NATSUO KIRINO
Le quattro casalinghe di Tokyo
traduzione di Lydia Origlia Neri Pozza Editore
Avviso di Copyright © T...
250 downloads
3140 Views
2MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
NATSUO KIRINO
Le quattro casalinghe di Tokyo
traduzione di Lydia Origlia Neri Pozza Editore
Avviso di Copyright © Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo eBook può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma tramite alcun mezzo senza il preventivo permesso scritto dell’editore. Il file è siglato digitalmente, risulta quindi rintracciabile per ogni utilizzo illegittimo. Norme tecniche di utilizzo Il file acquistato può essere visualizzato su tutti i lettori eBook, oppure stampato su carta. I edizione eBook 2010-12 Collana BIBLIOTECA ISBN 978-88-545-0489-9 Titolo originale: Out © 1997 by Natsuo Kirino Original Japanese edition published by Kodansha Ltd. Italian translation rights arranged with Kodansha International Ltd. through Japan Foreign-Rights Centre © 2003 Neri Pozza Editore, Vicenza traduzione di Lydia Origlia www.neripozza.it Copia dell’opera è stata depositata per la tutela del diritto d’autore, a norma delle leggi vigenti. Il seguente E-BOOK è stato realizzato con T-Page
Turno di notte
1. Arrivò al posteggio prima dell’ora stabilita. Scesa dall’auto fu avvolta dall’umida, fitta oscurità di luglio. Era forse il caldo afoso a farle apparire ancora più cupe quelle tenebre. Masako Katori si sentì soffocare e levò lo sguardo al cielo senza stelle. La pelle, che in auto si era mantenuta fresca e asciutta grazie al climatizzatore, divenne subito sudata e appiccicosa. Un odore di olio fritto, proveniente dallo stabilimento di pasti precotti in cui tra poco avrebbe iniziato il suo turno di notte, si mescolava quasi indistintamente alle folate di gas di scarico che giungevano dalla Shin-Oume-Highway. «Voglio tornare». Queste parole le affiorarono alla mente non appena l’odore raggiunse il suo naso. Non sapeva come le fosse venuta in testa quell’idea, né dove voleva tornare. Ovviamente non nella casa da cui era appena uscita. Perché non voleva tornare a casa? E dove avrebbe voluto andare? La sensazione di avere smarrito la strada irritò Masako. Nelle lunghe ore tra la mezzanotte e le cinque e mezzo del mattino avrebbe dovuto riempire di cibo le scatole che le sarebbero passate davanti sul nastro trasportatore, senza un attimo di pausa. La paga oraria era alta, per essere un’attività a part-time, ma il lavoro era faticoso, poiché la costringeva a rimanere in piedi. Non si sentiva per niente in forma: non era la prima volta che, al pensiero della sfacchinata che l’aspettava, veniva assalita dai crampi. Tuttavia quella notte provava una sensazione diversa, indefinibile. Si accese una sigaretta, e per la prima volta le venne in mente che lo faceva per coprire l’odore dello stabilimento. L’edificio sorgeva solitario alla fine della strada che costeggiava il muro grigio di una gigantesca officina meccanica, nel cuore di Musashi-Murayama. Intorno non vi erano che campi polverosi e piccole autofficine, disseminate in un territorio piatto su cui dominava un cielo immenso. Il parcheggio si trovava a tre minuti a piedi dalla fabbica, oltre l’area desolata dello stabilimento. Per costruirlo si erano limitati a spianare un ampio terreno e a segnare provvisoriamente i posti per le auto con strisce di plastica, ricoperte a tratti di polvere e sabbia e poco visibili. I furgoncini e le utilitarie degli operai erano posteggiati alla rinfusa. Era praticamente impossibile accorgersi se qualcuno era laggiù in agguato, nascosto nell’ombra dei cespugli o delle auto. Quest’idea rendeva il luogo ancora più inquietante. Masako si guardò intorno con circospezione e chiuse a chiave la macchina. Udì uno stridio di gomme e la luce gialla dei fari illuminò per un attimo i cespugli. Una Golf cabriolet verde con la capote sollevata entrò nel parcheggio e si avvicinò. La faccia pienotta di Kuniko Jonouchi accennò un inchino. «Scusa, sono in ritardo». Kuniko parcheggiò distrattamente l’auto vicino alla Toyota Corolla rossa di Masako, senza preoccuparsi del fatto che la macchina era troppo spostata a destra. I rumori che provocava – tirando il freno a mano, sbattendo la portiera – risuonavano inutilmente troppo forti. Tutto in lei era stridente e fuori tono. Masako spense la sigaretta con la punta della scarpa da ginnastica. «Che auto elegante!» Perfino in fabbrica la Golf era argomento di conversazione. «Trovi davvero?» Visibilmente compiaciuta, Kuniko si passò la lingua sulle labbra: «Comunque sono stata una bella stupida a riempirmi di debiti per comprarla!» Masako sorrise ambiguamente. I debiti di Kuniko non riguardavano soltanto l’automobile. Comprava quasi esclusivamente articoli firmati e spendeva molto anche per vestirsi.
«Dai, andiamo!» Dall’inizio dell’anno il sentiero che portava dal posteggio alla fabbrica era stato spesso teatro delle incursioni di un maniaco sessuale. Era successo più di una volta che un’operaia del turno di notte venisse trascinata nel buio tra i cespugli e molestata. Anche il giorno prima la direzione aveva raccomandato di recarsi al lavoro possibilmente in compagnia. Le due donne si avviarono lungo il sentiero non asfaltato e privo di illuminazione. Sulla destra erano disordinatamente allineati condomini e fattorie con grandi giardini: un bel caos, ma almeno si avvertiva la presenza degli uomini. Sulla sinistra si estendeva un’area deserta e inselvatichita: oltre il canale, completamente sommerso dalle erbacce, rimanevano soltanto le rovine del vecchio stabilimento e di un bowling ormai chiuso, e altri edifici abbandonati. Si diceva che le operaie cadute nelle mani del maniaco fossero state trascinate nella zona della fabbrica dismessa. Masako lanciò attentamente uno sguardo a destra e a sinistra e si incamminò a passi veloci accanto a Kuniko. Da un piccolo condominio alle loro spalle, sulla destra, provenivano le voci di un uomo e una donna che litigavano in portoghese. Anche loro dovevano essere operai dello stabilimento. Oltre a casalinghe come Masako, che lavoravano part-time, erano stati assunti molti brasiliani di origine giapponese o di razza bianca, tra cui numerose coppie. «Dicono che il maniaco potrebbe essere un brasiliano», commentò Kuniko aggrottando la fronte. Masako continuò a camminare in silenzio senza reagire. Le origini dell’uomo non erano determinanti. C’era qualcosa di ineluttabile in tutto ciò: finché avesse continuato a lavorare in quella fabbrica nulla avrebbe potuto rimediare alle frustrazioni che gli ristagnavano nel corpo e nell’anima. Alle donne non rimaneva altro da fare che cercare di difendersi come potevano. «Dev’essere un uomo grande e grosso. Che ti afferra e ti abbraccia con forza senza dire una sola parola». Nel tono di Kuniko risuonava come una punta di nostalgia. Masako intuì che l’animo di Kuniko era offuscato da qualcosa, come un cielo stellato nascosto dalle nuvole. Alle loro spalle udirono stridere i freni di una bicicletta. Si girarono tese e riconobbero la piccola sagoma di una donna più anziana di loro. «Ah, siete voi. Buongiorno!» Era Yoshie Azuma, una grande lavoratrice. Aveva più di cinquantacinque anni ed era vedova. Le sue mani erano agili e capaci, e lavorava per due. Le compagne, con una punta di ironia, la chiamavano “maestra”. Masako la salutò sollevata: «Grazie a Dio sei tu! Buongiorno, maestra!» Kuniko indietreggiò di mezzo passo, come se la presenza di Yoshie non la riguardasse. «Adesso non mi chiamerai maestra anche tu!» replicò Yoshie, anche se non sembrava che le dispiacesse davvero essere chiamata così.Scese dalla bicicletta e proseguì a piedi insieme a loro. Il suo fisico pareva creato per il lavoro manuale: bassa ma forte, come un granchio. Il viso, invece, troppo piccolo in rapporto al corpo, sembrava fluttuare bianco come il gesso nel buio della notte; vacuo e inespressivo com’era, le conferiva un’espressione infausta. «È a causa delle chiacchiere sul maniaco che andate al lavoro insieme, vero?» «Esattamente. Kuniko è ancora giovane, infatti». Kuniko ridacchiò. Aveva ventinove anni. Yoshie evitò una pozzanghera che luccicava nel buio e guardò Masako in faccia. «Ma anche tu sei ancora sulla breccia, hai solo quarantatré anni, o sbaglio?» «Ah, basta con le stupidaggini», rispose Masako senza ridere. Negli ultimi tempi le capitava raramente di avere una qualche consapevolezza della propria femminilità. «Ti senti già inaridita? Fredda e distaccata?» Yoshie voleva scherzare, ma Masako pensò che era esattamente così. Fredda e inaridita strisciava sul terreno. La sua attuale esistenza era quella di un rettile. «Tu piuttosto, maestra, sei in ritardo rispetto al solito», replicò Masako cambiando discorso.
«Eh già, di nuovo problemi con la nonna». Yoshie fece una smorfia. Da anni assisteva la suocera costretta a letto, ed era chiaro che non ne voleva parlare. Masako – lo sguardo fisso davanti a sé – non chiese più nulla. Là in fondo a sinistra, dove finiva la fila degli edifici abbandonati, erano posteggiati in formazione i camion bianchi del corriere espresso che avrebbero trasportato le colazioni confezionate ai supermercati aperti ventiquattro ore su ventiquattro. Dietro ai furgoni si ergeva la fabbrica, che spiccava nella notte illuminata a giorno dall’azzurro pallido delle luci al neon. Attesero che Yoshie andasse a depositare la bicicletta nella rastrelliera accanto allo stabilimento, poi salirono tutte e tre la scala esterna su cui era stesa una logora moquette verde. Al primo piano c’era l’atrio, a destra gli uffici. In fondo al corridoio una sala e lo spogliatoio. Lo stabilimento era al piano terra, e così gli operai dovevano cambiarsi e scendere di nuovo. Nell’atrio iniziava la moquette rossa che non era permesso calpestare con le scarpe da strada. Il rosso assorbiva la luce dei neon e il corridoio assumeva un aspetto cupo. Il colore si rifletteva anche sui visi delle tre donne, dando loro un’espressione fosca e truce. Masako osservò le facce stanche delle compagne domandandosi se anche la sua fosse così. Komada, l’incaricato al controllo igienico, era fermo davanti all’armadio delle scarpe e aveva in mano un rullo ricoperto di nastro adesivo. Senza una parola e con espressione insofferente lo passò sulla schiena di ognuna di loro per eliminare la polvere e lo sporco portati dall’esterno. Entrarono nella grande sala con il pavimento coperto di tatami. Gli operai sedevano a gruppi e chiacchieravano. Si erano già tutti cambiati e indossavano la divisa bianca da lavoro, alcuni mangiavano dolci e altri sorseggiavano del tè in attesa dell’inizio del turno. Qualcuno si era persino sdraiato e a occhi chiusi cercava di recuperare un po’ del sonno perduto. Del centinaio di operai addetti al turno di notte un terzo era costituito da immigrati brasiliani, uomini e donne più o meno in pari numero. Nel periodo delle vacanze lavoravano nella fabbrica anche molti studenti, ma per lo più erano casalinghe part-time quelle che coprivano il turno di notte. Le tre donne si fecero strada verso lo spogliatoio, salutando qui e là i compagni più anziani, e si accorsero di Yayoi Yamamoto che sedeva sola in un angolo della stanza. Come se avesse qualcosa che la opprimeva, stava rannicchiata su se stessa sul tatami e non accennò neppure un sorriso quando riconobbe le compagne. «Buon mattino, Yama-chan», le si rivolse Masako. Sul viso di Yayoi comparve un sorriso di sollievo, che tuttavia si dileguò subito come una bolla di sapone. «Sembri stanca». Yayoi annuì prontamente e serrò le labbra con espressione depressa. Era la più bella, non solo tra loro ma tra tutte le operaie del turno di notte. Aveva lineamenti perfetti: fronte alta, sopracciglia e occhi ben disegnati, un nasino all’insù e labbra piene. Anche il corpo era bello, esile ma ben proporzionato. Era diversa da tutti gli altri e perciò la prendevano in giro, ma anche la viziavano. Masako la proteggeva. Diversamente da lei, che rifiutava con forza tutto ciò che non era logico e razionale, Yayoi si portava dietro una sensibilità esagerata. Per Masako l’amica, che inconsapevolmente possedeva ciò di cui lei col tempo aveva imparato a liberarsi per evitare di deprimersi, era una piccola donna graziosa, ogni giorno alle prese con nuovi insospettati angoli del proprio cuore. «Che cosa ti succede, sembri un po’ giù». Yoshie le batté la mano arrossata sulla spalla. Yayoi sobbalzò, tremava in tutto il corpo. Yoshie, meravigliata per la reazione, si volse verso Masako che con lo sguardo le fece cenno di andare avanti e si sedette vicino alla compagna. «Non stai bene?» «Già, ma non è niente». «Hai litigato con tuo marito?» «Ah, se si trattasse solo di questo non ci sarebbero problemi», rispose Yayoi con tono allusivo, continuando a fissare con sguardo cupo e assente un punto dietro la schiena dell’amica. Per
guadagnare tempo Masako si raccolse i capelli lunghi fino alle spalle trattenendoli con un fermaglio e domandò: «Cos’è successo?» «Te lo racconto più tardi». «Perché non adesso?» la sollecitò dopo aver dato un’occhiata all’orologio sulla parete. «No, lascia perdere. È un discorso troppo lungo». Per un attimo l’ira infiammò il volto di Yayoi e svanì immediatamente. Masako si alzò rassegnata: «Come vuoi». Entrò in fretta nello spogliatoio e cercò la divisa. Chiamarlo spogliatoio era forse eccessivo, si trattava soltanto di uno spazio isolato dal salone per mezzo di una tenda. Come a una svendita in un grande magazzino, nello spazio angusto erano allineati dei robusti attaccapanni: da un lato, sulle grucce portate da casa, erano appese le divise bianche degli operai che lavoravano di giorno, dall’altro gli abiti colorati dei compagni del turno di notte che si erano già cambiati. «Noi andiamo avanti». Yoshie e Kuniko uscirono insieme, con in mano la reticella e la cuffia che si sarebbero infilate in testa. Era ora di inserire il cartellino di presenza. Dovevano timbrarlo tra le ventitré e quarantacinque e la mezzanotte e poi aspettare all’entrata dello stabilimento al pianterreno: questa era la regola. Masako cercò la sua gruccia, alla quale erano appesi una sorta di corto camice chiuso davanti da una zip e i calzoni da lavoro con un elastico in vita. Infilò velocemente il camice sulla T-shirt, si tolse i jeans e infilò i calzoni da lavoro stando attenta a ripararsi dagli sguardi degli uomini che erano nella sala. Non c’erano spogliatoi separati per le donne e per gli uomini. Erano due anni che lavorava in quello stabilimento, e ancora non si era abituata a una simile mancanza di privacy. Avvolse con una reticella nera i capelli trattenuti dal fermaglio e indossò il copricapo di carta, simile a una cuffia da doccia, che tutti chiamavano berretto da cuoco. Prese il lungo grembiule di plastica trasparente, uscì dallo spogliatoio e vide che Yayoi era ancora seduta apatica nello stesso posto. «Sbrigati, Yama-chan». Quando si accorse della pesantezza con cui Yayoi si metteva in movimento si sentì più in ansia che irritata. Quasi tutti i compagni erano usciti dalla sala. Rimanevano soltanto alcuni brasiliani. Se ne stavano seduti a fumare con aria stanca, le lunghe gambe stese in avanti e la schiena appoggiata alla parete. «Buon mattino», salutò uno di loro alzando le dita tra le quali stringeva un mozzicone di sigaretta. Masako sorrise lievemente e rispose con un cenno del capo. Sul distintivo che portava sul petto era scritto un nome giapponese, Kazuo Miyamori, ma il colorito era olivastro, e il volto lungo e le sopracciglia folte erano quelli di uno straniero. Sicuramente Kazuo si occupava del lavoro pesante: trasportare con un carrello il riso bianco cotto e versarlo nella macchina automatica che avrebbe riempito i vassoi. «Buongiorno», l’operaio salutò anche Yayoi. La donna, immersa nei propri pensieri, non si girò neppure. Sul volto di Kazuo apparve la delusione. Gli capitava spesso in quell’odioso stabilimento. Dopo essere andate al bagno si misero la maschera e il grembiule, si lavarono mani e braccia con una spazzola e le immersero in un liquido disinfettante. Timbrarono il cartellino, infilarono gli stivaletti da lavoro bianchi e passarono l’esame dell’addetto all’igiene che le attendeva sul pianerottolo in cima alla scala che portava giù allo stabilimento. Komada sfregò sulla loro schiena il rullo adesivo e scrutò severamente mani, dita e unghie. «Abrasioni, graffi, ferite?» Non potevano toccare il cibo se avevano anche la più piccola escoriazione. Mostrarono le mani e superarono il controllo. Yayoi barcollava, ma sembrava non rendersene conto. «Ma stai bene, oggi?» «Diciamo di sì». «E i bambini?»
«Uhm», rispose elusiva. Masako le lanciò un altro sguardo indagatore. Si vedevano soltanto gli occhi stanchi, perché il resto del viso era nascosto dal copricapo e dalla mascherina. Di nuovo sembrò che Yayoi non si accorgesse del suo sguardo. Scesero al pianterreno e vennero avvolte dall’aria fredda e dagli odori dei cibi, come se avessero aperto la porta di un frigorifero. Il gelo saliva dal pavimento di cemento. Il locale dove lavoravano era freddo anche d’estate. Si unirono alla fila delle operaie in attesa che aprissero il portone. Yoshie e Kuniko, che erano in testa alla coda, si voltarono verso di loro e fecero un cenno d’intesa. Le quattro donne lavoravano sempre insieme e si davano una mano. Il lavoro era troppo duro e non avrebbero potuto affrontarlo senza aiutarsi reciprocamente. Finalmente il portone si aprì. Gli operai entrarono, si lavarono ancora una volta mani e braccia e si disinfettarono. Dovevano passare con il disinfettante anche il grembiule che arrivava fino alle caviglie. Quando Yayoi, che si muoveva a fatica, e Masako, che l’attendeva, ebbero finito di lavarsi e disinfettarsi raggiunsero il nastro trasportatore e videro che le altre avevano già cominciato a preparare il lavoro. «Presto, siete in ritardo!» Yoshie rimproverò Masako con tono impaziente. «Nakayama è già in giro!» Nakayama era il responsabile del primo turno, come veniva chiamato il turno di notte. Era ancora giovane – aveva più o meno trent’anni – ma gli operai lo odiavano a causa della sua linguaccia velenosa e della sua pignoleria. «Okay, scusaci». Masako andò in fretta a prendere i guanti di gomma e gli stracci per asciugare le mani dal disinfettante e li portò anche a Yayoi. Questa guardò le cose che l’amica le aveva ficcato in mano come se le vedesse per la prima volta. «Adesso fatti forza». «Sì, grazie». Quando Masako tornò al nastro trasportatore, Yoshie le mostrò il foglio illustrato con il piano di lavoro. «Iniziamo con le scatole per il curry. Milleduecento. Io faccio le porzioni di riso e tu, come sempre, mi passi il contenitore. Chiaro?» Quello che “faceva le porzioni” aveva la posizione chiave alla catena e stabiliva il ritmo del lavoro. Yoshie, che era la più esperta, si occupava sempre di versare il riso e decideva la velocità del nastro trasportatore. Si fidava di Masako, e si assicurò che fosse lei a passarle le scatole da riempire. Masako staccò uno dall’altro i contenitori di plastica impilati, in modo da poterli afferrare più facilmente, e lanciò un’occhiata a Yayoi. L’amica non era abbastanza svelta e aveva appena lasciato che qualcun altro le portasse via il facile compito di versare il curry. All’altro capo del nastro Kuniko, che era riuscita ad assicurarsi quel lavoro, alzò le spalle. Che cosa doveva fare se Yayoi, che le compagne cercavano di coprire, semplicemente non reagiva? «Che cos’ha la piccola? Non sta bene?» Yoshie aggrottò la fronte. Masako scosse silenziosamente la testa. Yayoi oggi non si comportava come al solito. Si era ormai lasciata rubare la sua usuale mansione, era isolata dalla lavorazione e aveva dovuto rassegnarsi a “spianare il riso”, funzione trascurata dalle altre. Quando le si mise vicino Masako si trattenne dallo schioccare la lingua in segno di disappunto e sottovoce le disse: «Ma è troppo difficile per te!» «Lo so». Arrivò di corsa Nakayama, il responsabile. «Sbrigatevi, mettete in moto il nastro! Cretine, che cosa state a meditare?!» Non si riusciva a distinguere la sua espressione perché portava un berretto a visiera sopra la cuffia, ma dietro alle lenti degli occhiali cerchiati di nero i piccoli occhi lampeggiavano minacciosi.
«Eccolo, adesso ci prendiamo le nostre!» esclamò Yoshie schioccando la lingua. «Quello scimmione!» commentò a bassa voce Masako, furibonda per essere stata insultata. Non poteva proprio soffrire quel prepotente di Nakayama. «Mi hanno detto di spianare il riso, ma come si fa?» domandò timidamente una donna di mezza età che sembrava affrontare quel lavoro per la prima volta. «Con questa spatola devi semplicemente schiacciare il riso in modo da appiattirlo. Io – ecco, così – lo verso nel contenitore. Quindi deve essere pressato con le mani e infine lo si copre con la salsa al curry. Guarda quella di fronte a te, anche lei sta facendo lo stesso lavoro. Basterà che la imiti», spiegò Yoshie, stranamente gentile, additando Yayoi che si trovava dall’altra parte del nastro. La donna annuì, ma sembrava non aver capito bene e si guardava intorno sperduta. Yoshie, tuttavia, avviò implacabile la macchina. Si udì un rumore sordo e il nastro cominciò a muoversi. Masako si accorse che Yoshie lo faceva andare più velocemente del solito: dal momento che il lavoro stentava ad avviarsi, aveva intenzione di ridurre i tempi. Con gesti esperti incominciò a passarle i contenitori. Dall’apertura della macchina automatica uscivano i blocchi di riso. Yoshie li raccoglieva uno alla volta nel contenitore, controllava sulla bilancia che il peso fosse esatto e rimetteva la scatola sul nastro. Gesti veloci e precisi. Vi era chi spianava il blocchetto di riso, chi lo ricopriva di salsa al curry, chi tagliava il pollo fritto alla cinese, chi lo adagiava sul curry, chi preparava la porzione di verdure e la versava nel vasetto, chi chiudeva la scatola con il coperchio di plastica, chi vi fissava il cucchiaio con del nastro adesivo, chi incollava l’etichetta; e ciascuno di questi piccoli gesti contribuiva a confezionare la scatola per la colazione al curry, finalmente completa. Il turno iniziava sempre così. Masako diede uno sguardo all’orologio appeso alla parete. Erano passati cinque minuti dalla mezzanotte. Per cinque ore e mezzo avrebbero dovuto continuare a lavorare in piedi sul gelido pavimento di cemento. Se volevano andare alla toilette dovevano farsi sostituire. E capitava di dover aspettare due ore da quando avevano prenotato prima che giungesse il loro turno. Perciò era necessario aiutare e farsi aiutare in ogni modo, e cercare di evitare per quanto possibile i movimenti più faticosi. Questo era il segreto per poter continuare a lungo quel lavoro senza rovinarsi la salute. Dopo circa un’ora la nuova operaia era evidentemente sfinita e diventava sempre meno efficiente. La linea di montaggio tendeva a rallentare. Allora Yayoi allungò le mani in fretta e incominciò a spianare anche il riso della nuova compagna. È troppo gentile, pensò Masako. Dovrebbe pensare soltanto a se stessa. Soprattutto oggi, che sembra così provata. Tutte le veterane sapevano quanto fosse pesante “spianare il riso”, che era freddo e duro perché era trascorso troppo tempo dalla cottura, e spianare in un attimo quel blocco di riso solidificato richiedeva forza nel polso e nelle dita, e inoltre bisognava lavorare curvi. Dopo un’ora si cominciava a sentire un indolenzimento nella schiena e negli avambracci e non si riusciva più a sollevare le braccia. Perciò si lasciava quell’incombenza alle nuove operaie, ignare del lavoro. Ma Yayoi, con espressione triste e rassegnata, andava stoicamente avanti. Milleduecento colazioni al curry erano pronte. Il gruppo di lavoro doveva sgombrare velocemente il nastro trasportatore, pulirlo e spostarsi a un altro nastro. Il lavoro successivo riguardava duemila scatole per una colazione speciale destinata a essere consumata a teatro, durante l’intervallo. Era una linea di produzione lunga, perché gli ingredienti da stipare nella scatola erano molti. Si unirono a loro degli operai brasiliani con berretti da cuoco azzurri. Yoshie e Masako, come sempre, si occupavano della “distribuzione del riso”. Kuniko, che era molto abile, fu stranamente gentile con Yayoi e le riservò la mansione più semplice, quella di versare la salsa sulla cotoletta di maiale. Si dovevano prendere due cotolette, una per mano, immergerne un lato nella vaschetta con la salsa e quindi pressarle tra di loro. Era un buon lavoro, che concedeva un attimo di quiete mentre il nastro trasportatore continuava a scorrere rapidamente. Anche Yayoi
sarebbe stata capace di farlo. Masako, tranquillizzata, si dedicò alle proprie mansioni. Ma proprio quando l’ultima scatola era appena passata sul nastro e si incominciava a pulire e riordinare, si udì un gran fracasso che fece sobbalzare tutti. Yayoi era inciampata nel contenitore della salsa ed era caduta a terra. Il coperchio metallico del bidone era balzato sul nastro trasportatore della linea accanto, e tutto intorno a loro si stendeva un mare unto e lucente di salsa marrone. Il pavimento era sempre scivoloso per gli schizzi di grasso e di salsa. Gli operai, che lo sapevano, facevano attenzione e solo molto raramente accadevano incidenti del genere. «Maledizione, che diavolo è successo?» Nakayama, che aveva cambiato colore, si precipitò verso di lei e urlò: «Ma guarda che porcile!» Arrivarono trafelati alcuni uomini con degli stracci. «Scusi. Sono scivolata». Yayoi era rimasta seduta con aria sbigottita in mezzo alla salsa e non tentava neppure di alzarsi. Masako si precipitò verso di lei, la afferrò per le braccia e cercò di rimetterla in piedi. «Svelta, alzati!» Il camice di Yayoi si era sollevato e Masako si accorse di una larga macchia bluastra nella zona dello stomaco. Era forse quello il motivo per cui oggi l’amica non stava bene? La macchia spiccava sul candore della pelle come un divino, funesto sigillo. Masako schioccò la lingua e si affrettò a sistemare il camice di Yayoi, nascondendo la macchia agli sguardi degli estranei. Non c’erano abiti per cambiarsi e Yayoi dovette continuare a lavorare con la divisa macchiata all’altezza delle natiche e sulle maniche. La densa salsa che imbrattava il camice bianco si rapprese ben presto, assumendo una tinta marrone, e penetrò nelle fibre. L’odore toglieva il respiro. Ore cinque e mezzo del mattino. Il turno era finito e non c’erano straordinari da fare. La fiumana di operai tornò al piano superiore. Come al solito le quattro donne, dopo essersi cambiate, rimasero una mezz’oretta a chiacchierare davanti al distributore automatico di bevande nel salone. «Oggi non c’eri del tutto! Non stai bene?» domandò l’ignara Yoshie a Yayoi scrutandola con aria indagatrice. Dopo il lavoro della notte, ora Yoshie aveva la stanchezza stampata sul volto e dimostrava tutti i suoi anni. Yayoi bevve un sorso di caffè dal bicchierino di carta e, dopo aver riflettuto un attimo, rispose: «Ieri ho litigato con mio marito». «Mia cara, ma tutti litigano almeno una volta, non è vero?» Yoshie sorrise a Kuniko, cercando la sua approvazione. Kuniko, con una sottile sigaretta al mentolo all’angolo della bocca, socchiuse gli occhi e con aria indifferente commentò: «Ma voi Yamamoto ve la intendete bene, no? Andate sempre a spasso con la figliolanza». «Negli ultimi tempi non è così», bisbigliò Yayoi. Masako la fissò in silenzio. Ebbe l’impressione che, se si fosse seduta, non sarebbe riuscita a rialzarsi per molto tempo. «Capita, sono le fasi della vita, alti e bassi…» Quando Yoshie, che era vedova, cercò di risolvere la questione con un luogo comune, Yayoi la interruppe tagliente: «Macché fasi, il disgraziato arriva e dice che ha speso tutti i nostri risparmi. E allora sono andata su tutte le furie!» Tacquero tutte e tre, colpite dalla violenza del tono di Yayoi e dalla gravità del fatto. «E come li ha spesi?» chiese Masako accendendosi una sigaretta. «Gioco d’azzardo, ha detto. Baccarat, o qualcosa del genere». Yoshie spalancò gli occhi sbalordita: «Ma tuo marito sembra essere un impiegato molto serio. Come mai tutto d’un tratto ha cominciato a giocare d’azzardo?» «Chissà!» Yayoi scosse stancamente la testa. «C’è un locale, va lì e gioca. Non so nulla di
preciso». «E quanto avevate risparmiato?» domandò Kuniko con un bagliore negli occhi, incapace di nascondere la curiosità. «Più o meno cinque milioni di yen» 1, rispose Yayoi con voce fioca. Kuniko deglutì e il suo volto assunse per un attimo un’espressione di invidia. «No, su una cosa così non si può proprio passare sopra!» commentò, mentre sul viso di Yayoi ricompariva la stessa smorfia di rabbia di poco prima. «Vero? E poi mi ha anche picchiata sul ventre!» Sollevò la maglietta e mostrò a tutte il livido. Yoshie e Kuniko si scambiarono un’occhiata. «Di sicuro adesso se ne sarà pentito», cercò di consolarla Yoshie. «Anch’io litigavo spesso con mio marito. Ci picchiavamo anche. Mio marito era un violento, ma il tuo non dev’essere così, vero?» «Non lo so più!» sbottò Yayoi e sfiorò con le dita la maglietta accarezzandosi lo stomaco. Fuori era già chiaro. Sarebbe stato un altro giorno caldo e umido, come la notte precedente. Davanti all’ingresso Masako e Kuniko si separarono dalle compagne, che sarebbero tornate a casa in bicicletta, e si diressero verso il posteggio. «A quanto pare quest’anno non piove neppure nella stagione dei monsoni». «Ci sarà sicuramente una siccità». Kuniko sollevò lo sguardo al cielo nuvoloso. Aveva il volto lucido. «Già, se va avanti così…» «Ascolta, Masako, che cosa farà Yayoi secondo te?» «Mah!» rispose Masako alzando le spalle. Kuniko continuò sbadigliando: «Se fossi in lei divorzierei. E senza pensarci tanto sopra! Guai se un marito si mangia da solo tutti i risparmi!» «Già», assentì Masako, ma i due figli di Yayoi avevano solo cinque e tre anni. La questione non era facile, non si poteva prendere una decisione in quattro e quattr’otto. Masako evidentemente non era la sola a non sapere dove tornare. Camminarono in silenzio fino al posteggio, poi ognuna si diresse alla propria auto e aprì la portiera. «Be’, allora, buona notte, dormi bene!» «Buona notte». Da quando in qua si dice buona notte al mattino, pensò Masako lasciandosi cadere pesantemente al posto di guida. A un tratto la stanchezza le precipitò addosso. Levò lo sguardo al cielo: la luce era così abbagliante che le ferì gli occhi. 1 1 Equivalenti a circa cinquantamila euro. Cento yen corrispondono infatti a circa un euro (N.d.T.).
2. Kuniko girò la chiave nel cruscotto. Il ruggito del motore si propagò nel posteggio. Era felice di avere finalmente un’auto che funzionava bene. L’anno precedente aveva speso più di duecentomila yen in riparazioni. «Ciao, allora». Masako – che non amava i complimenti – alzò una mano in segno di saluto e partì. Kuniko chinò educatamente il capo e rimase a guardarla finché non fu sparita. Quindi tirò un sospiro di sollievo, perché le era molto difficile trattare con Masako, che sembrava venuta da un altro pianeta e non si sapeva mai che cosa pensasse. Appena lasciava le compagne Kuniko sentiva cadere la maschera dietro la quale si nascondeva e rivelava il suo vero aspetto. L’auto di Masako era ancora ferma al semaforo all’uscita del parcheggio. Kuniko osservò la parte posteriore della Corolla tutta ammaccata e si domandò come ci si potesse accontentare di un simile catorcio. A giudicare dalla vernice rossa ormai opaca, probabilmente aveva più di centomila chilometri. E poi, che senso aveva quell’adesivo rosso che invitava a una guida sicura? Davvero non si poteva permettere un’auto come la sua, se non nuova almeno decente? Oppure avrebbe potuto comprarsi un’auto nuova a rate! Per la sua età Masako aveva un viso ancora passabile e una bella linea, ma non faceva niente per valorizzarli, e questo era il suo errore. Kuniko infilò una cassetta nello stereo. La voce acuta di una donna che cantava una canzone pop come se fosse una melodia giapponese invase l’abitacolo. Era insopportabile. Tolse subito la cassetta. Non aveva voglia di sentire musica, in realtà voleva solo provare le prestazioni della sua auto e godersi un attimo di relax. Kuniko sistemò le bocchette del climatizzatore in modo da ricevere l’aria direttamente sul corpo e azionò la capote che si alzò lentamente, come un serpente che si libera della vecchia pelle. Le piaceva molto l’attimo in cui qualcosa di assolutamente banale si trasforma in qualcosa di straordinario. Ah, se anche la vita potesse essere così! Tuttavia continuava a pensare a Masako. Che strano tipo! Indossava sempre i soliti jeans e una T-shirt o una polo del figlio stinte per i frequenti lavaggi. D’inverno ci infilava sopra un golfino o un pullover senza pretese o, peggio ancora, un giaccone tutto rotto, con i buchi tappati col nastro adesivo per impedire che ne uscissero le piume. Impresentabile! Masako le faceva venire in mente gli alberi secchi e nudi in inverno. Così era il suo corpo slanciato, senza un grammo di troppo, e il colorito del suo viso era simile a quello della corteccia. Il taglio degli occhi, il naso grazioso, le labbra sottili, tutto perfetto al millimetro. Se si fosse truccata un poco e avesse indossato vestiti un po’ più raffinati, come faceva lei, sarebbe stata molto carina e avrebbe dimostrato cinque o sei anni di meno. Che spreco! Kuniko provava un sentimento misto di invidia e disprezzo. Lei invece era brutta e grassa. Si guardò nello specchietto retrovisore e di nuovo la assalì la consueta delusione. Nonostante il viso fosse grande e gli zigomi pronunciati, gli occhi erano piccoli, il naso largo e schiacciato, la bocca storta e il labbro inferiore lievemente proteso. Una vera e propria catastrofe, tutto quello che avrebbe dovuto essere grande era piccolo e viceversa. Specialmente al mattino si sentiva brutta, alla fine del turno di notte. Prese un fazzolettino di carta dalla pochette firmata Prada e si picchiettò la pelle nei punti in cui era più unta. Sapeva anche troppo bene che una come lei, senza particolari qualifiche, non poteva trovarsi un impiego migliore se non era almeno carina. Per questo aveva accettato quell’orrendo lavoro notturno. E più era stressata, più mangiava e ingrassava. Kuniko provò all’improvviso una sensazione di rabbia verso il mondo intero.Ingranò la marcia
con violenza, sollevò il piede dal freno e mandò il motore su di giri. La Golf fece un balzo in avanti e uscì dal posteggio. Nello specchietto retrovisore notò compiaciuta la nuvola di polvere sollevata dall’auto. Percorse per un po’ la Shin-Oume-Highway in direzione del centro, quindi a un semaforo voltò a destra verso la Kunitachi. Oltre il boschetto di peri, a sinistra, si scorgeva il vecchio condominio. Lei abitava in uno di quegli angusti appartamenti in affitto. Detestava abitare lì, ma per il momento era l’unica soluzione per lei e Tetsuya – l’uomo col quale viveva –, l’unica che potessero permettersi con i loro stipendi. Il suo più grande desiderio era essere una donna diversa, vivere una vita diversa, in un luogo diverso, con un uomo diverso. Ovviamente “diverso” per lei voleva dire molte cose. Si chiese se non era un po’ pazza, dal momento che non riusciva a fare a meno di preoccuparsi continuamente della sua posizione e di pensare ad altro che a questo sogno. Posteggiò la Golf nello spazio riservato. Tutt’intorno c’erano solo utilitarie e neanche un’auto straniera. Era orgogliosa della sua macchina, e uscì sbattendo rumorosamente la portiera. L’aveva fatto apposta, sperando che qualcuno si svegliasse. Anche se sapeva che, se uno degli inquilini si fosse arrabbiato, avrebbe finito col chiedere umilmente scusa. Alla fin fine bisognava tenere la testa a posto e comportarsi educatamente, anche se talvolta costava fatica. Entrò nell’ascensore imbrattato di graffiti, salì al quarto piano e, strascicando i piedi, si avviò lungo il corridoio – ingombro di tricicli e scatole di polistirolo – fino alla porta del suo appartamento. Girò la chiave nella serratura, entrò nella stanza immersa nell’oscurità e udì subito il russare animalesco proveniente dalla camera in fondo. Tutto come al solito. Appoggiò il giornale che aveva sfilato dalla cassetta delle lettere sul tavolo da pranzo di compensato comprato a una televendita. Il giornale le serviva solo per i programmi televisivi. Anche Tetsuya, il suo uomo, leggeva soltanto qualche articolo di cronaca e lo sport. In fondo era uno spreco, avrebbe voluto disdire l’abbonamento, ma le interessavano le inserzioni. Kuniko sfogliò le pagine finché non trovò, nascosta tra gli annunci immobiliari, la sezione delle offerte di lavoro per le donne e la mise da parte. Le avrebbe lette più tardi, con cura. Nella stanza il caldo era soffocante. Kuniko mise in funzione il condizionatore e aprì il frigorifero. A stomaco vuoto non sarebbe mai riuscita ad addormentarsi. Ma non c’era nulla. Dove erano finiti l’insalata di patate e gli o-nigiri 2 che aveva comprato al supermercato la sera precedente? Tetsuya si era fatto fuori tutto. Kuniko, furiosa, aprì una lattina di birra. Mentre beveva prese un pacchetto di patatine e accese il televisore. Saltò da un programma all’altro finché non trovò una delle rubriche scandalistiche del mattino. I pettegolezzi sui vip le tiravano sempre su il morale. Adesso doveva solo aspettare che l’alcol facesse effetto. «Abbassa quel cazzo di televisore, voglio dormire!» L’urlo di Tetsuya la colse alle spalle. «Perché? Tanto è ora che ti alzi!» «Non è vero, ho ancora almeno dieci minuti!» Qualcosa la colpì sul braccio. Un accendino di plastica. Il punto in cui era stata colpita stava diventando rosso. Con l’accendino in mano si avvicinò al letto di Tetsuya. «Cretino! Sono stanca, lo vuoi capire o no?» «Ma che hai?!» Tetsuya aprì gli occhi e sul suo volto apparve un’ombra di timore. «Sono stanco anch’io». «Ed è per questo che ti permetti di gettarmi addosso questo coso?!» Kuniko fece fuoco e glielo avvicinò alla faccia. «Smettila!» Tetsuya le strappò di mano l’accendino che cadde sul tatami e rotolò via. Kuniko lo colpì selvaggiamente sulla mano: «Ma che diavolo fai?! Ne ho abbastanza, sai, abbastanza! Guardami, dai, guardami!»
«Lasciami, smettila! È ancora presto!» «E chiudi quella bocca, brutto schifoso! Ti sei ingozzato con la mia insalata e tutto il resto!» «Modera il linguaggio se vuoi che ti parli ancora!» Tetsuya era gracile, una spanna più basso di Kuniko. Distolse il viso, disgustato. Due anni prima era finalmente riuscito ad avere un posto di rappresentante di articoli sanitari per ospedali e si era fatto tagliare corti i capelli che prima gli arrivavano alle spalle. Da allora sembrava ancora più mingherlino. A Kuniko non piaceva proprio. Lo preferiva quando aveva i capelli più lunghi e gironzolava come uno scemo nel quartiere di Shibuya, dove si erano incontrati quando lei lavorava in una sala giochi. Allora era molto più magra e uomini come Tetsuya cadevano ai suoi piedi a decine. Anche se, a causa dei debiti contratti a quell’epoca per comprare a rate vestiti e accessori firmati, ora era costretta a vivere sempre sotto pressione. «Ammetti che ti sei mangiato fuori tutto e chiedi scusa!» Kuniko gli saltò sopra a cavalcioni. Tetsuya, oppresso dal peso, gemette debolmente. «Smettila per favore!» «Confessa! Se confessi ti perdono». «Ho mangiato tutto. Mi dispiace. Ma in casa non c’era niente di pronto». «Perché prima di rincasare non ti compri qualcosa?» «Sì, sì, ho capito». Tetsuya girò la testa da una parte ma Kuniko, senza complimenti, lo afferrò tra le cosce. Quel coso chinava mollemente la testa. «E allora? Impotente! Non si rizza più neanche al mattino!» «Squagliati» protestò Tetsuya con tono disgustato, «togliti di mezzo! Sei pesante! Ma ti rendi conto di quanto pesi?» «Come osi parlarmi così!» Kuniko strinse con forza tra le gambe il sottile collo dell’uomo. «Scusa», gemette Tetsuya con voce soffocata. Kuniko sbuffò e scese bruscamente stendendosi accanto a lui. Negli ultimi tempi la loro vita sessuale era un disastro. E pensare che era più giovane di lei. Un caso disperato, l’uomo, veramente! Furibonda tornò nel soggiorno e guardò Tetsuya che si alzava con fiacca. «Dannazione, sono in ritardo!» E chi se ne frega, pensò Kuniko voltandogli le spalle e accendendosi una sigaretta. Tetsuya, con una T-shirt e un paio di incredibili calzoncini, trotterellò in soggiorno, si grattò il collo con una mano e con l’altra sfilò una sigaretta al mentolo dal pacchetto che Kuniko aveva lasciato sul tavolo. «Non fumare le mie sigarette!» «E dai, solo una. Io le ho finite». «Allora dammi venti yen», disse allungando una mano. Tetsuya sospirò, intuendo dal tono che non stava scherzando. Kuniko continuò a fissare lo schermo senza girare la testa. Quando, un quarto d’ora dopo, l’uomo uscì senza dire una parola, Kuniko si sdraiò nel solco, troppo stretto per un corpo come il suo, lasciato da Tetsuya nel futon. Si svegliò verso le due del pomeriggio. Accese subito il televisore, fumò una sigaretta e guardò un wild show alla televisione in attesa di svegliarsi del tutto. Il programma era quasi uguale a quello che aveva visto al mattino, ma non le importava. Aveva fame. Uscì di casa senza neppure lavarsi il viso. All’inizio del quartiere c’era un supermercato. Manco a farlo apposta apparteneva alla catena che vendeva le colazioni prodotte nel suo
stabilimento. Scelse una scatola di colazione speciale “per teatro”. Sull’etichetta era scritto «Miki Foods, stabilimento di Higashi-Yamato, confezionato alle sette del mattino». Senza dubbio era una delle colazioni che avevano preparato poche ore prima. Kuniko aveva svolto il facile lavoro di versare le omelette. Anche se Nakayama le aveva urlato: «Va’ piano con le uova!» Davvero quel Nakayama era un uomo odioso. Se non se la prendeva con qualcuno non era contento! Il turno era stato meno pesante del solito. Se avesse continuato a stare con Yoshie e Masako, avrebbe potuto scegliersi sempre le mansioni più facili. Sì, avrebbe fatto proprio così. Kuniko ridacchiò. Tornò a casa, si sedette davanti al televisore e continuò a guardare il wild show mentre mangiava la colazione e beveva del tè Oolong. Infilandosi in bocca la cotoletta di maiale condita con la salsa marrone le venne in mente Yayoi Yamamoto, come era inciampata nel contenitore della salsa. Sembrava particolarmente rimbambita stanotte, rifletté Kuniko con disprezzo, talmente fuori dal mondo che nessuno poteva aiutarla. Proprio da cretini, farsi pestare dal marito. Lei al suo posto l’avrebbe picchiato a sua volta! Kuniko finì di mangiare la cotoletta, versò della salsa di soia su un involtino primavera – roba cinese congelata – e lo cosparse di senape. Pensava al viso di Yayoi. Quando si era così belle non c’era bisogno di massacrarsi ai turni di notte. Lei si sarebbe senz’altro trovata un posto in un piccolo ristorante o in un’osteria. Oppure un qualche lavoro più redditizio, non importa se al limite della decenza. Quello che a lei mancava, purtroppo, era la fiducia nel proprio aspetto – questo e basta. Proprio in quel momento in TV trasmettevano un servizio sulle studentesse del liceo. Kuniko depose i bastoncini e fissò lo schermo con interesse. Veniva intervistata una splendida ragazza con lunghi capelli castani, lisci e tinti. Il volto era nascosto da un mosaico e la voce era stata contraffatta. «I nonni sono solo denaro, casseforti viventi! Che cosa ho avuto io da mio nonno? Un abito, per esempio. Da quattrocentocinquantamila yen». «Mi prendi in giro? Ma guarda quella pazza, inconcepibile!» sbraitò Kuniko verso lo schermo. Un abito da quattrocentocinquantamila yen! Ovviamente di Chanel o Armani. Anche a lei sarebbe piaciuto avere uno Chanel, ma purtroppo c’erano tante ragazze graziose e giovani come quella che annullavano il valore commerciale di una donna come lei. «Aspettate, non mi conoscete ancora», borbottò più volte Kuniko tra sé. L’unica cosa positiva, lì allo stabilimento, era che aveva conosciuto Masako, pensò Kuniko continuando a divorare gli o-nigiri. Masako, infatti, in precedenza aveva avuto un ottimo impiego, ma aveva perso il posto in seguito a una ristrutturazione aziendale. Kuniko aveva la sensazione che una donna come Masako non sarebbe rimasta a lungo nei duri turni di notte allo stabilimento. Prima o poi sarebbe diventata una dipendente fissa. Non era neppure da escludere un posto in amministrazione o nella direzione. E se al momento giusto lei le fosse stata vicina, sarebbe potuto saltare fuori qualcosa di meglio anche per lei. Questo pensava. Il problema era però che Masako non sembrava ricambiare la sua fiducia. Kuniko gettò nel secchio della spazzatura accanto al lavandino la scatola della colazione, così accuratamente svuotata da sembrare pulita. Poi lesse l’inserto con le offerte di lavoro che aveva messo da parte. Con il suo miserabile stipendio poteva a malapena pagare gli interessi del debito, di saldarlo non se ne parlava neppure. E i lavori part-time durante il giorno venivano pagati ancora di meno. Per cinque ore e mezza di turno di notte prendeva la paga di otto ore di lavoro diurno. Sarebbe stato stupido cambiare. Però così era costretta a dormire di giorno. Ormai era un circolo vizioso. Kuniko non voleva ammettere di essere una fannullona. D’altronde non amava neanche pensare troppo ai suoi debiti. Negli ultimi tempi non riusciva neppure a trovare il denaro per pagare gli interessi; non sapeva se il suo credito fosse calato, anzi, non aveva alcuna idea di quanti soldi avesse ancora in banca.
Verso sera si truccò, indossò un finto Chanel e uscì. Aveva trovato quello che faceva al caso suo: un lavoro che poteva fare la sera, prima di andare in fabbrica alle undici e mezzo. Al posteggio delle biciclette incontrò l’inquilina dell’appartamento accanto che stava rincasando. Indossava un completo estivo da pochi soldi, un modello da supermercato, e camminava stancamente con la borsa per la spesa appesa al braccio. Probabilmente nella ditta in cui lavorava la trattavano come una schiava. Kuniko chinò leggermente la testa, la donna la salutò con un sorriso e tirò su un paio di volte con il naso, dilatando le narici. Evidentemente annusa il mio profumo, pensò Kuniko. Oggi si era messa Coco. Quella lì probabilmente non ne aveva mai sentito neppure il nome. In fabbrica era proibito profumarsi, ma prima del turno avrebbe avuto tutto il tempo di fare un bagno. Salì sulla bicicletta e pedalò con fatica per la stretta strada trafficata. Il club si trovava vicino alla stazione del quartiere di Higashi-Yamato. L’unico difetto di quel lavoro era che avrebbe dovuto usare la bicicletta, perché non c’era possibilità di parcheggiare. Come avrebbe fatto nei giorni di pioggia? D’altronde la sua casa era troppo lontana dalla stazione dei treni. Se l’avessero assunta avrebbe potuto cambiare casa, pensò Kuniko. Venti minuti dopo arrivò davanti al locale. Si chiamava Velfarre. Era preparata a un eventuale rifiuto, ma chi poteva sapere? In fondo era così lontano dal centro che anche lei poteva avere qualche chance. Kuniko si fece coraggio e per la prima volta dopo lungo tempo sentì il cuore batterle nel petto. «Cercasi Floor lady dai diciotto ai trent’anni, paga oraria 3600 yen. Divisa fornita. Orario di lavoro: 17-1, possibilità di accompagnamento. Meglio se astemia». Kuniko ripensò al testo dell’inserzione e si disse che, se fosse stata assunta, avrebbe anche potuto abbandonare il lavoro allo stabilimento. Due ore di quello stupido lavoro contro una notte intera di dura fatica in fabbrica. Si era già dimenticata che poco prima aveva giurato di seguire le orme di Masako.Lei era fatta così. «Vengo per l’annuncio. Ho già telefonato prima…» Davanti al locale erano fermi alcuni giovani che indossavano abiti dai colori vivaci e una ragazza con una minigonna cortissima – evidentemente per attrarre i clienti. L’uomo cui si era rivolta la guardò sbalordito. «Ah sì, allora passi dall’entrata sul retro». «Grazie». Kuniko intuì che i giovani ridacchiavano alle sue spalle. Raggiunse l’entrata che le avevano indicato svoltando in un vicoletto. Trovò una porta d’alluminio con una piccola targa su cui era scritto Velfarre. «È permesso? Ho telefonato poco fa», si annunciò aprendo adagio la porta e guardando all’interno. Un uomo di mezza età, vestito di nero, era seduto a una scrivania e stava posando la cornetta del telefono. Si accarezzò con la mano le rughe sulla fronte, che sembravano incise con uno scalpello, e squadrò Kuniko da capo a piedi. «Sì, avanti». Lo sguardo incuteva timore, ma il tono della voce era basso e gentile. Le indicò un divano davanti alla scrivania. «Prego, si accomodi». Kuniko si sedette con sussiego sul bordo del divano, avendo cura di mantenere la schiena diritta, e lui le porse un biglietto da visita. Era il direttore. L’uomo chinò lievemente il capo, ma appena sollevò lo sguardo Kuniko comprese che la stava valutando velocemente dalla testa ai piedi. Si sentiva sempre più imbarazzata. Annunciò con voce tesa: «Ho letto l’inserzione, intenderei lavorare da voi come floor lady». «La ringrazio per aver risposto. Vogliamo parlare un po’?» replicò diplomaticamente l’uomo, sedendosi su una poltrona davanti a lei.
«Quanti anni ha?» «Ventinove». «Ah sì? Ha un documento?» «Oh, mi dispiace, al momento non ho…» Il tono dell’uomo divenne subito brusco: «Già. Ha esperienza di questo lavoro?» «No. Sarebbe la prima volta». Kuniko si stava domandando come avrebbe dovuto reagire se l’uomo le avesse detto che non accettavano casalinghe, ma lui si alzò senza fare altre domande: «Per essere franco, si sono già presentate sei ragazze di diciannove anni. È vero che noi preferiamo donne non professioniste, ma i clienti sono più interessati alle giovani, sa com’è, tira di più». «Già, capisco». Era sicura che non era tutta la verità. Kuniko si sentì sprofondare all’improvviso come se stesse precipitando con un ascensore in caduta libera. Se avesse avuto un bel viso e una figura aggraziata, il fatto che fosse più vecchia non avrebbe avuto importanza. Ma il problema non era l’età. Di nuovo l’antico, ben radicato complesso di inferiorità mostrava il suo ghigno beffardo. «Mi dispiace che sia venuta fin qui, ma per questa volta non è possibile…» Kuniko annuì, impaziente di dissipare la sensazione cupa che la opprimeva. «Sì, capisco». «Qual è il suo attuale lavoro?» «Lavoro a part-time qui vicino». «Continui così. È sicuramente meglio per lei. Il lavoro qui è molto duro. Quando spendono dieci o ventimila yen all’ora, gli ospiti si aspettano qualcosa, non se ne vanno a casa senza una contropartita. Lei mi capisce, vero? E alla sua età…, sicuramente non le piacerebbe essere lasciata da parte! Non sarebbe carino, non trova anche lei?» L’uomo proruppe in una risata oscena e aggiunse: «Be’, dunque… Mi dispiace veramente che si sia disturbata. Prenda, è per il taxi». Le premette sulla mano una busta sottile. Probabilmente conteneva un biglietto da mille yen. L’uomo chiese dubbioso: «In realtà lei ha passato i trenta da un bel po’, vero?» «Niente affatto». «Era solo una battuta», concluse l’uomo con palese disprezzo. Kuniko uscì delusa dalla porta sul retro. Voleva evitare l’uscita principale per non ritrovarsi di fronte ai giovani. Non voleva affrontare un’altra volta i loro sguardi, per cui preferì seguire il vicoletto fino all’angolo, dove c’era un ristorante specializzato in gyudon 3. Doveva trovare il posteggio dove aveva lasciato la bicicletta. Improvvisamente le venne una fame da lupi. Entrò nel ristorante decisa a mangiarsi tutti i soldi appena ricevuti. «Un gyudon, per favore». Dopo aver ordinato si guardò intorno e sul grande specchio alle sue spalle vide riflessa la sua schiena larga e grassa e il volto dai lineamenti grossolani e dall’espressione ottusa. Inesorabile mostrava a tutti la sua vera età, trentatré anni. Distolse subito lo sguardo e raddrizzò la testa. Anche con le compagne di lavoro aveva mentito sull’età. Sbuffò e aprì la busta.C’erano due biglietti da mille yen. «Che fortuna! È andata bene anche così!» borbottò accostando a un angolo della bocca una sigaretta al mentolo. Aveva ancora tempo prima di andare al lavoro. 2 O-nigiri: gnocchetti di riso ripieni avvolti in alghe essiccate, praticamente il pane e burro dei giapponesi (N.d.T.). 3
Gyudon: piatto a base di riso e striscioline di carne di manzo e cipolla in salsa piccante
(N.d.T.).
3. Attenta a non fare il minimo rumore, Yoshie aprì la porta di casa e percepì subito il lieve odore di cresolo ed escrementi. Nonostante arieggiasse spesso e strofinasse a fondo i tatami con uno straccio ben strizzato, non riusciva mai a eliminarlo del tutto. Premette i polpastrelli sulle palpebre brucianti: non dormiva abbastanza. Sarebbero passate ancora delle ore prima di riuscire a concedersi un po’ di riposo. Oltrepassò il gradino dello stretto ingresso con il pavimento in cemento ed entrò in una stanza larga tre tatami. Era così piccola da contenere a malapena un minuscolo tavolo da pranzo, una vecchissima credenza e un televisore – non c’era quasi spazio per camminare. Era il soggiorno in cui Yoshie e la figlia Miki pranzavano e guardavano la televisione. Poiché si trovava di fronte all’ingresso e non aveva la porta, chiunque arrivava poteva guardare direttamente all’interno e in inverno il vento penetrava da tutte le fessure, non c’era modo di tenerlo fuori. Miki si lamentava, borbottava che era un’indecenza, ma l’appartamento era piccolo e non c’era altra soluzione. Yoshie depose in un angolo la busta di carta contenente il camice bianco e i pantaloni da lavoro che si era portata a casa per lavarli, e attraverso la porta scorrevole aperta diede un’occhiata alla camera di sei tatami. Le tende erano tirate e la stanza immersa nell’oscurità, ma si accorse subito dei piccoli movimenti sul futon disteso sul pavimento. La suocera, costretta a letto da sei anni, doveva essere già sveglia. Tuttavia Yoshie rimase immobile in mezzo alla stanza, senza chiamarla. Nello stabilimento riusciva a farsi forza e a concentrarsi nel lavoro, ma appena arrivava a casa si sentiva stanca e molle come un vecchio straccio per spolverare. Sarebbe stato meraviglioso poter appoggiare la testa sul cuscino almeno un’oretta! Si massaggiò le forti spalle irrigidite dalla stanchezza e si guardò intorno nella stanza disordinata, dalle pareti ormai ingiallite, nella quale non entrava mai la luce del mattino. La porta scorrevole della stanza di quattro tatami e mezzo alla sua destra era chiusa, come a separarla dal resto del mondo. Era la camera di Miki. Fino alle medie aveva dormito insieme alla nonna nella camera di sei tatami, ma ormai era grande e la madre non avrebbe potuto imporglielo. Yoshie era quindi costretta a prepararsi il futon accanto alla suocera, ma negli ultimi tempi soffriva di insonnia ed era un peso, questo, che si sovrapponeva agli altri della sua vita. Evidentemente anche lei cominciava a invecchiare. Si accosciò sui tatami, nel solo spazio libero della piccola stanza. Nella teiera sul tavolo c’erano ancora le foglie del tè verde che aveva bevuto la sera precedente, prima di andare al lavoro. Non aveva voglia di buttarle e di lavare la teiera. Non si risparmiava fatiche per gli altri, per se stessa invece non aveva voglia di fare nulla. Versò sulle foglie l’acqua tiepida rimasta nel thermos e, mentre sorseggiava rumorosamente il tè, lasciò vagare lo sguardo nel vuoto per qualche istante. C’era un problema che la tormentava. Il padrone di casa le aveva comunicato che aveva intenzione di abbattere il vecchio edificio in legno, sicuramente ormai poco confortevole, e di costruire un condominio. Yoshie temeva che si trattasse solo di un pretesto per scacciarla. Una volta sfrattata non avrebbe saputo dove andare. E anche se il proprietario le avesse consentito di tornare nella casa ristrutturata, avrebbe senza dubbio aumentato l’affitto, e comunque avrebbe dovuto trasferirsi per qualche tempo in un altro appartamento, e tutto ciò sarebbe costato troppo. Non poteva permettersi una simile spesa. Quello che guadagnava bastava appena alla pura sopravvivenza. «Se avessi soldi!» Questo era il suo più grande desiderio, ma senza speranza. Aveva speso per la suocera malata quel poco denaro che l’assicurazione le aveva versato dopo la morte del marito, e così anche tutti i suoi risparmi. Yoshie aveva potuto frequentare soltanto le scuole medie e desiderava che Miki potesse prendere almeno una laurea breve, ma per il momento non se lo potevano permettere; figuriamoci poi
riuscire a risparmiare qualcosa per la vecchiaia! Perciò non poteva rinunciare ai faticosi turni di notte allo stabilimento. Avrebbe voluto lavorare anche di giorno, ma chi si sarebbe preso cura della suocera? Per quanto fosse coraggiosa, Yoshie era agli sgoccioli. Semplicemente non sapeva più come fare per tirare avanti. Doveva avere sospirato profondamente, perché dalla camera di sei tatami giunse la voce flebile della suocera: «Yoshie, sei tu?» Era una voce esausta, a malapena avvertibile. «Sì, sono tornata». «Mi sono bagnata». Nel tono supplichevole si intuiva tuttavia una prepotente cocciutaggine. «Vengo subito». Yoshie bevve un altro sorso di tè, tiepido e leggero, e si alzò risoluta. Ormai aveva dimenticato il modo odioso in cui l’aveva trattata nei primi tempi del suo matrimonio. Ora era soltanto una povera vecchia indifesa che non sarebbe riuscita a sopravvivere senza il suo aiuto. Senza di me non ce la farebbe. Questo pensiero era una ragione di vita per Yoshie. Anche nello stabilimento era lei a controllare la linea, per questo la chiamavano “maestra”. Tutto ciò era per lei motivo di orgoglio. In fondo al cuore sapeva che evitava di guardare in faccia la realtà. Non voleva riconoscere che nessuno era disposto ad aiutare lei, non avrebbe potuto sopportarlo. Preferiva coltivare quella sorta di orgoglio che la costringeva ai più duri lavori. Yoshie si nascondeva la realtà e la riponeva accuratamente in fondo all’anima: in tal modo aveva finito col fare della fatica la regola suprema della propria vita. Era quella la sua tecnica per sopravvivere. La donna entrò in silenzio nella camera di sei tatami. Vi gravava un intenso odore di escrementi. Soffocò il disgusto, scostò le tendine e aprì lentamente la finestra per cambiare l’aria. Proprio di fronte, a un metro di distanza, vi era la finestra della cucina di una casa di legno piccola e vecchia come la sua. Immediatamente la vicina, una casalinga che era solita alzarsi presto, chiuse l’imposta rumorosamente per esprimere la sua irritazione. Yoshie si sentì ribollire di rabbia. Ma poteva capire: non era certo piacevole sentire l’odore della cacca di un malato fin dal mattino. «Per favore, ti sbrighi a cambiarmi?» La suocera, che non si era accorta di nulla, si mosse impaziente nel futon. «Sta’ ferma, altrimenti il pannolone si sposta di nuovo». «Ma è già messo male e mi dà fastidio!» «Lo so, te la sei anche fatta addosso». Yoshie spostò la leggera coperta estiva e sciolse i lacci del kimono da notte della suocera pensando a come sarebbe stato meglio se si fosse trattato del pannolino di un neonato. Non le aveva mai dato fastidio cambiare un neonato, anche se si sporcava le mani di cacca o si bagnava il vestito di pipì. Chissà perché gli escrementi dei vecchi facevano così schifo? All’improvviso ripensò a Yayoi Yamamoto. I suoi bambini erano ancora piccoli. Era felice che il più piccolo non avesse più bisogno di pannolini? Yoshie si ricordava ancora molto bene che gioia fosse quella per una madre. E tuttavia oggi Yayoi era stata così strana. Aveva detto che il marito la aveva percossa sul ventre, ma chissà, forse lei l’aveva provocato con qualche parola di troppo? Era comodo avere per moglie una grande lavoratrice, ma per un marito pigro poteva anche diventare una spina nel fianco. Anche per lei era stato così. Ripensò al marito, morto cinque anni prima di cirrosi epatica. Quanto più lei serviva la suocera, contribuiva al bilancio familiare con qualche lavoretto e teneva la casa in ordine, tanto più lui diventava nervoso e depresso. Probabilmente anche il marito di Yayoi era di quella risma, non apprezzava gli sforzi della moglie. Doveva essere un uomo egoista come lo era stato il suo. Chissà perché al mondo gli egoisti e i fannulloni finiscono quasi sempre per sposare le donne migliori. Comunque non c’era altro da fare che stringere i denti e continuare a prodigarsi. Yoshie era convinta che Yayoi le somigliasse un po’.
Cambiò il pannolone con destrezza. Lo svuotò nel gabinetto e poi lo lavò nella vasca da bagno. Sapeva benissimo che esistevano pratici pannoloni di carta usa e getta, ma costavano ed erano una spesa che non si poteva permettere. «Sono anche sudata», l’inseguì la voce della suocera mentre usciva dalla camera. Voleva che l’aiutasse a indossare un kimono da notte pulito, ma questo poteva aspettare. «Ho capito. Una cosa alla volta!» «Ma lo sai quanto mi dà fastidio! E poi prenderò il raffreddore». «Prima finisco quello che sto facendo». «Fai apposta a essere così lenta». «Ti sbagli», rispose Yoshie provando per un attimo la tentazione di ucciderla. Che si pigliasse pure il raffreddore. Che bello sarebbe stato se si fosse presa una polmonite e fosse morta. Finalmente sarebbe stata libera! Ma come al solito Yoshie la zelante soffocò subito i propri sentimenti. Che orrore! Augurare la morte a uno che ha bisogno di aiuto. C’era di che attirarsi la vendetta celeste. Lì accanto, nella camera di quattro tatami e mezzo, squillò la sveglia. Erano quasi le sette. L’ora in cui Miki si alzava per prepararsi ad andare al liceo statale. «Miki, è ora!» chiamò Yoshie. La porta scorrevole si aprì e apparve Miki in T-shirt e calzoncini. Aveva la luna storta. «Lo so!» rispose con aria irritata distogliendo lo sguardo. «Mamma, non vorrai entrare in camera mia con quella roba in mano?!» «Scusa!» Yoshie si precipitò confusa nel piccolo bagno accanto alla cucina, colpita dalla sgarbatezza della figlia. Era stata una bambina gentile e l’aveva sempre aiutata, se solo ne era capace. Naturalmente Yoshie capiva che attraversava un’età difficile, nella quale si confronta la propria vita con quella degli amici – per questo si vergognava dell’ambiente in cui era costretta a vivere. D’altronde Yoshie era consapevole di non avere la forza di rimproverarla, di domandarle che cosa c’era di cui vergognarsi. Semplicemente non aveva il coraggio di parlarne con Miki, perché lei stessa si sentiva miserabile, perché era lei la prima a vergognarsi di se stessa. Ma non c’era nulla da fare. Chi avrebbe potuto aiutarla? Doveva sopravvivere. Anche se si sentiva una schiava, anche se temeva di essere costretta a servire in eterno, se non era lei a lavorare nessuno lo avrebbe fatto al suo posto. Doveva continuare a impegnarsi con tutte le proprie forze. Nessuna alternativa. Altrimenti sarebbe stata punita. Già riaffiorava lo zelo di Yoshie, quello zelo che non le permetteva di pensare ad altre soluzioni. Miki si stava lavando la faccia con una nuovissima schiuma detergente. Yoshie se ne era accorta subito, il profumo era molto più gradevole di quello del sapone. La figlia si era comprata le lenti a contatto e una mousse per i capelli con i soldi guadagnati facendo lavoretti saltuari. I capelli ora risplendevano, castani, nella luce mattutina. Yoshie aveva finito di lavare il pannolone e si era disinfettata le mani. Si fermò alle spalle di Miki che tutta seria si spazzolava davanti allo specchio e le chiese: «Ti sei tinta i capelli?» «Appena un poco», rispose la ragazza continuando a spazzolarsi. «Ma non sta bene!» «Non sta bene! Siamo ancora all’età della pietra?» rise Miki. «Oggi tutte si tingono i capelli. Solo tu, mamma, hai ancora qualcosa da dire!» «Davvero?» Era preoccupata, perché negli ultimi tempi Miki si truccava e si vestiva in modo particolarmente vistoso. «Hai trovato un lavoro per le vacanze estive?» «Certo!» Miki si spruzzò la lacca trasparente sui lunghi capelli. «Dove?» «Al fast-food davanti alla stazione». «Quale sarà la paga oraria?» «Ottocento yen per le liceali».
Per Yoshie fu un vero colpo, e per un po’ non riuscì più a dire niente. Settanta yen più della paga che si prendeva nei turni di notte allo stabilimento. Valeva così tanto la gioventù? «Che c’è?» domandò perplessa Miki osservando il volto della madre. «Niente. Come è andata con la nonna stanotte?» Yoshie cambiò discorso. «Ha avuto un incubo. Chiamava continuamente il nonno, che fastidio!» Per qualche motivo la sera precedente la suocera aveva fatto i capricci e non voleva lasciarla andare a lavorare. Al momento di uscire l’aveva sentita urlare astiosa: «Hai intenzione di abbandonarmi? Eh, lo so, tanto io per te sono solo un fastidio!» All’inizio, dopo l’ictus che l’aveva lasciata semiparalizzata, la vecchia era stata stranamente mansueta, ma negli ultimi tempi era diventata capricciosa come un bambino. «Strano! Che sia l’arteriosclerosi?» «Non me ne importa. Risparmiami i particolari, non ne posso più!» «Perché invece di parlare così non vai ad asciugarle il sudore?» «Non vorrai mica scherzare? Lasciami in pace!» rispose bruscamente Miki. Si prese una lattina dal frigo e incominciò a bere con una cannuccia. Yoshie non si era accorta subito che quella bevanda, l’ultima novità in commercio, aveva finito per sostituire la colazione. Miki la comprava perché anche le sue amiche lo facevano. Era di moda, così diceva. Invece di bere quella roba potrebbe fare colazione con il riso e la zuppa di miso, pensò Yoshie. A che scopo la sera prima aveva perso tempo a cucinare? E poi quella spesa inutile la preoccupava. Una volta Miki si portava da casa la colazione da consumare nell’ora di pausa – una scatola con qualche avanzo della sera prima –, ma negli ultimi tempi aveva preso l’abitudine di pranzare con le amiche al fast-food. Dove trovava tutti quei soldi? Senza accorgersi Yoshie stava fissando la figlia con uno sguardo sospettoso. «Perché mi guardi così?» Miki la guardò incattivita, come se volesse annientarla. «Niente». «E per i soldi della gita scolastica? Domani è l’ultimo giorno». Colta di sorpresa Yoshie, che se ne era completamente dimenticata, spalancò gli occhi. «Quant’era la somma?» «Ottantatremila yen». «Così tanto?!» «Ma lo sai già da un pezzo!» gridò furibonda Miki. Yoshie non disponeva di una somma così alta. Si mise a rimuginare, mentre Miki si cambiava in fretta per andare a scuola. Sua figlia sapeva che ogni yen era guadagnato col sudore e tuttavia le chiedeva soldi. Il cuore di Yoshie era sempre più oppresso. «Yoshie!» la chiamò petulante la suocera. La raggiunse di corsa con un kimono da notte fresco di bucato sul braccio. Dopo averla faticosamente cambiata, la aiutò a fare colazione, le cambiò di nuovo il pannolone e lavò una montagna di biancheria sporca. Finalmente poté stendere il suo futon accanto a quello della suocera. Erano quasi le nove. Anche la vecchia si assopì. Ma Yoshie non poteva dormire tranquilla, ben sapendo che verso mezzogiorno si sarebbe svegliata e avrebbe cominciato a lamentarsi perché voleva pranzare. Così Yoshie dormiva solo un paio di ore al giorno. Alle quali poteva aggiungere qualche pisolino pomeridiano negli intervalli concessi dall’assistenza all’ammalata. E poi riusciva a dormire ancora un po’ prima di andare a lavorare. In tutto facevano forse sei ore di sonno. Lo stretto necessario per mantenersi in salute nonostante le fatiche. Era questa la sua vita quotidiana. E prima o poi sarebbe potuto crollare tutto, per questo aveva paura. Yoshie telefonò all’amministrazione dello stabilimento per chiedere se era possibile avere un
anticipo sullo stipendio che le sarebbe stato versato a fine mese. «Per principio non facciamo eccezioni», rispose gelido il contabile. «Me ne rendo conto, ma lavoro per voi da molti anni…» «Lo so, ma un principio è un principio», replicò secco l’impiegato. «A proposito, signora Azuma, in futuro dovrà stare a casa almeno un giorno alla settimana. Non vorremmo avere noie con l’ispettorato del lavoro». «Ma…» Negli ultimi tempi Yoshie non aveva fatto pause infrasettimanali perché non voleva perdere neanche un giorno di paga. L’impiegato continuò con tono di disprezzo: «Stia molto attenta, anche per il suo bene. Lei, se non sbaglio, gode dell’assistenza sociale, vero? Non può superare certi limiti!» E così doveva di nuovo scusarsi! Yoshie, depressa, riattaccò la cornetta. Ormai le rimaneva soltanto Masako a cui rivolgersi. Non sarebbe stata la prima volta che la aiutava a uscire dai pasticci. «Sì?» rispose una voce bassa. Era Masako, forse stava dormendo. «Sono io. Ti ho svegliata?» «Ah, sei tu, maestra? Sì, ma non importa». «Ho un favore da chiederti. Ma se non puoi, dimmelo francamente, d’accordo?» «D’accordo. Di che si tratta?» Yoshie indugiò un attimo pensando che Masako, sincera com’era, avrebbe potuto rifiutare. Masako odiava i complimenti e i convenevoli. In fabbrica molti venivano colti di sorpresa dal suo modo di fare così diretto. «Potresti prestarmi del denaro?» «Quanto?» «Ottantatremila yen. Mi servono per la gita scolastica di Miki. Al momento sono completamente al verde». «Va bene». Yoshie era felice. Sapeva che neanche Masako nuotava nell’oro. «Grazie. Sono in debito. È veramente un grande aiuto!» «Vado in banca e te li porto stanotte». Yoshie sospirò di sollievo e si lasciò cadere sul cuscino. Non le piaceva avere debiti con Masako, ma era anche felice di avere un’amica così. Sonnecchiava con il capo appoggiato al tavolino quando qualcuno suonò alla porta. Aprì. Masako era lì, con il sole del tramonto alle spalle, il volto olivastro come al solito senza trucco: «Maestra, ho pensato che è meglio non portare soldi in fabbrica. Perciò te li do subito». Masako le porse la busta della banca. Evidentemente era venuta subito dopo essere stata in banca a prelevare il denaro. Tipico di Masako, sempre pratica, sempre disponibile. Oltretutto in fabbrica qualcuno avrebbe potuto vederle. Masako doveva aver pensato anche a questo, e Yoshie le fu grata per la sua sensibilità. «Ti ringrazio. Te li restituirò senz’altro alla fine del mese». «Me li puoi tranquillamente restituire un po’ alla volta». «Niente affatto. Anche voi avete un mutuo da pagare, non è vero?» «È già tutto a posto». Masako accennò un sorriso. Yoshie la guardò stupita: in fabbrica non abbandonava mai la sua espressione impassibile. «Ma…» «Non ti preoccupare, maestra», la interruppe Masako con decisione, e il suo volto divenne di nuovo serio. Apparve allora accanto al sopracciglio sinistro una piccola ruga verticale che pareva una cicatrice. Yoshie ne era sempre turbata, quasi fosse il segno di un’ansia che tormentava l’amica. Non sapeva di cosa si trattasse. E anche se l’avesse saputo – temeva – una donna semplice come lei non avrebbe potuto capire.
«Perché una come te lavora in un posto come quello?» «Ma che dici? Allora a più tardi». Masako le fece un cenno di saluto con la mano e si incamminò verso la Corolla rossa posteggiata sul viale. Un attimo dopo Miki rientrò da scuola e Yoshie le tese la busta: «Ecco i soldi». Miki la prese con noncuranza e sbirciò dentro. «Quanti sono?» «Ottantatremila yen». «Thank you». Infilò disinvolta la busta nella tasca laterale dello zainetto nero. Yoshie scorse sul suo volto un’espressione che sembrava dire: «Ce l’ho fatta», e l’assalì il dubbio che il viaggio in realtà costasse molto meno. Tuttavia, come sempre, istintivamente evitò di guardare in faccia la verità. Miki non aveva motivo di mentire. Sua figlia, che giorno dopo giorno vedeva come lei era costretta ad arrabattarsi? No, impossibile!
4. Gli occhi di Mitsuyoshi Satake seguivano come ipnotizzati i movimenti delle palline argentee. Aveva saputo che erano arrivate delle nuove slot-machine, si era alzato presto e si era messo in coda per conquistarne una. Giocava da più di tre ore, prima o poi sarebbe successo qualcosa. Bisognava soltanto aver pazienza. Era stanchissimo – aveva dormito poco – e gli occhi gli facevano male a furia di fissare i colori abbaglianti della Pachinko, la slotmachine, ma tanto valeva. Prese il collirio dal borsello in pelle di fabbricazione italiana che aveva posato davanti a sé. Fece una pausa e si mise qualche goccia di collirio. Il liquido bruciava sulla cornea e Satake iniziò a lacrimare. Lui, che non piangeva da quando era bambino, provò piacere al tepore del liquido che gli scorreva sulle guance e non fece nulla per fermare le lacrime. La ragazza con lo zainetto che giocava lì accanto gli lanciò uno sguardo di sfuggita. Capì subito che cosa le passava per la testa: lo trovava interessante, ma non voleva avere rapporti con un uomo vestito in modo così vistoso. Satake osservò attraverso le lacrime le guance sode e lisce della ragazza. Vent’anni al massimo. Aveva l’abitudine di valutare all’istante l’età di tutte le donne che incontrava. Lui aveva quarantatré anni. I capelli tagliati cortissimi, il collo tozzo e le spalle possenti gli conferivano un aspetto rude. Ma, in contrasto con la corporatura, aveva piccoli occhi a mandorla dallo sguardo vivace, un naso perfetto e splendide mani con dita lunghe e sottili. Un corpo vigoroso e viso e mani delicati. Questa disarmonia gli donava un fascino ambiguo. Con quelle belle mani prese un fazzoletto firmato dalla tasca dei lucidi pantaloni neri e si asciugò gli occhi e le guance. Sulla camicia di seta, nera come i pantaloni, erano cadute delle lacrime. Satake asciugò delicatamente anche quelle con il fazzoletto. L’abbigliamento vistoso e le ciabatte firmate Gucci non erano per lui che abiti da lavoro. Se fosse stato vestito come un uomo d’affari la ragazza accanto a lui avrebbe mostrato un maggiore interesse, di questo era pienamente consapevole. Controllò l’ora sul Rolex d’oro massiccio al polso destro. Erano quasi le due del pomeriggio. Era ora di avviarsi all’appuntamento. Schioccò la lingua e diede un’occhiata alle palline che gli erano rimaste. In quel momento fece jack-pot. Una marea di palline si riversò nella vaschetta e rimbalzò allegramente sul pavimento. «Maledizione!» imprecò Satake. Diede una gomitata al braccio della ragazza, che si voltò stupita. «Non ho più tempo. Se le va continui lei». «Cosa, davvero?» La ragazza sembrava contenta, ma gli lanciò un’occhiata diffidente: sembrava non volersi accostare alla macchinetta finché lui non se ne fosse andato. Satake sorrise amaro, prese il borsello e si alzò con agilità. Mentre camminava lungo la fila delle Pachinko, da cui usciva un rumore sordo e cadenzato, si domandò che cosa pensasse adesso la ragazza. La porta scorrevole si aprì e Satake abbandonò il rumore assordante del locale per trovarsi in mezzo a un frastuono diverso: gli altoparlanti del cinema diffondevano musica per invitare i passanti, uomini gridavano e si udivano le canzonette dei karaoke. Sebbene in qualche modo lo tranquillizzasse sempre immergersi nell’atmosfera di Kabuki-cho 4, come se gli fosse già entrata nel sangue, tuttavia provava ancora una punta di disagio, un senso di non appartenenza. Alzò lo sguardo al fazzoletto di cielo limitato da sporchi edifici. Era grigio e nuvoloso: non ne poteva più di quel clima caldo e afoso, come se si dovesse mettere a piovere da un momento all’altro. Camminava veloce, il borsello infilato sotto il braccio. Poco prima del teatro Koma si accorse di aver pestato una gomma da masticare e cercò di staccarla sfregando la suola sullo spigolo del marciapiede. Quella maledetta gomma era diventata ancora più appiccicosa a causa dell’umidità e non si staccava più. Satake incominciò a irritarsi. Di notte nel quartiere bande di ragazzi bighellonavano
mangiando e bevendo, e la strada era disseminata dei loro resti. Ovunque sull’asfalto stavano in agguato nere chiazze appiccicose. Andò avanti con cautela, attento a evitarle, e rischiò di urtare la fila di vecchie in coda in attesa di assistere allo spettacolo di canzoni al teatro Koma. Sollevò la mano destra per chiedere il passaggio, ma le donne erano talmente immerse nelle loro chiacchiere che non gli badarono proprio. Schioccò piano la lingua, ma poi le aggirò sorridendo. Inutile irritarsi con chi non ha niente a che fare con te. Ciò che lo rendeva furioso era invece il chewing-gum che gli era rimasto appiccicato alla suola. I ragazzi che distribuivano volantini, quelli che adescavano i clienti per i locali a luci rosse, i gruppi di liceali trasandate a passeggio lo lasciarono deliberatamente in pace. Tutta gente che avvertiva le vibrazioni pericolose trasmesse da Satake. Quando finalmente entrò nel vicolo aveva le mani in tasca e un’espressione cupa. Il suo locale, il Mika, si trovava in un fabbricato in una laterale della Kuyakusho-dori, la strada in cui aveva sede l’amministrazione del distretto di Shinjuku. Con l’agilità di un animale selvatico Satake salì veloce la scala fino al primo piano e sospinse la porta girevole nera in fondo al corridoio. All’interno tutte le lampade erano accese e la luce del giorno filtrava attraverso le decorazioni alla greca dei vetri smerigliati. Una donna era seduta in attesa a un tavolo vicino all’entrata. Segno che lo conosceva bene e sapeva quanto Satake, la puntualità in persona, odiasse chi lo faceva aspettare. «Grazie per essere venuta». «Sono io che devo ringraziare, Satake-san», rispose in un giapponese perfetto, nonostante un’intonazione esotica, Lìhuá-Zhàng. Era la “mama-san”, la donna cui Satake aveva affidato la gestione del locale, e veniva da Taiwan. Benché avesse già più di trentacinque anni – una donna matura, quindi –, la sua pelle di un bianco puro era splendida. Per metterla in risalto indossava una camicetta con una profonda scollatura che lasciava scoperti il collo e l’attaccatura del seno; il viso era senza trucco a eccezione delle labbra rosso cupo. Il lungo e candido collo era ornato da una catena da cui pendevano un’elegante giada scolpita e una grande moneta d’oro. Fumava una sigaretta che doveva avere acceso da poco, e volute azzurrine di fumo le uscirono dalla bocca mentre chinava leggermente il capo davanti a Satake. «Mi scusi se le rubo un po’ di tempo». «Non importa. Per lei ho sempre tempo». Satake si sedette fingendo di ignorare il tono civettuolo e invitante della donna. Si guardò intorno e osservò con soddisfazione il locale. Era tappezzato di rosa scuro e arredato in stile rococò. All’entrata c’erano l’impianto per il karaoke, un pianoforte bianco e quattro tavoli. Scesi alcuni gradini si apriva l’ambiente principale, con dodici tavoli, più o meno come un club di Shanghai di media grandezza. Lì-huá si girò verso di lui e incrociò le mani bianche dalle dita affusolate su cui spiccava una grossa giada. Satake, per frenare le sue aspettative, le indicò i grandi vasi di fiori disposti qua e là nel locale: «Lì-huá, così non va! L’acqua dei fiori deve essere regolarmente cambiata. Ci pensi lei!» Erano tutti fiori di lusso – gigli di Casablanca, rose e orchidee – ma ormai appassiti, e l’acqua nei vasi era torbida. «Oh, sì!» annuì Lì-huá seguendo il suo sguardo. «E non si dimentichi di tagliare i gambi alle estremità!» osservò ridendo Satake, celando l’irritazione per la mancanza di sensibilità della donna in questo campo. Ma non era facile trovare una che sapesse fare così bene il suo mestiere, perciò riprese a guardarla come se niente fosse accaduto. Lì-huá voleva cambiare discorso e chiese con un dolce sorriso: «Perché voleva parlare con me? Vuole sapere come stanno andando gli affari?» «No, qualcosa su un cliente. Pare che abbiamo avuto qualche problema, non è vero?» «In che senso?» Lo sguardo di Lì-huá era diventato attento, come se il cervello le si fosse improvvisamente attivato. «Me l’ha raccontato Anna». Satake si sporse verso Lì-huá. Percepiva l’onda di tensione quasi
elettrica che la attraversava. Anna Lee, originaria di Shanghai, era la hostess più richiesta del Mika, quella che guadagnava di più. Satake, temendo che qualcuno gliela sottraesse, la trattava con particolare gentilezza ed esaudiva tutti i suoi desideri. «Anna-chan? Che cosa le ha detto?» «Ha un cliente che si chiama Yamamoto, vero?» «Yamamoto? Il nome è piuttosto comune… ah sì, credo di sapere a chi si riferisce», annuì Lì-huá, come se si fosse all’improvviso ricordata. «Il cliente che si è innamorato follemente di Anna, vero?» «Così ha detto. Mi fa piacere se spende soldi qui dentro, ma pare che la aspetti all’uscita e la segua per strada». «Davvero?» La donna sussultò come se sentisse la storia per la prima volta. «Ieri mi ha telefonato. Pare che quell’uomo l’abbia seguita fino al suo appartamento. Sa il cielo come ha potuto avere l’indirizzo». «Che cosa spiacevole! Uno spiantato come quello…» Lìhuá sembrava veramente stupita. «Così pare. È talmente cretino che crede di potere avere gratis quello che si deve pagare. Perciò, la prossima volta che metterà piede nel locale, veda di fare in modo che sparisca. Non voglio che un miserabile come lui si attacchi ad Anna». «Capisco, ma cosa devo fare?» «Si faccia venire in mente qualcosa. In fondo questo è un suo compito, Mama-san», tagliò corto Satake. Lì-huá serrò le labbra come se si fosse svegliata da un sogno e avesse rimesso i piedi per terra. Di colpo assunse un’espressione decisa, degna di una persona abile negli affari come lei. «Ho capito. Ne parlerò con il direttore». Anche il direttore era un giovane originario di Taiwan, ma mancava dal giorno prima perché aveva l’influenza. «E la prossima volta che Anna esce senza accompagnatore, le chiami un taxi!» «Va bene, può contare su di me», Lì-huá annuì un paio di volte. Con ciò la questione era chiusa e Satake si alzò per andarsene. Lei lo scortò fino alla porta come era solita fare con i clienti. Satake, per precauzione, le ricordò: «E mi raccomando l’acqua dei fiori!» Vide il sorriso ambiguo di Lì-huá e si ripromise di cercare al più presto un’altra mama-san. Le ragazze che lavoravano nel locale venivano scelte in base alla bellezza, alla giovane età e al fascino. Per lui erano solo merce viva e la mama-san non doveva essere niente di più che un’accorta venditrice. Uscito dal Mika salì al piano superiore e si fermò davanti alla porta dell’altro locale di sua proprietà, il Parco dei Divertimenti. Era una sala di baccarat. Anche questo era gestito da un direttore, per cui Satake si faceva vedere solo un paio di volte alla settimana. Circa un anno prima si era accorto che al circolo di majong sopra al Mika gli affari non andavano bene, e allora lo aveva preso in affitto e trasformato in una sala di baccarat, dove potessero recarsi i clienti del Mika dopo la chiusura. Non aveva chiesto le autorizzazioni necessarie: non doveva essere che una prova, una piccola attività marginale, riservata ai clienti del club e a quelli raggiungibili con il passaparola, ma aveva avuto molto successo e ora il casinò era sempre pieno di gente. All’inizio c’erano solo due tavoli di minibaccarat, ma quando i clienti erano aumentati Satake aveva assunto alcuni giovani, abili croupier e aveva fatto allestire un vero e proprio tavolo di baccarat. La posta minima era stata alzata e l’affare era esploso. In origine il locale veniva aperto solo dopo la chiusura del Mika, ma poi l’orario si era allungato dalle nove di sera fino al mattino. Satake riavvolse il cavo elettrico bianco dell’insegna, che pendeva sciattamente, e strofinò con il fazzoletto la maniglia dorata della porta per cancellare le impronte delle dita. Lottò contro l’impulso di entrare e mettersi a fare un’ispezione. Aveva a cuore quel locale, e inoltre era una miniera d’oro. Squillò il cellulare nel borsello che teneva sotto l’ascella.
«Dove sei, O-nii-chan? Devo andare dal parrucchiere». Era una voce graziosa che parlava in un giapponese stentato. La voce di Anna. Lo chiamava sempre “O-nii-chan”, fratellino, senza che nessuno gliel’avesse chiesto. Anna era fantastica quando si trattava di accattivarsi i favori degli uomini. Per Satake quella ragazza era un dono del cielo, e ci si divertiva pure. «Va bene, aspettami. Vengo subito». Anna si distingueva per bellezza e intelligenza fra le trenta hostess di Taiwan al suo servizio. Era giunto il momento di trovarle un buon protettore in grado di mantenerla. Era stato sempre Satake a sceglierle i clienti. Non poteva assolutamente sopportare che un poveraccio continuasse a girarle intorno. Satake attraversò il Kabuki-cho e tornò alla Mercedes bianca che aveva lasciato nel posteggio sotterraneo dell’Hygeia-Health-Plaza. In dieci minuti sarebbe arrivato a casa di Anna, a Okubo. L’edificio era nuovo, ma non aveva l’impianto di allarme. Forse sarebbe stato meglio farla traslocare per sottrarla all’uomo che la infastidiva, pensò Satake mentre suonava il citofono accanto alla porta di Anna, che abitava al quinto piano. «Sono io, Satake». «È aperto», gli rispose una voce bassa e un po’ roca. Aprì la porta e si trovò subito tra le gambe un barboncino nano, così piccolo che sarebbe bastato un calcio a ucciderlo. Doveva avere udito i suoi passi ed essere rimasto in agguato dietro alla porta. A Satake non piaceva, ma Anna lo amava alla follia, e così anche lui era costretto a vezzeggiarlo. Respingendolo con la punta della scarpa, gridò: «Ehi, ma sei un po’ fuori?» «Che significa “un po’ fuori”?» gli urlò Anna dall’interno. Satake non rispose e si mise ad aspettarla continuando ad allontanare con la punta della scarpa il cagnolino mugolante di piacere. Nel piccolo ingresso, sulla mensola della scarpiera, erano allineate fitte fitte moltissime paia di scarpe scollate e sandali di tutti i modelli e colori immaginabili. Era stato lui a metterle in ordine secondo i modelli, in modo che Anna non impiegasse troppo tempo a sceglierle al momento di uscire. Anna aveva raccolto in una coda di cavallo i lunghi capelli neri lievemente ondulati e nascosto il viso privo di trucco dietro un paio di occhiali da sole firmati Chanel. Indossava dei pantaloni alla marinara stampati a pelle di leopardo e una T-shirt altrettanto vistosa ornata di ricami in lamé. I grandi occhiali da sole celavano soltanto in parte la perfezione dei suoi lineamenti e la carnagione di un bianco puro che non aveva alcun bisogno di trucco. Satake contemplò il suo viso pensando che quelle labbra carnose e un poco socchiuse erano proprio quello che desideravano gli uomini. «Al solito posto?» «Già». Anna infilò i piedi nudi con le unghie laccate di rosso in un paio di sandali di vernice. Il cane, intuendo che sarebbe rimasto solo, si sollevò sulle zampe e incominciò ad abbaiare furiosamente. Anna lo consolò come avrebbe fatto con un bambino: «Sì, sì, tesoruccio mio, mamma è cattiva con te, lo so, ma non si può fare diversamente. Tu devi rimanere qui…» Uscirono sul pianerottolo e attesero l’ascensore. Anna di solito si alzava dopo mezzogiorno, andava a fare shopping o dall’estetista, quindi si faceva sistemare i capelli dal parrucchiere e infine, dopo una cena leggera, andava al lavoro al Mika. Satake cercava di trovare il tempo per accompagnarla nei vari spostamenti. Qualcuno della concorrenza prima o poi avrebbe potuto rubargliela. Erano appena entrati in ascensore quando il cellulare di Satake squillò di nuovo: «Satake-san?» «Ah, sei tu, Kunimatsu!» Satake diede uno sguardo ad Anna. Kunimatsu era il direttore del Parco. Anna ricambiò lo sguardo, poi lo posò con aria annoiata sulle unghie laccate delle mani, della medesima tinta di quelle dei piedi. «Cosa c’è?»
«Mi scusi per il disturbo, ma vorrei parlarle di una questione che riguarda il locale. Avrebbe un po’ di tempo oggi?» La voce acuta di Kunimatsu risuonava metallica nel piccolo apparecchio. Satake allontanò il cellulare dall’orecchio e rispose: «D’accordo. Vengo subito. Sto accompagnando Anna dal parrucchiere, ci possiamo vedere mentre lei è lì». «Dove?» «A Nakano. Prendiamo un caffè lì vicino». Fissato il luogo e l’ora dell’appuntamento Satake ripose il cellulare. L’ascensore era ormai al piano terra. Uscì per prima Anna e si girò con un sorriso seducente: «O-nii-chan, hai parlato con Mama-san?» «Sì, il tipo non metterà più piede al club, rilassati. Puoi continuare a lavorare in pace». «Bene», rispose Anna visibilmente sollevata, e da dietro le lenti colorate alzò lo sguardo verso di lui: «Ma anche se non potrà più entrare al club potrebbe sempre venire qui, no?» «Sta’ tranquilla. Ci sono io a proteggerti». «Ma io preferirei cambiare casa!» «Sì, lo so. Se continua ad andare avanti così mi farò venire in mente qualcosa, okay?» «Okay». «E al club come si comporta quel tizio?» Satake non si faceva quasi mai vedere al Mika. «Ah, mi sta sempre addosso e si infuria se gli si avvicina un’altra ragazza», rispose Anna con una smorfia. «Ci mette tutte in imbarazzo. E poi ha cominciato a insistere per non pagare subito. Assurdo. Anche il divertimento ha il suo prezzo, e le regole vanno rispettate», sentenziò con tono da saputella accomodandosi sul sedile della Mercedes accanto a Satake. Sembrava una bamboletta graziosa, ma sapeva esattamente cosa voleva. Veniva da Shanghai, una purosangue indipendente, solida e con i piedi per terra. Viveva in Giappone da quattro anni. Si era iscritta a una scuola di lingue e ogni sei mesi si faceva rinnovare il visto con la scusa di approfondire lo studio del giapponese. Accompagnata Anna dal parrucchiere, Satake andò al caffè dove aveva appuntamento con Kunimatsu. «Sono qui», lo chiamò alzando una mano l’uomo seduto a un tavolo appartato in fondo alla sala. «Mi spiace averla disturbata». Satake sedette sul soffice divano, accolto dal sorriso cordiale di Kunimatsu che indossava pantaloni da golf e una polo. Sembrava un istruttore sportivo. Non aveva ancora compiuto i quarant’anni, ma aveva una lunga esperienza di gioco d’azzardo. Satake l’aveva scoperto quando lavorava in un circolo di majong della Ginza. «E allora, che succede?» chiese Satake accendendo una sigaretta e fissandolo dritto negli occhi. «Niente di particolare, ma sono un po’ preoccupato a causa di un cliente». «Oh, di che si tratta? Un poliziotto?» In quel mestiere chi si esponeva veniva colpito e non era detto che un poliziotto, informato del successo del Parco, non avesse avuto la malaugurata idea di fare di lui il capro espiatorio dell’organizzazione del gioco d’azzardo. «No, niente paura, il problema è un altro», Kunimatsu agitò la mano dalle lunghe dita. «Solo un cliente che viene ogni notte e continua a perdere». «Non c’è nessuno che giochi a baccarat e vinca sempre!» rispose ridendo Satake che vantava un’esperienza personale in quel campo. Rise anche Kunimatsu girando la cannuccia nell’aranciata. Né lui né Satake bevevano liquori. Satake trangugiò d’un sorso il suo caffè freddo. «Quanto ha perso?» «Mhm, negli ultimi due mesi quattro o cinque milioni. Non è ancora una grande somma rispetto
ai casi disperati, quando centinaia di milioni se ne volano via in un soffio». «Allora fa solo piccole puntate. Non mi sembra che ci sia di che preoccuparsi. Ma qual è il problema?» «Già, ieri, di punto in bianco, viene e mi chiede di anticipargli la posta». Generalmente nel casinò di Satake non si faceva credito ai giocatori di baccarat. Qualche eccezione era stata fatta con i clienti più affezionati, anticipando loro qualche centinaio di migliaia di yen. Forse l’uomo se n’era accorto. «Vogliamo scherzare? Buttalo fuori!» sbottò Satake con una smorfia. «È quello che ho fatto. Naturalmente con gentilezza ma con fermezza. Se fosse stato intelligente avrebbe capito che lo stavo minacciando. Lui invece se n’è andato imprecando come un carrettiere». «Non c’è altro da fare. Qual è la sua professione?» «È un semplice impiegato. Di una piccola azienda. Fosse solo per questo non l’avrei disturbata, Satake-san. Ma mi è venuto in mente che potesse essere quel cliente del Mika che dà dei fastidi e allora ho telefonato a Mama-san. E infatti mi ha confermato che è proprio lui. E che gli ha proibito di mettere ancora piede al club». «Ah, Yamamoto! Donne e anche denari, eh?» Satake sbuffò e schiacciò il mozzicone di sigaretta. Erano molti i clienti che perdevano la testa per le giovani e belle hostess cinesi. Ma la fine del denaro, come dice il proverbio, è la fine dell’amore. Invece quel Yamamoto tentava evidentemente di vincere a baccarat il denaro da spendere con la sua donna. O forse, sconvolto dall’aver dilapidato tutti i soldi con Anna, cercava di rifarsi giocando. A ogni modo quell’uomo aveva perso il senso della misura. Ormai sia il gioco che le donne non erano più un semplice divertimento. Ne aveva visti un mucchio come lui. Quel Yamamoto era una faccenda più seria di quanto avesse immaginato, una fonte di guai. Satake era preoccupato per il pericolo che quell’individuo avrebbe potuto rappresentare per Anna e per i suoi affari. «Perciò mi sono chiesto se non potrebbe scambiare qualche parola con lui, lei che è il proprietario, nel caso che si ripresentasse». «Va bene. Sembra che sia la cosa giusta da fare. Avvertimi quando arriva. E speriamo che qualche parola sia sufficiente con un tipo così». «Ah, su questo non ho dubbi. A prima vista lei sembra proprio uno yakuza! Vedrà che Yamamoto non si farà più vedere». Satake rise senza fare commenti, ma in un angolo oscuro dei suoi occhi sottili balenò una minaccia. Kunimatsu non se ne accorse e continuò a scherzare: «Davvero lei incute timore!» «Trovi?» «Se lo guarderà con questa espressione, vestito così, sparirà in un baleno, glielo garantisco!» aggiunse Kunimatsu ridendo. «Lei è capace di spaventare uno a morte!» «Ah sì? E perché, secondo te?» «Mah, forse perché lei sembra cordiale e tuttavia non si riesce mai a capire come regolarsi…» Lo squillo del telefonino di Satake interruppe la risata di Kunimatsu. «O-nii-chan? Qui ho finito, vieni a prendermi. Corri, presto!» Anna, la sua voce bassa che gli diceva «Corri, presto!» gli procurò un brivido gelato lungo la schiena. La donna gemeva sotto il corpo possente di Satake, completamente imbrattato dal liquido scuro, caldo, denso e appiccicoso. Vischioso al tatto, strano… Il corpo della donna si stava ormai raffreddando e loro giacevano avvinghiati così strettamente da essere ormai fusi in uno… Lei oscillava tra l’estasi e la sofferenza. Satake sigillava con le sue le labbra della donna per farla tacere e non dover più udire quei gemiti indefinibili – i suoni del piacere o del dolore – e intanto affondava le dita nel buco che egli stesso aveva scavato nel suo fianco. Dalla ferita il sangue continuava a scorrere a fiotti e
tingeva tristemente il loro amplesso. Avrebbe voluto entrare ancora più profondamente nella donna. Diventare tutt’uno con lei, sciogliersi in lei. Proprio nel momento in cui stava per raggiungere l’orgasmo, Satake allontanò le labbra dalla bocca della donna, che gli sussurrò all’orecchio: «Chiama il medico, corri, presto!» «Scordatelo. Taci!» Ricordava perfettamente anche il suono della propria voce. Satake aveva ucciso una donna. Quando era ancora al liceo aveva preso a bastonate il padre ed era scappato da casa per non tornarvi mai più. Era vissuto alla giornata, giocando a majong, e presto era stato accolto in un’organizzazione malavitosa che controllava il giro della prostituzione e il traffico di anfetamine. A lui era stato affidato l’incarico di impedire la fuga alle prostitute, e un giorno accadde il terribile incidente. La donna che torturò a morte apparteneva a una sedicente agenzia di collocamento, e aveva cercato di presentare una prostituta a un’altra organizzazione. Satake allora aveva ventisei anni. Nessuno, né Kunimatsu, né Lì-huá, né Anna sapevano che era stato condannato e aveva passato in carcere più di sette anni. Ed era esattamente questo il motivo per cui preferiva rimanere nell’ombra e affidare la gestione del club a Lì-huá e al cinese di Taiwan e quella della sala da gioco a Kunimatsu. Da allora erano trascorsi quasi vent’anni, ma ricordava perfettamente l’episodio. L’espressione del suo viso sotto le torture, il suono della sua voce. Sentì di nuovo un brivido giù per la schiena, come se lo accarezzassero le gelide dita striscianti della donna. Perché aveva dovuto uccidere prima di capire quali erano i suoi limiti, perché? Da una parte provava un grande rimorso, dall’altra quell’esperienza gli aveva fatto prendere coscienza per la prima volta della sua inclinazione al sadismo. Sapeva solo che torturare lo faceva godere profondamente e che l’ebbrezza che gli dava la vicinanza con la morte era esaltante. «Sei andato troppo in là». Persino i suoi compagni, che non erano certo delicati con le donne e di solito non si tiravano indietro di fronte a nessuna atrocità, lo avevano guardato con disgusto. Mai avrebbe dimenticato l’espressione di orrore e ripugnanza nei loro volti. Ma Satake era convinto che nessuno, oltre a lui e alla donna, avrebbe mai potuto capire che cosa era veramente successo. In carcere le immagini ancora vivide di quel giorno, di come l’aveva portata alla morte, lo avevano a lungo torturato, ma non perché fosse schiacciato dai sensi di colpa… L’unico sentimento che lo riempiva era il desiderio di poter vivere ancora una volta quell’esperienza. Ma, ironia della sorte, uscito finalmente di prigione si era accorto di non essere più in grado di stare con una donna. Era diventato impotente. Dovette passare molto tempo prima che riuscisse a capire che l’estasi provata con la donna che aveva ucciso era stata così esaltante e profonda da precludergli per sempre la possibilità di vivere altre esperienze. L’aver conosciuto il proprio limite aveva significato precludersi ogni altro sogno. I suoi sogni erano ormai sigillati, e Satake faceva molta attenzione a non dischiuderli. Nessuno avrebbe potuto intuire la sua solitudine e il suo autocontrollo. Eppure le donne, ignare della sua vera natura, gli si offrivano indifese, lo corteggiavano, tentavano di sedurlo. Ma non erano capaci di spezzare quei sigilli e per lui rimanevano soltanto dei graziosi animaletti da coccolare. L’unica donna che lo avesse veramente compreso, che era stata capace di trascinarlo nel paradiso e nell’inferno, era la donna che aveva ucciso, questo lo sapeva. Ormai avrebbe potuto godere di un amplesso soltanto nella fantasia. Ma ciò gli bastava. Non v’era ruffiano più gentile con le donne di lui. Perché nel suo animo era indelebilmente impresso il volto della donna uccisa. Il volto di una donna che aveva incontrato un’unica volta. La vita era davvero bizzarra. Nonostante non avesse nessuna intenzione di aprire di nuovo il pentolone dell’inferno della propria anima, era bastata una parola di Anna per spostarne un poco il coperchio. Satake si asciugò furtivamente il sudore dalla fronte in modo che Kunimatsu non se ne accorgesse.
Anna lo aspettava di fronte al parrucchiere. Satake le aprì la portiera e attese che si sedesse. Gli venne da ridere alla vista della sua pettinatura, già in voga negli anni Settanta. «Che nostalgia! Quand’ero un ragazzo le donne si pettinavano tutte così». «Dev’essere stato molto tempo fa». «Già. Più di vent’anni. Tu non eri ancora nata». Satake la guardò con gli occhi socchiusi. Un miracolo, questo era per il mondo una donna così bella. Ed era anche intelligente e coraggiosa. E, come se non bastasse, negli ultimi tempi aveva raggiunto la superba consapevolezza di essere la migliore, al punto che da lei irradiava una dignità quasi inaccessibile. Satake compativa in silenzio gli uomini che perdevano la testa per lei. Guidando lanciava lunghi sguardi al punto in cui le cosce di Anna, fasciate dai pantaloni aderenti, si accavallavano. Si intuiva l’abbondanza di carni sode ma delicate. «Cerca di rimanere sempre così bella. Ti proteggerò io». Le sue parole sottintendevano che la bellezza è effimera e che con il trascorrere degli anni sarebbe stato costretto a cercare una nuova Anna. «Sì, allora dormi con me almeno una volta, O-nii-chan!» lo invitò la ragazza con un tono per niente scherzoso. Satake sapeva che i suoi dipendenti ignoravano il suo passato e lo consideravano un uomo refrattario a ogni seduzione. «Impossibile. Tu sei una merce preziosa». «Sono quindi una cosa?» «Sì, un giocattolo simile a un bel sogno». Nell’attimo in cui pronunciò la parola “giocattolo” gli riaffiorò alla mente il volto di quella donna, che subito svanì quando fu distratto dalle luci dei fanalini di coda dell’auto che lo precedeva. «Un giocattolo molto prezioso, destinato solo a uomini ricchi». «E a quello di cui mi innamorerò». «Ma tu, Anna, non lo farai, vero?» Satake la guardò in faccia. Anna, con un’espressione decisa, rispose: «Certo». Prese la mano destra di Satake appoggiata sul volante e la strinse delicatamente. Lui la riportò sulla sua morbida coscia. L’unica cosa che lo interessava era rendere ancora più bello quel giocattolo per offrirlo agli uomini che lo desideravano e manovrarlo abilmente. Lui doveva solo fare in modo che tutto filasse liscio, e questo compito lo divertiva. Voleva che i due locali prosperassero, e perciò per prima cosa doveva togliersi dai piedi questo Yamamoto. Quella notte Satake stava uscendo dal suo appartamento in Shinjuku West quando Kunimatsu gli telefonò. «È appena arrivato Yamamoto. Dice che vuole puntare venti o trentamila yen. Cosa devo fare? Lo butto fuori?» «No, lascialo fare. Arrivo subito». Satake uscì. Indossava un completo grigio tagliato su misura di seta cangiante, nuovo di zecca, e sotto alla giacca aveva una camicia col colletto rigido. Posteggiò la Mercedes nel Batting Center di Kabuki-cho e quindi entrò al Mika. Anna, dal fondo del locale, fece un piccolo gesto di saluto con la mano. Il suo volto purissimo aveva assunto un’espressione professionale che le conferiva una grazia equivoca. Anche le altre hostess non erano da meno, tutte splendide. Satake le passò in rassegna con grande soddisfazione e fece cenno a Lì-huá di raggiungerlo. Lei gli si avvicinò discretamente salutando i clienti seduti ai tavoli. «Mi scusi ancora per averla disturbata, oggi. Ho parlato subito anche con Kunimatsu. Grazie per averlo incontrato». «È stato un bene, non sapevo che il tipo trafficasse anche di sopra». «Già, e anche lì crea problemi». Lì-huá soffocò una risatina. Indossava un abito alla cinese color giada. Sembrava più giovane e
più efficiente del solito, ma lo sguardo di Satake si posò su un vaso di fiori collocato in un angolo. L’acqua era ancora torbida, e i fiori ancor più appassiti. Tuttavia uscì dal locale senza dire niente, perché voleva vedere subito in faccia l’uomo che importunava Anna. Satake era in piedi davanti alla porta del Parco, intenzionalmente modesta per non dare nell’occhio. L’insegna al neon era spenta per timore di irruzioni, ma bastava aprire la porta per cogliere subito il tipico rumore e l’atmosfera eccitata di una casa da gioco. Entrò calmo nel locale e senza farsi notare lo ispezionò con lo sguardo. Era ampio circa una settantina di metri quadri, conteneva due tavoli di minibaccarat per sette ospiti ognuno e un tavolo regolare intorno al quale potevano accomodarsi quattordici clienti. Tutti i tavoli erano al completo. I croupier, in uniforme nera, erano tre, Kunimatsu compreso. Tre ragazze vestite da conigliette distribuivano bevande e rinfreschi. Erano tutti efficienti e indaffarati. Il croupier di uno dei minibaccarat riconobbe Satake e lo salutò con un’occhiata, continuando a distribuire velocemente le fiche di plastica. Satake annuì. Anche quel ragazzo, come lui, si era fatto le ossa come giocatore professionista di majong, una scuola eccellente. Tutto nella sala sembrava andare per il meglio e Satake era soddisfatto. Il baccarat è un gioco semplice. I clienti scommettono sui giocatori o sul banco, e il croupier prende il cinque per cento di commissione sulle vincite del banco – il cosiddetto affitto del tavolo. Compito di un buon croupier è spingere i clienti a giocare uno contro l’altro. Le regole sono alla portata di tutti, la gente cade subito in preda all’ebbrezza del gioco e le puntate aumentano velocemente: un gioco di successo. La clientela era costituita per lo più da giovani impiegati appena usciti dall’ufficio e tra loro c’erano molte donne. L’atmosfera era elegante, non si poteva certo confondere con quella del retrobottega di un locale equivoco, tuttavia Satake era consapevole che più della metà dei suoi ospiti erano giocatori incalliti e alcuni addirittura erano già stati interdetti. Insomma dei poveracci. Che comunque non potevano permettersi di creare confusione nel suo locale. «È lui. Ha finito anche stasera per perdere circa centomila», bisbigliò Kunimatsu indicando un uomo seduto in fondo a un tavolo di minibaccarat. Sorseggiava un whisky e soda e osservava, il mento appoggiato sulla mano, le puntate degli altri clienti. Satake rimase in un angolo a spiarlo di nascosto. Poteva avere più o meno trentacinque anni. Camicia bianca a mezza manica, cravatta ordinaria, pantaloni grigi. Una faccia comune, assolutamente insignificante. Sembrava un impiegato qualsiasi. E dunque era questo zero assoluto che si era innamorato di Anna? Ma che cosa si era messo in mente? La ragazza aveva solo ventitré anni ed era indiscutibilmente la più affascinante tra tutte le sofisticate bellezze del Mika. Come aveva detto Anna ogni piacere ha le sue regole, esattamente come il baccarat. A Satake, che abitualmente aveva un grande autocontrollo, bastava vedere un cliente come Yamamoto per diventare furioso. La partita si avvicinava alla fine. Ancora uno o due giri e le carte sarebbero state esaurite. Yamamoto finalmente si decise e puntò tutte le fiche che gli erano rimaste sul giocatore. Tutti gli altri puntarono allora sul banco. Era da molto che avevano fiutato la sua sfortuna e non volevano fare la stessa fine. Il croupier continuava a distribuire velocemente le carte con aria impassibile. «Che idiota, un giocatore senza speranza!» brontolò Satake tra sé e sé, mentre Kunimatsu, fermo accanto a lui, soffocava una risata. Il croupier del tavolo di Yamamoto fu sostituito da una ragazza. Anche alcuni giocatori si alzarono e altri presero il loro posto. Ma l’uomo, nonostante non avesse più una fiche, rimase ostinato a sedere. Una donna, probabilmente una squillo, in piedi dietro di lui lanciò a Kunimatsu un’occhiata in cerca di aiuto. Adesso è maturo, pensò Satake, fece un cenno d’intesa a Kunimatsu e si avvicinò a Yamamoto. «Mi scusi, signore…» «Che c’è?»
Yamamoto si voltò sorpreso a guardare Satake, la sua stazza robusta, l’espressione cordiale, lo stile inconfondibile: tutto prometteva guai. Ma la sua espressione caparbia rimase immutata. Evidentemente i suoi sensi erano già completamente intorpiditi. «Se non gioca più, le volevo chiedere di essere così gentile da cedere il posto alla signora». «E perché?» «Perché sta aspettando il suo turno». «Può anche stare lì a guardare!» Yamamoto era ubriaco. Doveva essersi servito senza complimenti del whisky e soda che veniva offerto gratis nel locale. Davanti a lui era sparsa la cenere delle sigarette che aveva fumato. Satake chiamò il giovane vicedirettore, gli disse di ripulire il tavolo da gioco e si rivolse a voce bassa a Yamamo to: «Mi scusi, ma se mi segue avrei qualcosa da dirle». «Me lo può dire anche qui!» Gli altri giocatori lo guardarono stupefatti. Alcuni, evidentemente impauriti, non osavano neppure alzare la testa. «No. Mi segua, la prego». Satake scortò Yamamoto che sbuffava ostentatamente fuori dal locale e lo affrontò nella penombra del corridoio. «Lei ieri ha chiesto del denaro in prestito, ma noi non possiamo soddisfare la sua richiesta. Se non ha denaro per giocare cerchi di trovarlo altrove prima di tornare qui». «Ah, proprio un bel servizio! Che sfacciataggine!» rispose Yamamoto imbronciato come un bambino. «Esattamente, questo è un buon servizio. E ancora una cosa: in futuro faccia a meno di importunare Anna. È ancora giovane e ha paura». «Che diritto ha lei di dirmi queste cose?» Offeso, Yamamoto contorse il viso in una smorfia. «In fondo sono un vostro cliente! Ma lo sa quanti soldi vi ho lasciato?» «Grazie. Ma la smetta di dare fastidio alla ragazza. Fuori dal locale le nostre donne sono tabù». «Vale a dire?!» grugnì Yamamoto con disprezzo. «Mi viene da ridere! Ma se sono tutte puttane!» Satake perse il controllo e scandì chiaramente: «Tu non la toccherai mai più nemmeno con un dito, amico, capito? E adesso squagliati e non farti più vedere. Lo riesci a capire o no, imbecille?» «Come osi parlarmi così, pezzo di merda!» improvvisamente Yamamoto cercò di colpire Satake, che parò il colpo con il braccio sinistro e lo prese per il colletto. Poi gli ficcò il ginocchio tra le gambe e lo spinse contro la parete. Incapace di reagire, Yamamoto pendeva come inchiodato al muro e annaspava in cerca di aria. Un gruppo di impiegati stava salendo le scale. Li videro e indugiarono prima di entrare nel Parco. Satake allentò la presa. Non voleva influenzare negativamente l’andamento degli affari, sarebbe stato imbarazzante se per assurdo si fosse sparsa la voce che il locale era gestito dalla malavita. Questo piccolo momento di distrazione fu sufficiente e Yamamoto ne approfittò per colpirlo al mento con un pugno. Satake mugghiò per il dolore. «Per te è finita, verme, adesso ti sistemo io!» Satake, fuori di sé per l’ira, gli diede una violenta gomitata allo stomaco e lo scaraventò giù dalla scala. Lo vide vorticare su se stesso e atterrare sul pianerottolo. Il sangue gli pulsava nelle orecchie e per un attimo provò ancora il fresco senso di piacere di quando da giovane passava da una rissa all’altra. Un solo istante e riprese il proprio autocontrollo, soffocando quelle emozioni. «Se ti vedo qui ancora una volta, ti ammazzo!» Satake non avrebbe potuto dire se Yamamoto aveva capito bene la minaccia, perché quello continuava a sedere lì in fondo alle scale stordito, asciugandosi la bocca insanguinata. Proprio in quel momento due ragazze che stavano salendo si misero a strillare e fecero dietrofront. Dannazione, adesso
aveva anche spaventato le ragazze. Questa fu l’unica cosa che pensò mentre si riaggiustava le pieghe del vestito. Non poteva naturalmente immaginare che cosa il destino avesse riservato a Yamamoto per quella sera. 4 Quartiere di divertimento nel distretto di Shinjuku, a Tokyo (N.d.T.).
5. Odio, odio puro, ecco quello che provava. Yayoi Yamamoto contemplava la propria immagine nuda nel grande specchio. Al centro del suo candido corpo di trentaquattrenne spiccava, all’altezza dello stomaco, un livido bluastro quasi circolare. Quello era il punto in cui suo marito Kenji, la sera precedente, l’aveva colpita con un pugno. Era stato questo fatto a risvegliare quel sentimento nel suo animo. O forse no, c’era già da tempo. Yayoi scosse più volte la testa, e così fece la donna nello specchio. C’era già da tempo. Ma fino ad allora non era riuscita a dargli un nome. Appena ebbe un nome, quel sentimento parve allargarsi come una nube nera e densa di pioggia e si impossessò in un batter d’occhio del suo cuore. Dove ora non c’era altro che odio puro. «Non glielo perdonerò mai!» Appena le parole le vennero alle labbra, le si riempirono gli occhi di lacrime che traboccarono sulle guance e fluirono tra i seni piccoli ma ben formati. Quando raggiunsero lo stomaco venne nuovamente assalita da un dolore che le toglieva il respiro e le piegava le ginocchia, così si lasciò cadere sul tatami. Le faceva male, semplicemente male. Bastava un soffio che le sfiorasse la pelle, o una lacrima. Niente e nessuno avrebbe potuto lenire quella sofferenza. I bambini che dormivano sui piccoli futon dovevano avere percepito qualcosa, perché incominciarono ad agitarsi. Yayoi si alzò di scatto, si asciugò le lacrime con la mano e si avvolse in fretta in un telo da bagno. In nessun caso i bambini dovevano vedere il livido, e neppure la mamma che piangeva. Si sentì terribilmente sola e seppe che da sola avrebbe dovuto cavarsela in questo mondo spaventoso, da sola avrebbe dovuto porre fine ai maltrattamenti di Kenji. Di nuovo le salirono le lacrime agli occhi. La cosa che più la feriva era che fosse proprio l’uomo su cui avrebbe dovuto poter contare a procurarle tutti i suoi guai. Come avrebbe potuto uscire da quell’inferno? Non lo sapeva proprio. Combatté contro l’impulso di mettersi a piangere come un bambino. Il più grande, che aveva cinque anni, aggrottò la fronte nel sonno e si girò dall’altra parte. Anche il piccolo – tre anni – si girò e si mise a pancia in su. Senza far rumore Yayoi si allontanò dallo specchio, uscì dalla stanza e chiuse con cautela la porta scorrevole, pregando in cuor suo che i bambini continuassero a dormire tranquilli. A passi felpati andò in soggiorno e si mise a cercare in mezzo alla montagna di biancheria appena lavata, appoggiata sul tavolo da pranzo in attesa di essere piegata. Tirò fuori un paio di mutandine e un reggiseno da pochi soldi comprati in saldo al supermercato. Ripensò alla biancheria impreziosita da meravigliosi pizzi che era solita acquistare prima di sposarsi. Per far piacere a Kenji. Allora non si sarebbe neppure sognata che quello era il futuro che l’aspettava. Uno stupido marito che aveva perso la testa per una donna che non poteva avere, e una moglie – lei – che lo odiava. Due individui sulle sponde opposte di un grande fiume, separati da nere acque profonde che non sarebbero mai riusciti ad attraversare. Non avrebbero camminato più sulla stessa sponda, perché lei non l’avrebbe mai perdonato. Anche oggi probabilmente non sarebbe tornato a casa prima che lei uscisse per andare al lavoro. Per Yayoi era straziante lasciare soli i bambini – soprattutto il più grande che era estremamente sensibile e vulnerabile –, poteva solo sperare che il loro inaffidabile padre non tornasse troppo tardi. Come se non bastasse erano già tre mesi che Kenji non portava a casa uno yen. Riusciva a malapena a provvedere a se stessa e ai bambini con la misera paga del turno di notte che portava a casa. Che razza di situazione! Un marito finito, che rientrava alla chetichella e strisciava fino al suo futon quando lei era già uscita. Le infinite discussioni, sempre uguali, al mattino, quando lei tornava a casa stanca morta. Gli sguardi freddi e taglienti che si lanciavano a vicenda. Non ce la faceva più! Yayoi fece un profondo sospiro e si chinò per infilarsi gli slip e immediatamente sentì una fitta lancinante all’addome. Senza
volere cacciò un urlo. Il gatto Milky, che dormiva acciambellato sul divano, sollevò il musetto, raddrizzò le orecchie e la guardò. La sera prima, per la paura, si era nascosto sotto il divano e aveva lanciato un lungo, sordo miagolio. Al ricordo Yayoi impallidì e venne sopraffatta da un’ondata di odio e di ira. Fino ad allora non aveva mai provato sentimenti così cupi nei confronti di un’altra persona. Era figlia unica, cresciuta sotto l’ombra protettiva dei genitori, una vita tranquilla in una piccola città di provincia. Dopo aver frequentato il liceo a Yamanashi, si era trasferita a Tokyo e aveva trovato un posto come segretaria presso un’azienda che produceva mattonelle. La dolce, graziosa Yayoi era adorata da tutti gli impiegati della ditta, che la portavano in palmo di mano. Se ci pensava adesso, quello era stato il periodo più bello della sua vita. Allora non aveva che l’imbarazzo della scelta, ma si era innamorata di Kenji, il rappresentante di un piccolo fornitore, che andava avanti e indietro dall’ufficio. Perché lui le aveva fatto una corte appassionata. Il periodo del fidanzamento era stato un sogno meraviglioso: Kenji l’aveva messa su un piedistallo e la adorava, le dipingeva un futuro dagli splendidi colori e le prometteva il paradiso sulla terra. Ma subito dopo le nozze il suo sogno di principessa si era spezzato. Kenji aveva incominciato a bere e a giocare e stava fuori sempre più a lungo. Che fosse un uomo sempre attratto dalle donne più irraggiungibili lo aveva capito molto presto. Anche lei era stata desiderata solamente perché era la dolce mascotte della ditta. Una volta che era diventata sua, l’interesse per lei era immediatamente svanito. Era un infelice sempre a caccia di sogni impossibili. Questo era Kenji, suo marito. La sera precedente, per qualche strano caso Kenji era rientrato un po’ prima delle dieci. Yayoi era in cucina e stava lavando i piatti cercando di non fare rumore per non svegliare i bambini che si erano finalmente addormentati. Ebbe come un presentimento e si girò: Kenji era lì, fermo in piedi dietro di lei. Aveva lo sguardo fisso sulla sua schiena e un’aria cupa, come se guardasse qualcosa di estremamente odioso. Yayoi, sbigottita, lasciò cadere la spugnetta bagnata nel lavello. «Mi hai spaventata!» «Perché? Speravi che fossi un altro?» Kenji non era ubriaco, tuttavia era di pessimo umore, ma lei era ormai abituata alle sue lune. «Se vuoi proprio saperlo, sì! Ormai ti vedo soltanto quando dormi», sibilò sarcastica strizzando la spugnetta – avrebbe voluto non vedere più quel brutto muso. «Com’è che sei tornato così presto?» «Ho finito i soldi». «Come se non lo sapessi! Sono settimane che non porti più a casa uno yen!» Continuava a voltargli le spalle, ma intuiva il suo sorrisetto sarcastico. «Adesso li ho davvero finiti. Ho svuotato anche il libretto di risparmio». «Svuotato?» ripeté Yayoi con voce tremante. Fra tutti e due erano riusciti a risparmiare più di cinque milioni. Ancora un po’ di pazienza e sarebbero stati in grado di comprarsi una casa. A che scopo aveva sfacchinato in fabbrica per tutto quel tempo? «No, non può essere! Come è possibile, se ti sei sempre tenuto tutto quello che guadagnavi?!» «Il gioco. Il baccarat». «Vuoi scherzare, vero?» Non sapeva più cosa dire. «No». «Ma non erano tutti soldi tuoi!» «Se è per questo nemmeno tuoi». Poiché lei era ammutolita per la sorpresa, lui ne approfittò per proseguire: «Devo andarmene, eh? Sarebbe meglio, non è vero? Dai, dillo una buona volta!» Che cosa gli dava il diritto di essere così arrogante? Che cosa gli era andato per traverso? Perché ogni volta che tornava a casa doveva coinvolgere la famiglia nelle sue beghe? In un’altra occasione non ci avrebbe fatto caso, avrebbe sopportato in silenzio, ma questa volta era davvero
troppo, questa volta doveva combattere. Rispose glaciale: «Andartene non ti servirà a niente, credimi!» «E cosa dovrei fare, eh? Dai, dimmelo tu!» La voleva mettere davanti al fatto compiuto, aveva la menzogna scritta in faccia. E ne era perfettamente cosciente, pensò Yayoi furiosa e disse: «Chissà che ti pianti presto! È lei la causa di tutto!» Improvvisamente sentì qualcosa di duro e pesante che la colpiva all’addome. Il dolore la fece quasi svenire e cadde sul pavimento. Respirava a fatica e si contorceva dal male, ma non riusciva a capire che cosa era successo. Gemeva tutta rannicchiata su se stessa quando un calcio la colpì sulla schiena. Allora urlò. Kenji le gridò dietro un insulto e si diresse verso il bagno massaggiandosi la mano destra. Allora capì che era stato lui a colpirla con un pugno. Rimase sdraiata sul pavimento, tremante di dolore. Sentì giungere dal bagno il rumore dell’acqua che scrosciava. Quando finalmente riuscì a respirare, sollevò la T-shirt con la mano insaponata – evidentemente aveva continuato a stringere la spugnetta – e vide una macchia bluastra che si allargava sull’addome. Le parve il segno che sigillava la fine del loro matrimonio. Respirò a fondo. In quel momento la porta scorrevole della camera da letto si aprì e vide Takashi, il primogenito, che la guardava impaurito. «Che succede mamma?» «Niente, sono solamente caduta. È tutto a posto, torna a dormire tranquillo, okay?» Per fortuna era riuscita a trovare qualcosa da dire. Tuttavia Takashi doveva avere capito e richiuse la porta senza far rumore: si preoccupava di non svegliare il fratellino! Se anche un bambino così piccolo aveva queste premure nei confronti degli altri, come era possibile che un adulto come Kenji si comportasse così? Era diventato un’altra persona. O forse era sempre stato così? Yayoi, la mano premuta sullo stomaco, riuscì a sedersi al tavolo. Controllò il dolore stringendo i denti e si concentrò sulla respirazione. Sentì un fracasso provenire dal bagno – Kenji doveva avere dato un calcio al secchio di plastica. Adesso se la prendeva anche con gli oggetti, pensò. Fece un sorriso amaro e nascose il viso tra le mani. Era furiosa, ma soprattutto annichilita: non riusciva a capire come aveva potuto sposare un uomo di quel genere. Quando si risvegliò dai suoi pensieri si accorse di avere addosso ancora solo la biancheria intima. Si infilò una polo e un paio di jeans. Negli ultimi tempi era dimagrita e i pantaloni le scivolavano sui fianchi. Cercò una cintura per tenerli su. Aveva poco tempo prima di uscire. Avrebbe preferito non andare a lavorare, ma Masako e la maestra si sarebbero preoccupate. Masako. Niente le sfuggiva, notava subito ogni minimo cambiamento. In un certo senso le faceva paura, tuttavia aveva assolutamente bisogno di confidarsi con lei. Perché proprio lei? Perché era affidabile. Se c’era qualcuno al mondo che non ti avrebbe mai piantata in asso, quella era Masako. Rinfrancata Yayoi si rimise in movimento. Udì un rumore in ingresso. Kenji? Rimase immobile ad ascoltare – niente, non arrivava. Che fosse un intruso che cercava di entrare in casa? Corse nell’ingresso. Kenji era seduto sulla soglia e le voltava le spalle. Teneva la schiena curva e guardava il pavimento davanti a sé. La camicia era sporca. Non si era accorto della sua presenza, perché rimase immobile. A Yayoi ritornarono in mente gli avvenimenti della sera prima e all’improvviso sentì l’odio ribollire in sé. Se almeno non fosse più tornato a casa! Non lo voleva più vedere! «Ah, sei tu…» Kenji si voltò. «Com’è che sei ancora qui?» Che avesse fatto a pugni? Aveva le labbra gonfie e sanguinava. Tuttavia Yayoi non disse niente e rimase immobile come se avesse messo radici. Non sapeva come fare a contenere l’impetuosa corrente di odio che la attraversava. Kenji brontolò: «Be’, cos’hai da guardare? Una volta tanto potresti anche essere carina con
me!» In quell’istante la pazienza di Yayoi si ruppe come un filo. Veloce come un fulmine si tolse la cinghia dei pantaloni e la strinse attorno al collo del marito. «Ehi!» esclamò sorpreso Kenji cercando di voltarsi a guardarla. Ma Yayoi continuò a tirare con forza, obliquamente, verso di sé. Kenji tentò di afferrare la cintura, ma ormai non c’era più spazio per le dita, la cinghia gli era penetrata nella carne del collo. Yayoi lo guardò con calma mentre tentava affannosamente di strappare la cintura. Quindi tirò verso di sé con tutte le sue forze. Era buffo vedere come il collo di Kenji si piegava all’indietro e le mani, che avevano ormai smesso di cercare di afferrare la cintura, annaspavano nell’aria. Doveva soffrire di più. Un uomo così non meritava di stare al mondo, non lo voleva più tra i piedi. Yayoi puntò il piede sinistro ancora nudo sul pavimento e premette il destro sulla spalla del marito per spingerlo in avanti. Dalla gola dell’uomo usciva un rantolo simile al verso di una rana. Che bella sensazione! Era incredula, stupefatta della forza furiosa e della crudeltà di cui era capace. Non sapeva da dove le venivano, ma di una cosa era certa: il godimento che ne traeva era infinitamente rigenerante e liberatorio. Kenji era alla fine. I piedi ancora calzati, le gambe abbandonate storte sul pavimento di cemento dell’ingresso, accasciato sulla soglia, la testa tutta girata. «No, non ti perdono. Non ti voglio perdonare». Yayoi continuava a stringere sempre più forte. Crepasse pure qui, sul posto, pensava. Aveva in mente solo una cosa: non voleva più vedere la sua faccia, ascoltare i suoi discorsi, questo era quello che voleva con tutta se stessa. Chissà quanti minuti erano trascorsi. Kenji giaceva sulla schiena e non si muoveva più. Yayoi gli mise la mano sul collo per sentire le pulsazioni. Niente. Sul davanti dei pantaloni si allargava una macchia bagnata, evidentemente se l’era fatta addosso. Yayoi rise. «Eri tu che dovevi essere carino con me!» Non sapeva quanto tempo era rimasta lì seduta a fissarlo. Tornò in sé udendo il basso miagolio di Milky. «Che faccio adesso, piccolo Milky? L’ho ucciso», mormorò e il gatto bianco miagolò più forte. Anche Yayoi fece un gridolino. Aveva fatto qualcosa da cui non si poteva tornare indietro. Ma non provava rimorso, neanche un po’. Andava bene così, non poteva fare altro, era la cosa giusta da fare, continuava a ripetersi. Tornò in soggiorno e osservò con freddezza l’orologio alla parete. Erano le undici in punto. Ora di andare a lavorare. Telefonò a Masako. «Katori». Masako in persona, per fortuna. Yayoi respirò profondamente e disse: «Sono io, Yayoi Yamamoto». «Ah, sei tu, Yama-chan? Che c’è, non vieni a lavorare?» «Non so. Non so cosa devo fare». «Perché?» La voce di Masako era preoccupata. «È successo qualcosa?» «Sì», incominciò Yayoi, e poi, decisa: «L’ho ucciso». Dopo un breve silenzio Masako domandò quieta: «È la verità?» «Certo, la verità. L’ho appena strangolato». Masako tacque di nuovo. Il silenzio fu più lungo, quasi mezzo minuto, tuttavia Yayoi intuiva che l’amica non era spaventata, stava semplicemente pensando. Come per dimostrarlo Masako chiese infine, con voce ancora più calma: «E cosa vorresti fare?» In un primo momento Yayoi non comprese il senso della domanda e rimase muta. Masako continuò: «Voglio dire tu che cosa vuoi fare? Ti aiuterò». «Io? Io voglio semplicemente continuare a vivere come prima. I bambini sono ancora piccoli…» Non fece in tempo a terminare la frase che gli occhi le si riempirono di lacrime. Finalmente
il nodo si era sciolto. Masako l’interruppe: «Ho capito. Ti raggiungo subito. Ma dimmi, qualcuno ti ha vista?» «Non lo so…» rispose, poi girò la testa e vide Milky che si era riparato sotto il divano. «Soltanto il gatto». «Ah, bene, il gatto», commentò la voce amichevole di Masako soffocando una risata. «A ogni modo aspettami». «Grazie». Yayoi depose la cornetta e si accovacciò sul pavimento. Le ginocchia le premevano sullo stomaco, ma ormai non sentiva più male.
6. Masako rimise a posto la cornetta, guardò la data sul calendario appeso alla parete ed ebbe l’impressione di vedere doppio. Era la prima volta che le girava la testa per l’emozione. La notte prima si era preoccupata per le condizioni di Yayoi, ma non avrebbe mai voluto essere costretta a mettere il naso negli affari degli altri. Eppure si era appena offerta di aiutarla. Aveva agito saggiamente? Masako si appoggiò con le mani alla parete finché non vide di nuovo chiaramente, quindi si voltò per assicurarsi che non ci fosse qualcuno nella stanza. Suo figlio Nobuki, che fino a poco prima era sdraiato sul divano del soggiorno a guardare la televisione, non c’era più. Doveva essersi ritirato nella sua camera al piano superiore senza che lei se ne accorgesse. Yoshiki, il marito, si era fatto una tisana per dormire ed era già andato a coricarsi, dunque non doveva temere che qualcuno avesse ascoltato la conversazione. Sollevata si mise a riflettere sul da farsi. Tuttavia non c’era tempo. Doveva agire rapidamente. Decise che avrebbe meditato sul problema mentre guidava. Strinse in mano la chiave dell’auto e urlò a Nobuki: «Vado a lavorare, sta’ attento a non dare fuoco alla casa!» Nessuna risposta. Masako sapeva che ultimamente Nobuki aveva cominciato a bere di nascosto e a fumare. Avrebbe dovuto tenerlo d’occhio. In estate avrebbe compiuto diciassette anni e non aveva la benché minima idea di che cosa voleva fare: nessuna prospettiva e nessuna passione. All’inizio della primavera era stato sorpreso a scuola con dei biglietti per un party. La direzione lo aveva accusato di aver cercato di venderli ai compagni e lo aveva espulso. Questa punizione esemplare era stata un trauma per il ragazzo, che si era rifugiato in un ostinato mutismo. Nessuno sapeva più come accedere al suo cuore. Probabilmente lui stesso era imbarazzato per lo spessore della porta che si era chiuso alle spalle, ma era passato il tempo in cui Masako aveva cercato disorientata una chiave che aprisse quella porta. Ora Nobuki lavorava come muratore senza perdere una giornata, e lei doveva accontentarsi. Quelli con i figli erano legami difficili, che non si potevano sciogliere neppure quando le cose andavano diversamente da come si era previsto. Masako si fermò davanti alla camera a lato dell’ingresso. Udì il lieve russare del marito oltre la porta di compensato. Da quando aveva preso l’abitudine di dormire in quella camera a nord che lei avrebbe voluto usare come ripostiglio? Masako rimase per qualche istante ferma in corridoio a pensare. Avevano incominciato a dormire in camere separate prima di traslocare in quella casa, quando lei era ancora impiegata nella vecchia ditta. Era ormai molto tempo che non le sembrava più innaturale, triste o strano che tutti e tre dormissero in stanze diverse. Yoshiki, suo marito, lavorava per un’impresa edile appartenente a un grande gruppo immobiliare e svolgeva un incarico di tipo commerciale. Il nome dell’azienda era famoso, ma in realtà la filiale era segnata dalla recessione e i dipendenti soffrivano di un forte complesso di inferiorità nei confronti della casa madre. Così le aveva spiegato una volta. Ma Masako non sapeva come gli andavano gli affari, perché lui storceva la bocca non appena lei accennava al suo lavoro. Il marito aveva due anni più di lei e si erano conosciuti al liceo. Lei amava la straordinaria bontà che gli era propria e che si poteva definire come una sorta di purezza del cuore. Yoshiki odiava ingannare o sopraffare il prossimo e non era adatto a quel tipo di lavoro. Infatti era ancora un semplice impiegato: da un pezzo aveva rinunciato alla carriera. Certamente soffriva di quella condizione, della propria incapacità di adattarsi al mondo. Nei giorni festivi tendeva a isolarsi nella sua camera come un eremita, un comportamento simile in qualche modo a quello del taciturno Nobuki. Masako se ne era accorta, e aveva incominciato a evitare di parlargli se non quando era strettamente necessario. Il figlio che era stato espulso dalla scuola e si era rinchiuso nel mutismo, il marito con la preoccupazione del lavoro, lei che aveva dovuto abbandonare il suo impiego ed era finita ai turni di
notte: ciascuno di loro era costretto ad affrontare la realtà e a portare il proprio fardello da solo, così come da soli dormivano nelle loro stanze. Yoshiki non aveva mai espresso la propria opinione sul fatto che lei avesse accettato quel lavoro part-time nello stabilimento dopo avere cercato a lungo e inutilmente un altro impiego. Masako sapeva che non era il coraggio quello che gli mancava: aveva semplicemente smesso di combattere e aveva invece incominciato a costruire un bozzolo in cui rinchiudersi. Un bozzolo in cui Masako stessa non poteva entrare. Le dita del marito, che da lungo tempo non la sfioravano più, lavoravano senza sosta per costruire una fortezza. La sua inclinazione a escludere dalla propria vita la moglie e il figlio, come se appartenessero al mondo esterno, feriva profondamente Masako. Se non riusciva neppure a gestire la propria situazione familiare, perché si impicciava degli affari di Yayoi? Scontenta di sé aprì la sottile porta del vestibolo e uscì. Faceva molto più fresco della notte precedente, e una luna rossa era sospesa nel cielo. Masako lo interpretò come un cattivo presagio e distolse lo sguardo. Poco prima Yayoi aveva ucciso il marito. Non era forse inequivocabilmente un cattivo presagio? La Corolla era posteggiata nello stretto spazio sotto il portico della piccola casa. Masako scivolò agilmente nello spazio lasciato libero dalla portiera che non si apriva del tutto, e mise in moto. Nel silenzio della notte il rombo del motore sembrò risuonare più forte del solito nel quartiere circondato da campi. Più che le eventuali lamentele per il rumore da parte dei vicini, la preoccupavano le chiacchiere che sarebbero circolate perché era uscita così tardi. La casa di Yayoi era abbastanza vicina allo stabilimento, a Musashi-Murayama. Prima di posteggiare come al solito nel parcheggio della fabbrica, avrebbe dovuto avvicinarsi di nascosto alla casa dell’amica. Improvvisamente si ricordò dell’appuntamento con Kuniko. Avevano stabilito di trovarsi ogni sera alle undici e mezza al parcheggio, per proseguire a piedi insieme fino allo stabilimento. Oggi sarebbe arrivata in ritardo. Sperava soltanto che Kuniko, sospettosa e intuitiva com’era, non fiutasse qualcosa. Ma era inutile arrovellarsi così: forse i vicini sapevano già che cosa era accaduto nella casa degli Yamamoto e forse Yayoi era già andata dalla polizia. Inoltre poteva anche darsi che si fosse inventata tutto. Masako premette a fondo l’acceleratore. Dal finestrino dell’auto entrava il dolce profumo dei cespugli di gardenia lungo la strada, per poi dileguarsi in un baleno nel buio. Anche la sua compassione per Yayoi stava dileguando, e a tratti le balenava nella mente l’espressione “fastidio”: che cosa pretendeva l’amica da lei? L’avrebbe guardata in faccia e poi avrebbe deciso se aiutarla o meno. Davanti al muro di cemento all’angolo del vicoletto in cui abitava Yayoi scorse un’ombra bianca. Una donna. Masako frenò immediatamente. «Masako-san!» la chiamò Yayoi disperata. Indossava una polo bianca e dei jeans troppo larghi. La maglietta bianca spiccava nel buio della notte e la faceva sembrare così fragile e bisognosa di aiuto che Masako dovette deglutire. «Cosa fai qui?» «È scappato il gatto!» Yayoi, in lacrime, era ferma accanto all’auto. «I bambini gli sono così affezionati, ma adesso ha paura di me, perché ha visto che cosa ho fatto, ed è scappato!» Masako tacque e si premette l’indice sulle labbra. Finalmente Yayoi sembrò capire e si guardò intorno. Le dita appoggiate al finestrino dell’auto tremavano impercettibilmente. Nell’attimo in cui se ne accorse Masako decise di aiutarla a uscire dai pasticci. Riprese a guidare lentamente osservando dal finestrino le case intorno. Erano le ventitré di un giorno lavorativo e nella maggior parte delle abitazioni brillavano soltanto le tenui luci delle camere da letto. Regnava un grande silenzio. La notte era fresca e molte finestre erano aperte, segno che l’aria condizionata non era stata messa in funzione. Bisognava fare attenzione ed evitare i rumori. Yayoi portava i sandali e Masako era preoccupata per il ticchettio dei suoi passi.
La casa degli Yamamoto si trovava proprio in fondo al vicolo. Era a un solo piano, costruita circa quindici anni prima, piccola e brutta. E inoltre l’affitto era caro. Si sapeva che Yayoi e il marito avevano risparmiato per anni per potersene andare. Ma tutto ciò era ormai inutile. La gente a volte si comporta in modo strano, come spinta da un impulso ineluttabile, pensò Masako. Che cosa dunque aveva spinto Yayoi ad agire così? Si era forse infuriata per un tradimento del marito, a sua volta mosso da qualche strano impulso? Quelli erano i pensieri di Masako mentre scendeva dall’auto senza fare rumore e guardava l’amica arrivare di corsa. «Non ti spaventare adesso, va bene?» disse Yayoi, improvvisamente riluttante, aprendo la porta di casa. Non alludeva a ciò che aveva fatto, bensì alla vista che si offriva subito dietro la porta. Kenji giaceva esanime afflosciato su se stesso, la cintura di pelle marrone stretta ancora intorno al collo, la lingua che spuntava tra le labbra, gli occhi semiaperti e la faccia di un pallore cadaverico. Masako, che aveva temuto di non reggere allo shock, fu stupita dalla propria reazione fredda e tranquilla quando si trovò di fronte al cadavere. Forse perché non aveva mai conosciuto di persona Kenji, il suo corpo senza vita non le sembrava altro che quello di un uomo immobile, dal viso stranamente rilassato. Soltanto non riusciva ad abituarsi all’idea che Yayoi, che tutti consideravano una moglie esemplare e una madre amorevole, fosse diventata un’assassina. «È ancora caldo», Yayoi sfiorò con la mano la gamba che spuntava dai calzoni rimboccati. Come per sincerarsi che fosse davvero morto gli passò più volte la mano sullo stinco. «È proprio vero», commentò con voce cupa Masako. «Credevi che ti avessi raccontato una bugia? Sai che non sono capace di mentire!» Yayoi sorrise e il suo sorriso contrastava con la cupezza di Masako. O forse non aveva sorriso, forse era solo una smorfia. «E adesso cosa vuoi fare? Davvero non vuoi costituirti?» «No», Yayoi scrollò risoluta la testa, «forse sono impazzita, ma non ho assolutamente l’impressione di aver fatto qualcosa di male. Mi sembra giusto che sia morto. Se l’è meritato. Perciò ho deciso che lui non è tornato in casa, che è sparito da qualche parte». Masako meditò e guardò l’orologio. Erano quasi le ventitré e venti. Prima delle ventitré e quarantacinque dovevano essere in fabbrica. «C’è molta gente che sparisce e non torna più. Ma davvero nessuno lo ha visto rincasare?» «Non credo. Tra qui e la stazione non c’è mai nessuno per strada». «Ma se prima di tornare avesse telefonato a qualcuno? Per te sarebbe finita». «Potrei sempre dire che però non è tornato a casa», ribatté ostinatamente Yayoi. «Sì? Sei sicura di poter continuare a fingere anche quando ti interrogherà la polizia?» «Certo, vedrai. Te lo dimostrerò. Perciò…» annuì Yayoi sgranando gli occhi. Aveva un volto così incantevole, non si sarebbe detto che aveva già trentaquattro anni. Forse davvero nessuno avrebbe sospettato di lei. Però la posta era troppo alta per scommetterci sopra. Masako continuava a rimuginare dubbiosa: «Perciò cosa? Che cosa hai in mente?» «Per ora lo potrei nascondere nel tuo bagagliaio e poi…» «E poi?» «Domani andrò a gettarlo da qualche parte». Non c’era altra soluzione. Volente o nolente Masako dovette acconsentire. «Va bene. Ti aiuto a portarlo fuori, abbiamo poco tempo e dobbiamo sbrigarci». «Grazie. Troverò il modo di ricompensarti». «Non mi importa del denaro». «Perché? Allora perché fai tutto questo per me?» domandò Yayoi infilando le braccia sotto le ascelle di Kenji. «Mah, ci penserò più tardi». Masako afferrò per le caviglie l’uomo che era stato marito di Yayoi. Benché non fosse più alto
di lei – un metro e sessantotto circa – Kenji era pesante. In due riuscirono a fatica a trascinarlo fuori dalla porta. La sua espressione rilassata e la testa abbandonata avrebbero potuto far pensare a un ubriaco che venisse aiutato a stare in piedi dalle due donne. La cintura ancora stretta intorno al collo strisciava per terra. Masako guardò in silenzio Yayoi che strappava la cintura e se l’allacciava intorno alla vita. «Non è rimasto niente di suo in casa? Qualcosa che aveva addosso, che so io?» «No, oggi era a mani vuote e indossava soltanto questi abiti». Gli piegarono le braccia e le gambe e lo sistemarono nel bagagliaio della macchina. Poi Masako disse a Yayoi: «Non possiamo assolutamente mancare dal lavoro. E tu devi crearti un alibi. Perciò lascerò l’auto al posteggio tutta la notte, okay? Poi in fabbrica penseremo a cosa farne». «Capito. Allora è meglio che io vada in bicicletta come sempre, o no?» «Certo, pensa solo che non è successo nulla». «Okay, allora ti posso affidare Kenji, Masako-san?» Da quando il cadavere era fuori di casa, Yayoi non era più così impaurita. Sul suo volto si poteva cogliere persino il sollievo di chi ha portato a termine un lavoro gravoso. Stava forse illudendosi che Kenji fosse semplicemente sparito all’improvviso dalla faccia della terra? Yayoi era irriconoscibile, e Masako ne prese atto con disagio. Salì in auto, si allacciò la cintura e quindi bisbigliò: «E smettila di sprizzare gioia da tutti i pori, se non vuoi che vada tutto per aria!» Yayoi si mise una mano sulla bocca, come se volesse soffocare l’orrore: «Davvero sembro così allegra?» «A essere sinceri, sì». «Ascolta piuttosto, Masako-san, che cosa devo fare adesso con il gatto? I bambini si dispereranno. Che guaio, cosa posso fare?» «Tornerà». Ma Yayoi scosse la testa con sicurezza e ripeté: «Che guaio, cosa posso fare?» Masako avviò l’auto e si lasciò velocemente alle spalle la casa di Yayoi. Dopo pochi metri incominciò a preoccuparsi del cadavere di Kenji nel bagagliaio. E se fosse stata fermata dalla polizia per un controllo o la avessero tamponata? Per lei sarebbe stata la fine! Questi pensieri avrebbero dovuto indurla a guidare con particolare prudenza e invece correva nella notte come se stesse scappando da qualcosa. In fondo al cuore sapeva che era il cadavere nel bagagliaio che la inseguiva. Adesso calmati una volta per tutte, cercò di convincersi. Finalmente arrivò al posteggio. La Golf di Kuniko era ferma al solito posto. Doveva essere già andata avanti per non arrivare tardi. Masako scese dall’auto, si accese una sigaretta e si guardò intorno. Quella notte, stranamente, non percepiva né l’odore di fritto né la puzza dei gas di scarico. Forse era solo troppo eccitata. Girò attorno all’auto e restò un attimo a fissare il cofano. Lì dentro c’era un cadavere che la mattina seguente avrebbe tolto di mezzo. Stava facendo cose che non si sarebbe mai immaginata. Il corso della sua vita, che aveva creduto di conoscere abbastanza bene, stava per cambiare completamente. Dopo che ebbe formulato questo pensiero, il senso di liberazione di Yayoi non le sembrò più incomprensibile. Masako controllò ancora una volta il portabagagli per accertarsi di averlo chiuso bene, poi – la sigaretta accesa tra le dita – si incamminò al buio lungo il sentiero. Le rimaneva poco tempo. Voleva che tutto fosse come sempre, per non attirare l’attenzione. Nel momento in cui affrettava il passo davanti allo stabilimento dismesso, spuntò improvvisamente dal buio un uomo con un berretto in testa e le afferrò il braccio. Masako si spaventò a morte. Si era completamente dimenticata dell’esistenza del maniaco. Tutto accadde talmente in fretta: ancora prima che riuscisse a gridare l’uomo la trascinò a forza
sotto la tettoia cadente ai margini del sentiero. «Mi lasci andare!» riuscì finalmente a urlare. La sua voce acuta parve lacerare la notte. L’uomo le chiuse in fretta la bocca con la mano destra e cercò di spingerla nel folto della boscaglia. Ma Masako era alta, gli diede una spallata e riuscì a scostare un poco la mano dalla bocca. Ne approfittò per agitare la borsetta ed evitare che l’uomo le tappasse di nuovo la bocca con la mano. Ma lui la teneva saldamente per il braccio sinistro e poteva farla cadere a terra da un momento all’altro. Non era alto come aveva detto Kuniko, ma era robusto e muscoloso, ed esalava un profumo speziato. «Che cosa vuole da me? Non ci sono abbastanza ragazze giovani in giro?» protestò furibonda e avvertì una leggera esitazione nella presa dell’uomo. Masako ora era sicura che si trattava di uno dei suoi compagni di lavoro e che la conosceva. Cercò di liberarsi dalla stretta e di raggiungere la strada. Lui però la riprese subito e la tirò di nuovo tra i cespugli. Lì intorno doveva esserci l’impianto di canalizzazione sotterraneo in cui scorreva un lurido fiumiciattolo. Ricordava che la copertura di cemento era rotta in più punti. Doveva stare attenta a non cadere in un buco. Tastando il terreno sotto i piedi continuava a spiare il volto dell’uomo. Non riusciva a individuarne i lineamenti, ma nel chiarore della luna rossa vedeva chiaramente i suoi occhi neri sotto il berretto. «Lei è Miyamori, no?» Aveva tirato a indovinare, ma l’uomo reagì con stupore. «Lei è Kazuo Miyamori, vero?» insistette Masako. «Se mi lascia andare non lo dirò a nessuno. Oggi non voglio arrivare in ritardo. Ci possiamo trovare un’altra volta. Davvero, dico sul serio». L’uomo non si aspettava quelle parole e rimase senza fiato. Sembrava valutare la proposta di Masako. «La prego, mi lasci andare», ripeté, «ci vedremo un’altra volta, solo noi due!» Allora l’uomo rispose in giapponese con un forte accento straniero: «Davvero? Quando?» Non si era sbagliata, era proprio la voce di Miyamori. «Domani notte, qui». «A che ora?» «Alle nove». Invece di rispondere l’uomo la strinse all’improvviso tra le braccia e la baciò. Schiacciata da quel corpo solido come una roccia, Masako stentava a respirare. Si dibatté con forza, si pestarono i piedi a vicenda e caddero battendo contro la saracinesca arrugginita della porta della fabbrica. Il rumore assordante spaventò l’uomo che si fermò e si guardò intorno impaurito. Masako colse l’occasione per sfuggirgli, raccolse la borsetta e corse via. Inciampò in una lattina di alluminio e, furiosa, si mise a imprecare: «Vatti a cercare una donna più giovane per i tuoi giochetti!» L’uomo la fissava inebetito, le braccia penzoloni. Masako si ripulì la bocca col dorso della mano e si avviò fra l’erba alta. «Ti aspetto domani!» La voce bassa dell’uomo sembrava implorante. Masako tastò il terreno con i piedi cercando la copertura di cemento del canale di scolo, la superò, arrivò alla strada e si mise a correre. Ma guarda cosa doveva capitarle! Mai avrebbe immaginato di essere aggredita proprio quel giorno, quando era sempre stata attenta! La rabbia per la propria imprudenza si mescolava all’ira, era da tanto tempo che non si sentiva prendere da un furore così cupo. E il maniaco era Kazuo Miyamori! Era irritata con se stessa anche perché la notte precedente si era fermata a salutarlo di sfuggita. Salì di corsa i gradini dello stabilimento riaggiustandosi i capelli con le mani. Komada, l’addetto all’igiene, stava per andarsene. «Buongiorno!» Komada, sorpreso dalla voce trafelata di Masako, si volse verso di lei e la incitò: «Si sbrighi. È l’ultima». Dopo averle passato il rullo sulla schiena Komada, contrariamente alle sue abitudini, sorrise:
«Ma dica, da dove viene? È piena di erba e di terra!» «Ero di corsa e sono caduta». «È caduta sulla schiena? Poveraccia. Si è anche ferita le mani?» Se si aveva anche il più piccolo graffio non si potevano toccare i cibi. Masako si esaminò in fretta le dita e i palmi: aveva le unghie sporche di terra, ma non era ferita. Sollevata scosse la testa. Non voleva assolutamente che si sapesse del suo scontro con il maniaco. Sorrise imbarazzata a Komada e si precipitò nello spogliatoio. Non c’era più nessuno. Indossò in fretta i pantaloni da lavoro e il camice bianco, prese il grembiule di plastica e la cuffia e andò in bagno. Si guardò allo specchio e notò una lieve traccia di sangue sul labbro. «Brutto porco!» borbottò tra sé e sé e si lavò con l’acqua fredda. Aveva anche un livido sul braccio sinistro, doveva essere stato quando Miyamori aveva cercato di trascinarla tra i cespugli. Voleva cancellare ogni traccia di quell’uomo sul proprio corpo. Avrebbe voluto spogliarsi per capire se ne aveva altre, ma non poteva tardare, doveva sbrigarsi a timbrare il cartellino. Cercò con tutte le forze di riprendere il controllo. «Ti aspetto domani», quelle parole le tornarono in mente e la fecero infuriare ancora di più. Sapeva che non avrebbe potuto denunciarlo. Uscita dal bagno si asciugò attentamente le dita e scese di corsa al piano inferiore. Timbrò il cartellino: ventitré e cinquantanove. Era riuscita ad arrivare appena in tempo, ma si era comportata in modo insolito, rischiando di attirare l’attenzione. Era furibonda anche con se stessa. Si accodò alla fila di operai che attendevano davanti alla porta proprio nell’attimo in cui cominciava la disinfezione delle braccia e delle mani. Yoshie e Kuniko si voltarono, la videro e la salutarono. Masako alzò la mano e fece un cenno con la testa. All’improvviso comparve Yayoi con la cuffia e la maschera, che le copriva la faccia in modo che non si poteva vedere la sua espressione, e disse piano: «Hai fatto tardi. Ero preoccupata». «Mi dispiace». «È successo qualcosa?» chiese Yayoi fissandola negli occhi. «No, niente. Tu piuttosto non avrai dei graffi sulle mani? Sai che altrimenti rimarrà registrato». «Tranquilla. È tutto okay». Yayoi guardò attraverso la porta dello stabilimento: sembrava un grande frigorifero. «Sai, adesso mi sento in qualche modo più forte». Tuttavia a Masako non sfuggì il lieve tremito della sua voce. «Cerca di dominarti. Non dimenticare che te la sei cercata». «Lo so». Si misero in coda per la disinfezione. Yoshie era già in piedi vicino al nastro trasportatore e continuava a voltarsi verso di loro per sollecitarle a raggiungerla. «A proposito», sussurrò Masako mentre si lavava scrupolosamente dal gomito alla punta delle dita sotto il forte getto d’acqua del rubinetto, «come pensi di sistemarlo?» «Non so», rispose Yayoi con sguardo assente, come se risentisse all’improvviso della stanchezza di quella notte. «È affare tuo e quindi cerca di farti venire un’idea!» concluse bruscamente Masako, dirigendosi verso Yoshie che l’attendeva alla catena di montaggio. Lanciò uno sguardo furtivo al gruppo di brasiliani in cuffia blu, ma non vide Kazuo Miyamori. Era sicura che il maniaco fosse lui. «Ancora mille grazie per oggi», sussurrò Yoshie accogliendola con un inchino. Masako la guardò sorpresa: «E di che?» «Ma come? Non ricordi che mi hai prestato il denaro? Sei anche venuta a portarmelo a casa. È stato davvero un grande aiuto! Te lo restituirò appena mi daranno lo stipendio». Yoshie le diede una leggera gomitata sul fianco e le passò il foglio di istruzioni: “Costolette alla coreana, 850 porzioni”. Masako accennò un sorriso amaro: se ne era dimenticata, come se ciò che aveva fatto la sera precedente appartenesse a un passato ormai remoto. Era stata una giornata molto lunga. «Ma che cosa hai oggi?» le chiese Kuniko, che aveva approfittato del ritardo di Masako per
accaparrarsi astutamente il posto di distributrice dei contenitori. «Ah, mi spiace. Ho perso tempo prima di uscire di casa». «Ah sì? Strano, prima di uscire ti ho telefonato». «Non ha risposto nessuno, vero? Dovevo essere appena uscita». «Già. Ma ci hai messo un bel pezzo». «Ho perso tempo con le compere», rispose seccamente Masako e Kuniko finalmente tacque, ma la sua insistenza le aveva dato sui nervi. Doveva davvero stare in guardia, quella aveva un fiuto eccezionale! Yoshie si preparava ad azionare la macchina che distribuiva il riso, ma Masako si accorse che ogni tanto lanciava delle occhiate a Yayoi, ferma all’estremità del nastro trasportatore. Se ne stava lì imbambolata, col camice bianco della notte precedente ancora macchiato di salsa. «Che cosa vi è capitato?» domandò Yoshie. «Perché?» «Mah, la piccola è stralunata e tu sei in ritardo…» «Era così anche ieri. Piuttosto vedi di avviare il lavoro, maestra, prima che arrivi Nakayama». Masako prese il posto di chi sistemava la carne, mansione che tutte avevano evitato. Yoshie annuì, si rassegnò a interrompere l’interrogatorio e avviò il nastro. Il primo a passare fu il foglio con le istruzioni. Poi con un sordo rumore la macchina automatica incominciò a versare il riso. Dalla bocca d’acciaio cadde il primo blocco di riso pressato nel contenitore che Kuniko aveva passato a Yoshie. Il lungo, duro turno di lavoro era iniziato. Mentre Masako preparava le costolette fredde e raggrinzite separando e spianando le fette, avvertì lo sguardo di Yayoi e sollevò gli occhi: era di fronte a lei, al di là del nastro trasportatore, e la stava fissando. «Che c’è? Cosa vuoi?» «Ridotto così nessuno lo riconoscerà, non credi?» rispose indicando con lo sguardo le fettine di carne. Nei suoi occhi brillava un lampo di follia. «Zitta!» la interruppe a bassa voce Masako. Di nascosto guardò le operaie vicine, ma nessuno prestava attenzione ai loro discorsi. Scrutò Yayoi con espressione arrabbiata e lei parve subito intimorita. Prima le era sembrata troppo disinvolta, e invece era bastato uno sguardo per incupirla e farle spuntare le lacrime agli occhi. Masako si domandò perplessa se sarebbe stata in grado di affrontare le difficoltà che l’attendevano. Sarebbe diventato un problema anche per lei, dal momento che aveva deciso di aiutarla.
7. Lo stabilimento era come un armadio in acciaio inossidabile, dal cui interno era impossibile capire che tempo facesse fuori. Quando alle cinque e mezza il turno finalmente terminò e Masako poté salire al piano superiore strascicando stancamente i piedi, sentì l’operaia che la precedeva esclamare stupita: «To’, piove!» Subito le venne in mente la sua Corolla e il portabagagli sotto la pioggia scrosciante. Dovevano immediatamente decidere cosa fare. «Sei di corsa?» domandò Yoshie togliendosi la maschera e usandola per pulirsi le scarpe macchiate d’olio. «Perché?» le chiese a sua volta Masako cercando di eliminare con la maschera le macchie dalle scarpe da tennis che usava per lavorare. «Come perché? Hai un’espressione così angosciata!» La piccola, robusta Yoshie osservò con sguardo indagatore la compagna così diversa da lei. Ma Masako sistemò le scarpe nell’apposito armadietto sotto la finestra e si limitò a fissare il cielo grigio del mattino. La pioggerellina fine e delicata bagnava la pista di collaudo della fabbrica di automobili al di là della strada annerendo l’asfalto delle curve in forte pendenza. «È che incominci a preoccuparmi. C’è qualcosa che ti gira per la testa. Altrimenti cosa sono quelle rughe sulla fronte?» aggiunse Yoshie come se volesse farle un complimento. «Ho un impegno importante», borbottò Masako e rifletté. Yayoi aveva intenzione di eliminare in qualche modo il cadavere di Kenji subito dopo il lavoro, ma forse sarebbe stato meglio se fosse tornata a casa a interpretare la parte della moglie preoccupata. Ma allora doveva essere lei a occuparsi del cadavere. Era rassegnata a farlo, ma da sola non sarebbe mai riuscita a sollevarlo e a tirarlo fuori dal portabagagli. Masako fissò per un istante le sottili sopracciglia di Yoshie e quindi le disse decisa: «Maestra, devo chiederti un favore». «Per te qualsiasi cosa, lo sai! In fondo ti sono debitrice». Yoshie, che per carattere era incapace di rifiutare un favore, sembrava felice. Masako si mise in coda per timbrare il cartellino, rimuginando su come spiegarle cosa voleva da lei. Yayoi, trascinandosi per la stanchezza, stava ancora salendo. Kuniko invece era di sopra da un pezzo. Tipico! Anche lei pareva essersi accorta che c’era qualcosa fra lei e Yayoi. In un certo senso sembrava dispiaciuta di essere stata messa da parte. Yoshie raggiunse Masako mettendosi in fila accanto a lei. «Mi prometti che non lo dirai a nessuno?» chiese Masako calcando le parole. «Perché dovrei?» si indignò Yoshie. «Qual è il problema?» Masako timbrò il cartellino e rimase in silenzio a braccia conserte, come se non riuscisse a decidersi. «Te lo dico più tardi. A quattr’occhi». «Come vuoi», rispose tranquillamente Yoshie voltandosi a guardare il cielo dalla finestra. Era venuta in bicicletta e non aveva nessuna voglia di tornare sotto la pioggia. «E soprattutto mi raccomando di non parlarne con Kuniko». «Promesso». Yoshie doveva avere intuito che si trattava di una cosa importante, perché si chiuse nel silenzio. Attraversarono insieme il corridoio ed entrarono nella grande sala. Komada stava rimproverando Yayoi. «Signora Yamamoto, veda di lavarsi il camice. O vuole rallegrarci anche domani con questo puzzo di salsa?» «Sì, mi scusi», rispose docile Yayoi togliendosi il copricapo e liberando i capelli dalla reticella. Poi si diresse verso Masako. Aveva le occhiaie, ma sembrava ancora più bella del solito. Un ragazzo con i capelli tinti di biondo, probabilmente uno studente lavoratore, fissò affascinato il viso di Yayoi finalmente libero dalla maschera e dal berretto.
«Ascolta», le disse Masako tirandola in un angolo, «è meglio che tu torni subito a casa e ci rimanga tutto il giorno». «Ma…» «Di quello ci occuperemo io e la maestra. Ci faremo venire in mente qualcosa». «La maestra?» domandò Yayoi sbalordita lanciando uno sguardo allo spogliatoio in fondo alla sala. «Le hai raccontato tutto?» «Non ancora. Ma da sola non potrei trasportarlo. Se lei si rifiuterà dovrai essere tu ad aiutarmi. Ma una cosa è certa: sarai la prima a essere sospettata. Devi rimanere a casa e fare finta che non sia successo niente». Yayoi sospirò come se si fosse appena resa conto della situazione. «Già, hai ragione». «Allora torna a casa e comportati normalmente, come sempre. Verso mezzogiorno telefona all’ufficio di tuo marito e chiedi se è andato a lavorare. Quando ti diranno che non si è visto, gli spiegherai che questa notte non è tornato a casa e che sei molto preoccupata. E se ti dicono di denunciare la scomparsa fallo subito, chiaro? Altrimenti sarai subito sospettata». «Ho capito. Farò come dici». «E non mi telefonare. Se avrò bisogno di parlarti penserò io a mettermi in contatto». «Sì, Masako, ma che cosa hai in mente? Che cosa vuoi fare di lui?» «Quello che era venuto in mente a te. Ecco cosa farò». «Cooosa!?» In un attimo Yayoi aveva cambiato colore ed era diventata pallida come un morto. «Dici sul serio?» «Sì, o almeno ci proverò». «Grazie». Yayoi aveva di nuovo le lacrime agli occhi. «Ti ringrazio di cuore. Non avrei mai pensato che saresti stata disposta a fare tutto questo per me». «Non so se ci riuscirò, vedremo. In ogni caso mi sembra una soluzione migliore che non andare in un bosco, scavare una fossa e seppellirlo. Così rimarrebbe, potrebbero trovarlo. Non dobbiamo assolutamente lasciare la benché minima traccia». Che l’idea di Yayoi non fosse del tutto sballata lo aveva pensato quando, durante il turno, era andata alla toilette e aveva visto i grandi contenitori blu per la spazzatura, dove si gettavano gli ingredienti caduti per terra. «Ma così commetti un delitto. E sono io che ti spingo…» mormorò Yayoi afflitta. «Me ne rendo conto. E so anche che è un modo atroce di fare sparire un cadavere. Ma sembra essere il sistema migliore. Ovviamente se per te va bene e se puoi sopportare che tuo marito venga fatto a pezzi e gettato tra i rifiuti. Ti sta bene?» «Certo», annuì Yayoi storcendo la bocca in una smorfia che si sarebbe potuta scambiare per un sorriso. «È quello che si merita». «Sei sempre più inquietante», commentò Masako fissando l’amica. «Davvero, potresti terrorizzare qualcuno». «Anche tu!» «No, per me è un po’ diverso». «In che senso?» «Lo vedo come un lavoro che deve essere portato a termine». Yayoi la guardò perplessa: «Che razza di donna sei, Masako-san?» «Esattamente come te: ho un marito, un figlio, un lavoro, e sono sola». Yayoi chinò improvvisamente la testa e si mise a fissare il pavimento, forse per nascondere le lacrime. Sembrava che le spalle le si fossero incurvate sotto un peso intollerabile. «Adesso non metterti a piangere». Masako le batté una mano sulla spalla. «È tutto passato. Tu stessa ci hai dato un taglio». Yayoi annuì un paio di volte; Masako le appoggiò una mano sulla schiena e la spinse nella sala
dove Yoshie e Kuniko, che si erano già cambiate, stavano bevendo un caffè sedute l’una di fronte all’altra. Kuniko, che aveva una sottile sigaretta accesa a un angolo della bocca, le guardò sospettosa. «Va pure a casa, Kuniko. Devo parlare un po’ con la maestra». Kuniko scrutò Yoshie con aria indagatrice: «Mi volete tagliare fuori? Che cosa avete di così importante da dirvi che io non possa ascoltare?» «Soldi, si tratta di soldi. Mi serve un prestito». Kuniko non sembrava convinta, tuttavia si mise a tracolla la finta Chanel con la catenella dorata e si alzò: «Okay, allora scusatemi». Masako fece un cenno di saluto e sparì nello spogliatoio. Yoshie, che era abilmente riuscita a disfarsi di Kuniko, continuò a sorseggiare con gusto il caffè ben zuccherato dal bicchiere di carta. Masako si tolse velocemente la divisa, indossò i jeans e la polo, afferrò due grembiuli di plastica che da tempo non venivano più usati e li infilò in un sacchetto di carta. In fabbrica aveva preso anche qualche paio di guanti usa e getta e li aveva messi in tasca. Tornò nella sala con aria indifferente, sedette sul tatami che manteneva ancora il calore delle natiche di Kuniko e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Yayoi, che si era cambiata d’abito, fece per sedersi accanto a lei, ma Masako le suggerì con lo sguardo di andarsene subito. «Scusate, ma ho fretta». Yayoi si voltò più volte a guardare Masako e uscì dalla sala portando sulla schiena il peso di una grande inquietudine. Quando infine la sua sagoma sparì, Yoshie bisbigliò: «Allora fuori tutto: che cosa succede? Tutta questa segretezza mi ha già innervosito». «Ascolta, ma non ti spaventare». Masako la fissò dritto negli occhi. «La piccola ha ucciso suo marito». Yoshie spalancò la bocca: «…ma è terribile!» «Già. Ma ormai l’ha fatto e non si può tornare indietro. Perciò ho deciso d’aiutarla. Ti andrebbe di darmi una mano?» «Ma sei impazzita?» urlò Yoshie, poi si guardò intorno e abbassò la voce. «Dille che deve andare subito alla polizia e costituirsi, questo è quello che deve fare!» «Ma i bambini sono ancora così piccoli! E poi lui l’ha pestata e tutto il resto, e lei ha perso la testa. Un atto disperato. Guardala in faccia, non si sente colpevole». «Ma arrivare a uccidere…» Yoshie deglutì. «Tu stessa hai pensato più volte di uccidere tua suocera, maestra!» Masako la guardò e i suoi occhi sembravano sapere tutto. «Sì, è vero, ma c’è una bella differenza fra pensare una cosa e farla!» Yoshie trangugiò rumorosamente il caffè. «Sì, è diverso. Ma per qualche oscuro motivo qualcosa non ha funzionato con la piccola, e lei ha oltrepassato il limite. Pensi davvero che non possa succedere, maestra? Comunque credo di poter mettere a tacere tutto, in qualche modo». «Ma come, per amor di Dio?!» L’urlo di Yoshie sembrò un grido di aiuto. Gli altri operai che si erano fermati nella sala a chiacchierare si voltarono a guardare. Anche i brasiliani, come sempre radunati in un angolo con le spalle appoggiate al muro, interruppero i loro discorsi e la guardarono incuriositi. Lei si fece piccola piccola. «…è una follia. Pura e semplice follia». «Follia o meno, cercherò di farlo». «Ma perché te ne vuoi occupare tu? Che cosa ci guadagni a essere complice di un omicidio? Io non voglio avere niente a che fare con una cosa del genere!» «Non è complicità. In fondo non l’abbiamo ucciso noi». «Sì, ma l’eliminazione del cadavere o come si chiama…»
«Credo trafugamento e distruzione di cadavere», commentò Masako mentre Yoshie, senza capire, si passava un paio di volte la lingua sulle labbra. «Di che cosa parli? Che cosa hai in mente?» «Lo voglio fare a pezzi e buttare via. Intanto Yama-chan potrà fingere di non saperne nulla. Suo marito semplicemente non è tornato a casa. E lei denuncerà la sua scomparsa». Yoshie scrollò la testa: «Senza di me. Io non riesco a fare una cosa del genere. Assolutamente». «Allora ridammi i miei soldi». Masako allungò la mano sul tavolo: «Ridammi immediatamente i miei ottantatremila yen». Yoshie, tormentata, si mise a rimuginare. Masako spense il mozzicone della sigaretta nel bicchiere vuoto. L’odore del tabacco si mescolò a quello dello zucchero e del caffè. Poi, con noncuranza, si accese un’altra sigaretta. Finalmente Yoshie sembrò aver preso una decisione: «Non posso ridarti i soldi. Quindi non mi resta che aiutarti». «Grazie. Sapevo che non mi avresti abbandonato, maestra». «Però…» Yoshie sollevò il viso con aria accusatoria, «lo faccio solo perché ti devo un favore. Io non ho alternative. Ma vorrei sapere perché tu ti esponi così per Yama-chan». «Già, non lo so neppure io. So solo che farei lo stesso anche per te». Quando uscirono quasi tutti gli altri operai se ne erano già andati. Era l’alba e piovigginava. Yoshie cercò l’ombrello nel portaombrelli davanti al portone. Masako non ne aveva uno e si sarebbe sicuramente bagnata andando al posteggio. «Allora, alle nove a casa mia». «Va bene, non mancherò». Yoshie si mise a pedalare sotto la pioggia con aria cupa. Masako rimase per qualche attimo a guardarla, quindi affrettò il passo verso il posteggio. In quell’attimo si accorse di un uomo fermo davanti a un gruppo di platani. Era Kazuo Miyamori. In jeans, T-shirt bianca e berretto nero se ne stava lì in piedi a capo chino. Teneva in mano un ombrello di plastica trasparente, che però non aveva aperto. «Chissà come si dice “porco schifoso” in portoghese!» lo insultò Masako passandogli accanto, mentre Kazuo la guardava imbarazzato. Lei non si preoccupò e andò avanti. Lui la seguì. «L’ombrello», disse porgendoglielo. «Non mi serve!» Masako diede un colpo all’ombrello che cadde sull’asfalto sconnesso. La strada lungo il muro grigio della fabbrica di automobili era deserta. Il tonfo dell’ombrello risuonò forte e Masako si accorse che Kazuo si rattrappiva un po’, come per ritirarsi in se stesso. L’espressione ferita del suo viso le fece venire in mente la notte precedente, quando Yayoi lo aveva ignorato e non aveva risposto al suo saluto. È ancora giovane, pensò Masako, e si girò verso Kazuo che la seguiva con aria smarrita, come se non sapesse dove andare, e la sua gioventù le diede fastidio. Gli occhi neri e luminosi sotto il berretto avevano lo stesso sguardo di quando, poche ore prima, erano stati illuminati dalla luna rossa. «Smettila di seguirmi!» «Scusi». Kazuo la aveva superata e ora stava davanti a lei, le mani sul petto robusto. Capì che lui voleva esprimere la sua accorata costernazione, ma finse di ignorarlo e svoltò a destra. La strada era quella dello stabilimento abbandonato, dove soleva stare in agguato il maniaco. Sentiva che Kazuo la seguiva ancora. Provò una sensazione di fastidio e cercò di respingere il ricordo della notte. «Verrà stasera?» «Figuriamoci!» «Ma…» Masako si mise a correre per allontanarsi, lanciando uno sguardo alla porta di scarico dei
camion dello stabilimento abbandonato che incombeva alla sua destra. La saracinesca marrone arrugginita contro cui l’aveva spinta Kazuo non sembrava minimamente ammaccata e risplendeva lucida di pioggia. Anche l’erba calpestata si era rialzata rigogliosa come se non fosse successo niente. Il fatto che nulla fosse cambiato la fece infuriare al calor bianco. Riaffiorarono in lei il senso di umiliazione e la rabbia verso se stessa. Si fermò e attese che Kazuo la raggiungesse. Era fuori di sé dall’ira. Kazuo, l’ombrello in mano, la guardò in faccia e rimase lì come impietrito. «Ascoltami bene: la prossima volta chiamerò la polizia! E ti farò anche licenziare, hai capito?» Kazuo annuì, come se si sentisse sollevato, e alzò il viso dal colorito scuro. Aveva un’espressione perplessa: doveva avere una gran paura di essere denunciato. «Non ti montare la testa. Non ti ho affatto perdonato», concluse bruscamente Masako e se ne andò. Lui non la seguì più. Arrivata al posteggio volse finalmente la testa. Kazuo era rimasto impietrito lì dove l’aveva lasciato. Idiota! avrebbe voluto gridare, ma riuscì a controllarsi e lentamente cercò con lo sguardo la Corolla, meditando se era proprio a lui che voleva rivolgere l’insulto. Naturalmente l’automobile era nel luogo esatto in cui l’aveva posteggiata la sera prima. Immaginò il corpo esanime nel bagagliaio, e le parve strano che fosse giunta l’alba e stesse piovendo. Era come se quel giovane egoista che le aveva appena chiesto affannosamente scusa esistesse al solo scopo di ricordarle la presenza del cadavere nel portabagagli. Oggetto della sua invettiva erano soltanto quel cadavere immobile e lei stessa, che si era lasciata coinvolgere in quella storia. Masako aprì il portabagagli chiuso a chiave. Sollevò un po’ lo sportello e lanciò uno sguardo furtivo. Scorse i pantaloni grigi e uno stinco peloso. Proprio il punto che Yayoi aveva toccato dicendo che era ancora caldo. La pelle era color cenere e i peli secchi e sporchi sembravano cimature di fili. È una cosa, nient’altro che una cosa, borbottò Masako chiudendo il portabagagli.
Il bagno
1. Masako si fermò davanti alla porta del bagno 5 e rimase ad ascoltare il rumore della pioggia oltre la finestra. Nobuki, che aveva fatto il bagno per ultimo, si era preoccupato di mettere in ordine: aveva scaricato l’acqua e chiuso la vasca con i coperchi di plastica. Benché pareti e pavimento fossero già completamente asciutti, nel locale aleggiava ancora il profumo dell’acqua calda. Il profumo del tepore e della pace di una famiglia. Masako obbedì all’impulso di aprire la finestra per fare entrare l’aria pesante e afosa dell’esterno. Quella piccola casa le aveva già richiesto diverse cose. Di pulirla anche negli angoli più nascosti, strappare le erbe del minuscolo giardino, cancellare l’odore di fumo stantio e restituire a rate il denaro dell’ingente mutuo. E tuttavia non era mai riuscita a considerarla la propria casa. Perché continuava a sentirsi un’estranea, una semplice inquilina? Perché non riusciva a trovare pace? Quando aveva lasciato il parcheggio con il corpo di Kenji nel portabagagli, Masako aveva già preso da tempo la sua decisione. Ne era prova la risolutezza con cui appena entrata in casa si era diretta subito al bagno, per analizzare in tutti i dettagli come portarvi il cadavere e iniziare le operazioni. Era un programma folle, che tuttavia la stimolava come una sfida con se stessa e la sua capacità di affrontare la situazione. Scese a piedi nudi i bassi gradini della vasca piastrellata e provò a sdraiarsi sulla schiena. Kenji era alto più o meno come lei. Se lo metteva in diagonale ci sarebbe stato senza problemi. Cinicamente pensò che Yoshiki aveva avuto una bella idea a costruire un bagno così grande. Godendosi il fresco delle piastrelle asciutte sulla schiena, alzò lo sguardo alla finestra. Il cielo era tutto grigio, senza profondità. Ricordò la faccia di Miyamori bagnata di pioggia, si rimboccò la manica sinistra e guardò il livido sul braccio. Doveva essere stato il pollice di Kazuo. Nessun uomo l’aveva mai stretta così forte da lasciarle il segno. «Ehi, che stai facendo?» la chiamò una voce dalla penombra. Si sedette e vide il marito in pigiama che la scrutava fermo nello spogliatoio. «Che cosa stai facendo qui?» le domandò di nuovo. Masako si rialzò in fretta, risistemò la manica della maglietta e lo guardò in faccia. Doveva essersi appena alzato, i capelli erano tutti arruffati e non si era ancora messo gli occhiali. Strizzava le palpebre cercando di metterla a fuoco. «Niente di speciale. Pensavo di fare una doccia». Era una misera bugia e il marito lanciò uno sguardo dubbioso alla finestra. «Oggi non fa caldo. Sta piovendo». «Ho sudato in fabbrica». «Va bene, fa’ quel che ti pare. Per un istante ho pensato che fossi impazzita». «Perché?» «Te ne stavi ferma al buio. Mi chiedevo cosa stessi facendo e all’improvviso ti butti per terra. Uno si può anche spaventare!» Masako provò una sensazione di fastidio al pensiero di Yoshiki che la osservava in silenzio senza che lei se ne accorgesse. Negli ultimi tempi accadeva sempre più spesso che lui guardasse lei e Nobuki con aria distaccata. Il suo modo di prendere le distanze era una forma di difesa, una sorta di barriera invisibile che erigeva tra sé e il resto del mondo. «Avresti potuto dire qualcosa». Il marito alzò le spalle senza rispondere. Masako uscì dal bagno e scivolò nello stretto spazio tra Yoshiki e la lavatrice senza neppure sfiorarli. «Vuoi fare colazione?» Non udì la risposta, ma andò ugualmente in cucina e versò
rumorosamente i grani di caffè nel macinino. Come al solito avrebbe preparato fette di pane tostato e uova strapazzate. Era passato molto tempo da quando in cucina si sentiva il profumo emanato dal bollitore automatico del riso. Da quando aveva smesso di preparare la scatola per la colazione di Nobuki, non cuoceva più grandi quantità di riso al mattino. «Che malinconia la pioggia!» borbottò dopo aver dato uno sguardo fuori dalla veranda. Non si trattava solo del tempo, ma anche dell’atmosfera della casa, pensò. Starsene uno di fronte all’altro in un mattino piovoso senza la televisione o la radio accesa la faceva quasi soffocare. Masako si massaggiò con tutte e due le mani le tempie dolenti per la mancanza di sonno. Yoshiki trangugiò in un sorso il caffè e aprì il giornale. Dalle pagine cadde un opuscolo pubblicitario in carta patinata. Masako lo aprì e incominciò a leggere le offerte di un supermercato. «Cosa hai fatto al braccio?» Masako sollevò lo sguardo mostrando di non capire. «Il braccio. Il tuo braccio. C’è un livido», disse Yoshiki indicando il suo braccio sinistro. Tra le sopracciglia di Masako si formarono tante piccole rughe verticali. «Ho preso una botta in fabbrica». Non capì se era soddisfatto della risposta, comunque non fece altre domande. In bagno, esaminando il livido, aveva pensato alle dita di Miyamori. Yoshiki, sensibile com’era, poteva avere qualche dubbio. Ma non chiese niente. Non voleva sapere nulla. Rassegnata Masako si accese una sigaretta. Il marito, che non fumava, si voltò di lato con aria insofferente. Udirono un rumore di passi precipitosi giù per le scale. Yoshiki contrasse impercettibilmente i muscoli e si irrigidì e lei guardò verso la porta. Nobuki entrò in sala da pranzo. Più che indossare gli pendevano addosso sciattamente una Tshirt troppo lunga e dei bermuda decisamente fuori taglia. In lui non c’era più traccia dell’irruenza giovanile che lo aveva animato un attimo prima, mentre scendeva le scale. Masako conosceva bene la sua abilità nell’indossare da un momento all’altro la sua maschera mortuaria. Solo lo sguardo scintillava tagliente, come se volesse urlare la sua avversione nei confronti di tutti e di tutto, mentre la grande bocca era serrata in un ostinato silenzio. Se non fosse stato per l’espressione di caparbia determinazione, il suo viso era identico a quello del padre da giovane. Nobuki marciò diritto verso il frigorifero, aprì la porta, prese una bottiglia di acqua minerale e se la portò alla bocca. «Prendi un bicchiere», lo riprese Masako, ma lui la ignorò e continuò a bere. Masako fissò il pomo d’Adamo del figlio – ormai chiaramente visibile – che si muoveva in su e in giù, e non riuscì più a trattenersi: «Anche se sei muto non sei sordo!» Istintivamente si alzò e cercò di strappargli di mano la bottiglia, ma lui, senza una parola, la allontanò con una gomitata. Il colpo le fece male, perché ormai Nobuki era cresciuto parecchio in altezza e, lavorando in cantiere, si era anche irrobustito. Masako indietreggiò e andò a sbattere contro il lavandino, mentre il ragazzo, senza cambiare espressione, richiudeva flemmatico la bottiglia e la rimetteva in frigo. «Se non vuoi parlare taci pure, ma smettila di comportarti come se fossi il solo qui dentro!» Nobuki fece una smorfia annoiata e la guardò con fastidio. Improvvisamente le sembrò un estraneo, e per di più un estraneo che non le era simpatico. Quasi senza accorgersi gli diede uno schiaffo sulla guancia. Per un istante le sue dita premettero sulla carne tesa e soda – non era più la guancia delicata del suo bambino. La mano con cui l’aveva colpito le faceva male. Costernata rimase lì in piedi, come impietrita, e Nobuki le passò davanti, chiudendosi velocemente in bagno. Non una sola parola era uscita dalle sue labbra. Che cosa si aspettava? Quello che faceva o diceva era del tutto inutile, come versare acqua in un deserto sotto un sole implacabile. Masako si contemplò il palmo arrossato della mano destra e si voltò verso il marito che, come prima, se ne stava seduto immobile, gli occhi fissi sul giornale, come se Nobuki non esistesse proprio.
«Lascialo stare. Non serve a niente». Evidentemente Yoshiki aveva deciso di ignorare il figlio finché non fosse tornato in sé. Era talmente concentrato nella sua ricerca spirituale da provare un acuto senso di irritazione davanti a una persona immatura come Nobuki. E il ragazzo da parte sua non l’aveva mai perdonato per non averlo appoggiato quando aveva avuto quei problemi con la scuola. Tutti e tre continuavano a vivere isolati, ognuno per conto proprio. Davvero uno si sarebbe potuto chiedere perché stavano ancora sotto lo stesso tetto. Chissà come avrebbero reagito quei due se avesse confidato loro di avere un cadavere nel bagagliaio. Chissà se Nobuki si sarebbe finalmente lasciato sfuggire un’esclamazione di stupore. O se il marito, finalmente scosso, le avrebbe dato uno schiaffo. No, semplicemente non le avrebbero creduto. All’improvviso Masako seppe con sicurezza che era stata proprio lei quella che più si era allontanata dalla famiglia, quella che aveva fatto i passi più lunghi. Ma questa consapevolezza non la fece sentire né triste né sola. Quando finalmente Yoshiki e Nobuki uscirono per andare a lavorare, la casa tornò tranquilla. Masako finì di bere il caffè e si sdraiò sul divano del soggiorno per fare un sonnellino. Ma non riuscì ad addormentarsi. Suonarono alla porta. «Sono io», annunciò Yoshie con voce esitante. Aveva quasi creduto che non si sarebbe fatta vedere, ma Yoshie era una donna di parola. Masako le aprì la porta. La maestra, che indossava gli stessi fuseaux con le borse alle ginocchia e la stessa scolorita T-shirt rosa del mattino, lanciò uno sguardo impaurito in casa. «Non è qui. È nel portabagagli», disse Masako indicando l’auto posteggiata accanto all’entrata. Yoshie si girò terrorizzata. «No, davvero non posso. Con la migliore volontà. Ti prego, lasciami andare!» disse entrando in casa e cadendo in ginocchio davanti a Masako. Lei la guardò, rannicchiata sul pavimento come un rospo, la permanente che aveva bisogno di essere rifatta. Non era particolarmente sorpresa, in qualche modo aveva messo in conto questa reazione. «E se ti dicessi che non puoi rifiutare, cosa faresti? Andresti dalla polizia?» Yoshie sollevò il viso e la guardò. Era pallida come un cadavere: «No», rispose scuotendo la testa, «non lo farò». «Ma non puoi restituirmi il denaro, vero? Vale a dire che, benché ti abbia aiutato a pagare la gita scolastica di tua figlia, tu ti rifiuti di fare qualcosa per me l’unica volta che ti chiedo un favore!» «Sì, ma… non è un favore come tanti. Tu mi vuoi fare diventare complice di un omicidio». «Maledizione, è l’unica cosa che ti chiedo!» «Ma è un omicidio!» «Ah, e qualsiasi altra cosa andrebbe bene? Furto o rapimento, per esempio? E dove sta la differenza?» Masako si chiuse nei suoi pensieri e Yoshie sgranò gli occhi confusa e stupita. Poi increspò le labbra in un timido sorriso. «Ma c’è una differenza abissale, lo sanno tutti!» «Come? Chi lo dice?» «Nessuno in particolare, ma nella società umana è semplicemente così!» Masako la osservò in silenzio. L’amica guardava a terra e tentava di sistemarsi con le mani i capelli scomposti. Lo faceva sempre, quando era imbarazzata. «Okay, capisco. Ma almeno aiutami a portarlo dentro. Da sola non ce la faccio a trasportarlo fino in bagno».
«Ma io devo tornare subito a casa…, mia suocera si sarà svegliata!» «Non ci vorrà molto tempo». Masako infilò i sandali del marito e uscì. Pioveva ancora, quindi i passanti erano rari. Inoltre gli operai del cantiere di fronte sembravano essere in pausa, si vedeva solo il mucchio di argilla rossa che avevano scavato. La casa di Masako era strettamente affiancata da altre due abitazioni, ma la sua porta di entrata non era visibile perché si trovava in un angolo morto. Le chiavi della macchina strette in pugno, Masako scrutò velocemente intorno. Sulla strada non c’era anima viva – adesso o mai più. Ma Yoshie non si decideva a uscire. Irritata Masako le gridò: «Che cosa c’è adesso? Mi aiuti sì o no?!» «Soltanto a trasportarlo…» disse Yoshie e uscì riluttante. Masako afferrò un telo di plastica blu che aveva già preparato davanti alla porta. Yoshie continuava a indugiare sotto il porticato. Masako andò alla macchina e aprì il portabagagli. «Oh!» esclamò dietro di lei Yoshie con voce strozzata. Aveva guardato da dietro le sue spalle e visto il cadavere di Kenji, il viso flaccido, gli occhi semiaperti. La saliva, colata fuori dalla bocca in un rivoletto sottile, si era seccata sulla guancia. Braccia e gambe erano rigide, le ginocchia leggermente piegate e le braccia sollevate, con le dita contratte come se avesse cercato di afferrare qualcosa. Il collo, allungato in modo innaturale, mostrava chiaramente i segni rossi dello strangolamento. Masako si ricordò di come Yayoi, la sera prima, aveva sfilato la cintura dal collo di Kenji e se l’era rimessa intorno alla vita. Dietro di lei Yoshie borbottava qualcosa. «Cos’hai detto?» chiese girandosi verso di lei. Yoshie aveva le mani giunte davanti al petto. Alzò un po’ la voce continuando a ripetere: «Namu Aminabutsu, Namu Aminabutsu…» Stava pregando il Buddha. Masako le diede un colpetto sulle mani: «Lascia perdere, attirerai l’attenzione! Aiutami piuttosto a portarlo velocemente in casa». Senza badare all’espressione torva di Yoshie, avvolse con cura il cadavere nel telo di plastica e lo afferrò sotto le ascelle. Con uno sguardo le fece cenno di sbrigarsi. Yoshie lo prese con riluttanza per i piedi e incominciò a tirare. Scambiandosi istruzioni a bassa voce riuscirono a farlo uscire dal portabagagli. Il corpo era rigido, per cui non era difficile da trasportare, ma il suo peso e la posizione che aveva assunto complicavano l’operazione. Le due donne procedevano barcollando. Per fortuna fino alla porta c’erano solo un paio di metri e in breve oltrepassarono la soglia. Senza fiato Masako ordinò: «Fino in bagno, maestra!» Yoshie si tolse le scarpe di tela in ingresso e salì il gradino: «Dov’è?» «Lì davanti, in fondo». In corridoio dovettero fermarsi diverse volte e posare il cadavere per riprendere fiato, ma alla fine riuscirono a portarlo nello spogliatoio. Masako tirò via il telo di plastica e lo stese sul fondo della vasca, perché non voleva che rimanessero tracce nelle fughe delle piastrelle. «Dai, mettiamolo qui!» Yoshie annuì subito, come se avesse rinunciato a opporre resistenza. Lo sollevarono di nuovo e, come aveva progettato Masako, lo adagiarono sul fianco in diagonale, la stessa posizione che aveva avuto nel portabagagli. «Poveraccio, mi dispiace davvero per lui! Una così brutta fine! Di sicuro non gli sarà mai passato per la testa di venire ammazzato proprio dalla moglie, cosa ne pensi? Speriamo che la sua anima trovi pace e possa raggiungere il nirvana senza dover vagare senza fine di qua e di là!» «Già, chi può dire?» «Sei veramente senza cuore!» la biasimò Yoshie. Il tono della voce rivelava che si era un po’ calmata. Masako ne approfittò per chiedere un altro favore: «Vado a prendere le forbici per tagliare i
vestiti. Aiutami a spogliarlo, okay?» «Va bene, e poi?» «Lo taglio a piccoli pezzi e lo butto via». Yoshie tirò un profondo respiro, ma la voce rimase tranquilla: «Credo che abbia qualcosa in tasca». «Sì. Il portafoglio o la tessera dell’abbonamento, forse. Da’ un’occhiata, intanto». Quando Masako tornò dalla camera da letto con le grandi forbici in mano, Yoshie aveva allineato sul gradino del bagno tutto quello che aveva trovato nella tasca di Kenji: un portafoglio di pelle nera dagli angoli logori, un mazzo di chiavi, la tessera dell’abbonamento, un po’ di spiccioli. Masako ispezionò l’interno del portafoglio. C’erano alcune carte di credito e trentamila yen in contanti. Le chiavi dovevano essere quelle della casa di Yayoi. «Dobbiamo far sparire tutto senza lasciare tracce». «E con i soldi cosa facciamo?» «Puoi tenerteli». «Ma sono di Yama-chan, no?» replicò Yoshie e borbottò: «Ma che vada bene ridarli… alla moglie che l’ha ucciso? No, sembrerebbe un po’ strano…» «Esattamente. Tieniteli tu, per il disturbo…» Sul volto di Yoshie apparve un’espressione di sollievo. Masako infilò il portachiavi, il portafoglio vuoto, le carte di credito, l’abbonamento e tutto il resto in un sacchetto di plastica. In quella zona vi erano molti campi e terreni abbandonati dove avrebbe potuto sotterrare quegli oggetti. Nessuno se ne sarebbe mai accorto. Yoshie, con espressione dolente, infilò gli spiccioli nella tasca dei pantaloni. Poi, commossa, mormorò: «Poveretto, l’ha strozzato con la cravatta ancora annodata», e si mise a sciogliere il nodo. Non era facile, perché era molto stretto. Masako perse la pazienza: «Lascia perdere, non c’è tempo per queste cerimonie! Qualcuno potrebbe rincasare in anticipo! Tagliala semplicemente con le forbici!» «Possibile che tu non abbia il minimo rispetto verso i morti?» si irritò Yoshie. «Ti comporti come un diavolo. Mai mi sarei aspettata questo da te, proprio mai!» «Rispetto per un morto?» rispose Masako togliendo le scarpe a Kenji e infilandole in un sacco. «Per me non è altro che una cosa, ecco cos’è!» «Una cosa? Ma che dici? È un essere umano!» «Era un essere umano ma adesso è soltanto una cosa. Ho deciso di considerarlo così». «Questo non è giusto!» Masako non aveva mai visto Yoshie così fuori di sé. La voce le tremava: «E allora la vecchia di cui mi occupo?» «Vive ancora e quindi è un essere umano». «No. Se quest’uomo è una cosa, anche mia suocera è una cosa. E anche noi siamo cose, tutti quanti. Non c’è alcuna differenza». Forse ha ragione, rifletté Masako, colpita dalle parole di Yoshie, e le venne in mente quello che aveva pensato il mattino, quando nel parcheggio aveva aperto il bagagliaio. Albeggiava, pioveva, lei viveva e, proprio perché viveva, continuava a cambiare. Invece il cadavere era rimasto uguale. Perciò aveva cercato di considerarlo solo una cosa. Forse per esorcizzare la paura… Yoshie continuò: «È proprio per questo che non è giusto pensare che un uomo è un uomo finché è vivo, e una cosa una volta morto. Questo è presuntuoso!» «Hai ragione. Ma mi è sembrato più facile». «Facile che cosa?» «Avevo paura, quindi ho cercato di dirmi che era solo una cosa. Ma forse va bene anche così, forse riesco a farlo anche se penso che è un essere umano esattamente come me». «Riesci a fare cosa?»
«A farlo a pezzi». «Ma per l’amor del cielo! Non riesco proprio a capire perché vuoi fare una cosa del genere!» urlò Yoshie. «Verrai punita! Verremo punite entrambe! La punizione divina cadrà su di noi! » «Non importa». «Come? Perché non ti importa?!» Perché voleva sapere quale sarebbe stata la punizione divina, perché voleva fare questa esperienza. Una come Yoshie non era semplicemente in grado di capire questo desiderio e il sentimento che l’aveva portata così lontano. Masako non rispose e incominciò a togliere i calzini neri dai piedi di Kenji. Sfiorò per la prima volta la pelle dell’uomo morto con la mano nuda: era talmente fredda che le venne un brivido. Chissà se sarebbe veramente riuscita a farlo a pezzi. Sarebbe uscito molto sangue, e anche le viscere, una situazione disgustosa. Improvvisamente le venne meno il coraggio del mattino, la volontà di mettersi alla prova. Aveva il cuore in tumulto, stava perdendo il senso della realtà. Riconobbe che guardare e toccare un morto era qualcosa di assolutamente contrario alla natura umana. Yoshie doveva avere pensato la stessa cosa, perché improvvisamente chiese, con un po’ timidezza: «Ascolta, mi fa ribrezzo toccarlo con le mani nude. Non hai dei guanti?» Masako si ricordò dei guanti usa e getta che si era procurata in fabbrica. Andò a prenderli e portò anche i due grembiuli di plastica. Yoshie nel frattempo aveva piegato accuratamente la cravatta e stava sbottonando uno a uno i bottoni della camicia di Kenji. Masako tese i guanti a Yoshie, si infilò l’altro paio e cominciò a tagliargli i calzoni lungo la cucitura. Ben presto Kenji fu completamente nudo. Aveva delle macchie violacee nei punti del corpo che avevano toccato il fondo del bagagliaio, dove il sangue si era fermato. Lo sguardo sul membro raggrinzito, Yoshie mormorò: «Sai, quando è morto mio marito, l’ho spogliato così e l’ho lavato. Forse Yama-chan dovrebbe vederlo ancora una volta, per un ultimo sguardo, l’ultimo saluto, voglio dire. Che sia veramente la cosa giusta andare avanti così?» Indugiava con il grembiule di plastica in mano. Masako era nauseata da tutto quel sentimentalismo: «Macché! È lei che ha voluto così. Se poi in futuro avrà dei rimorsi o che so io, questo è affar suo». Yoshie la guardò impaurita e trasse un lungo sospiro. Masako, infastidita, divenne ancora più crudele: «Prima di tutto gli staccheremo la testa. Non è bello dovere vederlo in fac cia. È fisicamente ripugnante». «Ripugnante… hai un bel coraggio!» «Avrei dovuto dire che la punizione divina ricadrà sulle nostre teste?» «Non proprio, però…» «Dai, allora mostrami che cosa sei capace di fare, maestra!» «Per amor del cielo, no!» Yoshie inorridì. «Non ne sono capace, te l’ho detto». Masako sapeva che dissezionare da sola il cadavere sarebbe stata un’impresa molto faticosa, per cui doveva assolutamente trovare il modo di convincere Yoshie ad aiutarla. Aveva un piano: «Yama-chan ha detto che si sarebbe sdebitata: potremmo avere del denaro. E allora, cosa te ne pare, mi aiuti?» Yoshie sollevò la testa stupita. Un’espressione imbarazzata si fece largo nel suo sguardo vuoto. Masako continuò: «Io ho rifiutato la sua offerta, ma a pensarci bene sarebbe meglio accettare. In ogni caso il pagamento rende la cosa più professionale». «Di che somma si tratta, più o meno?» chiese Yoshie a voce bassa, fissando con timore le pupille opache e sgranate di Kenji. «Quanto vuoi? Tratterò io per te». «Centomila?» «Troppo poco. Cosa pensi di cinquecentomila?»
«Se li avessi, forse potrei cambiare casa…» mormorò Yoshie. «Insomma, stai cercando di farmi abboccare, eh? Per questo mi sventoli i soldi sotto il naso, non è vero?» Proprio così. Tuttavia Masako non rispose, ma si limitò a chiedere ancora una volta: «Mi aiuterai, vero? Ti prego, maestra». «E va bene. Non mi lasci scampo!» Yoshie aveva un tale bisogno di denaro che smise subito di arrovellarsi. Indossò il grembiule di plastica, si tolse i calzini bianchi e si rimboccò in fretta i fuseaux. «Ci sarà sangue da tutte le parti. Meglio che ti togli i pantaloni». Masako ascoltò il consiglio, si liberò dei jeans e prese dei calzoncini dal cesto del bucato nello spogliatoio. Mentre li indossava si vide riflessa nello specchio: non riconosceva quello sguardo cupo e deciso. Si voltò a guardare Yoshie che, al contrario, aveva un’espressione confusa e imbambolata. Tornata in bagno ispezionò il collo di Kenji, cercando il punto in cui sarebbe stato più facile incominciare a segare. Suo malgrado lo sguardo si posò sul grosso pomo di Adamo e si ricordò di quello di Nobuki, che aveva notato quella mattina. Allontanò il pensiero e chiese a Yoshie: «Credi che sia meglio staccare la testa dal corpo con la sega?» «No, la sega si mangia la carne, meglio fare prima un’incisione con un coltello da pesce o da carne. Se non funziona penseremo a qualcos’altro». Yoshie, ormai convinta che si trattava di un lavoro come un altro, prese subito in mano le redini, come quando in fabbrica capeggiava la linea di produzione. Masako corse in cucina e prese il coltello più affilato e la scatola di attrezzi dove c’era la sega. Inoltre avevano bisogno di sacchetti di plastica per la spazzatura. La cosa migliore sarebbe stata infilare nei sacchetti i pezzi via via che li tagliavano. Masako contò la sua scorta: ne aveva un centinaio. Li aveva comprati nel supermercato del quartiere, ma non avrebbero costituito una traccia, perché erano del tipo più comune, quelli raccomandati dalla città di Tokyo. «Per usare i sacchetti doppi, dobbiamo tagliarlo in cinquanta pezzi. Maestra, come è meglio incominciare?» «Per prima cosa dobbiamo segare le articolazioni, poi dobbiamo cercare di affettarlo in pezzi più piccoli possibile», rispose Yoshie esaminando la lama per capire se era ben affilata. Le mani le tremavano impercettibilmente. Masako tastò con le dita le vertebre del collo sotto il pomo di Adamo, vi posò decisa il coltello e tagliò. Arrivò subito all’osso e continuò a tagliare intorno: venne investita da un copioso fiotto di sangue nerastro. Sbigottita dalla grande quantità Masako indietreggiò: «Era la carotide?» «Può essere». In un baleno il telo di plastica fu pieno di sangue. Masako tolse veloce la reticella dal foro di scolo. Il liquido viscoso fluì via gorgogliando. Provò una strana sensazione al pensiero che il sangue di Kenji si sarebbe mischiato con l’acqua delle docce dei suoi familiari, che non avevano niente a che fare con tutto ciò. Le punte dei guanti si erano incollate e non riusciva più a muovere le dita. Yoshie cercò il tubo della doccia, lo collegò al rubinetto e le lavò le mani. Ma l’odore acre del sangue continuò a impregnare il bagno. Segare via la testa fu una cosa semplice. Cadde sul fondo con un tonfo sordo, e il corpo morto di Kenji divenne un oggetto dalla forma strana. Masako infilò un sacco di plastica dentro l’altro, vi imballò la testa e lo appoggiò sul coperchio della vasca. «È meglio se lo facciamo dissanguare», suggerì Yoshie sollevando le gambe del cadavere decollato. Il buco della trachea era vuoto, si scorgeva la carne rossa, mentre dalle arterie continuava a colare il sangue. A quella vista Masako pensò: questa è opera del demonio e noi siamo due demoni. Le si accapponò la pelle ma rimase stranamente calma. L’unica cosa che voleva era riuscire a terminare presto quel lavoro. Sapeva che, se si costringeva a seguire solo la successione delle operazioni, sarebbe riuscita a controllare anche la parte più scoperta dei suoi nervi, quella paralizzata dal terrore.
Con il coltello da pesce tagliò la carne intorno all’attaccatura delle gambe; la lama scivolava sullo strato di grasso giallo. «È esattamente come con un pollo», borbottò Yoshie. Arrivata al femore, Masako puntò il piede sinistro sulla coscia di Kenji e incominciò a segarlo come se fosse un tronco. Ci volle del tempo, ma riuscì a segare le gambe più facilmente di quanto non avesse immaginato. Le articolazioni delle spalle invece presentarono qualche difficoltà, perché non sapeva dove fare le incisioni. Inoltre la morte le aveva irrigidite e questo complicava la faccenda. Sulla fronte di Masako si formarono gocce di sudore. Yoshie era impaziente. «Se non ci sbrighiamo, mia suocera si sveglia!» «Lo so. Ma potresti anche aiutarmi un po’ di più a farlo a pezzi!» «Ma c’è una sola sega!» «Già, avrei dovuto dirti di portarne una da casa!» «In tal caso non sarei neppure venuta», rispose Yoshie stizzita. «Vero anche questo». Masako tentò di trattenersi dal ridere. Erano due sciocche. Stavano lì a stuzzicarsi con quelle idiozie mentre tagliavano a pezzi Kenji, col quale non avevano mai avuto nulla a che fare! Si guardarono per qualche istante, una di fronte all’altra, il cadavere tra di loro e le braccia grondanti di sangue. «Quando vengono a ritirare la spazzatura da voi?» «Il giovedì, cioè domani». «Anche da noi, per cui dobbiamo gettare via tutto domattina. Si può fare solo se tu ti prendi la metà dei sacchi». «Vuoi dire che devo tornare a casa con tutti i sacchi sul manubrio? Non posso portarli tutti!» «Ti porto a casa in macchina». «E allora tutti diranno che è arrivata una macchina rossa e ha scaricato un mucchio di sacchetti di immondizie. C’è sempre qualcuno che spia intorno alla spazzatura!» «È vero anche questo». Masako si accorse di non avere pensato alla difficoltà dello smaltimento dei sacchi e si morse le labbra. «Sbrighiamoci», la sollecitò Yoshie. «Penseremo poi a dove gettarli». «Va bene». Riprese la sega e incominciò a segare le articolazioni delle spalle. Dopo avere eliminato le braccia dovettero occuparsi delle viscere. Masako si fece coraggio, afferrò il coltello e squarciò il cadavere dalla gola fino al pube. Gli intestini grigio cenere penzolarono fuori e immediatamente la puzza delle viscere che incominciavano a marcire e dell’alcol che aveva bevuto Kenji la sera prima riempì la stanza. Le due donne trattennero disgustate il respiro. «Dai, laviamo via tutto». Masako fece segno a Yoshie di togliere il tappo dal foro di scolo, ma subito cambiò idea: non voleva rischiare di ingorgarlo. Decise di infilare anche le viscere nei sacchi. In quell’istante suonarono alla porta e le due donne rimasero impietrite. Erano già le dieci e mezza. «Sarà uno dei tuoi?» domandò spaventata Yoshie. Masako scosse la testa: «Impossibile. A quest’ora non possono essere loro». «Allora fa’ finta di non sentire». Naturalmente. Suonarono ancora un paio di volte, quindi ci fu silenzio. «Chi può essere?» chiese Yoshie senza nascondere l’angoscia. «Ah, sicuramente un rappresentante. Se mi chiederanno qualcosa, dirò semplicemente che dormivo». Masako afferrò di nuovo la sega – la lama era lucida di grasso. Doveva resistere ancora un po’
in quell’inferno e finire quel lavoro diabolico, non poteva tornare indietro, per questo era ormai troppo tardi. 5 Il bagno giapponese è costituito da due ambienti. Nel primo, un’anticamera o spogliatoio, si trovano il lavandino, il tavolo da toilette e un armadio per appendere i vestiti, nel secondo, completamente separato, una vasca da bagno molto profonda e la doccia. Tutti i componenti della famiglia fanno il bagno alla sera, utilizzando la stessa acqua, a una temperatura oltre i 40 °C. Per questo ci si lava prima di entrare nella vasca che viene ricoperta con dei pannelli di plastica o di legno per evitare che l’acqua si raffreddi (N.d.T.).
2. Più o meno nelle stesse ore in cui Yoshie e Masako combattevano la loro disperata battaglia con il cadavere, Kuniko Jonouchi vagabondava in auto senza meta nel centro di Higashi-Yamato. Non c’era nessuno che potesse andare a trovare e con cui parlare, ed era piuttosto depressa per la sua relazione. Parcheggiò nel piazzale della stazione, accanto alla fontana costruita di recente. In quel mattino di pioggia l’acqua zampillante la rese ancora più depressa. Senza senso, completamente senza senso – come tutto del resto – quello che sto facendo, si disse. Raramente si concedeva un esame di coscienza, al massimo una volta all’anno, e non le piaceva per niente. Si voltò più volte a guardare angosciata la cabina del telefono oltre la recinzione di un cantiere davanti alla stazione e continuò a pensare. Era il caso di farsi coraggio e telefonare a Masako per chiederle del denaro in prestito? Dopo una lunga riflessione decise che sì, l’avrebbe fatto, anche se in fondo aveva un po’ paura di quella donna con la quale non si sentiva a suo agio, ma ormai aveva l’acqua alla gola. Doveva riuscire a raggranellare il denaro in giornata, non aveva alternative. Uscì dall’auto e aprì l’ombrello. Un autobus si fermò accanto a lei e il sibilo fragoroso del freno la colse di sorpresa facendola sobbalzare. Il conducente aprì il finestrino e le urlò: «Qui è divieto di sosta, non può parcheggiare!» E lasciami in pace, idiota, pensò fra sé e sé, tuttavia con meno foga del solito. Tornò alla sua Golf – anche quella faceva pietà con la capote afflosciata tutta zuppa di acqua – e avviò il motore. Riprese a guidare soprappensiero nel traffico congestionato della strada principale, senza riuscire naturalmente a trovare un’altra cabina telefonica. A causa della pioggia il traffico era più intenso del solito, e così ben presto si trovò imbottigliata. Ci mancava anche questo! E adesso come avrebbe fatto ad andare avanti? Sospirò, spiando la strada attraverso il parabrezza appannato – anche il ventilatore funzionava male e non si vedeva quasi niente – e le parve di impazzire perché non riusciva a trovare una via di uscita. Al mattino, rientrata dal lavoro, aveva trovato il letto vuoto. Di Tetsuya neppure l’ombra, neanche nelle altre stanze. Evidentemente era furibondo per le sue continue scenate e aveva passato la notte fuori, da qualche parte. Puah, anche se fosse e anche se non dovesse più tornare…, aveva pensato e si era infilata subito nel letto. Stava per addormentarsi quando era squillato il telefono. Alle sette del mattino! Aveva risposto di malumore. Una voce maschile le aveva domandato con un tono di finta cortesia: «Parlo con la signora Kuniko Jonouchi? Mi scusi per averla disturbata così presto!» «Sì, sì, chi parla?» «Qui è l’agenzia Milione». Kuniko represse un grido. Di colpo fu di nuovo sveglia. Come aveva potuto dimenticare una cosa così importante? Aveva incominciato a maledirsi, mentre l’uomo impassibile continuava a recitare la sua solita parte: «Le ho telefonato perché ovviamente lei pare avere dimenticato. Ieri era il venti, il termine ultimo per il pagamento, ma lei non ha ancora provveduto a versare la somma sul conto corrente. Immagino che sappia qual è l’importo dovutoci. A ogni modo glielo ripeto. Si tratta della quarta rata, cinquantacinquemiladuecento yen. Se oggi non provvederà a versare il denaro, dovremo applicarle l’interesse di mora, e passeremo personalmente a ritirarlo. La preghiamo di provvedere». La telefonata proveniva da una finanziaria privata. Kuniko da diversi anni era tormentata dalle rate, doveva ancora finire di pagare l’automobile e aveva anche un grosso debito con la banca. L’anno precedente si era accorta che riusciva a pagare soltanto gli interessi, senza intaccare il debito. Era riuscita, facendosi dare un anticipo sullo stipendio, a pagare l’ultima rata, ma ovviamente avrebbe dovuto restituire anche quei soldi. Insomma il debito era raddoppiato, e sarebbe finita sulla lista nera
dei creditori, sia nell’azienda in cui lavorava sia per quanto riguardava la banca. In questa situazione disperata si era recata in una finanziaria, cedendo all’invitante slogan pubblicitario: «Fai fatica a pagare a fine mese? Vieni subito a trovarci!» Era entrata in un circolo vizioso. Una donna di una certa età, dall’aria falsamente gentile, le aveva sussurrato: «Immagino le sue difficoltà». E le aveva prestato trecentomila yen – era bastato esibire la patente e il nome dell’azienda in cui lavorava il marito. Era riuscita a pagare la somma dovuta alla banca e anche le rate. Però ora c’erano i debiti con la finanziaria. Mai avrebbe creduto che per trentamila yen avrebbero preteso il quaranta per cento di interessi. Ma Kuniko aveva dovuto adattarsi: per sopravvivere non le rimaneva che accontentarsi di una soluzione temporanea, senza pensare al futuro. Era riuscita comunque a restituire l’intera somma chiedendo un prestito a Tetsuya. La donna allora le aveva fatto una nuova offerta: «Se vuole le posso dare cinquecentomila». E naturalmente Kuniko aveva accettato. Aveva guardato nella scatola di biscotti in cui nascondeva il contante. Rimanevano soltanto gli spiccioli. Possibile che avesse speso tutto? Aveva preso dalla borsa il portafoglio, un falso Gucci, e lo aveva aperto. Il mese stava per finire, non conteneva che un biglietto da diecimila e uno da mille. Non rimaneva che cercare Tetsuya e farsi dare del denaro. «Dove si sarà cacciato?» Kuniko aveva sfogliato l’agendina e telefonato all’azienda in cui lavorava Tetsuya, ma era troppo presto, in ufficio non c’era ancora nessuno. Meglio così, la telefonata l’avrebbe messo in guardia e non si sarebbe più fatto vedere. Kuniko aveva cominciato a innervosirsi. Se non avesse pagato in giornata sarebbero di sicuro arrivati in casa un paio di delinquenti, magari yakuza, a minacciarla: questo era ciò che più temeva, perché nonostante l’apparente sfrontatezza era paurosa come un coniglio. Era corsa in camera da letto e aveva aperto il cassetto inferiore del comò dove di solito nascondeva un po’ di soldi per i casi di emergenza. Ma per quanto avesse frugato tra reggiseni, biancheria intima e tutto il resto non era riuscita a trovare niente. Non era rimasto nulla. Assalita da un brutto presentimento aveva aperto gli altri cassetti e gli stipi: tutti i vestiti di Tetsuya erano spariti. Ci volle del tempo prima che si rendesse conto che se ne era andato e che per vendetta si era preso tutto il denaro che c’era in casa. Di dormire non se ne parlava neppure. Era salita in macchina ed era corsa al bancomat di fronte alla stazione. Lì aveva avuto la conferma che sul conto corrente comune non c’era più uno yen. Tetsuya si era preso tutto. Così non sarebbe riuscita a pagare neppure l’affitto. Era talmente furiosa che aveva cominciato a strapparsi i capelli. Kuniko riuscì infine a uscire dall’ingorgo, svoltò a sinistra a un semaforo e raggiunse un quartiere di case a schiera a un piano di recente costruzione. Le saltò subito all’occhio una cabina telefonica nuova di zecca. Posteggiò e corse verso la cabina senza neppure aprire l’ombrello. «Pronto, è la Max? Vorrei parlare con il signor Jonouchi dell’ufficio commerciale». La risposta le gelò il sangue nelle vene: «Mi spiace, ma il signor Jonouchi si è licenziato il mese scorso». Tetsuya l’aveva fregata! L’uomo che lei considerava un idiota, un tanghero, una vera nullità! L’ira le salì alla tesa, sbatté a terra il lacero elenco telefonico e si mise a calpestarlo con le scarpe fradice di pioggia. Le pagine sottili si strapparono e i pezzi di carta volarono in ogni angolo della cabina. Non contenta tirò con tutte le forze la cornetta, cercando di staccarla. Nonostante ciò non riusciva a calmarsi. Bestia! Carogna! Che cosa doveva fare adesso? Dove poteva nascondersi se venivano a prendersi i soldi? Masako era la sua unica speranza di salvezza. Doveva pregarla di prestarle qualcosa, decise Kuniko. In fondo anche Yoshie aveva fatto la stessa cosa quella mattina. E quindi… Se Masako non l’avesse aiutata, sarebbe stata una cattiveria pura e semplice! Kuniko era abituata a considerarsi il centro del mondo e di conseguenza le pareva ovvio che dovesse prestare dei soldi anche a lei.
Inserì di nuovo la carta telefonica e fece il numero di Masako. Ma non successe nulla – possibile che il telefono fosse rotto? Per quanto continuasse a inserire la scheda, questa veniva regolarmente respinta. Kuniko schioccò la lingua, si rassegnò e decise di andare direttamente a casa di Masako. Non doveva essere troppo lontana. C’era andata solo una volta e non ricordava bene dov’era, ma in qualche modo l’avrebbe trovata. Risalì in auto e imboccò la Shin-Oume-Highway sulla destra del vasto quartiere residenziale. La casa di Masako era piccola ma di costruzione relativamente recente, progettata secondo i desideri dei proprietari. Kuniko era invidiosa: se avesse potuto averne una lei! Ma, a giudicare da come Masako si vestiva, certamente l’arredamento non poteva essere lussuoso, si consolò senza pensare che andava lì per chiederle un prestito. Lì di fronte, dove una volta c’era un campo, avevano avviato un cantiere edile. Kuniko fermò l’auto davanti a un cumulo di argilla, scese e si avvicinò alla casa di Masako. Davanti alla porta era appoggiata una bicicletta che le sembrò di riconoscere. La maestra! La maestra era da Masako. Evidentemente Yoshie era già arrivata a battere cassa, concluse Kuniko in fretta e si irritò. Era sicura che Yoshie non aveva un bisogno così impellente di denaro come lei – probabilmente non aveva una scadenza di pagamento proprio oggi! Avrebbe chiesto a Masako di fare il prestito a lei per prima! Sì, avrebbe fatto così. Kuniko suonò alla porta ma non ebbe risposta. Suonò di nuovo, ma dall’interno non proveniva alcun rumore. Che fossero uscite? Ma allora la Corolla di Masako non sarebbe stata davanti alla porta! E la bicicletta di Yoshie! Strano. Che si fossero addormentate? Le venne in mente persino quest’idea, dal momento che anche lei era stanca morta. No, Yoshie aveva la suocera ammalata che l’aspettava, non poteva certo perdere tempo schiacciando pisolini a casa delle amiche! Diffidente, Kuniko fece il giro della casa riparandosi dalla pioggia con l’ombrello. Dal giardino poteva guardare nella stanza oltre la veranda, probabilmente il soggiorno. Era silenzioso e immerso nell’oscurità. Ma al di là della tendina di pizzo si intravedeva il corridoio, e in fondo a questo una luce. Forse erano lì dietro e non avevano sentito suonare. Decise di ritornare alla porta costeggiando l’altro lato della casa. Scorse una luce in quello che poteva essere il bagno. Quando si avvicinò udì le voci soffocate di Yoshie e Masako. Che diavolo stavano facendo? Infilò la mano attraverso la griglia di alluminio e bussò al vetro della finestra. «Ehi, sono io, Kuniko». Oltre il vetro si fece improvvisamente silenzio. «Scusami, Masako, sono venuta a chiederti un favore. C’è anche la maestra, vero?» Dopo alcuni istanti di silenzio la finestra si aprì di scatto e apparve il volto di Masako. Aveva un’espressione cupa: «Cosa fai qui? Che cosa vuoi?» «Devo chiederti un piacere», rispose Kuniko col tono più implorante e gentile che poteva. Doveva suscitare la compassione di Masako per ottenere del denaro in prestito. Le occorrevano almeno cinquantacinquemiladuecento yen, no, assolutamente di più – si poteva fare cifra tonda – altrimenti come avrebbe fatto a sopravvivere? «Quale favore?» «Qui non posso parlare…» rispose Kuniko accennando con la testa agli edifici intorno. Una piccola finestra della casa accanto, probabilmente quella del bagno, era leggermente aperta. «Non è il momento adatto, sono impegnata. Dai, dimmi!» la sollecitò Masako impaziente. «Ma…» Solo allora Kuniko divenne sospettosa e incominciò a chiedersi che cosa facessero Yoshie e Masako lì dentro. Percepiva un vago odore dolciastro, poco gradevole. Fiutò, dilatando le narici, ma
in quell’istante Masako chiuse frettolosamente la finestra. «Aspetta per favore, Masako!» Kuniko non voleva cedere, premeva il vetro cercando di aprire dall’esterno. Doveva assolutamente costringerla ad ascoltare: «Sono veramente nei pasticci!» «Va bene. Passa di là, ti apro la porta». Possibile che le desse fastidio che i vicini la sentissero? In ogni caso Kuniko si tolse un peso dal cuore quando Masako si dette per vinta. Sospirò di sollievo. Ma prima che Masako le chiudesse la finestra sul naso fece in tempo a sbirciare all’interno della stanza da bagno e vide qualcosa di molto strano. Il cuore cominciò a batterle furiosamente. Qualcosa che sembrava un mucchio di pezzi di carne. Che stessero disossando lì dentro la carne per il pranzo? Ma ce n’era una quantità immensa! Inoltre quelle operazioni non si facevano in bagno… strano, molto strano! E Yoshie non si era fatta vedere per tutto il tempo, eppure doveva essere lì, e anche il comportamento di Masako era singolare. La testa leggermente inclinata, rimase in attesa davanti alla porta, ma Masako non veniva ad aprire. Kuniko era sulle spine. Tornò sotto la finestra del bagno e si mise ad ascoltare: sciacquio d’acqua. Adesso sembrava che lavassero qualcosa. Inoltre continuavano a parlottare. Doveva assolutamente sapere che cosa stavano facendo. Non capiva perché, ma sentiva l’odore dei soldi. A un tratto udì che qualcuno usciva dal bagno. Corse di nuovo davanti all’ingresso, assunse la sua espressione più innocente e si mise ad attendere. Finalmente Masako, in Tshirt e calzoncini corti, socchiuse la porta. Si sciolse i capelli che aveva raccolto in una coda di cavallo. Il suo atteggiamento era ancora più insolente di quando si erano salutate la mattina presto alla fine del turno. Kuniko indietreggiò leggermente. «Allora, cosa c’è?» «Posso entrare un attimo?» «Perché? Che cosa vuoi?» Era ancora possibile fare fiasco. Kuniko cercò di tirare fuori la sua vocina più dolce e disse: «Mi è difficile dirlo qui fuori». «Va bene, entra». Masako spalancò la porta con aria rassegnata. Kuniko entrò e si guardò intorno. Non esattamente spazioso, ma pulito e in ordine. Però disadorno, senza un quadro o un mazzo di fiori. Molto simile a Masako! «E allora?» Masako le si mise davanti in tutta la sua statura, come a dire: fino qui e poi basta, impedendole di guardare oltre. Una volta di più ebbe la sensazione che la respingesse e sentì l’odio crescere in sé. «Scusami, se te lo chiedo così, ma potresti prestarmi un po’ di soldi? Ieri dovevo pagare una rata, ma mi sono completamente dimenticata, e adesso non ho più neanche uno yen!» «Ma ti resta sempre un uomo, chiedi a lui!» «Già, dici bene! Se l’è squagliata e si è portato via tutti i soldi che avevamo in casa!» «Squagliata?» disse Masako, e le sue guance contratte sembrarono rilassarsi un po’. Come se ne accorse, Kuniko si sentì di nuovo invadere dall’odio. Ma non poteva assolutamente permettersi di darlo a vedere. Con aria afflitta, a testa china, rispose: «Proprio così! Sparito senza lasciare tracce! E adesso non so più cosa fare!» «Ah, e quanto ti servirebbe?» «Cinquantamila, ma mi accontenterei anche di quarantamila». «Qui non ho tutti quei soldi, dovrei andare in banca». «Non potresti farlo? Ti prego». «Così all’improvviso è impossibile». «Ma alla maestra hai prestato qualcosa!» ribatté disperata Kuniko. Ma Masako aggrottò le sopracciglia: «Parliamoci chiaro: non credo che potrai restituirmeli». «Sì che potrò», mentì Kuniko. Sembrava che le sue suppliche incominciassero a fare effetto su Masako che si mise a pensare, la mano sotto il mento. Sotto le unghie c’era qualcosa di rosso scuro
che sembrava sangue. Kuniko trasalì. «Ma oggi proprio non posso. Se puoi aspettare fino a domani, forse ti potrò aiutare». «Domani è troppo tardi! Se non pago oggi verranno quei delinquenti!» «Per questo non posso farci niente, sei tu la sola responsabile!» A questo punto Kuniko tacque. Masako aveva ragione, ma possibile che dovesse sempre chiamare le cose con il loro nome, per una volta avrebbe anche potuto avere un po’ di tatto! Improvvisamente, da qualche parte alle spalle di Masako, giunse la voce di Yoshie. «Scusa se mi intrometto, ma potresti anche prestarle qualcosa, no? In fondo è una compagna!» Masako si voltò verso Yoshie con aria furibonda. Non sembrava che fossero state le sue parole a farla arrabbiare, quanto piuttosto semplicemente il fatto che si fosse presentata lì, davanti a loro. Yoshie era vestita come in fabbrica, ma le occhiaie scure ora erano molto più visibili. Si sarebbe detto che fosse giunta alla fine delle sue forze. Non aveva più dubbi, quelle due stavano combinando qualcosa e non volevano che lei lo sapesse. Kuniko capì che doveva cogliere l’occasione al volo: «Cosa stavate facendo?» Masako non rispose. Yoshie distolse frettolosamente lo sguardo. Kuniko incalzò: «Che cosa facevate nel bagno?» «E tu che cosa credi?» Lo sguardo di Masako era perfido e a Kuniko venne la pelle d’oca. Non le succedeva mai. «Ma… non so». «Hai visto qualcosa?» «Sì, certo. Qualcosa che sembrava carne». «Adesso ti mostro. Vieni!» Yoshie, stupefatta, lanciò un gridolino di protesta. Masako afferrò con forza Kuniko per il polso. Il coniglio pauroso nascosto in lei le bisbigliò: presto, svignatela più in fretta che puoi! Ma la vocina venne zittita dalla curiosità di vedere di cosa si trattava e dalla speranza di riuscire a cavarne qualche yen. Si sentiva tirata da due parti e la sensazione, che provava per la prima volta in vita sua, era quasi di piacere. Yoshie afferrò il braccio di Masako: «Ascolta, ma sai quello che fai? Sei sicura di non sbagliare?» «Sì, ci può aiutare». «In ogni caso ti ho avvertita!» replicò Yoshie immusonita, ma sembrava piuttosto una richiesta di aiuto. Nervosa, Kuniko si rivolse a Yoshie: «Aiutare a fare che cosa, maestra?» Yoshie non rispose, chinò la testa e rimase a braccia conserte. Masako, sempre tenendo Kuniko per il polso, se la tirò dietro per tutto il corridoio fino in bagno. Lei la seguì zampettando senza opporre resistenza. Quando, infine, vide una gamba umana in fondo alla vasca illuminata a giorno, fu sul punto di svenire. «Che… che cosa è?!» «Il marito di Yama-chan», rispose Masako soffiando fuori lentamente il fumo della sigaretta che si era appena accesa. Kuniko ricordò i grumi di sangue secco sotto le unghie di Masako e l’odore dolciastro, e le venne da vomitare. Si coprì la bocca con la mano e riuscì a fatica a reprimere i conati. «Ma perché? Perché?!» Non riusciva a credere ai propri occhi, le sembrava uno scherzo di cattivo gusto, un baraccone degli orrori allestito dalle due compagne apposta per spaventarla. «È stata Yayoi a ucciderlo», spiegò Yoshie sospirando. «Ma perché voi gli fate questo?» Masako si voltò innervosita: «Ho deciso che si tratta semplicemente di un lavoro». «Ma questo non è un lavoro! È…»
«È un lavoro!» la interruppe bruscamente Masako. «E se vuoi avere i soldi, devi collaborare!» La parola “soldi” attivò un altro circuito nel cervello di Kuniko. «Cosa vuol dire collaborare… Che cosa dovrei fare?» «Quando avremo finito di farlo a pezzi e l’avremo messo nei sacchetti della spazzatura, dovrai solamente andare a buttarli via, questo è tutto». «Davvero devo solo gettarli via?» «Sì». «E quanto mi darete?» «Quanto vuoi? Ne parlerò con Yama-chan. Tu in cambio però dovrai collaborare. Sarai nostra complice. Non ti dovrai lasciare sfuggire una sola parola, con nessuno!» «Lo so, è chiaro», disse Kuniko. Non poteva fare altrimenti e si accorse con stupore di essere caduta nel tranello ordito da Masako per indurla al silenzio.
3. Dopo aver lasciato la fabbrica prima delle compagne, Yayoi Yamamoto pedalava riparandosi dalla pioggia sotto il vecchio ombrello rosso. La luce penetrava attraverso la stoffa sottile proiettando sulle sue braccia nude un alone rosato – un colore gioioso, confortante. Forse anche le sue guance brillavano di quella luce, pensò Yayoi, come quelle di una ragazza. Fuori dall’alone, che si muoveva al ritmo lento delle sue pedalate, tutto il resto era cupo e minaccioso, pieno di ombre scure: l’asfalto nero di pioggia, gli alberi ai due lati della strada e le case ancora addormentate dietro alle persiane chiuse. Sotto il suo ombrello tutto era rosa, tuttavia il mondo esterno si era trasformato in un paesaggio minaccioso che la stringeva da ogni lato. Non riusciva a smettere di pensare che era il mondo che doveva affrontare dopo l’omicidio di Kenji. Yayoi si ritrasse sotto l’ombrello, come se volesse scacciare quell’immagine. Ricordava ancora perfettamente come lo aveva ucciso. L’aveva assassinato con le sue mani, lo aveva strangolato. Eppure via via si rafforzava in lei l’illusione che Kenji fosse sparito chissà dove. Non le venne in mente che il suo era solo un tentativo di costruirsi una comoda falsa verità. Perché ormai era passato tanto tempo da quando l’anima di Kenji se ne era andata da casa, da lei e dai suoi figli. Quella fantasia la aiutava a superare la realtà, la consapevolezza di aver ucciso il marito. L’ombrello di nylon, ormai zuppo di pioggia, era diventato pesante e Yayoi lo abbassò. Uscì dal mondo rosato e contemplò le piccole case tutte uguali, allineate l’una accanto all’altra, tornare lentamente alla loro consueta tinta. Si lasciò bagnare dalla pioggia sottile e ben presto i suoi capelli furono grondanti. Le sembrò di essere rinata, animata da un nuovo coraggio. Arrivata al muro di cemento all’angolo della strada in cui abitava ripensò alla sera precedente, quando era rimasta lì ad aspettare che Masako arrivasse. Masako non l’aveva piantata in asso, l’aveva aiutata. Non avrebbe mai dimenticato quell’emozione per quanto a lungo fosse vissuta. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per Masako. Era sicura che con lei il cadavere di Kenji era in buone mani, che l’amica avrebbe fatto in modo che tutto filasse liscio. Le aveva tolto un bel peso dalle spalle. Aprì la porta ed entrò nella penombra. Forse per la presenza dei piccoli, la sua casa aveva il tenero, familiare odore di un cucciolo addormentato al sole. Ormai quella casa apparteneva soltanto a lei e ai suoi adorati bambini. Tirò un sospiro di sollievo. Kenji non sarebbe più tornato. Era morto, ma nessuno doveva accorgersi che lei lo sapeva, doveva stare molto attenta. Sarebbe riuscita a interpretare bene la parte della moglie preoccupata per la scomparsa del marito? Questa era la sua più grande preoccupazione, ora. Quando ripensò alla faccia del marito morto, il collo stretto dalla cintura, proprio lì nell’ingresso, si sentì di nuovo favolosamente, assolutamente diabolica. «Ti ho beccato, ben ti sta!» pensò. Non si era mai servita di espressioni così ignobili e odiose: da dove le veniva quella bramosia selvaggia, come se stesse cacciando un piccolo animale nella prateria? Una sensazione strana per chi come lei non aveva esperienza di caccia! Possibile che lei fosse veramente così, che quella fosse la sua reale natura? Si tolse le scarpe guardandosi intorno e controllando freddamente che non fosse rimasta qualche traccia di Kenji. Aprì l’armadietto in cui riponevano le scarpe, domandandosi quale paio avesse calzato Kenji al momento della morte. Mancavano quelle nuove e questo la tranquillizzò. Non perché lui se ne era andato almeno con le scarpe nuove, ma perché aveva risparmiato a Masako il fastidio di maneggiare dei vecchi stivali schifosi. Per prima cosa andò in camera da letto per dare un’occhiata ai bambini. Si rassicurò vedendo che entrambi erano ancora profondamente addormentati. Rimboccò la coperta di cotone del più piccolo e solo allora provò un lieve rimorso per aver loro sottratto il padre per sempre.
«Ma papà era così cambiato. Non era più il papà di una volta», bisbigliò. All’improvviso Takashi, il più grande, che aveva cinque anni, sbatté gli occhi inquieto e la cercò con lo sguardo. Yayoi, colta alla sprovvista, sussultò dallo spavento ma si riprese subito e, accarezzandogli affettuosamente la schiena, disse: «La mamma è tornata, va tutto bene. Continua a dormire tranquillo». «C’è anche papà, vero?» «No, papà non è ancora tornato». Takashi, irrequieto, avrebbe voluto alzarsi, ma Yayoi continuò ad accarezzarlo sulla schiena fino a quando non si riaddormentò. Considerando tutto ciò che l’aspettava, pensò che fosse meglio anche per lei riposare un po’ e si infilò sotto le coperte sul futon accanto a quello dei figli. Non credeva che sarebbe riuscita veramente a dormire, ma non appena sfiorò con la mano il livido sullo stomaco la stanchezza le piombò addosso e si addormentò di colpo. «Mamma, mamma, dov’è Milky?» Yukihiro, il più piccolo, era piombato sul suo futon. Yayoi, che vagava nel mondo dei sogni, venne riportata alla realtà. Guardò irritata l’orologio: erano già passate le otto. Avrebbe dovuto accompagnare i bambini all’asilo prima delle nove. Si era coricata vestita ed era in un bagno di sudore – che fosse tornato il caldo? Si asciugò la fronte con la mano. «Mamma, Milky non c’è più!» protestò di nuovo Yukihiro. «Ah, davvero? Sei sicuro di averlo cercato bene?» Ripiegò i futon e incominciò a riordinare, pensando a quanto era accaduto la sera precedente. Finalmente si ricordò che il gatto era scappato quando, dopo aver ucciso Kenji, aveva socchiuso la porta. Strano, tutto le sembrava così incerto e lontano, come il ricordo di un remoto passato… «Ti ho detto che non c’è da nessuna parte!» piagnucolò Yukihiro. Era un piccolo monello, ma era molto affezionato al gatto. Yayoi si mise a chiamare il figlio maggiore, perché badasse al fratellino. «Dove sei Takashi? Aiuta Yukihiro a cercare Milky!» Takashi, in pigiama, aveva un’espressione cupa in volto: «Papà è già andato a lavorare?» Era da molto tempo che Kenji, che rientrava sempre tardi dal lavoro, dormiva nella piccola camera vicino all’ingresso. Evidentemente Takashi, appena alzato, doveva essere andato a guardare. «No, sembra che si sia fermato fuori. Ieri sera non è tornato a casa…» «Non è vero, è tornato invece!» Spaventata Yayoi lo guardò in faccia. Per essere un maschietto aveva incarnato pallido e lineamenti delicati. Sembrava preoccupato. Notando una volta di più quanto le somigliasse, chiese: «E quando mai?» Si accorse che la voce le tremava. Sapeva che questa era solo una piccola prova, un saggio di quello che avrebbe dovuto affrontare. «A che ora non lo so», rispose Takashi, «ma ho sentito dei rumori, come se fosse tornato». «Ah, dei rumori? Forse ero io che mi stavo preparando a uscire, mi avrai scambiato per papà. E adesso sbrigati, se no facciamo tardi!» «Sì, ma…» Takashi non era ancora soddisfatto, ma Yayoi smise di occuparsene e si dedicò al piccolo Yukihiro che continuava a cercare il gatto sotto il divano e sotto gli armadietti della cucina: «Ci pensa mamma più tardi a cercare Milky. Sbrigati che dobbiamo andare!» Preparò velocemente la colazione, fece indossare l’impermeabile ai bambini, li caricò uno davanti e l’altro dietro sulla bicicletta e li portò all’asilo. Finalmente libera, ora non sapeva cosa fare: aveva una gran voglia di telefonare a Masako per sapere come era andata – no, forse era meglio andare fino da lei e vedere di persona. Ma Masako le aveva ordinato di attendere la sua telefonata. Yayoi si rassegnò e tornò a casa per la strada più breve. Nel vicolo prima della sua strada incontrò una donna di mezza età che, proteggendosi dalla pioggia con un ombrello, stava pulendo intorno ai raccoglitori per l’immondizia. Imprecando contro i
vicini, raccoglieva la spazzatura sparpagliata intorno al contenitore. A Yayoi non rimaneva altro da fare che salutarla cordialmente: «Buongiorno! Lei si prodiga come sempre per tutti!» La donna la riconobbe e le fece una domanda che non si aspettava: «Ah, guardi là dietro! Non è il suo gatto?» Indicò un palo della luce dietro al quale era raggomitolato un gatto bianco. Senza dubbio era Milky. «Oh, è vero! Vieni, Milky, vieni qui». Yayoi allungò la mano, ma il gatto si ritrasse e miagolò impaurito. «Vieni, Milky, torna subito a casa! Sei già bagnato fradicio!» Il gatto corse via. «Ma chissà cosa avrà? È proprio strano!» commentò meravigliata la vicina. La presenza della donna innervosiva Yayoi, che tuttavia continuò a chiamare il gatto: «Milky! Fa’ il bravo, dove ti nascondi? Milky! Vieni…» Ma il gatto era ormai scomparso per sempre nella pioggia. Come Kenji non sarebbe più tornato. Yayoi desistette. La vita di Yayoi non aveva un ritmo normale: quando tornava a casa al mattino dopo il turno, preparava la colazione per il marito e i bambini e mangiava con loro, quindi accompagnava i piccoli all’asilo e poi finalmente poteva dormire in pace. Il turno di notte non era mai stato la sua massima aspirazione, ma con due figli sulle spalle non aveva altre possibilità. Prima o poi avrebbe dovuto prendersi dei giorni di riposo a causa di qualche malattia infantile o cose del genere, e nessuna ditta sarebbe stata disposta ad assumerla a tempo pieno. Aveva anche provato a lavorare part-time come cassiera in un supermercato, ma era stata licenziata molto presto perché non poteva lavorare di domenica ed era rimasta a casa diverse volte perché i bambini si erano ammalati. Il turno di notte era fisicamente stressante, ma la paga oraria era più alta e aveva il vantaggio di andare a lavorare in pace quando i bambini dormivano. Inoltre aveva avuto la fortuna di trovare delle amiche come Masako e Yoshie… Ma ormai non poteva più contare sullo stipendio del marito. Come sarebbe andata avanti? Però, si disse, in fondo era lo stesso, se considerava tutte le difficoltà economiche che aveva avuto negli ultimi mesi. In qualche modo sarebbe riuscita a risolvere il problema. Dalla sera precedente si sentiva più forte e sicura di se stessa. Avrebbe preferito fare subito la sua telefonata preoccupata all’ufficio di Kenji, in modo da non doverci pensare più. Ma era troppo presto e avrebbe potuto suscitare dei sospetti. Allora, per ingannare il tempo, decise di comportarsi come al solito, ingoiò mezza pastiglia di sonnifero e si mise a letto. Tuttavia questa volta fece fatica ad addormentarsi. Quando alla fine si assopì sognò Kenji, ancora vivo, coricato accanto a lei. Tutta sudata continuava a girarsi di qua e di là. La svegliò lo squillo lontano del telefono. Forse era Masako! Saltò su un po’ stordita: l’effetto della pillola non era ancora scomparso e le provocò una leggera vertigine. «Mi chiamo Hirosawa, suo marito è a casa?» Era un impiegato della piccola ditta di costruzioni dove lavorava Kenji. È arrivato il momento, pensò Yayoi sospirando profondamente. «No, non è venuto a lavorare?» «No, non è ancora arrivato…» La voce dell’uomo sembrava confusa e allarmata. Yayoi si voltò e guardò l’orologio alla parete del soggiorno. Era l’una del pomeriggio passata da poco. «Voglio essere sincera: ieri non è tornato a casa per niente. Non so dove abbia passato la notte, ma speravo che fosse venuto direttamente a lavorare. Non ho osato telefonare in ditta per chiedere informazioni, perché non volevo che andasse su tutte le furie. Non sapevo proprio cosa fare…» «…già, capisco», rispose bruscamente Hirosawa, che evidentemente si sentiva in qualche modo solidale con il compagno. «Immagino la sua preoccupazione!» «Sì, in realtà è la prima volta che mi succede qualcosa del genere, e non so proprio come comportarmi. Stavo giusto pensando se non fosse meglio telefonare…» Yayoi si ricordò che Hirosawa
era il direttore commerciale, il diretto superiore di Kenji, e, mentre pensava al suo aspetto magro ed emaciato, dovette fare uno sforzo per continuare a recitare la parte della moglie in bilico tra la vergogna e l’ansia. «Non se la prenda troppo. Probabilmente ha esagerato con il bere e adesso starà smaltendo la sbornia da qualche parte. È vero che Yamamoto non è mai stato assente senza giustificazione, ma non si tratta che di una scappatella. Non si deve preoccupare per così poco: lo sappiamo tutti, troppo stress e prima o poi uno non ce la fa più!» «Ma senza avvertire a casa?» ribatté con veemenza Yayoi. Hirosawa, imbarazzato, bofonchiò qualcosa e poi tacque. «E adesso io cosa dovrei fare?» «Ascolti, signora Yamamoto, provi ad aspettare ancora fino a questa sera, e se non riceverà notizie sarà meglio che ne denunci la scomparsa». «Dove dovrò fare la denuncia? Al posto di polizia qui nel quartiere?» «No, non credo che sia di loro competenza. Facciamo così: io mi informo e lei, signora, rimanga a casa e aspetti che la richiami. Non si preoccupi troppo, signora Yamamoto, sono sicuro che si chiarirà tutto. A volte gli uomini si comportano in modo sciocco, ma non può essere sparito senza lasciare tracce». La conversazione con Hirosawa era finita. Yayoi si guardò intorno nella casa silenziosa e si rese conto che aveva finalmente smesso di piovere. Si accorse di avere fame. Non aveva mangiato nulla dalla sera precedente. C’era ancora del riso nel bollitore e lo mescolò con gli avanzi della colazione dei bambini, ma appena si mise di fronte al piatto sentì che non avrebbe potuto buttare giù niente. Stava ancora rigirando i bastoncini nel riso quando il telefono squillò di nuovo. «Signora Yamamoto? Sono ancora io, Hirosawa». «Ha qualche novità?» «Senta, qui in ditta saremmo propensi ad aspettare fino a domani mattina. Che ne dice?» «Capisco», rispose sospirando. «Sarebbe increscioso mettere in allarme tutto il mondo per niente, vero?» «No, non per questo, semplicemente per il momento ci sembra la cosa migliore. Se domani mattina non sarà ancora rientrato, dovrà telefonare alla polizia perché nel peggiore dei casi potrebbe anche avere avuto un incidente». «La polizia?» «Sì. Chiami il centodieci». Dunque il giorno seguente prima di mezzogiorno avrebbe dovuto denunciare la scomparsa di Kenji alla polizia. Perché sapeva che non sarebbe mai tornato a casa. «Ma io sono preoccupata, voglio chiamare questa sera!» «La polizia?» «Sì. Provi a immaginare: se ha davvero avuto un incidente, ora probabilmente si trova tutto solo in un ospedale qualsiasi! No, non riesco proprio a darmi pace, una cosa del genere non mi è mai successa prima!» «Va bene, se questo la può fare sentire meglio, chiami pure la polizia. Ma vedrà che fra poco tornerà a casa con la coda tra le gambe!» No, questo non succederà, né ora né mai, puoi starne certo! rispose mentalmente a Hirosawa, e decise che avrebbe telefonato alla polizia in giornata. Così avrebbe rafforzato l’impressione di essere sconvolta per la scomparsa del marito. D’un tratto Yayoi era diventata una fredda calcolatrice. Poco dopo le quattro, mentre cominciava a prepararsi per andare all’asilo a prendere i bambini, suonò il telefono. «Sono io», annunciò una voce bassa e dura. Era Masako.
Yayoi si sentì sollevata, ma la assalì anche la preoccupazione che qualcosa non fosse andato liscio. In preda all’angoscia chiese: «Com’è andata?» «Sta’ tranquilla, finito tutto. Solo che la situazione è un po’ cambiata». «In che senso?» «Oltre alla maestra mi ha aiutato anche Kuniko». Yayoi era rassegnata all’idea che l’amica avesse confidato l’accaduto a Yoshie, ma non si sarebbe mai aspettata che lo rivelasse anche a Kuniko. In fabbrica erano delle buone compagne, questo era vero, tuttavia non si fidava dell’ambiziosa Kuniko. Improvvisamente ebbe paura. «Kuniko? Credi davvero che possiamo fidarci di lei? E se si lasciasse sfuggire qualcosa?» «Proprio per questo. È arrivata all’improvviso e ci ha scoperte nel bel mezzo del lavoro. Allora mi è stato chiaro che lei sapeva già troppo: che tuo marito ti ha malmenato e che si è giocato tutti i vostri risparmi a baccarat. E se ne avesse parlato con la polizia avrebbero immediatamente sospettato di te». Era esattamente così, pensò Yayoi impallidendo. Bastava sciogliere i fili uno alla volta e tutto si sarebbe spiegato da sé. Ma quando la sera prima si era confidata con le amiche, non aveva ancora pensato – non si era neppure sognata – di uccidere Kenji. Masako aveva ragione, era esattamente come aveva detto. Doveva fidarsi di lei. «Ci ha visto al lavoro, e così ho dovuto costringerla a collaborare. Ma c’è anche dell’altro: tutte e due, sia la maestra che Kuniko, vogliono soldi. Non eri preparata, lo so, ma riesci a mettere insieme cinquecentomila yen?» Yayoi non si attendeva una richiesta del genere, ma era decisa a fare tutto quello che Masako riteneva giusto. «Basteranno cinquecentomila yen per tutte e due?» «Sì. Quattrocentomila alla maestra e centomila a Kuniko. Kuniko aiuterà solo a gettare i sacchetti nell’immondizia. Penso che saranno soddisfatte. Guarda la cosa da questo punto di vista: sei stata tu a ucciderlo e tu devi pagare perché il cadavere venga eliminato». «Ho capito. Chiederò un prestito ai miei genitori». La famiglia di Yayoi viveva a Yamanashi e non era particolarmente agiata. Il padre era impiegato e presto sarebbe andato in pensione. Non le piaceva chiedergli del denaro, ma prima o poi avrebbe dovuto farlo comunque, perché adesso, che anche tutti i risparmi se ne erano andati, avrebbe fatto fatica a procurare il minimo necessario per sé e i bambini. Sarebbe stata soltanto una questione di tempo. «Fallo. E a te come è andata?» chiese Masako senza esitazione. «Poco fa mi hanno telefonato dalla ditta e mi hanno detto che non era andato in ufficio. Che se non rientrerà prima di domani mattina dovrò denunciarne la scomparsa. Ma io ho risposto che sono terribilmente preoccupata e che telefonerò alla polizia stasera stessa». «Ti sei comportata bene, direi. Così crederanno che la situazione sia del tutto nuova per te. Allora oggi non verrai a lavorare, vero?» «Già». «Meglio così. Ti chiamo domani». Masako, che aveva detto tutto ciò che le premeva, sembrava voler concludere la conversazione. Yayoi la fermò: «No, aspetta, Masako!» «Che c’è?» «Che cosa ne avete fatto?» «Ah! È stata un’impresa, ma siamo riuscite a farlo in tanti piccoli pezzi. Ognuna di noi si è presa un po’ di sacchetti e domani mattina presto andremo a buttarli nella spazzatura. Perché al giovedì li portano all’inceneritore. Non può dare nell’occhio, perché abbiamo usato i soliti sacchetti, quelli al carbonato di calcio». «E dove li portate?»
«Nei posti di raccolta vicino a casa. So che è un po’ pericoloso, ma non possiamo allontanarci troppo dalle nostre case. Cercheremo di abbandonarli quando nessuno ci vede e di nasconderli in mezzo all’altra spazzatura». «Va bene. A più tardi, speriamo che vada tutto bene!» Yayoi pensò alla vicina che imprecava mentre scopava intorno al bidone dell’immondizia, e poté solo augurarsi che tutto andasse per il meglio. Riprese in mano la cornetta e digitò con decisione due volte l’uno e quindi lo zero, un numero che non aveva mai chiamato prima. «Pronto intervento. Che cosa posso fare per lei?» «Sì, ecco… Mio marito non è ancora rientrato…» Si era aspettata una risposta evasiva, invece la voce maschile all’altro capo del filo era molto professionale. Le chiese il nome e l’indirizzo, le disse di attendere e si rivolse a un collega. Un’altra voce maschile venne all’apparecchio: «Questa è la sezione della sicurezza sociale. Da quanto tempo è assente suo marito?» «Da ieri sera. Non è andato neppure in ufficio, mi hanno detto». «C’era qualche problema?» «No, nessuno che io sappia». «Allora faccia così: aspetti un’altra notte. Se domani mattina non sarà tornato, venga qui per fare la denuncia. Venga alla questura di Musashi-Yamato. Sa dov’è?» «Ma io non posso aspettare ancora. Sono troppo preoccupata». «Per il momento non possiamo fare altro che accogliere la sua denuncia. Prima non possiamo cercarlo». La voce dell’uomo era diventata un po’ più gentile. Yayoi fece un sospiro profondo, in modo di essere sentita. «Ma sono così preoccupata. Non mi è mai successa una cosa del genere!» «Abbia pazienza, non si tratta di un bambino né di un vecchio. Attenda ancora una notte e poi venga qui da noi». «Va bene, come vuole». E con questo per quel giorno era finita, aveva fatto quello che doveva. Yayoi abbassò il ricevitore e tirò un sospiro di sollievo. A cena Takashi le domandò: «Mamma, oggi non vai a lavorare?» «No, oggi no». «Perché no?» «Sono preoccupata perché papà non torna». «Per fortuna sei preoccupata anche tu!» esclamò Takashi sollevato, e Yayoi si spaventò un po’. Era impressionata: sembra sempre che i bambini non ci badino, e invece osservano con estrema attenzione quello che fanno gli adulti. Era possibile che il piccolo avesse sentito tutto quello che era successo la sera prima, quando Kenji era tornato a casa? Yayoi fu colta dal terrore. In quel caso avrebbe dovuto trovare il sistema per farlo tacere. In quel momento Yukihiro si mise a piagnucolare: «Mamma, Milky è in giardino, continuo a chiamarlo ma non vuole entrare!» Allora Yayoi perse la pazienza e urlò: «E lascialo stare! Sempre con questo gatto! La mamma ha ben altro per la testa!» Yukihiro, spaventato dall’espressione della madre, di solito così dolce, lasciò cadere le bacchette. Takashi chinò lo sguardo come se non volesse vedere. Vedendo la reazione dei figli Yayoi fu presa dal rimorso e si ripromise di chiedere consiglio a Masako su come comportarsi con Takashi e per la questione del gatto. Ormai si fidava in tutto e per tutto solo dell’amica. Aveva già dimenticato come una volta, quando andavano ancora d’accordo, era solita appoggiarsi completamente a Kenji.
4. Masako stese un grande telo di plastica sul coperchio della vasca da bagno e vi appoggiò i quarantatré sacchetti della spazzatura. I pannelli del coperchio si curvarono sotto il peso. «Anche se l’abbiamo dissanguato è ancora molto pesante», mormorò, mentre Kuniko commentava, sospirando e scuotendo il capo: «Che orrore! Incredibile!» «Che cosa hai detto?» Masako ebbe uno scatto. «Ho detto che è incredibile. È incredibile che tu te ne stia lì indifferente dopo quello che hai appena fatto!» la aggredì Kuniko a muso duro. «Ah, trovi? Se vuoi saperlo non sono per niente indifferente», ribatté Masako. «E inoltre, ti dirò, vorrei avere un po’ del tuo sangue freddo: te ne vai in giro a fare debiti a destra e a sinistra a bordo della tua auto straniera e hai l’impudenza di venire a chiedermi un prestito! Questo è quello che io trovo davvero incredibile!» Subito i piccoli occhi senza trucco di Kuniko si riempirono di lacrime. Di solito si truccava accuratamente, ma sembrava che quel giorno non ne avesse avuto il tempo. Senza trucco, però, pareva più giovane e naturale. «Ah, trovi? Non farmi ridere, il paragone non regge, io sono almeno dieci volte meglio di te. Chi è stato a tirarmi dentro, eh? Tu sei stata, solo tu!» «Ma non mi dire! Allora non hai bisogno di soldi?» «Certo che ne ho bisogno. Se non li trovo sono finita!» «Sarà la tua fine lo stesso, credimi, anche senza tutta questa storia. Ne conosco di gente come te!» «Come?» «Dove lavoravo prima ce n’erano tante del tuo genere!» Masako non aveva difficoltà a tenere testa a Kuniko. Con una donnetta come lei non c’era altro da fare che darle addosso. Per fortuna poteva concedersi ben altre amicizie. «E dove lavoravi prima?» chiese Kuniko, subito curiosa. Masako scosse il capo: «Questo non ti riguarda». «Certo che mi riguarda! Rispondimi piuttosto, invece di parlare a vanvera e fare tanto la misteriosa!» «Io non parlo mai a vanvera: se vuoi i soldi datti una mossa e fa’ qualcosa per guadagnarteli!» «Certo che lo faccio. Ma ci sono dei limiti. Ogni persona ha i suoi limiti, solo questo volevo dire!» «Per carità, senti un po’ da che pulpito!» Masako rise e Kuniko provò all’improvviso il desiderio di rimangiarsi le parole appena pronunciate, perché si era ricordata del debito con la finanziaria. Le lacrime si erano asciugate, ma adesso si potevano vedere gocce di sudore spuntare dai pori dilatati sulla punta del naso. «Tu volevi dei soldi e hai collaborato. Se questa non è complicità! Smettila di darti tante arie, come se fossi migliore di noi!» «Sì, ma…» incominciò Kuniko, ma poi tacque e le salirono di nuovo le lacrime agli occhi, di rabbia questa volta. «Scusate se vi interrompo, ma devo andare», si intromise Yoshie che non aveva nessuna voglia di essere coinvolta nella discussione. Le sue occhiaie erano ancora più accentuate. Lanciò uno sguardo apprensivo all’orologio: «La vecchia è sveglia da un pezzo. Il mio lavoro non è ancora finito, ho ancora un sacco da fare». «Lo so, maestra, va’ pure via, ma prendine qualcuno anche tu», disse Masako indicando i
sacchi. Yoshie fece una smorfia di disgusto: «Ma io sono in bicicletta! Vuoi che li metta nel cestino? E dovrò anche tenere l’ombrello aperto!» Masako guardò fuori dalla finestra. Aveva smesso di piovere e ora si aprivano squarci di sereno tra le nuvole. Presto la temperatura sarebbe aumentata. Se non si fossero sbrigate la carne avrebbe cominciato a marcire. Le viscere stavano già imputridendo. «Non piove più». «Ma non mi va!» «E allora mi volete dire come facciamo a eliminare i sacchetti?!» Masako, appoggiata a braccia conserte alla parete di piastrelle, osservava Kuniko che sembrava impietrita nello spogliatoio. «Anche tu te ne porti via un po’!» «Vuoi dire che dovrei mettere questi cosi nel portabagagli?!» «Naturale! O hai paura di sporcare la tua elegante automobile?» Come facevano a non capire anche le cose più ovvie? Possibile che non fossero capaci di usare il cervello? Masako era indignata. «Questo lavoro non è come quello dello stabilimento, non finisce quando si ferma il nastro trasportatore. I sacchi devono essere abbandonati nel luogo giusto, e dobbiamo fare in modo che non vengano scoperti. Poi avrete i vostri soldi e poi, solo allora, sarà finito. E se venissero scoperti, speriamo che non riescano a identificare il cadavere, ma se ci riusciranno pazienza, l’importante è che non scoprano che siamo state noi». «E se Yayoi confessa?» «Potremmo dire che ci ha costrette». «Allora io potrò dire tranquillamente che sei stata tu, Masako, a costringermi», insistette Kuniko, che non voleva rinunciare ad avere l’ultima parola. «Fallo pure. In questo caso, però, non avrai da me neanche uno yen». «Sei terribile. Sei davvero una persona tremenda!» Kuniko trattenne un singhiozzo e cambiò argomento: «Ma non ti fa pena il morto? Nessuno lo compiange, nessuno prova pena per lui!» «Smettila!» si infuriò Masako. «Questo non ci riguarda! Questo riguarda solo lui e Yama-chan!» «Però, stavo pensando…» intervenne Yoshie guardando le amiche. «È uno strano discorso, ma ho l’impressione che la buonanima in fondo sia felice di essere stato oggetto di tante attenzioni da parte nostra. Avevo sempre creduto che tagliare a pezzi un uomo fosse una cosa terribilmente crudele. Invece non è così. È come fare un’accurata autopsia, equivale in fondo a trattare con cura un venerabile defunto!» Masako attribuì quelle parole al razionalismo egoistico di Yoshie che valutava tutto in funzione della propria convenienza. Ma, in effetti, distribuire pezzi di carne in quarantatré sacchetti poteva essere considerato un lavoro accurato. Masako guardò di nuovo i sacchetti di plastica sopra il coperchio della vasca. Avevano troncato la testa, quindi le gambe e le braccia seguendo le articolazioni. La parte di gamba dalla caviglia in su era stata divisa in due, e così stinco e coscia, tagliati in due pezzi, in modo che da una gamba erano risultati sei pezzi. Il braccio era stato tagliato in cinque parti. I polpastrelli, nel caso i resti fossero stati sottoposti a indagine, erano stati spolpati da Yoshie, per ordine di Masako, come se stesse preparando il pesce per i sashimi. Perciò soltanto con le braccia e con le gambe si erano ottenuti ventidue pezzi. Il problema era stato il busto. Avevano impiegato molto tempo per risolverlo. L’avevano tagliato verticalmente, togliendo gli organi interni con i quali avevano riempito otto sacchi. Quindi avevano spolpato la carne e la avevano tagliata a fette, avevano spezzato le costole e segato le ossa. E con questo altri venti sacchi. Alla fine, compresa la testa, avevano riempito quarantatré sacchi. Ci avevano messo tre ore. Quando avevano finito era già l’una passata. E loro non avevano più tempo né
energie. I pezzi del cadavere erano stati infilati nei sacchi arricchiti con carbonato di calcio raccomandati dal comune di Tokyo: li avevano legati alla sommità e quindi, per prudenza, infilati capovolti in un altro sacco in modo che non si potesse indovinarne il contenuto. Potevano dunque sperare che fossero distrutti dall’inceneritore. I pezzi erano stati mischiati in modo che quel chilo abbondante di materiale non venisse facilmente riconosciuto come carne umana. Le viscere erano state imballate insieme a parti del dorso del piede, le spalle insieme ai polpastrelli e così via. Questo era stato il compito di Kuniko, anche se, piangendo, aveva cercato di opporre resistenza. Yoshie aveva suggerito di avvolgere i pezzi in carta di giornale, ma avevano rinunciato all’idea perché la polizia avrebbe potuto individuare la zona di distribuzione del quotidiano. Rimaneva il problema di dove abbandonare i sacchi. «Tu, maestra ne avrai cinque, perché sei in bici. Kuniko quindici. Io mi sbarazzerò del resto e troverò una soluzione per la testa. E state attente a toccare i sacchi solo con i guanti: non dobbiamo lasciare impronte!» «Che cosa vuoi fare con la sua testa, Masako?» domandò Yoshie guardando con orrore il sacco di plastica nero che la conteneva. Il sacco con la prima parte che avevano tagliato troneggiava imponente sul coperchio della vasca. «La testa?» ribatté Masako trattenendo un sorriso per il tono con cui Yoshie aveva posto la questione. «La seppellirò in seguito. Non c’è altra soluzione. Guai se dovessero scoprirla». «Ma basterà che imputridisca, no?» domandò Yoshie. «Potranno riconoscerla dalla dentatura», interloquì Kuniko con tono saccente, «fanno così quando si tratta di riconoscere le vittime degli incidenti aerei o di altre catastrofi». «A ogni modo andate a scaricare i sacchi nei luoghi di raccolta, il più lontano possibile da casa vostra e in posti diversi. E state attente che nessuno vi veda – ma credo che questo ormai vi sia chiaro». «Allora forse sarebbe meglio farlo questa notte prima del turno, non ti pare?» suggerì Yoshie. «Ma in questo caso i gatti o i corvi avrebbero tutto il tempo di strappare i sacchi», obiettò Kuniko. «La cosa migliore mi sembra che sia domattina presto, dopo il turno». «L’importante è che nessuno ci osservi. E sarà opportuno abbandonarli il più presto possibile», concluse Masako. «Scusa, Masako, per tornare al discorso di prima», esordì timidamente Kuniko, «non potresti darmi adesso un po’ di soldi? Per oggi mi basterebbero cinquantamila o anche quarantacinquemila yen. Potrei almeno liberarmi dai creditori. Però non mi resterebbe niente per vivere, e dovresti darmi qualcos’altro domani… Sarebbe possibile?» «Pazienza. Lo sottrarrò dalla tua parte». «La mia parte? E a quanto ammonterebbe?» Un inequivocabile lampo di cupidigia balenò negli occhi di Kuniko ancora gonfi di lacrime. Yoshie premette imbarazzata la mano sulla tasca dei pantaloni. Soltanto Masako sapeva che aveva preso il denaro dal portafoglio di Kenji. «Mah, centomila yen dovrebbero bastare, dato che non hai fatto nessun lavoro cruento, hai soltanto riempito i sacchi. Invece la maestra ne avrà quattrocentomila. Sempre però che Yama-chan sia in grado di sborsare tutto questo denaro». Per un attimo gli occhi di Kuniko e Yoshie si incontrarono. Sui loro visi comparve un’espressione delusa, ma non dissero niente, forse perché Yoshie era soddisfatta del compenso extra ricevuto, mentre a Kuniko bastava sapere che le era stato risparmiato il lavoro peggiore. O forse perché entrambe avevano paura di Masako. «Bene, allora vado», annunciò Yoshie e uscì senza voltarsi indietro. Kuniko fece per seguirla ma poi si fermò: «Ah, Masako, ci vediamo al posteggio stanotte?» «No, non importa. Andiamo ognuna per conto proprio», rispose Masako stivando in un grande
sacco nero i sacchetti di Kuniko. La compagna la guardò perplessa: «È successo qualcosa ieri sera? Sei arrivata così in ritardo…» «No, niente». «Bene, allora». Squadrò Masako da capo a piedi: non sembrava per niente convinta. Dopo che le due donne se ne furono andate Masako sistemò nel portabagagli la sua parte di sacchetti, i resti dei vestiti e gli altri oggetti personali di Kenji. Prima di recarsi al lavoro avrebbe fatto un giro per trovare un posto adatto dove lasciarli la notte stessa o il mattino seguente. Quindi prese una spazzola e si mise a pulire il bagno a fondo. Tuttavia, per quanto si sforzasse di sfregare vigorosamente con la spazzola dura le scanalature fra le piastrelle, aveva l’impressione che rimanessero sempre macchie di sangue raggrumato e, per quanto spalancasse la finestra e facesse girare il ventilatore, le sembrava che il fetore di sangue e viscere in putrefazione non se ne volesse più andare. Tutta immaginazione, pensò Masako, inganno dei sensi eccitati dalla paura. Yoshie si era strofinata le mani col cresolo fino quasi a spellarle, per eliminare quell’odore nauseante. Kuniko, che aveva dovuto solo distribuire i pezzi nei sacchi, alla vista dei resti di Kenji era corsa in gabinetto a vomitare e aveva giurato che non avrebbe mai più mangiato carne in vita sua; poi aveva ripreso a lavorare con le lacrime agli occhi. Lei invece, almeno fino ad allora, era riuscita a mantenersi calma. Se si accaniva così tanto con i detersivi e con la spazzola era solo perché temeva le eventuali indagini della polizia scientifica, che avrebbe potuto trovare delle tracce. Ammettere di dipendere dalla propria “immaginazione” sarebbe stato uno smacco per Masako, che aveva eliminato dalla vita tutto ciò che non era razionale. Sulla parete era appiccicato un capello. Un capello maschile, duro e corto. Masako lo afferrò con le dita e si domandò se fosse di suo marito, di suo figlio o del cadavere di Kenji. Cosa le capitava, era forse uscita di senno? Non era altro che un capello, uno dei tanti capelli che si perdono ogni giorno e, finché non si fosse fatta l’analisi del DNA, nessuno avrebbe potuto stabilirne la provenienza! Nient’altro che spazzatura, sia che appartenesse a un uomo vivo che a un cadavere. Lo sciacquò via e si gettò alle spalle anche la sua “immaginazione”. Dopo aver chiamato Yayoi per sistemare la questione del denaro, poté finalmente andare a letto. Erano ormai le quattro del pomeriggio. Solitamente si coricava alle nove del mattino e si alzava a quell’ora. Adesso era fisicamente esausta, ma il suo sistema nervoso era sovraccarico e non riusciva a prendere sonno. Andò al frigorifero, prese una lattina di birra e la bevve in un sorso. Non era mai stata così eccitata da quando aveva lasciato la ditta. Tornò a coricarsi, girandosi e rigirandosi nel letto, nel caldo afoso del crepuscolo estivo. Si era ripromessa di dormire soltanto poche ore, ma quando si destò si accorse che dalla finestra aperta entrava l’aria umida della notte. Guardò l’orologio da polso e si alzò. Erano le otto di sera. Benché fosse più fresco la T-shirt era fradicia di sudore. Aveva fatto un brutto sogno, ma non si ricordava più niente. Qualcuno aprì la porta di casa. Yoshiki o Nobuki. Si era addormentata senza neppure preparare la cena. Ancora assonnata si diresse lentamente verso il soggiorno. Nobuki stava mangiando una colazione in scatola. Doveva essere rincasato e, visto che non c’era niente di pronto, doveva essere uscito a comprarsi qualcosa al supermercato. Quando Masako si avvicinò al tavolo, Nobuki si irrigidì e non disse una parola. Poi però rimase a fissare il vuoto alle spalle della madre con aria impaurita, come se si fosse accorto che vi era qualcosa di insolito. Masako, osservandolo, ricordò che era stato un bambino sensibile. «Hai comprato qualcosa anche per me?» chiese, ma lui abbassò lo sguardo sulla scatola della colazione e inalberò la sua espressione ostinata. Ma che cosa voleva proteggere, da chi o da che cosa
voleva difendersi? Lei in ogni caso aveva rinunciato già da tempo a occuparsi di lui! «Buono?» Nobuki depose le bacchette senza rispondere, lo sguardo fisso sul cibo. Masako prese il coperchio di plastica della scatola e guardò l’etichetta: «Miki Foods, stabilimento di Higashi-Yamato. Confezionato alle 15.00». L’avesse fatto apposta o per caso, Nobuki aveva scelto una delle colazioni del suo stabilimento confezionate durante il turno diurno. Una frecciata per lei. Masako si guardò intorno, osservando la stanza perfettamente in ordine. Le venne un leggero capogiro pensando a quello che aveva dovuto fare durante il giorno sotto quello stesso tetto. Nobuki prese le bacchette e ricominciò tranquillamente a mangiare. Masako gli si sedette di fronte e rimase a guardarlo mentre continuava a mangiare muto, perso nei suoi pensieri. Di nuovo si insinuò in lei lo stesso sentimento che aveva provato nei confronti di Kuniko – un desiderio quasi selvaggio di fare pulizia nelle sue relazioni con gli altri – e fu colta da un senso di impotenza nel rendersi conto che il legame che la univa al figlio era uno di quei rapporti che non si potevano spezzare. Masako si alzò e si diresse verso il bagno immerso nel buio. Accese la luce: la stanza, spazzolata e lucidata da capo a fondo, brillava in tutto il suo splendore. Aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua nella vasca. Si spogliò osservando l’acqua che riempiva troppo lentamente la vasca, scese il basso gradino e fece una doccia in piedi. Si ricordò di come la notte prima, nel bagno dello stabilimento, aveva cercato di eliminare più in fretta possibile ogni traccia di Kazuo Miyamori dal proprio corpo. E poi aveva dovuto dissezionare quello di Kenji, completamente immersa nel suo sangue, i frammenti di pelle, carne e ossa che si insinuavano sotto le unghie. Tuttavia riusciva a pensare solo alle tracce di Kazuo Miyamori, e voleva lavarle via un’altra volta. Sotto lo scroscio della doccia ripensò alle parole di Yoshie: «Vivi e morti sono tutti uguali», e annuì. Un cadavere è ripugnante, ma non si muove. Mentre Kazuo avrebbe potuto cambiare la sua vita. Sì, i vivi procuravano più fastidi dei morti. Due ore prima del solito Masako uscì di casa e andò alla macchina nel cui bagagliaio aveva stivato i sacchetti con la testa e le altre parti del corpo di Kenji. Yoshiki non era ancora tornato. Con suo grande sollievo. Forse perché così poteva ancora evitare di ammettere che provava per lui gli stessi sentimenti che nutriva nei confronti di Kuniko. Perché la relazione con Yoshiki era una di quelle che si potevano cambiare. Guidò sulla Shin-Oume-Highway immersa nel buio in direzione del centro di Tokyo. La strada era vuota, ma Masako non aveva fretta. Guidando guardava a destra e a sinistra, allontanando dalla mente il pensiero del turno di notte e di quello che trasportava nel portabagagli, concentrata sulle sensazioni che suscitava in lei il consueto paesaggio. Sorpassò il grande cavalcavia sopra all’impianto di depurazione delle acque. Dalla sommità vide le luci della gigantesca ruota panoramica del parco di divertimenti di Seibu che brillavano nel cielo scuro come il bordo di una enorme moneta. Aveva dimenticato quel paesaggio. Una volta era salita sulla ruota, molto tempo prima, quando Nobuki era piccolo. Ormai lui era un uomo, uno sconosciuto, e anche lei era cambiata, e aveva già oltrepassato i propri limiti. Sulla destra il muro di cemento del cimitero di Kodaira seguiva per un tratto la strada. Appena fu in vista della piazzola di allenamento del campo da golf, simile a una grande uccelliera, si diresse a destra verso il centro di Tanashi. Oltrepassato un quartiere residenziale in mezzo ai campi, raggiunse il grande caseggiato verso cui era diretta. A Tanashi aveva sede la ditta presso la quale aveva lavorato, per cui conosceva bene il quartiere. Sapeva anche che in quell’edificio vi erano molti appartamenti, che la sorveglianza era pessima e che il piazzale per la raccolta della spazzatura era accessibile a chiunque. Masako fermò l’auto e prese cinque sacchetti dal portabagagli. I grandi cassonetti blu, contrassegnati dalle scritte
COMBUSTIBILE e NON COMBUSTIBILE, erano quasi tutti pieni di sacchi buttati alla rinfusa. Masako distribuì i suoi sacchetti in uno dei contenitori e li pigiò ben bene verso il fondo. Ora tra i pezzi di Kenji e i rifiuti organici delle cucine e la carta non c’era più alcuna differenza. Risalì in macchina e riprese la sua strada, fermandosi ogni volta che trovava un condominio, cercando il piazzale dei rifiuti e scaricando senza farsi notare un paio di sacchetti. Continuò a correre nella notte per strade sconosciute, lasciando dietro di sé ogni volta che poteva qualche sacco. Ora il corpo e i vestiti di Kenji non erano solo a pezzi, ma anche distribuiti qua e là in posti lontani fra loro. Rimanevano soltanto la testa e un paio di sciocchezze che teneva nelle tasche dei pantaloni. Se non voleva arrivare troppo tardi doveva affrettarsi verso lo stabilimento. Più il bagagliaio si svuotava, più si sentiva alleggerita. Era un po’ preoccupata al pensiero di come avrebbe fatto Yoshie, che non aveva un’auto, ad abbandonare i sacchi, ma di sicuro si sarebbe arrangiata perché non ne aveva molti. E poi Yoshie era una donna in gamba. Il problema era Kuniko. Era stata una sciocchezza affidare ben quindici sacchi a una come lei! Masako era pentita: forse, se non li aveva ancora gettati, avrebbe potuto riprenderseli e provvedere lei stessa a sistemarli nei cassonetti. Masako tornò indietro e dopo circa mezz’ora arrivò al posteggio dello stabilimento. Kuniko non era ancora arrivata. Rimase per un po’ seduta in auto ad aspettare, ma la vistosa Golf verde non si faceva vedere. Forse gli avvenimenti della giornata l’avevano talmente scioccata che aveva deciso di rimanere a casa. Masako si arrabbiò, ma poi decise che non sarebbe cambiato molto se Kuniko avesse saltato il turno. Quando scese dall’auto notò che l’aria della notte era abbastanza asciutta per essere in luglio. Rispetto al mattino era anche decisamente più fredda. Inconfondibile le giunse alle narici l’odore di olio fritto. Allora si ricordò del canale di scolo della fabbrica dismessa e dei fori sulla condotta di cemento. Nessuno si sarebbe accorto se avesse buttato il portachiavi e il portafoglio di Kenji in uno di quei buchi. Quanto alla testa avrebbe potuto seppellirla il giorno seguente, magari nei boschi intorno al lago Sayama. Era ansiosa di liberarsi degli oggetti di Kenji al più presto possibile. Guardò la saracinesca dell’ex stabilimento e la vegetazione lussureggiante e le tornarono in mente le parole di Kazuo Miyamori, la notte precedente: «Ti aspetto domani, qui». Ma, dopo il loro incontro del mattino, probabilmente aveva abbandonato quell’idea. Tuttavia per precauzione si guardò attentamente intorno: sembrava che non ci fosse davvero nessuno. Si avvicinò al bordo del canale di scolo e si mise a cercare i fori sulla condotta. Ne trovò una serie sul punto di congiunzione di due elementi. Prese il portafoglio vuoto e il portachiavi e li gettò in un buco. Udito il tonfo, Masako si rasserenò e si avventurò nel buio in direzione delle luci dello stabilimento. Non s’era assolutamente accorta che Kazuo Miyamori se ne era stato tutto il tempo accovacciato nell’ombra della saracinesca arrugginita contro cui l’aveva spinta la notte precedente.
5. Non appena si fu lasciata alle spalle la casa di Masako, Kuniko tirò un profondo sospiro, come se si fosse liberata da un peso. Il tempo sembrava migliorare, si scorgevano lembi di azzurro tra le nuvole. Dopo la pioggia l’aria era umida ma pulita, e le sembrò finalmente di respirare meglio. Se solo non avesse avuto quel sacco di plastica nero in mano, con il suo ripugnante contenuto! Kuniko rabbrividì e fece una smorfia. Persino l’aria che aveva appena respirato le parve di nuovo calda e disgustosa. Appoggiò il sacco per terra e aprì controvoglia il bagagliaio della Golf. Anche l’odore di polvere e benzina tipico della sua auto le diede una sensazione di nausea. E adesso doveva metterci dentro quella schifezza! Mentre faceva posto sulla moquette raggruppando da una parte i suoi oggetti – attrezzi, ombrello, scarpe e così via – continuava a domandarsi incredula come avesse potuto acconsentire. Ricordava la terribile sensazione di quando, dopo avere infilato i guanti di gomma, aveva incominciato a maneggiare i pezzi di carne rosata. Il taglio bianco delle ossa segate. La pelle livida con i peli ancora attaccati. Tutti quei particolari, che le si erano impressi a fuoco nel cervello, le sfilavano ora davanti agli occhi in tutta la loro chiarezza. Non era mai stata una brava cuoca, ma una cosa era certa: in nessuna circostanza, mai più, avrebbe preparato un piatto a base di carne! Aveva giurato a Masako che avrebbe fatto tutto con ogni scrupolo, ma adesso non poteva più mantenere la promessa; voleva solo sbrigare più in fretta possibile quella disgustosa faccenda. Anzi non voleva quelle cose nella sua auto, neanche per un minuto! Presto avrebbero incominciato a decomporsi e avrebbero emanato un fetore terribile che avrebbe impregnato i lisci sedili di pelle e l’avrebbe tormentata in eterno. Era escluso! Sicuramente anche il deodorante non sarebbe servito a niente. Quanto più ci pensava, tanto meno poteva sopportare la presenza del sacco nero vicino a sé. Si guardò intorno cercando un posto lì vicino dove buttare via i sacchetti. Si trovava su una collinetta in mezzo ai campi. Evidentemente avevano incominciato a costruire da poco tempo, perché c’era solo un gruppetto di piccole case nuove di zecca, tra cui quella di Masako. Tuttavia il caso volle che avesse fortuna: al limite della zona costruita scoprì un punto di raccolta della spazzatura circondato da un muretto di cemento. Kuniko si girò verso la casa di Masako per assicurarsi di non essere vista. Prese il pesante sacco di plastica e lo portò fino ai bidoni. Se l’avessero trovato lì avrebbero potuto seguire le tracce senza difficoltà, ma a Kuniko ormai non importava più nulla. Aveva forse chiesto lei di aiutarle?! Gettò semplicemente il sacco al di là del muretto, sul terreno ben spazzato. La plastica si lacerò su un lato, lasciando intravedere il sacchetto semitrasparente che si trovava all’interno. Kuniko girò la testa – non voleva più guardare quella roba – e stava per andarsene di corsa quando udì dietro di sé una voce maschile. Spaventata a morte si fermò. «Aspetti un po’!» Dal recinto spuntò fuori improvvisamente un vecchio ab bronzato in tuta da lavoro, l’ira dipinta sul volto: «Lei non è di queste parti, vero?» «Ehm…» «Non si sogni di fare una cosa del genere!» Il vecchio prese il sacco appena abbandonato da Kuniko e glielo tenne alto davanti al naso. Poi – con un’espressione che voleva dire: «Ti ho pescata!» – con l’altra mano indicò i campi e disse: «Io me ne sto lì a sorvegliare, perché ogni tanto spuntano fuori delle svergognate come lei!» «Scusi». Kuniko, che non era mai riuscita a sopportare di essere rimproverata, prese il sacco che il vecchio le tendeva e si allontanò a passi precipitosi. Arrivata alla macchina gettò senza esitazione il sacco nel bagagliaio e avviò in fretta il motore. Diede uno sguardo allo specchietto retrovisore e si
accorse che il vecchio continuava a spiarla. Kuniko premette sull’acceleratore. «Vecchio merdoso! Crepa!» lo maledì osservando la sua immagine riflessa nello specchietto, poi guidò senza sapere dove andare. Dopo un po’ si rese conto che non era così facile disfarsi del sacco senza attirare l’attenzione e divenne ancora più cupa. In che cosa si era lasciata invischiare! Ben quindici sacchi le aveva affibbiato Masako! E con tutto quello che pesavano! Non poteva continuare a portarseli dietro, prima o poi qualcuno l’avrebbe notata. Ma voleva liberarsene il più presto possibile. Dove poteva portarli? Continuava a guidare aggrappata spasmodicamente al volante, guardando nervosa a destra e a sinistra alla ricerca di un luogo sicuro. L’ansia le impediva di concentrarsi sulla guida e più di una volta le suonarono col clacson perché rimaneva ferma davanti al semaforo verde. Attraversò il piccolo quartiere residenziale che aveva già percorso al mattino. Il suo sguardo si posò sulle giovani madri intente a sorvegliare i figli che giocavano nel misero giardinetto. Proprio in quel momento una di loro stava gettando un sacchetto di caramelle vuoto nel cestino della spazzatura accanto alla panchina. Quella era una splendida idea: li avrebbe lasciati in un parco! Nei parchi c’erano ovunque cestini per le immondizie ed era difficile che ci fosse molta gente. Sì, un parco andava benissimo! Meglio ancora un grande parco pubblico, dove si poteva entrare e uscire liberamente. Entusiasta dell’idea, Kuniko ritrovò il buonumore e continuò a guidare canticchiando. Era già stata una volta al parco di Koganei insieme ai compagni di lavoro per vedere la fioritura dei ciliegi. Non era forse il parco più grande di Tokyo? Lì avrebbe potuto abbandonare quella terribile immondizia senza timore di essere scoperta. Kuniko posteggiò sull’argine del Shakujiigawa, dietro al parco. Era il pomeriggio di un giorno feriale e non c’era anima viva. Si ricordò dei guanti di gomma che le aveva dato Masako, li infilò, prese dal bagagliaio il sacco nero ed entrò nel parco dall’ingresso posteriore. Si trovò in un bosco fitto di cespugli e alti alberi – l’intenso profumo del tenero fogliame era quasi soffocante! Si allontanò dal sentiero e proseguì nel sottobosco umido di pioggia; in breve le sue scarpe basse, bianche, furono bagnate fradice. Faceva molto caldo e le mani sudavano dentro i guanti. L’afa e il peso del sacco la facevano ansimare. Possibile che non ci fosse un posto dove abbandonare finalmente quel sacchetto senza farsi vedere? Non riusciva a pensare ad altro. Ma purtroppo nel bosco non c’era un solo cesto per le immondizie. A poco a poco il bosco si diradò e davanti a lei si aprì un vasto prato. Aveva appena smesso di piovere e non c’era quasi nessuno – incredibile se pensava alla folla nei giorni della fioritura dei ciliegi! C’erano solo due ragazzi che si tiravano una palla da baseball. Un uomo che faceva una passeggiata. Una coppietta in costume da bagno che amoreggiava su un materassino color argento steso sul prato bagnato. Un gruppo di signore che guardavano i bambini giocare. Un uomo maturo che portava a spasso un grosso cane. Nessun altro. Il luogo ideale per sbrigare quella faccenda! Kuniko sorrise fra sé e sé. Camminò mantenendosi sotto l’ombra degli alberi in modo da non essere notata, cercando i cestini per le immondizie. Lanciò il primo sacco in un grande cesto vicino al campo da tennis. Ne abbandonò altri due in un cestino al limite di una piazzetta in cui erano installati degli attrezzi per i giochi dei bambini. Finì con l’imbattersi in un gruppo di vecchi che passeggiavano, e con aria indifferente si affrettò a rientrare nel bosco. Con questo metodo – cercare i cestini, aspettare che nessuno la vedesse, disfarsi di un sacchetto – ci mise quasi un’ora a eliminare tutti i quindici sacchi. All’improvviso, forse per il sollievo, le venne fame. In tutto il giorno non aveva mandato giù un boccone. Scorse un chiosco e si affrettò in quella direzione togliendosi i guanti di gomma, ripiegando il grande sacco nero e infilandoli in borsa. Comprò un hot-dog e una coca e si sedette a mangiare su una panchina. Gettando il piatto e il bicchiere di carta nel cestino della spazzatura, vide dei
resti di spaghetti di grano saraceno fritti coperti di mosche. Chissà quante mosche avrebbero ricoperto anche il contenuto dei sacchi che aveva appena buttato via, se si fossero lacerati! Ricoperto di mosche, e mangiato dai vermi… Le venne di nuovo da vomitare e la bocca le si riempì di saliva acida. Ora voleva solo andare a casa e dormire. Si alzò dalla panca, si ficcò tra le labbra una sigaretta al mentolo e si mise a correre sull’erba bagnata in direzione della sua Golf. Quando – barcollante per la mancanza di sonno, lo shock di ciò che aveva visto in casa di Masako e il lavoro nel parco – si fermò finalmente davanti alla porta di casa, vide un giovane avvicinarsi lentamente dal fondo del corridoio. Non aveva proprio idea di chi fosse. Indossava un completo sobrio e portava una valigetta nera da rappresentante. Ci mancava anche questa! Aprì frettolosamente la porta e cercò di rifugiarsi nel suo appartamento. Ma l’uomo l’aveva già chiamata: «Signora Jonouchi?» Aveva già udito quella voce. Come mai sapeva il suo nome? Kuniko gli rivolse uno sguardo diffidente. L’uomo si avvicinò sorridendo. Sotto al completo di lino scozzese portava una cravatta gialla a piccoli decori. Sembrava avere gusto, era snello e aveva i capelli tinti di castano – non era male. Aveva qualcosa di quei giovani attori affascinanti delle serie televisive. Kuniko si incuriosì. «Mi scusi se la trattengo. Mi chiamo Jumonji». L’uomo prese un biglietto da visita dal taschino della giacca e lo tese a Kuniko con un gesto che doveva essergli usuale. Kuniko lo lesse e non riuscì a trattenere un urlo soffocato. Vi era scritto: «Agenzia finanziaria Milione - Akira Jumonji - Direttore amministrativo». Era riuscita ad avere in prestito cinquantamila yen da Masako ma, impegnata com’era nello smaltimento dei sacchi, si era completamente dimenticata di andare in banca. Ma perché mai aveva fatto tutta quella fatica! Era davvero troppo cretina! Kuniko, che di solito era capace di rimanere imperturbabile, riuscì a malapena a dissimulare il nervosismo. «Ah sì, mi scusi. Ho il denaro, ma mi sono completamente dimenticata di cambiarlo. Ecco… ce l’ho davvero, aspetti!» Prese il portafoglio dalla borsetta e i guanti usa e getta caddero sul pavimento sporco. Jumonji si chinò a raccoglierli, li guardò perplesso e glieli restituì. Kuniko era sempre più agitata, anche se era un sollievo vedere che non si trattava del solito yakuza incaricato di riscuotere con la forza i crediti, ma di un giovane che sembrava anche sorprendentemente galante. Non le dispiaceva, forse avrebbe potuto anche averci una storia! Tutto sommato incominciava a ritrovare la fiducia in se stessa. «Erano cinquantacinquemila e duecento yen, vero? Mi può dare il resto di seicentomila?» Kuniko gli tese i cinque biglietti da diecimila avuti da Masako, insieme a quello che già aveva. Jumonji scosse la testa: «Ma non qui, la prego!» «Ah, preferisce che andiamo in banca e li versiamo sul suo conto?» Kuniko guardò l’orologio. Erano quasi le quattro del pomeriggio, avrebbe potuto versarli al banco automatico. «No, no, non è necessario. Li può consegnare tranquillamente a me. Avevo solo pensato ai vicini…» «Ah, mi scusi, a quello non avevo proprio pensato», Kuniko chinò leggermente la testa. «No, no, la capisco bene, sa? So che si trova in una situazione difficile e a maggior ragione apprezzo ancora di più la sua buona volontà». Jumonji scrisse la ricevuta e gliela consegnò insieme al resto, quindi le sussurrò con aria preoccupata: «Inoltre sembra che suo marito abbia rinunciato al suo posto nella ditta farmaceutica, vero?» «Già, è vero», ammise Kuniko. Dunque lo sapevano già! Si erano presi la briga di fare delle ricerche così accurate… Un po’ impressionata Kuniko proseguì: «È molto bene informato!»
«Sì, mi scusi, ma in certe situazioni ci permettiamo sempre di fare qualche controllo. E posso chiederle dove lavora adesso suo marito?» Jumonji continuava a sorridere. Benché fosse perfettamente consapevole che, nonostante il tono di voce soave e l’espressione gentile, lui stava cercando di imprigionarla nella sua ragnatela, si lasciò scappare quello che lui in nessun caso avrebbe dovuto sapere: «Ma, veramente… non lo so». «Che intende dire?» Jumonji piegò la testa di lato come se non riuscisse a capire. Era terribilmente sexy. Sembrava uno di quei giovani personaggi dei quiz televisivi, che chinano la testa dubbiosi anche alla domanda più semplice. Kuniko, colta dal desiderio di confidarsi, finì con il lasciarsi andare del tutto: «Ieri non è tornato a casa. Sono preoccupata, forse mi ha lasciato». «Mi scusi se sono indiscreto, ma siete regolarmente sposati, vero?» «No… insomma, viviamo insieme», mormorò Kuniko. A quel punto Jumonji sospirò: «Ah, è così dunque». Si aprì la porta dell’appartamento attiguo e apparve una donna con il bambino legato sulla schiena e il carrello della spesa ancora ripiegato. Le fece un breve cenno, senza nascondere la curiosità per l’uomo con cui stava parlando. Jumonji annuì e tacque finché la donna non sparì. Sembrava sinceramente preoccupato per il buon nome di Kuniko. «E che cosa farà, se se ne è veramente andato? Mi scusi se glielo chiedo, ma ha soldi abbastanza per vivere?» Kuniko era disperata. Esattamente quello era il punto! I centoventimila yen che guadagnava in fabbrica bastavano appena a pagare gli interessi del mutuo. Alle spese di casa aveva sempre provveduto Tetsuya con il suo stipendio. E se lui se ne era veramente andato, naturalmente la sua paga da sola non sarebbe bastata. «No, ha ragione. Forse dovrei trovarmi un altro lavoro». «Uhm…» fece Jumonji e, come se volesse riflettere, inclinò la testa di lato in quel suo modo particolare. «Anche con un altro lavoro potrà solo far fronte alle spese quotidiane. Mi scusi la franchezza, ma il suo problema sono i debiti, vero?» «Già». Kuniko era depressa. «Se vuole, forse potremmo parlare di un piano di restituzione, che cosa ne pensa?» Sembrava che Jumonji volesse entrare in casa. Kuniko si agitò: al mattino se ne era uscita arrabbiata nera, senza mettere in ordine, e l’appartamento era nel caos più totale. Non poteva di certo invitare in casa un uomo così affascinante! «Sì, ma…» «Di sicuro c’è un ristorantino da queste parti. Vogliamo andare a sederci lì? Ho l’auto posteggiata qui fuori». Kuniko si calmò e dimenticò la prudenza: «Va bene, mi attenda un attimo qui. Vorrei dare un’occhiata in casa». «Naturalmente, la aspetto in macchina. È una Nissan Maxima blu scuro». Jumonji fece un inchino perfetto, accompagnato dal suo migliore sorriso, e sparì. Una Nissan Maxima blu scuro! Avrebbero discusso del piano di restituzione! Seduti in un ristorantino! Kuniko entrò nell’appartamento. Per l’eccitazione si era già dimenticata quello che era successo a casa di Masako. Perché proprio oggi era uscita di casa senza trucco? E perché proprio oggi si era messa quegli stupidi jeans e quella vecchia T-shirt? Quasi quasi sembrava la maestra! E inoltre, come le era venuto in mente che gli uomini che andavano a riscuotere crediti fossero tutti degli yakuza? Mai si sarebbe aspettata di ricevere la visita di un uomo così giovane e carino! Mentre si spalmava velocemente il fondotinta sul viso, Kuniko riprese in mano il biglietto da visita di Jumonji e lesse: «Agenzia finanziaria Milione - Akira Jumonji Direttore amministrativo».
Direttore amministrativo era sinonimo di presidente. Non si chiese come mai un presidente andasse personalmente a riscuotere i crediti, né la insospettì quel nome che suonava come un nome d’arte – ora l’unica cosa che la interessava era il giovane uomo affascinante del quale si era completamente infatuata.
6. Erano seduti al ristorante. Jumonji beveva il pessimo caffè che gli avevano servito e osservava il volto di Kuniko seduta di fronte a lui. Mentre l’attendeva in auto, Kuniko si era evidentemente presa la briga di truccarsi, perché era un po’ meglio di come non gli fosse sembrata nella penombra del corridoio, e tuttavia la spessa riga di eye-liner intorno agli occhi, il fondotinta steso male e il trucco pesante accentuavano l’impressione di una donna di età indefinibile, dalla personalità vagamente equivoca. Jumonji, che in ogni caso prendeva in considerazione solo le ragazze sotto i vent’anni, provava repulsione nei suoi confronti – anche se in fondo non gli aveva fatto niente di male. Era fermamente convinto, infatti, che dopo una certa età le donne diventassero più depravate. Anche questa un’obbligazione fasulla, pensò Jumonji fissando i denti sporgenti di Kuniko, che chiacchierava raccontandogli quanto fosse duro il lavoro allo stabilimento delle colazioni. Sugli incisivi si vedevano tracce del rossetto rosa. «Allora lei, signora Jonouchi, non ha alcuna intenzione di lavorare di giorno?» «Ce l’avrei. Ma è difficile trovare un lavoro adatto a me», rispose Kuniko con aria depressa. «Che cosa le piacerebbe fare?» «Un lavoro d’ufficio non sarebbe male, ma in questo campo non ci sono offerte». «Ma lei deve cercare, vedrà che lo troverà!» disse a caso Jumonji e intanto pensava: anche se ce ne fossero, a te non ti prenderebbe nessuno. Che Kuniko fosse una megera inaffidabile era lampante. Nonostante avesse poco più di trent’anni, ne aveva incontrata un sacco di gente come lei. Apparteneva a quel tipo di donne che ruba il materiale di cancelleria e usa il telefono dell’ufficio per le proprie conversazioni private se solo le si tolgono per un attimo gli occhi di dosso. Una di quelle che mancano dal lavoro senza giustificazione e che arraffano senza scrupoli tutto quello che possono. Se fosse dipeso da lui, una come lei sarebbe stata sempre senza lavoro. «Allora, signora Jonouchi, questo significa che vuole andare avanti solo con la sua attività notturna?» «Ma che cosa dice! Attività notturna! Come se fossi una di quelle…» Kuniko rise con civetteria. Non c’era niente da ridere. Come se fosse troppo raffinata per fare quel mestiere! Quando era sommersa dai debiti fino al collo! Adesso ti sistemo io, pensò Jumonji disgustato e posò con decisione la pesante tazza del caffè sul piattino. Non poteva più sopportare quella donnaccia! «Posso parlarle francamente?» «Sì…» Kuniko assunse un’espressione seria. «Anche se può sembrare indelicato, sono costretto a chiederle se è sicura di poter versare la prossima rata». Jumonji atteggiò il viso a un’intensa preoccupazione. Con le belle sopracciglia aggrottate e l’espressione seria e vagamente ingenua, aveva assunto un’aria compunta e affidabile, di cui andava orgoglioso. Sapeva che le donne non potevano resistergli quando faceva quella faccia. Come aveva previsto, Kuniko si sciolse e incominciò ad agitarsi per l’imbarazzo. Come se uno che prestava soldi potesse permettersi di essere ingenuo, pensò maligno il perfido Jumonji. «Certamente, le do la mia parola. In definitiva sono obbligata a pagare!» «Sì, ha ragione. Ma come pensa di fare? Dal momento che non sa dove si sia cacciato il suo compagno, ha bisogno di un nuovo garante». L’uomo di Kuniko, ora scomparso, aveva avuto un’occupazione stabile solo negli ultimi due anni, ma la ditta in cui era impiegato era quotata nella borsa di Tokyo. Solo per questo le avevano fatto subito un prestito di ottocentomila yen. Forse Kuniko aveva pensato che bastasse andare lì e chiedere per avere subito del denaro, ma senza il suo uomo – convivente o marito che fosse – non avrebbe più
visto uno yen. E dal momento che ora si era licenziato ed era sparito, per loro era chiaro come il sole che mai avrebbero avuto indietro i soldi. Avrebbe voluto stritolarla: ma chi credeva che sarebbe stato disposto a fare un prestito a una come lei?! «Capisco, ma non mi viene in mente nessuno che possa garantire per me». Sembrava che non le fosse neppure passato per la testa che ci volesse un altro garante. Era costernata. «I suoi genitori vivono nell’Hokkaido, vero?» domandò Jumonji esaminando il formulario che aveva portato con sé. Kuniko aveva scritto l’indirizzo e il luogo di lavoro dei genitori, ma il rigo “Altri parenti” era vuoto. «Sì. Mio padre vive lì, ma è malato». «Ma la aiuterebbe di sicuro, se sapesse che la sua bambina è in difficoltà, vero?» «Escluso. Non fa che entrare e uscire dagli ospedali. E inoltre anche lui non ha uno yen». «Andrebbe bene chiunque, un parente o un amico. Mi basterebbe la sua firma e un timbro qualsiasi, non c’è bisogno di autentica». «Non ho nessuno». «Male, e adesso cosa facciamo?» sospirò teatralmente Jumonji. «Deve ancora finire di pagare la rata dell’auto, vero?» «Sì. Ancora due anni, no tre…» «E la carta di credito?» «Preferisco non pensarci!» Dopo questa vaga risposta, Kuniko restò inebetita a guardare davanti a sé, dimenticandosi persino di fumare la sigaretta. Il suo sguardo era fisso sull’hamburger che una cameriera in grembiulino rosa stava portando a un tavolo. Stupito Jumonji si accorse delle gocce di sudore che si formavano sulla fronte della donna. «Che cosa c’è adesso, si sente bene?» «Non è niente, è solo che quella carne mi ha fatto impressione». «Non le piace la carne?» «Non particolarmente». «Per questo ha una così splendida figura!» Poteva anche risparmiarselo, questa era davvero un’esagerazione. Jumonji fece un sorriso di circostanza ma decise di smetterla con i complimenti. Aveva un solo pensiero nella testa: come riuscire a riprendersi il denaro da quella svampita che non si rendeva conto della situazione in cui si trovava. In un altro caso l’avrebbe immediatamente infilata in un bordello, se avesse interrotto i pagamenti, ma con quella faccia e quel corpo non sarebbe riuscito a tirarne fuori molto. E se l’avesse mandata da qualche altro usuraio? Non era facile trovarne uno così stupido da prestarle dei soldi senza la garanzia di un marito. Il vero problema era dunque scoprire dove si trovava l’uomo… Scocciato Jumonji pensò alla fatica che avrebbe dovuto fare per rintracciarlo. Tutto a un tratto Kuniko alzò la testa: «Però avrei un’altra possibilità di procurarmi denaro. Credo di farcela. E poi, naturalmente, mi cercherò un lavoro per il giorno». «Ah, e di che tipo di possibilità si tratterebbe? Un piccolo lavoro part-time o qualcosa del genere?» «Già, si potrebbe anche chiamare così». «E quanto riuscirebbe a ricavarne?» «Senz’altro duecentomila». Che fosse una bugia buttata lì per tenerselo buono? Jumonji la scrutò: il suo sguardo era irrequieto ma gli occhi brillavano selvaggi come quelli di una belva. Quel guizzo sinistro lo turbò. Prima, quando era impiegato in una società di riscossione crediti e non aveva una propria agenzia, aveva incontrato spesso gente pericolosa, soprattutto uomini. Non si sarebbero tirati indietro
di fronte a niente pur di tirarsi fuori dai guai: truffe, rapine, qualsiasi cosa andava bene. Quando uno si accorge di non avere vie di uscita, esplode e rivolge la propria aggressività verso gli altri. Ma Kuniko non era una temeraria, in lei si intuiva piuttosto un’ombra cupa, ancora più torbida. Solo una volta gli era successo di provare la stessa sensazione, e sempre con una donna. Frugò mentalmente nel cassetto della memoria alla ricerca di quel viso. Dopo la visita di Jumonji e dei suoi compagni la donna aveva scritto una interminabile lettera di addio carica di odio, aveva gettato nel fiume da un ponte i figli ancora vivi e poi si era suicidata. Era scampato solo il marito. Donne di quel genere sono bravissime a rimuovere le proprie colpe e ad addossarle agli altri. Coltivano le proprie manie di persecuzione e, come se non bastasse, trascinano nel loro pantano anche chi non ha nessuna colpa. Jumonji ebbe l’impressione che un’aura malsana, quasi demoniaca emanasse da Kuniko. Infastidito abbassò lo sguardo e fissò le gambe nude di alcune liceali che sedevano fumando in pace al tavolo vicino. «Forse anche cinquecentomila, Jumonji-san…» aggiunse Kuniko con un lieve sorriso. Lui la interruppe: «Vuole dire un’entrata fissa?» «Questo no, ma…» ammise Kuniko guardandolo di traverso. «No, non un’entrata regolare, ma qualcosa di simile, credo». Forse aveva davvero una fonte segreta di guadagno, una vacca da mungere. A ogni modo che spillasse il denaro a un vecchio o che vendesse il suo corpo a lui non importava. Jumonji decise di non occuparsi dei suoi affari personali. Bastava che lo pagasse. In ogni caso le avrebbe chiesto un garante e avrebbe aspettato un poco per capire la situazione. «Va bene. In fondo non ha ancora ritardato i pagamenti. Facciamo così, venga in ufficio domani o dopodomani. Se preferisce, posso tornare io a trovarla. Nel frattempo si procuri la firma e il timbro di un garante», le raccomandò consegnandole il formulario. «Ma è necessario un garante anche se posso pagare?» protestò Kuniko facendo una smorfia. «Ho paura di sì. Deve capire che la scomparsa del suo compagno costituisce un fattore di rischio per noi. La prego quindi di cercare qualcuno già entro questa sera. Mi raccomando». «Se non si può fare diversamente…» Kuniko annuì riluttante. «Già, questo prima di tutto». «Ah». Kuniko abbassò gli occhi e si passò la punta della lingua sulle labbra come se volesse leccarsi via il rossetto. «La saluto». Jumonji afferrò il conto e si alzò. Il disappunto sul volto di Kuniko era palese. Era stupita che lui non facesse nemmeno la mossa di riaccompagnarla a casa, ma persino un caffè era troppo per una come lei, pensò Jumonji lasciandola sola e uscendo in fretta dal locale. All’uscita, come per scuotersi di dosso il cattivo umore che lo assaliva ogni volta che aveva a che fare con i debitori insolventi, si tolse un filo dall’abito. Non che quel lavoro gli dispiacesse, al contrario. I più cercavano in qualche modo di evitare di pagare, pur sapendo che comunque i debiti non si dissolvono nell’aria come bolle di sapone. Lui doveva anticiparli, prendere le misure necessarie e costringerli a sborsare. Si divertiva a metterli con le spalle al muro, anzi ne traeva un vero piacere. Tornato alla sua Maxima ferma nel grande posteggio del ristorante, notò una Nissan Gloria nera dai vetri azzurrati parcheggiata accanto alla sua. Prese la chiave nella tasca dei pantaloni e stava per aprire la portiera quando il finestrino della Gloria si abbassò e si affacciò un uomo dal viso magro: «Ehi, Akira! Che mi venga un colpo se non sei Akira!» Era Soga, uno che aveva conosciuto ad Adachi, il distretto più settentrionale di Tokyo. Allora frequentavano le medie nel quartiere di Takenozuka e Soga era di due anni avanti rispetto a lui. Finita la scuola era entrato in una banda di motociclisti e poi – a quanto ne sapeva – era diventato membro effettivo di una cosca yakuza.
«Ah, Soga-san! Sono contento di vederla!» lo salutò Jumonji sorpreso. Erano passati più o meno cinque anni da quando si erano incontrati in uno snack-bar di Adachi e avevano bevuto qualcosa insieme. Era magro come una volta, il volto affilato e la pelle livida e giallastra, come se soffrisse di fegato. Allora Soga era ancora un giovane scagnozzo, all’ultimo posto nella gerarchia degli yakuza, ma a quanto pareva aveva fatto carriera. Jumonji lo valutò con occhio esperto: aveva i capelli impomatati pettinati all’indietro e indossava un elegante completo azzurro cielo e una camicia color amaranto. «Sono contento di vederla… Puah, lascia stare i complimenti! Piuttosto dimmi che cosa fai in questo posto dimenticato da Dio!» disse Soga scendendo dalla macchina con un largo sorriso. «C’è forse una riunione?» «Riunione? No, è un pezzo che non sono più nella banda!» Jumonji scoppiò a ridere. «Adesso mi faccio gli affari miei!» «Affari? E che razza di affari?» Soga, le mani infilate nelle tasche, spiò all’interno dell’auto di Jumonji. Tutto era perfettamente pulito e in ordine, l’unica cosa che si vedeva era un atlante stradale sul sedile. «Uomo, manca qualcosa in questa carretta! Niente volante sportivo, niente sedili in pelle, neanche una coda di volpe!» lo motteggiò Soga. «Ma che cosa va a pensare! Sono cose del passato!» «E poi guarda che taglio! Come fai a farti rispettare? Sembri uno sbarbatello!» Soga osservava stupito la scriminatura centrale dei capelli di Jumonji. «Ripeto che non ne ho alcun bisogno, adesso faccio un lavoro pulito!» «Non mi dire che sei diventato un normale borghesuccio qualsiasi!» Con una smorfia sarcastica Soga lo afferrò per il bavero. «Lavoro nel ramo dei finanziamenti, piccoli crediti e cose del genere». «Ah, suona già un po’ meglio! Sei sempre stato irrimediabilmente tirchio. Come si dice: ognuno ha quel che si merita!» «E lei, Soga-san?» domandò a sua volta Jumonji facendo un mezzo passo indietro. «Io sono uno di questi», rispose l’uomo, tracciando in aria uno stemma yakuza, ed esattamente quello di un sottogruppo della Tekiya che imperversava nel distretto di Adachi. «Questo lo sapevo già», replicò Jumonji con un sorrisetto. «Intendevo, che cosa la porta da queste parti?» «Uhm…» mugolò Soga guardando da una parte, verso due auto ferme al limite del posteggio. Jumonji seguì il suo sguardo. Sembrava che ci fosse stato un incidente. Un uomo di mezza età guardava per terra con l’aria spaventata. Davanti a lui un ragazzo in abiti sgargianti continuava a inveire. Una delle auto, di produzione nazionale, aveva il paraurti se riamente lesionato. «Un incidente?» «Sì, prova a immaginare, quel vecchio orbo ci è venuto addosso!» «Ah». Adesso capiva: qualcuno gli aveva detto che ultimamente si erano moltiplicate le bande specializzate nell’inscenare incidenti stradali, che dal centro ora premevano verso i quartieri periferici. Pochi giorni prima un suo collega gli aveva perfino inviato una e-mail con le targhe delle auto con cui operavano. Cercavano una vittima, le si mettevano davanti e frenavano di colpo: il tamponamento era inevitabile. Quando il malcapitato scendeva sconvolto dall’auto, avevano tutto il tempo di osservarlo e valutare la sua reazione e decidere infine quale strategia usare per spillargli denaro. Jumonji conosceva i metodi di queste bande, ma non sapeva che anche l’organizzazione di Soga operasse in quel settore. «Ne ho già sentito parlare. Quindi siete voi!». «Ah, la gente parla fin che ha fiato! Sempre i soliti discorsi! Ma è stato quello scemo a
tamponarci, e noi siamo i danneggiati!» piagnucolò Soga con una faccia da angelo innocente. Kuniko, appena uscita dal ristorante, li guardò impaurita. Quando si accorse che la osservavano girò sui tacchi e se la diede a gambe. Probabilmente ne aveva avuto abbastanza, adesso avrebbe sicuramente cercato subito un garante, pensò Jumonji, congratulandosi tra sé e sé per l’insperato effetto “collaterale” del suo incontro con Soga. «Soga-san, adesso andiamo all’ospedale», venne ad avvisarlo uno dei giovani che discutevano con l’uomo di mezza età. L’altro, accovacciato accanto all’auto, si premeva la nuca con gesto teatrale. La vittima del raggiro gli rivolgeva timorosamente la parola. Quello è proprio un bel pollo, pensò Jumonji. Non gli faceva pena. Gente così cretina non si meritava niente di meglio. «Ah, Akira», disse Soga con aria protettiva, tendendo la mano dura e nervosa a Jumonji, «dammi il tuo biglietto da visita». «Oh, mi scusi per non averci pensato!» Jumonji tirò fuori un biglietto dal taschino interno della giacca e glielo porse con disinvoltura professionale: «Mi raccomando a lei». «Che cosa vedo qui?!» Soga scoppiò a ridere non appena lesse il biglietto. «Non ti sei mai chiamato Jumonji!» In realtà il suo vero nome era Akira Yamada. Un nome troppo comune, perciò in quattro e quattr’otto aveva deciso di cambiare il cognome e di prendere quello del suo campione di ciclismo preferito. «Suona strano?» «Ma senti un po’, certo che è strano. Un nome d’arte! Sei sempre stato un vanitoso! Bravo!» commentò Soga ficcandosi in tasca il biglietto. «Be’, era destino che ci incontrassimo qui. Vorrà dire che continueremo a beccarci come un tempo, eh?!» «Bella idea», annuì Jumonji per non rovinare l’atmosfera. Benché ora facesse di tutto per sembrare una persona per bene, una volta anche lui aveva fatto parte di una banda di motociclisti insieme a Soga. «Sì, chissà che non riusciamo a fare qualcosa insieme! Se vuoi ti presto uno dei miei ragazzi per riscuotere i crediti». «Grazie, se ne avessi bisogno ne approfitterò senz’altro. Ma per ora trattiamo soltanto piccole somme, non è un grosso giro d’affari!» Se avesse esagerato con le minacce ai clienti, sarebbero scappati tutti. E avrebbe perso interessi e capitale. I conigli devono essere trattati come conigli. In quel mestiere l’arte stava tutta nel trattare con la gente nel modo più adatto. «Okay, niente complimenti. Se hai bisogno di qualcuno, chiedimelo. Ma lo so che tu, con quella faccetta ingenua, sei un gran furbacchione!» Soga gli diede un buffetto sulla guancia. «Sei un tipaccio. Mi piacerebbe che qualcuno dei miei ragazzi avesse il cervellino che hai tu. E invece sono tutti cretini, non sai quanto devo faticare a stargli dietro! La cosa che mi piacerebbe di più sarebbe di fargli fare un bell’apprendistato nella nostra vecchia banda!» borbottò rivolgendo uno sguardo tagliente ai ragazzi. «Ma piuttosto, Soga-san, non ha per caso in vista qualche buon affare per me?» «Non farmi ridere! Come se non stessimo tutti cercando la stessa cosa!» Soga distolse lo sguardo da Jumonji e, di nuovo serio, risalì in macchina. Per tutto il tempo un ragazzo con i capelli biondi tinti, la cui unica funzione era evidentemente quella di fargli da autista, lo aveva aspettato tenendo la portiera aperta piegato in un inchino. Jumonji salutò e seguì con lo sguardo l’auto di Soga finché non ebbe lasciato il parcheggio. Poi se ne andò anche lui. Invece di offrirgli uno dei suoi stupidi scagnozzi, avrebbe potuto dargli l’occasione di fare un po’ di soldi! Alla fin fine i soldi non bastavano mai. In un vicoletto dietro alla stazione di Higashi-Yamato c’era una squallida bottega di sushi specializzata nel servizio a domicilio. Le tendine erano sporche e il motorino che veniva usato per le consegne era tutto schizzato di fango. Nel retrobottega un ragazzo stava pulendo un mastello con una
spazzola da gabinetto. Era solo questione di tempo, prima o poi l’ufficio di igiene l’avrebbe fatta chiudere. Accanto alla porta una scala che sembrava costruita da poco portava al piano superiore dove, in fondo al corridoio, aveva sede la finanziaria di Jumonji. L’uomo salì la scala scricchiolante a passi veloci e vigorosi. Aprì la porta di compensato su cui era infissa una targa bianca con scritto «Agenzia finanziaria Milione». «’Sera», lo salutarono i due impiegati girandosi verso di lui. C’erano un computer, alcuni telefoni, un giovane dalla faccia annoiata e una donna con una pettinatura arruffata alla selvaggia, ricordo dei primi anni Ottanta, per la quale era decisamente troppo vecchia. «Sì, ’sera. È successo qualcosa?» «Negativo. Oggi pomeriggio nulla». Benché sapesse che il tentativo era destinato a fallire, Jumonji incaricò il ragazzo di indagare su Tetsuya, l’uomo di Kuniko, per sapere dove se ne fosse andato. «Non servirà a molto, credo, ma va bene». «No, no, lascia perdere. Probabilmente hai ragione e inoltre ci costerebbe». Il giovane impiegato, che non sembrava molto propenso a indagare, annuì rasserenato. La donna con la pettinatura selvaggia, che nel frattempo aveva continuato a guardarsi svagata le unghie laccate di rosso, si alzò e chiese: «Capo, posso andarmene adesso? Io lavoro fino alle cinque». «Sì, grazie, a domani». Aveva pensato spesso di sostituirla con una giovane impiegata, ma aveva subito accantonato l’idea, perché una giovane non gli sarebbe servita a nulla. Molti clienti abboccavano solo perché il primo contatto avveniva con una donna anziana. Che fosse meglio licenziare il ragazzo? Negli ultimi tempi non riusciva a pensare ad altro che a ridurre i costi. Guardò fuori dalla finestra domandandosi incuriosito quale fosse la fonte di denaro cui aveva accennato Kuniko. Si fermò a contemplare il sole estivo che stava tramontando oltre le erbacce e le sterpaglie che crescevano sull’area edificabile recintata davanti alla stazione.
7. Udiva qua e là il frinire dei grilli. Un brusio intenso e pacifico che dava una sensazione di umido, di erba bagnata dalla rugiada notturna. Lì era diverso che a São Paulo. A São Paulo il clima era caldo e secco, e gli insetti in estate frinivano con un bel tono tintinnante, come campanelli agitati dal vento. Kazuo Miyamori era nascosto tra l’erba alta, le braccia intorno alle ginocchia. Un paio di zanzare fastidiose lo tormentava da un pezzo, non volevano lasciarlo in pace. Lo avevano già morso più volte – non sapeva quante – sulle braccia nude, ma doveva rimanere immobile: era una prova che si era imposto. Aveva l’abitudine di imporsi sempre una prova da superare, era il suo modo di mantenersi a galla. Era convinto che, se non si fosse sottoposto di continuo a qualche prova, si sarebbe perso. Aguzzò le orecchie nel buio e ascoltò, oltre il frinire dei grilli, il più lontano furtivo fluire dell’acqua. Non gorgogliava né mormorava: era piuttosto un borbottio sordo, che faceva pensare a un liquido denso, viscoso. Kazuo sapeva che era l’acqua di scolo fangosa, torbida e dal fetore insopportabile che scorreva nel canale sotterraneo. Era sorprendente che persino quell’acqua putrida, in cui gli escrementi si mischiavano a carogne di animali e rifiuti di ogni tipo, potesse dare l’impressione di un incessante fluire. Soffiò il vento e si insinuò tra l’erba facendola ondeggiare. La serranda arrugginita alle sue spalle vibrò e si mise a gemere come un animale ferito. Il suono triste gli riportò alla mente il vuoto desolato della fabbrica dismessa che si estendeva come un antro alle sue spalle. Contro quella serranda aveva spinto la donna con tutte le sue forze. Un rivoletto di sudore freddo incominciò a scendergli giù per la schiena. Che cosa si era sognato di fare?! Cosa gli era successo la sera prima? Doveva essere uscito di testa! Ecco cosa gli succedeva quando si dimenticava di sottoporsi alle prove: diventava un individuo talmente abbietto! Strappò uno stelo d’erba e si mise a giocherellare con la spiga, morbida come la coda di un gattino. Il padre di Kazuo Miyamori era andato in Brasile da solo, nel 1953, quando, dopo la guerra, i giapponesi ebbero di nuovo il permesso di emigrare. La sua famiglia era originaria dell’isola di Kyushu, prefettura di Myazaki. Lui aveva appena compiuto diciannove anni. Era giunto in Brasile con l’intenzione di iniziare un’attività, confidando nell’aiuto di un parente che lavorava nella piantagione di un giapponese alla periferia di São Paulo. Tuttavia la differenza di mentalità fra la generazione dei vecchi coloni emigrati prima della guerra, che avevano dovuto lavorare duramente e sopportare infinite privazioni, e la sua, che aveva respirato l’aria di libertà del dopoguerra, era troppo grande. Perciò il padre di Kazuo, dotato di un forte senso di indipendenza, era fuggito dalla piantagione e si era messo a girovagare per le strade di São Paulo, dove non conosceva anima viva. Lì aveva incontrato un brav’uomo, un barbiere brasiliano, che lo aveva assunto come apprendista e gli aveva insegnato il mestiere. A trent’anni aveva poi rilevato la bottega e, una volta sistemato, aveva sposato una mulatta. Poco dopo era nato Roberto Kazuo. Dopo dieci anni – il bambino era ancora piccolo – il padre morì in un incidente: era questo il motivo per cui Kazuo non sapeva quasi nulla della lingua e della cultura del padre. Del Giappone gli rimanevano soltanto la nazionalità e il suo secondo nome. Terminata la scuola superiore a São Paulo, incominciò a lavorare in una tipografia, e un giorno vide per strada un manifesto. C’era scritto: «L’occasione della vostra vita! Venite a lavorare in Giappone!». Poi spiegava che i brasiliani di origine giapponese che avevano mantenuto la cittadinanza potevano entrare in Giappone senza esibire alcun visto e lavorarvi per tutti gli anni che desideravano.
Inoltre il Giappone era in pieno boom economico, mancava la manodopera e i lavoratori brasiliani erano molto apprezzati. Chissà se era vero. Chiese a un suo conoscente di origine giapponese, e questo gli spiegò che non c’era al mondo paese più ricco del Giappone. Nei negozi si trovava qualsiasi tipo di merce, e la paga di una settimana corrispondeva allo stipendio mensile della tipografia. Kazuo era orgoglioso di avere sangue giapponese nelle vene e aveva sempre sperato di potere prima o poi vedere con i propri occhi il paese paterno. Pochi anni dopo lo stesso conoscente ricomparve con un’auto nuova. Kazuo lo invidiava con tutta l’anima. In Brasile continuava una congiuntura economica di cui non si intravedeva la fine. Con quello che guadagnava nella tipografia non sarebbe mai riuscito a realizzare il suo sogno: comprarsi un’automobile. Prese allora la decisione che avrebbe cambiato la sua vita: sarebbe andato in Giappone. In due anni di lavoro sarebbe riuscito a comperare una macchina e, se avesse avuto un po’ più di pazienza e avesse risparmiato, avrebbe potuto acquistare anche una casa. E inoltre avrebbe conosciuto il paese del padre. Kazuo disse a sua madre che voleva andare in Giappone. Temeva che si sarebbe opposta, invece approvò convinta il suo piano: «Va’, figlio mio, assolutamente! Anche se non conosci la lingua, se lì hanno un’altra cultura, il tuo sangue è per metà giapponese e quindi sei un patricio, un compatriota, e i patricios vengono sempre trattati bene, è una questione di educazione e umanità!» Lì in Brasile i figli degli immigrati giapponesi che avevano avuto successo avevano frequentato l’università e ricevuto un’educazione raffinata e facevano parte dell’élite più elevata. Ma per lui era diverso. Era solo il figlio di un barbiere di periferia. Per questo doveva emigrare nella patria del padre, risparmiare, ritornare in Brasile con i soldi e lì costruirsi un futuro. Non era forse quella la cosa più giusta da fare per il figlio di un uomo che aveva dimostrato un così grande spirito di indipendenza e un animo così intraprendente? Kazuo si licenziò dalla tipografia in cui lavorava da sei anni, e atterrò finalmente all’aeroporto di Narita. Questo era successo circa sei mesi prima. Quando pensava al padre emigrato tutto solo in Brasile a diciannove anni veniva assalito dalla commozione. Lui aveva venticinque anni, era in Giappone e aveva un permesso di lavoro valido per due anni. Ma lì, nella patria di suo padre, per la gente Kazuo, nelle cui vene scorreva lo stesso sangue, non era un patricio. All’aeroporto, per strada, ogni volta che incontrava qualcuno si sentiva guardato come un gajin, uno straniero, e avrebbe voluto urlare: «Io sono per metà come voi! Ho la cittadinanza giapponese!» Ma i giapponesi non ammetterebbero mai che uno con lineamenti diversi e che non parli la loro lingua sia uguale a loro. Kazuo dovette ammettere che i giapponesi alla fin fine giudicano le persone dal loro aspetto. E inoltre che per la gente di questo paese il concetto di patricio è quasi del tutto estraneo. Nonostante essere compatrioti sia un problema piuttosto metafisico, la quasi totalità dei giapponesi non riesce neppure a concepirlo. Alla fine Kazuo dovette riconoscere che con quella faccia e quel corpo sarebbe stato sempre considerato un gajin e questa fu una grande delusione. Anche il lavoro da operaio nello stabilimento delle colazioni era duro e stupido rispetto a quello che aveva fatto in Brasile, e spegneva qualsiasi motivazione ed entusiasmo. A quel punto Kazuo aveva deciso di considerare i giorni in Giappone come una prova. Una prova che avrebbe superato se per due anni fosse riuscito a lavorare e risparmiare per comperarsi un’automobile. Il suo modo di intendere una prova era tuttavia molto diverso da quello di sua madre, che era una fervente cattolica. La prova, secondo Kazuo, doveva essere scelta volontariamente – una sorta di astinenza e di autocontrollo in vista di uno scopo –, non imposta da Dio. La notte precedente aveva stranamente dimenticato di essersi dato delle regole. Si infilò uno stelo in bocca, si sdraiò sull’erba e alzò lo sguardo al cielo. Le stelle erano molto meno numerose che in Brasile.
Il giorno prima non era andato a lavorare. Gli operai brasiliani avevano un giorno di riposo ogni cinque di lavoro, ma questo contrastava con il ritmo settimanale a cui erano abituati e faceva sballare il loro orologio interno. Perciò alla vigilia del turno di riposo erano tutti sfiniti. Era il suo sospirato giorno di vacanza, Kazuo era stanco e avrebbe voluto rimanere a letto tutto il giorno. Era molto depresso, senza una ragione precisa. Forse dipendeva dalla stagione delle piogge, che sperimentava in Giappone per la prima volta, pensò Kazuo. A causa dell’elevatissima umidità i capelli neri e brillanti gli restavano appiccicati al cranio e il suo volto abbronzato sembrava sporco e livido. Inoltre la biancheria non si era asciugata. Era sempre più depresso. Senza indugiare oltre decise di fare una gita in una cittadina chiamata Little Brazil, al limite fra le prefetture di Gunma e Saitama, dove avrebbe potuto fare qualche spesa. Con l’auto non avrebbe impiegato molto ma, non avendo né auto né patente, dovette prendere prima il treno e poi l’autobus e ci mise circa due ore. Sfogliò delle riviste in una libreria della Brazilian Plaza, comprò dei cibi brasiliani che gli servivano e curiosò in un negozio di video. Al momento di tornarsene a Musashi-Murayama la nostalgia del Brasile e di São Paulo era così forte che decise di fermarsi ancora un po’. Entrò in un ristorante e ordinò della birra brasiliana: anche se non c’era nessuno dei suoi amici, gli piaceva lo stesso stare lì a parlare con dei brasiliani sconosciuti. Gli sembrava di essere nella città vecchia di São Paulo. Gli alloggi per gli operai scapoli si trovavano accanto allo stabilimento: monolocali per due persone con una piccola cucina. Kazuo divideva l’appartamento con un compagno di nome Alberto. Quando, dopo le nove di sera, tornò da Little Brazil, Alberto doveva essere uscito per la cena e la casa era immersa nel buio. Kazuo era ubriaco: era il suo giorno di riposo e grazie all’alcol si sentiva un po’ rilassato e stordito; si arrampicò al piano superiore del letto a castello e si addormentò. Dopo circa un’ora venne destato da un gemito. Il suo compagno doveva essere rientrato e ora si agitava avvinghiato alla sua amica nel letto sotto al suo. Sembrava che non si fossero accorti della sua presenza, perché non facevano niente per non farsi sentire. Era molto tempo che non udiva la voce dolce e piena di piacere di una donna così vicino a sé. Si tappò le orecchie ma era ormai troppo tardi: gli sembrò di essere investito da un grande calore, come se gli avessero dato fuoco. Cercò di non mancare alla nuova prova, ma che cosa poteva fare se non riusciva a soffocare l’eccitazione? Poteva esplodere da un momento all’altro. Gli sembrò di impazzire, si tappò le orecchie con le mani, serrò le labbra e cercò di non far rumore mentre si contorceva senza tregua nel letto. Per i due era giunta l’ora di andare a lavorare. Si rivestirono e uscirono scambiandosi baci appassionati. Kazuo si buttò in strada e incominciò a vagare nella notte alla ricerca di una donna. Si sentiva il fuoco addosso e doveva trovare il modo di spegnere quell’incendio. Era la prima volta in vita sua che si trovava in una situazione del genere ed ebbe paura: evidentemente le prove a cui si era sottoposto avevano in qualche modo contribuito ad aumentare la forza di quell’esplosione e ora non riusciva più a controllarsi. Si ritrovò sulla strada buia che portava allo stabilimento. Vicino a lui la fabbrica dismessa e una pista da bowling chiusa da tempo – non c’era anima viva. Se avesse aspettato, forse sarebbe passata qualche operaia del turno di notte, pensò. La maggior parte di loro aveva almeno l’età di sua madre, quando non erano più vecchie, ma la cosa non gli importava. Ma forse era già troppo tardi, perché non passava nessuno. Grazie a Dio, si disse, continuando tuttavia a rimanere appostato come un cacciatore in attesa di una preda che tarda a comparire. Ed ecco quella donna uscire dall’oscurità e avvicinarsi a passi veloci. Sembrava completamente immersa nei propri pensieri e non si accorse di Kazuo che si avvicinava per parlarle. Perciò l’aveva afferrata per il braccio. Lei lo aveva istintivamente respinto, e lui aveva visto, nonostante il buio, l’espressione di paura nello sguardo; così l’aveva trascinata tra i
cespugli. Non era forse vero che non aveva assolutamente avuto l’intenzione di violentarla? Il suo unico desiderio era di essere accolto dolcemente tra le braccia di una donna. Potere sfiorare con le mani il suo morbido corpo, la sua pelle delicata! Eppure, sentendosi respinto, era stato colto da un impeto di violenza, dal desiderio di sopraffarla. La donna l’aveva riconosciuto e aveva domandato gelida: «Lei è Kazuo Miyamori, vero?» In quell’attimo era stato assalito dalla paura. L’aveva guardata bene e si era accorto che anche lui la conosceva. Era la donna alta, che arrivava sempre insieme a quella carina e che non rideva quasi mai. A giudicare dalla sua espressione aveva sempre pensato che, come lui, avesse una prova difficile da superare. Era proprio lei! La paura si mutò in un terribile rimorso: era stato sul punto di commettere un delitto. Quando lei a un tratto aveva detto: «Ci vedremo un’altra volta, solo noi due!», si era aggrappato disperatamente alle sue parole. Per un attimo aveva addirittura pensato di essersi innamorato di quella donna molto più vecchia di lui, ma poi, quando aveva capito che aveva parlato a caso, solo per tirarsi fuori da quella situazione, si era sentito ribollire di un’oscura, torbida rabbia. Perché non riusciva a capire che lui era solo triste e abbandonato? Non voleva violentarla! Voleva solo un po’ di gentilezza: perché non gliela concedeva? Incapace di resistere all’impeto dei sentimenti, Kazuo aveva premuto il corpo della donna contro la serranda e l’aveva baciata con forza. Adesso si vergognava per quanto aveva fatto. Kazuo si nascose il volto tra le mani. Il pensiero di quello che era successo in seguito gli era ancora più insopportabile. Dopo che la donna si era liberata dalla sua stretta ed era corsa via fuggendo, Kazuo aveva pensato con terrore che sarebbe andata a denunciarlo al responsabile dello stabilimento o alla polizia. Ricordò che stavano cercando un maniaco sessuale. Anche fra i brasiliani si parlava spesso, negli ultimi tempi, del maniaco che si appostava di notte intorno allo stabilimento: alcuni si chiedevano se non fosse tutta un’invenzione, altri chi potesse essere il colpevole. In ogni caso il maniaco non era certamente lui, doveva assolutamente spiegarlo a quella donna e chiederle scusa. Perciò non era riuscito a chiudere occhio per tutta la notte ed era rimasto a gironzolare senza pace nei dintorni, in attesa che arrivasse il mattino. Si era messo a piovere: quella sottile, delicata pioggerella giapponese che Kazuo non poteva soffrire. Era tornato all’appartamento a prendere l’unico ombrello che aveva ed era rimasto ad attendere la donna, fermo all’uscita dello stabilimento. Quando infine era apparsa, lei lo aveva respinto con gelida freddezza e non solo non aveva voluto accettare le sue scuse, ma non gli aveva neppure lasciato il tempo di spiegarle che non era lui il maniaco. C’era forse da meravigliarsi? Lui stesso, se alla sua ragazza o a sua madre fosse successa una cosa del genere, non si sarebbe rassegnato finché non avesse quasi massacrato il responsabile! Si era macchiato di una colpa gravissima e quindi si propose di continuare a chiedere scusa alla donna finché non lo avesse perdonato. Una nuova, difficile prova. Perciò fin dalle nove, l’ora dell’appuntamento, l’attendeva immobile nell’erba. Forse non sarebbe arrivata, ma lui avrebbe mantenuto ugualmente la promessa. Udì dei passi avvicinarsi dal posteggio. Si accovacciò rapidamente. La sagoma di una donna alta procedeva avvicinandosi a lui. «È lei!» si disse con il cuore in tumulto. Pensò che forse gli sarebbe passata davanti senza vederlo, ma la donna si fermò proprio di fronte al prato. Che fosse venuta per mantenere fede alla promessa della notte precedente? Kazuo era contento. Ma dovette subito ammettere che non si trattava che di una dolce illusione. Senza degnare di uno sguardo l’erba folta in cui era nascosto, la donna prese qualcosa dalla tasca e lo gettò, attraverso una fessura della copertura, nel canale sotterraneo. L’orecchio di Kazuo distinse un rumore metallico, il tintinnio di qualcosa che cadeva sul fondo. Che cosa poteva avere gettato in quel canale maleodorante? Kazuo era stupito. Che volesse prenderlo per il naso, perché sapeva che lui era lì, nascosto da qualche parte? No, non poteva assolutamente essersi accorta di lui. L’indomani mattina,
con la luce, avrebbe guardato con calma che cosa aveva buttato via. Appena la sagoma della donna scomparve dal suo campo visivo, Kazuo allungò le gambe intorpidite e si rialzò. Il sangue riprese a circolare e le punture delle zanzare ricominciarono a prudere. Continuando a grattare fino quasi a scorticarsi la pelle, cercò di distinguere l’ora sull’orologio da polso. Erano le undici e mezza, l’ora in cui avrebbe dovuto andare a lavorare. Al pensiero che la donna lavorava al suo stesso turno, lo assalì un misto di timidezza e gioiosa aspettativa. Per la prima volta in quel periodo grigio e infelice che aveva deciso di chiamare “la prova”, quella sera Kazuo ebbe di nuovo la sensazione di essere vivo. Entrò nel salone e la vide subito: parlava a bassa voce con la compagna più vecchia con cui stava sempre insieme, davanti al distributore automatico delle bevande accanto all’entrata. Indossava una larga camicia sbiadita e un paio di jeans e teneva le braccia conserte. Così vestita sembrava quella di sempre, tuttavia Kazuo era stupito, perché l’impressione che faceva era completamente diversa da quella del mattino, alla fine del turno. Anche la donna lo aveva visto, ma al suo sguardo tagliente Kazuo si ritrasse e riuscì a malapena a bisbigliare un saluto. La donna non rispose e continuò a ignorarlo. Invece la sua compagna, più vecchia e bassa di statura, fece un cenno con la testa e gli sorrise. Anche fra i brasiliani si parlava spesso di lei, della sua bravura ed esperienza, e si sapeva che per questo veniva chiamata “maestra”. Kazuo si sarebbe volentieri fermato a parlare, e cercò affannosamente qualcosa da dire fra i pochi vocaboli giapponesi che conosceva, ma nel frattempo le due donne erano sparite in direzione dello spogliatoio. Deluso Kazuo le seguì, cercò la gruccia a cui aveva appeso gli indumenti da lavoro e si cambiò in fretta. Poi sedette nell’angolo del salone dove si radunavano gli operai brasiliani, in modo da non essere notato, si ficcò una sigaretta fra le labbra e si mise a spiare verso lo spogliatoio, dalla parte delle donne. Riusciva a malapena a controllare i battiti del proprio cuore. La tenda dello spogliatoio non era tirata del tutto e si potevano intravedere le donne che si cambiavano, nonostante cercassero di ripararsi tra i camici e i vestiti appesi. Scorgeva il profilo severo della donna: ai lati della bocca, dalle labbra serrate, si notavano delle rughe. Intuì che doveva essere più vecchia di quanto non avesse pensato: non molto più giovane di sua madre, che presto avrebbe avuto quarantasei anni. Era la prima volta che incontrava una donna così misteriosa. Fino ad allora si era sentito attratto dalla sua compagna più giovane e carina, che le stava sempre accanto, ma ora provava una forte attrazione nei confronti di questa donna enigmatica. La osservò mentre si sfilava i jeans e gli tremarono leggermente le dita che tenevano la sigaretta. D’istinto abbassò gli occhi ma subito risollevò la testa, perché voleva guardarla ancora, e il suo sguardo incontrò quello della donna. Aveva indossato i calzoni da lavoro e i jeans erano ammucchiati sul pavimento. Kazuo arrossì per la vergogna. Ma la donna non lo stava guardando e fissava la parete dietro di lui, senza espressione. Il suo atteggiamento era cambiato rispetto al mattino e Kazuo aveva sperato che lei non fosse più così infuriata con lui. Ma non era così: lei adesso semplicemente non lo guardava più, e questo era molto peggio, gli faceva molto più male. La donna e la maestra ritornarono nel salone con la cuffia bianca in mano. Pareva che volessero scendere subito allo stabilimento e gli passarono davanti senza parlare. Kazuo cercò di imprimersi velocemente nella mente gli ideogrammi scritti sulla targhetta che la donna aveva appuntata sulla divisa da lavoro. La maggior parte del personale era scesa nello stabilimento, al piano inferiore. Kazuo si fermò davanti ai cartellini e prese quello della donna. Poi cercò un brasiliano che sapeva il giapponese e gli domandò: «Come si legge, per favore?» «Ka-tori, Masa-ko». Kazuo lo ringraziò e l’uomo, un giapponese che trent’anni prima era emigrato in Brasile e ora era ritornato in patria, commentò: «Ma che? Ti piace? È troppo vecchia per te».
Kazuo assunse un’espressione seria: «Devo restituirle una cosa che mi ha prestato». «Soldi?» rise l’uomo. Magari si fosse trattato di soldi! Kazuo non rispose e andò a rimettere a posto il cartellino. Masa-ko Ka-tori.Sapere il suo nome gli rese la donna ancora più speciale. Prima di rimettere a posto il cartellino aveva letto che il suo giorno libero era il sabato. Aveva guardato il timbro del giorno prima: era entrata alle undici e cinquantanove. Quel ritardo, di cui si sentiva colpevole, era tuttavia anche l’unica prova del loro legame. In una scatola con un’etichetta su cui era scritto Katori Masako era riposto un vecchio paio di scarpe da ginnastica sformate. Kazuo ne immaginò il tepore. Si lavò in fretta le mani con il disinfettante, si sottopose al controllo dell’addetto all’igiene e scese lentamente la scala che portava allo stabilimento. Sapeva che lì sotto erano ferme le operaie in attesa dell’inizio del turno. Se ne stavano in fila, ansiose di incominciare. Era difficile distinguerle, con quelle cuffie e le mascherine, ma Kazuo cercò ugualmente Masako. Era in piedi di fronte a lui, isolata dalla fila, e fissava qualcosa. Kazuo seguì il suo sguardo e si accorse con sorpresa che stava guardando il bidone di plastica blu della spazzatura. Chissà se conteneva qualcosa di preoccupante, si domandò Kazuo chinandosi a guardare: c’erano solo pezzi di cotoletta di maiale e di fritto di pesce caduti sul pavimento della cucina. Quando si voltò il suo sguardo incontrò quello freddo di Masako. Kazuo si fece coraggio e le parlò: «Ecco…» «Che c’è?» rispose Masako con la voce soffocata dalla mascherina. «Mi scusi, mi dispiace. A me dispiace!» disse Kazuo, che non conosceva altre parole in giapponese per chiedere perdono. Poi aggiunse: «Vorrei parlarle!» Ma, come se non avesse udito l’ultima frase, Masako girò improvvisamente la testa e si mise a fissare la porta con l’espressione severa di chi non ammette intrusioni. Per Kazuo fu un vero colpo essere ignorato in quel modo e si sentì terribilmente depresso, perché aveva creduto veramente di poter fare qualcosa per ottenere la sua comprensione. La porta si aprì, batté la mezzanotte – inizio del turno. Le operaie entrarono una dopo l’altra e incominciarono a lavarsi le mani e a disinfettarle. Kazuo faceva parte della squadra di operai incaricati di portare il cibo dalla cucina con un carrello, perciò all’inizio del turno doveva trovarsi nel laboratorio adiacente allo stabilimento. Si allontanò dalla coda delle operaie e si diresse verso il suo posto di lavoro. Quell’impegno, che fino ad allora aveva giudicato gravoso, gli era diventato all’improvviso piacevole. Kazuo aveva il compito di versare nella macchina di distribuzione automatica, all’inizio del nastro trasportatore, il riso freddo contenuto in un pesante bidone. Era un lavoro duro e di grande responsabilità, perché se avesse tardato la linea si sarebbe fermata. Ma ai primi posti della linea di produzione aveva spesso trovato la maestra e Masako. Come aveva immaginato le due donne stavano guidando la linea mediana. «Sbrigati a versarlo. Non ne abbiamo più!» Sollecitato dalla maestra, Kazuo sollevò con entrambe le mani il pesante bidone e versò il riso freddo nella macchina. Masako, che sistemava i contenitori, non lo degnò di uno sguardo. Kazuo la guardava furtivamente a un metro di distanza. Aveva il volto seminascosto dalla cuffia e dalla maschera, si vedevano soltanto le palpebre abbassate, come se qualcosa la opprimesse. Anche la maestra, che di solito rideva o imprecava, quella notte era stranamente silenziosa. Kazuo si accorse che mancavano le altre due donne, la bella e la grassa, che di solito lavoravano insieme a loro.
8. «Finalmente! Dove ti eri nascosta, mamma?» Ma era possibile?! Non si sarebbe mai immaginata di udire quella voce. Yoshie era appena rientrata sfinita, anzi esausta, da casa di Masako. Sorpresa si tolse le scarpe in ingresso e andò in soggiorno. Proprio così: Kazue era lì. Le sue compagne in fabbrica non lo sapevano, ma Yoshie aveva due figlie. Di Kazue non aveva mai raccontato niente perché, sebbene fosse carne della sua carne e sangue del suo sangue, non la sopportava proprio. Kazue doveva avere ormai festeggiato il suo ventunesimo compleanno. A diciotto anni aveva interrotto gli studi ed era scappata con uno più vecchio di lei, poi non si era più fatta vedere né aveva dato sue notizie. Erano passati tre anni da quando l’aveva vista l’ultima volta. Yoshie sospirò profondamente: da una parte era contenta, ma aveva anche paura che le sarebbero piovuti addosso un sacco di problemi. Sbandata o meno che fosse, tuttavia Yoshie era sollevata nel rivedere sua figlia dopo tanto tempo. Quello era un giorno strano, in cui capitavano cose incredibili: prima gli avvenimenti a casa di Masako e ora quell’inatteso ritorno! Yoshie cercò di nascondere come poteva la sorpresa e i dubbi e per la prima volta dopo tre anni studiò il viso della figlia. La ragazza aveva i capelli tinti di color castano, lunghi fino ai fianchi. Teneva in braccio un bambino che stringeva nei pugni ciocche di capelli e osservava Yoshie. Doveva essere il suo primo nipote, nato, secondo le chiacchiere che le erano giunte all’orecchio, circa due anni prima. Era identico a quel fannullone. Yoshie lo guardò e non le piacque. Era magro, aveva un colorito poco sano e, particolare insolito al giorno d’oggi, gli colava il naso. L’uomo di Kazue era un tipo inaffidabile, che se ne andava in giro per la città senza mai riuscire a trovare un lavoro serio. Come se potesse leggerle nel pensiero, il bambino guardava diffidente il volto stanco della nonna che sembrava piovuta dal cielo. «Dove sei stata tutto questo tempo? Non una volta che tu ti sia degnata di farmi una telefonata. E adesso eccoti qui all’improvviso. Non so proprio che cosa devo pensare!» le disse brusca. Ormai era passato il tempo in cui si preoccupava e si arrabbiava per lei. Ora la sua paura era che anche la figlia minore potesse diventare tale e quale la sorella. Se si fosse lasciata convincere ad accoglierla, Kazue avrebbe indubbiamente influito in modo negativo su Miki. E inoltre lei era appena diventata complice di un delitto, e doveva ancora nascondere le tracce. «Ma che bella accoglienza! Tua figlia torna a casa dopo tre anni e tu non sei felice?! Ecco, questo è il tuo nipotino!» Kazue sollevò le sopracciglia ritoccate, lunghe e sottili come quelle di una liceale. Anche se si truccava per apparire più giovane, bastava un’occhiata per capire che la vita l’aveva già segnata. Aveva la sconfitta disegnata in faccia. Tutti e due, madre e figlio, erano vestiti con vecchi abiti logori e sembravano persino sporchi. «Ah, mio nipote! E come si chiama?» domandò Yoshie amara. Neanche questo le aveva fatto sapere! «Issey. Scritto con l’ideogramma di “tutta la vita”. Ma sì, come lo stilista». «Non lo conosco», rispose Yoshie di malumore e Kazue fece una smorfia. «E che? Io torno a casa e tu mi fai questo muso! Che rottura! E guarda che faccia! Che cos’hai? Sembri strafatta. O hai la luna?» Il suo modo di parlare era volgare, come al solito. «Ho lavorato tutta la notte, faccio i turni in fabbrica». «Cosa, fino a quest’ora?» «No, mi sono fermata da un’amica». Le vennero improvvisamente in mente i sacchi con i pezzi del cadavere di Kenji. Li aveva stipati in un robusto sacchetto di carta. Mentre continuava a parlare con Kazue, lo nascose furtivamente dietro la pattumiera in cucina.
«E quand’è che dormi? Vedrai che farai una brutta fine!» Kazue, che aveva messo su un po’ di carne sui fianchi e sembrava più ben piantata di una volta, simulò preoccupazione. Anche lei, come adesso Miki, aveva sempre odiato quella casa troppo piccola, dove erano costrette a vivere con la vecchia malata, e non aveva trovato di meglio che scapparsene alla prima occasione! Non sarebbe stato di alcuna utilità tirare fuori adesso i tanti problemi che le aveva creato, pensò Yoshie. Tutto quello che non le andava bene, che non voleva sentire, contro cui non voleva sbattere la sua testolina, di tutto aveva sempre incolpato la madre! Anche per Yoshie, che aveva scelto lo zelo come principio di vita, questo era troppo. «Già, e chi dovrebbe occuparsi della nonna? Di giorno non c’è mai nessuno a casa. Tu mi hai forse aiutato qualche volta?» «E piantala!» «Esattamente. Non è cambiato niente. Dimmi, piuttosto, come sta la nonna? Le hai dato un’occhiata?» Yoshie scrutò preoccupata la camera in fondo: si era infatti limitata a servire la colazione alla nonna e a cambiarle il pannolone, e poi era subito andata da Masako. La vecchia sembrava tranquilla, ma doveva aver ascoltato la conversazione perché aveva gli occhi ben aperti. «Mi dispiace che sia così tardi», disse Yoshie rivolta alla vecchia. Non aveva fatto in tempo a scusarsi che la suocera fece subito una smorfia: «Be’, e tu dove sei stata, cosa hai fatto tutto il giorno in giro? Lasciarmi qui così! Potevo anche morire!» D’un tratto Yoshie non ci vide più dall’ira e si mise a urlare come una furia. Perché tutti credevano di poterla trattare così? Cosa pensavano che fosse: un robot, un pezzo di acciaio? Non riuscì più a trattenersi: «E allora crepa! E quando sarai morta ti farò a pezzi e ti butterò nella spazzatura! Sì, e per prima cosa ti taglierò quel collo rugoso, hai capito?!» Per un paio di secondi la suocera rimase paralizzata dallo spavento e poi incominciò a piangere. Poche lacrime, ma singhiozzava con tutte le sue forze e negli intervalli brontolava una specie di giaculatoria: «Finalmente mostri la tua vera faccia! Tu sei un demonio, una strega infernale! Fai finta di essere buona, ma dentro sei cattiva e maligna! Continua così, sì, vendi la tua anima al diavolo, e vedrai che cosa ti capiterà!» Yoshie, cercando di ritrovare la calma, rimase immobile, gli occhi fissi sui piselli odorosi ormai scoloriti stampati sul futon estivo. A poco a poco le onde dell’oceano di sentimenti che la avevano investita si calmarono e fu colta da un rimorso quasi doloroso. Che cosa aveva detto! A quali mostruosità era riuscita ad arrivare! Poteva dipendere solo dal fatto che Masako l’aveva costretta a fare quel lavoro. La colpa era di Masako. No, di Yayoi, che aveva ammazzato suo marito. No, no, era sua la colpa, che aveva accettato di diventare complice per soldi. Esattamente quella era l’origine di tutti i guai, la mancanza di soldi. Kazue, che per tutto il tempo se ne era stata seduta al tavolo in silenzio, sbottò: «Su, su, calmati adesso! Non risolverai niente arrabbiandoti». «Hai ragione». Yoshie ritornò esausta in soggiorno. La suocera continuava a piangere sommessamente. Come per cambiare discorso Kazue aggiunse: «Mamma, poco fa le ho cambiato il pannolone». «Ah, bene. Grazie», sospirò Yoshie, ormai distrutta, e si sedette al tavolo. Tutto intorno erano sparse le automobiline del bambino, non si sapeva dove mettere i piedi. Yoshie diede un calcio alle auto della polizia e dei pompieri e le mandò a finire sotto il tavolo. Il bambino non se ne accorse, perché era andato in camera di Miki e stava giocando. «Hai chiesto al comune un’assistente sociale? Adesso vengono in casa, qualche ora alla settimana». «Sì, ma vengono solo per tre ore alla settimana, giusto il tempo di fare la spesa». «Ah». Yoshie, che non aveva ancora chiuso occhio, girò a destra e a sinistra la testa che incominciava
a farle male e affrontò il discorso che le stava a cuore: «Ma che cosa sei venuta a fare qui?» «Ecco…» Kazue si leccò nervosamente le labbra. Era il suo gesto abituale quando stava per mentire, ricordò Yoshie. «Adesso lui è andato a lavorare a Osaka. Anch’io vorrei iniziare a lavorare, e ho pensato che potresti prestarmi qualcosa per partire…» «Ma sai bene che non ho soldi! Se è andato a Osaka dovresti andare con lui! Un bambino deve stare con tutti e due i genitori!» «Ma io non so dov’è!» Yoshie rimase a bocca spalancata. Insomma, erano stati abbandonati. E adesso doveva prendersi in casa anche loro due! Che cosa poteva fare? Yoshie si innervosì. «Portalo al nido e va a lavorare». «È quello che voglio fare, perciò ho bisogno di soldi». Kazue tese la mano: «Ti prego, prestami qualcosa! Avrai qualche risparmio, no? Prima ho parlato con la nonna e mi ha detto che vogliono demolire la casa per costruire nuovi appartamenti. Allora potremmo venire anche noi e abitare tutti insieme». «E dove dovrei trovare i soldi per il trasloco?!» «E smettila!» urlò Kazue irritata. «Hai la pensione sociale e in più il lavoro part-time. Manda anche Miki a fare qualche lavoretto, e poi hai anche il contributo di accompagnamento per gli invalidi, no? Ti prego, adesso non ho neppure i soldi per comprare un hamburger a Issey!» Kazue supplicava con le lacrime agli occhi. Il bambino le si avvicinò a passettini incerti e si mise a guardare stupito la madre che piangeva. Yoshie si rovistò nelle tasche e tirò fuori il danaro che aveva preso a Kenji. In tutto quasi ventottomila yen. «Prendi. Cerca di farteli bastare, è tutto quello che possiedo. Ho persino dovuto fare debiti per pagare la gita scolastica di Miki!» «Ah, grazie, mi hai salvata!» Kazue si infilò con cura il denaro in tasca e si alzò. A quanto pareva lo scopo della sua visita era stato raggiunto. «Bene, adesso vado a cercarmi un lavoro». «Dove abiti esattamente?» «Abbastanza in centro, a Minami-Senju. Costa un sacco arrivare fin qui», disse Kazue che era già nell’ingresso e stava infilandosi un paio di sandali dozzinali con un’alta suola di sughero. «E il bambino?» «Ah, non puoi guardarlo per un po’?» «Aspetta un momento, che cosa hai in mente?» «Per favore, tornerò subito a prenderlo!» tagliò corto aprendo la porta. Il piccolo la guardò confuso, come se intuisse che stava per essere abbandonato, e gridò allarmato: «Mamma! Dove vai?» «Issey, sta’ qui con la nonna e fa’ il bravo. La mamma torna subito». Yoshie non sapeva più cosa dire. Muta guardò la figlia andarsene via di corsa. Non era stupita, aveva immaginato qualcosa del genere. Anche da dietro si capiva che la ragazza non aveva nessun rimorso nell’abbandonare il figlio, che si sentiva sollevata, anzi addirittura liberata. Yoshie avrebbe voluto imitarla. Avrebbe voluto andarsene lasciandosi alle spalle, insieme a quella casa fatiscente, tutto ciò che vi era di difficile e odioso nella sua vita. Continuò a fissare inebetita davanti a sé, piena di invidia nei confronti di Kazue. «Mamma! Mamma!» Il bambino, che era rimasto lì in piedi, aprì le mani e lasciò cadere a terra le automobiline. «Vieni. La nonna ti prende in braccio». Ma il bambino si sottrasse con forza inaspettata, si buttò a terra sulla pancia e scoppiò in singhiozzi. Dalla camera di sei tatami si udivano ancora i deboli lamenti della suocera.
Non ne poteva proprio più: Yoshie si lasciò cadere esausta sul pavimento e si mise a dormire sul tatami in mezzo al disordine. Chiuse gli occhi e rimase in silenzio ad ascoltare i due che piangevano. Il bambino si calmò per primo. Parlottando tra sé e sé riprese a giocare con le automobiline. Evidentemente era abituato a essere lasciato nelle mani di estranei. Ma Yoshie non provò compassione. Sono io che faccio compassione, si disse mentre le lacrime le colavano sulle guance. Quello che la angustiava era avere sprecato in quel modo i bei soldi del povero Kenji, assassinato dalla moglie e fatto a pezzi da lei e Masako. Aveva superato ogni limite. Chissà se anche Yayoi si era sentita così quando aveva ucciso il marito… Quando quella notte, dopo avere affidato il bambino alla riluttante Miki, Yoshie si recò allo stabilimento, Masako la stava già aspettando. Ferme in un angolo del salone si guardarono a lungo in silenzio. Masako sembrava aver eliminato ogni sentimento, e aveva un’espressione ancora più dura del solito. Forse era quella la sua vera faccia, pensò Yoshie guardandola. Le sarebbe piaciuto sapere qual era l’impressione che faceva lei. «Come ti senti oggi, maestra?» la salutò Masako. Il volto era imperturbabile, ma nel tono della voce c’era una punta di gentilezza. «Malissimo». Non riusciva proprio a raccontarle che la figlia, scomparsa da anni senza lasciare tracce, si era all’improvviso ripresentata in casa, le aveva mollato il bambino e se ne era andata con il denaro di Kenji. «Hai dormito?» Le domande di Masako erano sempre puntuali e concise. Yoshie non aveva quasi chiuso occhio, ma annuì. «E che ne hai fatto della spazzatura?» «Sta’ tranquilla. Prima di venire ho gettato i sacchetti qua e là». «Grazie. Sapevo di potermi fidare di te. Quella che mi preoccupa invece è Kuniko». «Già». Si guardarono intorno. Mancava poco a mezzanotte, ma Kuniko non era ancora arrivata. «Non c’è». «Forse sta smaltendo lo shock a letto», buttò lì Yoshie, ma Masako schioccò piano la lingua. «Una bella noia! Forse sarebbe meglio se passassi da lei a vedere che cosa è successo». «Sì, fa così». «Se le capito davanti all’improvviso, probabilmente le verrà un colpo». «Già, ma se tutto va a monte per causa sua, è molto peggio per noi», rispose Yoshie guardando la dicitura “Resto esaurito” che si era accesa in quel momento sul distributore automatico. Se le avessero scoperte sarebbe stata la fine. Quel pensiero l’atterriva. Che anche nella sua vita si fosse messo a lampeggiare il segnale d’allarme? «Questo vale anche per lei, perciò non credo che correrà dalla polizia. Ma è troppo facile metterla alle strette, è questo che mi preoccupa», continuò Masako, e piccole rughe verticali si incisero tra le sopracciglia. «A ogni modo io mi affido in tutto e per tutto a te. Piuttosto sei sicura che Yama-chan ci darà il denaro?» domandò Yoshie disinvolta. Adesso, quando tutto era stato fatto, era meglio lasciare ripensamenti e preoccupazioni a Masako. Già a casa ne aveva abbastanza di questo ruolo e incominciava a provare gusto ad affidarsi alla forza di Masako. Inoltre le interessavano solo i soldi che le avevano promesso. E se non glieli avessero dati? «Sì, quello è okay. Ha detto che pagherà, anche a costo di chiedere un prestito ai genitori. Al più tardi domani mattina denuncerà alla polizia la scomparsa del marito». Se ne stavano lì vicine a parlottare a bassa voce quando arrivò un giovane brasiliano che
conoscevano di vista e le salutò. Doveva avere anche del sangue giapponese nelle vene, ma la corporatura era tozza e si vedeva subito che era straniero. Yoshie rispose automaticamente al saluto, ma Masako non lo degnò di uno sguardo. Stupita chiese: «Ma che cos’hai?» «Cosa?» «Perché sei così scortese con lui?» Andando verso lo spogliatoio Yoshie lanciò un altro sguardo al brasiliano. Era rimasto lì imbarazzato e poi le aveva seguite. Masako non si preoccupò di rispondere ma chiese: «Sai dove abita Kuniko?» «Sì, in uno di quei grandi condomini di Kodaira, almeno credo». Yoshie si accorse che Masako stava consultando mentalmente la mappa e progettando i passi successivi. Per lei non era altro che una questione di affari. Affari che in nessun caso dovevano andare a monte. D’altronde anche per lei, che all’inizio aveva accusato Yayoi di essere un’assassina, il tutto si era trasformato in un’occasione di guadagno. Yoshie si vergognò. Di nuovo la tormentò il pensiero di quanto meschina riusciva a essere. «Com’è facile cadere per un essere umano, non trovi?» mormorò, e Masako le rivolse uno sguardo pieno di compassione. «Sì. Poi è come scendere precipitosamente per una china con una bicicletta senza freni». «Vuoi dire che niente e nessuno riesce più a fermarti?» «Sì. A meno che non si vada a sbattere contro qualcosa». Che cosa le avrebbe fermate, dove sarebbero andate a sbattere? Che cosa le attendeva dietro l’angolo? Yoshie fu scossa da un brivido di terrore.
Corvi
1. Yayoi era in cucina e pelava le patate per la cena, quando d’un tratto venne abbagliata da un raggio del sole ormai al tramonto. Per ripararsi portò alla fronte la mano in cui teneva il coltello e chinò la testa. Solo in quel periodo, quando le giornate erano più lunghe, vi era un’ora in cui il sole al tramonto penetrava direttamente dalla finestra nella cucina buia, illuminandola. Per un attimo Yayoi pensò che Dio l’avesse giudicata e che ora volesse punire il suo delitto colpendola con la sua luce, un raggio laser che avrebbe distrutto tutto il male che c’era in lei. Allora doveva morire, adesso. Perché si era macchiata di un terribile peccato, aveva ucciso suo marito. Era l’unico barlume di ragione che le fosse ancora rimasto, perché in realtà, dopo che quella notte aveva seguito con lo sguardo l’auto di Masako allontanarsi con il cadavere, aveva incominciato a credere che Kenji fosse semplicemente scomparso nell’oscurità. Quando i bambini le chiedevano dove fosse il papà, rispondeva: «Ma veramente, chissà dove è finito!» Non ricordava neppure il buio pesto di quella notte. Come era possibile che, nonostante fossero trascorsi solo tre giorni, avesse dimenticato persino la sensazione di quando lo aveva strangolato con le sue stesse mani? Sempre tenendo la testa abbassata tirò velocemente le tendine di cotone per ripararsi dal sole. Le tende blu scuro, che aveva fatto con della tela avanzata dai sacchetti per la merenda dei bambini, riportarono la penombra nella cucina. Per abituarsi all’oscurità Yayoi stette per qualche secondo immobile a occhi chiusi. L’ansia – che aveva cercato di allontanare dedicandosi ai figli e alle faccende di casa – riemerse nel suo animo come le mille bollicine di aria che risalgono dal fondo di una palude e quasi le spezzò il cuore. Ma non era per l’assassinio di Kenji che era angosciata. La nuova fonte di preoccupazione era Kuniko. Il pomeriggio del giorno prima Kuniko le era piombata in casa senza neppure avvertirla con una telefonata. «C’è qualcuno in casa?» Aveva sentito al citofono una voce femminile e aveva aperto. Davanti a lei c’era Kuniko tutta in ghingheri, in miniabito bianco senza maniche all’ultima moda e ciabattine bianche. Tuttavia non le stavano bene: era troppo grassa e pallida per quella mise. «Ah, sei tu!» Yayoi era talmente stupita per la visita inattesa che non sapeva se doveva farla entrare o meno. Era il primo pomeriggio, l’ora in cui all’asilo i bambini stavano facendo il sonnellino. «Be’, non sembri davvero malata!» Kuniko l’aveva scrutata con aria critica. Dal suo tono di superiorità si capiva benissimo che voleva dire: «Sta’ pur tranquilla, che so esattamente quello che hai fatto!» Subito Yayoi si era messa sulle difensive. Dalle profondità del suo animo si era fatta strada una voce: «Ma guarda un po’ questa Miss Piggy in bianco! Insopportabile, mi viene male solo a guardarla!» «Già, non mi sento troppo bene», aveva risposto irritata, «…ma perché sei venuta qui?» «Diciamo una visita agli ammalati: è da tanto che non ti fai vedere in fabbrica, Yamamoto-san!» «Ah, grazie». Che cosa voleva da lei, come mai si era presa la briga di venire a trovarla? Non era certo il tipo da far visita agli ammalati! Sempre più diffidente Yayoi la aveva guardata negli occhi, molto simili a quelli di un maiale. Ma Kuniko era talmente truccata che con tutta la buona volontà non se ne poteva cogliere l’espressione. Ignorando l’esitazione di Yayoi, aveva spalancato la porta dicendo: «Posso entrare?» «…sì». A malincuore Yayoi si era fatta da parte per lasciarla passare. L’altra si era guardata
intorno e a bassa voce aveva chiesto: «Dov’è che l’hai ammazzato?» «Come?» «Ti ho chiesto dov’è che l’hai fatto secco!» In fabbrica Kuniko di solito manteneva un atteggiamento deferente e usava un linguaggio garbato. Chi era dunque quella donnaccia con quel sorriso sfacciato? Yayoi si era innervosita e le mani avevano incominciato a sudarle. «Non so a cosa ti riferisci». «Adesso non metterti a fare la finta tonta!» aveva sbuffato con disprezzo. «Alla fin fine sono stata io, con queste mani, a dover ficcare nei sacchetti della spazzatura la carne schifosa del tuo maledetto consorte. So bene di che cosa parlo!» Yayoi si era sentita mancare le forze. Era tutta colpa di Masako, come si era sognata di coinvolgere quella megera? Kuniko si era tolta le ciabattine e senza indugio si era avviata verso l’interno della casa. I suoi passi schioccavano, probabilmente le piante dei piedi erano sudate e si incollavano al legno. «Allora, dove l’hai fatto fuori? Succede spesso, no, di tenere le foto del luogo del delitto? Si dice anche che gli spiriti dei morti si aggirino spesso e volentieri in quei luoghi», aveva detto Kuniko, senza immaginare che il punto in cui si trovava era esattamente quello in cui aveva assassinato Kenji. Non avrebbe fatto neppure un altro passo in casa sua: Yayoi si era parata di fronte a Kuniko, molto più robusta di lei, con l’intenzione di non lasciarla andare oltre. «Che cosa vuoi? Non sei certo venuta solo per chiedermi questo!» «Ah, che caldo! Non hai l’aria condizionata?» Kuniko aveva spinto da parte Yayoi ed era entrata nel piccolo soggiorno dove, per risparmiare, il condizionatore era spento. «Ma guarda che tipo! Perché non l’accendi? Come puoi resistere?!» Per carità, che non la sentissero! Yayoi aveva acceso il condizionatore ed era andata in fretta a chiudere le finestre. Kuniko, in piedi a gambe divaricate davanti all’aria fresca del condizionatore, osservava divertita l’agitazione di Yayoi. Grosse gocce di sudore le brillavano sulla fronte e colavano sulle tempie. «Insomma, di’ perché sei venuta!» aveva ripetuto Yayoi senza riuscire a nascondere l’ansia. Kuniko non aveva cercato di dissimulare il suo disprezzo: «Devo ammettere, Yamamoto-san, che mi hai veramente sorpreso! Con un faccino così grazioso e innocente uccidere a sangue freddo il marito! Sono veramente scioccata! Già, è vero che l’apparenza inganna e non si può mai vedere fino in fondo nell’animo degli uomini. Ma che tu abbia potuto uccidere il padre dei tuoi figli! Mica male! Che cosa farai se da grandi i bambini verranno a sapere che la loro mamma è l’assassina del papà? Ci hai mai pensato?» «Smettila! Non voglio sentirne parlare!» Yayoi si era tappata le orecchie. Allora Kuniko le aveva afferrato il polso sinistro. Aveva la mano sudata e appiccicosa, e Yayoi aveva cercato inutilmente di divincolarsi. Kuniko era più forte. «Non mi interessa se non vuoi ascoltare, Yamamoto-san! Mi hanno costretto a raccogliere con queste mie mani la carne del tuo consorte e l’ho dovuta infilare nei sacchi. Riesci a immaginare di che razza di orribile, schifosa sensazione si tratti? Eh, riesci a immaginarlo? Rispondi se hai il coraggio!» «…sì». «No, tu non puoi immaginarlo!» Kuniko le aveva afferrato anche l’altro polso. Yayoi aveva urlato dal male: «Lasciami!» ma Kuniko non aveva allentato la presa. «Mi stai ascoltando? Quelle là l’hanno fatto a pezzi, a piccoli pezzi! Tu non hai la più pallida idea di quanto sia ripugnante fare questo! Tu sei troppo delicata anche solo per dare uno sguardo al cadavere di tuo marito dopo che l’hai fatto fuori! Io invece ho vomitato un sacco di volte da quanto faceva schifo e puzzava! Davvero è stata la cosa peggiore che mi sia capitata. Dopo una cosa così non
si è più gli stessi, credimi, uno cambia per sempre, per tutta la vita!» «Ti prego, smettila, ti supplico!» «Ah, puoi piangere e pregare finché vuoi, ma io non riuscirò a liberarmene mai più! Ero forse obbligata a fare una cosa del genere per te?» «Scusa, perdonami, per favore!» Yayoi si era rattrappita come un piccolo animale ed era caduta in ginocchio. Kuniko la aveva lasciata andare e con un ghigno astioso aveva detto: «Va bene, in fondo non sono venuta per questo. Ho sentito che sei disposta a pagare me e la maestra, è vero?» «Sì, pagherò, vi pagherò senz’altro!» Allora era per quello che era venuta? Yayoi si era calmata e aveva abbassato le braccia che teneva sollevate a proteggere la testa. Aveva guardato Kuniko in faccia e si era accorta che non era più sudata e la pelle della fronte era secca e piena di piccole rughe. Forse non era vero che aveva ventinove anni. Non era altro che una stupida bugia. Era evidente che era più vecchia di lei. Era talmente vanitosa da mentire su una sciocchezza del genere anche con le compagne di lavoro! Le faceva proprio orrore! «Quando mi dai i soldi?» «Non ne ho così tanti, devo chiederli ai miei genitori. Puoi aspettare ancora un po’?» «Già. È vero che mi daresti centomila yen?» «Sì, così ha detto Masako… perciò si tratterà di quella cifra». All’udire il nome di Masako, Kuniko si era subito inalberata e aveva incrociato le braccia sul pancione: «Ah, e quanto si prende quella là?» «Non vuole niente». Incredula la compagna aveva sgranato gli occhi: «Chissà chi si crede di essere! Sempre pronta a dare ordini e a decidere che cosa è meglio o non è meglio fare!» «Ma mi ha aiutata». «Certo! Certo, ti ha aiutata». Kuniko, infastidita, aveva cambiato discorso: «Se le cose stanno così, allora i miei centomila possono benissimo diventare cinquecentomila!» «…sì». Come poteva opporsi? Non le rimaneva che accettare. «Però ci metterò un po’». «E quanto, più o meno?» «Prima devo parlare con mio padre. Due settimane, forse di più. E comunque potrò pagarti soltanto a rate…» Cinquecentomila yen erano più di quanto avrebbe avuto la maestra – e se si fosse lamentata? Yayoi, preoccupata, esitava. Kuniko era rimasta un attimo soprappensiero: «Va bene, ne parleremo più avanti. Intanto firmami questo documento e mettici anche il tuo timbro. Basta un timbro qualsiasi». Kuniko aveva estratto un foglio dalla borsetta di finta pelle e l’aveva appoggiato sul tavolo. «Che cos’è?» «Ho bisogno di un garante e questo è il contratto». Kuniko si era messa a sedere senza complimenti e si era accesa una delle sue solite, orribili sigarette al mentolo. Yayoi era andata a prendere il portacenere per gli ospiti, si era messa di fronte a Kuniko e, con un cattivo presentimento, aveva preso in mano il foglio. A quanto poteva capire Kuniko aveva ottenuto un prestito a un tasso del quaranta per cento da un’agenzia finanziaria che si chiamava Milione. A caratteri più piccoli c’era scritto “stessa percentuale per le dilazioni”, una frase di cui non comprendeva bene il significato; la colonna “Garante” era vuota e qualcuno vi aveva segnato a matita una croce, come per indicare che era lì che si doveva apporre la firma e timbrare. «Perché dovrei sottoscrivere una cosa del genere?» «Te l’ho detto, ho bisogno di un garante. Ma sta’ tranquilla, niente di importante, non ti assumi nessuna responsabilità, devi solo garantire per me. Il mio compagno se n’è andato e io mi trovo in un momento di difficoltà. Mi hanno detto che non importa chi è il garante. Accettano anche il timbro di
un’assassina». «Che cosa significa il mio compagno se n’è andato?» «Come che significa? A te non ti riguarda! In ogni caso io non l’ho ammazzato!» aveva abbaiato Kuniko con un sorrisetto sarcastico. «Sì, ma…» «Sentimi bene. Non ho nessuna intenzione di accollarti i miei debiti! Non sono così subdola. Hai detto che mi dai cinquecentomila, no? Basteranno quelli, e adesso sbrigati a firmare!» Yayoi, tranquillizzata in parte dalle parole di Kuniko, aveva apposto il timbro sul foglio e aveva firmato. E che cosa avrebbe potuto fare? Quella donnaccia non se ne sarebbe mai andata, e ormai era ora di andare a prendere i bambini all’asilo. E inoltre, se si fosse rifiutata, quella avrebbe avuto l’insolenza di tornare anche quando i bambini erano a casa. «Va bene così?» «Thank you». Kuniko aveva schiacciato il mozzicone, si era alzata e si era avviata verso l’ingresso. Evidentemente aveva raggiunto il suo scopo. Lì si era infilata le ciabattine e, come se le fosse venuto in mente ancora qualcosa, si era voltata: «A proposito, che sensazione si prova a uccidere una persona?» Yayoi non aveva risposto ed era rimasta a fissare stordita le macchie di sudore all’attaccatura delle maniche di Kuniko. Finalmente si era resa conto di essere stata ricattata. «Su, dimmi, che sensazione si prova?» «Come posso descriverla…?» «Prova», aveva insistito Kuniko. «Com’è stato?» «Io… in qualche modo… Pensavo solo: ti ho beccato, ti sta bene!» aveva risposto Yayoi con un filo di voce, e per la prima volta, come se tutto a un tratto avesse paura di lei, Kuniko aveva fatto un passo indietro ed era inciampata. Se all’ultimo momento non si fosse aggrappata alla scarpiera, sarebbe sicuramente caduta dalle sue belle ciabattine col tacco da dieci centimetri. Poi la aveva guardata a occhi sbarrati. «Proprio qui gli ho tirato il collo», aveva continuato Yayoi pestando il piede sul pavimento. Negli occhi di Kuniko, che aveva chinato lo sguardo sui piedi di Yayoi, si poteva leggere la paura. Dunque quello che aveva fatto riusciva a terrorizzare anche una donnaccia come Kuniko! Yayoi era sorpresa, non le era venuto in mente che forse, quella notte, qualcosa in lei si era intorpidito. «E così per un po’ non verrai a lavorare?» Kuniko, nel tentativo di ridarsi un contegno, aveva proteso il mento con arroganza. «Lo farei volentieri, ma Masako dice che per adesso devo rimanere a casa». «Masako, Masako, sempre e solo Masako! Che cosa siete, lesbiche o cosa?!» aveva sbraitato Kuniko andandosene senza neppure salutare. Sì, vattene, grassa troia bianca, aveva imprecato tra sé Yayoi, impietrita sulla soglia. Lì, dove tre notti prima suo marito aveva reso l’anima al diavolo. Aveva già in mano la cornetta. Voleva chiamare Masako e dirle che cosa era successo, ma poi, temendo di essere sgridata per avere sottoscritto la garanzia, aveva subito riattaccato. Anche oggi non aveva parlato con nessuno di quello che era successo. Era inutile, doveva confidarsi con Masako, anche se probabilmente l’avrebbe sgridata. Finalmente si decise, mise in acqua le patate che aveva finito di pelare e andò al telefono. Proprio in quel momento suonarono alla porta. Yayoi trasalì e fece un piccolo grido. Che fosse di nuovo Kuniko? Rispose ansiosa al citofono e udì la voce lievemente rauca di un uomo: «Signora, siamo della polizia di Musashi-Yamato». «Oh, sì… un momento». La polizia! Il cuore incominciò a batterle forte. «La signora Yamamoto?» Il tono dell’uomo era cortese e amichevole, ma Yayoi si innervosì.
Perché erano venuti così presto? Che cosa era successo? Le venne in mente un pensiero terribile: forse Kuniko la sera prima era andata dalla polizia e aveva raccontato tutto! Ormai non c’era più niente da fare. Yayoi avrebbe voluto girarsi e scappare su due piedi. «Potrei parlare con lei?» «Certo, apro subito». Yayoi si fece coraggio e aprì la porta. Davanti a lei un uomo brizzolato, dall’aspetto dimesso, le sorrideva giovialmente tenendo un cappotto sul braccio. Era Iguchi, il capo della sezione locale della sicurezza. «Buonasera, signora Yamamoto. Suo marito nel frattempo è tornato a casa?» Iguchi era il poliziotto che, in assenza dell’addetto allo sportello, l’aveva gentilmente ricevuta quando era andata in questura e l’aveva aiutata a compilare il modulo per la denuncia della scomparsa. Era stato lui a rispondere alla sua prima telefonata: quell’uomo le aveva fatto una buona impressione, perché era sempre stato gentile e premuroso. «No, non ancora», rispose Yayoi cercando di controllare il proprio disagio. «Oh, mi dispiace». Il volto di Iguchi si rannuvolò un poco. «Purtroppo le devo comunicare che questa mattina, nel parco di Koganei, abbiamo trovato il cadavere di un uomo fatto a pezzi». A quelle parole Yayoi si sentì mancare. Le sembrava di non avere più sangue nelle vene, le si annebbiò la vista, perse il controllo e vacillò. Si appoggiò alla porta per non cadere. Dunque l’avevano scoperto! Che cosa doveva fare adesso? Ma Iguchi aveva interpretato il suo terrore come l’angoscia di una moglie per la sorte del marito scomparso. Come per tranquillizzarla aggiunse in fretta: «Si calmi, signora, non è detto che si tratti di suo marito!» «…ah, crede?» «Abbiamo solo iniziato delle indagini nel circondario, chiedendo informazioni alle famiglie che hanno denunciato la scomparsa di un loro congiunto». «Capisco». Yayoi fece un piccolo sorriso di sollievo, ma in realtà era fuori di sé dalla paura, perché sapeva che non poteva trattarsi di nessun altro se non di Kenji. «La possiamo disturbare un attimo?» Iguchi trattenne la porta con il piede e scivolò agile all’interno. Solo allora Yayoi si accorse degli uomini in divisa blu dietro di lui. «Fa un po’ buio qui», disse Iguchi entrando in soggiorno. I vetri della finestra erano ancora schermati dalle tendine che li proteggevano dai riflessi del sole al tramonto. Yayoi prese l’osservazione come un rimprovero e corse trafelata alla finestra per tirare le tende. Il sole era già molto basso e inondò la stanza di luce rosso fuoco. «Qui, nel pomeriggio, entrano i raggi del sole», si scusò, mentre lo sguardo di Iguchi cadeva sulle patate. «Già, la sua cucina è rivolta a occidente. In estate deve essere molto caldo». Iguchi tirò fuori un fazzoletto e si asciugò il sudore. Yayoi si precipitò al condizionatore, lo accese e chiuse tutte le finestre. Proprio come aveva fatto il giorno prima, quando era venuta Kuniko. «Non si disturbi, signora Yamamoto», disse Iguchi con tono pacato, ma i suoi occhi vigili scrutavano attentamente ogni angolo della stanza. Quando alla fine si fermarono su di lei, Yayoi sentì l’ansia afferrarla alla bocca dello stomaco. Per la prima volta nella vita si sentì come schiacciata dalla forza di gravità, un peso che la paralizzava. Il livido sullo stomaco! Quello poteva essere una prova del suo litigio con Kenji. Guai se il poliziotto se ne fosse accorto, pensò, e incrociò le braccia davanti a sé nel modo più disinvolto possibile. «Può darmi l’indirizzo del dentista di suo marito, per favore? Inoltre avremmo bisogno di rilevare le impronte digitali e del palmo della mano». Finalmente Yayoi riuscì a rispondere con voce fioca: «Il dentista è il dottor Harada, davanti alla stazione». Iguchi prese nota in silenzio su un’agendina, mentre alcuni uomini, probabilmente gli agenti
della scientifica, attendevano istruzioni in piedi dietro di lui. «Signora, potrebbe darci un bicchiere o un altro oggetto di uso quotidiano utilizzato da suo marito?» «Sì, subito». Con le gambe tremanti accompagnò gli uomini al bagno. Mostrò loro gli accessori da toilette di Kenji e gli agenti tirarono fuori una polvere bianca e incominciarono a lavorare. Tornata nel soggiorno, contrariamente a quello che aveva immaginato, trovò Iguchi davanti alla finestra. Guardava il triciclo e gli altri giocattoli sparsi nel minuscolo giardino. «I bambini sono ancora piccoli, vero?» «Sì, ho due maschietti, di cinque e di tre anni». «Sono a giocare dagli amichetti?» «No, all’asilo nido». «Capisco, allora lei lavora, vero? Posso chiedere dove?» «Prima facevo la cassiera in un supermercato, adesso faccio i turni di notte in uno stabilimento che produce pasti confezionati». «Oh, turni di notte! Non è faticoso?» Sul volto di Iguchi era apparsa una sfumatura di compassione. «Già, ma posso riposare quando i bambini sono all’asilo». «Certo. Pare che negli ultimi tempi capiti la stessa cosa a molte donne. Quello lì è il suo gatto?» Yayoi, sorpresa, guardò nella direzione indicata da Iguchi. Accanto al triciclo era accovacciato Milky, che sembrava non sapere dove andare e guardava verso di loro. La pelliccia bianca era già un po’ sporca. «Ah sì, è nostro». «Un gatto bianco. Non è meglio farlo entrare?» Probabilmente stava pensando alle finestre e alle porte che lei aveva chiuso prima di mettere in funzione il condizionatore. «No, non è necessario. Gli piace star fuori». Yayoi odiava quella bestia da quando, quella notte, era scappata e non aveva più voluto rientrare. Il tono della sua risposta era stato un po’ sgarbato, ma sembrava che Iguchi non se ne fosse accorto, perché diede uno sguardo all’orologio e disse: «È quasi ora di andare a prendere i bambini, vero?» «Sì… Ma che cosa sono le impronte del palmo?» Quella domanda le aveva occupato la mente per tutto il tempo. «Si può identificare un uomo anche in base alle impronte sul palmo della mano. La pelle delle dita di quel cadavere è stata strappata e non si possono più prendere le impronte. Però i palmi sono parzialmente intatti, e così cercheremo di identificarlo. Speriamo che non sia suo marito, ma il gruppo sanguigno e l’età coincidono. Questo è quanto le posso dire per ora». Iguchi aveva parlato in fretta, a occhi bassi. «A pezzi, mi diceva?» mormorò Yayoi. «Sì». Iguchi proseguì in tono didattico: «Nel parco di Koganei sono stati trovati in tutto quindici sacchi che contenevano pezzi di cadavere. Più o meno di questa grandezza. Ma il contenuto non corrisponde che a un quinto del corpo. Stiamo perlustrando a fondo il parco per trovare le altre parti. Sono stati i corvi a portarci sulle tracce». «Corvi?» Yayoi non capiva. «Sì, corvi. Una vecchia che tiene pulito il parco ha aperto un bidone dell’immondizia per cercare qualche avanzo di cibo da dare ai corvi. Ha trovato un paio di sacchi e ha avvisato la polizia. Se non fosse stato per i corvi forse non ce ne saremmo mai accorti». Yayoi tentò con tutte le forze di controllare la propria emozione: «Ma se fosse proprio mio marito, perché gli sarebbe successa una cosa così orribile?» Senza rispondere, Iguchi domandò a sua volta: «Non è che negli ultimi tempi suo marito abbia
avuto difficoltà di qualche genere? Non le risulta niente? Sa se per caso avesse dei debiti?» «Non che io sappia». «Rimane spesso fuori fino a tardi?» «No, cerca sempre di essere a casa prima che io esca per il turno». «Si dedica al gioco d’azzardo o a qualche altro divertimento?» Alle parole “gioco d’azzardo” Yayoi pensò subito al baccarat, ma scosse la testa. «Non me ne ha mai parlato, ma negli ultimi tempi esce spesso per andare a bere». «Mi scusi per la domanda, ma litigavate spesso?» «Qualche volta, ma… è un buon marito… è molto attaccato ai bambini». Yayoi si interruppe preoccupata, perché era stata sul punto di usare il verbo al passato. Poi ricordò che, in effetti, era sempre stato un buon padre, e le venne da piangere. Iguchi, che evidentemente voleva evitare scene patetiche, si alzò. «Mi scusi, ma se dovessimo identificarlo – e speriamo proprio che non sia così – come il cadavere di suo marito, dovrò pregarla di venire al distretto». «Va bene». «Naturalmente spero per lei che non ce ne sia bisogno. Sarebbe terribile per i bambini, ancora così piccoli». Quando Yayoi alzò il viso vide Iguchi che continuava a fissare il triciclo. Il gatto era ancora accovacciato lì. Dopo che Iguchi e gli agenti se ne furono andati, Yayoi telefonò subito a Masako. «Che cosa c’è?» chiese subito Masako. Doveva aver intuito dalla sua voce che era successo qualcosa di imprevisto. Yayoi le comunicò che la polizia aveva ritrovato pezzi del cadavere nel parco di Koganei. «Di sicuro dobbiamo ringraziare Kuniko. Sono stata davvero troppo superficiale a fidarmi di una cialtrona come lei!» commentò Masako con voce cupa. «E adesso anche i corvi!» «Che cosa devo fare?» «Se è vero che è possibile identificare un uomo dalle impronte dei palmi, allora scopriranno di sicuro che è Kenji. È solo questione di tempo. D’ora in poi tu devi interpretare il ruolo di quella che non sa niente, a costo di morire. Non c’è altro sistema. Non è tornato a casa, lo hai visto per l’ultima volta al mattino quando è andato a lavorare, i vostri rapporti erano normali, come quelli di tutti i coniugi». «Ma se qualcuno, quella sera, l’avesse visto rientrare?» Invece che rasserenarla, la conversazione con Masako sembrava alimentare le sue paure. «Ma se sei stata tu a dire che non c’era pericolo che qualcuno l’avesse visto!» «È vero, ma…» «Coraggio, tirati su. Finora non è successo niente che non avessimo previsto». «E se qualcuno ci avesse visto quando lo abbiamo portato in macchina?» Come sua abitudine, Masako rimase in silenzio a meditare prima di rispondere. Ma le sue parole non tranquillizzarono Yayoi: «Questo non posso dirlo con assoluta certezza». «Ovviamente dovrò tenere nascosto il livido sull’addome, vero?» «È ovvio! Ma tu hai un alibi per quella notte, e inoltre non sai guidare. Sei andata a lavorare e il mattino seguente hai accompagnato i bambini all’asilo e qualcuno di sicuro ti ha visto, no?» «Sì, naturalmente. Ho anche incontrato una vicina e scambiato qualche parola con lei, accanto ai bidoni delle immondizie», aggiunse Yayoi come se volesse consolarsi. «Non preoccuparti. Non c’è alcuna relazione evidente fra te e me. E possono cercare quanto vogliono nel tuo bagno, non troveranno niente». «Già, questo è vero», cercò di convincersi Yayoi. Poi si ricordò di Kuniko. Un problema in
più! Finalmente decise di dire tutto a Masako: «Ascolta, ieri è venuta Kuniko e mi ha ricattato». «Che cosa vuole?» «Cinquecentomila yen invece che centomila». «C’era da aspettarselo! Avida com’è, è capace di rovinare tutto!» «E poi mi ha costretto anche a sottoscrivere una garanzia per i suoi debiti». «Che debiti?» «Pare che si tratti di una di quelle agenzie che prestano denaro, ma non so esattamente». A questo neppure Masako aveva pensato. Rimase di nuovo in silenzio all’altro capo dell’apparecchio. Yayoi aspettava col batticuore la furia che sicuramente ora si sarebbe scatenata. Ma Masako rispose tutta tranquilla: «Questo è un bel guaio. Se quelli della finanziaria leggono la notizia del ritrovamento del cadavere di tuo marito e portano quel documento alla polizia, penseranno subito che Kuniko ti ha ricattato. Altrimenti, per quale motivo avresti dovuto fornirle la garanzia?» «È vero». «Ma penso che quelli della finanziaria se ne staranno quieti. E poi Kuniko non ti ha chiesto di estinguere subito il suo debito, vero? Quella è ormai sul lastrico, una fallita, ma questo è tutto». «Quando le ho detto che l’avrei senz’altro pagata ma che prima dovevo trovare i soldi, ha preteso solo che firmassi». Era ovvio che neppure Yayoi aveva preso per oro colato tutte le assicurazioni di Kuniko. Mentre cercava con tutta se stessa di controllare l’inquietudine che le saliva in petto, Masako commentò con voce calma: «Mi è venuto in mente che c’è anche un vantaggio, se riconoscono il cadavere». «E cioè?» «Riceverai il premio dell’assicurazione. Tuo marito avrà avuto un’assicurazione sulla vita, immagino». Sì, naturalmente! Le sembrava di essere andata a sbattere contro un muro. Kenji aveva firmato una polizza sulla vita di cinquanta milioni di yen. Yayoi si era rotta la testa a pensare dove trovare il denaro per pagare le compagne che la avevano liberata dal cadavere e lo avevano fatto a pezzi – ma ora la cosa assumeva tutta un’altra piega! Yayoi rimase stupefatta nella penombra crepuscolare della camera, il ricevitore stretto fra le mani.
2. Deposta la cornetta Masako guardò l’ora: le cinque e venti. Ombre minacciose si addensarono improvvisamente sulla sua serata, che aveva previsto di trascorrere tranquillamente a casa, senza figlio e marito che sarebbero rincasati chissà quando, e soprattutto senza dover andare a lavorare. La situazione era cambiata troppo in fretta. Si stava ancora cullando nell’ingannevole sicurezza che tutto fosse andato per il meglio, ed ecco presentarsi davanti a lei il fallimento. Il pericolo, che finora se ne era stato in agguato, era saltato fuori a farle lo sgambetto. Ma adesso era il momento di dimostrare che cosa vuol dire essere padroni della situazione. Da ora in avanti, a ogni passo, dietro ogni angolo, poteva aprirsi una tenebra nera come le ali di un corvo, che non aspettava altro che inghiottirle tutte quante. Per qualche minuto Masako si concentrò intensamente sui propri nervi, con la cura con cui si fa la punta a una matita dalla mina particolarmente dura. Prese il telecomando, accese il televisore e saltò da un canale all’altro alla ricerca di un telegiornale. Ma era troppo presto. Forse la notizia era già stata pubblicata sul giornale e lei non l’aveva vista. Spense il televisore e riprese il quotidiano che aveva sfogliato e abbandonato sul divano. Nella terza pagina trovò un trafiletto intitolato Cadavere ritrovato a pezzi nel parco. Come mai non se n’era accorta prima? Che fosse un segno del fatto che aveva preso tutto troppo alla leggera? Rimproverandosi per la propria superficialità lesse velocemente il trafiletto: all’alba un addetto alle pulizie del parco di Tokyo aveva trovato in un cestino dei rifiuti un sacco di plastica pieno di pezzi di cadavere. La polizia aveva perlustrato il parco ed erano stati trovati complessivamente quindici sacchi che contenevano pezzi del corpo di un maschio adulto. Questo era quanto riportava l’articolo. A giudicare dal luogo e dal numero dei sacchi, era chiaro che si trattava di quelli di Kuniko. Dopo essere stata costretta a prendersi i sacchetti – cosa evidentemente troppo fastidiosa per lei – se ne doveva essere subito liberata gettandoli nei cestini dei rifiuti del parco. Era stato un grave errore aver coinvolto Kuniko. Non si era mai fidata di lei, e non avrebbe proprio dovuto darle quei sacchi. Aveva fatto una enorme stupidaggine, pensò Masako, mordendosi le unghie per i nervi come non faceva più da molto tempo. Identificare il cadavere come quello di Kenji era ormai solo questione di tempo. Quel che era fatto era fatto, e non si poteva certo cambiare, ma per evitare altri inconvenienti doveva dare a Kuniko una bella lezione. E una bella lezione per lei non poteva essere che una terribile minaccia, altro non avrebbe ascoltato. Inoltre era meglio informare Yoshie dello stato delle cose. Probabilmente sarebbe andata a lavorare anche se era giorno di riposo. Era meglio sbrigarsi, pensò Masako affrettandosi. Lei e le compagne avevano scelto di avere libera la notte tra il venerdì e il sabato, perché alla domenica la paga era più alta del dieci per cento. Yoshie invece era talmente attaccata ai soldi che non voleva perdere neppure un giorno di lavoro. Aveva appena premuto il brutto campanello di plastica giallastra della casa di Yoshie che subito la porta si aprì con un fastidioso cigolio. «Tu? Come mai…?» A quanto pareva Yoshie stava preparando la cena, perché dall’interno si diffondevano ondate di vapore che odorava di brodo, insieme al solito vago sentore di cresolo. «Puoi venire un attimo fuori, maestra?» chiese Masako a voce bassissima. Nella stanza di fronte all’ingresso, adibita a soggiorno, Miki, in calzoncini corti, stava guardando la televisione. Seduta sul pavimento a gambe tese era immersa, come una bambina, in un programma di cartoni animati e non si girò neppure una volta verso di lei. «D’accordo. Che cos’è successo?» Sembrava che avesse intuito qualcosa, perché era impallidita. Il suo viso, un po’ sudato, era profondamente segnato dalla fatica. Faceva pena guardarla e
Masako volse lo sguardo altrove, si allontanò di qualche passo e aspettò che Yoshie la seguisse. A un lato dell’ingresso vi era un piccolissimo giardino trasformato in orticello. Masako guardò ammirata le piante di pomodoro con i rami carichi di rossi frutti maturi. «Sono qui. Cosa guardi?» le chiese Yoshie alle sue spalle. «Ah, i tuoi pomodori. Sarà un gran raccolto». «Se fosse possibile pianterei anche il riso!» commentò Yoshie contemplando quel piccolissimo fazzoletto di terra. «Ho talmente tanti pomodori che quasi non li posso più vedere. Ma evidentemente è la terra adatta, perché sono dolcissimi. Dai, prendine uno!» Yoshie strappò il pomodoro più grosso e glielo mise in mano. Il contrasto tra quel frutto sodo, lucido e rigoglioso e la casa in rovina e la sua esausta proprietaria era stridente. Per qualche secondo Masako rimase in silenzio, il pomodoro sul palmo della mano. «Dimmi, che cosa è successo?» la sollecitò Yoshie. «Già», sbuffò Masako girandosi verso di lei, «hai già letto il giornale della sera?» «Noi non siamo abbonate», confessò Yoshie imbarazzata. «Comunque, hanno trovato alcuni dei nostri sacchi nel parco di Koganei». «Nel parco di Koganei? Non sono stata io!» esclamò meravigliata Yoshie. «Lo so, maestra. È stata senza dubbio Kuniko. In ogni caso la polizia è andata da Yama-chan, perché aveva denunciato la scomparsa di Kenji». «Sanno già che è suo marito?» «No, non ancora», rispose Masako osservando il volto di Yoshie, che aveva aggrottato le sopracciglia. Le occhiaie erano ancora più profonde della notte precedente, in fabbrica. «Che cosa facciamo adesso?» sospirò Yoshie costernata. «Salterà fuori tutto!» «L’identità del cadavere verrà sicuramente fuori, ma non è questo il problema». «Che cosa vuoi dire? Come dobbiamo comportarci?» «Oggi vai a lavorare, vero?» «Non so…» Yoshie era incerta. «In realtà avevo pensato di andarci, ma adesso, da sola… Non so bene, devo farlo?» «Sì, vai tranquilla. È meglio se ci comportiamo come sempre e non facciamo cose strane. Ma un’altra cosa: qualcuno sa che quel giorno eri da me?» «…no». Yoshie sembrò riflettere un po’, ma poi scosse la testa un paio di volte. «Non dirlo a nessuno, ma spero che questo tu lo sappia già. E un’altra cosa: Yama-chan verrà sospettata per prima, per cui in nessun caso dovrai raccontare alla polizia dei loro litigi e delle botte che si è presa, capito? Se no finiremo tutte così», e Masako unì i polsi come se avesse le manette. «Ho capito». Yoshie deglutì continuando a fissare i polsi ossuti della compagna. In quell’attimo una piccola creatura le si accostò a passi vacillanti. «…nonna!» Quella creatura sapeva parlare, anzi balbettare. Un piccolo bambino magro si era aggrappato ai pantaloni di Yoshie, talmente consumati che lasciavano vedere le ginocchia. A quanto pareva era in casa e le era corso dietro. Aveva solo le mutandine, il resto del corpo e i piedini erano nudi. «E questo chi è?» «Mio nipote», bisbigliò Yoshie vergognosa, afferrandolo saldamente per la mano per impedirgli di scappare. «Hai un nipotino? Non lo sapevo». Stupita Masako accarezzò il bambino sulla testa. Le sue dita indugiarono sul groviglio di soffici capelli e ripensò con nostalgia a quando Nobuki era ancora piccolo. «Non te l’ho mai detto, ma ho un’altra figlia. E lui è suo figlio». «Lo ha lasciato qui da te?»
«Già». Yoshie sospirò, chinando lo sguardo sul bambino. Il piccolo tese la mano verso il pomodoro di Masako. Lei glielo diede e, quando vide come lo annusava e se lo premeva sulla guancia, mormorò: «Un vero e proprio fascio di vita, no?» «Sì», annuì Yoshie. «Però, se posso dirlo, mi è costato parecchio dovermi occupare di lui dopo quello che abbiamo fatto. Strano, no?» «Un bambino così piccolo è un grande impegno. Porta ancora il pannolone, vero?» «Sì, e ce n’è un’altra nelle sue condizioni!» Yoshie rise, ma in fondo al suo sguardo si intuiva l’angoscia di chi sapeva di avere in mano la vita e la morte di un altro essere umano. «Bene, se ci sarà qualcosa di nuovo tornerò». Masako stava per andarsene, ma Yoshie la trattenne. Esitante e a bassa voce, perché il bambino non sentisse, chiese: «Ascolta, che cosa ne hai fatto della testa?» Ma il bambino era occupato a portarsi in giro – come se fosse un tesoro – il pomodoro che riusciva a malapena a tenere con le due mani, e non sembrava interessato alla loro conversazione. Masako si girò verso la strada, aspettò che un ciclista passasse oltre e rispose: «Tutto a posto. L’ho seppelli ta il giorno dopo». «E dove?» «È meglio che tu non lo sappia». Detto questo lasciò Yoshie e si diresse verso la strada principale dove aveva posteggiato la Corolla. Non voleva dire a Yoshie che Kuniko aveva ricattato Yayoi, né che forse Yayoi sarebbe entrata in possesso del premio dell’assicurazione sulla vita di Kenji. A che cosa sarebbe servito darle altri pensieri? Ma, soprattutto, Masako non si fidava più di nessuno, neppure di Yoshie. Udì il suono della trombetta di un venditore ambulante di tofu. Dalle finestre spalancate giungevano rumori di stoviglie e le voci della televisione. Era l’ora in cui le casalinghe erano tutte affaccendate a preparare la cena. Masako pensò alla sua cucina vuota e ordinata e al suo bagno, che era stato teatro di un lavoro così affannoso. Ormai era quel bagno freddo e scintillante il locale più adatto a lei. Controllò sulla mappa la posizione del quartiere di case popolari dove abitava Kuniko, alla periferia di Kodaira. All’entrata dell’edificio erano allineate sudice cassette di legno per la posta, tutte coperte di figurine adesive strappate e di scritte del genere: “Niente pubblicità erotica”. Evidentemente gli inquilini cambiavano spesso, perché i nomi sulle targhette erano stati cancellati e riscritti più volte. Comunque, come risultava dalla sua cassetta delle lettere, Kuniko abitava al quarto piano. L’ascensore non era meglio delle cassette della posta. Entrò e quella scatola scassata la portò al quarto piano. Davanti alla porta dell’appartamento di Kuniko premette più volte il campanello, ma nessuno venne ad aprire. La Golf verde era posteggiata di fronte a casa, e quindi Kuniko poteva solo essere andata da qualche parte lì intorno a comprare qualcosa. Masako decise di aspettarla e si appostò in un angolo del corridoio in modo da non farsi notare. Attratti dalla luce bluastra, innumerevoli piccoli insetti alati andavano a sbattere contro i tubi del neon e cadevano sul pavimento. Masako si accese una sigaretta e per ingannare l’attesa si mise a contare gli insetti morti ai propri piedi. Dopo una ventina di minuti le porte dell’ascensore si aprirono e ne uscì Kuniko con una borsa della spesa. Nonostante il caldo fosse ancora opprimente, indossava un elegante abito scuro ed era evidentemente di buonumore. Mancava solo che si mettesse a canticchiare! Come la vide, Masako pensò ai corvi del parco. «Ah, mi hai spaventata!» esclamò Kuniko scorgendo Masako ferma nella penombra. «Devo parlarti». «Che c’è di nuovo, adesso?» Kuniko la fissò diffidente.
«Mi fai proprio ridere! Hai rovinato tutto, ecco quello che c’è!» Masako sfilò bruscamente il giornale della sera dalla buca delle lettere sulla porta e glielo ficcò davanti al naso. Kuniko si guardò intorno con apprensione: «Di che cosa si tratta?» «Dacci un’occhiata e capirai subito!» Forse impaurita dall’espressione feroce di Masako, infilò in fretta la chiave nella serratura e aprì: «È tutto in disordine, ma vieni avanti. Qui fuori ci possono sentire tutti!» Masako la seguì nell’appartamento che non era poi così in disordine. L’arredamento, che voleva essere raffinato, era invece infantile e ordinario, proprio come la proprietaria. «Ma poi sparisci in fretta, okay?» Kuniko accese l’aria condizionata e si voltò angosciata verso Masako. «Sta’ tranquilla, finisco in un attimo!» Masako spiegò il giornale, trovò l’articolo in terza pagina e glielo mise davanti agli occhi. Kuniko appoggiò la borsa della spesa sul pavimento e scorse velocemente le righe. Nonostante lo spesso strato di fondotinta, si poteva vedere l’orrore che l’agitava. Soddisfatta Masako la aggredì: «Sei stata tu, vero? Solo tu puoi avere lasciato i sacchi in un posto così impossibile!» «Pensavo che un parco fosse il luogo più adatto…» «Idiota! I parchi sono particolarmente sorvegliati! Per questo ti avevo detto di lasciarli nei bidoni delle immondizie vicino alle case!» «Questo tuttavia non ti dà ancora il diritto di darmi dell’idiota!» protestò Kuniko facendo il muso. «Ti do dell’idiota perché questo è quello che sei! A causa della tua imbecillità la polizia è andata a casa di Yama-chan!» «Come, di già?» «Sì, sono già andati. Non hanno ancora scoperto di chi si tratta, ma per saperlo basta che facciano due più due! Domani sarà un putiferio, te lo posso garantire! E se scoprono che è stata lei a ucciderlo, noi saremo accusate di complicità!» Kuniko la guardava attonita, come se fosse ormai incapace di pensare. Masako ricambiò lo sguardo: «Ti rendi conto di che cosa significa, vero?! E anche se va tutto bene e non ci scoprono, se arrestano Yayoi potete dimenticarvi i soldi!» Kuniko sembrava finalmente capire. «E non è ancora tutto: l’hai anche costretta a firmare una garanzia per i tuoi debiti! Questo sarà un altro problema per te. Infatti suo marito è stato fatto a pezzi. E tu non sarai solo accusata di complicità, ma anche di ricatto». «Figuriamoci!» esclamò Kuniko. «Non è mai stata la mia intenzione!» «Che dici?! L’hai ricattata, sì o no?» «No, le ho chiesto semplicemente di aiutarmi un po’, perché anch’io ero nei guai. Che male c’è ad aiutarsi reciprocamente? Dopo tutto quello che ho fatto per lei…» Kuniko era talmente accaldata che il sudore le colava a rivoli sulle guance. Masako la fissava gelida. Quello che più temeva, adesso, era che il creditore di Kuniko saltasse fuori per incassare non appena l’assicurazione di Kenji fosse stata pagata. Sicuramente non avrebbe avuto riguardo neanche davanti a un omicidio. «Altro che aiutarsi reciprocamente! Tu hai cercato di sopraffarla, ecco cos’hai fatto!» Masako allungò una mano: «Dov’è quel documento? Prendilo e fammelo vedere!» «L’ho appena consegnato». Kuniko guardò nervosa l’orologio. «Dove?» «All’agenzia finanziaria davanti alla stazione. Si chiama Milione». «Ho capito. Dei prestasoldi. Telefona immediatamente e chiedi indietro il documento!» ordinò dura Masako.
Kuniko stava per mettersi a piangere: «Non posso farlo, è impossibile!» «Mettila così! Più a lungo aspetti, peggio sarà per te. Può darsi che domani stesso si diffonda la notizia, e allora il tuo creditore si metterà alle calcagna di Yama-chan». «Va bene». Kuniko prese il biglietto da visita dalla borsa e afferrò il cordless completamente ricoperto di adesivi. «Sono Jonouchi. Le dispiacerebbe restituirmi il documento che le ho appena consegnato?» Doveva avere ricevuto un secco rifiuto, perché il suo tono divenne supplichevole, ma l’interlocutore sembrava non sentire ragione. Masako coprì il microfono con la mano e la incalzò: «Allora digli di aspettarti, che andiamo subito da lui». Kuniko, come se le gambe non la reggessero più, si lasciò andare sul pavimento. «Devo venire anch’io?» «Mi sembra ovvio». «Perché?» «Perché sei tu la causa di tutto!» «Ma non sono stata io a farlo a pezzi!» «Non rompere!» le urlò furibonda Masako, lottando contro l’impulso di prenderla a botte. Kuniko si mise a piagnucolare. «Quanto ti sei fatta prestare?» «Questa volta cinquecentomila». Evidentemente era caduta nella solita trafila: prima le avevano prestato trecentomila, poi erano stati a guardare come pagava e quindi le avevano messo a disposizione altri cinquecentomila yen. Era chiaro che Kuniko, nei debiti fino al collo, riusciva ormai a pagare soltanto gli interessi mensili. «Oltretutto non c’era bisogno che tu fornissi una garanzia. Ti hanno preso per il naso!» Kuniko la guardò e protestò: «Ma ha detto che se non trovavo un garante dovevo restituire subito l’intera somma!» «Ti sei lasciata abbindolare da un imbroglione!» Kuniko scosse la testa incredula: «Non lo sembrava. Era cortese, un vero gentiluomo, assolutamente non il tipo yakuza. Oggi mi ha ringraziato in modo perfino esagerato per la mia sollecitudine». «Naturalmente adatta il proprio comportamento alla vittima! Non gli è certo sfuggito che razza di tipo sei!» Masako era disgustata. Avrebbe voluto urlare di fronte a quella sconfinata imbecillità. Kuniko era stata probabilmente punta sul vivo, perché replicò velenosa: «Sembra che tu sappia molto bene come vanno queste cose! Non mi dire che anche tu hai avuto un’esperienza del genere!» «No, è che tu sei troppo imbecille. Sbrigati che andiamo!» Parlare con Kuniko era solo una perdita di tempo. Masako corse in ingresso e si infilò rapidamente le scarpe da ginnastica dalle suole consumate sui calcagni. Come per renderle la vita ancora più difficile, Kuniko la seguì con studiata lentezza. L’insegna dell’agenzia finanziaria Milione era spenta. Masako non vi badò, salì la scala e bussò alla porta. «È aperto», rispose una voce maschile. Masako spalancò la porta ed entrò, seguita da Kuniko, nell’ufficio immerso nella penombra. Un giovane uomo era sprofondato sul divano sotto alla finestra e stava fumando in pace. Lì accanto un tavolino piuttosto sporco sul quale c’erano un giornale sportivo spiegazzato e una tazza da cui colavano gocce di caffè e latte. «Ah, venite avanti. Che cosa posso fare per voi?» Appena le vide l’uomo si alzò in piedi sorridendo cordialmente. Indossava un completo grigio e una cravatta rossa. La sua eleganza perfetta era del tutto fuori luogo in quell’ambiente; solo i capelli tinti di castano chiaro rovinavano un po’ l’effetto. Sembrava confuso, forse non aveva creduto che Kuniko si sarebbe davvero ripresentata.
«Signor Jumonji. Il mio garante, cioè la persona che ha sottoscritto il contratto, ci ha ripensato e vuole assolutamente riavere il documento». «Si tratta della signora?» domandò Jumonji guardando Masako. Non cercava di nascondere la curiosità e una certa inquietudine. «No, io sono solo un’amica. Lei è sposata, e la cosa le procurerebbe grossi problemi. Ci restituisce il contratto?» «Non è possibile». «Allora me lo mostri». «D’accordo, come vuole». Jumonji andò riluttante alla scrivania, aprì un cassetto e porse a Masako un documento. Masako gli diede uno sguardo e sentenziò: «Non c’è nessun obbligo legale di presentare un garante, questo lo sa. Infatti le avete fatto credito senza quella condizione. Mi mostri la ricevuta!» «Guardi che si sbaglia!» Jumonji diventò improvvisamente serio. Aggrottò le sopracciglia e la sua espressione divenne minacciosa. Prese il contratto da uno schedario e le mostrò alcuni punti: «Qui, vede: “…fatta eccezione per il caso in cui vi siano notevoli variazioni di affidabilità”.Il marito della signora Jonouchi ha lasciato il lavoro ed è sparito! Non è forse una variazione notevole questa?» Masako sorrise all’evidente pretesto addotto da Jumonji e ribatté: «Può dire quel che vuole, ma non è questo il caso. È un fatto che questa è la prima volta che la signora Jonouchi è in ritardo con il pagamento, e per di più di un solo giorno. E questo non giustifica in alcuna maniera il vostro modo di procedere». Jumonji, che evidentemente non si era aspettato un contrattacco, la fissò allibito. Kuniko si guardava intorno nervosa, come se temesse che da un momento all’altro qualcuno potesse saltare fuori a minacciarla. Il giovane contemplò per qualche istante il volto di Masako e poi disse: «Ci siamo già visti da qualche parte?» «No», rispose seccamente. «Davvero?» Jumonji chinò di nuovo la testa, poi aggiunse in tono più pacato: «Mi spiace veramente doverlo dire, ma in questo caso il piano di restituzione è assolutamente privo di credibilità». «Farò in modo che faccia fronte ai pagamenti», assicurò Masako. «Quindi si vuole assumere la garanzia?» «No, questo no, ma farò in modo che le restituisca il denaro, anche a costo di chiedere dei prestiti ad altre finanziarie». «Be’, allora aspettiamo di vedere come vanno i prossimi pagamenti e poi ci ripenseremo». Jumonji sembrava essersi rassegnato, tornò al divano e si lasciò cadere a gambe larghe. Kuniko perplessa guardò Masako, come se non avesse capito che il contratto di garanzia le era stato restituito. «Andiamocene», la sollecitò Masako, ma proprio in quel momento Jumonji esclamò: «Adesso ricordo! Lei è la signora Katori, vero?» Masako si girò. Le tornò alla mente l’immagine di Jumonji quando era ancora un giovane malavitoso con la testa rasata. Quello che avevano assunto nella sua ditta affinché si occupasse della riscossione dei crediti. Del nome non si poteva ricordare, anche perché allora non si chiamava così, ma lo sguardo, che mutava a seconda della persona che si trovava di fronte, era sempre lo stesso. «Ah… Lei ha cambiato nome, per questo non l’ho riconosciuta subito». Jumonji scoppiò a ridere: «Katori-san! Adesso mi spiego: con lei nessuno può farla franca!» «Come mai lo conosci?» si voltò a chiederle Kuniko, che la precedeva per le scale e non stava più nella pelle dalla voglia di sapere. «Nella ditta dove lavoravo una volta avevamo spesso a che fare con lui». «E che lavoro facevi lì?» «Finanziamenti».
«Prestiti personali e cose del genere?» Masako non aggiunse una parola. Kuniko la fissò per qualche istante, poi, a testa avanti, affrettò il passo come se volesse fuggire da quel quartiere desolato ormai completamente buio. Masako invece, dopo quell’inaspettato incontro col passato, si sentiva quasi prigioniera della polverosa tenebra di quel vicolo. Che cosa l’aspettava lì fuori? Assalita da un’improvvisa angoscia si addentrò nella direzione opposta, nel sudicio dedalo di vicoli intorno alla stazione. Aveva voglia di rannicchiarsi in un angolo e di tenersi la testa fra le mani. Perché per lei non c’era più una casa né un luogo in cui tornare.
3. Perché in sogno poteva parlare con lui, anche se sapeva che era morto? Finalmente si era addormentata, ma il sonno era leggero. Sognava di vedere suo padre in giardino, in piedi, che osservava l’erba terribilmente rada e secca. Lui, che aveva dovuto lasciare questo mondo a causa di un tumore al mento, era fermo sotto il cielo nuvoloso e non faceva niente. Indossava lo jukata che usava sempre in ospedale. Poi si era accorto di Masako sulla veranda e le sue guance, tormentate dalle ripetute operazioni, si erano distese. «Cosa fai lì?» «Volevo muovermi un po’». Nel sogno il padre, che negli ultimi tempi della malattia non riusciva più a pronunciare parole intelligibili, parlava con estrema chiarezza. «Ma stanno arrivando ospiti!» Masako non sapeva chi doveva arrivare, ma per tutto il tempo si era aggirata trafelata per la casa, occupata nei preparativi. Il giardino era quello della vecchia casa di legno di Hachioji, che i suoi genitori avevano avuto in affitto. La casa invece era la sua, quella nuova che aveva comprato con Yoshiki. E inoltre il bambino che si aggrappava ai jeans di Masako era Nobuki da piccolo. «Allora prima bisogna assolutamente che tu pulisca il bagno!» Alle parole preoccupate del padre Masako, in cuor suo, aveva tremato. Infatti in bagno c’erano ovunque i capelli di Kenji. Come faceva il padre a saperlo? Sicuramente perché era morto. Si era staccata di dosso le piccole mani di Nobuki e aveva incominciato affannosamente a giustificarsi. Allora il padre, con le gambe magre come quelle di uno scheletro, era andato verso di lei. Lo sguardo era vuoto, il volto livido. Era il viso di un morto. «Masako, lasciami morire!» le aveva bisbigliato all’orecchio. Masako si svegliò di soprassalto. Il padre, quando ormai non riusciva più a parlare né a inghiottire cibo, alla fine, vinto dalla sofferenza, era riuscito tuttavia a dirle chiaramente quelle parole. Quella voce, che credeva sepolta nelle profondità della memoria, era giunta di nuovo alle sue orecchie e la faceva tremare di paura come se avesse incontrato un fantasma. «Ehi, Masako!» Yoshiki era fermo accanto al suo futon. Il marito non entrava quasi mai in camera sua mentre dormiva. Masako, non ancora completamente uscita dall’incubo, lo guardò attonita. «Alzati e guarda! Non è una che conosci?» Yoshiki le mostrò un articolo sul giornale del mattino che teneva in mano. Masako si sollevò e lesse il titolo in terza pagina: Identificato il cadavere del parco: è un impiegato di Musashi-Murayama. Come aveva immaginato, già la sera precedente la polizia era riuscita a identificare la vittima. In qualche modo i caratteri a stampa rendevano i fatti meno reali e improvvisamente tutto le sembrò stranamente falso. Sorpresa da questa sensazione, Masako continuò a leggere: «Yayoi Yamamoto, la moglie della vittima, quando il marito Kenji è sparito senza lasciare tracce non era in casa. Lavora infatti part-time in una fabbrica ed è addetta ai turni di notte. Gli investigatori stanno ora cercando di ricostruire i movimenti di Kenji Yamamoto dopo che aveva lasciato l’ufficio». L’articolo non conteneva alcuna informazione precisa. Con un gusto macabro e grottesco si dilungava sul cadavere fatto a pezzi e buttato via in sacchetti per le immondizie. «E allora? La conosci, vero?» «Sì, certo, ma come lo sai?» «Non telefona spesso? Sono Yamamoto dello stabilimento, dice sempre. E poi non ci sono altre fabbriche con i turni di notte, qui vicino». Che avesse sentito anche la telefonata di quella sera, quando Yayoi l’aveva chiamata per
chiederle aiuto? Istintivamente lo guardò negli occhi. Yoshiki, vergognandosi di aver rivelato la propria emozione, si girò di lato. «Ho solo pensato che dovessi saperlo al più presto possibile…» «Grazie». «Che cosa può essere successo? È possibile che qualcuno lo odiasse così tanto?» «Non credo che fosse il tipo da farsi odiare. Già, che cosa può essere successo?» «Tu hai un buon rapporto con la signora Yamamoto, vero? Non sarebbe meglio che andassi a trovarla?» domandò Yoshiki meravigliato dal contegno tranquillo della moglie. «Vedremo», rispose evasivamente Masako continuando a fingere di leggere con attenzione il giornale abbandonato sul letto. Yoshiki, che in qualche modo continuava a trovare strano quel comportamento, andò al suo armadio personale e prese un abito. Evidentemente voleva andare in ufficio, nonostante il sabato fosse giorno di riposo. Masako si alzò in fretta e, ancora in pigiama, incominciò a risistemare il letto. «Ma, davvero, non credi che sarebbe meglio andare da lei e consolarla un po’?» domandò di nuovo Yoshiki mostrandole la schiena. «Non deve essere facile per lei, adesso, con la polizia in casa e giornali e televisione fuori dalla porta!» «Proprio per questo forse è meglio non darle altri fastidi e lasciarla in pace!» rispose Masako, mentre Yoshiki si sfilava in silenzio la maglietta. Masako lo guardò: aveva i muscoli flaccidi e, nell’insieme, un aspetto macilento. Era ormai un vecchio, nel corpo come nello spirito. Yoshiki sembrò avere intercettato il suo sguardo e si irrigidì. I ricordi del tempo in cui era in armonia con Yoshiki erano impalliditi non perché avessero smesso di toccarsi, ma perché a un certo punto avevano preso strade differenti e ora si trovavano in due luoghi diversi. Ora ognuno di loro si limitava ad adempiere le proprie funzioni. Non erano più marito e moglie, padre e madre, ma un uomo e una donna che eseguivano scrupolosamente i loro compiti, sia sul lavoro che a casa. Lentamente ma inesorabilmente il loro matrimonio stava andando a rotoli. Yoshiki indossò una camicia bianca sulla pelle nuda e si girò: «Falle almeno una telefonata. Sei veramente insensibile!» Masako rifletté su quelle parole. Forse perché aveva avuto un rapporto così stretto con l’accaduto, stava tralasciando ciò che nell’ambito di relazioni normali sarebbe apparso categoricamente ovvio. Era pericoloso dimenticare il buon senso comune. «Va bene, telefonerò», acconsentì di malavoglia. Yoshiki la fissò come se volesse pronunciare una sentenza: «Tu hai l’abitudine di eliminare subito quello che, a tuo parere, non ti riguarda». «Non ne avevo intenzione», obiettò Masako guardandolo in faccia. Negli ultimi tempi Yoshiki tendeva a giudicare il suo comportamento. Dal giorno dell’incidente di Yayoi lei era cambiata, e lui se ne era accorto. «Forse ho parlato troppo, scusa». Yoshiki storse la bocca come se avesse mandato giù un boccone amaro e la guardò. Ognuno cercava di scoprire negli occhi dell’altro il gelo racchiuso nei loro cuori. Masako abbassò lo sguardo e stese il copriletto. Annodandosi la cravatta Yoshiki disse: «Poco fa hai gridato nel sonno». Masako pensò che la cravatta non era adatta all’abito e rispose: «Ho fatto un brutto sogno». «Che sogno?» «Ho sognato mio padre. Era morto ma veniva da me e mi parlava». Yoshiki mugolò ma non disse nulla e infilò nella tasca dei pantaloni la tessera dell’abbonamento e il portafoglio. Si era sempre capito bene con il suocero. Ma non le chiese altri dettagli, non voleva costringerla ad aprirgli il cuore, e Masako lo interpretò come un rifiuto. Forse non riteneva più necessario che lei si confidasse con lui. Forse neppure lei gli era più necessaria. Masako sistemò con cura i lembi del copriletto intorno al materasso, continuando a riflettere sul loro
matrimonio sprecato. Dopo che Yoshiki se ne fu andato, Masako telefonò a Yayoi. «Qui è casa Yamamoto», rispose una voce irritata ed esausta. Assomigliava a quella di Yayoi, ma non era la sua. Era più vecchia e aveva un forte accento. «Mi chiamo Katori. C’è Yayoi?» «Ha preso un sonnifero e adesso sta dormendo. Mi scusi, ma lei chi è?» «Lavoro con lei allo stabilimento. Ho letto il giornale e sono molto preoccupata». «La ringrazio. Ciò che è accaduto è talmente assurdo che le sono saltati i nervi. È da ieri sera che dorme». Il tono era brusco e indifferente. Quante volte aveva suonato il telefono quella mattina, quante volte aveva dovuto rispondere alle stesse domande? Parenti, colleghi di ufficio di Kenji, amiche di Yayoi, vicini, giornalisti… Aveva ripetuto sempre le stesse parole, come il nastro registrato di una segreteria telefonica. «Lei è la madre di Yayoi?» «Sì», rispose seccamente. Forse aveva paura di dire qualcosa che non doveva. «È terribile, davvero terribile. Siamo tutti preoccupati, glielo dica. Le dica di aver cura di sé». Si sarebbe ricordata che aveva telefonato. Andava bene così, pensò Masako. Non telefonare avrebbe potuto suscitare dei sospetti. Proprio nel momento in cui stava riagganciando entrò Nobuki. Muto come un pesce fece colazione e uscì subito di casa. Se andasse a lavorare o a divertirsi Masako non lo sapeva. Rimasta sola accese il televisore per vedere un telegiornale, ma tutti i canali ripetevano le stesse notizie; a quanto pareva non c’erano nuovi sviluppi. Arrivò una telefonata di Yoshie. Diversamente da Masako, aveva lavorato nel turno di notte, aveva terminato i lavori domestici ed evidentemente aveva aspettato che la suocera si addormentasse per telefonare. Parlava a bassa voce e sembrava depressa: «È proprio successo quello che avevi previsto. Quando l’ho visto in televisione mi sono spaventata a morte!» «Già. E presto la polizia verrà certamente a indagare anche in fabbrica». «Cosa dici, che i nostri sacchetti siano al sicuro?» «Credo di sì», rispose Masako. «Ascolta, e adesso cosa dobbiamo dire alla polizia?» «Che non sappiamo niente, perché da quella notte Yamachan non è più venuta a lavorare». «Sì, giusto, dovrebbe bastare». Yoshie ripeteva sempre le stesse domande e voleva sentire sempre le stesse risposte, per potersi tranquillizzare: a quanto pareva era solo questo lo scopo della sua telefonata. Masako si innervosì, avrebbe voluto essere lasciata finalmente in pace. All’altro capo del telefono si sentiva la voce querula del bambino. Masako ricordò di nuovo il sogno del mattino, la sensazione fisica di Nobuki che la tirava per i pantaloni. E si persuase di avere fatto quel sogno solo perché aveva visto il nipotino di Yoshie. Se fosse riuscita ad analizzare uno alla volta i singoli elementi di quell’incubo, la paura sarebbe presto scomparsa. «Sì, ma…» Di nuovo la voce angosciata di Yoshie. «Ci vediamo questa sera», la interruppe e riattaccò. Kuniko non aveva ancora chiamato. Ma lei era una codarda, e dopo quello che le aveva fatto fare la sera prima, probabilmente se ne sarebbe stata tranquilla per un po’. Mentre cercava la biancheria sporca per il bucato, ripensò a Jumonji, che aveva incontrato di nuovo dopo tanti anni. Nel frattempo si era dato da fare nel settore dei prestiti a usura e doveva aver guadagnato un bel po’ sulle disgrazie dei suoi clienti. A Masako non importava nulla dei debiti di Kuniko, ma una cosa era certa: se per caso Jumonji avesse letto il giornale e collegato il nome di Yayoi con quello della garante di Kuniko, sarebbero stati guai seri.
Che razza di uomo era diventato Jumonji? Masako tentò di evocare i ricordi di quando era impiegata, un periodo che avrebbe voluto dimenticare del tutto. Fece scorrere l’acqua nella lavatrice e, quando il cesto fu abbastanza pieno, versò il detersivo. La polvere venne risucchiata dal vortice e si sciolse producendo piccole bolle di sapone. Masako si fermò a guardarle e lentamente aprì il catenaccio con cui aveva chiuso il suo cuore. Ogni volta che ripensava al periodo in cui era stata impiegata, le veniva in mente la festa di capodanno, quando le veniva dato l’incarico di riscaldare il sakè. Era la solita festa organizzata dall’istituto di credito Tanashi, dove Masako, dalla fine del liceo, aveva lavorato per ventidue anni. Sempre, alla vigilia del nuovo anno lavorativo, l’azienda offriva un banchetto al quale erano invitati i pezzi grossi delle più importanti società di affari e delle cooperative agricole da cui era finanziata. Quel giorno le impiegate dovevano presentarsi al lavoro con il kimono da cerimonia. L’obbligo valeva soltanto per quelle più giovani, che lavoravano in ditta da un solo anno. Le altre impiegate dovevano preparare spuntini, lavare bicchieri e intiepidire il sakè in un locale apposito, senza mai comparire. I compiti più faticosi erano assegnati agli uomini, che portavano le birre e allestivano il salone, tuttavia le donne erano costrette a lavorare dal mattino alla sera, impegnate nell’allestimento, nel servizio e nel riordino. Nonostante dal 30 dicembre, che segnava la fine dell’anno lavorativo, al 4 gennaio, inizio del nuovo anno di lavoro, fossero ufficialmente in ferie, dovevano sacrificare un giorno di vacanza senza ricevere alcun compenso – in fondo si trattava pur sempre di una festa! Comunque, da quando Masako era diventata l’impiegata più anziana, si era vista affidare soltanto il compito di intiepidire il sakè. La cosa non le dispiaceva, perché detestava stare in mezzo alla gente, ma rimanere mezza giornata in piedi nel piccolo locale a intiepidire le caraffe piene di sakè non era un gran divertimento. Dopo un po’ i vapori dell’alcol la inebriavano e la facevano star male. Inoltre i dipendenti maschi si ubriacavano presto e le altre donne dovevano andare a sostituirli nel servizio in sala, per cui Masako rimaneva sola a scaldare il sakè e a lavare bicchieri. Era una situazione talmente miserabile da essere quasi grottesca. Negli anni peggiori le donne dovevano persino pulire il vomito degli impiegati ubriachi. Molte avevano rinunciato al posto pur di non dover sottostare a quell’inaudita ingiustizia. Ma, dopotutto, quella festa si faceva solo una volta all’anno, non era il caso di prendersela troppo! No, quello che la faceva arrabbiare di più era che, dopo tutti quegli anni di assiduo lavoro, non aveva mai avuto una promozione e continuava a svolgere le stesse mansioni che le erano state assegnate quando era entrata in ditta. In quei dieci anni, neppure per un giorno le erano stati affidati compiti diversi, benché si recasse al lavoro puntualmente alle otto del mattino e rimanesse a fare gli straordinari fino alle nove di sera. Per quanto si impegnasse, i compiti più delicati, come la concessione dei finanziamenti e cose del genere, erano riservati agli uomini, e Masako era obbligata a svolgere soltanto funzioni di assistente. Tutti gli impiegati maschi entrati in ditta insieme a lei avevano potuto frequentare corsi di perfezionamento e, in dieci anni, erano riusciti a diventare almeno caposezione, scavalcandola velocemente. Non avrebbe dovuto aspettare a lungo: ben presto avrebbe avuto un capoufficio più giovane di lei. Un giorno le era capitata tra le mani la distinta della busta paga di un collega con la sua stessa anzianità e il sangue le era salito alla testa. Guadagnava quasi due milioni più di lei all’anno. Dopo vent’anni di lavoro Masako percepiva uno stipendio annuale di quattro milioni e seicentomila yen. Dopo aver riflettuto a lungo, aveva deciso di rivolgersi direttamente al dirigente della sua sezione, che aveva la sua stessa età di servizio. Dopo un lungo colloquio a quattr’occhi aveva ottenuto che le venissero assegnate le stesse mansioni dei suoi colleghi maschi. Si sarebbe impegnata nel lavoro con tutta se stessa, ma voleva un posto di maggiore responsabilità.
Il giorno successivo, senza che tentassero di nasconderlo, aveva avuto inizio il mobbing. Anzitutto la sua richiesta era stata riportata in modo distorto. Tutte le colleghe avevano incominciato a trattarla con freddezza, poiché erano convinte che cercasse di fare carriera a loro spese. Non era più stata invitata alle cene delle impiegate, che si tenevano una volta al mese, ed era rimasta completamente isolata. Ogni volta che i colleghi avevano incontri di lavoro con i clienti, Masako doveva preparare il caffè o il tè, e molto più spesso di prima le chiedevano di fare fotocopie per loro. Ovviamente le rimaneva poco tempo per il suo lavoro e era costretta a fermarsi in ufficio sempre più spesso per gli straordinari. Tutto ciò aveva avuto dei riflessi sulla sua valutazione personale: era stata giudicata poco efficiente e le avevano assegnato un punteggio negativo e persino una nota di biasimo. Tuttavia Masako continuava a sopportare. Rimaneva a lavorare fino a tarda ora e si portava a casa il lavoro da finire. Nobuki, che andava ancora alle elementari, ne soffriva molto ed era diventato ansioso, e Yoshiki aveva incominciato a brontolare che doveva decidersi a lasciare quel posto impossibile. Ogni giorno saltava come una pallina da ping-pong fra il lavoro e la famiglia, ed era completamente sola. Non c’era un luogo dove riuscisse a sentirsi al sicuro. Fu allora che accadde. Masako aveva fatto notare a un superiore un errore su un finanziamento scoperto e si era presa uno schiaffo. Il “superiore”, un uomo molto più giovane di lei e completamente incapace, la aveva colpita insultandola: «Tieni la bocca chiusa, vecchia megera!» Era successo la sera tardi, nelle ore di lavoro straordinario, e non aveva avuto conseguenze, ma nell’animo di Masako si era impressa una profonda, invisibile ferita. Era dunque così importante essere un uomo? Bastava essere laureati? Dunque in quella ditta la sua esperienza e il suo desiderio di migliorare non valevano proprio niente? Anche prima di quell’episodio aveva spesso pensato di cambiare posto, ma le piaceva lavorare in un istituto di credito. Ma ormai era stato oltrepassato ogni limite ed era veramente disperata. L’incidente dello schiaffo si era verificato nel periodo in cui l’economia giapponese era nella fase di maggiore espansione. Le banche erano state colte dalla febbre dei finanziamenti, prestavano denaro a chiunque, senza fare i debiti accertamenti. Prestavano denaro anche a quei clienti che Masako considerava pericolosi, e alla fine della bolla espansionistica l’azienda si era trovata ad affrontare una montagna di crediti non esigibili. I prezzi dei terreni erano crollati, le assicurazioni non valevano più niente. Gli immobili venivano venduti alle aste giudiziarie, ma non si riusciva a ricavarne denaro a sufficienza, per cui non era più possibile riscuotere i titoli di credito. Per la cassa di credito Tanashi era diventato sempre più difficile anche coprire le spese correnti, perciò ben presto un grosso istituto finanziario, che apparteneva a una società agricola, dovette intervenire nella gestione dell’azienda. Tutto era avvenuto molto in fretta: girò voce dell’assorbimento in una joint venture e di una riduzione del personale. Masako era l’impiegata più anziana e inoltre veniva isolata da tutti. Immaginò che sarebbe stata la prima a essere licenziata e i suoi timori trovarono presto conferma. Venne chiamata dalla direzione del personale: «Vorremmo trasferirla alla filiale di Odawara». Era l’anno precedente l’esame di ammissione al liceo di Nobuki. Odawara si trovava a più di cento chilometri: avrebbe dovuto lasciare i suoi familiari da soli e trovarsi una stanza. Questo era impossibile! Aveva rifiutato e la avevano costretta a dimettersi. Non si sentiva una sconfitta, ma quello che era successo in seguito le aveva fatto molto male: quando avevano saputo che aveva dovuto dimettersi, le sue colleghe avevano battuto le mani e l’applauso era risuonato per tutta l’azienda. Jumonji aveva incominciato a lavorare per l’istituto di credito quando la bolla espansionistica era scoppiata e sempre più clienti non riuscivano a onorare i loro debiti. Anche una banca seria come la Tanashi si era rivolta a uomini di quel genere per farsi togliere le castagne dal fuoco. Avevano il compito di cuocere a puntino i debitori morosi, metterli alle strette e impedire loro di svignarsela.
L’istituto, avido di alti profitti, nei periodi di congiuntura favorevole aveva prestato generosamente denaro, ma non appena la situazione era peggiorata non si era fatto molti scrupoli nell’esigere la restituzione dei crediti. Masako aveva osservato attentamente e da vicino la miserabile tragedia dei piccoli debitori. Aveva creduto che anche Jumonji la pensasse come lei, benché fosse coinvolto nell’affare. Non gli aveva mai parlato personalmente ma, benché rispondesse sempre con un sorriso al comportamento arrogante e ai discorsi presuntuosi della gente della banca, nel suo sguardo le era sempre sembrato di vedere un lampo di orrore. Il sibilo della lavatrice la distolse dai suoi pensieri. Solo allora si accorse di essersi completamente dimenticata di infilarvi i capi da lavare. L’acqua saponosa aveva vorticato ed era stata scaricata, era stata sostituita dall’acqua del risciacquo e alla fine era stata eliminata fino all’ultima goccia… Aveva continuato a girare a vuoto, da sola, inutilmente e senza senso, proprio come lei in quel periodo. Le venne da ridere.
4. Quando Jumonji si svegliò, il braccio che teneva ancora sotto la testa della donna era intorpidito. Lo tirò via e aprì e chiuse la mano un paio di volte. A quel brusco movimento la donna aprì gli occhi e lo guardò stupita: le sopracciglia sottili erano appena segnate, come quelle di una bambina o di una vecchia: «Cosa c’è?» Jumonji guardò la sveglia accanto al letto. Erano le otto. Bisognava alzarsi. Dalle tende sottili penetrava già il sole estivo: in breve avrebbe invaso la piccola camera e il caldo sarebbe diventato insopportabile. «Dai, alzati!» «Non voglio!» esclamò la donna aggrappandosi al corpo di Jumonji. «Devi andare a scuola, no?» La donna era in realtà una studentessa del primo anno del liceo. Sarebbe stato più appropriato definirla una ragazzina, ma indubbiamente era una femmina, e Jumonji non provava desiderio che per le ragazzine. «Non importa, non ci andrò, tanto è sabato». «Io invece devo andare. E allora alzati!» «Accidenti!» La ragazza schioccò la lingua con disprezzo e spalancò la bocca in un grande sbadiglio. Denti bianchi, carne rosa. Tutto, nel bel corpo da adolescente, era bianco e rosa. La guardò un’altra volta, rimpiangendo di doversi separare da lei, si alzò e accese l’aria condizionata. Subito l’aria polverosa e maleodorante gli investì il viso. «Ehi, prepara qualcosa da mangiare!» «No, non ne ho voglia». «Ma sei fuori? Sei tu la donna, no, e allora mi prepari la colazione!» «Non sono capace». «Scema, e magari te ne vanti anche?» «Scema, sei fuori… piantala di parlarmi così! Sei capace di rovinare la giornata a chiunque!» La ragazza, imbronciata, prese una delle sigarette di Jumonji e se la ficcò tra le labbra. «Che rottura! Ma da un nonnetto come te non ci si può aspettare altro!» «Come, prego? Io ho solo trentun anni», si irritò Jumonji. La ragazza rise impudente e disse: «Abbastanza vecchio!» «E tuo padre, allora, quanti anni ha?» si arrabbiò Jumonji che si considerava ancora giovane. «Quarantuno, forse». «Solo dieci anni più di me…» Di colpo gli sembrò di essere invecchiato. Andò a orinare nel piccolo bagno accanto all’ingresso. Dopo essersi lavato la faccia tornò in camera sperando che la ragazza avesse almeno messo a bollire l’acqua per il caffè. Invece era ancora a letto, solo i lunghi capelli tinti di castano dorato spuntavano da sotto il lenzuolo. Jumonji andò su tutte le furie. «Ehi, sveglia! Fuori dai piedi!» «Be’? Hai perso qualche rotella? Imbecille!» La ragazza scalciò in aria un paio di volte con le gambe grassocce. D’un tratto Jumonji le domandò: «Quanti anni ha tua madre?» «Quarantatré. È più vecchia di mio padre». «Ah sì? Comunque le donne oltre i trent’anni non contano più». «Sfacciato! Mia madre è ancora giovane! E bella, per di più!» rispose la ragazza incollerita. C’era cascata. Jumonji, che non provava alcun interesse per le donne mature, rise. Era riuscito a vendicarsi! Non credeva di essere così infantile. La ragazza era ancora arrabbiata, ma lui non se ne preoccupò più, si infilò fra le labbra una sigaretta e prese il giornale del mattino. Si lasciò cadere sul
letto e si mise a leggere, mentre lei lo guardava con cattiveria, le braccia incrociate sul petto. Il suo sguardo sembrava terribilmente maturo, come quello delle donne più vecchie con le quali lui non voleva avere nulla a che fare. Come sarebbe stata da adulta? Provò a immaginare il volto della madre. Le prese il mento fra le dita, le sollevò la testa e la fece girare a destra e a sinistra, osservandola di fronte e di profilo. «Ma che fai! Mi dai fastidio!» «Sta’ buona!» «E smettila. Che cosa hai da guardarmi così?» «Ah, pensavo solo che anche tu invecchierai». «Ovvio, e allora?» La ragazza allontanò con rabbia la mano di Jumonji. «Che strazio di discorsi fai fin dal mattino! Sei deprimente!» Quarantatré anni. Doveva essere più o meno l’età di Masako Katori, che aveva incontrato il giorno prima. Era ancora magra come una volta, e assomigliava sempre più a una di quelle zitelle inacidite che lui cercava in tutti i modi di evitare. Tuttavia continuava a fargli una forte impressione. Aveva conosciuto Masako Katori all’ex cassa di credito Tanashi. Ormai la cassa era stata assorbita da una società più importante, poiché non era riuscita a riscuotere i crediti fondiari e i mutui erogati nel periodo di massima espansione, che in seguito erano stati congelati. Nel tentativo di far rientrare un po’ di denaro, la riscossione dei crediti era stata data in subappalto a uomini come Jumonji. Si ricordava bene di Masako, che allora lavorava nell’ufficio amministrativo. Sedeva dignitosa davanti al suo terminale, impeccabile nella sua divisa grigia che sembrava sempre appena uscita dalla lavanderia. Non si truccava in modo vistoso come le altre impiegate, non si perdeva in complimenti e continuava a svolgere precisa il proprio lavoro in silenzio. Benché non facesse nulla per mettersi in mostra e non si lasciasse avvicinare facilmente, tuttavia sembrava che tutti gli uomini del servizio di riscossione la rispettassero, perché le sue indicazioni erano sempre più appropriate, precise e circostanziate di quelle degli altri impiegati della banca. A quell’epoca Jumonji non aveva il minimo interesse per le vicende interne della Tanashi, ma comunque non gli era sfuggito che Masako, una veterana con vent’anni di lavoro alle spalle, veniva emarginata da tutti. Gli era anche giunta voce che per questo sarebbe stata la prima a entrare nel novero degli esuberi. Ma il suo istinto gli diceva che doveva esserci un motivo ancor più recondito. Era come se Masako fosse circondata da una barriera che impediva alla gente di avvicinarla, come se portasse una specie di “sigillo” che contraddistingue chi lotta da solo contro il mondo intero. Non era affatto sorprendente che uno come lui se ne accorgesse. Lui stesso, in quanto vicino agli yakuza, era un emarginato e, si sa, il simile attrae il proprio simile. Probabilmente dietro al mobbing si nascondevano proprio quelle persone che erano sprovviste di tale “sigillo”. Ma come mai Masako Katori aveva a che fare con una piena di debiti come quella Kuniko? Per Jumonji era un mistero. «Ho fame. Andiamo almeno al McDonald!» La voce della ragazza interruppe i pensieri di Jumonji che incominciò a sfogliare il giornale del quale si era completamente dimenticato. «Aspetta un momento». «Dai, che il giornale potrai leggerlo là!» «Zitta, mi dai fastidio!» Liberandosi dalla ragazza che lo voleva abbracciare, Jumonji si fermò a leggere con attenzione l’articolo a pagina tre, nella colonna dedicata a Musashi-Murayama. Parlava del ritrovamento di un cadavere fatto a pezzi. Il suo sguardo cadde sulla riga in cui si parlava di «Yayoi Yamamoto, moglie della vittima». Quel nome gli ricordava qualcosa. Non era forse il nome della garante? Era solo un vago ricordo, perché proprio quando aveva intenzione di fare delle ricerche su di lei era intervenuta
Masako e si era fatta consegnare il documento. Ma gli sembrava che il nome fosse proprio lo stesso. La ragazza, che leggeva da dietro le sue spalle, ricominciò con le sue ciance: «Che schifo! E pensare che sono stata poco tempo fa al parco di Koganei! Che orrore!» e cercò di prendergli il giornale. «Là ho incontrato un tipo che gira sempre in skate-board, che insisteva per farmelo vedere, e allora me ne sono andata…» «Tieni la bocca chiusa, sei noiosa!» Jumonji le strappò di mano il giornale e tutto serio ricominciò a leggere l’articolo dall’inizio. Kuniko gli aveva detto che faceva i turni di notte in una fabbrica di pasti precotti. Probabilmente la stessa in cui lavorava anche Yayoi Yamamoto. E quindi non c’era dubbio, era proprio la garante di Kuniko, le due erano colleghe. Ma allora perché Kuniko aveva chiesto proprio a quella donna di garantire per i suoi debiti? Che ci fosse una relazione con il brutale assassinio del marito della Yamamoto? No, era assurdo, sembrava un romanzo di appendice! Il fatto che Masako Katori fosse venuta da lui e avesse preteso a tutti i costi la restituzione della garanzia poteva significare solamente che sapeva già quello che era successo a Yayoi. Era stato un vero sprovveduto a lasciarsi convincere così in fretta! Non credeva di essere capace di farsi del male così stupidamente. «Che bestia!» Ma un momento, manteniamo la calma! si disse Jumonji e rilesse l’articolo. La notte di martedì la vittima non era tornata a casa e la polizia supponeva che fosse stata uccisa e fatta a pezzi quello stesso giorno. E dunque poteva darsi che Masako Katori si fosse affrettata a riprendere la garanzia soltanto per riguardo verso Yayoi che era in pena per la scomparsa del marito. In questo non ci sarebbe stato niente di strano. D’accordo, ma allora perché Kuniko aveva chiesto la garanzia proprio a Yayoi, che si trovava in un momento così critico? E perché Yayoi non si era rifiutata? Una donna, il cui marito è appena scomparso nel nulla, dovrebbe avere ben altro di cui preoccuparsi che non farsi coinvolgere in una storia di debiti! E quale poteva essere il ruolo di Masako Katori in tutto questo? Quella vecchia volpe non era il tipo da farsi muovere a compassione per niente. Jumonji si ripropose di approfondire la questione, ripiegò il giornale e lo gettò sul tappeto polveroso. La ragazza, che era rimasta in silenzio per tutto il tempo, forse intimorita dall’atteggiamento di Jumonji, lo raccolse con cautela e si mise a leggere i programmi della televisione. Soprappensiero Jumonji seguì i suoi movimenti e poi respirò a fondo. Sentiva l’odore dei soldi. L’eccitazione accelerava il suo ritmo cardiaco. I tempi erano cambiati, ora i giovani prelevavano soldi in prestito dai distributori automatici. Ormai i piccoli finanziatori di quartiere erano passati di moda – semplicemente non si tirava più fuori un ragno dal buco. Al più tardi nel giro di un anno l’agenzia finanziaria Milione avrebbe fatto bancarotta, e lui aveva già preso in considerazione l’ipotesi di dedicarsi al traffico della prostituzione. Jumonji respirò di nuovo a fondo, come se avesse già di fronte agli occhi le mazzette di denaro. «Adesso ho veramente fame! Andiamo a mangiare», protestò la ragazza facendo il broncio. «Bene, andiamo!» rispose Jumonji spiazzandola con il suo improvviso buonumore.
5. Yayoi si dibatteva tra la pietà e il sospetto dei due visitatori. E veniva colpita di continuo da un sentimento o dall’altro, come una palla da tennis. Questo la confondeva, perché a quel punto non sapeva più come comportarsi. Era come un continuo cambiamento di tono. La compassione che ancora nel pomeriggio le aveva dimostrato Iguchi, il capo della sicurezza della questura di Musashi-Yamato, dopo solo poche ore sembrava essersi mutata in sospetto. Avevano infatti identificato il cadavere di Kenji. «Grazie all’impronta della mano trovata insieme ad altre parti del cadavere nel parco di Koganei, abbiamo potuto stabilire che la vittima è suo marito. Si tratta ormai dei reati di profanazione ed eliminazione di cadavere, e d’ora in poi se ne occuperà la sezione investigativa e la prima sezione della sede centrale. A causa della gravità del delitto è stata istituita una commissione speciale nella sede di Musashi-Yamato. Perciò, signora Yamamoto, la pregheremmo di collaborare». Nonostante nel pomeriggio le avesse raccomandato di presentarsi in questura, Iguchi era tornato a farle visita di persona. Nei suoi piccoli occhi non c’era più alcuna traccia della dolcezza con cui aveva osservato il triciclo in giardino, e questo bastava a Yayoi per farle gelare il sangue nelle vene. Ma quello non doveva essere che l’inizio. Poco dopo le dieci di sera erano arrivati due agenti della polizia criminale, e il loro sguardo era completamente diverso da quello di Iguchi. «Sono Kinugasa, della sede centrale», si presentò un uomo mostrando un tesserino in una custodia di pelle nera. Andava verso i cinquant’anni e vestiva in modo giovanile – pantaloni in cotone e polo nera sbiadita –, ma la figura tarchiata, il collo taurino e i capelli tagliati a spazzola a prima vista facevano pensare a un membro di una banda yakuza. Yayoi non sapeva che cosa fosse la “sede centrale” o di che cosa si occupasse la prima sezione, ma la presenza di un individuo così rude era sufficiente a farla tremare di paura. L’altro, magro magro e laconico, disse solo: «Mi chiamo Imai». Doveva essere l’agente della sede locale. Era più giovane e sembrava volersi tenersi in disparte rispetto a Kinugasa, perché subito si immerse nella consultazione della sua agenda. Appena entrati in casa dissero al padre di Yayoi, che se ne stava immobile e preoccupato accanto alla figlia, di accompagnare fuori i bambini. Quando la sera li aveva chiamati a Kofu, i genitori di Yayoi erano subito saliti in macchina per raggiungerla. Erano ancora sotto shock. Uscirono di casa portando con sé il nipote più piccolo che piagnucolava e il fratello più grande teso per l’eccitazione. Sicuramente non si sognavano neppure di pensare che la figlia potesse essere sospettata. Per loro tutto era una disgrazia incomprensibile. «Signora, mi spiace disturbarla in un momento così delicato, ma avremmo alcune domande da farle», esordì Imai. Non appena entrarono in soggiorno, a Yayoi sembrò che il soffitto le crollasse sulla testa. Sospirò. Proprio adesso che avrebbe potuto vivere in pace con i bambini, senza Kenji e il suo eterno malumore! Si sentiva oppressa e soffocata dalla presenza dei due uomini. «…sì», rispose con un filo di voce, mentre Kinugasa la scrutava in silenzio dall’alto in basso. Se uno così l’avesse colta in fallo, sarebbe crollata immediatamente. Yayoi per reazione si raggomitolò su se stessa e Kinugasa incominciò l’interrogatorio. Il suo alito puzzava di nicotina e la sua voce aveva un tono inaspettatamente acuto, tuttavia amabile. Yayoi si irritò. «Signora Yamamoto, con il suo aiuto cattureremo presto l’assassino». «Sì». Kinugasa si passò la lingua sulle labbra e la fissò negli occhi. Forse sospettava di lei perché non piangeva. Yayoi si irritò ancora di più. Perché non aveva più lacrime, la sorgente si era ormai
seccata. «Torniamo a quella notte. Secondo le informazioni che abbiamo raccolto lei quella sera è andata a lavorare nonostante suo marito non fosse ancora rincasato. Quindi ha lasciato i bambini a casa da soli. Non se ne è data pensiero? Poteva anche scoppiare un incendio o venire un terremoto». Gli occhi piccoli e astuti di Kinugasa divennero due fessure sottili. Soltanto in seguito Yayoi si sarebbe accorta che succedeva ogni volta che sorrideva. «Di solito…» Stava per dire che di solito rincasava tardi, perciò si era abituata, ma che comunque ogni volta si preoccupava per i bambini. Si bloccò di colpo. Se avesse ammesso che Kenji era solito rientrare alle ore piccole avrebbero capito che i loro rapporti erano ormai compromessi! Riprese precipitosamente a parlare: «Di solito tornava sempre in tempo, prima che io uscissi, ma quella notte era troppo tardi, e quando sono andata a lavorare ero molto preoccupata. Quando poi sono tornata a casa e ho visto che non c’era non ci ho visto più!» «Ah, non ci ha visto più. E perché?» Kinugasa prese un’agendina marrone dalla tasca dei pantaloni e scrisse qualche appunto. «Mi chiede perché…?» Improvvisamente Yayoi si infuriò. «Allora lei non ha figli, signor commissario?» «Certo! Il maggiore frequenta l’università, la minore il liceo. E tu Imai?» «I due più grandi vanno ancora alle elementari, e il più piccolo all’asilo», rispose Imai. «Allora dovreste sapere di cosa sto parlando. Lasciare soli i due piccoli per tutta la notte! Perciò in un primo momento ero semplicemente furiosa». Kinugasa prendeva nota. Imai, invece, anche lui con un’agendina aperta, sembrava voler mantenere un silenzio deferente nei confronti del collega. «Intende furiosa nei confronti di suo marito, vero?» «Naturalmente, che cosa crede! Tornare così tardi, quando sa che devo andare a lavorare!» Tornare così tardi… Per sfogare la sua rabbia per i continui ritardi di Kenji aveva detto una parola di troppo. Interdetta, rimase un attimo in silenzio. Poi si affrettò a correggere: «Ma poi non è più tornato…» Lasciò ricadere le spalle, come se per la prima volta si rendesse veramente conto che il marito non sarebbe mai più rincasato. Eppure sei stata tu a ucciderlo, bisbigliò una voce dentro di lei. Ma non vi badò. «Era successo altre volte?» «Che non tornasse?» «Sì». «Mai. Cioè, qualche volta rincasava tardi perché si fermava a bere in qualche bar, ma non quando dovevo andare a lavorare. In quel caso si affrettava sempre a rientrare». «Be’, gli uomini devono anche uscire qualche volta e coltivare le loro relazioni sociali. Capita di far tardi», annuì Kinugasa con aria soddisfatta. «Sì, lo so, e qualche volta mi è anche dispiaciuto, perché la famiglia lo limitava e tuttavia lui si dava sempre da fare. Era un buon uomo». Bugiarda! La voce continuava a farsi sentire. Non una sola volta quel disgraziato era rincasato presto. Ritornava sempre più tardi per evitare di incontrarla, anche se sapeva che lei era angosciata per i bambini e aspettava fino all’ultimo minuto prima di uscire, e alla fine ogni volta andava a lavorare col cuore pesante e un brutto presentimento. Mai si era occupato dei bambini, era stato davvero un uomo cattivo, terribilmente cattivo…! «Ma come mai si è arrabbiata se era la prima volta che stava fuori tutta la notte? Sarebbe stato più normale preoccuparsi, non le pare?» «Ho pensato che fosse andato da qualche parte a divertirsi…» rispose Yayoi con voce fioca. «Non litigavate mai?» «Qualche volta».
«E a proposito di che cosa?» «Ah, solo cose di poco conto». «Già, quasi sempre marito e moglie litigano per cose da poco. Allora, mi racconti di nuovo che cosa accadde quel martedì. Suo marito al mattino è uscito come sempre per andare a lavorare…» «Sì». «Come era vestito?» «Come al solito, un completo estivo…» All’improvviso le venne in mente che quella notte, quando era tornato, Kenji non portava la giacca. No, non l’aveva addosso e non la portava neppure sul braccio. Che fosse ancora in casa da qualche parte? O che, ubriaco, l’avesse persa per strada? Finora non aveva prestato attenzione a questo particolare. Fu colta dall’inquietudine e avvertì di nuovo le fitte allo stomaco, dove lui l’aveva colpita. Si sentì soffocare e solo a malapena riuscì a controllarsi. «Che cosa c’è, signora Yamamoto, si sente bene?» domandò Kinugasa socchiudendo gli occhi. Il contrasto tra l’espressione apparentemente dura del suo viso e il tono gentile della voce la turbarono. «Sì, mi scusi. Stavo pensando che era l’ultima volta che lo vedevo…» «È sempre doloroso perdere all’improvviso una persona cara», annuì Kinugasa lanciando un rapido sguardo a Imai. «Troppo spesso questo mestiere ci costringe a vedere cose strazianti. Anche se non siamo personalmente colpiti, non è facile neppure per noi. Vero, Imai?» «Sì, è sempre duro». All’apparenza sembravano comportarsi con tatto, come se provassero compassione, ma per Yayoi era chiaro che stavano solo aspettando che facesse un passo falso. Non doveva tradirsi, a nessun costo. Doveva arrivare fino in fondo, da sola. Non poteva scoprire il più piccolo lato debole, tutto doveva rimanere nascosto. Aveva provato e riprovato a mente la propria parte e aveva creduto di essere in grado di dominare la situazione anche nel sonno. Ma ora, davanti a quegli sguardi sospettosi, si sentiva nuda e le sembrava che riuscissero a vederle persino l’ematoma tra stomaco e ventre. Era una tale sofferenza che provava persino la tentazione di spogliarsi e di mostrarlo a tutto il mondo. Yayoi era disperata, stava quasi per arrendersi. Si torse le mani come se stesse strizzando uno straccio invisibile per farne sgocciolare la “volontà” che l’avrebbe potuta salvare. Perché in questo caso la “volontà” era l’unico mezzo col quale poteva salvaguardare il proprio istinto di libertà. «Scusate se sono così sconvolta». «Non si preoccupi. È così per tutti. La capisco perfettamente. Si sta comportando benissimo, signora Yamamoto. Molte al suo posto si metterebbero a piangere e urlare, e non riuscirebbero a parlare con noi», la consolò Kinugasa e attese che continuasse il suo racconto. «Poi indossava una camicia bianca e una cravatta blu scuro con dei piccoli disegni». Yayoi riuscì infine a calmarsi e riprese a descrivere l’abbigliamento di Kenji. «E scarpe nere». «Di che colore era il completo?» «Grigio chiaro». «Color cenere», scrisse Kinugasa sull’agenda. «E si ricorda la marca?» «Non saprei, ma noi compriamo sempre tutto, anche le camicie, da Minami, un negozio di abbigliamento maschile che ha buoni prezzi». «Anche le scarpe?» «No. Non so di che marca siano, ma credo che le abbiamo comprate in un grande magazzino qui vicino». «Come si chiama il negozio?» «Centro della calzatura di Tokyo, mi pare». «E la biancheria?» incalzò Imai. «Quella la compro io, al supermercato…» rispose Yayoi chinando pudicamente lo sguardo.
Allora Kinugasa richiamò all’ordine Imai: «I dettagli li potremo chiarire domani, adesso non c’è tempo per questo». Imai tornò a tacere, ma sembrava seccato. «Di solito suo marito a che ora usciva di casa per andare in ufficio?» «Prendeva sempre l’espresso per Shinjuku delle sette e quarantacinque». «E da martedì mattina lei non l’ha più visto e non ha più ricevuto una telefonata da lui, vero?» «No», rispose Yayoi e si coprì gli occhi con le mani, sopraffatta dalla tristezza. Kinugasa, come se gli fosse venuto in mente solo in quel momento, si guardò intorno nella piccola stanza. Ovunque erano disseminati giocattoli e libri illustrati che i nonni avevano portato per i bambini. «Dove sono adesso i bambini?» «I miei genitori li hanno portati fuori». «Ah già, questo non va bene», si scusò Kinugasa. Sembrò che solo allora si ricordasse di averli fatti allontanare lui stesso. Guardò l’orologio da polso: erano quasi le undici di sera. «Credo che siano andati a mangiare in un piccolo ristorante qui vicino». «Be’, cerchiamo di chiudere in fretta». «Dove abitano i suoi genitori, signora Yamamoto, e da dove veniva suo marito?» domandò Imai sollevando la testa dall’agenda. «Mio marito è originario della prefettura di Gunma. Presto dovrebbero arrivare mia suocera e mio cognato. La mia famiglia invece è originaria di Yamanashi». «Di sicuro tutti sono già al corrente della scomparsa di suo marito, vero?» «Non ancora…» balbettò Yayoi. «Non gliel’ho ancora detto». «E perché no?» domandò Kinugasa passandosi tutte e due le mani sui capelli a spazzola. «Perché? Be’… quelli dell’ufficio mi avevano detto che cose del genere capitano spesso con gli uomini, che non mi dovevo preoccupare, che sarebbe senz’altro ritornato, e allora non ho voluto sollevare subito un polverone…» Imai fissò la propria agenda con aria stupita: «Ma, signora Yamamoto, è da martedì notte che suo marito manca da casa. Vale a dire che mercoledì mattina non c’era. Eppure la sera di mercoledì lei ha subito telefonato alla polizia e voleva denunciarne la scomparsa. Anche se la sua domanda è stata accettata solo il mattino di giovedì. Perché, se ha avuto così fretta di fare la denuncia, non si è premurata di informare la famiglia di origine? Di solito si consultano prima i familiari». «Sa, quando ci siamo sposati le famiglie erano contrarie, e in qualche modo non abbiamo mantenuto rapporti molto stretti. Quindi…» «Potrei chiedere perché le due famiglie si erano opposte?» «Perché? Be’, ai miei genitori Kenji non piaceva particolarmente, e sua madre… come posso dire, anche lei ha cercato di mettersi tra di noi…» In effetti Yayoi non andava d’accordo con la madre di Kenji e da un pezzo non avevano più rapporti. Era terrorizzata al pensiero di dovere incontrare la suocera che sarebbe arrivata tutta sconvolta quella notte. Forse era proprio a causa dell’odio per quella donna che il suo amore per Kenji era completamente sparito. Quante volte aveva pensato che non c’era da meravigliarsi se Kenji era quello che era, con una madre come quella. Ma ormai… Le sue riflessioni vennero interrotte da Kinugasa: «Perché mai suo marito non andava a genio ai suoi genitori?» «Be’…» Yayoi esitò a rispondere. «È difficile da dire: forse perché io ero figlia unica e avevano idealizzato il mio matrimonio». «Capisco. In fondo lei è una bella donna, signora Yamamoto». «No, non si tratta di questo». «E di che cosa si tratta allora?» le domandò Kinugasa in tono paterno. Sembrava volerle dire:
su, confidati. Con un padre puoi parlare di tutto! Yayoi non ce la faceva più. Non avrebbe mai creduto che le avrebbero fatto domande così personali. Probabilmente avrebbero continuato a scavare finché non avessero portato alla luce ogni particolare della loro vita di coppia, per poi costruirne un’immagine a loro piacimento e giudicarla a loro arbitrio. «Prima che ci sposassimo, mio marito aveva la passione delle scommesse, sia che si trattasse di corse di cavalli o ciclistiche. Per un certo periodo ha fatto persino dei debiti, ma per un periodo molto breve, davvero. In ogni caso i miei genitori lo avevano saputo ed erano contrari al nostro matrimonio. Ma appena mi aveva conosciuto aveva smesso subito di giocare». Alla parola “scommesse” i due poliziotti si scambiarono uno sguardo di intesa. Poi Kinugasa chiese stringente: «E di recente?» Yayoi era confusa. Doveva parlare del baccarat o no? Non riusciva a ricordare se Masako le avesse ingiunto di tacere su quel particolare. Aveva paura che con la storia del baccarat sarebbe venuto fuori anche il fatto che lui la picchiava. Strinse le labbra. «Su, si confidi tranquillamente, non c’è niente di male!» «Ecco…» «Aveva ricominciato a giocare d’azzardo, vero?» «Forse. Aveva detto qualcosa a proposito del baccarat». L’aria si poteva tagliare con il coltello e la paura le entrò nelle ossa. Yayoi si raggomitolò su se stessa. Non si era ovviamente ancora resa conto che in quella rivelazione stava la sua salvezza. «Ah, baccarat. Ha idea di dove andava a giocare?» «A Shinjuku, mi pare», rispose Yayoi con voce quasi impercettibile. «Ah, capisco. Grazie. Le siamo molto riconoscenti per averci confidato tutto. Vedrà, riusciremo senz’altro a scoprire l’assassino di suo marito». «Potrei vederlo un’ultima volta?» L’interrogatorio stava per concludersi e né Imai né Kinugasa avevano ancora parlato di questo. «Volevamo chiedere al fratello di suo marito di riconoscere il cadavere. Credo che sia meglio che lei non lo veda», obiettò Kinugasa e tuttavia tolse una busta da una logora cartella. Quindi prese alcune fotografie in bianco e nero e, come se si trattasse di un gioco di carte, le tenne coperte, poi ne scelse una e la posò sul tavolo. «Se proprio vuole vederlo, si accontenti di questo». Yayoi, con le mani che le tremavano, prese la fotografia. Si vedeva solo un sacco di plastica e dei pezzi di carne, tra i quali distinse nitidamente una parte della mano di Kenji. Delle dita non erano rimasti altro che dei moncherini nerastri. «Ah!» Per un istante odiò Masako e le altre due. Come lo avevano conciato! Si erano spinte troppo in là! Yayoi sapeva che i suoi pensieri non avevano nessuna logica, dal momento che era stata lei a ucciderlo e a pregare Masako di eliminare il cadavere, ma la vista del corpo di Kenji ridotto in quelle condizioni la fece uscire di sé. Si mise a piangere disperatamente e lasciò cadere la testa sul tavolo. «Mi dispiace, signora Yamamoto». Kinugasa cercò di consolarla dandole dei colpetti sulle spalle. «So che è difficile, ma cerchi di farsi forza. Almeno per i bambini. Deve essere forte anche per loro!» A giudicare dalla loro espressione sembrava che i due poliziotti fossero sollevati nel constatare che alla fine anche quella donnina coraggiosa era scoppiata in singhiozzi. Dopo pochi minuti Yayoi sollevò la testa e si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Era ancora completamente sconvolta. Parlò, e quello che disse esprimeva realmente i suoi sentimenti: «Voi non potete capire». Era esattamente così. In effetti fino ad allora aveva continuato a ripetersi che Kenji era semplicemente sparito, e questo le aveva permesso di non perdere la calma.
«È sicura di star bene?» «Sì, scusatemi». «Domani venga da noi», l’invitò Kinugasa alzandosi. «Vorrei approfondire alcuni particolari». «…sì». Che cosa volevano ancora? Non sarebbe stato mai abbastanza? A quante domande avrebbe dovuto ancora rispondere? Imai, che era rimasto a sedere immerso nella lettura dei suoi appunti, le rivolse finalmente lo sguardo: «Mi scusi, ma abbiamo dimenticato di chiederle una cosa. Posso?» «Sì?» Per quanto continuasse ad asciugarsi gli occhi, le lacrime non si fermavano. «A che ora è tornata dal lavoro mercoledì mattina? Ci dica brevemente che cosa ha fatto quel giorno». «Il turno è finito alle cinque e mezza, mi sono cambiata e sono rincasata poco prima delle sei». «Torna sempre a casa subito dopo il lavoro?» le domandò freddamente Imai. «Sì. Di solito…» rispose Yayoi cercando di selezionare, nella sua testa ancora confusa per lo shock, quello che doveva dire da quello che doveva tacere. «Talvolta rimango a bere un tè e a chiacchierare un po’, ma quel giorno sono tornata subito. Ero in ansia perché non avevo visto mio marito». «Già, si capisce», annuì Imai. «A casa ho dormito per circa due ore, prima di accompagnare i bambini all’asilo». «In automobile? Mercoledì pioveva». «No, non abbiamo l’automobile, e poi io non ho la patente. Li porto sempre in bicicletta, uno davanti e uno dietro». I due poliziotti si scambiarono di nuovo un’occhiata. Il fatto che non sapesse guidare era un altro punto a suo favore. «E poi?» «Circa alle nove e mezza sono tornata indietro e vicino al deposito dell’immondizia ho incontrato una vicina con la quale ho scambiato due parole. Poi mi sono occupata del bucato, ho messo in ordine e alle undici ho cercato di addormentarmi di nuovo. All’una ho ricevuto una telefonata dall’ufficio di mio marito. Mi hanno detto che non si era ancora presentato, e la notizia mi ha sconvolto». Le risposte le salivano alle labbra senza difficoltà e Yayoi incominciò a sentirsi più tranquilla e a pentirsi di aver odiato Masako, anche se per un solo istante. «Bene, molte grazie, per adesso è sufficiente. Ci scusi ancora». Imai fece un inchino e chiuse con decisione l’agendina. Kinugasa era rimasto in attesa a braccia conserte; sembrava impaziente di andarsene. In ingresso si infilarono le scarpe. Mentre prendevano congedo Yayoi capì con certezza che, se all’inizio avevano avuto dei sospetti su di lei, ora provavano solo compassione. «Allora a domani». Chiusero la porta e si allontanarono. Yayoi guardò l’orologio, presto sarebbero arrivati la suocera e il cognato. Doveva prepararsi a una scena patetica. Deglutì. Ma bastava che si mettesse a piangere. Durante l’interrogatorio aveva imparato come comportarsi. Non si sarebbe lasciata confondere tanto facilmente. Non era più disorientata né sconvolta. Si guardò intorno nella casa silenziosa e si accorse di trovarsi proprio nel punto in cui Kenji era morto, così lo evitò con un piccolo salto.
Il lato oscuro
1. I giorni della canicola sembravano essere arrivati. A braccia conserte Mitsuyoshi Satake spiava dalla tapparella del suo appartamento al primo piano le chiazze abbaglianti illuminate dal sole e le macchie d’ombra scurissime, quasi nere. La luce estiva del mezzogiorno tagliava in due la città. Le foglie degli alberi e dei cespugli ai lati della strada, brillanti sul lato superiore, oscure di sotto. I passanti e la loro ombra. Le strisce bianche dei passaggi pedonali sembravano essersi sciolte. Pensò alla sensazione fastidiosa che si prova quando i tacchi affondano nell’asfalto molle surriscaldato dal sole e deglutì. A un paio di isolati si vedeva il gruppo dei grattacieli a ovest della stazione di Shinjuku. Nelle strisce di cielo azzurro ritagliate dagli edifici non si vedeva una sola nuvola. Ovunque si guardasse si restava abbagliati. Satake chiuse istintivamente gli occhi ma l’immagine dell’estate, impressa a fuoco sulle sue retine, stentava a svanire. Chiuse accuratamente le tapparelle, in modo che non filtrasse un raggio di luce, e si girò. A poco a poco gli occhi si abituarono di nuovo alla penombra dell’appartamento – due stanze da sei tatami separate da una porta scorrevole di carta ingiallita. Al centro di una delle due stanze, rinfrescata dall’aria condizionata, un televisore mandava i suoi bagliori azzurri. Non c’erano altri mobili. Accanto all’entrata vi era anche una piccola cucina senza pentole e piatti, dal momento che lui non cucinava mai. Questa era l’abitazione di Satake – spartana, quasi povera – che mal si accordava con l’immagine appariscente con cui amava presentarsi in pubblico. Quando era in casa il suo abbigliamento si adeguava all’atmosfera – camicia bianca e pantaloni grigi sformati alle ginocchia. Ecco il suo vero volto. Da questo si poteva capire quanto fosse diffidente nei confronti del mondo esterno, appena fuori dalla porta, e quanto il personaggio di Mitsuyoshi Satake, proprietario di un night club e di una sala da gioco, fosse solo un ruolo che era costretto a recitare. Si rimboccò le maniche della camicia e si lavò viso e mani sotto l’acqua corrente. Anche l’acqua era calda. Si asciugò e si accoccolò davanti al grande schermo del televisore. Proiettavano un vecchio film americano doppiato. Soprappensiero si passò un paio di volte le mani tra i capelli corti, poi distolse lo sguardo dal video. Non voleva vedere la televisione. Voleva solo tuffarsi in quella assurda luce artificiale. Satake odiava l’estate. Non che soffrisse terribilmente il caldo, semplicemente detestava l’atmosfera estiva che si insinuava fino dentro ai vicoli della metropoli. Era in quella stessa atmosfera che si erano svolti i due fatti che avevano improntato la sua vita: durante le vacanze estive, al secondo anno di liceo, aveva dato a suo padre un pugno così forte da rompergli il mento ed era fuggito di casa; e anche l’altro episodio di violenza, che lo avrebbe cambiato per sempre, era accaduto in agosto, dentro una stanza, nel ronzio continuo del condizionatore. Avvolto dall’atmosfera della città soffocante per i gas di scarico e le esalazioni, non riusciva più a distinguere l’esterno e l’interno di se stesso. L’aria corrotta della strada penetrava nei suoi pori e lo insudiciava, e dentro di lui le emozioni si gonfiavano e strisciavano fuori dal suo corpo fino a traboccare nella strada. Aveva il terrore di essere contagiato da quella città vorace e dissoluta – da Tokyo nel colmo dell’estate. Perciò sarebbe stato meglio allontanare da sé quell’estate, prima che si impadronisse di lui con tutto il calore vomitato sulle strade dai condizionatori. Il periodo delle piogge era finito, l’estate vera e propria era cominciata, e queste erano le ragioni del suo singolare stato d’animo. Doveva sbrigarsi a chiudere fuori dal suo appartamento la calura ardente della metropoli. Satake si alzò. Entrò nella camera accanto e aprì la finestra. Chiuse in fretta le imposte prima
che il calore puzzolente dei gas di scarico e il frastuono potessero entrare. Immediatamente il buio invase la stanza. Sollevato si lasciò cadere sui tatami ingialliti. Nella camera c’erano solo un armadio per gli abiti e un futon ripiegato con cura, con gli angoli perfettamente perpendicolari, come se fossero stati tracciati con una squadra da disegno. Se qualcuno che conosceva la sua storia avesse potuto vedere, probabilmente avrebbe pensato che Satake aveva arredato la sua casa come una cella. Ma ovviamente in carcere non ci sono televisori. Quando era in prigione non era stato soltanto il ricordo della donna uccisa a tormentare Satake. Anche l’angusto spazio quadrato della cella aveva fatto la sua parte. Perciò finora aveva preferito evitare gli spazi ermeticamente chiusi dei palazzi di cemento, e aveva scelto una vecchia casa di legno. E questo era anche il motivo per cui il televisore rimaneva sempre acceso – come una porta sempre aperta sul mondo esterno. Tornò nella camera col televisore e sedette di nuovo davanti al video. Poiché in quella stanza non c’erano imposte, non si poteva evitare che dalle fessure delle tapparelle penetrasse un po’ di luce. Satake abbassò il volume dell’apparecchio. Ormai si poteva sentire solo il rombo lontano del traffico della circonvallazione di Yamate, non molto distante, e il fruscio del condizionatore. Accese una sigaretta, facendo una smorfia perché il fumo gli era entrato negli occhi, e si mise a guardare distrattamente lo schermo. Avevano appena incominciato a trasmettere un’inchiesta giornalistica. Il moderatore teneva in mano un grafico e lo spiegava – era un reportage sul cadavere trovato a pezzi in un parco la settimana prima. Satake, che non aveva alcun interesse per il programma, si prese la testa fra le mani come se volesse allontanare tutto quel tumulto proveniente dal mondo esterno. Proprio in quel momento squillò il portatile posato sul pavimento. «Sì, pronto». Esitante e a voce bassa Satake rispose al richiamo di quell’altro aggeggio che lo manteneva in relazione con il mondo esterno. In giorni come questo, quando gli ritornava in mente il passato che credeva di avere seppellito con tanta cura, avrebbe preferito non avere a che fare con il mondo di fuori, ma d’altra parte ne aveva assolutamente bisogno per potersi distogliere da quei pensieri. Odiava la metropoli nel cuore dell’estate, ma poteva vivere solo lì. «O-nii-chan, sono io». Anna. Satake guardò il Rolex che sfoggiava al polso. L’una in punto. La routine quotidiana lo richiamava all’ordine. Indeciso se fosse proprio necessario uscire di casa con quella canicola, rispose: «Che cosa c’è? Devi andare dal parrucchiere?» «No, pensavo, è così caldo, non potremmo andare in piscina…?» «…piscina? Adesso?» «Sì, dai, andiamo per favore!» Aveva un vago ricordo dell’odore di cloro, del profumo muschiato dell’olio solare e della brezza asciutta e fresca che spirava vicino alla vasca. Non era il tipo d’estate che avrebbe voluto evitare a qualsiasi costo, ma quel giorno proprio non se la sentiva. Gli serviva ancora un po’ di tempo per abituarsi all’estate. «Non è troppo tardi? Potresti andarci nel giorno di riposo». «Ma la domenica è sempre troppo pieno». «Questo non si può cambiare». «Dai, andiamo! Non hai voglia di nuotare? Anna ne ha una voglia terribile!» Satake si rassegnò: «Va bene. Vengo». Chiuse la comunicazione e si concesse una sigaretta. Sollevò il mento, strizzò gli occhi e fissò le immagini mute sullo schermo. C’era una donna dall’espressione tesa, probabilmente la moglie della vittima. Era vestita in modo dimesso, in jeans e T-shirt sbiadita, i capelli erano raccolti in un nodo sulla nuca ed era truccata appena. Satake guardò bene il suo viso. Era sorprendentemente bella e aveva lineamenti molto regolari. Com’era sua abitudine la valutò. Poteva avere trentadue o trentatré anni. Con un po’ di trucco sarebbe stata molto apprezzata. Però, nonostante suo marito fosse stato appena assassinato, sembrava piuttosto
tranquilla! Sciocchezze, che cosa gliene importava! Al margine inferiore dello schermo apparve più volte la didascalia: “Signora Yamamoto, la moglie della vittima”. Il nome di Yamamoto non gli disse nulla. Si era già dimenticato che un paio di giorni prima aveva cacciato dal locale e preso a pugni un uomo che si chiamava Yamamoto. Quello che lo deprimeva di più era l’aria soffocante di quel primo pomeriggio d’estate. Se quel giorno, tanti anni prima, avesse avuto anche il più piccolo presentimento, non sarebbe successo nulla! Se non avesse incontrato quella donna, la sua vita sarebbe stata completamente diversa. E oggi aveva una specie di presentimento, lo sentiva chiaramente. Un quarto d’ora dopo si mise gli occhiali da sole e si diresse a passi veloci verso il garage dove aveva preso in affitto un posto macchina. Le sagome delle auto che sfrecciavano in lontananza vibravano nell’aria come miraggi. Sotto i raggi infuocati e nell’afa della strada gli sembrò quasi di sentir gemere la propria pelle fresca, abituata all’oscurità della casa. Si asciugò con il dorso della mano il sudore che gli colava copioso sulla fronte e rimase pazientemente in attesa che la sua auto scendesse sull’ascensore. Spalancò la portiera, avviò il motore e accese subito il climatizzatore. Dopo un po’ che guidava il volante rivestito di pelle nera era ancora bollente. Era abituato ai capricci di Anna. Oggi voglio andare a fare shopping, voglio qualcosa di nuovo da mettermi addosso! Voglio un altro parrucchiere! Cercami un veterinario! Lo faceva correre per qualsiasi sciocchezza. Satake sapeva che in quel modo voleva mettere alla prova il suo attaccamento. Era proprio infantile, sorrise amaramente continuando a guidare. Non appena suonò Anna aprì la porta. Era già tutta in ghingheri ed evidentemente lo stava aspettando. Aveva un cappello giallo a tesa larga e un abito estivo dello stesso colore. Allacciandosi impaziente i sandali di vernice nera, fece il broncio e disse: «Potevi anche arrivare prima!» «Mi hai chiamato all’improvviso, non potevo fare altrimenti», rispose Satake spalancando la porta. Venne investito dall’odore tipico dell’appartamento di Anna, un miscuglio di profumo dei suoi cosmetici e di puzza di cane. «Dove vuoi andare?» «Ma in piscina, te l’ho già detto!» Anna si sporse dalla finestra del corridoio a guardare il cielo blu, come per assicurarsi che il sole continuasse a splendere incontrastato. Era talmente allegra che pareva che volesse mettersi a correre da un momento all’altro. Non sembrava essersi accorta dell’umore tetro di Satake. «Volevo dire dove vuoi andare: al Keio Plaza o al New Otani?» «Le piscine degli alberghi sono troppo care! Non sono mica matta!» «E allora dove?» La parsimoniosa Anna aborriva qualsiasi spreco, anche se era sempre Satake a pagare tutto di tasca propria. «Andrà bene la piscina del quartiere. Quattrocento yen in due». Le piscine pubbliche costavano poco, però erano sovraffollate e rumorose. Ma andava bene lo stesso. Adesso che si era ormai rassegnato a sopportare quella calura spaventosa, poteva anche accontentare Anna, pensò Satake entrando in ascensore. La piscina era gremita di gruppi di studenti e giovani coppie. Intorno alla vasca erano state costruite delle terrazze per prendere il sole, sulla più alta delle quali c’erano delle piazzole ombreggiate con alberi e panchine. Si era appena seduto su una di quelle panchine quando vide Anna che usciva dallo spogliatoio con addosso un costume rosso brillante e lo chiamava. «O-nii-chan!» Satake ammirò quello splendido corpo che correva verso di lui. A parte il colore della pelle, forse troppo bianco in quell’ambiente, non aveva un solo difetto: natiche e petto formosi, gambe lunghe e affusolate, cosce carnose ma sode – insomma, proporzioni perfette. «Non vieni a nuotare?» domandò Anna respirando profondamente, come se non riuscisse a saziarsi dell’odore di cloro dell’acqua.
«Rimango qui a guardarti». «Perché?» Anna lo tirò per un braccio: «Dai, vieni!» «No, non ho voglia. Adesso va’ a nuotare, sbrigati. Hai poco più di un’ora di tempo e poi ce ne dobbiamo andare». «Così presto?» «Questo lo sapevi fin dall’inizio. Dopo devi andare anche dal parrucchiere!» Anna brontolò ancora un po’, ma si riprese presto e corse via felice. Prima di arrivare alla vasca raccolse una palla che le era rotolata tra i piedi e si mise a giocare con un gruppo di ragazzine. Era davvero affascinante. Satake sorrise. Le piaceva viziare una donna così seducente e ingenua, anche solo averla vicino lo faceva sentire meglio. Non c’era niente da dire, lei aveva il potere di ridargli un po’ di serenità. Ma neppure Anna sarebbe stata in grado di sedare il tumulto che la torrida estate, facendo riaffiorare il suo passato, aveva scatenato improvvisamente nel suo cuore. Dietro alle lenti scure Satake chiuse gli occhi. Quando dopo un attimo li riaprì non riusciva più a trovarla. Scorse infine un braccio bianco che si agitava a salutarlo al centro della vasca da cinquanta metri piena di bambini che si spruzzavano urlando. Anna, accertatasi che lui la vedesse, si esibì in un crawl piuttosto maldestro: Satake seguì con lo sguardo le sue goffe bracciate fino a quando un ragazzo, che fino ad allora era rimasto vicino al trampolino, non la raggiunse a nuoto e si mise a parlare con lei. Satake chiuse di nuovo gli occhi. Anna era ritornata alla sua panchina. Le gocce d’acqua sul suo corpo brillavano come perle. Si strizzò i lunghi capelli neri e si guardò intorno. Il ragazzo di prima stava ancora guardandola. Teneva i capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo e portava un orecchino. «Guarda, c’è qualcuno che ti osserva». «Sì. Mi ha anche parlato». «Che cosa fa?» «Dice che suona in un gruppo», rispose lei come se non le interessasse particolarmente e si girò verso Satake per spiarne la reazione. Lui osservava le gocce d’acqua scivolarle sulla pelle di seta. Gli bastava gustare la gioventù e la bellezza di Anna. «Allora va’ a nuotare ancora un po’ con lui. C’è ancora tempo». «Come?» domandò Anna guardandolo delusa. «Ti ha fatto gli occhi dolci o no?» «Ma tu, O-nii-chan, non sei seccato?» «E perché dovrei? Finché fai il tuo lavoro…» «Ah». Anna si chiuse in se stessa. Lasciò cadere a terra l’asciugamano e corse verso il ragazzo che, seduto sul bordo della piscina, guardava annoiato per aria. Evidentemente contento che fosse ritornata, si voltò a scrutare Satake come per assicurarsi che andasse tutto bene. In macchina, quando tornarono, Anna non disse una parola. «Anna», le chiese infine Satake, «ti accompagno dal parrucchiere, va bene?» «Sì, ma poi non serve che tu venga a prendermi». «Perché?» «Tornerò in taxi». «Va bene. Voglio farmi una doccia a casa prima di andare al Mika. Allora ci vediamo questa sera». Lasciò Anna dal suo parrucchiere preferito e imboccò la circonvallazione di Yamate. Il sole era ora più basso e lo colpiva direttamente negli occhi: per la seconda volta in quel giorno risvegliò in lui i ricordi con una tale forza che ebbe paura di se stesso. Di nuovo sentì il calore insopportabile di quella camera, e intanto guardava le strade di Shinjuku e le ombre che incominciavano ad allungarsi sui marciapiedi. E di nuovo fece fatica a controllare i nervi.
Quando alla sera arrivò al Mika, tutte le hostess, nello stesso momento e con lo stesso sorriso artificioso, si girarono verso di lui. Lo avevano scambiato per un cliente, ma quando lo riconobbero ripresero immediatamente la consueta espressione annoiata. «Cos’è successo? Tutti al mare?» domandò Satake a Chén, il direttore, guardandosi intorno e non vedendo l’ombra di un cliente. «Arriveranno fra poco, è ancora presto», rispose Chén e si tirò giù in fretta le maniche della camicia bianca. Il papillon era storto e i pantaloni neri spiegazzati. Satake, che non sopportava la sciatteria, lo afferrò per la cravatta: «Ehi, attento a come ti conci!» «Mi scusi, non accadrà più». Lì-huá, la mama-san, uscì in fretta dalla cucina, impressionata dal malumore del suo capo. Indossava un abito nero e una collana di perle. Satake distolse lo sguardo disgustato da quella tetraggine. Sembrava che stesse andando a un funerale! «Buonasera, Satake-san. È talmente caldo, oggi, che sono tutti un po’ in disordine!» «In disordine?Altro che disordine! Ha telefonato per invitare un po’ di gente? Come se questa sera non ci fosse nessuno che ha bisogno di compagnia! Incredibile!» Perlustrò con lo sguardo il club e quando vide che, come al solito, i fiori nei vasi erano appassiti, perse definitivamente la pazienza: «I fiori! Maledizione, quante volte ve lo devo ripetere!» Satake, che di solito con la calma e il distacco si guadagnava il rispetto dei collaboratori, quella sera era irriconoscibile. Chén, turbato dall’umore rabbioso del capo, si precipitò a prendere il grande vaso di cristallo sul tavolo vicino. Le campanule violette pendevano tristemente sullo stelo. Le hostess, in silenzio, guardavano ora il vaso ora Satake. Lì-huá, nel tentativo di placarlo, disse: «Allora, bambine, avete sentito: d’ora in poi diamoci da fare, forza!» «Già, forse pensate che i clienti vengano qui da soli a girarsi i pollici?! Che bella presunzione! Muovete quel culo, andate in strada e attivatevi!» «Va bene!» rispose Lì-huá con un sorriso compiacente, ma non sembrava che avesse tanta voglia di mettersi in movimento così presto con quel caldo. Cercando di controllarsi, Satake si guardò di nuovo intorno e si accorse che Anna non c’era. «E Anna dov’è?» «Ah sì, Anna-chan oggi non viene». «E perché no?» «Ha appena chiamato e ha detto che non sta bene perché ha preso troppo sole in piscina». «Che cosa?! No, così non va. Vado subito a vedere come sta». «D’accordo», rispose sollevata Lì-huá e con questo anche l’atmosfera nel locale si rilassò. Satake inghiottì la rabbia e uscì dal Mika. La notte afosa di Kabuki-cho lo avvolse nelle sue spire. Il sole era ormai tramontato, ma la temperatura e l’umidità non accennavano a calare, tutto il quartiere sembrava immerso in una sauna gigantesca. Satake sospirò profondamente e salì la scala esterna molto più lentamente del solito. Giù al club la disciplina perdeva colpi. Era solo l’inizio, ma doveva fare subito qualcosa. Non appena entrò al Parco, Kunimatsu lo vide e si affrettò verso di lui. Satake lo salutò con voce soffocata e notò con sollievo alcuni impiegati seduti ai tavoli a giocare. «Buonasera, Satake-san. Oggi è arrivato presto!» lo salutò Kunimatsu guardandolo stupito. Satake seguì il suo sguardo e si accorse di avere la giacca macchiata di sudore. Se la tolse e vide che anche la camicia di seta nera era completamente bagnata e aderiva al petto muscoloso. «È così caldo qui?» domandò preoccupato Kunimatsu prendendo in consegna la giacca. «No, va bene così», sospirò Satake sfilando dal pacchetto una sigaretta. Un giovane croupier che aspettava il proprio turno fece una piccola smorfia alla vista della camicia sudata
di Satake. Quello sguardo non gli piacque. «Come si chiama quello lì?» «Yanagi». «Deve stare attento a come guarda i clienti – noi siamo qui per intrattenerli, glielo dica!» «Sì». Davanti all’insolito malumore del capo Kunimatsu si allontanò. Satake rimase in piedi a fumare la sigaretta. Subito accorse una coniglietta a cambiare il posacenere. Satake si accese un’altra sigaretta e sporcò anche il nuovo portacenere. I collaboratori si aggiravano a distanza di sicurezza, osservando ansiosi tutti i suoi movimenti per prevenirne i desideri, più ancora di come avrebbero fatto con un cliente. Era il suo locale ma, chissà perché, si sentiva fuori posto. Era la prima volta che provava quella sensazione. «Satake-san, ha un po’ di tempo?» Kunimatsu gli si era avvicinato. «Che cosa c’è?» «Le dispiacerebbe venire un attimo in ufficio?» Lo seguì in una stanzetta sul retro arredata con un tavolo e una cassaforte: l’ufficio di Kunimatsu. «Un cliente ha lasciato qui questa, che cosa devo farne?» Kunimatsu aveva preso dall’armadio a muro una giacca grigia da giorno. A una gruccia sul fondo era appesa la giacca grigio argento che Satake si era appena tolto. «Di chi può essere?» domandò Satake prendendo in mano l’indumento. Fresco di lana, ma da quattro soldi, si riconosceva a prima vista. «Nessuno è venuto a richiederla?» «No, ecco… legga qui». Kunimatsu gli mostrò il nome ricamato a macchina con filo giallo sulla tasca interna: Yamamoto. «Yamamoto?» «Non si ricorda? Ma sì, quel tipo che ha buttato fuori all’inizio della settimana scorsa». «Ah, lui?» Adesso gli veniva in mente: quel tizio che aveva dato fastidio ad Anna e che lui aveva preso a pugni. «Non è venuto a riprenderla. Che cosa ne devo fare?» «La butti via». «Posso? E se dopo viene a reclamare?» «Stia tranquillo. Sicuramente non si farà più vedere, e anche se lo facesse gli dica semplicemente che qui non abbiamo trovato niente». «Bene, come vuole». Kunimatsu inclinò la testa un po’ perplesso, ma non disse altro. Poi parlarono ancora un po’ degli incassi e quindi uscirono dal piccolo ufficio. Nel frattempo erano entrate nel locale due giovani prostitute abbigliate vistosamente. Alla vista della loro abbronzatura artificiale, Satake fu costretto a ripensare ad Anna. «Torno subito, faccio un salto a vedere come sta Anna». Kunimatsu annuì in silenzio, ma Satake non si lasciò sfuggire l’espressione di sollievo che gli era apparsa sul viso. In quei momenti aveva la sensazione che Lì-huá, le hostess del Mika e i collaboratori del Parco sapessero del suo passato e avessero paura di lui. Come se conoscessero il suo lato oscuro, quello che in tutti quegli anni si era strenuamente sforzato di controllare e di mantenere segreto. Era sicuro che se qualcuno ne avesse intravisto anche solo i contorni sarebbe morto di paura. Ma solo lui e la donna sapevano quello che era successo. Nessuno avrebbe potuto capire per che cosa si struggeva veramente Satake. Lui l’aveva capito a ventisei anni, e per questo aveva accettato in cambio la solitudine. L’appartamento di Anna sembrava in qualche modo diverso. Satake aveva suonato più volte ma lei non aveva aperto. Stava prendendo in mano il telefonino per chiamarla quando finalmente sentì la sua voce al citofono:
«Chi è?» «Sono io». «…tu, O-nii-chan?» «Sì. Stai bene? Apri un momento». «Va bene». Sentì che apriva la catena. Strano, di solito Anna non chiudeva mai con la catena. «Scusa se non sono andata a lavorare», disse Anna affacciandosi. Indossava calzoncini corti e una T-shirt ed era pallida in volto. Satake guardò per terra e vide un paio di scarpe sportive alla moda davanti alla soglia. «È il tipo di oggi pomeriggio?» Anna divenne ancora più pallida, ma rimase in silenzio. «Non ho niente in contrario se ti diverti con gli uomini. Purché vieni regolarmente a lavorare. E purché la cosa non duri troppo a lungo». Anna fece un passo indietro come se l’avesse schiaffeggiata e lo guardò: «Non provi proprio niente, O-nii-chan?» «No». Quando vide gli occhi di Anna riempirsi di lacrime capì che c’erano guai in arrivo. Era affascinante e gli piaceva, anche al di là degli interessi professionali, ma rimaneva solo un oggetto grazioso che in qualche modo era orgoglioso di possedere. La relazione che aveva con lei era come la pelle che lo avvolgeva: assolutamente superficiale. «Cerca di non fare la furba alle mie spalle, capito?» soggiunse, e accostò dolcemente la porta dietro di sé, pensando che sarebbe stato un vero problema se per questa storia la ragazza avesse voluto chiudere con lui e cambiare locale. Sulla strada del ritorno si domandò, irritato, perché mai quel giorno niente volesse andare liscio. Avvertiva il pericolo, aveva la sensazione che qualcuno cercasse di strappargli il sigillo. Satake chiuse scrupolosamente a chiave la porta della propria anima. Senza passare per il Mika, Satake ritornò direttamente al Parco. Kunimatsu gli aprì la porta e chiese: «Come sta Anna? Rimane a casa oggi?» «Sì, ma non è niente di grave. Domani tornerà al lavoro». «Ah, bene. Inoltre sembra che qui sotto stiano incominciando ad affluire i clienti. C’è abbastanza traffico». «Sì? Bene». Rassicurato, Satake contò di nuovo i clienti del Parco. Quindici persone in tutto, di cui circa la metà impiegati, e gli altri uomini e donne che – saltava agli occhi – lavoravano nell’ambiente della prostituzione. Per la maggior parte erano frequentatori abituali. C’era abbastanza animazione. Satake ne fu soddisfatto, e il suo pensiero si spostò su come riuscire a tenersi buona Anna in futuro. Doveva assolutamente impedire che le venisse l’idea di passare alla concorrenza. Stava pensando a una strategia per salvare la situazione quando si aprì la porta ed entrarono due uomini di mezza età che indossavano camicie fantasia con le maniche corte. Gli sembrava di averli già visti, eppure non riusciva a ricordare chi fossero. Impiegati? Forse professionisti? Il loro sguardo tagliente gli suggeriva che non si trattava di clienti abituali. Stranamente per Satake, che di solito riusciva subito a valutare un cliente, quei due rimanevano un enigma. «Buonasera, accomodatevi!» Kunimatsu si affrettò ad accoglierli giovialmente e a guidarli all’interno del locale. Poi, rispondendo a una loro domanda, incominciò a spiegare le regole del gioco. Dopo che ebbe terminato le spiegazioni, uno dei due, che fino ad allora era rimasto a guardare in silenzio, prese dal taschino un astuccio nero, lo aprì davanti agli occhi di Kunimatsu e annunciò con voce calma: «Questura di Tokyo, sezione sicurezza. Il mio collega è del distretto di Shinjuku. Chi di voi è il gestore del club? Quanto a voi, signori, mantenete la calma e rimanete ai vostri posti!»
L’atmosfera si raggelò. Nessuno osava fiatare, nessuno osava muoversi. Soltanto Kunimatsu si morse il labbro inferiore, come se volesse dire: ecco che ci sono cascato, e diede un rapido sguardo a Satake. Dannazione, una retata! Volevano fargli chiudere il locale! Dunque era questo il cattivo presentimento che lo tormentava fin dal mattino? Adesso capiva perché gli sembrava di averli già visti: piedipiatti! Prese in mano una fiche e si mise a giocherellare cercando di controllare l’impulso di scoppiare a ridere.
2. Quando il poliziotto entrò nella stanza degli interrogatori e si presentò, Satake non voleva credere alle proprie orecchie. «Sono Kinugasa, prima sezione, sede centrale». «Di che cosa si tratta esattamente?» «E me lo chiedi?» rise Kinugasa. Era un individuo ripugnante – corporatura taurina e sguardo a cui sembrava non sfuggire niente – il tipico funzionario della polizia criminale. «Voglio solo farti un paio di domande su un altro caso che potrei mettere in relazione con il tuo». «E quale sarebbe questo altro caso?» Satake in un primo momento aveva pensato che l’accusa riguardasse soltanto l’organizzazione di gioco d’azzardo, ma dopo due settimane trascorse in cella spuntava improvvisamente uno della prima sezione, e per di più della sede centrale. Che cosa stava succedendo? Dentro di sé era spaventato, questo era un fatto, tuttavia non riusciva ancora a prendere la cosa troppo sul serio. «Mi spieghi perché dovrei avere a che fare con la prima sezione». «Si tratta del caso dell’uomo trovato a pezzi», rispose Kinugasa strofinando l’accendino sulla polo nera sbiadita. Quindi si accese una sigaretta, aspirò con gusto e rimase a osservare le reazioni di Satake. «Fatto a pezzi?» «Sei impallidito». Satake indossava una camicia blu che gli aveva portato Lì-huá. Quel colore non gli piaceva, ma la camicia di seta nera era impregnata di sudore ed era contento che gli avessero portato qualcosa per cambiarsi. Comunque il blu non era il suo colore, lo faceva sembrare più pallido. Satake rise: «Non è vero, si sbaglia». «Non è vero cosa? E ha anche la faccia tosta di ridere! Questo sì che mi piace, ride e parla d’altro!» Indignato Kinugasa si girò verso il funzionario di Shinjuku che sedeva accanto a lui. Quello rispose con un sorriso amaro, evidentemente irritato per avergli dovuto cedere l’iniziativa. «Sei così abituato alla galera che niente ti può far più perdere la calma, vero?» «Per favore, una cosa alla volta. Mi dica infine di che cosa si tratta!» Satake incominciava a innervosirsi. Non si sentiva più a suo agio e incominciava ad avere paura. Per tutto il tempo aveva pensato che l’operazione avesse come obiettivo il suo casinò, che effettivamente andava abbastanza bene. Ma non si trattava di rovinargli gli affari, la retata era stata organizzata dalla omicidi, solo ora se ne rendeva conto! Per qualche assurdo equivoco gli avevano teso una trappola e adesso lo stavano mettendo al tappeto. Non sarebbe stato facile rialzarsi una volta che fosse caduto in quelle sabbie mobili, questo lo sapeva anche troppo bene. «Bene, Satake, se bisogna proprio sbattertelo sotto il naso… Si tratta di un tipo che girava nei tuoi locali, un certo Kenji Yamamoto. È lui la vittima. E allora, adesso ti ricordi qualcosa?» «Non conosco nessun Kenji Yamamoto», rispose Satake e si girò verso la finestra. Si vedevano i grattacieli a ovest della stazione e tra loro strisce di cielo estivo. La luce era accecante. Satake chiuse gli occhi. Proprio lì dietro l’angolo c’era il suo appartamento. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di potersi rifugiare nella penombra della sua casa! «E questa la riconosci?» Kinugasa prese una giacca grigia da un sacchetto di supermercato che teneva in mano. Satake la guardò e si lasciò sfuggire un’esclamazione di sorpresa. Era la giacca che gli aveva mostrato Kunimatsu la sera della retata. E lui gli aveva detto di buttarla via. «Sì, l’ho già vista. Era stata dimenticata da un cliente…» Satake deglutì. Certo, Yamamoto! Dunque quell’imbecille si era fatto ammazzare! Allora gli venne in mente di avere letto il nome Yamamoto sul giornale, e anche alla televisione ne avevano parlato, in relazione al ritrovamento del
cadavere fatto a pezzi. Era un guaio, un grosso guaio. Doveva stare molto attento a non lasciarsi fregare! I due funzionari continuavano a osservarlo beffardi e maligni. «Su, Satake, vuoi dirci che cosa è successo al tuo cliente?» «Non lo so». Satake scrollò la testa. «Non lo sai? Davvero?» Kinugasa gli rifece il verso e sorrise. Che individuo! Satake sentiva il sangue salirgli alla testa, faceva fatica a ragionare. E tuttavia si controllò: da quando, anni prima, era uscito dal carcere non aveva mai perso l’autocontrollo. «Veramente non lo so». Kinugasa aprì l’agendina che aveva preso dalla tasca posteriore dei pantaloni e la consultò con calma: «Circa alle dieci di sera di martedì 20 luglio alcuni testimoni ti hanno visto litigare con la vittima. All’uscita del tuo locale, il Parco dei Divertimenti, tu l’hai preso a pugni e l’hai fatto rotolare a calci giù dalla scala». «Questo… può darsi che l’abbia fatto». «Può darsi che l’abbia fatto? E poi, che cosa è successo?» «Non lo so». «Altro che non lo so! Da allora si sono perse le tracce della vittima. Che cosa ne hai fatto di lui? Dove sei andato e che cosa hai fatto quella notte?» Satake scavò nei ricordi. Aveva dimenticato tutto di quella notte. Forse era tornato a casa, o forse era rimasto nel locale. «Avevo ancora da fare al Parco». «Contaballe! Tutti i dipendenti hanno dichiarato che te ne sei andato subito». «Ah, può essere. Sono tornato a casa e ho dormito». Kinugasa incrociò le braccia davanti al petto. Non era soddisfatto: «Quale delle due versioni?» «Sono tornato a casa e ho dormito». «Ma di solito rimani là fino alla chiusura. Perché proprio quella notte te ne sei andato così presto? Non è strano?» «Quella notte ero stanco, perciò sono tornato a casa presto e sono andato subito a letto». Era vero, adesso se ne ricordava. Era tornato subito a casa senza fermarsi da nessuna parte. E poi si era addormentato davanti al televisore. Ah, se fosse rimasto al Parco! Ma ormai era troppo tardi per pentirsene. «Hai dormito da solo?» «Naturalmente!» «Perché eri così stanco?» «Avevo giocato a Pachinko tutta la mattina, poi ho dovuto accompagnare in giro una hostess e infine mi sono incontrato con Kunimatsu, il mio direttore, perché dovevamo parlare. È stata una giornata faticosa e a sera ero molto stanco». «Di che cosa hai parlato con Kunimatsu? Hai architettato forse un piano per far fuori la vittima? Questo in ogni caso è quello che ha dichiarato Kunimatsu». «No, non è vero! Perché mai avrei dovuto fare una cosa così assurda? Io mi occupo solo di un night-club e di un casinò». «Non sottovalutarmi!» lo minacciò Kinugasa alzando improvvisamente la voce. «Con che faccia un delinquente come te, con i precedenti che hai, ha il coraggio di parlare così?! Mi occupo solo di un night-club e di un casinò… Come osi, credi che non sappia quello che hai fatto? Hai torturato a morte una donna, o vuoi forse negarlo? Quante volte l’hai pugnalata? Venti, trenta volte? Le hai conficcato il coltello nel ventre mentre te la scopavi! Come è stato Satake, ti è piaciuto, eh? L’hai conciata proprio bene! Quando ho letto il tuo incartamento ho sudato freddo. Non riesco proprio a concepire come abbiano potuto far uscire dopo solo sette anni una bestia come te! Non riesco a
farmene una ragione. Spiegamelo tu!» Satake sudava da tutti i pori. Il famoso coperchio sulla pentola! Il sigillo con cui aveva chiuso così accuratamente il suo passato era stato strappato come niente fosse. Il viso della donna agonizzante ondeggiava di nuovo davanti ai suoi occhi. Il suo lato oscuro era tornato in vita e con gelide mani cercava di arrampicarsi sulla sua schiena. «Be’, Satake, cosa c’è? Stai sudando come un maiale!» «No, è solo che…» «Sputa la verità. Dopo starai meglio!» «Niente affatto! Io sono pentito di quello che ho fatto! Io non commetterò mai più un omicidio!» «Dicono tutti così. Ma il maniaco omicida prova piacere e ci ricasca sempre, di questo si può stare certi». Piacere. Colpito da quella parola Satake guardò Kinugasa negli occhi: era trionfante. Non è assolutamente vero, avrebbe voluto urlare. Aveva provato piacere soltanto perché gli era stato possibile condividere la morte di quella donna. In quell’istante la aveva amata con tutto se stesso e per questo era diventata la donna della sua vita, lo aveva legato a lei per sempre. Non era stato affatto piacere di uccidere. E soprattutto la parola piacere non bastava a descrivere quello che era successo. Ma Satake guardò per terra e disse solo: «Questo non è vero». «Bravo, continua a tener duro ma, credimi, anch’io so essere altrettanto tenace! Troverò prove sufficienti contro di te. Farò in modo di farti crollare sotto il peso degli indizi. E poi non potrai più dire niente!» Kinugasa gli strinse la spalla come se stesse palpando un animale. Satake si scansò per sottrarsi alla grande mano callosa del poliziotto. «Davvero non è così, mi creda! Io gli ho solo detto di non farsi più vedere. Si era incapricciato della mia hostess migliore e la tormentava, perciò gli ho fatto capire che doveva smetterla, questo è tutto. L’ho solo messo in guardia e nient’altro. Quello che gli è successo l’ho saputo solo da voi!» «Ah, l’hai “messo in guardia”? Può essere che tu dia un significato un po’ più ampio all’espressione?» «Che cosa vuole dire?» «Valuta tu. L’hai scrollato ben bene, no?» «Non dica assurdità!» «Assurdità? Hai ucciso una donna, fai il ruffiano, pesti a morte un cliente e lo fai a pezzi! Non hai scampo, Satake! Per te è come se la polizia non esistesse – e adesso non cercare di fare l’agnellino!» Satake rimase in silenzio. Kinugasa si accese un’altra sigaretta e insieme al fumo vomitò: «A chi hai dato l’incarico di farlo a pezzi?» «Cosa?» «Nel tuo locale lavorano anche dei cinesi. Quanto si fa pagare la mafia cinese per un lavoro di questo genere? A seconda del prezzo del giorno, come nei negozi di sushi? Allora, qual è il prezzo corrente?» «Ma vuole scherzare? In tutta la mia vita non ho mai pensato a una cosa del genere!» «Un settimanale ha scritto che eliminare un uomo costa circa centomila yen. Per te non dovrebbe essere un problema, basterebbe attingere alla cassa per le spese correnti! Ah, per quanti cadaveri potrebbe bastare, una decina?» Satake rise. Finalmente riusciva a capire il salto logico: «Non sono così ricco». «Uno come te, che guida una Mercedes?» «Fa parte dell’immagine. Ma per le cose assurde di cui parla non butterei mai via così tanti soldi!»
«Macché, piuttosto che tornare in gabbia saresti pronto a pagare qualsiasi somma. Questa volta potrebbero anche condannarti a morte, lo sai benissimo», replicò serio Kinugasa. Satake capì che ormai lo avevano sistemato. Quelli pensavano davvero che avesse ucciso Yamamoto e avesse incaricato qualcuno di eliminare il cadavere. Come sarebbe riuscito a cavarsela? Anche con una fortuna maledettamente sfacciata sarebbe stato difficile. Nella sua mente riaffiorò il ricordo della stretta cella quadrata della prigione e ricominciò a sudare. Allora l’agente che fino a quel momento era rimasto in silenzio, lasciando l’interrogatorio a Kinugasa, aprì finalmente la bocca: «Non ha mai pensato alla moglie di Yamamoto? Fa i turni di notte in fabbrica e ha due bambini piccoli da tirare su con la sua paga. Non le fa pena?» «La moglie?» A Satake vennero in mente le foto della moglie della vittima che aveva visto per caso alla televisione. Una moglie straordinariamente bella per un fannullone come Yamamoto. «Sì, i bambini sono ancora piccoli. Lei non può capire, perché non ha figli, ma il futuro sarà molto difficile per lei, adesso». «Ma questo non dipende da me». Il poliziotto si irritò per la risposta di Satake: «Non dipende da lei. Davvero?» «No». «E pensa di avere il diritto di dire semplicemente così?!» «Ma davvero io non c’entro. Non ne so niente». Kinugasa assisteva al battibecco leccandosi il labbro inferiore. Satake era irritato; lo fissò rabbioso, come per togliersi di dosso il suo sguardo. Un pensiero gli occupava la testa, l’idea che il vero colpevole potesse essere la moglie. Suo marito era improvvisamente sparito e poi avevano ritrovato il cadavere fatto a pezzi, tuttavia la signora Yamamoto sembrava abbastanza tranquilla. Cercò disperatamente di ricordare la stonatura che gli era sembrato di notare guardando la televisione. Come quando si mangia un mollusco pieno di sabbia. Sul volto di quella donna era scolpito un sentimento che solo chi aveva fatto una simile esperienza era in grado di rilevare. Una specie di orgoglio per aver portato a termine qualcosa, per aver realizzato i propri desideri. E poi Yamamoto aveva perso la testa per Anna e tutte le sere era al Mika a spendere i suoi soldi. A giudicare dalle fotografie della moglie, non sembrava che vivessero negli agi. Non ci sarebbe stato niente di strano se lei l’avesse odiato, non le si poteva proprio dare torto… «Satake, che cosa ti frulla per la testa?» domandò beffardo Kinugasa, e Satake accolse la provocazione. Ancora prima di rendersene conto disse: «Stavo pensando alla moglie: che sia proprio immacolata?» Furioso Kinugasa lo aggredì: «A questo tocca a noi pensarci, Satake, non c’è bisogno che tu ti rompa la testa! Per prima cosa la moglie della vittima ha un alibi, e inoltre non ha complici. Al tuo posto mi preoccuperei per me stesso: sei tu il nostro uomo!» Satake dovette prendere atto che la donna era stata completamente esclusa dalla cerchia dei sospetti e che non avrebbero fatto altre indagini in questa direzione. Kinugasa aveva già deciso che il colpevole era lui, si era concentrato solo su di lui. Aveva sbagliato completamente obiettivo, ma questo non migliorava la sua posizione, che anzi non poteva essere peggiore. Furioso Satake strinse i denti: «Mi scusi se ho detto qualcosa di troppo. Ma io davvero non c’entro. Lo giuro!» «Sì, sì, continua pure a parlare a vanvera!» «Già, io parlo a vanvera!» sibilò Satake in direzione del pavimento. Kinugasa aveva evidentemente un buon orecchio, perché gli sferrò una potente gomitata sulla tempia e ringhiò: «Non mi sottovalutare, capito?!» Ma Satake non sottovalutava affatto la polizia. Se avessero voluto, avrebbero potuto costruire tutte le prove che occorrevano. E lui era il colpevole che volevano. Era sopraffatto dall’angoscia e allo stesso tempo bruciava di rabbia. Se fosse riuscito a venirne fuori non avrebbe avuto pace finché non si fosse vendicato con le proprie mani dell’assassino. E per ora il suo obiettivo era proprio la
moglie di Yamamoto. Il risultato di tutto quel pasticcio sarebbe stato la chiusura definitiva dei suoi locali, il Mika e il Parco, pensò Satake che da molto tempo non si faceva più illusioni su come andava il mondo. Da quando, dieci anni prima, era stato rimesso in libertà aveva impiegato ogni momento delle sue giornate a organizzarli, e ora che andavano così bene era stato coinvolto in quel maledetto caso – una vera scalogna! L’estate lo aveva messo un’altra volta in ginocchio. Satake se la prese col destino e sospirò. All’improvviso la stanza si era fatta buia; guardò fuori dalla finestra e vide il cielo coperto di nuvole nere e le fronde di un grande olmo che ondeggiavano al vento. Aveva tutta l’aria di essere in arrivo un temporale. Quella notte, in cella, Satake sognò la donna che aveva ucciso. Giaceva sdraiata davanti a lui, il viso contratto dal dolore, e gemeva: «Chiama il medico, corri, presto…» Satake affondava le dita nella ferita che le aveva aperto nel ventre; le affondava per tutta la loro lunghezza, fino al palmo. Ma la donna sembrava non accorgersene, continuava ad aprire e chiudere la bocca in cerca di aria e a bisbigliare: «Chiama il medico…» Le dita di Satake erano grondanti di sangue. Le aveva asciugate sul volto della donna. Così, con le guance rosse del suo stesso sangue, la donna era talmente bella che sembrava una creatura di un altro mondo. «Chiama il medico, corri, presto…» «Scordatelo. Taci!» Alle parole di Satake la donna gli aveva afferrato con incredibile forza le dita grondanti sangue e se le era portate al collo. Voleva fargli capire che doveva ucciderla più in fretta possibile. Ma Satake le aveva accarezzato i capelli con le mani insanguinate: «Non ancora». Vedendo la profonda disperazione nel suo sguardo, Satake aveva sentito il cuore contrarsi per la pietà e per la gioia. Non ancora. Non morire ancora. Godi insieme a me… La aveva stretta a sé e il suo corpo era scivolato nel sangue di lei. Satake si svegliò. Era tutto insanguinato. No, non era sangue, solo sudore. Si guardò intorno: il suo compagno di cella, un falsario, era disteso sulla branda accanto alla sua e fingeva di dormire. Satake non si curò di lui e si rigirò nell’oscurità; infine si alzò a sedere. Era eccitato: erano passati più di dieci anni dall’ultima volta in cui si era sognato di quella donna. Che la sua anima aleggiasse ancora lì da qualche parte? Scrutò nel buio della cella. Voleva rivederla.
3. Un giorno d’inverno di quattro anni prima Anna era salita per la prima volta su un treno delle ferrovie giapponesi. Era sera e la carrozza era strapiena. Anna non era abituata a trovarsi in mezzo alla folla che la schiacciava e quella sensazione non le piaceva. Continuava a urtare contro le spalle e i bagagli dei vicini e alla fine si trovò nel mezzo della carrozza. In qualche modo riuscì ad afferrarsi a una maniglia e guardò fuori dal finestrino: il sole rosso fuoco stava tramontando all’orizzonte. La sua luce creava un grande contrasto con le ombre scure delle stazioni e degli edifici che sparivano velocissimi dal campo visivo di Anna, senza che potesse metterli a fuoco. Sarebbe riuscita a riconoscere la stazione in cui doveva scendere? E in quel caso ce l’avrebbe fatta a uscire dalla carrozza? Nervosa e confusa continuava a lanciare occhiate verso la porta. Improvvisamente le parve di sentire l’idioma di Shanghai. Lì intorno dovevano esserci dei suoi concittadini. Sollevata guardò i visi dei passeggeri e aguzzò le orecchie: in realtà parlavano in giapponese. I suoni della lingua giapponese e del dialetto di Shanghai erano simili. Improvvisamente venne colta da un profondo senso di abbandono: era sola in un paese straniero. Benché volti e suoni si somigliassero, lei era completamente sola in un mondo di sconosciuti… Guardò di nuovo fuori dal finestrino: il sole era ormai tramontato e diventava sempre più buio. Sul vetro si rifletteva l’immagine di una ragazza dallo sguardo cupo, infagottata in un cappotto fuori moda. Si riconobbe in quell’immagine e venne presa da una sensazione di solitudine talmente sconfinata da farle mancare il respiro, e i suoi occhi traboccarono di lacrime. Anna aveva allora diciannove anni. Anche prima, naturalmente, l’opulento Giappone l’aveva intimidita e quella sensazione di totale smarrimento nella metropoli caotica non le era sconosciuta. Tuttavia non si era mai sentita così abbandonata da Dio come quel giorno. Certo, se fosse venuta in Giappone per studiare o dedicarsi a qualche ricerca, sarebbe riuscita a sopportare molte difficoltà. Ma lei era qui per guadagnare denaro, quello era il suo unico scopo. E non aveva altre armi che la gioventù e la bellezza. Era venuta qui a cuor leggero, consigliata da un mediatore che si trovava a Shanghai in cerca di ragazze e che le aveva detto che le cinesi, in Giappone, potevano fare soldi a palate. Ma la facilità con cui questo avveniva deprimeva Anna, che in realtà era una ragazza seria e intelligente. Era sempre stata una brava studentessa e aveva persino sperato di iscriversi all’università, e ora si era ridotta a guadagnare soldi facili grazie agli uomini giapponesi. E che cos’altro era se non depravazione? Il padre di Anna era autista di taxi, la madre vendeva frutta e verdura al mercato. Ogni sera si raccontavano con orgoglio i risultati del loro lavoro. Saggezza, astuzia e presenza di spirito erano le armi con cui combattevano la concorrenza – così ci si guadagnava la vita, questa era l’essenza del commercio a Shanghai. Ma lei avrebbe potuto raccontare ai genitori i risultati del proprio “commercio”? Era orgogliosa di essere nata a Shanghai, la più grande metropoli della Cina, e segretamente confidava nella propria bellezza, eppure non poteva rivaleggiare con le giovani ragazze di Tokyo, traboccanti di fiducia in se stesse, consapevoli di essere sostenute da una società opulenta. Anna non riusciva ad acquistare quella disinvoltura. Si trattava di una competizione impari. La tensione nervosa, la perdita di fiducia in se stessa e non per ultimo il suo isolamento l’avevano trasformata in una timida e paurosa ragazza di campagna. Anna, come le aveva consigliato il mediatore che le aveva anche fatto ottenere il visto di ingresso, si era iscritta a una scuola di lingue e di notte lavorava in un night-club di Shibuya. Si era dedicata con tutte le sue energie allo studio del giapponese e in breve tempo era stata in
grado di parlarlo, anche se non perfettamente. Se solo si concentrava riusciva anche a capire i discorsi della gente in metropolitana. Adesso poteva finalmente comprarsi i vestiti alla moda nei grandi magazzini, come le ragazze giapponesi. Ma la sua solitudine, come uno sfrontato gatto randagio, non la abbandonava mai; per quanto cercasse con ogni mezzo di allontanarla se la trovava sempre a fianco. Ma prima di tutto voleva guadagnare denaro, possibilmente tanto denaro, e tornare a Shanghai il più presto possibile. E una volta che fosse tornata a casa, avrebbe aperto una splendida boutique e sarebbe diventata ricca… Ogni giorno Anna andava a scuola e ogni sera al club. Tuttavia, nonostante i suoi sforzi, non riusciva a risparmiare. Non avrebbe mai immaginato che la vita in Giappone fosse così cara. Anna era sempre più nervosa. Non era riuscita ad accumulare neanche un quarto della somma che le serviva – così era impossibile tornare a casa. Ma non voleva neppure rimanere lì. La sensazione di essere in trappola e di non avere vie di uscita rendevano la sua vita fragile come una tazzina da tè incrinata – aveva sempre paura di spezzarsi da un momento all’altro. Fu proprio allora che conobbe Satake. Satake non beveva alcolici ma era generoso e rientrava dunque nella categoria dei “migliori clienti”. Anna lo aveva già visto spesso prima di allora e si era accorta che tutti nel locale lo trattavano con particolare riguardo, ma aveva pensato che un uomo simile, al cui tavolino sedevano le hostess più contese, fosse irraggiungibile. Tuttavia quella sera l’aveva fatta chiamare al suo tavolo. «Sono Anna. Felice di conoscerla». Satake si comportava in modo diverso dagli altri clienti, non era timido né presuntuoso. Aveva chiuso gli occhi come se gli facesse piacere udire la sua voce, poi li aveva riaperti e le aveva guardato la bocca, come l’insegnante di giapponese quando voleva controllare la sua pronuncia. Anna si era quasi alzata in piedi: le sembrava di essere una scolaretta chiamata improvvisamente alla lavagna. «Le va bene un whisky e soda?» Versando il whisky e diluendolo con quanta più soda possibile, Anna lo aveva guardato di nuovo. Poteva essere vicino ai quaranta. Aveva carnagione scura e capelli corti. Occhi piccoli e dal taglio allungato, labbra grosse. Non esattamente un bell’uomo, tuttavia il viso irradiava una sorta di tenerezza che lo rendeva affascinante. Era però vestito in modo veramente troppo vistoso. Indossava un elegante completo nero e una cravatta sgargiante, evidentemente firmati, che mal si adattavano alla corporatura robusta. Rolex d’oro e accendino Cartier, anche quello d’oro. Lo sguardo cupo e profondo contrastava violentemente con il suo aspetto indolente e dissoluto. I suoi occhi erano una palude. Le avevano subito fatto venire in mente una fotografia di un paesaggio di montagna che aveva visto una volta: un lago nero, paludoso, tra il silenzio delle vette solitarie. Sembrava che sul fondo di quelle acque torbide, gelide come ghiaccio, tra lussureggianti erbe lacustri vivesse una creatura misteriosa. Fino ad allora nessuno aveva saputo della sua esistenza, perché nessuno lì avrebbe mai osato nuotare né andare in barca. Di notte doveva inghiottire la luce delle stelle in quella sua acqua nera e stagnante. Forse Satake amava vestirsi così per distogliere gli sguardi della gente dalla palude della sua anima. Anna gli aveva guardato le mani. Nessun gioiello, nessuna traccia di lavoro manuale – proporzioni straordinariamente armoniose per un uomo. Belle mani. Non riusciva assolutamente a classificarlo. Non dava proprio l’impressione di esercitare una professione onesta e lei aveva pensato che poteva anche essere uno di quegli yakuza di cui fino ad allora aveva solo sentito parlare. Era curiosa, ma aveva anche paura. «Dunque tu sei Anna-chan», aveva detto Satake infilandosi una sigaretta tra le labbra e continuando a osservare il suo viso. Nella palude di quegli occhi non si muoveva un alito di vento. Il suo sguardo non rivelava né ammirazione né delusione. Tuttavia la sua voce era piacevolmente calma e vellutata. Anna avrebbe voluto udirla di nuovo. Allora si era accorta della sigaretta e, come le era stato insegnato, aveva preso in mano
l’accendino per porgergli il fuoco. Che distratta, doveva fargli una buona impressione! Si era innervosita e l’accendino le era scivolato tra le dita ed era quasi caduto. Satake se ne era accorto e la sua espressione si era addolcita: «Via, via, non così in fretta, in fondo non è importante!» «Mi scusi». «Quanti anni hai? Venti, più o meno?» «Sì, esattamente». Solo un mese prima Anna aveva festeggiato, in Giappone, il suo ventesimo compleanno. «L’hai scelto tu quel vestito?» «No». Indossava un vestito rosso fuoco, da pochi soldi, che le aveva ceduto una compagna d’appartamento. «Mi è stato regalato». «Era quello che pensavo. Non è della tua taglia». «Allora me ne compri uno lei», avrebbe voluto chiedergli Anna, ma non aveva osato. Si era limitata a sorridere imbarazzata. Non si sarebbe mai immaginata che in quel momento Satake si stava già divertendo a rivestirla come una bambolina di carta. «Non so bene come vestirmi». «A una come te sta bene qualsiasi cosa». Sebbene fosse così giovane, Anna capiva che Satake non apparteneva alla categoria dei clienti ingenui, che dicevano subito quello che gli passava per la testa. Dopo aver riflettuto qualche istante, Satake aveva schiacciato il mozzicone della sigaretta e aveva chiesto: «Mi hai guardato bene. Che cosa pensi che faccia?» «È un impiegato?» «No», aveva risposto serio Satake scuotendo il capo. «Allora forse è uno yakuza». Satake aveva sorriso per la prima volta, mostrando i denti grandi e sani. «Sono senza dubbio un fuorilegge, ma non uno yakuza. Faccio il ruffiano». «Ruffiano? Che cosa vuol dire?» Satake aveva preso dal taschino una lussuosa penna a sfera e aveva scritto con ideogrammi sottili, su un tovagliolo di carta, la parola ruffiano. Anna aveva letto aggrottando la fronte. «Sono uno che vende le donne». «E a chi le vende?» «Agli uomini che le desiderano». Così era un mediatore di prostitute. Anna, colta di sorpresa dalle parole così esplicite di Satake, era rimasta in silenzio. Allora lui, con lo sguardo fisso sulle dita di Anna che tenevano ancora il tovagliolo di carta, aveva chiesto: «Annachan, ti piacciono gli uomini?» La ragazza aveva inclinato la testa perplessa: «Sì, se sono belli». «E chi è bello, per te?» «Tony Leung, ad esempio. È un attore di Hong Kong». «Se lui ti volesse, ti piacerebbe essergli venduta?» «Sì. Ma sicuramente non mi vorrebbe. Non sono abbastanza bella», aveva risposto lei dopo averci pensato un po’ su. «Ma va’, fra tutte le donne che ho incontrato finora sei sicuramente la più bella!» «Non è vero», aveva detto Anna ridendo. Non riusciva assolutamente a crederci. Una come lei, che non era neppure tra le prime dieci più belle in quel piccolo locale. «È una bugia». «Io non dico mai bugie». «Sì, ma…» «L’unico problema è che non hai fiducia in te. Se vieni a lavorare con me, ti prometto che in breve tempo sarai la prima a meravigliarti della tua grazia e della tua bellezza». «Ma diventerei una puttana!» aveva protestato Anna sporgendo le labbra.
«No, prima scherzavo. Ho un night-club.» Per lei comunque non sarebbe cambiato molto. Anna, che era già pentita da un pezzo di essere andata a lavorare in Giappone, abbassò la testa. Satake aveva continuato a guardarla accarezzando con quelle sue lunghe, bellissime dita il bicchiere su cui il ghiaccio, sciogliendosi, aveva formato piccole gocce d’acqua. Nei punti in cui le sue dita sfioravano il vetro le gocce scivolavano giù, macchiando il sottobicchiere. Non aveva assaggiato neppure un sorso, e Anna si era fatta l’idea che tenesse in mano il bicchiere soltanto per accarezzarlo. «Non ti piace questo lavoro?» «Ma sì, certo», aveva risposto Anna riluttante, sbirciando intimorita la mama-san che lì, nel club, faceva il bello e il cattivo tempo. Satake aveva seguito il suo sguardo. «Non sai che cosa fare, vero? Ma sei pur venuta per guadagnare soldi, o no? E allora devi farlo. Hai un formidabile talento che non sei ancora riuscita a tirare fuori». «Talento?» «Sì, la bellezza è un talento, come quello di uno scrittore o di un pittore. È un dono del cielo che non tutti hanno. Gli scrittori e i pittori si sforzano di raffinarlo. E anche tu devi darti da fare per levigare il tuo talento. È questo il tuo impegno, la tua professione. Insomma, sei un’artista Anna-chan, ne sono convinto. Ma sembra che tu voglia tirarti indietro…» Continuando ad ascoltarlo si sarebbe inebriata del tono dolce e suadente della sua voce. Improvvisamente aveva alzato il viso: era triste. Quell’uomo usava le sue lusinghe solo per indurla a lavorare nel suo locale! L’avevano sempre messa in guardia da gente di quel genere! Come se avesse intuito le preoccupazioni di Anna, Satake aveva sorriso e con un profondo sospiro aveva detto: «Peccato, un vero spreco!» «Ma io non ho talento!» «Ce l’hai. Davvero non vorresti diventare la protagonista della tua vita?» «Certo che lo vorrei». «Quando riuscirai a esaudire anche solo un paio dei tuoi desideri, potrai riconoscere qualcosa». «Che cosa?» «Il tuo destino». «Perché?» «Perché c’è sempre qualcosa che non va esattamente come si desidera. È colpa del destino», aveva risposto serio Satake porgendole un biglietto da diecimila yen piegato con cura. Mentre pronunciava quelle parole, per un attimo Anna aveva creduto di scorgere qualcosa lampeggiare in quegli occhi cupi e aveva distolto in fretta lo sguardo, con la sensazione di aver visto qualcosa che non doveva vedere. «La ringrazio». «Ci rivedremo», aveva detto Satake guardandosi intorno come se avesse perso ogni interesse nei suoi confronti. Infine aveva fatto un cenno al direttore perché gli chiamasse un’altra ragazza. Anna era stata liquidata e aveva raggiunto il tavolo di un altro cliente. Era scontenta di se stessa ed era sicura di averlo deluso con la sua risposta. E se fosse stato vero quello che le aveva detto, cioè che sarebbe diventata molto più bella se fosse andata a lavorare da lui? Le sue parole l’avevano profondamente turbata e agitata. Voleva avere di più dal proprio destino! Possibile che avesse perso la sua occasione? Era pentita. Tornata all’appartamento aveva preso il biglietto da diecimila yen che le aveva dato Satake e si era accorta che sopra c’era scritto il nome Mika e un numero di telefono. Quando era andata a lavorare nel suo night-club, Satake le aveva insegnato molte cose. Che con
i clienti doveva fingere di non sapere parlare bene il giapponese. Che agli uomini giapponesi piacevano le donne timide e che parlavano poco. Che però poteva comunicare con loro per iscritto, perché si sarebbe guadagnata la loro ammirazione se si fosse impratichita nell’arte della calligrafia. Gli uomini prediligono le donne intelligenti ma riservate. Che doveva assolutamente far credere loro di essere venuta in Giappone per studiare la lingua – faceva la hostess solamente per guadagnare qualche yen per le piccole spese. Anche se in fondo sapevano che erano tutte bugie, gli uomini amavano cullarsi nell’illusione di essere superiori, e diventavano più gentili e generosi. Che doveva assolutamente far credere, alludendovi con noncuranza, di appartenere a una buona famiglia di Shanghai e di essere stata allevata come una signorina per bene. Così i clienti si sarebbero sentiti ancora più tranquilli. Satake non la lasciava mai e le insegnava tutto, da come truccarsi per piacere agli uomini a quali abiti scegliere. Qui erano in Giappone, e gli uomini giapponesi erano fondamentalmente diversi da quelli di Shanghai, che avevano imparato che le donne erano in grado di esprimere la propria personalità nel mondo degli affari e di guadagnarsi da vivere. Anche prima Anna ne era stata consapevole, ma non avrebbe mai pensato di dover fare i conti con questa realtà. Satake le insegnò tutte le tecniche che le servivano e lei le imparò in fretta. Non si trattava di diventare una donna di quel tipo, doveva solo essere professionale e dedicarsi completamente al lavoro. Questo le avrebbe garantito il successo “commerciale” e i suoi genitori non si sarebbero vergognati. Inoltre aveva davvero talento: più recitava quella parte e più diventava la donna bella ed enigmatica di cui aveva parlato Satake. Sì, lui aveva visto bene. In breve tempo era diventata l’hostess più richiesta del Mika, e il successo l’aveva resa più sicura. Era riuscita finalmente a cancellare per sempre il gatto randagio che era stata. Aveva cominciato a chiamare Satake “O-nii-chan”, il mio fratello maggiore. Anche Satake aveva smesso di nascondere la predilezione che aveva per lei. Con il passare del tempo Anna aveva incominciato a credere che lui si fosse innamorato di lei. Infatti non le presentava mai clienti “speciali”, come faceva con le altre hostess. Ma un giorno Satake, come se le avesse letto dentro, le aveva telefonato: «Anna-chan, ho trovato l’uomo per te». «Che tipo d’uomo?» «È ricco e bello. Questo dovrebbe essere sufficiente, no?» Naturalmente si trattava di Tony Leung. Non era né bello né giovane, ma nuotava letteralmente nei soldi. Per ogni incontro la pagava un milione di yen. In dieci notti avrebbe guadagnato dieci milioni, quello che poteva considerarsi un bel reddito per un anno di lavoro. E se lo avesse tenuto in caldo, in poco tempo sarebbe diventata miliardaria. Quando il suo conto in banca avesse raggiunto la cifra che si era prefissata, avrebbe potuto dimenticare Tony Leung. Ma il cuore di Anna era occupato da un altro uomo, l’oscuro, impenetrabile Satake. Avrebbe voluto immergersi nella palude dei suoi occhi e scoprire la creatura che ne abitava il fondo. Anzi avrebbe voluto afferrarla con le proprie mani. Anna si sentiva come a caccia, eccitata e tesa. Si ricordava che cosa le aveva detto quando si erano incontrati per la prima volta: «Ci sarà sempre qualcosa che non andrà come avresti voluto. È il destino». Che cos’era quel lampo che aveva visto guizzare per un attimo nel lago paludoso dei suoi occhi? L’avrebbe saputo presto, di questo ne era certa. Perché lei era una donna speciale per Satake. Ma più tentava di conoscerlo e più si accorgeva di ignorare tutto di lui. Perché Satake stava molto attento a non lasciar trapelare il suo segreto. Nessuno conosceva il suo indirizzo e nessuno aveva mai visto la sua casa. Chén, il direttore, credeva di avere visto una volta un uomo come Satake davanti a una vecchia casa a due piani nella zona occidentale di Shinjuku. Ma quell’uomo era vestito in modo molto modesto, non con i ricercati abiti firmati che Satake prediligeva. Era uscito di casa per gettare l’immondizia con addosso un paio di vecchi pantaloni sformati alle ginocchia e un golf logoro ai gomiti. Sembrava un impiegato male in arnese e, alla vista del disordine intorno al bidone delle spazzature, aveva fatto una smorfia di disgusto
e aveva incominciato a far pulizia. Era stato soprattutto questo che gli aveva messo in testa che poteva essere proprio Satake, il proprietario del Mika. Chén si era meravigliato ma anche spaventato, aveva raccontato ad Anna. «Il padrone che conosciamo si veste in modo appariscente, ma accurato ed elegante. L’ho sempre considerato uno sul quale si può contare, anche se non parla mai. Ma se quello che ho visto quel giorno è proprio lui, e quella è la sua vera personalità, il contrasto è troppo grande. Vorrebbe dire che qui, al club, il suo modo di fare è tutto una finzione. Strano, come mai avrebbe bisogno di nasconderci qualcosa? Possibile che non si fidi di noi? Non si può vivere senza fidarsi di nessuno. Perché significherebbe non fidarsi neppure di se stessi». Satake era un uomo misterioso, sembrava circondato da un segreto. Tutti i dipendenti trovavano inquietante la storia di Chén, ma allo stesso tempo si sentivano fortemente attratti da quell’uomo così enigmatico. Perché agiva in quel modo? Chi era realmente? Ognuno aveva la sua teoria. Ma Anna non si poteva accontentare dell’idea di Chén, che Satake in realtà diffidasse prima di tutto di se stesso. Era giovane e innamorata, ed era gelosa. Doveva esserci un’altra donna, una donna con la quale Satake non aveva bisogno di nascondersi, con la quale poteva essere se stesso… Finalmente un giorno Anna gli aveva chiesto: «O-niichan, vivi con una donna?» Satake l’aveva guardata stupito e per un attimo era rimasto senza parole. Anna aveva interpretato la sua esitazione come prova di avere colto nel segno, e così aveva continuato: «E chi è?» «No, no», aveva risposto Satake ridendo, e per un istante i suoi occhi si erano offuscati, «non ho mai vissuto con una donna». «Allora non ti piacciono le donne, O-nii-chan?» Anna, benché tranquillizzata dal fatto che non ci fosse un’altra ragazza nella vita di Satake, aveva avuto paura che fosse omosessuale. «Certo che mi piacciono, e quelle che preferisco sono le ragazze belle e dolci come te, Anna-chan. Le considero un incredibile regalo, di cui sono veramente grato!» Così dicendo le aveva preso la lunga mano affusolata e se l’era appoggiata sul palmo della sinistra, continuando ad accarezzarla con la destra. Ad Anna era sembrato che stesse valutando la fattura di un oggetto prezioso e aveva capito che dicendo “mi piacciono” lui aveva solo manifestato la generi ca ammirazione di un uomo per la bellezza femminile. «Grato a chi?» «Al cielo, per il regalo che ha voluto fare agli uomini». «E le donne? Non c’è un regalo anche per loro?» «Mah… Uomini come Tony Leung, per esempio. Che ne dici?» Anna aveva inclinato la testa: «Non credo». Perché una donna vuole sempre riuscire a sfiorare l’anima di un uomo. Non si può accontentare dell’aspetto esteriore! E l’anima che una donna vuole sfiorare è solo una, un’anima in armonia con la propria. Sembrava invece che Satake, quando parlava di “ragazze belle e dolci”, si riferisse solo a piccoli oggetti graziosi da viziare a proprio piacimento. L’anima non lo interessava, evidentemente non ne aveva bisogno. E, per quanto lo riguardava, qualsiasi donna andava bene, bastava che fosse carina. Per lei invece non era la stessa cosa, in tutto il mondo non c’era un uomo che potesse prendere il posto di Satake, aveva pensato Anna delusa. «Allora, O-nii-chan, ti basta che una donna sia bella e dolce?» «Sì. Gli uomini non desiderano altro». Anna era rimasta in silenzio. Aveva capito che qualcosa si era irrimediabilmente spezzato nell’animo di Satake. Forse una volta una donna lo aveva fatto soffrire molto. Aveva provato compassione per lui e si era messa a pensare a come avrebbe potuto curare e guarire quelle ferite. Era convinta di esserne capace ed era felice di poterlo fare.
Ma il giorno in cui erano andati in piscina le illusioni di Anna erano svanite. Dapprima era stata contenta che Satake fosse andato in piscina con lei, ma la sua reazione ai tentativi di approccio del ragazzo l’aveva molto delusa. Come li aveva guardati! Il suo sguardo bonario come quello di uno zio comprensivo! Le aveva fatto male e si era arrabbiata perché lui si rifiutava di prendere sul serio i suoi sentimenti. Per questo aveva invitato a casa il ragazzo la sera stessa, per ricambiarlo con la stessa moneta. Non si trattava che di una piccola vendetta, ma Satake sembrava non aver capito che lo aveva fatto perché era innamorata di lui. «Non ho niente in contrario se ti diverti con gli uomini. Purché vieni regolarmente a lavorare. E purché la cosa non duri troppo a lungo». Non avrebbe mai dimenticato il modo in cui aveva pronunciato quelle parole. Per lui non era altro che una merce da offrire in vendita al Mika, un giocattolo da uomini! Era per questo che l’aveva viziata e coccolata, perché era una bellissima bambola che doveva ballare come voleva lui. Quella notte Anna non era riuscita a dormire. Di nuovo si era sentita fragile come una tazzina da tè incrinata. E lei che aveva pensato di potere dimenticare per sempre quella sensazione! Ma il mattino seguente l’attendeva una sorpresa ancora più scioccante. Chén aveva telefonato: «Anna, hanno impacchettato il capo, per il baccarat. Forse non sai ancora niente, dal momento che ieri non sei venuta». «Che cosa vuol dire “impacchettato”?» «Che è stato portato via dalla polizia. E così anche Kunimatsu, il direttore del Parco. Oggi il Mika deve assolutamente rimanere chiuso. Se la polizia viene a farti delle domande tu non sai niente, capito?» Proprio adesso che aveva deciso di chiedere a Satake che cosa provasse per lei! A seconda della sua reazione avrebbe anche potuto licenziarsi. Frustrata di dovere aspettare ancora, Anna era andata in piscina e vi era rimasta tutto il giorno prendendosi una bella scottatura. La sera, guardandosi la pelle arrossata, aveva dovuto ripensare al giorno precedente, quando Satake era andato con lei. Forse non aveva del tutto ragione, forse non era vero che la considerava soltanto una cosa. Forse esitava a causa della differenza di età, anche questo era possibile. Del resto non si era sempre occupato amorevolmente di lei? Non era forse la sua prediletta, quella che preferiva? Era un’ingrata a non riconoscere quello che Satake aveva fatto per lei! Anna, di nuovo animata dai suoi migliori sentimenti, si era sentita in colpa nei suoi confronti e all’improvviso la nostalgia si era impadronita di lei. Il giorno successivo i dipendenti del Parco che erano stati arrestati con Satake vennero rimessi in libertà. Presto avrebbero liberato anche lui, pensò Anna.Ma lui non tornava. Il Mika era ormai chiuso da più di una settimana. Lì-huá, la mama-san, andò a trovarlo e Satake le ordinò di dire ai clienti che il locale rimaneva chiuso in vista della festa di Obon 6. Anna continuò ad andare in piscina tutti i giorni. Adesso la sua pelle arrossata dal sole aveva assunto una luminosa tonalità bronzo chiaro che esaltava la sua bellezza. Per strada si voltavano a guardarla. In piscina gli uomini la assediavano. Satake sarebbe stato orgoglioso di lei se avesse potuto ammirare questo nuovo aspetto della sua bellezza e quanto lei ne andava fiera. Peccato che non fosse lì! La sera stessa andò a trovarla Lì-huá: «Devo parlarti, Anna-chan. È una questione importante». «Che cosa è successo?» «Si tratta di Satake-san. A quanto pare passerà molto tempo prima che sia di nuovo libero». Con Anna Lì-huá parlava in mandarino, perché veniva da Taiwan e non sapeva il cinese di Shanghai. «Ma perché?» «Be’, è proprio quello di cui ti voglio parlare. Non l’hanno arrestato solo per la faccenda del gioco d’azzardo. Anch’io l’ho saputo solo quando sono andata alla polizia a fare la mia deposizione: sembra che ci sia qualche collegamento tra lui e il cadavere trovato a pezzi nel parco».
«Il cadavere a pezzi?» Anna allontanò il cagnolino che uggiolava eccitato ai suoi piedi. Lì-huá si accese una sigaretta e la scrutò in viso. «Sì, davvero non ne sai niente? Circa tre settimane fa hanno trovato un cadavere fatto a pezzi. E vuoi sapere chi era? Uno dei nostri clienti, quel Yamamoto, ti ricordi?» Anna era allibita: «Yamamoto? Vuole dire quel Yamamoto che mi girava sempre intorno?» «Sì, proprio lui. Siamo tutti sbalorditi». «Ma com’è possibile? Non riesco a crederci…» Yamamoto la chiamava sempre al suo tavolo, non la lasciava mai in pace. Quando lei gli sedeva di fronte, lui le afferrava la mano e una volta, ubriaco, aveva persino tentato di buttarla sul divano. Ma non era stata solo la sua insistenza a turbarla. Yamamoto si sentiva solo, questo era evidente, ed Anna se ne era accorta subito. Lei era molto disponibile finché i clienti si limitavano a divertirsi e tutto rimaneva un gioco, ma di uomini soli non ne voleva proprio sapere. Per questo quando non l’aveva più visto si era sentita sollevata, e ormai l’aveva cancellato dai propri pensieri. «La polizia verrà senz’altro a cercarti molto presto. Sarà meglio che traslochi più in fretta possibile», disse Lì-huá guardandosi intorno nell’appartamento lussuosamente arredato, come se volesse stimarne il valore. «E perché?» «Credono che Satake abbia ucciso Yamamoto perché ti dava fastidio. E poi avrebbe incaricato la mafia cinese di fare a pezzi il cadavere». «No, O-nii-chan non farebbe mai una cosa del genere!» «Ma sembra che l’abbia preso a pugni davanti al Parco». «Questo lo so… ma non ha fatto altro». «Non sai ancora tutto». Lì-huá abbassò la voce: «Satakesan ha ucciso una donna». Anna si sentì soffocare. Aveva la gola completamente arsa e non riusciva più a deglutire. «E non l’ha uccisa in modo “normale”. Sono rimasta veramente inorridita quando l’ho saputo, mi devi credere. Se le ragazze del Mika venissero a saperlo sono sicura che scapperebbero subito terrorizzate». «Come l’ha uccisa?» Ad Anna sembrava di rivedere la luce sinistra che brillava sul fondo della palude di Satake. «Sembra che una volta Satake lavorasse come guardia del corpo o qualcosa di simile per un famigerato yakuza del quartiere. È una vecchia storia e quello adesso è morto. Era il capo di una banda attiva nel giro della prostituzione e dello spaccio di amfetamine. Satake-san aveva l’incarico di andare a riprendere le donne che scappavano e di riscuotere i crediti. Un giorno una donna se l’era svignata con l’aiuto di una mediatrice che di nascosto l’aveva sistemata in un altro bordello. Satake-san era riuscito a catturare la mediatrice. Sembra che l’abbia rinchiusa in una camera e lì l’abbia torturata a morte – la ha seviziata finché non è morta». «Torturata a morte… che cosa vuol dire?» Anna non riusciva più a controllare il tremito nella propria voce. Le tornò alla mente quando da bambina i suoi genitori l’avevano portata in gita a Nanchino – la vista terrificante dei manichini al museo della guerra, in ricordo del massacro che era avvenuto in quella città. La palude di Satake. Era dunque questo il terribile passato nascosto nel fondo dei suoi occhi. «Ah, orribile!» Lì-huá aggrottò torva le sopracciglia sottolineate dal trucco. «Si è comportato in modo disumano. L’ha denudata, percossa e violentata fino a farle perdere i sensi e poi l’ha fatta rinvenire pugnalandola alla pancia con un coltello. E quindi ha di nuovo violentato quel corpo da cui il sangue usciva a fiumi. A quanto dicono il cadavere era pieno di lividi e non aveva più denti in bocca; l’aveva conciata proprio bene. Persino il vecchio yakuza era talmente inorridito che lo aveva scacciato». Anna emise un lungo gemito. Lì-huá, chissà quando, se ne era andata. Solo il barboncino nano
era ancora accanto a lei e la guardava con aria interrogativa continuando ad agitare la coda. «Ah, Gioiellino!» Anna si girò disperata verso di lui e il cane abbaiò felice in risposta al suo richiamo. Ricordò il giorno in cui l’aveva comprato. Voleva avere accanto a sé qualcosa che le scaldasse il cuore. Nel negozio aveva scelto la creatura più bella che avevano. Era la stessa cosa che aveva fatto Satake. Capì che ci sono uomini che desiderano le donne proprio per lo stesso motivo per cui lei aveva voluto il cane. E anche che per Satake lei non significava niente di più di quello che il cane significava per lei. Per Satake Anna era dolce e carina, così come Gioiellino era dolce e carino per lei. Non sarebbe mai riuscita a penetrare nella palude di quell’uomo. Anna scoppiò a piangere. 6 Festività in onore degli antenati che ha luogo tra il 13 e il 16 agosto. Insieme alla festa del nuovo anno è la più importante festività giapponese (N.d.T.).
4. Quattro giorni dopo che la notizia era comparsa sulle prime pagine di tutti i giornali la polizia andò a casa di Masako. Erano già andati in fabbrica e le avevano posto alcune domande di routine, per cui era preparata a quella visita, dal momento che tutti i suoi colleghi sapevano che lei era la migliore amica di Yayoi. Ma nessuno avrebbe mai scoperto che il cadavere di Kenji era stato fatto a pezzi nel bagno di casa sua, di questo era sicura. Lei stessa non sapeva perché aveva aiutato Yayoi – e allora come avrebbe potuto, un estraneo, trovare una relazione? Masako era ottimista. «Mi scusi se la disturbo subito dopo il lavoro, di sicuro sarà stanca. Ma sarò molto breve». Era Imai, il più giovane dei due agenti che erano andati allo stabilimento. Evidentemente sapeva che lei faceva il turno di notte e le sue scuse sembravano sincere. Masako guardò l’orologio: erano le nove. «Non si preoccupi, avrò tempo per dormire più tardi». «Grazie. Lei ha un ritmo di vita piuttosto irregolare, la sua famiglia non ne soffre?» Imai, incoraggiato dalla schiettezza di Masako, venne subito al punto. Era giovane, ma in nessun caso da sottovalutare. Masako decise di stare in guardia. «È passato così tanto tempo che ormai ci siamo abituati». «Immagino. Ma suo marito e suo figlio non si preoccupano se sta fuori tutta la notte? Lei è la madre, e quindi il cuore della famiglia». «Mah, non saprei…» Masako dubitava di potersi considerare il “cuore” di quella famiglia. Sorrise amaramente e invitò Imai a entrare in soggiorno. «Ma certo che si preoccupano. Gli uomini sono così. Fa parte della nostra natura non stare tranquilli quando una donna sta fuori tutta la notte, non c’è dubbio», ribadì Imai con foga. Masako si sedette di fronte a lui, senza neppure fare il gesto di offrirgli un tè o qualcos’altro. Nonostante l’età, quel poliziotto aveva una mentalità piuttosto ristretta. Imai appoggiò con calma sulla sedia la giacca beige che teneva sotto il braccio. «Signora Katori, ha deciso di andare a lavorare di notte d’accordo con suo marito?» «D’accordo? Che cosa c’entra? La sua unica preoccupazione era che il lavoro non fosse troppo duro per me, ma…» Era una bugia bella e buona. Yoshiki non aveva neppure commentato la sua scelta, e Nobuki già allora aveva smesso di parlare. «Ah, così?» Imai scosse la testa come per dire che tutto questo era per lui inconcepibile e aprì l’agendina. «Sembra che anche in casa della vittima le cose andassero allo stesso modo, ma mi stupisce molto che un uomo come suo marito, un normale impiegato, possa tollerare che la moglie lavori di notte». Masako alzò la testa perplessa, non riusciva proprio a capirlo: «E perché mai?» «Anzitutto la vita viene capovolta. In famiglia non c’è più comunicazione, dal momento che marito e moglie riescono a malapena a incrociarsi. E inoltre chissà che cosa fa in realtà la donna quando dice che va a lavorare! È ovvio che uno preferisce che la moglie abbia una normale attività diurna!» Masako incominciò a capire in quale direzione si stava orientando la fantasia del poliziotto: Imai sospettava che Yayoi avesse una relazione extraconiugale! «Mettiamo da parte il mio caso per un momento. Una volta Yayoi aveva un normalissimo lavoro part-time, ma ha dovuto rinunciarvi a causa dei bambini. Non le rimaneva altra scelta all’infuori del turno di notte. Almeno questo è quanto ha detto». «Sì, questo lo so già. Mi domandavo solo quale altro vantaggio potesse offrire il lavoro notturno per controbilanciare gli svantaggi».
«Credo proprio nessuno», tagliò corto Masako. L’ostinata ottusità di Imai la stava facendo arrabbiare, ma non voleva che se ne accorgesse. «L’unico vantaggio potrebbe essere la paga, che è del venticinque per cento più alta di quella diurna». «Solo questo?» «Provi a pensare: la stessa paga e tre ore in meno di questo stupido lavoro. Questo è senza dubbio un vantaggio, mi creda. Il tempo è prezioso, non lo si può buttare al vento». «Può darsi, ma…» Imai non sembrava ancora convinto. «Forse lei non riesce a capire perché non ha mai fatto un lavoro part-time…» «È ovvio che no, alla fin fine sono un uomo», rispose Imai tutto serio. «Se lei ci avesse provato, capirebbe subito che è molto meglio prendere la paga più alta e lavorare meno ore possibile, anche se la differenza è minima». «Anche quando si deve scambiare la notte con il giorno?» «Sì, anche allora». «Be’, se ne è convinta… Ma perché la signora Yamamoto doveva per forza andare a lavorare?» «Perché era necessario per sopravvivere, suppongo». «Vuole dire che lo stipendio del marito non bastava?» «Non so esattamente, ma credo di no». «Non sarà stato piuttosto perché suo marito si prendeva delle libertà e lei si era arrabbiata o addirittura non voleva più vederlo? Insomma, forse non si trattava solo di soldi». «Questo non lo so», rispose seccamente Masako, «non mi ha mai raccontato niente del genere, o almeno niente che avvalori questa interpretazione». «Quale interpretazione?» «Ripicca nei confronti del marito o qualcosa del genere, come lei ha insinuato. Yayoi si è sempre presa cura dei figli e ha sempre lavorato con grande impegno». Imai annuì: «Sì, forse ho esagerato, mi scusi. Però abbiamo scoperto che il marito della signora Yamamoto aveva dilapidato tutti i loro risparmi». Masako finse di stupirsi della notizia, come se la sentisse per la prima volta: «Davvero? E come?» «Secondo le nostre indagini li ha spesi nei bar e nelle sale da gioco. Ora le chiedo di rispondermi schiettamente, dal momento che in fabbrica lei è la persona più in confidenza con la signora Yamamoto: come erano i loro rapporti coniugali?» «Non saprei. Lei non me ne ha mai parlato». «Ma come è possibile? Le donne parlano sempre un sacco e spesso e volentieri si lamentano dei mariti!» incalzò Imai guardandola diffidente. «Dipende dalle persone. Lei non è quel tipo di donna». «Certo. È una magnifica persona. Però dai vicini abbiamo saputo che litigavano spesso e che si facevano sentire fino in strada». «Ah sì?… Questa mi giunge nuova». Era possibile che sapessero anche che quella sera lei era andata da Yayoi? Masako, preoccupata, lo guardò negli occhi. Imai rispose tranquillo allo sguardo, come se la stesse valutando. «Sembra che negli ultimi tempi Yamamoto si fosse dato parecchio da fare – gioco d’azzardo, alcol, donne – e che i suoi rapporti con la moglie non fossero dei migliori. Abbiamo raccolto queste voci nel suo ambiente di lavoro. Lui stesso ne aveva parlato con i colleghi. Aveva detto che ultimamente litigava sempre con la moglie e quindi non tornava mai a casa prima che lei non fosse uscita per andare in fabbrica, e così via. La signora Yamamoto, invece, insiste nel dire che il marito era sempre stato puntuale, tranne che quella notte. È strano, no? Che bisogno ha di mentire su questo punto? Davvero non si è confidata con lei?» «No, non ne so assolutamente nulla». Masako scosse la testa e partì all’attacco: «Allora sospetta
di Yayoi, ispettore?» Immediatamente Imai fece un cenno di diniego e replicò: «Ma no, che cosa va a pensare! Ho solo cercato di mettermi nei panni della signora Yamamoto: al suo posto sarei stato furioso, se avessi dovuto arrabattarmi di notte in fabbrica mentre lui polverizzava tutti i risparmi giocando a baccarat, divertendosi nei bar con altre donne e tornando a casa ogni sera ubriaco. Non mi sarebbe piaciuto dovere raggranellare disperatamente ogni singolo yen per dargli la possibilità di gettare il denaro a piene mani fuori dalla finestra! Tutta la mia fatica non sarebbe servita a niente, mi sarei sentito impotente. Una situazione insopportabile, non trova? Un uomo normale avrebbe preferito avere la moglie a casa, la notte, e non l’avrebbe mandata a fare i turni, ma per Yamamoto tutto questo cadeva a pallino. Perciò sospetto che non andassero d’accordo». «Crede? Non me ne sono mai accorta…» Masako continuò a fingere di non sapere niente, ma dentro di sé ammise cinicamente che Imai aveva colto nel segno. «Dunque la signora Yamamoto è una persona così paziente?» «Sì, credo di sì». Imai alzò gli occhi dall’agendina e la guardò: «Signora Katori, in situazioni come queste una donna di solito non si cerca un amante?» «Dipende dalla persona, e Yama-chan, voglio dire la signora Yamamoto non è di quel tipo». «Allora non frequentava nessun uomo neanche nello stabilimento?» «No, assolutamente», rispose decisa Masako. Finalmente Imai era riuscito ad arrivare al punto. «E fuori dall’ambiente di lavoro?» «Non so». Imai esitò qualche istante prima di dire: «Quella notte cinque dipendenti non si sono presentati: mi dica se fra di loro vi era una persona particolarmente intima della signora Yamamoto». Le mostrò i suoi appunti. All’ultimo posto della lista c’era il nome di Kazuo Miyamori. Il cuore le batté forte, ma scosse la testa e disse: «Non esiste. Lei è una donna seria». «Ah…» «Lei pensa dunque che Yayoi avesse un amante e che costui si sia sbarazzato del marito. È questo che pensa, signor ispettore?» «Che cosa dice! Lei ha troppa fantasia», sorrise Imai. E invece era chiaro dove si stava orientando la fantasia del poliziotto: Yayoi doveva aver avuto un complice, e precisamente un uomo. E quest’uomo l’aveva aiutata a uccidere Kenji e a liberarsi del cadavere. «La signora Yayoi è una buona moglie e una splendida madre. Non posso davvero definirla in altro modo, mi creda», dichiarò Masako pensando che era vero. Proprio perché era una moglie e una madre esemplare aveva potuto aggredire Kenji come una furia e ucciderlo, dopo aver scoperto di essere stata ingannata. Se avesse avuto un amante non si sarebbe comportata in quel modo. Invece le supposizioni di Imai avevano preso la direzione opposta. «Be’, se lo dice lei…» Imai non sembrava ancora convinto e osservava l’agendina con aria insoddisfatta. Masako si alzò, prese dal frigorifero una caraffa con dell’infuso d’orzo e gliene versò un bicchiere. L’agente la ringraziò e lo bevve tutto d’un fiato. Il pomo di Adamo si mosse su e giù. Masako fu costretta a pensare al pomo di Adamo di Nobuki e a quello del morto: lo fissò per qualche istante, poi distolse lentamente lo sguardo. «Devo farle qualche altra domanda di routine: dove si trovava la sera del martedì della scorsa settimana scorsa e che cosa ha fatto mercoledì, dal mattino presto a mezzogiorno circa?» Dopo aver posato il bicchiere sul tavolo, Imai tossicchiò e guardò Masako. «Come sempre sono andata in fabbrica. C’era anche Yayoi. Come al solito ho fatto il turno di notte e sono ritornata a casa alla solita ora».
«Ma lei è arrivata allo stabilimento più tardi del solito, vero?» obiettò Imai cercando nell’agenda. Quindi sapeva anche che quella sera lei era arrivata in fabbrica appena in tempo prima dell’inizio del turno. Non aveva immaginato che avrebbero indagato anche su quei dettagli. Colta di sorpresa si innervosì, ma si sforzò di mantenere la calma e, senza cambiare espressione, rispose: «Può darsi. C’era molto traffico e avrò fatto un po’ tardi». «Ah, già. Certo, da qui ci vuole un’auto per raggiungere Musashi-Murayama. È sua la Corolla posteggiata fuori dalla porta?» «Sì». «La usa qualcun altro in famiglia?» «No, solo io». Aveva pulito il bagagliaio, ma se la scientifica l’avesse esaminato avrebbe potuto trovare qualcosa. Masako accese una sigaretta per nascondere la propria inquietudine. Per fortuna le mani non le tremavano. «Che cosa ha fatto il giorno seguente, dopo la fine del turno?» «Dunque, sono tornata poco prima delle sei, poi ho preparato la colazione che ho mangiato insieme ai miei. Dopo che mio marito e mio figlio sono usciti ho cominciato a fare il bucato e a riordinare. Poco dopo le nove sono andata a dormire – tutto come sempre». «Nel frattempo ha parlato con la signora Yamamoto?» «No, non dopo che ci siamo viste in fabbrica». Improvvisamente risuonò nel soggiorno una voce che mai si sarebbe aspettata di udire: «Ma alla sera non ha chiamato la signora Yamamoto?» Si voltò stupita e vide Nobuki fermo sulla soglia. Le sembrava di avere preso un colpo in testa. Quella mattina non era ancora sceso; lei l’aveva lasciato in pace e nel frattempo si era dimenticata che era ancora in casa. «Chi è?» domandò calmo Imai. «…mio figlio». Imai salutò il ragazzo con un lieve cenno del capo. Poi li guardò entrambi con interesse e chiese: «Circa a che ora ha telefonato la signora Yamamoto?» Masako non rispose: continuava a fissare il figlio attonita. Erano queste dunque le prime parole che doveva sentire dalla bocca di suo figlio dopo quasi un anno! Proprio della telefonata doveva parlare! Non poteva averlo fatto che per vendetta. Ma perché? Che cosa gli aveva fatto? «La telefonata, signora Katori», ripeté Imai, «a che ora circa? Signora Katori?» Masako ritornò in sé: «Mi scusi, era molto tempo che non mi rivolgeva più una parola». Come si accorse che parlavano di lui, Nobuki alzò le spalle contrariato e fece per uscire dalla stanza. «Aspetta, che cosa volevi dire?» «Proprio niente!» brontolò Nobuki e corse fuori sbattendo la porta. «Deve scusarlo per il suo comportamento, ispettore. Da quando è stato espulso dalla scuola non ha più detto una parola in casa», spiegò Masako in tono materno. «Capisco. A quest’età i ragazzi sono difficili. Lo so bene perché ho prestato servizio in un riformatorio». «Era la prima volta che mi parlava, mi ha stupito». «Probabilmente questo caso lo ha scioccato», annuì Imai comprensivo, tuttavia si leccava impaziente le labbra ed era chiaro che non vedeva l’ora di tornare all’argomento principale e sentire il resto della storia. Masako lo assecondò: «Adesso mi ricordo della telefonata: credo che sia stato martedì sera». «Ossia la sera del 20. A che ora circa?» incalzò Imai. «Sicuramente dopo le undici…» rispose Masako fingendo di riflettere. «Mi ha chiesto che cosa doveva fare, perché il marito non era ancora rincasato. Credo di averle detto di stare tranquilla e di
andare a lavorare». «Ma questo doveva succedere spesso! Perché proprio quella notte le ha telefonato?» «Io non so se accadeva spesso. So solo che di solito suo marito tornava prima delle undici e mezza di sera. Ma quella sera era preoccupata perché i bambini facevano i capricci». «E come mai?» «Erano irrequieti e avevano la luna perché il gatto era scappato», improvvisò Masako. Più tardi avrebbe dovuto mettersi d’accordo con Yayoi su questa versione. Era indispensabile che se ne ricordasse. Ma non doveva essere un problema perché la faccenda del gatto era vera. «Ah». Imai era ancora diffidente. In quell’attimo la lavatrice segnalò che il bucato aveva terminato il ciclo. «Che cos’è?» «Solo la lavatrice». «Ah, posso dare un’occhiata al bagno?» chiese tranquillamente Imai e si alzò. Masako si sentì gelare il sangue nelle vene, ma annuì e accennò un sorriso: «Non ho niente in contrario, ma…» «Il mio interesse è di natura strettamente privata. Sa, ho intenzione di ristrutturare la casa e quindi approfitto sempre di tutte le occasioni per vedere come sono sistemati i bagni». «Be’, se è così…» Masako lo guidò al bagno. Imai la seguì osservando attentamente ogni particolare della casa. «È una bella casa. È ancora abbastanza nuova, vero?» «Sì, è stata costruita tre anni fa». «Ah, che bel bagno spazioso! La invidio!» esclamò Imai guardandosi intorno. Sapeva che cosa stava pensando: qui sarebbe senz’altro possibile fare a pezzi un cadavere. Masako doveva stare in guardia. Quando, dopo aver esaminato ben bene il bagno, si stava già infilando le scarpe sformate nell’ingresso, Imai si voltò verso di lei e le chiese: «Suo figlio è sempre in casa?» Nobuki usciva quasi sempre a un’ora fissa per andare a lavorare, ma Masako decise di dire una piccola bugia: «Va e viene quando vuole». «Davvero?» Imai sembrò deluso e si mordicchiò il labbro, ma si riprese subito e si accomiatò giovialmente: «Mi scusi ancora per il disturbo». Dopo che se ne fu andato, Masako salì in camera di Nobuki, da dove si poteva vedere la strada di fronte alla casa. Spiò da dietro le tendine di pizzo. Come si era aspettata Imai era ancora lì, fermo sul terrapieno del cantiere, e osservava la casa. No, non la casa, bensì la sua vecchia Corolla. Aspettò fino a quando se ne fu andato e poi telefonò subito a Yayoi. Non la aveva più chiamata dal giorno in cui la notizia era apparsa sui giornali. «Pronto», rispose una voce sommessa. Era Yayoi. Masako sospirò di sollievo. «Sono io, posso parlarti?» «Ah, Masako!» esclamò contenta Yayoi. «Parla liberamente. Sono sola in casa». «E i parenti di tuo marito, e tua madre?» «Mia suocera è andata alla polizia per fare la sua deposizione. Mio cognato è già tornato al paese e mia madre è uscita a fare la spesa». Sembrava sollevata e senza preoccupazioni, come se fosse ritornata nel seno protettivo della famiglia. «Allora non sei sotto sorveglianza?» «Macché, la polizia non si fa più vedere – strano, no?» rispose serenamente Yayoi. Sembrava quasi che quella storia non la riguardasse più. «Hanno trovato la sua giacca in una sala da gioco di Kabuki-cho, e adesso, a quanto pare, le indagini si sono spostate lì». La si poteva considerare una fortuna nella sventura. Masako si tranquillizzò, pur continuando a nutrire qualche inquietudine nei confronti di Imai. «Sta’ attenta all’ispettore Imai».
«Ah sì, quello giovane e alto, vero! So chi vuoi dire. Ma mi è sembrato carino!» «Carino!» esclamò Masako sconcertata. «Nella polizia criminale non ci sono persone “carine”!» «Davvero? Ma sembrano tutti provare compassione per me». Un po’ alla volta la spensieratezza sventata di Yayoi la stava facendo infuriare. «Ascolta: sanno che quella sera mi hai telefonato. Ho spiegato loro che i bambini erano irrequieti perché era sparito il gatto». «Che bella idea!» ridacchiò Yayoi. Sembrava essersi completamente dimenticata di essere stata lei a uccidere Kenji. Solo a sentirla a Masako venne la pelle d’oca. «Sta’ molto attenta a non contraddire la mia versione, hai capito?» «Ho capito. Ma sembra che vada tutto benissimo, io non mi preoccupo». «Cerca di non fare la spavalda!» «Sì, va bene. Sai, dopodomani arriveranno quelli della televisione». «Poco dopo il funerale?» «Sì. Ho cercato di rifiutare, ma erano così insistenti, sai, e alla fine ho detto di sì». «Sei impazzita? Lascia perdere! Ti potrà vedere chiunque!» la rimproverò Masako. «Io non avrei voluto. Ma ha risposto mia madre e loro l’hanno convinta. Hanno assicurato che basteranno tre minuti». Masako non aveva più parole e tacque depressa. Avrebbe dovuto costringerla ad aiutarle a fare a pezzi il morto. Ormai sembrava che avesse rimosso anche il fatto che era lei l’assassina! Ma al momento, anche con la migliore volontà, Masako non riusciva a capire se l’atteggiamento di Yayoi, l’indiziata principale, nei confronti del mondo esterno fosse un bene o un male. Era ancora sconvolta dal tradimento di Nobuki. Non avrebbe mai immaginato che dopo un anno di silenzio avrebbe aperto bocca per fare una spiata! Evidentemente non poteva perdonarla di avere un po’ alla volta rinunciato a ridurre la distanza tra loro e di essersi limitata al ruolo di spettatrice passiva. Si era sempre impegnata con tutte le sue forze sia nel lavoro che in famiglia. Ma se era vero che suo figlio non poteva perdonarla, in che cosa aveva sbagliato secondo lui? Non aveva mai chiesto di avere qualcosa in cambio, non aveva mai sperato nella sua gratitudine, ma il suo tradimento l’aveva colpita a morte. Masako era così sconvolta che dovette sorreggersi allo schienale del divano. Le dita affondarono nella morbida stoffa di lana. In lei ruggiva un dolore irrefrenabile che cercava uno sfogo: avrebbe voluto strappare a pezzi quel tessuto. Soffocò i singhiozzi e chiuse gli occhi. La lavatrice aveva continuato a girare senza che vi avesse introdotto la biancheria, aveva lavorato a vuoto, come lei quando era impiegata alla cassa di credito. Evidentemente anche a casa non era stato diverso. Che significato aveva dunque la sua vita? Per che cosa si era impegnata, per che cosa aveva faticato, per che cosa era vissuta? Si sentì logorata, priva di una meta, e dai suoi occhi traboccarono le lacrime. Non riusciva più ad andare avanti. Forse proprio per questo aveva scelto di lavorare di notte. Dormire di giorno e lavorare di notte. Faticare fino a esaurire tutte le forze, per non pensare a nulla. Vivere all’opposto della sua famiglia. Ma tutto ciò non aveva fatto che aumentare la sua rabbia e la sua tristezza. Nessuno, né Yoshiki né Nobuki, avrebbe più potuto salvarla. Forse proprio per questo aveva oltrepassato il confine, perché era talmente disperata che voleva solo un mondo diverso. Improvvisamente capì quello che fino ad allora non le era stato chiaro: perché aveva aiutato Yayoi. Ma cosa la aspettava in quel mondo, oltre gli usuali confini? Nulla. Masako contemplò le sue dita, diventate ormai bianche, ancora aggrappate alla stoffa del divano. Venisse pure la polizia ad arrestarla, riuscissero pure a capire il movente che l’aveva indotta ad aiutare Yayoi, ormai nulla poteva più toccarla. Sentiva diverse porte che si chiudevano sbattendo alle sue spalle.
Masako era rimasta sola con la sua solitudine.
5. Asciugandosi di quando in quando il sudore dalla fronte, Imai stava percorrendo una stradina che aveva tutta l’aria di essere stata un sentiero tra i campi. Si trovava in un quartiere di vecchie casette che parevano essere state dimenticate dalla moderna urbanizzazione. Sui tetti scuri la lamiera ossidata era staccata qua e là, le zanzariere erano sbrindellate e le grondaie arrugginite; dovevano essere passati più di trent’anni dalla loro costruzione. Tutte, senza eccezione, erano baracche di legno ormai cadenti, e sarebbe bastato un fiammifero a trasformarle in un rogo furioso. Kinugasa, il suo collega, si era trasferito temporaneamente dalla sede principale al distretto di Shinjuku e teneva sotto tiro quello che credeva essere l’assassino, il proprietario della sala da gioco e del night-club di Kabuki-cho dove, secondo gli accertamenti, si era recato Kenji Yamamoto il giorno della sua scomparsa. Ma Imai aveva deciso di separarsi da Kinugasa e di proseguire le indagini per conto proprio. Non appena aveva saputo dei precedenti penali del proprietario della sala da gioco, Kinugasa si era subito convinto, ma così non era stato per Imai. Qualcosa nel comportamento di Yayoi lo disturbava, lei non lo persuadeva. Era una sorta di intuizione che difficilmente avrebbe potuto spiegare a parole. Aveva la sensazione che stesse tentando disperatamente di nascondere qualcosa che stava al centro di tutta la faccenda. Quel pensiero non gli dava pace. Si fermò in mezzo alla stradina, prese l’agenda e si mise a rileggere gli appunti dall’inizio. Alcuni studenti con i capelli bagnati – evidentemente tornavano dalla piscina – gli passarono davanti guardandolo con curiosità. Immaginiamo che Yayoi abbia ucciso il marito. Continuavano a litigare, dunque ci sarebbe stato un ottimo movente. Potrebbe capitare a tutti di uccidere in preda a un raptus. Ma Yayoi era una donna minuta, persino più piccola del normale. Le sarebbe stato difficile uccidere il marito senza procurarsi delle ferite, a meno che non stesse dormendo o non fosse ubriaco fradicio. Se Kenji era rimasto a Shinjuku fino alle dieci e poi, uscito dal locale, era tornato direttamente a casa, doveva essere arrivato non prima delle undici. E in un’ora gli effetti dell’alcol dovevano essersi almeno in parte attenuati. Inoltre, se ci fosse stata una lite così feroce da avere un esito mortale, i vicini avrebbero sicuramente sentito qualcosa e i bambini si sarebbero svegliati. Nessuno aveva visto Kenji Yamamoto né in treno, né alla stazione di Seibu-Shinjuku. Perché improvvisamente a Shinjuku si perdeva ogni sua traccia? Ammesso che Yayoi fosse riuscita a uccidere il marito e poi fosse andata al lavoro come se niente fosse, chi allora si era occupato del cadavere? Il bagno degli Yamamoto era troppo piccolo, e d’altronde i sopralluoghi della scientifica avevano avuto esito negativo. Era possibile che una collega avesse avuto compassione di lei e l’avesse aiutata a eliminare il cadavere. Anche una donna, in fondo, ne sarebbe stata capace. Contro ogni aspettativa, non era poi così raro, nei casi in cui l’omicida faceva a pezzi il cadavere, che proprio le donne fossero le colpevoli. Imai aveva studiato gli atti e le analisi di casi precedenti; quelli in cui gli assassini erano donne avevano due fattori in comune: l’improvvisazione e la solidarietà. Per una donna che uccide in preda a un raptus la cosa più difficile è eliminare il cadavere, perché in genere non è fisicamente in grado di trasportare da sola un corpo senza vita. Perciò spesso la sola alternativa che le rimane è farlo a pezzi. Mentre gli uomini fanno a pezzi le loro vittime per renderne più difficile il riconoscimento o per un gusto del macabro, le donne agiscono così semplicemente perché non riescono a trasportarlo. E questo dimostra che si tratta generalmente di un delitto provocato da un raptus. Per esempio nel caso dell’estetista di Fukuoka, era stata una donna a ucciderla e a farla a pezzi. Dopo il delitto si era accorta che non avrebbe potuto trasportare il corpo e allora lo aveva smembrato ed eliminato un pezzo alla volta.
Inoltre le donne, quando la situazione in cui vivono è simile a quella dell’assassina, facilmente scivolano dalla compassione alla complicità. Ad esempio una donna aveva ucciso il marito che si ubriacava e la picchiava ed era corsa a piangere dalla madre. Questa aveva avuto compassione – era la fine che si meritava! – e l’aveva aiutata a fare a pezzi il cadavere. In un altro caso due amiche avevano ucciso insieme un poco di buono, una specie di ruffiano che tormentava una di loro, l’avevano dissezionato e ne avevano gettato i resti nel fiume. Dopo la cattura avevano confessato tranquillamente che credevano di avere fatto una buona azione. Ogni giorno le donne cucinano, sono dunque più abituate degli uomini ad avere a che fare con il sangue e la carne. Hanno confidenza con i coltelli e sanno come eliminare i rifiuti. Inoltre sono capaci di avere nervi di acciaio, perché quando partoriscono hanno un’esperienza che le avvicina al confine tra la vita e la morte. Sua moglie era un ottimo esempio, pensava Imai, ed era assolutamente serio. Supponiamo ancora che sia stata Masako Katori a occuparsi del cadavere. Imai ripensò all’espressione calma e intelligente di Masako e al grande bagno di casa sua. Aveva la patente e un’automobile, ed era molto strano che Yayoi le avesse telefonato proprio quella notte. Immaginiamo che Yayoi abbia ucciso il marito e abbia telefonato a Masako per chiederle aiuto. Masako, prima di recarsi al lavoro, poteva essere andata a casa di Yayoi e aver nascosto il cadavere nella sua auto. Poi, però, erano andate entrambe a lavorare come se non fosse successo niente. E se non fosse stata solo Masako ad aiutare Yayoi? Anche le altre due – Yoshie Azuma e Kuniko Jonouchi – con le quali in apparenza avevano buoni rapporti, si erano presentate al lavoro come al solito. No, sarebbe stato troppo – troppo temerario, e inoltre un progetto troppo elaborato… Imai ripensò ai casi di omicidio con smembramento di cadavere in cui erano state coinvolte delle donne e alla loro caratteristica, l’“improvvisazione”. Scosse cogitabondo la testa. Yayoi aveva dichiarato che il mattino seguente era tornata a casa e vi era rimasta tutto il giorno. E questo corrispondeva a quanto avevano testimoniato i vicini. Perciò era difficile presumere che lei avesse partecipato allo smembramento del cadavere. Ma era possibile che Masako avesse trasportato a casa sua il cadavere di Kenji Yamamoto e lo avesse ridotto a pezzi da sola o con l’aiuto delle altre due? Mentre l’assassina, Yayoi, se ne stava comodamente seduta a casa? Quale motivo avevano Masako e le altre per fare una cosa del genere per lei? Era possibile che avessero sviluppato un odio così feroce nei confronti del marito della compagna? No, si era spinto troppo oltre, era semplicemente impensabile che una donna razionale come Masako prendesse anche solo in considerazione l’eventualità di affrontare un simile rischio. E poi la “solidarietà femminile” nel caso di Yayoi e Masako era piuttosto improbabile. Le loro vite erano troppo diverse. Anzitutto le separavano l’età e la condizione sociale. Yayoi era giovane, i bambini erano ancora piccoli e si dibatteva in una situazione economica difficile. Al contrario la situazione economica di Masako sembrava, se non decisamente agiata, almeno stabile, al punto che era lecito domandarsi come mai avesse scelto di fare i turni di notte. Il marito era impiegato in un’impresa piuttosto importante, e vivevano in una casa nuova, di loro proprietà. Imai, che viveva ancora con tutti i figli in un piccolo appartamento assegnatogli dal governo, la invidiava un po’. Poteva darsi che il figlio le procurasse qualche problema, ma aveva già diciassette anni e, per quanto riguardava la scuola, il peggio sembrava ormai passato. Anche senza il turno di notte Masako avrebbe potuto vivere senza preoccupazioni. Inoltre le dichiarazioni che aveva raccolto concordavano su un punto: le due donne si frequentavano soltanto sul posto di lavoro. Di che cosa si trattava, allora? Di soldi? Imai si ricordò dell’espressione di Masako quando aveva parlato delle misere retribuzioni del lavoro part-time. Era proprio furiosa, o almeno a lui aveva fatto questa impressione. Forse Yayoi la aveva allettata con una promessa di denaro. Non era un’ipotesi da escludere del tutto. Magari le aveva detto: «Pensa tu a sistemare il cadavere, perché io
devo costruirmi un alibi, e non ti preoccupare, ti pagherò il disturbo». E allo stesso modo potrebbero essere state coinvolte anche Yoshie Azuma e Kuniko Jonouchi. Ma Yayoi non sembrava disporre di grandi somme di danaro. O forse aveva intenzione di pagarle con il premio dell’assicurazione? Aveva saputo che Yayoi era in attesa di una somma piuttosto cospicua. Forse si era davvero riproposta di pagare Masako e le altre con il premio dell’assicurazione. Ma allora non avrebbe avuto senso dissezionare il cadavere e renderlo irriconoscibile, perché l’identificazione doveva avvenire il più velocemente possibile. Imai continuava a cozzare contro qualche problema. E anche per quanto riguardava il movente la sua teoria continuava a infilarsi in un vicolo cieco. Gli tornò alla mente la forte reazione di Yayoi alla vista delle foto del cadavere. Non era stata una recita, la sua, era veramente emozionata, inorridita e spaventata. No, sicuramente non era stata lei a fare a pezzi il marito. Quella notte la Corolla rossa di Masako non era stata vista nei dintorni della casa degli Yamamoto e neppure nelle vicinanze del parco di Koganei dove erano stati abbandonati i sacchi contenenti i resti del cadavere. Imai dovette, suo malgrado, rinunciare alla tesi che Yayoi avesse ucciso il marito e avesse chiesto aiuto a Masako, oppure che Masako o una delle sue compagne avesse di propria iniziativa ridotto a pezzi il cadavere. Poi incominciò a riflettere sull’idea che Yayoi potesse avere avuto come complice un uomo. Non si poteva escludere – Yayoi era una donna molto bella. Ma non c’era nessun indizio che supportasse questa ipotesi. Imai lesse ancora una volta alcuni appunti sottolineati con l’evidenziatore. Li aveva presi quando aveva interrogato i vicini di casa, e gli erano sembrati particolarmente interessanti. I coniugi Yamamoto litigavano di continuo. Non dormivano nella stessa camera. Il bambino più grande aveva dichiarato che quella notte il padre era tornato a casa (ma Yayoi continuava a negare e diceva che il bambino aveva sicuramente fatto un sogno). E da quella notte il gatto degli Yamamoto era sparito… «Il gatto…» ripeté mentalmente, e si guardò intorno. In un angolo del giardino di una casetta diroccata, fra i cespugli di enotere, era accovacciato un gatto tigrato marrone. Lo fissò negli occhi gialli. Forse quella notte il gatto di casa Yamamoto aveva visto qualcosa che lo aveva talmente spaventato da farlo scappare per sempre. Ma purtroppo non si poteva interrogare un gatto, sorrise amaramente Imai. Dio se era caldo! Imai si deterse il sudore dal viso con il fazzoletto spiegazzato e si rimise in marcia. Dopo pochi passi trovò uno di quei negozi di dolciumi all’antica, si comprò una lattina di tè Oolong freddo e la svuotò tutto d’un fiato. Il proprietario, un grassone di mezza età, teneva gli occhi fissi sullo schermo di un televisore portatile. Imai gli chiese: «Sa dirmi dov’è la casa della signora Azuma?» L’uomo gli indicò una casa all’angolo. «Grazie. Mi hanno detto che la signora è vedova…» «Sì. Ha perso il marito qualche anno fa. Poverina, deve occuparsi della suocera costretta a letto. E poi anche del nipotino. Anche oggi è venuta a comprare dei dolciumi». «Ah sì?» In quel caso non avrebbe avuto tempo di occuparsi del cadavere. Imai intuì che la sua teoria si stava sciogliendo come neve al sole. «Permesso, c’è qualcuno in casa?» Imai aprì la porta della casa di Yoshie e venne immediatamente investito da un odore di escrementi che lo fece indietreggiare. Dall’ingresso col pavimento in cemento poteva vedere la stanza più interna della piccola casa, dove Yoshie stava pulendo la vecchia malata. «Oh, mi scusi!»
«Chi è lei?» «Mi chiamo Imai, del distretto di polizia di Musashi-Yamato». «Ah, l’ispettore della polizia criminale? Torni più tardi. Adesso, come vede, ho altro per le mani!» Sentendosi in qualche modo rimbrottato, Imai si domandò se davvero non fosse meglio rimandare tutto a un’altra volta. Ma aveva faticato per arrivare fino a lì e insistette: «Allora, per favore, continui pure e parliamoci così». «Come vuole, per me sta bene». Yoshie si voltò seccata. Aveva i capelli scompigliati ed era sudata. «Non sente che puzza?» «Non si preoccupi. Sono io che devo scusarmi perché la disturbo mentre è così impegnata». «Che cosa vuole sapere? Si tratta di Yama-chan?» «Esatto. Mi hanno detto che siete amiche». «Amiche? Non direi. In fondo è molto più giovane di me», e così dicendo sollevò le gambe della vecchia e incominciò a pulirle il didietro con la carta igienica. Imai, imbarazzato, distolse gli occhi e guardò il pavimento dove vide, vicino alla porta, un paio di scarpine da ginnastica stampate con le figurine dei cartoni animati. Allora si accorse del bambino seduto a terra, intento a bere un succo di frutta, nella piccola cucina buia alla sua destra. Nel locale c’erano solo un lavello e il fornello a gas. Assolutamente impossibile trasportare un cadavere e ridurlo a pezzi in un ambiente così angusto! E ovviamente sarebbe stato inutile fare un sopralluogo nel bagno. «Negli ultimi tempi non ha notato nulla di strano nella signora Yamamoto?» «Le dico di no, io non so niente». Yoshie aveva finito di pulire la suocera e le stava mettendo il pannolone. «Ah, allora mi dica la sua opinione sulla signora Yamamoto». «È una che si prodiga», sparò Yoshie, «sì, una che dà il meglio di se stessa, e proprio per questo mi dispiace che abbia perso il marito in quel modo». La voce di Yoshie tremava un po’, ma Imai ne attribuì la causa al lavoro faticoso che stava facendo. «Ho saputo che il giorno prima, in fabbrica, la signora Yamamoto è caduta». «È bene informato», rispose Yoshie guardandolo in faccia. «È scivolata sulla salsa delle cotolette di maiale». «Ma ci sarà stato qualche motivo, no? Forse era preoccupata». «Figuriamoci! In fabbrica capita a tutte di scivolare!» replicò Yoshie visibilmente seccata e si alzò per andare a gettare il pannolone sporco. Lo lasciò semplicemente accanto alla soglia della cucina dove giocava il bambino. Raddrizzò la schiena e si girò verso Imai: «E adesso, cosa vuole sapere ancora?» «Mi dica che cosa ha fatto lei, signora Azuma, mercoledì mattina». «Quello che faccio ogni mattina, l’ha visto anche lei, no?» «E poi?» «Le stesse cose che farò oggi». Imai ringraziò e se ne andò in fretta, contento di potersi lasciare alle spalle quella casa. Era ancora frastornato dallo spettacolo della fatica che quella donna si assumeva accudendo, dopo avere lavorato tutta la notte, una vecchia malata. Quando Kinugasa l’aveva interrogata allo stabilimento, Yoshie gli era sembrata ansiosa, anche un po’ reticente, e Imai si era insospettito, ma ovviamente si trattava di un equivoco. Adesso gli rimaneva da far visita a Kuniko Jonouchi, l’ultima compagna di lavoro di Yayoi da controllare. Ma ormai era stanco. Tornò nel negozio di dolciumi e si fece dare un’altra lattina di tè. «Ha trovato la signora Azuma?» gli chiese il proprietario. «Sì. Aveva molto da fare. Che lei sappia, la signora Azuma è uscita mercoledì della settimana
scorsa?» «Mercoledì?» Imai vide balenare la diffidenza nei suoi occhi e si affrettò a mostrargli la tessera: «Si tratta di questo: la signora è una compagna di lavoro della vedova dell’uomo che è stato ritrovato a pezzi». «Ah, quella storia!» Immediatamente gli occhi del negoziante brillarono di interesse. «Una gran brutta cosa, davvero, ne ho già sentito parlare. Ha ragione, la moglie della vittima lavora nello stabilimento delle colazioni!» «E che cosa ha fatto mercoledì la signora Azuma?» «Che cosa vuole che abbia fatto, imprigionata com’è in quella casa», rispose l’uomo, curioso di sapere il motivo di quell’interesse, ma Imai se ne andò senza dire altro. Per strada si fermò a un chiosco davanti alla stazione di Higashi-Yamato e mangiò un piatto freddo. Quando arrivò a casa di Kuniko era già pomeriggio avanzato. Suonò al citofono ma nessuno rispose. Suonò ancora un paio di volte. Niente. Stava già per andarsene rassegnato quando una voce sgarbata di donna domandò: «Chi è?» Imai disse il proprio nome. Subito la porta si aprì e apparve la faccia imbronciata di Kuniko. Era evidente che stava dormendo. «Scusi se la disturbo proprio adesso». Kuniko distolse lo sguardo e si mise a guardare per terra: sembrava spaventata dalla sua visita improvvisa. Imai, che trovava interessante quell’atteggiamento, incominciò a guardarsi intorno curioso. «Dorme sempre a quest’ora?» «Sì, in fondo lavoro tutta la notte». «Suppongo che suo marito adesso sia a lavorare». «Ah, be’…» brontolò Kuniko evasiva. «Dove lavora?» la incalzò immediatamente Imai, cercando di sfruttare il momento prima che lei potesse rendersi conto dell’interrogatorio. In tal modo, in genere, si arrivava presto alla verità. «In realtà si è licenziato. E ora viviamo separati». «Separati?» Il suo istinto di poliziotto incominciava ad attivarsi. Ma non sembrava che quel particolare potesse avere qualche relazione con Yayoi. «Posso chiedere perché?» «Perché, perché! Semplicemente perché non funzionava più!» Kuniko afferrò la borsetta e tirò fuori un pacchetto di sigarette.I seni, evidentemente non sostenuti dal reggipetto, le dondolavano sotto la maglietta. Imai si guardò intorno e vide il letto in disordine. Guardando Kuniko ficcarsi la sigaretta in un angolo della bocca, pensò che qualsiasi uomo si sarebbe sentito depresso all’idea di vivere con un tipo di quel genere. «Mi hanno detto che è amica della signora Yamamoto, perciò vorrei farle alcune domande». «Non siamo così amiche», rispose lei senza guardarlo. «Davvero? Eppure anche in fabbrica lavorate sempre insieme, voi quattro». «Sì, in fabbrica. Ma lei ha un po’ la puzza sotto il naso, ha un bel faccino ed è vanitosa. No, i nostri rapporti non sono poi così buoni». «Ah, capisco». Kuniko era invidiosa e maligna. Ma era possibile che non sentisse un po’ di compassione per Yayoi? Che era pur sempre la moglie della vittima e che ora si trovava in una situazione così terribile? Come mai sia Yoshie che Kuniko si ostinavano a dichiarare di non avere rapporti particolarmente amichevoli con la collega? Questo gli sembrava strano e continuava ad alimentargli qualche dubbio. Da quanto aveva appreso allo stabilimento quelle quattro donne stavano sempre insieme, e anche dopo il lavoro bevevano insieme il tè e facevano quattro chiacchiere prima di andare a casa. E poi Imai sapeva che di solito, in quei casi, la gente mostrava una compassione persino
esagerata per la persona coinvolta nella disgrazia. «E quindi al di fuori dell’orario di lavoro non aveva a che fare con la signora Yamamoto?» «No, praticamente mai», rispose seccamente Kuniko, poi si alzò, andò al frigorifero, prese una bottiglia di acqua minerale e si riempì il bicchiere. «Ne vuole anche lei? Comunque è acqua di rubinetto». «No, grazie». Quando Kuniko aveva aperto il frigorifero Imai vi aveva lanciato una rapida occhiata. Era perfettamente vuoto, come il frigorifero di uno scapolo. Non c’erano avanzi di cibo né di bevande, neppure una lattina d’aranciata. Dunque in quella casa non si cucinava? La cosa gli sembrava strana. Lo stupiva anche il fatto che Kuniko indossasse abiti e accessori che dovevano essere abbastanza costosi, ma in giro non si vedeva né un CD né un libro e nel complesso l’appartamento era piuttosto misero. «Lei non cucina?» domandò Imai guardando le scatole vuote delle colazioni impilate in un angolo della stanza. «No, per carità, detesto cucinare!» sbottò Kuniko facendo una smorfia, ma già un secondo più tardi sembrò vergognarsi di quanto aveva detto. «Ah, così? Bene, signora Jonouchi, torniamo al caso che ci interessa: lei la notte di mercoledì non è andata a lavorare. Potrei sapere perché?» «Mercoledì?» domandò Kuniko spaventata, portandosi al petto la mano grassoccia. «La notte precedente, ossia la notte di martedì, il marito della signora Yamamoto è sparito senza lasciare tracce, e venerdì è stato ritrovato a pezzi. Lei, signora Jonouchi, mercoledì notte era assente dal lavoro. Io, secondo la routine, sono costretto a chiederle perché». Kuniko annaspò in cerca di una spiegazione: «Non stavo bene. Sì, in effetti avevo mal di stomaco e non ce l’ho fatta ad andare a lavorare». Dopo averle concesso una breve pausa di riflessione, Imai continuò: «La signora Yamamoto ha una relazione con un altro uomo?» «Chissà!» sospirò Kuniko stringendosi nelle spalle. «Non so, ma credo di no». «E la signora Katori?» «La signora Katori?» ripeté Kuniko in falsetto. Evidentemente non si aspettava di udire quel nome. «Sì, Masako Katori». «Come se quella potesse avere un amante! Di lei uno può avere soltanto paura!» «Paura?» «Be’, insomma…» Kuniko tacque, come se non riuscisse a trovare altre parole per definire quello stato d’animo. Anche Imai rimase in silenzio, avendo intuito che la donna aveva detto la verità. Ma perché Masako incuteva timore? Il poliziotto inclinò la testa perplesso. «A ogni modo non starò ancora tanto a lungo in quella fabbrica. L’omicidio, il cadavere fatto a pezzi… a uno viene paura di essere perseguitato anche lui dalla sfortuna!» proseguì Kuniko cercando di cambiare discorso. Imai annuì. «Già, capisco. Allora sta cercando un altro lavoro?» «Sì, ma questa volta vorrei assolutamente lavorare di giorno, e non in un posto così orrendo, dove fra l’altro si aggira quel maniaco… È anche troppo pericoloso, non crede?» «Maniaco?» Era la prima volta che ne sentiva parlare. Imai aprì l’agendina. «E si aggira intorno allo stabilimento?» «Si aggira! Come se si trattasse di un fantasma… che orrore!» Cambiato argomento, Kuniko sembrava di nuovo nel proprio elemento. «Non credo che abbia nulla a che fare con il delitto, a ogni modo mi dica esattamente quello che sa».
E Kuniko incominciò a raccontare in ogni dettaglio tutto quello che sapeva del maniaco che aveva incominciato a presentarsi all’inizio di aprile. Mentre prendeva nota, Imai continuava a riflettere sui disagi del lavoro notturno per delle donne. Quando uscì dal condominio, i lunghi raggi del sole del pomeriggio ardevano inesorabili sull’asfalto del posteggio. Pensando alla fatica che lo aspettava – camminare nella canicola fino alla fermata dell’autobus e stare lì ad aspettarlo – Imai sospirò. Per caso il suo sguardo scivolò sulle automobili di tutti i colori parcheggiate sulle piazzole, tra le quali spiccava una Golf cabriolet verde scuro, la più appariscente. Chissà di chi era? Imai cercò di immaginarsi il proprietario, ma mai gli sarebbe venuto in mente che quella era l’amatissima auto di Kuniko, la stessa che viveva in quell’appartamento miserabile. Tutto da ricominciare. Quel giorno avrebbe dovuto interrogare ancora i cinque operai che avevano fatto il turno di riposo martedì notte, ma decise di rimandare all’indomani. Dal momento, però, che la sua teoria si era rivelata priva di fondamento, gli sarebbe toccato continuare a seguire le indagini di Kinugasa e sottostare ai suoi ordini. Imai, di cattivo umore, continuò a camminare sotto il sole cocente. Dopo pochi passi incominciò a sudare e la camicia gli si incollò alla schiena.
6. I giorni della canicola sembravano essere arrivati. A braccia conserte Mitsuyoshi Satake spiava dalla tapparella del suo appartamento al primo piano le chiazze abbaglianti illuminate dal sole e le macchie d’ombra scurissime, quasi nere. La luce estiva del mezzogiorno tagliava in due la città. Le foglie degli alberi e dei cespugli ai lati della strada, brillanti sul lato superiore, oscure di sotto. I passanti e la loro ombra. Le strisce bianche dei passaggi pedonali sembravano essersi sciolte. Pensò alla sensazione fastidiosa che si prova quando i tacchi affondano nell’asfalto molle surriscaldato dal sole e deglutì. A un paio di isolati si vedeva il gruppo dei grattacieli a ovest della stazione di Shinjuku. Nelle strisce di cielo azzurro ritagliate dagli edifici non si vedeva una sola nuvola. Ovunque si guardasse si restava abbagliati. Satake chiuse istintivamente gli occhi ma l’immagine dell’estate, impressa a fuoco sulle sue retine, stentava a svanire. Chiuse accuratamente le tapparelle, in modo che non filtrasse un raggio di luce, e si girò. A poco a poco gli occhi si abituarono di nuovo alla penombra dell’appartamento – due stanze da sei tatami separate da una porta scorrevole di carta ingiallita. Al centro di una delle due stanze, rinfrescata dall’aria condizionata, un televisore mandava i suoi bagliori azzurri. Non c’erano altri mobili. Accanto all’entrata vi era anche una piccola cucina senza pentole e piatti, dal momento che lui non cucinava mai. Questa era l’abitazione di Satake – spartana, quasi povera – che mal si accordava con l’immagine appariscente con cui amava presentarsi in pubblico. Quando era in casa il suo abbigliamento si adeguava all’atmosfera – camicia bianca e pantaloni grigi sformati alle ginocchia. Ecco il suo vero volto. Da questo si poteva capire quanto fosse diffidente nei confronti del mondo esterno, appena fuori dalla porta, e quanto il personaggio di Mitsuyoshi Satake, proprietario di un night club e di una sala da gioco, fosse solo un ruolo che era costretto a recitare. Si rimboccò le maniche della camicia e si lavò viso e mani sotto l’acqua corrente. Anche l’acqua era calda. Si asciugò e si accoccolò davanti al grande schermo del televisore. Proiettavano un vecchio film americano doppiato. Soprappensiero si passò un paio di volte le mani tra i capelli corti, poi distolse lo sguardo dal video. Non voleva vedere la televisione. Voleva solo tuffarsi in quella assurda luce artificiale. Satake odiava l’estate. Non che soffrisse terribilmente il caldo, semplicemente detestava l’atmosfera estiva che si insinuava fino dentro ai vicoli della metropoli. Era in quella stessa atmosfera che si erano svolti i due fatti che avevano improntato la sua vita: durante le vacanze estive, al secondo anno di liceo, aveva dato a suo padre un pugno così forte da rompergli il mento ed era fuggito di casa; e anche l’altro episodio di violenza, che lo avrebbe cambiato per sempre, era accaduto in agosto, dentro una stanza, nel ronzio continuo del condizionatore. Avvolto dall’atmosfera della città soffocante per i gas di scarico e le esalazioni, non riusciva più a distinguere l’esterno e l’interno di se stesso. L’aria corrotta della strada penetrava nei suoi pori e lo insudiciava, e dentro di lui le emozioni si gonfiavano e strisciavano fuori dal suo corpo fino a traboccare nella strada. Aveva il terrore di essere contagiato da quella città vorace e dissoluta – da Tokyo nel colmo dell’estate. Perciò sarebbe stato meglio allontanare da sé quell’estate, prima che si impadronisse di lui con tutto il calore vomitato sulle strade dai condizionatori. Il periodo delle piogge era finito, l’estate vera e propria era cominciata, e queste erano le ragioni del suo singolare stato d’animo. Doveva sbrigarsi a chiudere fuori dal suo appartamento la calura ardente della metropoli. Satake si alzò. Entrò nella camera accanto e aprì la finestra. Chiuse in fretta le imposte prima
che il calore puzzolente dei gas di scarico e il frastuono potessero entrare. Immediatamente il buio invase la stanza. Sollevato si lasciò cadere sui tatami ingialliti. Nella camera c’erano solo un armadio per gli abiti e un futon ripiegato con cura, con gli angoli perfettamente perpendicolari, come se fossero stati tracciati con una squadra da disegno. Se qualcuno che conosceva la sua storia avesse potuto vedere, probabilmente avrebbe pensato che Satake aveva arredato la sua casa come una cella. Ma ovviamente in carcere non ci sono televisori. Quando era in prigione non era stato soltanto il ricordo della donna uccisa a tormentare Satake. Anche l’angusto spazio quadrato della cella aveva fatto la sua parte. Perciò finora aveva preferito evitare gli spazi ermeticamente chiusi dei palazzi di cemento, e aveva scelto una vecchia casa di legno. E questo era anche il motivo per cui il televisore rimaneva sempre acceso – come una porta sempre aperta sul mondo esterno. Tornò nella camera col televisore e sedette di nuovo davanti al video. Poiché in quella stanza non c’erano imposte, non si poteva evitare che dalle fessure delle tapparelle penetrasse un po’ di luce. Satake abbassò il volume dell’apparecchio. Ormai si poteva sentire solo il rombo lontano del traffico della circonvallazione di Yamate, non molto distante, e il fruscio del condizionatore. Accese una sigaretta, facendo una smorfia perché il fumo gli era entrato negli occhi, e si mise a guardare distrattamente lo schermo. Avevano appena incominciato a trasmettere un’inchiesta giornalistica. Il moderatore teneva in mano un grafico e lo spiegava – era un reportage sul cadavere trovato a pezzi in un parco la settimana prima. Satake, che non aveva alcun interesse per il programma, si prese la testa fra le mani come se volesse allontanare tutto quel tumulto proveniente dal mondo esterno. Proprio in quel momento squillò il portatile posato sul pavimento. «Sì, pronto». Esitante e a voce bassa Satake rispose al richiamo di quell’altro aggeggio che lo manteneva in relazione con il mondo esterno. In giorni come questo, quando gli ritornava in mente il passato che credeva di avere seppellito con tanta cura, avrebbe preferito non avere a che fare con il mondo di fuori, ma d’altra parte ne aveva assolutamente bisogno per potersi distogliere da quei pensieri. Odiava la metropoli nel cuore dell’estate, ma poteva vivere solo lì. «O-nii-chan, sono io». Anna. Satake guardò il Rolex che sfoggiava al polso. L’una in punto. La routine quotidiana lo richiamava all’ordine. Indeciso se fosse proprio necessario uscire di casa con quella canicola, rispose: «Che cosa c’è? Devi andare dal parrucchiere?» «No, pensavo, è così caldo, non potremmo andare in piscina…?» «…piscina? Adesso?» «Sì, dai, andiamo per favore!» Aveva un vago ricordo dell’odore di cloro, del profumo muschiato dell’olio solare e della brezza asciutta e fresca che spirava vicino alla vasca. Non era il tipo d’estate che avrebbe voluto evitare a qualsiasi costo, ma quel giorno proprio non se la sentiva. Gli serviva ancora un po’ di tempo per abituarsi all’estate. «Non è troppo tardi? Potresti andarci nel giorno di riposo». «Ma la domenica è sempre troppo pieno». «Questo non si può cambiare». «Dai, andiamo! Non hai voglia di nuotare? Anna ne ha una voglia terribile!» Satake si rassegnò: «Va bene. Vengo». Chiuse la comunicazione e si concesse una sigaretta. Sollevò il mento, strizzò gli occhi e fissò le immagini mute sullo schermo. C’era una donna dall’espressione tesa, probabilmente la moglie della vittima. Era vestita in modo dimesso, in jeans e T-shirt sbiadita, i capelli erano raccolti in un nodo sulla nuca ed era truccata appena. Satake guardò bene il suo viso. Era sorprendentemente bella e aveva lineamenti molto regolari. Com’era sua abitudine la valutò. Poteva avere trentadue o trentatré anni. Con un po’ di trucco sarebbe stata molto apprezzata. Però, nonostante suo marito fosse stato appena assassinato, sembrava piuttosto
tranquilla! Sciocchezze, che cosa gliene importava! Al margine inferiore dello schermo apparve più volte la didascalia: “Signora Yamamoto, la moglie della vittima”. Il nome di Yamamoto non gli disse nulla. Si era già dimenticato che un paio di giorni prima aveva cacciato dal locale e preso a pugni un uomo che si chiamava Yamamoto. Quello che lo deprimeva di più era l’aria soffocante di quel primo pomeriggio d’estate. Se quel giorno, tanti anni prima, avesse avuto anche il più piccolo presentimento, non sarebbe successo nulla! Se non avesse incontrato quella donna, la sua vita sarebbe stata completamente diversa. E oggi aveva una specie di presentimento, lo sentiva chiaramente. Un quarto d’ora dopo si mise gli occhiali da sole e si diresse a passi veloci verso il garage dove aveva preso in affitto un posto macchina. Le sagome delle auto che sfrecciavano in lontananza vibravano nell’aria come miraggi. Sotto i raggi infuocati e nell’afa della strada gli sembrò quasi di sentir gemere la propria pelle fresca, abituata all’oscurità della casa. Si asciugò con il dorso della mano il sudore che gli colava copioso sulla fronte e rimase pazientemente in attesa che la sua auto scendesse sull’ascensore. Spalancò la portiera, avviò il motore e accese subito il climatizzatore. Dopo un po’ che guidava il volante rivestito di pelle nera era ancora bollente. Era abituato ai capricci di Anna. Oggi voglio andare a fare shopping, voglio qualcosa di nuovo da mettermi addosso! Voglio un altro parrucchiere! Cercami un veterinario! Lo faceva correre per qualsiasi sciocchezza. Satake sapeva che in quel modo voleva mettere alla prova il suo attaccamento. Era proprio infantile, sorrise amaramente continuando a guidare. Non appena suonò Anna aprì la porta. Era già tutta in ghingheri ed evidentemente lo stava aspettando. Aveva un cappello giallo a tesa larga e un abito estivo dello stesso colore. Allacciandosi impaziente i sandali di vernice nera, fece il broncio e disse: «Potevi anche arrivare prima!» «Mi hai chiamato all’improvviso, non potevo fare altrimenti», rispose Satake spalancando la porta. Venne investito dall’odore tipico dell’appartamento di Anna, un miscuglio di profumo dei suoi cosmetici e di puzza di cane. «Dove vuoi andare?» «Ma in piscina, te l’ho già detto!» Anna si sporse dalla finestra del corridoio a guardare il cielo blu, come per assicurarsi che il sole continuasse a splendere incontrastato. Era talmente allegra che pareva che volesse mettersi a correre da un momento all’altro. Non sembrava essersi accorta dell’umore tetro di Satake. «Volevo dire dove vuoi andare: al Keio Plaza o al New Otani?» «Le piscine degli alberghi sono troppo care! Non sono mica matta!» «E allora dove?» La parsimoniosa Anna aborriva qualsiasi spreco, anche se era sempre Satake a pagare tutto di tasca propria. «Andrà bene la piscina del quartiere. Quattrocento yen in due». Le piscine pubbliche costavano poco, però erano sovraffollate e rumorose. Ma andava bene lo stesso. Adesso che si era ormai rassegnato a sopportare quella calura spaventosa, poteva anche accontentare Anna, pensò Satake entrando in ascensore. La piscina era gremita di gruppi di studenti e giovani coppie. Intorno alla vasca erano state costruite delle terrazze per prendere il sole, sulla più alta delle quali c’erano delle piazzole ombreggiate con alberi e panchine. Si era appena seduto su una di quelle panchine quando vide Anna che usciva dallo spogliatoio con addosso un costume rosso brillante e lo chiamava. «O-nii-chan!» Satake ammirò quello splendido corpo che correva verso di lui. A parte il colore della pelle, forse troppo bianco in quell’ambiente, non aveva un solo difetto: natiche e petto formosi, gambe lunghe e affusolate, cosce carnose ma sode – insomma, proporzioni perfette. «Non vieni a nuotare?» domandò Anna respirando profondamente, come se non riuscisse a saziarsi dell’odore di cloro dell’acqua. «Rimango qui a guardarti».
«Perché?» Anna lo tirò per un braccio: «Dai, vieni!» «No, non ho voglia. Adesso va’ a nuotare, sbrigati. Hai poco più di un’ora di tempo e poi ce ne dobbiamo andare». «Così presto?» «Questo lo sapevi fin dall’inizio. Dopo devi andare anche dal parrucchiere!» Anna brontolò ancora un po’, ma si riprese presto e corse via felice. Prima di arrivare alla vasca raccolse una palla che le era rotolata tra i piedi e si mise a giocare con un gruppo di ragazzine. Era davvero affascinante. Satake sorrise. Le piaceva viziare una donna così seducente e ingenua, anche solo averla vicino lo faceva sentire meglio. Non c’era niente da dire, lei aveva il potere di ridargli un po’ di serenità. Ma neppure Anna sarebbe stata in grado di sedare il tumulto che la torrida estate, facendo riaffiorare il suo passato, aveva scatenato improvvisamente nel suo cuore. Dietro alle lenti scure Satake chiuse gli occhi. Quando dopo un attimo li riaprì non riusciva più a trovarla. Scorse infine un braccio bianco che si agitava a salutarlo al centro della vasca da cinquanta metri piena di bambini che si spruzzavano urlando. Anna, accertatasi che lui la vedesse, si esibì in un crawl piuttosto maldestro: Satake seguì con lo sguardo le sue goffe bracciate fino a quando un ragazzo, che fino ad allora era rimasto vicino al trampolino, non la raggiunse a nuoto e si mise a parlare con lei. Satake chiuse di nuovo gli occhi. Anna era ritornata alla sua panchina. Le gocce d’acqua sul suo corpo brillavano come perle. Si strizzò i lunghi capelli neri e si guardò intorno. Il ragazzo di prima stava ancora guardandola. Teneva i capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo e portava un orecchino. «Guarda, c’è qualcuno che ti osserva». «Sì. Mi ha anche parlato». «Che cosa fa?» «Dice che suona in un gruppo», rispose lei come se non le interessasse particolarmente e si girò verso Satake per spiarne la reazione. Lui osservava le gocce d’acqua scivolarle sulla pelle di seta. Gli bastava gustare la gioventù e la bellezza di Anna. «Allora va’ a nuotare ancora un po’ con lui. C’è ancora tempo». «Come?» domandò Anna guardandolo delusa. «Ti ha fatto gli occhi dolci o no?» «Ma tu, O-nii-chan, non sei seccato?» «E perché dovrei? Finché fai il tuo lavoro…» «Ah». Anna si chiuse in se stessa. Lasciò cadere a terra l’asciugamano e corse verso il ragazzo che, seduto sul bordo della piscina, guardava annoiato per aria. Evidentemente contento che fosse ritornata, si voltò a scrutare Satake come per assicurarsi che andasse tutto bene. In macchina, quando tornarono, Anna non disse una parola. «Anna», le chiese infine Satake, «ti accompagno dal parrucchiere, va bene?» «Sì, ma poi non serve che tu venga a prendermi». «Perché?» «Tornerò in taxi». «Va bene. Voglio farmi una doccia a casa prima di andare al Mika. Allora ci vediamo questa sera». Lasciò Anna dal suo parrucchiere preferito e imboccò la circonvallazione di Yamate. Il sole era ora più basso e lo colpiva direttamente negli occhi: per la seconda volta in quel giorno risvegliò in lui i ricordi con una tale forza che ebbe paura di se stesso. Di nuovo sentì il calore insopportabile di quella camera, e intanto guardava le strade di Shinjuku e le ombre che incominciavano ad allungarsi sui marciapiedi. E di nuovo fece fatica a controllare i nervi. Quando alla sera arrivò al Mika, tutte le hostess, nello stesso momento e con lo stesso sorriso artificioso, si girarono verso di lui. Lo avevano scambiato per un cliente, ma quando lo riconobbero
ripresero immediatamente la consueta espressione annoiata. «Cos’è successo? Tutti al mare?» domandò Satake a Chén, il direttore, guardandosi intorno e non vedendo l’ombra di un cliente. «Arriveranno fra poco, è ancora presto», rispose Chén e si tirò giù in fretta le maniche della camicia bianca. Il papillon era storto e i pantaloni neri spiegazzati. Satake, che non sopportava la sciatteria, lo afferrò per la cravatta: «Ehi, attento a come ti conci!» «Mi scusi, non accadrà più». Lì-huá, la mama-san, uscì in fretta dalla cucina, impressionata dal malumore del suo capo. Indossava un abito nero e una collana di perle. Satake distolse lo sguardo disgustato da quella tetraggine. Sembrava che stesse andando a un funerale! «Buonasera, Satake-san. È talmente caldo, oggi, che sono tutti un po’ in disordine!» «In disordine?Altro che disordine! Ha telefonato per invitare un po’ di gente? Come se questa sera non ci fosse nessuno che ha bisogno di compagnia! Incredibile!» Perlustrò con lo sguardo il club e quando vide che, come al solito, i fiori nei vasi erano appassiti, perse definitivamente la pazienza: «I fiori! Maledizione, quante volte ve lo devo ripetere!» Satake, che di solito con la calma e il distacco si guadagnava il rispetto dei collaboratori, quella sera era irriconoscibile. Chén, turbato dall’umore rabbioso del capo, si precipitò a prendere il grande vaso di cristallo sul tavolo vicino. Le campanule violette pendevano tristemente sullo stelo. Le hostess, in silenzio, guardavano ora il vaso ora Satake. Lì-huá, nel tentativo di placarlo, disse: «Allora, bambine, avete sentito: d’ora in poi diamoci da fare, forza!» «Già, forse pensate che i clienti vengano qui da soli a girarsi i pollici?! Che bella presunzione! Muovete quel culo, andate in strada e attivatevi!» «Va bene!» rispose Lì-huá con un sorriso compiacente, ma non sembrava che avesse tanta voglia di mettersi in movimento così presto con quel caldo. Cercando di controllarsi, Satake si guardò di nuovo intorno e si accorse che Anna non c’era. «E Anna dov’è?» «Ah sì, Anna-chan oggi non viene». «E perché no?» «Ha appena chiamato e ha detto che non sta bene perché ha preso troppo sole in piscina». «Che cosa?! No, così non va. Vado subito a vedere come sta». «D’accordo», rispose sollevata Lì-huá e con questo anche l’atmosfera nel locale si rilassò. Satake inghiottì la rabbia e uscì dal Mika. La notte afosa di Kabuki-cho lo avvolse nelle sue spire. Il sole era ormai tramontato, ma la temperatura e l’umidità non accennavano a calare, tutto il quartiere sembrava immerso in una sauna gigantesca. Satake sospirò profondamente e salì la scala esterna molto più lentamente del solito. Giù al club la disciplina perdeva colpi. Era solo l’inizio, ma doveva fare subito qualcosa. Non appena entrò al Parco, Kunimatsu lo vide e si affrettò verso di lui. Satake lo salutò con voce soffocata e notò con sollievo alcuni impiegati seduti ai tavoli a giocare. «Buonasera, Satake-san. Oggi è arrivato presto!» lo salutò Kunimatsu guardandolo stupito. Satake seguì il suo sguardo e si accorse di avere la giacca macchiata di sudore. Se la tolse e vide che anche la camicia di seta nera era completamente bagnata e aderiva al petto muscoloso. «È così caldo qui?» domandò preoccupato Kunimatsu prendendo in consegna la giacca. «No, va bene così», sospirò Satake sfilando dal pacchetto una sigaretta. Un giovane croupier che aspettava il proprio turno fece una piccola smorfia alla vista della camicia sudata di Satake. Quello sguardo non gli piacque. «Come si chiama quello lì?»
«Yanagi». «Deve stare attento a come guarda i clienti – noi siamo qui per intrattenerli, glielo dica!» «Sì». Davanti all’insolito malumore del capo Kunimatsu si allontanò. Satake rimase in piedi a fumare la sigaretta. Subito accorse una coniglietta a cambiare il posacenere. Satake si accese un’altra sigaretta e sporcò anche il nuovo portacenere. I collaboratori si aggiravano a distanza di sicurezza, osservando ansiosi tutti i suoi movimenti per prevenirne i desideri, più ancora di come avrebbero fatto con un cliente. Era il suo locale ma, chissà perché, si sentiva fuori posto. Era la prima volta che provava quella sensazione. «Satake-san, ha un po’ di tempo?» Kunimatsu gli si era avvicinato. «Che cosa c’è?» «Le dispiacerebbe venire un attimo in ufficio?» Lo seguì in una stanzetta sul retro arredata con un tavolo e una cassaforte: l’ufficio di Kunimatsu. «Un cliente ha lasciato qui questa, che cosa devo farne?» Kunimatsu aveva preso dall’armadio a muro una giacca grigia da giorno. A una gruccia sul fondo era appesa la giacca grigio argento che Satake si era appena tolto. «Di chi può essere?» domandò Satake prendendo in mano l’indumento. Fresco di lana, ma da quattro soldi, si riconosceva a prima vista. «Nessuno è venuto a richiederla?» «No, ecco… legga qui». Kunimatsu gli mostrò il nome ricamato a macchina con filo giallo sulla tasca interna: Yamamoto. «Yamamoto?» «Non si ricorda? Ma sì, quel tipo che ha buttato fuori all’inizio della settimana scorsa». «Ah, lui?» Adesso gli veniva in mente: quel tizio che aveva dato fastidio ad Anna e che lui aveva preso a pugni. «Non è venuto a riprenderla. Che cosa ne devo fare?» «La butti via». «Posso? E se dopo viene a reclamare?» «Stia tranquillo. Sicuramente non si farà più vedere, e anche se lo facesse gli dica semplicemente che qui non abbiamo trovato niente». «Bene, come vuole». Kunimatsu inclinò la testa un po’ perplesso, ma non disse altro. Poi parlarono ancora un po’ degli incassi e quindi uscirono dal piccolo ufficio. Nel frattempo erano entrate nel locale due giovani prostitute abbigliate vistosamente. Alla vista della loro abbronzatura artificiale, Satake fu costretto a ripensare ad Anna. «Torno subito, faccio un salto a vedere come sta Anna». Kunimatsu annuì in silenzio, ma Satake non si lasciò sfuggire l’espressione di sollievo che gli era apparsa sul viso. In quei momenti aveva la sensazione che Lì-huá, le hostess del Mika e i collaboratori del Parco sapessero del suo passato e avessero paura di lui. Come se conoscessero il suo lato oscuro, quello che in tutti quegli anni si era strenuamente sforzato di controllare e di mantenere segreto. Era sicuro che se qualcuno ne avesse intravisto anche solo i contorni sarebbe morto di paura. Ma solo lui e la donna sapevano quello che era successo. Nessuno avrebbe potuto capire per che cosa si struggeva veramente Satake. Lui l’aveva capito a ventisei anni, e per questo aveva accettato in cambio la solitudine. L’appartamento di Anna sembrava in qualche modo diverso. Satake aveva suonato più volte ma lei non aveva aperto. Stava prendendo in mano il telefonino per chiamarla quando finalmente sentì la sua voce al citofono: «Chi è?» «Sono io». «…tu, O-nii-chan?»
«Sì. Stai bene? Apri un momento». «Va bene». Sentì che apriva la catena. Strano, di solito Anna non chiudeva mai con la catena. «Scusa se non sono andata a lavorare», disse Anna affacciandosi. Indossava calzoncini corti e una T-shirt ed era pallida in volto. Satake guardò per terra e vide un paio di scarpe sportive alla moda davanti alla soglia. «È il tipo di oggi pomeriggio?» Anna divenne ancora più pallida, ma rimase in silenzio. «Non ho niente in contrario se ti diverti con gli uomini. Purché vieni regolarmente a lavorare. E purché la cosa non duri troppo a lungo». Anna fece un passo indietro come se l’avesse schiaffeggiata e lo guardò: «Non provi proprio niente, O-nii-chan?» «No». Quando vide gli occhi di Anna riempirsi di lacrime capì che c’erano guai in arrivo. Era affascinante e gli piaceva, anche al di là degli interessi professionali, ma rimaneva solo un oggetto grazioso che in qualche modo era orgoglioso di possedere. La relazione che aveva con lei era come la pelle che lo avvolgeva: assolutamente superficiale. «Cerca di non fare la furba alle mie spalle, capito?» soggiunse, e accostò dolcemente la porta dietro di sé, pensando che sarebbe stato un vero problema se per questa storia la ragazza avesse voluto chiudere con lui e cambiare locale. Sulla strada del ritorno si domandò, irritato, perché mai quel giorno niente volesse andare liscio. Avvertiva il pericolo, aveva la sensazione che qualcuno cercasse di strappargli il sigillo. Satake chiuse scrupolosamente a chiave la porta della propria anima. Senza passare per il Mika, Satake ritornò direttamente al Parco. Kunimatsu gli aprì la porta e chiese: «Come sta Anna? Rimane a casa oggi?» «Sì, ma non è niente di grave. Domani tornerà al lavoro». «Ah, bene. Inoltre sembra che qui sotto stiano incominciando ad affluire i clienti. C’è abbastanza traffico». «Sì? Bene». Rassicurato, Satake contò di nuovo i clienti del Parco. Quindici persone in tutto, di cui circa la metà impiegati, e gli altri uomini e donne che – saltava agli occhi – lavoravano nell’ambiente della prostituzione. Per la maggior parte erano frequentatori abituali. C’era abbastanza animazione. Satake ne fu soddisfatto, e il suo pensiero si spostò su come riuscire a tenersi buona Anna in futuro. Doveva assolutamente impedire che le venisse l’idea di passare alla concorrenza. Stava pensando a una strategia per salvare la situazione quando si aprì la porta ed entrarono due uomini di mezza età che indossavano camicie fantasia con le maniche corte. Gli sembrava di averli già visti, eppure non riusciva a ricordare chi fossero. Impiegati? Forse professionisti? Il loro sguardo tagliente gli suggeriva che non si trattava di clienti abituali. Stranamente per Satake, che di solito riusciva subito a valutare un cliente, quei due rimanevano un enigma. «Buonasera, accomodatevi!» Kunimatsu si affrettò ad accoglierli giovialmente e a guidarli all’interno del locale. Poi, rispondendo a una loro domanda, incominciò a spiegare le regole del gioco. Dopo che ebbe terminato le spiegazioni, uno dei due, che fino ad allora era rimasto a guardare in silenzio, prese dal taschino un astuccio nero, lo aprì davanti agli occhi di Kunimatsu e annunciò con voce calma: «Questura di Tokyo, sezione sicurezza. Il mio collega è del distretto di Shinjuku. Chi di voi è il gestore del club? Quanto a voi, signori, mantenete la calma e rimanete ai vostri posti!» L’atmosfera si raggelò. Nessuno osava fiatare, nessuno osava muoversi. Soltanto Kunimatsu si morse il labbro inferiore, come se volesse dire: ecco che ci sono cascato, e diede un rapido sguardo a Satake.
Dannazione, una retata! Volevano fargli chiudere il locale! Dunque era questo il cattivo presentimento che lo tormentava fin dal mattino? Adesso capiva perché gli sembrava di averli già visti: piedipiatti! Prese in mano una fiche e si mise a giocherellare cercando di controllare l’impulso di scoppiare a ridere. 2. Quando il poliziotto entrò nella stanza degli interrogatori e si presentò, Satake non voleva credere alle proprie orecchie. «Sono Kinugasa, prima sezione, sede centrale». «Di che cosa si tratta esattamente?» «E me lo chiedi?» rise Kinugasa. Era un individuo ripugnante – corporatura taurina e sguardo a cui sembrava non sfuggire niente – il tipico funzionario della polizia criminale. «Voglio solo farti un paio di domande su un altro caso che potrei mettere in relazione con il tuo». «E quale sarebbe questo altro caso?» Satake in un primo momento aveva pensato che l’accusa riguardasse soltanto l’organizzazione di gioco d’azzardo, ma dopo due settimane trascorse in cella spuntava improvvisamente uno della prima sezione, e per di più della sede centrale. Che cosa stava succedendo? Dentro di sé era spaventato, questo era un fatto, tuttavia non riusciva ancora a prendere la cosa troppo sul serio. «Mi spieghi perché dovrei avere a che fare con la prima sezione». «Si tratta del caso dell’uomo trovato a pezzi», rispose Kinugasa strofinando l’accendino sulla polo nera sbiadita. Quindi si accese una sigaretta, aspirò con gusto e rimase a osservare le reazioni di Satake. «Fatto a pezzi?» «Sei impallidito». Satake indossava una camicia blu che gli aveva portato Lì-huá. Quel colore non gli piaceva, ma la camicia di seta nera era impregnata di sudore ed era contento che gli avessero portato qualcosa per cambiarsi. Comunque il blu non era il suo colore, lo faceva sembrare più pallido. Satake rise: «Non è vero, si sbaglia». «Non è vero cosa? E ha anche la faccia tosta di ridere! Questo sì che mi piace, ride e parla d’altro!» Indignato Kinugasa si girò verso il funzionario di Shinjuku che sedeva accanto a lui. Quello rispose con un sorriso amaro, evidentemente irritato per avergli dovuto cedere l’iniziativa. «Sei così abituato alla galera che niente ti può far più perdere la calma, vero?» «Per favore, una cosa alla volta. Mi dica infine di che cosa si tratta!» Satake incominciava a innervosirsi. Non si sentiva più a suo agio e incominciava ad avere paura. Per tutto il tempo aveva pensato che l’operazione avesse come obiettivo il suo casinò, che effettivamente andava abbastanza bene. Ma non si trattava di rovinargli gli affari, la retata era stata organizzata dalla omicidi, solo ora se ne rendeva conto! Per qualche assurdo equivoco gli avevano teso una trappola e adesso lo stavano mettendo al tappeto. Non sarebbe stato facile rialzarsi una volta che fosse caduto in quelle sabbie mobili, questo lo sapeva anche troppo bene. «Bene, Satake, se bisogna proprio sbattertelo sotto il naso… Si tratta di un tipo che girava nei tuoi locali, un certo Kenji Yamamoto. È lui la vittima. E allora, adesso ti ricordi qualcosa?» «Non conosco nessun Kenji Yamamoto», rispose Satake e si girò verso la finestra. Si vedevano i grattacieli a ovest della stazione e tra loro strisce di cielo estivo. La luce era accecante. Satake chiuse gli occhi. Proprio lì dietro l’angolo c’era il suo appartamento. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di potersi rifugiare nella penombra della sua casa! «E questa la riconosci?» Kinugasa prese una giacca grigia da un sacchetto di supermercato che teneva in mano. Satake la guardò e si lasciò sfuggire un’esclamazione di sorpresa. Era la giacca che gli aveva mostrato Kunimatsu la sera della retata. E lui gli aveva detto di buttarla via. «Sì, l’ho già vista. Era stata dimenticata da un cliente…» Satake deglutì. Certo, Yamamoto!
Dunque quell’imbecille si era fatto ammazzare! Allora gli venne in mente di avere letto il nome Yamamoto sul giornale, e anche alla televisione ne avevano parlato, in relazione al ritrovamento del cadavere fatto a pezzi. Era un guaio, un grosso guaio. Doveva stare molto attento a non lasciarsi fregare! I due funzionari continuavano a osservarlo beffardi e maligni. «Su, Satake, vuoi dirci che cosa è successo al tuo cliente?» «Non lo so». Satake scrollò la testa. «Non lo sai? Davvero?» Kinugasa gli rifece il verso e sorrise. Che individuo! Satake sentiva il sangue salirgli alla testa, faceva fatica a ragionare. E tuttavia si controllò: da quando, anni prima, era uscito dal carcere non aveva mai perso l’autocontrollo. «Veramente non lo so». Kinugasa aprì l’agendina che aveva preso dalla tasca posteriore dei pantaloni e la consultò con calma: «Circa alle dieci di sera di martedì 20 luglio alcuni testimoni ti hanno visto litigare con la vittima. All’uscita del tuo locale, il Parco dei Divertimenti, tu l’hai preso a pugni e l’hai fatto rotolare a calci giù dalla scala». «Questo… può darsi che l’abbia fatto». «Può darsi che l’abbia fatto? E poi, che cosa è successo?» «Non lo so». «Altro che non lo so! Da allora si sono perse le tracce della vittima. Che cosa ne hai fatto di lui? Dove sei andato e che cosa hai fatto quella notte?» Satake scavò nei ricordi. Aveva dimenticato tutto di quella notte. Forse era tornato a casa, o forse era rimasto nel locale. «Avevo ancora da fare al Parco». «Contaballe! Tutti i dipendenti hanno dichiarato che te ne sei andato subito». «Ah, può essere. Sono tornato a casa e ho dormito». Kinugasa incrociò le braccia davanti al petto. Non era soddisfatto: «Quale delle due versioni?» «Sono tornato a casa e ho dormito». «Ma di solito rimani là fino alla chiusura. Perché proprio quella notte te ne sei andato così presto? Non è strano?» «Quella notte ero stanco, perciò sono tornato a casa presto e sono andato subito a letto». Era vero, adesso se ne ricordava. Era tornato subito a casa senza fermarsi da nessuna parte. E poi si era addormentato davanti al televisore. Ah, se fosse rimasto al Parco! Ma ormai era troppo tardi per pentirsene. «Hai dormito da solo?» «Naturalmente!» «Perché eri così stanco?» «Avevo giocato a Pachinko tutta la mattina, poi ho dovuto accompagnare in giro una hostess e infine mi sono incontrato con Kunimatsu, il mio direttore, perché dovevamo parlare. È stata una giornata faticosa e a sera ero molto stanco». «Di che cosa hai parlato con Kunimatsu? Hai architettato forse un piano per far fuori la vittima? Questo in ogni caso è quello che ha dichiarato Kunimatsu». «No, non è vero! Perché mai avrei dovuto fare una cosa così assurda? Io mi occupo solo di un night-club e di un casinò». «Non sottovalutarmi!» lo minacciò Kinugasa alzando improvvisamente la voce. «Con che faccia un delinquente come te, con i precedenti che hai, ha il coraggio di parlare così?! Mi occupo solo di un night-club e di un casinò… Come osi, credi che non sappia quello che hai fatto? Hai torturato a morte una donna, o vuoi forse negarlo? Quante volte l’hai pugnalata? Venti, trenta volte? Le hai conficcato il coltello nel ventre mentre te la scopavi! Come è stato Satake, ti è piaciuto, eh? L’hai
conciata proprio bene! Quando ho letto il tuo incartamento ho sudato freddo. Non riesco proprio a concepire come abbiano potuto far uscire dopo solo sette anni una bestia come te! Non riesco a farmene una ragione. Spiegamelo tu!» Satake sudava da tutti i pori. Il famoso coperchio sulla pentola! Il sigillo con cui aveva chiuso così accuratamente il suo passato era stato strappato come niente fosse. Il viso della donna agonizzante ondeggiava di nuovo davanti ai suoi occhi. Il suo lato oscuro era tornato in vita e con gelide mani cercava di arrampicarsi sulla sua schiena. «Be’, Satake, cosa c’è? Stai sudando come un maiale!» «No, è solo che…» «Sputa la verità. Dopo starai meglio!» «Niente affatto! Io sono pentito di quello che ho fatto! Io non commetterò mai più un omicidio!» «Dicono tutti così. Ma il maniaco omicida prova piacere e ci ricasca sempre, di questo si può stare certi». Piacere. Colpito da quella parola Satake guardò Kinugasa negli occhi: era trionfante. Non è assolutamente vero, avrebbe voluto urlare. Aveva provato piacere soltanto perché gli era stato possibile condividere la morte di quella donna. In quell’istante la aveva amata con tutto se stesso e per questo era diventata la donna della sua vita, lo aveva legato a lei per sempre. Non era stato affatto piacere di uccidere. E soprattutto la parola piacere non bastava a descrivere quello che era successo. Ma Satake guardò per terra e disse solo: «Questo non è vero». «Bravo, continua a tener duro ma, credimi, anch’io so essere altrettanto tenace! Troverò prove sufficienti contro di te. Farò in modo di farti crollare sotto il peso degli indizi. E poi non potrai più dire niente!» Kinugasa gli strinse la spalla come se stesse palpando un animale. Satake si scansò per sottrarsi alla grande mano callosa del poliziotto. «Davvero non è così, mi creda! Io gli ho solo detto di non farsi più vedere. Si era incapricciato della mia hostess migliore e la tormentava, perciò gli ho fatto capire che doveva smetterla, questo è tutto. L’ho solo messo in guardia e nient’altro. Quello che gli è successo l’ho saputo solo da voi!» «Ah, l’hai “messo in guardia”? Può essere che tu dia un significato un po’ più ampio all’espressione?» «Che cosa vuole dire?» «Valuta tu. L’hai scrollato ben bene, no?» «Non dica assurdità!» «Assurdità? Hai ucciso una donna, fai il ruffiano, pesti a morte un cliente e lo fai a pezzi! Non hai scampo, Satake! Per te è come se la polizia non esistesse – e adesso non cercare di fare l’agnellino!» Satake rimase in silenzio. Kinugasa si accese un’altra sigaretta e insieme al fumo vomitò: «A chi hai dato l’incarico di farlo a pezzi?» «Cosa?» «Nel tuo locale lavorano anche dei cinesi. Quanto si fa pagare la mafia cinese per un lavoro di questo genere? A seconda del prezzo del giorno, come nei negozi di sushi? Allora, qual è il prezzo corrente?» «Ma vuole scherzare? In tutta la mia vita non ho mai pensato a una cosa del genere!» «Un settimanale ha scritto che eliminare un uomo costa circa centomila yen. Per te non dovrebbe essere un problema, basterebbe attingere alla cassa per le spese correnti! Ah, per quanti cadaveri potrebbe bastare, una decina?» Satake rise. Finalmente riusciva a capire il salto logico: «Non sono così ricco». «Uno come te, che guida una Mercedes?»
«Fa parte dell’immagine. Ma per le cose assurde di cui parla non butterei mai via così tanti soldi!» «Macché, piuttosto che tornare in gabbia saresti pronto a pagare qualsiasi somma. Questa volta potrebbero anche condannarti a morte, lo sai benissimo», replicò serio Kinugasa. Satake capì che ormai lo avevano sistemato. Quelli pensavano davvero che avesse ucciso Yamamoto e avesse incaricato qualcuno di eliminare il cadavere. Come sarebbe riuscito a cavarsela? Anche con una fortuna maledettamente sfacciata sarebbe stato difficile. Nella sua mente riaffiorò il ricordo della stretta cella quadrata della prigione e ricominciò a sudare. Allora l’agente che fino a quel momento era rimasto in silenzio, lasciando l’interrogatorio a Kinugasa, aprì finalmente la bocca: «Non ha mai pensato alla moglie di Yamamoto? Fa i turni di notte in fabbrica e ha due bambini piccoli da tirare su con la sua paga. Non le fa pena?» «La moglie?» A Satake vennero in mente le foto della moglie della vittima che aveva visto per caso alla televisione. Una moglie straordinariamente bella per un fannullone come Yamamoto. «Sì, i bambini sono ancora piccoli. Lei non può capire, perché non ha figli, ma il futuro sarà molto difficile per lei, adesso». «Ma questo non dipende da me». Il poliziotto si irritò per la risposta di Satake: «Non dipende da lei. Davvero?» «No». «E pensa di avere il diritto di dire semplicemente così?!» «Ma davvero io non c’entro. Non ne so niente». Kinugasa assisteva al battibecco leccandosi il labbro inferiore. Satake era irritato; lo fissò rabbioso, come per togliersi di dosso il suo sguardo. Un pensiero gli occupava la testa, l’idea che il vero colpevole potesse essere la moglie. Suo marito era improvvisamente sparito e poi avevano ritrovato il cadavere fatto a pezzi, tuttavia la signora Yamamoto sembrava abbastanza tranquilla. Cercò disperatamente di ricordare la stonatura che gli era sembrato di notare guardando la televisione. Come quando si mangia un mollusco pieno di sabbia. Sul volto di quella donna era scolpito un sentimento che solo chi aveva fatto una simile esperienza era in grado di rilevare. Una specie di orgoglio per aver portato a termine qualcosa, per aver realizzato i propri desideri. E poi Yamamoto aveva perso la testa per Anna e tutte le sere era al Mika a spendere i suoi soldi. A giudicare dalle fotografie della moglie, non sembrava che vivessero negli agi. Non ci sarebbe stato niente di strano se lei l’avesse odiato, non le si poteva proprio dare torto… «Satake, che cosa ti frulla per la testa?» domandò beffardo Kinugasa, e Satake accolse la provocazione. Ancora prima di rendersene conto disse: «Stavo pensando alla moglie: che sia proprio immacolata?» Furioso Kinugasa lo aggredì: «A questo tocca a noi pensarci, Satake, non c’è bisogno che tu ti rompa la testa! Per prima cosa la moglie della vittima ha un alibi, e inoltre non ha complici. Al tuo posto mi preoccuperei per me stesso: sei tu il nostro uomo!» Satake dovette prendere atto che la donna era stata completamente esclusa dalla cerchia dei sospetti e che non avrebbero fatto altre indagini in questa direzione. Kinugasa aveva già deciso che il colpevole era lui, si era concentrato solo su di lui. Aveva sbagliato completamente obiettivo, ma questo non migliorava la sua posizione, che anzi non poteva essere peggiore. Furioso Satake strinse i denti: «Mi scusi se ho detto qualcosa di troppo. Ma io davvero non c’entro. Lo giuro!» «Sì, sì, continua pure a parlare a vanvera!» «Già, io parlo a vanvera!» sibilò Satake in direzione del pavimento. Kinugasa aveva evidentemente un buon orecchio, perché gli sferrò una potente gomitata sulla tempia e ringhiò: «Non mi sottovalutare, capito?!» Ma Satake non sottovalutava affatto la polizia. Se avessero voluto, avrebbero potuto costruire tutte le prove che occorrevano. E lui era il colpevole che volevano. Era sopraffatto dall’angoscia e
allo stesso tempo bruciava di rabbia. Se fosse riuscito a venirne fuori non avrebbe avuto pace finché non si fosse vendicato con le proprie mani dell’assassino. E per ora il suo obiettivo era proprio la moglie di Yamamoto. Il risultato di tutto quel pasticcio sarebbe stato la chiusura definitiva dei suoi locali, il Mika e il Parco, pensò Satake che da molto tempo non si faceva più illusioni su come andava il mondo. Da quando, dieci anni prima, era stato rimesso in libertà aveva impiegato ogni momento delle sue giornate a organizzarli, e ora che andavano così bene era stato coinvolto in quel maledetto caso – una vera scalogna! L’estate lo aveva messo un’altra volta in ginocchio. Satake se la prese col destino e sospirò. All’improvviso la stanza si era fatta buia; guardò fuori dalla finestra e vide il cielo coperto di nuvole nere e le fronde di un grande olmo che ondeggiavano al vento. Aveva tutta l’aria di essere in arrivo un temporale. Quella notte, in cella, Satake sognò la donna che aveva ucciso. Giaceva sdraiata davanti a lui, il viso contratto dal dolore, e gemeva: «Chiama il medico, corri, presto…» Satake affondava le dita nella ferita che le aveva aperto nel ventre; le affondava per tutta la loro lunghezza, fino al palmo. Ma la donna sembrava non accorgersene, continuava ad aprire e chiudere la bocca in cerca di aria e a bisbigliare: «Chiama il medico…» Le dita di Satake erano grondanti di sangue. Le aveva asciugate sul volto della donna. Così, con le guance rosse del suo stesso sangue, la donna era talmente bella che sembrava una creatura di un altro mondo. «Chiama il medico, corri, presto…» «Scordatelo. Taci!» Alle parole di Satake la donna gli aveva afferrato con incredibile forza le dita grondanti sangue e se le era portate al collo. Voleva fargli capire che doveva ucciderla più in fretta possibile. Ma Satake le aveva accarezzato i capelli con le mani insanguinate: «Non ancora». Vedendo la profonda disperazione nel suo sguardo, Satake aveva sentito il cuore contrarsi per la pietà e per la gioia. Non ancora. Non morire ancora. Godi insieme a me… La aveva stretta a sé e il suo corpo era scivolato nel sangue di lei. Satake si svegliò. Era tutto insanguinato. No, non era sangue, solo sudore. Si guardò intorno: il suo compagno di cella, un falsario, era disteso sulla branda accanto alla sua e fingeva di dormire. Satake non si curò di lui e si rigirò nell’oscurità; infine si alzò a sedere. Era eccitato: erano passati più di dieci anni dall’ultima volta in cui si era sognato di quella donna. Che la sua anima aleggiasse ancora lì da qualche parte? Scrutò nel buio della cella. Voleva rivederla. 3. Un giorno d’inverno di quattro anni prima Anna era salita per la prima volta su un treno delle ferrovie giapponesi. Era sera e la carrozza era strapiena. Anna non era abituata a trovarsi in mezzo alla folla che la schiacciava e quella sensazione non le piaceva. Continuava a urtare contro le spalle e i bagagli dei vicini e alla fine si trovò nel mezzo della carrozza. In qualche modo riuscì ad afferrarsi a una maniglia e guardò fuori dal finestrino: il sole rosso fuoco stava tramontando all’orizzonte. La sua luce creava un grande contrasto con le ombre scure delle stazioni e degli edifici che sparivano velocissimi dal campo visivo di Anna, senza che potesse metterli a fuoco. Sarebbe riuscita a riconoscere la stazione in cui doveva scendere? E in quel caso ce l’avrebbe fatta a uscire dalla carrozza? Nervosa e confusa continuava a lanciare occhiate verso la porta. Improvvisamente le parve di sentire l’idioma di Shanghai. Lì intorno dovevano esserci dei suoi concittadini. Sollevata guardò i visi dei passeggeri e aguzzò le orecchie: in realtà parlavano in giapponese. I suoni della lingua giapponese e del dialetto di Shanghai erano simili. Improvvisamente venne colta da un profondo senso di abbandono: era sola in un paese straniero. Benché volti e suoni si somigliassero, lei era completamente sola in un mondo di sconosciuti… Guardò di nuovo fuori dal finestrino: il sole era ormai tramontato e diventava sempre più buio.
Sul vetro si rifletteva l’immagine di una ragazza dallo sguardo cupo, infagottata in un cappotto fuori moda. Si riconobbe in quell’immagine e venne presa da una sensazione di solitudine talmente sconfinata da farle mancare il respiro, e i suoi occhi traboccarono di lacrime. Anna aveva allora diciannove anni. Anche prima, naturalmente, l’opulento Giappone l’aveva intimidita e quella sensazione di totale smarrimento nella metropoli caotica non le era sconosciuta. Tuttavia non si era mai sentita così abbandonata da Dio come quel giorno. Certo, se fosse venuta in Giappone per studiare o dedicarsi a qualche ricerca, sarebbe riuscita a sopportare molte difficoltà. Ma lei era qui per guadagnare denaro, quello era il suo unico scopo. E non aveva altre armi che la gioventù e la bellezza. Era venuta qui a cuor leggero, consigliata da un mediatore che si trovava a Shanghai in cerca di ragazze e che le aveva detto che le cinesi, in Giappone, potevano fare soldi a palate. Ma la facilità con cui questo avveniva deprimeva Anna, che in realtà era una ragazza seria e intelligente. Era sempre stata una brava studentessa e aveva persino sperato di iscriversi all’università, e ora si era ridotta a guadagnare soldi facili grazie agli uomini giapponesi. E che cos’altro era se non depravazione? Il padre di Anna era autista di taxi, la madre vendeva frutta e verdura al mercato. Ogni sera si raccontavano con orgoglio i risultati del loro lavoro. Saggezza, astuzia e presenza di spirito erano le armi con cui combattevano la concorrenza – così ci si guadagnava la vita, questa era l’essenza del commercio a Shanghai. Ma lei avrebbe potuto raccontare ai genitori i risultati del proprio “commercio”? Era orgogliosa di essere nata a Shanghai, la più grande metropoli della Cina, e segretamente confidava nella propria bellezza, eppure non poteva rivaleggiare con le giovani ragazze di Tokyo, traboccanti di fiducia in se stesse, consapevoli di essere sostenute da una società opulenta. Anna non riusciva ad acquistare quella disinvoltura. Si trattava di una competizione impari. La tensione nervosa, la perdita di fiducia in se stessa e non per ultimo il suo isolamento l’avevano trasformata in una timida e paurosa ragazza di campagna. Anna, come le aveva consigliato il mediatore che le aveva anche fatto ottenere il visto di ingresso, si era iscritta a una scuola di lingue e di notte lavorava in un night-club di Shibuya. Si era dedicata con tutte le sue energie allo studio del giapponese e in breve tempo era stata in grado di parlarlo, anche se non perfettamente. Se solo si concentrava riusciva anche a capire i discorsi della gente in metropolitana. Adesso poteva finalmente comprarsi i vestiti alla moda nei grandi magazzini, come le ragazze giapponesi. Ma la sua solitudine, come uno sfrontato gatto randagio, non la abbandonava mai; per quanto cercasse con ogni mezzo di allontanarla se la trovava sempre a fianco. Ma prima di tutto voleva guadagnare denaro, possibilmente tanto denaro, e tornare a Shanghai il più presto possibile. E una volta che fosse tornata a casa, avrebbe aperto una splendida boutique e sarebbe diventata ricca… Ogni giorno Anna andava a scuola e ogni sera al club. Tuttavia, nonostante i suoi sforzi, non riusciva a risparmiare. Non avrebbe mai immaginato che la vita in Giappone fosse così cara. Anna era sempre più nervosa. Non era riuscita ad accumulare neanche un quarto della somma che le serviva – così era impossibile tornare a casa. Ma non voleva neppure rimanere lì. La sensazione di essere in trappola e di non avere vie di uscita rendevano la sua vita fragile come una tazzina da tè incrinata – aveva sempre paura di spezzarsi da un momento all’altro. Fu proprio allora che conobbe Satake. Satake non beveva alcolici ma era generoso e rientrava dunque nella categoria dei “migliori clienti”. Anna lo aveva già visto spesso prima di allora e si era accorta che tutti nel locale lo trattavano con particolare riguardo, ma aveva pensato che un uomo simile, al cui tavolino sedevano le hostess più contese, fosse irraggiungibile. Tuttavia quella sera l’aveva fatta chiamare al suo tavolo. «Sono Anna. Felice di conoscerla».
Satake si comportava in modo diverso dagli altri clienti, non era timido né presuntuoso. Aveva chiuso gli occhi come se gli facesse piacere udire la sua voce, poi li aveva riaperti e le aveva guardato la bocca, come l’insegnante di giapponese quando voleva controllare la sua pronuncia. Anna si era quasi alzata in piedi: le sembrava di essere una scolaretta chiamata improvvisamente alla lavagna. «Le va bene un whisky e soda?» Versando il whisky e diluendolo con quanta più soda possibile, Anna lo aveva guardato di nuovo. Poteva essere vicino ai quaranta. Aveva carnagione scura e capelli corti. Occhi piccoli e dal taglio allungato, labbra grosse. Non esattamente un bell’uomo, tuttavia il viso irradiava una sorta di tenerezza che lo rendeva affascinante. Era però vestito in modo veramente troppo vistoso. Indossava un elegante completo nero e una cravatta sgargiante, evidentemente firmati, che mal si adattavano alla corporatura robusta. Rolex d’oro e accendino Cartier, anche quello d’oro. Lo sguardo cupo e profondo contrastava violentemente con il suo aspetto indolente e dissoluto. I suoi occhi erano una palude. Le avevano subito fatto venire in mente una fotografia di un paesaggio di montagna che aveva visto una volta: un lago nero, paludoso, tra il silenzio delle vette solitarie. Sembrava che sul fondo di quelle acque torbide, gelide come ghiaccio, tra lussureggianti erbe lacustri vivesse una creatura misteriosa. Fino ad allora nessuno aveva saputo della sua esistenza, perché nessuno lì avrebbe mai osato nuotare né andare in barca. Di notte doveva inghiottire la luce delle stelle in quella sua acqua nera e stagnante. Forse Satake amava vestirsi così per distogliere gli sguardi della gente dalla palude della sua anima. Anna gli aveva guardato le mani. Nessun gioiello, nessuna traccia di lavoro manuale – proporzioni straordinariamente armoniose per un uomo. Belle mani. Non riusciva assolutamente a classificarlo. Non dava proprio l’impressione di esercitare una professione onesta e lei aveva pensato che poteva anche essere uno di quegli yakuza di cui fino ad allora aveva solo sentito parlare. Era curiosa, ma aveva anche paura. «Dunque tu sei Anna-chan», aveva detto Satake infilandosi una sigaretta tra le labbra e continuando a osservare il suo viso. Nella palude di quegli occhi non si muoveva un alito di vento. Il suo sguardo non rivelava né ammirazione né delusione. Tuttavia la sua voce era piacevolmente calma e vellutata. Anna avrebbe voluto udirla di nuovo. Allora si era accorta della sigaretta e, come le era stato insegnato, aveva preso in mano l’accendino per porgergli il fuoco. Che distratta, doveva fargli una buona impressione! Si era innervosita e l’accendino le era scivolato tra le dita ed era quasi caduto. Satake se ne era accorto e la sua espressione si era addolcita: «Via, via, non così in fretta, in fondo non è importante!» «Mi scusi». «Quanti anni hai? Venti, più o meno?» «Sì, esattamente». Solo un mese prima Anna aveva festeggiato, in Giappone, il suo ventesimo compleanno. «L’hai scelto tu quel vestito?» «No». Indossava un vestito rosso fuoco, da pochi soldi, che le aveva ceduto una compagna d’appartamento. «Mi è stato regalato». «Era quello che pensavo. Non è della tua taglia». «Allora me ne compri uno lei», avrebbe voluto chiedergli Anna, ma non aveva osato. Si era limitata a sorridere imbarazzata. Non si sarebbe mai immaginata che in quel momento Satake si stava già divertendo a rivestirla come una bambolina di carta. «Non so bene come vestirmi». «A una come te sta bene qualsiasi cosa». Sebbene fosse così giovane, Anna capiva che Satake non apparteneva alla categoria dei clienti ingenui, che dicevano subito quello che gli passava per la testa. Dopo aver riflettuto qualche istante, Satake aveva schiacciato il mozzicone della sigaretta e aveva chiesto:
«Mi hai guardato bene. Che cosa pensi che faccia?» «È un impiegato?» «No», aveva risposto serio Satake scuotendo il capo. «Allora forse è uno yakuza». Satake aveva sorriso per la prima volta, mostrando i denti grandi e sani. «Sono senza dubbio un fuorilegge, ma non uno yakuza. Faccio il ruffiano». «Ruffiano? Che cosa vuol dire?» Satake aveva preso dal taschino una lussuosa penna a sfera e aveva scritto con ideogrammi sottili, su un tovagliolo di carta, la parola ruffiano. Anna aveva letto aggrottando la fronte. «Sono uno che vende le donne». «E a chi le vende?» «Agli uomini che le desiderano». Così era un mediatore di prostitute. Anna, colta di sorpresa dalle parole così esplicite di Satake, era rimasta in silenzio. Allora lui, con lo sguardo fisso sulle dita di Anna che tenevano ancora il tovagliolo di carta, aveva chiesto: «Annachan, ti piacciono gli uomini?» La ragazza aveva inclinato la testa perplessa: «Sì, se sono belli». «E chi è bello, per te?» «Tony Leung, ad esempio. È un attore di Hong Kong». «Se lui ti volesse, ti piacerebbe essergli venduta?» «Sì. Ma sicuramente non mi vorrebbe. Non sono abbastanza bella», aveva risposto lei dopo averci pensato un po’ su. «Ma va’, fra tutte le donne che ho incontrato finora sei sicuramente la più bella!» «Non è vero», aveva detto Anna ridendo. Non riusciva assolutamente a crederci. Una come lei, che non era neppure tra le prime dieci più belle in quel piccolo locale. «È una bugia». «Io non dico mai bugie». «Sì, ma…» «L’unico problema è che non hai fiducia in te. Se vieni a lavorare con me, ti prometto che in breve tempo sarai la prima a meravigliarti della tua grazia e della tua bellezza». «Ma diventerei una puttana!» aveva protestato Anna sporgendo le labbra. «No, prima scherzavo. Ho un night-club.» Per lei comunque non sarebbe cambiato molto. Anna, che era già pentita da un pezzo di essere andata a lavorare in Giappone, abbassò la testa. Satake aveva continuato a guardarla accarezzando con quelle sue lunghe, bellissime dita il bicchiere su cui il ghiaccio, sciogliendosi, aveva formato piccole gocce d’acqua. Nei punti in cui le sue dita sfioravano il vetro le gocce scivolavano giù, macchiando il sottobicchiere. Non aveva assaggiato neppure un sorso, e Anna si era fatta l’idea che tenesse in mano il bicchiere soltanto per accarezzarlo. «Non ti piace questo lavoro?» «Ma sì, certo», aveva risposto Anna riluttante, sbirciando intimorita la mama-san che lì, nel club, faceva il bello e il cattivo tempo. Satake aveva seguito il suo sguardo. «Non sai che cosa fare, vero? Ma sei pur venuta per guadagnare soldi, o no? E allora devi farlo. Hai un formidabile talento che non sei ancora riuscita a tirare fuori». «Talento?» «Sì, la bellezza è un talento, come quello di uno scrittore o di un pittore. È un dono del cielo che non tutti hanno. Gli scrittori e i pittori si sforzano di raffinarlo. E anche tu devi darti da fare per levigare il tuo talento. È questo il tuo impegno, la tua professione. Insomma, sei un’artista Anna-chan, ne sono convinto. Ma sembra che tu voglia tirarti indietro…»
Continuando ad ascoltarlo si sarebbe inebriata del tono dolce e suadente della sua voce. Improvvisamente aveva alzato il viso: era triste. Quell’uomo usava le sue lusinghe solo per indurla a lavorare nel suo locale! L’avevano sempre messa in guardia da gente di quel genere! Come se avesse intuito le preoccupazioni di Anna, Satake aveva sorriso e con un profondo sospiro aveva detto: «Peccato, un vero spreco!» «Ma io non ho talento!» «Ce l’hai. Davvero non vorresti diventare la protagonista della tua vita?» «Certo che lo vorrei». «Quando riuscirai a esaudire anche solo un paio dei tuoi desideri, potrai riconoscere qualcosa». «Che cosa?» «Il tuo destino». «Perché?» «Perché c’è sempre qualcosa che non va esattamente come si desidera. È colpa del destino», aveva risposto serio Satake porgendole un biglietto da diecimila yen piegato con cura. Mentre pronunciava quelle parole, per un attimo Anna aveva creduto di scorgere qualcosa lampeggiare in quegli occhi cupi e aveva distolto in fretta lo sguardo, con la sensazione di aver visto qualcosa che non doveva vedere. «La ringrazio». «Ci rivedremo», aveva detto Satake guardandosi intorno come se avesse perso ogni interesse nei suoi confronti. Infine aveva fatto un cenno al direttore perché gli chiamasse un’altra ragazza. Anna era stata liquidata e aveva raggiunto il tavolo di un altro cliente. Era scontenta di se stessa ed era sicura di averlo deluso con la sua risposta. E se fosse stato vero quello che le aveva detto, cioè che sarebbe diventata molto più bella se fosse andata a lavorare da lui? Le sue parole l’avevano profondamente turbata e agitata. Voleva avere di più dal proprio destino! Possibile che avesse perso la sua occasione? Era pentita. Tornata all’appartamento aveva preso il biglietto da diecimila yen che le aveva dato Satake e si era accorta che sopra c’era scritto il nome Mika e un numero di telefono. Quando era andata a lavorare nel suo night-club, Satake le aveva insegnato molte cose. Che con i clienti doveva fingere di non sapere parlare bene il giapponese. Che agli uomini giapponesi piacevano le donne timide e che parlavano poco. Che però poteva comunicare con loro per iscritto, perché si sarebbe guadagnata la loro ammirazione se si fosse impratichita nell’arte della calligrafia. Gli uomini prediligono le donne intelligenti ma riservate. Che doveva assolutamente far credere loro di essere venuta in Giappone per studiare la lingua – faceva la hostess solamente per guadagnare qualche yen per le piccole spese. Anche se in fondo sapevano che erano tutte bugie, gli uomini amavano cullarsi nell’illusione di essere superiori, e diventavano più gentili e generosi. Che doveva assolutamente far credere, alludendovi con noncuranza, di appartenere a una buona famiglia di Shanghai e di essere stata allevata come una signorina per bene. Così i clienti si sarebbero sentiti ancora più tranquilli. Satake non la lasciava mai e le insegnava tutto, da come truccarsi per piacere agli uomini a quali abiti scegliere. Qui erano in Giappone, e gli uomini giapponesi erano fondamentalmente diversi da quelli di Shanghai, che avevano imparato che le donne erano in grado di esprimere la propria personalità nel mondo degli affari e di guadagnarsi da vivere. Anche prima Anna ne era stata consapevole, ma non avrebbe mai pensato di dover fare i conti con questa realtà. Satake le insegnò tutte le tecniche che le servivano e lei le imparò in fretta. Non si trattava di diventare una donna di quel tipo, doveva solo essere professionale e dedicarsi completamente al lavoro. Questo le avrebbe garantito il successo “commerciale” e i suoi genitori non si sarebbero vergognati. Inoltre aveva davvero talento: più recitava quella parte e più diventava la donna bella ed enigmatica di cui aveva parlato Satake. Sì, lui aveva visto bene. In breve tempo era diventata l’hostess più richiesta del Mika, e il successo l’aveva resa più
sicura. Era riuscita finalmente a cancellare per sempre il gatto randagio che era stata. Aveva cominciato a chiamare Satake “O-nii-chan”, il mio fratello maggiore. Anche Satake aveva smesso di nascondere la predilezione che aveva per lei. Con il passare del tempo Anna aveva incominciato a credere che lui si fosse innamorato di lei. Infatti non le presentava mai clienti “speciali”, come faceva con le altre hostess. Ma un giorno Satake, come se le avesse letto dentro, le aveva telefonato: «Anna-chan, ho trovato l’uomo per te». «Che tipo d’uomo?» «È ricco e bello. Questo dovrebbe essere sufficiente, no?» Naturalmente si trattava di Tony Leung. Non era né bello né giovane, ma nuotava letteralmente nei soldi. Per ogni incontro la pagava un milione di yen. In dieci notti avrebbe guadagnato dieci milioni, quello che poteva considerarsi un bel reddito per un anno di lavoro. E se lo avesse tenuto in caldo, in poco tempo sarebbe diventata miliardaria. Quando il suo conto in banca avesse raggiunto la cifra che si era prefissata, avrebbe potuto dimenticare Tony Leung. Ma il cuore di Anna era occupato da un altro uomo, l’oscuro, impenetrabile Satake. Avrebbe voluto immergersi nella palude dei suoi occhi e scoprire la creatura che ne abitava il fondo. Anzi avrebbe voluto afferrarla con le proprie mani. Anna si sentiva come a caccia, eccitata e tesa. Si ricordava che cosa le aveva detto quando si erano incontrati per la prima volta: «Ci sarà sempre qualcosa che non andrà come avresti voluto. È il destino». Che cos’era quel lampo che aveva visto guizzare per un attimo nel lago paludoso dei suoi occhi? L’avrebbe saputo presto, di questo ne era certa. Perché lei era una donna speciale per Satake. Ma più tentava di conoscerlo e più si accorgeva di ignorare tutto di lui. Perché Satake stava molto attento a non lasciar trapelare il suo segreto. Nessuno conosceva il suo indirizzo e nessuno aveva mai visto la sua casa. Chén, il direttore, credeva di avere visto una volta un uomo come Satake davanti a una vecchia casa a due piani nella zona occidentale di Shinjuku. Ma quell’uomo era vestito in modo molto modesto, non con i ricercati abiti firmati che Satake prediligeva. Era uscito di casa per gettare l’immondizia con addosso un paio di vecchi pantaloni sformati alle ginocchia e un golf logoro ai gomiti. Sembrava un impiegato male in arnese e, alla vista del disordine intorno al bidone delle spazzature, aveva fatto una smorfia di disgusto e aveva incominciato a far pulizia. Era stato soprattutto questo che gli aveva messo in testa che poteva essere proprio Satake, il proprietario del Mika. Chén si era meravigliato ma anche spaventato, aveva raccontato ad Anna. «Il padrone che conosciamo si veste in modo appariscente, ma accurato ed elegante. L’ho sempre considerato uno sul quale si può contare, anche se non parla mai. Ma se quello che ho visto quel giorno è proprio lui, e quella è la sua vera personalità, il contrasto è troppo grande. Vorrebbe dire che qui, al club, il suo modo di fare è tutto una finzione. Strano, come mai avrebbe bisogno di nasconderci qualcosa? Possibile che non si fidi di noi? Non si può vivere senza fidarsi di nessuno. Perché significherebbe non fidarsi neppure di se stessi». Satake era un uomo misterioso, sembrava circondato da un segreto. Tutti i dipendenti trovavano inquietante la storia di Chén, ma allo stesso tempo si sentivano fortemente attratti da quell’uomo così enigmatico. Perché agiva in quel modo? Chi era realmente? Ognuno aveva la sua teoria. Ma Anna non si poteva accontentare dell’idea di Chén, che Satake in realtà diffidasse prima di tutto di se stesso. Era giovane e innamorata, ed era gelosa. Doveva esserci un’altra donna, una donna con la quale Satake non aveva bisogno di nascondersi, con la quale poteva essere se stesso… Finalmente un giorno Anna gli aveva chiesto: «O-niichan, vivi con una donna?» Satake l’aveva guardata stupito e per un attimo era rimasto senza parole. Anna aveva interpretato la sua esitazione come prova di avere colto nel segno, e così aveva continuato: «E chi è?» «No, no», aveva risposto Satake ridendo, e per un istante i suoi occhi si erano offuscati, «non ho mai vissuto con una donna».
«Allora non ti piacciono le donne, O-nii-chan?» Anna, benché tranquillizzata dal fatto che non ci fosse un’altra ragazza nella vita di Satake, aveva avuto paura che fosse omosessuale. «Certo che mi piacciono, e quelle che preferisco sono le ragazze belle e dolci come te, Anna-chan. Le considero un incredibile regalo, di cui sono veramente grato!» Così dicendo le aveva preso la lunga mano affusolata e se l’era appoggiata sul palmo della sinistra, continuando ad accarezzarla con la destra. Ad Anna era sembrato che stesse valutando la fattura di un oggetto prezioso e aveva capito che dicendo “mi piacciono” lui aveva solo manifestato la generi ca ammirazione di un uomo per la bellezza femminile. «Grato a chi?» «Al cielo, per il regalo che ha voluto fare agli uomini». «E le donne? Non c’è un regalo anche per loro?» «Mah… Uomini come Tony Leung, per esempio. Che ne dici?» Anna aveva inclinato la testa: «Non credo». Perché una donna vuole sempre riuscire a sfiorare l’anima di un uomo. Non si può accontentare dell’aspetto esteriore! E l’anima che una donna vuole sfiorare è solo una, un’anima in armonia con la propria. Sembrava invece che Satake, quando parlava di “ragazze belle e dolci”, si riferisse solo a piccoli oggetti graziosi da viziare a proprio piacimento. L’anima non lo interessava, evidentemente non ne aveva bisogno. E, per quanto lo riguardava, qualsiasi donna andava bene, bastava che fosse carina. Per lei invece non era la stessa cosa, in tutto il mondo non c’era un uomo che potesse prendere il posto di Satake, aveva pensato Anna delusa. «Allora, O-nii-chan, ti basta che una donna sia bella e dolce?» «Sì. Gli uomini non desiderano altro». Anna era rimasta in silenzio. Aveva capito che qualcosa si era irrimediabilmente spezzato nell’animo di Satake. Forse una volta una donna lo aveva fatto soffrire molto. Aveva provato compassione per lui e si era messa a pensare a come avrebbe potuto curare e guarire quelle ferite. Era convinta di esserne capace ed era felice di poterlo fare. Ma il giorno in cui erano andati in piscina le illusioni di Anna erano svanite. Dapprima era stata contenta che Satake fosse andato in piscina con lei, ma la sua reazione ai tentativi di approccio del ragazzo l’aveva molto delusa. Come li aveva guardati! Il suo sguardo bonario come quello di uno zio comprensivo! Le aveva fatto male e si era arrabbiata perché lui si rifiutava di prendere sul serio i suoi sentimenti. Per questo aveva invitato a casa il ragazzo la sera stessa, per ricambiarlo con la stessa moneta. Non si trattava che di una piccola vendetta, ma Satake sembrava non aver capito che lo aveva fatto perché era innamorata di lui. «Non ho niente in contrario se ti diverti con gli uomini. Purché vieni regolarmente a lavorare. E purché la cosa non duri troppo a lungo». Non avrebbe mai dimenticato il modo in cui aveva pronunciato quelle parole. Per lui non era altro che una merce da offrire in vendita al Mika, un giocattolo da uomini! Era per questo che l’aveva viziata e coccolata, perché era una bellissima bambola che doveva ballare come voleva lui. Quella notte Anna non era riuscita a dormire. Di nuovo si era sentita fragile come una tazzina da tè incrinata. E lei che aveva pensato di potere dimenticare per sempre quella sensazione! Ma il mattino seguente l’attendeva una sorpresa ancora più scioccante. Chén aveva telefonato: «Anna, hanno impacchettato il capo, per il baccarat. Forse non sai ancora niente, dal momento che ieri non sei venuta». «Che cosa vuol dire “impacchettato”?» «Che è stato portato via dalla polizia. E così anche Kunimatsu, il direttore del Parco. Oggi il Mika deve assolutamente rimanere chiuso. Se la polizia viene a farti delle domande tu non sai niente, capito?»
Proprio adesso che aveva deciso di chiedere a Satake che cosa provasse per lei! A seconda della sua reazione avrebbe anche potuto licenziarsi. Frustrata di dovere aspettare ancora, Anna era andata in piscina e vi era rimasta tutto il giorno prendendosi una bella scottatura. La sera, guardandosi la pelle arrossata, aveva dovuto ripensare al giorno precedente, quando Satake era andato con lei. Forse non aveva del tutto ragione, forse non era vero che la considerava soltanto una cosa. Forse esitava a causa della differenza di età, anche questo era possibile. Del resto non si era sempre occupato amorevolmente di lei? Non era forse la sua prediletta, quella che preferiva? Era un’ingrata a non riconoscere quello che Satake aveva fatto per lei! Anna, di nuovo animata dai suoi migliori sentimenti, si era sentita in colpa nei suoi confronti e all’improvviso la nostalgia si era impadronita di lei. Il giorno successivo i dipendenti del Parco che erano stati arrestati con Satake vennero rimessi in libertà. Presto avrebbero liberato anche lui, pensò Anna.Ma lui non tornava. Il Mika era ormai chiuso da più di una settimana. Lì-huá, la mama-san, andò a trovarlo e Satake le ordinò di dire ai clienti che il locale rimaneva chiuso in vista della festa di Obon 7. Anna continuò ad andare in piscina tutti i giorni. Adesso la sua pelle arrossata dal sole aveva assunto una luminosa tonalità bronzo chiaro che esaltava la sua bellezza. Per strada si voltavano a guardarla. In piscina gli uomini la assediavano. Satake sarebbe stato orgoglioso di lei se avesse potuto ammirare questo nuovo aspetto della sua bellezza e quanto lei ne andava fiera. Peccato che non fosse lì! La sera stessa andò a trovarla Lì-huá: «Devo parlarti, Anna-chan. È una questione importante». «Che cosa è successo?» «Si tratta di Satake-san. A quanto pare passerà molto tempo prima che sia di nuovo libero». Con Anna Lì-huá parlava in mandarino, perché veniva da Taiwan e non sapeva il cinese di Shanghai. «Ma perché?» «Be’, è proprio quello di cui ti voglio parlare. Non l’hanno arrestato solo per la faccenda del gioco d’azzardo. Anch’io l’ho saputo solo quando sono andata alla polizia a fare la mia deposizione: sembra che ci sia qualche collegamento tra lui e il cadavere trovato a pezzi nel parco». «Il cadavere a pezzi?» Anna allontanò il cagnolino che uggiolava eccitato ai suoi piedi. Lì-huá si accese una sigaretta e la scrutò in viso. «Sì, davvero non ne sai niente? Circa tre settimane fa hanno trovato un cadavere fatto a pezzi. E vuoi sapere chi era? Uno dei nostri clienti, quel Yamamoto, ti ricordi?» Anna era allibita: «Yamamoto? Vuole dire quel Yamamoto che mi girava sempre intorno?» «Sì, proprio lui. Siamo tutti sbalorditi». «Ma com’è possibile? Non riesco a crederci…» Yamamoto la chiamava sempre al suo tavolo, non la lasciava mai in pace. Quando lei gli sedeva di fronte, lui le afferrava la mano e una volta, ubriaco, aveva persino tentato di buttarla sul divano. Ma non era stata solo la sua insistenza a turbarla. Yamamoto si sentiva solo, questo era evidente, ed Anna se ne era accorta subito. Lei era molto disponibile finché i clienti si limitavano a divertirsi e tutto rimaneva un gioco, ma di uomini soli non ne voleva proprio sapere. Per questo quando non l’aveva più visto si era sentita sollevata, e ormai l’aveva cancellato dai propri pensieri. «La polizia verrà senz’altro a cercarti molto presto. Sarà meglio che traslochi più in fretta possibile», disse Lì-huá guardandosi intorno nell’appartamento lussuosamente arredato, come se volesse stimarne il valore. «E perché?» «Credono che Satake abbia ucciso Yamamoto perché ti dava fastidio. E poi avrebbe incaricato la mafia cinese di fare a pezzi il cadavere». «No, O-nii-chan non farebbe mai una cosa del genere!» «Ma sembra che l’abbia preso a pugni davanti al Parco».
«Questo lo so… ma non ha fatto altro». «Non sai ancora tutto». Lì-huá abbassò la voce: «Satakesan ha ucciso una donna». Anna si sentì soffocare. Aveva la gola completamente arsa e non riusciva più a deglutire. «E non l’ha uccisa in modo “normale”. Sono rimasta veramente inorridita quando l’ho saputo, mi devi credere. Se le ragazze del Mika venissero a saperlo sono sicura che scapperebbero subito terrorizzate». «Come l’ha uccisa?» Ad Anna sembrava di rivedere la luce sinistra che brillava sul fondo della palude di Satake. «Sembra che una volta Satake lavorasse come guardia del corpo o qualcosa di simile per un famigerato yakuza del quartiere. È una vecchia storia e quello adesso è morto. Era il capo di una banda attiva nel giro della prostituzione e dello spaccio di amfetamine. Satake-san aveva l’incarico di andare a riprendere le donne che scappavano e di riscuotere i crediti. Un giorno una donna se l’era svignata con l’aiuto di una mediatrice che di nascosto l’aveva sistemata in un altro bordello. Satake-san era riuscito a catturare la mediatrice. Sembra che l’abbia rinchiusa in una camera e lì l’abbia torturata a morte – la ha seviziata finché non è morta». «Torturata a morte… che cosa vuol dire?» Anna non riusciva più a controllare il tremito nella propria voce. Le tornò alla mente quando da bambina i suoi genitori l’avevano portata in gita a Nanchino – la vista terrificante dei manichini al museo della guerra, in ricordo del massacro che era avvenuto in quella città. La palude di Satake. Era dunque questo il terribile passato nascosto nel fondo dei suoi occhi. «Ah, orribile!» Lì-huá aggrottò torva le sopracciglia sottolineate dal trucco. «Si è comportato in modo disumano. L’ha denudata, percossa e violentata fino a farle perdere i sensi e poi l’ha fatta rinvenire pugnalandola alla pancia con un coltello. E quindi ha di nuovo violentato quel corpo da cui il sangue usciva a fiumi. A quanto dicono il cadavere era pieno di lividi e non aveva più denti in bocca; l’aveva conciata proprio bene. Persino il vecchio yakuza era talmente inorridito che lo aveva scacciato». Anna emise un lungo gemito. Lì-huá, chissà quando, se ne era andata. Solo il barboncino nano era ancora accanto a lei e la guardava con aria interrogativa continuando ad agitare la coda. «Ah, Gioiellino!» Anna si girò disperata verso di lui e il cane abbaiò felice in risposta al suo richiamo. Ricordò il giorno in cui l’aveva comprato. Voleva avere accanto a sé qualcosa che le scaldasse il cuore. Nel negozio aveva scelto la creatura più bella che avevano. Era la stessa cosa che aveva fatto Satake. Capì che ci sono uomini che desiderano le donne proprio per lo stesso motivo per cui lei aveva voluto il cane. E anche che per Satake lei non significava niente di più di quello che il cane significava per lei. Per Satake Anna era dolce e carina, così come Gioiellino era dolce e carino per lei. Non sarebbe mai riuscita a penetrare nella palude di quell’uomo. Anna scoppiò a piangere. 4. Quattro giorni dopo che la notizia era comparsa sulle prime pagine di tutti i giornali la polizia andò a casa di Masako. Erano già andati in fabbrica e le avevano posto alcune domande di routine, per cui era preparata a quella visita, dal momento che tutti i suoi colleghi sapevano che lei era la migliore amica di Yayoi. Ma nessuno avrebbe mai scoperto che il cadavere di Kenji era stato fatto a pezzi nel bagno di casa sua, di questo era sicura. Lei stessa non sapeva perché aveva aiutato Yayoi – e allora come avrebbe potuto, un estraneo, trovare una relazione? Masako era ottimista. «Mi scusi se la disturbo subito dopo il lavoro, di sicuro sarà stanca. Ma sarò molto breve». Era Imai, il più giovane dei due agenti che erano andati allo stabilimento. Evidentemente sapeva che lei faceva il turno di notte e le sue scuse sembravano sincere. Masako guardò l’orologio: erano le nove. «Non si preoccupi, avrò tempo per dormire più tardi».
«Grazie. Lei ha un ritmo di vita piuttosto irregolare, la sua famiglia non ne soffre?» Imai, incoraggiato dalla schiettezza di Masako, venne subito al punto. Era giovane, ma in nessun caso da sottovalutare. Masako decise di stare in guardia. «È passato così tanto tempo che ormai ci siamo abituati». «Immagino. Ma suo marito e suo figlio non si preoccupano se sta fuori tutta la notte? Lei è la madre, e quindi il cuore della famiglia». «Mah, non saprei…» Masako dubitava di potersi considerare il “cuore” di quella famiglia. Sorrise amaramente e invitò Imai a entrare in soggiorno. «Ma certo che si preoccupano. Gli uomini sono così. Fa parte della nostra natura non stare tranquilli quando una donna sta fuori tutta la notte, non c’è dubbio», ribadì Imai con foga. Masako si sedette di fronte a lui, senza neppure fare il gesto di offrirgli un tè o qualcos’altro. Nonostante l’età, quel poliziotto aveva una mentalità piuttosto ristretta. Imai appoggiò con calma sulla sedia la giacca beige che teneva sotto il braccio. «Signora Katori, ha deciso di andare a lavorare di notte d’accordo con suo marito?» «D’accordo? Che cosa c’entra? La sua unica preoccupazione era che il lavoro non fosse troppo duro per me, ma…» Era una bugia bella e buona. Yoshiki non aveva neppure commentato la sua scelta, e Nobuki già allora aveva smesso di parlare. «Ah, così?» Imai scosse la testa come per dire che tutto questo era per lui inconcepibile e aprì l’agendina. «Sembra che anche in casa della vittima le cose andassero allo stesso modo, ma mi stupisce molto che un uomo come suo marito, un normale impiegato, possa tollerare che la moglie lavori di notte». Masako alzò la testa perplessa, non riusciva proprio a capirlo: «E perché mai?» «Anzitutto la vita viene capovolta. In famiglia non c’è più comunicazione, dal momento che marito e moglie riescono a malapena a incrociarsi. E inoltre chissà che cosa fa in realtà la donna quando dice che va a lavorare! È ovvio che uno preferisce che la moglie abbia una normale attività diurna!» Masako incominciò a capire in quale direzione si stava orientando la fantasia del poliziotto: Imai sospettava che Yayoi avesse una relazione extraconiugale! «Mettiamo da parte il mio caso per un momento. Una volta Yayoi aveva un normalissimo lavoro part-time, ma ha dovuto rinunciarvi a causa dei bambini. Non le rimaneva altra scelta all’infuori del turno di notte. Almeno questo è quanto ha detto». «Sì, questo lo so già. Mi domandavo solo quale altro vantaggio potesse offrire il lavoro notturno per controbilanciare gli svantaggi». «Credo proprio nessuno», tagliò corto Masako. L’ostinata ottusità di Imai la stava facendo arrabbiare, ma non voleva che se ne accorgesse. «L’unico vantaggio potrebbe essere la paga, che è del venticinque per cento più alta di quella diurna». «Solo questo?» «Provi a pensare: la stessa paga e tre ore in meno di questo stupido lavoro. Questo è senza dubbio un vantaggio, mi creda. Il tempo è prezioso, non lo si può buttare al vento». «Può darsi, ma…» Imai non sembrava ancora convinto. «Forse lei non riesce a capire perché non ha mai fatto un lavoro part-time…» «È ovvio che no, alla fin fine sono un uomo», rispose Imai tutto serio. «Se lei ci avesse provato, capirebbe subito che è molto meglio prendere la paga più alta e lavorare meno ore possibile, anche se la differenza è minima». «Anche quando si deve scambiare la notte con il giorno?» «Sì, anche allora». «Be’, se ne è convinta… Ma perché la signora Yamamoto doveva per forza andare a lavorare?» «Perché era necessario per sopravvivere, suppongo».
«Vuole dire che lo stipendio del marito non bastava?» «Non so esattamente, ma credo di no». «Non sarà stato piuttosto perché suo marito si prendeva delle libertà e lei si era arrabbiata o addirittura non voleva più vederlo? Insomma, forse non si trattava solo di soldi». «Questo non lo so», rispose seccamente Masako, «non mi ha mai raccontato niente del genere, o almeno niente che avvalori questa interpretazione». «Quale interpretazione?» «Ripicca nei confronti del marito o qualcosa del genere, come lei ha insinuato. Yayoi si è sempre presa cura dei figli e ha sempre lavorato con grande impegno». Imai annuì: «Sì, forse ho esagerato, mi scusi. Però abbiamo scoperto che il marito della signora Yamamoto aveva dilapidato tutti i loro risparmi». Masako finse di stupirsi della notizia, come se la sentisse per la prima volta: «Davvero? E come?» «Secondo le nostre indagini li ha spesi nei bar e nelle sale da gioco. Ora le chiedo di rispondermi schiettamente, dal momento che in fabbrica lei è la persona più in confidenza con la signora Yamamoto: come erano i loro rapporti coniugali?» «Non saprei. Lei non me ne ha mai parlato». «Ma come è possibile? Le donne parlano sempre un sacco e spesso e volentieri si lamentano dei mariti!» incalzò Imai guardandola diffidente. «Dipende dalle persone. Lei non è quel tipo di donna». «Certo. È una magnifica persona. Però dai vicini abbiamo saputo che litigavano spesso e che si facevano sentire fino in strada». «Ah sì?… Questa mi giunge nuova». Era possibile che sapessero anche che quella sera lei era andata da Yayoi? Masako, preoccupata, lo guardò negli occhi. Imai rispose tranquillo allo sguardo, come se la stesse valutando. «Sembra che negli ultimi tempi Yamamoto si fosse dato parecchio da fare – gioco d’azzardo, alcol, donne – e che i suoi rapporti con la moglie non fossero dei migliori. Abbiamo raccolto queste voci nel suo ambiente di lavoro. Lui stesso ne aveva parlato con i colleghi. Aveva detto che ultimamente litigava sempre con la moglie e quindi non tornava mai a casa prima che lei non fosse uscita per andare in fabbrica, e così via. La signora Yamamoto, invece, insiste nel dire che il marito era sempre stato puntuale, tranne che quella notte. È strano, no? Che bisogno ha di mentire su questo punto? Davvero non si è confidata con lei?» «No, non ne so assolutamente nulla». Masako scosse la testa e partì all’attacco: «Allora sospetta di Yayoi, ispettore?» Immediatamente Imai fece un cenno di diniego e replicò: «Ma no, che cosa va a pensare! Ho solo cercato di mettermi nei panni della signora Yamamoto: al suo posto sarei stato furioso, se avessi dovuto arrabattarmi di notte in fabbrica mentre lui polverizzava tutti i risparmi giocando a baccarat, divertendosi nei bar con altre donne e tornando a casa ogni sera ubriaco. Non mi sarebbe piaciuto dovere raggranellare disperatamente ogni singolo yen per dargli la possibilità di gettare il denaro a piene mani fuori dalla finestra! Tutta la mia fatica non sarebbe servita a niente, mi sarei sentito impotente. Una situazione insopportabile, non trova? Un uomo normale avrebbe preferito avere la moglie a casa, la notte, e non l’avrebbe mandata a fare i turni, ma per Yamamoto tutto questo cadeva a pallino. Perciò sospetto che non andassero d’accordo». «Crede? Non me ne sono mai accorta…» Masako continuò a fingere di non sapere niente, ma dentro di sé ammise cinicamente che Imai aveva colto nel segno. «Dunque la signora Yamamoto è una persona così paziente?» «Sì, credo di sì». Imai alzò gli occhi dall’agendina e la guardò: «Signora Katori, in situazioni come queste una
donna di solito non si cerca un amante?» «Dipende dalla persona, e Yama-chan, voglio dire la signora Yamamoto non è di quel tipo». «Allora non frequentava nessun uomo neanche nello stabilimento?» «No, assolutamente», rispose decisa Masako. Finalmente Imai era riuscito ad arrivare al punto. «E fuori dall’ambiente di lavoro?» «Non so». Imai esitò qualche istante prima di dire: «Quella notte cinque dipendenti non si sono presentati: mi dica se fra di loro vi era una persona particolarmente intima della signora Yamamoto». Le mostrò i suoi appunti. All’ultimo posto della lista c’era il nome di Kazuo Miyamori. Il cuore le batté forte, ma scosse la testa e disse: «Non esiste. Lei è una donna seria». «Ah…» «Lei pensa dunque che Yayoi avesse un amante e che costui si sia sbarazzato del marito. È questo che pensa, signor ispettore?» «Che cosa dice! Lei ha troppa fantasia», sorrise Imai. E invece era chiaro dove si stava orientando la fantasia del poliziotto: Yayoi doveva aver avuto un complice, e precisamente un uomo. E quest’uomo l’aveva aiutata a uccidere Kenji e a liberarsi del cadavere. «La signora Yayoi è una buona moglie e una splendida madre. Non posso davvero definirla in altro modo, mi creda», dichiarò Masako pensando che era vero. Proprio perché era una moglie e una madre esemplare aveva potuto aggredire Kenji come una furia e ucciderlo, dopo aver scoperto di essere stata ingannata. Se avesse avuto un amante non si sarebbe comportata in quel modo. Invece le supposizioni di Imai avevano preso la direzione opposta. «Be’, se lo dice lei…» Imai non sembrava ancora convinto e osservava l’agendina con aria insoddisfatta. Masako si alzò, prese dal frigorifero una caraffa con dell’infuso d’orzo e gliene versò un bicchiere. L’agente la ringraziò e lo bevve tutto d’un fiato. Il pomo di Adamo si mosse su e giù. Masako fu costretta a pensare al pomo di Adamo di Nobuki e a quello del morto: lo fissò per qualche istante, poi distolse lentamente lo sguardo. «Devo farle qualche altra domanda di routine: dove si trovava la sera del martedì della scorsa settimana scorsa e che cosa ha fatto mercoledì, dal mattino presto a mezzogiorno circa?» Dopo aver posato il bicchiere sul tavolo, Imai tossicchiò e guardò Masako. «Come sempre sono andata in fabbrica. C’era anche Yayoi. Come al solito ho fatto il turno di notte e sono ritornata a casa alla solita ora». «Ma lei è arrivata allo stabilimento più tardi del solito, vero?» obiettò Imai cercando nell’agenda. Quindi sapeva anche che quella sera lei era arrivata in fabbrica appena in tempo prima dell’inizio del turno. Non aveva immaginato che avrebbero indagato anche su quei dettagli. Colta di sorpresa si innervosì, ma si sforzò di mantenere la calma e, senza cambiare espressione, rispose: «Può darsi. C’era molto traffico e avrò fatto un po’ tardi». «Ah, già. Certo, da qui ci vuole un’auto per raggiungere Musashi-Murayama. È sua la Corolla posteggiata fuori dalla porta?» «Sì». «La usa qualcun altro in famiglia?» «No, solo io». Aveva pulito il bagagliaio, ma se la scientifica l’avesse esaminato avrebbe potuto trovare qualcosa. Masako accese una sigaretta per nascondere la propria inquietudine. Per fortuna le mani non le tremavano. «Che cosa ha fatto il giorno seguente, dopo la fine del turno?» «Dunque, sono tornata poco prima delle sei, poi ho preparato la colazione che ho mangiato
insieme ai miei. Dopo che mio marito e mio figlio sono usciti ho cominciato a fare il bucato e a riordinare. Poco dopo le nove sono andata a dormire – tutto come sempre». «Nel frattempo ha parlato con la signora Yamamoto?» «No, non dopo che ci siamo viste in fabbrica». Improvvisamente risuonò nel soggiorno una voce che mai si sarebbe aspettata di udire: «Ma alla sera non ha chiamato la signora Yamamoto?» Si voltò stupita e vide Nobuki fermo sulla soglia. Le sembrava di avere preso un colpo in testa. Quella mattina non era ancora sceso; lei l’aveva lasciato in pace e nel frattempo si era dimenticata che era ancora in casa. «Chi è?» domandò calmo Imai. «…mio figlio». Imai salutò il ragazzo con un lieve cenno del capo. Poi li guardò entrambi con interesse e chiese: «Circa a che ora ha telefonato la signora Yamamoto?» Masako non rispose: continuava a fissare il figlio attonita. Erano queste dunque le prime parole che doveva sentire dalla bocca di suo figlio dopo quasi un anno! Proprio della telefonata doveva parlare! Non poteva averlo fatto che per vendetta. Ma perché? Che cosa gli aveva fatto? «La telefonata, signora Katori», ripeté Imai, «a che ora circa? Signora Katori?» Masako ritornò in sé: «Mi scusi, era molto tempo che non mi rivolgeva più una parola». Come si accorse che parlavano di lui, Nobuki alzò le spalle contrariato e fece per uscire dalla stanza. «Aspetta, che cosa volevi dire?» «Proprio niente!» brontolò Nobuki e corse fuori sbattendo la porta. «Deve scusarlo per il suo comportamento, ispettore. Da quando è stato espulso dalla scuola non ha più detto una parola in casa», spiegò Masako in tono materno. «Capisco. A quest’età i ragazzi sono difficili. Lo so bene perché ho prestato servizio in un riformatorio». «Era la prima volta che mi parlava, mi ha stupito». «Probabilmente questo caso lo ha scioccato», annuì Imai comprensivo, tuttavia si leccava impaziente le labbra ed era chiaro che non vedeva l’ora di tornare all’argomento principale e sentire il resto della storia. Masako lo assecondò: «Adesso mi ricordo della telefonata: credo che sia stato martedì sera». «Ossia la sera del 20. A che ora circa?» incalzò Imai. «Sicuramente dopo le undici…» rispose Masako fingendo di riflettere. «Mi ha chiesto che cosa doveva fare, perché il marito non era ancora rincasato. Credo di averle detto di stare tranquilla e di andare a lavorare». «Ma questo doveva succedere spesso! Perché proprio quella notte le ha telefonato?» «Io non so se accadeva spesso. So solo che di solito suo marito tornava prima delle undici e mezza di sera. Ma quella sera era preoccupata perché i bambini facevano i capricci». «E come mai?» «Erano irrequieti e avevano la luna perché il gatto era scappato», improvvisò Masako. Più tardi avrebbe dovuto mettersi d’accordo con Yayoi su questa versione. Era indispensabile che se ne ricordasse. Ma non doveva essere un problema perché la faccenda del gatto era vera. «Ah». Imai era ancora diffidente. In quell’attimo la lavatrice segnalò che il bucato aveva terminato il ciclo. «Che cos’è?» «Solo la lavatrice». «Ah, posso dare un’occhiata al bagno?» chiese tranquillamente Imai e si alzò. Masako si sentì gelare il sangue nelle vene, ma annuì e accennò un sorriso: «Non ho niente in contrario, ma…» «Il mio interesse è di natura strettamente privata. Sa, ho intenzione di ristrutturare la casa e
quindi approfitto sempre di tutte le occasioni per vedere come sono sistemati i bagni». «Be’, se è così…» Masako lo guidò al bagno. Imai la seguì osservando attentamente ogni particolare della casa. «È una bella casa. È ancora abbastanza nuova, vero?» «Sì, è stata costruita tre anni fa». «Ah, che bel bagno spazioso! La invidio!» esclamò Imai guardandosi intorno. Sapeva che cosa stava pensando: qui sarebbe senz’altro possibile fare a pezzi un cadavere. Masako doveva stare in guardia. Quando, dopo aver esaminato ben bene il bagno, si stava già infilando le scarpe sformate nell’ingresso, Imai si voltò verso di lei e le chiese: «Suo figlio è sempre in casa?» Nobuki usciva quasi sempre a un’ora fissa per andare a lavorare, ma Masako decise di dire una piccola bugia: «Va e viene quando vuole». «Davvero?» Imai sembrò deluso e si mordicchiò il labbro, ma si riprese subito e si accomiatò giovialmente: «Mi scusi ancora per il disturbo». Dopo che se ne fu andato, Masako salì in camera di Nobuki, da dove si poteva vedere la strada di fronte alla casa. Spiò da dietro le tendine di pizzo. Come si era aspettata Imai era ancora lì, fermo sul terrapieno del cantiere, e osservava la casa. No, non la casa, bensì la sua vecchia Corolla. Aspettò fino a quando se ne fu andato e poi telefonò subito a Yayoi. Non la aveva più chiamata dal giorno in cui la notizia era apparsa sui giornali. «Pronto», rispose una voce sommessa. Era Yayoi. Masako sospirò di sollievo. «Sono io, posso parlarti?» «Ah, Masako!» esclamò contenta Yayoi. «Parla liberamente. Sono sola in casa». «E i parenti di tuo marito, e tua madre?» «Mia suocera è andata alla polizia per fare la sua deposizione. Mio cognato è già tornato al paese e mia madre è uscita a fare la spesa». Sembrava sollevata e senza preoccupazioni, come se fosse ritornata nel seno protettivo della famiglia. «Allora non sei sotto sorveglianza?» «Macché, la polizia non si fa più vedere – strano, no?» rispose serenamente Yayoi. Sembrava quasi che quella storia non la riguardasse più. «Hanno trovato la sua giacca in una sala da gioco di Kabuki-cho, e adesso, a quanto pare, le indagini si sono spostate lì». La si poteva considerare una fortuna nella sventura. Masako si tranquillizzò, pur continuando a nutrire qualche inquietudine nei confronti di Imai. «Sta’ attenta all’ispettore Imai». «Ah sì, quello giovane e alto, vero! So chi vuoi dire. Ma mi è sembrato carino!» «Carino!» esclamò Masako sconcertata. «Nella polizia criminale non ci sono persone “carine”!» «Davvero? Ma sembrano tutti provare compassione per me». Un po’ alla volta la spensieratezza sventata di Yayoi la stava facendo infuriare. «Ascolta: sanno che quella sera mi hai telefonato. Ho spiegato loro che i bambini erano irrequieti perché era sparito il gatto». «Che bella idea!» ridacchiò Yayoi. Sembrava essersi completamente dimenticata di essere stata lei a uccidere Kenji. Solo a sentirla a Masako venne la pelle d’oca. «Sta’ molto attenta a non contraddire la mia versione, hai capito?» «Ho capito. Ma sembra che vada tutto benissimo, io non mi preoccupo». «Cerca di non fare la spavalda!» «Sì, va bene. Sai, dopodomani arriveranno quelli della televisione». «Poco dopo il funerale?»
«Sì. Ho cercato di rifiutare, ma erano così insistenti, sai, e alla fine ho detto di sì». «Sei impazzita? Lascia perdere! Ti potrà vedere chiunque!» la rimproverò Masako. «Io non avrei voluto. Ma ha risposto mia madre e loro l’hanno convinta. Hanno assicurato che basteranno tre minuti». Masako non aveva più parole e tacque depressa. Avrebbe dovuto costringerla ad aiutarle a fare a pezzi il morto. Ormai sembrava che avesse rimosso anche il fatto che era lei l’assassina! Ma al momento, anche con la migliore volontà, Masako non riusciva a capire se l’atteggiamento di Yayoi, l’indiziata principale, nei confronti del mondo esterno fosse un bene o un male. Era ancora sconvolta dal tradimento di Nobuki. Non avrebbe mai immaginato che dopo un anno di silenzio avrebbe aperto bocca per fare una spiata! Evidentemente non poteva perdonarla di avere un po’ alla volta rinunciato a ridurre la distanza tra loro e di essersi limitata al ruolo di spettatrice passiva. Si era sempre impegnata con tutte le sue forze sia nel lavoro che in famiglia. Ma se era vero che suo figlio non poteva perdonarla, in che cosa aveva sbagliato secondo lui? Non aveva mai chiesto di avere qualcosa in cambio, non aveva mai sperato nella sua gratitudine, ma il suo tradimento l’aveva colpita a morte. Masako era così sconvolta che dovette sorreggersi allo schienale del divano. Le dita affondarono nella morbida stoffa di lana. In lei ruggiva un dolore irrefrenabile che cercava uno sfogo: avrebbe voluto strappare a pezzi quel tessuto. Soffocò i singhiozzi e chiuse gli occhi. La lavatrice aveva continuato a girare senza che vi avesse introdotto la biancheria, aveva lavorato a vuoto, come lei quando era impiegata alla cassa di credito. Evidentemente anche a casa non era stato diverso. Che significato aveva dunque la sua vita? Per che cosa si era impegnata, per che cosa aveva faticato, per che cosa era vissuta? Si sentì logorata, priva di una meta, e dai suoi occhi traboccarono le lacrime. Non riusciva più ad andare avanti. Forse proprio per questo aveva scelto di lavorare di notte. Dormire di giorno e lavorare di notte. Faticare fino a esaurire tutte le forze, per non pensare a nulla. Vivere all’opposto della sua famiglia. Ma tutto ciò non aveva fatto che aumentare la sua rabbia e la sua tristezza. Nessuno, né Yoshiki né Nobuki, avrebbe più potuto salvarla. Forse proprio per questo aveva oltrepassato il confine, perché era talmente disperata che voleva solo un mondo diverso. Improvvisamente capì quello che fino ad allora non le era stato chiaro: perché aveva aiutato Yayoi. Ma cosa la aspettava in quel mondo, oltre gli usuali confini? Nulla. Masako contemplò le sue dita, diventate ormai bianche, ancora aggrappate alla stoffa del divano. Venisse pure la polizia ad arrestarla, riuscissero pure a capire il movente che l’aveva indotta ad aiutare Yayoi, ormai nulla poteva più toccarla. Sentiva diverse porte che si chiudevano sbattendo alle sue spalle. Masako era rimasta sola con la sua solitudine. 5. Asciugandosi di quando in quando il sudore dalla fronte, Imai stava percorrendo una stradina che aveva tutta l’aria di essere stata un sentiero tra i campi. Si trovava in un quartiere di vecchie casette che parevano essere state dimenticate dalla moderna urbanizzazione. Sui tetti scuri la lamiera ossidata era staccata qua e là, le zanzariere erano sbrindellate e le grondaie arrugginite; dovevano essere passati più di trent’anni dalla loro costruzione. Tutte, senza eccezione, erano baracche di legno ormai cadenti, e sarebbe bastato un fiammifero a trasformarle in un rogo furioso. Kinugasa, il suo collega, si era trasferito temporaneamente dalla sede principale al distretto di Shinjuku e teneva sotto tiro quello che credeva essere l’assassino, il proprietario della sala da gioco e del night-club di Kabuki-cho dove, secondo gli accertamenti, si era recato Kenji Yamamoto il giorno della sua scomparsa. Ma Imai aveva deciso di separarsi da Kinugasa e di proseguire le indagini per conto proprio. Non appena aveva saputo dei precedenti penali del proprietario della sala da gioco, Kinugasa si
era subito convinto, ma così non era stato per Imai. Qualcosa nel comportamento di Yayoi lo disturbava, lei non lo persuadeva. Era una sorta di intuizione che difficilmente avrebbe potuto spiegare a parole. Aveva la sensazione che stesse tentando disperatamente di nascondere qualcosa che stava al centro di tutta la faccenda. Quel pensiero non gli dava pace. Si fermò in mezzo alla stradina, prese l’agenda e si mise a rileggere gli appunti dall’inizio. Alcuni studenti con i capelli bagnati – evidentemente tornavano dalla piscina – gli passarono davanti guardandolo con curiosità. Immaginiamo che Yayoi abbia ucciso il marito. Continuavano a litigare, dunque ci sarebbe stato un ottimo movente. Potrebbe capitare a tutti di uccidere in preda a un raptus. Ma Yayoi era una donna minuta, persino più piccola del normale. Le sarebbe stato difficile uccidere il marito senza procurarsi delle ferite, a meno che non stesse dormendo o non fosse ubriaco fradicio. Se Kenji era rimasto a Shinjuku fino alle dieci e poi, uscito dal locale, era tornato direttamente a casa, doveva essere arrivato non prima delle undici. E in un’ora gli effetti dell’alcol dovevano essersi almeno in parte attenuati. Inoltre, se ci fosse stata una lite così feroce da avere un esito mortale, i vicini avrebbero sicuramente sentito qualcosa e i bambini si sarebbero svegliati. Nessuno aveva visto Kenji Yamamoto né in treno, né alla stazione di Seibu-Shinjuku. Perché improvvisamente a Shinjuku si perdeva ogni sua traccia? Ammesso che Yayoi fosse riuscita a uccidere il marito e poi fosse andata al lavoro come se niente fosse, chi allora si era occupato del cadavere? Il bagno degli Yamamoto era troppo piccolo, e d’altronde i sopralluoghi della scientifica avevano avuto esito negativo. Era possibile che una collega avesse avuto compassione di lei e l’avesse aiutata a eliminare il cadavere. Anche una donna, in fondo, ne sarebbe stata capace. Contro ogni aspettativa, non era poi così raro, nei casi in cui l’omicida faceva a pezzi il cadavere, che proprio le donne fossero le colpevoli. Imai aveva studiato gli atti e le analisi di casi precedenti; quelli in cui gli assassini erano donne avevano due fattori in comune: l’improvvisazione e la solidarietà. Per una donna che uccide in preda a un raptus la cosa più difficile è eliminare il cadavere, perché in genere non è fisicamente in grado di trasportare da sola un corpo senza vita. Perciò spesso la sola alternativa che le rimane è farlo a pezzi. Mentre gli uomini fanno a pezzi le loro vittime per renderne più difficile il riconoscimento o per un gusto del macabro, le donne agiscono così semplicemente perché non riescono a trasportarlo. E questo dimostra che si tratta generalmente di un delitto provocato da un raptus. Per esempio nel caso dell’estetista di Fukuoka, era stata una donna a ucciderla e a farla a pezzi. Dopo il delitto si era accorta che non avrebbe potuto trasportare il corpo e allora lo aveva smembrato ed eliminato un pezzo alla volta. Inoltre le donne, quando la situazione in cui vivono è simile a quella dell’assassina, facilmente scivolano dalla compassione alla complicità. Ad esempio una donna aveva ucciso il marito che si ubriacava e la picchiava ed era corsa a piangere dalla madre. Questa aveva avuto compassione – era la fine che si meritava! – e l’aveva aiutata a fare a pezzi il cadavere. In un altro caso due amiche avevano ucciso insieme un poco di buono, una specie di ruffiano che tormentava una di loro, l’avevano dissezionato e ne avevano gettato i resti nel fiume. Dopo la cattura avevano confessato tranquillamente che credevano di avere fatto una buona azione. Ogni giorno le donne cucinano, sono dunque più abituate degli uomini ad avere a che fare con il sangue e la carne. Hanno confidenza con i coltelli e sanno come eliminare i rifiuti. Inoltre sono capaci di avere nervi di acciaio, perché quando partoriscono hanno un’esperienza che le avvicina al confine tra la vita e la morte. Sua moglie era un ottimo esempio, pensava Imai, ed era assolutamente serio. Supponiamo ancora che sia stata Masako Katori a occuparsi del cadavere. Imai ripensò all’espressione calma e intelligente di Masako e al grande bagno di casa sua. Aveva la patente e un’automobile, ed era molto strano che Yayoi le avesse telefonato proprio quella notte.
Immaginiamo che Yayoi abbia ucciso il marito e abbia telefonato a Masako per chiederle aiuto. Masako, prima di recarsi al lavoro, poteva essere andata a casa di Yayoi e aver nascosto il cadavere nella sua auto. Poi, però, erano andate entrambe a lavorare come se non fosse successo niente. E se non fosse stata solo Masako ad aiutare Yayoi? Anche le altre due – Yoshie Azuma e Kuniko Jonouchi – con le quali in apparenza avevano buoni rapporti, si erano presentate al lavoro come al solito. No, sarebbe stato troppo – troppo temerario, e inoltre un progetto troppo elaborato… Imai ripensò ai casi di omicidio con smembramento di cadavere in cui erano state coinvolte delle donne e alla loro caratteristica, l’“improvvisazione”. Scosse cogitabondo la testa. Yayoi aveva dichiarato che il mattino seguente era tornata a casa e vi era rimasta tutto il giorno. E questo corrispondeva a quanto avevano testimoniato i vicini. Perciò era difficile presumere che lei avesse partecipato allo smembramento del cadavere. Ma era possibile che Masako avesse trasportato a casa sua il cadavere di Kenji Yamamoto e lo avesse ridotto a pezzi da sola o con l’aiuto delle altre due? Mentre l’assassina, Yayoi, se ne stava comodamente seduta a casa? Quale motivo avevano Masako e le altre per fare una cosa del genere per lei? Era possibile che avessero sviluppato un odio così feroce nei confronti del marito della compagna? No, si era spinto troppo oltre, era semplicemente impensabile che una donna razionale come Masako prendesse anche solo in considerazione l’eventualità di affrontare un simile rischio. E poi la “solidarietà femminile” nel caso di Yayoi e Masako era piuttosto improbabile. Le loro vite erano troppo diverse. Anzitutto le separavano l’età e la condizione sociale. Yayoi era giovane, i bambini erano ancora piccoli e si dibatteva in una situazione economica difficile. Al contrario la situazione economica di Masako sembrava, se non decisamente agiata, almeno stabile, al punto che era lecito domandarsi come mai avesse scelto di fare i turni di notte. Il marito era impiegato in un’impresa piuttosto importante, e vivevano in una casa nuova, di loro proprietà. Imai, che viveva ancora con tutti i figli in un piccolo appartamento assegnatogli dal governo, la invidiava un po’. Poteva darsi che il figlio le procurasse qualche problema, ma aveva già diciassette anni e, per quanto riguardava la scuola, il peggio sembrava ormai passato. Anche senza il turno di notte Masako avrebbe potuto vivere senza preoccupazioni. Inoltre le dichiarazioni che aveva raccolto concordavano su un punto: le due donne si frequentavano soltanto sul posto di lavoro. Di che cosa si trattava, allora? Di soldi? Imai si ricordò dell’espressione di Masako quando aveva parlato delle misere retribuzioni del lavoro part-time. Era proprio furiosa, o almeno a lui aveva fatto questa impressione. Forse Yayoi la aveva allettata con una promessa di denaro. Non era un’ipotesi da escludere del tutto. Magari le aveva detto: «Pensa tu a sistemare il cadavere, perché io devo costruirmi un alibi, e non ti preoccupare, ti pagherò il disturbo». E allo stesso modo potrebbero essere state coinvolte anche Yoshie Azuma e Kuniko Jonouchi. Ma Yayoi non sembrava disporre di grandi somme di danaro. O forse aveva intenzione di pagarle con il premio dell’assicurazione? Aveva saputo che Yayoi era in attesa di una somma piuttosto cospicua. Forse si era davvero riproposta di pagare Masako e le altre con il premio dell’assicurazione. Ma allora non avrebbe avuto senso dissezionare il cadavere e renderlo irriconoscibile, perché l’identificazione doveva avvenire il più velocemente possibile. Imai continuava a cozzare contro qualche problema. E anche per quanto riguardava il movente la sua teoria continuava a infilarsi in un vicolo cieco. Gli tornò alla mente la forte reazione di Yayoi alla vista delle foto del cadavere. Non era stata una recita, la sua, era veramente emozionata, inorridita e spaventata. No, sicuramente non era stata lei a fare a pezzi il marito. Quella notte la Corolla rossa di Masako non era stata vista nei dintorni della casa degli Yamamoto e neppure nelle vicinanze del parco di Koganei dove erano stati abbandonati i sacchi contenenti i resti del cadavere. Imai dovette, suo malgrado, rinunciare alla tesi che Yayoi avesse ucciso il marito e avesse chiesto aiuto a Masako, oppure che Masako o una delle sue compagne avesse di
propria iniziativa ridotto a pezzi il cadavere. Poi incominciò a riflettere sull’idea che Yayoi potesse avere avuto come complice un uomo. Non si poteva escludere – Yayoi era una donna molto bella. Ma non c’era nessun indizio che supportasse questa ipotesi. Imai lesse ancora una volta alcuni appunti sottolineati con l’evidenziatore. Li aveva presi quando aveva interrogato i vicini di casa, e gli erano sembrati particolarmente interessanti. I coniugi Yamamoto litigavano di continuo. Non dormivano nella stessa camera. Il bambino più grande aveva dichiarato che quella notte il padre era tornato a casa (ma Yayoi continuava a negare e diceva che il bambino aveva sicuramente fatto un sogno). E da quella notte il gatto degli Yamamoto era sparito… «Il gatto…» ripeté mentalmente, e si guardò intorno. In un angolo del giardino di una casetta diroccata, fra i cespugli di enotere, era accovacciato un gatto tigrato marrone. Lo fissò negli occhi gialli. Forse quella notte il gatto di casa Yamamoto aveva visto qualcosa che lo aveva talmente spaventato da farlo scappare per sempre. Ma purtroppo non si poteva interrogare un gatto, sorrise amaramente Imai. Dio se era caldo! Imai si deterse il sudore dal viso con il fazzoletto spiegazzato e si rimise in marcia. Dopo pochi passi trovò uno di quei negozi di dolciumi all’antica, si comprò una lattina di tè Oolong freddo e la svuotò tutto d’un fiato. Il proprietario, un grassone di mezza età, teneva gli occhi fissi sullo schermo di un televisore portatile. Imai gli chiese: «Sa dirmi dov’è la casa della signora Azuma?» L’uomo gli indicò una casa all’angolo. «Grazie. Mi hanno detto che la signora è vedova…» «Sì. Ha perso il marito qualche anno fa. Poverina, deve occuparsi della suocera costretta a letto. E poi anche del nipotino. Anche oggi è venuta a comprare dei dolciumi». «Ah sì?» In quel caso non avrebbe avuto tempo di occuparsi del cadavere. Imai intuì che la sua teoria si stava sciogliendo come neve al sole. «Permesso, c’è qualcuno in casa?» Imai aprì la porta della casa di Yoshie e venne immediatamente investito da un odore di escrementi che lo fece indietreggiare. Dall’ingresso col pavimento in cemento poteva vedere la stanza più interna della piccola casa, dove Yoshie stava pulendo la vecchia malata. «Oh, mi scusi!» «Chi è lei?» «Mi chiamo Imai, del distretto di polizia di Musashi-Yamato». «Ah, l’ispettore della polizia criminale? Torni più tardi. Adesso, come vede, ho altro per le mani!» Sentendosi in qualche modo rimbrottato, Imai si domandò se davvero non fosse meglio rimandare tutto a un’altra volta. Ma aveva faticato per arrivare fino a lì e insistette: «Allora, per favore, continui pure e parliamoci così». «Come vuole, per me sta bene». Yoshie si voltò seccata. Aveva i capelli scompigliati ed era sudata. «Non sente che puzza?» «Non si preoccupi. Sono io che devo scusarmi perché la disturbo mentre è così impegnata». «Che cosa vuole sapere? Si tratta di Yama-chan?» «Esatto. Mi hanno detto che siete amiche». «Amiche? Non direi. In fondo è molto più giovane di me», e così dicendo sollevò le gambe della vecchia e incominciò a pulirle il didietro con la carta igienica. Imai, imbarazzato, distolse gli occhi e guardò il pavimento dove vide, vicino alla porta, un paio di scarpine da ginnastica stampate con le figurine dei cartoni animati. Allora si accorse del bambino seduto a terra, intento a bere un succo di frutta, nella piccola cucina buia alla sua destra. Nel locale
c’erano solo un lavello e il fornello a gas. Assolutamente impossibile trasportare un cadavere e ridurlo a pezzi in un ambiente così angusto! E ovviamente sarebbe stato inutile fare un sopralluogo nel bagno. «Negli ultimi tempi non ha notato nulla di strano nella signora Yamamoto?» «Le dico di no, io non so niente». Yoshie aveva finito di pulire la suocera e le stava mettendo il pannolone. «Ah, allora mi dica la sua opinione sulla signora Yamamoto». «È una che si prodiga», sparò Yoshie, «sì, una che dà il meglio di se stessa, e proprio per questo mi dispiace che abbia perso il marito in quel modo». La voce di Yoshie tremava un po’, ma Imai ne attribuì la causa al lavoro faticoso che stava facendo. «Ho saputo che il giorno prima, in fabbrica, la signora Yamamoto è caduta». «È bene informato», rispose Yoshie guardandolo in faccia. «È scivolata sulla salsa delle cotolette di maiale». «Ma ci sarà stato qualche motivo, no? Forse era preoccupata». «Figuriamoci! In fabbrica capita a tutte di scivolare!» replicò Yoshie visibilmente seccata e si alzò per andare a gettare il pannolone sporco. Lo lasciò semplicemente accanto alla soglia della cucina dove giocava il bambino. Raddrizzò la schiena e si girò verso Imai: «E adesso, cosa vuole sapere ancora?» «Mi dica che cosa ha fatto lei, signora Azuma, mercoledì mattina». «Quello che faccio ogni mattina, l’ha visto anche lei, no?» «E poi?» «Le stesse cose che farò oggi». Imai ringraziò e se ne andò in fretta, contento di potersi lasciare alle spalle quella casa. Era ancora frastornato dallo spettacolo della fatica che quella donna si assumeva accudendo, dopo avere lavorato tutta la notte, una vecchia malata. Quando Kinugasa l’aveva interrogata allo stabilimento, Yoshie gli era sembrata ansiosa, anche un po’ reticente, e Imai si era insospettito, ma ovviamente si trattava di un equivoco. Adesso gli rimaneva da far visita a Kuniko Jonouchi, l’ultima compagna di lavoro di Yayoi da controllare. Ma ormai era stanco. Tornò nel negozio di dolciumi e si fece dare un’altra lattina di tè. «Ha trovato la signora Azuma?» gli chiese il proprietario. «Sì. Aveva molto da fare. Che lei sappia, la signora Azuma è uscita mercoledì della settimana scorsa?» «Mercoledì?» Imai vide balenare la diffidenza nei suoi occhi e si affrettò a mostrargli la tessera: «Si tratta di questo: la signora è una compagna di lavoro della vedova dell’uomo che è stato ritrovato a pezzi». «Ah, quella storia!» Immediatamente gli occhi del negoziante brillarono di interesse. «Una gran brutta cosa, davvero, ne ho già sentito parlare. Ha ragione, la moglie della vittima lavora nello stabilimento delle colazioni!» «E che cosa ha fatto mercoledì la signora Azuma?» «Che cosa vuole che abbia fatto, imprigionata com’è in quella casa», rispose l’uomo, curioso di sapere il motivo di quell’interesse, ma Imai se ne andò senza dire altro. Per strada si fermò a un chiosco davanti alla stazione di Higashi-Yamato e mangiò un piatto freddo. Quando arrivò a casa di Kuniko era già pomeriggio avanzato. Suonò al citofono ma nessuno rispose. Suonò ancora un paio di volte. Niente. Stava già per andarsene rassegnato quando una voce sgarbata di donna domandò: «Chi è?» Imai disse il proprio nome. Subito la porta si aprì e apparve la faccia imbronciata di Kuniko. Era evidente che stava dormendo. «Scusi se la disturbo proprio adesso».
Kuniko distolse lo sguardo e si mise a guardare per terra: sembrava spaventata dalla sua visita improvvisa. Imai, che trovava interessante quell’atteggiamento, incominciò a guardarsi intorno curioso. «Dorme sempre a quest’ora?» «Sì, in fondo lavoro tutta la notte». «Suppongo che suo marito adesso sia a lavorare». «Ah, be’…» brontolò Kuniko evasiva. «Dove lavora?» la incalzò immediatamente Imai, cercando di sfruttare il momento prima che lei potesse rendersi conto dell’interrogatorio. In tal modo, in genere, si arrivava presto alla verità. «In realtà si è licenziato. E ora viviamo separati». «Separati?» Il suo istinto di poliziotto incominciava ad attivarsi. Ma non sembrava che quel particolare potesse avere qualche relazione con Yayoi. «Posso chiedere perché?» «Perché, perché! Semplicemente perché non funzionava più!» Kuniko afferrò la borsetta e tirò fuori un pacchetto di sigarette.I seni, evidentemente non sostenuti dal reggipetto, le dondolavano sotto la maglietta. Imai si guardò intorno e vide il letto in disordine. Guardando Kuniko ficcarsi la sigaretta in un angolo della bocca, pensò che qualsiasi uomo si sarebbe sentito depresso all’idea di vivere con un tipo di quel genere. «Mi hanno detto che è amica della signora Yamamoto, perciò vorrei farle alcune domande». «Non siamo così amiche», rispose lei senza guardarlo. «Davvero? Eppure anche in fabbrica lavorate sempre insieme, voi quattro». «Sì, in fabbrica. Ma lei ha un po’ la puzza sotto il naso, ha un bel faccino ed è vanitosa. No, i nostri rapporti non sono poi così buoni». «Ah, capisco». Kuniko era invidiosa e maligna. Ma era possibile che non sentisse un po’ di compassione per Yayoi? Che era pur sempre la moglie della vittima e che ora si trovava in una situazione così terribile? Come mai sia Yoshie che Kuniko si ostinavano a dichiarare di non avere rapporti particolarmente amichevoli con la collega? Questo gli sembrava strano e continuava ad alimentargli qualche dubbio. Da quanto aveva appreso allo stabilimento quelle quattro donne stavano sempre insieme, e anche dopo il lavoro bevevano insieme il tè e facevano quattro chiacchiere prima di andare a casa. E poi Imai sapeva che di solito, in quei casi, la gente mostrava una compassione persino esagerata per la persona coinvolta nella disgrazia. «E quindi al di fuori dell’orario di lavoro non aveva a che fare con la signora Yamamoto?» «No, praticamente mai», rispose seccamente Kuniko, poi si alzò, andò al frigorifero, prese una bottiglia di acqua minerale e si riempì il bicchiere. «Ne vuole anche lei? Comunque è acqua di rubinetto». «No, grazie». Quando Kuniko aveva aperto il frigorifero Imai vi aveva lanciato una rapida occhiata. Era perfettamente vuoto, come il frigorifero di uno scapolo. Non c’erano avanzi di cibo né di bevande, neppure una lattina d’aranciata. Dunque in quella casa non si cucinava? La cosa gli sembrava strana. Lo stupiva anche il fatto che Kuniko indossasse abiti e accessori che dovevano essere abbastanza costosi, ma in giro non si vedeva né un CD né un libro e nel complesso l’appartamento era piuttosto misero. «Lei non cucina?» domandò Imai guardando le scatole vuote delle colazioni impilate in un angolo della stanza. «No, per carità, detesto cucinare!» sbottò Kuniko facendo una smorfia, ma già un secondo più tardi sembrò vergognarsi di quanto aveva detto. «Ah, così? Bene, signora Jonouchi, torniamo al caso che ci interessa: lei la notte di mercoledì
non è andata a lavorare. Potrei sapere perché?» «Mercoledì?» domandò Kuniko spaventata, portandosi al petto la mano grassoccia. «La notte precedente, ossia la notte di martedì, il marito della signora Yamamoto è sparito senza lasciare tracce, e venerdì è stato ritrovato a pezzi. Lei, signora Jonouchi, mercoledì notte era assente dal lavoro. Io, secondo la routine, sono costretto a chiederle perché». Kuniko annaspò in cerca di una spiegazione: «Non stavo bene. Sì, in effetti avevo mal di stomaco e non ce l’ho fatta ad andare a lavorare». Dopo averle concesso una breve pausa di riflessione, Imai continuò: «La signora Yamamoto ha una relazione con un altro uomo?» «Chissà!» sospirò Kuniko stringendosi nelle spalle. «Non so, ma credo di no». «E la signora Katori?» «La signora Katori?» ripeté Kuniko in falsetto. Evidentemente non si aspettava di udire quel nome. «Sì, Masako Katori». «Come se quella potesse avere un amante! Di lei uno può avere soltanto paura!» «Paura?» «Be’, insomma…» Kuniko tacque, come se non riuscisse a trovare altre parole per definire quello stato d’animo. Anche Imai rimase in silenzio, avendo intuito che la donna aveva detto la verità. Ma perché Masako incuteva timore? Il poliziotto inclinò la testa perplesso. «A ogni modo non starò ancora tanto a lungo in quella fabbrica. L’omicidio, il cadavere fatto a pezzi… a uno viene paura di essere perseguitato anche lui dalla sfortuna!» proseguì Kuniko cercando di cambiare discorso. Imai annuì. «Già, capisco. Allora sta cercando un altro lavoro?» «Sì, ma questa volta vorrei assolutamente lavorare di giorno, e non in un posto così orrendo, dove fra l’altro si aggira quel maniaco… È anche troppo pericoloso, non crede?» «Maniaco?» Era la prima volta che ne sentiva parlare. Imai aprì l’agendina. «E si aggira intorno allo stabilimento?» «Si aggira! Come se si trattasse di un fantasma… che orrore!» Cambiato argomento, Kuniko sembrava di nuovo nel proprio elemento. «Non credo che abbia nulla a che fare con il delitto, a ogni modo mi dica esattamente quello che sa». E Kuniko incominciò a raccontare in ogni dettaglio tutto quello che sapeva del maniaco che aveva incominciato a presentarsi all’inizio di aprile. Mentre prendeva nota, Imai continuava a riflettere sui disagi del lavoro notturno per delle donne. Quando uscì dal condominio, i lunghi raggi del sole del pomeriggio ardevano inesorabili sull’asfalto del posteggio. Pensando alla fatica che lo aspettava – camminare nella canicola fino alla fermata dell’autobus e stare lì ad aspettarlo – Imai sospirò. Per caso il suo sguardo scivolò sulle automobili di tutti i colori parcheggiate sulle piazzole, tra le quali spiccava una Golf cabriolet verde scuro, la più appariscente. Chissà di chi era? Imai cercò di immaginarsi il proprietario, ma mai gli sarebbe venuto in mente che quella era l’amatissima auto di Kuniko, la stessa che viveva in quell’appartamento miserabile. Tutto da ricominciare. Quel giorno avrebbe dovuto interrogare ancora i cinque operai che avevano fatto il turno di riposo martedì notte, ma decise di rimandare all’indomani. Dal momento, però, che la sua teoria si era rivelata priva di fondamento, gli sarebbe toccato continuare a seguire le indagini di Kinugasa e sottostare ai suoi ordini. Imai, di cattivo umore, continuò a camminare sotto il sole cocente. Dopo pochi passi incominciò a sudare e la camicia gli si incollò alla schiena.
6. Kazuo Miyamori, disteso bocconi sul letto a castello, stava studiando il giapponese. Aveva aggiunto altre prove a quella che si era assegnato con i giorni di fatica nello stabilimento delle colazioni. La prima era riuscire a farsi perdonare completamente da Masako, la seconda – necessaria per superare la prima – era quella di imparare perfettamente il giapponese. In queste due nuove prove si celava un dolce piacere che non aveva niente a che fare con lo stupido compito di trasportare il riso per il nastro della catena di montaggio. Watashi no namae wa Miyamori Kazuo desu. Il mio nome è Kazuo Miyamori. Shumi wa sakka o miru koto desu. Il mio hobby è guardare le partite di calcio. Anata wa sakka ga suki desu ka. Ti piace il calcio? Anata no suki na tabemono wa nan desu ka. Quali sono i tuoi cibi preferiti? Watashi wa anata ga suki desu. Tu mi piaci. Mentre ripeteva più volte a voce bassa le frasi, Kazuo guardò fuori dalla finestra. Dal suo letto se ne vedeva soltanto la metà superiore. Nel tramonto infuocato le nuvole brillavano di un sontuoso color arancio, mentre il cielo si immergeva lentamente nel blu cupo della notte. Giusto, affrettati a calare, notte, implorò Kazuo. Così avrebbe potuto incontrare Masako allo stabilimento. Da quel giorno non le aveva più parlato, perché aveva paura di non ottenere risposta, e questo lo faceva star male. Ma aveva conservato con cura l’oggetto che quella notte lei aveva gettato nel canale e che lui aveva ripescato. Da sotto il cuscino tirò fuori una chiave color argento e la strinse tra le dita. Al calore della mano il metallo freddo si intiepidì, esattamente come era successo ai suoi sentimenti nei confronti di Masako. Kazuo era felice. I suoi compagni lo avrebbero sicuramente preso in giro se si fosse confidato con loro, e avrebbero detto che lei era troppo vecchia per lui. Oppure gli avrebbero fatto la predica perché, se proprio voleva un’amica, era meglio che si scegliesse una brasiliana. Ma non c’era bisogno che capissero. Quella donna, anche se era più vecchia, aveva qualcosa che solo lui poteva cogliere. E anche in lui c’era sicuramente qualcosa che soltanto lei sarebbe stata in grado di comprendere. Se solo si fossero conosciuti meglio, presto si sarebbero accorti che erano molto simili. Era quella chiave che glielo prometteva. Kazuo la infilò nella catenella d’argento che portava al collo. Era una chiave piuttosto comune e Masako stessa non si sarebbe accorta che si trattava proprio di quella che aveva buttato via. Kazuo, che aveva venticinque anni, si comportava come un adolescente al primo amore – era fuori di sé dalla felicità. Non avrebbe mai ammesso di agire così per sfuggire alla deprimente freddezza che aveva trovato nella patria di suo padre. Anche in Brasile incontrare una donna come Masako sarebbe stato un raro colpo di fortuna – questi erano i suoi pensieri. Il giorno prima, all’alba, era andato a perlustrare il tombino. Gli operai brasiliani, diversamente dai giapponesi, non lavoravano part-time e rimanevano in fabbrica fino alle sei. Dalle sei alle nove, l’ora in cui iniziava il turno di giorno, vi era un intervallo, e lo stabilimento si svuotava. Kazuo aveva approfittato di quelle ore per esaminare il tombino davanti alla fabbrica dismessa. Ricordava con sufficiente precisione il punto in cui Masako si era fermata e aveva buttato via qualcosa. Era curioso di sapere che cosa fosse. Poiché cadendo aveva provocato un suono metallico, poteva sperare che l’oggetto non fosse stato trascinato lontano dalla corrente. Aveva aspettato che alcune persone, impiegati e studenti che si affrettavano verso la stazione, uscissero di vista e poi, con tutte le sue forze, aveva sollevato e tirato da parte il coperchio di cemento. Il riflesso del sole nascente aveva fatto risplendere per un attimo la superficie dell’acqua torbida, che mai prima di allora aveva visto la luce. Kazuo aveva scrutato sul fondo e si era accorto che l’acqua, sporca e nera, era tuttavia meno profonda di quanto avesse immaginato. Rincuorato era entrato con le
scarpe nel canale, affondando fino alle caviglie nell’acqua puzzolente. Il fango nero gli era schizzato sui jeans e si era rovinato le scarpe, ma tutto questo non aveva importanza perché, sotto una bottiglia di plastica vuota, aveva visto la chiave attaccata a un portachiavi di pelle nera. Kazuo aveva immerso la mano nell’acqua tiepida e aveva raccolto il portachiavi. La pelle agli angoli era logora e biancastra – si vedeva che era stato molto usato. Vi era appesa soltanto una chiave color argento e l’aveva osservata alla luce: probabilmente si trattava della chiave di una porta di casa. Si era domandato perché l’avesse buttata via, ma poi era prevalsa la gioia di avere in mano qualcosa di Masako. Aveva tolto la chiave dal portachiavi, che era rimasto troppo a lungo nel fango, e se l’era infilata in tasca. Quella sera Kazuo si recò allo stabilimento più presto del solito e rimase in attesa di Masako gironzolando davanti all’ingresso del piano superiore. In realtà avrebbe voluto aspettarla vicino alla fabbrica dismessa, per vederla arrivare dal posteggio, ma non voleva più spaventarla. No, non era esatto, era lui che aveva paura. Kazuo sorrise amaramente dentro di sé. Quello che più temeva in assoluto era che Masako lo detestasse ancora di più. Come per caso, si avvicinò a Komada fingendo di voler guardare qualcosa sull’orologio marcatempo vicino agli uffici, e tenne d’occhio l’ingresso. Finalmente, puntuale, apparve l’alta e snella figura di Masako. Depose la borsa nera sulla moquette rossa e si tolse velocemente le scarpe da ginnastica, guardando di sfuggita in direzione di Kazuo. Come al solito il suo sguardo lo oltrepassò, fissandosi sulla parete alle sue spalle. Eppure Kazuo si sentì riempire da una gioia pura, primitiva, come se avesse visto sorgere il sole. Masako salutò Komada, si voltò e in silenzio aspettò che finisse di passarle il rullo sulla schiena. Indossava un paio di jeans e una polo verde troppo grande. Teneva la borsa in mano. Kazuo la guardò di nascosto dalla testa ai piedi, trattenendo il respiro per controllare l’emozione che lo coglieva ogni volta che la vedeva. Si vestiva come un ragazzo, ma Kazuo era rapito dal suo viso e dalla sua persona, così sobria ed essenziale. Masako gli passò davanti. Kazuo si fece coraggio e la salutò: «Buon mattino». «Buon mattino», rispose Masako sorpresa e si diresse verso il salone. Kazuo ringraziò tacitamente la chiave che aveva appeso al collo e la strinse di nascosto. Era felice che Masako avesse ricambiato il saluto. Come se avesse atteso la fine della cerimonia, qualcuno spalancò la porta dell’ufficio. «Ah, signor Miyamori, è arrivato al momento giusto! Può venire un attimo?» Era il direttore dello stabilimento, un giapponese. Di solito a quell’ora in ufficio non c’era nessuno, a parte un sorvegliante anziano, e perciò era strano che il direttore fosse ancora lì. Ma quando Kazuo, come gli era stato richiesto, entrò in ufficio lo aspettava un’altra sorpresa: c’era anche un interprete brasiliano. «Che cosa c’è?» «La polizia vuole farle un paio di domande. Può tornare qui a mezzanotte?» Quando l’interprete ebbe finito di tradurre, il direttore si girò verso il fondo della stanza dove, nell’angolo con le poltroncine ricoperte di plastica, un uomo alto e magro, evidentemente un agente, stava interrogando un operaio giapponese. «La polizia?» «Sì. Quello lì». «Vuole chiedere qualcosa a me?» «Sì, a te». Il cuore gli si fermò nel petto. Masako doveva averlo denunciato come maniaco. Si sentì tradito e vide nero. In effetti era stato davvero prepotente da parte sua chiederle di non riferire niente alla polizia. Però mai avrebbe potuto credere che lei gli avesse addirittura mentito. Era dunque una cosa così stupida pensare di potere ottenere il suo perdono?
«…bene, sarò qui», rispose in portoghese e ritornò depresso nel salone. Davanti al distributore automatico di bevande accanto all’entrata Masako stava fumando, da sola, una sigaretta. Non si era ancora cambiata. Non c’era nessuno con cui lei potesse parlare, né l’operaia più vecchia ed esperta che tutti chiamavano maestra, né la grassa Kuniko. Da quando Yayoi, quella più bella, non veniva più a lavorare, Masako era in qualche modo cambiata, sembrava che intorno a lei aleggiasse un’atmosfera di rifiuto nei confronti del mondo intero. Tuttavia Kazuo, con voce tremante di rabbia, la apostrofò: «Masako-san!» Lei si girò. Kazuo la fissò negli occhi e nel suo giapponese storpiato chiese di brutto: «Hai tu raccontato?!» «Che cosa?» rispose stupita Masako incrociando le braccia davanti al petto e guardandolo diritto in faccia. «Poli-sia, è venuta». «La polizia? Perché, di che cosa sta parlando?» «Tu promesso, no?» Con questo Kazuo, che pensava di avere detto tutto, rimase nervoso a guardarla, ma Masako, senza replicare, si limitò a serrare le labbra e a fissarlo a sua volta con fierezza. Il ragazzo, deluso, curvò le spalle ed entrò nello spogliatoio. Quello che lo turbava, più che la paura di essere arrestato e licenziato, era il pensiero di essere stato tradito dalla sua amata Masako. Doveva cambiarsi in fretta perché era quasi mezzanotte, l’ora di inizio del turno, e doveva essere interrogato. Cercò la gruccia con i suoi abiti da lavoro e si cambiò. All’interno dello stabilimento era vietato portare gioielli di qualsiasi tipo, per cui si tolse dal collo la catenina con la chiave e la sistemò con cura nella tasca dei pantaloni. Quando – con in mano il berretto da cuoco blu che distingueva gli operai brasiliani – tornò nel salone, si accorse che Masako era rimasta ferma nello stesso posto e lo guardava. Anche lei si era già cambiata ma, forse a causa della fretta, dalla cuffia spuntavano alcuni ciuffi di capelli. «Aspetta», disse Masako mentre le passava davanti, e gli mise la mano sul braccio. Kazuo si girò dall’altra parte e proseguì diritto verso l’ufficio senza badarle. Se Masako lo aveva tradito la sua prova era finita – aveva fallito, e questo significava che la sua vita non aveva più alcun valore. Ma mentre andava avanti, dopo avere sentito il tocco di Masako sul braccio, riprese il controllo di se stesso. No, anche quella era una prova, e lui doveva dimostrare di essere all’altezza. Attraverso il tessuto dei pantaloni continuava a sentire il freddo della chiave sulla coscia – sì, ce l’aveva ancora in tasca. Bussò alla porta dell’ufficio e subito qualcuno aprì. L’interprete brasiliano e l’ispettore lo stavano aspettando. Per controllare i battiti del suo cuore afferrò involontariamente la chiave nella tasca e la strinse forte. «Mi chiamo Imai», si presentò l’ispettore mostrandogli la tessera. «Il mio nome è Roberto Kazuo Miyamori». L’ispettore che si chiamava Imai era alto e aveva il mento molto piccolo. Sembrava bonario, ma il suo sguardo era penetrante. «Scusi se glielo chiedo, ma ha veramente la cittadinanza giapponese?» «Sì. Mio padre era giapponese e mia madre è brasiliana». «Ah, è per questo che è un bel ragazzo», commentò ridendo Imai. Kazuo, che credeva di essere preso in giro a causa della sua origine, non sorrise neppure. «Vorrei farle un paio di domande. Il tempo che perderà con me sarà calcolato tempo di lavoro». «Sì, grazie». Adesso viene il bello, pensò Kazuo nervoso, e si preparò a rispondere. Ma mai si sarebbe aspettato di sentire la domanda che gli fece l’ispettore: «Conosce la signora Yayoi Yamamoto?» Kazuo osservò stupito l’interprete che se ne stava impaziente in attesa della risposta. «Sì, la conosco», annuì Kazuo. Non riusciva a capire dove Imai volesse andare a parare.
«Allora avrà anche sentito parlare di quello che è successo al marito della signora Yamamoto». «Sì, ne parlano tutti». Ma che razza di domanda era? Kazuo incominciava a perdere la pazienza. Il poliziotto continuò imperterrito: «Ha mai incontrato il signor Yamamoto?» «No, mai». «E non ha mai parlato con la signora Yamamoto?» «Qualche volta la saluto, ma… A proposito di che cosa mi sta interrogando, esattamente?» L’interprete non doveva aver tradotto l’ultima parte della risposta, perché Imai continuò tranquillamente: «La sera di martedì della scorsa settimana lei aveva il turno di riposo, vero? Mi può dire che cosa ha fatto durante il giorno?» «Sono sospettato?» Kazuo era turbato dalla piega che aveva preso il discorso, ma nello stesso tempo si sentiva traboccare di rabbia. Lui non c’entrava con quella faccenda. «Niente affatto», si affrettò a precisare l’ispettore sorridendo, «stiamo semplicemente indagando sulle conoscenze degli Yamamoto. E perciò interroghiamo tutti quelli che non erano di turno quella notte». Benché non fosse convinto della risposta, Kazuo cercò di ricordare quello che aveva fatto quel giorno: «Ho dormito fino a mezzogiorno, poi sono andato a Oizumi e ho passato il resto della giornata nella Brazilian Plaza. Verso le nove sono tornato alla mia camera e sono andato a dormire». «Eppure il suo compagno di stanza dice che quella sera lei non era a casa», constatò il poliziotto consultando l’agenda con espressione perplessa. Kazuo protestò: «Alberto non si è accorto di me perché aveva portato in camera la sua amica, ma io ero a letto e dormivo, su questo non c’è alcun dubbio». «E perché non se n’è accorto?» «Dormiamo in un letto a castello, io in quello superiore. Stavo dormendo, per questo non si sono accorti di me». Kazuo, che adesso si ricordava bene quella notte, arrossì. «Capisco. Il suo compagno è arrivato in compagnia di una ragazza», ridacchiò l’ispettore. Kazuo, imbarazzato, si guardò intorno nell’ufficio vuoto. Le scrivanie erano allineate in tre file, e su ognuna c’era un computer protetto da una fodera di plastica trasparente. Gli tornò in mente che si era ripromesso di studiare informatica, quando fosse arrivato in Giappone. E invece adesso portava il riso in uno stabilimento di colazioni! All’improvviso tutto questo gli sembrò incredibilmente stupido. «E che cosa ha fatto durante la notte? È rimasto in camera?» Kazuo non sapeva cosa dire. Quella notte aveva assalito Masako, e per il rimorso e la vergogna aveva camminato nei dintorni fino al mattino. Verso l’alba aveva cominciato a piovere ed era tornato a prendere l’ombrello, poi era uscito di nuovo e aveva aspettato Masako. Alberto, il compagno di stanza, non ne poteva sapere niente perché era andato a lavorare. «Ho passeggiato». «Tutta la notte? Dov’è andato?» «Qui, intorno allo stabilimento». «Perché?» «Senza un motivo preciso. Non mi andava di rimanere in camera». L’ispettore lo guardò: nei suoi occhi si intuiva un po’ di compassione. «Quanti anni ha?» «Venticinque». Quell’Imai doveva avere intuito qualcosa, perché annuì e rimase qualche istante in silenzio a riflettere guardando l’agenda. «Posso andare?» domandò Kazuo, incapace di tollerare oltre quel silenzio, ma l’ispettore gli fece cenno di rimanere. «Qualcuno mi ha detto che questi luoghi sono frequentati da un maniaco, ne ha sentito parlare
anche lei?» Infine la domanda tanto temuta era arrivata. Kazuo strinse con forza la chiave nella tasca. «Ne ho sentito parlare… ma chi è questo qualcuno?» «Penso di non avere difficoltà a dirglielo», ridacchiò Imai, «è stata la signora Jonouchi, una delle operaie part-time». Kazuo lasciò andare la chiave. Aveva le mani sudate. Ma era felice che non si trattasse di Masako. Avrebbe dovuto subito chiederle di nuovo scusa. «Non ha nulla a che vedere con il delitto Yamamoto, ma vorrei sapere se anche fra i brasiliani si parla del maniaco. Chi potrebbe essere, per esempio, o chi ha importunato». «No», rispose fermo Kazuo, dando un’occhiata all’orologio appeso alla parete e mettendosi il berretto blu. Imai rinunciò ad altre domande e lo lasciò andare. Il lavoro alla catena di montaggio era incominciato da un pezzo e in fondo al nastro c’era una montagna di scatole con le colazioni già pronte. Kuniko e la maestra non c’erano e Masako, da sola, distribuiva il riso all’inizio della linea di produzione. Dopo il delitto di cui era rimasto vittima il marito di Yayoi non avevano più avuto occasione di ritrovarsi tutte e quattro. A Kazuo sembrava un fatto strano, ma era felice che Masako non avesse compagnia. Se si fosse sbrigato a cambiarsi forse sarebbe riuscito a parlare con lei dopo il turno. Erano già passate da un pezzo le sei quando Kazuo fu finalmente libero dal lavoro, perché gli operai brasiliani avevano dovuto fermarsi un quarto d’ora in più. Proprio oggi che avrebbe avuto quella bella occasione! Masako probabilmente era già andata a casa. Deluso Kazuo si lasciò lo stabilimento alle spalle. Il sole chiaro del mattino tingeva obliquamente il muro di cinta grigio della fabbrica di automobi li. In un così bel mattino d’estate lui era costretto a fare buio in camera e a mettersi a dormire! Depresso, prese dalla tasca posteriore dei pantaloni un berretto nero e se lo mise in testa. Quando sollevò lo sguardo restò impietrito dallo spavento. Davanti a lui c’era Masako, ferma nel punto in cui lui stesso quella volta era rimasto ad aspettarla sotto la pioggia. «Signor Miyamori», lo chiamò. Era pallida per la stanchezza. Quasi senza rendersene conto Kazuo tirò fuori da sotto la maglietta la catenina con la chiave. Era grato a quella chiave. Masako le diede un’occhiata distratta ma non sembrò riconoscervi quella di cui si era liberata, perché subito il suo sguardo si spostò sul viso di Kazuo. «Che cosa intendeva dirmi, quando prima mi ha parlato?» Non sembrava darsi pensiero del fatto che Kazuo capiva soltanto poche frasi in giapponese. Tuttavia in qualche modo lui riuscì a capire quello che voleva sapere. «Scusa. Era sbaglio», bisbigliò Kazuo chinando la testa come aveva visto fare ai giapponesi. Con un’espressione non ancora soddisfatta, Masako lo fissò negli occhi neri: «Mi creda, non ho parlato di lei con nessuno». «Sì», annuì Kazuo ripetutamente. «Sicuramente la polizia era qui per Yama-chan e l’omicidio, non è vero?» disse Masako e s’incamminò verso il parcheggio. Kazuo la seguì come stregato. Un gruppo di operai e operaie brasiliani usciva dallo stabilimento chiacchierando animatamente. Per timore dei loro sguardi Kazuo rallentò il passo e si tenne a un paio di metri da Masako. Lei non sembrava preoccupata del fatto che lui la seguisse e procedeva veloce a testa alta, guardando davanti a sé. Quando i brasiliani voltarono l’angolo diretti al dormitorio, Kazuo e Masako si trovavano davanti alla fabbrica di-smessa. Il profumo fresco delle erbe lussureggianti aleggiava nell’aria e copriva un po’ il tanfo del canale di scolo. Ma presto la calura estiva si sarebbe impossessata di tutto; in poche ore la strada sarebbe diventata bianca di polvere e le erbe sarebbero appassite esalando un odore
intenso e penetrante. Quando il suo sguardo cadde sul canale, Masako si fermò di botto. Il coperchio di cemento di un tombino era aperto. Era quello che Kazuo aveva rimosso il giorno precedente senza rimetterlo a posto. Il ragazzo vide il terrore dipingersi sul volto della donna: che cosa doveva fare? Doveva dirle che era stato lui? Ma non poteva confessare di essere stato così meschino da ripescare quello che lei aveva buttato via! Kazuo si ficcò le mani nelle tasche posteriori dei jeans e si mise a guardare per terra. Sempre più pallida Masako si avvicinò al tombino e cercò di guardare dentro. Kazuo non riusciva a far altro che assistere muto alla scena. Finalmente riuscì a mettere insieme quattro parole, ma erano quelle che ripeteva di solito il sovrintendente Nakayama, che era sempre di cattivo umore: «Che cosa fai lì?!» Intuì che poteva sembrare un richiamo troppo aspro, ma dal suo limitato vocabolario non emergevano parole più adatte alla circostanza. Masako si voltò, vide prima il suo viso e poi la chiave appesa alla catenina. «È tua quella chiave?» Kazuo annuì lentamente, ma poi scrollò la testa in segno di diniego. Semplicemente non era capace di mentirle. Irritata dal suo comportamento ambiguo, Masako aggrottò le sopracciglia. «Non è che hai tirato fuori qualcosa da qui, vero?» Kazuo allargò le braccia e si strinse nelle spalle, non gli rimaneva che dire la verità: «…sì». «Perché?» Masako gli si avvicinò e rimase ferma davanti a lui. Era alta e gli arrivava all’altezza della bocca. Kazuo esitò di fronte alla sua selvaggia energia e d’istinto strinse la chiave con entrambe le mani. Non voleva che lei gliela strappasse. «Quando mi hai visto? Tu eri qui nascosto da qualche parte e mi hai spiato?» Masako indicò con un largo gesto del braccio un folto cespuglio di fronte alla fabbrica dismessa. Come se dalle sue dita fossero usciti raggi infuocati, dei coleotteri volarono via dal cespuglio. Kazuo fu costretto ad ammettere. «Perché?» «Ti aspettavo». «Perché ti sei comportato così?» «Avevamo promesso, no?» «No, io non ti ho promesso nulla. Ridammela». Masako tese la mano destra e a Kazuo sembrò di sentire il calore che emanava. Ma non voleva ridarle la chiave. La tenne stretta e disse: «No!» Masako si mise le mani sui fianchi e inclinò la testa: «Che cosa vuoi farne, perché vuoi tenertela a tutti i costi?» Perché non capiva? O voleva che glielo dicesse? Che donna crudele, pensò Kazuo guardandola timidamente. «Dai, dammi la chiave. È importante per me. Mi serve». Comprendeva quasi tutto ciò che diceva, ma non riusciva a capire. Se la chiave era così importante per lei, non l’avrebbe certo buttata via! La voleva indietro solo perché adesso lui l’aveva appesa al collo. «No!» Masako si morse le labbra come se avesse rinunciato. Rimase in silenzio pensando a cosa fare. Quando Kazuo vide come lasciava cadere le spalle, le prese una mano. Le mani di Masako erano così esili e fragili che avrebbe potuto tenerle tutte e due in una delle sue. «Tu mi piaci», disse Kazuo e la guardò. Masako lo guardò a sua volta sconcertata: «Perché? Per quello che hai fatto l’altra notte?»
Kazuo avrebbe voluto spiegarle che era convinto che lei potesse capirlo, ma non trovava le parole. Impaziente ripeté ancora una volta la stessa frase, come alle lezioni di giapponese: «Tu mi piaci». Masako sfilò la mano da quella di Kazuo: «Non posso corrispondere i tuoi sentimenti». Lui intuì che quello era un rifiuto e cadde nel pozzo profondo della disperazione. Masako lo lasciò lì, immobile come una statua, e si avviò sulla strada del parcheggio. Kazuo voleva seguirla e aveva già messo un piede davanti all’altro, ma gli bastò guardarla per capire che lei proprio non lo voleva. Questa consapevolezza lo fece affondare definitivamente nel fondo fangoso di quel pozzo. 7 Festività in onore degli antenati che ha luogo tra il 13 e il 16 agosto. Insieme alla festa del nuovo anno è la più importante festività giapponese (N.d.T.).
7. Il parcheggio dello stabilimento sembrava pianeggiante mentre in realtà da un lato era in leggera pendenza. Di notte non ci faceva quasi caso, ma al mattino, dopo il turno, talvolta il terreno sotto i piedi le sembrava ripido e insidioso. Masako ebbe una lieve vertigine e si appoggiò con le mani al tetto della Corolla, che durante la notte si era coperto di goccioline di rugiada. Le mani si bagnarono come se le avesse immerse nell’acqua. Se le asciugò sui jeans. Mai si sarebbe aspettata di sentire quello che le aveva detto il ragazzo brasiliano! Non erano bugie, questo lo sapeva con certezza. Si ricordò del mattino in cui l’aveva seguita con l’aria sperduta di un cagnolino abbandonato che non sapeva dove andare. Come quel giorno si girò e si guardò intorno, ma Kazuo non si vedeva più. Senza dubbio lo aveva profondamente ferito. L’aveva spaventata, non tanto perché aveva ripescato la chiave dal canale, ma per la forza dei sentimenti che provava per lei, per la luce abbagliante e le ombre cupe che trapelavano da quelle emozioni. Erano sentimenti di cui al momento non aveva proprio bisogno, con i quali non voleva avere assolutamente a che fare. Dunque aveva già cancellato persino dalla memoria la loro esistenza? Avrebbe potuto continuare a vivere così? Di nuovo fu sopraffatta dal senso di sconfinata solitudine del giorno prima. E tutto questo perché aveva oltrepassato un confine, perché aveva fatto a pezzi un cadavere e lo aveva buttato via, e perché cercava persino di annullarne il ricordo. Ma ormai non poteva più tornare indietro. Le venne un attacco di nausea e vomitò accanto all’auto. Tuttavia, per quanto vomitasse i conati non cessavano di tormentarla. Si inginocchiò per terra accanto alla macchina e continuò a piangere e a vomitare succo gastrico giallo. Si asciugò le lacrime, si pulì la bocca con un fazzoletto di carta e mise in moto. Non si diresse verso casa ma svoltò a sinistra, imboccando la strada che dalla Shin-Oume-Highway porta al lago Sayama. Ben presto la strada incominciò a inerpicarsi a serpentina sul monte. Era molto presto e non c’era traffico. Cambiò marcia, mise la seconda e proseguì sulla strada deserta. Incontrò soltanto un vecchio su un ciclomotore. Arrivò al ponte sul lago. Gli argini in terra marrone che circondavano l’acqua immobile e il paesaggio piatto, alla Disneyland, gli conferivano il tipico aspetto irreale dei laghi artificiali. A quella vista Nobuki, da piccolo, si era messo a piangere disperatamente, perché aveva paura che improvvisamente venisse fuori dall’acqua il mostro che vi abitava. Viene il drago, viene il drago, si era messo a urlare. Aveva nascosto il viso nel grembo di Masako e non aveva più voluto guardare l’acqua. Il ricordo la fece sorridere. La superficie del lago scintillava alla luce del sole e la abbagliò; tutta quella luminosità era eccessiva per i suoi occhi stanchi. Masako li socchiuse e diede uno sguardo veloce al lago, poi imboccò la strada che portava al villaggio dell’Unesco e continuò a guidare per qualche chilometro in mezzo al bosco. Finalmente arrivò in vista del luogo impresso nella sua memoria e fermò l’auto sul ciglio della strada. A cinque minuti di cammino da lì, in mezzo al bosco, aveva seppellito la testa di Kenji. Scese dall’auto, la chiuse e si inoltrò tra la vegetazione fitta. Era perfettamente consapevole del rischio che affrontava, ma non sapeva ancora che cosa voleva fare esattamente: le sue gambe procedevano automaticamente in quella direzione. Dopo qualche centinaio di metri si fermò e guardò il terreno sotto un grande albero di keyaki che aveva preso come punto di riferimento. Lì, tra i cespugli, si scorgeva appena una traccia di terra smossa. Non era cambiato nulla. Ma ora che il sole era alto il bosco brulicava di vita – ancor più di dieci giorni prima – e tutto, intorno, sembrava un solo essere che emanava il suo intenso respiro profumato. Ormai la testa di Kenji doveva essere decomposta, una massa informe divorata dai vermi della terra. Era un’immagine spietata ma anche un po’ consolatoria. Così almeno aveva offerto quella testa alla vita della montagna.
La luce del sole che trapelava obliquamente attraverso i rami degli alberi le feriva gli occhi. Masako portò una mano alla fronte per ripararsi e rimase a fissare quel punto sul terreno per quasi mezz’ora. Pensieri, ricordi, associazioni fluivano in lei copiosi come l’acqua da un rubinetto, e dimenticò il trascorrere del tempo. Quel giorno Masako, con la testa di Kenji in un sacchetto di carta, si era messa a cercare un posto adatto in cui seppellirla. La testa era pesante e, benché l’avesse infilata dentro due borse del supermercato, rischiava di rompere il fondo. Inoltre Masako portava con sé anche un badile. Continuando ad asciugarsi il sudore dalla fronte con i guanti da lavoro, spostava il sacco da una mano all’altra o se lo infilava sotto il braccio. Così facendo premeva con la parte superiore del braccio il mento di Kenji e le veniva subito la pelle d’oca. Anche ora, al ricordo di quella sensazione, rabbrividì. Le venne in mente un film che aveva visto, Portami la testa di Alfredo Garcia. Il protagonista continuava a coprire con cubetti di ghiaccio la testa in decomposizione mentre guidava una Bluebird attraverso le strade infuocate del Messico. Il volto dell’uomo, stravolto dal furore, era selvaggio, patetico. Dieci giorni prima, quando aveva vagabondato in quei posti, anche lei, di certo, aveva avuto quell’espressione. Era vero, era furiosa. Una furia che non sapeva verso chi indirizzare. Ma di una cosa fu improvvisamente certa: lei quel giorno era proprio furiosa. Lei che contava solo su se stessa, lei che non chiedeva mai aiuto a nessuno. Era forse furiosa con quella parte di sé che l’aveva spinta in quella situazione? Ma la rabbia l’aveva liberata. In ogni caso quella mattina era avvenuto in lei un cambiamento radicale. Masako uscì dal bosco, raggiunse l’auto e fumò lentamente una sigaretta. Non sarebbe più dovuta tornare in quel luogo. Spense il mozzicone, innestò la marcia e fece un cenno di addio alla testa di Kenji: «Bye-bye!» Quando arrivò a casa Yoshiki e Nobuki erano già usciti. Sul tavolo da pranzo rimanevano le tristi tracce delle loro colazioni separate. Masako depose tazze e piattini nel lavello e provò un senso di fastidio. In piedi in mezzo al soggiorno rimase qualche istante a meditare se non le convenisse piuttosto lasciare tutto com’era e andare subito a letto. Al momento non aveva nulla da fare e da pensare, era solo stanca morta per il turno e il suo corpo reclamava il diritto a una pausa. All’improvviso pensò a Kazuo. Che cosa stava facendo? Forse si stava agitando nel letto, incapace di addormentarsi nonostante l’oscurità della camera. O forse continuava a camminare all’ombra dell’infinito muro di cinta grigio della fabbrica di automobili. Pensando alla sua figura solitaria Masako provò per la prima volta un sentimento prossimo alla solidarietà. Gli avrebbe lasciato in dono quella chiave. Squillò il telefono. Erano passate da poco le otto del mattino. Non aveva nessuna voglia di rispondere. Cercò di ignorare il suono, prese una sigaretta e se l’accese. Ma il telefono non smetteva di squillare. «Masako-san». Era Yayoi. «Buongiorno, cosa c’è?» «Ti ho telefonato poco fa ma non eri ancora rientrata. Oggi sei in ritardo». «Scusa. Dovevo andare in un posto». Yayoi non le chiese dove. Invece le domandò trafelata: «Hai letto il giornale del mattino?» «Non ancora, perché?» Masako guardò il giornale sul tavolo. Yoshiki aveva l’abitudine di ripiegarlo accuratamente dopo averlo letto. «Allora fallo subito. Ti stupirai». «Che è successo?» «Leggi prima. Io aspetto», la incitò Yayoi con voce gaia ed eccitata. Masako appoggiò la cornetta e sfogliò il giornale. In mezzo alla pagina dedicata alla cronaca
nera c’era un articolo dal titolo Nuovi sviluppi nel caso del cadavere del parco di Koganei. Masako scorse l’articolo e apprese che i sospetti convergevano sul proprietario di una sala da gioco in cui Kenji si era recato quella notte. L’uomo era stato arrestato per altri reati e si trovava ora in carcere. Masako ebbe quasi paura di fronte a tanta fortuna. Tenendo il giornale ancora in mano riprese la cornetta e disse: «Ho letto». «Be’, cosa dici? Abbiamo avuto una fortuna pazzesca!» «Non si può ancora dire», rispose cautamente Masako. «In ogni caso sono rimasta di stucco – troppo bello per essere vero! Ma una cosa è certa, c’è stato un litigio. Io lo sapevo». «Come?» Evidentemente non c’era nessuno accanto a lei, perché Yayoi chiacchierava tranquillamente: «Quando è tornato a casa aveva un labbro ferito e la camicia un po’ sporca, perciò ho pensato subito che avesse fatto a pugni con qualcuno». «Io però non me ne sono accorta». Yayoi parlava di Kenji ancora vivo e Masako invece del cadavere. Ma Yayoi, che a quanto sembrava non aveva ascoltato, continuò in tono sognante: «Cosa dici, lo condanneranno a morte?» «Sicuramente no. Probabilmente verrà rilasciato per insufficienza di prove. Subito». «Peccato!» «Ma che cosa dici!» la rimproverò Masako. Yayoi protestò: «In fondo ho le mie ragioni: Kenji aveva perso la testa per una donna che lavora nel suo locale!» «E perciò lui è complice e si merita la stessa punizione, è questo che vuoi dire?» «No, non dico questo, ma comunque mi fa venire i nervi!» «Perché tuo marito tutto a un tratto aveva perso la testa per quella donna?» azzardò Masako senza attendersi una risposta, e schiacciò il mozzicone della sigaretta. Forse la domanda aveva qualcosa a che fare con Kazuo e con quello che le aveva detto. «Probabilmente perché la vita con me era diventata troppo noiosa per lui». La collera di Yayoi non sembrava essersi placata. «Ormai non mi trovava più abbastanza affascinante!» «Può darsi». Masako avrebbe avuto una gran voglia di chiederlo a Kenji, se fosse stato vivo. Se esisteva un motivo per cui la gente si innamorava, lei voleva a tutti i costi conoscerlo. «Oppure solo per vendicarsi». «Vendicarsi? E perché mai? Tu sei una moglie e una madre esemplare!» Yayoi tacque, come se stesse riflettendo. Infine rispose: «È proprio questo che detestava in me. Ne sono sicura». «Perché?» «Una moglie così dà sicurezza, ma è noiosa». «Perché?» «Come faccio a saperlo? Io non sono Kenji», replicò Yayoi con insolita veemenza e Masako annuì: «Sì, hai ragione». «Sei così strana oggi, Masako, come se non fossi del tutto in te». «Sono solo stanca». «Ah già, non ci ho pensato proprio, dal momento che adesso di notte posso dormire», si scusò Yayoi. « Come sta la maestra?» «Oggi non è venuta a lavorare. Neanche Kuniko. Credo che la faccenda le abbia piuttosto sconvolte». «Come, quale faccenda?» Masako tacque. «Ah sì! Scusa, è per colpa mia… A proposito, prima che me ne dimentichi. L’assicurazione
pagherà l’intero premio della polizza stipulata da Kenji. Quindi presto vi potrò dare il denaro». «Quanto ci vuoi dare?» domandò Masako. «Un milione per ciascuna. È troppo poco?» «Anche troppo», rispose con decisione Masako. «Cinquecentomila sono più che sufficienti, e per Kuniko sono anche troppi». «Ma se la prenderanno a male. In fondo mi daranno cinquanta milioni!» «Non c’è bisogno che sappiano dell’assicurazione. Dai loro il denaro e basta. Invece che ne diresti di dare a me due milioni?» Alla richiesta di Masako, che aveva sempre detto di non volere soldi, Yayoi sembrò rimanere perplessa: «Sì, va bene… ma com’è che sei così cambiata?» «Vorrei avere un piccolo capitale, in caso di bisogno. Me li dai, vero? Per favore!» «Sì, certamente. In fondo ti sarò sempre debitrice». «Grazie». Dopo riattaccato Masako non si sentiva più così depressa e riprese il suo spirito bellicoso. Il proprietario della casa da gioco era il principale indiziato! Non sapeva fino a che punto la polizia prendesse la cosa sul serio, ma almeno per il momento loro quattro erano fuori pericolo. O forse era una visione troppo ottimistica? Quasi immediatamente Masako, rassicurata e sollevata, si lasciò vincere dal sonno.
8. Agosto stava per finire, un tifone aveva spazzato il paese e finalmente incominciava a soffiare il primo, fresco vento autunnale quando Satake venne rilasciato per scadenza dei termini. Lentamente salì le scale dell’edificio che ospitava i suoi locali. Sul pianerottolo erano sparsi i volantini pubblicitari di un salone di massaggi. Satake si curvò a raccoglierli, li accartocciò e se li ficcò nelle tasche della giacca nera. Ai tempi in cui il Mika e il Parco erano ancora fiorenti non si sarebbe mai vista una cosa del genere. Era bastato chiudere i due locali perché l’edificio sembrasse quasi abbandonato. Satake si sentì osservato e alzò gli occhi. Il barista di un locale al primo piano lo stava fissando spaventato. Era quello che aveva dichiarato alla polizia di averlo visto fare a pugni con Yamamoto. Le mani ancora infilate nelle tasche della giacca, Satake gli lanciò uno sguardo astioso. Il barista chiuse in fretta la porta a vetri viola scuro. Evidentemente non aveva messo in conto che sarebbe stato rimesso in libertà così presto. Continuando a sentire lo sguardo dell’uomo su di sé, Satake osservò con tristezza i cavi elettrici dell’insegna del Mika, che erano stati strappati e ora giacevano arrotolati in un angolo. Sulla porta era affisso un cartello con la scritta “Chiuso per restauri”. Satake era stato arrestato con le accuse di organizzazione illegale di gioco d’azzardo e favoreggiamento della prostituzione, ma di queste era rimasta in piedi soltanto la prima. Erano poi stati costretti a rilasciarlo perché non erano riusciti a trovare un solo indizio della sua complicità nel delitto dell’uomo fatto a pezzi, che era in realtà la vera ragione della sua cattura. Satake, che sapeva molto bene che con la polizia non c’era da scherzare, si considerava fortunato. Tuttavia le perdite subite erano considerevoli. Il suo regno, che era riuscito a mettere in piedi in dieci anni di dure fatiche, ora era ridotto a un mucchio di rovine sul quale incombeva una montagna di debiti. La cosa che lo faceva soffrire di più, però, era il fatto che ormai tutti conoscevano il suo passato e aveva anche perso la sua credibilità. Questo gli avrebbe praticamente impedito di rifarsi una posizione. Si calmò e salì la scala esterna fino al secondo piano, perché aveva un appuntamento al Parco con Kunimatsu. Ma il locale, che lui considerava il suo tesoro, non esisteva più. Rimaneva la costosa porta di legno massiccio, sopra alla quale era affissa un’insegna con la scritta “Dong Feng”, il nome della sala da majong che ne aveva preso il posto. Satake aprì timidamente la porta del locale che ormai apparteneva a un altro. Kunimatsu era solo. «Salve». «Satake-san. Sono contento di vederla». Dentro era piuttosto buio. Soltanto il tavolo del majong era illuminato, come se vi fosse puntato uno spot. Kunimatsu sollevò la testa e gli sorrise. Sembrava un po’ dimagrito e gli occhi erano segnati da profonde occhiaie, ma poteva essere anche l’effetto dell’illuminazione. «È passato un bel po’ di tempo». «Già, e lei ne ha passate delle belle», salutò Kunimatsu alzandosi a metà dalla sedia. «E così sei tornato alle tessere, eh, Kunimatsu?» commentò istintivamente Satake. La prima volta si erano conosciuti in una sala di majong della Ginza. A quell’epoca Kunimatsu, che non aveva ancora trent’anni, faceva il giocatore professionista, il buttafuori e il galoppino per quel locale e passava lì praticamente tutto il santo giorno. Satake era stato colpito nel vedere come Kunimatsu, con la sua aria da bravo ragazzo, si trasformasse in un giocatore incallito non appena si sedeva a un tavolo di majong. Così giovane e già così esperto, aveva pensato Satake pieno di ammirazione, e quando aveva deciso di aprire la sala da gioco, per prima cosa aveva voluto parlare con lui. «Ormai il majong non è più di moda. Adesso i ragazzi si divertono a giocare col computer», disse Kunimatsu cospargendo di talco le tessere allineate davanti a lui. Vi erano sei tavoli,
probabilmente presi a nolo, ma tutti, a parte quello a cui era seduto Kunimatsu, erano coperti da teli di cotone bianco – sembrava un funerale. «Può essere». Satake si guardò intorno e ricordò con nostalgia che soltanto un mese prima il locale era affollato e i clienti facevano la fila per potersi sedere al grande tavolo del baccarat. «E perciò fra non molto anch’io sarò senza lavoro», rise Kunimatsu premendo il coperchio sulla scatola del talco. Quando rideva le piccole rughe intorno agli occhi si accentuavano. «Perché?» «Pare che abbiano deciso di togliere i tavoli di majong e di trasformarlo in un karaoke-bar». «Karaoke? Possibile che ormai solo il karaoke faccia guadagnare?» Anche al Mika c’era stato un impianto per il karaoke, ma Satake detestava le canzonette e non gli era mai piaciuta l’idea di esibirsi davanti a tutti. «A quanto pare al momento gli affari vanno male ovunque». «Ma con il baccarat facevamo dei bei soldi». «Questo è proprio vero». Kunimatsu annuì tristemente. Quindi guardò per la prima volta Satake e aggiunse: «Lei è un po’ dimagrito, vero?» Nei suoi occhi si indovinava un velo di paura. Ormai tutti, nel giro di Satake, avevano saputo che, un tempo, aveva scontato una condanna per l’omicidio di una donna, e che questo era il motivo per cui ora si indagava su di lui. In queste occasioni il mondo diventa crudele: sicuramente qualcuno lo avrebbe costretto a saldare subito tutti i debiti, oppure non avrebbe trovato nessuno disposto ad affittargli dei locali e così via. Kunimatsu non avrebbe fatto eccezione, pensò Satake. Ormai non aveva più fiducia in nessuno, tuttavia rispose con gentilezza: «Dimagrito? Può darsi. Là non riuscivo a dormire». In effetti la sua vita in carcere era stata una continua battaglia contro l’insonnia. «Posso immaginarlo, deve essere stato terribile là dentro!» Anche Kunimatsu era stato arrestato con l’accusa di organizzazione di gioco d’azzardo, ma lo avevano subito lasciato andare. In seguito lo avevano convocato diverse volte in questura per interrogarlo a proposito del cadavere fatto a pezzi. Poteva dunque immaginare le condizioni in cui si era trovato Satake. «Mi dispiace di aver procurato guai anche a lei». «Non importa. È stata una lezione di vita. Anche se ormai forse è troppo tardi per prendere lezioni», concluse Kunimatsu giocherellando con le tessere del majong. Le rovesciava con piccoli movimenti precisi, le metteva in ordine e poi, iniziando dall’alto, le scopriva una alla volta. Continuando a guardarlo Satake si accese una sigaretta. In carcere aveva dovuto rinunciare completamente al fumo, e ora era una sensazione meravigliosa sentirlo penetrare nei polmoni. Esattamente quello era il gusto della libertà, pensò, e aspirò profondamente un’altra volta. Il fumo era il suo unico vizio. «Ma devo dire che mi ha piuttosto stupito il fatto che quel disgraziato sia stato fatto a pezzi». Kunimatsu diede un rapido sguardo a Satake. «Quando uno è sfortunato non può sperare che la sua sorte cambi!» «Come l’aveva chiamato? Un giocatore senza speranza, o qualcosa del genere», commentò ridendo Kunimatsu. «Ah, che dannata sfortuna!» «Si riferisce a Yamamoto?» «Macché, a me naturalmente!» Kunimatsu annuì, ma era difficile capire fino a che punto credesse ancora a Satake. Probabilmente aveva qualche sospetto che l’assassino fosse proprio lui ma, al contrario delle hostess, non l’aveva ancora abbandonato semplicemente perché non conosceva altro mestiere che il gioco d’azzardo.
«Però è un peccato per il Mika. Era il locale più redditizio di tutta Kabuki-cho». «Sì, ma ormai non c’è più niente da fare». Mentre era in prigione Satake aveva ordinato di chiudere provvisoriamente il Mika per ferie, ma quasi tutte le hostess – per la maggior parte ragazze cinesi entrate in Giappone con il visto di studio – per paura della polizia erano sparite in un baleno. Lì-huá, la mama-san, che era sospettata di avere rapporti con la mafia di Taiwan, era rientrata temporaneamente nel suo paese. Chén, il direttore, era scomparso; probabilmente aveva trovato un altro lavoro. Anna aveva accettato l’offerta di un locale che da tempo le aveva messo gli occhi addosso e le hostess che non erano rimpatriate per problemi con il visto, erano, come Anna, passate alla concorrenza. A Kabuki-cho non ci si poteva aspettare niente di diverso. Quando qualcuno aveva successo tutti accorrevano a sciami, come le api sui fiori più belli, ma al minimo segnale di diffi coltà gli stessi scappavano come topi dalla nave che affonda. Ma Satake era convinto che il fatto che il suo passato fosse venuto a galla avesse accelerato ancora di più quel processo. «Ma lei, Satake-san, ha intenzione di ricominciare, vero?» Satake alzò lo sguardo al soffitto. Era ancora appeso il lampadario scelto e pagato da lui. Ma le luci erano spente. «Non vorrà mica darsi per vinto?! Vuole dire che non ci sarà un New Mika?» Kunimatsu si guardò le mani bianche di talco. «Sì, voglio smettere», disse Satake, «ho deciso di vendere tutto». Kunimatsu lo guardò stupefatto: «Ma perché, insomma, è un peccato troppo grande!» «Perché ho in mente qualcos’altro». «Di che si tratta? L’aiuterò in qualsiasi attività». Kunimatsu sfregò le lunghe dita per distribuire la polvere sulle tessere. Senza rispondere Satake si massaggiò la nuca con la mano. Dopo tutte le notti insonni trascorse in prigione la tensione accumulata nei muscoli del collo sembrava che non si volesse più allentare. Se non faceva qualcosa, ben presto avrebbe potuto trasformarsi in una dolorosa emicrania. Kunimatsu diventò impaziente: «Che cosa ha in mente?» «Cercare l’assassino di Yamamoto». Kunimatsu, pensando che fosse uno scherzo, ridacchiò: «Buona idea, giocare un po’ a Sherlock Holmes, vuole dire?» «Kunimatsu, parlo sul serio», rispose Satake continuando a massaggiarsi la nuca. Kunimatsu inclinò la testa dubbioso: «Ma anche se trova l’assassino, che cosa ne vuole fare?» «Mah, vedremo. Ci penserò al momento giusto», mormorò Satake. In realtà sapeva già la risposta, ma naturalmente non voleva rivelarla. «Ma ci riuscirà? Ha già qualche sospetto?» Kunimatsu sembrava sulle spine. Scrutò Satake dalla testa ai piedi. «Sì, in primo luogo la moglie». «Come…?» Questo gli sembrava assolutamente impensabile. Si passò la lingua sulle labbra. «E mi raccomando, Kunimatsu, non ne parlare con nessuno». «No, naturalmente no», rispose Kunimatsu e distolse rapidamente lo sguardo dagli occhi di Satake, come se fosse riuscito per la prima volta a scorgere la tenebra della sua anima. Satake lo salutò e uscì nella Kuyakusho. Di giorno la calura era ancora insopportabile, ma verso sera si alzava una brezza fresca. Satake sospirò e si diresse verso un edificio nuovo di zecca – una costruzione in vetro e acciaio – non lontano dal Mika. Le numerose insegne variopinte segnalavano la presenza nel palazzo di tanti piccoli night-club. Satake guardò a che piano fosse il Mato, prese l’ascensore, spinse una porta nera e fu subito accolto dal direttore in tenuta da sera: «Benvenuto, si
accomodi!» L’uomo guardò in volto Satake e sgranò gli occhi per lo stupore. Era Chén. «Ah, allora è qui che ti nascondi!» Chén fece un sorriso di circostanza, che però non era più ossequioso come quello di prima, e disse: «Satake-san! È tanto che non la vediamo. Oggi è qui come cliente?» «Ovvio», rispose Satake con un sorriso amaro. «E ha in mente una ragazza in particolare?» «Mi hanno detto che Anna lavora qui, adesso». Chén andò verso il retro per informarsi se era libera e nel frattempo Satake ne approfittò per dare un’occhiata al locale. Era più piccolo del Mika ma molto elegante, arredato con mobili di sandalo rosso in stile cinese. «Le ho prenotato Anna-san. Ma ora ha un altro nome». «Ah, e come si chiama?» «Mei-ran», rispose Chén. “Bella orchidea”: in questo mestiere si chiamano tutte così. «Bene, allora vorrei Mei-ran». Satake seguì Chén all’interno del locale. La mama-san in kimono, che conosceva di vista, lo guardò stupita: «Oh, Satake-san, questa sì che è una sorpresa! Quanto tempo è che non ci vediamo? È tutto a posto di là?» «Non c’è nessun “di là”, e lei lo sa bene». La donna era giapponese. «Lì-huá allora non è ancora tornata da Taiwan?» «Non che io sappia». «Già, forse teme che le succeda qualcosa di male, se dovesse tornare?» Questa era una velata insinuazione nei suoi confronti, perché era sospettato di avere a che fare con la mafia cinese. Satake lo sapeva bene, ma non fece commenti e disse solo: «Già, chissà». La mama-san, accorgendosi che si era irrigidito, si affrettò a rimediare: «Quello che è capitato è stata proprio un’incredibile disgrazia, vero?» L’uomo sorrise ambiguamente, ma era irritato per lo sguardo sospettoso che lei continuava a rivolgergli. In un angolo in fondo al locale sedeva una bella donna che di profilo assomigliava ad Anna. Non si girò neppure una volta a guardarlo. Satake sedette al tavolo indicatogli da Chén. Nonostante ci fosse posto anche dietro, gli aveva assegnato un piccolo scomodo tavolo al centro del locale. Un cliente sbraitava nel microfono del karaoke. Appena finì la sua esibizione le hostess applaudirono come tanti automi. Scoraggiato dal frastuono, Satake si affondò ancora di più nella poltrona. Una ragazza, che conosceva solo un paio di parole in giapponese e il cui unico pregio era la giovane età, gli si sedette di fronte con un sorriso artificioso. Satake, tediato, non si prese neppure la briga di iniziare una conversazione. Svuotò in silenzio un paio di bicchieri di tè Oolong freddo. «Dov’è Anna… no, Mei-ran?» domandò infine alla ragazza, che si dileguò offesa. Satake rimase seduto da solo per una mezz’ora. A un certo punto, forse rassicurato dal fatto di essere di nuovo libero, si appisolò. Durò al massimo cinque minuti, ma quando si svegliò gli sembrò che fossero passate diverse ore. Non aveva raggiunto proprio la pace, ma si sentiva sollevato e fisicamente rilassato. Sentì il profumo e aprì gli occhi: Anna era lì, seduta davanti a lui. Indossava un completo pantaloni di seta bianca come la neve, che faceva risaltare splendidamente la pelle abbronzata. «Buonasera, Satake-san». Non lo chiamava più “O-niichan”. «Oh, Anna! Come stai, bene?» «Sì, splendidamente», rispose Anna sorridendo, ma Satake capì che non si fidava veramente e che continuava a stare all’erta.
«Sei bella abbronzata». «Sì, perché sono andata sempre in piscina». Dopo avere risposto Anna cadde in un prolungato silenzio, come se ripensasse a quel giorno in piscina e alla litigata con Satake. Era allora che era incominciata la sua sfortuna. Prese la bottiglia di scotch sulla quale qualcuno senza chiedere aveva scritto il nome “Satake”, e preparò con gesti esperti due leggeri whisky e soda. Poi, nonostante sapesse benissimo che non beveva alcolici, gli mise davanti uno dei bicchieri. Satake la guardò. «Be’, e allora come va qui?» «A gonfie vele. Questa settimana sono stata la più richiesta. I clienti del Mika mi sono rimasti fedeli e adesso vengono qui». «Mi fa piacere». «E poi ho traslocato». «Dove?» «A Ikebukuro». Non gli diede l’indirizzo esatto. Un silenzio imbarazzato scese tra loro. Poi, improvvisamente, Anna chiese: «Come hai potuto farlo? Perché hai ucciso quella donna?» Satake, colto di sorpresa, la fissò negli occhi: «Il perché non te lo posso dire, non lo so neppure io». «La odiavi?» «No, l’odio non c’entrava». In realtà Satake l’aveva persino ammirata per il suo scaltro senso degli affari. Ma sarebbe stato inutile spiegare alla giovane Anna che l’odio nasce proprio dal bisogno di avere l’altro per sé. «Quanti anni aveva?» «Non so esattamente. Di sicuro trentacinque, o anche di più». «Come si chiamava?» «Non riesco a ricordarlo». L’aveva udito pronunciare diverse volte durante il processo, ma era un nome piuttosto comune e l’aveva semplicemente dimenticato. Più che il nome gli erano rimasti impressi nell’animo il suo viso e la sua voce. «La amavi? La conoscevi da molto tempo?» «No, per niente. L’avevo incontrata quella notte per la prima volta». «E allora perché l’hai uccisa in quel modo?» incalzò implacabile Anna. «La mama-san mi ha detto che l’hai torturata a lungo prima di ucciderla. Se è vero che non la amavi né la odiavi, perché l’hai seviziata fino a farla morire?» Anna era furiosa. Il cliente seduto al tavolo accanto si mise ad ascoltare, guardò Satake, ma poi, spaventato da quello che aveva sentito, si girò in fretta da un’altra parte. «Non lo so», rispose quietamente Satake. «Davvero non so perché l’ho fatto». «Per questo sei sempre stato così affettuoso con me? Perché in qualche modo rappresentavo quella donna?» «No, no». «E allora spiegami perché in te ci sono due O-nii-chan. Uno che uccide una donna, e un altro che coccola e vizia Anna. Perché?» Anna era talmente eccitata che lo aveva di nuovo chiamato O-nii-chan. «Per te, O-nii-chan, non sono altro che un cagnolino, vero? Per questo mi hai trattato così bene! Mi hai ripulita e sistemata come se fossi un cane da esposizione e mi hai venduta agli uomini! Ti sei divertito, vero? Io ero la merce che trattavi – la merce Anna! Ma se mi fossi ribellata, se non fossi stata docile, allora mi avresti ucciso, come hai fatto con quella donna?» «No». Satake prese una sigaretta e se la accese da solo. «Tu, Anna, sei cara. Quella donna…» Satake cercò le parole adatte. Anna rimase in attesa continuando a fissarlo. Ma lui non riuscì a trovare la risposta.
«Tu, O-nii-chan, dici che sono cara, ma quello che vuoi dire è che sono solo cara e nient’altro, non è vero? All’inizio, quando ho saputo della cosa, quella donna mi ha fatto terribilmente pena, sai. Ma poi anche io mi sono fatta pena, Onii-chan, e sai perché? Qualche volta ti sei arrabbiato con me, per il lavoro o cose del genere, ma mai avresti potuto odiarmi fino a uccidermi, vero? Quella donna era riuscita a conquistare il tuo cuore al punto che tu la potessi odiare, che tu potessi addirittura torturarla e ucciderla, non è così, Onii-chan? E io invece no, semplicemente non ci sono riuscita. Talvolta mi sono perfino augurata che mi uccidessi, almeno sarebbe stato qualcosa. Ma tu mi hai solo trattato bene, come avresti voluto fare con lei – sei stato gentile con me perché avevi ucciso lei. Ma solo gentile. È troppo poco per me, O-nii-chan, e quando l’ho capito mi ha fatto molto male. E per questo credo di avere ragione quando provo molta pena per me. Capisci, O-nii-chan?» Anna si mise a piangere. Le lacrime le scorrevano sulle guance, ai lati del piccolo naso, e cadevano a terra. I clienti e le hostess seduti ai tavoli vicini li guardavano stupiti e curiosi. La mama-san, preoccupata, non la perdeva d’occhio. «Capisco. Ti lascerò in pace e non tornerò mai più, così potrai continuare a lavorare serena». Anna non disse nulla. Satake si alzò, pagò il conto e lasciò il locale seguito dal sorriso di circostanza di Chén. Lo capiva da solo che né Anna né nessun altro lo avrebbero più accompagnato. Era evidente che a Kabuki-cho non c’era più posto per lui. Dal giorno in cui Kinugasa lo aveva interrogato, Satake si era reso conto di quanto, dopo diciassette anni, fosse ancora legato a quella donna e aveva preso la decisione di guardarla finalmente negli occhi. I ricordi, che credeva di avere incapsulato ben bene nel suo cuore, avevano rotto il guscio e ora gli offrivano il frutto e i semi. Satake ritornò al suo appartamento. Erano trascorse quasi quattro settimane da quando era stato fermato e arrestato. Aprì la porta e venne investito dal tipico odore di muffa di una casa rimasta chiusa a lungo nel mezzo dell’estate. Improvvisamente sentì delle voci: qualcuno, là dentro, stava parlando. Si tolse in fretta le scarpe e corse in camera. Nell’oscurità guizzava una luce bianco-azzurra. Il televisore era acceso. Quando quel giorno era uscito precipitosamente nella calura estiva, con quella sensazione di inquietudine nella pancia, doveva essersi dimenticato di spegnerlo. Ma quelli che avevano perquisito la casa avrebbero almeno potuto spegnere il televisore! Satake sorrise amaramente e si sedette davanti allo schermo. Stava scorrendo la sigla di un telegiornale. Man mano che l’estate si avvicinava alla fine anche l’inquietudine del suo animo sembrava finalmente trovare pace. Satake si alzò e aprì la finestra. Dalla circonvallazione di Yamate entrarono rumore di traffico e zaffate di gas di scarico, ma anche la fresca aria notturna che si mescolò a quella stantia dell’appartamento. I grattacieli di Shinjuku ovest erano illuminati a giorno, come per mettere meglio in evidenza il loro profilo. Tutto era passato, tutto andava di nuovo bene. Satake, che aveva ripreso il controllo di se stesso, inalò con lunghi respiri l’aria sporca della città. Ormai non gli rimaneva altro che attuare il suo piano. Aprì l’armadio a muro in cui stipava i giornali vecchi. Scorse le pagine ingiallite e un po’ umide a causa dell’afa estiva e cercò tutti gli articoli in cui ci fosse qualcosa sul caso del ritrovamento del cadavere a pezzi nel parco di Koganei. Ne trovò una serie, distribuì le pagine sul tatami, prese una piccola agenda e incominciò a leggere e prendere appunti. Poi si accese una sigaretta, controllò gli appunti e si mise a riflettere. Spense il televisore e si alzò. Gli venne voglia di sgranchirsi le gambe e camminare senza meta nei vicoli del quartiere. Per lui adesso non c’era più niente da perdere e niente da salvare – non c’era più niente di niente. Nello stesso momento in cui credeva di avere superato il fiume profondo, avevano fatto saltare il ponte. Non c’era più possibilità di ritorno. Ma non era del ritorno a un sogno messo sotto chiave che si trattava, quanto piuttosto del fatto che, con la vita che si era costruito in tutti quegli anni, si era per così dire perso in un unico grande sogno. Era eccitato e gli sembrò di essere tornato ai suoi vent’anni, quando faceva il galoppino per gli yakuza. C’è una certa
somiglianza tra la sensazione di aver perso la strada e non sapere dove andare e la consapevolezza di non avere più la possibilità di tornare indietro. Ci si sente assolutamente liberi. Sul volto di Satake comparve un sorriso.
La ricompensa
1. Era completamente al verde. Nel portamonete c’erano solo un paio di biglietti da mille yen e pochi spiccioli. Per quanto avesse guardato in ogni angolo, in casa non era riuscita a trovare neanche uno yen. Già da un po’ Kuniko stava fissando il calendarietto tascabile ricevuto in omaggio da Mister Minit. Non c’era niente da fare. Si avvicinava il giorno in cui avrebbe dovuto pagare la rata a Jumonji. Quel giorno, all’agenzia Milione, Masako aveva baldanzosamente annunciato che avrebbe fatto in modo che Kuniko restituisse il denaro, eventualmente rivolgendosi a un’altra finanziaria, ma nel frattempo sembrava che si fosse completamente dimenticata della sua situazione. E dei soldi che le aveva promesso Yayoi non se ne era vista neppure l’ombra. C’era poco da fare, quelle erano proprio due svergognate: prima l’avevano costretta ad aiutarle in quell’orribile affare, a diventare loro complice, e adesso a quanto pareva non ne avrebbe ricavato un bel niente, solo promesse a vanvera! Kuniko, fuori di sé, spazzò via dal tavolo una voluminosa rivista femminile che cadde rumorosamente a terra aprendosi sull’inserto in carta patinata dedicato a Nizza. Sfogliò con le dita del piede le meravigliose pagine pubblicitarie degli stilisti più famosi: Chanel, Gucci, Prada… Borse, scarpe, la nuova moda per l’autunno, accessori: si sarebbe comprata tutto! Aveva raccolto la rivista vicino alla spazzatura. Era tutta macchiata dalle impronte di un bicchiere, ma questo non la disturbava: l’importante era che non l’aveva pagata. Aveva dovuto disdire l’abbonamento al giornale e negli ultimi tempi non usciva più in macchina per risparmiare la benzina. Oltre ai servizi di attualità e alle soap opera in televisione a Kuniko non era rimasto altro svago, per cui si era ridotta a raccogliere le riviste che qualcuno aveva buttato via. Aveva telefonato ovunque per cercare di scoprire dove si nascondesse Tetsuya, ma nessuno le aveva voluto dire dov’era. Dal momento che in agosto era rimasta spesso assente dal lavoro anche i suoi introiti si erano ridotti e non era riuscita a risparmiare neanche uno yen. Kuniko, che non sopportava più quella vita di ristrettezze, cacciò un urlo di rabbia. Aveva scorso i giornali specializzati alla ricerca di un onesto lavoro diurno, tuttavia si era resa conto che nessuno sarebbe stato pagato abbastanza per saldare i suoi debiti. Nell’ambiente a luci rosse una donna avrebbe potuto guadagnare abbastanza, ma nonostante si sforzasse non riusciva a vincere la mancanza di fiducia nel proprio aspetto. Perciò era meglio che rimanesse alla fabbrica di colazioni e continuasse a fare il turno di notte. Oltretutto l’orario di lavoro era relativamente ridotto. L’intenso desiderio di essere ricca, di vestire all’ultima moda e di essere esposta alle luci della ribalta, insieme a un complesso di inferiorità che la spingeva a starsene rannicchiata nell’angolo più buio, dove nessuno potesse vederla, coesistevano nell’animo di Kuniko come le due facce di una stessa medaglia. E se avesse dichiarato fallimento? Non sarebbe stato meglio? Per un attimo pensò a questa ultima possibilità: così facendo forse avrebbe dovuto rinunciare per sempre alla carta di credito. E quindi sarebbe stata costretta a cavarsela con quei pochi soldi che riusciva a guadagnare… No, grazie! Non avrebbe potuto sopportarlo, lei che non riusciva a tenere a bada le proprie voglie e che doveva sempre soddisfarle all’istante. Finché avrebbe potuto contare sul denaro di Yayoi, anche solo pensare a queste soluzioni era una pura perdita di tempo. Decise di telefonarle. Avrebbe voluto farlo prima, ma si era trattenuta per paura che la polizia si aggirasse ancora da quelle parti. Tuttavia adesso non poteva più aspettare. «Pronto, sono Kuniko Jonouchi». «Oh!» Yayoi non sembrava particolarmente contenta. Evidentemente la telefonata le dava fastidio, dal momento che non faceva nemmeno il cenno di salutarla! Be’, aspetta, che adesso ti faccio vedere io, pensò Kuniko inferocita. «Ho letto sul giornale che a quanto pare sei riuscita a farla franca!»
«Come, che cosa vuoi dire?» ribatté Yayoi fingendo di non capire. All’altro capo del filo si udivano le voci concitate dei cartoni animati alla TV e il baccano dei bambini. Sembrava che là andasse tutto alla grande – e dire che il padre aveva appena dovuto abbandonare questo mondo in un modo così spaventoso! La rabbia di Kuniko non si fermò neppure davanti ai bambini innocenti. «Non fare tanto la bacchettona, sai benissimo di che cosa parlo! C’era scritto che al tuo posto hanno messo in galera il proprietario di una casa da gioco, o che so io!» «Sembrerebbe». «Sembrerebbe, sembrerebbe – cosa mi tocca sentire! Hai avuto una fortuna sfacciata, ecco cos’è!» «La stessa cosa vale anche per te! Non mi posso certo lamentare, dal momento che mi hai dato una mano, ma tutto il casino è successo perché hai buttato via i sacchi in quel posto assurdo! Masako era terribilmente arrabbiata», protestò Yayoi, di solito così buona e remissiva. Kuniko, che credeva di essere più forte, non aveva fatto i conti con questa reazione e rimase spiazzata. Ansimando riuscì solo a sibilare: «Come hai il coraggio di parlarmi così! Tu che sei un’assassina!» «Che c’è? Che cosa è successo?» Yayoi doveva aver messo in fretta una mano sul ricevitore. «Niente! Voglio solo vedere i miei soldi. Quando avrò la somma che mi hai promesso? Puoi almeno dirmi pressapoco una data?» «Ah, ho capito. Scusa. Non lo so ancora esattamente, ma penso che per i primi di settembre dovrebbe essere tutto a posto». «Primi di settembre… Ma te li danno i tuoi genitori, no? E non puoi dirgli che ti servono subito? Mancano soltanto dieci giorni». «Già, ma…» Yayoi non si lasciava mettere alle strette. «Davvero mi darai cinquecentomila?» «Sì, certo». «Bene», rispose Kuniko sollevata. «Ma adesso mi trovo proprio tra l’incudine e il martello, sai com’è. Puoi darmi un anticipo? Cinquantamila potrebbero bastare». «Be’… se potessi aspettare ancora un po’, allora…» «Allora che cosa? Non vorrai mica dire che ti pagheranno il premio dell’assicurazione, vero?» «Ma no, che cosa vai a pensare!» rispose in fretta Yayoi. «Lui non era assicurato». «E allora come farai ad andare avanti? Sarai nelle mie stesse condizioni. Senza tuo marito ti resta solo lo stipendio della fabbrica, no?» «È vero, ma a dire il vero non ho ancora pensato a come farò. Ma alla fin fine io ho il dovere di pensare ai bambini, per cui resteremo qui ancora un po’. Anche mia madre crede che sia la cosa migliore», rispose seria Yayoi. Kuniko, alla quale non importava un fico secco della sorte di Yayoi, si spazientì: «Allora vuoi che i tuoi genitori non ti diano qualcosa?» «Sicuramente mi aiuterebbero, se glielo chiedessi. Ma anche mio padre è un semplice impiegato, e non posso pesare troppo sulle loro spalle». «Masako mi aveva raccontato tutta un’altra storia!» «Ah, sì? Mi dispiace». «Ma a un impiegato non va poi così male, per lo meno ogni mese si prende il suo bello stipendio». Nella sua disperazione Kuniko non poteva lasciare niente di intentato. Doveva riuscire a ogni costo a farsi dare dei soldi. Ma Yayoi, senza spostarsi dalla sua posizione, continuava a chiedere se non poteva aspettare un po’ e infine Kuniko, preoccupata per la bolletta del telefono, depose la cornetta. Adesso non le rimaneva che provare con Masako. Si incontravano tutti i giorni allo stabilimento, ma non si erano quasi più parlate. Da quando aveva saputo che Jumonji e Masako si
conoscevano già da prima, quest’ultima le faceva un po’ paura. Nonostante fosse prossima al fallimento totale, Kuniko continuava a illudersi di appartenere a quel mondo agiato ed elegante che poteva ammirare nelle riviste femminili. Perciò Masako, che aveva avuto a che fare con un malavitoso come Jumonji, la metteva a disagio. Ma il giorno del pagamento della rata si avvicinava inesorabilmente. Doveva trovare i soldi a qualsiasi costo, anche a rischio di violare un po’ la legge. Per lo stesso motivo – il bisogno di denaro – si era lasciata coinvolgere suo malgrado nell’orribile delitto di Yayoi ma, mentre faceva il numero di telefono di Masako, se ne era già scordata. «Katori». Masako era in casa. Diversamente da quanto era accaduto con Yayoi, all’altro capo del filo regnava il silenzio più assoluto. Kuniko si domandò che cosa stesse facendo Masako da sola in quella casa silenziosa e ordinata. Si ricordò la terribile scena del bagno e sentì un brivido gelido giù per la schiena. Doveva avere dei nervi ben saldi quella donna se poteva continuare a lavarsi sulle stesse piastrelle che erano state coperte da grumi di sangue e carne, se poteva immergersi ancora nella vasca in cui avevano appoggiato i pezzi del cadavere! Di nuovo Masako le fece tanta paura che a malapena osò dire: «Sono Jonouchi…» «Giustappunto, tra poco ti scade la prossima rata, vero?» Masako entrò subito in argomento. Quindi non se ne era dimenticata! «Sì, è proprio per questo che chiamo: che cosa devo fare?» «E lo domandi a me? Questo è un tuo problema!» «Ma tu avevi detto che avresti fatto in modo di farmi restituire il denaro, anche a costo di chiederlo in prestito a un usuraio!» urlò Kuniko sentendosi tradita. «E allora chiedili in prestito», rispose seccamente Masako. «Basterà che tu li chieda a un’altra piccola finanziaria, vedrai che te li daranno. E poi li restituirai chiedendoli a un’altra ancora!» «Ma così finirò in un circolo vizioso e non riuscirò più a uscirne!» «Niente di nuovo, mi pare. Ci sei già dentro fino al collo!» «Ah, smettila di parlare così e dammi piuttosto un consiglio!» «Un consiglio? Ma tutto quello che vuoi da me sono i soldi, o sbaglio?» la canzonò Masako. Kuniko digrignò i denti per la rabbia: «Allora prestami tu qualcosa, per amor del cielo! Da Yayoi non riesco ad avere ancora niente!» «Fossi matta, sarebbe come gettarli dalla finestra! Quando la situazione di Yama-chan si sarà un po’ calmata, ti pagherà sicuramente. Te lo ha promesso! Fino ad allora fatti venire in mente qualcosa». «Che cosa, per esempio?» «Sei giovane, arrangiati», rispose gelidamente Masako. Kuniko sbatté giù la cornetta. Voleva vendicarsi, voleva che Masako strisciasse a chiederle pietà! Ma per il momento non aveva armi contro di lei. Prima o poi gliel’avrebbe fatta vedere a quella sgualdrina! Furiosa si mise a pestare i piedi sul pavimento. Il suono del campanello la fece sobbalzare. Proprio oggi che avrebbe voluto stare in pace e nascondersi a tutto il mondo, affondare nel fango grigio di una palude come una tartaruga! Respirando affannosamente si tappò le orecchie con le mani. Suonarono ancora. La cosa più probabile era un’altra visita della polizia criminale. E se era di nuovo Imai, l’ispettore dallo sguardo penetrante che l’aveva interrogata tre settimane prima? No, grazie! Era sicura di non aver detto nulla di compromettente, ma davanti a quegli occhi indagatori non si era sentita per niente a proprio agio. Come avrebbe dovuto comportarsi se le avesse detto che nel frattempo avevano trovato un testimone che aveva visto una Golf verde vicino al parco di Koganei? No, non voleva più incontrare l’ispettore Imai. Decise di continuare a fingere di non essere in casa e ridusse al minimo il volume del televisore. Adesso bussavano direttamente alla porta. «Signora Jonouchi? Sono Jumonji dell’agenzia Milione. È in casa?»
Sorpresa Kuniko afferrò la cornetta del citofono e domandò allarmata: «Ma per quello c’è ancora tempo, no?» Jumonji, palesemente sollevato dal fatto che era in casa, rispose: «No, no. Volevo parlarle di un’altra cosa». «Di che si tratta?» «Mi faccia entrare un momento. Vedrà che non se ne pentirà». Di che cosa parlava? Che cosa voleva da lei? Combattuta fra il sospetto e la curiosità, Kuniko aprì finalmente la porta e vide Jumonji fermo in piedi con in mano una scatola di dolci – occhiali da sole sul naso, pantaloni di cotone e una vistosa camicia hawaiana con uccelli del paradiso su sfondo nero. Sembrava un’altra persona. «Che cosa vuole?» Kuniko indietreggiò pensando con orrore alle sue brutte gambe grosse che spuntavano dai pantaloncini corti. «Mi scusi se la disturbo così all’improvviso, ma ho bisogno di parlare con lei», disse Jumonji ficcandole in mano la scatola di dolci. Kuniko, che continuava a essere sospettosa, non riuscì a fare a meno di sciogliersi davanti al suo smagliante sorriso. «Allora si accomodi, la prego». Jumonji, che entrava per la prima volta in casa di Kuniko, si guardò intorno senza complimenti e decise di sedersi al tavolo da pranzo. Kuniko raccolse in fretta la rivista che aveva buttato a terra. «Non mangiamo il dolce?» «Ah, sì». Kuniko prese piatti e forchette e l’ultima bottiglia di tè Oolong rimasta in frigorifero e li portò al tavolo. Poi mentì: «Di che cosa vuole parlare con me? Dopodomani pagherò puntualmente la rata». «Non sono qui per questo. Si tratta di qualcos’altro, un particolare che mi ossessiona da tempo». Jumonji tirò fuori di tasca un pacchetto di sigarette e gliene offrì una. Kuniko, che non poteva più permettersi neppure le sigarette, si servì senza esitazione. Jumonji la osservò mentre se la accendeva e inalava con gusto. «Se vuole le lascio tutto il pacchetto». «Molto gentile, grazie mille». Kuniko prese il pacchetto e lo mise in tasca. «Sembra che sia in difficoltà». «Sa com’è, mio marito non è ancora saltato fuori e non so più dove cercarlo…» borbottò Kuniko sbuffando. «Ho pensato che deve andare a lavorare, perciò mi sono affrettato a venire prima che uscisse. Vorrei un’informazione da lei. Si tratta della signora Yamamoto, quella che le aveva dato la garanzia». Kuniko lo guardò sorpresa. Jumonji aggrottò le belle sopracciglia e ricambiò lo sguardo con l’espressione della persona onesta che si trova in estremo imbarazzo. «La signora Yamamoto è la moglie della vittima di quel terribile delitto, vero? Ho appreso la notizia il giorno seguente, leggendo il giornale, e mi ha impressionato. E poi mi sono preoccupato pensando che era la persona che aveva garantito per lei», continuò svelto Jumonji. «Le avevo chiesto di farmi quel favore perché al lavoro ci intendevamo bene». «Ma poi ha pensato che fosse meglio parlare con la signora Katori – in fondo ha lavorato per vent’anni in un istituto di credito ed è molto esperta in questo campo!» «Ah, in un istituto di credito…» annuì Kuniko soddisfatta. Ecco risolto l’enigma del passato di Masako: in effetti aveva proprio l’aspetto di una che avesse lavorato a lungo ai terminali del computer di una banca! «Perciò vorrei sapere perché aveva scelto come garante proprio la signora Yamamoto». «Perché lo vuole sapere?» Jumonji ridacchiò e si accarezzò con entrambe le mani i morbidi capelli tinti di castano: «Semplice curiosità».
«Perché la signora Yamamoto è gentile e altruista. Non posso dire altrettanto della signora Katori. Tutto qui». «E così non le ha fatto né caldo né freddo andare a chiederle un favore nonostante suo marito fosse appena scomparso?» «Ma non lo sapevo ancora!» «E la signora Yamamoto ha firmato senza fare storie?» «Gliel’ho detto, è una brava persona». «Ah sì? E allora mi spieghi perché la signora Katori è venuta con lei per farsi ridare il documento». «Be’…» Kuniko fece la finta tonta. Era impossibile che Jumonji le facesse tutte quelle domande per pura curiosità. Aveva il presentimento che da un momento all’altro l’avrebbe messa in difficoltà e incominciava ad aver paura. «Ma la signora Katori sicuramente sapeva che, se fosse venuto fuori che la signora Yamamoto aveva firmato la garanzia dopo la scomparsa di suo marito, ci sarebbero stati dei problemi». «Niente affatto. Katori è intervenuta solo perché era convinta che avessi fatto una sciocchezza». «Tuttavia c’è qualcosa che continuo a non capire…» Come se giocare al detective gli procurasse un grande divertimento, Jumonji incrociò le mani dietro alla nuca e guardò il soffitto. Kuniko incominciava a trovare piacevole la sua compagnia. «Io assaggerei il dolce, che ne dice?» «Ah, prego. Penso che sia buono. È di una pasticceria piuttosto rinomata: è stata una studentessa del liceo a darmi l’indirizzo, e di sicuro è quello giusto». Kuniko prese in mano la forchetta e, guardandolo con civetteria negli occhi color ambra, disse: «Ah, quindi lei frequenta le studentesse, signor Jumonji?» Imbarazzato Jumonji arrossì e si passò le mani sulle guance: «No, non è quello che lei pensa!» «Non lo neghi.Attraente com’è, sicuramente avrà successo con le studentesse!» «Ma no, che cosa va a pensare!» Kuniko, ormai stanca di cercare di capire quale potesse essere il vero scopo di Jumonji, si dedicò completamente al dolce. Jumonji diede un’occhiata alla data sull’orologio da polso: «Quanti pagamenti le mancano, signora Jonouchi?» Kuniko, confusa, rimise la forchetta sul piatto. «Otto, credo…» «Otto, ossia quattrocentoquarantamila in tutto, vero? Se ci passassi sopra, mi racconterebbe tutta la storia?» «Che cosa significa “passarci sopra”?» «Che lei non mi deve più niente». Kuniko, per quanto si scervellasse, non riusciva a capire dove volesse andare a parare Jumonji. Si accorse che aveva ancora della panna sulle labbra e ci passò sopra la lingua. «Quale storia?» «Naturalmente quello che avete combinato, è chiaro». «Come? Noi non abbiamo combinato proprio niente…» Kuniko riprese in mano la forchetta, ma a quella proposta inattesa la bilancia nella sua mente, sempre intenta a calcolare entrate e uscite, incominciò a oscillare come impazzita e la gettò nel panico. «No, quello che dice non è vero, e lei lo sa bene. Lei, la signora Yamamoto, la signora Katori e un’altra ve la intendete molto bene. Me l’hanno detto allo stabilimento. E quando la signora Yamamoto si è trovata in una situazione precaria, voi le avete offerto la vostra complicità e l’avete aiutata tutte insieme. È questa più o meno la verità, no?»
«Situazione “pre-ca-ria”?» «Sì, scabrosa, spiacevole». «Noi non abbiamo fatto nulla, davvero niente. Che cosa intende dicendo che l’abbiamo aiutata tutte insieme?» Kuniko aveva smesso di mangiare il dolce. Jumonji le rivolse un sorrisetto sarcastico: «Signora Jonouchi, non è vero che è stata proprio lei a dirmi che presto avrebbe avuto dei soldi? Non è che avesse qualcosa a che fare con questo, vero?» «Vale a dire?» «Ah, la smetta di fare l’ipocrita, non le si addice proprio!» Jumonji usò quasi le stesse parole con le quali poco prima lei si era rivolta a Yayoi. «Sto parlando del delitto del cadavere fatto a pezzi». «Ma sembra che sia già stato chiarito tutto.Io almeno ho sentito dire che hanno arrestato il proprietario di una casa da gioco». «Sì. Questa è la notizia pubblicata dai giornali, ma io continuo ad avere dei sospetti». «In che senso dei sospetti?» «Be’, come posso dire… sono più propenso a credere che si tratti di un caso di solidarietà femminile». «Macché, non siamo mai state così amiche da aiutarci a vicenda a tirarci fuori dai pasticci!» «E allora perché la signora Yamamoto ha accettato di firmarle la garanzia? Nella situazione in cui si trovava? Era una garanzia che non comportava degli obblighi, ma di solito uno cerca sempre di non firmare. E allora, signora Jonouchi, mi vuole raccontare la verità? Come ho detto, le cancellerò tutti i suoi debiti». «…e se le racconto tutto, cosa farà?» si lasciò scappare Kuniko. Negli occhi di Jumonji apparve per un istante il guizzo di soddisfazione di chi è riuscito nel proprio intento: «Proprio niente, che cosa dovrei fare? Voglio solo appagare una mia curiosità, tutto qui». «E se tengo la bocca chiusa?» «Va bene lo stesso. Tutto rimane come prima e lei dovrà pagarmi le rate rimaste. Quando scade la prossima? Fra due giorni, se non sbaglio. Ancora otto rate da cinquantacinquemiladuecento yen. È sicura di poter essere puntuale?» Kuniko si ricordò di essere al verde e si passò di nuovo la lingua sulle labbra. Ma ormai non c’era più panna da leccare. «E lei che garanzia mi dà di annullare completamente il debito?» «Ecco qui, aspetti un momento». Jumonji prese dalla cartella un documento ripiegato: il contratto di Kuniko. «Lo straccerò qui, davanti ai suoi occhi». Immediatamente l’ago della bilancia nella mente di Kuniko puntò su “cancellazione dei debiti”. Se non avesse più dovuto pagare Jumonji, i cinquecentomila yen di Yayoi sarebbero rimasti tutti per lei. A quel pensiero non ebbe più esitazioni: «Va bene, parlerò». «Ah, adesso sì che sono contento», sorrise Jumonji, ma il tono della voce era serio. Fu facile. Mentre raccontava in tutti i minimi dettagli come era stata attirata nella trappola, Kuniko si rese conto con soddisfazione che finalmente si era presentata l’occasione di vendicarsi di Masako e Yayoi. Quello che sarebbe successo non le importava: c’era un mucchio di tempo per pensarci!
2. Jumonji era seduto su una panchina del piccolo parco giochi davanti al casermone in cui abitava Kuniko. Si mise una sigaretta tra le labbra e, frugando nelle tasche dei pantaloni alla ricerca dell’accendino, si accorse che le mani gli tremavano leggermente. Fece una smorfia annoiata, controllò la mano e accese la sigaretta. Dopo una boccata alzò lo sguardo al condominio e individuò il balcone di Kuniko. Oltre all’impianto del condizionatore non c’erano che alcuni sacchi di plastica nera, evidentemente pieni di immondizie. «Spazzatura quindi…» Davanti a lui, nel crepuscolo della sera, una decina di bambini giocavano a rincorrersi. I bambini, tutti tra i sei e gli otto anni, correvano eccitati, accaldati e rossi in viso, come se si trattasse dell’ultimo gioco della loro vita. Forse perché era quasi ora di rientrare in casa, o forse rimpiangevano la fine ormai prossima delle vacanze estive, o forse ancora erano già coscienti del destino che li aspettava, la strenua battaglia con la scuola e gli esami. Sollevavano nuvole di polvere e sabbia e urlavano come forsennati. Come schiacciato da tanta giovane energia, Jumonji si lasciò andare sulla panchina e per un po’ non riuscì più a muoversi. Era ancora turbato per quello che gli aveva raccontato Kuniko. Non solo era sconvolto perché ciò che aveva sospettato, ma che non avrebbe mai creduto possibile, corrispondeva esattamente alla verità. Quello che più lo aveva impressionato era la scoperta che Masako Katori si trovava al centro di tutta la vicenda. Persino uno come lui, che credeva di essere un duro, non avrebbe avuto il coraggio di far sparire un cadavere. Di farlo a pezzi, poi! Provava quasi una sorta di timore reverenziale nei confronti di Masako, che era stata capace di portare a termine quella faccenda. Non avrebbe mai immaginato che quella ossuta tardona potesse avere fegato fino a quel punto! Neppure per un attimo a Jumonji venne in mente che Masako si fosse ficcata in quella folle impresa per caso, senza pensarci su. «Tanto di cappello! Questo è quello che io chiamo stile!» La sigaretta era quasi finita e stava per scottargli le dita. Era il fuoco del destino che gli dava la sveglia. Anche lui voleva fare cose così temerarie, con quello stile. E guadagnare soldi. Non gli piaceva lavorare in coppia, ma con una come Masako sarebbe stato possibile. Perché di lei si fidava. Alcuni anni prima – non ricordava quanti – nell’intervallo di mezzogiorno era andato in un caffè vicino all’istituto di credito e aveva trovato Masako. Il locale era strapieno e tutti i tavoli erano occupati. I clienti erano per lo più dipendenti dell’istituto, e quasi tutti erano costretti a dividere il tavolo con colleghi con cui non erano in confidenza. Masako era l’unica che sedeva da sola, a un tavolo per quattro vicino alla finestra. Jumonji si era chiesto stupito come mai nessuno si sedesse accanto a lei. Solo più tardi aveva capito, quando gli avevano raccontato del mobbing a cui era sottoposta. Ma lei non sembrava dare alcuna importanza a quella palese emarginazione: sorseggiava con calma un caffè, immersa nella lettura di un giornale finanziario spiegato davanti a sé. Come un uomo. Erano piuttosto gli altri, seduti stretti come sardine sott’olio, a sembrare ridicoli. Jumonji ridacchiò e batté le mani contento. I bambini che correvano nel giardino si fermarono a guardarlo diffidenti, ma lui non se ne curò. Chissà perché lui, che non provava alcun tipo di attrazione sessuale nei confronti delle donne mature, nel lavoro si fidava più di loro che degli uomini. Forse aveva qualche relazione proprio con il fatto che, quando era ancora giovane, aveva incontrato Masako. Tirò fuori dalla borsa un’agenda e il cellulare, guardò tra gli indirizzi e digitò un numero. Gli era venuta un’idea. La risposta fu immediata: «Gruppo Toyozumi. Chi parla, prego?» «Mi chiamo Akira Jumonji. Posso parlare con il signor Soga?» «Può aspettare un attimo?» rispose titubante il ragazzo, e poi si udirono le note elettroniche del
minuetto in sol di Bach, decisamente poco adatto a un’organizzazione malavitosa. «Ah, sei tu Akira, dannato ragazzo! Mi domandavo chi fosse questo Jumonji. Perché non ti annunci con il tuo vero nome, Yamada, in modo che sappia con chi parlo!» lo redarguì la voce strascicata di Soga. Gli sembrava di vedere il suo largo ghigno. «Non le ho dato il mio biglietto da visita?» «Leggere un nome e sentirlo pronunciare non sono la stessa cosa», replicò Soga, che di tanto in tanto assumeva atteggiamenti da intellettuale che mal si adattavano al suo aspetto. «La chiamo perché vorrei parlare con lei di una faccenda. Che ne direbbe se uno di questi giorni ci incontrassimo?» «Macché uno di questi giorni! Incontriamoci subito. Andiamo a bere qualcosa insieme. Che ne diresti di un bar dalle parti di Ueno?» lo invitò Soga tutto allegro. Jumonji guardò l’orologio e decise di accettare. Forse era un po’ troppo precipitoso, ma aveva un’informazione che gli era costata ben quattrocentoquarantamila yen – era meglio fare le cose per bene e in fretta. Si erano dati appuntamento in un tranquillo e raffinato bar di Ueno, piuttosto antico. Quando Jumonji arrivò davanti al locale, una casa di legno a un piano con la facciata coperta di edera, trovò i due ragazzi che aveva già visto fermi sull’attenti ad aspettare davanti all’ingresso del parcheggio del ristorante di Musashi-Murayama. Appena lo vide, quello dai capelli tinti di biondo e dall’aria ottusa lo salutò: «Grazie di essere venuto». Evidentemente Soga li utilizzava come guardie del corpo. Aveva sempre avuto la mania di giocare al capo, anche quando facevano parte della stessa banda di motociclisti. Ma questo non significava che fosse solo uno spaccone di cui potersi prendere gioco. Jumonji fece appello a tutta la sua capacità di concentrazione e aprì la porta del bar. «Qui! Vieni qui!» lo chiamò Soga – la sigaretta in mano – dal fondo del locale. Il bar era immerso nella penombra e il pavimento di legno profumava di cera. Dietro il bancone un vecchio con un’espressione insondabile e un cravattino a papillon agitava lo shaker. Non si vedevano altri clienti. Soga era seduto a gambe larghe su una poltroncina di velluto verde spiegazzato nell’angolo più appartato della sala. «Mi fa piacere vederla così presto, Soga-san. Mi scusi se l’ho disturbata così all’improvviso». «Non ti preoccupare. Avevo intenzione comunque di trovarmi a bere qualcosa con te. Che cosa prendi?» «Una birra». «Come? Qui sono bravissimi a preparare i cocktail! Dai, sbrigati, il barman è lì che aspetta, ordina qualcosa!» «Allora un gin tonic, grazie». Era l’unico cocktail che gli veniva in mente. Guardò Soga che indossava un completo estivo verde tiglio e una camicia nera col collo aperto. «Che elegante!» «Alludi a questa?» rise contento Soga, sollevando la giac ca per mostrare l’etichetta. «È una firma italiana non molto conosciuta. Niente male, non ti pare? I vecchi boss si riempiono la bocca con la parola “Hermès”, ma secondo me la persona veramente elegante sceglie queste qui». «Le sta molto bene». Soga era di ottimo umore. «Anche la tua camicia hawaiana non è male. Che cos’è? Moda vintage?» «Macché, l’ho presa nel negozio di jeans sotto casa mia». «Be’, con quella bella faccia puoi mettere quello che vuoi. Le donne ti strisciano ai piedi, vero?» scherzò Soga. «Mi mette in imbarazzo…» Jumonji non riusciva a districarsi dalla piega che aveva assunto la conversazione e a entrare in argomento.
All’improvviso Soga cambiò discorso: «Akira, hai letto Love and Pop di Ryu Murakami 8?» «No, perché?» rispose sorpreso Jumonji. «Di che cosa si tratta? Non leggo cose di questo genere». «Peccato. Te lo raccomando. Al protagonista piacciono le donne, è proprio fissato». Soga schiacciò il mozzicone della sigaretta e bevve un sorso del suo cocktail, una sinfonia di rosa nelle più diverse tonalità. «Ah, e il libro parla di questo?» «Certo. Il giovanotto ha la mania delle studentesse». «Ah, e su questo Murakami scrive un romanzo?» «Sì, questa è la storia», rispose Soga tamburellando con un dito sulle labbra. «Allora forse lo leggerò. Anche a me piacciono molto le studentesse». «Stupido. Non si tratta di piacere, ma di mettersi sullo stesso livello. Per dirla in altre parole, lui non le guarda da un diverso punto di vista». Jumonji, che non riusciva assolutamente a capire di che cosa parlasse Soga, chinò il capo imbarazzato. Si era del tutto scordato della sua passione per la lettura. «Ah, capisco. Interessante…» Arrivò il gin tonic e gli si aggrappò come a un salvagente. Pescò la fettina di limone a forma di mezzaluna e la appoggiò sul sottobicchiere. Si chinò in avanti e sorseggiò la bevanda fresca. «Si può ben dire. Sai, io mi sono creato una specie di regola d’oro per quanto riguarda le mie letture». «Ah…» «Già. Mi domando se la storia ha qualche analogia con la mia vita. Da questo misuro il valore del romanzo». «Vale a dire?» Jumonji, che aveva la gola secca, si scolò d’un sorso tutto il gin tonic. Soga gli lanciò uno sguardo di disapprovazione e continuò: «Si tratta di vedere se la storia sta in piedi o no. Esattamente come nel nostro mestiere». «Che cosa vuole dire?» «Prendiamo Ryu Murakami e le studentesse. Loro detestano il padre. Anche nel nostro mestiere abbiamo incominciato solo perché odiavamo i nostri padri, o la nostra patria, il Giappone – non è così? Voglio dire che siamo tutti figli perduti, outsider ai margini della società. È vero o no? Tu che cosa pensi?» «Può essere…» «Certo che è così, noi siamo i figli perduti della società!» dichiarò Soga ad alta voce. «Guardati: sei stato tu a tagliarti fuori, da solo, nel momento in cui, ad Adachi, hai deciso di lasciare la scuola e di entrare nella nostra banda. E adesso tu fai l’usuraio e io sono uno yakuza. Eravamo degli emarginati e continuiamo a esserlo. O, meglio, i nostri padri ci hanno rovinato e abbandonato per sempre. Ma per Ryu Murakami e le studentesse è esattamente la stessa cosa: in questo ci assomigliamo. Noi abbiamo stile. Capisci che cosa voglio dire?» Jumonji osservò il viso giallastro di Soga, che nella penombra del locale sembrava ancora più pallido. Per quanto avrebbe dovuto continuare ad ascoltare quei discorsi incomprensibili? Era contento che Soga fosse di buonumore, ma ormai incominciava a perdersi d’animo, ad avere dei dubbi sulla attuabilità della propria idea. Non era più tanto sicuro di volergliela raccontare. E, come se non bastasse, lo stesso progetto gli sembrava via via più mostruoso. «Akira, di che cosa volevi parlarmi?» D’un tratto Soga interruppe i pensieri di Jumonji, come se ne avesse fiutato l’incertezza. Lui ebbe l’impressione di essere stato beccato poco prima della fuga. «Mah, a essere sinceri è un’idea abbastanza strampalata…» iniziò a spiegare a malincuore. «Si tratta di soldi?» «Se si riesce a realizzare direi di sì. Cioè, me lo auguro. Ma non so giudicare…»
«Adesso smettila di chiacchierare. Starò muto come una tomba, mano sul cuore». Come per dimostrarlo Soga infilò una mano sotto la camicia e la mise sul petto, il gesto abituale di quando voleva dimostrare che faceva sul serio. Jumonji si decise a parlare: «Bene. Vorrei occuparmi dell’eliminazione dei cadaveri». «Che cosa dici? Ho capito bene?» domandò Soga e la sua voce stonò nel falsetto. Concentrato e con espressione impassibile il barman continuò a tagliare il limone a fette sottilissime, come se la sua vita dipendesse dal loro spessore. Solo allora Jumonji si accorse del sottofondo musicale, un vecchio rhythm and blues. Doveva essere molto teso per non essersene accorto prima, pensò asciugandosi il sudore dalla fronte. «Sì, ecco, ci sono sempre cadaveri scomodi, e io vorrei occuparmi di loro, cioè voglio mettermi in affari nell’elimina zione dei cadaveri». «Vuoi dire tu… personalmente?» «Sì…» «E come? Vuoi dire che hai scoperto un metodo infallibile per farli sparire senza lasciare tracce?» Dietro il loro velo giallastro gli occhi di Soga incominciavano a brillare. «Ho pensato: seppellirli è troppo rischioso, gettarli a mare anche, perché prima o poi riaffiorano sempre. Perciò credo che il sistema migliore sia farli a pezzi e buttarli nella spazzatura». «A sentir te sembrerebbe facile. Non hai mica visto quello è successo al parco di Koganei?» Soga ora parlava a bassa voce. Sul volto magro era sparita l’ombra di gioventù che lo aveva animato quando chiacchierava di moda e letteratura, sostituita da un’espressione di dura caparbietà. «Naturalmente». «In quel caso sono stati bravissimi a sezionare il cadavere, ma hanno fallito miseramente quando si è trattato di eliminarlo. In secondo luogo: tu parli così semplicemente di tagliare a pezzi, ma hai un’idea di che cosa vuole dire veramente? È un lavoro maledettamente faticoso! Sai quanta forza ci vuole per staccare anche un solo dito?» «Questo lo so. Ma una volta che il cadavere è stato fatto a pezzi io conosco un metodo che mi garantisce che non verrà mai scoperto, vale a dire che posso farlo sparire dalla faccia della terra». «E sarebbe?» Soga si sporse verso di lui, dimenticandosi persino di bere il cocktail. «Mio padre viveva in un paesino di campagna vicino a Fukuoka, nell’isola di Kyushu. Nei dintorni c’è una enorme discarica. Diversamente da quanto accade davanti a Tokyo, nell’“isola del sogno”, non buttano le spazzature in mare. Lì c’è un enorme inceneritore, sempre acceso. Tutti quelli che si dimenticano di gettare la spazzatura possono andare in qualsiasi momento all’inceneritore e buttarcela dentro. Perciò si potrebbe eliminare completamente ogni prova». «E come faresti a portare il cadavere fino a Fukuoka?» «È proprio questa la mia idea. Basterà farlo a piccoli pezzi, impacchettarli e spedirli per posta. Mio padre è morto e la mia vecchia abita da sola in una stamberga. Io vado a Fukuoka, ritiro i pacchi, li porto all’inceneritore ed è tutto finito». «Uhm, un bel traffico…» borbottò Soga meditabondo. «Ma il lavoro difficile è soltanto quello di farlo a pezzi. E ho già trovato il sistema». «Ossia?» «Se ne occuperà una persona di cui mi posso fidare». «Fidare? Un complice?» «Sì, per meglio dire una complice: si tratta di una donna». «La tua donna?» «No, ma non ci sono problemi», assicurò precipitosamente Jumonji. Non gli era sfuggito che via via che esponeva il piano l’interesse di Soga aumentava, e ora puntava tutto sulla speranza di riuscire a concretizzare la propria idea.
«Bene, non voglio dire che non sia da prendere in considerazione, al contrario». Soga tirò fuori la mano dalla camicia e prese il suo cocktail. «So che c’è qualcuno che si occupa di eliminare le prove, ma pare che sia un servizio costoso. Voglio dire: nessuno che si venisse a trovare in una situazione così delicata affiderebbe il proprio destino a un imbecille», disse indicando col mento in direzione dell’uscita. «E quanto pretende quel tipo per il suo lavoro?» «Dipende dall’oggetto e dalla situazione. Ma si tratta pur sempre di un lavoro maledettamente pericoloso; credo che si prenda tranquillamente una decina di milioni. E tu invece quanto costeresti?» «Bah, anch’io sarei per dieci milioni». «Calma, calma, non essere così avido fin dall’inizio». Soga gli lanciò un’occhiata severa, e Jumonji sorrise imbarazzato. «Okay, allora vanno bene nove?» «Anche in questo settore regna la legge della concorrenza: facciamo otto, che suona meglio!» «Se non ci sono alternative…» «E per ogni cliente che ti procuro io prendo la metà, chiaro?» «Non è un po’ troppo?» Jumonji aggrottò le sopracciglia e Soga, con un sorrisetto, replicò: «Forse. Okay, non voglio esagerare. Che ne dici di tre milioni?» «Va bene». Soga sembrava soddisfatto. Jumonji si mise a fare due conti a mente: dei rimanenti cinque milioni lui ne avrebbe tenuti tre e gli altri due sarebbero andati a Masako. Kuniko era un tipo inaffidabile, la si doveva assolutamente escludere dall’affare. Masako avrebbe svolto tutto il lavoro insieme a Yoshie. Come poi si sarebbero divise i soldi, questo non era affar suo. «Bene. Questi servizi vengono richiesti abbastanza spesso, per cui non appena sento qualcosa la prendo al volo. Tu però comportati bene: non fare porcherie. Non voglio perdere la faccia, sai che cosa voglio dire». «Se prima non provo, non posso dire come funzionerà, ma credo che andrà tutto bene». «Akira, non ti rivolgerai per caso alla stessa persona che ha fatto il lavoro del parco di Koganei?» «No, figuriamoci!», protestò Jumonji scuotendo il capo, intimidito dall’acume di Soga. A ogni modo il seme era stato gettato. Ora non restava che convincere Masako. 8 Ryu Murakami, scrittore giapponese nato nel 1952, da non confondere con Haruki Murakami. Il suo romanzo Love and Pop (Rabu&Poppu) è stato pubblicato nel 1996 con il sottotitolo «Topaz 2» (Topazu II) dalla casa editrice Gentosha di Tokyo. Dal romanzo Topaz (Topazu), del 1988, è stato tratto, nel 1991, il film Tokyo Decadence – Topaz.
3. Prosciutto rosato. Spalla di bue rossa striata di bianco. Cosce di maiale di un tenero color pesca. Macinato misto sottile, a granelli rossi, rosa e bianchi. Interiora di pollo rosso scuro, grasso giallo. Masako spingeva il carrello della spesa davanti al reparto macelleria del supermercato. Non riusciva a scegliere, non riusciva neppure a riordinare i propri pensieri. E non le era nemmeno del tutto chiaro il motivo per cui si trovava lì. Si fermò e guardò nel carrello: era vuoto. Era venuta per comprare qualcosa per cena, ma negli ultimi tempi non aveva voglia di pensare a un menu e neppure di cucinare. Una cena pronta era la prova dell’esistenza di una famiglia. Yoshiki, ormai abituato al fatto che lei lavorava, non si sarebbe arrabbiato se non avesse trovato la cena ad aspettarlo. Ma le avrebbe chiesto come mai non l’avesse preparata. E se lei non si fosse giustificata con un valido motivo, lui avrebbe pensato che era diventata pigra. Nobuki poi, anche se dopo avere cercato di venderla alla polizia si era rinchiuso di nuovo nel suo silenzio come un’ostrica nella conchiglia, continuava naturalmente a volere mangiare a casa. Gli uomini passavano il tempo come più gli piaceva, ma alla sera – come se fosse un punto fisso nella loro vita – tornavano a casa sicuri di trovare una tavola apparecchiata. Masako trovava sorprendente questa ingenua fiducia da parte loro. Se fosse stata sola non si sarebbe preoccupata di che cosa fare da mangiare, ma da quando aveva una famiglia si era abituata a pensare che cosa poteva far piacere all’uno o all’altro. E quindi cercava sempre di preparare una cena di loro gradimento, anche se quei due non se ne accorgevano neppure. Benché il legame che li univa fosse divenuto sempre più inconsistente – tanto che a malapena potevano chiamarsi ancora una famiglia – la divisione dei ruoli era rimasta invariata e Masako trovava i propri doveri sempre più gravosi. Ogni cosa le costava una fatica terribile: le sembrava di portare acqua con un secchio bucato. Quanta acqua aveva versato finora? Tutto ciò che le era sempre sembrato naturale ora non lo era più. Dai frigoriferi del reparto macelleria usciva una nebbia fredda e bianca come un gas tossico. Lì davanti faceva molto freddo e le venne la pelle d’oca. Masako, come per consolarsi, si massaggiò delicatamente le braccia e prese una confezione di fettine di manzo. Lo stesso colore dei muscoli di Kenji. L’immagine le attraversò il cervello come un lampo e rimise il pacchetto al suo posto. Poi si sorprese a cercare il colore dei tendini, delle ossa, del grasso di Kenji, e le venne da vomitare. Era la prima volta che le succedeva. Forse la tensione incominciava a sciogliersi? Masako, scoraggiata, smise di pensare alla cena. Decise di andare a lavorare senza mangiare. Il digiuno, la fame sarebbero stati la sua punizione. Anche se non capiva perché voleva punirsi. Il caldo oppressivo, senza un alito di vento, che precedeva il tifone era pesante. Sembrava una tempesta più forte del solito, quella che si stava avvicinando. E con questa l’estate sarebbe definitivamente finita. Masako alzò lo sguardo al cielo e rimase ad ascoltare il lontano, cupo rumoreggiare del vento che si incominciava a udire in lontananza. Tornò alla sua Corolla rossa ferma nel posteggio e riconobbe la vecchia bicicletta che attraversava il grande spiazzo d’asfalto dirigendosi verso di lei. «Maestra!» Masako alzò la mano in segno di saluto. «Non hai fatto la spesa?» domandò Yoshie fermando la bicicletta accanto alla Corolla, dopo aver visto che Masako era a mani vuote. «Ho rinunciato». «Perché?» «A un tratto mi è passata la voglia». Yoshie scrollò la testa e Masako si accorse per la prima volta che aveva parecchi capelli
bianchi. «Ma non devi preparare la cena? Che cosa succede?» «Niente di speciale. Non mi sento molto bene. Evidentemente sono troppo stanca». «Almeno tu te lo puoi concedere. Se lo facessi io sia la vecchia che il piccolo Issey morirebbero presto». «Il tuo nipotino è ancora da te?» «Già, e mia figlia è sparita. Mia suocera non si decide a morire e il bambino non fa che piangere. Possibile che io sia destinata a tirarmi addosso tutte le grane?» Masako non rispose, si appoggiò alla Corolla e sollevò lo sguardo all’inquietante colore del cielo che preannunciava l’arrivo del tifone. Ogni volta che ascoltava le infinite lamentele di Yoshie le sembrava di essere chiusa in un tunnel di cui non si intravedeva l’uscita. Non ne voleva più sapere! Voleva essere libera! Voleva andarsene, voleva liberarsi da tutto quel ciarpame. Chi non riusciva a liberarsene era destinato a seppellirsi nello squallore della quotidianità, sempre lo stesso. Come lei fino ad ora. «Tra poco l’estate finirà». «Ma che dici? Siamo a settembre – l’estate è già finita». «Già, è vero». «Questa sera vieni a lavorare?» le domandò preoccupata Yoshie. Masako la guardò in faccia: la domanda le aveva fat to venire in mente che avrebbe potuto licenziarsi. «Penso di sì, perché?» «Ah, meno male! Negli ultimi tempi sei un po’ strana, come se non fossi del tutto in te. Avevo paura che volessi piantarci in asso». «Piantarvi in asso? Che cosa vuoi dire?» Masako tirò fuori dalla borsa il pacchetto di sigarette e la guardò. In quel momento un colpo di vento scompigliò i capelli stopposi di Yoshie, che cercò di trattenerli con le mani. «Be’, sai, se prima eri impiegata in una banca… Me l’ha raccontato Kuniko. Forse il pesante lavoro manuale che dobbiamo fare in fabbrica non è il più adatto per te!» «Te l’ha detto Kuniko?» Le venne in mente che la scadenza della rata era passata da un bel po’. Dove aveva trovato i soldi, dal momento che non aveva entrate? Solo Jumonji poteva averle parlato del suo vecchio lavoro. La aveva persa di vista troppo a lungo: pur di tirarsi fuori dai guai Kuniko era capace di tutto. Era stato un errore e adesso se ne pentiva. Masako era rosa dai dubbi. «Certo che vengo a lavorare. E poi non ho nessuna intenzione di lasciare la fabbrica». «Grazie a Dio!» Il volto di Yoshie si illuminò. «Senti, maestra», le chiese Masako, «da quando abbiamo fatto quella cosa non c’è stato alcun cambiamento?» «Che intendi con “cambiamento”?» Yoshie si guardò intorno spaventata. «No, non alludevo alla polizia. Volevo dire se non è cambiato qualcosa in te, nel tuo animo». Yoshie meditò qualche istante e poi, con aria dispiaciuta, disse: «Niente. Forse perché ho la sensazione di avere soltanto dato un aiuto…» «Come quando accudisci tua suocera o il nipotino?» «No, questa è un’altra cosa!» Yoshie fece una smorfia. «Ti prego, non si può buttare tutto nella stessa pentola!» «Davvero?» «Naturalmente… O al massimo… Forse c’è qualche analogia, nel senso che ho collaborato perché non c’era nessun altro che lo avrebbe fatto…» «Certo. So che cosa vuoi dire», concluse Masako. Lasciò cadere a terra il mozzicone e lo
calpestò. «Allora ci vediamo più tardi». «E per te è cambiato qualcosa?» Yoshie le rigettò la domanda. Il suo sguardo era serio. «No, niente.Che cosa sarebbe dovuto cambiare?» mentì Masako e aprì la portiera dell’auto. Yoshie spostò la bicicletta e le fece spazio. «Allora a stasera!» Masako salì in macchina e agitò la mano da dietro il parabrezza. Yoshie sorrise, balzò agilmente in sella alla bicicletta e si mise a pedalare verso il supermercato. Masako la seguì con lo sguardo, meditando. Anche se per il momento non si poteva vedere nessun mutamento, non appena avesse avuto in mano il denaro di Yayoi anche Yoshie sarebbe cambiata in un batter d’occhio. Masako rimuginò quel pensiero senza la minima malizia, freddamente. Appena entrò in casa sentì lo squillo del telefono. Abbandonò la borsa sulla scarpiera in ingresso e si precipitò a rispondere. Doveva essere Yayoi. Era ormai una settimana che non aveva sue notizie. «Sì, sono Katori». «Parlo con la signora Masako Katori? Mi chiamo Jumonji. Una volta lavoravamo insieme: allora mi chiamavo ancora Yamada». «Ah, è lei?» A questo non aveva ancora pensato. Masako prese una sedia e si sedette. Dopo la corsa che aveva fatto per rispondere in tempo era tutta sudata. «È da tanto che non ci sentiamo». «Ma se ci siamo appena incontrati!» «Ah, lei si riferisce al nostro ultimo incontro? Quello non vale, è stato solo un caso», ironizzò Jumonji. «Che cosa vuole?» Masako aveva voglia di fumare, ma si accorse di aver lasciato la borsa in ingresso. «Se si tratta di un discorso lungo, deve avere un attimo di pazienza». «Bene, aspetto», rispose Jumonji. Masako andò in ingresso e mise la catena alla porta. Così avrebbe guadagnato tempo se il figlio o il marito fossero rientrati. Non si poteva mai sapere. Prese la borsa e tornò in soggiorno. «Mi scusi. Allora, di che cosa vuole parlarmi?» «Non è facile da dire al telefono. Non potremmo incontrarci da qualche parte?» «Non capisco. Perché non se ne può parlare per telefono?» Probabilmente la voleva mettere sotto pressione perché lo aiutasse a riscuotere i debiti di Kuniko, pensò Masako. Ma in fondo era solo un piccolo usuraio di quartiere, non costituiva un problema. «È una cosa un po’ complicata. In ogni caso si tratta di affari; in sostanza vorrei farle una proposta». «Un momento. Prima vorrei farle io una domanda. La signora Jonouchi ha pagato la rata?» «Sì, ha pareggiato tutti i conti». «E come ha fatto?» «Con alcune informazioni», ammise con disinvoltura Jumonji, e Masako seppe che la sua intuizione era esatta. «Che tipo di informazioni?» «È proprio di questo che vorrei parlarle a quattr’occhi». «Capisco. Dove?» «Questa sera deve andare a lavorare, vero? Che ne direbbe se prima del turno ci trovassimo per cena in una trattoria?» Si diedero appuntamento per le nove al Royal Host, vicino allo stabilimento.
Ecco che crollava tutto. Da quando, poco prima, aveva parlato con Yoshie, aveva avuto una specie di presentimento, ma adesso si sentiva responsabile, era colpa sua e questo la deprimeva. Sentì il portoncino sbattere contro la catena. Qualcuno doveva essere rientrato e suonava furioso il campanello. Masako corse a togliere la catena, spalancò la porta e vide Nobuki a testa bassa, imbronciato come al solito. Nonostante il caldo afoso aveva un berretto di lana nero calato fin sugli occhi; oltre a questo portava una T-shirt nera sbiadita, un paio di pantaloni troppo larghi che gli scivolavano sui fianchi e un paio di scarpe da ginnastica. «Ciao, entra». Senza dire una parola Nobuki le scivolò davanti e si infilò in casa. Masako contemplò stupita l’elasticità di quel corpo giovane e robusto, apparentemente così rigido. Se si fosse degnato di parlare, avrebbe subito protestato contro quella maledetta catena, ma Nobuki salì in fretta le scale e si diresse verso la sua camera senza neppure degnarla di uno sguardo. «Oggi arrangiati da solo per la cena!» urlò verso il piano superiore, e la sua voce risuonò nella casa vuota. Bene, il messaggio valeva per la casa intera e tutto quello che c’era dentro, pensò Masako. Arrivò puntuale al Royal Host e scorse Jumonji seduto a un tavolo appartato in fondo alla sala. Aveva in mano un giornale spiegazzato. «Grazie per essere venuta». Masako si limitò a un cenno di saluto e gli si sedette subito di fronte. L’uomo indossava un completo leggero e una polo bianca. Masako come al solito non aveva speso un pensiero per il proprio aspetto e si era infilata un paio di jeans e una vecchia T-shirt di Nobuki. «Buonasera, signori». Un uomo vestito di nero, probabilmente il gestore, porse due menu e si allontanò perplesso, come se si domandasse che tipo di relazione ci fosse tra loro. «Ha già cenato?» Jumonji aveva ordinato un caffè freddo. Masako rifletté un attimo, poi scosse la testa: «No, non ancora». «Allora ordini, prego. Anch’io vorrei mangiare qualcosa». Masako scelse gli spaghetti. Jumonji ordinò lo stesso piatto e disse al cameriere di portargli il caffè dopo la cena. «Cara signora, è molto che non ci vediamo. Non mi riferisco al nostro ultimo casuale incontro – è durato così poco – pensavo a quando lavoravamo insieme all’istituto di credito Tanashi. Ho imparato così tanto da lei!» iniziò Jumonji in tono adulatorio, guardandola intimidito come se la temesse. Masako si domandò stupita perché mai avesse paura di lei. «Di che cosa mi vuole parlare?» «Mira subito al sodo, vero?» commentò Jumonji incassando la testa tra le spalle. «È stato lei a chiamarmi e a dirmi che voleva parlare di qualcosa che non si poteva discutere per telefono!» «Ma lei era così anche quando lavorava in banca, signora Katori?» «Così come?» Masako bevve un sorso d’acqua. Era gelida. «Be’, così… razionale!» «Certamente. E anche lei può mostrare la sua vera faccia, in fondo la conosco bene!» Era vero: adesso la sua immagine era radicalmente cambiata e cercava in tutti i modi di suscitare simpatia, ma quando si occupava della riscossione dei crediti si atteggiava a piccolo delinquente, con le sopracciglia rasate e un ciuffo di capelli permanentati al centro della testa, e vestiva come uno yakuza. Le era anche giunta voce che faceva parte di una banda di motociclisti di Adachi. «La mia vera faccia?» replicò Jumonji grattandosi la testa. «Non sono di certo alla sua altezza, signora Katori!»
Portarono gli spaghetti. Masako prese la forchetta e incominciò a mangiare. Alla fin fine era arrivata anche la cena, anche se in modo del tutto inaspettato. Masako si lasciò scappare una risatina. «Che cosa c’è di così divertente?» «Ah, niente». Poco prima era stata proprio lei a imporsi il digiuno come punizione, e invece ora stava mangiando con appetito. A un tratto capì che la vera punizione, se di punizione si poteva parlare, era che aveva dovuto soffocare così a lungo il suo desiderio di libertà. Finito di mangiare si pulì la bocca con un tovagliolo di carta. Intanto anche Jumonji aveva finito e si era acceso una sigaretta senza neppure chiederle il permesso. «E allora, quali sarebbero gli affari che vuole propormi?» «Sì, vengo subito al punto. Prima però vorrei ancora farle i miei complimenti». «A proposito di che cosa?» «Ha dimostrato di avere veramente stile, dico sul serio!» Jumonji ghignò, ma non c’era ironia nel suo sguardo. «A che cosa si riferisce? Perché vuole complimentarsi con me e in che cosa avrei avuto stile?» «I pezzi», mormorò Jumonji. Masako si sentì gelare e lo guardò negli occhi. «Sa tutto, vero?» «Sì». «Proprio tutto?» «Forse». «È stata Kuniko a parlare, vero? Per un miserabile debito di cinquecentomila yen!» «Su, non se la prenda con lei». «Stia tranquillo, non me la prendo. Alla fin fine è lei, Jumonji, che ha dimostrato di avere più testa!» «Testa o non testa, non so se si può semplicemente…» Masako schiacciò con rabbia la sigaretta nel portacenere pieno delle cicche di Jumonji. La aveva fregata. «E allora? Mi vuole dire di che affare si tratta?» «Un servizio per lo smaltimento di cadaveri!» propose Jumonji a bassa voce, sporgendosi verso di lei. «Ci sono un sacco di cadaveri da fare sparire di nascosto, senza lasciare tracce. E di questo ce ne potremmo occupare noi». Masako rimase a bocca aperta. Aveva creduto che Jumonji avrebbe cercato di ricattarla o qualcosa del genere, ma che le facesse quella proposta! A pensarci bene, non ci sarebbe stato molto da cavare da un paio di povere casalinghe che si erano macchiate di un delitto. Almeno finché non fosse venuto a conoscenza del denaro dell’assicurazione, naturalmente. «E allora? Che cosa ne pensa?» chiese Jumonji con sguardo quasi umile, scrutando la sua espressione. «Quale sarebbe il suo piano?» «Io procuro gli ordini. Questa parte del lavoro deve rimanere assolutamente segreta, per cui lei non ne deve sapere niente, signora Katori. Lei entrerà in gioco solo quando avremo un oggetto da eliminare. Lei lo farà a pezzi e io mi occuperò dello smaltimento in un posto adeguato. Un enorme inceneritore, per essere esatti. Sembra fatto apposta – non se ne accorgerà nessuno». «E allora perché non porta direttamente gli oggetti all’inceneritore?» «No, non funzionerebbe. Un oggetto della grandezza di un uomo salta agli occhi, non è detto che il posto sia ancora così deserto e che non ci sia sorveglianza. Se invece lo facciamo a pezzi e lo imballiamo come la solita spazzatura, nessuno riuscirà mai a capire di che cosa si tratta. Ah, dimenticavo: l’inceneritore è a Fukuoka». «Non vorrà dire per caso che dovrei confezionarli in pacchetti da spedire per posta?» Masako lo guardò costernata, ma Jumonji rimase assolutamente serio. «Ha indovinato. Dieci o venti pacchi da cinque chili l’uno. Io vado a Fukuoka, li ritiro e li
porto all’inceneritore. Funzionerà in modo perfetto». «E io dovrò solo occuparmi della spezzatura?» «Sì. Ha qualche obiezione o domanda?» Jumonji sorbì rumorosamente il caffè che gli avevano appena portato. Continuava a scrutare il volto di Masako nel tentativo di capire i suoi pensieri. Il luccichio dei suoi occhi tondi si sarebbe potuto anche interpretare come segno di intelligenza. «Com’è che le è venuta in mente questa idea?» «Perché vorrei lavorare di nuovo con lei». «Con me?» «Sì, con lei, signora Katori. Perché lei ha stile». «Non riesco proprio a capire di che cosa parla». «Non importa. Si tratta solo di una mia valutazione personale». Jumonji si passò le mani tra i capelli lisci, divisi da una scriminatura centrale. Masako si girò e diede un’occhiata ai tavoli vuoti del Royal Host. Non c’era nessuno che potesse riconoscerla. L’uomo vestito di nero, appoggiato alla cassa, era intento a chiacchierare con una giovane cameriera dall’espressione infantile. Come se in attesa della risposta di Masako avesse perso la fiducia in se stesso, Jumonji incominciò a lamentarsi: «La mia agenzia di prestiti durerà ancora un anno o due al massimo. E poi fallirò. Per questo ho pensato: o adesso o mai. Sarebbe stupendo fare una cosa così eccezionale e rischiosa. Ma forse sono stato troppo ottimista…» «Davvero si potrebbero fare molti soldi?» lo interruppe Masako. «Sicuramente più di quanti se ne possono fare prestando denaro a dei poveracci». «E quanto vuole incassare per ogni cadavere?» domandò Masako che un po’ alla volta stava ritrovando il suo senso degli affari. Jumonji si passò la lingua sulle labbra sottili e ben disegnate meditando se fosse meglio raccontarle tutto o no. «Forza, mi dica fino a che punto si è spinto. E sia sincero, altrimenti se lo può scordare». «Okay. Giocherò a carte scoperte. Gli incarichi ce li procura il signor X; per ogni oggetto noi prendiamo otto milioni; X se ne tiene tre per la mediazione. Dei cinque milioni che rimangono io ne prendo due e lei tre. Be’, che cosa ne pensa?» Masako si accese una sigaretta e disse in fretta: «Non faccio niente per meno di cinque». «Come?» esclamò Jumonji. «Cinque milioni?» «Proprio così. A lei forse sembra una cosa facile, e invece è un lavoro dannatamente pesante. Sporco, disgustoso, da incubo. Se non l’ha fatto almeno una volta, non può capire. E se poi crede che la spezzatura possa avere luogo nel bagno di casa mia, si sbaglia: il mio bagno è fuori questione. Non è un lavoro che si possa fare in una normale casa di abitazione: il rischio è troppo grande. Dove aveva pensato che dovesse essere fatto?» «Mah, siccome la signora Jonouchi mi ha detto che il lavoro è stato fatto nel suo bagno, pensavo che si sarebbe potuto continuare così…» rispose Jumonji intimidito. «E perché non a casa sua? Lei vive solo, no?» «Sì, ma la mia casa è piccola, e ho solo la doccia». «Non è davvero semplice, mi creda. Anzitutto bisogna fare in modo che il lavoro venga eseguito quando in casa non c’è nessuno. Poi bisogna stare attenti che nessuno dei vicini si accorga quando l’oggetto viene portato dentro. E inoltre un cadavere si porta sempre dietro un sacco di cose personali che potrebbero diventare pericolose e che perciò devono essere eliminate in modo altrettanto meticoloso – anche questo non è così semplice». Masako tacque; all’improvviso si era ricordata della chiave che Kazuo Miyamori aveva ripescato dal canale di scolo. Jumonji attendeva con il fiato sospeso che ricominciasse a parlare. «Da sola non sono assolutamente in grado di fare a pezzi un cadavere. E dopo bisogna anche pulire il bagno, e anche questo è un lavoraccio. No, per meno di cinque milioni io non mi muovo, figuriamoci poi a casa mia!»
Jumonji, confuso, si portò alle labbra la tazza e cercò di bere. Quando si accorse che era vuota fece un cenno alla cameriera che, controvoglia, andò a riempirla di caffè. «Allora facciamo così: io porto avanti e indietro l’oggetto e tutto ciò che lo riguarda, vale a dire che penso io a eliminare i vestiti e tutte le altre cose. Potrebbe andare bene?» «Sì, suona già meglio. Ma non trova anche lei che tre milioni per la mediazione siano un po’ troppi? Questo signor X, che sostiene di concludere l’affare per otto milioni, in realtà quasi sicuramente ne incassa dieci. Vale a dire che due se li tiene subito, più tre che vuole da lei, alla fine se ne va tranquillamente con cinque milioni. Se la conosco bene, si tratta sicuramente di uno della malavita con cui ha ancora rapporti, vero?» «Già, e le sue congetture sulla sua tattica probabilmente non sono così sbagliate…» Jumonji si mise un dito sulle labbra e sprofondò nei suoi pensieri. Masako evitò di dirgli che lo considerava un po’ troppo ingenuo. «Quindi, o riesce a fargli abbassare le sue pretese, o gli chiede almeno dieci milioni in tutto». «Ho capito, ma si potrebbe fare anche così: io mi accontento di un milione e mezzo e lei ne prende tre e mezzo». «No», rispose Masako e guardò l’orologio. Erano quasi le undici, ora di andare a lavorare. «Un momento, aspetti!» Evidentemente Jumonji voleva trattare immediatamente con il signor X, perché tirò fuori di tasca il cellulare. Masako ne approfittò per andare alla toilette. Nell’antibagno si fermò a guardarsi allo specchio. Si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzolettino di carta. Aveva paura di se stessa: in che cosa si stava cacciando ancora una volta? Ma allo stesso tempo si sentiva eccitata. Prese il rossetto in fondo alla borsa e si ritoccò le labbra. Al tavolo Jumonji la aspettava con un’espressione di stupore dipinta sul viso. «Che cosa c’è?» «Niente, niente. Solo che sono appena riuscito a trovare un accordo». «Ha fatto in fretta». «Bah, alla fine era quasi commovente con quella storia dei vecchi compagni di scuola, e che io sono il più giovane e quindi lui si sente impegnato». Jumonji sogghignò. Masako si ricordò che anche nella riscossione dei crediti Jumonji si era sempre distinto per presenza di spirito e abilità – bastava dargli le corrette indicazioni. «E allora, che cosa avete concluso?» «Ho insistito, ma otto milioni sembra che sia il limite massimo. Perché siamo nuovi del mestiere e non abbiamo ancora un curriculum da esibire. Ma almeno ha mandato giù il fatto che deve abbassare il suo prezzo. Siamo rimasti così: due milioni per la mediazione, due per me e gli altri quattro per lei. Ma se qualcosa va storto la controparte non vuole saperne niente e non ci darà alcun aiuto». «Mi sembra ovvio. Perciò sostengo che il prezzo di prima era di gran lunga sovrastimato…» Masako calcolò a mente la divisione della somma. Per Yoshie, alla quale avrebbe proposto di aiutarla, sarebbe bastato un milione. Kuniko in ogni caso sarebbe stata tagliata fuori. Per quanto riguardava Yayoi avrebbe deciso più avanti se coinvolgerla o meno, dopo aver valutato le sue condizioni di spirito. «E allora, cosa ne pensa?» chiese di nuovo Jumonji, questa volta un po’ più sicuro di se stesso. Masako annuì: «Va bene. Accetto». «Allora diamoci da fare!» annunciò Jumonji con aria decisa. «Però devo chiederle un’altra cosa». «Che cosa?» «Si occuperà lei dei trasporti, con la sua auto. E poi mi procurerà un set di bisturi da chirurgo, da qualche grossista di materiale medico. Altrimenti sarà difficile tagliare». Jumonji si grattò una guancia: «Come se fosse carne…» «È esattamente quello che è. Ci sono carne, ossa e altre lordure puzzolenti», replicò
bruscamente Masako e Jumonji tacque. «E poi deve rispondere a un’altra domanda». «Sì?» «Come è riuscito a fare sputare l’osso a Kuniko? Come ha fatto a farla abboccare?» «Le ho promesso di annullarle tutti i debiti che aveva con me», rispose Jumonji e per la prima volta un sorriso compiaciuto gli illuminò il viso. «Ho pagato l’informazione quattrocentoquarantamila yen. Perciò dovrò trovare molte commissioni, per recuperare». «E si accontenterà di due milioni?» insistette Masako «Sì. Tanto di lavoro ce ne sarà molto». «Mah, non so – crede che filerà tutto liscio?» «Proviamo!» Il suo ottimismo le piaceva. Masako annuì, lasciò sul tavolo il denaro per pagare la sua parte di conto e si alzò. Non sapeva ancora se da quella faccenda si poteva sviluppare davvero un buon affare. Era troppo presto per giudicare.
4. Il lontano brontolio del vento era cessato e il livello di umidità era elevatissimo. Non appena uscì in strada Masako sentì i capelli che le si incollavano alle guance. Ben presto il tifone avrebbe raggiunto la costa e lei incominciò a preoccuparsi per il tempo che avrebbe fatto il mattino seguente. Accese l’autoradio e cercò un programma che trasmettesse le previsioni meteorologiche ma arrivò al parcheggio della fabbrica senza essere riuscita a trovarlo. In un angolo avevano incominciato a montare una piccola casa prefabbricata, una specie di guardiola. Masako le diede un’occhiata senza prestarvi attenzione e ritornò subito al pensiero che dominava la sua mente, l’“affare” che le aveva proposto Jumonji. Molto più in fretta di quanto non si sarebbe mai aspettata era stata catapultata in un altro mondo, e riusciva perfino a trovare divertente il fatto che bene e male, successo e fallimento avessero per lei lo stesso valore. Mentre si sfilava le scarpe da ginnastica all’ingresso dello stabilimento vide che una donna era ferma accanto a lei. «Buongiorno, Masako-san!» la salutò una voce che conosceva bene. Alzò stupita lo sguardo: era Yayoi. Sembrava un’altra: si era tagliata i capelli, che prima le arrivavano alle spalle, scoprendo il lungo collo, si era truccata gli occhi – che ora avevano maggior risalto – e si era messa un rossetto scuro. Lei, che di solito era dolce, indecisa, smarrita, ora sprizzava freschezza e vivacità come una ragazzina. «Dio mio, se sei cambiata! Non ti avevo riconosciuto!» «Lo dicono tutti», replicò imbarazzata Yayoi. I suoi modi erano quelli di sempre, ma aveva una specie di consapevolezza che la faceva sembrare un’altra persona. «Ma oggi non ti sei truccata un poco anche tu?» «Come?» «Sì, ti sei messa il rossetto!» Masako si era del tutto dimenticata di essersi truccata le labbra nella toilette del Royal Host. Ci passò sopra la mano sporcandosi le dita. «No, non toglierlo!» la trattenne Yayoi. «Ti sta bene. Lascialo così». «Riprendi a lavorare questa notte?» «No, ho fatto solo un salto per scusarmi con il direttore, il signor Komada e gli altri. Ho portato loro una scatola di cioccolatini». «Allora adesso torni a casa?» «Per oggi sì. Sta arrivando il tifone. Dicono che raggiungerà il Kanto verso mattina e ho promesso ai bambini che sarei tornata presto. Mi stanno aspettando». «Già, è meglio così». «E poi, ecco qui. Alle altre glieli ho già dati», bisbigliò in fretta all’orecchio di Masako, premendole in mano una voluminosa busta marrone. «Che cos’è?» Invece di rispondere Yayoi fece un profondo inchino. «Domani verrò a lavorare, a presto!» disse solo e si diresse svelta verso l’uscita, in direzione opposta a quella di Masako. Le parole, il modo di fare, tutto in lei era vivace, spigliato ed energico, non aveva niente a che fare con la Yayoi di una volta. Masako l’inseguì svelta. Yayoi stava scendendo a passi leggeri la scala esterna ricoperta di moquette verde. «Aspetta!» Yayoi si girò verso di lei con espressione serena. «Che cos’è?» le domandò Masako agitando la busta marrone. Per tutta risposta Yayoi sollevò
due dita. Voleva significare che erano i due milioni promessi. Masako chiese sottovoce: «Hai già ricevuto il denaro dell’assicurazione?» «No, non ancora», rispose Yayoi scuotendo la testa. «Me li hanno prestati i miei genitori, ho detto loro che dovevo pagare dei debiti. Volevo darvi il denaro quanto prima, in modo da non doverci più pensare». «Non è un po’ presto?» «No, va bene così. Kuniko mi ha già fatto pressione, e probabilmente la maestra ne ha un grande bisogno, per cui non volevo farle aspettare ancora. E in ogni caso sono già passati quarantanove giorni, e ho pensato che ormai era ora di pagarvi». «Questo lo so…, ma è ugualmente troppo presto». «Può essere. Ma adesso mi sento finalmente libera». Non era al denaro che si riferiva Masako, quanto piuttosto al grande cambiamento di Yayoi, troppo repentino agli occhi della gente, ma capì che spiegarlo ora sarebbe stato inutile. In fondo anche lei era cambiata, e a Yayoi era successa la stessa cosa. «Capisco. E ti ringrazio». Yayoi le fece un cenno di saluto con la mano, scese svelta la scala e sparì nel buio umido e torrido della notte. Dopo che se ne fu andata, Masako si sottopose come al solito alla disinfezione con il rullo da parte dell’addetto all’igiene, evitò il salone e andò direttamente alla toilette. Quando fu sola aprì la busta marrone: come promesso vi erano due mazzette da un milione di yen l’una, chiuse da una fascetta. Masako infilò il denaro bene in fondo alla borsa. Allo stabilimento l’unico posto in cui si poteva godere di una qualche intimità era la toilette. Ritornò nel salone con aria indifferente e vide Yoshie e Kuniko sedute sul tatami che bevevano il tè. Si erano già cambiate e riuscivano a malapena a nascondere la loro eccitazione. «Hai già visto Yama-chan?» domandò Yoshie invitando Masako a sedersi. «Sì. Poco fa». «Ha dato qualcosa anche a te?» bisbigliò Yoshie. Masako chiese a sua volta con aria innocente: «Vuoi dire i soldi?» «Sì. Noi abbiamo ricevuto cinquecentomila ciascuna». Kuniko si limitò a confermare con uno sguardo le parole della compagna: era rossa in viso per la felicità. Ma presto anche quel denaro le sarebbe scivolato via tra le dita, pensò Masako, e lei avrebbe dovuto stare molto attenta, ora che quella donna aveva assaggiato il gusto dei soldi facili. «Speriamo che Yama-chan non abbia confidato troppo nelle proprie forze». «Gliel’avevo detto anch’io! Prenditi tempo, le avevo detto, ma lei non ha voluto ascoltare ragioni e ce li ha dati subito!» protestò Yoshie, senza tuttavia riuscire a nascondere l’emozione. Non si era aspettata di essere pagata così presto. «Be’, allora va bene così!» «Ma sei sicura di non volerne anche tu?» domandò Yoshie preoccupata. Masako sorrise e si limitò a scuotere la testa in segno di diniego. A lei era toccata la parte del leone, ma non aveva alcuna intenzione di dirlo alle altre. Li avrebbe usati per fuggire o come capitale di base per una nuova vita, tutta sua. Al limite avrebbe anche potuto spenderne un po’ per aiutarle. In ogni caso non era neppure sfiorata dal rimorso. «Io non ne ho bisogno, davvero». «Be’, allora – scusa, Masako-san», disse Kuniko stringendo al petto la borsa con il denaro come se temesse che qualcuno gliela potesse strappare di mano. Masako le lanciò un rapido sguardo e cercò di soffocare l’ira: «Con questo riuscirai finalmente a pagare i tuoi debiti, no?» Non poteva privarsi di quella piccola soddisfazione, ma Kuniko non si accorse del sarcasmo e si
limitò a rispondere con un vago sorriso. Mentre con gesti esperti si raccoglieva i capelli con un fermaglio, Masako chiese: «E adesso, durante il turno, dove avete intenzione di mettere i soldi?» «Brava, è esattamente questo che ci preoccupa! Avevamo pensato di chiedere il favore di tenerceli a uno di quelli che hanno un armadietto chiuso a chiave», rispose Yoshie guardandosi intorno alla ricerca della persona giusta. Nello stabilimento gli unici ad avere armadietti chiusi a chiave erano gli operai con più di tre anni di anzianità, che per questo motivo erano trattati quasi come impiegati – ma si potevano contare sulle dita di una mano –, e i dipendenti brasiliani, che sentivano più degli altri il bisogno di difendere la propria privacy. «Perché non lo chiediamo a Miyamori?» concluse Yoshie senza girarsi. Masako lo individuò nel gruppo dei brasiliani fermi come al solito in un angolo del salone. Sedeva a terra con il suo sguardo triste, le gambe allungate davanti a sé, e fumava una sigaretta sforzandosi di non guardare in direzione di Masako. «E perché non Komada?» disse Masako, ma subito si rese conto che l’addetto al controllo dell’igiene si sarebbe sicuramente insospettito vedendo che le operaie portavano con sé tutto quel denaro. «No, forse non è una buona idea». «Credo anch’io. Il signor Miyamori sembra un tipo riservato, credo che ci si possa fidare di lui, non vi pare? Adesso provo a chiederglielo». «Credi che capisca il giapponese?» chiese Kuniko preoccupata, ma Yoshie si aggrappò con le mani al lungo e stretto tavolo in laminato plastico, tirandosi su a fatica. Kazuo vide la donna che gli si avvicinava e, come per riflesso, lanciò a Masako uno sguardo interrogativo. Sembrava vagamente offeso, forse pensava che fosse stata lei a inviarle Yoshie. In ogni caso Masako non aveva proprio voglia di avere altri problemi con lui, e quello che le altre due volevano fare del denaro di Yayoi non la riguardava. Con aria indifferente sparì nello spogliatoio per finire di prepararsi per il turno. Indossò velocemente la divisa bianca e spinse la busta marrone bene in fondo alla tasca dei pantaloni, in modo che non potesse uscire mentre lavorava. Oltre le grucce dov’erano appesi gli abiti poteva vedere Kazuo che ascoltava il discorso di Yoshie e si alzava dal tatami. Yoshie e Kuniko lo seguirono fuori dal salone. Gli armadietti degli operai brasiliani erano sistemati accanto alle toilette. Quando Yoshie e Kuniko ritornarono, Masako si stava lavando le mani e le braccia fino al gomito col sapone disinfettante in uno dei lavandini disposti nel corridoio. «Grazie a Dio! Il signor Miyamori è davvero una brava persona!» commentò Yoshie sollevata, prese la piccola spazzola di Masako e incominciò a lavarsi le mani. Kuniko andò a un altro lavandino, lontano da loro, e aprì il rubinetto. «Sa il giapponese?» «Be’, in qualche modo sono riuscita a farmi capire. Quando gli ho detto che avevamo delle cose importanti che avremmo voluto chiudere a chiave nel suo armadietto, ci ha fatto un paio di domande e poi ha subito acconsentito. E poi ci ha detto che lui esce più tardi e che dovremo aspettarlo un po’. È un ragazzo molto educato, davvero!» «Allora è andato tutto bene!» In quel momento Kazuo stava passando davanti a loro. Aveva pettorali ben sviluppati, spalle larghe, collo robusto e lineamenti marcati: si vedeva subito che non era giapponese. Camminava guardando dritto davanti a sé. Il suo corpo muscoloso sembrava appartenere al sole tropicale del Sud America e non riusciva assolutamente ad adattarsi a quel lavoro notturno, che lo costringeva a nascondersi in una tuta bianca e a coprirsi la testa con un berretto da cuoco blu. Masako si domandò se portasse ancora la chiave appesa al collo. E si chiese anche come mai quel giovane straniero si era innamorato proprio di lei.
A causa del tifone in arrivo il turno finì un po’ prima del solito. Le operaie guardavano fuori dalla finestra sopra all’armadio delle scarpe e sbuffavano. Era l’alba, ma il cielo era scuro e minacciava grandine. La pioggia, spazzata dal vento, sbatteva violenta contro i vetri e scuoteva le esili sofore lungo il muro dell’ex fabbrica di automobili, spezzando i ramoscelli e strappando via le foglie. Ai due lati della strada asfaltata l’acqua aveva già formato due piccoli torrenti. «Come faccio adesso!» esclamò Yoshie aggrottando la fronte. «Con questo tempo non posso certo tornare in bicicletta!» «Allora vieni in macchina con me». «Davvero mi accompagneresti a casa? Grazie, mi fai veramente felice!» Yoshie guardò Masako sollevata. Kuniko timbrò il cartellino facendo finta di niente. «Ti dispiace allora aspettare che Miyamori finisca il suo turno?» «D’accordo». «Poi ti raggiungo al posteggio». «Ma no, vado a prendere l’auto e ti aspetto qui sotto!» Yoshie ringraziò e lanciò uno sguardo malevolo alla larga schiena di Kuniko, che si incamminava lungo il corridoio come se la cosa non la riguardasse. Masako si cambiò in fretta e uscì dallo stabilimento un po’ prima delle altre. La pioggia e il vento impetuoso, che sembravano finalmente aver lacerato la soffocante cortina di caldo della notte, le diedero una piacevole sensazione. Richiuse decisa l’ombrello, che con quel vento non sarebbe servito a nulla, e si mise a correre controvento verso il posteggio. In un attimo la pioggia scrosciante la inzuppò completamente. Le ciocche di capelli, fradice e pesanti, le frustavano il viso, ma strinse al petto la busta con il denaro e continuò a correre. Arrivò di fronte allo stabilimento dismesso: il coperchio del tombino, spostato da Kazuo, era ancora aperto e si udiva l’acqua scorrere impetuosa. Probabilmente tutti gli effetti personali di Kenji, a parte la chiave, erano ormai stati trasportati lontano dalla corrente. A questo pensiero Masako, benché rischiasse di essere travolta dal vento, sorrise. Sì, sarebbe stata libera, si disse, e questa considerazione bastò a farla sentire già liberata. Arrivata alla Corolla si lasciò scivolare sul sedile così com’era, tutta bagnata. Si asciugò le braccia con il panno che teneva sotto il cruscotto e, sperando che servisse a qualcosa, azionò il tergicristallo e mise al massimo la ventola. L’aria fredda le fece venire la pelle d’oca. Avviò il motore e ritornò lentamente allo stabilimento. Proprio mentre stava parcheggiando uscì Kuniko che, come al solito, non si rassegnava a passare inosservata: indossava dei fuseaux a fiori e una larga T-shirt nera. Degnò di un rapido sguardo l’auto di Masako e, senza un cenno di saluto, aprì l’ombrello blu e si incamminò nella tempesta. Subito l’ombrello parve in procinto di volarle via. Masako seguì i suoi tentativi di contrastare il vento nello specchietto retrovisore. In fabbrica avrebbe continuato a lavorare con lei, ma in privato non voleva più aver nulla a che fare con quella donna. Come se le avesse letto nel pensiero, immediatamente Kuniko, sospinta dal vento, scomparve dalla sua visuale. Masako vide Yoshie che scendeva la scala esterna. Con sua grande sorpresa si accorse di Kazuo che, subito dietro di lei, cercava di coprirla con l’ombrello di plastica trasparente, il solito berretto nero ben calcato sulla fronte. Yoshie, socchiudendo gli occhi per proteggersi dalla pioggia scrosciante, si avvicinò alla macchina e bussò al finestrino. «Scusa, potresti aprire il portabagagli?» «Perché?» «Si è offerto di sistemarmi la bicicletta», rispose Yoshie indicando Kazuo. Gli occhi di Kazuo e di Masako si incontrarono. Lo sguardo del giovane era fedele e puro come quello di un cucciolo. Masako, senza dire una parola, premette il pulsante che apriva il portabagagli. Il portellone del cofano si sollevò e le coprì la vista ma, investito dal vento, si mise a oscillare pericolosamente. Allora Masako
scese dalla macchina e venne subito tempestata da grosse gocce di pioggia che la pungevano come aghi. «No, rimani seduta. Ti bagnerai!» le urlò Yoshie. Con quel tempo ci si poteva sentire solo gridando. «Non importa, sono già bagnata!» «Seduta». Kazuo si era avvicinato, l’aveva afferrata per le spalle e ora la spingeva con tutte le sue forze al posto di guida. Lei si arrese a quel gesto che non ammetteva repliche e si rimise a sedere. Yoshie si accomodò accanto a lei. «Che tempo orribile!» Nel frattempo Kazuo, che doveva essere andato di corsa al posteggio delle biciclette dietro allo stabilimento, ritornò trascinando la bicicletta di Yoshie. La sollevò senza fatica e la sistemò ben bene nel portabagagli, lasciando sporgere solo una piccola parte della ruota anteriore. Masako uscì di nuovo a esaminare la situazione. Il portellone rimaneva leggermente sollevato, ma non era un problema. «Dentro!» ordinò Kazuo e la guardò. Aveva il viso grondante di acqua, come se fosse appena uscito dalla piscina. La maglietta bianca gli si era incollata al petto, si poteva intravedere la pelle. Masako vide la catena con la chiave che pendeva sul suo petto. Kazuo la coprì con la mano e distolse lo sguardo. «Grazie». «Prego», rispose Kazuo senza l’ombra di un sorriso. Il vento sibilava, e un rametto volante cadde fra i due. «Sali, ti porto a casa». Kazuo scosse la testa. Poi raccolse da terra l’ombrello di plastica, lo aprì e si diresse verso lo stabilimento dismesso. «Ma che cos’ha?» domandò Yoshie, seguendolo con lo sguardo, appena Masako fu risalita in auto. «Chissà…» Masako avviò il motore. Non si soffermò a guardarlo nello specchietto retrovisore. «Ma sono contenta che mi abbia aiutato! È stato gentile, senza bicicletta non saprei come fare», brontolò Yoshie nel fazzoletto odoroso di cresolo con cui cercava di asciugarsi il viso. Masako non rispose ma cercò di concentrarsi sulla strada oltre il tergicristallo che si muoveva freneticamente avanti e indietro. Accese i fari. Finalmente arrivarono alla ShinOume-Highway. Tutte le auto che incrociavano avevano i fari accesi e procedevano lentamente, sollevando alti spruzzi. Yoshie sbadigliò e guardò rammaricata Masako. «Mi dispiace di farti fare un giro così lungo. E adesso anche il portabagagli sarà pieno di acqua». Masako diede uno sguardo allo specchietto retrovisore. Vide il portello sollevato che si alzava a ogni scossone. Sicuramente pioveva all’interno. Le venne in mente che la pioggia sarebbe riuscita a purificare il posto in cui aveva disteso il cadavere di Kenji. «Non importa. In ogni caso dovevo lavare a fondo il portabagagli». Yoshie ammutolì immediatamente. «Maestra», incominciò Masako senza guardarla, «faresti ancora quel lavoro?» «Cosa dici?» Yoshie, costernata, si girò verso di lei. «Forse avremo ancora un lavoro di quel genere». «Come sarebbe a dire “un lavoro di quel genere”? Non intendi mica come quello che abbiamo fatto? E chi verrebbe a proporcelo?» Yoshie era talmente attonita che rimase a fissare Masako a bocca aperta. «Kuniko ha parlato, ma la sua confessione si sta trasformando in una possibile fonte di guadagno». «Quella stupida vacca ha parlato?! E allora? Per caso ha cercato di minacciarti?» Yoshie,
stupefatta, si aggrappò con forza al cruscotto, come se avesse paura che la macchina non si potesse più fermare. «No. Ma potrebbe essere un’occasione di lavoro. Non è necessario che tu conosca i dettagli, maestra. Quelli lasciali a me. Voglio solo sapere se sei disposta ad aiutarmi, nel caso mi propongano un incarico. Ti pagherò». «Quanto?» La voce le tremava, ma non riusciva a nascondere la curiosità. «Un milione». A quella somma Yoshie emise un sospiro. Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, chiese: «Vale a dire che dovrò fare la stessa cosa?» «In generale sì, ma ci sarà risparmiata la fatica di smaltire i rifiuti. Dovremo soltanto fare a pezzi un cadavere a casa mia». Yoshie deglutì rumorosamente e si mise a valutare i pro e i contro. Masako tacque e si accese una sigaretta. Ben presto il fumo invase l’abitacolo, sembrava che venisse risucchiato dal parabrezza umido. Dopo alcuni istanti Yoshie tossì e rispose: «Va bene, ci sto». «Davvero?» Masako la guardò come se volesse leggerle in faccia. Yoshie era pallida come un cadavere e le tremavano le labbra. «Non riesco a dirti quanto mi serve quel denaro. E con te sarei disposta ad andare anche all’inferno». Sarebbe stato dunque l’inferno la stazione d’arrivo del loro viaggio? Masako riportò lo sguardo sul parabrezza appannato. Tra gli scrosci di pioggia non riusciva a scorgere altro che i fanalini di coda dell’auto che le precedeva. Aveva la sensazione che la macchina non corresse più sull’asfalto, ma fluttuasse nell’aria. Le dava un senso di irrealtà, e anche il discorso con Yoshie le sembrava appartenere al mondo dei sogni.
5. Dopo il tifone il cielo aveva perso la brillantezza estiva, come se fosse stato sfiorato da un pennello intinto nei più sfumati colori autunnali. Mano a mano che la temperatura si abbassava, anche la rabbia e il rimorso, il timore e la speranza – tutte le passioni di Yayoi – a poco a poco andavano acquietandosi. Ora era sola con i suoi bambini. Si era abituata alle nuove circostanze, la vita era ritornata alla normalità e la quotidianità non la spaventava più. Tuttavia i vicini, che in un primo tempo le erano stati accanto mostrando compassione e pietà nei suoi confronti, preferivano osservarla a distanza, perché Yayoi, ora che era sola ad allevare i figli, dimostrava di saperlo fare con energia e consapevolezza. Così, via via che passava il tempo, Yayoi evitava sempre più di uscire di casa, tranne che per andare a lavorare o ad accompagnare i bambini all’asilo. Provava uno strano senso di solitudine. Era così cambiata? In fondo si era solo tagliata i capelli! Cercava solamente di essere anche un padre per i bambini, dal momento che Kenji non c’era più. Non si era ancora accorta che, scioltosi il legame con Kenji, ne era nato un altro, ossia l’interiore consapevolezza di aver ucciso il marito, che la stava lentamente cambiando dall’interno. Tutto incominciò un mattino in cui era di turno alla pulizia intorno ai bidoni per le immondizie. Era uscita di casa con scopa e paletta. Il luogo di raccolta si trovava vicino a un palo della luce dietro il muro di cemento all’angolo della sua strada. Era lì che aveva visto rannicchiato Milky, la mattina dopo l’omicidio di Kenji. Yayoi alzò lo sguardo al muro di cemento dove di solito si appostavano i gatti randagi in attesa degli avanzi di cibo contenuti nei sacchetti della spazzatura. C’erano anche un gattino bianco, sporco, che sembrava Milky, e uno più grande, dal pelo tigrato marrone, che fuggirono non appena lei si avvicinò. Milky era ormai diventato un randagio e vagabondava nel vicinato, ma Yayoi, che si era rassegnata a non riaverlo più, continuò imperturbabile il suo lavoro. Radunò con la scopa la spazzatura e i pezzi di carta sparpagliati dai netturbini che avevano travasato il contenuto dei bidoni e ne riempì un sacco di plastica. Ebbe l’impressione che qua e là, oltre le finestre, numerosi occhi malevoli la spiassero, e ne fu innervosita. In quel momento udì la voce chiara di una giovane donna, che accolse come una salvezza. «Mi scusi…» Yayoi sollevò la testa, e la ragazza la guardò piacevolmente sorpresa. Nei suoi occhi non si leggeva che una genuina ammirazione. Possibile che non la conoscesse? Yayoi provò a ricordare se era una che abitava nel quartiere. Doveva essere intorno alla trentina, aveva i capelli lunghi e lisci sciolti sulle spalle, e un trucco leggero. Sembrava un’impiegata, ma manifestava una timidezza da persona schiva e poco esperta del mondo. Yayoi la trovò subito simpatica. «Lei è nuova di qui?» «Sì. Mi sono appena trasferita in quell’appartamento», le spiegò voltandosi verso una vecchia casa alle sue spalle. «Posso gettare qui la spazzatura?» «Sì. Là ci sono scritti i giorni». Yayoi le additò una targa di metallo affissa sul palo della luce. «La ringrazio». La donna segnò minuziosamente i giorni su un’agendina. Sembrava che si fosse vestita per uscire come se dovesse andare al lavoro, ma in modo molto semplice: una camicetta bianca dalle maniche lunghe e una gonna blu. Finita la pulizia, Yayoi prese il sacco di plastica e fece per allontanarsi, ma la donna, come se avesse aspettato quel momento, le chiese: «È sempre lei che fa pulizia qui?» «No, ci diamo i turni. Prima o poi capiterà anche a lei. Le manderanno una circolare, le sarà facile orientarsi». «Ah, è così? La ringrazio moltissimo!» «Se le sarà difficile organizzarsi a causa del lavoro, la sostituirò volentieri».
«Ma no, figuriamoci!» rispose meravigliata la donna. «È gentile da parte sua, ma non sarà necessario. Al momento non ho lavoro». «Davvero? È sposata? Mi scusi». «No, no, sono nubile. Anche se ormai mi considero vecchia», rise la donna scoprendo delle sottili rughe intorno agli occhi. Forse ha più o meno la mia età, pensò Yayoi. «Mi sono appena licenziata. E adesso sono disoccupata». «Oh, mi dispiace!» «No, non deve dispiacersi. Mi concedo il lusso di tornare sui banchi di scuola!» «Per il dottorato?» Forse la domanda era troppo indiscreta, ma Yayoi non si trattenne. Negli ultimi tempi non aveva nessuno con cui fermarsi a chiacchierare e anche al lavoro aveva l’impressione le colleghe la lasciassero in disparte, dopo quello che era successo, e questo la innervosiva. Era contenta di avere l’occasione di parlare del più e del meno con una persona che non conosceva. «Ma no, cosa va a pensare, niente a che fare con l’università! Ho iniziato a studiare l’arte della tintura, che desideravo imparare da tempo. Prima o poi vorrei potermi guada gnare da vivere con questo lavoro». «Allora al momento si arrangia con qualche lavoretto?» «No, voglio cercare di resistere per un paio di anni con i miei risparmi. Anche se non posso certo scialacquare, come vede», rispose sorridendo la donna e guardò in direzione del vecchio caseggiato. Era una costruzione in legno e tutti sapevano che lì l’affitto era basso, ma era altrettanto noto che gli appartamenti avevano un estremo bisogno di restauri. «Ah, capisco. Il mio nome è Yamamoto e abito nell’ultima casa in fondo alla stradina, subito dietro l’angolo. Se dovesse avere bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, venga pure da me». «Grazie, molto gentile. Io mi chiamo Morisaki. Felice di conoscerla», la salutò la donna con voce tranquilla. Yayoi si domandò come si sarebbe comportata quando avesse saputo quello che era successo a Kenji. Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, quando Yayoi, dopo un sonnellino, era andata in cucina per preparare la cena, sentì suonare il citofono. «Sono Morisaki», annunciò una voce allegra. Quando aprì la porta vide la signora Morisaki con in mano un sacchetto di uva di Koshu. Era vestita sobriamente, aveva un trucco leggero e un atteggiamento dimesso. La trovò simpatica come la volta precedente. «Ah, è lei!» «Sono venuta di nuovo a ringraziarla». «Ma non doveva disturbarsi!» disse Yayoi prendendo l’uva e invitandola a entrare. Dopo l’incidente erano entrate in casa solo persone che la stressavano e la mettevano a disagio: i parenti suoi e del marito, i colleghi di ufficio di Kenji, Kuniko e i poliziotti. La signora Morisaki era quindi la prima ospite che le faceva piacere invitare, dal momento che con lei si sentiva libera e rilassata. «Lei ha dei bambini, vero?» Come se si trattasse di qualcosa di speciale, la signora Morisaki si fermò a osservare con interesse i fogli con i disegni dei bambini appiccicati alle pareti e le automobiline sparse nel corridoio. Poi entrarono in soggiorno. «Sì. Due maschietti. Adesso sono all’asilo». «Che bello! Io amo i bambini. Forse potrei giocare con loro, la prossima volta?» «Se le fa piacere! Ma la metto in guardia: sono maschi, e quindi irruenti. Rimarrà presto senza fiato!» Yayoi rise e invitò la donna a sedersi. La signora Morisaki si accomodò senza complimenti e si mise a osservare il volto di Yayoi. «Lei è bella, signora Yamamoto, non si direbbe che ha già due bambini. È giovane e graziosa. Sembra quasi un ragazzino, se posso permettermi di parlare così».
«Oh, grazie, lei mi confonde!» Yayoi era veramente felice dell’ammirazione di una donna che sembrava più giovane di lei. Preparò in fretta il tè e lo offrì insieme all’uva. La signora Morisaki si servì abbondantemente di zucchero e chiese candidamente: «Suo marito è al lavoro?» «Mio marito è morto. Due mesi fa», rispose Yayoi indicando la camera da letto dove faceva bella mostra di sé un altarino buddista nuovo di zecca su cui troneggiava la fotografia di Kenji. Era una foto di due anni prima, e Kenji, con un volto fresco e giovane, sorrideva ignaro al futuro. La signora Morisaki impallidì e chiese scusa a Yayoi: «Mi dispiace. Non lo sapevo». Yayoi provò veramente pena per la poverina: «Non si preoccupi, non poteva saperlo». «Era malato?» chiese timida la donna, col tono di chi non si è ancora dovuto confrontare con la realtà della morte. «No. Davvero non ne ha saputo niente?» Senza volere Yayoi le lanciò un’occhiata indagatrice. La signora Morisaki sgranò gli occhi e scosse la testa. «No, che cosa dovrei sapere?» «Mio marito è stato vittima di un delitto. Non ha sentito parlare del cadavere trovato a pezzi nel parco di Koganei?» «Sì, certo, ma… per l’amor di Dio!» In un attimo il volto della signora Morisaki si incupì. Nemmeno in sogno avrebbe potuto pensare che Yayoi potesse essere legata alla vittima. Si mise a guardare il pavimento e Yayoi si accorse con stupore che aveva gli occhi colmi di lacrime. «Ma che cos’ha? Perché piange?» «Pensavo solo… che cosa terribile, mi dispiace così tanto per lei!» Yayoi si emozionò. Era la prima volta che un estraneo manifestava un vero sentimento di partecipazione nei suoi confronti. Era vero che quelli che sapevano apparentemente si erano dimostrati compassionevoli, ma lei aveva capito che in fondo al cuore non si fidavano del tutto. La famiglia di Kenji le aveva addossato tutte le responsabilità e perfino i suoi genitori se ne erano tornati a casa. Poteva contare su Masako, ma ne aveva anche paura, perché bastava sfiorarla per esserne feriti, come con un rasoio. In quanto a Yoshie, poi, era troppo all’antica, e Kuniko, quella inutile donnaccia, preferiva non vederla mai più. Negli ultimi tempi Yayoi era insofferente verso tutti, le sembrava di essere isolata, perciò si commosse sinceramente alle lacrime della signora Morisaki. «Grazie, grazie davvero. I vicini mi guardano con sospetto, e io mi sento molto sola». «No, non mi ringrazi. Io sono un’ingenua, e a volte dico cose che paiono strane. Mi è capitato di non riuscire più a confidarmi per timore di ferire qualcuno. In fondo è forse per questo motivo che mi sono licenziata. Ho pensato che se riuscirò ad aprire un laboratorio di tintoria potrò ritirarmi da sola nel mio mondo, senza dover parlare con nessuno». «Già, posso capirla bene». Inceppandosi di quando in quando, Yayoi si mise a riassumere l’accaduto. A poco a poco la signora Morisaki, che in principio era rimasta in silenzio, intimorita, sembrò mostrare interesse e incominciò a fare alcune domande. «E quindi lei non ha più rivisto suo marito, dopo che se ne è andato a lavorare al mattino?» «Proprio così». Ormai a Yayoi quella versione pareva la pura verità. «Poverina!» «Sì. È doloroso. Non avrei mai immaginato che ci saremmo separati così presto». «E non hanno ancora arrestato l’assassino?» «No, non soltanto non l’hanno arrestato, in realtà non sanno neppure chi possa essere stato», sospirò Yayoi. A furia di raccontare menzogne aveva incominciato a dimenticare persino di essere stata lei l’assassina. La signora Morisaki sbottò indignata: «Ma per ridurlo così, a pezzi, l’assassino deve essere senz’altro un maniaco». «Sì, è terribile, vero? Non riesco neanche a immaginarlo». Yayoi ricordò la fotografia della mano che le aveva mostrato il poliziotto. E si ricordò esattamente l’odio intenso che in quel momento
aveva provato nei confronti di Masako. Di nuovo sentì riaffiorare l’avversione nei confronti di Masako e di Yoshie, che avevano fatto a pezzi suo marito. Pur sapendo che era irragionevole, a furia di travisare la realtà e di fingere persino i suoi ricordi si erano alterati. Suonò il telefono. Poteva essere Masako. Ormai aveva trovato una nuova amica, la signora Morisaki, e per la prima volta le diede fastidio dover parlare con Masako, sempre convinta di sapere tutto e di poter dare istruzioni. Per qualche istante, incerta sul da farsi, lasciò squillare l’apparecchio. «La prego, non badi a me», la sollecitò la signora Morisaki e Yayoi, riluttante, afferrò la cornetta. «Pronto, sono Yamamoto». «Sono Kinugasa», risuonò la nota voce del poliziotto. Tutte le settimane Kinugasa e Imai le telefonavano per chiedere sue notizie. «Ah, signor Kinugasa, la ringrazio, è veramente gentile». «C’è qualcosa di nuovo, signora?» «No, niente». «Ha ricominciato ad andare a lavorare?» «Sì. Credo che sia meglio così: là ho le mie colleghe e poi sono abituata a lavorare, non vorrei dover perdere anche questo». «Già, posso capire». La voce di Kinugasa si era fatta suadente. «E così deve lasciare di nuovo i bambini a casa da soli di notte?» «Come lo dice, a casa da soli…» ribatté Yayoi, irritata dal tono involontariamente ostile che le sembrava di avere colto nelle parole del poliziotto. «Ah, mi scusi! Volevo dire: allora come fa con i bambini?» «Penso che non se ne accorgano neppure perché esco quando sono già addormentati». «Ma sicuramente si preoccupa per eventuali incendi o terremoti! Se accadesse qualcosa non esiti a telefonare alla polizia». «Lo farò, grazie mille!» «A proposito, abbiamo saputo che riceverà un premio dall’assicurazione». Il tono di Kinugasa voleva essere compiaciuto, ma a Yayoi non sfuggì la sfumatura di sospetto nella sua voce. Yayoi si guardò alle spalle per vedere se la signora Morisaki stesse ascoltando la conversazione, ma questa si era alzata e guardava in giardino, fuori dalla finestra, un vaso con i miseri resti di un convolvolo ormai appassito. Erano stati i bambini a seminarlo, all’asilo, e a portarlo a casa. «Sì. Ero completamente all’oscuro dell’assicurazione che mio marito aveva stipulato in ditta. È stata una sorpresa ma, a essere sincera, ne sono contenta, è un grande aiuto per me. In fondo sono rimasta sola a pensare al futuro dei due bambini». «Ha ragione. Ma c’è anche una cattiva notizia. È sparito il gestore della casa da gioco. Se succedesse qualcosa di strano, ci chiami subito». «Che significa?» Per la prima volta Yayoi aveva alzato la voce. Si girò e vide lo sguardo stupito della signora Morisaki. «Semplicemente che si è volatilizzato, non sappiamo più dove si è cacciato. Sono costretto ad ammettere che è riuscito a prenderci in giro. A ogni modo stiamo facendo tutto il possibile per ritrovare le sue tracce». «Quando dice che si è volatilizzato, vuole dire che è lui l’assassino?» A questa domanda Kinugasa non rispose. Alle sue spalle si udivano i tipici rumori di un distretto di polizia: voci maschili, telefoni che squillavano e così via. Yayoi ebbe l’impressione di percepire l’odore di sudore e la puzza di tabacco che impregnavano il locale e fece una smorfia. «Se anche fosse, non si preoccupi. Riusciremo a mettergli le mani addosso. Ma se accadesse qualcosa mi telefoni», concluse Kinugasa e riattaccò. Era indubbiamente una bella notizia, sia per lei che per Masako e le altre. Quando aveva saputo che il proprietario della casa da gioco era stato
rilasciato per insufficienza di prove, era stato un brutto colpo, ma ora che era scappato era come se avesse ammesso la sua colpevolezza. Ormai poteva stare tranquilla. I muscoli delle guance di Yayoi si rilassarono. Depose la cornetta e tornò accanto alla signora Morisaki. I loro sguardi si incontrarono. «Ha ricevuto una bella notizia?» si informò sorridendo la signora Morisaki, notando l’espressione rilassata di Yayoi. «No, niente di speciale». Quando vide che Yayoi era ritornata subito seria, chiese timidamente: «Preferisce che tolga il disturbo?» «No, rimanga ancora un poco». «È successo qualcosa?» «Mi hanno comunicato che il presunto assassino è sparito». «Allora era una telefonata della polizia?» domandò eccitata la signora Morisaki. «Sì. Era l’ispettore». «Oh, è terribile! Mi scusi se sono stata indiscreta». «No, con me non deve farsi di questi problemi», disse Yayoi con un sorriso. «Ma la polizia è proprio noiosa. C’è sempre qualcuno che telefona per chiedere se è successo qualcosa». «Ma immagino che sarà un sollievo per lei quando troveranno l’assassino». «Sì, è vero. L’idea che se ne vada in giro impunito mi fa troppa rabbia», sussurrò Yayoi amareggiata. «Ha ragione. Ma questo uomo, il fatto che si sia volatilizzato, questo significa che è proprio lui l’assassino, non le pare?» «Sarebbe bello», si lasciò scappare Yayoi, ma subito chiuse la bocca. Tuttavia non sembrava che la signora Morisaki se ne fosse accorta, perché si limitò ad annuire più volte ripetendo: «Sì, certo, proprio così». Fu solo questione di tempo: ben presto la signora Morisaki e Yayoi diventarono amiche e incominciarono a confidarsi. Spesso, quando Yayoi, appena risvegliata da un breve sonno, si accingeva a preparare la cena per poi vestirsi e andare a prendere i bambini all’asilo, compariva la signora Morisaki. Arrivava con dei dolci poco costosi o delle pietanze casalinghe, dicendo che era appena tornata dalla scuola di tintoria. Era subito diventata amica anche dei bambini. Si era mostrata molto dispiaciuta quando Yukihiro le aveva raccontato della scomparsa di Milky, e più di una volta aveva accompagnato i piccoli nella vana ricerca del gatto. E infine riuscì a stupire Yayoi proponendole timidamente: «Vuole che rimanga qui con i bambini di notte, mentre lei è al lavoro?» Yayoi quasi non riusciva a credere che una persona conosciuta da così poco tempo si mostrasse tanto gentile nei suoi riguardi: «Ma non posso pretendere questo da lei!» «Perché no? In ogni caso devo dormire, e lo posso fare qui come altrove. Provi a immaginare se Yukihiro-chan si svegliasse nel bel mezzo della notte e non trovasse nessuno, il papà non c’è, la mamma lavora – povero piccolo!» La signora Morisaki era particolarmente affezionata al più piccolo e anche lui, del resto, le stava sempre attaccato. Yayoi, con la fame di affetto che aveva, decise di accettare l’offerta: «Va bene, allora venga almeno a cenare con noi, dal momento che non posso permettermi di pagarla». «Grazie». All’improvviso gli occhi della signora Morisaki si riempirono di lacrime. «Che cosa c’è adesso?» le domandò Yayoi, e la donna si asciugò le lacrime sorridendo. «Sono solo felice. Mi sembra quasi di avere trovato una nuova famiglia. Ho passato molto tempo da sola, sentivo il bisogno di qualcosa. Mi sento così abbandonata quando ritorno in quell’appartamento».
«Anch’io mi sento abbandonata. Da quando mio marito è improvvisamente scomparso devo cavarmela da sola, ma se penso alle chiacchiere della gente provo una gran rabbia. Nessuno mi capisce». «Sì, è veramente una storia triste. Lei mi fa tanta pena!» «Non importa». Si abbracciarono e piansero. Yayoi si accorse di Takashi e Yukihiro che le guardavano a occhi sgranati e con la bocca aperta. Erano così buffi che scoppiò a ridere e si asciugò le lacrime dicendo: «Da questa sera la zia dormirà qui, insieme a voi. Non è meraviglioso?» Mai Yayoi si sarebbe immaginata che, a causa della signora Morisaki, avrebbe dovuto litigare con Masako. «Chi è la donna che risponde al telefono a casa tua?» le domandò perentoria Masako. «È Yoko Morisaki, una mia vicina di casa. È così gentile! Bada ai bambini quando sono fuori». «Vale a dire che dorme da voi?» «Sì. Dorme da me, così i bambini non restano soli». «Abita con te?» chiese Masako diffidente. «No, non ci conosciamo ancora così bene», replicò Yayoi irritata. «Frequenta un corso di formazione. E la sera, al ritorno, si ferma a cenare da noi, poi va a casa e ritorna di notte, quando devo andare a lavorare». «E rimane tutta la notte con i bambini senza volere niente in cambio?» «Sì, si accontenta della cena». «Mi sembra eccezionalmente disinteressata. A meno che non ci sia sotto dell’altro e non stia tramando qualcosa». «Niente affatto!» ribatté Yayoi. Non poteva accettare delle insinuazioni così basse, neppure se venivano da Masako. «Lo fa solo per amicizia, questo è tutto. Non essere così insolente!» «Insolente? Non è questo il punto. Se viene fuori tutta la faccenda, tu sarai la prima a esserci dentro fino al collo, non dimenticartelo!» «È vero, ma…» Yayoi chinò la testa offesa. «Ma che cosa?» Yayoi ne aveva abbastanza di quell’interrogatorio! Masako non mollava mai, e avrebbe continuato a porre domande finché non avesse ottenuto le risposte che voleva. «Perché te la prendi con me?» «Ma no, non è con te che me la prendo. Dimmi tu, piuttosto, perché ti arrabbi così?» ribatté Masako, che non riusciva a capire il comportamento di Yayoi. «Non sono arrabbiata. Mi domando solo perché tu e la maestra, negli ultimi tempi, vi comportate in modo così misterioso, che cosa avete da nascondere? Perché Kuniko se ne va via sempre da sola? È successo qualcosa?» Sulla fronte di Masako si formarono tante piccole rughe verticali. Yayoi non sapeva che Kuniko aveva raccontato tutto a Jumonji e che ora Masako, in seguito a quella confessione, si accingeva a iniziare una nuova “impresa”. E non sapeva neppure che Masako non le aveva detto niente perché non si fidava più di lei, perché era troppo fragile e indifesa, al punto da poter diventare pericolosa. «Non è successo niente. Ma tu, piuttosto, non ti è venuto in mente, per esempio, che quella donna potrebbe essere interessata solo al denaro dell’assicurazione?» Yayoi non seppe trattenere oltre la sua collera e sbottò: «La signora Morisaki non è il tipo che immagini. Alla fin fine non si chiama mica Kuniko!» «Okay, va bene, non avertene a male. Dimentica il discorso sull’assicurazione». Davanti all’ira di Yayoi, Masako si ritrasse in se stessa come una marea decrescente e si chiuse nel silenzio. Yayoi si ricordò che era stata lei a salvarla e si affrettò a scusarsi: «Mi dispiace di essere stata così cattiva. Ma sta tranquilla, la signora Morisaki è davvero una persona per bene».
Ma Masako non si era ancora data per vinta: «Ma non hai paura che i bambini finiscano con il confessarle qualcosa di compromettente, stando così a lungo con lei?» Yayoi non sapeva più come fare fronte all’insistenza di Masako e disse: «I bambini si sono ormai dimenticati di quella notte. Da allora non ne hanno più parlato». Masako strinse le labbra per qualche istante e guardò nel vuoto. Poi ribatté: «Forse non ne parlano solo perché si sono accorti che ti mettono in difficoltà». Aveva centrato il bersaglio. Yayoi sapeva benissimo che era vero, tuttavia mentì: «Non è come pensi. Alla fin fine io conosco i miei figli meglio di chiunque altro». «Be’, allora non c’è problema», convenne Masako scrutando Yayoi in viso, poi si girò e aggiunse: «Però sarebbe un’idiozia allentare la guardia nella fase finale». «La fase finale? Di che cosa parli?» Per Yayoi era ormai tutto finito da un pezzo. «Il proprietario della casa da gioco se l’è svignata. E noi siamo fuori!» «Che dici?» Masako sorrise sarcastica. «Per te la storia non avrà mai fine, dovrai stare all’erta fino alla morte». «Come puoi essere così antipatica!» Improvvisamente Yayoi si accorse di Yoshie, ferma ad ascoltare dietro a Masako. Se ne stava in silenzio, ma la guardava con aria severa. Una vera congiura, da parte di quelle due! Yayoi non poteva sopportare di essere messa da parte. Come potevano tagliarla fuori e criticarla, dopo essere state pagate in modo così principesco, pensò esasperata. Dopo il turno se ne andò da sola, senza rivolgere loro una parola. L’alba era ancora lontana, faceva ancora buio e questo la faceva sentire ancora più abbandonata. Quando arrivò a casa, i bambini e la signora Morisaki stavano ancora dormendo. Ma ben presto la donna uscì in pigiama dalla camera da letto, evidentemente l’aveva sentita rientrare. «Buon mattino!» «Spero di non averla svegliata». «Non importa. Mi sarei alzata comunque, perché oggi devo uscire presto», la rassicurò la signora Morisaki stiracchiandosi. Poi, notando il turbamento di Yayoi, aggrottò le sopracciglia: «È successo qualcosa? È così pallida». «Nulla. Un piccolo litigio allo stabilimento». Ovviamente non disse che aveva litigato per causa sua, e che aveva preso le sue difese. «Con chi?» «Con Masako, quella che telefona spesso. Forse vi siete già parlate qualche volta». «Ah, quella che è sempre un po’ brusca e distante. Che cosa è successo? Che cosa le ha detto?» La signora Morisaki era eccitata come se fosse stata lei ad avere un battibecco. «Niente di particolare, inezie», rispose evasiva Yayoi, e si allacciò il grembiule per preparare la colazione. L’altra le chiese, abbassando la voce: «Come mai è sempre così umile quando parla con lei?» «Cosa?» Yayoi si girò stupita verso di lei. «Come può dire una cosa del genere?» «Non la terrà in pugno a causa di qualche sua debolezza?» La signora Morisaki la fissava con insistenza, come se volesse spiarla. Proprio come i miei vicini, pensò Yayoi, ma subito scacciò l’idea: no, non la signora Morisaki, lei non lo avrebbe mai fatto!
6. Nel pomeriggio, i deboli raggi del sole autunnale si posavano lievi sulle mazzette di banconote da diecimila yen, nuove di zecca, posate sul tavolo davanti a lei, irreali quanto quegli strani fermacarte che talvolta si trovano in commercio. Eppure erano proprio soldi, quelli che aveva davanti, molti di più di quanto non potesse guadagnare in un anno di lavoro allo stabilimento delle colazioni. E anche lo stipendio annuale che una volta percepiva all’istituto di credito era poco più del doppio di quella somma. Contemplando i due milioni di yen avuti da Yayoi, Masako rifletteva sulle fatiche affrontate in passato e sulla futura “impresa”. Poi si mise a pensare a dove nascondere il denaro. Che fosse meglio versarlo in banca, su un libretto di risparmio? Ma, così facendo, non avrebbe potuto riaverlo subito se ne avesse avuto bisogno all’improvviso, e poi sarebbe stato compromettente. D’altronde non lo poteva nascondere semplicemente nell’armadio, era troppo pericoloso: uno dei suoi avrebbe potuto trovarlo. Mentre rifletteva su cosa era meglio fare, suonarono alla porta. Masako infilò in fretta il denaro nel cassetto sotto il lavello. «Mi scusi, potrei disturbarla un momento?» domandò al citofono un’esitante voce femminile. «Di che cosa si tratta?» «Vorrei qualche informazione, perché stiamo pensando di comprare il terreno davanti a casa sua». Controvoglia Masako andò alla porta e aprì. Una donna di mezza età, che indossava un banale tailleur viola chiaro, aspettava con aria intimidita. Dal viso sembrava coetanea di Masako, ma era piuttosto sfatta e la voce suonava isterica e stonata. «Scusi se la disturbo così all’improvviso». «No, si figuri». «Dunque, stiamo pensando di comprare il terreno davanti a casa sua», ripeté la donna. Si riferiva al terreno edificabile al di là della strada privata, esattamente di fronte alla casa di Masako. Il proprietario aveva tentato più volte di venderlo, senza però riuscire a concludere l’affare, e negli ultimi tempi sembrava averlo abbandonato. «E allora?Perché viene da me?» replicò secca Masako. La donna, confusa, non sapeva più cosa dire: «Ecco, ci sembra strano che solo quel terreno non sia stato venduto, e ci domandiamo se c’è qualcosa che non va…» «Non ne ho la minima idea». «Forse c’è stato qualche problema? Sa, è sempre brutto scoprire queste cose a posteriori…» «Certo, capisco, ma io non ne so niente. Perché non lo chiede all’agenzia immobiliare?» «Lo abbiamo già fatto, ma non ci hanno detto niente». «E allora evidentemente non c’è niente da dire», tagliò corto Masako. «Mio marito teme che non vada bene perché si tratta di argilla rossa». Masako inclinò la testa, era la prima volta che sentiva un discorso del genere. Notando la sua espressione perplessa, la donna aggiunse frettolosamente: «Dice che il terreno non è abbastanza solido». «Anche il mio terreno è uguale». «Oh, mi scusi». La donna sembrava così confusa da ispirare quasi tenerezza. Masako fece capire che il discorso per lei era concluso: «Penso che non debba preoccuparsi». «E lo scolo dell’acqua, avete avuto brutte esperienze?» «Qui siamo su una piccola altura, l’acqua della pioggia non ristagna». «Be’, allora…» sospirò la donna lanciando uno sguardo veloce all’interno della casa di Masako. Infine si inchinò: «Capisco. Molte grazie e mi scusi ancora per il disturbo». Non aggiunse altro, tuttavia Masako ebbe un brutto presentimento. Infatti un paio di giorni
prima una vicina l’aveva fermata per strada. «Signora Katori!» Era la vecchia signora che abitava con il marito nella stradina posteriore: le loro case erano state costruite schiena a schiena. La donna teneva dei corsi di ikebana a domicilio, ed era piacevole conversare con lei. Di tutto il vicinato, era quella con cui Masako manteneva i migliori rapporti. «Aspetti un attimo. Poco tempo fa è successa una cosa strana», aveva detto a bassa voce tirandola per una manica. «Che cosa?» «È venuto uno della sua ditta e si è messo a fare domande di ogni genere». «Della mia ditta?» In un primo momento Masako aveva pensato che si trattasse di un errore. Forse non era qualcuno della sua ditta, ma dell’azienda in cui lavorava Yoshiki, o forse qualcuno della banca. Ma non c’era alcuna ragione di informarsi sulla solvibilità di Yoshiki. E non poteva neppure riguardare Nobuki. Allora non rimaneva che lei. «Sì, ha detto che lavora allo stabilimento delle colazioni», aveva risposto la donna aggrottando la fronte. «Ma io ho subito pensato che fosse stato mandato da un’agenzia investigativa, e sono stata molto attenta. Mi ha fatto un mucchio di domande su di lei e sulla sua famiglia». «Per esempio, che cosa le ha chiesto?» «Chi abita in casa sua, che tipo di abitudini ha e che cosa dicono di lei i vicini. Ovviamente io non gli ho dato alcuna informazione. Ma quelli lì potrebbero avere raccontato qualcosa». La donna aveva indicato col dito la casa accanto a quella di Masako. Era abitata da due anziani coniugi che una volta, quando Nobuki frequentava le medie, andavano spesso a lamentarsi perché teneva il volume dello stereo troppo alto. Se ce l’avevano ancora con loro, era possibile che avessero approfittato per sparlare di lei. «Ma davvero quell’individuo è andato in giro a fare domande di qua e di là?» aveva chiesto Masako inquieta. «Così pare. L’ho visto che girava intorno alla casa, si guardava intorno e poi andava a suonare dalla vicina. Be’, io ho trovato questo comportamento molto sospetto, non crede anche lei?» «Ha detto perché voleva raccogliere informazioni?» «Sì, e proprio questo mi è sembrato strano. Ha detto che il motivo era la sua promozione a dipendente». «Figuriamoci!» L’unica promozione possibile per i lavoratori part-time era quella di essere considerati collaboratori fissi, cioè di essere trattati come dipendenti, senza tuttavia un vero contratto. E per ottenerla bisognava lavorare almeno tre anni senza interruzioni. Dunque era stata una bugia bella e buona. «Esattamente, è quello che ho pensato anch’io. Del tutto incredibile, ogni singola cosa». «Che tipo era?» «Ancora abbastanza giovane, ben vestito». Per un attimo Masako aveva pensato a Jumonji, ma era improbabile: lui la conosceva da diversi anni. Avrebbe potuto anche essere un poliziotto, ma era strano che la polizia cri minale conducesse le indagini in quel modo. Qualcuno la spiava. Per la prima volta dopo l’assassinio di Kenji, Masako si era resa conto che era entrato in gioco un altro avversario, uno sconosciuto. E non si trattava della polizia, era un nemico misterioso, che non voleva uscire allo scoperto. Forse anche quella donna, la signora Morisaki, spuntata fuori così all’improvviso, era una complice. D’altronde era molto strano che Yayoi non si fosse insospettita per niente, nonostante che tutta la storia fosse così incredibile. Probabilmente erano vittime di un abile
complotto. La polizia non ricorreva a simili stratagemmi. Il giovane uomo, la signora Morisaki e la donna di mezza età che aveva suonato alla sua porta. Se tutti erano complici, significava che quell’ipotetico avversario aveva formato un gruppo. Ma chi era, e perché le spiava? All’improvviso Masako provò una indefinibile sensazione di terrore che le fece accapponare la pelle. Avrebbe dovuto informarne Yoshie e Yayoi? Non ne era ancora certa. Forse era meglio aspettare di avere le idee più chiare. Al parcheggio vide che avevano finito di montare il piccolo prefabbricato per il custode. Era ancora vuoto e lo spazio di mezzo tatami al di là dei vetri era completamente buio. Masako scese dalla Corolla e, con la porta ancora spalancata, si mise a ispezionare il gabbiotto. Proprio in quel momento arrivò la Golf cabriolet di Kuniko, che percorse rumorosamente il sentiero facendo volare i ciottoli. Senza volere Masako fece due passi indietro: probabilmente Kuniko non l’avrebbe investita, ma la sua guida aggressiva faceva capire che ce l’aveva a morte con lei. Kuniko fece una serie di manovre maldestre, si infilò in retromarcia nello spazio che aveva scelto e tirò energicamente il freno a mano facendolo grattare. Poi salutò Masako: «Ti auguro una splendida giornata!» Ipocrita ed esageratamente cortese, come sempre! Indossava un giubbotto di pelle rossa nuovo fiammante. Probabilmente l’aveva acquistato con i soldi di Yayoi. «Buongiorno». Erano diversi giorni che non incontrava Kuniko al parcheggio. Da quando non si davano più appuntamento per andare insieme alla fabbrica, non si erano mai incrociate, neanche per caso. Masako supponeva che Kuniko facesse tutto il possibile per evitarla. Come per dimostrarlo, Kuniko assunse un’espressione seccata, come se la maledicesse tra sé. «Sei arrivata presto, oggi!» «Può essere». Masako guardò l’orologio sollevando il polso per vedere meglio: effettivamente era in anticipo di dieci minuti rispetto al solito. «Che cos’è quello?» domandò Kuniko mentre chiudeva la capote, indicando con il mento la guardiola. «Vi sistemeranno un sorvegliante per il parcheggio, immagino». «Non si tratta di un semplice sorvegliante. La polizia ormai sa dell’esistenza di un maniaco, e quindi la direzione ha dovuto decidersi ad assumere uno che stia di guardia». Masako pensò che era un inutile spreco di denaro, a ogni modo negli ultimi tempi sostavano in quel posteggio diverse auto non autorizzate e forse in fabbrica avevano pensato di poter prendere due piccioni con una fava. «Una vera disgrazia per te – così non avrai più occasione di incontrarti col maniaco!» «Che cosa vuoi dire?» All’insinuazione sarcastica di Masako, Kuniko storse la bocca in una smorfia. Era perfettamente truccata, come se fosse diretta in città a fare spese, e Masako la squadrò con aria gelida, esprimendo tutta la sua disapprovazione per quella pretenziosa ostentazione di eleganza. «A quanto vedo», commentò Masako dando uno sguardo alla Golf accuratamente lucidata, «continui a spostarti in macchina. Se venissi in bicicletta potresti risparmiare parecchio!» «Ci vediamo al turno!» tagliò corto Kuniko, passandole davanti. Non merita neanche uno sguardo, pensò Masako accarezzandosi le braccia nude. Faceva fresco per essere soltanto all’inizio di ottobre. L’aria era secca, e si potevano distinguere perfettamente i diversi odori: puzza di fritto e di gas di scarico, il profumo dei fiori dorati dell’osmanto e quello dell’erba dei prati. Si udiva qua e là un sommesso frinire di cicale, le ultime sopravvissute dopo l’estate. Masako prese il giubbotto dal sedile posteriore e lo indossò sopra la T-shirt. Poi, come al solito, si accese una sigaretta e attese che la giacca rossa di Kuniko venisse inghiottita dal buio. Udì il profondo rombo di un motore che si avvicinava e scorse una moto di grossa cilindrata entrare nel parcheggio. Sentì la ruota posteriore che slittava un po’ sulla ghiaia e vide la luce dei fari
alzarsi e abbassarsi sulle cunette del viottolo. Chi poteva essere? Nessuno degli operai part-time veniva a lavorare in moto. Masako, tesa, guardò il guidatore. «Signora Katori!» chiamò il giovane sollevando la visiera del casco integrale. Era Jumonji. «Ah, è lei! Mi ha spaventato!» «Meno male che l’ho trovata!» Jumonji spense il motore e il parcheggio fu avvolto dal silenzio. Persino le cicale tacevano, forse spaventate dall’insolito rumore. Con mossa esperta Jumonji abbassò il cavalletto, scese dalla moto e si avvicinò a Masako. «Che cosa c’è?» «Abbiamo un incarico». Così presto! Fin da quando aveva visto avvicinarsi la moto, Masako aveva capito che le stava accadendo qualcosa di insolito, ma non avrebbe mai immaginato che si trattasse del suo primo incarico! Strinse le braccia al petto, come per trattenere il battito tumultuoso del suo cuore. Il giubbotto, che non indossava da sei mesi, emanava l’odore familiare di detersivo e degli armadi di casa. La fulminò il pensiero che, infine, erano venuti a strapparla dalla confortevole sicurezza della sua casa, e strinse più forte le braccia al petto. «Vuole dire… un incarico per la nostra impresa?» «Proprio così. Mi hanno telefonato all’improvviso: c’è un cadavere da eliminare senza lasciare tracce. Forse sono stato troppo precipitoso, ma temevo di non riuscire a mettermi in contatto con lei, signora Katori. Perciò ho pensato di raggiungerla qui prima del turno, ma ho preferito la moto, perché la signora Jonouchi conosce la mia auto! Troppo rischioso, se mi avesse visto!» Nella voce di Jumonji si avvertiva un tremito di eccitazione. «Ah, per questo è venuto in moto!» «Sì, ma poiché è molto che non la uso, all’inizio non voleva partire. Sono proprio sfinito, mi creda!» Jumonji si liberò dal casco con un gesto plateale – sembrava un attore che si toglieva la parrucca – e si lisciò con la mano i capelli scompigliati. «E io che cosa dovrei fare?» «Ah, già. Allora, io adesso vado a prendere in consegna il materiale con la mia auto. Poi lo trasporterò fino a casa sua. A che ora finisce il lavoro?» «Alle cinque e mezzo. Sarò di nuovo qui poco prima delle sei». «E a che ora arriverà a casa?» «Poco dopo le sei. Ma i miei saranno ancora a casa, per cui dovrà aspettare per la consegna fino alle nove e qualcosa. Nel frattempo non potrebbe spogliarlo dagli abiti e dal resto? Crede di farcela da solo?» «Se può essere di qualche utilità, dovrò ben farlo, no?» rispose Jumonji con voce sepolcrale. «Riuscirà a trasportarlo da solo?» «Ci proverò. Le porterò anche il set di bisturi che ho comprato». «Okay, va bene». Tormentandosi le unghie, Masako cercò disperatamente di farsi venire in mente se mancava qualcos’altro, ma la testa non le funzionava bene, perché era accaduto tutto così in fretta. Alla fine le venne un’idea: «Mi porti delle scatole di cartone, di quelle che si usano per spedire i pacchi». «Grandi?» «Sì, ma che non diano nell’occhio. Preferibilmente di quelle che si usano per la frutta, o qualcosa del genere. Ma che siano robuste, mi raccomando». «Va bene, vedrà che per mezzogiorno riuscirò a trovare qualcosa di adatto allo scopo». «Okay». «E i sacchi?» «Comprati, come da accordi», rispose, e si ricordò di una cosa importante: «Come posso avvisarla se domattina dovesse succedere qualcosa?» Yoshiki poteva non andare in ufficio, oppure
Nobuki poteva prendersi una giornata di ferie. Non si poteva mai sapere, c’erano sempre tanti imprevisti! «Che cosa vuole dire?» chiese Jumonji preoccupato. «Per esempio i miei potrebbero rimanere in casa». «Ah, già. Allora mi chiami al cellulare». Jumonji prese un biglietto da visita dalla tasca dei jeans e lo porse a Masako. Vi era segnato il numero del cellulare. «Bene. Se ci sarà qualche inconveniente, la avviserò prima delle otto e mezzo». «D’accordo. Allora: alla nostra collaborazione!» Jumonji le porse la mano. Masako la prese e gliela strinse. Era ruvida e fredda, perché aveva guidato senza guanti. «Allora me ne vado». Jumonji girò la chiave e avviò il motore. Nell’ampio posteggio dai confini sfumati dalle tenebre risuonò il basso, cupo e potente rombo del motore. «Aspetti!» Masako tutto a un tratto si era ricordata del “nemico misterioso”. «Che c’è?» domandò Jumonji sollevando di nuovo la visiera del casco. «È venuto un tizio a fare domande ai miei vicini, forse mandato da un’agenzia di investigazioni». «Che cosa?» Jumonji la guardò attonito. «Che cosa può voler dire?» «Non ne ho la minima idea». «Non è la polizia? Ci mancava anche questa!» Masako, turbata, stava per dirgli che avrebbero fatto meglio a rinunciare all’incarico. Ma ormai era troppo tardi. Deglutì e concluse: «Lo facciamo lo stesso, va bene?» «La cosa è andata troppo avanti e non possiamo più ritirarci. Altrimenti qualcuno potrebbe perderci la faccia». Jumonji fece un’abile inversione di marcia e uscì dal posteggio schizzando fango. Masako rimase sola nel parcheggio. Camminando di buon passo nel viottolo buio e deserto si mise a pensare alle varie fasi del lavoro. Innanzi tutto avrebbe tagliato la testa, quindi le braccia e le gambe, e infine aperto il torace… Pezzo dopo pezzo, ricapitolò il lavoro infernale che aveva completato quel giorno. Immaginò le condizioni del cadavere che le avrebbero portato e trasalì di paura. Come se il suo corpo volesse allontanare quella sensazione, incominciarono a tremarle le ginocchia. Tremava a tal punto che non riusciva più a camminare e dovette fermarsi sul sentiero immerso nelle tenebre. Ma l’origine di quel tremore aveva radici profonde: era la vaga consapevolezza della presenza di un ignoto “nemico misterioso”. Mentre entrava nel salone, Kuniko stava uscendo. Girandosi dall’altra parte, come se volesse dire: aspetta un po’, ti farò vedere io, le passò davanti senza salutarla. Masako non si preoccupò del comportamento infantile di Kuniko e andò subito in cerca di Yoshie. La trovò che si cambiava nello spogliatoio, insieme a Yayoi. «Vieni un momento?» bisbigliò Masako dandole un colpetto sulla spalla. Yayoi, lì accanto, si voltò con aria interrogativa. Il suo sguardo luminoso, privo di malizia, incrociò gli occhi di Masako, freddi e duri. Aveva già deciso di non coinvolgere Yayoi in quell’affare, ma vedendo la sua espressione innocente, dimentica di tutto, Masako venne presa dalla voglia di farle conoscere la paura. Anche Yayoi doveva sapere che cosa voleva dire sentirsi tremare le ginocchia! Tuttavia strinse i denti e si trattenne. «Che cosa succede?» domandò Yoshie spaventata, come se avesse intuito la gravità del momento. «Abbiamo un incarico», rispose laconica Masako. Yoshie strinse le labbra e tacque. Masako capì che non avrebbe potuto assolutamente parlarle del “nemico misterioso”, in nessun caso. Yoshie si sarebbe subito tirata indietro, e lei, da sola, non sarebbe riuscita a sezionare il cadavere. «Di che cosa state parlando?» chiese Yayoi avvicinandosi.
«Vuoi saperlo davvero?» Masako la guardò in faccia e poi la afferrò per i polsi sottili e delicati. «Che cosa fai, cosa vuoi?» Un’ombra di paura attraversò il viso di Yayoi. Masako non se ne curò, le lasciò andare i polsi e spostò la presa sui gomiti. «Si prende un coltello e si recide qui e qui. Stavamo parlando di questo». Yayoi non tentò di liberare le braccia, ma si ritrasse con tutto il corpo. Yoshie, preoccupata degli sguardi indiscreti delle altre operaie, fece un cenno a Masako perché stesse più attenta. Ma nessuna sembrava badare a loro. Continuavano tutte a cambiarsi in silenzio, di malumore, come se stessero già pensando alla dura fatica che le attendeva. «Non è vero», brontolò Yayoi con la sua vocina infantile. Sembrava proprio una bambina. «Sì che è vero. Hai voglia di collaborare? Se ti va, vieni domattina a casa mia». Masako la lasciò libera e Yayoi rimase per qualche istante con le braccia penzoloni, sbigottita. La sua cuffia cadde a terra. «Solo un’altra cosa», continuò Masako «Vieni solo dopo avere sbattuto fuori di casa quella tipa che ti gira intorno, la signora Morisaki». Yayoi le lanciò uno sguardo cattivo, poi si girò e uscì furiosa dallo spogliatoio.
7. Il cadavere era quello di un uomo piccolo e magro, sulla sessantina. Era calvo, ma aveva ancora tutti i denti, e sull’addome erano visibili le cicatrici di due operazioni. Quella a destra, più piccola, a prima vista sembrava causata dall’asportazione dell’appendice, l’altra, molto grande, gli attraversava il torace. Evidentemente lo avevano strangolato a mani nude, perché aveva la faccia violacea e sul collo erano rimaste le impronte delle dita. Diverse escoriazioni sulle guance e sulle braccia indicavano chiaramente che aveva cercato di opporre resistenza. Chissà quale era stata la sua professione, chi l’aveva ucciso, dove e perché. Così, senza vestiti, ora era soltanto un cadavere, ed era impossibile indovinare il suo aspetto da vivo e che genere di vita avesse condotto. D’altronde non era necessario. Masako e Yoshie dovevano soltanto tagliarlo a pezzi, infilarli nei sacchi di plastica, confezionarli nelle scatole di cartone e fare dei bei pacchetti. In fondo era quello che facevano ogni giorno allo stabilimento delle colazioni – bastava controllare la paura e il ribrezzo. Yoshie si era rimboccata i fuseaux fino a sopra le ginocchia, mentre Masako era in pantaloncini corti e T-shirt; tutte e due si erano avvolte nei grembiuli di plastica presi in fabbrica e avevano infilato le mani nei guanti usa e getta. Per evitare di calpestare a piedi nudi le ossa del cadavere, Masako si era messa gli stivali di gomma di Yoshiki e aveva prestato i suoi a Yoshie. Anche l’abbigliamento non era in fondo molto diverso da quello che usavano al lavoro. «Splendido questo bisturi, non ti pare?» osservò Yoshie impressionata. Il set chirurgico di Jumonji si rivelava estremamente utile. Tutta un’altra cosa rispetto ai coltelli da sashimi con cui avevano dissezionato Kenji: affondare nelle carni il bisturi era un gioco da ragazzi, facile come tagliare la carta con le forbici ben affilate! Perciò il lavoro progredì più speditamente di quanto non si fossero aspettate. Per fare a pezzi le ossa usarono la sega a mano. Purtroppo si erano subito rese conto che non potevano servirsi della sega elettrica procurata da Jumonji, perché sollevava una nebbiolina di sangue e particelle di carne e ossa che penetrava negli occhi. Per usarla in modo efficace avrebbero dovuto avere delle maschere da sub. Via via che procedevano nella dissezione del cadavere la stanza si riempiva di sangue e dell’odore nauseabondo delle viscere. La scena era la stessa di quando si erano occupate di Kenji, ma questa volta non ne erano turbate, perché anche questo era un turno di lavoro, esattamente come in fabbrica. «Questa cicatrice sembra quella di un’operazione al cuore. Poveraccio, mi dispiace per lui! Sottoporsi a un intervento così complicato per salvarsi la vita e poi morire ammazzato!» Yoshie, gli occhi arrossati per la stanchezza, sfiorò con i polpastrelli coperti dai guanti di gomma la cicatrice rosa che attraversava il petto del cadavere. Ecco che incominciava di nuovo a inventarsi storie! Masako continuò a lavorare in silenzio, riducendo in parti più piccole le gambe dell’uomo. Diversamente da quelle di Kenji, che era ancora nel pieno del suo vigore giovanile, erano quasi completamente prive di grasso e la pelle era opaca e raggrinzita. Azionando la sega, a Masako sembrava di tagliare una massa legnosa e porosa. «È molto più facile, questa volta, perché il grasso non ostacola la sega. E poi i sacchi sono leggeri, non come quando abbiamo sistemato i resti di Kenji», borbottò Yoshie continuando a lavorare. «Peserà più o meno una cinquantina di chili». «Sì. Ma certamente era un uomo ricco», dichiarò con sicurezza Yoshie. «Come fai a dirlo?» «Vedi questa impronta sul dito? Doveva averci infilato un anello. Probabilmente un pesante anello d’oro con un sigillo, o addirittura con un enorme diamante. Evidentemente gliel’hanno tolto e
se lo sono tenuto». «Di nuovo incominci con le tue fantasie!» disse Masako sforzandosi di sorridere. Forse non era che un sogno, continuava a pensare Masako fin dal mattino. Come d’accordo, poco dopo le nove Jumonji si era presentato alla porta di casa. Pallido in viso, aveva trasportato in bagno il cadavere avvolto in una coperta. Yoshie non era ancora arrivata. «Dio mio, se ho avuto paura», aveva detto Jumonji massaggiandosi le guance gelate come se fosse reduce da un viaggio al polo nord. Eppure era una tiepida mattina di ottobre. «Di che cosa?» aveva chiesto Masako stendendo sulle piastrelle del bagno il telo di plastica verde usato anche la volta precedente. «Come di che cosa? Cerchi di capire, signora Katori! È la prima volta in tutta la mia vita che ho a che fare con un cadavere. E prima di arrivare qui ce ne è voluto del tempo! E allora ho deciso di chiuderlo nel bagagliaio e di ammazzare il tempo in un locale aperto tutta la notte. E poi non ho fatto altro che continuare a girare in tondo per Rappongi, col cadavere in macchina!» «Ha corso un bel rischio – si figuri se fosse incappato in un controllo di polizia!» «Certo, ne ero perfettamente cosciente, ma avevo assolutamente bisogno di stare in mezzo alla gente, non potevo proprio farne a meno. Quel carico nel mio portabagagli – solo una massa oscura. Ma non potevo guardarlo. So che anch’io finirò così, quando sarò morto, ma semplicemente non volevo vedere: avevo la dolorosa sensazione di un peso insopportabile sulla schiena, che mi schiacciava sempre più giù… Sapevo che c’era un mucchio di cose da fare, che avrei dovuto svestirlo e così via, ma semplicemente non ci riuscivo, non da solo. Non sarei mai stato capace di guardarlo prima che facesse giorno! Temo di essere un piccolo, miserabile coniglio». Masako poteva capirlo. Osservò il volto di Jumonji, grigio cenere. La causa di quello strano pallore non era solo la mancanza di sonno. Nei cadaveri c’è qualcosa che ci costringe a distogliere lo sguardo. Quanto ci avrebbe messo prima di riuscire a guardarli come cose normali? «Dove è andato a prenderlo?» Masako sfiorò le dita rattrappite dell’uomo morto. Erano ormai fredde e completamente irrigidite. «Sarebbe preferibile che non me lo chiedesse», rispose deciso Jumonji. «Meglio che non lo sappia. Potrebbe essere pericoloso, se dovesse succedere qualcosa». «Che cosa, per esempio?» gli domandò Masako rialzandosi. «Non lo so neanch’io. Nel caso in cui qualcosa dovesse andare storto». Jumonji diede uno sguardo timoroso al viso del cadavere, che spuntava dalla coperta appena scostata. «Vuole dire se la polizia scopre i nostri intrighi?» «Forse non si tratta soltanto di questo». «E di che cosa, allora?» «Vendetta e cose del genere». Masako aveva pensato al “nemico misterioso”, ma Jumonji sembrava piuttosto riferirsi a conflitti di interesse ben più concreti che quel cadavere avrebbe potuto tirarsi dietro. «Perché è stato ucciso?» «Probabilmente per arrivare al suo denaro. Forse vogliono che si creda che sia scomparso, per questo dobbiamo eliminare il cadavere senza lasciare tracce». Se questo era vero, quel cadavere doveva valere diverse centinaia di milioni di yen. Masako osservò la testa calva dell’uomo, che aveva perso ogni lucentezza. Se uno non ha legami personali con il morto, togliere di mezzo un cadavere non è molto diverso dall’eliminare la spazzatura. Nella vita quotidiana si accumula inevitabilmente della spazzatura. Che cosa interessa sapere chi l’ha gettata, e di che cosa si tratta? E d’altronde lei stessa, prima o poi, sarebbe stata abbandonata come immondizia. Recuperata la sua freddezza, Masako si rivolse a Jumonji: «Mi aiuti a spogliarlo».
«Sì». Masako tagliò il vestito con le forbici e con gesti esperti incominciò a spogliare il morto. Jumonji, oppresso dall’angoscia, riempì un sacco con gli indumenti. «Cosa ne è stato del portafoglio e del resto?» «Non c’era niente. Gli hanno tolto tutto quello che potevano. Questo è quello che è rimasto». «Solo spazzatura, quindi», mormorò Masako, come se parlasse fra sé e sé. Jumonji si scandalizzò: «Ma come può esprimersi così?» «Posso. Si deve pensare che si tratti dello smaltimento della spazzatura. E il compenso?» «Ho già con me i soldi». Jumonji prese dalla tasca posteriore dei pantaloni un anonimo sacchetto di carta marrone. «Sono esattamente sei milioni. Senza pagamento in contanti, niente da fare – su questo sono stato inflessibile». «Ha fatto bene. Ma che cosa faremo se – per essere pessimisti – dovessero scoprire il cadavere?» «Dovremo restituire il denaro. Però dobbiamo fare molta attenzione a non commettere errori, perché rischiamo di fare perdere la faccia a qualcuno». La voce di Jumonji tremava, come se si fosse accorto per la prima volta di quanto fosse importante la questione. «Bisogna agire con tutte le cautele». «Naturale!» Dopo aver finito di svestire il morto, fecero rotolare il corpo nudo nella vasca. Quindi Jumonji prese dal sacchetto quattro mazzette da un milione e le porse a Masako: «Quattro milioni. Preferisco darglieli subito». Le banconote non erano nuove come quelle di Yayoi, ma sporche e stropicciate, tenute insieme qua e là con il nastro adesivo. Proprio come il denaro che, tanto tempo prima, portavano alla cassa di credito. Dirty business furono le parole che attraversarono la mente di Masako. Diede un’occhiata alla sveglia che aveva appoggiato sulla lavatrice, nello spogliatoio. Era quasi mezzogiorno. Sarebbe dovuto arrivare Jumonji con le scatole di cartone. Il lavoro era quasi terminato. Quando avevano sezionato Kenji non se n’era accorta, perché era troppo emozionata, ma adesso incominciava a sentire una dolorosa pesantezza alle spalle e ai fianchi, perché aveva lavorato curva troppo a lungo. Inoltre da quando avevano finito il turno non avevano dormito neanche un po’, e ora non desideravano altro che finire il più presto possibile e andare a letto. Yoshie si raddrizzò e fece per massaggiarsi la schiena, ma si fermò a mezz’aria. «Non posso, ho le mani tutte insanguinate». «E allora prenditi un paio di guanti nuovi!» «Macché, sarebbe uno spreco». «Figuriamoci!» le rispose Masako indicando con il mento il mazzo di guanti che aveva rubato allo stabilimento. «Usane altri. Ce n’è finché vogliamo». «Yama-chan non si è fatta vedere», disse Yoshie sfilandosi i guanti appiccicosi. «Già. Le avrei mostrato volentieri che cosa vuol dire fare questo lavoro». «Crede di essere meno colpevole di noi! Eppure è stata lei a uccidere il marito», commentò Yoshie astiosa. «Dentro di sé ci disprezza, perché pensa che lo abbiamo fatto solo per i soldi. Ma è chiaro come il sole che noi siamo migliori di lei!» In quel momento suonarono alla porta. Yoshie, spaventata, gridò: «È tornato qualcuno! Non sarà tuo figlio?» Masako scosse la testa. Nobuki non tornava quasi mai a quell’ora: «Forse è Jumonji». «Meno male». Yoshie respirò sollevata. Per precauzione Masako guardò dallo spioncino: fuori c’era Jumonji con un enorme pacco di cartoni ripiegati. Masako lo aiutò a portarlo in casa. Rivolto a Yoshie, Jumonji si presentò: «Eccomi
qui». «Bene. Molte grazie», rispose Yoshie con lo stesso tono con cui ringraziava le compagne più giovani alla fine del turno in fabbrica. «Adesso ricostruisco le scatole. Più o meno quante ce ne servono?» Otto, indicò Masako mostrando le dita. Era un uomo piccolo, perciò anche i sacchi erano più piccoli di quanto non avesse previsto. Le parti che potevano costituire degli indizi era meglio che Jumonji le trasportasse di persona. «Solo otto…» Jumonji era stupito. «Così poche? Non l’avrei mai pensato». «Spero che non si sia fatto vedere da nessuno», disse Yoshie preoccupata. «No, è tutto a posto». «Davvero non l’ha visto nessuno?» chiese a sua volta Masako guardandolo seria in viso. Guai se il “misterioso nemi co” si fosse accorto di qualcosa. «Credo di no. Soltanto…» «Soltanto che cosa?» «Sul terreno edificabile di fronte a casa sua era ferma una donna, ma se ne è andata subito». «Che tipo di donna?» «Tarchiata, tra i quaranta e i cinquanta, più o meno una grassa zia». Evidentemente era la stessa donna che aveva suonato da Masako per avere informazioni sul terreno che voleva comprare. «E osservava la mia casa?» «No, sembrava che stesse esaminando la terra. Poi ho visto anche una sua vicina che andava a fare la spesa. Ma credo che nessuna delle due si sia occupata di me». Forse non era stato saggio servirsi della Maxima di Jumonji. La prossima volta sarebbe stato meglio usare la Corolla, era meno appariscente, pensò Masako. Stiparono le scatole nell’auto e Jumonji partì. A quel punto Yoshie commentò: «Proprio come Nakayama, quando trasporta le scatole delle colazioni!» Scoppiarono tutte e due a ridere. Poi si fecero la doccia a turno e pulirono bene il bagno. Yoshie incominciò a essere irrequieta, perché si stava facendo tardi. Masako le porse la parte di denaro che aveva tirato fuori per lei. «Ecco la tua paga». Yoshie lo prese con la punta delle dita, come se avesse paura di sporcarsi, e lo infilò bene in fondo alla borsa della spesa in finta pelle. Ma poi, visibilmente sollevata, disse: «Non puoi nemmeno immaginare che razza di fortuna sia questa per me». «Che cosa ne farai?» «Vorrei iscrivere Miki a un breve corso universitario», rispose Yoshie lisciandosi i capelli arruffati. «E tu?» «Non so…» Masako inclinò la testa. Adesso aveva in tutto cinque milioni di yen. Come poteva utilizzare quei soldi? «Non offenderti se te lo chiedo, ma…» Yoshie era titubante. «Che cosa?» «Anche tu hai preso solo un milione?» «Sì, naturalmente», rispose Masako senza esitazione guardandola in faccia. Yoshie, con aria afflitta, tirò di nuovo fuori dalla borsa la mazzetta di banconote. «Be’, allora ti devo restituire gli ottantamila che mi hai prestato…» Evidentemente alludeva al denaro per la gita scolastica di Miki. Yoshie tirò fuori dal mazzo otto biglietti da diecimila e li consegnò a Masako inchinandosi: «Ne mancano ancora tremila. Adesso non ho spiccioli, te li posso portare allo stabilimento?» «Va bene».
Un debito è pur sempre un debito. Masako non faceva sconti. Yoshie era rimasta a fissarla per qualche istante, in attesa, ma infine, rassegnata, si alzò. «Allora a stanotte in fabbrica». «Sì, a più tardi». La notte era il momento giusto per incontrare le compagne del turno. Vedersi alla luce del giorno poteva destare dei sospetti.
Appartamento 412
1. Soprattutto all’inizio dell’inverno, quando il sole tramontava presto, era particolarmente sconfortante alzarsi alla sera. Masako rimase a letto a contemplare il tramonto e l’oscurità che a poco a poco si diffondeva nella camera. In quei momenti malediva il turno di notte e riusciva a capire perché alcune delle sue compagne di lavoro soffrivano di depressione. Ad annientarle non era solo il buio precoce, quanto piuttosto la sensazione di avere toccato il fondo, di essere ormai state tagliate fuori dalla quotidianità ordinata e disciplinata della gente perbene. Quante mattine trafelate aveva trascorso! Alzarsi per prima, preparare la colazione e i cestini per il pranzo, stendere il bucato, vestirsi, calmare il bambino che si era svegliato con la luna storta e accompagnarlo all’asilo. Un occhio sempre fisso all’orologio a muro o una sbirciatina a quello da polso, sempre di fretta, sempre di corsa, mai un momento per leggere il giornale o prendere in mano un libro. Quando andava a letto, calcolare quante ore di sonno poteva permettersi, e nei rari giorni liberi una montagna di biancheria sporca che la aspettava e le pulizie che le spezzavano la schiena. Tutta quella quotidianità spaventosamente ordinata e disciplinata, quando parole come sconforto o depressione non venivano neppure in mente! Non aveva alcuna nostalgia di quel periodo. Preferiva le cose come stavano adesso. Era sufficiente rimuovere una piccola pietra scaldata dal sole per scoprire la terra umida e fresca. E lei, in quel momento, voleva assaporare a fondo l’oscurità del lato nascosto al sole. Anche se non sentiva il tepore della terra si sentiva bene lì, non le mancava niente. Come un lombrico attorcigliato su se stesso. Sì, era diventata un lombrico. Masako richiuse gli occhi. Forse perché dormiva sonni brevi, poco profondi e non regolari, si sentiva il corpo pesante e non riusciva mai a riprendersi del tutto dalla stanchezza. Come attratta da una forza di gravità, sprofondò nel sonno. E infine sognò. Si trovava nel vecchio ascensore, rivestito di pannelli verde chiaro, dell’istituto di credito Tanashi e scendeva lentamente. Qua e là i pannelli erano lacerati a causa degli urti dei carrelli con cui veniva trasportato il denaro. Quante volte aveva trascinato a fatica fuori dall’ascensore pesanti sacchi pieni di monetine! L’ascensore si fermò al primo piano. Lì si trovava la sezione prestiti, dove era stata impiegata Masako. Il suo luogo di lavoro, che conosceva a fondo, al punto che lì avrebbe potuto muoversi a occhi chiusi. Ma adesso, che cosa ci veniva a fare? Le porte dell’ascensore si aprirono e Masako diede un’occhiata all’ufficio buio, deserto, e premette il pulsante di chiusura. Ma, prima che le porte si fossero accostate, saltò dentro un uomo. Era Kenji. Ma non era morto?! A Masako si bloccò il respiro. Kenji indossava una camicia bianca, una cravatta poco appariscente e calzoni grigi. Come il giorno in cui era stato ammazzato. Le fece un cortese cenno di saluto e poi si girò verso la porta dell’ascensore. Masako, che gli vedeva la nuca parzialmente coperta dai capelli un po’ lunghi, fece un passo indietro, perché senza rendersene conto si era messa a cercare la cicatrice del taglio che aveva fatto per mozzargli la testa. L’ascensore scese lentamente al piano terra. Le porte si aprirono e Kenji sparì nel buio in direzione dello sportello dei clienti. Masako, rimasta sola nell’ascensore, improvvisamente incominciò a sudare freddo e indugiò chiedendosi se doveva seguirlo o meno. Quando finalmente uscì dall’ascensore, si accorse che qualcuno, nel buio, si avvicinava. Ancor prima di riuscire a scappare, si sentì afferrare con forza da dietro. Due lunghe braccia la stringevano in una morsa di ferro e le impedivano di muoversi. Voleva gridare aiuto, ma le mancava la voce. L’uomo voleva soffocarla. Masako si contorse per sfuggire alla presa, ma non riusciva a muovere né le mani né i piedi. Gli inutili tentativi di liberarsi aumentavano la sua angoscia e, nel sogno, continuava a sudare freddo. Infine l’uomo riuscì a metterle le mani al collo. Masako era irrigidita dal terrore. Ma il calore
delle mani dell’uomo, il suo fiato ansimante sul collo, un po’ alla volta risvegliavano in lei l’oscuro desiderio di abbandonarsi a quella forza e di lasciarsi strangolare. Nello stesso istante, come se fosse piombata in uno stato di assenza di gravità, il terrore svanì e venne invasa da un’incredibile sensazione di godimento. Per la sorpresa e il piacere si lasciò sfuggire un grido. Masako si svegliò. Si girò sulla schiena e si mise una mano sul cuore. Batteva ancora selvaggiamente. Aveva già fatto spesso sogni erotici, ma era la prima volta che il piacere si mescolava all’angoscia. Rimase sdraiata al buio, ripensando al sogno. Restò lì per un po’, incapace di muoversi, perché credeva di aver scoperto gli abissi nascosti in fondo al proprio animo. Cercava di capire chi poteva essere l’uomo del sogno, e nel frattempo ricordava la sensazione delle braccia che la avevano afferrata. Non poteva essere Kenji, perché le era già apparso in sogno come un fantasma, per trascinarla nel terrore. Non era neppure Yoshiki, lui non le aveva mai usato violenza. E neanche Kazuo, la sua stretta era completamente diversa. Allora restava solo il “nemico misterioso”, quello che negli ultimi tempi alimentava le sue paure. Non avrebbe mai immaginato che terrore e piacere sessuale potessero diventare una sola cosa. Per qualche momento Masako si lasciò andare a quella sensazione travolgente, che credeva di avere da tempo dimenticato. Si alzò e accese la luce. Accostò le tende e sedette alla toeletta. Lo specchio le rimandò la pallida immagine di una donna che la scrutava con aria cupa. Da quando aveva dissezionato il cadavere di Kenji, il suo volto era mutato. Ne era chiaramente consapevole. Le piccole rughe che le solcavano la fronte erano divenute più profonde e lo sguardo più tagliente. Era invecchiata. Soltanto la bocca, dischiusa, aveva un aspetto aggraziato, come se volesse invocare il nome di qualcuno. Che cosa le stava accadendo? Masako si coprì la bocca con la mano. Ma non riuscì a occultare lo sfavillio dello sguardo. Udì un rumore. Yoshiki o Nobuki dovevano essere rientrati. Guardò la sveglia sul comodino: erano quasi le otto. Si passò la spazzola sui capelli, si buttò sulle spalle un cardigan e uscì dalla camera. Udiva il rumore della lavatrice in funzione nel bagno. Evidentemente era stato Yoshiki. Da qualche anno si lavava da solo la biancheria. Masako bussò alla porta della sua stanza. Non udendo risposta entrò e lo vide, seduto sul letto con addosso soltanto la camicia, che ascoltava musica in cuffia. La camera, di quattro tatami e mezzo, sembrava ancora più piccola da quando lui vi aveva trasportato uno dei letti gemelli. Arredata con mensole piene di libri e una scrivania, era simile alla stanza di un pensionato studentesco. Masako diede un colpetto sulla spalla di Yoshiki che, spaventato, si girò togliendosi la cuffia. Quando vide che lei era ancora in pigiama chiese: «Che cosa succede, non stai bene?» «No, ho semplicemente dormito più a lungo del solito». Masako provò una sensazione di freddo e si abbottonò il cardigan. «Dormire più a lungo del solito significa alzarsi alle otto di sera?» commentò Yoshiki tra sé e sé. «È strano». Il marito si trovava sul lato della pietra scaldato dal sole, ed era da lì che parlava. Masako si appoggiò alla finestra che guardava a nord. «Già, senza dubbio è strano». Dalla cuffia che aveva appoggiato sul letto si sentiva della musica classica. Un pezzo che Masako non conosceva. «Negli ultimi tempi non cucini più», bisbigliò Yoshiki senza guardarla negli occhi. «Già». «E perché?» «Perché ho deciso così». Yoshiki non indagò oltre: «Be’, lo sai che per me è lo stesso. E tu, però, cosa mangi?» «Quello che trovo».
«Non te ne importa più della famiglia?» le domandò Yoshiki sorridendo amaramente. «Esatto», rispose lei. «Mi dispiace, ma credo che ognuno di noi debba fare quello che gli va bene». «Perché?» «Sono diventata un verme. Un lombrico che se ne sta fra le zolle senza far niente». «Beata te che puoi farlo». «Intendi dire che per una donna è più facile?» «In un certo senso». «Potresti farlo anche tu». «Io? No, non è possibile!» Yoshiki la guardò stupito. «Come puoi dire una cosa del genere?» «Anche tu te ne stai rinchiuso in una fortezza. Vai in ufficio, torni, fai soltanto quel che ti pare. Come se questa fosse la camera di una pensione». Masako indicò la stanza. Yoshiki, infastidito, tentò di interrompere la conversazione. «Va bene», disse e prese di nuovo la cuffia. Masako osservò l’uomo seduto davanti a lei. In confronto a quando si erano conosciuti i capelli erano più radi e grigi. Era anche dimagrito, e dal suo corpo emanava sempre un odore particolare, come il residuo di una distillazione alcolica. Ma al di là dell’aspetto esteriore, ciò che disturbava Masako era il fatto che sembrava diventare sempre più puritano. Quando si erano sposati, Yoshiki era saldamente determinato a difendere la propria libertà interiore e a mantenere lo spirito sempre vivo. Anche se era a lungo impegnato nel lavoro d’ufficio, in privato era un uomo gentile, dall’animo generoso. A quel tempo era ancora innamorato e lei ricambiava il suo amore e aveva fiducia in lui. Ma ormai, quand’era libero dal lavoro, voleva essere indipendente anche dalla famiglia. L’ambiente in cui esercitava la sua professione era effettivamente corrotto. Ma né ovviamente la ditta, né Masako, anche lei occupata dal suo lavoro, lo lasciavano libero. Il figlio Nobuki si era incamminato verso una direzione inattesa e si era subito incagliato. Quanto più Yoshiki si attaccava ai suoi principi, tanto più si rassegnava al fatto che gli altri non riuscivano a seguirlo. Di conseguenza non gli restava altro che rinunciare a ogni legame e diventare una sorta di eremita. Tuttavia Masako non aveva alcuna intenzione di vivere con uno che voleva rinunciare al mondo. E a questo pensiero le venne in mente il piacere che aveva provato in sogno poco prima. Si fece coraggio e, rivolta a Yoshiki che si era rimesso la cuffia per ascoltare la musica, chiese: «Perché non dormi più con me?» Yoshiki, stupito, si tolse la cuffia: «Come hai detto?» «Perché te ne stai qui tutto solo?» «Be’… evidentemente perché voglio stare solo», rispose il marito guardando il dorso delle copertine dei romanzi ordinatamente allineati sulle mensole. «Tutti vogliono starsene da soli, ogni tanto». «Può darsi». «Perché hai smesso di dormire con me?» «Ma è naturale, prima o poi doveva succedere». Yoshiki distolse lo sguardo, senza tuttavia riuscire a nascondere la sua espressione imbarazzata. «E inoltre tu sembravi sempre così stanca». «Già». Masako cercò di ricordare che cosa fosse avvenuto quattro o cinque anni prima per indurli a dormire in camere separate. Ma le venivano in mente solo dettagli insignificanti, dei quali faceva perfino fatica a ricordarsi. Probabilmente era stato proprio un accumularsi di quisquilie a distruggere il loro rapporto. «Non è solo il sesso che tiene insieme una coppia». «È vero, ma tu ti sottrai anche a tutto il resto. In realtà dai l’impressione di non volere avere
niente a che fare con me e con Nobuki, che la cosa semplicemente ti disgusti», borbottò Masako. Allora Yoshiki, contro le sue abitudini, alzò la voce: «Ma sei stata tu a scegliere un lavoro notturno!» «Sono stata costretta, perché non riuscivo a trovare un altro impiego». «È una menzogna», ribatté Yoshiki guardandola per la prima volta negli occhi, «un lavoro come contabile lo avresti potuto trovare ovunque, qualsiasi piccola azienda ne ha bisogno. No, tu eri offesa, e perciò volevi fare qualcosa di completamente diverso, per non trovarti ancora a fare la stessa esperienza, non è vero?» Naturalmente Yoshiki aveva indovinato, era troppo sensibile per non accorgersene. E non era solo questo: sapeva anche che si erano feriti a vicenda. «Con questo vuoi forse dire che il nostro rapporto si è sfasciato perché ho scelto di fare i turni di notte?» «No, non dico questo. Ma, lo ammetto, ho pensato che sia tu che io preferivamo stare soli». Masako comprese che anche Yoshiki, proprio come lei, aveva aperto una nuova porta. La scoperta non la rese triste, ma si sentì più sola. «Ti stupiresti se me ne andassi?» chiese, interrompendo il silenzio che era caduto tra loro. «Se succedesse da un giorno all’altro, forse mi stupirei. E mi preoccuperei». «Ma non mi cercheresti?» Yoshiki meditò qualche istante, quindi scosse la testa: «No, probabilmente no». A quanto sembrava per lui la conversazione era finita, perché si rimise la cuffia sulle orecchie. Masako contemplò ancora una volta il suo profilo. Decise che prima o poi se ne sarebbe andata. Ciò che rendeva possibile quella decisione giaceva nel cassetto delle coperte, sotto il letto su cui fino a poco prima aveva dormito. Cinque milioni di yen in contanti. Aprì la porta senza fare rumore e uscì nella penombra del corridoio, dove trovò Nobuki. Doveva averlo colto di sorpresa, perché la guardò spaventato e tuttavia rimase lì come se avesse messo radici. Masako chiuse la porta dietro di sé. «Stavi ascoltando?» Nobuki non rispose, ma abbassò confuso lo sguardo. «Evidentemente sei convinto di potertene rimanere in silenzio ogni volta che succede qualcosa che non ti comoda. Ma non te la caverai così semplicemente». Nobuki continuò a rimanere muto come un pesce. Masako sollevò lo sguardo verso il figlio, ormai più alto di lei. Sembrava incredibile che fosse stata lei a partorirlo. Questo figlio di cui si era presa cura e che presto avrebbe abbandonato. «Probabilmente me ne andrò. Ma credo che ormai tu sia diventato grande abbastanza. Cerca di fare ciò che credi giusto. Se vuoi tornare a scuola tornaci, se vuoi andartene di casa, bene lo stesso. È una decisione che devi prendere tu. Pensaci e poi dimmi che cosa vuoi fare». Masako contemplò per qualche istante le guance incavate del figlio. Nobuki non rispose, ma gli tremavano le labbra. Quando infine si voltò per allontanarsi, udì alle spalle la voce stonata del figlio: «Ma chi credi di essere, vecchiaccia!» Quell’anno era la seconda volta che udiva la voce di Nobuki, quasi ormai una voce da adulto. Masako si girò e lo guardò in faccia: aveva le lacrime agli occhi. Stava per dirgli qualcosa ma lui, furioso, alzò le spalle e salì di corsa al piano di sopra. Le si strinse il cuore, ma non aveva alcuna intenzione di tornare sulla sua decisione. Per la prima volta dopo molto tempo, Masako, andando al lavoro, pensò di fermarsi a casa di Yayoi. Le foglie secche degli alberi urtavano con un suono lieve e piacevole contro il parabrezza. Si
era alzato un vento fresco. Masako rabbrividì e, mentre alzava il finestrino, una mosca solitaria volò nell’auto e si nascose nel buio. Questo le fece venire in mente la notte in cui Yayoi le aveva raccontato la sua terribile emergenza e lei aveva guidato pensando se aiutarla o no. Dal finestrino aperto era entrato il profumo delle gardenie in fiore e poi era subito svanito. Era successo solo l’estate prima, ma sembrava che fossero passati molti anni. Udì un rumore sul sedile posteriore. Benché sapesse che si poteva trattare solo dell’atlante stradale scivolato dal sedile, le sembrò che Kenji fosse salito per recarsi insieme a lei a far visita a Yayoi. «Vuoi venire con me?» disse rivolta al buio. Aveva ormai confidenza con Kenji, che spesso le appariva in sogno. Masako voleva vedere da vicino quella Yoko Morisaki che custodiva i bambini di notte durante l’assenza di Yayoi. Posteggiò l’auto nel vicoletto di fronte alla casa dell’amica, come aveva fatto quando avevano trasportato il cadavere, e suonò il campanello. Attraverso le tende chiuse delle finestre del soggiorno trapelava una calda luce gialla. Yayoi si affacciò e con voce spaventata chiese chi fosse. «Sono io, Masako Katori. Scusa l’ora tarda». Yayoi sembrava stupita. Si udirono i suoi passi avvicinarsi lungo il corridoio. «Che succede? Come mai a quest’ora?» chiese aprendo la porta. Doveva avere appena fatto la doccia, perché i capelli le sgocciolavano sulla fronte. «Posso entrare?» Masako chiuse la porta con la schiena, avanzò nel piccolo ingresso e istintivamente gettò uno sguardo alla soglia. Il punto in cui era morto Kenji. Yayoi capì il significato di quello sguardo e abbassò frettolosamente gli occhi. «Non è ancora ora di andare al lavoro». «Lo so. Sono soltanto le dieci. Ma ho bisogno di parlarti», disse Masako. Yayoi, ricordando forse la loro discussione allo stabilimento, assunse un’espressione aggressiva: «Di che cosa vuoi parlarmi?» «A che ora arriva la Morisaki?» Masako aguzzò le orecchie cercando di individuare i rumori nel soggiorno. I bambini dovevano essersi addormentati, perché si sentivano soltanto le voci del telegiornale. «A dire il vero», confessò Yayoi aggrottando le sopracciglia, «non viene più». «Perché?» Masako si sentì afferrare da un’indefinibile inquietudine. «Circa una settimana fa è venuta e ha detto che doveva tornare a casa, al suo paese. Mi sono stupita e ho cercato di convincerla a rimanere, ma non ne ha voluto sapere. Anche i bambini erano dispiaciuti, e lei quasi scoppiava a piangere…» «Di dov’è?» «Non me l’ha detto». Yayoi era offesa e non faceva niente per nasconderlo. «E pensare che eravamo diventate amiche! Ha detto soltanto che mi avrebbe telefonato». «Ma come è successo che è riuscita ad andare avanti e indietro per casa tua?» Yayoi, pur sentendosi oppressa dalle domande inquisitorie di Masako, raccontò come era andata. Masako era sempre più convinta che la Morisaki si fosse intrufolata in quella casa per svolgere delle indagini. Rimase in silenzio pensierosa e Yayoi, meravigliata, domandò: «Masako, perché sei così preoccupata? Se vuoi saperlo, credo che tu pensi troppo». «Non ho ancora capito chi sia, ma qualcuno ci sta spiando. Sarà meglio che tu stia in guardia», disse finalmente. «Che cosa vuoi dire? Chi starebbe spiandoci? E perché?» gridò Yayoi spaventata. L’acqua le colava dai capelli sul viso, ma sembrava non accorgersene. «Pensi che sia la polizia?» «No, non credo». «E chi, allora?» «Non lo so», rispose Masako scuotendo la testa, «sono preoccupata proprio perché non riesco a
capire». «E tu credi che lei abbia a che fare con loro? Voglio dire, la signora Morisaki?» «Sì, forse». Sarebbe stato inutile perquisire l’appartamento di quella donna, perché senza dubbio l’aveva lasciato vuoto. Tuttavia, per spiare Yayoi si erano spinti fino a spendere per un appartamento in affitto. E anche solo il fatto che qualcuno fosse disposto a tirare fuori dei soldi rendeva la situazione estremamente sospetta. «Che si tratti di indagini dell’assicurazione?» «Ma mi hai detto che hanno già deciso di pagare il premio, no?» «Sì. Lo incasserò la settimana prossima». «Lei lo sapeva?» Masako, perplessa, inclinò la testa. Yayoi si massaggiò le braccia come se avesse freddo: «Sono nel mirino di qualcuno, che cosa posso fare?» «Tutto perché ti sei fatta vedere alla televisione. Sei diventata troppo famosa. Credo che sia meglio che tu non venga più a lavorare. D’ora in poi devi condurre una vita riservata e modesta». «Davvero? Lo pensi davvero?» Yayoi sollevò lo sguardo verso Masako. Ciò che vide dovette tranquillizzarla, perché si lasciò sfuggire: «Ma se non vengo a lavorare le altre non penseranno subito che ho avuto dei soldi?» E quindi fino ad allora si era comportata come se nulla fosse cambiato solo perché aveva paura che Yoshie e Kuniko venissero a sapere dell’assicurazione… Masako la guardò stupita. Da quando aveva ucciso Kenji, in Yayoi era emerso un aspetto del suo carattere, freddo e calcolatore, che prima non aveva mai avuto. «Non preoccuparti di loro. Non è il caso di temerle». «Hai ragione», annuì Yayoi e la guardò sospettosa. Sembrava volerle dire: e di te posso fidarmi? Masako la precedette: «Io non dirò mai nulla». «Certo. Dopotutto ti ho dato due milioni, no?» rispose Yayoi in tono comprensivo. Masako ebbe l’impressione che fosse ancora risentita per la discussione che avevano avuto allo stabilimento. «Sì. Un compenso sufficiente per avere fatto a pezzi tuo marito». Masako, che ormai non aveva più motivo di trattenersi, alzò una mano e la salutò: «Me ne vado». «Grazie per il disturbo». Quando Masako era già entrata in macchina e stava per partire, Yayoi la raggiunse trafelata. Masako aprì la portiera dell’altro lato. «Ho dimenticato di chiederti una cosa». Yayoi salì, lisciandosi con le mani i capelli bagnati, forse perché lì fuori, all’aria, aveva freddo. L’auto si riempì del profumo del balsamo, uno di quelli preferiti dalle ragazze. «Che cosa?» «Il lavoro di cui mi hai parlato allo stabilimento. Di che cosa si tratta? Forse di un altro cadavere da fare a pezzi?» «Con te non ne voglio parlare». Masako avviò il motore. Il rombo echeggiò nella quiete del quartiere residenziale. «Perché?» Yayoi tremava per l’umiliazione e si morse le labbra. Fissava il cruscotto senza guardare Masako. Tra il vetro e il tergicristallo che non aderiva perfettamente si erano infilate alcune foglie secche. «Perché non voglio». «Perché? Che cosa significa?» «Che sarebbe la cosa più stupida che potrei fare, raccontarlo a una ingenua come te». Yayoi non replicò, aprì la portiera e scese. Senza degnarla di uno sguardo Masako ingranò la retromarcia e guidò fuori dal vicolo. Yayoi rientrò in casa sbattendo rumorosamente la porta.
2. Kuniko si alzò nel tardo pomeriggio e per prima cosa accese il televisore. Quindi mangiò la colazione che aveva comprato nel supermercato all’angolo. Manzo alla coreana. Probabilmente era stata confezionata allo stabilimento, sulla linea di produzione accanto alla sua. Doveva essere stata un’operaia appena assunta a distribuire la carne, notò Kuniko contenta. Le principianti avevano difficoltà a stendere accuratamente le fettine, perché non riuscivano a tenere il ritmo della linea, ed era questo il motivo per cui la scatola conteneva più carne del solito, ancora arrotolata. Evidentemente il buon Nakayama non era stato abbastanza attento, sogghignò Kuniko. Se il lavoro lo avesse fatto la “maestra”, il riso sarebbe stato coperto esattamente da sei fettine ben allargate. A proposito di Yoshie: negli ultimi tempi sembrava avere risolto i suoi problemi e questo non dava pace a Kuniko. Aveva incominciato a parlare del progetto di iscrivere la figlia all’università, e diceva anche che intendeva cercare un appartamento. Non avrebbe potuto farlo con i cinquecentomila yen ricevuti da Yayoi. Al massimo sarebbero stati sufficienti solo per il trasloco. Che avesse risparmiato qualcosa? No, era assolutamente impossibile, concluse Kuniko scrollando la testa. Sapeva che Yoshie aveva sempre combattuto con difficoltà economiche. Dentro di sé la disprezzava: piuttosto che vivere così miseramente avrebbe preferito morire. Qualcosa non quadrava. Kuniko, che era molto perspicace quando si trattava di soldi, era perplessa. Quelle fantasie alimentavano la sua diffidenza. Poteva darsi che Yayoi, di nascosto, avesse dato a Yoshie più di cinquecentomila yen. Non appena quest’idea prese corpo nella sua mente, non ebbe più tregua. Kuniko, che non sopportava che qualcuno potesse essere più fortunato di lei, si sentiva truffata. Decise che quel giorno, non appena avesse incontrato Yoshie, anzi Yayoi, allo stabilimento, l’avrebbe messa alle strette. Spezzò con forza i bastoncini usa e getta, che avevano ormai fatto il loro dovere, e li gettò nella scatola vuota della colazione. Le rimanevano ancora circa centottantamila yen. Sogghignò contenta. Con il resto aveva pagato gli interessi dei suoi debiti e si era comprata un giubbotto di pelle rossa, una gonna nera e un golf viola. Avrebbe voluto prendersi anche un paio di stivali, ma a questo desiderio aveva opposto un’eroica resistenza e si era limitata ad acquistare un po’ di cosmetici. E tuttavia le rimanevano ancora centottantamila yen. Cosa c’era di più bello? E oltretutto non aveva più alcun debito con Jumonji. Un altro colpo di fortuna! A Kuniko non interessava un fico secco del motivo per cui Jumonji aveva voluto sapere il loro segreto, e come lo avrebbe utilizzato. Finché non veniva coinvolta, le era del tutto indifferente. Al momento aveva avuto paura che il segreto potesse diventare di dominio pubblico, e allora anche lei sarebbe potuta finire in prigione, ma l’ispettore non si era fatto vedere e adesso non si preoccupava più. Ormai per lei l’aver fatto a pezzi Kenji era un episodio dimenticato, che apparteneva al passato. Però era decisa a utilizzarlo fino al limite estremo, pur di averne un ulteriore guadagno. Era pronta a minacciare e ricattare. Non aveva in mente altro. Kuniko gettò la scatola vuota della colazione nel cestino dei rifiuti, si lavò il viso e, davanti allo specchio, incominciò a truccarsi per andare a lavorare. Prese dal pacchetto il rossetto appena acquistato e provò a passarselo sulle labbra. Era marrone, la nuova tinta per l’autunno. Era stata la commessa a consigliarglielo, ma non stava bene al suo viso tondo dalla carnagione troppo chiara. La faceva sembrare ancora più pallida e cupa e le labbra risaltavano troppo. «Le sta proprio bene», l’aveva adulata la commessa quando se lo era provato in negozio. Che stupida a lasciarsi infinocchiare così! Le era costato quattromilacinquecento yen. Kuniko era pentita dell’acquisto. Con ottocento yen avrebbe potuto comprarsi un rossetto dello stesso colore al supermercato. Era fuori di sé dalla rabbia. Ma poi le venne in mente che, se avesse cambiato fondotinta, forse le sarebbe stato meglio. Aprì in fretta il numero speciale di una rivista,
dedicato al trucco, e si sprofondò nella lettura. Sì, avrebbe comprato un nuovo fondotinta e, visto che c’era, anche un paio di stivali. Continuava a comprare per soddisfare le sue voglie e gli oggetti che acquistava suscitavano altri desideri. La sua vita non era altro che correre di qua e di là all’inseguimento di un sogno, un infinito gioco ad acchiapparsi nel quale Kuniko si perdeva. Dopo essersi truccata indossò il nuovo golf viola e la gonna nera. Si infilò dei collant neri e scoprì di sembrare molto più snella. Indugiò per un po’ davanti allo specchio, fino a quando improvvisamente sentì una fitta profonda. Un uomo, aveva bisogno di un uomo! Quand’era stata l’ultima volta che aveva fatto sesso? In fretta e furia andò a prendere il minicalendario di Mister Minit. Tetsuya se ne era andato verso la fine di luglio. Era a secco da allora, vale a dire da più di tre mesi. Stare con un uomo, anche se cretino come Tetsuya, comportava comunque dei vantaggi. Tutto a un tratto la assalì una tristezza mortale e, vestita com’era, Kuniko si gettò sul letto ingombro di indumenti. Adesso che era così elegante, voleva che qualcuno le dicesse che era splendida. Che la abbracciasse, che la prendesse. Ovviamente un vero uomo, forte, non il ridicolo Tetsuya. Le sarebbe andato bene anche un maniaco sessuale, anche il primo incontrato per strada, non importava, bastava che fosse un vero uomo. In breve tempo la smania di Kuniko divenne sempre più pressante, incontrollabile. Adesso che era riuscita in qualche modo ad appagare i suoi desideri, ecco che si presentava anche questa voglia. E come dalla sua sbrigliata immaginazione scaturivano sospetti, come l’acquisto di un oggetto la stimolava a comprarne altri, allo stesso modo in Kuniko il desiderio sessuale montava sempre più, fino a diventare incontrollabile. Si mise a pensare a Kazuo Miyamori. Sembrava un po’ più giovane di lei, ma a Kuniko erano sempre piaciuti i mezzosangue. E poi aveva un bel fisico. E quando lei e Yoshie gli avevano affidato la busta con i soldi di Yayoi, era stato molto gentile e disponibile. Viveva in un pensionato insieme a un compagno di stanza, dunque senza dubbio gli mancava una donna. Kuniko ne era assolutamente convinta e decise che quella sera allo stabilimento, non appena lo avesse incontrato, lo avrebbe abbordato. Giusto, avrebbe fatto così. Kuniko, che quando aveva in tasca dei soldi si riprendeva sempre in fretta, balzò in piedi con energia. Kuniko aprì la portiera dell’auto. Teneva il giubbotto rosso sul braccio, in modo che anche il golf viola potesse essere apprezzato. Sarebbe andata allo stabilimento senza abbassare la capote, per non rovinare la messa in piega che le era costata tanta fatica. L’unica cosa che la preoccupava era di incontrare Masako nel parcheggio. Negli ultimi tempi le dava fastidio soltanto vederla, e cercava in tutti i modi di non lavorare alla stessa linea. Il sistema migliore per evitarla era arrivare un po’ prima di lei. Kuniko avviò l’auto e abbandonò velocemente il posto macchina davanti a casa. Arrivata al posteggio dello stabilimento vide un uomo in divisa blu davanti alla guardiola. Aveva uno sfollagente appeso alla cintura e sul petto gli pendeva una grossa torcia elettrica. Kuniko scese dall’auto un po’ delusa: a causa della presenza del sorvegliante diventava piuttosto improbabile incontrare il maniaco sessuale di cui aveva parlato Masako. Chiuse la porta e gli lanciò uno sguardo inviperito. «Buonasera!» la salutò l’uomo inchinandosi. A Kuniko piacque il suo garbo, e lo osservò meglio. Il sorvegliante notturno era un operaio in pensione, un uomo maturo, invece questo era molto più giovane. Aveva un bel fisico, valorizzato dalla divisa. Non riusciva a vederlo bene in faccia, perché il posteggio era immerso nell’oscurità, ma aveva la sensazione che fosse di suo gusto. Kuniko ricambiò il saluto con voce gaia: «Buonasera anche a lei!» Probabilmente non era abituato a essere salutato, perché per un attimo sembrò un po’
imbarazzato. «Va allo stabilimento, vero?» «Sì, certamente». «Mi permetta di accompagnarla», le propose con noncuranza avvicinandosi. Aveva una voce bassa e carezzevole. Con un tono alto e civettuolo Kuniko rispose: «Davvero non le crea disturbo?» «No, al contrario, fa parte delle mie mansioni accompagnarla per un pezzo». «Vuole dire che ci accompagna una per una fino alla fabbrica?» «Sì, ma solo fino a metà strada. La prego di capire, ma mi è stato detto che oltre lo stabilimento dismesso il sentiero è abbastanza illuminato». La luce proveniente dal box rischiarava il profilo del sorvegliante, rivolto verso di lei. Le sue sembravano fattezze comuni, ma le labbra tumide e ben serrate le ispiravano un senso di fiducia: era un tipo d’uomo che Kuniko non aveva mai incontrato. Però non riusciva a catalogarlo e a capire a che tipo appartenesse. «Grazie, allora mi accompagni». Kuniko pensò che aveva fatto bene a indossare i vestiti nuovi. E poi quel giorno doveva sembrare particolarmente bella, perché si era truccata con più cura del solito. Con il presentimento che sarebbe successo qualcosa, rimase ferma ad attendere all’uscita del posteggio, mentre il sorvegliante prendeva la torcia elettrica che gli pendeva sul petto e incominciava a illuminare il sentiero davanti a lei. Il cono di luce illuminava il terreno cosparso di sassolini. Come se si avventurassero in un’esplorazione, Kuniko camminava accanto all’uomo lungo il sentiero completamente buio. Aveva il cuore in tumulto. «Quella è la sua auto?» Ora il tono del sorvegliante era più vivace, come se fosse stato contagiato dal buonumore di Kuniko. «Sì». «Bella macchina», commentò lui con ammirazione. «Grazie». Kuniko sorrise orgogliosa.Si era già dimenticata che le rimanevano tre anni di rate da pagare. «Da quanti anni la guida?» Quella conversazione incominciava a piacerle, le sembrava di chiacchierare con un ragazzo. «Da tre. Ma è piuttosto costosa. A causa, come si dice, a causa della benzina…» «Vuole dire che beve molto?» «Sì, esatto». Come per caso Kuniko lo prese a braccetto. Toccare le sue braccia muscolose le provocò una fitta al cuore. «Quanti litri per cento chilometri?» «Be’, esattamente non lo so, ma l’uomo del distributore mi ha detto che beve moltissimo». «Già. Inoltre questo modello ha lo sterzo ancora piuttosto pesante, non è vero?» «Sì. Ma lei è un vero esperto!» Kuniko fece un sorriso raggiante e chiese: «Ha già guidato un’auto come questa?» L’uomo sorrise amaramente: «Figuriamoci, una vettura straniera!» Poi rallentò il passo e si fermò davanti allo stabilimento abbandonato. Quel luogo aveva sempre un aspetto sinistro, ma quella sera le sembrava il castello incantato di un parco dei divertimenti, che invitasse all’avventura. «Ecco, siamo arrivati». Peccato, pensò Kuniko delusa. La passeggiata era finita troppo presto. «Arrivederci e abbia cura di sé. Buon lavoro», disse il sorvegliante accennando un inchino. «Grazie, lo farò», flautò Kuniko, tutta contenta di avere scoperto una nuova fonte di piacere. Si lasciò prendere dall’entusiasmo e decise che oltre agli stivali avrebbe comprato anche un vestito adatto. Ovviamente nero, così sarebbe sembrata più snella. Il suo buonumore si mantenne anche dopo aver varcato l’ingresso dello stabilimento, al punto che la vista di Kazuo Miyamori non le fece né caldo né
freddo. Canticchiando tra sé e sé si infilò gli sporchi abiti da lavoro che da tempo avevano bisogno di una bella lavata. In quel momento entrò Yoshie. Aveva addosso i suoi soliti logori fuseaux e una maglia nera, sulla quale gli occhi aguzzi di Kuniko individuarono subito una spilla d’argento nuova di zecca. Valutò il prezzo: non poteva costare meno di cinquemila yen, un vero lusso per Yoshie. «Sei arrivata presto», la salutò Yoshie con una smorfia. Kuniko incominciò a schiumare di rabbia, ma non dimenticò di fingere riguardo per la compagna più anziana. «Ti auguro una buona giornata», la salutò gentilmente, e subito aggiunse un complimento: «Maestra, hai una spilla meravigliosa!» «Ah, questa!» Yoshie era raggiante. «Mi sono decisa a comprarla. Era tanto tempo che desideravo qualcosa del genere, ma non potevo permettermelo, sai com’è… Ho esitato a lungo se farmi la permanente o comprarmi la spilla, ma poi ho deciso per questa. In fondo anch’io sono una donna, mi sono detta!» «Con quei soldi?» chiese Kuniko abbassando la voce. Yoshie arrossì. «Sì, perché? Hai qualcosa in contrario?» «Figuriamoci, dicevo così per dire». Kuniko finì di rivestirsi con aria indifferente. Fra poco sarebbe arrivata Masako e lei voleva fare la domanda che aveva in mente prima che comparisse. «Maestra, per quanto riguarda il compenso che hai ricevuto da Yamamoto-san…» Yoshie si guardò intorno, si avvicinò a Kuniko e sibilò a bassa voce: «E allora?» «Be’, davvero ti ha dato la stessa somma che ho avuto io?» «Che cosa vuoi dire?» ribatté Yoshie irritata. Kuniko non perse la calma e tirò fuori un pretesto: «Niente, mi domandavo solo se fosse giusto accettare una somma così senza aver lavorato molto. E se tu hai preso gli stessi soldi che ho preso io, maestra, non è giusto nei tuoi confronti. In fondo Masako-san all’inizio mi aveva proposto centomila yen». «Va bene così», disse Yoshie dandole un colpetto sulle spalle grassocce, «in fondo siamo tutte nella stessa barca». «Davvero anche tu hai avuto solo cinquecentomila yen?» «Sì, cinquecentomila, davvero», annuì Yoshie, ma distolse lo sguardo da Kuniko. Mentiva! Kuniko si fece più insistente: «Quindi esattamente come me. E allora come mai puoi permetterti un simile lusso?» «Ma di che lusso parli?! Che dici?» urlò Yoshie irritata. «Ah sì? In qualche modo mi è venuta l’idea che forse tu ti sei presa qualcosa di più». «E se anche fosse, non ti riguarda proprio!» «Davvero?» replicò astiosa Kuniko fissando senza complimenti la spilla di Yoshie. Yoshie diede uno sguardo al salone, come se cercasse aiuto. Sul suo volto apparve un’espressione di sollievo, perché proprio in quel momento stava entrando Masako. A differenza del solito era vestita bene, con una maglia nera aderente e un paio di pantaloni dello stesso colore. «To’, è mai possibile? Dunque ha anche vestiti da donna nell’armadio!» commentò Kuniko a voce abbastanza alta da poter essere udita. Ma a quanto pareva Masako non aveva sentito, perché senza accorgersi delle compagne si fermò davanti al portacenere collocato di fronte alla macchinetta automatica e si accese una sigaretta. Assaporava il fumo lentamente, osservando con aria cupa e preoccupata la parete ricoperta di graffiti. Kuniko le lanciò uno sguardo carico di odio. Non aveva mai avuto quei vestiti neri. Possibile che Masako avesse mentito quando aveva detto che non aveva voluto un soldo da Yayoi? Possibile che tutte e due la avessero ingannata? Ma era inutile pensarci, contro Masako non sarebbe mai riuscita a farcela. «Io vado». Con la cuffia in mano Kuniko si affrettò a uscire dallo spogliatoio. Approfittando del fatto che Masako continuava a fissare il muro, scivolò senza farsi vedere alle sue spalle e raggiunse il
corridoio. Adesso restava Yayoi. Non le avrebbe dato pace, finché non le avesse strappato la verità. Ma per quanto attendesse, Yayoi non si faceva vedere. Rimase a lungo ferma davanti all’orologio di controllo, gli occhi fissi sull’entrata, finché non le sembrò di avere qualcuno alle spalle. «Yama-chan non viene più». Era Masako, che nel frattempo aveva indossato gli abiti da lavoro. «Ah, sei tu. Sono contenta di vederti». «Risparmiati i complimenti». Masako la spinse di lato e infilò il cartellino nella macchina. «Cosa significa che Yama-chan non viene più, vuoi dire che non verrà mai più?» domandò Kuniko pensando che doveva assolutamente fare qualcosa per vincere la sgradevole sensazione di incertezza che riusciva sempre a comunicarle Masako. «Proprio così». «Perché?» «Chissà, forse ne ha abbastanza di essere minacciata da te», rispose Masako prendendo in fretta un paio di logore scarpe da ginnastica dall’armadio. Erano diventate ormai marroni, sporche com’erano del grasso e della salsa di arrosto appiccicosa che ricoprivano il pavimento. «Che sfacciataggine, questa è una calunnia! Io volevo semplicemente…» Masako si girò e urlò: «E falla finita una buona volta!» I suoi occhi scintillavano come due lame di rasoio. Kuniko rimase impietrita dallo spavento. «Che cosa… con che cosa dovrei farla finita?» «Hai intascato cinquecentomila yen da Yama-chan, Jumonji ti ha annullato il debito, che cosa vuoi ancora?» Kuniko rimase a bocca aperta. Quindi Masako sapeva già che aveva confidato tutto a Jumonji. «Come fai a saperlo?» «Me lo ha spifferato Jumonji. Tu sei veramente la persona più cretina, buona a nulla e disonesta che conosco!» Non era la prima volta che Masako la insultava in quel modo. Kuniko gonfiò le guance dalla rabbia: «Che razza di sfacciata!» «Se c’è uno che è sfacciato, qui, quella sei tu». Masako le diede una gomitata sulla spalla. Kuniko vacillò quando il gomito aguzzo la colpì alla clavicola. «Ma cosa fai?!» «Andremo tutte all’inferno per colpa delle tue chiacchiere! Sei un’idiota. Impiccati!» concluse Masako e si allontanò a passi veloci verso la scala che portava al laboratorio. Rimasta sola, finalmente Kuniko si accorse di quello che aveva combinato e rabbrividì di paura. Ma, come al solito, non durò a lungo. Se non poteva rimanere lì, pensò, avrebbe dovuto cercare un altro posto di lavoro. Peccato, proprio adesso che stava facendo amicizia con quel sorvegliante così carino! Ma non c’era niente da fare, rimanere era troppo rischioso, e le conveniva allontanarsi il più presto possibile da Masako e le altre. Guardò il contenitore di legno appeso alla parete nei cui scomparti infilavano i cartellini timbrati. Lavorava lì da quasi due anni. Si era abituata ai turni, ma adesso si sarebbe trovata un altro lavoro, più comodo, più facile, meglio retribuito, dove non avrebbe avuto colleghe così odiose. Un posto pieno di uomini gentili e di bella presenza. Doveva pur esserci, da qualche parte. Questa volta sarebbe andato bene persino un lavoro nell’ambiente della prostituzione, pensò Kuniko, che aveva ormai acquistato fiducia in sé. Quando la mattina dopo arrivò stanca a casa, Kuniko trovò ad attenderla una bellissima sorpresa. Parcheggiò la macchina davanti al condominio ed entrò nel miserabile atrio dove erano allineate le cassette per la posta. Al suono dei suoi passi un uomo si girò verso di lei e allargò il viso in un
cordiale sorriso. «Ma questo sì che è un caso fortunato!» Dapprima Kuniko stentò a riconoscerlo. «Non si ricorda? Ci siamo incontrati questa notte al posteggio». «Ma come ho fatto a non riconoscerla subito!» esclamò Kuniko civettuola. Era il sorvegliante del posteggio. Non indossava più l’uniforme, ma una giacca a vento blu e pantaloni da lavoro grigi. Inoltre la sera prima, al buio, non aveva potuto vederlo bene in viso. L’uomo chiuse lo sportello, imbrattato di scritte e di etichette che dovevano essere state applicate dai bambini del precedente proprietario, di una cassetta postale di legno e si voltò verso Kuniko. Visto di fronte il suo viso non era niente male. Era abbronzato e aveva qualcosa di misterioso e di inquietante. Il cuore di Kuniko batteva forte. «Rincasa sempre a quest’ora?» domandò l’uomo guardando l’orologio, un modello digitale a buon mercato. Sembrava che non avesse la benché minima idea dei pensieri che attraversavano la mente di Kuniko. «Un lavoro faticoso il suo, non c’è che dire!» «Già, ma anche il suo, immagino». «Be’, ho appena incominciato, per cui non posso ancora dire niente». L’uomo guardò stanco verso la strada, chinò la testa e prese un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca a vento. Il sole sorgeva tardi, perché era già l’inizio di novembre, e il cielo si era appena arrossato. «D’inverno il buio dura a lungo, per voi donne può essere pericoloso». Kuniko non aveva il coraggio di dirgli che presto l’avrebbe fatta finita con i turni di notte: «Be’, ormai mi sono abituata». «Non mi sono ancora presentato! Mi chiamo Sato». L’uomo abbassò la mano con cui teneva la sigaretta e si inchinò educatamente. Kuniko si affrettò a imitarlo. «Io sono Kuniko Jonouchi e abito al quarto piano». «Piacere di conoscerla. Saremo dei buoni vicini!» Sato rise, mostrando i denti bianchi e robusti, senza nascondere la sua soddisfazione. «Sono felice anch’io. Abita qui con la famiglia?» «Oh no», mormorò lui. «A dire il vero sono divorziato. Vivo da solo». Divorziato! Un bagliore si accese negli occhi di Kuniko, ma Sato sembrò non accorgersene e guardò di lato, come se si vergognasse di aver parlato della sua vita privata. «Capisco. Tuttavia mi fa piacere. Sa, anch’io vivo da sola». Sato sgranò incredulo gli occhi. Ma non c’era forse un guizzo di piacere nel suo sguardo? E di desiderio? Kuniko, estasiata, decise che quel giorno sarebbe andata a comprare gli stivali, l’abito e una collana d’oro. Poi diede di nascosto un’occhiata al numero della cassetta per la posta che Sato aveva appena chiuso: appartamento 412.
3. C’era qualcosa che non la convinceva. Riordinando il bagno Masako continuava a rimuginare su che cosa potesse essere, ma non riusciva a trovare una risposta. Pulì con la spugna lo sporco della vasca, poi la risciacquò con la doccia finché la schiuma sparì completamente. Era talmente immersa nei suoi pensieri che il manico della doccia le scivolò di mano e rimbalzò sul bordo della vasca prima di cadere rumorosamente sulle piastrelle. Il volto e il corpo di Masako vennero investiti da un getto di acqua fredda. Riuscì ad afferrare finalmente il tubo della doccia, che per la pressione dell’acqua si contorceva come un serpente. Le mani e i piedi bagnati le trasmisero una sensazione di gelo fino alla schiena. Nel pomeriggio aveva incominciato a piovere e la temperatura si era improvvisamente abbassata. Sembrava una di quelle giornate fredde tipiche della seconda parte di dicembre. Masako si asciugò il viso bagnato con le maniche della felpa e chiuse la finestra spalancata da cui entravano il freddo e il rumore della pioggia. Diede un’occhiata ai vestiti fradici e rimase a riflettere immobile sulle piastrelle gelide. L’acqua della doccia colava in sottili rivoletti sulle piastrelle asciutte in direzione dello scolo. Chissà se anche il sangue e gli umori di Kenji e quelli del vecchio erano fluiti allo stesso modo nel canale di scolo che correva sotto la casa, per finire nel Pacifico? Chissà se i pezzi del corpo del vecchio che Jumonji aveva portato via erano già stati bruciati e le ceneri disperse nel Mar del Giappone? Mentre ascoltava il suono della pioggia che sembrava essersi un poco attenuata, si ricordò di nuovo il gorgoglio del canale sotterraneo nel giorno del tifone. Qualcosa era rimasto impigliato nella sua coscienza e non voleva andarsene, come i rifiuti fermati dalle saracinesche del canale di scolo. Ma che cos’era? Masako ripensò alla notte precedente. Poiché si era fermata da Yayoi, Masako era arrivata allo stabilimento più tardi del solito. Avrebbe preferito evitarlo, ma era molto preoccupata per l’improvvisa scomparsa di Yoko Morisaki. Si chiedeva se si fosse avvicinata a Yayoi prevedendo il pagamento del premio dell’assicurazione o se avesse avuto un altro scopo. Forse avrebbe dovuto parlarne con Jumonji, a meno che anche lui non avesse le mani in pasta in quell’affare… Non poteva fidarsi di nessuno. Masako era preoccupata e confusa, come se si trovasse da sola in alto mare, in piena notte, al timone di una barca a vela. Nella guardiola del posteggio, che prima di allora non era mai stato raggiunto dall’illuminazione stradale, brillava una luce. Non si vedeva il sorvegliante, ma quella luce le parve un faro che illuminasse il mare tenebroso. Sollevata Masako fece retromarcia e si infilò nello spazio a lei destinato. La Golf di Kuniko era già al suo posto. Dall’oscurità del sentiero emerse la sagoma di un sorvegliante in uniforme. Arrivato alla guardiola spense la grossa torcia elettrica ma, quando si accorse dell’auto di Masako, la riaccese subito e illuminò la targa della Corolla. L’amministrazione della fabbrica aveva registrato i numeri di targa dei dipendenti che si recavano al lavoro in auto. Quindi, se l’uomo aveva anche l’incarico di impedire che qualcuno parcheggiasse abusivamente, era giusto che controllasse. Tuttavia Masako ebbe l’impressione che indugiasse un po’ troppo a lungo sulla sua auto. Masako spense il motore, scese e aspettò che il sorvegliante si avvicinasse. I suoi passi scricchiolavano sulla ghiaia. Era un uomo di mezza età, alto e vigoroso. «Buonasera. Sta andando allo stabilimento?» Aveva una voce bassa e carezzevole, piacevole da ascoltare. Veniva da chiedersi come mai un uomo con una voce così avesse scelto un lavoro così solitario. «Sì», rispose Masako, mentre lui sollevava la torcia per illuminarle il viso. Anche questa volta
le sembrò che indugiasse troppo a lungo. Ed era anche molto fastidioso, perché non riusciva a vederlo in faccia. Abbagliata dalla luce, alzò il braccio per proteggersi gli occhi e allora lui si scusò. Masako chiuse a chiave la macchina e si incamminò. Il sorvegliante incominciò a seguirla a breve distanza e lei, inquieta, si voltò verso di lui. «Voglio solo accompagnarla», disse l’uomo. «E perché mai?» «Sono gli ordini che ho ricevuto, per via delle voci sul maniaco». Risoluta Masako disse: «Non è necessario, vado da sola». «Ma se succede qualcosa sono io il responsabile». «È già tardi, devo affrettarmi». Nonostante il suo rifiuto, il sorvegliante non si decideva a lasciarla e continuava a seguirla illuminandole il sentiero con la torcia elettrica. Infastidita Masako si fermò e si girò verso di lui. I loro occhi si incontrarono nel buio. Si guardarono in faccia, e Masako ebbe l’impressione che per tutto il tempo avesse continuato a fissarle la schiena. Le sembrava un viso noto e per un attimo credette di averlo già incontrato da qualche parte. Anche il sorvegliante la scrutava. «Non ci siamo già…» stava per dirgli, ma si rese subito conto che l’uomo era un perfetto sconosciuto. «No, scusi, mi sbagliavo». Il sorvegliante aveva occhi piuttosto piccoli, e lo sguardo, sotto il berretto ben calcato sulla fronte, sembrava placido e tranquillo. La bocca invece era grande, con labbra tumide che gli conferivano un’espressione vorace. Un viso singolare, pensò Masako distogliendo lo sguardo. «Lì è così buio, la accompagno ancora per un pezzo». «No, vorrei andare da sola. Adesso mi lasci in pace, per favore!» «Va bene, ho capito». Il sorvegliante abbozzò un sorrisetto, come se si dovesse piegare controvoglia alla sua insistenza. Per un attimo le sembrò che in quegli occhi, fino a un istante prima così tranquilli, apparisse un lampo di rabbia primitiva e selvaggia. Talvolta la gente si irritava per il suo modo di fare così diretto. E forse anche lui era uno di quelli, pensò Masako. Quando dopo il turno, la mattina successiva, tornò al posteggio, il sorvegliante non era più lì. Non era successo niente, a parte il fatto che all’improvviso continuavano a comparire troppi estranei nella sua vita, e questo la disturbava. Andò in camera per togliersi i vestiti bagnati ma il telefono squillò nel soggiorno. Andò a rispondere ancora in sottoveste: «Chi parla?» «Sono io, Yoshie». «Ah, maestra, cosa succede?» «Che cosa devo fare adesso, per amor del cielo…» Sembrava che Yoshie stesse per scoppiare in singhiozzi. «Prima raccontami che cosa c’è». «Non puoi venire un attimo? È successa una cosa spaventosa». Non aveva ancora acceso il riscaldamento, ma non era solo per questo che le venne la pelle d’oca sulle braccia nude. Voleva sapere subito che cosa era successo, e allo stesso tempo aveva paura che si trattasse di qualcosa di terribile. «Vuoi deciderti a dirmi subito che cosa ti è capitato?» «Al telefono non posso, e non posso neanche uscire di casa», bisbigliò Yoshie che evidentemente non voleva farsi sentire dalla vecchia malata. «Ho capito. Arrivo subito». Masako si infilò i jeans e il golf nero nuovo. Aveva incominciato a rifarsi un guardaroba di suo gusto, come allora, quando era impiegata all’istituto di credito. Sapeva anche troppo bene perché: cercava di raccogliere quella parte di sé che, in un momento imprecisato, aveva buttato via. Ma, così come non è possibile restaurare perfettamente una bambola rotta, anche se avesse trovato tutti i pezzi e
li avesse rimessi insieme, non sarebbe mai riuscita a diventare di nuovo quella di una volta. Tirò fuori in fretta la macchina e dopo venti minuti parcheggiò in una strada adiacente al vicolo di Yoshie. Aprì l’ombrello nero e corse verso la miserabile casa della maestra cercando di evitare le pozzanghere che si erano formate nell’asfalto pieno di buche della strada. Yoshie, sulle spine, l’aspettava davanti a casa. Sul vestito grigio si era infilata una maglia color senape tutta infeltrita. Aveva il viso terreo e sembrava invecchiata di almeno dieci anni. Come vide Masako prese l’ombrello appeso alla grondaia e le andò incontro. «Possiamo rimanere un attimo qui fuori?» chiese con un sospiro. Il suo fiato si condensò nell’aria in una nuvoletta bianca. «Per quanto mi riguarda…» rispose Masako da sotto il suo ombrello nero. «Scusami se ti ho fatto venire qui». «Allora, cosa è successo?» «Sono spariti i soldi». Le lacrime le scorrevano sulle guance. «Li avevo nascosti sotto il pavimento della cucina e adesso non ci sono più». Costernata Masako chiese: «Tutto il milione e mezzo?» «No, non tutto. Un po’ ne ho spesi, e poi ti ho pagato il debito. Mi era rimasto un milione e quattrocentomila. E adesso non c’è più». «Hai idea di chi possa averteli rubati?» «Già», rispose Yoshie in un soffio e poi, riluttante, disse: «Probabilmente Kazue». «Tua figlia, la più grande?» «Sì. Ero andata a fare la spesa e quando sono tornata mio nipote era sparito. Mi sono detta che forse era andato a giocare da qualche parte, ma non era possibile, non con questa pioggia. L’ho cercato dappertutto e mi sono accorta che anche tutte le sue cose erano sparite. Allora ho messo sotto torchio mia suocera ed è venuto fuori che era arrivata Kazue e si era portata via il bambino. Mi sono precipitata in cucina. Il denaro non c’era più». Yoshie era inconsolabile. «Era già successo altre volte?» «Kazue ha sempre fatto queste cose», rispose vergognosa. «Se solo lo avessi portato in banca! Ma non volevo che quelli del comune lo venissero a sapere». «Avevi raccontato a qualcuno del denaro?» «Uhm… non ne ho parlato nel vero senso della parola, ma ho lasciato capire a Miki che sarei entrata in possesso di una certa somma». «Per la storia dell’università?» «Sì. Era così felice quando le ho detto che sarebbe bastata per il college!» Yoshie scoppiò di nuovo a piangere. «Rubare il denaro che sarebbe servito per gli studi di sua sorella… È davvero una creatura meschina e senza cuore!» «E tu sei sicura che non sia stata Miki?» «No, non è assolutamente possibile. I soldi erano comunque già destinati a lei, e inoltre Issey è sparito. Sicuramente Kazue avrà telefonato e Miki se ne sarà vantata con lei, non riesco a immaginare altro. E pensare che ormai mi ero affezionata anche a Issey… e tuttavia…» «Dunque tu sei sicura al cento per cento che è stata Kazue. Non è possibile che sia entrato un estraneo e abbia rubato il denaro?» la interruppe Masako mentre l’altra, al ricordo del nipotino, ricominciava a lottare con le lacrime. Doveva essere assolutamente sicura, per cui non poteva lasciar perdere, anche se non voleva ancora dirle perché. «Impossibile, è stata lei. Kazue sa di quel nascondiglio fin da quando era piccola». Allora non c’era niente di cui meravigliarsi, la faccenda era troppo stupida! Masako rimase senza parole e si mise a fissare il tessuto, diventato ormai opaco, del suo piumino fradicio di pioggia.
Dentro di sé era sollevata al pensiero che il nemico misterioso non avesse ancora incominciato ad agire. «Dimmi dunque, che cosa devo fare adesso? Che cosa posso fare?» continuava a ripetere Yoshie nel suo solito tono lamentoso. «E che cosa vuoi fare? Ormai non c’è rimedio». Tutto a un tratto Yoshie cambiò tono e si mise a supplicare: «Ascolta, Masako-san…» «Che cosa?» «Non mi presteresti un po’ di denaro?» Masako la fissò. Yoshie, da sotto l’ombrello, la guardava con occhi imploranti. «Quanto?» «Un milione. No, basteranno settecentomila». «Così non va», disse Masako scuotendo la testa. «Ti prego! Rinuncio anche al trasloco!» Yoshie, stringendo il manico dell’ombrello sotto il braccio, congiunse le mani in atto di preghiera. «Non riusciresti mai a restituirmeli, maestra! E non si può prestare denaro a chi non lo può rendere». «Parli come una banca! In fondo hai ancora un marito, e anche un bel gruzzolo di cui non te ne fai niente». «Pretendi troppo da me». Il tono di Masako non ammetteva repliche. Quelle parole la colpirono come uno schiaffo e Yoshie ammutolì. Impaurita guardò Masako negli occhi. «Non credevo che fossi così». «Sempre stata così». «Eppure mi avevi prestato i soldi per la gita scolastica di Miki». «Questo non c’entra. Ma è stato veramente troppo stupido, maestra, farti rubare i soldi dalla tua stessa figlia!» «Sì, hai ragione». Yoshie abbassò la testa. Masako tacque e mosse le dita intirizzite della mano con cui teneva l’ombrello. Un silenzio imbarazzante era sospeso tra loro. «Non te li presto, però te li regalo». Il volto di Yoshie si illuminò. «Che cosa? Cosa vuoi dire?» «Te lo regalo, maestra, ti regalo un milione». «Sì, ma così non va…» «Sì, te lo dico io. In fondo sei sempre stata diligente nel lavoro, e non mi hai mai piantato in asso. Te li porto al più presto». Masako stava pensando che un milione poteva anche darglielo. «Grazie. Sei la mia salvezza, ti sono davvero riconoscente». Yoshie chinò profondamente la testa nella pioggia. «Ah, un’altra cosa…» «Che cosa?» «Credi che ci sarà un altro incarico come quello?» Masako scrutò il volto di Yoshie, che sotto il grande ombrello nero sembrava ancora più piccolo del solito. «Finora non mi hanno ancora detto niente». «Se dovesse succedere avvisami, mi raccomando. In ogni caso». «Hai voglia di rifarlo, vero?» domandò Masako con voce cupa. Ma Yoshie, che non sapeva nulla del nemico misterioso, annuì vigorosamente. «Sì, voglio altri soldi. E questo lavoro è l’unico sistema per guadagnarli. Forse anch’io sono meschina e senza cuore come mia figlia». Con ciò Yoshie volse la schiena a Masako e sparì all’interno della sua sordida casa, dove tutto, a partire dal tetto e dai muri aveva bisogno di essere riparato. Dalla grondaia rotta l’acqua scorreva a fiotti, scavando il terreno. I jeans di Masako erano completamente infangati e lei tremava dal freddo. Forse si sarebbe presa un raffreddore, e in ogni caso gli ultimi avvenimenti non smettevano di allarmarla.
4. La porta della veranda era spalancata. Cinque gradi. Era poco prima dell’alba e il vento gelido entrava a folate, abbassando la temperatura della stanza fino a quella esterna. Satake tirò su fino al collo la lampo della giacca a vento blu e si sdraiò sul letto così com’era, senza neanche togliersi i pantaloni da lavoro grigi. Avrebbe voluto aprire tutte le finestre in modo che il vento freddo potesse insinuarsi in tutti gli angoli dell’appartamento, tuttavia chiuse a chiave la porta che dava sul pianerottolo. Appartamento 412. Due stanze, cucina, bagno. Uno stretto, lungo bilocale, come in tutte le case popolari, con una finestra a sud e la porta d’entrata a nord. Aveva rimosso tutte le porte scorrevoli, come nel suo appartamento della zona ovest di Shinjuku, e non c’erano mobili. A parte il letto, che aveva posizionato in modo da poter vedere il cielo sopra Musashi. Si sarebbe potuta vedere la stella del mattino. Ma Satake, tremante di freddo, rimase sdraiato, strinse i denti e chiuse gli occhi. Non era per niente stanco, ma non voleva aprire gli occhi. Li teneva ben chiusi, per poter ricostruire più esattamente il volto di Masako e la sua voce, riunendo i frammenti delle sue impressioni per scomporli di nuovo e poi ricominciare da capo. Rivedeva il suo viso, quando lo aveva illuminato con la torcia elettrica, laggiù nel posteggio. Lo sguardo vigile, le labbra sottili, di una che aveva rinunciato ai piaceri della vita, le guance tese. Satake sorrise quando ricordò l’ombra di inquietudine apparsa su quel viso ascetico. «No, vorrei andare da sola. Adesso mi lasci in pace, per favore!» La voce bassa, penetrante, con cui si era rivolta a lui, continuava a risuonargli nelle orecchie. La sua figura da dietro, quando di furia si era incamminata sul sentiero buio, non asfaltato. Mentre la seguiva a distanza di pochi passi, gli era sembrato di vedere il fantasma dell’altra donna. Quando poi si era girata, mostrandogli di nuovo il volto, e lui si era accorto delle piccole rughe verticali che l’ira delineava tra le sue sopracciglia, aveva provato una gioia tale da fargli accapponare la pelle. Perché Masako assomigliava molto alla donna che Satake aveva seviziato fino a farla morire. Il volto, la voce, le piccole rughe tra le sopracciglia, tutto. Quella donna aveva dieci anni più di lui. Possibile che in realtà non fosse morta, ma che invece continuasse a vivere in quella piatta, polverosa cittadina? Sotto il nome di Masako Katori? Inoltre anche Masako sembrava avere fiutato qualcosa, perché, quando lo aveva visto in faccia, aveva iniziato a dire: «Non ci siamo già…» Satake era convinto di aver colto l’istante in cui, grazie a lui, l’ascetismo di Masako si era incrinato. «È il destino», mormorò tra sé. Ripensò a quel giorno d’estate di diciassette anni prima, quando aveva incontrato per la prima volta la donna in una strada di Shinjuku. Alcune prostitute che lavoravano per la banda di Satake erano state sottratte al loro controllo da un’abile procacciatrice. A quanto si diceva anche lei proveniva dall’ambiente della prostituzione, ma a trent’anni aveva smesso di esercitare ed era diventata una capace imprenditrice. La sua impudenza aveva fatto infuriare il giovane Satake che si dedicò anima e corpo a escogitare una trappola per catturarla. Mandò in giro diverse ragazze che dovevano servire da esca, e finalmente la donna cadde nella rete. In una sera afosa – era nell’aria un temporale – si presentò puntuale all’appuntamento che una delle ragazze le aveva fissato in una sala da tè. Satake rimase in disparte a osservarla, cercando di controllare la propria eccitazione. Si era conciata in modo ordinario e appariscente. Il tessuto sintetico del miniabito blu senza maniche restava incollato al suo corpo troppo magro dando una sgradevole sensazione di calore, e i piedi nudi infilati in un paio di sandali bianchi lasciavano vedere le unghie con lo smalto che si sfogliava. Aveva i capelli corti, ed era così secca che dallo scollo della manica spuntava il reggiseno nero. Solo gli occhi
rivelavano il suo carattere forte, inflessibile. Con quegli occhi si accorse subito di Satake; non entrò nella sala, ma girò sui tacchi e fuggì. In tutti quegli anni non era riuscito a dimenticare l’espressione della donna nel momento in cui si era accorta di lui. Dopo un attimo di disappunto per essere stata scoperta, gli aveva lanciato uno sguardo di sfida, pieno di determinazione: gli sarebbe sfuggita. Che sguardo! Come se si prendesse beffe di lui, quando era già con le spalle al muro. Quegli occhi avevano acceso qualcosa nell’animo di Satake. L’avrebbe inseguita, se necessario fino in capo al mondo. E quando l’avesse presa, l’avrebbe umiliata e tormentata fino a farla morire. In principio non aveva avuto la minima intenzione di ucciderla, voleva solo metterla sotto torchio per darle una lezione, ma il suo sguardo doveva avere liberato in lui qualcosa di cui fino ad allora Satake stesso non aveva avuto coscienza. Non poteva essere altrimenti. Mentre inseguiva per la strada la donna che correva più forte che poteva, Satake si accorse con stupore che si stava eccitando sempre di più. Se l’avesse rincorsa sul serio l’avrebbe presa subito. Ma non ci sarebbe stato gusto. L’avrebbe tenuta sulla corda ancora un po’, le avrebbe dato l’illusione di potersela cavare, e poi l’avrebbe presa. Quanto più si fosse arrabbiata, tanto più interessante sarebbe stata la faccenda. Correva nel tramonto afoso e senza un filo d’aria, spintonando i passanti a destra e sinistra, e sentiva il furore che montava nel suo animo. Aveva già nelle mani la sensazione dei capelli della donna, quando li avrebbe afferrati e tirati per bloccarla. In un ultimo atto disperato la donna attraversò di corsa il viale Yasukuni con il semaforo rosso e, giunta davanti ai grandi magazzini Isetan, scese la scala di un passaggio sotterraneo. Aveva probabilmente intuito che se rimaneva a Kabuki-cho avrebbe potuto cadere nelle braccia dei compagni di Satake in agguato. Ma Satake conosceva Shinjuku come le proprie tasche. Lasciò alla donna l’illusione di essere stata persa di vista, si tuffò nella stazione della metropolitana, attraversò velocissimo il passaggio che correva sotto la ShinOume-Highway e raggiunse il passaggio dalla parte opposta. Poi quando la donna, sicura di essergli sfuggita, uscì dalla toilette dove si era nascosta, la afferrò da dietro per un braccio. Dopo quella corsa forsennata nella città immersa nella canicola, le braccia della donna erano bagnate di sudore. Ricordava tutto perfettamente, perfino quella sensazione. La aveva colta di sorpresa e per un attimo rimase sbigottita, ma subito si riprese e divenne una furia: «Bastardo! Mi hai teso una trappola!» La voce della donna versò olio sull’ira bruciante di Satake. Quella voce bassa, roca, dura! «Non credere di cavartela!» «Provaci! Provaci se hai il coraggio!» «Adesso ti faccio vedere!» Satake puntò il pugnale sul fianco della donna che continuava a imprecare, e lottò contro la voglia di farla fuori subito, lì sul posto. La punta della lama strappò la stoffa del vestito e a quel punto la donna, evidentemente rassegnata, ammutolì e si lasciò condurre nel suo appartamento. Per tutta la strada neppure una volta chiese di essere risparmiata. Il suo braccio, che lui teneva ben stretto per evitare che se la desse a gambe, era talmente secco che si sentivano le ossa. Anche il viso era magro, le guance scavate, solo gli occhi brillavano di furore come quelli di un animale selvatico. Avrebbe potuto amare quella donna. Se pensava alla sua strenua resistenza, provava perfino piacere. Satake, che non aveva mai provato simili sentimenti nei confronti di una donna, non riusciva a riaversi dallo stupore. Fino ad allora per lui le donne non erano state altro che oggetti di piacere, per questo si era dedicato solo a quelle belle e sottomesse. Satake la trascinò nel suo appartamento e subito accese al massimo il condizionatore. La stanza sembrava una sauna. Tirò le tende e accese la luce. Ancor prima che l’aria si rinfrescasse si era messo a prendere a pugni il viso della donna fino a ridurlo a una poltiglia. Non aveva potuto farne a meno, era da troppo tempo che lo desiderava. Invece di implorare pietà e chiedere scusa, la donna continuava a resistere, strepitava e smaniava, i suoi occhi lampeggiavano di furore. Satake, senza smettere di
massacrarla, continuava a domandarsi se fosse possibile che l’odio accentuasse la bellezza. La legò al letto. Nel frattempo il viso della donna era diventato orribilmente gonfio e deforme. Poi la violentò ripetutamente, nella camera dove non si udiva altro che il ronzio dell’aria condizionata, dimenticando lo scorrere del tempo. Il sudore si mescolava al sangue e le cinture di pelle con cui la aveva legata le avevano tagliato i polsi e usciva altro sangue. Assaggiò il sangue che usciva a fiotti dalle labbra gonfie. Aveva un odore metallico. A un tratto si era tirato vicino il pugnale che aveva premuto sul fianco della donna nel passaggio sotterraneo. A un certo punto, mentre continuava a penetrarla, le labbra sulla sua bocca, la donna gridò. Di colpo l’odio sparì dai suoi occhi e lei lo accolse dentro di sé. In preda a una foga smaniosa, Satake avrebbe voluto penetrarla ancora, sempre più a fondo, e senza rendersene conto le affondò il pugnale nel fianco. Udì il suo urlo di dolore e sentì che proprio in quel momento lei aveva raggiunto l’orgasmo, e si perse in un’estasi di piacere. Era un inferno. Satake incominciò a pugnalarla ripetutamente da ogni parte, infilava le dita nelle ferite e tuttavia non riusciva a entrare abbastanza dentro di lei. Quando se ne rese conto gli sembrò di impazzire. La sua carne doveva sciogliersi in quella di lei, voleva diventare un’unica cosa con lei, immergersi in lei. Le sussurrava che era bella, bellissima, che la amava. Per Satake quel bagno di sangue era diventato il paradiso. Era l’inferno e il paradiso, ma solo loro due potevano capirlo. Chi mai avrebbe potuto arrogarsi il diritto di giudicarli? Dopo quell’esperienza Satake non fu più lo stesso. Divenne un altro uomo, completamente nuovo. Il destino lo aveva legato a quella donna e mai avrebbe pensato di poterla incontrare di nuovo, viva. Ma proprio questo era il suo destino: che niente andava mai come aveva previsto. Il fantasma che tormentava il suo lato oscuro, che continuava a inerpicarsi con le mani gelide sulla sua schiena, adesso lentamente scivolava via. Al suo posto era arrivata Masako Katori, che lo attirava all’inferno e in paradiso. Poteva immaginarsi Masako intenta al lavoro nello stabilimento, davanti al nastro trasportatore, mentre ancora brillavano le stelle. Lei che correva avanti e indietro sul freddo pavimento di cemento come se non fosse successo niente, con impressa sul volto quell’espressione di solitudine. Lei che se la rideva sotto i baffi perché era riuscita a farla franca con i tutori della legge. Anche la donna che aveva ucciso era un tipo eccezionale, capace di ridere in barba agli uomini. Ma non gliel’avrebbe permesso. Bastava che riuscisse a prenderla, e subito sarebbe stata costretta a pentirsi. Dopo un paio di colpi ben assestati la pelle sottile delle guance si sarebbe lacerata e il sangue sarebbe uscito a fiotti. Aveva ancora davanti agli occhi quelli di Masako, due strette fessure abbagliate dalla luce della torcia. Satake affilava il suo desiderio, la sua brama di sangue come la lama di un coltello sulla mola bagnata. Non era difficile immaginare che era stata Masako, per aiutare Yayoi, a coinvolgere le compagne per dissezionare il cadavere. Perché aveva capito che Yayoi non aveva né il fegato né la testa per farlo. Da quando aveva visto Masako, il suo interesse per Yayoi era immediatamente svanito. Al massimo avrebbe potuto sottrarle il premio dell’assicurazione, di più non valeva. In fondo era la moglie giusta per quella nullità di uomo, e non gliene poteva importare di meno di come e perché aveva ucciso il marito dopo una lite, e se avesse dei rimorsi. In fondo Satake aveva provato solo disprezzo per Yamamoto, e così era anche per Yayoi. E il disprezzo era il sentimento più efficace per fiaccare ogni sua capacità di azione. Ora che aveva visto Masako, non gli importava più nulla del perché aveva iniziato quella spedizione, di che cosa voleva vendicarsi. Satake allungò le braccia e toccò la testiera di ferro del letto. Al contatto dell’aria gelida che entrava dalla finestra il metallo era diventato così freddo che, quando lo afferrò, gli sembrò che le mani
gli fossero diventate insensibili. Avrebbe spogliato nuda Masako e l’avrebbe legata al letto. L’avrebbe imbavagliata e umiliata e torturata finché ne avesse avuto voglia davanti alla finestra spalancata. Di sicuro le sarebbe venuta la pelle d’oca. Sarebbe riuscito a raderle con il coltello quei piccolissimi rigonfiamenti, simili a grani di miglio? Se si fosse ribellata, avrebbe dovuto conficcarle il pugnale nel ventre? Per quanto avesse pianto atterrita chiedendo pietà, per quanto si fosse contorta nel dolore, non l’avrebbe risparmiata. Perché era una donna capace di sopportare una cosa del genere. Chissà se, come la donna che aveva ucciso, alla fine gli avrebbe sussurrato all’orecchio: «Chiama il medico, corri, presto…» Sottomessa e intransigente a un tempo. E lui con l’animo dilaniato fra il desiderio di non lasciarla morire e quello di assaporare, tramite lei, la morte. Mai l’aveva amata così intensamente come in quei momenti. La gioia e la tristezza che aveva provato quand’era morta erano state esperienze di una tale intensità che tutto ciò che aveva provato prima o dopo di allora non contava niente. Un brivido lo attraversò quando si ricordò del tono della sua voce. Per la prima volta, da quando tanti anni prima era uscito dal carcere, ebbe un’erezione. Satake aprì la cerniera dei pantaloni e incominciò a masturbarsi, il respiro che si condensava in bianco vapore. Venne l’alba e il cielo si rischiarò. I contorni violacei delle montagne incominciavano a delinearsi luminosi. Satake si alzò e, socchiudendo gli occhi, guardò il sole che sorgeva lasciandosi dietro una scia di nuvole rosse. Chiara e maestosa, l’ombra del monte Fuji troneggiava sulla catena montuosa. Era l’ora in cui Masako avrebbe imboccato la via di casa, gli occhi gonfi di sonno. Sapeva tutto di lei, conosceva la sua espressione cupa, il modo in cui fumava la sigaretta, il suono dei suoi passi decisi e pesanti sul terreno del posteggio. Masako gli sembrava così vicina che poteva toccarla. Sapeva perfino come avrebbe reagito quando l’avrebbe messa alle strette. Gli avrebbe lanciato uno sguardo di sfida, gli occhi pieni di rabbia e ostilità. Proprio come quella donna. Dormi ora, dormi. Presto ti ucciderò. Fino ad allora dormi, dormi tranquilla e beata, augurò Satake in direzione della casa di Masako, e il suo augurio era accompagnato da un sentimento via via più intenso che poteva senz’altro chiamarsi tenerezza. Man mano che si alzava nel cielo, il sole del mattino diventava sempre più forte. Satake chiuse la porta della veranda e tirò le pesanti tende nere per evitare entrasse che la luce. Subito in camera fu di nuovo notte fonda.
5. La voce rotta del megafono di un venditore ambulante che vantava la propria merce svegliò Satake. Guardò l’orologio da polso che non si era ancora tolto. Erano le tre del pomeriggio. Fumò una sigaretta rimanendo coricato a contemplare i pannelli del soffitto su cui si allargava una macchia marrone, visibile anche alla scarsa luce che filtrava dalle tende. Satake accese la lampada sul comodino e guardò la montagna di documenti sul pavimento. Sul tappeto macchiato, lasciato dall’inquilino precedente, erano ordinatamente accumulati, raccolti in cartelline bianche, i rapporti che gli aveva consegnato l’agenzia investigativa. Yayoi, Yoshie, Kuniko e Masako. A questi si era aggiunto quello riguardante Jumonji, per le sue relazioni con Kuniko e Masako. Per quelle ricerche aveva già dilapidato quasi dieci milioni di yen. Satake si accese la seconda sigaretta e si mise a sfogliare i rapporti che aveva letto e riletto, al punto che li conosceva quasi a memoria. Per primo quello di Yoko Morisaki, la donna che si era intrufolata in casa di Yayoi. Informazioni fornite dal primogenito degli Yamamoto (5 anni)
Quella notte (la notte della scomparsa di Kenji) dice di aver udito il rumore dei passi del padre che rientrava. Gli era sembrato anche che la madre fosse andata ad accoglierlo sulla soglia e che avessero parlato. Ma il mattino seguente la madre gli aveva detto che doveva aver sognato, così non era più sicuro di aver sentito bene. Tuttavia la sera prima i genitori avevano litigato, e la madre era stata picchiata dal padre. Di questo era assolutamente sicuro, perché si era spaventato e per l’angoscia non era più riuscito a dormire. Inoltre, quando aveva fatto il bagno insieme alla madre, aveva visto che aveva un livido sul ventre.
Informazioni fornite dal figlio minore (3 anni)
I suoi genitori litigavano costantemente. Non sapeva per quali motivi, perché in genere dormiva, ma spesso, quando il padre tornava a casa, li sentiva urlare. Allora si tirava la coperta sulla testa e fingeva di dormire. Per quanto riguardava quella sera (la notte della scomparsa di Kenji) non ricordava nulla. Però Milky, il gattino che amava tanto, era sparito. E per quanto lo avesse chiamato, non era più tornato a casa. Non sapeva perché.
Informazioni fornite da una vicina (46 anni)
Quando aveva saputo che la signora Yamamoto faceva i turni di notte, aveva subito sospettato che ci fosse di mezzo un amante, perché quella era proprio una bella donna. E infatti li aveva spesso sentiti litigare selvaggiamente e a voce alta, di notte o al mattino presto. Negli ultimi tempi molte vicine si domandavano cosa fosse successo, perché la signora Yamamoto era diventata ancora più bella di prima.
Informazioni fornite da una vicina (37 anni)
Aveva udito una strana storia. Il gatto scappato di casa si avvicinava ai bambini, ma fuggiva quando vedeva la madre. Bastava che la scorgesse da lontano e subito se la dava a gambe. Da quella notte non era più tornato a casa, per cui tutti sospettavano che il gatto avesse visto qualcosa di brutto. Uno poteva anche sentirsi male se pensava che la Yamamoto avesse ucciso e fatto a pezzi il marito in casa sua e poi avesse eliminato sangue e interiora attraverso lo scarico dell’acqua.
Yayoi Yamamoto non riscuote molte simpatie nel quartiere. Dopo la morte del marito è completamente cambiata. La gente ha dei sospetti non solo perché non sembra molto addolorata, ma soprattutto perché è diventata più bella e trabocca di soddisfazione per la libertà riconquistata. Frequentando la sua casa e osservandola da vicino, anche io mi sono accorta che sembra contenta della morte del marito. Ero presente quando la polizia le ha telefonato per dirle che il proprietario della casa da gioco era sparito e, secondo la mia opinione, la Yamamoto ha accolto la notizia con gioia. Probabilmente pensava che, dal momento che la polizia indagava su quell’uomo, evidentemente aveva dei sospetti su di lui, e lei poteva stare tranquilla, come se quel caso non la riguardasse più. Le ho chiesto dell’ematoma sul ventre, di cui mi aveva parlato il figlio maggiore. Lei si è limitata a dire che una volta il marito l’aveva picchiata, senza tuttavia specificare né il giorno né il motivo. Avrebbe preferito lasciare il lavoro allo stabilimento, probabilmente perché presto non avrebbe più avuto preoccupazioni economiche. Attendeva infatti a breve termine il pagamento della polizza d’assicurazione del marito. Eppure quando le telefonavano le compagne, soprattutto Masako Katori, assumeva un atteggiamento umile e remissivo. E, chissà perché, sembrava avere paura di incontrarle. Le voci di suoi rapporti con un altro uomo non corrispondono ai fatti. Il premio dell’assicurazione le verrà pagato a fine novembre. Cinquanta milioni di yen che verranno versati sul conto corrente di Yayoi Yamamoto. Rapporto su Masako Katori
Informazioni fornite da una vicina (68 anni)
I suoi rapporti con il marito, che lavora per un’impresa di costruzioni, sembrano normali. Però non li ha mai visti uscire insieme. Corre voce che il figlio (17 anni) non le parli più. Prima il ragazzo creava problemi perché teneva alto il volume dello stereo, ma negli ultimi tempi si comporta meglio. Però è un ragazzo cupo, che non saluta i vicini che incontra per strada. Masako non è più simpatica del figlio, ma almeno saluta correttamente. Però dà l’impressione di essere una donna strana, che non si cura molto del proprio aspetto.
Informazioni fornite da una studentessa (18 anni) che abita nella casa di fronte e si sta preparando agli esami per entrare all’università
L’ha notata perché esce sempre a tarda sera e torna all’alba. Quando sta seduta alla scrivania, da cui può vedere la casa dei Katori, guarda spesso l’orologio. Il giorno seguente alla scomparsa di Kenji la signora Katori aveva ricevuto al mattino la visita di due donne. Una era arrivata in bicicletta, e l’altra con un’automobile verde. Se ne erano andate circa a mezzogiorno.
Informazioni fornite dal proprietario (75 anni) di un terreno del vicinato
La mattina di quel giorno (il giorno in cui era scomparso Kenji) una donna abbastanza giovane, uscita dalla casa della signora Katori, aveva tentato di abbandonare un sacco di spazzatura lì intorno, ma lui glielo aveva impedito. Doveva essere pesante, probabilmente conteneva spazzatura organica, forse più di dieci chili. L’aveva rimproverata e lei aveva obbedito subito e si era allontanata. Invece la signora Katori eliminava la spazzatura rispettando le regole.
Informazioni fornite dal caposquadra (31 anni) dello stabilimento
La signora Katori lavora sotto la sua supervisione da due anni. Si comporta in modo ineccepibile, e anche sulla sua produttività non c’è niente da dire. Esegue i suoi compiti coscienziosamente. Ha saputo che aveva lavorato nel ramo finanziario, per cui crede che presto le proporranno un posto come impiegata. Ha capacità di comando, ed è sprecata al nastro trasportatore. È in buoni rapporti con Yoshie Azuma, un’esperta operaia, con Yayoi Yamamoto e con Kuniko Jonouchi. Tutte e quattro lavoravano sempre insieme ma, dopo l’incidente occorso al marito della Yamamoto, il gruppo si è sciolto e adesso si presentano regolarmente al lavoro soltanto Katori e Azuma.
Informazioni fornite da una ex collega (35 anni) dell’istituto di credito Tanashi
La signora Katori era abile nel suo lavoro, ma aveva un carattere ribelle, pareva che non godesse né della fiducia dei superiori, né della stima dei sottoposti. Non sa che cosa abbia fatto dopo essersi licenziata.
La reputazione di Masako Katori tra i vicini di casa e le colleghe di lavoro è discreta. Molti tuttavia hanno sottolineato che non si capisce mai che cosa le passa veramente per la testa. Per quanto riguarda una sua relazione con un altro uomo, non si hanno indizi; a quanto pare la sua vita scorre su binari tranquilli. Anche i suoi rapporti con i vicini sono estremamente limitati, e non è iscritta ad alcuna cooperativa di consumatori. Neanche il marito sembra avere relazioni extraconiugali. Tuttavia si dice di lui che nel lavoro manchi sia di spirito di corpo sia di capacità manageriali. Forse sono questi i motivi per cui non ha alcuna possibilità di fare carriera al Gruppo immobiliare M, l’azienda edile in cui lavora. Il figlio ha abbandonato il liceo già al primo anno. Lavora come apprendista muratore. Si dice
che a casa si chiuda in un mutismo assoluto. Una mattina, dopo l’incidente, i vicini hanno visto arrivare a casa Katori Yoshie Azuma e Akira Jumonji, proprietario dell’agenzia finanziaria Milione. Jumonji guidava una Nissan Maxima blu e aveva trasportato in casa un grosso pacco, poi, tre ore dopo, era tornato con otto scatole. Nulla si sapeva del contenuto dei pacchi e della loro destinazione. All’identità di Jumonji si è risaliti grazie al numero di targa della Maxima. Rapporto su Akira Jumonji (Akira Yamada)
Informazioni fornite da un ex impiegato (25 anni) dell’agenzia finanziaria Milione
Il capo si vantava di essere appartenuto in passato a una banda di motociclisti del distretto di Adachi. Continuava a ripetere che il suo capo di allora adesso è diventato un boss degli yakuza. Avevamo tutti paura, perché al minimo problema accennava sempre all’appartenenza a quella banda. Perciò ho deciso di licenziarmi. Pazienza lavorare per un usuraio di quartiere, ma non voglio stare con qualcuno che ha alle spalle gli yakuza, no grazie.
Informazioni fornite dall’impiegato (26 anni) di una sala giochi vicina all’agenzia
È un tipo che ha il complesso delle lolite, perciò viene sempre qui a caccia di liceali. Gli ho domandato scherzosamente se non gli pareva di esagerare venendo a caccia in una sala giochi. Però, con quella faccia aveva successo, camminava spavaldamente tutto fiero della ragazzina di turno che lo accompagnava. Parla di soldi, ma per me è uno squattrinato. È un tipo che tiene molto alle apparenze, lo si capisce perché ha persino cambiato nome.
Informazioni fornite dalla cameriera (circa 30 anni) di uno snack bar vicino a casa sua
Di recente è venuto nel locale e ha incominciato a darsi un sacco di arie. Diceva che aveva in vista un grosso guadagno e voleva festeggiare. Sosteneva di avere in mano un lavoro molto importante, ma siccome mi hanno detto che è un usuraio credo solo a metà di quello che racconta. È un buon cliente, ma ha l’aria del piccolo furfante un po’ vigliacco.
Da quei voluminosi rapporti si intuiva il superbo lavoro svolto da Masako e dalle sue compagne. Pareva che negli ultimi tempi avessero iniziato un lavoro di smaltimento di cadaveri, in combutta con quel giovane delinquente di nome Jumonji. Veramente in gamba, pensò Satake e schiuse le labbra in un sorriso di scherno. Stanco di leggere gettò gli incartamenti in un angolo. Dalla finestra arrivava ancora la voce dell’ambulante amplificata dal megafono. Satake scostò la tenda appena un po’. Gli ultimi raggi del pallido sole di inizio inverno penetrarono nella camera e si misero a giocare con la polvere sospesa. Quindi non era ancora tramontato. Satake osservò impaziente la danza della polvere nell’aria. C’era
ancora abbastanza tempo prima delle sette, l’ora in cui sarebbe andato a lavorare. Suonarono alla porta. Si alzò in fretta, afferrò le cartelle, le infilò in una busta di carta e la gettò sotto il letto. Andò al citofono e, insieme al sibilo tempestoso del vento autunnale, lo raggiunse la voce affettata di Kuniko. «Signor Sato? Sono Jonouchi, la signora del quarto piano…» Aveva già abboccato! Satake allargò le labbra in un sorriso da un’orecchia all’altra, si raschiò la voce e disse: «Può avere un attimo di pazienza? Apro subito». Aprì completamente le tende e spalancò la porta della veranda per cambiare aria. Risistemò il letto e si accertò che la busta con i rapporti delle indagini fosse ben nascosta. «Scusi se l’ho fatta aspettare». Come aprì la porta, l’appartamento venne invaso dal vento del nord che soffiava impetuoso. Sul lato settentrionale della casa popolare imperversava sempre un vento gelido. Per un attimo le sue narici furono aggredite dal profumo di Kuniko. Satake lo riconobbe: era “Coco” di Chanel. Una volta Anna lo aveva avuto in regalo da un cliente, ma lui le aveva raccomandato di non usarlo perché era troppo forte. Un profumo troppo intenso avrebbe potuto causare guai inutili ai clienti, perché sarebbe rimasto attaccato addosso e se lo sarebbero portato a casa. «Scusi se mi presento così, all’improvviso…» Il vento scompigliò i capelli di Kuniko che, con un gridolino, cercò di trattenere la gonna. «Ma si figuri. Entri, la prego», la invitò cordialmente Satake. «Grazie», rispose Kuniko tutta contenta, e di colpo il piccolo ingresso fu riempito dalla sua mole. Sembrava pronta per uscire: si era messa un tailleur nero, stivali nuovi di zecca e una vistosa collana d’oro. Satake, com’era sua abitudine, ne stimò immediatamente il valore. Tutti gli articoli che Kuniko indossava erano imitazioni di marche famose, roba da poco prezzo. Kuniko lo guardava, in attesa che la facesse accomodare, spiando curiosa all’interno: «Vedo che si è già sistemato!» «Sa, la mia ex moglie si è portata via tutti i mobili, quando se ne è andata. Mi vergogno un po’, ma questo è tutto ciò che mi è rimasto». Satake indicò il letto accanto alla finestra. Kuniko gli diede uno sguardo e abbassò in fretta gli occhi. Un gesto che in lei sembrava impudico. Se solo avesse potuto immaginare che cosa aveva in mente di fare Satake su quel letto, sarebbe sicuramente scappata a gambe levate. «L’ho svegliata? Ma ieri sera non era al parcheggio». «No, ieri era il mio giorno di riposo». «Ah, sì? A dire il vero sono venuta a congedarmi da lei, signor Sato». «Cosa? Che cosa vuole dire?» domandò trasalendo Satake. Che avesse intenzione di squagliarsela proprio adesso che la aveva pescata? «Be’, sì, mi sono licenziata». «Mi dispiace davvero», commentò Satake con un tono che lasciava intuire la delusione. Ma a quel punto Kuniko, quasi sopraffatta dalla gioia, precisò: «Ma non cambierò casa, spero che vorrà continuare a frequentarmi, voglio dire come vicina». «Questo sì che mi fa piacere!» Satake colse l’occasione al volo e le indicò la camera: «È ancora piuttosto squallido, qui da me, ma non vuole entrare un momento?» Come se non avesse aspettato altro, Kuniko aprì impaziente le cerniere degli stivaletti che le stringevano i polpacci. «Sieda sul letto, per favore». Senza una parola Kuniko si diresse decisa verso il letto. Guardandole la schiena, Satake rifletteva su che cosa fosse meglio fare. Tutto era accaduto molto più in fretta di quanto non si fosse aspettato. Ma non doveva lasciarsi scappare questa occasione insperata. Si era risparmiato la fatica di trascinarla lì, e dal momento che si era licenziata, nessuno si sarebbe insospettito se l’indomani non si
fosse presentata al lavoro. «Non ho neanche un tavolo, mi vergogno». «Io invece l’invidio, a casa mia c’è troppa roba». Kuniko, seduta sul letto, si mise a ispezionare con occhio indagatore la camera, stranamente disadorna e priva di mobili. «Sembra un ufficio. Dove mette i vestiti e il resto?» «Be’, in realtà possiedo solo quello che ho addosso». Satake mostrò i pantaloni da lavoro e la giacca a vento che indossava dalla notte precedente. Erano tutti spiegazzati, perché non se li era tolti neanche per dormire. Kuniko lanciò uno sguardo rapito al corpo dell’uomo. «Gli uomini possono anche permetterselo, beati voi». Kuniko frugò nella borsetta stile Chanel, con la catenella dorata, e tirò fuori le sigarette. Satake appoggiò sul letto, vicino a lei, un portacenere accuratamente lavato. «Proprio qui dietro c’è una bella trattoria. Andiamo a bere qualcosa?» propose esitante Kuniko, accendendosi la sigaretta. «A essere sincero, non sopporto l’alcol», replicò Satake. Kuniko sembrava delusa, ma si riprese subito: «Ma potremmo anche solo andare a mangiare qualcosa, no?» «Va bene, sono pronto in un attimo. Aspetti qui per favore». Satake andò in bagno, si lavò i denti e il viso. Allo specchio constatò che i capelli, che di solito portava molto corti, erano cresciuti, e così pure la barba. Indugiò a guardarsi: dal suo viso era sparita ogni traccia della vita brillante di Kabukicho, e ora quello che vedeva era il volto di un uomo di mezza età che faceva il sorvegliante in un parcheggio. Ma la creatura nascosta nella palude del suo sguardo incominciava finalmente ad agitarsi. Si asciugò la faccia, aprì la porta del bagno e propose a Kuniko, che evidentemente si stava annoiando nella stanza vuota: «Signora Jonouchi, che ne direbbe se ci facessimo portare qui qualcosa di buono?» «Per esempio?» «Un sushi». «Perfetto!» Kuniko era raggiante. Ma Satake naturalmente non aveva alcuna intenzione di ordinare i sushi, perché nessuno doveva sapere che Kuniko era stata nell’appartamento 412. «Posso offrirle un caffè?» chiese Satake. Riempì d’acqua il bollitore, lo mise sul fornello e girò la manopola del gas. In realtà in quella casa non c’era assolutamente nulla, neanche il caffè. Aprì l’armadietto vuoto e rimase lì davanti come se stesse pensando. Poi sentì una presenza alle spalle e si girò: Kuniko era proprio dietro di lui. Era chiaro che si era accorta dell’armadio vuoto. «Ma non c’è niente lì dentro!» rise. «E con ciò?» Alla vista dell’espressione minacciosa di Satake, Kuniko rimase impietrita a guardare dentro, come davanti a un serpente incontrato su un sentiero di montagna. «Volevo solo darle una mano…» balbettò e indietreggiò verso il letto. Poi si voltò di scatto cercando una via di fuga. Satake approfittò dell’occasione: veloce come un lampo le mise il braccio sinistro intorno al collo e la mano destra sulla bocca, spingendola a terra. La mano, a contatto con il rossetto appiccicoso della donna, si era sporcata, ma Satake non ci fece caso e sollevò energicamente quel corpo pesante. Kuniko si dibatteva agitando le gambe, ma presto, schiacciata dal suo stesso peso, perse conoscenza. Satake la lasciò cadere sul pavimento e chiuse senza fretta il gas di cui non aveva più bisogno. Poi, facendolo rotolare di qua e di là come un tronco, spogliò con mani esperte il corpo inerte della donna. Quando fu completamente nuda la distese supina sul letto e, come aveva immaginato quel mattino, le legò mani e piedi ai montanti. L’intera operazione doveva essere una prova generale di quello che voleva fare con Masako. Tuttavia Kuniko gli faceva venire in mente solo un grande, sporco animale, e il suo desiderio, la sete di sangue che aveva così accuratamente coltivato, sparì di
colpo. Improvvisamente tutto gli dava fastidio: raggomitolò uno degli indumenti intimi che le aveva sfilato e glielo ficcò con forza nella bocca aperta. A un certo punto Kuniko tornò in sé. Si guardò intorno con gli occhi spalancati, cercando di capire che cosa era successo. «Nemmeno una parola, capito?» la minacciò a voce bassa. Kuniko annuì disperatamente. Satake le strappò dalla bocca la biancheria bagnata di saliva. «Per favore, mi liberi. Farò tutto quello che vuole, ma mi liberi per favore!» supplicò con voce flebile. Satake non le badò, ma incominciò a stenderle sotto alle natiche uno spesso strato di sacchi di plastica per la spazzatura, i più grandi che aveva trovato. Voleva evitare che sporcasse il letto di urina o feci, in fondo gli sarebbe ancora servito per dormire. «Che cosa fa?» Kuniko si contorceva spasmodicamente nell’inutile tentativo di liberarsi. «Niente. Sta’ zitta!» «Abbia pietà. La supplico». I piccoli occhi di Kuniko si riempirono di lacrime. «È stata Yayoi a uccidere suo marito?» chiese Satake. Kuniko annuì: «Sì, è vero, è stata lei». «E poi voi tre, Masako, tu e quella vecchiaccia, Yoshie o come si chiama, avete fatto a pezzi il cadavere, giusto?» «Sì». «E Masako era il capo, no?» «Ovvio». «E quanto vi ha pagato Yayoi?» «Cinquecentomila ognuna». A Satake venne da ridere. Non si era trattato altro che del ridicolo delitto di quattro casalinghe taccagne. E per una cretinata simile il suo passato era venuto alla luce e lui aveva perso tutto quello che aveva così faticosamente costruito! «E Masako? Anche lei ha avuto cinquecentomila yen?» «No, non ha voluto». «Perché no?» «Perché lei si crede la migliore», sparò fuori Kuniko. Risposta appropriata. Satake fece un sorriso truce. Perché lei si crede la migliore! «Come si sono conosciuti Masako e Jumonji?» Kuniko esitò un attimo. Non riusciva a credere che quell’uomo sapesse tutto. «Probabilmente si conoscevano già da prima». «Ed era per questo che eri andata da lui a chiedere un prestito?» «No, quello è stato un caso». «La storia sembra troppo bella per essere vera!» Kuniko ricominciò a piangere. Satake, credendo che piangesse di rimorso, la disprezzò. «Piangere non serve più a niente, troppo tardi». «La supplico, mi lasci andare». «Aspetta. Come mai Jumonji è venuto a conoscenza dell’accaduto?» «Gliel’ho confessato io». «Non ne hai parlato con nessun altro?» «No». «Lo sai che loro continuano a farlo?» Satake si sfilò dai pantaloni la larga cintura di pelle. Kuniko, che seguiva terrorizzata i suoi movimenti, scosse disperatamente la testa. Per la paura aveva il viso bianco come il gesso. «E allora, lo sapevi o no?» l’incalzò Satake e lei gridò: «No, di questo non ne so niente!» «È naturale che tu non ne sappia niente, perché non ci si può fidare di te! E perché non servi
assolutamente a niente!» Satake le mise la cintura intorno al collo. Lei avrebbe voluto urlare, ma dalla gola le uscì solo una specie di gracidio. Gli serviva un bavaglio, pensò. Tirò su da terra un capo di biancheria e glielo ficcò in bocca. Quando Kuniko, che non riusciva più a respirare, roteò gli occhi, Satake incrociò le estremità della cintura e tirò con forza. Il secondo omicidio della sua vita era stato davvero insulso. Liberò il cadavere dai lacci, lo spinse giù dal letto sul pavimento, lo avvolse in una coperta e lo fece rotolare sul balcone. Lo sistemò con attenzione in un angolo cieco, in modo che nessuno dei vicini potesse scorgerlo. Alzò gli occhi e si accorse che il sole stava tramontando dietro alla catena montuosa che aveva contemplato all’alba. Lentamente le montagne si fondevano con l’oscurità. Satake chiuse la porta del balcone ed esaminò il contenuto della borsa di Kuniko. Tirò fuori un paio di biglietti da diecimila che trovò nel portamonete, prese le chiavi dell’appartamento e quelle della Golf e infilò in un sacco vestito, biancheria, scarpe e tutto il resto. Si mise in tasca le chiavi di casa e il portafoglio e uscì sul pianerottolo col sacchetto in mano. Nel frattempo fuori era diventato buio pesto e soffiava un vento ancora più freddo di quello che aveva imperversato nel pomeriggio. Salì di un piano la scala di sicurezza fissata sulla facciata dell’edificio e diede uno sguardo al corridoio del quarto piano. Per fortuna era deserto. Evitò il triciclo e i vasi che vi erano stati abbandonati, si affrettò verso l’appartamento di Kuniko e aprì la porta. Nella stanza erano sparsi, in un selvaggio disordine, sacchetti, fogli e imballaggi vari che dovevano aver contenuto il vestito e gli altri accessori che evidentemente Kuniko aveva comprato da poco. Distribuì qua e là il vestito, la biancheria e la borsa e lasciò l’appartamento. Si guardò intorno per assicurarsi che non ci fosse anima viva, poi chiuse a chiave e con aria indifferente si diresse verso l’ascensore. Gettò la chiave dell’appartamento di Kuniko in uno dei bidoni della spazzatura a pianterreno. Quindi cercò la bicicletta e si lasciò alle spalle la casa popolare. Era di nuovo il sorvegliante del posteggio dello stabilimento delle colazioni.
6. Jumonji era al settimo cielo. La studentessa seduta al suo fianco, che indossava l’uniforme di un famoso liceo, era di una bellezza strepitosa. I capelli castano chiaro le ricadevano ai lati delle guance bianco neve dalla pelle fine e delicata e le labbra rosate erano sempre leggermente dischiuse. Le sottili sopracciglia formavano un elegante arco sopra i grandi occhi e le gambe, che spuntavano dalla corta minigonna, erano lunghe e slanciate. In breve, sembrava proprio una fotomodella. Jumonji, frenando a stento la voglia di saltarle addosso, le sussurrò con voce carezzevole: «E adesso, cosa vorresti fare?» «Per me è lo stesso. Tutto quello che vuoi». La voce era rauca e seducente, il suo corpo esalava un profumo che Jumonji non conosceva e tutto ciò che indossava era firmato. Da dove veniva quell’adorabile creatura? Chi era l’uomo che aveva tirato su una simile delizia? Jumonji contemplava rapito la liceale, circondata da un’aura di stile e buona educazione, così incantevole da parergli un miracolo. Completamente diversa dalle solite studentesse delle superiori, con i capelli che odoravano di balsamo da supermercato, che bighellonavano nelle squallide trattorie alla periferia occidentale di Tokyo. Grazie al cielo aveva abbastanza soldi per rintanarsi in un albergo con una donna di classe come quella. Non avrebbe rimpianto i centomila che le aveva promesso. «Allora andiamo in albergo?» «Va bene». «Davvero? Vale a dire che sei d’accordo?» La studentessa annuì con aria pudica. Jumonji, smanioso di muoversi di lì prima che la ragazza cambiasse idea, si mise a passare velocemente in rassegna i possibili hotel. In quel momento suonò il cellulare che portava infilato nella tasca posteriore dei pantaloni. «Solo un attimo», si scusò. Negli ultimi tempi si dedicava quasi esclusivamente al proprio piacere e aveva quindi preso l’abitudine di affidare il lavoro dell’agenzia all’impiegata più anziana. Forse aveva bisogno di consultarlo, per cui rispose con voce seccata: «Sono Jumonji, cosa c’è?» «Akira, ma dove ti sei cacciato?» lo apostrofò la caratteristica voce strascicata. «Signor Soga? Di nuovo molte grazie per l’altro giorno». Davanti all’atteggiamento deferente assunto all’improvviso da Jumonji, la studentessa si girò di malumore dall’altra parte e lui, per paura che se ne volesse andare, la afferrò subito per il gomito. «Non ne parliamo più. Immagino che tu sia in giro per Shibuya», dedusse Soga, sicuro di non sbagliare dal momento che poteva sentire il frastuono del traffico. Possibile che quello sfacciato dovesse chiamarlo proprio adesso? Jumonji aggrottò la fronte: «Già, e se così fosse?» «Be’, cosa sono tutte queste arie? Non sarebbe la prima volta che vai a fare il pavone da quelle parti!» «Sì, ma…» Jumonji si grattò la testa. Continuava a tenere la studentessa per il gomito, ma lei non faceva nessun tentativo di nascondere che ormai lui non le interessava più e si guardava inquieta intorno. Il viale di Shibuya era pieno di tipi come lui, alla ricerca di giovani ragazze, e Jumonji, non appena si accorse che alcuni uomini avevano incominciato a gironzolare nei pressi in attesa della sua prossima ritirata, si innervosì. «Che ne è stato della tua Nissan Laurel con il tubo di scappamento allungato verso l’alto?» continuò a scherzare Soga, sempre più divertito. «Di che cosa si tratta esattamente, qual è il motivo della telefonata?» «Ah, allora sei con una ragazza, vero? Il solito vecchio don Giovanni con il complesso delle lolite! Sei tutto scemo!» «Sì, ha ragione, lo ammetto e chiedo scusa, basta?» «Sì, ma purtroppo non serve». Di colpo il tono di Soga si fece serio. «C’è un lavoro».
«Che cosa? Un incarico?» Jumonji, colto di sorpresa, abbandonò il gomito della liceale. «Allora alla prossima volta», disse subito la ragazza, e se ne andò. Un paio di uomini, che assomigliavano molto a Jumonji, la seguirono. Maledizione! Con sguardo malinconico Jumonji seguì la gonnellina a pieghe della studentessa che si allontanava facendo ondeggiare i fianchi graziosi. Ma non c’era niente da fare, il lavoro è lavoro. Se entravano altri soldi si sarebbe potuto concedere senza problemi dieci ragazze come quella. Jumonji si rinfrancò e si scusò con Soga: «Mi dispiace. Ero un po’ distratto». «Ti ha mollato, vero? Vedi di schiarirti la testa: la cosa odora di bruciato!» tuonò Soga. Jumonji fu costretto a pensare ai suoi occhi spietati e incominciò a sudare freddo. «Sì, mi scusi». «Be’, lo sai che apprezzo il tuo lavoro. L’ultimo incarico lo hai svolto in maniera perfetta». «Grazie». Il rumore era diventato troppo forte. Jumonji si tirò fuori dalla confusione della folla e si spostò sotto la pensilina di un edificio. «Mi raccomando solo di essere molto prudente anche questa volta. Il cliente vorrebbe consegnarci la merce già questa notte». «Questa notte?» ripeté Jumonji pensando a come avrebbe potuto avvisare Masako. Guardò l’orologio da polso: erano le otto di sera. Si tranquillizzò: a quell’ora poteva ancora trovarla a casa. «Sì, alla fin fine si tratta di merce deteriorabile, non c’è tempo per gingillarsi». «Questo è vero». «L’appuntamento è al parco di Koganei, ingresso posteriore. Esattamente alle quattro del mattino». «Capito», rispose Jumonji, imprimendosi bene in mente luogo e ora. Soga continuò in tono insolitamente basso e cupo: «Questa volta l’incarico ci viene da un canale che non è quello dell’altra volta. La cosa mi preoccupa un po’ quindi, per precauzione, sarò presente anch’io». «Che significa?» «C’è un canale di cui ci si può fidare: il nonnino dell’altra volta è arrivato grazie a quel canale, ma questa volta l’affare è stato per così dire preso al volo». «Al volo? Non è cosa da professionisti!» «Vero», approvò Soga. «Ha continuato a ripetere di aver cercato me perché qualcuno gli ha spifferato il mio nome, ma non vuole dirmi chi. Perciò, a scanso di equivoci, ho alzato il prezzo e ci siamo messi d’accordo per dieci milioni», raccontò Soga senza nascondere niente. «Il che significa che lei, signor Soga, prenderà un milione di più?» chiese subito Jumonji. «Sì, e tu anche». Jumonji dimenticò immediatamente la liceale che lo aveva piantato in asso e ritrovò il buonumore. Se fosse riuscito a intascare quell’extra senza farlo sapere a Masako, avrebbe guadagnato tre milioni. «Grazie mille, Soga-san». «Ma la prudenza non è mai troppa. Porterò i miei ragazzi. E sarebbe bene che anche tu tirassi fuori dall’armadio la spada e tutto l’equipaggiamento da kamikaze». «Non mi prenda in giro!» Il tono di Soga, tutt’altro che faceto, lo preoccupava un po’ ma, pregustando la bella sommetta che lo aspettava, gli sembrava già di toccare il cielo con un dito. Prese subito l’agendina e telefonò a Masako. Se non avesse potuto occuparsene l’indomani mattina, gli sarebbe toccato vagabondare tutto il giorno con lo scomodo carico nell’auto. Rispose Masako in persona. Aveva una voce nasale, forse era raffreddata. «Per farla breve, abbiamo avuto un altro incarico, che ne dice?» Masako rispose alzando appena il tono della voce, non sembrava particolarmente entusiasta: «Troppo presto, se vuole sapere la mia opinione». «Forse è girata voce che offriamo buone prestazioni». Al suo tono allegro Masako rispose con il
silenzio. Jumonji credeva che dipendesse dalla paura, tuttavia doveva assolutamente convincerla: «Collaborerà, vero, signora Katori?» «Non si potrebbe rifiutare, almeno per questa volta?» «Perché?» «Ho un brutto presentimento». «È solo il seconda incarico e lei ha già un brutto presentimento? Ma così non va!» Jumonji non aveva nessuna intenzione di cedere. «Mi farà perdere la faccia». «C’è qualcosa di peggio che perdere la faccia», rispose enigmatica Masako. «A che cosa allude?» Masako tuttavia non diede spiegazioni: «Al momento non mi va bene». «Signora Katori, forse questo non sarà il momento migliore per lei, ma il suo non è l’atteggiamento giusto per chi deve affrontare un lavoro. Alla fin fine anch’io devo di nuovo andare fino a Kyushu per eliminare tutto. Non è solo il suo lavoro a essere pericoloso, lo sa, vero?» «Certo, lo so», rispose Masako a voce bassa. A Jumonji saltarono i nervi: «Allora, se si vuole tirare indietro, mi rivolgerò alla maestra. E se non ci sta neppure lei, a Kuniko. Quella cicciona farebbe qualsiasi cosa per i soldi!» «Questo è fuori discussione. Se quella cialtrona fa qualche idiozia, ci mette tutti in pericolo!» «Esattamente», insistette Jumonji, «e perciò faremo tutto come l’altra volta. Mi affido a lei!» «Bene», disse Masako, come se finalmente si fosse persuasa. «Mi può procurare degli occhiali da subacqueo?» «Porterò quelli da moto, se le possono servire». «Bene. Se dovesse succedere qualcosa, le telefonerò». Con la sensazione di avere concluso con successo una difficile trattativa di affari, Jumonji mise via il cellulare e guardò l’orologio. C’era ancora tempo, molto tempo, prima delle quattro del mattino. Chissà se lì intorno c’era un’altra bellezza come quella di prima. Avrebbe pagato qualsiasi somma, visto che ormai i rinforzi finanziari erano assicurati. Baldanzoso e in vena di spendere, Jumonji ritornò nella calca di Shibuya e iniziò la sua caccia: quale delle ragazze che passeggiavano sul viale avrebbe potuto rendere felice? Chissà perché Masako Katori si era mostrata così riluttante. Comunque non aveva né tempo né voglia di pensarci. Mancavano pochi minuti alle quattro del mattino. Jumonji posteggiò la Maxima davanti all’ingresso posteriore del parco di Koganei, dove si erano dati appuntamento. Da una parte della strada, al di là del guardrail, si estendeva il parco immerso nell’oscurità, dall’altro lato la linea scura delle case addormentate con le finestre ermeticamente chiuse. Nulla si muoveva, il silenzio era assoluto. Non c’era un solo lampione e in tutta la zona, completamente buia, non si avvertiva il minimo segno di vita. Gli alberi del parco stormivano cupi al vento come quelli di una selva tenebrosa. Per evitare di vederli, Jumonji si girò dall’altra parte. Improvvisamente gli era venuto in mente che quello era il parco in cui Kuniko aveva abbandonato i pezzi del cadavere, e la coincidenza era un po’ preoccupante. Faceva freddo. Tirando su con il naso Jumonji cercò di abbottonarsi la giacca, ma si accorse che mancava un bottone. Irritato pensò che era tutta colpa della donna con cui era stato fino a poco prima. L’aveva presa per una liceale, ma poi aveva scoperto che aveva già ventun anni. Mentre lui era in bagno, lei gli aveva frugato nella giacca e il bottone doveva essere caduto quando, furioso, gliela aveva strappata di mano. Una vera disdetta! Il pensiero gli balenò per un attimo nella mente, ma subito lo accantonò. Tra poco avrebbe avuto in mano tre milioni di yen in contanti, non si poteva certo parlare di disdetta. Si sforzò di essere ottimista e proprio allora udì una macchina che si avvicinava da destra e già illuminava con i fari le luci posteriori della sua Maxima. «Bene, sei già qui». Soga scese dalla sua Gloria nera e alzò la mano in segno di saluto. Era già
l’alba, tuttavia indossava ancora un lussuoso cappotto di cammello e un vestito nero. Al volante sedeva il ragazzo biondo, mentre il tipo con la testa rapata scese e si fermò ad alcuni passi di distanza. «La ringrazio di essere venuto, Soga-san». «Voglio sapere con chi abbiamo a che fare, per cui preferisco vedere di persona questo brutto ceffo». Rabbrividendo Soga si tirò su il bavero e infilò le mani nelle tasche. «Già, chissà chi è e in che stato è la merce che ci porta». «Mah, non lo so proprio», mormorò Soga inquieto. «Deve essere una grande porcheria, se è pronto a sganciare dieci milioni». «Potrebbe avere ragione». «Hai intenzione di infilare il materiale lì dentro?» si informò Soga additando la Maxima. «Già». «Per carità, a uno potrebbe venir male!» commentò Soga disgustato. La volta precedente erano stati il biondo e il rapato a trasportare il cadavere e a consegnare il denaro, lui si era limitato a dare istruzioni per telefono. E solo per questo si era intascato due milioni! Jumonji ribatté un po’ stizzito: «Questo, appunto, fa parte del mio lavoro!» «Su, non prendertela», rispose protettivo Soga, cui non mancava un fine intuito, dandogli una pacca sulla spalla. In quel momento si accorsero di una monovolume con gli abbaglianti accesi che si dirigeva verso di loro. Le luci accecanti si avvicinavano sempre più. Per un attimo Jumonji ebbe l’impressione che si avvicinasse un mostro. «È lui!» Soga schiacciò la sigaretta sul guardrail e consegnò il mozzicone al biondo che sembrava nervoso. «Che ne faccio?» domandò il biondo tendendo le mani. «Idiota! Cerca di immaginare che cosa potrebbe succedere se la dovessero trovare qui! Mangiatela!» Il biondo si affrettò a infilare il mozzicone nella tasca della giacca. Jumonji deglutì. Non sentiva più il freddo. La monovolume si fermò davanti a loro. Gli abbaglianti restarono accesi, in modo che non si potesse vedere il numero di targa. Si aprì la portiera e uscì un uomo. Era abbastanza alto, robusto e vestito in modo da non dare nell’occhio, con calzoni da lavoro e giacca a vento. Non si riusciva a distinguere il viso, perché portava un berretto ben calcato in testa. Ma, appena lo vide, a Jumonji venne la pelle d’oca. Non avrebbe saputo dire perché. «Sono Soga, della Toyozumi». «Che cosa succede? Un comitato di accoglienza?» rispose l’uomo a voce bassa, appena distinguibile. «Be’, mi scusi, ma a dirla franca il fatto che lei non mi abbia raggiunto attraverso i soliti canali mi preoccupa un po’. Posso chiederle da chi ha saputo di questa cosa?» «Questo a lei non deve interessare!» «Senta…» «Basta!» L’uomo prese un sacchetto di carta dalla tasca della giacca a vento e la gettò a Soga che l’aprì e controllò il contenuto. Jumonji tirò l’occhio e vide dieci pacchetti di banconote da diecimila yen trattenuti da fascette. Accertatosi che la somma fosse esatta, Soga annuì e fece un cenno con il mento a Jumonji: «Siamo a posto. Sbrigati». L’uomo aprì rumorosamente la portiera posteriore della macchina. Nell’oscurità Jumonji scorse qualcosa dalla forma vagamente umana avvolto in una coperta. Un corpo basso, grasso, formoso. Che si trattasse di una donna? Jumonji, che non aveva mai messo in conto che gli avrebbero potuto consegnare un cadavere femminile, rimase di sasso.
«Non fartela nei pantaloni!» gli abbaiò contro l’uomo tirando il cadavere fuori dall’auto. Il biondo e il rapato si affrettarono ad aiutarlo. Il corpo cadde pesantemente sull’asfalto e l’uomo chiuse il portello. Senza voltarsi a guardare, risalì in macchina, mise in moto e sparì a marcia indietro nella direzione da cui era arrivato. Il motore in retromarcia andò su di giri, riempiendo il silenzio del viale immerso nelle tenebre. La sagoma dell’auto divenne sempre più piccola per poi sparire nell’oscurità. Tutto era accaduto molto in fretta. «Faceva proprio paura», commentò Jumonji. Soga si limitò a sibilare a bassa voce: «Scemo. Gli assassini non sono uomini come gli altri, questo è chiaro!» Che fosse stato proprio lui a ucciderla? Jumonji fissò inorridito il corpo avvolto nella coperta e legato strettamente con una corda. «Perché è andato via a marcia indietro?» «Sei proprio stupido! Per evitare che riconoscessimo la targa, e poi voleva essere sicuro che non lo seguissimo». Jumonji tremava come una foglia. Lo assalì la consapevolezza bruciante di essersi fatto coinvolgere in una cosa orrenda. Ecco perché prima gli era venuta la pelle d’oca. «Su, prendilo e vattene!» Soga tirò fuori tre mazzette di banconote dal sacchetto e poi gli lanciò addosso il resto. Con qualche difficoltà Jumonji riuscì a ficcare il sacchetto in fondo alla tasca. Il biondo e il rapato si diedero da fare per caricare il cadavere nel bagagliaio della Maxima. Soga rimase in silenzio, come se masticasse qualcosa di amaro. «È una donna, vero?» «Sembrerebbe», rispose Soga girandosi verso di lui. Non sorrideva. «Forse una studentessa». «La smetta!» Non era solo il freddo dell’alba che lo faceva gelare. Si udì il rumore secco del portello che si chiudeva. I due ragazzi si strofinarono ripetutamente le mani, come se avessero toccato qualcosa di sporco, e si annusarono più volte le dita. Soga diede un’altra pacca sulla spalla di Jumonji e disse: «Be’, mi farò vivo. Fatti forza». «Soga-san!» Jumonji, che aveva paura di rimanere solo, lo fissò negli occhi. Soga si passò la lingua sulle labbra. «Che c’è? Non dirmi che te la fai sotto?» «No, no». «Non rovinare tutto. Potrebbe essere estremamente pericoloso». Detto questo fece cenno di partire al rapato che aspettava accanto alla portiera aperta. Salì sull’auto e la Gloria si allontanò rombando nella direzione da cui era venuta, quasi in fuga. Subito sulla strada fu di nuovo buio pesto. Jumonji, rimasto solo, avviò il motore, continuando a lottare contro il desiderio di lasciare lì l’auto e tutto quello che c’era dentro e svignarsela a gambe levate. Era la prima volta in vita sua che aveva veramente paura. Dopo alcuni minuti che guidava si accorse che non era il cadavere nel bagagliaio la causa del suo terrore, ma l’uomo che l’aveva portato.
7. Per la prima volta, quella settimana, si sentiva di nuovo abbastanza bene, il raffreddore stava andandosene. Lo specchio le rimandò l’immagine di un viso leggermente provato, ma le guance avevano ripreso colore e le occhiaie erano quasi sparite. E questo nonostante si stesse di nuovo accingendo ad affrontare quel lavoro orrendo, pensò cinicamente Masako continuando a guardarsi. Per fortuna Yoshiki era uscito puntuale per andare al lavoro, e anche Nobuki se ne era andato la mattina presto. Dalla notte in cui avevano parlato, Yoshiki si ritirava ancora più spesso in camera sua. Da quando gli aveva detto che forse se ne sarebbe andata, evidentemente cercava di alzare barriere ancora più alte fra loro, per non essere ferito. Benché vivessero sotto lo stesso tetto, era come se fossero separati da molti anni, pensò Masako, incapace di liberarsi dall’amarezza. Nobuki almeno aveva a poco a poco incominciato a rivolgerle qualche parola, anche se si limitava a chiedere che cosa c’era da mangiare o cose del genere. Masako tuttavia ne era contenta. Si mise a preparare il bagno per il lavoro. Mise da parte sapone, shampoo e il resto, e stese un foglio di plastica sulle piastrelle. Spalancò la finestra per fare uscire il vapore del bagno della sera precedente. Era una bella giornata di fine autunno, straordinariamente tiepida. Le sue condizioni fisiche, il tempo, tutto era perfetto, ma era oppressa dall’angoscia. Come poteva spiegarlo a Jumonji, così entusiasta, e a Yoshie? E chi poteva essere il “nemico misterioso”? Masako aveva un sospetto. Le era venuto un giorno che se ne stava a letto raffreddata. Ma ovviamente non aveva prove certe. Chiuse la finestra e la porta del bagno e corse in ingresso, davanti alla porta chiusa. Faceva fatica ad aspettare l’arrivo dell’oggetto. Non perché fosse ansiosa di riceverlo, ma per l’inquietudine. Perché quello che la angosciava non era tanto il corpo morto, quanto la nuova, diversa piega che avrebbe preso l’avvenimento. Agire senza avere idea di dove sarebbe andata a parare le toglieva ogni sicurezza e non riusciva a sopportarlo. Infilò i piedi nei grandi sandali da spiaggia di Nobuki e scese sul pavimento di cemento. Non riusciva a stare in casa e neppure ad andare fuori ad aspettare Jumonji, per cui rimase ferma vicino alla porta, le braccia strette davanti al petto, come per tenere ferma in fondo al cuore quell’inspiegabile angoscia. «Maledizione!» disse a bassa voce, come per costringersi a reagire. Tutto questo non le piaceva, non le andava proprio. E anche lei non si piaceva. Si era lasciata prendere dalle circostanze prima di rendersene conto. Possibile che il “nemico misterioso”avesse previsto anche questo? La cosa incominciava a sembrarle sempre più plausibile. La Maxima blu scuro davanti a casa sua avrebbe attirato l’attenzione, anche se si fosse fermata per poco tempo. La prossima volta avrebbe fatto meglio a servirsi della sua auto, ma adesso non aveva abbastanza tempo e chissà se sarebbe andato tutto liscio anche oggi. Non riusciva a scrollarsi dalle spalle il rimorso di essersi cacciata fino al collo in quello stupido pasticcio e la terribile sensazione di avere tralasciato qualcosa. Stava lì ad arrovellarsi nello stretto ingresso, mentre il senso di smarrimento continuava ad aumentare e prima o poi l’avrebbe fatta scoppiare come un palloncino troppo gonfio. Infine si decise ad aprire la porta e uscì. Era una mattinata calda. Intorno alla casa regnava la solita quiete. In fondo, nei campi, si levava un filo di fumo, probabilmente stavano bruciando foglie secche. Nel cielo azzurro e vellutato si spostava lentamente un aeroplano a elica e dalla casa vicina la raggiungeva il tintinnio dei piatti lavati. Una mattina come tante altre. Masako diede uno sguardo al terreno edificabile con il mucchio di terra rossa al di là della strada. La donna di mezza età che le aveva detto di volerlo comprare da quella volta non si era più fatta vedere. Non c’era niente che saltasse all’occhio, nulla era cambiato, eppure
c’era qualcosa di sinistro. Udì stridere i freni di una bicicletta. «Eccomi qui». Yoshie indossava una vecchia giacca a vento nera, che chiaramente le aveva passato Miki, sul vestito di jersey grigio. Masako le guardò gli occhi arrossati dopo la notte di lavoro, che stentavano ad adattarsi alla luce. Se fosse andata allo stabilimento, anche lei avrebbe avuto quella faccia. «Ti va bene, maestra?» «Sì, benissimo. Sono stata io a volerlo. In fondo ti ho detto di avvisarmi, no?» L’espressione di Yoshie era determinata come mai prima di allora. In fondo ai suoi occhi si leggeva il desiderio selvaggio di guadagnarsi dei soldi. «Vieni dentro, svelta», la sollecitò Masako, mentre stava ancora sistemando la bicicletta. Yoshie varcò la soglia, si sfilò le scarpe di tela che sembravano pantofole da bambini, e la guardò preoccupata. «Come va il tuo raffreddore?» Da quando era passata da Yoshie – quel giorno pioveva – Masako si era presa un brutto raffreddore e non era più andata a lavorare. «Molto meglio». «Grazie al cielo! Tuttavia questo lavoro, con tutta l’acqua fredda che serve, non è la cosa migliore per te!» Naturalmente alludeva al dissezionamento del cadavere. La volta precedente si erano accorte che il lavoro procedeva meglio se si lasciava scorrere l’acqua e si continuava a sciacquare. «Come va allo stabilimento?» «Se sapessi», rispose Yoshie abbassando la voce. «Kuniko si è licenziata». «Cosa! Kuniko?» «Sì, figurati. Tre giorni fa, all’improvviso, ha presentato le dimissioni. Il caposquadra deve avere anche fatto un tentativo pro forma di dissuaderla, ma sai com’è. Quelle come Kuniko sono tutte uguali. Da allora non è più venuta», disse Yoshie togliendosi la giacca a vento e piegandola con cura. Masako guardò distrattamente la fodera bianca di flanella logora e, in molti punti, sottile come un velo. «Anche la Yama-chan non viene più», continuò Yoshie, «e tu te ne stai a casa ammalata. Ero completamente sola. Mi sentivo talmente abbandonata che ho aumentato a diciotto la velocità del nastro trasportatore. Avresti dovuto vedere! Sembravano tutte delle galline spaventate e hanno incominciato a reclamare! Non sopporto quelle schiappe». «Me lo posso immaginare!» «E poi ieri notte il brasiliano mi ha chiesto di te». «Il brasiliano?» «Ma sì, quel ragazzo, Miyamori si chiama, o qualcosa del genere». «Che cosa ti ha chiesto?» «Se non venivi più. Sembra che il poveretto si sia innamorato di te». Masako ascoltò in silenzio, senza rispondere alle facezie di Yoshie. Vide davanti a sé l’espressione offesa di Kazuo, come se ne stava fermo con aria smarrita in mezzo alla strada, quella notte d’estate. Ma ormai era passato tanto tempo! Yoshie smise di parlare e aspettò per un po’ la reazione di Masako. Alla fine, rassegnata, continuò: «Quel ragazzo ha imparato molto bene il giapponese, davvero, sono rimasta stupefatta! Forse quando si è giovani è più facile imparare». Yoshie era particolarmente loquace, forse eccitata dal lavoro che la aspettava. Masako, sommersa dal profluvio di parole della compagna, meditava se fosse giusto raccontarle della sua angoscia, e rimaneva lì indecisa, come se attendesse sotto una pensilina la fine di un acquazzone. Allora sentirono il rumore della portiera di un’auto davanti alla porta.
«Eccolo!» esclamò Yoshie alzandosi. «Aspetta!» Masako andò alla porta e per prudenza guardò fuori attraverso lo spioncino. La Maxima blu scuro era parcheggiata esattamente davanti alla porta. Jumonji era puntuale. Aveva appena socchiuso la porta che Jumonji era già sceso dall’auto e si stava avvicinando. Dopo la notte insonne, la pelle del suo viso era tutta lucida. Bisbigliò: «Signora Katori. Questa volta è una cosa orrenda, signora Katori». «Perché?» «È una donna», rispose a bassa voce. Masako fece schioccare la lingua. Si era preparata a vedere qualcosa di terribile, per cui le sembrava strano che l’idea di dissezionare un corpo del suo stesso sesso le facesse rizzare i capelli. Jumonji, assicuratosi che nessuno li osservava, aprì piano il cofano chiuso a chiave. Alla vista del grosso fagotto avvolto in una coperta – pareva un enorme bruco – Masako, senza volere, fece due passi indietro. Quando avevano portato il vecchio, il fagotto era piccolo e sottile, questo invece non era piatto, bensì piuttosto tondeggiante e più grosso all’altezza del petto. «E allora?» Yoshie, che li aveva raggiunti, si sporse a guardare da dietro le loro schiene e fece un gridolino. Bastava la cura con cui l’avevano sistemato e legato per renderlo ancora più inquietante dei cadaveri del vecchio e di Kenji, nascosti soltanto da una coperta. «Svelte, portiamolo dentro!» Jumonji allungò le braccia distogliendo il viso, come se il solo toccarlo gli ripugnasse. Masako gli diede una mano. La rigidità cadaverica si era un po’ attenuata, e il corpo era afflosciato, per cui sembrava ancora più pesante. In tre lo trasportarono in bagno e lo lasciarono cadere sul telo di plastica, poi si guardarono perplessi. «Ho preso un bello spavento, quando sono andato a prenderlo! Avreste dovuto vedere l’uomo che l’ha portato! Tremavo letteralmente dalla paura!» «Perché?» «Be’, perché senz’altro è stato lui a ucciderla». «Come può dirlo? Forse si è occupato soltanto del trasporto», lo consolò Yoshie, premendosi una mano sul petto per calmare i battiti del cuore. «No, anche se sembra strano, questo era proprio chiaro!» la contraddisse Jumonji alzando la voce. Aveva gli occhi arrossati. Forse era vero, pensò Masako, ma non disse nulla. Anche con Yayoi era stato così. Quella sera l’amica aveva un aspetto del tutto inconsueto. «Lei è un uomo, no? Forza, allora, tagli la fune, svelto!» Evidentemente a Yoshie non era piaciuto il modo in cui Jumonji le aveva chiuso la bocca. Prese le forbici da cucina e gliele ficcò spietata in mano. «Tocca a me?» «Ovvio. È lei l’uomo, qui, e l’uomo deve sempre dare il buon esempio». Yoshie continuava a scagliargli addosso la parola “uomo” come se fosse uno strumento di tortura. Alla fine gli diede una spinta e Jumonji si decise a prendere le forbici. Per prima cosa tagliò la fune stretta saldamente intorno al fagotto. Poi tirò un lembo della coperta, scoprendo le gambe. Gambe grasse, bianche. Anche le caviglie erano grosse e, dietro, cosparse di chiazze violacee. Yoshie urlò e si nascose dietro la schiena di Masako. Poi comparve il tronco molle: non si vedevano ferite. I grassi seni pendevano flosci a destra e a sinistra. Anche se obeso, il corpo doveva essere quello di una donna ancora nel fiore degli anni. Ma la testa non si decideva a comparire, come se avesse disperatamente addentato la coperta. Masako fece per aiutare Jumonji a tirare via del tutto la coperta, ma a un tratto, istintivamente, si fermò. La testa infatti era infilata in un sacchetto di plastica nero, legato intorno al collo con uno spago, in modo che non fosse facile liberarla. «Ma che cosa significa? Che impressione!» Yoshie indietreggiò fino allo spogliatoio. Jumonji sembrava essere sul punto di vomitare. «Probabilmente le ha fracassato la faccia. Disgustoso!»
«Un momento. Perché mai le avrebbero coperto il viso? A meno che…» Spinta da un presentimento, Masako afferrò le forbici e tagliò svelta la plastica nera. E tutto divenne chiaro come il sole. «Infatti è proprio Kuniko». Una faccia ottusa, con la lingua penzoloni e gli occhi semiaperti. Il viso esanime di Kuniko, i suoi piccoli occhi astuti, la sua avida bocca rilassata. Il bagno, che fino ad allora era stato solo il luogo in cui dissezionavano corpi più o meno sconosciuti, si trasformò di colpo in una camera mortuaria, solo perché il cadavere era quello di una che conoscevano bene. Nessuno parlava. Poi Yoshie scoppiò in singhiozzi. Jumonji era paralizzato dal terrore. «Me lo descriva! Svelto, mi dica che tipo era!» lo aggredì Masako. «Non ho potuto vedergli bene il viso». La voce di Jumonji era rotta dall’emozione. «Era abbastanza grande e robusto, con una voce bassa…» «Ma ce ne sono migliaia di tipi così!» Masako era fuori di sé. «È inutile che continui a gridare, io non so altro!» Jumonji, in preda alla disperazione, girò la testa di lato. Yoshie sedeva per terra nello spogliatoio e piangeva. Continuava a ripetere, come una giaculatoria: «Doveva capitare, è la vendetta del cielo, lo avevo detto che non si poteva fare…» «Smettila!» Masako corse nello spogliatoio e la prese per le spalle. «Smettila di cianciare, non abbiamo tempo! Qualcuno ci ha presi di mira!» Yoshie la guardò attonita, come se non avesse la minima idea di cosa voleva dire Masako. «Che significa?» «Kuniko ci è stata spedita apposta. È chiaro!» «Ma potrebbe anche essere stato un caso», protestò Yoshie. «Ma che dici!» urlò Masako. Era talmente eccitata che non riusciva più a controllare il tono della voce. Si morse le unghie, cercando di recuperare la sua consueta freddezza. Intervenne Jumonji: «A pensarci bene, il cadavere mi è stato consegnato davanti all’ingresso posteriore del parco di Koganei. Ecco che cos’era quello strano presentimento». «Davvero?» A Masako si drizzarono i peli su tutto il corpo. Sapeva tutto. Quel delinquente sapeva tutto. Perciò aveva ucciso Kuniko, per terrorizzarli. Ma a che scopo? Rivolgendosi a Kuniko, afflosciata sul pavimento davanti a lei, si mise a urlare: «Stupida oca svergognata, dicci subito che cosa è successo!» Jumonji le afferrò un braccio: «Si calmi adesso, signora Katori». Yoshie la guardava a bocca aperta: «Che cos’hai adesso?» «Come se non ci fosse da diventare pazzi!» sbuffò Masako. «Perché?» «Lo volete davvero sapere? Bene, adesso ve lo dico chiaro e tondo», rispose girandosi verso di loro. «Qualcuno ci ha preso di mira. Questo qualcuno si è intrufolato in casa di Yama-chan e la ha spiata. È venuto a ficcare il naso anche da me. Poi ha escogitato il piano di avvicinare Kuniko e ucciderla per farcela eliminare». «E perché uno dovrebbe prendersi tutto questo disturbo? Anche se ha ammazzato Kuniko, che bisogno ha di spedircela? È stato sicuramente un caso», piagnucolò Yoshie. «No, l’ha fatto di proposito, per mostrarci che sa tutto». «Ma perché?» «Per vendetta». Come lo disse, Masako ebbe l’impressione di avere risolto l’enigma. Proprio così. Quell’individuo voleva vendicarsi! Aveva perso un mucchio di tempo a spiare accuratamente in giro per potersi vendicare! All’inizio aveva pensato che mirasse al premio dell’assicurazione, ma non era così. Altrimenti non avrebbe speso tutti quei soldi per far eliminare il cadavere di Kuniko. Ora Masako aveva proprio paura e dovette lottare per non mettersi a piangere. Jumonji aggrottò la fronte: «Ma chi potrebbe essere?»
«Forse il proprietario della casa da gioco. Non riesco a immaginare nessun altro». Jumonji e Yoshie si scambiarono uno sguardo. «E come si chiama?» «Mitsuyoshi Satake. Quarantatré anni». Masako aveva cercato il nome e altre informazioni su vecchi giornali. «È stato scarcerato per insufficienza di prove e da allora è sparito dalla circolazione». «Dimostrava più o meno quarantatré anni?» domandò Yoshie a Jumonji. «Non saprei. Era buio e aveva un berretto in testa. Ma dalla voce direi di sì. Quindi io sono l’unico che l’ha visto, vero?» Jumonji fece una smorfia di disgusto. «E non voglio incontrarlo mai più!» Davanti all’espressione terrorizzata di Jumonji, Yoshie ricominciò a piangere: «E adesso che cosa dobbiamo fare? Per amor del cielo, dimmi che cosa devo fare!» Masako continuava a mordersi le unghie. «Prendere i soldi e svignarsela». «Ma per me è assolutamente impossibile». «Allora non ti resta che stare sempre molto attenta». Detto questo Masako si girò di nuovo verso il corpo di Kuniko. Che cosa dovevano farne? Questo era il primo problema da affrontare. Farlo a pezzi? Potevano anche risparmiarsi la fatica, dal momento che chi l’aveva mandato aveva già raggiunto il suo scopo, quello di terrorizzarli. Tuttavia abbandonare il cadavere così com’era sarebbe stato troppo pericoloso. «Che ne facciamo di Kuniko?» «Andiamo alla polizia e confessiamo tutto», sbottò Yoshie con voce opaca. Distrutta, si era accasciata sul pavimento vicino alla lavatrice. «Perché dobbiamo continuare ad agire in modo così sconsiderato? Non ho nessuna voglia di stare ad aspettare finché non farò la fine di Kuniko!» «Allora finiremo tutti dietro alle sbarre. Ti va bene?» «No», disse Yoshie, «ma che altro possiamo fare?» «Abbandoniamola da qualche parte così com’è», propose Jumonji dopo un breve silenzio meditativo, lo sguardo fisso sugli opulenti seni di Kuniko. «Dove?» «In un luogo qualsiasi. Poi facciamo finta che non sia successo niente». «Potrebbe essere una soluzione. Ma voglio inchiodare questo Satake alle sue responsabilità». «E come vorrebbe fare?» chiese Jumonji guardandola con aria critica. «Non lo so ancora, ma voglio fargli capire che non resto qui seduta a tremare di paura». «Ma cosa ti viene in mente!» gridò Yoshie incredula. «Sei impazzita?» «È l’unico sistema per metterlo in difficoltà. Se non facciamo qualcosa noi, sarà lui a farci fuori tutti, nell’indifferenza generale e per sempre». «Bene, signora Katori, quale le sembra la soluzione migliore?» chiese Jumonji socchiudendo gli occhi e accarezzandosi la barba che gli era cresciuta durante la notte. «Non potremmo rimandargli a casa il cadavere di Kuniko?» «Ma dove abita?» Yoshie, completamente sfinita, si premeva le mani sugli occhi. «Non lo sappiamo mica, no?» «È vero», ammise Masako, e incominciò a rimuginare. «Un momento!» Jumonji fece un gesto come per placarle. «Pensiamoci bene. Questa è una questione importante». Allora Masako vide il pezzo di tessuto nero in bocca a Kuniko. Si infilò svelta un paio di guanti di plastica e lo tirò fuori. Erano dei lussuosi slip bordati di pizzo, appallottolati con cura, della taglia di Kuniko. Probabilmente li aveva indossati immaginando che avrebbe avuto l’occasione di svestirsi. Nello spogliatoio dello stabilimento, infatti, le aveva sempre visto addosso biancheria da poco prezzo. «Glieli ha ficcati in bocca e l’ha strangolata», dichiarò Jumonji guardando impietosito il largo ematoma sul collo di Kuniko.
Continuando a tenere in mano gli slip, Masako gli chiese: «Mi dica, Jumonji-san, era un bell’uomo?» «Be’, della faccia non posso dire molto, ma come corporatura non era male». Kuniko era stata adescata! Masako cercò di ricordare se la compagna le avesse parlato di un uomo. Ma, a causa della loro recente rottura, non sapeva proprio niente delle sue relazioni private. Rassegnata lasciò cadere le spalle e sospirò: «Allora non ci resta che sezionarla. Al momento mi sembra che non abbiamo alternative». «Cosa dici? Ma io non voglio! No, non lo farò», bisbigliò Yoshie. «Fare a pezzi Kuniko! Continuerei ad avere incubi!» «Allora non hai bisogno di soldi, vero, maestra? Bene, come vuoi, allora faccio tutto da sola e mi tengo anche la tua parte. E neppure il milione di cui abbiamo parlato, naturalmente», disse Masako. Subito Yoshie si inalberò: «Ma non puoi farlo! Devo fare il trasloco!» «È vero, e se a qualcuno viene in mente di avvicinare un fiammifero a casa tua, puoi dire ciao a tutto», replicò sadica Masako, e Yoshie dovette chinare la testa. Jumonji, imbarazzato, non sapeva come comportarsi. «Vada a prendere le scatole. E poi, come abbiamo concordato, andrà a Kyushu e butterà tutto nell’inceneritore». «Vuole davvero farlo?» «Sì, non ci restano alternative». Masako cercò di deglutire, ma la saliva si fermò in gola e non voleva saperne di andare giù. Proprio come la realtà che non voleva ammettere. «Allora vado a prendere le scatole». Jumonji si alzò, visibilmente felice di andarsene da lì. Masako gli lesse in fronte che avrebbe preferito di gran lunga svignarsela. Da un pezzo il coraggio lo aveva abbandonato e adesso voleva solo tirarsi fuori da quel guaio. Perciò mise le mani avanti: «Tanto per capirci: si può sparire solo dopo aver finito il lavoro, d’accordo?» «Sì, certo». «Vale a dire che c’è ancora da lavorare!» «Sì, sì», annuì Jumonji, un po’ infastidito dalla sua insistenza. «E tu maestra, cos’hai deciso?» Masako si girò verso Yoshie che, ancora seduta a terra sempre più ripiegata su se stessa, fissava il cadavere di Kuniko. «Bene, lo faccio. E con i soldi che prendo cambio subito casa». «Fa’ quel che ti pare». «E tu cosa farai? Dove vuoi scappare?» «Per il momento rimango dove sono e continuo a fare quello che ho sempre fatto». «Ma perché?» esclamò Yoshie sbigottita. Masako non rispose. Anzi, non l’aveva neppure sentita. Continuava a pensare a quello che aveva detto Jumonji: «Quindi io sono l’unico che l’ha visto, vero?» Possibile che lei non lo avesse già incontrato da qualche parte? Non riusciva a cacciare dalla mente quel pensiero. «Allora vado. Tornerò presto». Quando Jumonji se ne fu andato, Masako, come al solito, si allacciò ai fianchi il grembiule di plastica e disse a Yoshie, ancora accucciata sul pavimento: «Metti il nastro a diciotto giri, maestra!»
8. Kazuo corse rumorosamente su per la scala di ferro del pensionato, fino alla sua camera. Arrivato al pianerottolo si fermò e si guardò intorno. Nel giardino della fattoria di fronte i panni stesi ad asciugare ondeggiavano al vento freddo. La luce azzurrognola del lampione sulla stradina davanti al pensionato illuminava i crisantemi selvatici ormai secchi. Nei lunghi crepuscoli di quei giorni di inizio inverno tutto aveva un aspetto malinconico. A São Paulo sarebbe presto incominciata l’estate. Kazuo si sentì una stretta al cuore. Pensò con nostalgia alle serate d’estate a casa. Lo choro suonato a ogni angolo di strada, il profumo dei fiori e della feijolada che cuoceva sul fornello, belle ragazze con bianchi abiti estivi, bambini che giocavano nei vicoli, la bolgia allo stadio quando i tifosi del Santos incitavano la loro squadra. Che cosa faceva qui in Giappone, così lontano da tutto ciò? Possibile che fosse questo il paese di suo padre? Kazuo si guardò di nuovo intorno. Tutto quello che riusciva a vedere, nella campagna che lentamente sprofondava nel buio, erano le luci di case in cui vivevano persone completamente sconosciute. Un po’ più lontano le finestre dello stabilimento delle colazioni illuminate da una pallida luce al neon. Era quindi questo il luogo a cui apparteneva? All’improvviso le lacrime gli salirono agli occhi. Si appoggiò col gomito al corrimano di ferro nero e nascose il viso tra le mani. Il suo compagno di stanza sicuramente era già tornato e guardava la televisione. Gli unici posti in cui Kazuo poteva godere di una certa privacy erano quel pianerottolo e la parte superiore del letto a castello. Si era imposto due prove, anzi tre, per essere precisi. Prima: lavorare due anni nello stabilimento per risparmiare il denaro per comprarsi un’automobile. Seconda: ottenere il perdono completo da parte di Masako. Terza: imparare il giapponese abbastanza bene da potere raggiungere quello scopo. E questo era l’unico punto in cui gli sembrava di avere avuto qualche successo. Ma a che cosa serviva, se la persona alla quale voleva chiedere scusa da quella mattina non voleva più parlare con lui? Se non gli dava neppure la possibilità di spiegarsi? No, non era esattamente così. Non sarebbe mai riuscito a farsi perdonare del tutto finché lei non si fosse innamorata di lui. E se questo era vero, anche il suo obiettivo originario non era più così importante. In fondo la faccenda con Masako era risultata la prova più difficile. No, non era neppure una prova, perché non poteva superarla solo con la forza di volontà. Anzi, la prova consisteva proprio nel sopportare che ci fosse qualcosa di indipendente dalla sua volontà. Come lo capì, Kazuo non riuscì più a frenare le lacrime. All’improvviso gli venne un’idea: sarebbe tornato a casa. Ne aveva abbastanza, a Natale sarebbe tornato a São Paulo. Poteva anche fare a meno di comprarsi una macchina. Lì in Giappone buttava via il tempo a preparare quelle colazioni in scatola che neanche gli piacevano. Per quanto riguardava i computer, ebbene avrebbe potuto studiare anche in Brasile. Non ne poteva proprio più. Non appena ebbe preso la decisione di tornare a casa, la pesante nube che aveva continuato a opprimerlo sparì come se fosse stata spazzata via dal vento. E anche le prove che si era imposto si dileguarono leggere nell’aria. Al loro posto rimase un uomo solo e inutile, che aveva perso la battaglia contro se stesso. Kazuo lanciò un ultimo sguardo ostile allo stabilimento delle colazioni che si ergeva nel crepuscolo. In quell’attimo udì una voce femminile appena percepibile che lo chiamava dalla strada: «Signor Miyamori?» Credendo di aver sentito male, guardò in basso e vide davvero qualcuno, in jeans e con una giacca a vento da uomo rattoppata con il nastro adesivo. Masako. Sorpreso e incredulo che proprio la persona a cui stava pensando fosse adesso lì davanti a lui, Kazuo si guardò intorno nello stretto
ballatoio per assicurarsi di essere in sé. Gli sembrava di sognare. «Signor Miyamori?» chiamò di nuovo Masako a voce più alta. «Sì, vengo!» Kazuo scese di corsa la scala facendola oscillare. Masako si spostò dalla luce del lampione e si allontanò nell’oscurità, come per sottrarsi agli sguardi degli inquilini del primo piano. Kazuo la seguì esitante, chiedendosi se gli fosse permesso. Per quale motivo era venuta? Gli avrebbe di nuovo fatto male? Aveva appena rinunciato a lei, ma era bastata la sua apparizione per fare divampare di nuovo nel suo animo, come se fosse stata aggiunta legna al fuoco, il desiderio di affrontare qualsiasi prova. La fiamma ardeva sempre più alta nella sua testa e Kazuo si fermò confuso davanti a Masako. «Ho un favore da chiederle». Masako lo guardò in faccia. Sì, ricordò, lei era una che ti guardava sempre negli occhi. Così da vicino sembrava stanca e profondamente turbata, come se si dibattesse in un groviglio inestricabile di sentimenti. Tuttavia la trovava bella. Kazuo rimase impietrito ad aspettare ansioso la richiesta di Masako. «Può custodire questa cosa per me nel suo armadietto?» Masako prese dalla sua solita tracolla nera una busta di carta. Sembrava piatta e pesante, come se contenesse documenti. Kazuo restò lì a guardare senza prenderla. Non aveva il coraggio di tendere la mano. «Perché?» «Perché non conosco nessuno che abbia un armadietto chiuso a chiave». Kazuo era deluso. Non era questo che aveva sperato di sentirle dire. «Fino a quando?» Masako pensò un po’ e poi disse: «Be’, fino a quando non mi servirà di nuovo. Capisce bene quello che le dico?» «Quasi tutto…» rispose Kazuo, benché trovasse la situazione sempre più strana. Perché non teneva lei la busta? Poteva anche lasciarla a casa. Se voleva per forza un armadietto chiuso a chiave, poteva andare alla stazione, lì ce n’erano un mucchio. «Si sta certamente chiedendo perché, vero?» disse Masako, più rilassata. «Si tratta di cose che non posso lasciare in casa. E neppure in fabbrica o in macchina, potrebbero rubarle e non sarebbe bene». Kazuo prese in mano la busta. Come aveva immaginato era pesante. Si fece coraggio e le domandò: «Che cosa contiene? Sa, mi prendo una responsabilità». «Soldi e il mio passaporto», rispose francamente Masako, poi si frugò nella tasca, tirò fuori accendino e sigarette e se ne accese una. Alla parola “soldi” Kazuo si stupì della pesantezza della busta. Se era vero, doveva trattarsi di una grossa somma, come mai l’affidava a lui? «Quanto?» «Sette milioni», disse lei, alto e chiaro come quando, allo stabilimento, annunciava il numero delle porzioni previsto dal piano di lavoro. Kazuo chiese esitante: «E portarli in banca?» «Non è possibile». «Posso chiederle perché no?» «No», ribatté decisa, e continuò a fumare guardando da un’altra parte. Kazuo continuava a meditare: «Ma cosa farà se, quando ne avrà bisogno, io non sarò al lavoro?» «Aspetterò fino a quando non riuscirò a mettermi in contatto con lei». «In che modo?» «Verrò qui». «Ho capito. La mia camera è la 201. Mi avvisi e andrò a prendere la busta allo stabilimento». «Grazie». Ma a Natale voleva tornare a casa! Doveva dirglielo? Kazuo era indeciso, ma alla fine non gliene parlò. Era più importante capire se Masako avesse dei problemi. Si fece coraggio e disse: «È rimasta a casa parecchio». «Sì. Ero raffreddata».
«Temevo che si fosse licenziata». «Io non mi licenzio». Masako si girò e guardò nel buio in fondo alla strada. Se avesse proseguito in quella direzione sarebbe arrivata all’incrocio tra lo stabilimento dismesso e quello nuovo. Nei suoi occhi si vedeva un’ombra di paura che non era da lei. Doveva esserle capitato qualcosa di brutto, questo era chiaro. Forse aveva a che fare con la chiave che aveva gettato nel canale sotterraneo, pensò Kazuo. L’estrema sensibilità, che a volte era un suo punto debole, in altre occasioni poteva diventare un’arma a suo favore. E in quel momento doveva servirsene come di un’arma. «Ha qualche problema, vero?» osò chiedere, e Masako si girò di nuovo verso di lui. «Se ne è accorto?» «Sì», ammise Kazuo, e i suoi occhi riflettevano l’angoscia della donna. «Ho dei problemi, ma lei non mi può aiutare. Le chiedo solo di custodirmi questo pacchetto». «Che è successo?» Masako non rispose e strinse forte le labbra. Kazuo arrossì nell’oscurità, credendo di essersi spinto troppo in là. «Mi scusi». «Non importa. Sono io quella che si deve scusare». «No, no, ho già capito». Kazuo nascose con cura la busta di Masako nella tasca interna del giubbotto nero e tirò su la cerniera. Masako doveva avere parcheggiato lì vicino, perché tirò fuori dalla tasca un mazzo di chiavi. «Allora, grazie di nuovo». Dopo un attimo di esitazione Kazuo incominciò: «Masako-san…» «Sì?» «Mi perdona per quello che ho fatto?» «Certo!» «Completamente?» «Sì», rispose semplicemente Masako e abbassò lo sguardo. Per un attimo Kazuo non riuscì a capire che cosa gli stava succedendo. Aveva superato come un gioco la prova che aveva creduto la più dura. Ma immediatamente si rese conto che in realtà quella era stata fin dall’inizio un gioco da bambini in confronto a quello che desiderava veramente: conquistare il cuore di Masako. Finché non avesse conquistato il suo cuore, avere ottenuto il suo perdono non avrebbe avuto alcun significato. Questa e solo questa era la tremenda verità. Kazuo abbassò la testa e toccò la chiave che teneva sulla pelle, sotto il giubbotto. Poi sfiorò anche la busta che Masako gli aveva affidato. Era grossa e pesante. «Ma…» bisbigliò Kazuo. Masako avvicinò la testa, come se lo volesse ascoltare con grande attenzione. «Come mai affida proprio a me una cosa così importante?» Era la domanda che più gli premeva. Masako gettò a terra il mozzicone di sigaretta, lo schiacciò con la scarpa da ginnastica e sollevò gli occhi, che avevano assunto un’espressione seria. «Non lo so neppure io… forse solo perché non ho nessun altro a cui chiederlo». Kazuo, stupefatto, osservò le rughette attorno alla bocca di Masako. Solo adesso si rese conto di quanto fosse sola, al punto da affidare a uno come lui, uno straniero che non conosceva neppure bene, cose così importanti. Come per sfuggire al suo sguardo, Masako si girò e diede un calcio a dei sassolini con la punta della scarpa. Le pietre caddero con un rumore secco alle spalle di Kazuo. Lui deglutì e ripeté le sue parole: «Non ha nessuno, proprio nessuno?» «No». Masako scosse la testa. «Non ho nessuno e nessun posto. Non c’è nessun posto di cui sia sicura, nessun posto dove potrei nascondermi». «Vuole dire che non si fida di nessuno?» «È così», rispose, e questa volta lo fissò negli occhi.
«E di me si fida?» Dopo aver lanciato la domanda, Kazuo sfidò il suo sguardo con il fiato sospeso. Masako sostenne lo sguardo e rispose: «Sì, di lei mi fido». Poi girò lentamente su se stessa e si incamminò lungo la strada, ormai completamente buia, diretta allo stabilimento. «Grazie!» Kazuo chinò la testa e con la mano destra si premette il petto a sinistra. Non perché c’era la busta, ma perché era lì che batteva il suo cuore.
La via d’uscita
1. Stupita Yayoi osservava la fede che portava all’anulare della mano destra, un anello di platino, piuttosto comune. Ricordava il giorno in cui glielo aveva comprato. Era una tiepida domenica di inizio primavera e lei e Kenji erano andati a sceglierlo insieme in un grande magazzino. Kenji aveva dato un’occhiata alle vetrine e poi aveva detto: «In fondo è per tutta la vita», e aveva scelto il più costoso. Ancora oggi ricordava la solennità della cerimonia, la sua gioia e la sua timidezza. Dove erano andati a finire quei sentimenti, quando avevano iniziato a perdere la loro gioia così luminosa, quando era sparita per sempre? Aveva ucciso Kenji. All’improvviso un grido silenzioso riempì il cuore di Yayoi. Finalmente si era resa conto della gravità di ciò che aveva commesso. Si alzò con impeto dalla poltrona del soggiorno e corse in camera da letto. Andò di fronte allo specchio, alzò il golfino e si guardò il ventre nudo, cercando di ritrovare la traccia del motivo che l’aveva indotta a uccidere. Ma la macchia blu, il sigillo dell’odio impresso sul suo corpo, si era lentamente attenuato e ora non c’era più. E tuttavia era per questo che aveva ucciso Kenji. Aveva assassinato l’uomo che aveva scelto per lei l’anello più caro, dicendo che in fondo sarebbe stato per tutta la vita. E non era stata neppure punita. Era giusto? Yayoi si accasciò sul tatami. Dopo un po’ alzò lo sguardo e vide l’immagine di Kenji sull’altarino buddista di fronte a lei. La fotografia era ormai annerita dal fumo dei bastoncini di incenso che i bambini accendevano tutti i giorni per onorarla. Yayoi contemplò il viso sorridente di Kenji – era una foto scattata al campeggio, d’estate – e si infuriò. «E allora, hai qualche reclamo da fare? Forse c’è qualcosa che non va? Dopo che non hai fatto altro che torturarmi! Prendertela con i più deboli, solo questo sapevi fare bene, questo era il tuo vero volto! Mai una volta che ti sia preso cura dei bambini!» borbottò Yayoi asciugandosi le lacrime. L’antica, irrefrenabile collera montò di nuovo in lei e, come l’alta marea che si abbatte sulla riva, in un attimo strappò la delicata piantina del rimorso, appena spuntata, e la ricacciò in mare. «Ammetto che ammazzarti è stato uno sbaglio, ma non credere che per questo ti voglia perdonare!» continuava a ripetere Yayoi a voce sempre più alta. No, non lo perdonava. Solo perché lo aveva ucciso, non c’era nessun bisogno di perdonarlo. Mai lo avrebbe fatto, fino a quando fosse vissuta! In fondo era stato lui il malvagio, quello che l’aveva ingannata. Aveva mentito e l’aveva tradita: anche se lei era rimasta sempre la stessa, lui era diventato un altro, era diventato un malvagio. Nessuno, se non Kenji, aveva cancellato la luminosa immagine del giorno in cui avevano scelto l’anello. Yayoi tornò in soggiorno e aprì furiosa la porta della veranda che dava sul giardino. Un giardino piccolissimo, in cui erano abbandonati il triciclo, l’altalena dei bambini e altri giocattoli, separato da quello dei vicini da uno scuro muro di cemento. Yayoi si strappò l’anello dal dito e lo gettò il più lontano possibile. Si augurò che cadesse dalla parte dei vicini, ma l’anello urtò contro il muro e rimbalzò in un angolo del suo giardino. Nell’attimo in cui lo perse di vista la assalì la sensazione di avere fatto qualcosa da cui non poteva più tornare indietro e provò un rimorso così intenso da attanagliarle lo stomaco. Yayoi si guardò l’anulare vuoto su cui si posava la luce di mezzogiorno, quasi bianca, di novembre. Contemplò con tristezza l’impronta bianca lasciata dalla fede, che in otto anni di matrimonio non si era mai tolta neppure una volta. Ne sentiva la mancanza, tuttavia provava anche un senso di liberazione. Finalmente aveva detto addio a tutto. Proprio mentre era immersa in questi pensieri suonarono alla porta. Possibile che qualcuno l’avesse vista? Scese a piedi scalzi in giardino e si allungò sulle punte per guardare oltre il portone. Fuori aspettava un uomo abbastanza alto e robusto, con i capelli corti, in
giacca e cravatta. Fortunatamente sembrava non essersi accorto che lei lo stava spiando. Rientrò in fretta in casa e afferrò il ricevitore del citofono. Le calze, a cui si era appiccicata un po’ della terra nera e umida del giardino, lasciarono delle impronte sul pavimento, ma non se ne preoccupò. «Chi è?» «Mi chiamo Sato, vengo da Shinjuku e conoscevo suo marito». «Sì, cosa vuole?» «Passavo di qui e ho pensato che potevo cogliere l’occasione per accendere un bastoncino di incenso per lui…» «Be’, se proprio vuole…» Era un fastidio, ma non poteva rifiutare una visita di condoglianze. Con occhio attento ispezionò il soggiorno e la camera da letto dove era collocato l’altarino. Soddisfatta andò alla porta. Aprì e l’uomo si inchinò profondamente davanti a lei. «Mi dispiace di averla disturbata così all’improvviso. Le porgo le mie più sentite condoglianze». Aveva una voce profonda, calma e gradevole. Mentre automaticamente ringraziava, per una frazione di secondo la attraversò una sensazione di disagio. Kenji era morto alla fine di luglio, quattro mesi prima. Ma, poiché le era già capitato che amici o conoscenti la chiamassero sconvolti perché avevano appena saputo della cosa, si rasserenò. «La ringrazio per essere venuto». Sato la guardò a lungo in viso, soffermandosi sugli occhi, il naso e la bocca. Non c’era nulla di offensivo in quello sguardo, tuttavia le diede fastidio, perché sembrava che stesse confrontando quello che vedeva con le informazioni che aveva ricevuto. Anche Yayoi esaminò il volto di Sato, chiedendosi dove mai Kenji e quell’uomo potessero essersi conosciuti. Infatti quell’individuo aveva un’aria completamente diversa dalle persone dell’ambiente di Kenji, cioè dai suoi colleghi, che sembravano relativamente onesti e tranquilli. Sato aveva qualcosa di misterioso, come se fosse avvolto in un impenetrabile involucro che gli permetteva di nascondere il suo vero volto. Eppure l’abbigliamento, un completo grigio poco costoso e una cravatta male assortita, era quello tipico dell’impiegato. Come se avesse intuito l’inquietudine di Yayoi, l’uomo annunciò disinvolto le sue intenzioni: «Mi consente di onorare il defunto?» «Prego». Yayoi, davanti alla sua delicata insistenza, lo fece entrare in casa. Mentre lo precedeva nello stretto corridoio si domandava con quale espressione lui la seguisse, e si sentì prendere da una paura indefinita. Incominciava a pentirsi di averlo lasciato entrare così facilmente. «È qui. Prego si accomodi». Yayoi lo condusse nella camera da letto in cui c’era l’altarino. Sato si inginocchiò, si trascinò fino all’altare e congiunse le mani. Quando Yayoi diede un’occhiata in camera dalla cucina, dove stava preparando il tè, si accorse stupita che l’uomo non aveva con sé né una busta con l’offerta, né nient’altro. Non che lei fosse così attaccata ai soldi, ma in fondo era consuetudine che chi andava a fare le condoglianze portasse un’offerta o un regalo di condoglianze! «La ringrazio molto. Si accomodi prego». Yayoi gli indicò il tavolo del soggiorno, su cui aveva posato le tazzine del tè. Sato prese posto senza fare complimenti e la guardò in faccia. Nei suoi occhi non c’era la minima traccia né di cordoglio per Kenji, né di compassione per lei e neppure di curiosità per ciò che era accaduto, e questo la rese inquieta. Sato si limitò a ringraziare senza toccare il tè. Lei gli porse un portacenere, ma lui non tirò fuori le sigarette. Continuava a tenere le mani ferme sulle ginocchia, senza fare mai anche solo il cenno di muoverle. Come se non volesse toccare nulla per non lasciare dietro di sé prove della sua visita. Yayoi aveva sempre più paura. Di colpo capì l’esplicita raccomandazione di stare in guardia che le aveva fatto Masako. «Dove ha conosciuto mio marito?» chiese, cercando di sembrare per quanto possibile disinvolta
e di controllare il tremito della voce. «A Shinjuku». «Ma dove esattamente?» «A Kabuki-cho». Yayoi lo guardò spaventata. Sato si accorse della sua paura e sorrise. Tuttavia il sorriso si fermò sulle labbra, gli occhi continuavano a rimanere inespressivi. «Kabuki-cho?» «Ma signora Yamamoto, adesso non faccia così». «Cosa?!» Sconvolta Yayoi perse il controllo. Perché di colpo sentiva di nuovo la voce di Kinugasa, quando le aveva telefonato per avvertirla che il padrone della casa da gioco era sparito. Tuttavia continuava debolmente a sperare che tutto ciò non fosse vero. «Che cosa vuole dire?» «Ho avuto una piccola discussione con suo marito, quella notte…» Sato si interruppe per spiare la sua reazione. Sembrava che le mancasse il respiro. «Quello che è accaduto in seguito lo sa solo lei. A me ha causato un mucchio di fastidi. Mi hanno chiuso i locali, mi hanno rovinato il lavoro. Lei di sicuro non può neanche immaginarselo. Lei sta qui con i suoi bambini, nella sua minuscola, graziosa casetta e continua a vivere felice e beata…» «Cosa dice?! Se ne vada! Fuori da casa mia!» Yayoi fece per alzarsi. «Rimanga seduta!» ordinò Sato a bassa voce e lei rimase ferma, sospesa a metà movimento. «Chiamo la polizia!» «Lo faccia pure, ma non servirà che a fare del male a se stessa». «Che cosa significa?» Yayoi si lasciò di nuovo cadere sulla sedia. «Che cosa vuole dire?» Ormai era in preda al panico. Non era più in grado di pensare chiaramente e voleva solo che quell’uomo orribile sparisse all’istante dalla sua casa. «Si risparmi queste scene, so tutto. È stata lei a uccidere suo marito». «È una menzogna! Ma come si permette…» gridò Yayoi isterica. «Ritiri subito tutto!» «Stia attenta, signora Yamamoto, i vicini potrebbero sentire! In questo posto i giardini sono così piccoli. Credo che questa si chiami reazione esagerata dovuta al senso di colpa». «Non so assolutamente di cosa stia parlando!» Yayoi portò le mani tremanti sulle tempie. Il tremito si trasmise alla piccola testa che incominciò a sussultare. Abbassò le mani. Non sapeva che cosa doveva fare. Ma per il momento le parole di Sato erano riuscite a farla tacere. Dopo la morte di Kenji aveva sofferto fin troppo per la reazione dei vicini. Sapeva che era solo un complesso di persecuzione, ma continuava ad avere paura di quello che poteva dire la gente. «Di sicuro si sta chiedendo fino a che punto io sappia, signora Yamamoto», rise Sato. Questa volta era una vera risata, una risata di scherno. «Non si preoccupi, so tutto». «Cosa? Non dica assurdità!» Lo guardò impaurita al di sopra del tavolo. Anche una ingenua e inesperta come Yayoi riusciva a intuire che quel Sato era pericoloso, legato a niente e a nessuno, e che doveva avere vissuto orrori e piaceri che lei non poteva neppure immaginare. Non era sicuramente un caso se le loro strade non si erano mai incrociate. L’uomo veniva da un mondo completamente diverso, ed era persino strano che parlassero la stessa lingua. E Kenji aveva avuto il coraggio di mettersi a discutere con uno così… Quasi quasi lo ammirava, quel suo marito morto ammazzato. «Cosa succede, si è incantata?» chiese sarcastico Sato, vedendo che aveva lo sguardo perso nel vuoto. «Non dica assurdità…» ripeté Yayoi. Sato portò una mano al mento, come se dovesse riflettere. La vista delle sue lunghe dita sottili le diede fastidio. «Quella notte suo marito, dopo aver litigato con me, è tornato a casa. E lei, zitta zitta, gli ha tirato il collo, qui nell’ingresso. I figli avevano capito qualcosa, ma lei li ha costretti a tenere la bocca chiusa. Il più grande – come si chiama – sì, giusto, Takashi…»
«Chi glielo ha detto, come fa a sapere il suo nome!» urlò spaventata Yayoi. «È davvero ingenua come mi hanno detto!» Visibilmente incantato Sato la guardò in viso. «Non è più una ragazza, ma se la ripulissimo un po’ dalle brutture della vita, carina e graziosa com’è sarebbe la primadonna in qualsiasi casa di piacere». «La smetta!» Yayoi alzò la voce. Si sentiva come se l’avessero toccata con le mani sporche. Le tornò in mente che era stata una ragazza del locale di quell’uomo che le aveva rubato il cuore di Kenji. A quel pensiero arrossì di rabbia. «Che cosa succede?» domandò Sato accorgendosi del suo cambiamento. «Le è venuto in mente qualcosa?» «Nel suo locale hanno giocato un brutto tiro a mio marito!» «Per carità», sbuffò Sato. «Lei non ha la minima idea di quello che suo marito faceva là fuori. Non si è mai rotta la graziosa testolina per sapere che cosa gli mancava. E non ha neppure pensato che poteva essere anche per colpa sua. Già, è vero, le casalinghe se la passano bene, è semplice per loro farsi belle della propria virtù». «La smetta!» Yayoi si tappò le orecchie. Sato continuava a vomitare veleno. Un veleno che non conosceva. Il veleno e l’odio del mondo. «Non mi piace ripeterlo, ma se continua a urlare così la sentiranno. Sicuramente lei non vuole essere al centro dell’interesse generale. In fondo deve pensare al futuro dei suoi figli!» «Chi le ha detto il nome di mio figlio?» chiese Yayoi abbassando la voce e quasi supplicando, dal momento che si trattava dei bambini. «Non lo ha ancora capito?» Sato atteggiò il viso alla pietà. Allora a Yayoi caddero le bende dagli occhi. «Forse… la signora Morisaki?» chiese, e come vide che Sato rimaneva zitto, scoppiò a piangere. «Mi ha tradita». «Tradita?» ripeté Sato come se non capisse. «Non ne aveva certo l’intenzione: era il suo lavoro». Il suo lavoro! Allora era stata tutta una commedia. Ricordò che fin dall’inizio Masako non si era fidata di Yoko Morisaki, e lei non le aveva creduto. Era davvero troppo ingenua, pensò Yayoi piena di autocompassione, e si mise a piangere. «Piangere non serve a niente», bisbigliò Sato. «Sì, ma…» «Ma un accidenti! Adesso basta!» urlò all’improvviso, e Yayoi alzò terrorizzata il viso inondato di lacrime. «So anche che hai chiesto alle tue amiche di fare a pezzi tuo marito». Yayoi fissò in silenzio l’anulare sinistro. Quanto era stata ingenua a credere che, gettando l’anello, tutto fosse finito! Questa era la vera fine. La rovina totale. «Sì, non ti resta che vergognarti, troietta!» sogghignò Sato. «Speravi che mi mettessero la corda al collo! Be’, purtroppo ti è andata male!» «Chiami la polizia, sono pronta a costituirmi». «La donna è davvero troppo ingenua! Non fa che pensare a se stessa», sibilò Sato. Con dita abili si allentò il nodo della cravatta, dello stesso colore del vestito. Come paralizzata Yayoi fissò il disegno – righe marroni su sfondo grigio, sembrava il dorso di una lucertola – e pensò che adesso, con quella cravatta, l’avrebbe strangolata. Sarebbe morta anche lei proprio come Kenji, con la lingua fuori e la saliva che colava agli angoli della bocca. Incapace di sopportare quell’idea, chiuse gli occhi e si mise a tremare. «Signora Yamamoto!» Sato, alzatosi da tavola, era accanto a lei. Yayoi non rispose e si rannicchiò ancora di più su se stessa. «Signora Yamamoto!» la chiamò di nuovo Sato. «Che c’è?» Yayoi alzò atterrita la testa. Sato, guardando l’orologio da polso, rispose: «Se non ci sbrighiamo la banca chiuderà».
Yayoi si girò verso di lui: «Come… che cosa?» Finalmente aveva capito che cosa aveva in mente e rimase stupefatta. «Non vorrà mica quel denaro?» «Esatto». «No, questo no, è impossibile! Come potrò sopravvivere con la mia famiglia?» «Questo non mi interessa, il denaro spetta a me!» «No!» «Che cosa blateri?! Vuoi forse che ti spezzi il collo?» domandò Sato con voce vellutata, afferrandole con forza la nuca e stringendo le mani intorno al collo sottile di Yayoi. Le sue lunghe dita arrivavano fino a premerle la carotide. Yayoi non riusciva a muoversi, come un gattino sollevato per la collottola. Piangendo supplicò: «La smetta, per favore, mi lasci andare!» «Paghi o devo torcerti il collo?» «Pago, sì, pago!» Yayoi, paralizzata dalla paura, si fece la pipì addosso. «Adesso devi chiamare la banca e dire che tuo padre è morto improvvisamente e devi tornare nella tua città, per cui ti servono i soldi. Che passi subito a prenderli, tutti, con tuo fratello, e che te li preparino insieme a tutti i documenti necessari». «S… sì», balbettò e telefonò alla banca. Per tutta la durata della conversazione Sato continuò a tenerle le dita intorno al collo. Finalmente Sato la lasciò andare: «Bene, adesso va a cambiarti!» Gemendo per il dolore, lei chiese: «Cambiarmi?» «Così come sei, nessuno in banca si berrà la storia!» replicò Sato guardando con disprezzo il golfino rattoppato e la vecchia gonna sformata. «Al massimo possono pensare che vuoi un prestito!» Sato la prese per un braccio e la strappò dalla sedia. «Ma che cosa…» Yayoi tremava come una foglia. Quando vide le macchie di pipì sulla gonna, perse ogni residuo di orgoglio e di superbia, persino la paura, e incominciò a comportarsi come un automa. «Svelta, apri l’armadio!» Yayoi trottò dietro di lui in camera da letto e aprì obbediente il brutto armadio di compensato da pochi soldi. «Tira fuori qualcosa!» «Cosa devo mettermi?» «Un tailleur o un vestito, qualcosa di elegante. Più è formale, meglio è!» «Ma io non ho niente del genere, mi dispiace. Non ho vestiti così eleganti», si scusò Yayoi piangendo. Quell’uomo orrendo era capitato all’improvviso a casa sua, l’aveva minacciata e adesso lei doveva anche mostrargli il contenuto del suo armadio e scusarsi perché non aveva niente di adatto da mettersi! Era talmente deprimente che non riusciva più a smettere di piangere. «Una vera miseria!» commentò Sato beffardo e si mise a esaminare di malumore l’armadio in cui erano appesi quasi esclusivamente vestiti e cappotti di Kenji. «Ma che cosa abbiamo qui, un vero vestito da lutto!» «Devo mettermi quello?» Yayoi prese il vestito estivo, ancora protetto dal sacco della lavanderia. Era il tailleur nero indossato durante la veglia di Kenji. Glielo aveva comprato sua madre quando si era resa conto che lei non aveva assolutamente niente di adatto all’occasione. Per la cerimonia funebre, invece, si era fatta prestare un kimono. «Proprio quello che ci voleva! Se ti presenti vestita a lutto avranno compassione e non faranno storie». «Ma è estivo». «Non me ne potrebbe fregare di meno!» la apostrofò Sato urlando, e Yayoi, per difesa, si strinse nelle spalle.
Una mezz’ora più tardi Yayoi, con indosso il leggero tailleur nero, e Sato vennero invitati ad accomodarsi in una saletta della filiale della banca di fronte alla stazione di Tachikawa. «Davvero vuole ritirare tutto, cinquanta milioni di yen?» Li aveva ricevuti il direttore in persona, e ora cercava in tutti i modi di farle cambiare idea. Yayoi, senza dire una parola, continuò a fissare la moquette ai suoi piedi e ad annuire con la testa. Sato le aveva ordinato di tenere la bocca chiusa e di limitarsi a fare dei cenni. «Capisce, la disgrazia è stata così improvvisa e abbiamo bisogno dei soldi», spiegò Sato, che si era presentato come il fratello maggiore, in tono che non ammetteva repliche. La banca non poteva opporsi. I funzionari, nel vano tentativo di trovare qualcosa per fargli cambiare idea, si scambiavano sguardi disorientati. «Per motivi di sicurezza sarebbe meglio se facessimo un bonifico su un altro conto». «Non è necessario. Mi incarico io di scortarla». «Se è così, come volete». Il direttore, rassegnato, si rivolse con un sospiro a Yayoi che se ne stava rigidamente seduta in silenzio, fuori di sé per quanto le era capitato. Era disperata. Infine anche lei fece un profondo sospiro, e il direttore e i funzionari abbassarono pietosi lo sguardo. Evidentemente lo avevano scambiato per un’espressione di dolore per l’improvvisa scomparsa del padre. Infine arrivò un impiegato e depose sul tavolo i cinquanta milioni in contanti. «Prego, controllate». Senza fare complimenti, Sato riempì con le mazzette la busta preparata dalla banca, che infilò nella borsa nera di nylon che aveva portato con sé. «Grazie», disse poi, prese Yayoi per un braccio e si alzò. Lei era ormai senza volontà, come un robot, il corpo completamente senza forze. Come se le gambe non la reggessero, Sato la sosteneva da dietro con una presa di ferro. «Cosa ti succede, Yayoi? Devi farti forza, tra un po’ incomincia la veglia!» Una splendida recitazione! Yayoi incespicava dietro di lui, che la trascinava senza lasciarle andare il braccio. Infine uscirono dall’edificio. Sato la allontanò con una spinta. Lei barcollò ma riuscì ad afferrarsi al parapetto del marciapiede. Sato, senza preoccuparsi, chiamò un taxi e, prima di salire, si girò ancora una volta verso di lei: «Hai capito, vero?» «Sì», annuì docilmente Yayoi. Il suo sguardo seguì con sollievo il taxi che si allontanava con Sato e i suoi cinquanta milioni di yen. Un inatteso regalo di Kenji. Un breve, effimero sogno. Il denaro che le sarebbe servito per sopravvivere. Tutto dissolto. Ma, al di là del fatto che adesso poteva dire addio ai soldi, lo shock più grande per Yayoi era stato proprio l’avere avuto a che fare con un uomo spaventoso come quello. Era viva per miracolo! Un po’ alla volta incominciava a sentirsi sollevata. Quando Sato le aveva messo le mani intorno al collo, era stata assolutamente sicura che l’avrebbe uccisa. Yayoi, stordita, guardò l’orologio della stazione. Si sentiva senza forze, non le era rimasta la benché minima scintilla di energia. Erano le due e mezzo del pomeriggio. Aveva freddo, e non aveva portato neppure un soprabito. Stringendosi attorno al corpo le braccia coperte soltanto dal sottile tessuto del vestito da lutto, decise di non raccontare niente a Masako. Non sarebbe stato difficile, dal momento che dopo l’ultimo litigio aveva praticamente rotto con lei. Ma adesso dove andare, che cosa fare, senza soldi, senza lavoro, senza le altre? Yayoi, che aveva perso qualsiasi punto di riferimento, non riusciva a trovare risposte, e continuò a vagare disorientata e senza meta intorno alla stazione di Tachikawa. A un certo punto si rese conto che l’ago della bussola della sua vita era Kenji. Proprio Kenji, che lei aveva ucciso con le sue mani. La sua salute, il suo umore, il suo denaro, tutto girava solo intorno a suo marito, e lei dipendeva da lui, per la vita e per la morte. A Yayoi venne quasi da ridere. Takashi, che aveva giocato in giardino fino al tramonto, rientrò in casa e porse qualcosa a Yayoi
che sedeva depressa. «Guarda, mamma, cosa hai perso!» Era la fede che aveva buttato via. Era ammaccata in un paio di punti, ma non si era deformata. «Sono stato bravo a trovarla, vero, mamma, è una cosa di valore!» «Sì, che bello!» Yayoi si infilò la fede all’anulare destro. Aderiva perfettamente all’impronta che aveva lasciato. «Per te la storia non avrà mai fine, dovrai stare all’erta fino alla morte». Le parole di Masako le risuonavano nelle orecchie. Vero, era proprio così. Non era ancora finita e non sarebbe finita mai, fino alla morte. Takashi, vedendo le lacrime negli occhi di Yayoi, la guardò soddisfatto e orgoglioso: «Sei contenta di avere di nuovo l’anello, mamma? Sono stato bravo a trovartelo!»
2. Masako era talmente irrigidita che le sembrava di non riuscire più a muoversi. No, era soltanto la sua coscienza che non funzionava più, le sue capacità di movimento erano inalterate. Con le manovre perfette di sempre, posteggiò la Corolla obliquamente nello spazio a lei riservato. Anzi, andò ancora più liscia del solito. Ma dopo che ebbe spento il motore e tirato il freno a mano, dovette chinarsi in avanti per controllare il respiro. Si proibì di guardare di lato. Infatti nello spazio accanto era posteggiata la Golf verde di Kuniko. Nello stabilimento soltanto lei e Yoshie sapevano che Kuniko era morta. Eppure la sua auto era posteggiata lì, all’ora consueta, come se Kuniko fosse andata al lavoro. E oltretutto nello spazio a lei riservato. Era la prima volta dopo giorni: dunque l’auto era stata usata fino ad allora da Satake o da qualcuno che aveva a che fare con la sua morte. Non poteva esserci che uno scopo. Dal momento che Yoshie posteggiava altrove la sua bicicletta, lo scopo poteva essere solo quello di terrorizzare Masako. Satake era vicino. Che fosse meglio piantare lì tutto e svignarsela? Il panico stringeva il cuore di Masako in una morsa di ferro. Indugiò per qualche minuto prima di decidersi ad abbandonare la sicurezza dell’auto e ad affrontare il buio del posteggio. Quella notte il luogo era relativamente animato. All’ingresso erano fermi due grandi camion bianchi che trasportavano le colazioni ai supermercati. I due autisti – che per esigenze di igiene indossavano un grembiule bianco e una maschera, proprio come gli operai dello stabilimento – erano fermi davanti alla guardiola e chiacchieravano animatamente con il sorvegliante fumando una sigaretta. Le allegre risate degli uomini giungevano a intervalli fino a Masako. Si fece coraggio, uscì dall’auto e fece un giro intorno alla Golf di Kuniko. Era posteggiata nel solito modo trasandato, come faceva sempre Kuniko, un po’ troppo a destra, con le ruote anteriori di traverso. Per un attimo ebbe l’illusione che Kuniko fosse ancora viva e l’aspettasse nel salone dello stabilimento. Eppure le aveva tagliato la testa con le sue mani. Come per convincersi di questo fatto inconfutabile, Masako abbassò gli occhi sulle mani e subito, vergognandosi della propria debolezza, sollevò lo sguardo. Dunque quell’individuo aveva osservato Kuniko anche in quei piccoli particolari? Se era così, probabilmente adesso, nascosto da qualche parte, stava spiando anche lei. Mano a mano che si rendeva conto della capacità di osservazione e della determinazione di quel Satake, sentiva il sangue gelarsi nelle vene. Questa volta era il corpo che si rifiutava di rispondere: irrigidita dal terrore non riusciva più a muovere le gambe. Irritata con se stessa, Masako digrignò i denti. In quel momento il sorvegliante interruppe per un attimo la conversazione, sollevò la testa nella sua direzione e si profuse in un saluto esagerato. Sembrava che volesse prendersi gioco di lei, dal momento che la volta precedente aveva rifiutato la sua scorta. «Le auguro una serata stupenda!» Quelle parole sortirono in lei l’effetto di un lubrificante, e finalmente riuscì a muovere le gambe. Si avvicinò decisa al gruppo degli uomini e chiese al sorvegliante: «Mi può dire chi è arrivato con quell’auto?» «Quale?» rispose lui tranquillo. «Quella Golf verde», disse Masako con voce rauca. «Guardiamo un po’…» L’uomo entrò nella guardiola, prese un registro con le targhe delle auto e lesse facendosi luce con la torcia elettrica: «C’è scritto Kuniko Jonouchi. Lavora al primo turno, cioè…» Questo lo sapeva. Masako, impaziente, lo interruppe: «Non c’è scritto che si è licenziata?» «Ah, ha ragione. C’è scritto “licenziata”. Sei giorni fa, strano». Il sorvegliante socchiuse gli occhi e rilesse l’annotazione, come per assicurarsi. Poi si mise una mano sulla fronte e guardò verso la Golf: «Proprio strano. La macchina è lì, non c’è dubbio. Forse aveva ancora qualcosa da fare…»
«Da quante ore è posteggiata?» «Chissà…» Il sorvegliante e gli autisti si guardarono in faccia. «Non l’ho ricevuta io. Il mio turno inizia alle sette di sera». «Non era qui già ieri sera?» chiese uno dei due autisti fissandosi la mascherina che aveva tirato giù fino al mento per fumare. «No, non c’era». «Be’, se lo dice lei…» replicò l’autista un po’ irritato dalla pronta risposta di Masako. «Già, mi dispiace». Erano passati soltanto tre giorni da quando avevano fatto a pezzi Kuniko. I nervi di Masako erano scoperti come il letto di un’unghia strappata, dolorante al soffio più leggero. Cercò di controllare il terrore che la faceva vacillare e provò ad accettare la verità ormai evidente. Tuttavia l’orrore di quell’evento le sconvolgeva il cervello, impedendole di distinguere tra sogno e realtà. Di colpo si chiuse nel silenzio e allora l’altro autista le domandò: «Perché le interessa così tanto?» Masako tornò in sé: «Mi domando solo che cosa faccia qui, adesso che ha smesso di lavorare. Davvero non ha visto chi era al volante?» «No. Non ci ho fatto caso, non so neppure da quando sia posteggiata qui, non posso mica indovinarlo», rispose infastidito il sorvegliante, continuando a sfogliare il registro. «Va bene, grazie», disse Masako e si incamminò sul sentiero buio, in direzione dello stabilimento. Poi avvertì la pressione di una mano sulla spalla. Una grande mano calda. «Non è meglio che l’accompagni questa sera?» Il sorvegliante era fermo dietro di lei. Masako guardò il nome sulla targhetta: c’era scritto Sato. «Ah…» «Ha una brutta cera». Masako era troppo turbata per rispondere. In realtà avrebbe voluto che l’uomo l’accompagnasse, ma allo stesso tempo voleva anche proseguire da sola, per poter riflettere. Il sorvegliante rise: «Pensavo solo che l’altra volta si è rifiutata di farsi accompagnare. Ho detto forse qualcosa che non va?» «No. Allora va bene, mi accompagni pure fino a metà strada». Il sorvegliante prese in mano la torcia elettrica appesa al collo, l’accese e andò avanti. Masako si girò ancora una volta verso il posteggio, si accertò che la Golf di Kuniko fosse ancora al suo posto e lo seguì. Il sorvegliante camminava a passi veloci ed era già alcuni metri davanti a lei. «Oggi si direbbe che non stia bene. È tutto a posto?» Erano arrivati nel punto più buio del percorso. Sulla destra non c’erano più case abitate e tutto, la strada e gli edifici lì intorno, era inghiottito dall’oscurità. In cielo si distingueva solo la debole luce di due stelle solitarie. Il sorvegliante si fermò. Nel luminoso cerchio giallo della torcia vide le robuste scarpe nere che calzava. «Sì». Anche Masako rallentò il passo. Cercò di guardare in faccia il sorvegliante, ma aveva il berretto calcato sulla fronte e non si riusciva a vedere niente. «La proprietaria della Golf è una sua amica?» «Sì». «Perché mai si è licenziata?» Aveva una voce profonda e piacevole. Senza rispondere, Masako gli passò accanto e andò avanti. Non voleva parlare di Kuniko. Nel momento in cui lo stava sorpassando, si accorse che la fissava. Di colpo ebbe la sensazione di essere prigioniera di una specie di campo magnetico di forti sentimenti; l’atmosfera sembrava essersi rappresa. Il cuore incominciò a battere furiosamente, non riusciva più a respirare. Non sapeva perché.
«Grazie, basta così, vado avanti da sola. Va tutto bene, davvero», disse con il fiato che le era rimasto, e corse via. Il sorvegliante rimase fermo, in silenzio. Sato e Satake, quei nomi si somigliavano. E quella mano non era stata forse premuta con troppa energia sulla sua spalla? Perché le aveva domandato di Kuniko? Masako era confusa. Non riusciva a calcolare lo spessore delle tenebre che l’avvolgevano. Non riusciva più a capire di che cosa si poteva fidare e di che cosa doveva dubitare. Si mise a correre, nel tentativo di abbandonare ai lati del sentiero quell’angoscia e quel disagio di cui non riusciva a trovare il bandolo. Corse come una pazza fino allo stabilimento, entrò subito nello spogliatoio e si mise a cercare Yoshie. Non c’era. Da quando avevano sezionato il cadavere di Kuniko non era più andata in fabbrica nemmeno una volta. Possibile che avesse approfittato del compenso ricevuto per Kuniko per andarsene? Oppure le era successo qualcosa? Masako si sedette a un angolo del lungo tavolo di laminato plastico e, continuando a lambiccarsi il cervello su cosa doveva fare, si infilò malamente nella cuffia le ciocche di capelli sfuggite dalla reticella. Si accese una sigaretta. Non si poteva escludere che Satake fosse riuscito a infiltrarsi tra gli operai dello stabilimento. Con aria indifferente esaminò i gruppi di uomini nella sala, ma non scoprì nessuna faccia sconosciuta. Era troppo nervosa e non riusciva a calmarsi in nessun modo. Prese in mano l’agendina e la carta telefonica, andò al telefono pubblico sistemato nel salone e chiamò Jumonji al cellulare. «Ah, è lei signora Katori?» urlò Jumonji sollevato. «Perché, che succede?» «Niente, ma continuo a ricevere strane telefonate. Avevo già pensato di non rispondere più». Masako si accorse che Jumonji era abbastanza impaurito. «Che specie di telefonate?» «Credo che sia lui. Quando alzo il microfono c’è una voce maschile che dice solo: “Il prossimo sarai tu”. So benissimo che vuole solo minacciarmi, ma alla fin fine io l’ho visto in carne e ossa! Mi creda, non ce la faccio proprio più!» «Come mai conosce il suo numero?» «Be’, è semplice, distribuisco a tutti il mio biglietto da visita». «Ha sentito dei rumori di fondo?» «No, niente. Dovunque io sia, mi chiama. Ovvio che con il cellulare è inevitabile essere rintracciati, ma ho la sensazione di essere continuamente osservato. Perciò io me la svigno, signora Katori. Mi stia bene». «Aspetti un momento. Ho ancora un favore da chiederle», lo trattenne svelta Masako. «Di che si tratta?» «Qui nel posteggio c’è la Golf di Kuniko». «Cosa dice?» Masako sentì il panico nella sua voce. «Come è possibile?» «Be’, difficile che sia stata Kuniko, per cui non resta che Satake», rispose abbassando la voce. «Signora Katori, non c’è niente da scherzare, sembra piuttosto pericoloso. È meglio che ce la diamo a gambe più veloci che possiamo». «Lo so anch’io! Però le sarei riconoscente se potesse andare al posteggio e guardare chi guida la Golf». «Ma questo lo sappiamo già! Chi se non lui!» «Sì, ma non potrebbe guardare dove va?» «È pazza? Non può chiedermi una cosa simile!» Evidentemente Jumonji il codardo non era in grado di pensare ad altro che alla sua sicurezza. Masako cercò di calmarlo e gli fissò un appuntamento per la mattina dopo verso le sei in un locale che stava aperto tutta la notte.
La telefonata le aveva fatto perdere tempo e adesso era in ritardo per il turno. Si affrettò a timbrare il cartellino e scese nello stabilimento a pianterreno. Davanti alla porta era già radunato un centinaio di operai, in attesa dell’inizio del lavoro a mezzanotte. Masako si accodò a loro. Erano passati i tempi in cui, insieme a Yoshie, Yayoi e Kuniko, si metteva in testa alla fila per strappare alle altre i posti migliori davanti al nastro trasportatore. La porta si spalancò. Gli operai sciamarono nel laboratorio e si allinearono davanti ai lavandini sistemati all’entrata. Masako dovette aspettare a lungo prima che la fila terminasse. Aprì il rubinetto con il gomito e si lavò le mani. Di nuovo la assalì la stessa fantasia che la aveva tormentata anche nei giorni precedenti come un fastidioso peluzzo di cui non ci si riesce a liberare. Le sembrava di avere le mani ancora sporche di uno strato di grasso bianco giallastro, un grasso penetrato sotto le unghie e tra le dita, il grasso di Kuniko, che non riusciva a eliminare per quanto si strofinasse le mani con il sapone e se le sciacquasse in abbondante acqua. Masako si insaponò di nuovo le mani e se le strofinò forsennatamente con una spazzola. «Ehi, così si procura delle abrasioni! Stia attenta, altrimenti non potrà lavorare», l’avvisò Komada, l’incaricato all’igiene, che la osservava da dietro le spalle. Anche la più piccola screpolatura era sufficiente per non poter toccare il cibo. Le mani e gli avambracci di Masako erano già rosso fuoco. «Già, è vero, grazie». «Ma cosa le succede oggi?» «Mi scusi». Immerse le mani nel liquido disinfettante, le asciugò con dei fazzoletti di garza sterile che poi passò sul grembiule di plastica. La vista del grembiule le fece venire in mente quello che aveva indossato a casa, da cui non era riuscita a togliere le macchie rosso scuro del sangue di Kuniko. Cercando di allontanare anche quella fantasia, Masako scosse energicamente la testa. «Masako-san!» Kazuo, già con il suo carrello di riso bianco, stava passando davanti a lei. «Va tutto bene?» «Sì», rispose Masako, guardando in quale postazione della linea le convenisse sistemarsi. «Ho chiuso la busta nel mio armadietto». «Sì, grazie». Kazuo si guardò intorno e, assicuratosi che nessuno li stava osservando, bisbigliò: «Oggi ha un aspetto da far paura, Masako-san, come la morte in persona». Chissà chi gli aveva insegnato quelle espressioni. Masako osservò il profilo di Kazuo. Quella sera irraggiava una tranquillità meravigliosa, una specie di sicurezza, come un cucciolo di cane divenuto adulto. Masako si augurò con tutto il cuore di avere, almeno per quella notte, la sua calma e la sua forza fisica. Nakayama, il caposquadra, si era già accorto di loro e si era avvicinato: «Che cosa fate lì. Su, sbrighiamoci, al lavoro!» Masako si avviò docile al nastro trasportatore. Il lavoro allo stabilimento era, sotto certi aspetti, simile ai lavori forzati: era proibito chiacchierare, persino scambiarsi una battuta, e se si doveva soddisfare un bisogno fisico era necessario chiedere il permesso; gli operai dovevano fare il loro dovere e basta, preferibilmente in silenzio. «Forza!» L’incoraggiamento di Kazuo le avvolse la schiena come una coperta calda. Yayoi e Yoshie non si facevano più vedere, Jumonji se la dava a gambe, Kuniko era morta. Avrebbe dovuto lottare da sola contro Satake. Che anche questo facesse parte del suo intrigo? L’istinto di Masako le diceva che Satake ce l’aveva proprio con lei e si domandava perché. Alle cinque e mezzo, finito il lavoro, Masako si rivestì in fretta e uscì dallo stabilimento. Fuori non era ancora l’alba. La cosa peggiore di quel turno, in inverno, era che si rimaneva prigionieri della notte. Il lavoro incominciava a notte fonda e finiva quand’era ancora buio.
Masako si affrettò al parcheggio. La Golf non c’era più. Chi e quando l’aveva portata via? Rimase ferma in mezzo allo spiazzo ancora immerso nell’oscurità. Immaginò Satake davanti alla sua Corolla, sfiorare la porta, spiare all’interno e ridere, intuendo la sua paura come una vibrazione nell’aria. Bastò quella fantasia per suscitare in lei un nuovo furore. Nessuno si sarebbe preso gioco di lei. Nessuno l’avrebbe uccisa come Kuniko. Infine Masako inghiottì la paura. La mandò giù in un colpo senza assaporarla, come una medicina amara, e ingoiò la morte di Kuniko, l’esistenza di Satake e tutti quei fatti che non aveva voluto accettare e che fino ad allora le erano rimasti in gola. Poi aprì la portiera, entrò nell’abitacolo freddo e avviò il motore. Finalmente nel cielo a oriente incominciavano ad apparire le prime striature grigie del crepuscolo del mattino. Con il viso segnato dalla mancanza di sonno Masako contemplava i fondi neri rimasti nella tazza del caffé. Non aveva altro da fare. Aveva già fumato troppe sigarette e bevuto troppi caffè. Anche la cameriera sembrava infastidita e non passava più al suo tavolo, visto che non ordinava altro che caffè. Sedeva nel locale dove si erano dati appuntamento e aspettava Jumonji. Dopo le sette il locale si era riempito di impiegati che facevano colazione. Nell’aria aleggiava l’odore di omelette e uova strapazzate al prosciutto e la sala brulicava dell’animazione tipica del mattino. Jumonji era in ritardo di più di un’ora. Forse se l’era già svignata da un pezzo. Non aveva ancora formulato il pensiero che Jumonji entrò. «Mi scusi se sono in ritardo». Indossava una logora giacca di pelle scamosciata beige e un maglione nero. In qualche modo le condizioni pietose della giacca sembravano riflettere il suo stato d’animo. «Ero preoccupata!» «Non riesco quasi più a dormire, e proprio oggi mi sono addormentato». Masako gli guardò il viso, distrutto come il suo. «Per caso non è già andato al posteggio dello stabilimento, vero?» «No, mi dispiace. Non ce la faccio proprio, ho troppa paura», rispose francamente Jumonji e, preso un pacchetto di sigarette dalla tasca, se ne infilò una in bocca con aria angosciata. «Ho paura anch’io», bisbigliò Masako, ma Jumonji, a quanto pareva, non aveva sentito e non replicò. Così rimasero tutti e due seduti lì in silenzio, a guardare fuori dalla grande vetrina la tranquilla giornata di inizio inverno che stava per iniziare. Le esili betulle bianche intorno all’edificio scintillavano ai raggi del sole del mattino. «Mi spiace di non poterle essere utile», si scusò Jumonji per l’ennesima volta, aggrottando la fronte. Il suo viso giovanile, da star della televisione, per un attimo si trasformò in un brutto ghigno tormentato. «Non importa. Accada quel che deve accadere». «Ma io non voglio essere ucciso! Dannazione!» si lamentò Jumonji, abbandonando il cellulare sul tavolo come se fosse qualcosa di immondo. «Ogni volta che suona mi spavento a morte, anche se so che è lui. Mi è bastato incontrarlo una volta, davvero, è stato talmente terribile!» «Le telefona solo perché lei lo ha visto. Sono solo minacce a vuoto». «Ma, non so…» «Che aspetto poteva avere…» pensò Masako ad alta voce. Perché la figura dell’uomo visto da Jumonji e il viso che aveva guardato Kuniko prima di morire non erano impressi nella sua retina? «Che aspetto poteva avere?» Jumonji si guardò intorno, come per accertarsi che Satake non fosse seduto dietro di lui. Il locale era pieno di impiegati che leggevano il giornale. «Le parole non bastano a descriverlo». E allora vieni allo stabilimento e vedi se puoi identificarlo, avrebbe voluto dire Masako. Ma
sapeva che la proposta lo avrebbe terrorizzato, e volse lo sguardo altrove. «Comunque sono riuscito a sistemare il materiale». Jumonji era sprofondato, esausto, nel sofà di finta pelle. La cameriera aveva portato un gigantesco menu, ma lui non gli diede neppure uno sguardo. «Certo che le grasse sono pesanti!» Jumonji si massaggiò i muscoli della spalla come se ricordasse la fatica sostenuta. «Il vecchio dell’altra volta era leggero, questa invece pesava il doppio, lei che cosa ne dice?» Il corpo di Kuniko era stato diviso in ben tredici scatoloni. Certamente era stata una bella fatica andare fino a Fukuoka, prendere in consegna le scatole, caricarle in macchina e buttarle nell’inceneritore. Invece di rispondere Masako aggrottò la fronte e senza volere diede uno sguardo al parcheggio del ristorante. All’improvviso aveva sentito il bisogno di guardare se c’era la Golf verde. «Signora Katori, non ha intenzione di scappare? Per caso ha in mente di tornare allo stabilimento?» «Per adesso sì». «Lasci perdere, si licenzi!» Jumonji era stupefatto. «Signora Katori, adesso lei ha otto milioni. O sette? Comunque abbastanza. Scusi se mi permetto, ma dovrebbe essere di più di quanto può guadagnare in cinque anni di lavoro in fabbrica. Non le basta?» Masako non rispose e bevve un sorso d’acqua. Sapeva che Satake sarebbe sempre riuscito a rintracciarla, dovunque fosse fuggita. «In ogni caso io me la batto oggi stesso». Arrivò la cameriera e Jumonji ordinò un hamburger. «Dove andrà?» «Se riesco mi nascondo da Soga-san, ma anche con lui non c’è da scherzare», rispose Jumonji. Masako non aveva mai sentito quel nome. «Naturalmente andrebbe meglio Shibuya, o qualche altro posto pieno di belle ragazze. Fra un anno quel tipo si sarà dimenticato di me. Oltretutto io non c’entro nulla con il caso Yamamoto». Jumonji aveva svelato il suo vero volto. Il suo sconfinato ottimismo era tipico della gioventù. Le decisioni di Masako invece non ammettevano di essere riviste. Del resto lei non aveva alcuna intenzione di rivederle. «Bene, devo andare». Masako mise sul tavolo i soldi per i suoi caffè e indicò il cellulare abbandonato su un angolo come un oggetto inutile e fastidioso. «Le serve ancora?» «No. Dovrei comunque cambiare il numero». «Se è così… Posso tenerlo io?» «Come vuole. Ma non funzionerà a lungo». «Non è necessario. Voglio solo sentire una volta la voce di quell’uomo». «Prego, è suo». Jumonji le mise in mano il cellulare. Masako lo infilò nella borsetta: «Bene, vado». «Signora Katori, faccia attenzione». «Grazie. Anche lei». «Se riusciamo a uscire sani e salvi da questa faccenda, magari potremo ancora fare affari insieme!» Jumonji alzò il suo bicchiere d’acqua e accennò un brindisi, ma subito ridivenne serio. In casa non c’era più nessuno. Yoshiki non aveva bevuto tutto il caffè e la tazza era sporca intorno al bordo. Masako la vuotò nel lavello e si mise a lavarla con la paglietta. A un certo punto si accorse che, a furia di strofinarla, era riuscita a graffiare la porcellana. Fino a quando avrebbe dovuto continuare a vivere in quella casa? Masako chiuse il rubinetto e lasciò cadere le spalle. Ancora un poco e anche lei avrebbe trovato una via d’uscita, e invece adesso c’era quel Satake che si dava da fare per trascinarla all’inferno. Il giorno del tifone, quando le aveva chiesto se era disposta ad aiutarla nel lavoro proposto da Jumonji, dopo un attimo di esitazione Yoshie aveva risposto: «Con te andrei anche all’inferno». Era davvero quella la sua meta? Masako si lasciò andare sul divano. Era spossata, non tanto per la
stanchezza, quando piuttosto per la frustrazione. All’improvviso il cellulare di Jumonji squillò. Masako lo guardò un attimo, indecisa, poi schiacciò risolutamente il pulsante. Per qualche istante non udì nulla. Masako rimase in ascolto senza fare il minimo rumore. Finalmente qualcuno disse: «Il prossimo sei tu». Masako rispose con voce bassa: «Pronto». Per un attimo l’uomo sembrò sorpreso e tacque. «Satake», lo chiamò lei decisa. «Masako Katori?» rispose Satake a voce bassa. Il suo tono era chiaro, persino amichevole, come se non avesse aspettato altro. «Già». «E allora, come ci si sente a fare a pezzi i cadaveri?» «Perché ci sta dietro?» «Io sto dietro a te». «Perché?» «Perché sei una svergognata. Ti darò una bella lezione. Ti augurerai di lasciare questo mondo, di questo puoi essere certa!» «Si risparmi la fatica!» Satake rise. «La prossima sarai tu. Puoi dire a Jumonji che è stato retrocesso di un posto». Aveva già sentito una volta quella voce. Masako incominciò a passare velocemente in rassegna i suoi ricordi, ma Satake riappese.
3. Aveva ancora nell’orecchio quella voce. Doveva averla udita di recente e da vicino. Masako saltò in piedi, afferrò il giaccone buttato sul divano, si mise la borsetta a tracolla e corse fuori di casa. Il motore dell’auto era ancora caldo. Aveva già incontrato più volte Satake, di questo era fermamente convinta, ma aveva bisogno di una prova sicura. Adesso, finché quell’individuo dormiva ancora. Era Sato, il sorvegliante. Perché se lui era Satake, tutto diventava plausibile. Aveva incontrato Kuniko come per caso e le aveva parlato mentre la accompagnava allo stabilimento. Aveva scelto proprio il lavoro giusto per potere osservare anche Masako. La prima volta in cui si erano incontrati, al parcheggio, lui le aveva puntato a lungo la luce della torcia, perché voleva imprimersi bene in mente il suo viso. Ricordò l’ostilità nei suoi occhi quando, sul sentiero, si era voltata a guardarlo in faccia. Sentì di nuovo la morsa della sua mano sulla spalla, la notte precedente. In ognuna di queste occasioni si era sentita terribilmente a disagio. Non aveva più dubbi. Tuttavia, se non fosse stata ferma nel suo proposito, quella certezza si sarebbe presto tramutata in angoscia. Lei avrebbe perso il suo spirito combattivo e sarebbe stata condannata a prendere il largo alla chetichella. Invece Masako aveva deciso di uccidere Satake, per potersi mettere al sicuro una volta per tutte. Ma sarebbe stata capace di una simile impresa? No, non andava, non sarebbe mai riuscita a uccidere un essere umano. Però non voleva neppure fare la fine di Kuniko. La paura stava prendendo il sopravvento e si sentiva sul punto di esplodere. Senza rendersene conto premette a fondo il pedale dell’acceleratore e per un pelo non tamponò il camion che le stava davanti. Sato, il sorvegliante, era Satake. Rivedeva davanti a sé il suo sguardo cupo e le sembrò di rivivere l’incubo di due settimane prima, il sogno in cui qualcuno, alle sue spalle, la strangolava e lei aveva un orgasmo. Capì che si era trattato di un presentimento e, con sua grande meraviglia, in un angolo remoto del suo cuore scoprì che da Satake si sarebbe anche lasciata uccidere. Fu costretta a pensare al magnetismo che si era creato tra di loro la notte precedente, sul sentiero immerso nell’oscurità. Forse già allora, senza rendersene conto, aveva capito che Sato non era altri che Satake. Le strade erano intasate dal solito traffico mattutino e Masako guidava lentamente lasciando vagare i pensieri dal passato al futuro e viceversa. Chi era il cacciatore e chi la preda? Lo avrebbe ucciso o sarebbe stata uccisa? «Perché sei una svergognata», aveva detto Satake. La assalì una rabbia violenta e le fu assolutamente chiaro che quello tra lei e Satake era un duello all’ultimo sangue. Rifece la solita strada e tornò allo stabilimento. Il posteggio era già quasi completamente occupato dalle macchine degli operai del turno diurno. Guardò l’orologio, erano le otto e mezzo. Il turno iniziava alle nove, per cui sarebbero sicuramente arrivati altri operai. Masako proseguì lungo il viottolo che portava allo stabilimento dismesso, parcheggiò l’auto e tornò a piedi alla guardiola del sorvegliante. Sato era stato sostituito da un uomo più anziano che ora sedeva all’interno della casetta, non più larga di mezzo tatami, immerso nella lettura del giornale. «Buongiorno», gli disse direttamente all’orecchio, ma il sorvegliante non rispose e si limitò ad abbassare gli occhiali sul naso e a guardarla. Masako aveva gli occhi rossi di sonno ed era pallida come un morto. «Lavoro nel primo turno. Mi può dare l’indirizzo del signor Sato, quello che lavora qui dalle sette di sera?» Masako arrivò subito al punto. «Ah sì, Sato del turno di notte. Non lo conosco di persona, perché io resto qui solo fino alle sei. È meglio che lo chieda in ufficio!» «Ma è una ditta esterna, vero? Forse è meglio che mi rivolga all’amministrazione della fabbrica…»
«No, con quella non abbiamo niente a che fare. Telefoni a questo numero». L’uomo le tese un biglietto da visita su cui c’era scritto “Servizi di sorveglianza e protezione Yamato”. Masako lo ripose nella tasca dei jeans. «Grazie mille». «Come mai vuole sapere l’indirizzo del signor Sato?» chiese l’uomo con un sorrisetto scaltro. Seria Masako rispose: «Perché voglio un appuntamento». L’uomo borbottò qualcosa tra i denti e le lanciò un’occhiata significativa. Masako credeva di avere un’espressione tetra, difficilmente associabile a sentimenti romantici, ma evidentemente lui la considerava innamorata. «Be’, come invidio voi giovani!» Alla parola “giovani” Masako fece un sorriso amaro, ma poi, per precauzione, chiese ancora: «Crede che in ditta mi daranno davvero il suo indirizzo?» «Be’, non le resta che tentare», concluse l’uomo e tornò a immergersi nella lettura del giornale. Masako ritornò alla macchina e chiamò subito con il cellulare di Jumonji: «Pronto, parlo con il servizio di vigilanza Yamato?» «Sì, siamo noi», rispose una voce rilassata, piuttosto anziana. «Mi chiamo Kuniko Jonouchi e lavoro nello stabilimento di colazioni Miki Foods. Il signor Sato del turno di notte ha trovato qualcosa che avevo perso e ora vorrei dimostrargli la mia riconoscenza e mandargli un piccolo regalo…» «Ah, davvero?» «Le dispiacerebbe darmi il suo nome completo e l’indirizzo?» «L’indirizzo della nostra sede o quello personale?» «Se possibile il suo indirizzo personale». «Attenda un attimo». In quella ditta dovevano esserci dei bei posticini tranquilli, probabilmente occupati da gente in pensione. Un simile comportamento sarebbe stato impensabile per il personale della sicurezza che si occupava del trasporto del denaro per l’istituto di credito Tanashi. «Dunque: Sato, Yoshio Sato. Kodaira, caseggiato T, appartamento 412». «La ringrazio». Masako riagganciò e alzò al massimo il riscaldamento, perché le erano venuti i brividi. Non avrebbe mai pensato che Satake abitasse nello stesso caseggiato di Kuniko. La sua era una trappola elaborata a lungo, con estrema abilità. Era spaventata dall’accuratezza puntigliosa di Satake. Senza che se ne accorgessero era riuscito ad attirarli tutti nella rete. Dopo Kuniko toccava a lei. Il sudore le colava sulla fronte: quando ci passò la mano sopra, con grande sorpresa si accorse che era freddo. Preoccupata pensò a Yayoi, che non aveva più visto da quando avevano litigato. Che nascondesse qualcosa? Digitò il suo numero. «Qui casa Yamamoto», rispose Yayoi un po’ sbrigativa. «Sono io». «Ah, Masako-san! È da molto che non ti fai sentire». «Lì da te è successo qualcosa di strano?» «No, niente in particolare. I bambini sono all’asilo e io non mi do pensieri e mi faccio i miei comodi, o come si dice». Il tono quieto della voce di Yayoi contrastava con quello teso di Masako. «Perché me lo chiedi?» «Volevo solo rassicurarmi. Se non è successo nulla, non ci sono problemi». «Inoltre ho deciso che entro l’anno me ne torno dai miei». «Tanto meglio!» «E a voi, come va? Bene? Cosa fa la maestra?» «È molto che non viene in fabbrica». «Cosa? Davvero strano. E Kuniko?» «Kuniko è morta».
Yayoi fece un piccolo grido e ammutolì. Masako rimase in attesa. Infine Yayoi riaprì la bocca e pronunciò la fatidica frase: «È stata uccisa?» «Com’è che ti viene in mente?» «Non lo so. Pensavo solo…» Non era sincera. Masako capì che le era successo qualcosa: «A ogni modo Kuniko è morta». «Quando?» «Non lo so». «Come è morta?» «Non lo so. Ho visto solo il cadavere». Non disse niente della orribile, vistosa ecchimosi intorno al collo di Kuniko. «Davvero hai visto il cadavere?» Yayoi sembrava disperata. «Sì». «Masako, che cosa significa tutto ciò?!» Il tono di Yayoi era precipitoso, sembrava in preda al panico. «Ascolta, che cosa può voler dire?» «A quanto pare abbiamo svegliato un terribile mostro». «E quest’uomo l’ha uccisa?» Di nuovo Yayoi aveva usato la parola “uccisa”. E inoltre sembrava che avesse capito subito di chi si trattava, quando Masako aveva detto “mostro”. Ormai era sicura che Yayoi aveva già incontrato Satake. «Hai detto quest’uomo. Dunque lo conosci?» Yayoi rimase in silenzio. In sottofondo si sentivano dei suoni, probabilmente il televisore era acceso. «Se ti è successo qualcosa, dillo subito, hai capito? Siamo tutte in pericolo di vita, possibile che non riesci ad afferrare una verità così semplice! Sputa fuori tutto!» Aveva perso la pazienza e alzò la voce. Mentre Yayoi continuava cocciuta a tacere, Masako guardava inferocita il portacenere da cui traboccavano i mozziconi delle sigarette che aveva fumato. Alla fine Yayoi rispose: «Ma non è successo niente». «Bene, come vuoi. D’ora in avanti dovrai badare a te stessa da sola!» «Masako-san», chiese affannata Yayoi, come per cancellare le parole di Masako. «Pensi che sia tutta colpa mia?» «No». «Davvero no?» «No, davvero no», rispose Masako e riagganciò. Neppure per una volta aveva pensato che fosse colpa di Yayoi. Invece era colpa sua, di questo era convinta. Tuttavia non provava rimorso, e neppure aveva intenzione di chiedere scusa alle altre per quello che stava succedendo. Riusciva a pensare solo a una cosa: che la via di fuga, che era appena riuscita a intravedere, stava per esserle sbarrata. Non le rimaneva altra soluzione che sfondare la porta. Sapeva benissimo che, anche se avesse confidato loro la sua decisione, le altre non l’avrebbero seguita. E Masako non voleva avere nessuno tra i piedi. Si soffermò a guardare il rilievo delle vene sulle mani e infine le alzò a coprirsi il viso: le sembravano la sola parte del suo corpo in cui indugiasse ancora del calore. Si fidava solo di se stessa. Di nessun altro, solo di se stessa. Pensò a quando, in estate, era ritornata in montagna, nel posto in cui aveva sotterrato la testa di Kenji. Alla propria determinazione, alla propria solitudine. Nel frattempo l’aria nell’abitacolo era divenuta calda e pesante. Venne sopraffatta dalla sonnolenza e chiuse gli occhi. Il motore era ancora acceso. Li riaprì dopo una mezz’ora. Intorno nulla era cambiato, davanti a lei c’era ancora solo il viottolo deserto che conduceva allo stabilimento delle colazioni. L’erba sui bordi era ingiallita e secca, forse a causa della brina che si formava al mattino e alla sera. Riusciva a scorgere il coperchio del tombino che Kazuo aveva scostato e che ora giaceva di traverso come quello di un sarcofago scoperchiato. Ancora dieci ore e Satake, in divisa da sorvegliante, avrebbe percorso quel sentiero con
aria innocente. Il piazzale davanti alla stazione di Higashi-Yamato era desolato come sempre, e il vento sollevava mulinelli di sabbia sui lotti edificabili ricoperti di erbacce. Probabilmente si teneva una manifestazione allo stadio del ghiaccio, perché una grande moltitudine variopinta di scolari era ferma in coda davanti agli ingressi. Masako cercò un posto appartato dietro la stazione, parcheggiò, passò in mezzo alle file di scolari e attraversò svelta la strada. Sparì in una via secondaria sulla quale si affacciava una lunga serie di piccoli bar. Dominava il puzzo della spazzatura, non si vedeva anima viva. Forse era già troppo tardi. Automaticamente accelerò il passo. Accanto al negozio di sushi con la scritta “Chiuso” salì di corsa la scala scricchiolante che portava al primo piano, all’agenzia finanziaria Milione. Oltre la sottile porta di compensato dell’ufficio non si udiva nessun rumore. Rimase per qualche istante ad ascoltare con l’orecchio teso, finché non le sembrò di sentire qualcuno che si muoveva. «Jumonji-san, sono io, Masako Katori, apra!» La porta venne socchiusa e apparve la faccia spaventata di Jumonji. Non si era ancora cambiato e sudava. Nell’ufficio tutto faceva pensare che si stesse preparando a fuggire, perché i cassetti dell’unico raccoglitore e della scrivania erano aperti. Probabilmente – se lo conosceva bene – stava cercando tutti i pezzi di carta che avrebbero potuto procurargli ancora qualche soldo per portarseli via. E i dipendenti, be’, avrebbero visto con chi avevano avuto a che fare. «Ah, è lei, signora Katori!» «Le ho fatto paura?» Jumonji non rispose e si limitò ad accennare un debole sorriso. Non c’era nessun altro. «I suoi dipendenti si sono tutti licenziati?» «La donna viene al pomeriggio, per rispondere al telefono e occuparsi della baracca. Avrà una bella sorpresa», ghignò perfido Jumonji e la invitò a entrare. «Cosa è successo? Non ci siamo appena lasciati?» «Per fortuna sono riuscita a beccarla! Vorrei che mi dicesse tutto dei debiti di Kuniko. Immagino che faccia delle indagini quando fa dei prestiti, no?» «Sì, ma… Perché mi fa queste domande?» Masako lo guardò in faccia: da un pezzo aveva perso ogni traccia di sicurezza. «So chi è Satake». «Chi?» domandò Jumonji aggrottando le sopracciglia. «Il sorvegliante del posteggio che si fa chiamare Sato». «Davvero? Geniale!» gridò Jumonji in tono ammirato. Non si capiva se il destinatario della sua ammirazione fosse Satake che era riuscito a spacciarsi per sorvegliante, o Masako che aveva scoperto il suo travestimento. «Ma ne è sicura?» «Sì, e inoltre abita nel caseggiato di Kuniko». «Be’, quando facevo parte della banda di motociclisti di Adachi ne ho conosciute di canaglie, ma uno così determinato non mi è mai capitato di incontrarlo. Davvero è di tutt’altro calibro», borbottò impressionato Jumonji ma poi, come se si fosse all’improvviso ricordato di quando era andato a prendere il cadavere di Kuniko, aggrottò di nuovo la fronte e si strofinò gli angoli della bocca. Masako si guardò intorno nell’ufficio vuoto e squallido. «Gli affari sono piuttosto fiacchi, vero?» «Anche se andassero meglio, sarei comunque sul punto di fare bancarotta», ammise francamente Jumonji e indicò con il dito il raccoglitore: «Lì trova tutto quello che ho di Kuniko. Prego, si serva, anche se non ho ancora capito bene a che cosa le serve…»
Masako frugò nel raccoglitore. Come si aspettava, la clientela di Jumonji non era numerosa: sotto la lettera J c’erano soltanto tre persone. Masako tirò fuori il rapporto sulla situazione dei debiti di Kuniko, maldestramente trascritto da Jumonji, e lo scorse in fretta, alla ricerca di qualcosa che si riferisse a grandi difficoltà di pagamento. «Adesso però mi dica a che le serve, signora Katori», chiese ancora Jumonji. Il suo interesse sembrava essersi risvegliato. «Cerco qualcosa che mi possa essere utile». «Mi dica però a che scopo…» «Voglio rendere la vita difficile a Satake», rispose lei, ma Jumonji ribatté con voce cupa: «Ma questo non possiamo farlo, signora Katori, piuttosto battiamocela al più presto possibile!» Masako osservò la fotocopia della patente: Kuniko era pesantemente truccata, un povero volto triste e ottuso. «Jumonji-san!» «Sì?» «Se uno vuole dichiarare bancarotta, come deve fare?» «È semplice. Basta presentarsi in tribunale e fare la dichiarazione». «Allora bisogna assolutamente andarci di persona… No, non potrebbe funzionare, non potrei mai essere scambiata per Kuniko». Masako mise da parte la fotocopia della patente. Anche chiedere a Yayoi non avrebbe avuto senso, non assomigliava assolutamente a Kuniko, e inoltre ci sarebbe voluto troppo tempo. «Cosa ha in mente, signora Katori?» Jumonji la guardò con aria interrogativa. «Be’, la mia idea è di dichiarare bancarotta per Kuniko, facendo in modo che Satake risulti il garante responsabile». «Un po’ alla volta incomincio a capire…» Jumonji venne preso da un attacco di ilarità. «Ma allora facciamo semplicemente così. Non c’è bisogno di dichiarare bancarotta, è sufficiente che denunciamo la scomparsa di Kuniko e che il tipo è il garante responsabile. Di questo me ne occupo io, non c’è problema. Al giorno d’oggi basta una telefonata e uno si trova una responsabilità appesa al collo. Devo solo trovare un paio dei miei bravi colleghi. In questo ramo c’è gente che per i soldi farebbe qualsiasi cosa». «Potranno dire di aver prestato denaro a Kuniko e pretenderne la restituzione da Satake?» «Sì. Lei non ha bisogno di un contratto di garanzia, vero? Allora è veramente una cosa da poco. Va da sé, comunque, che non c’è l’obbligo della restituzione del denaro». «Non importa, mi basta metterlo in difficoltà. Allora faccia girare la voce che Kuniko è scomparsa». «Sarà fatto. Divulgherò la notizia al sistema». «Sicuramente ha una quantità di timbri falsi, qui in ufficio. Allora facciamo subito un contratto falso e timbriamo con il suo nome alla voce garante». Jumonji sembrava un ragazzino che stesse preparando uno scherzo: prese una vecchia scatola da biscotti da un cassetto e la aprì. Era piena di timbri. «Ecco qua. Così impara a scegliersi un nome così comune!» Trovò ben tre timbri con il nome Sato. «Finisca il lavoro prima di svignarsela, mi raccomando!» «Mi prenderà al massimo mezza giornata!» dichiarò baldanzoso Jumonji, a cui era tornato il buonumore. «Vedrà se non lo tireremo fuori dal suo buco!» Masako accennò un piccolo sorriso. Pensava a Satake che dormiva tranquillo, ignaro di cosa lo aspettava.
4. Incuterle semplicemente paura non era divertente. Satake si trovava sulla terrazza del supermercato vicino alla stazione. Che fosse per il tempo, freddo e nuvoloso, o a causa del declino dei piccoli esercizi di fronte all’avanzata dei grandi centri commerciali che attiravano tutta la clientela, in ogni caso lassù non c’era anima viva all’infuori di una mamma con il figlioletto e di una coppietta di studenti alla ricerca di un posto appartato per potersi sbaciucchiare in pace. Era già da un po’ che stava guardando un piccolo chiosco provvisorio accanto alla ludoteca, davanti al quale avevano sistemato cinque gabbie malmesse con le solite cucciolate di gatti e cani: american shorthair troppo cresciuti, sporchi cincilla, shiba sfiniti. Gli animali erano rannicchiati in fondo alle gabbie e fissavano spauriti Satake. Gli ritornò in mente Anna, quando gli aveva chiesto tra le lacrime se per lui non sarebbe mai stata altro che un cagnolino in vendita. Pensò a lei con nostalgia, rivide la sua pelle liscia e il suo viso perfetto. Anna, che grazie a lui era diventata la numero uno del Mika. Il cucciolo più selezionato del suo negozio di animali. E adesso che anche Anna aveva intuito la verità, per quanto si fosse sforzata non sarebbe più riuscita a essere la numero uno. Era così che andavano le cose. Solo perché non era consapevole della verità, aveva potuto essere così orgogliosa della sua straordinaria popolarità. Ormai su di lei era calata un’ombra che l’avrebbe accompagnata per sempre, fino alla morte. Un uomo pronto ad amare una donna con tutto il cuore non avrebbe potuto fare a meno di questa consapevolezza, ma così non era per chi le donne voleva solo comprarle. Quello che volevano i clienti erano semplicità e candore, un dono del cielo, e sapevano che erano qualità difficili da trovare. Proprio per questo si era preso tanta cura di Anna e l’aveva viziata, perché non si avvicinasse mai alla verità. Un vero peccato che fosse stato proprio il suo amore per lui a renderla adulta! Persino al Mato, il nuovo locale, sarebbe riuscita a mantenere la posizione per non più di sei mesi. Anna gli faceva pena. Ma questo sentimento non era molto diverso da quello che provava nei confronti dei cani e dei gatti nelle gabbie davanti a lui. Infilò l’indice tra le maglie della rete di una gabbia. Il cucciolo di shiba indietreggiò, lo guardò negli occhi e incominciò a tremare. «Non aver paura!» sussurrò Satake al cane. Se si fosse spaventato troppo e avesse incominciato a chiedere pietà, sarebbe stato un animale noioso. Ma se non si fosse spaventato affatto, si sarebbe dimostrato stupido. In conclusione i cagnolini docili e civettuoli erano noiosi e stupidi. Di colpo Satake perse ogni interesse. Si allontanò dal negozio di animali e, dopo avere dato una breve occhiata all’interno della ludoteca desolatamente vuota, bighellonò senza meta sulla stretta terrazza. Guardò dall’alto la città, piatta e grigia, che si stendeva fino alle colline di Tama. Quella miserabile città depravata! Disgustato Satake sputò sul prato artificiale che ricopriva il pavimento. Quando alzò lo sguardo si accorse che la mamma col bambino e la coppietta lo stavano osservando impauriti. Erano già passati quattro giorni e Masako Katori non era più andata in fabbrica. Da quando aveva scoperto la Golf di Kuniko nel posteggio. Che si fosse data per vinta? Non c’era gusto. Era stato così contento di avere trovato una donna di fegato, e adesso era bastato così poco per terrorizzarla? Possibile che anche lei avesse paura di lui? O si era sbagliato quando, al posteggio, aveva creduto che lei avesse percepito con chiarezza il suo desiderio nei suoi confronti? Satake si girò verso il negozio di animali. Cani e gatti lo guardavano con occhi tristi. Si accorse che si stava avvicinando la depressione e decise di scendere le scale di corsa. Continuò a correre finché non sentì il cuore in gola. Ritrovò l’eccitazione di quella sera d’estate, quando aveva inseguito la
donna sulle strade di Shinjuku al tramonto. Quello sguardo, che gli aveva fatto perdere la testa! Masako lo aveva deluso, e lui era furibondo. Non doveva succedere, non doveva costringerlo a strangolarla e basta, come aveva fatto con quella grassona! Si era quindi sbagliato, quando aveva creduto che fosse stato un destino ineluttabile a fargli incontrare Masako? Satake strinse con forza i pugni dentro alle tasche della giacca a vento. Fece jackpot per tre volte in una sala di Pachinko vicino alla stazione. Di più non si poteva. Satake sferrò un calcio alla macchina e uscì come una furia. Un dipendente lo inseguì: «Signore!» «Che vuoi?» Satake si girò verso di lui. Alla vista dei suoi occhi minacciosi l’impiegato si fermò su due piedi. Satake si strappò di tasca tre banconote da diecimila yen e le buttò a terra. «Bastano?» Lanciò uno sguardo di disprezzo all’uomo, che fece schioccare la lingua e si chinò per raccoglierle, e si allontanò. Aveva preso talmente tanti soldi da Yayoi, che poteva anche buttarli via. Come se avesse giocato per denaro! Satake era fuori di sé dall’ira. Strano che il suo furore potesse ancora aumentare, dopo che aveva già ammazzato una persona. Per quanto si sforzasse riusciva a malapena a trattenersi: si sentiva dentro la selvaggia, incontenibile forza distruttrice di un fiume in piena che trabocca dal suo alveo e porta via tutto con sé. Ma allo stesso tempo riusciva ancora a pensare a mente fredda e capiva che se questa sensazione fosse diventata più intensa, lo avrebbe portato alla pazzia. Nel quartiere commerciale i nuovi edifici avevano mura talmente fragili e sottili che sembravano finti, ed erano tutti uguali. Quelli vecchi erano squallidi, sporchi e malandati. A spalle curve e di cattivo umore Satake camminava davanti ai portici deserti. Aveva fame, ma non aveva voglia di mangiare. Anche quella notte non aveva altro da fare che portare la Golf di Kuniko al posteggio dello stabilimento e aspettare Masako Katori. Ritornò al parcheggio del supermercato con il negozio di animali e aprì la portiera della Golf verde. Dentro tutto era ancora come lo aveva lasciato Kuniko: musicassette, scarpe e altra paccottiglia buttata alla rinfusa. Ripensando a quella cicciona, guardò con odio le ballerine scalcagnate sul pavimento vicino al posto di guida. Solo il posacenere era ora pieno dei mozziconi, schiacciati con cura, delle sue sigarette di marca. Se avesse continuato a girare per la città, forse prima o poi avrebbe incontrato Masako. Sarebbe stato bello vedere la sua espressione. Se aveva smesso di andare al lavoro, non aveva altra scelta che continuare a cercarla in quel modo. Bene, decise, l’avrebbe fatto. Continuava a venirgli in mente l’espressione di Masako quando, arrivata al posteggio con la sua Corolla, aveva visto la Golf di Kuniko. Dapprima si era irrigidita, ma subito aveva ripreso la sua aria imperturbabile, come se non fosse successo niente. Solo le labbra, che aveva continuato a tenere strette, manifestavano la sua paura. A Satake, che l’osservava dalla guardiola, non era sfuggito nulla di quel subitaneo mutamento. Poi Masako era scesa dall’auto e aveva fatto un giro intorno alla Golf. Poi, nel momento in cui si era accorta che la macchina era parcheggiata proprio come faceva Kuniko, doveva essersi spaventata ancora di più. Infatti, quando era andata da lui per chiedergli informazioni, non era riuscita a nascondere il tremito della voce. Splendido, questo sì che gli era piaciuto! Satake indugiò nel ricordo del tono di quella voce e rise tra sé e sé. Ma non doveva spaventarsi così facilmente, questo no! Che avesse pure paura, ma non doveva assolutamente incominciare a piatire sottomessa! Satake pensò al cucciolo di shiba e a Kuniko, a come si era messa a piagnucolare e mugolare senza ritegno perché la risparmiasse. Irritato, buttò fuori dal finestrino le scarpe di Kuniko, che rotolarono a destra e a sinistra prima di fermarsi sull’asfalto sporco e appiccicoso. Aveva posteggiato nello spazio riservato a Kuniko e stava girando la chiave per chiuderla quando lo raggiunse di corsa una giovane donna che sembrava lo stesse aspettando. Non la conosceva, ma da come era conciata – ciabatte ai piedi e un grembiule legato ai fianchi –
doveva essere un’inquilina della casa popolare. Non si era truccata, ma aveva spalmato di gel i capelli gonfiati dalla permanente, che incombevano sul viso come una parrucca. Satake detestava questo genere di disarmonie. «Per caso conosce la signora Jonouchi, la proprietaria dell’auto?» «Ovvio che la conosco! Mi ha prestato la macchina», rispose Satake con aria innocente. Aveva messo in conto che prima o poi gli avrebbero fatto qualche domanda, dal momento che andava avanti e indietro dal caseggiato con l’auto di Kuniko. «No, non volevo dire questo», replicò la donna arrossendo, come se avesse già capito che tipo di rapporto ci fosse tra i due. «Volevo solo sapere se le è successo qualcosa, perché è un pezzo che non la vedo». «Be’, dove sia esattamente non lo so neppure io». «Ma ha la sua auto, no?» La donna lo guardò come se volesse aggiungere: «Non le sembra strano?» «Be’, sa, io lavoro come sorvegliante allo stabilimento delle colazioni. Quando per caso ci siamo accorti che abitiamo nella stessa casa, lei mi ha gentilmente offerto di usare la sua macchina finché è via», disse Satake facendole dondolare lentamente le chiavi davanti agli occhi. Sul portachiavi era impressa la lettera K. «D’accordo. Ma dov’è la signora Jonouchi, dove si è nascosta?» «Come le ho detto al momento non c’è. Ma non deve preoccuparsi». «Ma non torna neppure di notte, e non ha fatto la pulizia delle pattumiere anche se era il suo turno. E non mi ha neppure avvisata che non poteva. Continuo a telefonarle, ma non c’è mai. Ed è da molto tempo che non vedo neppure suo marito…» «Si è licenziata dal lavoro. Forse è andata dai suoi». «E lei nel frattempo usa la sua auto?» La donna inclinò la testa e lo guardò diffidente. «Ma io pago per questo». «Ah!» Appena sentì che si trattava di soldi l’interesse della donna si raffreddò. «Mi scusi ma ho fretta», disse Satake spingendola di lato. Si ripromise di non usare più l’auto di Kuniko se non per andare allo stabilimento. Vide un uomo con un impermeabile nuovo di zecca fermo all’entrata, accanto alle cassette della posta. Poteva essere un poliziotto. Satake gli passò davanti come se non l’avesse notato, spiandolo con la coda dell’occhio. No, non aveva lo sguardo del poliziotto. Che fosse un rappresentante? In ogni caso continuava a esaminare le cassette della posta. Quando si accorse che sembrava indugiare sul numero 412, Satake si affrettò a sparire nell’ascensore. La porta si aprì al terzo piano. Satake controllò che l’ascensore non tornasse a pianterreno e si avviò con calma lungo il corridoio esterno. Come sempre il gelido vento di tramontana gli fischiò nelle orecchie. Infilò la mano in tasca e tirò fuori le chiavi del suo appartamento. Un uomo era fermo davanti alla sua porta. Indossava una luccicante giacca a vento imbottita bianca e pantaloni viola. Era giovane e aveva i capelli tinti di un vistoso colore castano rossiccio. Non appena lo vide arrivare, rimise in tasca qualcosa, forse il cellulare. Satake ebbe un brutto presentimento. «Il signor Sato, suppongo». L’uomo lo guardò con un’espressione che conosceva anche troppo bene. Il suo non era lo sguardo di un poliziotto, ma quello duro di uno yakuza. Satake non rispose e si accinse ad aprire la porta, riflettendo su che rapporto potesse esservi fra quel ragazzo e l’uomo incontrato a pianterreno. Si accorse allora che dalla maniglia pendeva un pezzo di tessuto nero. Senza parlare, ma con il tipico ghigno irridente dello yakuza, l’uomo continuava a guardarlo. «Che cavolo è?» «E perché non prova a guardare meglio?» Immediatamente Satake sentì il sangue montargli alla testa. Era la biancheria di Kuniko. Gli slip neri con cui le aveva tappato la bocca prima di ucciderla.
«Tu cane rognoso…» sibilò Satake afferrandolo con tutte e due le mani per il bavero del giaccone. Ma l’uomo sembrava abituato a quelle reazioni. Lasciò fare e, con le mani in tasca, alzò il mento e sorrise sarcastico. «Ti sbagli, c’era già quando sono arrivato!» «Dannazione!» Masako. Doveva essere stata Masako! Satake lasciò la presa, strappò gli slip dalla maniglia della porta e se li ficcò in tasca. «Con questo non ho niente a che fare!» ripeté l’uomo e, senza togliere le mani dalle tasche, gli diede una forte gomitata in pancia. «Quindi vedi di comportarti bene, stronzo!» Per tutta risposta Satake gli assestò un colpo in mezzo al petto: «E allora, cosa vuoi da me?» «Solo questo». L’uomo tirò fuori dalla tasca un foglio di carta e glielo mise sotto il naso. Era un contratto. Satake gli strappò di mano il foglio: un prestito di due milioni di yen a nome di Kuniko Jonouchi. La finanziaria che aveva concesso il credito aveva l’improbabile nome “Luce verde”. «E allora, io cosa c’entro?» «A quanto pare la donna se l’è svignata. E tu hai garantito per lei e quindi sei il debitore…» «Non ne so niente», protestò Satake. Lo aveva sistemato! Era evidente che si trattava di un trucco, perché nessuno avrebbe prestato due milioni di yen a Kuniko. Ma quei delinquenti cretini di yakuza, come quello che aveva davanti, non avrebbero mollato la presa e gli avrebbero reso la vita un inferno. Non avrebbero smesso di presentarsi alla sua porta e presto sarebbe stato sulla bocca di tutti! Proprio un bel casino! «Cosa? Quindi vorresti affermare che non ne sapevi niente?» L’uomo aveva alzato la voce. Due porte più avanti una donna uscì sul pianerottolo e li guardò intimorita. Esattamente quello che lo yakuza si era riproposto. «E allora, questo cos’è?» L’uomo continuava a sbattergli il foglio sotto il naso, indicando col dito la casella riservata al garante responsabile, dove era riportato il nome Yoshio Sato, con tanto di timbro e firma. Satake scoppiò a ridere. «Non sono stato io a firmare». «E chi allora?» «E che ne so?» Si fermò l’ascensore e apparve l’uomo di mezza età con l’impermeabile che Satake aveva visto nell’atrio davanti alle cassette della posta. Era chiaro come il sole che era complice di quel piccolo delinquente. «Mi permetta di presentarmi, mi chiamo Miyata. Vengo da parte dell’East Credit. La signora Jonouchi è in ritardo con il pagamento delle rate dell’automobile, e ora abbiamo sentito dire che è sparita senza lasciare traccia…» «E anche per voi il garante sarei io?» «Be’, mi spiace moltissimo, è poco che abbiamo avuto il suo timbro, ma…» Satake fece schioccare la lingua. Chissà quanti altri sarebbero venuti, poteva continuare così in eterno! Evidentemente Jumonji e Masako si erano accordati con qualche piccolo usuraio e avevano preparato dei documenti in cui lui appariva come garante. Poi avevano sparso in giro la voce della scomparsa di Kuniko alle varie finanziarie, e come risultato ora lui doveva subire quella persecuzione. «Capisco. Allora non mi rimane altro che pagare. Lasciatemi i documenti e vedrò cosa posso fare». I due sembrarono soddisfatti del suo mutato atteggiamento e gli diedero una copia dei documenti. «E quando pensi di pagare?» chiese il più giovane in tono tracotante. «Entro una settimana, ci conti». «D’accordo. Ma se non lo fai, amico, ritorno, e questa volta con i rinforzi. E vedrai che ti facciamo passare una volta per sempre la voglia di fare il garante, chiaro?»
Strano che lo minacciassero così pesantemente già alla prima richiesta di pagamento. Evidentemente Jumonji aveva cercato due dei peggiori campioni della sua risma da mettergli alle costole. Satake chinò la testa e disse a bassa voce: «Va bene, ci penserò. Chiedo scusa». Nel frattempo diversi inquilini del caseggiato si erano radunati sul pianerottolo e li osservavano tenendosi a distanza di sicurezza. I due, soddisfatti, ebbero modo di constatare che erano riusciti a mettere Satake in imbarazzo. «Mi raccomando». Satake annuì prontamente alle parole di Miyata, aprì la porta e si infilò in casa. Per evitare che il ragazzotto spiasse all’interno senza complimenti, se la tirò dietro prima di accendere la luce. Poi guardò attraverso lo spioncino e vide che se ne erano andati. Tirò fuori dalla tasca gli slip di Kuniko e li buttò per terra. Sembravano immondizia. «Maledizione!» imprecò Satake e li calpestò. Sicuramente avrebbero continuato a controllarlo, così non sarebbe stato libero di muoversi. Ed erano anche riusciti ad attirargli addosso l’attenzione degli altri inquilini. Sicuramente la donna di prima era stata così insistente perché era stata messa in allarme dalle domande di quei due. Se si trattava solo di un paio di milioni, poteva anche pagare, ma dal momento che era stato notato, non poteva più restare lì. Se entro una settimana non avesse provveduto a pagare, sarebbero andati a tormentarlo anche sul posto di lavoro, questo era chiaro. E così non sarebbe più riuscito a raggiungere il suo scopo principale, minacciare e terrorizzare Masako. Satake aprì l’armadio a muro e prese la borsa nera di nylon che aveva usato quando se ne era andato dal suo appartamento a Shinjuku. Vi infilò il pacchetto dei soldi e i voluminosi rapporti dell’agenzia di investigazione. Pensò un attimo e aggiunse anche gli slip di Kuniko. Lasciò vagare ancora una volta lo sguardo nella stanza vuota e lo fermò sul letto vicino alla finestra. Era su quel letto che si era più volte immaginato di legare, umiliare e torturare Masako. Finito, sarebbe rimasto un sogno! Subito, tuttavia, gli affiorò un sorriso sulle labbra. Era di nuovo lì! Sentì di nuovo lo stesso piacere che aveva provato la prima volta che aveva incontrato Masako, addirittura più intenso. Un piacere molto più profondo di quando aveva visto la donna sulle strade di Shinjuku. Forse uccidere Masako gli avrebbe dato ancora più piacere. E questa sarebbe stata la sua consolazione più grande. Satake lasciò la luce accesa e uscì sul pianerottolo con la borsa di nylon. Si accertò che non ci fosse nessuno e scese a passi felpati la scala di sicurezza. Raggiunto il pianterreno si guardò attentamente intorno e vide il ragazzo con la giacca imbottita che, tremante di freddo, sorvegliava la finestra del suo appartamento. Evidentemente la luce accesa lo rassicurava, perché, saltellando sui due piedi, continuava a guardare le giovani impiegate che tornavano a casa dopo il lavoro. Satake attese il momento propizio, attraversò il luogo di raccolta delle spazzature, sgattaiolò tra gli alberi e raggiunse la strada. I prossimi giorni li avrebbe passati in un albergo per uomini di affari di fronte alla stazione. Non sapeva quanto tempo gli rimaneva prima che si accorgessero che se l’era svignata e andassero a scovarlo allo stabilimento. Quella notte Satake andò a lavorare con un’utilitaria presa a nolo. Era convinto che avrebbe incontrato Masako. Nel frattempo doveva avere saputo che era caduto nel tranello che gli aveva teso, e voleva sicuramente vedere la sua faccia. Era quel tipo di donna, lei. Uguale a lui. Chissà che espressione avrebbe avuto. Satake sedette dentro la guardiola e si mise ad aspettare la Corolla rossa fumandosi in pace un paio di sigarette. Poco prima delle undici e mezzo, puntuale come sempre, arrivò Masako. Satake alzò la testa e la guardò. Non riusciva a vederle bene il viso, debolmente illuminato dalla luce dei fari. Masako passò davanti alla guardiola con aria indifferente, senza degnarlo di uno sguardo. Satake era furioso. Credeva di essere la migliore? Pensava di averlo sistemato a dovere? Le avrebbe fatto vedere lui! L’odio si mescolava con la sconfinata ammirazione per come era stata capace di farlo andare su
tutte le furie, e questa miscela esplosiva di sentimenti lo turbava profondamente. Satake era inebriato. Udì la portiera dell’auto che si chiudeva. Poi Masako si avvicinò a passi veloci attraverso il posteggio immerso nell’oscurità. Satake uscì dalla guardiola e le si piantò di fronte. «Buonasera!» «Grazie, altrettanto». Masako lo guardava direttamente in faccia. I capelli ricadevano sciolti sulle spalle del logoro giaccone e un sorriso le increspava le guance affilate. Era tutta baldanzosa e sicura di se stessa, perché era riuscita a scoprire la sua vera identità e a farlo scappare di casa. Satake soffocò l’ira e domandò tranquillo: «Vuole che la accompagni?» «Non è necessario». «Ma è pericoloso con questo buio». Masako esitò per un attimo, poi ribatté con aria di scherno: «Di pericoloso qui c’è solo lei!» «Non so di che cosa parla». «Smettila con la commedia, Satake!» Un’eccitazione trattenuta, silenziosa, molto diversa dall’emozione violenta che lo aveva dominato nell’inseguimento sulle strade di Shinjuku, attraversò il suo corpo alla ricerca di una valvola di scarico. Doveva solo aspettare. Presto ci sarebbe stato un enorme rogo e avrebbe potuto darle sfogo. Il pensiero gli procurò una gioia, un senso di beatitudine, che mai aveva provato in tutta la vita. «Sei proprio così coraggiosa o fai finta?» Senza badargli, Masako se ne andò. Poteva davvero essere orgogliosa dei suoi nervi! Nonostante il suo rifiuto, Satake la seguì a qualche metro di distanza. La paura doveva farle battere il cuore all’impazzata, quasi fino a scoppiare. Poteva vedere quanto era tesa dalla rigidità delle spalle. Eppure continuava a camminare imperturbabile nel buio, senza manifestare il minimo turbamento. Satake accese la torcia per illuminarle la strada. «Ho detto che devi lasciarmi in pace!» Masako si girò verso di lui con espressione severa, impavida. «Vale a dire che non voglio assolutamente che tu mi uccida qui!» Il suo temperamento lo mandava in estasi. Si lasciò trasportare da un sentimento caldo, appassionato, che la bella Anna non era mai riuscita a risvegliare. Ebbe una specie di presentimento, che l’odio selvaggio e il dolce desiderio che provava nei confronti di Masako fossero strettamente legati alla propria fine. Per un attimo si chiese se doveva strozzarla subito fino a farle perdere i sensi e poi finirla nello stabilimento dismesso, ma poi cambiò idea. No, sarebbe stato troppo stupido. Come se potesse leggere i suoi pensieri, Masako disse: «Ma qui non piacerebbe neanche a te, vero? Sicuramente vuoi torturarmi, prima di uccidermi, no? Perché tu…» Non aveva ancora finito, ma venne interrotta dal campanello di una bicicletta. Satake e Masako si voltarono insieme. «Buon mattino!» Era Yoshie. La presenza del sorvegliante doveva averla spaventata, perché scese dalla bicicletta e si mise a fianco di Masako senza smettere di guardarlo. «Che cosa fai qui, maestra?» «Volevo vederti. Meno male che ti ho trovato!» Satake illuminò con la torcia il viso di Yoshie che, abbagliata, fece una smorfia infastidita. Fuori dell’alone luminoso l’uomo poté vedere di sfuggita che Masako sorrideva.
5. Appena in tempo! Alla vista di Yoshie Masako fece un piccolo sospiro di sollievo. Lì sulla strada buia non riusciva quasi più a respirare dalla paura, perché continuava a pensare che da un momento all’altro Satake avrebbe potuto assalirla da dietro e strangolarla. Ma era anche consapevole che l’avrebbe aggredita solo se avesse manifestato la sua paura. Non era molto diverso da quello che le capitava da bambina con i cani randagi: bastava fissarli e subito incominciavano a seguirla. Quando l’odio di quell’uomo fosse giunto al punto di ebollizione, sarebbe scoppiato come niente. Nel frattempo Satake si gustava ogni singola fase. Le erano bastati pochi secondi per riuscire a leggere nei suoi occhi che stava giocando al gatto e al topo e si godeva la situazione. Satake era un uomo finito. E solo Masako riusciva a eccitarlo e a farlo andare in bestia. Ma anche in lei c’era qualcosa di oscuro, sensibile alle provocazioni di Satake, qualcosa che gli avrebbe permesso di ucciderla. Mai e poi mai si sarebbe immaginata un simile destino. Ma poi aveva fatto a pezzi il cadavere di Kenji. Masako diede uno sguardo allo stabilimento dismesso che si ergeva cupo davanti a lei. Guardava l’edificio vuoto e le sembrava il simbolo delle tenebre del suo animo, della sua stessa rovina. Aveva dovuto vivere quarantatré anni per riuscire ad accorgersi di quanto era corrotta? Masako non riusciva a staccare gli occhi dalla fabbrica abbandonata. «Chi è quel tizio?» chiese Yoshie, impaurita e diffidente, voltandosi indietro verso il posteggio. Con qualche difficoltà spingeva la bicicletta a mano, attenta a evitare le buche sulla strada. «Il sorvegliante», rispose laconica Masako. Satake continuava a guardarla, fermo in piedi vicino alla guardiola che, come un faro solitario, inviava la sua luce nelle tenebre. Avrebbe atteso là il suo ritorno. «Ha un aspetto inquietante, non trovi?» «Perché?» Masako scrutò il viso pallido di Yoshie, che sembrava essere diventato ancora più piccolo. «Ma, non saprei». Come se non avesse voglia di dare spiegazioni, Yoshie non disse altro. La debole luce del fanale della bici oscillava davanti a loro. «Che cosa volevi chiedermi, maestra?» «Ah, sì, scusami. Sono successe diverse cose». Yoshie fece un profondo sospiro, come se fosse distrutta. Anche quella sera indossava la solita giacca a vento che portava in inverno. Masako si ricordò della fodera di flanella, così sottile che poteva lacerarsi da un momento all’altro. Sarebbe successa la stessa cosa anche a Yoshie? «Che cosa?» Non poteva neppure pensare che Satake avesse intenzione di fare qualcosa a Yoshie. Di una cosa era certa, il suo interesse era rivolto esclusivamente a lei. «Be’, Miki se n’è andata da casa. Il giorno stesso in cui ho ricevuto il denaro. Mi sono sempre preoccupata per lei, per il cattivo esempio di sua sorella. Ma non avrei mai pensato che facesse la stessa cosa e se ne andasse! Adesso sono proprio sola. Non ce la faccio più!» Masako ascoltava in silenzio. Per Yoshie non c’erano vie d’uscita. «Era convinta di non potere più andare all’università. Ma per quello ho ancora i soldi! Mi vanno proprio tutte storte!» «Sono sicura che tornerà». «No. È proprio come sua sorella. Sarà finita tra le braccia di qualche buono a nulla. Le mie figlie sono davvero troppo stupide. Perciò non c’è niente da fare. Niente», disse Yoshie continuando a camminare. Sembrava che si volesse giustificare, ma Masako non sapeva perché. Oltrepassata la fabbrica abbandonata, la pista da bowling chiusa e alcune case, arrivarono infine
alla strada affiancata dal lungo muro della fabbrica di automobili. Subito a destra c’era lo stabilimento delle colazioni. «Finalmente!» Yoshie si massaggiò l’osso sacro e si raddrizzò. La schiena, che aveva sempre tenuto dritta, incominciava a incurvarsi, e ormai sembrava una vecchia. «Be’, e con questa è l’ultima». «Che cosa?» «L’ultima volta con i turni di notte e le colazioni». «Perché, ti licenzi?» «Sì. Mi è passata del tutto la voglia di lavorare qui». Masako non disse che anche per lei era la stessa cosa. Anche per lei infatti sarebbe stata l’ultima notte. Era tornata nello stabilimento soltanto per compilare dei moduli e riprendere il denaro e il passaporto affidati a Kazuo. Se fosse riuscita a superare sana e salva quella notte, forse avrebbe potuto fuggire lontano da Satake. «Per questo sono venuta fino a qui. Volevo parlare ancora un po’ con te», continuò Yoshie. Ma se era per questo, avrebbero potuto farlo tranquillamente nel salone, dopo il turno! Di che cavolo stava parlando? Senza capire, Masako rimase ad aspettare davanti alla scala esterna, mentre la maestra andava a sistemare la bicicletta. Il cielo era completamente senza stelle e sembrava di sentire sulla testa il peso greve delle nuvole. Eppure non si vedevano neanche le nuvole. Con l’opprimente sensazione di essere schiacciata, Masako alzò lo sguardo verso lo stabilimento delle colazioni. La porta di ingresso del primo piano si spalancò. «Signora Katori!» Komada, l’incaricato all’igiene, la stava chiamando. «Che c’è?» «Sa se c’è la signora Azuma?» «Sì, è andata a sistemare la bicicletta». Komada scese di corsa la scala. Teneva ancora in mano il rullo con il nastro adesivo. Arrivò in fondo alle scale proprio nell’attimo in cui Yoshie tornava. «Signora Azuma!» urlò eccitato. «Torni subito a casa, è successa una cosa orrenda!» «Che cosa?» chiese Yoshie. «La sua casa sta bruciando! Ci hanno appena chiamato!» «Capisco». Yoshie incominciò a impallidire, finché ebbe il volto completamente esangue. Komada fece una smorfia di compassione. «Forza, vada via, torni subito a casa!» «È comunque troppo tardi», rispose apatica Yoshie. «Non dica così! Vada, forza!» la incitò Komada. Yoshie, tuttavia, ritornò alla bicicletta con estrema lentezza. Poiché stavano arrivando gli operai e il lavoro lo aspettava, Komada si avviò su per le scale. «Signor Komada», lo chiamò Masako, «sa che ne è della suocera?» «Non so, ma ci hanno detto che la casa è completamente bruciata». Komada sembrava pentito di avere detto una cosa così orribile, perché, come per cancellare le sue parole, rientrò immediatamente in fabbrica. Masako rimase fuori sola ad aspettare Yoshie, che ci mise un tempo incredibilmente lungo prima di arrivare spingendo la bicicletta, come se dovesse ancora prepararsi ad affrontare la realtà. Masako fissò ferma la sua faccia stanca. «Mi dispiace, ma non vengo ad aiutarti». «Capisco. Lo prevedevo, per questo sono venuta a dirti addio». «Hai un’assicurazione contro gli incendi?» «…sì, ma molto modesta». «Bene. Abbi cura di te». «Lo farò. Grazie di tutto». Yoshie si inchinò, salì sulla bici e si avviò verso la strada da cui
erano venute. La fioca luce della bicicletta si allontanava a vista d’occhio. Masako la guardò sparire, poi osservò l’orizzonte oltre la fabbrica di automobili. Le luci della metropoli tingevano di rosa il cielo scuro. A un certo punto vide in lontananza spruzzi di scintille salire dalla vecchia casa che bruciava. E quindi anche Yoshie aveva trovato una via d’uscita. Quando anche la figlia minore se ne era andata, in preda alla disperazione aveva rotto ogni indugio. E chi era stato a darle una spinta? Solo lei, Masako. Di colpo si rese conto di averle suggerito la soluzione, quando aveva alluso alla vendetta di Satake. Per un po’ non riuscì a distogliere lo sguardo dalla casa che continuava ad ardere sullo sfondo del cielo plumbeo. Finalmente Masako salì la scala esterna e varcò l’ingresso dello stabilimento. Quando la vide, Komada chiese stupito: «Signora Katori, ma non vuole accompagnare la signora Azuma?» «No». Komada fece una smorfia come per sottolineare che in fondo erano pur sempre amiche, e senza tante cortesie le passò il rullo sulla schiena. Mancava poco all’inizio del turno. Masako entrò nel salone e si guardò in giro alla ricerca di Kazuo, ma non riuscì a trovarlo né fra il gruppo dei brasiliani né nello spogliatoio. Guardò tra i cartellini e si accorse che era il suo giorno libero. Senza preoccuparsi di Komada che voleva trattenerla, si infilò le scarpe e uscì di corsa. Improvvisamente sembrava che fosse arrivato il giorno in cui tutto sarebbe cambiato. Forse sarebbe accaduto proprio quella notte. Nel buio Masako si diresse verso l’appartamento di Kazuo. Sapeva che in fondo al sentiero c’era Satake in agguato. Tenendosi all’erta e cercando di adattare gli occhi al buio, Masako svoltò a sinistra sul viottolo che, passando davanti a poche fattorie e villette, portava a casa di Kazuo. Alzò lo sguardo e vide una sola finestra illuminata all’angolo del primo piano: la camera di Kazuo. Salì con cautela la scala di ferro, attenta a non fare il minimo rumore. Bussò alla porta e subito una voce le rispose in portoghese. Poi la porta si aprì e apparve Kazuo, in jeans e T-shirt e un’espressione stupita stampata in volto, illuminato da dietro dalla luce tremolante del televisore. «Masako-san!» «È solo?» «Sì». Kazuo la fece entrare. Nella camera aleggiavano odori di spezie esotiche che Masako non riuscì a identificare. Vicino alla finestra c’era un letto a castello, l’armadio a muro dei futon era stato trasformato in ripostiglio e al centro del tatami c’era un piccolo tavolo quadrato con il piano di formica. Kazuo spense il televisore e ritornò da Masako: «È qui per il soldi?» «Sì, mi dispiace disturbarla, ma potrebbe andare a prenderli questa notte stessa? Non sapevo che era il suo giorno libero». «Sì, va bene», rispose Kazuo guardandola preoccupato. Masako evitò il suo sguardo, tirò fuori le sigarette e si mise a cercare un portacenere. Anche Kazuo si infilò in bocca una sigaretta, e posò sul tavolino un portacenere di ceramica con la pubblicità della Coca Cola. «Vado subito. Attenda qui». «Grazie». Masako si guardò intorno nella piccola stanza: aveva la sensazione che quello fosse l’unico posto sicuro per lei. Il coinquilino di Kazuo doveva essere al lavoro, perché il letto inferiore era stato accuratamente rifatto. «Che cosa è successo? Me lo racconti pure, se crede», disse Kazuo, attento a non sembrare troppo insistente. Aveva paura che Masako si alzasse e se ne andasse su due piedi. «C’è un individuo che mi cerca e io sto scappando». Come un pezzo di ghiaccio che a poco a poco si scioglie alla temperatura ambiente, Masako incominciò esitante a raccontare: «Non posso dirle
perché. Perciò ho intenzione di prendere il denaro e scappare all’estero». Kazuo guardò a terra e restò per un po’ a pensare in silenzio. Infine tirò una boccata di fumo e rialzò la testa: «Dove? A volte non si ha un posto dove andare». «Già, è vero. Dove non importa, basta che riesca a venirne fuori in qualche modo». Kazuo si passò la mano sulla fronte, come per dirle che non c’era bisogno che spiegasse che era in gioco la sua vita, questo lo capiva da solo. «E la sua famiglia?» «Mio marito sta benissimo da solo. Si è già isolato per conto suo. È la vita che vuole. Nessuno ha il permesso di entrare nel suo mondo. E mio figlio è grande abbastanza da potersela cavare anche senza di me». Come mai gli raccontava cose che non aveva mai confidato ad anima viva? Credeva che Kazuo non capisse bene il giapponese, e questo le permetteva di aprirgli il cuore. Senza che se lo aspettasse, le vennero le lacrime agli occhi. Le asciugò con il dorso della mano. «È completamente sola, vero?» «Sì, così pare. In passato siamo stati una vera famiglia, tre persone che si capivano bene. Ma a un certo punto qualcosa si è spezzato, senza che nessuno potesse fare niente. Ma a dire il vero credo che sia tutta colpa mia». «Perché?» «Perché li pianto in asso, perché me ne vado da sola. Perché voglio essere libera». Adesso anche gli occhi di Kazuo erano colmi di lacrime che cadevano a grosse gocce sul tatami. «Quindi essere soli vuol dire essere liberi?» «Al momento è quello che significa per me». Voleva andarsene via, lontano. Ma andarsene da cosa, e dove? Non lo sapeva. Kazuo sussurrò: «È troppo triste. Mi fa pena». «Sì, ma», disse Masako scrollando la testa e abbracciandosi le ginocchia, «non deve compatirmi. Volevo già essere libera. Per cui va bene così». «…davvero?» «Sì, anche se dovessi morire, mi sta bene così. Perché prima avevo perso ogni speranza». Immediatamente Kazuo si incupì: «In che cosa?» «Nella vita». Kazuo ricominciò a piangere. Masako contemplò il giovane straniero che versava lacrime a causa delle sue parole. «Perché piange?» «Perché mi ha parlato di cose così importanti. Una volta era così lontana, così irraggiungibile per me». Masako sorrise. Kazuo tacque e si asciugò le lacrime con l’avambraccio. Masako guardò la bandiera del Brasile, verde e gialla, appesa alla finestra come una tenda. «Mi dica, quale potrebbe essere il paese adatto? Non sono mai stata all’estero». Kazuo la guardò. A furia di piangere i suoi grandi occhi neri si erano arrossati. «Vada in Brasile. Adesso lì è estate». «Com’è?» Estate. Masako chiuse gli occhi, come se stesse sognando. L’estate di quell’anno aveva mutato il suo destino. Il profumo delle gardenie in fiore. L’erba folta del parcheggio. Il gorgoglio dell’acqua nel canale, il suo scintillio. Sentì un fruscio, aprì gli occhi e vide che Kazuo si preparava a uscire. Si era infilato il giubbotto nero sulla T-shirt e aveva calcato in testa il berretto. «Allora vado». «Signor Miyamori, potrei restare qui fino alle tre?» Kazuo annuì e ripeté più volte che non aveva niente in contrario. Ancora tre ore. Così Satake se ne sarebbe andato. Masako appoggiò i gomiti sul tavolo e chiuse gli occhi. Forse per un po’ poteva
tirare il fiato. Si svegliò al rumore della porta che si apriva. Evidentemente Kazuo aveva cercato di restare fuori più a lungo possibile, perché erano già le due del mattino. Tirò fuori una busta dalla tasca del giubbotto e gliela tese: «Prego». «Grazie». Masako prese la busta che conservava il tepore del suo corpo. Diede uno sguardo al contenuto. C’era il suo passaporto nuovo e sette mazzette di banconote da diecimila yen, ancora con le fascette. Ormai poteva andarsene. Prese una delle mazzette e la depose sul tavolo. «Questo è il mio ringraziamento. Li prenda». «Non è necessario, non ne ho bisogno. Sono felice di esserle stato utile». «Ma deve rimanere qui a sgobbare ancora più di un anno!» Kazuo si tolse il giubbotto e si morse le labbra. «Prima di Natale ritorno a casa». «Davvero?» «Sì. Non c’è più ragione di rimanere». Kazuo, seduto a gambe incrociate, lasciò vagare lo sguardo nella stretta stanza e poi lo fissò sulla bandiera che schermava la finestra. Nei suoi occhi Masako scoprì nostalgia e pace, e lo invidiò. «Volevo aiutarla. I suoi problemi hanno qualche relazione con questa?» Kazuo tirò fuori la catenina con la chiave che teneva sotto la maglietta. «Sì», annuì Masako. «Devo restituirgliela?» «No». Kazuo sorrise sollevato. La chiave della casa di Kenji, era da lì che era incominciato tutto. Per un lungo istante Masako si soffermò a guardare la chiave nella mano di Kazuo. No, tutto quello che era accaduto lo doveva solo a se stessa, alla sua disperazione e al suo desiderio di libertà. Erano quelli i sentimenti che l’avevano trascinata fino a lì. Masako infilò la busta nella borsa a tracolla e si alzò. Kazuo cercò di restituirle il denaro che aveva posato sul tavolo. «No, appartiene a lei. Un segno della mia riconoscenza». «Ma è troppo!» Kazuo voleva infilare le banconote nella sua borsa. «Lo usi. Tanto è denaro di quel genere». A quelle parole Kazuo ritrasse le mani e fece una smorfia. Probabilmente la sua onestà e il suo senso della giustizia non gli consentivano di toccare del denaro sporco. «Non me lo restituisca. In fondo ha sgobbato fin troppo in quello stabilimento! Non c’è alcuna differenza tra denaro sporco e pulito». Kazuo fece un profondo sospiro e, rassegnato, rimise il denaro sul tavolo. Non voleva offendere Masako. «Bene, adesso me ne vado. Grazie ancora di tutto!» Allora Kazuo la prese delicatamente tra le braccia. Se si escludeva quando lui l’aveva stretta davanti alla fabbrica abbandonata, era la prima volta da anni che un uomo la prendeva tra le braccia. Una sensazione che non provava da troppo tempo. Una sensazione di nostalgia e tenerezza, e improvvisamente fu come se poco a poco il nodo inestricabile che portava dentro il cuore incominciasse a sciogliersi. Masako si abbandonò per qualche istante sul petto del giovane. Di nuovo gli occhi le si riempirono di lacrime, ma questa volta non pianse. «Devo andare», ripeté e si scostò da lui. Kazuo prese dalla tasca un bigliettino e glielo mise in mano. «Che cos’è?» «Il mio indirizzo a São Paulo». «Grazie». Masako lo piegò con cura e lo infilò nella tasca dei jeans. «Venga comunque, per piacere! Venga a Natale! La aspetto, me lo prometta!»
«Lo prometto», rispose Masako e si infilò le logore scarpe da ginnastica. Dalle fessure della porta filtrava un vento gelido. Kazuo si morse le labbra e chinò la testa. Masako aprì, si girò verso di lui e disse: «Sayonara». «Sayonara». Kazuo pronunciò il saluto giapponese come se fosse la parola più triste del mondo. Masako scese la scala senza fare rumore, come quando era arrivata. Intorno regnava il silenzio, le imposte delle case erano ermeticamente chiuse e le uniche luci visibili erano quelle dei rari lampioni lungo la strada. Masako chiuse la cerniera del giaccone e si incamminò verso il parcheggio.Risuonava soltanto il rumore dei suoi passi. Si sentiva terribilmente sola. Davanti allo stabilimento dismesso indugiò per qualche istante, tirò fuori di tasca il biglietto con l’indirizzo di Kazuo, lo strappò a pezzettini e li gettò nel tombino aperto. Se fosse riuscita a cavarsela, bene, tuttavia in qualche modo doveva anche prepararsi a morire. L’amore di Kazuo era riuscito a riscaldarla un po’, ma oltre la porta che lei stessa aveva aperto l’attendeva un destino spietato. Si avvicinò al posteggio. La luce della guardiola era spenta. Tra le tre e le sei del mattino non c’era sorveglianza. Anche se Satake l’avesse aspettata fino alla fine del turno, al mattino avrebbe dovuto fare i conti con dei possibili testimoni. Non poteva essere così temerario. Prima di inoltrarsi nel posteggio, Masako si guardò attentamente intorno. Non si vedeva nessuno. Rassicurata camminò sulla ghiaia scricchiolante sparsa qua e là sul terreno. Vide qualcosa che pendeva dallo specchietto retrovisore destro della Corolla. Lo prese in mano ed emise un gemito soffocato. Erano gli slip neri di Kuniko, gli stessi che lei aveva appeso alla maniglia della porta di Satake. Evidentemente voleva fargliela pagare. Schifata Masako li buttò per terra. Senza lasciarle il tempo di gridare, un lungo braccio le avvinghiò il collo. Incominciò a dibattersi e a scalciare per liberarsi, ma la morsa di acciaio non la lasciava. Sentiva le dita calde che le tenevano il mento e riusciva a vedere il braccio che le stringeva il collo. L’uomo indossava la divisa blu del sorvegliante. Le mancava il respiro. Ma non aveva paura. E non provava neppure piacere, come nel sogno. Stranamente l’unica cosa che sentiva era un senso di sollievo, come se fosse ritornata al luogo a cui apparteneva.
6. Voleva diventare un tutt’uno con la notte. Satake aveva tirato giù il finestrino e aspettava che l’aria notturna lo avvolgesse completamente. Allora, finalmente, avrebbe trovato pace. Quando era in prigione solo una cosa gli era veramente mancata: la sensazione del contatto dell’aria sulla pelle. Col freddo le braccia e le gambe si erano intorpidite e incominciava a tremare in tutto il corpo. Quando il sangue non ribolliva come nel pieno dell’estate, si poteva mantenere la coscienza lucida. Avvolti nelle tenebre si possono sentire sul proprio corpo persino la densità e il peso dell’aria, di giorno appena percepibili. Seduto al posto di guida, Satake aveva allungato il lungo braccio fuori dal finestrino e lo aveva fatto dondolare nell’aria gelida. Indossava ancora la divisa e aspettava Masako. Aveva posteggiato l’utilitaria proprio davanti alla sua, nell’angolo buio in fondo al posteggio, con l’intenzione di attendere fino alle sei. Come avrebbe reagito Masako quando, sfinita dal turno, avesse visto gli slip di Kuniko drappeggiati sull’auto? Voleva assolutamente essere presente. Voleva vederle le occhiaie, i capelli scomposti. Stava accendendosi una sigaretta quando aveva udito uno scricchiolio regolare: dei passi sulla ghiaia del parcheggio. I passi leggeri di una donna. In fretta aveva rimesso in tasca la sigaretta e trattenuto il respiro. Masako! Era già di ritorno! Lei si era guardata intorno e, non vedendolo, si era diretta tranquilla alla propria macchina. Camminava serena, senza alcuna cautela. Satake aveva aperto la portiera senza fare rumore ed era sgusciato fuori dall’auto. Alla vista della sua piccola vendetta, Masako aveva emesso un gemito soffocato. Lui si era reso conto che gli si offriva una magnifica occasione e aveva obbedito all’impulso di aggredirla alle spalle. Quando le aveva messo il braccio intorno al collo, la paura di Masako si era propagata a lui come un’onda elettrica e lui l’aveva amata per questo. «Non fiatare, chiaro?!» Ma Masako si dibatteva con tutte le forze. Satake aumentò la stretta intorno al collo e tentò di bloccarle le braccia con la destra. Masako gli affondò le unghie nel braccio riuscendo quasi a strappare la divisa e continuò a scalciare finché non lo colpì tra le gambe. Lui allora la strinse in una morsa di ferro e lei svenne. Finalmente l’aveva presa! Si issò sulle spalle il corpo inerte della donna, ritornò alla macchina e prese una corda e la borsa nera. Dove poteva andare ad ammazzarla, adesso che non aveva più l’appartamento 412? Non gli veniva in mente nessun posto adatto, e non aveva neppure il tempo per cercarlo. Allora Satake si incamminò verso lo stabilimento dismesso. Con Masako sulle spalle attraversò il canale di scolo illuminando con la torcia il terreno davanti ai piedi per evitare buchi e tombini scoperchiati, dai quali si vedevano i bagliori dell’acqua nera che scorreva sotto. Il coperchio di un tombino oscillò pericolosamente sotto il loro peso e Satake si spaventò. Non senza fatica riuscì a superare il canale e lasciò cadere la donna sull’erba secca. Ispezionò la serranda arrugginita. Quando, dopo grandi sforzi, riuscì finalmente a sollevarla, cigolò fastidiosamente. Sentì Masako gemere dal dolore e cercò di sbrigarsi. Aprì la serranda quel tanto che bastava per entrare strisciando e ci si infilò sotto trascinandosi dietro la donna. L’interno era gelido, puzzava di muffa ed era buio pesto. Satake frugò ogni angolo con il fascio luminoso della torcia. Sembrava un gigantesco sarcofago di cemento, completamente vuoto, a parte una lunga serie di lucernari che si apriva sul soffitto. Al sorgere del sole l’ambiente avrebbe avuto un po’ di luce. Dell’antico stabilimento per le colazioni erano rimasti solamente il bancone di acciaio del nastro trasportatore e il banco davanti alla rampa di carico dei camion. Se la avesse legata al bancone di acciaio, Masako avrebbe avuto un bel freddo. Sorrise malignamente al pensiero. Masako non aveva ancora ripreso conoscenza e teneva la bocca semiaperta. Satake la appoggiò
sul lungo bancone, al centro del quale era rimasta l’impronta del nastro trasportatore. Sdraiata così, indifesa, sembrava sotto narcosi prima di un intervento chirurgico. Satake le tolse il giaccone, le strappò via la felpa, gettò per terra le scarpe da ginnastica e le sfilò le calze e i jeans. A quel punto Masako, sentendo il freddo del tavolo di acciaio direttamente sulla pelle, ritornò in sé. Sembrava non capire dove era e che cosa le stava capitando, perché rimase sdraiata sulla schiena guardandosi stupita intorno. «Masako Katori!» urlò Satake. Le puntò sul viso il fascio di luce della torcia. Abbagliata, lei distolse gli occhi e cercò di individuare Satake fuori dal cerchio luminoso. «Maledizione!» «Sbagliato, si dice: “Mi hai incastrata, porco schifoso!” Su, dillo!» Satake la afferrò per le braccia ancora intorpidite e le premette contro il bancone. Per un attimo lei non oppose resistenza e lo guardò meravigliata. «Perché?» «Dillo e basta!» Allora Masako approfittò di un momento di disattenzione di Satake per sferrargli un calcio in pancia con il piede nudo. Il tallone lo colpì con forza al basso ventre e Satake urlò dal dolore. Veloce come un fulmine, Masako sfruttò l’occasione per girarsi su un fianco e saltare giù dal tavolo. Era incredibilmente agile per la sua età. Satake cercò di afferrarla, ma lei gli scivolò tra le braccia, corse in un angolo dello stanzone e sparì nell’oscurità. «Non credere di riuscire a sfuggirmi!» Satake cercò di seguirla con la luce della torcia, che tuttavia era troppo debole per un ambiente così vasto. Per quanto la puntasse in ogni angolo, Masako era sparita. Satake si piantò a gambe larghe davanti alla serranda. Finché le bloccava l’uscita, lei non era altro che un topo in trappola. La situazione non gli dispiaceva, anzi rendeva tutto ancora più eccitante. Sì, doveva farlo andare su tutte le furie! Gli piaceva la sua caparbietà. Quanto più la ammirava, tanto più profondo diventava il suo odio. «Arrenditi, Masako!» La sua voce risuonò nello stabilimento vuoto. Dopo un po’ Masako rispose. Doveva essere rintanata in fondo, all’altra estremità del salone. «Non ci penso neanche! Dimmi piuttosto perché vuoi vendicarti proprio su di me!» «È il prezzo per quello che mi hai fatto. Solo un risarcimento». «Perché allora non ti rivolgi a Yayoi Yamamoto?» «Già fatto». «Come?» Per il freddo o per la paura, a Masako tremava la voce. Era a piedi nudi e non aveva addosso altro che la T-shirt e la biancheria intima. Doveva essere gelata. Piano piano, in modo che Masako non se ne accorgesse, ritornò al bancone, prese i suoi vestiti e li ammucchiò in un angolo. Non voleva che li trovasse. Masako continuava a parlare nel buio. «Le hai preso il denaro dell’assicurazione, vero? Perché non ti accontenti? Perché concentri il tuo odio solo su di me?» «Mah, chissà», bisbigliò Satake verso la direzione da cui proveniva la voce. «Non lo so neppure io». «Perché ho rovinato i tuoi affari?» «Sì, anche per quello». Lui conosceva il vero Mitsuyoshi Satake. Per troppo tempo l’aveva tenuto accuratamente nascosto. E lei, senza tanti riguardi, gli aveva strappato la pelle di dosso! Ecco la ragione. «Ma non è solo questo», continuò gelida Masako. «Tu mi trovi interessante». Satake non rispose, ma continuò ad avanzare lentamente nella direzione da cui proveniva la voce. «È ridicolo. Ho quarantatré anni, non ho più l’età in cui gli uomini ti corrono dietro. E
comunque non appartengo a quel genere di donne. Deve quindi esserci un’altra ragione». Satake urtò col piede una lattina che rotolò via con un rumore infernale. Masako non parlava più. Che gli fosse sfuggita? Satake aguzzò le orecchie. Sentì un lieve rumore alle spalle e si voltò con la prontezza di un animale selvatico. Aveva alzato la serranda sopra alla rampa di carico e stava per scappare! Ancora pochi secondi e l’avrebbe persa. Satake corse verso di lei e riuscì ad afferrarla per un pelo. Era già strisciata fuori con la parte superiore del corpo. Satake l’afferrò per le gambe, la tirò indietro e la schiaffeggiò con violenza. Masako cadde e rimase sdraiata sul pavimento sporco, coperto di rifiuti. Per godersi lo spettacolo, le puntò addosso il fascio di luce. Era tutta scarmigliata e lo fissava con odio. Proprio come allora! Satake la prese per i capelli e la costrinse a sollevare il viso. «Tu sei veramente un porco schifoso!» urlò Masako. «Esatto», disse Satake e la guardò bene in viso. L’aveva proprio conciata male. «Ma sono contento di essere finalmente riuscito a trovarti». Masako lo guardò sbalordita, come se le fosse appena caduto in testa un vaso di fiori. Con voce ferma disse: «Stai sognando!» «Al contrario». Satake continuò a studiare il volto di Masako. Non assomigliava per niente al viso di quella donna, duro e affilato come una lama. Era proprio Masako Katori quella che lo stava guardando furibonda e ostile. I lineamenti erano diversi. Masako aveva labbra più sottili e severe, ma lo sguardo era identico. Satake traboccava di gioia e di speranza. Quanto piacere gli avrebbe regalato Masako? Avrebbe potuto di nuovo provare quel godimento che aveva tenuto chiuso in fondo all’anima per diciassette lunghi anni? Sarebbe finalmente riuscito a capire perché quell’esperienza era stata sublime? Le strappò brutalmente la T-shirt. Masako, in mutande e reggiseno, continuava a guardarlo con aria di sfida. «Lascia perdere. Uccidimi subito!» Senza badarle, Satake le strappò via anche la biancheria. Quando fu completamente nuda, Masako ricominciò a lottare. Satake le tenne ferme le braccia, la mise sul bancone d’acciaio e si buttò su di lei con tutto il corpo per tenerla ferma. Masako ansimava sotto il suo peso e annaspava in cerca di aria. Prima che smettesse di respirare del tutto, Satake le legò le braccia inerti sopra la testa e le fissò al bancone. «Ho freddo!» urlò Masako contorcendosi sul bancone gelido come il ghiaccio. Satake la illuminò con la torcia e guardò il suo corpo magro, quasi rinsecchito. Perfino il seno era piatto. Lentamente si tolse i vestiti. «Grida pure. Tanto non viene nessuno». «Di questo non puoi essere sicuro. Proprio qui accanto stanno demolendo». «Non dire idiozie!» Le diede un altro schiaffo. Questa volta non aveva avuto intenzione di colpirla con forza, ma la testa di Masako ricadde violentemente di lato. Doveva controllarsi se non voleva che morisse troppo in fretta. Anche se fosse solo svenuta non sarebbe stato divertente. Satake temeva che avesse perso conoscenza. Ma ecco che lei lo fissava di nuovo tranquilla, con un rivoletto di sangue che colava da un angolo della bocca. «Forza, uccidimi!» Anche quella donna, nonostante gliele avesse date di santa ragione, non era indietreggiata di un passo, ma aveva continuato a urlare: «Forza, uccidimi!» Masako e quella donna, sogno e realtà gli passavano veloci davanti agli occhi. La sua eccitazione crebbe. Satake coprì con il suo il corpo di Masako e le morse le labbra sanguinanti. Sentì che lo malediva a denti stretti e le divaricò a forza le gambe. «Non sei bagnata». «Idiota!»
Masako si oppose con tutte le sue forze, inarcandosi e cercando di serrare le gambe, ma lui gliele tenne aperte con la forza e la penetrò. Era sorprendentemente calda, dentro. Lei urlò, le faceva male, evidentemente non era abbastanza bagnata. Era strana, inerte, e Satake seppe subito che doveva avere avuto ben poche esperienze sessuali. Si mosse lentamente dentro di lei. Era la prima volta dopo diciassette anni che aveva un rapporto con una donna in carne e ossa. Il suo lato oscuro. Il mostro accovacciato in fondo alla sua anima si era rialzato ed era tornato nel mondo reale. Adesso sarebbe stato lui a guidarlo. All’inferno e in paradiso. Ciò che avrebbe colmato l’abisso si trovava alla fine del loro amplesso, credeva Satake. Per questo era venuto al mondo. E per questo sarebbe morto. Ma il suo primo rapporto dopo tutti quegli anni si concluse con una stupefacente rapidità. «Sei un pervertito!» Masako sputò in faccia a Satake, ancora ansante. Lui si pulì con la mano la faccia dalla saliva mista a sangue e la strofinò sulla guancia di Masako. Per punizione le morse forte i capezzoli. Masako urlò qualcosa di incomprensibile, perché batteva i denti dal freddo. Fuori albeggiava. Man mano che il sole si alzava la luce illuminava ogni angolo dello stabilimento. I rivestimenti delle pareti erano crollati, lasciando scoperto il muro di mattoni. Anche le pareti dei bagni e della grande cucina erano state demolite, e rimanevano soltanto i sanitari e i rubinetti. Ovunque sul pavimento di cemento c’erano bidoni di olio e secchi di plastica e, vicino all’ingresso, cumuli di lattine e bottiglie vuote. Un desolato sarcofago di cemento. Satake udì un lieve rumore e si voltò: era un gatto randagio, che appena lo vide si diede alla fuga. Dovevano esserci dei topi. Satake si sedette a gambe incrociate sul pavimento e accese una sigaretta. Poi contemplò Masako, legata sul bancone d’acciaio tremante di freddo, che continuava a dimenarsi di qua e di là. Tra meno di un’ora i raggi del sole avrebbero raggiunto il bancone. Allora avrebbe potuto vederla in faccia mentre la violentava. Era questo che aspettava. «Freddo, eh?» «Ovvio, cosa credevi?» «Aspetta un po’, tra poco sarà finita». «Che cosa?» «Il sole sarà abbastanza alto». «Non voglio aspettare! Sto gelando!» urlò Masako piena di rabbia. Batteva i denti così forte che si capiva appena ciò che diceva. Le guance e il labbro inferiore erano tumefatti. Anche da lontano poteva vedere che aveva la pelle d’oca. Ricordò la sua fantasia di scavarle con la punta del pugnale i pori della pelle. Ma il pugnale poteva aspettare, era ancora troppo presto. Lo avrebbe tenuto per ultimo. Satake immaginò la punta sottile e aguzza della lama mentre penetrava nel fianco di Masako. Chissà se avrebbe goduto come diciassette anni prima e se avrebbe ritrovato quel Mitsuyoshi Satake. Voleva assolutamente incontrare il Satake di allora. Prese dalla borsa il pugnale protetto da una guaina di pelle nera e lo depose con cautela sul pavimento. Finalmente un raggio di sole si posò sul corpo di Masako. Vedeva la pelle livida di freddo rianimarsi lentamente, come se si stesse scongelando. La tensione di Masako si allentava gradualmente. Satake le si avvicinò. «È su un bancone come questo che prepari le colazioni, vero?» Masako, senza aprire bocca, lo fissò con odio e lui le afferrò brutalmente il mento. «Allora?, Rispondi!» «E se anche fosse?» rispose tagliente Masako. Faceva ancora fatica a muovere le labbra. «Non ti è mai passato per la testa che potevi finirci sopra tu, vero?» Masako girò la testa dall’altra parte. «Ehi, racconta come hai fatto a fare a pezzi i cadaveri. Così, forse?» disse, facendo il gesto di
tagliarle la testa. Poi tracciò una linea retta dal collo fino al pube. La pressione del dito lasciò una traccia pallida sulla pelle gelata. «Come ti è venuto in mente di farli a pezzi? Come ti sei sentita?» «E a te che importa?» «Tu sei identica a me. Proprio come me hai imboccato una via senza ritorno». Masako lo fissò negli occhi: «E a te che cosa è capitato?» «Forza, apri le gambe», le ordinò Satake senza rispondere. «No!» Masako serrò le gambe e, quando lui cercò di aprirgliele a forza, gli diede un calcio in faccia. Era ancora in grado di reagire, pensò felice Satake. Le si buttò sopra e la penetrò con violenza per la seconda volta. I raggi del sole invernale illuminarono il viso di Masako. Si accorse che stringeva i denti e teneva gli occhi chiusi e cercò di aprirle le palpebre con le dita. «Guardami, per piacere». «No, non voglio». «Vuoi che te li schiacci?» Satake schiacciò con forza i pollici sugli occhi di Masako. «E fallo, così almeno non ti potrò più vedere!» Quando allontanò le dita, Masako socchiuse appena gli occhi. Ardevano di furore. «Sì, guardami ancora così!» «Perché?» chiese Masako, come se improvvisamente incominciasse a capire. «Tu mi odi, vero? Anch’io ti odio». «Perché mi odi?» «Perché sei una donna». «Allora uccidimi!» urlò Masako. Non aveva ancora capito? Quella volta la donna lo aveva capito. Infuriato le diede due ceffoni. «Tu sei guasto fino in fondo!» «È vero. Ma lo sei anche tu. Lo so dalla prima volta che ti ho visto». Satake le accarezzò delicatamente i capelli. Masako tacque e lo guardò con odio. Finalmente era vero odio. Per la prima volta le succhiò le labbra. Avevano il sapore salmastro del sangue. La corda che la legava, penetrata profondamente nei polsi, era intrisa di sangue. Proprio come allora. Satake allungò il braccio e raccolse il pugnale che aveva preparato sotto il bancone. Lo sfilò dalla custodia e lo depose accanto alla testa di Masako. Appena sentì il freddo della lama sulla guancia, Masako gridò. «Hai paura?» Masako non rispose e chiuse gli occhi. Continuava a tremare impercettibilmente. Satake glieli aprì di nuovo con le dita, voleva vedere se l’odio era più grande della paura. La penetrò e la strinse disperatamente a sé, come se volesse frugarla fino nell’intimo. Per trovare cosa? La donna di allora? Masako? O piuttosto se stesso? Quello che cercava era un fantasma o esisteva davvero? Perse la cognizione del tempo e infine ebbe persino la sensazione che il corpo della donna con cui stava facendo sesso fosse parte del suo stesso corpo. Il piacere di lei sarebbe stato il suo e allo stesso modo il suo piacere sarebbe stato quello di Masako. E così anche lui sarebbe stato annientato. Ma non aveva importanza, era pronto ad abbandonare il mondo. Fin dal principio non era mai riuscito ad adeguarsi. Satake si struggeva dal desiderio di fondersi completamente con Masako, di diventare una sola cosa con lei. Le succhiò con forza le labbra e si accorse che anche lei lo stava guardando. Gli sembrava di morire dal piacere e le chiese dolcemente: «Ti piace?» Invece di rispondere Masako incominciò ad ansimare. Adesso andava bene, adesso si univano veramente. Accorgendosi che Masako stava per raggiungere l’orgasmo, Satake prese lentamente in mano il pugnale. Sarebbe penetrato ancora di più in lei. Sarebbe penetrato fino nelle sue viscere e ne avrebbe sentito il calore in tutto il corpo. E poi avrebbero goduto insieme la vera estasi. «Ti prego», bisbigliò Masako.
«Cosa?» «Taglia i legacci». «Non posso». «Ma così non posso venire. Voglio venire insieme a te», supplicò rauca Masako. Lo avrebbe comunque usato su di lei, pensò Satake e tagliò con il pugnale la corda che le legava i polsi. Masako gli mise le braccia libere intorno alle spalle e gli si avvinghiò con tutte le forze. Satake la abbracciò sorreggendole la nuca con le mani. Era la prima volta che lo faceva. Le unghie di lei affondarono nella schiena di lui e i loro corpi furono una sola cosa. Satake stava per eiaculare. Ansimava. Era come se finalmente avesse superato l’odio. Tastò con la mano in cerca dell’arma e vide con la coda dell’occhio il balenio della lama alle sue spalle. Il pugnale, che aveva appoggiato vicino alla sua testa, era adesso in mano a Masako e stava per colpirlo. Satake le afferrò il braccio, fece cadere a terra il pugnale e le sferrò un terribile pugno in faccia. Masako nascose il viso tra le mani e lo girò di lato. Satake si scostò ansante e urlò, fuori di sé dall’ira: «Idiota! Adesso dobbiamo ricominciare da capo!» Quello che più lo aveva imbestialito era non tanto il tentativo di ucciderlo, quanto piuttosto il fatto che gli aveva impedito di raggiungere l’orgasmo. E ancor di più gli dispiaceva che Masako non lo capisse. Masako era svenuta. Le sfiorò la guancia nel punto in cui l’aveva colpita. A un tratto provò pietà – per lei ma anche per se stesso – e tristezza per quell’uomo guasto che non riusciva a raggiungere l’estasi se non uccideva la donna che amava. Aveva ragione lei, lui era guasto. Un relitto. Sopraffatto dal sentimento, si prese la testa fra le mani. «Lasciami andare al gabinetto», disse Masako che aveva riaperto gli occhi. Tremava vistosamente. L’aveva picchiata con troppa violenza. Se avesse continuato a seviziarla sarebbe morta prima di godere. «Vai», acconsentì Satake. «Ho freddo». Vacillando Masako si chinò, raccolse lentamente il giaccone dal pavimento e lo infilò sulla pelle nuda. Si incamminò verso i gabinetti in fondo allo stabilimento e Satake la seguì. Non c’erano più pareti né pilastri, soltanto tre water all’occidentale che sembravano spuntati dal pavimento. Erano grigi e sporchi, e probabilmente senza acqua. Ma Masako, che sembrava ormai incapace di ragionare, si sedette sul water più vicino e incominciò a urinare senza preoccuparsi di Satake che la stava osservando. «Sbrigati». Masako si rialzò lentamente e tornò verso di lui. Le gambe le tremavano, inciampò in una tanica di olio e cadde sulle mani. Satake le corse accanto, la afferrò per il bavero del giaccone e la rimise in piedi. Masako mise le mani in tasca e rimase lì, stordita. «Presto, forza!» Aveva già alzato la mano per colpirla quando sentì qualcosa di freddo sulla guancia. Come la gelida carezza di una donna. La mano di quella donna? Gli sembrava di essere stato toccato da un fantasma. Guardò nel vuoto e poi si toccò la guancia con la mano. Aveva la guancia destra squarciata e il sangue sgorgava fuori a fiotti.
7. Masako era sdraiata e rabbrividiva dal freddo. Diversamente da come le capitava quando si alzava al mattino, il corpo era già sveglio, solo la sua coscienza sembrava volere rimanere per sempre in quello stato di torpore e stordimento. Perché? Si decise ad aprire gli occhi e si accorse di essere avvolta dalle tenebre, in quello che sembrava un ampio spazio vuoto. Nascosta in un buco freddo e buio. In alto, sopra la sua testa, attraverso una piccola finestra riusciva a vedere il cielo notturno. Ricordò il cielo senza stelle che si era fermata a guardare la sera prima. Le era tornato l’olfatto. Sentì un odore che ben conosceva, l’odore del cemento freddo e dell’acqua con cui veniva continuamente lavato. Odore di muffa e putrefazione. Ci mise ancora un po’ prima di capire che si trovava nello stabilimento dismesso. Come mai aveva le gambe nude? Masako si passò la mano sul corpo: aveva solo la maglietta e gli slip. Non le sembrava la sua pelle, così fredda e ruvida, come di pietra. Aveva terribilmente freddo. Un fascio di luce intensa si posò sul suo viso. Abbagliata strizzò gli occhi e se li coprì con la mano. «Masako Katori!» Era la voce di Satake. L’aveva presa! Ricordò le mani dell’uomo che le stringevano la gola al posteggio e, disperata, emise un profondo sospiro. Adesso si sarebbe trastullato con lei e poi l’avrebbe uccisa. Proprio adesso che aveva intravisto la via d’uscita. Masako, furiosa per il momento di disattenzione che l’aveva tradita, urlò in direzione della luce: «Maledizione!» Allora Satake le diede uno strano ordine: «Devi dire: “Mi hai incastrata, porco schifoso!”» Capì che cercava di riprodurre qualcosa che apparteneva a un remoto passato e che l’ossessionava. Quando infine si rese conto che Satake non voleva vendicarsi delle conseguenze subite per l’assassinio di Kenji, ma di quell’evento remoto, la sua paura diventò terrore. Come aveva detto a Yayoi, avevano risvegliato un mostro. Diede un calcio in pancia a Satake, gli sgusciò dalle braccia e si rifugiò nell’oscurità. Il suo unico desiderio era di potersi sciogliere nell’aria e sfuggirgli una volta per sempre. La presenza di quell’uomo suscitava in lei un terrore primordiale, come quello di un bambino che al calar della notte si mette a piangere disperato per paura del buio. Ma la notte può anche risvegliare una strana, meravigliosa energia, una forza inconsapevole che – lei lo sapeva – Satake sarebbe riuscito a tirarle fuori. Masako non voleva sfuggire solo a Satake, ma anche a quella sconosciuta parte di sé. Cose di tutti i generi le ferivano i piedi nudi, restavano appiccicate o si infilavano tra le dita. Pezzi di cemento, schegge di ferro, sacchetti di plastica, spazzatura di ogni tipo. Ma non ci badò e si mise a cercare febbrilmente una via d’uscita, tenendosi al buio, al riparo dalla luce della torcia. «Arrenditi, Masako!» rimbombò la voce di Satake. Doveva essere vicino alla serranda dell’ingresso. «Non ci penso neanche!» rispose. Satake non aveva voluto rispondere alla sua domanda, ma Masako era sicura che non si trattava di una semplice vendetta. Voleva sapere esattamente che cosa c’era in lei che riusciva a provocarlo in quel modo. Ogni volta che la voce di Satake la raggiungeva attraverso la fredda, umida oscurità, cercava di immaginarsi la sua espressione. Sentì che si stava muovendo verso di lei. Si avvicinava furtivamente guidato dalla sua voce. Cercò di strisciare senza fare rumore verso la rampa di carico. Anche lì doveva esserci una serranda arrugginita e forse sarebbe riuscita a sollevarla. Intanto Satake continuava a spostare di qua e di là il fascio di luce, come se si divertisse a metterla alla prova per vedere di che cosa sarebbe stata ancora capace. Finalmente raggiunse la rampa di carico. Si arrampicò sul largo gradino di cemento, alto circa
ottanta centimetri e alzò la piccola serranda, senza preoccuparsi del rumore. Trenta, quaranta centimetri sarebbero bastati per sgusciare fuori. Doveva solo essere abbastanza svelta. Con le ultime forze riuscì a sollevare la saracinesca e incominciò a strisciare fuori. Inalò brevemente l’aria esterna che puzzava di fango, il lurido fango del canale sotterraneo, e tuttavia le sembrò incredibilmente dolce. Perciò quasi non si accorse del dolore quando Satake la trascinò di nuovo al buio, la picchiò e la buttò a terra. La libertà era là fuori, a pochi passi, ma forse non l’avrebbe più raggiunta! E ci era arrivata maledettamente vicina! L’amarezza si trasformò in una profonda sofferenza psichica, che la prostrò. E quello che la faceva diventare quasi pazza era che non riusciva a capire perché Satake ce l’avesse proprio con lei. Masako era legata al banco di acciaio, gelido come ghiaccio. La superficie metallica, che all’inizio sembrava essersi intiepidita a contatto col suo corpo, continuava a sottrarle calore. Non aveva mai avuto così freddo. Ma Masako non aveva nessuna intenzione di morire congelata. Non si era ancora arresa. Finché avesse avuto vita, il suo corpo avrebbe combattuto contro quel banco d’acciaio che le rubava il calore. Incominciò a dimenarsi a destra e a sinistra per riscaldarsi, per evitare che il tavolo la imprigionasse nel suo freddo metallico. Satake le diede un altro ceffone. Gemente di dolore, Masako lo fissò febbrilmente negli occhi, alla ricerca di una traccia di follia. Se era malato di mente, si sarebbe arresa. Ma Satake non era pazzo. Non si trattava né di un giochetto perverso, né di una tortura. Masako capì che la picchiava solo per esasperare il suo odio. Avrebbe continuato a buttare benzina sul fuoco finché lei non lo avesse odiato a morte, e allora la avrebbe uccisa. Quando la penetrò, Masako si sentì terribilmente umiliata: il suo primo amplesso dopo tanti anni era uno stupro, e alla sua età. Quando Kazuo l’aveva abbracciata, si era sentita sollevata e consolata, ma per Satake provava solo odio. Esattamente come lui odiava la donna che era in lei, Masako odiava l’uomo che era in lui. In effetti dal piacere e dal desiderio poteva scaturire l’odio più puro. La violentava e sognava. Un sogno senza fine, che vedeva solo lui e nel quale Masako, di questo ne era sicura, era semplicemente uno strumento. Poteva anche smettere di pensare a come fuggire dal sogno di un uomo, non sarebbe servito a niente. Doveva cercare di capirlo per poterlo prevenire, non c’era altra strada. Se non ci fosse riuscita avrebbe sofferto per niente. Voleva sapere che cosa era successo a Satake, perché era diventato così. Schiacciata dal suo peso, Masako guardò nel vuoto. Lì, dietro la sua schiena, c’era la libertà. Lui venne in fretta e Masako, infuriata, gli urlò che era un pervertito, anche se sapeva che non era vero. Satake non era né pervertito né pazzo. Era solo un uomo che vagava alla spasmodica ricerca di qualcosa per cui si struggeva. Masako pensò che se lei possedeva quel qualcosa, gliene avrebbe dato finché voleva. Se così poteva salvarsi la vita, perché non farlo? Masako aspettava con ansia che i raggi del sole entrassero finalmente nel salone e la temperatura si alzasse, anche solo di pochi gradi. Non sarebbe stata in grado di resistere a lungo a quel gelo. Non avrebbe mai immaginato che il freddo potesse fare così male. Per quanto cercasse di muoversi per riscaldarsi, non riusciva più a controllare il tremito convulso che la scuoteva tutta. Tuttavia la temperatura della sala non si sarebbe alzata finché il sole non fosse stato alto in cielo, e non sarebbe riuscita a resistere così a lungo. Non voleva arrendersi, ma sapeva che, se andava avanti così, avrebbe finito per congelarsi. Cercando di resistere ai crampi che la assalivano a intervalli sempre più brevi, si guardò intorno nel salone. La carcassa di una fabbrica. Un sarcofago di cemento. Era in un posto come quello che aveva sgobbato negli ultimi due anni e non poteva fare a meno di pensare che probabilmente era destinata anche a morirci. Quello era lo spietato destino che la attendeva. «Aiutami», mormorò dentro di sé. Ma non era l’aiuto di Yoshiki o di Kazuo quello che cercava, bensì quello dell’uomo che la stava torturando.
Girò piano la testa cercandolo con gli occhi. Satake era seduto a gambe incrociate non lontano dal banco su cui era distesa, e la guardava tremare. Non sembrava deliziarsi dei suoi tormenti, pareva piuttosto attendere qualcosa. Ma che cosa? Masako cercò di vedergli il viso nel buio. Continuava a guardare i lucernari. Forse aspettava che sorgesse il sole. Come lei tremava di freddo, ma sembrava che non gliene importasse molto, perché era ancora completamente nudo. Sentì il suo sguardo e si voltò verso di lei. I loro occhi si incrociarono nella penombra. Irritato fece scattare l’accendino e lo tenne per un attimo verso di lei, poi si accese una sigaretta. Dallo sguardo con cui la scrutò Masako capì che cosa stava aspettando con tanta ansia. Che diventasse chiaro, ecco cosa attendeva. La luce, per poter vedere quello che voleva da lei. E quando avesse trovato quello che cercava, l’avrebbe uccisa. Masako chiuse gli occhi. Sentì un lieve movimento e li riaprì. Satake si era alzato. Lo vide prendere qualcosa dalla borsa, una custodia nera, di forma allungata. Probabilmente un coltello. Forse voleva usarlo per sbudellarla. Il gelo del bancone sotto alla schiena nuda le penetrò ancora più profondamente nelle carni e l’atroce fantasia le fece torcere le viscere. Masako incominciò a tremare sempre più forte. Con la paura aumentarono gli spasmi. Ma voleva a ogni costo far credere a Satake che dipendesse soltanto dal freddo. Per evitare che potesse intuire la verità, girò il viso dall’altra parte. Finalmente il sole cadde su di lei. Masako sentì la pelle accapponata dal freddo che a poco a poco si rilassava, i pori che si aprivano. La sentiva respirare. Bastava che si riscaldasse un po’, e avrebbe potuto finalmente dormire. Ma subito si ricordò del coltello di Satake e sorrise della propria idiozia. Purtroppo non c’era niente da fare: sarebbe stata uccisa. Di solito al sorgere del sole, appena tornata dallo stabilimento, preparava la colazione e metteva in funzione la lavatrice. Quando il sole era alto andava a dormire. Chissà cosa pensavano Yoshiki e Nobuki non vendendola rincasare. Ma, sia che venisse uccisa, sia che riuscisse a cavarsela, non faceva alcuna differenza, ormai si era allontanata troppo dalla sua famiglia. Yoshiki, lo aveva detto, non l’avrebbe certamente cercata. Meglio così, pensò sollevata Masako. Aveva la sensazione di essere già molto, molto lontana. Ormai c’era abbastanza luce. Satake si avvicinò. «È su un bancone come questo che prepari le colazioni, vero?» Sembrava piacergli: Masako sul nastro come un pezzo di carne da preparare. Lei tentò di dissimulare la tensione. Esattamente come aveva detto lui, non si sarebbe mai immaginata che sarebbe stata legata sul banco del nastro trasportatore. Le venne in mente la maestra, quando decideva la velocità del nastro. La via d’uscita di Yoshie. Ma la sua via d’uscita sembrava ormai chiusa – l’uomo davanti a lei stava per sbarrarla per sempre. «Ehi, racconta come hai fatto a fare a pezzi i cadaveri. Così, forse?» Satake fece il gesto di tagliarle la testa, poi tracciò una riga dal collo al pube, come in una immaginaria autopsia. Il suo dito scavò nella pelle martoriata dal freddo. Faceva così male che fu costretta a urlare. «Come ti è venuto in mente di farli a pezzi? Come ti sei sentita?» Masako capì che Satake voleva aizzare il suo odio. «Tu sei identica a me. Proprio come me hai imboccato una via senza ritorno». Era vero, non poteva tornare indietro. Quante volte aveva sentito le porte sbattere dietro di lei! La prima il giorno in cui aveva fatto a pezzi Kenji. Ma a Satake che cosa era successo? Glielo chiese, ma lui non rispose. Lo guardò negli occhi nella penombra. Le sembrò di guardare in una larga palude, anzi in un grande vuoto. All’improvviso Satake le infilò le dita gelide tra le gambe e Masako gridò. Quando la penetrò
per la seconda volta, si stupì del suo calore. Il suo corpo freddo accolse riconoscente quel tepore, molto più facile e veloce da ottenere della forza del sole. La cosa dura, bollente, le sgelò il ventre. Lì, dove i loro corpi erano uniti uno all’altro, doveva essere il punto più caldo di tutto l’ambiente. Si turbò a scoprire com’era facile provare piacere. Satake non doveva assolutamente capire di essere il benvenuto. Chiuse gli occhi per evitare che intuisse la verità, ma Satake cercò di impedirglielo in ogni modo. «Guardami, per piacere», supplicò. Lei rifiutò e lui minacciò di schiacciarglieli con i pollici. Che lo facesse pure, pensò Masako. Purché non capisse la gioia con cui lo accoglieva! Lo odiava, con tutto il cuore. Ma in quel momento il suo sguardo non sarebbe stato capace di esprimerlo. Ed era esattamente quello che lei non voleva. Satake disse che la odiava perché era una donna. Ma se la odiava tanto, perché faceva sesso con lei, perché non la uccideva e basta? A un tratto Satake le fece pena, perché non poteva provare piacere senza odiare ed essere odiato. Lentamente incominciò a intuire vagamente il suo passato. «Tu sei guasto fino in fondo!» «È vero. Ma lo sei anche tu. Lo so dalla prima volta che ti ho visto». Era questo che l’aveva attratto in lei, la sua rovina interiore, fin dal primo giorno in cui si erano incontrati. Il pensiero di quel misterioso legame tra di loro alimentò il suo odio nei confronti di Satake che si muoveva dentro di lei. Lui le succhiò le labbra. La passione con cui lo fece le rivelò quanto la desiderava. Satake snudò il pugnale e lo posò accanto alla sua testa. La lama vicino al suo viso irradiava un freddo minaccioso e Masako ebbe paura. Chiuse gli occhi sopraffatta dal terrore. Satake glieli riaprì a forza e vi immerse il proprio sguardo. Lei lo guardò. Voleva affondare il coltello nel corpo di quell’uomo, così come lui spingeva dentro di lei. Il sole conquistò anche l’ultimo angolo dello stanzone. Nello stesso momento una luce misteriosa brillò nella palude degli occhi di Satake. La riconosceva, voleva essere buono con lei. Ma non cambiava nulla. Così come lei era disposta a farsi uccidere da lui, lui voleva essere annientato da lei. All’improvviso Masako capì Satake… e lo amò. Nello stesso istante in cui lo pensava, si accorse che il sogno che lo teneva prigioniero si dissolveva e Satake stava ritornando alla realtà. I loro sguardi si incontrarono, i loro corpi divennero uno solo. Ora negli occhi di Satake poteva vedere solo l’immagine riflessa di se stessa. Un’onda di estasi incredibile stava per travolgerla. Non le importava se doveva morire. Il guizzo della lama colpita dal sole vicino al suo viso la riportò brutalmente alla realtà. Il pugno di Satake le fece perdere conoscenza. Poco dopo il dolore la fece rinvenire. Aveva un terribile male al mento e non riusciva più ad aprire la bocca. Le veniva da vomitare. Satake la fissava fuori di sé. Aveva quasi raggiunto la meta – era quasi riuscito a ottenere ciò che agognava – e lei glielo aveva impedito. La sua ira si poteva toccare con le mani. Masako gli chiese il permesso di andare in bagno. Satake acconsentì. Lei mise i piedi a terra. Da quante ore le sue mani erano libere dai legacci, da quando non muoveva un passo? Appena fu in piedi sentì il sangue scorrerle di nuovo nelle vene. Il freddo le attraversò il corpo in mille punture dolorose. Masako non riuscì a trattenere un urlo. Raccolse il giaccone dal pavimento. Tenendo gli occhi chiusi, aspettò paziente che la pelle gelida si abituasse alla temperatura della stoffa. Satake continuò a guardarla senza dire nulla. I bagni erano in un angolo dello stabilimento. Masako vi si diresse. Le gambe vacillavano incerte, non riusciva quasi a camminare. Calpestò qualcosa di appuntito e la pianta del piede incominciò a sanguinare, ma non faceva male. Sedette sul water lurido e urinò. Sapeva che Satake la stava osservando, ma non le importava. Si lasciò scorrere l’urina sulle mani. Al contatto improvviso con il liquido caldo, le dita irrigidite dal freddo le fecero un male terribile. Masako soffocò un gemito. Probabilmente lnon funzionava, pensò, per cui si alzò e andò verso Satake mettendo le mani in tasca.
«Sbrigati». Inciampò in una tanica di olio e cadde. Aveva perso il senso dell’equilibrio e non riusciva più a rialzarsi. Satake corse da lei, la afferrò per il bavero del giaccone e la tirò su come un gattino per la collottola. I suoi occhi lampeggiavano di impazienza, non poteva più aspettare. Masako mise di nuovo le mani in tasca per scaldarsele. Non riusciva ancora a muovere le dita come voleva. «Presto, forza!» Masako si massaggiò le dita contro la fodera delle tasche. Quando Satake alzò la mano per colpirla, lei gli squarciò il viso con il bisturi che nascondeva in tasca. Per un attimo Satake sembrò non capire che cosa era successo e rimase a guardare nel vuoto, poi si portò una mano alla guancia. Masako trattenne il respiro, osservandolo. Con aria incredula lui si accorse di avere la mano piena di sangue. Il bisturi gli aveva tagliato fino all’osso la carne della guancia sinistra, dall’angolo dell’occhio fino a sotto il mento.
8. Satake indietreggiò, cadde e rimase seduto sul pavimento. Il sangue sgorgava rosso dalle dita che teneva premute sulla guancia. Senza volere Masako urlò. Che cosa, non lo sapeva. Ebbe la sensazione di avere fatto qualcosa di irreparabile, di non potere più tornare indietro, e restò impietrita a urlare. «Ce l’hai fatta!» bisbigliò Satake sputando il sangue che gli si era raccolto in bocca. «Volevi uccidermi». «Sì». Satake allontanò la mano dal viso e se la guardò: era piena di sangue. «Ho mirato alla gola. Ma avevo le dita così intorpidite che ho sbagliato». Masako aveva perso il controllo. Non sapeva più cosa diceva. Si accorse di avere ancora in mano il bisturi e lo buttò via. Rimbalzò tintinnando sul pavimento di cemento. Prima di uscire di casa lo aveva infilato in un tappo di sughero e messo in tasca. «Sei una donna fantastica. Avrei dovuto farmi uccidere da te, almeno sarebbe stata una bella sensazione», bisbigliò Satake. L’aveva tagliato fino dentro alla bocca, il sangue si mescolava alle parole. «Volevi uccidermi?» chiese Masako. «Non so…» Satake scrollò la testa e guardò in alto. Il sole del mattino entrava direttamente dai lucernari e inondava l’ambiente con la sua luce bianca, accecante. La polvere danzava nei raggi che dalle finestre quadrangolari si insinuavano a colpire il pavimento lurido. Come Satake, anche Masako guardò tremante verso i lucernari. Non era per il freddo che tremava. Aveva paura di perdere per sempre Satake, ed era sua la colpa. Oltre il lucernario il cielo era azzurro pallido. Stava per iniziare la solita, quieta giornata invernale, come se le atroci scene di battaglia della notte appena passata non fossero mai esistite. Fissando la pozzanghera di sangue sul pavimento, Satake rispose: «Non volevo ucciderti. Ma volevo vedere come muori, questo sì». «Perché?» «Perché così forse avrei potuto amarti con tutto il cuore». «Altrimenti non ci riesci?» Satake la fissò negli occhi. «No, credo di no». «Non morire», gli disse piano Masako. Satake la guardò stupito. Il sangue zampillante dalla sua guancia gli inondava tutto il corpo. «Io ho ucciso Kuniko. Anni fa uccisi un’altra donna. Era uguale a te. Quella volta credo di essere morto anch’io. Quando ti ho vista la prima volta, ho sperato di poter morire un’altra volta…» «Io sono viva. Quindi non devi morire». Masako si strappò di dosso il giaccone, perché voleva prendere Satake tra le braccia nude. Aveva il viso gonfio, sfigurato. Se si fosse guardata allo specchio di sicuro si sarebbe spaventata, ma non le importava. «È la fine». Satake sembrava sollevato. Forse aveva freddo, perché tremava. Masako gli si avvicinò ed esaminò la ferita. Era un taglio profondo, netto. Cercò di fermare l’emorragia tenendo insieme i lembi con le due mani. «Smetti, è inutile. Devi avere preso la carotide, vero?» Ma Masako non smise. Satake stava morendo. Si domandò se aveva incontrato quell’uomo solo per dividere con lui quel momento, e si guardò di nuovo intorno nello stabilimento, un enorme sarcofago appositamente creato per loro: lì si erano incontrati, si erano capiti e si sarebbero separati. «Mi dai una sigaretta?» chiese Satake. Muoveva la bocca a malapena. Lei tirò fuori il pacchetto
dalla tasca dei suoi pantaloni, prese una sigaretta, la accese e gliela infilò tra le labbra. In un attimo si inzuppò di sangue, ma Satake non ci badò. Espirò una sottile voluta di fumo. Masako si inginocchiò davanti a lui e lo guardò direttamente in faccia. «Ascolta, andiamo all’ospedale, o chiamo un medico, va bene?» «Un medico…» Satake voleva ridere. Probabilmente gli aveva tagliato un nervo, perché solo la parte destra del viso, quella non insanguinata, si allentò in un sorriso. «Anche la donna che ho ucciso morì sussurrando questa parola. A quanto pare, anch’io devo morire come lei. Questo è quello che si chiama destino…» La sigaretta gli cadde di bocca. Il mozzicone appena iniziato atterrò nella pozzanghera di sangue e si spense. Satake chiuse rassegnato gli occhi. «Dai, andiamo!» «Così ci mettono dentro tutti e due». Masako prese per le spalle Satake che tremava sempre più forte. Lui se la tirò al petto. Lei si strinse a lui e sentì che era già più freddo di lei. «Non importa, voglio che continui a vivere». «Perché?» chiese piano Satake. «Dopo tutto quello che ti ho fatto». «Perché se morirai sarà come se fossi morta anch’io. Non potrò vivere con un ricordo così triste». «Ma io l’ho fatto». Satake chiuse gli occhi e tacque. «Sta’ tranquillo. Non ti lascerò morire». Masako tentò disperatamente di chiudere la ferita, di fermare il sangue. Satake incominciava a perdere conoscenza. Socchiuse appena gli occhi, la guardò e chiese di nuovo: «Perché vuoi che viva?» «Perché ora ti capisco. Noi due siamo uguali. Perciò continuiamo a vivere insieme!» Tentò di baciarlo sulla bocca, ma era tutto pieno di sangue. Solo i suoi occhi scuri, tristi, mandarono un bagliore e la guardarono. «È la prima volta che penso a qualcosa del genere… Già, avremmo cinquanta milioni. Se riuscissimo ad arrivare all’aeroporto di Narita… Forse riusciremmo anche a farcela», disse esitante Satake, come se non volesse affidarsi così facilmente alla speranza. «Mi hanno detto che il Brasile è molto bello». «Portami con te». «Sì. Tanto neppure io potrò tornare indietro». «Tutti e due non possiamo tornare indietro – forse né tornare né avanzare. Allora, alla libertà», bisbigliò Satake «Sì». Satake allungò la mano e accarezzò delicatamente la guancia di Masako. Aveva le dita fredde come il ghiaccio. «Non sanguini più. La ferita deve essersi chiusa». Satake annuì impercettibilmente, come se avesse capito che era una bugia.
9. Masako camminava in un sottopassaggio che portava alla stazione di Shinjuku. Non era consapevole di quello che faceva, si limitava a mettere un piede davanti all’altro, prima il destro e poi il sinistro, e così all’infinito. La corrente umana che affollava il sottopassaggio la trasportò con sé fino ai cancelli della stazione. Si fece strada nella calca e si inoltrò tra i negozi. Vide la propria immagine riflessa nello specchio di una bottega di calzature. Si guardò, gli occhi gonfi nascosti dagli occhiali da sole, la cerniera del giaccone tirata fino al mento per non fare vedere il tremito che le squassava il cuore. Si fermò, si tolse gli occhiali e si guardò il viso. Le guance erano ancora un po’ gonfie per gli schiaffi che aveva preso da Satake, ma si vedeva appena. Per gli occhi però non c’era nulla da fare. Aveva pianto troppe lacrime e troppo a lungo. Si rimise gli occhiali. Il suo sguardo cadde sull’ascensore della stazione, di fronte a lei. Vi salì senza esitare e premette il pulsante dell’ultimo piano. Non sapeva dove andare. L’ultimo piano era quello dei ristoranti. Qui avrebbe potuto fermarsi per un po’ senza attirare l’attenzione. Masako sedette su una panchina davanti al muro, appoggiò sulle ginocchia la borsa di nylon nero e la abbracciò. Lì dentro c’erano i cinquanta milioni di Satake e i suoi sei, in contanti. Prese le sigarette e se ne infilò una tra le labbra. Si ricordò l’ultima boccata di fumo di Satake, e gli occhi, dietro alle lenti, le si riempirono di lacrime di tristezza e solitudine. Di colpo perse la voglia di fumare e gettò la sigaretta appena accesa nel portacenere d’acciaio che aveva davanti. La sigaretta cadde nell’acqua e si spense sfrigolando. Un rumore simile a quello della sigaretta di Satake, quando gli era scivolata dalla bocca ed era caduta nella pozza di sangue. Masako non riusciva più a rimanere seduta, afferrò la borsa di nylon e si alzò. Dalla grande finestra guardò giù sulle strade di Shinjuku. Oltre al viale che conduceva al tempio di Yasukuni si estendeva la zona di Kabuki-cho. Masako appoggiò una mano alla finestra e fissò intensamente il labirinto di strade del quartiere di piacere. Nella debole luce di quel pomeriggio invernale le insegne al neon e le pubblicità squillanti, non ancora accese, sembravano stanche e pallide. Il quartiere giaceva come una bestia addormentata, rilassato, senza forze. Ma non appena si fosse svegliato avrebbe ricominciato a cacciare le sue prede con selvaggia, non dissimulata ferocia. Era il mondo di Satake: volgare, impudico, colmo di cupidigia. La porta che si era aperta per lei dal momento in cui aveva scelto il turno di notte allo stabilimento delle colazioni portava quindi lì, nel mondo di Satake, dove lei fino a oggi non aveva mai messo piede. Le venne in mente di andare subito lì e vedere il posto dove una volta Satake aveva avuto la sua casa da gioco. Il pensiero risvegliò un groviglio di sentimenti e di nuovo venne tutto a galla: il vuoto e l’inconsolabile tristezza di quei due giorni trascorsi sul letto di un albergo continuando a contorcersi nel suo dolore, senza mangiare neanche un boccone. Sentì ancora nel ventre il contatto del corpo di Satake e fece un piccolo grido, come un gemito. Aveva così bisogno di averlo di nuovo! Lì a Kabuki-cho avrebbe respirato l’aria che aveva respirato lui, visto quello che lui aveva avuto ogni giorno sotto gli occhi. Poi si sarebbe cercata un uomo come lui e avrebbe inseguito il sogno di Satake. Nel suo animo sbocciò di nuovo la speranza che credeva di avere perso per sempre. Tornò all’improvviso sui suoi passi e si mise a correre. Sul pavimento di piastrelle, accuratamente pulito e lucido di cera, le scarpe da ginnastica stridevano in modo fastidioso. Spaventata dal rumore, Masako si fermò. Si girò verso la finestra e per un attimo le sembrò di vedere il buio dello stabilimento abbandonato. Non doveva farlo, pensò Masako.
Sarebbe solo diventata prigioniera di Satake, così come lui era stato catturato in un sogno del passato. Non poteva e non voleva vivere così. Forse solo un uomo straordinario come Satake era in grado di mantenere in vita una fantasia. Lui, che non poteva né tornare indietro né andare avanti, non aveva avuto altra via che continuare a scavare nel proprio animo. Quello era il sogno di un uomo che aveva scoperto la libertà del proprio animo isolandosi in un passato in cui esistevano soltanto una donna e lui. Ma che cosa ne sarebbe stato di lei, della donna che era stata finora? Masako si guardò le unghie tagliate corte, fino alla carne. In quei due anni trascorsi a lavorare nello stabilimento delle colazioni non le aveva lasciate crescere neppure una volta. Le sue pallide mani erano ruvide e rovinate dalle continue disinfezioni. I vent’anni di angherie nell’istituto di credito. La nascita del figlio, i lavori di casa, la vita in famiglia. Che significato aveva tutto questo? Tutti quei giorni, quei mesi, quegli anni? Avevano lasciato sul suo corpo tracce, l’avevano plasmata e l’avevano resa quella che era: lei, Masako Katori. Satake era vissuto in un sogno vuoto, lei invece viveva nella realtà e le piaceva in tutti i suoi aspetti. Masako capì che la libertà che voleva era diversa da quella che aveva cercato Satake. Con calma tornò all’ascensore e premette decisa il pulsante per scendere. Avrebbe comprato un biglietto aereo. Da qualche parte doveva esserci la sua libertà, diversa da quella di Satake e naturalmente anche da quella di Yoshie e di Yayoi. Adesso che si era chiusa tutte le porte alle spalle, non le rimaneva che trovare una nuova porta da aprire. Sentì il sibilo dell’ascensore che saliva e il rumore le ricordò il gemito del vento.