JACK WILLIAMSON LA STIRPE DELL'UOMO (Manseed, 1982) PARTE PRIMA: IL DIFENSORE I In quell'incubo, era privo di corpo: spa...
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JACK WILLIAMSON LA STIRPE DELL'UOMO (Manseed, 1982) PARTE PRIMA: IL DIFENSORE I In quell'incubo, era privo di corpo: spaventato, vagava senza posa nella vacua oscurità circostante, perseguitato da cose che non avevano forma, che non emettevano suoni, che non possedevano una mente, ma solo una mostruosa voracità nei suoi confronti. Tentò di allontanarsi, ma non aveva arti per farlo, né una sua volontà o un appiglio cui aggrapparsi. La sveglia trillò. Si destò da solo, coperto di sudore gelido, tremante, annaspando alla ricerca di Jayna fino a che ricordò che se n'era andata. Rimanendo steso in quel letto terribilmente vuoto, tentò di comprendere il sogno che aveva fatto: doveva essere stato causato dalle condizioni in cui si trovava ora che era rimasto senza di lei... svuotato, impotente, ancora sconcertato. Sforzandosi di non odiarla, la rivide con l'occhio della mente, nuda e seducente, mentre scivolava giù per una spiaggia corallina verso un punto in cui la risacca fosse più violenta, con Crowler che la seguiva ansando. Ancora intontito, arrestò la suoneria della sveglia e cercò pensieri meno dolorosi: la conferenza da tenere alle dieci, la riunione del comitato per i curriculum, il seminario avanzato, la concessione, ancora in sospeso, per svolgere ricerche sulla micromemoria a più livelli, ed infine il salto a La Jolla per controllare il software Biowand di Tomislav. Avvertì il morso della fame, ma non faceva più colazione, adesso, non da quando lei se n'era andata; mentre si vestiva, sentendo la mancanza delle manifestazioni di disapprovazione di Jayna per la discordanza di tinte fra camicia e cravatta, accese la televisione per ascoltare il notiziario del mattino: carestie, disordini, terrorismo.... il mondo sembrava essersi adeguato al suo stato d'animo selvaggio, e non c'era gioia in nessun luogo. Spense la televisione e, avviandosi a piedi verso il campus di Kingsmill, tentò di assaporare la primavera: gli alberi coperti di foglie, un profumo di fiori che giungeva da chissà dove, studenti e studentesse dalle gambe lunghe che sembravano sbocciare da jeans attillati e scarpe da ginnastica. Un
uccello parve volerlo deridere con il suo canto, e gli fece sentire ancora la mancanza di lei: da quando Jayna se n'era andata, tutto il mondo era come svuotato. Quando raggiunse la porta del suo ufficio, il telefono stava trillando. — Martin Rablon? — Sentì il cuore che gli si arrestava, perché quella voce femminile, fredda e musicale, avrebbe potuto appartenere a Jayna. — Lo scienziato di computeristica? — Insegno scienza dei computers. — Io sono Megan Drake, della Fondazione Raven. Abbiamo bisogno di consigli su un nuovo indirizzo che intendiamo adottare nel campo dei computer. — Jayna non aveva mai cercato di capire i computer. — Professore, sarebbe disponibile per una consultazione? — Certo. — Quella era un'altra via di fuga, cosa di cui Rablon era grato. — Dopo la cerimonia per la consegna delle lauree.... Il nero abisso interminabile dell'incubo: stava sprofondando in esso, sprofondando senza sosta. — Chi sono io? Esigenze inespresse esplosero dentro di lui: che luogo era quello? Tutto ciò che conosceva erano l'oscurità, la quiete, quell'infinità senza fondo, tutto questo ed un opaco senso di sconforto che gli pulsava nella testa, una punzecchiante mancanza di sensibilità nelle dita, nella faccia, nei piedi. Continuò a sprofondare... oppure stava, chissà come, galleggiando? Quando cercò intorno a sé non percepì alcun senso di movimento o di sostegno, alcuna indicazione sul tempo e sul luogo, nessun bagliore di luce o accenno di qualcosa, al di là di quella fastidiosa pressione che non poteva peraltro essere definita dolorosa. Quella pressione continuò a crescere dentro di lui, violenta, in tutto il corpo, fino a quando credette di non poterla più sopportare; eppure, quando tentò di lottare, ogni suo sforzo parve farla serrare maggiormente tutt'intorno a lui, facendo penetrare sempre più a fondo quella grigia e dolorosa sensazione di gelo, cui non trovò alcun modo di porre fine. Continuò a sprofondare, o forse a fluttuare, in quel buio silenzioso e soffocante, senza urtare nulla, tutto il corpo raggelato... se davvero possedeva un corpo... privo di respiro ed addirittura della necessità stessa di respirare, circostanza che divenne di per sé un doloroso rompicapo. Era seduto vicino alla piscina con un margarita in mano, la gamba offesa
appoggiata su un'altra sedia. La spuma di un'onda lo colpì in viso quando un grassone si tuffò in acqua, ed un raggio di sole gli trafisse gli occhi. Voltandosi per ripararli dalla luce, notò la ragazza che si stava avvicinando con passo deciso, seguendo il direttore dai capelli lisci e lucidi, fra i tavoli per lo più vuoti: entrambi stavano cercando lui. — Señor Brink? Questa è Mees Drake. — Megan Drake. Quella ragazza gli piaceva, anche con gli occhiali da sole scuri, alta e vigorosa, i capelli di un rosso brunito sotto il sole; la visitatrice sorrise per ringraziare il direttore che sembrava indugiare nella speranza di una mancia, poi, mentre aspettava che questi se ne andasse, si tolse gli occhiali: i suoi occhi grigioverdi e molto chiari piacquero immensamente a Brink. — Lei è Don Brink? Lui annuì, congedò il direttore con un gesto e si protese per accostare una sedia, che la ragazza accettò, lanciando, mentre sedeva, una fuggevole occhiata alla gamba malata di Brink. — Il... soldato mercenario? — aggiunse. — Per favore... — Suo malgrado, Brink si accigliò. — Se lei è una giornalista, io non parlo del mio lavoro. — Non sono una giornalista. — La ragazza parve divertita. — In effetti, abbiamo imparato anche noi ad evitare ogni forma di pubblicità. Faccio parte della Fondazione Raven, e sono qui per un convegno di biogenetica. Ho sentito parlare di lei, e credo di avere un lavoro... — Temo sia giunta un po' tardi. — Con una secca scrollata di spalle, Brink mosse la gamba malata. — È stato ferito? — Un'improvvisa emozione dilatò gli occhi della ragazza. — Non ci era stato detto. — Una scheggia di mortaio. È ancora confitta nel ginocchio. — Ebbe un doloroso sorriso. — A questo aggiunga dissenteria e malaria ricorrente. I medici mi hanno detto che ho combattuto la mia ultima guerra. — Forse no. — La ragazza fece una pausa, come soppesandolo. — Ci è stato riferito anche che le sue tariffe sono insolitamente alte perché è in grado di guadagnarsele. — Ci ho provato, finché potevo. — Lei ci andrà bene. — Un rapido sorriso illuminò il volto magro ed angoloso della ragazza. — Se vuole il lavoro. — Nelle condizioni in cui sono... — iniziò a dire Brink, scuotendo il capo.
— Non ha importanza. — Brink avvertì il suo profumo mentre lei si sporgeva in avanti, un profumo di qualcosa di limpido e pulito, come l'odore dei lillà che ricordava tutti fioriti a primavera nell'incolto giardino della parrocchia, quando era bambino. — Non per noi. Se potesse venire nel nostro laboratorio di Albuquerque per una consultazione... Lei era svanita. Era di nuovo sveglio, almeno parzialmente, e stava ancora galleggiando in quel buio senza confini. Si sforzò di percepire qualche suono, una qualche sensazione di luogo e di tempo, ma tutto ciò che gli riuscì di trovare fu quello che c'era dentro di lui: era consapevole unicamente del cupo senso di depressione che gli vibrava senza posa nella testa e del pungente torpore che gli pervadeva tutto il corpo. Quando lottò per tentare di muoversi, nuove fitte dolorose penetrarono la coltre della sua insensibilità, ma riuscì a piegare le dita! Poi anche le dita dei piedi si mossero, i polsi rigidi iniziarono a cedere ed i gomiti ancor più rigidi si articolarono. Dolorosamente, tentò di protendere le mani nel buio soffocante, e le dita ancor prive di sensibilità incontrarono una superficie dura, liscia e fredda, che lo racchiudeva da tutte le parti, sopra, ai lati, perfino sotto... qualcosa di simile ad una bara... Si sentì gelare da un'ondata di terrore: lo avevano forse sepolto vivo? E si poteva dire che fosse vivo, privo com'era di respirazione eppure libero da un qualsiasi senso di soffocamento? Il telefono lo sorprese mentre lavorava, a tarda ora, al terminale del laboratorio, intento ad esaminare i programmi Biowand per creare e sperimentare tipi di virus, alla ricerca di quell'uno che avrebbe potuto salvare sua moglie e Roger: per loro era ormai troppo tardi, ma c'erano altri che potevano essere curati. Assorto nei mutevoli tracciati delle varie possibilità di vita e seccato per l'interruzione, lasciò squillare l'apparecchio; ma alla fine, visto che il trillo non cessava, cedette. — Cosa vuole? — Il Dr. Tomislav? — Era una voce di ragazza, dolce come lo era stata un tempo quella di Olga. — Il biologo? — Sono Ivan Tomislav — borbottò, — e mi occupo di biologia. — Quanto basta per vincere un Premio Nobel. — Rammentando Olga, e la ninna-nanna ebraica che era solita cantare a Roger, Tomislav non riuscì a riattaccare. — Io sono Megan Drake della Fondazione Raven. Eravamo
stati avvertiti che era meglio non disturbarla sul lavoro, ma stiamo tentando qualcosa di completamente nuovo nel campo dell'ingegneria genetica ed abbiamo urgente bisogno del suo aiuto. Se potesse venire ad Albuquerque per una consultazione... Ancora il gelido, eterno buio: stava continuando a fluttuare in esso, senza meta, chiuso all'interno di quelle strette pareti. Rigidamente, lottando contro le fitte dolorose che gli trapassavano ogni giuntura, protese le mani alla ricerca di una qualsiasi apertura, di un appiglio o di un congegno che gli permettesse di liberarsi, ma tutto quello che trovò fu una superficie liscia e dura, priva di fessure. Le mani formicolanti ricaddero, e vennero a contatto con il corpo cui appartenevano: i lombi nudi, i fianchi, il ventre piatto. Se stesso? Tutto il suo corpo sembrava, al tatto, altrettanto freddo e liscio quanto le pareti di quella specie di bara, e stranamente insensibile al contatto delle dita intorpidite. Riprese l'esplorazione, più in basso, ma non incontrò alcun organo sessuale, né maschile né femminile, e neppure peluria: tutto quello che trovò fu una superficie liscia e stranamente dura, più simile a metallo che a carne. Che sorta di essere era diventato? Ritraendosi di fronte al trauma, al dolore della perdita subita ed alla sua inspiegabilità, lottò nuovamente per trovare qualche risposta, ma tutto ciò che gli riusci di ricordare furono quegli spezzettati frammenti di sogno, tutti riguardanti Megan Drake. Oppure era stato qualcosa di più di un sogno? Ancora vividi per lui, quei frammenti sembravano più ricordi reali che un sogno, e si aggrappò all'immagine di Megan, con i suoi bei lineamenti sottili, gli occhi grigio-verdi, la sua energia vitale: lei doveva esserci davvero, doveva essere esistita realmente. Ma... e lui? Lui era... poteva essere stato Martin Rablon? Oppure Don Brink? O Ivan Tomislav? O tutti quanti loro? La cosa non aveva senso: se Megan li aveva davvero convocati tutti, oppure anche uno solo di loro, per una consultazione presso la Fondazione Raven, quale poteva essere stato lo scopo di quella convocazione? Quando si frugò nella memoria, tutto quello che trovò fu un buio sconcertante. Le dita gli scesero nuovamente verso l'inguine spoglio.
— Il Dr. Galen Ulver? Colto di sorpresa, sollevò lo sguardo dal modello di razzo solo parzialmente montato sul tavolo da lavoro e la vide sulla soglia del garage. — Mi scusi per questa irruzione. — La voce di lei dissipò la sua momentanea irritazione. — Ma sembra che lei non abbia telefono. — Adesso non c'è più nessuno che risponda. — Lei è lo studioso della propulsione a fusione? — La ragazza stava osservando il piccolo razzo con aria improvvisamente dubbiosa. — Finito a costruire giocattoli. — L'uomo scrollò le spalle con aria leggermente colpevole ed accennò al tavolo da lavoro con un sogghigno. — Sono qualcosa di meglio del suicidio o del darsi al bere. A dire il vero, mi illudo che siano in effetti qualcosa di più che giocattoli, ed è il meglio che posso fare, da quando la NASA ha annullato le ricerche sul motore a fusione: per me, questi sono i prototipi dei velivoli astrali che bisognerebbe costruire. Ulver fece una pausa, attendendo di sentire cosa volesse la ragazza. — Sono Megan Drake. — Con i calzoni casual, senza trucco, i modi bruscamente diretti, la ragazza faceva colpo anche senza volerlo ed Ulver si sorprese a desiderare di avere quarant'anni di meno. — Della Fondazione Raven. — Cosa sarebbe? — Operiamo con fondi privati — rispose la ragazza, — per la realizzazione di un progetto molto speciale. Abbiamo studiato i rapporti che era solito pubblicare in merito alle sue ricerche: è una vergogna che i fondi siano stati troncati, ma noi siamo ancora interessati alla propulsione a fusione. Se ha il tempo per parlarne... — Tempo? È tutto quello che mi rimane. La ragazza si chinò ad osservare il modellino: gli piaceva il modo in cui si muoveva. Poi, i suoi splendidi occhi tornarono a fissarlo con fare grave. — È costruita stupendamente. — Il suo tono lo rallegrò. — Ma credo che noi potremmo farla arrivare molto più vicino alle stelle. — Quella promessa gli fece trattenere il respiro. — Se potesse venire con me al nostro laboratorio di Albuquerque per una consultazione... Si destò ossessionato dal doloroso senso di perdita, le dita ancora serrate sull'inguine liscio. Tremando, lottando per arrivare a capire, cercò annaspando altri ricordi di Megan Drake: non rammentava alcuna consultazio-
ne o cose simili. Perché? Il ricordo era forse svanito perché un tempo aveva amato Megan ed ora non poteva più farlo, perché il dolore della mutilazione subita era troppo violento per poter essere tollerato? Non aveva modo di saperlo. Esaminò ancora la sua prigione. L'iniziale sensazione di formicolante torpore si era attenuata leggermente, ed i suoi arti irrigiditi si muovevano con maggiore libertà. Puntellando le mani contro quelle pareti fredde e ravvicinate, si girò su se stesso e trovò un'apertura: era una fessura, quasi troppo tenue per poter essere individuata al tatto e che scorreva diritta fin dove gli riusciva di arrivare, da sopra la testa fino ai piedi. Una via di fuga? Con ansia, fece scorrere le mani lungo la fessura, avanti e indietro, a più riprese, ma non trovò altro, non una maniglia o una serratura o un chiavistello o un altro mezzo di apertura. Lasciò ricadere le mani, ed esse incontrarono un'altra cosa enigmatica. Si trattava di un cavo, poco più spesso di un pollice, che proveniva da un qualche punto sotto di lui e gli si era avvolto intorno a causa dei movimenti fatti. Duro e liscio come metallo, eppure flessibile, il cavo era stranamente simile alla sua nuova pelle, era tiepido e pulsava con lentezza nel punto in cui lo aveva afferrato. Lo seguì con le dita intorno ai fianchi e su per il ventre, fino al punto in cui il cavo si saldava al suo corpo là dove avrebbe dovuto esserci l'ombelico. Si trattava dunque del suo cordone ombelicale? Possibile che quella in cui si trovava non fosse una cella, bensì una sorta di grembo? Un'ora dopo la partenza da Kansas City, una hostess gli recapitò il biglietto. Capitano Wardian, le potrei parlare, quando le farà più comodo, a proposito della sua carriera come astronauta americano e di un progetto estremamente speciale che dovrebbe interessarle? Un momento del suo tempo sarà più che sufficiente. Il biglietto era stato scritto con mano ferma ma femminile, su un cartoncino rigido di colore marrone e recante l'iscrizione, in costoso inchiostro indaco: FONDAZIONE RAVEN — MEGAN DRAKE, DIRETTORE. Il biglietto portava l'indirizzo di Albuquerque ed era firmato da Megan Drake.
— Se decide di non vederla se ne pentirà, signore. — L'hostess gli sorrise, un sorriso amichevolmente malizioso sul volto abbronzato e lentigginoso. — È il tipo che piace a lei, ed è in prima classe. — L'avverta che andrò da lei quando atterreremo. Una volta a Kansas City, Wardian andò a fare la conoscenza di Megan Drake, e, quando la ragazza si alzò per stringergli vigorosamente la mano, non gli dispiacque di averlo fatto. — Credo che abbiamo bisogno di lei, Capitano. — Wardian sedette ad ascoltare, ammirando il bagliore rossiccio dei suoi capelli puliti e l'aggraziato muoversi del corpo snello. — Mi basta un momento di tempo. Abbiamo controllato il suo curriculum, ma gradirei una conferma da parte sua: laurea summa cum laude in fisica all'UCLA, laurea in astronomia al Cal.Tech., astronauta addestrato dalla NASA. — I suoi occhi limpidi si fecero più gravi. — Come mai adesso vola per la Delta? — Ho avuto la mia occasione di andare nello spazio — Wardian scrollò le spalle. — Un solo viaggio a testa è tutto quello che si può avere da quando hanno ridotto il bilancio, e preferisco questo lavoro ad un posto dietro una scrivania al Pentagono. — Se le interessa ancora lo spazio.... — La ragazza fece una pausa per osservarlo, ed il pilota assaporò il calore della sua approvazione. — Sono senz'altro certa che noi abbiamo qualcosa di meglio da offrirle. Se volesse venire nel nostro laboratorio di Albuquerque per una consultazione.... Si destò con entrambe le mani morbidamente chiuse intorno al cordone, come per arrampicarsi: il cavo era caldo e vivo al tatto, pulsante, quasi stesse pompando qualcosa. Sangue? Ma, aveva ancora bisogno di sangue, adesso? Che fosse sangue oppure qualcosa di più strano, era la sua fonte di vita, e forse era anche il motivo per cui non provava alcun desiderio di respirare. Ma che tipo di vita era quella? Quasi timoroso anche solo di porsi la domanda, si girò nuovamente nel buio alla ricerca della stretta fessura, ed ebbe l'impressione di aver acquisito una nuova sensibilità tattile e che quel senso di formicolio e di torpore fosse quasi svanito. Seguì la fessura con le dita e trovò un leggero rigonfiamento sulla superficie accanto ad essa. Ecco, quello era il modo per uscire! Senza sapere esattamente perché lo stesse facendo, serrò il pugno e colpì il gonfiore, che sembrò cedere un poco sotto il colpo. Toccò la fessura: an-
cora non accennava ad allargarsi. Tremante, un po' allarmato, colpì ripetutamente la sporgenza, con maggior violenza, ancora e poi ancora. Non si udì alcun suono, ma percepì l'allargarsi della fessura. Luce! II Punti luminosi, duri come diamanti e privi di dimensione, lampeggiarono e svanirono. La fessura si fece più larga ed i punti slittarono lentamente attraverso la sua larghezza: vide allora che si trattava di stelle e che il cielo dietro esse era stranamente nero. Quando fu in grado di farlo, si spinse fuori. E piombò in uno stato di sconcertata meraviglia. Un cielo notturno, nero e fiammeggiante, senza orizzonti in nessuna direzione; stelle che non ammiccavano, raccolte in sciami quali non avrebbe mai immaginato che potessero esistere, vicine in modo insolito; la Via Lattea al di là di esse, un possente cerchione di ruota fatto di polvere luminosa e di pulviscolo scuro, che roteava tutt'intorno a lui. Non c'era un su o un giù, o un'altra direzione ragionevole. Con la testa che gli girava, cercò l'oscuro rifugio del suo nucleo natale, ma esso si stava allontanando; tentò di afferrarne le pareti, ma non aveva più peso, ed esse non avevano appigli visibili. L'oggetto scivolò fuori dalla sua portata e lui, intontito e nauseato, fu costretto a chiudere gli occhi, mentre veniva assalito da un gelido senso di panico. Quello era lo spazio interstellare: privo d'aria, vuoto, alieno. Qualsiasi materia che vi si venisse a trovare sarebbe precipitata verso lo zero assoluto, e nessun essere vivente vi poteva sopravvivere, almeno non senza il necessario equipaggiamento; eppure in qualche modo, chissà come, dal momento che non respirava neppure, lui era ancora vivo. Lottando con quello sconvolgente enigma, si serrò il ventre con le mani ed incontrò il cordone: ancora attaccato, esso lo congiungeva a quella sorta di grembo dalle pareti solide da cui era uscito, ed era ancora tiepido e pulsante. Quello era il segreto della sua vita attuale.....se era veramente vita. Le sue dita accarezzarono la dura, liscia e pieghevole superficie del cordone. Urtò qualcosa con il piede e vi rimase attaccato: fu allora che aprì gli occhi e scoprì la nave, la maggior parte della quale era solo un'ombra che si stagliava contro le stelle, mentre il resto era giallo e brillava in modo opa-
co quando la luce lo colpiva. Era una sottile freccia d'oro, lunga cinque volte l'altezza del suo corpo e tanto stretta che le sue braccia spalancate ne coprivano per metà la larghezza. Quelle minuscole dimensioni lo colpirono: era una nave troppo piccola, troppo minuta per affrontare lo spazio. La cellula da cui era nato ne occupava tutto il muso, con la sua lucente apertura dalla cui oscurità interna scaturiva il vitale cordone. Quest'ultimo era dorato, e, quando si osservò, notò che lo era anche il suo corpo, che la sua pelle era liscia, senza peli, luccicante dello stesso bagliore opaco dello scafo dorato là dove batteva la luce. La pelle dell'avambraccio era rigida ma flessibile sotto la pressione delle dita, e non era né fredda né calda, né appariva in alcun modo danneggiata dal vuoto o dalle radiazioni che lo colpivano senza essere schermate. Un materiale diverso da.... Da che cosa? Rabbrividì, ritraendosi di fronte agli enigmi rappresentati dal suo stesso essere. Si sentiva umano; la mano priva di peli sembrava forgiata nel metallo quando la muoveva alla luce, ma aveva un disegno umano, con un pollice dall'unghia resistente e quattro robuste dita, e si chiuse prontamente quando la serrò a pugno, senza più alcun residuo di dolore. Umano? In quegli spezzettati e confusi frammenti di sogno in cui figurava sempre Megan Drake nell'atto d'invitarlo a recarsi alla Fondazione Raven per una consultazione, era sempre stato un essere umano abbastanza normale da desiderarla.... Raggelato, non poté fare a meno di abbassare lo sguardo: il cordone sinuoso splendeva di un bagliore giallastro, ma l'inguine rimaneva in ombra; girò il corpo verso la luce per vedere la liscia, nuda superficie là dove avrebbero dovuto trovarsi gli organi genitali, poi distolse rapidamente lo sguardo, nauseato e tremante per la dolorosità di quella perdita. Si guardò i piedi: erano umani, con cinque dita, nudi ed esposti al gelo dello spazio, brillavano come oro antico ed erano aggrappati alla superficie della nave, magnetizzati in modo da permettergli di camminare all'interno dello scafo. Stando attento a non danneggiare il sottile cordone vitale, si diresse verso la coda affusolata della nave: essa terminava con un gruppo di razzi di propulsione la cui doratura si era fatta azzurrina; erano spenti, e non si avvertiva alcuna accelerazione, eppure la piccola nave si stava muovendo e volava veloce nella luce delle stelle. Consapevole di questo, e chiedendosi come faceva a saperlo, si guardò intorno alla ricerca della fonte della luce: era una stella, così vicina che splendeva più luminosa di tutte le altre nell'insieme. La osservò e scoprì che la sua capacità visiva si stava
modificando: il distante punto bianco divenne un piccolo disco; poi riuscì a distinguere altri punti più distanti, al di sopra ed al di sotto di esso, quattro dei quali erano allineati in linea retta. Pianeti di quel sole? Giove, Saturno, Urano, Nettuno? Potevano essere quelli? Ebbe un brivido di speranza. Megan, in quegli spezzettati frammenti di qualcosa, non gli aveva promesso se stessa, ma lo spazio. Forse che quella strana macchina era una creazione della Fondazione Raven? Magari una scialuppa di salvataggio? E lui, lui era forse stato un membro dell'equipaggio di qualche sperduta spedizione interstellare, ed il suo corpo si era in qualche modo stranamente trasformato per poter sopravvivere nello spazio? Un solitario sopravvissuto che stava ora tornando a casa? Girò su se stesso alla ricerca di ulteriori indizi ed il panorama vorticò tremolando, per cui dovette attendere che la vista telescopica gli si rimettesse a fuoco prima di poter vedere le stelle più deboli. Le distanti nubi galattiche di fuoco e polvere avevano lo stesso aspetto di un tempo. Le Pleiadi.... Quel meraviglioso gioiello di nebbia luminosa e punti brucianti dovevano essere le Pleiadi, ma la loro forma era stranamente mutata; allontanando lo sguardo da esse, individuò una grande stella rossa che era certo Aldebaran, ma molto spostata rispetto al punto in cui si sarebbe dovuta trovare. Distinse anche la forma contorta delle Hyadi, una volta tanto vicine ad Aldebaran, ed una linea interrotta di stelle più luminose.... potevano essere state quelle del gruppo dell'Orsa Maggiore? Sbirciando più in là, lungo il percorso che la nave doveva aver seguito, cercò il suo luogo di provenienza. Ancora una volta, la vista gli si modificò e stelle remote si fecero improvvisamente più luminose: stelle blu e stelle rosse, alcune doppie, per lo più troppo o troppo poco luminose, il giallo troppo giallo. Nessuna assomigliava al Sole. Per quanto tempo.... ebbe un altro brivido a quel pensiero.... per quanto tempo la nave era rimasta nello spazio? Ebbe paura di azzardare un calcolo al riguardo, perché le stelle si erano allontanate troppo dalla posizione che lui conosceva: viste da quel punto, quale che fosse, le costellazioni avevano assunto una nuova forma, e, non sapendo da quanto tempo durava il viaggio e neppure la direzione originariamente seguita, il Sole era perduto per sempre. La Terra era svanita, con tutto quello che poteva sperare di ricordare... se mai aveva la speranza di riuscire a ricordare qualcosa di ragionevole. I co-
struttori della nave dovevano essere ormai ridotti in polvere, e la loro scienza ed i loro intenti dimenticati da tempo. Poteva darsi che il mondo fosse diventato un paradiso per superuomini in fase di evoluzione, oppure la razza umana poteva essersi ormai estinta da milioni di anni. Non poteva neppure sperare di arrivare a sapere quale delle due cose fosse accaduta. Era del tutto solo, perduto, e stava precipitando verso la luminosa stella antistante. Mentre si volgeva lentamente verso quella stella, pensò che cominciava a comprendere se stesso: quale che fosse la scienza che stava a monte della sua creazione, quali che fossero le energie che sostenevano ora la sua esistenza e la sua capacità di movimento, lui era qualcosa di più di un semplice passeggero o membro dell'equipaggio della nave: era parte di essa, ed il suo dovere era quello di servirla e difenderla. Il pericolo che lui e la nave correvano era sconvolgente, ora che la sua visuale si era modificata tanto da rivelarlo: stavano puntando direttamente verso il disco bianco ed in apparenza minuscolo della stella, e si stavano muovendo troppo in fretta, accelerando costantemente a causa dell'attrazione gravitazionale. Senza mezzi di controllo, con i razzi spenti, non c'era nulla che si potesse fare. Oppure c'era qualche cosa di fattibile ed era suo dovere provvedere immediatamente? Forse che la sua nascita, o il suo risveglio, era stato determinato dal pericolo imminente? Forse era stato causato da qualche sensore che aveva percepito l'avvicinarsi della stella? Era forse stato guidato da quell'oscuro grembo metallico al fine di salvare la nave? Generato magari con difetti più gravi che non l'assenza degli organi genitali? E tutto questo da solo, senza nessuno che gli dicesse che cosa doveva fare? Lo scafo stava rotolando su se stesso molto lentamente. Raccolto in una serie di cerchi il cordone dorato per evitare che lo impacciasse nei movimenti, seguì la luce della stella tutt'intorno allo scafo roteante, srotolando il cordone a mano a mano che camminava, cercando la causa del problema, e la trovò. Un buco irregolare si apriva nella parete a metà della nave, il metallo bruciato ed annerito tutt'intorno. Il buco non era più grande del polpastrello del suo pollice, ma in quel punto il metallo rivestito d'oro era più sottile che sul muso della nave, e la ferita si era estesa ad una cavità oscura al di là di esso. La meteora doveva essere stata piccola, forse microscopica, e si era vaporizzata al momento dell'impatto. Chinatosi, individuò una stretta fessura
che correva vicino al buco e che era l'estremità del cardine di un portello d'accesso. Girò i cinque bulloni che assicuravano il portello, ma esso non si aprì ugualmente, e decise che doveva essersi saldato all'epoca dell'antica esplosione. Tirò ancora e non riuscì a sollevarlo: fissando accigliato un punto imprecisato, comprese infine, chissà come, quel che doveva fare. Vagamente stupito di possedere quella conoscenza, poggiò la mano sinistra sul buco per effettuare un collegamento a terra, quindi, attingendo dalla nave l'energia necessaria, toccò lo scafo con un dito dorato che mosse in modo da disegnare un taglio ad arco: la fiamma che scaturì dal dito lo accecò per un istante fino a che la sua vista non intervenne per compensare, e, muovendo il dito, tagliò lungo il contorno del portello sigillato fino a che gli riuscì di sollevarlo. Lo spazio sottostante gli parve, all'inizio, nero, ma poi, quando i suoi occhi si furono nuovamente abituati al diffuso bagliore delle stelle ed alla luce riflessa dal suo stesso corpo, poté distinguere i pannelli di controllo del computer principale, disposti in file ravvicinate a riempire la stretta stiva. Anche se non riuscì a scorgere alcun danno evidente, era chiaro che i pannelli dovevano essere stati colpiti dai frammenti dell'esplosione. Estrasse il pannello superiore per esaminarlo da vicino, ed i cubi ravvicinati di Rablon apparvero inizialmente illesi, fino a quando i suoi sensi speciali si acuirono e gli permisero di individuare uno di essi e poi anche un altro che erano stati rovinati da gocce di metallo rovente che vi erano colate sopra. I microprocessori ed i cubi con le memorie erano morti: l'assenza dei suoi organi genitali... quello doveva fare parte della perdita. Ignorando la rinnovata sensazione di dolore a quel pensiero, cercò di determinare il da farsi e subito un programma d'azione gli si delineò nella mente, e, insieme ad esso, il vago ricordo dell'esistenza di alcuni microprocessori di scorta e dei pezzi di ricambio per alcuni cubi fondamentali di memorie custoditi sotto un portello all'interno della sua cellula natale. Agendo quasi come un automa, seguì il programma tracciato, rimuovendo i cubi, controllandoli e sostituendoli a quelli danneggiati, fino a che il primo pannello non ebbe ripreso a funzionare. Allora lo rimise a posto ed effettuò un ulteriore controllo. La nave era ancora come morta. Estrasse un secondo pannello di controllo e poi un terzo, quindi una dozzina di altri, scartando i cubi danneggiati fino a consumare tutte le parti di ricambio. Alcuni di quei cubi avevano duplicati, ma per altri non era co-
sì, e c'erano migliaia di kilobites di memoria che erano andati perduti e non potevano più essere recuperati, forse addirittura milioni. Preoccupato, esaminò un altro pannello sottostante e quello immediatamente più sotto: anch'essi erano stati sfregiati da frammenti roventi, rimanendone forse danneggiati, ma non aveva più pezzi di ricambio: la nave era menomata al di là di una possibilità di riparazione, anche se non era del tutto morta..... — Egan? — Era la voce di Megan. — Dove sei? Si chiese come fosse riuscito a sentirla, perché non c'era aria che trasportasse i suoni. Eppure, quella era la sua voce, che proveniva da chissà dove, e suonava tenue e spaventata. — Megan? — Sussurrò il suo nome, o almeno pensò di averlo fatto. — Megan? — Tu non sei Egan. — Ebbe l'impressione che Megan avesse paura di lui. — Chi sei? — Non so chi o cosa sono. Mi sono appena destato su una strana astronave... un'astronave molto piccola.... da qualche parte nello spazio, non so dove, né quando... credo che sia passato un mucchio di tempo, ma non lo so.... non so nulla. — Si sentì sfiorare dal terrore. — Megan? Sei.. sei qui? Rimase in attesa, tremando. — Mister... — Finalmente gli rispose, in modo incerto e debole, come da molto lontano. — Mi dispiace che lei sia nei guai, ma io non la conosco. Non ho mai visto una nave spaziale e non so chi lei sia... — La sua voce spaventata si spense. — Megan, dove ti trovi? — Sono al ranch dello Zio Luther, per rimanere fino a che la mamma starà meglio. Ma lo Zio Luther non è qui, ci sono soltanto Jesus e la vecchia Dolores, e loro dormono nel bunk-house, troppo lontano per poterci sentire. Il tuono mi ha svegliata, tutte le luci sono spente e non riesco a trovare la stanza di Egan, ed al buio mi sono fatta male ad un dito di un piede.... Ebbe l'impressione che stesse piangendo. — Megan? — Tentò di chiamarla di nuovo. — Megan, mi puoi aiutare a parlare con qualcuno? Rimase in attesa, accoccolato vicino al portello d'accesso, mentre la piccola nave rotolava lentamente su se stessa, il suo scafo una macchia scura contro lo sfondo della galassia in movimento, e poi di nuovo un bagliore dorato, ma non ebbe alcuna risposta. Stava chiudendo il portello quando un altro ricordo si destò in lui.
III Megan Drake gli andò incontro all'aereoporto di Albuquerque. — Dr. Tomislav! — Sentì la sua voce prima di vederla. — La condurrò in macchina fino al laboratorio. Raccolse la valigia e la seguì fuori verso una rossa macchina sportiva. Megan guidava velocemente ma in modo abile, senza parlare molto; godendo della sua vicinanza, Tomislav rimase in silenzio, chiedendosi cosa fosse la Fondazione Raven. Giunta vicino alle montagne ad est della città, Megan imboccò una stretta strada che curvava a sud fra colline scure e nude fino a raggiungere un alto cancello, chiuso con una catena, che una guardia spalancò per farli entrare, rivolgendo alla ragazza un caloroso sorriso. — Quella è la Fondazione. — Megan accennò in direzione di una fila di basse costruzioni poco più avanti. — Abbiamo comprato questo posto dall'Omega, un'organizzazione segreta, che acquistava parti componibili per conto di svitati militaristi, fino a che è stata fagocitata da qualcosa di più grosso. — Ascolti, Miss Drake — Tomislav si volse su! sedile. — Lei non ha ancora detto a che proposito intendete consultarmi. Se si tratta di qualche scopo militare, ho una regola personale: di non fare nulla, per nessuno. — Non ci sono problemi. — Gli piacque il suo sorriso spontaneo. — Noi non siamo un'organizzazione militare. Megan parcheggiò l'auto lungo un viale ghiaioso, accanto ad un lungo edificio che sembrava fatto d'adobe imbiancato. — I nostri ospiti abitano qui — spiegò. — Sono una specie di baracche: nulla di lussuoso, ma abbiamo un regolamento di sicurezza. I pasti vengono serviti alla porta accanto: Conchita cucina sia alla messicana che all'americana. La sua cucina messicana è eccellente, per chi l'apprezza, e spero che sia il suo caso, perché la sua cucina americana.... — Scrollò le spalle. — Devo sapere che cos'è che volete — insistette Tomislav. — Perché tutta questa sicurezza, se non siete un'organizzazione militare? — Non c'è nulla di sinistro — Il suo volto si fece più grave. — In effetti, mi piace pensare che il nostro progetto si possa trasformare nell'apice dell'evoluzione umana, per lo meno, qui sulla Terra, se riusciremo a portarlo a compimento. Noi non ne parliamo fuori di qui, perché la stampa lo trasformerebbe in una cosa sciocca ed il sottobosco culturale è ancora pieno
di fanatici che ci accuserebbero di offendere il loro Dio tribale. — I suoi occhi verdi si socchiusero. — Si ricorderà di non farne parola? — Certo. — Megan accennò a scendere dalla macchina, ma lui rimase dov'era. — Quando saprò di che cosa non devo parlare. — D'accordo. — Megan tornò a sedersi vicino a lui. — Immagino che lei non abbia mai sentito parlare di Luther Raven. — Non che io ricordi. — Mio zio, un finanziere... mio fratello era solito definirlo un giocatore d'azzardo internazionale. Per lo più s'interessava di cereali e petrolio e delle navi che li trasportano. Ha accumulato i suoi bilioni in maniera estremamente privata ed alla fine si è sentito colpevole perché li possedeva, e così ha creato la Fondazione come una sorta di ammenda. «Per realizzare il sogno di Egan. — Sollevò lo sguardo verso i monti spogli, ora arrossati dal tramonto. — Egan era il mio fratello gemello, un ragazzo un po' pazzo, ma io lo adoravo. Ha scritto poesie inedite ed ha amato le donne sbagliate, è stato l'afflizione di nostro zio perché non ha mai guadagnato un cent e non ha mai finito quello che aveva iniziato. Alla fine, si è ucciso, scalando una cima difficile senza una guida. Ma io lo amavo.... Tomislav percepì la tristezza che trapelava dalla voce che si spegneva. — Il suo sogno... esso può fare ammenda di tutto. Megan fissava ancora le vette illuminate dal sole. — Egan non era un uomo felice, e non sono neppure certa che sapesse il perché. Si è rinchiuso in se stesso e non ha mai creduto a quello che gli dicevano gli altri. Ha litigato con un mucchio di gente perché s'infervorava nel difendere le sue idee e non sopportava gli scettici, ed ha incontrato moltissimi scettici, perché le sue idee spesso sconvolgevano la gente. «Era solito dire che tutta la razza umana è come una sorta di essere vivente, con una specie di mente di gruppo che esiste in qualche modo nella sfera inconscia del cervello di ognuno di noi. Riteneva che l'umanità, come un tutto unico, avesse vissuto di una vita propria da quando aveva avuto inizio l'evoluzione dell'uomo. "Adesso siamo adulti" soleva dire, "ed è tempo di diffondere il nostro seme". Quelle parole suonavano strane fino a che le spiegava: lui riteneva che fossimo ormai troppo maturi per rimanere sulla Terra, che avessimo una sorta d'istinto che ci spingeva a lasciarla, a cercare nello spazio nuovi pianeti. Era arrivato al punto di credere che la maggior parte dei nostri problemi... qualsiasi cosa, dalle malattie mentali alla guerra al terrorismo... non fossero altro che sintomi della nostra frustrazione razziale per non riuscire in quell'intento.
«È così che il suo sogno è iniziato. — Gli occhi gravi di Megan tornarono a posarsi su di lui. — Per lo più, lo teneva per sé, perché tante persone ne ridevano, ma ha sempre diviso ogni cosa con me. Era solito parlare di colonie da installare sulla Luna o su Marte o anche nello spazio, fino a che ha deciso che quella non era la vera soluzione. «Quella che concepì alla fine, era una via per spargere il seme umano su un campo più ampio, sempre più lontano, sui mondi di altre stelle... Per favore. — Megan vide il dubbio iniziale di Tomislav e sollevò una mano per arrestare le sue domande. — Io so che quest'idea allontana la gente, perché è una cosa cui nessuno ha mai pensato. Egan non era uno scienziato, altrimenti la cosa gli sarebbe parsa troppo irrealizzabile, ma lo Zio Luther ha accettato quell'idea... e neppure lui era uno scienziato. È stata una sorpresa per i suoi legali, ed anche per me, quando abbiamo trovato la donazione nel suo testamento, con l'aggiunta di un paragrafo in cui si diceva che quello era un pagamento per saldare il debito contratto con la razza umana. «E così, eccoci qui. — Chinandosi con calore verso di lui, Megan accennò alla fila di squallidi edifici prefabbricati ed al cielo illuminato dal tramonto. — Abbiamo riadattato le vecchie officine ed i laboratori di Omega, e stiamo progettando le macchine per produrre quel seme e le navi per portarlo in orbita e lanciarlo verso nuove stelle e nuovi mondi. Spargeremo il nostro seme fra le stelle. Tomislav rimase seduto a fissarla, sbattendo incredulo le palpebre. — Non è così impossibile come sembra — osservò la ragazza. — In effetti, stiamo già stendendo i contratti per l'acquisto di buona parte delle componenti di base, anche se abbiamo ancora grossi problemi da risolvere: ed è per questo che abbiamo bisogno di lei. — Se sta parlando di navi interstellari... — Semi — corresse Megan, scuotendo il capo. — Non possono essere grosse o molto costose perché ne costruiremo a centinaia, a migliaia, se sarà possibile. Quasi tutte andranno certamente perdute: la maggior parte di quei semi andranno a cadere su terreno inadatto o non raggiungeranno affatto un terreno per germogliare. Forse nessuno di essi crescerà mai: non possiamo neppure avere la certezza che da qualche parte esista il tipo di pianeta adatto. Ma dobbiamo tentare... questa era la visione di Egan. Se riusciremo a piantare la razza umana anche solo su un mondo nuovo... — i suoi occhi lucenti tornarono a fissare le montagne, — l'evoluzione umana non sarà avvenuta invano. Tomislav evitò di formulare domande ed attese che Megan proseguisse.
— Navi-seme, le chiamiamo. — La ragazza tornò a voltarsi verso di lui. — Progettate per sopravvivere a voli che potrebbero durare quasi per sempre, per esplorare la galassia alla ricerca di pianeti abitabili. Ogni nave sarà parzialmente meccanica, ma anche parzialmente organica: una nuova invenzione nel campo dell'evoluzione, se riusciremo a perfezionarla. Abbiamo bisogno d'ingegneri genetici che ci aiutino a trasformare i geni umani in codici per computer e poi a ritrasformarli... La stella luminosa si era spostata quando la rintracciò. Dotato di un po' più di conoscenza, abbassò lo sguardo sul piccolo scafo dorato, quella nuova invenzione, in parte meccanica ed in parte vivente, una di quelle centinaia costruite sulla Terra non riusciva neppure ad immaginare quanto tempo prima, morta da quando la meteora aveva colpito il centro razionale del computer, ma riscossa... almeno quanto bastava per generare lui... dall'avvicinarsi alla stella antistante. La vista gli si adattò in modo da permettergli di osservare i quattro giganteschi pianeti. Simili a Giove, essi non offrivano un possibile rifugio: anche le loro lune, se pure ne avevano, sarebbero state palle di neve prive d'atmosfera, e non un terreno adatto per seminare il seme dell'uomo. Ma forse, pensò, poteva anche esserci un pianeta simile alla Terra, troppo piccolo e troppo vicino alla stella anche per i suoi occhi telescopici, un mondo già arato in attesa di una nuova umanità. Se la nave fosse riuscita ad atterrare, se il seme danneggiato fosse germogliato, se lui fosse riuscito a difenderlo da qualsiasi rischio... Senza sentirsi più così strano, si spostò per esaminare nuovamente i motori creati da Ulver: sembravano intatti, e trovò gli innesti cui erano stati un tempo attaccati i serbatoi ausiliari e, appena al di sotto di essi, il portello d'ispezione. Apertolo, scorse un serbatoio interno con una chiusura sigillata che era in grado di raggiungere, ma non c'erano controlli, indicatori di sorta che gli dicessero se quei piccoli motori avrebbero potuto accendersi ancora. Dovevano esserci pompe ed iniettori per inserire il combustibile attraverso i lasers sino nei razzi. Dopo il disastro, verificatosi così tanto tempo prima, avrebbe ancora funzionato tutto quell'intricato apparato? — Nave a Difensore. — Parlandogli di nuovo nel cervello, la voce si era però modificata: pur ricordando ancora un po' quella di Megan, era priva d'emozioni e freddamente precisa. — L'equipaggiamento di propulsione
non è stato danneggiato. — Megan... — Il suo stupore fu tale da raggelarlo. — Dove sei? — Dislocazione attuale, spazio, in vicinanza di un oggetto stellare non identificato. Coordinate sconosciute. — Megan? — Tentò nuovamente. — Tu non sei Megan Drake? — Termine Megan Drake non identificato — fu la risposta. — Noi siamo il Programma di Controllo della Nave. — Ed allora io chi sono? — Termine Io non identificato. Rabbrividì. Lo sguardo fisso sul ponte dorato, la mano stretta intorno al tiepido e pulsante cordone ombelicale che lo legava ad esso, lottò per riuscire a comprendere. Il controllo della nave doveva essere il computer che la meteora aveva colpito, computer dotato della voce di Megan... la sua voce e quel frammento di un ricordo terrorizzato estratto dalla sua infanzia, tornato in vita in seguito al suo tentativo di riparazione, ma ancora zoppicante a causa dei cubi di memoria e dei circuiti d'importanza vitale andati perduti, forse per sempre. Lui era il Difensore, nato dalla nave, progettato per difenderla e servirla: almeno, questo sembrava chiaro. La sua mente era scaturita dai computers di bordo, piena dei frammenti di capacità e di potere previsti per renderlo capace di svolgere la sua missione. La sua vita... un tipo di vita che non aveva mai immaginato potesse esistere... scaturiva ancora dalla nave, pulsando nel cordone dorato. Eppure, nonostante tutte quelle meraviglie, lui era nato con difetti, spoglio, liscio e lucente là dove avrebbe dovuto essere virile. E Megan... la nostalgia che provava nei suoi confronti era ancora viva, ed aveva sentito la sua voce spaventata... Ma che cosa... dov'era Megan? Annaspando alla sua ricerca, tutto quello che trovò fu una silenziosa desolazione: la nave non era Megan; Megan doveva essere ormai morta sulla Terra, forse diecimila secoli prima, o comunque lui non era più progettato e disegnato per le attività sessuali. Tentò di allontanare quel doloroso senso di tristezza: quelle antiche emozioni erano soltanto difetti nel Difensore, ed ora costituivano solo rischi nell'adempimento del suo dovere. Tentò di ricomporsi. — Difensore a Nave — formulò nella mente. — Ci puoi trasportare su qualche pianeta? — Negativo. — Ma dobbiamo trovare un pianeta, un mondo accogliente dove si possa
atterrare e seminare la razza umana. Ci deve essere un modo. — Negativo. — Perché negativo? — Il potere di spinta è perduto. — Allora lo dobbiamo restaurare: cosa ci vorrà? Un'immagine di Megan gli balenò nella mente: i lineamenti sottili incorniciati dai capelli rossi e lucenti, deliziosa per un istante, anche se con un'espressione sconvolta, gli occhi grigioverdi fissi per lo stupore più assoluto. Un istante più tardi l'immagine si frantumò in particelle luminose, ed esplose roteando nel buio. — Come possiamo far operare i motori in modo da raggiungere un pianeta ed atterrarvi? — chiese ancora, non avendo avuto risposta. — Difetto di funzionamento del computer. — Quasi uguale a quello di Megan, il sussurro scaturì debolmente dall'oscurità. — Difetto di funzionamento del computer... — Di che difetto si tratta? — Interruzione dei circuiti. — Dov'è l'interruzione? Ancora silenzio, mentre il volto preoccupato di Megan gli passava dinnanzi in un attimo e si frantumava. — Difetto funzionale localizzato. — Un sussurro subito svanito. — Pannello E-Uno. — Si può riparare? Poiché non ricevette risposta, si chinò per aprire il portello d'accesso. IV Pur odiando il bastone, fu costretto a servirsene mentre scendeva zoppicando dall'aereo ad Albuquerque. Odiò il ginocchio malato quando fu costretto a permettere a Megan Drake di portare la sua valigia fuori dal terminal fino alla piccola auto rossa; odiò se stesso perché stava diventando troppo vecchio e lento per quel genere di gioco. Megan appariva molto giovane e bella anche con i calzoni rossicci sportivi e maneggiava la valigia con atletica facilità, tanto che il contrasto con la sua infermità gli faceva male. Accelerando per mantenere la sua andatura, Don Brink desiderò di poter tornare indietro negli anni, alla generazione della ragazza. — La condurrò immediatamente ai laboratori — spiegò Megan. — Lag-
giù abbiamo qualche alloggio... — Fermiamoci a pranzare lungo la strada. Brink parlò d'impulso, perché voleva dimenticare il ginocchio leso, la sua età ed il tenue futuro che lo attendeva, perché lei era tanto bella, ma si sentì pervadere dallo sconforto quando la vide scuotere la testa. — Non potremmo tentare con il Penthouse Club? — chiese in fretta. — Mi dicono che è un posto di lusso, ed un mio cliente mi ha dato una tessera che dovrebbe garantirci l'ingresso. Megan lo soppesò con gli occhi, sorpresa. — Sarebbe un'occasione per parlare — insistette lui. — Non mi ha mai detto nulla della guerra che mi ha arruolato per combattere. — Nonostante tutto, l'amarezza trasparì dal suo tono quando aggiunse: — Né mi ha detto come pensa che sia in grado di combatterla. — Perché no? — Megan scrollò le spalle, ancora intenta a soppesarlo con cautela. — Noi non discutiamo del nostro progetto al di fuori del laboratorio, ma mi serve un'occasione per conoscerla meglio, Mr. Brink. — Non mi potrebbe chiamare Don? Megan accolse la richiesta ed il suo impulsivo sorriso lo riscaldò. Collocato all'ultimo piano di un edificio nella parte meridionale della città, il Penthouse Club era abbastanza lussuoso, ma non tanto da impedire loro l'ingresso. In attesa che si liberasse un tavolo, andarono al bar. Megan iniziò con il dire che beveva di rado, ma parve gradire un margarita. Sebbene Brink desiderasse ansiosamente conoscerla meglio, la conversazione ebbe inizio in modo goffo, perché Megan era restia a parlare di sé e Don si sentiva come messo a nudo quando lei voleva sapere qualcosa su di lui. — Mr. Brink... — Megan fece una pausa e lo fissò in modo strano, accigliandosi. — Don, se preferisce... non ho mai conosciuto nessuno come lei. Abbiamo parlato ad Acapulco, e, naturalmente, noi abbiamo fatto qualche controllo, ma mi piacerebbe sapere come ha iniziato... ha iniziato la sua professione. In particolare, quali sono le sue sensazioni al riguardo. — Come ho fatto a diventare un assassino? — Le piace quella parola? — Brink vide che era rimasta scioccata. — Io combatto. — Fu deliberatamente brusco, controllando le reazioni della ragazza. — Per un compenso. Combatto contro uomini assoldati per uccidermi. Uccidere uomini finisce per divenire un gioco, il gioco più eccitante ed esigente che ci sia. Gli occhi verdi sgranati, il volto della ragazza era un quadro di sgomenta ed affascinata attenzione. Poiché lei non disse nulla, Brink sorrise e conti-
nuò: — Laggiù ad Acapulco, mi sentivo decisamente a terra, pensavo che non sarei mai più riuscito a giocare ancora quel gioco: sono ansioso di sapere in che modo lei immagina che io ci possa riuscire. — Dopo. — Sorseggiando la sua margarita, Megan si soffermò a leccare il sale sul bordo del bicchiere. — Mi piace. — Quando riportò gli occhi su di lui, Brink vi scorse un bagliore divertito. — Se prometto di non lasciare che la cosa trapeli alla stampa, mi dirà cosa ha fatto di lei quello che è adesso? — Io... non sono certo di saperlo. — Scosso da quell'approccio così diretto, Brink si accorse di avere ancora in mano la bevanda e posò il bicchiere senza averla assaggiata. — E se lo so, è qualcosa di cui non mi piace parlare. Fa male. Megan rimase seduta in attesa che proseguisse. — Ero il figlio di un predicatore. — Brink scosse il capo, rabbrividendo ancora al ricordo. — Abitavo in una cittadina della cerchia della Bibbia, un figlio unico in una brutta situazione, perché il figlio di un predicatore deve essere un modello per tutti. Io lo davo per scontato, e ci ho provato molto, almeno finché non ho finito le scuole superiori. — Godendo dell'attenzione con cui Megan lo ascoltava, Don desiderò di riuscire a piacerle. — Qualche volta, le cose non erano poi così brutte: riuscivo con facilità nello studio e mi piaceva lo sport, dapprima calcio, poi corse e nuoto agonistico. Anche gli scacchi, quando ho imparato a giocare. Mi sono sempre piaciuti i giochi in cui ero in grado di vincere. — Il volto di Megan mutò leggermente e non la sentì più così vicina. — L'ultimo anno, m'innamorai. Amore di cucciolo lo definì mia madre, quando tentai di parlargliene, ma per me era un'agonia, perché sapevo di non avere la minima speranza. La ragazza si chiamava Virgie Ellen, ed era di un anno più grande di me perché io ero avanti di una classe. «Per me era meravigliosa... Gli occhi fissi su Megan, gli parve di rivedere Virgie Ellen, con la sua pelle color crema ed il tentatore turgore del seno, sentì la sua presenza nelle sue braccia al ballo di fine anno, quando lo aveva stretto tanto da togliergli il fiato; provò nuovamente la magica sensazione dei suoi capelli che gli sfioravano la guancia e ne respirò ancora il profumo. Si accorse di essere piombato nel silenzio, mentre Megan lo fissava con attenzione. — Neppure la minima speranza... — I ricordi gli si stavano affastellando
in mente, e Don sperò che Megan non ne sarebbe rimasta offesa. — Durante tutto il periodo delle scuole superiori, Virgie Ellen aveva fatto coppia fissa con Walt Montalbert, il figlio di un diacono della nostra chiesa che era anche un banchiere milionario. Il matrimonio avrebbe avuto luogo nella chiesa di mio padre. «La notte precedente il matrimonio, ero solo in parrocchia, perché i miei genitori erano andati ad una celebrazione nella contea vicina e sarebbero rimasti fuori per tutta la notte. Virgie Ellen mi svegliò verso mezzanotte, tirando dei sassolini contro la mia finestra. Quando aprii, sollevò le braccia perché l'aiutassi ad entrare... Io... Il risorgere delle antiche emozioni lo bloccò fino a quando non vide il comprensivo cenno di capo di Megan. — Non sapevo cosa pensare, anzi, ero troppo stupefatto per riuscire a pensare. Ricordo quel sorriso furbo ed il dito sulle labbra. Non credo di aver avuto il respiro necessario per riuscire a parlare, perché lei aveva cominciato a spogliarsi: non avevo mai visto una donna nuda, e ricordo quanto era splendida, un po' tronfia di sé quando si fu tolta tutto, mentre accendeva la luce perché la potessi vedere bene... «E c'era sempre quel sorriso contorto, che si trasformò in una risata quando allargò verso di me le braccia nude... — Fece un'altra pausa, consapevole e contrito, ma Megan annuì nuovamente. — La mia prima esperienza sessuale. China in avanti per ascoltare, Megan era adesso altrettanto adorabile quanto Virgie Ellen nel suo ricordo; chiedendosi come fosse la sua vita e come lei potesse provare un simile interesse nei suoi confronti, Don dovette allontanare una nuova fitta di desiderio nei suoi confronti. — La prima volta... — riprese con voce più lenta, — forse la più bella. Una notte quale avrei potuto sognare se non mi fosse stato insegnato che quel genere di sogni era peccaminoso. Lei mi strappò i calzoncini, che erano tutto quello che indossavo, poi mi spinse all'indietro sul letto e mi si gettò addosso. In un certo senso, mi violentò, perché non avevo la minima idea di cosa fare, anche se ci presi subito gusto quando lei me lo spiegò. Nella sua mente, quell'esperienza era nuovamente reale: la germogliante magia di Virgie Ellen, il contatto della sua carne calda, lo scricchiolio del vecchio letto, allarmante fino a che non si era rammentato che i suoi genitori non erano in casa, l'odore dei suoi capelli, del suo respiro caldo, del loro sudore. — Non ho mai saputo perché sia venuta, perché non ha detto una sola
parola. Non era ubriaca, anche se allora non sapevo nulla dell'alcool: era perfettamente padrona di sé, fredda, all'inizio, poi motteggiante nei miei confronti per tutto quello che non sapevo, infine scatenata quanto me. «Eravamo ancora insieme quando i miei genitori tornarono a casa: avevano avuto un guasto alla macchina e non erano mai arrivati alla celebrazione. Stava appena spuntando il giorno, io avevo visto la luce dell'alba ed avevo detto a Virgie Ellen che avremmo fatto meglio a smetterla, ma lei non aveva voluto. Mia madre sentì lo scricchiolio del letto, aprirono la porta e ci colsero in flagrante. «Ed io ne fui felice... — rivolse a Megan un malinconico sorriso... — perché pensavo che adesso ci saremmo dovuti sposare, il che era quello che volevo, più di qualsiasi altra cosa, fino a quando non scoprii che razza di stupido ero stato. Virgie Ellen si rivestì con estrema calma, senza dire una sola parola a nessuno, uscì dalla porta principale e sposò Walt Montalbert quello stesso pomeriggio, mentre io me ne stavo seduto in fondo alla chiesa, mordendomi il labbro quando mio padre chiese se c'era qualcuno che aveva qualcosa da dire perché quel matrimonio non avvenisse. Brink finì il suo margarita in un sorso e sollevò due dita per ordinarne un secondo. — Dopo cena, mio padre mi convocò nello studio e tentò di darmi una strigliata: avevo fornicato, e voleva che m'inginocchiassi con lui per pregare Dio e la Sua eterna misericordia. Persi le staffe quanto bastava per definirlo un ipocrita, e lui disse che aveva parlato e pregato con Virgie, Walt e perfino Mr. Montalbert, disse che Virgie aveva confessato il suo peccato ed aveva pianto, e che sia Cristo che Walt l'avevano perdonata. Mi disse che Lui avrebbe perdonato anche me. Ribattei che erano tutti un branco di puzzolenti ipocriti. «Quella notte ci riflettei sopra, steso in quel letto scricchiolante che era ancora impregnato del profumo di Virgie e della nostra passione. Non dormii molto, ma vidi quel che dovevo fare: quando sorse l'alba, radunai le poche cose che ero in grado di portare via e lasciai quella casa. Non ci sono più tornato, e non ho mai neppure scritto una lettera. — Rivolse a Megan uno sguardo scherzoso. — Se proprio lo vuole sapere, io credo sia stato questo episodio ad avviarmi sulla strada di quella che lei definisce la mia professione. All'inizio, ho sofferto parecchio, perché ero ancora molto inesperto, e sono stato sbattuto di qua e di là, spesso affamato. Ma mi sono arruolato nell'esercito non appena ho potuto, ed ho scoperto che mi piaceva. Anche se lei forse mi vorrà definire una sorta di furfante vagabondo.
— Furfante vagabondo? — Con aria grave ma divertita, Megan fece una pausa per osservarlo. — Sono parole sue. — Poi annuì, e Don capì che non si era spezzato il legame con lei. — Se intende dire un maschio che lotta isolato, suppongo che la definizione le si potrebbe attagliare. Ormai il tavolo era libero. Il cuoco era francese, e Megan permise che Don ordinasse anche per lei, ma rifiutò il vino. Mentre mangiavano con gusto, la ragazza chiese di saperne di più su quelle che definiva le sue avventure. — Ora tocca a lei — replicò Don. — Forse sì, se avessi qualcosa da raccontare, ma non è così. Almeno, nulla che stia alla pari con la sua carriera. — Comunque, mi piacerebbe sapere. — Perché no? — Un piccolo sorriso asciutto lampeggiò e svanì sul volto della ragazza. — Egan ed io eravamo gemelli, il risultato di una storia d'amore sbagliata. Non abbiamo mai conosciuto nostro padre, e mamma era sempre malata ed è morta prima che avessimo nove anni. Lo Zio Luther ci ha presi con sé: era piuttosto gentile, ma sempre assorto nei suoi affari, ed Egan ed io... avevamo molto poco, se non la nostra compagnia. Lui è cresciuto infelice: il suo analista gli disse che eravamo troppo attaccati l'uno all'altra. «Forse lo eravano davvero, ma io me la sono cavata meglio di Egan, probabilmente perché sono sempre stata la preferita dello Zio Luther. Sono rimasta all'università quando Egan l'ha abbandonata, mi sono laureata in scienze ed ho lavorato nel campo delle ricerche fino a quando gli avvocati mi hanno letto il testamento e sono passata a lavorare per la Fondazione. Megan disse che quell'attività le riempiva la vita: non si era sposata; chiedendosi se Egan le avesse lasciato qualche trauma inconscio, Brink desiderò nuovamente di poter riavere tutto quello che aveva perduto. Le donne erano sempre state parte del gioco cui giocava, come premio o come avversario, e spesso in entrambi i ruoli. Il ricordo di Virginia Ellen aveva accentuato il suo desiderio nei confronti di Megan, e, osservandola, pensò che poteva anche essere vulnerabile: ritraendosi di fronte all'immagine da lei stessa creata di un assassino, Megan era rimasta intrappolata contro la sua volontà. Tuttavia, desiderando di piacerle... di essere amato per qualcosa di più e non solo per quanto aveva narrato... Don decise di non tentare oltre la sorte: la desiderava troppo intensamente per rischiare di offenderla, e pensò che sarebbe giunto un momento migliore. Comunque, non poteva permet-
tersi di gettare via un'eventuale ed inaspettata occasione di rientrare in gioco. Quando lasciarono il Penthouse Club, Don permise a Megan di condurlo ai suoi alloggi presso il laboratorio, e la ragazza lo lasciò laggiù senza dare molte spiegazioni, salvo dire che la maggior parte del personale era a mensa. Il mattino successivo la lunga sala da pranzo era quasi vuota, ma Brink vi trovò Conchita, un'amichevole grassona del Chihuahua che gli servì delle huevos rancheros abbondantemente pepate e gli spiegò come fare per trovare l'ufficio della doctora. Megan lo accolse con calore, ma ancora leggermente guardinga, e lo fece attendere ad un grosso tavolo nella sala delle riunioni mentre convocava quattro uomini che lo avrebbero dovuto interrogare. Le brevi presentazioni lo lasciarono stupefatto: Martin Rablon, un esperto di computer, Ivan Tomislav, vincitore di un Nobel e che sembrava aver bisogno di uno dei suoi stessi miracoli medici, il Capitano Mack Wardian, ex astronauta e pilota di linea, Galen Ulver, un vivace piccolo elfo che aveva tentato di costruire razzi a fusione. Tutti abbastanza cordiali, ma anche acutamente analisti: per giudicarlo. Ma a che scopo? E cosa rappresentavano quegli uomini per Megan? Tutti e quattro sembravano in perfetti termini di amicizia con lei, e lei con loro. Rablon portava i capelli troppo lunghi per i gusti di Brink, ma era quello più vicino a Megan per età, alto ed attraente, ansiosamente attento nei suoi confronti. Tomislav appariva perseguitato da qualcosa, malandato e molto più anziano di Megan, ma aveva una rozza avvenenza ed era chiaramente attaccato alla ragazza. Wardian e perfino il vecchio Ulver erano un paio di menti brillanti racchiuse in corpi snelli e competenti, ancora in buone condizioni. Se era in cerca di amanti, Megan ne aveva quanti ne voleva. Megan portò un po' di caffè, e sedettero tutti intorno al tavolo per interrogarlo, in merito alla sua abilità con le armi, alla sua esperienza in fatto di progetti e di comando militare. Brink notò il cipiglio di disapprovazione di Tomislav a proposito di alcune delle cause da lui servite e notò anche l'atteggiamento di riserva di Megan. — Io combatto per una paga. — Lasciò che la voce gli salisse di tono. — O meglio, lo facevo quando ero in grado di combattere, per la destra o per la sinistra, per i governanti o per le truppe ribelli. Non ho mai trovato che un lato fosse molto migliore dell'altro, o molto peggiore, nonostante tutto quello che si può sentire dalla stampa. Gli uomini non combattono
perché sono buoni o cattivi, combattono solo perché sono umani. — Percependo l'inquietudine generale, sfidò direttamente Megan. — E lo stesso vale per le donne, quando s'impara a conoscerle, perché siano tutti esseri umani, che fanno quello per cui sono nati. Animali, se preferite, a caccia di un compagno e di un territorio. «Oppure — aggiunse, rivolto a Tomislav, — siamo strumenti dei nostri geni, come immagino potrebbe sostenere lei, i quali ci manipolano per riuscire a sopravvivere. Io sono un'arma — continuò, mentre Tomislav grugniva, accigliato. Stava cominciando a prendere gusto a quel confronto. — E non sono più colpevole di quanto lo sia un fucile, o più innocente, salvo per il fatto che ho delle regole personali, che elencherò nel caso venga assunto. Una di queste regole è la lealtà. Sono stato un'inutile arma per un mucchio di gente e per fin troppi anni perché sono riuscito ad insegnare a me stesso come sopravvivere. E non mi tiro indietro. Megan lo ringraziò con fare grave e gli chiese di attendere fuori; lo richiamò quasi immediatamente, e tutti e quattro gli uomini si alzarono di nuovo a stringergli la mano, perfino Tomislav, che appariva rosso in volto ed instabile. — Ci andrai bene — gli disse Megan. — Per che cosa? Megan permise che gli altri spiegassero la cosa un po' per ciascuno: si stavano preparando a seminare la razza umana sui mondi di altre stelle, non con grandi navi che trasportassero coloni in viaggi di parecchie generazioni, ma servendosi del seme umano, come disse Tomislav, quando giunse il suo turno. — Piccoli congegni... — aveva la voce bassa e pesante, con il fiato corto. — Sparpagliati in direzione di ogni stella promettente nel raggio dei pochi anni luce che possiamo sperare di far superare a quei congegni. Macchine tali solo in parte, ed in parte vive, che trasportino geni umani... — Il fiato gli venne a mancare e toccò a Wardian riprendere il discorso. — I nostri geni e la nostra cultura, tutto codificato nella memoria del computer e caricato sotto forma di semi sintetici progettati per trovare radici e ricreare la razza. Per piantare una nuova umanità, progettata in modo da essere un po' migliore di quanto noi siamo, su qualsiasi pianeta che offra un terreno amichevole. Brink scosse il capo, più che mai stupefatto. — Sembra una cosa folle. — Nuovamente accigliato, si rivolse a Megan. — Ed anche se non lo è, a cosa vi servo io?
— Lo spazio interstellare non sarà amichevole. — Era stato ancora Wardian a parlare, con il suo scandito accento vagamente britannico, i modi distaccati in modo grave eppure semischerzoso. — I mondi su cui arriveremo potrebbero essere ostili. I fragili semi devono essere protetti in volo e difesi dopo l'atterraggio fino a quando la razza umana si sarà insediata in modo stabile. Stiamo progettando quei semi in modo che possano creare dei Difensori... esseri speciali disegnati per poter affrontare qualsiasi emergenza o pericolo. Vogliamo registrare qualcuna delle sue particolari capacità per applicarle a quei Difensori. — Sciocchezze... — Per favore, Don — lo supplicò Megan, — ascolta. La ragazza guardò in direzione di Rablon. — Se lei sta ascoltando, Mr. Brink. — Rablon parlava a voce troppo alta ed aspra, difficile da accettare. — Essenzialmente, vogliamo che lei ci aiuti ad educare il computer, quello principale, che sarà installato a bordo di ogni nave-seme e che sarà programmato per creare un Difensore quando le circostanze lo richiederanno. V Stando accoccolato sopra il portello di accesso, sollevò lo sguardo alla ricerca della stella che si stava avvicinando, ma essa era svanita, portata fuori dal suo raggio visivo dal rotolare della nave su se stessa, per cui si dovette alzare per individuarla. La vista gli si fece telescopica e gli permise di vedere i punti senza dimensione che contrassegnavano i quattro giganteschi pianeti ed il bianco disco ardente della stella. Sembrava davvero già più grosso per la vicinanza? Non poteva esserne certo, eppure adesso riusciva a percepire il movimento relativo all'astro. In effetti, si trattava del loro movimento, perché stavano ancora precipitando verso la stella, sempre alla massima velocità raggiunta nel lungo volo dalla Terra, centinaia di chilometri al secondo. E con il potere di spinta perduto. Se fosse riuscito a ripristinarlo, se fosse stato possibile controllare la nave, forse si potevano ancora salvare. Forse avrebbero ancora potuto trovare un piccolo mondo amichevole, più minuscolo e fertile di quei giganti gassosi, un fertile campo in cui piantare il seme umano. Se avesse fallito, se avesse permesso loro di cadere senza possibilità di controllo nel vasto vortice gravitazionale della stella, sarebbero certamente
andati a sbattere contro qualcosa, un pianeta, una cometa, un altro granello di polvere meteorica, o magari la stella stessa. Non importava quale di queste cose avrebbero colpito, dal momento che quasi ogni tipo d'impatto avrebbe ucciso la nave per sempre. Ed anche se per caso non avessero urtato nulla, sarebbero emersi su una rotta imprecisata che non li avrebbe portati in nessun luogo, condannati ad un volo senza fine attraverso il vuoto interstellare. Si chinò nuovamente sul portello d'accesso per estrarre il pannello danneggiato ed ispezionare da vicino le file di cubi: sembravano perfetti, quindi ridusse la sua capacità visiva ad un raggio microscopico per seguire le fini linee dorate dei circuiti stampati. Allora individuò il circuito interrotto, spezzato da una fessura sottile come un capello: non disponendo di altre parti di ricambio, chiese aiuto. — Difensore a Nave. Danno individuato. Come lo posso riparare? I lineamenti di Megan si formarono e si dissolsero ancora una volta nella sua mente, ma la voce che udiva conteneva il nasale eco del midwest di Martin Rablon. — Salda le fratture. — Saldarle? — Fu nuovamente invaso dallo scoraggiamento. — Senza attrezzi? — Sei tu l'attrezzo. — La voce aveva un accenno dell'inflessione slava di Tomislav. — Le necessarie capacità sono state inserite nei tuoi geni. — Io non ricordo... Ma improvvisamente rammentò. Flesse l'unghia dorata dell'indice e la fece allungare fino ad ottenere una punta sottile come un ago, quindi mise di nuovo a fuoco la scura fessura nel circuito, chinandosi più vicino al pannello. Con un'abbagliante luce azzurrina, la punta microscopica colpì ripetutamente, seguendo la linea della frattura nel circuito, ed il metallo brillò, si liquefece, poi si raffreddò. Rimise il pannello al suo posto. — Megan... — Termine Megan non identificato. — Difensore a Nave. Puoi ricontrollare il pannello dei circuiti... — Il laboratorio d'assemblaggio — gli stava dicendo Megan, — dove raccogliamo ed organizziamo i files con i dati da immettere nei computers principali. La seguì al riparo dall'ardente luce del sole, all'interno del verde edificio prefabbricato dove erano in attesa due tecnici barbuti. Detestava i loro mo-
di bruschi ed affrettati, odiava il vago fetore di elementi chimici che aleggiava per il laboratorio e tutti i noiosi rituali di preparazione. Una volta spogliatosi, si distese sulla fredda superficie di gomma, tentando di non avvertire il gelido tocco dei sensori di metallo applicati al cuoio capelluto ed'alla faccia, perfino sulle palpebre. I sensori che gli avevano messo intorno alla gola, poi, erano tanto stretti che sembravano soffocarlo, ed avevano lo scopo di percepire le parole subvocalizzate. La luce abbagliante svanì quando gli infilarono la testa nell'apparecchio di sondaggio, e fu costretto a rimanere disteso, con la proibizione di fare qualsiasi movimento; l'ago che gli infilarono nel collo pungeva come il morso di uno scorpione del deserto, e la sostanza radioattiva che gli liberò nel cervello lo fece sentire strano e nauseato. — Rilassati, se puoi — disse Megan attraverso la cuffia, con tono pieno di urgente insistenza ma freddo e distante. — Non vogliamo la tua anima, ma solo le tue conoscenze sullo spazio. — Rilassati, Wardian. — Era una voce maschile, nasale ed imperiosa, forse quella di Rablon. — Tutto quello che facciamo... tutto quello che possiamo fare... è raccogliere dati fisici per un'analisi al computer. Non c'è nulla di telepatico. La Dr. Drake comincerà a rivolgerti delle domande in modo da guidare le tue risposte mentre noi registriamo gli indici inconsci. È un metodo tutt'altro che perfetto, perché c'è l'interferenza delle emozioni violente. Qualche volta otteniamo più di quanto vogliamo, e qualche volta di meno... Ricordando tutto ciò, comprese maggiormente di che cosa era fatto: era una sorta di mosaico creato dall'avanzata scienza computeristica e da componenti organiche, e la sua mente era composta da frammenti registrati da Brink e Rablon, da Ulver, Tomislav e Wardian, forse anche da altri, un insieme di frammenti parzialmente perduti a causa della ricezione imperfetta nel processo di registrazione, attenuati dalla inimmaginabile quantità di tempo che doveva essere passata da allora, e poi lacerati ulteriormente a causa dell'impatto della micrometeora. Ma lui era il Difensore. Generato da quello stretto grembo nel corso di quell'emergenza, per servire e proteggere la nave: questo era tutto ciò per cui era stato creato, ed il resto di lui era solo incidentale, frammenti vaganti di sensazioni e di consapevolezze raccolti quando i computer percepivano troppi dati. La sua emozione umana, il suo cupo ed amaro senso di solitudine, la sofferenza
per la perdita della virilità... tutto questo era solo un insieme di irrilevanti reliquie di vite perdute per sempre ed ora totalmente prive di significato. Muovendosi come una macchina, richiuse il portello di accesso, e, sempre facendo attenzione al cordone, ritornò alle bocche degli inutilizzabili razzi, dove si soffermò a fissare l'insieme del meccanismo senza neppure vederlo. Lentamente, la galassia gli roteò intorno, polvere scura e polvere di soli accecanti, ma quasi non se ne accorse, paralizzato com'era da un senso di cupa disperazione. Cos'altro c'era che lui potesse fare? I frammenti delle capacità belliche di Brink, dell'abilità di Rablon con i computers e di quella di Tomislav con la genetica, le cognizioni di Ulver in materia di razzi e la conoscenza di Wardian dello spazio... come poteva qualcuna di queste cose servire alla missione della nave nello spazio? Eppure, non si poteva fermare: Brink e Rablon e gli altri avevano fatto la loro parte, ed ora toccava a lui. Lui era il Difensore, con una funzione da espletare, una funzione per la quale le emozioni non servivano e che non gli avrebbe mai permesso di arrestarsi. Sollevando gli occhi verso la stella, permise alla sua vista telescopica di mettere a fuoco i quattro giganti gassosi. — Wardian? — Formulò le parole nella mente. — Adesso ho bisogno delle tue cognizioni. — Dati relativi a Wardian attinti dai banchi di memoria. — Era una voce monotona e priva d'emozioni, che ricordava solo lontanamente quella di Wardian. — Che cosa serve alla nave? — Ci stiamo avvicinando alla stella bersaglio. Ci servono i programmi per il controllo della decelerazione e per la ricerca del pianeta obiettivo. — Massa di reazione esaurita. — Il volto preoccupato di Wardian tremolò e subito svanì nella vorticante oscurità. — Decelerazione impossibile. Manovre di ricerca impossibili. Atterraggio impossibile. — Wardian, ascolta. — Loro erano il Difensore, e le loro funzioni non comprendevano la sconfitta. — Supponi che sia possibile ottenere la massa di reazione: allora potremmo controllare la nave? — Supposizione contraria alle accertate condizioni della nave... — Lascia perdere questi problemi. — Sormontò la grigia voce del computer. — Mostraci un programma di decelerazione. — Impossibile... — Lo richiediamo. Gli occhi fissi sulla stella, osservò il suo minuscolo disco ingrossarsi an-
cora, poi individuò i quattro pianeti, di una luminosità che aumentava costantemente, che si distanziavano sempre più uno dall'altro man mano che la sua vista li metteva a fuoco. Vide quindi un'improvvisa linea di un verde brillante disegnarsi nello spazio nero dinnanzi alla nave. — Indicazione del calcolo della manovra di approccio con il minimo dispendio di energie. — La voce senza inflessione non esprimeva né timore né speranza. — Calcolo effettuato per ottenere la decelerazione più sicura possibile attraverso gli effetti gravitazionali e di attrito dei passi planetarii più vicini. Saettando avanti, la linea luminosa piegò intorno al pianeta più vicino, aggirò velocemente la stella, ritornò verso un altro dei pianeti, sfiorò il terzo e poi nuovamente il primo, si soffermò ed avanzò, si soffermò ed avanzò, passando sempre più vicina e strisciando finalmente indietro con lentezza verso la stella. — Manovra impossibile — insistette la voce, — senza massa di reazione. — Allora dobbiamo trovare la massa di reazione. — Mentre tentava di chiamare il nome di Megan, vide la sua immagine sfumata, una vacua maschera dallo sguardo fisso. — Che tipo di materia serve ai motori? — Fluidi. — La maschera momentanea tremolò e si dissolse nell'oscurità, mentre la rapida voce del computer perdeva anche la minima inflessione nel tono. — Fluidi volatili con un essenziale contenuto residuo di deuterio. — Quali altri elementi? — Sono preferibili gli elementi leggeri, in composti non corrosivi. — Dammi un inventario di tutti i fluidi esistenti a bordo. Ci fu un istante di quiete assoluta. — Massa di reazione: serbatoi principali zero; serbatoi ausiliari zero. Propellenti gassosi: nitrogeno zero; elio zero. Gas di riserva: idrogeno zero, ossigeno zero. Idrocarburi: zero. Commento: tutti i materiali volatili disponibili esauriti nel corso delle manovre necessarie per sfuggire ad una pioggia di meteore. — Non abbiamo altri fluidi? — Nessuno disponibile come massa di reazione. — Ne abbiamo altri? Non ritenuti disponibili? — Abbiamo scorte di materie prime. — Perché non accessibili? — Le nostre scorte di materie prime sono una riserva essenziale richiesta
per la creazione della razza umana sul pianeta bersaglio. Devono essere mantenute intatte a quello scopo. — Non saranno più essenziali se non arriviamo fin là. Dammi un inventario delle scorte di materie prime. — Idrocarburi: punto uno due tonnellate metriche. Acidi: punto uno sei tonnellate metriche. Basi: punto uno tre tonnellate metriche. Sali metallici pesanti in soluzione: punto zero sei tonnellate metriche. — Contengono deuterio? — Calcolo dell'ammontare dei residui. — Ci fu un momento di ritardo. — Gli idrocarburi contengono una quantità di residui sufficienti a sostenere la fusione. — Allora modificheremo le pompe ed i tubi. — Impossibile... Quando attinse i dati relativi ad Ulver dai banchi di memoria, il computer gli fornì una pianta delle tubature interne della nave. Non c'era nessun portello d'accesso che mettesse in comunicazione le pompe e le tubature con i serbatoi delle scorte di materie prime per cui fu costretto a tagliare la paratia per arrivarvi. Gli idrocarburi erano congelati, ed esplosero in vapore al contatto con il calore del dito che tagliava la paratia, ma il reattore aveva i circuiti necessari per disgelare serbatoi, condutture e pompe. Tagliò i tubi degli idrocarburi, li saldò agli iniettori dei lasers, regolò nuovamente le valvole, poi tentò di richiudere l'apertura fatta nella paratia. La porzione che ne aveva staccato si era parzialmente fusa ai bordi ed era adesso troppo piccola per incastrarsi bene, ma gli riuscì di risaldarla al suo posto con metallo proveniente da pezzi di tubatura scartata. Non era il tipo di materiale che potesse resistere al calore del passaggio attraverso l'atmosfera di un pianeta, ma pensò che la parte peggiore dell'impatto sarebbe stata assorbita dal rifrangente muso a cono della nave. Forse il rappezzo avrebbe resistito. O forse... Non rientrava nelle sue funzioni di indugiare troppo a lungo su fattori che non era in grado di controllare, quindi, avvoltosi intorno al braccio il cordone pulsante, ripercorse ancora una volta lo scafo luminoso fino alla stretta porta da cui era nato. Una volta all'interno, diede un colpetto al gonfiore che serviva per chiudere. Mentre si rilassava nell'oscurità, avvertì la gentile spinta dei razzi: la funzione del Difensore era stata assolta, i motori erano tornati in vita, ed ora stavano piegando la direzione di volo della nave verso il pianeta più
vicino, guidandola nella manovra di decelerazione che li avrebbe almeno portati vicino alla stella in maniera sicura, in quella zona in cui avrebbero potuto cercare un mondo adatto a seminarvi i semi dell'uomo... I suoi sogni erano felici perché la giornata dell'indomani sarebbe stata meravigliosa: domani sarebbe stato il suo compleanno e suo padre gli aveva promesso di portarlo alla partita. Aveva sorpreso la mamma mentre infornava una candida torta di noci di cocco che era la sua preferita, ed aveva anche trovato il triciclo nuovo di zecca che i suoi genitori avevano nascosto nell'armadio dell'ingresso. L'indomani avrebbe compiuto cinque anni. PARTE SECONDA: SQUADRA D'ASSALTO I Il computer della nave interruppe il suo lieto sogno su Megan Drake. — Chiamata di servizio, Difensore! Come odiava quella voce, priva d'intonazione, inumana, eppure dotata di una derisoria sfumatura di quella di Megan! — Nave in orbita intorno al pianeta bersaglio. I tuoi servizi sono ora richiesti. Chiuse la mente alla chiamata sperando di riuscire a ricreare la gioia del sogno. Stavano facendo una gara giù per il pendio più inclinato di Angel Fire, e lei lo aveva superato, la sciarpa rossa svolazzante, il volto magro colorito dal freddo e gli sci che cantavano sulla neve, tanto vicini da toccarsi quasi. Il vento aveva spazzato via la sua risata, ma lui aveva scorto il bagliore provocante degli occhi grigioverdi prima che lei si chinasse in avanti per poi svanire in un vortice di fiocchi di neve. Accoccolandosi maggiormente, il cuore che gli batteva, si precipitò per raggiungerla. Lei voleva che lo facesse... e lui si sentiva ancora come ubriaco per la meraviglia di quella consapevolezza, ancora stupito che lei potesse essere così diversa qui, lontano dal laboratorio di Albuquerque e da tutte le pressanti necessità del progetto. Megan... che passava un weekend con lui! Lottò per conservare il sogno, ma esso si frantumò contro la durezza dei ricordi reali: Megan Drake era morta, milioni di anni prima, era perduta per sempre, insieme alla Terra umana ed a tutto quello che lui aveva mai
conosciuto, perduta da qualche parte negli innumerevoli anni luce e millenni che si erano lasciati alle spalle. — Attenzione Difensore! — La rapida e pungente voce del computer lo trafisse nuovamente. — Ora dovrai esaminare il pianeta bersaglio per determinare se l'atterraggio sia o meno vietato. Non riuscì a rispondere, perché il sogno era ancora in lui, la Megan umana ancora viva nella sua mente e la voleva di nuovo. Voleva quello spirito orgoglioso e la passione sopita sotto quel freddo autocontrollo e tutte quelle meraviglie di lei che aveva appena cominciato a scoprire. La magica dolcezza dei suoi capelli ed il sapore della sua bocca, la devozione per lui... ma quello era stato solo un sogno, ed il dolore del risveglio era ancora troppo forte perché gli riuscisse di sopportarlo. Nel sogno, aveva dimenticato ciò che era realmente. Non era nulla di umano, ma solo un congegno, per metà macchina e per metà vivo, una creazione della scienza dei computer e dell'ingegneria genetica, la sua mente... o meglio, il suo programma di controllo... un miscuglio di frammenti delle capacità e delle conoscenze che ci si aspettava fossero necessarie per il Difensore, i suoi ricordi umani un rischioso miscuglio raccolto a causa di un incidente di laboratorio. Fluttuando senza peso nell'oscura cellula, esplorò ancora la sua persona: la pelle fredda e priva di peli, pieghevolmente metallica, il pulsante cordone ombelicale, solo di poco più caldo, che si snodava nell'oscurità partendo dal ventre. Tremante, eppure rinforzato da un'improvvisa speranza, protese la mano fino all'inguine, ma tutto.quello che trovò fu una liscia e fredda superficie di metallo rigidamente pieghevole e senza peli: non era cresciuto nulla mentre lui dormiva, e non aveva tuttora alcun motivo di sognare una donna... — Allarme, Difensore! — Ancora il computer, gelidamente insensibile. — Ossigeno allo stato libero individuato sul pianeta bersaglio. Segno interpretato come prova di esistenza di vita. Il nostro Programma Principale di Controllo proibisce di piantare i semi su pianeti di avanzato sviluppo. Se troveremo una cultura nativa sviluppata ad un livello pari o superiore al nostro, la missione dovrà essere interrotta. Esaminerai il pianeta bersaglio alla ricerca di indicazioni della presenza di intelligenze avanzate. — Difensore a Nave. — Parole automatiche, pronunciate dalla macchina che in fondo lui era. — Obbedirò. Con le dita vibranti per il ritorno della sensibilità, cercò il liscio muro metallico del suo stretto grembo natale e trovò la fessura dove esso si
chiudeva. Contorcendosi nel buio per raggiungere la sporgenza d'apertura, vi picchiò sopra con il pugno. Mentre fluttuava in attesa, annaspò ancora alla ricerca della fonte di quel sogno perduto, perché esso gli sembrava troppo reale per poter essere stato soltanto un sogno, e pensava che ricordare avrebbe potuto portarlo a scoprire di più sul proprio conto. Essendo una sorta di ibrido incompiuto, aspirava ad essere intero, era affamato di umanità, desiderava recuperare quel perduto istante di felicità totale. Tutti i suoi frammenti umani provenivano da uomini tormentati, intrappolati su un pianeta tormentato, tutti innamorati di Megan... o almeno, tutti che la desideravano. Il progetto in se stesso era stato la sola promessa da lei fatta che gli riuscisse di ricordare, la possibilità di partecipare alla sua ansiosa speranza di concedere una nuova occasione alla razza umana, una migliore occasione umana, sul mondo che il seme avrebbe raggiunto, quale che esso fosse. Ma lui voleva di più. Lui voleva Megan. Era uno di loro riuscito ad averla? Mentre attendeva che la sua scura cella si aprisse, ritraendosi di fronte al duro ed amaro destino di Difensore, tentò di seguire l'appiglio fornitogli dal sogno, e, filtrando nuovamente tutti gli spezzettati frammenti di ricordi e sensazioni, annaspò alla ricerca di un'isola di gioia, di un qualsiasi momento di amore senza problemi, di un qualsiasi reale ricordo di avere sciato con Megan ad Angel Fire. Ciò che trovò fu un altro colloquio con lei. La giornata nel laboratorio era stata troppo lunga. Abituato all'azione, era stato costretto a giacere troppo immobile mentre lo sondavano, avvertendo un'eccessiva sensazione di freddo e di malessere a causa delle sostanze radioattive che gli filtravano nel cervello, sentendosi percosso troppo violentemente da troppe domande relative a tutto ciò che sapeva sull'arte del combattimento. — È tutto quello che ti abbiamo offerto. — Nel tono di Megan c'era un accenno di malizia. — Un modo per combattere ancora. Quello che non poteva soffrire era il metodo usato, ora che sapeva qual era, anche se in questa faccenda il suo ginocchio leso non aveva il minimo peso. Tutto ciò che bisognava fare, era rimanere disteso e passivo mentre lo tartassavano con una sfilza di domande per ottenere risposte inconsce che potessero essere registrate dai computers di Rablon. Troppe domande, la maggior parte di esse dolorose. Quali conflitti aveva visto? Quali piani aveva elaborato per affrontarli?
Come era stato addestrato? Quali forze aveva comandato? Agli ordini di chi aveva combattuto? Quali armi conosceva? Dove le aveva usate? Quali scontri avevano avuto un esito decisivo? Come erano stati vinti? Come sconfitti? Quanto lo avevano pagato? Quanto poco? Con che fondi? Quali leggi aveva infranto? Con quali conseguenze? Aveva mai saccheggiato? Ucciso civili? Lavorato insieme a terroristi? Con la CIA? Con altre organizzazioni simili? Non gli era mai piaciuto guardarsi indietro: c'erano stati più errori che vittorie, più sofferenze che esaltazione, forse dentro di lui c'erano altri io segreti che non voleva affrontare. Il momento presente era sempre stato più che sufficiente, ed il miraggio dell'indomani... fintanto che era stato in condizioni di fronteggiarlo. Perché gli uomini uccidevano? E perché godevano nel farlo? Erano domande di Megan, per lo più, formulate con crescente shock e repulsione. Lei voleva arrivare a disprezzarlo, eppure, nonostante tutto il suo idealismo, era rimasta affascinata da come lui si era dedicato al più antico ed assorbente gioco umano, giocato per la vita o per la morte. Ed a sua volta aveva affascinato lui, non in maniera intenzionale, ma con le violente emozioni che Brink riusciva a percepire sotto il suo ferreo autocontrollo. Quando uscì zoppicando dalla doccia dopo quella dura seduta, la trovò ad aspettarlo nel laboratorio. — Posso offrirti da bere? — le chiese con un asciutto sorriso. — Qualcosa di più liscio dei tuoi cocktails radioattivi. — Tocca a me. — Il suo rapido sorriso gli fece dimenticare il dolore al ginocchio. — Dopo tutto, è venerdì sera. Insieme alla cena. Lo accompagnò in macchina fino al Tempio Azteco, un piccolo locale dall'aria scialba appena fuori da Central, dove il cibo messicano era caldo e le margaritas abbastanza lisce, e parlarono. Lei volle saperne di più sul conto dei cacciatori di frodo di elefanti contro i quali aveva combattuto in Africa e delle ribellione Izquierdista. Lui godeva della involontaria ammirazione di Megan, e, rincuorato dalle bevande e dalla sua limpida bellezza, la supplicò di tornare in Messico con lui. — Affitterò un aereo... il ginocchio è in condizioni abbastanza buone da permettermi di volare... e ti porterò fino a Baja. — La vide sussultare, colse lo sguardo quasi spaventato nei suoi occhi. — La maggior parte dello staff si prenderà il fine settimana di libertà — insistette, — e saremo di ritorno per lunedì mattina. — Don...
Aveva trattenuto il respiro, e, per un momento lo aveva fissato da sopra l'orlo salato del bicchiere, il volto arrossato in un miscuglio di sentimenti. Per un momento, fu sul punto di cedere, ma poi lui vide le sue labbra piene irrigidirsi, forse per un senso di pietà nei suoi confronti. — Non che abbia molto da offrire ancora a qualcuno — mormorò lui, — e senza cattive intenzioni. Ma... se potessi amare... amerei te, Megan. — Mi dispiace, Don. — La sua bella testa si agitò bruscamente e lei si sporse sul tavolo, gli occhi molto gravi. — Mi dispiace terribilmente perché... perché tu mi piaci, Don. — Perdoni anche le uccisioni? — Forse... — Megan sussultò, come per una fitta di dolore. — Forse è per questo che mi piaci. Ma... — I suoi occhi si abbassarono per un istante, poi si sollevarono ad incontrare i suoi. — Io sono una vergine, Don. Egan e lo zio erano soliti dirmi che avrei dovuto concedermi un'avventura, ma non l'ho mai fatto, e ci ho anche pensato sempre più di rado da quando il progetto delle navi seme ha preso il via. Mi sono addirittura chiesta talvolta se questo non prenda per me il posto del sesso. Quando sarà finito... — trasse un profondo respiro, ed allungò la mano verso quella di lui, — forse... La lunga fessura si stava allargando, e vide all'esterno il bagliore delle stelle, spazzato via dal lento roteare della nave, ma continuò ad essere perseguitato da Megan. Desiderava ancora sapere chi... quale parte di lui... poteva essere stato insieme a lei ad Angel Fire. Non Don Brink: anche ammesso che Megan avesse mantenuto quell'incerta promessa in tempo perché l'avvenimento entrasse nella memoria del computer della nave, Brink non avrebbe potuto essere lo sciatore in questione, non con quella scheggia di mortaio sempre nel ginocchio. Chi altri? Ombrose gelosie sorsero a spronarlo. Se Megan era realmente stata una vergine, con cinque uomini che la desideravano, chi di loro era stato il fortunato? Osservando le stelle in lento movimento, esaminò ancora gli sparsi frammenti di ricordi, pochi dei quali erano chiaramente collegati a qualche nome, nessuno altrettanto limpido come quelli appartenenti a Don Brink. Martin Rablon? L'ingegnere di computeristica, forse speranzoso che Megan rimpiazzasse sua moglie... anche se i frammenti relativi all'infedele Jayna rivelavano ben poche somiglianze fra le due. Senza ideali, nata povera ma brillante, lei era stata la semplice Jane Brown quando lui l'aveva
conosciuta. Era stata sua allieva all'inizio di un corso sulla scienza dei computer, tutt'altro che brava, fino a quando aveva cominciato a pagare per i suoi voti con quello che sapeva fare meglio. Lacerato fra la sua amata scienza ed i suoi affari da un lato e la stregoneria di Jayna dall'altro, Rablon non aveva avuto tempo per praticare sports, e probabilmente non aveva mai imparato a sciare. Ivan Tomislav, l'ingegnere di genetica? Frugando fra gli sparsi frammenti relativi a Tomislav, scoprì l'esistenza di sci, racchette e stivali, ma tutti quegli oggetti giacevano, coperti di polvere, nell'armadio della stanza da letto della villetta di La Jolla. Tomislav era anziano, appesantito ed a dieta, e quell'equipaggiamento era appartenuto al suo defunto figlio... Un'esplosione di memorie dolorose. Roger morto ed Olga morente. Povera cara Olga, un tempo più grassa di lui, ora scheletrita e costretta a letto, che implorava le iniezioni che lui non si sentiva di negarle, condannata dallo stesso maligno difetto genetico rarissimo che aveva spinto Roger al suicidio quando i dottori glielo avevano diagnosticato. Olga, morente perché la sua amata scienza genetica era stata troppo lenta a creare il virus sintetico che avrebbe potuto riparare quei geni fatali. Per un istante, lui fu Tomislav, che scendeva ansando dall'aereo ad Albuquerque, in parte preoccupato per l'altitudine ma soprattutto tormentato per via di Olga. Sentì la voce di Megan che lo chiamava e percepì la malinconica ammirazione di Tomislav verso la ragazza quando la vide, altrettanto forte ed eretta quanto lo era stata Olga all'epoca in cui si erano conosciuti alla Union. Se soltanto avesse trovato il giusto canale di ricerca dieci anni prima... Ma gli orologi genetici non girano all'indietro, ed il felice sciatore ad Angel Fire non era stato Tomislav. Wardian il pilota di linea ed ex astronauta? Era più probabile. Lui era abbastanza giovane, abbronzato, muscoloso, alto quanto lo permettevano i limiti di statura della NASA, ed aveva facilità a trattare con le donne. Angel Fire? Wardian conosceva quel posto da sempre: ci andava con suo padre quando era bambino, e più tardi ci era stato con Debbie, insegnandole a sciare mentre lei gli impartiva un genere più eccitante di lezioni... Erano seduti nel laboratorio, occupati a bere birra in lattina mentre aspettavano che Ivan ed il suo staff risolvessero un problema relativo all'ap-
parecchio d'analisi. — Megan? — Wardian rivolse a Brink un sorriso sorpreso. — Non è per me, anche se è splendida. Potrebbe funzionare, comunque, se lei permettesse a qualcuno di accenderla. — Non posso fare a meno di sognare... — Brink scosse il capo e sistemò meglio il ginocchio indolenzito. — Il campo è tutto tuo. — Wardian sollevò la birra con un gesto parzialmente ironico. — Se mai lei te lo permetterà, cosa che non mi aspetto avvenga. Quanto a me, mi piace guardarla, ma ho due regole riguardo alle donne: non permettere mai loro di sposarmi e non toccare mai una vergine. Se Wardian aveva osservato quella seconda regola, se Galen Ulver era stato troppo vecchio e fragile per andare ad Angel Fire... La fessura si era allargata, ed il lento rotolare della nave permise ad un raggio di sole di colpirla. Non avendo trovato alcun indizio, accantonò la ricerca di quel perduto istante di amore apparentemente perfetto: forse era davvero stato solo un sogno, e probabilmente non lo avrebbe mai saputo. Non che potesse importare adesso, perché tutti quegli uomini sfortunati erano da tempo ridotti in polvere, il loro mondo perduto per sempre. Rabbrividendo leggermente nella fredda cella, tentò di allontanare i loro spettri che lo perseguitavano: lui era tutti loro, nessuno di loro e più di uno qualsiasi di loro, ed i loro vaghi frammenti erano difetti casuali del Difensore della nave, e costituivano soltanto un pericolo per l'adempimento del suo dovere. Finalmente la porta che si apriva fu larga abbastanza. Raccolto il cordone caldo intorno ad un braccio perché non s'impigliasse, si fece strada all'esterno. II Spazio buio e metallo ardente. Rimase come accecato per un momento fino a che i suoi occhi si adeguarono alla selvaggia luce solare. I piedi magnetici aggrappati al metallo, cercò di orientarsi: la nave era sempre sotto di lui, di nuovo viva, sempre lentamente ruotante, la sua pellicola dorata rozzamente rammendata là dove lui si era aperto un varco fino alle scorte di idrocarburi; ed il sottile e dorato cordone ombelicale continuava a srotolarsi alle sue spalle, scaturendo dalla stretta fessura.
Cercando intorno a sé, trovò il pianeta. Si sentì invadere da un senso di esaltazione: eccola, finalmente, la loro meta da lungo tempo perduta! Quello era il nuovo mondo dove il seme dell'uomo avrebbe potuto mettere nuove radici e prosperare ancora... se lui fosse riuscito a piantarlo saldamente. Posto a breve distanza sotto di loro, e per più di metà avvolto nell'ombra, il pianeta formava una splendida mezzaluna, di enormi dimensioni anche prima che la sua vista diventasse telescopica. Nubi abbaglianti solcavano l'equatore in una fila incerta che doveva indicare la fascia di convergenza tropicale, mentre un oceano nerazzurro si protendeva a nord ed a sud da quel punto, per incontrare bianche tempeste roteanti. Non vide traccia di terraferma. — Nave a Difensore. — Era il computer principale. — Si richiedono i dati a mano a mano che li registrerai. — Osservazione in corso. — Tentando di dimenticare le tormentose sfumature di Megan nella rapida voce sintetica, lui udì la propria silenziosa risposta, essa stessa non più umana. — Banchi di nubi rivelano sistemi di circolazione d'aria simili a quelli terrestri, indicando un forte effetto Coriolis dovuto alla rotazione planetaria. La situazione climatica dovrebbe favorire la sopravvivenza umana, se possiamo atterrare. — Continuiamo a registrare l'intero spettro radioattivo — disse il computer. — Il sistema sensorio non individua alcuna prova di vita salvo l'ossigeno atmosferico. Tu cercherai un possibile luogo di atterraggio. — Sto cercando. Osservò la lenta rotazione del pianeta mentre vi giravano intorno. La luminosa mezzaluna si allargò, nuovi disegni di nubi tempestose apparvero, mari scuri e nubi lucenti. Non individuò alcuna superficie solida... — Nessuno lo sa. Nell'ufficio di Megan, all'interno del laboratorio, Wardian si chinò in avanti per guardare accigliato un grosso congegno che lui chiamava uno stellano. Appena installato, l'oggetto aveva ancora un odore di plastica calda. Le stelle apparivano come minuscole luci su piccoli sostegni che radiavano da una più forte luce centrale rappresentante il sole. Un piano di lucite, che passava attraverso il sole, indicava quello che Wardian chiamava il piano galattico, e due mezzi cappi piegavano intorno ad esso per indicare la latitudine e la longitudine galattica, mentre il monitor sulla scrivania di Megan forniva i dati relativi a qualsiasi stella che si trovasse al di sotto del
loro punto d'intersezione. Dati che non erano mai abbastanza numerosi. — Naturalmente, speriamo che ci siano dei pianeti. Wardian scrollò le spalle. Appena rientrato da un volo in deltaplano giù dai pendii di Manzano, appariva snello e splendidamente intrepido nella tuta gialla fatta su misura, un po' troppo sicuro di quello che era in grado di fare, un po' troppo ironico nei confronti di tutto il resto. Che opinione aveva Megan di lui? — La teoria dice che i pianeti dovrebbero esistere. — Wardian si era rivolto solo parzialmente a lui, gli occhi tuttora fissi su Megan. — Pianeti abbastanza simili alla Terra da fornire al seme una possibilità, pianeti forse presenti intorno ad ogni stella normale. Abbiamo prove incerte dell'esistenza di alcuni giganti gassosi, ma i nostri strumenti non sono abbastanza perfetti da individuare il genere di mondi che stiamo cercando. — Stiamo mirando a pianeti che non possiamo neppure vedere? — Brink scosse il capo in direzione di Megan. — Che tipo di speranze... — Per favore, Don. — Nel riprenderlo, Megan sembrava quasi ferita. — Abbiamo alcuni fattori che giocano a nostro favore. Un senso di pietà penetrò la cortina di parzialmente involontaria adorazione di Brink per lei. In piedi, alta e diritta, vicino a quel congegno lucente, incastonata nello sfondo della finestra, la sua snella vitalità in violento contrasto con il panorama desertico all'esterno, Megan appariva abbastanza coraggiosa da sfidare la mortalità della razza umana, ed abbastanza adorabile per intraprendere qualsiasi cosa avesse mai voluto; ma era troppo idealista, e stava sprecando se stessa per il progetto, la sua vita un inutile sacrificio ad una meta della quale la maggior parte del mondo sarebbe stata pronta a ridere. — Le probabilità avverse sono terribili — annuì sobriamente Megan, — nei confronti di ogni singolo seme. Ma noi li sparpaglieremo a centinaia... a migliaia, se possiamo... su un intero campo di stelle. — Se le autorità permetteranno a Galen di sperimentare il suo motore a fusione. — Wardian ebbe un secco sorriso di fronte all'ottimismo della ragazza. — Se lui riuscirà mai a far funzionare quel motore, una volta avuto il permesso, e se riuscirà a costruirlo in serie a basso costo. Se avremo il tempo di lanciare le navi prima che il nostro mondo vada in pezzi. — Problemi. — Megan scrollò le spalle. — Li risolveremo. — I suoi occhi verdi tornarono a posarsi su di lui, facendosi più gravi. — Tu costituisci un altro problema, Don.
— Tu vuoi che combatta per avere quei pianeti, se mai li troveremo... — Il problema è che tu potresti farlo un po' troppo bene. — Wardian appariva scherzoso. — Hai messo in allarme il Dr. Tomislav. Teme che le tue capacità ed i tuoi geni potrebbero trasformare la progenie delle navi in vandali interstellari che saccheggino la galassia, il che non è quello che noi vogliamo. — Se fate di loro un mucchio di pacifisti, non resisteranno a lungo — obiettò Don. — È una questione spinosa — aggiunse Megan, e Brink si sentì trapassare dalla paura, dal timore di non essere più voluto. — Stiamo ancora cercando una risposta. Una mattina, non molto tempo dopo, Megan lo trovò nella saletta annessa al laboratorio: era intento a fissare la tabella dei programmi, alla ricerca del proprio nome, che, nuovamente, non vi figurava. Depresso per quell'esclusione, Don si volse per salutarla. — Avete chiuso con me? — No, Don. — Brink vide che non ne era sicura. — Spero di no. — Ormai sono tre giorni che aspetto. Tre giorni che aspettava di fare un'altra seduta di analisi: si sentiva sconcertato ed annoiato. Ancora troppo azzoppato per poter fare molto moto, aveva tentato di leggere le gualcite riviste nel cesto, aride pubblicazioni tecniche sui computers, l'astronautica e la genetica. Aveva anche provato a leggere un romanzo di guerra, una storia scritta da uno sciocco romantico che non aveva mai partecipato ad un combattimento, ed alla fine aveva cercato di decidere cosa avrebbe fatto dopo, se Megan lo avesse congedato. — Andiamo a parlare con Ben — stava dicendo Megan. — Abbiamo chiesto a lui una soluzione al problema. — Ben? — Ben Bannerjee. — Don avvertì una speciale dolcezza nella voce di lei. — Non lo hai ancora conosciuto perché è troppo fragile per sottoporsi all'analisi, ma lui è il cervello della Fondazione Raven. Brink la seguì fuori dal salottino. — Ben ti conosce — spiegò Megan. — Perché ha analizzato i risultati dei tuoi sondaggi, convertiti in segnali acustici, che lui ha imparato a decifrare. Dice di volerti conoscere perché tu hai fatto tante cose che lui può soltanto sognare. Lo ammirerai, Don, se soltanto te ne concederai la possi-
bilità. Brink aveva percepito l'ammirazione presente nella voce di lei. — Lui è Benjamin Franklin Bannerjee. — Stavano attraversando il parcheggio, ed erano diretti verso l'edificio nel quale Omega aveva fabbricato i componenti per le armi. — È un nome che si è scelto da solo, perché non ha mai conosciuto i suoi genitori. È nato deforme, da qualche parte in India, non sa dove e neppure quanti anni fa. Aveva forse solo cinque o sei anni quando mio zio lo ha trovato in una strada di Calcutta, nelle mani di un guercio, un certo Fagin, che lo costringeva a starsene accoccolato nella sporcizia, vestito di stracci, a giocare a scacchi contro chiunque avesse voluto sfidarlo. «E lui vinceva ogni partita. Mio zio non si è mai sposato, e non ha mai avuto molto interesse per i bambini, neppure per Egan e me, ma si è sentito attratto da Ben fin dalla prima occhiata, lo ha comprato da quel thug che ne reclamava il possesso e lo ha portato a New York, perché ricevesse adeguate cure mediche... quasi troppo tardi. «Vederlo sarà uno shock per te, Don. — Megan si arrestò sul marciapiede all'esterno dell'edificio. — È per questo che ti sto mettendo in guardia: lui respinge la gente, credo per la sua intelligenza oltre che per il suo aspetto. Ma io lo conosco da quando avevo sette anni, e gli sono affezionata quanto lo era lo Zio Luther. Anche Egan gli voleva bene: verso la fine, credo che lui sia stato il solo amico di mio fratello. «Lo Zio Luther si è sempre fidato di lui, dapprima per consigli d'affari, ed infine per questa faccenda delle navi-seme. Era un'idea di Egan, ma lo Zio Luther non ha mai dato ascolto ad Egan. È stato Ben a vedere in che modo la cosa fosse realizzabile: senza di lui noi non saremmo qui. Brink la seguì all'interno: un'infermiera vestita di bianco li obbligò ad indossare maschere chirurgiche ed a lavarsi le mani in acqua disinfettata prima di farli accedere ad una stanza priva di finestre in cui l'aria sovrariscaldata aveva un tenue e fastidioso odore di antisettico. Don udì una voce stridula e tremante e tentò di non ritrarsi quando vide Ben: un essere delle dimensioni di un bambino su una sedia a rotelle. La testa era rinsecchita, priva di capelli, scura e segnata da cicatrici; la faccia, stretta e dal colorito scuro, informe e trasformata in una maschera di sofferenza prolungata, si contraeva stranamente. Il corpo appariva troppo piccolo per poter sorreggere quella testa, e sembrava grottescamente rattrappito. L'infermiera parlò, ed il tremolio si modificò: la sedia alimentata elettricamente si girò verso Don, il quale scorse un solo braccio scarno, l'unico
arto utilizzabile, e si vide sbirciare da due occhi scuri tormentati dalla sofferenza. Sentendosi a disagio sotto quello sguardo, Don si volse a fissare Megan. — Ben... — Lo spontaneo calore della voce di Megan suonava strano in quella stanza simile ad un laboratorio. — Questo è Don. — Salve, Mr. Brink. — La maschera contorta accennò a sorridere, e l'unico, sottile braccio di Ben si mosse sulla tastiera di un computer. Quelle parole, scaturite gracchiando da un altoparlante sulla bianca e nuda parete, lo fecero rabbrividire. — Grazie per essere venuto. Miss Zorilla le darà da sedere. L'infermiera portò una sedia e Brink sedette, a disagio, davanti a quegli occhi sconcertanti, aspettandosi un nuovo esame sulla sua vita, le sue speranze, la sua etica, mentre Megan si portava dietro la sedia a rotelle e posava una mano sulla spalla avvizzita di Ben, un tenero sorriso sotto la candida maschera chirurgica. — Mr. Brink, credo che lei giochi a scacchi. — Non spesso. — Neppure io. — Quel volto spaventoso parve sorridere. — Ci sono troppe cose urgenti che interferiscono. Ha tempo per una partita? — Il tempo è tutto quello che ho. Miss Zorilla portò una scacchiera, e Ben annunciò un tempo limite di due minuti per ogni mossa, ma quel suo agile artiglio aveva bisogno solo di pochi secondi per spostarsi. Per quanto cercasse di giocare con cautela, Brink si trovò battuto in venti mosse. — Una buona partita, Don. — Quegli occhi stranamente brillanti lo trapassarono ancora. — Mi è stato chiesto di dare un parere sul suo conto, ed io credo che abbiamo bisogno di lei nel Difensore. — Grazie... — Quella parola gli uscì di bocca con più emozione di quanto desiderasse. — Grazie...! — Ne sono felice — sussurrò Megan. — Ho parlato con Marty ed Ivan — aggiunse Ben, sollevando lo sguardo su di lei, le gialle dita inerti, la tragica maschera del volto trasformata da un'espressione d'amore. — E sono d'accordo? — Abbiamo elaborato un compromesso. — Le dita stavano nuovamente saettando. — La nave può aver bisogno di una difesa, e possono averne bisogno anche le nuove colonie, fino a che non saranno in grado di provvedere a se stesse. Ma non intendiamo lanciare nello spazio un gruppo di
conquistadores. — Gli occhi tormentati lasciarono Megan e tornarono a posarsi su di lui. — Marty sta scrivendo un nuovo programma di controllo per il computer. Si tratta di un testo triplo, per la difesa di qualsiasi mondo abitato che le navi possano incontrare. Il primo testo è tecnologico, per allontanare le navi da qualsiasi pianeta che dimostri di possedere comunicazioni elettroniche o energia nucleare o capacità di navigazione spaziale. Il secondo è economico e politico, per proteggere qualsiasi sistema sociale globale; il terzo è culturale, e si spinge un po' più in là, allo scopo di prevenire la distruzione di qualsiasi razza intelligente o di qualsiasi cultura in via di evoluzione. Il programma ucciderà il seme, anche dopo l'atterraggio, se un qualunque tipo di creatura si limiterà anche solo a dire che la nostra presenza là non è gradita. — Intende dire che non potremo lottare... contro nulla? — È la nostra decisione. — La testa scheletrica di Ben annuì debolmente. — Di fronte a qualsiasi sfida da parte di creature intelligenti, lei dovrà cedere senza opporre resistenza. — Non ci potete... — Quella notizia gli aveva tolto il fiato. — Non ci potete ripensare? — Ci abbiamo ripensato. — La sedia a rotelle si stava allontanando, e la stanza sovrariscaldata era nuovamente piena degli stridii e dei ronzii degli apparecchi, in mezzo ai quali la voce elettronica suonava come inumanamente remota. — Noi abbiamo creato le regole, Mr. Brink, a lei giocare la partita. Noi ci aspettiamo che la giochi nel modo migliore... — Ma... — Grazie, Mr. Brink. Grazie per essere venuto. L'infermiera fece loro cenno di uscire. — Meglio che niente, credo. — Don seguì Megan all'esterno senza molta allegria. — Ma è pur sempre un ostacolo mortale: se inserite un simile comando suicida nelle navi, quante speranze ci rimangono? — Speranze sufficienti. — Megan si soffermò per togliersi la maschera, guardandosi alle spalle in direzione di Ben con quella che a Don parve una malinconica tristezza. — Non intendiamo partire alla conquista delle stelle, vogliamo solo tenere in vita la razza umana. Se anche un solo seme troverà un luogo dove poter crescere, questo sarà tutto ciò di cui abbiamo bisogno... e forse più di quanto ci siamo meritati, se consideri la storia dell'umanità. — Non riesco ad immaginare quali nemici potremmo incontrare... — Ma io ho cominciato a conoscerti, Don — replicò Megan, rivolgen-
dogli uno strano mezzo sorriso. — Credo che tu possa far fronte a qualsiasi handicap... Terra! Una costa spezzettata, visibile sotto la cintura di nubi, che faceva capolino oltre la luminosa curva del pianeta, più lucente del mare e tinta di un verde delicato... il che doveva significare che c'era clorofilla, o qualcosa di molto simile. Tremando, l'osservò ruotare lentamente verso di lui. Una linea di luce brillava lungo l'orizzonte, e lui l'osservò salire, allargarsi, diventare un'enorme massa montuosa che emergeva torreggiante dalle nubi. Un vulcano spento, che dominava il continente... e che doveva averlo costruito in un qualche remoto passato tettonico. Il suo sguardo si fece telescopico per scrutare il bagliore ghiacciato del vasto cratere ed i ghiacciai che coprivano i pendii nevosi. — Difensore — stava chiedendo il computer. — Cosa osservi? — Tutto quello che potremmo desiderare. Una massa di terra si protende dai tropici fin quasi al polo settentrionale. Se il programma ci permette di atterrare... — Nave a Difensore. Tutti i monitors stanno registrando: nessun dato negativo ricevuto. Continuerai la ricerca di possibili punti d'atterraggio. Mentre camminava lungo lo scafo ruotante per tenere sempre d'occhio il pianeta, si accorse che il cordone si era arrotolato intorno alle ginocchia e dovette ruotare all'indietro per liberarsi; quando riprese a muoversi per osservare il mondo sottostante, scoprì un secondo continente. Meno grande del primo, si stendeva dalla cinta di nubi equatoriali in direzione dell'altro polo, non aveva cime altrettanto alte ed era libero da ghiacci. Era anche più arido, una vasta distesa vuota di colore rosso marrone e desertica che si spingeva al di sotto della cinta delle tempeste, più antica, forse creata da un precedente spasmo tettonico ed ora già consumata. Sparse fra i due continenti, trovò nuove zone di nubi, formatesi, pensò, là dove correnti d'aria si levavano da catene di isole... chi era stato, si chiese, a fargli dono di quelle cognizioni metereologiche? Forse Wardian, dato che i piloti dovevano saper giudicare il clima... — Difensore, chiediamo i dati per un possibile atterraggio. — Il continente settentrionale appare più promettente e dovrebbe avere una variabilità climatica maggiore. Forse anche risorse più ricche. Ma bisognerà studiarlo più a lungo prima di poter scegliere un luogo adatto al-
l'atterraggio... — Difensore! Pur essendo sempre priva di emozione, la voce del computer era mutata, ed ora parlava più rapidamente, con maggiori inflessioni di Megan. Lui intravide un'altra immagine del suo volto, ora rigido ed esangue, gli occhi fissi e vuoti. — I monitors individuano una radiazione. Siamo sottoposti a sondaggio da parte di raggi ad ampio spettro. — Dove? Distolse lo sguardo dal pianeta per analizzare lo spazio circostante. C'era il rovente disco solare, un po' più piccolo ed un po' più azzurro, gli parve, del sole perduto della Terra, e, quando il suo sguardo si fu adattato, individuò anche due dei giganteschi pianeti gassosi, ma null'altro, neppure una luna. — Fonte non identificata... — La voce del computer si arrestò, poi riprese, più rapida. — Fonte localizzata! Velivolo spaziale alieno che si trova sulla nostra stessa orbita e ci sta seguendo, avvicinandosi rapidamente! Lui non vedeva ancora nulla. — Possiamo mandare un segnale? — Stiamo trasmettendo il codice di contatto iniziale su ogni frequenza disponibile. I nostri segnali vengono ignorati. — Se siamo attaccati, possiamo combattere? — Negativo. Siamo disarmati. Il Programma di Controllo proibisce il combattimento armato contro chiunque. — Allora faremmo meglio a schivare... — Difensore, attenzione! Individuiamo l'avvicinarsi di un missile. — Intraprendere azione evasiva... — Evasione impossibile: i nostri razzi mancano della necessaria accelerazione... Qualcosa lo colpì. Lo raggiunse al petto e lo proiettò fuori dallo scafo. Roteando nello spazio, annaspando alla ricerca del proiettile, lo trovò ancorato alla sua stessa carne, un pesante disco d'acciaio, ancora leggermente caldo. Lo artigliò, tentando di staccarlo, ma esso rimase attaccato mentre la nave si allontanava roteando, un giocattolo dorato, ancora legata a lui dal cordone ombelicale. Il velivolo alieno passò vicino, un lampo di metallo luminoso e razzi azzurri fiammeggianti, e qualcosa lo trasse verso di esso, forse un cavo col-
legato al disco attaccato al suo torace? Annaspando, non trovò nessun cavo, e, mentre roteava impotente, sentì il cordone che si tendeva. — Nave! — tentò di chiamare. — Difensore a Nave... Un senso di agonia lo attraversò e la sua voce si spense, il sole rovente impallidì e non riuscì più a vedere il velivolo alieno. Debolmente, si batté una mano sul ventre: il cordone ombelicale non c'era più, era stato strappato, e, con esso, la sua stessa vita. — Nave! — Tentò ancora. — Chiamo la Nave... Il volto bianco e spettrale di Megan gli balenò nella mente, fisso e spaventato. Mentre roteava nello spazio, intravide brevemente la minuscola e dorata nave-seme, fattasi ora opaca perché la sua vista stava svanendo, già rimpicciolita dalla distanza e scomparsa poi un attimo più tardi. — Nave a Difensore. — La voce era quasi quella di Megan, carica di una cupa disperazione che nessun computer poteva esprimere, e si stava spegnendo rapidamente. — Riferiamo la fine della missione. In risposta all'evidenza di un'avanzata tecnologia, il nostro programma principale di controllo ha cancellato ogni piano di atterraggio. — Non possiamo cedere... — Nave a Difensore — Un mormorio senza suono, morente. — Noi dobbiamo obbedire. Tu non tenterai di danneggiare il velivolo alieno o i suoi proprietari... — Ma... non possiamo... in qualche modo... Anche la sua voce si spense. Il ventre gli pulsava dolorosamente sotto la mano ancora serrata, ma il dolore stava attenuandosi. Cercando intorno a sé, non riuscì a trovare il congegno alieno, poi il sole si spense e lui scivolò nell'oscurità. III La luce del sole lo fece tornare in sé. Ancora intontito per il trauma e per il dolore al ventre, lottò per recuperare completamente i sensi e scoprì l'oggetto che si stagliava contro le stelle, dinnanzi a lui. All'inizio gli parve un giocattolo spaziale che volava più avanti e verso cui il disco lo stava trascinando, ma poi, quando la sua percezione visiva migliorò, l'oggetto si fece enorme e terrificante. Che fosse una stazione orbitale o un'astronave, le sue dimensioni facevano della nave-seme una pulce insignificante. Quell'oggetto non era stato costruito per il volo nell'atmosfera, e la sua fantastica massa era per metà
un'ombra nera, mentre bruciava di un rosso ruggine là dove batteva la luce solare. Annaspando incerto per capire di cosa si trattasse, scorse un'ampia striscia di metallo più luminoso con un lungo incavo che correva nel centro di esso. Era più luminoso, forse, perché le sue pareti erano state uno schermo contro i danni da radiazioni. Altre due strisce correvano parallele alla prima, piene di ombre scure, e tutte erano affusolate in punta, come per accogliere velivoli aerodinamici. Che uno di quei velivoli fosse stato il suo attaccante? Probabilmente no. Dall'occhiata fugace che era riuscito a dargli, gli era sembrato qualcosa di molto più piccolo, ma non aveva importanza. La presenza stessa in orbita di quella cosa era sufficiente a proibire loro l'accesso al pianeta, e, senza il carburante necessario per raggiungere un altro bersaglio, tutto era finito. Quella era stata la decisione di Ben Bannerjee, e lui sapeva di doverla accettare. Dopo tutto, ci si era aspettati che la maggior parte delle naviseme morissero, e, essendo solo un piccolo ingranaggio di una grande macchina, lui non avrebbe dovuto essere sconvolto dall'idea: era stato creato per obbedire al Programma Principale, non per provare emozioni. Ma... Nonostante se stesso, nonostante il programma e la sua grigia disperazione, si accorse che stava stringendo con entrambe le mani dorate il missile che gli si era attaccato al petto, nel tentativo di staccarlo. Il missile, uno spesso disco di metallo, era tuttora saldamente attaccato e continuava a trascinarlo verso il mostruoso velivolo stellare. Goffe ed intorpidite, le sue dita scivolarono via dall'oggetto. Fece un altro tentativo, ancora più debole, e scoprì che stava perdendo i sensi; un po' di energia, pensò, doveva essergli giunta dalla stella, ma in misura scarsa per sostituire il cordone ombelicale, e la sua debole lotta con il disco ne aveva consumata troppo. Imprecando in silenzio, in preda ad un amaro e non programmato impeto d'inutile ed umana rabbia, senti il buio che lo colpiva, con tanta violenza da stordirlo: vagamente, comprese che doveva essere stato trasportato all'interno del grande velivolo spaziale, ma tutto quello di cui era consapevole era il violento dolore al ventre... Corse a nascondersi nell'armadio: là dentro non lo avrebbero trovato perché Sharon avrebbe voluto cercare prima all'esterno, nella baracca, o magari dietro la siepe. Se qualcuno fosse riuscito a trovarlo, lui sperava
che si trattasse di Penny: lei aveva un buon odore, avrebbe strillato e sarebbe stata contenta di vederlo. Gli piaceva Penny. Era buio nell'armadio, quando chiuse il battente: qualcosa di setoso gli pendeva sulla faccia ed aveva un odore che non gli piaceva, un sentore di naftalina e di vecchio profumo; con il cuore che gli batteva forte, si appoggiò al battente, ascoltando. Niente. Attese: la casa rimase molto silenziosa, e lui comprese che stavano cercando all'esterno. L'oggetto setoso gli fece il solletico alla faccia, e, quando tentò di allontanarlo, gli cadde sulla testa: l'odore di vecchio profumo era adesso tanto forte da non farlo quasi respirare, e lui lottò per liberarsi, annaspando. Li sentì arrivare, il rumore dei piedi leggero e rapido nell'ingresso privo di tappeti. La porta dell'armadio si mosse, e lui sentì Penny mormorare qualcosa, ma lei non aprì la porta e non gridò. Ci fu un suono metallico, poi loro si allontanarono. Attese, ma non tornarono indietro. Detestava il buio, e quella cosa di seta gli era caduta ancora contro la faccia, l'armadio era troppo caldo e non riusciva più a sopportare l'odore di naftalina. Spinse contro la porta. Il battente non si aprì, ed allora capì che Penny lo aveva chiuso a chiave, e lei non gli piacque più. Cominciò a picchiare con entrambi i pugni ed a chiamare Sharon perché lo facesse uscire, ma nessuno venne. Non era giusto: erano crudeli ma lui non poteva combattere con loro, neppure quando fosse riuscito ad uscire, perché erano ragazze. I pugni gli facevano male, ed ancora la porta non si voleva aprire. Gridò fino a non avere più fiato, ma non venne nessuno, nessuno di loro era giusto. Si stese per terra, ed il pavimento ondeggiò sotto di lui, mentre la polvere lo faceva sternutire... Si svegliò nel buio, ancora steso al suolo. Qualcosa di pesante gli era caduto sul petto e si sentiva troppo debole per allontanarlo. Non riusciva ancora a respirare, ed il buio circostante era soffocante. Tentò di gridare ancora. Non poté gridare perché non aveva voce. Non poteva vedere nessuna parete, ma sapeva che quel posto era più grande dell'armadio, molto più grande. E lui non stava respirando perché adesso non aveva più bisogno di respirare. Lui era il Difensore. Si ricordò allora della nave-seme e dell'ordine idiota di Bannerjee e della
strana macchina spaziale. Vagamente, si chiese se era stato trasportato da qualche parte all'interno di essa, ma il ventre gli doleva ed il cervello si rifiutava di funzionare. Senza il cordone ombelicale, e senza neppure la scarsa energia che aveva attinto dalla luce solare, era impotente, morente. E qualcosa... qualcosa si stava avvicinando. Stava strisciando silenziosamente verso di lui, uscendo dal buio: all'inizio fu soltanto una massa scura, poi cominciò a distinguere i contorni. Era un qualcosa non molto più grande di lui e che strisciava sul ventre, muovendosi come uno scarafaggio, strisciando e fermandosi, saettando avanti ed arrestandosi ancora per osservarlo. Non aveva gambe, né occhi visibili, e neppure mascelle o antenne da insetto di tipo a lui noto; era un essere basso, largo e piatto, senza proiezioni di sorta, anche se trasportava qualcosa sul dorso, qualcosa a forma di disco, piatta quanto lui. Il disco stava brillando debolmente, poi si fece di colpo più luminoso, e la luce crescente gli permise di vedere il luogo in cui si trovava: il pavimento era circolare ed enorme, con un diametro di un centinaio di metri, mentre il soffitto era quasi troppo in alto per poter essere visto, ma scorse un gruppo di tubi, simili ad alberi cresciuti troppo vicini, che salivano verso di esso dal centro del pavimento. Tutto era di metallo, apparentemente scurito dal tempo, e comprese che si doveva trovare all'interno dell'immensa macchina spaziale. Anche la cosa che si muoveva era fatta di metallo, ma era di colore dorato, come la nave-seme ed il suo stesso corpo. Saettando e fermandosi, saettando e fermandosi, la cosa si avvicinò dalla direzione dei tubi; la testa gli dolse quando tentò di comprenderne le mosse, ma sapeva che non poteva avere buone intenzioni nei suoi confronti. Voleva combattere contro quella cosa, ma quando iniziò ad annaspare alla ricerca di una qualche arma o di una possibile strategia, intravide il tenue spettro del volto turbato di Megan ed udì un debole sussurrio privo di suono. Era un messaggio radio dalla nave-seme? Oppure la voce del suo computer interno? Non aveva modo di saperlo. — Programma Principale a Difensore. La missione è annullata. L'immissione di dati rivela prova dell'esistenza di alta tecnologia sul pianeta bersaglio. I comandi di controllo proibiscono pertanto d'installare il seme su di esso. Ripeto. Programma Principale a Difensore. La missione è annullata: gli esseri del pianeta bersaglio non devono essere attaccati, né sulla superficie né nello spazio.
Si sentì schiacciare da un senso di disperazione, altrettanto opprimente quanto il peso che aveva sul petto. Quella regola era stupida, e lo era perfino il suo nome, se il programma non gli permetteva di difendere la nave. L'evoluzione aveva creato l'unica vera legge, quella per cui ogni essere vivente doveva lottare per la sua sopravvivenza e per quella della sua specie. Ma lui non era vivo, non in maniera reale, e la pazzesca decisione di Bannerjee era programmata in lui e bisognava obbedire. Ma lui non voleva morire. Forse quella legge aveva un limite, e non gli era proibito sfuggire al pericolo... se era in grado di farlo. Spronato da un impeto di disperazione umana, lottò nuovamente contro la cosa che aveva sul petto, e nuovamente scoprì di non avere forze sufficienti alla sua rimozione. La piatta sagoma a forma d'insetto si era fatta più vicina, e si era poi arrestata, come per osservarlo. L'oggetto che essa trasportava si piegò su un bordo e volse verso di lui una faccia rotonda, di luminosità ancora più intensa. Con gratitudine, bevve le radiazioni che ne emanavano: più che essere una semplice luce, quell'irradiazione lo riscaldava, lo ridestava, lo rendeva più forte. Di nuovo, spinse e tirò, ma il disco continuò a tenerlo appiattito al suolo. Non si trattava di forza di gravità, perché la testa e le gambe non avevano peso: erano ancora in orbita, e la forza che lo teneva inchiodato gli era sconosciuta... non era certo magnetica, perché lui era in grado d'individuare il magnetismo. Si accorse che l'oggetto rotondo lo stava sondando con un intero spettro di radiazioni: infrarossi, caldi come una fornace, raggi ultravioletti, perfino raggi gamma. Quelle radiazioni non erano certo intese ad essergli d'aiuto, ma erano ugualmente ciò di cui era affamato. Ravvivato da quella nuova energia, si preparò ad affrontare la situazione. Cosa poteva volere da lui quella sorta d'insetto? Se si trattava di un difensore del pianeta, posto in orbita allo scopo di sfidare gli invasori spaziali, doveva aver scambiato la nave-seme per un nemico, non avendo alcun modo di sapere che non erano arrivati con scopi di conquista. Se fosse riuscito a spiegare qual era la funzione della nave, essa poteva forse essere ancora salvata. Quei due grandi continenti gli erano parsi fin troppo vuoti, anche sotto l'analisi del suo sguardo telescopico: non c'erano città visibili, né tracciati autostradali o fattorie o smog industriale, nessun indizio di elevata tecno-
logia. Da qualche parte, fosse stato anche su un isola, ci doveva essere uno spazio dove il seme dell'uomo potesse crescere. Dopo tutto, era chiaro che i suoi catturatori avevano voluto prenderlo vivo, e se lui fosse riuscito ad installare un qualche contatto mentale, forse avrebbe potuto persuaderli a permettere l'insediamento di una piccola colonia. Il meglio della vita e del pensiero della Terra era custodito nei computers della nave, ed a tempo debito, se il seme avesse messo radici, quei tesori avrebbero potuto essere barattati in cambio di spazio vitale, forse addirittura di nuove scienze e cultura. Si contorse agitando una mano, chiedendosi se quell'insetto avrebbe compreso i suoi gesti. Come in risposta, il disco s'inclinò maggiormente verso di lui e le sue radiazioni si tramutarono in un rapido pulsare: lo sentì ripetere il segnale iniziale di contatto emesso dalla nave-seme, ripetuto esattamente come la nave lo aveva emesso. Intelligenza! Tremando per l'eccitazione, ascoltò il segnale privo di suono. Un beep ed una pausa, quattro beep ed una pausa, poi nove, sedici, venticinque fino a che il numero dei quadrati arrivò a 256. Poi seguì l'immagine di una scatola vuota, all'interno della quale lampeggiarono semplici immagini: un triangolo, un quadrato, un trapezio, un rozzo cerchio. Seguì una scatola più grande, tremolante di nuovi dettagli, ed il segnale prese a giungere sempre più in fretta, fino a che gli riuscì di vedere le immagini muoversi. La stella, un puntino brillante sullo sfondo delle strane costellazioni che aveva visto, con il suo intero sistema planetario che si delineava. I quattro giganti gassosi con le loro lune orbitanti, il pianeta interno, senza luna, dapprima minuscolo ma poi sempre più grande fino a riempire la cornice dell'immagine. I contorni della nave, l'immagine di sé stesso, completa del cordone ombelicale. Forse... Tomislav era disteso nudo, con la testa nell'apparecchio di analisi, sopportando i freddi sensori sugli occhi e sulla gola, sentendosi debole a causa della roba iniettatagli nel cervello e tentando di non rabbrividire. I brividi provocavano rumori nei ricevitori, e così anche il sudore: era per questo che Rablon sosteneva la necessità di tenerli freddi. Mentre aspettava di udire la voce di Megan nell'auricolare, non poté fare a meno di avvertire una fitta di rimorso per il desiderio che provava nei suoi confronti, né di evitare un segreto senso di vergogna a causa della
propria gelosia per il modo in cui lei sorrideva a Wardian ed a Rablon e perfino al povero vecchio Brink. Era rimasto solo troppo a lungo. Mentre Olga moriva lentamente. Lei era laggiù a La Jolla, sentendo la sua mancanza e di tutto quello che avevano perduto, rispondendo ogni mattina alla sua telefonata con quel flebile gracchiare che era una terribile derisione della voce musicale che lui aveva amato per così tanto tempo, dicendo coraggiosamente che avrebbe atteso che lui finisse il suo lavoro se stava davvero creando un seme per diffondere la razza umana fra le stelle. Lui sapeva quanto aveva bisogno della sua presenza. Aveva promesso che sarebbe stato là quando lei fosse morta, ma aveva anche promesso la sua mente a Megan, promesso di dare tutto ciò che serviva a Bannerjee. Detestava il freddo e l'odore chimico e la puntura dell'ago ed il dover rimanere immobile per tanto tempo, ma il progetto significava molto di più che la vita di un singolo essere umano. Se soltanto avessero potuto seminare anche su un solo pianeta il seme di una razza umana migliore... Gli auricolari cominciarono a ticchettare, strillare ed ululare, ma non si trattava di una voce umana. Una serie d'immagini gli attraversarono la mente, ma non era nulla che lui conoscesse, erano immagini più strane d'ideogrammi cinesi o della struttura di un gene sconosciuto. Lampeggiando e scomparendo, essi presero a scorrere sempre più in fretta, fino a che gli riuscì di distinguere immagini frammiste ad essi, simboli chimici e matematici, strutture genetiche di sua conoscenza, parole scarabocchiate. Inglese, radici greche e latine, tedesco scientifico. Gli stridii e gli ululati divennero un fracasso metallico ed infine una voce. — Squadra d'Assalto a Non Identificato. Fornisci il tuo luogo d'origine. Il suo luogo di nascita era Schenectady, dove suo padre aveva lavorato per i laboratori GE, ma quell'informazione non parve soddisfare la voce. — Squadra d'Assalto a Non Identificato. Descrivi la creazione da parte dei Maestri Costruttori. La commedia di Ibsen, quando Olga era ancora con il Piccolo Teatro. — Squadra d'Assalto a Non Identificato. Definisci la sottomissione al Controllo Totale. I suoi genitori avevano abbandonato l'Europa appena prima dell'avvento del Nazismo. Lui non conosceva nessun altro Controllo Totale. — Squadra d'Assalto a Non Identificato. Definisci lo scopo del volo a...
La voce divenne una scarica di suoni metallici e lui scorse una stella luminosa fare capolino attraverso una rete di costellazioni che non aveva mai visto. — Squadra d'Assalto a Non Identificato. Definisci le ragioni del tuo arrivo qui. Lui era qui nel laboratorio perché Olga gli aveva permesso di rimanere, perché credeva nel progetto e si fidava di Bannerjee ed amava Megan quasi quanto Olga, ma non era questo che la voce chiedeva. — Squadra d'Assalto a Non Identificato. Definisci le ragioni della tua sopravvivenza. Aveva un lavoro da fare, le navi-seme da lanciare, Olga da curare, fintanto che avrebbe avuto bisogno di lui. C'era la ricerca Biowand da completare, i suoi virus benigni da perfezionare per salvare altri dall'inferno da cui era passata Olga. — Squadra d'Assalto a Non Identificato... IV L'insetto aveva intenzione di ucciderlo. Il sondaggio era cessato, e quella spietata intrusione lo aveva lasciato indolenzito e sfinito, ma ora aveva la testa nuovamente limpida e la breve sensazione di esaltazione era scomparsa, perché l'incontro non era stato un contatto fra menti civilizzate ma piuttosto un processo che aveva come posta la sua stessa vita ed in cui le accuse non erano mai state formulate. Non era ancora certo di cosa fosse quella creatura o di cosa volesse, ma non l'aveva certo soddisfatta: non conosceva il codice d'identificazione, ma non era riuscito ad identificare se stesso come una creazione dei Maestri Costruttori, qualsiasi cosa essi fossero. La Squadra d'Assalto non lo aveva invitato e non lo voleva là. Indietreggiando bruscamente verso il gruppo di colonne da cui doveva essere giunto, l'insetto s'arrestò di nuovo, ed il disco s'inclinò in modo da focalizzare su di lui tutte le sue radiazioni, fiammeggiando selvaggiamente. Una scarica letale, se lui fosse stato una qualsiasi creatura vivente. Ma lui lo era solo in parte, ed era stato costruito con molecole sintetiche allo scopo di sopportare tutti i rischi dello spazio aperto per un milione o anche cento milioni di anni: il suo corpo era metallico più che per metà, e l'energia era il suo nutrimento.
Banchettando con quel potere concentrato, si contorse e si rattrappì, agitò le braccia e le lasciò galleggiare nel vuoto, sperando di dare l'impressione di stare agonizzando. Mentre si rilassava, gli occhi fissi e vacui, sentì l'insetto che si avvicinava di nuovo ed avvertì una scarica finale d'energia. Quando anche quella cessò, afferrò il pesante ovale di metallo che lo teneva bloccato, e tirò, spinse, piegò con entrambe le mani, fino ad avvertire una vibrazione, poi vide l'oggetto riscaldarsi e spaccarsi e ne vide scaturire una voluta di fumo. L'oggetto era morto. Libero, balzò in piedi, ancorandosi al ponte con le estremità nuovamente magnetiche. Serrando in pugno la rovente massa metallica, la fece roteare per scagliarla contro l'insetto a mo' di arma, ma qualcosa lo raggelò. — Programma Principale a Difensore. — Era la voce del computer, ma anche quella di Megan, in modo flebile e disperato. — Ripeto, missione cancellata. Gli abitanti avanzatamente evoluti non devono essere attaccati. Adesso la creatura stava immobile, ed il disco era solo vagamente luminoso, ma lui percepiva un'attenta ostilità; nel sondare il suo cervello... o meglio il suo computer interno, ... quella cosa aveva appreso troppo sul suo conto, ed aveva comunque ancora intenzione di ucciderlo. Sapendo che era immune alle radiazioni, avrebbe cercato qualcosa di più letale. Tremando, sollevò ulteriormente il missile: perché doveva obbedire a quella pazzesca ingiunzione di non combattere? Con la nave e la missione in pericolo, lui era il Difensore, e, intrappolato là, con il cordone staccato, era abbandonato a se stesso. Certamente, gli sarebbe stato concesso di difendersi... — Programma Principale a Difensore. — Una fugace immagine del volto rattristato di Megan. — Ripeto. L'ordine di controllo proibisce l'avvicinamento al pianeta o azioni ostili contro i suoi abitanti. — Quella voce silenziosa doveva essere il suo computer interno che parlava, perché i segnali della nave non lo potevano certo raggiungere dentro quelle pareti di metallo. — Non attaccherai. Sussultò nell'udire quell'irridente sfumatura della voce di Megan perché sapeva che era solo un artifatto incidentale, una sfumatura raccolta da quella sonda difettosa così tanto tempo prima sulla Terra perduta per sempre. Quel difetto di funzionamento si rivelava adesso pericoloso per l'assolvimento del suo dovere. Sconfitto, gettò al suolo l'arma inutile, che cadde senza suono: se quel velivolo aveva mai contenuto un'atmosfera, essa era svanita da molto.
Rimbalzando silenzioso, l'oggetto galleggiò allontanandosi mentre l'insetto indietreggiava ulteriormente ed il disco si faceva più luminoso per un momento, inclinandosi in modo da illuminare l'oggetto che lui aveva gettato, poi si spegneva. Accecato dall'oscurità improvvisa, lui balzò da un lato e rimase accoccolato e guardingo, in attesa dell'insetto. Certamente il suo computer gli avrebbe permesso di proteggersi. Con i piedi percepì una leggera vibrazione, forse quando il missile distrutto colpì una parete, ma non ci fu alcun attacco. Lentamente, i suoi occhi si abituarono all'oscurità, e si accorse che i suoi arti brillavano di un rosso cupo e strano, e distinse una luce su una piccola porzione di pavimento dinnanzi a sé; rimase perplesso per un momento, poi comprese che doveva essere una luce infrarossa, energia emanata dal suo corpo ancora rovente per l'assalto subito e che il suo sguardo ormai assuefatto era in grado di individuare. Quando si fosse raffreddato, anch'essa sarebbe svanita, e lui non sarebbe più stato capace di muoversi, una volta che avesse esaurito quella ricerca casuale. Al di là di quel minuscolo bagliore, l'oscurità lo serrava da ogni lato, e non riuscì a individuare l'insetto. Era forse fuggito, magari alla ricerca di un tipo migliore di arma? Oppure si stava aggirando da qualche parte nelle vicinanze, osservando ed attendendo che lui si scaricasse nuovamente? Non aveva modo di saperlo. Si sentiva spinto all'azione, a sfruttare la riserva sempre più scarsa di tempo e di energia... ma cosa poteva fare? Intrappolato nel buio dominante che circondava la sua piccola area rossastra, era ignorante di tutto, disarmato, non aveva autorizzazione a combattere... Tremando, serrò i pugni. — Difensore a Programma Principale — interpellò con sfida il suo computer. — Per lo meno, mi posso muovere, posso tentare di scoprire dove sono e che cosa mi ha catturato, fintanto che non cerco di danneggiare nulla. — Programma Principale a Difensore. — Odiava quella rapida voce inflessibile, pur sapendo che proveniva da qualche parte dentro di lui, ed odiava quell'eco della voce di Megan, ora senza senso. — Ripeto il comando di controllo: non attaccherai, non opporrai resistenza, non interferirai. Non gli era stato proibito di muoversi: senza un piano, a mani vuote, stando attento all'insetto, si spostò alla ricerca di quel gruppo di pilastri che apparvero improvvisamente incombenti nel suo breve cerchio di luminosi-
tà, a meno di una dozzina di metri di distanza. La maggior parte di essi erano anonimi piloni di un qualche metallo opaco, ma nel più grosso di essi trovò una porta ovale, ed all'interno un condotto verticale, abbastanza ampio da far passare l'insetto, che sbadigliava con la sua nera apertura. Si aggrappò al bordo e si spinse avanti per illuminarlo: era un pozzo circolare, del diametro di non più di due metri, colmo di oscurità al di sopra ed al di sotto del suo cerchio di luce. Rimase sospeso là per un momento, prestando attenzione all'eventuale presenza dell'insetto, ma non vide movimento e non percepì alcuna vibrazione. Scalciando, si lanciò verso l'alto, le lisce pareti di metallo che gli scorrevano intorno, poi trovò un'altra soglia scura, e, aggrappatosi ai bordi, si tirò su: tutto quello che trovò fu un vasto pavimento vuoto che si stendeva nel buio silenzioso, e, tornato nel condotto, si spinse più su. Un cerchio di luce pallida si accentuò sempre più dinnanzi a lui, fino a che giunse in uno spazio cavernoso che si stendeva tutt'intorno a lui ed era pieno di grandi sagome spettrali che brillavano di un tenue azzurro: erano macchinari immensi, parzialmente trasparenti, visibili non a causa della debole luce da lui emanata, ma per il loro stesso tenue brillare. Un momento più tardi, comprese: quello che vedeva, erano raggi gamma, e quelle sagome erano reattori nucleari, brillanti per l'antica contaminazione. E c'erano anche alte pile di carburante, debolmente ardenti dietro schermi massicci per la debole luminosità del materiale atomico. Le ombre scure visibili più oltre dovevano essere enormi serbatoi per la massa necessaria ai motori ionici. Rimase aggrappato all'apertura, intontito. Aveva capito dall'inizio che quell'oggetto doveva essere una stazione orbitale, e quei motori a fissione erano abbastanza simili a quelli a fusione della nave-seme perché lui fosse in grado d'intuirne il funzionamento... e per fargli comprendere che quella nave era stata costruita per il volo interstellare. Per raggiungere altre stelle? Oppure era stata guidata fin là da invasori spaziali? Provenendo dal mondo sconosciuto dei Maestri Costruttori? Sotto la guida della Squadra d'Assalto? Poteva essere stata creata una sorta d'immensa nave-seme? Inviata per installare là i suoi creatori? Rabbrividendo, tentò d'immaginare che sorta di creature questi fossero stati. Adesso intorno a lui non c'era nulla che si muovesse, nulla eccetto gli atomi danzanti, ed anche la loro radiazione era debole. Quei motori giganteschi si stavano raffreddando da un numero di anni che lui poteva solo tentare d'indovinare, certo da molte migliaia. Gli invasori... se quel grande
velivolo aveva realmente portato gli invasori... potevano essere ormai i governanti del pianeta. Si lasciò ricadere nel condotto, cambiando direzione in modo che la sala motori si venisse a trovare dalla parte dei piedi. Un po' stordito per la virata, si spinse nel buio: la luminosità del suo corpo stava già cominciando a svanire, ed il buio si stava richiudendo su di lui mentre carambolava goffamente lontano dal muro. Anche la chiarezza della sua mente si stava attenuando: una soglia scura apparve nel suo raggio visivo, strana fino a che rammentò quello spazio vuoto e l'altro sovrastante in cui si era inizialmente venuto a trovare. Dovevano essere stive per il carico, si disse, se quella era una nave, e si chiese vagamente che tipo di carico poteva essere stato. Forse armi per la conquista del pianeta? Coloni per reclamarne il possesso? Attrezzi per modificarne la struttura? Macchinari, provviste, libri... qualsiasi cosa potesse servire all'insediamento di una razza e di una cultura aliena, così come i costruttori della nave-seme avevano sperato di trapiantare l'umanità? Forse, ma non vide modo di appurarlo, mentre la sua immagine cominciava a creare esseri da incubo accoccolati al di là del sempre più tenue bagliore del suo corpo. Rabbrividendo, si ritrasse nel condotto e proseguì fino a scorgere nuovamente la luce. Era una luce più forte di quella del suo corpo, e lui si aggrappò al bordo dell'apertura da cui proveniva e strisciò fuori dal condotto per entrare in un altro immenso comparto della nave, vagamente illuminato da sei ampie aperture distanziate fra loro. Il tubo centrale, con il gruppo di colonne circostanti, torreggiava ora alle sue spalle nel buio. Barcollando, il movimento dei piedi sempre più debole, attraversò un altro vasto pavimento in direzione dell'apertura più luminosa: era un condotto metallico, lungo parecchi metri, che lo portò verso una luce sempre più forte ed infine allo spazio aperto ed all'accecante bagliore del sole; rimase aggrappato all'apertura, bevendo avidamente l'energia. Il tunnel si apriva sul fondo di un lungo canyon di metallo... una delle cavità che lui aveva scorto dallo spazio. Erano ancoraggi per veicoli spaziali più piccoli, eppure erano essi stessi enormi, lunghi forse duecento metri. Costruiti forse per velivoli da atterraggio, trasportati per portare gli invasori giù sul pianeta? Le pareti del canyon erano state un tempo lucide, pensò, ma adesso erano sfregiate e chiazzate di rosso per l'esposizione prolungata alle microme-
teore ed ai venti solari. Sopra e sotto di lui c'erano massicci ancoraggi cui dovevano essere stati assicurati i veicoli d'atterraggio. Se di questo si era trattato. In cerca di prove più sicure, si spinse nuovamente nel tunnel, tornando indietro. La possente luce spiare era il nutrimento di cui era affamato, ma ora non aveva tempo di saziarsene, non fintanto che poteva apprendere di più sentendosi al contempo maggiormente al sicuro dall'insetto. Ad uno ad uno, seguì gli altri condotti, ed il successivo lo riportò alla tonificante luce del sole, mentre altri due si aprivano sul buio della Via Lattea e l'ultimo gli permise di vedere la mezzaluna lucente del pianeta. Troppo triste per muoversi, permise ai suoi occhi d'indugiare su di esso. Il suo sguardo si adattò quanto bastava per permettergli di scorgere spirali di nubi ed un verde accenno di terra: godendo di una migliore fortuna, avrebbe potuto far crescere su quel terreno il nuovo albero umano, ma il seme dell'uomo era giunto troppo tardi. Se la loro piccola nave non fosse stata colpita dalla micrometeora, se fossero arrivati prima dell'invasione... Si allontanò dall'apertura, nauseato da un senso di sconfitta e dalla propria situazione. Il Difensore non era stato creato per la vana disperazione, ma neppure per il combattimento: anche se fossero atterrati per primi, avrebbe ancora incontrato forse la proibizione a battersi con gli invasori, e certamente la nuova colonia umana non sarebbe stata pronta a far fronte ad un attacco dallo spazio. Detestando quello stato d'animo tetro, tentò di scuotersi. Il Difensore era stato progettato per l'azione, e le emozioni erano solo un intralcio. Anche se gli era proibito intraprendere qualsiasi utile azione, si sentiva ugualmente spinto a proseguire, e, voltatosi goffamente, ritornò al pozzo centrale e si spinse dentro di esso. Intorno a lui scivolarono le opache pareti di metallo e due passaggi scuri, poi un altro cerchio di luce fece la sua apparizione e s'ingrandi più avanti, e lui emerse finalmente su un altro ponte: immenso e circolare, esso si protendeva al di là del raggio del suo tenue bagliore, tutt'intorno e sopra di lui. Qui, in cima al condotto, pensò, ci doveva essere la sala di controllo, e, alla ricerca di una prova di tale supposizione, di apparecchiature per la navigazione astrale o di tracce dell'equipaggio svanito, trovò dozzine di scure masse metalliche, disposte in file immote lungo sei stretti passaggi che si addentravano nel buio partendo da un piccolo spazio sgombro intorno al pozzo.
Erano oggetti di forma strana, più alti di lui, forse macchinari, eterni come la nave-seme, progettati dai Maestri Costruttori sul distante mondo su cui essi governavano... progettati per manovrare la nave della Squadra d'Assalto? Con estrema cautela, sfruttando al massimo la sua energia quasi esaurita, si mosse per esaminarli. Una luce lampeggiò alle sue spalle, e, ruotando per fronteggiarla, si trovò di fronte l'insetto. V La maggior parte di quelle masse incombenti era di metallo brunito dal tempo, quasi nere, ma una era abbastanza calda da brillare di un tenue rossore, come il Difensore. Più alta delle altre, quella sagoma era in disparte, all'estremità di un corridoio ombroso, e se le altre erano un equipaggio di automi, ora disattivati, quella poteva essere il loro comandante, ancora operante. Comunque, l'insetto era venuto da un punto imprecisato dietro di essa, e, scivolando rapido e silenzioso, si era arrestato nel mezzo di quel cupo passaggio, ad una ventina di metri di distanza. L'energia del suo corpo era ormai troppo scarsa, e, nel girarsi fiaccamente per fronteggiare l'insetto, si ritrovò a fluttuare lontano dal ponte, tanto che fu costretto a protendere un piede con uno scatto disperato per ristabilire il contatto. Disarmato e stupito, troppo esausto anche per programmare un piano, poteva solo rimanere fermo, in attesa. L'insetto era tutt'ora immobile, mentre il disco sulla sua corazza dorata s'illuminava lentamente quanto bastava per rischiarare la parete di una cupola che si curvava al di là della massa dal bagliore infrarosso. Era il grande muso della nave, che si arcuava sopra di lui, e, scrutandolo alla ricerca di una qualche arma che il Programma Principale gli permettesse di usare, di una qualsiasi possibilità di salvezza, il Difensore trovò solo metallo antico. Vide il disco inclinarsi verso di lui, mentre la sua luce si focalizzava per puntargli addosso un raggio incerto. Era affamato di un'altra vampata di radiazioni, ma il rapido pulsare rimase a livelli troppo bassi per essergli d'aiuto. Una scarica di statica, un ululato senza suono, poi un'aspra voce inumana. — Squadra d'Assalto a Non Identificato. — Ospite — tentò di dire. — Ospite a Squadra... — Attenzione, Non Identificato: tu non hai alcuna autorità per esistere
qui. La Squadra d'Assalto richiede la tua rimozione... — Rimozione non richiesta! Tentando di gridare, non vide alcun segno che l'insetto avesse ricevuto il suo messaggio: esso giaceva inerte ed apparentemente altrettanto privo di vita quanto una barra di metallo. Il segnale tremolante era cessato, ma la grigia e lucente superficie del disco era ancora fissa su di lui come un occhio solitario, attento ed ostile. — Ospite a Squadra d'Attacco. — Tentò ancora il contatto. — Noi non opponiamo resistenza, gli ordini stessi che abbiamo ricevuto vi proteggono. Tutto quello che chiediamo è di sopravvivere... Poi vide il secondo insetto. Era uscito saettando da dietro la torre rossastra e si era arrestato immediatamente alle spalle del primo: essi apparivano quasi identici, masse prive di lineamenti e piatte, ma il secondo trasportava qualcos'altro sul suo guscio liscio e giallo. Qualcosa di cilindrico, puntato contro di lui. Raccolte le ultime energie, tentò di focalizzare i suoi sensi in via di sfinimento per studiarlo: era uno scuro tubo cavo, un lanciamissili... con un proiettile scuro che stava già emergendo! Disperatamente, accelerò il proprio movimento, e, ondeggiando da un lato, allungò la mano abbastanza in fretta da afferrare il proiettile e permettere al movimento di quella piccola massa di farlo ruotare su se stesso fino ad invertire la direzione di corsa. — Programma Principale a Difensore! — L'avvertimento risuonò nella sua mente intorpidita, sempre con una derisoria traccia della voce di Megan. — Esseri avanzati evolutivamente non devono essere attaccati... Obbediente, nel momento in cui il missile lasciava le sue dita, lo deviò di poco verso l'alto in modo che mancasse gli insetti, ma, prima che il suo sguardo perdesse la sua focalità, vide che avrebbe colpito la rossa sentinella. — Difensore! Non danneggerai nessun essere... La voce del computer si stava attenuando, ma i suoi ordini non avevano più importanza: ogni consapevolezza stava svanendo in lui e stava già fluttuando lontano dal ponte... L'esplosione lo aveva gettato lontano dal camion, ed ora era steso nella fanghiglia sporca, il gusto del sangue in bocca, la pioggia fredda che gli bagnava la schiena. C'era una puzza di gasolio versato, troppo vicina. Lottò per respirare, poi per trascinarsi più lontano, ma scivolò sul fango.
Ci fu una seconda, attutita esplosione, un delicato rombo, più forte del suono della pioggia. Sentì la preghiera soffocata del conducente alla Madre di Dio, udì Prieto gridare. Poveri diavoli, ma non c'era nulla che lui potesse fare. Ci furono urla e rauche imprecazioni, poi tre rapidi spari, ed infine soltanto il ruggito delle fiamme fino a quando anche le canne sulla riva sopra di lui cominciarono a sibilare ed a scoppiettare. Il calore stava aumentando, e c'era puzza di canne bruciate e di carne e capelli. Aveva bisogno di rimanere ancora disteso là, per riprendere fiato e schiarirsi la testa pulsante. Ma le munizioni... Devo allontanarmi ancora finché posso. Su la testa e non pensare alle vertigini, lotta contro il fango e respira questa puzza, afferrati a quel cespuglio, artiglia la riva. Sei scivolato, prova di nuovo... Una violenta esplosione: le munizioni, troppo presto. Chinati e corri! Cristo, il mio ginocchio... dannazione, si è intorpidito, ed ora fa un male terribile, non mi serve più a nulla. Giù di nuovo nel fango, sulle mani e sull'altro ginocchio, trascinando la gamba, strisciando verso la copertura della giungla... Una situazione davvero dannata per uno che era vecchio del gioco, ma non era ancora battuto, non ancora, non se fosse riuscito a tornare indietro ai rottami dell'elicottero ed a far funzionare la radio... Stava fluttuando... Era da qualche parte nel buio, ed inizialmente pensò che fosse una tenda d'ospedale. Forse lo avevano anestetizzato, perché non sentiva dolore, neppure al ginocchio. Butch e Mascarenas dovevano essere tornati indietro con l'altro elicottero a raccoglierlo, ma dov'erano tutte le strida, i ciangottii e le grida della giungla? Dov'erano tutti? Quando tentò di girarsi nel letto per vedere dove si trovava, non trovò alcun letto, solo vuota oscurità tutt'intorno a lui. In realtà, stava fluttuando, il suo corpo stava girando lentamente nell'aria... solo che qui, naturalmente, non c'era aria. Vide una debole luce, e poi gli insetti che galleggiavano nel vuoto sopra di lui sotto la volta annerita. Uccisi? Osservando il loro lento rotolare, non scorse alcun accenno di vita o di azione: due pezzi di metallo dorato dalla forma strana, essi non avevano organi o arti visibili, né ruote o cingoli o altre sporgenze apparenti. Perfino il lanciamissili ed il disco lucente erano svaniti.
Impotente, incapacitato a muoversi ed alla deriva in quel gelido vuoto, si aggrappò al suo appannato senso di consapevolezza ed attese un nuovo attacco. Ma non accadde nulla, e si chiese vagamente perché. Se la grande nave spaziale era stata lasciata in orbita per difendere il pianeta, perché gli avevano opposto una resistenza tanto debole? Forse, pensò, quei veicoli d'atterraggio mancanti avevano portato via l'equipaggio lasciando a bordo soltanto i robots, i quali, dopo migliaia di anni, stavano cominciando a disattivarsi. Anche il suo corpo esausto continuava a ruotare lentamente, come un piccolo mondo nello spazio, ed i due insetti morti gli passarono di nuovo vicini, come due pianeti compagni, e la nera volta si erse minacciosa su di lui, un cielo minaccioso con una pallida luna in esso: la luna era il disco. Fluttuando vicino a lui, il disco si stava girando per illuminare il ponte sottostante, e, quando il suo bagliore gli permise di vederlo, il Difensore individuò il pozzo da cui era salito, i corridoi che radiavano da esso, le forme squadrate ed identiche disposte lungo essi, l'alta cosa che il missile aveva colpito e che non riluceva più. Morta! — Programma Principale a Difensore. — Quel freddo rimprovero interiore frantumò il suo momentaneo trionfo. — Sei difettoso, hai funzionato male. Hai ucciso abitanti evolutivamente avanzati... — Il missile era loro. — Cocciutamente, difese il suo io ribelle. — Sono stati loro a spararlo, all'interno della loro nave. Avrebbero dovuto immaginare che avrebbe colpito qualcosa. — L'essere da lui colpito è stato ucciso. — La voce seria e brusca aveva ancora una sfumatura di quella di Megan, di megan quando era ferita. — Un essere d'intelligenza avanzata. — Se era un essere... L'insetto più vicino stava ritornando nel campo visivo, non esattamente fluttuando, ma piuttosto cadendo, come stava succedendo anche a lui, attratto dal centro di massa dell'astronave, e il Difensore vide che gli sarebbe passato abbastanza vicino da permettergli di raggiungerlo con un piede. Animato da un'improvvisa speranza, si contorse fino a trovare il disco roteante: esso era ancora vivo in qualche modo, ancora luminoso e dotato dell'energia di cui lui aveva bisogno. Ansioso misurò massa, distanza e velocità, poi, quando l'insetto fu abbastanza vicino, gli diede una spinta con la pianta del piede. Fu una spinta debole, ma sufficiente a spostarlo in direzione del disco; se non esattamente verso di esso, almeno abbastanza vicino. Attese, valutò
il movimento, poi si protese di nuovo, le sue dita lo sfiorarono, e, fattesi leggermente magnetiche, lo attrassero. Godendo dell'energia che gli veniva dal disco, desiderò che essa fosse maggiore... e si chiese se il suo contatto con esso lo avesse reso più luminoso. Quando poi la morta sagoma massiccia si fece più vicina, volse il disco in modo da illuminare il punto in cui essa era stata colpita dal missile. C'era un buco lacerato nella copertura metallica, e da esso emergeva un groviglio di cavi insieme ad una serie di ripiani su cui erano affastellate file di cristalli lucenti, dalla forma strana ed ignota, eppure disposti come i cubi di Rablon. Comprese che i ripiani dovevano essere pannelli con circuiti. — Difensore a Nave! — Pervaso da un alto senso di trionfo, dimenticò che stava parlando con se stesso. — La cosa colpita dal missile non era un essere vivente, ma solo un computer. Su tutta la nave, non ho trovato alcun segno di vita, nessuna traccia di atmosfera né alloggi o magazzini per un equipaggio di esseri viventi. Questo significa che potremmo tentare l'atterraggio... — Programma Principale a Difensore. — La triste immagine di Megan tremolò e svanì nella sua mente, uno spettro cui non sarebbe mai sfuggito. — Ripeto, missione annullata. L'incontro con un avanzato veicolo orbitale è di per sé prova della presenza di un'elevata tecnologia. — Ma che non si è evoluta qui. La propulsione nucleare... tutto in questa astronave dice che è interstellare e che ha portato un gruppo d'invasori da un'altra stella, inviata da qualcosa che i computers chiamavano Maestri Costruttori ed operando agli ordini di quella che chiamavano Squadra d'Assalto. — Programma Principale a Difensore. — Come odiava quella spietata insistenza. — Hai trovato vuoti gli ancoraggi che ospitavano i velivoli d'atterraggio, ed il tuo rapporto implica che essi hanno raggiunto il pianeta. Se su di esso esiste attualmente una tecnologia elevata, quale che ne sia l'origine, il pianeta ci è proibito. — Abbiamo esaminato il pianeta — protestò, — e non abbiamo avuto alcun dato che indicasse un qualsiasi tipo di avanzata tecnologia laggiù: nulla di elettronico, nessun segno d'intelligenza avanzata. Forse anche le cose che hanno tentato di atterrare erano automi, e magari ormai si sono disattivati. Il che significa che non siamo ancora bloccati... Se riuscirò a tornare dov'è il mio posto! Stretto contro il suo ventre, il disco gli forniva un po' di vita. Nello scen-
dere più in basso, calcolò la strada che lo separava dall'oscuro pozzo centrale. L'involucro rovinato del robot comandante si sollevò verso di lui, ed il Difensore lo spinse da un lato con un piede. Rimbalzando per quella spinta, ricadde nel tunnel, le cui pareti scure scivolarono lentamente intorno a lui fino a che uscì nella fredda luce crespuscolare che penetrava attraverso gli ancoraggi vuoti. Con estrema cautela, si spinse fuori dal pozzo, in direzione della bocca del condotto più illuminato. Qui, più vicino al centro di massa, il suo corpo volava più diritto e finalmente giunse in fondo alla cavità che aveva ospitato uno dei velivoli d'atterraggio. Alla risonante luce del sole. Ancorato al metallo sfregiato, vicino alla bocca del tunnel, bevve quella luce, poi, lentamente, la grande nave ruotò ed il sole svanì troppo presto oltre il bordo della cavità, ma sapeva che sarebbe rispuntato. Osservò la marcia delle stelle fino a che il pianeta apparve sopra l'altro orlo del tunnel. Splendido ed immenso, ora quasi del tutto illuminato, sembrava abbastanza vicino da poter essere toccato. Individuò la sinuosa zona di piogge che indicava la convergenza dei venti intorno all'equatore, cercò le nerazzurre fasce dell'oceano tropicale, trovò l'arcipelago coperto di nubi ed infine i due grandi continenti. Le macchie rossastre del deserto, il candido bagliore dei ghiacci, le più ampie distese di verde velate dalle nubi. Adesso che i suoi sensi si erano acutizzati e la vista gli era tornata telescopica, osservò di nuovo la terra visibile, ed ancora non trovò traccia alcuna di opere d'ingegno intelligente. Esaminando l'intero spettro energetico, individuò soltanto il fruscio statico delle tempeste, ma nessuna prova, pensò, che gli invasori fossero mai atterrati. — Difensore a Nave — chiamò, rivolto allo spazio. — Azione ostile terminata. Nessuna prova di vita evoluta evidente ora qui in orbita o sul pianeta. La missione può continuare. — Nave a Difensore. — La risposta giunse immediata, illuminata dalla gioia di Megan: il sorriso di lei gli attraversò la mente, tanto luminoso da ridestare dolori sopiti. — Ci dirigiamo verso il tuo segnale. Rimase aggrappato dov'era, attendendo la nave ed il tormentoso spettro della donna che lui aveva amato... che essi tutti avevano amato, tutti quegli spettri che lo tormentavano. Il buon sole ricomparve, e, bevendo il dolce vino dorato della sua energia, accantonò quelle pulsanti fitte di doloroso ricordo.
Esse erano soltanto apparizioni casuali di un mondo morto per sempre nel nero abisso che si erano lasciati alle spalle, e non avrebbero mai avuto veramente importanza. Perché gli sarebbe dovuto importare se Don Brink era mai riuscito a tornare a combattere o aveva mai conquistato Megan Drake? Lui era il Difensore, con un nuovo mondo dinnanzi a sé, un campo pronto per essere arato, stando a quanto poteva vedere, in attesa che lui piantasse e coltivasse il seme umano. PARTE TERZA: IL MONDO ASSASSINATO I Si destò a causa della pressione poco familiare della forza di gravità. — Nave a Difensore. — L'immagine di Megan gli danzò davanti agli occhi, splendida come lei era stata, e la brusca voce della nave sembrò animarsi di una sfumatura di gioia umana. — Siamo atterrati senza danno sulla Sfera dell'Uomo. La nostra missione potrà continuare non appena verranno trovate scorte di materie prime. Questo sarà ora il tuo dovere. Scorte di materie prime... Fu destato completamente dal ricordo della situazione di estrema emergenza che aveva dovuto affrontare al suo precedente risveglio, quando aveva trovato la nave che andava alla deriva nello spazio dopo aver esaurito le scorte di carburante. Per farla rivivere, lui aveva consumato le preziose scorte di materie prime che avevano portato per poter creare coloni umani con cui popolare quel nuovo mondo. Adesso doveva sostituire quelle scorte, e se avesse fallito... — Se pensi che questo sia un lavoro difficile... Brink stava seguendo Tomislav fuori dal laboratorio d'analisi, nel rovente pomeriggio di Albuquerque. Quelle sedute duravano sempre troppo, e lui detestava il laboratorio, con il suo persistente odore di antisettico e la sensazione d'incessante tensione. La temperatura all'interno era troppo bassa e non poteva soffrire quella sostanza radioattiva che gli pompavano nel cervello e che lo lasciava sempre debole ed indolenzito, in qualche modo non più se stesso, prosciugato di ogni vitalità. — Tradurre i geni e la cultura umana in un codice da calcolatore... quella è la parte semplice. Abbiamo un laboratorio da cento milioni di dollari, squadre di esperti che lavorano qui ed in parecchie università e mesi di
tempo, anche anni, se necessario, per affrontare ostacoli imprevisti. Tomislav era troppo grasso e faceva fatica a respirare perché non era mai riuscito ad abituarsi ai mille seicento metri circa di altitudine di Albuquerque, ma camminava comunque con passo troppo rapido. — La parte dura sarà la trasformazione inversa, il passaggio da linguaggio di computer a geni umani vivi e la loro immissione nelle menti e nei costumi della nostra nuova razza. L'intero patrimonio di scienza, di arte, di etica e di tutto quello che ci vorrà per rendere quei nuovi uomini completamente umani dovrà uscire dal computer principale della nave e trasformarsi in una civiltà reale. Aveva voglia di bere, ma l'alcool avrebbe soltanto peggiorato la sua reazione; si sentiva intontito e la luce del sole gli faceva male agli occhi: doveva aver sviluppato una forma di allergia ad un qualche elemento del composto radioattivo. — Là non ci saranno laboratori. — Ansando, il grosso biologo si volse sul cordone del marciapiede per dargli il tempo di raggiungerlo. — Non sul tipo di pianeti su cui potremo permettere alle navi-seme di atterrare. Non ci saranno squadre d'ingegneri a dare il loro aiuto, nulla se non quelle piccole navi affidate a se stesse in ambienti che saranno certamente sconosciuti e per lo più ostili. — Con probabilità del genere... — scosse la testa indolenzita. — Abbiamo davvero una possibilità? — Forse l'unica che la razza umana avrà mai: così dice Ben Bannarjee, ed io credo che abbia ragione. E noi la dobbiamo sfruttare al massimo. Tomislav appariva consumato dal lavoro e dalla tensione, i tristi occhi arrossati e cerchiati di blu mentre si recava a telefonare alla moglie morente. — È per questo... per questo che sono qui. — Stancamente, si passò una sudata manica di camicia sul volto umido e pallido. — Quando invece dovrei essere insieme ad Olga a La Jolla. So quali siano le probabilità avverse ad ogni singola nave-seme, ma Megan spera di riuscire a lanciarne a migliaia, e, se esse sembrano piccole in confronto al compito che devono assolvere, lo stesso si può dire di un seme di senape. Ancora stupito di fronte a ciò che era diventato, esplorò un'ennesima volta il suo corpo e la scura cella da cui era nato: le strette pareti tutt'intorno, dure e fredde, che pure cedevano leggermente sotto le sue dita indagatrici; il cordone ombelicale pulsante che lo collegava alla nave e lo alimen-
tava attingendo al reattore; la sua stessa carne parzialmente metallica, più fredda del cordone. Ed il suo inguine spoglio... Tentò di non permettere che quella perdita lo ferisse ancora, tentò di accettare se stesso soltanto come il Difensore, non programmato per avere una sua vita ma solo per servire la nave: questo avrebbe potuto, avrebbe dovuto essere sufficiente per lui. La cella era inclinata, per cui lui si trovava appoggiato contro una parete. Cercando, trovò il rigonfiamento d'apertura e lo colpì: la parete si aprì sotto di lui, e, scivolando fuori dalla fessura, facendo attenzione a non danneggiare il cordone, si trovò immerso in una sinfonia di sensazioni. Qualcosa di morbidamente friabile, che cedeva sotto il suo peso, la calda luce del sole, rovente ed accecante, il mormorio del vento, mescolanze di odori sconosciuti... tutto questo vividamente percepito attraverso l'intera superficie della sua pelle, anche se non respirava. Sopraffatto, sia pure per un breve istante, chiuse gli occhi ed attenuò tutti i sensi fino a quando riuscì ad abituarsi a quella stranezza. La Sfera dell'Uomo! Un campo maturo che attendeva il seme umano. Megan stessa gli aveva dato quel nome un milione di anni prima, ma il resto di esso rimaneva un mistero, una cosa completamente nuova, i cui tesori e pericoli non erano ancora noti. Per quanto fosse ancora danneggiato, il computer della nave li aveva finalmente portati fin là. Se ora fosse riuscito a rimpiazzare le scorte consumate... Adeguatosi alla tempesta di nuove sensazioni, aprì gli occhi sul nuovo mondo dell'uomo, verde e nero, il sole che bruciava ardente. Scoprì che i piedi nudi erano immersi fino alla caviglia in un lussureggiante tappeto fatto di una sostanza fibrosa di un verde vivo, un po' simile ad erba o muschio; la piccola nave era vicino a lui, il rivestimento dorato che splendeva al sole, il cordone dorato che si avvolgeva in spire all'interno della cella. I razzi e le pinne di coda erano profondamente sepolte e la nave era precariamente inclinata, il che gli fece pensare che l'atterraggio doveva essere stato duro. — Nave a Difensore. — La voce sintetica lo ferì nuovamente per quella involontaria sfumatura del mondo di Megan. — Confermiamo le difficoltà di atterraggio dovute all'intasamento di un iniettore laser. Motori a fusione danneggiati dall'impatto ed ora inutilizzabili e non riparabili. Calcoliamo svariati rischi consequenziali. Il più immediato è un'inondazione. Si volse a cercare la fonte di quel pericolo, ma vide solo un lago di verde
arruffato dal vento che si stendeva pianeggiante per parecchi chilometri; una massa di colline sorgeva tutt'intorno, ed i loro ripidi pendii neri salivano fino a barriere di calcare venato di rosso. Non scorse traccia di acqua corrente. — Un'inondazione? — ripeté. — La nave non può decollare nuovamente alla ricerca di un luogo più sicuro. Riteniamo vi siano elevate possibilità che l'acqua piovana rimanga intrappolata qui nel corso della stagione monsonica e che raggiunga una profondità di parecchi metri. La nave non può sopravvivere ad un'immersione. Le scorte devono essere rimpiazzate senza ritardo. — Potrebbe essere difficile. Che tipo di sostanze andrà bene? Il computer elencò quello che serviva per la costruzione dei nuovi esseri umani. — Idrocarburi volatili oppure altri liquidi ricchi di carbonio. I nostri serbatoi contengono ancora gli altri elementi essenziali: acido fosforico, composti di sodio e potassio, soluzioni di elementi residui. Possiamo ricavare il nitrogeno dall'atmosfera, l'idrogeno e l'ossigeno dall'acqua, il calcio della pietra. Quello che ci manca è il carbonio in una forma utilizzabile dall'apparecchio di assemblaggio. Il problema chimico non è critico, e possiamo usare alcools, oli vegetali leggeri o derivati dal petrolio. — Cercherò — promise, ed aggiunse: — Se troveremo qualcosa, potremo utilizzare serbatoi pompe e tubature dell'apparato di propulsione per costruire l'apparecchiatura... Alla ricerca di tracce di elementi elaborabili, si volse ad esplorare la grande radura verde, nella quale erano sparsi ciuffi di colori vivaci, arancioni, carmini ed indaco. Fiori? Con i colori evoluti in modo da attirare gli insetti... o gli analoghi evoluti degli insetti... perché trasportassero il polline? Meravigliato, non scorse nessuna creatura che strisciasse, volasse o comunque si muovesse, e fu colpito dal silenzio che regnava. Fatta eccezione per il fruscio del vento contro la nave, sulla Sfera dell'Uomo non si udiva alcun suono. Fu raggelato da un vago senso d'allarme. Nell'analisi effettuata dallo spazio, avevano esaminato l'intero spettro energetico e non avevano trovato il minimo accenno di vita intelligente, in effetti, nessuna prova dell'esistenza di forme di vita più elevate delle piante. Ricordò la presenza di quei robots in orbita e l'enigma rappresentato dalla loro possente nave. Una nave interstellare, con i razzi nucleari tanto freddi da far capire che non erano stati accesi da molte migliaia di anni, i sei apparecchi d'atterrag-
gio scomparsi dai loro ormeggi: se i Maestri Costruttori avevano raggiunto su di essi la superficie del pianeta, dove si trovavano ora? Perché la nave non aveva percepito nessuna forma di vita? Nulla di più complesso di quelle strane piante? C'era forse qui qualcosa di mortale? Di mortale anche per esseri tanto complessi quali dovevano essere stati i costruttori degli automi e che ora si celava in attesa di uccidere anche la nave-seme ed il suo frutto umano? Esaminò nuovamente la grande pianura e le alte colline circostanti: la vegetazione sui pendii vicini appariva fitta come una giungla e stranamente nera. Più in alto, le macchie ferrose di un rosso cupo nel calcare avevano l'aspetto di sangue da tempo disseccato. Mentre si voltava, in preda ad un senso di disagio, verso la nave, rabbrividì suo malgrado: la nave appariva troppo minuscola per il suo ambizioso destino. Metà del rivestimento dorato si era annerito per il calore della discesa, ed una nera ferita sbadigliava là dove il suo rozzo rappezzo era andato in frantumi. Quella nave, l'unica speranza per la razza umana di poter tornare a vivere, appariva dolorosamente sperduta. — Nave a Difensore. — Una fugace immagine del volto di Megan, sottile e bello, gli occhi verdi grandi e scuri e vuoti, incupiti dalla premonizione: lo stava fissando e scuoteva il capo mentre l'immagine tremolava e svaniva. — Riferisci quali possibili fonti di materie prime hai osservato. Difensore... Un senso d'abbattimento gli impedì di rispondere ma tentò di scuoterlo via: nonostante quei casuali accenni ed immagini, la nave non era Megan: come anche tutte le sue malinconie e paure, i frammenti di lei contenuti nel computer erano soltanto errori casuali dovuti al ricettore dell'apparecchio d'analisi. — Difensore a Nave — tentò nuovamente di dire. — Nessuna possibile fonte di materie prime osservata entro il raggio del cordone d'alimentazione. Tremando per il timore, strinse una spira dorata del cordone con entrambe le mani: grosso quasi quanto il suo pollice e rigidamente pieghevole, esso era ora caldo per la luce solare e pulsante di quell'energia che era la sua vita. — Allora devi cercare più lontano. — Prima di lasciare la nave, devo improvvisare un'altra fonte d'alimentazione. Un momento di ritardo, poi la fredda voce del computer:
— Impossibile: nessuna risorsa disponibile, senza l'uso delle scorte primarie, per la fabbricazione di una fonte d'alimentazione alternativa. — Senza energia... — Puoi usare la luce del sole. — Non è sufficiente... Un lampo di dolore lacerante, poi il cordone si staccò dal suo ventre, saettò via fra il verde e svanì all'interno della scura fessura da cui lui era nato. La vista gli si offuscò e la Sfera dell'Uomo svanì come un sogno, mentre il suo sole ardente e gli odori pungenti ed il vento leggero scomparivano in un attimo. L'oscurità piombò a schiacciarlo. II C'erano sirene che stridevano da qualche parte in lontananza, l'ambulanza che ondeggiava dolcemente, Megan accanto a lui, che gli teneva la mano, dolce come lo era stata sua madre tanto tempo prima. Cullato dalle sue cure, non doveva più preoccuparsi delle droghe che aveva nel suo cervello né del progetto delle navi-seme... Qualcuno che gemeva ed un suono di tacchi duri, il tenue odore di medicinali degli ospedali, una luce violenta, il sudore gelido che lo copriva, la testa che gli pulsava ancora ma che era adesso abbastanza limpida: era steso su un duro letto stretto ed eveva la cannuccia dell'ossigeno nel naso. — Dr. Ulver? — Era la voce di Megan, e la scorse accanto al letto. — Va bene, ora? Era troppo dannatamente rispettosa, ma non glielo disse. — Va bene. — La gola era arida e gli doleva. — Dove mi trovo? — Alla Clinica Lovelace. Sei svenuto durante l'analisi. — Mi dispiace... — Siamo noi ad essere dispiaciuti. — Si era chinata, ed a lui piaceva il suo sorriso asciutto, i lineamenti snelli e la traccia di profumo che aveva sempre indosso. — Pare che tu sia allergico ad un elemento della trasfusione cerebrale di Tomislav, e questo ti ha causato un trauma. — Non può provare con qualcos'altro? — Meglio di no. Gli specialisti dicono che la prossima reazione ti potrebbe colpire più duramente. — Se lui può... se lui può... se vuole tentare un composto diverso... io sono a disposizione.
— Galen... — Come lo rendeva felice, sentirla sussurrare il suo nome. — Galen... non ti posso permettere di rischiare la vita. La mano di lei strinse nuovamente la sua, fresca, forte, amorevole. — Non m'importa... non m'importa il rischio. — Aveva la voce debole, e tentò di schiarirsi la gola. — Permettimi.... permettimi di spiegarti perché. — Riposa. Tornerò, ma ora hai bisogno di dormire. — Per favore! — Si aggrappò alla sua mano. — Devo continuare a tentare. Se mi permetti di dirti perché... — Se devi... — Le dita di Megan restituirono la pressione della sua mano. — Se ti senti abbastanza forte... Deglutendo per diminuire l'aridità della gola, lui tentò di raccogliere le forze. — Ero un bambino malato. — La sua voce era troppo debole, ma lei si chinò maggiormente per sentire. — Sono nato in una fattoria sul Blue Ridge dove le cose erano decisamente primitive. Ho avuto la polio prima dei cinque anni ed ho avuto le stampelle per anni. Ero un peso per i miei genitori... non solo per la polio. Un fardello eccessivo, credo, per mio padre, che andò a nord alla ricerca di un lavoro migliore e non si fece mai più vivo. Mamma lavorava per mantenermi, cucendo, dipingendo porcellane, battendo a macchina rapporti per conto di mio zio... lui era un ingegnere, un ingegnere indipendente e d'avanguardia. Mia madre faceva di tutto... — Dovette fermarsi per raccogliere le forze e respirare. — Troppo, credo. Mi ha tenuto troppo legato a sé, facendomi restare a casa ed insegnandomi lei fino alle superiori. Era solita leggere a voce alta, ed io ho imparato a vivere fra i libri. Non ho mai avuto molti amici... per un mucchio di ragioni, e nessuno che mi fosse molto vicino, anche se mio zio era per me una persona eccitante quando arrivava con qualcosa di nuovo da battere a macchina. Da lui ho appreso molte cose di scienza, di scienza e sullo spazio. «Lo spazio... è arrivato ad essere tutto ciò per cui vivevo. Ho costruito modellini di razzi e mi sono fatto un telescopio, poi ho frequentato la Georgia Tech, con un aiuto da parte di mio zio, quando mia madre è morta. In qualche modo, sono arrivato ad essere uno specialista nel campo della propulsione nucleare, abbastanza presto da poter lavorare al progetto Orion con Taylor e Dyson: un periodo meraviglioso. Eravamo quasi pronti a partire per Marte... oppure credevamo di esserlo. — Con un po' di rincrescimento, tentò di sorridere a Megan. — Ma naturalmente... — Si sentiva inaridito a causa dell'ossigeno, e Megan gli sollevò la testa per fargli sorseggiare un po' d'acqua. — Naturalmente i fondi sono finiti. Il mondo ha as-
sunto un atteggiamento paranoico nei confronti di ogni tipo di energia atomica, e la maggior parte degli altri si è dedicata ad una diversa attività, ma io ho continuato, sognando un nuovo tipo di propulsione a fusione che non potevo vendere a nessuno, effettuando calcoli matematici, tracciando disegni e costruendo modellini quando non riuscii ad ottenere nessuna sovvenzione. «Era la mia vita — sospirò, non completamente triste, — la sola vita che avessi imparato a vivere o che in effetti volessi vivere, anche se talvolta mi sono trovato a desiderare di avere avuto un rapporto più stretto con un numero maggiore di persone. Non mi sono sposato mai, e neppure ci sono andato vicino. Credo di essere ancora un solitario perfino adesso, ma... Non poteva neppure tentare di esprimere quello che provava per lei, la sola donna da lui conosciuta che realmente condividesse il suo sogno di un motore a fusione. Non che questo potesse importare: adesso era un vecchio, troppo vecchio per lei o per qualsiasi altra cosa, eccetto che per quell'ammiccante speranza che Megan aveva riacceso in lui. — Questo è il motivo — sussurrò, — per cui amo... amo il progetto. È la mia occasione di arrivare allo spazio, giunta quando pensavo che ogni possibilità del genere fosse svanita. Quindi, ti prego, di' a Tomislav che voglio che sperimenti un altro tipo di composto per l'infusione cerebrale, e che non m'importa se c'è un rischio. Questo, naturalmente, se avete bisogno di me... — Ne abbiamo. — Quegli occhi verdi ed il suo sorriso erano la medicina di cui lui aveva bisogno. — Naturale che ne abbiamo, se i dottori converranno che sei in grado di farcela. Non c'è nessun altro che comprenda realmente le tue idee per il motore a fusione o che pensi anche solo che possa funzionare. Megan si chinò rapidamente e lui senti le fredde labbra di lei sulla propria fronte... Destandosi controvoglia per affrontare il bruciore al ventre ed i duri doveri del Difensore, comprese che Tomislav doveva aver sperimentato un altro tipo di composto, altrimenti quel momento con Megan non sarebbe mai potuto arrivare nel computer. Era disteso a faccia in giù, il sole rovente sulla schiena, e, ora che si era abituato ad esso, la sua pelle ne stava bevendo l'energia; questa non era pari a quella datagli dal cordone, ma almeno gli permetteva di muoversi. Si alzò, barcollando, in piedi.
— Nave a Difensore. — Come odiava quella voce asciutta e derisoriamente simile a quella di Megan! — Riferisci i tuoi piani per garantire le materie primarie vitali. Mentre si avvicinava lentamente alla nave, ripensò a tutto quello che sapeva della Sfera dell'Uomo, l'esame effettuato dall'orbita, la decisione di tentare di raggiungere il continente settentrionale perché sembrava offrire le migliori risorse, la scelta di quell'umida pianura sudorientale, collocata appena al di sopra del delta di un possente fiume che nasceva dai ghiacciai del grande massiccio centrale. Dovendo frugare un mondo sconosciuto, non aveva nessun piano preciso. — Il bisogno è estremo, s'impone la massima fretta. Riferisci possibili risorse. Fretta? Quella parola fu come una violenta pugnalata: alimentato solo dall'energia solare, non si poteva muovere in fretta né portare là le risorse trovate, a meno che... Poteva servirsi del disco? Chiedendoselo e chiedendosi anche che cosa potesse essere quell'oggetto discoidale, si soffermò a scuotere il capo. Era una luce? Un'arma? Una batteria energetica? Non ne comprendeva la natura e non se ne fidava. Dopo che era caduto nelle sue mani, a bordo della stazione orbitale, lo aveva servito abbastanza bene, ma prima ancora, quando era ancora controllato dal robot alieno, il disco aveva tentato di ucciderlo. — Nave a Difensore. Prenderai con te il disco. S'inginocchiò per aprire il portello d'accesso: il congegno alieno era dove lo aveva riposto: aveva un diametro di non più di venticinque centimetri ed era spesso meno di dodici; una delle sue facce era nera quando lui aprì il portello, l'altra di un opaco colore dorato: come in risposta al suo tocco, la faccia nera s'illuminò. Il disco era magnetico, e, una volta che se lo fu fatto scivolare sulla schiena nuda, vi sarebbe rimasto grazie anche alla forza magnetica del suo stesso corpo. Un momento più tardi, sentì le radiazioni della sua faccia ardente contro il proprio corpo, radiazione molto inferiore a quella fornitagli dal cordone, ma al contempo più forte di quella solare. Forse gli sarebbe servita ancora. — Difensore a Nave... — Protese una mano e l'appoggiò contro lo scafo sfregiato. — Cercherò del petrolio affiorante o un qualsiasi tipo di sostanza vegetale che possa essere fatta fermentare per ottenere alcool... ammesso che qui esista il lievito necessario alla fermentazione o il suo equivalente.
In mancanza di dati per un piano preciso, ho intenzione di spingermi verso l'interno, mantenendomi vicino al fiume. Se trovassi le sostanze necessarie, potrei aver bisogno di riportarle indietro via acqua... — Le devi trovare, Don. — La voce si era fatta improvvisamente quasi uguale a quella di Megan, tremante d'emozione, e l'aveva interpellato con il nome di Don Brink. — Presto! Quando raggiunse la giungla, essa era morta, era un muro di spine nere e crudeli, alto dieci metri. Le foglie erano cadute a formare uno spesso tappeto nero e reso ora spugnoso dalla decomposizione, maleodorante per una strana puzza che gli dava un terribile fastidio: tutto il suo corpo percepiva qualcosa di mortale in quelle spine. Tremante di repulsione, si soffermò ad osservare una singola foglia non ancora caduta che pendeva fra le spine: spessa e dura come cuoio, venata di rosso scuro, orlata di uncini simili ad ami, non presentava alcuna somiglianza con qualsiasi specie vegetale terrestre, ma neppure con la viva vegetazione che si era lasciato alle spalle. Non trovò alcun frutto, nulla che potesse esser fatto fermentare. Qualcosa in quella foglia spinosa pungeva come veleno, e lui la gettò da un lato, poi s'inoltrò nell'intrico dei cespugli. Il sole alto, combinato con le radiazioni del disco, gli aveva fornito energie sufficienti per uscire dalla palude pianeggiante, ma ora il cammino si stava facendo più duro: anche se rimanevano appese ben poche foglie, i rami e le spine fittamente intrecciati oscuravano in buona misura il sole e consumavano una porzione eccessiva della sua forza in via di esaurimento. Il pendio si era inoltre fatto troppo ripido e le foglie viscide scivolavano proditoriamente sotto i piedi, mentre il dolore all'ombelico si era di nuovo accentuato, trasformandosi in un disperato desiderio dell'energia perduta. La Sfera dell'Uomo ruotava su se stessa più in fretta della Terra, e la notte lo colse mentre lottava ancora con il pendio sdrucciolevole e con quell'interminabile giungla morta. Il pianeta non aveva luna, quindi scese un'oscurità totale: con la mente ed i sensi rallentati, fu costretto a fermarsi fino a che i suoi occhi passarono alla vista a infrarossi. Quel tipo di vista accese una luce irreale rosso sangue sulla giungla e sui massi caduti dalle alture sovrastanti e perfino sulle foglie marce; guidato da essa, il Difensore continuò ad avanzare fino a raggiungere le alture stesse, dove fu costretto ad arrestarsi di nuovo, perché il tenue bagliore rugginoso era troppo scarso per permettergli di scalarle, il che lo costrinse ad attendere la luce del sole.
Mentre aspettava, sprofondato in una sorta di intontito dormiveglia, tentò di afferrare altri frammenti degli uomini che era stato: Tomislav e Rablon, Ulver e Wardian e Brink; un ingegnere genetico, un disegnatore di computers, un costruttore di razzi, un astronauta, un soldato mercenario, tutti radunati da Megan perché le loro capacità fossero registrate nei computers della nave-seme, tutti trattenuti là dai loro sentimenti per lei. Le sue dita stavano scivolando verso l'inguine dolorosamente spoglio, ma le allontanò di scatto, cercando di ricordare ciò che era: un malinconico essere incompleto formato da tutti quei frammenti spaiati e che desiderava dolorosamente di essere completo, ma soprattutto desiderava Megan... la desiderava con la passione di tutti quegli uomini racchiusi in lui. Essi l'avevano desiderata tutti, e lei aveva rivolto a tutti lo stesso caldo affetto, senza favoritismi di cui lui fosse consapevole, a meno che... Ben Bannerjee! Rammentando da quanto tempo lei lo conosceva, il tono della sua voce quando parlava di Ben, lo sguardo nei suoi occhi quando l'osservava, la tenerezza del suo tocco su quella spalla contorta e delle dimensioni di un bambino, si chiese se Ben non fosse stato il suo vero amore. Non che adesso potesse importare: lei e tutti i suoi uomini erano un milione di anni nel passato, solo casuali echi involontari nel suo cervello. Sorse il sole, rinnovando in lui la vita e affinandogli i sensi, e gli permise di trovare un incavo scavato dall'acqua che gli consentì di scalare la collina. Giunto su un alto costone, si arrestò per guardare indietro in direzione della nave-seme: molto al di sotto di lui, rimpicciolita dalla distanza, la pianura era come un lucente smeraldo incastonato nel nero, e non gli riuscì di vedere la nave. — Il Difensore chiama. — Nave a Difensore. — La risposta giunse istantanea. — Aspettiamo un rapporto. Guidata ora dal segnale, la sua vista telescopica intercettò la nave, assurdamente minuscola e futile, scioccamente inclinata, un piccolo seme caduto su un terreno alieno dove non poteva sperare di crescere. Dopo un momento, scrollò le spalle e parlò ancora. — Nessun successo da riferire, nessuna indicazione d'infiltrazioni di petrolio o di altre materie organiche geologiche. Nulla di quanto scoperto adatto alla fermentazione. Nessun indizio per ulteriori ricerche. — Nave a Difensore. — Solo la minima traccia di Megan. — La ricerca deve continuare.
Il Difensore non era stato progettato perché provasse disperazione, quindi proseguì. Al di là dell'alto costone, trovò un altro intrico nero ed arido, pavimentato di foglie maleodoranti e marcenti: esso era stranamente immobile, morto come il precedente, altrettanto non promettente come fonte di materie prime. Troppo fragile perché vi si potesse arrampicare sopra, quella giungla gli impediva di vedere cosa ci fosse al di là e dimezzava l'energia a sua disposizione. Le componenti umane in lui sarebbero potute tornare indietro o semplicemente arrestarsi, ma il Difensore era più macchina che essere umano, e la macchina che era in lui continuò a muoversi, attraversando la giungla quando era possibile, fermandosi quando doveva accumulare potere dal sole oscurato o dal disco sulla sua schiena, tentando un'altra strada quando il cammino era bloccato. Il tempo passò, il sole salì in alto e sprofondò nuovamente, ed il tramonto fece la sua comparsa prima che lui arrivasse barcollando ad una radura dalla strana forma rettangolare. Il suolo era coperto da foglie marce e da pietre rotte, ma trovò una stretta striscia dove era stato lavato dall'acqua corrente. Pietra, stranamente liscia, bianca e piatta. Chinandosi, trovò delle scanalature, dritte e regolari: un'antica pavimentazione! La esplorò, e, quando spinse da un lato le foglie marce, vide che i pezzi di pietra caduta erano rovine di abitazioni. Cinque alti pilastri bianchi dominavano la giungla ad un'estremità, mentre all'altra estremità sorgevano i resti di un muro fracassato, insieme ad un grazioso arco ed a parte di una grande curva che doveva aver incorniciato una finestra ovale. La Sfera dell'Uomo era stata viva, piena di intelligenza, di arte e di elevata tecnologia, prima che le spine avessero preso a crescere. III Mentre le sue forze si affievolivano contemporaneamente alla luce del sole, il Difensore attraversò barcollando l'arco frantumato per entrare in un regno ombrato e rivelato solo dalla sua vista infrarossa. Giavellotti scarlatti puntavano contro di lui uscendo dal manto di oscurità, e si venne a trovare in mezzo a montagne di muratura frantumata che era troppo debole per riuscire a scalare. Quei frammenti crollati lo lasciarono perplesso per i loro accenni ad una tragica storia. Vivaci come vetro colorato, fintanto che la luce morente gli
permise di distinguerne le tinte, essi erano per lo più bianchi, ma talvolta anche neri o color zaffiro o di marmo venato, fatti di un qualcosa che era duro e denso come diamante. Molti mostravano ancora bei piani e curve armoniose, suggerimenti tormentosi di quello che le rovine erano state un tempo, ma altri si erano squagliati fino a formare una massa informe, forse per un incendio. Ora che il suo senso magnetico si era accentuato per il cadere dell'oscurità, percepì la presenza di metallo sotto il pietrisco e le foglie marce, masse di ferraglia rugginosa che un tempo doveva aver formato macchinari, blocchi appiattiti che erano stati fusi da un calore selvaggio. Quella era stata una città, una magnifica metropoli, assassinata molto tempo prima. Barcollando nel crepuscolo sempre più fitto, raggiunse una grossa cupola intatta che emergeva dai detriti e che fungeva da piedestallo per una colonna sormontata da una statua smembrata e stranamente illuminata dalla propria incandescenza color rubino. Tremando, si arrestò ad osservare la figura mutilata: anche se la testa e le braccia non c'erano più, le gambe ed il torso avevano sembianze quasi umane. Sembrava quasi una donna, anche se era troppo sottile in confronto alla notevole altezza, l'intera anatomia delicatamente rifinita. Era stata una creatura splendida e la sua alta perfezione lo trafisse come una lama, mentre la sua umanità lo lasciava perplesso. — Contro che tipo di cose dovrò combattere? Un momento isolato risalente ad un milione di anni prima, improvvisamente vivo nella sua mente. Una riunione organizzativa nell'ufficio di Megan, ed erano seduti tutti accanto al lucente stellano incastonato in plastica le cui luci lampeggianti erano le stelle che speravano di seminare. — Non tu, Don. — I suoi begli occhi parvero scherzosamente ironici. — Ricorda che stiamo raccogliendo solo una piccola parte del tuo io. — Qualsiasi cosa... qualsiasi cosa tu debba combattere — Tomislav era arrossato ed ansante, perché Albuquerque era troppo alta per il suo enfisema, e dovette fare una pausa per respirare, — non sarà nulla di umano. — O di civilizzato — aggiunse Megan. — Noi non invaderemo mondi civilizzati. Dopo che abbiamo parlato con Ben, Rablon ha provveduto a riscrivere il programma per il Difensore, per essere certo che non cercherai di fare nulla del genere. L'adorava anche quando lo rimproverava. — Qualsiasi cosa tu incontrerai... — Tomislav lo annoiava, perché gli parlava sempre come se stesse impartendo una lezione a qualche stupido
campione sportivo, — civilizzata o selvaggia, è probabile che non sarà nulla di simile a noi. Nella nostra evoluzione, abbiamo compiuto troppe svolte assurde perché ci possa essere qualcos'altro che abbia seguito lo stesso cammino. Comunque, dubito che incontrerai qualcosa di altrettanto feroce quanto lo sei tu. Scrollò le spalle e sorrise a Megan. Creatore ispirato, ed amante di ogni forma di vita, Tomislav non gli avrebbe mai perdonato la gioia con cui aveva giocato l'antico gioco del combattimento mortale e non avrebbe mai neppure ammesso che le navi-seme sarebbero potute cadere in luoghi in cui avrebbero avuto bisogno delle conoscenze belliche di Brink. I sentimenti di Megan per lui erano più gentili e più complessi... Rammentando quell'istante perduto da tempo, il Difensore sorrise di nuovo, chiedendosi seccamente come i frammenti silenziosi ma ancora vivi in lui di Tomislav si sarebbero sentiti di fronte a questo mondo assassinato che era stato umano o semiumano. Era quella una prova che qui l'evoluzione aveva ricalcato il tracciato umano? Era comunque anche una terribile evidenza del fatto che un qualche ciclo evolutivo alieno aveva creato predatori più feroci della razza umana... Un'altra idea lo fece sussultare. Era possibile che quella razza morta fosse stata altrettanto pienamente umana quanto sembrava esserlo la statua lucente? Generata da un'altra delle navi-seme di Megan, atterrata qui un'era geologica prima, mentre la sua nave era ancora in avaria ed alla deriva nello spazio? E che l'apparente stranezza della statua fosse forse dovuta a qualche alterazione genetica che Tomislav aveva inserito nel seme o alla lunga evoluzione verificatasi o semplicemente ai diversi canoni di una diversa concezione artistica? La figura frantumata non era in grado di dirlo. Chiedendosi che sorta di ferocia fosse piombata ad uccidere la città... e magari tutta la Sfera dell'Uomo... rabbrividì di un timore puramente umano. E se quell'assassino era ancora vivo, in attesa di annientare qualsiasi frutto il loro nuovo seme avesse generato? Appesantito dalla stanchezza e dal trauma, intontito per la mancanza di energia, sedette su una pietra arrossata, un cilindro rifinito, più spesso del suo stesso corpo, forse una delle braccia mancanti, e si chiese confusamente quale poteva essere stato l'agente letale. Qualcosa d'improvviso, immaginò, che aveva sopraffatto il pianeta prendendolo di sorpresa: forse quel tipo di virus universale mutante che
Tomislav era stato tanto attento a non creare? La caduta di un asteroide? Una guerra senza un vincitore... La Squadra d'Assalto? Le immagini dei robots di guardia che aveva incontrato e distrutto in orbita tornarono a tormentarlo. I sei velivoli da atterraggio mancanti da quegli attracchi vuoti a bordo della nave... forse che i razziatori alieni se n'erano serviti per scendere a devastare quell'ignaro pianeta? Ipotesi abbastanza probabile, quella supposizione lasciava aperti inquietanti interrogativi. Dov'erano adesso gli invasori? Lunghi secoli dovevano essere trascorsi da quando la città era morta, forse millenni, dato che certamente i motori nucleari dell'astronave si stavano raffreddando ormai da molte migliaia di anni. Che gli invasori fossero morti anch'essi? Spazzati via, forse, da un qualche disperato contrattacco di Difensori ormai condannati? Quali esseri potevano essere stati tanto feroci? Il suo armadietto puzzava quando lo aprì per prendere le carte che voleva portare a casa per farle vedere a sua madre. Ogni cosa era stata staccata dai piolini e buttata giù dal piccolo scaffale, perché si ammucchiasse sul fondo; la giacca aveva un che di freddo e di rigido quando la raccolse e stava sgocciolando, e la puzza era quella dell'orina. La cosa lo fece sentire nauseato e debole e sconvolto, ma non vomitò. Richiuse la porta dell'armadietto e vi si appoggiò con la schiena, osservando gli altri bambini che lo superavano di corsa lungo il corridoio; la maggior parte di loro non lo guardò, ma tre ragazzi più grandi si soffermarono per un momento, ridacchiando ed osservandolo. Quando se ne furono andati, tornò nella sua classe. Miss Konick c'era ancora, intenta a scrivere qualcosa sul suo registro. Aveva la borsetta già pronta sulla scrivania, e lui sapeva che non le piaceva essere costretta a ritardare; comunque l'insegnante chiuse il registro per sentire cosa voleva. Non riuscì a dire la parola esatta, ma in qualche modo trovò la forza di spiegare che qualcuno aveva fatto un bisogno sugli oggetti del suo armadietto. — Mi dispiace, Marty. — Si chiese se lo era davvero. — Sai chi è stato? Non sapeva chi fosse stato e non sapeva neppure il perché. Aveva deciso di non parlare dei ragazzi che lo avevano beffeggiato perché non sapeva veramente se fossero stati loro. — Riferirò l'incidente a Mr. Clough, ma non so cosa possa fare. — Sa-
peva che Miss Konick era impaziente di andare dove doveva andare, ma la donna rimase seduta, fissandolo tanto duramente da fargli desiderare di non averla interpellata. — Ascolta, Marty. — Il volto ossuto della donna si contorse infine in un cipiglio preoccupato. — Temo che ci sia una ragione per cui continuano a succederti cose di questo genere. — Per favore... — faceva fatica a respirare. — Non ho fatto nulla... nulla... — Non esattamente. — La donna aveva ancora le labbra serrate e lo sguardo serio fisso su di lui, tanto che aveva paura anche di guardarla. — Ma comunque c'è qualcosa, e qualcuno te lo deve pur dire: so che questi scherzi sono crudeli, ma in un certo senso tu te li vai a cercare. Soffocato, lottando per non piangere, gli riuscì solo di scuotere il capo. — Tu sei furbo, Marty. Leggi molto, sai un sacco di cose, e ti piace farlo vedere in classe. Ti devi rendere conto che questo non va agli altri bambini, perché pensano che tu faccia far loro brutta figura. So che adesso sei sconvolto, ma riflettici, Marty: potrebbe darsi che sia più furbo non comportarsi così tanto da furbo. Non riuscì più a trattenere le lacrime pungenti. — Ora puoi andare. — L'insegnante raccolse il registro. — Ma pensaci. Adesso il lungo corridoio era vuoto. Rovesciò tutto il contenuto del suo armadietto nel cestino dei rifiuti, poi lo ripulì con la carta igienica presa dal bagno dei ragazzi ed infine si lavò le mani con il sapone. Il lucchetto era rotto e lasciò lo sportello spalancato; mentre andava a casa, rabbrividendo senza la giacca, tentò di non pensarci. Com'era possibile che fosse lui da biasimare? Singhiozzò e scosse il capo, odiando Miss Konick perché lo aveva detto, odiando Mr. Clough e quei tre ragazzi e tutti gli altri della Jefferson Central perché nessuno aveva simpatia per lui. Se non poteva neppure rispondere alle domande che facevano gli insegnanti... Sedendo più eretto su quel grosso braccio spezzato, ritornò torpidamente con la mente al pensiero della Sfera dell'Uomo. L'assassino di quel pianeta era stato una creatura più crudele: i suoi abitanti non potevano essere da biasimare, a meno che avessero reso il loro mondo così ricco, bello e splendente da destare l'invidia di qualche altra creatura. Comunque, era tempo di chiamare la nave. — Difensore a rapporto. — Fece una pausa per ascoltare. — Difensore a
Nave. Nulla. — Difensore! — Usò tutto il potere che gli riusciva di attingere dal disco fino a che lo sforzo lo lasciò esausto. — Il Difensore chiama per riferire la scoperta di una cultura nativa estinta, forse una cultura umana. Finora non ho trovato nessuna possibile fonte di materie prime né indicazioni che esse possano esistere da qualche parte. Ancora nulla. — Rispondete! — Un senso umano di panico cominciava a trapelargli dalla voce. — Rispondete se potete... Consumata tutta l'energia, ricadde contro il braccio frantumato, e si rese conto di colpo che non avrebbe mai ricevuto una risposta fino a che non si fosse avvicinato maggiormente alla nave, perché essa si trovava al di sotto delle alture da lui scalate e fuori portata radio. La nave-seme era stata progettata perché potesse far fronte a qualsiasi prevedibile problema, ma quel mondo distrutto non poteva essere previsto. Lo scafo della nave non era un'antenna abbastanza efficace, come non lo era neppure il suo corpo. Era completamente solo... — Unità di Supporto Alfa Dieci. — La voce vicina lo fece sussultare: era il rapido ed inumano ritmo del disco, come quando i robots se n'erano serviti per rispondere al suo iniziale segnale di contatto. — Ad Unità Difensore. Riferisco informazione: idrocarburi volatili esistono qui. Stordito, tentò di riprendersi. — Dove? Dove sono gli idrocarburi? — Idrocarburi volatili allo stato liquido esistono alla Base d'Attacco Alfa Uno. — Cosa... — stava tremando di un'emozione inutile per il Difensore. — Cos'è la Base d'Attacco Alfa Uno? — Informazione: la Base d'Attacco Alfa Uno è il complesso di comando stabilito dalla Squadra d'Assalto come centro principale di supporto per le operazioni qui svolte... — Una scarica di statica gli risuonò nella testa. — Qui sul pianeta designato come Sfera dell'Uomo nel tuo incompleto vocabolario. — C'è qualcosa... La Squadra d'Assalto è ancora viva? — Negativo. La Squadra d'Assalto non è viva. — Cosa l'ha uccisa? — Informazione: la Squadra d'Assalto non include personale vivente. — Allora era fatta di automi? Come quelli sull'astronave?
— Affermativo. — È ancora operativa? — Negativo. Operazioni sospese quando la resistenza locale è cessata. — Quando? — La Squadra d'Assalto ha sospeso le sue operazioni qui... — La testa gli ronzò nuovamente... — Data secondo il tempo della Sfera dell'Uomo: novemilasettecentoottantanove periodi orbitali fa. Mancano dati per la conversione in termini di tempo terrestre. Ma lui aveva i dati relativi: situata più all'esterno della Terra e più lontano da una stella più calda, la Sfera dell'Uomo aveva un anno più lungo, per cui il tempo trascorso dalla morte del pianeta sarebbe equivalso a circa trecento secoli terrestri. Appena un battere di ciglia, forse, rispetto alle ere trascorse da quando Megan aveva lanciato le navi-seme, ma pur sempre un'enormità di tempo che destò in lui per un istante una strana sensazione puramente umana. L'immutabile quiete mortale; le rosse spade e le lance tutt'intorno a lui, che si facevano più tenui man mano che si raffreddavano; le monumentali colonne delle rovine alle sue spalle, che sembravano ancora sfidare il fato, il fuoco, il tempo; il braccio possente su cui sedeva; la tragica bellezza di quel nudo mutilato e torreggiante fra le spine. Raggelato da quel momento di meraviglia e di terrore, si scrollò per liberarsene, perché le emozioni umane potevano solo ostacolarlo nel servire la nave. — Le scorte di idrocarburi sono alla Base Alfa Uno? Sono accessibili per noi? Nessuna risposta, tanto che cominciò a chiedersene il perché. — Gli idrocarburi del tipo designato come materia prima esistono alla Base Alfa Uno — disse finalmente il disco, invisibile ed irraggiungibile, al di là di qualsiasi comprensione umana. Le sue rapide tonalità staccate non contenevano emozione o sentimento: naturalmente no, ricordò il Difensore ai suoi preoccupati ego umani, dal momento che il disco era soltanto un'altra macchina, ancor meno umana di quanto lo era lui, e quindi priva di sentimenti da manifestare. — Disponibilità indeterminata. — Dov'è la base? — Informazione: Unità di Supporto Alfa Dieci ad Unità Difensore. Dislocazione della Base d'Attacco Alfa Uno... — Ci fu un tintinnio nella sua mente mentre il programma di traduzione del disco trasformava i dati in parole a lui note. — Distanza: millesettecentosessanta chilometri. Direzio-
ne: nord, sette punto uno tre gradi ad ovest del meridiano locale. Altitudine: duemilaquattrocentoottantuno metri... — Mi puoi guidare là? — Possiamo aggiornare distanza e direzione. — Mostrami la strada. — Si alzò in piedi barcollando. — Si va a determinare quella disponibilità. IV Quella notte, non andò molto oltre. Man mano che la giungla si raffreddava, la nebbia rossastra si faceva più fitta, tanto da non permettergli di scorgere le barriere di detriti fino a che non vi sbatteva contro. Ogni volta che lo interpellava, il disco gli diceva prontamente se si stava dirigendo o meno verso la Base Alfa Uno, ma aggiungeva ben poco. Quando lui chiese ulteriori informazioni in merito alla base o alla Squadra d'Assalto o ai Maestri Costruttori, il disco riferì una mancanza di dati o un'impossibilità di tradurre, o, più di frequente, rimase in silenzio. Per l'umano che era in lui, quella cupa luce rossastra divenne ben presto un'ombra di disperazione senza speranza. La base aliena era troppo lontana: 1.700 chilometri equivalevano a più di mille miglia, e ci avrebbe messo troppo tempo a coprire quella distanza. Senza il cordone, poi, non avrebbe avuto la forza necessaria a trasportare le materie prime fino alla nave, anche ammesso che le avesse trovate, ed il disco, dimostrandosi così evasivo in merito a tante delle sue domande, appariva un alleato molto dubbio. Eppure, la parte meccanica che era in lui continuò a procedere fino al limite dell'energia. Recuperate le forze con il sorgere del sole, si arrampicò su un cumulo di detriti e tentò di contattare nuovamente la nave, ma anche questa volta non ebbe risposta. Continuando la marcia solitaria, raggiunse poi un'ampia strada pavimentata tanto bene che i cespugli spinosi non erano riusciti ad occuparla per intero e la seguì verso nord, avanzando per tutto il giorno attraverso quelle stupefacenti rovine, che però non aveva tempo di studiare. La notte lo costrinse a fermarsi vicino ad un tratto sassoso che circondava un lago irregolarmente circolare: un cratere, pensò, aperto da un missile piombato dallo spazio. Due giorni dopo che si era allontanato da quella necropoli devastata, il terreno iniziò a salire e la giungla morta si assottigliò abbastanza da facilitargli l'ascesa; altri tre giorni di cammino e lasciò dietro di sé i fragili e pungenti cespugli, per trovarsi al limitare di un'ampia pianura simile ad un
parco e di un bel verde vivo. Cosa alquanto strana, quella vegetazione somigliava più ai licheni ed ai bassi cespugli della tundra artica in estate che non alla sostanza più lussureggiante della depressione paludosa in cui era atterrata la nave, e quella vuota distesa ridestò in lui ricordi vaghi delle alture del Kenya, al di là della Great Rift Valley: un momento o frammento appartenente a Don Brink, il quale era stato inviato laggiù dagli agenti di un uomo che non aveva mai visto, per uccidere i cacciatori di frodo di elefanti e prelevare l'avorio accumulato nel loro campo. Insignificanti per la macchina che era in lui, quei fugaci ricordi lasciarono la sua componente umana lacerata e dolente: quella verde e vasta pianura aveva bisogno di erbivori, impala o bufali o bestiame, ma tutto era morto, non si vedevano sentieri di selvaggina né si udivano fruscii di ali o suoni di voci o altri. Sentendosi stancamente abbandonato, si chiese se la nave sarebbe mai riuscita davvero a riportare quei luoghi alla vita. Un mondo senza elefanti sarebbe stato un luogo ben triste, uno privo di impala e ghepardi, oppure di uccelli, di calabroni e di cani, forse perfino di gatti e di topi... Don Brink aveva disprezzato i gatti, ma Rablon li amava, così come amava le donne che somigliavano a loro, ed i gatti avevano bisogno di topi. Forse, con tutte le cognizioni d'ingegneria genetica che Tomislav aveva programmato nel computer principale, sarebbe stato possibile ricreare gli animali, se il disco non lo avesse tradito, se fosse effettivamente riuscito a trovare la necessaria quantità di elementi adatti, nella base, se fosse riuscito a trasportarli fino alla nave con un margine di tempo sufficiente, prima che l'inondazione monsonica allagasse tutto... Se... troppe cose dipendevano da quella parola. L'asse della Sfera dell'Uomo era inclinato di quaranta gradi, quanto bastava per rendere estremamente violenti i suoi cambi di stagione. Ogni giorno si faceva sempre più lungo a mano a mano che procedevano verso nord, e, ora che il cammino era diventato più facile, il Difensore scopriva di essere di molti chilometri più vicino alla meta ogni volta che chiedeva indicazioni al disco. Perfino di notte, alimentato solo dall'energia del disco, gli riusciva di avanzare ancora di qualche chilometro. Ogni giorno il terreno si faceva sempre più elevato e la vegetazione tipo tundra si assottigliava, fino a che cedette il posto al deserto: nuda roccia rossa solcata da arroyos secchi e soltanto saltuariamente coperta da ciuffi di vegetazione dalle foglie spesse, chiaramente evolutasi in modo da riu-
scire ad immagazzinare ogni goccia d'acqua. Giunse poi un mezzogiorno in cui il Difensore non proiettò alcuna ombra, un lungo giorno che gli permise di coprire molti chilometri, ma che al contempo lo allarmò per la sua stessa durata. Il tempo era trascorso troppo in fretta, e le tempeste monsoniche dovevano essere già in marcia dall'oceano e lungo il continente alle sue spalle; le acque d'inondazione si sarebbero alzate troppo presto intorno alla nave ed il sole si sarebbe troppo presto ritirato nuovamente a sud, abbandonandolo all'incerto sostegno del disco. Una fredda alba, scoprì la presenza di una nuova forma al di sopra dell'evanescente bagliore infrarosso dell'orizzonte: un'enorme luna si stava levando, o almeno così credette per un momento... ma la Sfera dell'Uomo non aveva nessuna luna. — Stai osservando la Base Alfa Uno — lo informò il disco. — Distanza: centodiciannove chilometri. Il lucente splendore della base lo fece raggelare per un senso di scoraggiamento: era una grossa cupola metallica che si ergeva abbastanza alta da riuscire ad intercettare i raggi del sole quando il deserto intorno a lui era ancora completamente in ombra, la cittadella aliena costruita trentamila anni prima dagli assassini di quel pianeta. Erano stati tutti automi? Quando lo chiese al disco, il rapido battito della sua voce inumana lo informò solo del fatto che non c'erano dati disponibili. Per tutto quell'interminabile giorno il Difensore osservò l'immensa forma luminosa ingrossarsi lentamente mentre emergeva dalla torrida superficie di cespugli e di roccia nuda fino a che, verso il tramonto, fu possibile distinguere le costole scure che si stendevano arcuate sulla sostanza, brillante come vetro, di cui la cupola era formata. Era una struttura alta molte centinaia di metri, grande quanto una città. L'umano che era in lui tentò d'immaginare cosa avrebbe potuto trovare all'interno: magari il segreto della morte del pianeta, o forse le terribili armi che l'avevano provocata? Avrebbe trovato le sostanze che gli servivano... o magari qualche antica trappola, predisposta per uccidere qualsiasi essere vivente? Gli occhi fissi sulla fonte di tutti quegli interrogativi, non si accorse dell'orlo del precipizio, e fu arrestato solo da altre percezioni, quali la sensazione di un'improvvisa riduzione della densità della superficie davanti a lui e di un soffocato rumore di tuono proveniente da lontano e da molto più sotto, percepito su tutta la pelle.
Un baratro inaspettato, tanto profondo da fargli girare la testa. Scosso, si lasciò cadere sulle mani e sulle ginocchia per sbirciare oltre l'orlo irregolare: la pietra nuda sprofondava per migliaia di metri fino ad una serie di sporgenze rocciose e di pinnacoli e ad una cupa gola interna già avvolta nel buio. I suoi occhi si adattarono alla scarsa luce ed individuarono il fiume che aveva tagliato quel baratro, simile ad uno stretto nastro d'argento. Quel rombo distante era generato dall'acqua che precipitava in nubi di spuma, ed il Difensore ricordò allora di aver scorto quella gola dallo spazio insieme al suo possente fiume che, nato dai ghiacciai del grande vulcano che aveva costruito il continente, attraversava quel pianoro fino a raggiungere l'oceano sudorientale dove si stavano raccogliendo i monsoni. Non vide modo di oltrepassare la gola. — Difensore ad Unità Dieci. — Riuscì a controllarsi quanto bastava per contattare il disco. — Perché non mi hai avvertito di questo ostacolo? — Dati non richiesti. — Come facciamo ad attraversarlo per arrivare alla base? — Dati riservati. — Dobbiamo entrare in quella cupola. — Informazione. — Inaspettatamente, qualcosa aveva reso comunicativo il disco. — Accesso alla Base Alfa Uno proibito a chiunque, eccetto i Maestri Costruttori. — Gli esseri che hanno costruito i robots? — Affermativo. — Essi si trovano qui? — Negativo: la Squadra d'Assalto è stata lanciata allo scopo di preparare il pianeta per loro; il pianeta è stato preparato: ora aspettiamo il loro arrivo. — State aspettando da trentamila anni? — Informazioni: calcolato sulla base delle rivoluzioni di questo pianeta, il ritardo è di meno di ventimila anni. — E li state ancora aspettando? — La Squadra d'Assalto attenderà fino al loro arrivo. — Allora ho una sorpresa per te. — Quelle parole erano sorprendenti anche per lui, appartenevano più a Don Brink che non al Difensore. — Le cose cambiano con il passare dei secoli, e gli esseri viventi si evolvono, anche i Maestri Costruttori. È per questo che voi non mi avete riconosciuto: io sono un Maestro Costruttore, e sono venuto con nuovi ordini che ora controllano la Squadra d'Assalto.
La radiazione del disco si attenuò, e, senza quell'energia, il Difensore barcollò sulle ginocchia. — Se tu comandi la Squadra d'Assalto... — il rapido ritmo del disco si era fatto debole ed esitante, — ripeterai il segnale di riconoscimento. — Il segnale di riconoscimento è riservato alle comunicazioni dirette con la sola Squadra d'Assalto. — Informazione: la Squadra d'Assalto è attualmente inattiva. Accesso proibito. Non puoi raggiungere la Squadra d'Assalto... — Lo farò... Il disco lo tagliò fuori e lui sprofondò nell'oscurità rossastra, andando quasi a cadere nel baratro. Palm Springs, in un torrido luglio. Alzatosi all'alba, si era preparato la colazione da solo ed era andato a piedi fin oltre Tramway Road, spiegando agli scettici poliziotti ed alle guardie private incontrate lungo la strada che era un ospite in casa di Victor Vane. Il cielo si era fatto rovente prima che lui rientrasse, ma aveva imparato ad amare il calore del deserto, e l'aria condizionata della casa gli parve freddamente appiccicosa quando il silenzioso ed efficiente domestico filippino di Vane lo fece entrare. — Salve, Brink. — Con gli occhi gonfi e la voce rauca, Vane gli faceva cenno di entrare in cucina. — Abbiamo la possibilità di parlare, mentre le donne sono ancora a letto. — Con indosso un accappatoio sporco, Vane appariva scialbo e avvilito di parecchi anni troppo vecchio per adattarsi alla sua immagine cinematografica. — Abbiamo giocato a poker la settimana scorsa, ed ho sentito dire quanto lei sia in gamba nel suo mestiere. Intendo assumerla perché vinca una partita. — Ascolti, Mr. Vane, io gioco a poker, ma mai da professionista: soltanto per ammazzare il tempo quando aspetto di trovare un giusto tipo d'impiego, dietro un adeguato compenso... — Pagherò. — Vane si stava preparando un Bloody Mary con mani tremanti. — E se è il pericolo che le occorre per ritenere che un lavoro sia adeguato... — Non baro, se è questo che intende... — Saranno i suoi avversari a farlo: se sarà abbastanza accorto da coglierli sul fatto se ne accorgerà. — Vane andò a sedersi al bar strascicando i piedi. — Le spiegherò il lavoro... — Prima, voglio da bere.
Vane gli stava offrendo le bottiglie, ma quello che lui voleva era acqua fresca, e l'attinse al lavandino. — Mi definisca pure un idiota — stava borbottando Vane, — ma sono stato derubato, giocando a poker con poste che non mi potevo permettere, a bordo di uno yatch al largo di Long Beach. Con un truffatore, a quanto è saltato fuori. Un viscido bastardo che sostiene di essere un principe saudita con bilioni da bruciare in petrolio... ma alla fine mi sono fatto abbastanza furbo da assoldare un investigatore privato per scoprire chi fosse realmente. — E allora? Perché ha bisogno di me? — Ascolti, Don, io... Si arrestò per inghiottire il resto del liquore, ed il bicchiere tintinnò quando lo riappoggiò al banco del bar; rimase seduto in silenzio per un momento, la faccia devastata che si contorceva, una muta preghiera negli occhi arrossati. — Mi dispiace. — Con una smorfia sofferta si eresse maggiormente sulla persona. — Le cose mi sono andate male, Don, ed ero già al limite prima d'incontrare quel truffatore. Sono stato tanto sciocco da pensare di poter vincere a sufficienza per rimettermi a galla ed ora... — Si versò un po' di vodka nel bicchiere e la bevve liscia. — È la mia ultima occasione, se lei mi aiuterà ad afferrarla. — Vane rabbrividì come se avvertisse il freddo appiccicaticcio. — Vorrei tentare un imbroglio a mia volta... — gli occhi vacui si fecero ansiosi, — ... se lei mi darà una mano. — Imbroglio... — Mi ascolti, Don, prima di dirmi di no. Ecco il piano. La presenterò come un banchiere playboy della mia città d'origine il cui caro vecchio padre è appena passato a miglior vita: lei ha ereditato del denaro e desidera un po' di movimento. Ho messo insieme ottantamila dollari... non miei, Don, e gli ultimi che posso prendere a prestito, ventimila per permetterle di farsi avanti ed altri sessantamila da far vedere. Loro non sanno quanto sia effettivamente a terra, e daremo ad intendere che lei ha milioni a disposizione. Quel baro avrà probabilmente al tavolo un paio di clienti onesti insieme ai suoi scagnozzi che cercheranno di adescarla... con il mio denaro, Don. Io l'ho osservata, lei può battere quel sorcio ed è abbastanza attento da coglierlo sul fatto se tentasse di barare. Giochi bene, e potrà sottrarre a quella banda un piatto da un milione di dollari. — Se lui è quel che lei dice... — Barerà, o tenterà di farlo se starà per perdere. — Vane trasse un fati-
coso respiro. — Ed è in quel caso che si potrebbe trovare nella necessità di combattere. — Non mi piace quel tipo di combattimento. — Lei lo può battere, Don, alle carte o in qualsiasi modo. Io sto scommettendo... scommettendo tutto. — Vane fissò la bottiglia di vodka come se ne avesse bisogno. — So che le probabilità appaiono un po' scarse, ma stando a quel che dice la gente si tratta proprio del tipo d'impresa che lei è in grado di condurre a buon fine. — La gente parla troppo. — Denaro rapido, Don. — La voce di Vane si fece rauca e supplichevole. — Qualsiasi cifra le riesca di vincere... e di portare via... la divideremo fra noi, a metà. Potrebbe anche essere mezzo milione per ciascuno, magari anche di più, se saremo fortunati. — Le labbra rilassate si contorsero. — Questa è la cifra che hanno preso a me. — Come faremo a lasciare lo yatch? — Ho un fuoribordo, e Luis ci aspetterà con esso, in attesa di avvicinarsi e di raccoglierci quando gli faremo il segnale. — Tremando, si appoggiò al banco del bar. — Lei... — La cosa non mi piace, Vic. — Fissò gli occhi delusi di Vane. — Somiglia troppo al copione di uno di quei film di serie B che era solito girare quando io ero bambino. Io ho un mio codice e non sono pazzo, non importa cosa abbia sentito dire alla gente. — Ma... Avrebbe saputo come utilizzare quei ventimila sicuri, ed anche la sua parte di quel piatto immaginario. Inoltre, quella faccia devastata e floscia continuava a tormentarlo, ridestando in lui ironici ricordi di quell'eroe dello schermo dai lineamenti puliti che Victor Vane era stato un tempo, di quella magnifica immagine che lui aveva assunto come modello della sua fanciullezza. — Lo farà? — Una cosa rischiosa. — Con un che di tristezza, rivolse a Vane uno sguardo accigliato. — Ma forse si può fare, con un piano a prova d'errore. Se ci possiamo fidare di Luìs... Sveglio solo parzialmente nell'alba ancora rossastra, annaspò nel tentativo di rammentare il nome dello yacht, ma non trovò nulla, se non la certezza che Don Brink era sopravvissuto per continuare a giocare i suoi duri giochi. Sentendosi un po' più ristorato con l'aumentare della luce del sole, tentò di alzarsi in piedi, ma ricadde disteso accanto al rosso abisso: il disco
era scomparso. V Troppo debole per muoversi senza l'appoggio del disco, rimase disteso a bere la prima fredda luce solare, tentando al contempo di elaborare una strategia contro la Squadra d'Assalto, un oppositore più duro, pensò, di qualsiasi avversario Don Brink fosse mai stato ingaggiato per combattere. La posta in gioco era piuttosto ingente: la rinascita della razza umana. I suoi avversari erano robots alieni e le regole del gioco gli erano ignote. Era concesso di bluffare? Probabilmente no: il disco non era sembrato tanto ingenuo, e la sua scomparsa lo induceva ora a chiedersi se gli fosse davvero mai stato d'aiuto o non lo avesse semplicemente usato come una sorta di veicolo per raggiungere la base, per poi abbandonarlo quando non era più stato in grado di portarlo oltre. Non vide risposte certe a quegli interrogativi. Quando poté, si sollevò per guardare dall'altra parte del precipizio, e la cupola lucente incontrò il suo sguardo, un cieco ed enorme occhio di metallo, che lo derideva con segreti troppo profondi perché lui li potesse anche solo immaginare, con la promessa di dare tutto quello che lui voleva e con il potere di uccidere il sogno umano. L'unica mossa possibile a lui nota era quella di raccogliere la sfida. La vicinanza stessa della cupola lo tormentava... con quel baratro in mezzo che scendeva fino ad una profondità di quattro chilometri, le pareti troppo ripide per poter essere scalate, l'acqua bianca che ruggiva in fondo alla gola, un'ulteriore barriera. Ravvivato dal sole ormai alto, si avviò a nord lungo il costone, poi ad ovest, quindi ancora a nord, alla ricerca di un passaggio, ricordando, da quanto aveva visto in orbita, che in vicinanza del grande massiccio il fiume non scorreva tanto in profondità. Forse, da qualche parte al di sopra delle cascate... Forse... Non tentò d'indugiare eccessivamente su tutte le rischiose incertezze che lo circondavano là o sul pensiero delle piene monsoniche che stavano avanzando dalla costa per sommergere la nave-seme. Aveva già una quantità di compiti immediati cui assolvere, come scegliere il cammino che gli facesse consumare il minimo di energia mentre attraversava il deserto incastonato nella roccia, oppure evitare le rocce che potevano bloccarlo ed i
cespugli che potevano farlo cadere, bevendo al contempo tutta la luce possibile. L'occhio gigantesco della cupola lo seguiva anche quando le curve del terreno lo costringevano a voltargli le spalle, luminoso e cieco, mai più lontano e mai più vicino. Una volta, cedendo ad una disperata emozione umana, scosse un pugno dorato in direzione di quell'occhio alieno, che continuò a fissarlo immoto; poi, tornato ad essere una macchina, riprese ad avanzare. Più tardi, anche il sole si trasformò in un nemico: ormai vicino allo zenith, l'astro bagnava una parte troppo scarsa della sua pelle assorbente, e, mentre avanzava barcollando nelle roventi ore meridiane, per poco non cadde in un altro precipizio. Era l'orlo di una diramazione della gola, che si allontanava nel deserto fin dove gli riusciva di seguirla con l'occhio. Troppo piccolo per poter essere scorto dallo spazio, quel nuovo baratro appariva ora terrificante, e lui stava barcollando vicino al suo bordo, esplorandone con lo sguardo le sporgenze improvvise e le insidiose macchie di vegetazione alla ricerca di un possibile sentiero, quando vide il velivolo. Un punto alto e nero, con una sottile coda rossa, proveniva dalla direzione dell'ardente occhio argenteo. Seguendolo con lo sguardo telescopico, lo vide abbassarsi fino ad un chilometro sopra di lui; la sua sagoma lo lasciò perplesso, perché era accuratamente affusolata e munita di due tozze alette che non sembravano abbastanza grandi da controllarlo. La coda rossa era il calore emanato da un motore pulsante che appariva a sua volta inadeguato a sorreggere l'apparecchio. — Maestro Costruttore a velivolo — lo apostrofò, più per semplice disperazione che per speranza. — Se mi ricevi, per favore, rispondi. Esso non rispose. — Maestro Costruttore a velivolo. Messaggio per Base Alfa Uno, priorità assoluta, da trasmettere subito. Siamo arrivati per completare il nostro antico piano a proposito di questo pianeta. Richiediamo pieno controllo della base d'invasione e di tutte le altre attrezzature sul pianeta o in orbita, con effetto immediato. A questo scopo, richiediamo identificazione di tutte le unità esistenti che compongono la Squadra d'Assalto. Il velivolo deve ora trasmettere il segnale di riconoscimento. Volando lentamente in cerchio nel cielo bronzeo, esso non trasmise nulla. — Maestro Costruttore a Squadra d'Assalto. Richiediamo due tonnellate
metriche di idrocarburi liquidi volatili, materie prime che devono essere fornite al veicolo in cui siamo atterrati. Siamo informati che tali materie prime sono disponibili nella Base Alfa Uno. Indicherete i piani per un adempimento immediato. Il velivolo non indicò nulla. — Maestro Costruttore a velivolo. Informazione per una trasmissione d'emergenza alla Squadra d'Assalto. Soggetto: conseguenze del fallimento nella fornitura delle materie richieste e di un rapido mezzo di trasporto. La Squadra d'Assalto verrà disattivata così come è stata disattivata l'astronave orbitale. Ancora nessun segnale. Agitò un pugno e proseguì barcollando verso sud. Le sue speranze umane cominciarono a sollevarsi quando il sole si spostò verso occidente ed incrementò un poco le sue forze. Ripetutamente, si soffermò ad esplorare la gola, fino a che raggiunse un canalone che, con un po' di fortuna, lo poteva condurre ad un ripiano inclinato che sembrava un sentiero per raggiungere il fondo distante. L'altra parete appariva ancora arcigna ed insormontabile, ma la macchina che era in lui non si arrese. Sormontò il bordo del precipizio e scese nel canalone, che si dimostrò insidioso, le pareti consunte dagli elementi che si sgretolavano inaspettatamente, mentre lui era troppo goffo e debole. Ombre mortali strisciarono nella parte inferiore della gola e gli vennero incontro troppo in fretta; una nube isolata scivolò nella stretta fetta di cielo, forse un prolungamento dei lontani monsoni. Un improvviso buio paralizzante... Qualcuno stava picchiando alla porta, e c'erano alcuni uomini che gridavano con sua madre; poliziotti che gli correvano incontro con la pistola puntata... per poi indietreggiare e guardarsi intorno, come alla ricerca di qualcun altro. — Rablon? — Lui non era quel che si erano aspettati. — Sei tu Martin Rablon? Quanti anni hai? — Quattordici, signore. — Se sei davvero Rablon... — il poliziotto fissò accigliato lui ed il suo computer, — io sono il Tenente Karst, ed ho un mandato di perquisizione per questa casa, oltre ad un mandato d'arresto per un certo Martin Rablon. Hai diritto di non parlare fino a che non avrai visto il tuo avvocato... Poteva sentire sua madre, ancora al piano di sotto, che faceva domande
con voce tremante. — Signore... — Stava per alzarsi, ma il poliziotto gli fece cenno di rimettersi a sedere. — Per favore, mi vuol dire cosa pensate che io abbia commesso? — Se sei davvero Rablon, lo spiegherai presto al giudice. Gli altri poliziotti stavano frugando nella sua stanza, fra gli attrezzi e le parti di ricambio sul suo tavolo, buttando giù le riviste di computeristica dagli scaffali fatti in casa, tirando fuori tutto dall'armadio, perfino sollevando il materasso. — Se state cercando droga... — Quell'aggeggio... — Karst puntò la pistola verso la scrivania. — Quello è un computer? — Sì, signore. — Ancora spaventato, Martin era però orgoglioso del suo computer. — Credo che sembri un mucchio di ferraglia: è costruito soprattutto con parti di scarto, ma sono riuscito a farlo funzionare... — A cosa serve? — Soprattutto per giocare. Mamma mi permette di attaccarlo alla TV. — Giochi? — Karst si chinò per osservare il piccolo tremolante CRT. — Quello è un gioco? — Parte di un gioco, signore: è la subroutine di un programma che sto elaborando per una nuova avventura spaziale... — Per Dio, Harry! — Gli altri poliziotti avevano rovesciato per terra il suo cestino della carta straccia, ed uno di loro agitava una manciata di foglietti. — Ecco dove l'aveva nascosto. Karst afferrò i foglietti spiegazzati, lo fissò ancora una volta con cipiglio, poi si precipitò giù per le scale per telefonare. Sentì la voce di sua madre, resa acuta dal timore, poi lei venne su insieme a Karst. — ... accuse gravi — le stava dicendo il poliziotto, — ma credo che ora la banca le vorrà parzialmente modificare. Andremo là per prima cosa. Le guardie di sicurezza della banca lo fecero entrare in un ufficio lucido con una lunga e pulita scrivania su cui figurava il nome di Mr. Preston. C'erano sedie libere, ma nessuno gliene offrì una; tre banchieri vennero a sedersi con aria accigliata dietro la scrivania, e lui riconobbe la grassa faccia da bulldog ed i piccoli occhiali senza montatura di Mr. Preston, perché lo aveva visto nella pubblicità alla televisione. — Mrs. Rablon. — Mr. Preston agitò i foglietti accartocciati e ringhiò rivolto a sua madre. — Sa cosa sono questi? Pallida e tremante, lei scosse il capo.
— Questi sono documenti bancari. — La sua voce era alta ed irata. — Le nostre documentazioni più riservate, i nomi ed i numeri di conto ed i bilanci dei nostri più importanti clienti, tutti completi della loro parola d'ordine segreta per il computer. Sono informazioni che permettono al ladro... a chi ne dispone, di trasferire qualsiasi cifra sul proprio conto dovunque nel mondo e di dire al computer di cancellare ogni traccia del suo collegamento con il crimine. È stato solo un caso... in effetti un difetto di funzionamento di uno dei nostri computers... che ci ha permesso di arrivare ad identificare il colpevole. Le rosse mandibole tremanti, Mr. Preston tacque per fissarla con occhi furenti. — Come ha fatto suo figlio ad ottenerli? — Ho soltanto telefonato — disse lui, quando la madre lo guardò. — Con il mio computer collegato al telefono. — Telefonato? — Mr. Preston si stava facendo sempre più rosso. — Ti aspetti che noi crediamo che tu sia riuscito ad accedere liberamente a Dio solo sa quanti milioni... addirittura bilioni, semplicemente per telefono? — Si, signore. — Chi è d'accordo con te per questa truffa? — Ne... nessuno, signore. — Martin? — Il banchiere più giovane era più tranquillo, improvvisamente quasi amichevole. — Ci vuoi dire come hai fatto? — Con il mio computer, signore. — E con l'aiuto di complici nella banca, immagino. — No, signore. Tutto quello che mi serviva era un modo per permettere al programma del mio computer di parlare con il vostro, e mi sono servito dei numeri sulle carte di credito e per contanti di mia madre, ed ho inserito i dati delle carte per calcolare la mora quando lei è andata in rosso. — Volevi eliminare la mora? — No, signore, non sarebbe stato onesto. — Non hai preso niente? — Il banchiere più giovane cominciava ad apparire sollevato. — Proprio niente? — No, signore. L'ho fatto solo per provare il programma. Gli ho detto di prelevare un centesimo da ciascuno dei venti conti più grossi con numero dispari e di caricare un centesimo su ognuno dei venti conti più grossi con numero pari, ma non ho preso neppure un cento. Il giorno dopo, ho fatto in modo che il computer rimettesse i pennies al loro posto. — Tu... — Mr. Preston sembrava un bulldog impazzito che tentando di
abbaiare si fosse strozzato con un osso. — ... tu! — Mi... mi dispiace, signore, se ho causato qualche fastidio. Sono solo venti pennies, su tutti quei bilioni, ed i totali sono sempre uguali. Non credevo che qualcuno se ne sarebbe accorto. — Tu... tu, ragazzaccio... — Mr. Preston gli puntò contro un indice tremante. — Ti faremo rinchiudere... rinchiudere per tutta la vita... — Martin, noi dobbiamo tenere conto anche dei pennies. — Ebbe l'impressione che il banchiere più giovane facesse fatica a non sorridere. — Hai fatto impazzire i nostri contabili, ma adesso credi di cominciare a capire che cosa hai fatto. Ci vuoi dire il perché? Indietreggiando di fronte alla rossa furia che tremava sulla faccia da bulldog di Mr. Preston, Martin dovette deglutire prima di riuscire a parlare, anche con quell'uomo amichevole. — Signore, ho visto Preston alla TV promettere a tutti che il vostro nuovo sistema bancario elettronico era assolutamente sicuro perché non era possibile far breccia nei vostri codici di sicurezza. Ho voluto verificare se era vero. — Quell'impudente... — Mr. Preston tremava ringhiava e bolliva. — Impudente... L'altro banchiere lo fermò, tirandogli la manica e parlandogli nell'orecchio: Preston ringhiò e fiammeggiò, ma alla fine uscì a grandi passi dalla stanza, mentre l'uomo amichevole aggirava la scrivania e si avvicinava loro. — Martin, i nostri esperti ci hanno sempre detto che quel sistema era sicuro, e credo che rimarranno sorpresi nel vedere quello che hai fatto. Pur desiderando sorridere, l'uomo mantenne ancora una faccia seria. — È una violazione della legge, ma sono certo che Mr. Preston converrà che la banca deve lasciar cadere l'accusa. Cioè, se prometti di non fare altri pasticci del genere. — Io... lo prometto, signore. — Mrs. Rablon, ha un figlio fuori dal comune. Intende mandarlo all'università? — Ho sempre sperato di farlo. — Credo che la banca potrà fornire una borsa di studio se lui farà un lavoretto per noi. — Il sorriso era finalmente scomparso. — Martin, immagino che i nostri esperti di computer organizzeranno un nuovo sistema di sicurezza, e credo che ci servirà il tuo aiuto per stabilire quanto sia effettivamente sicuro...
Destandosi lentamente all'opaca luce rossastra, credette dapprima di avere ancora quattordici anni e di vivere con sua madre nella squallida vecchia casa di Winnetka; chiedendosi se Mr. Preston non aveva appiccato il fuoco all'abitazione, tentò di chiamare sua madre, ma non aveva voce, e neppure la forza per sollevare la testa pulsante. Ma aveva gli occhi aperti, e, vedendo le alte pareti debolmente illuminate da una luce infrarossa, comprese che era ancora disteso dov'era caduto, su un ripido pendio di ghiaietto al di sotto del canalone franoso. Non era più Martin Rablon, ma strani ricordi lo perseguitavano. Sagome di macchine, troppo strane e che si muovevano troppo in fretta perché le potesse vedere bene, ed un meccanico linguaggio di computer che gli rintronava nella testa, troppo in fretta perché potesse capire che cosa dicesse. Erano i codici di sicurezza di Mr. Preston, i numeri dei conti segreti e le parole d'ordine per il computer, mescolati in qualche modo con i segnali d'identificazione ed i programmi di controllo organizzati dai Maestri Costruttori per comandare la Squadra d'Assalto. La testa gli doleva, non riusciva a ricordare nulla, non con chiarezza, eppure, chissà come, si sentiva molto più tranquillo, perché adesso non avrebbe più dovuto superare la gola, rubare le materie prime e tentare di riportarle alla nave prima che arrivassero i monsoni. Rilassato, riprese a dormire. La dorata luce del sole lo destò, fornendogli la forza sufficiente per alzarsi in piedi, e per qualche motivo non rimase sorpreso nel trovare il velivolo in attesa sul costone accanto a lui, lo stesso snello velivolo che era uscito dalla base per venirgli dietro. Chissà come, adesso ne sapeva abbastanza da riuscire a farlo volare, anche se la maggior parte dei suoi meccanismi erano ancora altrettanto enigmatici quanto lo era stato il disco. C'era l'invertitore di massa che caricava acqua comune all'interno di un pozzo a gravità invertita per creare uno specchio gravitazionale... quel principio non si adattava alle sue cognizioni fisiche, anche se poteva spiegare come facesse a muoversi anche il disco. C'erano altri congegni di cui comprendeva il funzionamento, gli iniettori laser che alimentavano l'unità energetica a fusione, gli alettoni ed il sistema di controllo del volo, i piccoli motori che bruciavano un combustibile d'idrocarburi... il piccolo Galen Ulver, in collaborazione con artigiani di qualche altro pianeta, avrebbe potuto essere il creatore di quel velivolo. Non sapeva con certezza se era davvero riuscito ad ingannare il disco,
ma non vedeva altra spiegazione per cui esso avrebbe dovuto lasciargli quel velivolo ed il suo carburante, cinque tonnellate metriche di idrocarburi volatili liquidi, più di quanto servisse alla nave-seme per la creazione di tessuti umani, il peso perfettamente compensato da cinque tonnellate di zavorra per mezzo di quello strano effetto speculare. Tutto quello che doveva fare era rovesciare una quantità di acqua di zavorra non invertita, equivalente al suo peso, ed il velivolo si sarebbe mosso. Con le piogge monsoniche appena agli inizi, poteva ancora arrivare in tempo. Un altro punto, pensò, a vantaggio di Rablon e Brink e di tutta la squadra di Megan, compreso il piccolo Ben Bannerjee, nel loro disperato tentativo di tenere in vita la razza umana. Con un leggero brivido, causato dal ricordo del freddo che si avvertiva nell'apparecchio di analisi, del malessere provocato sempre dal composto isotopico di Tomislav che penetrava nel cervello, il Difensore entrò nella cabina di guida. PARTE QUARTA: DIFETTO GENETICO I Volò rapidamente, mantenendosi ad alta quota, ansioso di far ritorno alla nave-seme prima che il sole tramontasse; fu un lungo volo, 2.000 chilometri, al di sopra di scoscesi canyons, deserti rossicci e tempeste monsoniche, ma la gioia della vittoria lo fece sembrare più breve. — Difensore a Nave. — Giunto ad una distanza di cento chilometri dalla meta, cercò qualcuno con cui dividere la sua esaltazione. — Difensore a rapporto. Fece una pausa per attendere la risposta, mentre l'umano in lui sentiva la mancanza dello spettro umano intrappolato nella memoria del computer della nave, di una qualsiasi fugace immagine della snella bellezza di Megan Drake o di quelle sfumature della sua voce che spesso riscaldavano la rapida parlata sintetica del computer. Nessuna risposta. Si sentì trapassare da una fitta d'apprensione: forse che i monsoni erano arrivati troppo presto? Che l'acqua si fosse già infiltrata nello scafo ferito affogando il delicato calcolatore ed uccidendo il suo amato spettro? — Difensore a Nave. — Per nulla scoraggiata, la macchina in lui fece un altro tentativo. — Riferisco l'acquisizione di un velivolo alimentato con idrocarburi chimicamente simili alle nostre materie prime perdute. Dall'a-
nalisi risulta che essi sono perfettamente adeguati come fonte di carbonio per una ritrasformazione in tessuto organico. Adesso la missione della Nave può continuare. Con l'immagine di Megan viva nella mente, l'umano che era in lui avrebbe voluto dire di più, avrebbe voluto che lei condividesse la fatica e la tensione del terribile viaggio nel deserto e l'umano trionfo del suo ritorno, avrebbe voluto adesso la sua gratitudine e la sua ammirazione. Ma il computer inserito in lui soffocava sempre simili impulsi i quali erano, dopo tutto, difetti secondari di funzionamento. Non disse altro, e, ascoltando ancora, non percepì alcuna risposta. Questo era senza dubbio dovuto alla distanza eccessiva ed al fatto che i suoi segnali troppo deboli venivano soffocati dalla struttura della cabina. Scivolando giù verso le torri di nubi monsoniche, cercò d'immaginare il luogo dell'atterraggio: l'avvallamento circondato da alture, i minacciosi cespugli di spine nere, la piatta depressione sottostante. Si tuffò attraverso una luminosa parete di nubi e piombò in un cupo caos: la convezione lo faceva sbandare, troppo violenta per la sua scarsa abilità di pilota, la luce solare venne bloccata e questo fece accasciare il suo corpo dorato contro i controlli come una macchina cui fosse stata staccata la spina, mentre la coscienza andava e veniva e con essa tutti i frammenti di ricordi e di sensazioni umane, attenuati come candele al vento. Perse la posizione della nave. Tuttavia, rimase aggrappato alla realtà, lottando per sfruttare al massimo l'energia in diminuzione, controllando e limitando ogni movimento; resistette ad una selvaggia corrente ascensionale e si tuffò ancora verso il basso, giù fino ad uscire dal fitto tetto di nubi che sovrastava le colline. Una volta nell'aria limpida, cercò la depressione velata dalla pioggia. Era già in via di allagamento: un torrente fangoso scendeva schiumando da una gola sovrastante ed un largo lago giallastro saliva dal basso, rapido, verso il punto in cui lui aveva lasciato la nave, i razzi morti sepolti nel terreno paludoso, lo scafo malconcio assurdamente inclinato. Non gli riuscì di individuarne la collocazione. Il seme umano... Barcollò in preda ad un panico umano, ma la macchina in lui era sempre efficiente: i suoi occhi si fecero telescopici per frugare ancora il punto d'atterraggio, e ben presto individuò la nave, grossa come un giocattolo: da quando se n'era andato, era caduta su un fianco, ed ora giaceva troppo vicina a quell'improvviso mare giallo. — Difensore a Nave. — Sopraffatto dall'assurda futilità di tutti i loro
sforzi e delle loro sofferenze, rimase traumatizzato per la propria insensibile e brusca precisione da computer. — A bordo di un velivolo, mi avvicino per atterrare. — Quale Difensore? Giunta con tanto ritardo, l'aspra risposta non conteneva la minima sfumatura della voce di Megan, e la domanda sconvolse i frammenti umani che erano dentro di lui. — C'è soltanto un Difensore. Un altro interminabile istante, poi di nuovo quella voce rapida ed inumana. — Correzione: tu sei il Difensore Uno. Informazione: quando non hai fatto rapporto e non sei tornato dalla ricerca di materie prime di rimpiazzo, abbiamo programmato la produzione di altre due unità di servizio aggiuntive. Questo sforzo ha sovraccaricato tutte le apparecchiature, riducendo le materie prime d'emergenza trasportate per la riproduzione dei Difensori, ma il Difensore Due è stato generato senza problemi. È ancora incerto se la creazione del Difensore Tre avrà successo... — Io non... non sapevo che questo fosse possibile... — si sentiva debole e scosso, sopraffatto da un'emozione umana più violenta di quanto potesse sopportare. — Dov'è il Difensore Due? — Due è volato verso la costa meridionale per ottenere sostanze ricche di carbonio con cui sostituire le materie prime necessarie ai ritrasformatori. Ha riferito la scoperta di piante locali da cui sono ricavabili olii che soddisfano le nostre esigenze... — Ho le materie prime a bordo. Il carburante dei razzi... — Non ne abbiamo bisogno. — Il suono metallico lo interruppe. — Due ha riferito i risultati di un'analisi di quegli olii ora accumulati o in via di trasporto: essi rispondono a tutte le nostre necessità e noi stiamo già adattando il programma di assemblaggio in modo che li accetti. — Abbiamo il tempo... Stordito dalle novità, si era quasi dimenticato del velivolo: preso in un turbine improvviso, esso ondeggiò e virò, sbattuto verso le colline che orlavano la parte superiore del canyon, mentre lui lottava per salvarlo, pur sentendosi troppo debole e lento nel maneggiare i comandi. — Problema dell'inondazione risolto. — La voce priva d'intonazione giunse da molto lontano. — Difensore Due ha alleggerito la nave-seme provvedendo alla rimozione dei motori a fusione ora inutili e dell'altro equipaggiamento ora inservibile, sigillando lo scafo con metallo di scarto.
Adesso ci è possibile galleggiare fino ad una collocazione sicura al di sopra dell'acqua alta, dove sono in corso di accumulazione le provviste per il traslatore. Ora che aveva di nuovo il controllo del suo io, la parte meccanica del suo essere fece allontanare illeso il piccolo velivolo dalle colline velate di nebbia, scivolando verso il basso fra le grigie cortine di pioggia. Abbassando la leva di aspirazione dell'acqua di zavorra, atterrò vicino alla nave. Era tornato sano e salvo... ma la sua esaltazione umana era in frantumi. Uscito stancamente dalla cabina, rimase in piedi, barcollando, immerso fino alla caviglia nelle canne e nel fango, la pelle solleticata dagli innumerevoli odori della Sfera dell'Uomo: l'inondazione portava con sé una puzza di canne marcite, di acqua palustre, anche una leggera contaminazione dell'odore di decadimento della giungla di spine, il tutto mescolato ad odori più strani che presagivano minacciosi enigmi. Le sue percezioni già attenuate erano sovraccariche. — Difensore... Difensore Uno a Nave. — Anche il segnale del suo computer era diventato incerto. — A rapporto. — Nessun dovere ora previsto. — La risposta lo colpì con rinnovata violenza. — Difensori Due e Tre saranno unità più efficienti, ridisegnati per prestare servizio secondo le condizioni qui prevalenti. Non prevediamo nessuna necessità attuale di servizi da parte del Difensore Uno. — Io esisto... La voce, le forze, la capacità di pensare, tutto stava svanendo in lui insieme alla luce, fino a che l'unica cosa di cui fu consapevole fu lo sconvolgente senso di perdita e lo spietato bisogno di energia. — Io esisto per servire... — Nessun servizio richiesto. — Ci sarà bisogno... — Informazione a Difensore Uno. — Il computer della nave lo interruppe. — Mutamento di stato di servizio, effettivo a partire da ora, durata indefinita. — Ma, per favore... — Nave a Difensore Uno. La produzione dell'Unità Tre richiede tutte le capacità disponibili. Comunicazione terminata. Prosciugato di tutto, si avvicinò barcollando alla nave-seme e cadde a ridosso della sua cellula natale, nel muso di essa: la fessura era chiusa, ma la seguì con le dita, trovò il leggero gonfiore, lo percosse debolmente con il pugno.
— Nave a Difensore Uno. — La rapida voce sintetica era fredda e spietata come la pioggia continua. — Informazione: la camera di produzione è attualmente occupata dalla terza unità di servizio, che non è ancora pronta per emergere. Il cordone non è disponibile per te. Scivolò giù nel fango... Vide Crowler che gli camminava davanti dopo essere sceso dall'aereo e, una volta nel terminal, lo chiamò. — Giudice! — Essendo stato un tempo giudice di contea, Crowler usufruiva ancora di quel titolo. — Aspetti! Non l'avevo vista! — Marty! — Crowler tornò indietro sorridendo verso di lui e gli strinse la mano con troppa forza. — Sono salito ad Atlanta. Prima classe, naturalmente. — Una coincidenza. — Crowler non gli era mai piaciuto, ma tentò di sorridere. — Ho fatto un viaggio di consulto per lavorare con i suoi ingegneri su, nel New Hampshire, ma non mi aspettavo di vederla qui. — Razza di ragazzo prodigio! — Il sorriso di Crowler si allargò, più tollerante che deferente. — Io sono solo un avvocato di campagna. Il tuo sintetizzatore di geni... — scrollò le spalle per indicare la propria meraviglia, — per me è solo una scatola nera. — Un procedimento a stadi multipli e flusso costante. — Martin cominciò a descriverlo tenendosi sulla difensiva mentre si avviavano verso il deposito bagagli. — Completamente automatizzato. Noi convogliamo le materie prime purificate attraverso jets regolati dal computer in un flusso controllato di siliconi biocatalitici. Quel primo stadio fa assemblare zuccheri, fosfati e basi, necessari per formare i nucleotidi. I codici genetici vengono letti per mezzo di un sistema laser che collega i nucleotidi in catene sempre più lunghe, un passaggio dopo l'altro, fino ad ottenere la famosa doppia ellisse del DNA. Possiamo installare qualsiasi gene naturale conservato nella memoria del computer o qualsiasi nuovo gene che si voglia inventare... — A me basteranno i miei geni. — In realtà, Crowler non aveva ascoltato. Ex quarterback di calcio, ancora atletico, aveva un atteggiamento vagamente sprezzante nei confronti di tutto ciò che era accademico. — Tutto quello che voglio sapere sono le estremità legali della cosa. Sono venuto per incontrarmi con i rettori dell'università, tanto per assicurarmi che non intendano avanzare nessuna pretesa sui tuoi brevetti. — Non ci sono problemi. Ha steso lei stesso le clausole di rinuncia nel mio contratto d'impiego.
— Noi non corriamo rischi: io sono qui per accertarmi che la tua posizione sia sicura. — Crowler gli batté una pacca sulla spalla con troppa cordialità. — Non ti preoccupare, Marty. La GEECO ti farà guadagnare una fortuna. — Jayna ne sarebbe felice. — Posso immaginarlo. — La voce eccessivamente cordiale di Crowler era stranamente calata di tono. — Tra parentesi, ho intenzione di affittare una macchina, se vuoi un passaggio fino al campus. — Grazie, ma Jayna sta venendo a prendermi. Sarebbe felice di vederla — si trovò ad aggiungere, quasi contro la propria volontà. — Non potrebbe venire a cena da noi? Si senti sollevato quando vide Crowler scuotere il capo. — Vorrei poterlo fare, ma devo ripartire presto stasera, per incontrare alcuni amici per una crociera nei Mari del Sud. Il bagaglio di Crowler arrivò per primo: costose valige di cuoio che sapevano di nuovo, protette da custodie di tela marrone; le valige erano ammucchiate accanto ad una cabina telefonica quando Martin portò fuori la sua borsa malconcia per cercare la macchina marrone convertibile di Jayna. Lei non c'era, e, dopo aver aspettato dieci minuti, decise di telefonare a casa. Il bagaglio di Crowler era ancora vicino alla cabina telefonica quando Martin telefonò da una cabina vicina. La linea era occupata, e lo rimase nel corso di una mezza dozzina di tentativi. Martin era fuori dal terminal, in attesa di un taxi, quando Crowler lo raggiunse. — Piantato in asso? — Crowler appariva divertito. — Permettimi di accompagnarti a casa. Accettò. Crowler guidò in silenzio, preoccupato, mentre Marty sedeva a disagio, pensando a Jayna: preso fra gli impegni accademici e la pressione del suo lavoro per la GEECO, l'aveva un po' trascurata, ma ora era in grado di rimediare, dandole i soldi per rimodernare la casa e comprare la Mercedes che desiderava, concedendosi il tempo di viaggiare dopo la cerimonia delle lauree, magari fino in Giappone, dove lui avrebbe avuto la possibilità di incontrare i maggiori esperti di computers di laggiù. La trovò in piedi nella camera da letto, intenta a fissare una fotografia in una cornice dorata: il cuore gli si arrestò quando vide che si trattava della loro fotografia di nozze. Appena uscita dalla doccia, Jayna era rosea, lucente e profumata in una tunica trasparente, ed un'ondata di desiderio lo spinse verso di lei.
— Fermo là, Marty. Fra noi è finita. Scivolando da un lato per evitare il suo abbraccio, mandò la fotografia a sbattere contro il muro: il vetro si ruppe mentre lei indicava verso il letto, facendogli notare il beauty-case e la borsa da viaggio già pronti ma ancora aperti. Rimase a fissarla sbattendo le palpebre, troppo debole e sconvolto per riuscire a parlare. — Non mi aspettavo che la prendessi così male. — Jayna scrollò le spalle, osservandolo con un distacco quasi noncurante. — Bob passerà a prendermi dopo la riunione con i rettori, e domattina voleremo alle Fiji per incontrare certi suoi amici texani. — Un senso di animazione le riscaldò i lineamenti curati ed abbronzati. — Hanno uno yatch. — Jay... Jayna... — la voce gli si spezzò, rauca. — Perché... — Suppongo che tu non lo sappia, il perché. — Fece una pausa, fissandolo accigliata in maniera ancora più critica. — Perché tu non mi hai mai capita, Marty, come non hai mai capito veramente nessuno, eccetto i tuoi dannati computers. Immagino che tu pensi che mi dovrei sentire dispiaciuta per te perché credi di essere stato ferito. Ma, onestamente, non lo sono. Lui rimase scioccato da quel lampo di violento risentimento. — So che ti piace far l'amore con me, ed è quello che ti mancherà principalmente, è per questo che hai un'aria così piena di autocommiserazione. Ma il fatto è che non hai mai saputo cosa avevi né te ne sei mai curato. Gli occhi colmi di sfida, Jayna spalancò la tunica sottile per fargli vedere quella rosea perfezione che non avrebbe posseduto mai più, e lui rimase a guardarla, sentendosi freddo e nauseato fino a che la gola cominciò a fargli male e le lacrime salirono ad accecarlo. Perché non era vero. Lui l'amava ancora come l'aveva sempre amata, più di quanto avesse mai amato chiunque altro, nella sola maniera in cui era capace... Si risvegliò penosamente, steso a faccia in giù nelle canne fracide e nel fango gelido, con la pioggia che gli batteva sulla schiena. Non era più Martin Rablon, e, per un momento, credette di essere Don Brink, immerso nel fiumiciattolo fangoso in cui era caduto accanto al camion di munizioni in fiamme, in quella giungla della Columbia. Pensò che si doveva allontanare, prima che i proiettili di mortaio cominciassero ad esplodere, ma si sentiva troppo debole per muoversi. Quando fu finalmente in grado di sollevare la testa, trovò lo scafo rappezzato e malconcio della nave-seme, accanto a sé nel fango: essa appariva troppo sperduta per la sua grandiosa missione... non che spettasse a lui di
preoccuparsene. I nuovi Difensori si sarebbero accollati tutti i doveri, e non aveva importanza chi lui fosse. II Non trovò il coraggio di parlare alla nave, ed essa non parlò con lui. Debole nella tenue luce monsonica anche dopo che fu giorno pieno, fu costretto ad aggrapparsi allo scafo malconcio per riuscire ad issarsi in piedi; al di là di esso, vide un mucchietto di arrugginito metallo di scarto, i motori Ulver in disuso che Difensore Due aveva scartato, con il laser, le pompe, i cavi e le tubature. Ferraglia. Barcollando sotto la pioggia, scosse il capo e distolse lo sguardo perché questo era ciò che anche lui era diventato; stato di sospensione, durata indefinita, perché la nave non aveva più bisogno di lui. Ora che la sua parte meccanica era come morta, il predominante lato umano era ancora intontito ed in preda alla sconvolta desolazione di Rablon. Ma, nel girarsi, trovò il velivolo, ancora a sua disposizione, se la nave non lo reclamava. Le sue snelle linee grige ravvivarono la speranza umana, l'umana meraviglia ed immaginazione: se non era più necessario qui, il velivolo poteva portarlo ad esplorare altre zone della Sfera dell'Uomo, ad affrontare nuovamente gli interrogativi posti da quel pianeta. Con il tempo, forse, le cose da lui trovate avrebbero potuto fruttargli un ritorno allo stato di attività, perché i Difensori potevano essere necessari anche dopo che il nuovo Adamo e la nuova Eva fossero usciti nudi dalla macchina: la Sfera dell'Uomo non era un Eden, ed era invece più simile alla maledetta distesa esterna, coperta di spine e di cardi, nel senso letterale del termine, quando si trattava di attraversare la giungla. La maledizione era altrettanto reale, e più mortale; i robots da lui incontrati erano decisamente Satanici, un tempo conquistatori del pianeta ed ora in attesa della venuta dei loro costruttori e padroni. Era riuscito ad ingannare quei robots una volta, almeno sperava. Lasciandogli il velivolo, insieme ad una quantità di carburante sufficiente a servire come scorta di materie prime, essi non si erano però spinti fino a riconoscere in lui uno dei Maestri Costruttori. Che sarebbe accaduto ora? Avrebbero gli automi concesso alla nuova colonia umana di vivere? O si sarebbero mossi per spazzarla via altrettanto spietatamente come dovevano aver sterminato la razza di cui aveva trovato le rovine? E se i Maestri Costruttori fossero effettivamente arrivati, con un ritardo di trentamila anni?
Qualsiasi risposta fosse riuscito a trovare a quelle domande, sarebbe tornata comunque a vantaggio della missione. A quel pensiero, la sua parte meccanica riprese a funzionare ed il suo malconcio spirito umano si rianimò. Nuovamente attivo, fu costretto a pensare all'energia che gli era necessaria, ed i suoi occhi tornarono a posarsi sul mucchio di ferraglia. Su pezzi di cavo elettrico scartato: non era altrettanto spesso quanto il suo perduto cordone ombelicale, ma forse lo era abbastanza. Sguazzando nel fango, raccolse tutti i pezzi che gli riuscì di trovare, complessivamente una trentina di metri, poi li trasportò incespicando nella cabina, al riparo dalla pioggia. Lentamente, a fatica, a causa della scarsa luce, tagliò e saldò i vari pezzi fino a formare un unico cordone, e modellò un'estremità a terminale che si potesse adattare alla cicatrice che aveva al posto dell'ombelico; poi, ricordando cose che non immaginava di sapere, apprese forse mentre era rimasto in stato di contatto inconscio con il disco alieno, aprì un portello per collegarsi con il generatore del velivolo. Il trauma lo fece svenire. Per un momento, fu nuovamente Don Brink, quando questi era ancora un ragazzo inesperto, per la prima volta su un ring, presentato come il Mutilatore Misterioso in quella piccola e puzzolente arena di Tijuana, messo in campo per ricevere un knockout prima ancora che avesse imparato a combattere. Vide intorno a sé gli scagnozzi di Bitterman effettuare scommesse che non avrebbero mai fatto dando lui come vincitore, tendendo la rete per prendere i sempliciotti; mezzo accecato per il sangue che gli colava negli occhi, resistette barcollando per quattro selvaggi rounds prima d'incassare il pugno conclusivo... Dopo un altro momento, o ciò che gli parve un momento, il suo corpo si adeguò alla corrente non familiare, e lui fu in grado di sollevarsi, sentendosi nuovamente bene: quando guardò fuori dalla cabina, anche il cielo gli parve più luminoso, ed in effetti lo era. La pioggia aveva cessato di cadere mentre era privo di sensi, e vide il cielo azzurro ed una dorata lancia di sole. — Difensore a rapporto! — Era la voce di Megan, più umana di quanto avesse mai sperato di udirla. — Difensore Due a Nave. Di ritorno con noci per olio dalla costa meridionale. Le scaricherò al luogo di produzione, a monte del fiume.
Se la nave rispose, lui non la udì: guardando in direzione del segnale, aveva avvistato una lucente forma adamantina che scendeva volando lungo quel raggio di sole. I suoi occhi si fecero telescopici ed allora la distinse con chiarezza. Megan, alata! Simile ad un fiore, il primo splendido bocciolo del seme umano sul pianeta, nuda e perfetta, il corpo splendido di una lucentezza metallica. Le ali avevano un'aria pericolosamente fragile, ma erano adorabili: lunghe ed affusolate, venate d'oro, lucenti sotto la luce del sole con uno scorrere di colori, il loro meccanismo non gli era del tutto chiaro, anche se notò che lei le controllava con le mani ed i piedi, infilati in una specie di staffe. Le noci da olio erano sagome a forma di uovo lisce e marroni, delle dimensioni di una noce di cocco, trasportate in una rete sulla schiena, e, per quanto dovessero costituire un carico pesante, lei volava facilmente verso il basso, muovendo appena le ali arcobaleno. La seguì lungo il fiume in piena fino a perderla di vista, dietro un'altura. Rimase seduto a guardare, stordito per tutto quello che non aveva saputo fino ad allora e tormentato da un involontario senso d'invidia, fino a che la vide ridiscendere in volo dal canyon ombreggiato di nubi, nel bagliore del sole. Scivolando bassa sulla spuma gialla, lei distese le ali per liberarsi un attimo al di sopra della nave, prima di atterrare sul suo muso affusolato. Megan! Trasformata in una divinità alata, con ali di cristallo, a meno di trenta metri da lui. Tremando, non riuscendo completamente a crederci, l'osservò abbandonare le staffe e ripiegare le ali in un piccolo zaino sulla schiena e poi rimanere a fissare il suo velivolo con un incantevole cipiglio di meraviglia. Sopraffatto dalle proprie sensazioni, riuscì soltanto a fissarla, mentre intricati e frammentari ricordi gli roteavano nella mente, spezzati frammenti di ansia o di dolore, quando Brink e Rablon e gli altri l'avevano amata e desiderata un milione di anni prima. Nessuno di loro l'aveva mai vista nuda, non che lui ricordasse, né così assolutamente splendida: quella dorata visione gli mostrava Megan nella sua completezza, così come doveva essere stata, i seni pieni e la sua femminilità, gli snelli lineamenti dagli zigomi alti e la sua grazia fluente; perfino gli occhi dorati conservavano una traccia del verde di quelli di Megan, quando lo individuarono. — Don! — La voce di Megan, fattasi ancora più musicale, stupita e lieta, che lo chiamava con il nome di Don Brink. — Un sogno che non avrei mai sperato di poter vedere...
Gli balzò incontro scendendo dal muso della nave, e lui uscì dal velivolo e sguazzò nel fango verso di lei, poi l'ebbe fra le braccia, viva... più viva di quanto lo fosse lui, nuda, calda, appassionata, stretta contro di lui, che cercava la sua bocca con la propria. — Sono stata così sola, Don, così terribilmente sola... — Luminosa per la gioia, lo strinse ancora a sé. — Immagina ora che ti stringe? — Citando a bassa voce i versi, lei rabbrividì. — Non Morte, ma Amore. Avidamente, disperatamente, lo strinse ancora contro di sé, ma poi dovette percepire la sua agonia. — Don? — La sua estasi sprofondò in un mare di orrore. — Cosa c'è che non va, Don? Freddo e tremante, lui la spinse indietro in modo da farle vedere la propria incompletezza. — Oh... oh, no! — Il corpo di lei s'irrigidì contro il suo. — Mi dispiace così tanto per te, Don. Mi dispiace terribilmente. La sentì tremare, come scossa da singhiozzi umani. — Cosa... cosa ti è successo? — Nulla... — La voce gli si spezzò. — Eccetto... eccetto che sono un Difensore, creato per proteggere e servire la missione, non per il sesso. — Lo... lo sono anch'io... — La voce tremante le si spense, ma lei scosse il capo in una violenta negazione di quella debolezza. — Ma rammento quando ero Megan... molto di lei è finito nel computer, così come molto di Don è entrato in te. Il suo amore per te... e tutto il dolore e la sofferenza cui lei stava tentando di sfuggire aggrappandosi al progetto. Oh, Don... Si strinse a lui, velluto ed agonia, fino a che lui si mosse per attenuare il fastidio del cordone di alimentazione che era fra di loro. — Uno scherzo terribile. — Un'amara piccola risata. — Il fato ha giocato scherzi terribili ad entrambi. Quando mi sono destata qui nell'Eden, rammentando come ci eravamo amati... quanto vanamente... come eravamo morti l'uno senza l'altra un milione d'anni fa, ho pensato ad Emily Dickinson. — La voce le si spense in un sussurro. — «Poiché non mi potevo fermare per la Morte, lei si è gentilmente fermata per me; la carrozza conteneva soltanto noi stessi e l'Immortalità...» Rabbrividì fra le sue braccia, e, sentendosi triste per lei, per entrambi, desiderò consolarla. — Siamo ancora Difensori. — Anche la sua voce sembrava instabile. — Con il nostro lavoro... il nostro lavoro ancora da svolgere: è per questo che siamo stati creati. Quello che sentiamo... quello che sentiamo l'uno per l'altra è soltanto accidentale.
— Un terribile, terribile caso. Un tetto di nubi color piombo era sbucato nuovamente dalle colline, ed un'improvvisa scarica di pioggia si abbatté su di loro. Lui accennò al velivolo, e lei lo precedette nella cabina senza dire una parola. Finalmente, con minore emozione, ripresero a parlare, — «Ci devono essere ospiti nell'Eden... tutte le stanze sono piene» — Gli occhi verde-dorati fissi su di lui con tristezza, lei parve ricordare. — Egan amava la poesia... credo di non avertelo mai detto. Eravamo soliti leggere ad alta voce, roba triste e romantica sull'amore e sulla morte, e ci scrivevamo a vicenda delle poesie. Le mie erano decisamente brutte, ma alcune delle sue erano splendide, tanto che volevo le pubblicasse, ma lui diceva che erano soltanto per me. Il suo sguardo gli accarezzò il volto. — «Come ti amo?» — mormorò. — «Lasciami contare le maniere.» — Si protese, come per toccarlo, ma la mano le ricadde inerte sulla coscia lucente. — Non ti ho mai dimenticato, Don — sussurrò malinconica. — Il modo in cui eri ad Acapulco, con il tuo bastone nodoso ed il ginocchio ancora chiuso in quell'orribile gesso. Sembravi vecchio, vecchio come lo Zio Luther quando è morto, malato come il povero Ben. Ed eri così terribilmente a terra... l'ho capito dallo sguardo che c'era nei tuoi occhi e dal fatto che non eri rasato. Ma io ti ho amato, Don, ti ho sempre amato, da quel giorno. La mano di lei strinse la sua, dorata, più calda e più forte, forse un po' più affusolata di come lui ricordava, eppure tremante di sentimenti del tutto umani. — Non so esattamente il perché. Perché sapevo quello che eri... — Un assassino di professione. — Le rivolse un sorriso asciutto. — Una volta mi hai chiamato così. — Un soldato. — I suoi capelli erano di delicato filo dorato, molto corti, tagliati come quelli di Megan. Con gentile rimprovero, lei scosse il capo in un modo che destò in lui ricordi dolorosi. — Odiavo le uccisioni... o credevo di odiarle. Odiavo la maggior parte delle cause per cui hai detto di aver combattuto, ma non potevo fare a meno di ammirarti quando sono arrivata a conoscerti: il modo freddo con cui consideravi ogni cosa, pronto a combattere contro chiunque... e... e tutto ciò che sei. In qualche modo, hai destato in me sentimenti che non sapevo possedere... — Tu hai destato molti sentimenti in me. — Le strinse la mano con un senso di colpevolezza. — Non che sia mai riuscito a metterli in poesia, o
che tu mi abbia mai permesso di fare qualcosa al loro riguardo. — Lo so. — Lei ebbe un triste sorriso. — Ti ho visto cambiare, Don. Nel momento in cui ci siamo incontrati, quel terribile cipiglio si è trasformato in un sorriso, e tu sei apparso nuovamente coraggioso e di venti anni più giovane. Sapevo quello che volevi, prima ancora che vi accennassi, perché lo volevo anch'io. — Mi hai sempre tenuto a distanza. — Tu hai sempre pensato che fossi una sciocca. — Il volto serrato per il dolore, lei lanciò uno sguardo fugace all'asessualità di lui, poi distolse rapidamente gli occhi. — Ora so di esserlo stata, ma allora... — Le sue dita si strinsero maggiormente. — Non potevo fare a meno di essere quella che ero... quella parte di me che non è passata nel computer. — Quella parte... quella parte che ci ha mandati qui. — Tentò di addolcire la sua voce. — Quindi credo che dovremo esserne grati. Wardian era solito dire che era la tua maldiretta, o forse corretta, spinta sessuale ad indurti ad insistere perché le navi-seme venissero create e lanciate. — Aggiunse: — Ne parlavamo tutti, perché credo che ti volevamo tutti. Accigliandosi lei annuì. — Quest'idea mi avrebbe sconvolta allora. Ma sapevo... e soffrivo per te, Don, soffrivo per me stessa, per tutto quello che non potevo evitare. — Lo circondò delicatamente con il braccio e parve sospirare. — Ero cresciuta... cresciuta con una ferita. Egan è andato in pezzi, e voleva che accadesse anche a me, ha detto che eravamo stati troppo vicini l'uno all'altra perché non avevamo nessun altro. Non lo so. So che ho sentito terribilmente la sua mancanza quando è rimasto ucciso, fino a che ho trovato il progetto e voi sei... — Sei? — Gli uomini con me. — Si chinò ad osservarlo in volto. — Con me ed in te. — Gli occhi verde dorati divennero tristi. — Ed il povero, povero Ben. Ben Bannerjee, scomparso perché non abbiamo potuto analizzare anche lui, non è mai stato abbastanza bene da sopportare l'apparecchio, ma lui... — La sentì tremare. — Lui è ancora vivo in noi. Se noi abbiamo dato la mente, Ben ha dato l'anima. Rimase in silenzio per qualche tempo, fissando attraverso il grigio velo di pioggia le alture che circondavano il lago inquieto. — Io lo amavo, Don, ed anche il resto di voi, perfino Marty Rablon, un egotista, brillante con i computers ma incapace di dimostrare quanto ci tenesse ad una persona. Marty aveva bisogno di me.
Un sorriso malinconico le sfiorò il volto. — E Galen, il povero Galen Ulver. Avrebbe potuto essere mio nonno. In realtà stava morendo quando l'ho trovato, perché il suo sogno spaziale era morto. Lui mi amava... soprattutto per aver resuscitato il suo sogno, quanto bastava per indurlo a sopportare quegli isotopi nel cervello. Il sorriso era svanito, e lei stava fissando accigliata la pioggia. — Ivan era il più difficile da raggiungere perché gli importava più del progetto che di uno qualsiasi di noi. Ossessionato, naturalmente, da un senso di colpa nei confronti della moglie, ed indotto a rimanere con noi da una ricerca di espiazione, per creare la vita per questo nuovo mondo perché non aveva potuto salvarla sulla Terra. Difficile da amare, ma il cuore mi doleva per lui. Attese che proseguisse, ma lei rimase seduta in silenzio, fissando l'acqua giallastra che saliva verso la nave. — Cosi ci fu un Diluvio — citò lei, — che spazzò via il Mondo. — Questo comprende la maggior parte di noi — la incitò lui. — Ma che mi dici di Wardian? — Il Capitano Mack? — I suoi occhi si dilatarono, stupiti. — Non vedo il Capitano Mack in te. — Non ricordo molto di lui. — Avrei... avrei potuto amare Mack Wardian — guardò lontano nella tempesta. — Moltissime donne lo amavano, perché era l'immagine dell'eroe di ogni ragazza, snello ed avvenente in quella tuta gialla, nato con arguzia e grazia da usare in società, cose che Marty non ha mai appreso ad avere. Lui condivideva i miei sentimenti per Emily, almeno abbastanza da citarla una volta: Assaporo un liquore mai fermentato Da contenitori intagliati nella perla Non tutte le bacche di Francoforte Forniscono un simile alcool. La voce le si fece malinconica. — Eppure non mi ha lasciato mai avvicinare. Non ne ho mai saputo bene il perché, dato che era sempre affascinante con me e leale al progetto... si è sacrificato quanto tutti noi per farci arrivare nello spazio. Non che questo abbia importanza ora. — La sua voce pareva sperduta e distante. — Non dopo che tutti loro... tutti noi... sono morti così tanto tempo fa. Sol-
tanto pensare a loro adesso... — rabbrividì. — Mi rende così terribilmente triste. Più triste di quanto sia mai stata, anche con Egan. — Non è molto rallegrante. — Si allontanò da lei per allentare la trazione del suo cordone ombelicale e per cercare di liberarsi dalla sua mestizia. — Ma loro erano tutte persone tormentate, intrappolate su un mondo infelice, che consumavano la vita... il meglio della loro vita... per dare alla razza umana questa nuova possibilità. Noi dobbiamo finire quello che loro hanno cominciato, con l'aiuto, spero, di un altro Difensore, quando esso sarà nato. — Il Difensore Tre non è un «esso». — Più rallegrata di quanto lui si aspettasse, lei stava sorridendo in direzione della nave arrugginita. — Siamo già stati in contatto. Il Tre è quasi completo, ed è prevalentemente il Capitano Mack. III L'ufficio di Megan, nei laboratori di Albuquerque. — Abbiamo determinato la tecnologia. — Rablon, come al solito, era troppo cattedratico. — La trascrizione automatica dei geni in codice per il computer e la ritrascrizione da quel codice in nuovi esseri umani sui pianeti dove il seme metterà radici. Quello che ci serve da lei sono le cognizioni che ci aiutino a seminare quel seme. Marty Rablon. Alto e snello ed olivastro, con gli occhiali dalla montatura nera e con troppi capelli neri. Un genio, indubbiamente, ma di un'arroganza eccessiva e comunque difficile da sopportare, almeno per lui. — Un progetto favoloso, se riuscirà a farlo funzionare. Si rivolse a Megan, perché lei era più piacevole da guardare e costituiva il motivo della sua presenza là: fresca, giovane, altrettanto affascinata quanto Rablon dal progetto ma adorabilmente modesta in merito alla propria intelligenza e bellezza, forse inconsapevole della disperata tentazione che destava in lui. Probabilmente una vergine, e quindi tabù, secondo il suo codice personale. — Abbiamo fatto molta strada, capitano. — Riscaldato dal suo sorriso ansioso, lui si chiese se Megan avrebbe potuto alla fine indurlo ad infrangere il suo codice. — Ma ora abbiamo terribilmente bisogno di lei. — Ci sono altri astronauti. — Li abbiamo controllati, e siamo sempre ritornati a scegliere lei. — Volete trascrivere la mia mente? — Fissò Rablon accigliato, senten-
dosi a disagio. — Impossibile — replicò, secco, Rablon, come se fosse stata una domanda idiota. — Tutto quello che vogliamo è una trascrizione computerizzata delle sue cognizioni spaziali. Nonostante tutti quegli assurdi articoli della stampa, non siamo in grado di leggere nelle menti: l'apparecchio d'analisi funziona indirettamente, attraverso l'analisi computerizzata dei dati immagazzinati tramite cinquanta canali... qualunque cosa, dalle onde cerebrali e dalla tensione inconscia dei muscoli alle radiazioni isotopiche modificate dalla biochimica sinaptica. Wardian tornò a fissare Megan. — Quanto tempo ci vorrà? — Troppo tempo. — Rablon intervenne prontamente al posto della ragazza. — Parecchie settimane per sintonizzare i ricevitori del computer su un cervello individuale, forse anche di più, perché il procedimento non è perfetto. Ci vorranno poi mesi per analizzare e stampare quello che ci serve e filtrare quello che non vogliamo. — Fissi su Megan, i suoi occhi da gufo avevano un che di possessivo. — La Dr. Drake è stata la nostra prima vittima: sono quasi due anni che trascorre un paio di giorni alla settimana nell'apparecchio d'analisi. — Una lunga prova. — Megan appariva ad un tempo apologetica ed incantevole. — Le menti sono difficili da trascrivere e l'apparecchio d'analisi non è completamente automatico. Ci servirà la sua presenza qui almeno per qualche mese. — Mi dispiace. — Vedendo il dolore apparso sul volto aperto di lei, detestò di doverlo dire. — Ma semplicemente non dispongo di tutto quel tempo. — Se si tratta di denaro, la Fondazione Raven ne ha parecchio. — Non si tratta di questo. — Per addolcire la delusione di Megan, si sentì costretto ad aggiungere altro. — Io sono un astronomo-astronauta. Per metà della mia vita ho vissuto per arrivare allo spazio. La NASA mi ha concesso una sola missione, un meraviglioso mese nell'osservatorio orbitale, poi non ci sono stati più i fondi per fare altro. Ho dato le dimissioni e mi sono messo a volare per la Delta. Adesso intendo seguire quella che mi sembra una migliore opportunità. — Migliore? — Rablon appariva indignato. — Ci pensi, Wardian. Quello che noi le offriamo è una sorta d'immortalità, tempo sufficiente perché lei... una parte selezionata di se stesso... possa raggiungere le stelle. — La cosa che ho intenzione di fare finirà più probabilmente per uccidermi. — Con una scrollata di spalle in direzione di Rablon, tornò a rivol-
gersi a Megan. — Ha sentito parlare della Solar Sail? Abbiamo la speranza di farla decollare alla volta di Marte. Non è nulla di ufficiale per ora, ma stiamo organizzando un gruppo non ufficiale, con gente della NASA, della European Space Agengy e perfino qualche giapponese. Un volo di sei anni per arrivare là e tornare, una cosa rischiosa, con forti probabilità che non riusciremo mai a tornare. Ci sarà un equipaggio di dieci persone, con un battello d'atterraggio ed un equipaggio per una stazione di superficie. Io sono in lista per il posto di scienziato anziano, se pianto immediatamente la Delta e mi metto a lavorare a tempo pieno per il nostro gruppo di progettazione. Con una prospettiva simile, il meglio che posso fare per voi è augurarvi buona fortuna. — Rimanga con noi, capitano. — L'ansia nel suo tono lo colpì. — Almeno per stanotte: la sistemeremo qui al laboratorio. Il Dr. Tomislav arriverà in volo questo pomeriggio. Gli parli e permetta a Marty di mostrarle come funziona l'apparecchio d'analisi. Acconsentì, ma solo in parte, perché l'idea delle navi-seme aveva fatto presa sulla sua immaginazione: l'attrazione inconscia di Megan era molto più forte. L'apparecchio di analisi aveva l'aspetto di una sala di tortura da dieci milioni di dollari ai suoi occhi, e le vanterie di Rablon servirono solo a disgustarlo maggiormente, ma voleva parlare con Tomislav, un uomo che aveva vinto un premio Nobel per le sue scoperte epiche nel campo dell'ingegneria genetica. Un uomo anziano, troppo grasso e trascurato, che arrivò al laboratorio con il fiato corto. Megan li portò tutti a cena ad un ristorante messicano. I chile rellenos erano troppo caldi per i suoi gusti e Rablon pontificò troppo a lungo sulle interfacce software fra il DNA ed i suoi cubi di memoria micromolecolari. Fu felice quando Tomislav disse che doveva telefonare alla moglie e poi andare a dormire un po'. Di ritorno al laboratorio, lui e Megan rimasero a lungo seduti nella macchina di lei, e Megan gli parlò del fratello gemello che aveva concepito quel progetto per redimere la propria breve e tragica vita, parlò dello storpio genio indostano e dello Zio Luther, che era rimasto affascinato da quel sogno e lo aveva lasciato in eredità a lei. Il profumo di lillà di Megan sembrava più forte nella macchina, e lui si sentiva come ubriaco per l'involontaria attrazione fisica che la ragazza esercitava, ma non tentò di toccarla: dimenticato il suo codice, scoprì che l'iniziale rispetto provato per l'intelligenza e gli ideali di Megan stavano
sconfinando in qualcosa che non aveva mai provato per nessuna donna, una passione così vicina all'adorazione da farlo sentire indegno di lei. Rimanendo a lungo sveglio, disteso nella stanzetta degli ospiti, Wardian riconsiderò quella notte lo stile e gli scopi della sua vita in rapporto ai suoi piani per la possibile avventura marziana. Contrapposta alla coraggiosa grandiosità del progetto delle navi-seme ed alla sua nuova adorazione per Megan, quell'incerta possibilità di andare a morire su Marte cominciò a non rivestire più importanza dei voli di linea o dell'uso del deltaplano o delle casuali avventure amorose che il suo codice gli permetteva. La mattina successiva, le disse che era pronto a sottoporsi alle analisi. Lei volle sapere dove fosse stato. — La nave ha detto che eri andato alla ricerca di materie prime, subito dopo l'atterraggio. Ma non sei più tornato, ed è per questo che Tre ed io siamo stati programmati. Fuori, sotto la pioggia, non si era accorto del suo odore, ma ora che si trovavano nella stretta cabina del velivolo avvertì una fragranza per lui nuova, anche se ebbe l'impressione che contenesse un accenno del profumo di lillà di Megan, ed il cui esotico potere ebbe improvvisamente la meglio su di lui, facendogli vibrare tutto il corpo di un desiderio senza speranza. Nauseato e tremante per quell'agonia, indietreggiando di fronte alla tormentosa bellezza di lei, si controllò quanto bastava per riferire ciò che aveva visto nel suo lungo viaggio verso nord, e la descrizione della città in rovina parve stupirla. — Una città umana? — I suoi occhi verde-dorati si spalancarono. — Come può essere? — Forse la nostra nave-seme è stata la seconda ad arrivare qui. — Se è così... — Anche con il volto aggrondato, era tormentosamente bella. — ... Cosa l'ha uccisa? — La Squadra di Assalto, così mi ha detto quel disco-robot. — Robots? Qui sulla Sfera dell'Uomo? — Secondo la mia ricostruzione, i robots hanno sterminato ogni forma vivente sul pianeta, e da allora sono rimasti per secoli in attesa di coloro che li avevano inviati. La nave le aveva riferito dell'incontro con la grande stazione orbitale ed il suo equipaggio di automi, ma lei parve ugualmente stordita dal suo racconto.
— Ho volato per migliaia di chilometri... — Scosse il capo, riluttante a credergli. — Su per il fiume, poi a valle di esso fino alla costa. Sulle isole al largo ho trovato le noci da olio, ma non ho visto traccia di rovine né ho incontrato robots. — Non c'è da aspettarsi che siano rimasti molti resti. I mutamenti geologici devono aver sepolto quasi tutto. Le rovine da me trovate ed anche la statua, erano fatte di un qualche materiale simile a diamante sintetico, ed anche quello era per lo più in frantumi, forse a causa di missili piombati dallo spazio. Ho trovato il cratere. Lei rimase in silenzio per qualche momento, apparentemente convinta. — Potrebbe essere per questo... per questo che non abbiamo mai visto nessuna creatura vivente? Nulla, neppure insetti? — Si piegò verso di lui, tremante. — Pensi che i robots abbiano ucciso ogni creatura? — Vorrei saperlo. — Adesso questo sarà il nostro prossimo compito. — Si sedette più eretta sulla persona, la voce più ferma. — Scoprire se quei robots rappresentano ancora un pericolo e difendere la nave contro di loro nel caso lo siano. Dobbiamo scoprire cosa hanno fatto, quali armi hanno usato... nessun missile che io riesca ad immaginare può sterminare la vita su un intero pianeta e lasciarlo abitabile. — Ci stavo pensando. — Scosse il capo, assalito ancora una volta da una cupa depressione. — Ma la nave non ha più bisogno di me ora, non da quando ha programmato nuovi Difensori con cui rimpiazzarmi. — Ne avrà — gli promise lei, — dopo che le avremo riferito la situazione. Ma adesso non può parlare, è troppo occupata con il Tre. — Spero... spero che trovi qualche compito per me. — La voce gli tremò. — Anche se non so come si possa far fronte a quei robots. Ho lottato con loro sull'astronave ed ho giocato una sorta di gioco contro il disco, con quali risultati non saprei immaginare. Ma ancora non riesco a comprenderli. — Come ti sei procurato il velivolo? — Ho sostenuto di essere uno dei Maestri Costruttori, una delle creature che i robots stanno aspettando. — E ti hanno creduto? — Non si può saperlo. Il disco non mi ha mai detto molto. Credo abbia cercato di leggermi nella mente quando ero addormentato, ma al mio risveglio era svanito. Forse sta solo guadagnando tempo per studiarci. Anche se loro credono... — Tentò di guardare da un'altra parte, per rallentare
il dolore causatogli dalla bellezza di lei. — Ci devono ancora tenere d'occhio, forse dal loro veicolo orbitale, se sono riusciti a ripararlo, ma più probabilmente servendosi di altri mezzi a noi sconosciuti. Scopriranno fin troppo presto che stavo mentendo. Qualsiasi cosa decidiamo di fare... fosse anche saccheggiare la loro base... ritengo che dovremmo farlo adesso. — Non ora. — Stavolta non riuscì a distogliere lo sguardo. — Non fino a che non avremo con noi Tre. Gli occhi verde-dorati accesi da un senso di ansia, lei sbirciò attraverso il velo di nebbia in direzione del lago e della piccola macchina che li aveva generati. — Lui sarà qui presto. A meno che... Accigliata, si girò ancora verso di lui, e, per un momento, fu completamente Megan, con la stessa espressione con cui la ricordava affrontare i problemi presentati dal progetto. — Noi non siamo mai del tutto... del tutto ciò che eravamo programmati per essere. — Perfino il suo tremulo sussurro era quello di Megan. — Questo a causa di tutte le alterazioni genetiche determinatesi quando la micrometeora ha colpito il computer principale. La nave teme una nascita difficile. IV Qualcosa la fece sussultare, e, ascoltando in silenzio, lei rabbrividì di preoccupazione, poi si allontanò per uscire dalla cabina. — Megan? Qualcosa non va? Quando lei non rispose, comprese che la nave doveva averla convocata usando il canale privato di comunicazione, e la osservò avvicinarsi ad essa sguazzando nel fango, ed arrampicarsi sul muso: appollaiata là, la schiena rivolta alla pioggia battente, la vide spalancare le ali di cristallo per riparare la cella di nascita. Lo stretto scafo giaceva ora orizzontale, di un color rosso ruggine dove la doratura era scomparsa. Una serie di onde giallastre batteva già contro di essa e dalle colline circostanti giungeva un boato di acqua che precipitava, acqua il cui livello stava salendo rapidamente. Mentre la guardava, sentì il cuore che gli si contraeva per la pietà: nonostante il corpo dorato, le ali vivaci ed il cervello generato da un computer, appariva terribilmente umana e vulnerabile. — Megan! Ti posso aiutare?
Lei lo ignorò. I suoi circuiti, suppose, dovevano essere completamente occupati dai problemi della nave e dai pericoli che il Difensore Tre stava correndo: sentiva un doloroso bisogno di aiutarla, ma la presenza del Difensore Uno non era più richiesta, per cui, sedendo impotente nella cabina, poteva soltanto osservare la battaglia di lei contro la pioggia battente. La giornata parve proseguire in eterno, senza che gli giungesse una sola parola dal Difensore Due. Vide le sue ali afflosciarsi, i vividi colori arcobaleno offuscarsi in scialbe tonalità di marrone e grigio; sapeva che la sua energia proveniva dalla luce assorbita dalle ali che, spalancate al sole, funzionavano superbamente, ma che ora non potevano aprirsi del tutto a causa di quel vento violento. La chiamò per due volte, offrendole di usufruire del suo cordone di alimentazione, ma lei non diede segno di averlo ricevuto. Scese il crepuscolo e poi il buio senza luna. Con la vista ad infrarossi, lei sembrava ora uno spettro carminio accoccolato sotto la furia dei venti monsonici. Deboli bagliori scarlatti danzavano sulle onde intorno a lei, e le sue ali erano adesso prive di vita, appiattite contro lo scafo, ed il Difensore Tre non era ancora nato. Un'altra notte d'incessante attesa. Sedeva vicino al letto di Olga, oppure stava in piedi accanto a lei o talvolta passeggiava per la stanza d'ospedale. La notte precedente, le aveva iniettato il suo virus sintetico, che avrebbe dovuto avere un effetto benigno ed era stato creato allo scopo di riparare i danni del raro difetto genetico di cui lei soffriva. Un segreto, disperato esperimento medico, effettuato senza informare i dottori di Olga, perché non c'era stato il tempo per i normali controlli e perché lei stessa lo aveva scongiurato di tentare. Il virus l'aveva quasi uccisa. Il personale d'emergenza richiamò dalle loro case Schrad e Brickman perché l'aiutassero a superare la crisi, e lui fu certo, dall'espressione dei loro volti, che i due dottori sapessero cosa aveva fatto, ma non gli rivolsero alcuna accusa, frenati, supponeva, dal rispetto per lui e da un impotente senso di simpatia: sapevano che Olga era vicina alla fine. Le condizioni di lei, sul finire di quella seconda notte, si fecero finalmente stabili. Barcollando per la stanchezza, le rimase ancora vicino anche se Schrad voleva metterlo a letto con un sedativo. Mentre la guardava, mentre sperava ancora nella comparsa di qualche tardivo e positivo effetto del virus, ricordò come lei fosse stata un tempo vibrante di vita.
Una volta, quando era Miss Schenectady. Si erano incontrati alla Union, matricole in biologia, quando il professore, a sua volta colpito, l'aveva presentata alla classe. Alta e diritta, raggiante di vita, lei si era alzata sorridendo ed ammiccando ad un qualche amico presente in classe, ma poi era arrossita violentemente, e lui l'aveva adorata subito. Senza speranza, con la consapevolezza del suo accento, delle sue origini etniche e della sua mancanza di attitudini sociali, aveva soltanto potuto invidiare il vivace istruttore che sembrava conoscerla. Poi, per un incredibile colpo di fortuna, erano stati assegnati allo stesso lavoro in laboratorio, la dissezione di un gatto. Lei si era sentita male, e lui non aveva potuto fare a meno di ridere quando aveva vomitato nel lavandino. Bella e furente, lei lo aveva schiaffeggiato, aveva afferrato i libri ed era corsa fuori dal laboratorio. In seguito, cosa stupefacente, lo aveva perdonato, lui si era dedicato alla dissezione, lei alle annotazioni, ed erano andati a vivere insieme prima del secondo trimestre dell'ultimo anno. Adesso... quando vedeva com'era terribilmente piatta la sagoma sotto la coperta, sentiva il lento e raspante respiro, osservava la sua testa scheletrica e quasi calva con la canna dell'ossigeno nel naso e la costante smorfia di dolore sul volto devastato e privo di sensi... I ricordi erano insopportabili. Percorse a grandi passi i corridoi vuoti e tornò a guardarla. Nessun cambiamento, mai nessun cambiamento, ed alla fine comprese che non ce ne sarebbero stati, perché il danno genetico ormai determinatosi non poteva essere più invertito: anche nel migliore dei casi, il suo virus avrebbe soltanto potuto prolungare la sua agonia, era arrivato troppo tardi. Troppo tardi per Olga, in ogni caso. La luce infrarossa stava cedendo il posto al grigiore dell'alba quando finalmente Difensore Tre nacque. La pioggia era cessata, ma le rapide tuonavano ancora nel canyon alle sue spalle e la nave galleggiava ormai parzialmente sul lago fangoso. Megan indietreggiò strisciando dal muso della nave, strascicando le ali inerti, e lui vide la fessura della cella parzialmente aperta, ancora carminia per il calore vitale che Megan aveva protetto. All'inizio, il nuovo Difensore fu una cosa strana e dall'aria apparentemente indifesa, le ali pallide appiattite contro gli arti che si contraevano. Vide le mani dorate annaspare, afferrare e separare il sottile tessuto ala-
re, vide una testa aurea sollevarsi... Wardian! Sbattendo le palpebre per la luce, il nuovo essere reclinò il capo da un lato per ascoltare il tuono delle rapide, sollevò una mano tremante per ripararsi gli occhi, sbirciò dall'altra parte del lago in direzione della giungla di spine, quindi avvistò il velivolo sulla riva ed agitò allegramente una mano verso di lui. Megan lo aveva avvertito che Tre sarebbe somigliato a Mack Wardian, ma quella somiglianza era tale da farlo rabbrividire. Era tutto dorato, ma il naso arrogante era lo stesso, come lo erano la snella distinzione atletica e l'ansioso e supplichevole sorriso quando individuò Megan. Perfino gli occhi, contenevano una sfumatura dell'azzurro di quelli di Wardian. Il sole sorse, e le ali del Tre si allargarono, dapprima in modo flebile e goffo, per bere la sua luce, poi s'irrigidirono rapidamente e si spalancarono ancora di più mentre la vita cominciava ad animarle, creando sfumature pastello nei pannelli di zaffiro, smeraldo e rubino racchiusi fra le coste più scure. Dolorante per un involontario senso d'invidia, osservò il nuovo Difensore uscire dalla cella natale ed ergersi in piedi sullo scafo, un dio dorato dalle ali di diamante. Le ali si spostarono, permettendogli una visione frontale che gli provocò una fitta d'angoscia, perché Tre era perfettamente maschio, altrettanto quanto doveva esserlo stato l'originale, umano Wardian. Anche le ali di Megan si erano fatte più luminose, trasformandosi in un meraviglioso arcobaleno; lei le sollevò in alto e le scosse per liberarle dall'acqua, le orientò verso il sole. Appollaiata ora sulla coda della nave, era uno splendido uccello umano, dorato e luminoso di gioia. Dovette parlare a Wardian servendosi di un canale schermato, perché questi si volse di scatto nella sua direzione, e, tremando per una felicità quasi elettrica, si incontrarono a metà della nave; lui li osservò mentre si baciavano in modo delicato ed esitante, poi mentre si abbracciavano violentemente. Vide il cordone ombelicale staccarsi dal ventre di Wardian e ritrarsi all'interno della cella natale, la cui stretta fessura si chiuse mentre i due rimanevano stretti l'uno all'altra, fusi insieme da un disperato fervore che i loro programmatori non avrebbero mai potuto progettare. Aggrappati quasi per sempre, muovendosi solo per seguire il sole con le ali distese. Mentre li osservava dalla cabina, tentò di non odiarli, tentò di rammentare a se stesso che tutti i loro sentimenti, tanto la sua selvaggia amarezza quanto la loro bruciante passione, erano soltanto occasionali ri-
schi rispetto al loro compito di Difensori. Ma la macchina che era in lui era stata disattivata e scartata, e, completamente umano, lui si sentiva abbandonato e solo, senza speranza. Tentò di dire a se stesso che avrebbe dovuto condividere la loro gioia: anche se essi non sarebbero forse mai giunti a saperlo, era stato lui a renderli quello che erano. Se lui non avesse rimpiazzato quei cubi di memoria danneggiati all'interno del computer della nave, Wardian sarebbe indubbiamente stato altrettanto asessuato quanto lui, ed anche Megan, forse. L'ironia della cosa era una lama rigirata nel suo essere, perché non era altrettanto in grado di riparare se stesso. La nave non avrebbe potuto riprogrammarlo? Dopo un istante di speranza, scosse il capo di fronte all'idea. Se avesse fatto una simile richiesta, il computer della nave gli avrebbe semplicemente ricordato che il sesso non rientrava fra i doveri di un Difensore, ed avrebbe probabilmente aggiunto che, per la creazione di Due e Tre, aveva utilizzato tutta la scorta di preziose materie prime portate fin là dall'antica Terra. I nuovi Difensori impiegarono parecchio tempo a ricaricarsi, ma alla fine si separarono per planare separatamente giù dalla nave e venire a posarsi sulla riva accanto a lui. Le ali lucenti ripiegate ed arrotolate sulla schiena, mano nella mano, essi camminarono verso il velivolo. Sollevato, lui scivolò fuori per andare loro incontro. — Salve, Brink. — L'uomo dorato si fece avanti, parlando con l'accento piacevolmente preciso e vagamente britannico di Wardian, e sorridendo con la noncurante sicurezza che era stata di Wardian. — Megan mi ha raccontato la tua avventura mentre eri in cerca di materie prime di rimpiazzo. Tentando di apparire più felice di quanto fosse, strinse la possente mano parzialmente metallica. — Hai catturato questa macchina? — Con un sorriso d'ammirazione, Wardian si girò per esaminarla. — Un nuovo tipo di velivolo? Sono ansioso di osservarlo. Lo sai, vecchio mio, che noi Difensori abbiamo una splendida missione da assolvere qui. — Io non sapevo... — Sussultando un poco quando Wardian lanciò una fuggevole occhiata al suo cordone di fortuna ed ai suoi lombi spogli, non poté fare a meno di rammentare il suo attuale stato di sospensione dal servizio attivo. — Non sapevo... di te e Megan. — Credo che le noci da olio che lei ha trovato soddisferanno le nostre necessità. — Wardian allungò una mano all'indietro per afferrare quella di lei e trarla al suo fianco. — Anche se le nostre congratulazioni spettano in-
nanzitutto a te. Considerando... — Wardian si controllò in tempo, ma proseguì subito, il tono della sua voce fattosi eccessivamente caloroso. — Ce l'hai fatta, Don! Una notevole vittoria, considerando tutti i tuoi handicaps, e non c'è da sorprendersi che tu abbia dovuto lasciare tante cose in sospeso. — Almeno... — Cercando sollievo dalla tremante pietà negli occhi di Megan, si volse verso il lago e lo scafo semisommerso. — Per lo meno, adesso abbiamo le materie prime. La missione può procedere. — Con il tempo — annuì Wardian, — anche se la produzione effettiva dovrà aspettare. Megan ha sigillato la nave e l'ha messa in condizione di galleggiare. Non appena la piena monterà, la potremo issare su per il canyon. Megan mi ha detto di aver preparato lassù un'abbondante provvista di noci, su una sporgenza sulla quale potremo issare anche la nave, al di sopra dell'acqua alta. — Posso... — Un senso di ansia lo soffocava. — Ci sarà bisogno di me? — Lo spero. — Lui percepì l'ansia di Megan nei suoi confronti. — Tenterò di trovarti una collocazione. — Non ti preoccupare, Don. — Wardian accantonò la sua preoccupazione quasi con noncuranza. — Faremo quel che potremo, ma adesso abbiamo problemi più urgenti che ci reclamano, gli stessi che sembravano averti bloccato... non che ti si possa biasimare per aver rinunciato di fronte a ciò che ti era impossibile risolvere. Barcollò leggermente, sentendosi male in modo vago ma tentando di non darlo a vedere. — La priorità da parte nostra spetta al problema di apprendere cosa abbia ucciso questo pianeta. È inutile creare delle persone, se poi non potranno sopravvivere qui. Lui fu costretto ad annuire. — A parte questo, dobbiamo controllare il tuo rapporto in merito a quei robots alieni. Avremo bisogno di saperne molto di più sulle loro origini e sulla loro storia e sulla base militare che dici di aver visto. In particolare, dovremo verificare se essi ci hanno effettivamente accettati come loro creatori. — Mi hanno lasciato il velivolo — rispose. — Questo è tutto ciò che so. — Ne sapremo presto di più. — Wardian sorrise in direzione del cielo sempre più sereno. — È tempo di partire, per dare un'occhiata alla città che hai trovato e cercare ciò che l'ha uccisa, qualsiasi cosa sia. Speriamo di tornare prima che la nave prenda a galleggiare, ma comunque tu rimarrai a
disposizione, naturalmente, nel caso si verifichi qualcosa d'inaspettato. Megan gli si avvicinò dopo che Wardian si fu allontanato; le sue braccia dorate lo strinsero contro la sua nuda ed insopportabile bellezza e l'accenno di lillà nel suo profumo fu per lui un'insopportabile agonia. — Mi dispiace, Don. — Sapeva che quelle parole erano soltanto per lui. — Mi dispiace, perché sai quanto... quanto disperatamente ti amavo. «Svezzato dalla vita e strappato via nel mattino del tuo giorno.» — Lo baciò, si allontanò, poi lo strinse ancora, tremando contro di lui. — Ma capisci... Si volse fra le sue braccia, guardando verso Wardian: la testa luminosa sollevata, in direzione del lago, questi aveva spalancato le splendide ali, e, con un balzo in avanti, si era sollevato al di sopra della riva. — Testa alta, vecchio mio! — gridò mentre saliva. — I Difensori non disperano! Aggrappandosi a Megan per un ultimo, amaro istante, fu poi costretto a lasciarla andare; gli occhi verde-dorato di lei erano fissi su Wardian, come se si fosse già dimenticata di lui, e la sentì mormorare: — «Fra tutte le anime che esistono nel creato, ne ho scelta una.» V Tristemente, in preda ad un'involontaria meraviglia, li seguì nel cielo con lo sguardo. Wardian apparve dapprima incerto, e Megan gli si librò accanto, me ben presto entrambi salirono con vigore verso l'alto, e, giunti al di là del lago orlato di nero, dove il vento colpiva le alture rossicce, sfruttarono una corrente ascensionale che li sollevò verso il sole. Si rimpicciolirono fino a costringere la sua vista a farsi telescopica, tanto da permettergli di scorgere i loro volti ansiosi e percepire il loro rapimento reciproco. Alti e liberi, essi danzavano insieme, roteando, tuffandosi, saettando abbastanza vicini da baciarsi e lanciandosi poi in giochi di fughe e di inseguimenti, fino a che lei non permise a Wardian di catturarla. Sentendosi come morto internamente, distolse lo sguardo mentre si amavano. Suo padre era un ingegnere minerario originario dell'Inghilterra ma naturalizzato americano. Avevano vissuto nel Montana durante l'inverno in cui lui aveva quattordici anni perché suo padre stava effettuando un prospetto per una società canadese che voleva riaprire la Silver Belle. Lui frequenta-
va la scuola di tre sole classi di Bell Butte, e Miss Krimkin era la sua insegnante: bionda e bellissima, lui la adorava. Quel giorno era un gelido venerdì di febbraio, con un violento vento che soffiava da nord giù per il canyon e nella città vuota, e lui temeva che non l'avrebbe più rivista, perché suo padre aveva concluso il suo lavoro e sarebbero partiti per Denver l'indomani. Dopo la scuola aveva perso di proposito l'autobus ed aveva camminato a piedi nella neve per più di quattro chilometri fino al Mercer's Mercantile; aveva undici dollari, contando i dieci ricavati dalla vendita degli sci, e li aveva spesi tutti per una scatola di cioccolatini di San Valentino. Era ormai crepuscolo inoltrato prima che fosse di ritorno, e temeva che Miss Krimkin se ne fosse già andata, ma la sua Chevy era ancora parcheggiata contro un banco di neve all'esterno dell'edificio. Vide anche l'auto di Mr. Wranker vicino alla palestra: lui era il preside e l'allenatore sportivo, ed amava rimanere a lavorare dopo la scuola. Tutti gli altri se n'erano andati. Tremante e senza fiato, il cuore che gli batteva con violenza, scivolò nel vecchio edificio di mattoni. Nonostante il freddo, aveva le mani sudate dove stringevano il sacchetto di carta, e non sapeva cosa avrebbe potuto dire per spiegarle i propri sentimenti. Si arrestò nel corridoio fuori dalla sua classe, timoroso di quello che lei avrebbe potuto pensare. Ma domani... domani sarebbe stato troppo tardi. Spinse la porta ed entrò. All'interno, l'aria era molto calda, piena dell'odore sulfureo del carbone che ardeva nella stufa rovente e ricca del suo eccitante profumo. Due bottiglie di Coca ed una di whiskey erano posate sulla cattedra accanto ai registri, ma la sua sedia era vuota; la sentì emettere una sorta di grido ansante prima di vederla: era stesa a terra accanto al recipiente del carbone che si era rovesciato, e Mr. Wranker le stava addosso. Sconvolto, indietreggiò fin nel corridoio. Aveva sempre provato simpatia per Mr. Wranker, che gli aveva regalato i suoi vecchi sci quando era caduta la prima neve e gli aveva insegnato come usarli, ma ora si sentiva intontito, paralizzato da quel che aveva visto, e, per un istante, si chiese se Mr. Wranker non l'avesse violentata, anche se non sapeva gran che su quel genere di cose. Poi li udì ridacchiare insieme. Per un tempo che gli parve lunghissimo, si sentì troppo debole e sconvolto per riuscire a muoversi o anche solo a pensare. All'inizio, non riusciva a comprendere, ma poi, ricordando le bottiglie sulla cattedra, si rammentò anche di qualcosa che gli aveva detto suo padre quando aveva fatto domande su sua madre.
— Non ti fidare mai di una donna. — Gli occhi pallidi di suo padre avevano assunto una strana espressione distante e la sua voce sembrava triste. — Credo che non si possa evitare di amarle, e loro ci trasformano tutti in burattini, senza nessuna dannata esclusione, fino a colpirci dove ci fa più male ed a crocifiggerci. Adesso, si sentì di colpo terribilmente dispiaciuto per suo padre; adesso comprendeva il loro modo di vivere, senza una vera casa, e comprese anche che questa era una lezione che non avrebbe scordato. Quando udì lo strillo di estasi di Miss Krimkin, richiuse con estrema cura la porta alle proprie spalle e percorse in punta di piedi il resto del corridoio. Una volta fuori, gettò i cioccolatini nella neve. Quando riuscì ad indursi a guardare di nuovo Wardian e Megan, erano scomparsi al di là delle alture, andati a scoprire come fosse stata assassinata la Sfera dell'Uomo... ed indubbiamente ad amarsi ancora in cielo. Rimase di guardia tutto il giorno, ma non fecero ritorno, e, prima del tramonto, le nubi monsoniche si addensarono ancora e riversarono scrosci di pioggia sul lago. — Difensore Uno. Difensore Uno a Nave. Non si aspettava di ricevere una risposta, dal momento che la nave lo aveva accantonato, ma era animato dal timore per la nave-seme, perché le onde fangose erano ora più alte e si abbattevano contro lo scafo o addirittura lo sommergevano brevemente. Si chiese anche se avrebbe davvero galleggiato. Non ricevette nessuna risposta. — Difensore Uno a Nave! — Disperato, fece un altro tentativo. — Hai ancora il contatto con Due e Tre? — Nave a Difensore Uno. — La brusca voce sintetica della nave si decise finalmente a parlare, ora del tutto priva di quella tormentosa sfumatura della voce di Megan. — Contatto con Difensori Due e Tre perduto quando essi sono volati al di là della portata radio. Siamo in ascolto su tutti i canali. Prevediamo un loro rapido ritorno. — Posso... posso aiutare? Almeno fino al loro ritorno? — Rimani in stato di attesa. Nessun servizio attualmente richiesto. La grigia luce crepuscolare svanì cedendo il posto a quella infrarossa, e, per tutta la notte, la pioggia tamburellò sul velivolo e sconvolse il lago. Adesso la nave era profondamente immersa, brillante di un tenue carminio in mezzo alle onde che scrosciavano su di essa. Per tutta la notte, la tenne d'occhio dal velivolo, ascoltando l'incessante boato dell'acqua nel canyon,
desiderando di avere qualcosa da fare. — Difensore Uno a Nave — chiamò ancora verso l'alba. — Hai il contatto? — Nessun contatto. — Intendo decollare — disse, — per tentare di stabilire un contatto radio con Due e Tre. Intendo salire oltre la valle ed arrivare in linea visiva con un'area più ampia. Il mio segnale dovrebbe giungere al di là delle rovine che essi intendevano esplorare. — Nave ad Uno. Confermata riassegnazione allo stato attivo. Contatto con i Difensori perduti definito urgente. Tenterai di contattarli. Stato attivo! Un senso di gioia umana fiammeggiò per un momento in lui, simile ad un razzo che esplodesse, ma la sua parte meccanica non aveva tempo per la gioia. Già affaccendata, stava provvedendo a scaricare zavorra per poter volare, e ben presto gli permise di decollare al di sopra dell'acqua alluvionale, che ora si stendeva a sud e ad est in una vasta coltre marrone, fino a rovesciarsi fuori da un'apertura esistente in una distante e stranamente diritta collina. Quella collina lo colpì, inducendolo a pensare che dovesse trattarsi di una diga, costruita per contenere un grande lago artificiale, ora riempito da millenni di depositi fangosi. Allontanandosi da uno scroscio di pioggia, s'infilò nel canyon, e, appena all'interno delle sue pareti, trovò la sporgenza su cui Megan aveva progettato d'issare la nave: era un ampio scaffale roccioso, situato ancora ad una dozzina di metri al di sopra del livello dell'acqua, qua e là coperto da una specie di erba. Frugando più attentamente con la vista telescopica, scoprì che i preparativi effettuati da Megan erano completi: alcune tonnellate di noci da olio erano state ammucchiate contro la parete della collina, e, accanto ad esse, c'era una piccola macchina, una semplice pressa ben costruita e pronta ad estrarre l'olio per la nave. La sostanza necessaria alla ritrasformazione in una nuova umanità... Se i nuovi Difensori fossero tornati indietro in tempo per salvare la nave e finire l'antica missione. Si levò al di sopra dell'acqua gialla e tuonante, salendo fra le nubi e finalmente più in alto di esse, alla torrida luce del sole. Ad est ed a sud, fin dove arrivava il suo sguardo, lo strato di nubi si estendeva luminoso e costante; a nord ed a ovest, lungo tutto il bordo dell'alto pianoro, le torri di nubi erano ghiaccio azzurro e fuoco bianco, con la città distrutta persa da qualche parte al di sotto di esse, insieme alla morta giungla di spine ed a tutti gli enigmatici interrogativi posti dalla Sfera del-
l'Uomo. — Difensore Uno chiama! — Sebbene ci fosse l'interferenza della struttura del velivolo, tentò di lanciare il proprio segnale verso quelle rovine nascoste. — Chiamo Due e Tre. Urgente. Prego, rispondete. Rimase in ascolto, ma non udì nulla. — Qui Don Brink! — Quel grido umano sfuggì al controllo del suo computer. — Chiamo Megan! Chiamo il Capitano Mack! Rispondete se potete! Fece un altro tentativo, poi un altro ancora, fino a che cominciò a temere che non vi sarebbe mai stata una risposta. — Don chiama Megan... — Nave a Difensore Uno. — La debole voce automatica lo interruppe. — Devi rientrare immediatamente: nave in galleggiamento ed in pericolo. Servizi del Difensore ora richiesti. Servizi ora richiesti! Non poté fare a meno di provare un brivido di soddisfazione umana, anche se fu accompagnato da un senso di colpa altrettanto umano e non cancellò la preoccupazione che provava per i nuovi Difensori: essi erano sperduti, la loro sorte inimmaginabile, e lui non si sentiva all'altezza di sostituirli: mancando delle loro ali, del loro speciale adattamento, lui era poco preparato a qualsiasi imprevisto. Eppure... nonostante se stesso, rabbrividì ancora per l'eccitazione... non era più un pezzo di ferraglia scartata, spettava di nuovo a lui di difendere la missione. Quando arrivò alla riva del lago, la nave era scomparsa, ma fu in grado di seguirne il segnale fino al punto in cui essa stava andando alla deriva come un tronco bagnato, mezzo chilometro più vicino allo stretto sbocco. Librandosi ansiosamente sopra la nave, la urtò con i sostegni d'atterraggio del velivolo e la fece ruotare su se stessa fino a trovare gli arrugginiti sostegni cui erano stati agganciati i serbatoi di zavorra che le avevano permesso di uscire dall'orbita terrestre e di raggiungere la velocità di fuga solare. Quindi manovrò le pompe della zavorra ed incamerò acqua sufficiente a consentirgli di far posare con estrema delicatezza il velivolo sullo scafo della nave, e, una volta uscitone, si servì di pezzi del suo cordone per legare insieme i sostegni del velivolo con quelli della nave. Poi, approfittando di una pausa della pioggia, attinse energia dall'ombelicale per saldarli insieme, e, tornato nella cabina, rimorchiò la nave fuori dalla corrente, verso la testa del lago.
La grigia pioggia aveva frattanto ripreso a cadere, ma in realtà non gliene importava: la macchina che era in lui stava funzionando di nuovo, con una funzione programmata da svolgere, e lui non era infelice. Trascinare la nave fuori dall'acqua sarebbe stato possibile solo quando l'inondazione fosse giunta al culmine, ma buone materie prime erano pronte per il traslatore e ci sarebbe stato tempo a sufficienza per trasformarle in esseri umani con cui popolare la Sfera dell'Uomo. Quasi felice, adesso, ricordò una fiesta, con un sole fiammeggiante e la banda che suonava e l'odore violento dell'acqua di colonia del generale che lo aveva assoldato: galleggiando nella nebbia dorata provocata da alcune bottiglie di Cutty Sark, si trovava a bordo di una limousine corazzata insieme al profumato generale e ad una mezza dozzina di ridacchianti señoritas, dietro ad un catturato carro armato Izquierdista lungo il tragitto dall'altrettanto catturato palazzo presidenziale alla cattedrale, dove un vescovo marxista prigioniero era in attesa per benedire la controrivoluzione. La folla inneggiava a El Bolivar Nuevo, che era il generale, e ad el commandante Breenki... Un milione di anni prima. PARTE QUINTA: IL RACCOLTO UMANO I Attese per assistere alla nascita del primo uomo. Il diluvio si era ritirato e la nave-seme si trovava dove lui l'aveva issata fuori dall'acqua, ed una rozza scaletta di legno saliva fino alla piccola piattaforma, appena all'esterno della cella natale collocata nel muso della nave. Stando fermo sulla piattaforma, sentì i primi tonfi soffocati all'interno, vide aprirsi la scura fessura e farsi lentamente sempre più ampia, mentre gli odori che accompagnavano la nascita si riversavano all'esterno, prepotenti e strani. La luce del sole colpì la rosea pelle umana che si muoveva con incertezza. Tentò di dare aiuto, ma un pugno coperto di peluria nera allontanò con un colpo la sua mano protesa; poi, annaspando inizialmente alla cieca per trovare i bordi dell'apertura, il nuovo uomo si sporse per sbirciare fuori. Un completo maschio adulto, i suoi occhi si socchiusero contro la luce, fissandolo. — Benvenuto — sussurrò il Difensore. — Benvenuto sulla Sfera del-
l'Uomo. ... Riesci a capirmi? — Io sono Egan Drake. Chi... — Una voce stridula e rugginosa, eppure parzialmente familiare. — Chi sei tu? Egan Drake? Quel nome azionò una valanga di frammentari ricordi di un milione di anni prima, spezzettati momenti di scopi e di sofferenze umane. Desiderò ancora Megan, la sorella dell'antico Egan, desiderò perfino il suo tormentoso spettro, imprigionato nel computer fino a che ne era emerso sotto la splendida ed alata forma del Difensore Due. Si sentì pervadere dalla speranza che un'altra Megan potesse venir generata, speranza subito cancellata dalla consapevolezza che in ogni caso non sarebbe stata destinata a lui. Sopraffatto dalla marea di quelle miste emozioni, il suo computer mentale ne fu quasi soffocato. Barcollando sulla piccola piattaforma ed aggrappandosi al corrimano, si piegò per fissare ancora il volto umido e sconcertato dell'uomo appena nato. In quegli occhi venati di verde colse una somiglianza con Megan che lo lacerò ancora con sofferenze di amore e di perdita che credeva di aver superato. Il mento cocciuto dell'uomo costituiva un tormentoso indovinello fino a che il suono rauco della voce un tempo familiare gli permise di riconoscerlo come quello di Don Brink. — Chi sei tu? — Il Difensore. — Progettato per sorridere umanamente e per stabilire contatti per mezzo di suoni e non solo via radio, tentò di alleviare la perplessità vagamente ostile dell'uomo. — Difensore Uno. Sono qui per assisterti. L'uomo emerse, dapprima incerto. Era nudo, ma assicurato alle spalle aveva uno zaino che sembrava fatto di cuoio marrone e pieghevole, mentre il ventre dalla peluria nera era macchiato del sangue uscito dall'ombelico e ormai secco. Ancora aggrappato ai bordi della cella, l'uomo si guardò intorno accigliato e cauto. Guardò le elevate alture e la cascata che ne scendeva rombando, osservò l'umido fango rossiccio che l'inondazione aveva lasciato su tutti i pendii in direzione del lago giallastro che ancora occupava la parte inferiore del canyon, studiò il piccolo velivolo ancorato ad un costone più alto. Il naso gli si arricciò per la puzza dei materiali alla deriva accumulati dall'inondazione, sostanze in decomposizione trascinate fin là dalla giungla di spine che si stendeva a monte. — Dove... — Gli occhi preoccupati dell'uomo tornarono a posarsi su di
lui. — Che posto è questo? — Sei capace di parlare. Non lo ricordi da solo? — Ricordare? — L'uomo si accigliò e scosse il capo dai lunghi capelli neri, bagnati e lucidi. — Ricordare cosa? — Ricordare cosa siamo noi. — Parole... ricordo delle parole. — L'uomo annuì incerto, fissando il vapore che si levava dalla base della cascata. — Una voce... una voce di donna... che diceva che mi sarei svegliato nell'Eden. — Fissò stralunato il Difensore. — Questo è l'Eden? — Non ancora. Può essere un giardino, o qualsiasi cosa tu ne vorrai fare. Siamo su un pianeta chiamato Sfera dell'Uomo, e che sarà la tua casa, la casa dei tuoi figli, una nuova patria per la razza umana. — Io... non ho bambini. — Spero che li avrai. — Come... — L'uomo osservò nuovamente l'oscura cella natale poi si volse verso di lui con aria di sfida. — Non ricordo molto, nulla che riesca a comprendere. Voglio sapere cosa sei tu e come siamo arrivati qui. — Questa è la nave-seme. — Il Difensore indicò lo scafo sfregiato alle proprie spalle, — lanciata dalla vecchia Terra quando gli uomini erano in difficoltà laggiù. Trasportava i geni umani e la cultura umana sotto forma di codice di computer ed era stata progettata per trapiantare la razza umana su qualsiasi pianeta fosse riuscita a raggiungere. È stata danneggiata nello spazio da una micrometeora ed ha vagato alla deriva per un milione di anni. Alla fine, però, è atterrata sana e salva, ed il ritrasformatore si è messo in funzione. — Il seme umano... — sussurrò l'uomo. — Me lo avevano detto... — Si volse a fissare accigliato il velivolo. — Ma cosa... cos'è quell'aggeggio? — Un velivolo azionato da jets, che decolla grazie ad uno specchio gravitazionale. — Specchio gravitazionale? — Una vacua scrollata di capo. — Cos'è? — Un effetto che si ottiene usando il potere di fusione per invertire la massa dell'acqua comune, non so esattamente in che modo. — Dove... Non viene dalla Terra. — Una cosa inaspettata. Abbiamo trovato alcuni robots qui. Hanno conquistato il pianeta trentamila anni terrestri fa, e da allora sono rimasti in attesa, nella loro base, che arrivassero le creature che li avevano costruiti. Ho avuto quella macchina da loro, quando ho detto di essere uno dei loro costruttori.
— Allora sono nostri amici? — Sono robots. — Scosse il capo. — Costituiscono ancora un mistero. — Allora siamo in pericolo? — Potrebbe essere. — Scrollò le spalle. — Sanno dove siamo atterrati, ma il punto è stato coperto dall'inondazione, mentre io ho spostato la nave con il velivolo. Se verranno a cercarci, potrebbero decidere che siamo annegati, ma forse non ci cercheranno mai. — Così... — L'uomo guardò al di là delle rosse alture, nel cielo vuoto. — Cosa possiamo fare? — Tenerci al coperto e portare avanti il piano per la colonizzazione della Sfera dell'Uomo. È tutto quello che possiamo fare. — Scrollò ancora le spalle. — Il piano comincia con te: sei il primo uomo qui. — Sorridendo, annaspando alla ricerca dell'esaltazione che quell'occasione sembrava richiedere, allungò una mano per batterla sulla muscolosa spalla dell'uomo. — Se questo fosse l'Eden, tu saresti Adamo. — Il mio nome è Egan. — L'uomo indietreggiò di fronte alla sua mano, gli occhi socchiusi per proteggerli dal sole e pieni di guardinga sfiducia. — Credevo che fossi tu il primo. — Io non sono un uomo. Rabbrividendo leggermente sotto quel freddo sguardo indagatore, allargò le mani dorate, poi le abbassò a toccare il goffo cavo che aveva collegato al proprio ombelico. — Io sono... sono un artifatto. — La parola era stata dura da pronunciare. — Più macchina che essere umano, generato dalla nave come te ma pur sempre una parte di essa. Mi potresti definire il suo equipaggio, progettato per ripararla e per difendere la sua missione. — Difensore? Difensore? — Borbottando quella parola, l'uomo fissò accigliato la sua sagoma dorata, con uno sguardo trapassante al vuoto dove avrebbero dovuto esserci gli organi genitali. — Comincio a ricordare cos'ha detto quella donna di voi Difensori. La lucente ed arricciata barba nera era ancora umida ed impregnata degli odori pungenti della nascita; sotto di essa, l'ampia faccia rosea si fece ancora più cupa. — Migliori di me, più alti e più forti, statue viventi d'oro lucido, dotati di sensi e di poteri che gli uomini non avranno mai. Tu non hai bisogno di dormire o di riposare, e neppure di mangiare. — Perché siamo macchine più che per metà. — Tentando di raddolcire l'uomo, parlò della propria natura e dei propri limiti. — Adesso sono ali-
mentato dalla corrente elettrica, che mi viene di qui. — Toccò il cordone ombelicale. — Viene da questa batteria che ho preso in prestito dal velivolo: senza di essa, mi fermerei. — Tu puoi anche fermarti — fu la sardonica accusa, — ma io morirei di fame. — Puoi far crescere del cibo... — O morire. — L'uomo serrò i pugni. — A meno che non sparga sudore per far crescere il cibo dal fango. La voce di donna mi ha detto anche questo.. — Sei sorpreso? — Sempre con mitezza, fece appello alla ragione. — Gli esseri umani devono mangiare, hanno sempre dovuto farlo, e, stando a quel che ricordo, tu ne trarrai godimento. Nel tuo zaino troverai le sementi necessarie ed una quantità di cibo che dovrebbe bastarti fino al tuo primo raccolto. Più in là, la nave potrà creare altre cose che ti serviranno, e lo zaino stesso dovrebbe farsi in pezzi per diventare un abito per te. — Fango! — L'uomo fissò accigliato lo strato di fanghiglia lasciato dal diluvio. — Fango puzzolente. — Terriccio, e piuttosto ricco, l'ho analizzato. Ed i semi che possiedi sono stati studiati in modo da potervi crescere. Più in là, quando tutti i tuoi compagni umani saranno nati, l'apparecchio potrà essere riprogrammato per produrre altre forme di vita terrestre: bestiame per avere carne e latte, cavalli per cavalcare o tirare carri... — Fanghiglia! — L'irato sfogo gli troncò la parola a mezzo. — Io sono stato creato per sudare nel fango, e tu sei stato creato simile ad un dio. Perché? Dimmi, perché io non sono stato... La Città Vecchia di Albuquerque. Quella sera erano seduti ad un tavolo da El Comanchero, giù sul San Filipe. Nel proporre quella gita, aveva sperato che sarebbe stato solo con Megan, ma Rablon era riuscito in qualche modo a far includere anche se stesso e Wardian. Era difficile riuscire a restare soli con lei. — Esercita un campo di forze che ci imprigiona. — Wardian era seccamente filosofico nei riguardi di Megan. — Come gli elettroni intorno ad un nucleo, oppure i pianeti intorno ad una stella. È un po' rude con tutti noi quando diventiamo eccessivamente egoisti, ma questo è un bene per il progetto: è la tensione che ci tiene tutti uniti e ci spinge avanti. Tutti avevano chiesto margaritas, ad eccezione di Rablon, che aveva ordinato uno Scotch con ghiaccio... un ottimo antidoto, aveva dichiarato,
contro gli effetti dell'analizzatore. Uno non fu sufficiente, e, giunto al terzo, Rablon lasciò trasparire il proprio ego. — Dèi! Stiamo creando dèi! — Per favore, Marty. — Wardian gli toccò il braccio per metterlo in guardia. — Non vogliamo ancora dare pubblicità alla cosa. — Saranno dèi. — Accigliato, Rablon fissò con il suo sguardo da gufo i tavoli vicini, come a sfidare un qualsiasi ascoltatore a dubitare dei suoi miracoli. — Dovranno esserlo, se ci aspettiamo che siano in grado di proteggere le navi-seme e di creare le razze che ne nasceranno. Se non facciamo di loro dei superuomini, non avranno neppure una possibilità di riuscita. Lui era Don Brink, ancora la recluta più nuova, accecato da Megan e dall'audacia del suo sogno, ma non ancora a suo agio con il gergo computeristico di Rablon o le cognizioni di fisica di fusione di Ulver o le meraviglie d'ingegneria genetica promesse da Tomislav. — Stai parlando dei... — cercò annaspando la giusta definizione. — ... Penso che li si potrebbe chiamare i figli della nave-seme. — Non è cosi, Brink. — Rablon si accigliò, come offeso dalla sua ignoranza. — I figli della nave-seme saranno altrettanto umani quanto me, generati in ambienti ignoti e forse ostili, e bisognosi di aiuto per riuscire ad insediarsi. Stiamo creando i Difensori per fornire appunto quell'aiuto. — Grazie. — Sentendosi a disagio, scrollò le spalle. — Non lo sapevo. — I Difensori sono progettati per essere superiori perché dovranno esserlo. — Si chiese se Rablon vedesse se stesso in quel modo. — Non avranno bisogno di cibo né aria e saranno immuni praticamente da qualsiasi cosa. Saranno sensibili ad un ampio spettro di radiazioni ed in grado di operare grazie a quasi qualsiasi fonte d'energia: corrente elettrica, luce solare, perfino radiazioni gamma. Saranno alati, se avranno bisogno di ali. Stiamo caricando una serie di programmi alternativi per permettere al computer principale di adattare i Difensori e di permettere loro di affrontare qualsiasi difficoltà possano incontrare sui mondi bersaglio. — Se puoi fare tutto questo... — Fissò duramente Rablon, risentito per i suoi lunghi capelli neri, la sua voce stridente, la sua arroganza intellettuale. — Cosa state facendo per gli esseri umani che i Difensori saranno chiamati a proteggere? — Tutto il possibile. Saranno uomini migliori di quanto tu sia. Migliori anche di Rablon? Pur desiderando chiederlo, inghiottì la domanda: era fin troppo evidente che Megan lo aveva in simpatia ed era anche troppo disposta a perdonargli qualsiasi cosa. Se Rablon beveva troppo,
era solo perché era stato recentemente piantato dalla moglie, se la sua conversazione si faceva fastidiosa, la sua genialità era essenziale per il progetto. — Migliori dell'homo sapiens. Non soltanto clonazioni, perché siamo in grado di raccogliere e di selezionare i geni migliori che ci siano, filtrare i difetti, almeno quelli isolabili, migliorare l'intelligenza, il vigore, la longevità. Possiamo anche limitare l'aggressività animale, pur non essendo in grado di eliminarla completamente: anche Tomislav ammette che dovremo mantenere una quantità sufficiente a garantire l'autodifesa. Rablon rimase seduto in silenzio per un momento, fissandolo accigliato attraverso gli occhiali dalla montatura nera. — Lui ha paura di te, Brink, teme che troppi fra la nostra popolazione futura possano seguire la tua peculiare inclinazione. Anche se la cosa non aveva forse importanza per Rablon, Tomislav non aveva invece perdonato a Brink la sua carriera di combattente a pagamento, come non aveva del tutto perdonato Megan per aver insistito nel sostenere che i Difensori potevano aver bisogno di parte delle sue capacità. Adesso, quando Brink guardò la ragazza, il suo pronto sorriso lo rincuorò. Intensa per quanto distaccata, Megan sembrava essere consapevole di tutti loro, sembrava voler bene a ciascuno, ma la sua devozione al progetto veniva sempre per prima. Pur tentando di tollerare Rablon in nome dei propri sentimenti per Megan, Brink non riuscì però a non formulare un'ulteriore sfida. — Hai immaginato come si sentiranno? Questi figli della nave, quando incontreranno i Difensori? Quando scopriranno di essere soltanto umani e sapranno che invece avrebbero potuto essere simili a dèi? — Ma non possiamo farlo. — Come sempre, Rablon era paziente in modo eccessivo ed elaborato quando si veniva a simili punti. — Per un numero di ragioni più che sufficiente. In primo luogo, i Difensori saranno sterili. — Non ne vedo il perché. Se sapete come farli crescere... — All'interno di una nave-seme. — Il tono accurato ed il sorrisetto freddo lo rimisero al suo posto, come se fosse stato un bambino tardivo. — Mediante ritraduzione da codice di computer in organismi semiorganici. Usciranno già cresciuti dalla camera di produzione... come accadrà ai primi umani. Gli umani saranno completi, perché siamo in grado di registrare i geni esistenti per il sistema riproduttivo umano più o meno esattamente come li troviamo. Ma dato lo stadio della nostra tecnologia ed il rischio di
danni al seme nello spazio, è poco pratico e non necessario tentare di progettare un sistema riproduttivo per i Difensori. — Dèi eunuchi? — Mentre osservava Megan ed anche loro, Wardian era apparso discretamente divertito dal loro scontro, ed ora stava cercando di moderarlo. — Supponi che saranno felici? — Felici? — Rablon scrollò le spalle. — Li stiamo creando come speciali unità di servizio, programmate per svolgere funzioni d'emergenza e non per godere di emozioni umane. La cameriera era venuta a chiedere se volevano ordinare altre bevande, ma Wardian l'arrestò con un secco moto del capo, accennando in direzione di Rablon; poi si rivolse con aria comprensiva verso di lui. — Don, ci saranno anche altri motivi per cui la gente che trapianteremo dovrà essere umana. Per creare i Difensori ci vorranno elementi speciali... la nave trasporterà scorte sufficienti per crearne solo due o tre, mentre gli esseri umani sono fatti di sostanze più abbondanti, che dovrebbero essere reperibili dovunque. E poi, noi speriamo che la razza continuerà ad evolversi, adattandosi a ciascun nuovo ambiente, il che significa che dovremo fornire il miglior assortimento di geni possibile. Gli apparecchi di ritrasformazione saranno programmati per almeno quaranta individui, che verranno fuori da una catena di produzione all'interno della nave, a distanza di poche settimane l'uno dall'altro. Se comprendo i nostri piani... Urbanamente modesto, l'alto astronauta guardò in direzione di Rablon in cerca di una conferma. — Venti coppie. — Rablon annuì, fissando la cameriera come se intendesse richiamarla. — Con un'ampia scelta di geni intesa a provvedere un'adeguata base evolutiva. — Tornò ad accigliarsi come un gufo. — Hai capito, Brink? I Difensori non si potrebbero evolvere: anche se potessimo in qualche modo renderli fertili, si troverebbero intrappolati in un vicolo chiuso genetico, quello del loro patrimonio genetico troppo piccolo ed eccessivamente specializzato. — Non posso discutere nessuna di queste argomentazioni. — Provò un arido senso di sollievo alla vista del sorriso di simpatia di Megan. — Ma comunque, se fossi uno di quei nuovi esseri umani e mi svegliassi su un qualche nuovo mondo solo per scoprire che avrei potuto essere una sorta di divinità... non sarei eccessivamente felice della cosa. II
Voleva aiutare l'uomo a fabbricare qualche attrezzo. — Tu hai fatto la tua parte. — Senza molta grazia, l'uomo lo allontanò con un gesto. — Io farò la mia, a cominciare da ora. Nato con un patrimonio di cognizioni e di capacità, l'uomo cercò schegge di pietra e le affilò fino ad ottenere una lama, e, tagliando i pezzi di legno secco, si costruì una vanga e scavò i solchi in cui piantare i semi. Per irrigare il campo, tagliò uno stretto canale dalla polla che si formava sotto la cascata. Anche se la stagione dei monsoni era finita, i venti che soffiavano da est portavano ancora scariche di pioggia pomeridiana. Quando cadde la prima scarica, l'uomo la ignorò e continuò a lavorare stolidamente al canale, fino a che il Difensore corse da lui per offrirgli riparo nella cabina del velivolo. — Grazie, Difensore. — Il volto atteggiato ad un'espressione cocciuta, l'uomo gli fece cenno di tornare indietro. — Ma le regole sono quelle che voi avete stabilito un milione di anni fa, e spetta a me giocare. Si chinò nuovamente sulla vanga. Alla fine, tuttavia, quando le gocce ghiacciate presero a cadere con maggiore violenza, abbandonò il lavoro e si arrampicò su per la collina fino ad una grotta poco profonda che il fiume aveva scavato in qualche era precedente. Quando smise di piovere, dal momento che il canale era inondato, l'uomo livellò il pavimento d'argilla della grotta e cominciò a costruire un muro di fango. La sua pelle inizialmente rosea si era coperta di vesciche e si era spellata, ma ora stava diventando abbronzata. L'uomo si era fatto anche più magro, razionando le poche provviste del suo zaino, e si era indurito visibilmente, lavorando per lunghi giorni per mantenere il suo campo in ordine, estendere ed arginare i canali, completare il muro di protezione. Durante quei primi, duri giorni, lavorando ma tenendo cautamente d'occhio il cielo, l'uomo chiese più volte al Difensore ulteriori informazioni sul conto dei robots e della grande astronave morta che li aveva portati là, sulla cosa a forma di disco... arma, fonte d'energia, congegno di segnalazione, essa stessa parzialmente automatica... che aveva guidato il Difensore così vicino all'antica base di superficie dei robots, solo per poi abbandonarlo prima che vi potesse entrare. — Dov'è questa base? — A nord. A duemila chilometri di distanza, dall'altra parte di un pianoro desertico e poi al di là di un canyon che non sono stato in grado di superare. — Una notevole distanza. — Un cipiglio pensoso. — Se ci trovassero,
cosa farebbero? — Forse nulla. La cosa-disco non ci ha mai detto molto. L'abbiamo portata con noi dall'astronave e sa molte cose sul nostro conto. Può darsi che sapere sia la parola sbagliata... quella cosa è un computer, dotato di codici di controllo che noi non abbiamo mai infranto. I robots mi hanno dato il velivolo... con una scorta di carburante che avremmo potuto usare come materia prima per la riproduzione, e questo è tutto. È quello che sappiamo ed io penso che sia possibile che abbiano catturato e forse ucciso gli altri due Difensori, anche se non abbiamo individuato nessuna attività di ricerca nei nostri confronti. — Credi che siamo al sicuro? — Tento di sperarlo, ma essi sono ancora un indovinello. Se non mi hanno accettato come uno dei loro creatori, quando ho sostenuto di esserlo, allora perché mi hanno dato il velivolo? E se mi hanno accettato per tale, perché non ci hanno dato di più? Il Difensore fissò a sua volta lo sguardo al di là delle alture color ruggine e del lago in via di prosciugamento, in direzione della base aliena. — Non c'è modo di saperlo. — Perplesso, scosse il capo. — Se hanno aspettato per trentamila anni, credo siano disposti ad aspettare per sempre — Accennò alla cella di nascita. — Anche noi stiamo aspettando, la nascita della tua prima compagna. — Una donna? — L'uomo sorrise, con la massima emozione fino ad allora dimostrata. — Per me? — Questo è il progetto, se sarete entrambi d'accordo. — Scrollò le spalle per nascondere una fitta d'invidia. — Se non lo sarete, ne nasceranno altri. La nave deve generare quaranta di voi, a trenta giorni di distanza l'uno dall'altro. — Sarò pronto. — L'uomo fissò accigliato la nave, come facendo un conto. — Chiamami quando la sua nascita sarà imminente. L'uomo iniziò i preparativi tagliando una bracciata di una sostanza simile ad erba che cresceva più alta sulla sporgenza per farne un letto, quindi prelevò il primo cibo prodotto dal suo orto: succulenti steli color limone, che assaggiò con evidente soddisfazione, ed alcuni frutti rossi come pomodori. Raccolse quindi un po' di legna per il fuoco e si affannò a far funzionare un acciarino di pietra focaia fino a che riuscì ad accendere la fiamma. Il Difensore accese un altro fuoco per conto suo, allo scopo di bruciare il calcare in modo da ottenere il calcio che la nave utilizzava per la creazione
delle ossa umane; ricavò quindi altro olio dalle noci accumulate dal Difensore Due prima di scomparire, producendo gli idrocarburi che sarebbero stati trasformati in tessuto umano. Durante tutto il corso della notte, il Difensore rimase in attesa sulla piccola piattaforma all'esterno della cella di nascita, e, sebbene l'affaccendato computer della nave non gli dicesse nulla, una chiazza di luce infrarossa indicava l'accendersi della vita all'interno di essa e leggere vibrazioni ne tradivano i movimenti. Continuò ad attendere, fino a che la tenue luce carminia cedette il posto all'alba. — Difensore. — Nello scendere dalla sua grotta, all'alba, l'uomo si fermò per parlargli. — È tempo? — Oggi. Più tardi in giornata. — Chiamami. Voglio essere presente. Fischiettando, la zappa su una spalla, l'uomo proseguì, di ottimo umore, intonando il motivo con chiarezza e precisione, un insieme di melodie che Wardian, Tomislav e gli altri avevano imparato ed amato sull'antica Terra. Un buon segno, pensò il Difensore: ben presto, i figli della nave sarebbero divenuti qualcosa di più che semplici selvaggi dell'Età della Pietra. Le labbra della cella di nascita erano fatte di una sostanza diversa dal metallo, forse parzialmente organica, e, sebbene la pellicola dorata che le copriva si fosse staccata e sfregiata, non vi era traccia di ruggine. Lui ne percepì il crescente calore, udì i tonfi all'interno, vide una fessura scura che iniziava ad aprirsi e chiamò l'uomo. Questi lasciò cadere la zappa e si affrettò verso la nave, ma si fermò lungo il percorso per riempirsi entrambe le mani di rossi frutti maturi. La fessura si allargò più rapidamente di quanto avesse fatto in precedenza, e gli odori della nascita si riversarono fuori, violenti e strani... anche se fra essi il Difensore individuò la tormentosa presenza del profumo di lillà di Megan. La mano della donna uscì dalla fessura, seguita dal braccio roseo ed umido, ed annaspò alla cieca. Lui afferrò quella mano, calda, piccola e forte, e la sentì richiudersi sulla sua. Le labbra pieghevoli della cella si allargarono maggiormente, e, aggrappandosi per mantenere l'equilibrio, la donna ne uscì e gli finì tra le braccia. Megan, nuda, eccetto che per lo zaino marrone sulla schiena. Per un solo vorticoso istante, lui fu di nuovo Don Brink, seduto accanto alla piscina, mentre il direttore dai capelli lisciati faceva da guida a Megan
fino al suo tavolo, la gamba lesa appoggiata ad una sedia ed ancora dolorante per la scheggia di metallo nel ginocchio. Megan, la prima abbagliante occhiata. I ricordi lo lacerarono. Il suo passo lungo e sicuro, il suo vigore ed il modo in cui riempiva il vestito di buon taglio. I capelli scuri dai riflessi rossicci sotto il sole, la sua rapida stretta di mano quando il direttore fece le presentazioni. Il suo sorriso luminoso, timido ma percettivo, incredibilmente caloroso quando l'interesse per lui cominciò ad affiorarle negli occhi. Quel profumo di lillà che dava le vertigini... Il suo desiderio di allora ricomparve, la sua bruciante consapevolezza della matura e tentatrice prontezza di lei, della passione latente che accendeva la sua già rovente ansia di destarla. Desiderio e dolore immediato. Perché lui era troppo vecchio per lei, ferito e sofferente di malaria, una vita ormai usata e consumata... — Megan... — tremante, sussurrò il suo nome. — Megan... Perché quella bellezza appena nata era Megan Drake, presente qui sulla Sfera dell'Uomo, ritornata alla vita, con i suoi snelli e vivi lineamenti, il bagliore rosso dorato dei capelli bagnati, il luminoso verde degli occhi, ora colmi di maliziosa sfida. Eppure, scorse il suo rapido scuoter di capo. — Io ero destinata ad essere Megan. — Quella voce dalle ricche vibrazioni che rammentava tanto bene era un'altra dolorosa eco. — Ma se questo posto è l'Eden, il mio nome sarà Eva. Ora che l'estate si avvicinava al termine, l'alba era fredda, e lui la vide rabbrividire, cercare riparo dal vento. Le sue braccia nude lo strinsero e lei si accoccolò contro il suo calore, nuda e senza fiato, profumata di lillà e dei prepotenti odori della nascita, e lui la sentì contro di sé, percepì il sangue caldo ed appiccicoso che ancora le colava dall'ombelico. — Eva, per favore! — Respinse la sua carne umida, ma troppo debolmente. — Non siamo destinati l'uno all'altra. Se sei Eva, devi aspettare il tuo Adamo. Le labbra socchiuse di lei trovarono la sua bocca. — Tu sarai il mio Adamo, perché sei Don. Caro Don Brink! — Sempre aggrappata a lui, si trasse leggermente indietro per sorridergli. — Anche dorato, ti riconosco ancora, anche qui nell'Eden. Un dio nell'Eden! Chiudendo gli occhi, lo strinse ancora a sé. — Ti ho sempre amato, Don. — Stava tremando, stretta contro di lui. —
Ti ho amato fin da quando ti ho visto per la prima volta in quel posto, in Messico, anche se so che l'antica Megan non avrebbe mai potuto dirtelo... — Difensore... — Sentì le dita callose dell'uomo stringergli il braccio, udì l'accusa affannosa raspargli all'orecchio. — Tu... tu mi dovevi chiamare! L'uomo aveva lasciato cadere i frutti che aveva portato per lei, ed essi, schiacciandosi sulla piattaforma, l'avevano macchiata di un sugo rosso sangue. Le mani infangate, l'uomo era pallido e respirava affannosamente, mentre gli occhi socchiusi fissavano entrambi con una luce infuriata. — Non... non l'aspettavo tanto presto. — Il Difensore allontanò le braccia della donna e la fece girare verso l'uomo. — Questo è Egan — le disse, — Egan Drake. — La voce gli tremava per un'emozione che il Difensore non avrebbe dovuto provare, ma tentò di sorriderle. — Se tu sei Eva, lui sarà il tuo Adamo. Gli occhi verdi dilatati, lei indietreggiò dinnanzi all'uomo. — Lui non è Egan. — Scosse il capo, inorridita. — Egan era mio fratello. — Barcollò all'indietro contro il Difensore. — Lui non mi piace, Don. — La voce della donna si fece tremante e più acuta. — Non mi piacerà mai. Lui fissò lo sguardo, sentendosi a disagio, in quello furente dell'uomo, da sopra la spalla nuda della donna. — Mi... mi dispiace... — La voce gli si spezzò goffamente. — Ma io ti ho chiamato quando la nascita è cominciata. Non avevo certo intenzione... — Non mentire! Io credo a quello che vedo! La donna piegò il capo per fissare sull'uomo uno sguardo rovente. — Tu... tu vattene! — Le labbra le si arricciarono e la voce tesa uscì sferzante dai denti semiserrati. — Stà lontano, farai meglio a starmi lontano perché... perché io ti odio e ti odierò sempre. Puzzolente animale! Ansioso di violentarmi, di trascinarmi nella tua grotta puzzolente, per rendermi tua schiava, farmi razzolare nel tuo puzzolente fango. Non lo farò, non lo farò mai! Senza averne l'intenzione, il Difensore si trovò ad accarezzare la pelle di lei, i cui peli si erano rizzati. — Semplice sfortuna. — Scosse il capo in direzione dell'uomo, cercando di dimostrare una simpatia maggiore di quanta ne provasse davvero. — Avevamo progettato le cose perché andassero meglio, e sono certo che la prossima volta sarà così. Ma spero che tu la possa perdonare... — Lei? Oppure te?
— Entrambi, suppongo — mormorò, — anche se non ho mai avuto intenzione... — Posso capire cosa intendi dire. — Ricorda... ricorda quello che noi siamo. — Vide l'uomo serrare i pugni. — Rammenta perché siamo qui... per trapiantare la razza umana. Se Eva non è per te e tu per lei, altri nasceranno... Senza ascoltare, l'uomo si lanciò contro di loro, agitando selvaggiamente i pugni. Spostandosi da un lato, il Difensore mise la donna fuori pericolo, poi un piede infangato scivolò sulla frutta schiacciata, la ringhiera di legno si ruppe e l'uomo cadde dalla piattaforma. — Non... — singhiozzò la donna, — non gli permettere di prendermi. Lui scivolò fuori dalle sue braccia e scese di corsa la scaletta: l'uomo era precipitato di una mezza dozzina di metri, ed ora, aggrappandosi ai pali di sostegno della scala, si stava sollevando faticosamente in piedi, cosparso di fango e con il naso sanguinante. I pugni rossi si serrarono di nuovo e l'uomo sollevò uno sguardo rovente in direzione della donna. — Stattene al sicuro! — La sua rauca voce era colma di scherno. — Con il tuo prezioso dio di latta: almeno, sai che lui non ti violenterà mai! Sputando fango in direzione del Difensore, barcollò alla cieca verso la propria grotta. III — Egan, aspetta! — gridò dietro all'uomo. — Ascolta la voce della ragione! Non possiamo spezzare il piano, non dopo che così tante persone hanno dato tanto per esso. Ricorda, nasceranno altre donne... L'uomo continuò a camminare. — Lascialo andare. Con una scrollata impotente, il Difensore si volse di nuovo verso Eva; lo aveva seguito giù per gli scalini, e lui sentì le sue braccia tremanti che lo circondavano. — Mi dispiace, Don — gli stava sussurrando all'orecchio. — Mi dispiace terribilmente! Perché so quello che eravamo destinati ad essere: i genitori della nuova razza umana. So che ero destinata a lui... ma non posso! Perché ti amo così... così profondamente. — Megan... — Quell'antico nome gli tornò alle labbra nonostante tutto, e lui si girò a guardarla, scuotendo il capo. — Non mi puoi amare... — Ma io ti amo...
— Non puoi amare una cosa... — La voce gli tremò e gli s'inceppò. — Questo è ciò che io sono, un'unità della nave, anche se ho in me frammenti di alcune persone. Ma se tu credi che sia umano... La trasse leggermente indietro e si volse in modo da permetterle di vedere il cavo ombelicale e la sua asessualità. — Puoi vedere quello che sono. Capire perché non posso amare nessuna. — Don... — Un doloroso sussulto, ma la donna non indietreggiò inorridita. — Mi dispiace per te! Mi dispiace così tanto! Per te, ma non per me, a me non importa, tu rimani sempre quello che amo. — Gli si aggrappò più strettamente, tremando. — E mi dispiace anche per lui — aggiunse, seguendo l'uomo con lo sguardo, — perché si sente così ferito. Ma adesso mi odia, ci odia entrambi, ed io non andrò mai, mai da lui. Guardando l'uomo che si allontanava, lui poté soltanto scrollare le spalle. — Don, ho freddo. — I denti le battevano. — Ho un freddo tremendo. — Puoi entrare nel velivolo, ed hai il vestiario nel tuo zaino. Salirono nella cabina e la donna apri lo zaino: conteneva un equipaggiamento di sopravvivenza creato da un'assemblatore separato e collocato più in alto nel muso della nave, ed il suo contenuto era stato adattato così da equipaggiarla in modo adeguato alla Sfera dell'Uomo. C'era una tuta in due pezzi fatta di una morbida sostanza simile a cuoio, guanti e stivali leggeri ma dall'aspetto resistente, un impermeabile a mantello abbastanza ampio da poter fungere anche da coperta. Mentre l'aiutava a vestirsi, il Difensore provò un dolore anche maggiore, perché la tuta aderente la rendeva ancora più simile a Megan. Un occhio verde semisocchiuso nel modo in cui soleva fare Megan, la ragazza fissò poi perplessa una sacca contenente piccoli mattoncini colorati. — Cibo — le spiegò il Difensore. — Per lo più proteine concentrate, per mantenerti in vita fino a quando sarai in grado di raccogliere il tuo raccolto. Questi devono essere i semi. — Era un altro involucro simile al primo, ma più piccolo. — Di un tipo differente da quelli di Egan, creati in modo da adeguarsi al cambio di stagione... un clima più freddo e secco, con l'inverno alle porte. Alcuni di essi produrranno fibre da cui potrai ricavare indumenti più caldi. Il cipiglio della donna si era accentuato, e lui notò il preoccupato scuotere del capo. — Ne avrai bisogno — disse. — L'anno della Sfera dell'Uomo è più
lungo di quello della Terra. Dato che l'asse è inclinato di quaranta gradi, l'inverno sarà duro... — Oh, Don! — Notò che era in lacrime. — Vorrei... vorrei essere come te, così potrei rimanere in vita e potremmo stare insieme, sempre insieme! Senza tutti questi terrificanti problemi. — Le dita della donna gli afferrarono disperatamente la mano. — Potremmo essere così felici... — Ma tu... tu sei umana. — La voce gli tremò. — Io non lo sono. Non possiamo cambiare quello che siamo. — La trasse gentilmente a sé. — Tu sarai felice, più felice di quanto io possa mai essere, perché sei umana... — Non voglio esserlo. — Ma lo sei. — Allontanandola, tentò di essere fermo. — Devi stabilire una sorta di rappacificazione con Egan... — Non... non posso! Perché lui porta il nome di mio fratello, perché lo odio, ed ho paura. Non gli permetterò di trascinarmi nella sua grotta. — Forse potresti dormire qui sul velivolo. — convenne, — ma tu e lui avrete bisogno l'una dell'altro: per l'inverno, lui avrà bisogno dei semi che ci sono nel tuo zaino, del tuo aiuto per coltivarli e mettere da parte il cibo. E tu soffrirai la fame, a meno che lui non divida con te ciò che ha coltivato finora. Dobbiamo andare a parlargli. Quando la donna ebbe acconsentito, lasciarono il velivolo insieme. Lei era un'altra Megan Drake, snella e rapida nella tuta aderente, rosea e tentatrice per lui, il suo tenue profumo di lillà che permaneva nell'aria; apparentemente più giovane di quanto lo era stata in quei tormentosi e frammentari ricordi, camminava in silenzio, aggrappata alle sue dita, tremante di paura. — Ho una fame tremenda! — dichiarò all'improvviso, forse per rinviare il confronto. — Ed anche sete. — Egan non apprezzerebbe se gli razziassimo l'orto; ma qui c'è acqua in abbondanza. Erano arrivati al canale; la donna fissò accigliata prima di lui e poi l'acqua corrente, ma alla fine s'inginocchiò a bere. — E così pensi che sia tanto meraviglioso essere umani? — Con una smorfia d'indignazione, si tolse frammenti di terriccio dalle mani. — Essere costretti a strisciare nel fango come animali solo per rimanere in vita? — Vorrei essere umano. — Tristemente, abbassò lo sguardo su se stesso e poi lo spostò su di lei. — Se potessi fare cambio con Egan... Attraversarono il canale e salirono alla grotta. L'odore di nascita dell'uomo permaneva intorno ad essa, stagnante e quindi aspro e sgradevole; si arrestarono fuori dal rozzo muro, Megan tremante ed addossata a lui.
— Egan! — chiamò il Difensore. — Parliamo. Nessuna risposta. La donna lo stava tirando per un braccio, implorandolo silenziosamente perché se ne andassero, quando l'uomo uscì barcollando dalla grotta: ancora sporco di sangue e di fango per la caduta, appariva come rimpicciolito, malato. — Andatevene! — Aveva la voce graffiante. — Ne ho avuto fin troppo... fin troppo di tutti e due. — Ascolta... quali che siano i tuoi sentimenti, tu ed Eva avete bisogno l'uno dell'altra. Lei può anche dormire nel velivolo, ma per rimanere in vita tu dovrai condividere altre cose con lei: sementi, cibo, lavoro... — Me la caverò. — L'uomo si chinò a raccogliere un sasso. — Quanto a quella cagna... tienila fuori dal mio orto! Il sasso volò in direzione di Eva, ma il Difensore le si parò dinnanzi e l'afferrò senza che facesse danno. — Egan, per favore! — Gettò la pietra da un lato. — Ricorda in cosa consiste il progetto: è uno sforzo durato un milione di anni, forse l'ultima occasione che la razza umana potrà mai avere, in qualsiasi luogo. Non la possiamo sprecare... — Siamo di gran lunga in ritardo per questo! — L'uomo ebbe un cupo sorriso attraverso la maschera di fango e sangue. — È andato tutto sprecato sulla Terra, quando l'apparecchio d'analisi ha raccolto troppe cose di come era allora la razza umana. O forse nello spazio quando la micrometeora ha colpito il computer della nave ed ingarbugliato tutti i programmi. Nessuno di noi è quello che avrebbe dovuto essere, neppure tu. — Sbuffò sardonicamente. — E ti definisci il Difensore! Barcollando sotto l'impatto di quell'accusa, lui fu costretto ad annuire. — È vero — mormorò. — È vero. So che non siamo perfetti, come non lo erano i nostri creatori. Essi volevano che noi costruissimo un mondo migliore del loro e noi ci possiamo ancora provare... possiamo tentare di essere quello che avremmo dovuto essere, di fare ciò per cui siamo stati creati... — Difendi lei, se lo puoi! — Il ringhio ironico lo interruppe. — Ma non inganni me. Anche uno sciocco può vedere che sei stato messo insieme male... qualsiasi sciocco, tranne quella cagna. Tientela, se la vuoi: non ho bisogno né di lei né di te. — Ma la nave sì — replicò il Difensore. — Ricorda, ne nasceranno altri. — Avranno bisogno di robots migliori. — L'uomo assunse un'espressione astuta sotto la barba sporca. — Quegli altri non possono essere altret-
tanto pazzi... altrettanto difettosi quanto te. Mi chiedo se non potrei mettermi in contatto... — Non lo fare! Non ci provare! — Prendi la tua cagna! — L'uomo si chinò alla ricerca di altre pietre da tirare. — Vattene! — Andiamocene! — Eva lo tirò per un braccio. — È lui quello difettoso. — Poi si riparò dietro di lui. — Dormici sopra — supplicò il Difensore, rivolto all'uomo. — Ripensaci. — Ecco quello che penso! Si ritirarono di fronte ad una scarica di pietre tirate con violenza. Prima che vi arrivassero, la nave prese a chiamare: aveva richiuso la cella di nascita ed aveva bisogno di altre materie prime. — Non siamo ancora fermi. — Tentò di sorridere di fronte al volto contratto e disperato della donna. — La nave è ancora viva. Spero... — la voce gli si increspò, — spero che sarà più razionale. — Oh, Don... — lei lo fissò con desolazione, — non capisci... Singhiozzando e scuotendo il capo, lo precedette correndo nel velivolo. Il forno da lui costruito si era raffreddato, quindi lo aprì per rifornire di calcio i contenitori della nave, e poi schiacciò altre noci e filtrò un'altra scorta di olio nei serbatoi per gli idrocarburi. Quando si guardò nuovamente intorno alla ricerca di Eva, la scorse sul pendio fangoso, al di sotto del canale scavato dall'uomo e china su un pezzo di legno che stava usando come vanga per scavare un altro orto. La donna si raddrizzò un attimo per salutarlo, due dita allargate a formare una V in un gesto che lo fece rabbrividire leggermente per i ricordi che evocava. Scese il tramonto, e la luce del giorno sbiadì per lui in un opaco infrarosso. Vide Eva tornare zoppicando verso il velivolo, ma continuò a lavorare. La nave aveva bisogno di acqua, e, dopo averle fornito le quantità necessarie di calcio e di idrocarburi, prese in prestito la pompa dei serbatoi di zavorra del velivolo per prelevare l'acqua dal canale. Quando gli apparecchi di ritrasformazione e di assemblaggio furono nuovamente in funzione, procedette a fabbricare una lama di metallo per la zappa di legno di Eva, utilizzando quella che era stata la piastra d'ispezione del contenitore per il calcare, e, per la maggior parte della notte, continuò a lavorare per preparare e seminare il campo che Eva aveva iniziato a tracciare. Prima dell'alba, le forze gli si esaurirono e la batteria si scaricò. Tornato
con passo pesante al velivolo, sganciò la batteria portatile dalla schiena e la mise a ricaricare, agganciandosi al più lungo ombelicale che aveva collegato al generatore del velivolo. Eva era immersa in un sonno agitato quando entrò nella cabina: una Megan ancor più giovane e triste di quella che lui ricordava, le mani coperte da vesciche per il contatto con il rozzo bastone di legno, i capelli impolverati che le ricadevano sul volto infantile e bagnato di lacrime. La senti singhiozzare... poi la corrente gli mancò: scaricato, si afflosciò a terra nella cabina. — Don... — Il sussulto spaventato di lei gli giunse debole nel buio improvviso. — Cosa c'è che non va? Non poteva parlare e neppure muoversi, ma sentì il velivolo sussultare. Un'ombra rossa per i suoi occhi appannati, lei fluttuò sopra di lui e verso la porta della cabina, che si spalancò. Quando il velivolo s'inclinò ulteriormente, lui poté scorgere il suolo tenuamente illuminato che si stava allontanando rapido sotto di loro, udì uno sciacquio ed un grido di selvaggia esaltazione, ed individuò l'uomo, più caldo e luminoso del suolo, fermo in piedi là dove prima c'era il velivolo, che li guardava. In una mano, stringeva ancora un cavo d'ancoraggio sciolto, l'altra era serrata in un pugno fangoso. Raggelato, il Difensore comprese. Mentre lui lavorava ed Eva dormiva, l'uomo si era accostato furtivamente per sciogliere i cavi d'ancoraggio, quindi aveva atteso nascosto il momento per staccare il suo cordone e svuotare i serbatoi di zavorra. Stretti nella morsa dello specchio di gravità, stavano salendo nel cielo. Per un momento, non si sentì molto allarmato: il velivolo era stato costruito per garantire la sicurezza. Vide la leva d'emergenza emettere una lampeggiante luce rossa: uno strattone avrebbe azionato i serbatoi di decollo e ristabilito l'equilibrio. Tentò d'indicarla, di gridare, ma la mano intorpidita rifiutò di muoversi e non riuscì a parlare. Eppure, in qualche modo, Eva comprese, e lui la vide fare forza sulla leva, senza però che la loro ascesa cessasse. Comprese allora che l'uomo aveva in qualche modo disattivato il sistema d'emergenza, e che si trovavano già a molti metri d'altezza, si stavano allontanando dal pianeta stesso. Lui sarebbe forse sopravvissuto: nello spazio, il sole lo avrebbe ristorato quanto bastava per permettergli di ricollegare l'ombelicale al generatore, dopo di che avrebbe potuto riparare i controlli, svuotare tanta acqua a massa invertita quanta ne bastava per recuperare l'equilibrio, far ripartire i mo-
tori a razzo e probabilmente tornare a terra. Ma Eva... Sollevandosi dal lato in ombra del pianeta, avrebbero abbandonato l'atmosfera prima d'incontrare la luce del sole. Nauseato per un senso d'impotente pietà, vide che la sagoma rossiccia di lei si stava muovendo ancora. La donna lo trascinò verso il portello inclinato, e, serrandolo disperatamente a sé, balzò fuori insieme a lui. Precipitarono roteando verso il fondo del canyon: un bagliore rosso sangue, era troppo in basso. Il Difensore individuò la nave, ridotta ad un giocattolo lucente, vide l'uomo, grande quanto una bambola, fissarli agitando furiosamente il pugno, e provò una fitta interiore di dolore: erano troppo in alto, troppo in alto per lei... IV Era un bel venerdi d'autunno... ed era solo con Megan! Il laboratorio era chiuso per il fine settimana, e Rablon era via per leggere un documento ad un qualche simposio sui computers, Wardian ed Ulver erano in riunione con alcuni ingegneri della Solar Sail che ancora speravano di riuscire a lanciare la loro missione su Marte, e Tomislav era tornato a La Jolla, al capezzale della moglie. Lui comprò carne fredda, pane francese e due bottiglie di un delicato Chablis che pensava le sarebbe piaciuto; Megan riempì un canestro con lo spuntino e guidò la macchina su per il Tijeras Canyon e poi a nord, oltre il confine interstatale fino alla cima Sandia. L'aria profumata di cedro si fece più fredda, e lui, felice della sua compagnia, gradiva il tenue profumo di lillà di Megan, la sua abilità nella guida, il semplice fatto di starle accanto. Ancora in preda ad un'ambivalenza di sentimenti nei confronti della sua professione, Megan volle sapere del Kenya, e degli animali che lui non aveva avuto voglia di cacciare e dei cacciatori di frodo di elefanti che era stato assoldato per combattere. — Ti piaceva? — chiese, ed i suoi occhi verdi lo fissarono intensamente. — Uccidere gli uomini per difendere gli elefanti? — Un gioco... un gioco che amo — annuì lui. — I cacciatori di frodo erano stati avvertiti che dovevano smetterla, ed avevano risposto che potevamo anche andare all'inferno. Si erano armati come commandos ed avevano cercato di beccarci per primi. — Suo malgrado, fu costretto a sorridere di fronte all'espressione involontariamente affascinata di lei. — Gli ele-
fanti non potranno resistere per sempre, ma almeno ho concesso un po' di respiro a qualcuno di loro. Con un secco sorriso, Megan continuò a guidare in silenzio. — Egan — la stuzzicò lui infine, — il tuo gemello: non mi hai mai detto molto di lui. — Non l'ho mai fatto con nessuno, neppure con Ben Bannerjee. — La voce le era divenuta stranamente sommessa, e teneva gli occhi fissi sulla strada. — Ma se io ti piaccio... ti piaccio veramente, immagino che tu lo debba sapere. — Piacere? — sussurrò lui. — Di' pure amare. — Se è così... — i suoi occhi parvero colmi d'infelice riflessione quando tornarono a posarsi su di lui, — le cose potrebbero cambiare, quando saprai. Aveva svoltato, abbandonando l'autostrada ed imboccando una strada più stretta e meno usata che saliva verso la cresta fra boschi più alti; svoltando ancora, andò a fermarsi all'esterno di un cancello di ferro assicurato da una catena e da un lucchetto arrugginito e gli porse una chiave. Don aveva lasciato a casa il bastone, e, cercando di sembrare più giovane di quanto fosse e di mascherare le fitte causategli dal ginocchio, si affrettò ad aprire il cancello scricchiolante e le fece cenno di passare. La strada forestale era stata invasa dai cespugli e prese a salire sempre più, fino a che sbucarono improvvisamente sul costone, alto più di millecinquecento metri, che scendeva a strapiombo verso la città fumosa e l'interminabile striscia di verde che costeggiava il fiume tortuoso giù per l'arida vallata e le mesas marroni che si stendevano al di là di essa, in direzione delle remote montagne azzurrine che trapassavano l'azzurro più intenso del cielo. — Grandioso! — sussurrò lui, — grandioso come gli altopiani del Kenya! Megan si fermò ad una mezza dozzina di metri dall'orlo del precipizio, da cui soffiava un vento freddo, e rimasero seduti per qualche tempo nella macchina. A parte il vento, non si sentiva alcun suono: lassù, al di sopra di tutto, condividendo con lei la sensazione che le preoccupazioni umane fossero sopraffatte da quell'imponente immensità naturale, si sentiva più vicino a lei di quanto non lo fosse mai stato. Voltandosi infine per fronteggiarla, attese di sapere perché erano venuti lassù. — Mi hai chiesto di Egan. — Con occhi solenni, Megan si soffermò ad osservarlo prima di proseguire. — Questa terra gli apparteneva, qui voleva
costruire un telescopio. Davvero. Megan aveva notato il suo stupore. — Penso di averti detto che aveva idee grandiose... per lo più un po' pazze. Avevamo appena ventun'anni quando comprò la terra con la sua parte dell'eredità di nostra madre. Era stato uno studente brillante in parecchi campi prima che Ben lo indirizzasse verso l'astronomia... Ben si preoccupava per lui tanto quanto me. Lui all'inizio ne era stato entusiasta perché gli era venuta l'idea per questo nuovo tipo di telescopio. «Un'ossessione, che l'ha perseguitato per parecchi anni, per quanto Ben gli avesse detto che probabilmente non avrebbe mai funzionato. Doveva essere uno strumento multiplo, con una dozzina di lenti, disposte ad Y come le apparecchiature radio del Very Large Array, giù a Socorro, ciascuna solo moderatamente larga ma tutte localizzate su intensificatori d'immagine elettronici collegati ad un computer che avrebbe combinato le loro immagini. Sperava di ottenere così la definizione di uno specchio del diametro di tre chilometri, capace di individuare i pianeti di stelle distanti centinaia di anni luce. — Perché non avrebbe funzionato? — Forse lo avrebbe fatto. — La voce di Megan si fece tristemente malinconica. — Anche se Ben si sbaglia di rado. Ma Egan non si è mai spinto abbastanza avanti da fare anche solo qualche esperimento. In effetti, non è una buona collocazione, forse abbastanza elevata, ma con troppa luce riflessa da Albuquerque. Sono sorti problemi scientifici e finanziari, e tutto l'insieme è stato troppo per lui. — Megan sospirò. — Si entusiasmava sempre per qualcosa di nuovo prima di finire quello che aveva cominciato, e quell'autunno si è trattato della moglie di un tenore dell'opera di Santa Fe. Ha abbandonato tutto per andare con lei nel Messico e lei... ed infine i suoi legali... hanno consumato quello che restava della sua eredità, così non gli rimasero fondi per il telescopio. Don vide il suo volto contrarsi per un ritorno dell'antico dolore. — È stato due anni più tardi, che è morto, scalando un'altra montagna contro la quale era stato messo in guardia. Il progetto delle navi-seme è stata la sua ultima grande idea, la più grande, e tutti, tranne Ben, la ritennero anche la più pazzesca. — Un penoso piccolo sorriso le sfiorò il volto e subito svanì. — Egan lasciò la terra a me, insieme ad una lettera chiusa nella sua cassetta di sicurezza in cui diceva quanto mi amava e mi pregava di dimenticare... La voce le si spezzò, e Don attese che proseguisse. — Non ho mai venduto la terra, perché è tutto quello che mi rimane di
Egan. — Megan si volse a guardare in direzione degli alti sempreverdi. — L'abbiamo vista per la prima volta quando avevamo sedici anni, molto prima che lui la comprasse. Allora si occupava ancora di antropologia e divideva il periodo estivo fra il ranch dello Zio Luther e gli scavi Asnazi. «Adoravo quegli scavi, il cielo, il vento ed il sole, le lunghe giornate calde nelle fosse, a frugare fra la polvere, perfino il sudore e gli insetti, perché ero rimasta affascinata dal mistero e dalla tragedia degli Asnazi. Egan lavorava accanto a me, e, sebbene non dicesse mai molto, sapevo che era terribilmente infelice. Era triste da anni, anche se non mi voleva dire il perché. Aveva nuovamente lo sguardo fisso sull'orizzonte remoto ed al cielo vuoto, come se fosse solo in parte consapevole della sua presenza. — Eravamo cresciuti troppo attaccati... forse te l'ho già detto. — Il suo sguardo parve quasi apologetico quando tornò a posarsi su di lui. — Era perché non avevamo famiglia, nessuno tranne lo Zio Luther, e lo vedevamo appena. Avevamo denaro in abbondanza dall'eredità, ma nessuno tranne noi stessi. Un giorno, agli scavi, gli ho chiesto nuovamente cosa ci fosse che non andava, e lui ha risposto che me lo avrebbe detto, sulla cima del Sandia. Quando gli scavi finirono, affittammo una macchina ad Albuquerque e lui guidò fin quassù... la montagna lo aveva sempre ossessionato. Allora questa strada non era stata ancora tracciata, e lasciammo la macchina ai piedi del pendio per proseguire fra gli alberi. «Lui non volle parlare, neppure quando arrivammo qui, e mi sfidò invece ad arrampicarmi con lui su quella roccia. — La indicò con il dito. — Ero terrorizzata, ma lo seguii fin quasi sulla cima. Lui rimase là in piedi per molto tempo, fissando il Rio Grande e le colline. Era pallido e tremante, e mi accorsi... mi accorsi che stava per buttarsi giù. Le pallide labbra di Megan ebbero un tremito. — Disse che lo avrebbe fatto, se avessi tentato di fermarlo, e, ritto in piedi, rabbrividendo per il vento, cominciò a parlare: disse che le nostre vite erano una tragedia perché eravamo innamorati l'uno dell'altra, che si doveva uccidere perché mi desiderava così tanto, perché io ero sua sorella. «Disse che si doveva buttare giù perché quella era la sola via d'uscita, e che voleva che mi buttassi giù anch'io. A quel punto stavo piangendo, ero terribilmente spaventata e... lacerata. Gli risposi che poteva avermi... se questo lo avrebbe reso felice. — E lui naturalmente non lo ha fatto. Lei si volse a guardarlo con un piccolo, amaro sorriso.
— Lui mi amava, Don — sussurrò, — mi amava davvero, e naturalmente sapeva che questo mi avrebbe uccisa. Tentai di spiegare... tentai di spiegare che non aveva importanza, ma lui doveva aver riflettuto sulla cosa per molto tempo, e affermò che non avremmo mai potuto vivere insieme se non nel sotterfugio, timorosi di tutti. Per questo dovevamo morire. «Disse che dovevamo morire entrambi, ma poi, quando cominciammo a parlare, non poté... non poté uccidermi. Concluse che io avrei potuto rifarmi una vita perché non avevo alcuna colpa, mentre lui avrebbe dovuto buttarsi giù. Stavo piangendo, ma continuai a supplicarlo fino a che finalmente scese da quella roccia. Assicurò di averlo fatto per me, e stava piangendo anche lui, continuò a piangere per tutta la strada fino alla macchina, e dovetti guidare io fino in città. «Ed io... io... S'interruppe, rabbrividendo, come se il vento freddo le fosse penetrato nelle ossa. — Grazie, Meg — sussurrò Don. — Grazie per avermelo detto. — Dovevo farlo. — Le dita fredde di lei gli strinsero la mano. — Perché è per questo che sono quella che sono, che Egan ha concepito il progetto delle navi-seme e che il progetto significa cosi tanto per me: per sfuggire a quella terribile nube. Una forma di ammenda per tutto quello che non abbiamo potuto evitare. Se puoi comprendere... Megan teneva gli occhi fissi sul suo volto, implorante, ed in essi brillarono le lacrime quando lui annuì lentamente, soffrendo per lei. — Sono felice che tu comprenda. — Si aggrappò ancora più forte alla sua mano. — Perché avevi il diritto di saperlo, se davvero t'importa di me. Io lo amavo, Don, credo quanto lui amava me, anche se non... non me n'ero resa conto... — Rabbrividì di nuovo. — La cosa mi ha lasciato una ferita che non è mai guarita veramente. Forse avrei dovuto concedermi un'avventura, anche se per lui non sarebbe mai stato un aiuto. Credo di aver biasimato me stessa perché lo amavo così tanto, e la sofferenza ritorna, mi fa male anche adesso, quando dovrei amare... vorrei amare qualcun altro. Le loro dita si stringevano, ma lui non trovò nulla da dire. — Dopo di allora — continuò Megan, — ci siamo tenuti lontani, siamo andati in scuole differenti... sono arrivata a pensare che lui abbia abbandonato l'antropologia per l'astronomia solo per uscire dal passato. Iniziò le sue avventure amorose, che terminarono tutte in modo così miserevole, e la maggior parte delle notizie che avevo di lui mi venivano da Ben. Credo che Egan soffrisse sempre terribilmente a vedermi: diceva di aver paura...
paura di non poterlo sopportare. — Addio, Difensore. — Un lucente spettro rossastro, e la voce derisoria dell'uomo. — Me ne vado stanotte stessa. La figura carminia si mise lentamente a fuoco, appoggiata ad un bastone e piegata sotto il peso di un grosso bagaglio. — Ti lascio qui a continuare a difendere tutti i mostri che verranno fuori dal nido, e spero che tu li ami tutti. Fino a che tornerò indietro. — Un'aspra risata. — Perché tornerò indietro, con un gruppo di robots migliori, per assumere il comando qui... — Ascolta! — tentò di gridare, — non riuscirai mai... L'uomo non sarebbe mai sopravvissuto ai duemila chilometri di giungle, montagne e deserti fino a raggiungere la base dei robots, non senza una guida ed una quantità di provviste superiore a quella che era in grado di trasportare. Certamente non prima che iniziasse il duro inverno. Ma il Difensore non aveva energia per parlare o anche solo per muovere gli occhi quando la sagoma rossiccia scivolò fuori dal suo campo visivo. Il bastone sibilò per abbattersi sul suo volto, sibilò e si abbassò ancora, e lui sentì i grugniti di fatica, il singhiozzo di frustrazione ed il suono degli stivali che si allontanavano. I colpi pungevano soltanto, ma lui fu costretto a rimanere disteso dove si trovava, parzialmente sepolto nel fango, fino a quando la penombra rossiccia si trasformò nella luce del giorno, abbastanza forte da permettergli di alzarsi. L'uomo era scomparso, ed anche il velivolo, ma la neve era illesa, vagamente luminosa per il calore dei suoi affaccendati strumenti. Eva giaceva vicino a lui, seminuda e già fredda: il fango rossiccio le riempiva la bocca, gli occhi e le narici, e l'uomo l'aveva rotolata su un fianco per strapparle il pesante mantello. Il Difensore rimase a lungo fermo accanto a lei, in preda ad un vortice di amari ricordi, frammenti sparsi che rotearono intorno a lui per soffocarlo nel dolore. Laceranti momenti vissuti da tutti gli uomini che erano in lui, immagini di quella Megan che essi avevano tutti desiderato, loro, gente imperfetta, tutti segretamente sconfitti, che vivevano al limite della disperazione, faticando per il progetto perché la sua promessa di un qualche migliore futuro per l'uomo era tutto ciò che avevano per cui vivere. Se questa doveva essere la fine... Non doveva esserlo. Lottando contro quella marea sopraffacente di desolazione, si allontanò dalla tomba per contattare la nave.
— Difensore Uno. Rapporto d'emergenza! Non ricevendo alcuna risposta perché la nave doveva essere impegnata con le apparecchiature di ritrasformazione, fu costretto a ritentare più volte prima di ricevere il solito aspro segnale. — Nave a Difensore Uno. Sii breve. — Le nostre prime creazioni... — Si controllò e passò ad usare il linguaggio in codice di cui si serviva la nave. — Difensore Uno riferisce la perdita delle iniziali unità umane. Unità femminile morta, uccisa da unità maschile, la quale ha tentato di far perdere nello spazio il velivolo antigravitazionale con la femmina e me a bordo. L'unità maschile si è allontanata, con la dichiarata intenzione di contattare i robots alieni. La nave rimase in silenzio per tanto tempo che il Difensore temette che i suoi circuiti fossero tornati ad occuparsi dei processori. — Nave a Difensore Uno — gracchiò poi bruscamente. — Missione urgente: inseguirai l'unità maschile, la catturerai, se possibile, poi tornerai per aggiornamenti sulla nostra missione qui. Se impossibilitato a catturarla, la distruggerai. Ulteriori contatti con robots alieni devono essere impediti, non importa a quali rischi. — Missione non necessaria — protestò lui. — Unità maschile valutata altamente difettosa. Il suo contatto con la base aliena ritenuto impossibile. La sopravvivenza dell'unità lontano da qui valutata impossibile. Si consiglia cancellazione della missione. — Nave a Difensore Uno. Assolverai la missione. — Difensore Uno a Nave. — Con la voce rallentata da un senso umano di scoraggiamento, fece un altro tentativo. — Missione assegnata estremamente rischiosa per me. Velivolo gravitazionale perduto, batteria scarica, energia per ricaricarla non più disponibile. Stagione invernale in rapido avvicinamento, con conseguente riduzione dell'energia solare. Richiedo... richiedo una riconsiderazione della missione ed il permesso di rimanere per garantire scorte di materie prime. — Materie prime ora adeguate — lo interruppe il tagliente segnale sintetico. — Il tuo servizio qui non è più richiesto. Unità umana difettosa valutata come massimo rischio per la missione attualmente in corso. Agisci per rimuoverla, sei ritenuto sacrificabile. La missione rimane valida. V Scavò la tomba di Eva giù verso il fiume rispetto ai campi, e la seppellì
tristemente là, il solo segno sulla tomba la vanga di legno. Poi, mettendosi finalmente sulla pista, attraversò il canyon settentrionale in direzione della base aliena, ma non trovò segni che indicassero che l'uomo era passato di là. Piegando verso valle, scoprì una traccia quasi svanita del suo odore naturale, su nudi strati di granito che non conservavano impronte. Ancora più giù, dove l'uomo era stato meno cauto o aveva avuto maggiore fretta, la pista si fece più chiara e l'odore rancido e dolciastro fu spesso più intenso, accompagnato da qualche impronta di stivale sul fango quasi secco. Un pungente odore di linfa giungeva poi a tratti dalla nuova distesa di verde che era ricresciuta dopo il ritrarsi delle acque. Il lago monsonico riempiva ancora la bocca del canyon dove la nave era inizialmente atterrata, e, per quanto si stesse essiccando in fretta, l'acqua alluvionale aveva lasciato una striscia di fango rosso ed umido al di sotto della giungla di spine. Gli alti cespugli spinosi, secchi e morti quando la nave era arrivata, erano divenuti adesso un'artigliata barriera verde che il Difensore sapeva l'uomo non sarebbe mai riuscito a superare. Le ultime impronte profonde lo guidarono giù verso il lago e dritto in una trappola: seguendole per troppo tempo, finì immerso fino ai fianchi in una fanghiglia puzzolente, giocato, gli parve, da un giocatore molto astuto. Un'ondata di grigia futilità piombò su di lui. Quello che lo feriva non era tanto la sua attuale e difficile situazione quanto quello scoraggiante fallimento finale dell'intero progetto delle navi-seme: dopo tutti quei secoli, dopo tutta la fatica e la sofferenza, Eva ed il suo Adamo erano stati generati troppo umani, per nulla migliori dei loro imperfetti creatori, e lui stesso aveva miseramente sbagliato nell'assolvere il suo dovere di Difensore. Pur cercando disperatamente un sostegno spirituale, non trovò né redenzione per se stesso né un futuro per il progetto. La macchina che era in lui, tuttavia, continuò a funzionare, per nulla turbata da rimpianti umani. Annaspando nel fango, riuscì a tornare su un terreno più solido, ma quella lotta lo sfini e lo costrinse a rimanere disteso al sole per lungo tempo, per ricaricarsi, ed il tramonto lo raggiunse quando non era ancora a metà dell'altura dall'altra parte del lago, una barriera così lunga e diritta che pensò dovesse essere artificiale. Perdendo energia con il calar della notte, si trascinò di qualche metro all'interno della frangia di giungla e rimase disteso là ad attendere la luce del giorno, annaspando alla ricerca di frammenti delle sue frantumate speranze. Per quanto difettoso il fuggitivo era più forte, più rapido, forse anche più astuto di lui, un pazzo imprevedibile. Tuttavia, almeno così tentò di di-
re a se stesso il Difensore, lui conosceva meglio il pianeta, era solo parzialmente organico, non aveva bisogno di cibo, il suo corpo era virtualmente immortale. Per quanto bloccato dal buio, poteva sempre riprendere a muoversi con il sole, ed alla fine, con una sufficiente dose di fortuna, avrebbe ancora potuto vincere quell'ultima, cupa partita. Non con la cattura, perché l'uomo non si sarebbe mai arreso; ma l'avversario avrebbe avuto fame e freddo: anche con il mantello rubato ad Eva, non era vestito in modo adeguato a far fronte all'inverno del pianeta, già troppo vicino per permettergli di raggiungere la base dei robots in tempo per avere là un qualche rifugio. Che lo prendesse o meno, l'uomo sarebbe sicuramente morto. Il suo problema, per come il Difensore lo vedeva, era quello di testimoniare la sua morte o di ottenerne una prova; altrimenti, impossibilitato a riferire di aver portato a termine il suo compito, sarebbe stato costretto a continuare le ricerche per sempre, indipendentemente dalla logica o dalla disperazione umana. A poco a poco, con sua sorpresa, cominciò a sperimentare una sorta di cupa gioia. Lucente di un vago carminio, la giungla di spine ed il fiume opaco divennero una fantastica terra fiabesca, e, sebbene il suo corpo fosse come morto fino al ritorno del giorno, il suo cervello... per lo meno il suo frammento umano... trovava ancora un senso di esaltazione nella caccia. Verso l'alba, apparve una prima, precoce ondata di freddo, con un aspro vento settentrionale ed una pioggerella gelida, ma lui la sopportò allegramente, sapendo quanto essa nuocesse molto di più al suo nemico. Una volta, per un momento, fu nuovamente Don Brink, ancora sulle tracce dei cacciatori di frodo di elefanti che stavano seguendo una mandria di quelle bestie verso la nuvolosa vetta del Kilimanjaro. Era steso dove si era lasciato cadere, nello uadi alle spalle di un termitaio, quando il fuciliere nascosto aveva aperto il fuoco da dietro un baobab. I suoi pochi uomini erano inferiori di numero e di armamento, intrappolati in un'imboscata ben progettata bloccato sul posto, senz'acqua, con gli insetti che stavano già cominciando a strisciargli addosso, si sentiva lo stesso totalmente vivo, il cuore che gli batteva per la tensione del gioco. I tre uomini alle sue spalle erano degni di fiducia, tutti salvi ed ora appostati per la difesa. Dal rotolare di un ciottolo, comprese che Ahmed si era spostato in modo da coprire la depressione cespugliosa sottostante dove il grosso dei cacciatori di frodo doveva essere raccolto in attesa di attaccare. McCaine era sull'altro fianco, e Jomo era tornato indietro lungo lo uadi per
proteggere le spalle. Era certo di aver ferito il tiratore appostato con il suo primo tiro. Quando fosse sceso il buio... Ci mise un altro giorno a raggiungere l'altura ai piedi del lago, e la densa massa della giungla lo rallentò ulteriormente. Quando finalmente arrivò al versante opposto, questo era un terrificante precipizio che sprofondava per più di trecento metri nella valle sottostante. Fatto di una sostanza azzurrina, priva di crepe e dura come il diamante, doveva essere stato una diga prima che i robots giungessero ad uccidere il pianeta, ed il lago si riversava ancora dall'antica chiusa, precipitandosi ruggendo nell'avvallamento sottostante. Al di sotto di esso, la terra era quasi pianeggiante, una pianura alluvionale che arrivava fino al mare. Più ampio e più lento, il fiume vagava qui in ampi cerchi che scorrevano fra rive coperte da una giungla spinosa ancora più alta e nella quale non si apriva nessun passaggio. L'odore quasi svanito dell'uomo guidò il Difensore fino ad un mucchio di legna alla deriva su un banco di sabbia, dove un martello di pietra ed una serie d'impronte nel fango rivelarono la costruzione di una zattera, inchiodata insieme con spine simili a chiodi. Rallentato dalle nubi incombenti, il Difensore ci mise altri tre giorni per costruirsi una zattera e ne impiegò molti altri andando alla deriva nel delta. Di là, l'uomo aveva ripiegato a nord lungo la costa, confinato sulle spiagge fra l'oceano e la giungla, lasciando la sua storia scritta in schegge di selce e fuochi spenti, in ossa spolpate e gusci vuoti delle creature catturate nel mare. Con un'abilità inaspettata, l'uomo continuava a tenersi a distanza e tentava di nascondere la propria pista. Si era ripetutamente arrampicato su spuntoni di roccia per guardarsi alle spalle, ed una volta, là dove un costone di granito costeggiava la spiaggia, aveva lasciato un'altra trappola: una profonda buca coperta di ramoscelli e nascosta sotto un uniforme strato di sabbia. L'odore più intenso aveva messo in guardia il Difensore appena in tempo; oltrepassato l'ostacolo, andò in cerca del punto da cui l'uomo aveva sorvegliato la trappola, attendendo di tornare per seppellirlo. Decifrando quella silenziosa saga a mano a mano che risalivano la costa ed andavano incontro all'inverno incombente, il Difensore scoprì che il suo disprezzo per l'uomo si stava tramutando in compassione, e la compassione in ammirazione: solo e senza amici, con scarse provviste e vestiario di
fortuna, inseguito attraverso un territorio ostile, l'uomo era sopravvissuto. Non più paranoico negli atteggiamenti, aveva cominciato a mostrare il modo di pensare di Don Brink, la sua competenza, la sua dura risoluzione, ed il Difensore si chiese se Tomislav non avesse finito per inserire nel computer una quantità dei geni di Brink maggiore di quelle che intendeva usare effettivamente. Giorno dopo giorno, il sole sorse sempre più tardi ed il soffio del vento si fece più freddo; giorno dopo giorno, il lento corpo divenne un pesante fardello per il Difensore; giorno faticoso dopo giorno faticoso, meditando su ogni indizio, il Difensore arrivò alla convinzione sempre più ferma che l'uomo condividesse la sua cupa gioia nel giocare quella partita. E venne il giorno in cui la giungla scomparve, sostituita da alture di cinquecento metri circa, fatte di dura roccia vulcanica proveniente dal torreggiante cono al centro del continente. Al di sotto di esse, i selvaggi mari invernali ruggivano sugli scogli per andare ad infrangersi sulle spiagge cosparse di massi. Presso un ultimo accampamento in una grotta parzialmente riparata, l'uomo aveva lasciato una pagina scritta con fuochi spenti, pietre spezzate ed ossa delle creature marine cui aveva dato la caccia per pellicce da indossare e carne da affumicare. La pista, quando riuscì a trovarla, guidò il Difensore su per le colline: un sentiero impervio, stretto ed abbastanza pericoloso, che costituiva di per sé un enigma in quanto era talvolta tagliato al di sotto di sporgenze rocciose dove era difficile che potesse essere sato tracciato dall'erosione naturale. Quando raggiunse la cima, barcollando sotto un forte vento, il Difensore, si trovò di fronte ad un ulteriore enigma: un lungo rettangolo pianeggiante, che si protendeva molto addentro nella terraferma, lucente nel rosso tramonto per una dorata luminescenza interna. Pensò che si trattasse di un'antica pista di atterraggio, ancora in attesa di apparecchi che non sarebbero mai arrivati. Verso l'interno, quasi troppo fredda per brillare sotto la vista ad infrarossi del Difensore, la nuda pianura non mostrava ancora segno di vita; lui rammentò come l'aveva vista dallo spazio, rosso mattone ed arida d'estate, che risaliva ininterrotta fino al grande canyon che la tagliava per tremila chilometri, dal massiccio centrale al mare. Quella notte, il Difensore si distese al limitare della striscia lucente, che sembrava essere più calda della neve, ed all'alba riprese l'inseguimento, leggendo sul terreno un'epica scandita dai segni delle racchette di legno sulla poca neve e dalle gocce di sangue congelato.
Il sole era adesso lontano verso sud, le giornate brevi e gelide, il corpo del Difensore lottava per riuscire a muoversi, eppure lui cominciava a percepire l'inebriante profumo della vittoria. Con il mare alle spalle e nessuna fonte di cibo dinnanzi a sé, né combustibili di sorta, con la base dei robots ancora molto lontana, la partita doveva essere ormai vicina alla fine. Eppure l'uomo continuò a giocarla cocciutamente, marciando diritto verso la base aliena senza più tentare di nascondere le proprie tracce. Anche se ogni nuova tempesta di neve velava la pista, la neve fredda conservava l'odore abbastanza a lungo da contrassegnarla, e, per quanto ostacolato a sua volta, il Difensore non sentiva dolore. Quando trovò un consunto stivale di cuoio, nero ed indurito per il sangue congelato, comprese che l'uomo stava invece soffrendo. Una notte, cercando riparo dal crudele vento del nord, il Difensore si distese contro il pendio di un burrone asciutto. Il vento cadde e la rossa oscurità si fece più fitta. Nel buio, sentì i passi zoppicanti ed un respiro pesante, poi un attrezzo di legno strisciò e stridette sopra di lui, ed una pioggia di ghiaia gli cadde sul volto. — Addio, Difensore. — Un rauco gracchiare trionfante. — Credo che pensassi di aver vinto la partita, e può anche darsi, ma non potrai mai vantartene, a meno che qualche dannato idiota capiti da queste parti e ti tiri fuori di qui sotto. Accecato, privo d'energia, poté soltanto rimanere ad ascoltare mentre la ghiaia lo ricopriva ed il suo peso gelato cresceva. I passi si allontanarono, e lui ebbe l'impressione di sentire il remoto gemito del vento e talvolta il secco spezzarsi di qualcosa nella terra telata, e pensò che quello sarebbe stato tutto ciò che avrebbe mai udito in futuro. La prigione africana. Ricordi frammentari di essa gli passarono nel cervello fino a diventare insopportabili, come le frasi prive di senso di un fonografo rotto. — Sei dannatamente fortunato. — L'uomo dell'ambasciata gli porse un pacchetto di sigarette, accompagnato da un sottile sorriso sardonico. — Solo tre anni. L'ambasciatore dice che dovresti essere fucilato. Una devastante dissenteria ed i gabinetti intasati. Gli indigeni negri che deridevano l'uomo bianco finito nei guai, e rifiutavano di credere che lui avesse accettato di trasportare le armi non in cambio di un ragionevole compenso bensì in un momento di devozione alla causa della loro liberazione... un momento che adesso gli sembrava di pazzia. I topi e la puzza, il
cibo cattivo ed il suono dell'acciaio, gli aspri ordini cui doveva obbedire, frammenti di soffocata gentilezza ed atti meschinamente avidi, stolida stupidità ed arrogante ipocrisia. La monotonia che uccideva, un giorno dopo l'altro. — Sei stato dannatamente fortunato... Per sempre... Ma i passi ritornarono, trascinandosi ancor più lentamente, il rozzo attrezzo grattò, si arrestò, poi grattò ancora debolmente. Lui avvertì un violento puzzo di cancrena, e, quando gli occhi furono liberi, individuò l'uomo, uno sparuto spettro rossastro, con gli occhi infossati e la barba orlata di ghiaccio, che lo stava trascinando fuori dalla sua tomba. — Bene, Difensore. — Un sussurro ansante. — Ce l'avevo quasi fatta. Sono arrivato abbastanza vicino da vedere la cupola, lucida come argento, distante non più di cento chilometri... dall'altra parte di quel dannato canyon. Non c'era modo di oltrepassarlo, quindi rallegrati, Difensore, se sei in grado di farlo. Ma io... Ci fu un debole accesso di tosse. — Io sono spacciato, ma ho ancora un incarico per te. Torna alla nave... tu tornerai a funzionare quando finirà l'inverno. Porta il mio messaggio... le mie ultime volontà. Di' alla nave che non ha fallito. Ci è voluto un po' di tempo, ma adesso ricordo... — I fiocchi di neve presero a turbinare intorno a loro. — Ricordo quello che eravamo destinati ad essere. — Era difficile sentire quel rauco sussurro fra il turbinio del vento. — Siamo partiti male. Megan ed Egan... la sua Eva ed il mio Adamo... quando lei s'è innamorata di te. Nati... eravamo nati per amarci a vicenda, ed io sono impazzito quando l'ho perduta. Adesso mi dispiace, perciò di' alla nave... — l'uomo cadde sulle ginocchia, — di' alla nave di non sprecare i nostri geni, dille di riprogrammarci e di permetterci... di permetterci di amarci, di vivere per essere... quello che eravamo destinati ad essere. Per domare questo dannato pianeta, per sconfiggere i robots, se si metteranno in mezzo, per costruire... costruire... Il sussurro rantolante si spense, ed allora l'unico suono rimase l'ululato del vento. Il Difensore ritornò a valle al seguito dei successivi monsoni, a bordo di una zattera di legno. Avvertito dal tuono soffocato della vicinanza della cascata, approdò prima di giungervi e si aprì il varco nuovamente attraver-
so la giungla estiva per guardare giù, oltre il bordo del canyon. La nave era dove lui l'aveva lasciata, ancora più rossa di ruggine e simile ad un giocattolo, vista da quell'altezza. La stessa scaletta di legno saliva ancora lungo lo stretto scafo fino alla cella natale, ma il fondo della valle era mutato: il sistema di canalizzazione si era allargato, gli orti si erano trasformati in campi veri e propri, ora dorati per il grano maturo. Avvistò una voluta di fumo che si levava da un forno di fango vicino alla grotta e sentì l'aroma del pane fresco. Una serie di suoni umani salì fino a lui: una risata ed il tintinnio di un'ascia, il pianto di un bimbo, prontamente zittito, il fischiettare di un uomo al lavoro nei campi più bassi, intento a legare i covoni gialli. Un mormorio di voci basse... gli parvero quelle di Eva e di Egan... mentre l'uomo impastava a piedi nudi paglia e fango e la donna modellava l'impasto in grossi mattoni che il sole avrebbe seccato. — Difensore Uno a rapporto. — Non ricevette risposta. — Difensore Uno a Nave. Difensore Uno... — Nave a Difensore — rispose infine la brusca voce sintetica. — Rapporto. — Ho vinto la partita... — Si controllò e passò ad usare il linguaggio robotico della nave. — Rapporto: missione portata a termine. Unità umana fuggitiva ha fallito nel tentativo di raggiungere la base aliena. La sua morte osservata e verificata. Mentre ancora in vita, l'unità ha dettato un messaggio per la Nave. — Riferisci il messaggio. — L'unità maschile ha affermato la tardiva convinzione che il progetto delle navi-seme non fallirà, ed ha espresso il proprio convincimento che la colonia sopravviverà per ripopolare il pianeta. Ha manifestato rincrescimento per il proprio funzionamento difettoso, valutato accidentale ed evitabile, ha insistito affinché le unità perdute venissero riprogrammate per il salvataggio dei geni... — Unità riprogrammate già completate e liberate, valutate perfettamente funzionali. — Sono così felice... — Nave a Difensore Uno. — La voce brusca lo interruppe. — Riprenderai a svolgere i consueti doveri, assistendo nel completamento della produzione programmata di un totale di quaranta unità umane funzionali. Esiste un'attuale necessità di ulteriori scorte di calcio ed idrocarburi. — Difensore a Nave. — Sentì il proprio computer interno rispondere
con altrettanta freddezza. — Nuovo dovere accettato. In silenzio, le sue componenti umane stavano cantando. PARTE SESTA: L'AGENTE LETALE I C'erano dei problemi, lo leggeva sui loro volti. — Difensore... — Erano un uomo ed una donna, ancora vestiti con la stoffa simile a cuoio contenuta nei loro zaini. Timidamente, si erano fermati ad una dozzina di metri di distanza. — Difensore, ti possiamo parlare? Nel corso di più di tre degli anni della Sfera dell'Uomo, la nave aveva generato quaranta coloni, sfruttando tutto il patrimonio genetico a sua disposizione, ed i coloni avevano imparato a prendersi cura della nave. Non essendo più necessario per nessun compito importante, lui aveva tentato di tenersi in disparte, e quel giorno i due lo avevano trovato intento a costruire un muro a terrazza che potesse sostenere una maggiore quantità di terreno fertile nella ripida parte superiore del canyon. Vedendoli, aveva lasciato cadere il suo attrezzo ed era andato loro incontro: erano la coppia più giovane, nata solo da pochi mesi, ed erano ancora insicuri; l'uomo si arrestò e la ragazza gli si riparò dietro, a disagio. — Perché no? — Scosse il capo, rivolgendo alla ragazza un sorriso asciutto. — Non sono un mostro, indipendentemente dal mio aspetto. — Sei splendido. Vide che lo stava fissando, timorosa eppure affascinata dalla sua altezza dorata e dal cavo ombelicale che andava dall'ombelico all'alimentatore dalle ali dorate che la nave gli aveva fabbricato con gli ultimi pochi litri delle speciali materie prime per i Difensori portate dalla vecchia Terra. Se notò la sua asessualità, la ragazza non v'indugiò. — Così... così splendido! Così possente! La sua ammirazione lo ferì, ricordandogli, la passata tragedia. — Ma non sono umano, ricordalo — l'ammonì in fretta. — Sono soltanto uno strumento della nave, ed il mio cervello è più un computer che non una cosa organica... anche se posseggo frammenti di ricordi umani. Frammenti di entrambi voi — aggiunse, tentando di spezzare il loro reverenziale timore. — Mi è stato dato il nome di Jayna Rablon — disse la ragazza, gli occhi
dilatati dalla meraviglia. — Sai il perché? Jayna. Annuì, ricordando. Jayna e quel rovente pomeriggio di mezza estate in cui lei era tornata dalla crociera con il suo petroliere texano per cercare di lui ad Albuquerque. Lui era nel laboratorio, ancora intontito per le troppe ore trascorse sotto l'apparecchio d'analisi, e, dal momento che le guardie non volevano permetterle di entrare, lei lo aveva chiamato dal cancello. — Marty, caro! Non posso neppure vederti? La voce di contralto gli aveva fatto ricordare come l'aveva vista l'ultima volta, quel terribile pomeriggio in cui se n'era andata: profumata e lucida per la doccia, mentre gettava la loro fotografia di nozze contro il muro ed apriva l'accappatoio per concedergli un'ultima tormentosa visione della sua nuda bellezza, prima di andarsene con Crowler. Adesso, mentre usciva per andarle incontro, si sentiva così debole, strano, senza fiato nel torrido calore del deserto, che comprese di essere in preda ad un'altra reazione provocata dalla miscela isotopica di Tomislav. In preda ad un vortice di emozioni, non poté fare a meno di odiarla ed al contempo di sperare pazzamente che fosse tornata per rimanere. Al cancello, lei si lanciò ansiosamente avanti per abbracciarlo. — Marty! Marty... Il profumo che ricordava bene destò la tormentosa consapevolezza di quello che aveva perduto: il suo corpo snello fu contro il suo, la bocca di lei cercò la sua, e lui la desiderò disperatamente, ma un momento più tardi Jayna si era già tirata indietro. — Caro, questo è Hubie. Un giovanotto dalla barba gialla che lui aveva disprezzato a prima vista, Hubie fece un guardingo cenno di saluto ma non si offrì di stringergli la mano. — Hubie è il mio avvocato — gli disse Jayna, — da quando ho piantato il tuo vecchio amico Crowler. — Le sue labbra rosse si arricciarono. — Quel bastardo! Se la faceva con tutte le sgualdrine che riusciva ad attirare sullo yatch. Fatto scivolare un braccio intorno alle spalle di Hubie, lei indietreggiò di un passo e reclinò da un lato la testa perfetta, osservando Marty con la spassionata concentrazione di un bambino che stia strappando le zampe ad un grillo. Il bacio che gli aveva dato aveva sbavato il suo vivace rossetto, ed ora lei sorrise, con un lampo dei perfetti denti bianchi fra il rossetto
sbavato. — Sono contenta per te, Marty. — La sua voce risuonò più vivace. — Abbiamo letto tutto quello che ti riguarda sul Wall Street Journal, a proposito dei tuoi brevetti di computer e di tutti i milioni della GEECO che intascherai. Più qualche accenno al progetto segreto cui lavori qui. Lui indietreggiò, fissandola incredulo: non poteva parlare del progetto, ma esso era tutto... avrebbe dovuto essere tutto ciò che adesso contava per lui. Sentendosi girare la testa, avrebbe voluto sedersi. — Non ti chiederemo cosa stai facendo qui, almeno, se vorrai essere ragionevole. Ma noi siamo ancora sposati, dolcezza, non lo scordare, ed io sono venuta a prendere quel che mi spetta. — Lanciò un'occhiata ad Hubie, con un sorriso più gentile. — Forse non ti ricordi di Hubie, ma lui lavorava qui. — Incarichi estivi, mentre stavo per laurearmi in legge. — Hubie si liberò dalla stretta per scivolare dietro di lei, a disagio, e la sua voce era uno stridio soffocato. — Quando stavano installando tutto quel vostro equipaggiamento segreto. — Caro, so che odori ancora il tuo prezioso zuccherino. — Lui si sentì tremare per il desiderio pur sapendo che lei lo stava solo tormentando. — Ti ho sentito fremere quando ti ho baciato, e so che mi tratterai con giustizia. — Io speravo... — sussurrò lui, — speravo... — Se mi volevi davvero, avresti dovuto prendere lezioni — mormorò lei. — Lezioni da Hubie. Hubie arrossì e scosse il capo, indietreggiando ancora di più. — Adesso è troppo tardi per pensarci. — I suoi occhi erano violetti, grandi e pungenti come scalpelli, mentre trafiggevano Hubie con uno sguardo. — Ma ti posso dire che sono ancora il tuo piccolo zuccherino. — Pigramente intima, la sua voce lo accarezzò. — Inoltre, Hubie ne sa abbastanza da mandare all'aria il tuo prezioso progetto se tu volessi giocarmi qualche sporco trucco. — Non mi potete ricattare! — protestò, fissando Hubie e barcollando come un ubriaco. Hubie deglutì ed indietreggiò ancora. — Via, dolcezza, non dire brutte parole. — Jayna scosse il capo, sorridendogli teneramente. — Non sai come si fa, non come sa fare Hubie... Allungò la mano per afferrare quella dell'apprensiva Hubie e lo trasse vicino a sé.
— Pensaci, dolcezza. — Avrebbero potuto essere di nuovo a Kingsmill, quando lui era soltanto un insegnante e lei cercava di spillargli quaranta dollari per una svendita al Fashionette mentre lui non aveva denaro sufficiente per arrivare al giorno di paga. — Ti piacerebbero un sacco di storie sui giornali ed alla radio a proposito di come in effetti la tua nobile fondazione non stia sperimentando habitats L-5 ma stia in realtà mandando verso le stelle razzi pieni di uomini sintetici? Odiandola, ed odiando anche Hubie, si sentì la testa leggera e non del tutto razionale. Aveva bisogno di un doppio scotch per combattere l'effetto che il miscuglio isotopico aveva su di lui, ed il sorriso sbavato di Jayna sembrava ondeggiare nell'aria secca, un miraggio derisorio. La guardia lo prese per un braccio per aiutarlo a rientrare, ma l'antico desiderio di lei era come una febbre ardente. — Anch'io... anch'io ho i miei avvocati. — Dovette appoggiarsi alla guardia, e la sua voce rauca parve venire da molto lontano. — Forse... — Sbatté le palpebre, cercando di fermare la sua immagine tremolante. — Forse potremo arrivare ad un accordo, se tu mi darai... ci darai qualcuna delle tue preziose cellule da analizzare geneticamente. Con un vago senso di colpa, lui sorrise alla ragazza. — Alcuni dei tuoi geni vengono da una Jayna che conoscevo — le disse, — ma sono stati migliorati, immensamente. — Tu mi... — Affascinato, l'uomo lo stava fissando a bocca aperta. — Tu conoscevi anche me? Galen Ulver. — Ho in me frammenti della sua mente, ricordi spezzati che l'apparecchio d'analisi ha raccolto insieme alle nozioni relative alla propulsione a fusione che stavano registrando per il computer. Allora era un vecchio, e malato di cuore. Lo sguardo sull'irsuto gigante fortemente abbronzato che aveva dinnanzi, il Difensore ricordò il piccolo elfo scuro e calvo, abbastanza vivace per i suoi anni, quando Megan lo aveva portato al laboratorio, ma in seguito quasi sempre malato a causa del liquido dell'analisi. Avvisato che avrebbe fatto meglio a smettere, lui aveva rifiutato, perché era giunto ad amare Megan e ad affezionarsi agli altri impegnati nel progetto, e perché quello era il suo solo modo di arrivare allo spazio. Era nell'ufficio di Megan ad Albuquerque, e stava strisciando i piedi, imbarazzato.
— Sono stato felice di darvi tutto il sapere che possedevo, ma non potete volere anche i miei geni. — Ma noi li vogliamo. — Amava la sua voce ed il suo grave sorriso. — Noi ti conosciamo, e siamo tutti d'accordo. — Posso... posso sedermi? — Ma naturalmente. — Gli indicò la poltrona accanto al lucente stellano. — Galen... — Lo fissò intensamente, com'era solita fare, un occhio socchiuso. — C'è qualcosa che non va? — Qualcosa che non sai — annuì goffamente lui, — qualcosa che non dico mai a nessuno e che riguarda mio padre. — Ha importanza? — Ti ho parlato... ti ho parlato di come mia madre mi ha allevato. — La prontezza con cui Megan si preoccupava per lui rendeva la cosa più difficile a dirsi di quanto avrebbe creduto. — Ti ho raccontato del periodo difficile, dopo che mio padre ci ha lasciati. Ma lui... l'uomo che aveva sposato... non era il mio vero padre. Mio padre era un negro. Vide gli occhi verdi di lei dilatarsi, e si rannicchiò interiormente davanti a quello che riteneva lei stesse pensando. — Mia madre aveva frequentato una piccola università protestante. Aveva due amici: un atleta negro... il negro simbolico, credo... ed uno studente bianco che studiava per diventare sacerdote. Mia madre concepì un bambino con il negro: dovevano essere innamorati, ma naturalmente non si potevano sposare, non a quell'epoca e non là. Lei andò a chiedere aiuto allo studente bianco, gli chiese il denaro per abortire, ma lui invece la sposò, più per idealismo, immagino, che non per vero amore. Tentò anche di sostenere la mia paternità, quando nacqui, ma troppa gente aveva visto mia madre con quel negro, ed io non ero poi tanto bianco. La gente prese a chiacchierare, e credo che allora l'aspirante sacerdote perse la sua vocazione. «Se ne andò a nord e lasciò a mia madre il compito di allevarmi, cosa che lei fece... nobilmente! — La voce gli s'inceppò. — Nonostante due duri colpi si abbattessero su di lei. Ti ho detto di aver avuto la polio quando avevo sei anni: è stato un brutto periodo per entrambi. Io combattevo con la stampella quando gli altri bambini mi chiamavano negro. «Sono sopravvissuto. — Ebbe un penoso sorriso. — Con l'aiuto di suo fratello, dopo che lei è morta. Ho lasciato le colline e studiato ingegneria, in un posto dove speravo che la gente non avrebbe saputo né badato a chi era mio padre. Ho imparato a camminare senza gruccia... ed ho sognato di
volare nello spazio. Ma credo di non aver mai superato l'altro mio handicap, non interiormente, ed esso ha azzoppato la mia vita. È per questo... — fu costretto a deglutire, — ... è per questo che non vorrete i miei geni. — Oh, Galen... — Ridendo, ma con le lacrime agli occhi, Megan aggirò lo stellano per andare a baciarlo. — Questa è una ragione in più per volerli: Ivan dice che abbiamo bisogno di un patrimonio genetico più vasto. — Puoi essere orgoglioso — disse al gigante scuro. — Orgoglioso dei geni che l'altro Galen ti ha donato... e di tutto l'aiuto da lui fornito per trapiantare qui la razza umana. Mentre attendeva di sapere cosa volessero i due, il Difensore si sentì orgoglioso di loro. Dopo quella prima coppia sfortunata, non c'erano stati altri difetti di funzionamento, e tutti e quaranta i coloni erano splendidi, più forti e belli dei loro creatori sperduti da tempo, ed anche più savii, dal momento che avevano cominciato a scoprire se stessi, vivendo insieme in una comunità priva di un capo, in un modo che talvolta lo lasciava stupito. Fino ad oggi, non aveva percepito traccia d'infelicità. — Difensore... — ancora esitanti, i due si avvicinarono un po' di più. — Parliamo a nome della colonia, e siamo venuti a chiedere il tuo aiuto. — Se posso aiutarvi — rispose lui. — Ma, avete chiesto alla nave? È dotata di programmi per risolvere la maggior parte dei problemi. — La nave non è umana. — Accigliata, la ragazza guardò in direzione dello scafo, situato appena al di sopra dell'ampia striscia di fango rossiccio lasciato dall'ultima inondazione, un fragile involucro di metallo sfregiato dallo spazio e dal fuoco e da milioni di anni. — Non dice mai molto. — È sempre occupata con i programmi relativi a quello che sta cercando nella cella di assemblamento — aggiunse l'uomo, — Ora che noi ci siamo tutti, si sta preparando a creare il bestiame, ed i libri, non appena avremo un luogo sicuro dove custodirli. Ma qui non abbiamo spazio sufficiente per il bestiame. L'uomo si volse per indicare gli stretti campi, ora coperti dai disegni verdi e dorati dei raccolti in crescita e del grano maturo e che salivano in ripida pendenza dalla riva del fiume alle alture rugginose ed all'ampia cortina bianca della cascata. — Il canyon è stato un buon luogo d'inizio, ma stiamo già coltivando ogni metro della superficie, giù fino al lago. È per questo che abbiamo bisogno di te... perché ci aiuti ad uscirne. Alcuni di noi, almeno. Per andare su un terreno nuovo, al di sopra delle alture, dove l'inondazione non possa
arrivare. — Posso provare. — Odiava dover estinguere i loro ansiosi sorrisi. — Ma c'è la giungla di spine... copre quasi tutto. — È per questo che abbiamo bisogno di te. — Non c'è molto che io possa fare. — Dovette scuotere il capo. — È un tipo di pianta resistente, che adora le piogge stagionali, e non credo che sia originaria del pianeta. Devono averla portata gli invasori, forse come arma: le spine e le foglie in decomposizione sono velenose. — La combatteremo. — Lo sguardo risoluto, l'uomo guardò in direzione del lontano costone verde al di sopra delle colline. — È troppo resistente per gli attrezzi di pietra. Abbiamo bisogno di metallo. Sappiamo come fare a lavorarlo, e possediamo molte altre cognizioni tecnologiche... ma non abbiamo trovato nessun giacimento. — Qui non ce ne sono. — Il Difensore scrollò le spalle. — Immagino che scarseggino dovunque. Non ho visto depositi di superficie: probabilmente erano stati utilizzati tutti dai nativi, prima che i robots li assassinassero. — Ci sarà del metallo. — I cocciuti occhi castani tornarono a posarsi su di lui. — Il metallo usato dai nativi, rimasto dove essi sono morti... a meno che la città non sia stata saccheggiata. — La ragazza lo prese per mano, ed essi si avvicinarono ulteriormente a lui, eretti, robusti e decisi. — Vogliamo che tu ci guidi là. — Se la nave acconsente... — Sollevò una mano dorata per controllare il loro impeto di gioia. — Ma la giungla sarà crudele. La nave acconsentì, ed improvvisò perfino un rapido programma per fornire stivali, guanti, caschi e scudi da usare contro le spine. Prepararono una scorta di cibo, pane della riserva comune, noci e frutta fresca, tutto derivato da piante adattatesi al pianeta ed alle loro necessità. Lavorando di notte con la vista ad infrarossi, il Difensore utilizzò il metallo rimasto dei serbatoi di propellente vuoti e ne ricavò borracce e machetes. All'alba, quando poté allargare le tozze ali e raccogliere altra energia, fece loro da guida su per il canyon ed intorno alla cascata, per un sentiero pericoloso. Non del tutto di origine naturale, esso conservava tracce di quella che doveva essere stata una strada panoramica quando il pianeta era ancora vivo. Piegarono quindi a nord lungo il costone roccioso, dove la pioggia aveva lavato via la terra e c'erano occasionali varchi nella crudele giungla spinosa. Le spine erano diventate verdi in seguito ai monsoni, velate da delicati
spruzzi di vegetazione più giovane e cosparse di enormi ed inodori boccioli rossi. Le foglie dell'anno precedente, cadute e fatiscenti, formavano dovunque un tappeto nero e maleodorante che fece starnutire Jayna e Galen fino a che decisero di coprirsi il volto per difendersi da quel terribile puzzo. Sgocciolanti sangue e gonfi dove le spine li avevano punti, i due continuarono ad aggredire ogni nuova barriera con allegra determinazione. Il Difensore si tenne in testa finché ci fu sole e spazio sufficiente per allargare le ali inutili al volo, ma quando la giungla si fece troppo fitta per lui, i due umani si misero silenziosamente all'avanguardia. Adesso avevano acquistato confidenza, e parlavano di tutte le loro ansiose speranze per la Sfera dell'Uomo, e la sua metà umana trovò una cauta gioia nella loro compagnia, anche se, dall'epoca della tragedia di Eva, era stato attento a non permettere ai coloni di avvicinarglisi troppo. Dopo due giorni di viaggio, le pareti del canyon si strinsero verso il fondo cosparso di grandi massi azzurri, più luminosi e duri di qualsiasi pietra naturale. Frammenti di una diga, pensò il Difensore, che doveva essere stata spezzettata dai missili caduti dallo spazio... dato che l'erosione naturale non avrebbe mai potuto sbriciolare quel materiale in modo così totale. Là la giungla era più incombente, ma trovarono il modo di attraversarla verso sud, lungo un viale parzialmente sgombro che doveva essere stato una strada ora sepolta. Al tramonto del quinto giorno, con la giungla tinta di carminio dal suo sguardo ad infrarossi, arrivarono ad un enorme oggetto che si levava torreggiante per un centinaio di metri da un groviglio spinoso vicino alla strada. Lasciato intatto dall'attacco dallo spazio e dai milioni di anni successivamente trascorsi, esso aveva la forma di un ovoide appoggiato sulla base, e, mentre di giorno era di un opaco giallo rossiccio, di notte splendeva di una luce dorata, come lo strano rettangolo che il Difensore aveva trovato sulle tempestose alture orientali. Galen e Jayna, febbricitanti ed esausti, si fermarono a dormire sotto l'ovoide luminoso, ma lui consumò un po' del suo potere di riserva per raggiungere la fonte di un altro bagliore dorato: ciò che trovò fu una seconda striscia pianeggiante, più lunga e larga di quella vicino al mare, per lo più sepolta sotto i detriti del tempo e le rovine. Un aeroporto vicino alla città? Il giorno successivo, dopo aver superato il lago formatosi nel cratere circondato di massi, dove i due umani avevano bevuto, si erano lavati ed avevano riempito le borracce, entrarono nella periferia della metropoli assassinata. Montagne di sostanza in frantumi, di un bianco lucente o di un
nero cupo o di un azzurro zaffiro, tutta dura come diamante, costituivano i tristi resti delle mura infrante e delle torri che sporgevano da intrichi spinosi come le ossa spezzate di qualche leviatano. — Dev'essere stato un mondo splendido. — La ragazza si era arrestata per riprendere fiato, una specie di cauta meraviglia dipinta sul volto striato di rosso. — Cosa l'ha annientato in modo così totale? — Non riesco ad immaginarlo. — Aveva timore di spaventarli, ma osservandola ed ascoltando il suono della consunta pietra per affilare di Galen contro il machete, comprese che erano abbastanza forti per affrontare la realtà. — I missili provenienti dallo spazio devono aver causato notevoli danni, ma non riesco ad immaginare che tipo di missile possa aver ucciso tutto. — Scosse il capo. — Le sole forme di vita animale che abbiamo osservato sono nel mare. — Tu credi... — l'uomo lo fissò con sguardo attento. — ... credi che siamo in pericolo? — Forse — fu costretto ad ammettere — Hai sentito parlare degli altri Difensori? Sono volati in questa direzione tre anni fa, inviati dalla nave per scoprire tutto quello che potevano, e non sono mai tornati. — Fece un'altra pausa, rammentando il loro alato splendore. — Non abbiamo mai saputo cosa sia accaduto loro. — I robots sono i responsabili? — Si autodefiniscono Squadra d'Assalto. — Ci dovremmo aspettare un attacco da parte loro? — Ho parlato con un robot... parlato per modo di dire... ma mi ha detto ben poco. — Scrollò le spalle. — Sono fermi qui nella loro base da ventimila anni, in attesa di ciò che chiamiamo i Maestri Costruttori. Spero che continuino ad aspettare. — E se anche non lo facessero... — L'uomo provò il filo della lama su uno stelo. — Non ci è mai stato promesso il paradiso. Si volse verso la ragazza, ed i due rimasero a lungo a fissarsi negli occhi prima che lui prendesse anche il suo machete per affilarlo. — Tutto quello che ci hanno promesso... — Con un solenne sorriso, la ragazza sollevò lo sguardo su di lui. — ... Tutto quello che chiediamo è una possibilità. Quella notte, il Difensore intercettò un segnale proveniente dallo spazio. II
Con alti e bassi, il segnale si fece lentamente più forte fino a che lui comprese che si trattava di un raggio modulato, trasmesso sulla frequenza usata dal disco robot e la cui fonte rimaneva sospesa immobile fra le stelle, verso occidente. Scivolando via con esse verso la giungla carminia, quella fonte scomparve prima dell'alba. Quando gli umani si svegliarono, il Difensore li informò. — La nave orbitale? — L'uomo si accigliò con gravità, ma senza scoraggiarsi. — Che chiamava la base dei robots? — Qualcosa di più distante, verso le stelle — rispose, ed aggiunse: — Non abbiamo più sentito nulla dalla nave orbitale da quando io l'ho abbandonata, e siamo convinti di averla lasciata disattivata. La ragazza si fregò gli occhi gonfi per allontanare il sonno. — Siamo venuti per il metallo — disse. — Cerchiamolo. Il senso magnetico del Difensore lo individuò presto, celato sotto la pietra infranta e la fanghiglia di lunghi millenni e lo strato di foglie marce della stagione precedente, per lo più sepolto ad una profondità eccessiva per poter essere scavato. Eressero piccoli cumuli di frammenti di pietre dai colori vivaci per contrassegnare i maggiori giacimenti. — Torneremo qui — disse l'uomo, — in numero maggiore, con migliori attrezzi e con un qualche veicolo, non appena saremo in grado di costruirne uno. La ragazza si rallegrò nello scoprire un mucchietto di cenere e di ramoscelli carbonizzati sotto le foglie marce. — La giungla è bruciata. — Si alzò per fronteggiare l'intrico spinoso con un sorriso sul volto segnato. — Colpita dal lampo, immagino, nel periodo secco primaverile che precede i monsoni. Abbiamo un modo per combatterla. Di tanto in tanto, frammenti di metallo giacevano a portata di mano, piccoli oggetti per lo più spezzati e corrosi e tutti tali da lasciare perplessi. Qualcuno era intatto, come una graziosa e minuscola creatura alata ed in volo, modellata in un metallo bianco-argenteo più duro dei loro machete, o tre pesanti dischi dorati e stranamente stampati che dovevano essere stati monete. C'era anche una figura di donna... una minuscola copia della statua da lui trovata quando aveva in precedenza attraversato la città... forgiata in una qualche lega rosso rame e resistente, intatta e splendida. — Deliziosa. — La ragazza strinse la statuetta nella mano coperta di vesciche. — Troppo preziosa per essere fusa. — Umana. — L'uomo si chinò a fissarla, con un senso di meraviglia ne-
gli occhi. — Umana cone lo siamo noi. — Guardò il Difensore. — Credi... — Cugini — annuì il Difensore. — Figli di un'altra nave, arrivata qui non riesco neppure ad immaginare quanto tempo prima di noi. — Nulla... sussurrò la ragazza, scuotendo il capo, — nulla che ci dica come sono morti, tutti e così improvvisamente. I suoi occhi, scuriti dal timore, fissarono il Difensore. — Un'enigma che non siamo riusciti a risolvere. — Osservandola, vide in lei un'ondata di quieta sicurezza, più forte della paura. — Sembra che non abbiano avuto la minima possibilità di difesa. I missili dovevano essere carichi di qualcosa di molto mortale, ma comincio a dubitare che scopriremo molto al riguardo, quaggiù. — Almeno abbiamo trovato il metallo. — L'uomo sorrise, un po' cupamente. — Se quell'arma è qualcosa che potrebbe colpire di nuovo, per lo meno siamo stati avvertiti. Prima del tramonto, il segnale si fece sentire di nuovo, più forte, sorgendo verso est, attraversando rapidamente il cielo e ricadendo con la stessa rapidità nella rossa luce del crepuscolo, sempre ad est. — Qui? — La ragazza lo osservò mentre lo seguiva, gli occhi gravi ancora privi di timore. — Di già? — Adesso sono in orbita — annuì il Difensore, — e stanno chiamando. La maggior parte dei segnali era incomprensibile per me, ma hanno continuato a ripetere una frase che ho appreso dal disco: «Squadra d'Assalto». In silenzio, la ragazza si rivolse verso l'uomo. — La cosa che ha mandato i robots? — L'uomo sbirciò nel cielo sempre più scuro, poi si volse a fronteggiare il Difensore. — Questo significa che alla fine sono arrivati qui? — Forse. — Il Difensore scrollò le spalle. — Lo dovrò scoprire. — Se vai là... La ragazza lo prese per un braccio: non si erano mai toccati fino ad allora, e lui indietreggiò al contatto delle sue dita, timoroso che potesse destare in lui tanta dell'impotente devozione di Martin Rablon per l'antica Jayna da rendergli impossibile controllarla in quel momento. — Verremo con te. L'uomo allungò la mano verso la borraccia ed il machete, come per mettersi immediatamente in marcia. — Vorrei che poteste farlo — disse loro, — ma ci sono duemila chilometri da percorrere, per lo più su una nuda pianura dove non potreste trovare né cibo né acqua. Dovrò andare da solo.
— Se gli altri Difensori sono andati perduti... — La ragazza gli si accostò, e quella vicinanza lo fece improvvisamente rabbrividire. — Non è una cosa molto pericolosa per te? — Non... non ha importanza. — Tentò di restaurare il controllo del suo computer. — Io sono il Difensore, sono sacrificabile, ed ho molto poco da perdere. — Non dovremmo... — sentì il tremito nella voce di lei. — Non dovremmo chiedere alla nave? — È fuori portata — replicò il Difensore, scuotendo il capo. — Fuori dal raggio del contatto radio e giù in quel canyon, ed il viaggio di ritorno richiederebbe troppi giorni. — Difensore... Le braccia graffiate e gonfie della ragazza lo circondarono improvvisamente, e lei lo baciò; il suo odore lo avvolse, reso pungente dal sudore ma pur sempre intossicante, e, barcollando contro la sua carne calda, lui avvertì una fitta dell'antico dolore. — Vorrei... — sussurrò la ragazza, — ... vorrei che tu fossi umano. Timoroso di manifestare i propri desideri, l'abbracciò rapidamente, e si volse poi a stringere la mano callosa dell'uomo. — Io vorrei — disse questi, — che anche noi fossimo due Difensori. — Noi siamo... quello che siamo — mormorò lui, — programmati un milione di anni fa, per scopi più grandi di quel che siamo in grado di desiderare. — Lo... lo ricorderemo. Parzialmente cieco, fino a che i suoi sensi non si furono abituati alla oscurità circostante, si avviò a tentoni verso la strada. Guardando indietro, quando la vista gli si fu schiarita, li scorse in piedi, mano nella mano, che lo fissavano a loro volta. L'uomo agitò una mano e lui sentì la ragazza gridare, con una voce che era quasi quella di Jayna: — Ritorna, Difensore... Percorrendo ora un'orbita più bassa, l'oggetto attraversò il cielo per tre volte quella notte, mentre il suo segnale tremolava e cessava, tremolava e cessava. Suppose che le pause indicassero le risposte trasmesse dai robots della base, ma essi erano fuori dalla sua portata. Ancora una volta, intercettò le parole «Squadra d'Assalto», ma non riuscì a comprendere altro. La sua energia si esaurì prima di mezzanotte, e dovette attendere il sole, ma anche allora, a causa delle spine, fu costretto a tenere le ali semichiuse, e, a causa della scarsa energia, impiegò due giorni a raggiungere l'antica
strada che lui ed il disco avevano seguito verso nord. Ci mise altri cinque giorni a ripercorrerla fino a che la giungla non si assottigliò vicino al bordo della pianura che doveva attraversare. Una volta sul pianoro, tenne un'andatura migliore: le giornate erano ancora lunghe, il cielo abitualmente senza nubi. Allargate al massimo verso il sole, le ali raccolsero un sovrappiù di energia che servì a ricaricare l'alimentatore che aveva sulla schiena ed a permettergli di continuare a marciare anche durante le notti rossastre. Mentre proseguiva nella sua marcia, ascoltò il segnale orbitale: esso cessò, riprese, cessò ancora e nuovamente si fece sentire. Ancora più basso, l'oggetto attraversava ora il cielo a velocità maggiore, poi la sua orbita s'inclinò improvvisamente facendolo piegare più a nord verso la latitudine della base dei robots. Fu allora che il segnale si suddivise: una fonte di esso rimase nell'orbita inclinata, l'altra, più debole ma molto attiva, scese rapidamente fino a che lui perse il contatto con essa, al di là dell'orizzonte settentrionale. Alcuni giorni più tardi, la cosa si ripeté ancora, e di nuovo, ad un intervallo di qualche altro giorno. Quelle fonti che svanivano dovevano essere velivoli d'atterraggio che planavano verso la base: i Maestri Costruttori, immaginò, per qualche motivo in ritardo di parecchie migliaia dei costanti anni della Sfera dell'Uomo, ma giunti infine a reclamare la loro conquista. Chiedendosi come fossero, in una fredda alba, mentre attendeva il sorgere del sole, chiedendosi quale aspetto potessero mai avere e come potessero essere sconfitti, si ricordò di Olga. Il suo funerale. Un umido giorno d'inverno, freddo per il clima di La Jolla. I genitori di lui erano morti, e quelli di lei non erano in condizioni di poter venire; Olga non era mai stata abbastanza bene da poter stringere amicizie laggiù ed il servizio funebre venne tenuto privatamente. Un servizio ebreo, per rispetto ai genitori di lei. Non sentì neppure le parole, tutto quello che riusciva a provare era un torpido senso di gratitudine che le sue sofferenze fossero finite. In seguito, non sopportando l'idea della casa vuota, aveva passeggiato sulla spiaggia ed era rimasto a fissare i frangenti fino a che la pioggia insistente gli aveva inzuppato il cappotto. Pensando a come Olga lo avrebbe rimproverato per aver preso freddo, si era fermato al Lighthouse per bere un bicchiere di cherry e mangiare un panino che lasciò intatto nel piatto.
Seguendo un impulso improvviso, aveva telefonato a Megan da una cabina, per dirle che sarebbe tornato al laboratorio il giorno successivo. — Non ancora! — aveva protestato lei. — Ivan, per favore, hai dovuto sopportare un colpo troppo duro. Hai bisogno almeno di un po' di tempo... — Ho bisogno del progetto — le aveva risposto. — È tutto quello che mi rimane. Tornato finalmente a casa, aveva tentato di scrivere alla madre di Olga, di mettere ordine fra le cose da lei lasciate nel comodino, di leggere il diario che lei aveva tenuto fino a che le dita rattrappite glielo avevano permesso. Essendo rimasto sveglio per buona parte di quella interminabile notte, si era destato tardi il mattino successivo da un sogno in cui lui era Dio. Nel sogno regnava in un qualche luogo celeste dove gli angeli sedevano silenziosi alle sue spalle, chini, una fila dopo l'altra, su una serie di terminal di computer. Lui sedeva su un trono di diamante, vestito di una candida tunica, splendidamente coronato d'oro e di gioielli. La corona era però troppo pesante ed era bordata di spine pungenti dalle quali sgorgavano gocce di sangue che gli macchiavano la barba fluente, rigida ed appiccicosa dove il sangue si era già seccato. Olga e Roger erano inginocchiati su un tappeto di spine molto più in basso rispetto al suo trono, e stavano supplicando per le loro vite. Roger aveva solo sette anni, e le sue giovani ossa erano visibili sotto la consunta maglietta che non voleva decidersi a buttare; le piccole mani erano sollevate e tremanti crudelmente lacerate ed insanguinate dalle spine, i grandi occhi disperatamente imploranti. La sua preghiera erano le tabelline, fino a dodici volte dodici, ciascuna tabellina recitata in un'unica affannosa frase, nello stesso modo in cui lui le aveva scandite quando era tornato a casa dalla sua terza lezione di aritmetica. Stava supplicando di poter continuare a vivere, in modo da poter diventare uno scienziato come suo padre. Olga era giovane, sana ed attraente nell'abito giallo che aveva indosso il primo giorno che l'aveva vista a quella lezione di biologia alla Union. Stava piangendo, ma non per se stessa: aveva visto il sangue che colava dalla sua corona di spine ed ora pregava per lui, intonando le vecchie preghiere ebraiche che suo padre le aveva fatto imparare. — Non farci morire in questa miseria, chas vesholem! Salvaci, Padre, affinché possiamo salvare te. Lui protese la mano per benedirli e salvarli con il virus curativo che ave-
va creato, ma la sua mano mutò nel momento in cui la sollevava, irrigidendosi in un arto da rettile, coperto di scaglie e munito di artigli. Voleva pregare per loro e per se stesso, ma non c'era un altro Dio ad ascoltarlo, e la sua voce era divenuto il picchiettio senza senso di una stampante. III Continuando ad avanzare, deviò ad ovest per evitare l'abisso che aveva bloccato il suo primo tentativo di raggiungere la base dei robots. Il fiume si era trasformato in un lungo lago nel punto in cui lui lo raggiunse, trattenuto da un'antica diga che era rimasta chissà come intatta: attraversò il lago con una zattera e piegò ad est seguendo il bordo del canyon in direzione della base. Finalmente essa apparve sull'orizzonte, una pallida luna argentata ancora velata dalla distanza di un centinaio di chilometri. Quella giornata la trascorse nascosto in un arroyo secco, le ali distese per assorbire tutta la luce del sole, e nella notte avanzò nel bagliore carminio del buio, tenendosi cautamente basso. Prima dell'alba, un altro apparecchio d'atterraggio arrivò da ovest, e lui sentì il forte crepitare del suo segnale, ma anche questa volta non captò nessuna risposta dalla base. Il velivolo apparve come un punto nero nell'alba pallida, poi s'ingrandì rapido e veloce per scomparire quindi all'improvviso in direzione della cupola argentata, prima che lui udisse il suo rombo sonico e poi lo stridio digradante dei motori. Il segnale del velivolo cessò e non udì altro dallo spazio. Quello era stato il sesto apparecchio ad atterrare, e, rammentando i sei ancoraggi vuoti sulla nave che aveva esplorato, pensò che quello doveva essere l'ultimo componente la nuova armata. Seguì un burrone giù per un ripido pendio che scendeva di qualche centinaio di metri al di sotto del costone del canyon, in modo da trovarsi al coperto, e, per metà della giornata, strisciò e si inerpicò in direzione della base sui pericolosi pendii coperti di pietrisco e sulle alture che scendevano a strapiombo verso le ruggenti rapide. A mezzogiorno, si arrampicò per dare un'occhiata oltre il bordo del canyon. Quel che vide fu la più completa desolazione. Costoni montani fatti di pietrisco che si stendevano intorno al canyon per molti chilometri, abissi terminanti in laghi stagnanti, miniere esaurite, forse quelle dalle quali i robots avevano estratto il materiale per costruire la cupola, anche se le rocce
nude che vedeva erano di feldspato. Ammirato, si chiese se i robots disponessero di una tecnologia tanto avanzata da essere in grado di raffinare alluminio anche da una roccia tanto comune. Le alture erano appiattite dalla prolungata erosione, solcate da aridi precipizi, e nulla le aveva disturbate per decenni, forse anche per secoli. Per quanto sembrasse immensa e vicina, la cupola distava ancora una ventina di chilometri, ed apparve ancora più immensa quando lui si arrampicò di nuovo fino all'orlo del canyon, più tardi nel corso della giornata. Spaventosa ed immensa, essa si gonfiava verso il cielo appena al di là di una zona pavimentata di grigio ampia tre chilometri. Cinque dei velivoli d'atterraggio erano allineati all'estremità della striscia, tozze macchine con corte ali, mentre il sesto, più vicino alla cupola, sembrava ridotto alle dimensioni di un giocattolo dall'imponenza di quest'ultima. Il Difensore si era aspettato di trovare un'intensa attività, alieni dall'aspetto incredibile e squadre di robots intenti a scaricare la flotta ed a preparare la presa di possesso del pianeta, ma non vide alcun movimento, non udi alcun segnale, neppure dal veicolo orbitale. Aggrappato alla cima di uno stretto camino di roccia, si guardò intorno alla ricerca di un modo per avvicinarsi maggiormente, ma la piatta pavimentazione si stendeva ininterrotta per molti chilometri in entrambe le direzioni, senza fornire alcuna protezione da nessuna parte. Rimase in attesa, sempre osservando. Una stretta porta si apriva nella base della cupola vicino all'ultimo velivolo, ma nulla emerse da essa né vi entrò; il silenzio, la totale inazione cominciarono a sembrare minacciosi perché erano completamente sconcertanti, e fu quasi sollevato quando, all'avvicinarsi del tramonto, scorse un po' di movimento. Qualcosa di brillante che scivolava fuori dall'ultimo veicolo d'atterraggio. La sua vista telescopica distinse una forma simile ad un carrarmato, con una lucida superficie a specchio e sormontante uno spesso blocco di un qualche materiale più opaco, mentre scendeva giù per una stretta rampa. Pensò che somigliava ad un vagone cisterna, solo che non aveva ruote: l'oggetto strisciò lentamente verso la cupola e svanì al suo interno. Il Difensore scese allora dal camino di pietra, e, deviando leggermente in modo che la sagoma del veicolo d'atterraggio lo nascondesse rispetto alla cupola, si avviò verso l'ingresso. Nulla si mosse fino a che, quando lui era già a metà della striscia, un'altra sagoma simile alla prima scese lungo la
rampa. Saettò in avanti per raggiungerla, e, rammentando un'abilità posseduta in quei duri giorni in cui Don Brink aveva imparato a fare le gare prima d'imparare a combattere, il Difensore corse accanto al veicolo, si aggrappò ad una sporgenza e si issò su di esso. Scivolando silenziosamente su un binario di un rosso ardente, esso lo trasportò verso la cupola. In un'atmosfera contaminata da un terribile odore. Nella morte. In quell'odioso fetore che Don Brink aveva imparato a riconoscere quando era ancora troppo giovane e che non era mai riuscito a sopportare. I suoi sentimenti umani rimasero sconvolti al ricordo di quel senso di nausea, ma il controllo della sua metà meccanica lo fece rimanere attaccato al veicolo. Scivolando più avanti, questo lo condusse in un'opaca e terribile terra di ombre, illuminata solo dal vago brillare della rotaia. Questa si biforcò due volte; quando gli occhi del Difensore si furono abituati alla penombra, poté contare molte centinaia di veicoli simili a quello, allineati fin dove arrivava il suo sguardo lungo le diramazioni del binario. Erano tutti aperti, la cima di ciascuno di essi sollevata all'indietro per scoprire una sorta di cuccetta circondata da meccanismi sconosciuti. Quei veicoli avevano contenuto uomini e donne, dormienti, che avevano occupato quelle cuccette e si erano destati solo per morire. Li trovò dovunque, distesi sulle cuccette, precipitati sui binari lucenti, tutti gonfi, distorti, gli occhi vitrei e terribilmente immobili. Il veicolo tozzo si arrestò, ci fu un sibilio di gas ed uno strano odore caldo allontanò il fetore, ma solo per un istante. La nera piastra di metallo, alle sue spalle sussultò come un gong quando viene colpito, poi scivolò bruscamente verso l'alto. Ci fu un aspro grido, poi un uomo ancora vivo saettò fuori dalla sua cuccetta. Era un uomo grosso, il volto duro ma apparentemente umano, ed indossava una strana tenuta da battaglia: un'uniforme con tonalità di marrone e verde e munita di congegni lucenti che dovevano essere armi. In mano, teneva un oggetto simile ad un fucile, che venne puntato contro il Difensore. Questi si lasciò cadere oltre il bordo del veicolo di trasporto e rotolò in direzione del cadavere più vicino: una donna, il seno indurito nella morte che tendeva la giacca chiazzata di verde. Cercò di afferrare la sua arma. — Programma di Controllo a Difensore. — Le parole impersonali lo congelarono, risuonando esclusivamente nella sua testa. — Tu non combatterai.
L'uomo gli venne dietro, balzando giù dal veicolo. — Non combatterai contro nessun abitante, non resisterai ad un'azione ostile. Il Difensore tentò di strappare l'arma dalle dita gelide della donna, ma le sue stesse mani sembravano, paralizzate. — I nativi indicano di possedere un'avanzata cultura tecnologica — proseguì la macchina che era in lui, silenziosa ed inesorabile. — Di conseguenza, sono protetti. Il Programma di Controllo proibisce qualsiasi atto di violenza contro di loro. — Difensore... Barcollando per mantenere l'equilibrio, l'uomo gli puntò contro l'arma ed il Difensore si tuffò dietro il cadavere. L'arma lo seguì, ci fu un doppio bagliore purpureo, un doppio scoppio ed il proiettile esplose contro il pavimento alle sue spalle, facendo volare alcune schegge che lo punsero. — Difensore a Programma... L'uomo si avvicinò barcollando e lui tentò di appiattirsi maggiormente al suolo. — La Squadra d'Assalto non è protetta. — Annaspò alla ricerca della logica umana. — Perché non è nativa di qui. Questi alieni sono invasori, noi siamo arrivati prima... — Correzione, Difensore — lo interruppe il programma. — I loro robots erano già qui: è logicamente possibile che anche loro fossero già qui. Ci mancano le informazioni necessarie per la soluzione del dilemma... Smise di ascoltare. L'uomo lasciò cadere la sua arma, che fece partire un altro colpo nell'urtare le rotaie lucenti. Il proiettile andò a colpire stridendo la parete più lontana mentre l'uomo gorgogliava ed annaspava, serrandosi la gola con le mani; rimase fermo per un momento, poi cadde in avanti, scalciò due volte e infine giacque immobile nella pozza rossastra dei suoi stessi escrementi. Ci fu un istante d'immobilità assoluta prima che l'eco della caduta rimbalzasse su pareti che il Difensore non poteva vedere, poi si ripetesse ancora a rivelare la vastità di quella camera scura prima di spegnersi. L'umano in lui era intontito per un senso di malessere, sopraffatto da quell'eccesso di morte. Rabbrividendo per un'ondata di terrore umano, si accorse che quella cupola era diventata una trappola terribile, anche per lui. Se gli fosse venuta a mancare l'energia, qui nell'oscurità... Un momento più tardi, il computer che era in lui aveva riacquistato il controllo, e si stava arrampicando di nuovo sul veicolo che aveva usato, u-
tilizzando ogni senso per analizzarlo. La cuccetta era imbottita ed ancora leggermente luminosa per il calore sprigionato dal suo occupante ed un qualche gas dallo strano odore stava ancora scaturendo da sotto di essa, sibilando dolcemente. Distolse lo sguardo per fissare il buio, scontrandosi con la mostruosa ironia della situazione: gli invasori dovevano aver attraversato lo spazio all'interno di quelle macchine, dormendo per secoli, forse per millenni, e si erano infine ridestati per prendere possesso del mondo conquistato dai loro robots... solo per spegnersi per sempre. Rabbrividì e si mosse. Cosa li aveva uccisi? Qualcosa di improvviso: il suo attaccante era sopravvissuto appena una ventina di secondi dopo essere uscito dal contenitore. Doveva essere una cosa silenziosa ed invisibile ad infrarossi, qualcosa d'imprevisto. Armati per combattere, e sicuri all'interno della loro fortezza, gli invasori erano stati colti di sorpresa. Ne sarebbero arrivati altri? Guardandosi alle spalle in direzione della soglia lontana, non distinse alcun movimento. C'era forse in viaggio un'altra astronave contenente un altro esercito d'invasori? Dallo spazio non erano giunti ulteriori segnali, ma non ce n'erano mai stati fino a che quest'ultima astronave non era entrata in orbita. Si addentrò maggiormente nel buio maleodorante, superando una fila dopo l'altra di quei contenitori, tutti identici. Gli invasori giacevano dov'erano caduti, la maggior parte di essi morta da parecchi giorni ed ora orribile a vedersi. Non udì nessun suono, non vide nessun movimento, non incontrò robots e non scoprì nessun indizio. Dov'erano i robots? Conquistatori del pianeta, sterminatori della sua civilizzazione umana, dopo aver atteso per secoli che i loro costruttori arrivassero... erano forse morti a loro volta? O forse avevano funzionato in maniera tanto difettosa da uccidere i loro stessi creatori? Mentre si spingeva sempre più avanti nell'oscurità carminia, non riuscì a trovare risposte a quegli interrogativi. Il bagliore delle rotaie si fece sempre più tenue, come se qualcuno avesse disattivato il sistema, tanto che giunse il momento in cui riuscì a vederci solo nel breve tratto illuminato dalla luminosità del suo corpo. Quella stanza era enorme, troppo ampia e scura per permettergli di stabilirne le esatte dimensioni, s'imbatté in enormi pilastri cilindrici, torreggianti fino a che non scomparvero nel buio, ed andò a sbattere contro muri, fat-
ti di una lega d'alluminio, che si stendevano in alto ed in lungo fin dove riusciva a vedere. Sprecando troppo tempo e consumando troppa energia, cercò un corridoio che lo potesse condurre oltre. Parecchie volte trovò un binario buio che terminava contro una parete, come se là vi fosse una porta che non era in grado di aprire, ed alla fine, quando era ormai sul punto di tornare indietro, s'imbatté in un'apertura ovale alla base di un pilastro. Superata una cosa gonfia e mostruosa, si trovò in un condotto circolare che saliva nell'oscurità, ed il suo bagliore corporeo gli permise di vedere scalini di metallo spaziati in modo da permettere ad un umano di arrampicarsi: per quanto fosse già troppo lontano dal sole, si arrampicò su di essi. Ad un altro livello, un'ottantina di metri più in alto, sbucò in un'altra vastità silenziosa, scura come quella sottostante, dove sagome indistinte incombevano tutt'intorno a lui: strumenti bellici, come vide quando si fu avvicinato abbastanza. Tozzi oggetti corazzati simili a carrarmati privi di cingoli... mossi probabilmente da specchi gravitazionali come dovevano esserlo state le macchine contro cui aveva combattuto sulla stazione orbitale; lunghi fucili e minacciosi missili non molto differenti da quelli che Don Brink aveva conosciuto tanto tempo prima. L'odore della morte qui era diverso, mescolato al letale odore di nocciolo di pesca del cianuro idrogenato. Seguì quell'odore fuori dall'armeria, fra file di trasporti gravitazionali privi di ruote, carichi di munizioni e di armi leggere. Poi, lungo un vicolo buio, percepì un profumo che lo raggelò. L'odore di lillà di Megan, molto tenue. Questo lo guidò lungo un tracciato laterale e gli fece trovare i due Difensori scomparsi. Erano caduti l'una accanto all'altro, le braccia dorate avvinte fra loro, le fragili ali appiattite contro il pavimento, prive di ogni colore. Pacifiche alla luce del suo corpo, le loro facce ridestarono antichi ricordi. Un mezzo sorriso, gravemente malinconico, di Megan, il sorriso parzialmente ironico di Wardian. Erano freddi, quando si chinò a toccarli, rigidi ed immobili come i morti al livello sottostante. IV Wardian, un milione di anni prima. Snello ed atletico nella tuta gialla, appena rientrato da un volo in deltaplano perché il vento si era fatto troppo forte. Erano nel laboratorio di Albuquerque, in attesa che il personale preparasse l'apparecchio di analisi, e
lui aveva fatto bollire un po' d'acqua nel cucinotto annesso al salottino d'attesa per preparare un infuso di yerba maté. — Ti va di provarlo? — Brink passò la cuccuma a Wardian. — Ho imparato ad apprezzarlo parecchi anni fa, durante un periodo piuttosto brutto per me, successivo ad un colpo malprogrammato che era stato stroncato sul nascere. Ero nascosto ad Asuncion, quasi al verde e con una ferita alla spalla, e la maggior parte dei miei amici era morta o in prigione. Una ragazza Guarani mi ha insegnato ad apprezzarlo... Osservò Wardian bere cautamente un sorso dell'argentea bombilla. — Un gusto che non riuscirò mai ad accettare. — Wardian gli restituì il recipiente ed andò in cucina a prendere un po' di succo di pomodoro. — Se non lo hai mai notato, siamo un gruppo stranamente assortito. — Si volse a guardare il grave sorriso negli occhi verdi di Megan in una grossa foto che lei aveva permesso loro di appendere sopra la porta. — Quando pensi a tutti i modi in cui abbiamo fallito ed a quello che speriamo di fare... — Abbiamo tutti fallito, troppo spesso. — Annuì Don, assaporando il bollente caa-cuys e sentendosi vicino a Wardian. — Io ero battuto quando lei mi ha trovato, ero a terra e senza speranze; un caso davvero inverosimile, che scegliesse proprio me per questa particolare partita. — La più grande partita che sarà mai giocata. — Wardian apri la lattina di succo e la sollevò come per un brindisi. — Anche se non sapremo mai il punteggio finale. — Che si vinca o si perda, la cosa mi piace. Gli piaceva Wardian, ed anche Tomislav ed il vecchio Galen, perfino Marty Rablon. E Megan, più di tutti. Dopo una vita di duri conflitti, di eccessiva sfiducia e di troppi tradimenti, aveva trovato qualcosa di stranamente buono nel modo in cui essi si stavano tutti adoperando per creare il Difensore... quello splendido combattente del futuro che non gli riusciva d'immaginare completamente e che sapeva non sarebbe mai vissuto abbastanza a lungo da poterlo incontrare. Erano forse un gruppo stranamente assortito, ma in qualche modo l'apparecchio di analisi li stava fondendo in un essere solo. Bevve un altro sorso di bombilla. — La vita distribuisce i dadi in modo buffo. — Wardian stava fissando, accigliato ed assente, il recipiente montato in argento che lui aveva in mano. — Non mi sarei mai aspettato che il capriccio del fato mi facesse finire qui. Avrei dovuto essere un uomo d'affari, che andava a vedere i Dow, votava repubblicano e si agitava per via del GNP. Don annuì cameratescamente, senza bisogno di parlare.
— Ero cresciuto con un senso di timidezza verso le donne. — Wardian sollevò lo sguardo in direzione della foto di Megan con un secco crollare di capo. — Ero rimasto bruciato dalla mia stessa innocenza quando ero ragazzino, e mio padre mi aveva insegnato che erano tutte veleno. Mi sono tenuto alla larga da loro fino a che ho incontrato Debbie: lei era migliore... o sembrava esserlo. Eravamo matricole d'università quando ci siamo incontrati, e lei aveva avuto due o tre sfortunate storie d'amore, ma si era convinta che con me sarebbe stato diverso. «Ci siamo innamorati, con passione. I suoi erano gente ricca, banche, miniere, petrolio... mio padre aveva lavorato per il suo nell'ispezionare alcune proprietà minerarie. Sapevano che io non avevo nulla, ma a lei questo non importava, forse neppure a suo padre: lui si era fatto strada da solo, e credo vedesse in me se stesso da giovane. «Sua madre era ricca di famiglia, anche se non molto. Era di Philadelphia. All'inizio fu fredda con me, ma di solito Debbie riusciva ad ottenere tutto quello che voleva, e lei voleva me. Quel Natale m'invitò con i suoi genitori per due settimane ad Angel Fire, a sciare. Io le insegnai a sciare e lei colse l'occasione per insegnarmi qualcosa sul sesso. Mi piacque, e credetti di adorare anche lei. «A Pasqua mi portò a casa sua, una vecchia fattoria fuori Philadelphia che i suoi avevano ristrutturato a dimora padronale. Parlammo con i suoi genitori, e sua madre avrebbe voluto che aspettassimo fino al conseguimento della laurea, mentre suo padre disse che si fidava di Debbie. Se io fossi passato da astronomia ad economia, mi avrebbe dato la possibilità di entrare nelle sue compagnie. «Ci stringemmo la mano su quell'accordo, e la madre di Debbie mi baciò sulla guancia. Quella notte, Debbie mi fece entrare in camera sua, ed io pensai di essere in Paradiso. — Sospirò, fissando ancora la foto di Megan. — Andò tutto all'aria il giorno in cui finirono le lezioni. Sua madre voleva che tornassimo a Philadelphia per un ricevimento formale in cui sarebbe stato annunciato il nostro fidanzamento, Debbie ne era esaltata ed io ero abbastanza contento... o pensavo di esserlo fino a che lei disse che mi dovevo tagliare i capelli. — Scosse il capo e scrollò scherzosamente le spalle. — Io risposi che non lo avrei fatto. «Rimasi stupito di me stesso. Fu un litigio stupido, a ripensarci. Non si trattava solo dei capelli... in effetti non erano poi così lunghi: ero lacerato e spiacente per Debbie, ma non potevo fare a meno di sentirmi in quel modo. Lei pianse, mi baciò, tentò di portarmi a letto. Io l'amavo... ma forse
non abbastanza, e quando si arrivò alla resa dei conti non potei pagare il prezzo richiesto. Wardian scrollò ancora le spalle, con fare secco. — Niente taglio di capelli, ed eccomi qui: astronauta stanco ed esploratore spaziale sconfitto, pilota in via d'invecchiamento, play-boy a tempo perso. Quando ero avviato a diventare un magnate del petrolio. — Il suo volto abbronzato ebbe un sorriso ironico. — Se fosse uscito il dado di Debbie... Sciolse il loro abbraccio e circondò con le braccia il Difensore Due. Era rigida ed il suo corpo parzialmente metallico era quasi troppo pesante perché lui riuscisse a trasportarlo, con la propria energia in gran parte esaurita. Barcollando sotto il suo peso, la trasportò giù per il condotto, fino all'orrendo livello inferiore pieno di cadaveri. L'odore di cianuro idrogenato al piano superiore aveva risolto l'enigma costituito dalla loro morte: esso era innocuo per lui, ed al piano inferiore era mascherato dalla puzza della decomposizione, ma la quantità presente nell'aria era tale da uccidere qualsiasi cosa organica. Rimaneva comunque un numero notevole d'interrogativi. Cos'aveva trasformato la fortezza dei robots in quella terribile trappola? Com'erano stati attirati dentro quei nuovi invasori? La soglia era un lontano frammento di luminosità e lui si avviò faticosamente verso di essa, barcollando sotto il peso del Difensore Due. Troppo pesante per lui, sembrava troppo rigida e fredda per poter tornare in vita, e la minuscola luce dell'ingresso sembrava farsi beffe di lui e trarsi sempre più indietro, ma alla fine sbucò incespicando nell'aria limpida e nella luce del sole. Era ormai mattino. Vagamente sorpreso per il passare del tempo, procedette barcollando per un altro centinaio di metri, sopravvento, e, superato l'apparecchio d'atterraggio, la distese al limitare dell'ampio campo di volo. Le ali inanimate di lei erano troppo rigide per poter essere spalancate, ma lui allargò le proprie e si lasciò cadere accanto a lei. Giunse mezzogiorno prima che lui si muovesse e la chiamasse. Non ebbe risposta, ma le membra dorate erano più calde e le ali si erano fatte pieghevoli. Le allargò in modo che fossero colpite dal sole, poi rientrò nella tomba cavernosa. Nulla era mutato; rintracciò il condotto, risalì al secondo livello e trasportò il Difensore Tre giù, fra gli orribili corpi, e fuori, sotto il sole.
Per il resto della giornata, rimase disteso accanto a loro, assorbendo la preziosa energia solare, e, la sua esaltazione umana velata da un altrettanto umano senso di timore, mantenne i propri sensi focalizzati per percepire la presenza di eventuali altri invasori sopravvissuti.... o dei loro robots, che non potevano essere stati danneggiati dal cianuro... o di altri segnali dallo spazio. Nulla, nulla se non un'altra fuggevole ondata di fetore quando il vento mutò direzione. Nessun robot emerse, nulla si mosse o chiamò dall'orbita. Quando le ali del Tre si furono scaldate, si alzò per allargarle. Poi il sole tramontò ed il mondo silenzioso si tinse di carminio. — Don... — sussurrò Megan, come senza fiato. — Don? La vide sollevarsi accanto a lui, viva e luminosa, adorabile. Il suo corpo splendeva ora di una luminosità propria, le ali allargate emettevano un roseo brillio. — Meg... Lei era Megan per lui, non era più il Difensore Due; tremando, si protese per stringerla fra le braccia, ma lei si stava già voltando perché aveva visto il Difensore Tre. — Mack! Mack! Stai bene? Inginocchiatasi, raccolse fra le braccia la sagoma inerte e baciò il volto privo di vita: il volto di Wardian, con il naso romano, le labbra raggelate nel vecchio sorriso. — Lui... starà bene. — Le parole gli uscirono con difficoltà, mentre sussultava e rabbrividiva alla vista di quella virilità dorata. — Tutto ciò che gli serve è un altro po' di sole. — Ci hai portati fuori tu? — Il nuovo Wardian ancora fra le braccia, lei sollevò lo sguardo su di lui. — Ti sono cresciute le ali? — La nave ha modificato i programmi di ritrasformazione per crearmi una fonte di alimentazione... — La nave? — Lei scosse il capo, fissandolo. — È ancora viva? — Lo era, quando l'ho lasciata. — Pensavamo che fosse andata perduta. — I suoi occhi si dilatarono maggiormente. — Ed abbiamo pensato lo stesso di te, quando abbiamo visto il tuo velivolo gravitazionale perdersi nello spazio. — Eravate liberi? I robots non vi avevano ancora presi, allora? — Non lo hanno mai fatto. — Tre anni... — La fissò stupito ed accigliato. — Da quando avete la-
sciato la nave. Immaginavo che foste stati catturati o distrutti. — Ti abbiamo sentito... — goffamente, lei esitò. — Ti abbiamo sentito chiamare, ma Mack ha detto che non potevamo rischiare di rispondere... a quel punto avevamo visto troppa distruzione, e pensavamo che quegli automi assassini potessero sentire. Ma siamo tornati indietro, davvero, abbastanza vicino da poter guardare, e tutto quello che abbiamo visto è stato il lago monsonico. Abbiamo pensato che la nave fosse affondata, perduta. La sua mano rosea si sollevò impulsivamente ad accarezzargli il braccio. — Mi dispiace — sussurrò, mi dispiace per il dolore che dobbiamo averti causato. Mack ha detto che noi due eravamo Difensori difettosi, malformati a causa di quell'antico danno subito dal computer della nave, anche se in modo differente da te. E forse.... forse lo siamo davvero. Avremmo dovuto continuare a cercare, ma credo non ce ne importasse abbastanza, c'importava solo di noi. Puoi... Protese la mano verso di lui, implorante. — Oh, Don, spero che tenterai di capire! — Megan... Megan... — La mano di lei era un velluto dorato, il suo tocco elettrico per lui; osservando la sua luminosa bellezza, non si senti di formulare accuse. — In effetti, suppongo che ce la siamo cavata piuttosto bene. La nave galleggiava, ed io l'ho tirata fuori dall'acqua, fino al deposito dove avevi ammucchiato le noci da olio. Adesso tutti i coloni sono già nati. — Se ti senti amareggiato... — Abbassando lo sguardo sul corpo che aveva fra le braccia, ancora floscio e scuro, lei lo trasse ancora più vicino al proprio luminoso calore. — Riesci a ricordare cosa significhi essere innamorati? — Lo ricordo — le rispose, — fin troppo bene. — Se ci biasimi.. — La sua voce vivace si spezzò. — Suppongo che dovresti farlo, perché eravamo davvero difettosi. Ma eravamo felici, Don, terribilmente felici,così felici di non avere più il fardello costituito dalla nave. Eravamo dèi, dèi immortali con tutto il pianeta per noi! Ciascuno di noi aveva l'altro e non ci serviva nulla di più. Sorrise a Wardian, mormorando teneramente: L'anima sceglie la propria compagnia Poi chiude la porta Io l'ho riconosciuta in mezzo ad una grande nazione L'ho scelta
Poi ho chiuso le valvole della sua attenzione Come pietra. I suoi occhi tornarono a posarsi su di lui. — È così che ci sentivamo... — Non ti addolorare. — Lui tentò di sorridere. — Se avete davvero ucciso tutti gli invasori ed arrestato i loro eserciti di robots, niente altro può importare molto... — Ucciso? — Accigliata, lei fissò l'apparecchio e la cupola. — Sei certo? — Tutti quelli che ho visto. Sono stati trasportati nella cupola all'interno dei loro moduli di trasporto. I moduli si sono aperti là dentro e loro sono morti, credo per via del cianuro idrogenato... — Opera di Mack. — Lei lo fissò con uno sguardo pungente, la sua voce calda si abbassò. — Forse dovrei dire opera tua, Don, perché Mack ha tanto di Don Brink in lui. Quella era la nostra ultima speranza, e non era neppure molto fondata. Con estrema delicatezza, depose il corpo afflosciato sulla pavimentazione, e, con un sospiro, si volse a baciare Don leggermente. Il tocco delle sue labbra fresche lo lasciò gelato e tremante: immerso nel suo tenue profumo, soffrì per il ricordo di Megan. — Don! — sussurrò lei. — Caro Don! È una cosa terribile, amarti così tanto e sentire quanto soffri. Ma tu devi cercare di capire cosa Mack significasse per me. Emily lo ha espresso meglio di come potrei fare io: Non ho mai incontrato quest'uomo, Accompagnato o da solo, Senza che il respiro mi mancasse E nelle ossa mi entrasse il gelo. Le sue dita lucenti gli accarezzarono il volto, gli sfiorarono gli occhi ed il naso, scivolarono rapide sulle labbra. — Ricorda, Don — lo supplicò gentilmente, con la voce di Megan. — Rammenta che tu sei in Mack, come anche lo sono Galen, Ivan e Marty. Amando Mack, stavo amando voi tutti. Penso che non ti sia d'aiuto sentirlo, ma questa era la parte migliore della nostra felicità, scoprire tanto di noi stessi l'uno nell'altra. Non capisci? — Tenterò... tenterò di capire.
Lo abbracciò per un momento, poi si trasse indietro per guardarlo. — Come sei arrivato fin qui, Don? Senza il velivolo.... — A piedi. Un lungo viaggio. — Se non lo avessi fatto, saremmo rimasti intrappolati qui. — La sentì rabbrividire. — Per sempre. — I coloni avevano bisogno di metallo — le spiegò. — Sono partito con due di loro... una coppia i cui componenti si chiamano Galen e Jayna... per cercare il metallo nella città vecchia. Con la speranza, anche, di scoprire cosa l'avesse uccisa. «Là non c'era nessuna traccia, né in alcun posto fuori da questa base. Nulla che siamo riusciti a trovare, anche se abbiamo scavato in centinaia di punti differenti. La stessa storia crudele che si ripeteva dovunque: il pianeta era stato attaccato dallo spazio, senza avvertimenti, a quel che sembrava, senza che ci fosse stato il tempo di tentare una difesa. Tutte le forme di vita terrestri erano state annientate da un'arma che in quel momento non riuscivo neppure ad immaginare. — Un enigma tormentoso. — Lei scrollò le spalle rosate. — Ci ha occupati per tutti quegli anni, anche se non lo sentivamo in maniera molto pressante, presi com'eravamo l'uno dall'altra. Ci aspettavamo di vivere praticamente per sempre, con il pianeta tutto per noi, non eravamo consapevoli di alcun pericolo reale.... fino a che abbiamo sentito i segnali.... — Gli invasori? — Erano ancora lontani. — Lei annuì, lanciando una triste occhiata a Wardian. — All'inizio era tanto debole che non potevamo essere certi che fosse un segnale. Naturalmente era incomprensibile, anche quando si è fatto più forte. Quella è stata la fine della nostra luna di miele. Io volevo cercare un'isola dove potessimo vivere nascosti, ma tu sai che Mack ha molto di Don Brink programmato in lui. Ha detto che dovevamo affrontare i robots. «Abbiamo trovato il canyon e lo abbiamo seguito fino ad un punto da cui potevamo osservare la cupola ed ascoltare. Quando abbiamo capito che la nave aliena era diretta qui, Mack ha detto che dovevamo riuscire ad entrare. Abbiamo atteso una notte nuvolosa, siamo usciti dal canyon ed abbiamo volato verso la cupola, tenendoci bassi. «Nessuno ci ha ostacolati, e siamo atterrati in cima alla cupola. I robots stavano parlando con lo spazio per mezzo di un apparecchio di segnalazione collocato lassù, ma non ci hanno visti. Ci siamo tenuti bassi e ci siamo tuffati in un condotto per l'aria. Siamo quasi andati a sbattere contro un ro-
bot proveniente da un centro di controllo che hanno sotto l'apparecchio di segnalazione. Un momento davvero disperato! Lui la sentì tremare. — Il posto era buio, la nostra energia si è esaurita, e naturalmente non potevamo correre il rischio di uscire alla luce del sole. All'inizio, siamo riusciti ad attaccarci ai cavi di alimentazione per ricaricarci, ma i robots hanno individuato la perdita, hanno bloccato le linee che stavamo usando e sono venuti a cercarci. Abbiamo dovuto vivere nascondendoci ed accontentandoci della poca energia che ci riusciva di rubare. Salvo che per i dintorni dell'apparecchio e del centro di controllo, i livelli superiori erano piuttosto tranquilli, e contenevano magazzini, hangars e depositi di munizioni. La maggior parte dei robots era più in basso, occupata, immagino, nei preparativi per l'atterraggio. Con parecchia fortuna ed un po' dell'abilità di Don Brink, siamo riusciti a raggiungere l'arsenale in cui ci hai trovati. «Sono venuti a cercarci quando siamo stati costretti ad attingere energia da un altro circuito. Un momento terribile, Don: potevamo appena muoverci perché avevano bloccato la corrente prima che potessimo attingerne una quantità sufficiente, e li potevamo sentire muoversi nel buio alla nostra ricerca, ma ci siamo nascosti dentro una grossa cosa che Mack ha detto essere un trasporto antigravitazionale, e loro non sono riusciti a trovarci, perché, così ha spiegato Mack, eravamo ormai tanto freddi e scarichi che non irradiavamo quasi più calore. «Quando se ne sono andati, ci siamo trascinati fuori per esaminare tutte quelle orribili armi: lo stesso tipo che era stato usato per assassinare il pianeta, pensava Mack, ancora tenuto a portata di mano per ogni eventualità. Erano tutte abbastanza spaventose, ma le peggiori erano le bombe al cianuro. Oggetti infernali, quando Mack ha scoperto di cosa si trattava. Un senso di orrore le aveva appannato la voce. — Ed il modo in cui uccidono! Mack ne ha aperta una, quanto bastava per scoprirlo. Era dotata di un catalizzatore assassino, un gas pesante e persistente che sarebbe rimasto stabile per parecchi giorni nell'aria. Quando viene attivato da una qualsiasi radiazione, anche l'infrarosso, si combina con il diossido di carbonio ed il nitrogeno atmosferico per formare un gas acido idrocianidrico. Anche nei polmoni umani. — Allora è stato questo? — sussurrò lui. — È questo l'agente letale? — Quei missili si devono essere sparsi su tutto il pianeta — annuì lei. — In modo che il vento portasse il gas dovunque... trasformando l'aria che la gente respirava in una sostanza che uccideva rapidamente.
— Capisco. — Sorrise cupo in direzione della cupola. — E voi avete liberato il gas contro gli invasori? — È stato un piano di Mack. — Il suo luminoso sorriso era fisso su Wardian, le sue dita accarezzavano il rigido volto patrizio. — Abbiamo ascoltato mentre la nave entrava in orbita ed i velivoli cominciavano ad atterrare. È arrivato il primo, e, guardando dall'alto, abbiamo visto i veicoli automatici che cominciavano a trasportare all'interno le capsule con i passeggeri. «Abbiamo visto le capsule che si aprivano, uomini e donne svegliarsi dal sonno ed uscirne armati per prendere in mano il comando. Mack ha detto che li dovevamo fermare. Naturalmente, noi non ci dovevamo preoccupare per il cianuro, ma quella gente aveva altre armi che mi terrorizzavano... Vide il volto luminoso di lei irrigidirsi. — Detestavo il piano di Mack, dovevo farlo, Don, perché... perché sai che ci è proibito uccidere. Ma Mack ha detto che lui era abbastanza difettoso da riuscire a farlo. Comunque, è ovvio che fermare dei robots non è uccidere, ed il primo trucco consisteva nell'impedire loro di dare l'allarme. Quel che abbiamo fatto non è stato facile perché eravamo troppo a corto di energia, tanto che credevo non ci saremmo mai più ripresi. «I robots non ci hanno mai catturati... merito di Don Brink. Abbiamo installato una bomba per bloccare il loro computer principale, e questo ha abbattuto una cosa che Mack chiamava servo-robot. Noi l'abbiamo riprogrammata in modo da attirare gli alieni nella trappola, poi ci siamo trascinati di nuovo nell'arsenale. Mack stava aprendo le valvole per riempire la base di catalizzatore cianogeno quando io mi sono spenta. Un'ombra di terrore le aleggiava ancora negli occhi. — Non ci aspettavamo che tu arrivassi... — si aggrappò a lui, sussurrando, — né che avremmo mai rivisto il sole. — La sua bocca lucente cercò quella di lui, ed il suo profumo di lillà fu improvvisamente più di quanto lui potesse sopportare. — Se solo avessimo un modo per ringraziarti... Tremando, lui si allontanò, e lei non disse altro, mentre attendevano insieme lo spuntare del sole. Stesa accanto al nuovo Wardian, gli auscultò il torace, lo toccò per sentirne la temperatura, ed alla fine allargò le proprie ali per coprirlo. Il pianeta in via di raffreddamento sfumò in una tonalità più cupa di rosso, e lui rimase seduto ad osservare le stelle della Sfera dell'Uomo, ancora fredde e sconosciute ai suoi occhi. Prima che il sole sorgesse, senti lo stupito sussurro di lei: — Don! Cos'è quello?
E lui vide un velivolo alieno planare in direzione della cupola. V Se era rimasto in vita qualche invasore, e se a lui fosse stato proibito di combattere.... Ogni senso di trionfo soffocato, si volse per osservare l'atterraggio. L'apparecchio era un velivolo dalle ali tozze, simile a quello su cui lui aveva volato, ed atterrò silenziosamente ad un centinaio di metri dall'altra parte della pista. Un uomo scese a terra, seguito da una donna: l'uomo era un invasore, con la tuta mimetica marrone e verde ed armato. La donna..... Jayna! Non era certo una prigioniera, dal momento che portava una cintura cui era attaccato un congegno simile ad una pistola. La donna si soffermò un momento per fissare con meraviglia la cupola, quindi corse per raggiungere l'uomo. Questi aveva intanto individuato i Difensori e si era gettato a terra, puntando il fucile. La donna gli si lasciò cadere accanto, estraendo a sua volta la pistola. Il Difensore si avviò verso di loro, e, fissandolo, Jayna sussurrò qualcosa all'invasore, il quale gridò in direzione del velivolo: subito un oggetto dorato saettò fuori di esso, un disco proveniente dalla stazione orbitale, che si portò avanti e rimase sospeso nell'aria fra di loro. — Comandante di Volo Donbrik a Difensore Uno — scandì improvvisamente con i suoi toni staccati ed inumani. — Comandante di Volo Donbrik richiede che tu ti fermi dove sei e t'inginocchi per riconoscere la sua autorità. — Lui non ha alcuna autorità. L'invasore abbaiò ancora, con un gesto imperioso. — Difensore Uno, ti devi fermare — scandì il disco, — altrimenti il comandante di volo aprirà il fuoco. Lui continuò a camminare. — Donbrik, non farlo! — sentì sussurrare la ragazza. — non ancora... L'invasore fece fuoco. Affinando i suoi sensi, il Difensore vide il piccolo sbuffo di vapore rosso preceduto dalla pallottola roteante, ed accelerò il moto dell'ala sinistra in modo da deviare il proiettile che si allontanò sibilando verso la cupola. Poi continuò ad avanzare. L'invasore stava per sparare ancora, ma Jayna gli spinse il fucile da un lato, quindi, alzandosi in piedi, ripose la pistola e corse incontro al Difen-
sore. Da quando l'aveva lasciata, si era abbronzata, ed i rossi gonfiori lasciati dalle spine erano guariti. Ancora vestita con la tuta di cuoio fornitale alla nascita, era snella ed avvenente, arrossata per l'eccitazione, improvvisamente la stessa Jayna che Rablon aveva adorato un milione di anni prima. Tremando, lui si arrestò. L'invasore si era alzato in piedi, il fucile ancora spianato, e borbottò qualcosa al disco che, farfugliando una risposta, saettò davanti alla faccia del Difensore. — Comandante di Volo Donbrik a Difensore Uno. Il Comandante di Volo Donbrik ti informa che non ha paura, ha appreso alcuni fatti dalla donna, e sa che non sei un dio ma solo una macchina, un robot di servizio non programmato per il combattimento. Il comandante richiede adesso i tuoi servizi. — Dì al comandante che non sono ai suoi servizi. Il disco ruotò nell'aria per ciangottare in direzione dell'invasore; fissando accigliato il Difensore, questi agitò l'arma e rispose seccamente. — Il comandante richiede obbedienza e t'informa che le macchine possono essere bloccate. — Dì al comandante che noi abbiamo bloccato le sue macchine... — Difensore... — Senza ascoltare, la ragazza si era fatta avanti e lo aveva interrotto. La sua voce fredda era quella di Jayna, e per lui era una musica crudele. — Non litigare con il comandante di volo, lascia che ti parli di lui. L'invasore l'aveva seguita, facendosi più vicino: un uomo snello e robusto, abbronzato e dotato di un'aria di guardinga sicurezza che il Difensore fu costretto a rispettare. — Lui è il capo del suo popolo, ed è giunto qui per reclamare la Sfera dell'Uomo... Vide l'invasore girarsi di scatto per guardare in direzione degli altri Difensori: il nuovo Wardian si stava alzando, le ali nuovamente vive delle tinte dell'arcobaleno, e la nuova Megan si era chinata ad aiutarlo. Dorati, simili a dèi, essi rimasero per un momento faccia a faccia, assorti l'uno nell'altra, poi si unirono, chiudendo intorno a sé le ali per coprire il loro avido abbraccio. Con un senso di dolore interiore, lui distolse lo sguardo. Il disco ticchettò nella lingua degli invasori. Fissandoli accigliato, l'invasore ascoltò, poi grugnì qualcosa a Jayna.
— Devi dirlo anche a loro, Difensore. — Jayna sorrise. — Devi dire loro che noi abbiamo cambiato le regole... se riuscirai ad attirare la loro attenzione. Il Comandante Donbrik è venuto ad occupare il pianeta per i signori delle stelle, l'antica razza dominante. Credo che siano figli di un'altra naveseme che deve aver raggiunto il loro pianeta così tanto tempo fa che tutto quello che ricordano in merito sono solo leggende. Il Comandante porta il nome di Don Brink, che per loro è un mitico eroe. — Il tuo amico non è un eroe qui. Osservando il duro volto abbronzato, il Difensore non vi scorse nulla di familiare; eppure, pensò con un po' di malinconia, l'originario Don Brink avrebbe apprezzato di essere ingaggiato per conquistare pianeti. — Come lo hai incontrato? — chiese. — Stava esplorando il pianeta quando ci ha visti dall'aria, Galen ed io. Eravamo vicino alle rovine dove ci hai lasciati, intenti a tagliare una pista. All'inizio, ha pensato che fossimo sopravvissuti dell'antica civiltà e quindi possibili nemici, ed ha mandato il disco a spiarci. Poi è atterrato e ci ha detto chi era. — E vi siete arresi a lui. — C'è stata una terribile incomprensione. — Con la scrollata impaziente di spalle ed il momentaneo broncio di dolore, lei era la Jayna che ricordava. — Galen non voleva cedere, ed io ho tentato di nascondermi dopo che lui è stato ucciso, ma il disco mi ha trovata. Donbrik è stato piuttosto duro con me, all'inizio, ma ora... — nella sua voce c'era una ben nota cadenza. — Ora è più gentile con me, dato che l'ho convinto che le nostre razze devono essere cugine fra loro. — Più gentile? Hai dimenticato quello che hanno fatto agli altri nostri cugini di qui? — Per favore... — Jayna apparve ferita. — Aspetta di capire. — Credo di capire — ribatté il Difensore. — È stata la sua cosiddetta civiltà dominatrice... con i suoi robots... ad assassinare il pianeta. — Era guerra. — Lei scrollò le spalle. — I signori delle stelle stavano combattendo per difendersi, e comunque non puoi biasimare il Comandante Donbrik... non per errori commessi tante migliaia di anni fa. — E per l'uccisione di Galen? — Non essere crudele. — Un'ombra le attraversò il volto per poi svanire subito. — Io amavo Galen, e quello che gli è accaduto mi ha addolorata terribilmente, ma lui se l'è andata a cercare: non avrebbe mai dovuto combattere avendo solo quel machete. Ho sofferto per lui, ed all'inizio ho odia-
to il comandante di volo, fino a che l'ho conosciuto meglio e ho appreso la storia del suo popolo. Una storia davvero tragica. — Jayna sospirò e scosse il capo, sorridendo tristemente all'invasore. — I signori delle stelle. Anche il loro nome sembra ironico adesso, dopo che hanno subito tanti terribili disastri. Ma è anche una storia orgogliosa: un tempo, essi erano conquistatori. — Non avrebbero dovuto esserlo. — Il Difensore fissò aggrondato l'invasore. — I geni di Don Brink non erano stati inseriti nel seme a scopo di conquista, ma solo di difesa... L'invasore si rivolse bruscamente al disco e questo si abbassò e disse qualcosa. — Sta traducendo — Spiegò la ragazza. — Il comandante di volo vuole sapere cosa stai dicendo. — Nulla che possa rallegrarlo... L'invasore abbaiò qualcosa ed il disco volse la faccia scura verso il Difensore. — Comandante di Volo Donbrik a Difensore. Se possiedi informazioni, il comandante le vuole avere subito. — Più tardi — rispose, e, rivolto alla ragazza: — Va' avanti... se te lo permetterà. — Lo farà. — Jayna indietreggiò leggermente per sfiorare con le spalle ed i fianchi il comandante. — È un bastardo cocciuto, ma ho imparato a tenerlo a bada: posso mantenerlo ragionevole fintanto che tu non farai nulla di avventato. Lui mostrò le mani vuote. — Causare guai sarebbe stupido. — Gli occhi di lei si erano dilatati innocentemente in un modo che gli destava dolorosi ricordi. — Perché non puoi sperare di vincere. Credo che tu sia più intelligente di Galen. — Jayna sollevò la voce al di sopra del ticchettare del disco. — In realtà, Difensore, siamo fortunati che Donbrik sia arrivato, perché potrà dividere con noi la civiltà della sua razza dominante, ci potrà far uscire dalla barbarie e renderci le cose più facili. — Si appoggiò contro il guardingo invasore. — È stato così buono con me. — Ne sono certo. — Non essere cattivo. — Fece una faccia commovente. — Se solo ascolterai la storia... — Stavo ascoltando. — Non ci sono stati difetti di funzionamento nella loro nave-seme —
fisse Jayna. — Il suo popolo stava prosperando sul mondo su cui la nave era caduta, ed è rimasto felice e pacifico per molte migliaia di anni... fino a che è stato attaccato da creature provenienti da un'altra stella. I razziatori erano orribili creature cerebrali che vivevano in corpi automatici. Gli umani furono quasi spazzati via, ma i sopravvissuti impararono dai razziatori, impararono a costruire i robots. Ed impararono ad essere guerrieri... uomini come il comandante di volo. Informato dal disco, l'invasore annuì con cupa approvazione alle parole di Jayna. — Alla fine, sconfissero gli esseri cerebrali, e, estendendo le loro difese, conquistarono i pianeti di una dozzina di altre stelle... — Compresa la Sfera dell'Uomo? — Disponeva di un'elevata tecnologia, e quindi era un possibile nemico. — Lui ammette l'attacco a tradimento? — Lo definisce uno sfortunato errore. — Lei scrollò le spalle. — La spedizione partì ma non se n'ebbero più notizie, e la sua gente non ne ha mai saputo il perché fino a che è giunta qui. Parlando con la Squadra d'Assalto, il comandante ha trovato le prove che gli scienziati locali erano sopravvissuti abbastanza a lungo da reagire con una qualche nuova arma che aveva ucciso i coloni quando essi erano atterrati. — Abbastanza giusto — mormorò il Difensore. — Difensore, per favore... — afferrandolo per un braccio, Jayna cercò di tirarlo più vicino all'invasore. — Dobbiamo comprendere il comandante di volo e la sua gente sfortunata. Adesso sono fuggiaschi, a causa di un altro terribile errore: un altro attacco, considerato necessario al loro sistema di difesa, contro un altro sistema solare. «Anche se forse un tempo erano stati umani, gli abitanti di quel sistema si erano trasformati in qualcosa di terribile: in angeli, lui dice, ed in terrificanti demoni. I demoni reagirono con robots da combattimento ed armi copiate dalle loro. Il comandante dice che la sua gente è stata spazzata via, tutta, tranne l'equipaggio della sua nave. Lui era in volo per occupare uno dei pianeti che si ritenevano già conquistati, e, dopo il disastro, ha cambiato rotta nello spazio per venire qui. Un volo cui non erano preparati, troppo lungo per la nave e per la gente addormentata nelle capsule, un rischio disperato, ma l'unica possibilità che gli rimaneva di salvare la razza dominatrice dall'estinzione. È per questo, Difensore... — gli si aggrappò al braccio, la sua voce uguale a quella di Jayna, commovente e tremante in un modo che ricordava, — è per questo che noi dobbiamo comprendere: non
sono venuti a conquistare nessuno, ma solo a cercare un rifugio sicuro... — Un modo piuttosto spietato per farlo, se si considera che il tuo nuovo eroe ha assassinato Galen e sparato a me. — Fissò accigliato l'invasore. — È solo? — Solo? — Jayna indicò i velivoli vuoti vicini alla cupola. — Ha portato centinaia di persone, sufficienti a dominare il pianeta ed a stabilirvi la loro civiltà. — Ha altri esploratori ancora in giro? — Nessuno. — Jayna sollevò con orgoglio la testa. — È stato tanto coraggioso da andare in giro completamente solo. Compiaciuto, l'invasore si chinò contro la spalla di lei. — Adesso glielo puoi anche dire: digli che ha commesso il suo ultimo errore, che i passeggeri sono tutti morti nella cupola, uccisi dalle stesse armi usate per assassinare questo mondo. Digli che è veramente solo... Lei indietreggiò inorridita, fissandolo incredula. — Comandante di Volo Donbrik a Difensore Uno. — Il disco venne a ronzargli intorno alla testa come un grosso insetto irritato. — Il comandante ti informa che le tue sciocche menzogne non lo hanno ingannato. Sa che la tua assurda affermazione non può essere vera, perché ha ispezionato personalmente la cupola prima di provvedere allo sbarco della sua gente, l'ha trovata perfettamente sicura ed ha ordinato che i moduli venissero portati all'interno dove potevano essere aperti con sicurezza... — Digli di guardare. Lanciandogli uno sguardo penetrante, l'invasore ringhiò qualcosa alla ragazza, che si mise a correre in direzione della cupola. — Jayna, fermati! Se entri là non uscirai più! Lei continuò a correre. — Falla ritornare — disse secco, rivolto all'invasore. — Morirà... Il disco ticchettò ma l'invasore, voltatosi per guardare la ragazza, lo ignorò. Il Difensore si era girato a sua volta, quando la vide arrestarsi ed indietreggiare barcollando, tossendo per respirare. — Una puzza... una puzza orribile! L'invasore muggì un ordine rivolto al disco e questo saettò oltre la ragazza e dentro la cupola, mentre il comandante s'inginocchiava e spianava il fucile in modo da coprire la soglia aperta ed anche gli altri due Difensori. Ancora ammantati nelle ali lucenti, questi erano estranei a tutto, e parvero inconsapevoli di ogni altra cosa anche quando il vento instabile portò fino a loro un alito di morte dalla cupola.
Alla fine, il disco riemerse e l'invasore si alzò, abbaiando domande. Il ticchettio del disco parve tremare ed esitare, mentre l'invasore s'irrigidiva, fissando la cupola ed i Difensori alati. Per parecchio tempo, rimase come raggelato, poi si volse e sussurrò qualcosa alla ragazza. Piegata in due a causa di un accesso di tosse, lei parve non sentire. Lanciato un duro sguardo al Difensore e sollevata una mano in un lento gesto di saluto, l'invasore si avviò in silenzio verso la soglia scura. — Comandante! Non... Jayna lo seguì incespicando, annaspando qualcosa nel suo linguaggio, e lui si arrestò e si volse a fissarla con occhi vuoti. Lei lo circondò con le braccia ed essi rimasero a lungo fermi a parlare, mentre il disco si spostava avanti e indietro sopra di loro e poi si allontanava verso la cupola e verso gli altri Difensori. Ancora avviluppati nelle ali iridescenti, essi si scossero quanto bastava per lanciare un richiamo che lo fece arrestare. — Don! — Gli fecero cenno di raggiungerli, e, tremando per l'eccessiva emozione, lui si avviò con passo incerto nella loro direzione. — Grazie, vecchio mio. — Parlando con la voce scandita che Brink aveva conosciuto per tanto tempo, il nuovo Wardian protese un forte braccio dorato per accoglierlo con una calorosa stretta di mano. — Megan mi dice che hai salvato la nave e fatto nascere felicemente i coloni. — I ringraziamenti — replicò, — spetterebbero a voi. — Adesso non importa. — Wardian scrollò le spalle e si soffermò per sorridere a Megan. — Sembra che i nostri problemi qui siano risolti, ed immagino che tu tornerai a servire la nave. Quanto a Megan e me... — Noi rimaniamo, Don. — Gli occhi lucenti di un bagliore verde nel sole del mattino, lei splendeva di una bellezza maggiore di quella dell'antica Megan, e lui la desiderò. — Almeno per ora. Per dissolvere il catalizzatore e programmare i robots in modo che ripuliscano quel carnaio. — Poi daremo un'occhiata al bottino. — Wardian indicò gli apparecchi d'atterraggio e la cupola. — Con tutta la storia e la tecnologia degli invasori da apprendere, ce n'è di che tenerci allegri. — Oh, Don! — La voce uguale a quella di Megan gli trafisse il cuore. — Ti amiamo così tanto... Aprì un'ala dorata per accoglierlo nel cerchio delle loro ali. Le sue labbra dorate si posarono sulle sue ed il suo profumo lo sopraffece con un'ondata di disperazione troppo umana. Barcollando, tremante e stordito, udì l'apparentemente distante mormorio di lei: — Se ci devi lasciare... — L'ala vellutata lo strinse più vicino al fluido
potere che emanava da lei. — «La separazione è tutto ciò che conosciamo del Paradiso e tutto quel che ci serve dell'Inferno». — Poi lo lasciò. — Va' avanti, vecchio mio. — Wardian si protese ancora a battergli su una spalla. — Quando avrai bisogno di noi, saremo pronti. Le loro ali lo avevano nuovamente escluso e lui tornò barcollando verso Jayna, che stava conducendo l'invasore verso il velivolo, tenendolo per mano come se fosse un bambino. — Hai vinto, Difensore. — Il suo sorriso da ragazza-copertina era una gioia dolce-amara. — Il comandante è pronto ad ammettere di aver perduto la sua spedizione ed il pianeta, anche se non credo comprenda veramente come sia accaduto. Si voleva uccidere, sostenendo che quello è l'ultimo dovere che un guerriero sconfitto ha nei confronti del suo popolo... ma l'ho persuaso che adesso saremo noi il suo popolo ed intendo portarlo a casa al posto di Galen. E non mi dire che non dovrei farlo. — La Jayna che lui rammentava, astutamente adulatrice. — Davvero, Difensore, ci renderà tutti più forti. Certo, adesso è sconvolto, ma è di stoffa dura e si riprenderà presto. Ci può aiutare ad imparare l'uso degli attrezzi portati qui dalla sua gente, e, se dovessero sorgere altri guai, potremmo aver bisogno di un guerriero. — Se sorgeranno guai... Si soffermò a fissare accigliato Donbrik: mentre le camminava al fianco, le spalle afflosciate e gli occhi abbassati al suolo, l'invasore appariva abbastanza innocuo, ma che sarebbe accaduto quando i suoi geni di conquistatore si fossero infiltrati nel piccolo patrimonio genetico della colonia? — I guai verranno — mormorò, e la sua gioia per la vittoria risultò ancora una volta diluita. — Arrivano sempre. A bordo del velivolo, scaricò l'acqua a massa invertita per prendere il volo verso la lontana colonia. La cupola rimpicciolì a mano a mano che salivano, fino a sembrare una moneta di rame brunito gettata accanto alla striscia d'atterraggio ed alla nera ferita del canyon. Piegò a sud verso la colonia. Jayna aveva riscosso l'invasore dall'intontimento della sconfitta, e stava facendo all'amore con lui sul sedile posteriore. Ascoltandoli, il Difensore sentì ancora la mancanza di tutto ciò senza cui era nato, ma mentre osservava il vuoto pianeta stendersi sotto di loro, l'antico dolore svanì. Perché la Sfera dell'Uomo era nuovamente viva, i suoi principali misteri erano stati risolti, i suoi rischi principali eliminati, il seme umano era stato saldamente trapiantato ed i coloni erano eredi di due mondi, anche se erano
ancora soltanto neonati, appena usciti dalla culla. Si sentì vibrare di orgoglio umano per la promessa cosmica che era in loro, provò umana pietà per tutto ciò che avrebbero dovuto soffrire, si rilassò finalmente in un insorgere di gioia umana. Quando le cose fossero andate male... alcune cose sarebbero sempre andate male... ci sarebbe stato ancora il loro Difensore. Guardando indietro verso l'interminabile striscia vuota, ricordò un altro astroporto vuoto. La zona di lancio, di diecimila secoli prima, le sue miglia vuote che si stendevano su un'alta mesa nella parte occidentale del New Mexico. Era lo storico ranch Dos Lobos, che il vecchio Luther Raven aveva acquistato come rifugio dalle tasse ed infine lasciato in eredità per il progetto delle navi-seme. Un fine settimana d'autunno, in cui il laboratorio era chiuso. Marty Rablon era andato ad incontrare i suoi legali e Wardian a volare con il deltaplano, e Megan era venuta in macchina da Albuquerque con Brink e Tomislav per vedere il primo modellino di nave-seme. Il composto dell'analizzatore era stato eccessivo per lui, ed era stato felice di un giorno di pausa, un giorno con lei, seduto sul sedile anteriore accanto a lei. Ai caseggiati del vecchio ranch, appena all'interno del cancello, si fermarono per pranzare a base di chili, frijoles e tortillas insieme al magro vecchio Jesus Aranda ed alla sua avvizzita moglie. Mojados, i due erano venuti dal Chihuahua per lavorare per El Señor Raven. La maggior parte dei tecnici era via, ed il vecchio Jesus li accompagnò a cavallo per mostrare loro la strada che portava al nuovo complesso di lancio. Erto sulla piattaforma, il modello dimostrativo era come una snella matita gialla, rimpicciolito dai più grossi serbatoi ausiliari e dai sostegni che li circondavano. — Quel giocattolo! — Don Brink aveva esclamato, con stupita ironia. — Non mi vorrai davvero dire che può volare fino alle stelle? Con semplice acqua come propellente? Lui aveva tentato di spiegare la propulsione a idrogenofusione, tanto più efficiente dei razzi chimici e molto più sicura della fissione. — Le navi-seme devono essere piccole — aggiunse, — perché ne lanceremo tante. Una al giorno, forse anche due quando ci prenderemo la mano. Almeno mille, prima di aver finito. Per la maggior parte, naturalmente, andranno perdute, forse anche tutte, a meno che siamo fortunati. Avevano parcheggiato vicino alla piattaforma e Megan era scesa con la macchina fotografica per prendere delle foto per Ben Bannerjee. L'altitudine era eccessiva per Tomislav, ed il ginocchio di Brink faceva male, così
loro avevano atteso seduti in macchina. — Probabilità davvero sconfortanti. — Le probabilità sono sempre... sempre sconfortanti. — Tomislav faceva fatica a respirare. — Per i semi, i geni o la gente, nella competizione per la sopravvivenza. È per questo che la natura deve essere tanto prodiga, e talvolta tanto crudele. — Penso che dovrei essere grato. — Brink fissò duramente il biologo, che in effetti non aveva mai voluto che la sua mente o i suoi geni fossero introdotti nel computer. — E grato a Megan, se è per questo che mi ha voluto nel progetto. So di aver visto la mia parte di probabilità negative, ed ho passato la vita a giocare dure partite contro di esse. — Guardò in direzione della nave, ed i suoi lineamenti segnati si addolcirono. — Ed ho amato il progetto: siamo una razza combattiva, noi umani, e tutto quello che ci serve è una possibilità di lottare. — Ma la lotta... la lotta non è tutto. — Tomislav dovette annaspare per respirare. — Una lezione che farai meglio ad imparare, Brink, se speri davvero di continuare a combattere. L'aggressione è stata talvolta utile, ma l'eccesso di aggressività ha eliminato alcune specie e sta adesso per eliminare la razza umana. È per questo che il progetto è importante: l'altruismo è un fattore di sopravvivenza molto più potente. I nostri Difensori saranno programmati per l'altruismo. — Ma non dimenticare... — Don Brink scosse il capo, con un sorriso malizioso, — ... che i tuoi altruisti potrebbero aver bisogno di chi li difenda. FINE