. 484. 485. 486. 487. 488.
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Santo Mazzarino (1916-1987) è stato ordinario i Storia romana so la facoltà di Lettere di Roma. Tra le sue opere: Stilicone (1942); Dalla monarchia allo Stato repubblicano (1945); Fra Oriente e Occidente (1947); Aspetti sociali del IV secolo (1951);
Lafine del mondo antico (1959); Antico, Tardo-antico edera costantiniana (2 voll., 1974-1980). Per i nostri tipi, in questa stessa collana, Il pensiero storico classico (3 voli.).
ISBN 978-88-420-2401-9
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€ 25300
G.i.)