FRED SABERHAGEN VAMPIRO (The Dracula Tape, 1975) Quanto segue è la trascrizione di un nastro magnetico estratto da un re...
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FRED SABERHAGEN VAMPIRO (The Dracula Tape, 1975) Quanto segue è la trascrizione di un nastro magnetico estratto da un registratore rinvenuto sul sedile posteriore di un'automobile di proprietà del signor Arthur Harker di Exeter. Il rinvenimento risale al gennaio di quest'anno, e precisamente a due giorni dopo che una bufera di neve di violenza straordinaria si abbatté sulla contea di Devon. Il signor Harker e sua moglie Janet, entrambi provati dalla lunga esposizione al freddo ed in preda a shock nervoso, furono ricoverati presso l'All Saints Hospital di Plymouth il mattino successivo alla notte in cui la tempesta raggiunse il massimo della sua intensità. I coniugi riferirono di aver abbandonato l'automobile su una strada impraticabile intorno alla mezzanotte, senza, tuttavia, fornire una spiegazione convincente sui motivi che li avevano indotti a rinunciare alla relativa sicurezza che il veicolo offriva loro in un'ora in cui la tormenta stava infuriando con la massima virulenza, e senza fornire un resoconto preciso sul modo in cui erano riusciti a raggiungere Plymouth. L'All Saints Hospital si trova a circa trenta chilometri dal punto in cui l'autovettura fu ritrovata alla deriva in Upham Road, nei pressi del Cimitero di St. Peter e virtualmente al limite dell'altopiano di Dartmoor. Le condizioni fìsiche degli Harker e lo stato dei loro indumenti all'arrivo all'ospedale suggerivano che i coniugi avessero attraversato a piedi la campagna circostante. L'automobile non aveva riportato alcun danno e, benché tutte le porte ed i finestrini fossero chiusi con la sicura, la chiave era ancora inserita nel motorino d'accensione nella posizione di spento. Un terzo del serbatoio era pieno di benzina. Sul nastro è registrata una voce maschile dal timbro profondo. Si esprime in lingua inglese, caratterizzata da un lievissimo accento di provenienza indefinibile. I tre esperti di linguistica consultati hanno espresso tre opinioni divergenti sulla lingua madre del parlante. La qualità generale della registrazione ed i rumori di sottofondo conforterebbero, secondo l'opinione dei tecnici interpellati, l'ipotesi che il nastro sia stato effettivamente registrato all'interno dell'autovettura, col motore funzionante a bassa velocità, il riscaldamento e gli aereatori in funzione, e violente raffiche di vento fuori dell'abitacolo.
Gli Harker non attribuiscono alcun valore al nastro considerandolo semplicemente «uno scherzo», pertanto non manifestano alcun interesse per esso e rifiutano di esprimere ulteriori commenti al riguardo. Il reperto fu ascoltato per la prima volta dalle unità di soccorso che trovarono l'auto e pensarono che il registratore potesse contenere un messaggio d'emergenza lasciato dagli occupanti della vettura. Proposero quindi la registrazione all'attenzione delle autorità superiori a causa dei riferimenti a crimini violenti in esso contenuti. Non esistono prove tali da porre in relazione il nastro con gli atti di vandalismo e profanazione perpetrati nel Cimitero di St. Peter e tuttora oggetto di indagini. ... questo interruttore, così le mie parole si imprimeranno elettricamente affinché il mondo le oda. Quale mirabile cosa! Ordunque, se alfine diremo la verità, di quali crimini mi si potrà accusare, e di quali peccati così turpi ed esecrabili? Immagino che mi accuserete di aver causato la morte di Lucy Westenra. Oh, non esiterei a giurare la mia innocenza, ma non v'è giuramento al quale credereste adesso! In seguito, forse, quando avrete cominciato a comprendere alcune cose, allora giurerò. Ho preso tra le braccia l'adorabile Lucy, questo è vero. Ma giammai contro la sua volontà. Né lei, né alcun'altra ho mai costretto con la forza. A questo punto della registrazione un'altra voce, non identifìcabile, bisbiglia una o due parole indecifrabili. La sua bisnonna Mina Harker? Signore, non stupitevi se tra un istante scoppierò a ridere come un pazzo. Sono secoli che non rido, e no, non sono affatto pazzo. Probabilmente non avete creduto ad una sola parola di ciò che ho detto finora. Ma ho intenzione di continuare ugualmente; parlerò al registratore, e voi mi ascolterete se vi aggrada. C'è tempo prima che sopraggiunga il mattino, e al momento nessuno di noi ha un altro posto dove possa trovar riposo. E poi, tutti e due siete bene armati, a vostro giudizio almeno, contro qualsiasi cosa possa io tentare di fare a vostro danno. È davvero pesante, caro signor Harker, la chiave che stringete nella mano destra dalle nocche bianche; e dall'adorabile gola della sua buona moglie pende un oggetto che potrebbe recarvi benefici maggiori d'un sì minaccioso randello, sempre che si possa dar credito ad ogni diceria. Il guaio è che tali dicerie difettano sempre di veridicità. Io sono l'ultimo sconosciuto al quale avrete offerto rifugio nella vostra automobile nel bel mezzo
d'una tempesta, sono pronto a scommetterci. Ma non intendo farvi del male. Vedrete! Lasciate solo che parli. Non ho ucciso Lucy. Non fui io a conficcarle nel cuore quel paletto. Non furono le mie mani a tagliarle l'adorabile testa, o a riempirle la bocca — quella bocca — d'aglio, come se fosse un maiale ammazzato, pronto per essere consumato in un banchetto di barbari. Con riluttanza feci di lei un vampiro, né lo sarebbe mai diventata se non fosse stato per quell'imbecille di Van Helsing e la sua terapia. Imbecille è uno degli epiteti più caritatevoli che posso usare per definirlo... Non ho ucciso neppure Mina Murray, divenuta in seguito la signora Jonathan Harker. Ricorrendo ad un classico eufemismo, dichiaro di non aver mai inteso torcere un capello a Mina. Con queste mani spezzai la schiena del suo vero nemico, il pazzo Renfield, che nutriva il proposito di violentarla e poi ammazzarla. Io conoscevo le sue intenzioni, sebbene i medici, il giovane Seward e quell'imbecille, si dimostrassero incapaci di scoprirle. E, quando Renfield mi rivelò spudoratamente ciò che voleva fare al mio amore.... ah, Mina. Ma questo è accaduto molto tempo fa. Era vecchia, una vecchia signora, quando raggiunse la sua tomba nel 1967. E non ho ucciso gli uomini della Demeter. Se avete letto la versione dei miei nemici sullo svolgersi di quegli eventi, in tal caso mi addebiterete anche le vite di quei marinai. Orbene, ditemi soltanto, perché, in nome di Dio perché, avrei dovuto ucciderli... Cosa c'è? A questo punto una voce maschile, identifìcabile come quella di Arthur Harker, pronunzia la parola 'niente'. Oh, è naturale. Non vi eravate accorti che posso pronunziare il nome di Dio. Siete vittime della superstizione, della pura superstizione, che è cosa detestabile, e dotata di grande potere. Io e Dio siamo vecchi conoscenti. O, quanto meno, io sono consapevole della Sua esistenza da molto più tempo di voi, amici miei. Ora vi starete domandando se il crocifisso al collo della signora, dal quale avete cominciato a trarre una piccola dose di sicurezza, sia realmente efficace in questa situazione. Non preoccupatevi. È sicuramente efficace contro di me quanto potrebbe esserlo la pesante chiave inglese nella mano destra del signor Harker, potete credermi. Adesso prestatemi attenzione, vi prego. È già un'ora che ci troviamo soli nel cuore della tormenta, e soltanto mezz'ora fa, da quando cioè avete cercato di vedere la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore, avete
cominciato a credere alla mia identità, a convincervi che non stessi scherzando, e che non mi stavo prendendo gioco di voi. Sulle prime avete mostrato una spensierata imprudenza. Se avessi desiderato carpire le vostre vite o dissetarmi col vostro sangue, a quest'ora gli atti cruenti sarebbero già belli e compiuti. No. Il fine che intendo perseguire nella vostra automobile è del tutto innocente. Desidero soltanto che restiate ad ascoltarmi mentre compio l'ennesimo tentativo di giustificarmi di fronte all'umanità. Financo dalle remote fortezze dove trascorro in massima parte il mio tempo, ho sentito l'aura di un nuovo spirito di tolleranza che sembra aleggiare sulla terra in questi ultimi decenni del Ventesimo Secolo. Sicché, voglio provare ancora una volta... Ho scelto la vostra macchina perché è capitato che passaste da queste parti stanotte — no, in tutta sincerità, qualche accorgimento è stato preso perché ciò capitasse — e perché lei, signore, è un discendente di una mia cara vecchia amica e, a quanto ho appreso, ha l'abitudine di tenere in auto questo registratore. Sì, le cose stanno proprio così; neppure la bufera di neve è stata esclusivamente frutto del caso. Ho desiderato avere l'opportunità di lasciare questo mio testamento, per me stesso e per quanti son simili a me. Non che esista qualcuno uguale a me, beninteso... Dal contenuto dei posacenere capisco che lei è un fumatore, signore, e scommetterei che ha voglia di fumare in questo momento. Suvvia, non indugi, metta giù quella chiave, la lasci magari a portata di mano, e si goda le sue boccate. Anche la signora potrebbe averne voglia in un momento così difficile. Oh, grazie ma io non indulgo a simili abitudini. Resteremo bloccati qui parecchio... Ho visto poche tormente peggiori di questa, persino sulle vette dei Carpazi. Sicuramente le strade saranno impraticabili come minimo fino a domattina. Senza scarponi da neve soltanto un lupo, o un volatile, può sperare di attraversarle... CAPITOLO PRIMO Non comincerò a raccontarvi della mia vita dal principio. Finanche rinchiusi qui dentro ad ascoltare le mie parole così come sgorgano dalle mie labbra, trovereste impossibile credere al racconto di quei giorni durante i quali respiravo e mi cibavo come ogni altro. Più tardi, forse, ne discuteremo. Vi eravate accorti che non respiro se non per carpire l'aria necessaria a produrre la voce? Osservatemi attentamente mentre parlo, e lo capirete.
Quel giorno all'inizio di novembre del 1891, sul Valico di Borgo che oggi corrisponde alla Romania, potrebbe costituire un buon punto di partenza. Van Helsing e gli altri credettero di avermi annientato allora, e posero fine alla loro cronaca. Anche quella volta nevicava, ed i miei zingari tentarono di salvarmi, ma i coltelli contro i fucili non valsero a molto quando i cacciatori a cavallo mi sorpresero al tramonto e mi tirarono fuori dalla bara, e coi loro lunghi coltelli puntarono al mio cuore ed alla gola... No. Ho la sensazione che sarei successivamente costretto a risalire troppo indietro se comincio da lì. Comincerò da dove inizia l'altra cronaca, quella che dovrebbe risultarvi più familiare. Questa comincia ai primi di maggio con l'arrivo nella mia enorme dimora in Transilvania di un certo Jonathan Harker, un avvocato alle prime armi mandatomi dall'Inghilterra al fine di assistermi nell'acquisto di una proprietà nei dintorni di Londra. Allora mi ero appena risvegliato da un periodo alquanto prolungato di profondo letargo, quiescenza e contemplazione. Nuove voci, nuove idee si udivano nel mondo. E persino dall'alto della mia remota vetta montana, rivestita di foreste secolari, irraggiungibili come le profondità di pozzi abissali, io, grazie ai miei sensi interiori, udivo i mormoni del telegrafo che attraversavano l'Europa, ed i primi scoppiettii delle macchine a vapore e a combustione interna. Fiutavo il fumo del carbone e percepivo la febbre del mondo che si andava trasformando. Quella stessa febbre mi colse e cominciò a crescere in me. Basta rimanere recluso coi miei vecchi compagni... se così li si può definire. Basta con gli ululati dei lupi, gli urli delle civette, il batter d'ali dei pipistrelli, basta coi fischi dei contadini stolti e con le loro dita intrecciate, basta con le croci brandite come randelli, quasi ch'io fossi un esercito di Turchi. Era giunto il momento di ricongiungermi alla razza umana, di uscire dalle tenebre, nel sole del progresso del mondo moderno. Budapest, e neppure Parigi, sembravano grandi abbastanza nonché lontane a sufficienza perché la mia nuova vita potesse albergarvi. Giunsi persino a prendere in considerazione l'America. Ma una metropoli più grande di quelle del Nuovo Mondo sorgeva a breve distanza da me, ed era più facilmente suscettibile di uno studio preliminare. Vi impiegai degli anni, ma fu uno studio esaustivo. Allorché Harker giunse al mio castello nel maggio del 1891, annotò sul suo diario a caratteri stenografici che «un vasto numero di libri, riviste e giornali inglesi» era disponibile nella mia dimora. Harker. Nutro più stima per lui che per il branco di inetti che successi-
vamente avrebbe seguito Van Helsing sulle mie tracce. Il coraggio merita sempre rispetto e, benché alquanto ottuso, Harker fu un uomo coraggioso. Ed essendo il primo, vero ospite nel Castello Dracula da secoli, divenne il soggetto dei miei primi esperimenti allorché modellavo la mia persona sì da renderla accettabile al grosso dell'umanità. Al primo incontro, in verità, dovetti camuffarmi presentandomi come il mio cocchiere, e in quel sembiante lo condussi all'ultima tappa del suo lungo viaggio dall'Inghilterra. Il personale di servizio in casa mia era, come alcuni benestanti sono avvezzi a definirlo, inaffidabile, e non del tutto inesistente come in seguito Harker sarebbe giunto a sospettare. Si trattava di zingari espulsi dalle loro tribù: leali verso di me, loro padrone d'adozione per superstizione, non possedevano alcuna competenza come servitori nel senso comune del termine. Ero perciò consapevole che avrei dovuto occuparmi personalmente del mio ospite. Harker era giunto in treno fino alla città di Bistrita; da qui una diligenza, o carrozza pubblica, si recava quotidianamente nella Bukovina, la regione nordoccidentale della Moldavia. La mia vettura lo avrebbe aspettato al Valico, a circa otto o nove ore da Bistrita, per condurlo alla mia residenza. Di ciò lo avevo informato tramite lettera. La diligenza raggiunse il passo pressappoco all'Ora delle Streghe, intorno alla mezzanotte, e cioè con un'ora d'anticipo rispetto al programma. Essa arrivò proprio quando io, senza correre rischi, spinsi il mio calesse trainato da quattro cavalli neri dietro la vettura che s'arrestò nel paesaggio notturno nel quale alle folte pinete s'alternavano lande desolate. Giunsi appena in tempo per udire il vetturino che diceva: «Non c'è nessuna carrozza ad aspettarla, Herr. Proseguirà con noi fino alla Bukovina, e tornerà qui domani, o dopodomani; meglio dopodomani.» In quell'istante, alcuni contadini a bordo della vettura mi videro arrivare e diedero inizio ad un coro spaventato di preghiere, scongiuri e bestemmie. Mi accostai più vicino e, dopo pochi istanti, il chiarore delle lanterne della diligenza illuminò la mia persona, abbigliata con l'uniforme d'un cocchiere, il volto celato da un cappello nero a falda larga e da una barba posticcia quale ulteriore camuffamento. Uno zingaro, ex attore girovago, mi aveva fornito quell'equipaggiamento. «Sei in anticipo stanotte, amico mio,» gridai al vetturino. «Il signore inglese aveva premura,» balbettò in risposta l'uomo evitando il mio sguardo. «È per questo, immagino, che volevi mandarlo direttamente a Bukovina.
Non mi inganni, amico; io so troppe cose, e i miei cavalli sono veloci.» Sorrisi ai finestrini della diligenza, affollati di volti pallidi e spauriti, e qualcuno dall'interno mormorò, citando Lenore: «Denn die Todten reiten schnell (Perché i morti viaggiano lesti). «Dammi il bagaglio del signore,» ordinai, e fui obbedito alla svelta. Dopodiché, il mio ospite fece la sua comparsa, unico tra i passeggeri che osasse guardarmi negli occhi. Era un giovane di media statura e dall'aspetto ordinario, ben rasato, con gli occhi e i capelli castani. Non appena mi si fu seduto accanto, la mia frusta schioccò nella notte, e partimmo. Tenendo le redini con una mano sola, mi servii dell'altra per gettare un mantello sulle spalle di Harker e posargli una coperta sulle ginocchia. Gli dissi dunque in tedesco: «La notte è fredda, mein Herr, e il mio padrone, il Conte, mi ha ordinato di prendermi cura di lei. Sotto il sedile c'è una fiaschetta di slivovitz, non faccia complimenti.» Il giovane annuì mormorando qualcosa e sebbene non avesse bevuto neppure un sorso del liquore, lo sentii leggermente più rilassato. Sicuramente, pensai, i passeggeri della diligenza dovevano avergli imbottito la testa di sfrenati racconti o peggio, e anche più probabilmente, avevano fatto strane allusioni al luogo terribile che si accingeva a raggiungere. Cionondimeno, nutrivo grandi speranze sulla possibilità di fugare qualsivoglia spiacevole preconcetto insinuatosi nella mente del mio ospite. Deliberatamente presi la strada sbagliata per perdere un po' di tempo, giacché quella notte ricorreva la Vigilia di San Giorgio, durante la quale tutti i tesori sepolti tra le montagne diventavano visibili a mezzanotte grazie all'apparizione di intense fiamme bluastre. I preparativi per il viaggio all'estero avevano intaccato cospicuamente la mia riserva d'oro, e non volevo lasciarmi sfuggire l'opportunità di rifornirmi. Ecco che dubitate nuovamente. Pensavate forse che la mia vecchia patria fosse uguale a qualsiasi altra terra? Niente affatto. In quella terra nacqui, e non riuscii a morirvi. Lì, come lo stesso Van Helsing disse una volta: «Vi sono profonde caverne e crepacci mai raggiunti. Un tempo vi furono vulcani... acque dalle curiose proprietà, e gas col potere di uccidere o ridare la vita.» L'inglese non era la lingua madre di Van Helsing. Non ha importanza. Il fatto è che quella notte colsi l'occasione di localizzare alcuni luoghi ove si celavano ricchezze, e probabilmente, come vedremo in seguito, ve ne dovevano essere parecchi altri ancora. Com'era, naturale, il mio passeggero si incuriosì alle ripetute soste del calesse, al bagliore misterioso delle tremolanti fiammelle azzurre che ba-
luginavano qua e là nella campagna, ed al mio continuo smontare dalla serpa per costruire piccoli tumuli di pietra. Questi mi avrebbero guidato successivamente a ritrovare con comodo i nascondigli dei tesori. Mi ero aspettato che la naturale curiosità di Harker di fronte a tali stranezze sarebbe esplosa d'improvviso con una tempesta di domande alle quali io, nei panni di cocchiere, avrei risposto in modo tale da dimostrare inconfutabilmente che prodigiose meraviglie mai vedute in Inghilterra esistevano lì in Transilvania. In tal modo, avrei creato gradualmente nel mio ospite una condizione mentale di ricettività verso la verità che riguardava la mia persona e la razza dei vampiri in generale. Ai miei calcoli era invece sfuggita la dannata propensione degli Inglesi a occuparsi degli affari loro, cosa che in Harker, a mio parere, raggiungeva livelli di pura assurdità, tali anche per un discreto e diplomatico avvocato di primo pelo. Se ne stava seduto sul sedile scoperto del calesse ad osservare le mie stravaganze con i mucchietti di pietre senza profferire parola. Si lasciò sfuggire un grido soltanto quando i lupi, miei figli adottivi della notte, giunsero dalle tenebre delle foreste ombrose nel chiarore della luna, s'avvicinarono al calesse e lo fissarono muti, e con lui i cavalli nervosi. E neppure allora, quando tornai dall'ultimo ritrovamento di quella notte e con un gesto allontanai i lupi rompendo il circolo che avevano formato attorno al calesse, neppure allora, dicevo, Harker mi rivolse una sola domanda. Stavolta, però, allorché rimontai sulla serpa, avvertii il terrore che lo aveva irrigidito. La tensione che aveva sopraffatto il mio passeggero non lo abbandonò per tutto il resto del viaggio, che ebbe a terminare quando lo condussi «nel cortile di un vasto maniero in rovina, dalle cui alte finestre nere non filtrava alcun raggio di luce; i bastioni cadenti disegnavano una linea frastagliata nel cielo rischiarato dalla luna;» così, di lì a poco avrebbe descritto la mia dimora. Lasciai Harker ed il suo bagaglio presso la massiccia porta principale e mi diressi verso le stalle, dove destai con un calcio il meno 'inaffidabile' dei miei servi affinché avesse cura dei cavalli. In tutta fretta attraversai i passaggi sotterranei del castello e, sbarazzatomi lungo il cammino della barba finta e della livrea, riassunsi la mia vera identità ed andai a dare il benvenuto al mio ospite. Sostai qualche istante nel corridoio in prossimità delle stanze che avevo riservato per lui e, una tenue fosforescenza invisibile ad occhi meno avvezzi alla tenebra, mi aleggiò accanto; un vocìo sommesso che aveva poco
d'umano somigliando alla musichetta di un computer, provenne dal bagliore e, in breve, tre corpi e tre volti si materializzarono nell'aria. Tutti e tre erano giovani nell'aspetto e femminili in ogni dettaglio, tranne per il fatto che indossavano senza imbarazzo abiti che andavano di moda un secolo avanti. Neppure Macbeth nella sua brughiera scorse mai tre figure foriere di presagi così nefasti. «È arrivato?», chiese Melissa, la più alta delle due brune. «Quanto ci toccherà aspettare per assaggiarlo?», fece Wanda, la più bassa e pettoruta, mentre masticava e succhiava un ricciolo di capelli corvini che si erano infilati in un angolo delle sue sorridenti labbra color del rubino. «Quando ce lo darai, Vlad? Ce lo hai promesso, ricorda!», incalzò Anna, dallo sfolgorio dei capelli biondi. Questa vantava una maggiore anzianità di servizio prestato alle mie dipendenze. Beh, servizio non è proprio il termine esatto. Si tratta piuttosto della sua più lunga resistenza in un gioco di ingegno e volontà che tutte e tre giocavano contro di me incessantemente e che io da parecchi decenni mi ero stancato di corrispondere. Entrai nelle stanze preparate per Harker, ravvivai il fuoco nel focolare, deposi sul tavolo i piatti messi in caldo sulla mensola del focolare e, volgendomi alle mie spalle, mormorai al corridoio in penombra: «Vi ho fatto una sola promessa a proposito del giovane inglese, e adesso ve la ripeto: se una di voi poserà le labbra sulla sua pelle, avrà di che dispiacersene.» Melissa e Wanda ridacchiarono, soddisfatte, posso supporre, d'avermi irritato e di avermi indotto a ripetere un ordine. Anna, come sempre, non rinunziò a pronunciare l'ultima parola: «Ma ci sarà almeno un po' di divertimento. Se si metterà a gironzolare fuori dalle sue stanze, allora sarà libera preda?» Non le diedi alcuna risposta — non è mai stata mia abitudine mettermi a discutere con i subordinati — ma mi assicurai che ogni cosa fosse in ordine per accogliere Harker; nei limiti delle mie possibilità, ovviamente. Dopodiché, munito di un'antica lampada d'argento, scesi lesto dalla porta d'ingresso che aprii con fare ospitale per trovarmi di fronte al mio perplesso ospite ancora in attesa nella notte accanto alle valigie poggiate sul terreno. «Benvenuto nella mia casa!» gli dissi. «Entri liberamente e di sua volontà!» Mi sorrise, quello straniero fiducioso, accettandomi come né più né meno d'un uomo normale. Nell'impeto della felicità, ripetei il benvenuto non appena ebbe attraversato la soglia, e forse gli strinsi la mano un po' più forte del dovuto. «Entri in tutta libertà! Parta sano e salvo e lasci qualcosa
della felicità che porta!» «Il Conte Dracula?», domandò Harker come se potesse esservi qualche ragione plausibile per dubitarlo, ed intanto scuoteva le dita dolorosamente compresse per riportarle alla vita. «Io sono Dracula,» risposi con un inchino. «E le do il benvenuto, signor Harker, nella mia dimora. Entri: l'aria della notte è fredda e lei ha sicuramente bisogno di cibo e riposo.» Appesi la lampada alla parete e mi accinsi a sollevare il bagaglio del giovane, incurante delle sue proteste. «Oh, no, signore, lei è mio ospite. È tardi, e a quest'ora il personale di servizio non è disponibile. Lasci che mi occupi io stesso delle sue esigenze.» Mi seguì su per la scala all'alloggio che avevo preparato per lui. I ceppi fiammeggiavano nella stanza dove la tavola era stata apparecchiata per la cena; un altro fuoco ardeva nell'ampia camera da letto dove deposi le valigie. Avevo preparato io stesso la cena che lo attendeva — pollo arrosto, insalata, formaggio e vino — così come accadde per la maggior parte dei pasti che ebbe a consumare durante le settimane del suo soggiorno in casa mia. Aiuto dalle ragazze? Bah! Erano in tutto simili a mocciosette che la minaccia d'una punizione costringe a non comportarsi male, ma non riesce a far sì che si comportino bene. Ciò faceva parte del gioco che intrattenevano con me. Inoltre, preferivo evitare il più possibile il loro accesso nelle sue stanze. Cosicché, con le mie proprie mani — le mani di un Principe di Valacchia, cognato di un Re — gli tolsi dinanzi i piatti sporchi che gettai via assieme agli avanzi, per non parlare degli innumerevoli pitali di porcellana. Se non vi fosse stato un modo così semplice di liberarmi delle stoviglie sporche, credo che, al pari di qualunque servo, avrei dovuto ripulirli personalmente. È vero che buona parte dei piatti erano d'oro, ma ero determinato a non privarmi della compagnia del mio ospite. Oltretutto, se mai fossi ritornato al castello dal soggiorno all'estero che avevo programmato, allora sarei riuscito quasi certamente a recuperare gli utensili d'oro dal fondo del precipizio di trecento metri sul quale s'affacciava il mio castello e che costituiva un validissimo immondezzaio. Avrei trovato i piatti ancora laggiù, un po' ammaccati dalla caduta, è ovvio, ma puliti dalle intemperie e al sicuro dai ladri. Ho sempre provato un'estrema avversione per i ladri, e credo che gli abitanti dei villaggi circostanti condividessero questo mio atteggiamento, ma soltanto questo. Nel mese e mezzo che stette da me, il mio ospite, sempre meno ricono-
scente, mangiò da sultano in piatti d'oro e, quando questi si furono esauriti, fui ridotto a servirlo con stoviglie d'argento. Naturalmente, verso la fine, avrei potuto tranquillamente servirgli il cibo su pezzi di corteccia: se ne sarebbe accorto appena, tant'era il terrore suscitato da certe peculiarità della mia natura. Harker fraintese queste mie stranezze, ma non mi chiese mai una chiara spiegazione, né io, saggiamente o stoltamente, gliene offrii di mia iniziativa. Ma torniamo a quella prima sera. Il mio ospite si rinfrescò e si cambiò d'abito, dopodiché mi raggiunse nella sala da pranzo. Mi trovò appoggiato al camino, in avida attesa della sua compagnia, affamato di notizie fresche dal grande mondo e di una conversazione intelligente quanto lui lo era di buon cibo. Gli feci cenno di prendere posto a tavola. «La prego,» gli dissi, «si sieda e si serva a suo piacimento. Vorrà certo scusarmi se non le faccio compagnia, ma ho già pranzato e non uso cenare.» Mentre Harker era alle prese col pollo, io lessi la lettera che mi aveva consegnato da parte del suo datore di lavoro, Hawkins. Questi descriveva il giovane discepolo come «pieno di energia e talento, e assai incline alla fedeltà,» oltre che «discreto e taciturno.» Tutto ciò era di mio gradimento e, subito, diedi inizio ad una conversazione che si protrasse per ore mentre Harker mangiava e successivamente fumava un sigaro. Discorremmo principalmente delle circostanze del suo viaggio: mi interessavano particolarmente i treni che fino ad allora non avevo mai veduto, e fui immensamente compiaciuto di quel colloquio. Il silenzio calò tra noi verso l'alba, interrotto soltanto dagli ululati di un folto branco di lupi giù nella valle. «Li ascolti,» dissi, senza riflettere. «I figli della notte. Quale musica si innalza da essi!» Uno sguardo carico di sconcerto apparve sul volto del mio ospite; mi ero dimenticato che, soltanto poche ore prima, allorché camuffato da cocchiere lo avevo condotto lungo la tortuosa strada montana, aveva visto i lupi ad una distanza temibilmente ravvicinata. Fui lesto ad aggiungere: «Ah, signore, voi abitatori della città non potrete mai capire i sentimenti del cacciatore.» Subito dopo ci ritirammo a riposare ciascuno per suo conto. Essendo rimasto sveglio fino all'alba e stanco del viaggio, Harker dormì naturalmente fino a giorno inoltrato, e, come avevo previsto, non fu sorpreso di vedermi soltanto dopo il tramonto. Quando andai a cercarlo, non lo trovai nelle sue stanze e la cosa mi allarmò. Non volevo infrangere l'in-
cantesimo di quella prima serata di umana cordialità cercando di spiegargli quanto potessero rivelarsi pericolosi alcuni recessi del castello. Con mio sollievo non si era allontanato oltre la mia biblioteca, dove per sua «grande delizia,» come aveva registrato nel suo diario, scoprì «un vasto numero di libri inglesi... riviste... e giornali. I libri erano di genere vario: storia, geografia, politica, economia, botanica, geologia, diritto: tutti pertinenti l'Inghilterra, alla vita, agli usi ed ai costumi inglesi.» «Sono lieto che siate venuto qui,» dissi in tutta sincerità, «poiché sono certo che vi troverete molte cose interessanti. Questi compagni» — indicai i libri con un gesto — «sono stati i miei migliori amici, e per molti anni, fin da quando maturai il proposito di recarmi a Londra, mi hanno regalato tante, davvero tante, ore di piacere. Grazie a loro son giunto a conoscere la gloriosa Inghilterra; e conoscerla vuol dire amarla. Desidero con ardore percorrere le strade affollate della sua potente Londra, confondermi nel vortice impetuoso dell'umanità, respirarne la vita, i cambiamenti, la morte, e tutto ciò che fa di lei ciò che è. Ma, ahimé! La sua lingua, amico mio, mi è nota soltanto attraverso i libri, e su di lei confido per imparare anche a parlarla.» «Ma, Conte,» protestò Harker, «lei conosce e parla l'Inglese perfettamente!» «La ringrazio, amico mio,» risposi, «il suo apprezzamento è lusinghiero, ma temo d'aver percorso soltanto un breve tratto del cammino che ho scelto di compiere. Conosco la grammatica ed il lessico, questo è vero, ma non so ancora utilizzarli per parlare la lingua vera.» «Mi creda, Signore: lei si esprime in maniera eccellente.» «Ne dubito. Se mi trasferissi a Londra adesso, non ci sarebbe persona che non riconoscerebbe in me un forestiero. E questo non mi basta. Qui sono un Nobile, sono un boiardo, e la gente comune mi conosce e mi rispetta come un padrone. Ma uno straniero in terra straniera non è nessuno: la gente non lo conosce, ed essere sconosciuto vuol dire essere ignorato. Sarei soddisfatto se fossi uguale agli altri, così nessuno si fermerebbe a guardarmi o interromperebbe il suo discorso nell'udirmi, dicendo: 'Ha... ha: uno straniero!' Sono stato un padrone troppo a lungo per rinunciare ad esserlo, e, soprattutto, perché qualcun altro lo diventi di me. Lei non è qui soltanto come agente del mio amico Peter Hawkins di Exeter, per informarmi sulla mia nuova proprietà londinese. Lei si fermerà qui per un po' — ci conto — così, dalle nostre conversazioni, potrò apprendere il corretto accento inglese; e vorrei anche che mi facesse notare ogni errore, foss'an-
che trascurabile, della mia dizione. Mi rincresce d'essermi assentato così a lungo oggi, ma so che lei vorrà perdonare chi come me è assorbito da affari di estrema importanza.» Harker manifestò la sua disponibilità ad aiutarmi nel migliorare il mio Inglese e mi domandò il permesso di servirsi della biblioteca a suo piacimento. Tale richiesta mi fornì un utile spunto per fargli alcune raccomandazioni, cosicché gli dissi: «Sì, certamente. Può muoversi liberamente nel castello: eviti soltanto le porte chiuse a chiave dove, del resto, non avrà desiderio di recarsi. C'è una ragione perché tutte le cose qui siano come appaiono e, se lei potesse vedere coi miei occhi e ragionare con la mia mente, allora forse capirebbe meglio ciò che intendo.» «Ne sono certo, Signore.» Ma sapevo che era ancora presto perché cominciasse a capire, e cercai di insistere su quel punto, senza però sbilanciarmi in eccesso. «Siamo in Transilvania, e la Transilvania non è l'Inghilterra. Il nostro modo di essere non è il vostro, e molte saranno le cose che le parranno strane. Beh, da quel che mi ha raccontato della sua recente esperienza, posso supporre che si sia già fatto un'idea delle stranezze nelle quali le potrà capitare di imbattersi.» Avendo così sospinto la conversazione ad inoltrarsi nella regione tenebrosa delle Cose Strane, e vedendo che il mio ospite annuiva seriamente in palese accordo con quanto gli avevo detto, fui colto da un attimo di esitazione, e fui sul punto di provare a dirgli tutto. Ma non lo feci; decisi che dovevo prima guadagnarmi l'amicizia di Harker. Questi colse l'opportunità per farmi qualche domanda a proposito delle misteriose fiamme bluastre che aveva intravisto nella notte del suo arrivo e della bizzarra condotta del 'cocchiere'. Nelle risposte che gli fornii inclusi una cospicua dose di verità. «La Transilvania non è l'Inghilterra,» ripetei, «e qui vi sono cose che uomini ragionevoli — uomini d'affari e di scienza — potrebbero essere incapaci di comprendere. In una certa notte dell'anno — la notte scorsa, per l'appunto, nella quale, stando ai racconti dei contadini, tutti gli spiriti maligni girano liberi e indisturbati — una fiammella azzurra arde là dove è stato celato un tesoro. Non c'è alcun dubbio che in questa regione siano stati nascosti molti tesori; questa terra, difatti, fu contesa dai Valacchi, dai Sassoni e dai Turchi. Qui attorno non c'è un centimetro di terreno che non sia stato concimato col sangue dei patrioti e degli invasori.»
Parlare del passato mi riportò indietro nel tempo, così come mi accade adesso; risentii i movimenti del cavallo da guerra sotto di me, mentre alle sue orecchie giungevano i suoni della battaglia, il clangore delle armi, le grida di terrore. Risentii gli odori della guerra, e rividi gli stendardi ed il sangue. Ricordo tuttora il tradimento dei Boiari, e la splendida lealtà dimostrata a me, il Voivoda, Signore della Guerra, da parte di coloro che lavoravano la terra e conoscevano la mia onestà. Come fu bello respirare l'aria con loro... Ma non ha importanza. Continuai così a parlare ad Harker: «Vi furono in passato giorni di grande tumulto, allorché gli Austriaci e gli Ungheresi attaccavano in orde, e i patrioti si lanciavano incontro a loro — donne e uomini, anziani e bambini — e aspettavano il loro arrivo sulle rocce sopra i valichi seminando distruzione, scaraventando addosso agli invasori valanghe di rocce. Quando infine l'invasore trionfò, di oro e metalli preziosi non trovò quasi nulla, poiché ogni ricchezza era stata sotterrata nel suolo amico.» A quel punto Harker era a metà strada dal credere nel prodigio delle fiamme e dei tesori. «Ma come è possibile,» domandò, «che un tesoro rimanga così a lungo nascosto, se basta prendersi il fastidio di seguire tracce così certe per scoprirlo?» Sorrisi. «Perché in cuor suo il contadino è sciocco e codardo!» Era ai contadini del 1891 che pensavo in quel momento. «Quelle fiamme appaiono una sola notte all'anno, e nessuno osa mettere il naso fuori della porta se può evitarlo.» La conversazione slittò verso altri argomenti per finire alla mia nuova proprietà londinese. «Suvvia,» esortai il mio ospite, «mi parli di Londra, e della casa che mi ha procurato.» Mentre Harker metteva assieme i documenti da consultare in un'altra stanza, colsi l'occasione per sparecchiare la tavola avvolgendo avanzi e stoviglie nella tovaglia di lino che gettai giù per il fianco della rupe da una finestra occidentale. I piatti sporchi rotearono in aria per un migliaio di piedi prima che gli avanzi si staccassero finendo sulle rocce. Quando il mio ospite fu di ritorno, trovò le lampade accese e la mia persona sdraiata sul sofà a leggere la Bradshaw's Guide. I documenti relativi all'acquisto della proprietà erano alquanto complessi, ma Harker dimostrò piena competenza nel guidarmi attraverso i misteri di quelle carte. Apparve sorpreso della mia precisa conoscenza dell'assetto del territorio circostante la proprietà — e cioè la zona di Purfleet, circa quindici miglia a est del centro di Londra, sulla sponda settentrionale del
Tamigi — cosa che avevo curato con estrema attenzione dalla mia remota dimora. «Ebbene, amico mio,» replicai, «non è forse indispensabile che io sappia bene dove vado? Una volta trasferitomi, sarò tutto solo, e il mio amico Harker Jonathan — mi perdoni, talora cedo all'abitudine del mio paese di far precedere il patronimico al nome — il mio amico Jonathan Harker non sarà al mio fianco a correggermi ed assistermi. Sarà invece ad Exeter, lontano più di cento miglia, probabilmente intento a lavorare ad altri documenti legali con l'altro mio amico, Peter Hawkins.» Firmai una lista di carte che mi sembrò interminabile; ora i documenti potevano essere rispediti ad Hawkins. I miei zingari, Szgany, come usavo chiamarli allora, erano spesso presenti nel castello e, in virtù di una lealtà mista a paura erano, per quel che riguardava la mia persona, assolutamente affidabili. Consegnavano la mia posta e si occupavano dei cavalli. A volte mi procuravano cibo — vi parlerò successivamente delle mie abitudini alimentari — e per un lungo periodo formarono un ponte utile seppur instabile tra me ed il resto dell'umanità. Quando ebbi finito di firmare tutti i documenti, Harker mi lesse i suoi appunti nei quali descriveva la mia nuova proprietà, ed in che modo l'aveva localizzata. Ricordo benissimo la descrizione, così come ricordo quanto di me scrissero quell'anno i miei nemici. Neppure una parola mi sfugge. «Percorrevo una strada laterale di Purfleet, quando mi trovai dinanzi ad una costruzione che sembrava proprio fare al caso mio e notai un logoro cartello che informava che la proprietà era in vendita. È circondata da un alto muro di antica fabbricazione, costruito in pietra massiccia, visibilmente in rovina da molti anni. Il cancello chiuso è di solida quercia e ferro, completamente roso dalla ruggine. «La proprietà reca il nome di Carfax, senza dubbio una corruzione del vecchio Quatre Face, giacché la villa ha quattro lati orientati verso i quattro punti cardinali della bussola. L'estensione complessiva è di una ventina di acri quasi tutti recintati dal muro di cui sopra. Vi sono numerosi alberi che rendono il luogo alquanto ombroso, e vi è pure un profondo ed oscuro stagno o laghetto, alimentato, evidentemente, da qualche sorgente, giacché l'acqua è limpida e scorre in un corso regolare. «La casa è molto grande, e credo risalga addirittura al periodo medievale; una parte è costruita di pietra estremamente spessa, interrotta solamente da pochissime finestre poste molto in alto e sbarrate da pesanti spranghe di ferro. Sembra quasi la porzione di un'antica roccaforte, e somiglia ad una
vecchia cappella o ad una chiesa. «Non ho potuto entrarvi non possedendo la chiave della porta che conduceva a quell'ala della costruzione, ma ho scattato alcune fotografie con la mia Kodak da diverse angolazioni. Ci sono poche abitazioni nelle vicinanze, ed un edificio molto grande è stato costruito di recente per ospitare un istituto di cura per malati di nervi. Non è visibile, però, dal parco della villa.» Quest'ultima affermazione si rivelò inesatta, come ebbi modo di scoprire in seguito; ma naturalmente ero propenso a lasciar correre qualche bonaria bugia del venditore. «Sono lieto che sia vecchia e grande,» commentai, quando Harker ebbe finito la sua descrizione. «Io stesso provengo da un'antica famiglia, e vivere in una casa nuova mi risulterebbe insopportabile. Una casa non può esser resa abitabile in un giorno; e, del resto, come son pochi i giorni che occorrono a formare un secolo. Mi rallegra anche apprendere dell'esistenza di una cappella antica... Ormai non sono più un giovanotto e il mio cuore, dopo anni faticosi di luttuosi lamenti per i tanti morti, non è più avvezzo all'allegrezza... Amo le ombre, e gradisco rimaner solo coi miei pensieri quando mi è concesso.» Trascorremmo insieme una lunga serata simile a quella precedente; e questa, la notte tra il sette e l'otto maggio del 1891, fu l'ultima per un lungo periodo durato parecchi mesi, in cui entrambi pensavamo che le cose tra noi andassero bene, l'ultima notte nella quale non ci consideravamo reciprocamente nemici, almeno potenziali. Naturalmente avevo preso la precauzione di eliminare tutti gli specchi dalle stanze del castello che prevedevo sarebbero state occupate o visitate dal mio ospite. Ma, la terza mattina del soggiorno di Harker, entrai nella sua stanza nelle prime ore del giorno — un'ora alquanto scomoda per me — e lo trovai intento a radersi mirandosi nel suo specchietto da viaggio. Mi ero fatto l'idea che, quando avrei cominciato a guadagnarmi la completa ed incondizionata accettazione nel mondo come un normale essere umano, la psicologia della maggior parte degli uomini e delle donne non avrebbe consentito loro di credere al fatto oggettivo che la mia immagine non si riflette negli specchi, o comunque non è percepibile da occhio umano. Quanto alle pellicole e al tubo catodico — detto per inciso — le cose stanno diversamente. Ad ogni modo, qualunque sia la risposta della ricerca scientifica a tale proposito, quel mattino mi ero illuso che quel ragionevole uomo inglese non affetto dai pregiudizi della superstizione, non avrebbe
percepito l'oggettiva realtà: che, cioé, quando entrai nella stanza dalla porta alle sue spalle mentre lui si stava radendo, la mia figura non si rifletté nello specchio. Mi sbagliavo. Quando gli augurai, «Buon giorno!» quasi nell'orecchio, il mio ospite ebbe un sobbalzo così violento da produrre una reazione fisica, tant'è che il rasoio affilato gli disegnò un taglietto sul mento. Nello stesso istante, mi avvidi che aveva notato l'assenza della mia immagine dallo specchio, giacché il suo sguardò altalenava continuamente tra me e lo specchio mentre lottava per impedire che il suo volto tradisse lo sconcerto che lo aveva sopraffatto. Questo fu per me un vero colpo, la prima indicazione che i miei piani erano impossibili; ne fui duramente provato, sebbene mi sforzassi di conservare la mia compostezza. Dopo qualche istante, Harker rinunziò a cercarmi nello specchietto, ricambiò il saluto con accenti confusi, poi depose il rasoio e cominciò a cercare un cerotto nella sua cassetta. Il suo mento stillava sangue. Se è vero che, come a tutti è noto, sono un emofilo, non è altrettanto vero che basti la semplice vista del sangue in qualsiasi circostanza a trascinarmi in un parossismo di lussuria per il gustoso liquido rosso. Stando al diario di Harker — indimenticabile per me e dal quale cito testualmente — i miei «occhi brillarono di una sorta di furia demoniaca» non appena vidi il sangue, e «lo afferrai improvvisamente» alla gola. Adesso vi chiedo: vi piace una buona bistecca ai ferri? Naturalmente! Orbene, immaginate di trovarvi in sala da pranzo dove un vostro ospite sta per finire il suo pasto, e supponete che il vostro sguardo vada a posarsi sul boccone di carne rimastogli nel piatto. Quella vista fa forse brillare i vostri occhi di furia demoniaca? Oppure, supponete che, per ragioni del tutto lecite, una giovane donna si trovi in casa vostra, diciamo pure una donna molto attraente. E immaginate ancora che, per un errore innocente, da parte vostra o da parte sua, vi capiti di aprire una porta e di sorprenderla priva degli indumenti — la vista di lei vi provoca al punto da saltarle letteralmente addosso senza pensare alle conseguenze di un atto simile? Ecco, io non sono più stuzzicato di voi da una situazione analoga. Cielo! Se l'emoglobina maschile fosse ciò che più bramo, non avrei certo dovuto darmi la pena di acquistare una proprietà a Londra così da sperare che mi fosse mandato un rubicondo, giovane avvocato. Riconosco che, alla vista del sangue, provai, come sempre, una certa emozione. Ma fu soltanto la preoccupazione per la salute di Harker, e null'altro, ad indurmi ad allungare una mano nella direzione della ferita. L'a-
maro shock della consapevolezza che si era accorto della mia assenza dallo specchio si accentuò immensamente allorché le mie dita sfiorarono il colletto aperto della sua camicia e, sotto di esso, entrarono in contatto con la filza di perline che una vecchia di Bistrita lo aveva costretto a indossare quando aveva appreso quale fosse la sua destinazione. Una filza di perline? Naturalmente non appena le scoprii, capii che si trattava di un rosario, e sapevo che una croce pendeva alla sua estremità. E, giacché in una delle nostre conversazioni avevo appreso che Harker era un incallito protestante, un membro della Chiesa Anglicana, come teneva a precisare, il fatto che portasse un crocifisso poteva avere un'unica spiegazione: se lo era procurato, o era stato convinto ad accettarlo, come una corazza che lo avrebbe difeso nel corso del suo viaggio nel covo di un vampiro. Io, che avevo già cominciato a sentirmi accettato dalla società, vidi le mie sciocche speranze irrimediabilmente infrante prima ancora che provassi a realizzarle. Nei momenti che seguirono, prima, cioè, che ricomponessi le mie speranze e mi votassi alla pazienza, mi comportai in maniera avventata. Il mio primo impulso fu quello di strappare il rosario dal collo di Harker, ma una forma di riverenza per l'oggetto mi frenò dal farlo: io stesso sono cattolico, sapete, benché sia nato nella fede ortodossa e, nei giorni della mia vita umana, ho contribuito alla fondazione di cinque monasteri. Un istante dopo, riflettei sull'ingiustizia di un assalto alla persona del mio ospite, ignaro giovane in buona fede il quale sicuramente non comprendeva del tutto le implicazioni del talismano che gli avevano fatto indossare. «Stia attento,» dissi, mentre mi sforzavo di dominare la rabbia e la delusione, «stia attento, quando si rade, giacché in questo paese è più pericoloso di quanto lei possa immaginare.» Alludevo ad Anna, Wanda e Melissa, la cui reazione alla vista ed all'odore del sangue fresco di un giovane maschio sarebbe stata certamente assai meno contenuta della mia. «Ed è questo l'oggetto colpevole del misfatto!» gridai, costretto dai moti impetuosi del mio animo a compiere un'azione violenta che scaricai sul simbolo della mia alienazione. Afferrai lo specchio. «È uno stupido giocattolo della vanità umana! Via!» Aprii la pesante finestra e scaraventai dabbasso lo specchietto di Harker, che andò a frantumarsi sul pavimento del cortile. Ritenni prudente non aggiungere altro e lasciai la stanza. I mesi, gli anni di attenta, meticolosa preparazione non erano dunque valsi a nulla? Harker avrebbe riportato in patria un miscuglio di verità e di terribili bugie su di
me, trovando il modo di renderle credibili a tutti? Sarei dunque approdato a Whitby, o alla stazione di Charing Cross a Londra trovando a respingermi una falange di esorcisti e venditori d'aglio? Mentre in quel fatidico mattino cercavo di ritrovare il controllo di me stesso e di rivedere i miei piani, Harker, come è annotato nel suo diario, diede inizio ad una timorosa esplorazione di quelle parti del castello non impedite da porte sprangate. Ma, scoprendo un gran numero di queste ultime, adottò immediatamente l'idea di essere un prigioniero. Non che me lo avesse mai detto espressamente o mi avesse mai domandato se la sua impressione trovasse riscontro nella realtà. Come lui stesso scriveva: «... non ho l'abitudine di rendere noti i miei pensieri al Conte. Lui sa bene che qui sono prigioniero; è stato lui a far sì che lo fossi, e senza dubbio deve avere le sue ragioni per averlo fatto. Mi ingannerebbe se mi fidassi di lui... Ma so di essere ugualmente ingannato, come un bambino, dalle mie stesse paure, altrimenti vuol dire che mi trovo in una situazione disperata.» Harker ritornò nella sua stanza dopo poco e mi trovò intento a rifargli il letto; ci limitammo a scambiarci qualche motto garbato evitando di accennare all'episodio dello specchio. Più tardi, in serata, ritrovai il buonumore, giacché il mio giovane ospite si sedette a chiacchierare con me come al solito e cominciò a interrogarmi sulla storia della mia terra e della mia famiglia. Harker capisce, pensai, o almeno comincia a capire, e non mostra pregiudizi contro di me, ma continua a salutarmi ed a discorrere amichevolmente. Era dunque tutto vero! Era vero ciò che avevo udito e letto del nobile rispetto inglese per gli affari degli altri! Malgrado in precedenza avessi pensato che Harker spingesse a limiti estremi tale tradizione di rispetto per il prossimo, adesso mi rendevo conto di quanto fosse prezioso per i miei fini un simile atteggiamento. Camminando per la stanza e lisciandomi i baffi per l'eccitazione, gli raccontai la saga gloriosa della mia stirpe; gli parlai degli avi vichinghi giunti dall'Islanda per congiungersi ed incrociarsi con gli Unni, la cui furia bellicosa aveva arso la terra come fiamma viva «finché,» gridai, «quei popoli agonizzanti sostennero che nelle loro vene scorresse il sangue di quelle antiche Streghe che, scacciate dalla Scizia, si erano accoppiate con i Diavoli del deserto. Stolti, stolti! Qual Diavolo o Strega fu mai più grande di Attila, il cui sangue ancora scorre in queste vene?» E, nel dir ciò, sollevai le braccia... così.
«È un prodigio,» continuai, «che la nostra fosse una stirpe di conquistatori? Che fossimo orgogliosi; che quando i Magiari, i Lombardi, i Bulgari o i Turchi si riversavano a migliaia sulle nostre frontiere, noi riuscissimo a respingerli?» Raccontai con gioia e passione le gesta compiute nei decenni che vissi da essere umano: «Chi altri se non uno della mia stirpe attraversò il Danubio e batté i Turchi nella loro stessa terra? Fu un Dracula! Chi, quando fu costretto alla ritirata, ritornò, e continuò con tenacia a sferrare l'offensiva pur essendo rimasto solo nel campo insanguinato dove le sue truppe erano state decimate, cosciente che lui solo poteva infine trionfare? Dissero che pensasse solo a se stesso! Bah! Cosa valgono i contadini senza un capo? Quale esito può avere una guerra senza che vi siano un cervello ed un cuore a condurla? «Dopo la battaglia di Mohacs, ci liberammo ancora una volta dal giogo degli Ungheresi, e noi della stirpe dei Dracula eravamo tra i condottieri, giacché il nostro spirito non consentiva che fossimo schiavi. Ah, mio giovane, amico gli Szekelys — il significato di questo nome è proprio 'guardiani della frontiera' — e i Dracula, sangue dei loro cuori, cervelli e spade — possono vantare un primato che le escrescenze fungine degli Asburgo o dei Romanoff non potranno mai eguagliare. Ma adesso i giorni di guerra sono finiti. Il sangue è troppo prezioso in questi giorni di disonorevole pace; e la gloria delle grandiose dinastie è ormai soltanto un racconto del passato.» Rapito dall'estasi del ricordo, compiaciuto, lodai me stesso, e il mio piccolo inglese si mostrò tollerante, ma ottuso, irrimediabilmente ottuso. Era capace di meditare, ma non di sognare. Non v'era in lui fuoco di immaginazione da poter appiccare. Ma, in tutta onestà, devo ammettere che, se avesse avuto un po' più di fantasia, il suo soggiorno nel castello Dracula sarebbe stato forse peggiore. La sera seguente — quella, cioè, dell'undici maggio — avemmo una lunghissima discussione sull'andamento degli affari in Inghilterra, a conclusione della quale chiesi ad Harker di scrivere qualche lettera a casa. «Ha più scritto dopo la prima lettera al nostro amico Peter Hawkins?», gli chiesi. «No,» rispose lui, con una palese amarezza nella voce, «giacché non ho avuto l'opportunità di mandare lettere ad alcuno.» «Allora lo faccia adesso, mio giovane amico,» lo esortai poggiandogli una mano sulla spalla in un gesto conciliatorio. «Scriva al suo amico Hawkins o a chiunque altro, e dica, se le fa piacere, che resterà con me un
mese.» «Desidera che io resti così a lungo?» La mancanza di entusiasmo ad una simile prospettiva trapelò senza difficoltà. Probabilmente, il disappunto di Harker scaturiva da problemi personali, tuttavia continuavo a nutrire la speranza di far sì che superasse ogni difficoltà. «Lo desidero profondamente,» disse. «No, non accetterò un rifiuto. Quando il suo padrone o, se preferisce, il suo datore di lavoro, mi ha mandato un suo incaricato, era inteso che le mie esigenze sarebbero state soddisfatte senza riserve. Non mi sembra di avere abusato della sua disponibilità, non è così?» Harker assentì con un inchino silenzioso, ma l'espressione del suo volto mostrava uno sconcerto tale che ritenni opportuno controllare il contenuto delle lettere che avrebbe spedito. Aggiunsi perciò: «La prego, mio buon amico, di non fare accenno nelle sue lettere a cose che esulino dagli affari, tranne che, ovviamente, ai suoi amici non dispiaccia apprendere che sta bene e che non vede l'ora di tornare a casa per rivederli. Non è così?» Quella sera, nel congedarmi da lui con in mano le sue lettere ed altra mia corrispondenza relativa al programmato viaggio, indugiai presso la porta, la coscienza alquanto turbata. «Sono certo che vorrà perdonarmi,» dissi. Harker si limitò ad alzare gli occhi richiudendosi in una inespressiva freddezza. «Ho molto lavoro da sbrigare in privato, stasera,» spiegai. La dispensa era completamente vuota. «Spero che troverà ogni cosa in ordine.» L'espressione di Harker continuava ad essere crucciata, ed ebbi un fortissimo presentimento che le cose si stessero mettendo male, che di lì a poco avrei dovuto affrontare qualche serio problema. Prima di uscire, aggiunsi: «Lasci che le dia un consiglio, mio caro, giovane amico... no, più che consigliarla, è d'uopo che l'avverta seriamente: se mai dovesse lasciare queste stanze, non si provi in alcun modo a coricarsi in qualsiasi altra parte del castello. È vecchio, ed ha molti ricordi, e coloro che si dimostrano poco avveduti fanno dei gran brutti sogni. Stia attento! Se il sonno sta per impadronirsi di lei, si affretti nella sua camera: solo in tal modo il suo riposo sarà tranquillo. Ma, se non userà prudenza, allora...» Finii la frase con un gesto eloquente. E, mentre mi sfregavo le mani, Harker continuava a fissarmi, sempre più avvilito e terrorizzato. E fu quella notte, naturalmente, che mi scorse mentre lasciavo il castello. Perché, proprio in quella notte di primavera, decisi di strisciare a testa in giù lungo la parete a strapiombo sul precipizio anziché volare via inosser-
vato nella forma di un pipistrello, o allontanarmi in maniera meno terrificante su quattro zampe, se non proprio, com'era più consono a un uomo, sulle mie due gambe? Posso soltanto rispondere che le diverse forme fisiche ed i corrispondenti sistemi di locomozione possiedono ciascuno i loro vantaggi e svantaggi, i loro pregi e difetti; inoltre, a dir la verità — ed è per questo che sono qui a parlare a questo registratore — mi proponevo di evitare Anna e le sue petulanti richieste di ottenere il permesso di gustare il sangue di Harker, sicché pensai che, uscendo dal castello in quel modo, sarei riuscito nel mio intento. E così il povero Jonathan, che per caso stava osservando la luna da una finestra, ebbe la sventura di vedermi, come lui stesso annotò, «emergere da una (altra) finestra e cominciare a strisciare lungo la parete del castello su quell'abisso spaventoso a testa in giù, con il mantello spiegato intorno a lui come grandi ali... Non poteva trattarsi di un'illusione. Ho visto le dita delle mani e dei piedi aggrapparsi agli angoli dei mattoni di pietra» — avevo legato gli stivali alla cintura con le loro stesse stringhe — «nello stesso modo in cui una lucertola scivola su di un muro. Che genere d'uomo è mai questo, o che genere di creatura dalle sembianze umane?» Tre notti dopo, Harker mi vide uscire nello stesso modo e, durante la mia assenza, tentò di uscire dal castello passando per l'ingresso principale. Ma avevo lasciato la porta ben serrata — per il suo bene — e, sgomento, fu costretto a tornare indietro per cercare un'altra uscita. Una porta che avevo trascurato di chiudere a dovere lo condusse nell'ala occidentale del maniero. Questa, sospettò, dover essere «la porzione del castello occupata un tempo dalle signore.» A tale conclusione vi giunse per la presenza di «ampie finestre... e di conseguenza maggiore luminosità e comodità» lì dove «la fionda, l'arco e la colubrina non potevano giungere» a causa dell'altezza e della ripidezza della rupe sottostante. In quegli ambienti immaginò che «in passato le signore usavano soggiornare, cantare e vivere ore liete, mentre i loro cuori gentili erano in pena per gli uomini lontani a combattere spietate guerre.» Per fortuna, le donne del passato erano, come quelle della sua epoca, un po' meno delicate e vulnerabili di quanto Harker avesse supposto. La sua comprensione avrebbe fatto sì che la sua vita, e la mia, avrebbero seguito strade diverse da quelle che invece percorsero. Ma sto andando troppo avanti nel mio racconto. Introdottosi in quelle stanze proibite, Harker restò per qualche istante assorto ad ammirare le spaziose finestre illuminate dalla luna, ed il mobilio,
che aveva «un'aria assai più accogliente» di qualsiasi altro arredo presente nel castello. Nonostante avesse trovato in quel luogo «una terribile solitudine» che gli raggelava il cuore, «esso era tuttavia preferibile alle stanze che la presenza del Conte Dracula rendeva detestabili,» sicché, quando riuscì a ritrovare il controllo sui suoi nervi scossi, cominciò a sentirsi pervaso da una quieta sensazione di calma.» Naturalmente, malgrado i miei avvertimenti, lo stolto si calmò tanto da addormentarsi. Rientrai in tempo per salvarlo e per un attimo rimasi senza fiato al cospetto della sua follia. Ritornato al castello, non mi ero neppure liberato dal carico che recavo, che immediatamente tesi l'orecchio aspettandomi di udire il suo respiro nelle stanze a lui assegnate. Non udii nulla; m'infilai dunque nel corridoio buio e, avanzando a velocità crescente, mi misi alla ricerca del mio ospite mentre l'ansia si impadroniva di me. Quando scoprii che la porta dell'ala occidentale era aperta, anziché essere, come avevo creduto, ben serrata, non mi restò che pregare di non esser giunto troppo tardi. E giunsi in tempo per un soffio, per scovarli in una camera dove l'intenso chiarore lunare irradiava il suo incantesimo sulle prosaiche rovine opera del tempo. Harker era disteso supino su un antico giaciglio sulla cui polvere aveva trovato l'oblio. Wanda e Melissa sostavano a breve distanza da lui, in attesa che giungesse il loro turno, mentre la bionda Anna, china sul dormiente, stava appoggiando le punte dei canini sulla sua gola inerme. Mi accostai a lei in forma umana e le cinsi con la mano il bianco collo, sollevai il corpo delicato che possedeva il vigore di dieci uomini normali e la scaraventai indietro, lasciandola barcollante nel mezzo della stanza. Abbassai subito lo sguardo sulla gola di Harker e vidi che i suoi vasi sanguigni erano intatti. In quel momento si trovava in uno stato di semiincoscienza, a metà tra il sonno e la catalessi; le labbra dischiuse in un sorriso fatuo e una fessura oculare luccicante dalle palpebre cadenti. Sperando che l'indomani non avrebbe serbato il ricordo di quella scena, o, quanto meno, che l'avrebbe rammentata soltanto come un sogno, ridussi la mia voce ad un bisbiglio malgrado la rabbia da cui ero sopraffatto. «Come osate toccarlo? Come osate posare i vostri occhi su di lui quando vi ho proibito di farlo? Indietro, tutte e tre! Quest'uomo mi appartiene! Badate a come vi comportate con lui, altrimenti ne renderete conto a me!» La bionda Anna, senza dubbio dolente per la frustrazione d'essersi vista privare del massimo piacere un attimo prima che questo si concretizzasse, proruppe in una amara risata ed osò replicare: «Tu non hai mai amato nes-
suno; tu non ami mai!» E le altre si unirono alla sua risata, visto che non l'avevo punita subito. «Sì anch'io so amare,» dissi piano. E, in quell'istante, i miei pensieri riandarono ad un mondo completamente diverso, un mondo dove il sole recava luce e vita all'interno del castello, in quella stessa camera dove ora albergavano soltanto la polvere, la muffa e il disfacimento, sotto l'incanto misterioso della luna. Ma quel mondo serbato nella mia memoria era ignoto a loro, né intendevo fornire al terzetto argomenti per beffarsi di me. «Sì, sono capace di amare,» ripetei. «Voi stesse potete riferirvi solamente al passato. Non è forse così? Beh, vi prometto che, quando non avrò più bisogno di lui, potrete baciarlo a vostro piacimento. Adesso andate... Andate! Devo risvegliarlo, perché abbiamo del lavoro da sbrigare.» Mentii per sbarazzarmi delle tre donne senza punirle. Non desideravo infliggere loro una punizione a causa della stupidità di Harker. Disprezzo la crudeltà, e non mi comporto mai crudelmente se non c'è un motivo che lo giustifichi. «Non c'è niente per noi stasera?», mugolò Melissa, indicando la sacca che avevo portato e che adesso era appoggiata sul pavimento, scossa da lievi movimenti. Conteneva il bottino, relativamente povero, della mia spedizione in cerca di foraggio: un maiale alquanto scarno offertomi da una contadina nella speranza di ottenere qualche favore da me, un maleficio da perpetrare ai danni di una sua rivale in amore. Annuii, e le donne balzarono intorno alla sacca che portarono via con loro. Un debole rantolo giunse in quel momento dalla figura distesa di Harker. Mi voltai di scatto e mi accertai che fosse del tutto ignaro di ciò che accadeva intorno a lui. Ciò che allora non sapevo era che aveva visto le donne saltare sulla mia borsa e che aveva interpretato gli urli porcini, se le sue «orecchie non lo avevano ingannato,» come «i rantoli ed i fiochi vagiti di un infante semi-soffocato.» A quel punto, il mio avvocato, povero di immaginazione, era svenuto. Inutile dire che non riuscii a concludere nulla con lui quella notte, nonostante le mie intenzioni. Lo riportai nella sua camera ancora privo di conoscenza e lo distesi sul letto; nutrivo ancora la speranza che, se avesse ricordato l'incontro con le ragazze, avrebbe interpretato tutto quanto come un incubo. Mi concessi anche la libertà di frugargli nelle tasche, e fu allora che osservai per la prima volta il suo diario. Esso, però, era scritto a caratteri stenografici, una grafia che non comprendevo ancora e, dopo una breve esitazione, riposi il libricino dove lo avevo trovato.
«S'io sono sano di mente,» vi scriveva il giorno seguente, «allora sarebbe certamente una follia credere che di tutte le insidie che si annidano in questo luogo detestabile il Conte sia la meno terrificante; sarebbe folle pensare che a lui solo io possa chiedere protezione, seppure limitatamente al periodo di tempo entro il quale si serve di me per i suoi fini.» E pensare che mi ero illuso che, se avesse ricordato qualcosa degli orrori che aveva rasentato in quella notte di plenilunio, nel risvegliarsi al mattino mi avrebbe indirizzato le sue benedizioni per la protezione e l'amicizia che gli avevo dimostrato. Ahimé, quanto è ingenua e dura a morire la mia fiducia nella natura umana! Cominciai così a rendermi conto che il mio problema non era più quello di decidere cosa farne ormai di lui. Se lo avessi rimandato subito a casa, come minimo avrebbe avuto strane storie da raccontare sulla mia persona. Avevo programmato la mia partenza per il trenta di giugno, e mancava perciò più di un mese, mentre Harker sarebbe potuto facilmente ritornare a Londra nel giro di una settimana, in tempo quindi per prepararmi un'accoglienza delle peggiori. La sua approfondita conoscenza dei miei affari in Inghilterra era tale che non potevo sperare di evitare una simile conseguenza se avesse lasciato il Castello Dracula come mio nemico e con un abbondante vantaggio di tempo. Allo stesso tempo, Harker era pur sempre mio ospite e il senso della responsabilità, dell'onore e della giustizia, mi vietavano di recargli danno. Angosciato, desideravo con tutte le mie forze che manifestasse con chiarezza il suo atteggiamento: che mi accusasse apertamente dandomi così l'opportunità di difendermi, e rivendicasse la sua libertà se le porte serrate lo irritavano, oppure che si mostrasse mio nemico fornendomi, in tal modo, una giusta ragione per ucciderlo. Rasentammo quest'ultima soluzione quando lo scoprii a tentare di far uscire clandestinamente dal castello una lettera segreta. Era indirizzata alla sua fidanzata, la signorina Mina Murray, alla quale aveva già scritto il giorno precedente su mia stessa richiesta. Harker gettò dalla finestra questa lettera clandestina assieme ad un'altra epistola destinata ad Hawkins. A riceverle, accompagnate da qualche moneta d'oro, vi erano i miei zingari i quali, naturalmente, mi portarono entrambi i messaggi. La lettera segreta indirizzata ad Hawkins era molto breve e si limitava a chiedergli di mettersi in comunicazione con Mina Murray; invece, la lettera indirizzata alla donna era scritta in codice, lo stesso utilizzato da Harker nel suo diario. Quando l'ebbi esaminata, mancò poco che mi precipitassi
nelle sue stanze e lo aggredissi. Dovetti fare appello alle mie forze e ricordare a me stesso che Harker era pur sempre mio ospite, che in fondo si era trovato a vivere in circostanze strane per un comune e 'poco vantaggioso' cittadino inglese, e che in verità non potevo sapere se la lettera in codice contenesse qualche accenno menzognero alla mia persona o in qualche modo intendesse nuocermi. In ogni caso, ero furibondo. Ben rare erano state le occasioni nelle quali ero stato tanto adirato dal giorno in cui certi diplomatici turchi si erano rifiutati di togliersi il turbante al mio cospetto irritandomi al punto che glieli avevo fatti inchiodare sulla testa. Rammentatemi, di raccontarvelo dopo. Devo dirvi, tuttavia che, nei casi in cui l'ira diviene completamente padrona di me, riesco a mostrarmi calmissimo nella mia condotta esteriore. Presi dunque le due lettere e mi recai nella stanza di Harker, dove presi posto accanto a lui. Questi alzò lo sguardo verso di me mostrando quell'espressione colpevole, disperata, miserabile, che stravolgeva il suo volto ogni giorno di più. «Gli Szgany mi hanno consegnato queste,» cominciai con tono fermo. «E di esse, benché non sappia donde provengano, mi prenderò certamente cura. Guardi!» — e riaprii la lettera — «una è sua, destinata al mio amico Peter Hawkins; mentre l'altra — e cavai fuori dalla busta la lettera in codice — è una cosa vile, un insulto all'amicizia ed all'ospitalità! Non è firmata. Bene! Vuol dire che non ci riguarda.» Ciò detto arsi il foglio sulla fiamma della lampada di Harker... ah, non ho simpatia per la luce elettrica. «Quanto alla lettera per Hawkins,» continuai, «non esiterò a spedirla, visto che proviene da lei, amico mio. Le sue lettere sono sacre per me. Mi perdonerà, mio caro se, senza sapere che fossero sue, ho rotto il sigillo.» Porsi quindi la lettera ad Harker unitamente ad una busta integra, e lo osservai mentre vi scriveva l'indirizzo e vi apponeva un nuovo sigillo. Il volto di quell'uomo appariva così provato dalla disperazione, così scosso dall'agitazione che gli faceva contrarre un occhio ed una guancia, e gli faceva tremare le dita costrette a scrivere, che la mia sensibilità ne fu toccata e fui lieto di non essere stato più severo. A quell'epoca ero un assiduo osservatore dei comportamenti umani in situazioni di tensione e vantavo un'esperienza plurisecolare tale da consentirmi di intuire senza possibilità di dubbio che Harker era sull'orlo di un esaurimento nervoso. Era una cosa spiacevole, tanto più che me ne sentivo indirettamente responsabile; tuttavia, allo stesso tempo, mi sentivo come se mi fossi liberato da un grave peso. Lasciato il mio castello, sarebbero
trascorsi un paio di mesi dopodiché sarebbe certo finito in una casa per malati di mente, sicché nessuno avrebbe dato credito alle storie di vampiri raccontate da un individuo dall'equilibrio mentale così palesemente scosso. Hawkins sarebbe forse venuto a farmi visita a Purfleet, e probabilmente anche la sua amata signorina Murray — fin da allora il suo nome suscitava in me un certo interesse — sarebbe venuta a interrogarmi per scoprire cosa fosse accaduto sui Carpazi da sconvolgere in quel modo il povero giovane. Ed io mi sarei mostrato preoccupato e gentile, li avrei accolti con ospitalità, e a tal fine volevo che la mia proprietà venisse almeno in parte ristrutturata secondo i moderni criteri di abitabilità. Durante il tempo che Harker avrebbe impiegato per rendere credibili i suoi racconti, sempre che sconsideratamente non avesse deciso di alterarli o sconfessarli, io sarei riuscito a crearmi un nuovo rifugio inglese, ed a modificare persino il mio aspetto, eludendo così ogni indagine a mio carico. Frattanto, in mio possesso c'erano le tre lettere che avevo saggiamente ottenuto da Harker pochi giorni prima inventando qualche storia sull'inaffidabilità delle poste. Si trattava di innocenti e prolissi resoconti del piacevole viaggio e della buona salute di cui il mittente godeva. Recavano le date del dodici, diciannove e ventuno giugno; la terza era stata scritta da Bistrita. Mi ero appropriato delle lettere in previsione di un epilogo infelice della visita di Harker, e tale pronostico si era rivelato ben fondato. Se per qualche ragione non fosse giunto a casa in buona salute, ogni sospetto sarebbe stato allontanato da me. Allorché consegnai agli zingari la lettera per Hawkins — recante il nuovo indirizzo e adesso innocua — informai il capo della loro banda che il mio ospite stava diventando non compos mentis e che tutti noi ci saremmo dovuti prendere molta cura di lui. Tatra, un giovane bruno e robusto, capace di fondersi con la sua cavalcatura tanto da assumere l'aspetto di un centauro, apparve alquanto sorpreso nell'apprendere la notizia. «Il giorno successivo alla mia partenza, Tatra,» aggiunsi, «avrai l'incarico di indossare l'uniforme da vetturino e di condurlo giù al Valico, di modo che faccia in tempo a prendere la diligenza per Bistrita, dove potrà raggiungere la ferrovia. Obbedirai ai suoi ordini ed alle sue richieste in ogni minimo dettaglio, fintantoché restino nell'ambito del ragionevole; farai qualunque cosa che non sia pericolosa per la sua persona. Non è colpa sua se ha patito qui, o, quantomeno, non sua soltanto.» Tatra s'inchinò e giurò che avrebbe eseguito ogni mio ordine, e sperai in cuor mio che così sarebbe stato.
Il mio umore era assai più gaio di quanto non lo fosse stato negli ultimi giorni allorché ritornai nelle stanze di Harker, disserrai la porta — avevo cominciato a temere che potesse fare qualche gesto inconsulto — ed entrai, trovandolo addormentato su un divano. Quando entrai si destò ed alzò gli occhi verso di me con avvilita circospezione. Sembrava quasi troppo disfatto per aver paura. «È stanco, amico mio?», gli chiesi con tono vivace mentre mi sfregavo le mani. «Vada pure a letto. È lì che si gode il riposo migliore. Non proverò il piacere delle nostre chiacchierate stanotte, perché ho molto da fare — la scorta di provviste per lui era esaurita, avendo già consumato la maggior parte del maiale i cui stridii lo avevano tanto allarmato — per cui dorma pure, la prego.» Si alzò come un sonnambulo ed andò nella sua camera da letto dove si gettò bocconi sulle coperte. In breve ricadde in un sonno profondo, giacché — come lui stesso ebbe a commentare il giorno seguente nel diario — «la disperazione ha la sua quiete» — e colsi l'occasione per prendere in custodia i suoi documenti, danaro ed altri effetti personali. Presi anche in prestito alcuni dei suoi indumenti migliori affinché qualcuna delle mie zingare potesse cimentarsi a cucire per me qualche abito di stile inglese sul modello di quelli di Harker. Ci vollero un paio di settimane per portare a termine quest'ultima operazione, ma potei indossare il prodotto finito quando uscii per procacciarmi nuovi approvvigionamenti nella notte del sedici giugno. Desideravo mettere alla prova la resistenza e la comodità dei miei nuovi indumenti. Soltanto molto tempo dopo, quando ebbi l'opportunità di leggere il diario di Harker in caratteri dattiloscritti, appresi che quella notte mi aveva spiato di nuovo, ed aveva immaginato che indossassi il suo abito mentre strisciavo giù per la parete del castello al fine — dovete credermi — di infangare la sua reputazione, di modo che «ogni malvagità» da me commessa contro la popolazione locale sarebbe stata attribuita a lui. No, signor Harker, stia pur certo — può sentirmi dalla sua postazione celeste? — ben altre faccende, che giudicavo più importanti di quella di denigrare il suo nome, stavano assorbendo tutte le mie energie. «Dio Onnipotente!», esclamò qualche bifolco alla vista della mia alta figura dai capelli e i baffi bianchi, e gli occhi rossi, così elegantemente abbigliata. «Il vampiro va in giro coi vestiti del giovane inglese. Sta a vedere che se l'è mangiato!» Avevo appena terminato le mie fatiche notturne ed ero ritornato al ca-
stello — carico di un vitellino da latte da servire cucinato al mio ospite e da cui spillarne il sangue per dissetare le mie ragazze — quando quella povera donna giunse alla mia dimora dal vicino villaggio ad implorare perché l'aiutassi. La disgraziata, e coraggiosa, il cui volto non vidi mai, osò ciò che nessun'altra avrebbe osato neppure in pieno sole: avventurarsi di notte fonda tutta sola al Castello Dracula. Ma i sentimenti della maternità conferiscono talora una forza prodigiosa. «Padrone, trova il mio bambino!», gridò ad Harker la povera sventurata scambiandolo per me nella luce fioca della luna. Sì, lo so, so benissimo che secondo il diario del mio ospite la donna avrebbe gridato: «Mostro, ridammi il mio bambino!» Ma credete possibile che parlasse inglese? Oppure che Harker avesse a portata di mano il «dizionario poliglotta» di cui aveva fatto uso nella diligenza di Bistrita per comunicare con la gente del luogo? Dal canto mio, sapevo perfettamente che la donna era lì senza dover cacciare il capo fuori della finestra. E capivo le sue parole. Né avevo bisogno di alzare la voce per radunare presso il castello alcuni dei miei adorabili figli — i lupi — distanti un chilometro o due. Questi si misero al lavoro al mio comando. Setacciarono rapidi la foresta e, nel giro di un'ora, ritrovarono il bambino smarrito. Strattonandolo e mordicchiandolo senza nuocergli, lo sospinsero nel cortile dove la stupida genitrice — suppongo che il piccolo si fosse smarrito per negligenza di costei — stava raspando fiaccamente sulla mia porta finché non scorse l'infante attorniato dalla scorta ululante. In un batter d'occhio lo afferrò tra le braccia e corse verso casa senza il minimo ringraziamento per me o per i miei amici della foresta a quattro zampe. Un'interpretazione alterata dei fatti risulta invece dal libro di Harker, dove si legge che avendo io rapito il piccolo per farne uno spuntino, chiamai a raccolta i lupi per offrir loro in pasto la madre... Dalla vostra espressione intuisco che non credete una parola della mia versione. Ebbene, perché non avrei dovuto aiutare la donna, se ho prestato il mio aiuto a migliaia di altre persone quando governavo come Principe? La sventurata si era rivolta a me, il suo Signore, per avere aiuto, e il dovere mi imponeva di darglielo. Il fatto che azioni così giuste ed elementari debbano suscitare il sospetto e l'incredulità, dimostra quanto sia caduto in basso il mondo... Beh, adesso non vorrei sembrarvi vecchio e paternalista. Eppure il dubbio non vi abbandona. Vi è più facile credere che io preferisca dissetarmi del sangue di un bambino piuttosto che cullarlo sulle gi-
nocchia. E non avete torto, o non lo avreste, se questi fossero gli unici due comportamenti tra i quali dovessi scegliere. Benissimo! Mi sembra che il momento sia propizio per discutere circa la nostra peculiarità di bere il sangue. Voi vi cibate della carne. Mangiate quella degli uomini e delle donne? Qualche giocoso morsetto d'amore di tanto in tanto, ma non più di questo, dico bene? In linea di massima, le cose stanno così anche per me. Il sangue è il mio unico nutrimento; basta che sia caldo e preferibilmente di un mammifero, ma è del tutto indifferente a quale specie appartenga. Per il momento vi basti sapere questo; dopo, se avremo tempo, parleremo del modo in cui — com'io vedo la cosa — buona parte della mia necessaria energia proviene da un'irradiazione solare finora mai misurata. Un'altra peculiarità dell'esistenza vampiresca è costituita dal fatto che gli organi destinati alla riproduzione, assieme ad altri sistemi di escrezione, cessano di funzionare; l'organismo non espelle più seme né rifiuti. Ciò non implica un'assenza di passionalità; lungi da ciò. Ma, laddove negli uomini che respirano vi sono molte brame incontrollabili — restate senza cibo per due settimane, senz'acqua per due giorni, senz'aria per due minuti, e scoprirete se sto usando le parole appropriate — accanto alla mera voluttà sessuale, per la nostra specie il sangue è la vita: il sangue è tutto! Ho conosciuto l'amore per le donne durante tutta la mia vita e, per me, la sua essenza è immutabile. I suoi modi di espressione, quelli sì, erano mutati quando mi ridestai dalle mie ferite mortali del 1476. Fin d'allora il sangue è diventato tutto per me. Oh, posso tranquillamente fare a meno del sangue di dolci fanciulle per due mesi, due anni, due secoli, se vi fosse una ragione per tale astinenza. Vi ho già detto che non ho mai costretto Lucy, Mina, o nessun'altra. Ma lasciamo stare. Orbene, ero rimasto alla notte in cui la contadina era giunta al castello. Il giorno seguente, Harker reso folle dal terrore, tentò di calarsi dalla finestra lungo la parete esterna del castello, ad una buona distanza dalle mie camere. Seguendo poi un passaggio interno che scendeva sino ad una cappella sotterranea, s'imbatté nelle casse che io ed i miei amici avevano preparato per il mio viaggio. Sbirciò dentro di esse e in una vi trovò a riposare il vostro servo qui presente. Avrebbe potuto distruggermi all'istante se avesse avuto l'intelligenza e la malignità sufficienti a farlo, e se il suo ingegno fosse stato pari al coraggio sconsiderato che gli aveva consentito di osare la pericolosa discesa. Poteva sì annientarmi giacché io, ovviamente, non ero consapevole in quel momento della sua esplorazione.
Il quotidiano stato di trance che solitamente — ma non sempre — viviamo nel lasso di tempo che intercorre tra l'alba ed il tramonto, contraddistingue, a mio parere, la nostra dipendenza dal sole. Così come gli uomini della specie che respira non possono impegnarsi in una pesante attività fisica mentre mangiano o durante la digestione, noi della razza dei vampiri cadiamo in uno stato letargico in presenza del sole, giacché nessuno di noi può resistere a lungo ai suoi raggi senza protezione. Ad ogni buon conto, Harker mi trovò lì, dentro la cassa di legno, addormentato su uno strato di soffice e umida terra. Non è facile risvegliarsi da questo stato catalettico, e il soggetto, diversamente dal comune sonno, può restare ad occhi aperti. Quelli della mia razza non si stancano come avviene agli umani, tuttavia hanno ugualmente necessità di riposare, e il riposo è possibile soltanto nel terreno umido di casa propria. Ignoro la ragione di ciò; forse più tardi, se avremo tempo, vi metterò a parte di un paio di mie teorie in merito. Non sapendo quale condotta adottare verso di me in quello stato, privo di respiro, immobile, ma in qualche modo ancora in vita, Harker fece ritorno nelle sue stanze; né, naturalmente, fece in seguito parola con me della sua intrusione. Quattro giorni dopo, il ventinove di giugno, i miei piani, e la fatica dei miei collaboratori, erano prossimi ad una completa realizzazione, sicché, a sera inoltrata, mi recai da Harker e gli dissi: «Domani dovremo separarci, amico mio. Lei ritornerà nella sua bella Inghilterra ed io mi dedicherò ad un'opera il cui esito, con ogni probabilità, non ci consentirà di incontrarci mai più. La sua ultima lettera è stata spedita; domani non sarò più qui, ma ogni cosa sarà pronta per il suo viaggio. Al mattino verranno degli Szgany assieme a degli Slovacchi per sbrigare alcune loro faccende. Quando saranno partiti, la mia carrozza verrà a prenderla per condurla al Valico di Borgo dove troverà la diligenza che viaggia tra la Bukovina e Bistrita. Io spero, tuttavia, di poterla rivedere un giorno al Castello Dracula.» C'è bisogno di aggiungere che talora ero più diplomatico che sincero nelle mie conversazioni con Harker? In tutta onestà desideravo di non dover mai più posare gli occhi su di lui. La mia inaspettata affermazione, più che sorprenderlo, sconvolse il mio interlocutore. Ebbi su di lui un effetto tonificante; balzò in piedi e lo osservai mentre ritornava in possesso della modesta scorta di intelligenza di cui disponeva e faceva appello a ciò che era rimasto del suo coraggio per confrontarsi con me, evidentemente un ostacolo più invalicabile della scoscesa parete di pietra del castello.
Con voce ferma riuscì finalmente a chiedermi senz'alcun preambolo: «Perché non posso partire stanotte?» «Perché, mio caro signore, il mio vetturino ed i cavalli sono assenti, essendo impegnati in una certa commissione.» In realtà, Tatra, l'unico degli Szgany a cui ritenevo possibile affidare una missione delicata da svolgersi in mia assenza, si trovava in un villaggio della Bukovina a negoziare l'acquisto di un cavallo nuovo; le tre leggiadre signore che abitavano nella mia magione, avevano salassato uno stallone nero la notte precedente, ed attendevo che gli Slovacchi ed i loro cani ne sgranocchiassero la carne, l'indomani. Harker sorrise come se fosse riuscito a mettermi in trappola — si trattava di un sorrisetto suadente e per certi versi diabolico — al che temetti che fosse impazzito per davvero, un'evenienza non improbabile dopo il suo ostinato covare dubbi e paure anziché discuterne apertamente con me. «Oh, ma io sarei lieto di andare a piedi,» disse. «Voglio partire subito.» «E il suo bagaglio?» «Non è un problema. Manderò qualcuno a ritirarlo in seguito.» Tale noncuranza per le sue cose era una novità, giacché nel diario mi aveva accusato di avergli rubato il vestito buono, il cappotto e la sciarpa, oltre ad aver minacciato la sua vita e la sanità mentale. Ma ora stava ritto davanti a me e, per la prima volta, tornava ad apparire come il giovane capace e sicuro di sé che era giunto al Castello Dracula ai primi di maggio. Sospirai in cuor mio. In verità non ero completamente sicuro che Tatra e gli altri zingari avrebbero eseguito alla lettera le mie istruzioni a proposito di Harker, specie considerando che io sarei stato al chiuso in una cassa, imbarcato su una nave. Sicché, pensai, perché non accontentarlo e lasciarlo andare a piedi fino al Valico? L'unico vero pericolo che riuscivo a prevedere era costituito dai lupi, ma sarebbe bastata una mia parola prima della sua partenza per fornirlo di una scorta tale da assicurargli la piena incolumità fino a quando non avesse raggiunto il regno degli uomini comuni, dopodiché avrebbe corso i medesimi rischi che incombono sul resto dell'umanità. Che vada pure, pensai, sono soltanto pochi chilometri fino al Valico; la strada poi non si diramava, e scendeva dritta a valle quasi per tutto il pendio. Senza riflettere, presumevo che possedesse ancora del denaro oltre al diario. Suppongo, dunque, che non debba lamentarmi per l'oro che mi sottrasse alla partenza, giacché io restai in possesso di una lettera di credito, degli abiti migliori — che avevo dato da pulire ad una zingara con risultati
insoddisfacenti — più il cappotto e la stola da viaggio già menzionati, l'orario ferroviario, eccetera, eccetera. Restai presso lo stipite della porta, sollevato dal fatto che il mio ospite avesse finalmente manifestato con sincerità il suo ovvio desiderio di partire, e che io avessi potuto accontentarlo in maniera così rapida e diretta in modo da indurlo a migliorare l'opinione che aveva di me. Avevo intenzione di porgli tra le mani all'ultimo momento qualche antico pezzo d'oro massiccio a ricordo della sua visita. Il mio grandioso, elaborato progetto si stava realizzando, dopotutto! Una volta approdato a lidi ragionevolmente umani, Harker avrebbe cambiato idea su ciò che era realmente avvenuto sotto il mio tetto, o, in ogni caso, ne avrebbe riportato un racconto diverso. E tornare a casa gli avrebbe fatto bene al punto da poter evitare il ricorso al progettato 'esaurimento nervoso'. Quanto agli appunti nel diario, fu a questo punto che gli dissi con una «dolce cortesia» che gli fece strofinare gli occhi «tanto sembrava sincera»: «Voi Inglesi avete un proverbio che è molto vicino al mio cuore, giacché il suo spirito è uguale a quello che infonde gli animi dei nostri Boiari: 'Da' il benvenuto all'ospite che arriva, ed affretta la partenza dell'ospite che se ne va'. Venga con me, mio giovane amico. Non resterà un'ora di più nella mia casa contro la sua volontà, per quanto triste ciò possa rendermi. Ma se tale è il suo desiderio... Venga!» Presi una lampada e precedetti Harker su per la scala. Lui mi seguì con esitazione, saggiando ogni gradino quasi sospettasse d'esser vittima di un tranello. Frattanto, ricorrendo al linguaggio interno per mezzo del quale posso comunicare con gli animali, chiamai al castello i tre o quattro lupi che al momento si aggiravano nei boschi poco distanti nella valle ai quali intendevo affidare la salvaguardia del mio ospite durante il viaggio. Era mia intenzione presentarli al giovane, lasciare che gli leccassero le mani e capissero che andava trattato con ogni riguardo. Stavano già ululando nel cortile quando raggiungemmo la porta principale, e non appena la aprii si precipitarono dentro. Ritto tra loro, cercai di calmarli abbastanza da rendere chiari i miei desideri. Tuttavia il gran baccano e la vista di quei musi sbavanti, dei denti voraci, e delle lingue rosse sotto il mio braccio mentre nel vano della porta tentavo di tenere indietro i miei figli, insomma, tutto ciò fu troppo per Harker. Nel diario mi attribuisce la «diabolica malvagità» di desiderare che fosse divorato vivo dai lupi e, allo stesso tempo, di far sì che le tre donne gli
spillassero tutto il sangue: due soluzioni impossibili da realizzarsi ai danni della stessa vittima, persino per il Conte Dracula. «Chiuda la porta!», gridò, ed io volsi il capo, sorpreso nel vederlo rannicchiato presso il muro con la faccia nascosta dalle mani. «Partirò domattina!» Era ovvio che lo stato in cui si trovava non gli consentisse affatto di mettersi a vagare tra i monti a notte alta. Quanto a me, ero amaramente deluso; sospinsi con violenza l'ultima belva ululante nell'oscurità e richiusi con fragore la porta massiccia, ma non dissi nulla ad Harker. In silenzio ci incamminammo verso la biblioteca, dove, in tutta fretta, gli augurai la buona notte. Non seppi finché non ebbi a leggere il suo diario che più tardi quelle tre dannate andarono a bisbigliare seducenti inviti fuori dalla sua porta, dileggiandolo con le loro risate e schiocchi di labbra, e persino imitando la mia voce in una fittizia conversazione con loro: «Via, via tornate al vostro posto! Non è ancora giunto il vostro turno. Aspettate! Abbiate pazienza! Stanotte è mio. Domani sarà vostro!» No, Jonathan Harker, se mi può sentire, credo non sia giusto attribuire a lei tutta la colpa di ciò che mi fece in seguito. Né provo molta compassione per Melissa, Wanda, e la bionda Anna, quando infine giunse il sadico Van Helsing... Ma è necesario che rispetti la successione cronologica degli avvenimenti. La notte che precedette la mia partenza dal Castello Dracula, consumai un'ottima cena giovandomi del sangue fresco di un manzo — non per soddisfare il mio appetito, che pure avevo, ma soprattutto per acquistare un aspetto più vigoroso e giovanile. Naturalmente erano almeno quattrocento anni che non vedevo il mio volto riflesso in uno specchio, ma da sporadici commenti di compagni occasionali avevo concluso che il mio aspetto recente era quello di un vecchio canuto benché gagliardo, con gli occhi talora rossi come quelli di un animale colto dal fascio di luce di una delle nuove torce elettriche. Era in mio potere modificare tale aspetto grazie ad una sostanziosa e regolare alimentazione, e di fatto ne avevo l'intenzione per premunirmi da un eventuale attacco da parte di Harker. Consumai, come ho già detto, una lauta cena, e sperai in un riposo altrettanto soddisfacente in uno dei miei nuovi letti da viaggio. Non sono molte le cose che possono destare un vampiro satollo che in pieno giorno sia andato a distendersi sulla terra di casa sua. Una sveglia infallibile è, naturalmente, la punta acuminata di un paletto di legno che gli penetra la gabbia
toracica sotto la spinta risoluta e martellante di un braccio vigoroso. Ciò mi è noto in teoria, non avendone ancora avuto esperienza diretta. Cos'è che nelle condizioni appropriate rende il legno così irrimediabilmente letale alla mia specie? È forse il fatto che un tempo fosse vivo e che non lo sia più? Il metallo che fende con tanto stile la carne degli esseri umani e da essi fa scorrere rivoli di ricca vita vermiglia ci è del tutto estraneo e incapace di trovare la giusta via per ucciderci. Rimbalza, si disperde, si insinua nei nostri peculiari tessuti, ma non è in grado di estrinsecare la sua forza fatale su di noi. I proiettili d'argento? La loro efficacia è pura superstizione per quel che concerne i vampiri. Ma quel giorno sentii il tocco del metallo nella mia cassa: una vanga dai bordi affilati ondeggiava disperatamente tra le mani di Harker che ancora una volta aveva sfidato la sdrucciola parete esterna del castello per introdursi nelle mie stanze, e ancora una volta aveva rovistato le mie camere e le mie cripte nella speranza di trovarvi una chiave o un altro mezzo per uscire dal castello in pieno giorno senza il mio ausilio. Mi sorprese di nuovo addormentato in una cassa e, assecondando stavolta un impulso assassino, afferrò il pesante attrezzo che trovò lì vicino. Provate adesso ad immaginare il sonno più profondo al quale vi siate mai abbandonati, un sonno dal quale il risveglio richieda uno sforzo immane, e decuplicatene l'inerzia che esso produce alle vostre membra. In tale stato letargico, prossimo all'oblio, io giacevo quel dì, il corpo attanagliato dalle pastoie di un fiacco torpore. Avrebbero potuto prendermi, frugarmi ovunque, violentarmi, non ne avrei avuto coscienza fino al tramonto del sole. Ma, quando Harker brandì la vanga, l'impatto psichico, l'ardente impulso omicida, si effuse come un canto nell'aria della cripta giungendo fino a me, cominciando a destarmi prima ancora che la lama sibilante colpisse il bersaglio. «Dannato bastardo!» La sua voce era un flebile gemito, cionondimeno la udivo distintamente. «Mostruosa sanguisuga!» I miei occhi erano aperti — lo erano stati per tutto il tempo — ma solo lenta e appannata la vista rischiarava la cecità del mio sonno catalettico. Mi accorsi che il coperchio della cassa era stato sollevato perché scorsi sopra di me i costoloni di pietra della soffittatura. Avvertii la luce, un fievole lucore diurno che si infiltrava nella cripta attraversando stanze dopo stanze ed innumerevoli corridoi. E, in un angolo del mio campo visivo, prese forma la faccia di Harker: dapprima soltanto un ovale biancastro, poi, mentre la mia vista si schiariva e gli occhi cominciavano a mettere a fuoco le
immagini, mi trovai di fronte una maschera di follia, il volto di quell'essere, l'Uomo, che popola gli incubi di tutti i vampiri, la maschera del cacciatore, del persecutore, colui che conficca i paletti nel nostro petto, che vuol purificare il suo mondo facendo di noi i suoi capri espiatori. Orbene, mentre gradualmente e senza speranza alcuna uscivo dal mio sonno — sapevo che non avrei avuto il tempo di reagire efficacemente per difendermi — mi resi conto per la prima volta e con spassionato distacco che Harker era assai peggiorato nell'aspetto: le sue braccia erano smagrite nelle maniche sporche, ed i capelli gli penzolavano scompigliati intorno al volto mal rasato da quando aveva perduto lo specchietto ed i cui tratti erano alterati dalla forza del male. «Maledetto bastardo!», gridò di nuovo, e la voce gli si ruppe in un singhiozzo mentre pronunziava l'ultima parola. Con un garrulo grido soffocato sollevò la vanga e la tenne sospesa in alto con entrambe le mani pronto a colpirmi in piena faccia. Non è per vana boria se vi dico che non ne fui intimorito. Affronteremo più tardi l'argomento della paura. Con tristezza osservai Harker mentre vibrava il colpo, capace soltanto di volgere appena il capo e lanciare uno sguardo di fuoco al mio assalitore. La vanga colpì la mia fronte nel mezzo, e ne assorbii nella testa l'impatto ed il dolore cercando di non trarne vantaggio per muovere le mani e i piedi, certo che di lì a poco sarebbe seguito un altro assalto. E Harker? Cosa vide lui? «... un sorriso beffardo su quel volto tronfio che mi stava spingendo alla follia. Era questo l'essere che stavo aiutando a trasferirsi a Londra, dove, forse, nei secoli a venire, avrebbe saziato la sua lussuriosa brama di sangue, ed avrebbe creato una nuova e sempre più folta confraternita di semidemoni pronti ad ingozzarsi del sangue degli indifesi... Ho afferrato una vanga... e sollevatala in alto, ho affondato la lama affilata nella faccia odiosa. Ma, mentre sferravo il colpo, quello ha voltato la testa e mi ha puntato addosso i suoi occhi fiammeggianti di orrido basilisco. Quella vista paralizza; la vanga si è girata nella mia mano e, deviando dal bersaglio, è andata a colpire la fronte del dannato lasciandogli una profonda ferita.» A ciò posso ribattere che la vista di Harker che brandiva una vanga contro la mia testa mi seccò alquanto. Irritato dal mio movimento e dal fallimento del suo primo attacco inteso a distruggermi, Harker si lasciò scivolare la vanga dalle mani: questa andò a cadere sul coperchio della cassa che si richiuse con fragore, lasciandomi al buio in attesa della prossima offensiva.
Per coloro a cui interessa questa storia, è forse una fortuna che a quel punto il nostro tête-à-tête venne interrotto da «una canzone zingaresca cantata da voci festanti,» distante ma gradualmente più vicina, accompagnata dal trambusto degli Szgany giunti nel cortile su pesanti carri per dare inizio al mio trasloco. Harker fuggì di sopra a riempire qualche altra pagina del suo diario. Non appena il costone fu sgombro della comitiva di zingari, si fece ardito al punto da discendere a tentoni l'intera superficie della fiancata del castello e in breve dileguarsi di sua iniziativa. La mia vettura restò vuota quel giorno, e Tatra indossò inutilmente la livrea di cocchiere. Se il mio ospite fosse rimasto più a lungo nella mia dimora ed avesse fatto funzionare di più il suo cervello, probabilmente ne avrei ricevuto un danno più serio se non addirittura fatale. Naturalmente un semplice attacco perpetrato con un attrezzo metallico era destinato a fallire, cosa che in seguito Harker avrebbe potuto rammentare a suo vantaggio, una volta ricostituiti i nostri rapporti sociali. Adesso la cicatrice è completamente sparita dalla mia fronte — non vi pare? — o, perlomeno, non riesco più a sentire lo sfregio sotto le dita, e da alcuni decenni nessuno più sembra notarla. Allora mi rimase un gran mal di testa e una scorta di cibo fresco, viatico per il viaggio; non ero in condizione di poter comunicare con i leali Szgany impegnati a inchiodare il coperchio della cassa che caricarono poi su un carro e trasportarono sulla lunga strada che scendeva al mare. CAPITOLO SECONDO Il mio viaggio via terra — cinque o seicento chilometri attraverso le Alpi della Transilvania e verso est attraverso la fertile pianura della banat — procedette tranquillo e privo di episodi significativi. Una volta superate le montagne, la strada si fece più agevole, ed i miei Szgany trascorsero allegramente questa parte del viaggio. Il sole del principio di luglio picchiava sulla mia cassa mentre attraversavamo la città che ora chiamate Bucharest: sapevate che l'avevo denominata Cetatesa Bucurestilor nel 1459, quando era una delle mie più importanti fortezze? Per un periodo fu la mia capitale. Attraversammo il Danubio e, la sera del cinque di luglio, eravamo a Varna, sul Mar Nero, dal cui porto la mia nave avrebbe salpato alla volta dell'Inghilterra. Varna. Suppongo che questo nome vi dica poco o niente adesso. Nel 1444, nel corso di una battaglia combattuta lì intorno, il giovane Re Vladi-
slav III di Polonia cadde sotto le spade dei Turchi, e Janos Hunyadi in persona ebbe la fortuna di dileguarsi dal campo di battaglia con l'aiuto di alcuni miei parenti valacchi. No, io non c'ero. Avevo tredici anni nel 1444, e già combattevo le mie battaglie personali senza avvalermi di un esercito. Quando i Cristiani ed i Turchi si affrontarono nei dintorni di Varna, io mi trovavo tra le montagne dell'Asia Minore, a Egrigoz, preso in ostaggio a causa della collaborazione che mio padre aveva offerto ai Turchi; con me era pure prigioniero mio fratello Radu, successivamente appellato il Bello, che allora aveva solo sei anni... Riuscite a figurarmi da bambino? Non più di quanto vi sia possibile con Hitler, immagino. Ma tutti coloro che un tempo sono stati umani, devono aver vissuto la fase dell'infanzia, ed io la rammento bene. Come si piega il ramoscello... Oh, quei Turchi, carcerieri della mia giovinezza, erano abili nel piegare i deboli fuscelli. Non ha importanza. Giunsero a temermi prima che lasciassi le loro mura quattro anni dopo. Come vi ho detto, il viaggio fino al porto sul Mar Nero trascorse privo di eventi particolari. Gli Szgany mi consegnarono al mio agente, Petrof Skinsky, e questi a sua volta al buon herr Leutner, col quale avevo avuto scambi epistolari. Leutner era un uomo troppo moderno per dar credito a racconti di nosferatu se mai essi avevano raggiunto le sue orecchie. Di Skinski non ero altrettanto sicuro; in seguito dovrò aggiungere qualcosa in più su di lui. Sicché Leutner prese in attenta custodia le mie cinquanta casse colme di terra e badò che venissero caricate a bordo della nave, senza mai farsi sfiorare dall'idea che chi gliele aveva affidate stava viaggiando con esse, col suo bagaglio di vestiti e danaro riposti in una robusta borsa da viaggio infilata nel terreno sotto di lui. Fui caricato a bordo della goletta Demeter, in rotta per Whitby, che sorge, come forse alcuni dei miei interlocutori ignorano, sulla costa dello Yorkshire, circa trecento chilometri a nord di Londra. Prima d'allora avevo navigato su corsi fluviali, e quella sulla Demeter fu la mia prima traversata per mare. La prima notte di viaggio emersi dalla cassa: quella nella quale ero capitato era stata stipata sotto molte altre ma, nel tempo che intercorre tra il tramonto e l'alba, ho la facoltà di passare attraverso una fessura più stretta della lama di un coltello. Dunque, la prima notte mi allontanai dalla stiva in sembianze umane e raggiunsi il ponte scivolando attraverso la guarnizione a tenuta stagna di
un boccaporto. Nell'oscurità della notte a me congeniale, percepii una massa di terra all'orizzonte di tribordo; il mare intorno era sgombro ovunque e un fresco vento orientale soffiava da poppa. Altri tre uomini erano sul ponte, pertanto non vi rimasi a lungo. Dalle attente ricognizioni effettuate durante le prime notti di viaggio, mi accertai della presenza complessiva di nove uomini a bordo oltre a me: cinque marinai russi, il Capitano ed il suo Secondo, Russi anche loro, ed il Primo Ufficiale ed il cuoco, entrambi Rumeni. Durante tali perlustrazioni feci uso diligente dei miei sensi, specie nelle ore di oscurità, per apprendere tutto ciò che potevo di quel nuovo mondo del mare. Senza dubbio vi sarete accorti che possiedo un certo potere di comando sui venti e sulle condizioni metereologiche e, naturalmente, avevo considerato l'opportunità di avvalermi di questi poteri al fine di facilitare il mio viaggio. Tuttavia non tardai a capire che la difficoltà consisteva nel fatto che, sebbene riuscissi a ricordare alla perfezione la rotta già percorsa — essendo noi vampiri dotati di un sistema di guida inerte, o qualcosa di simile — non avevo la minima percezione della direzione da seguire, verso la quale, quindi, indirizzare il vento. Possedevo, com'è ovvio, la pura cognizione intellettuale del fatto che la mia destinazione si chiamasse Inghilterra, e che la si doveva raggiungere attraversando il Mar Nero, il Mediterraneo e l'Atlantico. Ma tale conoscenza è di scarso aiuto se si vuole accelerare la navigazione, così mi accontentai di stare ad osservare ed imparare il più possibile. Avevamo salpato da cinque giorni, quando raggiungemmo il Bosforo, ed il giorno seguente attraversammo i Dardanelli ed entrammo nel Mediterraneo. Oggi sospetto che fu a quel punto che il Primo Ufficiale si accorse delle mie passeggiate notturne. Dubito che mi avesse effettivamente visto mentre vagavo per la nave ma, grazie alle moderate facoltà percettive che talora albergano negli umani, doveva aver scoperto che una decima presenza abitava la nave dopo il crepuscolo: che un'asse cigolava sotto il peso di un passo sconosciuto, che sul ponte rischiarato dalla luna non c'era l'ombra che pur doveva esserci, e che invece l'oscurità regnava là dove i raggi argentati dovevano irradiarsi all'intorno. I marinai sono molto superstiziosi; non ero mai stato consapevole di quanto ciò fosse vero. E in più, l'Ufficiale, come ora suppongo, era un uomo dotato di una anomala sensibilità per ciò che esulava dalla sfera dell'ordinario. Il quattordici luglio, l'ottavo giorno del nostro viaggio, uno de-
gli uomini — ormai tutti contagiati dal morbo della paura — ebbe un diverbio col Primo Ufficiale e fu da questi colpito. Se l'alterco riguardasse un'apparizione notturna o qualcosa di assolutamente estraneo a ciò, non saprei dirlo, giacché esso ebbe luogo durante il giorno, mentre ero nella stiva, e ne venni a conoscenza soltanto attraverso quanto fu documentato dai miei nemici. Secondo tali documenti, la notte seguente, quella tra il quindici ed il sedici luglio, accadde per la prima volta che fossi effettivamente visto da uno dell'equipaggio. Mentre il Capitano si stava ritirando nella sua cabina, uno dei marinai, «paralizzato dal terrore», disse d'aver visto «un uomo alto e magro, diverso da ogni altro membro dell'equipaggio, salire la scaletta di un boccaporto e camminare lungo il ponte per poi sparire.» Ero diventato piuttosto importante, e un'imprudenza, anche piccola, è sempre negativa. Quella notte ancora non sospettavo che la mia presenza a bordo stesse creando notevole agitazione ma, quando all'imbrunire mi destai, mi accorsi che ogni cosa nella stiva era stata cambiata di posto. Tutte le mie casse erano state spostate dalla posizione originale e sulla zavorra di sabbia argentata vi erano numerose orme. Non sembrava esserci alcun segno di avaria o di qualche altra emergenza tale da richiedere all'equipaggio tutto quel lavorio nella stiva, né avvertivo l'arrivo o l'avvenuto passaggio di una burrasca. Cosa stava dunque accadendo? Tutto intorno a me suggeriva che la stiva fosse stata oggetto di una vera e propria perquisizione, per fortuna non accurata al punto da scoprirmi nel mio giaciglio di terreno. Forse, pensai, la ciurma, o parte di essa, sospettava che qualcosa mancasse dal carico. Ma, avendo frugato intorno a me una volta, era improbabile che avrebbero compiuto una nuova perquisizione senza una buona ragione; in ogni caso decisi di starmene lì sotto una notte o due. Per questo motivo appresi soltanto in seguito che uno dei marinai era scomparso nella notte tra il quindici ed il sedici luglio, un fatto di somma importanza che avrei appreso prima se la prudenza non mi avesse fatto rimanere nella mia tranquilla e comoda cassa. Ah, le mie case di terra! Ah, il buon suolo della Transilvania, consacrato da umili e devoti preti tanto tempo fa per accogliere la sepoltura dei miei familiari. Talvolta mi domando se per caso la forza che traggo dalla mia terra non sia un fenomeno di carattere meramente psicologico. Il fatto è che non esiste altro luogo nel quale possa godere di un vero riposo, indispensabile alla sopravvivenza tanto di un uomo quanto di un
vampiro. Frammenti delle ossa dei miei avi riposano nella mia terra, irriconoscibili nella loro umiltà, occasionalmente accompagnati da qualche insetto o verme paziente, pavide creature timorose di me, di voi, e di qualsiasi altra creatura che si muova. Frammenti di radici di alberi robusti, particelle del loro fogliame, e forse, qui e là, residui dell'oro nascosto dai Valacchi, sui quali si accenderà una minuscola fiammella ad ogni Vigilia di San Giorgio. Buona terra nera che non imbratta i vestiti, giacché quieto è il mio sonno e regolare il risveglio, tale da non smuovere la più piccola zolla. In Inghilterra, o in qualsiasi altro luogo, sarei stato perduto senza la buona terra della mia patria, cosa di cui ero ben consapevole e che anche i miei nemici avrebbero presto appreso. Auspicai che col tempo sarei riuscito a rendere altrettanto accogliente il suolo inglese... Ma ora torniamo alla Demeter. Essa stava solcando il burrascoso Mediterraneo occidentale, quando il Primo Ufficiale uscì violentemente ma non importunamente di senno per aver troppo a lungo covato le sue paure. Ed io me ne stavo prudentemente — provo un'avversione quasi irrazionale per questa parola — rannicchiato nella mia bara dove non potevo agire in alcun modo perché la mia causa giungesse a buon fine. Come avvenne dunque che il marinaio, a cui dianzi ho fatto accenno, fosse così curiosamente sparito? Sospetto che tale sparizione sia dovuta a pura casualità. Terminato in piena notte il turno di guardia, doveva essere caduto fuori bordo prima di far ritorno alla sua cuccetta. Sono cose che succedono. Sulla nave, però, c'era il Primo Ufficiale con le sue turbe mentali, e bastò questa misteriosa tragedia a spingerlo oltre le barriere della lucidità, nelle vaste profondità della follia. L'Ufficiale impazzì — come in seguito lo stesso Capitano ritenne plausibile — e tenete conto che era originario della mia stessa terra, infestata da endemici terrori. Dovette impazzire al punto da vedere nosferatu in ogni volto, specie in quello di chi si avvicinava a lui di notte sul ponte solitario. Allora whiss! non avrebbe esitato ad estrarre il pugnale e colpire, per poi gettare a mare la sua vittima. E lo fece, giustificato da un insano genere di legittima difesa, capite. Come se quel pugnale fosse in grado di risolvere i suoi problemi? Beh, dubito che il Primo Ufficiale vantasse una buona istruzione: figlio di qualche sperduto villaggio, le sue paure superavano di gran lunga le sue conoscenze dell'argomento. Durante l'ultimo scorcio del mese di luglio, riservò lo stesso trattamento ad altri quattro marinai, ed i sopravvissuti dell'equipaggio ormai ridotto continuarono esausti e disperati ad assolvere i propri doveri, incapaci di
immaginare qual funesta sorte minacciasse il loro viaggio. Era quasi trascorso un mese di navigazione, quando riemersi dal mio nascondiglio. Sebbene, naturalmente, non mi fossi accorto subito della gravità della situazione, notai che soltanto il Capitano, il Primo Ufficiale e due marinai erano rimasti al governo della nave, essendo gli altri morti uno dopo l'altro nell'oscurità della tenebra. La goletta aveva superato Gibilterra, il Golfo di Biscaglia e si stava avvicinando all'Inghilterra. La notte del due agosto salii in coperta e trovai il ponte deserto: inesperto com'ero della vita di mare, non mi resi conto immediatamente di quanto ciò fosse grave in una notte di nebbia. Io amo la nebbia e l'oscurità, e mi trovavo sulla prora a goderne la bellezza, rapito da un fatuo sogno nel quale mi figuravo l'Inghilterra e me stesso, signore di un maniero soleggiato, dove nessuno faceva caso al fatto che non uscivo mai di giorno. Mi vedevo seduto a fissare il fuoco del camino, attorniato da un paio di cani accucciati in attesa di un mio ordine, quei grossi cagnoni che un pittore inglese saprebbe ritrarre alla perfezione in quella posa; e ancora mi immaginavo intento a contemplare i miei prati... una formosa bifolca sassone a raccogliervi il fieno, i muscoli tondeggianti delle braccia, e le vene della gola turgide sotto la pelle imbrunita dal sole... Quando mi accorsi del Primo Ufficiale, ero troppo vicino a lui, e il suo passo troppo veloce, perché potessi dileguarmi inosservato: c'è poco da meravigliarsi che nessuno dei marinai avvicinatisi a lui nello stesso modo fosse sopravvissuto. Il suo pugnale affilato mi lacerò l'abito, ma attraversò la carne come fosse un'ombra, senza recar danno ma soltanto una fitta lancinante. Bastò un istante perché diventassi tutt'uno con la nebbia. Biasimandomi per la mia innocente stupidità, scesi sotto coperta dove in forma di pipistrello rimasi in attesa di un grido allarmato e di uomini muniti di armi e torce nei pugni tremanti. Ma per tutta la notte non giunse nessuno. All'alba mi coricai nel mio letto di terra in una delle casse poste più in basso, sperando che il rumore prodotto per smuovere quelle sovrastanti mi avrebbe destato dandomi così l'opportunità di difendermi se qualcuno fosse tornato di giorno. Riposai indisturbato per tutta la giornata e, al tramonto, non indugiai a levarmi; attesi però la piena oscurità della mezzanotte per emergere nella forma di un'entità nebbiosa. Con mia sorpresa trovai i ponti completamente deserti. Il vento soffiava regolarmente a poppa, ed il vascello pareva muoversi per sua sola volontà. Io non ero, e tuttora non sono, un marinaio, ma ebbi tuttavia la ferma
sensazione che uno stato di fatto simile non potesse perdurare a lungo. Presi immediatamente ogni possibile misura affinché il vento non cambiasse direzione, ed aguzzai al massimo l'udito alla ricerca di segni di vita su ogni angolo della nave. Il pensiero di trovarmi su un vascello privo di equipaggio, vuoi per via d'una tormenta o di uno sbarco su lidi sconosciuti, e che tutto il carico della mia terra navigasse alla deriva tra le onde, non era certo dei più piacevoli. In qualche punto della nave, sotto di me, percepii allora il lavorio di due paia di polmoni e il battito di due cuori, benché fievole come fosse uno solo. No, non più di due. Dio! pensai. Sette uomini erano morti, o comunque assenti. Nei tempi antichi avrei sospettato di una pestilenza o dell'assalto di una banda di pirati, ma nel 1891 non sapevo cosa sospettare. Stavo per assumere la forma di un pipistrello e ridiscendere furtivamente sotto coperta per scoprire il più possibile, quando al mio orecchio giunse il trepestio di passi sulla scaletta di un boccaporto, e da questo emerse il Capitano in persona. Aveva la barba lunga e l'aspetto trasandato di chi sia reduce da una lunga battaglia. I suoi occhi attenti corsero in ogni angolo del ponte deserto dal quale i suoi uomini erano scomparsi uno dopo l'altro, ma non riuscì a scorgermi. Non appena si accorse che la nave era priva di equipaggio, si lanciò verso il timone e chiamò il suo Secondo a piena voce. L'ufficiale rumeno non tardò a presentarsi vestito della sola biancheria intima, i capelli arruffati e l'apparenza di un folle. In breve, raggiunse il Capitano al timone e gli si rivolse con rochi bisbigli, che io, nascosto nell'ombra poco lontano, sentii distintamente: «È qui; lo so, adesso. L'ho visto stanotte, mentre ero di guardia. Ha sembianze di uomo, alto, magro e di un pallore spettrale. Stava a prua a guardare il mare. L'ho sorpreso alle spalle, l'ho colpito col pugnale, ma la lama ha attraversato il nulla: era vuoto come l'aria.» Mentre parlava, l'Ufficiale estrasse nuovamente il pugnale mostrando la scena, e la mia vista, acuta di notte, notò tracce di sangue fresco nonostante quello agitasse con foga l'arma. Capii che doveva trattarsi del sangue dell'ultimo timoniere, gettato in acqua soltanto pochi minuti prima. Mancò poco che non mi facessi avanti e disarmassi il Primo Ufficiale, sicuro che fosse intenzionato ad uccidere l'unico marinaio sano di mente rimasto a bordo, il Capitano, che da solo si ergeva tra me ed il naufrago, tra me e la rovina. Ma il folle aveva già inguainato il coltello e stava arretrando dall'inorri-
dito Capitano che mantenne ben salda la presa sul timone. «È qui,» balbettò il folle, «ed io lo scoverò. È nella stiva, forse in una di quelle casse. Le schioderò una per una e lo troverò. Resti lei al timone.» Appoggiò quindi un dito sulle labbra invitandolo al silenzio e scese di sotto. Il Capitano seguì con lo sguardo i suoi passi, e la pietà, l'orrore e la disperazione lottarono strenuamente tra le rughe stanche del suo volto. Che quel folle assaltasse le mie casse era per me cosa insopportabile. Bastava che si armasse di qualche attrezzo e forte del fanatismo della pazzia sarebbe riuscito a spaccarle tutte in un'ora, e il loro contenuto, vitale per la mia esistenza, si sarebbe inestricabilmente mescolato alla zavorra ed alla sentina. Se fossi stato certo che il Capitano sarebbe stato in grado di condurre da solo la nave verso un porto sicuro, probabilmente avrei ucciso il matto seduta stante... ma no, forse neppure in quel caso lo avrei fatto. Sono come un vecchio soldato che ne ha abbastanza di uccidere. Benché non desiderassi la morte di quell'uomo, fui costretto ad agire per ostacolare il suo intento. Per prima cosa feci mutare direzione al vento così da trattenere il Capitano al timone, poi seguii l'Ufficiale sotto coperta. Questi era già nella stiva, nell'atto di sollevare una mazza da abbattere sul coperchio di una cassa, quando mi posi davanti a lui. Emise un urlo, la mazza gli cadde dalle mani, e si precipitò alla scaletta del boccaporto per uscire di nuovo all'aria aperta. Lasciate che dica, per inciso, che trovo strano il fatto che numerose persone abbiano dedotto dal resoconto scritto del Capitano a proposito di questi avvenimenti che il Primo Ufficiale avesse effettivamente aperto una delle casse, trovandomi dentro insonnolito. Vorrei sottolineare: primo, che era passata la mezzanotte, e solitamente a quell'ora sono ben sveglio; secondo, che se mi avesse trovato in uno stato simile, l'uomo che per settimane aveva tentato di uccidere un vampiro, difficilmente avrebbe perso l'occasione di buttarmi immediatamente in acqua assieme alla mia cassa; e, terzo, che nessuno riferì che qualcuna delle casse fosse stata priva di coperchio o lesionata quando infine furono ricevute a Whitby. Ad ogni modo poco importa se quel folle mi avesse trovato in una cassa, o sveglio e attivo, la cosa è però sintomatica di quanto i fatti possano essere soggetti a interpretazioni erronee. Ma torniamo al punto in cui ero rimasto. Il Primo Ufficiale tornò sul ponte in un baleno, per usare le parole del Capitano, «come un pazzo furioso.» Dapprima gridò in cerca di aiuto, dopodiché cadde in uno stato di calma disperata; evidentemente capì che non poteva esservi scampo dai fantomatici vampiri della sua mente malata. Si avvicinò al parapetto e con
tono ragionevole disse: «Venga anche lei, Capitano, prima che sia troppo tardi. Lui è qui. Ora conosco il segreto. Il mare mi salverà da lui: non c'è altra soluzione!» E, prima ancora che il Capitano potesse intervenire, lo sventurato si era già tuffato in mare. Restai per un po' nascosto tra le ombre sul ponte, a moderare il vento ed a cercare di riflettere. Più tardi cercai di avvicinarmi all'uomo al timone; desideravo spiegargli la mia posizione in quella faccenda, almeno in parte, e cercare di fargli capire che noi due condividevamo un interesse comune nell'approdare in porto sani e salvi. I primi grigi lucori dell'alba già sfioravano le acque quando avanzai verso di lui in forma umana, pratico e deciso, ben visibile mentre mi approssimavo. Mi puntò addosso gli occhi iniettati di sangue dopo una rapida, anelante, occhiata al parapetto; il Capitano non avrebbe abbandonato il suo vascello, e le sue dita si strinsero convulsamente sulla ruota del timone. Mi arrestai a pochi passi da lui e sfiorai il cappello con le dita. «Buon giorno, Capitano.» «Cosa... chi sei?» «Un passeggero che desidera soltanto arrivare in porto.» «Allontanati da me, Demone uscito dall'inferno.» «Vedo che è rimasto senza equipaggio, Capitano, ma non è opera mia. Sono pronto a collaborare con lei per la nostra comune causa di sopravvivenza. Non so nulla di navigazione, ma posso tirare le funi, far nodi, qualunque compito venga svolto da un marinaio... e anche di più.» Ritenni sconsigliabile offrirmi subito di controllare il tempo a suo comando. «Vedrà che il suo nuovo equipaggio sarà più forte del vecchio, malgrado questo avesse il vantaggio del numero.» «Vattene, Diavolo!» Ahimé, il mio Russo era imperfetto. E l'uomo al timone non voleva darmi ascolto, ma continuava a mormorare preghiere, scongiuri ed imprecazioni, dimenticando di girare il timone. Pensai allora, forse erroneamente, che in quel modo rischiava di far affondare la nave, e giudicai opportuno sparire all'istante. Per tutta la giornata che seguì, il Capitano rimase sveglio alla sua postazione, mentre io ebbi un agitato riposo nel mio rifugio. Impiegò un po' di tempo ad aggiornare il Diario di Bordo, cosa che fece su alcuni pezzi di carta che infilò in una bottiglia nascosta sotto gli indumenti: del Diario di Bordo venni a conoscenza solo molto tempo dopo, in caso contrario lo avrei buttato in mare subito dopo la morte del Capitano.
Quando la notte seguente salii sul ponte, lo trovai legato al timone e alquanto indebolito. Avvicinatomi come la notte precedente, mi rivolsi a lui con parole garbate; ma il terrore s'impossessò di lui ed allora, mosso a pietà, mi interruppi. «Mostro!», gridò. «Torna negli abissi dai quali sei venuto! Non ti darò né la mia nave né la mia anima immortale!» «Può conservare il possesso di entrambe,» replicai, studiandomi di parlare nella maniera più rassicurante possibile. «Chiedo questo e null'altro: che lei mi dica qual è la rotta per Whitby. In quale direzione è l'Inghilterra?» Ah! Nelle sale del mio castello o in altri ambienti a me congeniali mi illudo che gli altri mi trovino ricco di fascino e dolcezza; e di fatto sono capace di suscitare in ogni luogo l'impressione pacata e solare che ora sto generando in voi. Sulla nave, però, non fu così; sopraffatto dall'impazienza, afferrai il disgraziato per il colletto della camicia e lo scossi selvaggiamente. «Dimmi, idiota, farabutto, dov'è il porto di Whitby?» Credo che ormai il Capitano ne sapesse meno di me. Ovviamente ero consapevole del fatto che avessimo già attraversato la Manica e ci trovassimo nel Mar del Nord, in prossimità della mia destinazione. Dalle stelle traevo indicazioni approssimative ogniqualvolta soffiavo tra la nebbia per poterle scorgere. Non mi accorsi allora se anche il Capitano le avesse viste e se ne fosse servito per determinare la rotta; in seguito, tutto lasciò supporre che se ne fosse effettivamente avvalso. Morì il mattino seguente, poco prima dell'alba; il corpo rimase avvinghiato al timone dove era riuscito a legarsi, stringendo coi denti l'ultimo nodo. Del rosario celato sotto le mani incrociate ero del tutto ignaro, altrimenti glielo avrei sottratto come feci con i messaggi infilati nelle bottiglie, affinché nulla potesse suggerire la presenza di un vampiro a bordo della goletta. Considerai l'opportunità di slegare il cadavere dal timone e far sì che si ricongiungesse al suo equipaggio, tra la moltitudine di corpi addormentati tra le onde. Ma, dopo un'attenta riflessione, lo lasciai lì dove aveva scelto di rimanere. La scoperta di una nave alla deriva, completamente priva dell'equipaggio, costituisce per la mente umana un mistero più intrigante di qualsiasi semplice naufragio e perciò è fatto oggetto di indagini più accurate. Immagini che, quando la Demeter in un modo o nell'altro sarebbe approdata sulla terraferma — nutrivo la convinzione di riuscire a far ciò grazie alla mia capacità di controllare i venti, non prevedendo la possibilità
che si potesse fracassare su una scogliera o arenare su chissà quale spiaggia — tutti avrebbero creduto che l'equipaggio fosse semplicemente perito durante una tempesta. Con quest'idea in mente cominciai a far uso dei miei poteri per scatenare una tempesta di violenza tale da avvalorare la credibilità di una simile sorte. Scatenare una burrasca era un rischio calcolato; se la nave si fosse capovolta o fosse affondata, non mi sarebbe rimasta altra via che allontanarmi in volo nella forma di pipistrello. Le mie casse ricolme del suolo natìo sarebbero andate irrimediabilmente perdute, ed io avrei dovuto percorrere mille miglia per racimolarne dell'altro. Le possibilità di sopravvivenza in condizioni simili sarebbero state minime. La tempesta infuriò diversi giorni nel Mar del Nord in direzione della Scandinavia. Volevo che non si chetasse, come di fatto accadde, finché non avessi saputo con esattezza in quale direzione il suo impeto doveva spingere il mio vascello alla deriva. Fu con un moto di esultanza che una notte avertii la presenza di un approdo terrestre a nordovest, e mi parve di riconoscere le torreggianti scogliere di Capo Flamborough, rifacendomi ai disegni e alle descrizioni che avevo esaminato durante i miei lunghi studi. Se tale identificazione era corretta, Whitby doveva trovarsi a non più di quaranta miglia a nordovest e, con un po' di fortuna, sarei riuscito a spingere la goletta direttamente nell'estuario dell'Esk. Mi avvicinai lentamente alla burrasca poiché volevo che essa lambisse soltanto il vascello sul quale navigavo. La manovra non si dimostrò facile come avevo sperato e, per tutta la giornata del sette di agosto, restai sotto coperta al riparo di una delle mie casse, destandomi dal torpore di tanto in tanto con la speranza di udire un saluto in Inglese da qualche altra nave e lo scalpiccio dei passi di soccorritori a bordo del relitto. Speravo che, avvicinandomi il più possibile a Whitby, sarebbe stato agevole trainare la Demeter nel porto giusto. Ma nessuna imbarcazione si avvicinò abbastanza da interessarsi alla mia nave e, quando fu di nuovo notte, decisi che fosse giunto il momento di far appello ad ogni mia risorsa e tentare l'approdo da solo. Sollevare e comandare una burrasca di grosse proporzioni è un compito faticoso e neppure dei più piacevoli. Sicché, dopo che ebbi localizzato il porto che cercavo e con una larga virata ebbi sospinto la nave verso di esso, fu necessario un notevole dispendio di energia per indirizzare la goletta — «come per miracolo», stando al resoconto di un giornale — tra le due
file di frangiflutti che arginavano la bocca del porto e frenarla infine con danni modesti sul greto di scuri ciottoli sotto l'alta scogliera orientale. Il ricorso all'illuminazione elettrica aveva conosciuto in Inghilterra un rapido incremento negli ultimi dieci anni ma, nella quiete della mia Europa Orientale, essa non aveva ancora infranto l'oscurità. Cosicché, quando il riflettore, piuttosto potente per quei tempi, puntò sulla Demeter il suo fascio di luce, ne fui sbigottito ed ignaro di ciò che ad esso sarebbe seguito. Quando la luce si irradiò sulla nave, avevo assunto la forma di pipistrello così da potermi dileguare tempestivamente nel caso di un urto improvviso e violento. Appollaiato su un albero del vascello stavo dirigendo l'ultima, poderosa spinta del vento; con i piedi ungulati ben serrati intorno alla spessa corda e le ali ripiegate intorno al corpo, nessuno degli astanti riuscì a scorgere la mia piccola figura scura. Un numero così folto di osservatori fu una sorpresa per me, considerando l'ora tarda. Non mi ero ancora reso conto che Whitby fosse una stazione climatica, affollata di gente non avvezza alle tragedie dell'oceano, e pertanto la burrasca aveva attratto sulla costa orde di curiosi. Gli occhi di un pipistrello mal sopportano la luce elettrica e, non appena capii che la nave stava per giungere inevitabilmente a terra, mi infilai immantinente in un boccaporto e mutai la mia sembianza in quella di un lupo. Al primo scossone che fece vibrare l'imbarcazione al contatto dello scafo con l'arenile ciottoloso, gli spettatori appostati sugli scogli furono stupiti dall'apparizione sul ponte di quello che un cronista definì un «cane immenso.» Questo balzò giù dalla prua e, in men che non si dica, sparì nell'oscurità oltre il raggio del riflettore. Correre con le zampe di un lupo consente di spostarsi in maniera rapida e priva di difficoltà; il lupo è un animale meno misterioso e meno vincolato alle correnti d'aria di quanto lo sia un pipistrello, più veloce e resistente di un uomo. In meno di un minuto avevo già raggiunto le zone più buie e interne della città che sembravano allora ancor più quiete e deserte, quasi che l'intera popolazione si fosse riversata sulla sponda dell'oceano a contemplare la furia della tempesta. Acquattato tra le ombre più fitte di una stretta viuzza, rimasi per un po' in attesa finché non ebbi la certezza che nessuno mi avesse seguito dal porto, dopodiché ripresi le sembianze umane. Questa mia metamorfosi eccitò gli spiriti di un enorme mastino che fino a poco prima si era rannicchiato, timoroso del lupo, in un cortile dirimpetto. Allorché l'odore del lupo si tramutò in un odore simile a quello di un uomo, la belva s'inferocì e mosse
all'attacco contro di me. In circostanze normali avrei probabilmente calmato l'animale rimandandolo al suo riparo, ma i miei poteri extrafisici erano stati duramente provati nell'alzare e guidare i venti, per cui colsi così l'occasione per recuperare un po' dell'energia spesa catturando il cane e bevendone il sangue. Il corpo dissanguato fu rinvenuto il giorno seguente, ma trascorse molto tempo perché venisse in qualche modo collegato all'arrivo nel porto cittadino di cinquanta grosse casse la cui fattura d'accompagnamento indicava fossero piene d'argilla. Satollo e ritemprato, nelle ore che precedettero l'alba, percorsi le strade di Whitby bagnate dalla pioggia alla ricerca di una postazione elevata dalla quale avrei potuto osservare la goletta arenata senza avvicinarmi troppo ad essa. Riluttante a riassumere la forma di pipistrello, volevo tuttavia accertarmi del trattamento riservato al prezioso carico. Per tale fine, il piccolo cimitero di una chiesetta su una rupe che sovrastava la città ed il porto, si rivelò ideale. La scena che ebbi a contemplare quando, prima dello spuntar dell'alba, giunsi sulla cima dell'altura, fu qualcosa di selvaggio e magnifico. Naturalmente avevo cessato di condizionare il tempo e la tempesta si andava ormai placando, ma l'impeto dei flutti scuoteva ancora l'oceano e nel cielo fluttuavano cumuli di nuvole basse. Il sangue fresco mi aveva saziato e rinvigorito, e la maestosità di quella scena sommata alla vittoria del mio contrastato arrivo alla meta, suscitarono in me una sfrenata esaltazione. La chiesetta parrocchiale presso la quale sostai, e la grande abbazia in rovina più sopra, erano entrambe disabitate, sicché potei godere tranquillamente quella vista fino alle prime luci dell'alba, quando le ali di pipistrello mi ricondussero giù alla nave. Non ricordo più se il trambusto provocato nello scaricare le casse mi destò dal sonno. Il signor Billington, il valente avvocato di Whitby al quale era stata affidata la gestione del carico, aveva puntualmente mandato una squadra di manovali a bordo della Demeter approfittando della marea mattutina e, allorché mi ridestai al tramonto, mi ritrovai tra le mie cinquanta casse di soffice terra natia stipate in un asciutto magazzino. Nei giorni che seguirono, tenni una condotta alquanto passiva seppure rischiosa. Si cominciò a profilare la necessità di un'inchiesta per far luce sul naufragio. Dagli stralci di discorsi che riuscivo a carpire, appresi che il Ministero della Marina si stava interessando alla faccenda; bisognava inoltre pagare i diritti portuali e, nel mezzo di queste minacciose com-
plicazioni, Billington rallentò le operazioni di svincolo e spedizione del carico in treno per Londra. Frattanto, incurante di questi problemi, continuai ad uscire ogni notte e a provarne enorme diletto. Cambiamenti, promesse, successo sembravano aleggiare nell'aria assieme alla salsedine del Mar del Nord, il cui alito cominciai ad apprezzare. Durante i miei vagabondaggi notturni mi sorpresi persino a cercare d'imbattermi nella superficie di uno specchio, giacché nutrivo la debole, immotivata speranza che vi avrei almeno scorto il profilo spettrale della mia figura. Gli specchi continuavano a deludermi ma, a parte ciò, la mia vita procedeva all'insegna della gaiezza. All'aria aperta e nel chiuso delle abitazioni, la città di mare aveva un'intensa vita notturna, e nessuno appariva schiavo della paura e prigioniero della segretezza. Ascoltavo i concerti bandistici sulle banchine del porto; risa allegre mi giungevano da ogni strada, e mi sembrava che persino i poveri e gli sventurati di questo nuovo paese fossero consapevoli di tutte le possibilità che il mondo offriva loro di provare il piacere, e che fossero decisi a goderne una parte. Tutto ciò mi lasciava felicemente meravigliato. Dopo l'uccisione del cane non mi ero più alimentato durante quelle mie prime notti inglesi. In verità, la mia sete di sangue era scarsa, il che mi incoraggiava a sperare nella buona riuscita dei miei progetti per il futuro; cose più allettanti del sangue sembravano animare l'aria d'Inghilterra, e la mia anima. Sublimando le brame carnali, mi appagavo platonicamente della presenza intorno a me di tutte le donne della città. Immensità celesti! Se la piccola Whitby brulicava di tanta vita, promesse, umanità, cosa mai doveva essere Londra? Ero certo che in quella vitale metropoli, pur volendo, non sarei potuto rimanere un semplice vampiro. Non che desiderassi diventare un comune abitante umano dai polmoni perpetuamente affamati d'aria per guadagnarsi pochi decenni di vita. Niente affatto! Mi vedevo, invece, come il rappresentante di una sintesi, il primo essere di una nuova specie, amante del caldo e della luce come gli uomini comuni, e come questi avido di svariati piaceri da bramare e da godere, ma impavido e possente come il nosferatu, capace di parlare con gli animali se non necessariamente di assumerne le sembianze. Confortato da simili rosee prospettive, mi concedevo ore gaudenti. Uno dei luoghi che maggiormente frequentavo durante quelle prime notti inglesi ardenti di sfrenate speranze era il cimitero di cui vi ho riferito poc'anzi. Esso circondava la chiesa di St. Mary, abbarbicata sulla scogliera
orientale che torreggiava sulla città, ed era ubicato immediatamente sotto l'antica Abbazia ormai ridotta in un rudere. In questa stessa Abbazia di Whitby, milleduecento anni prima, il poeta contadino Caedmon fu il primo cantore inglese a dedicare un inno al Dio creatore della Cristianità. Appurai che il luogo era invariabilmente deserto dopo il tramonto e, similmente al poeta dell'antichità, vi trascorsi molte ore tranquille di sogno e meditazione. Il porto e la pacifica città si stendevano davanti a me e, sotto i miei occhi estasiati, si allungava la distesa marina, mentre il promontorio di Kettleness si stagliava tozzo contro il cielo. Appoggiato ad uno dei muri ancora in piedi dell'Abbazia, ed euforico, me ne stavo a contemplare lo scenario rischiarato dalla luna, quando la dolce Lucy mi apparve per la prima volta. Rammento bene che mancava poco alla mezzanotte, ed erano trascorse già tre notti dal mio burrascoso arrivo a Whitby. Fui destato dall'assorta contemplazione della luna, della terra e del mare dall'apparizione di una figura solitaria che scorsi con la coda dell'occhio. Indossava una veste lunga e bianca e si avvicinava al cimitero risalendo la lunghissima gradinata che dalla città conduceva sull'altura. Mi volsi a osservare più direttamente la figura e distinsi i tratti di una giovane donna, forse men che ventenne, dalla corporatura esile e con una diafana cascata di capelli intorno alle spalle. Restai immobile. La mia vista acuta mi avrebbe consentito di vederla chiaramente da una buona distanza, malgrado ciò non abbandonai la mia postazione in penombra ritenendo improbabile che la giovane si sarebbe accorta di me seppure mi fosse passata accanto, come sembrava intenzionata a fare. Giunta ad una ventina di metri da me, capii che si trattava di una sonnambula, scalza e vestita di una leggera camicia da notte bianca. Questa scintillava intorno a lei ad ogni suo passo, richiamando alla mente il bagliore candido della neve o il chiaro di luna delle vette dei Carpazi. I suoi occhi, — dell'azzurro intenso dei cieli assolati d'Inghilterra, — erano aperti ma, anche se fosse stata vestita di tutto punto mi sarei accorto che stava dormendo... ho una certa esperienza in materia. I suoi capelli erano biondi, perfettamente intonati agli occhi chiari; il cuore le batteva selvaggiamente nel petto e, quantunque potessi udirlo distintamente man mano che la fanciulla si avvicinava a me, non compresi subito il significato di quei palpiti. Oltrepassò il mio anfratto ombroso e mi aspettai che proseguisse fin dentro l'Abbazia o girasse intorno ad essa ma, tutt'ad un tratto, i suoi passi rallentarono. Si arrestò e si voltò a guardare nella direzione opposta al mio
nascondiglio, dritto verso il mare; e in quell'istante, con un sussulto appena percettibile, si ridestò. Chiunque altro, osservandola dalla mia postazione, non avrebbe notato il cambiamento, tanto fu silente e repentino. Né essa stessa si rese conto con chiarezza se fosse desta o stesse sognando, come le sue prime parole mi rivelarono. Io non sono affatto il tipo da dubitare dell'esistenza di un sesto — o financo sedicesimo — senso. Troppo sovente i rappresentanti della specie umana mi hanno sconcertato per la rapidità e l'acutezza delle loro percezioni. Ancor prima che si fosse svegliata completamente, Lucy si voltò a guardare nella mia direzione, e la mia figura immota, nascosta nell'ombra ad una decina di passi di distanza, fu la prima cosa che i suoi occhi misero a fuoco nell'oscurità. Mi guardò con perfetta tranquillità come fosse mezzodì, ed io nient'altro che una bizzarra lapide commemorativa degna di studio. Rivolse quindi lo sguardo verso le nubi in fuga, e poi alla mole cadente dell'Abbazia, le cui pietre dissestate avevano forse visto cose assai più stravaganti di un vampiro in tempi remoti; poi volse gli occhi al bagliore intermittente della luna, ed infine li posò nuovamente su di me. Ricorderete che avevo fatto in modo di mutare il mio aspetto, sicché alla fanciulla apparve una folta capigliatura bruna che faceva da cornice ad un volto dalla pelle levigata in luogo della vecchia faccia rugosa e dei capelli bianchi e avvizziti. «Oh, sto ancora sognando,» mormorò. «Buon signore, cosa ci fa lei nei miei sogni? Soltanto poco fa, tre uomini hanno chiesto la mia mano; devo dunque attendermi un'altra proposta di matrimonio fatta di sole parole? Ma no, lei ha più l'aspetto di un antico vichingo, ravvolto nella sua cappa e giunto a rapirmi per portarmi con lui oltre i mari del nord.» E, senza dar mostra del minimo timore, fu scossa da un delizioso brivido che dalla gola discese ondulatoriamente fino alle bianche dita di un piede che timido si nascose dietro all'altro. «Direi più unno che vichingo, mia cara signora,» replicai, lasciando il mio sito all'ombra per farmi più vicino a lei. «Quanto al ratto, beh, questo dipenderebbe più da lei. Ma, a quanto pare, lei è già ben decisa al riguardo.» La giovane impallidì lievemente mentre mi avvicinavo, cionondimeno non arretrò. Gli occhi, sui quali le palpebre calarono appena come se stesse sul punto di addormentarsi di nuovo, guardavano fissamente i miei.
«Le chiedo solo che non mi sommerga di parole,» sussurrò. «Sono stanca, oh mio Dio, sono così stanca degli uomini che mi circondano quando sono desta!» I canini mi dolevano nella mascella superiore. Senza aggiungere altro, si gettò tra le mie braccia con la stessa brama arrendevole di ogni contadinella che in precedenza avevo stretto ai miei fianchi serrandole le labbra. Tremò quando le baciai la gola e, al primo tocco sulla vena giugulare, venne meno sulle ginocchia. La condussi ad una panca poco distante e, fattala sedere, mi posi dietro di lei, mi chinai, e la mia bocca cercò il suo collo. Il sordo e lugubre rintocco di un orologio giunse dalla valle. La calda e ricca linfa della sua vita stava stillando grata e felice nelle mie vene fredde, quando sentii chiamare: «Lucy! Lucy!». Era la voce di una ragazza che mi pareva assai lontana, mentre non lo era affatto. Lucy si mosse sotto le mie mani e la mia bocca ma, quando feci per sollevare la testa così da vedere chi stesse chiamando, le dita della ragazza si avvinghiarono ai miei capelli per serrarmi le labbra dischiuse sulla sua pelle. Riuscii ugualmente a sollevare il capo — con un gemito di disapprovazione da parte di Lucy — e scorsi l'altra ragazza che stava avanzando nella nostra direzione dalla sommità della lunga scalinata. Naturalmente si trattava della cara Mina, benché allora non lo sapessi ancora e, in quel momento, la sua comparsa fu soltanto una deprecata interruzione della mia gioia. Avanzava in tutta fretta con passo deciso e, con ogni probabilità, aveva scorto le nostre sagome sulla panchina. Il sentiero che aveva imboccato passava intorno alla chiesa di St. Mary e, per questa ragione, scomparve alla nostra vista alcuni istanti. «Domani notte,» promisi a Lucy, prendendole le gote tra le mani e fissandola negli occhi, adesso semichiusi. La ragazza era ormai in una sorta di dormiveglia, e non per la perdita di sangue la cui quantità era insignificante per una diciannovenne in piena salute. Lessi nei suoi occhi e udii nel calmo respiro il suo spontaneo consenso. Nelle donne il sesso ha una collocazione anatomica meno specifica che nella maggior parte degli uomini. Allorché Mina sbucò di corsa dal fianco della chiesetta, e mentre un'altra nuvola vagante aveva scoperto il volto della luna, io mi ero già reso invisibile nascondendomi tra le ombre. Mina si diresse immediatamente alla panchina dove Lucy era rimasta ancora semisdraiata. I suoi occhi erano chiusi in un sonno volontario, ma aveva il respiro ancora sostenuto per l'eccitazione del nostro abbraccio. Mina le mormorò dei vezzi da fanciulla unitamente a delle bonarie rimostranze, poi si affrettò a coprire con uno
scialle la mia prima vittima, e si chinò ad infilarle protettivamente le sue scarpe. Anche la seconda ragazza indossava una camicia da notte, ma vi aveva infilato sopra un abito; la osservai attentamente e notai che anch'essa era molto attraente, benché in maniera diversa da Lucy. Là dove Lucy era esile e delicata, costei era florida e robusta, tuttavia ugualmente graziosa con quella sua sana bellezza. Le due ragazze si allontanarono dal cimitero, la seconda sostenendo l'amica semiaddormentata, ed io le seguii a distanza intenzionato a scoprire la dimora di Lucy. Fui alquanto stupito di vedere Mina — il cui nome mi era ancora ignoto — fermarsi presso una pozzanghera e imbrattarsi di fango i piedi scalzi; immaginai che desiderasse apparire calzata agli occhi di qualche eventuale passante. Non immaginavo, però, che importanza potesse avere una cosa simile; un'altra stravaganza della mentalità inglese su cui meditare! Seguii le ragazze fino alla loro casa ed intuii che abitavano nella stessa dimora; andai quindi a riposare più presto del solito e dormii saporitamente per tutto il giorno. Quanto a Lucy, Mina ebbe un gran sollievo nel notare al mattino che la giovanetta non mostrava alcuna cattiva conseguenza dell'avventura notturna. «... al contrario, le ha giovato, perché stamattina ha un aspetto che non mostrava da settimane. Mi sono rammaricata soltanto del fatto che i miei modi maldestri con la spilla di sicurezza le abbiano provocato quella minuscola ferita. Beh, veramente, poteva essere pericoloso, perché la pelle della gola è stata perforata... ci sono due puntini rossi simili alle punture di uno spillo, e sul nastro della camicia da notte c'era una goccia di sangue. Quando mi sono scusata e le ho mostrato la mia preoccupazione, Lucy si è messa a ridere e mi ha detto di non essersene neppure accorta. Fortunatamente non le rimarrà alcuna cicatrice: la ferita è così piccola...» Così Mina raccontò l'episodio. La stessa Lucy, come mi confidò in seguito, era ancora incerta se l'avventura notturna fosse stata vissuta nella realtà o nel sogno. Non ne parlò più quando, assieme alla sua amica, andò a fare un picnic accompagnata dalla madre, una vedova che faceva loro da chaperon durante la vacanza balneare. Probabilmente fu una fortuna per la signora Westenra che nessuna delle due ragazze accennasse in sua presenza all'esperienza notturna in quanto, fin allora, la poverina soffriva di una grave forma di scompenso cardiaco benché, a quell'epoca, Lucy ignorasse quanto me che la madre ne
fosse affetta. Essendo a conoscenza del nome della ragazza e della casa nella quale dimorava, la notte seguente non indugiai a farle visita. La chiamai silenziosamente, proiettando la mia mente nella sua com'ero in grado di fare poiché, almeno in parte, eravamo diventati una sola carne. A Lucy giunse così il muto messaggio del suo amante che le manifestava la sua presenza, e il desiderio sfrenato che aveva di lei. Ma la ragazza divideva la sua camera con Mina, e non poté rispondere prontamente al mio richiamo. Finse allora di camminare nuovamente nel sonno, ma il tentativo fallì; la sua pratica ed attenta compagna di stanza, decisa ad evitare un'altra arrampicata notturna sulla scogliera orientale, aveva chiuso a chiave la porta della stanza da letto e si era legata la chiave al polso. Lucy fu ricondotta a letto e vi rimase a sedere un'ora o due. Fu allora che, appollaiato sul davanzale della finestra nella forma di pipistrello, la chiamai di nuovo. Stavolta Lucy era addormentata sul serio quando si alzò e cercò di aprire la porta. Mina si svegliò all'istante ed impedì la soddisfazione dei miei desideri con la stessa efficacia di poco prima. Senza dubbio avrete letto da qualche parte che una delle peculiarità della natura di un vampiro è l'impossibilità di entrare in una casa dove non sia stato mai invitato. Stando così le cose, non potevo fare altro per il momento. Deluso, sorvolai la città in forma di pipistrello, e raccolsi ulteriori prove del fatto che, nell'intimità delle loro camere e dei loro letti, sicuri di non essere osservati, gli inglesi non sono poi tanto diversi dagli abitanti dell'Europa Centrale. La sera successiva, quella del quattordici agosto se la memoria non m'inganna, la mia tenacia fu ricompensata. Mina era fuori per una passeggiata, quando mi avvicinai alla finestra di Lucy. Col campo libero da impedimenti non fu una grande impresa persuaderla silenziosamente ad aprire la finestra ed a sporgere la testa allungando la gola sottile e diafana sotto i raggi della luna che cadevano sul davanzale. La mia piccola bocca di pipistrello assaggiò dapprima una, quindi tutt'e due le minuscole ferite inferte con tanta delicatezza dai miei canini umani. L'adorabile fanciulla emise un fievole gemito e fece un sogno assai piacevole. La quantità di sangue che andò a riempire il mio piccolo stomaco di pipistrello non poteva certamente compromettere la salute di Lucy. Però la fanciulla non era affatto robusta, ed il giorno seguente mostrò un aspetto languido e affaticato del quale non seppe dare spiegazione alla sua affezio-
nata amica. Mi presentai di nuovo la sera successiva, ma Mina era in casa, ed impedì a Lucy di cacciare il naso fuori della stanza. Questa mia giovane conquista cominciava a procurarmi un certo piacere e sorridevo a me stesso ogniqualvolta ripensavo a quando mi aveva dato del «vichingo.» Di fatto, l'avventura mi assorbì a un punto tale che, per un certo periodo, mi dimenticai quasi che Londra fosse la mia meta. Tuttavia, il mio atteggiamento verso il rapporto con Lucy restava, lo confesso, alquanto distaccato, più congeniale ai costumi del Ventesimo Secolo, o della metà del Quindicesimo nel quale esso ebbe a fiorire. Forse fu proprio il mio atteggiamento più che i fatti di sangue che alla fine attirò contro di me la furia di quel branco di assassini. A volte penso che in realtà fosse la mia volubilità a risultare insopportabile. Se mi fossi limitato a possedere una soltanto delle loro dolci fanciulle, ed a sposarla succhiandole il collo in privato, probabilmente sarei stato accolto nella famiglia e nella cerchia del focolare come si fa con un cugino eccentrico. Ma forse non so valutare quale grado di eccentricità possa risultare tollerabile persino ad un inglese. Non importa! Come ho detto, fui prossimo a dimenticarmi di Londra e, quando la sera del diciassette agosto i miei occhi ben riposati scorsero che la cassa che mi aveva ospitato durante il giorno stava per essere caricata sul vagone di un treno insieme alle altre quarantanove, fui colto da un vero e proprio shock. Mi sentii un po' come uno di quei ladroni che occupavano le giare d'olio nella storia di Alì Baba. Quel viaggio di circa trecento chilometri sulle rotaie della Grande Ferrovia del Nord, fu la mia prima esperienza ferroviaria, e non certo delle più felici. Il puzzo di carbone bruciato che dalla locomotiva a vapore si spandeva ai carri merci, recava in sé qualcosa di organico, somigliante al cibo, e mise a dura prova la mia resistenza per lunghe ore. Erano trascorsi una quindicina di minuti da quando la locomotiva si era mossa tra sbuffi e scoppiettii e, poiché era già praticamente buio, decisi di uscire in ricognizione. M'infilai attraverso un'imperfezione della cassa che occupavo e, uscito allo scoperto, assunsi la forma umana; ondeggiando per il movimento del treno, nel lungo crepuscolo estivo mi misi a controllare il numero delle casse per accertarmi che non ne mancasse nessuna. Con un rombo d'acciaio, cupo e stridente, un ponte passò sotto le ruote del vagone chiuso nel quale viaggiavo in compagnia del mio suolo natìo. Attraverso una fessura scorsi il debole luccichio di un fiume ed annuii compiaciuto di
fronte alla facilità con la quale il treno riusciva a trasportarmi sull'acqua in movimento senza pause e scossoni, come invece capitava allorché noleggiavo dei cavalli. Scostai appena di lato la porta del vagone e sbirciai per un po' la brughiera dello Yorkshire che stavamo attraversando ad una velocità così sorprendente. Poi, intenzionato ad evitare disastri e sventure simili a quelli occorsi durante la mia prima traversata oceanica — già mi figuravo i ferrovieri terrorizzati lanciarsi giù dal treno in corsa a sessanta miglia all'ora ed atterrare fatalmente su un campo di pastura, tra cumuli di letame — mi ritirai subito nella mia cassa. Il resto della notte, e per buona parte del giorno seguente durante il quale riposai nel mio diurno stato stuporoso, il treno continuò a sbuffare correndo verso sud, con frequenti fermate per il carico e lo scarico di merci e passeggeri o per le operazioni di rifornimento del carburante. All'ora prevista per l'arrivo, le quattro e trenta pomeridiane del diciotto agosto 1891, grida distanti mi annunziarono che stavamo entrando nella stazione di King's Cross di Londra. L'eccitazione interna mi scosse dal mio torpore, e mi svegliai completamente quando la mia cassa fu trasferita insieme alle altre dal vagone merci su un pesante carro. Subito dopo si udì lo schiocco delle fruste dei carrettieri, ed i cavalli partirono alla volta della mia nuova proprietà, la tenutra di Carfax. Lungo il tragitto ascoltai le voci di Londra, cieco com'ero nel chiuso della cassa. C'erano forse sei milioni di anime, vive e respiranti, nella grande metropoli attraverso la quale mi stavo muovendo per la prima volta. Uomini che fischiavano, tossivano, bestemmiavano, cantavano, pregavano, vendevano, si chiamavano l'un l'altro con gioia, furia, amicizia, mentre i loro innumerevoli veicoli trainati da cavalli superavano il mio da ogni direzione. Mi saziai e godetti di quella sinfonia finché man mano non s'affievolì svanendo del tutto, soverchiata dal ritmo regolare delle ruote del carro. Purfleet, dove sorgeva la mia proprietà di Carfax, era, come forse ho già accennato prima, un distretto semiurbano dell'Essex sulla riva settentrionale del Tamigi, circa quindici miglia ad est del cuore di Londra. I carrettieri borbottavano ed usavano termini di un Inglese puro che non avevo mai sentito dalla bocca di Harker né avevo letto nei libri, mentre sollevavano, spingevano, trasportavano e depositavano il Signore del maniero nella sua nuova dimora. Le mie istruzioni, giunte per il tramite della Dillington e Figlio, furono
eseguite abbastanza fedelmente, per cui, verso le otto e mezza della sera, il mio insediamento era stato completato. I passi dell'ultimo lavorante si allontanarono, e giunse alle mie orecchie il gradito rumore delle porte richiuse dietro di lui. Uscii dalla bara verso le nove di sera, impaziente come un bambino di esplorare la mia nuova casa. Mi trovai in una cappella in rovina costruita sicuramente in tempi remoti; le condizioni nelle quali versava dimostravano che da lungo tempo il luogo mancava di frequentatori, così come l'attigua abitazione. Oh, un eremo delizioso e confortevole, ad un tiro di schioppo da Londra! Mandai benedizioni ad Harker e ad Hawkins, allargai le braccia per la gioia e, per la prima volta da quando mia moglie si era suicidata, fui sul punto di ridere... Eh, sì: mia moglie si era uccisa. Era una cara ragazza, ma purtroppo era uscita di senno e si era buttata da un parapetto del castello quand'ero giunto alla metà del mio percorso umano su questa terra. Non avevo mai avuto un temperamento gioviale, neppure prima di quell'amara data ma, dopo di allora, non c'era più stata in me traccia d'allegria... Dov'ero arrivato? Sì, stavo descrivendo la mia prima sera a Carfax. Una notte memorabile! Con brama impaziente visitai la vasta costruzione deserta e rovinata, scambiando qualche motto con i ratti, dopodichè uscii all'aperto ad esplorare il terreno boscoso circostante. Mi ricordai pure di rimuovere la borsa da viaggio dal suo nido di muffa e terra, e di recuperare il carico di danaro ed abiti nuovi. Appesi questi ultimi al riparo dall'umidità per conservarli in maniera presentabile fino a che non avessi avuto l'occasione di indossarli in società. A quali sciocchezze davo importanza... Nel corso della mia esistenza secolare avevo maturato la più ferma convinzione che la posizione di coloro che sostengono l'inesistenza in senso stretto di ciò che viene definito pura coincidenza, fosse assolutamente giusta. Ebbene, quella mia convinzione era stupida ed infondata. Come avrei potuto sapere infatti che Carfax, acquistata da me da una distanza di mille miglia, fosse ubicata nelle vicinanze di una clinica per malati di mente diretta da un certo Dr. John Seward, il quale recentemente, benché senza successo, aveva chiesto in moglie la mia gracile, passionale bionda del cimitero sulla rupe e degli abbracci sul davanzale della finestra? E questo non è l'unico fatto, e forse neppure il più significativo, a creare quella catena di 'coincidenze' — non trovo una parola più adatta — che legò indissolubilmente il mio destino a quello di Harker, Mina, Lucy, Van Helsing e gli altri. Chi avrebbe mai potuto immaginare che la florida gio-
vinetta accorsa a soccorrere Lucy nel cimitero di Whitby fosse la fidanzata — che presto sarebbe diventata la sposa — del giovane Harker che avevo lasciato al Castello Dracula? Mentre io esploravo la mia nuova dimora, lui delirava sotto i morsi di quella che fu allora definita una febbre cerebrale, agitandosi convulsamente nel letto di un ospedale di Budapest, sconosciuto e non identificabile dalle buone sorelle che si prendevano cura di lui. Dopo essersi calato giù dalla parete del castello con una manciata di oro rubato, era riuscito a raggiungere la stazione ferroviaria di Klausenberg, dove si era precipitato a chiedere un biglietto tra grida incoerenti. Gli impiegati della stazione «capirono che si trattava di un inglese per la violenza del suo temperamento» e si erano affrettati ad accettare buona parte del suo danaro ed a sistemarlo su un treno diretto verso la giusta destinazione. Giunto a Budapest era stato ricoverato in ospedale in preda a quello che oggi sarebbe stato diagnosticato come uno shock nervoso. È necessario che io riferisca questi intricati avvenimenti così come essi accaddero, o comunque come si susseguirono dal mio punto di vista. Un intelletto più potente del mio potrebbe forse scorgere un filo, o più fili, di cause ed effetti in naturale successione tale da congiungere tutta la catena dei fatti; io non so trovare una spiegazione plausibile a queste misteriose sequele di 'coincidenze' senza fare appello a cause che sono al di fuori e al di sopra della natura intesa secondo i canoni comuni. Ma torniamo a Carfax ed alla prima notte che vi trascorsi. Non passò molto tempo che fui costretto a ridimensionare l'idea che mi ero fatta a proposito della sicurezza e del relativo isolamento della nuova proprietà. Erano appena scoccate le due del mattino e me ne stavo beatamente a contemplare il laghetto che adornava il mio parco, quando il divertimento ebbe inizio. Dal lato occidentale dell'alto muro di cinta che racchiudeva completamente Carfax, giunse un rumore molesto, come di uno che stesse cercando di scavalcarlo. Chi poteva essere? Mi affrettai a rientrare nella polverosa cappella dove erano state depositate le mie preziose casse la cui concentrazione rendeva vulnerabili. Sorvegliarle era indispensabile. Sentii il respiro di un essere nell'atto di superare il muro e calarsi nella mia proprietà senza esservi stato invitato. La furtiva rapidità dei movimenti dell'intruso mi fecero supporre che si trattasse di un fuggiasco, di un evaso in cerca di rifugio; ma non potevo averne la certezza. Il silenzio della notte, non contaminata dal frastuono del centro cittadino, era d'aiuto alle mie orecchie. Il visitatore era ancora distante da me un
centinaio di passi quando fui certo che si trattasse di un uomo, escludendo la possibilità che fosse una donna od un bambino. Immobile e silenzioso come una lucertola — e ancor più, giacché due piccoli polmoni lavorano nel corpo di quel caro animaletto — restai in attesa tra la polvere popolata di ratti della cappella aguzzando l'udito. Dal rumore che li accompagnava mi rivelò che indossava indumenti larghi. Giunto fuori della cappella, improvvisamente si buttò giù e cominciò ad annusare e a raspare nel terreno nella maniera più animalesca. Con una sensazione di soffocante costernazione mi venne in mente che anche lui potesse essere nosferatu. Possibile che l'Inghilterra fosse già popolata dai miei consimili e, per uno stupido senso di delicatezza, Harker me lo avesse taciuto? In tal caso, le mie speranze erano destinate a fallire. Fu con un certo sollievo che notai l'ininterrotta continuità del respiro dello sconosciuto. Questi aveva strisciato fino alla porta di quercia e ferro che chiudeva la cappella e mise al lavoro un paio di possenti braccia per aprirla facendo cigolare i cardini. Ma la porta resistette. «Padrone, padrone!», chiamò con un sibilo che sortì dalle labbra accostate alla porta. Era una supplica feroce e, al tempo stesso, volutamente ammansita. «Padrone, accordami delle vite, molte vite!» Qual genere di idioma anglosassone era mai quello? «Insetti da divorare ne ho a decine, a centinaia,» continuò. «E posso procacciarmi animali più grossi... ma ho bisogno di vite umane, padrone! Uomini, bambini e donne, specialmente donne. Donne!» Emise un suono a metà tra un gorgoglio ed una risata. «Devo averle, padrone, e tu me le devi concedere!» Ripeté la supplica per parecchi minuti ed io rimasi in ascolto ad un braccio di distanza dalla porta a guisa di un sacerdote in un folle confessionale. Cercai di riflettere premendo le dita sulle tempie. Di una cosa soltanto potevo esser certo: quell'uomo sapeva che ero lì, o quantomeno sapeva che un essere di natura non comune era all'interno della cappella, e si era presentato per offrirmi una sorta di adorazione fai-da-te. La sicurezza dell'anonimato della quale mi stavo congratulando con me stesso e per la quale avevo speso danaro e fatica era già diventata inesistente. Pur confuso e sgomento, fui comunque abbastanza lucido da sentire lo scalpiccio dei passi di quattro o cinque uomini avvicinarsi al muro di cinta che scavalcarono nel punto in cui si era arrampicato il primo visitatore. In uno stato prossimo alla disperazione visualizzai sulle prime un'intera congrega di adoratori al seguito del sacerdote che scoperto il santuario li aveva
condotti lì accompagnandoli con la supplichevole litania: «Donne... padrone... vite... padrone.... donne...» Ma, invece degli accoliti, erano naturalmente i custodi del folle accorsi a recuperarlo: Seward e tre o quattro corpulenti sorveglianti la cui presenza era stata da questi saggiamente richiesta. Fu soltanto allora che rammentai il casuale accenno di Harker al manicomio adiacente al mio terreno, e cominciai a capire come realmente stessero le cose. Intanto, fuori della cappella, i nuovi arrivati si stavano avvicinando rapidamente. Dispostisi a ventaglio, accerchiarono l'uomo che si inginocchiò davanti alla porta della cappella senza interrompere la cantilenante supplica: «Sono qui per servirti, padrone. Sono il tuo schiavo, e tu mi ricompenserai, perché ti sarò fedele. Ti ho venerato per lunghi anni da remote distanze.» A tutt'oggi non ho la certezza che quest'ultima affermazione non fosse una menzogna intesa a ingraziarmisi, un'allucinazione generatasi nel cervello di un pazzo, o la pura verità. Quel che è certo è che Renfield — così si chiamava, come appresi in seguito (era un pazzo di circa sessant'anni, ma dotato di una forza prodigiosa discendente di una nobile famiglia) — Renfield, come dicevo, ebbe la consapevolezza della mia presenza a Carfax sin dal mio arrivo, ed era al corrente dei miei spostamenti senza uscire dalla sua cella nel manicomio. Con sibili repellenti non cessò di implorare: «Ora che sei qui aspetto i tuoi ordini, e tu non ti dimenticherai di me, non è vero, quando distribuirai le tue squisitezze?» I sorveglianti del manicomio stavano stringendo il cerchio intorno a lui. Udii allora la voce di Seward per la prima volta. Giovane, decisa, autoritaria, ordinò: «È ora di tornare con noi, Renfield: poche storie!» Seguì un'altra voce, carezzevole, dall'accento più popolare: «Su, bello! Andiamo piccino. È facile, vedrai... whup!» Dolci o autoritari che fossero, quegli inviti non fecero presa sull'evaso. E, benché fossero quattro o cinque uomini contro uno, la lotta non fu delle più facili. Il vigore fisico di Renfield esulava dall'ordinario, come io stesso appurai in seguito. Poi seppi che quella notte aveva divelto una finestra e tutto il suo telaio dal muro della cella per fuggire all'aperto. Alla fine, Seward e gli altri riuscirono ad avere la meglio su di lui ed a trascinarlo via, legato come un animale selvaggio, per poterlo calare giù dal muro. Così, la quiete della notte fu di nuovo mia. Ma, dai rumori che mi giunsero durante la colluttazione, avevo capito che, come Seward scris-
se del suo paziente quella notte stessa: «Da ogni suo gesto traspare chiaro l'intento omicida.» Il mio sogno di una nuova vita aveva ricevuto un altro, pesante colpo. CAPITOLO TERZO Di primo impulso fui tentato di seguire il gruppo di sorveglianti e il prigioniero fino al manicomio per scoprire, se fosse stato possibile, da quale fonte Renfield traesse i suoi poteri. Ma mi frenò il timore che il mentecatto avrebbe potuto avvertire la mia presenza scatenando un pandemonio che avrebbe insospettito i suoi guardiani, spingendoli ad indagare sulla faccenda. C'erano poi le mie casse senza le quali mi sarei trovato sfrattato e condannato ad una triste sorte di quella terra straniera. Non intendevo arrischiarmi a lasciarle incustodite e (perciò) vulnerabili ad attacchi intenzionali o a casuali atti di vandalismo neppure per un'ora; sicché, trascorsi il resto della notte a rendere più sicura la mia posizione garantendomi una maggiore difesa almeno nella mia proprietà. Non impiegai che poche ore a sostituire la buona terra della Transilvania contenuta in parecchie casse — ancor oggi preferisco non rivelare quante — con del terreno inglese, egualmente buono sotto diversi punti di vista ma non altrettanto ospitale nei miei confronti. Trasferii una piccola porzione del mio suolo natio nel terreno che si trovava all'interno della cappella di Carfax e seppellii il contenuto di alcune altre casse in altri punti del parco, scegliendo quelli dove la boscaglia cresceva più fitta sì da rendere improbabile la scoperta delle mie operazioni di scavo. Il giorno seguente dormii con maggiore serenità durante le ore di luce e, al calar della sera, mi ero fatto la convinzione che, dopotutto, l'incursione del pazzo non rivestiva poi un'importanza preoccupante. Non avevo la minima intenzione di trascorrere la notte acquattandomi nei dintorni di un manicomio: volevo vedere Londra, e lo feci. O, almeno, cominciai a vederla. Un'impresa del genere non giunge mai a compimento. Librandomi in volo grazie alle mie piccole ali coriacee, coprii in breve la distanza di quindici miglia nel crepuscolo londinese. Ero giunto ad un miglio dal cuore di Londra, quando il rombo frastornante delle strade eternamente brulicanti assalì le mie orecchie, ed il fulgore della metropoli abbacinò i miei occhietti di pipistrello. Era una notte estiva, e il cielo era sgombro dei fumi neri del carbone che in una notte invernale a-
vrebbero annerito ogni cosa intorno. Laggiù fluiva sinuoso il Tamigi, cinto da magnifici ponti e luccicante di miriadi di luci scintillanti. Lì, oltre il Green Park, si ergeva il palazzo nel quale la Regina Vittoria aveva trascorso gli ultimi anni del suo lungo regno; e lì ancora, proprio sotto di me, risuonavano le note profonde e solenni del Big Ben. Le maggiori arterie erano tutte affollate, e i miei occhi carpivano qui e là lo strano chiarore, innaturalmente fermo e costante, dell'illuminazione elettrica. Le vetrine dei negozi e dei ristoranti sfolgoravano lungo Piccadilly e lo Strand; l'Abbazia, torreggianti vestigia di un'epoca lontana, contemplava tutto quanto e meditava sul mondo in trasformazione. Poche luci brillavano nel Parlamento, dove il governo di un vasto impero non poteva permettersi di aspettare fino al mattino. La cupola della Cattedrale di St. Paul svettava sotto di me, affacciandosi sulle strade tortuose e i vicoli malfamati di Whitechapel e Bethnal Green... Potrei parlarvi di Londra per ore e ore... ma non devo. Voglio dirvi soltanto che tornai da lei ogni notte, sempre più rapito dal suo fascino. Frattanto... Suppongo che non si possa considerare una coincidenza importante il fatto che Lucy tornasse a Londra cinque giorni dopo il mio arrivo; per meglio precisare, la fanciulla fece ritorno alla proprietà avita di Hillingham, ubicata nella periferia settentrionale della metropoli. Londra era ed è la Roma a cui giungono tutte le strade d'Inghilterra. Fu pressappoco in quel periodo che Lucy cominciò a tenere un diario, registrandovi pensieri alquanto tenebrosi. Poteva darsi che, dopo quei rari momenti di vita vissuta intensamente col suo vichingo, la ragazza trovasse poco allettante la prospettiva di dividere la sua vita con Arthur Holmwood. Holmwood — che alla morte del padre avrebbe assunto il titolo di Lord Godalming — era il più ricco ed influente fra i tre pretendenti di Lucy, ed era quello a cui lei aveva dato il suo consenso. Avrei appreso notizie su di lui di lì a poco. Il Dr. Seward, come ho accennato dianzi, era un altro aspirante. Quanto al terzo, ne riferirò tra breve. Dato che tra me e Lucy si era stabilito un legame di sangue, percepii indistintamente la sua vicinanza geografica allorché mi ridestai dal mio riposo la sera del ventiquattro di agosto. Mi limitai però a sorridere teneramente a quella impressione e uscii per una nuova esplorazione di Londra. Tornai ad assaporare il nettare psichico delle sue folle, a mescolarmi con le sue grandi masse di vitale umanità, a spiare nelle sue case, tra le sue strade ed i monumenti, a studiare le vestigia del suo immenso passato. O-
gni ora trascorsa in simili attività mi spingeva a trascorrerne due di più, e mi risultava assai difficoltoso costringermi a dedicare parte del mio tempo al compimento di un'opera necessaria: la dislocazione dei miei nidi di terreno. Cominciai allora ad andare in giro regolarmente durante il giorno, e mi recai nell'ufficio di una ditta che si occupava di trasporti per organizzare lo smistamento di alcune casse da Carfax in altri depositi secondari situati in diversi punti della città. Fui estremamente lieto del fatto che il proprietario e gli impiegati della ditta, cittadini della sorta più comune, trattassero di affari con un vampiro manifestando cortesia e professionalità: prestarono infatti molta attenzione al mio danaro, e scarso interesse per il mio sembiante. Contemporaneamente, feci in modo di sostituire la terra patria col suolo inglese in altre casse che lasciai nella cappella di Carfax. Per custodire la terra della Transilvania impiegai altre casse molto capienti che mi ero procurato di notte, furtivamente e coercitivamente, nella bottega di un venditore di bare di Cheapside. A titolo di rimborso, vi lasciai una quantità d'oro più che sufficiente, evitando così un genere di compravendita che avrebbe potuto attirare l'attenzione di qualcuno, vista la peculiare natura degli oggetti acquistati da uno che, come me, non era un addetto alla sepoltura, né tantomeno aveva una serie di cadaveri da esibire a giustificazione dell'acquisto. Queste moderne bare doppie si rivelarono dei giacigli splendidamente confortevoli; con la terra natia stipata nella cassa esterna, potevo riposare senza imbrattarmi nella cassa interna di piombo. Una di queste bare a doppio scomparto la seppellii nella cappella, e un'altra la sistemai nel giardino di una villa a Mile End, il cui acquisto stavo già negoziando. Tenni di riserva una terza cassa che depositai all'interno di un capanno che si trovava dalle parti di Charing Cross e che avevo preso in affitto. Non ho esitato a rivelare l'ubicazione di quelle tre casse perché al momento non si trovano più lì, benché due di esse si trovino ancora a Londra. Fu soltanto nella notte del ventisei agosto che rividi Lucy, da costei chiamato in aiuto con un grido carico di profonda angoscia e tale che ignorarlo sarebbe stato a dir poco crudele, nonché disonorevole. Così, nel cuore della notte, mi ritrovai ad attenderla in forma umana fuori della grande villa periferica denominata Hillingham, dove Lucy abitava assieme alla sofferente genitrice e ad una piccola schiera di servitori. Mandai un rassicurante
messaggio mentale alla fanciulla insonne e questa, lasciato il suo letto, riuscì ad uscire all'aperto senza arrecar disturbo ad alcuno dei dormienti. All'apparire dell'esile figura in camicia da notte, sorrisi e protesi le mani a Lucy che stava attraversando il giardino, avanzando sotto gli alberi. «Sicché,» mormorò nell'avvicinarsi con gli occhi sgranati in cerca dei miei, «non erano solamente sogni.» Con una certa esitazione accolse le mie mani tese; credo che in quell'istante provasse un po' di paura, dimentica, forse, dell'intimità condivisa. Io le avevo dato una grande gioia, e nessun dolore. «Mia cara Lucy, sorgente di luce,» dissi. «È dunque questo che tanto ti angustia? Che io non sia un sogno? Non hai che da fare un cenno con la tua piccola mano, perché i tuoi occhi mai più abbiano a posarsi su di me.» Un'espressione sgomenta e sconcertata si disegnò sul suo viso. «Tu dunque conosci la mia pena e il mio timore.» «Ma certo, piccola mia. Non sarei qui adesso se non mi avessi chiesto aiuto, benché lo abbia fatto nel chiuso della tua mente.» «Ma com'è possibile che accadano cose del genere?» Ero sul punto di azzardare una risposta al suo quesito, quando me ne rivolse un altro al quale, evidentemente, chiedeva una risposta più urgente. Mi giunse nella forma di una netta affermazione: «Sto per sposarmi.» «Non ne ero a conoscenza, ma permettimi di porti le felicitazioni che convengono ad un uomo nella mia posizione.» Ciò detto m'inchinai. «Sto per sposare Arthur,» disse, arrossendo. «Io lo amo... moltissimo. E lui ama me.» Cominciò a parlarmi di Holmwood, delle sue attenzioni e delle prospettive di ricchezza e posizione sociale che lo attendevano, finché cominciai a provare la disgustosa sensazione di essere trattato come un vecchio zio od un fratello maggiore da rabbonire al fine di estorcerne la benedizione. Il fatto è che nella vita di Lucy non vi era altra figura paterna — Van Helsing non aveva ancora fatto la sua comparsa sulla scena — e probabilmente la ragazza attribuiva a me quel ruolo che mi era così poco congeniale. «... per questo amo Arthur, e lo sposerò. E tu sei ancora come un sogno, o da esso sortito.» Aveva forse sperato di provocare in me la gelosia? Adesso l'angoscia che esprimeva il suo sguardo fisso su di me era inequivocabilmente quella del desiderio. La voce si ruppe in un sussurro: «Non conosco neppure il tuo nome!» Restai in silenzio, incerto sull'opportunità di rivelarglielo. I nomi hanno un loro potere, e il potere è un'arma a doppio taglio.
D'altronde lei non sembrava certa di volerne sapere di più. «Fammi tua!», fu tutto ciò che disse prima di gettarsi tra le mie braccia con un lieve fremito. Lucy capiva soltanto che ciò che facevamo le procurava un piacere supremo e che Arthur non era l'unico uomo che amava. Non avevamo avuto discussioni teoriche sul vampirismo, e deduttivamente sapevo che la ragazza non aveva mai sentito quella parola. Forse quella notte attinsi troppo dalle sue calde vene, fatto si è che Lucy si avvinghiò a me e non volle più lasciarmi... Il matrimonio era stato fissato per il diciassette settembre, data alla quale mancavano poche settimane. Non so dire se Lucy avrebbe voluto continuare il suo rapporto con me dopo la celebrazione — le donne sono esseri insondabili. Cosa vogliono? È una domanda che mi pongo con Freud nei momenti di desolata disperazione maschile. Nei giorni che seguirono, Lucy cominciò a perdere la sua, già non grande, floridezza. I segni delle ripetute dissipazioni notturne dovettero mostrarsi con evidenza anche agli occhi di Arthur Holmwood, il quale aveva ripreso a frequentarla con assiduità da quando era tornata a Londra. Difatti il giovane chiese al Dr. Seward, amico di entrambi, di esaminarla. «Sulle prime non ne volle sentire,» lamentò Arthur in una lettera. Beh, forse avrebbe preferito un medico che non fosse stato un pretendente respinto e per di più specializzato in malattie mentali. Pur priva della risoluta indipendenza che contraddistingueva la sua amica Mina, è tuttavia possibile che Lucy fosse risentita per la sua incapacità di decidere su faccende quali la scelta di un medico personale. Seward interruppe le visite dei suoi ricchi pazienti fuor di senno per dare un'occhiata a Lucy e concludere che la base dei disturbi da lei lamentati — o, per meglio dire, lamentati dal suo fidanzato — «doveva essere di origine mentale.» Il che era vero, per come andarono le cose. Ah Lucy, Lucy, sorgente di luce, Lucy dalla natura tenera e fiduciosa. Forse il tuo comportamento non fu impeccabile; ma come molte delle donne che vissero nella tua era, meritavi assai più di quanto il fato di riservò. A Seward la ragazza cercò di rifilare vaghi racconti di sonnambulismo, ma il giovane era per quei tempi un ottimo diagnostico o, quanto meno, possedeva un occhio, o un istinto, acuto per tutto ciò che era insolito. Altrettanta sagacia non mostrò però nel consigliare un'opportuna terapia. La sua prima mossa dopo che ebbe percepito la straordinarietà del caso — fu forse il mio odore a dargli uno spunto — fu di chiamare come consulente il
suo vecchio maestro residente ad Amsterdam, Abraham Van Helsing, Dottore in medicina, Dottore in filosofia, Dottore in letteratura, eccetera, eccetera, eccetera. Van Helsing... Coloro che sentono la mia voce temono ancora il mio nome? I più timidi tra quelli che mi ascoltano credono che io rappresenti un pericolo reale? Quando vi avrò fatto conoscere la profondità dell'idiozia di quell'uomo — Van Helsing — ed al tempo stesso vi avrò confessato che cercò di perseguitarmi fino alla morte, sarete costretti a convenire che tra tutti i pericoli ben noti di questo mondo io debba essere annoverato nella serie di quelli meno perniciosi. Di solito Van Helsing suscitava una buona impressione, specie all'inizio, e particolarmente allorché aveva a che fare con giovani poveri d'esperienza. Seward aveva, e conservò ostinatamente, un'opinione assai favorevole di quest'uomo che a suo avviso sapeva «più di ogni altro al mondo in materia di malattie di natura oscura.» Beh, forse... La medicina negli Anni Novanta del secolo scorso, versava in uno stato pietoso. «Egli è un uomo apparentemente arbitrario, ma ciò scaturisce dalla sua sicura conoscenza della materia di cui parla. È un filosofo e un metafisico — per questo Arthur Holmwood avrebbe dovuto stare in guardia — e uno degli scienziati più avanzati del suo tempo; e credo che possegga una mente aperta senza riserve. Tutto questo, aggiunto a nervi d'acciaio, ad una tempra imperturbabile, ad un'indomabile determinazione, autocontrollo, e tolleranza — quest'ultima, naturalmente, non si estende ai vampiri — ed esaltato da virtù degne di benedizione e dal più nobile e sincero dei cuori...» E Mina, quando ebbe a conoscerlo successivamente, lo descrisse come «un uomo di media corporatura, d'apparenza vigorosa, le spalle dritte su un ampio e profondo torace, ed un collo in perfetto equilibrio sul tronco. La postura della testa colpisce all'istante l'osservatore per la profondità e la potenza di pensiero che suggerisce; essa è nobile, ben proporzionata e spaziosa dietro le orecchie. La faccia perfettamente rasata mostra un mento squadrato e volitivo, una larga bocca mobile e risoluta, ed un naso di giuste dimensioni, sufficientemente dritto. .... La sua fronte è vasta e ben fatta ... tale da non consentire ai capelli rossi di ricadervi coprendola, sospingendoli invece all'indietro e sui lati in maniera del tutto naturale. Gli occhi di colore azzurro intenso sono distanti l'uno dall'altro e, in perfetto accordo con l'umore dell'uomo, si fan-
no ora veloci, ora teneri o severi.» E adesso vediamo cosa fu capace di fare questo esemplare umano. Quando esaminò Lucy per la prima volta, il due di settembre se la memoria non m'inganna, la ragazza si era alquanto ripresa dai nostri abbracci forse un po' troppo entusiastici delle notti precedenti, e, naturalmente, il suo aspetto ne aveva tratto giovamento. Van Helsing decise che vi era stata «una notevole perdita di sangue... ma non vi era assolutamente uno stato di anemia.» Dobbiamo tener conto del fatto che l'Inglese non era la lingua madre del professore. Ma neppure le sue cognizioni in materia di sangue e disordini ematici erano appropriate: una circostanza di cui tutti avemmo a rammaricarci. Dopo aver scosso la testa sul caso di Lucy senza pronunziarsi esaurientemente, tornò ad Amsterdam per meditare. Da diversi giorni avevo interrotto le mie visite a Lucy affinché il suo sangue avesse il tempo di rigenerarsi e anche per considerare seriamente il proposito di rompere subito e per sempre ogni legame con lei. Decisi alla fine per una tale soluzione sicché, quando tornai a Hillingham, fu con la determinazione di scambiarci l'ultimo addio: una decisione presa per il suo e per il mio bene. In primo luogo non volevo fare di lei un vampiro, considerando che la sua ignoranza — una condizione che sembrava preferire — l'avrebbe indotta ad un consenso non ponderato, dato cioè senza valutare ragionevolmente i pericoli ed i piaceri derivanti da una trasformazione di tale portata. E continuare la nostra relazione conservando la notevole frequenza dei nostri incontri l'avrebbe condotta al punto in cui la possibilità di trasformarsi in un vampiro si sarebbe posta seriamente al suo giudizio. In secondo luogo, obiettai a me stesso che, per quanto Lucy fosse deliziosa, la mia terra natìa offriva schiere di contadinelle dal sangue egualmente caldo, il respiro egualmente ardente e le forme egualmente seducenti capaci di garantirmi le stesse gioie con poca spesa e minimo sforzo. Certamente non era per la pelle diafana e le vene tenere di Lucy che avevo intrapreso la mia odissea. Ahimé! La passione sa renderci così sciocchi! Durante quella che doveva essere la mia ultima visita dedicata a succinte spiegazioni e formule di commiato, Lucy si avvinse a me come in precedenza e, mio malgrado, la lasciai ancora una volta notevolmente indebolita. Cionondimeno la mia fondamentale decisione rimase immutata e, nel congedarmi da lei, mi persuasi che l'incontro appena concluso fosse stato l'ultimo. La nostra storia era finita, ne ero certo, che Lucy lo volesse o no.
La possibilità che si trasformasse in un vampiro, relativamente remota soltanto poche ore prima, era divenuta, grazie al nostro prolungato abbraccio, un chiaro e presente pericolo... o una buona opportunità, a seconda del punto di vista. Naturalmente, il giorno seguente Lucy apparve di nuovo pallida, debole e strana. Holmwood era distante, impegnato al capezzale del padre morente, ma Seward passò a farle visita e non gli piacque affatto l'aspetto dell'amica. Chiamò nuovamente Van Helsing, il quale gli aveva chiesto di essere quotidianamente messo al corrente delle condizioni della paziente tramite telegramma. Il professore si precipitò di nuovo a Londra — con un luccichio negli occhi, ci giurerei — equipaggiato di tutto il suo armamentario. Prima ancora che potessi avere il minimo sospetto di quali fossero le sue intenzioni o soltanto che si stesse prendendo cura della salute di Lucy — questa non mi aveva informato della sua precedente visita — lo stolto aveva tentato di praticarle una trasfusione utilizzando Arthur Holmwood come donatore per ragioni esclusivamente sociali. Orbene, consideriamo la cosa in una prospettiva storica. Fu soltanto nel 1900, vale a dire nove anni più tardi, che Landsteiner scoprì l'esistenza nell'uomo dei quattro gruppi sanguigni di base, A, B, AB, e O, e, da quel momento in poi, la praticabilità di trasfusioni senza pericoli per la vita del paziente segnò il suo inizio. Naturalmente, fin dall'antichità, persone dotate di una costituzione robusta erano sopravvissute al tentativo compiuto da medici intraprendenti di trasfondere il sangue da un essere umano all'altro, o persino da un animale a un uomo; non c'è dubbio che in molti casi la sopravvivenza del paziente fosse dipesa dalla inefficienza della tecnica impiegata iniettando così nel sistema vascolare del soggetto una frazione irrilevante di cellule incompatibili. Non sono in grado di azzardare un parere sulla veridicità del racconto sconcertante stando al quale al Papa Innocenzo VIII fosse stata praticata una trasfusione utilizzando il sangue di tre giovinetti; era il 1492, e in quell'anno già riposavo nella mia tomba. Verso la metà del Diciassettesimo Secolo, in un periodo di attività, lessi con interesse più che casuale della sensazionale scoperta di Harvey sulla circolazione del sangue. Di tanto in tanto continuo a raccogliere fatti e dotti pareri nel campo. Benché le mie opportunità di effettuare ricerche siano state sempre più limitate di quanto si possa pensare, e benché per mia natura sia più incline all'azione che al lavoro intellettuale, nel 1891 avevo acquisito un discreto
patrimonio di cognizioni su quella materia, essendo essa di importanza determinante nel mio genere di esistenza. Se avessi saputo in anticipo che Van Helsing si stava adoperando per curare la vittima di un vampiro — com'egli intuì si trattasse — non avrei esitato a fermarlo. Non sarei stato tanto crudele da abbandonare Lucy al suo destino, potete credermi. Ma, benché dalla continua comunione delle nostre menti percepissi che la poverina stava soffrendo, non potevo tuttavia indovinarne la causa. Fosse stato grazie ad una provvidenziale compatibilità tra il sangue della ragazza e quello di Holmwood, o fosse dipeso da un difetto della tecnica trasfusionale, comunque andarono le cose, il fatto è che Lucy non soltanto sopravvisse a quella prima operazione, ma il giorno seguente le sue condizioni registrarono un sensibile miglioramento. L'operazione era stata condotta sotto narcosi, ed al risveglio non si era resa conto subito di quanto era accaduto, né la piccola ferita bendata sul braccio le aprì la mente. Quando domandò spiegazioni agli uomini che si stavano occupando di lei, quelli le dissero solo di sdraiarsi e riposare. Nella notte del nove di settembre ebbe una ricaduta; o più probabilmente una nuova malattia insorta a seguito di un'infezione trasmessale dal sangue del fidanzato. La terapia prescritta da Van Helsing fu una seconda trasfusione, utilizzando stavolta Seward come donatore, essendo il maschio più giovane e robusto disponibile in quel momento. Coloro che si stupiscono del fatto che la ragazza fosse sopravvissuta a questo secondo assalto — nonché a un terzo, subito successivamente — dell'indomito scienziato, possono far riferimento ad una simile operazione condotta da Lower a Londra nel 1667, anch'essa riuscita, o quantomeno non rivelatasi fatale. A Parigi, nello stesso anno, Denis trasfuse il sangue di un agnello nelle vene di un ragazzo la cui anemia resisteva irriducibilmente alle cure mediche convenzionali — ovverossia il salasso — praticate in quell'epoca. L'Inghilterra del Diciannovesimo Secolo assistette alle trasfusioni compiute dall'ostetrico Blundell e da altri medici, registrando un aumento delle trasfusioni tra esseri umani, spesso coronate da successo. Ma molti dei tentativi non pubblicizzati conobbero certamente un esito meno felice. E la seconda trasfusione praticata col sangue di Seward — il quale scrisse di aver accusato una forte debolezza a seguito della donazione — ebbe un cattivo effetto sulla paziente. Mentre la sventurata languiva nel suo letto — ed io, ignaro, mi occupavo dei miei affari — l'undici di settembre la casa di Hillingham ricevette dal-
l'Olanda il primo carico d'aglio, completo di intere piante e fiori in boccio. Questo, naturalmente, era stato ordinato espressamente dal filosofo e metafisico fin d'allora consapevole, ma senza farne parola ad alcuno, che un vampiro si aggirava in quei dintorni. Orbene, l'aroma possente dell'Allium sativum ha la peculiarità di infastidire un esponente della mia specie almeno quanto un qualsiasi rappresentante della sorta più comune — persino del cibo meno aromatico può risultare disgustoso a un vampiro — tuttavia esso non costituisce la barriera invalicabile che Van Helsing sperava fosse. Inoltre, se avessi davvero nutrito l'intento di condurre la povera ragazza alla rovina, questa nuova tattica sarebbe stata comunque meno efficace di un iniezione di proteine straniere. La notte del dodici settembre la signora Westenra, benché semi-invalida, riuscì ad alzarsi ed a trovare la forza sufficiente a gettare via dalla stanza di sua figlia i fiori dalle presunte qualità medicinali ed a spalancare la finestra. Forse la vita della donna fu prolungata di un po' grazie alla rimozione dell'odore irritante di diallyl disulfìde e trisulfide, ma la salute di Lucy, secondo i medici, ebbe a soffrirne. Il grande scienziato aveva taciuto alla madre di Lucy la sua teoria in virtù della quale le condizioni della ragazza sarebbero migliorate tenendo la finestra sprangata ed esponendola al fetore di quei germogli. Se avesse rivelato alla donna ogni suo sospetto, probabilmente quella avrebbe gettato ugualmente i fiori e Van Helsing ne avrebbe condiviso la sorte, con conseguenze positive per tutti quanti noi. Purtroppo... Naturalmente, il costante deterioramento delle condizioni di Lucy fu attribuito, da Van Helsing al principio, e da tutti gli altri in seguito, alle visite del vampiro. Nella realtà dei fatti, la notte in cui i fiori furono gettati via, mi trovavo tra i vicoli di Whitechapel dove indugiai fino al mattino; ma di ciò non avevo testimoni. Anzi, in verità, una l'avevo: una donna con la quale mi intrattenni un po' a parlare ed a scherzare, ascoltando il racconto che ebbe a farmi degli sconvolgenti delitti di Jack lo Squartatore perpetrati tre anni prima. Io credetti alla sorprendente versione che diede di quegli avvenimenti, ma dubitai che una giuria avrebbe accettato la sua testimonianza. Essa fu per me una gradita compagnia giacché, per buona parte della notte, vagai da solo, immerso nei cupi pensieri che affiorano dopo mezzanotte. Seri dubbi cominciavano a farsi strada nella mia mente sulla possibilità reale della mia ricongiunzione al consorzio umano. Per quanto entusiasta di trovarmi a Londra, ero costretto ad ammettere che la mia semplice
presenza lì non stava producendo in me i rapidi cambiamenti nei quali avevo sperato. Il tredici di settembre, come Seward registrò nel suo diario — per il quale si serviva di un fonografo prima maniera, lontanissimo, in quanto a efficienza, da questo mirabile apparecchio al quale sto parlando — «una nuova trasfusione, di nuovo sotto narcosi; debole ritorno del colorito sulle gote cineree...» Stavolta il donatore prescelto fu Van Helsing in persona, mentre Seward compiva l'operazione seguendo le direttive del maestro. C'è soltanto da stupirsi che con una simile agglomerazione di cellule diverse nelle povere vene, la sventurata non fosse morta sul colpo. A questo punto è necessario che racconti gli avvenimenti occorsi il diciassette settembre, una data fatale per tutti noi. Jonathan e Mina Harker, reduci dalle nozze celebrate a Budapest, dove il giovane era stato a lungo degente in un ospedale, si erano felicemente sistemati in una casa nella cittadina di Exeter. Mina aveva letto il diario, per certi versi delirante, che il suo sposo aveva tenuto durante il soggiorno nel mio castello, tuttavia l'argomento del vampirismo non era mai stato oggetto di discussione tra loro, e sicuramente i giovani coniugi non ritenevano possibile che orrori simili potessero sfiorare nuovamente le loro vite. Arthur Holmwood, dal canto suo, era ancora impegnato al capezzale del padre agonizzante, avvalendosi del sostegno morale offertogli da un giovane americano, Quincey Morris, frequente compagno di Arthur nelle sue battute di caccia in diversi angoli del mondo, e terzo degli spasimanti di Lucy. Quella sera nel manicomio vicino a casa mia, Renfield, sfuggito nuovamente alla sorveglianza, inseguì il Dr. Seward brandendo un coltello. Seward — buon per lui — riuscì a stendere l'aitante avversario con un possente diretto, così il pazzo fu ben presto disarmato e riportato in cella. Van Helsing, ritornato ad Antwerp dopo uno dei suoi abituali viaggi, ma ancora lodevolmente preoccupato per la salute di Lucy, telegrafò a Seward di restare a Hillingham quella notte facendo buona guardia... contro cosa esattamente, Van Helsing non lo aveva precisato. Senza ombra di dubbio Seward avrebbe eseguito quanto richiesto ma, per una fatale combinazione, il telegramma non fu spedito nei tempi dovuti, e fu recapitato con un ritardo di ventiquattr'ore. Quanto a me, il diciassette settembre, stavo visitando Regent's Park assalito dai dubbi. Non per questo la mia determinazione di integrarmi nella
società degli umani era venuto meno: al contrario, ero deciso a lavorare sodo perché il mio sogno si realizzasse. Seduto su una panchina, scorrevo le colonne del Times londinese: CRYSTAL PALACE Sensazionale esibizione LA CAPRA CHE TRASCINA UNA TIGRE ... ne ho abbastanza di cose simili. MASSAGGI ED ELETTRICITÀ (sistema Weir Mitchell) con combinazione di movimenti svedesi e tedeschi. Ogni LEZIONE ha la durata di due ore e viene praticata su soggetti viventi. In soli quindici giorni gli allievi otterranno una perfetta specializzazione. Non c'è pericolo di lividure; solo in caso di insegnamento inappropriato... Mary Jane Heathcote, di anni 28 è stata accusata di omicidio volontario... della piccola Florence Heathcote... la figlioletta di cinque anni e sei mesi... A Clerkenwell, Henry Bazley, 29 anni, legatore di libri, è stato accusato di aver sottratto alla tutela della madre una ragazza di nome Elizabeth Morey... di anni 16. È stata ritrovata in una camera per la quale il sequestratore pagava 5 scellini alla settimana, e dove le faceva visita... L'investigatore Drew che ha eseguito il mandato di arresto, ha detto di averlo catturato nel cortile posteriore dove si era nascosto. Il prigioniero è sposato ed ha quattro figli. Ha definito l'accusa una menzogna. In applicazione di quanto disposto... ... Dubitate che possa ricordare tutti questi fatti? Ebbene, io li trovo memorabili. Controllate negli archivi del Times se non mi credete. (All'editore) Signore — Contrariamente alla mia inclinazione, devo rifiutare la teoria proposta dal mio amico Haliburton al Congresso Orientale sull'esistenza di una razza di nani tra l'Atlante ed il Sahara... Jas. Ed. Budgett Meakin
Signore — La necessità di una rapida comunicazione tra la porta principale e il piano superiore di un'abitazione in caso di incendio o altra emergenza... è talmente ovvia da non richiedere commenti... Proporrei il seguente accorgimento: Un sonoro campanello viene appeso al piano superiore; l'estremità del filo del campanello va a terminare su una catena uncinata nel seminterrato. Durante la notte, l'uncino viene collegato alla leva del campanello ordinario dell'abitazione e viene staccato al mattino... in questo modo, anche la sudicia e malsana abitudine dei servi messi a dormire nella dispensa con la grossa mole di immoralità che ne consegue, può essere evitata. Cordialmente, & C.H. PICCADILLY (Prospiciente Green Park) APPARTAMENTO indipendente — quattro camere, bagno, ascensore, ecc. FITTASI, VENDESI, arredamento completo, per informazione rivolgersi al guardiano, 98, Piccadilly, W. ... Era un'offerta interessante ma, più che prendere una casa in affitto, preferivo comprarla. Non volevo avere a che fare con proprietari ficcanaso. Signore — Se uno dei delegati che hanno parlato con tanto fervore per la causa del movimento lavorativo delle otto ore fosse stato colto da un malore improvviso e pericoloso mentre rincasava; e se, chiamando il suo medico, gli fosse stato risposto che quello aveva appena finito le sue otte ore di lavoro, e che per le successive sedici ore sarebbe andato a riposarsi ed a divertirsi, cosa ne avrebbe pensato allora dell'istanza tanto acclamata? Cordialmente, J.T.R. E poi di nuovo alla prima pagina... MOULE'S PATENT COMPANY (Limited) Garrick Street — Covent Garden — Londra La MOULE'S COMPANY produce: GABINETTI IGIENICI: per il giardino, per casini da caccia, per villette, per qualunque altro luogo. GABINETTI IGIENICI: Completi, dotati di dispositivo di 'estrazione'.
GABINETTI IGIENICI: costruiti in ferro ondulato e rinforzato, da scomporre in pezzi per un facile trasporto, rimontabili in due ore. GABINETTI IGIENICI: per funzionare adeguatamente richiedono soltanto terriccio asciutto, affinché siano sempre efficienti... La litania continuava così, ed io leggevo, quasi rapito in una sorta di ipnosi. Ma la mia attenzione era ancora attratta dall'idea dei servi messi a dormire nella dispensa. Perché mai tale condizione veniva definita 'sudicia e fonte di immoralità'? Riposavano forse coi piedi appoggiati sul lardo? O il loro alito contaminava i sacchi di zucchero? E dove precisamente germogliavano le erbe malsane dell'immoralità? In quella lettera vi erano forse oscure implicazioni le cui radici affondavano nel peccato mortale della golosità? I giornali di Londra, che letti nella mia lontana patria sembravano promettere meraviglie, mi disorientavano ogni giorno di più per il mondo che mi descrivevano. Mi Confortai dicendomi che era solo una questione di tempo, e gettai il giornale in un cestino per i rifiuti lì vicino: il parco era perfettamente pulito. Alzatomi in piedi, mi incamminai verso lo zoo. Il cielo era offuscato dalle nubi, e, riparato da un cappello a cilindro come si conviene ad un vero gentleman, ero scarsamente infastidito dai raggi del sole. Fu un vero sollievo raggiungere lo Zoo e vedermi circondato da animali piuttosto che da persone. Le grandi masse di umanità, ancorché desiderate e gradite, diventavano talvolta invadenti per chi come me aveva vissuto così a lungo isolato dalla folla. Ero e restavo uno straniero in terra straniera, a prescindere dalla correttezza del mio Inglese e dall'accettabilità del mio aspetto. La mia natura mi indusse istintivamente a gravitare intorno alla gabbia dei lupi, dove tre bellissimi esemplari subivano con innata dignità quell'ignominioso confino. Benché inizialmente non facessi alcuno sforzo di comunicare con loro, una dei lupi riconobbe in me la straordinarietà della mia natura, accorgendosi quanto io fossi più simile a loro di qualsiasi creatura bipede mai vista prima. L'animale capì che io sapevo cosa significasse correre su quattro zampe grigie, avventarsi sulla preda e bere il sangue vivo come sgorga dalla carne lacerata dalle zanne voraci. Il lupo capì tutto questo, e non riuscì a contenere l'eccitazione della scoperta. Cosicché, mentre gli altri due, forse anch'essi consapevoli ma disinteressati, continuavano a sonnecchiare ed a
sbirciare il loro compagno con occhi stupiti, quello si lanciò verso le sbarre ed espresse tutta la foga dei suoi sentimenti con l'unica voce che fosse in grado di modulare. Un guardiano anziano sbucò da qualche parte e mi guardò con sospetto. Non c'era nessun altro nelle vicinanze in quel momento, mentre io ero là, in mezzo a quel baccano feroce. D'altronde — riflettei — non ero andato fino a Londra per rinchiudermi nel segreto di una cappella, ma per mescolarmi alla grande massa dell'umanità. «Guardiano,» dissi, tanto per scambiare qualche parola, «questi lupi sembrano agitati. Dev'esserci qualcosa che li irrita.» «Forse è lei,» replicò l'uomo, i cui modi bruschi e sgarbati mi rammentarono un mio vecchio carceriere turco. La rassomiglianza mi fece sorridere e, al tempo stesso, accrebbe la compassione che provavo per il lupo in cattività. «Oh, no, non credo di piacergli,» risposi con indifferenza, distratto dal messaggio che mi stava giungendo da un'altra fonte. Libertà, stava dicendo il lupo alludendo con lo sguardo allo spazio aperto. La sua non era una domanda, ma una risoluta affermazione. Io non posso dartela, risposi. Guadagnatela con le tue forze, e sarà tua. «Sì, invece,» insisté l'uomo con l'impertinenza e la rudezza che sono privilegio dell'età. «Quelli gradiscono sempre un osso o due per pulirsi i denti, verso l'ora del tè.» Libertà! dalla gabbia di ferro grigio l'urlo continuava a riempirmi la mente. Prenditela. La desideri più del cibo, più della dignità di preservare la tua natura lupesca? Metteresti da parte il tuo stesso corpo e ciò che di bello ti offre per ottenere la cosa che desideri? Rinunzieresti a tutto ciò in cambio della libertà? Chiari mi tornarono allora dinanzi agli occhi gli anni remoti della prigionia turca. Radu era un bambino, un tenero fanciullo, troppo facile a spaventarsi perché i nostri fantasiosi carcerieri potessero divertirsi a sue spese. Ma io avevo quattordici anni quando cominciarono con me... Il cervello della belva ribolliva di pensieri inespressi, malgrado ciò l'animale si era acquietato lasciando il custode piuttosto confuso. Questi mi scrutò attentamente, poi si avvicinò alla gabbia e vi allungò dentro una mano per carezzare le orecchie del lupo ansimante. Feci la medesima cosa suscitando lo stupore del vecchio e da questi ottenendo la ricompensa spe-
rata con la sua espressione, «Stia attento! Berseker non perde tempo!» «Non si preoccupi, ci sono abituato!» Il lupo, intanto, fissava lo spazio esterno e distante, come se stesse pensando intensamente di corrervi libero. «È forse un allevatore?», domandò il vecchio in tono più cordiale, togliendosi persino il cappello. Forse sperava di comperare da me un altro paio di esemplari. «No, non esattamente.» Sollevai di poco il cilindro per accomiatarmi da lui e da Berseker. «Ma ne ho addomesticati parecchi.» Ciò detto, mi allontanai. Il messaggio silente del lupo si andava man mano affievolendo nella mia mente per ridursi ad un distante mormorio soffocato lasciando così spazio al brusio verbale dei pensieri di Lucy. Ma né il mormorio dell'uno, né la voce dell'altra, gradivo ascoltare in quell'istante. Qualcosa di terribilmente serio stava affliggendo Lucy, lo avvertivo mio malgrado; decisi però di chiudere le porte della mia mente, così da non apprendere oltre. Era dunque assolutamente impossibile che io potessi prevedere come, al calar della sera il lupo Berseker avrebbe rotto la grata della gabbia, divelto le sbarre di ferro, e sarebbe fuggito con la precisa intenzione di trovarmi. E di fatto, mi raggiunse infallibilmente ad Hillingham. Ignoravo cosa mi attendesse quella notte, tuttavia un vago turbamento mi opprimeva lo spirito come uscivo dal parco. Vi avevo annunziato che avrei affrontato l'argomento della paura: ebbene, il momento mi sembra propizio per farlo. Non pretendo di aver conosciuto il terrore infinito, ma posso affermare di aver provato tutta la paura che la mia mente e la mia anima potessero sopportare, ed anche di più. La prima volta che i miei carcerieri turchi mi spogliarono nella cella e mi condussero nudo, paralizzato dal terrore e grondante dei miei escrementi, alla pertica sulla quale sarei stato impalato, non dubitai che fosse giunta la mia ultima ora. In una tale situazione alcuni sarebbero svenuti, altri sarebbero impazziti. Quanto alla mia reazione... beh, forse soltanto un lupo in gabbia potrebbe comprendermi. Naturalmente non morii. Se le guardie mi avessero ucciso non avrebbero più avuto di che divertirsi il giorno seguente. Sicché non fui impalato nel vero senso della parola... o, meglio, non lo fui «definitivamente». L'estremità del palo era smussata, e non produsse ferite sanguinanti allorché fu introdotta in un orifizio naturale del mio corpo. Sollevandomi sulle punte dei piedi feci in modo di evitare che essa penetrasse a una profondità tale
da provocare danni più gravi. La mia resistenza in quella posizione non poteva essere lunga e, quando il peso del mio corpo mi costrinse a cedere, le guardie si affrettarono a tirarmi giù. Certamente non volevano che morissi subito. Mai prima d'allora avevano visto qualcuno capace di rimanere perfettamente cosciente mentre veniva così deliziosamente, atrocemente, e disperatamente terrorizzato. Il giorno seguente escogitarono un altro giochetto: mi mostrarono un foglio che affermarono essere l'ordine firmato per la mia esecuzione. La mia suscettibilità al terrore, mi costrinse a credere alla veridicità della notizia. Dire che in ciascuno di quei giorni morii di paura non è affatto un'esagerazione. Il nuovo gioco prevedeva che fossi arso vivo, e così mi ritrovai vescicole da ustione e capelli strinati quando si decisero a far cessare il rogo. Un altro giorno fui protagonista di un gioco che prevedeva la presenza di voraci ratti; e un'altra volta fui lasciato alle cure di una donna il cui marito era stato torturato fino alla morte dai Valacchi. Successivamente... ma non voglio disgustarvi scendendo nei particolari. Fu quando mi sottoposero ad una nuova impalatura, che mi accorsi di colpo che ormai non mi era rimasto più niente da temere: ormai non avevo più paura. Avevo esaurito tutta la paura che la mia anima potesse generare. Fossi anche vissuto mille anni, la mia razione di paura, apprensione, timidezza e terrore, era stata ormai completamente consumata prima ancora che mi spuntasse la barba. Da allora in poi, niente mi ha più spaventato. Ciò non vuol dire che io possieda un coraggio singolare; no, questa è tutt'altra cosa... La prova più lampante che la mia valutazione di questa nuova condizione spirituale fosse corretta, è costituita dal fatto che — simultaneamente — persi ogni desiderio di vendetta nei confronti dei miei carcerieri. Un alto Ufficiale del Sultano, capitato per caso a Egrigoz, osservò sbalordito l'imperturbabilità con la quale affrontai alcuni degli ultimi e infruttuosi tentativi compiuti dai miei nemici allo scopo di terrorizzarmi. La tortura era atroce, è vero, ma la paura del dolore è peggiore del dolore stesso. L'alto Ufficiale applaudì a quella che interpretò come una straordinaria resistenza, e si interessò al mio caso. Col passare del tempo crebbe tra noi un'amicizia tale che, se avessi manifestato il desiderio di vendicarmi sui miei torturatori di più basso rango, lui non avrebbe esitato ad accontentarmi. E fu proprio il mio rifiuto della vendetta, scaturito dalla più impavida indifferenza e non da eroiche virtù cristiane, ad incutere terrore ai miei ex carcerieri. L'uomo teme ciò che non riesce a comprendere, ed io
avevo oltrepassato i confini della comprensione di quegli uomini semplici benché malvagi. Sicché, mentre passeggiavo per le strade di Londra, non fu la paura e neppure l'odio a sospingere i miei pensieri verso quei Turchi di un tempo sì remoto, ma cupe e inquietanti riflessioni. Ero davvero così certo di volere la mia ricongiunzione all'enorme flusso dell'umanità? Volevo dunque rischiare di abbreviare la mia vita? Non che fossi spaventato da tale prospettiva, né da alcuna altra cosa al mondo o fuori di esso. Neppure Dio temevo, amici miei, ancorché lo conosca meglio di voi... Un'ora circa prima che il lupo scappasse, mi ero fermato per un po' in una taverna di Soho, ben consapevole dell'assenza della mia immagine nello specchio incrinato e fumoso alle spalle del bar. E sapevo con altrettanta lucidità che la prosperosa ragazza avvinghiata al mio braccio sarebbe stata sconvolta dallo stupore non appena avesse notato la cosa. Ben consapevole ero pure delle rapide pulsazioni di quel tiepido fluido che correva nella sua Vena jugularis, nonché dei miasmi impossibili di cereali fermentati che esalavano dal bicchiere che mi attendeva ancora intatto sul legno lucido e consunto del tavolino. Ero consapevole nel mio intimo dell'abisso che esisteva tra me e coloro che mi stavano intorno, tutti inconfutabilmente umani, seppur imperfetti nel corpo, nella mente, e nello spirito. Era tale il mio stato d'animo, quando Lucy mi chiamò con una nuova insistenza: un grido lanciato con terribile fervore attraversò le quattro o cinque miglia che ci separavano. Sopraffatta dalla paura e dalla malattia, invocava il mio aiuto, affidandosi a me come al suo signore e protettore, e fu così che le risposi. Spiccai il volo da un vicolo di Soho ed atterrai poco dopo sul prato oscuro di Hillingham. Da lì le inviai il mio invito silenzioso, come già avevo fatto in precedenza. Stavolta, però, appresi subito che non poteva o non voleva tentare una sortita. Né, dal canto mio, potevo essere io ad introdurmi in casa di mia iniziativa. Se la ragione di ciò sia da ricercare nella fisica o nella psicologia, non ho alcuna certezza, ma fatto si è che non mi è consentito entrare nella dimora di esseri umani senza che vi sia stato invitato almeno una volta da uno degli abitanti del luogo. Sapevo quale fosse la finestra della camera di Lucy, per cui mi levai nuovamente lesto in volo, posandomi sul davanzale. L'imposta era chiusa e non potei vedere l'interno, ma la voce della ragazza mi giunse chiara. Stava litigando con un'altra donna più anziana che altri non poteva essere se non
sua madre. L'alterco cessò di botto quando Lucy ricadde sfinita sul letto, dove riuscivo a intravederla premendomi con forza contro il vetro nel punto in cui una piccola fessura si apriva tra l'imposta e lo stipite. Scorsi una ghirlanda di fiori d'aglio intorno al collo di Lucy, e tutta la stanza era fetida di quel lezzo disgustoso. Quasi nel medesimo istante in cui feci questa sconvolgente scoperta — rivelatrice del fatto che qualcuno stesse prendendo delle misure antivampiro — udii il primo fioco ululato di Berseker provenire da un cespuglio sotto di me e, costernato, cercai con gli occhi l'animale. Sarebbero forse occorsi parecchi minuti per acquietare il lupo e rimandarlo pacificamente nella gabbia dalla quale era appena scappata, e intanto la spasmodica supplica di Lucy era troppo insistente perché potessi trascurarla. Sentendomi come un generale asserragliato sul campo di battaglia da attacchi a sorpresa, mi accovacciai sul davanzale sforzandomi di controllare con freddezza i miei pensieri. Poteva esserci una spiegazione diversa da quella alla quale ero avvezzo che giustificasse la presenza dell'aglio? Senza dubbio vi erano molte usanze inglesi che ancora ignoravo, ma non nutrivo grandi speranze che questa dell'aglio fosse una di loro. Le donne all'interno della stanza non avevano ancora udito gli ululati del lupo, o altrimenti dovevano aver pensato che si trattasse di un cane del vicinato, giacché non si mostrarono impressionate al suono. Contorcendo il mio piccolo corpo peloso di pipistrello, feci uno sforzo poderoso per sbirciare nella camera, e riuscii a distinguere più chiaramente Lucy in camicia da notte. Fu un vero shock vederla così malamente ridotta. Scorsi anche sua madre, anch'essa stanca e sciupata — è d'uopo rammentare che neppure allora io e Lucy avevamo il minimo indizio delle gravissime condizioni nelle quali versava il cuore malato della signora Westenra — e la vidi allontanarsi chiudendosi la porta alle spalle. Quello era il momento propizio: lanciai un altro messaggio mentale e, simultaneamente, battei le ali sui vetri. Lucy volse appena la testa sul cuscino, ma non fece altro. I suoi occhi erano chiusi. Aggrappatomi con cautela alle pietre della parete in quella notte autunnale ripresi le sembianze umane. Riacquistai massa e peso lì sul davanzale — dal nulla? Diciamo pure dall'immenso serbatoio nel quale Dio custodiva tali cose prima di iniziare l'opera della Creazione, ed al quale alcune delle sue creature godono di un limitato potere di accesso. In che modo opero
una simile trasmutazione? A questo punto sono io che chiedo: in che modo i polmoni di un uomo selezionano miriadi di atomi ogniqualvolta un respiro viene tratto per ossigenare il sangue? Ticchettai con una lunga unghia sul vetro della finestra e chiamai Lucy ad alta voce. La ragazza si sollevò a sedere con uno sguardo sconcertato che immediatamente si trasformò in un'espressione gioiosa. Si alzò più in fretta che poté, poi si avvicinò alla finestra; era sul punto di profferire le parole che mi avrebbero permesso di entrare nella sua dimora, quando la porta della stanza si riaprì e la signora Westenra si fece avanti. Stavolta la vidi distintamente... e lei, ahimé, fece altrettanto. Lucy aveva già aperto completamente l'imposta e, quando l'anziana donna allungò lo sguardo oltre la spalla di sua figlia, fu il mio volto ad apparirle nel buio della notte, i miei occhi intenti a osservarle. Mi aspettavo lo shock, ma non la reazione che di fatto seguì. La signora Westenra allungò un braccio indicando la mia persona; per un paio di secondi restò muta a fissarmi col volto stravolto dalla paura, poi un suono gorgogliante fuoruscì dalla gola e la poverina cadde in terra stecchita come se un'ascia si fosse abbattuta su di lei. «Mamma!», gridò Lucy affrettandosi presso il corpo della genitrice per tentare di sollevarla dal pavimento; ma le precarie condizioni fisiche della ragazza non le consentirono di reggere allo shock ed allo sforzo, cosicché anche Lucy si afflosciò in terra, priva di sensi. Il cuore e i polmoni della signora Westenra avevano già cessato di lavorare, e ritenni probabile che di lì a poco anche quelli di sua figlia avrebbero interrotto ogni attività, tanto era debole ed irregolare il loro palpito. Lucy mi aveva chiamato perché la soccorressi ed ero impaziente di farlo — ben più che impaziente: lo desideravo disperatamente! — ma non potevo. Non mi era ancora stato rivolto un invito diretto ad entrare nella sua casa. Io che possedevo la facoltà di dissolvermi in fumo e di attraversare barriere impossibili per ogni essere umano, ero lì bloccato da una legge inesorabile quanto la legge di gravità. Un nuovo cupo ululato giuntomi dal basso dei cespugli scosse il mio cervello, spingendomi all'azione. Saltai giù con un balzo leggero raggiungendo il suolo, dodici piedi sotto il davanzale della finestra, poi chiamai a me Berseker. Serrandogli una mano intorno al muso, tenni fermo per qualche istante il grosso lupo grigio, mentre con la forza del mio sguardo cercavo di trasmettere al suo cervello la comprensione del compito che intendevo affidargli. Volevo che si introducesse di forza nella stanza di Lucy e
che leccasse il viso della ragazza perché rinvenisse; se ciò non fosse avvenuto, allora avrebbe dovuto trascinarla per i capelli o per un lembo della camicia da notte fino alla finestra, rendendo possibile il mio intervento. Perché, invece, non decisi di andare io stesso a bussare alla porta nella maniera più garbata e rassicurante? Non bisogna dimenticare che tutto ciò stava avvenendo nel pieno della notte e che la villa era isolata. Una volta Lucy mi aveva riferito casualmente che nella casa non dormivano servitori di sesso maschile: la dispensa di Hillingham era evidentemente un luogo di impeccabile moralità. V'era la probabilità che le donne mi avrebbero aperto, qualunque pretesto avessi addotto? Ritenni che non lo avrebbero fatto. Il mio istinto reclamava un'azione diretta, ed ho imparato a fidarmi di esso nelle situazioni di emergenza. Al secondo, o forse al terzo tentativo, riuscii a lanciare il lupo sul davanzale della finestra. La superficie di questo era ampia abbastanza da ospitare comodamente un acrobatico gentleman, ma offriva scarso comfort alle zampe di Berseker. Il lupo guaì la sua protesta per il trattamento riservatogli, ma poi sembrò comprendere che nell'avermi scelto quale suo padrone si era assunto l'onere di eseguire ogni mio ordine. Fu una questione di secondi: le poderose zampe anteriori frantumarono i vetri della finestra e gli diedero accesso nella camera. Mentre io saltavo cercando di aggrapparmi al davanzale, il lupo balzò giù. Scorsi le ferite rosse sul muso e il luccichio di una scheggia di vetro che gli si era conficcata nel pelo. Avrei poi medicato io stesso le ferite di chi mi aveva servito con tanto zelo, ma prima dovevo occuparmi di Lucy. Diventerò umano, mi dicevo ripetutamente, diventerò umano! Mi accovacciai di nuovo sul davanzale, il volto incorniciato dai bordi frastagliati del vetro infranto «Lucy!», chiamai con calma determinazione usando la voce e la mente. Distesa sul tappeto cosparso di frammenti di vetro e fiori d'aglio, Lucy ebbe un lieve sussulto e lentamente si issò a sedere apparentemente ignara del cadavere di sua madre lì al suo fianco. «Cosa... chi...?» «Lucy, il tuo vichingo è qui per aiutarti. Invitami ad entrare. Chiedimi di venire da te.» La ragazza alzò gli occhi in un movimento lento e confuso e li fissò sul mio volto. Frattanto, dabbasso, una certa agitazione animava la servitù, svegliata, evidentemente, dal fracasso prodotto dallo spicinìo del vetro. Fuori il lupo ululò ancora, stavolta per il dolore. Lucy sollevò una mano
per scostare dal viso una ciocca dei biondi capelli, ma era troppo debole e non riuscì a portare il gesto a compimento. «Lucy, il mio nome è Vlad. Invitami a entrare, fa' presto.» «Oh, vieni Vlad! Sto tanto male: ho paura che tra un po' morirò.» La presi tra le braccia e la sollevai dal pavimento; soltanto allora accennò con la mano alla figura immobile della madre. «Mamma?» «Tua madre non soffre più,» le dissi e l'adagiai sul letto. Poi, prima che potessi fare o dire altro, lo strascichio di molti piedi sul tappeto del corridoio fuori della camera di Lucy annunziò l'arrivo in gruppo delle domestiche spaventate. «Signorina Lucy? Tutto bene?» «Attenta a come rispondi!», sussurrai, afferrandole le braccia. I miei occhi ardevano nei suoi, il tono incisivo comandò con autorità, e la ragazza parve riacquistare un po' di forza. «Sto bene, adesso,» disse con voce fievole. «Sua madre è lì con lei, signorina Lucy? Possiamo entrare?» Annuii. «Avanti!», invitò, e la maniglia della porta cominciò a ruotare; prima che avesse compiuto per intero il suo movimento, ero già scivolato sotto il letto di Lucy, gli arti completamente distesi e pronto a dissolvermi in fumo od a rimpicciolirmi nella forma di un pipistrello se le circostanze me lo avessero imposto. Otto piedi scalzi sfilarono nella stanza attorniando il tappeto vicino alla mia testa; la danza degli orli delle camicie da notte e un coro di grida e lamenti, accompagnarono il corteo. Il corpo della signora Westenra fu trasportato sul letto tra i commenti stupiti per la finestra rotta ed espressioni di orrore per gli ululati incessanti che provenivano dall'esterno. Il lupo ferito — e probabilmente deluso e sgomento per il fatto che non fossi uscito a medicargli le ferite — aveva tutto il diritto di lamentarsi, e faceva meno baccano delle domestiche. Per non parlare di quei fiori d'aglio sparsi sul pavimento, maciullati proprio sotto le mie narici. Vlad, chiesi a me stesso riflettendo su tutta la situazione dalla scomoda posizione che occupavo sotto il letto di Lucy; Vlad, cos'è dunque il mondo? Qual è il grande mondo delle creature umane alle quali aneli ricongiungerti? Spossata, Lucy sedeva su una poltrona, mentre le donne adagiavano sul letto il cadavere di sua madre. Ma la debolezza e la malattia non le annebbiarono la mente, ed essa fu lucida abbastanza da rendersi conto del fatto
che un uomo era nascosto nel suo boudoir e rischiava di essere scoperto da un momento all'altro, un'evenienza questa più intollerabile della morte. Tale consapevolezza, unita ad un'intatta presenza di spirito, la indusse ad agire. La vidi alzarsi all'improvviso e scendere le scale, mentre le cameriere erano radunate intorno al letto che sopra ospitava la defunta signora e sotto celava il vampiro in buona salute. Le donne non si accorsero dell'assenza della giovane padrona né del suo silenzioso ritorno qualche minuto dopo. In quei pochi minuti, debole ma distinto, udii un breve gocciolio di liquidi provenire dal basso. Al suo ritorno, Lucy sostò, con visibile sforzo, nel vano della porta e, rivoltasi alle domestiche, ordinò alzando appena la voce per interrompere il continuo brusio, «Voi tutte, scendete nella sala da pranzo e prendete ciascuna un bicchiere di sherry; vi raccomando, soltanto lo sherry. Poi tornate quando vi chiamo.» Non v'era dubbio che un ordine del genere trovasse immediata esecuzione. Un istante dopo, il corteo lamentoso era sparito e Lucy aveva chiuso la porta. Sportomi a guardare dal mio nascondiglio, la vidi nuovamente prossima a svenire. Se il letto non fosse stato occupato dal corpo di sua madre, vi si sarebbe già abbandonata. Fui io a sdraiarvela dopo aver deposto il cadavere presso una parete. «Ora la servitù ci lascerà in pace,» disse Lucy con una voce che si faceva rapidamente vaga e distante. «Perché ho drogato il vino... oh, Vlad, sei tu la morte? A volte la tua faccia... se tu sei davvero la morte, ascolta la mia supplica. Chiunque tu sia... mia madre è morta, ma io sono troppo giovane. A settembre mi sposerò.» «Stà calma adesso. Credo che le tue condizioni siano molto gravi.» Esaminai velocemente il corpo di Lucy e notai le bende e le incisioni nella parte interna di ciascun braccio all'altezza del gomito. «Chi è il tuo medico? Per cosa ti sta curando?» «Ce ne sono due: il Dr. Van Helsing di Amsterdam e il Dr. Seward.» Nell'udire il primo nome ebbi un sussulto, ed alzai gli occhi di scatto; lo avevo già sentito in precedenza, da un vampiro di mia conoscenza. «E chi è il Dr. Seward?» «È giovane, ha trent'anni, ed è molto simpatico. In verità...» Si interruppe. «È il Direttore di un manicomio a Purfleet.» Il mio cervello cercò febbrilmente una spiegazione. Ma nulla vale a spiegare o aiuta a comprendere il significato della coincidenza, o il simulacro che di essa compie il destino. «E le loro cure? Cosa sono queste picco-
le ferite? Possibile che al giorno d'oggi ricorrano ancora ai salassi?» «Ah, Vlad, non lo so. I medici sono gentili, e sono sicura che le loro intenzioni sono buone. Ma non mi dicono niente, ed io sono troppo ammalata per discutere con loro ed insistere per sapere cosa mi fanno.» S'interruppe ansando, poi riprese mentre le rimettevo a posto la benda sul braccio: «Mi portano bulbi e fiori d'aglio. E mi hanno drogata per tre volte affinché il medico potesse compiere una certa... un'operazione la cui natura sfugge alla mia comprensione.» «Tre volte. Maledizione. Quale dei due medici effettua l'operazione?» «Il Dr. Van Helsing, credo. Mi sento così protetta quando mi è vicino. Eppure...» Era allo stremo delle forze. Mi chinai su di lei e le appoggiai l'orecchio sul seno: il moto laborioso degli ingranaggi di quell'organismo produceva un rumore poco rassicurante. Secondo i criteri attuali non posso ritenermi certo un qualificato diagnostico ma a quei tempi pochi di coloro che si guadagnavano il pane praticando la medicina meritavano il titolo del quale si fregiavano. Gli occhi della poveretta si affidavano ai miei, imploranti. «Lucy. Sorgente di luce, è necessario che tu presti attenzione a quello che sto per dirti. Sgombra la tua mente e dammi ascolto: siamo sul punto di dover prendere una decisione di suprema importanza.» Accarezzai la cascata aurea delle sue chiome. In quattrocento anni di guerra e di pace più volte avevo visto la morte avvicinarsi agli uomini e dubitai che la ragazza potesse giungere viva fino allo spuntar dell'alba. A meno che... «Vlad, aiutami... salvami! Arthur è lontano, ed ho paura che quelli mi stiano uccidendo con le loro operazioni.» Uno spasmo di paura le aveva conferito un barlume di energia. «Non lasciarmi morire!» Un'improvvisa nausea le provocò conati di vomito, ed una secrezione acida fiottò a lato del letto. «Prendimi, Vlad!» Ma non la presi ancora; mi raddrizzai, invece, e stetti ritto accanto al letto. Al piano di sotto ogni rumore era cessato, e soltanto il respiro di quattro paia di polmoni interrompeva il silenzio. Io e Lucy eravamo dunque soli, liberi di attuare ogni nostro intervento. Tuttavia, di tempo per riflettere e discutere ce ne restava ben poco: probabilmente la ragazza sarebbe morta prima ancora di intavolare una discussione. «Lucy. Prima o poi la morte giungerà per tutti noi. E per quanto terribile, credimi, non è la cosa peggiore di questo mondo.» «No, no!». Il terrore l'animò di una terribile, effimera energia. «Salvami, Vlad!» supplicò, cercando di affondare le unghie nel mio braccio. «Fai
qualcosa. Nei tuoi occhi leggo che c'è qualcosa che tu puoi fare.» «Lucy, esiste un unico modo attraverso il quale io posso — non darti l'eternità, giacché non sono Dio — ma procrastinare la tua morte, rinviarla ad un altro, indefinito momento. Però, bada: scegliere questa strada comporterà dei mutamenti fondamentali nella tua vita. Più vasti di quanto tu possa immaginare.» «Salvami ad ogni costo, Vlad: ti prego. Non voglio morire!» Non so descrivere l'emozione che pervadeva la sua voce strozzata mentre pronunziava queste parole. Sollevai dal letto il suo corpo ormai quasi privo di peso, poi la spostai leggermente tra le mie braccia affinché la candida gola dove avevo lasciato il segno dei miei precedenti abbracci fosse ben visibile. Ruotai di poco il busto e, nello specchio appeso alla parete opposta al letto, scorsi il corpo di Lucy sospeso a mezz'aria, la camicia da notte dappreggiata sulle ginocchia e sollevata sulla schiena sotto la pressione delle mie braccia invisibili. Sulla figura incorniciata dalla montatura dorata dello specchio, chinai la testa... Quando ebbi attinto a sufficienza dalle sue vene, giunse il momento che Lucy suggesse il mio sangue. Mi scoprii il petto in prossimità del cuore e con una delle mie unghie uncinate come artigli mi lacerai la carne — non v'è strumento che sappia far ciò con altrettanta efficacia — e subito premetti la bocca di Lucy sul mio petto, come fosse un infante intenta a succhiare dalla nutrice. Dopo che ci fummo scambiati una considerevole quantità di sangue, le asciugai le labbra graziose e la riadagiai sul letto. Avevo fatto tutto ciò che era in mio potere. Il suo stato era ancora precomatoso, ma sapevo che non sarebbe morta di lì a poco, almeno non per l'immissione diretta di sangue incompatibile. Anzi, ero convinto che non sarebbe morta affatto. Vi era, sì, la probabilità che presto sarebbe stata deposta nella tomba, ma come sappiamo, non è la stessa cosa. «Lucy,» sussurrai, mentre protendevo una mano verso la figura immobile distesa sul letto. La ragazza l'accolse nella sua e si sollevò senza dischiudere gli occhi. Li riaprì quando fu ritta in piedi, e allora... Oh, quale mutamento! Certamente Van Helsing avrebbe voluto vederla; cosa avrebbe potuto fare allora? Ma io ero venuto a Londra per curare i miei affari, e non potevo mettermi contro di lui per quella donna. Lucy non significava molto per me; se
mi trovavo lì era soltanto per rispondere al suo appello: aveva invocato il mio aiuto, ed avevo fatto tutto il possibile per soccorrerla. «Lucy, non morirai stanotte. Può darsi che ti senta ancora male ma, se domani verranno a drogarti per sottoporti a un'altra trasfusione, ebbene, ti consiglio di rifiutarti.» «Ma non me lo hanno mai chiesto.» Anche la voce era mutata; era già più viva, e più distante. «Insisti affinché chiamiamo il tuo Arthur; può darsi che ti dia man forte a opporti alla loro terapia. Capisci? Stanno immettendo nelle tue vene il sangue di altri individui. Immagino che lo facciano a fin di bene, ma è stato proprio questo a condurti in punto di morte.» «Ma... Vlad... ora mi sento più forte. Credo che tu mi abbia salvata.» «Ed è così, mia cara, ma solo per il momento. Ti ho strappato alla morte momentaneamente, ho solo ritardato il tuo Giorno del Giudizio. Non sono molti coloro che possono rivendicare legittimamente una tale facoltà. È stato ciò che tu hai voluto da me.» Sospirai. L'avvertimento che stavo per darle non era destinato, a mio parere, a giovarle. All'inizio i neo-vampiri devono trovare la loro strada per istinto, più o meno come i neonati. Continuai: «È possibile che tu cada in un altro... coma. Se permetterai ai tuoi medici di sottoporti ad una nuova trasfusione, allora direi che accadrà quasi certamente. In tal caso ti sveglierai in circostanze che inizialmente ti risulteranno a dir poco incomprensibili; ma, se affronterai la cosa con coraggio, vedrai che, piano piano capirai.» La prima uscita dalla tomba è un'esperienza davvero unica. «Mi farò coraggio, Vlad. Oh, Vlad, dimmi ancora che non morirò.» «Non morirai.» Era una bugia, come quella che talvolta si dice ad un ferito dopo una battaglia. Una menzogna, sì, giacché non potevo prevedere come si sarebbe comportato con lei Van Helsing dopo aver constatato il mutamento; e una menzogna lo era anche perché tutti un giorno devono morire della vera morte. Prima, quando era Lucy a dover intraprendere la grave decisione, ero stato sincero con lei, entro i limiti di tempo concessi dall'urgenza. Adesso bisognava prendere delle decisioni che, seppure fastidiose, erano tuttavia di poco conto, e preferii assumere un atteggiamento rassicurante. «Ora ascolta, mia cara. Prima o poi le donne che hai così argutamente drogato si sveglieranno e, oltre a loro, c'è da aspettarsi che altre persone vorranno entrare in casa domattina. Ci saranno molte cose per le quali dovrai fornire una spiegazione.» Trassi un sospiro; purtroppo nulla poteva
esser fatto per cancellare i segni che i miei canini le avevano lasciato sulla gola. Mentre parlavo, accarezzavo il braccio nudo di Lucy e la sua fronte, per infondere in lei la forza sufficiente ad affrontare ciò che l'attendeva l'indomani. Bisognava giustificare i vetri rotti, e il lupo nel cortile, i cui ululati erano stati uditi dalle domestiche, ed il cui ruolo negli avvenimenti di quella notte, per quel che sapevo, poteva non essere ancora cessato. C'era poi la madre, morta per un attacco cardiaco, inatteso da Lucy e da me; e c'erano le domestiche che avrebbero certamente rivelato del sonno indotto dalla droga ad un eventuale investigatore, sempreché si fossero svegliate prima dell'arrivo di chiunque nella villa. Ma, più di ogni altra cosa, bisognava fornire una spiegazione plausibile per le condizioni della ragazza. A quel punto Van Helsing non avrebbe più esitato a riconoscere i sintomi di incipiente vampirismo. V'era la possibilità che si sarebbe mosso a compassione per lei? Ritenni che vi fosse qualche speranza in tal senso, specie se la poverina fosse apparsa come una vittima innocente del malvagio Conte. Le carezze suadenti e regolari avevano sospinto Lucy in uno stato quasi ipnotico. «Prendi un foglio di carta e dell'inchiostro, piccola,» le dissi. «Prima che io ti lasci comporremo insieme un racconto; sarà inquietante e misterioso come quelli che scrive il Sig. Poe.» Il mattino seguente, verso le dieci, il Dr. Seward e il Dr. Van Helsing giunsero a Hillingham quasi simultaneamente ed entrambi con premura disperata. Il mancato recapito del telegramma a cui dianzi ho fatto accenno, aveva lasciato Lucy priva di sorveglianza per tutta la notte, e ciò aveva messo i due medici in febbrile agitazione. Per Van Helsing il pericolo dal quale Lucy doveva essere protetta era l'assalto di un vampiro; il Dr. Seward non condivideva una tale, distorta, visione della realtà, ma era innamorato della ragazza — o credeva di esserlo — ed era consapevole della gravità delle sue condizioni; inoltre l'inesperienza lo induceva a seguire ciecamente il suo vecchio maestro. Trovarono la villa chiusa e sprangata dall'interno, ed i colpi sulla porta, sempre più insistenti, non ebbero risposta. Cosicché irruppero nell'abitazione scavalcando una finestra della cucina e, giunti nella sala da pranzo, trovarono le quattro domestiche ancora addormentate sul pavimento. Salirono di sopra e si diressero alla camera di Lucy: le due donne erano sdraiate sul letto, la giovane respirava ancora, ma era di nuovo in stato di incoscienza.
Lucy non ebbe alcuna possibilità di protestare contro una quarta trasfusione, soluzione che Van Helsing, naturalmente, adotto all'istante. Stavolta il sangue fu prelevato dalle vene del giovane americano Quincey Morris, apparso innocentemente sulla scena con un messaggio da parte di Arthur Holmwood, desideroso di notizie. Il giovane era stato gettato, per così dire, in prima linea senza por tempo in mezzo. «Il sangue di un giovanotto coraggioso è il rimedio migliore di questo mondo per una donna che si trovi in pericolo,» fu questo che — stando al racconto di Seward — disse Van Helsing mentre estraevano i coltelli per una nuova incisione. Suppongo che la natura della sua prescrizione appaia molto simile alla mia; purtroppo, però, la metodica da lui adottata differiva parecchio dal mio modo di procedere. E, ahimé, altrettanto può dirsi dei risultati. I medici, per quanto impegnati, non mancarono di notare che la brocca di sherry sulla credenza nella sala da pranzo esalava il peculiare odore del laudano; con tale sostanza tratta da un flacone che la Sig. Westenra teneva lì vicino era stato adulterato il vino servito alle donne. Lucy fu sollevata dal letto perché facesse un caldo bagno ristoratore, e proprio allora due foglietti di carta per appunti «caddero dal suo seno.» Bastò una rapida lettura perché sul volto di Van Helsing apparisse «uno sguardo di amara soddisfazione, come di chi avesse risolto un dubbio.» I foglietti contenevano naturalmente il nostro parto letterario della notte precedente. Si trattava dell'esordio narrativo di un vampiro assediato che scriveva in una lingua per lui straniera e di una ragazza in stato di semiincoscienza che da poco aveva subito il trauma della dipartita di un familiare. Il primo commento di Seward dopo aver letto la nostra creazione fu: «In nome di Dio, che significa tutto ciò? Era, o è, impazzita? O dunque, che genere di morbo è mai questo?» Si potrebbe supporre che in risposta ad un quesito rivolto con tanta franchezza e sincerità il Professor Van Helsing avesse risposto: «È un vampiro, giovanotto! Uno di quegli esecrabili mostri infernali che ti succhiano il sangue!» Ma una risposta simile sarebbe stata poco filosofica e altrettanto scarsamente metafisica. Come di fatto andarono le cose, Van Helsing «allungò la mano e riprese i fogli, dicendo: 'Non badare a questi adesso. Dimenticali per il momento. Saprai e capirai ogni cosa a tempo debito; ma sarà dopo...» Quando Lucy emerse dal coma, cercò inizialmente di distruggere il resoconto degli avvenimenti così come lo avevamo riportato sulla carta, ma poi
desistette dal suo intento, consapevole, evidentemente, che fosse preferibile al silenzio che avrebbe lasciato ingiustificati i fatti inquietanti della notte precedente. Il resoconto pretendeva di essere «un'esatta trascrizione» di quegli eventi, scritta dalla mano della ragazza quasi nel momento in cui si erano verificati. Riferiva di come Lucy fosse stata destata dal suo sonno tranquillo da uno «sbatter d'ali alla finestra,» al quale aveva fatto seguito «un ululato simile a quello d'un cane, ma più profondo e feroce.» Al che la ragazza si era portata «presso la finestra per guardare fuori, senza però scorgere nulla, fuorché un grosso pipistrello responsabile, evidentemente, del fruscio udito poco prima.» Per nulla impressionata da un simile avvenimento, del tutto banale nella periferia londinese, Lucy nel nostro racconto se n'era tornata a letto. Sua madre era quindi entrata a darle un'occhiata e le aveva parlato «con voce persino più dolce e più tranquilla del solito,» dopodiché si era distesa al fianco di sua figlia. Ma dalla finestra si erano uditi nuovamente «sbuffi e battiti d'ali», seguiti in breve dal «profondo ululato proveniente dal basso dei cespugli, e dall'improvviso fracasso che ha sparso frammenti di vetro su tutto il pavimento... Dall'apertura dei vetri infranti è sbucata la testa di un grosso e smunto lupo grigio. La mamma ha lanciato un urlo di spavento... ha afferrato la corona di fiori d'aglio che il Dr. Van Helsing insisteva portassi intorno al collo e me l'ha strappata con violenza.» Ritenni preferibile che i miei nemici continuassero a credere nell'efficacia dell'aglio. «Uno strano ed orribile gorgoglìo è uscito dalla gola di mia madre; poi è caduta... è stato come se una miriade di piccoli granelli avesse invaso la stanza penetrando dalla finestra rotta, e da questa hanno preso a turbinare all'intorno in un vortice simile alle colonne di sabbia descritte dai viaggiatori nel deserto quando si leva il simun. Ho cercato di muovermi, ma mi pareva di essere paralizzata da una sorta di incantesimo...» Confesso che fu mia l'idea di paragonare l'avvicinarsi del vampiro al levarsi del simun nel deserto. Gradivo la vivida immagine che quella metafora riusciva a evocare. Il racconto da noi elaborato proseguiva narrando di come Lucy avesse ripreso coscienza, avesse quindi chiamato le domestiche e, dopo che queste avevano ricomposto dignitosamente il cadavere della madre sul letto, le aveva mandate dabbasso a prendere un po' di sherry per calmare i nervi
scossi. Accortasi che le donne tardavano a tornare su le aveva seguite nella sala da pranzo dove le aveva trovate distese sul pavimento: «le domestiche si erano addormentate, qualcuno doveva averle drogate... L'aria sembrava pregna di granuli, particelle che fluttuavano e turbinavano nella corrente che spirava dalla finestra, e le luci ardevano fioche e azzurrine... Decisi di celare in seno queste carte, dove le avrebbero trovate coloro che si prendono cura di me...» La relazione terminava a quel punto, eccezion fatta per qualche lamento. Non credo di dovermi scusare per le sue incongruenze, giacché essa servì agli scopi che mi ero prefissi, e cioè fu accettata per veritiera di Van Helsing e dagli altri. Giudicata come la spiegazione autentica degli avvenimenti di quella notte, essa sortì l'effetto di allontanare da Lucy qualsiasi sospetto di collaborazione. Per la barba di Allah e tutte le reliquie dei Patriarchi! Che un simile miscuglio di falsità possa esser passato indisturbatamente persino sotto il naso degli investigatori più inetti è tuttora per me fonte di sconcerto e meraviglia. L'Ispettore Lestrade non vi avrebbe sprecato sopra neppure cinque minuti... inutile menzionare quale sarebbe potuta essere la reazione di Sherlock Holmes. Consideriamo la faccenda del vino drogato. Presumibilmente, se le domestiche non lo avessero bevuto, Lucy si sarebbe risparmiata tutti gli orrori della notte: questo, difatti, implica il manoscritto Dracula-Westenra. Una persona malvagia doveva aver dunque versato il laudano nella brocca. Doveva essere stato il maligno Conte Dracula in persona: un momento, non poteva essere entrato in casa senza invito, e se, al contrario, fosse stato invitato, non avrebbe avuto necessità di utilizzare il lupo come un ariete di sfondamento. E che il lupo fosse stato impiegato in quel modo non vi era alcun dubbio, giacché la povera bestia fu vista tornare stancamente allo zoo la sera del giorno seguente, col pelo insanguinato ancora irto di pezzetti di vetro. Sicché, un'altra persona, un agente del Conte Dracula, doveva aver drogato il vino. Ma, ammessa pure l'esistenza di un tale individuo all'interno della casa, sarebbe stato più logico sfruttare la sua presenza per garantire al suo padrone l'accesso diretto e immediato nell'abitazione. Drogare il vino nella speranza che sarebbe stato bevuto da un numero di persone sufficiente a sgomberare il campo al Conte era un'ipotesi poco plausibile. O forse è più ragionevole supporre che le quattro domestiche, mandate giù da Lucy a bere un cordiale, avessero invece deciso di rendersi total-
mente insensibili per difendersi dalle insidie della notte? Con un lupo che si aggirava nei paraggi e che poteva introdursi in casa a piacimento, una spiegazione del genere non sarebbe stata presa in considerazione né da Lestrade, né dal Dr. Watson. Ciascuno di questi due relativamente astuti gentiluomini si sarebbe semplicemente domandato chi avesse lasciato entrare il Conte Dracula. Ma torniamo alla nostra storia. Certamente penserete che senza volerlo abbia rivelato come effettivamente fossero andate le cose, il che, oggettivamente, corrisponde esattamente a quanto venne affermato dai miei nemici: ho confessato, cioè, di aver deliberatamente trasformato la ragazza in un vampiro. Non è forse così? Mi chiederete. Ed io vi rispondo giovialmente, ricorrendo ad una frase di cui sovente gli uomini si servono per giustificare ogni loro misfatto, dal genocidio alle manie sessuali: Sì: cosa ho fatto di male? Non vorrete dirmi che la mera esistenza di un vampiro costituisce un'ignominia senza precedenti sulla terra? Il Conte Dracula troverebbe estremamente oltraggiosa una simile affermazione. Ma ora è meglio lasciare da parte le considerazioni personali. Dunque, impostando la questione come gli uomini sono soliti fare, si crea inevitabilmente un circolo vizioso: il vampiro è una creatura malvagia perché crea altri vampiri, i quali sono per definizione malvagi. Sta di fatto, però, che la semplice riproduzione non è mai stata considerata un delitto. Perché io non posso godere i diritti degli altri uomini? La morte o un cambiamento di vita imposto coercitivamente è un atto delittuoso, indipendentemente se esso venga compiuto dai denti di un vampiro, da un paletto di legno, o attraverso espedienti più sottili impiegati ai danni di un cuore o di una mente vulnerabile. Per questo ancora una volta ripeto: il mio sangue, e nessun altro medicamento disponibile nel 1891, poteva salvare la vita di Lucy quella notte. Purtroppo la vita di quella ragazza non fu conservata a lungo. Il diciotto e il diciannove settembre vi fu un peggioramento delle sue condizioni, dovuto alla quarta, tossica, trasfusione, operata da Van Helsing. Pur distante percepii gli spasmi della sua sofferenza, ma preferii tenermi in disparte avendo già fatto tutto ciò che era in mio potere. Morì il venti di settembre, o almeno così credettero l'affranto Arthur Holmwood ed il Dr. Seward i quali, assieme a Van Helsing, furono al suo capezzale nelle ore di agonia. Benché distante alcune miglia, avvertii, grazie al con-
tatto mentale che ci univa, l'attimo in cui il respiro di Lucy s'arrestò, quel respiro che mi aveva alitato sulla guancia, così caldo e pieno... Quello stesso giorno giunsero a Carfax gli operai che avevo richiesto per la rimozione di alcune delle mie casse, così come previsto dal mio programma di graduale dislocazione del terreno. Il pazzo Renfield forzò per l'ennesima volta la finestra, indebolita dai numerosi assalti, ed evase intenzionato a bastonare i lavoranti per avergli sottratto il suo «Signore e padrone.» Il «Signore e padrone,» al riparo tra gli alberi dietro l'alto muro di cinta delle sue proprietà — non avendo la certezza di quali casse gli uomini avrebbero prelevato, aveva evitato di riposare in una di esse — udì lo schiamazzo, e decise di accelerare il processo di distribuzione delle casse e di vendere Carfax, o semplicemente di abbandonarla se ne fosse sorta la necessità. Il vicinato era un po' troppo vivace per i miei gusti: con l'indomabile Renfield alla porta a fianco, ed il suo medico in rapporti di collaborazione con Van Helsing, a me noto come cacciatore di vampiri, non godevo della tranquillità che tanto desideravo. Il ventidue settembre fu veramente una data luttuosa per la mia stretta cerchia di amicizie britanniche. Quel giorno Lucy e sua madre furono sepolte in un piccolo cimitero nei pressi di Hampstead Heath. Anche Peter Hawkins, datore di lavoro e poi socio di Jonathan Harker, fu sepolto quel giorno, morto — che io sappia per cause naturali — subito dopo il ritorno dall'estero dei coniugi Harker. La salma di Hawkins fu inumata anch'essa in un cimitero poco distante da Londra sicché, un paio d'ore dopo il funerale, Mina e Jonathan passeggiavano a Piccadilly mano nella mano. Nel suo resoconto degli avvenimenti di quel giorno, Mina scrisse: «Stavo osservando una bellissima ragazza con un cappello a ruota di carro, seduta in una Vittoria davanti a Giuliano's, quando ho sentito Jonathan stringermi il braccio talmente forte da farmi male. 'Mio Dio!' ha esclamato in un filo di voce. Io provo sempre una certa apprensione per Jonathan, giacché temo che un attacco di nervi possa sconvolgere nuovamente il suo equilibrio... era molto pallido, e sembrava che gli occhi stessero per uscirgli fuori dalle orbite mentre, con un'espressione a metà tra il terrore e lo sbigottimento, stava guardando un uomo alto e magro dal naso adunco, i baffi neri ed un pizzetto sul mento — un simile aspetto era ovviamente il frutto di una dieta regolare — il quale contemplava assorto la medesima avvenente ragazza. La stava guardando con una tale attenzione da non
accorgersi assolutamente della nostra presenza (mia cara Mina, Wilhelmina, come poteva sapere che eri là?) cosicché ho potuto esaminare il suo aspetto nei particolari. Su quel volto non c'era traccia di bontà — ma una grande forza di carattere, vero, mia cara? — Da esso si sprigionavano durezza, crudeltà e sensualità; e i grossi denti, che apparivano straordinariamente bianchi per il contrasto con le labbra vermiglie, erano aguzzi come quelli di un animale.» I migliori per... beh, lasciamo perdere. «Jonathan non gli staccava gli occhi di dosso sicché, a un certo punto, ho cominciato a temere che l'uomo se ne accorgesse e, a giudicare dalla cattiveria e dalla fierezza che ispirava, reagisse in maniera violenta. Ho domandato allora a Jonathan la ragione del suo turbamento, e lui mi ha risposto quasi dando per scontato ch'io sapessi esattamente ciò ch'egli sapeva: 'Hai capito chi è quello?'» «No, caro, non lo conosco. Chi è?» «'È proprio lui!'» Quando l'attraente signora si fu allontanata, Mina notò che «l'uomo ha continuato a fissarla... e incamminandosi nella stessa direzione ha fatto cenno a un vetturino di fermare la carrozza a due ruote sulla quale viaggiava. Jonathan lo ha seguito con lo sguardo e, quasi parlasse tra sé e sé, ha detto, 'Credo che sia il Conte, ma è ringiovanito. Mio Dio, se così fosse!'» Per un'ora o due il povero Harker indugiò lungo il ciglio del precipizio della febbre cerebrale che per settimane lo aveva prostrato dopo aver lasciato la mia dimora; ma in quel precipizio non ricadde e, quando il treno condusse la giovane coppia a Exeter, Harker aveva ritrovato la compostezza mentale. Un telegramma inviato da Van Helsing era lì ad attenderli, informandoli, per la prima volta, del rapido declino e della — presunta — morte di Lucy. L'affranto Arthur aveva demandato al Professore il compito di occuparsi degli effetti personali della povera defunta, cosicché questo aveva trovato le ultime lettere, mai aperte, speditele da Mina ed aveva appreso il nome e l'indirizzo della signora Harker. Il Professore non tardò ad autoinvitarsi a far visita agli Harker a Exeter, e a parlare di vampiri; o meglio, alludere a essi. Sarebbe trascorso ancora qualche tempo perché pronunziasse a voce alta quell'orrenda parola. CAPITOLO QUARTO
Quando Van Helsing incontrò Mina e Jonathan Harker e lesse la versione dattiloscritta del diario tenuto da questo in Transilvania, non era trascorso più di un giorno dall'invio del suo primo telegramma alla giovane coppia di coniugi. Mina, che aveva preparato il dattiloscritto, non aveva preso visione del diario finché Harker non mi aveva visto passeggiare per le strade di Londra. Adesso Van Helsing non solo possedeva la prova evidente che almeno un vampiro si aggirasse nella capitale inglese, ma conosceva anche la mia identità e sapeva che con ogni probabilità il mio domicilio principale era a Carfax. Se i nostri ruoli in quella vicenda fossero stati capovolti, ovverossia se io fossi stato in lui, quel pomeriggio stesso mi sarei recato nella cappella sotterranea accompagnato da uno stuolo di amici coraggiosi ed avrei scoperchiato ciascuna di quelle casse, armato di appuntiti paletti di legno. Invece, nella realtà dei fatti, il mio nemico optò per una strategia più tortuosa. Di Van Helsing io conoscevo il nome e la fama, e sapevo che era stato uno dei medici di Lucy e che per tale ragione poteva costituire un pericolo per la mia persona; ma, oltre a ciò, non sapevo altro. Non ero neppure consapevole della presenza in Inghilterra dei coniugi Harker, e ancor meno che mi avessero visto nei dintorni di Piccadilly. Sicché, ignaro, continuavo a badare ai miei affari, in maniera del tutto inoffensiva, finché il venticinque di settembre la mia attenzione fu attratta dai titoli in rilievo sulla Westminster Gazette: STRAORDINARIO ORRORE AD HAMPSTEAD UN ALTRO BAMBINO FERITO LA «SANGUISUGA» Mi affrettai a leggere l'articolo e scoprii che il bambino di cui si faceva menzione era soltanto l'ultimo di una serie di ragazzini che negli ultimi giorni avevano denunziato un'aggressione subita da una donna misteriosa che appariva al crepuscolo nei paraggi di Hampstead Heath. Attraverso una traduzione letteraria altrettanto misteriosa del gergo infantile in quello giornalistico, la dama sconosciuta aveva acquisito il titolo di 'sanguisuga'. In ciascuna delle piccole vittime erano state riscontrate due minuscole ferite, simili alla puntura d'uno spillo. Mi recai in un'emeroteca ed esaminai le edizioni più recenti per racco-
gliere il maggior numero possibile di informazioni sulle misteriose aggressioni, e, al tempo stesso, scorsi le colonne dei necrologi per scoprire dove Lucy fosse stata interrata. Era assai spiacevole che dopo la sua rinascita avesse preso a molestare i bambini; forse — pensai — le trasfusioni le avevano danneggiato anche il cervello assieme agli altri organi. Benché, fondamentalmente, provassi per i suoi misfatti il medesimo interesse che in me potevano suscitare quelli compiuti da una Mary Jane Heathcote, presunta infanticida, o da migliaia di altri mentecatti disseminati nella metropoli, ero costretto, mio malgrado, a dedicarvi la mia attenzione. Con ogni probabilità Van Helsing avrebbe notato gli articoli, e non avrebbe esitato a fare una capatina alla tomba di Lucy. Una simile eventualità mi forniva nel contempo l'opportunità di far conoscenza col mio avversario, valutarne la pericolosità, ragionare con lui della questione — sempre che ve ne fosse stata la possibilità — oppure, in caso contrario, adottare le misure appropriate alla circostanza. Mi aspettavo naturalmente che Van Helsing avrebbe scelto le ore del giorno — quelle per lui più sicure — per far visita alla signorina Westenra nella sua nuova residenza. I neo-vampiri possiedono alcune caratteristiche in comune con le creature umane appena nate: sono esseri estremamente delicati ed i loro poteri non sono ancora sviluppati a pieno. Io potevo attraversare illeso un campo d'aglio in boccio, o persino lanciare sguardi fugaci al sole di mezzodì, men che mai alle alte e fresche latitudini. Ma Lucy, nella sua tenera condizione neonatale, sarebbe stata sopraffatta dalle esalazioni dell'aglio, e non sarebbe sopravvissuta a lungo ad un'esposizione alla luce diurna, neppure ai temperati lucori inglesi. Nella notte del venticinque settembre, localizzai il mausoleo della famiglia Westenra nel cimitero di Hamptstead Heath, quasi interamente circondato dall'aperta campagna. Dissoltomi in fumo, penetrai attraverso le porte serrate della cripta e sostai sull'antico pavimento di pietra cosparso di fiori morti o prossimi a morire, offerti in omaggio alle due donne sepolte tre giorni prima. Sostenuta da blocchi di pietra ornati da decorazioni in ferro e ottone, mi si parò dinnanzi la bara della madre di Lucy col suo pacifico carico. E, dall'altra parte dello stretto corridoio tra le file tombali, simile nell'aspetto, scorsi il giaciglio che ospitava il corpo di Lucy. Mi avvicinai ad esso e, posando le mani sul coperchio esterno in legno di quercia, avvertii il vuoto nel contenitore interno di piombo. Dov'era dunque la fanciulla che già una volta avevo cercato di aiutare?
Probabilmente si aggirava nella brughiera, se le notizie dei giornali erano veritiere. Nutrivo dubbi in proposito. Ma intanto la bara era vuota. Restai lì ad aspettare un'ora, preparandomi mentalmente a ciò che avrei dovuto dire o fare per aiutarla quando sarebbe apparsa. E, più lunga si faceva l'attesa, più debole si faceva la mia certezza sull'aiuto che avrei potuto fornirle. Più debole si faceva pure la certezza che avessi agito nel giustp strappandola alla morte prematura. Cionondimeno, continuavo a credere che rispondere alle sue invocazioni da Hillingham fosse stato mio dovere. Improvvisamente, e con una violenza tale da porre in allarme ogni mio senso, fui colto dall'idea che Lucy non stesse affatto vagando nella campagna mentre la stavo aspettando presso la bara, ma che forse il suo corpo fosse stato segretamente rimosso da quel luogo dopo aver conosciuto la vera morte per opera d'un paletto di legno. Se Van Helsing era davvero un avversario tanto temibile, allora una simile ipotesi era più che mai plausibile. E se tale era stato il reale svolgimento dei fatti, non c'era più nulla che potessi fare per Lucy. Aspettai ancora un'altra mezz'ora e poi mi allontanai, smarrito tra i dubbi e privo di un indizio sicuro sulla attuale collocazione della ragazza. A metà mattina del ventisei settembre, e di nuovo nel pomeriggio, tornai al cimitero in sembianze umane. Durante il giorno non potevo mutare forma a piacimento né potevo introdurmi nella tomba dissolvendomi in fumo. Ma non avevo rinunziato al proposito di affrontare il mio avversario ed ero convinto che le ore diurne fossero le più favorevoli a tal fine. Pochissime altre persone erano nei paraggi e finalmente, appoggiandomi alla parete esterna della tomba dei Westenra, riuscii a percepire la debole irradiazione della mente assopita di Lucy. Naturalmente la respirazione era assente, ma la ragazza era viva quanto me. In fondo, il misterioso e potente Van Helsing non si era dimostrato competente abbastanza da individuare e distruggere la giovane vampira! Ero sul punto di concedermi il sollievo rilassante di un sorriso, quando mi venne in mente che Lucy potesse essere stata risparmiata unicamente allo scopo di tendermi una trappola. Cos'era Lucy per Van Helsing? Per analogia essa non era più di un cucciolo di tigre miagolante nella foresta notturna mentre uomini in agguato con torce e armi aspettano in silenzio che quei due grandi occhi verdi e scintillanti appaiano nel buio, quegli occhi che un oscuro palmo di tenebra separa l'uno dall'altro! Sì, forse volevano che Lucy vagasse di notte finché non mi fossi avvicinato a lei. Probabilmente immaginavo che le avrei trasmesso ogni cono-
scenza che forma la cultura della nostra specie, o che le avessi estorto un giuramento di fedeltà, o ancora che le avessi domandato chissà quali servigi. Possibile che fossero tanto spietati e crudeli da mettere a repentaglio la vita di un bambino... ma era poi vero che vi fossero state delle aggressioni a danno di bambini? O magari quelle storie sui giornali erano una pura invenzione astutamente intesa ad attirarmi in un tranello? Scrutai rapidamente intorno. Nessuno era visibile al momento; ma, dentro uno di quei mausolei, potevano celarsi occhi indagatori ed una Kodak pronta a scattare fotografie, al riparo di muri e sbarre così solide che neppure venti uomini sarebbero riusciti a forzare. È un vantaggio per i vampiri che non sia io il segugio principale posto sulle loro tracce. In verità in quel momento non era stato predisposto alcun piano ai miei danni; nel compiere quella frettolosa ritirata dal cimitero, mi dimostrai, una volta tanto, prudente in eccesso. Van Helsing intanto, dal canto suo, era un po' troppo sicuro di sé. Aveva tenuto d'occhio il cimitero con eccessiva superficialità, ed aveva letto gli articoli sulle azioni di Lucy, ma quella sera si recò alla sua tomba soltanto dopo il tramonto. Condusse con sé uno sbigottito ed esitante Dr. Seward al quale aveva cominciato a rivelare la verità sulla condizione di Lucy. Il professore era intenzionato ad aprire la bara della ragazza ed a dimostrare al giovane collega l'incredibile verità che gli stava gradualmente esponendo. Naturalmente Van Helsing non mancò di equipaggiarsi a dovere con aglio e armamentario religioso, sperando d'essere adeguatamente protetto, almeno contro Lucy; condivideva in parte la mentalità degli Indiani d'America suoi contemporanei, sinceramente convinti che i segni ed i simboli della loro fede potessero fermare le pallottole della cavalleria. Quella notte non mi trovavo nelle vicinanze della tomba di Lucy, ma appresi in seguito dal diario di Seward della loro spedizione. Trascinando con sé lo scettico amico, e glissando sulle domande di questi con parole enigmatiche e sinistre, Van Helsing entrò nella tomba — avendone ottenuta la chiave al funerale col pretesto di passarla poi ad Arthur — ed aprì la bara. Operò una fenditura nella cassa interna di piombo ben sigillata e la scoprì vuota. L'assenza del cadavere lasciò certamente Seward strabiliato e confuso, ma non fu sufficiente a convincerlo che la cara Lucy se ne andasse in giro per la brughiera di Hampstead con i canini insanguinati. Che tale oltraggiosa calunnia corrispondesse a verità, non riuscì neppure a convin-
cerlo l'apparizione di una bianca figura che giocava a nascondino tra alberi e tombe e sulla cui strada i due medici trovarono un bimbetto, fortunatamente ancora illeso. E mentre quelli frugavano e discutevano, dov'era mai il malefico Conte? Il ventisette di settembre ero impegnato nel trasloco di una parte del mio mobilio — e precisamente nove casse di grossa dimensione, ciascuna piena a metà di pesante terra — da Carfax ad un'altra abitazione a Piccadilly che avevo appena acquistato. Con l'intento di rendere le cose più difficili ai potenziali cacciatori che avrebbero potuto tentare di seguire i miei spostamenti, preferii evitare i contatti con una ditta che si occupasse regolarmente del noleggio di carri, e mi misi personalmente alla ricerca della persona adatta. Dopo diverse esperienze interessanti nei pub dell'East End, assunsi un certo Sam Bloxam, il quale aveva a sua disposizione un carro ed un cavallo. Con un simile equipaggiamento, fu necessario compiere due viaggi tra Carfax ed il centro della città, cosa che portò via l'intera giornata. Avrei potuto contribuire ad accelerare l'operazione caricando e scaricando io stesso le casse, ma non volevo sollevarle da solo in presenza di Bloxam, ben consapevole del loro considerevole peso. Sicché insieme le caricammo e le scaricammo dal carro, mentre il carrettiere ansava e sbuffava per il quaranta per cento del peso che gli lasciavo da sollevare. Alla fine divenni impaziente e, a Piccadilly, reclutai altri tre lavoranti direttamente dalla strada affinché dessero una mano a Bloxam a trasportare le casse su per gli altri gradini della casa. Ciò provocò una nuova difficoltà poiché, quando inavvertitamente elargii un compenso troppo generoso agli uomini, pagandoli con scellini anziché con dei penny, quelli pretesero ancora di più. Forse l'istinto li informò che il lavoro per il quale erano stati assoldati era qualcosa di delicato e altamente riservato. Il più grosso, improvvisatosi loro capo, si erse contro di me; lo afferrai allora per una spalla e lo fissai negli occhi consigliandogli maniere più moderate. Bastò a zittirli; soltanto quando furono a parecchi isolati da me diedero libero sfogo ad ogni sorta di insulti. Cosicché continuavo a occuparmi pacificamente dei miei affari rifuggendo il conflitto con coloro che invece si ostinavano ad essermi nemici. Mi ambientai subito nella mia nuova dimora di Piccadilly dove presi a condurre una vita ritirata; considerai l'opportunità di attrezzarmi con un campanello notturno — o piuttosto diurno, visti i miei orari — e mi rallegrai di non aver domestici portatori di immoralità, a servizio nella mia di-
spensa. Frattanto, senza che io ne sapessi nulla, Van Helsing e Seward fecero ritorno nella cripta dove il Professore era intenzionato a compiere una nuova dimostrazione della sua tesi dinanzi allo scettico allievo. Aggregatisi al corteo funebre di uno sconosciuto, sgattaiolarono poi verso un angolo discreto del cimitero dove restarono acquattati finché il guardiano non ebbe chiuso i cancelli. Dopodiché, aperta la tomba con la chiave in loro possesso, si introdussero all'interno e vi trovarono la signorina Westenra... probabilmente non nella condizione più adatta a ricevere visitatori. In quella occasione, Van Helsing aveva portato con sé la borsetta nera col suo equipaggiamento composto di martello, paletto e mannaie, ed avrebbe potuto compiere l'atto finale seduta stante, dimettendo così definitivamente la sua paziente. Ma, una volta aperta la bara, dove la fanciulla ancora nel pieno della sua bellezza giaceva indifesa ed inconsapevole, un pensiero improvviso arrestò la mano del Professore. Rivoltosi a Seward, disse: «Come posso pretendere che Arthur ci creda? Ha dubitato della mia parola quando le ho impedito di baciarlo durante l'agonia... potrebbe pensare che questa donna sia stata sepolta viva... che noi l'abbiamo uccisa con le nostre idee, e ciò lo renderebbe infelice per tutta la vita. Non potrà mai esserne certo, e questa è la cosa peggiore... potrebbe anche pensare che avevamo ragione e che in realtà la sua amata fosse una dei Morti Viventi...» Van Helsing, naturalmente, disponeva di una terapia da prescrivere ad Arthur per salvarlo da un tale dilemma. «Dovrà passare attraverso le acque più amare per giungere infine a quelle dolci. Il poveretto dovrà vivere un'esperienza che lo porrà di fronte alla tenebra più oscura...» In poche parole, il vecchio sadico voleva che lo stesso Arthur commettesse l'omicidio, o, almeno, ne fosse testimone. Dopo aver rimandato Seward alla sua clinica ed aver pranzato da solo a Piccadilly — forse non molto lontano dal luogo nel quale io attendevo ai miei compiti domestici — Van Helsing ritornò al Berkley Hotel, dove aveva una camera. Si preparò quindi ad una lunga veglia e scrisse un accorato messaggio d'addio al Dr. Seward, nell'eventualità che l'avventura avesse sortito esiti funesti. Lo lasciò nel baule e, di fatto, non fu mai consegnato. 27 settembre Caro amico John — Ti scrivo questa mia nel caso dovesse accadermi qualcosa. Mi reco da solo in quel cimitero. Sono lieto che stanotte Lucy, la Morta Vivente, non
uscirà dalla sua tomba, così domani notte la sua sete sarà più grande. Sicché, per impedirle una sortita, circonderò il sito di cose a lei non gradite — aglio e crocifissi — e con esse sigillerò l'ingresso della tomba. È giovane, e sensibile. Ciò servirà soltanto ad impedirle di uscire, in quanto tali mezzi non riescono a frenare il desiderio di quegli esseri di tornare al loro freddo giaciglio: la disperazione allora li afferra e, con tenacia, cercano il punto che offra loro la minore resistenza, e da lì passano. Quando ciò avverrà, io sarà lì; vi rimarrò dal tramonto fino al levarsi del sole, e saprò tutto ciò che bisognerà sapere. Di Lucy, né per Lucy, ho timore; ma quell'altro, colui che di lei ha fatto un essere morto e vivente, e che ha il potere di introdursi nella sua tomba e trovarvi rifugio. Lui è astuto, come ho appreso dal signor Jonathan e dal modo in cui sì è preso gioco di noi mirando alla vita dì Lucy, e vincendo. I Morti Viventi sono dotati di poteri singolari. La forza di venti uomini è nella mano di uno di essi; noi quattro, noi che donammo il nostro vigore a Lucy, nulla possiamo contro di loro. Essi hanno inoltre la facoltà di chiamare a sé animali e chissà cos'altro. Colui che ha preso la vita di Lucy, comanda un lupo. Se dunque egli verrà stanotte, troverà me, e me soltanto. Ma potrebbe accadere che non si provi a penetrare in quel luogo. D'altronde, non v'è ragione che giustifichi ciò; il suo terreno di caccia è ben più vasto del cimitero dove Lucy dorme ed il vecchio Professore veglia. Perciò lascio questo messaggio nel caso che... Prenda allora le carte che lo accompagnano, il diario di Harker ed il resto, e legga ogni cosa, poi trovi questo possente Morto Vivente, gli tagli la testa e bruci il suo cuore, oppure lo trafigga con un paletto di legno: soltanto così il mondo troverà riposo. Se così andranno le cose, le dico addio. Van Helsing Forse neppure io sarò eccessivamente angustiato allorché giungerà il momento in cui darò addio per sempre a questo mondo. Ma il Conte Dracula non è ancora pronto per essere annientato, né lo ero allora. Benché desiderassi restarmene in pace per conto mio, non potevo tuttavia trascurare il fatto che Van Helsing fosse al corrente della mia identità ed ubicazione, né che fosse notoriamente un assassino. Durante il giorno evitai di recarmi a Carfax, e la notte, al pari del mio nemico, tornai ancora una volta al cimitero per scoprire il più possibile. La notte del ventisette settembre era tersa e calda, deludente, quindi, per
gli addetti alla cinematografia specializzata in materia di vampiri ed altre improbabili creature frequentatrici di camposanti. Stavolta fui fortunato. Pur da una considerevole distanza, mi accorsi che qualcosa di nuovo era presente nel mausoleo della famiglia Westenra: un piccolo crocifisso di legno pendeva da una catena agganciata ad un fregio che adornava il tetto, andando a cadere proprio nel mezzo delle due porte. Mi dissolsi nuovamente nella massa fumosa grazie alla quale attraversato il muro di cinta del cimitero, e mi avvicinai al tempietto. L'impalpabile consistenza del mio corpo consentiva però un avanzamento troppo lento, e in più mi impediva di udire o vedere acutamente durante il percorso. Sicché, al riparo ombroso di un gruppo di alberi, ripresi la forma umana e, immediatamente, percepii il suono leggero del cuore e dei polmoni di un uomo a poca distanza da me. Con l'ampia schiena appoggiata alla croce che faceva da pietra tombale ad una fossa lì vicino, un uomo, che altri non poteva essere se non Van Helsing, stava sorvegliando con occhi vigili e svegli la tranquilla facciata della tomba di Lucy. All'interno di essa avvertii la presenza della ragazza, non completamente desta, ma in qualche modo infastidita. Intenzionato ad intavolare un discorso razionale con Van Helsing piuttosto che indurlo a fuggire o venire alle mani con lui, aggirai il mausoleo per trovarmi di fronte a lui. Dopo pochi istanti il Professore alzò gli occhi sussultando all'apparire della mia figura che avanzava verso di lui lungo il sentiero erboso, poco uso al trepestio di piedi umani. «In nomine Dei, vade retro, Satana!» Coi pugni serrati, mise avanti i piedi, pronto a balzar su. «Pax vobiscum,» replicai, ma lo feci così sommessamente che probabilmente non dovette udirmi. «Il Dr. Van Helsing, suppongo,» aggiunsi alzando la voce mentre mi facevo più vicino, parodiando inconsciamente le parole pronunziate venti anni prima da Stanley Ujiji. Vedendomi avanzare, Van Helsing si alzò in piedi, in tutto simile ad un toro ostinato che scava coi calcagni nel terreno pronto a lanciarsi alla carica con la forza d'una locomotiva. Malgrado il dimesso e pessimistico biglietto lasciato a Seward, egli si sentiva in realtà protetto. La grande croce di pietra gli guardava le spalle; nella mano sinistra scorsi un piccolo crocifisso d'oro e nella destra, visibile soltanto parzialmente, il candore di un foglio di carta ripiegato. Sollevò le mani e le protese in avanti mentre continuavo ad avanzare verso di lui. Lasciamogli credere che quei giocattoli valgano a fermarmi,
decisi. Volevo avere la possibilità di parlargli. I nostri sguardi si incontrarono al di sopra del piccolo crocifisso. «Il Conte Dracula,» disse, accennando un inchino ed un sorriso. Aveva coraggio. «Per servirla,» risposi e, ricambiando il gesto cortese, mi chinai. Piegando appena la testa, accennò alla tomba silente. «Non potrai più averla,» disse, continuando a sorridere. «Non è più tua.» «Non lo è mai stata, mio caro signore.» A quell'epoca il volto di Van Helsing recava più rughe del mio, cionondimeno l'uomo capì la mia allusione. «Non nel modo a cui forse lei pensa.» «Tu menti, Dracula, Re dei Diavoli. Noi ti conosciamo meglio di quanto tu pensi.» «Benissimo, Van Helsing, il nostro parlare sarà franco. Anch'io conosco il suo nome, e non mi dice nulla di buono. Quali sono le sue intenzioni adesso?» «Che la giovane Lucy goda riposo e pace.» «E quanto a me?» «Se sarà possibile,» disse con bieca e misurata determinazione, «che non molesti nessun altro come hai fatto con lei.» Mi volsi e feci qualche passo tra le tombe con le mani dietro la schiena, infilate sotto il mantello, come avevo visto fare a Napoleone allorché era immerso nelle sue meditazioni. «Perché?», chiesi, fermandomi a fissare in volto il mio avversario. E da quel volto, da quegli occhi, capii che non aveva compreso il senso della mia domanda. «Perché, Professore, ci perseguita e ci tormenta? So di un vampiro che ha trucidato dalle parti di Brussels, e di altri due, marito e moglie, vicino Parigi...» «Marito e moglie!», sbottò Van Helsing, oltraggiato. «Se non vi sono matrimoni in Paradiso, come vogliono le Scritture, allora certamente non vi sono all'Inferno!» «E noi siamo creature infernali, naturalmente; assai più di quanto lo siano altri, cioè. Mi dica, Van Helsing: se io le tolgo quella croce di mano e me la appendo intorno al collo, sarà ancora così sicuro che io provenga dall'Inferno?» Le sue dita grasse si serrarono sulla croce aurea. «Sono le tue azioni che ti condannano, Dracula. Temo che tu abbia grandi poteri, e che possa compiere scaltri trucchi con le croci e con gli altri simboli sacri. A Brussels, dove compii la mia opera di misericordia, ed a Parigi pure, sentii parlare di
te; ed ho letto il diario del giovane Harker, nel quale racconta il periodo trascorso nel tuo castello maledetto, e dal quale le Forze Celesti, tanto misericordiose, lo hanno salvato.» «Ah! Parla di Jonathan; sta bene adesso? Ed è tornato a Londra?» Mentre gli rivolgevo queste domande rammentai il diario con la scrittura cifrata di Harker. «Sarei lieto di apprendere che gode buona salute, ma sarei molto dolente se avesse giudicato la mia ospitalità insopportabile come il suo sguardo feroce ed i suoi gravi accenti lasciano intendere.» Van Helsing non profferì risposta, pentito, forse, d'essersi lasciato sfuggire più del dovuto nell'accennare a Jonathan Harker. Il disprezzo più profondo scaturiva dai suoi occhi, fissi su di me, e ad esso si mescolò un'aria di trionfo non appena ricominciai a camminare evitando di avvicinarmi alle sue croci od alla busta bianca che teneva nella mano destra, e il cui contenuto mi sembrò d'aver già indovinato. Ricacciò la mano in tasca e fece roteare il piccolo crocifisso d'oro puntandolo contro di me quasi fosse una pistola carica. Sarebbero bastati tre passi lesti, una torsione delle mie braccia, e di Van Helsing non sarebbe rimasto che un cadavere dall'espressione immensamente stupefatta. Ma i suoi compagni — Harker, il Dr. Seward, e chissà chi altri — dovevano essere certamente informati di quella veglia notturna compiuta dal Professore. Poteva addirittura esservi qualcuno di loro acquattato nei dintorni. Dovevo ucciderli? Più persone uccidevo, più l'esercito dei miei nemici si infoltiva, alimentato dall'oceano di increduli nel quale vampiri e persecutori non erano più grandi di goccioline sparse nella vastità dei suoi spazi. Cosa dovevo fare, dunque? Inginocchiarmi a recitare il rosario? Nulla me lo impediva, ma sarebbe mai valso a placare un nemico? Uno sciocco e farisaico avversario di tal sorta? Feci nuovamente appello alla forza delle parole franche e sincere. «Io non sono venuto a Londra per far la guerra, Van Helsing, ma per fare la pace con l'intera umanità...» «E allora, mostro, che mi dici di quello che hai fatto alla ragazza? Una fanciulla così dolce e leggiadra sepolta in quelle mura di gelida pietra; e, ancora peggio, che non può...» «Van Helsing, lei può credere, se le aggrada, che essere un vampiro sia peggio che essere morto; mi rendo conto di non disporre di argomenti convincenti. Ma imporre ad altri le conseguenze d'un tale atteggiamento, è tutt'altro affare.»
«Proprio tu osi parlare di imposizioni, mostro!» Durante l'accesa discussione mantenni la distanza dal mio agguerrito interlocutore, e ciò aumentò il suo coraggio. «Tu che hai costretto la povera ragazza a concederti il suo sangue e la sua stessa vita...» «Non è vero, assassino!» Mi avvicinai di un passo, «Tu, che hai conficcato quegli irti paletti nel petto vivo di tre miei amici a Brussels ed a Parigi! E, quanto a Lucy, è stato soltanto per salvarle la vita che ho bevuto il suo dolce sangue per far di lei ciò che è adesso: a mandarla nella tomba sei stato tu!» Scosse appena la massiccia testa accennando un sorriso, ma si astenne dal ricusare con impeto l'accusa non avendone compreso il significato. Mi protesi allora verso di lui. «Tu lei hai arrestato il respiro versando nelle sue vene sangue estraneo.» «No!» proruppe, ora che aveva capito. «Si,» Fece per protestare con accresciuta ferocia, ma lo precedetti. «Debbo chiamare lei a rendertene testimonianza?» Sul cimitero calò il silenzio, interrotto soltanto dall'ululato di un gufo insonne e dal rombo distante di un carro, e, in sottofondo, dalla voce polifonica di Londra, mai quieta da mille anni. Van Helsing rimase immobile, tenendomi — com'egli pensava — a distanza di sicurezza grazie al crocifisso d'oro; ma nell'oscurità della tenebra lessi sul suo volto che il mio tiro era andato a segno. «Lo avevi già fatto in passato, macellaio,» incalzai, tirando a indovinare, e dal nuovo moto interiore che percepii dal mutare della sua espressione, capii che non mi ero sbagliato. Incoraggiato, continuai: «E con i medesimi risultati. Non è vero? Forse che qualcuna delle vittime dei tuoi scambi ematici è riuscita a sopravvivere?» Il sorriso era sparito dal volto del Professore, e le mani e la mascella gli tremavano mentre estraeva nuovamente la piccola busta bianca ripiegata e la sollevava contro di me unitamente alla croce. «Via! All'inferno!» Le parole esplosero dalla sua bocca. «Non c'è nulla di più saggio che possa dirmi, Professore?» «Vi sarà...» Poi la sua voce si strozzò, e dovette ricominciare. «Vi sarà guerra tra noi, vampiro. Guerra fino alla morte!» «Vi sia pace, dico io. O piuttosto, tolleranza. Ma ricordi che in guerra ho vinto uomini cento volte più forti di lei.» E, col cuore gonfio di tristezza e rabbia, volsi le spalle a quell'uomo malvagio e mi allontanai, aspettandomi quasi di sentirmi tra le costole il
tocco doloroso, ma inoffensivo di un proiettile d'argento. Se lo farà — pensai — tornerò indietro e gli ficcherò il proiettile in un punto delicato e poco decente della sua anatomia. Ma Van Helsing non fece nulla, e me ne andai nella mia nuova dimora a contemplare gli alberi rischiarati dalla luna nel Green Park verso il Victoria Palace, assorto nei miei stupidi pensieri. La guerra era dunque inevitabile. Ma con quali armi dovevo combatterla? Quando il giorno seguente Van Helsing si ricongiunse ai suoi compagni, disse loro di non aver visto nulla durante la pericolosa veglia. Loquace com'era di norma, si rivelava laconico ogniqualvolta si trattava di rivelare fatti incresciosi alle persone che collaboravano con lui o tentavano di farlo. Ma sicuramente dovette riflettere a lungo su quanto io sapessi effettivamente dei suoi esperimenti falliti sul continente e sul modo in cui avrei potuto servirmi di tali informazioni per recargli danno. Inutile dire che, se avessi potuto, lo avrei fatto immediatamente, ma non ero in possesso di dati specifici da render noti né avevo la possibilità di venirne a conoscenza in breve giro di tempo. La successiva mossa di Van Helsing fu quella di radunare le sue truppe e guidare una nuova spedizione alla tomba dei Westenra. Stavolta reclutò non soltanto Seward, ma anche Arthur Holmwood — frattanto assurto al titolo di Lord Godalming in seguito alla morte del padre — e l'americano Quincey Morris. Con un discorso colorito e incoraggiante — che non sto qui a riportare; lo troverete nel diario di Seward! — il Professore li convinse che vi fosse «un alto dovere» da compiere. E pensare che qualcuno ha definito Van Helsing un uomo privo di senso dell'umorismo! Beh, in fondo è vero, ma solo quando intenzionalmente desiderava apparire spiritoso. Naturalmente tutti e tre acconsentirono ad accompagnarlo, benché, fino a quel momento, soltanto Seward fosse in grado di immaginare cosa comportasse il compimento di quell'«alto dovere». Per quel che ne sapevano gli altri, Lucy era semplicemente ed infelicemente deceduta. «Sono curioso,» protestò Arthur dopo una breve discussione nella camera d'albergo di Van Helsing, «di sapere a cosa si riferisce. Io e Quincey ne abbiamo parlato a lungo ma, più ne discutevamo, più ci sentivamo confusi, e a questo punto posso dire di non averci capito nulla.» Né avrebbe ricevuto rapide delucidazioni. Il Professore tergiversò sulla cosa supplicandoli di non privarlo della loro fiducia, accennò a vaghe insidie che ponevano Lucy in condizione di subire sofferenze infernali — cre-
do che a un certo momento Arthur fosse sul punto di colpirlo — o che esistesse la possibilità che la ragazza non fosse morta — nel vero senso della parola — quando era stata sepolta. Insomma, si trattò della superba esibizione di una personalità dotata di una irresistibile forza di persuasione; sicché Van Helsing non solo evitò reazioni violente contro la sua persona, ma in breve ridusse i tre giovani in uno stato che definirei di isterica sottomissione. Ordunque, nella notte del ventotto settembre, li condusse ancora una volta presso la tomba di Lucy. Trovata la bara vuota, i quattro uomini lasciarono quello che Seward descrisse come «il terrore di quella cripta» ed uscirono all'aperto. Lì Van Helsing si mise all'opera. Il diario di Seward racconta: «Prima estrasse dalla borsa una massa di materiale biancastro, di consistenza sottile e friabile, simile alla cialda di biscotti wafer, accuratamente racchiusa in un candido panno; poi prese due manciate di una sostanza somigliante ad impasto o stucco. Sbriciolò la cialda e la impastò nella massa pastosa lavorandola tra le mani... rotolandola, poi ne ricavò delle strisce sottili che cominciò ad infilare nelle fessure tra la porta della tomba ed il telaio nel quale era infissa. Gli domandai allora cosa stesse facendo. Rispose: 'Sto sigillando la tomba, di modo che la Morta Vivente non possa più entrarvi.' 'E quella roba dovrebbe servire a questo?' disse Quincey. 'Ma è uno scherzo?' 'Già.' 'Che cos'è quel materiale che sta usando?' Stavolta fu Arthur a rivolgergli la domanda. Van Helsing si scappellò con riverenza mentre rispondeva: 'Ostia. L'ho portata da Amsterdam. Ho un'indulgenza.' Fu una risposta che sconcertò i più scettici tra noi.» Ed un simile effetto avrebbe dovuto suscitare anche nei più ossequiosi e colti in quella materia. Il farabutto! Un'indulgenza, figuriamoci! Chissà quale degno sacerdote si era arrogato il diritto di conferirgli un potere tale da sostenere e diffondere quelle superstiziose assurdità! Comunque sia, dopo una inquietante attesa gli uomini scorsero «una bianca figura» che recava in braccio un ragazzino nella fitta oscurità di alberi distanti. La figura si avvicinò abbastanza da poter essere riconosciuta. Così prosegue il racconto del medico:
«Era Lucy Westenra, ma cambiata in maniera impressionante. La dolcezza si era mutata in adamantina e spietata crudeltà, e la purezza in voluttuosa lussuria. Van Helsing avanzò di qualche passo... lasciando noi tre allineati davanti alla porta della tomba. Il Professore sollevò la lanterna e la puntò verso la figura: la luce illuminò il volto di Lucy e vedemmo chiaramente le labbra vermiglie di sangue fresco.» Ciononostante il bambino, come Van Helsing ammise in seguito, non aveva subito gravi danni. Seward continua: «Quando Lucy — chiamò così l'essere che ci stava davanti giacché di Lucy recava la sembianza esteriore — ci scorse, si ritrasse con un ringhio irato, come un gatto catturato inaspettatamente; poi il suo sguardo passò in rassegna ciascuno di noi. A guardarci erano occhi che per forma e colore appartenevano a Lucy, ma l'oscenità e la perfidia demoniaca avevano preso il posto della purezza e della gentilezza che prima li pervadevano. In quell'istante, ciò che restava del mio amore per lei, si trasformò in odio e repulsione: se fosse stato necessario ucciderla, non avrei esitato a farlo io stesso, provandone un selvaggio piacere.» Lucy depose al suolo la sua vittima — o piuttosto il giocattolo che aveva carpito nel suo stato di confusione — e posò lo sguardo su Arthur, l'innamorato di cui serbava un tenero ricordo. Quindi, «con le braccia protese ed un sorriso lussurioso» prese ad avanzare verso di lui. Il giovane «si lasciò cadere coprendosi il volto con le mani.» La fanciulla non s'arrestò e, mentre si avvicinava, gli diceva con accenti «diabolicamente suadenti»: «Vieni da me, Arthur. Lascia gli altri e vieni da me. Le mie braccia ardono di desiderio. Vieni, e riposeremo insieme. Vieni, marito mio, vieni!» Nell'udire questo appello, Arthur «sembrò colto da un incantesimo e, scostando le mani dal viso, allargò le braccia. Lucy stava per gettarvisi dentro, quando Van Helsing balzò avanti e, frapponendosi tra i due, sollevò il suo piccolo crocifisso d'oro davanti agli occhi della ragazza.» Irritata dalle importune ingerenze e, suppongo, estremamente contrariata dalla passiva sottomissione di Arthur, Lucy «indietreggiò e, con un'espressione rabbiosa, schizzò alle spalle del giovane, diretta all'ingresso della tomba.» Ma l'accesso a quel rifugio era stato impedito dall'impasto, sicuramente aromatizzato all'aglio, preparato da Van Helsing. «Lucy si volse, e il bagliore chiaro della luna rafforzato dalla luce della lanterna, ben ferma sotto la presa ferrea di Van Helsing, mostrarono il vi-
so di lei... il suo colorito si fece livido, gli occhi sembrarono sprigionare scintille di fuoco infernale, le sopracciglia erano aggrottate e la fronte raggrinzita come se ogni piega di carne fosse una spirale delle serpi di Medusa, e la bocca leggiadra, imbrattata di sangue, si aprì in una forma quadrangolare, ricordando le bocche squadrate delle maschere greche o giapponesi. Se mai un volto abbia significato desiderio di morte, o uno sguardo abbia espresso volontà omicida, ebbene, in quel momento, noi vedevamo in Lucy tutto ciò. Van Helsing infranse il silenzio rivolgendosi ad Arthur: 'Rispondimi, amico mio! Devo procedere con la mia opera?' Arthur si inginocchiò e, celandosi il volto tra le mani, rispose: 'Agisca secondo la sua volontà... non dovrà mai più esistere un orrore simile.'» Estorto l'assenso, Van Helsing tolse un po' d'impasto dalle fessure della porta. Così continua il racconto di Seward: «Esterrefatti ed orripilati, vedemmo la donna, il cui corpo aveva posseduto fino a quell'istante la medesima materialità del nostro, passare attraverso l'interstizio nel quale a stento si sarebbe potuta infilare la lama di un coltello. Tutti provammo un grande senso di sollievo allorché il Professore rimise a posto con calma le strisce di pasta ai margini della porta.» Van Helsing ed i suoi accoliti tornarono quindi a casa a godersi il riposo particolarmente sospirato. Ma, il pomeriggio seguente, si ritrovarono di nuovo nel cimitero e, quando il luogo fu deserto, entrarono nella tomba, ormai divenuta un luogo intensamente movimentato. «Tremante come una foglia, Arthur assistette all'apertura della bara.» Era la quinta volta che questa veniva dischiusa dal giorno della sepoltura. «Van Helsing cominciò ad estrarre l'armamentario dalla borsa con la consueta metodicità, e sistemò ogni arnese sì da essere pronto per l'uso. Prima prese un saldatore e del piombo per saldature, poi una piccola lampada a olio, la cui fiammella azzurra sprigionava un intenso calore; poi tirò fuori i ferri chirurgici, che pose a portata di mano, ed infine un paletto di legno, dello spessore di due o tre pollici e lungo circa tre piedi. Una delle due estremità fu passata sulla fiamma e venne poi affilata fino ad ottenere una punta ben acuminata. Il paletto fu appaiato ad un pesante martello, di quelli solitamente usati in cantina per spezzare i blocchi di carbone. In genere la fase di preparazione che un medico compie prima di mettersi a operare mi stimola e mi affascina, ma ciò non poté dirsi di Arthur e Quincey, costernati di fronte agli strumenti approntati dal Professo-
re.» Terminava la fase preparatoria, Van Helsing trovò il tempo di una nuova esibizione della sua oratoria, approdando alla conclusione che l'incipiente impalatura di Lucy avrebbe assicurato la felicità alla defunta, giacché essa comportava la cessazione della sua diabolica esistenza vampiresca. Inoltre, a suo dire, la cosa sarebbe stata particolarmente gioiosa per lei se a compierla fosse stata «la mano di colui che l'aveva amata di più; la mano che lei stessa avrebbe scelto se una tale decisione le fosse stata richiesta... c'è qui tra noi una simile persona?» Tutti guardarono Arthur, il quale, ormai completamente plagiato dal vecchio sadico, si fece avanti con coraggio. Van Helsing non indugiò a impartire le direttive necessarie. «Arthur pose la punta sul petto all'altezza del cuore, segnando la carne bianca. Poi colpì con tutta la sua forza. L'essere disteso nella bara si contorse, ed un grido orribile che ci raggelò il sangue fuoriuscì dalle labbra rosse dischiuse. Il corpo fu scosso da tremiti e selvagge convulsioni; i denti bianchi e affilati si serrarono fino a recidere le labbra e la bocca si riempì di una schiuma vermiglia. Ma Arthur non esitò... il braccio fermo e determinato si sollevò e ricadde, conficcando sempre più in profondità il paletto foriero di misericordia mentre il sangue fiottava dal cuore trafitto zampillando tutt'intorno. Il volto di Arthur era impassibile e da esso sembrava rifulgere la fiamma dell'alto dovere che stava compiendo; da ciò traemmo coraggio e le nostre voci, che in coro recitavano una preghiera per la defunta, parvero risuonare sonoramente nella piccola cripta. Le spasmodiche contorsioni cominciarono a diminuire e i denti cessarono di masticare. Poi il volto smise di tremare, e tutto si quietò. Il terribile compito era stato assolto. Il martello cadde dalla mano di Arthur. L'uomo ondeggiò e sarebbe caduto in terra anch'egli se non lo avessimo sorretto a tempo.» A quel punto i quattro uomini ritrovarono nel volto della ragazza morta «la dolcezza e la purezza ineguagliabili» che rammentavano esser state proprie di Lucy nei giorni della sua vita pulsante. Già da lungo tempo ho avuto modo di constatare che nulla migliora il carattere di un essere umano agli occhi del mondo quanto la morte, finale e irreversibile. Così come quando Lucy era «morta» la prima volta, i presenti si stupirono di fronte a tanta bellezza, non più minacciosa, che Seward fece assurgere a «simbolo ed emblema della calma che su di lei avrebbe regnato in eterno.» Quello stesso giorno Lucy avrebbe dovuto sposare Arthur; e, adesso che
era morta senza possibilità di dubbio, Van Helsing diede la sua benedizione all'unione della giovane coppia: «Ed ora, figlio mio, puoi baciarla. Bacia le sue labbra morte, se vuoi... perché non è più un diavolo beffardo... non è più una Cosa sudicia, e non lo sarà per tutta l'eternità...» Arthur la baciò e lasciò la tomba. I medici «segarono la parte superiore del paletto lasciando la punta conficcata nel corpo. Poi le tagliarono la testa e riempirono la bocca d'aglio.» Recidere la testa con una lama metallica, dopo che il legno ha spaccato il cuore del vampiro, serve ad interrompere i collegamenti del sistema nervoso. In tal modo si evita che il cervello ancora attivo attui una rigenerazione del tessuto cardiaco danneggiato. Un'ulteriore misura cautelativa adottata dal cacciatore di vampiri, consiste nel lasciare la punta del paletto nel cuore, almeno fino a quando il corpo intero non abbia raggiunto uno stato avanzato di decomposizione. Ciò richiede un periodo di tempo che varia da individuo a individuo, e di solito è più lungo per i vampiri che come Lucy non abbiano vissuto a lungo. Il vecchio, vecchissimo nosferatu, come me, può disintegrarsi quasi nel medesimo istante in cui il paletto è conficcato nel cuore, come accade a M. Valdemar di Poe. Quanto all'aglio, posso soltanto arguire che l'uso di esso derivi da una certa confusione con l'arte culinaria. Benché finora non mi sia mai giunta la notizia che un essere umano abbia tentato di mangiare carne di vampiro, la mia profonda familiarità con le altre abitudini della vostra razza mi induce a non escludere una simile possibilità. Sicché la vita fu tolta a Lucy così come le era stata data da Dio, mentre io, in buona fede, avevo cercato di conservargliela. Ultimata l'operazione, il corpo mutilato fu rinchiuso nella bara che venne accuratamente saldata. Usciti all'esterno, sigillarono la tomba e, guardandosi intorno, scoprirono che «l'aria era dolce, il sole splendeva, gli uccelli cantavano, e pareva che tutta la natura esultasse con toni di giubilo. La pace, la letizia, la gioia pervadevano ogni cosa...» Un pipistrello, però, rimaneva in agguato, ed il Professore non consentì che gli altri lasciassero il cimitero prima di prestare il loro impegno al compimento di un «compito più grande: trovare l'artefice di tutta quella sofferenza ed annientarlo...» Li invitò dunque a prestare la solenne promessa: «Promettiamo di andare fino all'amaro fondo?» CAPITOLO QUINTO
Di tutti gli avvenimenti riguardanti la morte di Lucy non sapevo alcunché all'epoca in cui accaddero. Quando lasciai la ragazza con Van Helsing nel cimitero deserto, ritenni che proteggerla ulteriormente fosse al di là del mio potere, cosicché rivolsi ogni mio pensiero al problema della mia sopravvivenza. Lucy mi aveva detto che uno dei suoi medici era un certo Dr. Seward, Direttore di un frenocomio a Purfleet; e, a meno che ogni altro edificio del vicinato non fosse un asilo per mentecatti, tutto lasciava supporre che questo Seward altri non fosse se non il mio vicino di casa, nonché consulente di Van Helsing. Poi c'era Harker, il cui diario era stato letto quantomeno da Van Helsing, e che, quel che più contava, sapeva con precisione dove localizzarmi, visto che lui stesso aveva curato il mio acquisto di Carfax. Non sapevo se Harker fosse tornato in Inghilterra, o addirittura se fosse ancora in vita e, in tal caso, in possesso delle sue facoltà mentali. Né sapevo dove Van Helsing alloggiasse in Inghilterra. Naturalmente, col Dr. Seward le cose stavano diversamente, e giudicai la sua clinica il posto migliore per iniziare un'attenta sorveglianza delle mosse dei miei nemici. La costruzione di pietra era antichissima — sebbene non quanto Carfax — e possedeva un gran numero di stanze distribuite su due piani, dei quali il pianterreno era stato in massima parte adibito al ricovero degli insani. La clientela proveniva dalle classi abbienti, e alcune tra le famiglie più in vista d'Inghilterra vi contavano dei rappresentanti: Renfield stesso ne era un esempio. La notte del ventinove settembre feci un giro di perlustrazione sorvolando in forma di pipistrello l'antico maniero, e sbirciai là dove era possibile, attraverso le imposte dischiuse. La prima figura che riconobbi fu quella del mio primo visitatore, il folle Renfield, placidamente seduto con le braccia incrociate in una stanza del pianterreno la cui finestra era stata di recente rinforzata con pesanti sbarre di metallo e travi nuove. Nel passargli davanti vidi il volto dell'uomo illuminarsi come se una luce interiore gli ravvivasse lo sguardo. Renfield si alzò di scatto dalla povera sedia, che assieme ad una nuda cuccetta costituiva tutto l'arredamento della stanza, e si diresse alla finestra. Immediatamente mi allontanai, evitando di provocare ogni possibile reazione del suo focoso temperamento. Nelle altre celle del piano inferiore i pochi pazienti allora ricoverati si dondolavano incessantemente nei letti, fissavano vacuamente le loro dita contorte, o camminavano senza posa sui vecchi pavimenti. E, dall'imposta
semichiusa di una di quelle stanze, udii una voce il cui tono esprimeva una mestizia così cupa e profonda che mi indusse ad avvicinarmi per scoprire da chi provenisse. Intravidi scaffalature piene di libri, pareti rivestite da pannelli, e poi... Era lo studio di Seward, e quella era di fatto la sua voce, ancorché non provenisse direttamente dalla sua gola. Seduta davanti ad una scrivania, con la schiena rivolta verso di me, vi era una giovane donna dalla corporatura robusta ed i capelli castani. Le sue dita erano poggiate sui tasti di uno strano apparecchio che ticchettava ritmicamente e stampava parole su un foglio di carta che si avvolgeva spasmodicamente intorno a un rullo. Sulla testa ricciuta della giovane era sistemato uno strumento metallico biforcuto le cui estremità convesse racchiudevano le orecchie, e da queste fuoriusciva la voce di Seward — che allora non riconobbe — modulata in una lamentosa lentezza che consentiva alla dattilografa di cadenzarvi le battute. Un filo partiva dalla cuffia per raggiungere un vicino tavolo su cui era posta una cassetta contenente un meccanismo a molla che faceva girare un dispositivo, mentre un ago si muoveva leggero nella scanalatura di un cilindro di cera. Naturalmente si trattava di un semplice esemplare del vecchio fonografo — quanto distante dalla piccola meraviglia che ho ora tra le mani! — sul quale Seward intendeva registrare il suo diario, che la sua nuova collaboratrice, Mina, si era offerta di trascrivere. Mi bastò il primo sguardo per riconoscere in lei l'amica di Lucy, la ragazza giunta quella notte al cimitero per ricondurla a casa. Un anello nuziale brillava ora all'anulare di Mina, laddove prima non vi era stato nulla; cionondimeno non dubitai della mia identificazione. Un inserviente entrò nella stanza in quel momento e la voce di Mina, che mi giunse fievole attraverso il vetro piombato quando si rivolse alla ragazza, si rivelò uguale a quella che aveva gridato «Lucy! Lucy!» sull'alta scogliera di Whitby, una notte d'agosto che sembrava già tanto remota. L'inserviente andò via e, pochi istanti dopo, entrò nello studio un gagliardo giovanotto sulla trentina. Il suo sguardo era austero, quasi imperioso, ma la sua voce, risultò abbastanza mite quando si rivolse alla giovane donna dicendole: «Come sta procedendo il lavoro?» La macchina da scrivere cessò di ticchettare e Mina si liberò della cuffia. «Lentamente, ma senza difficoltà, Dr. Seward,» rispose. «Credo che sarà di grande aiuto averlo in forma dattiloscritta, signora
Harker.» Non so quale fu la risposta di Mina. Quel che è certo è che io rimasi due lunghi minuti impietrito sul davanzale di quella finestra, strabuzzando i miei occhi di pipistrello, stordito una volta ancora dal potente gioco della coincidenza. Quando finalmente mi riebbi e spiccai il volo, mi diressi a Carfax senza neppure pensarvi e, quando rammentai che quel luogo non poteva più offrirmi un rifugio sicuro, avevo già superato il muro di cinta della proprietà. Cambiai dunque rotta e volai verso una delle mie nuove tane, a Bermondsey, grato del fatto che il mio programma di dislocazione delle casse fosse già a buon punto. Durante il viaggio mi domandai di quali altre insidie il Fato avrebbe disseminato il mio cammino. Che Harker e sua moglie conoscessero Seward non era stata una sorpresa per me; ma che la moglie dell'ospite che avevo lasciato in Transilvania fosse la seconda ragazza che avevo visto in Inghilterra, si rivelò una concomitanza di circostanze a dir poco sconcertante. E in quel momento Harker si trovava proprio a Whitby, cercando di ritrovarvi le mie tracce. Difatti, il recente incontro con Van Helsing lo aveva galvanizzato al punto da farlo diventare uno dei miei più accaniti persecutori. Tuttavia, come ben presto gli si rivelò palese, a Whitby non vi era granché da scoprire oltre al fatto che le mie casse erano state caricate per essere trasportate a Londra. Sicché, il giorno seguente, il trenta di settembre, Harker era già di ritorno a Purfleet, alla clinica psichiatrica, dove sua moglie si era già acquartierata nell'alloggio per gli ospiti. Quello stesso giorno furono raggiunti lì da Van Helsing, Arthur e Quincey Morris. Allorché, scesa la notte, intrapresi una nuova ricognizione del manicomio, mi appollaiai senza indugio sull'alto davanzale della finestra dello studio di Seward. E in quell'occasione pensai che la fortuna avesse finalmente deciso di arridermi, poiché, dalle imposte parzialmente dischiuse, assistetti all'incontro al vertice che di fatto si stava svolgendo al fine di concordare la strategia da adottare. Van Helsing sedeva a capo di un grosso tavolo e, seduta alla sua destra, vi era Mina con un blocco per appunti aperto in grembo, fungendo, evidentemente, da segretaria. Accanto a lei sedeva suo marito, rimessosi perfettamente in salute. Un inglese, giovane e alto, fiancheggiava il Dr. Seward dall'altra parte del tavolo; dall'aspetto si intuiva che doveva appartenere ai ceti superiori, e in breve capii che si trattava di Arthur. Distaccato dagli al-
tri, sedeva un giovane americano dalla carnagione chiara: si trattava di Quincey Morris. Come sempre, Van Helsing stava sfoggiando il suo eloquio mentre i discepoli lo stavano ad ascoltare. E, mentre questi parlava, espressioni diverse si disegnavano sui volti dei presenti, espressioni che variavano dall'orrore all'incredulità, per poi sfociare in una sorta di torpore, parente stretto della noia. L'argomento trattato era di un genere tale da non consentire lacune della sua esposizione. «Lui possiede un'astuzia che non è dei mortali,» furono le prime parole che udii allorché tesi l'orecchio per origliare. «La sua astuzia gli deriva da esperienze secolari; in più, si giova dell'ausilio della Negromanzia... e tutti i defunti ai quali si avvicina sono al suo comando; è brutale, più che brutale... egli può, pur con certi limiti, apparire a piacimento dove e quando desidera, ed in ognuna delle forme che gli è dato di assumere. Ma il potere di controllare gli elementi: le tempeste, la nebbia, i tuoni, ed i fulmini, e possiede il comando di alcune creature minori come il ratto, la civetta, il pipistrello, la falena, la volpe ed il lupo...» Se solo avessi avuto potere sugli ossiuri e le piattole, avrei scatenato un'epidemia contro di lui. Tuttavia, oltre al cumulo di superstiziose assurdità sulla Negromanzia, Van Helsing stava effettuando una accurata descrizione della preda da stanare, sulla cui identità nessuno degli uditori aveva ormai dubbi. Le parole del carismatico oratore continuarono a fiottare, finché qualcosa di simile al sopore che si abbatté sulle patrizie sembianze di Lord Godalming non cominciò ad abbacinare le mie piccole, plebee pupille di pipistrello; entrambi eravamo intontiti dalla litania, che continuava incessante: «... perché, se noi fallissimo in questa lotta, lui certamente vincerebbe, ed allora quale mai sarebbe la nostra fine? Perdere la vita non sarebbe nulla; non lo temo per questo. Non si tratta della vita o della morte; perdere significherebbe diventare come lui... delle immonde creature della notte...» Harker aveva preso la mano di sua moglie, ostacolandola nel suo compito di stenografa, ma lei non parve infastidita da quell'ingerenza. Fui sorpreso allora di avvertire dentro di me come un moto di gelosia, che mi affrettai a reprimere con fermezza. Quando il professore si interruppe per riprendere fiato, i due sposini si scambiarono sguardi innamorati. «Accetto la sfida, per Mina e per me,» affermò Harker con determinazione. Evidentemente aveva prestato attenzione al profluvio di parole di Van Helsing. E Mina, aperta la bocca per parlare, preferì tacere le proprie
opinioni e conservò il silenzio. «Mi consideri dei suoi, Professore,» dichiarò il giovane americano con un accento texano che suonò curioso alle mie orecchie. «Anch'io sono con voi,» disse Lord Godalming. «Se non altro per amore di Lucy.» Tutti si alzarono in piedi e si strinsero le mani a turno al di sopra del tavolo; il loro patto mortale contro di me fu suggellato con grande solennità, ed io capii con un fievole sospiro che avrei dovuto uccidere ancora per contrastare quei propositi. Come, dunque, avrei fatto per portare a compimento il mio programma di pace? Gli uomini si sedettero nuovamente e Van Helsing si lanciò con veemenza in un'altra arringa. A quel punto dovevo essermi quasi appisolato, visto che non mi accorsi dello sguardo acuto che Morris gettò nella mia direzione. Sicché, quando con la coda del mio occhio miope di pipistrello lo vidi alzarsi ed uscire dalla stanza, pensai semplicemente che fosse stato chiamato da un bisogno corporale, o che un'innata intelligenza gli avesse proibito di stare a sentire oltre. Ne seguì una breve pausa durante la quale tutti osservarono la sua uscita — qualcuno con una certa invidia — senza dire nulla. Poi il Professore ricominciò: «Sappiamo che cinquanta casse ricolme di terreno sono giunte a Whitby dal castello, e che da lì sono poi state consegnate a Carfax sappiamo pure — data la presenza sul posto di carri e scaricatori — che almeno alcune di quelle casse sono state trasportate altrove. A mio parere, la nostra prima mossa dovrebbe mirare ad accertare se tutte le altre sono rimaste nella villa di Carfax, o se vi sono stati altri spostamenti, nel qual caso dovremmo rintracciare...» Il proiettile della pistola di Morris mi raggiunse da tergo ed attraversò la parte superiore dell'ala destra e da lì il quadrante anteriore destro del mio minuscolo cranio. Se fossi stato un vero pipistrello il mio piccolo corpo peloso sarebbe caduto secco al suolo senza avere neppure il tempo di battere un'ala verso la fuga. Ma, visto come stavano realmente le cose, sentii il dolore e l'impatto violento del passaggio del proiettile di piombo nell'attimo in cui penetrò la materia estranea della mia carne passandovi senza versare una goccia di sangue o lacerare i tessuti. Il vetro della finestra andò in frantumi, ed il proiettile rimbombò sulla parte superiore della strombatura, rimbalzando all'interno della stanza, dove Mina lanciò un urlo di spavento e di stupore.
Riuscendo a controllare l'impulso di scendere a terra in sembianze umane e fare a pezzi chi aveva causato quello spasimo che ancora tormentava il mio corpo, spiccai il volo e mi allontanai in direzione di un boschetto poco distante. Lì mutai forma e, in sembianze umane, mi appoggiai ad un albero e cercai di pensare. Il dolore cominciava ad attenuarsi lentamente, calando come una marea d'argento fuso attraverso i miei nervi pulsanti. Le piccole dimensioni del mio corpo al momento dello sparo avevano amplificato lo spasimo. «Chiedo scusa!», si udì dalla clinica. Era la voce di Morris, ma non era con me che si stava scusando. «Temo di avervi allarmati. Adesso entro e vi spiego tutto.» Sentii la porta aprirsi e poi richiudersi. Appresi in seguito che Morris non mi aveva riconosciuto, ma aveva sparato soltanto perché negli ultimi tempi aveva preso a sparare ad ogni pipistrello che gli capitasse sotto tiro. Aveva maturato un odio profondo per quelle creature da quando i miei omonimi alati sudamericani avevano salassato il suo cavallo preferito. Ad ogni buon conto, era ormai ora che lasciassi la mia postazione, avendo già saputo abbastanza. Le forze nemiche stavano per muovere, tardivamente ma con determinazione e crudeltà, contro Carfax. Cosa avrei dovuto fare? Difendere con la forza la mia proprietà dall'intrusione? La vecchia argomentazione sull'inopportunità di una simile controffensiva mi induceva a scartare questa ipotesi: quando più usavo violenza contro i miei nemici, tanto più si sarebbe consolidata la mia pessima reputazione agli occhi del mondo. Se potevo logicamente sperare di vincere la guerra contro Van Helsing, altrettanto non potevo fare dichiarando guerra a tutta l'Inghilterra. No: la prudenza e l'astuzia dovevano essere ancora le mie armi più efficaci e, con questo principio in mente, tenni il mio solitario consiglio di guerra organizzando la mia strategia... I miei avversari furono abbastanza coraggiosi, o forse abbastanza sconsiderati, da scatenare l'offensiva quella notte stessa. Naturalmente Mina fu lasciata nell'intimità dell'alloggio assegnato agli Harker. Gli uomini avevano stabilito che da quel momento in poi l'avrebbero messa al corrente delle loro disperate avventure limitatamente a quanto la sua delicata natura femminile le consentisse di sopportare; e, malgrado annotasse nel suo diario che il cavalieresco trattamento era stato per lei «una pillola amara» da inghiottire, capì che «non poteva dir nulla» contro una simile decisione e, obbediente, se ne andò a letto. Quanto a me, mi ero appostato nel bosco della mia proprietà intenziona-
to a trascorrervi il resto della notte, e naturalmente non fui stupito nel vedere cinque uomini scavalcare goffamente il muro di cinta muniti del loro armamentario da scassinatori. Si avvicinarono alla casa con la massima circospezione, rifugiandosi tra le ombre, quasi che si sentissero meno imbarazzati là dove soltanto Dio e Dracula potevano scorgere i loro più impercettibili movimenti. Giunti al portico anteriore s'arrestarono, e Van Helsing rifornì l'intero plotone di aglio e crocifissi, e — per quelli che in un bisbiglio definì «nemici più terreni» — li equipaggiò di coltelli e revolver. Gli avventurieri, bene armati ancorché intempestivi, ricevettero anche delle piccole torce elettriche agganciabili agli indumenti; ad essere consegnata per ultima fu una bustina simile a quella che Van Helsing aveva adoperato nel cimitero di Lucy, contenente una manciata di Ostia consacrata. Fui colto dalla tentazione di unirmi silenziosamente al drappello mentre avanzava nell'oscurità del portico, magari di ricevere la mia dotazione di armi dalla borsa di Van Helsing e successivamente di sussurrargli due parole all'orecchio se mi fossi trovato da solo con lui in qualche oscuro recesso della casa. Purtroppo non avevo tempo per i divertimenti, e mi accontentai di osservare i loro preparativi dal boschetto ombroso. Volevo essere sicuro che fossero all'interno della costruzione e nel pieno svolgimento della loro missione prima di partire alla volta della mia spedizione. Quando tutto fu pronto, i trasgressori aprirono la porta principale servendosi di una chiave madre e la fecero oscillare sui cardini cigolanti. Si fermarono un istante invocando la benedizione del Signore, dopodiché varcarono la soglia di casa mia. Da quel momento in poi, la visita nella mia dimora si rivelò estremamente spiacevole. Harker lamenta nel suo diario «un tanfo nauseabondo» e la polvere che furono costretti a respirare in quel «luogo detestabile» dove, con loro ulteriore grande disappunto, notarono che soltanto ventinove delle cinquanta casse erano a loro disposizione. Al fine di intrattenere i miei ospiti mentre affari urgenti mi reclamavano altrove, avevo chiamato dai campi e dalle fattorie circostanti un centinaio di ratti — nel diario Harker ne conta «migliaia» un'esagerazione perdonabile viste le circostanze — ai quali avevo chiesto di mescolarsi agli uomini in visita con la massima intimità possibile. Questi non parvero gradire l'accoglienza e cercarono di disperdere le mie forze ausiliarie con un trio di terrier che Arthur, grazie ad una sorta di preveggenza o per pura casualità, aveva portato con sé al frenocomio.
Io, però, non ero rimasto ad assistere alla battaglia dei ratti. Pressappoco nel medesimo istante in cui Lord Godalming stava fischiando ai suoi cani e gli altri invasori scansavano le ragnatele tra i colpi di tosse provocati dalla polvere, io mi stavo avvicinando ad una finestra posta al pianterreno della clinica psichiatrica, la finestra della cella del folle Renfield. Quale che fosse la natura delle sue facoltà percettive, fatto sta che il matto avvertì la mia presenza e persino il mio desiderio di segretezza; sicché, nonostante la sua gioia fosse quasi dimostrazione fisica. Gli occhi dilatati e sporgenti, una selvaggia cascata di capelli grigi intorno alla faccia larga, contorta dallo sforzo di reprimere l'insana eccitazione, Renfield mi stava aspettando nella squallida rispettabilità della sua stanza. Attraverso le sbarre della finestra di recente fortificata, mi mostrai a lui e, con un gesto, gli espressi il desiderio di essere ammesso nella sua dimora. Dovetti attendere qualche istante perché l'uomo riuscisse a controllarsi a sufficienza per poter pronunziare l'invito che mi occorreva: «E... entra, Signore e Padrone!» Poi, mentre mi infilavo tra le sbarre, mi sgombrò il passo prostrandosi come dinanzi ad un Imperatore. In seguito, tra le dichiarazioni fatte ai medici in punto di morte, Renfield affermò che avevo ottenuto il permesso di entrare promettendogli ratti e mosche che da lungo tempo il suo palato trovava particolarmente appetibili. Invece Non andò così. È certo che non avrei esitato a fare tanto, ed anche di più, per poter entrare in quella cella, ma non fu necessario ricorrere a promesse o doni per guadagnare il matto alla mia causa. Questi era già un mio adepto, benché la sua adorazione si basasse su una falsa premessa che compresi appieno soltanto nel corso di un incontro successivo. Non erano ratti e pulci che voleva da me; quel genere di creature viventi era in grado di procurarsele da solo o con la collaborazione di qualcuno dei suoi sorveglianti. In realtà erano le donne ciò a cui anelava, e di esse intendeva consumare la vita ed il corpo. Questa verità non fu mai rivelata con chiarezza dagli asettici diari dei miei nemici, ma tale era senza fallo. E, giacché Renfield aveva visto Mina il giorno del suo arrivo al manicomio, era lei che desiderava con particolare ardore. Averla era la grazia che si attendeva da me, l'oggetto di tutte le sue preghiere. E, non appena fui nella sua stanza, cominciò ad implorarmi in tal senso a bassa voce, con un tono ragionevole e paurosamente serio. Gli bastò il breve lasso di tempo che impiegai a raggiungere la porta per informarmi, in parecchie e disgustose varianti, sul trattamento che progettava di riservare alla giovane e fresca fanciulla una volta che fosse caduta in suo pote-
re. Si trattava di un malato di mente, questo è certo, e feci scarsa attenzione ai suoi vaneggiamenti, sorridendogli ed annuendo mentre gli passavo davanti. Né i medici — così pensai — gli avrebbero concesso maggiore attenzione se avesse parlato della mia visita. Appoggiai l'orecchio alla fessura della massiccia porta sprangata e, accertatomi che fuori il corridoio fosse sgombro, vi passai attraverso. Mi ritrovai in un passaggio che correva quasi per l'intera lunghezza della vecchia costruzione. Nelle altre stanze lì vicino, inservienti e pazienti stavano facendo il consueto fracasso ma in quel momento nessuno era in vista. Renfield restò nella cella in silenzio, né mi curai di appurare se fosse contrariato o soddisfatto. Dissoltomi in fumo, raggiunsi una scalinata; la risalii e, quasi invisibile, attraversai un altro corridoio. A quel punto, se i miei calcoli riguardanti la planimetria della costruzione erano esatti, dovevo trovarmi davanti alla porta dell'alloggio occupato dai coniugi Harker. Il corridoio del piano superiore era deserto come quello sottostante, e certamente più silenzioso. Riassunsi le sembianze umane, mi tolsi il cappello, e bussai prosaicamente alla porta di Mina. «Sì?», rispose subito la voce a me familiare. Evidentemente non stava dormendo. «Signora Harker?», chiamai sottovoce. «Sono un vicino del Dr. Seward ed ho un messaggio che riguarda suo marito.» Dall'interno della camera si udì un rapido trepestio misto al fruscio di una vestaglia indossata sulla biancheria da notte e, dopo un istante, la porta si aprì svelando una sorta di salottino, comodamente arredato. Da qui si apriva un'altra porta che probabilmente dava accesso alla camera da letto. Il volto di Mina, largo ma attraente, risoluto e intelligente, mi guardò dalla cornice dei riccioli castani. «È accaduto qualcosa a Jonathan?» Sembrò pronta a sopportare l'eventualità di cattive notizie. «No, no!» Mi affrettai a rassicurarla, adesso che, per così dire, avevo già un piede in camera sua. «Fino a poco fa era in ottima salute e di buon umore.» Mentre le rispondevo, notai che la preoccupazione per suo marito, benché sincera, non sembrava affatto esagerata, o comunque così profonda come ci si sarebbe aspettati viste le circostanze. Dai suoi occhi capii anche che mi aveva riconosciuto o era sul punto di riconoscermi. Come ciò fosse possibile non sapevo immaginarlo, ignaro, com'ero allora, del fatto che mi avesse osservato così a lungo a Piccadilly; ad ogni modo, mi resi conto che la situazione andava affrontata con la massima delicatezza.
«Lei capirà,» incalzai col tono pratico che mi derivava da quattro secoli d'esperienza, «che le circostanze mi obbligano a presentarmi da solo. Sono il Conte Dracula.» La donna completò il movimento che aveva già iniziato, arretrando di un mezzo passo dal vano della porta. Il mio aspetto signorile e l'atteggiamento discreto la frenarono dallo sbattermi la porta in faccia. Non cercai di introdurmi con la forza, né la minacciai, ma feci appello solamente alla mia apparenza imponente. Dubito che qualsiasi altra ragazza dell'era vittoriana sarebbe riuscita a controllare i suoi nervi con altrettanta fermezza. Le sorrisi, come so sorridere alle donne, forte della multisecolare esperienza che vanto anche in questo campo. I miei occhi penetrarono i suoi... Non li attrassi, tuttavia, nella rete dell'ipnosi; non ho il potere di ipnotizzare un soggetto se la sua volontà si oppone a ciò. Eppure pareva che il suo stato fosse di natura simile a quello ipnotico, giacché essa restò a fissarmi con una mano, ancora abbronzata dalla vacanza estiva, appoggiata alla porta aperta e l'altra avvinghiata al collo della vestaglia sollevato fino a coprire la gola. Aveva dischiuso le dolci labbra pronta a gridare aiuto, ma si era arrestata. Scosse allora la testa mentre gli occhi bellissimi mi suggevano l'anima facendomi cadere a mia volta in uno stato simile all'ipnosi. «Posso entrare, signora? Ci sono alcune cose d'importanza vitale delle quali ho necessità di discutere con un rappresentante di questa comunità, e sospetto che lei ne sia il membro più intelligente. Mi creda, non deve nutrire alcun timore per la sua sicurezza.» Mina restò immobile, allora, calmo malgrado il rumore di passi che udii provenire dalle scale, aggiunsi: «La mia visita ha a che fare con la futura sicurezza di suo marito.» Provvista in tal modo di una ragione accettabile per consentirmi di entrare, Mina arretrò, ed io misi piede nel salottino richiudendo la porta dietro di me. Quasi fosse in uno stato di torpore accennò con un gesto ad una sedia. «Vuole accomodarsi?» Accettai, e anche lei si sedette con decorose movenze poi, esitando mi disse: «Conte... lei... se ho ben capito ha detto di abitare nel vicinato?» «Ne ho l'onore, signora!» Sistemai il cappello a cilindro ben ritto sulle ginocchia. «La mia proprietà, Carfax, si trova dietro l'alto muro di pietra che racchiude ad est il parco della clinica.» Mina annuì, ancora intontita. «In questo momento, mi rincresce dirlo, suo marito si trova nella mia casa in compagnia di Lord Godalming, del Dr. Seward, di Van Helsing e di un
americano — un gentiluomo... si fa per dire — che la notte scorsa ha sparato con la sua pistola contro la mia persona.» «Quincey Morris,» suggerì Mina in un filo di voce. Accolsi l'informazione chinando appena il busto. «Questa notte si sono messi a cercarmi; e, se la loro battuta di caccia dovesse aver successo, farebbero il possibile per trapassarmi il torace con un paletto di legno e poi mi taglierebbero la testa.» Accennai un sorriso invitandola così a riconoscere quanto fosse ridicola tutta quella faccenda. «Come hanno fatto con Lucy...», mormorò e, nella sua voce tremula, sentii riaffiorare la paura. «Quel che è accaduto alla signorina Westenra è davvero sconvolgente,» annuii, mostrandomi dolente. «Cara signora Van Helsing, qui davanti a lei c'è la vittima di un orribile equivoco.» Abbassai gli occhi, studiandomi di apparire improvvisamente timido. «Lasci che la rassicuri ancora una volta — se mai ve ne fosse bisogno — che non ha alcun motivo di temere ch'io possa f-farle del male.» È ovvio che balbettai deliberatamente. Funziona sempre. «Per quale motivo dovrei nuocerle, mia cara signora?», incalzai. «Non è stata lei ad invadere la mia proprietà, ad introdursi nella mia casa, a distruggere le mie cose, o a puntare armi letali contro di me.» Alzai di nuovo gli occhi. «Suo marito, mi rincresce dirlo, ha fatto tali cose, persiste nel farle e, a causa di alcuni sfortunati equivoci, sembra intenzionato a perseverare in questo atteggiamento folle fino alla rovina. Sì, alla rovina! Ed io cosa dovrei fare? Come posso evitare tutto ciò senza giovarmi dell'aiuto di nessuno? Loro sono tutti uniti e compatti sotto l'influsso di quel fanatico di Van Helsing, ed hanno chiuso occhi ed orecchie ad ogni mia preghiera. Per questo nutro l'umile speranza che, col suo aiuto e la sua guida, lei sappia trovare il modo di illuminare le loro menti, e ricondurre i loro passi verso i sentieri del raziocinio e della sicurezza prima che sia troppo tardi!» Mina non si era ancora ripresa completamente dalla mia improvvisa apparizione perché la sua personalità vivace e geniale le fosse d'ausilio in quel frangente. «Troppo tardi per cosa, Conte Dracula?» Mi protesi verso di lei e parlai lentamente. «Troppo tardi per il loro bene, cara signora Harker. Non ho certo intenzione di farmi uccidere. Non faranno a me quel che hanno fatto a Lucy.» «Non capisco,» mormorò la donna, balzando in piedi per poi sedersi di nuovo senza togliermi gli occhi di dosso. «Temo di non aver capito assolu-
tamente nulla. Forse sto sognando.» Scossi il capo e restai seduto in una dignitosa postura, col cilindro fermo sul ginocchio. «Conte... nessuno degli inservienti si è offerto di prenderle il cappello?» «La servitù non sa della mia presenza qui, signora. Ho giudicato fosse più saggio che questo nostro colloquio restasse segreto.» «Conte Dracula — giacché, a quanto pare, è proprio lei in persona — che spiegazione sa darmi delle cose raccapriccianti che sono accadute a mio marito durante la visita al suo castello?» «Signora, lasciai quel luogo prima di lui e, benché in fin dei conti mi senta responsabile, non so dirle nulla in merito a quanto gli sia accaduto nel periodo successivo alla mia partenza. Quanto al tempo ch'egli trascorse al Castello Dracula prima che partissi, sono pronto a fornirle ogni possibile spiegazione. Non ha che da chiedere.» «Mio caro Conte...» Incrociai le braccia. «... chi erano quelle tre donne?» Trascorsa un'ora e mezza, ci ritrovammo a conversare cordialmente, e la dolce Mina si confessò rammaricata per non avermi potuto offrire nulla in sengo della sua ospitalità. Le spiegai allora che non mangiavo, né bevevo. «Con una sola eccezione, naturalmente, e neppure in quel caso le cose stanno come lei immagina.» «No? Allora me lo racconti.» Quella notte parlai con Mina come avrei potuto fare con un uomo comprensivo e intelligente, semmai fosse esistita una simile creatura nel mio universo. Dedicai breve spazio agli aspetti più singolari della mia esistenza, ed enfatizzai invece le mie aspirazioni ad una vita libera e manifesta, il bisogno bruciante di qualcuno nel quale riporre la mia fiducia e le mie confidenze e, soprattutto, l'assenza dalla mia vita del più fioco barlume d'affetto. Ovviamente non elencai una ad una tutte queste mie esigenze, ma lasciai che esse fluttuassero gradualmente nel suo intelletto cognitivo. Strano a dirsi — o forse per nulla strano — la donna sembrò leggermi nel profondo del cuore sin dall'inizio. Mentre parlavamo, feci in modo di riportare il discorso sulla maniera di salvare Jonathan e gli altri dai pericoli derivabili dal bellicoso atteggiamento che avevano assunto. Ma, prima che io e Mina avessimo raggiunto una costruttiva intesa sul da farsi, il mio udito acuto captò il rumore dei
passi strascicati che lo stanco drappello di ritorno dall'infruttuosa caccia stava muovendo nel terreno che circondava la casa di cura. Al mio annunzio dell'arrivo imminente di suo marito Mina balzò in piedi. «Oh! Cosa accadrà se dovessero scoprirla qui?» «Non mi scopriranno, buona Mina; o meglio, non lo faranno se io e lei stabiliamo in fretta di incontrarci nuovamente domani notte, o durante la prossima assenza di suo marito. Dobbiamo ancora decidere quali azioni intraprendere di comune accordo.» «Oh!» Ascoltò il rumore della porta che si apriva al piano di sotto e l'avvicinarsi dei cacciatori che stanchi si scambiavano seri motti, per lei impercettibili. «Sì, sì, può venire. Dobbiamo consultarci, per il bene di Jonathan.» Mi chinai e le baciai la mano, poi mi voltai verso la finestra e scomparvi in un istante. Poco dopo suo marito entrò nella stanza in punta di piedi trovandola più pallida del solito e — come a lui parve — addormentata. Si sedette ed aggiornò il diario menzionando tra le altre cose la sua preoccupazione per la moglie e una decisione che gli uomini avevano preso durante l'ingloriosa ritirata riguardante per l'appunto Mina. Nel diario era scritto così: «Spero che la riunione di stasera non l'abbia turbata. Sono davvero grato del fatto che lei non avrà alcuna parte nel nostro futuro lavoro, e neppure nelle nostre deliberazioni. Una donna non può sopportare un simile carico... Da questo momento in poi, il nostro lavoro sarà per lei un libro sigillato finché non giungerà l'ora in cui le diremo che tutto è finito e che la terra è libera da quella mostruosità degli Inferi. Non sarà facile cominciare di sana pianta a sottacerle il mio operato, avvezzi come siamo a scambiarci ogni confidenza. Ma devo agire con determinazione, e domani non le rivelerò nulla di quanto abbiamo fatto questa notte: mi rifiuterò di riferirle anche il più minimo dettaglio. Riposerò sul divano, così non le recherò disturbo.» Nella tarda mattinata, quando il sole era alto e tutti gli altri erano già in piena attività, Jonathan «dovette chiamare Mina due o tre volte perché si svegliasse.» Parve addirittura stentare a riconoscere suo marito, guardandolo di primo acchito con «una sorta di vacuo terrore.» Durante la notte la sua vita era mutata, ma in quel momento né lei né suo marito avevano ragione di sospettare quanto fosse grande tale mutamento. Né, di fatto, io stesso avevo un'idea precisa delle trasformazioni che la mia vita avrebbe
subito. Era il primo giorno di ottobre e, come al solito, Mina prese a compilare il suo diario. Solo che stavolta non descrisse ciò che le era realmente accaduto la notte precedente ma, con una sorta di velata registrazione in codice, parlò di un'esperienza vissuta in sogno, o di uno stato onirico, nel quale aveva osservato una massa nebbiosa serpeggiare attraverso il prato e penetrare nella sua camera da letto. La visione culminava con la vaga apparizione di due occhi rossi. Con una certa diffidenza, mi mostrò ciò che aveva scritto quando mi presentai a lei la notte seguente. Mi propose il manoscritto come fosse il primo esperimento letterario di una fanciulla. I miei nemici erano impegnati a rintracciare la destinazione delle casse asportate da Carfax. Sicché, quando arrivai, Jonathan era di nuovo assente; stavolta si trovava a Walworth, nella zona meridionale di Londra. Giunto al manicomio, trovai un inserviente appostato nel corridoio antistante la cella di Renfield, messovi, evidentemente, a guardia del folle. Questi era improvvisamente diventato stranamente allegro, «canticchiava giovialmente,» ed aveva ripreso la vecchia abitudine di acchiappare le mosche; ciò aveva insospettito il Dr. Seward. Fu lo stesso Renfield a segnalarmi con smorfie ed ammiccamenti la presenza del guardiano non appena varcai la sua finestra. Naturalmente, passare dalla sua stanza non era per me una necessità, avendo già guadagnato il permesso di entrare in quella dimora, ma fatto è che, sin da allora, cominciavo a provare una certa apprensione per Mina, alloggiata direttamente sopra la stanza di quel pazzo dotato di forza sovrumana che tanto agognava stuprarla e torturarla. Per tale ragione avevo deciso di ammansire Renfield con parole persuasive e calmanti, avvalendomi della mia posizione di suo «Signore e padrone.» Ma prima bisognava sistemare il sorvegliante nel corridoio. Non richiese grande sforzo mandare la sentinella, che già dondolava il capo, nell'innocuo abisso del sonno. Riuscii a far ciò creando una risonanza elettrica tra il mio cervello e quello del soggetto, un sistema che la vostra scienza sta cominciando a scoprire soltanto adesso. Dedicandomi quindi a Renfield, gli appoggiai le mani sulle spalle e gli mormorai delle parole tranquille. Mi sembrò che le accettasse con un certo disappunto: non erano la pace e la calma le cose che lui desiderava. Ma io ci provai... Se non pacificato, lo lasciai comunque calmo. Poi, mutandomi in un'entità spettrale, uscii dalla sua stanza ed attraversai il corridoio dove il sorvegliante dormiva profondamente sulla sedia. Salii quindi le scale. Giunto
dinanzi alla porta degli Harker, restai qualche secondo ad ascoltare ed il soffio di due soli polmoni giunse al mio orecchio. Erano quelli di Mina, che già avevo imparato a riconoscere; il mio udito sensibile percepì anche il mormorio del suo cuore, così tenero era l'organo che sospingeva nelle vene il purissimo elisir. Le radici dei canini che sporgevano dalla mascella superiore avevano cominciato a dolermi mentre bussavo leggermente alla sua porta. Nell'udire quei colpi, il respiro di lei, già rapido per l'ansia dell'attesa, si accelerò ulteriormente... Se per castità s'intende quella cosa che in altri tempi una cintura serviva a proteggere, ebbene Mina, così come Lucy, fu sempre casta con me. Ma, giacché è mio volere dire tutta la verità, devo ammettere che Mina si concesse a me nella maniera più completa possibile, e lo fece quella notte stessa, in occasione del nostro secondo incontro. Ben poco riuscimmo a concordare sui piani intesi a garantire il benessere futuro di suo marito... ah, Mina! Mio vero, indimenticabile amore! Mia adorata, cuore del mio cuore... Harker ritornò alla clinica a notte tarda e trovò la moglie addormentata. La osservò e notò che il suo colorito era: «...un po' troppo pallido; gli occhi erano arrossati come se avesse pianto. Povera cara, indubbiamente restare all'oscuro di tutto deve irritarla, oltre a raddoppiare l'apprensione per me e per gli altri. Ma... essere contrariati e preoccupati è comunque preferibile a ritrovarsi i nervi a pezzi. I medici non hanno avuto torto nell'insistere sull'opportunità di escluderla da questa terribile faccenda... dopotutto, ciò non costa grande fatica, anzi, ho notato che essa stessa ha cominciato a mostrarsi reticente sull'argomento, tant'è che non ha più parlato del Conte e dei suoi misfatti dal momento in cui le abbiamo comunicato la nostra decisione.» Il giorno seguente, il due di ottobre, rimasi a riposare, gli occhi vitrei, la mente in trance. Frattanto, Arthur e Quincey si recarono presso una scuderia con l'idea di comprare un paio di cavalli, nell'eventualità che le circostanze avessero richiesto un'offensiva degna d'uno squadrone di cavalleria; i due amici erano fondamentalmente uomini d'azione, e le lungaggini tattiche di Van Helsing erano per loro decisamente irritanti. Harker, dal canto suo, continuò ad interrogare i carrettieri ed i facchini grazie ai quali stava metodicamente ricostruendo l'itinerario seguito dalle mie casse — ciò, tuttavia, non valse a fargli scoprire che parecchie di quelle casse non contenevano più il suolo originale. Seward aveva già troppo a cui badare in clinica per contribuire alle indagini, e così s'era cavato d'im-
piccio. L'ultimo della compagnia, uno degli scienziati più avanzati del suo tempo, fu visto nella sala di lettura del British Museum alla ricerca di «cuore e rimedi contro stregonerie e invasamenti demoniaci» che, come aveva detto a Seward «potevano rivelarsi utili in seguito.» Mina si riposò durante il giorno, ma la tensione mentale che scaturiva dalla sua posizione ambigua, la spossava, ed Harker, ritornato da lei nel pomeriggio, notò che il suo aspetto tradiva un certo malessere. Così annotò nel diario: «Sì sforzava amorosamente di apparire allegra e vivace... ho dovuto fare appello a tutto il mio coraggio per tener fede alla saggia decisione di tenerla all'oscuro dei nostri compiti incresciosi. Devo prendere atto che in qualche modo mi è sembrata più rassegnata; o altrimenti l'argomento deve esserle diventato ripugnante al punto che ad ogni casuale allusione viene scossa da un brivido...» Harker aveva appena scoperto la mia casa di Piccadilly, che era pronta per essere presa d'assalto; ma, con rammarico, annotò nel diario che non aveva potuto comunicare agli altri la grandiosa scoperta per via della presenza di sua moglie. Così prosegue il resoconto: «Sicché dopo cena — e dopo aver ascoltato un po' di musica, tanto per salvare le apparenze — ho condotto Mina nella sua stanza e l'ho lasciata pronta per coricarsi. La cara ragazza si è dimostrata più affettuosa del solito, e si è avvinghiata a me quasi non volesse lasciarmi andare; ma c'erano molte cose di cui discutere da basso, così ho dovuto staccarmi da lei. Grazie a Dio, nulla è cambiato tra noi da quando abbiamo cessato di dirci ogni cosa.» Immagino che molti siano i mariti che confortano se stessi mentre la loro ultima possibilità di conservare il primo posto nel cuore della propria compagna gli scivola tra le mani senza che se ne accorgano. A questo punto, il mio racconto giunge alla notte che segnò un'altra delle svolte cruciali per tutti noi. Allorché scese il crepuscolo, sgattaiolai nella stanza di Renfield, e trovai il matto seduto su uno sgabello nel mezzo del piccolo pavimento con l'espressione turbata da un evidente malumore. Doveva aver passato l'intera giornata a rimuginare fino a convincersi che lo avevo deliberatamente ingannato e fuorviato promettendogli Mina e poi sottraendogliela per il mio personale divertimento. Mi guardò di traverso mentre entravo e, per la prima volta, non si precipitò ad adularmi ed a manifestarmi la sua incondizionata fedeltà. La sua inconsueta laconicità, mi indusse a rallentare il passo ed a scrutarlo con at-
tenzione. Scorsi allora nei suoi occhi la scintilla dell'astuzia che sostenne la follia più violenta. Mi parlò quindi con voce suadente e supplichevole, con l'espressione di perfetta lucidità e razionalità che periodicamente assumeva nei suoi colloqui con Seward e gli altri; ma Seward non si era mai fatto abbindolare da quella parvenza di sanità, né tantomeno lo feci io. Renfield insistette nuovamente affinché gli garantissi Mina per il suo osceno piacere, nemmeno fosse una schiava od un bene mobile di mia proprietà ed in quanto tale potessi stabilire a chi dovesse indirizzare le sue prestazioni e disporre parimenti del suo sangue e della sua carne. Quando mi rifiutai di ascoltare oltre e feci per allontanarmi in sembianze umane verso la porta, il folle esplose scatenando tutta la furia fin lì repressa. «Dio! Dio! Dio!», urlò. «Allora me la prenderò da solo. Due volte sono evaso da questa cella per implorarti di esaudire il mio desiderio; la prossima volta andrò direttamente da lei e ne farò quel che voglio!» Aggiuse ancora qualcosa... dei particolari che preferisco non ripetere. Dopodiché mi si avventò contro, serrandomi le dita intorno alla gola. Mai, nel corso dei secoli trascorsi da quando per la prima volta uscii dalla tomba, avevo sentito una presa tanto possente. Ma, se la forza di Renfield nel pieno di un accesso di follia corrispondeva a quella di quattro o cinque uomini robusti, orbene la mia forza è normalmente pari a quella di quattro o cinque robusti mentecatti invasati come lui. E c'è di più: quando sentii le sue minacce indirizzarsi contro Mina, anche il mio vigore fu galvanizzato dalla collera. Confrontarmi con un nemico all'altezza della situazione mi procurò una selvaggia soddisfazione. Lo sollevai dal suolo come fosse uno spaventapasseri e lo scaraventai sul pavimento una, due, quante volte non ricordo più. Sentii le sue ossa che scricchiolavano per poi rompersi e, quando lo lasciai andare, notai il disegno contorto che il suo corpo formava lì per terra. Il sangue, la sua linfa, fiottava liberamente dalle lacerazioni del capo e del volto. L'ultima immagine che ebbi di Renfield, fu la pozza scarlatta che si andava spandendo; ad essa rifiutai di abbeverarmi e, voltando le spalle, mi diressi là dove mi attendeva la mia adorata. La collutazione fu rumorosa abbastanza da svegliare il sorvegliante nel corridoio. Dopo una rapida occhiata dal pannello trasparente della porta si affrettò a riferire a Seward dell'«incidente.» Prima che l'uomo guardasse nella stanza, mi ero dissolto in nebbia e, quando Seward arrivò giù da Renfield, io ero già nell'appartamento di Mina, dove Harker, a letto, stava rus-
sando sinceramente e stupidamente stanco, e dove la mia dama in camicia da notte stava seduta alla finestra a guardar fuori, quasi cercasse il riverbero della luna, o forse un paio d'ali. Il mio ingresso fu assolutamente silenzioso, ma bastò un solo istante perché Mina avvertisse la presenza della mia alta figura presso la porta, e si guardasse intorno traendo un avido respiro. «Cosa fai qui?», mi chiese con un feroce sussurro. Il suo sguardo corse veloce alla sagoma del marito addormentato per poi tornare su di me. Anch'io guardai Harker, ne ascoltai il respiro, e percepii il ritmo del cuore e del cervello assopito. «Jonathan non si accorgerà di noi,» la tranquillizzai. «Ci sono novità. Quel pazzo di Renfield, che ha la cella proprio qui sotto, era irrevocabilmente deciso a soppiantare tuo marito e me; passando da lui ho raffreddato il suo ardore, così stanotte potrai dormire serenamente.» «Dormire serenamente?», gridò. «Dio mio, Vlad, com'è possibile?» Mina mi fissò intensamente per un lungo istante come se fosse la prima volta che mi vedesse realmente. «Dunque Renfield è morto?» Assentii con un cenno del capo. «L'ho dovuto fare per proteggere la tua vita, che adesso mi è più cara della mia stessa vita.» «Oh, Vlad!» La voce di Mina si abbassò in un mormorio intriso di puro orrore. «E intanto tu e Jonathan vi inseguite di nascosto come... come...» «Io non sto inseguendo lui, mia cara.» Un rauco respiro giunse dal dormiente. Continuai: «Attualmente dispongo di un alloggio relativamente sicuro in un altro luogo, lontano da Carfax. Mi appresto quindi ad abbandonare la mia tenuta; non saremo più vicini di casa.» Mina si gettò tra le mie braccia ed emise un fioco gemito mentre cercavo la sua bocca. Poi, d'improvviso, si ritrase, e sollevò la testa con orgoglio fino ad incontrare il mio sguardo. «Portami con te.» Vi fu un attimo di silenzio durante il quale non riuscii a trovare nulla di dolce da dirle. Di nuovo udì Harker russare flaccidamente. Un rumore di passi veloci giunse dal piano di sotto; rapidamente, il trepestio si avvicinò raggiungendo il piano superiore. L'inserviente bussò ad un'altra porta, probabilmente quella di Van Helsing; ne seguì un laconico scambio di parole sommesse ed urgenti. «Tu non ti rendi conto di cosa di mi stai chiedendo,» dissi alla fine. «Non vuoi dunque che venga con te? Ma io non ce la faccio a sopportare questa... questa tensione... Non più!» Le nostre voci erano ormai sul punto di spezzarsi, ed io non riuscivo a
resistere oltre. Mina alzò le braccia, ed io strinsi a me il suo corpo. Ah, con quale tenerezza, con quale squisita delicatezza, le mie mani seppero contenere la loro forza venti volte maggiore di quella di ogni altro uomo. Quelle mani possenti compressero il suo corpo contro il mio, e le mie labbra cercarono le sue, prima di scivolare lungo il collo per esprimere l'immensa adorazione che provavano per la sua gola... La passione ci rese ambedue ciechi e sordi per lunghi momenti. Mina, pallida e sfinita, tremante dopo l'estasi si avvinghiò al mio petto quando infine scostai le labbra da lei. «Adesso sono completamente tua,» sospirò. «E devi portarmi con te.» «Sì, sì, mia cara. Ma prima devo riflettere: devo trovare il modo.» Ero stato costretto a capitolare; ma, nella realtà dei fatti, lei non era ancora completamente mia, non nel modo fisicamente irreversibile a cui sembrava alludere. Di conseguenza, portarla con me sarebbe stata una mossa sbagliata, come lei stessa dovette riconoscere abbastanza presto. Sebbene col tempo sarebbe potuta diventare una vampira — e procedendo in quel modo non ci sarebbe voluto molto — allora, di fatto, non lo era ancora. Non poteva rinunziare al cibo comune, non era immune al freddo o al caldo, non poteva dormire su muffa e polvere in luoghi privi d'aria, né era in grado di passare attraverso una fessura della larghezza di un capello. Per di più, se l'avessi portata con me, non sarebbe più stato possibile persuadere i miei nemici a rinunziare a darmi la caccia. E, quel che più contava, una volta trasformatasi in vampiro, il nostro amore, se pure fosse continuato, sarebbe stato esclusivamente platonico, quasi del tutto privo di espressione fisica. La suzione reciproca del nostro sangue ci avrebbe macchiati di qualcosa di simile all'incesto, sicché entrambi ci saremmo messi alla ricerca di nuovi amanti tra il consorzio degli esseri umani... Tutto ciò mi ripugnava, e non volevo che accadesse per un lungo, lunghissimo tempo. Lo stato di temporaneo indebolimento indusse Mina a distendersi sul letto, ed il respiro di Harker si alterò leggermente allorché la donna si lasciò cadere accanto a lui. Pensai io a farlo ripiombare nel sonno profondo come prima avevo fatto con l'inserviente di guardia a Renfield. Oh, quanto avrei voluto portar via Mina; lo desideravo con tutta l'anima, ma sapevo che un atto simile si sarebbe rivelato solo una sciocchezza romantica. «Mina,» sussurrai, «agli occhi del mondo, sei la moglie del mio nemico. Ma nei nostri cuori sappiamo che appartieni a me.»
«Sì, Vlad,» sussurrò con nuovo timore. «E troveremo il modo di stare insieme. Vieni: adesso ci unirà un legame più stretto.» E, scostando gli indumenti che mi ricoprivano il cuore, mi lacerai la carne con l'unghia affilata del mio indice, incidendo ad una profondità tale da far sgorgare il sangue. «Bevi!» Prima di bere, si lamentò che aveva le mani fredde, così gliele strinsi in una delle mie: credevate che la carne dei vampiri fosse sempre gelida? Niente affatto; sa dare anche tepore. E, con la mano destra, le carezzai la nuca mentre la sollevavo ponendola in ginocchio sul letto. Issò la testa un istante a baciare la cicatrice che la vangata di suo marito mi aveva lasciato sulla fronte. Poi le sue labbra si abbassarono fino a raggiungere il mio cuore, e teneramente si accostarono alla ferita sanguinante. Mina bevve, facendo fluire dentro di sé una parte della mia vita... Così tu Mina, mio grande amore, diventasti carne della mia carne, sangue del mio sangue, specie della mia specie... Eravamo in quella posa, incuranti del mondo intero, quando la porta che dalla camera da letto conduceva al salottino si spalancò con un urto improvviso e Van Helsing, Seward, Morris ed Arthur, quasi caddero dentro la stanza. Per la verità, il Professore cadde sul serio e, in questo modo, impedì che gli altri si precipitassero immediatamente dentro. I due medici erano accorsi da Renfield non appena il rumore provocato dalla collutazione aveva attirato l'attenzione del sorvegliante nella cella. Van Helsing e Seward avevano operato Renfield in fretta e furia servendosi di un trapianto chirurgico, ma il paziente non era sopravvissuto a lungo — neppure il più abile dei chirurghi sarebbe riuscito a salvarlo — e, dalle poche parole pronunziate durante l'agonia, avevano appreso l'identità del suo assassino. I medici erano corsi a svegliare gli altri compagni cacciatori e tutti — ad eccezione di Harker — si erano armati alla svelta con la solita collezione di simboli e stupidi aggeggi che avevano portato con loro durante l'invasione della mia casa. Capirono subito in quale stanza dovevo trovarmi, ma il corpo fracassato di Renfield immobile davanti a loro li indusse a non gettarsi a capofitto nella caccia. Alla fine, sicuramente guardandosi reciprocamente negli occhi e sforzandosi di trovare un piano alternativo, salirono le scale. Così si racconta nei loro diari: «Ci siamo fermati davanti alla porta degli Harker. Art e Quincey sono indietreggiati e il secondo ha detto:
"È necessario disturbarla?" "Dobbiamo farlo," ha risposto Van Helsing in tono brusco. "Se la porta è chiusa, la butteremo giù." "Non ne sarà terribilmente spaventata? È insolito irrompere nella stanza di una signora."» Incuranti di chi si sarebbe potuto spaventare terribilmente, compirono l'insolito atto. Quando scaraventarono i loro corpi contro la porta, questa si aprì senza opporre una grossa resistenza, e nella stanza trovarono me, sul letto, abbracciato a Mina. Colti di sorpresa mentre eravamo all'apice della passione, non ebbi la possibilità di prepararmi a reagire in maniera civile a quella intrusione. Spinsi indietro Mina, allontanandola in una zona più sicura, e mi voltai verso di loro ringhiando sonoramente. Il Professore, che proprio allora si stava rimettendo in piedi, ricadde sul pavimento mentre tutti gli altri indietreggiavano. Dal gruppo di invasori partì una zaffata di aglio vecchio intrecciato in serti. Mani tremanti agitavano le bianche bustine, ricordando i supplici davanti a San Pietro fermo alle Porte, che sono convinti d'avere tra le mani il biglietto valido per la loro ammissione, ma sono al tempo stesso un po' dubbiosi. Ammetto che stavolta furono quelle bustine a farmi scegliere di pormi sulla difensiva. Se avessi seguito il mio impulso facendoli a pezzi, o lasciandoli in terra come tanti Renfield nel lago vermiglio del loro sangue, sarebbe stato impossibile evitare un'ulteriore, insopportabile profanazione dell'Ostia Consacrata. Cos'altro potevano tenere in quelle bustine? Per quanto instabile sia sovente la mia fede, e per quanto reprensibile sia talora la mia condotta, non transigo di fronte alla profanazione di un Sacramento. E negli attimi che questa mia riluttanza mi concesse per riflettere, ritenni che le mie vecchie obiezioni alla violenza di massa fossero più valide che mai. Mi sarei attirato addosso la forza soverchiante delle moltitudini e sulla testa di Mina si sarebbero abbattute sofferenze e travagli. La ragazza, pronta di spirito, si era distesa sul letto con gli occhi chiusi, come fosse stordita. Il diario di Seward registra che, a questo punto, il medico e gli amici avanzarono, tenendo alti i crocifissi, mentre il malvagio Conte indietreggiava. Per uno che come me ha poca familiarità con lo specchio, è sempre utile apprendere la valutazione oggettiva che gli altri fanno dei piccoli particolari del suo aspetto. Ecco un esempio di come mi descrissero allora:
«Lo sguardo infernale di cui avevo udito la descrizione è parso balenargli in volto. Gli occhi fiammeggiavano, rossi di passione diabolica; le grosse narici del bianco naso aquilino si allargavano scosse da un fremito; e i denti bianchi e affilati, dietro le labbra carnose della bocca grondante di sangue, si sono serrati insieme simili alle zanne di una belva feroce.» Per qualche istante, una nube coprì la luna, e la stanza fu immersa nella piena oscurità; ne approfittai per chinarmi sul capo di Mina e bisbigliarle all'orecchio: «Di' che ti ho presa con la forza; per ora, addio!» E, prima che la luna fosse tornata a splendere, ero già sparito, invisibile nel corridoio. Ero appena uscito dalla stanza, quando la mia adorata emise l'urlo più agghiacciante che avessi mai udito, tanto che, pur essendomi dissolto in fumo, ebbi un sussulto d'allarme e fui prossimo a tornare indietro per salvarla nel caso Van Helsing le avesse già puntato al cuore il suo paletto. Tuttavia capii in tempo che il grido era stato calcolato per creare un certo effetto, così mi allontanai alla svelta. Imboccai il corridoio che conduceva allo studio di Seward. Durante un precedente colloquio, Mina mi aveva detto che i miei persecutori tenevano la documentazione della loro ricerca — diari, giornali, eccetera — principalmente in quella stanza, e mi parve saggio fermarmi lì un istante alimentando il fuoco del caminetto con le loro carte, che non tardai a trovare. Tra le fiamme lanciai anche i cilindri di cera del fonografo di Seward. Bruciai ogni cosa ma, in massima parte, si trattò di un lavoro inutile, giacché la maggior parte dei loro documenti era custodita altrove in duplicato grazie, ironia della sorte, al servizio stenografico fornito da Mina. La mia visita allo studio non fu interrotta da alcuno, né fui inseguito dai miei nemici fuori della clinica. Arthur e Quincey furono i primi a lanciarsi all'inseguimento, ma neppure loro furono lesti come avrebbero dovuto. Mentre mi stavo allontanando in forma di pipistrello, scorsi il giovane Quincey all'ombra di un tasso; stavolta non mi sparò. Voltai le spalle a Carfax e volai verso la parte occidentale della città, allontanandomi in fretta dai primi presagi dell'alba che cominciavano a rischiarare il cielo dietro di me. Non potevo vincere una guerra contro l'intera Inghilterra, ma neppure intendevo arrendermi adesso che l'avevo trovata: lei era la donna che il mio cuore aveva anelato per secoli. All'astuzia, e non alla forza bruta, doveva andare lo scettro della vittoria se io e Mina volevamo sopravvivere e continuare a gioire del nostro amore.
CAPITOLO SESTO Naturalmente, Mina fu tempestata di domande per ore e ore, e nonostante — o forse proprio perché — si trattasse di domande angosciosamente cariche di commiserazione, per la fanciulla fu un tormento immane doverle affrontare. Ovviamente continuò a recitare la parte della vittima innocente di un malefico vampiro; in questo modo, oltre a salvarsi la pelle, avrebbe salvaguardato anche la reputazione del marito. Come si raccontò in seguito, gli uomini consideravano la sua situazione qualcosa di orribile, figurarsi quindi quale sarebbe stata la loro reazione se avessero saputo come in realtà stavano le cose, e cioè che Mina non era la mia vittima, bensì la mia appassionata amante. Gli uomini si alternavano accanto a lei, mentre a turno compivano i preparativi necessari per una nuova battuta di caccia; inizialmente, però, Jonathan non si staccò da lei un istante, e a Mina parve quasi che diventasse vecchio e canuto davanti ai suoi occhi. Neppure Van Helsing si allontanò da lei, ma col solito atteggiamento autoritario restò a sorvegliarla in silenzio contrariamente alla laconicità della sua natura. Mina rimase seduta o distesa tutto il tempo giacché, ogniqualvolta tentava di alzarsi e di fare qualche passo, veniva costretta a sedersi dai suoi custodi. Chissà quante volte disse e ridisse la sua storia. Raccontò loro di essersi svegliata da un sonno profondo e di aver trovato accanto al talamo coniugale «un uomo alto e magro, tutto vestito di nero». Non aveva tardato a riconoscere: «...il volto cereo... le labbra rosse dischiuse, con i bianchi denti sporgenti... ho anche riconosciuto la cicatrice rossa lasciatagli da Jonathan quando lo aveva colpito con la vanga... avrei voluto gridare, ma ero paralizzata. È stato lui a parlare con un sussurro acuto e tagliente, indicando Jonathan. Ha detto: "Silenzio! Se dici una sola parola gli fracasso il cervello davanti ai tuoi occhi." Ma io ero troppo spaventata e stupefatta per poter fare o dire qualcosa. Con un sorriso beffardo mi ha messo una mano sulla spalla e, tenendomi stretta, mi ha denudato la gola con l'altra mano, dicendomi: "Prima voglio ristorarmi un po' a ricompensa dei miei sforzi. Sta calma; non è la prima volta, né la seconda, che le tue vene hanno placato la mia sete!" Ero sconcertata, e, piuttosto stranamente, non avevo volontà di ostacolarlo. Credo che ciò faccia parte dell'orribile maledizione che si abbatte sulla vittima del suo tocco diabolico... mi è sembrato che
fosse passato un lungo tempo quando finalmente ha staccato da me la sua sudicia bocca sbeffeggiante. L'ho veduta grondare sangue fresco!» Bere sangue fresco da due piccolissime punture sulla gola è già difficile di per sé, se poi la bocca assume una posa sbeffeggiante, la cosa si complica ulteriormente; ad ogni modo, Mina stava dando al suo pubblico esattamente ciò che voleva, e nessuno le rivolse domande imbarazzanti. Nella sua narrazione romantica il malefico Conte, dopo essersi rifocillato, le aveva annunziato che la sua dolce vittima doveva essere punita per il contributo prestato in favore dei suoi nemici. A tal fine l'aveva costretta ad assaggiare il suo sangue; questo era il tableau che gli uomini si erano trovati dinanzi agli occhi quando avevano fatto irruzione nella stanza da letto, e naturalmente era necessario fornire loro una giustificazione plausibile. Dopo aver trascorso buona parte della mattinata a far domande ed a scambiarsi muti sguardi orripilati — che per Mina erano risultati più insopportabili dello stesso interrogatorio — i miei nemici l'avevano lasciata un po' di tempo da sola nella stanza perché riposasse e, come le dissero, meditasse su quella che sarebbe stata la sua morte. A quel punto non era assurdo figurarsi l'arrivo di Van Helsing con la sua borsa nera, lunga abbastanza da contenere un palo di legno di circa un metro. Jonathan, avvilito e tremante, andò subito a farle compagnia, ma a stento riuscì a trovare qualche parola di conforto. E talora pareva addirittura che guardasse sua moglie come se fosse un'estranea. Non restò a lungo accanto a lei ma, dopo un po', andò a raggiungere gli altri riuniti in consiglio. E soltanto allora la mia adorata Mina — che in taluni momenti giungeva a pensare ch'io altro non fossi se non il fantasma prodotto dal suo cervello delirante — fu lasciata davvero sola. Durante le lente, interminabili ore, scandite dal rumoroso ticchettio d'un orologio che sembrava annunziare una condanna incombente, Van Helsing andò a controllarla ad intervalli regolari mormorandole qualche parola che di certo aveva il fine di calmarla, e di scandagliare a fondo i suoi occhi con la saggezza e la vivacità del suo sguardo. Povera piccola! In seguito mi raccontò tra i singhiozzi che durante quella giornata interminabile si convinse, a metà tra la delizia ed il terrore, che fosse dannata come sono coloro che frequentano le Messe Nere e le Congreghe delle Streghe. Le sembrava che fosse già pomeriggio inoltrato, e invece non era che l'ora della prima colazione, quando vennero a chiamarla perché prendesse parte alla nuova riunione: per qualche ragione, gli uomini avevano deciso
che, da quel momento in poi, niente, «non importava guanto fosse raccapricciante,» doveva esserle celato. Nel corso del consiglio, Harker insistette affinché si procedesse immediatamente a prendere d'assalto la mia casa di Piccadilly dove, come avevano appreso, erano state trasferite nove delle mie casse di terra. Gli altri manifestarono il loro consenso; tutti avevano l'impressione che quella stanza, grazie alla sua posizione centrale nella metropoli, fosse il mio nuovo quartier generale. Ecco come commentarono la proposta: «"Stiamo perdendo tempo," ha protestato Jonathan. "Il Conte può recarsi a Piccadilly più presto di guanto possiamo immaginare." "Non credo," ha obiettato Van Helsing, sollevando le mani. "Ma perché?" "Dimenticate," ha detto con un sorriso, "che stanotte ha consumato un lauto banchetto e ciò lo farà dormire fino a tardi?"» A questa osservazione, così superbamente villana, Mina reagì con studiato imbarazzo del tutto congeniale al suo ruolo di fanciulla innocente. Ovviamente, di primo impulso, avrebbe voluto parlare in difesa del rispettabile gentiluomo volgarmente vilipeso; ma si coprì saggiamente il volto con le mani, tremando e gemendo secondo uno stile che non poteva mancare di attirarle la comprensione dei presenti. Lo stesso Jonathan restò impressionato dalla propria villania. Seward commenta la sua reazione dicendo che «quando si è reso conto di quel che aveva fatto, ha provato orrore per la sua mancanza di riguardo ed ha cercato di confortarla.» A mio avviso quell'osservazione non fu casuale, ma fu pronunziata con spietata intenzionalità dal Professore al fine di mettere la donna alla prova e scoprire dalla sua reazione se la comunione con me fosse stata in qualche modo volontaria. Con ogni ostilità, lo scienziato doveva aver in mente un simile test quando poco tempo dopo si avvicinò solennemente a Mina e le toccò la fronte con un «pezzo di Ostia Consacrata nel nome del Padre, del Figlio e-» nello sforzo — così sostenne — di «proteggerla» da ulteriori influenze malefiche. Mina urlò, e stavolta il dolore fu autentico. Harker annotò che l'Ostia «le aveva bruciato la carne come fosse stato un pezzo di metallo rovente.» Ai miei tempi ho avuto modo di constatare gli effetti di oggetti metallici surriscaldati a una svariata gamma di temperature sulla pelle umana, e giudico l'osservazione di Harker come una pura esagerazione. Cionondimeno,
sono certo che Mina avesse sentito un forte dolore, e che sulla pelle le fosse rimasta una ferita inguaribile, ricoperta di vesciche. Oggi la definirei una reazione psicosomatica. Qualsiasi abile ipnotizzatore alle prese con un soggetto che risponda bene, può ottenere un risultato simile. Van Helsing possedeva certamente la forte personalità necessaria per praticare l'ipnosi; inoltre, l'interrogatorio effettuato dal Professore e dagli altri doveva aver fatto affiorare dal subconscio della donna tutta la paura ed i sensi di colpa che avevano assalito Mina in seguito agli appassionati connubi con un uomo che non era suo marito. Di fatto non avevo consumato un «lauto banchetto» — la felicità tra due amanti ha ben poco a che fare con volumi fluidi — né stavo dormendo profondamente. Da lontano mi giunse l'eco fioca del dolore provato da Mina; alzai la testa, grugnii, e la terra si sbriciolò sotto i miei artigli, ma non v'era nulla che potessi fare per recarle soccorso. In quel momento mi trovavo nella mia residenza di Piccadilly, proprio come Harker aveva sospettato. Costretto a mostrare sembianze umane durante le ore del giorno, stavo lavorando nel cortile posteriore, sollevando con le dita alcuni dei basoli di pietra che ne costituivano la pavimentazione e scambiando la buona terra londinese col suolo di Transilvania, così da crearmi un'ulteriore rifugio segreto per il mio riposo. Potevo lavorare di giorno perché il cortile era ben protetto da sguardi indiscreti, essendo esclusivamente circondato da muri privi di finistre oltre alla parete posteriore della mia abitazione. Ah, mi addolorava immensamente dover lasciar quella dimora! Dalle finestre superiori amavo spingere lo sguardo oltre gli alberi di Green Park, fino a Buckingham Palace distante meno d'un miglio: decisi perciò di non abbandonare completamente quella tenuta. Gli uomini che si erano radunati intorno a Mina quando fu marchiata sulla fronte, la coprirono di sguardi misti di pietà, orrore ed incredulità. Ma, per amor di giustizia, devo riferire quale fu la reazione di Jonathan Harker. Fu quel giorno, infatti, che scrisse: «Riguardo a una cosa in particolare ho preso la mia decisione. Se scopriremo che alla fine Mina dovrà inevitabilmente diventare un vampiro, allora non andrà da sola in quella terra sconosciuta e terribile. Suppongo che per tale motivo nei tempi antichi la presenza di un vampiro ne celava molti altri; così come i loro corpi detestabili trovavano riposo soltanto nella terra consacrata, allo stesso modo l'amore più puro era ciò che infoltiva i loro ranghi spettrali.»
Naturalmente se le randellate semantiche di detestabili e spettrali vengono omesse dal brano, allora l'ascoltatore attento può valutare la cosa in maniera del tutto differente. Fino a quel punto Carfax era stata ancora utilizzabile, malgrado i miei nemici avessero appreso già da tre giorni che essa era la mia base e fossero certi di disporre dei mezzi adatti a impedirmene l'accesso: che Dio conferisca la nemico una simile capacità strategica in ogni guerra che mi toccherà combattere! Ma, la mattina del tre ottobre, Van Helsing decise di scatenare una nuova offensiva, soltanto un'ora dopo che la fronte di Mina aveva ricevuto il doloroso marchio. Fu decisa un'altra incursione nella mia terra e nella mia casa. Delusi, gli invasori non trovarono «documenti, segni di vita recente nell'abitazione; le massicce casse sembravano intatte dall'ultima volta.» Il capo della squadra armata, distribuì frammenti d'Ostia in tutte le casse; al fine di impedire al vampiro l'accesso alla sua base operativa, giudicò necessario: «Sterilizzare la terra, consacrata da sante rimembranze, portata qui da una nazione lontana per farne un uso nefando. Perciò lo sconfiggeremo con la sua stessa arma, perché renderemo quella terra ancora più sacra.» Fede e ragione son sottratte al tempio in un sol colpo. Ultimai il lavoro a Piccadilly prima di mezzogiorno, e feci ritorno a Purfleet in treno e taxi, proseguendo a piedi nell'ultimo mezzo miglio che mi separava da Carfax. Mi distesi a riposare in una cassa ben foderata di terra natia, nascosta tra i fitti cespugli della mia tenuta. Avevo bisogno di riposare ma, al contempo, desideravo essere accanto a Mina per soccorrerla in caso di emergenza. Riposavo all'ombra del rigoglioso sottobosco, ma il mio non era vero sonno; sicché sentii subito i cacciatori quando irruppero nuovamente in casa mia. Ascoltando con attenzione, riuscivo a sentire quando aprivano una cassa e quando ne richiudevano il coperchio; financo i colpi di tosse e le imprecazioni provocate dall'effetto soffocante della polvere giungevano ai miei timpani. Quella nuova incursione poteva rappresentare l'opportunità di confrontarmi ancora una volta con i miei nemici, così come prevedeva il mio piano; ma Mina non era ancora al corrente del mio disegno, e considerai che la sua totale collaborazione fosse di importanza vitale. Trascorso un po' di tempo, sentii quei vandali allontanarsi ma, anziché indietro verso il manicomio, presero la strada che si dipartiva dalla facciata anteriore di Carfax.
Restai ancora un poco a riposare, poi mi levai, emergendo sul prato incolto antistante la villa; da lì la parte superiore della facciata principale del manicomio dove erano ubicate le finestre di Mina, era perfettamente visibile. Nella nebbiosa luce del giorno inglese, tenue e offuscata agli occhi dei comuni mortali, ma abbacinante come lo snervante sole desertico per la mia specie, cercai un'immagine pur fugace della mia adorata con l'ansia del viaggiatore stanco il cui sguardo anela un'oasi... La cercai, e finalmente la scorsi! Pervaso da una gioia infinita, la vidi avvicinarsi ad una finestra e lanciarmi dei segnali con le braccia. Un istante dopo, stavo già correndo verso il muro che separava le due proprietà; un altro istante, e lo avevo già scavalcato. La finestra di Mina mi era addosso celata alla vista da alcuni alberi, e presi ad avvicinarmi all'edificio facendo ben attenzione che nessuno mi vedesse. Ma, tutt'ad un tratto, con un sussulto del cuore, scorsi la robusta figura di Mina correre verso di me con grazia attraverso gli alberi. Sarebbe stato impossibile entrare nella clinica durante il giorno, privo della possibilità di mutare forma, senza che qualcuno del personale si accorgesse di me. Mina, invece, poteva uscire a piacimento senza attirare particolare attenzione, e fu così che fece. Dopo il primo impaziente, serrato abbraccio, la allontanai da me per guardarla in viso. «Mina, mia cara, vederti è per me una gioia inesprimibile... come ti senti adesso?» Osservai crucciato il segno crudele che le marchiava il candore della fronte. «Puoi vederlo da te come sto,» rispose, notando la direzione del mio sguardo. Un tremito le scoteva la voce, ma le parole erano pur sempre ferme e risolute. «Ho guardato nello specchio la cicatrice per la quale ti stai preoccupando ed ho visto che è quasi l'immagine speculare della cicatrice che anche tu porti sulla fronte. Nel bene o nel male, sembra che io sia davvero destinata ad appartenerti. Oh, Vlad, quale sarà la mia vita?» «Questa!», risposi, stringendola tra le braccia con lo stesso ardore di prima. Ancora una volta ci scambiammo il sangue, lì tra le fitte ombre degli alberi. Stavolta ne succhiai una modesta quantità per non indebolirla. «Ma,» aggiunsi con fermezza, staccandola da me, «proprio perché ti amo non voglio condurti nella mia terra adesso.» «Nella tua terra? Hai intenzione di lasciare l'Inghilterra?» Nel rivolgermi questa domanda, mi parve di cogliere nel suo sguardo un impercettibile senso di sollievo. «Mina, mia principessa, la mia terra è il mondo dei vampiri. Essa esiste qui in Inghilterra come altrove, ma è completamente diversa da qualsiasi
altra terra che tu abbia mai conosciuto. E, se dovessi portarti lì, quegli uomini ci darebbero inevitabilmente la caccia, senza concederci tregua finché non ci avessero distrutti entrambi. Credi forse che sarebbero disposti a risparmiarti solo perché ti amano, o dicono di amarti? Rammenta la sorte di Lucy!» Mina rabbrividì e sollevò una mano fino a sfiorarsi la cicatrice sulla fronte. «So che non mi risparmierebbero.» Poi, di botto, mi narrò della terribile mattinata: l'interrogatorio e l'isolamento, l'atto improvviso di Van Helsing allorché le aveva compresso l'Ostia sulla pelle, la convinzione subito radicatasi nei presenti che anche lei fosse stata contaminata. «Vlad, questo segno significa veramente che sei un Demone giunto dall'inferno e che io sono dannata? Quando mi possiedi io non avverto alcuna sensazione di forze malefiche, ma soltanto di gioia.» Scossi il capo. «Non c'è il male in te, amor mio.» Mi era già capitato in passato di assistere a forme di ipnosi, di vedere gente paralizzata o accecata, di vedere la pelle intatta di uomini ricoprirsi di vesciche, e tutto ciò grazie soltanto al potere della mente. «Hai un crocifisso intorno al collo, o da qualche altra parte?» Mina ebbe un leggero moto di repulsione. «Oh, no. Dopo quello che mi è successo, non oserei toccarne uno.» Mi guardai intorno, scorsi un ramo secco sul terreno e, raccoltolo, lo spezzai in due segmenti di lunghezza diversa. Congiunsi i rametti fino a formare la crux immissa che sollevai alta serrando le dita della mano destra intorno al punto nel quale i segmenti si univano. «Toccala!», le dissi con insistenza. Mina protese la mano, poi si mostrò esitante. «Io... non ho il coraggio,» mormorò in un filo di voce. «Il dolore è stato terribile.» «Toccala! Se io posso tenere una croce tra le mani, cos'hai da temere tu?» «Io... io non possiedo la tua forza.» Abbassò gli occhi e mi volse le spalle. «Vigliacchi!», mormorai, e lasciai cadere al suolo i rami secchi. «Forse per il momento è preferibile che quel segno resti dov'è. Una sua improvvisa sparizione potrebbe giocare un brutto effetto su Van Helsing.» Avevo ben chiara in mente la sua reazione alla sparizione dei segni sulla gola di Lucy poco prima che la ragazza spirasse; Mina mi aveva detto che, dai documenti, risultava quanto Van Helsing ne fosse stato sconvolto e, di conseguenza, si fosse convinto che la trasformazione di Lucy in vampiro
fosse inevitabile. Posai le mani sulle spalle tremanti di Mina e la feci volgere nuovamente verso di me. «Nulla è perduto,» continuai. «Adesso dimmi: ho ragione nel pensare che la vita con tuo marito, pur risultando talvolta noiosa ad una donna intelligente come te, possieda comunque degli aspetti positivi? In breve, che per il bene tuo e di Jonathan — mi rendo conto di quanto abbia bisogno di te — tu non sia pronta a rinunziare a lui completamente?» Mina alzò gli occhi; fu come se la mia comprensione le avesse, almeno in parte, alleggerito il cuore dal macigno di preoccupazioni che lo opprimeva. «Hai ragione, Vlad! Oh, come sei buono, saggio e gentile! Io ti amo, come tu sai. Purtuttavia sento di non aver cessato di amare Jonathan. Il povero caro ha bisogno di me in questo momento... a stento lo riconosceresti, è così cambiato!» «In che senso?» «È invecchiato e sofferente, e talvolta mi guarda in modo strano, anche se mi parla affettuosamente come prima. L'ho visto seduto in disparte, a mormorare qualcosa tra sé; ha affilato un enorme coltello che presumo abbia ricevuto da Lord Godalming o da Morris. Sento che sarebbe troppo crudele lasciarlo adesso; ma, al tempo stesso, con quale animo resto accanto a colui che sta affilando il suo coltello auspicando che gli capiti l'occasione di conficcarlo nel tuo cuore?» «Mia cara, ho concepito una strategia che, se ogni cosa andrà per il verso giusto, risolverà questo tuo angoscioso dilemma. Se il futuro ben s'accorda al mio piano, allora potrai tranquillamente rimanere accanto ad un marito appagato che ci terrà separati soltanto poche ore, giacché continueremo ad incontrarci assiduamente.» Mina mi afferrò una mano e la coprì di baci. «Caro Vlad! Come posso ringraziarti? Qual è questo tuo piano, e cosa posso fare per contribuire alla sua riuscita?» Cominciai a spiegarle ciò che avevo in mente. Tutto si basava sulla mia abilità nel convincere gli uomini che fossi scappato via dall'Inghilterra intenzionato a non farvi mai più ritorno. Entro un mese o due dalla mia presunta partenza — in realtà mi sarei rintanato in uno dei miei segreti rifugi londinesi — Van Helsing sarebbe presumibilmente ritornato sul continente, sperando forse di ritrovare lì le mie tracce, e gli altri avrebbero certamente allentato le maglie della sorveglianza. A questo punto, io e Mina avremmo potuto ricreare la gioia della nostra unione attraverso incontri occasionalmente stabiliti, il che, a prescindere da suo marito, sarebbe stato
per lei di gran giovamento. Per mettere in atto il piano, era necessario un nuovo confronto tra me ed i miei persecutori. Promisi a Mina che avrei fatto di tutto perché tale incontro fosse stato pacifico e lei, a sua volta, acconsentì ad adoperarsi al massimo per facilitare l'organizzazione. Cosicché, non appena presi congedo da lei verso l'una del pomeriggio, Mina inviò un telegramma a Van Helsing presso la mia abitazione di Piccadilly, dove con tutta probabilità si trovava a quell'ora. Era mio desiderio che la banda mi attendesse là mentre visitavo Bermondsey e Mile End per controllare che le casse di suolo natio ivi depositate fossero ancora utilizzabili. Il messaggio, compilato sotto la mia direzione, consigliava al professore di «Stare in guardia, poiché D. è giunto alle 12.45 da Carfax ed in fretta si è allontanato verso sud. Sembrava che stesse facendo un giro di perlustrazione, e forse vuole vedervi.» Naturalmente, recava la firma di Mina. Lasciai la mia adorata e feci spedire il telegramma, poi mi diressi a sud come in esso era scritto. Nell'ispezionare le altre abitazioni note al nemico, la casa di Bermondsey e quella di Mile End, scoprii con soddisfazione che l'Ostia era stata distribuita in tutte le casse che avevo lasciato, per così dire, a disposizione dei visitatori. In questo modo, Van Helsing e soci erano convinti che quei luoghi fossero stati resi impraticabili come rifugi, così avrei potuto usarli all'occorrenza senza correre pericoli. Erano da poco passate le due, quando raggiunsi il 247 di Piccadilly e, sebbene la vecchia casa sembrasse disabitata dall'esterno, sentii con certezza che gli ospiti non invitati erano ancora lì dentro. Giunto alla porta principale, notai alcune, sottili scalfitture intorno alla serratura dove il fabbro da loro incaricato doveva aver lavorato per aprire la porta e fornire loro una chiave. Chi avrebbe mai ostacolato Sua Signoria Arthur nel fare una cosa simile? Certamente nessuno dei commercianti della zona, né, evidentemente, i poliziotti in servizio nel quartiere. Aprii la porta con la mia chiave ed entrai con passi studiatamente casuali, ma in realtà attenti e misurati. Sottovalutare il nemico è il sistema più sicuro per assicurarsi il disastro in ogni guerra. Se fossero stati in agguato ad aspettarmi con lance o picche di legno, acquattati in una stanza inondata dalla luce del giorno, allora sarei stato ucciso o seriamente ferito. Supponevo, invece, che nella peggiore delle ipotesi, avrei dovuto fronteggiare degli inoffensivi proiettili d'argento. Van Helsing mi aveva già dimostrato di non conoscere a dovere la sua selvaggina. Una volta entrato in casa, sentii distintamente il rumore prodotto da dieci
polmoni simili ad altrettanti bollitori sotto pressione mentre i loro proprietari si stavano sforzando di osservare il massimo silenzio dal momento in cui avevano sentito la chiave girare nella toppa. Il rumore mi rivelò che si erano nascosti dietro la porta della sala da pranzo; mi fermai nel corridoio silente e polveroso accertandomi del numero esatto dei miei nemici e valutando le diverse posizioni da loro occupate. Riconobbi il respiro familiare di Harker che avevo udito per due mesi nel mio castello; e sugli altri campeggiava l'alito di Van Helsing, gravato dall'età. Trassi anch'io un profondo respiro — naturalmente non per necessità, ma in forza di un'abitudine che ancora perdura in me da tempi remoti — e spalancai la porta con uno scatto rapido e improvviso. Proiettandomi in avanti, balzai nella stanza, in faccia al nemico. Il salto mi spinse un po' oltre il centro della stanza: in questo modo, se l'intento dei miei avversari fosse stato quello di tendermi un'imboscata presso la porta, avrei eluso la trappola oltrepassandola prima che potesse essere azionata. Ma mi accorsi subito che niente del genere era stato concertato. Gli uomini erano disposti nella stanza in ordine sparso: due vicino alla porta che avevo appena superato, altri presso la finestra, ed Harker da solo davanti ad un'altra porta che dava accesso alla stanza anteriore della villa. Il loro piano, ammesso che ne avessero uno, mirava evidentemente ad impedirmi di uscire una volta entrato. Fino a quel momento nessuno aveva parlato. Li scrutai biecamente rimanendo anch'io muto, e notai con tristezza che stavolta nessuno indietreggiava dinanzi al mio sguardo. Del mio arrivo Seward scrisse poco dopo: «C'era in lui qualcosa di simile ad una pantera, qualcosa di così inumano che quasi ci ha ammansiti tutti... peccato che non avessimo organizzato un piano d'attacco perché, in quell'istante, mi sono chiesto cosa dovessimo fare. Personalmente non sapevo se le nostre armi letali ci sarebbero servite a qualcosa. Evidentemente Harker era intenzionato a sperimentarlo, giacché, armato dell'enorme Kukri, ha sferrato un affondo feroce e repentino...» Schivai quel colpo, desiderando, naturalmente, risparmiarmi il dolore che mi avrebbe provocato, ed anche per dar loro l'impressione di essere vulnerabile ad armi di quel genere. Sarebbe stato legittimo pensare che Harker, avendo visto quale effetto insignificante aveva prodotto su di me la violenta vangata da lui infertami, non si sarebbe affidato alla lama di un coltello; ma, lontano dalle corti di giustizia, Harker dimostrava che il buon senso non era affatto il suo forte.
La lama mi sfiorò procurando un taglio nella tasca del mio soprabito, e da essa si riversò una cascata di monete e banconote; veder ruzzolare sul pavimento i miei quattrini mi fece imprecare con furia: buona parte del mio patrimonio era lì. Se è vero che l'avarizia non è il mio difetto maggiore, è pur vero che in quella guerra, come in qualunque altra, il danaro costituiva una risorsa vitale, e la perdita di esso era certo da compiangere. Fu proprio un dannato inconveniente ma, francamente, non avevo nessuna voglia di mettermi a raccogliere i soldi dal pavimento mentre quelli mi abbrancavano da tutte le parti tempestandomi di piombo ed acciaio. Anche i miei nemici ignorarono il danaro per il momento; evidentemente ne possedevano già abbastanza di loro. Mentre Harker continuava a brandire il coltello, Seward e gli altri mossero all'attacco con crocifissi e bustine di Ostie. «Non è stata una sorpresa,» annotò Seward, «vedere il mostro che indietreggiava... con un'indescrivibile espressione carica di odio e malignità frustrata, di rabbia e collera infernale...» Di estrema noia, per non essere ridondanti. «Il volto cereo si è fatto verdognolo per il contrasto con gli occhi fiammeggianti, e la cicatrice rossa sulla fronte ha preso a palpitare sulla pelle pallida come una ferita fresca. Un attimo dopo si è gettato con un sinuoso movimento sotto il braccio di Harker e, raccattando una manciata di soldi dal pavimento, è sfrecciato attraverso la stanza tuffandosi contro i vetri della finestra. Tra il fracasso e lo scintillìo del vetro frantumato, si è lanciato sul selciato del cortile.» Non vedo per quale ragione avrei dovuto lasciare a quei furfanti tutto il mio tesoro; oltretutto, fu per me un'immensa soddisfazione gettare Van Helsing a gambe all'aria ancora una volta. Il tuffo attraverso la finestra e l'atteggiamento sui basoli del cortile non mi cagionò danni rilevanti sicché, immediatamente, mi rimisi in piedi e percorsi come un fulmine il cortile pavimentato per proseguire la mia «fuga» attraverso le stalle. Qui mi arrestai avendo guadagnato una postazione dalla quale potevo agevolmente lanciare il messaggio dal quale il nemico, senza essere distratto dalle stramberie di Harker col coltello, avrebbe arguito la mia resa e l'imminente ritirata. «Credevate di intimorirmi, bastardi!», gridai. «Con le vostre facce pallide, messe in fila come le pecore di un macellaio! Spiacente di deludervi. Credete di avermi lasciato senza un posto per riposare, ma vi sbagliate, ne ho ancora!» Fino a quel momento avevano scoperto quarantanove delle cinquanta
casse, ed in altrettante avevano compiuto la profanazione dell'Ostia; la mia intenzione era di indurii a concentrarsi su quell'unica cassa non rinvenuta, e distogliere la loro attenzione dalla possibilità che alcune delle quarantanove casse potessero essere fittizie, o ancora utilizzabili malgrado il sacrilego trattamento al quale erano state assoggettate. «La mia vendetta è appena cominciata!», minacciai mentre facevo mulinare i pugni, tingendo i miei accenti col tono smargiasso che sovente maschera una ritirata forzata. «La mia vendetta si consumerà attraverso i secoli, perché il tempo è dalla mia parte ed io so aspettare. Le fanciulle che voi tutti amate sono già mie e, grazie a loro, voi e altri ancora sarete miei: diventerete mie creature, pronte ad eseguire i miei ordini, e ad essere i miei sciacalli quando avrò voglia di mangiare. Bah!» Con un ultimo gesto minaccioso voltai le spalle al nemico e mi dileguai. Naturalmente volevo suscitare l'impressione di aver abbandonato l'Inghilterra, ma dirlo espressamente ai miei interlocutori sarebbe risultato poco credibile. Mi ritirai in un nascondiglio a poca distanza da Piccadilly Circus, nel quartiere di Soho, dove mi fermai il tempo occorrente ad assicurarmi che la cinquantesima cassa dello stock originale fosse ancora al sicuro. Ciò fatto, andai a noleggiare un carro per trasportarla ai pontili del porto. Frattanto, Van Helsing e gli altri erano ritornati al manicomio di Purfleet. Mina ascoltò il resoconto degli avvenimenti con rapito interesse. Seward registra nel suo diario che «il suo volto si faceva bianco come un cencio ogniqualvolta si accennava ad un pericolo corso da suo marito, mentre avvampava quando la devozione di questi per lei appariva più che manifesta.» Anche lei cercò, in armonia col mio piano, di incoraggiare la fine delle ostilità. Ovviamente non si esprimeva apertamente a mio favore, ma si sforzava quanto meno di spargere qualche seme di comprensione: «Jonathan... e voi, tutti voi miei veri e cari amici... so che è vostro dovere combattere, so che dovete distruggere il male così come avete distrutto la falsa Lucy affinché la vera potesse vivere per l'eternità; ma non è giusto che proviate odio. L'anima sventurata che ha cagionato tutta questa rovina è la più infelice... dovete provare pietà di lui, anche se ciò non varrà a frenare le vostre mani dal compiere la distruzione.» Harker scattò in piedi: «Che Dio possa concedere alle mie mani di averlo il tempo sufficiente a distruggere la vita terrena ch'è in lui e raggiungere l'obiettivo della nostra lotta. Quanto alla sua anima, se dopo potessi man-
darla per l'eternità' tra le fiamme dell'Inferno, ebbene lo farei senza indugio!» E Mina: «Oh, taci!... non sopporto tanto orrore... Per tutta questa lunga, lunga giornata, ho pensato... forse... un giorno... anch'io potrei aver bisogno della medesima pietà. E allora altri come voi — e alimentati dalla stessa collera — potrebbero negarla anche a me!» Stando al racconto di Seward, questo accorato appello lasciò «gli uomini in lacrime,» e Mina, «anch'essa piangeva, nel constatare che i suoi consigli più miti avevano vinto.» Ahimé, vana speranza! Quella banda di furfanti era più decisa che mai a impalarmi, ed il fatto che fossero disposti a recitare una preghiera od a spendere una lacrima mentre mi ammazzavano, non era, dal mio punto di vista, un miglioramento di importanza così rilevante. Intanto avevo fatto trasportare la mia cinquantesima cassa sul pontile di carico di Doolittle, dove avevo individuato la Zarina Caterina, una nave russa diretta nel Mar Nero, da dove avrebbe poi risalito il Danubio. Per visitare il porto avevo indossato un cappello di paglia così da essere certo di attirare l'attenzione degli astanti; per non passare inosservato mi misi anche a discutere alquanto animatamente col Capitano della Zarina e, al tempo stesso, feci addensare un manto di nebbia attorno alla nave finché la mia cassa non fosse stata sicuramente a bordo. Una maggiore dose di astuzia, necessaria per sfidare uno Sherlock Holmes, era del tutto sprecata col nemico che mi ritrovavo. Avevo indirizzato la cassa al Conte Dracula, Galati, via Varna; e, prima di lasciare Londra, scrissi al mio agente Hildesheim di Galati con le istruzioni occorrenti per il suo smistamento. Ovviamente non prenotai un posto per me, affinché i miei cacciatori pensassero che viaggiassi al chiuso della cassa. Ma, all'alzarsi della marea, salii a bordo col pretesto di assistere all'immagazzinamento di essa. Era passato il tramonto e nessuno dell'equipaggio mi vide di nuovo da quel momento. Salparono dunque, pensando che fossi sceso dalla nave inosservato. E bastarono pochi minuti perché la loro convinzione si dimostrasse esatta; di fatto, quando la marea cambiò di nuovo — attraversare corsi d'acqua mi è più facile al cambio delle maree — assunsi la forma di pipistrello e tornai in volo a South-end-on-Sea, donde prima dell'alba raggiunsi Purfleet. Qui mi concessi finalmente il desiderato riposo nel giaciglio nascosto tra la vegetazione lussureggiante della mia tenuta di Carfax. Prima di lasciare
la nave, mi ero premurato di asportare qualche frammento di legno dell'albero maestro e della bordatura, oltre ad un po' di terra e muffa dalle fenditure sottocoperta. Con questi materiali a disposizione, potevo seguire a distanza i movimenti della Zarina Caterina, e persino facilitarne la navigazione mandandole venti favorevoli. Prima di sprofondare nel mio solito, riposante stato stuporoso, raggiunsi telepaticamente Mina nella camera da letto a poca distanza da me, e la rassicurai sull'andamento positivo del piano, oltre a suggerirle la mia idea sulla mossa successiva da compiere nella nostra partita. Mina convenne subito sull'ingegnosità del piano, e si mise immediatamente in azione. Andò a svegliare Van Helsing e gli suggerì — fingendo di aver partorito lei quell'idea — di provare ad ipnotizzarla per tentare di scoprire dove mi trovassi in quel momento grazie al legame mentale instauratosi in seguito al nostro scambio di sangue. Da un simulato stato di trance, Mina descrisse un luogo pervaso dall'oscurità, e «lo sciabordio dell'acqua. Tutt'intorno si sente un gorgoglìo, ed un'oscillare di basse onde...» L'imitazione dello stato ipnotico fu eseguita magistralmente e, in ogni caso, in maniera tale da far abboccare Van Helsing, il quale subito annunzio di sapere: «Cosa avesse in mente il Conte quando aveva afferrato il danaro malgrado il feroce attacco mosso da Harker lo avesse messo in pericolo... Il Conte meditava la fuga. Sentite bene: FUGA! Si è reso conto che, con una sola cassa rimastagli ed una squadra di uomini accaniti che lo inseguono come un branco di segugi bracca una volpe, Londra non è più un posto per lui. Ha preso l'ultima cassa di terra e l'ha caricata a bordo di una nave... Tally Ho! Ora più che mai dobbiamo trovarlo, dovessimo seguirlo fin giù negli Inferi!» Non era certo la reazione sperata, e Mina impallidendo gli chiese: «Perché?» «Perché,» rispose Van Helsing in tono solenne, «lui può vivere secoli, e tu, donna, non sei che un essere mortale. Adesso è il tempo ciò di cui dobbiamo temere... giacché una volta il malvagio ha posto il suo marchio su quella gola.» E Mina, non sapendo cosa rispondere, si lasciò cadere spaventata sotto il vivido sguardo scrutatore del Professore. Lei, tuttavia, non si era data per vinta, e più tardi provò ancora a dissuadere Van Helsing, dopo che avevano appreso la notizia della partenza della Zarina con una strana cassa a
bordo portata da un uomo dai tratti vampireschi. Così ricordava Mina: «Gli ho chiesto se fosse certo che il Conte fosse rimasto a bordo della nave. Ha risposto: "Ne abbiamo la prova più evidente: la testimonianza resa in ipnosi stamattina." Gli ho chiesto di nuovo se fosse davvero necessario continuare a dar la caccia al Conte, perché temo che Jonathan mi lasci, e so per certo che, se gli altri andassero lui, non sarebbe da meno.» La risposta di Van Helsing era stata nuovamente «Sì.» Ovviamente ho preferito sintetizzare omettendo le circa cinquecento parole impiegate allora dal Professore. Mina insisté: «E se il Conte reagirà con saggezza alla mortificazione ricevuta? Cacciato via da Londra eviterà di tornarvi per sempre, come una tigre fa col villaggio nel quale le hanno dato la caccia.» Van Helsing, che adesso aveva evidentemente cambiato atteggiamento sulla mia «astuzia più che mortale,» scartò una simile ipotesi. «Pensate invece alla sua insistenza ed alla sua caparbia ostinazione. Col cervello infantile che gli è proprio, aveva concepito da lungo tempo l'idea di recarsi in una grande città... il barlume che di essa ha avuto, ha solamente accresciuto il suo appetito ed acuito il suo desiderio...» Gli altri, eccetto il marito di Mina — personalmente oltraggiato e pronto a correre ogni rischio pur di vendicarsi — stavano cominciando a perdere l'entusiasmo per la caccia, così come avevo previsto. Tant'è che Seward, il cinque di ottobre — soltanto due giorni dopo la mia presunta fuga dal paese — aveva già dei ripensamenti, come si evince dai suoi appunti: «Oggi, meditando sull'intera faccenda, mi è quasi impossibile realizzare che la causa delle nostre sofferenze esista tuttora. Persino la signora Harker sembra perdere coscienza del suo problema, e soltanto occasionalmente, quando qualcosa gliela rammenta, ripensa alla terribile cicatrice...» La maledetta cicatrice le marchiava il viso ed era un rosso, sinistro avvertimento a tutti quelli della specie. Le pulsioni che Mina aveva rimosso nel subconscio — non dimentichiamo che allora quella parola ci era ancora ignota — erano state incanalate dai poteri ipnotici di Van Helsing ed avevano prodotto quella stigmata. E che quel segno corrispondesse quasi alla perfezione alla cicatrice procuratami per mano di suo marito, dev'essere stata più di una pura coincidenza — ecco ricorrere ancora una volta questa parola, forse profonda, forse insignificante. E nessuno di coloro che ebbero a vedere i due segni parvero accorgersi della rassomiglianza, tranne Mina,
ed un'altra persona, come adesso vi racconterò. Van Helsing, ora che la tigre era stata — come lui pensava — cacciata via dal villaggio, e forse per sempre sfuggita al tiro dei suoi cacciatori, Van Helsing, dicevo cercava altre, potenziali prede, indottovi probabilmente dal suo subconscio. «La nostra povera Mina sta cambiando,» confidò a Seward allorché si trovò con questi in disparte. «Riconosco i tratti del vampirismo sul suo volto. Sono mutamenti piccolissimi, impercettibili quasi, ma bisogna prenderne atto senza pregiudizi. I denti sono diventati un po' più affilati, e talvolta il suo sguardo si fa più duro... sovente è taciturna, come lo era la signorina Lucy.» Mentre Seward annuiva sgranando gli occhi, il Professore continuava: «Adesso il mio timore è questo: Se noi, grazie alla trance ipnotica possiamo sapere da lei ciò che il Conte vede e sente, non è possibile che il Conte, il quale è stato il primo ad ipnotizzarla e le ha fatto bere il suo sangue, costringa la sua mente a rivelarci tutto ciò che essa sa di noi?» Seward dovette convenire, e si decise nuovamente di cambiare politica e di escludere Mina da tutti i consigli di guerra. Quella sera, prima di comunicarle la triste novità, i due medici provarono «un grande senso di sollievo quando la signora Harker ci ha comunicato tramite suo marito l'intenzione di non partecipare alla riunione affinché fossimo liberi di discutere sui prossimi movimenti senza l'imbarazzo della sua presenza.» Mina aveva naturalmente intuito che aria tirasse da alcuni atteggiamenti di Jonathan, ed aveva anche ricevuto il mio segnale mentale col quale le comunicavo il desiderio ardente che avevo di vederla. La mia piccola figura pelosa si adagiò sul davanzale della finestra della sua camera da letto proprio mentre stava salutando il marito diretto al consiglio prossimo a tenersi al piano di sotto. Chiuse la porta del salottino alle sue spalle con un sospiro di sollievo e tornò allegramente nella stanza da letto. Il volto si illuminò ancor più quando scorse la mia piccola sagoma di pipistrello col naso schiacciato contro il vetro, in impaziente attesa d'esser ricevuto. Si diresse subito alla finestra per aprirla — evitandomi così l'inconveniente di dover mutare forma per entrare — e, quando saltellai dentro la stanza, mi accorsi che, osservando il mio corpo peloso, Mina assumeva un'espressione non priva di ripugnanza. Mi affrettai ad assumere sembianze umane non appena fui all'interno della camera. «Fà conto che sia soltanto una maschera,» le mormorai dopo il primo bacio. «Niente di più di un vestito che metto a volte. Ma adesso dimmi un
po', mia bella dama: a cosa è dovuta l'allegria che ti ho letto sul viso mentre attraversavi il salotto?» «Oltre alla gioia di rivederti,» rispose Mina, «è stato anche per il sollievo di non dovermi sorbire un'altra delle loro riunioni.» Mi raccontò di come aveva previsto la sua esclusione dalle deliberazioni del vertice e sospirò come si fa quando ci si libera i piedi da un paio di scarpe scomode. «Stanno tutti lì seduti, aggrottando le ciglia o spalancando la bocca, mentre Van Helsing predica per ore su quanto i vampiri siano odiosi, come se la cosa non mi riguardasse minimamente. Va avanti così finché uno di loro non ricorda il marchio di Caino impresso sulla mia fronte e mi lancia uno sguardo furtivo; allora i suoi occhi si allontanano con un senso di colpa non appena stanno per incrociarsi coi miei. Persino... persino Jonathan esita a guardarmi direttamente in faccia. Credo che mi ami ancora, ma è come se... come se in un certo senso si vergognasse di me.» Portò le dita al segno rosso che deturpava la sua bellezza. «Vlad, parlami con chiarezza e sincerità, così come mi ami, con la stessa sincerità. È possibile fare qualcosa? Non c'è modo di far sparire questo marchio?» Adesso ero seduto sul suo letto, a gambe accavallate, e facevo ondeggiare un paio di stivali inglesi alla moda. Sapevo di poter impiegare i miei poteri ipnotici per liberarla da quella eruzione cutanea, ma l'esperienza mi aveva insegnato che sopprimendo manifestazioni isteriche di quel genere senza rimuovere la causa che le aveva provocate, si rischiava di vederle riapparire in una nuova forma, talora persino più prostrante. «Non senza evitarti un considerevole rischio,» risposi. «In ogni caso, non è consigliabile farlo ora. Non dimenticare che Van Helsing sospetterebbe seriamente che tu ti stia trasformando effettivamente in un vampiro se quel segno sulla fronte o quei puntini sulla gola dovessero sparire all'improvviso. Ma non perderti d'animo: vedrai che col tempo troveremo una soluzione.» «Ma, Vlad, perché il contatto con l'Ostia mi ha lasciato questo orribile segno, così visibile a tutti? Ancora non riesco a capire; sii paziente con me, ti prego. Perché devo portare questo marchio se... se non sono veramente...» «Immonda e schiava del male? Non lo sei affatto, di questo puoi esserne certa. Quel segno è soltanto una conseguenza dei poteri ipnotici che Van Helsing possiede; orbene — non importa se deliberatamente o involontariamente — la forza ipnotica ha agito sul tuo corpo attraverso una parte della tua mente che sfugge alla tua coscienza.»
«Ma come è possibile che una mente che non sia cosciente possa agire?» «Questo non lo so.» In quell'anno 1891 un giovane medico chiamato Sigmund Freud stava appena dando inizio alle sue ricerche nel campo dell'isteria. «Ma ho visto casi simili in passato. Mina, io stesso posso testimoniare dell'esistenza di un genere superiore di potere ipnotico.» «Cosa intendi, Vlad?» «Mi riferisco ad un potere fondamentale simile all'ipnosi, ma sviluppato fino ad un grado estremo, immensamente più ampio di quello che Van Helsing, Charcot o qualunque altro praticone d'oggi, possa sperare di raggiungere. Un potere che supera di gran lunga i loro sforzi più intensi — nonché gli sforzi che io stesso posso compiere consapevolmente — così come la locomotiva a vapore trascende la potenza che può sprigionare una teiera in ebollizione. «Nell'Anno del Signore 1476 sarei dovuto morire per le ferite di una spada. I miei polmoni cessarono di funzionare, così pure il mio cuore arrestò il battito, ma io non temevo né la morte né la vita... «Hai mai letto le opere dell'americano Poe? O di Joseph Glanville, un tuo compatriota? "Se l'uomo soccombe totalmente alla morte, o cede il suo spirito agli angeli, è soltanto per la debolezza della sua mente fiacca." Non è stato l'abbraccio di un vampiro a far di me ciò che sono.» Mi fissò per qualche istante con un tale sconcerto che dovetti sorridere per rassicurarla. «Tutto ciò mi spaventa, Vlad!», mormorò Mina. «Ogni vita umana può spaventare colui che la sta vivendo,» le dissi con dolcezza, «se questi glielo consente.» Continuavo a sorridere mentre le carezzavo una guancia. «Abbi semplicemente fiducia in me. Spaventarti ancora è l'ultima cosa che voglio. A tempo debito, i segni che ci marchiano svaniranno. E adesso forza, non vuoi sorridermi ancora? Ah! Questo è l'unico raggio di sole splendente che trovo delizioso.» Chiacchierammo per un po' di argomenti piacevoli, dopodiché le dissi: «Sono felice di essere con te adesso. Ma, allo stesso tempo, avrei voluto che tu fossi da basso con gli uomini in riunione, così da trarre informazioni sui loro piani futuri. Credi che questa nuova esclusione dalle loro riunioni sia permanente?» «Oh no! Non mi sarà difficile trovare il sistema di riaggregarmi a loro, se ritieni che ci sia qualcosa di veramente importante da apprendere.» «Ci sono diversi quesiti ai quali sarebbe vitale per me ottenere una risposta. Per esempio, dove e con quali mezzi intendono seguire la Zarina
Caterina? Sono sicuro che hanno in mente qualcosa. Hanno forse telegrafato alle autorità del Bosforo precedendo il suo arrivo? O magari in qualche porto più vicino alla mia patria, nel tentativo di far perquisire o distruggere la cassa? Goldalming è molto influente, e certamente non esiteranno a corrompere qualcuno per incastrarmi.» Mina stava seduta sul mio ginocchio, strofinando il viso al mio, sollevando il mento e sfiorandomi le labbra con la lunga gola. «Indagherò.. ah! Quanto alla possibilità che abbiano telegrafato, non credo che lo abbiano fatto. Immagino che desiderino prendersi la soddisfazione di distruggerti con le loro mani.» La allontanai da me e le parlai con la massima serietà. «E tu, tesoro, dovrai adottare ogni possibile precauzione perché non riversino su di te i medesimi propositi. Ho visto luci sinistre brillare negli occhi di Van Helsing, ed ho sentito strane parole dalle sue labbra: non a caso, a mio parere, sua moglie è finita in un manicomio. Dagli un piccolo indizio che possa interpretare come una causa, e sarà felicissimo di spaccare il tuo tenero cuore con un paletto di legno e vederti sobbalzare ad ogni colpo. Anzi, più probabilmente, convincerà il povero Jonathan a farlo per il tuo bene, mentre lui e gli altri si godranno lo spettacolo. Non è così che ha fatto con Arthur, persuadendolo a mandare l'adorata Lucy verso l'eterna dimora?» «Ci ho pensato,» disse Mina, senza però apparire particolarmente spaventata. Poi annuì e, sorridendo, mi guardò socchiudendo le palpebre. «C'è un modo pressoché infallibile mediante il quale una povera e semplice ragazza come me, può distogliere uomini forti e determinati dall'intraprendere qualsiasi azione.» Come l'amavo! «E cioè?», le chiesi. Il suo sorriso si allargò. I denti le si erano effettivamente affilati? «Suggerire loro una mossa presentandola come una mia idea, e ribadire continuamente che si tratta di una mia idea.» E, mantenendo fede alla parola, pochi giorni dopo, Mina indusse tutti gli uomini a giurare che l'avrebbero uccisa se si fossero accorti che i mutamenti occorsi in lei l'avrebbero condotta inevitabilmente al vampirismo, pregiudicando il bene dell'intera compagnia. Mi raccontò in seguito che, mentre proponeva quella commovente istanza, Van Helsing, ridotto una volta tanto al ruolo di spettatore, se ne stava immusonito in disparte. Mina riuscì anche a passarmi alcune informazioni che nelle intenzioni del nemico dovevano restarle segrete, e che aveva appreso senza difficoltà da un inserviente incaricato di organizzare il viaggio ferroviario.
«Lasceranno il paese, Vlad. Partiranno dalla stazione di Charing Cross diretti a Parigi la mattina del dodici ottobre. Da Parigi prenderanno l'Orient Express. Non sono ancora riuscita a sapere fin dove viaggeranno in treno, o quali siano i loro piani per rintracciarti una volta giunti a destinazione. Oh, cosa faranno... cosa farò io quando dovrò giustificare la falsità delle mie descrizioni sotto ipnosi, quando scopriranno che la cassa è vuota?» «Mina, il nostro piano è il frutto di lunghe ed attente meditazioni, come del resto puoi ben immaginare. Dobbiamo affrontare i fatti. Da quanto mi hai detto, Jonathan sembra animato dal desiderio folle di uccidermi e, se ciò non bastasse ad aizzare gli altri contro di me, c'è anche il Professore che non li lascerebbe mai desistere dalla caccia. Soltanto la prova della mia morte soddisferà l'intera ciurma. Può darsi che, quando apriranno quella cassa, non la trovino vuota.» CAPITOLO SETTIMO Come da programma, la squadra di cacciatori partì in un nebbioso mattino e, viaggiando su treno e traghetto, raggiunse Parigi la notte stessa, quella del dodici ottobre. Mina aveva convinto gli uomini a portare anche lei affinché potessero avvalersi delle sue facoltà di medium ipnotica e sperare di rintracciare il luogo nel quale mi trovavo. Camuffando il mio aspetto, e naturalmente sotto falso nome, salii sullo stesso treno quando la spedizione lasciò la stazione di Charing Cross. Quando io e i miei nemici attraversammo la Manica più o meno insieme, la Zarina Caterina stava attraversando il Mediterraneo verso la stessa lontana destinazione. Le stavo mandando i venti più favorevoli ed il tempo migliore, allontanando un paio di bufere che minacciavano di ritardarne la traversata. Impossibilitato a portare nello scompartimento una bara colma di terreno, risolsi il mio problema con un capace baule di pelle spesso circa mezzo pollice che aveva suscitato i brontolii di tre robusti facchini quando lo avevano caricato nel bagagliaio. L'etichetta che vi stava attaccata indicava la sua appartenenza al Dr. Emile Corday, diretto a Bucharest. Durante il primo tratto del viaggio, prima di raggiungere Parigi, non mi adoperai per incontrarmi con Mina, accontentandomi di scambiare con lei rassicuranti messaggi mentali. Nutrivo qualche preoccupazione che gli uomini mi avrebbero riconosciuto malgrado gli sforzi compiuti per alterare le mie sembianze. Avevo acconciato i capelli in modo da coprire la cicatri-
ce sulla fronte, e mi ero rasato barba e baffi, lasciando crescere un bel paio di folti favoriti castani che davano al mio volto un aspetto meno scarno. La forma del naso ed il consueto colorito della mia pelle, che i miei nemici usavano descrivere con varietà di aggettivi del tipo «pallido,» «verdognolo» o «cereo,» erano più difficili da camuffare. Modificare il primo si rivelò materialmente impossibile; quanto al colore della pelle, cambiarlo in un incarnato genuinamente sano e rubicondo, richiese massicce dosi giornaliere di sangue di mammifero; il manzo ed il maiale sono quelli più prontamente disponibili. La sera del dodici ottobre, come ho detto, io e i miei nemici ci trovavamo a Parigi, separati da breve distanza nella Gare de l'Est, le cui luci elettriche mi facevano strizzare gli occhi dietro le scure lenti che li riparavano. Attorno a noi, con misurato contegno, si stavano effettuando tutti i preparativi necessari ad assicurare la partenza del treno più famoso della Compagnie Internationale des Wagon-Lits et des Grands Express Europeens, e di ogni altra Compagnia ferroviaria precedente o futura. Allora l'Orient Express funzionava da otto anni, ed era all'apice della sua squisita eleganza, se non della sua fama. Il permesso dei bagagli per passeggero fu generoso con il massiccio baule del Dr Corday. Io fui assegnato ad una cabina di lusso posta in un vagone attiguo a quello nel quale i miei cinque cacciatori si dividevano due cabine. A quell'epoca, le donne erano solitamente recluse nelle voitures-lits loro assegnate, almeno nelle ore normalmente dedicate al sonno. Cosicché, scoprire che Mina avrebbe occupato uno scompartimento da sola, mi colmò di gioia. L'ora della partenza era stata fissata prendendo in considerazione l'orario adatto per servire il pasto serale. Sgattaiolando dal finestrino della cabina mentre l'Orient Express correva ad est attraverso la campagna buia in direzione di Strasburgo, conservai le sembianze umane — un pipistrello sarebbe stato risucchiato all'istante dalla corrente d'aria prodotta dal treno che sfrecciava alla velocità di sessanta chilometri all'ora — e dovetti sopportare il fumo e la cenere del carbone mentre, arrampicatomi sul tetto del veicolo oscillante, saltavo da un vagone all'altro diretto alla coda del convoglio. Mentre avanzavo, mi chinai penzoloni a sbirciare nei finestrini, e subito localizzai la vettura ristorante e ne esaminai l'interno per vedere se i miei nemici fossero già a tavola, e per carpire un'immagine della mia adorata.
La vista che mi apparve era in tutto degna della sala da pranzo di un raffinato albergo. Camerieri in calzoni di seta azzurra, con calze bianche e scarpe con fermagli, stavano versando dello champagne ghiacciato. La luce irradiata da deliziose lampade, appena tremolante per l'oscillazione del treno, si proiettava su pannelli di mogano e pesante mobilio di solida quercia. E in quello splendore vi era anche Mina, più incantevole che mai in un elegante abito nuovo. Seduta al tavolo accanto a lei, suo marito, ingrigito e sparuto come lei me lo aveva descritto, fissava il vuoto. Alla coppia così male assortita facevano compagnia il Professor Van Helsing ed il Dr. Seward; seduti ad un tavolo nella fila opposta, c'erano Lord Godalming e Quincey Morris, entrambi con degli abiti di tweed che avrebbero fatto un'ottima figura come costumi da caccia. I gesti che accompagnavano i loro scambi verbali suggerivano che stessero discutendo sulle rotte di volo della selvaggina — o forse dei pipistrelli — ed intanto consumavano del cordon bleu di vitello. Tutto sembrava si stesse svolgendo secondo i piani. Ma, giudicando dalla quantità e dal genere di cibo presente nei piatti, arguii che sarebbe passato ancora del tempo prima che Mina si ritirasse nella sua cabina. Nel frattempo, potevo accertarmi della sua esatta ubicazione, e fu ciò che cercai di fare dirigendomi alle vetture letto per signore e sbirciando il più possibile nella serie di finestrini. Sfortunatamente, le aperture erano tutte schermate da pesanti tende che mi impedivano la vista; in più, il rumore del treno sulle rotaie era così forte da impedirmi di percepire qualsiasi suono proveniente dall'interno delle vetture. Alla fine, giunsi ad un finestrino la cui tenda era aperta abbastanza da farmi appurare che al momento l'interno era vuoto. Feci per introdurmi nella cabina, ma un improvviso ostacolo mi sbarrò la via: era il vecchio, familiare divieto ad entrare nella dimora altrui senza esservi stato invitato almeno una volta. Mormorando alcune imprecazioni tra me e me, e domandandomi se Mina si fosse resa conto che avevo bisogno di un nuovo invito per poterle fare visita, tornai ad arrampicarmi sul tetto della vettura portandomi in coda al convoglio. L'ultimo vagone, come presto appresi, ospitava una sala da fumo e la biblioteca; una piccola piattaforma d'osservazione costituiva l'estremità del treno. Impaziente di affrancarmi dalle sferzate del vento e dalle nubi di fumo untuoso, lanciai alla piattaforma la più superficiale delle occhiate prima di
calarmici, e mi sfuggì l'oscura sagoma di un uomo che sostava immobile in un angolo a contemplare le luci sparse delle fattorie e dei casolari che sfrecciavano accanto a noi nella tenebra notturna. Assordato dal rombo dell'aria e dallo stridore del ferro, non udii il soffio dei polmoni ed il battito del suo cuore, e soltanto quando si volse verso di me vidi il segnale luccicante del suo sigaro. Mi resi allora conto di essere giunto in ritardo per occupare quella postazione nel ruolo di un interessato osservatore del paesaggio rurale; ricambiai il suo sguardo con assoluta noncuranza, sfidandolo così a non credere ai suoi occhi. Era un uomo di circa trentacinque anni, di media statura, con una barbetta ben sagomata e gli occhi castani, dall'espressione intelligente e per certi versi autoritaria. Allontanò il grosso sigaro nero dalle labbra e mi fissò col sincero stupore di uno che, credendo senza indugio a quanto si mostrava ai suoi occhi, veda piover giù dal cielo un perfetto sconosciuto. Con fare indifferente rimisi a posto il cappello che stava lì lì per cadermi, ed annuii affabilmente al mio compagno preparandomi così ad ingaggiare una conversazione con lui; era necessario apprendere subito se la mia sopravvivenza richiedeva che scaraventassi lo sfortunato giù dal treno o, al contrario, se potessi indurlo a credere di non aver visto affatto ciò che in realtà aveva visto. «Bon soir, monsieur,» lo salutai, passando subito al Tedesco allorché l'esitante risposta dell'uomo giunse in un accento che tradiva la sua grande familiarità con la lingua teutonica. «Buona sera,» rispose, e restò ancora un istante a fissarmi prima di sbattere le palpebre e presentarmi le sue scuse. «La prego di perdonarmi se l'ho fissata in quel modo. Il fatto è... che ero assorto nei miei pensieri e mi è parso quasi che lei... fosse giunto qui dal nulla.» Le parole, inizialmente esitanti, acquistarono in breve la fermezza e la padronanza che evidentemente dovevano caratterizzare la natura del mio interlocutore. «Del tutto comprensibile!», mormorai. «Mi permetta di presentarmi. Sono il Dr. Emile Corday, della Akademie der Wissenshaften di Vienna.» Lo sconosciuto apparve nuovamente perplesso; ancora una volta avevo peccato di superficialità. I miei occhi, riparati dalle lenti, scrutarono lo scenario in movimento cercando un covone di fieno nel quale avrei potuto gettarlo, liberandomi così di un osservatore scomodo per un giorno o due, se non per sempre. I fatti cominciavano a deporre per una simile soluzione, ma mi ripugnava l'idea di dover prendere la sua vita. «L'Akademie...?», mormorò. «Ma anch'io... cioè, pensavo di conoscere
bene tutti...» «Ach, naturalmente sono parecchi anni che non svolgo la mia attività in quell'Ateneo. Attualmente lavoro per una ditta di Londra... No, grazie, non fumo, Herr...» L'uomo allungò la mano per presentarsi e dischiuse le labbra per annunziare il suo nome ma, proprio in quell'istante, il treno si infilò in un tunnel e le sue parole si dispersero nel frastuono. Dopo la massiccia dose di fumo che il tunnel ci aveva somministrato, decidemmo di comune accordo di tornare all'interno del treno. Entrammo così nella saletta per fumatori; non appena ne varcammo la soglia, rimasi paralizzato, pronto ad un'azione immediata e disperata, allorché tra gli ospiti della vettura — esclusivamente maschi, naturalmente — riconobbi Arthur e Quincey, i quali dovevano esservi appena giunti vista la dimensione dei sigari accesi. Feci in modo di sedermi rivolgendo loro la schiena; il mio compagno aveva acceso di nuovo il sigaro e, con ogni probabilità, desiderava fermarsi un po' di tempo nella carrozza. Io, dal canto mio, non volevo congedarmi da lui senza essermi accertato di quanto avesse visto delle mie acrobazie sovrumane. Per delle orecchie comuni, le voci di Arthur e Quincey sarebbero state troppo basse per distinguere le parole che i due si stavano scambiando, ma per me la cosa non presentò alcuna difficoltà. «Da noi nel Texas una baldracca è solo una baldracca,» stava bisbigliando Quincey con veemenza. «Sta' sicuro che quella pupa coi capelli rossi ci sta; perché non ci alziamo e glielo diciamo? Chiedile anche se ha un'amica qui sul treno. Così sarebbe molto più comodo.» «Non sono cose da chiedersi così sfacciatamente, vecchio mio; non vuoi proprio capirlo! Qui non siamo in Africa, e neppure nei Mari del Sud.» «Dicevi così anche a Londra. E invece filava tutto alla perfezione, non è vero?» «Quando hai detto di aver visto un pipistrello ed hai scaricato la Colt fuori dal finestrino per fare un po' di tiro al bersaglio, quella donna è apparsa semplicemente terrorizzata...» Mentre i due dialogavano, il mio nuovo amico mi stava sussurrando all'orecchio: «Attualmente la mia attività è piuttosto limitata...» In un certo senso sembrava attratto da me, come talora accade che due sconosciuti mostrino interesse reciproco pur senza capirne esattamente la ragione. «Recentemente ho dedicato gran parte delle mie energie allo studio degli
effetti della cocaina e agli effetti prodotti dai processi mentali sulla salute fisica degli individui.» Quest'ultima affermazione destò la mia attenzione. «Molto interessante, Dottore!», dissi con partecipazione. Avevo intuito il suo titolo pur ignorando ancora il suo nome. Il mio compagno restò in silenzio, come stesse meditando su qualcosa, ed intanto il sigaro si consumava diventando grigio. Arthur e Quincey continuavano a conversare: «All'inferno! Non avrei dovuto bere quell'ultimo brandy se stanotte mi tocca domare quella pantera dai capelli rossi... Arthur, sei sicuro che sia una prostituta?» «Sì, certo! Basta ascoltare i discorsi dei servitori, proprio come loro fanno con noi. Sono loro che si occupano di organizzare l'incontro; scommetto sulle prestazioni di quella bellezza dai capelli di rame e di qualche sua amichetta...» A me invece il mio compagno stava chiedendo: «Ha detto che svolge la sua attività a Londra, Dr. Corday?» «Oh, non esattamente. Mi occupo di consulenze su questioni mediche e fisiologiche per conto... di alcune Ditte...» La mia disposizione all'invenzione, mai molto accentuata, stava scemando rapidamente. Tuttavia, parlando lentamente ed intervallando le parole a lunghe pause, riuscii a tenere a bada il mio interlocutore finché Arthur e Quincey non si alzarono e lasciarono la vettura, evidentemente pronti a negoziare l'incontro sperato. Ebbi l'impressione che Arthur seguisse l'amico con una certa riluttanza; d'altronde Lucy era stata sepolta soltanto da tre settimane, e da due era morta. Forse peccai d'ingenuità, ma fu per me una sorpresa apprendere che le 'belle di notte' consumassero la loro lussuria nei wagon-lits attraverso il continente. Ma in fondo, perché no? Il danaro e la noia abbondavano sull'Orient Express, e credo che vi sia qualcosa di intrinsecamente eccitante nel rapido movimento del treno. Quando io ed il mio nuovo amico lasciammo il fumoir, feci in modo che lui mi precedesse lungo i vagoni del treno aprendo le porte man mano che ci capitavano dinanzi. In tal modo ottenni un invito in ogni carrozza letto che non avevo ancora visitato. Considerata l'ora decente, la carrozza riservata alle signore era ancora frequentabile dai viaggiatori di sesso maschile. Nel suo interno, pannelli di vetro e tramezzi di legno separavano gli scompartimenti dal corridoio di pubblico passaggio; ma la maggior parte dei vetri erano coperti da tende di damasco, sicché ancora ignoravo quale fosse l'alloggio occupato da Mina.
«Ah, questo treno è talmente stravagante!», mormorò il mio inconsapevole benefattore quando passammo nella carrozza per uomini. Ci fermammo davanti alla porta di una cabina che evidentemente doveva essere quella a lui assegnata. «Questa è la mia. Sa, desideravo rimanere solo, e in pace, per un po' di tempo. Ho bisogno di pensare.... Il tempo per pensare è sempre così scarso.» «Oh, sì, anche per me è così,» confermai con compartecipazione. «Beh, spero di non averla distratta dalle sue meditazioni, Dottore. I suoi studi hanno suscitato in me un immenso interesse, ed attenderò con impazienza di apprenderne di più nell'immediato futuro.» «È diretto a Vienna?», mi chiese. «Oh, molto più lontano. Gli impegni mi portano sul Mar Nero.» «Bene, avremo tempo di continuare domani il nostro discorso... a colazione, per esempio?» «Perché no?» Avrei sempre potuto trovare il pretesto di una indisposizione di poco conto per giustificare il mio digiuno a tavola; e, in caso di necessità, avrei comunque potuto mandar giù qualche boccone di cibo che in seguito avrei rigurgitato.» «Quanto alla sua preoccupazione di avermi distolto dalle mie meditazioni, non se ne dia pena, Dr. Corday. Anzi, lei mi ha dato...», s'interruppe con una risatina, «del cibo per la mente,» sembrò alludere la frase incompiuta. «Sa: quando l'ho vista per la prima volta sulla piattaforma, ho immaginato che lei fosse...» Ma a quel punto dovette interrompersi nuovamente con un sorrisetto, immediatamente seguito da uno sguardo introspettivo profondamente serio. Quel che credeva di aver visto doveva essere qualcosa di troppo ridicolo per una casuale discussione sociale. Ricambiai il sorriso. «Aspetterò con ansia di riparlarne domattina.» Poi gli augurai la buonanotte e mi allontanai in direzione della mia cabina. Entratovi, chiusi a chiave la porta ed uscii di nuovo attraverso il finestrino. Quindi ripiegai il cappello e lo infilai in una tasca per preservarlo dalle violente raffiche di vento, e mi incamminai verso il vagone riservato alle signore. Mina, intelligente e dotata di senso pratico, aveva aperto le tendine quel tanto che bastava ad un fuligginoso viaggiatore appeso al tetto del treno per guardare nell'interno della vettura dove lei e Jonathan erano seduti l'una di fronte all'altro, in un classico tête-à-tête. Beh, forse classico non è la parola giusta, giacché Jonathan stava affilando il suo enorme coltello, l'arma con la quale sperava di mandarmi all'eterno castigo. Era un tipo di coltello chiamato Kukri, in uso presso i Gur-
kha del Nepal, dove, evidentemente, era stato acquistato da Quincey o da Arthur in uno dei loro viaggi. Mentre osservavo con quanta ostinazione i miei nemici si affidavano al metallo per annientarmi, il mio piano per l'inganno finale cominciò a prendere forma. Dopo un po' Jonathan si alzò e, mormorando alla moglie qualche parola che non riuscii a distinguere, infilò la lama aguzza in un fodero celato sotto il soprabito. Quindi, con un casto augurio di trascorrere una notte tranquilla, si allontanò. Non appena fu uscito e la porta dello scompartimento ben serrata, Mina si avvicinò al finestrino. Il suo volto era pallido e stanco, ma la vista della mia faccia capovolta contro il vetro valse a ravvivare la sua espressione spenta. A Mina non sfuggì il particolare di dovermi rivolgere un cenno d'invito per far sì che potessi entrare. Un istante dopo eravamo l'uno tra le braccia dell'altra. Mina mi riferì che, da quel che aveva inteso, gli uomini erano ancora fermamente convinti che io mi trovassi a bordo della Zarina Caterina. Dal canto suo aveva fatto il possibile per consolidare questa opinione, continuando a descrivere oscurità e sciabordii durante le regolari sedute ipnotiche che Van Helsing compiva ogni mattina. Bastavano pochi gesti dello scienziato perché la donna entrasse in una trance ipnotica superbamente simulata. «Ci vorranno almeno tre giorni per raggiungere Varna, ed è là che intendono darsi da fare per rintracciare la cassa,» mi disse. «Vlad, sei sicuro che la tua presenza sul treno possa restare segreta fino ad allora? Quando e dove riposerai?» «Scenderò a Bucharest,» le spiegai. «Inoltre, mi sono attrezzato per riposare qui sul treno.» E, senza remore, le dissi del grosso baule di cuoio nel bagagliaio, imbottito di buona terra transilvana. Ripeto che non ebbi alcuna remora nel confidarle un particolare di importanza tanto vitale per la mia sopravvivenza; da secoli ormai non riponevo la mia fiducia in un comune mortale! Perdere quel baule o trovarlo inutilizzabile, mi avrebbe posto in una situazione disperata ancorché, bisogna ammetterlo, non disperata quanto l'eventualità di un naufragio nel Mare del Nord durante il mio viaggio alla volta dell'Inghilterra. Intanto, di ora in ora, l'Orient Express si avvicinava all'est e, dal confine franco-tedesco, il pipistrello, il lupo e l'uomo, avrebbero potuto alternarsi nel viaggio verso la terra natia, prima che la stanchezza ed il sole avessero potuto distruggerli. Quando io e Mina ci fummo scambiate le più dolci effusioni amorose di
quella prima notte, cullati dal dondolio del treno, restammo sdraiati fianco a fianco sullo stretto letto. Grazie al mio aguzzo udito, potei seguire una divertente conversazione che, filtrata dai rumori del treno e dai sottili divisori, giunse alle mie orecchie dallo scompartimento attiguo al nostro. Le persone impegnate nello scambio verbale erano una giovane donna, che sospettai avesse i capelli color del rame, ed un giovanotto che probabilmente di giorno indossava una livrea di seta azzurra e calze bianche e, di notte, con maggior lucro e inventiva, fungeva da 'agente commerciale' della fulva signora. «Cos'è che ti fa sorridere, Vlad caro? Confesso che il mio cuore è oppresso dalla preoccupazione per il pericolo che incombe sulla vita tua e su quella di Jonathan.» «Sono lieto che Arthur e Quincey abbiano programmi meno distruttivi per trascorrere la notte.» «Davvero? A cosa ti riferisci?» Mina mostrò un certo interesse allorché le spiegai di quel convegno intimo. Forse grazie alla natura speciale del nostro rapporto, non avevamo difficoltà a discutere apertamente argomenti che con grande riluttanza avrebbe affrontato col marito. «Se non altro, servirà a distrarli dai crudeli pensieri che riguardano la tua persona,» mormorò. Poco dopo, le dissi che ormai era venuto il momento che la lasciassi perché potessi consumare il mio pasto di sangue di manzo e godere un po' di riposo prima dell'alba. «Fai attenzione, ti prego!», Mi raccomandò. «Specialmente quando salirai sul tetto del treno in movimento.» Le baciai la mano. «Sarò prudente. Cadere dal tetto del treno è un'eventualità assai improbabile; è più facile che tu perda l'equilibrio su un pavimento liscio ed immobile. Ma adesso è necessario che vada anche per il tuo bene; devi riposare. Il buon Professore verrà sicuramente a farti visita prima dell'alba per la solita seduta, o ti farà chiamare perché tu vada da lui.» «E cosa dovrò dirgli domattina?» «Le stesse cose degli altri giorni: il vento, le onde ed il buio della stiva...» La cucina e la dispensa della voiture-restaurant non erano deserte neppure a quell'ora. Panettieri e sguatteri si davano da fare laboriosamente affinché i passeggeri consumassero una colazione puntuale ed abbondante. Mi dissolsi in fumo ed entrai nella dispensa asportando sangue di manzo e
d'agnello — congelato, ma meglio di niente — traendolo dalle carcasse serbate in grosse ghiacciaie. Poi, placata la fame ed assicuratomi un colorito florido ancora per qualche ora, agognai l'intimità del mio grande baule di cuoio. Entrare nel bagagliaio deserto non comportò alcuna difficoltà. Al contrario, ahimé, uscirne si rivelò assai problematico. Estenuato com'ero, e in più stravolto dal cambiamento dei fusi orari, dormii più del dovuto e, quando mi svegliai, era già passata l'alba, con la conseguenza di non poter mutare forma per uscire dal baule. Riuscii a forzare la serratura del baule dall'interno e, impiegando tutta la considerevole forza delle mie dita, cercai di richiuderlo una volta uscitone, per far sì che esternamente apparisse normalmente chiuso. Alcuni membri del personale del treno entrarono nella vettura mentre ero alle prese con le serrature. Cercai allora di nascondermi dietro una pila di valige, ma la mia 'astuzia secolare' dovette soccombere di fronte all'angustia geografica del luogo; così gli intrusi non tardarono a scoprirmi. Iniziò all'istante un'eccitata discussione. Conduttori, portabagagli e ferrovieri di ogni sorta, parvero spuntare dal nulla per interrogarmi, in una dozzina di lingue, sulla mia identità e sulla ragione che mi aveva spinto a recarmi in quel luogo il cui accesso era impensabile da parte dei passeggeri. Con assoluta calma continuai a spiegare di esservi capitato per errore, che la porta della carrozza era aperta, e che avrebbero fatto meglio ad assicurarsi che le porte fossero chiuse se desideravano che quei siti non venissero profanati da estranei. A quel punto non avrei fatto fatica a liberarmi immediatamente dal gruppo di inquisitori, se l'occhio aguzzo di uno di essi non fosse andato a cadere sul lucido metallo della serratura forzata e danneggiata del mio baule. Ecco allora piovermi addosso una nuova sfilza di domande poliglotte. L'elegante baule, insisteva il capotreno non era stato danneggiato in quel modo allorché la sera precedente era stato caricato nel vagone: dovevo quindi essere stato io a compiere quell'atto di vandalismo: ero un ladro, e forse peggio. Riuscii a respingere il coro di accuse rivendicando la proprietà del baule; naturalmente potevo esibire i documenti che mi identificavano come il Dr. Corday sotto il nome del quale era stato registrato il baule. Prima che le mie argomentazioni approdassero ad una conclusione pacifica dell'incidente, il Capotreno si era preso la briga di aprire il coperchio di cuoio con un gesto ricco di drammaticità che sembrava preludere come minimo al rin-
venimento di un cadavere smembrato. Tutti restarono a guardare delusi il carico di terra. «E questo come si spiega, monsieur?» «Se si riferisce alla sua maleducazione, buon uomo, lei conosce senz'altro la risposta meglio di me.» «Mi riferisco, Signore, alle condizioni di questo baule ed al suo contenuto.» Sbirciò dentro ancora una volta, aguzzando la vista. Dopotutto potevano esserci un paio di cadaveri nascosti sotto il terreno! «Il baule è di mia proprietà, monsieur, e le sue condizioni sono affar mio.» Dopo un po' ci recammo nel vagone attiguo, dove il Capotreno aveva il suo posto di comando, potendo da lì osservare il corridoio della vettura e le porte degli scompartimenti dei passeggeri. Uno specchietto era appeso sul suo tavolino e, se non fossi stato immune alla paura, mi avrebbe provocato una certa apprensione. Una stufetta garantiva un piacevole tepore contro la fredda alba autunnale al Capotreno assiso sul suo trono. Se sperava di tenermi lì davanti a lui a supplicare, si sbagliava di grosso. Monarca nel suo piccolo regno su ruote, la sua autorità soccombeva al confronto con la mia più vasta e consumata abitudine al comando. Senza far uso di grande energia fisica, mi feci largo tra l'entourage dei suoi inferiori e mi avviai con passo deciso verso la mia cabina. Uno o due di questi mi seguirono a breve distanza... insomma, la faccenda del baule non si era chiarita? Cosa dovevo fare adesso per procurarmi un giaciglio adatto al mio riposo? Tuttavia non fu fatto alcun tentativo di trattenermi o di continuare a interrogarmi. Ero appena entrato nella mia cabina per trovarvi un po' di relax, quando un leggero colpo risuonò alla porta. «Chi è?» «Il Dr. Floyd,» mi parve di udire. Il nome sembrava inglese, e fu pronunziato in quella lingua, ma non v'era dubbio che la voce appartenesse al mio nuovo conoscente tedesco della sera prima. Con mia grande sorpresa, nell'aprire la porta mi trovai dinanzi Mina al fianco del medico viennese. Scambiatici i saluti di prammatica, il medico, rivolgendosi alla sua compagna in un rispettoso Inglese, mi presentò Mina. «Ho conosciuto la signora Harker stamattina presto nel corso di una certa faccenda professionale, e lei è stata così gentile da acconsentire a far colazione con noi; quando le ho detto, Dr. Corday, che anche lei viene da Londra, si è mostrata molto interessata a fare la sua conoscenza.»
«Sono lusingato, Madame Harker.» Nel chinarmi per baciarle la mano, ammiccai impercettibilmente. La «faccenda professionale,» come fui informato da Mina successivamente, era stata la conseguenza di un alterco avvenuto durante la notte nelle vetture riservate agli uomini. Revolver e coltelli da caccia erano stati sguainati ma fortunatamente poco usati. Alcuni articoli di abbigliamento testimoniavano che almeno una giovane donna si era trovata presente. Il Dr. Floyd aveva medicato Quincey Morris per alcune lacerazioni riportate al cuoio capelluto, nonché un giovane cameriere per ferite alquanto serie alla testa e contusioni al volto. Perfetto! Perché dovevo essere timido e riservato? Arthur aveva cambiato idea all'ultimo momento sul suo bisogno di compagnia femminile — aveva cominciato a compiangere tra lacrime ed ubriachezza la sua perduta Lucy — e Quincey si era messo a contestare con troppa foga il conto per i servigi resi; così, bende e banconote erano state utilizzate per rimettere le cose a posto. Harker aveva sentito il trambusto e si era precipitato nello scompartimento attiguo al suo con la follia negli occhi ed il grosso coltello tra le mani. Fortunatamente si era subito calmato quando aveva scoperto la vera natura del problema. Seward e Van Helsing si erano già mossi alla ricerca di Mina per la seduta ipnotica mattutina, e Jonathan aveva detto al Capotreno di reperire un altro medico per prestare soccorso ai feriti. Come fortuna aveva disposto, il mio amico del fumoir alloggiava lì dappresso, e subito si era offerto di intervenire. Il suo accento, e forse la fisionomia, avevano indotto Jonathan ad una sommessa osservazione a proposito di un «ebreo con la faccia da pecora» mentre Quincey lamentava il disagio di avere un paio di punti di sutura nel folto cuoio capelluto. Mina, liberatasi dalla consueta seduta, era apparsa sulla scena; sinceramente gentile come sempre, aveva lasciato gli uomini a discutere ed a lamentarsi per le ferite, ed era andata a colazione col buon samaritano in una sorta di gesto riparatorio. Nel ricevere me, inattesa ricompensa, fu semplicemente estasiata. Suo marito, dal canto suo, fu lieto che si allontanasse dalla scena del sordido combattimento. Ci sedemmo tutti e tre insieme nella carrozza ristorante. Io ordinai soltanto un caffellatte, che sarei riuscito a mandar giù in caso di necessità. «Anche lei si ferma a Vienna, Signora Harker?», chiesi. «Oh, no! Il programma di mio marito è più vasto. Ha organizzato una vacanza sul Mar Nero; ma non ha voluto rivelarmi ogni particolare. Sono
piani alquanto misteriosi.» «Io adoro il mistero, signora. Magari potessi unirmi a voi.» «Sarebbe splendido... dottori, avervi entrambi con noi.» L'uomo che conoscevo per Floyd si stava lisciando la barbetta mentre fissava con intensità il volto di Mina ed il mio alternativamente. Più tardi mi accorsi che i capelli mi si erano scostati dal centro della fronte. «Dr. Corday,» cominciò con esitazione, «spero che non mi consideri impertinente se un interesse professionale mi induce a chiederle come si è procurata la piccola cicatrice che ha sulla fronte.» «Niente affatto, Dottore. È stato cinque mesi fa, ad opera di un mio conoscente.» Mentre parlavo, mi resi conto di quanto il mio Inglese colloquiale fosse migliorato da quando avevo incontrato Harker per la prima volta nel Castello Dracula. «Era ospite a casa mia, e purtroppo andava soggetto a incubi. Una volta il poveretto divenne particolarmente violento, e fummo entrambi fortunati nell'evitare un danno più serio.» «Grazie. Io... ho avuto l'ardire di chiederglielo perché...» Gli occhi dell'uomo corsero nuovamente all'immagine speculare della mia cicatrice impressa con scarlatta evidenza sulla fronte più bella che esistesse al mondo. «Il segno che ho sulla fronte è per me un argomento molto delicato,» disse Mina con fermezza. «Vista la sua curiosità, le basti sapere che è il risultato della terapia sbagliata di un medico. Non desidero parlarne oltre.» «Le porgo le mie scuse, signora.» «Ma la prego, Dottore!» La voce di Mina tornò ragionevolmente allegra. «Dr. Corday...» Il viennese si rivolse a me, ovviamente con un nuovo argomento da proporre alla conversazione. «Mi aveva accennato alla sua attività di consulenza a Londra.» Sbarratagli una strada, ne aveva imboccata un'altra, anch'essa diretta all'investigazione. E dalla sua voce stavolta affiorò una nota imperiosa: come potevo rifiutare di rispondere direttamente alla sua domanda adesso che un mutamento nell'argomento della conversazione sarebbe servito a salvare una signora dall'imbarazzo. Due camerieri si stavano avvicinando al nostro tavolo recando cibo e bevande agli ospiti della vettura; uno di essi aveva un occhio nero. Alle loro spalle, come una nave avvezza ad entrare in battaglia dietro uno scudo di distruttori da scaramuccia, avanzava il mio vecchio nemico, il Capotreno. Sicuramente il suo passaggio nella carrozza era casuale — neppure un assassino ricercato dalla Polizia sarebbe stato interrotto a metà pasto su quel treno — e probabilmente aspettava un'occasione migliore per un nuovo confronto con me. Ma la presenza di Mina mi ispirò e mi lanciai in un
improvvisato discorso che si rivelò vantaggioso per il Capotreno nonché per il mio commensale potenzialmente pericoloso. «Amici miei,» annunziai ad alta voce, «a Londra mi occupo principalmente di consulenze a favore della Moule's Patent Company.» «Moule's...» Incerto, Floyd tamponò con un tovagliolo le eleganti basette castane. «È una Ditta di Covent Garden che produce gabinetti igienici con fondo di assorbimento funzionante a terreno. La Moule's Company fabbrica gabinetti da giardino, gabinetti per poligoni di tiro, gabinetti...» Con celato giubilo scorsi un'espressione di raffinato orrore disegnarsi sul volto del medico. La medesima reazione apparve sul volto di Mina nonché nella faccia altera del Capotreno, dove, con mio grande sollievo, cominciò a brillare un barlume di comprensione. «Gabinetti per villini, gabinetti trasportabili in qualunque luogo. Sono completi di dispositivi di espulsione...» Non capii allora, né tuttora comprendo, perché un argomento adatto alla prima pagina di un rispettabile quotidiano debba essere aborrito a tavola; non v'è dubbio che il mio atteggiamento sia il risultato di un insopprimibile barbarismo medievale radicato dentro di me. Stordito dal sollievo e dal successo, incalzai spingendo metaforicamente il nemico davanti a me: «Costruiti in ferro ondulato e rinforzato, da scomporre in pezzi per un facile trasporto. Possono essere rimontati in un paio d'ore. Per funzionare adeguatamente, richiedono soltanto terriccio asciutto. Se si osserva questo accorgimento, non tradiscono mai; e per questo, a scopo dimostrativo, ho portato con me un campione di terreno di qualità eccellente, che al momento ho serbato nel mio baule, stipato nel bagagliaio...» A Ulm il treno attraversò il Danubio e, per qualche secondo, pensai di scendere e proseguire il viaggio per via fluviale. La colazione si era conclusa con un imbronciato silenzio, e temetti che Mina non mi avrebbe più rivolto la parola per un lungo periodo. Ma la mia calcolata villania aveva sortito l'effetto desiderato, laddove qualsiasi profluvio di soave oratoria avrebbe di certo fallito. Il viennese aveva smesso di farmi domande e, ogniqualvolta il Capotreno mi passava accanto, evitava con cura di incrociare il mio sguardo. Ormai ero una bomba a tempo di rozzezza antisociale pronta ad esplodere in qualsiasi istante sul suo raffinato convoglio. Il mio biglietto copriva il viaggio fino a Bucharest, e scendere prima avrebbe attirato dell'attenzione su di me. E poi, nessuno più si sarebbe sognato di molestare il mio baule; sia di giorno che di notte.
Giunti a Vienna, il mio giovane e pensieroso amico medico scese dal treno. Si fermò con cortesia a stringermi la mano prima di allontanarsi e, in quell'istante, mi lanciò un'occhiata amichevole ma penetrante con la quale mi annunziava che non si sarebbe dimenticato di me tanto presto. «Auf Wiedersehen, Dr. Corday. È stato un viaggio molto proficuo... estremamente proficuo in molti sensi...» Ricambiai la calorosa stretta di mano con emozioni miste: in altre circostanze mi sarei rallegrato della sua compagnia ed avrei provato interesse per le sue speculazioni, ma in quel momento fui felice di essermene liberato. Budapest, tappa successiva del nostro viaggio, era poco distante, e la sera del quattordici ottobre avevamo superato le fermate di Szegedin e Timisoara, un tempo quartier generale dei Hunyadis. Sì, mi stavo avvicinando a casa. Mi riempivo ripetutamente d'aria i polmoni per cogliere, tra i vapori del carbone, i vividi profumi della cara terra della mia giovinezza. Durante la notte andai da Mina e l'aggiornai sui miei piani prima che giungesse per me il momento di lasciare il treno. Con mio sollievo, accettò con la consueta intelligenza le scuse che le presentai per la volgare esibizione da me compiuta a colazione. «Per il momento,» le consigliai, «continua a fornire i soliti dettagli: buio e rumore d'acqua, come hai fatto finora.» «E, quando la nave arriverà a Varna, Vlad? Non si precipiteranno a bordo e con la corruzione o con la forza apriranno la cassa? E, quando la troveranno vuota, non falliranno i tuoi piani, ed io non sarò pericolosamente sospettata?» «Farò in modo che non salgano a bordo della Zarina in quel porto. Devo fare in modo che diano la caccia a quella cassa; col tuo aiuto farò sì che essa li preceda, per terra o per fiume, ma solo quel tanto che basti a non farne perdere le tracce. Quanto più profondamente si inoltreranno nel mio territorio, tanto più ne trarrò vantaggio; perché lì avrò dalla mia parte la conoscenza della geografia, della lingua e dei costumi del luogo. Si sentiranno come esuli in terra straniera. Inoltre, potrò anche reclutare qualche collaboratore, se ciò dovesse rivelarsi necessario.» «Vlad...» La sua voce era molto seria. «Così come ho supplicato Jonathan perché risparmiasse la tua vita, con lo stesso ardore adesso supplico te per la sua. Ti chiedo, per amor mio, di risparmiarlo qualora giungesse il tempo ch'egli fosse completamente alla tua mercé.» «Sarei felice di prometterti doni assai più preziosi della sua vita, se sol-
tanto tu me li chiedessi.» E, ancora una volta, le baciai la mano. CAPITOLO OTTAVO Intorno alle cinque pomeridiane del quindici di ottobre, Mina e i miei nemici si insediarono all'Hotel Odessus di Varna. Se avessi proseguito il viaggio in treno fin lì, in quel momento mi sarei trovato a circa cinquecento chilometri — o trecento miglia — da casa, calcolando il tempo impiegato da un pipistrello per coprire l'intera distanza. Invece, riposando comodamente nel baule, ben serrato dall'interno, fui scaricato a Bucharest in pieno giorno ed in perfetta coincidenza con la scadenza prestabilita. Scendendo a quella stazione, avevo ridotto la distanza da casa di circa un terzo rispetto a quanto avrei impiegato da Varna, e ciò mi dava una maggiore sicurezza. Inoltre, a parte qualche convegno d'amore, non avrei avuto granché da fare in quella città, specie in considerazione del fatto che avevo deciso di non farvi giungere la nave. In ogni caso, indipendentemente dalla mia volontà, la Zarina non avrebbe dovuto raggiungere i Dardanelli prima del ventiquattro. Avevo molto tempo a disposizione, e decisi di recarmi subito a casa, sì da organizzare un'accoglienza particolare per i miei ospiti. A Bucharest sapevo a chi rivolgermi per procurarmi un carro ed un cavallo che io stesso, in abiti locali, avrei guidato senza attirare l'attenzione di nessuno. Così, vestiti nuovamente gli abiti della mia terra e trainando il baule di cuoio come unico bagaglio, imboccai la strada che saliva verso gli alti Carpazi. Riposando durante il giorno ai bordi di qualche stradina poco trafficata, e viaggiando regolarmente di notte, in tre giorni avevo già percorso un lungo tratto delle ripide mulattiere tanto che, al terzo crepuscolo, ebbi la certezza di poter fare a meno del baule ricolmo di terreno e quindi del carro. I cavalli li mandai nel cortile di un povero contadino, il quale avrebbe certamente benedetto la mano che glieli aveva recati quando sarebbe giunto il momento di arare i campi. Il carro, un veicolo di poco conto, lo lasciai sul ciglio della strada, ancora carico del baule dal quale avevo riversato la terra spargendola dattorno per tema che un simile carico potesse suscitare troppa curiosità. Non è mio costume ostentare tanta prodigalità a favore dell'ozioso mondo, ma in quell'occasione considerai che il mio ritorno in
patria meritasse un'insolita celebrazione. Prima di recarmi al castello, mi fermai in un sito distante alcune miglia dove gli Szgany talvolta si accampavano. Ve ne trovai alcuni, attorniati da carri, cani latranti e bambini vestiti di cenci. Il colorito artificiale dei miei giorni sul treno era ormai svanito; i capelli che il vento mi gettava davanti agli occhi erano grigi e sottili, così gli Szgany mi riconobbero all'istante. Aggrottai le ciglia allorché notai che il primo ad avvistarmi mi lanciò sguardi crucciati e quasi di rimprovero. Quando chiamarono Tatra, che si trovava su un carro, le cose assunsero tutt'un altro aspetto. La sua faccia coriacea si animò di gioia non appena mi scorse, e subito mi venne incontro cadendo in ginocchio davanti a me e baciandomi la mano. «Padrone! Quanto abbiamo aspettato che tornassi sano e salvo. Tre volte mia moglie e la mia settima figlia hanno fatto una fattura in tuo favore, col plenilunio e nelle notti senza luna...» «Si, va bene, va bene... Eccomi tornato. Come vanno le cose al castello?» La faccia di Tatra assunse la medesima espressione imbronciata degli altri. «Non siamo bene accetti lassù.» «Non siete bene accetti? In casa mia? Chi vi ha detto una cosa simile?» Un sorriso di soddisfazione animò le sue labbra. «Le tre signore che vi abitano, padrone. Hanno detto di parlare in tuo nome, con la tua piena conoscenza ed approvazione. Io ho dubitato di loro... ma sono solo un comune mortale.» «Tornerai ad essere il benvenuto, amico mio. Ma prima c'è un'altra cosa di cui dobbiamo discutere.» Informai quindi Tatra dell'arrivo dei miei nemici e della collaborazione che presto avrei richiesto a lui ed ai suoi uomini. Non gli dissi però che non mi sarei trovato all'interno della cassa quando l'avrebbe ricevuta a valle; non potevo aspettarmi che lui od i suoi compagni si sarebbero adoperati al massimo per difenderla se lo avessero saputo. Tatra mi riferì a sua volta di talune cose che aveva visto nel castello prima di esserne escluso. Quando mi allontanai dal campo dei nomadi, ero alquanto crucciato. Anna, Wanda e Melissa sapevano del mio ritorno a casa, così come, pur distanti numerose miglia, avrebbero subito saputo se un affilato paletto di legno di tasso fosse stato conficcato nella mia gabbia toracica facendone definitivamente sortire il mio spirito. Mi stavano aspettando sui bastioni quando, in forma di pipistrello, vi atterrai dal cielo piovoso di mezzanotte. Anna, la più bella ed ardita delle tre,
protese il polso sorridendo beffarda al pensiero che mi ci posassi sopra come un grazioso uccelletto. Melissa, alta e bruna, e Wanda, la sorella più bassa e procace, in posizione più arretrata, non ostentarono la medesima impertinenza ma furono audaci abbastanza da sghignazzare nervosamente quando si avvidero che non avrei punito Anna all'istante. Fatto sta che volevo appurare come stessero esattamente le cose prima di decidere i provvedimenti del caso. Ripresi le sembianze umane, sostai con la schiena rivolto al parapetto sferzato dalla pioggia abbassando lo sguardo sui tre volti pallidi che mi guardavano, e immediatamente le risatine cessarono. «Sono stato informato,» esordii, «che avete recato molestia alla popolazione locale. Che avete adescato giovani uomini del villaggio facendone vostri prigionieri. Vi avevo vietato di procurarvi amanti entro la distanza di venti leghe, e che li prendeste con la forza...» Può darsi ch'io possegga una percezione speciale per il pericolo; o forse fu una combinazione del mio sottile udito, di profondi allarmi mentali e della vista dell'ansia insopprimibile che pervase i volti delle donne, a mettermi in guardia e indurarli a girare di scatto la mia alta figura. Un giovane contadino dai capelli lisci e biondi e con un accenno di barba, si stava avventando contro di me percorrendo il corridoio del parapetto. Caricò con una massiccia lancia di legno dalla punta affilata e temprata col fuoco mirando al centro del mio torace. Con una mano sventai il colpo cambiando la traiettoria dell'arma che gli strappai repentinamente di mano. Quanto al giovane assalitore, afferrai anche lui in una morsa letale. Ma, prima che le mie mani sprigionassero la forza sufficiente a sbriciolargli la spina dorsale, lo guardai attentamente in faccia. Non era un agente segreto di Van Helsing, no, ma soltanto un giovincello di campagna, forte come un puledro e bello come un Dio, o almeno lo era certamente stato prima che il vigore gli fosse stato risucchiato attraverso le piccole punture rosse che gli segnavano la gola. Nell'avventarsi contro di me aveva consumato l'ultimo barlume di energia, e adesso i suoi occhi mi guardavano quasi con indifferenza. Lo lasciai cadere sul pavimento di pietra, raccolsi l'arma, la spezzai con le mani e gettai i pezzi scheggiati nell'abisso. Per tutto il tempo non distolsi lo sguardo dalle tre donne. Anna sospirò, poi sollevò il mento con la solita fierezza e ricambiò il mio sguardo, rimanendo in attesa. Tutt'ad un tratto, Melissa alzò le mani nascondendovi il viso. «Oh, Vlad,» disse Wanda piangendo, «il suo villag-
gio è più lontano di venti leghe!» Poi, con voce spezzata, aggiunse, «le avevo avvertite di non cercare di ucciderti.» «Il tuo grido di avvertimento, mia cara,» risposi, «è stato così fievole che neppure io l'ho sentito.» E, quasi che nulla fosse accaduto, continuai: «Gli Szgany ritorneranno. E verranno anche degli Inglesi, che non vi azzarderete a toccare. Quanto alla vostra punizione per aver disobbedito ai miei ordini ed aver attentato alla mia vita, la prima parte di essa consiste in questo: aspettare.» Ricordi della trascorsa felicità vissuta con quelle donne affiorarono alla memoria mentre le guardavo; sorrisi a quei ricordi. Al che, prima Wanda, poi Melissa, cominciarono a piagnucolare. Non una sola parola sortì più dalle loro labbra. Portai di sotto il contadinello in quella che era stata la stanza di Harker e lo esaminai a dovere. Malgrado la grossa quantità di sangue prelevatagli, non era ancora nosferatu, o almeno il suo caso era ancora dubbio. Valutai la situazione e, sospirando, approdai alla conclusione che quale Signore del castello, fosse mio dovere adoperarmi al massimo perché il giovane tornasse a casa in condizioni decenti. Non vi era anima viva a cui potessi affidare una simile missione per cui, dopo aver ottenuto un carro ed un cavallo da Tatra, decisi di occuparmene personalmente pur sapendo che la cosa mi avrebbe portato via qualche giorno. Frattanto dovevo assolvere il quotidiano compito di seguire la navigazione della Zarina Caterina per mezzo delle schegge di legno e della polvere reperite sulla nave. Continuai a fare in modo che i venti le fossero favorevoli come se la mia fuga verso casa dipendesse effettivamente dal buon esito del viaggio. Giacché il nemico mi stava aspettando a Varna, avevo deciso di sopprimere la tappa della nave in quella città, sicché convogliai attorno all'imbarcazione alcuni venti scelti a proposito che, aggiunti ad una buona dose di nebbia, avrebbero confuso l'equipaggio sulla rotta da seguire, lasciandone a me la guida. Quando l'equipaggio cominciò a rendersi conto di quel che stava accadendo, la nave si trovava presso la foce del Danubio, nel porto di Galati, un po' più vicino alla mia dimora di quanto lo fosse Bucharest. I pontili di attracco di Galati erano nuovi ed efficienti, risalenti soltanto al 1887, e Galati era una prospera città portuale. Lo scarico della cassa ripiena di terreno fu curato dal mio inconsapevole agente, un certo Immanuel Hildesheim, oltraggiosamente descritto da Harker nel suo diario come «un ebreo del tipo buono per l'Adelphia Theatre, col naso come quello di
una pecora.» Hildesheim, eseguendo le istruzioni pervenutegli per iscritto da un certo Signor de Ville di Londra — naturalmente parente stretto ed amico intimo del Dr. Corday — consegnò la cassa a Petrof Skinsky, del quale ho fatto menzione in precedenza a proposito della partenza dalla mia terra d'origine. Appresa la notizia dell'arrivo a Galati della Zarina Caterina, la pattuglia nemica non perse tempo a raggiungere la cittadina partendo da Varna seduta stante, ed affrontando un viaggio in treno, relativamente breve, di trecento miglia. Naturalmente portarono anche Mina. E, mentre il treno attraversava Bucharest, la mia adorata guardò fuori dal finestrino nell'irragionevole speranza di scorgere la mia immagine. A Galati gli avventurieri interrogarono il Capitano della Zarina, uno scozzese superstizioso ma opportunista che aveva sospettato che qualcosa al di là della naturale fortuna si celasse dietro la strabiliante celerità del viaggio ma, cionondimeno, aveva ridotto al silenzio la ciurma riluttante sfruttando i vantaggi economici derivanti dalla brevità della traversata. Le informazioni raccolte dal Capitano, condussero Van Helsing ed i suoi uomini a Hildesheim, e da questi a Skinsky, il cui corpo con la gola tagliata fu rinvenuto nei pressi di un cimitero proprio quando cominciarono a chiedere di lui. Suppongo che avesse tentato di truffare in qualche modo gli Slovacchi e che fosse stato da loro ucciso ma, naturalmente, i documenti dei miei nemici alludono alla mia responsabilità circa quel crimine. La stanchezza cominciava a fiaccare i cacciatori, i quali restarono per un po', spossati e avviliti, nelle loro camere dell'Hotel Galati. Quincey continuò a curarsi le ferite al cuoio capelluto; cosa che non venne mai menzionata nei loro diari. Mina cominciò a temere che alla fine i suoi compagni non approdassero alla conclusione per la quale io e lei insieme ci stavamo dando tanto da fare. Per tale motivo decise di spronarli in tal senso attraverso una logica — benché fallace — catena di ragionamenti mirante a dimostrare dove la famosa cassa — divenuta ormai il loro sacro 'Graal' — dovesse per forza di cose trovarsi. Il ragionamento di Mina sulla probabile ubicazione della cassa, pur privo del mio intervento, non faceva una grinza. Naturalmente la sua utilità per il nemico poggiava, come lei ben sapeva, su due falsi presupposti: primo, che io non potessi muovermi, o avessi scelto di non recarmi a casa mia con le mie forze, preferendo che fossero altri a trasportarmici; e, secondo, che io mi trovassi effettivamente all'interno della cassa trasportata a bordo
della nave. Quando Mina ebbe finito di esporre agli uomini la sua analisi della situazione, quelli ne furono entusiasti e ne trassero nuovo vigore per riprendere l'inseguimento, al che la donna si trasse prontamente in disparte. Van Helsing in persona offrì alla sua intelligenza un tributo verbale, il cui splendore oratorio fu in parte offuscato dalle parole con le quali concluse il discorso: «Adesso, uomini, al nostro consiglio di guerra...» Le conclusioni esposte da Mina affermavano che la cassa fosse stata trasportata per mare nel luogo più vicino al Castello Dracula, sicché Arthur e Jonathan furono incaricati di intraprendere la caccia con una motolancia a nolo, risalendo il fiume Sereth fino al punto in cui si intersecava col Bistrita il quale, come Mina aveva fatto notare, cingeva il Valico di Borgo. «L'anello che forma,» aveva detto Mina, «raggiunge il punto più vicino al Castello Dracula di qualunque altro corso d'acqua.» Quincey e Seward, accompagnati inizialmente da due uomini chiamati a occuparsi dei cavalli non montati, dovevano costeggiare la sponda destra del Sereth, pronti a entrare in azione là dove la cassa sarebbe stata scaricata. Van Helsing, dal canto suo, aveva in mente alcuni obiettivi personali e, dopo una breve sosta a Galati, fu pronto a metterli in atto. «Condurrò la signora Mina direttamente nel cuore del territorio del nemico. Mentre la vecchia volpe è rinchiusa nella cassa e galleggia trasportato dalla corrente senza poter fuggire a terra... noi seguiremo la pista battuta da Jonathan, da Bistrita fin sopra il Valico per poi raggiungere il Castello Dracula. Qui, il potere ipnotico della signora Mina sarà certamente d'aiuto... Avremo un gran da fare, ed altri luoghi da epurare: distruggeremo quel nido di vipere.» Harker non esitò a lasciare la moglie per imbarcarsi sulla lancia, supponendo che in quel modo avrebbe avuto maggiori possibilità di confrontarsi con me; ma non fu altrettanto facilmente convinto della necessità di condurre Mina al castello. «Lei intende dire, Professor Van Helsing, che ha intenzione di portare Mina, così indebolita dalla tristezza e ammalata di quel morbo diabolico, direttamente nelle fauci della sua trappola mortale? Per nessuna ragione al mondo! Né per Dio, né per Satana!» Ma la sua resistenza da banditore di fiera nulla poté contro il potere ottenebrante del vecchio maestro. «La voce del Professore, in toni chiari e dolci che parevano vibrare nell'aria, ha placato noi tutti: 'Oh, amico mio, è perché io voglio salvare Mi-
na da quel luogo orribile che desidero andarci. Che Dio mi proibisca di portarla lassù. C'è molto lavoro — un terribile lavoro — da compiere, che i suoi occhi non dovrebbero vedere. Noi uomini, eccetto Jonathan, abbiamo visto con i nostri occhi cosa bisogna fare perché giunga la purificazione... se stavolta ci lasceremo scappare il Conte... potrebbe decidere di dormire un secolo intero, e allora la nostra cara' — ha preso Mina per la mano — 'gli terrebbe compagnia, e diventerebbe come quelle altre che tu, Jonathan, hai veduto. Tu stesso ci hai raccontato delle loro labbra gonfie di cupidigia; tu hai udito le loro crasse risate mentre afferravano la borsa animata che il Conte aveva gettato loro. Rabbrividisci; ed è giusto! Perdonami per il dolore che ti rinnovo, ma è necessario, amico mio! Non è forse una terribile necessità quella che mi chiama ad offrire in sacrificio la mia stessa vita? Perché se mai qualcuno dovrà rimanere in quel luogo, ebbene ci sarò io a tenergli compagnia.'» L'idea di Van Helsing trasformato in vampiro è tale che la mia immaginazione non riesce a contemplarla, il che, senza dubbio, è frutto di una mia deficienza. In effetti, il Professore potrebbe essere adatto al ruolo considerando che, come abbiamo visto, era già dotato del potere di far cadere in trance le sue vittime col solo impiego delle parole. Comunque sia, Harker, nella sua confusa impazienza, fu indotto a credere che col suo atteggiamento stesse danneggiando sua moglie: «Faccia quel che vuole,» concesse Jonathan con un singhiozzo che gli scosse tutta la persona. «Siamo nelle mani di Dio!» A questo riguardo i sentimenti di Mina erano molto complessi. Al di là di ciò, essa era al tempo stesso curiosa di vedere come quegli uomini avrebbero offerto le loro vite ed i loro quattrini nei preparativi per l'assalto finale al Castello di Dracula ed al suo temibile Signore: «Oh, mi è stato di giovamento vedere con quanto impegno questi uomini coraggiosi si sono messi al lavoro. Come può una donna impedirsi di amare uomini così seri, così sinceri e coraggiosi! E nel contempo tutto ciò mi fa pensare al meraviglioso potere del danaro!» Questa era Mina. Il trenta di ottobre i miei nemici, schierati su tre versanti, si lanciarono nella nuova battuta di caccia. Van Helsing condusse Mina in treno fino a Veresti, dove aveva intenzione di comprare una vettura e proseguire fino al Valico di Borgo. Jonathan ed Arthur si apprestarono a risalire il Sereth; a giudicare dalle riparazioni che dovette effettuare lungo il tragitto, Arthur si rivelò un motorista di buon livello. Due giorni dopo, giunsero al Bistrita, ricevendo, durante la navigazione, aggiornamenti occasionali dalla gente
del fiume sulla nave slovacca sulla quale si trovava la mia cassa. Quincey Morris e il Dr. Seward svolsero la parte meno eccitante della missione, trottando attraverso il paese finché non si ricongiunsero ai compagni provenienti dal fiume verso la fine — o quella che tutti credevano fosse la fine — della partita. Il viaggio di Van Helsing con Mina fu alquanto più vivace, ma mai movimentato come invece lo sarebbe stato se io avessi davvero avuto intenzione di distruggerlo com'egli pensava. Il Professore annotò nel diario: «La nostra carrozza è arrivata al Valico poco dopo l'alba il mattino del tre di novembre.» Gli appunti che seguono sono piuttosto confusi e poco attendibili, giacché, per esempio, si legge che la coppia non giunse al castello prima del tramonto del giorno successivo. Il che significherebbe che due intere giornate erano occorse per coprire una distanza che io, vetturino della carrozza che aveva condotto Harker al castello, avevo percorso in un paio d'ore, malgrado i giri deliberatamente oziosi e le frequenti soste per localizzare i tesori apparsi quella notte. Forse Mina ed il Professore — entrambi, per ragioni diverse, ma in condizioni psichiche particolari — si erano appisolati per parecchie ore mentre i cavalli avevano oziato od avevano cercato da soli le strade tra le poche disponibili. La teoria del dormiveglia diurno è confortata dall'affermazione di Van Helsing in base alla quale la notte tra il tre ed il quattro novembre sarebbe stato sveglio per tutto il tempo a mantenere il fuoco acceso. Mina cominciava a rifiutare il cibo, ed il professore commentò: «Non mi piace.» Durante la notte, fu sul punto di cedere al sonno, ma ogni volta si ridestava e scopriva Mina «così radiosa, tenera e premurosa,» che le sue paure si erano in parte dissipate. Tuttavia, nella notte tra il quattro ed il cinque novembre, di nuovo cominciò a temere che «il fatale maleficio del luogo si fosse impossessato di lei, contaminata com'era dal battesimo del vampirismo.» E adesso il Castello Dracula, pur distante, era apparso alla vista, così il Professore scelse un sito nei dintorni per una sorta di accampamento base. Mina continuava a dichiarare di non aver fame, e non riuscì ad attraversare il circolo di Ostia sbriciolata che l'uomo aveva formato intorno a lei, esclusivamente per proteggerla. Van Helsing si era naturalmente corazzato con tutto il solito armamentario religioso ed erboristico. Quando calò il buio, i cavalli cominciarono a nitrire e, nel mezzo di un turbinio di neve, apparvero le tre donne del castello, prendendo lentamente
forma tra le ombre non raggiunte dal bagliore del fuoco. Dalle descrizioni di Harker, Van Helsing riconobbe subito «le forme tonde e ondeggianti, gli occhi fieri e luminosi, i denti bianchi, il colorito vermiglio, le labbra voluttuose...» Per qualche ragione, il Professore aveva un debole per il termine voluttuoso. Ahimé, povera Anna, Wanda e Melissa. Le avevo avvertite di non toccare alcuno degli attesi «Inglesi», e adesso, troppo tardi, stavano obbedendo alla lettera ai miei ordini. Di fatto erano uscite per spaventare Van Helsing farfugliandogli qualcosa nel buio e scolarsi il sangue dei cavalli invitando Mina, loro sorella, ad unirsi al banchetto. Forse credevano che Van Helsing, al pari di un qualsiasi contadino dei villaggi lì intorno, sarebbe stato sopraffatto dal panico e sarebbe fuggito a gambe levate finendo in un burrone, cieco di terrore. Le ragazze ignoravano il suo nome; né io avevo detto loro che... Erano disobbedienti; e non lo erano state una sola volta, ma persistevano ostinatamente nel disobbedirmi. Nei tempi passati un simile comportamento le avrebbe condotte all'impalatura quando erano ancora comuni mortali... non avevate pensato che questa è l'unica punizione che si possa infliggere ugualmente ad un uomo e ad un vampiro? Alcuni dicono che, quando vivevo come un uomo comune, ero noto col nome di Vlad l'Impalatore. Bah, è cosa sgradita esser ricordati solamente per cruenti atti di macelleria, non importa quanto giusti o necessari, e sapere i propri fini e ideali dimenticati... Ma non importa! Avevo tollerato troppo a lungo la disobbedienza delle tre donne, culminata nel tradimento e nell'assalto ai danni di innocenti. Oltretutto, se le cose si fossero messe in modo da far sì che Mina si ricongiungesse subito a me nel mio castello, non avrei certo voluto quelle tre a sputare di gelosia ed infastidirla in ogni modo. All'alba del cinque di novembre, Seward vide «la banda di Szgany... schizzare via dal fiume col carro carico. Tutti raggruppati intorno al carro, si sono allontanati in fretta e furia come fossero assediati.» Si trattava di Tatra e di alcuni dei suoi uomini più fidati i quali, eseguendo i miei ordini, avevano ritirato la cassa dalla nave senza aprirla e si stavano precipitando al castello per consegnarla. Nello stesso istante, Jonathan ed Arthur, abbandonata l'imbarcazione ormai irreparabile, si erano procurati in qualche modo dei cavalli e stavano anch'essi alle calcagna degli Szgany. Io, intanto, assolto il dovere che mi imponeva di aiutare lo sventurato
contadino, ero ritornato al castello poco prima dell'alba; e adesso, ricompostomi in forma umana, strizzavo gli occhi abbacinati dal primo sole mattutino per distinguere la figura umana che si stava inerpicando solitaria su per il pendio che conduceva alle mie mura proibite. Quando riconobbi Van Helsing, serrai le dita intorno al margine della feritoia attraverso la quale stavo guardando, e le strinsi talmente forte da sbriciolare le antiche pietre nelle quali il ferro era infisso. Ero tuttavia intenzionato a lasciargli campo libero, a far sì che si convincesse di aver sterilizzato la mia dimora. Mina era per me assai più importante di qualsiasi cosa o persona che avrebbe potuto distruggere. Rimasi lì, nel mio osservatorio elevato, relativamente assolato dove, a mio giudizio, era improbabile che sarebbe venuto a cercarmi. Non appena ebbe raggiunto l'ingresso principale del maniero, un sordo boato risuonò dal basso, riecheggiando attraverso le corti e le stanze. Più tardi, scoprii che il Professore aveva prudentemente scardinato le due massicce porte onde evitare di rimanere intrappolato all'interno per disgrazia o in virtù di qualche piano vampiresco. Per compiere l'operazione si servì di un utilissimo martello che aveva portato nella borsa degli arnesi, e per il quale sperava di trovare anche un altro impiego. Come scrisse in seguito, stava lavorando alle porte quando gli parve di udire «un ululato di lupi in lontananza. Mi sono ricordato allora della cara signorina Mina...» L'aveva infatti lasciata sola a dormire sulla neve, ravvolta da coperte per ripararla dal freddo ma priva di una protezione più efficace dell'anello di Ostia sbriciolata sul terreno innevato. Se non avesse mai bevuto dalle mie vene, con ogni probabilità sarebbe morta assiderata. E se quei lupi si fossero aggirati nei paraggi in cerca di cibo... ma le cose stavano diversamente, giacché ero stato io a mandarli in giro a cercarla ed a farle buona guardia. Naturalmente, Van Helsing ne era del tutto ignaro. I pericoli che Mina avrebbe potuto correre lo posero, com'egli scrisse: «in una condizione terribile. Il dilemma mi teneva stretto tra le sue corna.» Pur convinto che il suo Cerchio Santo la salvaguardasse dai vampiri giorno e notte, «c'era sempre il pericolo dei lupi.» Ma l'insidia reale delle zanne di un lupo affondate nella pelle di Mina e il dilemma le cui corna metaforiche attanagliavano il senso morale del Professore, non furono tali da indurre un uomo come Van Helsing a rinunziare al raggiungimento del suo obiettivo ora che questo gli era tanto vicino. «Ho deciso che devo prestare qui la mia opera. Quanto ai lupi, dobbiamo
sottometterci alla volontà di Dio. In ogni caso, si sarebbe trattato soltanto della morte, e della libertà oltre essa. Così ho scelto questa via.» Così descrive il suo operato: «Sapevo che c'erano almeno tre tombe da scoprire... tombe abitate; così ho cercato, ho frugato intorno, finché ne ho trovata una. Essa dormiva nel suo sonno di vampiro, così piena di vita e voluttuosa bellezza che rabbrividii quasi fossi sul punto di commettere un assassinio.» Figuriamoci, Professore, perché mai avresti dovuto sentirti in quel modo? «Ah, dubito che nei tempi del passato, quando sovente accadevano tali cose, molti di coloro che si apprestavano ad un compito simile al mio sentissero alla fine venir meno il cuore e la forza. Allora, se ciò accadeva, l'uomo indugiava, finché il fascino e la bellezza della lussuriosa Morta Vivente non finivano per ipnotizzarlo; e così lui rimaneva lì immobile fino al tramonto, quando la vampira si destava dal suo sonno. Gli occhi della donna incantevole si aprivano...» Ai miei tempi ho conosciuto un paio di vampire bruttine. Triste è la loro sorte! «... e lanciavano sguardi d'amore, e la bocca voluttuosa anelava un bacio... l'uomo è debole, si sa. Così egli rimaneva irretito nell'incanto della Vampira...» Una tale debolezza non intaccava il rigore di Van Helsing, sebbene egli stesso ammettesse che: «ero sospinto ad un desiderio di indugiare, di prender tempo, che sembrava paralizzare le mie facoltà... stavo quasi per cedere al sonno, il sonno ad occhi aperti di chi soccombe, vittima di un dolce incanto, quando tutt'a un tratto un lungo, roco gemito ha penetrato l'aria ovattata di neve. Era un lamento così penosamente intriso di afflizione e pietà che mi ha ridestato dal torpore come fosse uno squillo di tromba. Giacché quella che sentivo era la voce della cara signora Mina.» Personalmente mi sembra più plausibile che quella sorta di ululato fosse stato emesso dalla gola di uno dei lupi che avevo messo a guardia della donna; ad ogni buon conto, il Professore non si prese il disturbo di andare a controllare cosa stesse facendo Mina vis-a-vis coi lupi, ma tornò a occuparsi dell'«orrido compito» dal quale era stato distratto. Sicché — così ci racconta — scoperchiando le tombe lì intorno non tardò a trovare: «un'altra delle sorelle, la bruna. Stavolta non mi sono soffermato a guardarla come avevo fatto con la sorella, temendo d'essere nuovamente
rapito nella sua malia. Ho continuato a cercare, finché, in una grossa tomba, di quelle che si erìgono in omaggio ad una persona molto amata, non ho trovato l'altra sorella... era così incantevole, la sua bellezza così radiosa, così squisitamente...» Indovinate un po'? «... voluttuosa, che l'istinto virile che è in me... mi ha fatto turbinare la testa di nuove emozioni.» Naturalmente non fu sopraffatto da un istinto così peculiarmente umano. Dopo aver empiamente distribuito altra Ostia nel mio sarcofago, disgraziatamente vuoto, si fece animo per affrontare il «terribile compito... ve ne fosse stata una sola, il confronto sarebbe stato più facile. Ma tre! Ricominciare due volte ancora dopo aver già compiuto quell'atto di orrore...» Il Professore non documenta l'ordine nel quale massacrò le sue vittime, ma io posso testimoniare che Anna fu l'ultima. Mi seccò che alla fine urlasse il mio nome. E quando sentii qualcosa in me cedere alla commozione e struggersi a quel suono, capii che ero davvero cambiato; capii che il mio soggiorno a Londra e l'amore per Mina non erano stati privi di effetti profondi... ma se un tale mutamento, un simile intenerimento della mia natura, fosse un bene od un male, non ero ancora in grado di giudicarlo. Così il Professore, stoico esecutore del dovere, sopportò tre volte «le orride urla ad ogni colpo del paletto, i moti convulsi e le labbra sbavanti schiuma insanguinata.» Poi, prima di lasciare il castello, ne sigillò gli accessi in modo tale che mai più il legittimo proprietario sarebbe potuto entrarvi «come Morto Vivente.» È arduo immaginare quali mezzi avesse impiegato a tal fine. Sicuramente delle particelle di pane transustanziato avrebbero cessato di rassomigliare a pane, e di conseguenza avrebbero cessato di essere il corpo di Dio al massimo entro un paio di mesi. Ad ogni modo, quando uscii o entrai dal castello, non trovai alcun impedimento. A questo punto non resta molto da raccontare. Fiaccato dalla luce diurna, e dalla lunga ancorché indiretta esposizione al sole, scesi dai bastioni del castello e mi portai su una sporgenza rocciosa lungo la strada dalla quale di lì a poco sarebbero giunti gli Szgany. Lì rimasi in attesa, irradiato dagli ultimi lucori pomeridiani. Percepii il fragore distante del carro che avanzava veloce, e più distante ancora riconobbi lo scalpiccio degli zoccoli delle Furie che avevano inseguito i miei compiici per tutto il giorno. Mentre aspettavo, i lupi si presentarono a rapporto, offrendomi un muto resoconto fatto di ululati, cenni della testa e guizzi di pensieri. Sorrisi, pre-
figurando l'epilogo di quello strenuo inseguimento. Appresi anche in quale luogo si trovasse Mina, in compagnia del Professore tornato al suo fianco, entrambi in attesa dei compagni. Chiamai intorno a me violente raffiche di vento e neve allorché scesi in strada davanti al carro degli zingari, fermando i cavalli più col sentore della mia presenza che col braccio sollevato nell'aria. «Padrone!», esultò Tatra dalla serpa. «Io credevo...» Poi si voltò perplesso a guardare la pesante cassa alle sue spalle. Gli Szgany intorno a lui tirarono con forza le redini frenando i cavalli lanciati al galoppo. «Ora non c'è tempo di spiegarvi, miei fedeli servitori,» dissi, balzando sul carro. Posi le dita sotto il coperchio della cassa e l'aprii, estirpando viti e chiodi. «Ripartite adesso! E, mentre andiamo, uno di voi inchiodi nuovamente la cassa. Ma ricordatevi soprattutto che non devono tirarmi fuori prima del tramonto.» Mi distesi nella cassa, sulla terra straniera che non mi dava pace né riposo, ed aspettai, benedicendo la lealtà dei miei uomini. Come avrei potuto tendere una simile imboscata ai miei nemici nella fredda ed estranea Inghilterra? Braccia volenterose inchiodarono di nuovo il coperchio sopra di me, mentre il carro riprendeva la sua corsa guadagnando via via velocità. Chiamai a raccolta altri lupi ed ordinai loro di mettersi alle calcagna dei miei inseguitori. Fu una mossa strategica destinata a soccorrermi nell'eventualità che all'ultimo momento fosse stato necessario un attacco di diversione. Io so riconoscere l'arrivo del crepuscolo, anche se il cielo è offuscato, o nero di nubi spesse. Quel giorno era particolarmente nuvoloso, e, ad intervalli, cortine di neve calavano sul paesaggio roccioso fitto di pini. Ma siate pur certi che sapevo con esattezza quando il tramonto sarebbe calato su quel lungo giorno. Dopo quattro secoli di dipendenza da esso non c'era modo che mi sbagliassi. I nostri cavalli avanzavano a fatica. Quelli del nemico si avvicinavano sempre più. Poi, tutt'ad un tratto e pressoché simultaneamente, due voci — quella di Harker e quella di Morris — gridarono in Inglese: «Fermatevi!» Attraverso il coperchio di legno sentii le voci dei miei nemici contendere con quelle dei miei amici, dopo di che il carro si arrestò. Mi bastavano soltanto pochi istanti, pochissimi... Decisi di rischiare l'attesa senza chiamare i lupi. L'astronomo, il metereologo, l'artista, ciascuno ha la sua propria definizione del momento esatto del sorgere e del calar del sole. Per me, il tra-
monto avviene quando la massa della terra cresce al punto da attenuare in maniera massiccia il flusso di neutrini — o qualunque sia il nome corretto di tale flusso — che, emanato dal sole scoperto, pone il corpo ed il cervello del vampiro in uno stato di parziale paralisi. Nel momento in cui il primo dei miei nemici balzò sul carro, la massa di una montagna mi schermò dal sole. Mina, da una postazione appena più elevata dalla quale insieme a Van Helsing guardava ciò che stava accadendo di sotto, notò che «il castello di Dracula si stagliava contro il cielo rosso, ed ogni pietra dei bastioni rovinati si delineava contro la luce del sole calante.» Era stato Harker in persona a montare sul carro, e subito «con una forza che aveva dell'incredibile, sollevò la cassa e la scaraventò giù sul terreno.» Quincey Morris, nonostante avesse subito una ferita che più tardi si sarebbe rivelata fatale, protese l'offensiva di Harker contro gli Szgany, e lo aiutò a rimuovere il coperchio della cassa. Seward e Lord Godalming, con i fucili imbracciati, si aggiunsero alla partita, ed i coltelli dei miei zingari furono poca cosa contro i loro Winchester. Il coperchio fu strappato dalla cassa e subito lanciai uno sguardo al cielo d'occidente dal quale il sole era appena scomparso. Sentii la forza tornare in me. Avevo calcolato bene i tempi; anzi, posso tranquillamente vantarmi di affermare che il mio tempismo era stato veramente perfetto. Mina gridò quando vide il coltello di suo marito recidermi la gola... «...mentre nel medesimo istante il coltello da caccia del signor Morris affondava nel suo cuore. È stato come una sorta di miracolo: davanti ai nostri occhi, e quasi nel tempo d'un respiro, tutto il suo corpo si è ridotto in polvere ed è sparito alla nostra vista. Sarò lieta per tutto il resto della mia vita che persino in quell'attimo di dissoluzione finale un'espressione di pace inimmaginabile abbia dato serenità a quel volto.» E così sarà anche per me, mia cara; giacché quell'espressione significava che il mio corpo, trafitto al cuore ed alla gola dal lancinante dolore metallico, trovò il sollievo dell'anestesia nel balsamo della vittoria, mentre mutandomi in nebbia mi dileguavo inosservato tra girandole di neve, invisibile a coloro che avrebbero guardato nella mia direzione... Avevo temuto che Van Helsing o Seward, o persino qualcuno degli altri, avrebbero nutrito qualche preoccupazione in merito all'efficacia delle armi
metalliche con le quali, stando alle apparenze, ero stato così facilmente annientato. Inoltre non vi era stato nulla delle grida, convulsioni e schiumosa bava vermiglia, fenomeni questi che avevano accompagnato puntualmente ciascuno dei precedenti linciaggi di miei consimili. Ma non era il caso che mi preoccupassi. I miei cacciatori erano fisicamente ed emotivamente esausti, e più che mai pronti a ritenere totalmente soddisfacente quel finale di partita. Anche il subconscio di Mina aveva trovato piena soddisfazione in esso; di fatto, nel momento stesso in cui urlò, ignara della veridicità della mia morte, l'emblema del vampirismo svanì dalla sua fronte per mai più farvi ritorno. Riuscì finalmente a varcare il Cerchio Santo di Van Helsing per correre tra le braccia di suo marito e recare l'estremo conforto a Morris negli ultimi istanti della sua vita. Gli zingari si erano defilati, disperdendosi in varie direzioni, ed io, dissoltomi in una massa fumosa nel mezzo della bufera di neve, mi allontanai... Per poche ore... Cessò di nevicare poco dopo il tramonto, e la notte che seguì fu particolarmente fredda. I miei nemici si accamparono all'aperto: le paure e forse le coscienze di alcuni tra essi non li avrebbero lasciati riposare entro le mura del Castello Dracula. Accesero un fuoco per intimidire i lupi — i miei figli turbati dagli eventi continuavano a ululare in lontananza — e stabilirono dei turni di guardia. Ma, uno dopo l'altro, sprofondarono in un sonno agitato intorno alle fiamme languenti, finché soltanto una persona rimase sveglia: colei che aveva imparato a far della notte il suo giorno. Feci più grave il sonno degli altri e sostai nel bagliore che la fiamma irradiava all'intorno, là dove gli occhi irrequietamente vigili di lei non avrebbero indugiato a scorgermi. Non appena mi vide, la mano corse alla fronte in un gesto automatico, per ritrovare la certezza che la pelle fosse tornata liscia e immacolata. Guardò gli uomini addormentati intorno a lei, poi si alzò in piedi e s'incamminò verso di me, posando con cautela gli stivali pesanti sul terreno ghiacciato. Persino a quella distanza, mi accorsi che qualcosa era cambiato. Non riuscii ad intuire di cosa si trattasse esattamente, ma d'improvviso mi sentii pervaso da un senso di circospezione. «Vlad,» disse Mina in un tono sbrigativo e scevro da preamboli, «tu mi hai dato la tua parola che non ho nulla da temere in quanto a... a conseguenze fisiche permanenti derivanti dalla nostra relazione. È così?» «Sì.» Mi chinai senza distogliere da lei i miei occhi ora prudentemente
guardinghi. «In questo momento si tratta di una questione di importanza determinante,» continuò, interrompendosi poi di nuovo per eruttare debolmente. «Scusami.» «Provi repulsione per il cibo? Passerà presto, così com'è accaduto con la stimmata sulla fronte. Ti ho già detto che queste manifestazioni non sono altro che il risultato del potere ipnotico di Van Helsing...» «Questo non ha niente a che fare con Van Helsing, o con l'ipnosi,» mi interruppe bruscamente. «Il fatto è che sono incinta.» La mia bocca si aprì senza profferire parola. «Sono incinta, e non ho intenzione di mettere a rischio la salute del mio bambino. Ti sto dicendo addio, Vlad. Capisci?» Non potei far altro che annuire. Credo fosse nell'estate del 1897 quando Mina ed il suo buon Jonathan, in compagnia di Lord Godalming e del Dr. Seward — anch'essi con tanto di mogli e figli al seguito, nonché naturalmente l'immancabile personaggio di nostra conoscenza a far da mentore e guida — quando, dicevo, l'intera compagnia tornò ancora una volta a visitare la mia patria incantevole. Suppongo che anche allora, come in passato, i contadini incrociassero le dita mormorando preghiere e scongiuri una volta appresa la destinazione dei pellegrini; tal genere di cose non mutano in sei o sette anni. Benché attualmente, com'è naturale, il Castello Dracula sia quasi del tutto sparito dai ricordi come dal paesaggio, nel 1897 i turisti trovarono ben poco di cambiato. Sono certo che Mina dovette faticare non poco per convincere la comitiva — suo marito, quantomeno — a compiere il viaggio; d'altronde, fossi stato in lui, non avrei certo scelto la Transilvania quale meta delle mie vacanze. Pur distante tante miglia, seppi subito che lei si stava dirigendo nella mia terra. E naturalmente avvertii la sua presenza nel cortile del castello in rovina quel giorno inondato di luce estiva, allietato dal cinguettio degli uccelli e a tratti adorno di fiori rampicanti. Dopo aver chiacchierato con gli altri su questo o quell'elemento architettonico del castello, discese da sola quella che potrei definire la mia tomba 'ufficiale'... la stessa che aveva scoperto Van Helsing. Vi era — e tuttora vi è — un'altra tomba, molto più intima, poco distante. Col chiarore abbagliante dell'esterno, persino la cripta sotterranea era illuminata a giorno. Mina sostò un lungo istante a capo chino davanti all'im-
ponente monumento che reca il mio nome. D'un tratto si voltò... e mi trovò là ad attenderla, seduto con aria indifferente su una lapide poco appariscente. «Mi hai fatto trasalire,» disse sollevando una mano al seno in un gesto da verginella vittoriana che lasciò incompiuto a mezz'aria sotto il peso del mio sguardo. Poi mi domandò: «Come stai, Vlad?» «Abbastanza bene. Continuo a... seguire il mio destino.» Feci un gesto vago, ignaro io stesso di ciò che intendevo. «E tu?» Dallo spazio esterno sopra di noi giunsero le voci degli altri componenti della comitiva, e tra esse accenti fanciulleschi. Un'ombra attraversò fugace il volto di Mina, e subito ne indovinai il significato. «Il piccolo è puro, intatto dalla nostra relazione. I flussi sanguigni non si mescolano in grembo,» dissi. Così pensavo allora; in seguito gli uomini di scienza hanno perso tale certezza. «Due figli, Vlad. Ho partorito due gemelli.» «Sono dunque puri entrambi. E se anche non lo fossero? Essere un vampiro non è la sorte peggiore che esista a questo mondo.» Sulla sorte toccata a Lucy, figlia di Mina, non posso esprimere commenti, giacché, per quel che mi risulta, essa è tuttora in vita. Quanto a Quincey, il maschio della coppia, continuò a respirare normalmente per tutta la sua breve vita; si servì di granate e baionette per togliere il sangue agli uomini, e fu il ferro tedesco a fargli versare il suo nel 1916 presso il fiume Somme. Il volto di Mina si rischiarò e restammo a guardarci, e parve che la mia amata si stesse chiedendo cosa fosse opportuno dire. Poi, gradualmente, le labbra si atteggiarono in un sorriso. «Vlad, Vlad,» disse, mentre scuoteva il capo. «Ci sono stati dei momenti in Inghilterra, nei giorni di sole splendente, nei quali — perdonami — ho dubitato della tua stessa esistenza.» «Davvero? Ma non dartene pena! Ogni anno che passa, sono sempre meno coloro che credono in me. Ma, se anche tutti dovessero dimenticarsi di me, io ci sarò comunque, come il resto di una civiltà scomparsa.» «Oh, Vlad! La tua vita è così solitaria! E per sei anni sei stato qui ad aspettare!» Beh, in verità la mia attesa non era stata poi tanto solitaria, ma evitai di correggere la sua considerazione. Sopra di noi, i passi incauti di una piccola folla risuonarono sulla volta di pietra; si fecero man mano più vicini, poi una voce squillante chiamò: «Mamma! Mammina, sei laggiù?» In silenzio mi chinai su Mina e le baciai le labbra, premendole qualcosa
nel palmo della mano. La luce diurna mi impediva di cambiare forma, ma quella era pur sempre casa mia e sapevo come muovermi. Due bambini scesero di corsa nella cripta e, prima che si avvicinassero alla tomba ero già sparito, acquattatomi a osservare. «Mammina, mammina, sei lì. Ohh, cosa sono queste? Tombe!» In quel momento Harker in persona, brizzolato e un po' più corpulento, entrò nella camera sotterranea e si arrestò di colpo non appena si accorse in quale sepolcro avesse messo piede. «Signore,» mormorò, «non avrei mai creduto che un giorno saremmo entrati in questo luogo con tanta serenità e sicurezza.» «Sono venuta ad offrire una preghiera, Jonathan,» disse sua moglie. «Per lui.» Il marito non la stava guardando, e gli occhi guizzarono verso il punto nel quale mi ero dileguato. «Affinché un giorno potessimo incontrarci... in un luogo più felice di questo.» «Quanto sei generosa, tesoro, a pregare per lui,» mormorò Harker, accarezzandole i capelli con un gesto di possesso che evidentemente le guastò la pettinatura, poiché subito le dita sapienti della donna rimisero a posto la ciocca scomposta. «Cos'hai in mano, Mina?» «Oh, è un anello d'oro. L'ho trovato qui, in una fessura tra le pietre del pavimento. Credi che possa tenerlo?» «Non vedo perché non potresti, mia cara. Dubito che il legittimo proprietario verrà a cercarlo. Ha, hum. Quincey, Lucy, mostrate un po' di rispetto, non sedetevi sulle lapidi.» Ho più visto Mina da allora? Beh, sì, devo ammettere d'averla incontrata un paio di volte. Jonathan morì di apoplessia, che imperversò a Neville Chamberlain nel 1938. Mina visse fino all'età di novantacinque anni, e spirò nel 1967 in una clinica di Exeter. Fu quindi sepolta nella tomba di famiglia nel Cimitero di St. Peter, non molto lontano dal punto in cui siamo rimasti bloccati adesso... Van Helsing, Dio conceda riposo alla sua anima tormentata, aveva ragione su una cosa almeno... Una volta mescolato il mio sangue a quello degli umani per un certo numero di volte, tutti devono necessariamente risvegliarsi dopo la parvenza di morte. Le eccezioni sono estremamente rare. Alcuni individui, come Lucy Westenra, emergono dalla tomba nel giro di due o tre giorni. I moderni metodi di imbalsamazione sono determinanti in tal senso poiché, se il
cuore del vampiro viene quasi distrutto, occorrerà molto tempo per ricomporsi. Ciò avverrà comunque, sempre che la distruzione non sia stata completa. Ma, dopo la ricrescita, passerà altro tempo durante il quale il corpo sepolto, ancora quiescente, si rigenera fino a riacquistare la giovinezza. E dopo... Il vincolo tra me e Mina si è allentato col tempo, ma non si è mai spezzato. E stanotte sono venuto qui a darle il benvenuto nella sua nuova vita. Una vita nella quale, pur conservando memoria delle afflizioni terrene, confido troverà gioie immense, ignote a coloro che comunemente respirano... Mina! Il nastro finisce dopo poco, e gli unici suoni incisi sul pezzo rimanente sono il sibilo della neve e del vento che infuriano intorno ai finestrini dell'auto, nonché quelli che alcuni ascoltatori hanno descritto come distanti scoppi di risa, una gaia e femminile, l'altra profonda e maschile. FINE