PHILIP JOSÉ FARMER LA RABBIA DI ORC IL ROSSO (Red Orc's Rage, 1991) IL FABBRICANTE DI MITI: GLI STRANI UNIVERSI DI PHILI...
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PHILIP JOSÉ FARMER LA RABBIA DI ORC IL ROSSO (Red Orc's Rage, 1991) IL FABBRICANTE DI MITI: GLI STRANI UNIVERSI DI PHILIP J. FARMER Scrivere un'introduzione per uno qualsiasi dei romanzi di Philip J. Farmer è un po' come tentare di afferrare del mercurio: la materia sfugge da tutte le parti. Cosa dire, infatti, di uno scrittore la cui produzione oscilla tra il romanzo d'evasione più scanzonato e L'immagine della bestia (ristampato di recente dalla Fanucci), splendido e nerissimo horror venato di pornografia che ha poco a che vedere con la science fiction? E qual è il vero Farmer? Quello del ciclo di Padre Carmody (Notte di luce, anch'esso ristampato di recente dalla Nord) oppure quello che ricalca, per quanto in maniera personale e post-moderna, i romanzi su Tarzan di E.R. Burroughs? L'autore di Fabbricanti di universi, celeberrimo ciclo di fantascienza avventurosa, oppure colui che ha scritto Venere sulla conchiglia, libro balzano quant'altri mai, ma assolutamente delizioso da leggere, usando come nom de plume Kilgore Trout, ovvero il protagonista de La colazione dei campioni, parto letterario di uno scrittore mainstream bizzarro quanto Farmer: Kurt Vonnegut Jr.? In realtà, la domanda è oziosa. In ogni libro di Farmer assistiamo a un continuo mescolarsi di generi letterari e di livelli di fruizione. Perfino i romanzi più commerciali e «leggeri» scritti di Farmer offrono, oltre a una robusta dose di avventure ed emozioni, squarci graffianti sulla società contemporanea, amare riflessioni sulla condizione umana, momenti di acre sarcasmo che non risparmia nulla e nessuno. Farmer è uno scrittore fatto così: sfonda allegramente ogni barriera tra i generi letterari, contamina, manipola, seduce con la sua superba capacità di mantenere un invidiabile equilibrio tra azione e riflessione. La Rabbia di Orc il Rosso è un esempio perfetto del modus operandi di Farmer. Una trama tutto sommato banale - universi paralleli, un adolescente profondamente frustrato che in essi cerca un modo per guarire dalla propria nevrosi - viene nobilitata prima di tutto dal fatto che il romanzo si basa su un'esperienza reale: uno psichiatra statunitense, A. James Giannini, ha usato Fabbricanti di universi, ciclo in cinque volumi scritto da Farmer a cavallo degli anni '60, come mezzo terapeutico per curare adolescenti psi-
cotici. I particolari della terapia sono esposti esaurientemente nel corso del romanzo e nella postfazione di Giannini, dunque ci perdonerete se non ci soffermeremo su di essi. Piuttosto, ci preme sottolineare come ne La Rabbia di Orc il Rosso Farmer abbia realizzato una sorta di metaromanzo. in cui fantasia e realtà si confondono, grazie alla presenza inquietante di Fabbricanti di universi, porta metaforica e non (almeno nel romanzo) attraverso cui è possibile muoversi in una struttura narrativa nettamente divisa in due. Jim Grimson, protagonista del romanzo, vive un' esistenza affatto schizofrenica, divisa tra il ricovero nel reparto di psichiatria dell'ospedale di una piccola città dell'Ohio e le mirabolanti avventure vissute negli universi tascabili dei Signori. E come non essere tentati di leggere, nella sua vicenda, una calzante metafora del tipico lettore di narrativa fantastica, sempre sospeso tra due universi assolutamente separati: quello prosaico e opaco della vita quotidiana e quello dell'immaginazione creativa, in cui tutto viene trasfigurato, tutto è possibile, tutto significa qualcosa, in una ridda di archetipi e di simbologie? Ottimo romanzo d'avventura, Bildungsroman di un tipico adolescente a stelle e strisce, gioco di specchi in cui Farmer (suprema ironia o suprema hybris?) cita se stesso, La Rabbia di Orc il Rosso aggiunge un altro tassello alla già copiosa bibliografia farmeriana; forse non si tratta di un tassello fondamentale, ma siamo sicuri che vi offrirà numerosi motivi di svago e, perché no?, di riflessione. Il che, con i tempi che corrono, non è poco. Carlo Bordello Questo libro è dedicato ad A. James Giannini, M.D., F.C.P., F.A.P.A., Docente di Psichiatria alla Ohio State University, la cui consulenza mi è stata utilissima durante la stesura di questo romanzo. Fu nel 1977, mentre insegnava a Yale, che il dottor Giannini ebbe l'idea di quella che in questo libro viene definita terapia Livelliana. Iniziò a sperimentarla concretamente nel 1978, quando esercitava la professione privata a Youngstown, Ohio. In una lettera datata 28 dicembre 1978, il dottore mi informò che stava usando un nuovo metodo di terapia psichiatrica per curare adolescenti psicotici. Questa tecnica si basava su Fabbricanti di Universi, un mio ciclo composto da cinque romanzi. I pazienti, tutti volon-
tari, leggevano il ciclo e sceglievano il personaggio o i personaggi in cui identificarsi; in un certo senso diventavano quei personaggi. Gli obiettivi e i metodi di questa terapia sono descritti in questo romanzo. Attualmente il dottor Giannini e i suoi collaboratori stanno per dare alle stampe alcuni saggi scientifici che descrivono le caratteristiche della terapia attuale e i suoi risultati. Il Wellington Hospital Medicai Center, Belmont City, la Contea di Tarhee, e tutti i personaggi e gli eventi descritti in quest'opera, sono frutto della mia fantasia. I miei ringraziamenti a David McClintock di Warren, Ohio, per avermi fornito numerosi e utili dati sull'area di Youngstown. CAPITOLO PRIMO 26 Novembre 1979 Jim Grimson non aveva mai avuto intenzione di mangiare i testicoli di suo padre. E non si era neppure aspettato di fare l'amore con venti delle sue sorelle. Non aveva previsto che, a bordo di uno Steed bianco, avrebbe salvato la propria madre dalla prigionia e da un assassino. E come poteva sapere nell'ottobre del 1979 - aveva soltanto diciassette anni - che era stato proprio lui a dare origine al nostro universo, la cui creazione, a quanto pareva, risaliva a dieci miliardi di anni prima? Sebbene il padre l'avesse spesso definito uno «zuccone» - ma senza dubbio anche i suoi professori la pensavano a quel modo - Jim leggeva moltissimo, dunque conosceva la teoria contemporanea sull'origine dell'Universo. All'inizio, prima ancora che il Tempo cominciasse a scorrere, era esistita unicamente la Sfera Originaria. Al di fuori di essa non c'era stato nulla, neppure lo Spazio. Il futuro universo, le sue costellazioni, le sue galassie, tutto era compresso in una sfera grande quanto un bulbo oculare di Jim. Poi la sfera, divenuta estremamente calda e densa, era esplosa: il cosiddetto Big Bang. Dopo qualche miliardo di anni, la materia in espansione si era trasformata in stelle e pianeti; in seguito era comparsa la vita sulla Terra. Be', quella teoria era SBAGLIATA, SBAGLIATA, SBAGLIATA! La materia non era l'unica sostanza a cui si potevano applicare un calore e una pressione tremendi. Anche l'anima poteva subire un trattamento del
genere. E poi: BOOM! Dio Onnipotente! Meno di un mese prima, Jim aveva accettato con riluttanza di farsi ricoverare nel padiglione di psichiatria del Wellington Hospital, a Belmont City, Contea di Tarhee, Ohio. E poi, tra le altre cose, era diventato il Signore di numerosi universi, un vagabondo in molti di essi, in uno perfino uno schiavo. In quel momento, si trovava di nuovo sulla Terra in cui era nato, nel suddetto ospedale. Il suo animo era attanagliato da una gelida sofferenza e da una furia ardente, mentre lui continuava a camminare avanti e indietro in una stanza la cui porta era chiusa a chiave. Lo psichiatra che aveva in cura Jim, il dottor Porsena, aveva affermato che i suoi viaggi in altri mondi erano mentali, il che non significava che non fossero reali. I pensieri non erano fantasmi. Esistevano. Di conseguenza, erano reali. Jim sapeva che le proprie esperienze negli universi tascabili erano reali quanto il dolore che aveva provato, poco tempo prima, sferrando un pugno contro la parete della camera. E poi, il sangue che scorreva dai segni delle frustate che aveva sulla schiena non bastava a tacitare qualsiasi dubbio sulla veridicità del tutto? Tuttavia, il dottor Porsena, razionalista e razionalizzatore, avrebbe fornito una spiegazione superbamente logica di quei fenomeni inspiegabili. Jim voleva bene al dottore. Ma, in quel particolare momento, sentiva addirittura di odiarlo. CAPITOLO SECONDO 3 Novembre 1979 «Tutti i miei precedenti pazienti,» esordì il dottor Porsena, «avevano già sperimentato altri tipi di terapia, senza ricavarne alcun beneficio, sebbene ciò, in parte, possa essere attribuito all'ostilità dei pazienti stessi nei confronti di qualsiasi tipo di terapia psichiatrica.» «C'è un vecchio proverbio cinese,» replicò Jim Grimson. «"Se vai da uno psichiatra, devi essere davvero matto". Ed ecco un altro detto del Celeste Impero: "La follia non è mai ciò che sembra".» L. Robert Porsena, M.D., F.C.P., capo del dipartimento di igiene mentale del Wellington Hospital, abbozzò un sorriso. Jim immaginò che stesse pensando: Ecco un altro furbone con cui far e i conti. E ho già sentito mil-
le volte le sue battute, copiate dalla parete di qualche toilette. «Un detto del Celeste Impero», come no. Sta tentando di impressionarmi, di farmi capire che lui non è un altro ragazzino brufoloso e ignorante, a cui troppe droghe e troppa musica rock hanno mandato in pappa il cervello. D'altra parte, poteva darsi benissimo che il dottor Porsena non stesse pensando quelle cose. Era difficile intuire quali pensieri celasse quel viso dai tratti piacevoli, identico a quello di Giulio Cesare, se non fosse stato per due sottili baffetti neri alla Fu Manchu e al taglio dei capelli, tanto corti da rivelare il cuoio capelluto. Il dottore era prodigo di sorrisi. Lo sguardo gentile nei suoi occhi azzurri ricordava a Jim la canzone del Cappellaio Matto, uno dei personaggi di Alice, il libro di Lewis Carroll. «Luccica, luccica, pipistrello! Sulle tue intenzioni, mi rodo il cervello! Voli sul mondo, simile a un vassoio da tè rotondo! Luccica, luccica.» Gli adolescenti in cura dal dottor Porsena affermavano che era uno sciamano capace di compiere miracoli, uno stregone urbano che padroneggiava la magia e ai cui ordini accorrevano spiriti provenienti da bizzarri piani astrali. Porsena fece per dire qualcosa, ma fu interrotto dal ronzio dell'intercom sulla scrivania. Premette un pulsante e disse, «Winnie, l'avevo avvertita di non disturbarmi!» Ma evidentemente Winnie, la bellissima segretaria di colore seduta alla sua scrivania dall'altro lato della parete, aveva ricevuto qualche telefonata urgente da passare al suo capo. Il dottor Porsena disse, «Scusami, Jim, non mi ci vorrà che un minuto.» Jim ascoltò la conversazione distrattamente, facendo vagare lo sguardo fuori della finestra. Il reparto psichiatrico e l'ufficio di Porsena erano ospitati al secondo piano dell'ospedale. La finestra, come tutte quelle che si aprivano in quell'area dell'edificio, era dotata di grosse sbarre di ferro. Al di là degli altri reparti dell'ospedale, Jim vide i palazzi che sorgevano lungo le rive del fiume Tarhee, che confluiva nel Mahoning circa un chilometro più a sud. Scorse anche le guglie delle chiese di St. Grobian e St. Stephan. Probabilmente, quella mattina presto, la madre si era recata a messa nella seconda di quelle chiese. Era l'unico momento della giornata che poteva dedicare al culto: era costretta a fare due lavori, in parte a causa di Jim. L'incendio aveva distrutto tutto, tranne il ritratto del nonno, che era stato portato via dalla casa appena in tempo, insieme a Jim. I genitori si erano trasferiti in un piccolo appartamento ammobiliato, relativamente a buon mercato, a
qualche isolato di distanza dalla vecchia casa, ma troppo vicino al quartiere ungherese per i gusti di Eric Grimson. Quell'atteggiamento ingrato era tipico del padre di Jim. I parenti di Eva in realtà, tutti quelli di origine ungherese che abitavano nella zona, avevano regalato del denaro per aiutare la famiglia di Jim a togliersi d'impaccio. La maggior parte della somma era stata raccolta organizzando una lotteria. Si era trattato di un avvenimento notevole, visto che negli ultimi anni le donazioni di beneficienza erano calate a causa delle disagiate condizioni economiche dell'intera area di Youngstown. Ma la famiglia di Eva, gli amici e la chiesa si erano dati da fare. Anche se il suo matrimonio aveva indebolito i legami con la comunità, la madre di Jim era pur sempre rimasta un'ungherese, una dei «nostri». E adesso che si trovava in difficoltà, «aveva imparato la lezione ed era completamente pentita», come recitava il vecchio detto. I Grimson non si erano potuti permettere la stipula di un'assicurazione che coprisse i danni alla proprietà o le perdite causate dal cedimento delle fondamenta. E, sebbene avessero un' assicurazione contro gli incendi, se l'incendio fosse stato causato da un atto divino, cosa che non era stata ancora stabilita con certezza, non avrebbero ricevuto alcun risarcimento. Eric Grimson non aveva neppure il denaro sufficiente per assumere un avvocato. Ma uno dei cugini di Eva, un procuratore, si era offerto spontaneamente di occuparsi del caso. Se avesse vinto, avrebbe ricevuto il dieci per cento del risarcimento. Se avesse perso, non avrebbe guadagnato nulla. Era chiaro che li stava aiutando per spirito di clan e perché era dispiaciuto per la cugina; che Eva avesse sposato un non-ungherese, un fannullone ateo che in precedenza era stato protestante, era già un bel dramma, ma che avesse perso la casa, e tutte le sue cose, e che il figlio fosse impazzito... be', era troppo. Pur essendo un avvocato, il cugino era un uomo di buon cuore. Al denaro necessario per mantenere Jim in terapia provvedeva l'assicurazione medica, ma le rate trimestrali erano molto alte. Per pagarle, Eva Grimson era stata costretta a cercarsi un altro lavoro. Le due volte che era andata a far visita a Jim, aveva l'aspetto di una persona molto stanca: era dimagrita, aveva le guance incavate e gli occhi cerchiati di nero. Jim era stato assalito da un forte senso di colpa e si era dichiarato pronto a interrompere la terapia. Ma la madre non lo avrebbe mai permesso. Il figlio era stato costretto a scegliere tra sottoporsi a una terapia psichiatrica oppure finire in prigione. Il procuratore distrettuale aveva insistito sul fatto
che Jim andasse considerato un adulto; la sua posizione avrebbe reso più dura la sentenza. Eva avrebbe fatto tutto il possibile per evitare a suo figlio la prigione. Inoltre, sebbene non fosse disposta ad ammetterlo davanti ad altre persone, era convinta che Jim fosse davvero pazzo, e che così sarebbe rimasto, a meno che non fosse stato preso in cura da uno psichiatra. Il padre di Jim non era mai andato a trovarlo. Jim non ne aveva chiesto il motivo alla madre. Da una parte non desiderava vedere Eric Grimson. Dall'altra sapeva che Eric si vergognava profondamente di avere un figlio «pazzo». La gente avrebbe pensato che si trattasse di un fattore ereditario, che la follia scorresse nel sangue delle famiglie dei genitori. E forse, per la famiglia di Eva, era proprio così. Tutti gli ungheresi erano pazzi. Ma non i Grimson, per Dio! A dire il vero, Jim era stato notevolmente fortunato a entrare in terapia tanto in fretta. A causa della mancanza di fondi, i programmi per la cura di persone affette da turbe mentali erano stati drasticamente ridotti. Normalmente, Jim si sarebbe ritrovato ultimo in una lunga lista d'attesa. In effetti, non sapeva come o perché fosse riuscito a scavalcare gli altri. Ma sospettava che lo zio di Sam Wyzak, il giudice, avesse usato tutta la sua influenza. E anche il cugino della madre, il procuratore, doveva aver esercitato qualche pressione, non sempre usando metodi strettamente legali. Anche se il dottor Porsena non gli avrebbe mai rivelato il perché lui avesse ricevuto quel trattamento privilegiato, Jim sospettava che ci fosse anche il suo zampino. Aveva l'impressione che il medico pensasse di trovarsi di fronte a un caso molto interessante, a causa delle stigmate e delle allucinazioni di cui aveva sofferto Jim. Ma forse stava esagerando. Dopo tutto, lui non era niente di speciale; era soltanto un altro ragazzotto di origine ungherese ed estrazione proletaria. E in fondo, una volta tolti di mezzo gli eufemismi, era proprio così. Il dottor Porsena finalmente riagganciò il telefono. «Stavamo parlando di altri pazienti che fanno parte di questo programma e che in precedenza hanno tentato altre terapie che non hanno funzionato, poiché tutti questi pazienti erano ostili a qualsiasi terapia di tipo psichiatrico. «Quel che ti offro e, bada bene, non voglio assolutamente forzarti, è di partecipare a un tipo di terapia che finora abbiamo impiegato con notevole successo.» Il dottor Porsena parlava molto rapidamente, ma in maniera chiara. Una caratteristica interessante del suo eloquio era la quasi totale assenza di pause o esitazioni a cui ricorreva la maggior parte delle persone; dunque, nien-
te «Uh, ah, bene, capisci.» «Non si tratta di una terapia facile; ma, del resto, nessuna lo è. "Sangue, sudore e lacrime" mi pare una descrizione appropriata. E, come in ogni terapia, il suo successo dipende essenzialmente da te. Noi non curiamo il paziente. È lui o lei che cura se stesso, sotto la nostra guida. Il che presuppone che tu abbia seriamente voglia di affrontare i tuoi problemi: devi provare un profondo desiderio di farlo.» Il dottore tacque per un istante. Jim si guardò intorno nell'ufficio. L'ambiente gli parve notevolmente lussuoso, con il suo folto tappeto (persiano?), le poltrone e il divano in cuoio fin troppo imbottiti, la grande scrivania di legno lucido in uno stile che non conosceva, la carta da parati di ottimo gusto, i numerosi diplomi e riconoscimenti appesi alle pareti, le nicchie che ospitavano i busti di personaggi famosi, e i quadri che a Jim, certo non un cultore di arte, sembravano astratti o surrealisti o forse qualcos'altro. «Hai capito tutto quel che ti ho detto?» gli chiese Porsena. «Se c'è qualcosa che non hai compreso alla perfezione, dillo. Pazienti o dottori, siamo tutti qui per imparare. Non bisogna mai vergognarsi nel confessare la propria ignoranza. Io lo faccio molto spesso. Non so tutto. Nessuno sa tutto.» «Sì che ho capito. Finora. Almeno lei non mi parla come se avesse di fronte un deficiente: monosillabi, tutti quei trucchetti psicologici. Lo apprezzo molto.» Le mani del dottor Porsena erano poggiate sulla cartella clinica di Jim: mani affusolate, delicate, dalle dita lunghe e sottili. Jim aveva sentito dire che era un pianista eccellente; di solito eseguiva musica classica, sebbene qualche volta passasse al jazz: dixie e ragtime. Ogni tanto si divertiva perfino a suonare rock. Aveva soltanto due mani, ma gliene avrebbero fatto comodo quattro. Come era logico aspettarsi, era un uomo molto occupato. Non solo dirigeva il reparto psichiatrico dell'ospedale, ma esercitava la professione privata in uno studio a un isolato di distanza, in St. Elizabeth Street. In più, era anche il presidente di un' associazione di psichiatri dell'Ohio nord-orientale e insegnava in una facoltà di medicina. La competenza professionale di Porsena incuteva soggezione a Jim. Ma la caratteristica che più l'aveva colpito nel dottore era che possedeva una Lamborghini ultimo modello, color argento. E quella sì che era una cosa assolutamente FANTASTICA! Porsena girò una pagina della cartella clinica e lesse un paio di righe. Poi
si rilassò contro lo schienale della poltrona. «Sembra che tu sia un lettore onnivoro,» stabilì, «anche se preferisci la fantascienza. Per tanti giovani è così. Anch'io sono stato un appassionato di fantascienza e fantasy, fin da quando ho imparato a leggere. Ho iniziato con i libri sul Mago di Oz, le favole dei Grimm e di Lang, Alice di Lewis Carroll, l'Odissea di Omero, le Mille e Una Notte, Jules Verne, H.G. Wells, e le riviste di fantascienza. Sono stato affascinato da Tolkien. Poi, durante il periodo in cui ho insegnato a Yale, ho letto Fabbricanti di Universi, il ciclo di Philip José Farmer. Lo conosci?» «Certo», rispose Jim. Si raddrizzò sulla poltrona. «Mi piace moltissimo! Che uomo, quel Kickaha! Ma Farmer quando diavolo ha intenzione di finire il ciclo?» Porsena si strinse nelle spalle. Era l'unico uomo che Jim avesse mai visto capace di far sembrare una scrollata di spalle un gesto elegante. «Il punto è che, mentre ero a Yale, ho letto anche una biografia su Lewis Carroll. Una frase nel commento sul capitolo di Alice nel mondo delle meraviglie intitolato "Carosello Elettorale e Codazzo di Miserie" ha fatto scattare qualcosa nel mio cervello, e di punto in bianco ho avuto l'idea di questa terapia Livelliana.» «Come ha detto?» si stupì Jim. «Livelliana? Oh, forse vuol dire che è basata sul Mondo dei Livelli?» «È una definizione buona quanto un' altra,» replicò sorridendo il dottor Porsena. «Si trattava soltanto di un abbozzo di idea, di uno zigote di pensiero, di una fiammella di candela che avrebbe potuto essere spenta dai gelidi venti del mondo reale o dal buon senso e dalla logica, che rifiutano l'ispirazione divina. Ma io ne ho fatto tesoro, l'ho coltivata, e infine essa è maturata.» Questo tipo è veramente fantastico, pensò Jim. Non mi meraviglio che lo chiamino Lo Sciamano. Ma Jim, che era stato ingannato tantissime volte dagli adulti, non si fidava interamente dello psichiatra. Aspetta, si disse, vedi se le sue parole si accordano con le sue azioni. Però Porsena non aveva ancora superato la trentina. Era vecchio, ma non troppo. Piuttosto, lo si sarebbe potuto definire giovane-vecchio. Jim pensò che era una buona cosa che avesse frequentato le lezioni di biologia. Altrimenti non avrebbe capito di cosa stesse parlando il dottore quando aveva usato la definizione «zigote di pensiero». Uno zigote era una cellula formata dall'unione di due gameti. E un gamete era una cellula ri-
produttiva che poteva unirsi con un'altra dello stesso tipo per dar vita a un nuovo organismo. L'esistenza di Jim era iniziata sotto forma di zigote, come quella di Porsena, e come, del resto, quella della stragrande maggioranza degli esseri viventi. Mentre ascoltava il dottore, che continuava a illustrargli la terapia, Jim si rese conto che, dal punto di vista psicoterapeutico, lui era un gamete. E lo scopo della terapia era quello di trasformarlo in uno zigote, cioè in un nuovo individuo composto dalla vecchia personalità e da un'altra che, in quel momento, era ancora del tutto immaginaria. CAPITOLO TERZO «I pazienti che scelgono di sottoporsi a questa terapia costituiscono una piccola elite di volontari,» spiegò il dottor Porsena. «Di solito, iniziano dal primo volume del ciclo, Fabbricanti di Universi, e poi proseguono la lettura seguendo l'ordine di pubblicazione degli altri libri. Scelgono un personaggio del ciclo e tentano di diventare quel personaggio. Fanno proprie tutte le sue caratteristiche mentali ed emotive, che siano buone o cattive. A un certo punto della terapia, iniziano a sbarazzarsi delle qualità negative del personaggio che hanno scelto, ma conservano quelle buone. «Il procedimento assomiglia molto a quello di un serpente che muti pelle. Le illusioni incontrollate del paziente, i fattori emotivi indesiderabili che lo hanno condotto qui da noi, vengono gradualmente rimpiazzati da illusioni controllate, che poi sono quelle che il paziente adotta quando lui, o lei, in un certo senso, diventa uno dei personaggi del ciclo. «La base concettuale su cui si basa la terapia è molto più complessa. Ti ho fornito una spiegazione semplificata, ma, man mano che andrai avanti nella terapia, comprenderai sempre più a fondo i suoi presupposti. Hai capito tutto quello che ti ho detto?» «Finora sì,» rispose Jim. «E questa terapia funziona, giusto?» «La percentuale di fallimenti è incredibilmente bassa. Nel tuo caso, anche se hai già letto il ciclo Fabbricanti di Universi, dovrai rileggerlo. Diventerà la tua Bibbia, la chiave per ritornare normale, se lavorerai con e sul ciclo.» Jim rimase in silenzio per un po'. Stava riflettendo sul ciclo di Farmer, e su quale personaggio - alcuni erano decisamente malvagi - gli sarebbe piaciuto scegliere. O diventare, come aveva detto il dottore.
La premessa fondamentale del ciclo era che, molte migliaia di anni prima, fosse esistito un unico universo. E che in esso, la vita si fosse sviluppata su un solo pianeta. Il culmine del processo evolutivo era stata una specie molto simile a quella umana, che aveva conseguito un livello scientifico notevolmente superiore a quello mai raggiunto sulla Terra. Alla fine, i membri di quella specie erano stati in grado di fabbricare universi tascabili. Quegli esseri erano stati tanto potenti e tanto sapienti da riuscire ad alterare le leggi fisiche che governavano ciascuno di quegli universi tascabili. Di conseguenza, in uno di essi, l'accelerazione prodotta dalla caduta di un grave poteva essere resa differente da quella del mondo originario. Un altro esempio era che un mondo tascabile poteva contenere soltanto un sole e un pianeta, come il Mondo dei Livelli: un pianeta delle dimensioni della Terra modellato come una ziggurat babilonese, intorno a cui orbitavano un piccolo sole e una luna ancora più piccola. Un altro universo conteneva un unico pianeta che si comportava come la plastica in una bottiglia di lavalite. La sua forma continuava a mutare. Catene montuose sorgevano e sprofondavano sotto i vostri occhi. Fiumi immensi si formavano in pochi giorni, per poi sparire. Mari si precipitavano a riempire cavità formatesi a velocità prodigiosa. Frammenti si staccavano dalla massa del pianeta come plastica fusa e fluttuavano nell'atmosfera cambiando forma, poi ricadevano lentamente sulla superficie del pianeta. Numerosi Signori, era questo il modo in cui quegli esseri avevano deciso di chiamare se stessi, avevano abbandonato il primo universo per vivere in quelli artificiali. Poi lo scoppio di una guerra aveva reso inabitabile per sempre il pianeta originario, uccidendo tutti quelli che vi abitavano. Si erano salvati soltanto i Signori che risiedevano nei loro mondi tascabili. E così erano passati migliaia di anni, mentre i Signori costruivano altri universi, oltre a quelli creati prima della guerra. I nuovi universi erano stati popolati da forme di vita introdotte dai Signori sui pianeti dei loro cosmi privati. Molte di quelle specie erano state create nei laboratori dei Signori. Oltre i Signori, in quegli universi vivevano altri esseri umani, ma si trattava di creature inferiori, sviluppate anch'esse nei laboratori dei Signori, sebbene proprio questi ultimi fossero serviti da modello. Si poteva entrare in questi universi mediante alcune «Porte»: passaggi interdimensionali che venivano attivati da vari tipi di codici. E quando la civiltà dei Signori iniziò a decadere sempre più, questi persero le conoscenze scientifiche che avrebbero loro permesso di costruire nuovi mondi.
I figli e le figlie dei Signori bramavano il dominio di nuovi universi, ma ormai non possedevano più i mezzi per crearli. Perciò, come era inevitabile, avevano iniziato a lottare tra loro per il controllo di un numero di mondi limitato. Verso la fine degli anni '60, l'epoca in cui era ambientato il ciclo dei Fabbricanti di Universi, molti dei Signori erano stati uccisi o privati dei loro mondi. E perfino coloro che ne avevano uno bramavano di conquistarne altri. La possibilità di vivere per centinaia di millenni senza invecchiare li aveva fatti sprofondare in una noia mortale, li aveva resi malvagi. Invadere altri mondi e ucciderne i Signori era diventato un gioco entusiasmante. Se non riuscivano a creare, almeno potevano distruggere. Senza alcun dubbio il ciclo di Farmer era un'anticipazione dei giochi di ruolo, come «Dungeons and Dragons», tanto popolari tra gli adolescenti. Le «Porte», le trappole che i Signori avevano incorporate in esse, l'ingegnosità necessaria per varcare le soglie interdimensionali, i mondi traboccanti di pericoli, in cui una sola decisione sbagliata poteva segnare il fato di un personaggio, prefiguravano chiaramente i giochi di ruolo D-and-D. In effetti, Jim si era sempre stupito che dal ciclo non ne fosse stato tratto alcuno. Ora fu ancora più sorpreso dalla scoperta che i libri del ciclo erano diventati uno strumento usato in una terapia psichiatrica. Ma gli sembrava un' ottima idea. Di sicuro attraeva Jim più di qualsiasi terapia convenzionale: freudiana, junghiana o cos'altro. Anche se non ne sapeva molto sulle varie scuole di psichiatria, non è che gli andassero troppo a genio. Nella sua mente lampeggiarono scritte che aveva letto sulle pareti della toilette. «La follia può essere divertente.» «Meglio fuori di testa che essere come voi.» «Nessuno si è mai beccato la schizofrenia da un'assicella del water.» Il dottor Porsena controllò l'orologio sulla scrivania. Un burattino del Tempo, pensò Jim. I dottori e gli avvocati, come le ferrovie, operavano in base alla concezione newtoniana del tempo. Quella einsteiniana non sembrava averli neppure sfiorati. Niente fumisterie concettuali, all'inferno la relatività. Ma era così che si facevano funzionare le cose. Lo psichiatra si alzò e disse, «Ora tocca a te, Jim, Excelsior! Sempre più avanti e più in alto! Junior Wunier ti darà i libri; non dovrai pagare nulla. Ti spiegherà anche le regole. Possa tu essere salvo dagli artigli ricurvi di Klono e che la Forza sia con te. Ci vediamo più tardi.»
Jim uscì dalla stanza pensando che il dottore era davvero un tipo simpatico. Quel riferimento che aveva fatto alla Forza era una citazione da Guerre Stellari; qualunque ragazzino americano l'avrebbe riconosciuta. Ma quanti sapevano che Klono era una sorta di dio degli spaziali, una divinità dai bargigli d'oro, con zoccoli d'ottone, viscere d'iridio, e così via? In effetti, Klono era il dio su cui giuravano i protagonisti del Ciclo degli Uomini Lente, scritto da E.E. «Doc» Smith. Jim trovò Junior Wunier nell'ufficio in cui si distribuiva la posta del giorno, accanto agli ascensori. Junior Wunier! Che razza di nome da affibbiare a un figlio! Lo aveva reso handicappato fin dalla nascita. Come se non avesse già abbastanza handicap: quel diciottenne aveva i capelli della Moglie di Frankenstein, la gobba di Quasimodo, zoppicava come Igor, e il viso era la copia di quello della Regina Cattiva nel primo libro di Alice. Inoltre, aveva un brutto vizio: anfetamina. Jim sperava che fosse stato scoperto prima di essersi fuso del tutto il cervello. Ma la cosa peggiore di tutte era la sua tendenza a spruzzare saliva dalla bocca mentre parlava. E pensare che Jim era convinto di essere nato sfortunato! Quel ragazzo gli faceva pena, ma non riusciva lo stesso a sopportarlo. Ve lo sareste mai immaginato? Junior Wunier aveva scelto come personaggio Kickaha: l'eroe bello, forte, astuto, pieno di risorse. Jim, invece, si sarebbe aspettato che Junior avesse optato per Theotormon: un Signore che, dopo essere stato catturato dal padre, era stato trasformato in un mostro dotato di tentacoli e dal volto orribilmente bestiale. Wunier andò in magazzino e ritornò con cinque libri in edizione tascabile che porse a Jim. «Leggili e piangi.» Jim si mise sottobraccio i romanzi di Farmer. Avrebbero rappresentato la sua salvezza? Oppure erano come tutto il resto: colmi di promesse che si sarebbero ben presto rivelate aria fritta? Wunier accompagnò Jim alla sua stanza, lungo corridoi che, in quel momento, erano assolutamente deserti. Tutti gli altri pazienti erano nelle loro stanze, in sala ricreazione, oppure in terapia individuale o di gruppo. I lunghi corridoi, dalle pareti bianche e dai pavimenti grigi, riecheggiarono sotto i loro passi. Per il momento, a Jim era stata assegnata una stanza singola, piccola e dall'aria tetramente ospedaliera. Però il minuscolo armadio era più che sufficiente: Jim aveva addosso gli unici vestiti che possedeva glieli aveva portati la madre, a cui erano stati dati da Mrs. Wyzak. Poiché erano appartenuti a Sam, a Jim andavano un po' stretti. Le scarpe erano
davvero pietose: basse e dalla punta quadrata. Sam non le avrebbe mai portate, a meno che la madre non avesse minacciato di ucciderlo; ma forse era andata proprio così. Junior Wunier indicò una nicchia nella parete. «Puoi riporre là i libri. Ora, ecco il regolamento a cui dovrai obbedire.» Si appoggiò alla parete. Reggendo con le mani un foglietto vicinissimo al viso, iniziò a leggerlo ad alta voce. Uno spruzzo di saliva inumidì la carta. Poveretto! lo compatì Jim. Questo tipo sembra un altro Gatto Silvestro. Si sedette sull'unica sedia, in legno e con un cuscino sganciabile. Desiderò poter fumare una sigaretta. Gli facevano leggermente male i denti; aveva i nervi tesi come cavi telefonici. E non era certo di buon umore. Wunier continuò a salmodiare come un monaco buddhista che stesse recitando la Sutra del Loto. Il paziente doveva tenere pulita la sua stanza. Il paziente doveva fare la doccia ogni giorno, doveva tenere pulite le unghie, e così via. Il paziente poteva usare soltanto il telefono accanto alla scrivania riservata al paziente che veniva scelto quotidianamente per sorvegliare gli altri, e non poteva tenerlo occupato per più di quattro minuti. Era consentito fumare soltanto nell'apposita saletta. Era proibito scrivere o disegnare sulle pareti. I pazienti sorpresi in possesso di sostanze chimiche che non erano state loro prescritte, o di bevande alcoliche, sarebbero stati immediatamente espulsi. «E quando ti masturbi,» avvertì Wunier, «evita di farlo nelle docce o in presenza di qualcun altro.» «E se lo faccio davanti allo specchio?» chiese Jim. «Devo considerare il mio riflesso come un'altra persona?» «Quanto sei spiritoso,» grugnì Wunier. «Limitati a seguire il regolamento, e non avrai alcun problema.» Zoppicò verso la parete opposta e ne strappò via un cartoncino fissato con del nastro adesivo. Jim riuscì a leggere cosa c'era scritto sopra, prima che il pezzo di carta finisse nel cestino dei rifiuti. ABBI F(R)E(U)DE NEL TUO STRIZZACERVELLI. Sotto la frase c'era un disegno del tipo «io-sono-stato-qui». «Abbiamo qualche furbastro che appende roba del genere in tutte le stanze,» spiegò Wunier. «Lo chiamiamo il Letterato Scarlatto. E mi sa che, se riusciamo a prenderlo, di scarlatto si ritroverà ad avere anche il sedere.» Oltre a qualche fotografia incorniciata - sembravano tutte tratte dal Saturday Evening Post - alle pareti era appeso soltanto un calendario.
Jim chiese, «E i mantra? In molte stanze sono appesi alle pareti.» «Sono ammessi, fanno parte della terapia. Qualcuno ne ha bisogno per entrare nel ciclo.» Wunier fece una pausa, poi domandò a Jim, «Hai già deciso chi impersonare?» Era chiaro che voleva rimanere a chiacchierare un po'. Quel povero tipo deve sentirsi solo, pensò Jim. Ma lui non aveva alcuna voglia di sacrificarsi e di mettersi a parlare proprio con l'ultima persona con cui aveva voglia di farlo. «No,» tagliò corto Jim. Stava per alzarsi ma poi si sedette di nuovo. Indicò lo spazio sotto il letto. «Cos'è?» Gli occhi di Wunier si spalancarono. Fu sul punto di chinarsi a guardare sotto il letto, poi ci ripensò. «Che intendi dire con "Cos'è?"» «Si è mosso qualcosa. Pensavo che si trattasse di un gioco d'ombre. Ma è troppo scuro, più dello spazio esterno. Mi sa che se ci infili la mano dentro; si congelerà e finirà nella quarta dimensione. È a forma di fuso e lungo quasi mezzo metro. Ehi, si è mosso di nuovo!» Wunier fissò per qualche istante il letto, poi osservò più a lungo Jim. «Devo andare,» annunciò. Tentando di apparire disinvolto, aggiunse, «Ti lascio con il tuo ospite.» Ma uscì dalla stanza il più in fretta possibile. Jim rise di cuore, non appena fu sicuro che Wunier non avrebbe potuto più udirlo. Ciò che aveva affermato di vedere era una creatura descritta in un romanzo di Philip Wylie - non ne ricordava il titolo - ma non riusciva a decidere se Wunier avesse pensato sul serio che c'era qualcuno sotto il letto, oppure avesse avuto paura che Jim potesse dar fuori di matto. Subito dopo, però, Jim si ritrovò in uno stato d'animo confuso, in cui il nero della depressione si mischiava al rosso della rabbia. La sua mente funzionava a corrente alternata: la depressione si alternava alla rabbia. Gli psicologi affermavano che la depressione non era che rabbia rivolta contro se stessi. Ma se era davvero così, come era possibile che lui, come una lampadina che continuava ad accendersi e spegnersi, si ritrovasse, nel giro di pochi minuti, preda di quei due stati d'animo affatto differenti? Forse era davvero sul punto di impazzire del tutto. È DEPRIMENTE ESSERE UN MANIACO. Avrebbe appiccicato un messaggio del genere alla parete della toilette. Avrebbe fatto vedere agli altri che quel Letterato Scarlatto dannatamente difficile da individuare non era l'unico a poter colpire nell'oscurità.
Non aveva neppure dei vestiti suoi. Non aveva denaro. Private un uomo o una donna delle cose che possiede, e otterrete una persona che ha perso la propria umanità. Quella persona non era più una persona. A meno che non si trattasse di un fachiro Hindu o di uno yogi, individui che vivevano in una cultura in cui venivano considerati santi, e non in questo mondo, in cui erano soldi e vestiti a conferire la personalità, in cui l'imperatore era l'unico a potersene andare in giro nudo, senza per questo non essere più considerato una persona. Jim non aveva nulla. Mentre sedeva sulla sedia, fissando il nulla, un nulla che si guardava allo specchio, sentì che l'umor nero lo stava abbandonando. Al suo posto si manifestò una rabbia ardente, che invase ogni cellula del suo corpo, della sua mente. Un uomo infuriato era un uomo che aveva qualcosa. La rabbia era un'energia positiva, anche se provocava azioni negative. Una poesia che aveva letto molto tempo prima affermava - ma non riusciva a ricordare le parole esatte - che la rabbia sarebbe servita, dove la ragione si era dimostrata inutile. Gillman Sherwood, un altro paziente, fece capolino dalla porta. «Ehi, Grimson! Terapia di gruppo tra dieci minuti!» Jim annuì e si alzò dalla sedia. Ora sapeva chi avrebbe impersonato. Orc il Rosso. Uno dei personaggi più malvagi del ciclo, il nemico più pericoloso di Kickaha. Un vero figlio di puttana. Uno che prendeva a calci in culo gli altri perché anche il suo culo era rosso. CAPITOLO QUARTO 31 Ottobre 1979, Halloween Qualcosa aveva svegliato Jim poco prima che suonasse la sveglia. Con occhi ancora assonnati, aveva guardato verso l'alto. Le crepe nel soffitto stavano lentamente formando una mappa del caos. E se, invece, fossero state le pennellate preliminari di un'immagine che avrebbe potuto rappresentare una bestia, o magari qualche simbolo criptico? Da quando Jim era andato a dormire la notte precedente, molte altre crepe si erano aggiunte alle vecchie. La sveglia lo fece sobbalzare. Sveglia! In piedi, pelandrone! Forza! For-
za! Di nuovo in trincea! Il primo sole del mattino brillò attraverso le sottili tendine gialle e illuminò i granelli di polvere che cadevano dalle fessure. Era stato il suolo, muovendosi sotto la casa, ad aver scosso il letto. Da qualche parte, proprio sotto la stanza di Jim, uno dei tanti tunnel di miniera che crivellavano il sottosuolo di Belmont City si era assestato o era crollato, sollevando o facendo sprofondare ancora un po' la casa dei Grimson. Tre mesi prima, a quattro isolati di distanza, due abitazioni, una accanto all'altra, erano scivolate in una voragine apertasi improvvisamente e profonda almeno un metro. Ora erano inclinate una verso l'altra, con le verande anteriori e posteriori completamente distrutte. In precedenza distanti più di due metri, ora erano sprofondate insieme nel buco: assomigliavano a due supposte troppo grandi e troppo dure infilate nel didietro dell'Allegro Gigante Verde. Un minuto prima, un tremore aveva svegliato Jim da un incubo, facendolo rizzare sul letto come una trota presa all'amo. Ma non era stato un mostro a farlo gemere e lamentarsi nel sonno. Si era trattato di un sogno in cui tutto era assolutamente nero, in cui non c'era nulla, assolutamente nulla. Jim esortò se stesso a muovere il culo e a iniziare il solito tran-tran del mattino. «Con una canzone nel cuore». Come no. Magari «Gloomy Sunday.» Solo che quel giorno era il mercoledì di Ognissanti. La stanza era molto piccola. Sette grandi poster erano attaccati sulla carta da parati - rose rosse su sfondo verde chiaro - piuttosto stinta e sul lato interno della porta. Il più grande era quello di Keith Moon, Moon il Matto, il grande e defunto batterista degli Who. Il più colorato raffigurava i cinque membri degli Hot Water Eskimos, un gruppo rock locale. C'erano «Gizzy» Dillard che vomitava nel suo sassofono, Veronica «Singing Snatch» Pappas che si infilava il microfono sotto la minigonna di pelle, Bob «Bird-shot» Pellegrino che lanciava una delle bacchette della batteria, Steve «Goathead» Larsen che aveva tutta l'aria di strangolare la propria chitarra e Sam «Windmill» che pestava i tasti di un sintetizzatore. Al di sopra del bizzarro quintetto fluttuavano una dozzina di campanelle che somigliavano a una squadra di UFO in volo. Ma dopo un esame ravvicinato e alla luce del sole, chiunque avrebbe notato i sottili fili che le collegavano al soffitto. Vestito con la parte superiore del pigiama verde, quella inferiore del pigiama rosso e dei calzini neri, Jim scese dal letto e aprì la porta. Sì, rispetto
al giorno precedente, era più difficile aprirla. Dirigendosi verso sinistra, percorse il corridoio buio. La moquette era molto malridotta e di color verde opaco. Entrato nella minuscola stanza da bagno, Jim accese la luce. Quando si guardò nello specchio, sobbalzò. Sulla pelle era comparso un terzo brufolo, gonfio e arrossato. Inoltre si notavano di più, rispetto al giorno prima, i suoi baffetti rossicci. Per il fine settimana, sarebbe stato costretto a radersi. La lametta spuntata che il padre si ostinava a usare, visto che quelle nuove costavano troppo, gli avrebbe graffiato la pelle e strappato viale croste cresciute sui brufoli che si era schiacciato, facendoli sanguinare. Urinò nel lavandino. Così facendo, aiutava il padre, Eric Grimson. Lui non faceva altro che insistere che tirare troppe volte lo sciacquone mandava alle stelle la bolletta dell'acqua. Inoltre, Jim si prendeva una piccola e segreta vendetta sul padre, tiranno domestico nonché completamente idiota. Mentre portava a termine quella delicata operazione, studiò il suo viso. I grandi occhi di un azzurro cupo li aveva ereditati sia dal padre di origine norvegese che dalla madre ungherese. I capelli rossicci, la mascella quadrata e il mento sporgente venivano da Eric Grimson. Le orecchie piccole, il naso lungo e dritto, gli alti zigomi e il taglio leggermente orientale degli occhi erano doni della madre, Eva Nagy Grimson. La sua altezza, più di un metro e ottantacinque, era una caratteristica trasmessagli dal padre, anche se Jim avrebbe dovuto crescere di altri dieci centimetri per poter guardare dritto negli occhi il genitore. Eric Grimson era magro e aveva le spalle strette; Jim aveva ereditato le spalle larghe dalla famiglia materna. I fratelli di Eva erano bassi, ma massicci e muscolosi. Per Dio! Se non avesse avuto quei dannati brufoli, sarebbe stato anche carino. Magari avrebbe avuto qualche speranza con Sheila Helsgets, la ragazza più bella di Belmont City, il suo amore non corrisposto. Jim si era ripromesso di controllare sul vocabolario cosa significasse precisamente l'aggettivo «non corrisposto». Per Jim, significava che il suo amore era univoco, che Sheila provava nei suoi confronti pressappoco lo stesso sentimento che un satellite orbitale nutre verso gli impulsi elettronici che riflette verso la superficie terrestre. L'unica volta che Sheila aveva rivolto la parola a Jim era stato per chiedergli di non starle sottovento. Jim si era sentito profondamente ferito, ma non tanto da smettere di amarla. Aveva iniziato a farsi il bagno due volte a settimana, un grande sacrificio da parte sua, considerando quanto poco
tempo avesse da sprecare in simili futilità. Quei brufoli! Ma perché Dio, ammesso che esistesse, aveva scagliato quella maledizione sugli adolescenti? Dopo essersi spruzzato un po' d'acqua sul viso e sul pene, ed essersi asciugato con un asciugamano che teoricamente era proprietà esclusiva del padre, Jim andò in cucina. Sebbene il corridoio fosse ancora immerso nell'oscurità, Jim notò la polvere d'intonaco sulla moquette. Quando entrò in cucina, si accorse che nel soffitto verdolino si erano aperte delle crepe. Il forno a gas era coperto di polvere bianca, e una sottile pellicola della stessa sostanza copriva il ripiano della tavola. «La casa finirà per precipitare in una voragine,» rimuginò ad alta voce. «E poi ci ritroveremo in Cina. O all'inferno.» Iniziò a prepararsi frettolosamente la colazione. Spalancò lo sportello del frigorifero vecchio di quarant'anni; le spirali del sistema di raffreddamento, posti in alto, sembravano una vecchia torre di guardia marziana. Dal frigorifero Jim prese un barattolo di maionese, un salame polacco, un peperoncino sempre polacco e abbastanza piccante da irritare l'ano, quando i suoi resti sarebbero stati defecati il giorno seguente, una mezza banana che ormai aveva assunto un colore marrone, una lattuga appassita, e un po' di pane duro. Dimenticò di chiudere lo sportello del frigorifero. Mentre metteva a bollire dell'acqua per la solita tazza di caffè istantaneo, affettò il salame e la banana e si preparò un panino. Accese la radio, acquistata dal nonno paterno il giorno dopo che la prima radio a transistor era stata introdotta sul mercato. Il vecchio modello a valvole della General Electric era finito a impolverarsi nella soffitta ingombra di vecchi quotidiani e riviste, giocattoli rotti, indumenti smessi, porcellane in frantumi, posate arrugginite, scope senza saggina, e un aspirapolvere Hoover del 1942, vittima di un corto circuito. Eric ed Eva Grimson trovavano doloroso sbarazzarsi di qualsiasi cosa, tranne la spazzatura, e qualche volta dispiaceva loro gettare perfino quella. Jim pensava che ogni volta che erano costretti a separarsi da qualche cosa che era loro appartenuta, sembrava che venissero privati di una parte di se stessi. La maggior parte delle persone preferiva lasciarsi alle spalle il passato. I genitori di Jim amavano averlo davanti agli occhi. Staccò un grosso morso dal panino, a cui fece seguire un pezzo di peperoncino polacco. Con la bocca che gli ardeva e gli occhi che gli lacrimavano, Jim spense il gas e versò l'acqua bollente in una tazza. Mentre preparava il caffè istantaneo, WYEK, l'unica stazione radio di Belmont City che
trasmetteva rock, riempì la cucina con la fine di un bollettino metereologico. Subito dopo, iniziò a trasmettere a volume assordante il brano in sedicesima posizione nella classifica locale. «Non è la tua mano che voglio!» era la prima canzone degli Hot Water Eskimos che Jim avesse mai sentito alla radio. Sarebbe stata anche l'ultima. Mentre si avvicinava al lavello e riempiva un bicchiere di acqua fredda, udì un grugnito che non proveniva dalla radio. Questa venne spenta. Per qualche secondo, non si udì alcun suono, tranne quello dell'acqua corrente. Poi, alle spalle di Jim, risuonò di nuovo il grugnito. «Dannazione! Continuo a ripeterti di abbassare il fottuto volume! La prossima volta obbediscimi, oppure, per Dio, ti getto quella fottuta radio fuori dalla finestra! E chiudi quel fottuto frigorifero!» La voce non era forte, ma aveva un tono profondo. Era quella del padre di Jim, del suo padrone legale. La stessa voce che, quando Jim era stato bambino, lo aveva riempito di timore e meraviglia. A quel tempo, gli era sembrato che appartenesse a una creatura non umana. In effetti, a Jim riusciva ancora difficile credere che il padre fosse umano. Però ricordava momenti in cui aveva amato quella voce, in cui aveva riso al suo suono. Quei ricordi rendevano confuso il suo atteggiamento nei confronti del padre. In quel momento, però, Jim era tutt'altro che confuso. Si irrigidì, chiuse il rubinetto, e bevve un sorso d'acqua mentre si voltava lentamente. Eric Grimson era un uomo alto, col viso paonazzo, gli occhi arrossati, le palpebre pesanti, la mascella quadrata e i pugni massicci. Le venuzze scoppiate sul naso e le guance ricordarono a Jim le crepe sul soffitto. Gesù, Giuseppe e Maria! Jim stava per sostenere un altro scontro genitore-figlio, come lo definiva lo psicologo della scuola. In mente sua, però, si trattava di fare a cornate con un'emerita testa di cazzo. Il padre si sedette. Puntò i gomiti sul tavolo e poi affondò il viso tra le mani. Per un istante, diede l'impressione di voler scoppiare in lacrime. Poi si raddrizzò, e colpì il tavolo con i palmi delle mani, facendo sobbalzare la zuccheriera. Gli occhi sprizzavano rabbia. Ma le mani, quando avvicinò un fiammifero alla sigaretta, stavano tremando. «L'hai fatto apposta ad alzare il volume, vero? Non vuoi che io dorma. Dio sa, tu lo sai, e lo sa anche tua madre, quanto io abbia bisogno di riposare. Mano, tu non vuoi che io dorma! Per quale motivo? Pura cattiveria ereditata da tua madre, ecco perché! E ti avevo detto di chiudere lo sportel-
lo del frigorifero! Tu... tu... serpe! Ecco cosa sei! Una dannata serpe!» Picchiò la mano destra sul tavolo. Il suo fiato fetido di birra rancida fece apparire una smorfia di disgusto sul volto di Jim. «Non sopporterò più stronzate del genere! Per Giove, ora getterò dalla finestra quella dannata radio, e tu la seguirai!» «Avanti, provaci!» ribatté Jim. «Tanto non me ne frega niente!» Il padre non avrebbe attuato quella minaccia. Non importava quanto furioso diventasse Eric Grimson, in ogni caso non avrebbe distrutto nulla per la cui sostituzione avrebbe dovuto sborsare del denaro. Eric balzò in piedi. «Fuori di qui!» sbraitò. «Fuori, fuori, fuori! Non voglio più vedere qui intorno la tua faccia da culo, sudicio capellone! Via di qui, o ti prendo a calci in culo fino a scuola! Fuori di qui, subito, immediatamente!» Jim pensò che il padre lo stesse provocando: voleva che il figlio lo colpisse, così lui, a sua volta, avrebbe potuto spezzargli qualche osso, prenderlo a pugni sul naso fino a farlo sanguinare, rifilargli qualche cazzotto nella pancia o nei reni, mollargli un calcio nelle palle. Il che era precisamente quello che il figlio voleva fare a lui. E qualche giorno avrebbe sicuramente realizzato quel desiderio. «Benissimo!» urlò di rimando Jim. «Me ne vado, ubriacone, parassita, vagabondo, fallito! E la porta puoi chiudertela da solo!» La voce raspante di Eric divenne più profonda e sonora. Aveva il viso paonazzo di rabbia, la bocca spalancata che scopriva denti smozzicati e ingialliti dal tabacco. Gli occhi erano iniettati di sangue. «Non osare parlare così a tuo padre! Tu fottuto hippie... lurido... lurido...» «Che ne dici di frocio bastardo comunista?» disse Jim mentre sfiorava il padre faccia a faccia per uscire dalla cucina, pronto a reagire ma tremando violentemente. «Sì! Mi va benissimo!» ruggì il padre. Ma Jim si era già precipitato lungo il corridoio. Prima di entrare nella sua stanza, vide aprirsi una porta all'estremità opposta del corridoio. Dallo stretto rettangolo tra la porta e lo stipite provennero una luce tremolante e un forte odore d'incenso. Poi apparve il viso della madre. Come al solito, stava pregando, e intanto sgranava il rosario tra le dita, inginocchiata davanti alle statuette della Madonna e dei Santi che aveva nella stanza. Udito il violento alterco, invece di precipitarsi a difendere il figlio, si era nascosta dietro la porta, in attesa che ritornasse la quiete, o almeno che fosse
vicina. «Dì a Dio di metterselo a quel posto!» le urlò Jim. La madre emise un suono strozzato. La sua testa scomparve e la porta si richiuse lentamente, delicatamente. La madre di Jim era fatta così: tranquilla, silenziosa, pacifica. E tanto capace di agire quanto l'ombra a cui assomigliava. Era vissuta così a lungo tra i fantasmi da trasformarsi in una di loro. CAPITOLO QUINTO Jim, che ora si era vestito e stringeva in mano lo zaino, spiccò un salto oltre la porta di casa. Alle sue spalle, ritto sulla soglia, rimase il padre, che urlava insulti e minacce. Non avrebbe inseguito oltre suo figlio, non si sarebbe avventurato al di fuori del proprio territorio. Là, si sentiva sicuro, si comportava da padrone. Ma se proprio si voleva essere pignoli, quella terra non era sua, ma della banca, e se i pozzi e i tunnel sotto la casa avessero continuato a franare, ben presto la proprietaria sarebbe potuta diventare Madre Terra in persona. Il cielo era terso, il sole prometteva di riscaldare l'aria fino a farle raggiungere una piacevole temperatura di circa quindici gradi. Una giornata perfetta per festeggiare Halloween, anche se il bollettino metereologico trasmesso dalla radio aveva avvertito che, più tardi, le nuvole avrebbero potuto fare la loro comparsa. Questo per quel che riguardava il clima esterno. Ma, dentro di sé, Jim aveva l'impressione di essere squassato dal fulmine; un orco infuriato se ne andava in giro per la sua anima scagliando qua e là pentole e padelle. Neri nuvoloni, che non promettevano nulla di buono, solcavano il suo cielo interiore. Eric Grimson continuò a gridare, anche se il figlio era ormai a un isolato di distanza. Un paio di persone si erano affacciate alle rispettive porte di casa per capire cosa stesse succedendo. Jim si allontanò in fretta, roteando lo zaino, che conteneva cinque libri di testo, nessuno dei quali era stato aperto la sera precedente, alcune matite, una penna a sfera e due quaderni, le cui pagine ospitavano soprattutto i tentativi di Jim di scrivere testi rock. Nello zaino c'erano anche tre tascabili sudici e sbrindellati: Nova Express, Venere sulla Conchiglia e Antico Egitto. La madre non aveva neppure avuto il tempo di mettergli qualcosa da mangiare nello zaino. Ma non importava. Lo stomaco gli faceva male, co-
me se fosse avvolto da un tratto di filo spinato incandescente. Troppe frustrazioni, subite da troppo tempo. Quando sarebbe esploso nel suo Big Bang personale? Presto. Molto presto. In uno dei quaderni era contenuto il suo ultimo testo: «Ghiacciai e Nove.» Brucia, brucia, brucia, brucia! Nulla può rivelarmi ciò che sono. Le parole sono ombre; soltanto la rabbia è reale. Zio Sam spegnerà il mio fuoco. Lui è un ghiacciaio che stritola tutto, Alto cinque miglia, riduce Le montagne in una piatta pianura. Il ghiacciaio vuole che tutto sia piatto, Vuole spegnere ogni fuoco. Papà e mamma sono giganti di ghiaccio, Mi prenderanno, geleranno il mio fuoco. Il gigante di brina nella Casa Bianca, I troll dell'FBI, Gli orchi della CIA, I lupi mannari poliziotti, tutti mi circondano. Il freddo della prigione spegnerà il fuoco. Achab dà la caccia a Moby Dick, In realtà, è al proprio cazzo che mira, Achab, che strappa la maschera dal volto di Dio, Cuore come una bomba pronta ad esplodere, La sua rabbia è una candela, la mia un barile di polvere. Eone dopo eone, era dopo era, Il Tempo, vecchio ferroviere, aziona gli scambi. Il treno espresso del Sole si precipita verso il suo fato: La Grande Nova, Soffia, esplode, incenerisce ogni cosa, Spruzzando Plutone con brandelli di Marte. Il ghiacciaio restituisce il mio gelido corpo, Poi si concede al fuoco. Il mio corpo brucerà di nuovo. Nulla può spegnere un fuoco giusto.
Brucia, brucia, brucia, brucia! Quelle parole dicevano tutto, ma non abbastanza. Ecco perché i film, i quadri e il ritmo pulsante del rock - soprattutto quest'ultimo - qualche volta erano migliori delle parole: esprimevano l'inesprimibile. O, almeno, ci riuscivano in maniera migliore. Per un istante, la strada intorno a Jim sembrò ondeggiare. Instabile, tremolò come un miraggio nel deserto. Poi ritornò normale. Cornplanter Street ridivenne solida quanto lo era stato pochi secondi prima. E altrettanto squallida. A sette isolati di distanza, al di sopra dei tetti delle case, le ciminiere grigiastre delle Acciaierie Helsgets assomigliavano a giganti di metallo. Giganti morti, poiché da esse non scaturiva più il fumo nero e fetido. Jim si ricordava di quando erano stati vivi, anche se da allora gli sembrava che fosse passato un secolo. L'importazione di acciaio straniero a buon mercato aveva costretto alla chiusura l'intero complesso industriale della zona. Da quel momento in poi, o almeno così sembrava a Jim, erano iniziati i guai dei suoi genitori, e di conseguenza i propri. Infatti, sebbene i voraci altoforni avessero riversato sulla città nuvole di polvere velenosa, l'avevano anche inondata di prosperità. A braccetto con l'aria più pulita erano giunte povertà, disperazione, rabbia e violenza. E ora, sebbene gli abitanti potessero vedere a due isolati di distanza, non riuscivano a vedere alcun futuro avanti a sé, e non erano neppure tanto sicuri di averne voglia. Infatti sia quella strada che l'intera città assomigliavano molto a «Desolation Row,» la celebre canzone di Bob Dylan. Jim camminò strascicando i piedi, calzati in stivali da cow-boy sudici e consumati, sul marciapiede pieno di crepe. Superò casette a due piani costruite subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Alcuni dei cortili erano recintati da palizzate di legno; alcune di quelle palizzate erano state dipinte di bianco recentemente. I cortili in cui l'erba cresceva stentata o non cresceva per nulla ospitavano vecchie automobili senza pneumatici o motociclette smembrate. Il sole dei mattino brillava in un cielo assolutamente limpido. Ma a Jim, già da molto tempo, la luce di Belmont sembrava molto diversa da quella di qualsiasi altro luogo. Possedeva una sfumatura dura e, nello stesso tempo, opaca. Com'era possibile che la luce avesse caratteristiche simili? Jim non lo sapeva. Ma era così. Non ricordava quando se ne era accorto per la prima volta, ma sospettava che fosse stato quando aveva iniziato ad avere
le prime erezioni. SPOING! E Lui cresceva, incorreggibile. Si ergeva, gonfiandosi come un cobra infuriato, per un nonnulla, sempre che quel nonnulla avesse un qualche sottinteso sessuale. Particolari di un film, di una fotografia, di un cartellone pubblicitario, fantasticherie irriferibili, tutto agiva su di Lui come un tocco di bacchetta magica. SPOING! E Lui cresceva, senza curarsi di quanto Jim si sentisse imbarazzato. Ecco quando la luce di Belmont City per Jim aveva iniziato a diventare dura e opaca. O no? Forse tutto era iniziato quando aveva avuto la sua prima «visione,» o aveva sofferto per la prima volta di «stigmate.» Jim vide il suo migliore amico, Sam «Windmill» Wyzak, a mezzo isolato di distanza lungo Cornplanter Street. Lo stava aspettando appoggiato al muretto dipinto di bianco di casa sua. Jim accelerò il passo. Soltanto suo nonno, Ragnar Grimson, il marinaio norvegese trasformatosi in macchinista delle ferrovie, e Sam Wyzak gli avevano voluto bene sul serio. Le loro tre anime avevano vibrato all'unisono, come diapason accordati sulla medesima nota. Ma il nonno era morto otto anni prima (e forse era stato proprio allora che la luce era diventata dura e opaca). Adesso erano rimasti soltanto lui e Sam a vibrare sulla stessa frequenza. Sam era di corporatura ossuta e alto un metro e ottanta. Il suo viso lungo e appuntito avrebbe potuto esser servito come modello per disegnare quello di Willy il Coyote. Aveva la stessa espressione famelica e disperata, ma, nei suoi occhi, scuri e ravvicinati, era assente la fievole speranza che animava quelli di Willy. I suoi capelli neri e arruffati assomigliavano a una pettinatura afro. Quando Jim fu vicino, Sam gridò, «Jimbo! Amico mio!» con voce acuta e nasale. Iniziò a battere i piedi, in un'imitazione di danza tribale, mentre intonava i primi sei versi di un testo scritto da Jim. L'autore pensava che fosse davvero buono, ma gli Hot Water Eskimos l'avevano rifiutato perché «non era abbastanza rock.» Il primo verso era una frase usata dagli antichi sciamani eschimesi della Siberia quando praticavano la magia: parole che trasformavano caotiche linee di forza in strumenti per operare il bene o il male. Ecco il testo integrale della canzone: ATA MATUMA M'MATA! Sei nei guai, ti trovi nella merda?
Be', chiama l'antico sciamano siberiano: fa magie il cui funzionamento è garantito. Lo sciamano intona un canto dell'Età della Pietra: ATA MATUMA M'MATA! Raccogli tutti questi articoli magici! Attento, non li troverai da Neiman Marcus! Piuma d'angelo, alito da vampiro, Malaria di orso polare, Promesse di politico non infrante, Il grido dal cesso di Capitan Uncino, Un po' di cerume di Spock del lontano Vulcano, I dati d'ascolto di Campanellino, Sangue di rapa: Rh negativo, L'amore di Jack lo Squartatore per le donne, La cruna dell'ago da cui non passano i ricchi, Gli ombelichi di Adamo ed Eva, Un visto apposto da Satana in persona. Mescola il tutto come Betty Crocker, Rimesta la brodaglia bollente! Quando si raffredda e si rapprende, Mandala giù, bevila tutta d'un fiato! ATA MATUMA M'MATA! «Questa volta l'incantesimo non funzionerà, Sam,» lo avvertì Jim. «Sono giù, proprio giù. E per giunta, sono anche incazzato nero.» Poi si accorse che Mrs. Wyzak lo stava fissando da una delle finestre. Era una donna dalla corporatura giunonica e aveva seni degni di una Dea della Fertilità. A differenza della madre di Jim, era lei che comandava in famiglia. Il marito non era certo un debole ma, in confronto a Mrs. Wyzak, era soltanto una pallida ombra. Quando lei ordinava, lui obbediva. Quando la moglie parlava, lui la stava a sentire annuendo. Sul viso di Mrs. Wyzak, Jim notò una strana espressione. Forse desiderava che anche Jim fosse figlio suo? La donna avrebbe voluto almeno sei figli: una nidiata, un gioioso spreco di energia procreativa. Ma dopo la nascita del primogenito, Sam, aveva subito un'isterectomia. Mr. Wyzak, nei suoi momenti di umore acido, e ne aveva parecchi, si divertiva ad affermare che era stato Sam ad avvelenare il ventre della moglie. Oppure Mrs. Wyzak aveva quell'espressione bizzarra perché pensava
che l'amico del figlio fosse strano? Un ragazzo che aveva avuto visioni e aveva sofferto di stigmate non era certo un compagno di giochi normale per il figlio di nessuno. La madre di Jim... ma si trattava di un caso differente. In un primo tempo, aveva pensato che Jim fosse un novello San Francesco, a causa delle visioni e delle inspiegabili emorragie. Ma quando Jim era cresciuto, la madre aveva dovuto rinunciare al suo sogno che potesse diventare un santo. Ora non era tanto sicura di non essersi accoppiata col Diavolo nel sonno; Jim avrebbe rappresentato il frutto di quell'unione nefanda. La madre non aveva mai detto una parola sulla faccenda, ma il padre di Jim sì. Il ragazzo credeva che Eric Grimson avesse ripetuto quel che gli aveva detto la moglie. Ma poteva anche esserci arrivato da solo. Non passava tutto il suo tempo a ferire il figlio, solo perché aveva altre cose da fare. Come sbronzarsi e giocare d'azzardo. Jim rivolse un cenno di saluto a Mrs. Wyzak. La donna indietreggiò, come se fosse stata sorpresa a fare qualcosa di sconveniente, si avvicinò di nuovo alla finestra e ricambiò il saluto. Poiché non aveva paura di nessuno - Jim pregava Dio di far diventare come lei anche sua madre - evidentemente stava pensando qualcosa di cattivo su di lui. Per un istante, aveva avuto l'aria di una persona che si vergognasse profondamente. Oppure lui era troppo sensibile, troppo egocentrico? Era quello che gli dicevano sempre il padre e lo psicologo della scuola. Jim e Sam si avviarono. Sam scosse la testa e i suoi capelli quasi afro ondeggiarono come il cimiero di un antico guerriero troiano. «Allora?» chiese Sam con voce nasale. «Allora cosa?» replicò Jim. «Gesù, mi hai detto che eri giù, abbiamo camminato per un isolato, e non hai pronunciato neppure una dannata parola! Per quale motivo sei così depresso? La solita storia? Tu e il tuo vecchio?» «Sì,» confermò Jim. «Mi dispiace. Stavo riflettendo, ero immerso nei miei pensieri. Uno di questi giorni uscirò del tutto fuori di testa. E perché no? In ogni caso, ecco la mia sordida e triste storia.» Sam lo ascoltò, intervenendo soltanto con grugniti o commenti tipo «Strano, ragazzo, davvero strano!» Quando Jim ebbe terminato il suo racconto, Sam commentò «Che storia di merda, eh? Ma cosa puoi farci? Nulla almeno secondo il Sistema. Ma tra poco sarai maggiorenne, e potrai mandare il tuo vecchio a farsi fottere.» «Se prima non ci uccidiamo a vicenda.»
«Sì. È tutto gente! Punto. Niente scritta "Continua alla prossima puntata". Be', dici di essere incavolato? Stai a sentire, stamattina anche io e mia madre abbiamo fatto casino, ma tu sai che nel caso di mia madre è sempre la musica. «"Mi sono fatta un culo così", mi dice, "per farti prendere lezioni di musica, e ora suoni pianoforte e chitarra. Ma non ho lavorato come commessa e babysitter, non ho fatto Dio solo sa quanti altri lavori, non ho risparmiato fino all'ultimo centesimo per farti fare il musicista rock, E tu ti vesti come un punk, ti comporti come un pellirossa ubriaco, e metti in imbarazzo me, tuo padre, i miei amici e padre Kochanowski! Voi santi, aiutatemi! E aiutami pure tu, Vergine Maria! Volevo che diventassi un musicista classico, che suonassi Chopin e Mozart, che diventassi qualcuno di cui andare fieri! Ma guardati, invece!" E così via. Le solite stronzate. «Poi ho detto quel che non dovevo, ma ormai non ce la facevo più, ero davvero al limite.» Sam fece ruotare entrambe le braccia un po' di volte, sempre stringendo lo zaino in una mano. Wyzak si stava scaldando. «"Ti sei fatta un culo così?" le faccio io. "Dev'essere vero, Difatti ce l'hai grosso come quello di un cammello". Dio mi perdoni, voglio bene sul serio a mia madre, anche se rompe alla grande. In ogni caso, ho dovuto darmela a gambe, altrimenti ci avrei rimesso la vita. Mamma mi ha tirato dietro tutti i piatti che aveva sottomano e mi ha inseguito con una scopa. Mi sono fatto di corsa tutta la casa e poi sono dovuto fuggire in cortile, mentre mio padre si rotolava a terra dalle risate. Era contento che, per una volta, non fosse toccato a lui.» Jim fu ferito dall'apparente superficialità con cui Sam aveva ascoltato il suo racconto dei problemi che aveva con il padre. Jim si era confidato con lui; voleva disperatamente simpatia, comprensione, magari qualche consiglio. E, invece, cosa faceva quello che teoricamente era il suo migliore amico? Ignorava le pressanti richieste d'aiuto di Jim e iniziava a parlare dei suoi problemi, che Jim gli aveva udito raccontare già troppe volte. CAPITOLO SESTO Jim e Sam iniziarono a percorrere Pitts Avenue, che proseguiva per sei isolati fino ad arrivare alla Belmont City Central High School. Furono superati da auto stracariche di studenti. Nessuno li salutò o li chiamò, anche se tutti conoscevano i due a piedi. Jim si sentì un paria, un lebbroso la cui
unica malattia cutanea fosse l'acne. Questo rese il suo umor nero ancor più intenso, la sua rabbia ancora più ardente. Cristo! Quegli snob non avevano alcun diritto di guardarlo dall'alto in basso solo perché il padre era disoccupato e i Grimson erano poveri in canna e vivevano in una fatiscente zona proletaria. Quegli studenti che avevano l'automobile non erano poi così ricchi, tranne Sheila Helsgets, e anche la sua famiglia non se la stava passando tanto bene. La chiusura dell'acciaieria era stato un duro colpo per suo padre. Probabilmente, ormai il patrimonio di famiglia ammontava a poco più di un milione di dollari: per la maggior parte azioni e obbligazioni, che non valevano granché, e immobili. O almeno era questo che Jim aveva sentito dire sugli Helsgets. Sam non era al corrente di quanto Jim fosse perdutamente innamorato di Sheila. L'amico gli teneva nascoste alcune cose, per paura di essere preso in giro. Per esempio, la passione che nutriva per Sheila, il fatto che scrivesse poesia «seria», oltre i testi rock, che leggesse molti libri e che avesse un vocabolario molto più ampio di quello dei ragazzi che frequentava, anche se spesso non era sicuro del significato preciso delle parole che usava. «...una sigaretta?» disse Sam. «Cosa?» chiese Jim. «Cristo santo!» esclamò Sam. «Sveglia! Ma che hai, ti sei perso nello spazio? Torna a bordo, Capitano Kirk. Ti ho chiesto se vuoi aggiungere un altro chiodo alla tua bara.» Sam aveva due Carnei senza filtro in una mano scura, dalle unghie sudice. Jim avrebbe dovuto essere grato di quell'offerta; aveva così pochi soldi che non gli sarebbero bastati neppure per comprare un pacchetto di sigarette. Ma, per qualche strano motivo, non gli andava di fumare. «No! Ma dì, ce l'hai mica una di quelle buone?» Sam fece penzolare una Carnei all'angolo destro della bocca, ripose l'altra nel taschino della camicia nera e affondò la mano nella tasca del giubbotto azzurro. Ne tirò fuori tre pillole nere. «Certo. Sono davvero toste. Roba da viaggio in mongolfiera sulla luna, fidati. L'importante è fare attenzione a quando atterri.» «Grazie,» disse Jim, «ne prenderò una. Ti sono in debito.» «Sì, di sette dollari,» commentò Sam. Poi aggiunse in fretta, «Aggiorno i registri, ecco tutto. Ma non c'è fretta. Sai che mi fido di te. E non ti metto in conto tutte le sigarette che ti ho dato. So che, quando riuscirai a procurartene qualcuna, soccorrerai volentieri un amico in difficoltà. Come dici sempre, io e te siamo come Damone e Pizia, chiunque siano questi due
tizi.» Jim inghiottì velocemente una delle pillole. Senz'acqua, usò la saliva per mandarla giù. L'anfetamina agì più rapidamente del solito. BAM! Il sangue stanco di Jim, come diceva la pubblicità, si trasformò in un fiume di oro fuso. Ogni sua molecola, scorrendo nelle vene, per non parlare delle arterie, ingaggiò una folle corsa con tutte le altre, pur di arrivare per prima al cuore, per poi ripercorrere il cammino inverso freneticamente, gioiosamente. La luce, da dura e opaca che era, si addolcì, acquistò una confortante morbidezza. Anche Sam aveva inghiottito una pillola, prima di fermarsi e azionare l'accendino Bic, proteggendo la fiamma con una mano. Aspirò profondamente ed espirò una nuvoletta di fumo mentre riprendeva a camminare. Jim, che lo stava aspettando, si guardò intorno, come se fosse la prima volta che vedeva quel posto. Al di sopra delle case cadenti (Pitts Avenue era un vero cesso) vedeva profilarsi la Belmont Central. Alle spalle, a nord-est, sorgeva un edificio alto due piani, costruito in mattoni rossi e la cui entrata era ornata con colonne in stile italiano: il Wellington Hospital. A sud-est, svettava la guglia della chiesa di St. Stephan, situata al centro del quartiere ungherese. Pur di andare lì a sentire la messa, la madre di Jim superava St. Grobian, la chiesa irlandese, facendo un chilometro in più a piedi. Guardando ancora una volta verso nord, Jim osservò la cupola del Municipio, teatro di un bel po' di attività, quasi tutte sporche, almeno stando a sentire lo zio di Sam Wyzak, un giudice a cui non dispiaceva troppo alzare il gomito. Pitts Avenue si dirigeva proprio verso nord, terminando ai piedi di Gold Hill. Là, in alto, quasi in cielo, sorgevano le dimore dei re e delle regine di Belmont City. Mentre sorseggiavano i loro martini e contavano il loro denaro, potevano osservare la feccia, il proletariato, coloro che avrebbero ereditato certo non dei Buoni del Tesoro ma la terra, vale a dire un bel posto al cimitero. La caratteristica di Gold Hill che più faceva impazzire di rabbia il padre di Jim era che la moglie vi lavorava. Si trattava di un impiego part-time, e i ricchi non pagavano molto (dannati pidocchiosi!), ma una paga bassa era sempre meglio di nessuna paga. Eva Nagy Grimson lavorava in una piccola ditta di pulizie tutti i lunedì, mercoledì e venerdì. Gli assegni del sussidio di disoccupazione di Eric avevano smesso di arrivare da lungo tempo. A malavoglia, Eric aveva chiesto e ottenuto quelli dell'assistenza pubblica.
Per un individuo appartenente alla sua generazione, essere costretto a ricorrere all'assistenza pubblica rappresentava una bruciante vergogna. Inoltre, era convinto che una donna sposata non dovesse lavorare: il marito si sarebbe sentito umiliato, se la moglie si fosse trovata un posto di lavoro. Per l'uomo, significava essere un fallito, incapace di provvedere perfino alla propria famiglia. Jim comprendeva benissimo la vergogna, la disperazione e la frustrazione che tormentavano il padre. Ma perché doveva riversarle anche sulla moglie e sul figlio? Pensava che a loro due piacesse la situazione in cui erano finiti? Erano forse i responsabili di tutto quello che era loro capitato? Perché suo padre continuava a spendere in liquori il prezioso denaro guadagnato dalla madre? Perché non salpava l'ancora, lasciandosi dietro una casa ormai condannata, e portava la famiglia in California o in qualsiasi altro posto in cui avrebbe potuto trovare lavoro? Però, anche se si fosse deciso, avrebbe dovuto affrontare la questione della moglie. Eva aveva tollerato il comportamento del marito, per quanto irresponsabile potesse dimostrarsi, senza mai lamentarsi, né discutere. Tranne in una sola occasione. Quando il marito le aveva proposto di lasciare Belmont City, lei gli aveva replicato con fermezza che non avrebbe obbedito. Non avrebbe mai abbandonato né il clan Nagy né i suoi amici. «Cristo!» aveva esclamato Eric. «Se hai un amico ungherese, non hai bisogno di nemici!» Jim e Sam erano a due isolati di distanza da Central High, un enorme edificio a tre piani in mattoni rossi. In fondo il mio corpo è a due isolati da lì. Ma la mia mente, pensò Jim. Dov'è la mia mente? Dappertutto. Devo stare con lei. Di solito si vive nel presente. Ma spesso il passato ci tormenta, infila un dito dall'unghia affilata nei nostri cervelli per strapparne dei frammenti, preme un nervo per ricordarci che, alla fine della vita, ci attende la sofferenza, esplora altre parti dei nostri corpi, tasta i nostri cazzi, ci sottopone a un esame proctologico, percuote i nostri cuori indifesi fino a farli battere all'impazzata come le ali di un passero, ci annoda gli intestini, vomita acido bruciante nei nostri stomaci, e come Morfeo, antico dio greco del sonno, manipola i nostri sogni per prepararci incubi sopraffini. Ecco un bel titolo per una canzone: «La morta mano del passato.» No. Una vera banalità, anche se la maggior parte degli autori di testi rock non esitava a servirsi di simili immagini. E poi, il passato non moriva. Vi rimaneva attaccato come un essere vivente, una specie di tenia. O come il pa-
rassita di Heinlein giunto da Titano, la luna ghiacciata di Giove: un essere disgustoso, somigliante a una lumaca, che con i suoi tentacoli penetrava nella vostra schiena, succhiandovi la vita e il cervello. O come una febbre che nessun antibiotico riusciva a far abbassare, finché non morivate, e allora di certo non avevate più bisogno di medicine. «...ho tentato di farci scritturare per stasera, ma è andata buca,» stava dicendo Sam. «Abbiamo un concerto sabato sera, alla Whistledick Tavern di Moonshine Ridge, ma quello è un posto di zotici, e mi sa che dovremo suonare del dannato country. Però, potremmo anche annullarlo. Comunque, per oggi niente. Ma per me va benone. A Halloween bisogna divertirsi. Ti ricordi lo scherzetto che facemmo al vecchio Dumski? Dovevamo avere quattordici anni. Be', ti ricordi di come Dumski uscì di casa sbraitando e sparando con la doppietta? Ragazzi, che corsa!» «Conta su di me,» disse Jim. «Chiamerò al lavoro e dirò che sto male. Probabilmente mi sbatteranno fuori, ma tanto, chi se ne frega!» CAPITOLO SETTIMO Prima che lui e Sam si unissero al resto della banda, Sam gli passò una gomma da masticare. «Prendila. Hai un alito che stenderebbe King Kong.» «Grazie,» disse Jim. «Dev'essere stato quel salame polacco: troppo aglio. E poi, ho lo stomaco in disordine.» Li stavano aspettando tre ragazzi. Hakeem «Gizzy» Dillard, un adolescente di colore basso e tarchiato, che soffriva di itterizia. Bob «Birdshot» Pellegrino, un giovane alto, con folti baffetti neri e un occhio di vetro e Steve «Goathead» Larsen. Si salutarono colpendosi i palmi delle mani. Jim ebbe l'impressione che soltanto il saluto di Gizzy fosse sincero al cento per cento. Goathead fece girare quel che rimaneva di uno spinello, da cui tutti aspirarono qualche boccata, tenendo sotto controllo l'entrata, nel timore che comparisse il preside della Central, Jesse «Mutande di Ferro» Bozeman, o uno dei suoi insegnanti spioni. «Ehi, ragazzi, avete sentito cos'hanno combinato i Kiss in una stanza d'albergo a Peoria?» «Senti, te ne do una di quelle che tirano su in cambio di qualche tranquillante...» «...ha detto che Mick Jagger si è beccato una bella predica dalla moglie del sindaco...» «Il vecchio mi dice, "Prova a farti un taglio di capelli alla mohicana, e ti
taglio via le palle."» «...pensi che oggi Lum ci farà fare un compito a sorpresa?» «...e io ho pensato: be', puoi anche ficcarti nel culo il vertice di quel triangolo iso-sce-le. Definirlo, merda, non sapevo neppure pronunciare la parola. Ma sono stato figo: ho detto a Mister Slowacki che la geometria mi rompe. Va bene per quelli del partito repubblicano, e i miei votano sempre democratico.» «... mandato un' altra volta nell'ufficio di Mutande di Ferro. Lui non c'era; probabilmente si stava scopando la segretaria nella stanza della fotocopiatrice.» «... così lui mi dice, "Sapevo che ce l'avevi lungo, e che eri nero, ma dove hai preso quegli occhi a palla?"» «Ehi, ti giuro che non volevo prenderti per il culo, non mi piacciono queste battute razziste. Ora ti racconto quella sulla donna bianca a cui si è intrufolato un topo nella fica. Bene, va da un dottore nero e lui le dice...» Parlando concitatamente, ridacchiando, dandosi pacche sui rispettivi didietro, fingendo di boxare tra loro, i membri del gruppo si avvicinarono all'entrata della scuola. Jim era silenzioso, aveva risposto agli altri solo con grugniti e sogghigni forzati. La «meraviglia nera» non stava funzionando a dovere. Il tipo che l'aveva venduta a Sam doveva avergli tirato una bella fregatura. Con ogni probabilità, la pillola conteneva pochissima anfetamina; il resto doveva essere aspirina macinata. Mentre si dirigeva verso il suo armadietto, Jim vide Sheila Helsgets, appoggiata contro la parete. Stava parlando, rivolgendogli sorrisi più che calorosi, a Robert «Falli-a-pezzi» Basing, un ragazzo biondo, prestante e di bell'aspetto, che era il miglior placcatore della Central, nonché il capitano della squadra di football e di quella di retorica. Un tipo con un conto in banca a sei cifre. Guidava una Mercedes Benz e abitava a Gold Hill. Media scolastica poco meno che eccellente. Un fisico armonioso e abbronzato. Naturalmente, anche lui stava alle costole di Sheila. Ma fonti sicure affermavano che voleva soltanto divertirsi con lei. Era stato perfino visto in un locale notturno di Warren, una cittadina vicina, in compagnia di Angie «Pompinara» Calorick. Quando vide che Robert dava una pacca su una delle natiche perfette di Sheila, Jim quasi vomitò. Chiuse la porta dell'armadietto, sbattendola e provocando un rumore assordante. Sheila distolse lo sguardo da Basing e fissò Jim. Smise di sorridere. Poi rivolse di nuovo la sua attenzione al Vincente. Riprese a sorride-
re. Sheila tesoro, tu pensi che lui sia Gesù Cristo in persona. Mi piacerebbe crocifiggerlo, preferibilmente con chiodi arrugginiti che gli fossero piantati non solo nelle mani e nei piedi. Non farebbe alcuna differenza, pensò. Lei mi guarderebbe come se fossi un lebbroso. «Lavati! Lavati!» Jim iniziò a canticchiare sottovoce, mentre si avviava verso l'aula 201, dove si sarebbe svolta la lezione di Biologia. Era una sua creazione, intitolata «Ecco il tuo ritratto». Prendetemi per la collottola, sfottetemi pure, Copritemi di brufoli e pidocchi, Ingozzatemi di fagioli, e poi lamentatevi Delle mie scorregge sulle vostre facce. Calpestatemi, e dite che sono piatto. Spremetemi fuori tutto, e chiamatemi scarto. Dite che non ho assolutamente classe! Un martello celeste mi Schiaccia al suolo, Mi fa cadere la forfora dai capelli, Mi percuote: barn, barn, barn! Io attraverso roccia e ferro fuso. Vermi, talpe, ossa sepolte, Dio, il Diavolo, Mrs. Grundy, Chi è che non mi guarda dall'alto in basso, Mentre ruoto follemente al centro della Terra? Da lì, posso solo risalire: È una bugia. Per me, tutte le strade portano in basso. Picchiatemi, copritemi di sporcizia, Lacerate la mia anima con un'affilata vergogna. Chiamatemi straccione, accendete un cero, Celebrate per me una messa cenciosa. Prendetemi per la collottola, sfottetemi pure, Copritemi di brufoli e pidocchi. Seguì Bob e Sam nella grande aula e si sedette nell'ultima fila, con gli altri perdenti. Vi furono le solite chiacchiere ad alta voce, le gomitate d'intesa, cominciarono a volare aeroplanini e palline di carta. Poi sull'aula calarono, come la lama di una ghigliottina, il silenzio e l'immobilità, quando
fece il suo ingresso l'anziano ma non venerabile Mister Lewis «Fanatico» Hunks. Ecco tre aggettivi che lo descrivono alla perfezione: tetro, incartapecorito e disgustosamente religioso. Aggiungete al tutto il fatto che era un Creazionista obbligato a insegnare l'evoluzionismo, che però chiamava «sviluppo», e otterrete un vecchio frustrato e depresso. Hunks fece l'appello dei presenti come se stesse recitando l'elenco di coloro che dovevano essere giudicati il Giorno del Giudizio. Dopo aver pronunciato ciascun nome, sollevava lo sguardo da dietro due lenti spesse come fondi di bottiglia. Faceva una smorfia quando leggeva il nome di uno studente che non gli andava a genio, e sorrideva impercettibilmente quando pronunciava il nome di qualcuno che non sarebbe finito nell'Inferno dei Bocciati. Sorrise tre volte. Dopo aver incaricato uno degli studenti che godevano dei suoi favori di portare l'elenco degli assenti all'ufficio del preside, Hunks si lanciò nella lezione di quel giorno. Era la continuazione di quella precedente e verteva sul sistema di riproduzione delle rane. Jim tentò di seguire con attenzione e di prendere appunti, visto che l'argomento era interessante. Ma lo stomaco gli faceva male, e inoltre gli era scoppiato un terribile mal di testa. Per peggiorare le cose, Hunks era dotato di una voce che riusciva nell'impossibile: combinare un tono acuto e sgradevole con un'intonazione monotona. A Jim sembrava di trovarsi su di un carro trainato da buoi che, con una ruota cigolante, stesse percorrendo una pianura sterminata e priva di alberi. Il panorama lo invitava al sonno, ma il cigolio della ruota continuava a tenerlo sveglio. Sam Wyzak, che era seduto accanto a Jim, si sporse verso di lui e gli bisbigliò, «Sto per addormentarmi. Perché non gli dici che la sua lezione fa cacare? Almeno non moriremo per la noia.» «E perché non glielo dici tu, invece?» replicò Jim. «Cavolo, non so niente sull'argomento e non mi frega nulla di saperlo. Tu sei l'esperto. Dunque, sei tu quello che deve dare il via ai fuochi d'artificio. Il vecchio Sam vuole soltanto fare un po' di casino. Facciamogliela vedere!» Il silenzio che era sceso nell'aula mise in allerta Jim. Si raddrizzò e guardò Mister Hunks. Il vecchio stava rivolgendo su di lui uno sguardo carico d'ira e anche gli altri studenti si erano voltati per fissare lui e Sam. A Jim parve di essersi trasformato in uno scoiattolo imprigionato in una di quelle gabbie a forma di ruota. Continuava a correre, ma rimaneva sempre nello stesso posto. Il battere nervoso dei suoi piedi contro il metallo del
banco era simile a un rullo di tamburi. «Cazzo, adesso siamo fottuti!» «Bene, Mister Grimson, Mister Wyzak,» gracchiò Hunks. «Non è che, per caso, vorreste condividere con noi altri i vostri pensieri privati sull'argomento che stiamo trattando?» Jim disse, «Non era nulla di importante, signore.» Anche la sua voce aveva assunto un tono acuto. Era infuriato per essersi fatto cogliere in castagna, e per avere paura di discutere con Hunks. Senza dubbio, quel vecchio si sarebbe preso gioco di lui davanti a tutti. «Nulla di importante, Mister Grimson? Nulla di importante? Voi due stavate disturbando me e l'intera classe soltanto per emettere suoni senza senso? O forse stavate imitando le scimmie da cui sostenete di discendere? Per caso, imitavate i loro richiami?» Il cuore di Jim iniziò a battere ancora più forte, lo stomaco gli si strinse, la bocca fu invasa da un sapore acido. Ma si alzò lo stesso, tentando di mantenere un atteggiamento spavaldo, di conferire un tono fermo alla voce. «Ecco,» esordì, poi fece una pausa per schiarirsi la gola che, improvvisamente, era stata invasa dalla saliva. «No, non stavamo imitando il linguaggio delle scimmie. Noi...» «Linguaggio delle scimmie?» storse la bocca Hunks. «Le scimmie non possiedono un linguaggio!» «Be', volevo dire... i segni fatti dalle scimmie, o comunque essi vengano definiti.» Sam bisbigliò, «Umgawa!» Fu scosso da una risata silenziosa. «Quando il suo scimmiesco simile si sarà ripreso dalla sua crisi di risate, lei potrà andare avanti,» commentò gelido Hunks. Aveva gli occhi socchiusi, come se le spesse lenti fossero un telescopio, e lui, l'astronomo, avesse appena scoperto un trascurabile asteroide che non aveva alcun diritto di trovarsi nel punto in cui era. Sam smise di agitarsi, ma si stava mordendo le labbra per evitare di scoppiare a ridere. «Ehm,» disse Jim e si schiarì di nuovo la gola. «Uh, ho riflettuto su quel che lei ha detto, uh, sullo sviluppo della vita, no, intendevo dire origine, dal brodo primordiale, e sulla sua, uh, statica... cioè, sulla sua improbabilità statistica. Ma avevo bisogno di raccogliere meglio i pensieri, prima di esporle le mie considerazioni. «In effetti, stavo pensando a quello che ha detto la scorsa settimana. Ricorda? Lei, noi, abbiamo discusso sul perché, per esempio, uh, gli embrio-
ni di cane e quelli umani sono tanto simili, almeno nei primi gradi del loro sviluppo. Lei ci ha spiegato perché gli embrioni umani hanno la coda, secondo la teoria dello sviluppo. Ma era evidente che lei non credeva a quella teoria. Poi ha tentato di spiegare perché, uh, se il Creatore aveva modellato tutte le creature in un paio di giorni... l'ha detto lei... ha tentato di spiegare perché tutti i mammiferi maschi hanno i capezzoli, anche se non ne hanno bisogno, e perché, uh, gli insetti che non volano hanno le ali.» Jim si sentiva la gola secca. Il sogghigno di Hunks era largo, così largo, e duro, tanto duro. Gli altri studenti continuavano a fissarlo. Qualcuno aveva ridacchiato, udendo Jim menzionare i capezzoli. «Inoltre, perché i serpenti hanno arti rudi... rudimentali, se non ne hanno più bisogno di quanto i maschi necessitino di capezzoli e gli insetti che non volano di ali? Se fossero stati creati in un solo giorno, non avrebbero capezzoli, arti e ali. Lei ha detto che furono dotati di queste caratteristiche per amore della simmetria. Il Creatore era un artista, ed Esso doveva rendere simmetriche le sue creature.» Jim si riferiva a Dio come a Esso perché sapeva, così facendo, di irritare Hunks. Ormai parlava con voce sicura, senza le goffe esitazioni di prima. Era in ballo, e al diavolo le conseguenze! «Ecco, spero che mi perdonerà, Mister Hunks, ma nutro notevoli dubbi sulla veridicità della sua spiegazione. Non mi sembra logica. In ogni caso, ho riflettuto sull'argomento. E, signore, vorrei che mi spiegasse questo: se il Creatore aveva tanto a cuore la "simmetria" perché, il giorno della Creazione, non ha creato dei maschi che avessero anche i genitali maschili, e viceversa? Perché noi uomini non abbiamo una vagina, e le donne un pene?» Gli studenti scoppiarono a ridere. Mister Hunks esplose di rabbia. «Siediti e sta' zitto!» «Ma, signore!» «Ho detto: siediti e sta' zitto!» Jim avrebbe dovuto essere contento. Aveva trionfato. Ma stava tremando di rabbia repressa. Hunks era tale e quale a suo padre. Quando aveva la peggio in una discussione, rifiutava di ascoltare ulteriormente l'interlocutore, e invocava il bavaglio che tutti gli adulti usavano contro quelli più giovani: la fatidica intimazione «Sta' zitto!» E non ci si poteva rivolgere a nessuna corte d'appello di grado superiore. Quest'ultima, infatti, era incarnata dallo stesso Hunks. Fortunatamente, proprio in quel momento suonò la campanella che an-
nunciava la fine della lezione. Hunks pareva sul punto di avere un colpo apoplettico, ma non ingiunse a Jim di andare nel suo ufficio quel pomeriggio. Jim ebbe l'impressione che le vene e le arterie del suo corpo volessero esplodere. Comunque, pochi istanti più tardi, mentre camminava nel corridoio, iniziò a provare, mischiata alla rabbia, una sensazione di allegria. Gliela aveva davvero fatta vedere a quella vecchia scoreggia, a quel fossile vivente, a quel membro del Ku Klux Klan dei Kristiani! Bob Pellegrino e Sam Wyzak gli erano accanto, mentre Jim si faceva strada tra la calca di studenti. Bob disse, «Non importa se vinci ogni volta che discuti con quello sporco vecchio. Ti boccerà, puoi scommetterci le chiappe.» Jim fu d'accordo con la descrizione che Bob aveva fatto di Hunks. Per un adolescente, chiunque abbia superato i sessant'anni di età è sporco. In realtà, non importa quanto l'anziano sia pulito dal punto di vista corporeo; egli è sporco poiché è vicino alla morte; la Vecchia Signora è la sporcizia assoluta, e chiunque le si approssimi deve per forza essere profondamente sudicio. Ma c'era qualcosa che Jim non poteva sapere, e che avrebbe appreso soltanto molto tempo dopo: Hunks era molto più vicino alla verità degli evoluzionisti. CAPITOLO OTTAVO Giunse l'ora della ricreazione. Jim non aveva denaro per comprarsi qualcosa da mangiare, e la sua furia si era placata a sufficienza da farlo sentire molto affamato. Sam divise il suo cibo con lui, e Bob Pellegrino gli diede un mezzo panino al tonno e mezzo peperoncino. Jim si calmò ancora di più durante il corso di Mister Lum di Letteratura Inglese e Composizione. Era l'unica materia in cui Jim avesse una B. Oh, be', quasi. Qualche A sui temi che avrebbe scritto, e avrebbe avuto una media pari a B. Ma se non fosse riuscito a padroneggiare la differenza tra un participio e una particella, non sarebbe stato promosso. «Saperlo non ti farà scrivere meglio, e non userai mai questo particolare frammento di conoscenza accademica,» lo aveva avvertito Lum. «Comunque, è una differenza abbastanza facile da capire, e tu non sei uno stupido, non mi importa cosa dicano di te gli altri professori. Non ti promuoverò finché questa differenza non ti sarà penetrata nelle ossa. Ora, non è che io sia granché al corrente delle ultime scoperte della fisica. Dunque, cosa
diavolo è una particella?» Dopo la lezione di biologia, Jim e Sam si avviarono verso la toilette. Superarono l'anziano sorvegliante che stazionava all'esterno ed entrarono. Era un posto affollato, rumoroso e fetido. Appoggiati alla parete, accanto ai lavandini, c'erano Freehoffer «il Blob» e i suoi amici, Dolkin e Skarga. Si passavano uno spinello come se non importasse loro un fico secco di essere eventualmente scoperti dal sorvegliante, ed era davvero così. Freehoffer era enorme: alto più di un metro e novanta, pesante più di cento chili, con il doppio mento, una pancia grossa come un barile, un grugno porcino e occhi da furetto. Avrebbe dovuto radersi la barba, tanto nera da avere riflessi bluastri, almeno tre giorni prima. I capelli neri e untuosi erano tirati all'indietro e raccolti in un codino. Macchie di tuorlo d'uovo costellavano la sua camicia a righe rosse e bianche. Dolkin e Skarga erano bassi ma massicci; i loro capelli biondo cenere assomigliavano a nidi di vipere. Freehoffer e i suoi compari si sarebbero dedicati al loro passatempo preferito: tormentare le loro vittime abituali, quelli del primo anno e i tipi strambi, se la toilette non fosse stata così affollata. Jim era stato costretto a dar loro del denaro almeno una dozzina di volte, durante i quattro anni che aveva trascorso alla Central. Ma quell'anno era riuscito a non farsi mai sorprendere da solo alla toilette, e l'ultima volta che aveva consegnato i suoi spiccioli aveva detto a Freehoffer, «Mai più!» Dopo essersi serviti degli orinatoi, Jim e Sam si apprestarono ad uscire dalla toilette. Ma Freehoffer tese una gamba e fece inciampare Jim, che cadde in avanti e batté la testa contro la porta d'uscita. Il dolore fu come una martellata data su un detonatore. Jim gridò, imprecò, si voltò di scatto e sferrò un destro. Non rifletté su quel che faceva; in effetti, fu a malapena consapevole di starlo facendo. Il suo pugno affondò nella trippa di Freehoffer. La risata di quest'ultimo si trasformò in un sonoro grugnito, e Freehoffer si piegò in due. Spinto da un'ondata rossa di furia, Jim colpì con una ginocchiata il mento del Blob. L'altro cadde sul pavimento piastrellato, ma si mise subito a quattro zampe. Jim ringhiò, «Non toccarmi mai più, faccia di pus!» Sam esclamò, «Filiamocela, Jim!» Freehoffer si rialzò. «Sei finito, testa di cazzo!» Dolkin e Skarga fecero per intervenire. Sam tirò Jim per un braccio. «Per amor di Dio, usciamo di qui!» «Questo non è il posto adatto!» muggì Freehoffer. «Ma se sei un vero
uomo, Grimson, ti incontrerai con me sul retro del negozio di Pravit, dopo la scuola! E non avrai nessuna possibilità di colpirmi mentre non guardo! Ti farò a pezzetti, se hai il fegato di affrontarmi, e non credo proprio che tu ce l'abbia!» Jim iniziò a tremare, ma replicò, «Un combattimento leale? Uno contro uno? Useremo solo i pugni?» «Sì! Un combattimento leale! Solo pugni! Non ho bisogno di altro per schiacciare un verme come te!» «Non vorrei sporcarmi le mani toccandoti, ma lo farò lo stesso, sacco di merda,» rintuzzò Jim. Con Sam che lo seguiva, uscì con andatura spavalda dalla toilette. «Cristo, ragazzo!» sbottò Sam. «Ma che ti è preso?» «Non mi farò più mettere i piedi in testa da quello stronzo!» «Devi avercela con il mondo intero,» replicò Sam. «Ti è partito il cervello. Sai bene che quel grassone non lotterà lealmente, e che verranno anche Dolkin e Skarga, pronti a saltarti addosso.» «Tu cosa faresti al mio posto?» ringhiò Jim. «Io? Non ci andrei, nossignore. Non sono pazzo!» «Ma ci verrai con me, o lascerai che me la sbrighi da solo?» «Oh, ci sarò,» lo tranquillizzò Sam. «Non ti mollerò nei guai, vecchio compare. Ma sarà meglio raccontare la faccenda a Bob e agli altri. Più saremo, meglio sarà. Hai bisogno di qualcuno che ti guardi le spalle. Porterò con me anche un mattone. Ma è una follia!» Quando le lezioni furono finite, divenne chiaro che ormai l'intera scuola era al corrente del combattimento che si sarebbe svolto. Jim era ancora folle di rabbia, ma non tanto da non essere spaventato. Nella sua mente, il consiglio di Sam di sopportare il Blob, piuttosto che affrontarlo, stava diventando sempre più sensato. Ma ormai non poteva più tirarsi indietro. Tutti avrebbero pensato che se l'era fatta sotto dalla paura. La Pasticceria Pravit era a un isolato di distanza dalla scuola. Seguito e preceduto da altri studenti, Jim imboccò il vicolo che rasentava il fianco del negozio e poi fece pochi passi lungo quello su cui si affacciava il retro dell'edificio in mattoni rossi. Con lui c'erano Wyzak, Pellegrino e Larsen. Jim aveva sperato che Freehoffer non si sarebbe fatto vedere. Non fu così: era già là, appoggiato al muro, accanto alla porta di servizio del negozio, con uno stuzzicadenti tra le labbra carnose. Aveva un'aria disinvolta, noncurante. Al suo fianco c'erano Dolkin e Skarga. «Eccolo, il bullo da latrina, il rapinatore di stronzi!» esclamò ad alta vo-
ce Jim. L'inizio della frase era stato pronunciato con voce chiara e decisa, ma verso la fine il tono era divenuto rauco, esitante. Jim si fermò a circa tre metri da Freehoffer. La folla lo superò, formò un semicerchio attorno ai due. I tre amici di Jim gli erano alle spalle. Il Blob emise un suono sprezzante. «Mi sa che sei bravo soltanto a parlare, fanfarone.» Continuò a rimanere appoggiato al muro. Jim lasciò cadere lo zaino, urlò e si precipitò in avanti. Freehoffer si irrigidì, sbarrando gli occhi. Jim gli si scagliò addosso. Aveva visto molti film di karatè, ma non lo aveva mai praticato. Era un tentativo disperato: o-lava-o-la-spacca, fallo-o-muori. Il suo corpo si contorse mentre con il tacco dello stivale colpiva il naso di Freehoffer. In effetti, Jim aveva mirato al mento. Poco male, però. La testa del Blob scattò all'indietro e il ciccione barcollò contro il muro. Dalle narici fiottò il sangue. Poi Jim, che era stato sbilanciato dal colpo dato, tentò di riprendere l'equilibrio ruotando su se stesso, ma cadde su di un fianco. Un dolore lancinante gli straziò la spalla. Rimase senza fiato. Nonostante tutto, si rialzò e caricò Freehoffer a testa bassa, prendendolo in pieno stomaco. Un' altra fitta di dolore, questa volta al collo. Freehoffer emise un rantolo. Con il sangue che gli scorreva sul viso, si piegò in due, stringendosi il ventre. L'attacco aveva colto di sorpresa sia lui che i suoi amici. Ma Dolkin e Skarga finalmente si mossero e saltarono addosso a Jim, che non aveva ancora del tutto ripreso fiato. Sam Wyzak, sebbene non fosse un cuor di leone, una volta coinvolto in una rissa, non era certo tipo da tirarsi indietro. Estrasse un mattone da sotto il giubbotto e lo sbatté contro una tempia di Dolkin. L'altro cadde in ginocchio, portando una mano sulla parte colpita. Skarga mostrò il pugno che, fino a quel momento, aveva tenuto nascosto nella tasca del giubbotto. Un tirapugni in ottone luccicò, mentre Skarga si preparava per affondarlo con forza tra le costole di Jim. Ma Bob Pellegrino balzò in avanti e gli stampò un pugno sulla mascella, mentre Sam lo colpiva sulla schiena col mattone. Skarga cadde, urlando di dolore, poi iniziò a strisciare tra la folla, in cerca di protezione. Pellegrino gli assestò un calcione nel fondoschiena. Steve Larsen gli saltò addosso e lo trascinò sull'asfalto per un buon tratto. Il Blob aveva un mucchio di ciccia, il che aveva attutito i danni subiti. Era ben lungi dall'essere fuori combattimento. Muggendo come un toro, caricò Jim, lo bloccò circondandolo con le braccia e lo trascinò con sé sul duro e nero asfalto. Poiché Jim aveva le mani libere, fu in grado di continuare a colpire Freehoffer, mentre rotolavano qua e là, pur non ottenendo
grandi risultati. Quando il Blob lo colpì allo stomaco, Jim gridò, ma il dolore gli diede la forza per liberarsi. Era ancora riverso sulla schiena, quando Freehoffer si alzò e sollevò una gamba, pronto a rifilargli un calcio. Ma lui fu più svelto. Il suo piede affondò nell'inguine del Blob. Urlando, stringendosi i testicoli, Freehoffer cadde in avanti. Prima di urtare il suolo, dalla bocca sgorgò un fiotto di vomito. Jim rotolò via appena in tempo per evitare di essere schiacciato da quella massa pesante più di cento chili, ma il vomito gli intrise i capelli e la parte sinistra del viso e del corpo. Jim si rialzò. Ma il fetore e il disgusto di essere coperto da quella roba, e il pensiero che veniva dalla pancia del Blob, provocò anche a lui un conato. Chinato sopra Freehoffer, ne irrorò il volto col proprio vomito. Alcuni degli spettatori furono deliziati da quello spettacolo. Altri ne furono disgustati, qualcuno vomitò. Il loro esempio contagiò altri. Ma né quelli che si godevano la scena, né quelli che ne erano disgustati ebbero troppo tempo per manifestare le loro reazioni. Un ululato di sirena sempre più assordante annunciò l'arrivo dei piedipiatti. Giudiziosamente, la maggior parte degli spettatori si affrettò a sparire dal luogo dello scontro. CAPITOLO NONO Mentre una macchina bianca e nera della polizia entrava nel vicolo, Freehoffer profferì le sue minacce, tra singhiozzi e lunghi respiri affannosi. «Avrò la tua pelle! Userò il fucile del mio vecchio, faccia di merda! Ti farò saltare quel fottuto cervello da finocchio, poi infilerò quel mattone su per il culo al polacco, prima di fargli scoppiare via la testa!» Dolkin e Skarga se l'erano data a gambe. Pellegrino e Larsen li avevano imitati con riluttanza. Jim li aveva convinti dicendo loro che era assurdo rimanere lì ad affrontare l'inevitabile casino coi poliziotti. Sam, però, si era rifiutato di abbandonare Jim. «Tutte stronzate!» commentò sprezzante Jim. Anche lui ansimava, ma non quanto Freehoffer. «Hai avuto quel che ti meritavi, vomito umano! Il tuo regno di terrore è finito! Ogni volta che ti vedrò estorcere denaro a qualche ragazzino spaventato, ti darò una bella ripassata. Sul posto, e subito! Ti farò nero di botte!» Tremava tanto da avere l'impressione che i muscoli stessero tentando di staccarsi dalle ossa. Ma era come se stesse facendo del surf su un'onda gigantesca, che lo sollevava in alto, sempre più in alto. Una volta raggiunta la sua cresta, avrebbe spiccato il volo nell'immenso azzurro del cielo. La
lotta gli aveva permesso di scaricare la maggior parte della rabbia e degli impulsi violenti che avevano albergato in lui per tutta la mattina. Arrivarono i poliziotti, con andatura lenta e cauta, guardandosi continuamente intorno. Ma stavano sogghignando. Erano sollevati al pensiero di non dover sedare una rissa in piena regola. Jim pensò che chiunque li avesse avvertiti aveva decisamente calcato la mano. Era stato il vecchio Pravit? Forse. In ogni caso, il dipartimento di polizia era a corto di personale e oberato di lavoro, come ogni altro ufficio pubblico: Belmont City era una città povera. Era già un miracolo che fosse arrivata una pattuglia a investigare sull'accaduto. Fu un bene che Sam non fosse andato a casa come gli altri. I poliziotti riconobbero il suo cognome. Uno di loro sapeva che Sam era il nipote di Stanislaw Wyzak, un giudice che esercitava nelle sedute notturne del tribunale, e di John Krasinski, un consigliere comunale. I due poliziotti considerarono l'intera faccenda come una discussione piuttosto accesa tra due ragazzi che frequentavano le superiori. Normalmente, i due avrebbero fatto appoggiare i tre ragazzi contro il muro, a gambe aperte, per poi perquisirli. Ma non volevano sporcarsi le mani di vomito, né, perché non dirlo?, volevano avvicinarsi a Grimson e Freehoffer più del necessario. Non riuscirono neppure a strappare di bocca dai tre il vero motivo della rissa. Jim evitò loro di rivelare che Freehoffer estorceva denaro agli altri ragazzi e che aveva minacciato di uccidere lui e Sam. Da parte sua, era chiaro che il Blob avrebbe voluto accusare Jim di ogni sorta di nefandezze, ma anche lui obbedì alla legge non scritta che dettava: «Mai dire ai piedipiatti nulla su nessuno». Anche se i due poliziotti sapevano che i tre non stavano loro dicendo la verità, non ne fecero una tragedia. Se li lasciavano andare senza una diffida scritta, si sarebbero risparmiati un mucchio di scartoffie e avrebbero evitato guai con il Giudice Wyzak e il Consigliere Krasinski. In ogni caso, pensarono, quell'incidente avrebbe dovuto essere riferito alle famiglie dei tre. In effetti, il tutto si ridusse a: Andate figlioli, e non peccate più. E, per l'amor di Dio, lavatevi i vestiti e fate un bagno. Ah! Ah! Ah! Poco prima che se andassero, uno dei poliziotti corrugò la fronte e disse, «Grimson? Dove ho già sentito questo... oh, sì... penso di aver sbattuto dentro tuo padre, per una notte. Ubriachezza e disturbo della quiete pubblica. Ma ricordo anche qualcos'altro. Ah, sì! Un paio d'anni fa ho letto un articolo di giornale su di te: diceva che avevi strane visioni e che ti sanguinavano i palmi delle mani e la fronte. Qualcuno pensava che forse eri un
santo, altri che eri un po' tocco.» «È successo molti anni fa. Ero ancora un bambino,» replicò acidamente Jim. «Ora è tutto finito. E non si trattava di una gran cosa. Il giornale esagerava. Per vendere qualche copia in più si fa di tutto.» In un flashback fulmineo, ricordò il dottore che l'aveva visitato dopo l'apparizione delle stigmate. Il vecchio dottor Goodbone. Si chiamava davvero così, che ci crediate o no. «Ci troviamo di fronte a un'immaginazione iperattiva, a cui si è aggiunta una propensione all'isteria,» aveva spiegato il medico alla madre di Jim. «Le strane cose che ha visto, le stigmate, sono spiegabili, e senza dover per forza tirare in ballo il sovrannaturale. Certo, questi casi non sono comuni, ma esistono articoli apparsi sulle riviste specializzate che si occupano proprio di fenomeni del genere. Si tratta di patologie psichiche. La mente può fare strane cose; può perfino provocare fenomeni, in apparenza puramente fisici, come le emorragie. Di solito, accade spesso in soggetti adolescenti, o in donne isteriche. Probabilmente il piccolo Jim supererà lo shock senza problemi e diventerà un ragazzo assolutamente normale. Dovremo soltanto tenerlo d'occhio per un po'. Ma non c'è nulla di cui preoccuparsi.» La madre di Jim avrebbe dovuto sentirsi rassicurata da quelle parole. Probabilmente era andata proprio così. Ma, paradossalmente, si era sentita anche un po' delusa. Si era convinta che le visioni e le stigmate fossero i segni inviati da Dio che il figlio sarebbe diventato un santo. Il poliziotto fece loro promettere che non avrebbero ripreso a darsele di santa ragione e che sarebbero tornati a casa immediatamente. Poi arrivò un'altra richiesta d'intervento, e la pattuglia andò via in tutta fretta. Freehoffer parve voler continuare a minacciare Jim e Sam, poi ci ripensò e si trascinò via. Jim cercò il suo zaino. Era scomparso. «Per amor di Dio, cosa succederà ancora?» gridò esasperato. «Qualcuno l'ha rubato! I miei libri... ora dovrò comprarne dei nuovi!» Il che avrebbe fatto infuriare ancora di più il padre. Era già stato abbastanza difficile strappargli i soldi per acquistarli all'inizio del semestre. Eric Grimson avrebbe avuto più di una scusa per suscitare un putiferio. Ed Eva Grimson avrebbe dovuto far saltar fuori i soldi da quel che guadagnava facendo pulizie. No. Il padre avrebbe insistito affinché fosse Jim a pagare per i libri. Ma dove avrebbe preso i soldi? Perché i guai non venivano mai da soli? La madre stava ancora lavorando a Gold Hill, quando Jim tornò a casa. Ma il padre lo stava aspettando. Iniziò a urlargli di togliersi i vestiti, di
metterli in lavatrice, giù in cantina, e di farsi una doccia. Subito. Jim avrebbe anche potuto morire per lo shock della doccia, ma sarebbe stata la cosa migliore, per lui e per il mondo. Tentò di spiegare al padre il motivo per cui aveva fatto a botte, ma Eric Grimson non prestò alcuna attenzione alle parole del figlio. Rimase piantato in cima alle scale della cantina, mentre Jim si sfilava di dosso i vestiti e li lasciava cadere nell'antiquata lavatrice. «Per lavarli ci vorranno detersivo, acqua e gas extra, e questo farà andare alle stelle le bollette, anche se, di solito, non è che fai aumentare di molto quella dell'acqua,» commentò Eric. «Forse devo considerare quel che è successo come un intervento divino per costringerti a fare una doccia.» Jim attese di aver indossato dei vestiti puliti, prima di decidersi a informare il padre sul furto dei libri. Ma quando uscì con riluttanza dalla sua stanza, scoprì che il padre era andato via. Senza dubbio era andato alla Tex's Tavern, a cinque isolati di distanza, a spendere in liquori il denaro che avrebbe potuto usare per comprare i libri. Quel pensiero ricordò a Jim che aveva dimenticato di telefonare al fast-food in cui lavorava. Se diceva al direttore che era malato - l'aveva già fatto troppe volte - probabilmente sarebbe stato licenziato. E allora? Non sarebbe stato facile trovare un altro lavoro, ecco cosa. Ma aveva promesso a Sam che quella notte sarebbero andati in giro a folleggiare. Dopo tutto, era Halloween. E lui non voleva perdersi quel divertimento. Se fosse riuscito a parlare da solo con la madre, mentre il padre non c'era, avrebbe potuto farsi dare qualche spicciolo. La madre li avrebbe tirati fuori da qualche parte, come faceva sempre. Ma Jim sapeva quanto sarebbe stato duro, per lei e per lui. Anche se non si lamentava mai, i grandi e tristi occhi della madre, l'espressione di rimprovero trattenuta a malapena, la delusione e il senso di sconfitta che trasparivano dal suo volto l'avrebbero fatto sentire un accattone, un parassita, un vampiro, un fallito, un figlio assolutamente degenere. Il silenzio, i modi tranquilli della madre lo facevano sentire peggio delle sfuriate del padre. Almeno, quando discuteva con quest'ultimo, Jim poteva scaricare un po' della sua rabbia. Ma la ferma volontà della madre a non discutere lo frustrava, lo innervosiva. Una termite doveva sentirsi in quel modo, quando, masticando allegramente un pezzo di legno, a un certo punto si imbatteva in una striscia di metallo.
La casa era silenziosa, tranne occasionali scricchiolii e mormoni, tutti lievissimi. Potevano essere le voci della terra che franava nei pozzi e nelle gallerie al di sotto di essa. Avvertivano i noncuranti umani, che vivevano in alto, di prossimi e grandi cedimenti. Oppure, come nel poema «Kubla Khan» di Coleridge, erano «voci ancestrali, foriere di guerra?» O magari erano i troll, che scavavano nelle miniere di carbone abbandonate, con l'obiettivo di affrettare la rovina delle case di Belmont City? Uomo, io sono un caso, pensò Jim. Il mio cervello è come una pallottola che ha mancato il bersaglio e rimbalza dovunque, cento scenari dove solo uno potrebbe essere reale. Devo smetterla di fare il poeta o lo scrittore, quando dovrei fare il meccanico. Andò a sedersi in salotto, su una delle poltrone. Fissò il falso camino, con la mensola su cui erano appoggiate due palle di vetro al cui interno era possibile osservare delle scenette natalizie (bastava capovolgerle e poi raddrizzarle, e la neve avrebbe iniziato a cadere sulle casette e sulle figurine), statuette della Vergine Maria e di Santo Stefano, due candele all'incenso, uno spray per pulire i mobili, un posacenere pieno di mozziconi e un carillon sul cui coperchio spiccava un cerchio di ballerine, i cui tutù bianchi erano macchiati di nicotina. Sulla parete, al di sopra della cappa, era appesa una grande fotografia di Ragnar Fjalar Grimson, l'amato nonno di Jim, che era morto ormai da otto anni. Sebbene il nonno stesse sorridendo, aveva un aspetto fiero come quello del suo omonimo, il leggendario re vichingo, Ragnar Brache Pelose, da cui affermava di discendere. La candida barba gli arrivava quasi alla cintola, Le sopracciglia bianche erano folte e magnifiche come quelle di Dio (ammesso che Lui esistesse), e gli occhi azzurri avevano uno sguardo penetrante quanto la lama di un' ascia da guerra di un pirata scandinavo. Quando era morto, suo figlio, Eric, aveva tolto il grande quadro raffigurante Gesù, ignorando le timide proteste della moglie, e aveva appeso alla parete la fotografia del padre. Jim aveva sempre pensato che si trattasse di un sostituto più che all'altezza. Il vecchio norvegese era stato un vero uomo. Aveva viaggiato a lungo, per mare e per terra, era stato un avventuriero, un duro, uno che non si lamentava mai, sempre pronto a darsi da fare. Pur essendo autodidatta, era stato un uomo di vaste letture, che non aveva paura di nulla e di nessuno, che citava Shakespeare, Milton e le antiche saghe vichinghe, ma che si divertiva anche con i fumetti; li aveva letti anche a Jim, quando il nipote
non aveva ancora iniziato ad andare a scuola. Era stato un uomo ostinato, convinto che il suo fosse l'unico modo giusto di fare le cose, ma era stato anche pronto all'autoironia. Inoltre, pensava che la maggior parte dei membri della nuova generazione fossero dei degenerati. Era un bene che il vecchio Ragnar fosse morto. Sarebbe stato profondamente disgustato del figlio, e ancora di più del nipote. Per quanto riguardava la nuora, Eva, non gli era mai piaciuta, anche se l'aveva sempre trattata con la massima educazione. La nuora lo temeva, e Ragnar disprezzava coloro che riusciva a spaventare. Il vecchio era stato turbato dalle visioni e dalle stigmate di Jim. Dopo un po', però, aveva deciso che non erano necessariamente i sintomi di una qualche malattia mentale. Jim era stato prescelto dalle Norne, che gli avevano conferito il dono della seconda vista, la capacità che gli Scozzesi chiamavano «fey.» Jim riusciva a vedere cose che rimanevano invisibili agli altri. Sebbene fosse un ateo, il vecchio credeva, o affermava di credere, nelle Norne, le tre dee del Fato della Scandinavia pagana. «Perfino al giorno d'oggi, nelle campagne e nelle foreste norvegesi, troverete contadini che credono più al destino che al loro Dio luterano,» aveva affermato. Il nonno aveva stretto tra le sue mani, enormi e anchilosate dal lavoro, quelle minuscole di Jim. Le aveva tenute sollevate, in modo che le macchie biancastre sulle unghie di Jim brillassero nella luce. Jim sapeva che c'erano e si vergognava di farle vedere ad altre persone, ma Ragnar gli aveva detto, «Questi sono i marchi che i Vichinghi chiamavano Nornaspor. Te li hanno conferiti le Norne, come segno del loro speciale favore. Sei fortunato. Se le macchie fossero state scure, saresti stato perseguitato dalla sfortuna per tutta la vita. Ma sono bianche, e questo significa che sarai fortunato per la maggior parte della tua vita.» Il destino. Mister Lum aveva ripetuto più volte, durante le sue lezioni, «"È il carattere che forgia il destino". È una citazione da Eraclito, un antico filosofo greco. Ricordatelo, e cercate di applicare il suo insegnamento. "È il carattere che forgia il destino."» Jim era rimasto notevolmente impressionato da quelle parole. D'altra parte, il nonno aveva creduto che fosse il destino a forgiare il carattere di ognuno. Ma quale che fosse la verità, Jim sapeva di essere stato condannato a essere un perdente, non importava quel che aveva detto Ragnar sui Nornaspor. Jim Grimson era un caso senza speranza, tutto ciò che un eroe non era. Come gli aveva spiegato lo psicologo della scuola, lui aveva una bassa stima di se stesso, riusciva a intrattenere relazioni con pochi dei suoi
coetanei, tutti con problemi simili ai suoi, era incapace di dialogare con i superiori, odiava l'autorità, sotto qualsiasi forma, non voleva emergere. Insomma, in parole povere: Jim era su una brutta strada. Stava scendendo senza freni dritto dritto all'inferno. Detto questo, lo psicologo aveva aggiunto che Jim aveva un grande potenziale, anche se il suo carattere era troppo instabile. Comunque, avrebbe potuto anche farcela da solo a raddrizzare la situazione. Ma quell'affermazione di certo non gli aveva reso le cose più facili. Jim sospirò. Per la prima volta, si rese conto che in casa c'era qualcosa di strano, mancava qualcosa, e forse era un bene. Gli ci volle qualche istante per comprendere di essere immerso nel silenzio. Non c'era da meravigliarsi che si fosse sentito a disagio. Andò in cucina e accese la radio. WYEK stava trasmettendo «Golden Oldies», un programma di vecchi successi, e mandava «Freak out,» il 33 con cui Frank Zappa e i Mothers of Invention avevano esordito nel 1966. A quel tempo, Jim aveva avuto quattro anni. Sembrava che fosse passato un secolo. Prima che il disco finisse, Eric Grimson tornò a casa. E si spalancarono i cancelli dell'inferno. CAPITOLO DECIMO Alle 18:19, un'ora dopo il tramonto, Jim aprì la finestra della sua camera e scivolò di soppiatto fuori di casa. Trenta minuti prima aveva mangiato la cena portatagli di nascosto dalla madre. Eva Grimson era arrivata a casa pochi minuti prima del marito e aveva iniziato a preparare la cena. Aveva chiesto a Jim di abbassare il volume della radio, e lui l'aveva accontentata. Non le aveva raccontato niente su tutti i guai che gli erano capitati quel pomeriggio. Eric Grimson era entrato in casa alla cinque e mezzo, con il volto arrossato e un alito il cui fetore di alcol avrebbe messo fuori combattimento un drago. La prima cosa che aveva fatto era stata spegnere la radio, urlando che quando era in casa non voleva ascoltare dannate schifezze del genere. Poi, ovviamente, aveva iniziato una terribile sfuriata contro Jim, confondendo Eva, finché il marito non le aveva detto della telefonata che aveva ricevuto dalla stazione di polizia, che l'aveva avvertito della rissa del figlio con Freehoffer e dello stato in cui erano ridotti i suoi vestiti. Una cosa aveva tirato l'altra - del resto, non succede sempre così? - e ben
presto padre e figlio avevano iniziato a gridare uno contro l'altro. La madre, voltata verso la cucina, il capo chino, non diceva nulla. Ogni tanto sussultava, come se qualcosa all'interno del corpo la mordesse. Alla fine, Eric aveva ingiunto al figlio di andare in camera sua. «E col cavolo che avrà la cena,» aveva aggiunto. Poi la casa era piombata nel silenzio. Jim aveva preso dalla libreria un vecchio tascabile sbrindellato e dalle pagine ingiallite, il Frankenstein di Mary Shelley, e aveva tentato di leggerne o meglio, di rileggerne qualche pagina. Era proprio dell'umore adatto per immergersi nella lettura di quella storia di un mostro fatto di parti umane sottratte a cadaveri, un escluso il cui fato era segnato, che odiava e veniva odiato da ogni essere umano, un reietto che aveva ucciso il figlio del suo creatore, e che avrebbe voluto uccidere anche quest'ultimo, un uomo che, in un certo senso, era molto simile al padre di Jim. Ma lo stile dannatamente antiquato di quel libro era sempre riuscito a irritarlo. E in quel momento, era anche peggio delle altre volte. Aveva scagliato il libro sul pavimento e aveva iniziato a andare avanti e indietro nella sua piccolissima camera. Dopo un po', il televisore del salotto era stato acceso a tutto volume. Eric Grimson si era stravaccato su qualche poltrona con una birra in mano, per guardare il maledetto aggeggio. Pochi minuti più tardi, Jim aveva sentito bussare alla porta della stanza. Aveva aperto e aveva visto la madre, che reggeva un vassoio con la cena. «Non posso lasciarti senza cena,» gli aveva sussurrato Eva. «Tieni. Quando hai finito, metti tutto sotto il letto. Me ne occuperò io... lo sai.» «Lo so. Grazie, mamma,» aveva risposto Jim. Mentre prendeva il vassoio, si era sporto in avanti e aveva baciato la madre sulla fronte sudata. «Vorrei che...» aveva detto lei. «Vorrei tanto che...» «Lo so, mamma,» aveva risposto Jim. «Piacerebbe anche a me. Ma...» «Le cose potrebbero...» «Forse, qualche giorno...» Quando parlavano tra loro, di solito non terminavano mai le frasi. Jim non sapeva il perché. Forse erano le tensioni a cui erano sottoposti che impedivano loro di completarle. Ma Jim non avrebbe saputo dirlo con certezza. Aveva richiuso la porta e divorato la purea di patate e la salsa, il maiale fritto in padella, i fagioli, il sedano e il pane nero ungherese. Dopo aver finito, aveva nascosto il vassoio sotto il letto, era scivolato silenziosamente lungo il corridoio e aveva usato il bagno. Poi, circa un'ora dopo il tramon-
to, era uscito passando per la finestra. E se suo padre avesse scoperto che se ne era andato, be', tanto peggio. Nel tardo pomeriggio, la temperatura si era mantenuta piacevolmente tiepida, ma ora faceva davvero fresco. Anche se la tesa brezza occidentale si era un po' calmata, era sempre abbastanza forte da rendere frizzante l'aria. Avevano iniziato ad apparire delle nuvole. La mezzaluna era adorna di quelli che sembravano soffici batuffoli di lana. Una notte perfetta per Halloween. Jim si chinò, mentre superava la finestra del salotto. La TV stava ancora blaterando a tutto volume. Quando Jim raggiunse il vialetto, che era ben illuminato da un lampione stradale, si accorse che le crepe si erano allargate. Non sapeva dire quando fosse successo, ma ebbe l'impressione che fossero più ampie e numerose di quando era tornato a casa. Ma allora era stato troppo agitato per prestare loro una qualche attenzione. Incrociò un gruppo di bambini impegnati nella tradizionale questua di Halloween. Erano travestiti da streghe, diavoli, Klingon, scheletri, fantasmi, Dracula, mostri di Frankenstein, robot, Darth Vader. Uno di loro era vestito da punk: viso truccato, orecchino e falso taglio alla mohicana. Probabilmente era quella l'idea che i suoi genitori si erano fatti di un vero mostro. Un altro indossava una maschera a forma di gigantesco cervello. È giusto, pensò Jim. Gli orrori peggiori del mondo erano quelli che si annidavano nella mente umana. Poiché il gruppo di bambini si stava dirigendo verso casa sua, Jim si affrettò ad allontanarsi. Il padre non avrebbe risposto al campanello, ma la madre avrebbe potuto vederlo, quando sarebbe uscita sulla veranda per mettere un dolcetto in ciascuno dei sacchetti dei ragazzini. (Non è che in quel quartiere potessero aspettarsi molto altro). Non l'avrebbe detto al marito, a meno che lui non le avesse chiesto espressamente se avesse visto il figlio. Allora, si sarebbe sentita obbligata a dirgli la verità. In caso contrario, i santi, per non parlare degli uomini neri, sarebbero potuti venire a prenderla. Sam Wyzak aspettava Jim sulla veranda della sua abitazione. Stava fumando, il che significava che la madre era impegnata in casa e non avrebbe potuto vederlo. Il padre di Sam, a differenza di Eric Grimson, avrebbe distribuito caramelle ai bambini. Si sarebbe lamentato che non lo lasciavano guardare in pace la Tv, ma l'avrebbe fatto. Inoltre, non gli importava un fico secco che il figlio fumasse, finché per lui non costituiva un problema. Sam passò a Jim una sigaretta, e si avviarono lungo la strada parlando
della rissa con il Blob e i suoi scagnozzi. Poi Sam diede a Jim una pillola d'anfetamina. La droga non si limitò a tirare un po' su Jim. Colpì i centri nervosi del suo cervello come un missile atomico piombato a tutta velocità sull'obiettivo. Jim non era mai «partito» così in fretta, e in modo tanto potente con così poca droga. Era anormalmente iper-ricettivo, le mura della sua mente erano state infrante, la guarnigione del castello era profondamente addormentata. Alcuni giorni più tardi, fu in grado di ricordare frammenti di quel che era successo nelle sei ore seguenti. Il resto dell'incubo era stato totalmente dimenticato, inghiottito dalle pillole nere, dalla marijuana, dalla birra, dal whiskey e dalla polvere d'angelo che gli avevano dato i suoi amici. Fino a quel momento, nonostante la tentazione, Jim si era sempre rifiutato perfino di provare quest'ultima sostanza. A tre suoi amici aveva provocato violenti attacchi di convulsioni, che si erano trasformati in coma fatali. Ma quella notte, il diluvio di droghe leggere e di alcolici aveva spazzato via i suoi timori. Per prima cosa, Jim e Sam passarono a casa di Bob Pellegrino. Rimasero lì finché non furono raggiunti da Steve Larsen e Gizzy Dillard, poi salirono sulla Plymouth del 1962 di Bob, che per miracolo ancora funzionava, e andarono via. Mentre si dirigevano verso il Rodfetter's Drive-in, Bob aprì una bottiglietta di whiskey di contrabbando. Steve tirò fuori una confezione da sei di Budweiser che aveva chiesto al fratello maggiore di comprare per lui. Quando, urlando e schiamazzando, arrivarono al drive-in, avevano consumato metà del liquore e della birra, avevano già fatto girare uno spinello, finendolo quasi, e ciascuno dei quattro aveva inghiottito una pillola d'anfetamina. Per gli studenti di estrazione proletaria della Central, il locale di Rodfetter era il posto più «in» in cui andare. Là, Jim e suoi amici si divertirono per qualche ora. A differenza degli altri studenti che frequentavano quel posto, loro non andavano troppo a zonzo in macchina. Al di fuori del loro gruppo ristretto, non avevano amici, o perfino conoscenti. Erano i paria, gli intoccabili, gli scocciatori e affermavano di andarne fieri. Jim non ricordava quanto tempo fossero rimasti da Rodfetter. Ricordava piuttosto confusamente di aver continuato a fumare erba e bere la birra tiepida che Bob aveva tirato fuori dal bagagliaio. Poi erano arrivate Veronica Pappas, Sandra Melton e Maria Tumbrille, Avevano un po' di LSD. Veronica era la cantante degli Hot Water Eskimos. Maria era la sua sostituta, Sandra la manager del gruppo. Il suo soprannome era «Pidocchio»,
ma i suoi amici intimi lo usavano solo quando non era presente. Sandra si offendeva, quando lo sentiva pronunciare. A meno che non fosse immersa in una di quelle sue profonde crisi depressive. Allora, precipitava molto più in basso del fondo dell'Oceano Pacifico, fluttuava molto più lontana di Plutone, il gelido pianeta morto. Quella sera aveva voglia di parlare, anche se era d'umore assai volubile. Durante la serata, ma Jim non ricordava precisamente quando, mentre erano seduti sul cofano della Plymouth o appoggiati a esso, Steve Larsen mise un po' di LSD su alcune zollette di zucchero. «È da molto tempo che stavo conservando questa roba,» annunciò. «Era per un' occasione speciale. Be', questa lo è. Siamo a Halloween. Ora potremo cavalcare un manico di scopa con le streghe, potremo viaggiare fino alla luna.» In seguito, Jim ricordò di aver detto qualcosa sul fatto che quella droga fosse allucinogena, anche se aveva avuto delle grosse difficoltà a pronunciare quella parola. «Cioè, ti provoca delle visioni, ti fa vedere mondi quadridimensionali, cose che non esistono, cose paurose, ti fa intuire la totalità dello spaziotempo. Non ne ho bisogno. Ho già le visioni per conto mio, e non mi piacciono. No, grazie.» «Non è come la cocaina o l'eroina,» disse Steve. «Non dà assuefazione. E poi, non hai visioni da anni.» «Oh, be', perché no?» si convinse Jim. «Dopo tutto, che cos'ho da perdere, se non la mia mente? Ammesso che ne abbia una.» «È un biglietto per il paradiso,» affermò Steve. «Non sono mai stato là, ma questa roba ti trasporterà in un luogo anche migliore.» «Viaggi attraverso l'universo alla velocità della luce, o così dicono,» intervenne Pellegrino. «E quando torni, incontri te stesso sul punto di partire.» Jim fece sciogliere in bocca la zolletta e poi inalò profondamente una boccata da uno spinello, che fu fatto girare finché non si ridusse a un mozzicone che Steve ripose nella tasca del giubbotto. Forse fu allora che qualcuno propose di andare nel meleto del vecchio Dumski per rovesciare l'antiquato gabinetto esterno. Era una vecchia tradizione di Halloween che la malandata cabina di legno venisse rovesciata. O che si tentasse di farlo, visto che non sempre lo scherzo riusciva. Originariamente, il meleto era stato in aperta campagna. Ma Belmont City, espandendosi, l'aveva inglobato nei propri confini.
Il terreno di Dumski si apriva alla fine di una strada sterrata che si diramava per circa mezzo chilometro dalla statale. Era circondato da un muretto con del filo spinato. La casa era bruciata molti anni prima. Dumski viveva da solo nel fienile. Per qualche tempo, il consiglio comunale aveva tentato di fargli costruire una nuova casa, dotata di tubature e di servizi igienici moderni. Ma il vecchio recluso aveva sfidato il consiglio, citandolo in tribunale. Dumski aveva un cane di grossa taglia, un rottweiler, uno di quegli spaventosi animali dal pelame nero, dalla testa grossa e dall'aspetto sinistro che erano stati usati nel film La Maledizione di Damien. Il bestione scorrazzava tra gli alberi di mele giorno e notte. Dumski lo teneva legato soltanto quando arrivava il tempo del raccolto. Da quando si era comprato quel cane, nessuno aveva osato calpestare la sua terra. «Chi di voi ha un po' di tranquillanti?» chiese Jim. «Mettiamone qualcuno in un hamburger e diamolo da mangiare al cane. Quando si sarà addormentato, entreremo.» Furono le ultime parole sensate pronunciate quella notte. Bob Pellegrino comprò un enorme hamburger, da cui tolse le cipolle. Infilò una dozzina di tranquillanti nella polpetta di carne, l'incartò di nuovo, e poi partirono, in otto nella Plymouth, stipati come clown nella loro buffa macchinina, ridendo e gridando, mentre WYEK trasmetteva a tutto volume «A Day in the Life», le cui schegge di mercurio esplodevano nelle loro giovani anime. I Beatles avevano cantato quella canzone dodici anni prima e con essa avevano scosso il mondo, all'Alba del Rock, quando Jim aveva solo cinque anni di età. Finita la canzone, Bob «Guru» Hinman, il vecchio discjockey che amava quella vecchia roba (come Jim), annunciò che avrebbe trasmesso «Maybellene» di Chuck Berry, affermando che era stata proprio quella canzone a dare inizio al rock'n'roll. Veronica sedeva sul sedile posteriore, in grembo a Jim, che ricordava vagamente come la ragazza avesse iniziato ad armeggiare con la sua cerniera, anche se non ricordava cosa fosse accaduto quando era riuscita a tirarla giù. Jim non aveva avuto un'erezione da due settimane, tanto era depresso. E pensare che, avendo diciassette anni, era al culmine della potenza sessuale. L'appezzamento di terra di Dumski era sul versante opposto di Gold Hill. Ci vollero venti minuti per arrivarci, a causa di tutti i semafori rossi che incontrarono, anche se Bob ne ignorò qualcuno. Poi si immisero sulla statale. I fari dell'auto illuminavano file di alberi su entrambi i lati della
carreggiata. La statale era assolutamente deserta. Jim continuò ad attendere le allucinazioni, ma esse non vennero. O si erano già manifestate? Forse la realtà era una sola, grande allucinazione? Bob frenò, ma non abbastanza in fretta. Avevano già superato la deviazione per arrivare da Dumski. Dopo che Bob ebbe fatto marcia indietro e iniziato a percorrere la stradina sterrata, Sandy disse, «Non sarebbe meglio spegnere la radio? Fa un baccano tale da svegliare i morti!» Protestarono tutti, perché Bob Dylan era a metà di «Desolation Row» e loro volevano sentirla fino alla fine. Raggiunsero un compromesso decidendo di abbassare il volume. Non appena quella canzone classica fu terminata, Bob spense la radio. Un istante più tardi, spense anche i fari. I raggi di luna che filtravano dalle nubi simili a batuffoli di cotone e dagli squarci tra esse erano sufficienti a illuminare il cammino. L'auto abbandonò lentamente la strada immersa nell'ombra degli alberi e si fermò di fronte al cancello che si apriva nel muretto. CAPITOLO UNDICESIMO Jim non ricordava molto di quel che era successo dal momento in cui erano arrivati al drive-in. Molti dettagli furono riferiti in seguito da Bob Pellegrino, il quale, dovendo guidare, non aveva bevuto né assunto droghe nella stessa quantità degli altri. Ma anche lui non era stato in quello che si sarebbe potuto definire uno stato chimicamente non saturo. Il fienile aveva un aspetto cupo e sinistro, nella luce intermittente della luna. Ammesso che Dumski fosse all'interno, o non aveva luci accese oppure aveva chiuso accuratamente gli scuri delle finestre. Non c'era neppure alcuna traccia del rottweiler; non lo si vedeva, né lo si udiva. Il gabinetto esterno, che si diceva fosse alla turca, era una sagoma indistinta a circa trenta metri dal fienile, sulla sinistra del gruppo di amici. Era abbastanza lontano dalla casa, i cui resti formavano un tumulo. Ogni volta che aveva bisogno di usare quel gabinetto, Dumski era costretto a farsi un bel tratto a piedi. I ragazzi scesero dall'auto. Bob li aveva avvertiti di non fare rumore, ma Gizzy sbatté la portiera dopo essere sceso. Prima che Pellegrino potesse rimproverarlo, Gizzy si sentì male. Ritornò sulla strada e si avviò tra gli alberi per vomitare evitando di far rumore. Anche così, per Pellegrino, che ormai era diventato la chioccia del gruppo, i ragazzi facevano troppo bac-
cano. Appena iniziò a dirigersi verso Gizzy per dirgli di fare meno chiasso, si fermò. Un ringhio basso e profondo provenne dall'altro lato del muretto. Bastò a zittire tutti. Dopo qualche istante, in cui si guardarono intorno freneticamente, i ragazzi videro un grosso cane dietro il cancello. Il fatto che si limitasse a ringhiare e che fosse soltanto una sagoma indistinta lo rendeva ancora più minaccioso. Pellegrino, mormorando, «Qui, cagnetto! Vieni qui, piccolino!» si avvicinò con cautela. Quando fu abbastanza vicino al cancello, lanciò l'hamburger dall'altra parte. Atterrò con un tonfo. Qualche secondo dopo, Pellegrino si girò e bisbigliò, «L'ha mandato giù.» Mentre percorrevano la statale, Sandy Merton aveva aggiunto un po' di acido all'hamburger. Aveva borbottato qualcosa sul fatto che voleva vedere di che tipo di allucinazioni potesse soffrire un cane. In seguito, Jim ricordò quel particolare, poiché gli era sembrata una cosa divertente. Il cane continuò a ringhiare. Poi, dopo qualche minuto, i ringhi iniziarono a essere più deboli. Improvvisamente, il cane si allontanò barcollando dal cancello. Prima di aver fatto dieci metri, stramazzò al suolo. Il cancello era chiuso da una pesante catena, con un grosso lucchetto. Jim si issò sul cancello, in cima al quale c'era un tratto di filo spinato. Aiutò a salire Pellegrino, e in due issarono Sam Wyzak e Steve Larsen. Tutti avevano le mani insanguinate ma non provavano alcun dolore. Sam esclamò, «Cacchio! Il fienile si è trasformato in un castello! È fatto di vetro e diamante, e brilla al chiaro di luna!» Nessuno pensò di avvertirlo che, in quel momento, il chiaro di luna non c'era. Jim non aveva allucinazioni visive, bensì l'impressione che le gambe gli si fossero allungate; si sentiva come il ragazzo con gli stivali delle sette leghe della fiaba, aveva l'impressione di poter raggiungere il gabinetto esterno con un solo passo. Era però deluso che le ragazze si fossero rifiutate di salire sul cancello. Avevano notato il filo spinato, e gli strappi nei vestiti dei ragazzi. «E poi,» aveva obiettato Sandy Melton, «chi si prenderà cura di Gizzy? Potremmo essere costretti a fuggire da un momento all'altro. Non possiamo certo lasciarcelo dietro.» «Hai ragione,» aveva ammesso Bob. «OK. Non ci vorrà molto; in ogni caso, non abbiamo bisogno di voi. Mettete Gizzy in macchina.» I tre ragazzi percorsero la stradina coperta di ghiaia che conduceva dal cancello al mucchio di macerie che era stato la fattoria. Prima di arrivare là, tagliarono di lato, dirigendosi verso il gabinetto. Non appena raggiunse-
ro la cabina maleodorante, uno squarcio tra le nuvole permise ai raggi della luna di filtrare. I quattro amici videro perfino la mezzaluna intagliata nella porta. Jim era sorpreso che anche Bob, Sam e Steve avessero raggiunto il gabinetto con un solo, enorme passo. Non sembrava che le loro gambe si fossero allungate. Poi Bob chiese, «Dov'è Sam?» Jim si girò per indicare Sam, che gli era accanto, ma l'amico non era più lì. Era fermo a metà strada, tra il cancello e il gabinetto, e fissava intensamente il fienile. In seguito, Jim pensò di aver soltanto immaginato che Sam stesse camminando accanto a lui. Oppure di era trattato di un altro, di uno sconosciuto? «Ok,» disse Bob. «Non ci serve neppure lui. Ma non dimentichiamoci di tirarcelo dietro, quando ritorniamo.» Si avvicinarono al lato nord della cabina, e tutti e tre iniziarono a spingere. La struttura in legno ondeggiò, ma non volle rovesciarsi. «Ragazzi, è più pesante delle ciambelle di mia madre!» esclamò Bob. «Statemi a sentire, facciamolo oscillare e poi, quando sarà il momento giusto, diamo una spinta tutti insieme, ma di quelle buone!» Ripresero i loro sforzi. Non appena furono riusciti a rovesciare il gabinetto, udirono un grido. Si girarono di scatto per capire chi lo avesse emesso. Poi udirono uno sparo, e una raffica di pallini sibilò tra la foglie di un albero vicino. Steve, urlando, se la diede a gambe. Pellegrino afferrò Jim. quando quest'ultimo iniziò a cadere all'indietro. I due gridarono, stretti uno all'altro, e precipitarono nel buco al di sotto del gabinetto, scivolando lungo la parete di terra per poi precipitare nella pozza di escrementi. I piedi urtarono per primi il fondo, ma i due furono subito immersi fino al collo nel liquame. Il fucile sparò ancora. Jim udì in lontananza, molto deboli, le grida delle ragazze. Steve Larsen non urlava più. Jim e Bob invocarono aiuto. Per un istante, cadde il silenzio. Poi udirono un ringhio, e inaspettatamente il cane li raggiunse nel buco. Precipitò dall'alto, come fosse stato inviato dagli dei per punirli, sparì nel liquame di fronte a Jim e Bob, spruzzando di liquido fetido le loro teste e le bocche aperte, tornò a galla come un turacciolo, poi iniziò ad annaspare, tentando disperatamente di rimanere a galla. Le punte dei piedi di Jim toccavano appena il fondo, o quello che lui sperava fosse il fondo. Bob, che era più alto, riusciva a tenere tutta la testa fuori; Jim era immerso nel liquame fino al mento. Ma il cane, impazzito di rabbia, lo urtò, mandandolo di nuovo sotto.
In seguito, Jim venne a sapere che il rottweiler si era ripreso in qualche modo dallo stato di torpore provocato dalle droghe e che aveva corso, o forse barcollato, visto che era ancora stordito e confuso, fino a raggiungere il buco. Non ancora pienamente all'erta, era caduto, o forse era saltato, nel pozzo nero. Jim e Bob si sforzarono disperatamente di evitare i morsi del rottweiler le sue mascelle poderose potevano esercitare una pressione di un quintale o di essere graffiati dalle zampe, oppure di andare sotto, spinti dalla mole del cane. Vedevano poco, poiché i raggi della luna non raggiungevano il fondo del pozzo e loro avevano gli occhi coperti dal liquame. Poi Bob si sentì male e iniziò a vomitare, il che spinse Jim a imitarlo. Il vomito non peggiorò la situazione - niente ci sarebbe riuscito - ma di certo non la migliorò. E poi, era difficile evitare il cane mentre vomitavano perfino le budella. Alla fine, ormai indebolito dai suoi sforzi, Jim riuscì ad agguantare il cane per le orecchie. In preda alla furia, spinse la testa dell'animale sotto la disgustosa poltiglia. In quel momento, in alto, brillò una luce e una voce resa malferma dalla vecchiaia gli urlò, «Lascia stare il cane, o ti sparo! Non toccarlo, tu...!» Jim non capì le parole seguenti: Dumski era passato al polacco. «Non spari, per l'amor di Dio!» gridò Jim. Lasciò andare il cane, che riemerse, sputacchiando e ringhiando, ma non tentò più di attaccarli. Si era reso conto che era meglio dedicare tutte le sue forze a evitare di annegare. O di soffocare. Agitò furiosamente le zampe, riuscendo a rimanere a malapena a galla. «Sì, dannato stupido!» urlò Bob. «Ucciderai anche il cane!» Pellegrino non era certo preoccupato per il rottweiler, ma era abbastanza intelligente da rendersi conto che Dumski era in preda a un terribile accesso di rabbia, e che non avrebbe riflettuto sulle conseguenze che un colpo di fucile, sparato in quello stretto buco, avrebbe avuto sui suoi occupanti. «Ehi!» gridò Dumski. «Non andate via di lì! Tornerò tra un minuto.» «Certo, certo, rimaniamo qui,» disse Bob. Gemé. «Oddio, che casino abbiamo combinato!» Sembrò passare molto tempo prima del ritorno di Dumski, anche se in realtà non dovevano essere trascorsi più di un paio di minuti. Ansimando, il vecchio si inginocchiò sul bordo del pozzo. Poi qualcosa colpì, non troppo forte, il viso di Jim. Non capì di cosa si trattasse finché Dumski non illuminò con la torcia la corda che aveva calato nel pozzo.
In lontananza, ma abbastanza forte da essere udito al di sopra delle urla delle ragazze, giunse l'ululato di una sirena. Stava arrivando la polizia. «Legate la fune intorno al cane!» ordinò Dumski. «E noi?» urlò Bob. «Prima il cane!» «È impazzito?» gridò Jim. «Come faremo a legarlo? Ci strapperà via a morsi le mani!» «Ci faccia uscire di qui!» urlò Bob. «Non riesco a respirare. L'odore di questa roba mi sta facendo soffocare. Le dico che morirò, se non esco subito di qui!» «Vi sta bene, stronzi che siete,» replicò Dumski. «Legate la corda intorno al cane, e forse deciderò di farvi uscire di là.» «Moriremo!» esclamò disperato Bob, poi soffocò, quando un'ondata di liquame, provocata dagli sforzi del cane di rimanere a galla, gli invase la bocca. «Legate quella corda!» gridò Dumski. «E subito, o vi lascio lì a morire!» I due non avrebbero potuto obbedire senza essere morsi. Ma la sirena, che si era avvicinata sempre più, si spense. Una portiera sbatté. Un uomo gridò qualcosa. Dumski borbottò e se ne andò. Jim pensò che, se faceva annegare il cane, avrebbero potuto legargli facilmente la corda intorno al corpo. Ma Dumski avrebbe sparato, se avesse scoperto che il cane era morto. Passò altro tempo, un'eternità per Bob e Jim. Poi Jim udì il suono di voci che si avvicinavano. Dumski aveva aperto il cancello per far entrare i poliziotti. Fino a quel momento, Jim non era mai stato lieto di vedere la polizia, ma ora ne fu felicissimo. Non gli importava cosa gli sarebbe capitato una volta uscito dal pozzo nero. La torcia di un poliziotto illuminò il buco. L'uomo rise sonoramente per un po', poi disse, «Per l'amor di Dio, Pete, dai un' occhiata qui! Hai mai visto una scena del genere?» Pete guardò in basso e rise. «Ragazzi, siete nella merda fino al collo, e mai modo di dire si è rivelato tanto azzeccato!» Si allontanarono con Dumski. Dopo un altro lungo intervallo, tornarono con una scala. La calarono e dissero a Jim e Bob di uscire dal pozzo. Ma tra loro e la scala c'era il cane, che non avrebbe mai permesso ai due di salire. Nel frattempo, Dumski si lamentava che se i due fossero saliti per primi, nessuno avrebbe legato la corda intorno al cane. «Noi laggiù non ci scendiamo,» disse un poliziotto. «Ma può farlo lei. In
ogni caso, i ragazzi devono uscire da lì per primi.» Dumski continuò a protestare, ma senza alcun esito. La scala venne spostata sull'altro lato del pozzo nero. Jim salì per primo. Era così debole e aveva le mani tanto scivolose, che uscire dal pozzo si rivelò un'impresa. Dopo aver raggiunto l'orlo, si sdraiò, esausto. I poliziotti non lo aiutarono. Anche Bob uscì dal pozzo e piombò a terra accanto a Jim, ansimando. Il vecchio Dumski, brontolando, scese nel pozzo servendosi della scala, dopo che era stata di nuovo spostata sulla parete più vicina al cane. Poi i poliziotti tirarono su il rottweiler. Quando tentò di mordere uno di loro, prima ancora che fosse uscito a metà dal buco, venne ributtato dentro. Dumski protestò vivacemente quando gli spruzzi provocati dalla caduta del cane lo insudiciarono ancora di più. Alla fine, il cane venne tirato di nuovo su, mentre i poliziotti si lamentavano di quanto fosse sporca la corda. Dumski salì contemporaneamente, trascinò il cane verso il fienile, dove gli spruzzò addosso un bel po' d'acqua con la pompa. Il cane ululò quando sentì l'acqua gelida. «Anche voi due fareste meglio a darvi una bella lavata,» disse il poliziotto chiamato Pete. «Non entrerete nella nostra macchina con quell'odore addosso.» A Jin ormai non importava più nulla di nessuno, tranne di se stesso. Sam era ancora in trance, ipnotizzato dal fienile, che nella sua mente aveva assunto l'aspetto della scintillante Città di Smeraldo di Oz. La macchina della polizia era passata attraverso il cancello, e ora era parcheggiata vicino al fienile. I fari illuminavano le ragazze: erano strette una all'altra e avevano l'aria abbattuta. Apparentemente, Steve era riuscito a fuggire, mentre Gizzy era rimasto nascosto tra gli alberi. Pete si avvicinò alla macchina e chiese rinforzi. L'altro poliziotto, Bill, spinse Jim e Bob verso il fienile, affinché si lavassero via di dosso la sporcizia. Poco prima che i ragazzi arrivassero alla pompa, il cane attaccò il suo padrone. Gli eventi di quella notte, uniti allo stato confusionale indotto dalle droghe e alla rabbia per essere stato lavato con acqua gelida, lo avevano confuso. O forse sapeva di star attaccando Dumski, Magari il suo padrone non gli era mai piaciuto. Il cane trascinò Dumski al suolo e affondò le zanne nel suo braccio sinistro. Dumski gridò, quando le mascelle si chiusero e le zanne raggiunsero l'osso. Il sangue iniziò a macchiare la manica della giacca. I poliziotti non potevano permettere che il cane continuasse. Gli spararono, uccidendolo. Questo fece infuriare Dumski. Si scagliò contro i poliziotti, che, prima di
arrestarlo, dovettero ammanettarlo. Poi Pete chiese via radio un' ambulanza. Subito dopo, Bill lavò Jim e Bob. I due urlarono per lo shock e saltellarono qua e là, implorando pietà, che non fu loro concessa. Poi Pete entrò nel fienile e prese degli asciugamani per i due. «Così ci prenderemo la polmonite!» urlò Pellegrino. «Sarete fortunati se vi beccherete solo quella,» replicò Pete. CAPITOLO DODICESIMO «Ci hai messo in un bel pasticcio,» disse Eric Grimson. La madre mormorò, «Jim, come hai potuto?» Lui represse l'impulso di risponderle, «È stato facile.» Era seduto, avvolto in una coperta, sul sedile posteriore della loro Chevy del 1968. Non aveva smesso di tremare fin da quando i poliziotti l'avevano sottoposto alla doccia gelida. Il padre, per pura malignità, si era rifiutato di accendere il riscaldamento dell'auto. Anche se al tribunale Jim si era lavato la bocca almeno una dozzina di volte, sentiva ancora il sapore di escrementi umani. E perché non avrebbe dovuto essere così? Aveva mangiato merda per tutta la vita. «Per te è stata una fortuna che il giudice per le udienze notturne fosse lo zio di Sam,» ringhiò Eric. «O, a quest'ora, saresti già in prigione.» «In riformatorio,» lo corresse Jim. «E che diavolo di differenza fa?» ribatté Eric con voce alterata, stringendo il volante come se volesse strapparlo dal piantone. «In ogni caso, rimane una tappa verso la prigione! Fin da quando avevi dodici anni ho saputo che eri destinato a finire in una cella!» «Ti prego, Eric,» lo supplicò Eva Grimson. «Non dire queste cose.» L'auto percorse strade deserte, superò case immerse nel buio. I festeggiamenti per Halloween erano finiti da un pezzo, tutti erano andati a dormire, ma, in quella zona, ben pochi si sarebbero dovuti alzare il mattino seguente per recarsi al lavoro. Era passato un bel po' di tempo dall'arrivo dei poliziotti alla fattoria di Dumski fino al momento in cui Jim era stato affidato alla custodia dei suoi genitori. Dopo essere stati perquisiti, lui e i suoi amici avevano dovuto camminare in linea retta, per stabilire quanto avevano bevuto. Poi, mediante un apposito apparecchio, era stato analizzato il loro alito. Tutti erano risultati positivi ai test. Ancora due test che io non potrei superare, aveva pensato Jim. Ai ragazzi erano stati letti i loro diritti, poi,
dopo essere stati ammanettati e stipati in due auto della polizia, erano stati portati in città. Erano stati trattenuti per più di un' ora in una cella prima di essere accompagnati in un'altra stanza, dove erano stati presi dei campioni del loro sangue e della loro urina. Jim aveva il cervello annebbiato, ma non tanto da non rendersi conto che nel suo sangue erano ancora presenti tracce delle droghe che aveva assunto. Un'ora più tardi, erano stati di nuovo portati in una cella, e dopo un'altra mezz'ora, erano comparsi in tribunale. C'erano anche i genitori degli accusati, tranne il padre di Sandy Melton, che era fuori città per lavoro. La madre di Jim piangeva: le lacrime le scorrevano sul rosario mentre lo sgranava tra le dita. Eric sembrava reduce da una sbronza ed era assolutamente furioso. Lo zio di Sam era un vecchietto calvo e rattrappito, con un viso lungo e un enorme naso adunco pieno di venuzze rotte. Quelle caratteristiche, unite al collo lungo e ossuto, agli occhi iniettati di sangue a causa del troppo whiskey, alla calvizie, alla toga nera e alle spalle curve, lo facevano somigliare a un avvoltoio. Ma Jim aveva pensato che il giudice si sentisse come un canarino che aveva appena visto un gatto. Suo nipote, Sam, doveva affrontare accuse piuttosto gravi: ingresso abusivo in una proprietà altrui, distruzione di proprietà privata, ubriachezza, disturbo della quiete pubblica in seguito all'assunzione di droghe, e violazione del coprifuoco imposto agli adolescenti. Forse era anche coinvolto in un crimine che aveva causato una grave lesione quale la perdita di un arto e, se Dumski moriva, avrebbe potuto essere accusato di complicità in omicidio. Avrebbe anche potuto essere accusato di aver contribuito alla morte di un cane. Dumski era ricoverato in ospedale e rischiava di perdere il braccio. Quelle non erano certo accuse da prendere alla leggera. Il Giudice Wyzak non poteva permettere che il nipote e quegli altri capelloni la facessero franca. Ma se avesse appioppato loro la punizione che meritavano, la cognata, Mrs. Wyzak, gli avrebbe torto il collo. Non per modo di dire, ma in senso letterale. I presunti colpevoli erano tutti minorenni, e questo aveva offerto al giudice una via d'uscita, almeno per quella volta. Dopo aver impartito loro una severa reprimenda verbale, li aveva affidati alla custodia dei rispettivi genitori. Jim aveva pensato con sollievo che almeno erano riusciti a evitare le accuse di possesso di droga e alcol. Le ragazze si erano sbarazzate immediatamente delle bottiglie e delle pillole, non appena avevano sentito avvici-
narsi la sirena dell'auto della polizia. Sandy Melton aveva frugato nei vestiti di Sam, e dopo aver trovato le pillole di anfetamina, le aveva lanciate tra gli alberi. Jim non aveva droghe con sé, e Pellegrino si era sbarazzato delle sue quando erano ancora nel pozzo nero. Dopo che i ragazzi erano stati rilasciati dal giudice, la madre di Sam lo aveva afferrato per l'orecchio e se l'era trascinato dietro, mentre il figlio gemeva e agitava follemente un braccio. A Jim era parso che Mrs. Wyzak credesse di essere Zia Polly alle prese con Tom Sawyer. Ma per l'amor di Dio! L'auto imboccò il vialetto macchiato d'olio che correva accanto alla casa. «Casa, dolce casa,» commentò sarcastico Eric Grimson. «Non siamo una bella famigliola? Un manovratore di gru disoccupato, una cattolica fanatica che pulisce le case dei ricchi, e un figlio hippie, stupido e pazzo. Potrei anche sorvolare sul fatto che è stupido, se non fosse pazzo. Potrei perfino accettare la sua pazzia, se non fosse anche stupido. E ora si avvia a diventare un perfetto galeotto. Sua sorella, perfino più stupida di lui, ha due figli bastardi di cui non saprebbe dire neppure chi sia il padre, e vive nel peccato con un uomo abbastanza vecchio da essere padre, un matto che si guadagna la vita leggendo i palmi delle mani e i fondi del tè e facendo oroscopi! Per finire, viviamo in una stamberga che un giorno o l'altro cadrà verso la Cina, non che di questo me ne freghi molto! Dio, ma cosa ho fatto di male?» «Dio non si cura di noi pezzenti,» replicò Jim mentre scendeva dall'auto. Sbatté la portiera. La madre protestò. «Jim! Non bestemmiare. Le cose vanno già abbastanza male.» «Tuo figlio ha una boccaccia velenosa, ecco cosa!» sbottò Eric. «Ma perché diavolo non hai abortito lui, invece degli altri?» «Ti prego, Eric,» lo supplicò Eva con voce calma. «Sveglierai tutti i vicini.» Eric ululò come un lupo. «Svegliarli? E chi se ne frega! In ogni caso, leggeranno le imprese di tuo figlio dai giornali, sapranno tutto su di noi, se non lo sanno già! Ma non mi importa!» Jim aprì la porta laterale. Eric iniziò a rimproverare la moglie, visto che gli aveva assicurato di aver chiuso ogni porta e finestra. Sulla soglia, Jim si girò e disse, «Ma che differenza fa? Cosa c'è in casa, che valga la pena di rubare?» Entrò in casa, ma il padre lo seguì come una furia e lo afferrò per una
spalla. Jim scattò in avanti e salì di corsa le scale, diretto verso il corridoio, lasciandogli in mano la coperta. Eric gli gridò dietro, «Potrei anche avere qualcosa che valga la pena di rubare, se non fosse per te e tua madre!» Jim corse nel bagno, chiuse a chiave la porta. Si lavò i denti con il sale e il lievito in polvere che aveva preso dal mobiletto arrugginito appeso sul lavandino. Poi si pulì le unghie e strizzò i vestiti, che erano ancora bagnati. Mentre il padre era in corridoio e urlava, colpendo ogni tanto la porta con un pugno, Jim si fece la doccia. Gli ci volle molto tempo prima di sentirsi pulito. Non interruppe il flusso d'acqua, finché di colpo non divenne freddo. Questo avrebbe fatto infuriare ancora di più il padre. Insisteva continuamente che dovevano risparmiare sull'acqua e sul gas. Ovviamente, nello stesso tempo, continuava a urlare a Jim di farsi un bagno. Nonostante l'effetto calmante della doccia, Jim si sentiva ancora infuriato. Se la sua rabbia fosse stata visibile a occhio nudo, Jim avrebbe brillato nel buio. Quel giorno, tutto era andato per il verso storto, come, del resto, succedeva la maggior parte degli altri giorni, Andato storto? Che bell'eufemismo! Quel giorno Jim aveva subito un'umiliazione dopo l'altra, un fallimento dopo l'altro, una vergogna dopo l'altra. Rimase immobile nella stanza calda e invasa dal vapore per più di un minuto. Uscito di lì, avrebbe dovuto vedersela col padre. E, sicuro come l'effetto che segue la causa, lo avrebbe colpito, anche se non fosse stato il padre a cominciare per primo. La nuvola rossa che si era addensata sul suo animo lo rendeva inevitabile. Con riluttanza, aprì la porta del bagno. Eric Grimson non lo stava aspettando. Delle voci provenivano dalla cucina, insieme all'aroma di caffè. Il tono di voce del padre era normale, quello della madre a malapena udibile. Forse il vecchio si era calmato, anche se sembrava decisamente improbabile. Il riscaldamento si accese e il suo rumore sommerse i suoni che venivano dalla cucina. Un'ondata di calore colpì le gambe di Jim, cosa di cui lui fu molto lieto: non appena era uscito dal bagno aveva ricominciato a tremare. Nudo, con i vestiti umidi piegati su un braccio, salì in fretta in camera sua. Si chiuse la porta alle spalle, lasciò cadere gli indumenti sul pavimento e andò all'armadio. Non appena tese un braccio per prendere il pigiama da una gruccia, sobbalzò per un improvviso frastuono. Voltandosi di scatto, vide che il padre aveva fatto irruzione nella camera. Eric aveva il viso
paonazzo e le mani strette a pugno. Qualunque cosa fosse successa in cucina, non l'aveva certo calmato. «Mettiti addosso i vestiti!» urlò. «Non hai un po' di decenza?» La slealtà di quell'insulto - dopo tutto era stato il padre a entrare senza permesso - compresse la rabbia di Jim in una sfera piccola e ardente. Un altro po' di calore, un lieve aumento della pressione, e sarebbe esplosa, trascinando con sé Eric Grimson. «Da ora in poi, le cose cambieranno!» gridò il padre. «E tu mi obbedirai, oppure porterai il culo fuori di qui, questo è sicuro! Per prima cosa...» Si guardò selvaggiamente intorno, poi infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans e tirò fuori un coltello a serramanico. Lo aprì e iniziò a fare a pezzi i poster dei gruppi e delle star del rock. Prima che Jim potesse emettere un grido di protesta, vide gli Hot Water Eskimos finire a brandelli. Poi Eric si scagliò contro il poster di Keith Moon. «Questa merda deve sparire!» urlò. La sfera incandescente esplose in una fiamma bianca. Emettendo un urlo inarticolato, Jim si scagliò contro il padre, lo afferrò per la spalla sinistra, lo fece girare e gli assestò un pugno sul naso. Eric Grimson barcollò all'indietro, finendo contro il poster, con il sangue che gli scorreva dalle narici. Con un altro pugno, Jim gli colpì la spalla, anche se aveva mirato al mento. Eric lasciò cadere il coltello e si avvinghiò al figlio. Faccia a faccia, grugnendo, ansimando, saltellarono goffamente qua e là per la stanza. «Ti ammazzo!» rantolò Eric. Jim gridò e si liberò dalla stretta delle braccia del padre. Ansimava, il cuore gli batteva così forte da dargli l'impressione di essere sul punto di spaccarsi in due. Poi, Jim udì un suono, come una serratura che venisse chiusa, cancellare il rombo del sangue nelle orecchie. Fu tanto forte da far pensare che sia la serratura sia la chiave fossero gigantesche. Quel rumore fu seguito da un cigolio, simile a quello emesso da una pesante porta con i cardini arrugginiti che venga aperta di colpo. Il pavimento si abbassò, le pareti della stanza si inclinarono, e i libri caddero dagli scaffali. Jim e suo padre furono scagliati a terra. Si rialzarono subito, fissandosi l'un l'altro con occhi sgranati. Pezzi d'intonaco, frammisti a polvere, caddero su di loro. Jim li vide rimbalzare via dal padre. La polvere coprì la testa e le spalle di Eric e rese bianche le due strisce di sangue che gli colavano dal naso. Dalla cucina provenne il grido di Eva Grimson.
«Oh, mio Dio!» gemé Eric. «Ci siamo!» La casa subì un altro scossone. «Fuori! Tutti fuori!» gridò Eric. Si voltò di scatto e si precipitò fuori della stanza. Dovette piegarsi di lato per compensare l'inclinazione del pavimento. Anche così, urtò con la spalla contro lo stipite della porta. Jim iniziò a ridere, e scoprì di non riuscire a fermarsi. La casa stava per sprofondare nel terreno. Forse i suoi genitori ne sarebbero usciti in tempo, e forse no. Qualunque cosa fosse successa, sarebbe stata una decisione del destino, delle Norne. La giustizia, l'equità non avevano nulla a che fare con quell'episodio. Lui sarebbe rimasto lì, come un capitano che affondi con la sua nave. Avrebbe lasciato che la terra lo inghiottisse. Era meglio così, ed era una cosa buffa. Dopodiché, Jim non ricordava nulla. Gli fu raccontato che i genitori erano riusciti a uscire di casa, superando la veranda, che era stata strappata via dal corpo principale della casa, il cortile pieno di buchi e infine raggiungendo il marciapiede. Ma erano stati costretti a rifugiarsi immediatamente sull'altro lato della strada, poiché il cemento su cui posavano i loro piedi veniva spinto sempre più in alto e si stava aprendo in più punti. La casa sussultò e affondò di altri trenta centimetri. I vicini, che abitavano nelle case ai lati di quella dei Grimson, corsero fuori urlando dalle loro abitazioni che si stavano inclinando. L'intero quartiere si svegliò, vennero accese le luci, le persone iniziarono a uscire sulle verande per gridare delle domande, i bambini vennero caricati in fretta sulle auto, nel caso fosse necessario evacuare in fretta la zona. In lontananza, si udirono le sirene, mentre le auto della polizia e le autobotti dei pompieri sfrecciavano a tutta velocità alla volta di Cornplanter Street. Eva Grimson iniziò a gridare che qualcuno sarebbe dovuto entrare in casa per salvare il figlio. Nessuno si fece avanti. Eric insisté, più e più volte, che Jim si era attardato per vestirsi. Eva replicò che Jim doveva essere rimasto ferito e che, probabilmente, era intrappolato in casa. Nel momento in cui arrivarono le auto della polizia, le autobotti e i pompieri, Eva corse verso la casa. Eric e due dei suoi vicini l'afferrarono e la trattennero, mentre lei gridava, li percuoteva e li implorava di lasciarla andare. «Sei un vigliacco!» inveì contro Eric. «Se tu fossi un vero uomo, andresti a salvare Jim!» Nella casa, le luci si erano spente. I cavi dell'energia elettrica erano stati
strappati via. All'improvviso, due fievoli luci apparvero sulla soglia. Erano candele, rette dalle mani di Jim, e gli illuminavano il corpo nudo e il volto dall'espressione selvaggia. Era possibile osservare il corpo di Jim solo fino alle ginocchia. La casa era tanto inclinata che Jim doveva mantenersi in equilibrio su un pavimento che, al di là della soglia deformata, pendeva bruscamente verso il basso. Jim urlò qualcosa di inintellegibile alle persone assiepate sull'altro lato della strada. Saltò su e giù, agitando le candele, che aveva raccolto dal pavimento della stanza in cui la madre aveva eretto il suo altare personale. A quella vista, Eva iniziò a lottare ancora più violentemente per liberarsi. «Le candele! Le candele! Appiccheranno il fuoco alla casa! Mio figlio brucerà, oh, Dio, brucerà, brucerà vivo!» I poliziotti e i pompieri ormai avevano fatto allontanare la maggior parte della folla, in modo che le autobotti potessero avvicinarsi il più possibile all'abitazione. Un tenente dei pompieri e un capitano della polizia interrogarono i Grimson, ricevendo soltanto risposte confuse e isteriche. In ogni caso, vedevano benissimo Jim ritto sulla soglia. «È impazzito, è del tutto fuori di testa,» affermò il capitano. Dopo qualche istante, un'altra luce brillò nella casa. «Il fuoco! Il fuoco!» Per amor di Dio, salvate mio figlio!» gridò Eva. Sapere che proprio le candele che lei accendeva per la Sacra Famiglia e i santi stavano per causare la morte di Jim, che avrebbe bruciato per l'eternità tra le fiamme dell'inferno, non fece altro che ingigantire l'angoscia di Eva. I pompieri avevano ormai scoperto che la tubatura che forniva acqua all'idrante più vicino era stata spezzata dallo slittamento del terreno. Fecero avvicinare l'autobotte e vi collegarono le loro manichette. Intanto, il capitano e il tenente si erano avventurati il più possibile vicino alla casa, ovvero fin dove li aveva sorretti la loro temerarietà. Usando il suo megafono, il poliziotto stava urlando a Jim di uscire. La terra sussultò sotto i piedi della folla. Le travi schioccarono con un suono secco. La casa si inclinò ancora di più. Jim sparì dalla soglia, scivolò all'indietro. Gli spettatori si allontanarono di corsa. «Figlio di puttana!» imprecò il poliziotto. «Qualcuno deve andare a recuperare il ragazzo!» Si guardò intorno, alla ricerca di probabili volontari. Sul lato della casa più vicino al vialetto, le fiamme stavano diventando sempre più alte. Il vento si impadroniva del fumo. Ben presto, l'abitazione accanto avrebbe iniziato anch'essa a bruciare, a meno che i pompieri non
fossero riusciti a spegnere l'incendio. E, visto che le tubature del gas erano saltate, il fuoco avrebbe potuto causare una grande esplosione. Il tenente non riusciva a vedere Jim Grimson, ma era evidente che il ragazzo stava lanciando degli oggetti fuori della porta. Qualche istante dopo, si accorse, grazie ai riflettori montati sui veicoli, che si trattava di statuette di santi e della Sacra Famiglia. La maggior parte erano già state fatte a pezzi. «Al ragazzo ha dato assolutamente di volta il cervello!» esclamò il capitano. Fu allora che il nome di Jim Grimson fece scattare un labile ricordo nella sua mente. Pete e Bill gli avevano raccontato dei ragazzi strafatti di droga e alcol che avevano rovesciato il gabinetto di Dumski, e di come due di loro fossero finiti nel sottostante pozzo nero. Fino a quel momento, il capitano non aveva collegato quel divertente episodio ai proprietari della casa. «Quel ragazzo è fottuto in ogni caso,» comunicò al tenente dei pompieri. «Mi hanno raccontato certe cose su di lui! Forse dovremmo dimenticarcene. È meglio se non ce la fa.» Il tenente gli rivolse uno sguardo di rimprovero. Non disse nulla, ma il capitano, grazie a quello sguardo, intuì lo stesso i suoi pensieri. Non importava quanto un essere umano potesse essere malvagio o inutile; doveva essere salvato lo stesso. «Stavo soltanto scherzando,» si giustificò il capitano. «Ma, sul serio, mi dispiacerebbe perdere dei buoni uomini.» Il tenente ordinò che venissero scaricate da uno dei veicoli una scala e delle corde. Chiese se c'erano dei volontari. Si offrirono in quattro. Ne scelse due. Uno era un pompiere di colore, George Dillard, il padre di Gizzy. Già da molto tempo aveva rinunciato al sogno che il figlio facesse l'avvocato, e conosceva fin troppo bene Jim Grimson. Ma era coraggioso. Inoltre, se fosse riuscito a salvare il ragazzo, sarebbe salito di un altro gradino lungo la scala delle promozioni, e dunque avrebbe beneficiato di una paga migliore. Dio solo sapeva quanto ne aveva bisogno, e se avesse dovuto rischiare il culo, be', l'avrebbe fatto. I pompieri di colore non venivano promossi troppo spesso, nonostante il loro spirito di servizio e le quote stabilite in base alle leggi per l'eguaglianza razziale. Non a Belmont City, almeno. L'altro volontario, Boyd, era un tizio di discendenza irlandese, ansioso di partecipare a quel tentativo di salvataggio. Per lui, più la situazione era pericolosa, meglio era.
Dopo essersi arrotolati le funi intorno la cintola, mentre altri uomini e due donne ne reggevano i capi liberi, Dillard e Boyd attraversarono il cortile devastato. Le loro mascherine antifumo li facevano assomigliare a due enormi insetti francescani, impegnati in un'opera di misericordia. Videro che il giovane squilibrato all'interno della casa stava ancora scagliando oggetti dalla porta: una caffettiera, tazzine e bicchieri, una padella, coltelli da tavolo, una radiolina portatile, dischi, vestiti e fotografie. Ormai le fiamme si alzavano dal lato della casa, anche se non dalla parte che ora era al di sotto del livello del suolo. Le manichette dei pompieri erano entrate in azione, fino a quel momento senza alcun effetto. Prima che i due pompieri arrivassero alla porta, il lancio di oggetti cessò. Udirono a malapena le grida di Jim Grimson, al di sopra del ruggito del fuoco, dello scroscio dell'acqua che veniva spruzzata sulla casa, delle urla degli spettatori. Si fermarono, quando il suolo si mosse di nuovo e la casa sprofondò di qualche altro centimetro. Improvvisamente, dalla porta e dalle finestre, i cui vetri erano infranti, scaturì una spessa nuvola di fumo. Dillard e Boyd non avevano più molto tempo. Jim era rannicchiato su se stesso in salotto, e stringeva al petto la fotografia del nonno. Era incastrato in un angolo formato da una delle pareti che adesso, in parte, si era trasformata in pavimento, e dal pavimento, che in parte era diventato una parete. Aveva gli occhi chiusi, ma la bocca emetteva un diluvio di parole sconnesse, interrotte da accessi di tosse. Il fumo aveva annerito la pellicola d'intonaco che gli copriva il corpo e il viso. Qualche altro minuto, e il fumo che stava inalando l'avrebbe ucciso, o forse l'avrebbe fatto il fuoco, che si stava diffondendo con incredibile rapidità. In effetti, lui e i suoi salvatori uscirono dalla casa soltanto mezzo minuto prima che collassasse su se stessa. Rimpicciolitasi all'improvviso, subito dopo la casa scomparve del tutto. Fiamme e fumo si innalzarono dal buco. Più di uno spettatore ebbe l'impressione che si fosse spalancato uno dei tanti cancelli dell'Inferno. Jim fu condotto d'urgenza al Wellington Hospital. Per due giorni interi, non riacquistò conoscenza, non si seppe mai se a causa dell'intossicazione da fumo o del suo stato psicotico, come lo definivano i medici. Quando si svegliò, ricordava soltanto una cosa, dal momento in cui la casa aveva iniziato a cigolare e gemere. Era una visione, la prima che avesse avuto da molti anni. Aveva visto un giovane alto e nudo incatenato a un albero. Non somigliava a nessuno che Jim conoscesse. Appena all'in-
terno del campo visivo di Jim, c'era una mano che impugnava una enorme falce d'argento. Non si muoveva, ma era chiaramente minacciosa. Era destinata a sollevarsi e poi a calare con mortale rapidità, e Jim non aveva alcun dubbio su chi sarebbe piombata. Ma la falce gli era parsa anche un gigantesco punto interrogativo. CAPITOLO TREDICESIMO 9 Novembre 1979 La parete della camera che Jim occupava al Wellington Hospital ora era adorna di una grossa stella a cinque punte. Ciascun braccio era formato dalle illustrazioni di copertina di cinque tascabili attaccate alla parete. La punta superiore conteneva le copertine de Il Fabbricante di Universi, il primo libro del ciclo di Farmer. Quelle del secondo, I Cancelli della Creazione, formavano la punta orizzontale sinistra. Dal lato opposto, erano attaccate quelle del terzo, Un Universo Tutto per Noi. La punta successiva era formata da quelle del quarto, Le Muraglie della Terra. Le copertine del quinto, Il Mondo di Lavalite, disegnavano l'ultima punta della stella. Quello era il terzo serio tentativo compiuto da Jim per entrare nell'universo del ciclo. La stella a cinque punte rappresentava la sua porta d'accesso. La maggior parte dei pazienti chiamava «mantra» la propria porta. Gli altri adoperavano il termine «sigillo.» Jim aveva deciso di chiamare «tragil» la sua. Combinare i due simboli in una sola parola rendeva la sua porta due volte più potente di una normale. Erano le otto e mezzo di sera. Le luci della stanza erano spente, ma l'edificio della compagnia d'assicurazione dall'altro lato della strada forniva un chiarore crepuscolare che era sufficiente a Jim per concentrarsi sul tragil. La porta della stanza era chiusa. Anche se non aveva serratura, sul lato esterno, rivolto verso il corridoio, era attaccato un bigliettino che avvertiva che Jim stava «superando la porta.» Dalla stanza accanto, proveniva la voce di Brooks Epstein, che cantava sommessamente in ebraico. Jim era seduto sulla sedia, che aveva avvicinato al letto. Fissando lo spazio vuoto al centro della stella, iniziò a cantare. «ATA MATUMA M'MATA!» Più e più volte, mentre le parole sgorgavano sempre più veloci e più forti, Jim lanciò quell'antico mantra vocale verso il centro della stella, il cerchio bianco e vuoto.
«ATA MATUMA M'MATA!» Come un laser che trasforma dei protoni liberi in un raggio di luce coerente, quel canto strutturava le linee di forza in uno strumento capace di aprire un varco nella barriera che separava due universi. Il canto, per chi l'intonava, rappresentava anche un mezzo di trasporto in un altro universo. Ma Jim aveva scoperto che non si trattava di una cosa facile. La prima volta, si era sentito afferrare da un vento silenzioso ma fortissimo, che lo aveva trasportato attraverso il varco. Poi si era immerso in un'oscurità che era, al tempo stesso, gelida e ardente. Il buio, la sensazione di essere impotente, di essersi smarrito in uno spazio infinito, lo avevano spaventato molto più delle visioni che aveva avuto da bambino. Aveva perso la sua determinazione e aveva iniziato a lottare contro il vento. Per qualche istante, aveva temuto di non farcela. Poi qualcosa si era spezzato, come un elastico troppo allungato, e Jim si era risvegliato sulla sedia. Tremava, gemeva ed era madido di sudore. Uno sguardo all'orologio gli aveva detto che era stato via per due secondi. Ma a Jim erano sembrati delle ore. Quella era stata la fine della sua prima spedizione. Il giorno seguente, aveva raccontato la sua esperienza durante la seduta di terapia di gruppo. Nessuno si era mostrato scettico, o l'aveva accusato di vigliaccheria. Chiunque si fosse azzardato a farlo, sarebbe stato immediatamente e severamente redarguito dal medico che quel giorno supervisionava il gruppo. Era decisamente sconsigliabile che qualcuno manifestasse la sua incredulità nei confronti dei racconti degli altri. Ciò avrebbe potuto minare la convinzione del paziente di aver effettuato davvero un viaggio, rallentando o addirittura bloccando i progressi della terapia. Inoltre, tutti i pazienti avevano dovuto superare degli ostacoli, differenti nella forma, ma identici nel loro contenuto emotivo. La seconda volta, Jim era riuscito a controllare il suo panico abbastanza da poter continuare. Fino a un certo punto, cioè. Il buio, il gelo e il calore scomparvero improvvisamente. Il vento si indebolì. Jim fu circondato da muraglie - linee di forza? - che provenivano da diversi angoli di un vasto abisso e si perdevano nello spazio. Erano di un bianco luminescente e si intersecavano l'una con l'altra, per poi prolungarsi in altre mura. Formavano un gigantesco puzzle in quattro, o forse più, dimensioni. Ma Jim non riuscì a padroneggiare la loro extra-dimensionalità. La sua mente conosceva soltanto tre dimensioni: altezza, lunghezza e profondità. Le altre dimen-
sioni di quei muri andavano semplicemente al di là della sua comprensione. Eppure, Jim sapeva che esistevano. Quella sensazione fu così strana, che Jim, spaventato, quasi decise di ritornare a «casa», prima di perdersi per sempre in quello strano limbo. Di colpo, i muri caddero, ma non come avrebbero fatto sulla Terra. Sparirono di colpo. Jim non riuscì neppure a pensare come fosse stato possibile. Per un istante, la loro immagine continuò a impressionare le retine di Jim, poi scomparve anch'essa. Ora Jim si trovava in uno dei mondi dei Signori. Non aveva alcuna idea di come facesse a saperlo. Ma era così. Pur essendo ancora spaventato, era troppo curioso per farsi trascinare via dai venti che l'avrebbero riportato nella sua stanza. Sebbene dotato della facoltà di vedere, Jim non si trovava lì in carne e ossa. Forse si trattava del suo corpo astrale. Ma questo non aveva troppa importanza. Per Jim era più che sufficiente aver abbandonato l'universo della Terra ed essere entrato in quello di un Signore. Gli sembrava di fluttuare al di sopra di un pianeta in tutto e per tutto simile alla Terra. Però il sole era verde. In seguito, avrebbe scoperto che il colore del cielo mutava a seconda del giorno della settimana, che lì era lunga nove giorni. E il Signore che aveva creato quel mondo aveva fatto sì che il colore del cielo cambiasse ogni giorno. Jim iniziò a scendere velocemente, sperando di aver raggiunto il suo obiettivo. Aveva scelto Orc il Rosso come soggetto in cui entrare. Ma se poteva scegliere la persona e il luogo, gli era sembrato logico poter scegliere anche il tempo. Mentre intonava il canto, si era concentrato su di un periodo lontano migliaia di anni, sperando di fondersi con Orc quando quest'ultimo era ancora un bambino di sette anni. Gli eventi narrati nel ciclo dei Fabbricanti di Universi non avrebbero avuto luogo che molto tempo dopo. Jim era l'unico, nel gruppo di terapia, che avesse scelto di non «viaggiare» nel presente. Quando Porsena gli aveva chiesto il motivo di una simile decisione, Jim gli aveva risposto che non lo conosceva neppure lui. Però gli era sembrata la cosa giusta da fare. Il dottore aveva lasciato cadere l'argomento, ma senza dubbio aveva preso nota di quello sviluppo, per future ricerche. Come succedeva per la Terra, se veniva osservata dal limite esterno dell'atmosfera, i continenti e i mari di quel pianeta non erano assolutamente netti come quelli di una mappa geografica. Grandi banchi di nuvole solcavano l'atmosfera, ma Jim intravide il continente, più o meno a forma di
croce, verso cui veniva trascinato, come se vi fosse legato da fili invisibili e sottili quanto ragnatele. Scese ancora più in basso, e la terra iniziò a scorrere sotto di lui: era come se fosse lei, e non lui, a muoversi. Poi Jim si ritrovò a fluttuare su una gigantesca catena circolare di montagne, in mezzo alle quali vi era una pianura, nel cui centro sorgeva una montagna altissima. In cima a quest'ultima si stendeva un altopiano relativamente piatto con fiumi, ruscelli e numerose foreste. Qua e là si scorgevano gruppi di abitazioni rotonde e dal tetto conico. Ma Jim era ancora troppo in alto per vedere se vi erano persone o animali. Al centro dell'altopiano sorgeva una struttura tanto enorme e bizzarra, che lo stupore provato da Jim, già notevole, divenne assolutamente travolgente. Nove giganteschi piloni, alti più di tre chilometri, si curvavano verso l'interno, come zanne d'elefante. Dentro vi erano state costruite tre piattaforme, delle quali quella più in basso distava almeno mezzo chilometro dal suolo. Era trasparente, e così coloro che abitavano in quel luogo potevano osservare i villaggi e le fattorie dei non-Signori. I villaggi sorgevano lungo le rive di un fiume largo almeno tre chilometri, che aveva origine da un lago formato da cascate provenienti dalle bocche di gigantesche statue di cristallo, poste lungo i bordi della piattaforma inferiore. Una fitta nebbiolina si alzava dalle cascate, ma non raggiungeva la piattaforma. La seconda piattaforma, anch'essa trasparente, era più piccola della prima, ma copriva almeno dieci chilometri quadrati. Come quella più in basso, ospitava piccole abitazioni, alcuni grandi edifici e zone circondate di terreno su cui crescevano alberi e numerose specie di piante. Alcune di quelle zone erano campi coltivati o pascoli, su cui vagavano degli animali. La terza piattaforma aveva un'area di soli tre chilometri quadrati. Sopra c'erano case e alcune strutture gigantesche, la cui funzione Jim non riuscì assolutamente a intuire. Molte di quelle strutture ricordavano in qualche modo gli antichi templi di Karnak in Egitto, nel periodo in cui erano stati costruiti. Eppure, ne differivano per numerosi aspetti. Le centinaia di statue poste alle loro entrate non erano in stile egizio, né assomigliavano a qualsiasi altra statua Jim avesse visto sulla Terra. Al vertice di quella enorme costruzione, appena al di sotto della volta curva formata dai piloni, c'era uno smeraldo verde. Sembrava più grosso di qualsiasi cattedrale della Terra; vi erano state scolpite porte e finestre. Lo smeraldo era cavo. O forse era stato ricavato da uno stampo che modellava le aperture e lo spazio vuoto al centro. In seguito, Jim avrebbe appreso che quello smeraldo era molto piccolo, paragonato al diamante posto su uno
dei pianeti dell'universo di Urizel. Quella gemma degna di Brobdingnag serviva da diga per un fiume al cui confronto il Mississippi non era che un schizzo d'acqua sulla torta di fango di una bambina. Jim continuò a scendere. Anche se le numerose ed enormi sfaccettature dello smeraldo riflettevano i raggi del sole provocando un intenso e diffuso bagliore, Jim non ne fu accecato, poiché, pur essendo un grado di vedere, non aveva occhi che potessero venir abbagliati. Il gioiello si ingrandì a velocità spaventosa. Jim si avvicinò a una delle sfaccettature, di fronte a cui non era che un insetto, poi l'attraversò, entrando nel tempio. Jim comprese soltanto in quel momento cosa fosse la gemma: un tempio. Il vasto spazio interno era immerso nell'ombra, tranne il centro del pavimento, illuminato da un intenso raggio di luce emesso da una fonte invisibile. Tutt'intorno c'erano statue gigantesche e dall'aspetto alquanto minaccioso. Affollavano il pavimento ed erano conservate in nicchie scavate nelle pareti curvilinee. Quelle più vicine al vertice dello smeraldo erano soltanto sagome confuse. Alcune erano del tutto invisibili dal pavimento, ma Jim ne aveva percepito la presenza. Per Jim, quello era un luogo spaventoso. Ma non avrebbe saputo dire quale effetto aveva sul bambino di sette anni al centro del pavimento. Il bambino, Orc, poteva essere stato lì già molte volte, ma poteva ancora trovare quel luogo terrorizzante. O forse provava un senso di soggezione. Jim, senza sapere il perché, fu sicuro che quel bambino fosse Orc, colui che solo in seguito sarebbe stato chiamato Orc il Rosso. Il bambino e due adulti erano gli unici esseri umani nel tempio. C'erano anche altri esseri, ma erano nascosti. Da loro proveniva un' oscura minaccia che pervadeva l'intero tempio. L'uomo era alto, bello, biondo, e dagli occhi azzurri. Si chiamava Los, ed era il padre di Orc. La donna era alta quanto lui, statuaria, con i capelli scuri e gli occhi verdi. Era Enitharmon, la madre di Orc. Entrambi indossavano vesti sottilissime, che arrivavano loro alle caviglie. Quella dell'uomo aveva un orlo color porpora, mentre l'orlo di quella della donna era azzurro. L'uomo reggeva nella mano destra un turibolo, che faceva ondeggiare avanti e indietro, cantando in un linguaggio che Jim non riuscì a comprendere (anche se non aveva orecchie, era in grado di sentire). Dal turibolo proveniva un fumo arancione il cui odore era un misto di mandorle amare e mele dolci. Enitharmon impugnava uno scettro alla cui estremità era montato un cerchietto sul quale era fissata una grossa gemma scarlatta, non tagliata. La
donna agitava lo scettro in maniera rituale. Il bambino era immobile, con gli occhi verdi rivolti al soffitto, le braccia lungo i fianchi, una mano stretta a pugno, l'altra aperta. Ogni tanto, Los interrompeva il suo canto per rivolgere una domanda al figlio. Una volta, quando Orc non intonò la risposta appropriata, il padre lo colpì al volto con un manrovescio. Un segno rosso comparve sulla guancia di Orc, insieme alle lacrime. Chissà perché, Jim si era aspettato che Orc gli assomigliasse. Non era così. Il Signore era di corporatura più robusta, e le sue braccia sembravano più lunghe di quelle di Jim. Aveva un naso a punta, le labbra erano più piene, il mento meno pronunciato, e i capelli erano neri. In più, gli occhi di Orc erano più grandi di quelli di Jim e gli conferivano uno sguardo innocente. Orc non indossava alcun indumento, ma aveva la testa cinta da una fascia azzurra, ornata con simboli che Jim non conosceva. Uno di essi sembrava una tromba. Forse rappresentava il Corno di Shambarimem, di cui Jim aveva letto nel ciclo di Farmer, e che, una volta suonato, si supponeva spalancasse tutti i cancelli tra i mondi? Il padre e la madre iniziarono a girare intorno al figlio in senso antiorario. Los continuò a far ondeggiare il turibolo, ma interrogava il figlio soltanto quando l'aveva di fronte. Jim si accorse che, quando questo succedeva, Orc si irrigidiva per la tensione. Per due volte il bambino rispose correttamente. La terza volta, esitò. Ancora una volta, venne schiaffeggiato dal padre. La donna si accigliò e aprì la bocca, come se volesse dire qualcosa al marito. Ma poi strinse di nuovo le labbra. Los gridò qualcosa. Forse la rabbia faceva parte della cerimonia, ma sembrava essere più un fatto personale che rituale. Orc era scosso da brividi. Aveva il corpo e il viso luccicanti di sudore e il labbro inferiore gli tremava. E quei segni di tensione rendevano Los ancora più furioso. Jim odiò all'istante il padre di Orc. Sebbene fosse giunto in quel luogo per entrare in Orc e fondersi con lui, Jim ora esitò. La rabbia che provava in quel momento, scatenata dalla solidarietà che provava nei confronti del bambino, gli stava facendo girare la testa, e lui, per entrare in Orc, aveva bisogno di tutta la freddezza e l'autocontrollo possibili. Non ne era certo, ma sentiva che, se avesse commesso qualche errore durante la procedura di fusione con lui, si sarebbe trovato in
una situazione davvero difficile. Los, il cui volto era diventato sempre più paonazzo e distorto dall'ira, colpì col turibolo la tempia di Orc. Il bambino cadde in ginocchio. Entrambe le braccia rimasero immobili lungo i fianchi. Jim intuì che se Orc avesse mosso le mani, avrebbe fallito del tutto nel sostenere la propria parte nella cerimonia. In quel caso, Jim non avrebbe saputo dire cosa sarebbe accaduto a Orc. La donna disse qualcosa. Los le rivolse uno sguardo furente. Lei lo fissò con altrettanta ira e pronunciò una parola. Jim pensò che non si stavano certo scambiando dei complimenti. Orc si rialzò barcollando. Sollevò lo sguardo in alto, mentre il sangue gli colava dalla ferita. Le lacrime gli scorrevano lungo le guance, ma le mascelle erano serrate con ostinazione. Enitharmon gridò, poi balzò verso Los, colpendolo sulla tempia con lo scettro. Jim pensò che quella donna non si comportava certo come sua madre. Poi fu trascinato via, fuori dal tempio e in alto, sempre più in alto, oltre le montagne, il continente, il pianeta, il sole, per ritrovarsi di nuovo di fronte alla porta che conduceva alla sua stanza sulla Terra. Subito dopo, l'attraversò con una silenziosa esplosione. CAPITOLO QUATTORDICESIMO 8 Novembre 1979 La volta seguente che Jim entrò in quell'universo, non vide le lumiscenti barriere che si intersecavano in uno spazio multi-dimensionale. Fu costretto, invece, ad affrontare uno sciame di figure che emanavano, alternativamente, lampi verdi e rossi. Assomigliavano a spermatozoi dai visi umani, e gli rivolgevano sogghigni maliziosi. Jim si fece largo in quell'orda; gli esseri di fronte a lui si affrettavano ad allontanarsi con rapidi movimenti guizzanti e presto si ritrovò nell'universo di Orc. Ma quella volta, prima di iniziare a intonare il suo canto, Jim aveva deciso di entrare in Orc quando quest'ultimo aveva diciassette anni. Il giovane Signore si trovava in una foresta a centinaia di chilometri dalla città-palazzo. Orc si era trasformato in un adolescente alto e molto muscoloso. Era nascosto dietro il massiccio tronco di un albero, e in una mano stringeva l'asta di una lancia. Portava un cappello azzurro, molto simile
a quello di Robin Hood, su un lato del quale era stata fissata un piuma scarlatta. Tranne quel copricapo, un corto gonnellino azzurro e un paio di sandali, non indossava nient'altro. Una cinturone reggeva il fodero di una spada corta e un'ascia da lancio. Il pomeriggio era iniziato da circa un'ora. Il cielo, che quel giorno era scarlatto, era limpido e il sole, anch'esso rosso, saettava i suoi raggi ardenti sulla foresta. Ma, al di sotto della vegetazione così fitta che ogni albero si univa all'altro, c'era un piacevole fresco. Lo strato di vegetazione al di sopra di Orc ospitava una moltitudine di insetti, uccelli e animali. Da un ramo a circa venti metri d'altezza, aiutandosi con la coda prensile, si dondolava una creatura molto simile a un procione con una barbetta verde, che fissava Orc con espressione corrucciata. Il ragazzo era in ascolto di qualcosa, ma sarebbe stato difficile udire qualsiasi rumore al di sopra del frastuono della foresta. Orc girò la testa. Il padre, Los, e la madre, Enitharmon, erano apparsi dall'ombra proiettata dagli alberi alle spalle del figlio. Anche i genitori indossavano soltanto gonnellini e sandali, ed erano armati. Los aveva una lancia e un' ascia, ma portava su di sé anche un'arma dall'estremità bulbosa: un lanciaraggi. Jim fu di nuovo in preda al timore. Proiettare se stesso nella mente di Orc, senza avere alcuna certezza di poterne uscire, era l'atto più pericoloso che si fosse mai apprestato a compiere. Ma doveva farlo, o sarebbe stato costretto a vivere sapendo di essere un vigliacco. Fallo o muori. E forse sarebbe davvero morto. O, cosa anche peggiore, sarebbe stato assorbito da Orc, magari soltanto parzialmente, rimanendo per l'eternità prigioniero di quel corpo alieno. Non importa. Entra nella mente di Orc. Diventa Orc, almeno in parte. Dio mio, non completamente! Lo fece. Per un attimo, ebbe la sensazione di essere caduto in un silo pieno di avena bagnata. Il suo corpo venne avvolto da un qualcosa di soffice e viscido. Era cieco. Il buio, e quella disgustosa sostanza che rischiava di soffocarlo, quasi lo spinsero a rinunciare. Ma Jim strinse i denti - in questo caso si trattava davvero di una metafora - e gridò silenziosamente a se stesso, «Va' avanti!» La spaventosa mucillagine svanì; rimase soltanto l'oscurità. Jim provò la sensazione di tuffarsi nella corrente furiosa di un liquido della stessa consistenza del mercurio, di essere proiettato lungo tunnel ventosi e tortuosi, di udire un rumore simile a quello prodotto dal battito di ali gigantesche, o di un cuore enorme.
Poi anche quelle sensazioni svanirono. Ora fluttuava in uno spazio assolutamente silenzioso. Udì un lieve crepitio. Intorno al suo corpo scoccarono delle scintille. Improvvisamente, le scintille divennero più grandi, si fusero una con l'altra. Divennero una luce brillante. Jim riacquistò l'uso dei cinque sensi, come se si trovasse sulla Terra, nel suo corpo. Si era incarnato, era nella mente di Orc, era diventato quasi lui. Era un minuscolo parassita attaccato alla parete di un'arteria del suo ospite e sperava di non essere spazzato via dall'impetuosa corrente sanguigna. Nel frattempo, era collegato al sistema nervoso dell'ospite, condividendone i pensieri, i ricordi, le emozioni e le sensazioni. In un primo momento, Jim fu notevolmente confuso da quel rapporto univoco. Gli ci volle un po' di tempo, prima di essere in grado di distinguere tra i suoi pensieri e quelli di Orc. Orc vide lo zio, Luvah, e la zia, Vala, uscire dall'ombra degli alberi. Furono seguiti da una dozzina di nativi, schiavi dei Signori: battitori e cercatori di piste. Erano leggermente più scuri dei loro padroni, ma solo perché trascorrevano più tempo all'aperto, alla luce del sole. Indossavano dei perizomi, erano fittamente tatuati e avevano penne infilate nei loro lunghi capelli neri e in fori praticati nei lobi delle orecchie. Le loro uniche armi erano cerbottane di bambù che lanciavano dardi la cui punta era stata intinta in un potente anestetico. Il loro capo reggeva un corno doppiamente ricurvo appartenente a una qualche specie di gigantesco bovino. Evidentemente, serviva per fare segnalazioni. La voce di Los era profonda e ringhiante. «Hai avuto fortuna, figlio?» «Penso che uno di loro sia intrappolato in quella macchia di alberi shintask,» rispose Orc. «È ferito. La scia di sangue che si lascia dietro mi ha aiutato a stanarlo, anche se non sanguina molto.» «Dev'essere quello che ha ucciso i due schiavi,» affermò Los. «Gli altri o sono morti, o sono riusciti a fuggire.» Jim fu vagamente stupito di riuscire a comprendere il linguaggio dei Signori, o Thoan, come definivano se stessi. Ma se la sua reazione era stata abbastanza fredda, ciò era dovuto al fatto che, fino a quel momento, tutte le sue emozioni erano tenui, lontane. Quelle di Orc, invece, gli arrivavano con incredibile chiarezza e intensità. Luvah e Vala raggiunsero Los. Erano stati invitati dai genitori di Orc nel loro palazzo, per partecipare a una caccia all'uomo. Los aveva aperto la
Porta tra i rispettivi mondi il tempo necessario per farli passare. Non lo avrebbe mai fatto di sua spontanea volontà. Ma la moglie aveva insistito affinché potesse invitare Luvah dei Cavalli e sua moglie Vala, sorella di Enitharmon. Forse, alla moglie di Los non bastava la compagnia della sua famiglia e degli schiavi. Orc adorava la bellissima e allegra Vala. Ma, in quell'occasione, era stato troppo occupato per poter discorrere a lungo con la zia. La caccia si era rivelata furiosa, intensa, con pochissime pause. Los chiese, «L'uomo è ancora armato?» «Non lo so,» replicò Orc. Coloro a cui stavano dando la caccia erano nativi condannati a morte dalla loro gente per aver commesso gravi crimini. Los aveva deciso di annullare le sentenze capitali e di usare i condannati come selvaggina. Lo faceva di tanto in tanto, quando gli venivano a noia gli altri divertimenti. Sette uomini, tutti pericolosi, erano stati condotti nella giungla, erano state loro consegnate lance e coltelli, poi erano stati lasciati liberi. Dopo venti minuti di attesa, i Signori e i loro schiavi avevano iniziato la caccia. I Signori, tranne Los e Vala, avevano con sé soltanto armi primitive. Questo faceva sì che anche i cacciatori corressero alcuni rischi. Il padre di Orc e la zia avrebbero usato i lanciaraggi solo nel caso in cui qualche animale avesse attaccato il gruppo di cacciatori, oppure una preda umana fosse stata sul punto di avere la meglio su un Signore. Le regole della caccia all'uomo, stabilite dalla tradizione, non potevano mai essere violate. O meglio, se qualche Signore lo faceva, non andavano certo in giro a raccontarlo. «Chi vuole seguire la bestia?» gridò Los. «Sarò felice di farlo io,» disse Orc. Era conscio di essersi offerto volontario per guadagnarsi il rispetto del padre, anche se non lo amava. Inoltre, e quello era il motivo principale, voleva far sfoggio della sua abilità davanti alla zia. «È vero che hai ancora bisogno di far pratica,» commentò Los, «Ma è buona educazione lasciare ai nostri ospiti la possibilità del primo colpo. Ricordalo.» Vala disse, «Mi piacerebbe vedere Orc in azione. Sarò alle tue spalle, nipote.» Jim pensò, Dio! Sono talmente spietati, ma così ganzi! Che razza di gente sono? Però sapeva, dalla lettura del ciclo di Farmer, quanto crudeli potessero rivelarsi i Signori. Che cosa si era aspettato? Nonostante il suo disgusto, condivideva le emozioni di Orc. Il giovane
Signore, e di conseguenza Jim, era eccitato, ansioso. Nello stesso tempo, Orc, e quindi Jim, sperava di non fare la figura dello sciocco. Avrebbe potuto diventare facilmente uno sciocco morto. Orc si addentrò nella densa macchia di alberi shintash. I loro rami, che iniziavano a spuntare a due metri dal suolo, si intrecciavano gli uni con gli altri. Dei rampicanti erano abbarbicati ai rami e spesso scendevano fino al suolo in confusi viluppi. Inoltre, tra quegli alberi crescevano gli arbusti di winshin, dal fogliame estremamente fitto. Quell'intrico di alberi, rampicanti e arbusti era un luogo ideale per nascondersi, o per preparare un agguato. Puntando davanti a sé la lancia, con Vala che lo seguiva a due metri di distanza, Orc si addentrò tra la folta vegetazione. Era molto teso e sudava copiosamente. Improvvisamente comprese che, in quella situazione, era la selvaggina a godere della maggior parte dei vantaggi. Si fermò, quando il suo piede urtò qualcosa. Abbassò lo sguardo. Coperta a metà da una qualche specie di cespuglio c'era una lancia. L'aveva lasciata cadere l'uomo a cui stavano dando la caccia. Ciò significava che era gravemente ferito. Nonostante tutto, Orc avanzò con cautela. Era possibile che l'uomo avesse lasciato lì la lancia a bella posta, per indurre il cacciatore a pensare ciò che Orc aveva appena pensato. Ora poteva essere in attesa nelle vicinanze, impugnando il coltello da caccia. Con un gesto, Orc indicò la lancia a Vala. La zia annuì, per dimostrargli che aveva compreso. Sebbene normalmente la macchia di alberi risuonasse delle grida degli uccelli e degli animali, ora era silenziosa. I suoi occupanti, prima di riprendere le loro normali attività, volevano assicurarsi che gli intrusi non fossero pericolosi. Orc scostò con la mano un cespuglio, e guardò in basso. La sua preda era là: un uomo dalla corporatura possente, completamente nudo, sdraiato sulla schiena. Accanto a una delle mani, aperta, c'era un lungo coltello. Il sangue filtrava lentamente da sotto l'altra mano, che l'uomo teneva premuta contro la spalla. Il sudore, tranne lievi tracce, aveva lavato via il sangue dal busto e dalle gambe. Orc mormorò, «Har?» Fino a quel momento, non aveva sospettato che la sua preda provenisse da un villaggio prossimo alla città-palazzo, e che si trattasse di un suo fratellastro. Los aveva avuto molti bambini da donne indigene; Har era uno dei suoi cento figli. Dotato di un'abilità superba nel seguire le tracce della selvaggina, aveva insegnato a Orc tutto ciò che il ragazzo sapeva sull'arte
della caccia. Era stato ferito proprio dal padre, Los, che si era separato dal gruppo dopo averlo intravisto e avergli scagliato contro la lancia. Più tardi, Orc si era imbattuto nella traccia di sangue lasciata da Har. Sotto l'intensa abbronzatura, l'uomo era mortalmente pallido. Fissò Orc, sapendo che stava per morire. Ma non implorò pietà. Vala si avvicinò a Orc e disse, «Devi usare il coltello, nipote. Non è corretto finirlo con la lancia. Aspetta, vado a chiamare gli altri. Devono vederti mentre lo fai.» Jim percepì la nausea che aveva improvvisamente invaso Orc. Sapeva cosa stava pensando il giovane Signore. Avrebbe dovuto tagliare la gola di Har col coltello e leccare un po' di sangue dalla lama. Il colpo di grazia e l'assaggio del sangue non erano una cosa nuova per lui, né particolarmente disgustosa, Tutt' altro. Ma questo...! Conosceva il fratellastro e gli voleva bene, tanto quanto si poteva voler bene un leblabbiy, come venivano chiamati coloro che non erano Signori. Orc si disse che avrebbe ucciso il padre, piuttosto che Har. Ma lui doveva uccidere il fratellastro. E non solo; non doveva neppure mostrare pietà o gentilezza. Ormai gli altri erano arrivati. Los disse, «E così, era Har quello che ho ferito! E tu riceverai il credito di quest'uccisione! Be', qualche volta è così che vanno le cose!" «Sei stato tu a ferirlo, padre,» replicò Orc. «Se tu non l'avessi fatto, non sarei mai riuscito a scovarlo. Perché non lecchi tu il suo sangue?» Los si accigliò e disse, «È contro la tradizione di noi Thoan. Procedi.» Orc aggirò il cespuglio. La sua pelle strusciò contro le sue foglie ruvide e quelle del cespuglio accanto. Gli altri Signori lo seguirono. I nativi rimasero indietro. Non si sarebbero mossi, a meno che non fosse stato loro ordinato di assistere all'uccisione. Gli occhi di Har erano divenuti vitrei. Ma non era tanto vicino alla morte da non riconoscere Orc. Rantolò, «Salve, fratello!» Durante tutte le conversazioni che aveva avuto con Orc, non aveva mai usato quella parola. Sapevano entrambi che Los era loro padre, ma nessuno dei due lo avrebbe mai affermato a voce alta. Se Har avesse osato farlo, sarebbe stato severamente punito, magari con la morte. Ma, adesso che stava per morire, non temeva più di pronunciare quella parola proibita. «Tu sei quasi immortale,» disse Har. «Però puoi essere ucciso. È questo a renderti mio fratello, non il padre che abbiamo in comune.» Orc fu squassato da un tremito ardente. Era stato colpito non tanto dall'audacia di Har, quanto dalla verità contenuta nelle sue parole. Esse
furono spaventose quanto lo scoppio di un fulmine in una notte senza nuvole e in cui non si era udito alcun tuono. «Avanti, Orc!» esclamò Los. Orc si girò e affrontò il padre. «Non posso farlo,» dichiarò. Los non fu l'unico ad arretrare, come se avesse improvvisamente percepito il fetore di un cadavere in decomposizione. Poi scosse il capo, perplesso, ed esclamò in tono brusco, «Non capisco. Cosa c'è che non va?» Orc, prima di parlare, respirò profondamente. Solo Jim comprese quanto coraggio dovette trovare in sé il giovane, prima di pronunciare le seguenti parole: «Non posso ucciderlo. È del mio stesso sangue. È tuo figlio, e mio fratello.» A Orc parve che tutto ciò che lo circondava divenisse confuso. I duri bordi della realtà si erano smussati, ammorbiditi. Aveva l'impressione di essere penetrato in un mondo ancora in via di formazione. Los appariva totalmente incredulo. «E allora? Che cos'ha a che fare con questo?» Vala si girò e con un gesto fece avvicinare il capo dei battitori, Sheon. Come tutti i non-Signori quando venivano chiamati da un Thoan, l'uomo si affrettò a ubbidire. «Quale crimine ha commesso quest'uomo?» gli chiese Vala, indicando Har. Sheon, con lo sguardo rivolto umilmente in basso, rispose, «O Divina, ha ucciso uno dei figli del nostro capo, dopo averlo sorpreso a letto con la propria moglie. Har ha affermato che il figlio del capo si è scagliato contro di lui con un coltello, e che ha dovuto ucciderlo per legittima difesa. Ma la moglie di Har ha reso una testimonianza diversa. Ha detto che Har aveva intenzione di ucciderli tutti e due. Però, in ogni caso, avrebbe dovuto recarsi davanti al consiglio e esporre là le proprie lamentele. È contro la nostra legge uccidere un uomo o una donna sorpresi in flagrante adulterio. Anche se era stato assalito, si sarebbe dovuto limitare a fuggire. Nulla glielo avrebbe impedito.» Vala si girò di nuovo verso Orc. «Vedi? Quest'uomo merita di morire in base alle leggi del suo popolo.» «E allora che siano loro a eseguire la sentenza,» replicò Orc. «Ma è ridicolo!» esplose Los. «Sei uno stupido! Non ti capisco! Lui non è un Thoan!»
«Lo è per metà,» affermò Orc con voce tranquilla, anche se, interiormente, si sentiva tutt'altro che calmo. «Ma non lo è del tutto!» esclamò Los. Aveva il volto paonazzo di rabbia e nei suoi occhi ardeva una luce selvaggia. «Uccidilo! Subito!» «Non provi nulla nei suoi confronti?» gli chiese Orc. «È tuo figlio. O questo, per te, non significa nulla?» Luvah disse, «Nipote, la follia si è impadronita di te! Cosa è successo? Hai avuto qualche incidente? Forse hai battuto la testa contro qualcosa?» «Sì, sono stato colpito da qualcosa,» replicò Orc. «Ma non si è trattato di qualcosa di fisico. È stato come se una grande luce... ma è difficile da spiegare.» «Ora sarò io a colpirti!» urlò Los e sferrò un pugno contro la mascella del figlio. Orc rimase stordito per parecchi secondi. Quando riuscì a pensare di nuovo chiaramente, scoprì di essere caduto in ginocchio. Gli altri, tranne il padre, parevano essere stati colpiti allo stesso modo. La madre di Orc mormorò, «Los! Non era necessario! Il ragazzo ha qualcosa che non va!» «È proprio così, Enitharmon! Non è un vero Signore! Forse sei giaciuta con qualche nativo, e gli hai permesso di metterti incinta?» Enitharmon ansimò per quell'insulto, mentre Vala esclamava, «Questo è un insulto!» Orc venne invaso da un suono rosso e ruggente. Di solito, i suoni non hanno colore, ma all'interno della nostra mente avvengono fenomeni impossibili al suo esterno. L'offesa rivolta alla madre aveva scatenato in lui l'impulso di aggredire il padre, impulso che era riuscito a trattenere fin da quando aveva iniziato a ragionare. Orc si ritrovò in un sogno immerso in una luce scarlatta. Ebbe l'impressione di essere uscito dal proprio corpo e di osservarne le azioni. Lo vide alzarsi di scatto: impugnava ancora il coltello, che aveva continuato a stringere anche durante gli istanti in cui aveva quasi perso conoscenza. Los arretrò, ma non abbastanza in fretta da evitare che la lama gli penetrasse per alcuni centimetri nel braccio sinistro. Poi vide lo zio, Luvah, colpirlo sulla tempia con l'impugnatura della lancia. Osservò se stesso cadere a faccia in giù e poi rotolare sulla schiena. Rientrò nel suo corpo. Il padre si stava preparando a trafiggerlo con la lancia. La madre, urlante, afferrò la lancia e lottò con Los. Strappatagliela via di mano, la puntò contro il marito. «Non farlo!» urlò. Era chiaro che avrebbe trafitto Los, se quest'ultimo
avesse tentato di uccidere il figlio. Vala intervenne con voce tesa e imperiosa. «Los! I leblabbiy ci stanno guardando!» Los si girò e rivolse uno sguardo infuriato a Sheon, il capo dei battitori, che stava tentando di tornare verso i suoi compagni. Non voleva che i Thoan si accorgessero che lui aveva assistito alla scena, ma ormai era troppo tardi. Los indicò Orc e disse, «Legatelo e portatelo a palazzo!» Poi estrasse il lanciaraggi dalla fondina. «Vala! Vieni con me! Dobbiamo eliminarli! Non voglio che rimangano vivi, ora che ci hanno visti mentre tentavamo di ucciderci l'uno con l'altro!» Vala ribatté, «Credo che Sheon sia stato l'unico ad averci visto. Non credo che lo racconterà agli altri.» «Non voglio correre rischi,» le spiegò Los. «Certo non vogliamo che pensino che noi non siamo migliori di loro, non è così?» Voleva uccidere qualcuno. E se non era riuscito ad ammazzare il figlio, almeno si sarebbe sfogato sui leblabbiy. In un'altra occasione, avrebbe sicuramente dato ascolto alle parole di Vala. Ma non quella volta. Vala si morse le labbra, ma disse, «Molto bene.» Seguì Los, estraendo anche lei il lanciaraggi. Come Orc scoprì in seguito, i nativi avevano immediatamente intuito le intenzioni dei Signori. Quelli più remissivi e più religiosi, avevano atteso passivamente il loro fato. Tuttavia, quattro leblabbiy erano fuggiti nella foresta. Sarebbero stati esiliati per sempre dalla loro tribù, sulle loro teste sarebbe stata posta una taglia, e con tutta probabilità sarebbero divenuti selvaggina per la prossima battuta di caccia dei Thoan. Orc venne fatto voltare e gli furono legati i polsi con del nastro che la madre aveva preso da una borsa. Mentre lo legava, Enitharmon si chinò verso di lui, sussurrando, «Non far arrabbiare di nuovo tuo padre. Farò del mio meglio per riuscire a calmarlo.» «Mi ucciderà,» gemé Orc. «Lui mi odia. Mi ha sempre odiato. Ma cosa gli ho fatto per essere tanto odiato, madre?» CAPITOLO QUINDICESIMO Orc fu denudato e incatenato a un masso vicino all'edificio principale del palazzo. Un'estremità della catena, lunga circa tre metri, era attaccata a una lastra di metallo inserita nella gigantesca massa di quarzite. L'altra estremità terminava con un cerchio metallico che gli cingeva la caviglia destra.
Per due giorni e due notti, il giovane subì quella punizione dolorosa e umiliante. Per la maggior parte della giornata, era arso dal sole. Di notte, Los permetteva alle nuvole di arrivare fino al palazzo. Orc dormiva malissimo, a causa del freddo, della pioggia e del duro giaciglio. Consumava un solo pasto al giorno, che gli veniva portato da una delle serve. La donna gli lasciava anche un secchio d'acqua, con cui bere e lavarsi. Quando doveva svuotare la vescica o gli intestini, Orc andava dietro il masso, allontanandosi da esso il più possibile. Per pulirsi, non aveva né carta igienica, né una pezzuola. Una volta al giorno, uno dei servitori veniva a pulire la sporcizia. Ogni mezzogiorno, i suoi genitori, lo zio e la zia uscivano dal palazzo e si recavano da Orc. Los gli chiedeva se si era pentito di essersi comportato tanto male. Era disposto a chiedere scusa, a promettere che non sarebbe più comportato in quel modo e che avrebbe sempre obbedito ai genitori? Il terzo giorno, Los aggiunse che, anche nel caso Orc si fosse sottomesso, la punizione non sarebbe cessata. «Molti Signori avrebbero ucciso immediatamente un figlio che si fosse comportato come te. Ma non voglio rattristare tua madre, e Luvah e Vala hanno intercesso in tuo favore.» «Non avresti dovuto battermi», replicò Orc. «Sono tuo padre! Ho il diritto e il dovere di farlo, quando lo meriti!» «Mi hai battuto molte volte,» replicò il figlio. «Pensavo che un uomo come te, che ha vissuto migliaia d'anni, avesse acquistato più saggezza e amore. Ma evidentemente non hai imparato nulla. In ogni caso, hai alzato la tua mano su di me per l'ultima volta. Ora, puoi anche uccidermi.» Los si voltò e andò via, con la sua lunga veste verde che svolazzava al vento e la lunga piuma gialla sul cappello a tesa larga che ondeggiava. La madre e la zia rimasero un altro minuto, implorando Orc di sottomettersi alla volontà del padre. «Sei così testardo,» lo accusò Enitharmon, mentre le lacrime le scorrevano lungo le guance. «E questa tua ostinazione ti ucciderà. Cosa farò, se perderò il mio primogenito?» «Uccidi Los e vendicami,» le suggerì Orc. «Ma penso che ti piacerebbe farlo in tutti i casi. Non so perché stai con lui. Non esistono altri mondi in cui tu possa recarti? Che ne dici di quello di Luvah e Vala?» «Tu hai proprio deciso di morire,» disse Enitharmon. Baciò il figlio sulla guancia e andò via. Luvah, scuotendo la testa, la imitò. Vala si attardò un istante.
«Stanotte verrò qui di nascosto, ti porterò una coperta e qualcosa di buono da mangiare.» «Non esporti per me, grazie lo stesso. Ma tu, almeno, mi vuoi bene.» «Anche tua madre te ne vuole,» rispose Vala. «Hai visto come ti ha difeso quando Los stava per trafiggerti con la lancia. Ma il suo carattere non le permette di opporsi a Los, se non quando si arrivi a una situazione limite, e anche in questo caso, la sua fermezza non dura a lungo.» «Avrei pensato che, dopo tanti millenni di vita, sarebbe almeno riuscita a cambiare il proprio carattere. A cosa serve la scienza dei Signori, se non riesce neppure a modificare alcuni tratti caratteriali indesiderabili?» «Alcuni ci hanno provato, senza ottenere grandi risultati. Ma la maggior parte delle persone non riesce a cambiare il proprio carattere, non importa quanto tempo abbiano vissuto. È una questione di volontà, non di condizionamento biologico. Ti piacerebbe se qualcuno si mettesse a pasticciare con la tua mente?» Vala, prima di andarsene, lo baciò forte sulle labbra. Orc sospettò che la zia provasse un'attrazione fisica nei suoi confronti simile a quella che lui provava verso di lei. Oppure si era comportata soltanto come una zia affettuosa, e lui, giovane e inesperto, aveva mal interpretato il suo gesto? Osservò il padre, che si dirigeva verso l'edificio principale del palazzo. In vita sua, Orc aveva visto più volte la schiena del padre che il suo volto, anche se era stato meglio così. Poi sollevò lo sguardo verso il terzo piano del palazzo costruito con blocchi d'oro zecchino fittamente tempestati di gemme. Là, incorniciato dalla finestra, c'era il suo precettore, Noorosha, un nativo intelligente e assai colto che aveva guidato Orc nell'apprendimento dei corsi preprogrammati, fin da quando il Signore aveva avuto tre anni. Stava fissando il suo pupillo, che a quell'ora sarebbe dovuto essere a lezione da lui. Orc rivolse un saluto a Noorosha, la persona a cui voleva più bene, dopo la madre e la zia. Perché suo padre non era come lui? Il giorno si trascinò lentamente; ogni minuto era come un colpo di frusta. Mentre Orc andava avanti e indietro, con la catena che gli appesantiva la gamba e risuonava sulla superficie trasparente e leggermente corrugata della piattaforma; la sua mente faceva altrettanto, perdendosi tra progetti di piani di fuga e sogni a occhi aperti in cui Orc uccideva il padre. Infine, scese la notte. Sorse la prima luna. Due ore dopo, la seguì una seconda. Jim, osservandola attraverso gli occhi di Orc, stimò che fosse grande all'incirca la metà di quella della Terra. La prima luna era a sua volta
all'incirca la metà della seconda. Le loro macchie erano ovviamente diverse da quelle della luna che conosceva Jim. Dopo che le nuvole ebbero finito di inzuppare di pioggia Orc, il ragazzo si sdraiò a terra. Ci volle molto tempo prima che riuscisse ad addormentarsi. Anche Jim dormì. Sembrò che fosse trascorso pochissimo tempo, quando Orc, e con lui Jim, fu svegliato dal tocco di Vala. La zia era una sagoma indistinta accanto a Orc. «Ho portato la coperta e il cibo,» annunciò a bassa voce. «Ma ho portato anche qualcos'altro.» Sollevò un oggetto che Orc non riuscì a distinguere con chiarezza. «Un lanciaraggi. Rimani immobile. Taglierò la catena.» «Non devi!» esclamò Orc. «Ti ringrazio, ma non posso permettere che tu corra questo rischio. Se fuggo, mio padre condurrà un'indagine minuziosa sull'accaduto, scoprirà che mi hai aiutato e ti ucciderà!» «No, se tu lo ucciderai prima,» rispose la zia. Fece per alzarsi. Orc udì un tonfo sordo. Vala emise un suono sordo e cadde in avanti, gravando pesantemente sulle gambe di Orc. Su di lui torreggiò una sagoma scura. Orc sapeva che era Los. Vala, gemendo, rotolò via dalle gambe di Orc, stringendosi la nuca con una mano. Si accinse di nuovo a rialzarsi. «Sta' giù, puttana traditrice!» ringhiò Los. Alle spalle del padre, Orc intravide una sagoma massiccia. A Orc sembrò un qualche tipo di velivolo. «Dovrei ucciderti, Vala!» gridò Los. «Ma comprendo quanto ti dispiacesse per lui, che tu ci creda o no! Dopo tutto, è mio figlio, anche se non vale un granché! Mi ricordo che da piccolo gli volevo perfino bene! Ma tu hai tradito la mia ospitalità! Come faccio a sapere se non stavi complottando con lui per uccidermi?» Los continuò su quel tono. Il succo del discorso fu che, visto che era di animo misericordioso, avrebbe permesso a Vala e Luvah di ritornare nel loro universo. Ma l'avrebbero fatto immediatamente e sotto scorta. Del figlio si sarebbe occupato lui, e loro non avrebbero mai saputo quale destino gli fosse toccato. Vala non lo avrebbe più rivisto. Vala iniziò a protestare. Los le urlò di chiudere la bocca o l'avrebbe uccisa subito. Dopodiché, Vala si limitò a mormorare, «Mi dispiace, Orc.» Los continuò a urlare schiumando rabbia per altri cinque minuti. Quando ebbe finito, si chinò su Vala e le premette un cilindro contro il braccio. La donna si afflosciò immediatamente. Poi il padre appoggiò lo strumento contro il petto di Orc, che perse conoscenza, come Jim.
Jim si svegliò nello stesso istante in cui lo fece Orc. Quest'ultimo, a causa degli intensi raggi del sole, strinse gli occhi e Jim lo imitò, sia pure metaforicamente. Il giovane Thoan sedeva con le natiche nude su una cengia rocciosa. Era poggiato contro una lastra di pietra verticale. Una corda gli legava le mani dietro la schiena. La cengia finiva a trenta centimetri da Orc. Al di là, c'era il ripido fianco di una montagna. A metà della sua altezza iniziavano gli alberi. In basso, un fiume scorreva sinuosamente attraverso una fitta foresta. Un'altra montagna sorgeva sul lato opposto del corso d'acqua. Il cielo era azzurro, il che significava che Orc non era più sul mondo in cui era nato, a meno che non fosse rimasto privo di sensi per almeno due giorni. Nonostante gli ardenti raggi solari, Orc rabbrividì: l'aria era gelida. Sui pendii superiori della montagna di fronte a lui si scorgevano chiazze di neve. Poi, guardandosi intorno, si accorse che si trovava sull'imboccatura di una caverna che si estendeva alle spalle della cengia. Accanto a lui, sul pavimento in terra battuta, c'era un foglio di plastica quadrato. Orc lo raggiunse, si inginocchiò e diede un' occhiata al pezzo di plastica. Come si era aspettato, su di esso Los aveva vergato le seguenti parole: Ti trovi su Anthema, il Mondo Non Voluto. Se sei abbastanza uomo da sopravvivere e riesci a trovare l'unica Porta esistente su questo mondo, forse riuscirai ad andartene. Ti darò un indizio, anche se non lo meriti: troverai la Porta nelle vicinanze di un luogo che assomiglia a qualcosa che indossi. Ma dovrai scoprire il codice che la attiva. La Porta ti condurrà di nuovo nel nostro mondo. Dovrai cercarla sulla terraferma, il che limita le tue ricerche a circa ottanta milioni di chilometri quadrati di territorio. Anche se dovrei augurarti il peggio, non lo farò. Possa tu ottenere quel che meriti. Orc gemette. Anthema, il Mondo Non Voluto! Era stato creato dai misteriosi esseri vissuti molto tempo prima dei Signori. Essi avevano creato l'universo originario e i Signori, affinché lo popolassero. Anthema era stato realizzato con tanta rozzezza, che i Signori erano convinti fosse stato il primo tentativo dei pre-Thoan di costruire un universo artificiale. Nessun Signore aveva mai scelto di vivere in quel luogo. Anzi, pochis-
simi avrebbero saputo come arrivarvi. Los doveva aver caricato Orc sul velivolo, per poi attivare una Porta nel palazzo, o in qualche altro luogo. E così era arrivato su quel mondo insieme a Orc e al velivolo, che aveva usato per volare fino alla caverna. E cosa significava quella frase su una delle cose che indossava che gli avrebbe fornito un indizio per ritrovare il passaggio interdimensionale? Orc era nudo. Fu allora che si accorse della collana, e dell'oggetto che vi pendeva. Orc si alzò in piedi con difficoltà. Piegò il collo e osservò l'oggetto, che poggiava appena sotto lo sterno. Sebbene, a causa della posizione della testa di Orc, apparisse capovolto, il ragazzo lo riconobbe. Era un medaglione rotondo d'oro, uno di quelli che appartenevano al padre. Su di esso erano incisi in rilievo un nome, Shambarimem, e, più in basso, il Corno, una specie di tromba che era appartenuto a quel leggendario Signore. Era l'artefatto più vicino a un oggetto religioso che i Thoan possedessero. Ma che razza di indizio era? Forse alludeva a qualche montagna, il cui profilo era simile al Corno? Ma Orc, conoscendo la mente contorta del padre, era sicuro che l'enigma non fosse tanto semplice da risolvere. In effetti, l'indizio poteva anche non essere percepibile dalla vista. Ma per ora non importava. Per prima cosa, doveva riuscire a slegarsi le mani. Alla fine ci riuscì, ma non tanto presto. Si avvicinò al piccolo monolite contro cui si era svegliato, si girò, e si inginocchiò. Sollevò le braccia, si accosciò ancora di più, e avvicinò la corda a una sporgenza non troppo tagliente, in alto, vicino al bordo della roccia. Quella posizione era sia dolorosa che stancante, ma Orc continuò a segare, finché la corda non fu tagliata quasi a metà. Dopo essersi riposato un po', riprese i suoi sforzi. Quando sentì che la corda si era rotta, portò le mani avanti a sé e intraprese un' altra operazione piuttosto complicata: slegarle servendosi alternativamente di una o dell'altra mano. Dopo aver esaminato la caverna, senza trovare neppure l'ombra di una Porta, controllò la valle. Non vide altro che bizzarre creature volanti, dall'aspetto piuttosto minaccioso. Allora iniziò a discendere lungo il fianco della montagna. Non aveva alcuna ragione per essere troppo ottimista; si trovava in un mondo fatto non certo per lui. Ma la sua rabbia, e il suo desiderio di vendetta, l'avrebbero fatto sopravvivere a lungo. Tuttavia, avrebbe potuto vagare anche per mille anni in quel territorio smisurato, senza trovare il punto di riferimento e la Porta che si trovava all'interno, sopra o sotto di esso. Magari l'avrebbe vista e non si sarebbe accorto che era quello che stava cercando!
Era nei guai. Ah, per Shambarimem, se era nei guai! Che si presentarono prima del previsto. Un grido acuto alle sue spalle lo immobilizzò per una frazione di secondo. Un colpo vibratogli alla schiena lo scaraventò in avanti. Udì il battito di ali gigantesche. Urlò di dolore, mentre grandi e affilatissimi artigli gli laceravano la schiena. Anche Jim Grimson fu colto di sorpresa. Udì il grido, sentì il colpo, urlò per il dolore atroce. Per lui lo shock fu troppo intenso. Fu risucchiato fuori dal corpo di Orc, verso l'alto, a velocità molto maggiore dei suoi precedenti ritorni sulla Terra. Si svegliò nella sua stanza, seduto sulla sedia. Tremava, sudava, si sentiva stordito. Per un istante, provò ancora la sensazione di avere degli artigli piantati nella schiena, poi anch'essa svanì. Nonostante la paura, Jim avrebbe tentato di ritornare nel corpo di Orc anche subito. Ma ogni sua energia era stata risucchiata via in una silenziosa esplosione. Passò molto tempo, prima che Jim riuscisse ad alzarsi dalla sedia. CAPITOLO SEDICESIMO Quel giorno, i partecipanti alla terapia di gruppo erano più inclini del solito a discutere. I loro commenti erano più mordaci e si offendevano molto più facilmente. Forse nell'aria era stata sparsa un po' di quella polvere che provoca prurito, oppure a quello stadio della terapia la loro rabbia e la loro frustrazione erano più vicine alla superficie? Magari stavano scavando verso l'alto, verso la pelle, come parassiti che un forte vermifugo avesse scacciato dall'intestino. Gillman Sherwood, il ragazzo diciannovenne di Gold Hill, stava ricevendo più insulti del solito. Alcuni membri del gruppo lo detestavano e non si fidavano di lui perché proveniva da una famiglia ricca. Fino a quel momento, aveva risposto alla montagna di offese con il silenzio e un lieve sorriso. Ma la sua non-difesa non aveva avuto altro risultato che quello di far infuriare ancora di più i suoi avversari. Tra di essi, il più acceso era Al Moober, un sedicenne che non aveva mai avuto un soldo in tasca finché non aveva iniziato a spacciare droga. La sua nuova carriera era durata sei mesi. Poi si era fatto beccare dalla polizia. Ma era stato accusato di possesso e uso di stupefacenti, non di spaccio. Ce l'aveva tanto con Sherwood, uno dei suoi vecchi clienti, perché sospettava che fosse stato lui a passare la soffiata a quelli della narcotici.
I polsi di Sherwood erano ancora bendati; le bende coprivano i tagli che si era provocato durante il suo recente tentativo di suicidio. Gillman avrebbe voluto fare il pittore, ma i suoi genitori si erano opposti a quella scelta. Tutti e due, quando il figlio aveva soltanto tre anni, avevano stabilito che sarebbe andato alla Ohio State, per poi laurearsi in legge a Harvard. Dopo sei mesi alla Ohio, Gillman aveva avuto un «esaurimento nervoso.» Era uscito dalla casa di cura tre mesi dopo, era tornato a casa e si era assolutamente rifiutato di tornare al college. I genitori avevano continuato a insistere, nonostante gli avvertimenti del loro medico. Una notte, Sherwood aveva usato il sangue che scorreva nelle arterie dei suoi polsi per dipingere una visione d'incubo sulla sua paletta da pittore. E così era finito nel gruppo di terapia del dottor Porsena. Moober aveva rivelato agli altri pazienti che Sherwood era bisessuale e che ci aveva provato anche con lui. Ma le ragazze pensavano che Sherwood fosse divinamente bello, che assomigliasse a un Paul Newman molto più alto. Inoltre aveva flirtato con molte di loro. Perché avrebbe dovuto sentirsi attratto da un essere disgustoso come Moober? Quest'ultimo aveva insistito nel demolire i racconti di Sherwood sulle avventure di Wolff, l'eroe nella cui mente aveva scelto di entrare. Il dottor Scaevola, il medico che quel giorno supervisionava il gruppo, aveva tentato di far smettere Moober, ma il ragazzo aveva continuato come nulla fosse. Allora Scaevola lo aveva informato che, se non avesse obbedito alle regole, sarebbe stato spedito nella sua stanza a meditare su quanto gli sarebbe piaciuto essere sbattuto fuori a calci dal gruppo di terapia. Moober aveva smesso di aggredire verbalmente Sherwood, pur continuando a borbottare tra sé. Jim Grimson ascoltava gli altri distrattamente. Per prima cosa, era rimasto molto sorpreso quando, quella mattina, aveva visto Sandy Melton. Era seduta all'estremità opposta del refettorio, nel gruppo di ragazzi affetti da lievi forme di schizoaffettività. Fino a quel momento, Jim non aveva saputo che Sandy fosse ricoverata nell'ospedale. Non aveva sue notizie da quella sera in cui erano andati da Dumski. Le aveva rivolto un gesto di saluto. Sandy gli aveva sorriso e poi aveva ripreso a conversare con la ragazza che le sedeva accanto. Jim aveva intenzione di parlarle non appena ne avesse avuta l'occasione. Un'altra ragione per cui Jim non riusciva a concentrarsi era che continuava a chiedersi cosa fosse successo a Orc, dopo che lui era uscito dalla sua mente. A Jim, il mondo in cui si era ritrovato e il pericolo che aveva
affrontato sembravano molto più reali di quella stanza e delle persone che vi erano dentro, persone che non sapevano cosa fosse un vero pericolo. Si accorse che il dottor Scaevola gli stava parlando, e che tutti gli altri lo stavano fissando. «Tocca a te, Jim,» disse Scaevola. «Siamo tutti ansiosi di sentire quali avvenimenti hai vissuto durante la tua ultima esplorazione.» Jim dubitò che fossero così ansiosi. La maggior parte degli altri erano tanto immersi nei loro viaggi da curarsi poco o nulla del suo. O almeno era così che la pensava lui. Nel breve periodo in cui era stato in ospedale, aveva imparato qualcosa su se stesso: aveva la tendenza ad attribuire i propri sentimenti agli altri, ma spesso essi non corrispondevano a quelli reali. In futuro, avrebbe dovuto essere molto attento a non proiettare sugli altri i propri pensieri, le proprie emozioni. In teoria, la terapia di gruppo avrebbe dovuto funzionare più o meno come un club di lettura. I membri parlavano di vari personaggi del ciclo di Farmer, e dei loro sentimenti verso di essi. Illustravano come avrebbero modificato gli avvenimenti e i finali dei libri. Inoltre, discutevano sul modo in cui ciascun personaggio riflettesse la personalità e i problemi di chi l'aveva scelto. In ogni caso, la discussione era attentamente moderata dal medico responsabile del gruppo, che non permetteva che si giungesse al punto in cui le critiche sarebbero divenute troppo aspre. Una delle difficoltà che tutti i pazienti avevano a quello stadio della terapia era la ritrosia a fornire resoconti particolareggiati sulle esperienze che avevano vissuto negli universi tascabili. Jim condivideva quella riluttanza. E così, nel rispondere all'invito del dottor Scaevola, fornì una versione piuttosto scarna delle sue avventure. Omise molti particolari, poiché era convinto che fossero troppo personali. In un certo senso, aveva l'impressione che se gli altri fossero entrati troppo in profondità nel mondo di Orc, avrebbero tentato di strapparglielo. Gli altri pazienti desideravano i suoi mondi, così come i Signori bramavano quelli di altri Signori. Inoltre, Jim era convinto che gli universi in cui entravano gli altri pazienti fossero puramente immaginari. Si trattava di semplici fantasie, sebbene molto vivide e assai dettagliate. Ovviamente non aveva comunicato questa sua convinzione agli altri membri del gruppo. Così facendo, avrebbe invalidato i loro mondi. Jim terminò il suo racconto, pieno di esitazioni e di pause. E mentre parlava, lui stesso iniziò ad accorgersi che suonava troppo falso. Gli sembrò che gli altri lo stessero fissando dubbiosamente. Dannazione! Stavano in-
validando la sua storia! Monique Bragg, un ragazza di colore, disse, «Tuo padre, voglio dire il padre di Orc, lo ha colpito molte volte. Jim, ho l'impressione che sia molto simile a tuo padre. Inoltre, il suo comportamento, come del resto quello di Los, è imprevedibile: molte volte è crudele e severo, qualche volta è gentile e affettuoso, come dovrebbe essere un vero padre. Questo è un comportamento che genera insicurezza in un figlio.» «Di quale padre stai parlando?» le chiese Jim. «Il padre che ho in questo mondo, o quello che ho nell'altro?» Monique sorrise, rivelando i suoi denti bianchi e forti. «Di entrambi, scemo. Solo che, da un certo punto di vista, questo Los è diverso dal tuo vero padre. È molto bello e potente, un vero aristocratico, diciamo così, non un ubriacone senza un soldo come il tuo vero padre.» «Monique!» esclamò in tono calmo ma deciso il dottor Scaevola. «Per favore, astieniti da qualunque commento personale.» «Certo, Doc,» si scusò Monique. «Solo che... non ho detto niente su suo padre che Jim stesso non abbia detto. Stavo soltanto facendo notare come Los, e quella donna, la madre di Orc - Enitharmon? - somigliassero ai suoi genitori. Non pensa che siano i loro riflessi? In effetti, è proprio questo il principio su cui si basa la terapia, vero? Non ci ha detto che il mondo reale e quello dei Livelli erano immagini speculari? Proiettate da specchi deformanti, però.» «Certamente questo è un aspetto della terapia,» dichiarò Scaevola, «ma non dobbiamo soffermarci troppo sui parallelismi, specialmente su quelli abbastanza ovvi. A meno che tu non abbia qualche altra considerazione da fare.» «Forse sono le differenze a essere più importanti,» rifletté Monique. «La madre di Orc sembra essere sottomessa a Los, come lo è a suo marito la madre di Jim. Ma lei è bella, energica e sa resistere. Fino a un certo punto, certo. Forse sta per ribellarsi, magari finirà per uccidere Los. Questa è una cosa che tua madre non farebbe mai, vero, Jim? Ma forse tu speri che qualche giorno lo faccia. Non è così?» «Come faccio a saperlo?» replicò rabbiosamente Jim. «Sai, non sono io che creo la realtà! Le cose vanno come vanno, non come io penso dovrebbero andare!» Per un attimo cadde un profondo silenzio, interrotto soltanto da un grugnito ironico di Moober. Poi Scaevola disse, «Sì, è così! Ricordate, non stiamo scrivendo delle
storie. Queste cose accadono veramente. Che avvengano all'interno o all'esterno della vostra mente, esse esistono. Un pensiero è altrettanto reale quanto una, uh...» «Scoreggia!» esclamò ad alta voce Moober e si piegò in due per le risate. «Sono entrambi fenomeni evanescenti, ma nondimeno esistono per un breve istante di gloria, o di fetore,» replicò Scaevola. «Ehi, sulla Terra esisteranno milioni di genitori come i miei,» protestò Jim. «E ce n'è qualcuno anche nei mondi dei Signori. Nulla di strano. Dunque piantatela con la psicanalisi, per amor di Dio!» Brooks Epstein parlò per la prima volta da quando era iniziata la seduta. Era un ragazzo alto, magro e scuro di carnagione, che portava occhiali con la montatura di corno e lenti spessissime. Anche se era di Gold Hill, era sfuggito agli insulti e al disprezzo di cui veniva coperto Sherwood. Il padre di Epstein era stato molto ricco, ma poi era fallito e si era suicidato. L'assicurazione della madre copriva appena le spese della terapia del figlio. «Smetterla con la psicanalisi?» ripeté. «Ma pensavo che fossimo qui proprio per questo!» «Siamo qui per essere sottoposti a una terapia, per guarire, non per sedere in cerchio e analizzarci uno con l'altro finché non scoppiamo,» disse Jim. «Analizzare significa scomporre. Non rimetteremo mai insieme i pezzi.» «Grazie, dottor Freud,» commentò Epstein. «Comunque...» Alla fine della seduta, tutti i membri del gruppo erano infuriati uno con l'altro. Il dottor Scaevola aveva tentato di medicare le ferite e di raffreddare gli animi. Ma quella volta le sue parole pacate, la sua ragionevolezza e la sua tendenza al compromesso non funzionarono. Fino a quel momento, alcuni dei pazienti erano stati tanto timidi da non osare offendere nessuno. Altri avevano un brutto carattere, e ciò si rifletteva nei personaggi che avevano scelto, tutti arroganti e facili alla collera. Ogni tanto, i responsabili del gruppo erano costretti a intervenire per tenerli a freno. Ma, nello stesso tempo, dovevano stare attenti a non reprimerli troppo, per evitare che andassero soggetti a crisi improvvise o che perdessero le loro identità fittizie. Per quanto i membri del gruppo si comportassero in maniera aggressiva e offensiva, erano tutti molto simili. Tutti avevano una bassa stima di sé: una parte della loro personalità era rimasta atrofizzata. Guadagnare una giusta consapevolezza del proprio valore era uno degli obiettivi, piuttosto difficile da raggiungere, della terapia. Ma per convincersi di valere qualco-
sa, i membri del gruppo dovevano essere qualcun altro per un po'. Pochi minuti dopo la fine della seduta, a Jim fu annunciata una visita: Sam Wyzak. Il dottor Scaevola in quel momento era assente, e così fu il dottor Tarchuna a dover dare a Jim il permesso di incontrare Sam. Comunicò il suo assenso via telefono. Jim si recò pieno di aspettativa nella saletta riservata ai visitatori. Un infermiere, Dave Gurscom, rimase sulla soglia a controllare i due ragazzi. Non appena Jim fu entrato nella stanza, Sam balzò su dalla sedia. Gli spuntò un sorriso raggiante e corse verso l'amico, facendo roteare follemente le braccia. Si incontrarono al centro della stanza e si abbracciarono. Jim era contentissimo di vedere Sam, ma non poté fare a meno di arricciare il naso all'odore dell'amico. Da quando era in ospedale, faceva la doccia ogni giorno e mandava la biancheria sporca alla madre. Ma non disse nulla a Sam dell'odore che emanavano il suo corpo e i suoi indumenti non lavati. Dopo tutto, i vestiti che Jim indossava in quel momento erano di Sam. Senza di essi, avrebbe avuto soltanto il pigiama fornito dall'ospedale, una vestaglia e le pantofole. Sam smise di sorridere non appena si sciolse dall'abbraccio di Jim. Cadde pesantemente a sedere sulla sedia. «Jim, devo dirti alcune cose, devo chiarire alcune faccende. C'è una cosa che devo assolutamente fare, e non ti piacerà. O forse sì, non lo so. Ma ormai sono in un vicolo cieco. Devo andarmene, e non voglio farlo.» «Andare dove?» «In California. Hollywood, per essere esatti. Devo andarmene da questo cazzo di posto, da questo buco del culo dell'universo. Sono in una brutta situazione. Sono stato ammesso in un centro di riabilitazione per tossicodipendenti, per tossici "duri", come direbbe mio padre. Il tribunale mi sta col fiato sul collo. Il giudice ha detto che devo ravvedermi, che non devo assolutamente essere bocciato. I miei, e i tizi della scuola, gli inviano rapporti settimanali, e non sono abbastanza buoni. Sarò bocciato, anche se sto studiando come un pazzo per alzare i miei voti.» Sam si coprì gli occhi con le mani, e sbirciò Jim dagli spazi tra le dita, quasi fossero sbarre di prigione. La sua voce tremò. «Jim, non ce la faccio più! Fuggo in California, sparisco, sul serio. Non so cosa farò una volta laggiù, ma è probabile che dormirò per strada. Per un po', almeno. Porterò con me la chitarra. Potrei anche entrare in qualche gruppo. O forse no. Non sono un grande musicista, ma questo non ha fermato molte rock star. In ogni modo, ci proverò. Tutto è meglio di quel che
faccio adesso.» Jim tacque per almeno un minuto. Le mani di Sam gli erano ricadute in grembo, ma i suoi occhi scuri erano fissi in quelli di Jim. Sembrava sperare che... cosa? Che il suo vecchio amico avrebbe pronunciato sagge parole che gli avrebbero dato speranza? Jim agitò la mano. Fu un gesto vago: non indicava nulla, se non un'assoluta impotenza. Cosa poteva fare lui, ricoverato nel padiglione di igiene mentale di un ospedale, con vestiti presi a prestito, estraniato da chiunque conoscesse, tranne il dottor Porsena e i suoi pazienti, con cui i rapporti non erano neppure tanto stretti, cosa poteva fare per il suo amico? Inoltre, non riusciva a non pensare ai propri progetti, che rischiavano di andare all'aria, anche se si sentiva un vero stronzo a preoccuparsi di se stesso, mentre Sam si trovava in quella situazione. Qualche giorno prima, Sam gli aveva detto per telefono che quando sarebbe stato dimesso dall'ospedale avrebbe potuto andare a vivere dai Wyzak. Lui e Sam avrebbero diviso la stessa stanza, gli stessi vestiti e lo stesso cibo. Era stata Mrs. Wyzak, generosa come al solito, a proporre quella soluzione. Sapeva che i gènitori di Jim vivevano in un appartamento minuscolo e che non avevano denaro da dare al figlio. Presto Jim avrebbe compiuto diciotto anni, e il padre avrebbe perso la quota di denaro che l'assistenza pubblica gli versava per il figlio. Inoltre, Eric Grimson non voleva che il figlio andasse a vivere con lui. Ma ora che Sam era deciso ad andare via, i suoi genitori sarebbero stati ancora disposti a ospitare il suo amico? Jim si schiarì la gola e disse, «Non stai parlando al vecchio e saggio uomo sulla montagna, al guru che vede tutto, sa tutto e che può indirizzarti sul sentiero che ti condurrà alla salute, alla ricchezza e alla fama. Mi dispiace, Sam, ma non so cosa dirti, se non augurarti buona fortuna. Potrei consigliarti di fare la richiesta per partecipare alla terapia del dottor Porsena. Ma c'è una lista d'attesa lunga un chilometro. Sono stato incredibilmente fortunato a esservi stato ammesso.» Sam non rispose. L'espressione del suo volto era indecifrabile, ma Jim credette di intuire rimprovero e paura dietro di essa. «Gesù, Sam, io voglio aiutarti! Ma non posso!» Sam replicò, «Non mi aspettavo nulla da te. Non si può chiedere a uno che sta annegando di salvarti dall'acqua. Volevo soltanto dirti cosa farò. Non stavo chiedendo la tua benedizione.» «Dannazione, Sam, mi stai facendo sentire una merda! Ho l'impressione
di tradirti!» «All'inferno,» rispose Sam. Si alzò. «Mamma ti accoglierà, anche se io non ci sarò. Anzi, sarà più felice che mai di averti. Sai, fare la madre è la cosa che preferisce di più, dopo il comandare a bacchetta gli altri.» La sua voce si incrinò. Iniziò a piangere e le lacrime gli colarono lungo gli angoli della bocca. «Gesù, quando eravamo bambini felici, anche se abbiamo passato dei momenti davvero brutti, non avremmo mai immaginato che sarebbe finita così!» Jim non riuscì a pensare a niente di meglio se non a abbracciare Sam, dandogli forti pacche sulla schiena. Era tutto quello che poteva fare; forse fu sufficiente. Sam singhiozzò per qualche istante, poi si calmò e si asciugò via le lacrime con un fazzoletto alquanto sudicio. «Ah, Jim! Pensiamo di essere cresciuti e di non avere bisogno di nessuno, vero? Ma quando poi siamo in ballo, scopriamo di essere ancora dei poppanti. Ammetto di essere un po' spaventato. E perché no? Inganno solo me stesso, quando pretendo di essere duro come la suola di una scarpa fritta. Non direi queste cose a nessun altro che a te, Jim. Non voglio andarmene sul serio. Ma qui la situazione si è fatta insopportabile. Addio, Belmont City! California, arrivo! A mamma si spezzerà il cuore, ma in fondo sarà contenta di essersi sbarazzata di me. Non dovrà controllarmi ogni istante per paura che faccia qualche cosa di male.» «Pensi che potrai tenerti in contatto con me, non so, scrivendomi una cartolina di tanto in tanto?» «Solo se riuscirò a rubarla insieme a una penna,» rispose Sam. «Non ho molti soldi.» Poi rise ed esclamò, «Ehi, potrebbe andarmi meglio di quel che io pensi! La California è uno stato meraviglioso: lingotti d'oro sui marciapiedi, coni gelati che crescono sugli alberi, stelline di Hollywood che non vedono l'ora di sbattersi un pezzente polacco tutto pelle e ossa. Almeno, quando verrà l'inverno, non congelerò per strada. E nei bidoni della spazzatura troverò roba da mangiare molto migliore di quella che mi danno qui.» «Forse dovresti pensarci sopra ancora un po',» insisté Jim. «Prima di fare il grande salto, voglio dire.» In quel momento, qualcosa si impadronì di lui. Improvvisamente, le sue parole che invitavano Sam alla cautela gli parvero quelle di un vigliacco. Fu come se una corrente elettrica che scorreva dentro di lui avesse di colpo iniziato a fluire in direzione opposta. Allora esclamò, «Al diavolo, Sam! Non dicevo sul serio! Sarà un'avven-
tura grandiosa! E, nel caso peggiore, avrai provato qualcosa di diverso! Meglio un giorno da leone che cento da pecora! Sai per certo che qui non hai alcun futuro! Va' in California! Sarà eccitante, ti darà nuove speranze e infinite opportunità! Vorrei poter venire con te!» Sam ammiccò, come se Jim fosse stato avvolto da una luce accecante. «Cosa ti è successo?» Poi chiese, «Perché non vieni con me?» Jim scosse la testa. «Mi piacerebbe... ma...» «Ma cosa?» «Dovresti essere nella mia pelle, per poter provare ciò che io provo per questo posto, per poter vivere quello che io sto vivendo. Quest'ospedale, Sam, è la mia avventura. È un vero e proprio mondo, un mondo che...» Come poteva spiegare a Sam gli universi dei Signori e le sue avventure come Orc il Rosso? Come poteva fargli comprendere che la dorata California non era che vile piombo di fronte ai luoghi in cui era stato, e in cui sarebbe ritornato? In ogni caso Sam non avrebbe capito. «Sei sempre stato un po' strano, Jim, anche se siamo andati sempre d'accordo alla grande. Non capisco cosa diavolo significhi per te questo schifo di posto. Per me non significa nulla.» Tese la mano. «Addio, Jim. Spero che ci incontreremo in qualche altro posto, magari migliore di questo.» Jim scosse il capo. Il fatto che Sam gli avesse offerto la mano, invece di abbracciarlo, significava che stava già iniziando ad allontanarsi da lui, che sentiva di non essergli più vicino. Ormai erano due buoni amici che si stavano trasformando in due estranei. Jim si sentì male. Ma doveva andare così. Era il carattere a forgiare il destino di ciascuno. Il suo gli aveva fatto imboccare una strada diversa da quella di Sam. Sarebbe accaduto in ogni caso, presto o tardi. Era solo successo prima del previsto, ecco tutto. Tuttavia, Jim si sentì molto triste. Rimpianse anche di aver esortato Sam a intraprendere la sua avventura. Ma, subito dopo, cambiò idea, facendo svanire molta della sua tristezza e ogni rimpianto. Per Sam, per chiunque, era meglio abbandonare il luogo in cui si era nati e affrontare un paese sconosciuto. A patto che nel luogo in cui si era nati regnassero ristrettezze inevitabili e fallimenti annunciati. Sam disse, «Parla con mia madre. Ti ospiterà quando avrai bisogno di una casa. Dovrai sopportarla, ma almeno non morirai di fame. Però fa' come ti dice.» Sam si girò e andò via, senza voltarsi neppure una volta indietro.
Jim gli gridò, «Buona fortuna! Sarai sempre nei miei pensieri, Sam!» Sam non rispose. CAPITOLO DICIASSETTESIMO «Aaaargh!» Il grido dell'essere che lo aveva attaccato e quello di Orc vennero emessi nello stesso momento. I due, avvinti in una lotta mortale, presero a rotolare lungo il fianco roccioso della montagna. Orc era caduto a faccia in giù, trascinando con sé l'assalitore. Poi, rotolando su se stesso, era riuscito per un istante a schiacciare la creatura sotto il proprio peso. L'essere aveva grandi ali, un corpo piccolo, il collo lungo e sottile, una testa grande il doppio di quella di Orc. Il becco era aguzzo e affilato come quello di un aquila. Per essere un volatile, aveva delle zampe eccezionalmente lunghe. Gli artigli erano lunghi, affilati e ricurvi, ma dopo essere rotolato su se stesso ancora una volta, Orc riuscì a staccarseli dalle spalle. Anche se la creatura assomigliava a un uccello, non aveva piume. I due - tre, se si contava anche Jim - continuarono a rotolare, scivolare e cadere lungo il pendio. Sia l'aggressore che l'aggredito si coprirono di lividi, graffi e scalfitture. Entrambi emisero grida di dolore. Poi andarono a sbattere contro un masso e si fermarono. Fortunatamente per Orc, la creatura si trovava tra lui e la roccia, quando avvenne l'impatto. Le ossa del corpo gli si spezzarono; quelle delle ali lo avevano già fatto durante la caduta. Orc tentò di alzarsi, in modo da poter torcere il collo dello pseudovolatile. Non ci riuscì. Ma anche la creatura era semi-paralizzata. Agitava convulsamente le zampe, il collo ondeggiava come un serpente, il becco si apriva e chiudeva furiosamente, con uno schiocco secco. Dopo circa un minuto, i suoi occhi gialli si appannarono e la creatura morì. Orc rimase disteso per molto tempo, mentre il sole compiva il suo arco attraverso il cielo azzurro. Vide volteggiare su di sé due creature simili a quella che l'aveva attaccato. Stavano girando in circolo, con le teste inclinate da un lato per osservarlo. Orc sperò di farcela a rialzarsi, prima che decidessero che non avrebbero avuto problemi nell'atterrare per pasteggiare col suo corpo. Nel frattempo, finché non era in pericolo, si sarebbe preso un po' di riposo. Se così poteva definirsi uno stato in cui il corpo gli doleva dappertutto. Da molte parti del suo corpo, compreso l'inguine, era
stata strappata un bel po' di pelle, e molte altre non erano in condizioni tanto migliori. In più, testa, ginocchia, gomiti, dita dei piedi, orecchie, labbra, naso, mento e genitali avevano urtato molte volte contro la roccia. Un mal di testa atroce lo avvertì che forse aveva subito una commozione cerebrale. «Benvenuto su Anthema, il Mondo Non Voluto!» mormorò. Il padre l'aveva sistemato davvero per le feste. Ma non per sempre. Lui si sarebbe sforzato di ritornare, non avrebbe lasciato niente di intentato, e avrebbe provato a far fuori Los. Poi, però, gemette per il dolore. Ma poteva benissimo piangere e lamentarsi. Nessuno lo stava osservando. Tranne me, pensò Jim. Ci sono io a osservarlo. Ma non c'è problema, se piangere e lamentarsi serve ad alleviare la sua sofferenza. Soffro anch'io, per ferite identiche alle sue, e vorrei tanto potermi lamentare. Ma non posso. Però lui lo sta facendo anche per me, anche se non lo sa. Jim considerò seriamente la possibilità di sganciarsi dalla mente di Orc. Non voleva sopportare quel dolore un istante in più del necessario. Ritornare nella sua stanza avrebbe significato un'immediata cessazione della sofferenza che torturava il suo corpo. Ma resistette, dicendosi che non avrebbe abbandonato Orc proprio in un momento come quello. Qualcosa gli impediva di andarsene. Forse la vergogna? Ma era ridicolo. Orc non avrebbe avuto né danni né benefici, se il suo compagno invisibile e intangibile lo avesse abbandonato. Tuttavia, Jim sapeva che si sarebbe comportato da vigliacco, se avesse scelto la via d'uscita più facile e indolore. Mentre Jim combatteva la sua silenziosa battaglia con se stesso, Orc si era alzato e aveva iniziato a discendere il fianco della montagna. Ogni movimento era un'odissea di sofferenza. Tuttavia Orc non si fermò. Superò i frammenti di roccia che si erano accumulati ai piedi della montagna e si inoltrò nella foresta, formata per lo più da alberi simili a pini molto alti, ma con piume scarlatte che spuntavano alle estremità dei rami. Il loro odore era simile a un misto di vaniglia e noccioline. Tra quegli alberi crescevano grossi cespugli, dai cui tronchi spessi come barili spuntavano una dozzina di fronde simili a felci. Interi sciami di insetti ronzavano intorno a quei cespugli. Sembravano essere attratti da un liquido viscoso e giallastro che scaturiva dalla base delle fronde. Il liquido emanava un fetore come di patate marce mischiate a formaggio del Limburgo. Gli alberi erano popolati da mammiferi volanti delle dimensioni di un topo. Scendevano in picchiata, inghiottivano alcuni insetti, e volavano via,
per riunirsi al branco. Uno di essi svolazzò accanto a Orc. Il ragazzo lo afferrò a mezz'aria, lo strinse fino a stritolargli le ossa sottili, gli strappò via le ali, la testa e le zampe, ne bevve il sangue. Poi, usando le unghie, lo spellò e lo inghiottì in un solo boccone. Masticando lentamente, in modo di separare la carne dalle ossa con la lingua, Orc continuò il suo viaggio nella foresta. Jim era assolutamente orripilato. Ma, nello stesso momento, percepiva anche la soddisfazione che provava Orc nell'aver trovato qualcosa da mangiare. Quella sensazione, ben presto, sopraffece il disgusto di Jim. Jim venne a sapere quasi subito, poiché Orc lo stava pensando, che ai giovani Signori veniva insegnato come sopravvivere o addirittura vivere senza alcun disagio in una zona selvaggia. Non era la prima volta che Orc mangiava carne cruda. Ma quando sarebbe stato in grado di accendere un fuoco, l'avrebbe cotta. In quella zona c'era abbondanza di selce. Ne avrebbe ricavato coltelli, punte di lancia, asce e punte di freccia. Poi avrebbe ucciso degli animali e con le loro pelli avrebbe confezionato dei vestiti e delle bisacce. Dopodiché, avrebbe costruito una zattera e disceso il fiume. Diciotto giorni dopo aver preso quelle decisioni, arrivò sulla sua zattera all'ampia foce del fiume. Al di là si stendeva un vasto oceano. CAPITOLO DICIOTTESIMO C'era qualcun altro nella mente di Orc. Jim si era spaventato molte volte, da quando era entrato nel giovane Signore, ma il fatto che fosse costretto a dividere la mente di Orc con un' altra persona, o meglio con un altro essere, lo terrorizzò addirittura. Era così... così... ripugnante e... furtivo. Se avesse avuto una gola e uno stomaco, Jim avrebbe vomitato. La presenza di uno sconosciuto - senza dubbio si trattava di uno sconosciuto - esercitava una violenza insopportabile sul suo animo. Non conosceva l'esatta natura dell'intruso che adesso era in Orc. Il primo indizio che qualcun altro, o qualcos'altro, era entrato nella mente del giovane Signore, Jim l'aveva avuto due giorni dopo che Orc si era accampato alla foce del fiume. Era stato allora che Jim aveva percepito la presenza dell'altro: una sensazione difficile da descrivere. Jim aveva saputo che l'essere non era là, fino a quel momento terribile in cui si era accorto della sua
presenza. Era stato come vedere l'ombra dell'uomo invisibile di H.G. Wells, o come quando, da bambino, si era svegliato nel bel mezzo della notte e aveva capito che nell'armadio era in agguato un mostro, che lo stava spiando attraverso l'anta appena aperta. L'unica differenza era che adesso c'era davvero qualcosa nel cervello di Orc, e non era stata evocato dall'inconscio di Jim. Era davvero là. Come faceva Jim a sapere che le intenzioni di quell'essere erano malvagie? Forse nello stesso modo in cui un uomo che sta morendo di sete nel deserto sa perché gli avvoltoi roteano in circolo su di lui. Il giorno prima di arrivare al mare, Orc si era svegliato avvolto in un turbine di una qualche sostanza azzurra. Proveniva dal corso superiore del fiume, spinta dal vento, ed era composta da innumerevoli frammenti grandi quanto una mano e la cui forma assomigliava molto a quella dei fiocchi di neve. Emanavano un forte odore di noce moscata. Per qualche minuto, quei fiocchi erano stati tanto numerosi, che Orc non era riuscito a vedere a più di tre metri. Di colpo, la loro densità era diminuita. Ne erano caduti degli altri; poi la tempesta era finita. Non si erano sciolti, ma, giunta la sera, la maggior parte di essi era svanita. Un'orda di insetti, uccelli e animali era sbucata dal profondo della foresta e si era affrettata a divorarli. Quelli che erano sfuggiti al primo e frenetico banchetto, poche ore più tardi erano diventati marroni ed erano stati ignorati dagli animali. Orc, avendo osservato la scena, aveva deciso di partecipare all'abbuffata. I fiocchi di neve sembravano funghi secchi e cristallizzati. In ogni caso, il loro sapore assomigliava a quello di asparagi bolliti e zuccherati. Orc si era rimpinzato di quei fiocchi, anche se dopo aveva dovuto bere molta acqua. Gli avevano provocato una tremenda arsura. Jim aveva ipotizzato che potessero contenere una specie di virus che si infiltrava nel corpo di chi li aveva mangiati. Poi il virus attaccava il sistema nervoso e, in qualche modo, si trasformava da una massa disorganizzata a una copia perfetta del sistema nervoso del suo ospite. Il virus diveniva l'essere in cui era entrato, o piuttosto la sua copia, poiché era soltanto una spettrale ricostruzione dei nervi e del cervello del suo ospite. Privava quest'ultimo della sua identità, a cui sostituiva quella presa a prestito. Quando aveva riflettuto sulla questione, a Jim era scoppiato un mal di testa metaforico. Si era reso conto che poteva anche aver sbagliato tutto. Poteva darsi che fosse una pura coincidenza che l'intruso fosse comparso poco tempo dopo che Orc aveva mangiato i fiocchi. Al diavolo le spiegazioni, si era detto. Affronta la faccenda e basta. Tro-
va un modo per combattere l'entità invisibile, incorporea e senza volto. Jim si era chiesto in quale modo avrebbe potuto avvertire Orc. Dopo un po', aveva capito che non ne aveva la possibilità. La battaglia, se si fosse arrivati a quel punto, riguardava soltanto lui e l'essere. E poiché si era stancato di chiamarlo così, aveva deciso di dargli un nome. Tutto doveva avere un nome, un qualcosa che lo identificasse. Quale poteva essere quello della creatura? Allora gli era passato per la mente il nome «cervello fantasma». Era buono quanto qualsiasi altro. E così aveva battezzato «cervello fantasma» la creatura. Cinque giorni dopo essere arrivato sulle rive del mare, Orc stava cacciando: aveva bisogno di carne fresca. Dopo tre ore, scorse una delle antilopi che vivevano nella foresta e iniziò a seguirla furtivamente, con una freccia incoccata, pronta a saettare immergendosi in uno dei fianchi a macchie nere e marroni del cervide. Ma qualcosa spaventò l'animale, prima che Orc potesse avvicinarsi a distanza di tiro. L'antilope balzò via, aggirando con bruschi scarti i cespugli più alti e superando con un salto quelli più bassi. Imprecando silenziosamente, Orc raggiunse con molta cautela il punto in cui si era trovato l'animale. La bestia che l'aveva spaventato poteva essere grande e pericolosa. Poi, spiando da dietro un cespuglio, scoprì l'essere che aveva causato la fuga del cervide. Aveva le dimensioni di una puzzola, e agitava una coda folta e nera. Stava scavando nel terreno col muso a spatola e le zampe dai lunghi artigli. Il cibo che stava cercando era sepolto a nemmeno cinque centimetri di profondità. La bestia non ci mise molto per scoprirlo e iniziare a divorarlo. In circostanze diverse, Orc sarebbe stato disgustato: quella ripugnante creatura per lo più si nutriva di carcasse e escrementi, di qualunque cosa fosse morta o sul punto di farlo. Ma quella volta, Orc fu troppo sbalordito per farsi travolgere dal disgusto. Come si era aspettato, il pasto della bestia era costituito da feci. Ma Orc non si aspettava che si trattasse di feci umane fresche. Non era l'unico essere umano sul pianeta. Orc ruotò di scatto su se stesso, fissando la foresta alle sue spalle. Il cuore gli batteva furiosamente, non di gioia ma di timore che l'altro gli si stesse avvicinando di soppiatto. Poi notò un viso scuro e la punta di una lancia che scomparivano fulmineamente dietro un cespuglio.
Raggiunse l'altro lato del cespuglio e si guardò attentamente intorno. L'uomo dalla pelle scura poteva avere dei compagni. Quando fu ragionevolmente sicuro che non c'erano, esclamò ad alta voce, «Io sono Orc, figlio di Los ed Enitharmon! Sono solo! Non abbiamo alcun bisogno di tentare di ucciderci a vicenda! Sto cercando una Porta per andarmene da questo mondo! Non ho alcuna faida, se non con mio padre! Stabiliamo un accordo! Ciascuno di noi avrà migliori possibilità di trovare la Porta, se uniamo i nostri ingegni e le nostre risorse!» Poi attese. Non vi fu risposta, e Orc fu sicuro che l'uomo scuro avesse abbandonato il cespuglio nell'istante in cui aveva capito di essere osservato. Ripeté il suo discorso. Un uomo gli rispose a voce alta, ma alle sue spalle. Il suo thoan differiva da quello di Orc nella pronuncia e nell'intonazione, ma era perfettamente comprensibile. «Affermi che la tua unica faida è con il maledetto Los?» «È così!» «Nessun altro è stato abbandonato insieme a te su questo mondo?» «No, che io sappia,» replicò Orc. «Riponi la freccia nella faretra,» ordinò l'uomo. «Poi rimani immobile. Verrò io da te, anche se non mi avvicinerò troppo. Terrò pronta la mia lancia. Ma preferirei che diventassimo amici.» Dopo qualche altra parola, pronunciata più che altro per assicurarsi che nessuno dei due fosse in vantaggio sull'altro, l'uomo uscì da dietro un albero. Era più basso di Orc ma anche più massiccio. Indossava un berretto di pelliccia e un perizoma dello stesso materiale. Una bandoliera di cuoio gli attraversava il petto. Da essa pendevano un'ascia e un coltello di pietra. Aveva lasciato l'arco e la faretra dietro l'albero. La pelle era di un marrone scuro, il naso era largo e piatto e le labbra molto carnose. I capelli che fuoriuscivano dal berretto erano di un nero lucente e leggermente crespi. Quando fu a una decina di metri da Orc, si fermò. Gli occhi castani erano cauti, anche se la bocca era atteggiata in un sogghigno che scopriva i denti bianchi e forti. «Tu sei Orc, figlio di Los ed Enitharmon,» disse. «Io sono Ijim, figlio di Natho e Ocalythron.» «Ijim delle Foreste Oscure?» chiese Orc. «Sì. Io sono - ero - il Signore del Mondo delle Foreste Oscure.» «Allora sei un mio pro-pro-prozio,» affermò Orc.
«Il che non implica necessariamente che diverremo amici,» commentò Ijim. «Come dicono in più di un mondo: "Gli amici puoi anche sceglierteli, ma un cugino rimane sempre un cugino, che ti piaccia o no."» Rimanendo sempre alla stessa distanza, Orc raccontò a grandi linee la sua storia. Nel frattempo, continuò a guardare in entrambe le direzioni e a lanciarsi rapidi sguardi alle spalle. Magari Ijim aveva detto la verità, quando aveva affermato di essere solo. Ma un Signore troppo fiducioso moriva presto, se si prestava fede a quanto affermava un altro antico detto. Ijim disse, «E così tu sei il figlio della meravigliosa Enitharmon e di Los, il Profeta Eterno, Colui-che-possiede-la-Luna! Ecco quali erano i suoi titoli quando viveva in un mondo diverso da quello attuale, prima che Enitharmon divenisse sua moglie e che tu nascessi. Ed ecco, in breve, la mia storia.» Uno dei Signori, una donna chiamata Ololon, aveva trovato il modo di evitare le ingegnose trappole che Ijim aveva inserito nella Porta da cui entrava nel suo mondo. Ololon era quasi riuscita a uccidere Ijim, ma lui le era sfuggito. Mentre veniva inseguito attraverso una serie di Porte che lo avevano condotto da un mondo all'altro, Ijim era stato costretto a oltrepassare una Porta che conduceva in un luogo a lui ignoto. Era percorribile solo in un senso e presto Ijim si era accorto di essere finito su Anthema. Tutto questo era accaduto quarantaquattro anni prima. Da allora, Ijim aveva continuato a cercare la Porta che gli avrebbe consentito di abbandonare il Mondo Non Voluto. Quarantaquattro anni! pensò Jim. Durante tutto quel tempo, Ijim doveva aver sicuramente mangiato i fiocchi azzurri. Il che significava che era un cervello fantasma a usare il suo corpo e la sua mente. Non era Ijim che stava parlando a Orc, ma un Essere. Poi Jim si rese conto che quella, in un certo senso, non era la verità. Il Cervello fantasma era diventato Ijim, pensava come lui, a tutti gli effetti era lui. Il primo Ijim era morto. Il secondo era assolutamente indistinguibile dal primo. Dunque non era molto più sinistro del suo predecessore. Quello doveva essere stato tanto sinistro da soddisfare le aspettative di chiunque. «Come hai detto tu, nipote, nessuno di noi due ha qualcosa che l'altro brama. A meno che tu non voglia Anthema!» Ijim scoppiò in una lunga e selvaggia risata. Orc si chiese se la sua lunga solitudine lo avesse fatto impazzire. Dopo essersi asciugato le lacrime di allegria con il dorso della mano, I-
jim disse, «Puoi averlo. Non me ne andrò mai troppo presto di qui. E allora, cosa ne dici, Orc, nipote mio? Dimenticheremo i nostri reciproci sospetti e lavoreremo insieme in maniera affettuosa e leale?» «Per quanto è possibile a due Thoan.» «Benone! Scambiamoci il bacio di eterna amicizia, ma evitiamo di tastarci la schiena a vicenda, nel tentativo di trovare un punto debole in cui affondare il pugnale!» Orc pensò che il bacio era durato troppo, e che lo zio avrebbe potuto anche evitare di palpargli tanto le natiche. Ma forse Ijim aveva tanto bisogno di contatto con un essere umano, da non poter lasciare andare il nipote prima di essersene saziato completamente. O forse a Ijim erano piaciute soltanto le donne, quando erano state facilmente disponibili, ma ora, dopo quarant'anni di astinenza forzata, era ben lieto di approfittare di chiunque gli capitasse tra le mani. Ritornarono verso l'accampamento fianco a fianco. Ijim spiegò che aveva visto Orc il giorno precedente, ma che, invece di andarlo a salutare con gioia, si era nascosto con l'intento di osservarlo per qualche tempo, prima di rivelare la sua presenza. Orc disse che era una coincidenza incredibile che gli unici due esseri umani su quel pianeta si fossero incontrati. «Non proprio,» replicò Ijim. «Sono arrivato qui dalla stessa Porta che ha usato Los, quella nella caverna. Ho esplorato minuziosamente quel luogo, ma la Porta era troppo ben nascosta. Forse c'è bisogno di una parola in codice per farla apparire. Dopo quarantaquattro anni passati a cercare la Porta e a vivere come un animale, sono tornato qui. Ho pensato che la Porta di uscita fosse vicina a quella di entrata. Ovviamente, ci avevo pensato non appena arrivai qui per la prima volta. Ho setacciato la zona tanto accuratamente che ancora adesso mi ricordo ogni suo dettaglio. Ma ho deciso di fare un altro tentativo. Male non mi avrebbe fatto. Questa volta, visto che tu hai un indizio, il medaglione di Shambarimem, potremmo avere buone possibilità di trovarla.» «Hai visto qualcosa qui in giro che assomigli, anche alla lontana, a un corno?» chiese Orc. «Non soltanto dal punto di vista visivo, ma anche verbalmente o analogicamente?» «Nulla. Ma a quel tempo non stavo cercando un punto di riferimento che fosse collegato, sia pure remotamente, a un corno. Questa volta la situazione è diversa.» Dopo essere arrivati al luogo in cui si era accampato Orc e aver parlato
un altro po', si recarono a caccia insieme. Nel giro di venti minuti, uccisero un animale molto simile a un maiale con quattro corna. Prima di mangiarlo, Orc decise di farsi una nuotata nel fiume. Anche se aveva bisogno di un bagno, lo scopo principale di Orc era capire se poteva davvero fidarsi di Ijim. Lasciò le armi sulla riva, ma presto l'uomo dalla carnagione scura si unì a lui. Soddisfatto che Ijim, almeno per il momento, si fosse dimostrato un compagno fidato, Orc uscì dall'acqua. Ijim rimase dentro. Ma chiamò Orc, mentre quest'ultimo si chinava a raccogliere i vestiti. Poi scoppiò in una risata fragorosa, che sembrò non finire mai. Quando si fu calmato, disse, «Non vestirti ancora.» «Perché no?» chiese Orc. Non era sicuro di quali intenzioni avesse Ijim. «Non puoi vederla!» gridò Ijim e rise ancora una volta. «Vedere cosa?» «Oh, quel Los!» esclamò Ijim. «Ti ha giocato un tiro davvero buffo, e molto triste. Be', per te triste lo sarebbe stato sicuramente. Ma fortunatamente per entrambi, Los non aveva previsto che qui avresti incontrato un altro Signore.» «Ma di cosa stai parlando? Spiegati!» «Non puoi vederla!» gridò il Signore delle Foreste Oscure. «Avresti potuto non vederla mai, magari avresti vagato per sempre su questo terribile mondo senza vederla!» «Hai intenzione di farmi morire di curiosità? O dovrò strangolarti, per avere una spiegazione?» «Sulla tua schiena c'è una mappa!» gli gridò Ijim. «Inizia tra le scapole e ti arriva fin quasi alla cintola!» Sogghignando, uscì dal fiume. Orc continuò a dargli la schiena, in modo che Ijim potesse studiare la mappa, se si trattava davvero di una mappa. Orc non era tanto sicuro che il padre non avesse deciso di giocargli uno scherzo doppiamente terribile. La mappa poteva essere un inganno destinato a condurlo per tutto il pianeta fino a un luogo in cui non ci sarebbe stata alcuna Porta. Ma allora, perchè prendersi il disturbo di tracciare una falsa mappa, se il figlio probabilmente non l'avrebbe mai vista? Dopo che Ijim ebbe finito di asciugare la schiena del nipote con una pezzuola di pelle morbida come quella di camoscio, lo fece voltare verso il sole, per poter osservare meglio la mappa. «Quale senso dell'umorismo deve possedere tuo padre, che le saette argentee di Elynittria possano trapassargli il fegato! Sicuramente si tratta di umorismo nero, più nero della depressione in cui piombò Shambarimem quando gli fu rubato per la prima volta il Corno, ma nondimeno degno di
suscitare allegria! Sulla schiena, dove non potevi vederla, ah, ah, ah, auuueegh!» «Puoi anche morire soffocato dalle risate, per quel che mi importa,» affermò acidamente Orc. «Ma prima descrivimi la mappa. Meglio ancora, riproducila nel fango. Poi potrò ricopiarla su di una pergamena, se riuscirò a fabbricarla.» Ijim stava saltellando qua e là, piegato in due da risate fragorose, minacciando addirittura di soffocarsi. Quando si fu calmato, si avvicinò di nuovo a Orc. «In alto, dove inizia la mappa, c'è un puntino nero,» disse. «Da lì parte una freccia. Immagino che sia il luogo in cui è situata la Porta da cui siamo arrivati entrambi. Oltre la punta della freccia inizia una linea azzurra e tortuosa. Su entrambi i lati ci sono alcuni triangoli. Sono montagne che circondano la valle in cui scorre il fiume. Evidentemente la linea azzurra e tortuosa indica lo stesso fiume di cui abbiamo tutti e due seguito il corso. Termina separandosi in tante linee ondulate. Il suo estuario e il mare in cui sfocia, suppongo. Il luogo in cui ci troviamo adesso. Più avanti, ci sono delle linee azzurre e ondulate, ma sono più corte e più spezzate. Devono indicare il mare. Aspetta un momento.» Dopo pochi secondi, disse, «Stavo cercando delle parole che identifichino dei punti di riferimento. Ma non ne vedo alcuna, e dubito che la mappa sia in scala. È molta rozza, assolutamente insoddisfacente, ma è certamente meglio che non averne nessuna. «Vediamo. C'è una linea verde che inizia con una freccia che punta verso nord, visto che l'estuario del fiume è a occidente, ma non vedo alcun punto di riferimento. Poi devia verso est, il che significa che piega verso l'interno. C'è qualcosa nel punto in cui devia! Fammi guardare bene. È molto piccolo.» Poi disse, «Sembra la sagoma di un animale simile a una piovra. Ma che cosa sta a indicare, in nome di Enion?» «Lo scopriremo quando ci arriveremo,» ribatté in tono brusco Orc. Suo zio, per qualche ragione, lo stava facendo innervosire. Eppure avrebbe dovuto essere estremamente contento di godere della compagnia di Ijim, visto che era stato lo zio a scoprire la mappa. Forse, pensò, era perché si sentiva uno sciocco e aveva l'impressione che Ijim ridesse di lui perché lo era veramente. Ma lo zio sembrava trovare divertente ogni cosa. Mentre passavano i giorni, e loro continuavano a seguire la costa verso settentrione, le risate troppo frequenti e troppo facili di Ijim iniziarono a
innervosire sul serio Orc. Alla fine, non poté più sopportarle. Interruppe suo zio in una delle sue solite, infinite sgignazzate. «Perché ti comporti così?» gli chiese bruscamente. Ijim sbatté le palpebre e replicò, «Mi comporto come?» «Ridacchi tutto il tempo, come una ragazzina timida e inesperta che è nervosa perché è la prima volta che è in compagnia di un ragazzo.» Il volto di Ijim assunse un'espressione triste. «Non sapevo di comportarmi così. Se lo sto facendo, e io non sono d'accordo, è perché sono rimasto solo per quarantaquattro anni, senza nessun essere umano con cui parlare.» Iniziò a piagnucolare. «Anche tu ti comporteresti stranamente, se fossi rimasto isolato tanto a lungo quanto me. Quarantaquattro anni! Pensaci!» «Forse hai ragione,» dichiarò Orc. «Ma se fossi sul punto di impazzire come te, sicuramente vorrei qualcuno che mi aiutasse a guarire.» «E fartelo notare non sarebbe pericoloso, vero? Oh, no! Prova a parlarne, e sei morto! Tu non sei una persona che si lascia insultare impunemente, giusto?» Orc non rispose. Dopo qualche istante di silenzio, Ijim disse, «Non essere arrabbiato con me. Ti ho incontrato dopo quarantaquattro anni di assoluta solitudine e già inizi a litigare.» «Smettila di ridere come un idiota. Fallo soltanto quando succede qualcosa di davvero divertente.» Ijim si strinse nelle spalle. «Ci proverò. Ma dopo quarantaquattro anni di continue sofferenze, ogni minuto, ogni secondo...» «E smettila anche di dire "quarantaquattro anni!"» ruggì Orc. «Mi sono stufato! Adesso è finita! Smettila di vivere nel passato! Non sei più solo!» «Hai ragione,» ammise Ijim. Sul suo viso si dipinse un' espressione offesa ma piena di comica dignità. Per molto tempo dopo quella conversazione, Ijim parve calmarsi. Parlava solo se interrogato, e pronunciava poche parole. Questo fece infuriare Orc più delle risate. Due volte, quando si girò di scatto, sorprese Ijim che gli faceva le boccacce e gli rivolgeva gesti osceni. «Per Manathu Vorcyon!» esclamò Orc la prima volta che sorprese lo zio. «Hai migliaia di anni; eppure ti comporti ancora come un bambino...» «Non posso farci nulla,» rispose Ijim. «Dopo quarantaquattro anni passati a vivere...» «Basta!» gli urlò Orc. «Dillo un'altra volta, e ti giuro che me ne vado! Rimarrai qui da solo per altri quarantaquattro anni, o magari per l'eternità,
per quel che mi importa!» Per molto tempo, Ijim evitò di menzionare la lunghezza del suo soggiorno su Anthema. Ma si lamentava spesso per le cose più futili, come dopo aver urtato con un piede contro una roccia. Passò un quarto d'ora a parlare di quell'incidente e a chiedersi tristemente perché la sua vita fosse tanto sfortunata. Sembrava che il suo cammino fosse costellato esclusivamente da ostacoli e dolori. Alla fine, Orc disse, «Sono stato trattato ingiustamente, perfino brutalmente, per lo più da mio padre. Ma mi hai mai sentito lamentare? Ecco cosa bisogna fare: sopportare. E nello stesso tempo bisogna tentare di fare qualcosa, di cambiare quel che non ci piace. E smetterla di piagnucolare!» «Sì, ma...» «Niente "ma"!» «Tu sei un uomo duro,» affermò Ijim. Gli occhi gli si riempirono di lacrime e tirò su col naso. «Non tutti sono fatti di pietra. Qualcuno di noi è un vero essere umano, di carne e di sangue e con un cuore sensibile, mentre il tuo...» «Ma cresci! O forse è troppo tardi?» Jim, ascoltando quell'esortazione, fu colpito da un pensiero. Colpito era davvero l'espressione giusta. Diavolo! Orc avrebbe potuto parlare così anche a lui, a Jim Grimson! Per una buona parte della sua vita non aveva fatto altro che piangersi addosso. E fino a poco tempo prima, non aveva fatto nulla per risolvere i problemi che tanto lo assillavano. E poi un'altra idea gli colpì il cervello come un tirapugni. Ijim! Si pronunciava con una «i» iniziale. Ma la sua mente pronunciò quel nome come I... Jim. Il Signore Scuro delle Foreste si chiamava Io-Jim. Lui, Orc e l'intero Anthema erano solo un parto della fantasia di Jim Grimson? Il proprio inconscio aveva attribuito quel nome e quel carattere a Ijim per permettere a Jim di osservare se stesso dall'esterno? Per un istante, Jim fu sul punto di perdere la sua fede nella realtà degli universi tascabili. Di colpo, provò un senso di nausea e scoprì di essere privo di peso. Il mondo, che lui vedeva attraverso gli occhi di Orc, parve tremolare e offuscarsi. La luce diminuì. Jim si accorse che stava salendo verso l'alto. Era sul punto di ritornare sulla Terra. Ma anche se era privo di mani, si aggrappò a qualcosa - a cosa, non lo sapeva neppure lui - e tenne duro. La luce aumentò di intensità. Il mondo ritornò chiaro e solido. I sottintesi freudiani del nome di Ijim erano fin troppo ovvi. Si trattava
di una coincidenza. Jim sapeva che il mondo di Anthema e tutto ciò che conteneva era altrettanto duro e reale del suo universo nativo. Trentadue giorni dopo il terribile momento di dubbio che aveva assalito Jim, Orc e Ijim giunsero al punto indicato sulla mappa dal disegno dell'animale simile a una piovra. Non capirono di averlo raggiunto fino a che non furono nei pressi dell'estremità di una valle da cui un fiumiciattolo sfociava nel mare. Orc avanzava lungo la riva, con l'acqua che gli arrivava alle caviglie. Ijim lo seguiva in silenzio (per una volta), tranne il rumore che facevano i suoi piedi nell'alta marea in arrivo. In quella zona c'erano numerosi e grandi massi, di colore nero. Orc stava passando in mezzo a due di essi, separati da circa tre metri, quando si fermò e urlò. Qualcosa, da sotto la superficie dell'acqua, gli aveva afferrato la caviglia destra. Poi gli diede un brusco strattone verso il masso più vicino. Orc cadde e iniziò a essere trascinato, con la mucillagine verde a pelo d'acqua che gli entrava nella bocca e negli occhi. Ijim urlò, «Cos'è?» Strappò l'ascia dalla bandoliera e balzò verso Orc. Il giovane Signore aveva smesso di urlare e stava tentando senza successo di liberarsi della cosa che gli stringeva la caviglia. Urlò di nuovo, quando una sezione del masso verso cui veniva trascinato scivolò in basso. All'interno della roccia vi era un assembramento di fauci, più di un centinaio, grandi quanto quelle di un leone e con denti affilati come quelli di una sega. Poi un tentacolo marrone, spesso quanto due dita unite, apparve per un istante a pelo d'acqua. Ijim, vedendolo, urlò. Comprese che la roccia doveva essere un qualche tipo di pianta o animale. E che aveva intenzione di divorare Orc. Ijim urlò di nuovo. Spiccò un balzo. Nel punto in cui era stato fino ad un istante prima apparve brevemente la punta artigliata di un altro tentacolo. Il Signore ricadde e fece un balzo indietro. L'estremità del tentacolo sferzò l'aria e iniziò a cercare a tentoni la sua preda. Intanto Orc era riuscito a raggiungere l'ascia di selce che pendeva dalla sua cintura e aveva iniziato a colpire il tentacolo che si era avvinto alla sua caviglia. Non era una cosa facile, visto che doveva sedersi e sporgersi in avanti mentre veniva trascinato. Gridò, «Ijim! Aiutami!» Il Signore delle Foreste Oscure si voltò, iniziò a correre e non si fermò finché non fu a distanza di sicurezza dall'essere.
Orc gli gridò, «Vigliacco!» Dopodiché, fu troppo impegnato per potergli lanciare altri insulti. Specialmente quando un secondo tentacolo si arrotolò intorno all'altra gamba. Ma Orc continuò a colpire finché sentì che la presa del primo tentacolo sulla caviglia si stava indebolendo. Quando ormai era a pochi centimetri dalla bocca spalancata della creatura, riuscì a tranciare completamente l'altro tentacolo. Ma rischiò lo stesso di essere raggiunto da numerosi tentacoli mentre correva nell'acqua che gli arrivava alle caviglie, fino al punto della spiaggia in cui Ijim saltellava in preda a una disperata frenesia. Ansimando, Orc esclamò, «Dovrei ucciderti!» Sollevò l'ascia, da cui gocciolava acqua e un fluido verde e viscoso. Ijim corse e non si fermò se non quando si fu allontanato di almeno cento metri. Poi si girò e urlò con voce acuta e tremante, «Non potevo aiutarti! Per quarantaquattro anni sono sopravvissuto fuggendo! Ormai è un riflesso condizionato! Ma non sono un codardo! Mi comporterò meglio la prossima volta! Vedrai!» «La prossima volta?» gli gridò Orc. «Non ci sarà nessuna prossima volta!» «Allora uccidimi!» gli strillò Ijim. «Scopri cosa significa essere soli, non poter parlare con nessuno! Finirai come me! E la prossima volta che avrai bisogno di me, sarai solo! Non ti deluderò, te lo giuro! E se lo farò, sarò io stesso a uccidermi!» Cadde in ginocchio e tese le braccia verso Orc. «Ti scongiuro, non abbandonarmi qui!» Orc sputò in direzione dello zio. Però disse, «D'accordo! Ti concedo un'altra possibilità! Ma non osare avvicinarti a me per molto tempo!» Si diresse verso est, compiendo un giro larghissimo intorno ai massi. Ijim lo seguì, e quella sera non si avvicinò al punto in cui si era accampato Orc. Il giovane, grazie alla luce proiettata dal fuoco, lo intravide: un' ombra che sedeva contro il tronco di un albero. Il mattino seguente, Ijim si avvicinò. Stava sorridendo come se non fosse successo nulla. Ma per il resto di quella giornata, non fece nulla che potesse irritare Orc. CAPITOLO DICIANNOVESIMO L'alba sorse immersa nell'oscurità. Orc aprì gli occhi e non vide nulla. Gli sembrò di avere il naso otturato. Qualcosa gli teneva chiusa la bocca e premeva sulla lingua.
Jim si era accorto di cosa stesse succedendo appena pochi istanti prima che Orc si svegliasse del tutto, e anche se aveva urlato con la sua lingua inesistente, ovviamente non era riuscito a farsi udire. Orc tentò di strapparsi via dal viso l'essere. Sembrava morbido e appiccicoso e i tentacoli che gli bloccavano la lingua avevano un sapore di prugna. Il giovane Signore si rotolò nel sacco a pelo, in cui era infilato fino alla cintola. Poi ne uscì, si alzò e iniziò a vagare alla cieca mentre lottava contro la creatura. Udì i gemiti soffocati di Ijim soltanto un secondo prima di urtare il suo corpo. Cadde all'indietro e atterrò sulle natiche. Non si sforzò di rialzarsi, ma strinse le dita intorno allo strato più duro al di sotto di quello viscido e cedevole della creatura. Non riuscì lo stesso a staccarla dal volto. Allora cercò a tentoni i contorni di quell'essere; la sua paura si era trasformata in vero e proprio panico, ora che aveva il naso e la bocca completamente ostruiti. Quando scoprì che i bordi della cosa erano vicini alle sue orecchie, si mise in ginocchio e, sempre a tentoni, cercò il sacco a pelo. Se non riusciva a strapparsi di dosso la cosa che lo stava soffocando, sarebbe morto in circa un minuto. Molto presto, dunque. Infilando una mano nel sacco, trovò il coltello di selce che teneva sempre accanto a sé durante il sonno. Ne fece scivolare la punta al di sotto della cosa. Anche se si tagliò la pelle, insistette. Quando ne ebbe introdotta metà, la sollevò. Poi fece ruotare il coltello, in modo che il filo fosse rivolto verso l'alto. Diede un colpo secco. La lama attraversò senza difficoltà la sostanza di cui era composta la creatura. Orc ne afferrò uno dei bordi e lo tirò da un lato. L'essere uscì dal naso, dalla bocca e dagli occhi, e Orc ne soffrì come se si fosse strappato dalla pelle un tratto di nastro adesivo. Ora poteva vedere e respirare. La cosa che Orc stringeva in mano assomigliava a un brandello di tessuto verde piuttosto spesso, sul cui lato inferiore crescessero tentacoli e protuberanze. Respirando affannosamente la scagliò lontano e si affrettò ad aiutare Ijim. L'altro Signore, anche lui uscito dal sacco a pelo, si rotolava sul terreno, nel vano tentativo di liberarsi di uno di quegli esseri. Orc usò il suo coltello per staccarlo e lo scagliò via, Ricadde tra centinaia di suoi simili che affollavano il terreno. Ne erano pieni anche i rami degli alberi, da cui svariate dozzine di quelle creature stavano scendendo al suolo. A differenza di quelle a terra, erano molto gonfie. Orc notò che quelle appena atterrate si stavano sgonfiando. Immaginò che dovessero essere piene di gas. Si accorse che una mezza dozzina di quelle cose era attaccata al suo cor-
po, e che il sacco a pelo ne era coperto, sebbene quelle creature si stessero affrettando a staccarsene. Apparentemente, se non atterravano su di un orifizio di un qualche essere vivente, non rimanevano attaccate a lungo. Ovunque Orc posasse lo sguardo, in basso, in alto, sugli alberi o sui cespugli, nel fiume, vedeva le piante di colore verde vivo. Oppure si trattava di animali? Ijim, con il sangue che gli scorreva sul volto, ansimò per un po', prima di riuscire a parlare. Tastandosi il volto con le dita, si accorse del liquido che lo macchiava. Ijim sollevò la mano di fronte a sé e la osservò. «Mi hai tagliato!» esclamò e poi rise. «Ma ti sei tagliato anche tu! Era il solo modo per riuscirci, eh?» «Hai mai incontrato queste cose prima d'ora?» «Certamente no! Non ho mai dormito all'aperto senza coprirmi il volto, puoi scommetterci! E da ora in poi...» «E quella roba che scende dal cielo, quella specie di fiocchi di neve?» «Quelli sì,» disse Ijim mentre si alzava. «Almeno una dozzina di volte. Non sono male da mangiare.» Ijim non è Ijim, pensò Jim. Non è più umano. Se aveva mangiato i fiocchi, ormai il cervello fantasma si era impadronito di lui. Quell'essere amorfo e privo di connotazione aveva conquistato un' identità e un' esistenza. Ma non l'avrebbe saputo. Avrebbe pensato di essere sempre stato Ijim. Allo stato virale, non aveva mente. Soltanto dopo essersi impadronito di quella di Ijim, aveva iniziato a pensare. Ma non aveva alcun ricordo della sua precedente esistenza. Nutriva la convinzione di essere sempre stato Ijim. Il che, in un certo senso, era vero. Una volta Mister Lum aveva affermato che gli esseri umani possedèvano un'identità, ma che non ne avevano ancora coniato una definizione universalmente valida. In quel momento, Jim tentò di dare la propria definizione. L'unico risultato fu un'immensa confusione e un mal di testa fantasma. Abbandonò il tentativo, senza avere alcuna intenzione di ripeterlo. La cosa chiamata Ijim era assolutamente identica da ogni punto di vista all'Ijim originale. O così pensava Jim. Ma in qualche modo, sapere che la mente del Signore era occupata da un parassita lo rendeva più sinistro. Jim era cosciente del perché: aveva letto troppa fantascienza e visto troppi film dell'orrore. In essi, l'alieno, quasi sempre malvagio, bramava divorare, rendere schiave o impadronirsi delle menti degli esseri umani. Ma cosa c'era di più sinistro di un essere umano? Alcuni di essi, come Hitler, Stalin, Mao e Idi Amin - ma la lista era lunga quanto un elenco del censimento - erano
stati tanto malvagi da sembrare quasi non umani. Ma essere malvagi faceva parte dell'essere umani quanto essere buoni. E tutti quegli individui oggettivamente malvagi, senza eccezione, potenti o no, fossero dittatori albanesi o consiglieri comunali di Chicago, senatori corrotti o papponi di Washington, tutti pensavano di essere buoni. I due Signori smontarono il campo e si diressero a est seguendo il fiume. Più tardi, nel pomeriggio, si accamparono di nuovo. Anche se normalmente avrebbero continuato a viaggiare fino al tramonto, dovevano fabbricare delle maschere per proteggere la bocca e il naso dagli esseri verdi. Per altri due giorni continuarono a vedere animali che erano stati assaliti dai «soffocatori,» come li aveva battezzati Orc. I loro tentacoli crescevano dalle carcasse in putrefazione. Quelli che non erano riusciti a uccidere una creatura vivente erano divenuti marroni e friabili. Dopo quell'incidente, Ijim iniziò lunghi periodi di silenzio interrotti soltanto da confusi borbottii. Durante quegli attacchi, si guardava intorno freneticamente. Orc sopportava quel comportamento fino a che non ne poteva più. Allora chiedeva a Ijim cosa stesse pensando. Ijim reagiva sempre come se si fosse appena svegliato da un sonno profondo. Sbatteva le palpebre, scuoteva la testa e diceva, «Cosa? Di cosa stavo parlando?» Poi negava di soffrire di qualsiasi disturbo. Jim Grimson era convinto che in quei momenti fosse il cervello fantasma a parlare, e non Ijim. Forse il parassita ricordava sprazzi della sua vita sotto forma di virus, o qualunque cosa fosse stato mentre volteggiava con i fiocchi azzurri. Chi poteva sapere attraverso quali stadi evolutivi fosse passato? Nessuno, osservando una farfalla, immaginerebbe che in precedenza era un bruco. Passarono altri trenta giorni, non senza pericolosi incidenti. Non incontrarono altri soffocatori, ma ne videro migliaia in una valle, mentre stavano superando un passo montano. Un pomeriggio, furono avvolti da una nuvola di gas tossico scaturita da un'apertura nel fianco di una montagna. Vomitarono per ore e stettero male per due giorni. Gli animali più grossi avevano tutti sofferto allo stesso modo. Quelli più piccoli, uccelli e roditori, erano morti. Pensavano di essere ormai vicini al luogo in cui si trovava la Porta, se Los non aveva mentito. Ijim controllò la mappa sulla schiena del nipote. «I simboli sono quasi finiti. Quelle parentesi ondulate dovrebbero indicare che tra poco incontreremo un grande lago.»
Erano sulla sommità di un ripido pendio. A circa tre chilometri di distanza, ai piedi del pendio, c'era l'immenso lago, la cui esistenza era stata prevista da Ijim. L'estremità più vicina era ampia almeno tre chilometri e il lago continuava ad allargarsi, fino a scomparire all'orizzonte. La foresta cresceva fin quasi alle sue rive. Circa tre chilometri a est, si innalzavano improvvisamente picchi montani di altezza vertiginosa, che circondavano il lago e si perdevano a vista d'occhio. «Dovremo costruire una barca o saremo costretti a scalare una di quelle montagne,» dichiarò Orc. «Sono tutte molto aspre e ripide. Penso che faremo meglio a fabbricarci una canoa.» «Sono d'accordo.» Ijim continuò a leggere la mappa. «Apparentemente, quando arriveremo all'altra estremità del lago, dovremo dirigerci verso est. L'ultimo simbolo deve indicare il luogo in cui si apre la Porta. È un cerchietto con all'interno una croce, coperta da sottili linee orizzontali. Forse è vicina, forse no. Ma... una cosa alla volta. Come disse Manathu Vorcyon, la Nonna di Tutti, "Chi va troppo in fretta vede solo il suo posteriore".» Venti giorni più tardi, avevano costruito una canoa con un albero e una vela di erba intrecciata. Ci misero altri dieci giorni per cacciare animali in numero sufficiente, affumicare e salarne la carne e raccogliere bacche e noci da usare come provviste durante la navigazione. «Los ci sta facendo lavorare duro,» commentò Ijim. «Se avrò una sola possibilità di catturarlo, gliela farò pagare. Che ne dici di scuoiarlo vivo, tanto per cominciare?» Orc sorrise. Se qualcuno doveva scuoiare il padre, quello sarebbe stato lui. CAPITOLO VENTESIMO I due Signori, dopo essere salpati dalle sponde del lago, avevano viaggiato almeno per quattromila chilometri. Eppure non avevano visto nulla che assomigliasse al simbolo sulla schiena di Orc. I periodi di assenza di Ijim stavano diventando sempre più lunghi e frequenti. Quando ne usciva, non ricordava assolutamente nulla. In effetti, non si rendeva neppure conto di averli avuti. Diceva che Orc si era inventato tutta la faccenda poiché voleva farlo impazzire. Orc gli aveva chiesto perché avrebbe dovuto farlo. Perché lui era pazzo, aveva risposto Ijim, e
amava la compagnia di altri pazzi. Il giovane Signore si rese ben presto conto che era inutile discutere con lo zio. Tra loro due, il pazzo era Ijim. Perciò avrebbe dovuto essere sorvegliato attentamente. Orc aveva immaginato che lo zio non avrebbe fatto uso della violenza, almeno fino a che non avrebbero trovato la Porta. Ma ora non ne era più tanto sicuro. Jim Grimson era ancora più preoccupato di Orc. Ijim doveva morire, e doveva farlo lì, su Anthema. Se giungeva in un altro mondo, l'essere che era in lui avrebbe potuto diffondersi, e mondo dopo mondo, tutti gli universi tascabili avrebbero potuto essere invasi dal parassita. Ijim doveva essere ucciso su Anthema, non importava come, e sarebbe stato meglio se il suo corpo e la cosa che lo possedeva fossero stati distrutti. Ma lui lo sapeva; Orc no. Dieci giorni dopo, verso mezzogiorno, i due Signori erano in cima a un' alta parete rocciosa che formava una specie di barriera lungo la riva destra del fiume. Erano stati costretti a scalarla e a camminare finché non ne avevano raggiunto la sommità, che era stretta ma abbastanza piatta. «Per quel che ne sappiamo,» disse Orc a Ijim, «il punto di riferimento potrebbe essere dall'altro lato di queste montagne.» E lo era. Ai piedi di quella catena montuosa si stendeva una pianura lunga almeno cinquanta chilometri. A sud, era chiusa da un'altra catena di montagne. La pianura conteneva foreste, fiumi, ruscelli e un tratto di terreno collinare. Un oggetto grosso e nero, che si muoveva lentamente e appariva relativamente vicino, si rivelò in realtà un branco di erbivori. «Eccolo!» esclamò Orc. Indicò un oggetto circolare a circa tre chilometri dai piedi delle montagne, vicino a un fiume tanto piccolo da poter essere definito tranquillamente un ruscello. La struttura brillava sotto i raggi del sole come se fosse fatta di vetro. Le mura esterne, che formavano il cerchio, erano alte e spesse. Racchiusa dal circolo sorgeva un'altra costruzione, a forma di croce. Anche le sue mura erano spesse quanto quelle esterne. Pareti più sottili correvano parallele al braccio orizzontale della croce. Quell'edificio corrispondeva all'immagine sulla schiena di Orc. «Grande Madre di Noi Tutti!» gridò Orc, e si batté la mano sulla fronte. «Per il possente e saggio Enion! Come abbiamo potuto essere così sciocchi? Ci definiamo Signori, e siamo stupidi come vermi! Non abbiamo mai collegato il simbolo sulla mia schiena con quello sul medaglione! Entrambi rappresentano la griglia che si trova all'estremità del Corno di Shamba-
rimem! Abbiamo avuto l'evidenza sotto i nostri occhi, senza capire nulla!» In quel momento, Ijim non era immerso in uno dei suoi soliti stati di assenza. Ululò di gioia e afferrò le mani di Orc. Zio e nipote si scatenarono in un gioioso girotondo, sogghignando e urlando. Molte volte rischiarono da cadere dalla stretta sommità della parete. Alla fine, ansimanti, si fermarono. Poi Orc si accigliò e disse, «Ma quello è un edificio, dunque è opera di umani! Non sapevo che qualcuno vivesse qui!» «Neppure io,» disse Ijim. «Dove sarà la Porta? Forse all'interno dell'edificio?» «Deve essere là,» affermò Ijim. La tristezza aveva immediatamente sopraffatto la sua gioia. Pochi secondi dopo, iniziò a borbottare. Sapendo che il Signore l'avrebbe seguito automaticamente, Orc iniziò a scendere lungo il ripido fianco della cresta. Sebbene fosse costretto a fare molta attenzione, per la presenza di pietre malferme, riuscì a non perdere l'equilibrio. Ijim sembrava sprofondato in se stesso, ma non cadde. Una parte di lui rimaneva sempre abbastanza cosciente da poter affrontare le difficoltà più semplici. A metà strada, Orc emise un'esclamazione e si fermò. Ijim, che continuava a borbottare, lo imitò. Il terreno erboso intorno al branco di animali neri e dalle lunghe corna si era aperto in più punti. Orc era troppo lontano per poter osservare tutti i dettagli, ma quelle aperture assomigliavano molto a botole. Dove c'era stata dell'erba, ora si aprivano numerosi fori circolari. I coperchi, coperti di erba sul lato esterno, che li avevano celati alla vista, ora si erano sollevati verso l'alto. Dalle aperture sciamarono creature grigie e sottili. Si avvicinarono con una bizzarra andatura saltellante al branco di animali, che fuggì nella direzione opposta, verso la foresta che contornava quella parte della pianura. Ma altri cacciatori grigi stavano sbucando dai boschi. Immediatamente tutto il branco ritornò verso la pianura. Sul suo cammino si spalancarono altre botole. Ne uscirono dozzine di cacciatori che, come i segugi a cui assomigliavano, iniziarono a correre verso le antilopi. Quando ebbero raggiunto il lato esterno del branco terrorizzato, saettarono dalle loro bocche filamenti lunghi e sottili di una sostanza grigia che, compiendo ampi archi nell'aria e brillando sotto i raggi del sole, piombarono sulle prede, aderendovi come colla. Molte antilopi caddero, con le gambe bloccate dai filamenti. I cacciatori, emettendo fischi sonori, le raggiunsero in pochi secondi e le fecero a pezzi con i denti. Il
resto del branco galoppò via. Orc riprese a discendere lungo il pendio, dicendo, «Ijim! Quegli esseri devono provenire dall'edificio di vetro; si servono di cunicoli sotterranei che conducono alle botole. Ora sappiamo come entrare là dentro, se ne avremo il coraggio!» Ijim continuò a farfugliare. Quando si avvicinarono al punto in cui iniziava la pianura, esaminarono una delle botole. Quelle tra gli alberi erano state richiuse. Evidentemente gli esseri grigi che erano usciti da lì intendevano ritornare servendosi delle botole che si aprivano sulla pianura. Orc fece forza con la lancia sul coperchio di una botola, che si sollevò silenziosamente. Intorno al foro, c'era un orlo in cui si inseriva il coperchio. L'orlo era fatto di una sostanza dura e vetrosa, probabilmente la stessa che era stata usata per costruire l'edificio circolare. Anche la botola era fatta dello stesso materiale. Del terriccio era stato incollato mediante del fissante sul coperchio. L'erba cresceva proprio su quel terriccio. Una sostanza spalmata nel punto in cui la botola si sollevava fungeva da cardine. Era solida sugli orli e semidura tra di essi, ma abbastanza flessibile da permettere al coperchio della botola di essere sollevato senza staccarsi dall'orlo. Orc sospettò che quella sostanza vetrosa fosse stata emessa dalle bocche di quelle creature, come i filamenti grigi. A circa un metro di profondità rispetto al coperchio, c'era una piattaforma in terra battuta. Era da lì che gli esseri dovevano essere balzati fuori. Ancora oltre, il cunicolo scendeva verso il basso e probabilmente diveniva orizzontale a circa tre metri dalla superficie. Le pareti erano rivestite dalla grigia sostanza vetrosa. Dovevano esserne rivestite fino all'entrata dell'edificio, per evitare che crollassero. Orc abbassò il coperchio. Poi osservarono le creature prive di pelo che strappavano brani di carne dalle carcasse e li portavano nelle botole che si aprivano sulla pianura. Visti da lontano, erano sembrati grossi canidi. Ma, da vicino, le loro caratteristiche fisiche erano ancora più varie e stupefacenti. Un paio di chele da insetto spuntavano ai lati della bocca. Si muovevano indipendentemente dai movimenti della testa, tagliavano la carne e poi ne afferravano grossi pezzi. Gli esseri avevano anche lunghe code prensili che stringevano altri pezzi di carne e balzavano nelle botole portando la carne con le mascelle, le chele e le code. Le orecchie erano rotonde, spesse e appiattite, gli occhi delle creature
erano enormi e di un giallo smorto. Dopo aver ascoltato i loro fischi per qualche minuto, Orc decise che stavano comunicando in un codice piuttosto limitato. Aveva contato sette variazioni di una serie di fischi lunghi e brevi. «Non sono stupidi,» sussurrò a Ijim. «Guarda le loro fronti. In quei crani c'è molto spazio per un cervello.» Ijim annuì. Si era ripreso dal suo stato di assenza a metà strada, tra i boschi. «Sono creature fantastiche!» esclamò Orc. «Una combinazione tra cane, termite, ragno e scimmia! Coloro Che Sono Svaniti hanno superato se stessi, quando li hanno creati! Ti dico, Ijim, che tra tutte le scienze la biologia è quella più affascinante! La vita e le molteplici forme che può assumere! E poi, il cervello, il cervello! È il culmine dell'evoluzione vitale!» Disse a Ijim che kamanbur - «fischiatori» - era un nome buono come qualsiasi altro per quelle creature. «Devo dare un nome a tutto ciò che vedo.» Lui e Ijim attraversarono la foresta fino a raggiungere il fiume. Là, Orc fece osservare che la pianura digradava verso l'edificio dei kamanbur. «Scaviamo un cunicolo che dal fiume arrivi alla botola più vicina e poi la inondiamo. L'acqua dovrebbe invadere il tunnel e i piani che si trovano al di sotto del livello del suolo. Sfruttando questo diversivo, noi entriamo nel nido.» «Scavare un cunicolo!» gridò Ijim. «Sei pazzo? Ci metteremo mesi per fabbricare gli utensili con cui scavarlo e per portare a termine il lavoro! Non è un'impresa semplice! E poi, saremo costretti a lavorare in piena vista dei kamanbur. Pensi che ci daranno il tempo di cui abbiamo bisogno?» «Che cosa abbiamo, oltre il tempo?» replicò Orc. «O tu hai altre faccende più importanti da sbrigare?» Ijim brontolò. Parlò di letti e lenzuola morbide, di donne ancora più morbide, di cibi deliziosi e di liquori che davano alla testa, di droghe potentissime e degli attacchi coronati da successo che aveva portato contro altri Signori, prima che il maledetto Los lo esiliasse in quel mondo da incubo. Orc non gli prestò alcuna attenzione. Stava pensando che i corni degli erbivori potevano essere usati come bastoni da scavo. Pale e picconi potevano essere fabbricati legando insieme con una cinghia di cuoio strisce di corno animale. Potevano intrecciare dei canestri per trasportare la terra. I loro utensili si sarebbero usurati in fretta, ma non sarebbe stato né difficile né stancante fabbricarne degli altri.
Prima, però, doveva ispezionare da vicino il nido dei kamanbur. Ijim, che temeva che un'orda di quegli esseri sbucasse all'improvviso dalle botole, lo seguì con riluttanza. Ma non comparve alcun kamanbur, anche se presto fu chiaro che le creature potevano vederli dall'edificio. Nelle sue pareti si aprivano migliaia di fori, dal diametro di circa un centimetro. Servivano a far passare l'aria fresca e costituivano eccellenti aperture per l'osservazione. Durante i giorni seguenti, i Signori costruirono una capanna su un albero, per dormire in tutta tranquillità, evitando gli attacchi di qualsiasi predatore arboreo. Poi, quando non erano occupati a fabbricare gli utensili necessari per la realizzazione del piano di Orc, esplorarono minuziosamente i dintorni. Per la gioia di quest'ultimo, scoprirono altre botole anche sulla riva opposta del fiume. «I loro cunicoli passano sotto il fiume!» esclamò Orc. «Sotto! Ciò significa che noi non dovremo scavarne nessuno! Faremo sì che sia il fiume stesso a inondarli!» «Vuoi dire che dovremo scendere nei cunicoli che passano sotto il fiume? E come pensi di fare per rompere lo strato di sostanza protettiva? E anche se ci riuscissimo, il rumore farebbe accorrere i kamanbur!» «Mi ha proprio stufato,» lo rimbeccò Orc. «Prima eri così gioviale, che ti perdonavo le tue abitudini irritanti, tra cui quella di parlare a vanvera. Per non dire delle tue crisi di risate. Ma ora sono davvero stanco del tuo pessimismo.» «Quali crisi?» Ijim si era offeso. Orc scese in un cunicolo. La botola fu lasciata aperta. Il giovane Signore sperava che questo avrebbe permesso all'aria fresca di fluire nel passaggio. Ijim non lo accompagnò. «Non c'è spazio sufficiente per lavorare in due,» si giustificò. «E poi questa è solo una ricognizione. Non hai bisogno di me.» «Bene!» rispose Orc. «Allora puoi darti da fare con la tua selce. Abbiamo bisogno di un paio di centinaia di punteruoli, prima di poter terminare il nostro lavoro.» La sera precedente la discesa di Orc nel cunicolo, Ijim aveva rivelato a Orc che veniva colto da attacchi di panico ogni volta che si trovava rinchiuso in spazi angusti. Non gli avrebbe fatto piacere che Orc rivelasse quel segreto a qualcun altro, ma le cose stavano così. «Ciò non significa che non ti accompagnerò, quando tenteremo di arri-
vare alla Porta. Sarò con te. In qualche modo ce la farò. L'ho già fatto, in caso di assoluta necessità, ed è possibile se non rimango troppo a lungo in spazi ristretti.» E così Orc era solo, mentre strisciava sulle mani e sulle ginocchia. Aveva le prime protette da guanti e le seconde da cuscinetti imbottiti. Reggeva una torcia accesa e ne portava molte altre di riserva. Alla cintura era stata fissata l'estremità di una corda sottile, ricavata da una striscia di pelle non conciata. Avrebbe misurato la distanza tra la botola e il punto in cui il cunicolo sarebbe sceso alla profondità maggiore sotto il fiume. Per essere sicuro, aveva sondato il centro del corso d'acqua, misurandone la profondità. Quando la fune si sarebbe tesa al massimo, quello sarebbe stato il momento di fermarsi. Orc sperava che le misure prese fossero molto vicine alla realtà. Sperava anche di non rimanere intossicato dal fumo della torcia. Già in quel momento, lo faceva tossire e gli bruciava gli occhi. Dopo un intervallo di tempo insopportabilmente lungo, la fune si tese. Orc si sfilò i guanti, si inumidì un dito e lo tenne sollevato. Sembrava che vi fosse una debole corrente d'aria, ma avrebbe anche potuto essere uno scherzo della sua immaginazione. Tuttavia, immaginazione o no, doveva mettersi al lavoro. Si girò sulla schiena. Dopo aver tolto dal sacco il supporto di legno che aveva costruito, lo poggiò accanto a sé. Fissata la torcia al supporto, incise un quadrato sulla volta del cunicolo con uno dei raschietti di selce che aveva estratto dal sacco. Ijim aveva ragione. Il rumore di martelli o picconi avrebbe provocato l'arrivo dei kamanbur. Avrebbe dovuto usare un martello di pietra. Ma poteva aspettare fino all'ultimo momento. Il raschietto produceva un suono stridulo; Orc sperò che svanisse prima di raggiungere l'altra estremità del cunicolo. Correva il rischio che in quel momento uno o più kamanbur stessero percorrendo il tunnel. Ma se le cose fossero andate così, be', pazienza. Sebbene la sostanza vetrosa fosse dura, era molto più morbida del ferro. Poteva essere tagliata facilmente quanto il bronzo, sebbene «facilmente» fosse una definizione alquanto relativa. Schegge minuscole, che brillavano alla luce della torcia, ricoprirono il petto di Orc. Fermandosi ogni tanto per tergersi il sudore dal viso o per bere un sorso dall'otre di pelle, Orc passò e ripassò il filo del raschietto lungo i lati del quadrato. Dopo un intervallo di tempo indeterminato, si fermò. Il fumo della torcia era diventato più denso, e Orc si sentiva sul punto di svenire. Il suo dito inumidito non riuscì a per-
cepire alcuna traccia di corrente d'aria. Allarmato, tolse la torcia dal supporto e strisciò di nuovo verso l'entrata del tunnel. Lui e Ijim, in caso di emergenza, avevano stabilito di usare un segnale: il Signore delle Foreste Oscure avrebbe tirato due volte la fune, fatto una pausa e poi dato ancora due strattoni per segnalare a Orc di uscire. In caso di bisogno, Orc avrebbe fatto lo stesso, e Ijim lo avrebbe tirato fuori alla svelta servendosi della striscia di pelle. Orc arrivò alla piattaforma. La botola era chiusa. Il capo della fune che avrebbe dovuto essere retto da Ijim giaceva al suolo. Se Ijim aveva chiuso la botola, doveva esserci qualcosa che non andava. Orc fece rotolare la torcia lungo il tunnel inclinato, per evitare che la sua luce fosse notata quando avrebbe sollevato il coperchio della botola. Lo alzò di qualche centimetro. Vide numerosi kamanbur che si aggiravano intorno alla base dell'albero su cui lui e Ijim avevano costruito la loro piccola capanna. Dai rami più bassi pendevano i filamenti grigi e lucenti emessi dalle bocche delle creature. Quando sollevò il coperchio di un altro centimetro, Orc si accorse che la capanna era al di fuori della loro portata. Il volto scuro di Ijim era affacciato a una delle aperture. Un'ora dopo, gli esseri andarono via. Orc uscì strisciando dal tunnel e si avvicinò all'albero. Chiese a bassa voce, «Cos'è successo?» Mentre scendeva, Ijim gli spiegò, «Sono venuti a investigare. Penso che siano sbucati da un cunicolo più a monte lungo il fiume, e che poi si siano avvicinati compiendo un giro largo nella foresta. Avendoli visti prima che fossero troppo vicini, mi sono rifugiato sull'albero. Mi dispiace di non aver avuto il tempo di farti il segnale. Ho potuto soltanto chiudere la botola e sperare che non mi avessero visto compiere quel gesto. Immagino che non se ne siano accorti.» «Forse, ora che hanno soddisfatto la loro curiosità, ci lasceranno in pace,» disse Orc. Dopo un po', ridiscese nel cunicolo e riprese il lavoro. Il giorno seguente, prima di iniziare a raschiare, strisciò fino all'altra estremità del tunnel. Doveva scoprire se era aperta. O, in caso contrario, se si poteva praticare un'apertura in una delle pareti del tunnel. Una fievole luce che proveniva da un'apertura rotonda e forti fischi gli dimostrarono che, da quella parte, non c'era alcuna botola. Poiché i kamanbur avrebbero potuto fiutare il suo odore, non si spinse oltre. Sei giorni dopo, mentre stava lavorando, una goccia d'acqua gli colpì il volto. Fu subito sostituita da un continuo gocciolio. Continuò a raschiare i
solchi che formavano il quadrato. Presto l'acqua prese a scorrere da tutti e quattro i lati. Poi, da uno degli angoli del quadrato scaturì uno spruzzo. Orc uscì dal tunnel. «Non pensò che cederà finché non userò il martello,» disse a Ijim. «I kamanbur mi sentiranno. Ma se riesco a far sì che l'acqua entri tutta d'un colpo, ciò non avrà grande importanza.» «Non vuoi aspettare fino a domani?» chiese Ijim, pallido sotto l'abbronzatura. «Prepara tutto,» disse Orc. «Non ci metterò che qualche minuto. Poi scenderò giù di nuovo. Sii pronto.» Il sole era a tre quarti del suo cammino nel cielo. Nuvoloni neri si stavano radunando a occidente; udirono la debole eco di un tuono. Gli alberi sulla riva nord ostacolavano parzialmente la visione di eventuali osservatori dal nido. Inoltre, Orc e Ijim avevano piantato alcuni grossi cespugli, in modo che nascondessero le loro attività. Orc era sicuro che nessuno li avrebbe visti. Ma sarebbe potuto comparire in ogni momento un gruppo di kamanbur, decisi a investigare di nuovo sulla presenza dei due umani. Ritornato sotto il quadrato sulla volta del tunnel, Orc piantò numerosi punteruoli di selce ai suoi angoli. Poi, con il martello di pietra, colpì più e più volte su di un cuscinetto di pelle poggiato sull'estremità non appuntita di uno dei punteruoli. Non voleva fare troppo rumore, finché non sarebbe stato pronto a martellare il quadrato stesso. I punteruoli penetrarono negli angoli con facilità, anche se fu costretto a usarne diversi per ogni angolo. Le loro punte si usuravano o si spezzavano in fretta. Sotto il quadrato si era formata una pozzanghera d'acqua. Orc vi era immerso a metà. Improvvisamente, l'acqua scaturì da un foro appena praticato in uno degli angoli. Il getto d'acqua ad alta pressione quasi lo accecò, e dovette fermarsi molte volte per soffiarla via. Nonostante quelle difficoltà, terminò di piantare i punteruoli. Poi usò un pesante martello di pietra. La forza dei colpi era attutita dalla mancanza di spazio per vibrare l'attrezzo, e dal fatto che Orc era costretto a lavorare sdraiato sulla schiena. Inoltre, era arretrato leggermente, in modo che il suo viso non si trovasse direttamente sotto il quadrato. Questo modificava la visuale. Ma Orc insistette, sapendo che molti colpi deboli sarebbero equivalsi a uno solo vibrato con forza. Al di sopra del rumore della pietra sulla pietra, udì dei fischi. Presto sarebbe stato attaccato dai kamanbur.
Poi, come si era aspettato - ma non c'era modo di evitarlo - il quadrato di sostanza vetrosa fu proiettato contro il suo petto. Il colpo fu duro. L'acqua lo investì con forza ancora maggiore di quella del quadrato. Orc riuscì a girarsi, anche se, per un istante, la pressione del liquido lo spinse contro il pavimento del cunicolo. Iniziò a strisciare via il più in fretta possibile. Il livello dell'acqua crebbe, finché Orc non fu costretto a nuotare, anche se stava avanzando verso la botola con una leggera angolazione verso l'alto. Il tunnel era piombato nel buio non appena l'acqua aveva spento la torcia. Orc aveva abbandonato i suoi utensili. Ora, per lui, sopravvivere era l'unica cosa importante. Ijim avrebbe dovuto tirare la corda di pelle non conciata con tutta l'energia e la rapidità possibili. Ma se lo stava facendo, Orc non se ne era accorto. Non aveva assolutamente l'impressione che qualcuno stesse tirando la corda. Avanti a sé, vide la luce del sole. La botola era rimasta aperta. Poi non vide più nulla. L'acqua aveva riempito il tunnel e stava salendo più in fretta di quanto Orc riuscisse a nuotare. Pochi istanti più tardi, riemerse nella sezione quasi verticale del tunnel appena sotto il coperchio della botola. Ijim afferrò la mano tesa di Orc e lo tirò su. L'acqua sgorgò dal foro ma poi il suo livello si stabilizzò: aveva raggiunto quello delle acque del fiume. I nuvoloni si erano fatti più vicini, più grandi e più neri. Orc sperò che scoppiasse presto un temporale. Per qualche ragione, era convinto che la pioggia, con il suo contorno di tuoni e lampi, avrebbe aiutato i due Signori a penetrare nel nido dei kamanbur. Di sicuro avrebbe reso più drammatica la scena. Alcune armi, inclusi archi, frecce e corte lance, erano state chiuse in sacche di pelle impermeabili. Ijim aiutò Orc a sistemarsene una sulla spalla. A sua volta venne aiutato dal nipote. Con le altre armi infilate nelle cinture, si tuffarono - Orc fu il primo - nel tunnel buio. Ijim era pallido e batteva i denti per la paura. Ma sembrava deciso. Orc non era tanto sicuro che lo zio ce l'avrebbe fatta a seguirlo. La sua claustrofobia sarebbe stata ancora più intensa poiché avrebbero dovuto nuotare per arrivare al nido. Orc temeva che Ijim sarebbe annegato prima di raggiungere l'obiettivo. Proprio quando Orc credette di non farcela più a trattenere il respiro, scorse un bagliore. Nuotò disperatamente verso l'alto e la sua testa emerse dalla superficie dell'acqua. Pochi istanti più tardi, apparve anche il volto scuro di Ijim.
Ijim fece alcuni respiri profondi, poi ansimò, «È la cosa più terribile che mi sia mai capitata! Pensavo...» «Zitto!» gli sibilò Orc. Agitando le braccia e respirando profondamente, si guardò intorno. Tra l'acqua e il soffitto c'era spazio appena sufficiente per le loro teste. La fievole luce che proveniva da un' apertura nel livello superiore illuminava una rampa che dall'acqua saliva verso l'apertura. Intorno a loro, galleggiavano i corpi di molti kamanbur, piccoli e grandi. Dall'alto non proveniva alcun suono. Orc nuotò verso la rampa e vi salì aiutandosi con le mani e le ginocchia. Quando arrivò nella stanza al livello superiore, impugnò l'ascia. Ijim, ancora ansimante, lo seguiva a pochi passi. Una debole corrente d'aria sfiorò la pelle bagnata di Orc, facendo giungere alle sue narici un fetore non identificabile. Quella stanza era vuota di kamanbur, ma non di altri esseri viventi. Alcuni di essi erano chiusi in gabbie formate da filamenti secchi, disposte ai piedi e a metà delle pareti. Gli insetti che vi erano rinchiusi, delle dimensioni di cavallette, luccicavano a intermittenza ma producevano una luce continua. La fase in cui metà di essi si spegnevano coincideva con quella in cui l'altra metà si accendeva. «Affascinante,» commentò Orc. «Una simbiosi davvero inusuale tra insetti e mammiferi.» In gabbie più grosse appese alle pareti c'erano altre due specie di insetti. Una aveva ali a strisce rosse e gialle che battevano tanto rapidamente quanto quelle dei colibrì. Il rumore che facevano battendole tutte insieme assomigliava a un basso rombo. Ovviamente servivano a far circolare l'aria. C erano anche esseri simili a ragni grandi quanto la testa di Orc. Quest'ultimo non ebbe tempo per riflettere sulla loro funzione. Aprì la sacca impermeabile. Ne tirò fuori una corta lancia con la punta di selce, una faretra colma di frecce e un arco. La lancia era stata riposta in una custodia lunga e sottile all'interno della sacca. Dopo essersi passato la cinghia della faretra sulle spalle, montò la corda dell'arco. Terminati molto in fretta quei preparativi, Orc iniziò a seguire la parete curva. Superò le imboccature di numerosi corridoi. Ma non si fermò finché non ne trovò uno la cui entrata era molto più grande delle altre. Con ogni probabilità, era quello che conduceva alla stanza che si trovava nel punto in cui i due edifici che formavano i bracci della croce si intersecavano, come aveva notato Orc dall'alto della cresta. Aveva ipotizzato che Los avesse collocato la Porta proprio all'intersezione dei bracci della croce, ma non sapeva su quale livello si sarebbe trovata.
«Sbrigati!» lo esortò Ijim, che lo seguiva. «Ci saranno addosso non appena sarà loro passato lo spavento!» Orc non rispose. Corse nel corridoio, superando gli insetti nelle gabbie fissate alle pareti. La luce non era intensa, anche se a essa si univa quella che entrava dalle migliaia di fori nelle pareti. Improvvisamente, Orc sbucò nella stanza al centro della croce. Si fermò. Era stato fortunato. Là, al centro del locale rotondo, si ergeva la Porta. Era fatta di quel metallo, scintillante e più duro del diamante, chiamato tenyuralwa. Intorno a essa, c'erano pile di ossa di kamanbur. un avvertimento agli abitanti del nido di tenersi alla larga dal quadrato. Qualche tempo prima, Los aveva eretto quella Porta, riuscendo a non essere attaccato dai kamanbur. Quando era andato via, le creature avevano investigato sulla presenza della Porta. Alcune di esse l'avevano attraversata, attivando il dispositivo trappola di cui era dotata, ed erano morte. Gli altri kamanbur avevano disposto intorno alla Porta le parti dei loro sventurati compagni che erano rimaste su Anthema; quelle anteriori erano state incenerite o segate via. Tutti gli scheletri avevano conservato soltanto i quarti posteriori. «Se i kamanbur arrivano adesso,» disse Ijim, «non avremo molto tempo per scoprire il modo di attraversarla!» La Porta era un quadrato alto più di due metri. La base era stata ancorata al suolo con una sostanza nera e dura: colla thoan, che nessun acido avrebbe potuto dissolvere e che nessuna fiamma avrebbe potuto consumare. Orc poggiò a terra l'arco e le frecce, tolse la lancia dalla custodia e la depose accanto all'arco. Dopo aver raccolto un osso, andò dall'altra parte del quadrato e lo lanciò attraverso di esso. L'osso lo sorpassò indenne e atterrò sul pavimento. Ciò significava che solo l'altro lato del quadrato costituiva un passaggio verso un universo differente. Ijim aveva aperto un fagotto di pelle da cui estrasse due torce e del materiale per accendere il fuoco: una scatoletta di legno che conteneva trucioli e schegge di legno, erba secca, ramoscelli e due frammenti di selce montati su impugnature di legno. Formò un mucchietto con il materiale combustibile e iniziò a battere tra loro i due frammenti di selce. Orc girò intorno al quadrato, calciando via le ossa. Poi ne lanciò uno dal lato del quadrato attivo come passaggio interdimensionale. Come aveva previsto, l'osso scomparve. Un altro osso, fatto passare per qualche centimetro attraverso la Porta, fu estratto intero. Un secondo più tardi, Orc ripeté la prova. Questa volta, la metà dell'osso che aveva superato la Porta fu
tagliata via. Non era più visibile perchè si trovava in un altro mondo. Ijim stava imprecando. Le scintille scaturite dalle selci non erano riuscite a far bruciare il mucchietto di materiale combustibile. Esclamò, «Qualche volta ci vuole un mucchio di tempo, ma forse noi non l'avremo!» Orc era troppo intento nei suoi tentativi per replicare allo zio. Spinse attraverso il quadrato un femore più e più volte, contando i secondi: rlentawon, rlenshiwon, rlenkawon, rlenshonwon, rlengushwon. Tradotte, quelle parole significavano «mille e uno», «mille e due,» «mille e tre,» «mille e quattro,» «mille e cinque.» Quando lo spuntone d'osso fu divenuto troppo corto, lo sostituì con un altro. Ijim esclamò, «Ah! Finalmente! Ci siamo!» Orc si voltò verso di lui. Il Signore delle Foreste Oscure stava tenendo un ramo di pino sulla pila di materiale in fiamme. Il fumo si dirigeva lentamente verso l'uscita più vicina, che era il quadrato della Porta. «Ascoltami attentamente, Ijim. Sembra che la trappola sia costituita da un campo di forza tranciante, che si attiva a intervalli di tempo, quasi sicuramente un secondo e mezzo per attraversarlo. Il campo si spegne soltanto per quest'intervallo. Dobbiamo stare vicini alla Porta e saltarvi direttamente dentro. Ma dobbiamo tenere sollevate le braccia e mantenere i gomiti accostati al corpo. Le gambe devono giacere sullo stesso piano verticale dei nostri corpi. Qualsiasi parte del nostro corpo che sporga troppo verrà tranciata di netto.» Ijim annuì. «Dovremo saltare. Ma sarà difficile farlo senza piegare le ginocchia.» Ijim comprendeva bene quanto Orc - dopotutto, aveva molte migliaia di anni in più - che ciascuno di loro avrebbe dovuto usare prima un osso per stabilire il momento in cui iniziare a contare, per poi tentare il salto. Non ci sarebbe nulla di sicuro o di garantito nel loro conteggio. La loro salvezza sarebbe dipesa più che altro da un colpo di fortuna. «Abbiamo una sola possibilità,» disse Orc. Fece per avvicinarsi al quadrato, poi fissò un punto alle spalle di Ijim. «Non avremo il tempo di esercitarci, prima di saltare. Passami una torcia.» Ijim, che si era chinato per accendere un'altra torcia, si raddrizzò e si voltò di scatto. Lo spazio accanto alla soglia della stanza si era riempito di quaranta o più kamanbur. Avanzarono in formazione sparsa, le teste basse, le mascelle spalancate, i denti che brillavano, la saliva che grondava, le chele che si aprivano e chiudevano ritmicamente con un rumore secco, le
code prensili rigide, ma con l'estremità curva. I loro occhi gialli erano fissi sui due uomini. Orc era di fronte alla bocca di un kamanbur. Da essa spuntavano due piccole protuberanze: doveva trattarsi degli organi da cui venivano emessi i sottili filamenti grigi. Ijim avanzò verso il cerchio di ossa intorno alla Porta e agito le torce in direzione degli assalitori. I kamanbur si allontanarono precipitosamente. Poi uno di loro, una grossa femmina, emise una serie di fischi lunghi e brevi. Gli esseri grigi formarono un cerchio intorno ai mucchi di ossa. Orc disse, «Forse si sono resi conto che se passano dal lato opposto del quadrato non succederà loro nulla. Potrebbero attaccarci da due lati.» Corse dall'altro lato del quadrato e agitò la torcia contro i kamanbur. Le creature arretrarono, ma non quanto la prima volta. Ijim gridò, «Proviamoci adesso! Andrò io per primo! Tu guardami le spalle!» Orc non poté fare a meno di chiedersi se Ijim aveva intenzione di spingerlo di nuovo attraverso la Porta, non appena l'avrebbe seguito. Lui aveva pensato la stessa cosa nei riguardi di Ijim, ma poi aveva deciso di non farlo. E perché avrebbe dovuto farlo Ijim? Avrebbe avuto ancora bisogno di Orc. Ma i Signori, come i leblabbiy, non sempre agivano in maniera logica. Orc ritornò di nuovo dall'altro lato del quadrato. Correndo, continuò ad agitare la torcia. I kamanbur più vicini emisero i filamenti grigi, che mancarono il bersaglio di poche decine di centimetri. Dopo quel tentativo fallito, si avvicinarono di mezzo metro ai Signori. Quando Orc raggiunse lo zio, Ijim stava bruciando alcuni filamenti che gli si erano incollati alle gambe. Il fetore emanato dai filamenti che bruciavano in fretta somigliò a un misto di aglio e di patate marce. Il capo dei kamanbur fischiò alcuni ordini, e gli esseri si ritirarono. Poi una dozzina di essi si staccarono dal gruppo e si accovacciarono. La loro posizione fu tanto simile a quella assunta dai corridori ai blocchi di partenza che Orc comprese subito cosa avessero intenzione di fare. Sarebbero scattati in avanti e, quando sarebbero stati molti vicini, avrebbero spiccato un salto. A mezz'aria, avrebbero emesso i loro filamenti. Le loro prede non sarebbero riusciti a bruciarli tutti, prima che i kamanbur si avventassero su di loro. «Ora!» urlò Orc. Ijim si girò lentamente. Gli occhi erano fissi come fossero due palline di
vetro inserite in un blocco di cemento. Tuttavia le labbra si muovevano, come se stessero articolando velocemente parole il cui significato però rimaneva oscuro. Orc gemette. Ijim aveva avuto uno dei suoi attacchi, e non avrebbe potuto scegliere momento peggiore! Lui non poteva far niente per lo zio, tranne una cosa. Ijim aveva ben poche possibilità di sopravvivere, ma era meglio di niente. Orc strappò la torcia di mano a Ijim e la scagliò contro gli esseri accovacciati. Fischiando allarmati, i kamanbur si sparpagliarono quando la torcia atterrò nelle loro vicinanze. Orc afferrò Ijim e lo fece voltare, poi lo prese per la cintola e lo spinse di corsa in avanti. Ijim stava ancora farfugliando quando venne sollevato e lanciato verso la Porta. Non c'era stato il tempo per provare con un osso. In ogni caso, Orc aveva tentato di far assumere allo zio la posizione più verticale possibile. Uno spruzzo di sangue sgorgò dall'aria vuota. Ma anche se la parte posteriore del corpo di Ijim era stata tranciata, essa attraversò lo stesso la Porta. Non tanto in fretta, però, da evitare che un po' di sangue rimanesse dall'altra parte. Il capo dei kamanbur fischiò. Gli esseri ricomposero i loro ranghi. Un'altra serie di fischi li fece entrare in azione. Quelli sul lato opposto del quadrato si stavano dirigendo a tutta velocità verso Orc, come quelli che lo fronteggiavano. Se il Signore non avesse agito in fretta, sarebbe stato trascinato al suolo o imbozzolato nei filamenti prima ancora di poter saltare nella Porta. I kamanbur avrebbero attraversato incolumi l'altro lato del quadrato e gli avrebbero impedito di compiere il suo tentativo. Orc lanciò la torcia al di sopra del quadrato. Il ramo di pino descrisse un arco e colpì il capo dei kamanbur, che cadde. I fischi divennero assordanti. Orc non si guardò alle spalle. Anche un solo secondo di ritardo poteva rivelarsi fatale. Tuttavia, forse avrebbe rappresentato ciò di cui aveva bisogno per riuscire nella sua impresa. Urlando, corse verso la Porta, poi si fermò. Sollevò le braccia e tese le gambe il più possibile. Sperava che i kamanbur non avrebbero fatto in tempo a urtarlo spingendolo attraverso il quadrato. Senza esitare, o perdere tempo per controllare se il suo corpo era perfettamente verticale, si sollevò sulla punta dei piedi. Mentre saltava in avanti, gridò ancora una volta. A quel punto, Jim Grimson non resse più. Si sforzò di abbandonare la mente di Orc. Il Signore poteva farcela, oppure no, ma Jim non voleva correre alcun rischio. Se Orc moriva, anche lui
avrebbe potuto morire. Sebbene fino a quel momento avesse superato ogni pericolo insieme a Orc, non riusciva ad affrontare quello attuale. Di colpo, si trovò a percorrere uno spazio buio con spaventosa rapidità. Non provava nulla, tranne una vaga sensazione di velocità. Ma udì dei fischi. Poi fu di nuovo nella sua stanza. L'orologio indicava che lui - o il suo corpo astrale, o quel che fosse - era stato via per due ore e tre minuti. CAPITOLO VENTUNESIMO Sebbene la vita di Jim come Orc fosse stata terribilmente stancante e pericolosa, era stata anche circondata da una luce differente di quella di Belmont City. I soli degli altri universi brillavano di una luce calda e dorata. Quella della Terra era ancora dura e opaca. Se solo non fosse stato così stanco, Jim sarebbe ritornato subito nella mente di Orc. Se non ci fosse riuscito, avrebbe compreso che Orc era morto. Ciò avrebbe significato che doveva scegliere un altro personaggio con cui fondersi. Ammesso che avesse voluto continuare la terapia. Ma se Orc era morto, a cosa sarebbe servita la terapia per Jim Grimson? Non contava nulla il particolare che anche altri pazienti usassero Orc il Rosso. I loro Orc erano solo parti di fantasia. Lui, invece, era stato nella mente del vero Orc, figlio dei veri Los ed Enitharmon. Ciò che più faceva ritardare il suo ritorno nella mente del Signore era il timore che Orc fosse stato tagliato in due. Ma Orc, se fosse stato nei suoi panni, avrebbe avuto paura di ritornare? Assolutamente no! Arrivò il compleanno di Jim. Gli unici che lo festeggiarono furono Jim e gli altri pazienti. Il dottor Porsena fece una fugace apparizione durante la breve festicciola. La madre di Jim e Mrs. Wyzak gli inviarono dei bigliettini d'auguri e gli telefonarono. La madre non poteva prendere un giorno di permesso per andare a trovarlo. La torta che Mrs. Wyzak aveva detto di aver lasciato alla reception dell'ospedale era andata persa da qualche parte. La mia solita fortuna, pensò Jim. Ed era ancora troppo depresso e spaventato per tentare di rientrare nella mente di Orc. Due giorni dopo il suo compleanno, Gillman Sherwood, che quel giorno era di turno come responsabile degli altri pazienti, lo chiamò mentre stava consumando il pranzo nel refettorio. «C'è tua madre,» gli annunciò. «A quest'ora?» si stupì Jim. «Ma dovrebbe essere al lavoro!»
Sherwood inarcò le sopracciglia, come se il pensiero di una madre costretta a lavorare fosse sorprendente. Il cuore di Jim iniziò a battere più forte quando entrò nella saletta riservata ai visitatori. Soltanto delle cattive notizie avrebbero costretto la madre a venire lì a quell'ora. Doveva essere avvenuto un lutto in famiglia. Sua sorella? Suo padre? Si sentiva molto peggio di quanto si sarebbe aspettato all'idea della morte di Eric. Non avrebbe dovuto provare quel terribile vuoto, quel cocente senso di perdita. Ma dopo tutto, qualunque cosa fosse successa tra loro, Eric Grimson rimaneva sempre suo padre. Quando raggiunse la porta, ormai si era convinto che Eric Grimson era morto. Ubriachezza? Incidente? Suicidio? Assassinio? Tutte alternative plausibili. Eva Grimson si alzò subito dalla sedia, non appena Jim superò la soglia della stanza. Indossava un vestito di tessuto stampato troppo largo e troppo sottile per quella stagione. Il viso si era smagrito ed era divenuto ancora più segnato dalle rughe. Le borse sotto gli occhi erano ancora più scure e profonde. Sebbene il consunto cappotto marrone nascondesse la magrezza del corpo, le gambe sottili come quelle di un uccello mostravano quanto Eva Grimson fosse dimagrita. Ma nel vedere il figlio, sorrise. Jim l'abbracciò mentre gridava, «Mamma! Cosa è successo?» Eva iniziò a piangere. Jim si sentì ancora più male. Erano pochissime le volte in cui l'aveva vista piangere. «Papà sta bene?» chiese. Eva si staccò da lui e si sedette di nuovo. «Mi dispiace, Jim,» disse. «Mi dispiace tanto. Ma tuo padre...» Iniziò a singhiozzare. Jim si inginocchiò accanto a lei e gli passò un braccio sulle spalle curve. «Per amor di Dio! Cosa è successo?» «Tuo padre...» «È morto!» esclamò Jim. La madre parve sorpresa. Invece di rispondere immediatamente, prese un fazzoletto dalla borsetta e si asciugò gli occhi. Jim pensò, un po' frivolmente, che quelle lacrime non le avrebbero rovinato il trucco, visto che non ne aveva mai fatto uso. Dopo essersi soffiata il naso, la madre scosse la testa. «No. È questo che hai pensato? Ma, in un certo senso, potrebbe essere...» «Essere cosa?» La madre doveva aver pensato «la cosa migliore.» Ma non poteva permettere a se stessa di avere simili pensieri, figuriamoci di esprimerli ad alta voce.
«Niente. Tuo padre... insiste che dovremmo trasferirci a Dallas! Sai, in Texas!» Jim dovette respirare a fondo più e più volte, prima di riuscire a pensare di nuovo chiaramente. Aveva come un peso immane sul petto. Poi commentò bruscamente, «Allora avrebbe fatto davvero meglio a essere morto! E anche tu! Tu... tu... mi stai abbandonando!» La madre gli afferrò la mano e se la premette contro la guancia bagnata di lacrime. Poi gemette, «Io devo andare con lui! È mio marito! Devo seguirlo ovunque vada!» «No! Non è così!» esclamò Jim. Ritrasse di scatto la mano. «Al diavolo tu e al diavolo anche lui! Andate all'inferno!» Solo più tardi, quando Jim rivisse l'episodio nella sua mente, si accorse che era stata la prima volta che aveva parlato in quel modo a sua madre. Per quanto fosse infuriato con lei, le si era rivolto quasi sempre in maniera gentile. Il marito la faceva soffrire più che abbastanza. «Per amor di Dio, non parlare così, Jim!» La madre tentò di stringergli ancora la mano, ma Jim la ritrasse. «Qui non riesce a trovare un lavoro decente. E questo lo sta uccidendo, tu lo sai. Ha sentito dire da... un amico gli ha detto - ti ricordi Joe Vatka che a Dallas si trova lavoro facilmente. È una città in forte sviluppo, e...» «E io?» chiese Jim. Iniziò a camminare avanti e indietro, serrando e aprendo i pugni. «Io non conto nulla? Chi pagherà le spese della mia terapia? Dove vivrò quando verrò dimesso dall'ospedale? Non voglio interrompere la terapia! È la mia unica possibilità di guarire! Non voglio! Non voglio!» «Ti prego, cerca di capire, figlio mio. Non so che fare, la mia anima è dilaniata. Ma non posso permettere che lui vada via da solo, e tuo padre dice che lo farà, se non vado con lui. È mio marito. Io devo seguirlo!» «E io sono tuo figlio!» le urlò Jim. Kazim Grasser, un infermiere di colore, si affacciò sulla soglia. «Va tutto bene? Qualche problema?» «È una questione di famiglia,» replicò Jim. «Non diventerò violento. Ora vattene!» Grasser disse, «OK, ragazzo, ma cerca di calmarti.» Poi andò via. «E come mai non è qui a dirmelo di persona, e invece manda te?» urlò Jim alla madre. «Ha paura di affrontarmi? Mi odia tanto che non gliene fotte niente di me?» «Ti prego, Jim, non usare questo linguaggio,» lo rimproverò la madre.
«No, non ti odia, Jim. Non nel profondo del suo cuore. Ma ha paura di affrontarti. Sente di essere un fallito...» «E lo è!» «...come marito e come padre che dovrebbe provvedere alla sua famiglia...» «E anche su questo ha ragione!» «...e pensa che tu lo aggrediresti. Dice... dice...» «Avanti, dillo! Pensa che sono pazzo!» Eva sollevò una mano in segno di protesta. «Ti prego, Jim. Sopporto già a stento la situazione. Se non fosse un peccato mortale, mi ucciderei!» «Fa' quel che ritieni meglio per te,» disse Jim e uscì dalla stanza. L'urlo della madre risuonò oltre la soglia, «Jim! No!» Sebbene esitasse, non tornò indietro. Quando fu nella sua stanza, si sedette sul letto e pianse. La solitudine lo assalì come un'enorme ondata di marea, trasportandolo lontano da tutti gli altri esseri umani, oltre l'orizzonte, verso un'isola anch'essa chiamata Solitudine. Pur sconvolto da dolore, rifletté che quella frase sarebbe stato un titolo meraviglioso per una canzone. Il cervello era davvero bizzarro. Anche in momenti come quello, era capace di inviare strani messaggi. Sempre in attività, lavorava simultaneamente su diversi livelli, e nessuno sapeva perché inviasse determinate conclusioni nel momento sbagliato. Ma era davvero così? Oppure il cervello di Jim stava cercando soltanto di alleviare il suo dolore? Se era così, quello stratagemma funzionò solo per un istante. Jim precipitò in acque gelide, nere e profonde e non ne riemerse che dopo qualche tempo. Gli altri pazienti fecero di tutto per farlo riprendere. Il dottor Scaevola, che aveva sostituito per tre giorni il dottor Porsena, recatosi a un convegno, tentò di portare un po' di luce nell'anima di Jim. Fallì. Quella sera, appena dopo la seduta di gruppo, Jim fu ancora una volta chiamato in parlatorio. «Mr. e Mrs. Wyzak,» gli disse l'infermiere. «E non portano buone notizie, visto i musi lunghi che hanno.» I Wyzak si alzarono, quando Jim entrò nella stanza, Mrs. Wyzak scoppiò in lacrime, corse verso di lui, e lo strinse tra le sue braccia massicce. Il viso di Jim venne spinto contro i suoi grandi seni. Percepì un odore di profumo scadente. Mrs. Wyzak gemette, «Sam è morto!» Per un istante, il mondo sembrò roteare intorno a Jim. Non provò nulla.
Mentre la voce della madre di Sam diventava sempre più lontana, a Jim parve di affondare in un oceano di ovatta. Era sparita ogni cosa, tranne il mare di ovatta. Non riuscì a piangere. Le lacrime che aveva versato quel pomeriggio erano state tutte quelle che aveva. La fonte si era inaridita, era rimasta soltanto la pietra da cui erano scaturite: fredda, dura e arida. Si sedette mentre Mrs. Wyzak gli raccontava di Sam. Il marito rimase in silenzio, con il capo chino, le spalle curve. La storia della madre di Sam fu breve. Il figlio era scappato via di casa. Aveva chiesto qualche passaggio. L'ultimo glielo aveva dato un camionista. Nessuno conosceva ancora la dinamica dell'incidente ma il camion era finito in una scarpata molto ripida. Il camionista era rimasto gravemente ferito; adesso era in coma. Sam era stato scagliato fuori dalla cabina di guida, ed era stato schiacciato dal rimorchio. I funerali si sarebbero tenuti di lì a tre giorni. «Non volevo telefonarti,» disse Mrs. Wyzak, asciugandosi gli occhi con il fazzoletto. «Volevo essere qui quando avresti appreso la notizia. Tu e Sam eravate amici fin da quando avete iniziato a camminare.» Iniziò a singhiozzare. Jim fece tutto il possibile per consolarla, sebbene non condividesse il suo cordoglio. La morte di Sam sembrava essere avvenuta secoli prima. Quando il dottor Porsena, dopo essere ritornato dal convegno, ebbe la prima seduta privata con Jim, iniziò a lavorare sulla mancanza di sentimenti che il suo paziente aveva dimostrato. Verso la fine dell'ora di colloquio, il dottore disse, «È possibile che tu soffra per un dolore doppiamente intenso. Possiedi un'immaginazione notevolmente vivida e sinestetica. I tuoi viaggi nel ciclo di Farmer sono di solito decisamente realistici e molto intensi. Là, tu vivi come in questo mondo. «Quel che voglio dire è che...» Fece una pausa, aspettando che fosse Jim a dare la spiegazione, se ce n'era una. Una scoperta fatta dal paziente era più utile di quella fornita dal medico. La luce doveva provenire dall'interno. Jim immaginò delle dita bianche che frugavano nella massa oscura del suo cervello. Cosa diavolo si aspettava lo Sciamano da lui? Pensava che un diciottenne fuori di testa fosse il dottor Freud in persona? Qual era stata la parola chiave di Porsena? Era solito fornire simili parole ai suoi pazienti, sebbene fossero mimetizzate nelle frasi che pronunciava. Se il paziente riusciva a scoprirle e a usarle, allora si sarebbe aperto un nuovo spiraglio di luce.
Si pensava che il dolore fosse un liquido capace di diluire i ricordi. Ma entrare nella mente di Orc aveva migliorato notevolmente la memoria di Jim. Era come se una frazione della memoria quasi fotografica del Signore gli fosse rimasta attaccata. Ricordava quasi parola per parola tutto quello che Porsena aveva detto durante la seduta. Dunque, controlla. Soffermati sulla parola o la frase chiave e spiegala. «Ah!» esclamò poi. «"Doppiamente".» Lo Sciamano sorrise. «"Dolore doppiamente intenso"», ripeté Jim. «Lei pensa che io abbia un carico addizionale di angosce. Provo angoscia sia come Jim Grimson che come Orc. Entrambi siamo stati rifiutati dai nostri padri, e questo è un eufemismo. Entrambi siamo in una brutta situazione. Non so se entrambi soffriamo per la perdita del nostro migliore amico. Dubito che Orc sia stato molto dispiaciuto per la morte di Ijim.» Jim increspò la bocca. Era come se fosse convinto che muovere la bocca avrebbe messo in movimento anche il cervello. Poi lo psichiatra disse, «Ijim è morto, per quel che ne sai. È l'unico?» «Uh, be'... vediamo. C'è, c'è... e se ci fosse Orc stesso?» Porsena non rispose. Era il suo paziente a doverlo fare. «Cioè, io non so se è morto anche lui!» esclamò Jim. «Se lo è davvero, allora ho perso tutto. Tutto! E questa è un'angoscia che non riesco a sopportare.» «Ci sono altri?» chiese il dottore. «Be', c'è Orc, e lui è davvero me, come io sono davvero lui, ma questo gliel'ho già spiegato; poi c'è mia madre... voglio dire Enitharmon. L'ho persa. E voglio bene anche a zia Vala. Ho perso anche lei. Suppongo che la loro perdita sia stata molto dolorosa. Sono sicuro che Orc ha sofferto, nel pensare che forse non le avrebbe riviste mai più. Ma il suo dolore si è trasformato in odio contro suo padre. Lui...» Dopo un lungo silenzio, il dottor Porsena disse, «Lui...?» «Ha fatto qualcosa. Non si è seduto a piangere.» «E questo modo di comportarsi è giusto o sbagliato?» «Questa è...» Jim era stato sul punto di affermare che quella era una domanda stupida. Ma non avrebbe detto una cosa del genere allo Sciamano. Quando rivolgeva una domanda, per quanto potesse apparire sciocca o futile, Porsena aveva sempre le sue ragioni. «Giusto, ovviamente. Solo che...»
«Sì?» «Solo che era giusto nel senso che era un'azione diretta a risolvere il problema. Ma Orc ha scelto il metodo più violento. Voglio dire, voleva uccidere il padre e chiunque gli avesse sbarrato la strada! Forse avrebbe potuto escogitare un metodo migliore. O forse quello era l'unico, non lo so.» Jim arrossì. Quel particolare non sfuggì all'occhio attento di Porsena. Il dottore commentò, «Sei imbarazzato.» Jim si strinse mentalmente nelle spalle, poi disse, «OK. Dopo tutto, io non ho i pensieri incestuosi che aveva Orc. Di sicuro non ne ho mai avuti verso mia madre. Orc vuole sposare la madre dopo aver ucciso il padre, non prima di averlo torturato, cioè. E gli piace anche la zia. In effetti, Orc è più arrapato di un branco di visoni in calore. Le ho già detto che è andato a letto con venti delle sue sorelle, be', sorellastre, tutte figlie di Los. E tutte bellissime, anche se erano... oh, cavolo, ma cosa sto dicendo?» «Native? Non della razza dei Signori? Leblabbiy?» «Sì. Mi dispiace. I leblabbiy sono un po' come i neg... le persone di colore. Non volevo usare quella parola, lei lo sa. Non credo che la gente di colore sia inferiore. Ma sono cresciuto in un posto dove lo si sente dire dappertutto.» «Lo so,» lo tranquillizzò il dottore. «Ma qual è il tuo giudizio sulla tolleranza dell'incesto da parte dei Signori? «Be', Doc... voglio dire, dottore, ho letto molto sull'antico Egitto, da quando ho visto Cesare e Cleopatra in televisione. Sa, la versione televisiva dell'opera teatrale di G.B. Shaw. Con Claude Rains e Vivien Leigh. So che i fratelli e le sorelle appartenenti alle classi dominanti dell'antico Egitto si sposavano tra loro e avevano bambini, come del resto era costume fra gli Inca. E poi, penso che Farmer, in un qualche punto del ciclo, parli di matrimoni tra sorelle e fratelli. E così, avendo letto Farmer e i libri sull'Egitto e avendo visto il film, non ho avuto molti problemi ad accettare l'incesto. In ogni caso, quando sono Orc, tendo ad accettare quel che accetta lui. È una questione culturale. I Signori non soffrono di tare genetiche, e così non si curano di trasmetterle ai loro figli. Perché, dunque, un figlio non potrebbe sposare la madre?» Quando la seduta finì, Jim si rese conto che la sua insensibilità e la sua depressione si erano affievolite di pochissimo. Ma non importava. Ormai nulla importava.
CAPITOLO VENTIDUESIMO Jim era ormai precipitato al centro del proprio universo tascabile di depressione, formato esclusivamente da melanconia e autocommiserazione, due sentimenti che non permettevano ad alcuna luce di rischiarare il suo animo. Eseguiva lentamente, svogliatamente tutto ciò che gli veniva ordinato, tranne attraversare il tragil. Nel frattempo, continuava a contare le ore che scandivano la notte. Compilava una lista dei suoi difetti e dei suoi fallimenti, e non si fermava finché non era arrivato al numero trentasei. Li ricordava tutti. E perché no? Fin da quando aveva avuto dodici anni, aveva passato un mucchio di tempo a riflettervi sopra. E anche se era più che probabile che avesse altri difetti, quei trentasei erano più che sufficienti a soddisfare anche la persona più incline all'auto commiserazione. Il dottor Porsena, invece, non gli mostrò alcuna comprensione. «Non puoi continuare a trascinare le catene in giro e a ripetere "Oh me sventurato!" come se fossi il fantasma di un castello. Stavi compiendo notevoli progressi, direi quasi fenomenali. Ora, stai regredendo. Anzi, più che ritornare al tuo precedente livello di autostima, già piuttosto basso, è come se fossi sprofondato ancora di più, come se avessi raggiunto il nadir della tua personalità.» Jim ebbe la forza di dire, «Il contrario di zenith, giusto? Be', non mi è mai piaciuta molto la TV.» Lo psichiatra lo fissò per un istante, sbalordito. Poi sorrise e commentò, «Se sei ancora in grado di fare una battuta, per quanto squallida possa essere, allora per te forse c'è ancora speranza.» Jim non fu dello stesso parere. Quello era l'ultimo sprazzo di una fiamma sul punto di spegnersi. «Cosa succederà se Orc è morto?» chiese poi. Fu colto di sorpresa dall'aver rivolto al dottore quella domanda; era come se gli fosse esplosa dalla bocca. Le labbra di Porsena si curvarono in un' ombra di sorriso. Jim pensò che non era soltanto lo Sciamano. Era anche la Sfinge. L'espressione di Porsena era assolutamente identica a quella sul volto di pietra della Grande Sfinge di Giza. Alle spalle del dottore, Jim credette di intravedere le piramidi e gli alberi di palme. Dietro il volto della Sfinge, devastato dal tempo, e quello del dottore si nascondeva una saggezza acquisita nel corso di innumerevoli anni. «Cosa succede se Orc è morto?» ripeté Porsena. «Scegli un altro perso-
naggio in cui entrare.» Almeno Porsena non gli aveva fatto notare che Orc era soltanto il personaggio di un romanzo. Doveva pensarla così, ma stava giocando seguendo le regole di Jim. Mai contraddire. Quella era la regola più importante, ed era stato proprio Porsena a crearla. «Non voglio essere nessun altro,» replicò Jim. «Allora scopri se Orc è vivo oppure no.» «Lo farò,» affermò Jim. «Lo farò per lei.» «No. Lo farai per te stesso. E lo farai perché è ciò che devi fare; gli altri non c'entrano.» Porsena si sporse in avanti. I suoi occhi azzurri fissarono quelli di Jim. «Ascoltami, Jim. Sono cosciente di rappresentare per te una figura dotata di autorità, forse il sostituto di tuo padre o di tua madre. In un certo senso, è un bene perché nei miei confronti hai reagito diversamente, rispetto a tutte le altre figure dotate d'autorità che hai incontrato nella tua vita. Hai fatto del tuo meglio per compiacermi, anche se questo comportamento non è necessariamente desiderabile. Però io sono qui soltanto per guidarti attraverso la tua terapia. Ma forse è un modo troppo impersonale e freddo di illustrare la situazione. Mi piaci, e penso che potremmo anche diventare amici, una volta completata la terapia. Ma io ho autorità su di te, non sono un tuo eguale. In questo momento, sono il tuo superiore, anche se non farò valere la mia autorità, a meno che non sia per il tuo bene. «Ma tu devi modificare la percezione che hai di me. Non sono Dio, non sono i tuoi genitori. Mi aspetto che tu ascolti i miei consigli e che poi usi il tuo intelletto per stabilire la loro validità. Nondimeno, in alcune occasioni, sarò costretto a importi la mia volontà. Sono più vecchio e più saggio e inoltre sono un professionista. Però sono un essere umano: posso commettere sbagli, errori. «D'altra parte, è meno probabile che li commetta io piuttosto che te. Ricorda quel che ti ho detto. Dovremo lavorare sul tuo atteggiamento verso di me. Ma il proseguimento della tua terapia è la cosa più importante. Dunque, devo insistere affinché tu rientri in Orc o scelga un altro personaggio. Se non lo farai, la tua terapia verrà interrotta. Mi sono spiegato?» Jim annuì. «Cosa farebbe adesso Orc, se fosse nei tuoi panni?» «Eh? Oh, capisco cosa vuol dire! Mi scusi, stavo pensando a qualcos' altro. Se lui fosse me, avrebbe subito attraversato il tragil, senza indugi. Ma io non sono lui non ancora, comunque. Orc non sarebbe mai caduto in uno
stato depressivo, e, in caso contrario, ne sarebbe uscito presto. Lo conosco e...» «Allora fa' quel che farebbe lui, anche se ti sembra contro la tua natura, non importa quanto ti risulti difficile farlo. Non è un lavoro facile, capisci.» «Ci proverò. Sul serio,» promise Jim. Ma stava pensando di avere ben poche possibilità di successo, specialmente nello stato d'animo in cui era piombato. Però esistevano molti modi per alterare stati emotivi di quel tipo. Porsena non li avrebbe approvati. In effetti, assumere droghe, oltre le medicine prescritte, era proibito. La conseguenza sarebbe stata l'espulsione immediata. Ma una situazione disperata richiedeva soluzioni disperate. Quel pomeriggio, prima dell'inizio della terapia di gruppo, Jim si appartò con Gillman Sherwood in un angolo tranquillo del corridoio principale. «Ho sentito dire che vendi la roba.» «Non è vero,» replicò Sherwood. «Non lo farei mai. All'inferno, sono qui, tra gli altri motivi, proprio per liberarmi della scimmia.» «Mettiamola così,» disse Jim. «Mi pare di comprendere che tu possa avere accesso ad alcune cure di cui ho bisogno. Mi piacerebbe provarne una, preferibilmente del tipo "veloce".» «Potresti avere ragione,» disse Sherwood. «Ma in questo posto corrono molte voci e la maggior di esse sono false.» «"Velocità" è la parola chiave,» disse Jim. «Potrebbe essere quel che ti ha prescritto il dottore. Ma nulla è gratis in questo mondo crudele.» «Conosco il prezzo e ho con me i soldi,» replicò Jim. Quella mattina, aveva ricevuto per posta un bigliettino della madre con acclusa una banconota da dieci dollari. In un primo momento, aveva avuto la tentazione di spedire tutto indietro. Ma aveva un bisogno disperato di denaro, e così aveva conservato la banconota nel portafoglio, strappando il bigliettino. E ora era pronto a spendere la metà di quei dieci dollari per qualche pillola di anfetamina, quando avrebbe dovuto conservare ogni centesimo per eventuali emergenze. Si odiò, ma nello stesso tempo era ansioso di ricevere la scarica di energia che la droga avrebbe trasmesso alla sua mente e al suo corpo. Gillman Sherwood poggiò la mano sulla spalla di Jim. «Ci sono altri modi, oltre il denaro, per ripagare un debito.» «Scordatelo!» esclamò Jim. «Te l'ho detto anche l'ultima volta, assolu-
tamente no!» Il sorriso di Gillman fu così superbo, così pieno di superiorità. Jim lo odiò, e odiò avere a che fare con quello stronzo di Gillman. L'altro disse, «Prima di parlare male di qualcosa, devi almeno provarla.» «Cristo!» imprecò Jim. «Ci hai provato con ogni ragazzo e ragazza di questo posto! Ma ti piace tanto ricevere rifiuti? Fa parte del tuo problema?» «Ehi, qua dentro più d'uno sa riconoscere un' offerta che non può rifiutare! Non ho bisogno di te, Grimson, non più di quanto abbia bisogno di un foruncolo sul culo! Ti darò quello di cui hai bisogno la prossima volta che saremo da soli. Porta i soldi. Altrimenti, niente roba.» Che cosa farebbe in questo caso Orc il Rosso? Probabilmente ucciderebbe Sherwood e si impadronirebbe della sua provvista di droga. Ma io non posso farlo, pensò Jim. Anche se i genitori di Sherwood erano molto ricchi, gli mandavano pochi soldi. E così, se voleva altro denaro, era costretto a spacciare. Suo padre era stato un magnate dell'acciaio. Nonostante la chiusura delle industrie nella zona di Youngstown, aveva interessi in altre attività e si diceva che possedesse mezza Belmont City. Il suo unico figlio sembrava essere destinato a diventare uno di quei rampolli alti, atletici, biondi e belli che vivevano al riparo dalle ansietà e dalle difficoltà che affliggevano la massa, la feccia degli altri adolescenti. Ma non era stato così. Le persone molto ricche hanno problemi in comune con quelle molto povere. Gillman era bisessuale, con un'inclinazione particolare verso gli uomini. Se il padre omofobico lo avesse saputo, non sarebbe stato così ansioso di farlo diventare un uomo d'affari. Gillman avrebbe voluto studiare pittura. Il padre era rimasto sbalordito, quando il figlio gli aveva espresso quel desiderio. Aveva insistito affinché Gillman frequentasse l'università di Harvard, prendesse un M.B.A. e poi diventasse suo socio. Se voleva dipingere nel tempo libero, benissimo, anche se non avrebbe dovuto dirlo a chiunque pensasse che soltanto i froci facevano i pittori. Se poi voleva darsi al mecenatismo, be', allora quella era tutt'altra faccenda. Gillmam, come molti altri ragazzi in terapia, era impazzito. Si era tagliato i polsi e aveva dipinto il suo autoritratto col sangue. Poi era stata scoperta la sua tossicodipendenza e così era finito al Wellington Medicai Center. A Jim, Gillman sarebbe stato anche simpatico, se non si fosse comportato come un secondo Messia. Pensava anche che la sua scelta di Wolff co-
me personaggio in cui calarsi era del tutto incongrua. Wolff, a quel figlio di puttana, avrebbe sputato in faccia. Qualche minuto più tardi, Jim stava parlando con Sandy Melton. Da quando era stata ammessa in terapia, non era riuscito mai a parlare a lungo con l'amica. Sandy era stata riconosciuta come schizoaffettiva e ora veniva curata con il carbonato di litio. Adorava il padre, un caucasico, anche se si lamentava di vederlo troppo poco. Lui lavorava come rappresentante di una importante ditta di prodotti farmaceutici, la cui sede centrale era a Belmont City. Sandy detestava la madre, che era coreana. Fin dalla prima infanzia, Sandy aveva sofferto perché molti dei suoi compagni di scuola la chiamavano «occhi storti,» «Chink,» «Jap,» e «mongoloide.» Al liceo, gli amici avevano evitato di usare simili epiteti, ma i conoscenti erano stati meno discreti. Eppure i suoi capelli neri e lisci, gli occhi a mandorla e gli alti zigomi le conferivano una notevole bellezza. E sebbene fosse alta soltanto un metro e sessanta, aveva gambe relativamente lunghe e un corpo minuto ma formoso. Nonostante ciò, si considerava orribile. Anche se era molto timida, si era dimostrata una manager eccellente per gli Hot Water Eskimos: energica, qualche volta fin troppo zelante e attiva. Ma quando precipitava di colpo in uno dei suoi periodi di depressione, diventava letargica, si isolava da tutto, trascurava i suoi doveri. Fin da piccola, a Sandy non era piaciuta sua madre, soprattutto perché a quest'ultima sembrava non piacere lei. Kuo Melton era acida, scorbutica e trascurava le faccende di casa, trascorrendo la maggior parte del tempo a guardare le soap opera e i giochi a premio trasmessi in TV. Anche se erano trascorsi venti anni dal suo arrivo negli Stati Uniti, parlava l'inglese ancora molto male. Qualche volta Sandy era di umore caritatevole, e allora spiegava agli amici che la madre aveva avuto un'infanzia e un'adolescenza terribili. Era stata violentata, aveva rischiato di morire di fame e non aveva avuto una casa per molti anni, prima che Abe Melton la sposasse. A quel tempo, era stata bellissima e in cerca di un modo per andarsene dal proprio paese. Il padre di Sandy le aveva detto che durante i primi anni di matrimonio lui e Kuo si erano amati profondamente. Ma attualmente non era più così. Il metodo di Sandy per entrare nel Mondo dei Livelli era unico. Si liberava di tutti i suoi indumenti mentre recitava continuamente i primi quattro versi della Sutra del Loto buddhista. Poi poggiava i palmi delle mani contro il lungo specchio appeso alla parete della sua camera. Nel frattempo,
usava il canto di Jim, ATA MATUMA M'MATA. Due mantra erano meglio di uno. Dopo circa sette minuti (il sette era un numero magico dalle proprietà mistiche) e mentre si concentrava sul punto d'entrata, a cinque centimetri dall'orlo dello specchio (il cinque era un altro numero mistico), il vetro iniziava a diventare morbido ed elastico. Non appena si accorgeva che il vetro dello specchio si era trasformato in una sorta di gelatina, iniziava a mormorare rapidamente le parole della canzone «Over the Rainbow.» Quel che era andato bene per Dorothy di Oz sarebbe andato bene anche per Sandy. E tre mantra erano meglio di due. Il suo ectoplasma, come lo chiamava Sandy, scaturiva dai palmi delle mani a contatto con la sostanza vetrosa sempre più liquida, ed entrava nell'universo che lei aveva scelto. Quando era passata completamente nell'altro universo, Sandy (o meglio il suo ectoplasma) si ritrovava in un corpo maschile. Era molto tempo che desiderava essere un maschio, come suo padre, anche se aveva l'impressione che quel desiderio fosse moralmente sbagliato. L'universo che l'attendeva al di là dello specchio era totalmente diverso da quello del ciclo di Farmer. Prima di tutto, era piatto; se Sandy si fosse avvicinata troppo al suo bordo, avrebbe rischiato di cadere. Inoltre, era abitato esclusivamente da maschi caucasici, tranne una donna gigantesca, che veniva tenuta sotto sorveglianza in un enorme castello. Era come la regina di un nido di termiti e veniva nutrita a forza con un miele speciale che la rendeva enorme. La regina era la madre di tutti gli esseri umani che vivevano in quell'universo e dava alla luce cinque bambini maschi ogni tre mesi. Una volta all'anno, si svolgeva un torneo - Sandy era un' avida lettrice di romanzi medievali - e il campione diventava l'amante della regina e il padre di tutti i bambini che sarebbero nati durante l'anno. Dopo essersi ritirato, aiutava gli altri ex-campioni ad accudire i bambini, a pulire il castello, a lavare i piatti e a svolgere altre faccende domestiche. Per lui si trattava di un grande onore. Sandy, sotto le spoglie del personaggio che aveva scelto, Sir Sandagrain, vagava per il mondo alla ricerca dell'uomo che possedeva il segreto dell'eterna felicità. Mentre viaggiava, era costretta a sostenere innumerevoli combattimenti, contro altri cavalieri buoni e cattivi, e a conquistare i castelli di maghi malvagi e di baroni dediti al brigantaggio. Come tutti i maschi in quel mondo, Sandy indossava una maschera. Fino a quel momento, non aveva ancora trovato l'Uomo Dalla Maschera D'Oro, colui che posse-
deva il segreto. Le avventure che viveva in quanto cavaliere errante, sebbene fossero sanguinose e pericolose, servivano a proteggerla dallo stress emotivo che subiva sulla Terra e che qualche volta minacciava di sommergerla. Quando si accorgeva di aver attinto abbastanza sollievo da quell'universo, poggiava di nuovo i palmi delle mani contro lo specchio e ripeteva i tre mantra in ordine inverso. Il vetro gelatinoso iniziava a cristallizzarsi di nuovo. Quando era ritornato di nuovo totalmente solido, era pronto a far rientrare l'ectoplasma di Sandy nel suo corpo femminile. Sandy stava ottenendo qualche successo nella sue ricerca di una personalità più forte: iniziava a superare la confusione che provava nei confronti della sua identità sessuale. Si stava liberando dei suoi improvvisi sbalzi d'umore, della sua tendenza a isolarsi dagli altri. Come Jim e la maggior parte degli altri pazienti, le sue illusioni private e incontrollate stavano lentamente cedendo a quelle controllate del Mondo dei Livelli. «Jim, ho parlato due volte con mio padre,» disse con voce eccitata. «Ha sempre accennato a un eventuale divorzio da Kuo, ma fino a ora si era trattato solo di chiacchiere. L'idea del divorzio non gli è mai piaciuta. Ma ora, non lo so, potrebbe davvero decidersi a chiederlo. Sa quanto odi l'idea di lasciare l'ospedale e tornare a casa. Per me, è una prospettiva orribile. Ma solo perché a casa c'è Kuo!» Sandy non si riferiva mai a Kuo come a sua madre. «Non hai pensato di adattarti alla sua presenza?» le chiese Jim. «No, non potrei, a meno che anche lei non entrasse in terapia e non apportasse qualche cambiamento al suo carattere. Sai, bisogna essere in due per ballare il tango. Ma lei non farebbe mai una cosa del genere.» Il refettorio era rumoroso, sebbene alcuni suoi angoli più tranquilli fossero occupati da adolescenti assorti in se stessi. Jim e Sandy si sedettero di fronte a una ragazza gentile, fragile e molto bella, Elizabeth Lavenza. Il patrigno aveva continuato a sodomizzarla fin da quando Elizabeth aveva avuto dieci anni. Alcuni mesi prima, il mostro, come lo chiamava sempre Elizabeth, aveva tentato di ucciderla, quando l'aveva sorpresa mentre tentava di telefonare alla polizia. Elizabeth si era difesa colpendolo sulla bocca con la cornetta del telefono e sulla testa con un attizzatoio. Erano gli unici atti di violenza che avesse mai commesso, ed era tormentata dal rimorso (una reazione che Jim trovava assolutamente incomprensibile). Elizabeth era fuggita in strada, ma il padre, nonostante le ferite ricevute, era riuscito a riacciuffarla. Quando era arrivata la polizia, stava tentando di
strangolarla. Per entrare nell'universo dei Signori, Elizabeth usava quella che chiamava la «batteria»: i cinque libri del ciclo uniti con del nastro adesivo, in modo da fornirle l'energia necessaria ad entrare nell'altro universo. Molti altri pazienti usavano lo stesso sistema. Accanto a Jim c'era un altro tavolo, attorno al quale sedevano i membri di un gruppo a cui Jim era profondamente interessato. Stavano parlottando tra loro, con le teste il più possibile vicine. Avevano costruito il loro universo con l'aiuto del dottor Porsena. Sebbene facesse nominalmente parte del ciclo di Farmer, era improbabile che l'autore lo avrebbe creato a quel modo. Quell'universo era dominato da un Signore chiamato Kephalor: un cervello grande quanto l'universo stesso. I suoi abitanti erano entità elettriche: gli impulsi nervosi del cervello di Kephalor. In effetti, il gruppo era chiamato Gli Impulsi Nervosi (Jim era convinto che sarebbe stato un nome grandioso per un gruppo rock). I membri del gruppo avevano stabilito un accordo secondo cui ogni qual volta Kephalor avesse dimenticato qualcosa, uno degli impulsi sarebbe morto, Il che significava che anche il membro del gruppo incarnato nell'impulso sarebbe perito. Ma lui o lei avrebbe potuto ritornare sotto forma di un nuovo pensiero, anche se la sua identità sarebbe stata diversa. Jim aveva sentito dire che recentemente l'armonia del gruppo si era incrinata. Uno dei suoi membri, una ragazza, affermava di essere il subconscio della mente di Kephalor. E poiché il subconscio controlla l'Ego, gli altri impulsi nervosi avrebbero dovuto obbedire ai suoi comandi. Ma si trattava di uno sviluppo prevedibile. Una delle caratteristiche comportamentali che avevano portato la ragazza al Wellington era proprio il suo fortissimo desiderio di controllare gli altri. Dopo pranzo, Gillman Sherwood e Jim svoltarono un angolo del corridoio. Erano soli. Gillman, tenendole sul palmo aperto della mano, tese verso Jim cinque pillole nere di anfetamina. «Di solito le vendo a due dollari l'una. Ma ai nuovi clienti faccio uno sconto. Ti costeranno soltanto un dollaro l'una.» Jim diede la banconota da dieci a Gillman mentre prendeva le pillole. Gillman aprì il portafoglio, che era gonfio di banconote, e diede il resto a Jim. «Benvenuto nel mondo reale,» gli disse Sherwood. «È solo una cosa temporanea,» mormorò Jim. «Sono un po' in difficoltà. Ma dopo...»
Sherwood sorrise. «Sicuro. Ma se la cosa diventa permanente, sai a chi rivolgerti.» Jim, odiando sia Sherwood che se stesso, si girò e andò via. Quella sera, rimase seduto a lungo fissando le pillole, che adesso non gli sembravano più tanto meravigliose. Che cosa avrebbe fatto Orc? Jim non lo sapeva. Ogni tanto, Orc aveva ricordato brevemente l'estasi che aveva provato assumendo alcune droghe. Ma Jim aveva anche avuto l'impressione che esse non provocassero né effetti collaterali né assuefazione. E in ogni caso, Orc non aveva bisogno di droghe per darsi coraggio. E poi c'era il dottor Porsena. Sarebbe stato molto deluso, se Jim avesse iniziato di nuovo a prendere droghe. Ma Jim disse a se stesso che lui non era mai stato un vero tossicodipendente, uno «fuso per la droga,» come lo chiamava il padre. Lui si limitava a usare quella roba di tanto in tanto. Anche se, a voler essere onesti, in quell'anno aveva assunto molta più anfetamina e tranquillanti e aveva fumato molta più marijuana dell'anno precedente. Ma questo non significava che stava per saltare sul vagone infernale chiamato Tossicodipendenza. O forse sì? Dopo mezz'ora, Jim sospirò, e si alzò dalla sedia. Poi gettò le capsule nella tazza del water e tirò lo sciacquone, non senza rimpianto. Dieci minuti più tardi, proiettò se stesso oltre il cerchio al centro del tragil. CAPITOLO VENTITREESIMO In preda all'agonia, Orc si contorse su un pavimento duro e scintillante. Visto che era solo, non aveva bisogno di dimostrarsi stoico. Urlò di dolore. Jim soffriva quanto Orc, il che non era giusto, visto che non aveva corpo. Avrebbe dovuto tornare subito sulla Terra e attendere che il dolore cessasse. Ma, sfortunatamente, non riusciva a concentrarsi sulla tecnica di cui aveva bisogno per ritornare nel suo corpo. E non appena fosse stato in grado di farlo, il dolore sarebbe divenuto sopportabile. Sebbene mezzo accecato dal fuoco bruciante che sembrava divorargli i calcagni e le natiche, Orc si accorse di trovarsi in un vasto tunnel. Le pareti brillavano alla luce emessa da creature esagonali e vagamente insettoidi, attaccate alle pareti stesse. Altra luce proveniva da protuberanze rotonde che spuntavano sul soffitto, sulle pareti e il pavimento. Tra di esse c'erano folte chiazze di quello che sembrava una specie di lichene verde.
Al centro del tunnel si apriva un profondo canaletto in cui scorreva dell'acqua limpidissima. Orc, camminando in punta di piedi, si avvicinò con movimenti rigidi al ruscelletto, e vi si immerse fino al collo. L'acqua era gelida e, se gli ghiacciò il sangue, in qualche modo alleviò anche il dolore. Seduto nell'acqua, Orc vide le impronte insanguinate che aveva lasciato sul pavimento cristallino. Quando era saltato attraverso la Porta, parti dei calcagni e delle natiche erano state tagliate dal campo di forza. Col tempo, quelle ferite sarebbero guarite, ma davvero Orc avrebbe avuto il tempo necessario? In quel momento, questo dipendeva da quanto sangue stava perdendo. Inoltre, anche se Orc sopravviveva all'emorragia, la sua vita sarebbe dipesa da quanto a lungo sarebbe stato in grado di camminare per trovare del cibo e la Porta. A meno che quest'ultima non fosse molto vicina. Ma Orc ne dubitava. Los gli aveva detto che la Porta su Anthema lo avrebbe condotto di nuovo al suo mondo natio. Aveva mentito. Sul pianeta in cui era nato Orc non esisteva un luogo del genere. Orc strisciò di nuovo sul pavimento del tunnel, che era qualche centimetro più alto del letto del ruscello. Non appena si fosse riscaldato, sarebbe stato di nuovo invaso dalla sofferenza, ma non riusciva più a sopportare il gelo dell'acqua. Desiderò avere dei vestiti, qualunque cosa, con cui bendare le ferite. Vide la parte superiore del corpo di Ijim. Giaceva a faccia in giù sul pavimento. Orc, quando aveva superato la Porta, era atterrato su quella parte dello zio, scivolando sugli intestini e sul sangue. Orc indossava un perizoma di pelle e una cintura con un coltello di selce conservato in un fodero. Tutte le altre armi e la sacca con le provviste erano rimaste su Anthema, dall'altro lato della Porta. Camminando in punta di piedi e facendo smorfie di dolore, Orc si avvicinò a Ijim e gli tolse il perizoma tagliato a metà, la cintura e un coltello. Quest'ultimo ormai era solo un mezzo coltello, visto che il raggio l'aveva tagliato longitudinalmente, ma avrebbe potuto lo stesso rivelarsi utile. Con il proprio coltello, Orc strappò alcuni pezzi del lichene verde che cresceva sulle pareti. Sotto di essi apparvero dei tubicini che spuntavano dal cristallo. Orc pensò che trasportassero sostanze nutritive alla pianta. Quando vide che un liquido giallo iniziava a colare dalle loro estremità, pensò che la sua ipotesi molto probabilmente era giusta.
Strizzò il fluido dai pezzi di pianta, che al tatto avevano la stessa consistenza di muschio folto e bagnato. Decise di chiamare la pianta omuthid, la parola thoan che indicava il muschio, e se ne mise qualche manciata sulle ferite. Sobbalzò per il dolore, ma il muschio rimase attaccato alla pelle, come se contenesse colla. L'emorragia diminuì. Poi Orc mangiò una piccola quantità dell'omuthid che aveva strappato dalla parete. Era ricco di fluido, si masticava facilmente, e il suo sapore era simile a caramello mescolato con broccoli crudi. Anche se poteva essere velenoso, Orc non se ne preoccupò. Non in quel momento, almeno. Se non si fosse sentito male dopo aver mangiato quel boccone, più tardi avrebbe consumato un altro po' di omuthid. I resti del corpo di Ijim potevano costituire un' ottima fonte di proteine, almeno per un po'. Se Orc non avesse conosciuto lo zio tanto bene, avrebbe anche potuto mangiarlo. Ma, pur avendo l'impressione che si sarebbe pentito del suo gesto, spinse il corpo tagliato a metà nel ruscello, che lo trasportò via. Orc decise che sarebbe rimasto in quella zona, finché le ferite non sarebbero guarite abbastanza da permettergli di camminare senza provare troppo dolore. Normalmente, avrebbe avuto attendere tre giorni. Nel frattempo, avrebbe mangiato, bevuto e sperato che non arrivasse alcun predatore. Ma non aveva alcun modo per misurare il tempo, salvo il suo bisogno di sonno. In tutti i casi, gli parve che fossero passati all'incirca tre giorni da quando era arrivato in quel luogo. Durante quel lasso di tempo, esplorò, sempre procedendo in punta di piedi, circa mezzo chilometro del tunnel, in entrambe le direzioni. Non scoprì nulla che non avesse visto nelle vicinanze della Porta. Controllò anche quest'ultima, ma il quadrato di metallo era identico a quello su Anthema. Orc fabbricò una corda di omuthid e ne lanciò un'estremità al di là della Porta. La parte che attraversò la Porta venne tagliata di netto. A causa delle ferite, Orc doveva dormire a faccia in giù sul pavimento cristallino. Sfortunatamente, ogni tanto si girava, svegliandosi spesso in preda al dolore. L'unico vantaggio dell'intera situazione era che la temperatura si manteneva costantemente mite. Inoltre, l'aria non diventata mai stantia, ma sembrava muoversi lentamente lungo il tunnel. Ogni «giorno,» dopo essersi svegliato, Orc toglieva le manciate di omuthid dalle ferite, e lo sostituiva con muschio più fresco. Le chiazze di omuthid venivano via come se fossero davvero state incollate alla pelle di Orc. Le ferite stavano guarendo, ma la pelle coperta dalle chiazze di muschio
era costellata di puntini rossi. Sembrava che l'omuthid avesse applicato su di essa minuscole ventose, e la sostanza verde aveva un bordo inferiore decisamente roseo. Alla fine dei tre giorni, Orc concluse che il muschio stava succhiando il suo sangue, anche se non in grande quantità. Infatti non si sentiva più così forte come quando era arrivato in quel mondo. Ovviamente, a questo bisognava aggiungere il fatto che nella sua dieta scarseggiavano proteine e sostanze minerali. In ogni caso, poteva camminare senza provare troppo dolore e rimanere seduto alcuni minuti, prima di essere costretto ad alzarsi. Dopo un altro periodo di sonno, iniziò a risalire il ruscello, come un salmone che per istinto sa dov'è il posto in cui potrà deporre le uova. Il tunnel proseguì per almeno trenta chilometri, distanza che Orc coprì fermandosi a dormire soltanto una volta. La luce si mantenne uniforme, come aveva sempre fatto da quando Orc era arrivato in quel mondo. Il tunnel era immerso nel silenzio, tranne il pulsare del sangue nelle sue orecchie. Per coprire quel rumore, Orc iniziò a parlare tra sé e sé; ogni tanto si metteva a cantare. Gli tenevano compagnia la sensazione di essere completamente solo e il pensiero che avrebbe potuto aggirarsi in quel mondo fino alla sua morte. Orc non apprezzava molto quel tipo di compagnia. Alla fine, giunse in un punto in cui il tunnel si biforcava. Alla base della parete che divideva i due tunnel, si apriva una pozza d'acqua ribollente. Lungo ciascuno dei due tunnel correva un canaletto poco profondo in cui l'acqua scorreva fino a sfociare nella pozza, ma il ribollio e i vortici indicavano che la polla doveva essere alimentata anche da una sorgente naturale. Orc iniziò a percorrere il tunnel alla sua destra. Dopo qualche tempo, il cunicolo si allargò e divenne altrettanto ampio quanto quello che aveva lasciato. Orc continuò a camminare faticosamente, cantando una canzone che la madre gli aveva insegnato da piccolo. Di colpo, si fermò e fissò la parete sinistra. Con la coda dell'occhio si era accorto che qualcosa lampeggiava lungo la parete, a circa metà della sua altezza. Di qualunque cosa si fosse trattata, ora il fenomeno era cessato, ma Orc continuò a camminare fissando la parete. Poi si fermò di nuovo. Era chiaro che il suo cervello non gli aveva giocato un brutto scherzo, a meno che Orc non fosse impazzito per la solitudine. Una serie di grandi figure nere - forse dei simboli - sfilarono lungo la parete. Provenivano dalle sue spalle e lo superarono, scomparendo alla vista. Smisero di apparire per qualche minuto, o forse per un'ora: Orc aveva
perso il senso del tempo. Solo quando contava i secondi e i minuti poteva stabilire con certezza il suo trascorrere. Poi, di colpo, il primo di una serie di simboli, molti dei quali erano ripetuti in differenti combinazioni, iniziò a scorrere lungo la parete. Parti dei simboli venivano oscurate quando le figure passavano sotto l'omuthid e le protuberanze luminose. Dopo che molti centinaia di simboli ebbero superato Orc, la serie si interruppe. Orc riprese a camminare. Poco più tardi, iniziò a scorrere un'altra serie. Allora Orc contò i secondi. L'intera serie ci mise trentuno secondi per sorpassarlo. Se i simboli costituivano un messaggio, la trasmissione era davvero lenta. Ma Orc accelerò il passo. Nessun processo naturale avrebbe potuto produrre figure tanto dissimili ordinate secondo uno schema chiaramente artificiale. Qualche minuto più tardi, un' altra serie di simboli, la cui sequenza ripeteva quella del precedente messaggio, lo superò. Dopodiché, la parete tornò vuota. Orc si affrettò a proseguire. Il tunnel curvò gradualmente verso destra, finché Orc non ebbe l'impressione che avesse deviato a novanta gradi, rispetto alla sua direzione originaria. Quando si sentì molto stanco, si fermò e mangiò. Ormai era più che stufo del sapore di caramello con broccoli. Jim Grimson era stufo quanto Orc di mangiare omuthid: i problemi di Orc erano anche quelli di Jim. Però Jim aveva altri problemi, che non condivideva con il suo ospite. Il cervello fantasma, il suo invisibile coinquilino nella mente di Orc, sembrava diventare sempre più grande. Ora che Orc era semplicemente seduto a mangiare, la sua mente sempre attiva, ma non agitata da forti emozioni, si trovava in uno stato di relativo riposo. E così Jim era in grado di concentrarsi sui propri pensieri e di agire come voleva. Ma era ancora per metà Orc, e se il suo ospite fosse stato colto dalla rabbia o da qualche altra forte emozione, sarebbe stato interamente risucchiato dalla sua personalità. Jim si «avvicinò» al cervello fantasma. L'essere «indietreggiò.» Non si trattò di movimenti fisici; essi, proprio come concetti quali «vedere,» «sentire,» o «toccare», erano senza significato per esseri incorporei e privi di organi sensori. In ogni caso, Jim «sapeva» di essersi avvicinato al parassita e «sapeva» che l'essere si era ritratto. Continuò ad avanzare verso la cosa. Il cervello fantasma indietreggiò ancora. Aveva paura di Jim? Forse, per lui, Jim costituiva un pericolo. Se era davvero così, Jim avrebbe dovuto scoprire il modo con cui attaccarlo.
Una cosa facile a dirsi, ma piuttosto difficile a farsi. Orc dormì, mangiò con ben poco appetito e riprese a camminare. Alla fine, il tunnel si allargò, divenne una vasta e scintillante caverna. Le protuberanze che fornivano la luce erano molto più numerose e più grandi di quelle nei tunnel. E inoltre - quale delizia - Orc udì dei suoni! Numerosi animali e uccelli di piccola taglia vivevano tra molte specie di piante e cinguettavano, squittivano, barrivano e muggivano. Quelle creature sembravano essere uscite dalle illustrazioni di Alice nel Paese delle Meraviglie, se Tenniel avesse preso un po' di LSD prima di disegnarle. Oppure davano l'impressione di essere state create da una divinità il cui dio fosse stato Euclide. Avevano tutte numerosi lati, alcune di esse erano cubi dotati di lunghe gambe o nonaedri che si muovevano su ruote e la loro pelle era coperta di triangoli, cerchi, quadrati e croci. Le piante avevano l'aria di essere in parte vegetali e in parte cristalline. Da alcune di esse pendevano bacche o frutti esagonali. Dappertutto era visibile l'omuthid: sui pavimenti, le pareti e il soffitto. Quest'ultimo era alto almeno trenta metri. La caverna si estendeva a perdita d'occhio. In piedi su di una cengia rocciosa a circa una decina di metri dal pavimento della caverna, Orc vide alcuni crepacci. Non proseguivano in linea retta come i tunnel che aveva percorso, ma erano tortuosi, come è giusto che sia per dei crepacci. Orc, udendo i suoni di creature viventi, era stato invaso da una gioia estatica. Poco dopo, alla vista di un essere umano, cadde preda di una felicità delirante. L'uomo era nudo e camminava lentamente attraverso la foresta, dirigendosi verso Orc. Ma non sembrava essersi accorto che c'era un intruso nel suo esotico Giardino dell'Eden. Orc dovette reprimere l'impulso di correre giù a salutare quell'individuo. Si accovacciò dietro un masso e lo osservò, mentre si faceva strada attraverso le piante. Quell'uomo aveva qualcosa di strano. Non sembrava del tutto umano. L'andatura era lenta e maestosa, come se fosse il Signore di quel mondo. E magari lo era sul serio. Quando l'uomo si avvicinò, i dettagli del viso e del corpo divennero più chiari. Camminava in modo tanto lento e dignitoso poiché non poteva fare altrimenti. Le articolazioni delle spalle, delle gambe, dei gomiti, dei ginocchi e dei polsi erano bulbose e stranamente lucide. La testa, il collo e il busto erano molto più grandi di quelli di un normale essere umano. Orc scosse la testa. Per un istante, era caduto preda di un'illusione. La sua immaginazione aveva dotato l'uomo di ciò che non aveva, soltanto
perché Orc pensava che avrebbe dovuto averlo. Laddove, in precedenza, Orc aveva visto organi genitali maschili, ora c'era una superficie piatta; la pelle era punteggiata di cristalli luminosi. Non si trattava di un maschio umano, ma di una creatura asessuata. In ogni caso, non portava armi su di sé. Orc si rialzò e, unite le mani a mo' di megafono, lanciò un urlo in direzione dell'essere. Quest'ultimo si fermò, anche se non apparve troppo sorpreso. Poi aprì la bocca, che si atteggiò in quello che sarebbe stato un normale sorriso, se i denti non avessero brillato come gioielli. Orc scese dalla cengia di roccia e si avvicinò alla creatura, che aveva ripreso a camminare con la sua lenta e dignitosa andatura. Quando furono a circa cinque metri di distanza, si fermarono entrambi. Orc salutò l'essere in thoan. «Koowar!» L'altro gli rispose, «Koowar-su shemanithoon!» «Ti saluto e vieni in pace!» I suoi denti erano diamanti bianchi, ovviamente sintetizzati in una biofabbrica. Erano stati costruiti in modo da assomigliare ai canini, ai molari e agli incisivi di un essere umano. «Neth Orc,» disse il giovane Signore. «Io sono Orc.» «Neth Dingsteth.» Dunque quell'essere si chiamava Dingsteth, un nome che Orc non aveva mai sentito. Parlava con una lieve balbuzie, senza dubbio a causa dei denti di diamante. Al fuoco di fila di domande di Orc, Dingsteth rispose lentamente. A tempo debito, Orc apprese che quel mondo era stato costruito dal Signore chiamato Zazel. Zazel del Mondo-Caverna. Era stato sempre lui a costruire Dingsteth, che adesso era l'unico essere senziente in quell'universo. Il mondo consisteva in una palla di roccia perforata da tunnel e caverne, alcune delle quali si estendevano per mille chilometri quadrati. Ma, in un certo senso, quel mondo assomigliava molto a un essere vivente. Però non sembrava essere dotato di coscienza, oppure, se l'aveva, Dingsteth non aveva mai notato alcun segno di essa. «È un enorme computer semiorganico, basato in parte su composti proteici e in parte su composti minerali, in cui esistono molteplici forme di vita. Almeno la metà della flora e della fauna sono simbionti del Mondo di Zazel. Ma te lo spiegherò meglio più tardi. Il mondo ha rilevato la tua presenza e mi ha avvertito. In effetti, sono il suo Signore, anche se non sono stato io a costruirlo. Ma forse avrai notato il messaggio che scorreva lungo
le pareti. È un computer davvero molto lento.» «Sì, ho visto il messaggio. Cosa è successo a Zazel?» «Si è ucciso. Era diventato pazzo. O lo era diventato ancora di più. Sai, sospetto che lo fosse fin dall'inizio. Chi altri, se non un vero folle, avrebbe potuto creare un mondo come questo? Ma ha avuto una morte indolore. Ha permesso al computer di succhiargli tutto il sangue. Poi, come mi aveva ordinato di fare, ho cremato il suo corpo.» Dingsteth rivolse un'occhiata indagatrice a Orc, da capo a piedi, poi disse, «Girati, per favore.» «Cosa?» esclamò Orc. «E perché dovrei?» «Te lo dirò dopo. Ora, ti prego, fa' come ti ho chiesto.» Accigliandosi, Orc si voltò. Non aveva mai obbedito agli ordini di nessuno, tranne quelli dei genitori, e negli ultimi anni aveva odiato eseguire anche questi ultimi. Era un Signore. E i Signori comandavano soltanto, a differenza dei non-Signori. Dingsteth non annuì, perché il gonfio anello che era il suo collo non glielo avrebbe permesso. Poi esclamò, «Bene! Per ora non noto alcuna traccia di cristallizzazione!» A una domanda piuttosto allarmata di Orc, Dingsteth replicò, «Se sei abbastanza attivo, il tuo metabolismo è in grado di respingere il processo di cristallizzazione della tua carne. Ma, se dormi, allora le tue cellule iniziano a trasformarsi in pietra.» «Ma che razza di mondo è questo?» esclamò Orc. Nello stesso istante, decise che avrebbe tentato di andarsene di lì il più in fretta possibile. «E tu come hai fatto ad evitare di rimanere cristallizzato?» «Zazel mi ha dotato di una resistenza innata, una specie di difesa biologica.» «Esiste una Porta che permetta di abbandonare il Mondo-Caverna?» «Può darsi. Se ti interessa, potrei reperire quest'informazione tra la prodigiosa massa di dati che Zazel ha immagazzinato nel suo mondo.» Orc non era abituato a essere umile, ma la situazione in cui si trovava richiedeva l'esatto contrario. Non avrebbe messo a repentaglio la propria salvezza solo perché era troppo orgoglioso. Se era necessario, si sarebbe piegato, pur senza spezzarsi. «Troveresti quest'informazione per me?» «Perché no?» rispose Dingsteth. «Se esiste un motivo valido, a meno che il computer non mi fornisca una qualsiasi ragione per non farlo.» «Ti ringrazio. Però ho una domanda da rivolgerti. Come ha fatto Los ad
entrare in questo mondo e ad attivare la Porta che ho usato per arrivare fin qui?» «Los?» Orc gli raccontò la sua storia. Dingsteth disse, «Il difetto principale della cultura thoan è che i figli dei Signori di un qualsiasi mondo vogliono essere i suoi unici dominatori. Questo desiderio era comprensibile e realizzabile nei tempi antichi, quando i Signori possedevano i mezzi per creare nuovi mondi. E così i figli, quando diventavano adulti, si trasferivano dagli universi dei genitori in altri che ricadevano sotto il loro esclusivo dominio. Ma ora, il numero di universi è fisso, e i figli devono lottare contro i padri per assumerne il controllo. In effetti, se sapessero che i mezzi per costruire nuovi universi esistono ancora, potrebbero anche far cessare questo sanguinoso conflitto. È stato proprio questo stato di guerra perpetua a mantenere considerevolmente basso il numero dei Signori e a farti ritrovare in questa situazione. Se i Thoan fossero esseri razionali, si sarebbero sbarazzati già da molto tempo di questo loro tratto culturale.» «Un momento!» esclamò Orc in tono eccitato. «Hai detto che i mezzi per costruire nuovi mondi esistono ancora! Dove?» «Qui. Ma non ti ho detto che le Macchine della Creazione esistono ancora fisicamente. Volevo dire che questo mondo possiede tutti i dati su di esse, non solo le istruzioni per adoperarle, ma anche quelle per plasmare i materiali necessari per costruirle e per fornirle di energia. Insieme a tutto il resto.» «E tu hai accesso a tutte queste informazioni?» «Certamente.» Orc scosse la testa e sollevò gli occhi al cielo. «Tutto questo tempo! Si pensava che questa conoscenza fosse andata perduta da migliaia di anni! E invece è qui! In questo mondo desolato, che nessuno vorrebbe!» «Non è poi un posto così brutto,» commentò Dingsteth. «Mi scuso, se ho ferito i tuoi sentimenti,» si affrettò a dire Orc. «Sono qui da poco tempo, e non dovrei giudicare questo mondo dagli scarsi dati in mio possesso. Ma devi comprendere che, per i miei gusti, non è il posto ideale in cui vivere. E poi sono ansioso di ritornare nel mio mondo, per tutte le ragioni che ti ho esposto in precedenza.» «Non riesco a capire il concetto di "vendetta",» commentò Dingsteth. «Zazel non mi ha dotato delle necessarie capacità. Ma penso che si tratti di una buona cosa. A proposito, i dati video su tuo padre, mentre attiva la
Porta da cui sei arrivato, sono conservati nella memoria del computer. Ti piacerebbe vederli?» «Mi stavo appunto chiedendo com'era riuscito a entrare e a uscire da questo mondo.» «Sono stato io a permetterglielo. Sono molto curioso, volevo parlare con lui, scoprire tutto sulla sua personalità. Era il primo uomo, dopo molti secoli, che tentava di venire qui. A Zazel non piaceva giocare quel gioco che gli altri Signori amano tanto. Aveva attivato Porte non codificate, anche se potevano essere aperte solo da questo mondo. Permisi a Los di entrare, ma non mi diede molta soddisfazione. Disse che aveva molta fretta, e mi promise che sarebbe tornato in seguito. Ma non lo fece mai, e da allora sono trascorsi cinquecento anni. Evidentemente non avrei dovuto avere fiducia nella sua parola. Quando hai pronunciato il suo nome per la prima volta, non l'ho collegato alla sua visita. Ma mentre parlavamo, mi sono ricordato di lui. Io...» Orc gli chiese, «Non gli avrai parlato delle Macchine della Creazione, vero?» «No. Durante la nostra breve conversazione, non abbiamo toccato quest'argomento. Mi sarebbe piaciuto, ma...» «Dingsteth,» disse Orc. «Ascoltami! Presta molta attenzione all'avvertimento che ti do! Non raccontare a nessun altro la faccenda delle Macchine della Creazione! Se lo farai, rischierai di venir ucciso dopo essere stato costretto a rivelare ciò che sai! Ci sono molti Thoan a cui piacerebbe apprendere il segreto, per poi tenerselo ben stretto! Ti torturerebbero e poi ti ucciderebbero.» «E tu, invece?» replicò Dingsteth. «Ti sarei molto grato se mi facessi vedere quei dati, e poi mi aprissi la Porta il tempo sufficiente per ritornare nel mondo di Los.» «Non hai risposto alla mia domanda,» affermò Dingsteth. «Temo che ciò significhi che mi stai nascondendo qualche tuo intento. Non ti conosco a fondo, dunque non posso giudicare con esattezza la tua personalità. Ma se è abbastanza simile a quella degli altri Signori Manathu - Vorcyon è l'unica eccezione degna di nota - stai progettando di uccidermi dopo aver appreso tutto quello che so sulle Macchine della Creazione.» Orc scoppiò a ridere, Poi disse, «Zazel senza dubbio ti ha dotato di una personalità aperta ed esageratamente franca!» «Se ti spiegassi come operare, o meglio cooperare, con questo computermondo, dovresti dargli un po' del tuo sangue per ottenere i dati che deside-
ri. Dovresti applicare il tuo volto a un dispositivo di input e lasciare che ti succhi un po' di sangue, prima che ti dica ciò che vuoi sapere. Ma non ti lascerebbe più andare, a meno che tu non conosca alcuni codici, che io non ti rivelerò. Finiresti per morire dissanguato.» «Dimmi solo come fare per abbandonare questo mondo,» replicò Orc. «È tutto quello che voglio.» Stava pensando, e Jim ne era ben cosciente, che qualche giorno sarebbe potuto tornare in quel mondo con un piccolo velivolo armato e ottenere lo stesso le informazioni. Dingsteth era l'unico che poteva farlo entrare, ma Orc avrebbe escogitato qualche stratagemma per convincerlo. Oppure avrebbe tentato di ritornare servendosi della Porta situata nel nido dei kamanbur. Orc disse, «Come mai hai fatto entrare mio padre? E poi, perché gli hai permesso di attivare una Porta che uccide chiunque tenti di varcarla?» «E perché no? Cosa m'importa? Tu sei il primo Signore ad averla superata. Tuo zio, Ijim, non ce l'ha fatta, e ci sono buone probabilità che neppure il prossimo ce la faccia. Sarà interessante osservare coloro che ti seguiranno, ammesso che qualcuno lo faccia.» Orc non voleva soffermarsi troppo su quell'argomento. A Dingsteth poteva anche passare per la mente l'idea di disattivare la Porta, per paura che qualcuno potesse usarla per tentare di ucciderlo. Un'altra possibilità era che Dingsteth non avesse i mezzi necessari per smantellarla. Inoltre, Los poteva aver sistemato le cose in modo che chiunque tentasse di manomettere la Porta venisse ucciso. Sembrava che Dingsteth stesse riflettendo profondamente. Poi, all'improvviso, esclamò, «Verrò con te!» Orc fu assai sorpreso. Dopo un lungo silenzio, chiese, «Perché?» «Conosco tutto quel che c'è da sapere su questo mondo. Sono annoiato: Zazel non mi ha reso immune a un sentimento del genere. Per quanto riguarda la solitudine, non so cosa significhi. Zazel ha fatto in modo che questa sensazione, che affligge tutti gli umani, mi risulti incomprensibile. La conosco soltanto perché è stato il mondo a parlarmene, ma non ho alcuna idea di come ci si senta a essere soli. «Però sono dotato di una forte curiosità. Per soddisfarla, ho bisogno di osservare altri mondi. Perciò, verrò con te. Tu potrai essere la mia guida e il mio maestro, finché non sarò in grado di proseguire da solo. In cambio dei tuoi servizi, ti farò passare attraverso la Porta e ti fornirò numerosi dati.»
Quant'è ingenuo, pensò Orc. Pur possedendo un vastissimo bagaglio di conoscenze, quell'essere, sotto molti punti di vista, era decisamente ignorante. Non riusciva a capire che, una volta giunti sul mondo di Los, per Orc sarebbe stato soltanto un peso? Lui non poteva permettersi che Dingsteth andasse in giro e magari dicesse ai nativi che il figlio di Los era tornato in cerca di vendetta. E poi, per gli scopi che aveva in mente, era meglio che Dingsteth rimanesse sul Mondo-Caverna. Così avrebbe potuto aprirgli la Porta, quando sarebbe ritornato per costruire una Macchina della Creazione che, come ricordava, poteva essere trasformata in un terribile mezzo di distruzione. O almeno così affermavano gli storici. Doveva continuare ad assecondare Dingsteth, fino al momento della partenza. Magari sarebbe riuscito a convincerlo a rimanere, promettendogli che lo avrebbe seguito la prossima volta che Orc fosse tornato. Dingsteth gli disse, «Aspetta qui.» Ritornò dieci minuti dopo. Orc aveva pensato di seguirlo per osservare cosa avrebbe fatto, ma poi vi aveva rinunciato. Da quel poco che sapeva, sospettava che l'essere fosse in contatto costante con le pareti, che lo avrebbero sicuramente avvertito del fatto che Orc lo stava pedinando. «Ho dato un po' di sangue, e il mondo ha acconsentito ad aprire la Porta per noi,» annunciò Dingsteth. Sul labbro superiore si poteva notare una piccola ferita. «Adesso possiamo andare.» Orc lo accompagnò all'estremità opposta della caverna per poi iniziare a percorrere un tunnel. Dopo circa mezz'ora, l'essere si fermò. Orc si guardò intorno. Non c'era nulla che rendesse differente quella zona da tutte le altre. Dingsteth poggiò la mano sulla parete più vicina. In quel punto, la parete era priva dell'onnipresente omuthid. Dopo alcuni secondi, Dingsteth annunciò, «Adesso la Porta è aperta.» Davanti ai loro occhi continuò a non esserci nulla, se non cristalli scintillanti. Orc stava per dire qualcosa, quando Dingsteth affondò la mano nella pietra fino al polso bulboso. «Vedi?» «Passa tu per primo,» disse Orc. La sua gentilezza in realtà nascondeva un'estrema cautela. Non si fidava dell'essere; costui avrebbe potuto tentare di attirarlo in una trappola mortale. «Molto bene,» disse Dingsteth con voce tesa. L'espressione sul suo volto era del tutto indecifrabile. L'essere fece un passo avanti, ma si fermò non appena il naso sfiorò la parete. Per molto tempo, mentre Orc, sorpreso, lo fissava, rimase immobile. Poi fece un passo indietro, esitò, avanzò di nuovo, solo per fermarsi a
meno di un centimetro dalla parete. Alla fine, Dingsteth si girò verso Orc. «Non posso farlo,» disse, e gemette. «Perché?» volle sapere Orc. La sua diffidenza poteva essere ben fondata. Dall'altra parte della Porta poteva esserci una trappola, anzi era molto probabile che fosse così. «Per la prima volta nella mia vita,» spiegò l'essere, «ho paura. Fino a questo momento, non avevo mai provato apprensione o timore, anche se avevo letto queste due parole nelle registrazioni del mondo. Zazel deve avermi dotato della capacità di provare simili emozioni poiché un essere che non conosce la paura è destinato a perire in breve tempo. «Dal momento in cui ci siamo diretti verso la Porta, ho iniziato a provare delle emozioni stranissime. Il cuore ha iniziato a martellarmi nel petto, ho avuto l'impressione che lo stomaco si fosse rovesciato come un guanto e ho iniziato a tremare. Più ci avvicinavamo alla Porta, più gravi diventavano questi sintomi. In questo istante...» I suoi denti iniziarono a battere. Orc non avrebbe mai dimenticato il suono di diamanti che tintinnavano contro altri diamanti. Alla fine, Dingsteth riacquistò abbastanza autocontrollo da smettere di tremare. «Non posso!» piagnucolò. «Ho l'impressione che qualcosa mi distruggerà, se vado dall'altra parte! Sento... sento che un grande vuoto mi sta aspettando! Attraverserò la Porta e piomberò in uno spazio immenso. Cadrò, cadrò! Poi urterò il fondo, e mi schianterò in mille pezzi! Ma è una cosa molto strana, capisci, perché io non so neppure cosa sia uno spazio aperto! Per tutta la mia vita, ho vissuto in questo mondo chiuso e angusto e così non ho alcuna idea di come potrebbe essere uno spazio vuoto!» «Soffri di un grave caso di agorafobia e acrofobia,» gli spiegò Orc, che si chiedeva se Dingsteth stesse recitando quella scena per convincerlo ad attraversare per primo la Porta. «Conosco queste due parole, ma fino a questo momento, non avevo mai intuito il loro vero significato: la paura dell'ignoto! Non posso lasciare questo mondo! Non posso! Non posso assolutamente!» Orc non avrebbe certo tentato di convincere Dingsteth a tutti i costi. Anzi, poteva avvantaggiarsi dello stato mentale estremamente confuso dell'essere. «Ascolta, Dingsteth! La tua curiosità e il desiderio di visitare nuovi mondi ti spingono a lasciare questo luogo. Sono due aspetti del tuo carattere davvero ammirevoli. Ma la tua eccessiva paura dell'ignoto rischia di
limitare per sempre la tua personalità. Si tratta di una malattia mentale, e so che non riuscirai a superarla da solo. Ecco dunque cosa farò. Quando ritornerò, e ti prometto che lo farò, porterò con me una droga che eliminerà questa paura. Così potrai avventurarti oltre la Porta e fare ciò che vuoi.» «Sarebbe un bel gesto, da parte tua,» disse Dingsteth. «Solo che... non sono sicuro che una qualunque droga possa cancellare una paura tanto intensa.» «Ti prometto che lo farà.» «Ma non sono sicuro di voler assumere una droga tanto potente. Potrei rischiare di morire!» «Io te la porterò, e tu potrai prenderla oppure no, in base a ciò che deciderai.» A Orc importava ben poco se Dingsteth avrebbe usato o no la droga. Tutto quel che voleva era attraversare la Porta. Avrebbe dovuto provare sulla propria pelle se si trattava di una vera Porta. E scagliarvi attraverso Dingsteth si sarebbe rivelata un' azione inutile, qualsiasi cosa fosse successa. Se quell'essere moriva, non avrebbe potuto farlo entrare, una volta che Orc avesse deciso di ritornare. E se non c'era alcuna trappola, Dingsteth sarebbe stato profondamente sconvolto e offeso dal gesto di Orc e non l'avrebbe più fatto entrare lo stesso. «Ti porterò la droga,» promise Orc. «E io ti farò entrare, in modo che la possa provare,» replicò l'essere. «O almeno, penso che farò così. Ti auguro buona fortuna, Orc, figlio di Los ed Enitharmon!» «E io ti rivolgo lo stesso augurio,» ricambiò Orc. Poi oltrepassò la Porta che era anche una parete di scintillante cristallo. CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO Orc non si trovava nel mondo di Los. Il padre non gli aveva detto la verità, quando aveva scritto che la Porta su Anthema lo avrebbe riportato al suo universo natio. Ma Los aveva mentito, o aveva inteso soltanto sviare Orc? Orc aveva abbandonato il Mondo-Caverna di Zazel ed era entrato in un altro mondo che i nativi chiamavano Lakter. Dopo qualche tempo, Orc comprese che i Thoan lo conoscevano come Jakadawin Tar, vale a dire il Mondo di Jadawin. Un tempo, era stato chiamato Mondo di Thulloh, o Thulkaloh Tar. Ma Jadawin era riuscito a superare le trappole inserite nella
Porta, e Thulloh era stato costretto a fuggire per salvarsi la vita. Lakter era un pianeta in cui le stelle sembravano sciamare attraverso il firmamento notturno come lucciole. Orc pensava che «sembravano» farlo, poiché molte caratteristiche degli universi tascabili non erano che pure illusioni. La Porta si trovava in una grotta ai piedi di una montagna, su una grande isola tropicale. Orc aveva attraversato la giungla ed era arrivato alla costa. Dopo aver osservato i nativi per qualche giorno, si era rivelato. I nativi erano pacifici e amichevoli, anche se Orc pensava che i loro costumi fossero bizzarri e qualche volta decisamente crudeli. Il linguaggio dei Poashenk non derivava dal thoan, ma Orc lo imparò abbastanza in fretta, anche se alcuni dei suoi suoni non li aveva mai uditi in precedenza. Visse con una bella donna in una capanna fatta di erba e di legno molti simile al bambù, cacciò e pescò, mangiò bene, dormì molto, e guarì il suo corpo. Ma la sua anima non guarì tanto in fretta. Nonostante la pazienza apparente, Orc ardeva dal desiderio di trovare la Porta successiva. Dopo aver imparato a padroneggiare il poashenk alla perfezione, interrogò tutti coloro che affermavano di conoscere qualcosa sulle altre terre di quel mondo. Ma apprese ben poche nozioni, quasi tutte frutto di leggende. Nel frattempo, i suoi ospiti dalla pelle scura continuavano a offrirgli una droga, chiamata aflatuk, ricavata dal succo di tre diverse piante. Orc la beveva, e fumava anche la corteccia sminuzzata della pianta di somakatin. Entrambe le droghe lo immergevano in uno stato mentale piacevolmente sognante, in cui pensava e si muoveva al rallentatore. Il sapore di un frutto o della carne arrostita durava apparentemente per ore. Gli orgasmi sembravano prolungarsi dall'inizio alla fine dell'eternità. Ovviamente, l'eternità non aveva né inizio né fine, a meno che non si bevesse il succo di aflatuk e non si inalasse il fumo di somakatin. Soltanto allora Orc era in grado di osservare l'inizio e la fine di ciò che non può iniziare né finire. Orc avrebbe potuto provare quelle due droghe per una sola volta, oppure smettere dopo un po'. Ma non avevano effetti collaterali, e i nativi gli dissero che non davano assuefazione. Però, qualche tempo dopo, Orc si accorse che gli adulti della tribù avevano una memoria decisamente scarsa. Poi sua moglie ebbe un aborto, e lui scoprì che simili incidenti erano molto frequenti. Sebbene avesse notato quei particolari, non ne fu troppo disturbato. In ogni caso, quando iniziò a perdere la mira - era sempre stato un superbo arciere - iniziò ad allarmarsi. E quando cominciò a dimenticare particolari importanti, divenne ancora più inquieto. Ma quelle preoccupazioni svanirono con il passare del tempo.
In determinati giorni, i Poashenk si recavano in altri villaggi, che appartenevano alla grande tribù degli Skwamapenk, per celebrare alcuni riti o per svagarsi un po'. Orc si accorse che tutte le cinque tribù che si riunivano in quelle occasioni facevano uso dell'aflatuk e della somakatin. Fu alla quinta riunione delle tribù che Orc iniziò a percepire un vago allarme. La rivelazione fu lenta, ma quando giunse, lo fece sobbalzare. Tossicodipendenti! Tutti coloro che usavano quelle droghe erano tossicodipenenti, incluso lui! Quella notte, nonostante i dolorosi stimoli che lo spingevano a bere il succo e a fumare la corteccia, Orc resistette. Senza salutare nessuno, mise in mare la sua canoa. Pur avendo portato con sé cibo e acqua, non aveva preso neppure un po' di droga. Il giorno seguente, si pentì amaramente di aver lasciato a terra l'aflatuk e la somakatin. Perché era stato così stupido? Prima del calar della sera, il suo corpo si contorceva in preda all'agonia e le sue grida venivano disperse dal vento, udite soltanto dagli uccelli marini. La corrente lo stava trascinando lontano dall'isola e Orc non aveva alcuna idea della direzione in cui si trovasse un' altra terra. Che lo volesse oppure no, avrebbe dovuto disintossicarsi nella maniera più traumatica. Anche Jim Grimson soffrì atrocemente, e si morse i polsi, tentando di lacerarsi la carne con le unghie. Urlò insieme a Orc, vide demoni che sorgevano dal mare e figure spettrali che lo guardavano dalle nubi, ed ebbe l'impressione che la carne gli stesse rosicchiando le ossa, frantumandole, e le ossa stessero tentando di aprirsi una via nella carne, mentre venivano divorate da quest'ultima. Negli intervalli tra queste torture, Orc, e dunque Jim, cadeva in una depressione abissale. Orc si vide seduto sulla prua della canoa, mentre rideva di se stesso. La cosa strana di quella visione fu il suo significato: in qualche perversa maniera, Orc stava godendo della propria depressione. Alla fine, Orc giunse quasi al punto di saltare in acqua. Poi, all'improvviso, smise di soffrire. Le droghe erano finalmente state espulse dal suo corpo. Era debole, smagrito, affamato e assetato, ma aveva vinto la sua battaglia. No. Aveva vinto la guerra. Giurò che non avrebbe più preso alcuna droga. Sfortunatamente, durante i suoi deliri, aveva gettato fuoribordo il cibo e l'acqua. Adesso doveva prepararsi a sostenere un'altra dura battaglia, questa volta contro la fame e la sete. E l'avrebbe persa, se non fosse stato salvato da una nave. Ma fu sfortunato: si trattava di una nave schiavista. Orc
fu spinto brutalmente nella stiva, dove venne incatenato con altre centinaia di sventurati. I suoi catturatori erano uomini altissimi, provenienti dalle coste orientali del continente di cui i poashenk conoscevano vagamente l'esistenza. La loro pelle era più chiara di quella degli abitanti dell'isola e le loro armi erano d'acciaio. Il loro vascello era fornito di vele e di remi, che venivano utilizzati quando il vento era scarso o nullo. I pirati-schiavisti compirono due spedizioni su una grande isola. Con la nave affollata di schiavi, per tre settimane navigarono verso nord. Orc sopravvisse agli orrori della stiva. Ma non era sicuro che sarebbe sopravvissuto a quelli della vera e propria schiavitù. Fu venduto a un coltivatore di una pianta molto simile alla canapa e messo al lavoro nei campi. La fatica ininterrotta dall'alba al tramonto sotto i raggi crudeli del sole, il cibo cattivo, le costanti umiliazioni, e le fruste sempre pronte a colpire dei sorveglianti misero a dura prova la sua capacità di sopportazione. Conosceva bene quale fosse la punizione per non aver obbedito agli ordini con zelo e sollecitudine. Sapeva cosa gli sarebbe accaduto se avesse risposto a tono ai sorveglianti o se si fosse mostrato recalcitrante. Dovette fare un grande sforzo per controllarsi. Ma continuò a osservare tutto con estrema attenzione, in cerca di un modo per fuggire. Jim Grimson non solo condivise le sofferenze di Orc, ma soffrì anche per conto suo. Non poteva abbandonare il Signore, non importava quali pericoli fosse costretto ad affrontare. Quando Orc aveva iniziato a provare l'agonia della disintossicazione, Jim non era riuscito a sopportarla. Aveva intonato il canto che l'avrebbe fatto ritornare nel suo corpo. Non era successo nulla; era rimasto nella mente di Orc. Orripilato, aveva tentato più e più volte. Ma non era riuscito a staccarsi da Orc. Poi era stato inghiottito dagli incubi e dalle visioni che si erano impadroniti della mente sconvolta del giovane Signore. Ormai era troppo Orc per essere Jim Grimson. Dopo che le sofferenze causate dall'astinenza furono cessate, Jim aveva pensato di poter tornare sulla Terra. Ma aveva deciso che poteva trattenersi ancora un po'. Aveva sopportato la permanenza sulla nave schiavista, perché essa, per Orc, si era rivelata non troppo dura. Per la stessa ragione, era rimasto mentre Orc lavorava come schiavo nella piantagione. Un giorno, Jim decise che era ora di tornare nel suo corpo. Sarebbe ritornato dopo qualche tempo, quando Orc avrebbe avuto qualche possibilità di cambiare la propria situazione. Ma, terrorizzato, scoprì ancora una volta di non poter abbandonare la
mente di Orc. Però ora era il cervello fantasma a trattenerlo Gli si era avvicinato e aveva «immobilizzato» Jim con chele immateriali. Jim «sapeva» che il parassita aveva allungato chele simili a quelle di un granchio, che poi si erano chiuse su di lui. Dopodiché, il cervello fantasma non aveva fatto più nulla. Sembrava soddisfatto di tenere bloccato Jim, almeno per qualche tempo. Quest'ultimo fu tutt'altro che contento. Lottò. Intonò il suo canto. Invocò piangendo, sempre in maniera figurata, un Dio a cui non credeva. Tutto invano. Poco tempo dopo, Orc si ribellò. Non aveva progettato di farlo. Superò semplicemente, o fu costretto a superare, i suoi limiti di sopportazione. Al sorvegliante, Nager, non piaceva nessuno degli schiavi che formavano la squadra ai suoi ordini, e in particolare non gli piaceva Orc. Si prendeva gioco della pelle bianca di Orc, gli sputava addosso, lo frustava molto più degli altri schiavi e per offese minori, ed era sempre pronto a farlo lavorare il doppio, se ce n'era bisogno. In quel tardo pomeriggio, non appena Nager ebbe detto al portatore d'acqua di non dare da bere a Orc poiché non aveva l'aria di essere assetato, Orc allungò un braccio e portò il secchio alle labbra. L'istante successivo, fu scagliato al suolo da un colpo violentissimo. Il piede di Nager affondò nel suo stomaco. Poi il sorvegliante calò la frusta sulla schiena di Orc. Il Signore sopportò sei frustate, prima di vedere rosso. Balzò in piedi attraverso la nebbia scarlatta che sembrava avvolgere ogni cosa, e colpì con un calcio l'inguine di Nager. Poi, prima che gli altri sorveglianti e le guardie presenti potessero intervenire, spezzò il collo del sorvegliante. Nonostante si fosse difeso come un leone, uccidendo una guardia e azzoppando un altro sorvegliante, Orc fu gettato a terra. Il capo dei sorveglianti, il cui pallore aveva conferito un tono grigiastro alla sua pelle scura, quasi schiumando rabbia, ordinò che Orc venisse immediatamente decapitato. Gli schiavi, che avevano smesso di lavorare per osservare la scena, avevano formato un cerchio attorno a Orc e agli uomini che lo tenevano fermo. Rimasero in silenzio, ma dai loro volti traspariva l'odio che provavano: tra di essi non c'era nessuno che non avrebbe imitato Orc. se ne avesse avuto la forza. Orc era in ginocchio, il busto piegato in avanti, le braccia bloccate dietro la schiena, la testa spinta brutalmente in avanti. Il capo dei sorveglianti aveva sguainato la sua lunga spada e si stava avvicinando a Orc. Stava
dicendo, «Tenetelo fermo! Un solo colpo, e porterò la sua testa al padrone!» Jim fu travolto dal terrore. Se Orc moriva, anche lui sarebbe morto. Ne era assolutamente certo. Urlò il canto di ritorno e compì un disperato sforzo mentale; d'altronde, di recente la sua vita era stata piena di simili sforzi. Ebbe la sensazione di attraversare un vuoto privo di colore. Non nero; privo di colore. Venne assalito da un gelo bruciante. Poi fu di nuovo nella sua stanza. La luce era accesa. Jim era in piedi, leggermente sporto in avanti. Le sue mani erano strette al collo di Bill Cranam, una delle guardie della sicurezza. Bill era in ginocchio, con il busto piegato all'indietro. Gli occhi minacciavano di scoppiargli dalle orbite. Il suo viso stava diventando bluastro. Le sue mani erano strette sui polsi di Jim. Qualcuno stava gridando a Jim di lasciar andare Cranam. CAPITOLO VENTICINQUESIMO Due colpi di manganello sui gomiti paralizzarono le braccia di Jim. Le sue mani lasciarono il collo di Cranam. Un braccio gli strinse il collo da dietro. Boccheggiante, Jim fu separato da Cranam e sbattuto sul pavimento. L'altra guardia, Dick McDonrach, incombette su di lui, con il manganello alzato, pronto a colpire di nuovo. «Non muoverti, dannazione, non muoverti!» lo minacciò McDonrach con voce rauca. Nonostante quell'avvertimento, Jim si rizzò a sedere. Era nudo. Prima di entrare le due ultime volte nella mente di Orc, si era tolto i vestiti. Aveva avuto l'impressione, probabilmente errata, che rendessero più difficile l'entrata in un altro universo. «Cosa sta succedendo?» chiese Jim con voce incerta, sollevando lo sguardo verso McDonrach. Si toccò il collo. «Abbiamo fatto una perquisizione a sorpresa in cerca di droga,» gli spiegò la guardia. «Ti abbiamo trovato seduto su quella sedia; sembrava che non ti fossi accorto della nostra presenza. Abbiamo perquisito la tua stanza e abbiamo trovato questa!» Si infilò una mano in tasca e ne tirò fuori una bustina di plastica che conteneva alcune pillole nere. In tono trionfante, esclamò, «Anfetamina!» Jim si sentì confuso. Disse, «Non sono mie! Giuro che non sono mie!» Nello stesso istante, con la coda dell'occhio vide che alcuni volti lo spia-
vano dalla soglia della sua stanza. La soglia era affollata di pazienti nei loro pigiama e camicie da notte. Sandy Melton appariva molto triste. Gillman Sherwood stava sogghignando. Bill Cranam, toccandosi delicatamente il collo, si avvicinò barcollando a McDonrach. La sua voce era malferma e acuta. «Cristo, Grimson! Ma cosa ti è preso? Ci ho messo un mucchio di tempo per svegliarti, e poi mi hai aggredito! Perché? Non siamo sempre stati dei buoni amici?» «Mi dispiace, Bill,» si scusò Jim. «Ero ancora in... quell'altro mondo. Voglio dire, non ero del tutto qui. Non so neppure cosa stavo facendo!» «Dio Onnipotente!» esclamò McDonrach. «Ho la camicia tutta sporca di sangue!» Jim aveva visto le macchie, ma la sua mente non le aveva registrate. Era assolutamente esterrefatto. Avrebbe giurato di aver buttato nella tazza del water le pillole che gli aveva dato Sherwood. «Ti sei sporcato quando hai afferrato Jim da dietro,» disse Bill. Andò alle spalle di Jim e si fermò lì. «Gesù, Giuseppe e Maria! Stai sanguinando come un maiale sgozzato! Come ti sei procurato questi tagli così profondi? Non abbiamo toccato la tua schiena, sarei pronto a giurarlo anche su una montagna di Bibbie!» Ora Jim sentiva il dolore atroce delle frustate, la sensazione umidiccia del sangue che colava. Poi disse, «Me le sono fatte...» Jim tacque. Come poteva spiegarlo? Per il momento, non aveva bisogno di farlo. Ora la cosa più importante era capire come avevano fatto le pillole ad arrivare nella sua stanza. Quel figlio di puttana di Sherwood! Doveva avere qualcosa a che fare con l'episodio! Ma perché avrebbe dovuto tentare di incastrare qualcuno? E se l'aveva fatto, come ci era riuscito? McDonrach, un uomo sulla mezza età, massiccio e dalle mani enormi, accompagnò Jim in bagno. Lo fece sistemare con la schiena verso lo specchio. Jim, ruotando il più possibile il collo, riuscì a vedere la sua schiena riflessa nel vetro: c'erano almeno sei tagli lunghi e profondi. Erano stati inflitti a Orc dalla frusta del sorvegliante. Eppure erano comparsi anche sulla schiena di Jim. Il sangue stava iniziando a coagulare. «Ti darò una pulita,» disse McDonrach. «Ma non fare movimenti improvvisi. Non mi fido di te.» «Non sono pazzo,» replicò Jim. «Ero semplicemente, be', immerso nell'altro universo. Non sapevo cosa stavo facendo. Ma quelle pillole, Mac,
non sono mie. Qualcuno sta tentando di incastrarmi.» «Questo è quello che dicono tutti.» Mac usò un asciugamano per pulire via il sangue, poi lavò le ferite con acqua e sapone e usò un fazzolettino di carta per asciugarle. Dopodiché, applicò dell'alcol sulle ferite. Jim strinse i denti ma non emise alcun gemito. «Dovrai andare al pronto soccorso,» disse McDonrach. Stava sogghignando, come se divertisse a far soffrire Jim. «Ma non penso che prenderanno infezione. Mettiti la vestaglia e le pantofole.» «Va bene,» disse Jim. «Ma non sono stato io a comprare quelle pillole e a portarle qui. Sono innocente.» «Nessuno che abbia la tua età è innocente.» «Un fottuto filosofo!» commentò Jim con disprezzo. La nebbia scarlatta che aveva avvolto la mente di Orc si stava impadronendo anche di quella di Jim. Aveva creduto di poter mantenere la calma, di giocare la partita con cautela e abilità. Ma l'ultimo commento di McDonrach scatenò la rabbia che Orc - che Jim stesso - covava sempre dentro di sé, come una febbriciattola perenne. L'essere stato accusato ingiustamente l'aveva fatta scoppiare con tutta la sua forza. Non seppe mai cosa avesse fatto a McDonrach. Forse non era stato lui, ma Orc. In ogni caso, si servì dell'abilità guerresca del giovane Signore. McDonrach era sdraiato sulla schiena sulle piastrelle verdi e bianche del pavimento, ora macchiate di rosso. Era privo di sensi e gli scorreva del sangue da un orecchio. Jim urlò, e si precipitò fuori del bagno. Vide Cranam vibrare il manganello contro il suo cranio. Poi la sua mente piombò nell'oscurità. Quando riprese i sensi, era sdraiato supino su una barella nel pronto soccorso, che si trovava al primo piano dell'ospedale. La schiena gli faceva male, ma la testa gli doleva anche di più. Il dottor Porsena, che indossava una camicia di flanella a scacchi e un paio di Levi's, stava parlando con il medico di turno. Due poliziotti in uniforme era immobili vicino alla soglia. Pochi istanti più tardi, vennero raggiunti da un agente in borghese. La donna parlò con i due colleghi e poi iniziò una conversazione sottovoce con il dottor Porsena. Jim si girò su di un fianco per poterli osservare meglio. Dopo un mucchio di gesti e di cenni col capo da parte della poliziotta e del dottore, quest'ultimo si avvicinò a Jim. Disse, «Come stai, Jim?» «Excelsior!» replicò lui. «E non sto parlando dell'imbottitura per diva-
ni.» Porsena sorrise. «Sempre più in alto! Non ho bisogno di dirti che sei in un bel guaio. Ma penso che potremo sistemare la faccenda, anche se nel tuo caso non sarà facile. Girati. Voglio vedere la tua schiena.» Jim obbedì. Porsena si lasciò sfuggire un fischio di sorpresa. «Come ti sei fatto queste ferite? Non te le sarai fatte da solo, vero?» «In un certo senso... sì. Sono ferite di Orc. Le ha ricevute da un sorvegliante di schiavi, nei cui confronti si era comportato con troppa arroganza.» «Tu hai già sofferto di stigmate, Jim.» Jim desiderò di poter osservare il volto di Porsena. Poi disse, «È vero, ma sanguinavo soltanto, dottore, non avevo alcuna ferita. La mia pelle era intatta. Era come se il sangue vi filtrasse attraverso. Questi, invece, sono tagli veri, e anche molto profondi. E mi fanno male. Non sono psicologicamente indotti, come dite voi strizzacervelli. Non sta tentando di invalidare il mio mondo, vero?» «Ne discuteremo più tardi. Ora c'è la faccenda della droga. A quanto pare, hai affermato che qualcuno deve averla messa nella tua camera. Per stanotte rimarrai qui, sotto osservazione, nel caso tu abbia sofferto una commozione cerebrale. Io rimarrò sveglio un altro po' e vedrò di capire cosa è successo. Buona notte, Jim.» Il pomeriggio seguente, Jim era di nuovo nella sua stanza. I tagli erano coperti di garza e gli facevano molto meno male di quanto si sarebbe aspettato. Forse, ma soltanto forse, aveva acquisito la capacità di Orc di guarire molto in fretta dalle ferite. Sembrava improbabile, ma tutto era possibile. Jim compì qualche indagine per conto proprio, anche se gli era stato proibito di lasciare la stanza, tranne per consumare i pasti e per partecipare alle sedute di terapia di gruppo. Lathorazina prescrittagli dal dottor Porsena rendeva la sua mente troppo confusa e apatica. Nonostante questo, Jim non ci mise molto per immaginare cos'era successo mentre si trovava in un altro universo. O, come credevano tutti gli altri, in trance. Il contatto di Sherwood era un infermiere, Nate Rogers. I pazienti lo sapevano, ma il loro «codice» vietava di informarne lo staff dell'ospedale. Jim aveva visto soltanto una volta Rogers dare della droga a Sherwood, ma era stato più che sufficiente. La notte precedente doveva essere successo questo: Rogers era stato colto di sorpresa dalla perquisizione e, in preda al panico, si era sbarazzato della droga mettendola nella stanza di Jim. Non
aveva avuto troppe difficoltà, anche se aveva agito sotto gli occhi del paziente. Jim era fuori da questo mondo letteralmente. Ovviamente, era possibile che fosse stato Sherwood a mettere le pillole nella camera di Jim, agendo per pura malignità. In ogni caso, non era più tempo di ragionare, ma di agire. Jim doveva andare al cuore del problema. Orc avrebbe fatto così. E di conseguenza, Jim Grimson l'avrebbe imitato. Non era ancora ora di cena. Jim camminò lungo il corridoio, salutando i pochi pazienti che erano in giro. Non c'era alcun membro dello staff dell'ospedale che potesse ordinargli di tornare in camera sua. Nate Rogers, un uomo dai lineamenti rozzi ma alto e muscoloso, ormai vicino alla quarantina, era appoggiato contro la porta della stanza in cui venivano conservate le lenzuola. Stava contemplando la sigaretta che stringeva in una mano, come se si stesse chiedendo se era meglio accenderla là, oppure nella saletta riservata ai fumatori. Quando si accorse che Jim si stava avvicinando, gli rivolse un sorriso. «Come andiamo ragazzo?» «Male, lurido figlio di puttana!» Jim afferrò Rogers, lo fece ruotare su se stesso e lo spinse attraverso la porta della stanza. Rogers barcollò in avanti, tentando di non cadere. Jim accese la luce. L'infermiere andò a sbattere contro la parete opposta e si girò di scatto. Aveva il volto paonazzo di rabbia e distorto da una smorfia minacciosa. «Che diavolo ti è preso, testa di cazzo?» Jim gli disse tutto, ma Rogers doveva aver già indovinato di cosa si trattava. «Dirai a Porsena ciò che ha fatto o te ne darò tante da costringerti a farlo.» «Cosa? Sei impazzito? Ma certo che lo sei! Qui dentro, siete tutti pazzi!» «Non dimenticare,» lo minacciò Jim, «che ti taglieremo la gola, se ci tradisci. O almeno, lo farò io. Verrai con me da Porsena?» «Merda!» imprecò Porsena. «Non hai nessuna prova, assolutamente nessuna, contro di me! Sparisci, feccia, o ti userò come straccio per pulire il pavimento!» «Sei bravo a parlare.» «Cosa? Cosa vuoi dire?» «Ascolta,» disse Jim. «Tu forse non mi crederai, ma so come ucciderti in due secondi a mani nude.» «Stronzate!» ribatté sprezzantemente Rogers. «E anche se ne fossi dav-
vero in grado, non lo faresti! Vuoi beccarti un ergastolo?» «Ti ho visto mentre davi delle droghe a Sherwood,» disse Jim. «Come me, ti hanno visto molti altri ragazzi. Se penseranno che sono stato incastrato, romperanno il loro silenzio. Mi appoggeranno.» «Ma proprio! Col cazzo che lo faranno! Pensi che faccia loro piacere non ricevere più le loro dosi di roba?» «Sono in pochi a comprare droga da Sherwood,» ribatté Jim. «Tutti gli altri saranno con me. Allora, qual è la tua decisione? Hai cinque secondi. Uno, due, tre, quattro, cinque!» Rogers, agitando i pugni, si scagliò contro Jim. Un istante più tardi, era a terra, sdraiato sulla schiena, con gli occhi vacui e la bocca aperta. Jim attese che si riprendesse. «Ti ho soltanto dato un pugno sul mento,» lo informò Jim. «E la mia mano non ne ha tratto alcun giovamento. La prossima volta, ti darò un calcio nello stomaco, oppure affonderò tre dita nel tuo petto, e ti strizzerò il cuore finché non smetterà di battere. Non mi piace tutto questo, Rogers. No, non è così. Invece, mi sto davvero divertendo.» Ma mentiva. Improvvisamente gli era venuto in mente che, invece della violenza, avrebbe potuto usare qualche trucco per costringere Rogers a confessare. Orc non avrebbe fatto così? Forse, dopo tutto, aveva fatto la cosa sbagliata, forse aveva peggiorato la sua situazione. Be', adesso era troppo tardi. Non poteva tirarsi più indietro. «E allora?» replicò Rogers. «Io rimarrò sdraiato sul pavimento finché non sarai andato via. Potrei anche iniziare a urlare. Pensi di essere nei guai? Be', allora vedrai in quale mare di merda ti troverai tra poco!» La porta si aprì, e il suo bordo per poco non colpì Jim. Si spostò di lato e, mentre la porta si chiudeva, vide che era entrato Sherwood. Il giovane alto e biondo assunse un'espressione sorpresa e allarmata. Jim si mise con le spalle contro la porta, che adesso era chiusa. Poi disse, «Sei venuto a combinare qualche affare, Sherwood? Be', ne ho io uno per te!» Rogers doveva avere in tasca la droga che Sherwood era venuto a comprare. Senza avere un'idea chiara di quel che stava per fare, Jim spinse l'altro ragazzo in avanti. Subito dopo, aprì la porta, uscì nel corridoio, chiuse la porta e vi si appoggiò contro con tutte le sue forze. Sandy Melton stava camminando lungo il corridoio. Le urlò di chiamare le guardie della sicurezza. «Di' loro che ho sorpreso Roger e Sherwood con della droga!»
Sandy era confusa. «Cosa? Li vuoi tirare dentro? Ma...» «O loro, o me!» rispose Jim. «Sbrigati!» Sandy ritornò un minuto più tardi, seguita da due addetti alla sicurezza del turno diurno, Elissa Radowski e Ike Vamas. Jim dovette sforzarsi allo spasimo, per evitare che Sherwood spalancasse la porta. Esclamò, «Svelti! Là dentro ho visto Rogers e Sherwood con della droga! Li ho colti sul fatto! Fareste meglio a sbrigarvi, prima che Rogers si sbarazzi della roba!» Fece un passo in avanti, aprendo di colpo la porta. Sherwood cadde attraverso la soglia, finendo a terra. Le guardie si precipitarono nella stanza. Jim vide Rogers con un sacchetto di plastica in mano. Evidentemente ne aveva appena inghiottito il contenuto. Solo una persona in preda al panico più folle avrebbe compiuto un gesto del genere. Tra l'altro, si rivelò inutile. Le guardie trovarono altri sei sacchetti di plastica dalla tasca interna della giacca dell'infermiere. Poi Rogers fu portato immediatamente in pronto soccorso, per essere sottoposto a una lavanda gastrica prima che i tranquillanti che aveva ingerito lo uccidessero. Sherwood commise un grave errore mentre le guardie portavano via Rogers. Si rialzò dal pavimento e afferrò i testicoli di Jim. Prima che potesse stringerli, però, fu scaraventato all'indietro dal palmo di una mano vibrato di taglio contro la sua fronte. La testa e il collo scattarono all'indietro. Sherwood urlò di dolore. Alcuni minuti più tardi, coricato su una barella, seguì Rogers in pronto soccorso. Jim rimase immobile accanto alla parete, scuotendo la testa ed espirando a fondo. Ancora una volta, la nebbia rossa si era impadronita della sua mente, e avrebbe preso a calci nelle costole Sherwood, se Sandy Melton non l'avesse bloccato, gridandogli di calmarsi. Poi arrivarono i dottori Porsena, Tarchuna e Scaevola, facendosi largo tra la folla di pazienti e infermieri. Ci volle un po' di tempo per convincere la folla, tranne Jim e Sandy, a disperdersi e ancora di più perché i due ragazzi raccontassero la loro storia. Dopo averli ascoltati, Porsena ordinò che Jim fosse chiuso a chiave nella sua stanza. «Soprattutto per tenerti lontano dai guai e permetterti di calmarti. Ti vedrò quando la situazione sarà più tranquilla. Non voglio che combini altri guai.» Lo psichiatra, di solito impassibile, era arrabbiato. Era chiaro dalla sua espressione e dal suo tono di voce. Jim andò in camera sua senza protesta-
re. Era rimasto molto impressionato dal fatto che perfino il dottor Porsena fosse adirato con lui. Ma Porsena non lo mandò a chiamare nel suo ufficio quel giorno stesso, come Jim si era aspettato. Si limitò a prescrivere a Jim dell'altra thorazina, dopo essersi accertato che avesse preso la dose precedente. Il tranquillante non calmò Jim. Divenne furioso, fu sconvolto da un pentimento intensissimo, poi divenne di nuovo furioso. Invece di andare a letto, dopo l'ordine di spegnere le luci, continuò a camminare avanti e indietro nella stanza. Nel suo animo si susseguivano gelide ondate di commiserazione e ardenti fiammate di rabbia. CAPITOLO VENTISEIESIMO Jim si trovava nell'ufficio dello psichiatra per la sua seduta privata. Una nuova pergamena incorniciata, le cui lettere erano grandi e ornate, era stata appesa alla parete. Dalla posizione in cui era, Jim non riusciva e leggere le parole, ma immaginò che si trattasse di qualche nuovo riconoscimento. Il dottore aveva più diplomi e certificazioni di quanti yes-men ronzassero intorno un magnate di Hollywood. Un nuovo busto era stato sistemato in un angolo dello scaffale superiore. Più in basso, si potevano osservare i busti bianchi, barbuti e dagli occhi di pietra di alcuni filosofi greci e latini e le statue di un Buddha seduto e di San Francesco d'Assisi. Curioso nei confronti di quell'aggiunta, Jim si alzò per andare a dare un'occhiata, mentre Porsena era ancora impegnato a scribacchiare qualcosa. Il volto, tranne per i baffi, assomigliava moltissimo a quello di Giulio Cesare: era quello del dottor Porsena. Sulla base della statua c'era scritto: ALLO PSICHIATRA IGNOTO. Anche se Jim non era assolutamente d'umore allegro, fu costretto a ridere. Il dottore, per quanto di solito fosse piuttosto riservato e tranquillo, doveva essere dotato di un grande senso dell'umorismo. All'inizio della seduta, Porsena aveva descritto a grandi linee la «brutta situazione» in cui si trovava Jim. Le sue parole rapide, pronunciate chiaramente e senza pause, sembravano quasi quelle di un banditore d'aste. Parlava sempre così quando stava affrontando un argomento di cui ci si doveva occupare in fretta, prima di poter passare alla cosa più importante, e cioè la terapia. A Rogers era stato permesso di lasciare il lavoro senza essere incrimina-
to per spaccio di droga. Ma per ottenere quel trattamento, aveva dovuto fare un'ampia confessione e lasciar cadere le accuse di aggressione e percosse che aveva minacciato di formulare contro Jim. Anche Gillman Sherwood aveva deciso di lasciare cadere quelle due accuse. Il dottore gli aveva spiegato che, se avesse accusato Jim, lui stesso sarebbe stato accusato di spaccio di droga. Inoltre sarebbe stato espulso dal programma di terapia. Sherwood era tornato nella sua stanza, sotto sorveglianza. Camminava con la schiena rigida, il collo gli faceva male quando lo girava, e si teneva alla larga da Jim. Neppure Cranam e McDonrach avevano accusato Jim. Erano nei guai, poiché il dottor Porsena aveva affermato che con Jim non si erano comportati in maniera corretta. Pur continuando a lavorare come addetti alla sicurezza, non sarebbero più stati assegnati al reparto di igiene mentale. «Credo fermamente nel dare a ciascuno una seconda possibilità,» disse il dottore. «In questo caso, ne stai beneficiando tu. Ma sei sotto sorveglianza, come gli altri. Ho affermato che la tua immaginazione è incredibilmente vivida. Ti ha aiutato a progredire molto più velocemente nella terapia rispetto agli altri pazienti. Ma non voglio che ti monti troppo la testa. Sei stato semplicemente fortunato.» Il dottore fece una pausa. I suoi occhi azzurri evocavano immagini di quei Vichinghi di cui tante volte il nonno aveva parlato a Jim. Gli occhi di Porsena assomigliavano a quelli di Leif il Fortunato, mentre fissava il tetro e pericoloso oceano che sembrava infinito. Da qualche parte, oltre il lontano orizzonte, si stendeva una terra sconosciuta. Era troppo distante? Forse avrebbe dovuto tornare in Groenlandia? L'espressione del dottor Porsena mutò sottilmente. Aveva preso una decisione. Disse, «È tempo di iniziare a eliminare la caratteristiche indesiderabili di Orc il Rosso.» Jim non disse nulla. Sedette irrigidito sulla sedia, sbattendo appena le palpebre, come se Porsena lo avesse immerso in un cilindro criogenico. Alla fine, il dottore disse, «Che ne pensi?» Jim si mosse sulla sedia, guardò il soffitto per un istante, e poi si umettò le labbra. «Io... io... ammetto di essere spaventato. Mi sento... mi sento... come se dovessi subire una grande perdita. Non so...» «Invece lo sai,» intervenne Porsena. «È davvero necessario? Non sta precipitando un po' troppo le cose? So-
no appena entrato in Orc. Gesù, da quanti giorni ho iniziato la terapia? Non molti, credo!» «Il numero di giorni, in una terapia psichiatrica, non significa nulla. Non siamo in una prigione. Quel che conta è la velocità dei progressi fatti dal paziente. E non devi vergognarti solo perché sei spaventato. A questo stadio, ogni paziente è in preda al panico. Mi sarei decisamente insospettito, se tu non avessi avuto una reazione di questo tipo. Mi sarei chiesto se tu fossi stato davvero nella mente di Orc. Ma non ho il minimo dubbio che tu abbia vissuto in essa.» «Troppo profondamente?» «Questo è ancora da vedersi.» «Ma quali sono le sue caratteristiche indesiderabili?» «Dimmele tu.» «Prima, preferirei illustrarle quelle buone.» «Come vuoi. Ma prima di iniziale, quali sono i tuoi sentimenti, fisici ed emotivi, in questo momento? A parte l'essere spaventato, voglio dire?» «Mi sento meglio quando parlo di ciò che vi è di buono in Orc. Però il cuore mi batte forte. Ho la sensazione che le mie viscere siano diventate di burro e provo anche il desiderio di urinare.» «Riesci a trattenere questo impulso? O pensi che diventerà troppo forte?» «Non lo so,» ammise Jim. «Immagino che ce la farò. È meno intenso di quanto sembrasse un istante fa.» «Allora, quali sono le caratteristiche di Orc? Quelle che pensi ti mancassero o fossero troppo deboli in te?» «Ascolti!» esclamò Jim. «Non posso smettere di entrare nella sua mente! Ha bisogno di me! C'è ancora il cervello fantasma! Devo aiutarlo a sbarazzarsene! Se il parassita prenderà il controllo della sua mente, Orc non sarà più lo stesso! Non vorrò più entrare nel suo corpo, se la sua mente non sarà più la stessa! Mi ripugnerebbe! E poi, a cosa servirebbe?» Fece una pausa per deglutire. Aveva le labbra e la bocca terribilmente asciutte. «Inoltre, lei non mi permetterà più di entrare nella mente di Orc!» «Non ho detto questo,» disse il dottore. «È un qualcosa che hai presunto tu, e voglio che rifletta su questa tua convinzione. Quando penserai di averne compreso la ragione, mi dirai perché dovresti abbandonare Orc. È questo che pensi, non è vero? Che dovrai rinunciare a entrare nella mente di Orc? Ma non ti ho detto che dovrai fare una cosa del genere. Non voglio
che entri in lui per un certo periodo di tempo, la cui durata dipenderà dai tuoi progressi nella terapia. In seguito, potrai ritornare nella sua mente. Ora, quali sono le sue caratteristiche positive?» «Ah... un coraggio indomito. Una determinazione incrollabile. L'ingegnosità, la capacità di usare i materiali disponibili per raggiungere un obiettivo. Un desiderio bruciante di imparare. Curiosità. Una grande considerazione di sé. Cavolo, mi piacerebbe che fossi io ad averla! L'abilità di adattarsi a ogni situazione, di intendersi con gli altri, siano nobili o plebei, se ciò gli può recare qualche vantaggio. La pazienza di una tartaruga, e la velocità di un coniglio, se ce n'è bisogno.» «Niente altro?» «Be', il suo rapporto con la famiglia. Non è ottimo, ma vuole bene a sua madre, anche se lo fa infuriare che Enitharmon non discuta, o non lo faccia abbastanza spesso, con il padre. Però la madre di Orc è una donna forte. E poi è pazzo di Vala, la zia. Per quanto riguarda le sue relazioni con i nativi, specialmente con le sorellastre, non è mai stato crudele con loro. Certo, il fatto che le abbia sedotte non può essere definito un comportamento cristiano. Ma non le hai mai costrette con la forza, e del resto, i nativi credono che portare in grembo il figlio di un Signore sia un grande onore. Senza dubbio, in generale, migliora la loro vita.» «Quanto pensi di essere riuscito ad assorbire le sue caratteristiche positive? Per esempio, la tua autostima è aumentata?» «Ma si suppone che debba essere lei a stabilire cose del genere!» «E invece lo sto chiedendo a te.» «Be', penso di avere un'idea molto più chiara del mio valore, il che è un bene. Voglio dire... la mia autostima è maggiore di quanto lo sia mai stata. Solo che...» «Solo che cosa?» «Proviene davvero dalla mia mente, o l'ho semplicemente presa in prestito da Orc? Quando sono sulla Terra, sto ancora giocando a essere Orc? Continuerò a farlo per sempre?» «Una persona la cui stima di sé sia genuina non si cura di quel che gli altri pensano di lui,» disse il dottore. «Soltanto lui o lei può giudicare quanto valga in realtà. Direi che l'indicatore reale del tuo grado di autostima è il tuo comportamento quando devi affrontare un problema. Adesso sembri disposto a fare qualcosa per risolverlo. Non ti limiti più a lamentarti. Non ti limiti più a desiderare di agire, senza essere in grado di fare nulla. La mia è un' osservazione corretta?»
Jim annuì e disse, «Penso di sì. Non sono più il vigliacco di prima. Almeno non credo.» «Ma forse non sei mai stato il vigliacco che credevi di essere. Ti sei battuto con quel bullo, Freehoffer, ma avresti potuto anche evitarlo.» «Certo!» esclamò Jim. «E lasciare che tutti pensassero che me la facevo sotto dalla paura?» «Se succedesse ora, lotteresti perché hai più paura del giudizio degli altri che della violenza fisica, oppure perché non hai più paura di lui? O magari perché pensi che cedere alla sua prepotenza sarebbe sbagliato?» «Suppongo che la terza ipotesi sia quella giusta. Ma come faccio a saperlo, a meno che non succeda ancora?» «In un certo senso, è già successo. Non hai dovuto aspettare di essere messo con le spalle al muro, prima di costringere Rogers e Sherwood a confessare. Non appena hai capito in che situazione ti eri ritrovato, hai agito per risolverla. Avresti potuto comportarti in maniera differente e migliore. Ma il punto è che hai agito subito. «Ma ora discutiamo sulle caratteristiche indesiderabili di Orc.» «È facile. Orc è arrogante. Ma non può farci nulla. È stato allevato come un Signore. Pensano di essere il popolo eletto da Dio, anche se non credono in Lui. In effetti, pensano di essere gli unici esseri umani. Per loro, i leblabbiy sono soltanto animali.» «Lo stai giustificando. Pensi che, per te, l'arroganza sia una caratteristica indesiderabile?» «Sì, è così. Non voglio essere uno stronzo pieno di boria.» «E Orc? Lui è uno di questi stronzi? Nel senso inteso da te, cioè?» «Sì.» «E poi?» «Be', c'è la sua crudeltà. Sembra essere legata al fatto di essere un Signore. Ma all'inizio, quando ero nella sua mente, provava un po' di compassione. Si è messo nei guai con il padre, quando ha rifiutato di uccidere il suo fratellastro, anche se era un leblabbiy. Ma ora penso che gli siano rimaste ben poca compassione ed empatia. «E poi c'è la sua continua rabbia. È quasi sempre furioso. Ma si comporta così a causa del modo in cui è stato trattato dal padre e per il fallimento della madre, che non è riuscita a impedire a Los di spedire il figlio su Anthema. Perché hanno fatto questo a loro figlio? Orc non poteva sempre inchinarsi davanti al padre, non poteva continuare a leccargli il culo all'infinito, non poteva prendersi senza protestare pugni, calci e insulti, ecco
tutto. È ovvio che sia infuriato. Non lo si può biasimare. Anch'io sarei furioso. Cosa c'è di male?» «Abbiamo discusso su due tipi di rabbia: quella giustificata e quella che non lo è,» gli ricordò il dottor Porsena. «Mi hai detto che Orc aveva intenzione di usare una Macchina della Creazione per distruggere il mondo del padre. Ma così non avrebbe ucciso soltanto Los. Insieme a lui, sarebbero periti la madre di Orc, i fratelli e le sorelle, e molti milioni di nativi; in effetti, sarebbe perita ogni creatura vivente di quel mondo. Ti sembra che il torto subito da Orc giustifichi una vendetta tanto efferata?» «Era solo una fantasticheria!» esclamò Jim. «Al diavolo, tutti hanno fantasie del genere! Ma non le mettono in atto! E poi, prima di distruggere il mondo, avrebbe salvato la madre e il fratello!» «E avrebbe lasciato che tutti gli altri morissero. E per quanto riguarda quelle fantasie, è vero che nessuno le mette in atto. Ma Orc lo fa. Cioè, lo farà, se riuscirà a ritornare sul Mondo di Zazel e a ricostruire una Macchina della Creazione. Se ci riuscirà, pensi che la userà come mezzo di distruzione?» «Spero di no. Sarebbe orribile. Ma non lo saprò mai, a meno che non ritorni nella mente di Orc, vero?» «Probabilmente lo sai,» replicò il dottore. «Ma non vuoi ammetterlo. In ogni caso, cosa avrebbe fatto Orc, se fosse stato incastrato come te?» «La stessa cosa,» affermò orgogliosamente Jim. «Ho pensato di fare quello che avrebbe fatto Orc.» «Avrebbe aggredito le due guardie? No, se davvero pensa tanto freddamente in quasi ogni occasione. Ammetto che eri stato provocato. Ma non abbastanza, a mio giudizio, da reagire con tanta violenza. E pensi che fosse necessario aggredire anche Rogers e Sherwood? Non poteva esserci un altro modo per smascherarli?» «Sì, certo. Magari avrei potuto fare la spia. Ma anche rivelando l'intera faccenda alle guardie o a lei, non avrei potuto provare nulla. Dovevo coglierli con le mani nel sacco. Non c'era altro modo. E in ogni caso non avrei mai fatto la spia!» «Va bene, li hai smascherati. Ma hai fatto del male a Sherwood.» «Lui mi aveva aggredito!» «Tuttavia, ti sei difeso con maggiore violenza del necessario.» «Come avrebbe fatto Orc!» «Esattamente. Ma, nel tuo caso, si trattava di un comportamento appropriato?»
Jim si accigliò e si morse il labbro inferiore. Poi disse, «Mi sta dicendo che, nella mia situazione, agire come Orc è stata una mossa sbagliata.» «Non sono stato io a dirtelo. Me l'hai detto tu. E...» «Bene, adesso capisco. Non sono riuscito a distinguere nel comportamento di Orc ciò che è appropriato e ciò che non lo è.» «Specialmente per quel che riguarda la tua situazione.» Lo psichiatra continuò a discutere su quell'argomento. Jim comprese che il dottor Porsena era una guida che permetteva ai propri pazienti di tracciare la mappa dei luoghi in cui stavano viaggiando. Ma lui non riusciva a stabilire la direzione in cui lo stava conducendo la guida. Alla fine della seduta, il dottore raccomandò a Jim di andare ogni giorno a ritirare dalla farmacia la dose prescritta di thorazina. «La prenderai per un po' di tempo. Forse, non a lungo. Nel frattempo, non entrerai nella mente di Orc. Ti dirò io quando potrai farlo di nuovo. Voglio che tu abbia un po' di tempo per valutare le tue esperienze e le tue sensazioni. Poi discuteremo sul tuo ritorno nella mente di Orc. Ma insisto, e so cosa sto facendo, di non usare il tragil finché non te ne darò il permesso. Nessun viaggio, finché il clima mentale non sarà migliorato, va bene?» «OK, la sento forte e chiaro.» Quando Jim uscì nel corridoio, la sua mente fu invasa improvvisamente da una grande luce. Ma non poteva dire al dottor Porsena cosa gli avesse rivelato quella luce. Si sarebbe allarmato e avrebbe preso misure che a Jim avrebbero potuto non piacere. Ma forse il dottore sospettava già la verità. Per Jim, entrare nella mente di Orc era diventata una specie di droga. CAPITOLO VENTISETTESIMO C'erano alcuni particolari che né il dottore né Jim avevano menzionato. Uno era che Jim non doveva preoccuparsi che Orc fosse stato decapitato dal capo dei sorveglianti. Dopo tutto, Farmer non aveva scritto che il giovane Signore, adesso conosciuto come Orc il Rosso, era vivo a metà del ventesimo secolo? Dunque, la preoccupazione di Jim che Orc potesse essere ucciso era infondata. E visto che Jim lo sapeva, allora perché si preoccupava tanto? Un altro particolare erano le discrepanze esistenti tra il racconto di Farmer sui Signori e la conoscenza diretta che Jim ne aveva avuto. Nel ciclo, Vala era la sorella di Rintrah e Jadawin. Nel mondo reale dei Signori, Vala era la sorella di Enitharmon, la madre di Orc, mentre Rintrah era il secon-
do figlio di Los ed Enitharmon, dunque il fratello minore di Orc. Dopo aver riflettuto sulla questione, Jim aveva concluso che le conoscenze di Farmer erano state frammentarie oppure che le aveva ricevute attraverso un qualche filtro e che aveva lasciato passare solo una parte delle informazioni. Il dottor Porsena e il suo staff credevano, anche se non l'avevano mai detto ai loro pazienti, che il ciclo di Farmer fosse un puro parto di fantasia. Ma Jim conosceva la verità. Si diceva che Farmer avesse avuto alcune vere esperienze mistiche, che fosse stato - e magari lo era ancora - in grado di ricevere immagini mentali. In qualche modo, gli erano state trasmesse alcune impressioni dei mondi dei Signori, giunte come raggi luminosi attraverso uno specchio scuro grazie a vibrazioni psichiche interuniversali o a qualche altro mezzo sconosciuto. Ma non sempre Farmer conosceva le loro frequenze esatte e la «statica» interferiva con la ricezione. Dunque, si poteva pensare che Farmer non avesse ricevuto messaggi accurati. Inoltre, poiché stava scrivendo quello che la gente credeva fosse un ciclo di romanzi, Farmer aveva avuto piena libertà di inventare determinati avvenimenti per colmare le lacune. Ma nonostante alcuni errori di cronologia e di identificazione, il ciclo di Farmer si avvicinava molto alla realtà. Bisogna anche dire che alcuni Signori, che Jim conosceva o di cui aveva sentito parlare, non erano necessariamente quelli di cui aveva scritto Farmer. Potevano essere loro discendenti, oppure loro parenti. Quanti Robert Smith o John Brown vissuti nel quindicesimo secolo avevano dei discendenti nel ventesimo? Los, Tharmas, Orc, Vala, Luvah e altri nomi potevano essere, se non comuni, almeno abbastanza diffusi negli universi dei Signori. Ma Jim aveva problemi molto più urgenti su cui riflettere. Poiché era sotto osservazione, doveva tenere sotto controllo il suo comportamento «antisociale.» Ma questo stava diventando sempre più difficile, a causa del suo temperamento sempre più collerico e pronto all'ira. Per lui, entrare nella mente di Orc era divenuta una specie di droga, e ora che non poteva più farlo, soffriva di astinenza. Se il suo cervello avesse avuto dei denti, gli avrebbero fatto male. Se avesse avuto un naso, gli sarebbe colato in continuazione. Se avesse avuto una voce, negli intervalli in cui non urlava, avrebbe supplicato per un buco. In tutti i casi, Jim riuscì a tenere a bada il suo temperamento facendo ricorso a una tecnica usata anche da Orc che gli sembrava molto simile alle tecniche mentali degli Yogi di cui aveva letto nei libri. Ma era molto più
rapida da apprendere. Dopo tutto, i Signori avevano avuto migliaia di anni per perfezionarla. Se non riusciva a scacciare i sintomi dell'astinenza, almeno alleviava il dolore e diminuiva l'irritabilità. Usare quella tecnica era come sollevare di tanto in tanto il coperchio di una pentola piena di acqua in ebollizione, con lo scopo di far uscire un po' di vapore. Nel frattempo, Jim riusciva a non insultare gli altri e non rivolgere loro commenti sprezzanti. Si sentì un po' meglio quando Mrs. Wyzak telefonò per riconfermare il suo invito. Al funerale di Sam, Mrs. Wyzak, singhiozzando, aveva abbracciato Jim e gli aveva promesso che per lui ci sarebbe stato un posto che avrebbe potuto chiamare casa. Nonostante il suo cordoglio, gli aveva anche detto che avrebbe dovuto obbedire alle regole. Niente droghe, niente sigarette in casa, niente bestemmie o parolacce, estrema attenzione ai compiti scolastici, bagni quotidiani, puntualità ai pasti, musica tenuta sempre a basso volume e così via. Jim aveva promesso che avrebbe fatto tutto quello che Mrs. Wyzak gli avrebbe detto. Non pensava che avrebbe avuto molti problemi. Il suo comportamento era molto migliorato tranne i sintomi di astinenza e ora avrebbe potuto tenersi per sé i suoi pensieri «antisociali», mentre viveva con Mrs. Wyzak. La sua euforia per l'offerta di Mrs. Wyzak scomparve il giorno seguente. La madre telefonò per dirgli che sarebbe venuta a trovarlo quella sera. Jim aveva intuito in anticipo quel che gli disse la madre: di lì a cinque giorni, i genitori sarebbero partiti per il Texas. Jim seppe che avrebbe pianto. Il suo cuore parve ripiegarsi su stesso. Sebbene si fosse preparato a quel momento, o pensasse di averlo fatto, Jim soffriva molto. Ma riuscì a non piangere. Non avrebbe pianto di fronte a sua madre. Non voleva che dicesse al padre quanto stesse soffrendo. Alla notizia che il figlio si comportava come una femminuccia, Eric Grimson avrebbe sicuramente gioito. Jim non chiese il perché suo padre non fosse venuto. Conosceva il motivo. Quel vigliacco! Eva Grimson andò via singhiozzando. Promise che avrebbe inviato il denaro per l'assicurazione ospedaliera del figlio. Era sicura che sarebbe riuscita anche a mandare del denaro per i vestiti, i libri di scuola e le altre necessità di Jim. Suo padre avrebbe trovato un buon lavoro, ma Jim doveva essere paziente. «Sarò paziente per sempre,» le gridò mentre la madre si dirigeva barcol-
lando verso l'ascensore. «Passerà l'eternità, prima che venga in Texas! Ma forse riuscirò a venire prima, se mio padre morirà!» Fu una frase crudele, ma non abbastanza per lo stato d'animo che si era impadronito di Jim. Pochi minuti più tardi, mentre camminava lungo il corridoio, diretto verso la sua stanza, venne fermato da Sandy Melton. Era molto felice, anche se non eccessivamente eccitata. Le sue fasi maniacali erano state messe sotto controllo dalla terapia. E poi, quella volta aveva una ragione più che valida per la sua felicità. Aveva ricevuto una lettera dal padre e voleva leggerla a Jim. Di solito, Jim sarebbe stato lieto di condividere la gioia di Sandy. Ma in quel momento, il vedere qualcun altro felice lo irritò profondamente. Tuttavia riuscì a controllare la sua rabbia. «Papà sta per avere un lavoro qui, in città! Ascolta! "Cara Sandy, mia figlia favorita." Ma lui ha una sola figlia, io, capisci. "Come ti ho già detto fin troppe volte, sono stufo delle battute da rappresentante, e sono stanco di fare un mestiere del genere." Sta parlando del fatto di lavorare come rappresentante, e non del fatto di fare battute. "Non mi importerebbe poi tanto, se fossi un rappresentante molto bravo. Ma non posso sperare di far parte della categoria a cui appartiene San Paolo di Tarso, forse il più grande di tutti. O magari Genghis Khan, che vendette la morte a milioni di persone massacrate, oppure l'uomo che riuscì a sbolognare frigoriferi agli Eschimesi, o Willie Come Si Chiama, il personaggio di Arthur Miller, che però fu grande soltanto nella sua lotta contro il fallimento. Ad ogni modo, mi è stato offerto il posto di supervisore alle vendite nella mia multinazionale dal cuore gelido favorita, la Acme Textiles. Pensi che rinuncerò per ragioni etiche, morali, filosofiche o economiche? Be', allora ti sbagli di grosso! Dunque, mia cara figlia, attraverserò il Rubicone, brucerò i ponti alle mie spalle, e affronterò di nuovo la tempesta, vale a dire tua madre, povera infelice. Non so se si tratterà di un mezzogiorno o di una mezzanotte di fuoco, ma io e lei avremo un chiarimento. Sarò in grado di mantenerla in caso di separazione o divorzio, o qualsiasi altra decisione Dio o il suo terribile carattere la spingano a prendere."» Sandy saltellò per la gioia, con la lettera che sventolava nella sua mano come una bandiera di vittoria. «Non è grandioso? Non è meraviglioso? So cos'ha in mente: il divorzio! Deve soltanto superare il suo senso di colpa verso di lei, e poi sarà a casa la sera, e io sarò con lui!»
Jim abbracciò Sandy, poi disse, «Devo andare.» «Ma io voglio festeggiare!» «Dannazione, Sandy! Non voglio ferirti, ma in questo momento non riesco a sopportare la tua gioia! Mi dispiace. Ci vedremo più tardi!» Si allontanò lungo il corridoio. Sarebbe scoppiato a piangere prima di raggiungere la sua camera. Sandy gli gridò, «Posso fare qualcosa per aiutarti, Jim?» La sua simpatia e la sua preoccupazione fecero scattare l'interruttore delle lacrime di Jim. Iniziò a piangere e a singhiozzare. Corse verso la sua stanza, entrò, sbatté la porta alle sue spalle e si sedette, aspettando che il suo dolore si calmasse. Avrebbe voluto gettarsi sul letto e premere il volto sulla coperta. Non lo fece perché soltanto una donna si sarebbe comportata così. Quel pensiero lo colpì nel mezzo della crisi di pianto, richiamando alla memoria, in una sorta di effetto domino, un commento del nonno, Ragnar Grimsson, che aveva udito molto tempo prima. «È una peculiarità della cultura norvegese, e anche di quella inglese e americana, la convinzione che gli uomini non debbano piangere mai, in qualunque occasione. "Bisogna mantenere il controllo," e roba del genere. Ma i Vichinghi, i tuoi antenati, piangevano come donne in pubblico o in privato. Bagnavano le loro barbe di lacrime e non si vergognavano di farlo. Eppure, erano tanto veloci a sguainare la spada quanto a spargere lacrime. E allora, cosa sono queste stupidaggini sul fatto che gli uomini devono controllare il loro dolore, i loro dispiaceri? Comportandosi così, non fanno altro che beccarsi ulcere, infarti e ictus, non è vero, fagiolino mio?» Orc, come la maggior parte dei thoan maschi, si comportava stoicamente in alcune occasioni, ma in altre non si vergognava di dare sfogo al suo dolore o alla sua gioia. Se soffriva dal punto di vista fisico, non lo avrebbe mai dimostrato. Ma se era in preda alla gioia e al dolore, poteva urlare, piangere e comportarsi come più gli piaceva. Quest'ultimo comportamento sembrava a Jim un elemento caratteriale assolutamente desiderabile. Però, allora e in quel luogo, sarebbe stato considerato un debole, se avesse incorporato nella sua personalità quella caratteristica di Orc. Non importava quanta forza di carattere avesse assorbito dal giovane Signore; Jim non era ancora abbastanza forte da poter ignorare l'opinione degli altri. Quando si avvicinò l'ora della terapia di gruppo, Jim era riuscito a superare molto del suo dolore e della sua rabbia. O almeno credeva di esserci
riuscito, ma sapeva che le forti emozioni sono strane. Potevano nascondersi, per poi spuntare fuori quando qualcosa apriva loro uno spiraglio. In quel momento, Jim stava pensando che, anche se i genitori lo avevano abbandonato, erano stati costretti a farlo dalla loro povertà. Dovevano andare via da Belmont City, nel tentativo di uscire dal profondo pozzo dell'indigenza. Non era colpa loro se Jim non poteva seguirli. Be', però un po' di colpa ce l'avevano lo stesso. Ma cos'altro avrebbero potuto fare? E poi Jim sarebbe stato abbastanza forte da prendersi cura di se stesso dopo aver completato la terapia. Sarebbe stato difficile riprendere gli studi e sperare di diplomarsi con un voto almeno mediocre. Andare all'università, mantenersi agli studi e nello stesso tempo tentare di prendere buoni voti sarebbe stata un'impresa ancora più difficile. Ma lui poteva farcela. Altri, dotati di minore intelligenza e volontà, ce l'avevano fatta. Quel pensiero lo colse di sorpresa. Gesù, Giuseppe e Maria? Cosa gli era successo? Non molto tempo prima, aveva creduto di essere troppo stupido per meritarsi sul serio il suo diploma di scuola superiore. Ora aveva deciso che sarebbe andato all'università e che avrebbe preso buoni voti. Era perfino ansioso di riprendere a studiare. Che strana metamorfosi, pensò. Apparentemente nel giro di una notte, lo scarafaggio si era trasformato in un essere umano. Forse non era diventato un essere umano perfetto, ma certamente migliore della persona che era stato in precedenza. E doveva quel cambiamento a Orc. No. In fin dei conti, lo doveva al dottor Porsena, lo Sciamano, la Sfinge. Ma lo psichiatra avrebbe obiettato che Jim Grimson doveva il proprio cambiamento a se stesso. Sebbene fosse stato aiutato, era riuscito a fare ciò che nessuno può fare per un'altra persona. Sentendosi felice, andò alla seduta di gruppo per raccontare agli altri tredici partecipanti quanto fosse contento e perché credeva di star percorrendo la Strada di Mattoni Gialli, convinto che dietro la prossima svolta lo attendesse l'arcobaleno. Quel giorno, però, la maggior parte dei Moschettieri di Farmer, come avevano deciso di chiamarsi, era in preda a una fase di tranquilla eccitazione. «Tranquilla eccitazione» era un eufemismo. Paragonato all'umore tetro e privo di speranze con cui avevano iniziato la terapia, quello stato d'animo equivaleva a un baccanale in piena regola. Erano così ansiosi di parlare che il dottor Scaevola, che quel giorno coordinava il gruppo, dovette faticare non poco per mantenere l'ordine. Parte della sua difficoltà scaturiva dall'atteggiamento dei pazienti nei suoi con-
fronti. Sebbene fosse entusiasta di quel tipo di terapia, che faceva uso di tecniche tipiche dei giochi di ruolo, era ovvio che non credeva che i viaggi mentali dei pazienti fossero reali. Il tono della sua voce e le espressioni del suo volto tradivano la sua incredulità. Una dei pazienti, Monique Bragg, che ogni tanto dava una mano come segretaria, aveva sentito discutere Porsena e Scaevola sui concetto di mondi paralleli. Porsena non aveva affermato che esistessero, ma aveva fatto notare come i recenti sviluppi della fisica teoretica avessero indicato che la loro esistenza era possibile. Scaevola si era dimostrato assolutamente incredulo. Quest'ultimo aveva anche qualche problema nei rapporti con i giovani, o con chiunque altro andasse pazzo per il rock. A lui piacevano soltanto le opere liriche italiane e la musica classica. Scaevola finalmente riuscì a far tacere tutti. Il primo a parlare fu Brooks Epstein, un diciottenne. Era alto e scarno e aveva un volto alla Lincoln. La sua voce lo imbarazzava: era troppo acuta e sottile. Non era adatta per un chirurgo o un avvocato. Nonostante questo, i suoi genitori avrebbero voluto che intraprendesse una di quelle due professioni. Brooks era pronto ad ammettere che entrambe le carriere erano scelte ragionevoli e desiderabili se vi piacevano. Ma lui voleva disperatamente diventare un giocatore di baseball. Aveva detto ai genitori che sarebbe andato a Harvard, se non fosse riuscito a diventare un giocatore da serie A. Ma loro non erano stati soddisfatti. Lui, comunque, aveva resistito alle loro pressioni, e a quelle della sua fidanzata, che si era schierata dalla parte dei genitori. Mentre la discussione infuriava, e Brooks diventava sempre più ostinato nel suo proposito, il padre si era ucciso. Anche se, apparentemente, il motivo era stato il fallimento della sua catena di negozi di computer e l'aver saputo di dover ben presto morire di mieloma, Brooks era stato assalito da un terribile senso di colpa. Il suo abbandono della fede ebraica aveva ferito e fatto infuriare i genitori e la fidanzata. La madre non aveva mai detto che il dolore del padre avesse causato il fallimento e l'insorgere del cancro, ma era evidente che lo pensava. Frequentare Harvard ormai era divenuto impossibile. Brooks ne era stato felice, anche se, nello stesso tempo, si era sentito ancora più in colpa. Poi un ricco zio di Chicago si era offerto di finanziare i suoi studi in qualsiasi università avesse scelto di frequentare, a patto che fosse ritornato alla fede ebraica e si fosse laureato in legge o medicina. La madre e la fidanzata aveva esercitato forti pressioni sul ragazzo affinché accettasse l'offerta.
Erano come due lupi affamati che giravano attorno a un alce bloccato nella neve profonda. Una notte, come diceva Brooks, gli aveva dato di volta il cervello. Usando le sue mazze da baseball, aveva fracassato mobili, costosi oggetti d'arte e finestre. Cosa ben peggiore, aveva minacciato di fracassare anche il cranio della madre e della fidanzata. Era stato portato via dalla polizia. Dopo aver tentato inutilmente vari tipi di terapie, freudiana, junghiana e sullivaniana, ed essere andato perfino in California per sperimentare il metodo Est, aveva deciso di affidarsi alle cure del dottor Porsena. Il personaggio che aveva scelto era quello del cavaliere Yidshe, il Barone funem Laksfalk. Il barone era un personaggio del primo volume del ciclo di Farmer. Viveva a Dracheland, uno dei livelli di cui era composto il mondo simile a una ziggurat dominato dal Signore Jadawin. Sebbene fosse popolato da esseri creati da quest'ultimo, era anche abitato dai discendenti di popoli provenienti dalla Terra. Jadawin, amorale come qualsiasi altro Thoan, aveva rapito alcuni gruppi di tedeschi e di ebrei tedeschi del Medioevo, per poi portarli sul suo mondo. Là, essi avevano sviluppato due separate società feudali, che Jadawin aveva incoraggiato ad assomigliare sempre di più al tipo ideale di società dei romanzi del ciclo arturiano. Nel primo volume della serie, il cavaliere errante, funem Laksfalk, aveva stretto amicizia con Kickaha e Wolff dopo un torneo. Era morto combattendo a fianco di Wolff contro un'orda di selvaggi. Ma Brooks aveva scelto di vivere le avventure del barone parecchi anni prima che funem Laksfalk combattesse la sua ultima battaglia. Brooks Epstein affermò che, almeno per quel giorno, il suo pesante fardello di colpa e rabbia sembrava essere diventato più leggero, perché aveva compreso che il barone, se fosse morto suo padre, non sarebbe stato travolto dal senso di colpa, a meno che non fosse stato lui a provocarne la morte. Lui, Brooks, non aveva provocato la bancarotta del padre, né il cancro che l'aveva colpito o il suo suicidio. Dunque, non avrebbe dovuto soffrire di alcun senso di colpa. Nonostante lo sforzo di razionalizzare i suoi sentimenti, stava ancora soffrendo. Ma ora aveva l'impressione di poter uscire dal tunnel. Per quanto riguardava la sua professione, intendeva sempre diventare un giocatore di baseball. Non c'era nulla di criminale in quella sua aspirazione; non poteva venir affermato lo stesso per alcune aspirazioni tipiche dei dottori e degli avvocati. Dopo che Brooks ebbe finito di narrare l'avventura della notte preceden-
te, il gruppo discusse le proprie opinioni sul barone Yidshe e di come ciascuno dei suoi membri avrebbe modificato la sua situazione. Jim sapeva che il dottor Porsena e i suoi assistenti interpretavano le varie osservazioni alla luce del gruppo. Ma sospettava che, in una fase successiva della terapia, sarebbero state interpretate alla luce dei singoli individui che le avevano esposte. Gli sembrò che la terapia basata sul ciclo di Farmer fosse usata come un mezzo per ottenere una sorta di comunione. I pazienti avevano illusioni molto personali - idiosincratiche? - e incontrollabili, desideri irrealistici e allucinazioni di vario grado. Ma adesso tutti loro condividevano il ciclo di Farmer. Si stavano avvicinando uno all'altro, come mosche attratte dal miele. E stavano inconsciamente modificando le loro rispettive concezioni dei mondi dei Signori, li stavano forgiando in un mondo comune, per il momento ancora indistinto. La sua forma sarebbe apparsa chiaramente in una fase molto più avanzata della terapia. Allora, si sarebbero resi conto di aver fatto a pezzi le loro piccole barche e di aver costruito con il loro fasciame una grande nave. Ma forse Jim si stava facendo prendere troppo la mano dalla sua immaginazione, per non parlare della sua capacità di formulare metafore. In ogni caso, percepiva che la terapia si stava dimostrando vantaggiosa per la maggior parte dei pazienti. Tuttavia, il mondo che lui aveva scelto, quello di Orc, era reale quanto quello in cui si trovava in quel momento. Molto più reale, sotto determinati aspetti. Il secondo a parlare fu Ben Ligel, un quattordicenne. Aveva avuto qualche allucinazione quando era stato sotto l'effetto di droga e altrettante quando non lo era stato. Perfetto solitario, il suo problema principale era il suo disagio, molto vicino al panico, in situazioni non familiari o in presenza di chiunque non fosse uno dei pochi amici intimi. Adesso, la maggior parte delle volte, non era più insopportabilmente a disagio quando era con gli altri pazienti. Ma quando non riusciva a sostenere la vicinanza degli altri si rifugiava in altri mondi. Per fare ciò, metteva un volume del ciclo di Farmer sulla testa e lo usava come una «porta gravitazionale.» Veniva catapultato a capofitto nell'universo che aveva scelto. Simultaneamente, la gravità faceva scendere il libro lungo tutte le parti del corpo che erano rimaste sulla Terra. Quando la copertina del libro raggiungeva il pavimento, Ligel si ritrovava in un altro mondo. Ben rimaneva là finché la «forza di gravità latente» lo riportava sulla
Terra. Ritornava da quei viaggi enormemente rinfrancato, capace di sopportare per qualche tempo le «pressioni sociali.» Quindi parlò la diciassettenne Kathy Maidanoff. Non aveva avuto alcuna difficoltà a rivelare al gruppo che le era stata diagnosticata un' identità sessuale confusa, con tendenza alla ninfomania. Sebbene fino a quel momento, all'interno dell'ospedale, fosse rimasta casta, dava sollievo ai suoi stimoli sessuali facendo ricorso ai sogni erotici. Appoggiava un volume del ciclo di Farmer accanto alla testa e un altro sull'inguine. Poi, quasi sempre, sognava di fare l'amore con un personaggio maschile o femminile del ciclo. Era appena entrata in una fase della terapia in cui le veniva insegnato come controllare quei sogni. Jim era abbastanza intelligente da rendersi conto che questo non sarebbe servito a farglieli godere meglio. Piuttosto, il processo serviva a permetterle di controllare le sue illusioni. Poi, mediante altre tecniche, avrebbe imparato a liberarsi di esse. Jim non aveva mai detto di essere giunto a padroneggiare perfettamente la tecnica per controllare i sogni. Lui non aveva bisogno di alcun libro. Mentre si trovava nella mente di Orc, aveva imparato come fabbricare i sogni. Ora, mentre dormiva, Jim usava quei sogni per alleviare i propri bis ogni sessuali. Erano molto più soddisfacenti della masturbazione. «Guarda, mamma, niente mani!» Il grande pericolo era che il sognatore poteva assuefarsi. Col tempo, avrebbe considerato i suoi amanti in carne e ossa come goffi, non necessari e in definitiva come persone che gli facevano perdere un mucchio di tempo. Jim aveva notato che nei suoi sogni i partner di Orc di solito erano Vala, la zia, ed Enitharmon, la madre. Molto spesso, anche Jim inseriva le due donne, molto più belle di Elena di Troia e di Vivien Leigh, nei suoi sogni programmati, qualche volta contemporaneamente. Il fatto che si trattasse di un incesto, per quanto di seconda mano, costituiva la ciliegina sulla torta. Più tardi, quella sera, Jim prese una decisione che sapeva assai rischiosa. Ma non poteva farci nulla. Anche le obiezioni che aveva formulato lui stesso contro quell'idea non gli avevano impedito di metterla in pratica. Avrebbe disobbedito agli ordini di Porsena. Non voleva. Eppure, l'avrebbe fatto. Alle otto meno dieci, attraversò il buco nero al centro del tragil. Nonostante Porsena glielo avesse proibito, voleva entrare nella mente di Orc. Non una, ma molte volte. Poiché non osava viaggiare ogni sera - il rischio di essere scoperto era troppo grande - avrebbe intrapreso molti viaggi in
quell'unica notte. Le ore dalle otto meno dieci di sera alle sei del mattino gli avrebbero permesso di rimanere per molti anni nella mente di Orc. Cosa avevano letto quella volta, durante l'ora di Mr. Lum? Era stato il verso di un poeta, William Blake. «Tieni l'infinito nel palmo della tua mano / E comprimi l'eternità in un'ora.» Jim, nei panni di Orc, non credeva di poter vivere tutta l'eternità in una notte. Ma avrebbe tentato di comprimere in quelle dieci ore il maggior numero possibile di fette di eternità. Subito prima di iniziare il canto d'entrata, gli parve di vedere il volto di Porsena, pieno di rimprovero e tristezza. Il canto divenne incerto, quasi si spense nel buio. Ma Jim sentì che Orc e i mondi esotici oltre le muraglie della Terra penetravano attraverso il buco nero e mandavano in mille pezzi il volto di Porsena. I frammenti di quel volto schizzarono via in tutte le direzioni e Jim si proiettò verso il tragil, come un bombardiere della Seconda Guerra Mondiale che volasse attraverso il fuoco della contraerea. Improvvisamente, provò una sofferenza atroce. Urlò, anche se non aveva voce. Orc, invece, stringeva i denti, non lasciandosi sfuggire neppure il più flebile gemito. Non avrebbe dato al padre la soddisfazione di vederlo gridare. Era stato crocifisso. I piedi poggiavano al suolo ma le braccia erano inchiodate ai bracci orizzontali della croce. Non pensava di poter resistere a quell'agonia un secondo di più. Invece, ci riuscì. CAPITOLO VENTOTTESIMO Ma Jim non ce la fece. Da quando aveva iniziato a entrare nella mente di Orc, aveva sofferto più e più volte. Ora la misura era colma. Nonostante tutto, indugiò per qualche istante. Orc si trovava sul fianco di una montagna. Molto più in basso, ai piedi della montagna, c'era un ampio lago alimentato da un fiume. Sulla sua riva sorgeva Golgonooza, il nuovo palazzo di Los, la Città dell'Arte. Un fiume scorreva lungo la sua estremità più lontana. Gli edifici erano stati costruiti con un metallo iridescente; le loro linee erano morbide ed essi si innalzavano dal terreno con dolci angolazioni, per poi puntare sempre più nettamente verso l'alto, senza mai elevarsi direttamente in verticale, fino a un' altezza di circa trenta metri. Dopodiché, proseguivano in verticale per qualche altra decina di metri, per poi
piegarsi verso l'esterno. Sembravano fondersi l'uno con l'altro a vari livelli. Su molti crescevano piante dei più svariati colori: verdi, rosse, arancioni e gialle. Parecchi erano alberi, alcuni dei quali crescevano ad angolo retto rispetto alle superfici verticali degli edifici. Los, pur con numerose pause, aveva lavorato al palazzo-città per molti secoli. Aveva intenzione di renderlo l'esempio supremo di architettura thoan; avrebbe dovuto essere perfino più magnifico del Palazzo Immateriale di Urizen. Los aveva catturato Orc non appena quest'ultimo aveva superato la Porta che lo aveva condotto di nuovo nel suo mondo natio. Il giorno precedente, lo aveva crocifisso, nonostante le suppliche disperate di Enitharmon. Los era stato sul punto di piantare di persona il secondo chiodo, quando la moglie lo aveva aggredito. Prima di ricevere un pugno che le aveva fatto perdere i sensi, Enitharmon era riuscita a graffiare a sangue il volto del marito. Ora la madre di Orc era imprigionata da qualche parte nel palazzo di Golgonooza. Non riuscendo a sopportare più il dolore, Jim cambiò mantra, e si ritrovò nella sua stanza. Erano ancora le otto meno dieci. La lancetta dei minuti si era mossa quasi impercettibilmente. Tremando per ciò che aveva appena subito, andò a prendere un bicchiere d'acqua nel bagno e rimase seduto sulla sedia per un po'. Poi, consapevole che stava perdendo tempo, pur avendo ancora numerosi viaggi da compiere, iniziò a intonare, «ATA MATUMA M'MATA!» Questa volta, il mantra non dovette proseguire a lungo. Sette ripetizioni furono sufficienti a proiettare Jim dall'altra parte del tragil. La volta seguente, Jim ne era sicuro, gli sarebbe bastato intonare il mantra cinque volte. E il viaggio ancora successivo avrebbe richiesto soltanto tre ripetizioni. Gli altri avrebbero sempre avuto bisogno di tre ripetizioni. Jim non ne conosceva il motivo. Era così e basta. Aveva deciso di entrare nella mente di Orc un anno dopo la crocifissione. Si ritrovò in una situazione che un tempo lo avrebbe profondamente imbarazzato. Ma ormai era entrato troppe volte nella mente del Signore in circostanze simili per rinunciare. Orc stava facendo l'amore con la zia, Vala, in maniera spaventosamente violenta. A quanto pareva, alla zia piaceva così. Un amante gentile non si confaceva ai suoi gusti. Jim fu afferrato da un turbine di lussuria e non ebbe tempo né voglia di indagare sul luogo in cui si trovava Orc. Finché entrambi non ebbero raggiunto l'orgasmo, Jim fu incapace di fare qualsiasi cosa. Pur risentendo anche lui degli effetti della «piccola morte,» come alcuni chiamavano la sensazione di
spossatezza post-coitale, era abbastanza sveglio da osservare l'ambiente che lo circondava. I due Signori si trovavano in una stanza da letto meravigliosamente arredata e grande quanto un palazzo. Le pareti e i pilastri mutavano continuamente colore. Le finestre erano grandi il doppio di un campo da football. Anch'esse mutavano incessantemente colore, in un caleidoscopio di infinite sfumature. Ogni tanto, diventavano trasparenti. Allora, Jim vedeva un cielo nero punteggiato di stelle. Più tardi, apparve la sfera di un pianeta. Come scoprì Jim dalla conversazione tra Orc e Vala, si trovavano su un satellite che compiva un'orbita simile a un grande otto. Vala aveva salvato Orc dalla croce e poi avevano viaggiato in numerosi universi. Non si erano recati nel mondo di Luvah, il marito di Vala, poiché i due si erano separati. A differenza di molti altri Signori, Luvah non aveva ucciso la moglie, ma le aveva permesso di tentare la sorte, nel tentativo di spossessare il Signore di un altro mondo. Los, come un segugio incredibilmente abile, aveva inseguito il figlio e la cognata di universo in universo. Poi i due si erano separati - non dissero perché - e Orc aveva continuato la sua fuga. Ma si erano ritrovati dopo numerose avventure. Quel mondo apparteneva, o meglio era appartenuto, a Ellayol. Dopo aver superato numerose Porte, dotate di molte trappole, Orc e Vala avevano ucciso Ellayol, la moglie e i figli. Quella notizia turbò profondamente Jim. I Signori erano terribilmente inclini all'assassinio, e Orc sembrava aver perso ogni residuo di umanità. Vala e Orc erano arrivati sul satellite per godersi una vacanza da innamorati. Subito dopo aver appreso tutte quelle informazioni, Jim fu consumato dalla passione dei due. Ci fu un'altra pausa, e poi i due iniziarono di nuovo a fare l'amore. Continuarono così per un bel po'. Nelle pause, Orc e Vala non si scambiavano molte parole, né pensavano molto al passato. Quando iniziarono a mordersi l'uno con l'altra e a leccare il sangue dalle ferite, Jim si staccò dalla mente di Orc. Non prima, però, di aver «toccato» il cervello fantasma. Non sapeva ancora se quell'essere avesse già iniziato a indebolire l'intelligenza di Orc o stesse impadronendosi della sua mente con la lentezza con cui alcuni tipi di cancro divoravano il corpo. Ma quel che lo fece «rabbrividire», quando toccò il parassita, fu che l'essere lo toccò a sua volta. Jim fu sicuro che qualcosa lo avesse brevemente toccato con un «dito.» Si ritrasse immediatamente, colmo di disgusto, ma ebbe l'impressione di aver percepito qualcosa di familiare. Dopo essere ritornato nella sua stanza, Jim si riposò per qualche minuto.
Dall'altra parte della parete giungevano fievolmente i singhiozzi di una ragazza. Dalla parete opposta, Jim Morrison urlava le parole di «Horse Latitudes» mentre i Doors infuriavano sui loro strumenti. Il testo di quella canzone era uno di quelli preferiti da Jim; lui pensava che si trattasse di vera poesia. Era molto tempo che non ascoltava quel vecchio brano del 1967, ma a Monique Bragg piaceva molto sintonizzarsi sul programma «Golden Oldies.» Jim sospirò. Non voleva rimandare il rientro nella mente di Orc, ma per il momento era ancora troppo coinvolto dalle frenesie sessuali del Signore per iniziare di nuovo a intonare il mantra. Sebbene non fosse esausto fisicamente, il suo ruolo di osservatore non tanto innocente lo aveva stancato. Ormai conosceva tutto quello che c'era da sapere su come fare l'amore in maniera tenera. Lo aveva imparato da Orc, quando il Signore era stato in compagnia di una donna nativa. Ora conosceva fin troppo bene anche l'altra maniera di fare l'amore, quella violenta: gli era stata illustrata da Orc e Vala. Sebbene sulla Terra avesse avuto ben poche avventure, come Orc ne aveva avute a sufficienza da far sembrare Casanova e Henry Miller due amanti alle prime armi. Trascorse qualche altro minuto. Alla fine, Jim attraversò di nuovo il centro del tragil. Questa volta aveva deciso di entrare nella mente di Orc sei anni più tardi. Senza dubbio, in base al calcolo delle probabilità, il giovane Signore avrebbe dovuto trovarsi in una situazione relativamente meno difficile. Per il Corno di Shambarimem! Orc si trovava in un appartamento del vecchio palazzo-città del padre. Era solo, e nessun suono proveniva dalle finestre coperte da sbarre. Era stato catturato di nuovo mentre tentava di entrare nella città-palazzo di Golgonooza, con l'obiettivo di uccidere Los. Vala era riuscita a fuggire, Il tutto era accaduto sette mesi prima. Orc era stato portato nel luogo in cui aveva trascorso la sua infanzia, il palazzo delle nuvole, e imprigionato là. Jim fu sconvolto quando si accorse che Los non si era limitato a imprigionare il figlio. Il corpo di Orc gli comunicava strane sensazioni. Aveva muscoli che non aveva mai posseduto, le gambe e le braccia sembravano insensibili, e si muoveva in un modo strano e pauroso. Poi Jim vide il riflesso di Orc in un grande specchio. La sua sorpresa e il suo orrore furono così intensi che fu sul punto di ritornare immediatamente sulla Terra. Il corpo nudo del Signore, dai genitali in su, era quello solito. Ma la parte inferiore era quella di un serpente. Orc non aveva gambe. Il
suo torso era stato unito a un gigantesco corpo di serpente, lungo almeno quindici metri, le cui scaglie brillavano di un verde chiaro. Ad intervalli regolari, il verde era interrotto da chiazze pentagonali scarlatte. Il busto di Orc era mantenuto eretto dalla poderosa parte anteriore del corpo del rettile. Il Signore si muoveva sul pavimento come avrebbe fatto un pitone. Era diventato un centauro ofidico, metà uomo, metà serpente. Jim conosceva abbastanza la scienza e la storia thoan da sapere chi aveva provocato quella metamorfosi. Los, invece di uccidere il figlio, lo stava di nuovo torturando. Aveva usato le conoscenze di biotecnologia ancora possedute dai Signori per trasformare il figlio in un mostro. Le gambe di Orc erano state amputate e il suo busto era stato fuso al corpo di un serpente privato della testa. Ogni tanto, Los veniva nel palazzo deserto per prendersi gioco di Orc. Aveva detto al figlio che Enitharmon era tornata con lui. Dopo la loro riconcilazione, avevano avuto tre figli: Vala, chiamata così in onore della zia, come aveva voluto Enitharmon, Palamabron e Theotormon. Tutti erano stati partoriti da madri-ospiti. Orc era l'unico figlio partorito da Enitharmon. La madre aveva voluto provare, almeno una volta, l'esperienza del parto. E quell'unica volta era stata sufficiente a scoraggiarla dal riprovare. «In ogni caso, ho imparato la lezione,» aveva detto a Orc suo padre. «Da ora in poi, non appena i miei figli saranno diventati adulti, li manderò in altri mondi. Alcuni di essi saranno vuoti, poiché i loro Signori sono stati uccisi. Ma sugli altri, i miei figli dovranno mettere alla prova la loro intelligenza e la loro prestanza fisica contro i loro padroni.» Enitharmon non sapeva che il figlio era stato imprigionato o che era stato trasformato in un mostro. Los le aveva detto di aver saputo che Orc era sano e salvo nel mondo di Manathu Vorcyon. Quella donna lo aveva adottato, e ora lui stava continuando la sua educazione in quell'universo pacifico. Un giorno, Los avrebbe permesso a Enitharmon di far visita al figlio. Ma ciò non sarebbe avvenuto nell'immediato futuro. Sarebbe stato necessario attendere che l'odio bruciante tra Orc e Los si raffreddasse. Nel frattempo, Enitharmon era occupata ad allevare i suoi tre figli con l'aiuto di numerose serve. Orc non sapeva se il padre gli avesse detto la verità oppure no. Era possibile che sua madre fosse ancora imprigionata o che fosse stata addirittura assassinata. Jim toccò di nuovo il cervello fantasma, che gli restituì il tocco.
Senza dubbio, era diventato ancora più grande. Jim decise di rimanere con Orc per un po'. Era affascinato dalla fusione tra uomo e serpente e voleva studiarla meglio. La prima cosa che notò fu che i sistemi circolatori dei due corpi erano connessi tra loro. Ma il rettile era a sangue caldo, il che significava che non era davvero un rettile. Il suo corpo era stato fabbricato in laboratorio per essere fuso con quello di Orc; ciò faceva sì che in esso dovesse scorrere lo stesso sangue del corpo del Signore. Il corpo di serpente era dotato di un proprio cuore, poiché il solo cuore di Orc non sarebbe stato in grado di pompare abbastanza sangue per quella mole enorme. La parte superiore si fondeva con la parte umana appena al di sotto dell'ano e dei genitali di Orc. Ma almeno gli era stata risparmiata l'umiliazione di dover defecare sul corpo del serpente, insozzandosi. Il cibo che mangiava attraversava gli intestini del corpo umano e veniva espulso da quelli del serpente. Parte dell'urina veniva espulsa da Orc, ma la maggior parte di essa veniva scaricata dall'apparato urinario del rettile. Per rimanere vivo e in forze, Orc era costretto a mangiare e bere una grande quantità di cibo. Se avesse tentato di morire di fame, avrebbe sofferto non soltanto i dolori provocati dal suo digiuno, ma anche quelli che avrebbe provato il serpente. «Metaforicamente, sei sempre stato un serpente,» gli aveva detto Los. «Ora, sei una perfetta combinazione tra metafora e realtà.» «Un serpente che può mordere,» aveva urlato Orc. «Un serpente che ti può stritolare!» Il padre era scoppiato a ridere. Poi aveva replicato, «Quando catturerò Vala, la renderò una compagna degna di te. Non vedo l'ora di vedervi tutti e due arrotolati uno all'altra mentre fate l'amore. Sarà uno spettacolo mai visto in precedenza!» Orc non aveva replicato. Non voleva che Los capisse quanto gli mancava la compagnia, specialmente quella femminile, in particolare quella di Vala. La fuga sembrava impossibile. Porte interdimensionali dotate di trappole si aprivano dietro l'unica porta e le quattro finestre. Los non entrava mai nella stanza, si limitava a parlargli da uno schermo televisivo sulla parete. Gli piaceva svegliare Orc nel bel mezzo della notte. Ma non era questo a far infuriare Orc. Per lui, notte e giorno avevano ben poco significato, e gioiva del suono della voce o della vista di un qualsiasi essere umano, dunque perfino di suo padre. Ovviamente, non avrebbe mai permesso che
Los se ne accorgesse. Tre mesi dopo essere stato catturato, dai due corpi di Orc venne fuori una cascata di gioielli. CAPITOLO VENTINOVESIMO In un primo momento, Orc pensò di essere affetto da carbonchio. Dei noduli spuntarono con la velocità dei funghi su entrambi i corpi, anche se risparmiarono il volto e il collo. Prudevano intensamente, e la pelle sottile al di sopra dei rigonfiamenti si lacerava al minimo tentativo di grattarsi. Dalle lacerazioni usciva un po' di sangue, ma non del pus. La pelle lacerata rivelava una sostanza sfaccettata, che agli stadi iniziali era elastica come gomma. Poi diventava dura come una gemma. Le protuberanze potevano essere di qualunque colore e sfumatura. Orc comprese che non era stato infettato da una normale malattia. I Thoan erano immuni ai brufoli e alle bolle, o, se è per questo, a qualsiasi altra malattia della pelle. Il responsabile di quell'infezione doveva essere Los. Dopo una settimana, i rigonfiamenti erano diventati più grandi. Ora avevano le dimensioni di una nocciolina, ed erano più duri del suo guscio. La pelle che li copriva si tendeva senza spezzarsi. Dopo i primi tre giorni in cui erano cresciuti, la pelle aveva cessato di prudere. Orc aveva smesso di grattarsi, e i graffi provocati dalle sue unghie erano guariti entro cinque ore. Fortunatamente i rigonfiamenti non si erano manifestati sulla parte inferiore del corpo serpentiforme. Ciò avrebbe reso dolorosi e difficili i movimenti di Orc sulla superficie liscia del pavimento. Già così, il dover strisciare come un serpente non evitava che, di tanto in tanto, la sua coda, sempre arrotolata su se stessa, scivolasse sul pavimento privo di attrito. Quando Los si affacciava alla soglia della stanza oppure proiettava il suo volto nello schermo, si rifiutava di rispondere alle domande di Orc. Si era limitato a dire, «Non è una malattia.» Le pelle su tutti i bozzi si ruppe nel medesimo istante. Il loro contenuto si sparse risuonando sul pavimento. Sembravano gemme sfaccettate e scintillavano alla luce. Poco tempo dopo, Los aprì la porta. Rimase sulla soglia e rise per molto tempo. Poi disse, «Sei un tesoro vivente, Orc, mia gemma e mio fabbricante di gioielli. Presto ti ritroverai immerso fino al culo, quello umano, in diamanti, smeraldi, rubini, zaffiri, ametiste e crisoberilli. Potresti perfino
annegarvi. «Ringraziami, figlio mio. Tua padre ti copre di ricchezze, anche se meriteresti soltanto ceneri e sterco. Il racconto della tua sfortunata e strana morte si diffonderà in tutti i mondi - me ne incaricherò io - e tu diverrai oggetto di leggende che rivaleggeranno con quelle su Shambarimem o Manathu Vorcyon.» Per tutta risposta, Orc piegò il suo corpo fino a che non fu a pochi centimetri dal pavimento. Raccolse una manciata di gemme ancora bagnate, si raddrizzò e le scagliò attraverso la soglia. Los si limitò a fare un passo indietro, poi ritornò sulla soglia. Quando i gioielli attraversarono la soglia, scomparvero. Orc stabilì che doveva esserci una Porta. «Da ora in poi vedrai il mio volto soltanto sullo schermo,» lo informò Los. «Non puoi fermare la crescita delle gemme. Annegherai in un mare di bellezza!» Chiuse la porta. Poco dopo, uno dei pannelli del soffitto si aprì, rivelando un piccolo foro rotondo. Da esso, una a una, caddero le gemme che Orc aveva lanciato contro Los. Orc le raccolse insieme alle altre e le gettò nel foro del cesso. Dieci minuti più tardi, riapparvero dal foro nel soffitto. Jim si staccò dalla mente di Orc e ritornò sulla Terra. Quasi immediatamente iniziò a intonare il mantra. Quando ebbe fatto ritorno nella mente di Orc, erano trascorsi quattro mesi thoan. Il Signore stava prendendo enormi piatti di cibo dal vassoio girevole inserito nella parete. Era costretto a consumare spaventose quantità di cibo e di bevande per ricavarne l'energia necessaria per produrre gioielli. Passava quasi tutto il suo tempo a mangiare e a defecare. A causa della fame e della sete, si svegliava ogni due ore e così riusciva a dormire pochissimo. Se avesse tentato di ridurre la quantità di cibo, si sarebbe disidratato in meno di un giorno e sarebbe morto di fame in tre giorni. Il pavimento era coperto da uno strato di gioielli alto dieci centimetri. Quando Orc tentava di strisciare su di essi, scivolava e aveva grosse difficoltà a spostarsi da un luogo all'altro della stanza. Però, di recente, aveva sperimentato un nuovo tipo di locomozione, che sembrava funzionare. Invece di mantenere verticale la parte umana del suo corpo, la allineava in orizzontale con la parte serpentiforme. Poi, usando le mani, si apriva la strada tra i gioielli. Alla fine, i gioielli sarebbero diventati così numerosi che non sarebbe più riuscito a spostarli.
La questione era se sarebbe morto prima per inedia o per soffocamento. A un certo punto, non sarebbe più riuscito ad avvicinarsi al vassoio del cibo e al rubinetto dell'acqua, poiché sarebbero stati coperti dai gioielli. Per la prima volta nella sua vita, Orc disperò di salvarsi. La morte sembrava l'unico modo di uscire da quella stanza. Jim si sentì altrettanto scoraggiato e abbattuto. Il cervello fantasma sembrava sempre più grande, anche se la sua minaccia sarebbe cessata con la morte di Orc. Al momento, quella sembrava essere la soluzione a entrambi i problemi. Dopo dodici viaggi, Jim entrò nella mente di Orc la notte in cui il Signore avrebbe dovuto fuggire o prepararsi a morire ben presto. Il letto di gioielli distava soltanto qualche decina di centimetri dal soffitto. Per raggiungere il vassoio e il rubinetto Orc doveva scavare due buche ampie e profonde, che collassavano non appena Orc aveva terminato di scavarle, costringendolo a ripetere ogni giorno quello sforzo penoso. Aveva anche rinunciato a tentare di arrivare al foro del cesso. Come risultato, nella stanza regnava un fetore intenso, che a Jim ricordò il gabinetto di Dumski. La stanza era sorvegliata mediante schermi inseriti nelle pareti e forse mediante altri sensori. Era probabile che Los la controllasse solo di tanto in tanto, a meno che non portasse con sé un ricevitore portatile. Ma poteva aver assegnato ad alcuni dei suoi schiavi il compito si sorvegliare la stanza ventiquattro ore su ventiquattro. Senza dubbio, sarebbe stato avvertito all'istante, da una macchina o da un servitore, se il prigioniero avesse fatto qualcosa di insolito. I pannelli delle pareti, fino a qualche decina di centimetri dal soffitto, erano coperti dai gioielli. Ma sicuramente nel soffitto c'erano dei monitor mimetizzati. Orc pensò di ricoprire di escrementi i punti ancora scoperti delle pareti e del soffitto. Ma non appena i monitor sarebbero stati oscurati, Los sarebbe stato immediatamente avvertito. Scavò un buco accanto alla parete da cui spuntava il rubinetto. Questo non avrebbe allarmato coloro che lo sorvegliavano: lo aveva fatto ogni volta che voleva bere. Quando raggiunse il rubinetto, lo afferrò. Sperava che non si sarebbe staccato dalla parete, visto lo sforzo a cui aveva intenzione di sottoporlo. La maggior parte del suo corpo serpentiforme era allungato nella stanza. Sempre aggrappandosi al rubinetto di metallo e usando ora una mano ora l'altra per mantenere la presa, Orc iniziò a ruotare il suo corpo, più e più volte. Osservando quella scena, i sorveglianti avrebbero potuto pensare che fosse preda di una specie di attacco epilettico. Magari avrebbero chiamato
Los. In ogni caso, non avrebbero avuto l'impressione che Orc stesse tentando di fuggire. E sicuramente avrebbero aspettato qualche minuto, nel tentativo di capire cosa stesse succedendo. Mentre rotolava, i gioielli che circondavano il suo corpo umano caddero e lo coprirono. Presto, anche il corpo serpentiforme fu seppellito dai gioielli, sebbene si trovasse più vicino alla superficie rispetto al corpo umano. Poi, con la punta della coda, a tentoni, Orc trovò una delle sbarre di vanadio temprato che formavano una griglia davanti a una finestra. Estendendosi qualche altro centimetro, la coda si arrotolò intorno alla sbarra. Se la griglia fosse stata saldata a una parete di metallo, avrebbe resistito a ogni sforzo di Orc. Ma non lo era; con il sudore che gli copriva l'intero corpo e gli entrava negli occhi, con le vene ingrossate che ormai somigliavano a minuscoli serpenti, Orc riuscì a staccare la griglia dalla finestra. Nel venir via, la griglia provocò un rumore stridulo, che sarebbe stato senza dubbio rilevato dai sensori. Anche se era fatto di metallo duro e spesso, il rubinetto si era piegato di lato. Orc risalì alla superficie del duro ma cedevole mare di gemme. Con il corpo umano che formava una linea retta con quello serpentino, spazzò con le mani i gioielli davanti a lui, mentre la coda si contorceva freneticamente. Arrivò quasi subito alla finestra. Poi, strisciò lungo la parete per qualche metro. Dopo essersi fermato, iniziò a battere la coda contro l'intelaiatura della finestra. In un primo momento, le protuberanze cristalline sotto la pelle attutirono il dolore dei colpi. L'unica sofferenza che provò Orc, e fu sufficiente, fu provocata dalla pelle, che si lacerava nei punti in cui spuntavano i gioielli immaturi. Ma dopo più di venti colpi, i gioielli furono espulsi dal corpo di Orc, provocandogli un dolore anche più forte. Ora che non c'erano più i gioielli ad attutire il dolore, ogni volta che Orc colpiva con la coda la finestra provava una sofferenza atroce, che gli faceva serrare i denti. La finestra si macchiò di sangue. Proprio quando Orc fu sicuro che non avrebbe più potuto continuare a vibrare i suoi colpi, sempre più deboli, l'intelaiatura della finestra saltò via. Immediatamente, i gioielli che erano nelle vicinanze caddero verso il basso. Orc si avvicinò strisciando all'apertura, allungò la coda verso l'alto. Con essa cercò a tentoni lungo la parete al di sopra della finestra, finché non trovò qualcosa di verticale in una nicchia. Fece curvare la coda intorno alla sua base, sfruttandola come ancoraggio. Poi sporse la testa e le spalle fuori dall'apertura.
L'unica illuminazione era costituita dal chiaro di luna, ma Orc vide che l'oggetto intorno a cui aveva stretto la coda era una statua di metallo. Ora sapeva esattamente in quale punto dell'enorme complesso della cittàpalazzo si trovava. Si trattava della parete nord di uno dei primi edifici eretti sul livello più basso. Era vecchio più di duemila anni, e i genitori avevano discusso a lungo se abbatterlo e costruirne un altro. Il suo stile troppo ornato non era più di loro gusto. Le luci del palazzo si accesero. Orc non vide alcun segno di vita. I suoi sorveglianti probabilmente erano gli unici inquilini rimasti; tutti gli altri si erano trasferiti a Golgonooza. Los, ovviamente, doveva essere stato già svegliato. Poteva già trovarsi nell'edificio, o in quello accanto. Rafforzò la presa della coda intorno le gambe della statua e scivolò fuori della finestra. Per un istante, penzolò a faccia in giù per tutta la lunghezza dei suoi due corpi. Poi, sfruttando i possenti muscoli ofidici, contorse il suo corpo in modo da poter fissare la parete. Salì finché non fu in grado di stringere le spalle della statua. Srotolò la coda dalla base della statua. Sotto il peso della coda che penzolava momentaneamente libera, le sue mani furono quasi costrette a lasciare la presa sulla statua. Poi sollevò la coda e l'arrotolò intorno alla statua che si trovava più in alto. E così, procedendo di statua in statua, arrivò al tetto. Come si era aspettato, in un angolo c'erano molti velivoli di vari modelli e dimensioni. Quando li raggiunse, optò per uno bianco, uno Steed II. Era abbastanza grosso da contenere la sua enorme mole. Ma riuscire a infilarsi sul sedile di guida dello Steed non fu facile. Dovette distendere la parte mediana del corpo serpentiforme nello spazio tra i due sedili anteriori. Poi dovette piegarsi, in modo che la parte umana potesse arrivare ai controlli. Poiché non aveva piedi, avrebbe dovuto azionare i pedali con le mani. Ciò avrebbe reso il volo assai pericoloso, a meno di non inserire il pilota automatico, ma Orc se la sarebbe cavata, a patto di fare molta attenzione durante alcune manovre. Sperò che il codice vocale che attivava il motore non fosse cambiato. Non lo era. Ma ciò non significava che il meccanismo di autodistruzione non sarebbe esploso. Avrebbe potuto attivarsi automaticamente, oppure grazie a un segnale radio inviato da Los. Poteva anche esserci un dispositivo che avrebbe preso il comando del velivolo, dopo aver rilevato che il guidatore non era autorizzato. E così, Los avrebbe potuto dirigerlo dove più gli sarebbe piaciuto. Orc avrebbe corso tutti quei rischi. Non aveva scelta.
Nessuno dei velivoli era armato o aveva armi portatili a bordo. Due raggi di luce spuntarono dalle fiancate del velivolo. Erano a forma di pinna e lunghi tre metri. Sotto il controllo di Orc, iniziarono a vibrare con la velocità delle ali di un colibrì. Il velivolo si innalzò lentamente, mentre le ali generate dal motore Sethi divenivano due confuse macchie di luce. Orc accese il radar, gli infrarossi e i fari. I lampi di luce prodotti dal motore sarebbero stati visti da chiunque fosse a terra, tanto valeva dunque vedere bene la rotta che aveva scelto. Gli ci vollero sei minuti di selvaggia accelerazione per allontanarsi di almeno duecento chilometri dal palazzo. Mentre decelerava, le luci di Golgonooza iniziarono a brillare. Ormai Los doveva essere arrivato al vecchio palazzo, e dopo aver capito cos'era successo, compreso il furto dello Steed, doveva essere tornato a Golgonooza. O era sul punto di farlo. Avrebbe ipotizzato che il figlio, ancora per metà serpente, non aveva nessun altro luogo in cui rifugiarsi. In ogni caso, sia che Los si fosse recato al vecchio palazzo e poi fosse ritornato a quello nuovo, sia che non si fosse mai mosso, adesso si trovava a Golgonooza. Orc puntò il velivolo in picchiata verso l'area d'atterraggio: la piazza su cui sorgeva la torreggiante residenza di Los, ornata di un'immensa cupola. Mentre lo faceva, vide suo padre. Stava correndo, anzi barcollando, attraverso la piazza. Indossava soltanto un corto gonnellino e una cintura che reggeva la fondina di un lanciaraggi. Si comprimeva un fianco con la mano, come se gli dolesse. Davanti a lui, con la diafana camicia da notte che sventolava, correva la madre di Orc. Le snelle gambe di Enitharmon erano lanciate in veloci falcate, e l'espressione del suo volto era disperata. Sebbene Los avesse potuto stordirla o ucciderla con il lanciaraggi, era tanto furioso, o forse tanto sconvolto dalla ferita ricevuta, da essersi dimenticato di usare l'arma. Ma forse non voleva usarla a meno di non esservi costretto. Mentre Orc faceva compiere allo Steed una virata per aggirare alle spalle Los, vide che l'elsa e parte della lama di un pugnale spuntavano tra le sue dita. Evidentemente, Enitharmon l'aveva pugnalato alle costole, anche se non doveva trattarsi di una ferita troppo profonda. Ciò significava che la madre di Orc non era stata imprigionata in un'ala del palazzo, o che era stata appena liberata. Magari il padre gli aveva mentito, quando aveva affermato di tenerla rinchiusa. In ogni caso, Enitharmon aveva scoperto cosa era successo a suo figlio. Aveva intercettato il marito prima che potesse intraprendere qualsiasi azione contro Orc. Avevano lottato, e lei gli aveva
conficcato il pugnale nel fianco. Poi era fuggita. Le ali del motore Sethi non facevano il minimo rumore. Los non aveva visto la loro luce oppure era troppo intento nel dare la caccia alla moglie per accorgersene. Orc fece scendere il velivolo fino a circa due metri dalla pavimentazione iridescente e lo fece accelerare a tutta velocità, dirigendolo contro la schiena di Los. Enitharmon inciampò, cadendo in ginocchio. Quell'esitazione fu sufficiente a Los, che urlava come un forsennato, per raggiungerla. Le strinse la gola con entrambe le mani, mentre la moglie tentava di rialzarsi. Ora era in ginocchio, il corpo piegato all'indietro mentre con le mani afferrava i polsi di Los. Un istante prima che la prua del velivolo di Orc urtasse un punto delle spalle di Los, Enitharmon usò la mano destra per strappare il pugnale dal corpo del marito. Los gridò di dolore. La moglie fece per piantargli il pugnale nello stomaco, ma Los fu scaraventato in avanti dalla prora del velivolo e il pugnale lo colpì di striscio sullo sterno. Poi il suo corpo trascinò la moglie al suolo. Il pugnale giacque sui terreno, accanto alla mano di Enitharmon. Ma Orc aveva evitato che il veivolo colpisse il padre con tutta la violenza di cui sarebbe stato capace. Anche se era pieno di rabbia, non aveva perso del tutto il lume della ragione. Non voleva ferire la madre scagliandole addosso il corpo di Los. E non voleva uccidere Los. Non ancora, almeno. Anche così, Enitharmon giacque sotto Los, il cui corpo, a braccia spalancate, la schiacciava: era stordito o privo di sensi. Enitharmon non stava tentando di far rotolare via il corpo di Los dal suo. Doveva essere rimasta stordita quando aveva urtato con la nuca la pavimentazione della piazza. Orc sollevò il tettuccio del veicolo. Strisciò fuori da esso e si avvicinò ai genitori. Enitharmon, sollevando lo sguardo, urlò. Anche ammettendo che Los le avesse detto cosa aveva fatto al figlio, vederselo accanto in carne e ossa era molto peggio di una semplice immagine mentale. E il sangue di cui era coperto Orc doveva aver aggiunto altro orrore a quello causato dalla vista del suo corpo mostruoso. «Sono io, madre!» gracchiò lui. Si chinò e raccolse il pugnale dalla pavimentazione. Enitharmon ora taceva, e fissava il figlio con occhi sbarrati. Orc fece rotolare su se stesso il corpo ancora immobile del padre e gli tolse il gonnellino e il perizoma. Pochi istanti più tardi, Enitharmon urlò ancora e non smise per un po' di tempo. Orc aveva tagliato i testicoli di Los. Raddrizzandosi, li fece scivolare
fuori dallo scroto e li inghiottì. Con le guance gonfie, iniziò a masticare. La rabbia, e le leggende che narravano come gli antichi Signori riservassero quella sorte ai loro nemici, lo avevano spinto a compiere un gesto così crudele. Era anche possibile che la parte serpentina di Orc avesse sopraffatto la naturale ripugnanza di un essere umano nei confronti di un atto tanto efferato. Orc si era trasformato a metà in un animale anche nella mente, oltre che nel corpo. Ma qualsiasi ragione avesse spinto Orc a compiere quel gesto, Jim Grimson ne fu assolutamente sconvolto. Non dovette neppure recitare il mantra d'uscita dalla mente del Signore. Lo shock e il disgusto recisero il legame mentale, e Jim si ritrovò in camera sua. Tremava e provava l'impulso di vomitare. CAPITOLO TRENTESIMO «So di averla delusa, dottore,» esordì Jim Grimson. «Lei mi aveva ordinato di non rientrare nella mente di Orc, ma io non le ho obbedito. Non ho potuto resistere. Per me, Orc era diventato una droga, come la polvere d'angelo. Ma giuro che non ritornerò più dentro di lui! Mai più! Non finché non sarà lei a dirmelo! E non mi piacerà farlo, glielo assicuro! Mi sono sbarazzato della mia dipendenza! «Ormai odio Orc il Rosso! Ammetto, come le ho detto, che ho provato una strana sensazione quando ha mangiato i testicoli del padre! Per un paio di secondi, mi è piaciuto! Ma ero talmente calato nella mente di Orc da essere quasi diventato lui! Poi mi sono sentito nauseato, e il disgusto, rendendomi per un istante più conscio di me stesso, mi ha permesso di uscire da Orc! Altrimenti, sarei ancora dentro di lui!» L'espressione di Porsena era indecifrabile. Jim pensava che fosse molto arrabbiato. Ma non lo dimostrava in alcun modo. In tutti i casi, fino a quel momento, le sue parole erano state taglienti come punte di freccia. Ma ora lo psichiatra parlò con un tono più morbido. «Eri stato avvertito di chiamare me o un altro membro della mia equipe, se ti accorgevi che il tuo desiderio stava diventando troppo forte per potervi resistere. Avresti dovuto obbedire. Mi aspetto che, da ora in poi, farai quel che ti viene detto. Dal punto di vista psicologico, ti trovi in acque infestate dagli squali. Per essere precisi, sei al punto di svolta. Quando una persona arriva dove sei tu, ha due possibilità: andare avanti o tornare indietro. Capisci?» Jim annuì. «Dio sa se ci ho provato! Adesso so che posso farcela da so-
lo. Farò tutto quello che mi dirà lei.» «No, finché non ti sarà spiegata la ragione che sta dietro ai miei ordini e suggerimenti. Il paziente dovrebbe sempre essere al corrente di tutto ciò che riguarda la sua terapia.» «Lo so. Me lo ha detto ogni volta che eravamo quasi pronti a passare da una fase all'altra.» Il dottore sorrise. «Dimostri di avere una notevole intuizione. È per questo che la tua terapia è andata avanti molto più in fretta del solito, procedendo in maniera alquanto differente da quella degli altri. A mio giudizio, sei pronto per la fase di separazione.» Jim disse, «Ma... ma... ho ancora delle cose da fare! Per esempio, devo occuparmi del cervello fantasma. E poi volevo essere là, quando Orc avrebbe costruito l'universo della Terra e il suo gemello! Che visione avrei avuto! Sarebbe stato come osservare Dio impegnato a creare il mondo! No, sarebbe stato come essere Dio, poiché Orc avrebbe creato l'universo, e io sarei stato lui! «E volevo scoprire in che modo Orc ha recuperato l'altra metà del suo corpo umano! E poi, c'è Los! Quando sono andato via, sembrava che per lui fosse finita. Ma Farmer afferma che viveva ancora, quando Kickaha entrò nei mondi dei Signori!» «Farmer magari scriverà un sesto libro del ciclo, in cui spiegherà tutto. Ma che lo faccia o no, noi dobbiamo assolutamente seguire determinate procedure. E se tu fossi assuefatto all'eroina e me ne chiedessi un po', poiché ti perderesti gli sballi futuri? Comprendi l'analogia?» «Va bene, va bene,» ammise Jim con voce esitante. «Però per lei è molto facile dirlo.» «Perché cerco di essere oggettivo.» «Sì, lo so.» «Pensa a quando Orc si trovava sull'isola di coloro che usavano le due droghe, i mangiatori di loto. Vuoi ridurti come lui? Senza dubbio non aveva più alcuna voglia di assumere droghe, dopo aver sopportato le sofferenze atroci della disintossicazione. Tu hai condiviso le sue sofferenze. Ricorda quella tortura, se mai ti verrà di nuovo la tentazione di fare uso di droga.» Il dottor Porsena si sporse in avanti e congiunse la mani. «Voglio che tu rifletta intensamente sulle domande che sto per porti. Considera ogni aspetto di ciascuna questione. Orc si trovava su Anthema, il Mondo Non Voluto. Era stato suo padre a inviarlo là. Cosa ti suggerisce
tutto questo?» Calò il silenzio, mentre Jim pensava, con la bocca contratta per lo sforzo e gli occhi che saettavano da un lato all'altro della stanza. Alla fine disse, «Mio padre, voglio dire il padre di Orc, l'aveva mandato là. Suppongo che lei pensi che io abbia chiamato Anthema il Mondo Non Voluto perché mio padre non mi voleva. Mi ha inviato là... voglio dire ha inviato Orc perché non lo voleva. Mi pare ragionevole, ma non sono stato io a coniare il nome Anthema, e neppure il mio subconscio in vena di straordinari.» Per qualche ragione, il battito del cuore di Jim era divenuto più rapido. Aveva anche iniziato a sudare. Il dottore riprese a parlare. «Quando Orc era un bambino, Los gli voleva bene o almeno gli era molto affezionato. A quel tempo, trattava il figlio con gentilezza. Eppure, di tanto in tanto, anche allora si abbandonava alla violenza. Ma quando Orc ha raggiunto l'adolescenza, quando non è più stato un adorabile pargoletto, sembra che il padre abbia preso a odiarlo.» «No, non sembra,» intervenne Jim. «Lo odiava sul serio!» «E questo cosa ti suggerisce?» «Che la relazione tra me e mio padre è molto simile a quella tra Orc e suo padre, vero?» Porsena, invece di rispondere, disse, «E le visioni che hai avuto quando eri bambino?» «Le allucinazioni, vuol dire?» «Chiamiamole visioni. Il primo attacco di stigmate si è manifestato quando avevi cinque anni. Eri con chiesa con tua madre. Eri affascinato dalla statua di Gesù in croce. Improvvisamente, l'hai visto come un uomo in carne e ossa, non come una statua di legno appesa con dei chiodi a una croce con il sangue dipinto. Hai urlato.» «Ancora non so cosa mi spaventò tanto.» «Questo non è un particolare di importanza vitale. Subito dopo aver urlato, il sangue iniziò a scorrerti dalle mani, dai piedi e dalla fronte. Hai avuto una crisi isterica, come tua madre. Poi...» «Poi c'è l'uomo che ho visto fluttuare in camera mia quando avevo quattro anni!» esclamò Jim. «E l'uomo verde nudo che ho visto nel nostro giardino sei mesi dopo. Stava mangiando le nostre pannocchie! Ho chiamato subito mamma, ma quando è arrivata l'uomo era sparito! Mio padre mi frustò con la cinghia perché avevo mentito! Ma io avevo davvero visto quell'uomo!» «Cosa pensi della visione che hai avuto prima di svenire nella casa che
bruciava?» gli chiese il dottore. «Eri nudo, incatenato a un albero e una gigantesca falce stava per castrarti. E poi, cosa ne pensi della visione che hai avuto dell'uomo-serpente?» «Si trattava di visioni profetiche. Mi annunciavano cosa sarebbe successo quando sarei entrato nella mente di Orc. Non con assoluta precisione, erano molto confuse, ma erano vere.» «Non ti ho chiesto se pensavi che fossero vere, o che tipo di spiegazione psicologica avessero. Ti ho chiesto quali sensazioni provi quando ci pensi.» «Per amor di Dio, dottore!» esplose Jim. «Non provo assolutamente nulla! Ma capisco dove vuole arrivare! Lei pensa che ho fatto diventare Orc per metà un serpente perché in precedenza avevo sognato l'uomo serpente!» «Non sto tentando di invalidare le tue esperienze. Ti sto semplicemente suggerendo alcune analogie. Sarai tu a fornire la loro interpretazione. Però, permettimi di farti notare che, pur avendo affermato di non provare nulla, hai reagito con molta rabbia. Per il momento, non approfondiremo ulteriormente quest'argomento. Pensaci sopra, e poi esponimi le tue conclusioni.» Jim si sporse in avanti, con le mani che stringevano spasmodicamente i braccioli della poltrona. Il cuore gli batteva molto più forte di un momento prima, e stava sudando copiosamente. Provava il fortissimo impulso di uscire da quell'ufficio. Immediatamente. «Mi stia a sentire, Doc!» disse in tono brusco. Ma anche lui riuscì a intuire che, sotto tutta quella durezza, c'era una nota di supplica. «I luoghi in cui mi sono recato come Orc, ciò che ho visto e ciò che fatto non sono parti della mia fantasia! È tutto vero, e non mi importa quante analogie esistano tra la mia vita sulla terra e quella negli universi dei Signori! Al diavolo, potrei trovare numerose analogie tra la mia vita e migliaia di vite di altri terrestri! Esiste una cosa chiamata coincidenza, e lei lo sa! Non importa quanto folli possano essere le mie fantasie, io so fare e conosco cose che nessuna fantasia avrebbe mai potuto insegnarmi! Per esempio, so parlare thoan! Vuole sentire qualche frase? «Samon-ka fath? Traduzione: Da qui, in quale luogo posso giungere? Orc-tam Orc man-kim. Yem tath Orc-tha. Traduzione: Un tempo, Orc era chiamato semplicemente Orc. Adesso, viene chiamato Orc il Rosso. Se vuole, le racconto in thoan un'intera storia. Potrei anche spiegarle la struttura grammaticale di quella lingua!
«E dove avrei imparato a ricavare dalla selce coltelli, punte di freccia e di lancia, raschietti, scalpelli, e la lista potrebbe continuare a lungo? Mi dia un pezzo di selce, e io ne ricaverò qualsiasi utensile sia possibile ricavare da un pezzo di pietra! Ma come potrei aver imparato, se non fossi stato davvero nella mente di Orc, e non avessi visto lui e Ijim lavorare la selce, per poi memorizzare il procedimento? «E poi ci sono i segni delle frustate ricevute da Orc! Sì, so di aver sofferto di stigmate, e so anche che forse di tratta di un fenomeno psicosomatico! Ma questa volta è stata soltanto la mia schiena a sanguinare! E c'erano anche i segni della frusta! Mi facevano un male d'inferno, erano fin troppo reali! Senza citare i sogni erotici notturni che ho imparato a controllare da Orc! Lei ha iniziato a controllare i sogni e le illusioni dei suoi pazienti, che non hanno assolutamente il realismo dei miei! Come ho imparato a farlo? Da solo? Impossibile! L'ho imparato da Orc! «Potrei continuare per un pezzo, ma penso che abbia già abbastanza elementi per chiedersi se non le stia dicendo la verità, non è così? Ma forse immagina che solo perché Orc ha tagliato le palle al padre io voglia fare lo stesso con il mio, vero?» Il dottor Porsena chiese, «E tu vorresti farlo?» «Sì, ci sono delle volte in cui sarei felice di averlo fatto! Ma, lo giuro, anche impazzito dalla rabbia come Orc, non avrei mai pensato di fare una cosa del genere. Forse l'avrei semplicemente appeso per le palle. Ma tagliargliele e mangiarle crude, per giunta! Non mi è mai passato per la mente! E allora, come è possibile, se Orc è solo frutto della mia fantasia, che faccia cose a cui io non ho mai pensato?» «Dimmelo tu.» «Oh, sicuro, è stato il mio inconscio!» «E...?» «E che altro? Oh, be', c'è la mia immaginazione. Secondo Mr. Lum, estrapola liberamente. Si basa su di una premessa, un fatto o un'idea e su di essi imbastisce una vicenda. Forse potrebbe avere ragione per quanto riguarda l'atto di cannibalismo. Ma non su tutti gli altri particolari. Non sulla mia capacità di parlare thoan e di lavorare la selce e, non l'ho detto prima, sulla mia conoscenza della biologia e della chimica, che non potrei avere a meno di non essere davvero entrato nella mente di Orc. Questo non può essere spiegato.» Fece uno sforzo per calmarsi.
«Mi ascolti, dottore! So come risolvere una volta per tutta la questione! Può usare su di me la macchina della verità: mi faccia delle domande, e vedrà se mento!» «Tu sei un mio paziente, non un criminale. E poi, se credi di essere realmente penetrato nell'universo di Orc, la macchina della verità indicherebbe che non stai mentendo. Ma io non sono un inquisitore, e non voglio metterti sulla graticola. Non mi occupo del fatto che le esperienze dei miei pazienti siano vere o false. Non mi importa se siano realmente avvenute oppure no. Per quel che riguarda la tua terapia, sono più che disposto ad ammettere che siano accadute. Qual è la rilevanza di queste esperienze per la terapia? Quale progresso o regresso possono provocare? Queste sono le uniche domande significative. Mi comprendi?» «Certo! Ma... non è importante, per la scienza, per tutti, sapere che potrebbero esistere altri mondi? Universi paralleli? E che almeno una persona, io, e forse tre, visto che anche Kickaha e Wolff sono stati là, li hanno visitati? Se ci sono riuscito io, se ci sono riusciti gli altri due, allora tutti dovrebbero essere interessati!» «Questo è vero, basandosi sulle tue premesse. Ma come ti ho già detto, in questo momento sono interessato soltanto ai progressi della tua terapia. E anche tu dovresti occuparti solo di questo problema. Ora, Jim, ho saputo che domani i tuoi genitori verranno a salutarti prima della loro partenza per il Texas. Tuo padre ha finalmente accettato di vederti. Quest'incontro è importantissimo, servirà a stabilire la tua reazione a un forte stress emotivo. Sarai a tal punto dominato dalla rabbia da aggredire tuo padre? Oppure eviterai di comportarti in maniera provocatoria? E quale sarà la tua reazione dopo l'incontro?» Discussero insieme sulle varie possibilità e su come Jim avrebbe potuto gestire la situazione. Lo psichiatra non prevedeva che Jim si sarebbe fatto travolgere dalla rabbia. Voleva che la rabbia di Jim, in qualunque forma avrebbe scelto di manifestarsi, lo facesse in maniera appropriata. «Come sai, poco dopo essere stato ricoverato qui, ho suggerito ai tuoi genitori di entrare in terapia,» disse il dottor Porsena. «Quando un paziente entra in terapia, dovrebbe farlo anche la sua famiglia. Loro hanno rifiutato. Mi hanno detto che non potevano permetterselo. Ma...» «Loro pensano che io sia l'unico pazzo in famiglia!» esplose Jim. «Credono di non aver bisogno di una terapia psichiatrica! Bah!» «Di conseguenza, sarai tu a dover gestire l'intera faccenda nel modo migliore.»
Il dottor Porsena lanciò un'occhiata all'orologio. «Solo un'altra domanda, Jim. Ti è già stata rivolta qualche tempo fa, ma voglio sentire la tua risposta in questo momento. Quale pensi che sia la caratteristica principale del carattere di Orc?» Jim, accigliandosi, sprofondò nella poltrona. Poi si raddrizzò. «La notte che ho fatto tutti quei viaggi... mi è sembrata quasi una vita. Direi che la cosa principale che ho imparato su Orc è questa: lui ha un mucchio di qualità: coraggio, resistenza, ingegnosità, e desiderio di apprendere. Fa tutto con passione. Sì, con passione! Ma questa passione non è vero amore. Non penso voglia bene a qualcuno, tranne la zia e la madre. E non sono sicuro che anche quell'affetto non sia in realtà lussuria. E la passione senza amore è mutile, se non dannosa. «Non male per un imbecille diciottenne di estrazione proletaria, eh?» «Non male,» ammise il dottore. «Ma non so se parlavi sul serio, quando ti sei definito un "imbecille." Però non abbiamo ancora finito di lavorare sulla tua autostima.» «C'è un' altra cosa,» disse Jim. «I Thoan. Dio mio! Vivono da migliaia di anni e, sotto molti aspetti, sono simili a dèi. Ma le loro menti sono ancora ossessionate dalla guerra, dalla conquista, dalla gelosia e dall'assassinio, senza citare un mucchio di altre brutte cose! In tutti i millenni che hanno vissuto, non sono progrediti per nulla dal punto di vista spirituale o emotivo. Sono statici, e non c'è speranza che mutino. Ma direi che è lo stesso per la maggior parte dei terrestri. Sono statici!» Lo psichiatra annuì. «Ti faccio notare un'altra cosa,» disse. «Orc deve essere ammirato per l'ingegnosità con cui supera gli ostacoli e le trappole che gli vengono tese. Tu puoi fare lo stesso. Sulla Terra esistono molte trappole, economiche, sociali, psicologiche. Tu, come Orc, puoi usare il tuo ingegno per schivare gli ostacoli e superare le trappole. «E non hai bisogno di diventare uno spento conformista, come ti ho già detto durante le precedenti sedute. Hai paura di diventare uno "normale," una parte del Sistema, se ti comporti seguendo un determinato codice etico o morale. Ma puoi essere un genuino individualista, senza per questo diventare un asociale.» «Sì,» disse Jim, con un tono di voce che rivelava come non ne fosse troppo convinto. «Tuttavia, ci sono delle cose che mi piacerebbe sapere. Il cervello fantasma, per esempio. Cos'era in realtà? Non credo che abbia molta importanza se si impossesserà della mente di Orc. Agirà come lui. In un certo senso, diventerà Orc. Almeno, è così che la penso. Solo che...»
«Sì?» «Be', prima che mi separassi da Orc per l'ultima volta, ero così disgustato che non ho prestato troppa attenzione a quel che stava facendo il cervello fantasma. Sembrava avanzare verso di me. Cioè, era diventato più vicino o più grosso, a seconda di come si voglia considerare la faccenda. In effetti, sembrava che mi avesse circondato, o che fosse sul punto di farlo. Era come una gigantesca e nera ameba pronta a inglobare e assimilare una cellula più piccola. Se non avessi abbandonato la mente di Orc in quel momento, non so cosa sarebbe successo. «Ci stavo riflettendo su l'altro giorno. Che ne dice di quest'idea? Mi ero sbagliato nel pensare che provenisse dalla sostanza azzurra che fluttuava nell'atmosfera di Anthema. Supponiamo - questo sì che la stupirà! - che il cervello fantasma non fosse qualche essere alieno che minacciava Orc. Voglio dire, e se si trattasse dell'ombra del cervello di Orc? E se, visto che ero convinto che il cervello di Orc stesse prendendo il sopravvento sul mio, ho semplicemente immaginato che fosse una sinistra ombra aliena? E se, invece, nel cervello di Orc non ci fosse stato alcun alieno, tranne me stesso? Forse una parte di Orc aveva percepito la mia presenza e si stava preparando ad assorbirmi? Orc non aveva alcuna consapevolezza della mia presenza nella sua mente. Ma, forse, è possibile che un meccanismo nel suo sistema nervoso mi stesse trattando come se fossi un nemico? «Se è davvero così, allora il mio timore che il parassita potesse impadronirsi della mente di Orc era assolutamente infondato. Ma avevo lo stesso una buona ragione per essere spaventato. Ero io quello sul punto di diventare una vittima, di essere posseduto, e meglio di essere inglobato! Solo che sarebbe stato Orc stesso a farlo!» «Un'eccellente ipotesi,» commentò lo psichiatra. «È probabile, assai probabile, direi che la tua spiegazione sia quella vera. Mi congratulo per la brillante soluzione che hai dato a questo problema.» «Grazie. Ma cosa significa? Non mi ha detto che la mia spiegazione era quella giusta.» «No,» ammise il dottore. «Ma è molto probabile che sia quella corretta. Se per te lo è, allora è così. Tu sei quello che ne sa di più sull'argomento.» Sorrise, e si alzò dalla poltrona. «Il tempo è scaduto, Jim, Arrivederci alla prossima seduta.» Accese l'intercom. «Winnie, per favore, faccia entrare Melton.» Con riluttanza, poiché aveva l'impressione che ci fosse ancora molto su cui discutere, Jim entrò in sala d'attesa, rivolse un cenno di saluto a Winnie
e uscì nel corridoio. Per il momento, era deserto. Da una delle sua estremità, attraverso una porta semiaperta, proveniva della musica. Quando Jim si avvicinò alla stanza di Sue Binker, riconobbe Einstein on the Beach di Philip Glass, un'opera pubblicata dalla Tornato Music, etichetta discografica a cui piaceva correre rischi pubblicando musica d'avanguardia. Mentre superava la porta, vi gettò un' occhiata attraverso. Vide il mantra di Sue Binker sulla parete. Era una croce ansata, l'antica ankh egiziana, formata dalle copertine del ciclo di Farmer. Una delle illustrazioni, tratta dall'edizione inglese di Un cosmo tutto per noi, attrasse il suo sguardo. Lo sfondo era un paesaggio assolutamente irreale, quasi fatato. In primo piano c'erano Kickaha, che stringeva il Corno di Shambarimem, e l'arpia creata in laboratorio, Podarge. Sembrava sul punto di attaccare Kickhaha o di scoparselo. Era difficile stabilire quale delle due alternative fosse quella esatta. Whoosh! Un suono subsonico. Jim fu scagliato attraverso l'ansa della croce. Essa si allargò per accoglierlo. Prima che potesse urlare, Jim si ritrovò nella mente di Orc. Alle sue spalle, o così sembrava, si udì un altro suono: quello di una porta di ferro che si chiudeva sbattendo. Jim comprese istantaneamente (senza sapere come) che il giovane Signore adesso era chiamato Orc il Rosso. L'aver ucciso molti Signori e leblabbiy gli avevano meritato quell'appellativo. Era in piedi sul bordo di un altopiano, avvolto in una lampeggiante luce cremisi che, proveniente dall'orizzonte, tingeva il cielo notturno. Orc era circondato da guerrieri, tutti leblabbiy, rivestiti in armature verdi ornate di penne rosse e con i volti completamente coperti di tatuaggi. Stavano sparando contro un'altra orda di guerrieri ai piedi dell'altopiano, usando lanciaraggi grandi quanto obici. I raggi violetti facevano esplodere la foresta, il suolo e gli uomini. Cadaveri e alberi enormi venivano scagliati attraverso dense nuvole di fumo nero macchiate di rosso. Che dei non-Signori stessero adoperando armi a energia tanto avanzate stava a significare che, nella guerra tra Orc e Los, entrambe le fazioni erano giunte alla disperazione. Mai, prima di allora, ai leblabbiy era stato permesso di usare armi del genere. Ci si era limitati a fornire loro armi tra le più primitive. I proiettori dei guerrieri ai piedi dell'altopiano (la fazione di Los) disintegravano enormi masse di roccia dal fianco del pendio, fa-
cendo precipitare con esse gruppi di guerrieri di Orc per centinaia di metri verso la morte. Orc il Rosso era molto preoccupato dalla luce rossa lampeggiante all'orizzonte. Pensava che potesse essere provocata da una qualche arma prethoan dimenticata da lungo tempo, che Los aveva trovato durante la lunga fuga per sfuggire al figlio. Orc, ora più che mai, rimpianse di non aver ucciso Los subito dopo averlo castrato. Mentre soccorreva la madre, Los era riuscito a fuggire. Attraverso il fumo, Orc vide la muraglia rossa, vendicativa come l'occhio irato di un dio, dirigersi a tutta velocità verso l'altopiano. In essa erano mescolate grandi nubi color arancione che al loro passaggio, almeno nei punti in cui Orc riusciva a vedere qualcosa, si lasciavano alle spalle enormi crateri (Jim pensò che avessero il diametro di quelli presenti sulla luna della Terra.) Avrebbero annientato i Signori alleati di Los e le loro truppe ausiliarie prima di raggiungere l'armata di Orc. Ma Los, che doveva trovarsi in un luogo ben oltre l'orizzonte da cui controllava quell'arma apocalittica, non si curava per nulla di questo. Se avesse dovuto spaccare quel pianeta a metà per uccidere il figlio, ne sarebbe stato lieto. Orc si voltò e corse verso una Porta che aveva preparato nel caso le cose volgessero al peggio. Non appena Orc il Rosso vi balzò attraverso, Jim riuscì a uscire dalla sua mente recitando l'incantesimo siberiano. Provò un dolore atroce, come se fosse stato attaccato a Orc mediante un cordone ombelicale, che adesso era stato reciso. Il dolore cessò in fretta. Jim udì altri due rumori che non erano rumori: un sibilo e uno schianto. Ebbe solo il tempo di sperare che era sul punto di rientrare nel proprio corpo. Non fu così. Ma, anche se era ritornato nella mente di Orc, si trovava in un altro luogo e in un'altra epoca. Quel mondo era appartenuto a Uveth il Vortice, una delle spietate figlie di Urizen e un'alleata di Orc nella lotta apocalittica tra Orc e il padre. Orc, dopo averla torturata con grande piacere, l'aveva uccisa. Questo accadeva molti anni dopo il momento in cui era fuggito dal pianeta che Los aveva distrutto. Era impegnato in un frenetico rapporto sessuale con la figlia, Vala, che portava il nome della zia. La propria estasi era tanto intensa che gli sembrava di avere i lombi avvolti da fuochi di seta. Intorno a lui, cantava un coro formato da voci troppo meravigliose per essere vere. Jim percepì il cervello fantasma, ma si stava muovendo molto lentamen-
te verso di lui. In seguito, pensò che si era mosso con tanta lentezza poiché ogni atomo di Orc era impegnato in quel coito delizioso. Jim fu anche avvolto da fili setosi e resistenti, ma compì lo sforzo mentale più violento della sua vita. Riuscì a liberarsi. Fu di nuovo nel corridoio dell'ospedale: stava completando il passo che aveva iniziato quando aveva lanciato l'occhiata in camera di Sue. Le sue due visite erano avvenute in circa mezzo secondo di tempo terrestre. Si fermò, ruotò su se stesso, chiudendo un occhio per evitare di vedere di nuovo il mantra di Sue e ritornò verso l'ufficio del dottor Porsena. Lo psichiatra era impegnato con Sandy Melton, ma gli aveva detto di andare subito da uno qualsiasi dei membri dell'equipe, nel caso avesse avuto dei flashback. Jim si era dichiarato d'accordo, ma nella sua mente si era preso gioco della possibilità di cedere alle sirene tentatrici dei mondi dei Signori. Tremando, sudando, con l'ansia covata nel suo animo come un uccellaccio nero avrebbe fatto con le sue uova, corse verso l'ufficio del dottor Tarchuna. Ora Jim credeva che esistesse davvero un inferno. Era nella mente di Orc il Rosso, nei mondi dei Signori. Ma là esisteva anche un paradiso: quei due concetti non potevano esistere separatamente. Jim non voleva avere a che fare con nessuno dei due. «Santa Madre di Dio!» urlò mentre tempestava di colpi la porta. «Aiutatemi! Aiutatemi!» CAPITOLO TRENTUNESIMO Il dottor Porsena sedeva nel suo ufficio, riflettendo sulla prossima seduta con Jim Grimson. Sarebbe stata l'ultima come paziente ospedalizzato. Quello stesso giorno, Jim avrebbe iniziato a vivere con i Wyzak. Essere ricoverati in ospedale era terribile; ma uscire da un ospedale spesso si rivelava altrettanto traumatico. Jim, in ogni caso, ora era molto più preparato, dal punto di vista emotivo e mentale, ad affrontare i problemi e le sofferenze del «mondo esterno,» rispetto alla notte in cui era stato portato in ospedale. Jim aveva corso il grave rischio di soccombere alle sue fantasie. Isolatosi da tutto, dopo aver cessato di reagire a qualsiasi stimolo esterno, non avrebbe fatto altro che vagare nel cervello di Orc il Rosso, ma non come Jim Grimson, che partecipava alla vita fisica e mentale del giovane Signore. Invece, sarebbe stato assorbito da Orc, come l'acqua da una spugna.
Della sua personalità non sarebbe rimasto nulla. Dopo il trauma subito, Jim era rimasto in ospedale per una settimana in più. Non era stato curato intensivamente fino a che, qualche giorno dopo, non si era calmato. Poi, quando Jim non era più stato sotto l'effetto della thorazina, il dottor Porsena aveva avuto con lui tutte le sedute private di cui il ragazzo aveva avuto bisogno. Né Jim, né lo psichiatra avevano dormito molto in quel periodo. Porsena, mentre curava Jim, non aveva trascurato gli altri pazienti. Nel frattempo, il Letterato Scarlatto era stato sorpreso mentre scriveva su una delle pareti, Quella volta, però, era stato troppo ambizioso. La parete si trovava nell'ufficio del dottor Porsena. Il colpevole era il paziente deforme, Junior Wunier, il che per Porsena non aveva costituito una sorpresa. Wunier aveva sempre avuto un atteggiamento di sfida. Anche se aveva promesso che non avrebbe più fatto una cosa del genere, Wunier era stato punito con la sospensione di alcuni dei suoi privilegi. Ma non se ne era crucciato molto. Per breve tempo, tutti i pazienti lo considerarono un eroe. I genitori di Jim non avevano, avuto la possibilità di venirlo a salutare il giorno previsto. Porsena non lo avrebbe permesso; dopo un simile trauma, Jim non era in grado di sopportare lo stress della loro visita. Lo psichiatra era stato piacevolmente sorpreso quando Eric ed Eva Grimson si erano detti disposti a rimandare la loro partenza per il Texas per poter parlare con il figlio. Ecco dunque a che punto era giunta la vicenda di Jim. E bisogna dire che Porsena era molto sorpreso da come si era svolta. Alcuni elementi nei racconti di Jim avevano incuriosito e turbato lo psichiatra. Era stato spinto a fare alcune ricerche su di essi, anche se si sentiva leggermente sciocco. Non l'aveva detto a Jim, né intendeva farlo per molto tempo. Forse non glielo avrebbe detto mai. I racconti delle avventure vissute da Jim avevano fatto squillare un campanello nella mente di Porsena, ma molto fievole, come se fluttuasse all'orizzonte su di un mare fatato. Per sciogliere ogni dubbio, aveva telefonato a una sua conoscente, la dottoressa Mary Brizzi, che non solo insegnava letteratura, ma era anche un'avida lettrice di science fiction e narrativa fantasy. Le aveva dato i nomi dei Signori e dei luoghi fornitigli da Jim e le aveva raccontato gli eventi vissuti da Jim. Non le aveva detto che era stato un suo paziente a comunicargli i nomi e a narrargli gli avvenimenti. «I nomi sono stati ricavati dalle Opere Didattiche e Simboliche di William Blake,» aveva detto Brizzi. «Ma alcuni di essi si trovano anche nel
ciclo di Farmer. In ogni caso, quest'ultimo descrive Signori che non compaiono nel libro di Blake. Suppongo che abbia fatto ricorso alla sua immaginazione creativa. Anche la descrizione fatta da Farmer dei rapporti familiari differisce da quella datane da Blake.» E, per certi aspetti, quella di Jim è diversa dalle altre due, aveva pensato Porsena. «La città di Blake, Golgonooza, e alcuni Signori, come Manathu Vorcyon, Ijim, e Zazel del Mondo-Caverna non sono menzionati nel ciclo di Farmer. Fino a questo momento, non ha mai scritto che Orc il Rosso fu trasformato in un uomo-serpente. Nell'opera di Blake, Orc il Rosso viene trasformato per qualche tempo in un serpente-centauro. Ma non da Los, suo padre. Controllerò, se vuole, ma se ricordo bene fu un altro Signore, Urizen, a farlo. Anche il particolare di Orc che essuda gioielli si trova in Blake. «Nell'ultimo libro del ciclo di Farmer c'è un interessante interludio. Kickaha vede in lontananza un vecchio vestito in maniera strana, che ovviamente non è un Signore. Penso che quell'uomo sia William Blake, e che la sua identità sarà rivelata nel prossimo romanzo, ammesso che venga davvero scritto. Ma come sia possibile che Blake, morto nel 1827, spunti vivo e vegeto negli universi tascabili dei Signori, questo non lo so. Forse Farmer lo spiegherà nel prossimo libro. Ma per quale motivo, se mi è consentito chiederglielo, nutre tanto interesse per questi due fabbricanti di miti, visto che lei è uno psichiatra?» «Compaiono in un saggio che sto scrivendo,» aveva risposto il dottor Porsena. «Se verrà pubblicato, gliene invierò una copia.» Dopo aver riattaccato, il dottore era rimasto seduto a lungo. Poi aveva detto a se stesso: partiamo dalla premessa che i mondi paralleli e gli universi artificiali esistano davvero. Supponiamo anche che Blake, in qualche modo, sia venuto a conoscenza di questa realtà. La teoria di Jim secondo cui Farmer aveva appreso della loro esistenza attraverso «comunicazioni» o «vibrazioni» psichiche che avevano attraversato le barriere tra i mondi poteva anche essere valida ammesso che lo fosse anche la premessa. Accettiamo per un momento che anche Blake abbia ricevuto immagini e nozioni attraverso queste falle nello spazio interdimensionale. Le stesse immagini avevano formato il materiale di base su cui Blake aveva composto le sue Opere Didattiche e Simboliche. Blake, riconosciuto da tutti come un genio, forse pazzo, aveva mescolato la sua conoscenza dei mondi thoan con elementi della teologia giudaico-
cristiana. Il risultato erano state le Opere: una fusione di verità e poesia, di misticismo e allegoria. Ma come aveva fatto Farmer, uno scrittore americano nato novantuno anni dopo la morte di Blake, ad avere accesso, come era capitato, a molti dei suoi dati? C'erano alcune somiglianze tra le vite di Blake, Farmer e Grimson. Tutti e tre avevano avuto vivide visioni o forti allucinazioni. Blake e Grimson le avevano avute in gioventù, Farmer da adulto. Quest'ultimo affermava di aver visto dei fantasmi in due occasioni, e di aver avuto due esperienze mistiche. Tutti e tre, quando si erano manifestati quei fenomeni, non erano stati sotto l'effetto di alcuna droga. Quella tenue connessione tra i tre significava qualcosa? Gli universi paralleli che tutti e tre sembravano in qualche modo aver «contattato» esistevano davvero? No, no, no! Lui, il dottor Porsena, non poteva accettare come valide le premesse né le conclusioni di quel ragionamento. La spiegazione più ragionevole era che Blake aveva composto i suoi poemi visionari senza l'aiuto di alcuna vibrazione psichica, o di falle interdimensionali. Farmer aveva basato parte del suo ciclo sulle opere di Blake. E Jim Grimson aveva letto almeno una parte dell'opera di Blake, anche se non ricordava di averlo fatto. Ma, dopo tutto, Jim aveva ammesso molte volte che spesso leggeva quando era drogato o ubriaco. Eppure... c'erano i segni delle frustate. Per nessuna ragione delle stigmate potevano produrre lacerazioni nella carne. C'era l'affermazione di Jim di saper lavorare alla perfezione la selce e di conoscere elementi di chimica avanzata. Ma questo lo si poteva accertare con facilità. Inoltre Jim aveva affermato di poter parlare fluentemente in thoan. Anche questo poteva essere controllato. Nessun diciottenne, affatto digiuno di linguistica, avrebbe potuto inventare un linguaggio coerente nella sintassi, nel lessico e nella pronuncia. E non avrebbe neppure potuto esprimersi come un vero Signore. Però, c'era un elemento inquietante. L'orecchio attento di Porsena aveva percepito che, pronunciando quelle frasi in thoan, Jim aveva pronunciato la «r» di Orc in maniera stranissima, assolutamente non inglese. A Porsena, era sembrata una «r» alla giapponese, sebbene notevolmente diversa anche da quella. E la «t», quando era seguita da una vocale, non era stata aspirata. Era cioè scomparsa la piccola emissione di fiato dopo la pronuncia della consonante. Quella non poteva essere la pronuncia di Jim.
Il dottore credeva che Jim non si stesse inventando nulla. Era evidente che credeva a ciò che raccontava. In ogni caso, la mente umana era capace di cose davvero molto strane e apparentemente impossibili. E uno psichiatra avrebbe dovuto saperlo meglio di tutti. Se avesse deciso di sottoporre Jim a dei test, avrebbe dovuti condurli con estrema discrezione. Non sarebbe stato un bene per la sua carriera di psichiatra professionista se i colleghi avessero pensato che prendeva sul serio le affermazioni di Jim. Ma anche se si fosse venuto a sapere che stava effettuando i test, Porsena avrebbe potuto dare una spiegazione più che convincente, magari che stava studiando su basi psicologiche le illusioni del paziente, la loro genesi e così via. Era un modo di procedere assolutamente corretto. Ma, per il momento, un simile progetto avrebbe dovuto essere accantonato. Adesso doveva concentrarsi sulla «guarigione» del paziente. Poi dall'intercom provenne la voce di Winnie. «Mister Grimson è qui, dottore.» «Va bene, lo faccia entrare, per favore.» Jim entrò e si sedette dopo aver salutato lo psichiatra. A una prima occhiata, aveva un'aria sana e tranquilla. I cerchi sotto gli occhi erano spariti. Sorrideva. Ma Porsena sapeva che Jim era in grado di simulare alla perfezione. D'altra parte, poteva anche non essere spaventato. Magari era ansioso di andare a vivere con i Wyzak e di condurre una vita quasi normale. In ogni caso, i suoi veri sentimenti sarebbero affiorati durante quella seduta. «Ancora non ci credo!» esclamò Jim. «Chi avrebbe mai sognato che mio padre improvvisamente si sarebbe pentito della maniera in cui mi ha trattato? Non avrei mai immaginato che si sarebbe gettato in ginocchio davanti a me, piangendo come un bambino e implorandomi di perdonarlo! Non riesco a credere che faccia sul serio! La prossima volta, sono sicuro che si comporterà come al solito, cioè da figlio di puttana! «E io sono stato sopraffatto dall'emozione! L'ho perdonato, e non fingevo! Ma ancora non sopporto molte caratteristiche del suo carattere!» «Non ho avuto in cura tuo padre, dunque conosco solo superficialmente il suo carattere e le sue motivazioni. Ma la mia esperienza e la mia conoscenza della casistica mi spingono ad affermare che simili e improvvisi cambiamenti comportamentali non sono rarissimi.» Porsena stava pensando che il rimorso e la richiesta di perdono di Eric avevano un parallelo nelle Opere di Blake. La dottoressa Brizzi gli aveva detto che Los ed Enitharmon si erano pentiti di aver trattato male il figlio.
Anche loro, come Eric, avevano fatto ammenda. Brizzi era stata molto confusa dalle domande rivoltele da Porsena su Orc che castrava il padre e ne mangiava i testicoli. «Non c'è nulla del genere in Blake, e neppure in Farmer. Dove ha trovato un riferimento come questo?» «Ha a che fare con una fantasia di uno dei miei pazienti,» aveva risposto lui. «Oh? Be', in ogni caso, i testicoli di Los sarebbero ricresciuti ben presto, stando a quel che Farmer dice sulla capacità biologiche dei Signori. Il suo paziente è interessato all'opera di Farmer o di Blake?» «In un certo senso, è proprio così» aveva risposto Porsena. «È tutto quello che posso dirle su di lui.» Gli era sembrato che le fantasie di castrazione e cannibalismo provenissero dal subconscio di Jim. Né Blake né Farmer ne erano i responsabili. E si trattava ovviamente di una coincidenza il fatto che sia i genitori di Orc sia quelli di Jim avessero chiesto perdono ai rispettivi figli. Il dottore disse, «Mi dispiace, Jim. Stavo pensando a qualcos'altro. Sei sempre deciso a vivere con i Wyzak? Non hai cambiato idea sulla proposta dei tuoi genitori di farti andare a vivere con loro, non appena avranno denaro sufficiente?» «Assolutamente no. Rimarrò qui, anche dopo aver completato la terapia. Mio padre può essere sincero, almeno per il momento, ma ho paura che dopo un po' le cose tornino ad andare nel vecchio e brutto modo. Qualche giorno, andrò a trovarli. Non adesso, e neppure tra poco.» Nella parte seguente della conversazione, Porsena illustrò a Jim le difficoltà e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare nel mondo esterno, dopo essere stato dimesso dall'ospedale. «Per te, Mrs. Wyzak potrebbe costituire un forte fattore stabilizzante. Da quel che mi hai raccontato, è una donna con un grande senso della disciplina. Tu hai bisogno di una persona come lei. Ma potrebbe considerarti come un figlio adottivo, che ha preso il posto di quello che le è morto. Magari ti tratterà con maggiore dolcezza di quanto avrebbe fatto con Sam. In altre parole, ti vizierà, perché avrà paura di perdere anche te. «C'è anche la possibilità che tu giunga a considerarla la tua vera madre. Devi stare molto attento a evitare un simile atteggiamento. Lei non è tua madre, che tu incolpavi di non proteggerti da tuo padre. Lei è Mrs. Wyzak, una donna generosa che sta per accoglierti nella sua casa. Ricordatelo sempre, e ritorna da me per informarmi di come stanno andando le cose.»
«Va bene,» promise Jim. «Ma credo di potercela fare.» Poi discussero la procedura di «separazione,» che era già iniziata. Jim usava la stessa tecnica adottata da molti altri pazienti. Man mano che la terapia andava avanti, avrebbe strappato la copertina del primo libro del ciclo di Farmer, poi ne avrebbe strappato le pagine fino all'ultima. Dopodiché, avrebbe continuato con il secondo libro, fino ad arrivare all'ultimo. Ma lui, rispetto agli altri pazienti, avrebbe fatto qualcosa in più: avrebbe passato le pagine dei libri in un tritadocumenti. Jim e lo psichiatra avevano stabilito che il giovane non avrebbe mai più letto qualsiasi libro del ciclo. Jim assicurò a Porsena che non doveva assolutamente preoccuparsi. Per lui, era già abbastanza duro guardare le copertine dei libri di Farmer, per paura di essere risucchiato di nuovo nella mente di Orc. «E poi non voglio più entrare in quel malvagio figlio di puttana!» esclamò Jim. Discussero anche dei vari metodi usati dai pazienti per entrare negli altri mondi. Molti di essi credevano che i mantra e gli incantesimi fossero strumenti magici. Quando stava per finire, una parte della terapia aveva lo scopo di convincerli che quei mezzi erano di natura psicologica, e non magica. «La magia non esiste,» spiegò Porsena. «Ma se il paziente vuole agire come se i metodi d'entrata siano magici, non lo scoraggiamo. Per noi va bene tutto, l'importante è che funzioni. Però non vogliamo che i pazienti, una volta in via di guarigione o perfettamente guariti, pensino che la magia esista davvero. Ma, per favore, non dirlo ai pazienti che non hanno ancora raggiunto il tuo stadio nella terapia.» Quando per Jim arrivò il momento di andar via, si alzò e strinse la mano del dottor Porsena. «Non la sto lasciando davvero, visto che la vedrò almeno un paio di volte alla settimana,» disse Jim. «Ma questo è lo stesso una specie di addio.» Si diresse verso la porta, poi, prima di aprirla, si voltò verso Porsena. «Nei mondi dei Signori, mi sono trovato di fronte a molti misteri. Ho risolto la maggior parte di essi o almeno sono riuscito a trovare una buona spiegazione. Ma non sono riuscito a svelare il Mistero.» «E quale sarebbe?» chiese Porsena. «Se tutti gli universi, tranne uno, quello originale, sono stati creati dai Signori, chi ha creato l'originale? E perché?» «Solo i giovani hanno a cuore questioni come l'origine del tutto e la sua
ragione. Quando sarai abbastanza vecchio da capire che a simili domande non c'è risposta, smetterai di portele.» «Spero di non diventare mai così vecchio,» replicò Jim. Porsena sorrise. Immaginò che, a Jim, quel sorriso ricordasse la Sfinge. Forse il giovane pensava che il dottore gli stesse celando la saggezza dietro il sorriso di una statua di pietra egiziana. Ed era proprio così. Sui Misteri supremi, Porsena ne sapeva quanto la Sfinge: vale a dire, nulla. Essi erano irrisolvibili, in questo e in tutti gli altri mondi. L'unica cosa che potesse fare un essere umano era di risolvere i «piccoli» misteri. E quelli erano già abbastanza grandi. POSTFAZIONE DI A. JAMES GIANNINI, M.D. I In un tipico pomeriggio inglese, altrimenti assolutamente normale, una bambina inglese, non proprio normale, chiamata Alice attraversò uno specchio. Dall'altra parte, trovò una terra fantastica in cui tutto era deformato. La sua capacità era insolita, poiché Alice poteva entrare in una fantasia creata da qualcun altro per poi ritornare nel mondo «reale.» Gli schizofrenici, come altri pscicotici, abitano i loro mondi illusori e hanno molte difficoltà a rientrare nel mondo reale, l'interfaccia comune condivisa da tutta l'umanità. Anche i bambini possono abitare in un mondo immaginario, celato agli adulti. Ma se essi hanno raramente problemi nello spostarsi tra i due piani, quello reale e quello fantastico, tuttavia non hanno la capacità di trasportare gli adulti nei loro mondi segreti. È l'assenza del dono di Alice che rende tanto difficile esercitare la professione di psichiatra. Ogni paziente affetto da illusioni è davvero il padrone assoluto del proprio universo. Esso è un'emanazione diretta dell'individuo che lo ha creato. Possiede presupposti propri, viene costruito sfruttando i ricordi della memoria individuale e opera in base a un proprio linguaggio simbolico. La comprensione di ciascuno di questi mondi dà al terapeuta la possibilità di scoprire il trauma che ne è alla radice e di modificarne i risultati. Sfortunatamente, il paziente conserva la capacità e la prerogativa di alterare la propria realtà in qualsiasi momento. Per alcuni, le alterazioni avvengono caoticamente, mentre per altri sembrano manifestar-
si ogni qual volta sia imminente un forte trauma. Il grande terapeuta inglese R. D. Laing sviluppò una scuola di pensiero per cui la psicosi di uno schizofrenico dovrebbe essere considerata come una realtà alternativa del tutto valida. Almeno negli stadi iniziali della terapia, questa teoria costituisce un utile modello. Tuttavia, nel tentativo di comprendere la psicosi del paziente, bisogna mettere in campo una grande quantità di risorse professionali. E molte volte, si tratta di un investimento inutile. Il paziente è l'unico a dominare lo schema delle proprie illusioni: ne controlla l'accesso, può alterarle in qualsiasi istante. La frustrazione causata da questo incoveniente, che limita pesantemente la possibilità d'intervento del terapeuta, ha spinto molti psichiatri a basarsi unicamente su una specifica classe di medicinali, i «neurolettici,» per ridurre e controllare le psicosi dei propri pazienti. Questa mi è sempre sembrata una soluzione parziale all'eterno problema di qualsiasi medico. La sola somministrazione di neurolettici riduce i sintomi, ma non elimina la causa del problema. E con la scomparsa dei sintomi, rischiamo anche di perdere la chiave interpretativa che potrebbe farci scoprire il danno emotivo che ha causato la psicosi. Alice fu capace di recarsi in un universo alternativo senza subire alcun danno. Ma si trattava di un universo in un certo qual modo stabile. Sebbene alcuni personaggi, come il figlio della Duchessa, potessero cambiare forma, nel complesso il mondo dietro lo specchio era stabile. E sono proprio la sua accessibilità e stabilità che lo rendono un' attraente alternativa alle separate e caotiche sub-realtà illusorie di ogni paziente, in cui è difficile entrare. Dunque, un perfetto strumento terapeutico sarebbe un mondo dotato di punti di riferimento fissi e di una porta che permetta a tutti di potervi entrare e uscire. Mentre il mio periodo di insegnamento alla Yale University era sul punto di terminare, incontrai molti pazienti i cui mondi per me erano chiusi. Le loro paure personali e le mie medicine neurolettiche sembravano fungere da sigilli gemelli, che mi separavano dai terribili traumi che li avevano costretti ad allontanarsi dalla realtà. Fu a Yale che decisi di usare romanzi di fantascienza o di fantasy come fonte di una realtà alternativa che io e i pazienti potessimo esplorare insieme. Provvidenzialmente, scoprii Fabbricanti di Universi, il ciclo di Philip José Farmer. Ebbi l'impressione che fosse lo strumento adatto per investigare e curare alcuni disturbi psichici. Le sue «Porte» fornivano il meccanismo di accesso. I suoi personaggi avrebbero deliziato uno psichiatra di
scuola junghiana: un'intera panoplia di archetipi, pronti per un' analisi retrospettiva. La varietà degli universi tascabili forniva una notevole quantità, per quanto fissa, di realtà multiple. Nei primi esperimenti con questo tipo di terapia, a molti pazienti con sintomi psicotici fu chiesto di leggere il ciclo. Poi la terapia si spostò dalla sorveglianza dell'attività dei pazienti alla discussione sui libri del ciclo. Gradualmente, queste discussioni divennero sempre più focalizzate, in modo che i pazienti potessero correlare le proprie esperienze con quelle dei personaggi del ciclo. Ogni qual volta si fosse manifestato dello stress emotivo tra una seduta e l'altra e il paziente avesse avuto un crollo nervoso, le sue percezioni psicotiche avrebbero gradualmente incorporato frammenti sempre più grandi del sistema del ciclo. Quando una forma adattata dell'universo creato da Farmer aveva rimpiazzato le forme di realtà alternativa altamente idiosincratiche, io avevo la possibilità di entrare nel cosmo privato di ciascun paziente. Alla fine, disponevo di uno strumento metaforico che mi permetteva di condurre il mio lavoro «sul campo.» Ero come un astronomo che, dopo aver osservato Marte attraverso una lente deformante, aveva finalmente la possibilità di calcare le sabbie rosse di quel pianeta. Una volta che io e il paziente ci eravamo incontrati in un mondo comune, la terapia procedeva rapidamente. In questa forma di terapia, notai che gli adolescenti e gli adulti più giovani ottenevano i risultati migliori. E quelli che amavano leggere erano i più rapidi nel rispondere positivamente. La terapia procedeva velocemente se quei giovani credevano di essere degli esclusi che appartenevano a un'altra epoca. Alcuni erano psicotici, altri erano assuefatti al loro mondo fantastico. Quando mi trasferii in Ohio, vi trovai una schiera di pazienti volonterosi (e di genitori ben disposti) che accettarono in fretta i presupposti di questo tipo di terapia. Poiché questi pazienti erano a loro agio nell'esprimersi in pubblico, fui in grado di utilizzare il potente strumento della terapia di gruppo per proiettare noi stessi in un modello di universo farmeriano. In una normale terapia di gruppo, ciò che viene discusso (il «contenuto») è meno importante dell'atto stesso della discussione (il «processo»). Dopo tutto, è il flusso d'acqua, piuttosto che la natura dell'acqua, che conferisce al fiume le sue caratteristiche specifiche. Poiché ogni paziente aveva una maniera unica di relazionarsi con gli universi dei Signori, la poca importanza del contenuto non costituiva un ostacolo. E visto che tutti i membri del gruppo adesso condividevano gli stessi archetipi e simboli di base, ogni
paziente poteva entrare in rapporto con tutti gli altri, intensificando il processo. Entrando in relazione gli uni con gli altri, i membri del gruppo erano capaci di risolvere i conflitti manifestatisi in precedenza e di rientrare gradualmente nel mondo reale. Usando il ciclo di Farmer come una casa a metà del cammino, si spostavano da una realtà privata a una condivisa per poi infine giungere a quella realtà che noi tutti abbiamo in comune. II Il tentativo di Farmer di ricreare la terapia basata sul suo ciclo coglie l'essenza del procedimento. Attualmente, la terapia è in continua evoluzione. È stata ripresa e interrotta numerose volte. Ogni sua manifestazione ha rappresentato uno stadio sempre più raffinato. Come fa notare il dottor Porsena, una figura che mi è stranamente familiare, il trucco consiste nell'assicurarsi che la terapia diventi un mezzo per entrare nella realtà, non il sostituto di essa. Generalmente, i nostri pazienti erano in grado di distinguere le loro illusioni dalla realtà; avevano semplicemente scelto di evitare la realtà. Purtroppo, questo tipo di terapia non è ancora applicabile a individui profondamente psicotici. Gli schizofrenici non sono i candidati ideali per sistemi terapeutici che utilizzino realtà in evoluzione. Leggendo la ricostruzione romanzata del processo di gruppo e delle reazioni individuali a esso, ho avuto l'impressione di stare osservando i miei gruppi di terapia. Anche se Philip José Farmer non ha mai assistito ad alcuna seduta di gruppo, è riuscito a ricostruirle con grande accuratezza. Sebbene tutti i protagonisti siano immaginari, sono sicuro che tutti i miei ex-pazienti e tutti coloro che hanno lavorato con me, leggendo questo libro, proverebbero un senso di familiarità. Futuri saggi scientifici analizzeranno minuziosamente questo tipo di terapia. Oso sperare che i miei colleghi tenteranno di replicare i metodi e i risultati di questo approccio. I saggi scientifici, sebbene siano una parte necessaria per la trasmissione della conoscenza, mancano della gestalt dell'esplorazione: la sperimentazione, l'analisi, le tecniche terapeutiche. Questo romanzo, in tutti i casi, sebbene assai parco di dettagli scientifici, riproduce fedelmente il carattere intenso e concreto della ricerca scientifica. Dalle pagine di La Rabbia di Orc il Rosso traspare ciò che di «intuitivo» è compreso in un trattamento psicoterapeutico. Leggendolo, possiamo condividere concretamente il ritorno di Jim alla realtà, mentre assume il controllo della propria vita.
III Alice imparò a correre due volte più in fretta e così divenne una regina. Allora fu in grado di camminare lungo il lato inferiore dello specchio e di ritornare in Inghilterra. FINE