SUZY McKEE CHARNAS L'ARAZZO DEL VAMPIRO (The Vampire Tapestry, 1982) RINGRAZIAMENTI La mia gratitudine va a coloro che h...
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SUZY McKEE CHARNAS L'ARAZZO DEL VAMPIRO (The Vampire Tapestry, 1982) RINGRAZIAMENTI La mia gratitudine va a coloro che hanno letto questo lavoro mentre lo scrivevo: Stephen (per primo, per ultimo e per sempre): Marge, Joanna e Vonda: Janet, Sondra, Michael, Esther, Juliet, Mara, Ned, Maggie, e Jo e le sue amiche del mini-club lettrici della sala da pranzo di Evergreen; Robin, Patty, Liza, Sally e socie. Grazie, inoltre, a coloro che hanno letto parti di questo libro per alcuni consigli (degli errori sopravvissuti al loro controllo sono interamente responsabile io): Marion London e Claudine Wilder, terapisti: Jon Charnas per consigli riguardanti la sistemazione degli appartamenti a New York, la sua città: Bruce Stringer, veterinario: Bill e Kay Weinrod, che facevano parte dello staff amministrativo della Santa Fe Opera, e Drew Field, direttore tecnico: Eric Rose e Eva Friedlander, antropologi: Virginia Kidd, agente, il cui entusiasmo e l'occhio per i dettagli sono stati così utili David Hartwell, un curatore che sa quando un lavoro può essere migliorato e dà preziosi suggerimenti per portarlo a termine e ringraziamenti speciali a Harru Nadler per l'uso del suo Panama. Alla memoria di Loren Eiseley. Non ci siamo mai incontrati, ma i suoi scritti mi hanno aperto la prospettiva del tempo geologico. Da quelle distanze è emersa, alla fine, la figura del vampiro così com'è stata rappresentata in questo libro. I LA MENTE ANTICA AL LAVORO Il martedì mattina Katje scoprì che il Dr. Weyland era un vampiro, come quello del film che aveva visto la settimana prima. L'amico di Jackson della squadra notturna di pulizie aveva lasciato l'ombrello agganciato alla rastrelliera delle biciclette all'esterno dell'edificio del laboratorio. Dal momento che a Katje piaceva, prima di iniziare il lavoro, fare una passeggiata nella quiete dell'alba, vi si recò per vedere se l'ombrello era ancora là. Mentre tornava a mani vuote nella nebbia fitta sentì la porta dell'edificio chiudersi con un tonfo dietro di lei. Si voltò di scatto. Un giovane era uscito e si stava avviando verso l'area di parcheggio.
Sembrava ferito o stava male, perché rallentò il passo, si fermò, e cadde su un ginocchio, allungando una mano per ritrovare l'equilibrio su di un manto di catrame umido e luccicante. Dietro di lui, qualcun altro uscì dall'edificio e chiuse delicatamente la pesante porta. Quest'uomo, alto e grigio di capelli, si fermò per un momento portandosi alla bocca un fazzoletto bianco ripiegato in un piccolo rettangolo. Poi mise via il fazzoletto e riprese a camminare verso il parcheggio. Passando dietro la figura inginocchiata, si voltò per guardare... e continuò a camminare senza esitazione. Entrò in una scintillante Mercedes grigia e partì. Anche Katje si avviò verso l'area di parcheggio, ma il giovane, sollevatosi in piedi e guardandosi intorno sconcertato, raggiunse la sua macchina e partì. Dunque, c'era il vampiro — pensò Katje — sazio e crudele, e c'era la sua vittima, debole, pallida e confusa; anche se il vampiro del film se ne andava in giro con un mantello nero e non con l'impermeabile, e inseguiva giovani donne pettorute. Camminando sul prato del Club, sorrise per la sua immaginazione. In realtà, l'uomo che aveva visto, era l'eminente antropologo e stella del Centro Cayslin per lo Studio dell'Uomo, il Dr. Weyland, che lasciava il laboratorio assieme a uno dei suoi pazienti dopo una estenuante seduta durata tutta la notte. Il Dr. Weyland doveva aver pensato che il giovane si era chinato per recuperare le chiavi della macchina che gli erano cadute. Il Cayslin Club era una vecchia dimora donata anni prima al college. Ora veniva utilizzata come circolo della facoltà. La sua grandiosità era stata severamente ridimensionata per l'edificio del laboratorio e per l'area di parcheggio costruita su metà del prato, un tempo molto esteso, ma il Club manteneva ancora la sua imponenza. Jackson stava cercando di chiudere le fessure nella camera verde; aveva cominciato a piovere. La camera verde era una veranda col pavimento di mattonelle, ed era arredata con sedie in ferro lavorato. «L'ha trovato, Mrs. de Groot?» disse Jackson. «No, mi spiace.» Katje non lo chiamava mai per nome, poiché non sapeva se si chiamava Jackson Qualcosa o Qualcosa Jackson, e aveva imparato a stare in guardia su tutto ciò che riguardava i neri di quella zona. «Grazie per averlo cercato, comunque,» disse Jackson. In cucina si fermò accanto ai lavandini e si mise a fissare fuori la giorna-
ta tetra. Non si era mai abituata a quegli inverni gelidi e piovosi, anche se dopo tanti anni, e non riusciva assolutamente a ricordare il colore del sole africano sotto il quale era cresciuta. Non ci si doveva meravigliare molto se Hendrik era morto là. Il clima grigio aveva alla fine spento anche la sua natura ardente, se anni prima, e lei lo aveva ricondotto con la nave dai suoi familiari. Katje aveva posseduto la sua vita; non aveva bisogno della sua tomba perché non voleva che la tenesse legata a questo fosco paese. La sua carriera come assistente universitario in sociologia della medicina qui e in altre scuole gli aveva procurato un buon reddito, ma lui aveva versato tutto quello che poteva al Movimento della Maggioranza Nera, laggiù a casa. Così le aveva lasciato ben poco, ma lei se lo aspettava. Con stupore e risentimento di alcune mogli della facoltà, aveva accettato questo lavoro ed era rimasta. I soldi messi da parte dal suo stipendio di domestica del Cayslin Club le avrebbero alla fine finanziato il ritorno a casa. Aveva bisogno della somma necessaria per comprare non una fattoria, ma una casa con un piccolo giardino in qualche luogo fresco in collina — aggrottò le sopracciglia, cercando di immaginare il luogo ideale. Non le venne in mente niente di preciso. Era stata via per troppo tempo. Mentre stava pulendo i lavandini, Miss Donelly entrò precipitosamente, liberandosi dell'impermeabile gocciolante e borbottando, «Per tutti quei maledetti... Oh, salve, Mrs. de Groot; mi spiace per il linguaggio. Guardi che domani non avremo il pranzo delle docenti della facoltà. Il Dr. Weyland deve tenere una lezione speciale a pagamento a un gruppo di allievi ricconi e desidera una sistemazione simpatica e tranquilla... il nostro angolo per il pranzo qui al Club, cioè. Il Preside Wackers ha già detto di sì, quindi...» «Perché venire qui sotto la pioggia per dirmelo?» disse Katje. «Avrebbe potuto telefonare.» «Volevo anche controllare un paio di stanze al piano di sopra per assicurarmi di poterne riservare una tranquilla a un relatore che proporrò qui come ospite il mese prossimo.» Miss Donelly esitò, poi aggiunse, «Sa, Mrs. de Groot, avevo intenzione di chiederle se voleva essere lei relatrice nel mio corso sugli Ambienti Letterari — stiamo leggendo Isak Dinesen. Verrebbe a parlare ai miei studenti?» «Io? Su che cosa?» «Oh, sull'Africa coloniale, cosa significava crescere laggiù. L'esperienza di questi ragazzi è così limitata e protetta, che vorrei approfittare di tutte le
opportunità per allargare l'orizzonte dei loro pensieri.» Katje strizzò lo straccio nel lavandino. «Mio nonno e Zio Jan frustavano i ragazzi perché lavorassero come bestie e gli mollavano calci abbastanza violenti da spezzare le ossa se non mostravano rispetto; in caso contrario saremmo stati depredati e scacciati. Io ero solita andare a caccia. Ho ucciso rinoceronti, elefanti, leoni e leopardi, ed ero orgogliosa perché lo facevo bene. I suoi studenti non vogliono sapere queste cose. Non hanno nulla da temere tranne gli esattori delle tasse e nulla a che fare con la natura tranne versare denaro a favore di balene e foche.» «Ma è proprio questo che intendevo,» disse Miss Donelly. «Un diverso punto di vista.» «Ci sono molti libri sull'Africa.» «Provi a convincere questi ragazzi a leggere.» Miss Donelly sospirò. «Be', credo che potrò portare le colleghe a Corrigan domani, invece che qui, anche se perdo un'ora al telefono. E dovremo fare a meno della sua cucina, Mrs. de Groot.» «Il Dr. Weyland si aspetta che io cucinerò per i suoi ospiti?» chiese Katje, pensando distrattamente agli allievi che pranzavano col vampiro. Avrebbe mangiato anche lui? Quello del film non mangiava. «Non Weyland,» disse seccamente Miss Donelly. «Per lui esiste soltanto il meglio, che significa il più caro. Probabilmente sarà loro servito un banchetto da Borchard's.» Si affrettò ad andarsene. Katje mise a fare il caffè e telefonò alla Edifici e Campi. Sì, il Dr. Weyland e sei persone sarebbero stati al Club domani; no, Mrs. de Groot non avrebbe dovuto fare nien'altro che pulire dopo; sì, il preavviso era breve, e per favore sia annotato sul calendario del Club; e sì, Jackson era stato incaricato di controllare i cornicioni sopra le camere da letto a est prima di andarsene. «Impermeabile vagabondo,» disse Miss Donelly, precipitandosi dentro per ghermirlo dalla sedia dove l'aveva lasciato. «Stia attenta a Weyland, Mrs. de Groot.» «Cosa, una vedova cinquantenne come me? Non sono mica una pavida studentessa che cerca di strappare un dieci e lode al professore.» «Non intendevo creare un romanzetto.» Miss Donelly sogghignò. «Anche se Dio sa che mezza facoltà — di entrambi i sessi — è innamorata di quell'uomo.» Onestamente, pensò Katje, è proprio la cosa di cui tutti parlano in questi
giorni! «Senza alcun risultato, ohimè, dal momento che è un autentico single. Lui cercherà di convincerla a recarsi nel suo costosissimo laboratorio del sonno e di rendere i suoi sogni parte delle sue ricerche che dovrebbero scuotere il mondo e cambiare la storia; ricerche che ha rubato al povero vecchio Ivan Milnes.» Milnes... Katje pensò quando fu di nuovo sola; il Professor Milnes se n'era andato in qualche luogo ridente per morire di cancro. Poi il Dr. Weyland era arrivato da una piccola scuola del sud e aveva ripreso il progetto sui sogni, evitando che fosse accantonato — o rubandolo, secondo la versione di Miss Donelly. Una persona che pensa troppo rischia di confondersi. Jackson entrò e si versò un po' di caffè. Si rilassò sulla sedia e scorse la lista delle annotazioni che pendeva sulla parete accanto al telefono. Era magro come un giovane Kikuyu — Katje riusciva a distinguere l'arco delle costole sotto la camicia. Il domestico mangiava parecchi dolci e stuzzichini vari, ma era troppo nervoso per ingrassare. A dire il vero avrebbe dovuto avere una coperta rossa, la pelle luccicante d'olio e i capelli attorcigliati. E invece indossava una camicia rossiccia, pantaloni, e il giubbotto con la chiusura lampo da «tecnico» della Edifici e Campi, e i suoi capelli avevano un modesto taglio Afro, come lo chiamavano, intorno al volto stretto. «Cerchi di non sistemare nessuno nella camera numero sei finché non l'avrò messa a posto alla fine della settimana,» disse. «La pioggia vi scorre dentro attraverso il telaio della finestra. Ho sistemato degli asciugamani in modo che assorbano l'acqua. Vedo che domani avrà Weyland qui. Il mio amico Maurice della squadra di pulizie dice che ha il miglior laboratorio del college.» «Che tipo di ricerche svolge il Dr. Weyland?» domandò Katje. «"Mappa onirica", la chiamano. Maurice dice che non c'è nulla d'interessante nel suo labortorio... solo strumenti, sa, apparecchi di registrazione, computer e roba del genere. Mi piacerebbe vedere tutta quell'attrezzatura qualche volta. Solo che non mi convincerà a registrare i miei sogni sul nastro! «Be', è ora che vada. Mi è parso di vedere dei rubinetti che gocciolavano da Joffey. Un Hans Brinker, ecco chi sono io. Grazie per il caffè.» Lei cominciò a tirar fuori i ripiani dal frigo per pulirli, e lo sentì fischiare mentre raccoglieva i suoi attrezzi nella camera verde.
Quelli di Borchard's le lasciarono ben poco da fare. Stava sistemando i piatti sciacquati nella lavastoviglie quando un uomo le disse dalla porta, «Le sono molto obbligato, Mrs. de Groot.» Il Dr. Weyland stava là, con le spalle leggermente curve, un po' leonino. Almeno questa fu l'impressione che Katje ricevette dal suo atteggiamento vigile, dal suo volto immobile, grave, attento, dal quale i suoi grandi occhi scintillavano per l'interesse. Fu sorpresa che lui conoscesse il suo nome, perché non era un frequentatore del Club. «C'era rimasto poco da fare, Dr. Weyland,» disse. «Tuttavia, questo è il suo territorio,» le rispose, venendo avanti. «Sono sicuro che è stata di grande aiuto a quelli di Borchard's. Non ero mai stato qui. Sono frigoriferi o congelatori questi?» Lei gli mostrò la cucina e le dispense. Parve impressionato. Maneggiò gli accessori della Cuisinart come se fossero manufatti di una civiltà che stava studiando. Erano un dono al Club dello staff dell'Home Ec. Molti erano già andati perduti, ma Katje non se ne curava. Non poteva stare a preoccuparsi, disse al Dr. Weyland, di come funzionavano quegli arnesi così bizzarri. Lui annuì, pensieroso. Era condiscendente nei suoi confronti, o simpatizzava sul serio? «Non c'è tempo per approfondire la conoscenza della tecnologia domestica di questi tempi, di tutte le macchine, del loro significato nella vita moderna...» Era, realizzò Katje, inaspettatamente avvenente; snello e brizzolato, ma con quel pizzico di vulnerabilità comune fra gli uomini slanciati. Non era possibile soffermare a lungo lo sguardo su di lui senza immaginare lo spaventapasseri sgraziato che doveva essere stato da ragazzo. I suoi lineamenti singolari — fronte, naso e mandibola pronunciati — senza dubbio troppo marcati e non belli, adesso erano uniti in una sobria armonia dai lunghi solchi dell'età sulle guance e sulla fronte. «Non più sguatteri che girano gli spiedi,» osservò lui esaminando il girarrosto. «Lei è originaria dell'Africa Orientale, Mrs. de Groot? Le cose dovevano essere parecchio diverse laggiù.» «Sì. Andai via molto tempo fa.» «Certo non moltissimo,» aggiunse, e i suoi occhi guizzarono su di lei dalla testa ai piedi. Accidenti, costui mi sta corteggiando! Rilassandosi nel calore del suo sguardo, gli chiese «Anche lei è uno straniero?» Il Dr. Weyland s'irrigidì all'improvviso. «Perché me lo chiede?»
«Mi scusi, credevo di aver sentito un accento straniero.» «I miei erano europei. A casa parlavamo tedesco. Posso sedermi?» Le sue mani grandi, abili e forti, afferrarono lo schienale di una sedia. Le fece un rapido sorriso. «Gradirebbe dividere il suo caffè con un cacciatore di patrimoni istituzionali? È questo il mio lavoro: persuadere i ricchi e gli amministratori delle fondazioni a spendere un po' del loro denaro per sovvenzionare un progetto che non promette risultati immediati. Non mi diverto a trattare con uomini così miopi.» «Tutti dicono che lei riesce a farlo bene,» Katje riempì una tazza per lui. «Mi assorbe troppo tempo,» disse. «Mi annoia.» I suoi occhi grandi e brillanti, nelle orbite rese scure dalla stanchezza, avevano un aspetto riservato e pensoso. Quanti anni avrà, si chiese Katje. All'improvviso la fissò e le chiese, «Era lei nei pressi del laboratorio ieri mattina? C'era umidità sul parabrezza, non potevo esserne sicuro...» Lei gli raccontò dell'ombrello dell'amico di Jackson, pensando: Ora mi spiegherà tutto, è per questo che è venuto qui. Ma lui non aggiunse altro, e Katje si trovò a domandarsi se doveva chiedergli o no dello studente nel parcheggio. «C'è qualcos'altro che posso fare per lei, Dr. Weyland?» «Non ho intenzione di sottrarla alle sue incombenze. Le piacerebbe venire qualche volta a fare una seduta nel mio laboratorio del sonno?» Proprio come aveva detto Miss Donelly; Katje scosse la testa. «Tutte le informazioni vanno su nastri protetti da un codice di identificazione, Mrs. de Groot. La sua privacy sarebbe rigorosamente protetta.» L'insistenza di lui la mise a disagio. «Preferirei di no.» «Mi scusi, allora. È stato un piacere conversare con lei,» disse, alzandosi. «Se trova una ragione per cambiare idea, il mio numero interno è unosei-tre.» Si sentì stranamente sollevata per la brusca uscita di Weyland. Prese la sua tazza di caffè. Era piena. Non ne aveva bevuto neanche un sorso. Era prossima alle lacrime, ma Zio Jan le fece smontare di nuovo il fucile — il suo primo fucile, il suo fucile — e allora il leone tossì all'improvviso, e lei vide con gli occhi spalancati per la paura la sua figura dorata accovacciata nel cespuglio di rovi. Sollevò il fucile e fece fuoco, e la polvere schizzò mentre il felino si dimenava ferito. Allora la voce paziente di Scotty disse, «Fallo ancora,»; così smontò di nuovo il fucile alla luce del lampione sul logoro tavolo di legno, mentre la madre cuciva con rabbiose pugnalate d'ago e pronunciava parole che Katje
non si curava di ascoltare. Le conosceva a memoria: «Se solo Jan avesse figli suoi! Maschi, da portare a caccia con Scotty. Poiché non ha figli, porta Katje a sparare, così può far vedere come sono duri i ragazzi boeri, anche le femmine. Per uccidere i bianchi per sport, come fanno Jan e Scotty, bisogna tornare nel passato barbarico dell'Africa. Adesso che la fattoria produce bene, non c'è bisogno di vendere pelli per guadagnare denaro per procacciarsi caffè, sale e tabacco. Addestrare una ragazza ad appostarsi e ad ammazzare animali quando lei stessa è poco più di un animale!» «Ancora,» disse Scotty, e il leone tossì di nuovo. Katje si svegliò. Era seduta di fronte alla TV, e sbatteva le palpebre davanti alla faccia acuta ed intelligente dell'ospite del talk-show. L'audio se n'era andato e lei si era assopita. Non sognava spesso, e molto difficilmente della sua infanzia africana... di sua madre, Zio Jan, Scotty, il fattore vicino che lo Zio aveva cominciato col chiamare dannato rooinek e finito col trattare come un fratello. La richiesta di Miss Donelly di una conferenza sull'Africa doveva aver fatto riemergere quell'adolescenza ormai lontana, trascorsa a vagare in cerca di preda in un paesaggio di erba gialla. La ragazzina esile che era stata allora, con la pelle scura e i capelli resi quasi bianchi dal sole, sembrava lontanissima. Donna di corporatura robusta, Katje aveva cercato di evitare di crescere corpulenta come la madre. Nel clima grigio del New England il colore dei suo capelli si era attenuato in quello dell'ottone vecchio, e ormai impallidiva verso il grigio. Eppure riusciva ancora a cogliere nello specchio qualcosa della bambina che era stata un tempo — l'atteggiamento cocciuto della sua mandibola salda e tonda e lo sguardo obliquo e determinato degli occhi. Non aveva permesso, rifletté con soddisfazione, che il mondo la trasformasse troppo. Miss Donelly entrò per prendere un po' di caffè il pomeriggio successivo. Mentre Katje le portava un vassoio nella lunga stanza di soggiorno, un'allieva la superò di corsa gridando, «È troppo tardi per consegnarle il compito, Miss Donelly?» «Per l'amore di Dio, Mickey!» esclamò Miss Donelly. «Dove hai preso quella?» Sul davanti della T-shirt della ragazza, dove si apriva la giacca, erano stampate le parole DORMI CON WEYLAND LUI È UN SOGNO. Mickey sogghignò, «Le vende un imbroglione proprio fuori alla co-op. Farà meglio a sbrigarsi se ne vuole una... Hanno già mandato la Sicurezza.» Mi-
se sul tavolo un fascio di fogli spiegazzati accanto alla sedia di Miss Donelly, e aggiunse, «Grazie, Miss Donelly», quindi si allontanò nuovamente facendo risuonare i tacchi alti dei suoi zoccoli. Miss Donelly scoppiò a ridere e si rivolse a Katje, «Questa poi, come usava dire mia nonna. Quell'uomo ha sicuramente animato un po' questo posto.» «I giovani non hanno rispetto per nulla,» borbottò Katje. «Cosa dirà il Dr. Weyland, vedendo che il suo nome viene usato in quel modo? Dovrebbe espellerla.» «Lui? Non se ne curerà. Wacker andrà fuori dai gangheri, comunque. Non è che Weyland non lo noterà — nota tutto, lui — ma non spreca il suo preziosissimo tempo con queste sciocchezze.» Miss Donelly fece scorrere un dito sulla vernice piena di bolle del davanzale vicino alla sua sedia. «Peccato che non possiamo utilizzare un po' del bottino che Weyland mette assieme per sistemare questo posto vetusto. Ma credo che non possiamo lamentarci; senza Weyland, Cayslin sarebbe solo un'altra scuola costosa e stagnante per i rampolli non-troppo-brillanti della classe medio-alta. E non sono tutte rose neppure per lui. Questa faccenda della T-shirt farà iniziare un intero nuovo round di calunnie fra i suoi colleghi, vedrà. Questo genere di cose fa uscire la bestia che portano dentro anche gli accademici più miti.» Katje sbuffò. Le beghe accademiche la disgustavano. «Mi rendo conto che dobbiamo apparire abbastanza docili ai suoi occhi,» disse Miss Donelly con ironia, «ma qui ci sono fin troppi tranelli e assassini reali, in termini di carriere. Non è quella vita comoda che sembra a volte, e neanche così tranquilla. Anche per lei, Mrs. de Groot. Ci sono persone che non gradiscono le sue idee politiche...» «Non parlo mai delle mie idee politiche.» Era la prima cosa che Hendrik aveva preteso da lei, qui. Katje aveva acconsentito come una buona moglie; non perché si vergognasse delle sue convinzioni politiche. Aveva amato e sposato Hendrik non a causa ma a dispetto delle sue idee politiche radicali. «Dal suo silenzio desumono che lei sia una specie di razzista reazionaria,» disse Miss Donelly. «E, inoltre, lei è una Boera e non ha portato avanti la crociata di suo marito. Poi ci sono quelli che s'imbarazzano nel vedere la moglie di un assistente universitario che lavora al Club...» «È il lavoro che posso fare,» disse irrigidendosi Katje. «Sono stata io a chiederlo.»
Miss Donelly si accigliò. «Certo... ma tutti sanno che il college avrebbe potuto fare di più per lei, e inoltre si pensava che lei avesse un gruppo di persone pronte ad aiutarla, qui. Alcuni della facoltà hanno un po' paura di lei; preferirebbero avere una cameriera più gioviale a servire i cocktail o un'allieva-lavoratrice da angariare. È necessario che lei sia al corrente di queste cose, Mrs. de Groot. «Come del fatto che ha anche un buon numero di persone dalla sua parte. Anche Wacker riconosce che lei conferisce tono e dignità a questo posto, e che ha vissuto una vita vera nel mondo, qualunque siano i suoi pregi, più di quello che la maggior parte di noi ha mai fatto.» Arrossendo, sollevò la tazza e bevve. Era docile come tutti gli altri là intorno, pensò Katje, e aveva un buon cuore. Molti dello staff se n'erano già andati in vacanza alla fine del semestre, ora che il nuovo ordinamento aveva esentato tutti dal tenere dei mini-corsi fra i semestri. L'ultima ora del cocktail al Club fu poco frequentata. Katje si muoveva fra i bevitori con discrezione raccogliendo posacenere colmi, bicchieri usati, tovaglioli di carta spiegazzati. Quelle poche persone che avevano conosciuto Hendrik la salutarono mentre passava. Due erano i principali argomenti di conversazione: l'allieva di biologia che era stata stuprata la notte precedente mentre lasciava la biblioteca, e la T-shirt di Weyland, o piuttosto, Weyland stesso. Dicevano che era un'ignominia il fatto che egli incoraggiasse lo sfruttamento commerciale del suo nome: probabilmente incassava una fetta dei profitti. No, non ne aveva bisogno, aveva notevoli entrate, nessun dipendente, e nessuna esigenza a parte lo studio e il lavoro. E la sua splendida Mercedes-Benz, non bisognava dimenticarlo. Di certo si trovava con lei quella sera — non in vacanza o ad alzare il gomito in un Club a buon mercato, ma a ruggire nel circondario con la sua amata automobile. Meglio girare in macchina nella zona che seppellirsi nella biblioteca come al solito. Era dannoso per lui lavorare così tanto; guardatelo, così tirato e preoccupato, così magro e malinconico. L'uomo meritava un premio per il suo esempio di scapolo-solitario-senza-speranza-dedito-alla-ricercadella-conoscenza. Ma non era un esempio — quale altro comportamento può aspettarsi la gente da un grande studioso? Un giorno ci sarebbe stato un altro bel libro suo, per la gloria del Cayslin. Guardate il suo ultimo scritto, «Sogni e Drammi: Il Mini-Teatro della Mente.» Brillante!
Brillante speculazione, forse, come tutto il suo lavoro, un intrigante punto di vista storico, ma dov'era la sua ricerca pura? Non era uno scienziato; era un ciarlatano che si serviva dello spirito d'iniziativa, dell'immaginazione, di una presenza imponente e del successo fortuito del suo primo libro. Accidenti, anche la sua formazione culturale era nebulosa. (Ma non provate mai a insinuare col Preside Wacker che c'era qualcosa di strano nelle credenziali di Weyland. Wacker vi mangerebbe vivi per proteggere la gallina dalle uova d'oro). Quanti studenti c'erano adesso nel progetto sui sogni? Più di quelli che stavano nelle sue classi. Chiamavano il suo corso di etnografia «La Mente Antica al Lavoro». Le ragazze trovavano affascinante il suo convenzionalismo. No, non era formale, era troppo superbo e antiquato, non avrebbe mai dato un contributo originale all'antropologia. Si era semplicemente appropriato dell'interessante adattamento operato dal povero Milnes del Sistema di Registrazione Richman-Steinmolle alla documentazione dei sogni, aggiungendo un po' di termini fantasiosi riguardanti i simboli culturali per portare il progetto nel suo campo dell'antropologia culturale. E Weyland riteneva anche di sapere tutto sui computer... nessuna meraviglia che riducesse uno straccio i suoi assistenti poteva resistergli. Peterson lo aveva abbandonato a causa del pandemonio provocato per un'elaborazione al computer. Affascinante, sì, ma capriccioso — i grandi sono spesso irascibili, non c'è nulla di nuovo in questo. Ricordate come trattò il giovane Denton dopo quel graffio che questi fece sul parafango della Mercedes? Gli fece una lavata di capo che avrebbe potuto piegare l'acciaio, e quando Denton fece per dargli un pugno lo afferrò per una spalla e lo scaraventò al di là della strada. Denton rimase ammaccato per un mese: sembrava uno che fosse stato sotto una mischia di football. Weyland è una tigre quando si irrita, ed è incredibilmente forte per un uomo della sua età. È un maledetto spaccone, e Denton avrebbe meritato una medaglia per aver tentato di farlo uscire di strada. Lo avete visto quando guida? Passa ruggendo, e mantiene a malapena il controllo di quel macchinone... Weyland non c'era. Certo che no, Weyland era un altero figlio di cagna; Weyland era un ricercatore introverso assorbito da un lavoro gravoso; Weyland aveva una pena segreta troppo dolorosa da condividere; Weyland era un ciarlatano; Weyland era un genio votato alla morte per tenere in vita il Centro Cayslin per lo Studio dell'Uomo. Il Preside Wacker meditava accanto all'enorme focolare vuoto. Aveva
detto diverse volte con voce sostenuta che aveva parlato con Weyland e che gli studenti coinvolti nello scandalo della T-shirt avrebbero subito un'azione disciplinare. Miss Donelly giunse più tardi con una allieva di Economia. Conversarono animatamente nel vano della finestra, e le altre due donne nella stanza si mossero per unirsi a loro. Katje le seguì. «...dall'esterno del campus, ma è questo che dicono sempre,» stava dicendo in tono brusco una di loro. Miss Donelly incontrò lo sguardo di Katje, fece un sorriso artificioso, e s'immerse di nuovo nella discussione. Stavano parlando dello stupro. Katje non era interessata. Una donna che fa uso del suo buon senso e si comporta con dignità non viene stuprata, ma dire una cosa simile a quelle intellettuali sarebbe stato soltanto fiato sprecato. Non comprendevano la vita reale. Così tornò in cucina. Edifici e Campi aveva mandato Nettie Ledyard dalla cafeteria degli studenti per darle una mano. Stava sciacquando piatti ed esaminandoli con gli occhi socchiusi attraverso il fumo della sua sigaretta. Indossava una T-shirt che aveva sul davanti un pesce bulboso col la scritta SALVIAMO LE BALENE. Questi messaggi «ambientalisti» stizzivano Katje; solo la gente ingenua e cittadina poteva pensare agli animali selvatici come a delle bestiole domestiche. La maglietta apparteneva senza dubbio a uno dei boy-friend di Nettie capellone e pieno di compassione. Nettie fumava troppo per pretendere di avere una coscienza ambientalista. Perlomeno non era un'ipocrita. Ma avrebbe dovuto venire vestita in maniera appropriata per un incarico al Club, nell'eventualità che uno dei professori si aggirasse là dentro in cerca di ghiaccio o di qualcos'altro. «La aiuterò a fare l'inventario del Club prima che inizi il semestre,» disse Nettie. «È un'ottima cosa. Dovrà trascorrere parecchio tempo qua dentro finché la scuola non riprenderà, e il campus si sta davvero svuotando. Ora c'è questo maniaco sessuale che circola nella zona e non potrei fare altro che correre a gambe levate e strillare come un'ossessa. «Ascolti, cos'è questa storia di Jackson che la manda in giro a sbrigare faccende per lui?» aggiunse, irritata. Scacciò della cenere dal suo seno, che era stato spinto in alto come una mensola dall'attillatissimo reggipetto. «Il suo amico Maurice può riprendersi da solo l'ombrello, non è uno storpio. Andarsene in giro da sola e a un'ora così dimenticata da Dio...» «Nessuna di noi sa nulla sullo stupratore,» disse Katje pulendo l'ultimo posacenere. «Non lasci che Jackson prenda il sopravvento su di lei, questo è tutto.»
Katje grugnì. Non era stata cresciuta per subire il sopravvento dei neri. Più tardi, mentre aiutava a tirare fuori un copricapo di pelliccia dal mucchio di soprabiti nell'atrio, sentì qualcuno che diceva, «...ottenere facilmente credito; vivere cinicamente a spese del lavoro accademico degli altri, in altri termini.» Nella sua mente si presentò l'immagine dell'alta figura del Dr. Weyland che superava con passo deciso, senza fermarsi, lo studente prostrato. Jackson scese dal tetto con gli occhi che lacrimavano. Si stava sollevando un vento umido. «Quella crepa per un po' rimarrà chiusa,» disse, ingobbendosi per soffiare sulle mani screpolate. «Ma i pezzi grossi della Edifici e Campi dovranno fare qualcosa di meglio prima del prossimo inverno. La neve si ammasserà e s'infiltrerà un'altra volta.» Katje lucidò il piatto d'argento con una pezza di flanella grigia. «Cosa sa dei vampiri?» domandò. Non aveva alcun diritto di prenderla in giro così, lui che aveva degli antenati che erano stati dei selvaggi primitivi. «Cosa sa dei vampiri?» ripeté con fermezza. «Nulla.» Jackson sogghignò. «Ma continui ad andare al cinema con Nettie e scoprirà tutto su quel genere di stronzate. Ha un gusto cinematografico incredibilmente insulso.» Katje guardò dal pianerottolo Nettie, che era appena entrata nel Club. Aveva i capelli acconciati in piccoli anelli simili alle code dei maiali. «Ha indovinato cos'ero andata a fare?» gridò. «I capelli,» disse Katje. «Li hai fatti arricciare.» Nettie appese scompostamente il soprabito all'attaccapanni e scrutò nello specchio dell'atrio. «Desideravo da mesi farmi la permanente, ma non riuscivo a mettere da parte i soldi necessari. Così la notte scorsa sono andata nel laboratorio del sonno.» Salì le scale. «Di cosa si tratta?» disse Katje, osservando più attentamente il viso di Nettie; era più pallido del solito? Sì, pensò Katje con improvvisa apprensione. «Non è niente di straordinario. Devi solo sdraiarti su un lettino: ti attaccano a quelle macchine e tu dormi. Ti svegliano continuamente nel bel mezzo dei sogni così puoi descrivere quello che sta succedendo, e poi ti fanno fare una specie di test... non ricordo, dopo è tutto un po' confuso. Al
mattino c'è una sorta di intervista molto minuziosa, poi prendi i soldi e te ne vai. Questo è tutto.» «Come ti senti?» «Okay. Ieri me la sono passata un po' male. Il Dr. Weyland mi aveva dato una lista di roba che avrei dovuto mangiare per prepararmi a quella cosa. Mi ha anche concesso un giorno libero. Aspetti un minuto, ho bisogno di fumo prima che ci dedichiamo alla biancheria.» Accese una sigaretta. «Davvero, non è stato niente di straordinario. Tornerei in un minuto a fare un'altra seduta se mi chiamassero. Un buon compenso senza fatica; non come questo.» Soffiò con insolenza una boccata di fumo verso la porta del ripostiglio della biancheria. «Qualcuno deve pur fare quello che facciamo noi,» disse Katje. «Si, ma perché noi?» Nettie abbassò la voce. «Dovremmo trascinare un paio di professori qua dentro con tutto il necessario per fare i letti e le liste dell'inventario, e noi due andremo a sederci sulle loro poltrone di pelle a bere caffè come gran signore.» Katje lo aveva già fatto in qualità di moglie di Hendrik. Quello che desiderava adesso era sedersi sullo stoep dopo una giornata di caccia, a bere e a raccontare storie di uccisioni nel crepuscolo cocente, lontano dal buco fumoso e rumoroso di una cucina: una vita alla quale Hendrik si era ribellato considerandola parassitica, limitata e opaca. Suo nonno, come quello di Katje, era emigrato dal Transvaal quando era diventato troppo noioso per lui e aveva ricominciato da capo. Katje a volte pensava che sfidare il governo, la sua gente e i nativi a proposito del futuro di quella terra era stato il modo di Hendrik di ricominciare da zero. Per quanto la riguardava, desiderava soltanto tornare nella sua stanza e alle sue vecchie abitutini. Nettie, tenendosi ancora lontana dal ripostiglio della biancheria, spense la sigaretta con la suola della scarpa. «Verrà al convegno venerdì?» Il Dr. Weyland stava tenendo una conferenza quella sera stessa, qualcosa a proposito dei sogni. Katje aveva pensato di recarvisi. Ora doveva decidere. Andare alla sua conferenza non era come andare al suo laboratorio; sembrava una cosa abbastanza innocua. «Nessun convegno universitario,» disse. «Te l'ho detto, sono tutti Rossi in quei convegni. So quello che faccio. Andrò alla conferenza pubblica del Dr. Weyland questa sera.» «Okay, se crede che sia meraviglioso fare quello che facciamo noi qui.» Nettie si strinse nelle spalle. «Per me, salterò questa conferenza e incasserò i dollari dormendo nel suo laboratorio. Dovrebbe andarci anche lei, sa? Non hanno molto da fare alla fine del semestre quando quasi tutti sono an-
dati via... la prenderebbero subito. Avrà una paga extra e del tempo libero, e inoltre la particolare gentilezza del Dr. Weyland, nella penombra. Si è chinato su di me per ficcare qualcosa nel muro, e gli ho detto, "Proceda pure, può mordermi il collo quando vuole". Sa, stava in qualche modo sospeso su di me, il suo camice di laboratorio sembrava una mantellina, minacciosa e pipistrellesca — tranne che era bianca invece che nera, naturalmente — e comunque non sono riuscita a impedirmi di dire una spiritosaggine.» Katje le rivolse un'occhiata allarmata. Nettie, senza accorgersene, la precedette nel ripostiglio e tirò fuori lo sgabello. Katje disse con cautela, «Cos'ha detto lui?» «Niente, ma ha sorriso.» Nettie salì sullo sgabello. «Ha notato come la sua bocca si piega un po' verso il basso agli angoli? Come questo lo fa sembrare truce? Be', è davvero molto serio, comunque. Quando sorride rimarrebbe sorpresa nel vedere come sembra buono; potrebbe davvero affascinare una ragazza. Ci sbrigheremo presto in questo ripostiglio, va bene? Scommetto che tutti i tipi che lavorano di notte nel laboratorio fanno sempre questo tipo di scherzi. Dopo ha detto che sperava che ci andasse anche lei.» Tirando un profondo respiro, che aveva l'odore fragrante delle lenzuola pulite, Katje disse, «Te l'ha detto lui di chiedermi di andare là?» «Mi ha detto di ricordarglielo.» La prima pila di coperte fu tirata giù dalla mensola più alta. «Accetta davvero chiunque in questo progetto?» disse Katje. «A meno che non sia malata, o se ha un metabolismo bizzarro o qualcosa del genere. Le fanno un esame del sangue, come quando si va dal medico.» Katje notò il piccolo Band-Aid rotondo sulla parte interna del gomito di Nettie, esattamente sopra la vena. Nella sala principale Miss Donelly stava dividendo una brocca di vino a buon mercato con altre tre insegnanti della facoltà. Katje si assicurò che la macchina del caffè fosse piena e quindi sgattaiolò fuori. Camminava ancora da sola quando voleva, nel campus. Non aveva paura dello stupratore, del quale non si era più sentito parlare da parecchi giorni. Una piacevole tensione la guidò verso le finestre illuminate del laboratorio. Era come muoversi nell'aria pungente della radura africana al crespucolo. La consapevolezza del pericolo era parte del piacere.
Le persiane del laboratorio, abbassate, lasciavano trapelare soltanto dei fili di luce. Non riuscì a vedere nulla. Indugiò per un momento, poi si voltò, ora con passo frettoloso. Il suo umore si era guastato, e si sentiva una sciocca. Daniel della Sicurezza sarebbe andato su tutte le furie se l'avesse colta da sola là fuori, e cosa avrebbe potuto dirgli? Che si sentiva sulle tracce di qualcosa di selvaggio, che la faceva sentire giovane? Miss Donelly e le altre stavano ancora conversando, e Katje fu lieta di sentire le loro voci stridule e le alte risa, e altrettanto lieta di non doversi sedere con loro. Non era mai stata a suo agio fra le colleghe di Hendrik ben educate. Inoltre, aveva ben altro nella mente che i pettegolezzi scolastici, e aveva bisogno di riflettere. Il suo atto impulsivo la eccitava e stupiva: uscire per raggiungere il laboratorio all'imbrunire correndo dei rischi a causa dello stupratore (la sua mente fece una netta deviazione intorno all'altro pericolo, quello immaginario), ma a che scopo? Per annusare la brezza e scrutare il terreno in cerca di tracce? Il pensiero del Dr. Weyland la ossessionava: il Dr. Weyland come l'affascinante e irrequieto visitatore che entrava furtivamente nella cucina del Club; il Dr. Weyland che spingeva via il giovane Denton con sprezzante vigore; il Dr. Weyland come il predatore senza cuore che aveva immaginato la prima volta quella mattina nell'area di parcheggio dell'edificio del laboratorio. Stava raggiungendo a piedi la fermata dell'autobus quando Jackson la ragiunse in macchina e le offrì un passaggio. Accettò volentieri. La solitudine del campus era accentuata dall'oscurità e dai cerchi di luce vuoti intorno ai lampioni. Jackson spinse di lato un guazzabuglio di attrezzi sul sedile anteriore — pezzi di radio, altoparlanti e fili elettrici — per farle spazio. Due libri stavano sul pianale accanto ai suoi pedi. «Il libro sul vudù mi è stato lasciato da mio fratello Paul. Sa, s'imbatté in questa cosa mentre cercava di rintracciare la nostra famiglia giù in Louisiana. L'altro l'ho trovato da qualche parte, e l'ho preso,» disse lui. L'altro era Dracula. Katje sfiorò il punto appiccicoso dove l'etichetta del prezzo era stata staccata. Jackson doveva averlo acquistato per lei nel negozio di libri a metà prezzo del centro. Non sapeva come ringraziarlo con disinvoltura, così non disse nulla. «È un lungo tratto a piedi fino alla fermata dell'autobus,» disse Jackson, accigliandosi mentre oltrepassava l'ingresso di pietra del viale del college.
«Avrebbero dovuto fare in modo che lei potesse alloggiare in facoltà dopo la morte di suo marito.» «È troppo grande per una persona sola,» disse Katje. A volte sentiva la mancanza della casa nella zona est del campus, ma la sua attuale abitazione lontana dalla scuola le offriva una maggiore privacy. Lui scosse la testa. «Be', io credo che sia una vergogna, dal momento che lei è un'ospite straniera, e tutto il resto.» Katje rise. «Dopo venticinque anni in questo paese, ospite?» Rise anche lui. «Sì. Be', di certo nel periodo in cui è stata qui ha subito più cambiamenti di tanti altri: da agiata signora a, be', domestica.» Lei vide il lampo del suo sogghigno. «Come mia zia che era solita fare pulizie per le donne bianche sulla collina. Le piace?» Le venne in mente quando pensava che non avrebbe mai finito di lavorare nel Club. A volte l'Africa che ricordava, le sembrava un luogo troppo nebuloso per poterci davvero tornare, e il solo futuro che poteva immaginare era quello di crollare in ginocchio mentre passava l'aspirapolvere sui tappeti del Club, come un contadino morto di fatica sull'aratro... Ma questi non erano affari di Jackson. «A sua zia piaceva il suo lavoro?» Jackson si fermò di fronte alla fermata dell'autobus. «Diceva che uno doveva solo fare ciò che gli toccava e ringraziare Dio.» «Io dico la stessa cosa.» Lui sospirò. «Lei le somiglia parecchio, per quanto folle possa sembrare questa cosa. Un giorno le farò un mucchio di domande su com'era quando viveva in Africa; voglio dire, era un po' come nei film... sa, Le Miniere di Re Salomone e simili?» Katje non aveva mai visto quel film, ma sapeva che niente nei film poteva essere come la sua Africa. «Dovrebbe andarci e vedere coi suoi occhi,» disse. «Ci sto pensando. Sta arrivando il suo autobus. Aspetti un minuto, ascolti... non esca più da sola dopo l'imbrunire, adesso non c'è abbastanza gente in giro. Attirerà l'attenzione. Non ha sentito? Quel tipo ha aggredito un'altra ragazza la notte scorsa. È riuscita a fuggire. Daniel dice di avere trovato aperta una delle porte posteriori del Club. Stia attenta, va bene? Non ho intenzione di essere costretto a irrompere per salvarla da qualche squilibrato studente alto sei piedi e scatenato, sa cosa voglio dire.» «Oh, so prendermi cura di me stessa,» disse Katje, toccata, seccata e divertita nello stesso tempo dalla sua sollecitudine.
«Sicuro. Vorrei solo che avesse una quindicina di anni in meno e studiasse karate, sa?» Mentre Katje scendeva dalla macchina coi libri sotto il braccio aggiunse, «Una volta mi ha detto di essere andata a caccia un mucchio di volte in Africa quando era ragazza; di aver maneggiato armi.» «Sì, un mucchio.» «Okay. Prenda questa.» Tirò fuori dalla tasca una cosa metallica e gliela mise in mano. Era una pistola. «Solo se sarà necessario. Sa come usarla, vero?» Lei chiuse le dita sulla forma compatta di quella cosa. «Ma dove se l'è procurata? Ha un permesso? Le leggi sono molto restrittive qui...» Jackson chiuse la porta con uno strattone e aggiunse attraverso il finestrino aperto, «Non mi parli di "legge", si limiti a restituirmi questa dannata cosa. No? Okay, allora, si sbrighi se non vuole perdere l'autobus.» Dracula era un libro ridicolo. Dovette costringersi a leggerlo a dispetto di quell'assurdo personaggio di Van Helsing col suo inglese idiota... un insulto a chiunque fosse di discendenza olandese. Il libro sul vudù era impenetrabile, e lo abbandonò subito. La pistola era un'altra questione. Si sedette al tavolo nel suo cucinino e accese la piccola e luccicante lavatrice automatica, pensando a come aveva fatto Jackson a procurasi quella pistola? E, se è per questo, a come poteva permettersi quella lussuosa macchina sportiva e l'attrezzatura che vi trasportava di volta in volta... da dove proveniva e dove era destinata? Doveva dedicarsi a qualche misteriosa attività, probabilmente a parecchie attività, quelle che oggigiorno chiamano «estorsioni». Averle dato quella pistola era stata un'ottima cosa. Portarla in giro con lui avrebbe potuto soltanto procurargli dei guai. Le sapeva maneggiare le armi, e di certo, con uno stupratore in circolazione, le autorità avrebbero mostrato comprensione per il fatto che non aveva un porto d'armi. La pistola aveva bisogno di essere pulita. Katje fece del suo meglio senza gli strumenti appropriati. Era una calibro 25 di basso prezzo. Laggiù a casa, la sua arma era un bellissimo fucile, fatto per abbattere un rinoceronte alla carica, non un tozzo giocattolino nichelato come questo buono solo ad impaurire rapinatori e stupratori. Eppure non le dispiaceva averla. Il fucile da caccia che aveva portato con sé dall'Africa anni prima era in deposito con le altre cose insolite provenienti dalla vecchia casa nel campus. Aveva sentito la mancanza di quel fucile, ultimamente. Ne aveva sentito la mancanza perché, realizzò adesso
con un piccolo palpito nervoso del cuore, si era trovata a inseguire furtivamente un animale pericoloso. Stava inseguendo il Dr. Weyland. Andò a dormire con la pistola sul comodino accanto al suo letto e si svegliò per sentire il ruggito, così avrebbe saputo in quale direzione cercare le tracce del leone il giorno dopo. C'era un intenso odore di polvere africana nell'aria, e lei si alzò a sedere sul letto, riflettendo. Lui era stato là. Ma no, era stato un sogno. Così vivido! Andò ad affacciarsi alla finestra della facciata senza accendere la luce, e la familiare strada sottostante le parve irreale. Il cuore le martellava nel petto. Non che l'avesse seguita fino a Dewer Street, ma aveva mandato Nettie al Club, e adesso aveva mandato questo sogno nel suo sonno. Le creature che si braccano l'un l'altra senza sosta si sentono legate mentalmente. Ma questo succede in un'altra vita. Stava perdendo forse la testa? Lesse per un po' la Bibbia Africana che aveva portato con sé da casa, che in tempi recenti aveva aperto così di rado. Ma ciò che alla fine la confortò fu mettere l'automatica di Jackson nella borsa per portarla con sé. Si presumeva che una pistola non servisse contro un vampiro — ci voleva un paletto di legno, ricordò di aver letto, o dovevi staccargli la testa per ucciderlo — ma il peso dell'arma nella borsetta la rassicurò. La sala delle conferenze era piena malgrado la scarsità di studenti in quel periodo dell'anno. Queste conferenze speciali venivano aperte anche ai cittadini. Il Dr. Weyland lesse la sua relazione con modi rigidi e sbrigativi. Stava leggermente appoggiato al leggìo, che era basso per la sua statura, e pronunciava bruscamente le frasi, sollevando di rado lo sguardo dalle sue annotazioni. Coi suoi occhiali dalla montatura pesante era l'immagine dello studioso recluso, strappato ai suoi studi e trascinato nelle luci della ribalta. Ma Katje vide più di questo. Vide la fluidità del suo braccio quando prese al volo un foglio vagante delle annotazioni, la facilità quasi sprezzante con cui stabilì il suo controllo sull'uditorio. La sua conferenza fu breve; adempì con evidente impazienza il dovere imposto a ogni membro della facoltà di tenere un discorso pubblico ogni anno su un aspetto del suo lavoro, in questo caso «La Demonologia dei Sogni». Alla fine qualcuno fece delle domande, la maggior parte delle quali destinata evidentemente a mettere in evidenza l'intelligenza di colui che le poneva piuttosto che a ottenere delle informazioni. Le discussioni che seguivano queste conferenze erano considerate lo spettacolo vero e proprio.
Katje, che si era quasi addormentata a causa di quei discorsi astratti, si svegliò di colpo quando un giovane chiese, «Professore, ha mai preso in considerazione la possibilità che le leggende riguardanti creature soprannaturali come i licantropi, i vampiri e i draghi siano in realtà alterazioni degli incubi — che forse le leggende riflettono l'esistenza di reali, anche se rari, prodigi evolutivi?» Il Dr. Weyland esitò, tossicchiò, bevve dell'acqua. «Le forze dell'evoluzione sono capaci di prodigi, certo,» disse. «Ha scelto una parola eccellente. Ma dobbiamo renderci conto che non stiamo parlando — nel caso del vampiro, per esempio — di un fantasma succhiasangue che si ritrae davanti a uno spicchio d'aglio. Ora, la natura come potrebbe progettare un vampiro? «Il vampiro reale, se esistesse, sarebbe per definizione il più grande dei predatori, dal momento che vivrebbe all'apice della catena alimentare. L'uomo è l'animale più pericoloso, il divoratore o distruttore di tutti gli altri, e il vampiro depreda l'uomo. Ora, qualsiasi vampiro assennato sceglierebbe di evitare i rischi delle aggressioni agli esseri umani spillando sangue agli animali inferiori, se potesse; ma non può. Forse il sangue degli animali può aiutarlo ad andare avanti per un po', come l'acqua di mare può sostenere il naufrago per pochi miserabili giorni, ma non può sostituire definitivamente l'acqua fresca da bere. L'umanità rimarrebbe comunque il bestiame del vampiro, sebbene indocile e pericolosa da trattare, e lui sarebbe costretto a vivere dov'essa vive. «Nel mondo antico scarsamente popolato avrebbe dovuto rimanere nei pressi di una città o di un villaggio per assicurarsi i rifornimenti di cibo. Avrebbe imparato a vivere nella maniera più frugale che poteva — forse mezzo litro di sangue al giorno — dal momento che difficilmente avrebbe potuto lasciare una scia di cadaveri dissanguati e restare inosservato. Periodicamente si sarebbe ritirato per sua sicurezza e per dare agli abitanti del villaggio il tempo di dimenticare le sue piraterie. Un sonno lungo per diverse generazioni gli avrebbe garantito una popolazione incauta e ignorante nel medesimo luogo. Avrebbe dovuto essere in grado di rallentare il suo metabolismo, per indurre in se stesso, naturalmente, uno stato di animazione sospesa. La mobilità nel tempo sarebbe diventata la sua alternativa alla mobilità nello spazio.» Katje ascoltava con molta attenzione. La sua audacia nel parlare in quella maniera la eccitava. Si era accorta che lui cominciava a divertirsi in quel gioco, e si trovava sempre più a suo agio sul podio man mano che si ap-
passionava a quell'argomento. Abbandonò il leggìo, s'infilò con disivoltura le mani in tasca, ed esaminò i suoi ascoltatori con sguardo altero. Katje ebbe la sensazione che si stesse prendendo gioco di loro. «Le funzioni vitali rallentate del vampiro durante questi lunghi periodi di riposo potrebbero aiutarlo ad allungare la sua vita; potrebbe vivere per lunghi periodi, sveglio o addormentato, al limite dell'inedia. Sappiamo che un'alimentazione minimale produce una straordinaria longevità in altre specie. Una vita lunga sarebbe un'alternativa estremamente desiderabile alla riproduzione; prosperando al meglio col minimo di competizione, il grande predatore non avrebbe alcun desiderio di generare i suoi stessi rivali. Potrebbe non essere vero che il suo morso trasformi le sue vittime in vampiri simili a lui...» «Altrimenti tutti i nostri colli sarebbero incisi dai canini,» sussurrò qualcuno dell'uditorio in maniera abbastanza udibile. «I canini sono troppo visibili e poco efficaci per succhiare il sangue,» osservò il Dr. Weyland. «Canini grossi e appuntiti sono più adatti a lacerare la carne. Le versioni polacche della leggenda del vampiro vanno probabilmente più vicine al bersaglio: parlano di una sorta di dispositivo perforante, forse un ago nella lingua simile a un pungiglione che secernerebbe una sostanza anticoagulante. In tale modo il vampiro potrebbe sigillare le labbra intorno a una ferita minima e succhiare tranquillamente il sangue invece di essere costretto a praticare squarci zampillanti ed inutili sulla sua preda sfortunata.» Il Dr. Weyland sorrise. I membri più giovani della platea emisero appropriati conati di vomito. Il vampiro, dormirebbe in una bara, chiese qualcuno. «Certamente no,» ribatté il Dr. Weyland. «Lo farebbe lei, se potesse scegliere? Il vampiro reale avrebbe bisogno di un facile collegamento col mondo, che è qualcosa che le normali inumazioni sono proprio destinate a impedire. Potrebbe ritirarsi in una caverna o riposarsi all'interno di un albero come Merlino, o come Ariel in un pino spaccato, ammesso di poter trovare un albero o una caverna al sicuro dagli animali selvaggi e dai bulldozer delle società immobiliari. Localizzare un luogo sicuro per un lungo riposo è chiaramente un problema per il nostro vampiro dell'era moderna.» Sollecitato ad indicarne altri, prosegui, «Riflettete: ad ogni risveglio è costretto ad adattarsi rapidamente al nuovo ambiente, un compito, possiamo immaginarlo, che è diventato progressivamente più difficile con la rapida accelerazione delle trasformazioni culturali dalla Rivoluzione Industriale in poi. Nell'ultimo secolo e mezzo ha dovuto senza dubbio limitare
il suo sonno a periodi sempre più brevi per timore di perdere completamente il contatto — una privazione che non può aver migliorato il suo umore. «Dal momento che stiamo pensando ad una creatura naturale piuttosto che soprannaturale, lui invecchia, ma molto lentamente. Quindi, ogni nuovo adattamento è più impegnativo e gli chiede di più — più immaginazione, più energia, più astuzia. Mentre deve adattarsi abbastanza per dissimulare la sua esistenza anomala, non deve soccombere alle ideologie correnti di Destra e Sinistra — cioè, allo slogan dell'individualismo o a quello dell'infallibilità delle masse — per evitare che l'una o l'altra di queste ideologie interferiscano con l'esercizio delle sue attività predatorie di sopravvivenza.» Vale a dire, pensò trucemente Katje, che non può permettersi scrupoli morali nel bere il nostro sangue. Adesso lui stava misurando a grandi passi la pedana, passi senza rumore e andatura leggiadra che proclamavano la sua vera natura. Ma quella gente era affascinata, rapita dalla sua autorità, felice di essere dominata da lui. Non vedevano nulla della sua minaccia, soltanto la bellezza del suo acuto sguardo di falco, e la sua gaiezza di pantera. Emrys Williams suscitò delle risatine imbarazzate quando disse che un vampiro indolente avrebbe sempre potuto prendersi in casa un'istruttrice giovane e graziosa, per farsi mostrare tutti i nuovi sviluppi nelle relazioni interpersonali. Il Dr. Weyland lo fissò con uno sguardo gelido. «Lei sta mescolando cibo e sesso,» gli fece notare, «e non è, presumo, la prima volta.» Scroscio di risa. Williams — il «mansueto Gallese Selvaggio del Dipartimento Letterario» per i suoi colleghi detrattori — assunse un gratificante colore rosso. Uno degli associati del Dr. Weyland di Antropologia rilevò con prolissità asfissiante che il vampiro, nato in tempi antichissimi, sarebbe diventato pericolosamente appariscente a causa della statura bassa dal momento che la razza umana diventava più alta. «Non necessariamente,» fece notare il Dr. Weyland. «Ricordi che stiamo parlando di una forma fisica altamente specializzata. Può darsi che durante i suoi periodi di veglia il suo metabolismo sia così sensibile da rispondere agli stimoli dell'ambiente accrescendosi nel corpo come nella mente. Forse mentre è sveglio il suo intero essere esiste a un livello intenso di attività e trasformazione interne. Lo stress dovuto a questa grande attività febbrile
per mettersi al pari tutto in una volta con l'evoluzione fisica, mentale e culturale, dev'essere enorme. Oggigiorno avrebbe bisogno dei suoi lunghi sonni come periodo di recupero da questo sforzo.» Lanciò un'occhiata all'orologio da parete. «Come potete vedere con l'esercizio di un po' d'immaginazione e di logica abbiamo prodotto una creatura con delle somiglianze superficiali col vampiro della leggenda, ma fondamentalmente diversa dai vostri usuali cadaveri ambulanti con un'avversione per le croci. Ci sono domande sul nostro argomento, i sogni?» Ma nessuno aveva intenzione di abbandonare questo volo della fantasia. Un giovane domandò quale spiegazione dava il Dr. Weyland delle superstizioni a proposito di croci e aglio e così via. Il professore fece una pausa per bere acqua dal bicchiere che aveva a portata di mano. L'uditorio aspettava in un silenzio assoluto. Katje ebbe la sensazione che avrebbero aspettato un'ora senza protestare, tanto li aveva affascinati. Finalmente disse, «Gli uomini primitivi che avessero incontrato per la prima volta il vampiro, essendo inconsapevoli di essere loro stessi un prodotto dell'evoluzione non avrebbero potuto immaginare minimamente che lo fosse anche lui. Avrebbero inventato delle storie per spiegare la sua esistenza, e per cercare di controllarlo. Agli inizi avrebbe potuto credere lui stesso ad alcune di queste leggende — la pallottola d'argento, il paletto di quercia. Risvegliandosi finalmente in un'epoca meno ingenua, avrebbe abbandonato queste nozioni, proprio come hanno fatto tutti. Avrebbe anche potuto sviluppare un interesse verso le sue origini e la sua evoluzione.» «Non si sarebbe sentito solo?» chiese sospirando una ragazza che stava nel corridoio laterale, in un atteggiamento che manifestava chiaramente il desiderio di confortare quella solitudine. «La giovane signora mi perdonerà,» rispose il Dr. Weyland, «se faccio notare che questo è un interrogatorio tipico di un'esistenza tranquilla. I predatori per natura non indulgono a questa sorta di fantasticherie romantiche che gli umani attribuiscono loro. Il nostro vampiro non avrebbe tempo per le ubbie. A ogni risveglio ha sempre più cose da imparare. Forse un giorno il mondo tornerà a un ritmo ragionevole di trasformazione, permettendogli di avere un po' di tempo libero in cui avvertire la solitudine o qualsiasi cosa gli vada.» Una ragazza nervosa azzardò l'opinione che un vampiro in perpetua condizione di autodidatta avrebbe dovuto sempre cercarsi un posto all'interno delle istituzioni scolastiche al fine di aver accesso alle informazioni
di cui necessitava. «Abbastanza esatto,» convenne seccamente il Dr. Weyland. «Forse un'università, dove uno studio accanito e le altre eccentricità dell'intelletto attivo sarebbero rientrati nel comportamento di un uomo fatto. Anche un'istituzione modesta come il Cayslin College potrebbe servire.» Sotto il brusio che seguì venne formulata una domanda a voce troppo bassa perché Katje potesse sentirla. Il Dr. Weyland, che si era chinato per sentire, si raddrizzò e annunciò sardonicamente, «La signora desidera da me un commento sulla "superbia Satanica" del vampiro. Madame, qui entriamo nell'area dell'immaginazione letteraria e dei suoi espedienti, dove non oso avventurarmi sotto gli occhi dei miei colleghi del Dipartimento di Inglese. Forse mi perdoneranno se faccio semplicemente rilevare che una tigre che cade addormentata nella giungla e al risveglio trova una fiorente città sorta intorno alla sua tana non ha energie da sprecare per manifestazioni di superbia Satanica.» Gran Dio, che autocontrollo! pensò Katje, divisa fra l'indignazione e l'ammirazione. Desiderava che lui la guardasse, così avrebbe visto la consapevolezza su almeno una faccia, avrebbe capito che quella notte non aveva sventolato il suo vero essere solo davanti a occhi ciechi. Di certo avvertiva la sfida, di certo si sarebbe voltato... Williams, deciso ad avere l'ultima parola come sempre, parlò ancora una volta: «Il vampiro come viaggiatore nel tempo — dovrebbe scrivere fantascienza, Weyland.» Questo provocò uno scroscio crescente di applausi, segno della fine della serata. Katje si affrettò ad uscire con la folla e si allontanò per fermarsi sotto il portico dell'Union Building mentre il suo cuore agitato si calmava. La macchina del Dr. Weyland era all'altro lato della strada, luccicante alla luce dei lampioni. Per lui, pensò, non era solo una macchina ma l'accesso alla mobilità fisica e una moderna necessità meccanica che era riuscito a padroneggiare. Era certa che lui la pensava in questo modo. Ormai conosceva qualcosa della sua mente. Nel deflusso dell'uditorio giunse Miss Donelly e le chiese se avesse bisogno di un passaggio. Katje spiegò che un gruppo di donne del personale della cafeteria andava a giocare a bowling ogni venerdì sera e che avevano promesso di fare una deviazione e di passarla a prendere. «Aspetterò con lei per ogni eventualità,» disse Miss Donelly. «Sa, William il Selvaggio è un idiota, ma aveva ragione: il vampiro di Weyland sarebbe un viaggiatore nel tempo. Potrebbe solo andare nel futuro, natural-
mente, mai nel passato, e solo con balzi lunghi e imprevedibili — questa volta, diciamo, nella nostra epoca che ci piace definire di meraviglie tecnologiche; forse la prossima, nell'era dei viaggi interstellari. Chissà, potrebbe assaggiare il sangue marziano, se ci fossero i marziani e se avessero il sangue. «Francamente, non avrei mai immaginato che Weyland potesse uscirsene con un'improvvisata fantasiosa come questa — il vampiro come una sorta di tigre dai denti a sciabola sopravvissuta, che si aggira sui marciapiedi in cerca di preda, una specie davvero in estinzione. La prossima scritta sulle T-shirt sarà questa: "Salvate il Vampiro".» Non era assolutamente il caso di confidarsi con Miss Donelly. Avrebbe potuto fare dell'ironia, ma non ci avrebbe mai creduto. Per lei era tutto uno scherzo, un intelligente gioco intellettuale inventato dal Dr. Weyland per divertire il suo pubblico. Non poteva accorgersi, come Katje, che lui era un mostro che si divertiva giocando con la sua preda. Miss Donelly aggiunse mestamente. «Bisogna riconoscere che ha una straordinaria presenza scenica, e che sa davvero affascinare quando vuole. Niente affatto mellifluo, non crede — solo una cortesia risoluta e leggermente caustica quanto basta per far battere i cuori sensibili. Potresti quasi dimenticare che bastardo spietato ed egocentrico riesce a essere. Ha notato che la maggior parte dei commenti sono venuti dalle donne? «È il suo passaggio quello?» Lo era. Mentre le donne nella station wagon si scostavano per farle spazio, Katje stava con la mano appoggiata allo sportello e osservava il Dr. Weyland che emergeva dall'edificio circondato dai suoi studenti-fan. Torreggiava su di loro, i capelli argentei investiti dalla luce dei lampioni. Per gente supercivilizzata come loro sperimentare l'approccio di un predatore così attraente, da un punto di vista sessuale, non era strano. Lei rammentò Scotty che una volta affermò che i grandi felini erano tutti belli, e forse la bellezza li aiutava a catturare le loro prede. Il Dr. Weyland voltò la testa, e Katje pensò per un momento che la stava guardando mentre entrava nella station wagon. Fu presa dalla paura. Cosa poteva fare per difendersi da lui, come poteva mettere in guardia gli altri senza che pensassero che era semplicemente matta? Non riusciva a pensare fra le divagazioni stanche e soddisfatte delle appassionate di bowling, e rifiutò cortesemente l'invito di restare e socializzare con loro. Non insistettero.
Seduta da sola a casa, Katje bevve una tazza di latte caldo per calmarsi e propiziarsi il sonno. Con sua perplessità, la mente cominciò a vagare dai pensieri sul Dr. Weyland alla cioccolata bevuta di notte con Hendrik e agli studenti africani che era solito invitare a cena. Per lei erano stati dei ragazzi del luogo, per l'abbigliamento e per come parlavano di politica come i bianchi, che scattavano fotografie dei ragazzini neri che giocavano con piccoli camion e walkie-talkie. A volte erano andati a vedere tutti insieme dei documentari su un'Africa piena di città, di traffico e di professionisti neri che esortavano, spiegavano e facevano funzionare cose, come loro stessi si proponevano di fare una volta tornati a casa. Ripensò alla sua casa. Ricordò con chiarezza tutti quei momenti di cambiamento in Africa, e si rese conto improvvisamente che il modo di vivere di un tempo non esisteva più. Sarebbe tornata in un'Africa straniera per lei, come lo era stata l'America all'inizio. Con riluttanza ammise che una delle sensazioni che aveva provato mentre ascoltava la conferenza del Dr. Weyland era stata un'empatia involontaria: se lui era un viaggiatore nel tempo a senso unico, lo era anche lei. Si vide strappata alla vecchia vita della forza fisica, dei fiumi, della selvaggina, dell'aria fumosa del villaggio, tutto visto dalla posizione di privilegio dei bianchi. Per perdere il proprio mondo, di questi tempi, non è necessario dormire per mezzo secolo; basta diventare più vecchi. La mattina dopo trovò il Dr. Weyland appoggiato, con le mani in tasca, a una delle colonne che fiancheggiavano l'ingresso del Club. Si fermò a qualche iarda da lui, con la borsa che oscillava pesantemente dal suo braccio. Era presto, e il campus appariva deserto. Stai calma, pensò; non mostrare di aver paura. Lui la guardò, «L'ho vista dopo la conferenza ieri notte e, all'inizio della settimana, davanti al laboratorio una sera. Dovrebbe fare qualcosa di meglio che vagabondare da sola di notte; il campus è vuoto, non c'è nessuno in giro... potrebbe accadere qualsiasi cosa. Se è curiosa, Mrs. de Groot, venga a fare una seduta per me. Tutte le sue domande avranno risposta. Venga stanotte. Posso aspettarla qui nella mia macchina mentre torno al laboratorio dopo cena. Non ci sono problemi di inserimento in elenco, e la sua compagnia sarebbe gradita. In questo periodo il laboratorio è vuoto. Non ho volontari. Sono rimasto seduto da solo per tutte queste notti nella speranza che qualche giovincello impoverito, non avendo la possibilità di permettersi un viaggio a casa, sarebbe stato spinto da un desiderio incon-
trollabile di viaggiare a venire nel mio laboratorio per guadagnarsi il biglietto.» Lei sentì la paura e l'eccitazione battere forte nel suo corpo. Scosse la testa... no! «Il mio lavoro le interesserebbe, credo,» aggiunse lui, osservandola. «Lei è una donna sveglia e abile; qui stanno sprecando le sue qualità. Non avrebbe potuto trovarle un lavoro migliore il college dopo la morte di suo marito? Potrebbe prendere in considerazione l'idea di venire ad aiutarmi regolarmente in qualche lavoro di routine, finché non avrò un nuovo assistente. La pagherò bene.» Stupefatta, oltre che terrorizzata, per l'offerta di un lavoro nella tana del vampiro, ritrovò la voce. «Sono una donna di campagna, Dr. Weyland, figlia di contadini. Non ho una cultura adeguata. Non abbiamo mai letto libri a casa, eccetto la Bibbia. Mio marito non ha voluto che lavorassi. Ho trascorso il mio tempo in questo paese a imparare l'inglese, a cucinare e a far bene gli acquisti. Non ho particolari capacità, né conoscenza, se non quel poco che ricordo delle piante, del clima, dei costumi, della fauna di un altro paese — e anche tutto questo probabilmente è sorpassato. Non potrei essere di alcuna utilità in un lavoro come il suo.» Aggobbito nel suo soprabito col colletto rialzato, lo sguardo leggermente obliquo, i capelli arruffati che luccicavano per l'umidità, Weyland aveva l'aspetto di un vecchio falco, deciso ma indifferente. Cambiò posizione, sbadigliò dietro la mano larga e nodosa, e si raddrizzò. «Come vuole. Sta arrivando la sua amica Nellie.» «Nettie,» lo corresse Katje, improvvisamente indignata: aveva bevuto il sangue di Nettie, il minimo che poteva fare era di ricordarne con esattezza il nome. Ma si stava allontanando sul prato in direzione del laboratorio. Nettie arrivò ansimando. «Chi era quello? Ha tentato di aggredirla?» «Era il Dr. Weyland,» disse Katje. Sperava che Nettie non notasse il suo tremito. Nettie scoppiò a ridere. «Cos'è questo, un idillio segreto?» Miss Donelly fece il suo ingresso in cucina sul finire del pranzo in onore dell'insegnante in congedo. Si sedette pesantemente fra Nettie e Katje, che stavano rispettivamente facendo una pausa e preparando il dessert. Katje stava versando con cura delle cucchiaiate di panna montata in ogni coppa di frutta. Miss Donelly disse, «Nel caso più tardi io sia troppo sbronza per dirlo,
grazie. In rapporto alla somma che ho messo a vostra disposizione, avete fatto meraviglie. Il Dipartimento organizzerà qualcosa di ufficiale con Beef Wellington e tutti i fronzoli da Borchard's. Ma per alcune di noi è stato davvero importante offrire a Sylvia il nostro banchetto alcolico di addio, che non avremmo potuto realizzare senza il vostro aiuto.» Nettie annuì e spense la sigaretta. «Il piacere è stato nostro,» disse Katje, preoccupata. Il Dr. Weyland era venuto per lei, sarebbe tornato di nuovo; toccava a lei affrontarlo, ma come? Non pensava più di dividere con qualcun altro la sua paura, né con Nettie che era tutta presa dalle sue preoccupazioni finanziarie, né con Miss Donelly i cui occhi in quel momento avevano un leggero velo dovuto all'alcool. Weyland il vampiro non avrebbe potuto essere accolto da un comitato. «Le ultime notizie,» aggiunse con amarezza Miss Donelly, «sono che il Dipartimento ha in animo di riempire il posto vuoto di Sylvia con un tipo che viene dall'Oregon; il che vuol dire che lo stipendio aumenterà della metà o più nel giro di sei mesi.» «Sono cavoli loro,» disse Nettie, senza molta allegria. E colse negli occhi di Katje uno sguardo che diceva, Guarda chi fa i soldi e chi si lamenta. «Cavoli loro,», convenne, tetra, Miss Donelly. «Per quanto riguarda me, nessun passaggio in ruolo, così continuerò a scivolare verso il basso. Io e la mia boccaccia. Wacker è quasi svenuto ascoltando i miei suggerimenti per porre fine agli stupri: intrappolare il tipo, sbudellarlo e appenderlo per le palle al cancello. Il nostro buon preside non mi conosce abbastanza bene per realizzare che è tutta una facciata. Per conto mio sarei troppo pietrificata per tentare alcunché se non cercare di dissuadere il bastardo; sapete, "Adesso lasciami rimettere il vestito e io preparerò per tutti e due una tazza di caffè, e tu mi dirai perché odi le donne".» Si alzò. «Avete sentito cos'è accaduto a quella ragazza la notte scorsa, l'ultima vittima? Le ha tagliato la gola. Le ha strappato via i pantaloni, ma non si è neppure preoccupato di violentarla. Ciò dimostra com'è affamato di sesso.» «Jackson ci ha parlato dell'omicidio questa mattina,» disse Katje. «Jackson? Ah, della Edifici e Campi. State attente, potrebbe anche essere lui. Uno qualunque di loro, maledetti,» borbottò con violenza mentre si allontanava, «che vivono sulle nostre spalle, e scostano a calci il nostro corpo quando hanno finito...»
Uscì con passo malfermo dalla cucina. Nettie sbuffò. «È sempre stata una femminista. Nessuna meraviglia che Wacker stia cercando di sbarazzarsi di lei. Alcuni uomini si comportano come porci, ma non possiamo diventare delle mangiauomini. Un uomo è l'unica opportunità che ha la maggior parte delle ragazze per farsi strada nel mondo, sa?» S'infilò un paio di guanti giallo-acido e si diresse verso il lavandino. «Se voglio buttare per sempre questi guanti di gomma, devo sposare un tipo che possa permettersi di pagare una cameriera.» Katje stava seduta e fissava le coppe di frutta con sopra la panna montata. Era proprio come diceva la Bibbia: sentì che accadeva... il velo le cadde dagli occhi. Vide con chiarezza e pensò, Sono una sciocca. La cattiva paga è realtà, lo stupro è realtà, l'assassinio è realtà. Il mondo reale si preoccupa dei pericoli reali, non delle fantasie infantili di un predatore notturno che beve sangue. Il Dr. Weyland si è preso la briga di interessarsi, di offrirmi un lavoro extra, mentre io pensavo... cose idiote su di lui. Da dove provengono queste mie assurdità? La mia vita è incolore da quando Hendrik è morto; cosi ho inventato una storia drammatica nella mia mente, e in tal modo ho immaginato che il Dr. Weyland, un gentiluomo distinto e colto, fosse interessato a me. Decise che più tardi si sarebbe recata nell'edificio del laboratorio e gli avrebbe lasciato un biglietto, delle scuse per la sua riluttanza, un'offerta di tornare quanto prima per prendere un appuntamento al laboratorio del sonno. Nettie guardò l'orologio e disse sopra la spalla, «È l'ora di portare il dessert alle signore.» Finalmente le donne andarono via, lasciando dietro di loro la solita nebbia di fumo. Katje e Nettie avevano appena terminato di pulire. Katje disse, «Esco a prendere un po' d'aria.» Nettie, avvolta dal fumo da lei stessa espirato, sonnecchiava in una delle grandi sedie del soggiorno. Scosse la testa. «Non io. Sono a pezzi.» Si alzò a sedere. «Oppure vuole che venga con lei? C'è ancora luce fuori, per cui non corre rischi con lo Stupratore di Cayslin.» «Non si disturbi,» disse Katje. Sul margine più lontano del prato tre studenti danzavano sotto la forma volante di un frisbee. Katje guardò il sole, un disco argenteo dietro una porzione sottile di nuvole; c'era pioggia in arrivo, probabilmente. Il campus aveva ancora un aspetto desertico. Katje non era preoccupata. Non
c'era nessun vampiro, e la pistola nella borsetta sarebbe stata sufficiente per qualsiasi altra cosa. Il laboratorio del sonno era chiuso. Infilò il biglietto di scuse fra la porta del laboratorio e lo stipite e se ne andò. Mentre si avviava sul prato qualcuno le si avvicinò alle spalle, e delle lunghe dita si strinsero sul suo braccio: era il Dr. Weyland. Con fermezza e senza parlare la fece tornare indietro verso il laboratorio. «Cosa sta facendo?» disse lei, stupefatta. «Stavo quasi per partire senza vederla. Venga a sedersi nella mia macchina, voglio parlare con lei.» Lei si fermò, allarmata, e lui le diede uno strattone. «Non è il caso di innervosirsi. Non c'è nessuno qua intorno che possa vederci.» C'era solo la sua macchina nel parcheggio: anche i giocatori di frisbee se n'erano andati. Il Dr. Weyland aprì lo sportello della Mercedes e fece salire Katje sul sedile anteriore del passeggero con una spinta lesta e vigorosa del braccio. Lui si sedette sul sedile del guidatore, fece scattare le sicure automatiche, e appoggiò il dorso allo schienale. Alzò lo sguardo sul cielo grigio, poi sul suo orologio da polso. Katje disse, «Voleva dirmi qualcosa?» Lui non rispose. «Cosa stiamo aspettando?» disse lei. «Che il custode chiuda i laboratori e se ne vada. Mi secca essere interrotto.» È questo che gli piace, pensò Katje, avvertire l'indifferenza letargica che s'insinua dentro la preda paralizzandola. Nessun potere ipnotico partorito dall'immaginazione di un romanziere la irretiva, solo l'incantesimo gettato sulla preda dal felino a caccia, lo shock di essere ghermita dalle fauci mortali senza che neppure una goccia di sangue fosse spillata. «Interrotto,» sussurrò. «Sì,» disse Weyland, voltandosi verso di lei. Katje vide la brama manifesta nel suo sguardo. «Interrotto in qualsiasi cosa mi piaccia fare con lei. È sul mio terreno adesso, Mrs. de Groot, dove si è ostinata a venire ripetutamente. Non posso continuare ad aspettare che lei si decida. È sana — ho letto le sue note personali — e io ho fame.» La macchina odorava di metallo freddo, pelle e tessuto di tweed. Finalmente un uomo uscì dall'edificio del laboratorio e si chinò per far scattare il lucchetto della catena dell'unica bicicletta nella rastrelliera. Poiché il Dr. Weyland cambiò posizione sul sedile, Katje capì che quella era l'uscita che
stava aspettando. «Guarda quell'idiota,» borbottò lui. «Aveva intenzione di restare tutta la notte?» Weyland si voltò inquieto verso le finestre del laboratorio. Quello sarebbe stato il luogo, pensò Katje, dopo un colpo incruento per stordirla — non avrebbe voluto disordine nella sua Mercedes. Nella sua apatia era certa che egli aveva aggredito quella ragazza, aveva bevuto il suo sangue, e poi l'aveva uccisa. Stava utilizzando l'attività di stupratore come una copertura. Quando non venivano soggetti nel suo laboratorio, la fame lo spingeva fuori a caccia. Katje pensò, Ma anch'io sono una cacciatrice! Una fredda rabbia fluì dentro di lei. I suoi pensieri volorano: aveva bisogno di tempo, di un attimo lontano dalla portata del vampiro per pianificare la sua sopravvivenza. Doveva uscire dalla macchina — qualsiasi sotterfugio sarebbe andato bene. Deglutì e si voltò verso di lui, gracchiando, «Sto per vomitare.» Weyland imprecò con furia. Le serrature scattarono; egli si allungò rudemente e spalancò lo sportello dalla parte di lei. «Fuori!». Katje uscì barcollando nell'aria piovigginosa e gelida e fece diversi passi rapidi all'indietro, stringendosi al corpo la borsetta come uno scudo e guardando freneticamente intorno. L'uomo sulla bicicletta era andato via. Al piano superiore del Cayslin Club, al di là del prato, c'era una luce accesa — forse Nettie adesso stava notando la sua assenza. Forse Jackson era appena arrivato per dare loro un passaggio. Ma nessun aiuto sarebbe arrivato in tempo. Il Dr. Weyland era sceso dalla macchina. Stava con le braccia incrociate sul tettuccio della Mercedes, e la guardava con un misto di noia e disprezzo. «Mrs. de Groot, crede di poter correre più lesta di me?» Girò intorno al muso della macchina e si diresse verso di lei. La voce di Scotty risuonò calma nell'orecchio di Katje: «È tuo,» disse, mentre il leopardo si tendeva per caricare. Anche Weyland era un animale, non un mostro immortale uscito da una leggenda — solo un animale selvaggio, sebbene astuto e forte e affamato. Lo aveva detto lui stesso. Estrasse di scatto la pistola automatica, preparandola a far fuoco mentre la portava rapidamente al livello dell'occhio con entrambe le mani. La sua mente le diceva, calma, che un colpo alla testa sarebbe stato l'ideale ma sarebbe stato più sicuro se avesse mirato al torso. Sparò due volte, due pallottole in rapida successione, una al torace e una all'addome. Weyland non cadde ma si piegò per stringere il suo corpo lace-
rato, e urlò al punto che lei rimase troppo scossa per tener salde le mani in vista del successivo colpo alla testa: le sue urla erano spaventose. Era trascorso molto tempo da quando aveva colpito il suo ultimo bersaglio. Si udì un rumore di passi rigidi alle sue spalle, delle braccia si gettarono intorno a lei immobilizzandole le mani contro i fianchi cosicché la pistola puntò verso il suolo. La voce di Jackson disse ansimando nel suo orecchio, «Gesù Cristo!» La sua macchina stava di sbieco nel punto dove lui l'aveva fermata, senza che Katje sentisse. Nettie saltò giù e corse verso Katje, gridando, «Mio Dio, è stato colpito, gli ha sparato!» Ponendo fine alle urla, Weyland si allontanò da loro vacillando, aggirò la sua macchina e vomitò appoggiato al cofano. La sua faccia, una maschera con le guance infossate e scarne, li fissava con la bocca spalancata. «È lui?» disse Jackson, incredulo. «Lui ha tentato di violentarla?» Katje disse, «No, è un vampiro.» «Un vampiro!» esplose Jackson. «È diventata matta? Gesù.» Weyland ansimò, «Smettetela di guardare, bestie!» Si lasciò cadere pesantemente sul sedile di guida della sua macchina. Lo videro accasciarsi, con la fronte contro la curva del volante. Il sangue macchiò la tappezzeria della Mercedes dove lui si era appoggiato. «Mrs. de Groot, mi dia la pistola,» disse Jackson. Katje serrò le dita intorno al calcio. «No.» Si rendeva conto, dal modo in cui le braccia di Jackson la stringevano, che lui aveva paura di lasciarla andare per afferrare l'arma. Suonò una sirena. Nettie gridò con eccitato sollievo, «È la macchina di Daniel che sta arrivando!» Weyland sollevò la testa. Il suo volto grigio era rigido per la determinazione. Ringhiò, «La portiera... uno di voi chiuda la portiera!» La sua faccia colma di odio li dominò. Nettie accorse, chiuse la portiera, e indietreggiò, pulendosi la mano sul maglione. Il motore si avviò. Weyland li superò facendo zigzagare la Mercedes, e abbandonò il parcheggio dirigendosi verso il viale d'uscita. La pioggia aumentò la sua intensità. Katje sentì di nuovo la sirena e si ridestò completamente dal suo insuccesso: non aveva realizzato un'uccisione pulita. Il vampiro stava scappando. Fece per lanciarsi verso la macchina di Jackson, ma lui la trattenne, gridando, «Niente da fare, andiamo, ha già fatto abbastanza!» La Mercedes si trascinò sobbalzando in mezzo alla strada, voltò dietro l'ingresso di pietra e scomparve.
Jackson disse, «Adesso vuole darmi quella pistola?» Katje fece scattare la sicura e lasciò cadere l'automatica sulla pavimentazione umida ai loro piedi. Nettie stava indicando il Club. «Sta venendo gente — devono aver sentito gli spari e chiamato Daniel. Ascolta, Jackson, siamo nei guai. Nessuno crederà che il Dr. Weyland è lo stupratore... e nemmeno quell'altra cosa.» Il suo sguardo balenò nervosamente su Katje. «Qualsiasi cosa diremo, penseranno che siamo matti.» «Oh, merda,» disse Jackson, seccato, lasciando andare finalmente Katje. Raccolse la pistola. Katje vide l'apprensione sulla sua faccia mentre soppesava la valutazione che Nettie aveva fatto della loro situazione: una storia pazzesca degli addetti alle pulizie su un eminente professore. «Dobbiamo dire qualcosa,» proseguì disperatamente Nettie. «Tutto quel sangue...» Si ammutolì, guardando a terra. Non c'era sangue, la pioggia aveva ripulito l'asfalto. Jackson fronteggiò Katje e disse con tono incalzante, «Ascolti, Mrs. de Groot, noi non sappiamo nulla di sparatorie, ha capito?» Fece scivolare la pistola in una tasca interna della giacca. «Era venuta per fissare un appuntamento nel laboratorio del sonno, ma il Dr. Weyland non c'era. Lo ha aspettato, e Nettie si è preoccupata quando non l'ha vista tornare, così siamo venuti qui a cercarla. Abbiamo sentito gli spari, ma nessuno ha visto niente. Non c'era niente da vedere. Come adesso.» Katje era furiosa con lui e con se stessa. Avrebbe dovuto tentare il colpo alla testa, non avrebbe dovuto permettere che Jackson la trattenesse. Ora poteva vedere la macchina di Daniel, che svoltava nel parcheggio. Jackson disse, con voce controllata, «Sono stato accettato in un corso di informatica a Rochester il prossimo semestre. Può scommettere che non accettano vampiri là, Mrs. de Groot; e neppure neri con le pistole. Io e Nettie dovremo vivere qui, non torneremo in Africa, noi.» Lei si calmò; Jackson aveva ragione. La connessione c'era stata soltanto fre lei e il vampiro, e ciò che era accaduto là era affar suo, niente a che fare con quei due giovani. «Va bene, Jackson,» disse. «Non c'era niente da vedere.» «Okay!» disse. Si voltò verso la macchina di Daniel. Avrebbe fatto tutto bene, pensò Katje; forse un giorno sarebbe andato a trovarla in Africa, con vestiti eleganti e una valigetta ventiquattrore, in viaggio di lavoro. Di certo avevano anche loro dei computer là. Daniel scese dalla macchina sotto la pioggia, una mano sul calcio della
sua pistola. Katje vide il disappunto inasprire la sua faccia florida, mentre Nettie gli appoggiava una mano sul braccio e gli parlava. Katje raccolse la borsetta da dove l'aveva lasciata cadere — come le sembrava leggera adesso, senza la pistola dentro. Tirò fuori il suo impermeabile di plastica, sebbene i suoi capelli fossero già bagnati. Indossandolo, pensò al suo vecchio fucile a caricatore .350, la sua arma ammazzaleoni; pensò di prenderlo dal magazzino, di rimetterlo in efficienza, di custodirlo ben nascosto nel ripostiglio delle scope del Club. Nel caso Weyland non fosse morto, nel caso non potesse dormire con due pallottole in corpo e tornasse zoppicando per cacciare su un territorio familiare... per cercarla. Sarebbe tornato la settimana successiva, quando gli studenti sarebbero rientrati, o mai più. Non credeva che sarebbe tornato, ma sarebbe stata pronta, nel caso. E poi, come aveva deciso da tempo, sarebbe tornata in Africa. La sua mente guizzò: una nuova vita, qualunque vita avesse potuto costruire laggiù, in tempi come questi. Se Weyland era in grado di adattarsi al futuro, poteva farlo anche lei. Era adattabile e determinata... come lui. Ma se avesse dormito, e si fosse risvegliato fra cinquant'anni? Ogni generazione doveva stare in guardia. Lei aveva fatto la sua parte, anche se, probabilmente, non abbastanza bene da potersene vantare. Eppure, che storia avrebbe potuto raccontare di sera sul fumo di un fuoco da campo nella radura, iniziando dall'alta figura del Dr. Weyland scorta mentre avanzava a grandi passi sull'area di parcheggio e oltrepassava lo studente inginocchiato nella nebbia fitta del mattino... Katje s'incamminò verso la macchina di Daniel per raccontare la storia che la Edifici e Campi avrebbe accettato. II LA TERRA DEL PIACERE PERDUTO «Questi tipi hanno trovato la grossa berlina Mercedes-Benz incastrata in una macchia di cespugli nel parco, col guidatore accasciato sul volante, tutto coperto di sangue,» disse Wesley. «Gli hanno detto che avrebbero chiamato i poliziotti o lo avrebbero portato all'ospedale, ma il tizio ha detto di no. Be', conoscono Weinberg, e lo hanno chiamato. Hanno pensato che l'uomo della Mercedes avesse le sue ragioni e che Weinberg sarebbe stato in grado di capirci qualcosa e di ricompensarli. «Weinberg è arrivato, ha preso quel tipo e lo ha portato tranquillamente
nel suo U-Store-It nei pressi di Hartford. Ha trainato e rimesso a posto la macchina, e l'ha venduta per una buona sommetta. Chiunque sia quel tipo, si prendeva buona cura della sua macchina.» Wesley fece una pausa per scartare e ficcarsi in bocca una nuova cicca. «Ma chi è quel tipo?» continuò. «Nessuno lo sa. Ho portato giù tutto quello che gli hanno trovato addosso, in quel sacchetto di carta. Non c'era portadocumenti, né carta d'identità, e lui non ha dato alcun nome. Weinberg ha chiamato questo dottore che conosce. Il dottore ha tolto due pallottole all'uomo della Mercedes, una qui e una qui.» Si toccò il petto e la pancia. «E ha portato un po' di sangue per fare un trasfusione, così quel tale non sarebbe crollato morto mentre Weinberg stava ancora cercando di scoprire qualcosa che valeva la pena. «Ora c'è la parte più bizzarra. Hanno appeso la bottiglia di sangue e gli hanno ficcato dentro l'ago, e quello che devi sapere è che l'uomo della Mercedes ha tirato di nuovo fuori l'ago e lo ha staccato, e ha cominciato a succhiare il fottuto tubo. Succhiare il sangue, capisci cosa voglio dire? Berlo. È allora che Weinberg ha deciso che quello era per te, Roger. Ha detto che non conosceva nessun altro che avrebbe saputo cosa fare con un maledetto vampiro.» Roger rise deliziato, abbracciandosi le ginocchia, e guardò Mark per vedere come stava prendendo tutto questo. L'intera cosa suonava a Mark come un'assurdo postumo dei giorni in cui suo Zio Roger era stato, in molte delle sue consecutive manie, un buon mercato per gli articoli stranieri provenienti dai rifornimenti clandestini di Weinberg. Weinberg il ricettatore era l'unico gaglioffo che Mark conosceva ed era la sua prima prova che esistevano gangster ebrei come tutti gli altri. Era proprio di Roger conoscere gente di quella risma. Ogni volta che le cose si riscaldavano troppo fra i genitori di Mark — questa volta era a causa dei progetti per l'estate che lo riguardavano — veniva a stare con Roger. Da lui poteva far baldoria più liberamente di quanto sarebbe stato consentito in qualsiasi altro luogo a uno scolaretto di quattordici anni. Ma cosa diavolo era questo? Entri nella casa di Roger, senza avvertire come al solito, e tutto sembra come prima: una porta scorrevole aperta per far entrare aria primaverile dal cortile, tutte le piante del soggiorno avvizzite per negligenza, Wesley che masticava gomma stravaccato sul divano, e Roger appollaiato sulla grossa poltrona di pelle sgargiante come un uccello della giungla nella sua camicia di seta scarlatta e i jeans colorati. Ro-
ger possedeva una catena di negozi di abbigliamento e gli piaceva scegliere i suoi abiti dagli scaffali non maschili. Poi, prima che tu abbia la possibilità di mettere via il tuo fagotto e la valigetta da studente, ti dicono, guardandoti dritto negli occhi, che Roger ha comprato un vampiro, e che Wesley lo ha appena portato là, nel residence di Roger sul West Side di Manhattan. Un vampiro. Mark conservò la sua espressione accuratamente vaga. Roger disse a Wesley, «Credi davvero che quel tipo beva il sangue?» Wesley si strinse nelle spalle. Era un ex Marine, che lavorava come custode all'ospedale. Nel suo tempo libero eseguiva strani lavoretti per Roger. Disse, «Ho visto tipi che facevano cose davvero bizzarre, dopo che gli avevano sparato addosso.» «Questo vampiro non ha detto nulla mentre lo tenevano nell'U-StoreIt?» «Ha detto che non poteva dormire. Chi potrebbe, con due buchi in corpo e nessun narcotico per fargli perdere i sensi? Weinberg voleva qualcosa da dargli nel caso cominciasse a strillare, ma il dottore ha detto che non gli avrebbe somministrato nulla senza prima aver fatto un mucchio di esami, poiché il tipo sembrava essere fatto in maniera alquanto strana, e non sapeva che effetto avrebbe avuto una droga su di lui. Era interessato veramente, questo dottore; scommetto che Weinberg te l'ha detto, Roger, per metterti fretta — mostrandosi preoccupato del fatto che il dottore non avrebbe mollato la presa su questo vampiro per studiarlo. Uh-Uh, proprio così. Quanto hai pagato per questo individuo, comunque?» «Sei ancora ansioso di aiutarmi a scoprire se vale il denaro che ho speso?» replicò Roger. Wesley si strinse di nuovo nelle spalle. Entrambi si alzarono. «Andiamo, Mark, non devi perderti questa cosa.» Non era uno scherzo. Erano serissimi. D'un tratto il buio corridoio che conduceva nelle stanze degli ospiti apparve terrificante. Il soggiorno era il centro dell'appartamento. La cucina, la camera da letto di Roger e il bagno erano a destra, nella parte anteriore. Nel corto corridoio che conduceva a sinistra c'erano dei ripostigli, un bagno per gli ospiti, e due piccole camere libere. Una di queste camere era di Mark quando veniva a stare là. Di fronte c'era una stanza molto più piccola, bianca e nuda, con annesso un minuscolo bagno. Mark aprì la porta della sua camera e guardò dentro. Letto, cassettone, tavolo da disegno, libreria, stampe di antiche carte geografiche appese alle pareti di un azzurro freddo, tendine della finestra con gli uccelli selvatici,
tappetini a strisce fatti con pellicce scandinave sul pavimento: tutte queste cose lo rassicurarono. Se la stanza di Mark era stata utilizzata in sua assenza, Roger dopo aveva cancellato tutti i segni. Mark non gliel'aveva mai chiesto. Gli piaceva considerare sua quella stanza. All'altro lato del corridoio una porta di legno che dava nella camera da letto più piccola era aperta. Non stupiva che l'appartamento odorasse di gesso. Wesley aveva lavorato là dentro, installando dei massicci tubi dell'acqua ai lati del vano d'ingresso. Fra i tubi era stata sospesa una porta di barre metalliche. Nella parete in fondo c'era una finestra sbarrata e munita di vetro rinforzato con rete di ferro, del tipo usato per tenere lontani gli scassinatori. La cameretta vuota, trasformata della sbarre in una gabbia, conteneva un prigioniero. Un uomo giaceva su una branda appoggiata alla parete. Era troppo alto per la branda; i suoi piedi spuntavano oltre l'estremità, e la coperta blu che li copriva gli arrivava solo fino al petto. La sua faccia era voltata dall'altra parte. Aveva i capelli grigi. Un braccio pendeva e la mano appoggiava le nocche sul linoleum. Mark, preparatosi intimamente alla visione di un mostro pericoloso, si sentì sollevato e deluso. Ma forse il volto dell'uomo era reso spaventoso dai canini e da una miriade di rughe, come la faccia sul libro di Dracula al quale Mark aveva dato una scorsa su una bancarella a Marboro la settimana prima. Roger, mentre apriva la porta, doveva aver avvertito la reazione di Mark. «Non sembra granché, vero?» disse a disagio. «Mi domando se Weinberg stia cercando di rifilarmi una patacca.» Entrarono e si avvicinarono alla branda. L'uomo voltò la testa. Aveva un volto lungo e segnato, con guance incavate e occhi infossati che sembrava riuscisse a malapena a mantenerli aperti. La bocca appariva scura e coperta di croste, e Mark pensò «sangue» e sentì una contrazione di nausea. Poi realizzò che somigliava a uno che ha una brutta febbre, le cui labbra diventano così secche da annerirsi e spaccarsi. Wesley si arrotolò le maniche della camicia blu da lavoro. Sedendosi con cautela all'estremità della branda, fece scivolare un braccio sotto l'uomo, sollevandogli la testa e le spalle contro il fianco. Le labbra dell'individuo si storsero per il dolore, mostrando denti regolari, non zanne. Wesley disse con voce melliflua e persuasiva, «Okay, vuoi tentare una piccola, ah, bevuta?» L'uomo fissò il vuoto, ignorando il braccio nudo che Wesley aveva steso
davanti a lui. Mark disse con voce debole, «Non sei spaventato, Wesley?» «No. Ho un mucchio di sangue. Ne persi un fottuto diluvio quando fui colpito nel Nam, e sono ancora qui.» «Voglio dire, se ti morde non trasformerà anche te in un vampiro?» Roger disse, «Non essere sciocco, Markie. Se questo fosse vero, anche se ci fosse soltanto un unico vero vampiro per cominciare, abbastanza presto saremmo tutti vampiri e non ci sarebbe più alcun essere umano. Non può funzionare così, non avrebbe senso. Wesley non corre rischi.» Wesley grugnì. «Nessun morso sul collo, però, è troppo intimo. Può prenderlo dal mio braccio, come si fa dal dottore.» Ma il presunto vampiro sembrava riluttante. Roger disse, infuriato, «È un imbroglio! Dev'essere qualche amico di Weinberg cui hanno sparato addosso, così ha cercato un posto per nascondersi. Non gestisco una casa di riposo per rapinatori incompetenti o chiunque lui sia — preferisco piuttosto buttarlo nella strada in pasto ai poliziotti.» L'uomo sulla branda non formulò alcuna protesta, alcuna supplica, ma si raccolse come per prepararsi a uno sforzo. Le sue dita lunghe e sottili si chiusero sull'avambraccio di Wesley. Il suono del suo respiro difficoltoso riempì la piccola stanza. Chinò la faccia sulla pallida superficie interna del gomito di Wesley. Wesley ebbe un lieve sobbalzo e urlò, «Figlio di puttana!» Roger era rapito, le labbra socchiuse, e osservava. Wesley era seduto e sosteneva l'uomo; anche lui stava osservando, di nuovo imperturbabile. Dio, pensò Mark, Wesley era straordinario: lui non si sarebbe mai lasciato convincere. Alla fine il vampiro si ritrasse, si leccò le labbra una volta, e si lasciò cadere sulla branda con un sospiro. Wesley si alzò, flettendo le dita. «Guarda qua,» disse. C'era una puntura nella vena sul braccio, circondata da una chiazza livida. Roger, stupefatto, farfugliò, «Uh, vuoi un Band-Aid?» «No, sanguina pochissimo. La cosa più dannata che ho mai visto. Sarà meglio che vada a stendermi per un paio di minuti, comunque. Mi sento come se avessi sonno.» Wesley si allontanò con lentezza in direzione del soggiorno, guardandosi ancora il braccio. Lo seguirono. «La porta si blocca automaticamente quando la accosti,» disse Roger. Si voltò a guardare l'uomo sulla branda. «Gesù,» disse in un soffio, «è vero.»
Wesley si era disteso sul divano. Roger si accovacciò accanto a lui. «Cosa si prova?» «Come quando si dà il fottuto sangue, cos'altro?» «Sei sicuro di stare okay, Wesley?» «Sicuro.» «Devi portarmi dei rifornimenti per lui.» Wesley si accigliò. «Potrei perdere il posto, se mi pescano ad armeggiare con le scorte di sangue dell'ospedale.» «So che farai il possibile, Wesley,» disse Roger con noncuranza; il che significava che si fidava di Wesley, e non gli interessava conoscere i suoi problemi. «Posso conservare quella roba nel frigo, giusto? E se qualche volta non potrai prendere il sangue all'ospedale, lo fornirai personalmente.» «Merda,» disse Wesley, stringendo il pugno e facendo scattare il braccio verso l'alto. «Non posso fare troppo spesso la fontana-della-giovinezza, lo sai.» «Allora cerca qualcuno che ti sostituisca.» Wesley se ne andò per restituire il furgone preso a nolo nel quale aveva trasportato il vampiro. Roger appese la chiave della porta sbarrata a un chiodo in una vetrinetta della cucina. «La lascerò qua, Mark, ma non sarà necessario che tu la usi se non in caso di emergenza.» Roger, un elfo di trent'anni, aveva una faccia a forma di cuore, ben modellata e vivace. Portava i capelli blu-notte tagliati lunghi, e li scacciava dalla fronte con un gesto teatrale ogni volta che era possibile. Se gli angeli avevano i capelli neri erano di certo come quelli di Roger, pensò Mark, anche se un angelo probabilmente non si sarebbe fatto cacciar via da quattro scuole come Roger. Mark sapeva di essere scialbo, allampanato e pallido: un aspetto cui non davano il minimo aiuto quegli enormi occhiali di gufo. Aveva realizzato abbastanza recentemente che a Roger piaceva averlo intorno perché ciò esaltava la sua avvenenza, ma questo a Mark non interessava molto. Sapeva che si stava facendo strada col suo cervello. Sapeva anche che Roger era un dilettante, che non aveva mai sfruttato la sua intelligenza, tanto si annoiava facilmente, tanto era bramoso di nuove esperienze da assaporare. Roger lasciò Mark a disfare i bagagli e di lì a poco tornò nel corridoio con una delle sedie della cucina. La pose davanti alla cella e, sedendosi a cavalcioni con le braccia sulla sommità dello schienale, fronteggiò il suo acquisto.
Aveva con sé un registratore portatile, lo accese e cominciò a fare domande: Come ti chiami? Come sei diventato un vampiro? Sei in contatto con altri vampiri? Quanto sangue bevi ogni volta? Chi ti ha sparato? Ogni volta che Mark alzava gli occhi dagli scaffali che stava sistemando, vedeva che il vampiro ignorava Roger e seguiva col suo sguardo malsano quello che Mark stava facendo nella sua camera all'altro lato del corridoio. Appena Roger se ne fu andato a letto e non ci fu più pericolo di interruzioni, Mark prese i disegni di Skytown dalla sua valigetta e li spiegò sul tavolo da disegno. Questo suo progetto al momento constava di quaranta schemi che rappresentavano gli apparati di una stazione spaziale singola. L'accuratezza scientifica non era la sua preoccupazione principale, sebbene egli mantenesse uno stretto controllo su ogni impulso verso una fantasia eccessiva. I misteriosi scorci dello spazio, le prospettive accuratamente calcolate e i dettagli di un'abitazione spaziale erano le cose che lo affascinavano. Lavorando col suo Rapidograph sotto la lampada fluorescente, dimenticò Roger, i genitori, e anche il vampiro. Quando si alzò per lavarsi i denti nel bagno in fondo al corridoio, si allarmò nel vedere che il vampiro lo stava fissando di nuovo. Tornato, chiuse la porta e la aprì solo quando ebbe spento la luce. Meglio lasciarla aperta che giacere nel buio domandandosi cosa stava accadendo là fuori. Wesley aveva installato una luce per la notte nella cella, racchiusa in una piccola gabbia di metallo e collegata a un interruttore nel corridoio. Il vampiro era illuminato, steso immobile sulla branda. Mark si voltò su un fianco e si mise ad ascoltare i suoni soffocati del traffico. Nella sua mente cercò di immaginare i dettagli delle vele per l'accumulo dell'energia di Skytown, forme enormi contro lo sfondo delle stelle. Forse ci sarebbe stata una squadra speciale di robot per la manutenzione delle vele; o forse avrebbe riservato a se stesso l'avventura di lavorare all'esterno nella sua tuta spaziale, con le stelle come compagne. Gradualmente, con riluttanza, divenne consapevole di un debole suono, come un trascinarsi, al di là del corridoio: movimento, sforzo. Rabbrividendo un poco nella sua biancheria intima, si alzò e, a piedi nudi, raggiunse la porta come un fantasma. Il vampiro era appoggiato alla parete, rivolto nella direzione del piccolo bagno collegato alla sua camera. Mark starnutì. Il vampiro lo guardò. Mark sussurrò, «Vado a chiamare Roger.»
Ma non lo fece. Qualcosa nella postura del vampiro, una debole contrazione nelle spalle già ricurve, gli fecero capire che lui avvertiva quello che Mark sapeva — che Roger lo avrebbe preso in giro per questa cosa: un vampiro che doveva andare al bagno proprio come chiunque altro e che, poveretto, non poteva farlo da solo. Con un acuto sconforto Mark rammentò cos'era accaduto, l'estate prima, al campo. Senza una ragione precisa, si era scoperto a bagnare il letto ogni notte. Tutte le mattine era stato costretto a sciacquare le lenzuola e ad appenderle fuori per farle asciugare dietro la baita, dove tutti potevano vederle. Molto divertente, ah ah. Attraversò il corridoio e sussurrò attraverso le sbarre, «Ti aiuterò, ma se tenti qualcosa griderò a squarciagola e Roger accorrerà e... e te le suonerà. Tiene un grosso pezzo di tubo di piombo accanto al letto per i rapinatori.» Camminò con passi felpati fino alla cucina, già pentendosi dell'impulso. Cautamente, cercò la chiave a tastoni nel buio. Non svegliare Roger, non invitare il lato gretto di Roger a uscire, era importante. Davvero detestava il lato gretto di Roger. Aprì la grata ed entrò con circospezione nella cella. Non voleva che il vampiro si facesse l'idea di poter ottenere favori assumendo un aspetto debole e patetico. Disse, «Roger mi ammazzerebbe se sapesse che sono entrato qui. Mi rispedirebbe a casa. Cosa ricaverò dal rischio che sto correndo?» Il vampiro lo scrutò. Poi disse con un sussurro stridulo, «Se vuoi, puoi considerarti al livello di custode di un gabinetto pubblico. Avevo degli spiccioli in tasca.» Gli spiccioli adesso dovevano essere nel sacchetto di carta che Wienberg aveva dato a Wesley. Avrebbe fatto così, anche se il vampiro aveva cercato di far apparire miserabile prendere del denaro. La cosa più importante era non permettere a nessuno di raggiungerti. Mark si avvicinò. Il vampiro fece ciondolare un braccio nerboruto sulle sue spalle, e per un attimo Mark pensò, terrorizzato, che stava per essere attaccato. Poi realizzò che l'uomo era così debole che aveva bisogno di appoggiare quasi tutto il suo peso al suo soccorritore. Forse anche percorrere quei pochi passi lo avrebbe fatto svenire. Forse sarebbe morto. Sarebbe stato meglio svegliare Roger. Così se qualcosa fosse andata male non sarebbe stata colpa di Mark. «Tutto bene,» disse il vampiro boccheggiando, e si appoggiò sull'angolo del lavandino. Mark indietreggiò dal minuscolo bagno e si fermò contro la parete. Sentì lo scroscio, il debole gemito di sollievo, le mani che annaspavano alla ri-
cerca della manopola dello scarico. Pensò, È una cosa folle: costui piscia come me e Roger, ma beve il sangue della gente. Aiutandolo a tornare sulla branda, Mark notò che il vampiro aveva bisogno di un bagno e di un cambio per la sua camicia bianca macchiata e i calzoni spiegazzati. Gli avevano portato via la cintura e le scarpe. «Aspetta,» disse in un soffio il vampiro. Mark arretrò verso la porta. «Perché?» «Resta a parlare con me. Non devo dormire. Se lo faccio potrei sprofondare facilmente in un sonno di anni che mi porterebbe da un'epoca all'altra. Allora la mia forza vitale scenderebbe a livelli così infimi che il mio corpo sarebbe incapace di guarirsi. Morirei. Tuo zio Roger si seccherebbe. Raccontami qualcosa.» Dio, che assurdità. «Che cosa?» «Come passi le tue giornate?» «Vado a scuola, faccio le superiori.» Un breve silenzio, e poi il vampiro mormorò, «Questo sembra interessante. Anch'io sono una specie di studente. Dimmi della scuola.» Mark si sedette sul pavimento all'altro lato della stanza, di fronte alla branda, e parlò della scuola. Dopo un po' prese una coperta dal suo armadio e la ripiegò sotto di sé, e portò un bicchiere d'acqua dalla cucina per inumidirsi la gola. Il vampiro giaceva immobile e ascoltava. Se Mark faceva passare un po' di tempo restando in silenzio, il vampiro diceva, «Parlami.» Il giorno dopo quando Mark tornò dalla scuola c'era Wesley. «Ha chiamato il tuo vecchio, ha detto che vuole sentirti.» «Oh, sì, grazie, Wesley.» Entrambi i genitori di Mark accettavano l'appartamento di Roger come rifugio neutrale di Mark lontano dalle loro dispute senza fine. Tuttavia cercavano di tenerlo sotto controllo per telefono. «Okay,» continuò Wesley, «il nostro amico è lavato e sbarbato, ha un pigiama pulito e bende nuove. È a posto per un paio di giorni, eccettuata l'alimentazione. Ora, devi andare nella sua stanza. Anche se spingi verso di lui un bicchiere di sangue sul pavimento, non può chinarsi a raccoglierlo. Può alzarsi a sedere da sé, tuttavia — abbastanza, ad ogni modo, perché tu non debba toccarlo. Portagli il bicchiere e porgiglielo, ma tieniti lontano da lui.» Mark guardò nella ghiacciaia per vedere se c'era qualcosa da mangiare. C'erano dei contenitori di plastica di sangue ammucchiati in fondo al ripia-
no superiore. Batté rapidamente le palpebre e distolse lo sguardo. Disse, «Pensavo che tu non avessi paura di lui.» «Ieri non ho avuto paura di dargli un po' del mio sangue, ma sta guarendo in maniera spaventosamente rapida. Fa paura, è vero. Sta molto meglio di quanto dovrebbe stare un tipo anziano come lui, con due fottute pallottole in corpo. Stai attento.» Wesley, lavandosi le mani nel lavandino della cucina, scoppiò improvvisamente a ridere e chiuse il rubinetto. «Guardami, mi sto lavando come faccio all'ospedale dopo aver maneggiato un paziente! Credo proprio di essere la persona adatta a fare da bambinaia al vampiro di Roger, no? Roger ne è convinto.» Scosse la testa e mise via lo strofinaccio col quale si era asciugato le mani. «Per conto mio, mi è piaciuto di più sistemare questo posto per Roger.» Con l'aiuto di Wesley e un bel po' di denaro, Roger aveva riconvertito l'intero piano terra della casa di arenaria, ricavando da due appartamenti uno più grande e confortevole. Chiudendo lo sportello della ghiacciaia, Mark disse, «Glielo dai freddo, appena preso dal frigo? Non è un po' uno shock?» «Be', forse non è una cattiva idea riscaldare quella roba prima — non troppo, però.» «So come fare. Ero io che riscaldavo la bottiglia per il piccolo di zia Pat quando stavo con lei.» Sul ripiano del lavandino Mark spalmò del burro di arachidi su una fetta di mortadella. Wesley scartò un'altra gomma. «Saresti un buon infermiere, visto che hai pensato a una cosa del genere. Se riuscissi a mantenerti distaccato, cioè.» Mark provò vergogna perché Wesley pensava che lui non fosse abbastanza freddo. Prese in considerazione l'idea di dire a Wesley che quella notte aveva aiutato il vampiro, che era riuscito a mantenersi distaccato, ma decise di non dire nulla. Wesley avrebbe potuto riferirlo a Roger. Chiese educatamente a Wesley quanto gli era dovuto per la provvista di sangue fresco, e Wesley andò ad aspettare nel soggiorno mentre Mark prendeva la cassetta dal forno. Roger la teneva là in virtù della teoria che nessun ladro sarebbe andato a guardare in cucina. Evitava le banche poiché esse preparavano rendiconti degli interessi per le tasse, e aveva affermato che preferiva fare a meno degli interessi e delle tasse. Il denaro era al sicuro: l'appartamento era fortificato in stile New York City con finestre munite di sbarre, grate alle porte posteriori, filo spinato in cima alla recinzione di legno che circondava quel pezzo accidentato di cortile. Stalag Manhat-
tan. Con un solo prigioniero. Mentre Wesley contava le sue banconote nel corridoio accanto alla porta principale, Mark disse, «Sai, vorrei quasi che l'amico dottore di Mr. Weinberg avesse portato via questo vampiro per i suoi studi scientifici. È assurdo tenere qualcuno chiuso in questo modo.» Wesley, masticando, lo guardò. «Ritieni che anche uno che beve sangue abbia il diritto di non essere agguantato e rinchiuso nell'appartamento di Roger come se fosse un cane randagio, no? Roger lo vede così. Sei minorenne, non parlare, non sentirti responsabile. Fatti gli affari tuoi, va bene? Bene.» Quando rimase solo, prese il sacchetto di carta e sparse gli effetti personali del vampiro sul tavolino da caffè nella luce dorata del pomeriggio: una penna a sfera, blu; un pennarello, rosso; due matite con le punte spezzate; quattro piccole schede coperte da una grafia illeggibile; un elastico, tre graffette, un temperino col manico di corno; due chiavi; un astuccio contenente un paio di occhiali con una montatura nera e pesante, la lente sinistra incrinata; e due quarti di dollaro. Mark scartò il temperino dopo un attimo di esitazione e infilò in tasca uno dei quarti di dollaro come compenso per il favore della notte precedente. Poi telefonò a sua madre. Promise che non avrebbe sollevato la delicata questione dei progetti per le sue vacanze estive, e lui si rilassò un poco. Sembrava stanca e ansiosa. Voleva sapere come stava Mark, come stava Roger, Mark aveva bisogno di qualcosa da casa? Aveva chiamato suo padre? Mark aveva ancora abbastanza denaro? Non doveva diventare una specie di salasso per Roger. Come andava la scuola? Stava vedendo quel simpatico ragazzo, Maddox, che aveva portato a casa la settimana prima? Stava mangiando correttamente? Quando aveva deciso che sarebbe rientrato a casa? Mai, pensò lui. «Non lo so, mamma,» disse. «Ho bisogno di stare un po' tranquillo senza continui battibecchi intorno a me. Ho un mucchio di compiti da fare prima della fine del semestre.» «Vorrei che tuo padre non mi telefonasse quando sa che sei probabilmente a casa. Lo fa solo per...» «Devo andare, mamma. Ho da fare delle cose per Roger.» «Ricorda solo, quando ti chiama tuo padre, di rammentargli che questa breve parentesi provocata dal suo caratteraccio non mi priverà del mio
tempo con te. Quando andrai via da Roger tornerai qui per terminare i nostri sei mesi assieme, caro. Ti voglio bene, Markie.» Anch'io ti voglio bene, mamma; ma non potrei mai gridarlo a nessuno di voi due perché mi lascereste da parte. E tu avresti detto, Vuole bene a me, non a te, ha detto così; e se papà ci avesse creduto soltanto un po' avrebbe pensato che io mi fossi schierato dalla tua parte. Allora se la sarebbe presa anche con me, e avresti trascorso il tempo a piangere, a piangere e ad autocommiserarmi come te, mamma. «Ciao, mamma,» disse, e riattaccò. Poi si sedette mordendosi le unghie e domandandosi quando si sarebbe abituato al fatto che i suoi genitori si odiavano. Altri ragazzi si erano abituati a questo. Forse il fatto di essere figlio unico peggiorava le cose. D'altra parte, papà e Roger non sembravano ricavare particolari benefici dal fatto di essere fratelli. Una volta, una volta soltanto, era andato piangendo da suo padre, supplicandolo di accomodare la faccenda, di riportare la famiglia sulla strada che si supponeva dovesse percorrere. Suo padre aveva detto, «È questo che fai quando non puoi avere quello che vuoi, piangi come una ragazzina? Chi te l'ha insegnato, tua madre?» Il peggio era che Mark aveva parlato così tanto sia per l'affetto che nutriva per il padre e sia per l'infelicità che provava, sapendo che anche suo padre era infelice. Pensare a loro non lo aiutava. Si alzò energicamente in piedi e andò nella sua stanza, dove tirò fuori i disegni per i giardini botanici di Skytwon. Stava lavorando su piante raccolte da pianeti diversi, una delle quali era stata adattata da un libro chiamato Viaggio ad Arturo, che era incredibilmente noioso ma aveva questo albero terrificante che afferrava i piccoli animali nei suoi rami e li mangiava. Ma che genere di animali avrebbe mangiato? Topi? Donnole? Le donnole sono infide; non gli importava molto se avesse mangiato una donnola. Nell'intrico di rami disegnò una donnola, ricavandola da un'immagine della sua enciclopedia. Alla fine, con riluttanza, ripose i disegni di Skytown; c'erano incombenze più pressanti. Doveva fare un tema per Carlo Kelly, per il corso d'Inglese, su una poesia di A.E. Housman. Se non avesse cominciato subito non ci sarebbe stato abbastanza tempo per lavorarci. Completare il lavoro era importante. L'amicizia con Carol Kelly stava diventando troppo intima negli ultimi tempi. Non c'era niente di meglio di una transazione finanziaria per rimettere sul binario giusto una relazione. Si dedicò alla poesia, cercando di ricavarne un senso.
La sera successiva, invece dei contenitori di sangue, Wesley portò Bobbie, una delle prime ragazze di Roger. Mentre percorreva il corridoio fra Wesley e Roger, lei scoppiò a ridere e disse, «È solo uno dei tuoi amici attori che oziano qua intorno, giusto, Roger? Andiamo, ti conosco... è uno scherzo, giusto?» Poi si trovò seduta sulla branda nella stanzetta bianca. Non sorrideva più. Guardava con gli occhi spalancati la testa del vampiro china sopra il suo braccio. Mark riusciva a guardare solo di traverso. «Oh,» disse la ragazza sommessamente. E poi, ancora con lo sguardo fisso, «Oh, wow! Oh, Wesley, sta bevendo il mio sangue.» «Te l'avevo detto,» disse Wesley. «Niente scherzi.» «Non preoccuparti, Bobbie,» disse Roger, dandole una pacca sulla spalla. «Non ti cresceranno i canini dopo... Wesley, perlomeno, non li ha.» La ragazza sollevò la mano come per spingere via la testa del vampiro, ma invece cominciò ad accarezzargli i capelli. Mormorò, «Ho letto i tarocchi stamattina e ho visto che sarebbero accadute cose fantastiche, e che le avrei assecondate con risultati molto positivi, sapete? Ma non avrei mai pensato... oh, questo è così straordinario, è una vera supernova, sapete?» Finché egli non terminò, lei restò seduta, affascinata, sussurrando, «Oh, wow!» a intervalli languidi. Quando il vampiro sollevò la faccia serena e appagata, lei gli disse, seria, «Io sono Scorpione, e tu?» Roger tornò a casa, dopo aver finalmente licenziato un direttore di magazzino che non gli andava a genio. Portò Mark fuori per una cena al ristorante cinese e parlò con rabbia del pasticcio che il direttore si era lasciato alle spalle — ordini non registrati, prove di furtarelli e di imbrogli con gli introiti... Mark gli tese un biglietto della scuola. «Vogliono una firma qua sotto.» Roger era bravo a imitare la firma del fratello. «Mandato prima a casa per aver dormito in classe? Come sarebbe?» Mark si fece forza e raccontò tutto. Roger lo guardò con la bocca spalancata per lo stupore e con i nervi te per la collera. «Intendi dire che hai fatto una chiacchierata col nostro amico a mezzanotte per questi tre giorni che è stato con noi? Cosa ti ha detto?» «Niente. Si è limitato ad ascoltare. La scorsa notte gli ho raccontato Le Guide del Tramonto, L'Isola Misteriosa, e alcune storie di Ray Bradbury.»
«E lui non ha detto niente?» «Non molto.» Le labbra di Roger divennero sottili e si strinsero. «Stanotte prenderai con te il registratore, gli farai alcune domande e otterrai delle risposte prima di recitargli un maledetto limerick.» Roger aveva tentato di porre domande al vampiro durante periodi sempre più brevi, forse perché i suoi tentativi erano sempre falliti. Mark non riuscì a fare di meglio. Quando quella notte pose le sue domande memorizzate, esse rimasero ignorate. Il vampiro si limitò a osservare, «Shahrazad si è unita all'Inquisizione, vedo. Per fortuna, adesso riesco a cavarmela senza queste diversioni.» Roger stava per andarsene per il weekend, lasciando Mark a occuparsi del vampiro. Dovevi sempre evitare che Roger approfittasse di te. Lo faceva senza pensarci, veramente. Finiva solo per dimenticare i tuoi interessi nel seguire i propri. «Guarda, Roger,» disse Mark, «baderò a questo posto per te — annaffierò le piante e farò un po' di pulizie, come ho fatto finora, per ripagarti, dal momento che mi fai stare qui. Ma tu stai via un sacco di tempo a divertirti o a controllare i tuoi negozi, e ciò vuol dire che io devo stare qui dentro attento a... a lui. È una grossa responsabilità.» Roger stava stipando nella valigia un maglione acrilico color arcobaleno che aveva preso in prestito per il weekend da un negozio dei quartieri residenziali. «Puoi sempre tornare a casa,» disse. Mark attese. Roger sospirò. «Okay, okay. Cinque dollari a settimana.» «Dieci.» «Sanguisuga!» disse Roger. «Va bene, dieci.» Semplicissimo, non c'era bisogno di strapparsi i visceri su ogni cosa come a casa. «Ascolta, c'è una ragione speciale per cui sto andando a Boston. Voglio consultarmi con alcuni amici a proposito di questo vampiro. Ci dev'essere il modo di diventare incredibilmente ricchi con questa cosa.» Non appena Roger se ne fu andato, Mark si dedicò al tema per Carol Kelly. Cercando un libro di critica poetica nel soggiorno, fu distratto da un residuo della passione di un tempo di Roger per l'esotismo, The Two-Duck Pleasure Book: Balkan Folk Wisdom, di R. Impronunciabile. Spinto a curiosare da illuminanti frammenti osceni («...metodo di contraccezione è per la donna alzarsi dopo un rapporto sessuale, accoccolarsi sul pavimento, e immergere l'indice...» Yuucchh), trascorse un'avvincente mezzora.
Poi tirò fuori un libro sulla Lapponia e scoprì la faccia del vampiro che lo guardava dalla quarta di copertina del volume accanto. Non c'erano dubbi: era lo stesso uomo, con un abito in tre pezzi e un impermeabile malridotto gettato sulle spalle. Stava guardando dritto nella macchina fotografica con uno sguardo determinato, come se sfidasse il fotografo ad addolcire i suoi lineamenti imperiosi. Mark studiò le linee decise della fronte e del collo, il naso sporgente, la bocca larga e ben fatta con le labbra muscolose serrate come se lui fosse leggermente nervoso. Mark poteva guardare quella foto con quanta insistenza e intensità gli pareva, sanza paura, mentre guardare quell'uomo dal vivo lo rendeva nervoso. Il libro era intitolato Appunti su un Popolo Scomparso, ed era il diario di qualche finora sconosciuto viaggiatore tedesco nel Sud America. Il traduttore e curatore fotografato sulla sovraccoperta del libro era il Dr. Edward Lewis Weyland, Ph. D., professore di Antropologia e direttore del Centro Cayslin per lo Studio dell'Uomo presso il Cayslin College. «Nuova luce sulla storia pre-Colombiana,» proclamava la fascetta pubblicitaria. «Una straordinaria scoperta per l'Antropologia, con un commento erudito e stimolante del Dr. Weyland.» Mark ricordò di aver visto altrove di recente quella faccia severa — in un notiziario, probabilmente. Rovistò fra i giornali e le riviste ammucchiati sui tavoli finché non trovò quello che stava cercando in una copia del Time. Poi lentamente, col cuore che gli martellava, percorse il corridoio col libro in mano. Il vampiro sonnecchiava, steso sul fianco con le ginocchia che sporgevano dalla branda. Col pigiama che indossava e le bende che si scorgevano dal colletto aperto, sembrava molto meno impressionante che non nella fotografia. Mark disse, «Dr. Weyland?» Il vampiro apri gli occhi. Mark fece in modo che notasse che aveva con sé Appunti su un Popolo Scomparso. Non ci fu alcuna reazione evidente. «Ho pensato che potesse aver fame,» disse Mark debolmente. «Ce l'ho.» Mark aveva comprato un boccale di porcellana così non avrebbe dovuto vedere il sangue come veniva bevuto dal bicchiere. Si mantenne cautamente fuori portata, mentre il Dr. Weyland beveva. «Com'è successo che le hanno sparato?» domandò. «Conosci il mio nome. Fai un minimo di ricerche: guarda nei giornali.» «L'ho fatto. Tutti dicono che lei è scomparso.» Mark aggiunse, aggressi-
vo, «Scommetto che ha fatto qualche sciocchezza, qualcuno ha intuito la verità su di lei e ha cercato di ucciderla.» Il vampiro lo studiò per un momento. «Hai vinto la scommessa,» disse, appoggiò il boccale sul pavimento e tornò a stendersi sulla schiena. Mark lesse gli Appunti su un Popolo Scomparso mentre cenava davanti alla TV quella notte. Buona parte del libro era noiosa, ma c'erano dei passaggi interessanti nella lunga introduzione. Qui il Dr. Weyland parlava dei suoi sospetti sull'esistenza di alcuni appunti del tedesco, della loro ricerca, e della disputa — contro gli scettici che il Dr. Weyland demoliva con sottile arguzia — per stabilire l'autenticità dei documenti una volta ritrovati. C'erano anche alcuni freddi passaggi sui missionari dell'epoca del viaggiatore e sui moderni antropologi. Un bagaglio culturale abbastanza interessante per chi era destinato a essere la prima persona a contattare gli abitanti dei pianeti lontani, nelle spedizioni esplorative da Skytown... La domenica sul tardi si presentò alla porta uno sconosciuto. «Bobbie mi ha detto che qui c'è un vampiro,» disse. «Fammelo vedere.» Non stava esattamente col piede nella porta, ma era voltato in modo tale che la sua grossa spalla sembrava sul punto di spezzare la catena. «Mi dispiace,» disse in fretta Mark, «ma mio zio non è ancora tornato da Boston, e non mi è permesso di far entrare nessuno che non conosco.» «Mi chiamo Alan Reese. Roger mi conosce. Sono certo che deve averti parlato di me.» «Devo rispettare le regole della casa,» disse Mark, inserendo una nota lamentosa nel suo tono. Stava ripensando a quando Roger si era interessato di stregoneria. Costui doveva essere quel Reese che aveva frequentato in quella occasione. Reese pareva pronto a scaraventare giù la porta, e capace di farlo anche, con quel torso massiccio e quel collo da lottatore grosso come la testa che sorreggeva. Ma si limitò a sorridere, si strinse nelle spalle, se ne andò a sedere sui gradini nell'area antistante l'edificio, e si mise a leggere un libro che aveva tirato fuori dalla tasca. Chiaramente, si preparava ad aspettare Roger. Mentre Mark stava lavando i piatti, lo osservò dalla finestra sopra il lavandino. Reese indossava dei pantaloni di saia e una camicia messicana ricamata, e aveva con sé una grossa valigetta. La sua faccia era paffuta e pallida, la pelle lentigginosa e liscia come quella di un ragazzo. Strappava le pagine del libro dopo averle lette, e prima di gettarle nel bidone dell'immondizia accanto ai gradini, le accartocciava distrattamente nel pugno.
Non tenerlo d'occhio non sembrava prudente, per cui Mark rimase accanto al lavandino ad affilare i coltelli. Quindi risistemò l'argenteria nel cassetto. Finalmente Roger tornò, discutendo col tassista a proposito della mancia. Mark lo vide voltarsi per fronteggiare Reese con sorpresa. Una di quelle grosse zampe si abbatté sulla spalla di Roger. I due uomini si misero a parlare. Roger annuì parecchie volte, esitante all'inizio, poi con vigore. Quando entrò, Reese lo seguì, sorridendo. «Mark, voglio farti conoscere Alan Reese, un occultista che conosco da parecchio tempo,» disse Roger. «Ha alcuni suggerimenti su come trattare il nostro ospite.» «A rigor di termini, sono un satanista,» si presentò Alan Reese con voce misurata e teatrale. Una luce di trionfo scintillava nei suoi occhi azzurri, come se Mark avesse presidiato un castello contro di lui, e lui lo avesse fatto crollare con un soffio. «Questo ti rende nervoso, Mark? Non dovrebbe. Avere con te un vampiro in una casa non protetta, è questo che dovrebbe renderti nervoso. Sto per aiutarvi a mantenere il controllo su di lui, usando la conoscenza che ho del suo Padrone.» Accidenti, pensò Mark. Prese la chiave dalla porta della credenza e avanzò nel corridoio prima di loro, per aprire la porta a grata, deciso a restare il più vicino possibile. Voleva vedere l'uomo che aveva scritto l'introduzione a Appunti su un Popolo Scomparso, smontare questo Reese con un'unica osservazione tagliente. Il Dr. Weyland voltò la testa per vederli entrare. Ignorandolo, Reese infilò una tunica nera sui suoi abiti giornalieri e prese alcuni oggetti dalla valigetta. Mormorò sopra di essi, li baciò e li sollevò nelle quattro direzioni. Uno, un ciondolo di metallo attaccato a una catena, lo mise intorno al collo di Roger, il gemello intorno a quello di Mark. Gli altri — un coltello, un anello, una ciotola d'argento, una cosa scura avvizzita che Mark non riuscì ad identificare — li pose con cura agli angoli di quella cella bianca e spoglia. Poi tirò fuori una serie di vassoi e vi accese dell'incenso, e Roger li collocò secondo le direttive di Reese. Questi parlò e salmodiò per tutto il tempo, protendendo le braccia in modo tale da riempire l'intera stanza. Da una piccola borsa che gli pendeva al collo sospesa a un laccio, prese qualcosa che strofinò sul telaio della finestra, su quello della porta, sui tubi delle apparecchiature del bagno, e persino sugli attacchi elettrici. Tracciò dei segni sul pavimento con un pezzo di gesso rosso.
A Mark furono consegnati un incensiere e una candela da reggere. Si sentì uno sciocco e desiderò di averli lasciati soli alle loro assurdità. Con sua sorpresa e disappunto il Dr. Weyland non fece alcuna osservazione. Mark aveva la sua prima opportunità di osservare il vampiro senza che quegli occhi gelidi gli restituissero lo sguardo, e avvertì uno spiacevole shock. Credette di vedere la paura. «Benissimo, adesso è vincolato. Cominciamo,» disse finalmente Reese, ponendosi in mezzo alla stanza coi piedi separati e ben saldi come per opporsi a un tifone. Si guardò intorno con espressione compiaciuta. «La cosa curiosa,» disse Roger, «è che sembra non avere canini lunghi, ma... be', morde.» «Così ha detto Bobbie.» Reese tirò su le maniche della tunica dagli avambracci muscolosi. «Tienilo fermo — non può farti nulla, non preoccuparti — e fammi vedere.» Roger tentò nervosamente di afferrare i polsi del vampiro. Il Dr. Weyland non oppose resistenza, neppure quando Reese lo agganciò sotto le ascelle e lo tirò affinché la sua testa pendesse dal bordo della branda. Non c'era più nulla di sciocco nella scena. La paura del Dr. Weyland sfiorò Mark come un alito freddo. Reese si chinò e bloccò con un braccio la testa del vampiro contro la coscia massiccia. Afferrandogli la mandibola, gli aprì a forza la bocca. A Mark sfuggì un'esclamazione di protesta. Reese alzò la testa. «Questo essere ha dentro di sé una forza diabolica. Simula la stanchezza e il dolore per ingannarci. Posso sembrare rude con lui, ma so quello che faccio. Impiego tutte le mie energie in incontri del genere poiché è l'unico modo per mantenere il controllo. Lui sta bene; ci vorrebbe un carro armato per far male a uno di questi esseri.» «Ti eri già imbattuto nei vampiri prima d'ora?» disse Roger. «M'imbatto in ogni genere di cose astruse,» replicò Reese. «È vero, i canini non sono lunghi, ma qui... vedi quello? Una sorta di pungiglione sulla parte inferiore della lingua. Probabilmente si raddrizza in vista del pranzo, pratica una puntura attraverso la quale lui succhia il sangue, e poi si ripiega nascondendosi di nuovo.» «Erotico,» disse Roger con rinnovato interesse. «Forse è per questo che non parla.» «Non dovrebbe essere un ostacolo,» disse Reese. «Lasciami dare uno sguardo agli occhi.» Richiuse la bocca e mosse la mano per tirare indietro col pollice una delle palpebre del vampiro.
Mark realizzò che non stavano davvero facendo del male al Dr. Weyland. Erano come studiosi di zoologia e veterinari quando immobilizzano un animale pericoloso per esaminarlo. Ma Reese afferrò e torse il corpo passivo del vampiro con brutalità, come uno che lotta con un alligatore in un film sulle Everglades. Mark cercò di non respirare l'odore intenso dell'incensiere e attese, avvilito, che l'ispezione terminasse. Finalmente finirono, lasciando il vampiro scarmigliato — che ancora non aveva pronunciato una sola parola — disteso sulla branda, con un braccio sugli occhi. Roger sembrava su di giri, come reso euforico dalla sconfitta di qualcuno che gli aveva procurato un forte spavento. Reese, sorridendo, impacchettò le sue cose e si tolse la tunica. Andò a sedersi nel soggiorno pieno di verde come un ospite causale. «Hai dei progetti per lui?» chiese con interesse. Roger aggrottò le sopracciglia. «Non è uno che coopera molto. Ho cercato di spingerlo a dirmi delle cose. Riesci a immaginare che best-seller sarebbe, la vera storia di un vampiro uscita dalle sue stesse labbra? Ma non ha risposto a nessuna domanda.» Reese si alzò. «Stavo pensando a qualcosa di più ambizioso — un tentativo di penetrare attraverso le apparenze per raggiungere il suo vero io, il cuore nero e potente di un'esistenza al di là delle leggi della vita che conosciamo. Un sistema per controllare ed imprigionare questa natura arcana e formidabile a nostro vantaggio.» L'atmosfera della stanza sembrava cambiata — più cupa. La magniloquenza di Reese avrebbe potuto ridurlo ad un'assurdità, ma non fu così. Avanzò, e non apparve stupido ma terrificante. Lo stile melodrammatico veniva reso plausibile dal suo apparato muscolare solido e aggressivo e dallo sguardo intenso dei suoi occhi piccoli e gelidi, mentre sovrastava gli altri due. «Hai una scoperta meravigliosa qui,» disse Reese, «ricca di possibilità. La mia Somma Sacerdotessa è abile nell'ipnotismo. Con questo sistema e con tutti i rituali e le pressioni appropriate, constringeremo questa creatura a supplicare per rivelarci i suoi segreti. Credimi, Roger, lo strizzeremo come uno straccio umido, sarà il nostro ponte verso reami che non riesci neppure ad immaginare. La Vigilia di Calendimaggio, il trenta aprile, io e il mio circolo teniamo abitualmente un Grande Sabba, come puoi ricordare. Voglio tenerlo qui e includere il tuo ospite nella celebrazione. Bene, è deciso, dunque. «Nel frattempo, cerca di privilegiare i rifornimenti freschi, come Bobbie.
Conosco uno che si offrirà volontario per fare quest'esperienza, se glielo dirò io. Sono d'accordo sul fatto che il donatore occasionale non corre alcun pericolo di diventare un vampiro, specialmente adesso che ho mobilitato le mie energie protettive. Alcuni fidati discepoli delle mie arti pagherebbero addirittura per vedere un vampiro nutrirsi. I proventi...» L'intera cosa stava acquistando un folle slancio. Quando Reese fece una pausa per riprendere fiato, Mark si schiarì la gola e disse, «Ho scoperto qualcosa su di lui oggi. Si chiama Edward Lewis Weyland ed è un famoso antropologo.» Be', attirò decisamente la loro attenzione. Così spiegò qual era l'identità del vampiro. «È già una specie di rapimento, non vedete? Potremmo trovarci in un mucchio di guai. Non è un semplice vagabondo col cervello che non funziona, è un famoso professore.» Roger cominciò a dire qualcosa, risentito, ma Reese lo interruppe. «Sii paziente, Roger. Mark è giovane, ha bisogno di accurate istruzioni.» La faccia di luna piena di Reese sembrava placida, ma l'uomo fece schioccare le nocche della mano con uno scricchiolio smorzato. «Lui ritiene che quello che abbiamo qui sia semplicemente un uomo comune, sebbene rinomato, con una stravagante predilezione per il sangue umano... ma fondamentalmente una creatura umana come noi alla quale si applicano le leggi della società umana. «Tuttavia, io sono qui per dire a entrambi — e sono qualificato per dirlo — che quello che avete dietro le sbarre qui dentro, non è semplicemente un essere pervertito. Avverto un'aura intorno a lui, e ho scagliato i miei incantesimi per sottomettere la sua vera natura soprannaturale e renderla docile.» «Non combatte contro di lei perché è ferito,» sbottò Mark. «Oh, non nego che il vampiro abbia un carapace vulnerabile e che quell'involucro sia stato danneggiato. Ma se tu potessi vedere dietro la maschera, Mark, come posso io, sapresti subito che costui non è affatto una persona. È un diavolo succhia-sangue, e non è soggetto ad altre leggi che a quelle del Grande, i cui rituali io studio.» Discutere era inutile. Quindi Mark si ritirò nella sua stanza, e rimase impegnato alla sua scrivania finché i due uomini, ancora conversando, non se ne andarono. Allora uscì nel corridoio, con l'intenzione di prepararsi qualcosa da mangiare. Non si era proposto di guardare nella cella di fronte, ma non riuscì a farne a meno. Il vampiro sedeva coi gomiti sulle ginocchia, le mani strette contro la bocca come se si stesse mordendo le nocche. I suoi occhi spalancati parve-
ro fare un balzo per agguantare Mark. Con voce bassa e tesa, il Dr. Weyland disse, «Fammi uscire.» Con la faccia ostinatamente voltata dall'altra parte, Mark scosse la testa, no. «Perché no?» «Guardi,» disse Mark, «lei non capisce. Io sono soltanto una specie di ospite qui. Roger non si cura dei miei affari e io non mi curo dei suoi.» «Alan Reese mi ucciderà.» «Roger farà in modo che nessuno potrà farle del male!» Mark era scioccato. Il Dr. Weyland aveva davvero frainteso Roger fino a questo punto? «Reese porterà una dozzina di suoi seguaci qui alla Vigilia di Calendimaggio. Credo che Roger, di fronte a loro, non si comporterà esattamente con audacia.» «Ma questa è casa sua. Non lo consentirà.» «Non avrà scelta. Non hai capito che genere di uomo è Reese?» «È solo un amico bizzarro di Roger,» disse Mark a disagio. «Non accadrà nulla di terribile.» «Nulla di terribile?» il Dr. Weyland sembrava guardare nel vuoto e parlare più a se stesso che a Mark. «Ho sentito le sue mani su di me, ho visto i suoi occhi. Non è il primo a desiderare quei poteri che ritiene che io abbia.» Mark avvertì un formicolio al cuoio capelluto. Disse in fretta, «Guardi, lei sta dimenticando... questa è un'idea di Roger, è lui che sta dirigendo tutto. Si è preso cura di lei per tanto tempo, no? Voglio dire, Roger può essere una sorta di eccentrico sconsiderato e Reese fa senza dubbio un po' paura, ma non sono... non sono come quelle persone che le hanno sparato addosso, per esempio.» Il Dr. Weyland si accigliò. «Naturalmente no. Quella è stata questione di scarso giudizio da parte mia e di autodifesa da parte di quella donna — un incidente di caccia, niente di più.» «È stata una donna?» Mark era affascinato, suo malgrado. «Sì, una donna dotata di discernimento e competenza maggiori di quelli che avevo immaginato. Ha agito come agisce una preda intelligente. Voleva sfuggirmi, e c'è riuscita. «Ma questo Reese vuole... usarmi, strappar fuori la mia forza vitale e divorarla, come gli uomini che una volta mangiavano il cuore dei nemici uccisi al fine di acquisirne la forza e l'abilità in battaglia.» Sovrapponendosi alle ultime parole del vampiro, Mark disse a voce alta,
«Questo non ha senso. Non sono venuto qui per ascoltare un mucchio di stronzate senza senso.» Si sentiva il volto in fiamme. Corse lungo il corridoio fino alla cucina. Aveva perso l'appetito. Tirò fuori l'amuleto di Reese e lo gettò nell'immondizia. Più tardi, quando cercò Appunti su un Popolo Scomparso che aveva usato per provare l'identità del Dr. Weyland, non riuscì a trovarlo. Doveva essere stato Reese a prendere il libro. Per tutta la mattina successiva Mark temette una prosecuzione dello sconvolgente colloquio col Dr. Weyland. Tornò a casa da scuola dopo aver fatto un percorso tortuoso e guardò la TV per un po' nel soggiorno, ma non riuscì a rinviare per molto la nutrizione del vampiro. Consegnò il boccale di sangue con un attrezzo che Wesley aveva realizzato per quello scopo, l'ultima volta che era stato là, attorcigliando una gruccia per abiti intorno all'estremità di un manico di scopa. Allungandosi con questo attraverso le sbarre, Mark spinse con cautela il boccale sul pavimento verso la branda. «Pranzo,» annunciò con un tono che sperava avesse scoraggiato un'eventuale conversazione. Muovendosi molto lentamente, il Dr. Weyland si chinò e raccolse il boccale, lo vuotò, e lo appoggiò di nuovo con cura sul pavimento. Disse, «Puoi portarmi qualcosa da leggere?» Colto alla sprovvista, Mark ammiccò scioccamente verso di lui. «Da leggere?» «Sì. Da leggere. Libri, riviste, giornali. Roba stampata. Anche se, naturalmente, non posso pagarti per questo servizio dal momento che hai già "guadagnato" tutto ciò che possedevo.» Quelle tre notti di racconta-favole avevano già trasferito il secondo quarto di dollaro e il temperino nelle tasche di Mark. Come avrebbe potuto, altrimenti, rendere chiaro al di là di ogni dubbio al Dr. Weyland che egli operava su una base strettamente affaristica? «Adesso Roger mi paga per sorvegliarla,» borbottò. Andò nel soggiorno e raccolse tutto quello che c'era sul tavolino da caffè. In cima alla pila pose gli occhiali dalla montatura di corno e spinse il tutto nella cella. Il Dr. Weyland prese gli occhiali e li inforcò. Dio, pensò Mark, con gli occhiali è soltanto un vecchio, come Mr. Merman a scuola. «Una lente era incrinata quando li hanno portati.»
Si mise ad osservare, mentre il vampiro, seduto con la coperta blu intorno alle spalle, scorreva il mucchio disordinato. «Harper's, The Village Voice, Women's Wear Daily, The New Yorker, Prevention. Tuo zio si abbona a tutto ciò che viene pubblicato, indipendemente dal contenuto?» «Non è che abbia il tempo di leggere tutto, comunque,» disse Mark. «Adesso mi tocca fare i compiti.» In realtà, aveva parecchio tempo per farli. Non riusciva a trovare il suo dizionario. Esitante, domandò, «Cosa significa secondo lei "cinestetico"?» «Cerca sul dizionario,» replicò il vampiro. «Non riesco a trovare il mio dizionario.» Il Dr. Weyland scandì la parola. Poi disse, «Cinestetico? Cosa stai scrivendo?» «Un tema assegnato su una poesia sdolcinata,» rispose Mark. «Posso vederla?» Il Dr. Weyland mise da parte le riviste. Col manico di scopa Mark spinse dentro il libro di poesie. Il Dr. Weyland lo aprì nel punto contrassegnato dalla cannuccia appiattita. «La Terra del Piacere Perduto,» mormorò. «Nel mio cuore un'aria che uccide spira da quel paese lontanissimo...» La brutta copia di Mark per il tema era infilata sotto la copertina. Il Dr. Weyland la lesse rapidamente e alzò la testa, con uno sguardo penetrante che mise a disagio Mark. «Interessante,» disse il vampiro. «Il secondo paragrafo, col titolo "Senso Cinestetico", dove osservi, "Il Poeta parla delle strade che percorre, ricorda i muscoli che si muovono mentre cammina..." Questo risponde a una domanda dell'insegnante?» «Sì, riguardo a quali sensi usa il poeta nella sua poesia.» «Ma quando Housman scrive di "un'aria che uccide", dubito che voglia dire che ne sente l'odore,» disse il Dr. Weyland. «La brezza mortale mi sembra soffiare direttamente nel cuore di Housman, escludendo i suoi sensi.» Mark si agitò, inquieto, davanti alle sbarre. Avrebbe dovuto saperlo; non c'era niente di peggio che farsi aiutare da un adulto a fare un compito. Disse, «Be', senza l'odore ci sono soltanto la vista e il senso cinestetico. Sono solo due sensi. Ho bisogno di altro. Il professore vuole almeno due pagine intere, con spaziatura doppia.» «Capisco,» disse seccamente il Dr. Weyland. «Tuttavia, mentre il punto sulla memoria muscolare ha un certo valore, sia pur minimo, faresti meglio a evitare un paragrafo sui cinque sensi. Quindi la brutta copia andrebbe avanti molto più agilmente dal primo paragrafo sull'atmosfera fiabesca della
poesia, al secondo sulla sua semplicità infantile, fino alla tua conclusione concernente il significato.» Mark rimase astiosamente silenzioso. Il Dr. Weyland diede un colpetto con l'indice sul margine del foglio. «Vedo che hai intenzione di concludere, "Questa poesìa mi piace moltissimo". Ma l'hai definita una "poesia sdolcinata" quando ne hai parlato prima.» «Odio questo compito!» sbottò Mark. «La poesia non ha alcun senso. Cos'è, ad ogni modo, "un'arte che uccide?" Gas velenoso? È solo uno stupido e bambinesco piagnisteo senza alcuna motivazione.» «Bene, ti sei reso conto che hai evitato il punto fondamentale,» disse il Dr. Weyland; «cosa può essere, precisamente, "un'aria che uccide" e che cosa essa distrugge nel poeta. E riguardo al piagnisteo, hai mai dovuto lasciare alle tue spalle un'esistenza che ti si adattava meglio di quella che ti stava davanti?» Senza una ragione precisa Mark sentì la pressione delle lacrime negli occhi. Si voltò, incollerito e imbarazzato. «Io ho dovuto farlo,» aggiunse meditabondo il Dr. Weyland. «Spesso.» «Questo non vuoi dire che uno debba andarsene in giro piagnucolando in continuazione,» borbottò Mark. «Posso riavere quella roba adesso? Devo andare a battere a macchina il compito.» «Non puoi ancora,» disse il Dr. Weyland. «Almeno finché non hai preso in considerazione il punto centrale.» «Sono solo al primo anno delle superiori, sa. Non posso sapere tutto.» «Cos'è l'aria che uccide?» domandò il Dr. Weyland, inesorabile. «Perché lui le consente di entrare nel suo cuore?» «Credo che sia la sua memoria,» disse all'improvviso Mark, «e lui le consente di entrare nel suo cuore perché è un cretino. Si sta facendo... si sta rendendo infelice col ripensare alla sua infanzia felice. Solo uno stupido cretino se ne va in giro ripensando alla sua infanzia. L'infanzia della maggior parte delle persone in realtà è abbastanza schifosa.» «Non è necessariamente all'infanzia che egli si riferisce,» disse il Dr. Weyland, «Anche se in questo senso esponi delle buone argomentazioni nella tua brutta copia. Ritengo che si riferisca più generalmente... al pericolo di guardare indietro ad altri tempi e alla seduzione della memoria. Bene.» Cadde per un momento in un silenzio assente. Poi aggiunse con vivacità, «Credo, incidentalmente, che se davvero la poesia non ti piace dovresti dirlo — e spiegare perché — nel tuo compito.»
«Non posso,» disse Mark. «Il tema è per Carol Kelly, e a lei piacciono le poesie sdolcinate. Di solito.» «Chi è Carol Kelly?» Rammentando all'improvviso che il Dr. Weyland era lui stesso un insegnante, Mark cercò di assumere un'aria di sfida. «Il compito è stato assegnato a lei. Lo sto facendo per lei.» «Molto gentile da parte tua,» mormorò il Dr. Weyland, restituendo il libro. «Mi paga dieci dollari. È un affare.» «Mio Dio,» disse il Dr. Weyland, «una fabbrica di temi! Quanti anni hai... quindici?» «Quindici a giugno.» «Quindici anni e ricco, non ci sono dubbi. Certamente intraprendente.» «Non sono un ingordo,» disse Mark con fermezza. «È importante avere delle entrate personali, questo è tutto. Così non dovrei dipendere dagli altri. Dovrebbe saperlo — scommetto che anche lei è ricco, scommetto che ha accumulato ogni genere di tesori durante i secoli.» «Sfortunatamente, una grande ricchezza, così come la celebrità o una classe sociale elevata, attira troppe attenzioni, per lo più ostili,» disse il Dr. Weyland. «Imparai molto tempo fa a viaggiare senza ingombri e a contare solo sulla mia intelligenza. Adesso non ne sono così sicuro. Che peccato non avere con me diamanti, né borse d'oro dei pirati. Se li avessi, tu ed io potremmo fare una transazione del genere che ti piace, un affare: la mia libertà in cambio del tuo arricchimento.» «Il denaro non cambierebbe niente,» disse Mark. «Gliel'ho detto che non posso lasciarla andare.» Il Dr. Weyland indietreggiò e concluse con tono rude, «Naturalmente. È stato un errore chiederti aiuto. Non te lo chiederò più!» Per un po' di tempo Mark rimase seduto al tavolo da disegno, mordicchiando la matita e modificando più volte il tema. Adesso non riusciva a leggere la poesia senza pensare con infelicità ai suoi genitori. Dio, il Dr. Weyland ti avrebbe fatto diventare matto se lo avessi avuto come insegnante pensò. Era uno di quei tipi mai soddisfatti che ti spremono il cervello sotto l'impressione errata che ti stanno insegnando a pensare. Dopo la scuola un ragazzo del corso di matematica voleva andare al cinema. Mark si scusò di non poter andare, dicendo che aveva delle faccende domestiche da sbrigare. A dire il vero, quel giorno Wesley sarebbe venuto
ad occuparsi della nutrizione del vampiro, e così Mark avrebbe utilizzato il tempo libero per andare a seguire un film e una conferenza sui coyote, al Museo di Storia Naturale. Preferiva vedere gli animali imbalsamati nei musei o nei film, piuttosto che allo zoo. Lo zoo lo deprimeva terribilmente. Il documentario lo spinse ad andarsene prima ancora della fine. Aveva descritto minuziosamente l'intelligenza del coyote, la sua bellezza e il suo ruolo nella natura, ma poi aveva proseguito con una serie di immagini orribili: coyote avvelenati, coyote intrappolati, coyote bruciati, e coyote dilaniati dai cani dei ranch. Mark non riteneva di essere abbastanza freddo per sopportare quel genere di cose. Wesley era ancora a casa, quando Mark fece ritorno. «Ho lasciato a digiuno il nostro amico per stanotte,» disse. «Roger mi ha chiamato e mi ha detto di non nutrirlo. Deve venire gente.» Ugh, forse questo voleva dire Alan Reese. Mentre accompagnava Wesley alla porta, Mark gli disse della visita di Reese. Wesley diede un calcio alla base della scalinata di arenaria. «Merda,» disse. «Pensavo che Bobbie avesse smesso di farsela con tutti quegli svitati del diavolo. Lei e Roger non hanno fatto un viaggio con loro, una volta?» «Sta per cascarci di nuovo,» disse Mark. Wesley scosse la testa. «Ti dico una cosa: Alan Reese è matto. Gli piace fare scene col sangue e altre cose pazzesche. Lui e i suoi amici una volta hanno fatto qualcosa che ha lasciato un intero appartamento al Queens sporco di sangue di gallo. La ragazza che quella notte fece da altare per Reese e i suoi amici ha detto che se lui le avesse rivolto ancora la parola, lo avrebbe denunciato.» «Wesley, sono un po' preoccupato.» «Sì, be', andrà tutto bene. Roger non seguirà Reese fino in fondo. Andrà tutto bene.» Quindi si allontanò fischiettando. Il Dr. Weyland stava seduto a leggere, vestito con pantaloni scuri, calzini e pantofole. I polsini della camicia bianca erano ripiegati, come faceva Mark coi suoi quando le sue braccia erano più lunghe delle maniche. «Roger ha ordinato di non darle nulla da mangiare.» «Temporaneamente, spero,» disse il Dr. Weyland. «Ho bisogno di molto cibo quando sto guarendo. La fame mi fa soffrire.» Mark sostenne il suo sguardo più a lungo che poté. «Le posso portare un po' d'acqua,» disse. «Ma Roger ha detto niente cibo.» Proprio mentre stava per dedicarsi al suo lavoro, Bobbie comparve davanti alla porta d'ingresso, con una donna piccola e tarchiata che indossava
un caffetano e reggeva per una larga cinghia uno zaino ricamato. Bobbie sorrise. «Ciao, Mark. Questa è la mia amica Julie. Abbiamo telefonato a Roger e lui ha detto che potevamo venire a vedere il vampiro.» Mark esitò. Julie aveva sopracciglia scure e altezzose e una bocca decisa. Bobbie non avrebbe osato portare qualcuno senza aver ottenuto veramente il permesso da Roger, e comunque Roger sarebbe tornato presto. Le fece entrare, ma chiese loro di attendere, perché avrebbero visto il vampiro non appena Roger fosse rientrato. Julie si sedette sulla grossa poltrona accanto alla pianta di avocado ed esaminò il soggiorno. «Roger deve avere delle buone vibrazioni, se riesce a conservare felicemente tante creature vegetali nella sua casa.» Bobbie, raggomitolata su un poggiapiedi, sorrise a Mark. «È soprattutto Mark che si prende cura di loro. Quando non c'è lui, va tutto al diavolo.» Voltandosi verso Mark, Julie disse, «Per caso non ha qualcosa del vampiro a portata di mano da mostrarmi mentre stiamo aspettando — una spazzola per capelli, degli abiti usati? Posso dire parecchio su una persona con questo genere di cose.» Un'altra pazza. Mark si recò alla cella. «Mi può dare la sua spazzola per capelli, per favore?» Il Dr. Weyland mise giù il libro e andò a prendere la spazzola nel minuscolo bagno. La cella spoglia parve più stretta che mai quando la sua figura alta e curva la attraversò. Julie prese la spazzola e tirò via un capello dalle setole. «Un uomo,» disse con sicurezza, «non un demone.» Tenne la spazzola contro il petto. «Parlami dell'uomo, Bobbie.» Quindi Mark si mise ad innaffiare le piante, ascoltando mentre loro parlavano. Quando non riuscì più a reggere il torrente confuso di «wow» e di «terrificante», e di altre espressioni generiche di sgomento che impediva a Bobbie di concludere un pensiero o una frase, cedette e le condusse entrambe nel corridoio per una rapida occhiata al Dr. Weyland. Il vampiro alzò brevemente la testa dalla sua lettura, ma non disse nulla. Le due donne si scambiarono quella che Mark suppose fosse un'occhiata eloquente e tornarono senza commenti nel soggiorno. Là rimasero silenziose per diverso tempo finché Mark, annoiatosi, se ne andò nella sua stanza. Stava terminando un compito di matematica quando sentì affiorare una musica... no, una salmodia. E uno strano odore... Da dietro la grata il Dr. Weyland gridò, infastidito, «Faresti meglio ad
accertarti che non stiano bruciando l'edificio.» I tappeti del soggiorno erano stati arrotolati e il mobilio spostato contro le pareti. Un fumo grigio si sollevava in spire dai bastoncini di incenso, conficcati nella terra soffice dei vasi delle piante. Tutte le piante più alte erano state raggruppate al centro del pavimento. Le due donne stavano saltellando, completamente nude, intorno a quel gruppo di vegetali. Sotto le piante c'era un mucchietto di oggetti. Julie posò una penna di pavone e raccolse un coltello. Sollevandolo in alto con entrambe le mani, marciò, seguita da Bobbie, prima in direzione di un angolo della stanza poi verso un altro. Mark si mise a fissare i loro corpi. Bobbie era snella e abbronzata su tutto il corpo, e Julie era bianca e tozza. Si muoveva a sobbalzi. Lui sentiva che il volto gli stava diventando rovente, ed era lacerato fra l'estremo imbarazzo e il panico. Se Roger avesse visto... «Scacciamolo!» gridò Julie. «Bandiamo lo spirito maligno succhiatore di sangue col potere della Sua fase oscura.» Tenne il tozzo pugnale, una specie di coltello per spalmare la senape con l'impugnatura coperta da nastro isolante nero, col manico puntato verso ogni angolo della stanza in successione. «Per i Suoi fertili lombi.» Prese un pugno di terra da una pianta di avocado e la sparse per terra. «Per il potere della Sua faccia splendente.» Un nastro bianco fluttuò nell'aria fumosa. Bobbie mise giù il vassoio che stava reggendo e, raggiuntolo di corsa, sussurrò a Mark, «Ci sbrigheremo abbastanza presto. Voglio dire, mi rendo conto che si tratta di una sorta di imposizione, ma non mi sembrava una buona cosa parlare ad Alan di... lui. Alan potrebbe anche non fare nulla, ma non puoi mai dirlo una volta che viene davvero coinvolto e comincia a sentire gli spiriti che gli dicono di fare questo e quello. Alan è molto potente sotto certe configurazioni planetarie. «Julie ha un approccio differente, sai, una sorta di attitudine più calda e delle vibrazioni veramente scintillanti e positive.» Julie oscillava da sola in mezzo alla stanza con gli occhi chiusi, accarezzando le foglie delle piante. «Fermala,» supplicò Mark, «e cominciamo subito a pulire prima che Roger...» Roger entrò. Julie sollevò le braccia. «Per il potere dei miei spiriti soccorritori, dichiaro libero l'uomo prigioniero, scaccio la maledizione da lui, scaglio...» «Gee-sù!» Roger irruppe nel soggiorno, prendendo a calci gli oggetti
magici e scaraventando a terra i bastoncini di incenso. Julie fece un rapido giro in mezzo al pavimento. «Indirizziamo i nostri canti alla Madre!» gridò. «Rimettetevi i vostri dannati abiti,» ordinò Roger, più rosso per lo sforzo di quanto lo fosse lei per i suoi. «C'è un ragazzino qui, baldracche!» «Siamo vestite di cielo,» ribatté fieramente Julie. Indossò il caffetano e si avviò verso la porta, raccogliendo le sue cose e ficcandole nello zainetto. Bobbie, rivestita e coi sandali in mano, le andò dietro. «Aspetta un minuto,» disse Roger, afferrando il braccio di Bobbie. «Maledizione, Bobbie, che facciamo adesso con questo pasticcio che mi avete combinato qui voi due? Aspetto gente che arriverà fra poco, Satanisti seri.» Julie si fermò nel corridoio reggendo lo zaino su entrambe le braccia e fissandolo con occhi truci. «Mi dispiace,» disse gelidamente, «ma noi non serviamo a nulla per queste incombenze terrene, quando i nostri rituali vengono interrotti. Tutto ciò che posso dire è questo: se il nostro operato non è servito a quel poveretto, è colpa tua. Qualsiasi sciocco, tranne Alan, si renderebbe conto in un minuto che quell'uomo non è un demone. Non con una faccia come quella, una bocca così severa e bella, e quella gravità e saggezza nello sguardo — e se quelli che stai aspettando sono amici di Alan, be', sono soltanto un mucchio di...» «Chiudi il becco.» Roger spalancò con uno strattone la porta principale e la spinse fuori. Bobbie fornì una debole versione del suo largo e luminoso sorriso, e mormorò, «Mi spiace, Roger,» e proseguì. Roger richiuse violentemente la porta e fece scattare la serratura. «Vieni,» disse irosamente a Mark, «aiutami a rimettere in ordine qua dentro. Sto cercando di gestire questa faccenda in modo che diventi una vera esperienza per la gente di Alan, e quelle due vengono e trasformano tutto in uno stupido spettacolo di second'ordine! Credevo che Bobbie volesse portare con sé qualche specie di medium esotica che sarebbe stata un'aggiunta di classe, ed ecco cosa ho ottenuto.» I visitatori, un gruppo elegante e ciarliero, arrivarono subito dopo. Con sollievo di Mark, Alan Reese non era con loro. Roger, che aveva riacquistato il suo buon umore, raccontò con soddisfazione la storia di come il vampiro era stato scoperto e portato da lui. Quando tutti raggiunsero il giusto grado di impazienza, li guidò lungo il corridoio fino alla cella. Mark li seguì. Aveva la bocca secca. Non gli piaceva l'atmosfera che
quella gente portava con sé. Sembrava che neanche Roger li conoscesse, pensò; erano come gli estranei coi quali ti capita di stare in fila davanti a un cinema. Una donna grassoccia dall'aspetto nervoso andò nella cella con Roger. Quando il Dr. Weyland la guardò, cominciò a esitare. «Andiamo, Anne,» dissero quelli che stavano vicino alla porta. «Hai detto che ti sarebbe piaciuto.» «Hai detto ad Alan che lo avresti fatto.» Lei fece un sorriso spaventato e lasciò che Roger la guidasse fino alla branda. Lui le premette le spalle. Lei si appollaiò rigidamente accanto al Dr. Weyland. Roger gli disse sommessamente, «Bevi, vampiro. Tutti aspettano per vederti.» Lo sguardo del Dr. Weyland si spostò di volto in volto. Sembrava pallidissimo. Il sudore luccicava sulla sua fronte. Mark avvertì un senso di nausea, ma non riuscì a distogliere lo sguardo. «Entrate, così potrete vedere meglio,» disse Wesley agli spettatori. Una delle donne disse, «Si vede bene anche da qui; non abbiamo intenzione di stare l'uno addosso all'altro. Dio, che stanza minuscola.» Si accese una sigaretta. «Comincia a bere,» disse Roger. «È tutto quello che vogliamo.» Il Dr. Weyland stava seduto immobile, e adesso guardava il pavimento. Mark pensò, Non farlo, non farlo davanti a loro. «Ha i capelli grigi,» disse un uomo. «Credevo che vivessero in eterno senza invecchiare.» L'uomo accanto a lui replicò, «Forse quando berrà tornerà giovane davanti ai nostri occhi, come nei film dei vampiri.» «O forse gli accadrà qualcosa che non consentono di far vedere nei film.» Tutti ridacchiarono. Il Dr. Weyland si allungò e afferrò un braccio di Anne. «Ugh,» boccheggiò lei mentre quello cominciava. «Gesù!» Si allontanò quanto poté da lui restando seduta sulla branda, la faccia contorta dal disgusto e dalla paura. Gli spettatori si accostarono di più alle sbarre e sussurrarono, eccitati. Mark non riuscì a vedere più nulla, e fu lieto. Più tardi, Anne venne fuori gridando e fu condotta nel bagno degli ospiti. Gli altri si accalcarono nel corridoio per raggiungere il soggiorno, parlando e prorompendo in esclamazioni. Oltrepassando il bagno, una donna inclinò la testa in direzione dei singhiozzi che provenivano dall'interno.
«Se solo si fosse rilassata e fatta strapazzare un po', scommetto che si sarebbe divertita.» Quello con la sigaretta si voltò a guardare Mark e la zittì, e tutti e due emisero delle risatine soffocate. Il Dr. Weyland sedeva tranquillo sulla branda, le grosse mani rilassate e pesanti sul grembo, la faccia ossuta immobile. Il suo sguardo sfiorò leggermente Mark come quello di un gatto sonnecchiante, che sorveglia ogni movimento, per abitudine: senza scopo, senza desiderio, senza discernimento. Mark entrò nella sua camera e chiuse la porta. Nella posta di Roger c'era una lettera per Mark. Era di suo padre, e c'era del denaro dentro. Avrebbe tenuto il denaro in un cassetto finché non avesse potuto portarlo in banca e aggiungerlo al suo deposito a risparmio che derivava specialmente dalle piccole mance dei genitori. Aveva giurato che non avrebbe mai fatto un prelievo da quel deposito, e che un giorno avrebbe restituito loro il denaro perché ne facessero quello che volevano. Tornò alla cella. «Ecco i suoi occhiali aggiustati,» disse. Era stata una sua idea; sapeva che le lenti incrinate facevano venire il mal di testa. Il Dr. Weyland si avvicinò alla porta. «È un buon lavoro. Non posso restituirti i soldi che hai speso.» «Gliel'ho detto, è Roger che provvede a queste cose.» In realtà, Roger sarebbe morto prima di spendere denaro per qualcosa come aggiustare gli occhiali di un vampiro. Mark aveva pagato di tasca sua. In seguito avrebbe pensato a come farsi restituire i soldi da Roger, anche perché la somma era piccola. Era risultato che le lenti non erano graduate, ma semplici lenti d'ingrandimento, del tipo che si può acquistare tramite catalogo, per leggere con maggiore facilità. Mark andò a sedersi al tavolo da disegno. Il Dr. Weyland, ancora vicino alla porta, gli domandò, «Cosa fai seduto a quel tavolo per tante ore di seguito?» Dopo le critiche ricevute per il tema di Carol Kelly, Mark era diffidente. Ma, proprio per questa ragione, si poteva fidare di un parere onesto dal Dr. Weyland. Nervosamente, gli passò un disegno di Skytown. Il Dr. Weyland stese il foglio contro la parete con un tocco delicato delle sue mani lunghe e pulite. Adesso che era più forte, si manteneva immacolato. Mark era sgradevolmente consapevole delle proprie unghie mangiucchiate e delle
nocche sempre sporche. «"Piastre di gravità",» lesse il Dr. Weyland. «È una parte di una nave spaziale?» «Una stazione spaziale, con due veicoli ausiliari e una squadra di robot per la manutenzione. È progettata per un unico operatore umano.» «E questo è un disegno della libreria... Piacevole concessione al passato, se si considera che ormai un numero enorme di informazioni viene già conservato su microfilm e nelle memorie del computer, piuttosto che in stampa.» «Be', una libreria potrebbe essere una specie di extra,» disse Mark. «Ma è meglio averla,» replicò il vampiro. «La memoria elettronica e i sistemi di recupero delle informazioni sono efficienti, ma l'efficienza è solo un aspetto positivo fra tanti altri. I libri sono bei strumenti e buoni amici — istruttivi, discreti, controllabili. Ci sono altri disegni?» Esaminò i disegni di Skytown a lungo, e alla fine li restituì, dicendo, senza alcuna traccia di condiscendenza, «Vedo che le tue migliori qualità riflessive sono confluite in questi schemi. Sono ben progettati e disegnati con abilità. Hai un dono per la visualizzazione e una mano ammirevolmente salda.» Mark arrossì per il piacere. All'improvviso era valsa la pena aver sopportato il Grande Massacro del Tema su Housman. «Sentivo una grande necessità di un diversivo del genere dopo le mie interminabili letture,» aggiunse il Dr. Weyland, indicando una pila di nuovi libri di Roger sul pavimento accanto alla porta. Erano tutti sulla magia, sulla stregoneria e sul culto del Diavolo. Sul volume in cima al lotto era stampata la parola KABALLAH in oro. Il Dr. Weyland diede un colpetto sdegnoso alla pila con la punta della pantofola, rivelando un libro intitolato Il Grimorio di Gudrun e un altro, Athame e Athanor. I colori sgargianti delle copertine facevano sì che la cella dalla pareti bianche sembrasse più spoglia che mai. Mark disse, «Cos'è un "grimorio"?» Il Dr. Weyland corresse la sua pronuncia. «Un grimorio è il libro degli incantesimi personali e dei rituali di una strega. "Athame" o "althame", secondo questi testi, pare sia l'antico nome di un pugnale da cerimonia con la lama corta e l'impugnatura nera che le streghe usavano nei loro rituali. Comunque, mi sembra di ricordare che questa parola, in realtà, sia stata inventata da un fantasioso scrittore della fine del diciannovesimo secolo.» «E "athanor"?»
«Spero che tu abbia ritrovato il tuo dizionario, perché per il momento il suo significato mi sfugge. Ad ogni modo, sono stufo di questi tipi di libri — li ho letti fino al limite della sopportazione — e non posso costringermi a scendere completamente al livello del libro di ricette di Gudrun. Cerca di capire, ti sono obbligato per avermeli procurati, ma francamente sono poco leggibili — presuntuosamente cospirativi, paralizzanti nelle ripetizioni, abominevolmente imprecisi, e ignobilmente curati.» «Roger sfiora soltanto quello che legge.» «Saggio da parte sua,» disse il Dr. Weyland. «Con libri come questi la scelta chiaramente è fra sfiorare e affondare.» Mark si strinse lo stomaco ed emise un gemito di apprezzamento. Sollevò i libri fra le sbarre. «È tutto falso, allora? La magia, i diavoli e roba del genere?» «Sostanzialmente. Credo che ci siano individui dotati che possano compiere atti soprannaturali, di solito in maniera stravagante e imprevedibile, quindi con effetti risibili sul mondo.» «Lei può? Voglio dire, può fare magie?» «Posso compiere azioni che, pur essendo naturali per me, sarebbero estremamente innaturali per te,» disse il Dr. Weyland. «Ma magie... no.» Mark disse d'impulso, «Lei è molto vecchio, non è vero?» «Sì.» Il Dr. Weyland se la sarebbe cavata molto bene, decise Mark, ora che aveva recuperato le forze. Anche di fronte ad Alan Reese. Quella notte, quando il Dr. Weyland allungò le mani verso il giovane che Reese aveva mandato, Roger gli ordinò, «Non il braccio. Il collo. Queste persone hanno pagato per vedere la realtà. Afferra il collo.» Per un momento il vampiro li fissò con sguardo insondabile. Poi afferrò il giovane per le spalle e si chinò sul suo collo. Gli spettatori trattennero il fiato. La vittima strinse vanamente i polsi del Dr. Weyland e si mise a piagnucolare. Mark distolse lo sguardo. Alla fine gli spettatori applaudirono, e lui li odiò. Si riunirono nel soggiorno a chiacchierare; il vampiro era davvero un bruto affascinante, e persino attraente, sia pure in maniera insolita e vaga per quella gelida riservatezza, quello sguardo d'aquila. Non venivano i brividi nel vederlo stringere a sé una persona in quel modo e succhiarle il collo? Quello già valeva il biglietto. Era come un rapporto sessuale per il vampiro? Shh, dov'è Mark? A lavare i piatti, non può sentirci col rumore
dell'acqua. Qualcuno rammentò di aver letto che i pipistrelli-vampiri a volte succhiano così avidamente la loro preda che diventano troppo pesanti per volare e sono costretti a tornare alle loro tane zampettando. Oh, ah, questa era buona — barcollare di notte lungo la strada, ruttando a tutto spiano. Mark terminò nella cucina e andò a letto. Si mise il cuscino sopra la testa per attutire il suono delle loro risate. La Vigilia di Calendimaggio era fra una settimana e mezza. Il padre gli telefonò il giorno dopo. «Hai ricevuto quello che ti ho spedito?» Spesso parlava come se pensasse che la linea telefonica fosse controllata. «Sì, papà. È in banca.» «Mark, ti ho detto centinaia di volte che se ti dò del denaro è perché voglio che tu lo spenda. Potrei metterlo io stesso in banca. Guarda, so che tua madre ti fa dei predicozzi per farti mettere da parte dei risparmi, nel caso io smetta di mandarle gli alimenti, ma questa è una stronzata. Sai che puoi contare su di me.» «Lo so, papà. Quando andremo a pranzo assieme?» Suo padre cominciò a parlare di un convegno medico in cui era impegnato per quella settimana. Gli eminenti cardiochirurghi Tizio, Caio e Sempronio — il padre si mise a snocciolare nomi a raffica. Mark tenne la cornetta fra il collo e la spalla, dicendo «Uh-huh» durante le pause. Era seduto sul divano, con le dita dei piedi comodamente infilate fra i cuscini, e stava lavorando alla sezione sala-giochi del progetto Skytown. Sentire la voce di suo padre era piacevole, un promemoria che il mondo intero non girava solo intorno alla cella in fondo al corridoio. Forse, se il padre fosse rimasto abbastanza a lungo al telefono, il tempo sarebbe passato, e allora Mark avrebbe nutrito il vampiro, e Roger avrebbe chiamato troppo tardi per annunciare l'arrivo di cibo fresco. Allora la serata sarebbe stata tranquilla, e non ci sarebbero stati visitatori a lanciare occhiate lascive nella cella del Dr. Weyland. «...partita di basket mercoledì, va bene? Ciò significa che dovrò rinunciare a una conferenza su bla bla bla... Dr. Candleman, l'uomo dei trapianti... bla... Possiamo prima mangiare un boccone in quel posto nel Garden, quella steak house. L'altra volta ti è piaciuto.» Mentre si mettevano d'accordo, Mark pensò a come avrebbe reagito suo padre se lui, all'improvviso, avesse detto, «Ehi, indovina un po', papà: qui abbiamo un vampiro ferito.
Roger porta a casa delle vittime, così il vampiro può bere il loro sangue, e lui incassa il prezzo del biglietto da quelli che vogliono assistere.» Un nuovo spettacolo sportivo: hot dog. Il padre sarebbe rimasto a lungo in silenzio, e poi avrebbe detto, Va' a trovare il Dr. Stimme, lo sapevo che era un errore farti interrompere le vìsite da lui, ma a tua madre non è mai piaciuto perché era troppo imparziale. Il padre disse, «Come sta Roger?» «Bene. Indaffarato.» «Mark, non far passare troppo tempo prima di farmi una telefonata, okay?» Mark disse ciao e riattaccò. Poi mise da parte i progetti di Skytown e percorse il corridoio coi soli calzini ai piedi fino al Dr. Weyland. «Ha fame?» disse. «Prima di portarmi da mangiare non devi attendere la chiamata di zio Roger?» Mark indugiò. «Mi dispiace,» disse alla fine. «Per il fatto che Roger porta gente qui.» Il Dr. Weyland lo guardò, il mento sulla mano. «Come performance ha il suo lato sgradevole: stanno davanti alla grata a guardare come leoni che osservano il Cristiano prescelto per loro. Ma il cibo fresco è il benvenuto, e mangiare in pubblico è cosa abbastanza comune.» Mark avrebbe dovuto sentirsi sollevato nel vederlo così tranquillo invece che spaventato e incline a discorsi incontrollati e aspri. Eppure scoprì che si sentiva offeso per quel tono distaccato. Nessuno dovrebbe essere così freddo davanti a esibizioni degradanti come quelle. «Non si tratta semplicemente di mangiare in presenza di quelli che vengono qui. Essi rendono questa cosa ignobile.» «Questo, come si dice oggi, è un problema loro.» «La prima volta l'ho visto,» lo accusò Mark. «Lei non voleva. Sapeva che era una cosa disgustosa — quella gente a fissare...» «Hai mai visto una folla in azione?» chiese il Dr. Weyland. «Rimarresti stupito nel sapere quanti pezzetti di un corpo vivo possono essere staccati con l'ausilio di un coltello, o anche coi denti e le unghie, in modo che quella gente possa portare via dei souvenir di un evento memorabile. In questo appartamento chiuso cinque o sei persone costituiscono una folla, e io... ero e resto al di fuori dei confini della moralità. All'inizio avevo paura di quello che potessero farmi, vedendomi mentre mi nutrivo. Ma tu sei qui e questo mi rincuora. Ci sono delle cose che a loro piacerebbe fare e vedere
in aggiunta all'attrazione principale, ma davanti a un ragazzíno si astengono dal suggerire quelle peggiori.» In quel momento lo sguardo pensoso e dalle palpebre pesanti del vampiro lo fece apparire incredibilmente vecchio. «Almeno,» aggiunse, pensieroso, «sembra che abbiamo superato il pericolo che Roger potesse semplicemente consegnarmi al Central Park Zoo.» «Sarebbe così brutto?» chiese Mark, con cautela. «Se là ci fosse qualcuno — uno scienziato del museo, per esempio — al posto di, be', Roger... E di Alan Reese.» Dopo un momento il Dr. Weyland disse sommessamente, «Per te essere costretto a crescere dall'ingenuità di un bambino al realismo di un adulto, così rapidamente, dev'essere doloroso. Apprezzo il fatto che tu abbia cercato di suggerire un'alternativa alla Vigilia di Calendimaggio. Comunque, ti assicuro che gli scienziati non costituirebbero un miglioramento, anche se all'inizio sarebbero più sistematici di Reese, che è guidato dalla brama di potere. Gli uomini di scienza troverebbero subito le risposte più semplici — che il mio nome deriva da una lapide di un cimitero di una chiesa del New England, e che il suo originario possessore è morto all'età di sette anni; che tutto ciò che ho conseguito nella mia carriera sotto quel nome, può essere suddiviso in quello che ho realizzato e in quello che ho falsificato, a dispetto dei grandissimi ostacoli posti sul mio cammino dai sistemi di raccolta di dati computerizzati; inoltre, probabilmente, che in passato ho ucciso per fame o per mantenere segreta la mia natura, dal momento che queste sono necessità ricorrenti della mia esistenza. Tutto molto emozionante, senza dubbio — senza precedenti, stupefacente, l'ideale per il best-seller che a Roger piacerebbe scrivere. «Ma il segreto più nascosto, il segreto di poter sopravvivere a lungo dopo che questi uomini curiosi sono diventati polvere, posso rivelarlo in un solo modo, poiché io stesso non lo conosco. Alla fine essi perderebbero la pazienza e mi farebbero a fette per vedere di trovare la risposta nel mio corpo — nel cervello, nel cuore, nell'intestino, nelle ossa. La scienza sarebbe crudele come la folla. L'unico favore possibile è la libertà.» «Okay, niente scienziati,» disse con ardore Mark. «Dimentichi che io le abbia detto qualcosa. Solo, mi lasci in pace. Aveva detto che non mi avrebbe più chiesto aiuto!» «L'ho chiesto,» disse il Dr. Weyland con la stessa voce bassa «perché sono disperato.» Il cuore di Mark martellò contro le costole. Lui guardò l'orologio. «Sono
le quattro, è l'ora del suo pasto.» Stava vicino al congelatore quando squillò il telefono. Era Roger: «Non dargli nulla», disse. Alan Reese venne quella notte. Arrivò tardi, quando gli avvertimenti preliminari di Roger ai "nuovi arrivati" si erano conclusi e tutti si erano recati nel corridoio davanti alla cella del Dr. Weyland. Mark stava osservando, inquieto, dalla porta della sua stanza. Cercò di ritrarsi, portandosi fuori dalla visuale, affinché Reese non lo notasse. Odiava, odiava davvero, quella faccia rotonda e compiaciuta, quegli occhi azzurri guizzanti, calcolatori e avidi. Senza la valigetta dell'armamentario magico e con addosso una giacca a vento, non appariva pericoloso. La folla si divise con deferenza per lasciarlo passare avanti, e poi premette alle sue spalle aspettandosi qualcosa di speciale ora che lui era lì. Roger, aprendo la grata, disse qualcosa che Mark non riuscì a sentire. Reese assunse il comando senza alzare la voce. Poi con tono severo e piatto, «Quelli di voi che in questa cella vedono soltanto un fenomeno da baraccone sono fuori luogo qui. Vi trovate tutti di fronte a qualcosa che viene dagli abissi, che si trovano dietro alla superficie di "realtà" della vostra esistenza quotidiana. Pensate a questo: voi state guardando in questa stanza e vedete una creatura dall'aspetto umano. Essa guarda voi — e vi vede con l'immenso disprezzo e la brama crudele di un immortale che nutre la sua vita eterna con le vostre insignificanti esistenze. «Per fortuna, fra noi ci sono quelli che hanno abbastanza esperienza e potere da renderlo docile...» Mark sgattaiolò via. Passeggiò su e giù per Broadway, tormentato dal rimorso per aver abbandonato il vampiro a qualsiasi gioco che Reese aveva in mente per quella notte e furioso, perché il Dr. Weyland lo aveva caricato in qualche modo di un senso di responsabilità. Wesley diceva che il vampiro era un progetto di Roger, e aveva ragione, Quindi il responsabile era Roger. Comunque, il Dr. Weyland non era neppure umano, in verità, così come avrebbe potuto lui, Mark, sapere che tipo di persona era e cosa avrebbero dovuto o non dovuto fargli? Quando tornò, c'erano alcune persone fuori dalla porta che stavano chiacchierando, senza dubbio in attesa di Reese, che stava nel soggiorno con Roger: «...dalla Costa, contatti influenti nel mondo dell'occulto. Gli accordi per filmare lo speciale Sabba della Vigilia di Calendimaggio...»
Infilandosi nel corridoio e nella sua stanza, Mark tese l'orecchio per udire la partenza di Reese. Quando finalmente la porta principale si chiuse e furono fatte scattare le mandate, emise un sospiro che sembrava aver trattenuto per ore. Roger scrutò dentro la camera. «Ehi, dove sei andato? Avresti fatto meglio a restare. Alan ha allestito un grande spettacolo. È piuttosto invadente, gli piace impartire ordini, ma ha un fantastico senso del dramma. Ha ingigantito la figura del vampiro, aumentando così il desiderio del pubblico di assistere all'evento cruciale.» «Penso che Reese sia un pagliaccio perverso,» borbottò Mark. Si sedette sul letto piegando le ginocchia, senza incrociare lo sguardo di Roger. «È come quei bambini che si divertono a fare a pezzi gli animaletti vivi, sai? Solo che lui lo definisce un "rito". Potrebbe fare qualsiasi cosa volesse e nessuno riuscirebbe a fermarlo. Le sue mani potrebbero sbranarti vivo, mentre lui ti spiega, con tutti quei paroloni, che il tuo spirito ha bisogno della sua libertà per cui ti sta facendo davvero un favore.» «Leggi troppa letteratura di merda,» disse Roger con tono tagliente. «Al vampiro non è accaduto niente di male stanotte, mentre eri via; e nulla di spaventoso accadrà.» Dall'altro lato del corridoio, il Dr. Weyland evitò lo sguardo di Mark. Il vampiro sembrava indifferente, distante, ma c'erano chiazze di sfinimento sotto i suoi occhi, e le sue spalle erano curve come se avesse sopportato una grande tensione. «Credo che sia spaventato,» disse Mark. «Nessuno è spaventato tranne te,» sbottò Roger. «Chiunque altro sa — anche lo stesso vampiro, ci puoi scommettere — chiunque altro sa che qui stiamo facendo solo del grande spettacolo, questo è tutto.» La sua voce si addolcì. «Andiamo, Mark, rilassati. Buona notte, ora.» Mark giacque rannicchiato sotto le coperte pensando al Dr. Weyland. Sapeva che in una situazione in cui ci si trova alla mercé di altra gente, si avverte la necessità di avere calma e fiducia. Era orribile. Roger portò a casa un giovane con la coda di cavallo, con indosso un paio di calzoni tagliati al ginocchio ed una camicia pachistana bianca. Mark era a letto quando essi apparvero nel vano della sua porta. Roger, dietro l'estraneo biondo, diede un colpetto all'interruttore ed accese la luce. Il biondo cominciò a voltarsi verso Roger, dicendo, «Il ragazzo sorveglia le tue cose?»
Roger lo afferrò per il collo. Il biondo parve sorpreso e sollevò le braccia, ma poi i suoi occhi si rovesciarono all'indietro e perse i sensi. Roger lo afferrò e lo appoggiò contro lo stipite della porta, imprecando con il fiato sospeso. «Merda, ohi, vieni, Mark, dammi una mano!» Intontito e con gli occhi socchiusi, Mark scese dal letto e aiutò lo zio ad adagiare l'estraneo svenuto sul pavimento. Roger, accovacciatosi, cominciò ad arrotolare una manica della camicia pachistana. «Cos'hai fatto? Cosa gli è successo?» disse Mark. «L'ho messo per un po' fuori combattimento, questo è tutto. È la cena del nostro ospite. Niente pubblico questa notte. È una specie di regalo.» Roger abbassò la voce. «Alan dice che non bisogna più nutrirlo prima della Vigilia di Calendimaggio.» «Ma, Roger, manca ancora una settimana!» «Gli animali possono vivere per un mese di sola acqua. Tutto quello che devi fare è assicurarti che ci sia acqua da bere a sufficienza. Non è poi una gran cosa, sai, solo una sorta di digiuno, di purificazione per cerimonia. Merda.» Roger desistette e strappò il cotone per denudare il braccio floscio del biondo fino alla spalla. Cominciò a trascinarlo attraverso il corridoio, gridando, «Cena! Vieni a prenderla prima che si faccia fredda.» Infilò il braccio inerte del biondo fra le sbarre. Il Dr. Weyland si alzò e raggiunse la grata. Afferrò le sbarre con entrambe le mani e si chinò sull'offerta. Dopo un momento, Roger allungò un braccio fra le sbarre e spinse la testa del vampiro fino a che la luce potesse cadere sulle sue labbra, serrate sulla pelle abbronzata del gomito dell'estraneo. Mark sussurrò, «No, Roger.» «Perché no? Non riesco a vedere bene. Quando si organizza uno spettacolo non si riesce mai a gettare un'occhiata, e questa notte è...» Roger s'interruppe bruscamente, prima di dire «l'ultima volta.» Fece una breve risata, rabbrividendo. «Sono quasi tentato di fare io stesso una bevuta, sembra così... Dio, guarda. I suoi occhi sono aperti.» C'era un debole scintillio sotto le palpebre abbassate del Dr. Weyland. L'uomo biondo sobbalzò all'improvviso ed emise un gemito soffocato, e una sorta di brivido si diffuse lungo le sue membra. «Cristo, si sta svegliando!» disse freneticamente Roger, e premette le punte delle dita vicino alla trachea dell'uomo. Il biondo divenne ancora una volta inerte e rimase con la bocca spalancata, i capelli lunghi sparsi sul pavimento come un alone intorno alla testa. «Cosa gli hai fatto?» gracchiò Mark.
«Se premi qui, puoi bloccare il rifornimento di sangue al cervello e mettere KO una persona. C'è un altro punto sotto l'ascella. Si fa così con quelli che stanno per annegare, così non possono trascinarti a fondo con loro; l'ho imparato un'estate al corso di salvataggio. Non lo insegnano più. È troppo pericoloso perché potresti trasformare qualcuno in un vegetale se mantenessi troppo a lungo la pressione.» Roger diede uno strattone ai capelli del vampiro. «Sei ingordo stasera, eh? Andiamo, basta — lascia un po' di colorito sulle guance del ragazzo.» Quando Roger andò a depositare il giovane nel parco, Mark udì dei suoni disgustosi che provenivano dalla cella del vampiro. Il Dr. Weyland stava vomitando nel bagno. Mark rimase accanto alla porta, non avendo il coraggio di entrare. E se era un trucco? «Cosa c'è?» gridò. «Cosa succede?» Il Dr. Weyland disse ansimando, «Qualcosa nel sangue... sangue cattivo...» Quando Roger rientrò Mark corse a dirglielo. Il Dr. Weyland era ancora nel bagno. Potevano sentire il suo respiro pesante e affaticato. «Quel tipo doveva essere un tossico o qualcosa del genere,» borbottò Roger. «Mi ha detto che stava appunto cercando un po' d'erba buona. Forse era davvero malato.» «Come facciamo col Dr. Weyland?» disse Mark. «Era tutto quello che aveva mangiato oggi, e lo sta restituendo.» «Non posso farci niente — ho preso l'ultima scorta di sangue dal frigo e l'ho buttata via; comunque si era alterata. Ascolta, non lo ucciderà cominciare il digiuno un giorno prima.» Il pomeriggio successivo Roger chiamò da uno dei suoi negozi. «Mark? Ascolta. Alan ha chiamato proprio adesso. C'è un articolo sul giornale a proposito di uno studente di college trovato morto questa mattina a Riverside Park... indovina chi. Quel mostro ingordo che tanto ti sta a cuore ha esagerato. Alan mi ha detto di raggiungerlo: ci sono accordi più complicati per la Vigilia di Calendimaggio. Ci vediamo più tardi.» Mark portò il suo lavoro e una sedia pieghevole nel cortile. Non riusciva a concentrarsi. Inevitabilmente, tornò nel corridoio. Il vampiro era seduto sulla branda, con la schiena contro la parete, senza far nulla. «Quel tipo è morto,» disse Mark. Non ebbe risposta. La camicia del Dr. Weyland appariva sgualcita. Era
abbottonata male, cosicché il colletto si sollevava da un lato. Il suo sguardo era inespressivo e sfocato. Una vena s'intravedeva sulla sua tempia come una macchia d'inchiostro. «Lei è come un animale selvaggio,» proseguì Mark. «Ascolta come una volpe, non è vero?... tutto quello che diciamo in questa casa. Ha sentito Roger dire che Alan non voleva che lui portasse altre persone per lei, così ha fatto il pieno dal momento che ne aveva la possibilità.» «Sì,» disse il Dr. Weyland, «in previsione dell'inedia. Ho bevuto tutto quello che potevo, anche se ho avuto sentore di qualche impurità. Dovevo mangiare, dovevo tentare. Cerco di tutelarmi meglio che posso, è come fai anche tu.» Il suo sguardo repentino parve trafiggere Mark. «Ma non ne ho tratto profitto, e ora sono affamato: veramente affamato, terribilmente affamato. Ho una fame della quale non sai e non potrai mai sapere nulla. Reese, che ha i suoi appetiti, intuisce. Ha intenzione di utilizzarla la mia fame per costringermi a recitare il mio ruolo nella sua rappresentazione. «Tuo zio aveva ragione, avresti dovuto restare l'altra notte per vedere Reese che esibiva l'antagonista che ha intenzione di soggiogare. In realtà io non posso dare nulla a Reese — ma egli può prendere da me. Egli mi ha "ingigantito", come ha detto Roger, al fine di elevarsi quando mi avrà scaraventato a terra. Mi ha presentato come una creatura mistica e potente che lui solo, il capo, il padrone, può soggiogare e distruggere.» Le sue nocche si sbiancarono nel punto dove strinse il bordo della branda. «Hai sentito, hai capito? Fammi uscire, altrimenti Reese e i suoi mi uccideranno.» «La smetta di dire queste cose! Roger...» «Smettila di voltarti dall'altra parte, guarda in faccia la verità! Roger non può far nulla adesso, anche se lo volesse. Si consola, dopo aver perso il controllo della faccenda, pensando a come diventerà ricco a seguito dell'impresa di Reese. Di fronte a una cosa del genere scannare un semplice animale, un investimento fatto per capriccio, conta davvero poco. Hai notato come Roger non mi si rivolge mai chiamandomi per nome? Si sta preparando ad affrontare con distacco la mia morte.» Mark colpì le sbarre con un pugno. «Stia zitto! Roger non è un vigliacco e non ha mai lasciato uccidere nessuno! È lei l'assassino, ed è uno sporco bugiardo. Direbbe qualsiasi cosa per mettermi contro Roger e spingermi a lasciarla andare via! Faresti qualsiasi cosa, mostro, assassino!» «E tu,» replicò il vampiro, stanco e amareggiato, «sei chiaramente della genìa di Roger. Lui fa i suoi preparativi e tu fai i tuoi. Non abbiamo nulla
da dire. Va' via a fare i tuoi compiti.» Chiuse gli occhi. Mark si allontanò. «Vecchio bugiardo,» mormorò furioso fra sé e sé. «Vecchio mostro bugiardo e assassino!» Il clima caldo divenne più caldo. Mark trascorreva più tempo che poteva lontano da Roger, vedendo stupidi film, vagabondando con espressione assente nelle sale silenziose dei musei. Né i compiti né Skytown riuscivano a trattenere la sua attenzione, neanche quando portava tutte le sue cose in biblioteca e cercava di lavorare lì. Una volta cadde addormentato sulla moquette nel tenue bagliore delle gemme esposte nel museo. Una classe rumorosa di bambini entrò e lo svegliò. Uscì e si ritrovò a camminare verso i quartieri residenziali, dove abitava sua madre: stava scappando. Non riusciva più a ricordare la faccia dello studente del college. La morte del giovane adesso gli sembrava simile... simile a un ragazzino cui viene staccato un braccio da un orso allo zoo, solo che, naturalmente, lui non aveva infilato deliberatamente il braccio fra le sbarre porgendolo all'orso. Roger aveva fatto proprio così con quell'uomo, letteralmente. Anche Alan Reese lo aveva fatto in qualche modo, tramite Roger. A volte Mark riusciva a malapena a credere che ciò fosse davvero accaduto. Non aveva visto morire lo studente; forse si trattava di un errore, forse i giornali avevano riportato i fatti in maniera errata o esagerata per qualche motivo, o forse Reese aveva mentito a Roger. Tutto ciò stava allontanando la mente di Mark da quello che adesso premeva: l'esito del Grande Sabba di Reese alla Vigilia di Calendimaggio. I suoi pensieri cambiarono rotta in preda al panico. Cosa avrebbe dovuto fare, andare alla stazione di polizia e condurre gli agenti a casa di Roger? Questo avrebbe potuto fermare Reese, ma avrebbe messo Roger in un mucchio di guai, e anche il Dr. Weyland, una volta che si fosse appurato chi era. Oppure sarebbe dovuto rimanere là, nel caso il Dr. Weyland avesse ragione a proposito del fatto che la sua presenza costituisse un freno? Supposto che stare là non servisse, come poteva Mark rimanere ad osservare quello che Reese faceva... qualsiasi cosa si proponesse di fare? Oppure avrebbe dovuto lasciare il vampiro libero per la città per salvarlo da Alan Reese? Mark era soltanto un ragazzo, come poteva assumersi la responsabilità di fare queste cose? Si disse che nessuna di quelle pazzie era opera sua. Ricorda ciò che ha detto lo psicologo scolastico a proposito del divorzio: Nulla dipende da te, gli adulti sono responsabili delle loro vite. E il Dr.
Stimme aveva detto, Non puoi farti carico di cose che non sei in grado di modificare. Anche se a volte puoi esercitare una benefica influenza... Mark si voltò e si avviò faticosamente verso la casa di Roger. Roger rimase via per tutto il giorno e per diverse notti, dicendo che doveva consultarsi con qualcuno riguardo alla possibilità di aprire un nuovo negozio nell'East-Side, o lamentandosi del fatto che, con la Vigilia di Calendimaggio ormai prossima, doveva restare continuamente agli ordini di Reese e occuparsi per tutto il tempo dei dettagli. Mark pensò che in quel periodo Roger non si trovava a suo agio nell'appartamento. Così fu Mark, non Roger, che sorvegliò il digiuno del vampiro. Il Dr. Weyland trascorse le giornate raggomitolato, stringendo fra le braccia la sua stessa fame, ogni respiro un sibilo esausto e squassante di dolore. Fu Mark, non Roger, che tornò a casa il martedì e trovò la brocca d'acqua rovesciata. Non riuscì a capire se il Dr. Weyland avesse prima bevuto e poi lasciato cadere la caraffa, oppure avesse prima lasciato cadere la caraffa e fosse poi stato costretto a leccare come un cane l'acqua versata. Dopo quel martedì, Mark prese l'abitudine di disporre una fila di bicchieri di plastica colmi ogni mattina cosicché l'esausto vampiro non era costretto a sollevare e scolare la pesante caraffa. È solo scena, si disse. Finge di essere così affamato per smuovermi. Ma non lo credeva. Il vampiro sembrava accartocciato intorno alla sua sofferenza, nascondendola agli occhi degli altri — per quanto si potesse effettivamente nascondere qualcosa, quando chiunque poteva venire a osservare attraverso le sbarre della minuscola cella. Mercoledì sera Mark andò alla partita di baseball con suo padre. Aveva una gran voglia di quel tipo di divertimento per sentire più vicino il padre da — forse — poter condividere con lui l'incubo che lo attendeva da Roger. Ma non fu così. Non gli fu consentito di apprezzare il gioco per la velocità e la grazia dei giocatori, il meraviglioso modo in cui saltava in qualsiasi situazione si trovassero. Ciò che il padre assaporava era la violenza. Gridava e sudava e pestava la spalla di Mark affinché portasse a casa tutti i momenti esaltanti dello scontro. Mark sentiva quelle mani pesanti tempestarlo di colpi, come se cercassero di stabilire fra loro una sorta di rude cameratismo. Questa era l'idea che il padre aveva dell'intimità con un figlio teenager. Il padre non avrebbe potuto aiutarlo; aveva mani pesanti, mani simili a
quelle di Alan Reese. Mentre tornavano da Roger suo padre disse, «C'è qualcosa di cui hai bisogno, Mark? Qualcosa che posso fare per te? Basta che tu lo dica.» Sicuro. «È tutto a posto, papà.» Roger non c'era, come capitava spesso ormai. Quando Mark entrò, scoprì che il vampiro era riuscito a staccare uno dei piedi della branda. Il pezzo di legno bianco giaceva accanto alla porta, ammaccato e scheggiato dai tentativi di rompere la serratura con esso. Il Dr. Weyland stava rannicchiato contro il muro, e ansimava. Una delle sue pantofole era stata scalciata via nella stanza. Mark disse, «Beva un po' d'acqua, forse si sentirà meglio.» Non ricevette risposta. Un'ora dopo non si era ancora mosso, e Roger non era ancora tornato. Mark compose il numero di Wesley. Dal momento che le consegne di sangue erano terminate, Wesley non era più venuto. «Wesley, per favore, vieni qui. Devi aiutarmi.» Con orrore udì un sussulto nella sua voce e s'interruppe per mandare giù una grossa boccata d'aria e calmarsi. «Sta davvero soffrendo molto, Wesley. Per favore, porta un po' di sangue. Lo pagherò io. Roger non verrà mai a saperlo.» Ci fu una pausa. Poi Wesley disse, «Lo scoprirebbe. E io non voglio immischiarmi con Alan Reese. Il vampiro sta solo cercando di fregarti, comunque, di ammorbidirti per farsi liberare. Stai in guardia.» «Penso che stia morendo, Wesley.» «Guarda, è una creatura di Roger, te l'ho detto. Torna a casa, stai lontano da lui. Non farti sconvolgere da questa cosa, Markie. Torna da tua madre.» «Puoi darmi il numero di telefono di Bobbie?» Carol Kelly aveva saldato il conto per il tema su Housman. Mark pensava che forse avrebbe potuto corrompere Bobbie inducendola ad aiutarlo. Bobbie era a casa. Con voce assonnata disse che Alan Reese era andato su tutte le furie perché lei aveva fatto entrare Julie in questa faccenda del vampiro. Le aveva gettato addosso un pesante anatema, e adesso lei era malata. Julie? Julie era furba, era partita per la California fuori dalla sfera d'influenza della magia malsana di Reese. Le dispiaceva molto per il vampiro — se non fosse stata male, disse Bobbie gentilmente, sarebbe andata là e gliel'avrebbe lasciato fare, sai; era una cosa davvero eccitante, una specie di languido bacio... Mark aveva cercato di parlare con Wesley? Si sedette accanto al telefono e si mordicchiò le unghie. La notte seguente era la Vigilia di Calendimaggio. Mescolò un po' di limonata dolce e la
versò nei bicchieri per il vampiro. Fu tutto quello che riuscì a fare. La mattina dell'ultimo giorno Mark era troppo nervoso per mangiare i suoi fiocchi d'avena. Fissò Roger all'altro lato del tavolo di cucina, sperando si scorgere qualche segno positivo sulla sua faccia, qualche promessa che quella notte tutto sarebbe andato bene. Forse il Dr. Weyland aveva torto su Roger. «Farai tardi a scuola,» disse Roger, ficcando la forchetta nel tuorlo del suo uovo mattutino. «Non voglio andarci oggi.» Roger fece un sorriso brillante. «Grande notte stanotte, giusto? Okay, non preoccuparti, vedrò di sistemare io con la scuola oggi.» «Credo che stia morendo, Roger,» disse Mark. «Ho paura che morirà se non gli diamo qualcosa da mangiare.» «Cosa? Nutrirlo e rovinare tutta la preparazione?» Roger si alzò, toccandogli leggermente il mento col tovagliolo. «Lascia perdere, Markie. Reese ha detto di non nutrire assolutamente l'animale, e noi andremo avanti con queste direttive. Ha tutto sotto controllo. Quell'uomo può anche essere un megalomane, ma sa come devono essere fatte le cose, e questo è uno spettacolo che dev'essere fatto bene. «Non te l'ho detto? Alan ha invitato dei vip stranieri per questa notte. È talmente soddisfatto di se stesso per questa cosa che andrà lui a prenderli all'aeroporto. Poi ha intenzione di fare tutti i preparativi con ognuno al suo posto. Tornerò prima degli altri per mettere a punto alcune cose delle quali non mi ha ancora parlato. L'inizio della rappresentazione è previsto non prima delle nove. Per cui trovati qualcosa da fare fino a dopo cena, e lascia a Reese lo spettacolo del vampiro.» Roger trascorse la mattina a ciabattare nell'appartamento con l'accappatoio addosso e a rassettare, in uno stato di nervoso buon umore che Mark non riusciva a sopportare. Verso mezzogiorno ci furono delle chiamate telefoniche da due dei negozi e Roger dovette uscire. L'aria nell'appartamento non era più tollerabile di prima, ora che Roger era andato via. Sembrava completamente vuoto a parte la fame spietata del Dr. Weyland e l'agonia quasi palpabile della sua paura. Se aveva ascoltato la conversazione a colazione come aveva ascoltato ogni altra cosa, il Dr. Weyland adesso conosceva il programma, e ciò avrebbe reso l'attesa più terribile, la fame più intensa. Mark non riusciva ad andare nel corridoio. Si sentiva un intruso. Cam-
minò lentamente fino alla biblioteca pubblica e si sedette a guardare nel vuoto a lungo, con un libro inutilmente aperto sul tavolo davanti a lui. Vagabondò nel parco e a metà pomeriggio tornò da Roger. Il Dr. Weyland non sembrava essersi affatto mosso da quella mattina. Giaceva in silenzio, come morto, crollato sulla branda, la sua lunga figura piegata in angoli acuti come un bastone spezzato, ginocchia e fronte premuti contro il muro. Mark si sedette pesantemente nella sua camera da letto, cercando di non pensare a quella notte. Un suono lo svegliò, un corno che squillò all'esterno. Anche senza guardare l'orologio capì che erano trascorse alcune ore. La luce era cambiata, l'oscurità stava arrivando. Il Dr. Weyland alla fine si era mosso. Stava seduto rannicchiato in un angolo della stanza, le ginocchia sollevate, la testa abbassata e seppellita nelle braccia incrociate. Mark colse un tremito nelle sue spalle e nella linea tesa del collo. La manica sinistra era lacerata, tirata indietro per prendere sul bicipite sottile, sopra la curva del gomito dove aveva premuto la faccia, dove la bocca era stretta contro la tenera parte interna del braccio con le vene blu in rilievo... dalle quali stava succhiando... bevendo... «No, non farlo!» strillò il ragazzo. Nella sua mente balenò l'immagine di un coyote in trappola nel film del museo, che si staccava a morsi la zampa per sfuggire alle fauci d'acciaio e alla morte per sete. Vide l'arto dilaniato, il sangue raggrumato e l'osso... Corse lungo il corridoio per prendere la chiave, tornò a precipizio, la infilò annaspando nella serratura con dita tremanti e umide di sudore. Si lanciò sul Dr. Weyland, piangendo, e con forza convulsa gli fece abbassare le braccia. C'erano gocce di sangue sulle labbra di Weyland, e una macchia rossa su una guancia scarna. I suoi occhi erano fessure bianche nelle orbite nere. Mark mandò giù la nausea e, inginocchiandosi, premette il suo braccio contro la bocca insanguinata. Un alito caldo gli infiammò la pelle che si contraeva. In un unico movimento, come se fosse stato scaraventato giù da un'onda oceanica, fu afferrato e bloccato a terra col fiato sospeso. Avvertì una leggera puntura e una sensazione al braccio, come di una marea montante e quindi una crescente leggerezza in tutte le sue membra. Con gli occhi serrati, gridò, «Non uccidermi, per favore non uccidermi, oh per favore no, per favore!» Stava perdendo conoscenza, la testa piena
del suono umido della deglutizione del vampiro. In un impeto di terrore urlò, «Oh, mamma, aiutami!» e colpì selvaggiamente Weyland con la mano libera. Chiazze scure gli offuscarono la vista. Svenne. Silenzio. Con grande sforzo aprì gli occhi. Giaceva solo sul pavimento della cella. La grata era aperta. Dopo una pausa lunga e vuota avvertì gli scatti delle mandate. Roger lo chiamò. Non riuscì a trovare la forza di rispondere. Roger avanzò nel corridoio, ancora chiamando. Poi la sua voce si azzitti, incerta, il rumore di passi cessò, si allontanò, ritornò più leggero. Voltando la testa, Mark poté vedere Roger che indugiava davanti alla grata, col pezzo di tubo di piombo in mano. «Attento,» disse Mark. Ma nessun suono uscì da lui. «Mark?» sussurrò Roger. «Oh, mio Dio...» Un'ombra scivolò dal vano di porta della camera di Mark, una mano si allungò e si chiuse sulla gola di Roger. Il tubo di piombo cadde con un tonfo sul pavimento. Mentre Roger si accasciava il vampiro lo afferrò, s'inclinò, scivolò contro la parete, sorreggendolo. Mark si dibatté per alzarsi a sedere. Nel corridoio Weyland si sedette a gambe incrociate. Si era tirata in grembo la parte superiore del corpo di Roger e aveva avvolto le sue braccia sottili intorno a Roger cosicché le braccia di quest'ultimo erano intrappolate contro i suoi fianchi. La camicia azzurra a strisce che Roger indossava era lacerata sul davanti. La testa di Roger penzolava all'indietro toccando quasi il pavimento. Weyland si chinò su di lui, petto contro petto, la bocca premuta sotto la mandibola di Roger, le labbra serrate contro la sua gola. Stava bevendo non in maniera sognante e beata ma furiosamente, famelicamente, traendo respiri profondi e soddisfatti fra un sorso e l'altro. Le palpebre di Roger ebbero un tremito. Roger emise un grido appena percettibile e voltò la testa dolorosamente, sottraendosi alla stretta del vampiro. I tacchi delle sue scarpe raschiarono piano il pavimento. Weyland strinse di più, muovendo la mandibola in modo da cambiare e migliorare la presa, e bevve e bevve. Le gambe di Roger si afflosciarono come corde. Paralizzato dalla fiacchezza e dall'orrore, Mark continuava a pensare, È a Roger che sta succedendo questo, mio zio Roger, è Roger. Finalmente il vampiro sollevò la testa e incontrò lo sguardo di Mark. Sulla faccia scarna di Weyland gli occhi scintillavano intensamente come
stelle. Si alzò all'improvviso, scaricando dal suo grembo Roger come un pacco avvolto in una carta sgargiante dal quale sia stato tolto il regalo. «Lo hai ucciso,» gemette Mark. «Non ancora.» Weyland aveva in mano il tubo di piombo. Mentre Mark barcollava mettendosi a quattro zampe, cercando di sollevarsi, vide Weyland che sollevava il tubo come un giocatore di golf che prepara uno swing. «No!» gridò. «Perché no?» Il vampiro si fermò, guardando Mark. I secondi parvero scorrere interminabili. Weyland non si mosse. Poi si raddrizzò e disse, «Molto bene. Hai acquistato il diritto. È stato come aver pagato del denaro.» Buttò via il tubo, scavalcò Roger ed entrò nella minuscola stanza. Le sue mani lunghe scesero e afferrarono le spalle di Mark. Mark cercò di divincolarsi, col panico che cresceva. Non aveva forze, e il vampiro era sorprendentemente, spaventosamente forte. «Per favore,» disse Mark piangendo. «Alzati.» Le dita sottili lo fecero sollevare in piedi. «Dove devono andare queste coltri? Sulla branda? Metti via il cuscino e la coperta.» Mark si mosse con indolenza per obbedire, sentendosi intontito e assonnato. Weyland sollevò la branda e la trasportò per riporla in fondo allo sgabuzzino del corridoio. «Scopa e paletta,» disse. «Borsa della spesa e tovaglioli di carta.» Pulirono. Nella piccola stanza da bagno strofinarono tutte le superfici. Oggetti della toletta, tovaglioli di carta usati e la biancheria sporca di Weyland andarono nella borsa della spesa. Weyland spazzò. Portò fuori la paletta, scavalcando la forma inerte di Roger come se fosse un ceppo di legno. Seguendolo con passo malfermo, Mark si fermò là, fissando Roger, che giaceva scompostamente a faccia in giù sul pavimento. Weyland disse, «Non devi preoccuparti per il tuo eccitabile zio. Vivrà.» Richiuse con uno strattone la porta dietro di lui, e la serratura produsse uno scatto nella stanza vuota. Mark si trascinò dietro Weyland nel corridoio e nel soggiorno buio. Nella luce della camera da letto di Roger il vampiro aprì il guardaroba a parete. Mark si sedette pesantemente sul letto mentre Weyland sceglieva una camicia di poliestere bianco crema a maniche corte. Il resto era chiaramente impossibile da indossare: gli abiti di Roger erano per una corporatura più piccola.
Weyland lanciò un'occhiata all'orologio accanto al letto e disse, «Aspetta.» Confusamente Mark vide che le lancette segnavano le otto. Weyland aveva il tempo di darsi una rinfrescata. Dopo un po' emerse dalla stanza da bagno con l'aspetto molto simile all'uomo della fotografia sulla copertina del libro. Rasato, lavato, spazzolato, i pantaloni sgualciti resi più guardabili da una delle cinture di Roger, aveva un aspetto abbastanza imponente da rendere quasi inosservate le pantofole che portava ai piedi. «Le mie cose,» disse. «Valle a prendere.» Mark portò il sacchetto di carta e restituì il temperino. Schede, matite, addirittura le graffette, il Dr. Weyland infilò tutto nelle tasche dei suoi calzoni. «Mi pare che sia tutto quello con cui sono venuto, tranne due monete.» Poi aggiunse, «Roger conserva del denaro in casa.» Mark adesso era dispiaciuto solo lontanamente per Roger. Era preso dallo sforzo di far muovere il suo corpo esausto. Andò in cucina, aprì lo sportello del forno, e tirò fuori la cassetta del denaro. Il Dr. Weyland prese tutte le banconote di carta e gli spiccioli senza contarli. «Rimetti al suo posto la cassetta. Se c'è qualcosa che intendi portare via dalla tua stanza valla a prendere.» Mark pensò ai progetti per Skytown, agli scaffali di libri, al confortante disordine, ora privo di ogni conforto. Pensò a Roger che giaceva nel corridoio, ed ebbe l'impulso di andare ad aiutarlo, di fare qualcosa — ma cosa poteva fare per Roger che non era già stato fatto? Il resto sarebbe toccato a qualcun altro. Scosse la testa. «Andiamo, allora. Presto.» Fuori faceva freddo. Il Dr. Weyland vacillava un poco mentre saliva i gradini che portavano sul piano stradale. Sul marciapiede si fermò. «Maledizione. I miei occhiali.» Mark si sedette sui gradini con la borsa della spesa e lo aspettò. Cercare di scappare sarebbe stato stupido: riusciva a malapena a camminare. La lunga ombra cadde su di lui. «Ah,» mormorò il Dr. Weyland, testa alta, annusando la brezza che soffiava da ovest. «Il fiume.» Camminarono verso Riverside Drive. La mano del Dr. Weyland rimase appoggiata saldamente sulla spalla di Mark. «Stavi solo simulando,» disse Mark. «Niente affatto,» sbottò il Dr. Weyland. «Non ho simulato nulla: né stoi-
cismo, né sfida, nulla.» Meditabondo, aggiunse, «Ho lasciato che la verità della mia condizione ti fosse manifeta, sperando così di salvarmi la vita — ma ero sicuro di aver perso, a causa di quello che era morto. Ne ero sicuro. Ti eri ritratto, e così sono stato costretto a darti una spinta troppo forte.» Avanzarono sull'erba umida verso il lungofiume. L'odore dell'acqua li avviluppò. «Pensavo che stessi morendo,» sussurrò Mark. «È così,» fu la debole risposta. «Era vero che stavi bevendo... il tuo...» Mark rabbrividì. «Oh, sì, era vero. È sempre stata una grande tentazione. Aveva un buon sapore; non immagini neppure quanto era buono.» La mano sulla spalla di Mark si strinse per un istante. «Se tu non mi avessi fermato... ero così affamato...» Attraversarono il lastricato e si fermarono davanti al parapetto. C'era un fruscio di ratti sulle rocce umide sottostanti. Il Dr. Weyland si voltò per osservare un trio di amanti del jogging serale che passavano scalpicciando. Disse: «Il tuo sangue giovane mi ha rigenerato. Nonostante questo, ho potuto avere ragione di Roger solo grazie alla sua eccellente lezione su come produrre l'incoscienza con la pressione di un dito. C'è sempre qualcosa di nuovo da imparare. Inutile dire che non ho mai studiato le tecniche di salvataggio.» Mark guardò il Jersey, lustrini luccicanti sull'acqua nera e oleosa. Le lacrime gli sorgarono dagli occhi, e il suo respiro proruppe in singhiozzi. «Smettila di tirare su col naso,» disse irritato il Dr. Weyland. «Attirerai l'attenzione. Non devi preoccuparti di niente. Come Roger ha correttamente dedotto, non sono contagioso. Non ti ho procurato dei danni seri e Roger recupererà, grazie a te. Hai salvato la sua vita anche prima di chiedermelo, diminuendo la mia fame.» Tutto il controllo di Mark era svanito. Il suo corpo era scosso della forza del pianto. Il vampiro aggiunse con tono tagliente. «Ti ho detto di smetterla. Hai del lavoro da fare. Devi usare la tua fertile immaginazione per inventare una storia per tua madre, qualcosa che spieghi la tua partenza improvvisa dalla casa di Roger e qualsiasi altra cosa possa scaturire da tutto ciò. Hai fatto Skytown; puoi fare anche questo.» «Stai mentendo,» disse Mark singhiozzando. «Tu vuoi soltanto gettarmi nel fiume, così non potrò parlare.» Ci fu una breve pausa di riflessione. «No,» disse il Dr. Weyland alla fi-
ne. «I cadaveri producono interrogativi. Inoltre, ucciderti non farebbe alcuna differenza. Molti sanno di me ormai, sebbene senza la mia presenza fisica sia improbabile che le autorità prestino fede alla chiacchere. «Tu devi semplicemente tornare dai tuoi genitori, fare la parte dell'innocente, lasciar loro credere che Roger ha cercato di iniziarti alla droga o qualsiasi altra favola possa servire. Vivi in una cultura che considera l'infanzia un handicap; fai di questa debolezza una forza. Tieni il broncio, piagnucola, mettiti a correre se ti incalzano. Non sarai così stupido da parlare di me, a meno che tu non voglia passare il resto della tua adolescenza da uno psichiatra.» Passarono due donne che portavano a spasso i loro cani. Una delle due rivolse al Dr. Weyland un piccolo sorriso mentre passava. Mark lo guardò, vide il profilo rapace alla luce del lampione, gli occhi acuti che seguivano pensierosamente le donne. Si sentì stanco, gelato, abbandonato. Furtivamente, si pulì il naso col davanti della camicia. Il braccio gli doleva un poco nel punto in cui il vampiro aveva bevuto. Vedere qualcuno che balza su di te come una tigre e ti succhia il sangue con intensità selvaggia e risoluta... come si poteva immaginare che fosse una cosa erotica? Non avrebbe mai dimenticato quel momento di paura accecante. Se il sesso era come quello, potevano pure tenerselo. I due in quel momento erano soli. Il Dr. Weyland si voltò e gettò la borsa della spesa nel fiume. Essa galleggiò, ruotando due volte lentamente su se stessa, affondò. Mark disse, «Stai andando a cercare Alan Reese?» «No. Quando lui sarà morto, io sarò ancora vivo. Questo mi basta.» «Cosa farai?» «Ricomincerò,» disse, truce, il Dr. Weyland. «A meno che non riesca ad inventare una storia per mantenere la mia attuale identità viva ed utilizzarla. Devo far funzionare molto la fantasia, e poi lavorare, lavorare parecchio. Come puoi fare a tornare da tua madre da qui?» Non gli venne alcuna ripugnanza. Il terrore di casa sua era scomparso, incenerito dal tocco di qualcosa di antico e selvaggio al di là delle preoccupazioni di quella città. «Prenderò la metropolitana,» disse Mark. «Hai denaro?» Tastò la tasca dei jeans. Aveva la parcella di Carol Kelly. «Sì.» «Naturalmente... fare i compiti è produttivo, e fa bene; io ho bisogno di tutto quello che ho. Mio Dio, anche questo fiume fetido e sudicio ha un profumo meraviglioso dopo quell'orribile stanzino!»
Stava guardando oltre Mark, su per la corrente del fiume, si voltò per far scorrere lo sguardo lungo il ponte a nord e giù per gli imbocchi delle strade illuminati dai lampioni lungo il Drive. C'era un desiderio nel suo modo di sollevare la testa che fece pensare a Mark che lui avrebbe potuto semplicemente allontanarsi a grandi passi senza dire un'altra parola; era così evidente l'impazienza del Dr. Weyland di andarsene, ancora una volta libero e sconosciuto fra gli uomini. Mark rabbrividì, inondato dal sollievo e dalla disperazione. Il Dr. Weyland lo guardò, accigliandosi leggermente come se i suoi pensieri si fossero già lasciati Mark alle spalle. «Vieni,» disse. Riattraversarono il piccolo parco. «Dove stiamo andando?» «Ti sto accompagnando alla metropolitana,» disse il vampiro. III L'ARAZZO DELL'UNICORNO «Fermati.» disse Floria. «So cosa stai per dire: che per un po' di tempo mi ero convinta a non accettare nuovi clienti. Ma aspetta di sentire quello che mi ha detto — stenterai a crederci — la prima volta che ha chiamato per fissare un appuntamento. Così ha esposto il suo problema: "Credo di essere caduto vittima dell'illusione di essere un vampiro."» «Cristo di Dio!» gridò deliziata Lucilie. «Proprio così e al telefono?» «Quando ho recuperato la mia padronanza, per così dire, gli ho risposto che preferivo attendere i dettagli fino al nostro primo incontro, che è per domani.» Stavano sedute sulla minuscola terrazza all'esterno della sala del personale della clinica, un edificio residenziale rimodernato dell'alto West Side. Floria passava lì tre giorni la settimana e i rimanenti due nel suo studio a Central Park South dove riceveva i clienti privati come quest'ultimo. Lucilie, sempre piacevolmente disponibile, era l'amica di Floria di maggior valore professionale. Affascinata in maniera evidente dalle notizie di Floria, sedeva protesa in avanti e impaziente sulla sua sedia, gli occhi spalancati dietro le lenti tipo bottiglia di Coca. Disse. «Pensi che lui creda di essere un cadavere rianimato?» Sotto, in fondo alla strada, Floria poteva osservare due ragazzi che scivolavano sui loro skateboard, vicino a un uomo che indossava un cappello di lana e un pesante soprabito malgrado il tepore di maggio. Stava appog-
giato a un muro. Era già là quando Floria era giunta alla clinica quella mattina. Se i cadaveri camminavano, alcuni e non del tutto rianimati, a New York lo facevano in piena vista. «Dovrò pensare a come domandarglielo con delicatezza,» disse. «Com'è venuto da te, questo vampiro?» «Lavorava in un college del nord, insegnamento e ricerca, e tutt'a un tratto scomparve — svanì, letteralmente, senza lasciare traccia. Un mese dopo riapparve qui in città. Il preside della facoltà mi conosce e lo ha mandato da me.» Lucilie le rivolse uno sguardo malizioso. «Così hai pensato, ahah, facciamo un piccolo favore ad un amico, questo sembra un classico e facile transfert: intellettuale represso perde la testa e scappa con una drogata, o qualcosa del genere.» «Mi conosci troppo bene,» disse Floria con un mesto sorriso. «Huh,» grugnì Lucilie. Sorseggiò il ginger ale da un boccale bianco scheggiato. «Non prendo uomini impressionabili di mezza età, sono troppo deprimenti. E tu non dovresti prendere questo, per quanto appaia intrigante.» Adesso comincia la conferenza, si disse Floria. Lucilie si alzò. Era bassa, pesante, incline ad indossare vestiti larghi che le oscillivano intorno come abiti da cerimonia. Mentre andava avanti e indietro, l'orlo della veste sfiorava i fiori che cominciavano a spuntare nei vasi che orlavano la piccola terrazza. «Sai dannatamente bene che questo è solo un superlavoro di cui ti stai facendo carico. Non accettare questo tipo; respingilo.» Floria sospirò. «Lo so, lo so. Ho promesso che avrei rallentato l'attività. Ma l'hai detto tu stessa appena un minuto fa — è solo un semplice favore. Cos'ho per le mani? Ma il Conte Dracula, per l'amor di Dio! Lo rifiuteresti tu?» Rovistando in una capace tasca, Lucilie tirò fuori un pacchetto di sigarette ammaccato e ne accese una, aggrottando le sopracciglia, «Sai, quando mi hai dato la notizia ho cercato di prenderla sul serio. Scherzi a parte, Floria, cosa pensavi che potessi dire? Avevo sentito per mesi i tuoi lamenti, e pensavo di aver capito che quello di cui avevi bisogno era diminuire un po' lo stress, cominciare a dire di no... ed ecco che stai insistendo per un nuovo caso. Tu sai quello che penso: stai nascondendo nei problemi degli altri un bel po' di roba tua, sulla quale dovresti lavorare. «Okay, okay, non guardarmi in cagnesco. Fai pure la testarda. Ti sei li-
berata di Chubs, almeno?» Era il nome in codice di Floria per un cliente seccante che si chiamava Kenny, che lei stava cercando di non vedere per un po' di tempo. Floria scosse la testa. «Cosa ti succede? Sono settimane che hai giurato di liberarti di lui! Tentare di fare tutto per tutti ti sta logorando. Scommetto che stai ancora perdendo peso. A giudicare dai cerchi molto sconvenienti sotto i tuoi occhi, neanche il sonno sta andando molto bene. Ancora non riesci a ricordare i sogni?» «Lucilie, non tormentarmi. Non voglio parlare della mia salute.» «Bene, e cosa puoi dirmi della sua salute... di Dracula? Ritieni che abbia fatto un esame medico prima di rivolgersi a te? Potrebbe esserci qualcosa di fisiologico...» «Non riuscirai a sbatterlo nelle mani di un medico o a strapparlo alle mie,» disse con una smorfia Floria. «Al telefono mi ha detto che non avrebbe preso in considerazione né l'idea di una visita medica né quella di un ricovero in ospedale.» Involontariamente lanciò un'occhiata in fondo alla strada. L'uomo in cappello di lana stava raggomitolato sul marciapiede ai piedi dell'edificio, addormentato, svenuto o morto. La città stava barcollando, ammalata. Paragonata a quel relitto laggiù e agli altri come lui, come poteva essere malato questo vampiro con la sua istruita voce da baritono, la sua padronanza nell'approccio? «E tu non vuoi prendere in considerazione l'idea di passarlo a qualcun altro?» disse Lucilie. «Be', no, finché non ne saprò di più. Andiamo, Luce... non vuoi almeno sapere che aspetto ha?» Lucilie spense la sigaretta contro il basso parapetto. Là sotto, un poliziotto girovagava lungo la strada multando le automobili parcheggiate. Non guardò neppure l'uomo che giaceva all'angolo dell'edificio. Osservarono il suo incedere senza commenti. Finalmente Lucilie disse, «Be', se non vuoi mollare Dracula, tienimi al corrente su di lui, va bene?» Entrò nello studio in perfetto orario, una figura magra ma gradevole. Era imponente. I capelli ispidi e grigi, tagliati corti, accentuavano la compattezza di quel volto dalla lunga mandibola, dagli alti zigomi, e dalle guance scavate come da inverni di clima rigido. Il suo nome, battuto in maiuscole sul foglio informativo iniziale che Floria aveva compilato con lui, era E-
dward Lewis Weyland. Le raccontò in maniera incisiva l'antefatto dell'incidente "vampirico", descrivendo in termini caustici la sua vita al Cayslin College: lo stress della competizione collegiale, le zuffe fra le facoltà, l'indifferenza degli studenti, i pasticci amministrativi. La storia ha un'utilità limitata, lei lo sapeva, dal momento che la memoria la distorce; eppure, se lui si sentiva più a suo agio stabilendo lo scenario del suo malessere, questo era un modo buono per cominciare come qualsiasi altro. Alla fine le sue energie vennero meno. Il corpo spigoloso si accasciò, la voce divenne piatta e affaticata mentre lui, esitando, arrivava all'evento cruciale: il lavoro notturno al laboratorio del sonno, le fantasie sul bere sangue mentre osservava i giovani soggetti dormienti della sua ricerca sui sogni, il tentativo, infine, di porre in atto le fantasie con un membro del personale del college. Era stato respinto; allora il panico lo aveva assalito. La cosa era trapelata: era stato licenziato, messo per sempre sulla lista nera. Lo avevano chiuso a chiave in una stanza. Era seguito un periodo da incubo sul quale non fornì dettagli. Quando era ritornato in sé aveva capito che quello che lui temeva, la rovina della carriera, era derivata dalla sua fuga. Così aveva telefonato al preside, e adesso era là. Nel corso del racconto lei lo vide ridursi dal riverito accademico che era entrato nello studio all'uomo intimidito e impaurito, ingobbito nella sua sedia, le mani che si tiravano spasmodicamente l'una verso l'altra. «Cosa stanno facendo le sue mani?» disse lei gentilmente. Le rivolse uno sguardo vacuo e lei ripeté la domanda. Weyland guardò le proprie mani. «Lottano,» disse. «Con che cosa?» «Il peggio,» mormorò lui. «Non le ho ancora detto il peggio.» Lei non si era mai abituata a questa sorta di trasformazione. Le lunghe dita di lui erano affaccendate con un bottone della giacca mentre spiegava, dolorosamente, che l'oggetto del suo «attacco» a Cayslin era stata una donna. Non giovane ma attraente e vitale, aveva catturato la sua attenzione all'inizio dell'anno durante un seminario in onore di un professore che andava in pensione. Stava emergendo il quadro di un Weyland goffo, scapolo a vita, che cercava il calore di una donna e soffriva per il suo rifiuto. Floria sapeva che avrebbe dovuto portarlo fuori dal suo passato e dentro il presente, ma lui stava facendo così bene a modo suo che era riluttante a interromperlo. «Le ho detto che c'era uno stupratore nel campus in quel periodo?» disse
con tono aspro. «Ho preso in prestito una pagina del suo libro: ho cercato di strappare qualcosa a quella donna, dal momento che lei non me l'avrebbe data. Ho cercato di prendere un po' del suo sangue.» Fissò il pavimento. «Cosa significa... prendere il sangue di qualcuno?» «Cosa crede che significhi?» Il bottone, tirato e strappato dalle sue dita irrequiete, cedette. Lo mise in tasca; l'impulso, dedusse lei, di una natura meticolosa. «La sua energia,» mormorò, «rubata per alimentare lo studioso che invecchia, il cadavere ambulante, il vampiro... me.» Il suo silenzio, gli occhi rivolti a terra, le spalle curve, tutto indicava un uomo in stato di depressione per una crisi esistenziale. Forse stava per diventare quel tipo di cliente che i terapeuti sognano e del quale lei aveva disperato bisogno in quel periodo: un cliente intelligente e abbastanza sensibile, abituato alla compagnia di un ascoltatore professionista, che avrebbe rapidamente districato il suo groviglio mentale. Resa euforica dal suo promettente inizio, Floria si trattenne dal cercare di incalzarlo. Si impose di tollerare il silenzio, che si prolungò finché lui non disse, bruscamente, «Ho notato che non ha preso appunti mentre parlavamo. Registra su nastro le sedute?» Un accenno di paranoia, pensò lei; non insolito. «Non senza che lei ne sia a conoscenza e acconsenta, così come non manderò a chiedere la sua scheda personale al Cayslin senza che lei ne sia a conoscenza e acconsenta. Comunque, scrivo degli appunti dopo ogni seduta come guida per me e al fine di avere una registrazione in caso di confusione a proposito di quello che facciamo o diciamo qui. Posso prometterle che non mostrerò le mie note o parlerò di lei chiamandola per nome con nessuno — tranne col preside Sharpe al Cayslin, naturalmente, e anche in quel caso solo per lo stretto necessario — senza suo permesso scritto. Questo la soddisfa?» «Chiedo scusa per la mia domanda,» disse lui. «L'... l'incidente mi ha lasciato... molto nervoso; una condizione che spero di superare col suo aiuto.» Il tempo era scaduto. Quando se ne fu andato, Floria andò a parlare con Hilda, l'addetta alla ricezione che condivideva con altri quattro terapeuti lo studio di Central Park South. Hilda faceva sempre l'esame dei nuovi clienti nella sala d'attesa. Di questo disse, «È sicura che c'è qualcosa che non va in quel tipo? Credo di essermene innamorata.»
Aspettando nello studio un gruppo di clienti da riunire il mercoledì sera, Floria buttò giù alcuni appunti sul vampiro. Il cliente ha descritto l'episodio, l'ambiente. Nessuna storia di malattia mentale, nessuna precedente esperienza di terapia. Storia personale così ordinaria che quasi non si nota quanto sia spoglia: figlio unico di immigrati tedeschi, scuole normali, specializzazione in antropologia, carriera accademica che lo conduce alla cattedra presso il Cayslin College. Buona salute, situazione economica adeguata, lavoro soddisfacente, abitazione confortevole (sebbene attualmente sistemato in un hotel di N. Y.); vita sociale strettamente collegata al lavoro; passatempi — dice che gli piace guidare. Reazione alla domanda circa il bere, ma nessun segno di problemi di alcol. Fisicamente molto agile per la sua età (sopra i cinquanta) e la statura; felino, vigile. Un'apparente rigidità alla cintola — un leggero aggobbirsi protettivo — che aumenta quando si supera la mezza età? Paranoica condizione di difesa? Voce gradevole, debole accento (tedesco parlato nella fanciullezza a casa). Terapia come condizione necessaria per tornare a lavorare. Che sollievo: la condizione di quell'uomo sembrava trattabile con un minimo di sforzo da parte sua. Adesso avrebbe potuto difendere con Lucilie la sua decisione di iniziare la terapia col vampiro. Dopo tutto, Lucilie aveva ragione. Floria aveva problemi personali che richiedevano attenzione, prima di tutto la sua ansia e l'esaurimento dopo la morte della madre avvenuta più di un anno prima. Il fallimento del matrimonio aveva provocato sofferenza, ma non quella specie di perenne depressione. Da un punto di vista intellettuale il problema era chiaro: con entrambi i genitori morti si sentiva vulnerabile. Non c'era più nessuno fra se stessa e la sua inevitabile morte. Conoscere la fonte delle sue sensazioni non era d'aiuto: sembrava non essere in grado di mobilitare il sistema nervoso affinché lavorasse sulle sue sensazioni. Col gruppo del mercoledì andò di nuovo male. Lisa rivisse ancora una volta la sua esperienza nei campi di sterminio europei e tutti piansero. Floria voleva fermare Lisa, farle invertire la rotta, estinguere l'orrore ronzante della sua voce trasformandolo in illuminazione e liberazione, ma non riuscì a capire come doveva fare. Non trovò nulla in se stessa da offrire tranne un furbo stratagemma estratto dalla sua borsa professionale — fai danzare la tua rabbia, dialoga col tuo io di quel periodo — tecniche utili quando
fluivano organicamente come parte di un processo vivo al quale il terapeuta partecipava. Ma escogitare delle risposte che avrebbero dovuto essere intuitive non funzionava. Il gruppo e il suo dolore collettivo la paralizzarono. Era una danzatrice senza un coreografo, che conosceva tutti i movimenti, ma era incapace di sincronizzarli con la musica che quelle persone eseguivano. Piuttosto che agire con goffaggine si trattenne, non fece nulla, e si sentì in colpa. Oh Dio, i componenti più svegli ed esperti del gruppo si sarebbero accorti di come era inutile la sua presenza. Mentre tornava a casa in autobus pensò di telefonare ad uno dei terapeuti che dividevano con lei lo studio del centro. Aveva espresso il desiderio di effettuare una terapia insieme a lei sotto l'osservazione di alcuni studenti. Il gruppo del mercoledì avrebbe potuto ben rispondere a questo. Lo avrebbe suggerito loro la volta successiva? Avere un partner avrebbe potuto far diminuire la pressione su Floria e rivitalizzare il gruppo, e se lei avesse avuto la sensazione di doversi tirare indietro, lui avrebbe potuto subentrare. Naturalmente avrebbe potuto subentrare in ogni caso e portarle via alcuni dei suoi clienti. Oh, ragazzi, impossibile, chi è il paranoide adesso? Meraviglioso modo di pensare a un ottimo collega. Dio, non si era neppure accorta che stava prendendo in considerazione l'idea di mollare il gruppo. E se fosse stato il nuovo cliente, in fuga dal suo vampirismo, a mettere in luce l'impulso che lei aveva a ritrarsi? Sarebbe stata la prima volta che Floria avrebbe ottenuto aiuto da un cliente mentre tentava di darglielo. Il suo vecchio supervisore, Rigby, diceva che un simile aiuto vicendevole era l'unica vera terapia — il resto era frode. Che perfezionista, il vecchio Rigby, e che branco di giovani idealisti aveva sfornato, tutti ansiosi di salvare il mondo. Ansiosi, ma non necessariamente capaci. Jane Fennerman aveva vissuto una volta nel mondo, e Floria non era stata in grado di salvarla. Jane, membro assente del gruppo di quella notte, era tornata nella sicurezza di un reparto sorvegliato, trascorrendo confusamente il tempo fra i tranquillanti che utilizzavano lì. Perché ripensare ancora a Jane? Si chiese con severità, preparandosi alla frenata oscillante del bus. Qualsiasi cliente aveva il diritto di abbandonare la terapia ed affidarsi a se stesso. Né quella era la prima volta che una cosa del genere si fosse verificata nel corso della sua carriera. Solo che questa
volta sembrava non riuscire a liberarsi della depressione e del senso di colpa conseguenti. Ma come avrebbe potuto aiutare di più Jane? Come avresti potuto offrirle la sicurezza che la vita non era atroce come Jane l'avvertiva, che le sue paure non avevano sostanza, che ogni giorno non era un abisso di dolore e di pericolo? Stava approfittando di un'ora concessale da una seduta disdetta da un cliente per lavorare sugli appunti per il nuovo libro. Il saggio, un'analisi delle trasversie degli stipendiati messi a confronto con i liberi professionisti, continuava a crearle difficoltà. Desiderò un'interruzione per distrarre la mente che girava in un circolo chiuso. Hilda passò una comunicazione dal Cayslin College. Era Doug Sharpe, quello che aveva mandato da lei il Dr. Weyland. «Adesso che è nelle tue abili mani, posso dire chiaramente a tutti che lui si trova in quello che noi chiamiamo "congedo compassionevole" e fare in modo che la digeriscano.» La voce di Doug sembrava assottigliata dal collegamento a lunga distanza. «Puoi darmi un'opinione preliminare?» «Ho bisogno di tempo per farmi un'opinione sulla situazione.» «Cerca di non tirarla troppo per le lunghe. Al momento sto tenendo a bada le pressioni per nominare qualcuno al suo posto. I suoi nemici quaggiù — e un bastardo dalla lingua tagliente come lui se ne fa un mucchio — stanno cercando di allestire una commissione di ricerca, autorizzata a trovare qualcun altro per la direzione del Centro Cayslin per lo Studio dell'Uomo.» «Degli Esseri Umani,» corresse automaticamente lei, come faceva sempre. «Cosa intendi dire con "bastardo"? Credevo che lui ti piacesse, Doug. "Vorresti che spedissi un gentiluomo intelligente, cortese e di vecchio stampo da Finney o MaGill"? Sono state queste le tue parole.» Finney era un freudiano con una boccuccia simile a un buco di culo e una mente appropriata, e MaGill era un miagolatore preistorico che faceva esercizi in tuta ginnica nel suo studio. Sentì Doug che batteva sui suoi denti con una penna o una matita. «Be',» disse, «ho grande rispetto per lui, e a volte ho dovuto ringraziarlo per aver fatto abbassare la cresta a qualche idiota pomposo quaggiù.» Non posso negare, tuttavia, che si è guadagnato la reputazione di essere un totale figlio di puttana e un tipo ostico da trattare. Troppo dannatamente freddo e presuntuoso, capisci?»
«Mmm,» disse lei. «Non l'ho ancora constatato.» «Lo constaterai. Cosa mi dici di te? Come va il resto della tua vita?» «Be', su due piedi, cosa diresti se ti dicessi che stavo pensando di tornare alla scuola d'arte?» «Cosa direi? Direi: merdate, ecco quello che direi. Hai impiegato quindici anni per fare qualcosa per cui sei portata, e adesso vorresti buttare tutto all'aria e ricominciare in un settore che non hai più sfiorato fin dallo Studio 101 al college? Se Dio avesse voluto che tu facessi la pittrice, ti avrebbe mandata subito alla scuola d'arte.» «Già da allora avevo pensato alla scuola d'arte.» «Il punto è che tu fai bene quello che fai. Sono stato fra quelli che hanno beneficiato del tuo lavoro quindi so di cosa sto parlando. Per inciso, hai visto sul giornale quell'articolo su Annie Barnes, del gruppo in cui stavo io? Quello sì che è un incarico importante. Ho sempre saputo che sarebbe andata a finire a Washington. Quello che sto cercando di farti capire è che i tuoi "laureati" riescono troppo bene perché tu possa parlare di smettere. Cosa dice Morton di questa idea, tra l'altro?» Mort, un patologo, era il compagno di Floria. Non aveva parlato di questo con lui, e lo disse a Doug. «Non è che sei in cattive acque con lui, per caso?» «Andiamo, Douglas, smettila. Non c'è niente di sbagliato nella mia vita sessuale, credimi. È tutto il resto che non va.» «Ho soltanto ficcato il naso nei tuoi affari,» replicò lui. «A cosa servono gli amici?» Parlarono d'altro, ma quando riattaccò Floria si sentiva depressa. Se i suoi amici si sentivano spinti a questo tipo di sondaggio e consulenza, doveva essere più chiaramente e urgentemente bisognosa d'aiuto di quanto immaginava. Il libro non procedeva affatto meglio. Era come se, per paura di esporre le sue idee, dovesse disarmare la critica affrontando in anticipo tutte le possibili obiezioni. Il libro si era praticamente inchiodato — come tutto il resto. Rimaneva seduta a pensare a questo, domandandosi cosa diavolo non andava in lei che le faceva scrivere cose inutili. Aveva già due buoni libri a suo nome. Come aveva fatto a cacciarsi in questa impasse col terzo? «Ma cosa ne pensa?» insistette ansiosamente Kenny. «Le sembra il mio genere di lavoro?» «Che sensazioni ne provi?» «Sono completamente confuso, gliel'ho detto.»
«Cerca di metterti al mio posto. Dai a me il consiglio che dovrei dare a te.» Lui la guardò torvo. «È una bella scappatoia questa, sa? Una parte di me parla come se fosse lei, e allora io ho un dialogo con me stesso come uno spettacolo televisivo sulla schizofrenia. Faccio tutto io; lei deve soltanto restare seduta qui mentre io mi occupo di tutto. Io voglio qualcosa da lei.» Guardò per la ventesima volta l'orologio sull'archivio. Questa volta la salvò. «Kenny, l'ora è finita.» Kenny sollevò il suo corpo grassoccio e imbronciato dalla sedia. «A lei non importa. Oh, lei fa finta, ma in realtà non...» «La prossima volta, Kenny.» Uscì con passo pesante dallo studio e lei immaginò che trascinasse sulla sua scia la zattera delle decisioni che stava cercando di indurle a prendere al suo posto. Sospirando, andò alla finestra e guardò il parco, riempiendosi gli occhi e la mente del verde copioso e brillante della primavera inoltrata. Si sentì triste. Dopo due anni di trattamento la situazione di Kenny era in stallo. Lui non sarebbe andato da qualcun altro in grado di aiutarlo, e lei non se la sentiva di mandarlo via, sebbene sapesse che alla fine vi sarebbe stata costretta. La fragile tirrania di lui non riusciva a nascondere quanto fosse debole e vulnerabile... Il prossimo era il Dr. Weyland. Floria scoprì di essere lieta di rivederlo. Difficilmente avrebbe potuto aspirare a un contrasto più netto con Kenny: alto, magro, quella testa maestosa che la spingeva a desiderare di fargli un ritratto, abiti di buon taglio, mani grandi e belle — insomma, un uomo raffinato. Anche se era vestito in maniera informale con pantaloni, giacchetta leggera e camicia senza cravatta, l'impressione che trasmetteva era di disinvoltura impeccabile e riservatezza. Non prese la sedia imbottita, preferita dalla maggior parte dei clienti, ma quella di legno col sedile di giunco. «Buon pomeriggio, Dr. Landauer,» disse con gravità. «Posso chiedere il suo giudizio sul mio caso?» «Non mi considero un giudice,» disse lei. Decise di portare la loro conversazione su una base amichevole, se era possibile. Chiamare quest'uomo all'antica col suo nome di battesimo così presto poteva sembrare non naturale, ma come avrebbero potuto diventare abbastanza intimi da portare avanti la terapia se continuavano a chiamarsi «Dr. Landauer» e «Dr. Weyland» come due personaggi usciti da un vaudeville? «Quello che io penso è questo, Edward,» proseguì. «Noi dobbiamo scoprire tutto il possibile su questo episodio vampirico — in che modo si è
collegato alle sue sensazioni, positive o negative, in quel momento; cosa l'ha spinta a cercare di "essere" un vampiro, anche se questo complicherebbe in maniera terrificante la sua vita. Più cose sappiamo, più possiamo avvicinarci a comprendere come far sì che questo desiderio vampirico non le sia più necessario.» «Ciò significa che lei mi accetta formalmente come cliente?» disse lui. Viene dritto al punto e dice quello che ha in mente, notò lei; nessun problema in questo. «Sì.» «Bene. Anch'io ho in mente uno scopo per questa cura. Avrò bisogno, a un certo punto, di una sua dichiarazione che attesti che le mie condizioni mentali sono abbastanza sane da consentirmi di poter riprendere il lavoro al Cayslin.» Floria scosse la testa. «Non le posso garantire questo. Posso impegnarmi a lavorare in questa direzione, dal momento che il miglioramento delle sue condizioni mentali è lo scopo per cui siamo qui tutti e due.» «Presumo che questo per il momento sia sufficiente,» disse Weyland. «Torneremo a discuterne in seguito. Francamente, mi accorgo di essere ansioso di proseguire il nostro lavoro oggi. Mi sono sentito molto meglio da quando ho parlato con lei, e la notte scorsa ho pensato a quello che avrei potuto dirle oggi.» Floria ebbe la netta sensazione di essere manovrata; quanto era importante per lui, si domandò, sentire di avere il controllo della situazione? Disse, «Edward, la mia sensazione è che siamo partiti con parecchio lavoro verbale molto utile, e che adesso sia il momento di tentare qualcosa di leggermente diverso.» Lui non disse nulla. La osservò. Quando lei gli chiese se rammentava i suoi sogni scosse la testa, no. Floria disse, «Vorrei che adesso cercasse di fare un sogno per me, un sogno a occhi aperti. Può chiudere gli occhi e fantasticare, e parlarmene?» Lui chiuse gli occhi. Stranamente, ora le diede l'impressione che la sua vulnerabilità fosse diminuita invece di aumentare, come se si fosse rafforzato per una particolare attenzione. «Come si sente adesso?» disse lei. «A disagio.» Le sue palpebre batterono con rapidità. «Non mi piace chiudere gli occhi. Ciò che non posso vedere può farmi male.» «Chi vuole farle male?» «I nemici dei vampiri, naturalmente — folle di urlanti contadini con le torce accese.»
E questo cosa suggerisce?, si domandò... I giovani laureati che escono dalle università agognando i posti occupati dai più vecchi come Weyland? «Contadini, oggigiorno?» «Qualunque sia la loro attività giornaliera, c'è ancora una maggioranza di stupidi, violenti e creduloni, che dedicano i loro cervelli di gallina all'astrologia, a questo o quel culto, alle varie branche della psicologia.» Lo scherno nei confronti di lei era evidente. Considerando il rifiuto di Floria di condurre la terapia a modo suo, il desiderio di imporsi era normalissimo. Ciò richiedeva un trattamento immediato e diretto. «Edward, apra gli occhi e mi dica cosa vede.» Obbedì. «Vedo una donna che ha appena superato la quarantina,» disse, «faccia intelligente, capelli scuri tendenti al grigio; poca carne sulle ossa, e ciò indica vanità o deperimento; indossa calzoni e una camicetta in tessuto batik piuttosto sgualcita — descrivibile, credo, con l'espressione "stile contadino" — con una macchia di cibo sul lato sinistro.» Maledizione! Non arrossire. «C'è qualcos'altro a parte la mia camicetta che le fa venire in mente una contadina?» «Niente di concreto, ma per quel che riguarda me, cioè il mio io vampirico, una contadina con la torcia è quello che lei potrebbe facilmente diventare.» «Prima lei ha detto che il mio compito era quello di aiutarla a liberarsi della sua illusione, sebbene questo processo possa essere doloroso e terribile per lei.» Qualcosa balenò nell'espressione di lui — sorpresa, forse allarme, qualcosa che lei avrebbe voluto cogliere prima che potesse svanire di nuovo. Disse in fretta, «Come avverte la sua faccia in questo momento?» Lui si accigliò. «Si trova sulla parte anteriore della testa. Perché?» Con un accesso di rabbia verso se stessa capì che aveva scelto la tecnica sbagliata per raggiungere quella sensazione nascosta: al contrario, aveva provocato ostilità. Disse, «La sua faccia mi appare come una maschera che cela quello che prova, piuttosto che uno strumento per esprimersi.» Lui si mosse inquieto sulla sedia, con tutto il corpo teso ed attento. «Non capisco cosa vuole dire.» «Mi permette di toccarla?» disse lei, alzandosi. Le mani di lui si strinsero ai braccioli della sedia, che protestarono con un acuto cigolio. Sbottò, «Pensavo che questa fosse una terapia verbale.» Forte resistenza al contatto fisico — non insistere. «Se non vuole lasciarmi massaggiare i muscoli del suo volto perché non siano più così tesi,
le dispiace provare da sé?» «Non mi piace essere messo in ridicolo,» disse Weyland, alzandosi e dirigendosi verso la porta, che sbatté alle sue spalle. Floria ricadde sulla sedia; aveva agito male con lui. Chiaramente la sua stima iniziale riguardo alla relativa facilità di questo caso era sbagliata e l'aveva portata ad affrettare i tempi con lui. Di certo era troppo presto per tentare una terapia di contatto fisico. Avrebbe dovuto prima far sviluppare un livello più saldo di fiducia, permettendogli di fare più a lungo ciò che faceva così facilmente e così bene: parlare. La porta si aprì. Weyland rientrò e la chiuse piano. Non si sedette di nuovo ma si mise a misurare la stanza a lunghi passi, andando poi a fermarsi davanti alla finestra. «La prego di scusare il mio comportamento piuttosto puerile di poco fa,» disse. «Sono stati quei suoi giochi a provocarlo.» «È frustrante fare dei giochi poco familiari che non si riescono a controllare,» disse lei. Lui non replicò e Floria proseguì con tono conciliante, «Non sto cercando di metterla in ridicolo, Edward. Devo solo fare in modo che ci allontaniamo da quel sentiero lungo il quale lei ci sta guidando così in fretta. La mia sensazione è che lei stia cercando fermamente di recuperare il suo antico equilibrio. «Ma questo è il traguardo, non il punto di partenza. L'unica via per raggiungere il traguardo passa per la terapia, e lei non può trainare la terapia come un treno. Può solo cooperare affinché il processo vada in porto, come se stesse aiutando un albero a crescere.» «Questi giochi fanno parte del processo?» «Sì.» «Né lei né io controlliamo il gioco?» «È così.» Lui rifletté. «Supponga che io sia d'accordo nel tentare questo suo procedimento; cosa vuole da me?» Osservandolo con attenzione, non vide più lo studioso preoccupato che lottava audacemente per allontanare la follia. Là c'era un genere differente di uomo — corazzato, calcolatore. Non sapeva cosa indicava quel cambiamento, ma sentiva l'eccitazione risvegliarsi, e ciò significava che era sulle tracce di... qualcosa. «Ho il sospetto,» disse adagio, «che questo vampirismo si estenda nel suo passato molto più di quello che lei mi ha detto e probabilmente anche fino al presente. Ritengo che sia ancora con lei. Il mio genere di terapia ac-
centua il rapporto con il presente almeno quanto con il passato; se il vampirismo è parte del presente, trattarlo su questa base è cruciale.» Silenzio. «Potrebbe dire di essere un vampiro, di esserlo in questo momento?» «Non le piacerà saperlo,» disse lui. «Edward, provi.» Lui disse, «Vado a caccia.» «Dove? Come? Che tipo di... di vittime?» Weyland incrociò le braccia e appoggiò la schiena all'intelaiatura della finestra. «Molto bene, se insiste. Ci sono un buon numero di opportunità qui in città, d'estate. Quelli che sono troppo poveri per avere l'aria condizionata dormono fuori sui tetti e le scale anticendio... Ma spesso, ho scoperto, il loro sangue è corrotto da farmaci e liquori. Lo stesso vale per le prostitute. I bar sono pieni di gente abbordabile ma anche di fumo e baccano, e anche lì il sangue è torbido. Devo scegliere con cura il mio terreno di caccia. Spesso vado alle aperture delle gallerie o alle mostre serali nei musei o ai grandi magazzini nelle ore notturne — luoghi dove le donne possono essere avvicinate.» E ne ricava molto piacere, pensò, se anche loro sono a caccia... di accettabile compagnia maschile. Eppure ha detto di non essere mai stato sposato. Cerca di scoprire dove conduce questa traccia. «Soltanto donne?» Weyland le rivolse un'occhiata sardonica, come se fosse un'allieva un po' più brillante di quanto egli avesse all'inizio pensato. «Le donne a caccia portano via troppo tempo e denaro. La caccia migliore si effettua in quella zona di Central Park che chiamano la Passeggiata, dove gli omosessuali si recano per incontrare altri della loro specie. Anch'io passeggio da quelle parti, di notte. Floria colse un debole suono di conversazione e risate che proveniva dalla sala d'attesa; il suo prossimo cliente era probabilmente arrivato, realizzò, guardando con riluttanza l'orologio. «Mi spiace, Edward, ma sembra che il nostro tempo sia...» «Solo un altro istante,» disse lui freddamente. «È stata lei a chiedere; mi consenta di concludere la risposta. Nella Passeggiata trovo qualcuno che non puzza di alcol o droga, che sembra sano, e che non insiste per "appartarsi" là fra i cespugli. Lo invito nel mio albergo. Lui mi giudica quantomeno inoffensivo: più anziano, più debole di lui, inverosimile come pericoloso maniaco. Così viene nella mia stanza. E io mi nutro del suo sangue.»
«Adesso, credo che il nostro tempo sia proprio finito.» Lui uscì. Floria era lacerata fra la gioia per la sua ammissione della persistenza dell'illusione e la costernazione per il fatto che la sua condizione era peggiore di quella che lei aveva immaginato. La speranza di risolvere tutto in breve tempo svanì. La presentazione iniziale di Weyland era stata solo questo: un'esibizione, una finzione. Costretto ad abbandonarla, le aveva scaricato addosso quel po' po' di roba; troppa — e troppo strana — per accettarla tutta in una volta. Al cliente successivo piaceva la sedia imbottita, non quella di legno sulla quale Weyland era stato seduto durante la prima parte dell'ora. Floria fece per spostare quella di legno. Il bracciolo le rimase in mano. Rammentò quando si era alzato per protestare contro il suo proposito di toccarlo. La stretta delle sue dita aveva spezzato le giunzioni, e le aste giacevano in pezzi sul pavimento. Nella clinica dopo la riunione dello staff, Floria girovagava nella stanza di Lucilie. Lucilie stava distesa sul divano con un panno umido sugli occhi. «Lo immaginavo che ti saresti sentita nauseata oggi,» disse Floria. «Cos'è che non va?» «Gran festa la scorsa notte,» disse Lucilie con toni sepolcrali. «Credo di sentirmi all'incirca come ti senti tu dopo una seduta con Chubs. Non ti sei ancora liberata di lui, eh?» «No. Lo avevo convinto ad andare da Marty la settimana scorsa piuttosto che venire da me, e invece, maledizione, si è presentato davanti alla mia porta. È una causa persa. Quello di cui volevo parlare con te è Dracula.» «Cosa gli è successo?» «È più scaltro, duro e malato di quanto pensassi, e forse sono anche meno competente di quanto pensassi. Mi ha già piantata in asso una volta — l'ho quasi perso. Non ho mai seguito un corso per curare i mostri.» Lucilie grugnì. «Certi giorni sono tutti mostri.» E ciò veniva detto da Lucilie, che lavorava più ore di tutti gli altri nella clinica, per la disperazione del marito. Sollevò il panno, lo ripiegò, e se lo pose con cura sulla fronte. «E se avessi avuto dieci dollari per ogni cliente che mi ha piantato in asso... Ti propongo una cosa: ti cedo Madame X in cambio di lui, che ne dici? Ricordi Madame X, coi braccialetti tintinnanti e gli occhi truccati da
parrocchetto e la fobia dei cani? Adesso è fobica nei confronti di tutto ciò che le cade addosso dal cielo. Aspetta e vedrai — verrà fuori che un giorno, quando aveva tre anni, un cane accorse trotterellando e pisciò sulla sua gamba proprio mentre un piccione di passaggio le rovesciava cacca sulla testa. Come facciamo a barcamenarci in questo lavoro del cavolo?» «Lo sa Dio.» Floria scoppiò a ridere. «Ma io mi sto barcamenando in questi giorni? Voglio dire, sto adoperando la mia cosiddetta abilità? Arenata nella terapia di gruppo, scervellandomi su un libro che non vuole procedere, e impegnata in qualcosa — non sono certa che sia una terapia — con un vampiro... Sai, una volta avevo una specie di coreografo naturale dentro di me che difficilmente mi faceva fare un passo sbagliato e sapeva sempre come correggere un errore che facevo. Ora che se n'è andato, sento come se stessi compiendo una serie di movimenti meccanici. Qualsiasi cosa avessi un tempo che mi rendeva un'abile terapeuta, l'ho persa.» Puah, pensò, sentendo che la sua voce scendeva in un tono di tetra autocommiserazione. «Be', non lamentarti di Dracula,» disse Lucilie. «Sei tu che hai insistito per accollartelo. Almeno sta facendo sì che ti concentri sul suo problema invece di torcerti le mani. Dal momento che hai cominciato, continua pure — l'illuminazione verrà. E adesso farò meglio a cambiare il nastro nella macchina per scrivere e a tornare alla revisione dell'ultimo best-seller di Silverman sull'autismo, mentre mi sento abbastanza buona da rendergli giustizia.» Si alzò con cautela. «Resta nei paraggi nel caso debba svenire e cadere nel cestino per la cartastraccia.» «Luce, questo è un caso sul quale mi piacerebbe scrivere qualcosa.» «Dracula?» Lucilie rovistò in un cassetto della scrivania pieno di graffette, penne, elastici'e rossetti vecchi. «Dracula. Una monografia...» «Oh, conosco il gioco: butti giù sulla carta tutto ciò che puoi e poi leggi quello che hai scritto per vedere come procedono le cose col tuo cliente, e con un po' di fortuna finirai col pubblicarlo. Grande! Ma se hai intenzione di pubblicare, non perdere tempo con un saggio insignificante. Fai un libro. Ecco il tuo soggetto, invece di quelle statistiche deprimenti sulle quali ti stai ammazzando. Questo è davvero eccitante — uno studio analitico da mettere sullo scaffale accanto all'uomo-lupo di Freud, ci avevi pensato?» A Floria piacque. «Che libro sarebbe! Fama se non fortuna. Notorietà, probabilmente. Ma come diavolo farei a convincere i colleghi che si tratta di una cosa lecita? C'è un mucchio di roba vampirica in circolazione —
spettacoli a Broadway e in TV, libri dappertutto, film. Direbbero che sto solo cercando di sfruttare la moda del momento.» «No, no, quello che tu fai è mostrare come l'illusione di questo individuo sia collegata alla moda. Affascinante.» Lucilie, avendo trovato un nastro, cominciò ad inserirlo nella sua macchina per scrivere. «Supponi che ne faccia materia di romanzo,» disse Floria, «sotto uno pseudonimo. Perché non cavalcare l'onda popolare ed essere libera di dire ciò che voglio?» «Ascolta, tu non hai mai scritto una parola di narrativa in vita tua, non è così?» Lucilie la fissò con uno sguardo iniettato di sangue. «Non c'è alcuna prova che tu riesca a tirarne fuori un romanzo campione di vendite. D'altra parte, ormai hai una memoria allenata a riportare accuratamente lo svolgimento di una terapia. Un rigoroso lavoro professionale sarebbe straordinario — e motivo d'orgoglio per ogni donna nel campo. Assicurati solo di avere una consulenza legale su come mascherare con efficacia l'identità del tuo Dracula in modo da evitare una denuncia per diffamazione.» Non valeva la pena riparare la sedia col fondo di giunco, così prese la sua gemella dalla camera da letto per metterla nello studio al posto dell'altra. Sconcertante: secondo il suo racconto Weyland aveva cinquantadue anni, e all'apparenza non era un uomo muscoloso. Avrebbe dovuto chiedere a Doug — ma come, esattamente? «A proposito, Doug, Weyland ha mai fatto il forzuto in un circo o il fabbro? In segreto fa il sollevatore di pesi?» Chiedilo al cliente stesso — ma non ancora. Invitò alcuni fra i più giovani dello staff della clinica ad un piccolo party assieme ad alcuni suoi amici. Fu una bella serata; non erano tipi che alzavano il gomito, il che vuol dire che la conversazione si manteneva intelligente. Gli ospiti si aggiravano nel lungo soggiorno o indugiavano davanti alle finestre in gruppetti di due o tre, guardando la West End Avenue mentre conversavano. Venne Mort, e riscaldò l'atmosfera della stanza. Fresco da un incontro con alcuni amici amanti della musica da camera, splendeva ancora per il piacere di far cantare il suo violoncello. La sua voce era inaspettatamente leggera per un uomo così grosso. A volte Floria pensava che la vibrazione profonda del violoncello fosse la sua vera voce. Stava accanto a lei ma chiacchierava con altri. Non c'era alcuna necessità di appoggiarsi alla sua mole confortante o di avere il suo braccio intorno alla vita. La loro intimità era di vecchia data, un piacere spontaneo e vi-
cendevole che non richiedeva né manifestazione né dissimulazione. Fu facilmente distratto dalla musica dal suo secondo argomento in ordine di preferenza: la forza e l'abilità atletica. «Ho una domanda per un saggio che sto pensando di scrivere,» disse Floria. «Un uomo alto e magro potrebbe essere eccezionalmente forte?» Mort si mise a divagare con espressione meditabonda. La sua risposta parve essere no. «Cosa dire allora degli scimpanzè?» intervenne un giovane clinico. «Una volta frequentavo un tipo che era un addestratore di animali per la TV, e mi disse che uno scimpanzè di tre mesi avrebbe potuto scaraventare a terra un uomo vigoroso.» «Dipende tutto dal condizionamento psicologico,» disse qualcun altro. «La gente d'oggi è rammollita.» Mort annuì. «Le creature umane in generale sono deboli se paragonate agli altri animali. È una questione di inserzioni muscolari — gli angoli secondo i quali i muscoli sono attaccati alle ossa. Angoli particolari consentono una miglior leva di altri. È per questo che un leopardo può trascinare a terra un animale molto più grande di lui. Ha una struttura muscolare che gli dà una forza tremenda nonostante la sua figura snella.» Floria disse, «Se un uomo fosse costruito con inserzioni muscolari simili a quelle del leopardo, avrebbe un aspetto abbastanza curioso, non è così?» «Non per un occhio non allenato,» disse Mort, come divertito da una perfetta visione. «E mio Dio, che atleta sarebbe! Provate ad immaginare nel decathlon qualcuno che sia forte come un leopardo?» Quando tutti gli altri se ne furono andati, Mort rimase solo con Floria. Frasi scherzose a proposito di inserzioni muscolari e non, portarono ben presto a suoni più espressivi e animaleschi, ma poco dopo Floria non si sentì propensa a scambiare effusioni e a conversare. La sua mente si rivolse al suo nuovo cliente. Non volle discutere di lui con Mort, così accompagnò quest'ultimo alla porta gentilmente e si sedette da sola al tavolo della cucina con un bicchiere di succo d'arancia. Come affrontare la reintegrazione dell'eminente accademico Weyland, dai grigi capelli, col suo vampirico io ribelle che aveva cambiato i connotati della sua vita? Pensò alla sedia rotta, alle grandi mani di Weyland che frantumavano il legno. Legno vecchio e colla secca, è ovvio, altrimenti non avrebbe mai potuto farlo. Era un uomo, dopo tutto, non un leopardo.
Il giorno precedente alla terza seduta Weyland telefonò e lasciò un messaggio ad Hilda: non sarebbe venuto nello studio per l'appuntamento, ma se il Dr. Landauer era d'accordo avrebbe potuto incontrarlo alla solita ora allo zoo di Central Park. Ho intenzione di consentirgli di portarmi in giro a destra e a sinistra? pensò. Non dovrei — ma perché oppormi? Concediamogli una certa flessibilità, vediamo come si comporta in un ambiente diverso. Inoltre, era una bella giornata, probabilmente l'ultima giornata mite di maggio prima dell'afa estiva. Tagliò corto con Kenny — con grande piacere — per avere il tempo di raggiungere a piedi lo zoo. C'era parecchia gente là per un giorno feriale. Giovani madri ben vestite spingevano neonati morbidi e puliti nei passeggini. All'improvviso, scorse Weyland. Stava appoggiato a una ringhiera che circondava il rifugio delle foche ed il loro torbido laghetto verde. La sua giacca, gettata sulle spalle, gli scendeva elegantemente sulla lunga schiena. Floria pensò che era piuttosto affascinante e che aveva un aspetto vagamente straniero. Le donne che gli passavano accanto, notò, tendevano a voltarsi indietro. Weyland guardava tutti e Floria ebbe l'impressione che sapesse che lei stava arrivando alla sue spalle. «L'aria aperta è un buon cambiamento rispetto allo studio, Edward,» disse, raggiungendo la ringhiera accanto a lui. «Ma dev'esserci qualcosa di più del semplice desiderio dell'aria fresca.» Una foca grassa era distesa con grazia scultorea sul calcestruzzo, gli occhi beatamente chiusi, la pelliccia che si asciugava al sole assumendo un traslucido color terra d'ombra. Weyland si scostò dalla ringhiera, raddrizzandosi. S'incamminarono. Lui non guardava gli animali; i suoi occhi si muovevano continuamente sulla folla. Disse, «Qualcuno sì è messo a sorvegliarmi davanti all'edificio del suo studio.» «Chi?» «Ci sono diverse possibilità. Puah, che puzza... anche se gli umani messi in gabbia in circostanze analoghe emanano lo stesso cattivo odore.» Schivò un paio di ragazzini urlanti che stavano litigando per un pallone e si diresse verso l'uscita dello zoo, sotto l'orologio musicale. Percorsero il sentiero in salita che conduceva verso nord attraverso il parco. Allungando un po' il passo Floria scoprì che riusciva tranquillamente a rimanergli vicino. «Sono contadini con le torce?» disse. «Quelli che la seguono?»
«Che idea puerile.» Molto bene, tenta un'altra linea di condotta, allora. «La volta scorsa mi stava parlando della caccia nella Passeggiata. Possiamo tornare su questa cosa?» «Se vuole.» Sembrava annoiato... una difesa? Sicuramente — era certa che questa doveva essere la giusta interpretazione — sicuramente era la trasmutazione nella sua fantasia del "vampiro", di un aspetto inaccettabile di sé. Per uomini della sua generazione confrontarsi con impulsi omosessuali poteva essere devastante. «Quando prende su qualcuno nella Passeggiata, si tratta di un incontro pagato?» «Di solito.» «Come si sente a dover pagare?» Si aspettò una risposta risentita. Lui eseguì una lieve spallucciata. «Perché no? Altri lavorano per guadagnarsi il pane. Anch'io lavoro, e molto duramente, in realtà. Perché non dovrei utilizzare i miei guadagni per il mio sostentamento?» Perché non giocava mai la carta prevedibile? Confusa, si fermò per bere da una fontana. Proseguirono. «Una volta che ha nella mani la sua preda, come...» Annaspò in cerca della parola giusta. «L'aggredisco?» completò lui, imperturbabile. «C'è un punto sul collo, dove una pressione può interrompere il flusso di sangue al cervello e provocare l'incoscienza. Non è difficile avvicinarsi abbastanza per applicare quella pressione.» «Fa questo prima o dopo una qualche attività sessuale?» «Prima, se possibile,» disse lui, aridamente, «e in sostituzione.» Svoltò per salire con passi misurati su un pendio che portava ad un affioramento di granito sovrastante il sentiero che avevano seguito. Lassù si accovacciò, voltandosi a guardare la via che avevano percorso. Floria, lieta di aver indossato i pantaloni quel giorno, si sedette per terra accanto a lui. Non sembrava a pezzi — per niente. Incalzalo, non fargliela passare liscia. «Va a caccia più di uomini che di donne?» «Certo. Prendo ciò che è più facile. Gli uomini sono sempre stati più accessibili poiché le donne o sono state protette come tesori o si sono talmente impoverite fisicamente per le ripetute gravidanze da risultare prede poco sane per me. In tempi recenti tutto ciò è cominciato a cambiare, ma gli omosessuali restano le prede più facili.» Mentre lei si stava riprendendo dalla sorpresa per questa inattesa e stranamente distorta conoscenza della
storia femminile, lui aggiunse soavemente, «Con quale cura controlla la sua espressione, Dr. Landauer... nessuna traccia di disapprovazione.» Lo disapprovava, realizzò. Avrebbe preferito che non fosse dedito a rapporti sessuali con gli uomini. Oh, al diavolo. Weyland proseguì, «Eppure non c'è dubbio che lei mi vede come qualcuno che vittimizza quelli che già sono vittimizzati. Così va il mondo. Un lupo aggredisce le pecore che vagano ai margini del gregge. Agli omosessuali viene negata la completa protezione del gregge umano e sono nello stesso tempo spinti a manifestarsi e a rendersi disponibili. «D'altra parte, diversamente dal lupo io posso nutrirmi senza uccidere, e queste particolari vittime non costituiscono per me una minaccia tale da costringermi a uccidere. Emarginati essi stessi, anche se comprendono la vera ragione per la quale li frequento non possono di fatto accusarmi di nulla.» Dio, con quale chiarezza, recisione e spietatezza distingue da se stesso la comunità omosessuale! «E cosa prova, Edward, a proposito delle loro mire... delle loro aspettative sessuali nei suoi confronti?» «La medesima cosa che provo a proposito delle aspettative sessuali delle donne che decido di seguire: non m'interessano. Inoltre, quando la mia fame è intensa, l'eccitazione sessuale è impossibile. La mia indifferenza sessuale sembra non sorprendere nessuno. Evidentemente l'impotenza sessuale è prevista in un uomo dai capelli grigi, e si accorda ai miei scopi.» Alcuni ragazzi con radioline a transistors passarono sotto di loro, lasciando sulla loro scia uno strepito di tonfi amplificati, guaiti e ciarle. Floria li seguì con lo sguardo, senza vederli, meditabonda, di nuovo stupefatta perché non aveva mai sentito parlare un uomo della sua impotenza con tale fredda indifferenza. Lo aveva indotto a parlare del suo problema, e lui stava parlando liberamente come aveva fatto nella prima seduta, solo che questa volta non c'era finzione. La stava immergendo più di quanto lei si fosse aspettata nel vampirismo, fornendole più dati di quanti avrebbe voluto conoscere. Che diavolo: stava ascoltando, credeva di capire... di cosa aveva bisogno adesso? Un po' di tempo nella fredda realtà, pensò; guarda come ti porta lontano coi suoi incredibili dettagli. Dai uno spintone all'intera struttura. Disse, «Lei ha capito, ne sono certo, che gli individui di entrambi i sessi che si rendono cosi facilmente disponibili sono anche soggetti a essere veicoli di malattie. Quando ha fatto l'ultimo controllo medico?» «Mio caro Dr. Landauer, il mio primo controllo medico sarà l'ultimo.
Per fortuna, non ne ho grande necessità. Le malattie più serie — le epatiti, per esempio — mi si rivelano dall'odore della pelle delle vittime. Messo in guardia, mi astengo. Quando mi ammalo, come capita occasionalmente, mi ritiro in certi luoghi nei quali posso guarire indisturbato. Le attenzioni di un medico sarebbero per me più pericolose di qualsiasi malattia.» Fissando il sentiero sottostante, proseguì, «Osservandomi, può vedere che non ci sono indizi evidenti della mia unica natura. Ma mi creda, un esame approfondito, come si vuole da parte anche di un sonnacchioso medico praticante, rivelerebbe qualche allarmante deviazione dalla norma. Cerco il più possibile di rimanere sano, e sembra che io sia dotato di una costituzione fisica eccezionalmente forte.» Fantasie di un essere unico e fisicamente superiore; conducilo sull'altra sponda. «Vorrei che lei adesso tentasse un'altra cosa. Vuole mettersi nella mente di uno degli uomini che avvicina nella Passeggiata e descrivere l'incontro con lui dal suo punto di vista?» Lui si voltò verso di lei e per alcuni istanti la guardò senza espressione. Poi riprese a sorvegliare il sentiero. «No. Anche se con la mia preda ho empatia sufficiente a consentirmi di cacciare con efficienza, devo tracciare la linea che stabilisca una netta distinzione fra preda e predatore. «E adesso credo che, per oggi, le nostre strade si dividano.» Si alzò, discese il pendio, e camminò sotto alberi che formavano un basso tetto di foglie, con la schiena curva, in direzione dell'imbocco dal lato del parco della Settantaduesima Strada. Floria si alzò più lentamente, consapevole all'improvviso del suo respiro leggero e del sudore sul volto. Torna alla realtà o a ciò che resta di essa. Guardò l'orologio. Era in ritardo per il prossimo cliente. Floria quella notte non riuscì a dormire. A piedi nudi e con addosso l'accappatoio andò avanti e indietro nel soggiorno alla luce di una lampada. Erano stati seduti assieme su quella collina isolata come il suo studio... anche di più, poiché non c'erano né Hilda né il telefono. Lui era, lo sapeva bene, molto forte, e stava seduto abbastanza vicino a lei da poterla raggiungere con quel tocco paralizzante sul collo... Supponi per un minuto che Weyland abbia continuato a dire sfacciatamente la verità per tutto il tempo, contando sul fatto che lei considerasse tutto un'illusione poiché, a giudicare dalle apparenze, era inconcepibile come verità. Gesù, pensò, se sto pensando questo di lui, questa terapia è più fuori
controllo di quel che pensavo. Che razza di terapeuta è quello che diventa complice della fantasia del cliente? Un terapeuta pazzo, ecco cos'è. Frustrata e confusa dal tumulto nella sua mente, si recò nella stanza in cui lavorava. Al mattino il pavimento era coperto di fogli di giornale, ognuno ampiamente marcato dal pennarello. Floria sedeva in mezzo ai fogli, gli occhi sbarrati e affamata. Affrontava spesso i problemi in questa maniera, ritornando alle esercitazioni artistiche: smetti di pensare, appoggia la mano sulla carta e guarda ciò che le zone più profonde e meno verbalmente elaborate della tua mente hanno da offrire. Adesso che i sogni l'avevano abbandonata, questo era il suo unico accesso a quei livelli. I fogli di giornale erano coperti di rozze raffigurazioni del volto e della figura di Weyland. Su diverse di esse erano scribacchiate delle parole: «Caro Doug, il tuo vampiro sta benissimo, è alla tua ex-terapeuta che manca qualche rotella. Attenzione: la terapia può essere pericolosa per la tua salute. Specialmente se sei il terapeuta. Bel vampiro, svegliami. Sono davvero preparata ad accettare un mostro leggendario? Lascia perdere — rimanda indietro costui. Fai il tuo lavoro — il lavoro è un buon medico.» Quest'ultima cosa suonava abbastanza bene, se si esclude il fatto che fare il suo lavoro era esattamente ciò che negli ultimi tempi trovava così precario. C'era un altro messaggio: «Come si spiega questa attrazione per una persona così allarmante?» Oh, oh, pensò, è un sentimento reale questo o una reazione cieca del picco ormonale di prima mattina? Non vorrai mica confondere un'onesta libido con un semplice meccanismo biologico? Chiamò Deborah. I bambini piangevano con in sottofondo la Sinfonia Scozzese. Nick, il marito di Deb, era un musicologo con ardenti opinioni sulla musica e nient'altro. «Saremo in città un po' più tardi quest'estate,» disse Deborah, «solo per pochi giorni alla fine di luglio. Nicky ha questo suo seminario-convegno. Naturalmente, non sarà facile con i bambini... Mi chiedevo se potevi organizzare le tue vacanze in modo da poter trascorrere un po' di tempo con loro.» Baby-sitter, cioè. Maledizione. Carini com'erano e tutto il resto, maledizione! Floria digrignò i denti. Le visite di Deb erano difficili. Floria era stata orgogliosissima della sua vivace e ribelle figlia, e poi all'improvviso Deborah aveva abbandonato gli studi ed era corsa ad abbracciare tutti i pe-
ricoli dai quali Floria l'aveva messa in guardia: un matrimonio romantico e prematuro, l'immediata procreazione, la scarsa preparazione all'autonomia, le faccende domestiche. Be', a ciascuno il suo, ma era così tedioso avere intorno Deb che faceva la casalinga scervellata. «Fammi pensare, Deb. Sarei contentissima di vedervi tutti, ma stavo pensando di trascorrere un paio di settimane nel Maine con tua zia Nonnie.» Dio sa se ho bisogno di una vera vacanza, pensò, sebbene la pace e la tranquillità di quei luoghi sia difficile da sopportare a lungo per una donna di città come me. Eppure, Nonnie, la sorella più giovane di Floria, era di buona compagnia. «Forse potresti portare i ragazzi laggiù per un paio di giorni. C'è spazio in quella grande rimessa, e naturalmente Nonnie sarebbe felice di avervi là.» «Oh, no, mamma, è così squallido laggiù, Nick ci diventa pazzo — non dire a Nonnie che ho detto questo. Forse Nonnie potrebbe venire giù in città, invece. Potresti cancellare un appuntamento o due e potremmo andare tutti assieme a Coney Island, o qualcosa del genere.» Qualcosa del genere è il trambusto infantile, che avrebbe fatto impazzire Nonnie e anche Floria in un breve volgere di tempo. «Dubito che lei possa farcela,» disse Floria, «ma glielo chiederò. Senti, eccellenza, se io vado là, tu, Nick e i ragazzi potete stare qui e risparmiare un po' di denaro.» «Dobbiamo stare in albergo per il seminario,» disse seccamente Deb. Non c'era dubbio che si era resa conto di come Floria fosse impaziente in quel periodo. «E i ragazzi non ti vedono da un bel pezzo — sarebbe davvero bello se potessi restare in città per alcuni giorni.» «Cercheremo di progettare qualcosa.» Sempre progettare qualcosa. L'armonia non viene mai naturalmente — prima dobbiamo scornarci ed incazzarci. Ogni volta che chiami spero sempre che sia diverso, pensò Floria. Qualcuno in sottofondo pretese strillando una «mella», una caramella probabilmente — Floria avvertì un subitaneo eccesso di calore nei loro confronti, i suoi nipotini, per l'amor di Dio. Essendo stata lei stessa una giovane madre, era ancora abbastanza giovane da essere felice della loro esistenza (e da scontrarsi con Deb su come educarli). Deb si stava accingendo a un goffo arnvederci; Floria ricambiò, mise giù il telefono, e sedette con la testa reclinata all'indietro contro la carta da parati a fiori della cucina, pensando, Perché adesso mi sento così a pezzi? Deb e io, rassegnati, non siamo più amiche intime, sebbene una volta lo fossimo. Le ho detto qualcosa di sbagliato, inducendola a pensare che non
volessi vederla e non mi curassi della sua famiglia? Cosa desidera da me che sembra io non riesca a darle? Approvazione? Be', gliela do, in qualche modo. Che diritto ho di essere critica, io col mio divorzio? Quali cose terribili direbbe lei a me o direi io a lei, da spingerci ad evitare di dirci qualcosa di importante? «Penso che oggi potremmo affrontare l'argomento sesso,» disse. Weyland rispose seccamente, «Potremmo, infatti. La sollecita strappare confessioni di vizi solitari agli uomini maturi?» Oh no, tu no, pensò. Non puoi cavartela così facilmente. «In quali circostanze si ritrova sessualmente eccitato?» «Il più delle volte quando mi sveglio,» disse lui con indifferenza. «Cosa fa, allora?» «La stessa cosa che fanno gli altri. Non sono uno storpio, ho le mani.» «Ha delle fantasie in quei momenti?» «No. Donne, e uomini se è per questo, mi attraggono ben poco, sia nelle fantasie che nella realtà.» «Ah... e le vampire femmine?» disse, cercando di non apparire maliziosa. «Non ne conosco nessuna.» Naturalmente: la più evidente lacuna nel libro. «Non sono necessarie per la riproduzione, suppongo, poiché quelli che muoiono per il morso dei vampiri diventano vampiri essi stessi.» «Sciocchezze,» disse lui, stizzito. «Io non sono una malattia contagiosa.» Così aveva lasciato una falla enorme nella sua costruzione. Vi si diresse a testa bassa, «Allora come fa la sua specie a riprodursi?» «Non faccio parte di una specie, per quanto ne so,» disse Weyland, «e non mi riproduco. Perché dovrei, dal momento che posso vivere per secoli, forse indefinitamente? La mia attrezzatura sessuale è chiaramente solo una dettagliata mimetizzazione biologica, una forma di colorazione protettiva.» Che bella e semplice soluzione, pensò Floria, colma di ammirazione suo malgrado. «Mi sbaglio o c'è una nota di interesse pruriginoso nelle sue domande, Dr. Landauer? Qualcosa di simile a quando ci si ferma davanti a una gabbia per vedere le tigri che si accoppiano allo zoo?» «Probabilmente,» disse lei, sentendosi arrossire. Quell'uomo aveva decisamente la battuta pronta. «La cosa le provoca disagio?» Weyland si strinse nella spalle.
«Per tornare al punto,» disse lei. «Ho sentito che lei diceva di non essere spinto ad avere rapporti sessuali con nessuno?» «Si accoppierebbe col suo bestiame?» La sua risposta realistica le fece mancare il fiato. Disse debolmente, «Si sa di uomini che lo hanno fatto.» «Degenerati. Non sono degenerato in quel senso. Il mio impulso sessuale è di bassa frequenza e può essere gestito facilmente senza assistenza... anche se di tanto in tanto esercito la copulazione per la necessità di conservare le apparenze. Ho l'attitudine, ma non sono — come gli umani — ossessionato.» Stava sprofondando nella follia davanti ai suoi occhi? «Lei vuole dire, se ho ben inteso,» disse, sforzandosi di mantenere un tono neutro, «che non è semplicemente un uomo con una singolare abitudine di vita. Lei vuole dire che non è affatto umano.» «Pensavo che questo fosse già chiaro.» «E che non ci sono altri come lei.» «Nessuno che io conosca.» «Allora... lei cosa si considera? Una sorta di mutazione?» «Forse. O forse è la sua specie ad essere una mutazione.» Floria vide del disprezzo agli angoli delle sua labbra. «Com'è la sua bocca adesso?» «Gli angoli sono tirati verso il basso. Espressione di disprezzo.» «Può far parlare il suo disprezzo?» Lui si alzò e andò accanto alla finestra, mettendosi leggermente di lato come per celarsi alla strada sottostante. «Edward,» disse Floria. Weyland si voltò a guardarla. «Gli umani sono il mio cibo. Succhio la vita dalle loro vene. Talvolta li uccido. Sono migliore di loro. Eppure sono costretto a perdere il mio tempo a pensare alle loro abitudini e alle loro pulsioni, ad escogitare i modi per evitare le insidie che essi tendono... li odio.» Floria avvertì l'odio irradiarsi da lui come una vampa arida. Dio, quell'uomo viveva davvero tutto questo! Lei stava attingendo da una fornace di emozioni. E adesso? La sensazione di trionfo vacillò, e lei cercò di afferrare la mossa successiva: colpiscilo con la realtà ora, mentre sta ardendo. «Cosa pensa delle banche del sangue?» disse. «Il suo cibo è disponibile in commercio, perché allora tutte le complicazioni e il pericolo della caccia?»
«Intende dire che potrei volgere i miei sforzi ad accumulare una fortuna e a comprare sangue quanto basta? Ciò significherebbe certamente una vita più facile e meno rischiosa a breve termine. Potrei adattarmi abbastanza confortevolmente alla società moderna, se diventassi un altro consumatore. «Tuttavia, preferisco tenere saldamente in mano i meccanismi della mia sopravvivenza. Dopo tutto, non posso permettermi di perdere la mia abilità di cacciatore. Fra duecento anni potrebbero non esistere più banche del sangue, ma io avrò ancora la necessità di nutrirmi.» Gesù, gli metti un ostacolo davanti e lui ci vola sopra. Non ci sono imperfezioni in tutto questo, né punti deboli? Osserva la sua tensione — punta verso di essa. Floria disse, «Cosa avverte adesso nel suo corpo?» «Tensione.» Premette le dita aperte sull'addome. «Cosa sta facendo con le dita?» «Ho messo le mani sullo stomaco.» «Può parlare per il suo stomaco?» «"Dammi cibo o morirai,"» ringhiò. Di nuovo euforica, lei incalzò, «E per lei stesso, in risposta?» «"Non sei mai soddisfatto?"» La guardò, torvo. «Non può spingermi a litigare con le condizioni della mia esistenza!» «Il suo stomaco è la sua esistenza,» parafrasò lei. «Gli intestini decidono,» disse lui con voce aspra. «Questa è la prima cosa, tutto il resto viene dopo.» «Dica, "Io non sopporto..."» Lui mantenne un silenzio teso. «"Io non sopporto il potere del mio intestino sulla mia vita,"» completò Floria per lui. Weyland si alzò con un movimento brusco e lanciò un'occhiata al suo orologio, un elegante guizzo d'argento sottile al polso. «Basta,» disse. Quella notte a casa diede inizio a una serie di appunti che non sarebbero mai entrati nello schedario del suo ufficio, appunti per il libro in progetto. Non è stato possibile, non è stato possibile affrontare correttamente con lui l'argomento sesso. Le cose schizzano in tutte le direzioni. Il suo concetto di vampiro così accuratamente elaborato mi trova a volte quasi disposta a crederci — la mia fantasia-di-risposta infantile alla sua potente fantasia di fuga-dalla-morte, fuga-dal-contatto. Perdita frequente della distanza professionale — è questo che mi fa avere pau-
ra di lui? Non vuoi realmente mandare in frantumi la sua illusione (la mia vita è un pasticcio, quale diritto ho di lacerare le fantasie altrui?) — perciò la vedi come reale? Straordinario quanto «vampirismo» lui manifestai e con quale frequenza. Qualcosa di attraente nella sua disposizione mentale così egoistica, predatoria — il fascino del grande fuorilegge. Oggi mi ha parlato con grande freddezza di un uomo che ha ucciso di recente — inavvertitamente — per aver bevuto troppo da lui. È una fantasia? Ovvio — la vittima, lui pensa, era uno studente di college. Esiste un professore che non abbia mai sognato di uccidere un allievo, come ritorsione per anni di frustrazione scolastica? Parla dell'insegnamento con umorismo acre — lo diverte coltivare le menti di coloro che vede semplicemente come corpi, contenitori del suo sostentamento. Mostra l'alienità di una psicopatologia conclamata, povero bastardo, sommata ad una logica ben definita. Suggerito di trovarsi un altro lavoro (presumendo che la sua illusione sia almeno in parte collegata alle pressioni del Cayslin College); il suo personaggio fantastico, il vampiro, è più realistico di me riguardo al cambiamento di lavoro: «Per un uomo della mia apparente età non è così facile realizzare un cambiamento simile in una realtà così difficile. Potrei essere costretto ad avere una posizione più bassa sulla scala del successo come voi la definite.» Lo status è importante per lui? «Certamente. Un eccentrico professore è un cosa; un eccentrico idraulico, un'altra. E a me piacciono le belle macchine, che sono costose da possedere e mantenere.» Poi, un'aggiunta ponderata, «Sebbene vi siano vantaggi in un'esistenza più semplice, meno appariscente.» Rifiuta di parlare dei "lavori" svolti, delle "vite" precedenti. Siamo immersi profondamente nella fantasia — dove diavolo andremo a finire? È maledettamente vero che non controllo il "gioco" — le strategie terapeutiche pianificate vengono scompaginate non appena cominciamo. Snervante. Tentato di nuovo di fargli assumere la parte del suo nemico-vittima, il contadino con la torcia. Chiesto se si sentiva spinto a rifiutare quel punto di vista. Risposta gelida: «Naturalmente. Il punto di vista del contadino non è affatto il mio. Ho letto qualcosa in merito al sul lavoro, Dr. Landauer. Lei opera a partire dall'orientamento Gestalt...» Ori-
ginariamente, sì, l'ho corretto; eclettico adesso. «Ma lei parte dalla teoria che io stia proiettando qualche aspetto delle mie emozioni sugli altri, che poi tratto come mie vittime. Il suo scopo, dunque, dev'essere quello di spingermi ad accettare come mio quell'aspetto di me che si considera "vittima" che io proietto. Si presume che questa integrazione abbia l'effetto di liberare l'energia in precedenza impegnata a conservare la proiezione. Tutto ciò è un'interessante introspezione nella natura dell'ordinaria confusione umana, ma io non sono un essere umano ordinario, e non sono confuso. Non posso permettermi di essere confuso.» Provato simpatia per lui — per avermi detto che ha paura che le sue confusioni interiori siano messe in luce dalla terapia, troppo pericoloso. Continuare a sgretolare l'illusione, pur con questa prospettiva? È tutto così complesso, così in profondità. Ritornata alla sua espressione «apparente età». Asserisce di aver vissuto per molte vite umane, dimenticando tutti i dettagli, comunque, durante periodi di animazione sospesa fra una vita e l'altra. Avvertendo forse il mio scetticismo di fronte a questa comoda amnesia, è diventato gelido e distante, e ha affermato di sapere poco circa lo stesso processo di ibernazione: «L'essenza di questo stato è che dormo — difficilmente può essere considerata una condizione ideale per fare delle osservazioni scientifiche.» Edward ritiene che il suo corpo sintetizzi delle vitamine, minerali (come tutti i nostri corpi sintetizzano vitamina D), e anche proteine. Descrive una struttura singolare che deduce di avere: una speciale microfauna intestinale più una superefficiente chimica corporea estraggono abbastanza energia per vivere di sangue. Un rendimento maledettamente buono per ogni caloria, inoltre. (Rammenta la tensione visibile, alla prima intervista, davanti alla domanda sul bere — la mia annotazione su un possibile problema alcolico!). Parli come se fosse il sangue: «"Se ti manco, non puoi vivere. Fluisco al debole battito del cuore attraverso buie prigioni di carne. Sono ricco, sono nutriente, sono difficile da ottenere."» Stupita di trovarlo esplicitamente lirico sul soggetto del suo "cibo". Ha attirato l'attenzione sulla voce sussurrante del sangue. «"Sì. Sono segreto, celato sotto la superficie, paziente, silente, costante. Il mio lavoro è oscuro, un pulsare invisibile di vitalità che scorre di anno in anno — meraviglioso, efficiente, autorinnovante, autopurificante, caldo, abbondante..."»
L'ho visto eccitarsi sempre di più. Alla fine si è alzato: «Ho un forte appetito. Devo lasciarla.» E se n'è andato. Rimasta seduta a tremare per cinque minuti. Nuovo sviluppo (o nuova percezione?): a volte dà l'impressione di essere molto genuino riguardo alle sue emozioni — mi lascia inseguire soggetti di estrema intensità e delicatezza per lui. Chiesto di sognare a occhi aperti... una caccia. (Le mani — le mie — tremano adesso mentre scrivo. Dio. Che seduta.) Ha cominciato a raccontare di una donna avvicinata durante una pubblica lettura di poesia, 92esima Strada X — ha N. Y. C, si muove evitando i luoghi troppo frequentati. Ha parlato con facilità, occhi chiusi senza uno sforzo visibile: sceglie dal pubblico una rossa con gli occhiali, vestita con una scollatura profonda (facile accesso, niente profumo, gli odori intensi lo infastidiscono). Le si avvicina durante una pausa, incoraggiato dal vederla scacciare con un gesto della mano il fumo della sigaretta — significa che lei non fuma, segno di salute. D'accordo nel non trovare piacevole la lettura, si trasferiscono in un caffè. «Lei mi chiede se sono un insegnante,» dice, occhi chiusi, bocca divertita. «I miei abiti, gli occhiali, i modi lo suggeriscono, e io accentuo l'impressione — rassicura. Lei fa la redattrice in una casa editrice. Parliamo di libri. Il cameriere le porta un dolce dall'aspetto appiccicoso. Da non-mangiatore, presto scarsa attenzione alla qualità dei ristoranti, così devo scusarmi con lei. Fa un cenno di noncuranza con la mano — è assorbita, o mostra di essere assorbita, dalla conversazione.» Dialogo piuttosto lungo fra la donna interessata ed Edward, che fa lo studioso schivo e solitario — moglie defunta, giovani colleghi rampanti che non lo capiscono, dispute sulle riviste professionali con pezzi grossi del suo campo — una versione di quello che mi ha raccontato la prima volta. Lei è attratta (naturalmente — l'eleganza slanciata e un po' ruvida sommata ad indizi di vulnerabilità risulta molto affascinante, come previsto). Le offre di accompagnarla a casa. Tensione nel suo corpo a questo punto del racconto — spina dorsale distante dallo schienale delle sedia, mani strette sulle cosce. «È seduta accanto a me sul sedile posteriore del taxi, e parla dei problemi del suo lavoro — manoscritti illeggibili di lunghezza biblica, curatori testardi, autori suicidi — ed io formulo commenti confortanti, mi tendo verso di lei e allungo il braccio sullo schienale del sedile, dietro le sue spal-
le. Il traffico è intenso, avanziamo con lentezza. C'è il tempo per consumare il mio pasto nel taxi ed evitare il tedioso protrarsi della situazione nel suo appartamento — se faccio presto.» Come si sente? «Bramoso,» dice, la voce velata. «La mia fame è talmente cresciuta che riesco a controllarmi a stento. Una fame potente, non come la vostra — la mia s'impone. Le stringo leggermente le spalle, faccio considerazioni da zio buono, tracciando quella lìnea sottile fra il gioco della seduzione che lei percepisce e il gioco dell'interesse amichevole che fingo di manifestare. Il mio vero scopo sottende tutto: ciò che dico, come guardo, ogni gesto è un passo di avvicinamento alla preda. C'è una componente di eccitazione in più, e di timore, perché sto cacciando in presenza di una terza persona — dietro la testa del tassista.» Riuscivo a malapena a respirare. Lo studiavo — espressione fissa, da maschera con gli occhi chiusi, narici un po' dilatate; gambe tese, mani strette sulle ginocchia. Sussurrava: «Premo quel punto sul suo collo. Lei trasale, sospira debolmente, si accascia silenziosa contro di me. Nel tanfo di stantio dell'interno del taxi, col ticchettio del tassametro e il borbottio della radio nelle orecchie... l'afferro là, nel punto più tenero della sua gola. Il rumore scema in sottofondo — sento il dolce sangue che pulsa sotto la sua pelle, sento un gusto salato un attimo prima di... colpire. La mia saliva diluisce il suo sangue perché possa fluire, lo succhio nella mia bocca rapido, rapido, prima che lei possa svegliarsi, prima che arriviamo...» Sfinito, ha appoggiato stancamente la schiena alla sedia — l'ho visto deglutire. «Ah. Sono sazio.» L'ho sentito sospirare. Sono riuscita a chiedergli delle sue sensazioni fisiche. Il suo basso mormorio, «Calore, pieno, qui...» si tocca lo stomaco — «piacevole. Il buon sapore del sangue, aspro e ricco, nella mia bocca...» E poi? Un movimento guizzante sotto le sue sopracciglia chiuse: «Mi accorgo in tempo che il tassista ha lanciato uno sguardo alle sue spalle e ha preso il nostro abbraccio come se lo fosse. Avverto che il taxi rallenta, che lui si muove per spegnere il tassametro. Mi ritraggo, pulendomi frettolosamente la bocca col fazzoletto. La prendo per le spalle e la scuoto con delicatezza; "ha spesso questi attacchi?" le domando, con espressione preoccupata. Lei ritorna in sé, confusa, debole, crede di essere svenuta. Do una mancia al tassita, e gli chiedo di attendere. Lui guarda incuriosito — "Cosa cavolo succede?" posso leg-
gere l'interrogativo sulla sua faccia — ma da vero newyorkese non manifesta la sua ignoranza con una domanda. «Scorto la donna fino alla sua porta, sostenendola mentre barcolla. Qualsiasi sospetto sul mio conto possa nutrire, comunque indefinito e nebuloso, è dissipato dalla mia severa raccomandazione al portiere, perché si assicuri che lei raggiunga senza problemi il suo appartamento. Lei s'imbarazza, forse crede che se non fossi stato bloccato dal suo "malore" avrei trascorso la notte con lei, il che la spinge a darmi, senza che gielo abbia chiesto, il suo numero di telefono. Le auguro premurosamente una buona notte e ritorno al taxi che mi riporta in albergo, dove mi addormento. «Niente sesso? niente sesso.» «Cosa provava pensando che la vittima era una persona?» «Lei era cibo.» Quella era stata la sua «caccia» della notte prima, ha ammesso dopo, non un sogno inventato. Non lo ha fatto per vantarsi, ha voluto solo dirlo. Dirlo a me! Pensa: posso andare a parlare con Lucilie, Mort, Doug, e altri di quello che mi riguarda. Edward ha solo me con cui parlare e deve pagarmi — che solitudine! Non stupisce quella faccia spigolare e monumentale... solo le labbra lunghe e forti (il suo punto di contatto, verbale e fisico-nella-fantasia, col mondo e col cibo) sono veramente espressive. Una narrazione eccitante. Sgradevole scoperta: non ho provato solo empatia ma piacere. Supponi che lui avvicini e vittimizzi — anche solo nella fantasia — Deb o Hilda, come mi sentirei allora? Più tardi: a essere sincera, ho trovato quel racconto anche sessualmente eccitante. Visualizza come appariva mentre terminava di raccontare il «sogno» — sedeva immobile, testa sollevata, espressione di compiacimento pensoso sul volto. Come un attraente intellettuale che ascolta la musica. Kenny si presentò inaspettatamente nello studio di Floria il lunedì, irrompendo con vigore malevolo. Si dava il caso che fosse libera, così lo accettò — era certamente accaduto qualcosa. Lui si sedette sull'orlo delle sedia. «So perché sta cercando di scaricarmi,» accusò. «È quello nuovo, il tipo alto con quell'aria boriosa — chi è, un vecchio attore o qualcosa di simile? Si vede benissimo che è riuscito a stimolare i suoi pruriti.»
«Kenny, quando è stata la prima volta che ti ho parlato di porre fine al nostro lavoro comune?» gli disse con pazienza. «Non cambi argomento. Lasci che le dica, nel caso non lo sappia: quel tipo non ha un vero interesse per lei, dottoressa, perché è un omosessuale. Una checca. Vuole sapere come faccio a saperlo?» Oh, Signore, pensò lei stancamente, è regredito all'età di dieci anni. Si accorse che si stava apprestando ad ascoltare il resto, che lo volesse o no. In nome di Dio, cos'era il mondo per Kenny, se si aggrappava così freneticamente a lei, malgrado il fallimento dei suoi tentativi di aiutarlo? Ascolti, avevo capito da un bel pezzo che in lui c'era qualcosa di strano, così l'ho seguito da qui fino all'albergo in cui vive. L'ho seguito anche l'altro pomeriggio. Gironzolava come fa spesso, e poi è entrato in una di quelle lussuose sale cinematografiche sulla Terza che aprono presto e proiettano film stranieri scabrosi — sa, Nippo che si staccano pezzi l'un l'altro e schifezze del genere. Quello era francese, comunque. «Be', entrò un individuo, un tipo di Madison Avenue con la sua ventiquattrore, che si stava prendendo la sua pausa di lavoro o qualcosa di simile. Il suo uomo si mosse e andò a sedersi dietro di lui, allungò un braccio e fece una specie di carezza al collo del tipo, e quello s'inclinò all'indietro, e il suo uomo si chinò e cominciò a strofinarsi contro di lui, capisce... a baciarlo. «Ho visto tutto. Avevano le teste vicine e rimasero così per un poco. È stato disgustoso: due perfetti estranei, che non si sono neppure detti "salve". Il tipo di Madison Avenue sedeva là con la testa rivolta indietro, completamente fatto, capisce, crollato, e quello che fece con le mani sul grembo sotto l'impermeabile non ho potuto vederlo, ma scommetto che lei riesce ad immaginarlo. «E poi il suo amico frocio si è alzato ed è uscito. L'ho fatto anch'io, e mi sono trattenuto per un po' fuori. Poco dopo il tipo di Madison Avenue è uscito e sembrava tutto insonnolito e fiacco, come dopo lei-sa-cosa, e si è avviato verso chissà dove. «Cosa ne pensa adesso?» concluse, con una nota alta e trionfante. Il primo impulso di Floria fu quello di dargli uno schiaffo sul viso, così come faceva con Deb-bambina quando si metteva a cianciare. Ma questo era un cliente, non un ragazzine Dio dammi la forza, pensò. «Kenny, con me hai finito.» «Non può farlo!» strillò. «Non può farlo! Cosa farò... chi posso...» Floria si alzò, sentendosi debole ma indurendo la voce. «Mi dispiace.
Non posso assolutamente avere un cliente che ha come sua occupazione quella di mettersi a spiare gli altri clienti. Hai già un elenco di terapeuti che possono sostituirmi.» Lui la guardò a bocca aperta, sgomento, gli occhi colmi di lacrime. «Mi spiace, Kenny. Prendi tutto questo come una dose di terapia della realtà e cerca di ricavarne insegnamento. Ci sono alcune cose che semplicemente non ti è consentito fare.» Si sentiva meglio; finalmente era fatta. «La odio!» Lui si alzò di scatto dalla sedia, sbattendola contro il muro. Minaccioso, fissò la vasca dei pesci, ma, accontentandosi di un paio di calci alla più vicina gamba del tavolo, uscì pestando i piedi per la rabbia. Floria chiamò Hilda con l'interfono: «Niente più appuntamenti per Kenny, Hilda. Puoi chiudere la sua scheda.» «Huurraà,» disse Hilda. Povero, rozzo Kenny. Impossibile dire cosa gli sarebbe accaduto; meglio non specularci sopra o avrebbe potuto intenerirsi, richiamarlo. In verità, lei lo aveva incoraggiato, stando ad ascoltarlo invece di metterlo a tacere e cacciarlo fuori prima che il danno fosse fatto. Era un danno, conoscere la verità? Con l'occhio della mente vedeva un giovane con la faccia color crema uscire da un cinema alla luce del sole barcollando, come se avesse bevuto una Black Thumb Vodka, sbadigliando e strofinandosi un'irritazione sul collo... Non guardò neppure il telefono sul tavolo, né pensò chi chiamare, adesso che credeva. No; aveva intenzione di mantenere il segreto sul Dr. Edward Lewis Weyland, il suo vampiro. Poco attenta alla riunione dello staff in clinica, ieri — qualcuno ha chiesto se avevo problemi, rifilata qualche sciocchezza. Più calma oggi. Dovevo fronteggiarlo. Gli ho chiesto quali pensava fossero le sue risorse. Ha risposto: la velocità, l'astuzia, la spietatezza. Risorse animali, ho detto. E l'immaginazione, si tratta di una cosa strettamente umana? Si è subito difeso: non solamente umana. Il leone, aspettando nei pressi dello specchio d'acqua dove non c'è ancora nessuna zebra ad abbeverarsi, pensa «Zebra-mangiare,» quindi esegue i gesti di un evento immaginato ancora da venire. Propria-esperienza animale? Sì — mi ha ricordato che gli umani sono anche animali. Spinto verso i suoi ricordi più antichi, ha obiettato: «Gestalt è qui-e-adesso, non recupero-della-storia.» Insisto, citando la natura anomala della sua situazione, il mio rifiuto di essere
vincolata a qualsiasi struttura. Si difende, teso: «Supponga che io mi perda nella memoria, distraendomi dai pericoli del presente, rimanendo poi indifeso contro questi pericoli.» «Mi parli della memoria.» Recalcitra, ma alla fine tenta: «"Su di me gravano le moltitudini del passato."» Punte delle dita contro la fronte, che puntellano tutto il peso delle vite. «"Pesante, colmando mondi col tempo che fluisce eone dopo eone, io accumulo, io persisto, io chiedo di essere riconosciuta. Sono reale come la vita che ti circonda — più reale, più pesante, più ricca."» La voce si abbassa, le spalle s'incurvano, la testa nelle mani — comincio a sentire la pressione sulla parte posteriore del mio cranio. «"Fammi entrare."» Solo un rauco sussurro adesso. «"Offro bellezza e terrore. Fammi entrare."» Sussurrando io gli suggerisco di rispondere alla sua memoria. «Memoria, tu vuoi schiacciarmi,» geme. «Mi sommergeresti di grida di animali, dell'odore e del contatto dei corpi, antichi tradimenti, gioie defunte, sozzura e rabbia di altri tempi... devo concentrarmi sul pericolo adesso. Lasciami in pace.» È tutto ciò che posso prendere di questo folle conflitto; farfugliando, conduco entrambi su altre cose. Lui alza la testa — sollievo? — mi segue — dove? La parte finale della seduta è irrilevante. Nessuna meraviglia se a volte non c'è affatto empatia — una frontiera fra le specie! Dev'essere del tutto egocentrico per mantenere l'equilibrio — l'egocentrismo di un animale. Ho pensato proprio ora al nostro inizio, io che cercavo di spingerlo a produrre materiale, che cercavo di controllarlo, di manipolarlo... niente affatto, niente affatto; così siamo qui, in qualche altro posto — mi sento stordita, scossa, ma ci sono dentro fino al collo — è realtà. Terapia con un dinosauro, con un marziano. «Lei mi chiama "Weyland" adesso, non "Edward".» Ho detto che il nome di battesimo potrebbe non significare molto per uno che non ha alcun ricordo di essere stato chiamato con quel nome da bambino: sciocco pretendere che significhi intimità quando non è possibile. Penso che lui sappia adesso che gli credo. Senza che gli fosse richiesto, mi ha raccontato la verità della sua scomparsa da Cayslin. Nulla di romanzesco; ha cercato di bere da una donna che lavorava là, e lei gli ha sparato, colpendolo allo stomaco e al torace. Fortunatamente per lui si trattava di una pistola di piccolo calibro, e lui indossava un cappotto
imbottito su un abito a tre pezzi. Anche così, è rimasto gravemente ferito. (Notai una rigidità all'addome quando venne la prima volta — allora avvertiva ancora dei dolori.) Non «svanì» — fuggì, si nascose, fu trovato da alcuni individui equivoci che capirono cos'era e lo vendettero «come un oggetto» a qualcuno qui in città. Fu imprigionato, nutrito, esposto al pubblico — molto privatamente — a scopo di lucro. Scappò. «Crede a qualcosa di questo che le ho detto?» Mai chiesto prima qualcosa del genere, ora sembra preoccupato per questo. Ho detto che il mio prestar fede o no era una cosa irrilevante; ascoltandolo, ho notato parecchio rancore. Ha unito le punte delle dita, guardandomi sopra di esse meditabondo: «Sono quasi morto là. Non c'è dubbio che il mio acquirente e il suo amico satanista mi stanno ancora cercando. Badi bene, all'inizio avevo qualche ragione per essere lieto delle attenzioni della gente che mi teneva prigioniero. Non ero in condizioni di provvedere a me stesso. Mi portavano cibo e mi tenevano nascosto e protetto, al di là delle loro motivazioni. Spesso ci sono dei vantaggi...» Il silenzio oggi ha dato inizio ad una breve seduta. Avendo cacciato poco la notte scorsa, Weyland era ancora affamato. Inquieto, osservava il pesce rosso che guizzava nella vasca e scrutava gli scaffali dei libri. Gli ho chiesto di essere un libro. «"Sono vecchio e pieno di nozioni, fatto per durare a lungo. Vedi solo il titolo, la sostanza è nascosta. Sono un libro chiuso."» Smorfia maliziosa della bocca, non esattamente un sorriso: «È un bel gioco questo.» Anch'egli si sta sentendo minacciato — si è già troppo «aperto» a me? Troppo allineata a lui per poter scavare quando scivola su superfici che non dovrebbero essere lisce. Non so come fare terapia con Weyland — lasciare solo che le cose accadano, sperare che siano utili. Ma cos'è «utile»? Aristotele? Rousseau? Chiedi a Weyland cos'è utile, ti dirà «Il Sangue». È tutto un vortice — queste annotazioni troppo confuse, troppo frammentarie — di nessun valore per un libro, solo un pasticcio, come me, come la mia vita. Cercato di chiamare Deb la notte scorsa, cancellato visita. Nessuno in casa, grazie a Dio. Non posso chiamarla semplicemente per dirle di stare alla larga — ma maledizione... non ho proprio bisogno di altre complicazioni adesso! Floria scese a Broadway con Lucilie per comprare altro succo di frutta,
formaggio e crackers per il frigorifero della clinica. Questa mattina era il loro turno di fare provviste, un lavoro di routine che ruotava nello staff. La conversazione a proposito delle sovvenzioni della clinica si affievolì. «Sediamoci un minuto,» disse Floria. Raggiunsero un salvagente al centro del viale. Era un pomeriggio assolato, in un momento abbastanza prossimo all'ora del pranzo, cosicché la gran parte di anziani che di solito occupava le panchine si era assottigliata. Floria sedette, e assestò un calcio a un barattolo di birra accartocciato e ad alcuni involucri untuosi di fast food, cacciandoli sotto la panchina. «Hai un aspetto infernale, ma sei ben sveglia almeno,» commentò Lucilie. «Le cose vanno ancora male,» disse Floria. «Continuo a sperare di recuperare il controllo della mia vita, così mi resterà ancora un po' d'energia per Deb, Nick e i bambini quando arriveranno, ma non mi sembra di riuscirci. Il gruppo è stato terribile ieri sera — un membro mi ha accusato di averli abbandonati tutti. Anch'io ne sono convinta. I pasticci professionali e personali, che non siano in qualche modo correlati, si scontrano l'uno con l'altro. Dovrei tenerli divisi in modo da poterli affrontare separatamente, ma non ci riesco. Non riesco a concentrarmi, la mia mente va a ruota libera. Tranne con Dracula, che mi tiene inchiodata per lo stupore quando è nello studio e confusa per il resto del tempo.» Un bus passò rombando, e fece tremare la pavimentazione e le panchine. Lucilie attese finché il fracasso non svanì. «Riguardo al gruppo, rilassati. Gli altri ti avrebbero difesa se tu fossi stata attaccata durante la seduta. Capiscono tutti, anche se a te non sembra; è la depressione estiva, la gente non ha voglia di lavorare, si aspettano che tu faccia tutto al loro posto. Ma non forzare troppo le cose. Non sei uno sciamano che può restituire con la magia la salute ai suoi clienti.» Floria tirò fuori due barattoli di succo di frutta strappando la confezione da sei e ne porse uno all'amica. All'angolo opposto della strada si sviluppò un violento diverbio fra due donne, in uno spagnolo così rapido da sembrare una macchina per scrivere. Floria sorseggiò il succo dal sapore metallico e si mise a guardare. L'inverno prima aveva visto un tipo che si era messo a calvalcioni di un altro in quello stesso angolo e aveva cercato di spaccargli la testa sul marciapiede ghiacciato. Ancora la vecchia questione: Chi era pazzo, chi era sano? «È una buona cosa che tu abbia scaricato Chubs, comunque,» disse Lucilie. «Non so cosa ne verrà fuori alla fine, ma si tratta chiaramente di una
mossa nella giusta direzione. E il Conte Dracula? Non parli più tanto di lui. Credevo che tu avessi diagnosticato un desiderio per il suo venerabile corpo.» Floria, a disagio, cambiò posizione sulla panchina e non rispose. Se soltanto avesse potuto sviare l'acuta curiosità di Lucilie. «Oh,» disse Lucilie. «Vedo. Sei davvero ardente... o perlomeno calda. Lui lo ha notato?» «Non credo. Non lo vedo attento a questo genere di risposta da parte mia. Dice che il sesso non gli interessa, e credo che stia dicendo la verità.» «Curioso,» disse Lucilie. «E Un Vampiro sul mio Letto allora? Procede tutto bene?» «È precario, come tutto il resto. Temo di non sapere come si stiano sviluppando le cose. Voglio dire, il caso dell'uomo-lupo di Freud fu un successo, riguardo alla terapia. Il mio caso vampirico risulterà un successo?» Lanciò un'occhiata alla faccia perplessa di Lucilie, si decise, e si lanciò a testa bassa. «Luce, segui la mia idea: supponi, supponi soltanto che il mio Dracula sia un vero, sacrosanto vampiro...» «Oh, merda!» proruppe Lucilie con esasperazione angosciata. «Maledizione, Floria, quando è troppo è troppo — vuoi smetterla di tergiversare e deciderti a chiedere un po' d'aiuto? A pezzi come sei, ti stai occupando di questo povero pazzo con una fissazione vampirica: come puoi fare qualcosa di buono per lui? Non stupisce che tu sia preoccupata per la sua terapia!» «Per favore, limitati ad ascoltare, aiutami a rifletterci sopra. Il mio scopo non può essere guarirlo da quello che lui è. Supponi che il vampirismo non sia una difesa che deve imparare a lasciar cadere. Supponi che sia il nucleo della sua identità. Cosa devo fare, allora?» Lucilie si alzò bruscamente e si allontanò da lei marciando attraverso un varco fra le ondate di taxi e camion. Floria la raggiunse all'isolato successivo. «Ascolta, vuoi? Luce, capisci il problema? Non ha bisogno che io lo aiuti a vedere chi e che cosa è, lo sa benissimo, e non è pazzo, assolutamente...» «Forse no,» disse con voce cupa Lucilie, «ma tu sì. Non scaraventarmi addosso questo ciarpame al di fuori delle ore di studio, Floria. Non perdo il mio tempo ad ascoltare vaneggiamenti da folle se non sono pagata.» «Dimmi solo se questo ha un senso psicologico per te: è più sano della maggior parte di noi poiché è sempre fedele alla sua identità, anche quando
è impegnato ad ingannare gli altri. Un insieme abbastanza limitato e rigido di requisiti necessari alla sua sopravvivenza — questa è la sua identità, lo dirige completamente. Qualsiasi cosa estranea potrebbe distruggerlo. Per sopravvivere, deve agire solamente in base alla sua necessità inalterata, e se questa non è autenticità, cos'è? Non è una persona sana, dunque?» Fece una pausa, avvertendo un'improvvisa leggerezza dentro di sé. «È questo il miglior senso che sono riuscita a trarre da questa intera faccenda fino ad ora.» Si trovavano al centro dell'isolato. Lucilie, che non poteva con le sue gambe corte camminare più in fretta di Floria, si voltò bruscamente verso di lei. «Cosa diavolo credi che stai facendo, se ti definisci una terapeuta? Per l'amor di Dio, Floria, non tentare di coinvolgermi in questo genere di irresponsabilità professionale. Stai sprofondando nelle fantasie del tuo cliente invece di aiutarlo a controllarle. Questa non è terapia, è collusione. Abbi un po' di buon senso! Ammetti che i tuoi problemi sono al di sopra della tua comprensione — devi fare tu stessa una terapia!» Floria scosse la testa incollerita. Quando Lucilie si voltò e si avviò in fretta lungo l'isolato in direzione della clinica, la lasciò andare senza cercare di trattenerla. Riflettuto sul consiglio di Lucilie. Dopo il divorzio entrare in terapia per un po' avrebbe potuto essere d'aiuto, ma adesso? Ritirati di nuovo per essere un cliente, come ai vecchi tempi della formazione professionale — così giovane, allora, inadeguata, indifesa. Pessima prospettiva. E dovrei passare W. a qualcun altro — chi? Non sono in grado di occuparmi di lui, non posso tenergli testa, sono troppo ansiosa. Eppure, malgrado ciò, stiamo facendo una buona terapia assieme, in un certo senso. Non riesco a controllare, posso solo offrire; lui è libero di prendere, rifiutare, usare come gli aggrada, finché lo vorrà. Io fungo da risorsa mentre lui fa la sua terapia — non è questa la terapia ideale, priva di «dovrebbe» e «non dovrebbe»? Visto un balletto con Mort, piacevole serata — pausa da W. — trascorsa a parlare, cantare, piroettare lungo tutto il tragitto fino a casa, sentendomi al sicuro nell'ombra della montagna-Mort; rotolata più tardi con quel corpo canticchiante (stonato) e caldo come il sole. Oggi W. ha detto di avermi visto la notte scorsa al Lincoln Center, e di avermi evitato a causa di Mort. W. è un'appassionato di danza! Incominciò tentando di abbordare le sue vittime, e adesso la danza lo scon-
certa e lo avvince. «Quando un gruppo danza bene, il significato è semplice — i danzatori fanno da complemento visuale alla musica; tutti i loro movimenti sono necessari, coerenti, fluidi. Quando si esibisce un solista dotato, il piacere di eseguire quei gesti risuona nel mio stesso corpo. Il coinvolgimento del solista è totale, molto simile al mio nei movimenti della caccia. Ma quando un uomo e una donna danzano assieme, avviene qualcos'altro. A volte uno è il cacciatore, l'altra la preda, oppure si scambiano questi ruoli fra loro. Eppure esiste qualche altro livello di significato — suppongo legato al sesso — ed io lo avverto — la sensazione di uno strappo, qui» — si è toccato il plesso solare — «ma non lo comprendo.» Insistito con le sue reazioni al balletto. La reazione che lui avverte a un pas de deux è una sorta di impulso, «come fame che non è fame». Naturalmente è confuso... Balanchine scrive che il pas de deux è sempre una storia d'amore fra un uomo e una donna. W. non è un uomo, non è una donna, eppure la situazione drammatica lo colpisce. Le mani ondeggiavano mentre parlava, le dita tese l'una verso l'altra. Gliel'ho fatto notare. Far muovere il corpo gli riesce più facile adesso: ha congiunto le mani, intrecciato le dita, parlato per le mani senza essere sollecitato: «"Ci somigliamo, vogliamo il conforto del simile che si unisce al simile."» Cosa vuol dire questo per lui, trovare... uno della sua specie? «Femmina?» Comincia a spiegare con impazienza quanto sia improbabile questa cosa... No, dimentica il sesso e il pas de deux adesso; cerca soltanto un tuo simile, un altro vampiro. Balza in piedi, agitato ora. Non c'è nessuno, insiste; aggiunge in fretta, «Ma come sarebbe? Cosa accadrebbe? Lo temo!» Si siede di nuovo, le mani strette nervosamente. «Lo voglio.» Silenzio. Lui osserva il pesce rosso, io osservo lui. Evito un fatuo tentativo di bloccare questa sua introspezione, se è davvero questo — cosa posso saperne della sua introspezione? All'improvviso si volta, mi scruta con attenzione finché non mi saltano i nervi, reagisco, suggerisco vigliaccamente che se lo metto a disagio può rivolgersi a un altro terapeuta... «Sicuramente no.» Aggiunge altre cose, tutte preziose: «Quello che facciamo ha grande valore per me, Dr. Landauer, e va molto al di là delle mie prime aspettative. Anche se le persone dicono di apprezzare il parlare schietto generalmente lo evitano, e io stesso ho scoperto che
risulta di scarsa utilità. La sua franchezza con me — e la franchezza che lei mi chiede in risposta — è salutare in un'esistenza così dipendente della menzogna come la mia.» Seduta là, senza parole, molto commossa, ho pensato a quello che non gli mostro — la mia vita disordinata, il modo di procedere d'istinto con lui e lo sforzo connesso, l'attrazione per lui — e alla mia reticenza mentre lui apprezza la mia onestà. Esitazione, poi con voce più bassa, «Inoltre, ci sono dei limiti nel mio metodo di auto-scoperta, dal momento che non intendo consegnarmi ad un laboratorio per la vivisezione. Non ho altri simili a me da osservare o dai quali apprendere. Ogni strumento che può essermi d'aiuto vale moltissimo per me, e questi suoi giochi sono... potenti.» Poi altre cose, di scarsa importanza. Importante: lui mi commuove, mi attrae e continua a tornare. Persisti se continua. Brutta nottata — ha chiamato la zia di Kenny: non le è arrivata alcuna fattura da parte mia questo mese; se non sta venendo da me chi si sta occupando di lui, cosa sta facendo? Rimprovero sottinteso per ciò che potrebbe accadere. Assurdo, ma mi ha scossa: ho fallito con Kenny. Annullato il gruppo anche questa settimana; troppo. No, è stata una bella nottata — il primo sogno che riesco a rammentare da mesi, contatto ristabilito col profondo — ma disturbante. Sognato che stavo in un taxi con W. al posto della donna di X. Non mi ha appoggiato una mano sul collo ma sul seno — ho avvertito un'intensa risposta sessuale nel sogno, e inoltre rabbia e una paura così forte che mi sono svegliata. Riflettere su questo: se qualcuno prova attrazione sessuale per lui, segno che la sua tecnica di caccia ha attirato l'eventuale vittima nel suo raggio d'azione, questo aumenta il suo desiderio di sangue. Non lo voglio. «Lei era cibo.» Io non sono cibo, sono una persona. Nessuna eccitazione al pensiero di lasciarmi andare fra le sue braccia in un taxi mentre beve il mio sangue — questo è sesso trasfigurato, masochismo. La mia risposta sessuale nel sogno mi ha fatto capire che vorrei essere sua vittima — l'ho respinta e mi sono svegliata. Menzionato Dracula (romanzo). A W. non piace; dispersivo, impreciso, quegli assurdi canini. Dice di avere una specie di ago sotto la lingua, adoperato per forare la pelle. Nessun offerta di dimostrazione, e
nessuna richiesta da parte mia. Ho citato con vivacità il Vlad Dracula storico — il famoso episodio dei messi turchi che, per aver rifiutato di scoprirsi il capo in segno di rispetto davanti a Vlad, furono uccisi facendo inchiodare i loro cappelli ai crani. «Sciocchezze,» sbuffa W. «Un governante astuto avrebbe usato delle piccole puntine da disegno e congedato i messi mandandoli a gemere per le strade di Varna con le teste inchiodate.» Primo scherzo spontaneo da parte sua — ha preso la testa nelle mani e ha emesso gemiti lamentosi, «Oh, oh, ooh.» Sono scoppiata a ridere. W. è tornato immediatamente alle sue maniere austere: «Può vedere che in questo modo il governante avrebbe dato un esempio molto più efficace contro l'orgoglio sconsiderato.» Più tardi, stessa vena leggera: «Io so perché sono un vampiro; lei perché è una terapeuta?» Sbilanciata come al solito, ho detto delle cose a proposito dell'essere d'aiuto, della salute mentale, ecc. Ha scosso la testa: «E dicono che i vampiri sono arroganti! Lei vuole curare in un mondo che dimostra di essere ben poco sano sotto tutti gli aspetti... e in tutti voi c'è la medesima arroganza. Uno vuole diventare Presidente o Capoclasse o Direttore di Dipartimento o Boss del Sindacato, un altro vuole essere il primo a volare verso le stelle o a trapiantare il cervello umano, e così via. Per quel che mi riguarda, desidero soltanto soddisfare il mio appetito in pace.» E quelli di noi il cui appetito è rivolto verso la competenza, verso l'efficienza? Pensato a Green, del quale mi occupai otto anni fa, che era stato accusato di aver gestito un'infernale «casa» per anziani. Lo avevo aiutato ad essere attivo in modo che potesse distruggere gli indigenti per un buon profitto. W. non è il mio primo predatore, solo il più onesto e franco. Spaventata; non di un'aggressione da parte di W., ma del procedimento che stiamo seguendo. Sto cominciando a farmi coinvolgere, eppure... è del tutto imprevedibile, impossibile da trattare o gestire. Movimenti occasionali del coreografo dentro di me che era solito dirigere con grande fermezza il mio lavoro. Era di questo che avevo paura, perciò lo reprimevo dentro di me, e sceglievo invece una manipolazione meccanica? Nessuna scelta con W. — la riflessione non serve, la strategia non serve, niente se non l'istinto, e risposte chiare e precise se riesco a trovarle. Devo affermare la mia autorità su di lui, così come lui afferma la sua sul mondo nel quale è unico. Lavorare con W. non è solo faticoso — è anche esaltante, oltre che stressante e spaventoso.
Sto diventando più audace? Non ho molta scelta. Di nuovo al parco oggi (condizionatore d'aria nello studio guasto). Evitate le chiamate di Lucilie dalla clinica (molto rassicurante che lei chiami nonostante il diverbio, ma non ho intenzione di risollevare tutta la questione con lei). Inoltre incontrare W. all'aperto sembra in qualche modo più sensato — le creature selvagge appartengono agli spazi aperti? Laghetto di barche a vela, Nord della 72esima, torme di ragazzini, una bella barca alla deriva. Passegiamo. W. afferma di non ricordare l'infanzia né i genitori. Gli ho manifestato il mio stupore nel trovarmi di fronte a qualcuno che non ha mai avuto nessuno della generazione precedente (neppure genitori adottivi) a proteggerlo dalla morte — come restiamo nudi quando cade l'ultimo scudo. Mi è venuto in mente un mio sogno di morte, ricorrente — non riuscivo a concentrarmi, spaventata com'ero, l'ho raccontato — un cane investito da un camion di passaggio, scaraventato ai margini della strada dove giace incapace di qualsiasi movimento tranne che alzare la testa e guaire; impossibilitata ad aiutarlo. Scossa quasi fino alle lacrime — ho rammentato che mia madre entrava in qualche modo nel sogno — la prima volta ero riuscita ad interromperlo. Adesso non l'ho detto. Cercato di salvare la situazione, mostrando a W. come lavorare con un sogno (sedere sotto una pianta rampicante nei pressi del palchetto della banda, favorisce una certa privacy). Si è concentrato sul mio evidente disagio: «L'aria vibra in continuazione per le grida di morte di innumerevoli animali grandi e piccoli. Cos'è la morte di un cane?» Si è proteso verso di me, parlando con calma, con un tono pedante. «Molte creature stanno morendo in svariati modi, troppo spaventosi da immaginare. Io faccio parte del mondo; ascolto il dolore. Voi pretendete di essere al di sopra di tutto questo. Diventate sordi per il vostro strepito e fingete che non ci sia nient'altro da sentire. Allora queste grida entrano nei vostri sogni, e dovete ricorrere ad una terapia poiché avete perso il coraggio di ascoltare.» Io stessa, ho detto, sono un animale morente. Lui l'ha negato: «Lei è quella che sogna queste cose.» Ho avuto un orribile flash, mi è parso di essere il cane — inerme, condannata, ferita — sono scoppiata in lacrime. La grande terapeuta, che introduce i propri problemi in una seduta col cliente! Mi sono arrabbiata con me stessa, perché non riuscivo a smettere di singhiozzare.
W. era sconcertato, credo; non parlava. La gente passava, lanciava un'occhiata, ci ignorava. W. alla fine ha detto: «Cosa significa questo?» Niente, soltanto paura della morte. «Oh, la paura della morte. È sempre con me. Bisogna semplicemente abituarvisi.» Da lacrime a risa. Maledetta saggezza degli anni. Si è alzato per andarsene, si è fermato: «E dica a quello stupido piccoletto, che è solito precedermi nel suo studio, di smettere di pedinarmi. Altrimenti si metterà nei guai.» Kenny, maledizione! La zia non sa dov'è, non risponde al telefono. Idiota! Fatto schizzi per tutta la notte — inutilmente. W. è bello al di là delle possibilità della linea — la bellezza della singolarità, della coesione, radicata con devozione assoluta nelle esigenze del suo corpo innaturale. Nel pasto (la donna nel taxi), il coinvolgimento completo che si richiede ad un uomo in un rapporto sessuale — niente prestazionirecord, niente fantasie, solo il bisogno pressante del desiderio, dei sensi, il momento in sé. Maniche arrotolate fino ai gomiti, oggi — gli avambracci forti, scultorei, le ossa lunghe leggermente incurvate verso l'interno, suggeriscono il momento di una forza, l'azione di una leva. Che età avrà? Durata: l'enorme e ricco mantello del tempo che sventola sulle sue spalle come le ali di un angelo tenebroso. Tutto deriva, si sviluppa, dall'unica, cruda, condizione primaria: è un predatore che vive di sangue umano. Armonia, forza, semplicità, magnificenza — tutto deriva da quell'integrità animalesca di base. Naturalmente io desidero tutto questo, nell'assurdo caos della mia esistenza! Naturalmente lui mi attrae! Non ho messo il profumo oggi, per deferenza verso il suo olfatto acuto e sensibile. Lo ha notato subito, ha pronunciato un conciso ringraziamento. Ho notato che qualcosa lo preoccupava, ho aperto la bocca cercando disperatamente qualcosa di intelligente da dire — si è svegliato il mio coreografo interiore, ben desto, e ha parlato chiaro dal mio cuore: ho riflettuto sulla mia confusione in qualcuna delle nostre sedute — sono certa che lui si è accorto di questa mia confusione. So che se n'è accorto per qualche sua espressione di impazienza, per qualche improvvisa deviazione — eppure continua a rivelarsi a me (anche a cambiare lui stesso la nostra linea, se è necessario e non lo faccio
io). Credo di sapere perché. Perché nel mondo non c'è un posto dove lui può essere quello che è. Perché sotto le sue svariate facciate il suo vero io soffre; come tutti i veri io lui vuole, ha bisogno di essere valutato come reale e prezioso, attraverso il riconoscimento di un altro. Io tento di essere quest'altro, ma spesso lui si trova al di là della mia portata. Si è alzato e si è avvicinato alla finestra; si è voltato a guardarmi, incenerendomi. «Se a volte sembro inquieto o impaziente, Dr. Landauer, non è a causa di qualche sua insufficienza professionale. Al contrario — lei è troppo efficace. La seduzione, la distrazione del nostro... contatto umano mi preoccupa. Temo per la spietatezza che mi tiene in vita.» Parli della spietatezza. Ha scosso la testa. Ho visto rigidità nelle spalle, piedi puntati contro il pavimento. Ho avvertito una tensione riflessa nei miei muscoli. L'ho incalzato: «Mi irrita...» «Mi irrita la sua presunzione di insegnarmi ciò che sono! Cosa ha intenzione di fare di me? Un predatore parallizzato da una indesiderata empatia con la sua preda? Una creatura adatta solo ad una gabbia e ad un guardiano?» Respirava pesantemente, la mandibola risoluta. Mi sono resa improvvisamente conto della verità della sua paura: la sua integrità non è umana, ma il mio lavoro è specificatamente umano, destinato a rendere gli umani più umani — che effetto ha su di lui una cosa del genere? Avrei dovuto accorgermene prima, avrei dovuto accorgermene. Non avevo alternative: ho dovuto chiedergli, con voce debole, Parli della mia presunzione. «No!» Occhi chiusi, testa voltata dall'altra parte. Ho dovuto farlo: Parli di me. W. ha sussurrato, «Come all'unicorno, delle vostre leggende — "Unicorno, vieni ad appoggiare la testa sul mio gremho mentre i cacciatori si avvicinano. Tu sei un prodigio, e per amore dei prodigi ti domerò. Ti inseguono, ma dimentica i tuoi inseguitori, riposa sotto la mia mano finché non verranno a distruggerti."» Mi ha rivolto uno sguardo d'acciaio: «Vede? Più si lascia coinvolgere da quello che sono, più diventa il contadino con la torcia!» Due giorni dopo Doug arrivò in città e pranzò con Floria. Era un uomo di bellezza non eccezionale, ciò nondimeno era attraente:
aveva il mento piccolo e le orecchie troppo grandi, ma nessuno li notava grazie all'aria di fiducia in sé che lo circondava. Il suo era un equilibrio acquisito duramente — da omosessuale che fronteggia il mondo normale. Un po' della sua forza l'aveva conseguita con fatica e pena in un gruppo che Floria aveva gestito anni prima. Fra lei e Doug si era sviluppato un durevole affetto. Era lietissima di vederlo. Mangiarono nei pressi della clinica. «Sembri un po' logora, ai margini», disse Doug. «Ho sentito della ricaduta di Jane Fennerman — brutta cosa.» «Da quando è successo, sono riuscita solo una volta a farle visita.» «Senso di colpa?» Lei esitò, addentando un grissino stantìo. La verità era che non aveva pensato a Jane Fennerman per settimane. Finalmente disse, «Credo di sì.» Appoggiandosi allo schienale della sedia con le mani nelle tasche, Doug aggiunse con gentilezza. «Dev'essere la quarta o quinta volta che Jane torna in ospedale, e le altre sono capitate quando era in cura da altri terapeuti. Chi sei tu per pensare — per pretendere — che la sua guarigione sia nelle tue mani? Può darsi che Dio sia una donna, Floria, ma tu non sei Lei. Credevo che il problema fosse riconoscere le responsabilità individuali — tu per te stessa, il cliente o la cliente per sé.» «È questo quello che diciamo sempre,» convenne Floria. Si sentiva curiosamente distaccata da quella conversazione, che aveva un sapore antiquato: pre-Weyland. Fece un lieve sorriso. Il cameriere arrivò lentamente. Lei ordinò un pesce azzurro. La porzione sarebbe stata troppo grande per il suo appetito depresso, ma Doug non sarebbe stato appagato dalla sua solita insalata (non lo era mai) e avrebbe potuto essere persuaso a darle una mano. Lui continuò a girare intorno al Tema A. «Quando ti ho chiamata per invitarti a pranzo, Hilda mi ha detto di essersi presa una cotta per Weyland. Come ve la state cavando tu e lui?» «Mio Dio, Doug, adesso mi dirai che tutta questa cosa è servita a procurarmi un corteggiatore idoneo!» Sussultò per la sua risata piuttosto forzata. «Quando pensi di chiedere a Weyland di tornare a lavorare al Cayslin?» «Non lo so, ma probabilmente più presto di quanto pensassi un paio di mesi fa. Abbiamo saputo che sta esplorando la possibilità di assegnazione ad una facoltà di antropologia in un istituto dell'Ovest, una sorta di nicchia dove presumo che senta di poter avere meno responsabilità, meno pubblicità, e l'opportunità di riprendersi. Naturalmente, questa notizia ha reso improvvisamente quelli di Cayslin ansiosi di legarlo a noi. Hai un consi-
glio?» «Sì,» disse lei. «Aspetta.» Lui le rivolse uno sguardo inquisiture. «Per quale motivo?» «Finché non lavorerà più a fondo su certi stress dovuti alla sua situazione al Cayslin. Allora sarò pronta a esprimermi sul suo conto.» Arrivò il pesce azzurro. Simulò un certo divertimento: «Buon Dio, è troppo per me. Doug, vienimi in soccorso.» Hilda era chinata sullo schedario di Floria. Si raddrizzò, con espressione arcigna. «Qualcuno è stato nello studio!» Cos'era successo, qualcuno l'aveva aggredita? Il mondo assunse una strana e pericolosa inclinazione. «Stai bene?» «Sì, certo, voglio dire che ci sono delle schede che sono state esaminate. Non ho dubbi. Ho cominciato a fare un controllo e ho la netta impressione che nessuna delle schede sia sparita. Ma se qualcuna fosse stata portata via, sarebbe abbastanza difficile individuarla senza scorrere tutte le cartelle. Le tue schede, Floria. Non credo che siano state toccate quelle di qualche altro terapeuta.» Un semplice furto; sentendosi fiacca e sollevata, Floria si sedette su una delle sedie della sala d'attesa. Ma solo le sue schede? «Solo la roba mia, sei sicura?» Hilda annuì. «Se ne sono accorti anche in clinica. Ho chiamato. Hanno visto alcune graffiature recenti sulla serratura dello schedario che hai là. Ascolta, vuoi che chiami la polizia?» «Prima controlla meglio che puoi, vedi se è scomparso qualcosa di evidente.» Non c'erano segni di disordine nel suo studio. Trovò un messaggio telefonico sul tavolo: Weyland aveva annullato il suo prossimo appuntamento. Capì chi era stato a frugare nei suoi archivi. Chiamò Hilda. «Hilda, lasciamo fuori la polizia da questa storia per il momento. Continua a controllare.» Si pose al centro dello studio, guardando la sedia che aveva rimpiazzato quella che lui aveva rotto, guardando la finestra dalla quale lui aveva così spesso osservato. Rilassati, si disse. Non c'era nulla che lui potesse scoprire qui o nella clinica. Segnalò di essere pronta per il primo cliente del pomeriggio. Quella sera tornò nello studio dopo aver cenato con gli amici. Si presu-
meva che stesse aiutando a preparare il seminario del mese successivo, e lei invece aveva evitato persino di pensarci, figuriamoci poi buttar giù qualcosa. Si dispose a compilare una bibliografia di testi consigliati per la sua sezione. La luce del telefono ammiccò. Era la voce di Kenny, e appariva smorzata e rotta. «Mi dispiace,» disse piagnucolando. «La medicina comincia a perdere effetto. Ho tentato di chiamarla dappertutto. Dio, ho tanta paura — mi stava aspettando nel vicolo.» «Chi?» disse lei, con la bocca secca. Lo sapeva. «Lui. Quello alto, la checca... solo che va anche con le donne, l'ho visto. Mi ha afferrato. Mi ha fatto male. Sono rimasto per parecchio tempo disteso là. Non riuscivo a fare nulla. Mi sentivo così strano — come se stessi galleggiando. Mi hanno trovato dei ragazzini. La loro madre ha chiamato i poliziotti. Ero così freddo, così spaventato...» «Kenny, dove sei?» Le disse in quale ospedale. «Ascolti, credo che sia davvero pazzo, sa? E ho paura che possa... lei vive sola... non so — non avevo intenzione di procurarle dei guai. Sono così spaventato.» Maledizione, tu volevi esattamente procurarmi dei guai, e ora ci sei riuscito dannatamente bene. Gli fece chiamare un'infermiera col campanello. Poi le disse che Kenny era un suo paziente, e adoperando il «Dr.» davanti al proprio nome senza specificare il titolo ottenne qualche informazione; due costole rotte, contusioni multiple, una spalla malamente slogata, e un taglio profondo al cuoio cappelluto che il Dr. Wells riteneva la causa della perdita di sangue che il paziente aveva subito. Raccolto alle prime ore del giorno, il paziente non era stato in grado di dire chi lo aveva aggredito. Può parlare col Dr. Wells domani, Dr...? Weyland ha pensato che in qualche modo ho istigato Kenny contro di lui? No, mi conosce molto bene. Kenny aveva agito per conto suo. Cercò il numero di Weyland e poi la reception del suo albergo. Aveva saldato il conto ed era partito, non fornendo altro recapito che l'indirizzo di un'università nel New Mexico. Poi ricordò: quella notte sarebbero arrivati Deb, Nick e i bambini. Oh, Dio. Altra telefonata. L'Americana era l'albergo che Deb aveva menzionato. Sì, Mr. e Mrs. Nicholas Redpath erano registrati nella stanza numero tot. Me la passi, per favore. La voce di Deb arrivò incerta sulla linea. «Ho tentato di chiamarti.»
Come Kenny. «Sembri sconvolta,» disse Floria, preparandosi a qualsiasi calamità si fosse abbattuta: malattia, incidente, aggressione nelle strade buie e degenerate della città. Silenzio, poi un singhiozzo rotto. «Nick non è qui. Non ti ho telefonato prima perché pensavo che stesse tornando, ma ora penso che non sia così, mamma.» Lacrime. «Oh, Debbie, Debbie, ascolta, devi soltanto restare seduta, sarò subito da te.» La corsa in taxi durò pochi minuti. Debbie stava ancora piangendo quando Floria entrò nella camera. «Non capisco, non capisco,» gemette Debbie, scuotendo la testa. «Cosa ho fatto di sbagliato? Se n'è andato una settimana fa per fare delle ricerche, ha detto, e non l'ho più sentito, e metà del nostro conto in banca è scomparsa — esattamente la metà, mi ha lasciato la metà. Ho continuato a sperare... dicono che la maggior parte di quelli che scappano di casa tornano dopo pochi giorni o telefonano, si sentono soli... non l'ho detto a nessuno — pensavo che dal momento che dovevamo venire assieme a questo convegno, avrei fatto meglio a venire, forse si sarebbe fatto vivo. Ma nessuno lo ha visto, e non ci sono messaggi, neanche una parola, nulla.» «Va bene, va bene, povera Deb,» disse Floria, stringendola fra le braccia. «Oh, Dio, finirò con lo svegliare i ragazzini con tutti questi lamenti.» Deb si allontanò, facendo un gesto frenetico in direzione della porta della camera adiacente. «È stato così difficile convincerli ad andare a letto — stavano aspettando che venisse papà, ho continuato a dire che sarebbe arrivato.» Si precipitò nel corridoio dell'albergo. Floria la seguì, puntellando la porta con una delle scarpe finché non seppe se Deb aveva con sé una chiave oppure no. Rimasero là fuori assieme, ignorando quelli che passavano, stringendosi per soffocare il pianto di Deb. «Cosa è successo fra te e Nick?» disse Floria. «Avete dormito assieme negli ultimi tempi?» Deb si lasciò sfuggire un grido rauco di doloroso imbarazzo. «Mamma!» e si allontanò da lei. Oh, diavolo, approccio errato. «Andiamo, ti aiuterò a fare i bagagli. Lasceremo detto che sei a casa mia. Lascia che sia Nick a venire a cercarti.» Floria ricacciò giù con fermezza l'avvilita protesta, Come farò ad affrontare tutto questo? «Oh, no, non mi muoverò fino a domattina adesso che ho tranquillizzato
i bambini. Inoltre, ho già pagato le camere per una notte. Oh, mamma, cosa ho fatto?» «Non hai fatto niente, Deb,» disse Floria, dandole alcune pacche sulle spalle e pensando in qualche parte della sua mente, Oh, ragazzi, sei grande, questo è tutto quello che riesci a escogitare in una crisi del genere con tutta la tua competenza ed esperienza? La tua riconosciuta abilità professionale non è stata molto attiva ultimamente, ma è possibile che si sia ridotta così male? Un'altra parte rispose, Sta' zitta, stupida, solo un'idiota fa terapia sulla propria famiglia. Deb è venuta da sua madre, non da uno strizzacervelli, per cui va' avanti e sii Madre. Se soltanto mamma avesse meno pressioni addosso, in questo momento... ma succedeva sempre così: tutto assieme o niente affatto. «Okay, Deb, posso restare qui con voi stanotte.» Deb si scostò i capelli chiari e umidi dagli occhi con un gesto determinato e adulto. «No, grazie, mamma. Sono talmente stanca che ora posso solo crollare. Comunque, farai una scorpacciata di tutto questo quando saremo da te domani. Stanotte posso farcela, ed inoltre...» E inoltre, nel caso Nick si fosse fatto vivo, Deb non voleva Floria fra i piedi a complicare le cose; naturalmente. O nel caso la fatina dei denti fosse venuta. Floria controllò l'impulso di insistere per restare; un impulso, riconobbe, che proveniva dal suo bisogno di non stare sola quella notte. Non era una cosa da far gravare sulle spalle già cariche di Deb. «Okay,» disse Floria. «Ma bada, Deb, la prima cosa che farai domattina sarà quella di chiamarmi, qualsiasi cosa accada.» E se sarò ancora viva, risponderò al telefono. Per tutto il tragitto in taxi fino a casa seppe con crescente certezza che Weyland sarebbe stato là ad aspettarla. Non può semplicemente andarsene, pensò; deve prima terminare con me. Togliamoci il pensiero, allora. Nel corridoio piastrellato esitò, con le chiavi in mano. E se avesse chiamato i poliziotti perché entrassero assieme a lei? Assurdo. Non puoi sguinzagliare i poliziotti contro l'unicorno. Fece scattare la serratura, aprì la porta dell'appartamento e gridò verso l'interno, «Weyland! Dov'è?» Niente. Naturalmente — la porta era ancora aperta e lui voleva essere certo che lei fosse sola. Entrò, chiuse la porta, e accese una lampada mentre avanzava nel soggiorno. Era seduto tranquillamente sulla calotta di un termosifone accanto alla
finestra che dava sulla strada, le mani sulle cosce. La sua presenza là in un nuovo ambiente, l'ambiente di Floria, quella stanza fiocamente illuminata nella casa di lei, era sorprendentemente intima. Lei fu consapevole in maniera acuta del fruscio del movimento — i suoi abiti, le suole delle scarpe contro il tappeto sotto i piedi — mentre lui cambiava posizione. «Cosa avrebbe fatto se avessi portato qualcuno con me?» disse lei, con voce incerta. «Si sarebbe trasformato in un pipistrello e sarebbe volato via?» «Due cose pretendo da lei,» disse Weyland. «Una è il certificato di sanità mentale del quale parlammo quando abbiamo cominciato, anche se, dopo tutto, non per il Cayslin College. Ho altri piani. La storia della mia scomparsa è naturalmente filtrata negli ambienti accademici al punto che anche a duemila miglia da qui sarà richiesta prova della mia sanità mentale. Prova fornita da lei. Avrei potuto batterla io stesso a macchina e imitare la sua firma, ma voglio il suo stile e linguaggio autentici. Prepari, per favore, una lettera in questo senso, indirizzata a queste persone.» Tirò fuori qualcosa di bianco da una tasca interna della giacca e la lesse. Lei avanzò e prese la busta dalla sua mano. Proveniva dalla facoltà di Antropologia dell'Ovest che Doug aveva menzionato a pranzo. «Perché non Cayslin?» disse. «Laggiù la vogliono.» «Ha dimenticato il suo stesso consiglio di trovare un altro lavoro? Era una buona idea, dopo tutto. Le sue referenze mi saranno più utili altrove... con una copia della mia scheda personale del Cayslin, naturalmente.» Floria appoggiò la borsetta su una sedia e incrociò le braccia. Si sentiva apatica — l'effetto dello stress e della stranchezza, pensò, ma era una sensazione eccitante. «L'addetta alla ricezione nel mio studio fa questo genere di cose per me,» disse. Lui indicò con la mano. «Sono stato nella sua stanza da studio. Ha una macchina per scrivere qui, carta da lettere intestata, carta carbone.» «Qual è la seconda cosa che vuole?» «I suoi appunti sul mio caso.» «Ha già...» «Lei sa che ho già cercato in entrambi i suoi luoghi di lavoro, e gli appunti molto circospetti della sua scheda su di me non sono quello che intendo. Devono essercene altri: più dettagliati.» «Cosa glielo fa credere?» «Perché oppone resistenza?» La sbeffeggiò lui. «Non ha incontrato nien-
te di simile a me nella sua intera vita professionale, e non succederà più. Forse spera di produrre un articolo prima o poi, o anche un libro — un saggio su qualcosa di impossibile accadutole un'estate passata. Lei è una donna ambiziosa, Dr. Landauer.» Floria strinse più fortemente le braccia incrociate per reprimere il suo tremito. «Tutto questo è solo una congettura,» disse. Weyland prese dei fogli spiegazzati dalla tasca: alcuni degli appunti su di lui scartati, recuperati dal cestino della carta straccia. «Ho trovato questi. Credo che ce ne debbano essere altri. Qualunque cosa siano, me li consegni, per favore.» «E se rifiuto, cosa farà?» Mi pesterà come ha pestato Kenny?» Weyland disse, calmo, «Gliel'avevo detto che avrebbe dovuto smettere di seguirmi. La cosa si è fatta seria. C'è gente che m'insegue e vuole farmi del male — quelli che mi hanno catturato per primi, dei quali le ho parlato. Da chi crede che io continui a stare in guardia? Nessun appunto che mi riguardi deve cadere nelle loro mani. Non perda tempo ad assicurarmi la sua dedizione alla riservatezza. C'è un uomo chiamato Alan Reese che prende ciò che vuole e se ne infischia della sua etica professionale. Allora devo distruggere tutte le prove che ha su di me prima di lasciare la città.» Floria distolse lo sguardo e si sedette accanto al tavolino, cercando di riflettere a dispetto dei suoi timori. Fece un respiro profondo contro la paura che la faceva tremare. «Vedo,» disse lui seccamente, «che non vuole darmi gli appunti; non crede che io li prenderò e andrò via. Vede qualche pericolo.» «Molto bene, un patto,» disse lei. «Io le darò tutto ciò che ho sul suo caso se mi promette in cambio di andarsene dritto al suo nuovo lavoro e di stare lontano da Kenny, dal mio studio e da chiunque sia legato a me...» Weyland sorrideva lievemente mentre si alzava e avanzava verso di lei con passo leggero sul tappetino. «Patti, promesse, negoziati — tutte sciocchezze, Dr. Landauer. Voglio quello per cui sono venuto.» Lei alzò lo sguardo su di lui. «Ma allora come faccio a fidarmi di lei? Non appena le darò quello che vuole...» «Cos'è che la spaventa — il fatto di non potermi rendere inoffensivo nei suoi confronti? Che curiosa preoccupazione dimostra tutt'a un tratto per la sua vita e per le vite di quelli che le stanno intorno! Lei è quella che mi ha indotto a correre rischi nel nostro comune lavoro — ad esplorare le terribili eventualità dell'autorivelazione. Non vede nell'aria fra di noi lo scintillio brillante di quei tentativi? Credevo che il suo compito non fosse quello di
ridimensionare il mondo, ma di avventurarvisi, scoprendo la sua vera natura, e ingaggiando battaglia con tutto ciò che vi è di spigoloso, crudele, mortale.» Nel mezzo del suo terrore il coreografo che era in lei si svegliò e si stiracchiò. Floria si alzò per fronteggiare il vampiro. «Va bene, Weyland, niente patti. Le darò gratuitamente quello che vuole.» Naturalmente non poteva garantirsi l'incolumità da lui — né poteva garantirla a Kenny o a Deb o a Doug — più di quanto aveva potuto proteggere Jane Fennerman dai comuni pericoli della vita. Come Weyland, alcuni pericoli erano troppo forti per imbrigliarli o scacciarli. «I miei appunti sono nella stanza da studio — andiamo, glieli mostrerò. Per quanto riguarda la lettera di cui ha bisogno, la batterò subito e potrà portarla con sé.» Si sedette davanti alla macchina per scrivere preparando i fogli, la carta carbone e il liquido correttore, e avvertendo la forza della presenza di Weyland. A pochissima distanza, proprio al margine della luce della lampada a collo d'oca con la quale lei lavorava, lui stava appoggiato all'orlo del lungo tavolo che era il gemello del tavolo che aveva nello studio. Nelle sue grandi mani aveva, aperto, il taccuino che gli aveva consegnato prendendolo dal cassetto del tavolo. Quando mosse la testa sopra le pagine del taccuino, i suoi occhiali luccicarono. Floria batté l'intestazione e la data. Com'era sorprendente, pensò, scoprire che in quella circostanza aveva recuperato il coraggio. Quando danzi diretta dal coreografo che è in te, agisci senza pensare, non costretta dagli eventi ma in armonia con essi. Cedi il controllo, accettando la possibilità che un errore possa essere parte del disegno. Il coreografo che è in te ha sempre ragione ma è spesso pericoloso: cedere il controllo significa accettare la possibilità di morire. Quello, cioè, che ho temuto di aver inseguito fino a questo momento in questa stanza. Un foglio di carta cadde dal taccuino. Weyland si chinò a raccoglierlo e le lanciò un'occhiata. «Ha frequentato una scuola d'arte?» Doveva essere uno schizzo. «Un tempo pensavo di poter essere un'artista,» disse lei. «È meglio quello che ha scelto di fare, invece,» disse Weyland. «Questo disegnare, recitare, tutta l'arte, è patetico. Il mondo pullula di creazione, gran parte della quale ignorata dalla sua specie proprio com'è ignorata la maggior parte delle morti. Che senso ha aggiungere un altro minuscolo atto? Anche lei, questi appunti... a che scopo? Un momento di celebrità?» «Ci ha provato anche lei,» disse Floria. «Il libro che ha curato, Appunti
su un Popolo Scomparso.» Batté: «...temporanea dislocazione derivante da un violento shock personale...» «Quella era necessità professionale, non creazione,» disse lui col tono di un conferenziere irritato da una domanda dell'uditorio. Gettò con disprezzo il disegno sul tavolo. «Ricordi, non condivido i vostri impulsi verso un gesto artistico... i vostri orpelli assurdi...» Lei gli rivolse uno sguardo penetrante. «Il balletto, Weyland. Non menta.» Batté: «...evidenzia una potente spinta verso l'equilibrio interiore e la totalità in una difficile situazione esistenziale. L'influenza stabilizzante di una straordinaria integrità di base...» Lui mise da parte il taccuino. «La sensazione suscitata in me dal balletto è chiaramente un'aberrazione. Ha mai provato struggimento per una mucca che muggisce in un pascolo?» «Ci sono quelli che hanno pianto nel sentire le balene cantare nell'oceano.» Rimase silenzioso, gli occhi rivolti altrove. «Ho terminato,» disse Floria. «Vuole leggerla?» Weyland prese la lettera. «Bene,» disse alla fine. «La firmi, per favore. E batta a macchina una busta.» Rimase più vicino, ma a distanza superiore a un braccio, mentre lei eseguiva. «Sembra meno spaventata.» «Sono terrorizzata ma non paralizzata,» disse lei e rise, ma la risata che uscì era un rantolo. «La paura è utile. L'ha mantenuta al meglio delle sue capacità per tutta la durata dei nostri incontri. Ha un francobollo?» Poi non ci fu altro da fare che tirare un profondo respiro, spegnere la lampada a collo d'oca, e seguirlo di nuovo nel soggiorno. «E adesso, Weyland?» disse sommessamente. «Un suicidio preparato con cura in modo che io non abbia la possibilità di ritrattare quello che c'è nella lettera o di ricostruire i miei appunti?» Di nuovo davanti alla finestra, continuando a guardare dalla finestra, lui disse, «Il suo portiere stava dormendo nell'atrio. Non mi ha visto entrare nell'edificio. Una volta dentro, ho usato le scale, naturalmente. Il tasso di suicidi fra i terapeuti è notoriamente alto. Mi sono informato.» «Ha programmato tutto?» La finestra era aperta. Weyland si sporse e toccò la grata di metallo che la proteggeva. Nell'aria della notte un'estremità della grata oscillò cigolando verso l'esterno, come l'apertura di una cancellata. Floria lo immaginò
seduto là ad aspettare che lei tornasse a casa, con le forti dita che svitavano con pazienza i bulloni a un lato della grata dal vano in mattoni e cemento. I capelli le si rizzarono sulla nuca. Lui tornò a voltarsi verso di lei. Floria poté vedere un angolo della lettera che gli aveva consegnato che sporgeva pallido dalla tasca della giacca. «Floria,» disse lui, pensieroso. «Un nome insolito... deriva dall'eroina della Tosca di Sardou? Alla fine, non trova la morte gettandosi dalle mura del castello? Le persone sono sconsiderate quando si tratta di dare un nome ai loro figli. Non berrò da lei — ho cacciato oggi, e sono sazio. Però, lasciarla in vita... è troppo pericoloso.» Un'autopompa passò sfrecciando, la sirena urlante. Quando si fu allontanata, Floria disse, «Ascolti, Weyland, è stato proprio lei a dire: io non posso difendermi da lei — non sono abbastanza forte da spingerla fuori dalla finestra invece di essere spinta io stessa. È lei, allora, che deve difendersi da me? Lasci che le dica questo, senza promesse, pretese o suppliche: non ritratterò ciò che ho scritto su quella lettera. Non tenterò di ricostruire i miei appunti. Non ho dubbi. Si accontenti di questo.» «Lei vuole convincermi,» mormorò lui dopo un momento, «ad andarmene da qui lasciandola viva per il resto della sua breve vita — a permettere che nella mente acuta del Dr. Landauer s'intreccino quei fili della mia vita che ho strappato per lei... vorrei potere di tanto in tanto pensare a lei che pensa a me. Ma il rischio è enorme.» «Di tanto in tanto è giusto permettere che i pericoli sopravvivano, che abbiano il loro spazio,» incalzò lei. «Non è stato lei a dirmi poco fa che il rischio ci rende più eroici?» Lui parve divertito. «Mi sta istruendo nelle virtù del pericolo? È abbastanza audace da saperne qualcosa, forse, ma io ho studiato il pericolo per tutta la vita.» «Una lunga, lunga vita con parecchio ancora da vivere,» disse Floria, disperando del fatto che egli potesse capire e crederle. «Non come la mia che è in continuo pericolo. Non ci sono contadini che brandiscono torce qui; ce li siamo lasciati dietro da un pezzo. Ricorda quando ha parlato di me? Ha detto, "Per amore del meraviglioso". Era vero.» Weyland si chinò per spegnere la lampada accanto alla finestra. Floria pensò che aveva preso la sua decisione, e che quando si fosse raddrizzato sarebbe stato per lanciarsi su di lei. Ma invece del terrore che paralizzava le membra, dal suo coreografo venne un flusso di calore ed energia nei muscoli e l'impulso di voltarsi ver-
so di lui. Spinta da un'armonia di desideri disse in fretta, «Weyland, vieni a letto con me.» Vide le sue spalle irrigidirsi contro il rettangolo indistinto della finestra, la testa sdegnosamente sollevata. «Sai che non posso essere corrotto in questo modo,» disse, sprezzante. «Cosa stai architettando? Sei una di quelle che vanno in calore alla vista di un pugno sollevato?» «La vita non mi ha reso perversa fino a questo punto, grazie a Dio,» ribatté lei. «E se avevi già capito quanto sono stata spaventata finora, avresti anche dovuto avvertire la mia attrazione per te, e allora sai che risale a... quando abbiamo iniziato la terapia. Ma non stiamo a fare terapia adesso, e io ho rinunciato ad "architettare" qualsiasi cosa. Il mio sentimento è reale — non è un tentativo di corruzione, o un sotterfugio, o un ghiribizzo. Nessun "amami adesso, uccidimi dopo", niente del genere. Cerca di capirmi, Weyland: se la morte è la tua risposta, allora non indugiare — vieni avanti e fa quello che devi fare.» La sua bocca era secca come la carta. Lui non disse nulla e non fece un gesto; Floria incalzò. «Ma se puoi lasciarmi andare, se possiamo semplicemente separarci qui, allora è proprio questo il modo in cui mi piacerebbe segnare la fine del tempo trascorso assieme. È questo il compimento che desidero. Sicuramente anche tu avverti qualcosa — curiosità almeno?» «Concesso, la tua enfasi sull'espressività del corpo mi ha trasmesso delle cose,» ammise lui, e poi aggiunse con tono leggero, «Non è estremamente scorretto da un punto di vista professionale fare proposte oscene ad un cliente?» «Estremamente, e io non lo faccio mai; ma adesso sento che è giusto. Abbandonarti ad un corteggiamento che non si concluda con un pasto sarebbe professionalmente scorretto anche per te, ma che sensazioni proveresti se ti abbandonassi... questa volta? Fin da quando abbiamo cominciato, mi hai proiettato anni-luce oltre la mia professione. Adesso voglio viaggiare con te senza riserve, Weyland. Mettiamo da parte assieme la nostra professionalità.» Si voltò e andò nella camera da letto, lasciando la luce spenta. Una luce riflessa, fredda e diffusa, proveniva dall'ardente aria notturna della grande città. Si sedette sul letto e scalciò via le scarpe. Quando alzò la testa, lui era sull'uscio. Esitante, Weyland si fermò a poca distanza da lei nella penombra, poi avanzò e le si sedette accanto. Avrebbe voluto sdraiarsi con gli abiti addosso, ma lei disse piano, «Puoi toglierteli. La porta d'ingresso è chiusa a
chiave e qui non c'è nessuno a parte noi. Non sarai costretto a balzare in piedi e a fuggire per metterti in salvo.» Lui si alzò di nuovo e cominciò a togliersi i vestiti, che dispose con cura su una sedia. Disse, «Supponi che io ti fecondi; potresti concepire?» Per sua scelta una simile possibilità era stata esclusa dopo la nascita di Deb. Disse, «No,» e questo parve soddisfarlo. Floria gettò i propri abiti su un cassettone. Lui si sedette di nuovo accanto a lei, il corpo argenteo nella luce riflessa e levigato, sottile come uno staffile e con i muscoli che lo avvolgevano come corde. La sua coscia fredda premette contro quella di lei più piena e calda quando si sporse per depositare con cautela gli occhiali sul comodino. Poi si voltò verso di lei, e Floria poté appena scorgere due piccole aree di tessuto raggrinzito sulla pelle: cicatrici di proiettili, pensò, rabbrividendo. «Ma perché desidero fare questo?» disse Weyland. «Lo desideri?» Lei dovette trattenersi per non toccarlo. «Sì.» La fissò. «Come hai fatto a diventare così reale? Più parlo con te di me, più reale diventi.» «Basta con le parole, Weyland,» disse lei con gentilezza. «Ora tocca ai nostri corpi.» Lui si stese sul letto. Floria non ebbe paura di prendere l'iniziativa. Come minimo poteva fare bene quanto faceva lui stesso, e al massimo, molto meglio. La sua pelle era più scura di quella di lui, un contrasto sfumato dove faceva scivolare le mani sul corpo di lui. Lungo i contorni delle costole avvertì nodi e depressioni — antiche cicatrizzazioni, segni del tempo. La tensione dei muscoli sotto il suo tocco e il suono distinto del respiro la eccitarono. Stava vivendo la fantasia del sesso con un uomo del tutto estraneo; non c'era nessuno al mondo estraneo quanto lui. Ma non c'era neanche nessuno che lo conosceva bene quanto lei. Se era unico, così lo era lei, e lo era il loro incontro. L'intensità del momento la infiammò. Il corpo di lui rispose. Il pene si mosse, divenne caldo e duro nella sua mano. Weyland si voltò su un fianco cosicché si trovarono l'uno di fronte all'altra, lui sul fianco destro, lei sul sinistro. Quando lei fece per baciarlo lui distolse in fretta la faccia: naturalmente, a lui la bocca serviva per mangiare. Gli sfiorò le labbra con le dita, mostrandogli che aveva capito. Weyland non offrì carezze ma le avvolse le braccia intorno, le mani a coppa dietro la testa e il collo di lei. Il suo volto in ombra, profondamente
incavato sotto la fronte e gli zigomi, era vicinissimo a quello di lei. Dalle labbra socchiuse, che lei non doveva baciare, usciva il suo respiro rapido, reso irregolare dai gemiti di piacere. Alla fine premette la testa contro quella di lei, inspirando profondamente; per assaporare il mio profumo dei capelli e della pelle, pensò Floria. Entrò dentro di lei, esitando all'inizio, esplorando con lentezza ed incertezza. Floria trovò questi suoi tentativi intensamente sensuali, e stringendosi al suo corpo nerboruto si dondolò con lui in due lunghe, gonfie ondate di dolcezza. Ancora semisommersa, lo sentì tendersi contro di lei, lo sentì ansare fra i denti stretti. Respirando con affanno, si accasciarono e giacquero mollemente allacciati. La testa di lui era reclinata all'indietro; gli occhi erano chiusi. Floria non aveva il desiderio di accarezzarlo o di parlare con lui, solo di riposare esausta contro il suo corpo e assorbire il suono del respiro di lui e del proprio respiro. Non rimase a lungo stretto alla donna. Senza una parola liberò il suo corpo da quello di lei e si alzò. Si mosse piano nella camera da letto, raccogliendo gli abiti, le scarpe, i disegni, gli appunti dallo studio. Si vestì con la luce spenta. Ascoltò in silenzio in una quiete profonda. Non ci fu congedo. La sua alta figura passò e ripassò nel rettangolo oscuro della porta, e poi lui se ne andò. La serratura della porta d'ingresso si chiuse con uno scatto. Floria pensò di alzarsi per mettere il chiavistello. Invece si girò da un lato e si addormentò. Si svegliò sentendosi come quando si svegliava da ragazzina — pimpante e lucida. «Hilda, facciamo una telefonata alla polizia per questa effrazione. Se mai risultasse qualcosa, voglio avere una registrazione della comunicazione. Puoi dire loro che non abbiamo alcuna idea su chi possa averlo fatto o perché. E, per favore, fai una fotocopia di questa lettera e spediscila a Doug Sharpe al Cayslin. Poi metterai la lettera nella cartella di Weyland e la chiuderai.» Hilda sospirò. «Be', ad ogni modo era troppo vecchio.» Non lo era, mia cara, ma non importa. Nel suo studio Floria prese la posta del mattino dal tavolo. Il suo sguardo deviò fino alla finestra davanti alla quale Weyland si era così spesso fermato. Dio, lo aveva perso definitivamente; e Dio, com'era bello tornare
alle normali giornate di lavoro. Non ancora, però. Non permettere che il telefono squilli, non permettere che il mondo s'intrufoli in questo studio adesso. Aveva bisogno di stare seduta da sola per un po' e lasciare che la mente passasse in rassegna le immagini del... del pas de deux con Weyland. È la famigerata «mattina dopo», vecchia mia, si disse; ma dove ho danzato, ad ogni modo? In una radura della foresta incantata con l'unicorno, naturalmente, ma non nel modo tramandato dalle antiche leggende. Secondo quelle, i cacciatori si servivano di una vergine, affinché l'unicorno fosse attratto dalla sua castità, per catturarlo e ucciderlo. Casto era il mio unicorno, invece, e questa signora non covava il tradimento. No, Weyland e io ci siamo incontrati lontani dagli occhi del cacciatore, per celebrare un nostro mistero privato... La tua mente avvinghiata alla mia, la mia gamba scura sopra la tua argentea, il dissimile col dissimile al di là di qualsiasi possibile similitudine; la tua memoria che preme sui miei pensieri, le mie parole che attirano le tue nelle quali riconosci la tua stessa vita, il mio palmo morbido che scivola giù per il tuo fianco morbido... Accidenti, finirò col piangere, pensò, battendo le palpebre. E a che scopo? Che significato può avere un pomeriggio con l'unicorno per i soliti giorni che mi aspettano? Cos'ha lasciato in me questo percorso con Weyland? Ho qualche altra cosa in mano, adesso, oltre alla posta del mattino? Quello che ho in mano è la mia forza, poiché ho dovuto scavare in profondità per trovare la forza per fronteggiarlo. Mise giù le lettere, notando come apparivano le vene sul dorso delle mani, ombre azzurre sotto la pelle sottile. Come possono essere forti queste mani? Il tempo stava cominciando a consumarle e a far risaltare la fragile struttura interna. Era questo il significato della morte del genitore superstite: il tempo che rimane al figlio è limitato. Ma non per Weyland. Non ci sono tombe di famiglia alle sue spalle, non è minacciato dalla fine ovvia e implacabile del tempo che gli è concesso. Il tempo dev'essere diverso per una creatura della foresta incantata, come diversa è la sua morale. Lui era un predatore e un assassino forgiato per una vita di secoli, non di decadi; un essere misterioso e singolare, non perso nel barbugliare interminabile del gregge. Eppure la sua forza, adeguata alla sua vita non-umana, aveva rinvigorito la forza di lei. Le mani di Floria erano magre, non più giovani, ma lei vide che adesso erano forti a sufficienza. Per fare cosa? Fletté le dita, osservando i tendini muoversi sotto la pelle.
Le mani forti non devono afferrare. Possono semplicemente aprirsi e lasciare la presa. Chiamò il telefono interno di Lucilie alla clinica. «Luce? Mi spiace di non aver preso le tue telefonate ultimamente. Ascolta, voglio cominciare a prendere accordi per trasferire la mia clientela per un po'. Avevi ragione. Ho bisogno di un periodo di riposo, proprio come hanno continuato a ripetermi i miei amici. Vuoi passare parola per me allo staff oggi? Bene, grazie. Inoltre, c'è il seminario del mese prossimo... Sì. Stai scherzando? Sarebbero lietissimi di averti al mio posto. Non sei la sola che si è accorta che stavo andando a pezzi, sai. È terribilmente presto — ce la puoi fare, non credi? Luce, sei una vera amica e salvatrice e ti sono molto, molto grata nel vero senso della parola.» Non proprio terribile, pensò, ma è solo l'inizio. Restava tutto il resto da affrontare. Abbassando lo sguardo, notò della marmellata sulla camicetta, proprio come ai vecchi tempi, e non ricordava nemmeno di aver fatto colazione. Se vuoi conservare la forza che hai ricavato da questa storia, dovrai affrontare un buon numero di situazioni difficili. Inizia da una davvero dura. Telefonò a Deb. «Naturalmente hai dormito fino a tardi, no? Anch'io, per cui sono lieta che tu non mi abbia chiamata e svegliata. Non appena sarai pronta... se hai bisogno di aiuto per lasciare l'albergo, posso annullare i miei impegni qui e raggiungerti... Be', chiamami se cambi idea. Ho lasciato la chiave di casa al portiere. «E ascolta, cara, ho pensato... che ne dici se tutti assieme andiamo da Nonnie per il weekend? Poi se lo riterrai opportuno potrai parlarmi di quello che hai intenzione di fare. Sì, ho già cominciato a organizzarmi per avere un po' di tempo libero per me. Pensaci, amore. Ci sentiamo più tardi.» Kenny. «Kenny, passerò a trovarti questo pomeriggio nell'orario di ricevimento.» «Si sente bene?» squittì lui. «Mi sento bene. Ma non sono tua madre, Ken, e non ho intenzione di tenerti lontano da questo mondo cattivo un'altra volta. Mi aspetto che tu sia pronto a riflettere seriamente e a scegliere un nuovo terapeuta per te. Bisognerà prendere decisioni definitive. Hai capito bene?» Dopo un breve silenzio lui rispose con voce desolata, «Va bene.» «Kenny, nessun adulto ha sempre vicino a se una madre che si prenda cura di lui o lo protegga — neppure io. Devi solo avere tenacia e coraggio a sufficienza. Ci vediamo questo pomeriggio.»
E Jane Fennerman? No, lasciamo perdere per ora, non siamo Wonder Woman, non possiamo affrontare oggi un simile stress. Troppo inquieta per dedicarsi al lavoro d'ufficio prima dell'inizio del giro di appuntamenti, si alzò e diede da mangiare al pesce rosso, poi si avvicinò alla finestra e guardò la città. Stesso traffico caotico laggiù, stesso parco estivo e polveroso che si estendeva verso i quartieri residenziali — eppure non era la stessa città, poiché Weyland non cacciava più là. Niente di simile a lui si aggirava adesso per quelle strade larghe e rumorose. Non si sarebbe mai più imbattuta in qualcuno alieno come lui — per fortuna. La notte precedente sarebbe rimasta come la fine, unica e inimitabile, della loro relazione. Era satura di bizzarrie e onestamente non vedeva l'ora di condividere i normali appetiti umani di Mort. E Weyland... cosa avrebbe fatto in quel nuovo e lontano terreno di caccia che aveva scelto? L'equilibrio di Floria era stato cambiato. E se anche l'equilibrio solitario una volta perfetto di quell'essere fosse stato cambiato? Forse lui lo aveva rovinato intrecciando una relazione troppo intima con un'altra creatura — lei. E poi l'aveva lasciata viva... un rischio terribile. Era un segno della corruzione che le mani di lei avevano provocato in lui? «Oh, no,» sussurrò con ardore, mettendo a fuoco la vista sul suo riflesso nel vetro sporco della finestra. Oh, no, io non sono la tentatrice. Non sono la donna letale delle leggende il cui tocco contamina la creatura finora pura, la sua vittima. Se Weyland scopre una qualche caratteristica umana dentro di sé, è dentro di sé che dovrà guardare in primo luogo. Chi può dire, ad ogni modo, che fosse stato contaminato? Le capacità che uno ha scoperto da poco di possedere possono essere una forza o una debolezza, dipende da come vengono usate. Molto bello e rassicurante, pensò tetramente; ma è banalità pura. Mi sto affidando all'analisi istintiva per sentirmi meglio? Sollevò la finestra, aprendola, e fece entrare l'afoso respiro estivo della città nello studio. Ecco la tua foresta incantata, mia cara, solida e concreta, non una favilla di polvere magica. Sei sopravvissuta qui, e ciò vuol dire che puoi guardare tutto con chiarezza, se devi. Be', adesso devi. Lui ha ricevuto qualche danno? Non è detto, e non puoi smettere di vivere mentre aspetti che arrivi una risposta. Non so cosa è accaduto fra noi, ma so chi l'ha provocato: sono stata io, è stato lui, e nessuno di noi si è tirato indietro fino alla fine. Ci siamo uniti in una complicità proficua — lui per risvegliare qualche barlume di umanità dentro di sé, io per custodire e, sì, assaporare il segreto della sua implacabile fame di sangue. Ciò che que-
sta complicità significa per ognuno di noi può essere solo scoperto continuando a vivere e cercando gli indizi di momento in momento. Il suo compito è cominciare da qui, e il mio è lo stesso, senza senso di colpa e senza risentimento. Doug aveva ragione: lo scopo è la responsabilità individuale. Da questo sforzo, neppure la dama e l'unicorno sono esentati. Scossa da una nuova ondata di lacrime, pensò amaramente, Continuare è abbastanza facile per Weyland; è abituato a farlo, ha più pratica. Ma io? Sì, sii egoista, donna — se non hai imparato questo, hai imparato dannatamente poco. I giapponesi dicono che quando si raggiunge la mezza età la mente abbandona la famiglia, gli amici e il lavoro, e si mette a meditare sul significato dell'universo finché ne ha ancora la possibilità. Forse io cercherò di sopravvivere ancora per un po', e lascerò che a suo tempo cresca la mia comprensione di un universo che includa anche Weyland — e me stessa — fra le sue possibilità. Questa ricerca la faccio per me stessa? Oppure semplicemente non sono più adatta a vivere con la famiglia, gli amici e il lavoro? Sono stata danneggiata da lui... dal mio mostro meraviglioso e assassino? Maledizione, pensò, vorrei che fosse qui, vorrei che potessimo parlarne. La luce del telefono attirò il suo occhio: stava ammiccando rapidamente, il che voleva dire che Hilda stava segnalando l'arrivo imminente di... non di Weyland... del primo cliente della giornata. Siamo soli adesso, pensò, chiudendo la finestra e accendendo il condizionatore. Ma qualche volta, Weyland, pensa a me che penso a te. IV UN INTERLUDIO MUSICALE Uno studente era addormentato in un box nella torre della biblioteca universitaria. Su di lui incombeva il Dr. Weyland, il nuovo e molto rispettato membro della facoltà, spinto dalla brama di nutrirsi. L'aria era calda a dispetto del lavoro a pieno ritmo del sistema di raffreddamento. Regnava la quiete; i corsi estivi portavano pochi studenti fra gli scaffali. Nel suo giro preliminare a questo livello della torre, silenzioso nelle scarpe dalle suole di crespo, Weyland aveva notato la presenza di due sole persone: il giovane dormiente e la ragazza seduta sul pavimento che leggeva nella sezione di geologia.
Weyland si era mosso con fretta nervosa: aveva fatto perdere i sensi al dormiente comprimendogli brevemente un'arteria che faceva affluire il sangue al cervello. Quindi, inclinandogli con dolcezza la testa ciondolante per esporre completamente la gola, si era chinato su di lui e aveva bevuto senza emettere suoni. Quando aveva terminato, si era pulito le labbra con un fazzoletto ed era uscito così com'era entrato. Il giovane, del quale aveva bevuto il sangue, emise un sospiro dolente sulla pagina sopra la quale poggiava la guancia pallida. Stava sognando di essere impreparato a un esame di storia. Nella toilette degli uomini al pian terreno, Weyland eliminò dalle mani l'odore della sua vittima, lavandole. Col palmo umido, lisciò all'indietro i folti capelli grigio-ferro, che in quel clima tendevano ad incollarsi in ciuffi ispidi. Guardò accigliato il suo riflesso, le rughe della tensione intorno alla bocca e agli occhi. Nella sua seconda settimana nel New Mexico, si sentiva ancora sconvolto per le sue recenti esperienze nell'Est. Eppure adesso doveva agire con calma e fiducia in sé. Non poteva permettersi di sbagliare. Non doveva permettere che strane dicerie ed inutili animosità fossero collegate a lui laggiù. Tutte le città moderne gli sembravano così estese che aveva sbagliato i calcoli su questa: Albuquerque era più piccola di quanto si era aspettato. Non era anonima come New York. Non destava meraviglia il fatto che lui non riuscisse a scuotersi il nervosismo di dosso. Camminare nel pomeriggio sonnolento per andare a schiacciare un sonnellino nel suo alloggio temporaneo, la casa di un ricercatore universitario, lo avrebbe rilassato. Allora avrebbe potuto dormire, come la sua digestione lo obbligava a fare, dopo il pasto che aveva consumato nella biblioteca. Gli incontri mondani, grazie agli sforzi del direttore del dipartimento per introdurlo in maniera confortevole nel suo nuovo ambiente, erano stati preparati in anticipo per lui. Quella sera sarebbe andato all'opera a Santa Fe con alcuni amici della moglie del direttore del dipartimento, gente che gestiva una galleria d'arte lì ad Albuquerque. Weyland sperava che la serata avrebbe contribuito a rafforzare la sua immagine di studioso austero ma avvicinabile. Lo sforzo di socializzare sarebbe stato tollerabile, dopo l'indispensabile sonnellino. Uscì nel sole brillante dell'estate. I turisti si aggiravano nel teatro lirico. Dal crinale sul quale si ergeva l'edificio, potevano guardare a sud verso Santa Fe, ad est e ad ovest in dire-
zione delle montagne. Anche nelle giornate calde la brezza rinfrescava la collina del teatro. Gli spazi profondi e circondati dal calcestruzzo dell'edificio erano pozzi d'ombra. Il direttore, che stava guidando il tour, condusse i visitatori lungo le ali e giù per una scalinata esterna. Emersero su una pedana di calcestruzzo illuminata dal sole che si estendeva da nord a sud lungo la parte posteriore dell'intero edificio — lo spazio scenico nel mezzo, con ai lati delle aree di lavoro. Alzando la voce al di sopra di un rumore martellante e un ronzio di macchine elettriche, la guida disse, «La maggior parte delle realizzazioni tecniche viene eseguita qui sulla pedana.» Indicò i laboratori di pittura e quelli degli impianti elettrici e, esattamente dietro e sotto il palcoscenico, il grande scenario sollevato fra due scalinate esterne. Il gruppo si lasciò guidare fino all'estremità meridionale in ombra della pedana, che diventava una veranda coperta contigua al laboratorio di parrucche e costumi. Si fermarono come passeggeri davanti al parapetto di una nave da crociera, guardando verso ovest. Qualcuno chiese della recinzione di catene che correva intorno al teatro lirico in prossimità della base della collina. Il direttore disse, «La recinzione separa l'area su cui si erge il teatro dalla terra che il fondatore, John Crosby, ebbe la lungimiranza di acquistare come cuscinetto contro lo sviluppo abnorme di Santa Fe. Nessuno avrebbe mai potuto costruire a distanza così breve da procurarci dei problemi di rumorosità o di luce, o da rovinare il nostro fondale acustico — il fianco di quella collina che ci fronteggia al di là del letto del fiume che si snoda ai piedi della nostra collina.» I turisti ciarlavano, attardandosi sulla veranda ombreggiata; anche con la brezza, faceva caldo sulla pedana esposta. Le macchine fotografiche scattarono. Guardando giù, un uomo in un completo da safari chiese, con aria di disapprovazione, «Cos'è tutta quell'immondizia laggiù?» Gli altri si mossero per guardare. La pedana su cui si trovavano sovrastava di circa trenta piedi una strada lastricata, che correva alle spalle del teatro lirico lungo il versante orientale della collina. Sotto di loro la strada immetteva in un ingresso e in un garage, su un lato del quale alte pile di cianfrusaglie e tele erano accatastate contro una parete di stucco. «Scenografie scartate,» disse la guida. «Abbiamo dei magazzini limitati. Le vecchie realizzazioni rimangono depositate là finché non le utilizziamo per nuove scenografie o non le facciamo portare via.»
Una donna, voltandosi a guardare il cammino che avevano percorso, disse, «Questo edificio è veramente un fantastico labirinto. Come fanno a capire dove devono trovarsi e cosa devono fare durante una rappresentazione?» La guida disse, «Con la musica. Ricordate la console del direttore di scena nell'ala destra, coi telefoni, il microfono e i monitor? L'intero spettacolo viene diretto da là, tramite dei numeri su una copia contrassegnata della partitura. Il nostro direttore di scena, Renee Spiegel, osserva sul monitor il ritmo del direttore d'orchestra, e in accordo con esso dà a ognuno la battuta d'entrata. Così la musica dirige tutto ciò che avviene. «Ora, quando vogliamo escludere la vista delle montagne, per la scena di un interno, diciamo, usiamo delle pareti mobili...» «Il Dr. Weyland? Sono Jean Gray, della Walking River Gallery. Albert McGrath, il mio socio, è dovuto andare a Santa Fe stamattina presto, così lo incontreremo al teatro dell'opera. Si rilassi e si goda il panorama mentre la conduco lassù.» Lui fletté la sua alta figura sul sedile anteriore del passeggero senza parlare o tendere la mano. Cos'è, si domandò Jean, il grand'uomo non ritiene di doversi intrattenere con la gente comune? La sua amica, la moglie del direttore del dipartimento, aveva insistito con lei, con termini inequivocabili, che si trattava davvero di un grand'uomo. Indubbiamente si adattava al ruolo: impeccabile giacca scura e pantaloni fulvi, capelli grigi, volto dai lineamenti marcati — gli occhi grandi e intensi che sovrastavano la prua maestosa del naso, l'atteggiamento imbronciato della bocca e la mandibola lunga e ostinata. Dicevano anche che era stato ammalato là a Est: diamo a questo tipo un'altra possibilità. Jean guidò la macchina fra cavalietti smantellati per segare la legna e montagnole di calcinacci, esclamando allegramente, «Guardi che confusione!» Con un tono netto e pungente il Dr. Weyland replicò, «Meglio guardarla che ascoltare mentre viene creata. Per tutto il pomeriggio ho dovuto sopportare il rombo spacca-ossa di pesanti macchinari.» Aggiunse poi con un brontolio di giustificazione: «Mi scusi. Di solito dormo dopo aver mangiato. Oggi è stato impossibile schiacciare un sonnellino. Non sono del tutto me stesso.» «Vuole un Rolaid? Ne ho qualcuno in borsa.» «No, grazie.» Si voltò e mise il soprabito sul sedile posteriore.
«Spero abbia una sciarpa o un maglione di lana, oltre all'impermeabile. Santa Fe si trova solo sessanta miglia a nord di Albuquerque, ma duemila piedi più in alto. Il teatro dell'opera è all'aperto, perciò a causa della luce si comincia sempre dopo il tramonto, intorno alle nove. Gli spettacoli durano fino a tardi, e la notte può diventare fredda.» «Me la caverò.» «Porto sempre una coperta nel portabagagli per ogni evenienza. Perlomeno il cielo è bello e terso; non corriamo il rischio che lo spettacolo sia sospeso per la pioggia. È una bella notte per la Tosca. Conosce quella meravigliosa aria del terzo atto dove Cavaradossi canta su come splendono le stelle sopra la casetta di campagna, dove lui e Tosca s'incontrano di solito...» «Il melodramma di questa notte è Tosca?» «Esatto. Lo conosce bene?» Dopo un momento lui disse con freddezza, «Conoscevo una persona nell'Est che si chiamava come Floria Tosca, l'eroina della storia. Ma non l'ho mai visto.» Dopo lo spettacolo della notte precedente, il Gonzago, un dissonante melodramma moderno su un sanguinoso soggetto del Rinascimento, la sequenza di luci per la Tosca doveva essere allestita per quella notte. Dopo aver lavorato a ritroso attraverso il Terzo e il Secondo Atto, la squadra fece una pausa per pranzare, una volta terminato alle otto, le luci e il palcoscenico sarebbero stati pronti per l'inizio del Primo Atto. Tutti erano contenti di abbandonare lo spaventoso Gonzago, che testimoniava l'impegno stagionale dell'Opera di Santa Fe nei confronti dei lavori moderni, a favore di un cavallo di battaglia vecchio e sicuro come la Tosca di Puccini. Le cuffie auricolari alla console del direttore di scena, nella cabina delle luci, nella stanza dei tecnici e nelle altre postazioni intorno all'edificio, ronzavano di concitate istruzioni, numeri e commenti. Renee Spiegel, il direttore di scena, esaminava la sua partitura accuratamente contrassegnata. Pregò che nessuno avesse dimenticato tante imbeccate dalla Tosca della settimana prima, dopo la quale erano state date altre tre opere. Pregò che tutto andasse liscio quella notte, secondo l'ordine e il percorso stabilito. Jeremy Tremain gorgogliò, sputò e fissò nello specchio l'interno della sua gola. Sembrava di un sano colore rosa.
Tuttavia, si sedette nuovamente, insoddisfatto, davanti alla sua rituale ciotola pre-esibizione di brodo di pollo. Quella notte avrebbe interpretato Angelotti, un ruolo che terminava nel Primo Atto. Alla fine dell'opera il pubblico avrebbe ricordato il personaggio, ma chi avrebbe ricordato di aver ascoltato cantare Tremain? Preferiva i teatri che consentivano le chiamate dopo ogni atto: uno faceva la sua parte, usciva per ricevere gli applausi e se ne andava a casa. Il ruolo che agognava era quello del baritono furfante Scarpia. Tremain stava cominciando a seccarsi delle parti destinategli come giovane basso — preti corpulenti e monarchi e padri di eroici tenori. Si era affidato di recente ad un nuovo maestro di canto che sperava potesse aiutarlo ad innalzare l'apice della sua portata di voce, trasformandolo in un baritono basso in grado di affrontare ruoli come quello di Scarpia. Era certo di poter raggiungere quelle intensità fosche e libidinose che la parte richiedeva. Si alzò e con addosso l'accappatoio andò a mettersi di nuovo davanti allo specchio, voltandosi per una vista di tre quarti. Ci voleva un'espressione arcigna per Scarpia. Se solo avesse avuto una mandibola più pronunciata. Weyland guardava tetro dal finestrino della macchina. Il pasto in biblioteca gravava sul suo stomaco come sabbia umida. Essere privato del riposo dopo il pasto scombussolava il suo organismo. Per giunta, era stato confinato per un'ora in quella macchina nuova fiammante con un pilota spaventosamente prudente. Perlomeno, la donna aveva smesso di tentare di fare conversazione. Superarono l'autocarro che trasportava bestiame, dietro al quale avevano indugiato per un bel po', poi ritornarono ad un passo di marcia esasperatamente lento. «Perché rallenta di nuovo?» chiese, irritato. «I venerdì notte la polizia tiene d'occhio questa strada.» Non poteva certo chiederle di cedergli la guida: doveva essere paziente, doveva essere cortese. Pensò con nostalgia all'agile Mercedes grigia che aveva amorosamente posseduto nell'Est. Presero la tangenziale densa di semafori che girava intorno a Santa Fe e proseguirono verso nord. Finalmente Jean Gray indicò il teatro lirico, allettante visione al di là della fila strisciante di macchine che serpeggiava davanti a loro lungo miglia e miglia di strutture architettoniche. «Non c'è un'altra strada per il teatro?» disse Weyland. «Solo questa; e per qualche motivo durante la stagione operistica tende a
dissestarsi.» Continuò a parlare a proposito di come gli abitanti di Santa Fe usassero scherzare sul fatto che le loro strade venivano regolarmente distrutte d'estate, al solo scopo di procurare seccature ai turisti. Weyland smise di ascoltare. Nel parcheggio alcuni giovanotti in jeans e giacche a vento facevano oscillare le loro torce elettriche, gridando, «Da questa parte, per favore,» agli automobilisti che arrivavano. La gente aveva formato una fila davanti all'ingresso. Gli usceri stavano immobili, le braccia piene di depliants col programma, e parlavano nel patio interrato al di là dell'ingresso del pubblico pagante. Tremain si recò dal direttore di scena, il quale gli disse che la sarta aveva terminato di rammendare la camicia che il «muto» di Angelotti avrebbe dovuto usare nel Terzo Atto. Ciò significava che quella notte Tremain non avrebbe dovuto spogliarsi dopo aver concluso la sua parte nel Primo Atto, consegnare il proprio costume al «muto» e poi tornare a cambiarsi per le chiamate alla ribalta. Prese tutto questo come buon auspicio e scese allegramente nella zona riservata agli orchestrali per ritirare la sua posta. I componenti dell'orchestra bighellonavano laggiù, conversando, giocando a carte nelle camere in cui si esercitavano, tirando fuori gli strumenti dalle custodie e accordandoli. Tremain si mise a flirtare con una delle violoncelliste, e tentò di convincerla ad andare con lui al party dopo lo spettacolo di quella sera. Rolf Anders misurava a lenti passi l'angusto ufficio posto al di fuori della zona degli orchestrali. Adesso desiderava soltanto fare un'altra prova col coro nel retroscena del Secondo Atto. L'assistente del direttore d'orchestra, controllando un monitor, doveva far partire i componenti del suo coro del retroscena una frazione di tempo in anticipo su Anders e con un tempismo tale che il loro canto si elevasse distintamente. Anders guardò davanti a sé per mascherare il nervosismo col fervore dell'imminente esibizione. Alcuni dicono che ogni direttore d'orchestra dovrebbe dirigere la Tosca tutte le stagioni per scaricare l'aggressività. Tre addetti al controllo dei biglietti si posero davanti alle cassette munite di fessura, e l'alto cancello di ferro si spalancò. Le persone che si erano raggruppate sui gradini e intorno al botteghino cominciarono a fluire giù nel patio interrato di fronte al teatro lirico. I primi arrivati si sedettero sulla fontana centrale rialzata o sui muretti bassi che circondavano piante di
bianche petunie. Da queste posizioni vantaggiose osservavano la luce chiara ma morente che riempiva il cielo, o scrutavano e commentavano la parata di passaggio. Qui una mantellina da teatro d'altri tempi, col velluto nero sgualcito che dava risalto ad un elegante collo; là dei blue-jeans ed un rigonfio panciotto. Qui un abito di taglio Vittoriano completo di gilet, fiore all'occhiello e catena d'orologio, il cui indossatore reggeva con le dita sottili e inanellate, un bastone ancora più sottile; là una camicia da rugby. Qui una giacca sportiva a quadri arancio-e-verde su calzoni verdi — e là, incredibilmente, la sua gemella che transitava nella direzione opposta addosso ad un uomo più grosso, che aveva evidentemente fatto spesa nello stesso negozio di abbigliamento. Ovunque c'era il bagliore dell'argento massiccio, la durezza dei turchesi, lo scintillio dei diamanti, il luccichio delle piume iridescenti, il brillio dell'oro bizzarramente lavorato. Delle donne dai capelli canuti, che appartenevano ad una comunità parrocchiale ed erano giunte per quella serata con un bus privato, stavano là, con gli occhi spalancati: un bouquet di fiori di poliestere dalle tinte pastello. Il direttore del teatro, in un sobrio abito da sera, si muoveva agilmente fra la folla, controllando la situazione e accertandosi dell'umore, dei gesti e delle buone maniere degli uscieri. Jean, sollevandosi sulle punte dei piedi, scorse MacGrath — tozzo, lentigginoso, affusolato — vicino alla fontana. Aveva vicino a sé il giovane Elmo Archuleta, un pittore che stava corteggiando per farlo entrare nella sua galleria. «Quello è Albert MacGrath; le dispiace raggiungerlo e presentarsi?» disse al Dr. Weyland. «Devo fare un salto alla toilette.» Fra Jean e MacGrath c'erano problemi a causa del desiderio di lei di lasciare la galleria per tornare nell'Est. Il Dr. Weyland grugnì, infastidito, si gettò l'impermeabile sul braccio e si avviò per raggiungerli. Dio ci salvi, pensò Jean, dal caratteraccio dei grandi uomini. «Piacere di conoscerla, professore,» disse MacGrath. E così era costui il famoso antropologo intorno al quale la popolazione universitaria si affollava; attraente, in una certa maniera aspra e arrogante, e aveva ancora i capelli. Certa gente ha tutte le fortune.
MacGrath presentò Elmo, che era deturpato dall'acne e timidissimo. Spiegò che Elmo era un giovane artista locale di talento. Jean stava sicuramente cercando di pilotare il ragazzo fuori dalla galleria, per ritorsione contro il rifiuto di MacGrath di permetterle di rompere il loro sodalizio. MacGrath non si lasciava sfuggire nessuna occasione per elogiare Elmo, il cui lavoro apprezzava veramente. Era entusiasta. Il professore guardò con inequivocabile noia Elmo, che si era fatto piccino piccino. «Bella scarrozzata?» gli chiese MacGrath. «Un viaggio insopportabilmente lento.» Ecco Jean, grazie a Dio, pensò MacGrath. «Ehilà, piccola Jean!» Era di corporatura minuta e continuava a combattere col proprio peso, cercando a trentadue anni di conservare l'aspetto di una ragazzina. Ed era un tipo sveglio — quanto sveglio non lo si sarebbe mai potuto arguire dal suo viso tondo e candido e dall'atteggiamento ansioso. Scaltri e ambigui, così sono quelli dell'Est. Il professore disse: «Credo che l'altitudine mi abbia un po' scombussolato. Preferirei andare a sedermi. No, prego, restate pure qui a divertirvi con la sfilata. Ci vedremo dentro più tardi. Posso avere il mio biglietto, per favore?» Li lasciò. Jean sorrise a Elmo. «Ciao, Elmo. È la tua prima volta all'opera?» «Certo,» rispose MacGrath. «Sono riuscito a procurarmi un biglietto di prima fila per lui all'ultimo momento. E, parlando di fortuna dell'ultimo momento, ho rimediato un invito ad un party per dopo. Ci sarà molta gente importante.» Fece una pausa. Lei stava per piantarlo, lo intuiva benissimo. «Oh, avrei voluto saperlo prima,» disse Jean. «Devo essere di nuovo ad Albuquerque domattina presto per incontrare alcuni clienti nella galleria.» MacGrath sorrise ad una coppia alle spalle di Jean che aveva conosciuto chissà dove. «Porterò con me Elmo e il professore, allora. Non mi sembra esattamente una persona socievole, questo Weyland. Qualcosa che non va?» «Ha detto a malapena una parola mentre venivamo. Tutto quello che so è quello che ho sentito: un grosso accademico con un buon libro alle spalle; scapolo, scontroso — uno stacanovista, ricoverato di recente per una sorta di esaurimento nervoso.» MacGrath scosse la testa. «Non riesco a capire per quale motivo assoldano questi tipi dell'Est irritabili e pieni di sé, quando qui c'è abbondanza
di uomini in gamba ed in cerca di lavoro.» Senza dare a Jean il tempo di rispondere, si allontanò per andare a conversare con la coppia che aveva conosciuto chissà dove. «Ti tratta bene MacGrath, Elmo?» chiese Jean. «È come tutti quelli delle gallerie. Ti trattano bene finché non metti la firma per loro, poi tirano fuori la frusta.» Elmo arrossì e abbassò lo sguardo sulle punte lucide dei suoi stivali; Jean gli piaceva. «Non mi riferivo a te. Stai ancora cercando di sganciarti da MacGrath?» Lei sospirò. «Non intende farmi rescindere il contratto. Continua a ripetere che il New Mexico ha bisogno di me. È questo quello che succede quando sei abbastanza ottuso da renderti indispensabile.» «Come mai non ti piace più stare qui?» «Non sono così adattabile come credevo,» disse lei mestamente. «Il trapianto non ha funzionato.» Elmo fissò i suoi capelli castani, il loro splendore opaco. Era più vecchia di lui di dieci anni, cosa che, in qualche modo, rendeva più facile il fatto che gli piaceva. Sperò che non se ne andasse all'Est e questo gli parve un cattivo pensiero, così disse d'impulso, «Perché semplicemente non te ne vai? Hai abbastanza denaro per un volo per New York.» Jean scosse la testa. «Ho bisogno di tornare a casa con tutto quello che riesco a portar via da qui. Non puoi vivere a New York con lo scontrino di un biglietto aereo.» Weyland si sedette al suo posto. Il teatro era silenzioso, il palcoscenico — non c'era sipario — debolmente illuminato. Le porte erano state aperte da poco, e la maggior parte della gente stava ancora sul patio. Non si sentiva per niente bene. La noiosa corsa in macchina aveva acuito la sua stanchezza. E questa gente aveva sempre voglia di parlare; per tutto il tragitto aveva avvertito la pressione del desiderio di Jean Gray di conversare; ciò lo aveva distratto dallo scorrere riposante del paesaggio e del cielo. Poi, in quel luogo, la folla elegante gli aveva fatto venire in mente qualcosa che lo rendeva inquieto — i seguaci di Alan Reese, gli spettatori davanti alla porta della cella... Tutto alle sue spalle, ormai. Scacciò via il pensiero e si rilassò sulla sedia per fissare a lungo attraverso il tetto aperto la sera che diventava sempre più scura. Se solo avesse potuto incamminarsi fuori sulle colline buie e tranquille, la sua vista acuta gli avrebbe consentito di scovare un rifugio dove avrebbe potuto sdraiarsi e rimettere in sesto
il suo organismo con un sonnellino — sebbene fosse difficile per lui farsi una bella dormita. Perpetuamente in allarme per natura, veniva svegliato dal minimo disturbo. Poteva tentare, comunque — si domandò, nel caso si fosse alzato e fosse sgattaiolato via, se qualcuno se ne sarebbe accorto. Troppo tardi: un altro guizzo delle luci del teatro, e la folla fluì tra le file delle sedie e gradini. Jean Gray si sedette a fianco a lui, MacGrath a fianco a lei. Jean disse a Weyland, «Be', cosa ne pensa? Non è un grande teatro lirico come il Met di New York, ma ha il suo fascino.» Lui sapeva che avrebbe dovuto rispondere, che avrebbe dovuto fare qualche sforzo per ingraziarseli. Ma riuscì a costringersi ad emettere soltanto una breve sillaba di assenso, seguita da un silenzio accigliato. Con Anders pronto accanto a lei, Renee Spiegel disse nel microfono della console, «Tutti ai vostri posti, prego.» Gli altoparlanti dietro le quinte echeggiarono, «Tutti ai vostri posti, prego.» Lei fece lampeggiare le luci di avvertimento del teatro e quindi spedì Anders sul podio. La sua immagine avanzò sullo schermo del monitor. Non ci fu alcun applauso strascicato da parte degli orchestrali quando Anders entrò nel golfo mistico: aveva perso le staffe troppo spesso con loro durante le prove. Il pubblico applaudì. Lui s'inchinò. Si voltò e aprì il suo spartito. Spiegel, osservandolo sul monitor, chiamò la cabina delle luci: «Attenzione, Primo Attacco Luci...» Anders trasse un respiro profondo e diede la prima battuta. «Primo Attacco...» Risuonò alto il primo accordo che annunciava tutta la potenza del Barone Scarpia, il terribile Ministro di Polizia. «Via!» disse Spiegel. Le luci illuminarono una porzione interna della Chiesa di Sant'Andrea della Valle a Roma, nell'anno 1800. Gli accordi di Scarpia si trasformarono nella melodia ondeggiante di una fuga. Tremain, nel ruolo del prigioniero politico evaso Angelotti, entrò precipitosamente in scena per nascondersi nella chiesa. Nella cabina delle luci fra le due schiere di sedie sulla balconata, una donna del personale tecnico premette l'interruttore che metteva in moto il nastro magnetico. Un colpo di cannone esplose dagli altoparlanti del tea-
tro. La donna sogghignò fra sé e sé, ripensando a quando il suo partner, rientrando dopo aver tenuto d'occhio un attacco invisibile dall'interno della cabina, aveva messo un piede fra i fili elettrici, strappandoli via. Quella notte i colpi di cannone del Primo Atto erano stati rulli di tamburi. Le cose potevano andar male, era capitato che andassero male, ma mai come uno si aspettava. La Floria Tosca sul palcoscenico non somigliava affatto alla donna magra e scura di pelle che Weyland aveva conosciuto a New York. Quella cantante probabilmente non era neppure una brunetta — i suoi occhi gli sembravano azzurri. Dissipata la sua curiosità inquieta, Weyland osservava distratto. Stava girando e rigirando nella mente la disposizione degli edifici dell'università, passando in rassegna i metodi di caccia che avrebbe potuto impiegare una volta che si fosse presentata un'opportunità meno rischiosa per assicurarsi una preda. Qualcosa sulla scena attirò la sua attenzione. Scarpia si stava rivolgendo a Tosca per la prima volta, offrendole sulle punte delle dita dell'acqua santa presa dall'acquasantiera. Sollevò leggermente la mano mentre lei ritirava la sua, affinché il contatto potesse prolungarsi. Dopo avergli lanciato un'occhiata che esprimeva disgusto e spavento, Tosca ricadde in una gelosa ansietà per la mancata presenza in chiesa dell'amante Cavaradossi. Scarpia la seguì verso la ribalta, passo dopo passo, cantando una garbata indagine sulle cause della sua ansia. Il suo canto era carezzevole e insinuante sul suono vivace delle campane e la vibrazione armoniosa degli strumenti a corde. Affascinato dalle manovre di Scarpia, Weyland perse interesse quando Tosca cominciò ad andare in smanie. Riprese a riflettere sul suo nuovo territorio di caccia. *** Il Te Deum, la grande chiusura del Primo Atto, iniziò. Che spettacolo era, pensò Jean con ammirazione. Il piccolo palcoscenico sembrava essersi allargato per accogliere il corteo in bianco, nero e scarlatto che veniva con passo grave e oscillante alle spalle di Scarpia. Scarpia meditava sui suoi piani, dimentico di tutto il resto. Aveva dedotto che l'amante di Tosca, Cavaradossi, stava aiutando il fuggitivo Angelotti per simpatia verso il sostegno che quest'ultimo dava a Bonaparte. Adesso
Scarpia sperava che Tosca sarebbe andata da Cavaradossi, così i suoi uomini l'avrebbero seguita senza farsi scorgere e avrebbero catturato la preda. Il monologo del Ministro di Polizia, le campane più piccole che suonavano il tema del suo primo, suadente approccio a Tosca, il potente rintocco di campana in sibemolle, l'organo, il coro, il rimbombo misurato del cannone: tutto concorreva a creare un effetto di «thrilling»; e la solennità esteriore del corteo religioso contrastava con l'interiore malvagità di Scarpia. Mentre la sua sinuosa melodia s'intrecciava intorno alla solida struttura del Te Deum dei celebranti, andava sviluppandosi il lungo crescendo. La voce di Scarpia sembrava vibrare senza sforzo al di sopra della musica: prima, la ferrea determinazione di riacciuffare Angelotti; poi, uno scroscio scintillante di brama, ridondante e potente nella sua assicurazione che presto Tosca sarebbe stata fra le braccia di lui — «Illanguidir,» la voce scese dolcemente per poi impennarsi con forza eroica sulla sillaba finale «...d'amor.» Accorgendosi bruscamente di ciò che lo circondava, si univa al coro con tutta la sua voce, e, di botto, la moralità dello Stato, trasmessa da quella liturgia, e la malvagità di Scarpia si ritrovarono unificate: una sottesa all'altra, entrambe essenza dell'ipocrisia ufficiale. Scarpia s'inginocchiò. Per tre volte gli ottoni e i tamburi strepitarono un crescendo selvaggio di note dichiarando la sua implacabile ferocia e le luci svanirono: il primo dei tre atti era terminato. Jean si rilassò sulla sedia, sospirando profondamente. Intorno a lei gli spettatori cominciarono ad applaudire, alzandosi, gridando, o voltandosi per parlare con eccitazione fra loro. Applaudendo, anche lei si voltò, ma il Dr. Weyland se n'era andato. Weyland s'incamminò sull'area di parcheggio. Le persone si muovevano fra le macchine sotto le pozze di luce generate dai lampioni, conversando e ridendo, canticchiando brani della melodia. Presero dalle macchine sciarpe, guanti, coperte e cappelli. La brezza adesso era tagliente. Fronteggiando il vento, Weyland aprì la giacca, si snodò la cravatta, e si sbottonò la camicia. Si sentiva sgradevolmente accaldato, quasi come se avesse la febbre, e stanchissimo. Anche se avrebbe potuto addurre la scusa di non sentirsi bene e sistemarsi sul sedile posteriore della macchina, sapeva che era troppo stanco adesso per addormentarsi. Inquieto, si voltò indietro verso il patio, un crogiolo di umanità vociante
e capricciosa. Le folle di persone, il moto turbolento delle loro emozioni e dei loro corpi, lo facevano sentire sempre in pericolo — era imprevedibile e irrazionale la facilità con la quale passavano dal furore alle lacrime. E la musica era stata potente: aveva sentito vibrare le sue stesse fibre. Perché? L'arte avrebbe dovuto lasciarlo indifferente. Eppure lui reagiva — prima al balletto, a New York, e adesso a questo. Era disturbato dal sentore di qualcosa di nuovo dentro di lui, come se i fatti recenti avessero portato alla luce una inattesa debolezza. Meglio prepararsi alla possibilità di un'uscita inosservata durante il prossimo atto, nel caso non ce l'avesse fatta a resistere fino alla fine. Nella zona degli orchestrali si erano formati dei capannelli di conversazione. Tremain, che per quella sera aveva concluso la sua esibizione ma era ancora in costume, stava leggendo al di sopra della spalla di un flautista che era concentrato su un volumetto sgualcito intitolato La Vendetta degli Androidi. Il direttore d'orchestra era seduto nel suo camerino e si stava massaggiando la nuca, cercando di recuperare la calma senza lasciarsi deprimere. Adesso che tutti si erano scaldati, la serata si stava delineando come una di quelle rare occasioni in cui la realtà del melodramma, più grande della realtà della vita, riempie il teatro, elettrizzando pubblico e attori allo stesso modo e includendoli tutti in un'esperienza straordinaria. Aveva la tentazione di cedere all'eccitazione e di dirigere a ritmo scatenato, il che avrebbe mandato tutti fuori tempo e rovinato la rappresentazione. Rilassati. Rilassati. Anders trasse dei respiri profondi e, alla fine, sbadigliò. Gli spettatori si erano raccolti intorno alla bancarella della Gilda dell'Opera, dove venivano venduti poster, T-shirt e altri souvenir. «So che Scarpia è un mostro spaventoso,» disse una donna in un completo di lana, «ma ha una musica così meravigliosa, così fastosa, che fa venire il batticuore. Mi vergogno sempre un po' di adorare le opere di Puccini — c'è una tale crudeltà — ma le melodie sono così sensuali e così liriche che qualsiasi giudizio si addolcisce.» La donna più giovane alla quale si stava rivolgendo le rivolse un sorriso vago. «Il Secondo Atto prende dall'inizio alla fine,» proseguì la donna col completo di lana. «Prima, Scarpia dice che preferisce le tattiche cavernico-
le ai corteggiamenti con fiori e musica. Poi fa torturare il povero tenore, Cavaradossi voglio dire, finché Tosca non cede e rivela il nascondiglio di Angelotti, e Cavaradossi viene trascinato in prigione. E poi Scarpia le dice che se vuole salvare Cavaradossi dall'esecuzione per tradimento deve andare a letto con lui. Ha quella musica assolutamente palpitante, estasiante...» «Lasciva,» disse con voce strascicata il giovane che la scortava. La giovane donna fece un sorriso vago. Di nuovo altezzosa, pensò con disgusto la donna in completo di lana; dove crede di essere, a qualche maledetto concerto rock? «Andiamo,» disse. «Dobbiamo comprare una T-shirt per nostro fratello. C'è una mia amica stanotte che vende per la Gilda: eccola — quella piccoletta coi capelli bianchi e corti e gli occhi chiari. Vedi quel sari color magenta che indossa? Lo comprò in India; è stata anche in Cina: è una grande viaggiatrice. Ciao, Juliet, lascia che ti presenti mia sorella...» Jean nell'intervallo prese il suo caffè nero, che aveva un gusto orribile ma non faceva ingrassare. «Che spettacolo stiamo vedendo stanotte — una iniziazione al melodramma perfetta per te, Elmo.» «Non mi piace,» disse Elmo, con aria infelice. «Voglio dire, è come osservare un animale in chiesa che pretende di essere un uomo.» «Sai,» disse Jean, «ho letto da qualche parte che Puccini aveva una spiccata vena primitiva. Amava andare a caccia, sparare agli uccelli e roba simile. Forse non sarebbe troppo esagerato vedere il suo Scarpia come una sorta di regressione a un essere più bestiale e rudimentale.» Elmo sembrava perso. Jean cambiò registro: «Conosci il costume che indossa Tosca, il cappello piumato, l'abito coi sottogonna fruscianti, il lungo bastone da passeggio? È una tradizione: la prima cantante che interpretò il ruolo indossava un costume simile alla prima di Roma, nel 1900.» Inaspettatamente il Dr. Weyland parlò accanto a lei: «Sarah Bernhardt indossava la stessa cosa nel lavoro di Sardou, La Tosca, più di dieci anni prima. Portava anche, credo, un bouquet di fiori.» «Davvero?» disse Jean, eccitata. «Nelle notti in cui la pioggia picchia sul palcoscenico scommetto che le Tosca vorrebbero portare ombrelli invece che bastoni o fiori. Una notte veniva giù a dirotto, e un uomo seduto nella sezione scoperta davanti a me sollevò un abominevole ombrello nero, cosa che non è consentita perché quelli che stanno dietro il possessore dell'ombrello non riescono a vedere. Risultò che era John Ehrlichman, di Waterga-
teiana memoria.» «E che era sia preparato che impreparato,» disse il Dr. Weyland, con tono cortese. Si voltò verso Elmo. «Giovanotto, ho notato che ha una sedia nel corridoio davanti. Posso cambiare posto con lei? Nessuna critica a Miss Gray — non russa, non si gratta, né si agita — ma mi secca stare seduto per tanto tempo immobile, non importa quanto sia accattivante la situazione.» Jean sorrise suo malgrado. L'uomo aveva fascino, quando decideva di esercitarlo. Desiderò che lui non la facesse sentire così sciocca e così... così tozza. Elmo disse, esitante, «Sono in seconda fila. C'è troppo rumore laggiù, e potrebbe non vedere molto bene.» «Tuttavia, considererei lo scambio un grande favore, dal momento che potrei alzarmi e stendere le gambe di tanto in tanto. Un posto sul lato del corridoio sarebbe una misericordia per me e per quelli che mi stanno intorno.» Gli interventi del golfo mistico portarono un tamburo militare da porre dietro le quinte accanto alla console del direttore di scena. Spiegel era momentaneamente assente, essendosi recata dall'amministrazione per chiedere dell'ossigeno destinato a un corista di St. Louis. L'altitudine di Santa Fe poteva risultare gravosa per quelli che vivevano in pianura. L'assistente del direttore tecnico girovagava, azzittendo i coristi ciarlieri che si erano assiepati davanti ai camerini. Dietro il fondale che racchiudeva la scena più piccola e intima del Secondo Atto, l'ufficio di Scarpia, c'era un'orchestrina sistemata su delle sedie pieghevoli. Avrebbe eseguito la musica che si sarebbe udita come se fosse provenuta dall'esterno, attraverso una finestra aperta dell'ufficio. Un monitor era sistemato a beneficio dell'assistente del direttore d'orchestra. Nel piccolo ripostiglio venne effettuato un controllo finale dei due candelieri che Tosca doveva far finta di accendere alla fine del Secondo Atto. I candelieri funzionavano a batteria, e il loro brillare e affievolirsi era provocato da un tecnico che utilizzava un telecomando adattato da un kit per un modellino d'aeroplano. Il direttore del teatro chiamò Spiegel, perché tornasse alla sua console, avvertendola di ritardare l'inizio del Secondo Atto: le file davanti alle toilette delle signore erano ancora lunghe.
Elmo, seduto al suo nuovo posto, era lieto di essere più lontano dal palco. Là davanti, si era sentito come un passante colto ad origliare una disputa privata. Mentre Scarpia, solo, rifletteva sul successo anticipato del suo piano, Elmo si sentiva a distanza di sicurezza e libero di studiare la scena; l'effetto tipo legno a intarsio sul pavimento del palcoscenico, le imposte scolpite delle finestre dietro il tavolo da pranzo dalle gambe a ricciolo di Scarpia, il sofà coi cuscini rigonfi posto di fronte a un grosso scrittoio ingombro di libri e carte. All'improvviso il canto di Scarpia divenne feroce — tutto a scoppi ripetuti, alti e bassi. Scioccato, Elmo si mise a fissare l'uomo. Sebbene corpulento, Scarpia appariva quasi aggraziato nella lucentezza del broccato: calzoni al ginocchio e camicia ornata di pizzo, un panciotto e una giacca a falde di un delicato azzurro pallido. Da questa figura di Dresda veniva una voce brutalmente voluttuosa. Le parole erano abbastanza vicine allo spagnolo perché Elmo potesse afferrarne il significato. Riguardavano le donne: Prendo ciò che voglio, lo uso, lo getto via, e inseguo la prossima cosa che voglio. Elmo si agitò sulla sedia, spiacevolmente consapevole della presenza di Jean fra lui e MacGrath. Sembrava indecente che una donna potesse ascoltare da un uomo una così ardente dichiarazione di brama. Una delle spie di Scarpia venne a riferire la notizia: non avevano trovato il fuggitivo Angelotti nella villa di Cavaradossi, alla quale li aveva condotti Tosca. Avevano comunque trovato, arrestato e riportato indietro per interrogarlo l'amante di Tosca, Cavaradossi. Scarpia cominciò a interrogare Cavaradossi sulla cantata eseguita dalla piccola orchestra e dal coro invisibile. Durante una pausa giunse una familiare voce di soprano, la voce di Tosca, che guidava il coro. Cavaradossi mormorò impulsivamente che era proprio la sua voce. Uno sguardo passò fra i due uomini: la schiena di Cavaradossi s'irrigidì leggermente; Scarpia abbassò la sua testa incipriata e incalzò con le sue domande, respingendo qualsiasi complicità col prigioniero anche nell'ammirazione della donna che li affascinava entrambi. Il direttore di scena, che guardava dal fondo del teatro assieme agli spettatori rimasti in piedi, si sentì rallegrato. Che piccolo pezzo di bravura questa azione mimica! Di botto, il triangolo formato da Tosca e dai due uomini aveva acquistato vividezza.
Jean ripensò all'ultima parte del Primo Atto. Se quella era stata un'efficace rappresentazione della natura duplice della società, questa era una cosa completamente diversa. Il coro che si udiva adesso da dietro le quinte non era, come il precedente Te Deum, un pretenzioso cerimoniale di pompa e potere. Al contrario, gli strumenti a corde e le voci intessevano un grave e dolce contrappunto rispetto al quale l'interrogatorio di Scarpia, di volta in volta untuoso e selvaggio, acquistava ferocia. Era come un grosso animale che girava intorno alla sua preda mentre fuori c'era... l'Arte con la A maiuscola nella persona di Tosca, la più grande cantante di Roma, la cui voce sormontava il crescendo della musica, che si supponeva eseguita altrove nell'edificio. Scarpia si voltò bruscamente, irritato nello scoprire che quella voce era così disturbante, e chiuse le imposte sbattendole ed escludendo così il sottofondo corale. Jean sussurrò all'orecchio di Elmo, «Avevi ragione nel dire che era come un animale.» Dietro la scena un apprendista inginocchiato fissò le imposte con una fettuccia. Non era più possibile che potessero aprirsi di nuovo o essere spalancate da un soffio di vento. «Si prepari il gruppo del giudice,» dissero gli altoparlanti del retroscena. I torturatori incappucciati e il giudice in toga scarlatta si raggrupparono nel punto di entrata dietro le quinte. Weyland vide Cavadarossi prelevato e condotto giù per le scale fra il giudice e i suoi assistenti per il prosieguo dell'interrogatorio nella camera delle torture. Solo due persone rimasero in scena: Scarpia, tranquillo e guardingo, e Tosca, appena giunta nel suo ufficio e tesa a celare la sua agitazione. Scarpia cominciò a dirle con elaborata cortesia: Parliamo come due amici: ditemi, Cavaradossi era solo quando lo avete trovato nella villa? Adesso il disegno della caccia era così vivido che le parole parlavano a Weyland. Quante volte Weyland stesso aveva avvicinato una vittima nella stessa maniera, parlando con tono pacato, e celando la sua impazienza di cibarsi dietro una socievole cordialità... una donna seguita furtivamente nella quiete di una libreria o di una galleria... un uomo prelevato in un parco... La caccia era l'esperienza centrale della vita di Weyland. Qui, c'era quell'esperienza, all'esterno.
Affascinato, si protese per osservare la calma studiata del cacciatore, la calma simulata della preda... Tremain bighellonava nella zona fumatori, sentendosi trascurato. L'Angelotti del melodramma era, teoricamente, nascosto fuori scena in un pozzo nella villa di Cavaradossi. Nella scena successiva sarebbe stato un suicida, un cadavere «simulato» da un fantoccio. Tremain stesso non aveva nient'altro da fare che girare i pollici col costume addosso per due atti fino alla chiamata alla ribalta. Gli sarebbe piaciuto scambiare due chiacchiere con Franklin, che impersonava il sacrestano e aveva anch'egli terminato alla fine del Primo Atto; ma Franklin stava scrivendo, in una delle sale di prova, una lettera alla sorella malata che viveva a Baltimora. Tremain scese nella zona degli orchestrali e raggiunse attraverso un corridoio il lato sud dell'edificio. C'era gente della produzione là, in fila per tre sulle scale che conducevano al terrazzino che si trovava all'estremità meridionale del teatro. Dal terrazzino si poteva vedere abbastanza bene senza essere notati dal pubblico seduto. Si allontanò, dirigendosi giù verso la strada lastricata che passava sotto l'edificio del teatro. Guidato da una musica incalzante, Scarpia descrisse a Tosca con toni foschi come nella camera di tortura sarebbe stato messo un anello di ferro chiodato intorno alle tempie dell'amante per costringerlo a dire dove si nascondeva Angelotti — a meno che lei non decidesse di salvare Cavaradossi parlando prima. Nella botola sotto il palcoscenico, dove si supponeva che fosse la camera di tortura, Cavaradossi osservava il direttore d'orchestra su un monitor, gridando imbeccate e imponendo a Tosca di non rivelare il nascondiglio di Angelotti. I costumisti sfilarono la camicia al cantante e la sostituirono con una lacerata e schizzata, ad arte, con sangue finto (una mistura di sciroppo Karo e coloranti alimentari preparata dall'assistente del direttore tecnico). Sparsero «sangue» sulla sua fronte e strofinarono glicerina sulle zone esposte della pelle dove avrebbe luccicato alle luci del palcoscenico come il sudore della sofferenza. «Più forte, più forte!» ruggì Scarpia ai torturatori invisibili, ordinando loro di aumentare la pressione. Tosca gridò che non avrebbe potuto sopportare più a lungo che il suo amante fosse torturato. La sua voce fece un gran balzo scendendo di un'ottava verso toni foschi e tormentati. Nella botola Cavaradossi emise un forte gemito musicale.
Weyland aveva commesso un errore nello scambiare il suo posto con uno più prossimo al golfo mistico e al palcoscenico. Vicini, i cantanti nei loro costumi sgargianti erano troppo grandi, troppo intensi. La loro musica violenta aggrediva i sensi. Sotto le porte sbarrate nella sua mente scivolava il ricordo di un forte profumo: il dolce sego fumante, i drappeggi polverosi, l'odore dell'inchiostro mescolato da poco. Era già stato in stanze simili a quella di Scarpia, aveva sentito il ticchettio dei tacchi sui pavimenti di cera vergine, il debole scampanio metallico di orologi con elaborate facce di ceramica, il sibilo dei polsi di satin che sfregavano le falde ricamate delle giacche. Più di una volta si era trovato in un ufficio simile a rigirare fra le mani il suo berretto da commerciante, o a strofinare i palmi nervosamente sul davanti lucido del suo grembiule di cuoio, mentre rispondeva a domande ufficiali. Quando bisognava fare delle domande, Weyland, straniero sempre e ovunque, veniva interrogato. Sovente da un'altra stanza arrivavano strilli inarticolati, il fetore dell'urina, lo schiocco soffocato di giunture spezzate. Era diventato esperto, brillante addirittura, nel dare le risposte giuste. Un altro urlo artificioso del tenore nascosto lo riportò bruscamente al presente. Si tese per alzarsi e scivolare via — ma la musica, che sgorgava furiosa dal golfo mistico, lo afferrò. Il suo parossismo di angoscia — le intense vibrazioni dei violoncelli, gli squilli dei corni e degli strumenti a fiato — lo trafisse e lo inchiodò al suo posto. Tosca crollò e rivelò il nascondiglio di Angelotti. Cavaradossi, lordo di sangue, fu trascinato in scena: la ingiuriò, strillò la sua sfida a Scarpia e la sua fedeltà ai Bonapartisti, che lo avrebbero condannato all'esecuzione per tradimento. Fu portato via. Nella quinta fila centrale un uomo spense l'apparecchio acustico e si addormentò. Non gli piaceva la storia, e aveva mangiato troppa carne adovada nel ristorante spagnolo. In seguito, nel sentire i discorsi estasiati su quel grande avvenimento che era stata la rappresentazione, e sul privilegio di avervi partecipato, prima non avrebbe detto nulla, poi avrebbe convenuto, e infine sarebbe giunto a credere che anche lui aveva sperimentato quell'evento magico. La voce di Scarpia tornò a fluire dolcemente mentre l'orchestra tornava
all'eleganza degli strumenti a corda più leggeri. Invitò Tosca a sedersi con lui e a discutere su come salvare la vita dell'amante. Prese il mantello di lei, le dita che palpavano cupidamente il velluto color ruggine, e lo drappeggiò sullo schienale del sofà. Quindi versò del vino in una coppa appoggiata sul suo tavolo, offrendolo a lei con toni sdolcinati: «È vin di Spagna...» Scostando il vino, lei lo fissò con disgusto e gli gettò in viso la domanda: «Quanto?» E il mostro cominciò a dirle, chinandosi sempre più su di lei, sorridendo allusivo: non avrebbe venduto la sua fedeltà allo Stato per il vil danaro, non a una bella donna... mentre gli accordi avidi e incandescenti dell'orchestra prefiguravano la completa rivelazione della sua lascivia. Elmo deglutì, fissò, ascoltò con la mente annebbiata. Aveva dimenticato Jean seduta accanto a lui, come lei aveva dimenticato lui. Questo è il momento che stavo aspettando! gridò Scarpia. La struttura sobria, quasi colloquiale della musica divenne all'improvviso più ricca col pulsare di strumenti a corda e ottoni più cupi mentre lui svelava il prezzo della vita di Cavaradossi. Coi toni sontuosi della passione dichiarò il suo desiderio: Come mi infiamma vederti, agile come un leopardo, che stringi il tuo amante! cantò con una voce elastica come il balzo di un leopardo. Finalmente fece emergere gli accordi squillanti e avidi della lussuria nella sua voce ardente. Le risonanze della brama scatenata del mostro frustarono Weyland, travolgendo i suoi pensieri, il suo distacco, il suo giudizio. La signora con l'abito a disegni tipo pelle di serpente lanciò un'occhiata al tipo dall'aria professionale seduto accanto a lei sulla sedia di corridoio. Cielo, cos'aveva quell'uomo? Il sudore luccicava sulla sua fronte, il muscolo della mandibola era gonfio, gli occhi scintillavano sopra le guance arrossate come per la febbre. Com'era quell'espressione che usava suo figlio?... sì: sembrava che quell'uomo stesse andando a pezzi. Jean gemeva silenziosamente all'interno della sua gola per la donna tormentata sul palcoscenico, che in quel momento corse alla finestra — ma a che sarebbe servito il suicidio, dal momento che il bruto avrebbe ugualmente ucciso il suo amante? Con la devozione di uno spirito romantico, Jean si consegnò all'agonia meravigliosa del Secondo Atto.
Tremain vagabondava nel buio dietro l'edificio del teatro, sigaretta in mano, testa sollevata per recepire la musica che giungeva dall'alto. Aspirò un caldo refolo di fumo nella gola: pessima cosa per un cantante, ma non si può essere sempre disciplinati. Comunque, fatta eccezione per quell'assurda barba posticcia che portava, per i lunghi capelli grigi e il costume logoro che avrebbe dovuto indossare fino all'uscita sulla ribalta, poteva fare tutto ciò che gli andava. Caruso fumava tre pacchetti al giorno, e la cosa non lo aveva danneggiato. Una grande avidità è segno di grande talento, sperò Tremain. Dal teatro giunse uno schianto lontano. Lo identificò subito e sorrise fra sé e sé: Scarpia e Tosca avevano finalmente concluso la scena dell'aggressione e fatto cadere la brocca d'acqua dal tavolo da pranzo. Ci sarebbe stata una bella battaglia lassù, quella notte. Un'altra boccata di fumo e sarebbe andato ad ascoltare da vicino assieme agli altri. Guardò le luci scintillanti di Los Alamos a ovest e mormorò a bassa voce, a se stesso, le parole di Scarpia. Con gioia demoniaca Scarpia le lanciava sguardi carichi di cupidigia, Come mi odi! Avanzò verso Tosca, gridando in selvaggio trionfo, È così che ti voglio!... Spasimi d'odio, spasimi d'amore... Il respiro fluiva a malapena nella gola di Weyland. Le mani serrate gli dolevano. Le grida di Tosca gli fecero emettere un debole suono lamentoso: era stato perseguitato fin troppo da nemici spietati, era stato spinto all'estremo della disperazione. Tosca sfuggì a Scarpia, correndo dietro lo scrittoio dal quale penne e carte si sparsero sul pavimento. La danza della caccia vorticava verso il suo culmine. Weyland rabbrividì. Poteva vedere la smorfia vorace delle labbra di Scarpia, il curvarsi predatorio delle spalle sotto la giacca di broccato mentre le si avvicinava... mentre Tosca correva verso il sofà con Scarpia un passo dietro di lei... mentre Scarpia le balzava addosso. All'incalzare dei corni, la bocca di Weyland si schiuse in un ghigno aggressivo, i suoi occhi si strinsero crudeli, i muscoli guizzarono convulsi sotto la pelle, mentre la preda s'involava di nuovo — mentre Weyland balzava all'inseguimento, ruggendo: Mia! Un movimento allarmato vicino a lui lo distrasse: la donna che gli sedeva accanto si scostò bruscamente e lo fissò. Lui si voltò a guardare con occhi selvaggi, poi balzò in piedi e superò di corsa un usciere cieco a tutto tranne che al dramma che si stava consumando sul palcoscenico.
Superando con un salto un basso cancello che si trovava fra il patio e l'oscuro pendio al di là di esso, si precipitò giù per la collina. Il rullare secco di un tamburo militare lo seguì dal teatro lirico. Diverse sensazioni si fusero nella sua mente annebbiata: file di tende bianche, briglie guizzanti di cavalli impastoiati, odori di fumo e liquame e di lucido per metalli, di corde e cuoio umidi; e sempre, da qualche parte, il rullare dei tamburi e lo strepito delle voci. Li sentiva, adesso. Eppure non colse il rumore di passi delle sentinelle, né lo scintillio delle cartucce bianche che segnalava la presenza di una preda solitaria. Dov'era il campo del quale udiva il tumulto... quelle luci a ovest? Troppo lontane, e troppo vivide. Forse uno scontro notturno? Fiutò in cerca del sentore del sangue e della polvere da sparo; si mise in ascolto per cogliere le grida soffocate e lamentose di un campo illuminato dalla luna nella veglia della battaglia, dove un vampiro avrebbe potuto nutrirsi ignorato e indisturbato fra i caduti. In quell'anno di rivoluzioni e repressioni monarchiche, il 1800, Weyland aveva seguito la Grande Armata di Bonaparte. Quella notte l'assistente del direttore tecnico non ebbe alcun bisogno di aggirarsi nel retroscena per imporre il silenzio, quando Tosca iniziò la famosa aria «Vissi d'Arte». Quella notte stavano già tutti ascoltando, in silenzio. Una percussionista che avrebbe dovuto suonare le campane per l'inizio del prossimo atto uscì dal corridoio degli orchestrali e si diresse verso il terrazzo già affollato. La sua attenzione era rivolta unicamente alla musica. Non si accorse di alcun rumore proveniente dall'esterno del teatro lirico. Spinto da una tensione insopportabile, Weyland girò intorno all'angolo dell'edificio e avanzò con passi felpati lungo la strada che si snodava, a un livello più basso del suolo, dietro di esso. C'era un uomo là; una scintilla nelle tenebre, un'emanazione di calore corporeo, sudore e fumo sul vento notturno. Capelli lunghi, calzoni, maniche flosce e lacere, un luccichio di stelle sulle fibbie delle scarpe mentre la figura voltava la schiena alla brezza — i dettagli si facevano più netti mentre Weyland accorciava la distanza con lunghi passi silenziosi. Una fiammella danzò nella mani a coppa dell'uomo. Il corpo legato saldamente al pulsare selvaggio del cuore, la mente in subbuglio, Weyland, costretto a colpire, rallentò per l'assalto finale.
La concentrazione di Tremain sugli acuti del «Vissi d'Arte» fu interrotta. Voltandosi, scorse un'alta figura che torreggiava su di lui, le pupille enormi degli occhi che si contraevano rapidamente come quelle di un gatto davanti alla fiamma ondeggiante del fiammifero. La bocca di Tremain si mosse per formulare qualche allarmato convenevolo, e la sua mente disse, È solo la notte che lo rende terrificante. Mani di ferro lo afferrarono e lo strapparono via per sempre dal canto. Le note alte del «Vissi d'Arte» sfavillarono chiare e salde, le note basse si sciolsero per l'emozione. Anders seguiva come un amante, respirando col respiro della cantante. Soltanto una volta lei esitò, e la mano sinistra sollevata di Anders la sostenne, mentre la mano destra, tenuta bassa e armata di bacchetta, si muoveva per gli orchestrali nel golfo mistico. Al termine del lamento, bello e inutile, di Tosca il pubblico esplose. Gridò, batté le mani con frenesia — brevemente. Il ritmo del dramma li aveva catturati e non avrebbe tollerato indugi. La bocca di Weyland era piena di sangue. Inghiottì, stringendo saldamente nelle braccia la forma accasciata, seppellendo le labbra avide sotto il colletto scomposto. Il suo stomaco, scombussolato dal primo pasto mal digerito, si ribellò. Vomitando, lui lasciò andare il corpo e cercò di alzarsi, riuscendo solo a sollevarsi barcollando su un ginocchio, squassato dai conati di vomito. Non doveva lasciare del vomito che i cani potessero fiutare, che i cacciatori potessero esaminare alla luce delle torce. Inghiottì il sangue rigurgidato e si sentì soffocare; la gola gli bruciava. S'inginocchiò ansimando e rabbrividendo nel buio. Un ronzio passò alto sopra di lui — il suo senso del presente e del luogo dove si trovava defluì. Alzando la testa, vide le luci che si abbassavano di un aeroplano sparire alla vista dietro la massa debolmente illuminata del muro del teatro lirico che si elevava sopra di lui. E davanti a lui giaceva a terra un uomo non ancora morto, ma morente; un rapido esame rivelò un crepitio di frammenti d'ossa sotto la pelle della tempia dove il pugno di Weyland aveva infranto il cranio. A parte una sola macchia sulla gola, non c'era sangue. Preso dal panico, si accovacciò sull'uomo morente. Aveva colpito senza averne la necessità, senza aver fame. Da quell'uomo che indossava un abito del passato — un costume, piutto-
sto; era di certo uno degli attori del melodramma — non era stato minacciato. Era minacciato adesso. Quella uccisione doveva essere nascosta. Si eresse e attraversò la strada. Il fianco della collina scendeva ripido verso il letto asciutto di un torrente sottostante soffocato dagli sterpi. Si poteva anche cadere... ma non per un lungo tratto e non abbastanza pesantemente da spaccarsi la testa. Inoltre, poteva vedere una recinzione, a una certa distanza in basso, che avrebbe ostacolato una caduta del genere. Si voltò a guardare l'edificio del teatro lirico, che sormontava la collina simile a un vascello che fende un'enorme onda. Il lato sud si sollevava per tre piani al di sopra del livello stradale in un angolo acuto come un coltello: la prua di una nave puntata verso il cielo notturno. Dal suo ponte un uomo avrebbe potuto cadere e rompersi la testa là sotto. E laddove il fianco della collina si sollevava per incontrare l'estremità nord del ponte del teatro, c'era la possibilità di salire su quel ponte come se si salisse dalla superficie del mare. Weyland si caricò in spalla la sua vittima, corse lungo la strada, e si arrampicò sul pendio sassoso della collina fino al ponte. Poi si voltò e, chinandosi il più in basso possibile col suo fardello, corse lungo il ponte in direzione dell'alta prua a sud. Una donna sulla balconata mise a fuoco il suo binocolo su Scarpia. Adesso che aveva strappato a Tosca l'assenso per il suo stupro, stava disponendo falsamente in cambio la finta esecuzione di Cavaradossi. Era valsa la pena venire da Buffalo. Scarpia era un bruto, ma così virile... meglio di Telly Savalas. L'assistente del direttore tecnico, passando dietro al palcoscenico con alcuni cavi da fissare alla cabina elettrica dietro le quinte a nord, era troppo vicino alla musica per udire il debole fruscio di un movimento sulla pedana d'ingresso sottostante. Era tutto teso a controllare quelli della produzione che potevano essersi sistemati sulle sedie in fondo, a fare baccano — ma quella notte non c'era nessuno. All'esterno della cabina elettrica, per un istante credette di vedere qualcuno seduto in un angolo col capo reclino. Era solo il fantoccio, il cadavere di Angelotti che si era ucciso pur di non essere ripreso. I soldati avrebbero sollevato il «corpo» all'inizio del secondo atto, una piccola trovata della produzione. Il pubblico aveva bisogno di qualcosa da osservare du-
rante la lunga, delicata ouverture. Tutte le notti in cui si rappresentava Tosca, l'assistente del direttore tecnico vedeva il fantoccio afflosciato là, e ogni volta, per un secondo, pensava che fosse reale. Weyland corse con la sua vittima sulla veranda all'esterno della sartoria. Le finestre della bottega erano gialle per la luce, ma ampiamente schermate dal materiale di scena ammucchiato fuori. Non sentiva alcun suono di passi o di voci sulla terrazza sopra la veranda. Appoggiò la fronte al basso muretto di cemento, premendosi le maniche sulla bocca per soffocare il raschio del suo respiro. La schiena e le braccia gli bruciavano per lo sforzo, e un crampo lo afferrò ai visceri. Quanto mancava alla fine del secondo atto? Ancora una volta la musica era calma e colloquiale. Weyland poteva sentire Scarpia che accettava con galanteria di vergare il salvacondotto che Tosca chiedeva per sé e per il suo amante prima di concedere il suo corpo. Cominciò una melodia funerea. Non era forte; Weyland sperò che avrebbe coperto qualsiasi rumore avesse fatto là dietro. L'uomo morente sembrava fatto di mercurio, come tutte le persone prive di sensi. Era come se ogni cambiamento di posizione convogliasse all'istante tutta la sua massa in una porzione del corpo. Weyland lo tenne sollevato per le braccia contro il basso parapetto. L'uomo gemette, la sua testa ricadde sulla spalla di Weyland, e una delle mani batté ciecamente su un ginocchio di quest'ultimo. Guardando giù, Weyland decise: là, fra quei cumuli di rifiuti, dove il lastricato arriva ai piedi del muro — una caduta, giudicò, di una trentina di piedi. Non tanto, ma abbastanza da risultare plausibile. Col sottofondo della musica lamentosa, fece rotolare la parte superiore del corpo dell'uomo oltre il muretto, piegò e sollevò le gambe e l'uomo cadde. Dal basso venne soltanto il tonfo sordo dell'impatto. Non si udì un grido, ma durante uno spettacolo nessuno nel retroscena, che fosse stato incerto su quello che aveva scorto nel buio, avrebbe gridato. Sarebbero arrivati, semplicemente — e anche se Weyland non fosse stato ancora visto, questo poteva accadere in qualsiasi momento, perché si era accorto di qualcuno che si muoveva sul palcoscenico sovrastante durante la sua corsa sul ponte. Doveva andarsene subito da lì. Per paura di essere visto, non osava percorrere di nuovo il ponte per raggiungere l'estremità più bassa. E non poteva rischiare di uscire attraverso l'area alle
spalle del palcoscenico nel bel mezzo di una rappresentazione. Guardò ancora una volta oltre il muretto. Da un cumulo sottostante di ciarpame di scena, alla sua sinistra, spuntava un'enorme struttura fatta di due fogli spessi di compensato collegati da due stretti sostegni, come i pioli di una scala storta. Più in là, c'era una specie di piattaforma, irregolare e piena di gobbe, e... degli alberi di scena? Poteva vederne i rami simili a salsicciotti con le estremità ispide. Se si fosse appeso al parapetto per l'intera lunghezza delle braccia, le suole di gomma delle sue scarpe sarebbero giunte a circa cinque piedi dalla struttura munita di pioli. E se quella struttura contorta non fosse crollata sotto il suo peso, quando si fosse lasciato cadere, avrebbe potuto scendere giù. Senza sprecare altro tempo a riflettere o a temere il peggio, si appese al muretto e lasciò la presa, raggomitolandosi mentre afferrava le assicelle di legno chiaro. Il suo atterraggio fu inaspettamente solido e duro. Non poté dire se aveva provocato o no rumore, perché all'improvviso la musica esplose in un tonante crescendo. Cominciò a scendere con difficoltà giù per i montanti di legno. L'intera struttura s'inclinò, scricchiolò e si mosse indefinitamente sotto di lui. Weyland sentì l'odore della polvere. Nello strepito della musica era nettamente consapevole del martellare del suo cuore, del respiro ansimante, e dello schioccare del legno da qualche parte in basso. Afferrò uno degli alberi spinosi, che si abbassò vacillando sotto il suo peso; poi si lasciò andare e scese con uno scivolone, ritrovandosi con le mani e i piedi sull'asfalto, senza fiato. Esaminò in fretta la sua vittima. Il cranio era spappolato, l'uomo era morto. Weyland alzò la testa: le circostanze avrebbero certamente suggerito che quell'uomo sfortunato era precipitato dalla veranda o dalla balconata sovrastante. Non si udivano ancora grida d'allarme o rumori di qualcuno che cercasse. La musica burrascosa si stava affievolendo nel tremolo calante degli accordi sotto gli acuti furiosi del soprano — Muori! Muori! Weyland udì i sospiri profondi degli strumenti a corda mentre il battito del suo cuore rallentava e il sudore della paura e dello sforzo si asciugava su di lui. Aveva fatto tutto quello che poteva per proteggersi. Anche se fosse stato sospettato un omicidio, chi avrebbe potuto associare questo cantante morto al professore venuto dall'Est, dal momento che erano totalmente estranei l'uno all'altro?
Si allontanò senza guardare di nuovo il corpo — era una cosa che non lo riguardava più — e risalì in direzione dell'area di parcheggio. Proprio al limite del raggio delle luci del parcheggio si fermò per scuotere via la polvere dagli abiti, e nel fare questo si assestò un doloroso colpo al ginocchio: le mani non gli obbedivano con la consueta precisione. I numeri sul quadrante del suo orologio tremolarono col tremito del polso: 10:40. Il secondo atto sarebbe di certo finito presto e quindi poteva tornare per mescolarsi con la folla prima dell'ultimo atto. Finalmente rivolse a se stesso la domanda: cosa gli era accaduto? Quel colpo era il più vecchio metodo di cui si serviva: esso paralizzava la vittima lasciandola in vita, col sangue ancora dolce, mentre lui si nutriva. Cosa lo aveva spinto ad usare quell'antico metodo, quando da questi raffinati tempi moderni aveva appreso sistemi ben più raffinati? Ma che ebbrezza in quell'istante di liberazione selvaggia! Pensando a questo, sentì fremere i muscoli, e il fiato gli uscì in un sibilo acuto di piacere. Sul palcoscenico, Scarpia giaceva a terra, morto. Tosca lo aveva pugnalato con un coltello quando lui si era voltato, col salvacondotto in mano, per stringerla finalmente fra le braccia. Col sottofondo della melodia lasciva di lui, Tosca appoggiò una candela accesa accanto a ognuna delle mani tese del cadavere. Su un accordo improvvisamente forte, si fece cadere in seno un crocifisso scolpito, e poi, mentre il tamburo militare rullava di nuovo sinistramente, raccolse in fretta mantello e guanti e fuggì per mettersi in salvo. Il morto fu lasciato solo sul palcoscenico per le ultime battute, minacciose e furtive, del secondo atto. Le luci ammiccarono, accendendosi, e l'applauso si sollevò come un'ondata. Due macchinisti vestiti di nero uscirono di corsa dalle quinte per fermarsi davanti a Scarpia — il baritono Marwitz — mentre lui, nel suo costume pallido, si alzava e scivolava giù attraverso la botola. Marwitz corse a cercare Rosemary Ridgeway, la sua giovane Tosca. Il suo petto era colmo di quella sensazione inebriante che significa successo. Bazzicava da lungo tempo in questo tipo di cose, e sapeva cosa significa «perfetto»: significa che, in qualche modo, gli inevitabili errori si erano intrecciati in un progredire di azioni così ricco e armonico da fondere tutto in un'esperienza vivida e indivisibile che non sarebbe stata più dimenticata — o duplicata. Strinse forte fra le braccia Rosemary davanti ai camerini. «Avevo capito,
avevo capito,» disse ridacchiando nei capelli scompigliati di lei, «la ragione del mio nervosismo. Ormai potrei cantare Scarpia dormendo: essere nervosi è un'ottima cosa — significa che anche dopo tante volte qualcosa è ancora vivo, in attesa di creare.» «Eravamo davvero così buoni come pensavo?» domandò lei col fiato sospeso. Lui la scosse per le spalle. «Eravamo terribili, terribili, cosa stai dicendo? Prega di restare così cattiva.» Propiziatisi in questo modo gli dei gelosi del teatro, fece per abbracciarla di nuovo, ma lei si ritrasse, guardandolo in viso con improvvisa ansietà. «Oh, Kurt, stai bene? Stanotte sei caduto davvero quando ti ho pugnalato — ho sentito il palcoscenico tremare.» «Non sono così pesante,» disse Marwitz, con dignità offesa. Poi sogghignò. «Il mio piede è scivolato, sì, ma non preoccuparti — mi hai ucciso benissimo, stupendamente. Ti daranno due orecchie e una coda in premio per questo, aspetta e vedrai.» «Mi è piaciuto quando la caraffa d'acqua si è rotta e lei non ha potuto lavarsi il sangue dalle mani come tutti pensavano che avrebbe fatto,» disse una donna in lamé dorato, «così si è pulita col tovagliolo di Scarpia.» La sua amica aggrottò le sopracciglia. «Dovrebbero chiamarla Scarpia quest'opera, non Tosca. Non è una storia d'amore, è una storia di odio fra due persone forti che si annientano a vicenda — con un paio di poveri imbecilli che ci capitano di mezzo.» Un uomo in soprabito di procione scosse la testa con veemenza. «La vedi così perché quel tipo impersona uno Scarpia troppo civilizzato, come se fosse un funzionario statale. Dovrebbe essere solo un malvivente pieno di sé. Il verso di Tosca riferito a lui, dopo la tortura, era originariamente "Quel sudicio poliziotto pagherà per questo."» «Qual è, adesso?» s'informò l'amica. «"Un Dio giusto lo punirà."» «Be', chi ha modificato il verso?» «Puccini.» «Allora deve avere pensato che il verso "sudicio poliziotto" rendeva Scarpia troppo simile a un malvivente: voleva essere più tenero,» dichiarò l'amica. «Per quanto mi riguarda, non ho mai conosciuto un malvivente con gambe belle come quelle di questo Scarpia. Non è una vergogna che gli uomini abbiano smesso di indossare calze e brache?»
La donna in lamé dorato lanciò intorno a sé delle occhiate denigratorie. «No, non lo è, non coi noiosi posteriori che si ritrovano la maggior parte dei maschi. Forse c'erano gambe più graziose a quei tempi.» MacGrath si era imbattuto in una cliente. Le portò un drink dal bar. La donna aveva gusto: il gesso che portava al braccio sinistro recava dipinto un fregio di figure tombali egizie color marrone scuro. «Personalmente,» disse MacGrath, «ritengo che quest'opera sia un'accozzaglia di situazioni da brivido dozzinali imbastite con una musica gradevole.» La cliente, che quell'anno aveva acquistato due bronzi dalla galleria, ebbe una reazione risentita. «Lo pensano anche altri. Ritengono, in tutta onestà, che la Tosca sia soltanto un volgare thriller,» osservò. «Presumo che ciò che li sconvolge sia vedere una donna che uccide un uomo per impedirgli di violentarla. Se un uomo uccide qualcuno per faccende politiche o per amore questo viene considerato altamente drammatico, ma se una donna uccide uno stupratore si tratta di una cosa sordida.» MacGrath odiava le donne dalla favella sciolta, ma aveva intenzione di venderle un altro bronzo; erano pezzi astratti, non facili da vendere. Perciò sorrise. Rimpianse di aver abbandonato l'argento, i turchesi e il vasellame Pueblo. Jean ed Elmo continuavano a girare in tondo intorno alla fontana nel patio del teatro lirico. «Il melodramma riesce veramente a scuoterla,» azzardò Elmo, turbato. Jean annuì vivacemente. «Specialmente in una notte come questa, quando gli artisti ce la mettono tutta. E un pubblico ricettivo rilancia loro l'eccitazione cosicché essa continua ad accrescersi.» «Ma perché quell'individuo malvagio ha una musica così grande?» «Ascolta, Elmo, tu leggi la fantascienza? Tolkien? Storie di fantasy?» «Un po'.» «A volte quelle storie parlano di ciò che essi definiscono "magia selvaggia" — poteri magici non soggetti a libri o a incantesimi, poteri che non puoi usare veramente poiché non sono buoni né cattivi e non hanno nulla e che fare con la moralità; essi sono semplicemente incontrollabili e irresistibili. Credo che la musica stanotte sia qualcosa del genere: è profonda e intensa, e non ha niente a che fare col giusto o l'ingiusto.» Elmo non rispose. Quel modo di parlare gli rammentava i parenti di sua moglie di quel posto vicino a Las Vegas, New Mexico, che a volte riferi-
vano di grandi ruote di fuoco fatato che volavano di notte intorno alle montagne. I soldati si adunarono nella botola sotto il palcoscenico. All'apertura del terzo atto sarebbero saliti sulla piattaforma di Castel Sant'Angelo, dove Cavaradossi sarebbe stato condotto per l'esecuzione. Il fantoccio del suicida Angelotti era stato preparato affinché lo trasportassero in scena e lo facessero pendere dal muro del castello in accordo con gli ordini di Scarpia del Secondo Atto. Dietro lo scenario del muro della piattaforma, il caposquadra controllava il posizionamento della pedana di atterraggio sulla quale il fantoccio, spinto giù dal muro con un cappio intorno al collo, sarebbe arrivato. La pedana era composta da due pile di materassi, legati assieme fianco contro fianco, venti in tutto, per proteggere la caduta non del fantoccio ma di Tosca, quando sarebbe saltata giù dai bastioni nel finale. Weyland uscì dalla toelette degli uomini dopo essersi ripulito con tutta l'accuratezza e la discrezione che gli era possibile. Recatosi al suo posto, indossò l'impermeabile che aveva lasciato ripiegato là. Il soprabito avrebbe celato lo strappo nella cucitura della spalla della giacca e tutte le macchie e le lacerazioni che potevano essergli sfuggite. Il terrore e l'esaltazione lo avevano abbandonato. Era sopraffatto dalla sonnolenza, ma non sentiva più male; la frenesia della caccia aveva spazzato tutto via. Fu colmato da una sensazione di sinistro compiacimento. Avere scoperto che il vivere fra gente rammollita in un'epoca rammollita non lo aveva indebolito era una buona cosa; il suo adattarsi ad essere scambiato per uno di loro non aveva danneggiato la sua natura leonina, da cacciatore notturno. Anche un clamoroso passo falso non sarebbe stato fatale, perché la sua antica astuzia e la ferocia non lo avevano abbandonato. Si sentiva rinato. Questi pensieri passarono e svanirono, lasciandolo esausto e sereno. Rosemary Ridgeway si tolse la parrucca bruna, arruffatasi nel corpo a corpo con Scarpia, e la appoggiò sulla testa di polistirene perché fosse rimessa in sesto. Com'era assurdo cercare di diventare quella bruna bellezza del libretto, della quale Cavaradossi aveva cantato così teneramente nel Primo Atto: «Tosca ha l'occhio nero.» Gli occhi di Rosemary erano azzurri, e lei non riusciva a tollerare il contatto delle lenti per cambiarli. D'altra
parte, non aveva assolutamente il coraggio — né la forza e la reputazione — di emulare la grande Jeritza la quale, maledetto sia il libretto, aveva intepretato il ruolo bionda. Rosemary sapeva di essere giovane per cantare Tosca. Eppure quella notte la sua voce aveva acquistato maturità e controllo, come se tutti gli incoraggiamenti e i consigli di Marwitz avessero bruscamente cominciato a funzionare. Se soltanto il miracolo fosse durato fino alla fine! Si sedette per raccogliere le energie in vista dell'ultimo atto e si grattò il cuoio capelluto, che già cominciava a pruderle in previsione di quella schifosa parrucca bruna. Un attimo prima che le luci del teatro si affievolissero, la donna in pelle di serpente lanciò un'occhiata nervosa all'uomo accanto a lei. Aveva sperato che non sarebbe ritornato; era stato talmente concentrato nel corso del Secondo Atto da spaventarla. È pensabile che uno apprezzi un melodramma, ma non che si lasci trascinare dentro. Adesso sembrava essersi liberato della sua agitazione, e lei vide con sorpresa che era un uomo dall'aspetto davvero attraente, col profilo forte e scattante di un esploratore, o di un imperatore su una moneta antica. Anche se le non lo avrebbe definito vecchio, la maturità gli aveva segnato le guance e la fronte, e sedeva come se fosse oppresso dal peso di una lunga riflessione. Sembrava non si fosse accorto dell'esame così discreto della donna. La curva del colletto del soprabito rivolto verso l'alto era come uno scudo simbolico, che segnalava la sua volontà di essere lasciato solo. Lei esitò. Poi fu troppo tardi per un tentativo di conversazione: l'ultimo atto era cominciato. Un corno squillò. Lentamente, secondo il tempo scandito dall'operatore alla console nella cabina, le luci s'intensificarono, in maniera infinitesimale, simulando l'arrivo di un'alba romana su Castel Sant'Angelo. Di solito, una volta che il fantoccio di Angelotti era stato scaraventato giù dal muro ed eliminato, l'assistente del direttore tecnico e il suo macchinista usavano stendersi sui materassi e sonnecchiare. Il rumore degli spari — il plotone di esecuzione per Cavaradossi — li svegliava per l'arrivo in volo di Tosca, che si toglieva la vita buttandosi giù. Quella notte i due tecnici rimasero svegli e ascoltarono.
Tosca raccontò al suo amante condannato, Cavaradossi, gli eventi che l'avevano condotta a pugnalare Scarpia. All'improvvisa ripresa della musica dell'omicidio, la donna in pelle di serpente sentì l'uomo accanto a lei agitarsi sulla sedia. Ma non balzò in piedi e scappò, questa volta. Un'anima sensìbile, pensò lei, notando che l'uomo ascoltava con gli occhi chiusi come se non volesse lasciarsi distrarre dalla musica; forse era lui stesso un musicista, un pianista o un violinista? Guardò le sue belle mani dalle dita lunghe. Stringendo le mani di Tosca nelle sue, Cavaradossi cantò con voce carezzevole, O mani dolci e pure che hanno causato una morte giusta e vittoriosa... Elmo, sgomento, sentì le lacrime scorrergli per le guance. Non osava asciugarsele per timore di attirare l'attenzione su di esse. Gli amanti condannati erano così sicuri che l'esecuzione sarebbe stata una finzione e che sarebbero fuggiti assieme. Cantavano così teneramente il sentimento che li univa, con tale speranza e gioia. Come lo spaventavano le sue lacrime, com'era strano il piacere delle sue lacrime. Il plotone di esecuzione fece fuoco. Cavaradossi fece un balzo all'indietro nell'aria, schiacciandosi una busta di plastica di sangue finto sul petto. Gocce rosse si sparsero sugli orchestrali nel golfo mistico. *** All'esplosione dei fucili l'uomo alto grugnì, e la donna in pelle di serpente vide che i suoi occhi si erano spalancati. Lui si guardò intorno per un momento, poi li richiuse. Dio Santo, quel miserabile filisteo stava dormendo! Il melodramma era finito, i cantanti comparvero in scena per gli applausi. Rosemary, trionfante, non voleva perdersene nessuno. Annaspando in cerca delle dita di Marwitz fra i pizzi del suo polsino, disse, «Dov'è Jerry Tremain? Non è venuto a prendere la sua parte di applausi?» Nel fuoco di sbarramento degli applausi avanzarono tutti assieme sul palcoscenico, sollevando le mani congiunte. Ci furono molte chiamate. Tremain non venne. Nessuno sapeva dove fosse.
L'uscita era ingombra di persone che avanzavano lentamente e ciarlavano ancora, eccitate, o, come Elmo che si stava facendo strada fra di loro in silenzio assieme a Jean, cercando di fissare il ricordo della musica. Il Dr. Weyland era già fuori, in attesa vicino alla biglietteria. Appariva un po' scarmigliato. Elmo notò che sulla gamba dei calzoni del professore erano attaccate alcune rondelle e scorse un lungo graffio sul dorso della sua mano. Sentì che Jean tratteneva il fiato quando anche lei se ne accorse. «Sta bene?» chiese lei con ansia. «Sembra si sia fatto male.» Il Dr. Weyland s'infilò la mano ferita in tasca. «Mi sono avventurato un po' al di là delle luci durante l'intervallo,» ammise. «Sono inciampato nel buio.» «Avrebbe dovuto venire a dirmelo,» disse Jean. «L'avrei riaccompagnato a Santa Fe.» «È solo un graffio.» «Oh, sono così dispiaciuta — spero che questo non le abbia impedito di apprezzare l'opera. Lo spettacolo di stanotte è stato magnifico.» Il disappunto di lei ispirò a Elmo il desiderio di abbracciarla. Il Dr. Weyland si schiarì la gola. «Le assicuro che ho trovato l'opera molto emozionante.» Elmo colse una nota di tensione nella voce del professore. Si sentì sollevato, lieto che non era stato il solo ad essere scosso da quell'esperienza. Forse essere scosso era un bene; forse questa cosa avrebbe prodotto alcuni dipinti. Mentre attendevano che il parcheggio si sgomberasse, fecero uno spuntino con frutta e formaggio sul cofano della macchina di Jean. «È questo che fanno i veterani dell'opera,» disse MacGrath. Distribuì i bicchieri di vino. «Ecco un drink che ci metterà su di giri; ho in serbo qualcosa di speciale per noi: un gran bel party in città. Ci saranno molti di Santa Fe e alcuni cantanti dell'opera. Jean, devi solo seguire quella Porsche azzurra — è la macchina mia e di Elmo — e lasciare il professore al party con noi. Gli troveremo un alloggio per questa notte e lo riporteremo ad Albuquerque con noi domani.» «No, grazie,» disse il Dr. Weyland, rifiutando il vino in favore dell'acqua. «Sono stanco. Mi pare che Miss Gray voglia tornare immediatamente ad Albuquerque e preferirei andare con lei.» MacGrath disse con vigore, «Ma la gente sta aspettando per conoscerla! Ho già detto a tutti che avrei portato con me un famoso professore dell'Est.
Non bisogna deludere la gente.» Il Dr. Weyland bevve. «Un'altra volta,» disse. «Potrebbe non esserci un'altra volta,» insistette MacGrath. «Non per un party come questo. Non vorrà mica voltare la schiena all'ospitalità di vecchio stampo dell'Ovest?» Il Dr. Weyland depositò il bicchiere vuoto nella busta dei rifiuti. Disse, «Buona notte, Mr. MacGrath,» si sistemò sul sedile anteriore della macchina e chiuse la porta. «Be', va' a farti fottere, amico,» disse MacGrath, gettando il suo bicchiere sotto la macchina. Si voltò verso la Porsche azzurra, con uno scatto della spalla, «Andiamo Elmo, ci stanno aspettando!» Mentre guidava, Jean si ritrovò ad eseguire mentalmente i tonanti accordi finali seguiti al suicidio di Tosca. Derivavano dall'aria di addio di Cavaradossi nel Terzo Atto, la melodia «O dolci baci, o languide carezze.» Dolci baci, languide carezze. Il commento musicale di chiusura di Puccini, forse, sulla distruttività delle passioni smisurate. Di fatto, Scarpia stesso aveva osservato nel Secondo Atto che un grande amore porta a una grande rovina. Questo un attimo prima del suo peana alle gioie supreme della brama egoistica. Eppure non era stato distrutto dalla sua brama per Tosca, che era essa stessa una passione? Come distinguere la brama dalla passione? Oppure è l'arte a sollevare la brama al livello della passione, cosicché esse diventano indistinguibili? Se il Dr. Weyland fosse stato più accessibile, le sarebbe piaciuto parlare di questo con lui durante il tragitto. Si domandò se era solo dietro la sua facciata. Il paesaggio inondato dalla luna scorreva via. Ad entrambi i lati la pianura ondulata andava alla deriva con delle strutture smussate che l'alba avrebbe rivelato essere montagne. Weyland non aveva nostalgia della sua vecchia auto ora, della sua bisbigliante Mercedes. Era stanco e lieto di non dover guidare sotto quel cielo immenso e luccicante; meglio essere libero di guardare fuori. Lo scenario era argentato dai riflessi della luna. Il vento freddo recava con sé i freschi odori notturni della terra, dell'acqua, dei cespugli, del bestiame addormentato nei recinti. La donna parlò, gustando il suo umore. Disse, esitante, «Dr. Weyland, mi domando se si rende conto di essersi fatto un nemico questa notte. MacGrath voleva esibirla a quel party. Considererà il suo rifiuto come uno
sputo nell'occhio della sua amata ospitalità occidentale.» Weyland si strinse nelle spalle. «Presumo che lei possa permettersi di infischiarsi di questo,» disse lei, con un tono che sembrava risentito. «Non tutti possiamo. Elmo dovrà sopportare lo sfogo dei sentimenti feriti di MacGrath. MacGrath non può prendersela con lei, così colpirà chiunque si trovi alla sua portata. Non ha reso le cose più facili nemmeno a me.» La voce di lui risuonò roca per l'irritazione: «Forse non le è venuto in mente, Miss Gray, che i suoi problemi non mi interessano affatto. Sono sufficienti i miei.» Marwitz e Rosemary giacevano raggomitolati assieme, troppo stanchi per il sesso, troppo felici per dormire. Sonnecchiavano mentre le ombre del chiaro di luna avanzavano lentamente sulle lastre di pietra all'esterno delle porte-finestre. Lei mormorò, «Quando è caduta la caraffa d'acqua ero certa che la fine del Secondo Atto sarebbe stata un disastro.» «Vorrei molti altri disastri come quello per noi,» disse lui. Cadde il silenzio. Presto la stagione sarebbe finita e ognuno sarebbe andato per la sua strada. Alla fine lui disse, «Mi domando cos'è accaduto al giovane Tremain. Non è proprio da lui perdersi le chiamate alla ribalta e il party.» Rosemary sbadigliò e si agitò, avvicinandosi all'addome caldo di Marwitz. «Forse è arrivato più tardi, dopo che ce ne siamo andati.» «Cosa che abbiamo fatto indecentemente presto.» Strofinò il naso contro l'orecchio di lei. «Di certo se ne sono accorti tutti.» Rosemary sghignazzò. «Chiunque non se ne fosse accorto finora dev'essere stupido come un mollusco.» Marwitz si alzò a sedere. «Vieni, è rimasto del vino — usciamo fuori a bere al chiaro di luna.» Si avvolsero nel copriletto e uscirono ciabattando, argomentando amabilmente circa le ragioni per cui un mollusco poteva definirsi stupido. Weyland scese dall'auto. Disse, «Grazie per avermi riaccompagnato. Mi rammarico per il mio caratteraccio.» Non si rammaricava, ma non aveva alcun bisogno di farsi un altro inutile nemico. La donna gli rivolse uno stanco sorriso. «Lasci perdere,» disse. La macchina con la scritta «WALKING RIVER GALLERY» su una fiancata ri-
partì. Quando fu scomparsa alla vista, Weyland s'incamminò. Il lastricato era illuminato dalla luna appena sorta. Non c'erano cani lasciati nella strada quella notte, per cui poteva vagabondare in pace. Aveva bisogno di fare un po' di esercizio fisico; i suoi muscoli erano intorpiditi per lo sforzo che seguiva una lunga immobilità. Una passeggiata sarebbe stata utile, e poi forse un bagno caldo nell'antiquato mastello del suo ospite. Camminando verso est lungo una strada che s'inerpicava su una collina, vide una montagna che si sollevava davanti a lui come un muro eroso. La sua asprezza gli piacque — un profilo frastagliato che spiccava contro la notte, senza essere ammorbidito dalla vegetazione. Poteva sentire i secoli incombere su quella regione — un fattore, questo, che forse aveva contribuito, assieme alla sua indisposizione fisica, alla caduta a picco di quella notte attraverso la sua personale linea temporale. L'uccisione stessa era stata una cosa buona — una purificazione dall'ansia e dalla debolezza. Catarsi, suppose; non era quello forse l'intento dichiarato dell'arte? Ma il ricordo della tensione che lo aveva spinto all'assassinio lo fece rabbrividire. Il melodramma aveva spezzato i suoi vincoli col presente, scaraventandolo in qualcosa di simile alla follia. La musica umana, il dramma umano, le vibranti e appassionate voci umane lo avevano spinto a fuggire via dalle sue vittime disprezzate mentre loro stavano ad ascoltare. Ebbe paura, e s'irritò per il fatto che quel bestiame di cui si nutriva poteva scuoterlo così profondamente, sia pure in maniera inconsapevole; per il fatto che l'arte degli esseri umani poteva raggiungere degli abissi dentro di lui mai raggiunti dentro di loro. Da dove veniva fuori questa nuova capacità di riconoscere aspetti di sé nelle creazioni delle sue prede umane? Simili riflessi erano chiaramente non intenzionali. La spiegazione stava nel suo essere fondamentalmente simile agli esseri umani — una somiglianza necessaria, dal momento che se non fosse stato simile a loro non avrebbe potuto sperare di cacciarli. Ma stava diventando sempre più simile a loro, visto che le loro opere cominciavano a raggiungerlo e a scuoterlo? In qualche modo si era irrevocabilmente aperto al potere della loro arte? Si ritrasse con violenza da una simile possibilità; non voleva niente da loro se non quello che già, inesorabilmente, pretendeva: il loro sangue. Si accorse di individuare la montagna che era davanti a lui; poteva essere ferita da questo bestiame umano, ma mai turbata.
Il gruppo di visitatori mattutino uscì sulla pedana di calcestruzzo alle spalle del teatro lirico. La guida indicò l'ovest: «Nelle notti limpide, quando lasciamo aperto il fondale del palcoscenico, le luci di Los Alamos...» Un uomo tracagnotto, in piedi vicino al muretto, lanciò un'occhiata alla strada sottostante. Si sporse, non riuscendo a credere ai suoi occhi, e raccolse il fiato per emettere un grido. Elmo dipinse delle figure oniriche ispirate all'opera, che danzavano sulla sommità assoluta di una collina, sovrastata da un alto fuso d'ombra simile a un pozzo di tenebra. In memoria del giovane cantante morto la notte di Tosca, Elmo intitolò il dipinto L'Angelo della Morte. V LA FINE DEL DR. WEYLAND «Sono finite le vacche grasse nell'Accademia.» Dalla porta aperta dell'ufficio di Irv emerse la voce sconsolata di Alison. Weyland si fermò ad ascoltare nel corridoio. «Qualsiasi studente perspicace riconosce la calligrafia sul muro,» continuò Alison. «Ph. D. e tutto il resto, finirò come dattilografa in un'agenzia di assicurazioni — che probabilmente non sarebbe cosa peggiore dello sprecare la mia esistenza a diagrammare sistemi di parentela o discutere su quante lingue si parlano in Nigeria.» Weyland riconobbe, divertito, la sua recente sintesi della situazione attuale dell'antropologia. «Ehi, aspetta un minuto,» disse Irv. «Non è questo il genere di lavoro che Weyland pensa che tu faccia.» La sua sedia scricchiolò. Quando parlava, Irv abitualmente la faceva ruotare per dare enfasi. Difficilmente Weyland poteva fare a meno di accorgersene: l'ufficio di Irv stava quasi di fronte al suo, dall'altro lato del corridoio. «Il Dr. Weyland è un tipo originale, Irv, lo sanno tutti,» disse Alison. «Affronta gli argomenti da un'angolazione unica, cosa che rende i suoi corsi realmente stimolanti. Ma una mente come quella non può coprire l'intera disciplina.» Difatti, non può, pensò Weyland, lanciando un'occhiata gelida giù per il corridoio fino alla porta dell'ufficio. Non riteneva di avere molto in comune con quegli intellettuali da strapazzo. «Il semestre di lavoro assieme a lui sta per finire, ed io non sono in grado di ricreare quel genere di stimoli. Non sono un'originale. Per me sarebbe come dover ricon-
quistare un territorio perduto, e francamente preferirei andare a vendere fiammiferi.» Irv disse, «Alison, noi abbiamo bisogno di gente come te: pensatori coraggiosi, che salvino la disciplina dai patiti delle statistiche e degli sproloqui. Oh, vorrei che tu domani venissi con me ai Tres Ritos ad ascoltare Carlos Herrera, che parlerà delle incursioni indiane nella fattoria di suo padre. So bene che registrare la storia orale non è un bel lavoro concettuale, nello stile di Weyland, ma non è neppure uno sterile lavoro scolastico. Possiamo salvare delle vite umane e delle intere culture dall'oblio. Possiamo strappare la storia dalle fauci della morte.» Quando affrontava l'argomento della sua amata storia orale Irv diventava lirico. Sembrava attingere energia dalle sue stesse conversazioni, da quelle degli informatori che facevano parte del progetto, dalle conversazioni degli studenti della facoltà che venivano a cercarlo. Weyland non lo aveva mai visto allontanare qualcuno che volesse discutere, dibattere o semplicemente ascoltare. Dove trovava il tempo quell'uomo per tutte quelle chiacchierate e per assolvere anche ai suoi obblighi scolastici? Senza dubbio trascurava il lavoro. Irv era quel genere d'uomo al quale coloro che si facevano trascinare dal suo entusiasmo perdonavano parecchie cose. Alison Beader era assistente di Weyland. Questi entrò nell'ufficio di Irv e disse, «Alison, quando hai un minuto dobbiamo metterci d'accordo su come organizzare gli esami finali.» Lei lo guardò con aria colpevole — per il fatto che aveva presentato le sue lamentele a Irv piuttosto che a lui? L'esatta mescolanza e il peso delle reazioni umane erano spesso oscuri. In verità, Weyland fu lieto che lei non avesse scelto la sua spalla per piangere. Respinse con un cenno la promessa di Alison di venire subito nel suo ufficio. «Fai con comodo.» Irv stava appoggiato allo schienale della sedia, le braccia piegate dietro la testa, gli occhi scuri e cordiali su Weyland. Attaccato al muro dietro Irv c'era il poster di un gatto dei cartoni animati, che strimpellava una chitarra e cantava seduto su uno sgabello. Il poster era il regalo di uno studente dell'ultimo Natale. Tutti volevano essere vicini a Irv. Weyland, no. Aveva capito presto che, a causa di una malattia cronica, Irv era sempre sotto farmaci. Il suo sangue non era buono da bere. Tuttavia, Weyland si premurava di mantenersi in buoni rapporti con lui. Se avesse trattato Irv coi modi freddi e autocratici coi quali trattava la maggior parte dei membri del dipartimento sarebbe stato bollato come uno scorbutico dichiarato.
Disse, «Hai persuaso Alison a trascorrere l'estate esplorando il passato nei cervelli dei vecchi resi folli dal sole? Irv sa essere molto seducente, Alison. Ha cercato di reclutarmi, ma quando mi ha mostrato la mappa di un tesoro sono scappato.» Irv sogghignò. «Qualche volta devi venire con me, Ed, se non altro per allontanarti un poco dai libri, dai giornali e dall'onnipotente parola scritta.» «I miei progetti estivi, grazie a Dio, sono già fatti,» disse Weyland. Aveva intenzione di restare ad Albuquerque, di scrivere, e di cacciare fra le orde dei turisti. «Riprovaci l'anno prossimo. Per il momento, la parola scritta mi tiene in pugno.» Diede un colpetto sulla manciata di corrispondenza che aveva prelevato nell'ufficio centrale. Irv rivolse una smorfia al mucchio ben più piccolo di lettere nel vassoio di legno posto sulla sua scrivania. «Mi impegno a rispondere a una parte della tua corrispondenza, ma che ne diresti di accollarti quella famiglia di informatori con la quale ho lavorato a Ceylon? Mi scrivono che pregano ogni giorno affinché io finanzi gli studi al college del loro terzo figlio.» «Risponderei come il dio dell'ira,» replicò Weyland. Irv scoppiò a ridere. «Lo temevo. Okay, niente scambio.» Weyland li lasciò a terminare la loro conversazione. A quell'ora tarda del venerdì erano andati tutti via. Senza timore di essere visto, fece scivolare il chiavistello della porta di Arnold «Mappa» Oblonsky con una carta di credito ed entrò per cercare una cartina geologica che gli interessava. Proprio come i libri smarriti dalla biblioteca venivano ritrovati ammucchiati nel sontuoso ufficio di Eleanor Hellstrum, docente emerita del dipartimento, allo stesso modo le cartine venivano accumulate da Mappa Oblonsky — apparentemente per evitare che fossero maltrattate, trafugate o smarrite da altri fruitori meno premurosi. Weyland rise fra sé e sé al ricordo di quel conferenziere esaltato, ospite del dipartimento, il quale, senza capire che si trattava di un nomignolo quello che aveva udito in una conversazione, aveva salutato cordialmente il ricettatore di cartine chiamandolo «Professor Mappoblonsky.» Prendendo la cartina che voleva, Weyland tornò nel suo ufficio, dove anche lui aveva inaugurato una pila impressionante. Monopolizzare il materiale era un segno di potere, e il potere nelle gerarchie degli esseri umani gli era molto utile. Gli odori disgustosi che provenivano dal laboratorio nel seminterrato pervadevano l'edificio — senza dubbio qualcuno di una classe di anatomia comparata stava eliminando con la cottura la carne dallo scheletro di un
animale. Weyiand aprì le finestre. Poi, spiegando la cartina sul piccolo tavolo da disegno che aveva sistemato in un angolo, si mise a esaminare una zona delle colline pedemontane di Sandia che sembrava promettente per l'esplorazione sotterranea prevista per il giorno dopo. Avrebbe cercato di procurarsi cibo durante il tragitto. La primavera aveva portato i soliti autostoppisti coi loro bagagli e le chitarre. I viaggiatori occasionali, quando non contaminati dalla droga o dalle malattie, costituivano un'eccellente preda. Aveva sviluppato diverse strategie per riuscire ad avere un contatto fisico con quei vagabondi. Udì la risata lamentosa di Alison proveniente dall'ufficio di Irv. La situazione con lei lo spingeva ad agire. Non voleva che il suo rapporto con Alison andasse così oltre da far notare alla gente il suo aspetto deperito, com'era accaduto col precedente T. A. Ora che la primavera gli portava in dono i frequentatori delle strade, non aveva più la necessità di dipendere dagli stanziali come Alison per nutrirsi. Trascorrendo l'inverno ad Albuquerque, aveva creato una ragnatela che lo riforniva quando la cacciagione era scarsa: colleghi, studenti e conoscenti — quelli che poteva avvicinare senza generare sospetti — erano ottime vittime a portata di mano. Ma l'iterazione costituiva sempre un rischio. Alison era la più accessibile, la più regolare dei regolari, a causa della relazione personale che lui aveva costruito lavorando con lei. Ora, fortunatamente, quel legame stava per terminare. Dopo diversi mesi, essere il suo amante era diventato troppo faticoso. Scartabellò la posta: per favore può dare un parere su questo libro che non avrebbe mai dovuto essere pubblicato; per favore risponda a questa risposta infuriata a un suo precedente parere ostile; sarebbe interessato a contribuire a una rivista in uscita sul linguaggio reale e sintetico; un invito all'apertura di una mostra d'arte (altro vasellame) scritto con la grafia sinuosa della moglie del capo del Dipartimento di Antropologia; la richiesta di referenze da parte di una giovane donna che lui avrebbe sicuramente appoggiato, dal momento che era brillante, energica e aveva già diversi nomi illustri che la sostenevano. Weyiand aveva reso il suo nome abbastanza stimabile da spingere gli altri a chiederne in prestito la fama. Eppure non nutriva per loro alcuna simpatia. Continuavano a farsi largo a gomitate, spingendo avanti le loro piccole vite, ansimando e sudando, per superare altri simili a loro che spingevano più avanti... Ma ecco qualcosa di gradito: un quesito pratico da parte del tipografo
circa la monografia di Weyland, in uscita il mese successivo, sulle metamorfosi dell'io nei sogni. Poi un invito a una conferenza in Australia per l'anno prossimo — cinque giorni di incontri soporiferi e una gita notturna a dorso di canguro nell'interno; un promemoria per una conferenza che avrebbe dovuto fare alla Indian School la settimana successiva... Doveva chiedere qualche collaboratore per la sua segreteria — altro simbolo di status. La serie interminabile di scartoffie e la perdita di tempo per lui erano diventate impossibili. Riempì la valigetta. Alison entrò e chiuse la porta. Rimase là col suo vivace maglione che sembrava suscitare ombre sul suo viso, e disse con voce tremante, «Dovresti aver notato, Dr. Weyland, che ultimamente ho cercato di evitarti.» Cauto, lui annuì. Lei lo fissò. «Mio Dio,» disse. «Ho trascorso un buon numero di notti nel tuo letto l'inverno scorso, e ti chiamo ancora col cognome e il titolo. Cosa ho fatto finora?» Sembrava prevista una risposta. Lui disse, «Hai condiviso con me il tuo calore e la tua compagnia.» Così lei aveva cominciato ad allontanarsi da lui; molto bene. Voltò una sedia verso di lei con fare invitante. Lei si guardò i piedi, incerta. Weyland stava pensando a quella volta in cui si era comportato rudemente in una situazione analoga e, in conseguenza di ciò, era stato costretto a far fronte a una reazione isterica. Aveva scoperto che comportarsi di tanto in tanto con gentilizza pagava. «La compagnia era quello che stavo cercando. Non ho mai considerato il nostro rapporto qualcosa di più — come potrebbe, un uomo col doppio dei tuoi anni? — e spero che neppure tu lo abbia mai fatto.» «Che importanza ha l'età?» disse lei. Si sedette. «Claire,» aggiunse, nominando la sua precedente T. A., «era più giovane di me.» «Sì.» Anche lui si sedette dietro allo scrittoio. Alison appariva confusa, aveva gli occhi rossi. «Voglio dire... questo non rende tutto spaventosamente facile per te? Avvicini una ragazza e, quando senti che è giunto il momento, ti limiti... puoi liquidarla dicendole che sei troppo vecchio per lei.» Sembrava completamente sconvolta. Weyland sperò che Irv fosse andato a casa. «Ma sei tu, Alison, che sei venuta a liquidarmi. E riguardo al mio inseguire le ragazze, cerco un appagamento là dove sono certo di avere qualche chance di raggiungerlo. Tu sai com'è difficile per me, specialmente con una donna giovane e attraente come te.»
Lei appoggiò il dorso allo schienale alla sedia, accigliandosi. «Difficile? Ti riferisci al sesso? Per metà del tempo ci limitiamo a dormire. Sono convinta che non t'importa un fico secco del sesso, lo sai? Penso che quando un uomo attempato corre appresso alle ragazzine, in realtà desidera soltanto che lo facciano sentire giovane. E,» aggiunse con amarezza, «non c'è neppure nessun mistero nel perché una giovane donna ci casca con un uomo più vecchio.» Weyland aveva capito che era attratta da lui e si era servito di questo. Ma non riusciva a immaginare come lei si sentisse nel cercare il padre che aveva perso, o come potesse sentirsi un uomo che inseguiva la giovinezza passata. Le sensazioni intime di queste emozioni gli erano precluse. Rimase in silenzio, sperando che la donna passasse ad un altro argomento. «Il punto è che tra noi è tutto finito. Credo che fosse già finito da un pezzo. È davvero una cosa buona — voglio dire, il periodo di imminente fine semestre, così non sembrerà che avessimo una sorta di relazione finalizzata. Non aspiro a questo tipo di reputazione. Non ho cominciato a dormire con te solo per guadagnare una spinta su per la scala professionale. Non sono una di quel genere.» «Tuttavia, farò tutto ciò che posso per te,» disse lui, «con tutta la discrezione possibile.» «Non affaticarti, troppo,» rispose Alison, risentita, e arrossì. «Scusa.» Ah. Weyland si accorse che avrebbe dovuto manifestare un po' di orgoglio maschile. Troppo tardi. Improvvisamente le spuntarono le lacrime agli occhi. Weyland tirò fuori un fazzoletto pulito e glielo tese. «Maledizione,» disse lei, singhiozzando dietro il fazzoletto cincischiato e umido, «sarebbe stato molto più facile se tu non fossi... hai la faccia che hanno i padri nei sogni, lo sai? Tutto austero, vissuto e saggio, e poi c'è questo distacco — è irresistibile, non posso spiegartelo. Ma la prossima volta che qualcuno mi dice che si arrampica sulla montagna perché si trova là, avrò qualche idea su che cosa intende dire.» Trasse un respiro profondo e si sistemò sulla sedia come per conclusione. «In ogni caso, sembriamo una coppia di nevrotici complementari che si sono incontrati, accapigliati, e stanno per passare la notte assieme. È per questo che voglio dare un taglio netto. Spero che non mi rinfacci di aver fatto questo prima che avessi deciso di farlo tu.» «Al contrario,» disse Weyland, con gravità. «Ti sono grato per il tuo realismo e la tua sensibilità.» Una «scopata d'addio», per usare la terminologia di Oblonsky, sarebbe
stata appropriata se si fossero trovati in una camera da letto invece che in un ufficio. Grazie, Dio, per questo piccolo atto di clemenza. Il sesso, che Weyland aveva sempre trovato complicato, risultava una cosa molto seccante con Alison, a causa del suo ricorrente desiderio di baciarlo e mordicchiarlo, pratiche che lui detestava. Tuttavia, aveva continuato ad alimentare in lei la speranza di «guarirlo» completamente da suoi «problemi». Come avrebbe potuto, altrimenti, convincerla a tornare da lui? Aveva avuto bisogno di lei per quelle altre sere, quelle che davvero contavano — le sere in cui, accarezzando la calda pelle di Alison, con una pressione sulla gola la faceva addormentare per poi berne il sangue puro e dolce. Il pensiero stimolò la sua fame sempre presente. Battendo le palpebre, di nuovo sul punto di piangere, Alison disse, «Non riesco a credere di averlo fatto.» Ma l'hai fatto, per cui non ritorniamoci più sopra. Weyland si alzò. «Jennifer Chadwick sta facendo una lettura a Couche Hall — un saggio sulle figure demoniache come strumento di controllo sociale. Ti piacerebbe assistere?» Alison scosse lentamente la testa. «Povera Jennifer. Stai progettando dei quesiti garbatamente micidiali per lei, non è vero? Tutto con grande cortesia ma attraverso la giugulare. Cos'hai contro di lei?» «Le sue idee sono approssimative. Inoltre, beve. Si vedono le vene sul naso.» Lei lo fissò con una sorta di smarrimento. «A volte sei autenticamente inumano, lo sai?» Lui mantenne la porta aperta per lei. «Una reputazione utile,» disse, «anche se immeritata.» Dopo il colloquio Irv stava aspettando fuori. La sua bianca camicia sportiva dava risalto alla carnagione scura. Era villoso — braccia coperte di peluria bruna e un ricciolo nero in corrispondenza dell'apertura del colletto — ma calvo sulla sommità del cranio. La sua faccia, appiccicata a una struttura ossea scimmiesca, esprimeva la perplessità allarmata delle persone di mezza età. «Povera Jennifer,» disse. «Avevo qualche timore che tu ci avessi ripensato e non volessi darle la possibilità di recuperare.» Weyland si strinse nelle spalle. «Non avevo intenzione di farmi una nemica, solo di mantenere un certo standard di competenza.» «Riesci a farlo con tale abilità e arguzia che nessuno potrebbe frainten-
dere le tue intenzioni, né risentirsi troppo per il fatto che hai deciso di usarli come esempio, anche se tu incidessi in profondità. Tutti sanno che essere troppo duri con gli altri significa essere troppo duri con se stessi. Una mano più leggera in entrambi i casi sarebbe un sollievo per chiunque.» La sua voce risuonava gentile come sempre, un po' cupa e incerta come se densa di riflessioni. Weyland non replicò, e, come si era aspettato, Irv scelse di non proseguire con quell'argomento. Avendo espresso tutto il biasimo che sentiva di manifestare, chiese se Weyland stesse andando a casa. Irv abitava nella sua stessa zona. A volte arrivavano o se ne andavano assieme dall'Università. Weyland disse, «Sto andando alla biblioteca.» «Allora ti accompagnerò fin laggiù, anche se non riesco a immaginare cosa tu debba fare che non possa attendere fino alla prossima settimana. È venerdì, non te n'eri accorto? Alison dice che non sa come fai a reggere, lavorando così duramente come fai tu.» «Una maniera tortuosa per rimproverarmi di averla sovraccaricata?» «Oh, no,» disse Irv. «Ho la sensazione che, sebbene lei non ti abbia mai considerato una persona facile con cui lavorare, avverta chiaramente che i benefici superano gli inconvenienti. Non è affar mio, naturalmente,» aggiunse, «ma la gente parla con me, mi racconta le cose. E Dio sa che essere T. A. di un professore anziano può essere arduo in parecchi sensi.» Weyland non aveva intenzione di permettere che la conversazione proseguisse sul quel binario. Irv avrebbe potuto cogliere una nota falsa nelle osservazioni di Weyland a proposito del suo rapporto con Alison. Mentre camminavano attraverso il campus nella luce che si attenuava, Weyland disse, «Alison darebbe un apporto notevole al tuo progetto di storia orale di questa estate. Inoltre, la ricerca sul campo le farebbe bene. Ha bisogno di fiducia in se stessa, e di un maggiore senso di indipendenza e di consapevolezza delle proprie forze.» «Sì — mi è dispiaciuto molto quando ha abbandonato l'antropologia. È così scoraggiata riguardo al futuro, spaventata di non avere altra scelta che lavorare per qualche dipartimento autostradale di stato per il recupero archeologico.» «Sarebbe un modo per guadagnarsi da vivere,» disse Weyland. «Certo. Ma lei vuole diventare ricercatrice. Conosci questo tipo di ambizione.» Weyland gli lanciò un'occhiata. «Bisogna adattare ai tempi le proprie ambizioni.»
Irv scoppiò a ridere. «Com'è vero, e per noi tutti, non solo per questi giovincelli. La prossima volta che qualcuno parlerà dell'università come di una torre d'avorio, lo manderò da te per un bel colpo di crudo buon senso sulla testa.» «Non siamo stati fortunati?» proseguì Irv, sospirando. «Mi riferisco agli antropologi di queste ultime decadi. Abbiamo avuto il meglio: ricerca sul campo in luoghi inesplorati prima che i luoghi inesplorati fossero lastricati di barattoli di soda, incarichi piacevoli mentre le università si affollavano, una disciplina giovane ed eccitante affrontata con fiducia e tempestata di stelle... Mi sento colpevole quando, coi tempi che corrono, parlo agli studenti della mia esperienza professionale, poiché essi sanno ed io so che la maggior parte delle cose migliori si è esaurita. Che razza di futuro dovranno affrontare.» Attraversarono le colline artificiali poste intorno allo stagno artificiale dell'università. Weyland pensò che la breve durata della loro esistenza predisponeva gli esseri umani a queste considerazioni ansiose: le opportunità sono insufficienti, gli sbocchi insoddisfacenti, i tempi tragicamente carenti di questo o di quello. Se solo fossi nato prima, dicevano, o dopo. Alison non può attendere un centinaio di anni perché gli eventi girino a suo favore... Disse, «Tutto sommato sembra che se la cavino.» «Sicuro. Ma io mi preoccupo di quelli che conosco. Tu no?» Si fermarono davanti alla biblioteca. Gli occhi di Irv guardarono miti Weyland dal riparo delle pesanti sopracciglia. «Ci preoccupiamo tutti gli uni degli altri, dopo tutto. Non sei d'accordo?» Weyland rifletté. «Ci teniamo tutto d'occhio a vicenda. Su questo sono d'accordo.» Irv non disse nulla per un momento. Guardò bruscamente in basso e con ansia, in una maniera che non gli era solita. Weyland lo osservò con curiosità. Irv disse, «Lascia perdere, ultimamente non mi sento portato alla conversazione. Ho troppe cose in mente, un errore che ho commesso — diversi errori. Proprio adesso mi hai rammentato qualcuno che conoscevo — non è colpa tua, è stato il modo cauto con cui l'hai detto. Continuare a osservare è sufficiente, sai. Puoi renderti conto che le cose intorno a te vanno male, senza conoscerne il motivo.» Weyland lanciò un'occhiata in giro. Nel crepuscolo gli studenti stavano camminando e pedalando sulla pavimentazione di mattoni. Sentendosi iso-
lato con Irv in un'intimità non voluta, disse, «Ho sempre trovato che il lavoro fosse un buon antidoto all'ansia. Come sta andando la tua ricerca?» Irv stava continuando a dire con voce bassa, «E quando la crisi colpisce qualcuno che ti sta a cuore, puoi davvero andare in pezzi. Non so cosa farei adesso senza il progetto di storia orale. Quelle meravigliose trascrizioni — mi trovo catturato dalla vividezza di tutte quelle voci, Ed, la vera sostanza della storia, il legame con i nostri antenati e le loro vite, un passato vivente...» Le sue mani scolpivano l'aria mentre parlava, gli occhi scintillavano. «Qualche volta mi farebbe piacere parlare con te di questo,» disse in fretta Weyland. «Posso avventurarmi nel tuo territorio da una direzione diversa. Il mio nuovo libro riguarderà il rapporto preda-predatore fra le popolazioni umane, e come questo rapporto influenza gli atteggiamenti umani nei confronti delle prede e dei predatori animali. Stai trattando, presumo, una situazione di frontiera condivisa da gruppi diversi come gli spagnoli, gli indiani, gli inglesi, e naturalmente quelli che una volta erano i grandi animali predatori del West — grizzly, lupi delle foreste e simili. Dev'esserci materiale interessante anche per me.» Uno studente su una bicicletta si fermò accanto a loro, fece un imbarazzato cenno di saluto a Weyland e si rivolse a Irv. «Posso parlarti per qualche minuto, Irv? Sto avendo un mucchio di problemi con la lettura per la tua classe e pensavo...» «Ed, scusami un attimo, vuoi?» Irv disse allo studente, «Hai un po' di tempo a disposizione adesso? Vai all'Associazione, procura un paio di tazze di caffè, e ti raggiungerò, va bene?» «Oh, grandioso,» disse il giovane con un sospiro di sollievo. «Grazie.» Si allontanò, pedalando. Irv disse a Weyland, «Lasciami pensare un po' alle trascrizioni e potrò dirti qualcosa. Scommetto che c'è un bel mucchio di roba di cui potresti servirti. Comunque devo dedicarmici per un paio di giorni — sto avvertendo l'incalzare delle ultime scadenze, e sono stato anche invitato a partecipare al concerto di musica folk qui sul prato domani notte, che farà saltare irrimediabilmente tutti i miei programmi. «Mi farà bene, comunque, evadere un po', lasciare a casa libri e grattacapi, scrollare via le rughe dalle corde vocali, mettere in movimento questo vecchio sangue, capisci? Quando si vive soli come me, devi sforzarti di socializzare. Che ne diresti di venire anche tu?» Weyland fissò la faccia amichevole e speranzosa di Irv. La loro esigenza
di essere accettati, di essere presenti l'uno all'altro, di conversare interminabilmente, sembrava spingerli lontano quanto la fame di Weyland spingeva lui stesso. Ma c'era qualcosa di veramente appagato dentro di loro? Espresse il suo rammarico per aver già preso altri impegni per la sera dopo. «Peccato,» disse Irv. «Ma verrai alle danze indiane al villaggio domenica prossima, no?» Quello si poteva fare. Weyland aveva intenzione di andare in ricognizione nei villaggi indiani vicini per verificare se potevano risultare dei potenziali territori di caccia. Disse che sarebbe di sicuro andato a vedere le danze in quel villaggio la domenica. «Magnifico,» Irv sorrise. «Fra poco devo andare a controllare alcuni dettagli con un informatore, per cui andrò via presto. Ci recheremo lassù un'altra volta. «Oh, c'è qualcosa su cui vorrei che tu riflettessi: mi piacerebbe averti come informatore in un progetto che sto preparando sulle origini accademiche — il retroterra culturale di quelli che si dedicano all'antropologia, i componenti dei ranghi più anziani messi a confronto con alcuni delle nuove leve. Ti interessa?» La sua espressione, la sua voce, il suo atteggiamento, tutto diceva, Io sono interessato; tu mi interessi. Weyland resistette alla pressione. «No, ho paura che questo genere di cose non faccia per me. Sono uno che tiene molto alla privacy.» «Lo so, e non ho intenzione di intromettermi,» disse Irv con gentilezza, «ma pensaci su ancora un poco, vuoi? La privacy può risultare un fardello di cui le persone si liberano con estremo sollievo — per breve tempo, almeno. D'altronde,» e bruscamente gli rivolse uno dei suoi sogghigni autoironici, «come farò se la caratteristica più spiccata di tutti gli accademici risulterà essere il loro amore per la privacy? Ci vediamo alle danze.» Irv si diresse all'Associazione degli Studenti col suo passo rapido e atletico. Weyland si fermò al banco della biblioteca per prendere un libro che avevano messo da parte per lui, la descrizione di un gruppo della Nuova Guinea che si presumeva fosse in grado di sintetizzare proteine supplementari per la flora intestinale. Meraviglie dietetiche come queste lo affascinavano, poiché suggerivano un legame illuminante con la sua condizione. Nella Sala di Sud-ovest della biblioteca chiese alcune trascrizioni di storia orale per verificare se potevano realmente essere utili per il suo nuovo libro. Solo in questo caso, e al fine di poter beneficiare di scorciatoie nel-
l'enorme massa del materiale di Irv, avrebbe incoraggiato maggiormente la cordialità insistente di quell'uomo. Il nuovo libro di Weyland prometteva di conseguire un certo successo popolare. I suoi argomenti, spettacolarmente diversi, spaziavano dai Vichinghi alle corporazioni multinazionali, e lui sapeva che gli esseri umani amavano leggere sugli aspetti peggiori del loro io. Una strizzata d'occhio ai docenti locali con un capitolo sulla frontiera americana non avrebbe certo recato danno a Weyland all'interno dell'università. Lesse reminiscenze di un'impiccagione pubblica nella quale la vittima era troppo alta per essere sospesa all'unico ramo d'albero disponibile, così gli spettatori si erano arrampicati sul suo corpo, appesantendolo, per completare l'opera; di una famiglia assediata, costretta a osservare gli indiani che uccidevano, uno dopo l'altro, i cavalli; di una caccia all'orso fatta finire bruscamente, a favore dell'orso, da una piena improvvisa. I dettagli minuziosi di questi resoconti producevano un effetto di rimarchevole immediatezza. Non stupiva il fatto che Irv fosse affascinato. La gente avrebbe dovuto piangere la perdita del passato così come Weyland, a volte, si sentiva derubato delle sue vite trascorse. Eppure non si sentiva a suo agio con questi racconti. Continuava ad interrompere la lettura per guardare intorno a sé gli scaffali di libri, le vetrine degli annuari, le ombre degli alberi sul prato illuminato, fuori. Dopo l'esperienza all'Opera dell'estate precedente, si sentiva minacciato da quei vividi resoconti. La folla che lo aveva infiammato la notte della Tosca non lo aveva più preso da allora, né lui si era aspettato di imbattersi in qualcosa di simile. Si era sistemato, abituato a questa nuova parte del mondo e al posto che occupava in essa, e stava molto attento a non sottoporsi nuovamente a stimoli così intensi. Tuttavia, ora si sentiva inquieto davanti a quelle trascrizioni. Anche senza la musica e l'illusione scenografica quelle voci così identificabili, rallentate e messe in sordina dalla trascrizione, lo disturbavano; evocavano in maniera nettissima il gusto e il senso del passato. C'era l'aneddoto di uno stregone spagnolo della zona di Mora, il quale raccontava di essersi trasformato in un coyote per inseguire un nemico e di aver trotterellato al buio lungo le tracce lasciate da un carro, con le orecchie tese a cogliere il cigolio delle ruote e lo schiocco delle redini davanti a lui... Weyland spinse di lato le trascrizioni e si alzò. Aveva altro lavoro da fa-
re nella biblioteca quella notte, lavoro noioso, saldamente ancorato al mondo moderno. Lasciò l'università seguendo il solito percorso tortuoso verso casa, gustando l'aria frizzante e la quiete della notte. Aveva sistemato l'unico cane importuno dei dintorni, un nervoso Doberman, l'autunno precedente. L'animale non era stato rimpiazzato. E che macchina era mai quella, parcheggiata dietro l'angolo della sua strada? Non ricordava di aver visto prima il portellone posteriore di una VW da quelle parti, di notte, e cercò di fare mente locale. Colore blu scuro, un graffio sul parafango posteriore, targa del New Jersey — non aveva visto quella stessa macchina superare rombando la sua la settimana prima sulla Seconda Strada? Si fermò per annotare il numero su una scheda della biblioteca. Un gatto bianco-e-nero trotterellò frettolosamente attraverso la strada davanti a lui, a testa bassa, senza preda. Albuquerque aveva belle strade, fiancheggiate da alberi e ben curate dai giardinieri. A Weyland piaceva quell'isolato e tutta la zona relativamente vecchia, e dalla fisionomia consolidata, che si trovava a est e un po' più in alto dell'università. Il panorama aperto delle montagne più in là a est lo deliziava. La sua casa, subaffittata a settembre per un anno, era un cubo perfetto in stucco, abbellito da un tetto di tegole rosse in stile mediterraneo, da pilastri neri, e da un giardino posteriore recintato da pali ricurvi di legno. Nelle sue immediate vicinanze c'era un pretenzioso «ranch» stile adobe circondato da un alto muro, e una casa in mattoni che sembrava fosse stata prelevata, con tutto il terreno, da qualche suburbio del Connecticut. Aveva manifestato subito e con nettezza la sua predilezione per la solitudine ai vicini. Solo Mrs. Sayers, che abitava all'altro lato della strada, continuava imperterrita a intessere rapporti con lui; una nuova pila di libri economici usati, accuratamente legati con una stringa, lo aspettava davanti all'ingresso principale. Se li ficcò sotto il braccio e tirò fuori le chiavi. Nessuna mano non familiare si era appoggiata sulla porta. Nessun debole luccichio di unto dovuto alla pressione di un palmo nervoso si notava sul pannello della porta, nessuna piega causata da un tacco increspava il tappetino sul pavimento del soggiorno. Appoggiò a terra i libri, accese la lampada accanto al divano, e si aggirò senza fretta per la casa assaporando la quiete per ciò che essa evidenziava: il debole ronzio dell'orologio elettrico, il sibilo occasionale di una macchina che passava fuori, il sussurro
più debole della musica proveniente dalla casa del pianista a un isolato di distanza. In cucina il frigorifero cominciò a far cigolare il motore non appena lui aprì lo sportello per prendere il ghiaccio. Conservava una scorta di cibi essenziali per eventuali ospiti e per salvare le apparenze — burro di arachidi, salsa, cuori di carciofi sottaceto, uova, formaggio, bottiglie di Bitter Lemon. A una delle sue visitatrici piaceva il Bitter Lemon — quella stessa che gli aveva portato, la settimana prima, quel pasticcio avvolto in un foglio di alluminio e le arance che si stavano rammollendo nel contenitore della frutta. Una volta, per spiegare il vuoto sulle mensole del frigorifero, le aveva detto che mangiava spesso al McDonald's. Lei aveva cominciato a portargli borse piene di cibarie, in particolar modo frutta e ortaggi. Prese un bicchiere dallo scolapiatti, pulì le gocce d'acqua con un tovagliolo di carta, e fece scorrere acqua di rubinetto su due cubetti di ghiaccio. L'iniziale turbinio del flusso tiepido e di quello freddo lo deliziava sempre, e gli piaceva il gusto minerale dell'acqua locale. La casa aveva un pozzo operante che lui aveva fatto connettere alle tubature. Sprecare della buona acqua sull'erba mentre si beveva quell'orrenda roba chimica convogliata dalle condutture cittadine era assurdo. In quei tempi l'acqua gradevole era più difficile da reperire del cibo genuino. Nel soggiorno, mentre beveva l'acqua, accese il televisore e si mise a scorrere i canali: niente, niente, un film sciocco e lagnoso, un annuncio pubblicitario sugli hamburger. Spense. Quello che gli piaceva vedere erano i balletti e il basket. Di tanto in tanto, l'Incredibile Hulk, che si era lasciato sfuggire quella sera a causa del colloquio con Jennifer Chadwick. Non aveva abbastanza fame da mettersi a caccia. Forse poteva dedicarsi al suo lavoro — fece scorrere il palmo sul cuoio zigrinato della sua valigetta, ma poi la mise via e prese, invece, uno dei libri economici della pila. Ottimo, un giallo di Ruth Rendell. Le descrizioni romanzesche della mente criminale e della sua controparte legale lo divertivano sempre. Si stese sul divano. Quando smetteva di pensare a tutte le esigenze che aveva e agli interrogativi che si poneva, quella era una vita davvero confortevole. Squillò il telefono; si era assopito, col libro rovesciato sul petto. Si svegliò bruscamente: «Sì?» Silenzio. Poi un respiro basso e affaticato. «Alison?» disse. «Sei tu?» «Oh, all'inferno,» rispose lei, con voce strozzata. «Avevo giurato a me
stessa che non l'avrei fatto!» Riappese. Sarebbe stato straordinario, pensò, guardando il telefono, se una notte avesse squillato e, rispondendo, lui avesse sentito la voce di Floria Landauer. Chi gli aveva messo in testa quest'idea, adesso? Tirò fuori la vestaglia dall'armadietto e andò nello studio, infilandosela sulla camicia e i calzoni. Le notti erano ancora fredde, e lui odiava l'odore di stantio emanato da quella stufetta antiquata. Aveva attrezzato la zona anteriore della camera da letto con uno scrittoio, un'archivio, una macchina per scrivere, delle mensole di metallo il cui contenuto era straripato in pile ben ordinate sul pavimento, e un divanetto sul quale sovente si addormentava. Accese la luce. I vicini si erano ormai abituati a quella luce accesa a tutte le ore. Mrs. Sayers gli aveva regalato del tè fatto con delle erbe che favorivano il sonno. Ripensò a Floria Landauer; seduto davanti allo scrittoio, prese un piccolo raccoglitore dal cassetto più basso e lo aprì. A settembre, appena aveva occupato la casa, il lavoro e l'ufficio all'università, aveva iniziato una lettera per lei. Aveva prodotto una serie di paragrafi battuti a macchina, scritti a intervalli di tempo sempre maggiori, e infine aveva desistito. Rileggendoli adesso, riconobbe che erano un insieme di riflessioni, simili nella forma a quelle che lei gli aveva consegnato perché le distruggesse. Lo aveva fatto — ma prima aveva letto le annotazioni. Quell'esperienza insolita di lanciare occhiate su se stesso attraverso gli occhi di un'altra persona — e in un periodo in cui era stato eccezionalmente aperto all'osservazione — gli era rimasta profondamente impressa. Cara Dr. Landauer, [Comincia con una cordialità convenzionale? No; con un'espressione di apprezzamento?] Ho appreso oggi che il capo del dipartimento qui ha una macchina chiamata «pacemaker» nel cuore. La completa sostituzione degli organi vitali con gli strumenti della nuova tecnologia, al fine di evitare la morte, sembra essere uno degli obiettivi attuali dell'umanità. Se i miei organi vitali, una volta danneggiati, non si ripareranno o rigenereranno da soli, non potrò sostituirli. Un giorno, sicuramente, morirò. Immagini di svegliarsi da un lungo sonno per scoprire che l'umanità è totalmente meccanizzata, con me come unico «umano» (cioè, mortale) sopravvissuto. Parli come un uomo meccanico: Clank. Per favore, non beva il mio olio. Se resterà l'olio.
Ho trovato questa poesia in una storia di Saki: «Sredni Vashtar venne avanti, I suoi pensieri erano rossi pensieri e i suoi denti erano bianchi. I suoi nemici imploravano pace, ma lui portò loro la morte. Sredni Vashtar il Meraviglioso.» Non essendomi estranei i pensieri rossi, ho ben compreso questa poesia; ma io non avrei mai potuto scriverla. Posso trasformare le mie idee in parole. Non posso fare arte con le parole. Forse le parole sono lo strumento sbagliato. Il linguaggio è un'invenzione umana, usata per scambiarsi interminabili frammenti di pettegolezzi, lagnanze, desideri. Io ho adottato il linguaggio, credo. Non è uno strumento che mi viene naturale. Posseggo un mezzo espressivo mio? Ho sempre adoperato le parole per raggirare e manipolare (come credo di averle fatto notare una volta). Con lei, le parole identificavano le verità. A questo attribuisco una parte dell'intensità e del fascino della nostra esperienza. Alison, istupidita e annebbiata dai sogni nei quali fluttua, è una fonte di cibo da coltivare, nient'altro. È stato facile avvicinarla. Non mi ha mai visto così come sono, ha solo visto il ruolo paterno che interpreto. Non è difficile renderli vittime, questi esseri ciechi, anche se alcuni — se sono fortunati — trovano la strada del suo studio, Dr. Landauer, dove lei si sforza di mettere a fuoco la loro visione sul mondo esterno. Non fa meraviglia che sia rimasta sconcertata quando venni da lei, come accade, per avere una visione del mio intimo. Quando le dissi che non ricordo mai i sogni che faccio, credetti di avvertire un certo grado di scetticismo o di reticenza in lei. Eppure è vero che la fin troppo lodata freschezza e originalità dei miei saggi sui sogni scaturisce dalla mia personale «naiveté» riguardo all'esperienza del sognare. A volte quando rifletto sulla notevole attività e inventiva della mente umana nel sonno mi domando: cosa potrei apprendere di me stesso che il silenzio dei sogni mi nasconde? Eppure, anche se il lavoro che abbiamo fatto assieme conduceva proprio su questo terreno, non mi arrischio ora ad esplorarlo ulteriormente coi metodi che lei mi ha mostrato. La fine di quel tipo di investigazione mi provoca sia
rimpianto che sollievo. A volte penso che in ognuna delle mie vite da sveglio ho appreso sempre la medesima lezione. Come faccio a saperlo, dal momento che da sveglio vedo solo le ombre delle mie vite passate, non i dettagli? Certo, linguaggi e abilità si accrescono vita dopo vita; ma cos'altro scopro e poi dimentico? Continuo ad avanzare lungo il medesimo percorso dall'ignoranza alla conoscenza? Sento che ora mi trovo nel mezzo di un percorso del genere. Avere una voce implica l'esistenza di altre. Non è necessaria una voce per parlare a se stessi. Se non fosse per la necessità di adescare la mia preda, potrei essere muto. Inoltre, se non fosse per la necessità di superare in astuzia delle vittime intelligenti, potrei anche essere privo... non dico della mente, ma della capacità di pensare. Sedere al sole come un gatto, la mente un mormorio spontaneo di stimoli sensoriali chiazzato da un guizzo d'attenzione qui, un ricordo frammentario là — ma essenzialmente un flusso limpido che si fonde con l'ambiente concreto che lo circonda. C'è una vicina che mi porta dei libri, questa volta fra di essi vi sono delle storie di Ray Bradbury. Ricordo che Mark mi raccontò queste storie una notte subito dopo l'inizio della mia prigionia, e come la sua voce perse il suo tono piatto e misurato e divenne agile, ricca e vivace mentre lui snocciolava una fantasia dietro l'altra. Ritengo che in quel momento mi salvò la vitalità della sua mente, così come in seguito mi salvò la vitalità del suo sangue. Le storie, lette stanotte, mi hanno spinto a riflettere che in racconti di questo genere io sarei descritto come... un dispositivo portato da un altro pianeta al fine di raccogliere campioni della storia umana. L'origine extraterrestre è evidenziata dalla mia lunga vita, basata su una premessa di auto-riparazione e autosostituzione, con le vite multiple e il rapido avvicendamento delle forme di vita indigene. Ho l'aspetto degli esseri umani — posso essere scambiato per uno di loro. Devo bere il loro sangue per sostenermi; così, non posso andarmene per i fatti miei e ignorare la loro storia. Il cacciarli mi garantisce uno status di fuorilegge che mi impedisce di rivelarmi a loro. Eccetera, eccetera, questa sorta di costruzione non è difficile, ma dove porta? Quale motivo potrebbero avere gli extraterrestri per inte-
ressarsi alla storia umana? L'ovvia importanza dell'umanità nell'universo? Un punto ampiamente dimostrato. Questo genere di riflessioni non mi è di alcun vantaggio. Ho sentito Oblonsky, mentre veniva a sapere della distruzione di un villaggio locale coi bulldozer, che borbottava a bassa voce, «Grazie a Dio, uno in meno da passare al setaccio.» Anche con l'aiuto dei computer, gli umani si ritraggono davanti al peso del loro passato. Credo che il mio lungo passato mi annienterebbe, se potessi ricordarne i dettagli. Le intrusioni delle vite passate mi mettono in pericolo — vedi Tosca, un involontario sguardo indietro, e le conseguenze... Irv, la settimana scorsa, mi ha chiesto se potevo mostrare ai suoi studenti come fabbricare un coltello di selce, dal momento che tutti i suoi tentativi sono invariabilmente falliti. Gli ho detto che neppure io sapevo farlo — una bugia. Non ricordo di aver fabbricato un coltello di selce, ma so di averlo fatto, e l'abilità è ancora nelle mie mani. Il mio prodotto sarebbe troppo buono. Materiale pericoloso, e se n'era del tutto dimenticato! Cosa gli era preso? Quelle pagine dovevano essere distrutte. Il mistero della macchina blu gli tornò in mente: non doveva permettere che la tranquillità della vita che conduceva lo cullasse facendolo scivolare nell'imprudenza. Prima, comunque, andò alla macchina per scrivere e buttò giù un'ultima considerazione su un foglio nuovo. Il sesso occasionale con Alison è risultato poco diverso da una conversazione e da altre forme di ipocrisia sociale che abitualmente utilizzo quando vado a caccia di cibo. Fanno parte tutte della mia vita attuale. Naturalmente tutto il dipartimento sa di Alison e me. Si presume. La nostra tresca è un «dettaglio convincente». A volte penso a lei e a me, a come era diverso. Forse, negli ultimi tempi, desideravo tornare in possesso di quella parte di me che le avevo involontariamente consegnato. In altri momenti credo che volevo toccare una parte di lei che le nostre conversazioni mi avevano rivelato. Alcune esperienze si cercano una volta sola. Non rifarei quello che abbiamo fatto allora. Non ho mai preso in considerazione l'idea di tornare a Est a visitarla, o di comporre il suo numero telefonico. Quello che mi piace pensare è che eravamo separati, poi siamo stati insieme,
e adesso siamo separati di nuovo, e possiamo, ognuno separatamente, ripensare a quel periodo. Mi piace la sensazione di condividere un segreto. La segretezza mi è naturale, mi conforta, mi rassicura. Rilesse molte volte. Lo soddisfaceva. Portò tutti i fogli in cucina, li bruciò, e gettò le ceneri nel cestino dei rifiuti. Tornato nello studio, cominciò ad abbozzare un articolo che aveva promesso al Giornale della Saggezza Umana a proposito dei vocaboli adoperati per distinguere le vittime dagli aggressori nelle relazioni umane — un articolo destinato a diventare parte del suo libro. I ricordi dell'incompiuto «progetto sogni» del Cayslin, sebbene fossero ancora una fonte abbondante di materiale grezzo e idee, avrebbero dato come risultato solo una serie di sproloqui e non quel saggio importante sui sogni che lui aveva in mente. Da qui lo studio sull'istinto predatorio, un nuovo lavoro che lo assorbiva e rinvigoriva. La cultura era il più bel gioco che la razza umana aveva inventato: intricato, impegnativo, ricco di rischi e ricompense — simile, per molti versi, alla caccia stessa. Nella situazione in cui si trovava, ricavava un particolare piacere dall'illuminare un territorio che gli era particolarmente familiare. Mentre lavorava, la sua fame crebbe. Non avrebbe atteso l'escursione speleologica del giorno dopo, e lui non aveva intenzione di incoraggiare Alison telefonandole per chiederle di vedersi. Uscì dopo mezzanotte per andare a caccia. Le montagne, a una dozzina di miglia dalla sua casa, erano cosparse di aree di campeggio notturno. Nei pressi del camping che aveva scelto, spense i fari e uscì dalla strada alla luce delle stelle, facendo avanzare con cautela la macchina sulla terra sabbiosa tappezzata di aghi, in una sorta di nascondiglio di cespugli e alberi. Poi infilò i mocassini indiani con le suole flessibili e tutte d'un pezzo, che lasciavano a malapena un'impronta, un vecchio maglione di lana nero dell'Esercito, e un berretto di lana della Marina sui capelli grigi. Lasciò la macchina e s'incamminò giù per il crinale e lungo il letto sassoso di un fiume fiancheggiato da salici. La sabbia era cosparsa di impronte — conigli, tracce di serpenti e piccoli roditori, orme di stivali e scarpe di gomma, ma niente cani. Bene. Più in là, su un ampio declivio pianeggiante, il Servizio Forestale aveva sistemato tavoli, latrine, tettoie e focolari di rocce e cemento. Vide diverse macchine e motociclette parcheggiate. Nel buio, refoli d'aria fumosi pro-
venivano dai fuochi. Per un po' rimase fra gli alberi sul limitare dell'area di campeggio, osservando e ascoltando. Nulla si muoveva. Cominciò ad emettere il grido della civetta, abbastanza forte da poter svegliare chi fosse immerso in un sonno leggero. E infatti, di lì a poco, qualcuno emerse da un rifugio, una donna che indossava dei mutandoní da uomo e si trascinava in un paio di stivali da escursione slacciati. Raggiunse una latrina nella radura, e subito dopo se ne andò. Aveva ingoiato l'esca, ma l'amo non era stato messo. Weyland le diede il tempo di riprendere sonno. Quindi raccolse un ramo secco e lo spezzò con un forte schiocco. Lasciò che questo suono facesse il suo effetto (immaginò gli occhi aperti di qualcuno che era rimasto disteso interrogandosi — e si era poi riaddormentato a dispetto del vago sconforto causato da una vescica piena) e poi rifece il grido della civetta. Questa volta, in una persona strappata al livello superiore del sonno, la pressione della vescica avrebbe prevalso. Così fu. Un uomo in mutande e sandali avanzò rabbrividendo fra gli alberi per urinare. Weyland lo seguì come uno spettro, lo afferrò abilmente per il collo, lo depositò privo di sensi sul terreno, e s'inginocchiò accanto a lui sugli aghi di pino secchi e scivolosi per nutrirsi. Dopo, si raddrizzò e si allontanò con passo leggero. L'uomo si sarebbe svegliato più tardi, stordito e intirizzito, chiedendosi cosa diavolo lo avesse spinto là fuori a fare strani sogni fra gli alti pini... Il pomeriggio seguente Weyland scoprì che c'era davvero una caverna dove si era aspettato di trovarne una. Aveva un buon istinto per le caverne. Questa si dimostrò adattissima ai suoi scopi: troppo alta sul suolo per essere una tana ambita dagli animali selvaggi, e abbastanza profonda da arrivare dove la pietra luccicava d'acqua. Sapeva che ci doveva essere umidità vicino a lui quando dormiva, anche se non ricordava mai se si svegliava in una sorta di stupefazione soporifera e andava a bere oppure no. Supponeva che i suoi polmoni potessero trarre dall'aria l'acqua sufficiente alle ridotte necessità del suo corpo. L'ubicazione era eccellente — un'area inaccessibile che anche quel sabato pomeriggio non mostrava segni di un'invasione umana. L'ingresso della caverna era ben celato e difficile da raggiungere. Sebbene una squadra d'assalto ben determinata e addestrata con sofisticate tecniche di alpinismo ci sarebbe riuscita, degli esploratori casuali non sarebbero stati in grado di
raggiungere l'apertura anche se l'avessero scorta. Nell'arrampicarsi fino all'imboccatura della caverna Weyland si era servito della forza prodigiosa delle sue braccia e delle mani per traversare una parete quasi verticale, sfruttando le minuscole sporgenze e crepe della roccia non come appigli — erano troppo piccole — ma come fulcri di leve. Una creatura umana, con arti inferiori forti ma arti superiori relativamente deboli, non avrebbe potuto fare la stessa cosa. Era soddisfatto della sua buona stella. Un vampiro difficilmente poteva, di questi tempi, trovare un posto dove appoggiare la testa, a meno che non si accontentava degli insidiosi tunnel delle miniere abbandonate nei quali nessuno speleologo esperto si sarebbe mai sognato di mettere piede. D'altra parte, neppure un vampiro esperto vi sarebbe mai entrato. Durante la pausa primaverile aveva localizzato diversi possibili luoghi di riposo per lui dalle parti di Carlsbad, in vicinanza delle famose caverne. In una delle più estese reti di caverne del mondo, un'area ragionevolmente remota aveva una buona probabilità di non essere invasa da esploratori per parecchio tempo a venire. Ma Carlsbad si trovava a cinque ore di macchina. Avere un luogo utilizzabile più vicino a casa lo faceva sentire più sicuro. Dall'imboccatura della caverna osservò le colline pedemontane coperte di boscaglia. Lo spazio, la quiete, l'assenza di gente, erano riposanti; quella zona lo invitava. Delle immagini che a volte andavano alla deriva nella sua mente gli suggerivano che doveva essere originario di qualche regione dell'oscuro nord, di foreste nere e pianure lussureggianti e sovrastate da un cielo grigio. Che differenza rispetto a questi luoghi squallidi e secchi, estesi come il mare sotto il loro cielo azzurro vivo, duramente segnati dal tempo come lo era lui stesso. Sentiva una certa affinità con quelle colline intaccate, vi trovava un riflesso della sua resistenza e autosufficienza. Mettere radici in questa parte del mondo non sarebbe stata una cosa a lui poco congeniale. Sulla schiena aveva il fiato gelido della caverna. Esso soffocò la sua fiducia e catturò la sua attenzione. Accovacciato sul polveroso pavimento di calcare, si voltò a guardare, non l'ingresso illuminato, ma i meandri bui. Se volessi dormire... ma non voglio, pensò. Il lungo sonno era la sua risposta estrema, la sua difesa da un disastro altrimenti inevitabile. Un sonno di questo tipo aveva le sue insidie. Nessuna creatura si addormentava la notte con la sicurezza di risvegliarsi al mattino in un giorno vivibile. Per quanto lo riguardava, rifletté, le probabilità di incappare in una calamità si accrescevano: un crollo, essere scoperto, un
qualche cambiamento che provocasse la perdita dell'umidità di cui aveva bisogno... oppure svegliarsi in un mondo troppo complesso per le sue capacità di adattamento, o troppo contaminato, o troppo povero di vita umana. Prese fra le mani il rotolo di corda con la quale si era arrampicato. Il risveglio era la parte peggiore. Rammentò un cadavere vivente di alcuni racconti superstiziosi tratti dalle trascrizioni di Irv: pelle incolore e raggrinzita sulle ossa, mente simile a una caverna con la consapevolezza che sbatacchiava dentro di essa in cerca di una direzione. Era uno spettro, un fantasma, senza fame ma cosciente del fatto che presto avrebbe dovuto nutrirsi per non morire; cosciente del fatto che aveva già vissuto in passato ma non del quando o del come, e che la conoscenza aquisita nelle vite precedenti sarebbe stata a sua disposizione in caso di necessità — ma non gli eventi specifici, non i ricordi ben definiti; cosciente del fatto che non doveva cercare di agitare quei ricordi. Niente doveva distrarlo dal compito immane di imboccare la sua strada nel mondo nuovo che lo fronteggiava. All'improvviso guizzò nella sua mente un'insegna che aveva visto all'esterno di un garage del centro: «Si ricostruiscono battistrada — prezzi modici». Il suo umore si alleggerì in un ghigno di divertimento. Raccolse gli attrezzi e discese, dirigendosi verso la macchina. Mentre superava le rovine di una fattoria abbandonata, col solo focolare di pietra e calce rimasto in piedi, vide un piccolo branco di cervi. Aveva il vento sulla faccia. Si fermò, il corpo che istintivamente si tese per la caccia. Quando i cervi sollevarono le teste, lui stava immobile in un boschetto di cedri, con lo zaino collocato dietro un ceppo. Passarono vicino a lui. Ne scelse uno giovane con le corna nuove, e quando essi lo superarono scattò. Il suo slancio scaraventò giù la bestia mentre gli altri fuggivano come se fossero stati di argento vivo. Si mise a cavalcioni del cervo, spingendogli indietro la testa per far sì che il corpo che si dimenava sotto di lui non si potesse raggomitolare per sollevarsi oppure per scalciarlo con gli zoccoli duri e appuntiti. Senza pensare, si chinò sulla curva della gola dove pulsava la grande arteria — quindi si ritrasse da quell'essere frastornato e impaurito. Da molto, molto tempo non aveva bevuto sangue animale, dopo che gli umani, diventando così numerosi e forti, erano diventati la sua unica preda. Bere dal cervo adesso avrebbe potuto farlo star male. Lasciò la presa, balzando via dagli zoccoli che scattavano in avanti. An-
simando, giacque sulla schiena e si mise a fissare l'abisso azzurro del cielo, mentre il suolo sotto di lui tamburellava brevemente per il battere degli zoccoli in fuga. Non era caduto su un cactus o su un formicaio, per fortuna, ma che follia aveva commesso: sprecare energia significava sprecare cibo. Non se ne curò. La forza dev'essere usata, la velocità dev'essere usata. Si sentiva meglio. Mentre saliva in macchina vide un luccichio distante, come del sole su uno specchio — forse il bagliore proveniente da un binocolo. Allarmato, percorse in lungo e in largo la zona per quasi un'ora, ma scoprì soltanto i resti di un picnic. Tornò a casa e trovò un biglietto che Alison aveva fatto scivolare sotto la porta. Diceva che sarebbe andata al villaggio con Irv quel sabato e sperava di incontrarvi Weyland, forse per parlargli in privato per pochi minuti. C'era parecchio da riflettere su questa cosa, ma aveva bisogno di dormire. Dopo una doccia e un bicchiere d'acqua, si assopì sul divano, con ancora l'accappatoio addosso. Quando si svegliò, scoprì che aveva premuto la fronte e le ginocchia contro la spalliera. Il suo corpo era coperto da un sudore freddo. Sapeva che doveva aver sognato, sebbene non fosse mai riuscito a ricordare i suoi sogni. E fu ancora così. Aveva sicuramente sognato di essere rinchiuso senza cibo nella cella dell'appartamento di Roger a New York e di essere terrorizzato dagli istrionismi sadici di Alan Reese. Straordinario, pensò: io provvedo agli incubi degli esseri umani, loro ai miei. Dopo aver fatto un'altra doccia ed essersi vestito, andò nella stanza da letto e aprì una finestra che dava sul cortile posteriore, sui tetti di altre case, e sulle montagne al di là di essi. Sedette e guardò fuori, scivolava in uno stato d'animo di tranquilla attenzione, i sensi allerta, la mente vagante. Fumo di foglie arse, motori di macchine, voci di bambini, una falciatrice che strepitava chissadove, fiori, erba, polvere, una traccia di umidità nell'aria più incisiva della notte precedente... Guardò l'orologio. Era trascorsa un'ora. Non aveva colto nulla di stridente, niente che fosse fuori posto. Eppure si sentiva inquieto — un residuo del sogno che non rammentava, o il nervosismo per la possibilità di essere stato osservato nel canyon. Uscì per parlare con Mrs. Sayers, che si stava aggirando carponi sul suo prato per aggredire le sanguinelle con degli attrezzi appuntiti dall'aspetto pericoloso. Alla domanda sull'auto azzurra col portellone posteriore, lei ri-
spose che non ne sapeva nulla ma che avrebbe indagato. Gli abitanti di un quartiere fanno bene a tenere d'occhio gli stranieri che si aggirano furtivamente. Weyland la ringraziò per i romanzi gialli. Rientrò e si costrinse a dedicarsi alla lettura di un saggio sulla vita sociale dei lupi. Quella sera andò a caccia sul campus, evitando la zona centrale con la sua cagnara di voci e di strumenti strepitanti. Irv doveva essere là. Weyland non aveva intenzione di vederlo né di essere visto da lui. Non era in gran forma, e la caccia andò male. Riuscì a nutrirsi soltanto la mattina seguente, quando, mentre guidava fino al villaggio, raccolse una giovane donna in abito di cotone e stivali con le fibbie diretta a Denver col suo gatto dal manto calicò fra le braccia. Mentre si nutriva, il gatto teneva la schiena arcuata e sibilava. Due file lunghe e serpeggianti di gente danzavano nella luce brillante del pomeriggio sulla piazza del villaggio. Le donne indossavano vestiti neri orlati di bordini e fasce color rosso vivo e verde, e ad ogni passo i loro piatti copricapi di legno sussultavano, le collane d'argento e turchesi oscillavano e i rami di pino vibravano nelle loro mani. Gli uomini indossavano dei gonnellini bianchi, calzoni attillati e ornamenti di piume, campane e pellicce. Portavano dei sonagli che emettevano suoni secchi quando venivano eseguiti dei gesti in risposta a un segnale. Tutti si giravano, si voltavano ancora indietro, danzavano. I cantori, uomini con vivaci camicie e fazzoletti intorno alle tempie, si muovevano di fianco, seguendo il tamburino e un vecchio, i cui occhi erano minuscoli fori obliqui nella faccia avvizzita — forse pure ciechi. Le sue mani brune e nodose scattavano verso il cielo mentre cantava. All'estremità delle file c'erano dei bambini che si muovevano goffamente, vestiti come gli adulti. Uno di quelli che guidavano la danza si fermò per inginocchiarsi e riannodare la cintura di un bambino. Alison mormorò qualcosa, rivolta a Irv, ma i suoi occhi lanciarono un'occhiata nella direzione di Weyland e si allontanarono di nuovo. Ovviamente, stava cercando di farsi coraggio per affrontare il colloquio privato che aveva menzionato nel biglietto. Sapendo che lei non avrebbe parlato di cose intime con lui se non fossero stati soli, Weyland aveva fatto in modo di restare attaccato al gomito di Irv. Sfortunatamente, Irv si era mosso sotto il sole. Weyland tirò giù contro il bagliore la tesa del Panama vecchio e frusto, ma ancora lucido, che aveva
trovato mentre cacciava in un negozio di Goodwill. Era abbastanza alto per vedere al di sopra della folla senza sforzo. Non gl'importava. Era annoiato. Un gruppo di danzatori andò via e ne arrivò un altro, che si mise a eseguire quella che sembrava essere la medesima danza col medesimo, o molto simile, canto. Lo stile della danza era monotono, invariabile e privo di individualità. Ciascuno faceva quello che facevano tutti i danzatori della sua fila. Weyland aveva già bocciato il villaggio come possibile territorio di caccia. I bianchi erano troppo invadenti là, anche quando c'erano le danze. Quel giorno gli indiani, i turisti e un gruppuscolo di suore erano sistemati lungo i muri dei bassi edifici di mattoni e paglia che delimitavano la piazza. Ovunque, c'erano cani che dormivano, annusavano o si azzuffavano. Irv sembrava immerso nella contemplazione della danza. Nelle vicinanze, un giovane indiano stava raccontando a una coppia di bianchi di aver navigato sotto i ghiacci polari quando era in servizio nei sommergibili. Alison si schiarì la gola ma non parlò. Weyland considerò l'idea di andarsene. Alison disse, «Ti dispiace darmi le chiavi della macchina, Irv? Mi è venuto il mal di testa. Andrò a schiacciare un sonnellino sul sedile posteriore della macchina per un po'.» «Non ti senti bene?» Irv riemerse dalle sue riflessioni. «Ormai qui abbiamo finito, non c'è ragione di restare più a lungo.» «No, tu resta a guardare. Voglio soltanto chiudere gli occhi.» Alison guardò Weyland. Questi non si offrì di accompagnarla al parcheggio. Lei se ne andò. Irv disse, «Stamane stava magnificamente, era così entusiasta. Non mi ero accorto che non si sentiva bene.» Questa volta Weyland si rese conto che Irv non avrebbe accettato qualcosa di meno di una confessione da lui. «È molto sensibile,» disse. «Ho paura di non averla trattata con la giusta considerazione, e adesso ci troviamo in uno stadio difficile del nostro... nostro...» Le parole gli morirono sulle labbra, ed evitò gli occhi di Irv. Irv sospirò. «Andiamo, sgranchiamoci un po' le gambe. Sono terribilmente lieto che tu mi abbia detto questo. Devo ammettere che per un po' ho pensato che ti stessi servendo della tua posizione per, be', trarre dei vantaggi. Le studentesse laureate sono così vulnerabili. Sono lieto che i vostri sentimenti siano veri, anche se in questo momento vi procurano un bel po' di sofferenza.»
«È stata un conforto per me,» disse Weyland, «in questo nuovo ambiente, e ho significato qualcosa... per lei, credo.» Che voglia ha Irv di sentir parlare di amore onesto, o di tormenti, pensò; nient'altro che semplice sfruttamento. «Avevo intenzione di chiedertelo,» disse Irv, «ma avevo tante di quelle cose nella mente — se c'è qualcosa che posso fare per...» Weyland scosse la testa. «Non per me, ma se puoi convincere Alison a parlarti...» Cosa che, naturalmente, stava già accadendo. Irv doveva soltanto essere là, essere la solita persona calda e comprensiva, e Alison avrebbe scoperto che era più facile di quanto immaginava abbandonare definitivamente il Dr. Edward Lewis Weyland. Ma Irv non era il solito se stesso. Dava calci alle pietre mentre camminava, e di tanto in tanto appariva un'espressione tesa e cupa sulla sua faccia. Disse, «Anch'io devo dirti qualcosa, Ed. Sta accadendo qualcosa che mi sta mangiando vivo.» Cos'è questo? si domandò Weyland. Sto per ricevere una fetta grossa e indesiderata delle pene personali di Irv? No — quel focalizzarsi sull'esterno così caratteristico di quell'uomo era spento, la luce sembrava svanita dalla sua faccia. Sembrava cieco come il vecchio cantore indiano sulla piazza. Il silenzio si protrasse, riempito dal pulsare del tamburo sull'altro lato della chiesa dalle spesse mura accanto alla quale stavano passeggiando. Cos'è successo? pensò Weyland. Ma voleva così fermamente non conoscere la risposta che non poté costringersi a porre la domanda. Svoltarono intorno all'angolo della chiesa, e due donne, proprio davanti alla porta del minuscolo cimitero, si mossero verso di loro. «Irv!» dissero. «Che sorpresa. Che piacere vederti!» Irv fece delle sommesse presentazioni. «Dorothea Winslow, Letty Burns, il mio collega Weyland dell'università. Oggi siete molto lontane da Taos, voi due.» La donna alta con la faccia solenne annuì, facendo abbassare l'ombra del suo ampio cappello. Indossava un abito fatto in casa di cotone verde muschio e un cardigan rosa le pendeva dalle spalle. Lo sguardo della compagna più bassa, Winslow, leggermente accigliato, andò da un uomo all'altro. Weyland aveva già sentito prima quel nome. Vi era connesso del denaro. Una delle abilità grazie alle quali era stato ingaggiato era quella di coltivare le fonti di sostentamento per il dipartimento. La visita al villaggio, così fastidiosamente gravida di emozioni altrui, avrebbe potuto, dopo tutto, tornare utile. Fece un leggero inchino, secondo lo stile europeo, sulla mano di
Dorothea. «Lieta di conoscerla, professore,» disse lei. «Ho sentito la sua conferenza, a gennaio, sullo spazio e il passaggio nei sogni.» Chiacchierarono un po' sulla gente dell'università che Dorothea conosceva. Letty Burns parlò a Irv di Chicago, dove lui aveva compiuto gli studi. Lei aveva vissuto per un certo periodo di tempo in quella città. Ad un tratto, Dorothea, la cui espressione era diventata sempre più turbata, si voltò e disse, «Mentre voi due continuate a parlare di Chicago, io e il Dr. Weyland andremo a fare una discussione intellettuale.» Toccò leggermente la manica di Weyland e lo condusse un po' più in là, dicendogli con voce bassa e tesa, «Cosa sta succedendo a Irv?» «Irv?» ripeté lui, sorpreso. «Perché? Nulla.» «No. Qualcosa.» Dorothea si allontanò da lui, e si mise a fissarlo intensamente. «Qualcosa.» Weyland la scrutò con attenzione. Era solida nel fisico, abbronzata, e la faccia volpina era incorniciata da ciuffi volanti di capelli bianchi che erano sfuggiti alla crocchia. Indossava sandali, pantaloni sbiaditi di velluto a coste, una camicia scamosciata di pelle di daino, e un filo di coralli rossi intorno alla gola avvizzita. Lui dedusse che doveva essere sulla sessantina. «Ultimamente Irv mi è sembrato preoccupato,» concesse, riluttante. «Lei è a conoscenza di qualche particolare problema...?» La donna scosse la testa. «Niente di importante,» rispose. Gli si avvicinò di nuovo mentre raggiungevano la base del pendio che degradava dal piccolo cimitero della chiesa e svoltarono per la strada polverosa che conduceva dietro la piazza. Il tamburo risuonava ancora. Per alcuni istanti passeggiarono senza parlare. Poi lei disse, «Anche a questa distanza dalla piazza si può avvertire il rullo del tamburo che sale dal suolo attraverso le nostre suole, no? Il battito del cuore della comunità. Non batte certo per lei, vero, professore?» «Non più che per un qualsiasi non-indiano,» replicò lui, imperturbabile. Di certo, non c'era niente di preoccupante nell'osservazione di quella donna. «Lei non è un "qualsiasi non-indiano",» disse Dorothea. «Se dipingessi ancora, la dipingerei.» «Lei era una pittrice?» chiese Weyland. Più avanti, le pale di un mulino a vento ruotavano contro il cielo. Lui osservò il mulino, e desiderò che fossero seduti a parlare, invece di camminare, così avrebbe potuto guardarla più facilmente in viso. «Perché ha smesso?»
«Per tentare qualcos'altro: disegnare col mio occhio, seguendo i contorni e il profilo del soggetto millimetro per millimetro, senza omettere nulla. Quando hai fatto questo, il soggetto è fissato nella tua memoria in una maniera che non si verifica quando trasferisci un'immagine mentale sulla carta o sulla tela.» Weyland non sapeva cosa rispondere. La sua mente riandò agli schizzi che Floria Landauer aveva fatto di lui. Dorothea disse, «Perché è venuto da queste parti, professore?» «Sono stato male a Est. Volevo cambiare.» «Io venni ventidue anni fa per dipingere, pensi un po', il mistero del deserto.» «E c'è riuscita?» «Non proprio,» rise. Giunti al mulino svoltarono su una strada asfaltata. «Ma dipingere significa guardare, e ciò porta a... prestare attenzione. Ho prestato attenzione a lei, Dr. Weyland. Nella sala delle conferenze a gennaio, ho tentato di disegnarla col mio occhio, ma mi sono accorta che non era possibile. Lei è stilizzato ed essenziale, come se già fosse un disegno piuttosto che un uomo.» Weyland si voltò indietro. Irv e Letty si erano fermati all'estremità della strada sterrata e stavano accovacciati accanto al mulino, e stavano facendo scarabocchi nella polvere con dei legnetti mentre continuavano a conversare. Si sentì tradito alla luce del sole. Come faceva quella donna che camminava al suo fianco sull'asfalto a vederlo così bene? La sua mente cominciò a correre. Disse, «Il campo di variazione della forma umana dev'essere più esteso di quello che lei pensava.» «Apparentemente.» Gli lanciò un'occhiata di ironica approvazione. «Il campo di variazione della forma umana — dev'essere questa la spiegazione. E se pure non lo fosse? Mi piace che nel mondo vi siano cose meravigliose. Stia tranquillo, solo perché ho notato qualcosa non significa che mi voglia immischiare.» Si fermò e si voltò a guardare Irv e Letty Burns. «Non le avrei detto nulla, se non mi fossi imbattuta in Irv nei pressi della chiesa e non mi avesse sconvolto il vedere la sua faccia così preoccupata — e che lei era con lui. «Ma i suoi guai non hanno niente a che fare con lei, no? Lei non ne fa parte. Proviene semplicemente da uno stampo diverso.» «Le chiedo perdono,» disse rigidamente Weyland. «Credo di non aver capito quasi...»
«Qualcosa di sbagliato, questo è tutto,» disse Dorothea. «Dovrò convincere lui a parlarne.» Si voltò dirigendosi verso gli altri. Lui la seguì a pochi passi di distanza. «...l'ultima cosa che ho sentito,» stava dicendo Irv, stancamente, accovacciato e con la testa abbassata. Letty si alzò, con le braccia incrociate, e guardò Weyland che veniva dietro Dorothea. «Lei ha la famiglia qui, professore?» chiese. Dorothea disse con voce soave, «Lascia che il professore abbia i suoi segreti. Ognuno ha il diritto di averli.» Il rullo del tamburo era cessato. I danzatori, tintinnando e sbatacchiando nei loro costumi, stavano abbandonando in gruppo la piazza. Irv disse che la danza sarebbe ricominciata dopo una pausa, ma, per quanto lo riguardava, aveva visto danze a sufficienza per quella giornata. Weyland gli fece eco frettolosamente, e tutti s'incamminarono in direzione dell'ampia area polverosa nella quale erano state parcheggiate le macchine dei visitatori. Cos'altro avrebbe detto Dorothea a Weyland, o di Weyland agli altri? probabilmente niente. Probabilmente si era sbagliato, l'aveva fraintesa, fuorviato dai sentimenti forti che questi individui nutrivano l'uno per l'altro. La migliore strada da seguire, lo sapeva — la sua unica strada — era quella della pazienza. Arte. Parlavano di arte e della danza come una forma d'arte. Ripetitiva, disse Letty, da un luogo all'altro, da un anno all'altro addirittura. No, disse Dorothea; la danza di ciascuna stagione era un momento unico per continuare ad esprimere i temi fondamentali della continuità e della rigenerazione. Questi temi non avrebbero mai potuto essere estirpati, disse, tanto erano ricchi e colmi di potere. Giunsero nell'area di parcheggio. Vedendo Alison che usciva dalla macchina di Irv per andare loro incontro, Weyland pensò che quella cosa almeno era andata come lui sperava. Lei ed io non abbiamo avuto la possibilità di restare soli — come invece oggi è capitato più che abbondantemente con altre persone. Furono fatte le presentazioni, dopodiché s'intrattennero accanto alla macchina a parlare, e a parlare. Irv parlò di un nastro che aveva registrato quella mattina con una vecchia donna del villaggio. Dorothea, ad un tratto, gli appoggiò una mano sul braccio e disse nel bel mezzo di una frase, «Irv, mi è venuta un'idea straordinaria. Vieni a casa con noi, stasera. Da un bel pezzo non abbiamo avuto la possibilità di trascorrere una serata a chiacchierare. Porta anche Alison. Potrai mostrarle il famoso messaggio degli
esploratori libici sulla roccia del greto.» La sua voce chioccia disse che quello era uno scherzo. La sua faccia era ansiosa. «Thea, grazie, ma siamo ormai alla fine della sessione, e devo portare a termine tutto quello che avevo rimandato finora.» «Dimentica tutto,» disse Dorothea. «Hai bisogno di una pausa, anche solo per questa notte. Vieni con noi.» Letty disse, «Hai l'aria stanca, Irv. Vieni, lasciati andare un po'.» Alison guardò Weyland. Disse, «Tornerò ad Albuquerque in macchina con lei, Dr. Weyland. Dobbiamo ancora parlare di alcune questioni riguardanti l'esame.» Alison la testarda, pensò Weyland, vedendo approssimarsi quel colloquio privato che era riuscito ad evitare per tutto il giorno. Come erano insopportabilmente arroganti riguardo all'importanza dei loro maledetti sentimenti! Irv appoggiò la mano sopra quella di Dorothea e disse, «In tutta onestà, non posso. Aspetto una telefonata per questa sera o forse per domani sera. Una cosa importante. Fra qualche settimana verrò, contaci.» «Non abbiamo intenzione di aspettare così tanto,» replicò Dorothea. «Ci sentiamo.» Gli strinse le mani e gli diede un bacio sulla guancia. Ad Alison rivolse un breve e astratto saluto; a Weyland, uno sguardo indagatore e quindi un cenno del capo, un gesto che gli parve nello stesso tempo un segno di riconoscimento e di contagio. Si allontanò, sollevando dei piccoli spruzzi di polvere da sotto i sandali, con Letty che camminava rigidamente al suo fianco. Alison non insistette per tornarsene assieme a Weyland. Dopo aver fatto il suo tentativo, aveva evidentemente perso il coraggio. Si sistemò sul sedile del passeggero della macchina di Irv. Sporgendosi sopra il parafango, la fronte corrugata sugli occhi scuri e franchi nella sua abituale espressione di sollecitudine speranzosa, Irv disse, «Vuoi che Alison venga con te?» «Abita più vicino a te.» Weyland stava osservando le figure delle due donne che si allontanavano in direzione dell'angolo più lontano dell'area di parcheggio. L'edificio di antropologia emanava ancora un cattivo odore la mattina dopo. Durante la notte c'erano stati degli scrosci di pioggia. Weyland sapeva che le sue finestre dovevano essere gonfie e serrate, ammesso che fosse potuto entrare per cercare di aprirle. Per una qualche ragione la chiave non girava nella serratura della porta del suo ufficio.
Era stato sveglio tutta la notte ad ascoltare la pioggia e a pensare: Era stato smascherato? Era riuscito in qualche modo a sfuggire allo smascheramento? Cosa sapeva o sospettava esattamente Dorothea? Verso l'alba era andato a caccia, senza accortezza, in un motel i cui chiavistelli sapeva che erano particolarmente deboli. Il sangue della sua prima vittima era stato inquinato dai barbiturici, così aveva corso il rischio di avvicinarne un'altra. Mentre guidava in direzione dell'ufficio sotto una pioggia leggera, aveva quasi esaurito il carburante e si era ancora una volta indignato per il prezzo astronomico della benzina. In momenti come quelli gli veniva il tetro pensiero che, al suo successivo risveglio, avrebbe anche potuto trovare il mondo costretto a servirsi dell'energia muscolare, eolica o idrica, se non addirittura ridotto alla devastazione postnucleare. Non era più certo di aver raggiunto il requisito primario di un predatore perfetto: la scelta di una preda parimenti perfetta. Si irritò al pensiero della sua esistenza dipendente dalla volontà fiacca e indisciplinata del genere umano. Se non avesse mantenuto la calma, avrebbe spezzato il maledetto fusto della maledetta chiave nella serratura del suo maledetto ufficio. Chi si era intrufolato là dentro, facendo bloccare il meccanismo? Alison uscì dalla camera di Irv, all'altro lato del corridoio. «Oh, Dr. Weyland, entri e stia un po' con noi. Stavo cercando di tirare sul il morale di Irv. Ho quei questionari per lei.» Lui s'infilò in tasca le chiavi e andò a sedersi sulla sedia imbottita che stava in un angolo dell'ufficio di Irv. Irv stava dietro al suo scrittoio, chino sui gomiti sopra un bicchiere di polistirene fumante. Era un Irv che appariva straordinariamente depresso. Disse, «Questo non è caffè, è quella roba che scolano nel lavandino del laboratorio al piano di sotto.» Alison disse, «Il guaio è, quando si vive nell'assolato Sud-ovest, che una lieve pioggerella getta tutti nella disperazione.» Weyland scorse il foglio del questionario che lei gli aveva porto. «Questo è buono, tranne il fatto che non voglio due domande sui ruoli sociali nelle culture con economia di sussistenza. Mi rendo conto che questo era il tema delle lezioni che hai fatto alla classe, ma un'enfasi eccessiva su di esso nell'esame spingerebbe gli studenti a marciare verso il mio ufficio... con una giustifica.» Alison arrossì. «Oh, certo, naturalmente, preparerò qualcosa in sostituzione di una di esse. Stavamo parlando della mia adesione al progetto estivo di Irv. Credo di non avere più dubbi, non dopo averlo visto ieri mattina con quell'adorabile vecchietta del villaggio. Può darsi che diventi più di-
sinvolta e comunicativa con la gente, facendo un lavoro come il suo...» «È un'eccellente notizia,» disse Weyland. Aveva trascorso la notte con Irv? Weyland lo sperava. Ritrovò il buonumore. Ora si sentiva pronto a fare domande sulle due donne di Taos, ma non in presenza di Alison. «Mi spiace interrompere, ma non è la tua ora di ricevimento, Alison?» «Oh, sì — devono venire un paio di studenti per gli appunti delle lezioni che hanno perso. È meglio che vada. Ci vediamo a pranzo, Irv?» «Ci vediamo,» disse Irv. I suoi occhi erano tristi e premurosi. «Sembri stanco,» disse Weyland quando Alison fu uscita. «Anche tu,» replicò Irv con un pallido sorriso. «Chiunque penserebbe che abbiamo danzato per tutto il giorno al villaggio, ieri, non che siamo stati a guardare.» Esitò. «Alison...» «Alison sembra più felice di quanto lo sia stata per diverse settimane. Vorrei chiederti qualcosa su Dorothea Winslow. Mi sembra un tipo molto... interessante.» «Ah, Dorothea. Sono lieto che tu abbia avuto la possibilità di parlare con lei. Tutti affermano che Dorothea Winslow è un tipo originale,» disse Irv con tono dolce. «E ti forniscono pure le prove. Per esempio, una volta assillò il dipartimento affinché mandasse qualcuno a vedere un'iscrizione su una roccia, che si trova dalle sue parti nei pressi di Taos, perché riteneva che fosse antica — il segno di un contatto pre-colombiano, quel genere di cose. Queste teorie bizzarre la affascinano. La gente non si accorge, tuttavia, che mentre ti tempesta di domande assurde, generate da una manifesta curiosità, è dannatamente rigorosa riguardo a quello che accetterà come risposta soddisfacente.» «Come l'hai conosciuta?» Irv sogghignò. «Ero io quello che fu mandato dal dipartimento.» «E tu non la trovasti... "originale"?» «Mi sono ritrovato con due nuove amiche,» disse Irv. «Quelle donne costituiscono una coppia notevole. Hanno vissuto assieme a Taos per circa quattordici anni in una specie di museo: bastioni, travi scolpite, pesanti mobili spagnoli che Dorothea odia ma conserva. Dice che c'erano già, per cui deve tenerseli.» «Quattordici anni,» disse Weyland riflettendo. «Non riesco a immaginare di tollerare la compagnia di qualcuno per così tanto tempo.» «No?» Irv riassunse un'espressione triste. Parve costringersi a proseguire. «Dorothea era una pittrice — e di talento — e Letty è una poetessa che ha pubblicato. Fanno parte della comunità artistica riconosciuta, laggiù.»
Fece una pausa per annaffiare alcune pillole con ciò che era rimasto del suo caffè. «E poi, sono proprio quello che tu stai pensando, ovviamente; non si sognerebbero di fingersi diverse.» Weyland realizzò che intendeva dire che le due donne erano amanti. Se una persona dormiva con un partner di un sesso o dell'altro era una di quelle distinzioni umane inventate e poi trattate come tavole della legge. In questo caso, aveva raggiunto il suo scopo. Quelle donne conducevano un'esistenza troppo eccentrica per costituire una minaccia per lui, non importa quello che potevano sapere o aver intuito sulle sue stesse... eccentricità. «Ma, bada,» aggiunse Irv, «non è che stiano incollate l'una all'altra. Letty, di tanto in tanto, viene presa dall'istinto della nomade. Si alza e se ne va, girovagando per tutta la ragione con l'autostop. Scrive libri di cucina quando è a casa, ottimi. Credo che quando ha bisogno di soldi durante i suoi giri vada a lavorare nei ristoranti.» Weyland stava freneticamente cercando nella memoria qualche traccia di quella figura spigolosa che saliva nella sua macchina. Non trovandone nessuna, riprese a respirare. Malinconico, Irv disse, «Non mi dispiacerebbe di essere capace di alzarmi e andarmene quando le cose cominciano a ingarbugliarsi.» Si sporse di nuovo in avanti, con la mandibola ombreggiata di azzurro appoggiata sul palmo. «Ma non è il mio stile. Quelle poche persone che ho conosciuto che riuscivano a dileguarsi e a piantare tutto erano come Letty: alte, magre, sempre leggermente distaccate, vagabonde per eccellenza; senza radici, introverse, indifferenti, spesso brillanti ma raramente felici, credo. Qualunque cosa significhi essere "felici"...» All'improvviso divenne rosso fuoco fino alla radice dei capelli. «Mio Dio, Ed, mi dispiace. Naturalmente avevo sentito parlare di... di un tuo guaio, lì nell'Est. Tutti ne abbiamo sentito parlare. Per amor del cielo, non vorrei che tu pensassi che io... che...» «Che tu sei dispiaciuto per me?» disse Weyland, di nuovo tranquillo. Era soddisfatto della descrizione di Irv del tipo di persona che lui aveva davvero tentato di incarnare; e ancora più soddisfatto perché Irv lo aveva trovato così convincente da classificarlo nella tribù di vagabondi di Letty. «Irv,» disse, «non sono suscettibile riguardo a quell'episodio, o riguardo alla mia natura men che socievole. Non scusarti, non hai ferito i miei sentimenti. Lascia che ti risponda in questi termini: Letty mi è sembrata, tenuto presente che la conosco appena, un tipo abbastanza tranquillo, per niente
malinconica, né indifferente.» Irv lo studiò per alcuni momenti, col rossore che svaniva dalla sua faccia. Si alzò e cominciò a misurare a lenti passi l'ufficio, con le mani affondate nelle tasche. «Questo è perché, innanzi tutto, Letty è un'artista oltre che una vagabonda. Trasforma in arte quello che osserva ai margini della società. Se riesci a fare questo, non sei così orrendamente isolato e chiuso in te stesso. Le poesie di Letty suggeriscono abbastanza solitudine e distacco da congelare le lacrime negli occhi, ma sono rivolte verso l'esterno, stabiliscono un collegamento. «E Letty torna sempre a casa. È abbastanza fortunata da avere Dorothea, un'ancora di salvezza umana. Tutti hanno bisogno di un'ancora di salvezza, specialmente i vagabondi.» «Perché?» disse Weyland, il cui interesse era stato completamente catturato. «Possono essere semplicemente delle anime fredde che scelgono la solitudine e la lontananza invece che la compagnia dei loro simili.» «Credo che nessuno possa scegliere una vita del genere,» disse Irv. «Credo che vi siano costretti. Noi siamo animali sociali, Ed. C'è gelo e solitudine per noi al di fuori del gregge umano.» Non per una lince, pensò Weyland; quello è il suo posto. Disse, «Vedi le cose secondo il tuo punto di vista. Tu parli come un uomo normale, un uomo cordiale che coltiva molte amicizie. Ritengo che questo finisca col distorcere e offuscare la tua visione della vita all'esterno di questo punto dove io sono seduto... o vago.» Sollevò una mano per prevenire l'obiezione di Irv. «La vita di un vagabondo non mi sembra così squallida come invece è per te che vivi nel, ah, cuore del gregge.» Irv si fermò accanto allo scrittoio, la testa abbassata, facendo tintinnare le monete che aveva in tasca. Finalmente si lasciò cadere sulla sua sedia, allungando le braccia sopra la testa. «Sei un uomo straordinario; e probabilmente hai ragione. Credo che ci sia anche un elemento di invidia nel mio giudizio. «Il fatto è, Ed, che mi sono talmente spinto in mezzo al gregge da non sapere come uscirne, anche se andarmene via da solo fosse la cosa più salutare che potrei fare. Gli altri sono troppo importanti per me — amici, colleghi, studenti, specialmente gli studenti. Essi sono alcuni dei miei legami col futuro, io sono uno dei loro legami col passato. Vincoli come questo mi rendono consapevole di essere vivo, mi fanno rendere conto di come la mia vita si adatta alle altre vite. «Se davvero non hai necessità di questo genere di legami, allora t'invi-
dio. Il fuoco delle emozioni all'interno del gregge può bruciarti, e quando sento che mi sto coprendo di vesciche, non riesco a troncare tutto e andarmene. Ho paura di perdere il mio posto là in mezzo...» La porta si aprì e uno studente si affacciò dentro. Irv gettò uno sguardo all'orologio da parete e balzò in piedi. «Puoi tornare dopo pranzo?» gridò allo studente, che disse di sì e si ritirò. «Maledizione! Ho una riunione fra due minuti. Ascolta, Ed, torna a parlare con me. Abbiamo ancora quelle trascrizioni da esaminare, e scaricherò altre malinconie sulle tue spalle, te lo prometto. Dorothea ha telefonato dicendomi che oggi si fermerà qui prima di tornare a Taos. È un tonico per la mia autocommiserazione.» Nel tardo pomeriggio, mentre tornava a piedi in ufficio dopo un seminario alla Fine Arts Library, Weyland scorse Irv e Dorothea in basso, vicino al laghetto delle anatre. Si fermò in un boschetto di pini per osservare. Stavano passeggiando lentamente lungo il bordo dell'acqua sottostante, chiaramente immersi in una discussione. Irv aveva aperto il colletto e si era arrotolato le maniche. Continuava a sollevare una mano per lisciarsi i capelli che si stavano diradando. Dorothea, che indossava dei jeans e un poncho lavorato a maglia, gli stava vicino. Di tanto in tanto lo toccava, scandendo con precisione le parole. Passarono accanto alle anatre che starnazzavano sull'erba fresca e attraversata da lunghe ombre. Irv si sedette su una panchina nei pressi dell'acqua. Parlava con la schiena curva, i gomiti sulle cosce e le mani che oscillavano fra le ginocchia; Weyland lo capì per il modo in cui Dorothea teneva la testa leggermente sollevata, guardando al di là dell'acqua. La donna appoggiò una mano sulla spalla accasciata di Irv. Rimasero così per un po', e ad un tratto Irv abbassò la testa e si strofinò la faccia con entrambe le mani. Forse stava piangendo. Non c'era nessun altro nel parco, ora. Si alzarono. Irv, guardando nella direzione di Weyland, disse qualcosa che indusse Dorothea a fare altrettanto. Le loro facce erano rivolte verso Weyland. Lui pensò che avrebbero camminato sull'erba per raggiungerlo, e prese in considerazione l'idea di muoversi per primo. Ma Dorothea, parlando piano, spinse di nuovo Irv a camminare, lontano dal laghetto, fuori dalla visuale. Sentendosi stranamente vuoto ma non abbastanza affamato da andare a caccia, Weyland guidò fino a casa per sbrigare un po' del suo lavoro. Ritornando a piedi, a tarda ora, si avvicinò all'edificio di antropologia camminando sull'erba e tenendosi nell'ombra. A giudicare dalle intatte condizioni della sua scrivania e della serratura bloccata della porta dell'uf-
ficio, come aveva constatato quella mattina, colui che aveva tentato di introdursi là dentro aveva fallito. Forse quella notte ci avrebbero riprovato. Non era avverso all'idea di una preda che si recasse spontaneamente da lui. Ma perché la vecchia Pontiac di Irv era ancora là, unica macchina presente nell'area di parcheggio? La biblioteca era chiusa, per cui non era possibile che stesse ancora lavorando lassù. La finestra non era illuminata. Weyland scivolò nell'edificio, con l'intenzione di aspettare chiunque potesse arrivare. Al di là del corridoio, la porta era aperta sulla camera buia di Irv. D'impulso, Weyland entrò. I suoi occhi si adattarono subito all'oscurità e al chiarore che proveniva dal corridoio. Irv era seduto sulla sua sedia girevole voltata di spalle rispetto allo scrittoio, e si era appoggiato al davanzale della finestra aperta, la testa china sulle braccia piegate. Non emetteva alcun respiro. Weyland si avvicinò, si chinò, più di quanto si fosse mai chinato su un uomo se non per cibarsi. L'incontenibile energia di Irv, che Weyland aveva sempre avvertito come una pressione invadente, non lo spingeva più a ritrarsi. Guardò il volto di Irv. Era vacuo, gli occhi chiusi, la bocca aperta, le guance rilassate e cascanti. Nel cestino dei rifiuti, fra i bicchieri di plastica accartocciati, c'era un boccetta di medicinali. Weyland non la toccò. Poteva vedere che l'etichetta era stata strappata via. Irv si era assicurato che nessuno, arrivando da lui troppo presto, potesse telefonare al Centro di Controllo Veleni per un antidoto, e si era seduto a morire nel buio per evitare che una luce a ora così tarda attirasse la sorveglianza del campus. Weyland si raddrizzò, incombendo su di lui, le mani nelle tasche per impedirsi di toccare inavvertitamente qualcosa. Sul brogliaccio c'era una pila di schede di valutazione con in cima una nota battuta a macchina che diceva: «Non ci sarà un esame finale di Etnografia 206. Queste valutazioni sono basate sui risultati di tutti i test fatti in classe da ogni studente, e sui compiti a casa svolti fino a questo momento.» Accanto alla pila c'era un blocco di carta legale gialla. Il nome di Weyland era scritto di traverso sulla prima pagina nella grafia rapida e decisa di Irv, seguito da queste due frasi: «Prova a cominciare con questo — gli asterischi indicano il materiale sulle scorrerie compiute da indiani e spagnoli per procurarsi schiavi. Spero che tutto questo vada nella direzione di quello che tu stai cercando.» Poi veniva una colonna di una quindicina di numeri, che identificavano le trascrizioni della storia orale, e quindi la sua firma. Più sotto, Irv aveva aggiunto un solo rigo: «Sono stanco di essere
forte.» Weyland si sedette sulla sedia che stava nell'angolo. Guardò all'altro lato della stanza il torso immobile di Irv nel rettangolo della finestra. Era un Irv alla sua ultima risorsa, malgrado le necessità degli studenti, malgrado l'incoraggiamento di Alison, malgrado Dorothea. Ogni piccola esistenza ha dei disastri di grado corrispondente che aspettano, per poi erompere delle sue profondità segrete. Nessuna sagacia particolare era richiesta a Weyland perché si rendesse conto che Irv era morto in conseguenza della sua esistenza intensamente emozionale in mezzo al gregge. Era morto secondo la logica della sua natura, oppresso al di là di ogni sopportazione della forza dei suoi sentimenti — anche se non sarebbe mai stato scoperto l'oggetto di questi sentimenti. Cos'era quello che loro chiamavano un "cuore infranto"? In ogni caso, quella vita e quella morte sembravano appropriate a Irv e apparivano come un vero e proprio archetipo della breve e incandescente esistenza umana. Il mio ladro inetto potrebbe arrivare, pensò Weyland, e se mi trova qui mi troverò infognato in una serie di spiegazioni e complicazioni senza fine. Ma rimase seduto a guardare il cadavere di Irv, e nella sua mente propose un enigma a quell'uomo morto: Ora che non mi cerchi, perché sto qui con te? Una mosca ronzò nella stanza. Weyland uscì. Il giorno dopo, nell'area di parcheggio di antropologia, riconobbe la donna alta seduta nel camioncino: era Letty. Così non rimase sorpreso nel trovare Dorothea Winslow ad aspettarlo nel suo ufficio. «Miss Winslow, vorrei...» «Voglio parlarle,» disse lei. Entrò dietro di lui e lasciò la porta spalancata. Lui disse, «Vorrei esprimerle le mie condoglianze... so che Irv era un suo intimo amico.» «Ma non suo?» Si era fermata all'altro lato della stanza, lontano da lui. «Eravamo colleghi, nient'altro.» «Dicono che voi due talvolta lavoravate assieme.» «Talvolta.» «Lui le ha parlato.» Weyland era seccato. Quel giorno gli studenti lo avevano tenuto impegnato più del previsto. Questo, unitamente a un asfissiante interrogatorio della polizia al mattino, aveva logorato il suo umore. Disse, irritato, «Par-
lava con tutti.» «Deve averle detto qualcosa,» insistette lei. «Si riferisce al suo proposito di uccidersi? Se lo avesse fatto, naturalmente avrei fatto qualcosa, Miss Winslow — le avrei telefonato, per esempio.» Voleva sedersi, ma la donna si era così chiaramente preparata ad avere un confronto con lui che si sentì più sicuro a fronteggiarla in piedi. Perché era in collera con lui? «Irv ed io avevamo un rapporto professionale, cordiale ma non intimo. Come lei sa, aveva molti amici, molte richieste che lo tenevano impegnato e io stesso sono un uomo indaffarato.» Lei indicò la porta aperta. «Il suo ufficio è proprio qui, all'altro lato del corridoio. Lo vedeva tutti i giorni, e lui vedeva lei.» Weyland mise giù i libri che portava con sé e allargò le mani sulla superficie dello scrittoio, preparandosi ad affrontarla. «Miss Winslow, cosa vuole da me?» «Voglio sapere perché è accaduto, come è giunto a compiere un gesto così disperato.» Lui scosse la testa. «Non avevamo conversazioni intime. Se si confidava con qualcuno, si trattava di persone come lei, persone per le quali nutriva affetto.» Dorothea distolse lievemente lo sguardo da lui, e fissò intensamente il vuoto. «Alle persone come me ha detto che si trovava in un brutto guaio, ma che sarebbe passato, che se la sarebbe cavata, che aveva in qualche modo il problema sotto controllo.» Di nuovo rivolse lo sguardo scintillante su di lui, questa volta con gli occhi arrossati. «Era abituato al fatto che noi ci rivolgessimo a lui per conforto e incoraggiamento, non alla cosa opposta. Lui si è rivolto a lei.» «No,» disse Weyland. Mi biasima, pensò, perché ritiene che Irv mi abbia detto qualcosa che avrebbe dovuto mettermi in guardia sulle sue intenzioni. Desiderò che lei se ne andasse. «Maledizione,» esclamò Dorothea con ira e dolore scoperti, «il suo messaggio di suicida lo ha scritto a lei! Niente a nessun altro, non una parola, non una telefonata, tranne che a lei. Quella frase a proposito dell'essere forte — l'ho letta, la polizia mi ha mostrato il messaggio quando ha parlato con me.» Lui pensò: È gelosa. «Per favore, Miss Winslow... si sieda e mi ascolti. Io non posso aiutarla. Se ha visto il messaggio, sa che in effetti si riferiva al mio lavoro, a delle fonti di materiale sulle quali avremmo dovuto discutere, Il resto... non so perché ha aggiunto quella frase.»
«L'ha aggiunta perché nutriva un caldo affetto per lei,» disse Dorothea. «Si è rivolto a lei per ricevere quel sostegno che ogni uomo dovrebbe essere in grado di dare a un altro. Ma lei non è un uomo, e non gli ha dato nulla. Lei non aveva niente di maledettamente buono da dargli.» Il corridoio era vuoto. Weyland avrebbe potuto raggiungere rapidamente la porta, chiuderla e poi... No, la morte di lei non poteva seguire quella di un altro, e con l'amica che ancora l'aspettava fuori! Ignora ciò che ha detto. Mantieni la calma. Dalle qualcosa, distraila, placala. Disse, «Irv mi aveva fatto delle profferte di amicizia. Ho paura di non essermi mostrato molto disponibile. Non mi ha raccontato nulla di segreto, glielo assicuro.» «Lei non avrebbe capito se lui lo avesse fatto,» ribatté Dorothea. «Ma io sì, se avessi saputo ciò che ha detto a lei. Mi parli della sua ultima conversazione con lui. Mi dica quello che sa.» Non si sarebbe fatta imbrogliare da un riassunto di un paio di frasi, ripetute in variazioni senza fine, come era accaduto con la polizia. L'immagine di Irv con la testa abbassata, la fronte corrugata, il labbro inferiore sporgente mentre pensava, si formò nitida nella sua mente, ma le sue parole erano svanite, nascoste in un vacuo silenzio mentale. Weyland si sentì in qualche modo minacciato dalla sua incapacità a ricordare. «Mi sono state rivolte tante di quelle domande,» disse. «Sono stato svuotato dalle domande, Miss Winslow, la mia facoltà di ricordare è esausta. Lui è morto. Quale vantaggio...» «Me lo dica!» Lui si raddrizzò. «Tutto questo è molto doloroso e praticamente inutile. Devo chiederle di andarsene, adesso. Forse un'altra volta, quando lo shock sarà stato assorbito...» «Mio Dio,» esclamò Dorothea, «e lui le ha lasciato il suo ultimo messaggio!» Andò via. Weyland ricadde sulla sedia e appoggiò la schiena alla spalliera, chiudendo gli occhi. Poteva avvertire una vena che pulsava freneticamente sulla sua tempia. Una sensazione di sconfitta lo sopraffece. Aveva affrontato male la sfida, aveva perso. La perdita aveva reso folle Dorothea. Alla fine la sua vista sarebbe stata di nuovo chiara, ma nel frattempo la sua ostilità avrebbe potuto convogliare ulteriormente l'attenzione su di lui: quella delle autorità, degli amici di Irv, dei parenti, dei colleghi — chi avrebbe potuto dirlo — anche dei nemici, degli agenti di quella misteriosa calamità dalla quale Irv stesso era
scappato. Il messaggio di Irv aveva intrappolato Weyland, e Dorothea, agitandosi convulsamente in cerca di un rimedio per la sua sofferenza, lo avrebbe senza dubbio irretito ancora di più. Non poteva permettersi la più piccola intromissione o indagine nella sua vita. Nessuna luce di riflettore, neppure la parte marginale di quella destinata a illuminare la morte di Irv, doveva cadere su di lui. Quando lasciò l'edificio, il camioncino era ancora là. Dorothea era seduta sul prato. Letty era inginocchiata dietro di lei, e le massaggiava il collo e le spalle. Non stavano guardando nella direzione di Weyland. Lui scivolò intorno all'angolo dell'edificio. Non gli era mai piaciuto guidare fino al suo garage, dal momento che poteva essere spiato da un osservatore nascosto. Preferiva sempre parcheggiare a ragionevole distanza e raggiungere la casa a piedi, stando bene attento a tutti i segni insoliti che non avrebbe notato se fosse stato al volante. Quella notte fermò la macchina in una profonda cavità d'ombra sotto un sicomoro a tre isolati da casa. Spegnendo le luci e il motore, rimase seduto per un po' coi finestrini aperti a guardare la notte. Era una buona macchina — una Volvo berlina che aveva comprato di seconda mano — sebbene non avesse niente a che fare con la splendida Mercedes che aveva perduto nell'Est. Di questa avrebbe potuto liberarsi senza troppi rimpianti, e se ne doveva liberare, assieme a tutto il resto dell'identità di Edward Lewis Weyland — ormai aveva preso la decisione. Rifletté sull'umorismo acido della situazione: alla fine quell'altra donna, Katje de Groot, la cacciatrice che lui aveva così disastrosamente cacciato al Cayslin College, avrebbe ottenuto quello che si era augurato. Weyland sarebbe morto. Che peccato dover rinunciare ai piaceri e alle prerogative di una carriera ben pagata e rispettata, alle ricompense per un lavoro ben fatto. Il libro sull'istinto predatorio non sarebbe mai stato portato a termine, adesso. Quella carriera era conclusa. I primi passi erano stati fatti. Le sue commissioni del pomeriggio — lavanderia, drogherie e calzolaio — gli avevano consentito di cambiare i diversi biglietti di banca di grosso taglio in monete di taglio più piccolo. Eppure scoprì di essere stranemente riluttante ad andare a casa per iniziare la sua ultima notte come Weyland. Il guaio era che un'identità così ben confezionata come quella provocava un'inevitabile riluttanza a liberarsene. La taglia era troppo perfetta: il ricercatore irascibile, stacanovista e brillante aveva espresso troppi aspetti della
sua reale natura. Tuttavia, Dorothea non gli aveva lasciato alcuna scelta praticabile. Aveva visto attraverso il Dr. Weyland con la sua meta-arte, e quello che aveva scoperto, unito ai suoi sentimenti lacerati della morte di Irv, la rendeva pericolosa. Per fortuna, lui non era senza risorse. Alla sua maniera, era un artista, un professionista nell'arte dell'auto-invenzione. Dorothea lo aveva visto come l'immagine stilizzata di un uomo, e aveva visto bene. Adesso avrebbe fatto in modo da ridisegnarsi come qualcun altro, e provò un amaro piacere al pensiero che avrebbe preso in prestito il suo nuovo ruolo dall'amica di Dorothea — da Letty. Ci aveva pensato durante quel pomeriggio, mentre sbrigava le varie commissioni. Se Letty poteva andarsene in giro, poteva farlo anche lui. Sarebbe stato per un po', sia letteralmente che metaforicamente, uno dei vagabondi taciturni di Irv, qualcuno che per caso salta fuori per pulire la stalla di una fattoria, per scavare le linee fognarie, per lavorare a una banchina di scarico, o spazzare il pavimento di un deposito per sostentarsi. Quel tipo tranquillo e per niente esigente, che non aveva avuto come meta Seattle e lo Space Needle. Se ne sarebbe stato per conto proprio, suggerendo così una famiglia abbandonata a causa di innominabili pressioni. Ciò avrebbe dato una spiegazione alla sua abitudine di evitare la burocrazia e le domande ufficiali. E avrebbe dato la sensazione di aver abbandonato un lavoro troppo banale per sollevare la curiosità: contabilità, o qualcosa del genere. Un nome — aveva bisogno di un nome adatto. In un attimo, passò in rassegna la vita ben più dura che lo attendeva — troppo pochi bagni, troppo tempo all'addiaccio, troppo poco denaro — poiché sapeva che in un paese così duro sarebbe riuscito a cavarsela. Era molto più forte degli esseri umani, che spesso venivano distrutti dalle difficoltà che vi incontravano. E nel frattempo, tutte le impossibili complicazioni coagulanti intorno alla persona conosciuta come Weyland sarebbero rimaste alle sue spalle. Dalla posizione vantaggiosa nel centro del gregge, Irv aveva detto solo metà della verità. L'arte può essere usata per separare, non solo per connettere. Una coppia uscì dalla casa in fondo alla strada e ripartì in automobile. Mentre osservava le luci posteriori che svanivano, avvertì la fame spingersi alla ribalta della sua coscienza. Avrebbe dovuto occuparsene quanto prima. Quando la strada fu di nuovo silenziosa, scese, chiuse la macchina e
s'incamminò verso casa. Vide l'autovettura blu parcheggiata nel viottolo polveroso che si snodava dietro la casa. La targa del New Jersey era familiare. Aveva visto un veicolo simile la domenica, nell'area di parcheggio del villaggio, realizzò, ma era stato troppo innervosito dall'incontro con Dorothea per prestare attenzione a quello che gli occhi gli avevano mostrato. In quel momento, sommerso dal ricordo di se stesso prigioniero e ferito in una minuscola cella alla mercé di mani che esploravano e recavano dolore e di un cuore malvagio, seppe che Alan Reese alla fine lo aveva raggiunto. Aveva esattamente corso il rischio di un pericolo del genere, quando si era trasferito a Ovest — e sotto lo stesso nome — invece di svanire a New York nel rifugio che aveva là, un tratto non più in uso di un tunnel della metropolitana. Aveva sperato che Reese rinunciasse a inseguirlo dopo che Roger non era morto per un pelo, sperabilmente impedito dal suo coinvolgimento con le autorità. Aveva perso la scommessa. Irv non era l'unico ad avere segreti mortali nella sua vita. L'urgenza della fuga ondeggiò nel pozzo del suo stomaco. Aveva del denaro in tasca, avrebbe potuto andarsene. Rimase dov'era, pensoso. Non fuggirò nell'ignoranza, nel panico, non scapperò come una volpe davanti ai cani. Ripose la viligetta sotto una siepe di ligustro e, imboccando silenziosamente il viottolo, si avviò verso il suo cortile posteriore. Cercò all'esterno della casa, ascoltò, scrutò le ombre, ma non trovò traccia di osservatori. Dentro c'era qualcuno: le tendine del soggiorno erano state abbassate completamente. Salì sopra la manovella di metallo del sistema antincendio e appoggiò la testa al vetro freddo della finestra. Dopo un po', qualcuno si mosse là dentro, un corpo che cambiava posizione, un leggero schiarirsi della gola. È uno solo, pensò. Andò di nuovo a fermarsi dall'altro lato della strada, invisibile contro la massa scura del grande abete rosso di Mrs. Sayers, e si mise a guardare la sua casa e a pensare: Così, ecco il disastro, un errore nato da altri errori. Cosa fare? Non parlare, non pensare, non comportarti come loro. Lascia perdere la ragione, confida nei ricordi seppelliti. Se avesse potuto allentare la stretta sulla sua superficie umana e riaffondare nel nucleo del suo più profondo e oscuro essere, nel suo io originario... non era semplice come quando le cose erano più semplici. Attraversò uno spaventoso momento di squilibrio e disorientamento. Poi qualcosa di caldo e ruvido cominciò ad
attorcigliarsi dentro il suo corpo. Sono forte, sono già deciso a partire, e sono affamato; perché non dovrei cacciare il cacciatore nella mia stessa casa, stanotte? Avanzò sul vialetto lastricato che conduceva alla porta principale. Non appena il chiavistello scattò dietro di lui, la luce di una lampada lo accecò. Weyland sollevò bruscamente un braccio per ripararsi gli occhi, fingendo di essere più frastornato di quanto lo fosse realmente. «Stai fermo e ascoltami!» sibilò Reese. Stava seduto, quasi accovacciato, sull'orlo della poltroncina posta in un angolo, col torso massiccio teso sopra l'arma che teneva stretta nella curva del suo braccio muscoloso — un fucile automatico col calcio molto piccolo. La bocca della canna era orientata verso il torace di Weyland. Con un sobbalzo, Weyland rammentò il dolore lacerante dei due piccoli proiettili della pistola di Katje de Groot. Reese stava parlando. Fin dall'ingresso di Weyland, non aveva mai smesso di parlare. «...Naturalmente avevo in animo un approccio più civile. Volevo lasciare nel tuo ufficio un invito a un incontro più formale di questo, ma non sono riuscito a entrare.» La sua voce prese fiato, divenne più profonda, si attenuò fino a una dolcezza quasi ipnotica, «...rendendomi conto che il mio precedente approccio era stato inadeguato...» Un modo per scusarsi? Molto più probabilmente un preambolo per una nuova proposta, una sorta di collaborazione... una rete di sostentamento volontario... continui rifornimenti di sangue... Chiesa del Sangue... cerimonie sceneggiate e provate accuratamente... organizzazione a livello nazionale... Usò la parola «venerazione», la parola «devoto», la parola «culto». Una vecchia storia, e, per la memoria non specifica ma ben affinata di Weyland, molto trasparente. Prima ti servono, poi ti controllano, quindi ti distruggono e sostituiscono. Che sia etichettato come religione o addomesticamento, il procedimento è lo stesso. Il tono di Reese sapeva di untuosa auto-esaltazione. «Ora quel tizio col quale trascorrevi così tanto tempo si è ucciso, forzandomi la mano — poiché ha forzato la tua. Ho ragione, non è vero, nel presumere che la tua attività frenetica di oggi sia stata scatenata dalla sua morte? «Sarà fatta un'inchiesta, non v'è dubbio. Cos'hai paura che possano scoprire? Credi davvero che qualcuno possa notare la piccola puntura sul collo di un morto?» Weyland lo fissò. Quella creatura, ignorando fatuamente il fattore della vicinanza dovuta al lavoro svolto nello stesso dipartimento, era balzata alla
conclusione che Irv era servito a Weyland come fonte di nutrimento. «Oh, sì, puoi davvero restare esterrefatto, vampiro. Ti ho osservato. Sono stato alle tue calcagna per la maggior parte della giornata di oggi. Mi è venuto in mente che tu potessi decidere di allontanarti con discrezione da qualsiasi domanda imbarazzante, forse addirittura di ritirarti per un lungo sonno. Non so quanti altri rifugi hai individuato, a parte la caverna dove ti sei recato sabato. Ho pensato che avrei fatto meglio a contattarti, mentre sapevo ancora dove trovarti.» Dolcemente, Reese aggiunse, «Farai meglio a convincerti che sono deciso e implacabile. Avevo già fatto dei grossi preparativi per questa conversazione.» Diede un colpetto sulla tasca dei suoi jeans. «Per esempio, ho qui la lettera che Katje de Groot lasciò all'amministrazione del Cayslin College quando tornò in Africa lo scorso inverno. Per quanto riguarda il povero Roger, dopo che tornò a casa dall'ospedale i vicini cercarono di farlo internare perché si comportava in maniera strana, ma la sua famiglia sistemò tutto. Attualmente vive con degli amici a Boston, più o meno la stessa vita, e sta cercando di scrivere un libro. Sappiamo entrambi su cosa, ma se mai sarà pubblicato dipende da te. «Mark scappò via dopo che parlai con lui un giorno fuori dalla scuola, e nessuno è riuscito a trovarlo. Ma la terapeuta, Landauer, è tornata in città. Un mio luogotenente la sta tenendo d'occhio per me. Di fatto, ho tutta questa gente sotto sorveglianza, eccetto Mark finché anche lui non si farà vivo. «Il punto è questo: se tu collabori posso trovare il modo per assicurarci che loro non siano una minaccia per te.» Weyland fu assalito da un impeto di rabbia. Le contrazioni dei muscoli della mascella scagliarono lampi di dolore nelle sue tempie, e la vista dei suoi occhi fiammeggianti si offuscò. Reese vide o avvertì tutto questo, perché la sua voce divenne stridula: «E se dovrò ucciderti qui, la loro testimonianza unitamente all'autopsia faranno di me un eroe.» «Io posso trovare il modo,» «Se io dovrò ucciderti...»; non «i miei uomini», «i miei seguaci». La mente di Weyland si schiarì. Ecco qua Reese che fa schioccare la frusta per spingere la tigre nella gabbia, ma dov'è il suo pubblico? L'uomo è un sadico e un esibizionista; perché è venuto da me senza scorta? Reese si adagiò comodamente sulla poltrona. «Se tu hai intenzione di optare per il genere di collaborazione che ho menzionato, lascia che ti chiarisca la natura del rapporto che ti propongo. Collaborazione implica fi-
ducia. Ma tu potresti dire sì sotto la minaccia delle armi e poi, non appena il tuo partner ha voltato la schiena, squagliartela e addormentarti per una cinquantina d'anni. Potrei trascorrere il resto dei miei giorni a cercarti. «Non credo che tu ti renda conto di quanto sei fortunato. Sono sicuro che hai vissuto in epoche in cui un uomo che non si fidasse di te non avrebbe avuto altra scelta che quella di strapparti gli occhi o tagliarti i tendini per assicurarsi la tua obbedienza. Tuttavia, in quest'epoca più schizzinosa e ingenua...» Prese dalla tasca un fiala munita di tappo che conteneva un fluido. «Torazina. La usano negli Ospedali psichiatrici per tenere buoni i matti. Stanotte prenderai la prima di molte, piacevoli dosi.» Weyland lo osservò mentre appoggiava il tubetto di vetro luccicante sul tavolo dov'era la lampada, e sentì che Reese lo osservava a sua volta con quegli occhi piccoli e freddi come aghi. «Sei preoccupato, vampiro. Non riesci ad apprezzare la tua buona fortuna? Nella migliore delle ipotesi questa roba farà di te uno zombi volenteroso che non si curerà di quello che accadrà, e io non sarò costretto a sperimentare altre droghe più forti. Nella peggiore, la torazina reagirà con la tua chimica così particolare, bruciandoti il cervello. «In entrambi i casi, ho vinto. Sono bizzarri i culti: a volte fioriscono meglio dopo che il loro dio è morto. Guarda il Cristianesimo. Coi testamenti, la comunione spirituale e le reliquie si può fare parecchio — la morte della deità concede mano libera ai preti. E non c'è rischio maggiore di quando si organizza una cerimonia con gente che viene da tutte le parti per poi scoprire che l'attrazione principale se l'è data a gambe.» Torse il pugno intorno alla canna del fucile come se il metallo potesse piegarsi. «Avevo convinto una troupe cinematografica a venire a casa di Roger, la Vigilia di Calendimaggio. Sulla mia parola, venne gente da New Orleans, dall'Inghilterra. Per nulla. Un fiasco. «Tutto quello che mandasti in rovina quella notte — l'influenza, l'accettazione da parte di gente importante, la fede che i miei seguaci avevano in me — adesso stai per restituirmelo, tutto quello e molto di più in aggiunta.» Di più. Cupidigia. Weyland sapeva cos'era la cupidigia. Scrutò con attenzione Reese. Quanti anni aveva quell'uomo — trentasette, trentotto? Non più giovane, stava invecchiando con la rapidità con cui invecchiano gli esseri umani. Il suo pullover di cotone rivelava che il suo corpo massiccio si avviava a diventare grasso. Svanita l'imbottitura extra, le rughe si sarebbero manifesta-
te sulle sue guance rotonde e lisce — non era cambiata quella faccia, dai giorni di New York: la pelle lentigginosa luccicava debolmente per il sudore, le labbra sottili erano avidamente socchiuse. I suoi capelli erano stati tagliati da poco, una spazzola chiazzata di sole: per nascondere il grigio nascente? Di più. Vuole molto di più della quota che ha di tutto. Offriglielo. Weyland si avvicinò al divano e si sedette. Reese balzò in piedi con un grido gutturale, sollevando di scatto il fucile come per sparare — ma non ci fu alcun impatto di proiettili, alcun rombo mortale. «Siediti.» Weyland parlò con fermezza, facendo salire la sua voce al disopra del nodo di paura che aveva in gola. «Spazza via dalla tua mente qualsiasi idea da teatro di terz'ordine; sei venuto da me, e otterrai molto più di questo. Ti spiegherò. Ascolta con attenzione. Non sono un maestro paziente.» Ricadendo sull'orlo della poltroncina, stringendo il fucile con entrambe le mani, Reese disse con una voce indurita dall'odio, «Molto bene, procedi — forse non sarai più in grado di formulare con chiarezza una frase. Parla, mentre ancora puoi, intrattienimi. Quando mi sarò annoiato, farò in modo che tu prenda la tua medicina. E, nel frattempo, se ti muovi un'altra volta senza il mio permesso, ti farò esplodere in mille pezzi.» Un momento di respiro, pensò Weyland. E se ci so fare, forse molto di più... Come mi devo comportare, che tono devo usare? Quando la gente andava a trovare Irv in privato, perché lo faceva? Per il suo calore, i suoi consigli preziosi, la sua simpatia che rasserenava. Io non sono caldo, sono freddo. Posso battere Reese con la mia freddezza? Forse è proprio questa che vuole da me? Tenta. Non hai niente da perdere. Con calma, disse, «Anche se sono quasi convinto che sei la persona giusta, devi ancora superare delle prove. La prima prova è la tua capacità di concentrazione, il tuo autocontrollo, la tua intelligenza. Insisti. Il successo significherà una vita come la nostra.» Avrebbe abboccato Reese? «Una vita lunga, segreta e sicura con la forza del predatore.» «Non molto originale,» disse Reese. «Se pensi che io possa credere che ci sono altri come te, dovrai escogitare qualcosa di meglio.» «Siamo in pochi,» mentì Weyland. «Praticamente... il controllo delle nascite, parlando in senso figurativo, è una scelta accurata, secondo il nostro
giudizio, di chi è e di chi non è adatto a diventare uno di noi.» «Bene,» disse Reese, «questa è una sciocchezza di livello leggermente più alto.» Scoppiò a ridere, ma i suoi occhietti rimasero spalancati, come se fosse stato involontariamente catturato dalla visione di un tempo interminabile; Weyland cominciò a sperare. Ebbe la sensazione di aver conosciuto uomini come quello in altre epoche — quelli che se ne stavano in disparte e manipolavano gli altri nella paura e nel disprezzo. Pretendevano di essere diversi, intoccabili, di aver ottenuto quello che potevano soltanto agognare: il più importante segreto delle società segrete, la pietra filosofale, il patto di Faust. Reese faceva mostra di schernire ciò che in quel momento stava ascoltando. Eppure Weyland sapeva che nel suo cuore lui desiderava ardentemente credere. Weyland disse con gelida approvazione, «Il tuo sospetto depone a tuo favore; come pure il tuo desiderio di prendere da me, non di accettare. Questi sono segni del cacciatore che hai dentro di te. Ma non sei ancora un lupo. Oh, un lupo fra gli uomini, forse, ma secondo i vostri standard questo non è molto. Devi mettere da parte il tuo atteggiamento autoritario e diventare uno scolaro. In caso contrario, non otterrai nulla da me, non quello che realmente desideri. E sarebbe un vero peccato. Quel giorno che venisti da me per la prima volta a casa di Roger, il tuo valore era già manifesto. Dal tocco delle tue mani sapevo che ti era destinato ben più di una piccola vita umana.» «Bugiardo! Eri ferito e umiliato quel giorno. Stai cercando la vendetta, non una fasulla fratellanza di sangue.» La canna del fucile si sollevò leggermente come se le mani di Reese avessero una loro bramosia di rinnovare la ferita e l'umiliazione. Come ricordava bene Weyland, e con quale odio viscerale, la stretta bruciante e rapace di quelle mani. Ma di fronte a un avversario così scaltro e mortale, l'odio era una debolezza pericolosa. Con immenso sforzo si controllò, mettendo da parte l'impeto di rabbia in favore della sua presenza imponente. Si costrinse a restare seduto tranquillo, ma non inerte, le mani rilassate sulle cosce. C'era solo un piccolo fremito di disprezzo nel suo atteggiamento, mentre replicava con un tono pedante, «Sì, ero ferito, ma come il diavolo che tu affermi di adorare posso vedere il bene in ciò che la maggior parte della gente vede il male. Adesso come allora, tu dimostri le qualità che un predatore deve avere: determinazione nel tendere alla meta, senso del proprio vantaggio, capacità di essere crudele. Sei venuto qui per dichiararti mio padrone. Io voglio che tu diventi mio simile.»
«Come?» lo schernì Reese, gesticolando col fucile tenuto saldamente stretto nelle mani massicce. «Deponendo la mia arma e venendoti a baciare il culo?» Perché quella frase puerile? Weyland si aggrappò a quello che Alison aveva detto: Tu hai la faccia del padre che tutti sognano... Disse severamente, «Il fucile non è importante, è un segno della vostra debolezza umana, un giocattolo. Puoi tenerlo se vuoi. Tutto quello che ti chiedo è il tuo consenso per essere reso maturo.» Reese sghignazzò, «La torazina non può fare alcun danno al tuo cervello, sei già pazzo. O si tratta solo di senilità procurata dal panico?» Subito Weyland modificò il suo attacco. «Certo, hai paura. Capisco.» Forse Irv avrebbe detto che... ma Irv era caldo. La sua comprensione, invece, doveva essere fredda. «Tu sai quanto fragile e vile, quanto umano c'è dietro quell'aspetto esteriore che hai indurito con tanta cura. La tua debolezza non ti rende inadatto ai miei occhi. So che anche nella tua infanzia viveva in te qualcosa di crudele, non la semplice brutalità infantile, ma un nucleo di ghiaccio per la cui preservazione ti sei isolato...» Reese si leccò le labbra ma non parlò. Doveva essere sempre stato poco aggraziato fisicamente, dispotico nei rapporti sociali, avido di potere. Quali favole avevano allietato il suo cuore tetro? Il bambino si è perduto nel bosco, è stato preso dai lupi, diventa il capo di un mitico branco che vaga nella foresta per sempre. Uno straniero emerge da un grande vascello stellare e dice, «Vieni, tu non sei uno di questi piccoli mammiferi infelici, è stato tutto un errore. Tu sei uno di noi, potente, saggio e immortale.» La magia rivela che i sudici contadini che si prendono cura di un tizio non sono la sua famiglia; il vero padre e la vera madre sono due regnanti immacolati, re e regina di una terra incantata. Weyland non ricordava nessuno dei suoi sogni, ma aveva studiato quelli degli esseri umani. Parlò al sogno di una superiorità segreta, al destino principesco dell'inserviente di una mescita. Non usò questi termini, ovviamente. A quell'adulto implacabile che gli aveva proposto di creare una nuova religione Weyland parlò di un sodalizio antico; alluse a una segretezza conservata spietatamente, a ricchezze nascoste e amministrate con abilità attraverso i secoli, a una gerarchia in cui Reese sarebbe stato per decadi un semplice iniziato, a un abbandono pianificato della logora identità umana che doveva essere lasciata alle spalle, a lenti cambiamenti della chimica e a poteri via via crescenti.
Niente di melodrammatico — quello era territorio di Reese, non si arrischiò ad avventurarsi. Weyland parlò con la cautela propria di chi intende reclutare per una simile causa. Quando la disperata inventiva della sua mente falliva, si limitava a suggerire segreti che non era ancora il momento di rivelare. Tutto ciò si sviluppava sul testo sotterraneo, le fiabe di cui le sue bugie erano ombre, cosicché lui parlò all'uomo e al bambino dentro l'uomo. Finalmente Reese lo interruppe, con voce velata. «Non ti credo. Non ti credo.» La sua mano si mosse ostentatamente sul meccanismo del fucile, e Weyland udì un singolo, minaccioso scatto. C'era tempo per un attimo, audace gesto: muovendosi lentamente e deliberatamente, Weyland si sbottonò il polsino e cominciò ad arrotolarsi la manica della camicia. Si costrinse a non pronunciare in fretta le parole. «Come tu osservasti a New York,» disse, «non posso creare un altro vampiro nutrendomi anche molte volte dalla stessa vittima. Ma c'è un granello di verità nell'antica leggenda del vampiro che apre le sue vene a un iniziato. Devo nutrirti, non una ma molte volte, finché non inizierà la tua trasformazione. È un rischio per me, e la cosa non mi diverte affatto, ma non c'è altra via.» Si alzò. «Chi era tuo padre?» «Non muoverti!» ordinò Reese, con voce rauca. «Siediti!» «Ho detto: chi era tuo padre?» La voce di Weyland risuonò distante nelle sue orecchie. Si sentiva stordito dalla paura, dalla rabbia, dalla vicinanza allettante della vittoria. Reese sussurrò, «Mio padre faceva il conducente nella metropolitana di New York.» Weyland, allarmato, pensò fugacemente al suo vecchio piano di andare a rintanarsi in un tunnel della metropolitana a Manhattan. Il turbine di sensazioni svanì. Adesso doveva pronunciare le parole giuste, altrimenti avrebbe perso. «Quello è stato il padre della tua vita umana,» dichiarò con voce chiara e rivelatrice. «Io sono il padre della tua vita eterna — se sei abbastanza audace da riconoscermi.» Appoggiò le labbra alla pelle sottile della parte interna del suo polso e proiettò il dardo che aveva sotto la lingua. Il gusto del sangue venne nella sua bocca, intenso, familiare, ricco e salato. La fame lo assalì, minacciando di sopraffarlo in un'estasi di appagamento, proprio come quella volta quando lo aveva quasi annientato. Si costrinse a sollevare la faccia e a mostrare quell'estasi a Reese: «Ti invito ad abbandonare le buffonate e i truc-
chi in cambio di quello che sta a te reclamare — la dolce realtà che io ti offro.» Tese il braccio, sentendo il caldo rivolto di sangue che serpeggiava sul suo palmo. «Vieni a bere.» Lentamente, inebetito, Reese si alzò e si avvicinò. I suoi occhi, nei quali Weyland scorse il luccichio delle lacrime, erano fissi sul polso insanguinato. La camera sembrava inadeguata a contenere il respiro rauco di Reese. Il fucile ciondolò nelle sue mani fiacche. Si chinò. Weyland appoggiò l'altra mano dietro la testa di Reese, guidandolo, rassicurandolo, accarezzandolo in silenzio con un tocco leggero. Reese si chinò ancora di più. Weyland avvertì le labbra tremanti contro la sua pelle. Con un ruggito veemente di trionfo afferrò la sua preda e la scaraventò a faccia in giù sul divano, gettandosi sopra di lui e imbrigliando il corpo che si dimenava freneticamente con gli arti d'acciaio. Il fucile scivolò sul pavimento. La mano insanguinata di Weyland si serrò sulla faccia di Reese, il palmo che bloccava la bocca urlante, le dita che schiacciavano le narici, soffocandolo. Strinse saldamente contro di sé il cuore che pulsava pazzamente, la schiena massiccia che s'inarcava e irrigidiva, finché tutto crollò in uno spasimo di mancanza d'aria. Allora mosse un dito e sentì che le costole di Reese si sollevavano per incamerare aria — e Weyland gliela diede, un sorso alla volta, abbastanza da sostenere la vita e la coscienza mentre gli diceva con voce stridula nell'orecchio. «Adesso berrò la tua vita. Prendi nota: è così che lo faccio.» Il sangue di Reese aveva il gusto pungente dell'adrenalina. Weyland non fece un semplice pasto ma un banchetto, prendendosi tutto il tempo necessario, permettendo l'ingresso dell'aria sufficiente a far sì che i polmoni pompassero ancora. Gli inutili scatti della testa e i movimenti rapidi delle gambe e del tronco proseguirono, ma in breve tempo la perdita di sangue placò ogni agitazione. Weyland allentò la stretta e si nutrì con maggiore lentezza, assaporando anche il lavorio del cuore esausto di Reese, il suo boccheggiare per l'aria che adesso entrava liberamente ma non aveva più il potere di salvare. Alla fine, nutriti fino alla sazietà la fame e l'odio, Weyland s'inginocchiò accanto al divano e guardò negli occhi azzurri e liquidi della vittima che lo guardavano a loro volta attraverso le palpebre socchiuse. Il cuscino del divano si era scurito per la saliva di Reese. «Puoi ancora vedermi?» mormorò Weyland, assonnato e soddisfatto. «Come ormai hai capito, hai fallito l'ultima prova. Sei troppo umano.»
Giacque sul tappeto del soggiorno e si addormentò. Quando si svegliò, Reese era morto. Weyland fece tutti i preparativi, e col corpo nel cofano guidò la macchina blu verso le montagne. Le mani nelle tasche, il colletto della vecchia giacca a vento sollevato contro la brezza, camminava verso nord fronteggiando lo scarso traffico che veniva in senso contrario. Di tanto in tanto apparivano e si avvicinavano dei fanali, e lui si ritraeva sul margine della strada finché le luci non sfrecciavano via in un soffio di vento. La giacca, i pantaloni da lavoro stinti, la camicia di cambrì, persino gli stivali da caccia vecchi e pesanti che indossava, tutto era stato rubato col favore delle tenebre dal Goodwill Store in città, un'ora prima. I suoi abiti macchiati di sangue li aveva depositati in vari bidoni dell'immondizia intorno alla città assieme a un paio di guanti da cucina di gomma e alle chiavi della macchina di Reese. Gli sciacalli locali avrebbero liquidato ben presto la macchina che aveva abbandonato, aperta, col fucile dentro sul pianale, in una zona di bassifondi e fabbriche. Il corpo di Reese era stato fatto rotolare nel letto asciutto e invaso da cespugli di un fiume nelle vicinanze di un sentiero molto pratico sulla montagna. Una volta travolto, avrebbero pensato che doveva aver perso la strada ed era morto di ipotermia. Restava poco per identificare Reese o per rivelare la natura della sua venuta ad Albuquerque. I suoi documenti e la lettera di Katje de Groot erano stati bruciati e le loro ceneri disperse nel vento. Gettato al vento come le ceneri dei documenti di Reese. Mentre marciava sul bordo della strada, modificò il passo per assumere un'andatura appropriata al vagabondo che aveva intenzione di diventare. Un momento, aveva dimenticato il tocco finale — un uomo sobrio e maturo non se ne va in giro con la testa scoperta. Tirò fuori dalla tasca della giacca il Panama arrotolato e liso e se lo mise in testa. Dentro di sé era esultante. Sebbene il gusto del sangue fosse il più dolce del mondo, molta gioia dava anche il sapore della vittoria. Col sangue e con la vittoria assieme aveva foggiato una perfetta conclusione della sua vita nei panni di Weyland. Ora poteva lasciare quella vita senza rimpianti. Brandelli di giornali fluttuarono fiaccamente sui fili metallici della recinzione alla sua sinistra. Immaginò i titoli: DOPPIO MISTERO SUL CAMPUS - SUICIDIO E SCOMPARSA. Povera Alison, aveva perso en-
trambi i suoi padri supplenti nel giro di pochi giorni. Ciò non lo infastidiva, ma qualcos'altro disturbava il suo stato d'animo euforico. La notizia sarebbe arrivata a Cayslin, e da lì a Floria Landauer. Questo mi preoccupa, pensò, allarmato. Si fermò, abbandonò la strada e si mise a fissare l'occidente, osservando la notte che se ne andava. Mi preoccupa. Cosa le accadrà? Si vide fermo davanti a un telefono di qualche stazione di servizio lungo la strada, mentre si ingobbiva per escludere il rumore del traffico e urlava nella cornetta — urlava un avvertimento. Cosa sarebbe accaduto se Reese avesse detto la verità a proposito del fatto che lei era sorvegliata? Cosa avrebbe fatto colui che la sorvegliava, senza più gli ordini di Reese? Mark si era reso conto del pericolo ed era scappato, ma Floria non sapeva nulla. Il pensiero di lei, innocente e inconsapevole, in balia degli uomini di Reese era intollerabile. Doveva essere avvertita, così avrebbe avuto la possibilità di salvarsi. Doveva essere avvertita, così la mente di Weyland si sarebbe liberata dell'ansia per lei. Senza dubbio alcuno, se fosse stato lui in pericolo e Floria fosse venuta a saperlo, lei avrebbe preso il coraggio a due mani e avrebbe trovato il modo per avvertirlo. Irv, in una situazione analoga, avrebbe rimandato il suicidio per farlo. Perché, allora, era così chiaro a Weyland che lui poteva anche immaginare una chiamata telefonica, ma non farla? Poiché parlando con Floria avrebbe compreso la sua scomparsa, e questo non poteva permetterlo. La sopravvivenza per le persone era, al massimo, una questione di decadi, mentre per lui erano in gioco dei secoli. La scala temporale lo divideva dall'umanità in maniera irrevocabile. Il coinvolgimento passionale di Irv, il coraggio di Floria, non erano per lui. Il legno ruvido e secco del palo della recinzione al quale si era appoggiato scricchiolò nella stretta della sua mano, rammentandogli la sedia che aveva mandato in pezzi in un momento di allarme nello studio di Floria. Questo non era allarme. Questo era dolore. Allargò le dita, esaminando la mano con la sua acuta vista aotturna: non erano le mani di un uomo, ma gli artigli di un rapace. Un rapace non si preoccupa. Non è mia abitudine preoccuparmi. Cos'aveva chiesto una volta un tizio a una conferenza che aveva tenuto — una domanda a proposito dell'orgoglio satanico? Aveva visto Miss de Groot fra il pubblico quella notte e non aveva attribuito alcun significato alla sua presenza, a parte la convinzione che i suoi sforzi per attirarla sta-
vano avendo successo. Non avrebbe dovuto rispondere con sarcasmo a quella domanda, perché l'orgoglio era sicuramente in lui, come pure la cecità che l'orgoglio comporta. Era diventato orgoglioso a mano a mano che procedeva nella sua lunga e vittoriosa lotta per forgiare l'identità di Weyiand: gli anni di lavoro con mansioni di ogni genere nei luoghi dove venivano conservati gli archivi; le sgobbate nelle librerie, nelle piccole tipografie, in una serie di uffici che avevano dei computer collegati a certi sistemi di informazione; i passi cauti di una carriera accademica iniziata in una mediocre scuola del Sud e coronata alla fine con una posizione di prestigio nel Cayslin College. Laggiù, alla guida del progetto «Mappa dei Sogni», si era sistemato per perfezionare la regolarità della sua nutrizione e immergersi nell'impegnativa routine del lavoro di ricerca. La sua sensazione di sicurezza era maturata nel corso di diversi anni in qualcosa di simile alla noncuranza. Aveva cominciato ad accettare come vero ciò che aveva conquistato. Finché Katje de Groot, con un colpo completamente inatteso e devastante, lo aveva squarciato, nel corpo e nella mente, lasciandolo vulnerabile a quegli altri. La memoria gli presentò alla mente il dolore e il terrore delle mani da macellaio di Reese, la prima volta che lo afferrarono, Mark che gli offriva il suo sangue, i suoi sforzi per impedirsi di schiantare il fragile corpo del ragazzo con la violenza della sua fame. Ricordò la consapevolezza stupefatta e crescente di Floria mentre lavorava per portare alla luce l'io del suo cliente, prima con le parole poi col suo corpo. Ricordò lo sguardo cupo e intenso di Irv, la sua voce bassa e preoccupata, e Dorothea bruciante di angoscia per non essere riuscita a salvare l'amico. Non erano bestiame, questi; meritavano molto di più del suo disprezzo. E avevano molto di più. Si era preoccupato abbastanza di preservare l'identità di Weyland, quando non era più sicura, assieme a tutti i suoi vincoli e ricordi. Quella notte, trovatosi in rischio mortale a causa della sua imprudenza, non era esploso in tutta la sua furia solo per superare il dolore o la promessa di un futuro di sofferenze nella mani di Reese. Gli era bruciato anche il pensiero di Floria Landauer presa, inconsapevolmente, nella rete di Reese; del giovane Mark che sceglieva i pericoli della fuga per sfuggire alla rete gettata su di lui; di Reese oscenamente vivo e di Irv morto. Gli bruciava ancora. Il fiato giunse debole e forzato e i suoi pensieri si riversarono in ondate scure e vertiginose. Reclinò la testa all'indietro e aspirò profondamente l'a-
ria nei polmoni. Perché sono fermo qui? si domandò con furia. Dovrei muovermi, mettermi a correre, liberarmi di ogni futile riflessione. Fissò intensamente verso nord, la direzione che aveva deciso di prendere. Non aveva scelta. Non poteva abbandonare quello che portava con sé — quelle persone, vivide come fiamme. Per quanto tempo avrebbero danzato nella sua memoria anche dopo essere morti per il mondo? Si diceva che il tempo offuscava simili visioni. E se questo non era vero per lui — se si fossero aggiunte altre visioni? Aveva subito un danno rovinoso, e tutti i suoi piani erano ormai irrilevanti. Non poteva continuare a cacciare con successo quelle prede per le quali avrebbe potuto nutrire interesse. Si era aperto un varco nella sua vita, chiunque sarebbe potuto entrare. Adesso sapeva, con amara chiarezza, perché durante ogni lungo sonno dimenticava la vita precedente. Dimenticava perché non avrebbe potuto sopravvivere con i dettagli di un passato enorme, reso gravoso da coloro ai quali si era legato. Non si stupiva per il fatto che l'arte, i sogni, o la storia portata così vividamente alla luce dalle parole umane, fossero pericolosi. Essi potevano spillare le riserve di emozioni seppellite dentro di lui durante i periodi di sonno. Non era adatto per sopportare il dolore, tanto meno il dolore sommato al dolore attraverso secoli di perdite. Soltanto le creature umane dalla breve esistenza potevano tollerare un dolore così grande — vedi Irv. Il rimedio stava in quel punto che aveva volutamente sorvolato un momento prima, nelle sue riflessioni. Tormentato dagli affetti, avrebbe fatto ricorso a un rimedio che non era a disposizione di Irv. Correndo un rischio e pagando un prezzo che non aveva modo di quantificare, poteva scegliere l'oblio del lungo sonno. Non sono il mostro che s'innamora e viene distrutto dai suoi sentimenti umani. Sono il mostro che rimane vivo. La prima debole luce dell'alba sfiorò la sua faccia con una parvenza di tepore mentre lui si voltava a est. Lentamente, con riluttanza, sollevò gli occhi verso la montagna: là era il suo rifugio. Forse erano passate delle ore, forse dei giorni, da quando si era disteso nella caverna. Non aveva neppure la fame a guidarlo, perché l'aria scura e gelida aveva cominciato a indebolire le sue funzioni corporee. Quel posto nella roccia era il reame del suo vecchio io, il nucleo animale. Da quel centro era scaturita la conoscenza, chiara e semplice, di come procedere verso il sonno: in prossimità dell'acqua che gocciola sulla pietra,
prepara un giaciglio, svestiti, stenditi, resta immobile e aspetta. Non doveva fare altro, e lentamente l'angoscia impallidì, le riflessioni s'interruppero. Il passato era immutabile. E riguardo al futuro, era già abbastanza sapere che quando si sarebbe svegliato, se si fosse svegliato, si sarebbe alzato rinvigorito, gli occhi ancora una volta acuti e sgombri come quelli di un falco, e il cuore duro come quello di un leopardo. La novità di sentirsi libero da tutte le necessità lo assorbì. Sembrava fluttuare a una certa distanza da se stesso nel buio, anche se di tanto in tanto avvertiva la morbidezza del cotone consunto sotto le guance, dove i suoi abiti avvolti fungevano da cuscino, o il miscuglio di fragranze dei cespugli, dell'erba e dei rami di pino che aveva utilizzato per il suo giaciglio. Poi, per un po' di tempo, giunse un dono inatteso. Le voci della gente tornarono vivide da lui, le facce, i gesti, le risate, la vorticosa gaiezza del pubblico dell'opera, il tintinnio delle monete nella tasca di Irv, il calore di Mark, la spalla ossuta sotto la sua mano mentre camminavano verso il fiume, il profumo della pelle di Floria. Un piacere intenso lo riempì mentre si concedeva al dolore misto a gioia della memoria, mentre si concentrava sulla vita trascorsa come Weyland. Infine, quando acquisì il possesso di quella vita, tutto fu lasciato andare senza sforzo, come l'emissione di un sospiro. Nella cripta silenziosa della sua mente le tenebre cominciarono ad addensarsi e a diffondersi. Tranquillo, riconobbe l'assalto del sonno. Non gli si oppose. FINE