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RtiflàelloCortillttEditore M l N l M A
critto subito dopo la disf~ lta della Gt·rnwni" ndl<1 sccond<1 guerra mondidle. questo saggio è al tempo stc~so un(l breve, dcn~a tral1~1:t.iouc dahonua da uno dci massimi filosofi del ;\ovecento intorno al COIKCllo di '\'(>1() fu doc•ute di ps;cologia saLo c per il futut·o~ attraverso ]a c poi di filosofia all'uuive1silà di di He;delbt=rg. E~oiH~Ialo dall'inscgnamenlo md 1937 pe1 Norimberga. La ('•f..md izionc della il suo matrimonio cou G~ rtrud colpa ted('SG:t diventa al1on:10<.\.<1 r\+1a~·cr, di oriçjine ebraicél.l'anno sionc:\ tragica e dolorosissima. per succt!ssivo dovette sospemlere ogni pubblicazione. Ne\1945 ri flt·t l t.'Ti.' ::;u lla con di'lione umatM> riebbe 111 cancdra, ma ncl l 948 che per jaspers >O lo di li·onle alhr St trasferi all'un1versit~ di Basilea, trascendenza comprende appieno citt
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é Qià stato pubbl cato Il madtco nell'era della tecnica.
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Karl Jaspers
La questione della colpa Sulla responsabilità politica della Germania
Raf/àelloCortinaEditore
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Titolo originale
Die Schuldfrage © 1965 R. Piper & Co., Miinchen Traduzione di Andrea Pinotti Copertina FG Confalonieri CReE
ISBN 88-7078-418-5 © 1996 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 1966
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Indice
Prefazione (Umberto Galimberti)
VII
Premessa
l
Introduzione alla serie di lezioni sulla situazione spirituale della Germania
3
La questione della colpa
15
A. Schema delle distinzioni l. Quattro concetti di colpa 2. Le conseguenze della colpa 3. La forza. Il diritto. La grazia 4. Chi giudica, e chi o che cosa viene giudicato? 5. La difesa
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B. Le questioni tedesche I. La differenziazione della colpa tedesca 1. I dditti 2. La colpa politica 3. La colpa morale 4. La colpa metafisica
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VI
INDICE
5. Ricapitolazione a) Le conseguenze della colpa b) La colpa collettiva
Il. Le possibilità della discolpa l. nterrorismo 2. La colpa e il contesto storico 3. La colpa degli altri 4. Colpa di tutti? III. La nostra purifìcazione l. I tentativi di evitare la purifìcazione 2. La via della purifìcazione Postfazione del1962 al mio scritto "La questione della colpa"
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Prefazione
La colpa metafisica Umberto Galimberti
Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa. K. JASPERS
Nel1937, a seguito dell'ingiunzione del governo nazista che obbligava i professori con moglie ebrea a divorziare o abbandonare l'università, KarlJaspers, che nel1910 aveva sposato Gertrud Mayer, a cui era legato da vivissimi sentimenti e a cui aveva dedicato tutte le sue opere, abbandonò l'università e la Germania per riparare a Basilea, in Svizzera, dove gli era stato offerto un incarico di insegnamento. Tornò in Germania otto anni dopo e, all'università di Heidelberg, a cui il Comando americano aveva concesso nell'autunno del1945 di riprendere l'attività, tenne nel semestre estivo del1946 una serie di lezioni che avevano come oggetto "la questione della colpa", e il loro centro in quella sentenza che non concede margini di innocenza perché suona così: "che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa".
1. Le figure della colpa. Ma di che colpa parla J aspers? Quattro, a suo parere, sono i modi di concewww.scribd.com/Baruch_2013
VIII
LA QUESTIONE DELLA COLPA
pire la colpa. Colpa gz"uridz"ca che si riferisce a quelle azioni che trasgrediscono la legge e che possono essere provate oggettivamente. La competenza è del tribunale e l'imputazione riguarda i singoli individui. Colpa politica che si riferisce alle azioni degli uomini di Stato e coinvolge quanti appartengono a quello Stato perché, scrive Jaspers, "ciascuno porta una parte di responsabilità riguardo al modo come viene governato". La democrazia, infatti, ci rende responsabili e quindi negli errori, colpevoli. Colpa morale. È questa una colpa individuale rilevabile al tribunale della propria coscienza "a cui non si può chiedere un trattamento amichevole". Qui la giustificazione, che può avere una sua plausibilità nel mondo giuridico dove può trovare accoglienza il principio secondo cui: "gli ordini sono ordini", per Jaspers non ha valore sul piano morale perché, di fronte· alla propria coscienza, "i delitti rimangono delitti anche se vengono ordinati". Colpa metafisica. Questa colpa investe qualsiasi uomo. che tollera ingiustizie e malvagità che possono essere inflitte a un proprio simile e non fa nulla per impedirlo. Questa colpa ha per oggetto l'infrazione del principz'o della solidarietà tra gli uomini, offesa la quale viene messa a rischio quella base di appartenenza al genere umano che poggia sul riconoscimento di se stessi nell'altro. A questo livello, scrive Jaspers, il modo di sentirsi colpevole non può essere compreso da un punto di vista giuridico, politico, morale, ma il fatto che uno sia ancora in vita, dopo che sono accadute cose sul genere delle atrocità naziste, costituisce per lui una colpa incancellabile, perché, pur di salvare la propria "vita", ha rinunciato alla "vita degna" che,
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IX
PREFAZIONE
nel caso dell'uomo, vuole che si viva insieme o non si viva affatto". 2. La colpa metafisica come aggettivazione dell'uomo. Qui J aspers fa riferimento a quella matrice sentimentale che unisce gli uomini prima dei loro accordi razionali e delle loro intese politiche, giuridiche e persino morali. Occorre però assumere la parola "sentimento" in senso forte e cogliere in essa quella cheJaspers definisce "solidarietà incondizionata che ciascuno conosce per averla almeno una volta vissuta nell'ambito di una particolare unione nella vita", per cui il dolore dell'altro è il mio dolore, il suo patire la mia passione. Questa matrice sentimentale che consente agli uomini di riconoscersi come appartenenti allo stesso genere, è la medesima matrice pre-giuridica e pre-politica che aveva fatto dire a Kant "l'uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo" .1 Nessuna norma giuridica, infatti, così come nessun accordo politico, nessuna legge morale sono in grado di trovare un minimo di fondazione e un residuo di plausibilità se l'uomo tratta il proprio simile non come uomo, ma come cosa, non in riferimento alla sua soggettività, ma in modo oggettivo come si trattano le cose. In questo caso, infatti, la natura umana viene negata nel suo tratto specifico e allora non c'è diritto, non c'è politica, non c'è moralità che possa costituirsi. Ma il nazismo ha significato proprio questo: la riduzione dell'uomo a cosa, per cui è possibile dire l. l KANT, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785), tr. it. Fon· dazione della metafisica dei costumi, Rusconi, Milano 1994, p. 155.
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x
LA QUESTIONE DELLA COLPA
che l'elemento "tragico" del nazismo non risiede tanto nella sua ferocia e nella sua crudeltà, che la storia su scale diverse ha sempre registrato, ma nell'aggettivazione dell'uomo, nella sua riduzione allo statuto della cosa. Questa è la colpa metafisica. Una colpa da cui non è possibile riscattarsi, perché ciò che il nazismo ha inaugurato, l' oggettivazione dell'uomo, è la forma che l'umanità ha via via assunto sotto il regime della tecnica che proprio nell' organizzazione nazista ha trovato il suo primo abbozzo. 3. Il nazismo come prova generale dell'apparato tecnico. In una delle settanta interviste che Gitta Sereny fece a Franz Stangl, direttore generale del campo di sterminio di Treblinka, si legge: "Quanta gente arrivava con un convoglio?", chiesi a Stangl. "Di solito circa cinquemila. Qualche volta di più". "Ha mai parlato con qualcuna delle persone che arrivavano.";!" .. "Parlato? No ... generalmente lavoravo nel mio ufficio fino alle undici - c'era molto lavoro d'ufficio. Poi facevo un altro giro partendo dal Totenlager. A quell'ora, lì erano già un bel pezzo avanti con il lavoro (voleva dire che a quell'ora le cinque o seimila persone arrivate quella mattina erano già morte: il "lavoro" era la sistemazione dei corpi, che richiedeva quasi tutto il giorno e che spesso proseguiva anche durante la notte). [. .. ]Oh, la mattina a quell'ora tutto era per lo più finito, nel campo inferiore. Normalmente un convoglio teneva impegnati per due o tre ore. A mezzogiorno pranzavo ... Poi un altro giro e altro lavoro in ufficio". [. ..] "Ma lei non poteva cambiare tutto questo?", chiesi io. "Nella sua posizione, non poteva far cessare quella
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XI
PREFAZIONE
nudità, quelle frustate, quegli orrendi orrori dei recinti da bestiame?". "No, no, no ... ll lavoro di uccidere con il gas e bruciare cinque e in alcuni campi fino a ventimila persone in ventiquattro ore esige il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arrivavano e, tempo due ore, erano già morti. Questo era il sistema. L'aveva escogitato Wirth. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile" .2
È questo un esempio di pensiero manageriale dove Treblinka non è dissimile da un complesso industriale su vasta scala e dove il personaggio chiamato Stangl non è dissimile da un qualsiasi direttore generale che opera in base a quel solo criterio: l'efficienza, che l'apparato tecnico assume come unico e assoluto valore, mettendo in ombra lo scopo delle azioni, la loro direzione, illpro senso, per attestarsi sul principio della pura funzionalità priva di riferimento. Celandosi dietro la maschera dell'efficienza, il potere ottiene l'ubbidienza dei subordinati inducendo in loro da un lato un pensiero a breve scadenza, per cui non si guarda più intorno e in avanti e a lungo termine sui valori di fondo della vita con conseguente atrofizzazione dei sentimenti, e dall'altra quella diffusa insensatezza per cui i "fini" raggiunti diventano "mezzi" per fini ulteriori, dove, come dice}aspers, il semplice "fare" trova la sua giustificazione indipendentemente da ciò che si fa. 3 2. G. SERENY, Into that Darkness (1983), tr. it. In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1975, pp. 169-170, 198-199. 3. Sul senso del "fare" si veda K. JASPERS, Die Atombombe und die Zukun/t des Menschen (1958), tr. it. La bomba atomica e il destino dell'uomo, Il Saggiatore, Milano 1960, pp. 541-560.
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XII
LA QUESTIONE DELLA COLPA
4. Dal totalitariSmo politico al totalitarismo tecnico. Focalizzando il problema della colpa sulla sua valenza "metafisica", che si registra ogni volta che l'uomo non è più trattato come un "fine", ma come un "mezzo" per il conseguimento di altri fini, Jaspers lascia intendere che lo schema inaugurato dal nazismo può ripresentarsi, e di fatto si ripresenta, ogni volta che la struttura di un apparato esig_e lariduzione dell'uomo allo statuto della "cosa". E il caso, ad esempio, della sperimentazione nucleare a cui J aspers ha dedicato un libro importante: La bomba atomica e il destino dell'uomo, dove lo scenario del totalitarismo tecnico appare come il succedaneo del totalitarismo politico. Che senso ha, infatti, parlare di "sperimentazione" là dove il laboratorio è diventato coestensivo al mondo, coinvolgendo nella "sperimentazione" aria, acqua, terra, flora, fauna e l'intera umanità con conseguenze irreversibili sulla realtà geografica e quindi storica? E soprattutto che senso ha migliorare i dispositivi di distruzione quando quelli attuali sono già sufficienti alla distruzione totale? L'imperativo della tecnica che chiede la maggiorazione e il miglioramento di ogni prodotto ha ancora senso a proposito della bomba atomica dove il minimo dei suoi effetti sarebbe più grande di qualsiasi scopo politico e militare? Quando l'effetto è la distruzione totale, esiste ancora la possibilità di un comparativo, di una maggioranza, di un miglioramento? Si può esse "più morti" dei morti? Con la sperimentazione atomica, l'apparato tecnico ripropone il problema della "colpa metafisica" perché anche le potenziali vittime, per quanto innocenti, diventano colpevoli se non aprono gli occhi a www.scribd.com/Baruch_2013
XIII
PREFAZIONE
coloro che non vedono ancora. La "colpa metafisica" infatti non sta nel passato, ma nel presente e nel futuro, e se nella sua edizione politica il totalitarismo, almeno in Europa, sembra abbia scarse possibilità di ripresentarsi, nella sua edizione tecnica si è già ripresentato in quella forma che. consente a Giinther Anders di definire noi tutti, uomini d'oggi, "figli di Eichmann", non di Hitler, simbolo dell'espressione "politica" del totalitarismo, ma proprio di Eichmann, il burocrate, che, come funzionario di un apparato, più o meno come oggi noi tutti siamo nel regime della tecnica, compiva dal ridotto della sua scrivania azioni dagli effetti che oltrepassano l'immaginazione di cui può essere capace un uomo. In Noi figli di Eichmann, 4 Giinther Anders coglie l'essenza del "mostruoso" nella discrepanza (Ge/iille) che, allora come ora, esiste tra l'azione che uno compie all'interno di un apparato e l'impossibilità per lui di percepire le conseguenze ultime delle sue azioni. Allora furono sterminati in modo industriale sei milioni di ebrei e zingari da parte di persone che accettarono questo lavoro come qualsiasi altro lavoro adducendo a giustificazione la pura e semplice ubbidienza agli ordini e la fedeltà all' organizzazione. Per questo nei processi contro "i crimini verso l'umanità" gli accusati si sentivano "offesi", "sgomenti" e qualche volta, come Eichmann, "sdegnati", non perché si trattava di esseri privi di coscienza morale, aberranti psicopatici, o persone ormai disumanizzate, come più volte si è sentito ripetere, ma perché applicavano il principio 4. G. ANDERS, Wir Eichmannsohne (1964), tr. it. Noi figli di Eichmann, La Giuntina, Firenze 1995.
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XIV
LA QUESTIONE DELLA COLPA
da loro inaugurato e oggi diventato mentalità aziendale, secondo cui essi avevano soltanto collaborato. Se prima di indignarci di fronte a una simile difesa riflettessimo sul fatto che gli autori di quei crimini, o per lo meno molti di loro senza i quali l'ente di gestione criminale non avrebbe potuto funzionare, non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i loro crimini molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell'esercizio del loro lavoro, e come ciascuno di noi è invitato a comportarsi quando inizia il suo lavoro in un apparato, allora comprenderemmo perché siamo tutti "figli di Eichmann".
5. La colpa metafisica nell'età della tecnica. La divisione del lavoro che vigeva nell'apparato di sterminio di Treblinka e che oggi vige in ogni struttura aziendale fa sì che all'interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l'operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente, non ha più niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli è tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l'esito ultimo a cui porterà la sua azione. In questo modo l'operatore non solo diventa irresponsabile, ma addirittura gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perché la sua competenza è limitata alla buopa esecuzione di un compito circoscritto indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti circoscritti previsti dall'apparato, la sua azione approdi a una produzione di armi o a una fornitura alimentare. Limitando l'agire a quello che nella cultura tecnologica si chiama button pushing (premere il bot-
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xv
PREFAZIONE
tone), la tecnica sottrae all'etica il principio della responsabilità personale, che era poi il terreno su cui tutte le etiche tradizionali erano cresciute. E questo perché chi preme il bottone lo preme all'interno di un apparato dove le azioni sono a tal punto integrate e reciprocamente condizionate che è difficile stabilire se chi compie un gesto è attivo o viene a sua volta azionato. In questo modo il singolo operatore è responsabile solo della modalità del suo lavoro, non della sua finalità, e con questa riduzione della sua competenza etica si sopprimono in lui le condizioni dell'agire, per cui anche l'addetto al campo di sterminio con difficoltà potrà dire di aver "agito", ma, per quanto orrendo ciò possa sembrare, potrà dire di sé che ha soltanto "lavorato". E questo vale ancora oggi sia per chi lavora nelle grandi fabbriche d'armi, sia nei centri studio per la sperimentazione delle armi nucleari, sia nelle modeste fabbriche di mine antiuomo che per anni e anni continueranno a esplodere. La mostruosità che l'apparato nazista ha inaugurato, e che poi è diventato il paradigma di ogni produzione aziendale, è la discrepanza tra la nostra capacità di produzione che è illimitata e la nostra capacità di immaginazione che è limitata per natura, e comunque tale da non consentirci più di comprendere e al limite di considerare "nostri" gli effetti che l'inarrestabile progresso tecnico è in grado di provocare. Quel che si è detto per l'immaginazione vale anche per la percezione. Quanto più si complica l' apparato in cui siamo incorporati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto meno vediamo, e più ridotta si fa la nostra possibilità di comprendere i
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XVI
LA QUESTIONE DELLA COLPA
procedimenti di cui noi siamo parti e condizioni. Questo scarto tra produzione tecnica da un lato e immaginazione e percezione umana dall'altro rende il nostro sentimento inadeguato riSpetto alle nostre azioni che, al servizio della tecnica, producono qualcosa di così smisurato da rendere il nostro sentimento incapace di reagire. Il troppo grande ci lascia freddi perché il nostro meccanismo di reazione si arresta appena supera una certa grandezza e allora, da analfabeti emotivi, assistiamo oggi a milioni di trucidati nelle guerre locali sparse per il mondo, a milioni di inermi che ogni anno muoiono di stenti e malattie, come un giorno ai sei milioni di ebrei e zingari sterminati nei lager: "e poiché vige questa legge infernale - scrive Giinther Anders - ora il 'mostruoso' ha via libera" .5 Il richiamo jaspersiano al tratto meta/ìsico e non storico della colpa è essenziale per ricordare che se ci siamo liberati del nazismo come evento storico, ancora non ci siamo liberati da ciò che ha reso possibile il nazismo, e precisamente quell'indifferenza di fronte al mostruoso che nasce dalla discrepanza tra ciò che possiamo produrre con la tecnica e ciò di cui possiamo sentirei responsabili ogni volta che "irresponsabilmente" lavoriamo in un apparato che ci esonera dal farci carico degli scopi finali per cui l'apparato è stato costruito.
6. La colpa metafisica come nichili'smo passivo. In un contesto come quello appena descritto può generarsi quel "nichilismo passivo" che Nietzsche descrive "come declino e regresso della potenza dello 5. lbid., p. 34.
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XVII
PREFAZIONE
spmto, come segno di debolezza: l'energia dello spirito può essere stanca, esaurita, in modo che i fini sinora perseguiti non trovano più credito" .6 Tra il discredito dei fini e il potenziale distruttivo della tecnica esiste quel nesso di reciproco sostegno che genera il nichilismo passivo come rassegnazione. Se infatti l'uomo ha il sospetto di vivere senza scopo, allora il potenziale nientifìcante della tecnica ne è una conferma. E se dal punto di vista di questo potenziale l'uomo non vale nulla, per chi non si accontenta della vita ma, come dice Jaspers in queste sue lezioni sulla colpa, ne pretende anche una "degna", il potenziale distruttivo della tecnica non può peggiorare la situazione. Questo ragionamento, che vive della reversibilità della causa e dell'effetto, della premessa e della conseguenza, è il maggior responsabile di quel "nichilismo passivo" da cui la gran massa tende inutilmente a difendersi andando alla ricerca, come scrive Nietzsche, di "tutto ciò che ristora, guarisce, tranquillizza, stordisce" .7 Si conferma così che né la cultura né la gran massa sono all'altezza dell'evento tecnico e, pur ruotando intorno all'asse del nulla, la loro percezione, la loro immaginazione, la loro sensibilità sono, forse per la prima volta nella storia, inadeguate a quanto sta accadendo, perché la rapidità e la potenza dello sviluppo tecnico ottundono la possibilità previsionale. Nata sotto il segno dell'anticipazione - di cui Prometeo: "colui che vede in anticipo (pro-métis)" è il simbolo-, la tecnica ha finito con il sottrarre al6. F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente 1887-1888, tr. it. Frammenti postumi 1887-1888, Addphi, Milano 1971, § 9 (35), p. 13. 7. Ibid.
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XVIII
LA QUESTIONE DELLA COLPA
l'uomo ogni possibilità anticipatrice e, privandolo della previsionalità, l'ha reso "cieco" e "distratto" nel mondo da essa generato. 7. Non si è ancora /atto sera. La tecnica che il Terzo Reich ha avviato su vasta scala non ha ancora raggiunto i confini del mondo, non è ancora tecnototalitaria. Questo, naturalmente non ci deve consolare e soprattutto non ci deve far considerare il regno (Reich) che ci sta dietro come qualcosa di unico e di erratico, come qualcosa di atipico per la nostra epoca o per il nostro mondo occidentale, perché l'operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacuna, con conseguente irresponsabilità individuale, ha preso ·le mosse da lì. Non riconoscerlo significa, come scrive Giinther Anders, non rendersi conto che "l'orrore del regno che viene supererà di gran lunga quello di ieri che, al confronto, apparirà soltanto come un teatro sperimentale di provincia, una prova generale del totalitarismo agghindato da stupida ideologia" .8 Ma per questo è necessario portare il sentimento umano all'altezza dell'evento tecnico, è necessario quello che lo psicopatologoJaspers chiama "autoriflessione" come presa di coscienza del significato dell'accadere, 9 che, ben lungi dall'essere sufficiente, evita almeno all'uomo che la tecnica, come a suo tempo il nazismo, accada a sua insaputa e, da condizione dell'esistenza umana, si traduca in causa della 8. G. ANDERS, Noi figli di Eichmann, cit., p. 66. 9. "Chiamiamo semplice accadere ciò che avviene senza coscienza del significato e autorif/essione l'esperienza dell'accadere in cui se ne sperimenta il significato", K. ]ASPERS, Allgemeine Psychopathologie (1913-1959), tr. it. Psicopatologia generale, ll Pensiero Scientifico, Roma 1964.
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XIX
PREFAZIONE
sua estinzione. Con ciò non pensiamo ancora alla soppressione "fisica" dell'uomo, ma conJaspers, alla soppressione della sua cultura, della sua morale, della sua storia. Occorre infatti evitare che l'età della tecnica segni quel punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più "che cosa facciamo noi della tecnica", ma "che cosa la tecnica può fare di noi". Rispetto a questa eventualità, non rimuovere il tratto "metafisico" della colpa significa mantenere qualche chance per il proseguimento della storia, dove l'uomo sia ancora riconoscibile nei tratti in cui finora l'abbiamo conosciuto.
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Premessa
Di una serie di lezioni sulla situazione spiritmùe della Germania, che ebbe luogo nel semestre invernale 1945-1946, viene qui pubblicato il contenuto di quelle che trattavano la questione della colpa. Con queste discussioni vorrei, come tedesco fra tedeschi, promuovere chiarezza e unanimità; e, come uomo fra uomini, prender parte al nostro sforzo per raggiungere la verità. Heidelberg, aprile 1946
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Introduzione alla serie di lezioni sulla situazione spirituale della Germania
Noi in Germania dobbiamo orientarci spiritualmente gli uni con gli altri. Noi non abbiamo ancora un terreno comune d'intesa. Noi cerchiamo di incontrarci. Quello che in questa conferenza io vi dico si è venuto maturando attraverso le conversazioni che noi tutti abbiamo occasione di tenere con gli altri, ciascuno nella sua propria cerchia. Ciascuno deve assimilare a suo modo i pensieri che io gli espongo qui. Non bisogna accettarli senz' altro come validi, ma bisogna ben ponderarli. D'altra parte, non ci si deve neppure limitare a contraddirli, ma si deve cercare di tenerli presenti nella propria mente e di verifìcarli. Noi vogliamo imparare a discutere gli uni con gli altri. Questo vuol dire che non vogliamo soltanto ripetere le nostre opinioni, ma stare a sentire che cosa ne possa pensare un altro. Non vogliamo soltanto difendere delle posizioni, ma vogliamo rifletterei su nel loro contesto generale, tenerci pronti ad accogliere nuove convinzioni. Noi desideriamo porci, come per prova, anche dal punto di vista degli altri.
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KARL JASPERS
Anzi noi vogliamo addirittura cercare chi ci contraddice. Cogliere quanto c'è di comune tra la nostra tesi e quella di chi ci contraddice, importa più che fissare affrettatamente punti di vista esclusivi con i quali si conclude come inutile la conversazione. È così facile difendere appassionatamente dei giudizi decisi; difficile è invece riflettere serenamente. È facile interrompere la comunicazione con asserzioni arroganti; difficile è invece penetrare al fondo della verità instancabilmente, al di là di ogni asserzione. È facile farsi un'opinione qualsiasi e irrigidirsi in essa, per risparmiarsi la fatica di rifletterei ancora; difficile è invece avanzare passo passo, e non rifiutarsi mai di investigare ancora. Dobbiamo ristabilire la disponibilità alla riflessione. A questo scopo non dobbiamo inebriarci con sentimenti di superbia, di disperazione, di ribellione, di ostinazione, di vendetta o di disprezzo. È invece necessario che questi sentimenti vengano accantonati, perché si possa guardare alla realtà. Ma, a proposito di questo discutere insieme, vale anche il contrario: è facile pensare senza mai compromettersi e impegnarsi; ma è difficile prendere la decisione vera, quando il nostro pensiero è aperto a tutte le possibilità e se ne rende conto chiaramente. È facile evitare ogni responsabilità a furia di bei discorsi; è difficile mantenere la propria decisione ma senza testardaggine. È facile arrendersi alla minima resistenza, secondo la situazione; è difficile, una volta presa una decisione incondizionata, tenere il cammino prescelto nonostante la volubilità e l'elasticità del pensiero. Quando noi riusciamo veramente a parlarci l'uno
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LA QUESTIONE DELLA COLPA
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con l'altro ci muoviamo appunto nel dominio delle origini. A tal fine deve rimanere in noi sempre qualche cosa che ci faccia avere fiducia negli altri e ci faccia meritare la fiducia degli altri. Allora soltanto si rende possibile, nel dialogo, quella quiete nella quale si ascolta e si sente in comune quello che è vero. Per tutto questo vogliamo evitare di irritarci gli uni contro gli altri. Cerchiamo invece di trovare insieme la via. La passione testimonia a sfavore della verità di chi parla. Non vogliamo percuoterei pateticamente il petto in segno di innocenza, per poter offendere gli altri. Né vogliamo, tutti soddisfatti di noi, mettere in risalto ciò che non ha altro scopo che di ferire gli altri. Ma non debbono sussistere limitazioni, che derivino da una riguardosa ris_ervatezza. Né bisogna tacere per mitezza d'animo o illudere per consolare. Non c'è alcuna domanda che non debba esser posta, alcuna cara vecchia ovvietà, alcun sentimento, alcuna menzogna vitale che dobbiamo salvaguardare. Ma a maggior ragione poi non ci si deve permettere di colpirci sfrontatamente sul viso con giudizi provocatori, privi di fondamento e formulati alla leggera. Noi apparteniamo gli uni agli altri; dobbiamo sentire la nostra situazione comune, quando discutiamo insieme. In un parlare di tal genere nessuno è giudice dell' altro. Ciascuno di noi è nello stesso tempo accusato e giudice. Per tutti questi anni non abbiamo sentito altro che diffamare altri uomini. Ma noi non vogliamo continuare a fare lo stesso. Ma ciò riesce sempre solo in parte. Tutti siamo portati a giustificarci e ad attaccare con accuse le forze che sentiamo come nemiche. Per questo oggi
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KARL JASPERS
dobbiamo metterei alla prova come non mai. Bisogna considerare che, nel corso degli eventi, chi sopravvive sembra aver sempre ragione. TI successo sembra dare ragione. Chi è in auge crede di essere dalla parte della verità e della causa giusta. Da ciò deriva la profonda ingiustizia di non avere occhi per i deboli, per coloro che falliscono, e che vengono calpestati dal destino. Avviene così in ogni tempo. Basta ricordare lo schiamazzo prussiano-tedesco dopo il 1866 e il 1870, che suscitò l'orrore di Nietzsche. Ancora più sfrenato fu lo schiamazzo dei nazionalsocialisti dal 1933 in poi. Perciò dobbiamo domandarci se anche noi stessi non degeneriamo di nuovo in un altro schiamazzo, diventiamo presuntuosi, e deduciamo una nostra legittimità per il semplice fatto che abbiamo sofferto e siamo sopravvissuti. Parliamoci chiaro. Il fatto che noi siamo sopravvissuti e viviamo, non lo dobbiamo a noi stessi; se oggi, con tutta la terribile distruzione in cui ci troviamo, possiamo godere di condizioni diverse, con tutt'altre prospettive, è qualcosa che non abbiamo raggiunto da soli e con le nostre forze. Non attribuiamoci una legittimità che non ci spetta. Così come ogni governo tedesco oggi è governo autoritario insediato dagli alleati, anche ogni singolo tedesco, ognuno di noi, deve la libertà che ha di agire nella sua sfera, alla volontà o al permesso degli alleati. Questa è una situazione crudele. La nostra sincerità ci costringe a non dimenticarla mai. Essa ci salva dalla superbia e ci insegna la modestia. Anche oggi, come in ogni tempo, ci sono degli
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uomini accesi e indignati, i quali credono di aver tutti i diritti e si arrogano il merito di ciò che è avvenuto per opera di altri. Nessuno si può sottrarre del tutto a questa situazione. Noi stessi siamo indignati. Possa la nostra indignazione purificarci. Noi combattiamo per la purezza dell'anima. Per questo non ci vuole solo il lavoro dell'intelletto, ma un lavoro che, pur suscitato dall'intelletto, provenga dal cuore. Voi, che ascoltate queste lezioni, proverete dei sentimenti all'unisono con me o in contrasto con me. Io stesso, in fondo al mio pensiero, non sarò privo di una certa emozione. Anche se, data la forma unilaterale della conferenza, non possiamo di fatto parlare tra di noi, non posso evitare che qualcuno tra voi possa sentirsi colpito quasi personalmente. Ecco perché vi prego fin d'ora di volermi perdonare se offendo. Non è nelle mie intenzioni. Però sono deciso a ponderare i pensieri più radicali con la massima accortezza possibile. Se noi apprendiamo a discutere, non promuoveremo soltanto un legame tra noi. Creeremo la condizione essenziale per poter discutere con gli altri popoli. Nella piena lealtà e franchezza consiste non solo la nostra dignità - che è possibile anche nell'impotenza -, ma anche la nostra unica chance. Ora per ciascun tedesco si tratta di decidere se egli intenda andare per questa via, anche a rischio di provare delusioni, a rischio di subire ulteriori perdite e facili maltrattamenti da parte dei potenti. La risposta è la seguertte: questa è l'unica via che può salvaguardare la nostra anima da un'esistenza come quella dei pa-
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ria. Ciò che può risultare da essa dobbiamo ancora vederlo. Si tratta di un rischio politico-spirituale sull'orlo dell'abisso. Anche se è possibile un successo, sarà solo a lunga scadenza. Ancora per lungo tempo non si avrà fiducia in noi. Un atteggiamento che tace orgogliosamente è, per breve tempo, una maschera che può essere giustificata, dietro la quale si ha modo di prender fiato e di riflettere. Però questo atteggiamento si trasforma in un'illusione nei riguardi di noi stessi e in una furbizia nei riguardi degli altri, appena esso permette di chiuderci sdegnosamente in noi stessi, di impedire che ci rendiamo conto dei fatti, e di sottrarci alla commozione provocata dalla realtà. Qui l' orgoglio, che crede falsamente di essere virile, mentre in realtà non fa che eludere le difficoltà, prende il silenzio come ultima azione militare che rimanga nell' impotenza. Il discutere insieme oggi è cosa difficile in Germania, ma è il compito più grande, dato che noi, per quello che abbiamo vissuto, sentito, desiderato, fatto, siamo straordinariamente differenti gli uni dagli altri. Sotto l'apparenza di una comunità tutta esteriore e imposta con la forza, si nascondeva qualche cosa che è ricca di possibilità e che adesso si può sviluppare. Dobbiamo imparare a vedere e condividere le difficoltà proprie di situazioni e atteggiamenti che si differenziano del tutto dai nostri. Nei tratti fondamentali, quel che c'è oggi di comune a tutti noi tedeschi è forse piuttosto qualche cosa di negativo: il fatto cioè che apparteniamo a una maggioranza etnica totalmente sconfitta, ab-
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bandonata al favore o allo sfavore dei vincitori; la mancanza di un terreno comune che ci unisca tutti; la nostra dispersione: ciascuno è in sostanza abbandonato a se stesso, mentre nello stesso tempo ciascuno come individuo si trova privo di ogni aiuto. Quel che abbiamo in comune è appunto questa mancanza di comunità. Durante il silenzio impostoci dall'azione livellatrice della propaganda ufficiale negli ultimi dodici anni, tutti noi abbiamo assunto degli atteggiamenti interiori molto differenti. Non abbiamo in Germania una disposizione comune delle nostre anime, delle nostre maniere di valutare le cose e dei nostri desideri. Tutto quello che negli anni passati abbiamo creduto e ritenuto vero e accolto come il senso della nostra vita, si differenziava così tanto da una persona all'altra che, anche ora, le modalità di trasformazione devono essere necessariamente diverse a seconda degli individui. Tutti ci trasformiamo. Ma non tutti percorriamo la stessa strada per arrivare a quel nuovo terreno della verità comune che noi tutti cerchiamo affinché ci possa riunire di nuovo. In una catastrofe come la nostra ognuno può lasciarsi rifondere in vista della rinascita, senza temere di perderei in dignità. Se oggi vengono a galla queste differenze si deve al fatto che per dodici anni non è stata possibile alcuna discussione pubblica, e che, anche nella vita privata, tutto ciò che sapeva di opposizione si limitava alle conversazioni più intime e, per certi rispetti, bisognava essere riservati persino di fronte agli amici. Solamente il modo di pensare e di parlare nazionalsocialista poteva essere pubblico e generale, e
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quindi anche suggestivo. Per la gioventù che cresceva in quell'ambiente, era cosa quasi ovvia. Noi oggi possiamo parlare di nuovo liberamente; ma ci ritroviamo come se venissimo da mondi diversi. Eppure parliamo tutti la lingua tedesca, e siamo tutti nati in questa terra e abbiamo qui la nostra patria. Noi vogliamo trovare la via che ci ricongiunga gli uni agli altri. Vogliamo discutere e persuaderei gli uni con gli altri. Le nostre maniere di intendere gli avvenimenti erano così differenti da non potersi conciliare fra di loro: alcuni vissero la totale rovina già nel 193 3, quando la nazione perdette la sua dignità; altri dopo il giugno 1934; altri ancora nel 1938, con i pogrom antisemiti; molti dopo il1942, quando la disfatta apparve probabile; oppure dopo il 1943, quando era ormai certa; alcuni solo nel 1945, allorché essa avvenne effettivamente. Per i primi l'anno 1945 significò liberazione, apertura di nuove possibilità. Per gli altri furono i giorni più duri, perché significarono la fine del presunto Reich nazionale. Alcuni hanno visto in maniera radicale l'origine del male, e ne hanno tratto le conseguenze. Già dal 1933 essi aspettarono con ansia l'attacco e l'avanzata delle potenze occidentali. Dal momento che le porte del penitenziario tedesco erano state sprangate, la liberazione non poteva avvenire che dal di fuori. li futuro dell'anima tedesca era connesso a questa liberazione. Se si voleva che l'annientamento dell'essenza tedesca non avesse modo di compiersi sino alla fine, bisognava che questa liberazione avesse luogo al più presto per iniziativa di stati fra-
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telli, animati dallo spirito della cultura occidentale, nell'interesse comune dell'Europa. Ma questa liberazione non ebbe luogo. Si giunse per questa via fino al1945, fino alla più orrenda distruzione di tutte le nostre realtà fisiche e morali. Ma questa maniera di intendere le cose non è affatto comune a tutti noi. Senza tener conto di quelli che hanno visto o ancora vedono nel nazionalsocialismo l'età dell'oro, ci sono stati dei nemici del nazionalsocialismo, i quali erano però convinti che una Germania di Hitler vittoriosa non avrebbe avuto come conseguenza la distruzione dell'essenza tedesca. Anzi, essi credevano che a una tale vittoria fosse legato un grande avvenire per la Germania. Essi infatti immaginavano che una Germania vittoriosa avrebbe finito col liberarsi dal partito o subito o dopo la morte di Hitler. Essi non credevano a quell'antico detto, secondo il quale uno stato non può reggersi se non con le stesse forze con cui è stato fondato. Essi non pensavano che il terrore, per sua stessa natura, sarebbe diventato infrangibile proprio dopo la vittoria, né che la Germania, dopo aver vinto e dopo la smobilitazione dell'esercito, sarebbe stata trasformata dalle ss in un popolo di schiavi e tenuta in scacco, perché esercitasse un dominio universale, fatto di desolazione, di distruzione e coercizione, dominio nel quale sarebbe stato soffocato tutto ciò che era tedesco. Oggi le modalità particolari della sofferenza appaiono straordinariamente differenti. Ciascuno ha le proprie preoccupazioni, vive in grandi ristrettezze e soffre fisicamente. Ma c'è una grande differenza se uno possiede ancora la casa e le suppellettili o
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se vive dopo aver tutto perduto in seguito a bombardamenti; se uno ha sofferto e subìto le sue perdite nel combattimento al fronte o invece a casa o nel campo di concentramento; se uno è stato perseguitato dalla Gestapo, o ha potuto, anche se angosciato, trarre profitto dal regime. Quasi tutti abbiamo perduto intimi amici e parenti. Ma il modo in cui li. abbiamo perduti, col combattimento al fronte, con le bombe, col campo di concentramento o con gli eccidi in massa da parte del regime, ha come conseguenza degli stati d'animo assai divergenti tra loro. Le sofferenze sono differenti nella loro natura. La maggior parte ha vera comprensione solo per le proprie. Ciascuno tende a considerare come sacrifici grandi perdite e sofferenze, ma, se si domanda per che cosa sono stati fatti questi sacrifici, le interpretazioni sono così abissalmente divergenti da separare innanzitutto gli uomini gli uni dagli altri. Enormi sono le differenze derivanti dalla perdita di una fede. Solo una fede religiosa o fìlosofica, fondata sulla trascendenza, può restar ferma attraverso tante catastrofi. Ciò che aveva un valore nel mondo è andato in sfacelo. n nazionalsocialista fervente può cercare di aggrapparsi a fragili sogni soltanto in forza di pensieri che sono ancora più assurdi di quelli che prevalevano all'epoca del suo predominio. Il nazionalista oscilla perplesso tra l'infamia del nazionalsocialismo, a lui ormai palese, e la realtà della Germania di oggi. Tutte queste differenze portano continuamente alla rottura tra noi tedeschi, tanto più in quanto manca alla nostra esistenza il comune fondamento etico-politico. Noi abbiamo soltanto l'ombra di
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quel terreno politico realmente comune, poggiando sul quale potremmo restare solidali anche nei contrasti più accesi. A noi mancano in misura rilevante il discutere gli uni con gli altri e il dare ascolto gli uni agli altri. Tutto ciò viene aggravato dal fatto che tanta gente si rifiuta di riflettere veramente. Vuole soltanto slogan e ubbidienza. Non domanda né risponde, ma si limita a ripetere dei modi di dire imparati a memoria.' È in grado solamente di asserire e ubbidire, ma non di verificare ed esaminare a fondo le cose, e quindi neanche di essere persuasa. Come è possibile parlare con gente che non ha alcuna voglia di accompagnarci dove le cose vengano criticate e ben ponderate, e dove gli uomini ricercano la propria autonomia con l'indagine approfondita e la persuasione! La Germania può ritrovare se stessa soltanto se noi tedeschi riusciamo a trovare il modo di rimetterei veramente in comunicazione gli uni con gli altri. Se impareremo veramente a discutere gli uni con gli altri, questo potrà verificarsi solamente se saremo consapevoli delle nostre grandi differenze. Un'unità imposta non può approdare a nulla; essa si dilegua come una parvenza alla prima catastrofe. La concordia raggiunta discutendo insieme e comprendendoci gli uni con gli altri, porta a quella comunità che resiste. Se noi veniamo presentando delle caratteristiche tipiche, ciò non significa che voi dobbiate sentirvi classificati. Chi applica a se stesso le mie parole, lo fa secondo la propria responsabilità.
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La questione della colpa
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Quasi il mondo intero eleva la sua accusa contro la Germania e contro i tedeschi. Della nostra colpa si parla con indignazione, con orrore, con odio, con disprezzo. Si vuole la punizione e la vendetta. E non sono soltanto i vincitori, ma anche alcuni degli stessi fuoriusciti tedeschi e persino cittadini di stati neutrali che partecipano a tutto questo. In Germania ci sono persone che riconoscono la colpa e vi includono se stessi; molti poi che si ritengono senza colpa, ma incolpano gli altri. E naturale che si tenda a scansare la questione. Noi viviamo nella miseria. Una gran parte della nostra popolazione deve sopportare delle privazioni così gravi e assillanti che sembra essere diventata insensibile per discussioni di tal genere. Essa si interessa solo di quanto può lenire le sofferenze, portando lavoro, pane, asilo e calore. L'orizzonte è divenuto angusto. La gente non vuoi saperne di colpe, del passato. Non si interessa della storia mondiale. Tutti hanno un solo desiderio: di finirla con le sofferenze, di uscire finalmente dall'estrema miseria, di vivere e di non riflettere. C'è come una dispo-
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sizione degli animi, per cui la gente, dopo sofferenze così terribili, vorrebbe quasi essere ricompensata o in ogni caso confortata, e non ancora afflitta con colpe. Ma ciò nonostante anche chi si vede ridotto agli estremi sente in alcuni momenti lo stimolo a raggiungere una pacata verità. Il fatto che a tutte le nostre sofferenze si venga ad aggiungere oggi anche l'accusa, non è cosa che ci possa lasciare indifferenti e possa essere spiegata solamente con lo sdegno degli altri. Noi vogliamo capire se quest'accusa sia giusta o ingiusta e in che senso. Infatti, appunto nella disgrazia ciò che è indispensabile diventa tanto più sensibile; e cioè purifìcarci nell'anima e pensare e operare il giusto, per poter afferrare la vita dall'origine davanti al Nulla. Sta di fatto che noi tedeschi siamo obbligati, senza alcuna eccezione, a veder chiaro sulla questione della nostra colpa e a trarne le conseguenze. Ci obbliga a ciò la nostra dignità di uomini. Già quello che il mondo pensa di noi non può esserci indifferente; sappiamo infatti di appartenere all'umanità; siamo in primo luogo uomini, e poi tedeschi. Ma ancora più importante per noi è che la nostra vita, pur nella miseria e nella sottomissione, può avere la sua dignità soltanto se noi saremo pienamente sinceri di fronte a noi stessi. La questione della colpa, più che essere una questione posta dagli altri a noi, è una questione che noi poniamo a noi stessi. modo in cui rispondiamo a essa nella nostra più intima interiorità fonda la nostra coscienza presente dell' essere e di noi stessi. Essa è una questione vitale per l'anima tedesca. Soltanto passando per essa può
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aver luogo quella conversione che ci porterà a un rinnovamento di noi derivante dall'origine della nostra essenza. Le imputazioni da parte dei vincitori possono avere sì le più grandi conseguenze per la nostra esistenza. Hanno infatti un carattere politico. Ma non possono aiutarci in ciò che è decisivo: la conversione interiore. Qui abbiamo a che fare soltanto con noi stessi. La filosofia e la teologia sono chiamate a rischiarare la profondità della questione della colpa. I ragionamenti sulla questione della colpa soffrono spesso per la confusione dei concetti e dei punti di vista. Per cogliere il vero sono necessarie alcune distinzioni. Io mi propongo di delineare queste distinzioni in un primo tempo in maniera schematica, per poi chiarire, con il loro aiuto, la nostra attuale situazione tedesca. Naturalmente queste distinzioni non valgono in senso assoluto. Alla fine, l'origine di quello che noi chiamiamo colpa apparirà in un unico concetto riassuntivo. Ma ciò può risultare chiaro soltanto mediante ciò che riusciremo a mettere in evidenza volta per volta in base appunto alle distinzioni. I nostri sentimenti oscuri non meritano senz' altro fiducia. L'immediatezza è in fondo l'unica realtà di fatto; essa è come la presenza della nostra anima. Ma i sentimenti non si presentano senz' altro come semplici dati di fatto vitali. Essi sono piuttosto dovuti alla mediazione del nostro agire interiore, del nostro pensiero, del nostro sapere. Vengono approfonditi e chiariti nella misura in cui noi pensiamo. Del sentimento puro e semplice non c'è dunque da fidarsi. Appellarsi ai sentimenti è cosa inge-
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nua, tipica di chi vuole sfuggire all'oggettività di quello che può essere appreso e pensato. Solo dopo aver pensato e riflettuto da tutti i lati su una cosa, sempre accompagnati, guidati, disturbati dai sentimenti, approdiamo a quel sentimento vero grazie al quale possiamo volta per volta vivere con tranquilla sicurezza.
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A. Schema delle distinzioni
l. Quattro concetti di colpa Bisogna distinguere: l) Colpa criminale: i delitti consistono in azioni, che si possono provare oggettivamente e che trasgrediscono leggi inequivocabili. L'istanza è il tribunale, il quale stabilisce precisamente, con una procedura formale, gli stati di fatto, e vi applica le leggi. 2) Colpa politica: essa consiste nelle azioni degli uomini di stato e nell'essere cittadini di uno stato, per cui si è costretti a subire le conseguenze delle azioni di questo stato, alla cui autorità si è sottoposti e al cui ordinamento si deve la propria esistenza (responsabilità politica). Ciascuno porta una parte di responsabilità riguardo al modo come viene governato. L'istanza è la forza e la volontà del vincitore nella politica interna come nella politica estera. Quel che decide è il successo. L'abilità politica del vincitore, che si rende conto anche delle conseguenze più remote, può poi indurlo a moderare l'uso dell'arbitrio e della forza e a fargli riconoscere e
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adottare delle norme speciali, che vanno sotto il nome di diritto naturale o di diritto dei popoli. 3) Colpa morale: uno ha la responsabilità morale per quelle azioni che compie come individuo. E questo vale per tutte le sue azioni, anche per le azioni di ordine politico e militare che egli compie. In nessun caso vale la scusa che "gli ordini sono ordini". Piuttosto è da ritenere che, come i delitti rimangono sempre delitti, anche quando vengono ordinati (sebbene possano valere circostanze attenuanti secondo la misura del pericolo, della coercizione e del terrore), così ogni azione resta sottoposta anche al giudizio morale. L'istanza è qui la propria coscienza e la comunicazione con gli amici e le persone più care, con coloro che ci amano e si interessano della nostra anima. 4) Colpa metafisica: c'è tra gli uomini come tali una solidarietà la quale fa sì che ciascuno sia in un certo senso corresponsabile per tutte le ingiustizie e i torti che si verificano nel mondo, specialmente per quei delitti che hanno luogo in sua presenza o con la sua consapevolezza. Quando uno non fa tutto il possibile per impedirli, diventa anche lui colpevole. Chi non ha messo a repentaglio la propria vita per impedire il massacro degli altri, ma è rimasto lì senza fare nulla, si sente anche lui colpevole, in un senso che non può essere adeguatamente compreso da un punto di vista giuridico, politico o morale. n fatto che uno è ancora in vita, quando sono accadute delle cose di tal genere, costituisce per lui una colpa incancellabile. Nella nostra qualità di uomini, a meno che la fortuna non ci risparmi situazioni di tal genere, giungiamo a un limite estremo, in cui siamo
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costretti a scegliere: o rischiare la nostra vita incondizionatamente e senza alcuno scopo, perché senza alcuna prospettiva di successo, o preferire di rimanere in vita solo perché è impossibile riuscire. Ciò che costituisce l'essenza della nostra natura è quell'impulso incondizionato esistente tra uomini, per cui, dove vengono inflitte delle atrocità a uno o a un altro, o dove si tratta di dividere delle condizioni materiali di vita, si vuole o che si viva insieme o che non si viva affatto. Ma il fatto che questo impulso non agisca nella solidarietà di tutti gli uomini, e neppure in quella dei cittadini, e nemmeno in quella di piccoli gruppi di uomini, il fatto che esso rimanga circoscritto solo a quei legami umani più intimi costituisce la colpa di tutti noi. L'istanza è solamente Dio. Questa distinzione in quattro concetti di colpa serve anche a chiarire il senso delle accuse. Così, per esempio, colpa politica significa, sì, che tutti i cittadini di uno stato sono responsabili per le conseguenze derivanti dalle azioni di questo stato, ma non significa affatto che ogni singolo cittadino debba ritenersi criminalmente o moralmente colpevole per tutti i delitti commessi in nome del suo stato. Per quanto riguarda i delitti può decidere il giudice, per quanto riguarda la responsabilità politica il vincitore; della colpa morale invece si può parlare in maniera sincera solo nella forma di un dibattimento, fondato sull'amore e sostenuto da uomini che siano solidali tra di loro. Nei riguardi della colpa metafisica poi non è possibile discutere tra persone. La verità qui può infatti solo rivelarsi tutto a un tratto in una situazione concreta o dalle opere della
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poesia e della filosofia. Di essa sono più profondamente coscienti quegli uomini che giunsero una volta all'incondizionatezza, ma che proprio per questo sperimentarono il fallimento del progetto di estenderla a tutti gli uomini. Non resta che la vergogna di qualche cosa che è sempre lì presente e non può essere messa a nudo in maniera concreta, e di cui si può, in ogni caso, discutere soltanto in termini generici. Le distinzioni tra i vari concetti di colpa debbono metterei in guardia contro la superficialità con cui si discute della colpa, mettendo tutto sul medesimo piano per poi giudicarne all'ingrosso, alla maniera di un cattivo giudice. Tutte le distinzioni in ultima analisi ci debbono ricondurre a quell'unica origine, della quale è impossibile parlare semplicemente come della nostra colpa. Tutte queste distinzioni non fanno che indurre in errore, se si dimentica quanto grande è l'interdipendenza anche in quello che viene distinto. Ogni concetto di colpa implica delle realtà che hanno le loro conseguenze anche nell'ambito degli altri concetti di colpa. Se noi uomini potessimo liberarci da quella colpa metafisica, di cui abbiamo parlato, saremmo angeli, e tutti e tre gli altri concetti di colpa finirebbero col non avere più un oggetto a cui riferirsi. Le mancanze di ordine morale sono le cause di quelle determinate condizioni entro le quali poi si sviluppano la colpa politica e il delitto. Fare con negligenza tante piccole azioni, adattarsi comodamente alle circostanze, giustificare gratuitamente i torti, favorire senza rendersene conto ciò che è ingiusto,
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prendere parte a costituire quell'ambiente pubblico che fa nascere confusione e quindi rende possibile il male: tutto ciò ha delle conseguenze, che concorrono a rendere possibile la colpa politica e a determinare circostanze e avvenimenti. Nell'ambito della responsabilità morale rientra anche il fatto che non si tiene sufficientemente conto del significato della forza nella vita della società umana. La dissimulazione di questo fondamentale dato di fatto rappresenta altrettanto una colpa quanto la falsa assolutizzazione della forza, come se fosse essa sola il fattore determinante degli avvenimenti. È fatale per ogni uomo trovarsi impigliato in mezzo a rapporti di forza per i quali egli vive. Questa è l'inevitabile colpa di tutti, la colpa del genere umano. L'unica maniera di porvi rimedio è quella di parteggiare per quella forza che realizza il diritto, i diritti dell'uomo. Tralasciare di cooperare alla strutturazione dei rapporti di forza, alla lotta per il potere nel senso di mettersi al servizio del diritto, è una colpa politica fondamentale, che rappresenta nello stesso tempo una colpa morale. La colpa politica diventa colpa morale, appena il senso della forza -la realizzazione del diritto, l'etica e la purezza del proprio popolo - viene distrutto dalla forza. Infatti, là dove la forza non limita se stessa, nasce la violenza e il terrore, e sopraggiunge in ultimo la fine, l'annientamento dell'esistenza e dell'anima. Dalla condotta morale della maggior parte degli individui, dall'atteggiamento di ampi gruppi di popolazione, dipende e si determina giorno per giorno uno specifico comportamento politico e con ciò anche la situazione politica generale. Ma il singolo vi-
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ve, dal canto suo, in un ordine politico già prestabilito, che si è venuto formando storicamente, in dipendenza dall'etica e dalla politica degli antenati, e che divenne possibile per la situazione generale del mondo. Ecco dunque che, in uno schema, si presentano queste due contrarie possibilità. L'etica del politico è principio di una esistenza dello stato, in cui tutti prendono parte con la loro coscienza, il loro sapere, il loro modo di pensare e il loro modo di volere. È la vita della libertà politica concepita come un processo continuo fatto di decadimenti e di miglioramenti. Essa è resa possibile dal fatto che tutti hanno il compito e la chance di essere corresponsabili. Oppure i cittadini sòno nella maggior parte estranei alla vita politica. La potenza dello stato non viene qui sentita come cosa che li riguarda. Essi non si considerano corresponsabili, ma fanno solo da inerti spettatori della vita politica, e lavorano e operano obbedendo ciecamente. Essi conservano la loro buona coscienza nell'ubbidienza, senza partecipare a ciò che i detentori del potere decidono e fanno. Subiscono la realtà politica come qualche cosa di estraneo a loro. Cercano di cavarsela con astuzia e di trame i propri vantaggi personali, oppure vivono in un cieco entusiasmo fatto di sacrifici. Si tratta della differenza tra libertà politica e dittatura politica. Ma il più delle volte non è più in potere delle persone singole stabilire quale delle due condizioni debba prevalere. Alla persona singola capita di nascere o nell'una o nell'altra, per sua fortuna o per sua disgrazia; non le resta che accettare quella realtà che le viene tramandata. Nessuna per-
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sona singola e nessun gruppo sono in grado di cambiare in un colpo questo presupposto in virtù del quale noi tutti in realtà viviamo.
2. Le conseguenze della colpa La colpa ha conseguenze esteriori, che si riferiscono all'esistenza, e conseguenze interiori, che riguardano invece l'autocoscienza. Le prime sono indipendenti dal fatto che il colpito se ne renda conto o meno. Le seconde sono rilevanti solo se uno nella colpa riesce a rendersene conto sino in fondo. a) TI delitto va incontro alla punizione. La condizione è che il giudice riconosca il colpevole nella sua libera determinazione della volontà, ma non che il punito riconosca di essere punito giustamente. h) Per quel che riguarda la colpa politica esiste una responsabilità e come sua conseguenza una riparazione e una perdita ulteriore, oppure una limitazione della potenza politica e dei diritti politici. Nel caso in cui la colpa politica è legata ad avvenimenti che vengono decisi con la guerra, allora la conseguenza per i vinti può significare annientamento, deportazione, sterminio. Oppure il vincitore può, se vuole, trasferire le conseguenze in una forma fondata sul diritto e quindi sulla misura. c) Dalla colpa morale nasce il ravvedimento e con esso l'espiazione e la rigenerazione. È un processo interiore che ha poi anche conseguenze reali nel mondo. d) La colpa metafisica ha per conseguenza una
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trasformazione dell'autocoscienza umana innanzi a Dio. L'orgoglio viene spezzato. Questa autotrasformazione attraverso l'agire interiore può condurre a una nuova origine di vita attiva, ma legata sempre a una incancellabile coscienza di colpa, nell'umiltà che rende sottomessi a Dio e sospinge tutto il nostro operare in un'atmosfera nella quale diventa impossibile la presunzione.
3. La forza. Il diritto. La grazia Il fatto che gli uomini, quando non possono intendersi tra loro, decidono le loro questioni con la forza, e il fatto che ogni ordinamento statale serve sì a tenere a freno questa forza, ma in modo che essa resti monopolio dello stato- all'interno per far valere il diritto e all'esterno come guerra -, sono cose che in tempi pacifici venivano quasi del tutto dimenticate. Là dove con la guerra subentra una situazione in cui domina la forza, viene a cessare il diritto. Noi europei abbiamo tentato di conservare un minimo di diritto e di legge attraverso le norme del diritto internazionale, che sono valide anche in guerra e furono infine ratificare nelle convenzioni dell'Aia e di Ginevra. Sembra però che ciò sia stato invano. Quando viene adoperata la forza, viene suscitata altra forza. Al vincitore spetta decidere che cosa deve avvenire del vinto. Qui vale il vae victis. Il vinto può soltanto scegliere o di morire o di fare e patire quel che vuole il vincitore. Ha però quasi sempre, da tempi immemorabili, preferito vivere.
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Il diritto rappresenta l'alto pensiero degli uomini che vogliono basare la loro esistenza su un'origine che, sebbene abbia bisogno della forza per essere garantita, non viene però da essa determinata. Quando gli uomini si rendono conto della loro comune natura di uomini e riconoscono gli uomini come uomini, allora prendono in considerazione i diritti dell'uomo e si basano su un diritto di natura, al quale ciascuno, vincitore e vinto, può fare appello. Non appena emerge il pensiero del diritto, si può trattare per trovare il vero diritto attraverso la discussione e il procedimento metodico. Ma nel caso di una vittoria totale, quello che sarebbe il diritto tra vincitori e vinti e per i vinti stessi costituisce fino a oggi sempre soltanto un campo molto limitato in seno agli avvenimenti, che vengono determinati in forza di atti di volontà politica. Questi atti costituiscono la base di un diritto positivo e di fatto, e non vengono più nemmeno essi stessi giustificati in base al diritto. Di diritto si può parlare soltanto nei riguardi di quella colpa intesa come delitto e come responsabilità politica, ma non nei riguardi della colpa morale e metafisica. Ma il riconoscimento del diritto può aver luogo anche da parte di chi è responsabile o è punito. Chi commette il delitto, nel fatto che viene punito può vedere garantito il suo onore e la sua riabilitazione. Chi è politicamente responsabile può riconoscere che gli viene assegnato dal destino tutto quello che egli d'ora in poi deve accettare come condizione della sua esistenza. La grazia è l'atto col quale si modera l'effetto di
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un diritto puro e si limita la forza distruttiva. L'umanità sente una verità superiore a quella che si trova nella conseguenza rettilinea del diritto e della forza. a) Nonostante il diritto la misericordia opera per aprire la via a una giustizia libera dalla legge. Infatti ogni ordinamento umano è pieno di difetti e di ingiustizie nei suoi effetti. b) Nonostante la possibilità della forza, il vincitore esercita la grazia sia per i suoi scopi, dato che i vinti gli possono servire, sia per magnanimità, dato che, lasciando in vita i vinti, si accresce in lui il sentimento della sua potenza e della sua moderazione, o anche perché egli riconosce nella sua coscienza le esigenze di un diritto naturale valido per tutti gli uomini, e che non toglie tutti i diritti né al vinto né al delinquente.
4. Chi giudica, e chi o che cosa viene giudicato? Sotto la tempesta delle accuse ci si domanda: chi accusa e chi viene accusato? Un'accusa è sensata solo se essa è stata definita nel suo punto di vista eriguardo al suo oggetto, e se essa si circoscrive chiaramente soltanto quando si sa bene chi è l'accusatore e chi è l'accusato. a) Analizziamo il senso dell'accusa seguendo lo schema delle quattro forme della colpa. L'incolpato sente provenire i rimproveri o dall'esterno, dal mondo, o dall'interno, dalla propria anima. Quelle accuse che vengono dall'esterno hanno un senso soltanto se si riferiscono a dei delitti o a
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una colpa politica. Esse vengono formulate con l'intenzione di provocare una punizione e di rendere responsabile. Esse valgono da un punto di vista giuridico e politico, non da un punto di vista morale e metafisico. I rimproveri che vengono dall'interno sono sentiti dal colpevole in riferimento al suo fallimento morale e alla sua fragilità metafisica. Naturalmente, quando qui risiede anche l'origine di azioni o di astensioni di ordine politico e di ordine criminale, i rimproveri dell'anima si riferiscono anche a queste. Dal punto di vista morale, si può dare soltanto la colpa a se stessi e non agli altri. Oppure si può dare la colpa agli altri solamente quando si vive con loro nella solidarietà di una battaglia affettuosa. Nessuno può fare da giudice morale a un altro, a meno che non lo faccia in forza di un legame intimo, come se si trattasse di se stesso. Solo quando un altro è per me come se fossi io stesso, esiste quella intimità capace di rendere comune, nella libera comunicazione, ciò che in fondo ciascuno attua in solitudine. Mfermare la colpa di un altro non può riguardare il suo modo di pensare, ma solo determinate azioni e modi di comportarsi. Nel caso della valutazione individuale si cerca di tener conto del modo di pensare e dei motivi; anche questo non si può raggiungere secondo verità se non nella misura in cui questo modo di pensare e questi motivi possono venire determinati per mezzo di segni oggettivi, cioè azioni e modi di comportarsi. b) Bisogna poi vedere in che senso si può giudicare una collettività e in che senso invece solo una persona singola. Dare la responsabilità delle conse-
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guenze derivanti dalle azioni di uno stato a tutti i cittadini che vi appartengono è un criterio senza dubbio ragionevole. Qui viene colpita la collettività. Questa responsabilità però è una responsabilità ben determinata e circoscritta. In essa non rientra l'imputazione di colpa morale e metafisica delle singole persone. Essa investe anche quei cittadini che si sono opposti al regime o a tutte le azioni in questione. Analogamente ci sono delle responsabilità che derivano dall'aver fatto parte di organizzazioni, partiti e gruppi. Per i delitti può essere punita solamente la persona singola, sia nel caso in cui si tratta di una sola sia nel caso in cui ci sono dei complici, ai quali si chiede ragione a ciascuno per conto proprio, secondo la misura nella quale ha partecipato al reato e, in grado minimo, già per il semplice fatto di aver preso parte a queste associazioni. Ci sono intere associazioni di rapinatori o cospiratori che possono considerarsi criminali nel loro insieme. In tal caso la semplice appartenenza può rendere passibili di pena. È però un controsenso imputare tutto un popolo di un'azione criminosa. Criminale è sempre solamente la singola persona. È anche un controsenso accusare un popolo nel suo insieme dal punto di vista morale. Non c'è alcuna caratteristica di un popolo tale che possa averla ciascun individuo che vi appartiene. Ci sono sì degli elementi in comune, come la lingua, i costumi e le abitudini, l'origine. Ma ciò nonostante anche in essi sono possibili, d'altro canto, delle differenze così forti, per cui uomini che parlano la stessa lingua possono restare talmente estranei l'uno all'altro
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come se non appartenessero affatto al medesimo popolo. Dal punto di vista morale, si può giudicare sempre soltanto la persona singola, mai una collettività di persone. La disposizione mentale a considerare gli uomini collettivamente, a caratterizzarli e giudicarli in blocco, è oltremodo diffusa. Caratteristiche di tal genere - ad esempio dei tedeschi, dei russi, degli inglesi - non riguardano mai concetti di genere sotto i quali possano venire sussunti i singoli uomini, ma indicano solamente il tipo, a cui essi più o meno possano corrispondere. Questa confusione tra una concezione basata sui generi e una basata sulle tipologie è il segno del pensare in base a delle collettività: i tedeschi, gli inglesi, i norvegesi, gli ebrei - e così via: i frisi, i bavaresi - oppure: gli uomini, le donne, i giovani, i vecchi. n fatto che grazie alla concezione tipologica si viene pure a cogliere qualche cosa di vero, non deve farci credere di aver compreso in tutto e per tutto ogni singolo individuo, quando lo consideriamo designato da quelle caratteristiche generali. Questa è una forma mentale che, attraverso secoli, si trascina come un mezzo per determinare l'odio reciproco fra i popoli e i gruppi umani. Questa forma mentale, che dai più viene considerata purtroppo come ovvia e naturale, i nazionalsocialisti l'hanno applicata nella maniera peggiore e attraverso la loro propaganda l'hanno fatta entrare nelle teste quasi a martellate. Era come se non ci fossero più uomini, ma soltanto appunto quelle collettività. Non c'è mai un popolo che sia un tutto unico. Tutte le delimitazioni che noi operiamo per poterlo
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determinare, vengono sorpassate nel campo dei fatti. La lingua, la nazionalità, la cultura, i destini comuni, tutte queste sono cose che non collimano, ma si intersecano. Un popolo e uno stato non coincidono, e nemmeno lingua e destini comuni e cultura. Non si può fare di un popolo un solo individuo. Un popolo non può perire eroicamente, né diventare criminale, né agire moralmente o immoralmente. Sono cose che possono essere compiute solamente da persone singole che ne fanno parte. Un popolo nel suo insieme non può essere né colpevole né innocente, e ciò né in senso criminale né in senso politico (nel campo politico rispondono solo i cittadini di uno stato) né in senso morale. La valutazione categoriale dal punto di vista del popolo è sempre un'ingiustizia; essa presuppone una falsa ipostatizzazione e porta come conseguenza la degradazione dell'essere umano come persona singola. Ma l'opinione mondiale che dà a un popolo la colpa collettiva è un fatto simile a quello per cui attraverso i millenni si è pensato e si è detto che gli ebrei sono colpevoli della crocifissione di Gesù. Chi sono qui gli ebrei? Un gruppo circoscritto di uomini pieni di fanatismo politico e religioso, che allora, fra gli ebrei, aveva una certa potenza e che, in cooperazione con la guarnigione romana, portò all' esecuzione capitale di Gesù. La superiorità di un'opinione come questa che, anche in uomini ragionevoli, va trasformandosi in ovvietà, è tanto più sorprendente in quanto il suo errore è così semplice e chiaro. Ci si trova come di fronte a una parete dove sembra che ragioni e fatti
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non vengano più ascoltati, oppure, se vengono pure ascoltati, è come se venissero subito dimenticati senza poter acquistare validità alcuna. Una colpa collettiva di un popolo, o di un gruppo di persone che vive entro il consorzio dei popoli, pur ammettendo la responsabilità politica, non può esserci né come colpa delittuosa, né come colpa morale, né come colpa metafisica. c) Per le accuse e i rimproveri ci deve essere un diritto. Chi ha il diritto di /are da giudice? A ogni giudicante può esser posta la questione: quale potere egli abbia, a qual fine e per quale motivo egli giudichi, in quale posizione si trovi di fronte a chi viene giudicato. Nessuno ha l'obbligo di riconoscere nel mondo un tribunale costituito a giudicare in fatto di colpa morale e metafisica. Quello che è possibile fra uomini che veramente si amano e sono strettamente legati tra loro, non è permesso nella distanza della fredda analisi obiettiva. Quello che vale al cospetto di Dio non può, appunto per questo, valere anche al cospetto degli uomini. Dio infatti non ha alcuna istanza che lo rappresenti sulla terra, né nelle sedi delle chiese, né nei ministeri degli esteri degli stati, né nell'opinione pubblica mondiale, quale viene comunicata dalla stampa. Quando si giudica in base ai risultati della guerra, allora il vincitore ha il privilegio di giudicare sulla responsabilità politica: egli ha messo a repentaglio la propria vita, e la vittoria è toccata a lui. Ma ci si domanda: "Può di regola un neutrale pronunciare giudizi di fronte al pubblico una volta che non ha preso parte al combattimento e non ha impegnato
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la sua esistenza e la sua coscienza nella questione fondamentale?" (da una lettera). Quando tra persone legate dalla stessa sorte si parla, oggi, tra tedeschi, di colpa morale e di colpa metafisica con riferimento alla persona singola, il diritto a dare dei giudizi si può intravedere nell'atteggiamento e nella disposizione d'animo di chi giudica: si tratta di stabilire se parla o meno di una colpa che egli stesso condivide; se egli dunque parla dall'interno o dall'esterno; se parla come uno che vuole venire in chiaro con se stesso o come uno che accusa, cioè come uno che si sente legato intimamente agli altri nell'orientamento che deve rendere possibile il rischiaramento di se stessi, o come uno che, estraneo, non fa che dare addosso agli altri; se parla da amico o da nemico. Nel primo caso egli ha sempre un diritto indubitabile a pronunciare i suoi giudizi; nel secondo caso ha un diritto discutibile e in ogni modo limitato, secondo la misura e il grado del suo amore. Se si parla però di responsabilità politica e di colpa criminale, allora ciascuno dei cittadini ha il diritto di prendere in esame i fatti e di discutere la loro valutazione secondo il criterio di determinazioni concettuali chiare. La responsabilità politica assume varie gradazioni secondo la parte presa al regime ormai rinnegato per principio, e viene determinata dalle decisioni del vincitore. Tutti quelli che sono voluti restare in vita al momento della catastrofe, per il fatto stesso che oggi vivono, sono logicamente sottoposti a queste decisioni.
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5. La difesa Quando viene mossa un'accusa sarà ben concesso all'accusato di farsi sentire. Laddove si fa appello al diritto c'è la difesa. Se si applica la forza, ci sarà una reazione da parte dell'aggredito, sempre che lo possa fare. Se uno che è stato vinto in tutto e per tutto non può reagire alla forza, non gli rimane - sempre che voglia restare in vita - che di sopportare le conseguenze, assoggettarvisi e riconoscerle. Se però il vincitore adduce delle ragioni, pronuncia dei giudizi, allora non ci può essere da parte del vinto alcun tentativo di reagire con la forza. Ma in tale stato di impotenza sarà solo lo spirito a rispondere, sempre che gliene venga lasciata la possibilità. Una difesa è possibile solo se viene concessa la parola. Il vincitore mette un freno alla sua forza appena cerca di giustificare la sua condotta nel campo del diritto. Ecco le possibilità di questa difesa. l. La difesa si può basare su distinzioni. Operando delle distinzioni si determinano meglio le cose e ci si scarica, in parte, dell'accusa. Col distinguere si impedisce che venga fatto di ogni erba un fascio e si circoscrive il rimprovero. La confusione conduce alla mancanza di chiarezza, e la mancanza di chiarezza ha, dal canto suo, delle conseguenze effettive, che, siano esse vantaggiose o dannose, rimangono sempre in ogni caso conseguenze non giuste. Difendersi facendo delle distinzioni significa promuovere la giustizia. 2. La difesa può aver luogo adducendo dei dati di /atto, mettendoli in rilievo e in raffronto fra di loro.
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3. La difesa può fare appello al diritto naturale, al diritto dell'uomo e al diritto delle genti. Per questa specie di difesa valgono delle restrizioni. E cioè: a) Uno stato che ha, fin dal primo momento, violato per principio il diritto naturale e il diritto dell'uomo nel proprio territorio, e che poi, in guerra, ha calpestato sul territorio degli altri il diritto dell'uomo e il diritto delle genti, non può pretendere che gli venga riconosciuto a suo vantaggio quello che egli stesso non ha riconosciuto. b) Nella realtà dei fatti ha diritti soltanto chi ha nello stesso tempo la forza di combattere per questi diritti. Ma quando si è ridotti all'impotenza assoluta, non rimane che invocare spiritualmente il diritto ideale. c) Quando viene riconosciuto il diritto naturale e il diritto dell'uomo, ciò avviene soltanto per un atto libero di volontà da parte di chi ha la forza, da parte dei vincitori. È un atto derivante dalle convinzioni e dagli ideali del vincitore, una grazia nei confronti del vinto nella forma di un diritto che viene concesso. 4. La difesa può mostrare quando l'accusa non viene mossa in modo sincero, ma viene usata come arma al servizio di scopi eventualmente politici o economici- confondendo i concetti di colpa, inducendo false opinioni - per guadagnare consenso o crearsi la coscienza pulita delle azioni proprie. Queste azioni vengono motivate come diritto, mentre dovrebbero restare nello spirito del vae victis come chiari atti da vincitore. Ma il male, anche se si opera, sotto forma di ritorsione, non cessa di essere il male. Quando i rimproveri di carattere morale e meta-
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fisico servono da strumento per scopi politici vanno senz' altro rigettati . .5. La difesa può consistere nella ricusazione del giudice o perché si è in grado di dimostrare che si tratta di un giudice prevenuto, o perché l'oggetto del giudizio non è tale da potersi sottoporre a un giudice umano. La punizione, la responsabilità -la riparazione sono cose che debbono essere riconosciute. Ma non deve essere riconosciuta la pretesa che ci si penta e ci si rigeneri. Queste sono cose che possono venire solo dal di dentro. Contro tali pretese non rimane altra resistenza che il silenzio. L'importante è che non ci si lasci ingannare sulla effettiva necessità di questa conversione interiore, allorché ci viene falsamente richiesta dal di fuori, come una prestazione. La coscienza della colpa e il riconoscimento di un'istanza nel mondo che faccia da giudice, sono due cose affatto diverse. D vincitore non è ancora, per se stesso, un giudice. O trasforma egli stesso l'atteggiamento tenuto in battaglia e acquista così, nel fatto, dei diritti in sostituzione della semplice forza - sempre, ben inteso, per quel che riguarda la colpa criminale e la responsabilità politica - oppure si arroga una falsa autorizzazione a compiere azioni che implicano, dal canto loro, una nuova colpa. 6. La difesa si serve di controaccuse. Si può richiamare l'attenzione sulle azioni degli altri, che hanno contribuito a determinare il disastro; si può richiamare l'attenzione su azioni simili commesse dagli altri, le quali, nei riguardi del vinto, sono e valgono come delitti; si può richiamare l'attenzione su alleanze mondiali che implicano una colpa comune.
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B. Le questioni tedesche
La questione della colpa è diventata una questione di grande importanza, dato che il vincitore e il mondo intero hanno sollevato la loro accusa contro noi tedeschi. Allorquando, nell'estate del 1945, in tutte le nostre città e i nostri villaggi furono attaccati i manifesti con le figure e i notiziari da Belsen e con la frase decisiva: "Questa è la vostra colpa!", tutte le coscienze furono prese da grande inquietudine. Molti, che effettivamente non ne avevano saputo nulla, furono presi da orrore, e qualcosa nei loro animi si ribellò: chi mi accusa qui? Non c'era alcuna firma, alcuna indicazione di J?Ubblica autorità, il manifesto veniva dal vuoto. E della natura umana in generale che l'imputato, accusato, a torto o a ragione, tenti di difendersi. La questione della colpa in conflitti politici è cosa antica. Essa ebbe una parte importante, per esempio, nelle controversie tra Napoleone e l'Inghilterra, tra la Prussia e l'Austria. Forse furono i romani i primi a fare politica, appellandosi a un proprio diritto morale e condannando moralmente i nemici. Di fronte a essi stanno, da un lato i greci,
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imparziali e oggettivi, dall'altro gli antichi ebrei, che accusano se stessi davanti a Dio. Se sono state fatte ai vinti da parte delle potenze vincitrici delle imputazioni di colpa che servivano come strumento di politica e che quindi per i loro motivi diventavano poco pulite, questo costituisce una colpa che attraversa tutta la storia. Dopo la Prima guerra mondiale la colpa della guerra costituì un problema che fu deciso, col trattato di Versailles, ai danni della Germania. Più tardi però gli storici di tutti i paesi non furono concordi nell'attribuire a un solo paese la colpa della guerra. Allora si era "scivolati" da tutti i lati nella guerra, come disse Lloyd George. Oggi la cosa è assolutamente diversa da allora. La questione della colpa ha una risonanza affatto differente. La questione della colpa della guerra questa volta è ben chiara. La guerra è stata scatenata dalla Germania di Hitler. La Germania porta la colpa della guerra, a causa del suo regime, che ha cominciato la guerra nel momento da esso scelto, mentre tutti gli altri non la volevano. La frase del manifesto: "Questa è la vostra colpa! " significa oggi però assai più che non semplicemente colpa della guerra. Quel manifesto è già dimenticato. Ma quello che noi allora abbiamo provato è rimasto. È rimasta, in primo luogo, la realtà di un'opinione diffusa in tutto il mondo, che ci condanna come intero popolo, e, in secondo luogo, il nostro perturbamento. L'opinione mondiale per noi è importante. Si tratta di uomini che pensano così di noi, e questa è una cosa che non ci può essere indifferente. Inoltre
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la colpa diventa uno strumento della politica. Dato che noi siamo stimati colpevoli, abbiamo meritato così si ritiene- tutte le sciagure, che si sono abbattute e ancora si abbatteranno su di noi. In questo c'è una specie di giustificazione per gli uomini politici, i quali riducono la Germania a brandelli, ostacolano ogni possibilità di ricostruzione, ci lasciano, senza la pace, in uno stato fra la vita e la morte. Si tratta qui di una questione politica, che non spetta a noi decidere, e per decidere la quale noi non potremmo apportare nulla di sostanziale, nemmeno col nostro comportamento più irreprensibile. Si tratta di vedere se è una cosa politicamente assennata, conveniente e scevra di pericoli, se è una cosa giusta ridurre tutto un popolo a un popolo di paria, abbassarlo al di sotto del livello degli altri popoli, continuare a degradarlo, dopo che da se stesso ha sacrificato la sua dignità. Qui non parliamo di questo problema. Né prendiamo a considerare la questione politica se e in che senso sia necessario e conveniente confessare la propria colpa. Può darsi che questo rimanga assegnato al verdetto del popolo tedesco. Ci sarebbero per noi le più disastrose conseguenze. Noi ancora speriamo che le deliberazioni degli uomini di stato e le opinioni dei popoli abbiano a essere rivedute prima o poi. Ma in ogni caso non tocca a noi di accusare, ma solamente di accettare. L'impotenza assoluta nella quale ci ha trascinato il nazionalsocialismo e dalla quale, nella situazione mondiale di oggi così strettamente legata alla tecnica, non c'è via di uscita, ci costringe a questo. Per noi è però ancora più importante la maniera in cui esaminiamo, giudichiamo e purifichiamo noi
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stessi. Quelle accuse che ci vengono dal di fuori non ci riguardano più. Le accuse che ci vengono dal di dentro, invece, che da dodici anni, almeno, in alcuni momenti, si fanno sentire nelle anime tedesche, più o meno distintamente, rappresentano l'origine della nostra autocoscienza, qual è oggi ancora possibile nella maniera in cui noi, vecchi o giovani, riusciremo a trasformarci sotto il loro peso col nostro sforzo interiore. Noi dobbiamo far luce sulla questione della colpa tedesca. È una cosa che riguarda noi, e che si verifica indipendentemente dai rimproveri che ci vengono dal di fuori, anche se noi vogliamo servircene come di uno specchio. Quella frase: "Questa è la vostra colpa!" può significare: Voi siete responsabili per le azioni del regime che avete tollerato. - Qui si tratta della nostra colpa politica. Voi siete colpevoli di avere oltre a ciò sostenuto questo regime e di avervi collaborato. - Qui sta la nostra colpa morale. Voi siete colpevoli di aver assistito inerti ai delitti che furono commessi. - Qui già traspare una colpa metafisica. Io ritengo vere tutte e tre queste affermazioni, sebbene soltanto la prima, riguardante la responsabilità politica, possa essere senz'altro pronunciata e risulti giusta in tutto e per tutto. Mentre la seconda e la terza, riguardanti la colpa morale e quella metafisica, cessano di essere vere non appena vengono espresse in forma giuridica come fredde deposizioni.
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Oltre a ciò la frase "Questa è la vostra colpa!" può significare: Voi avete preso parte a quei delitti, quindi siete anche voi dei criminali. - Ciò è evidentemente falso per la stragrande maggioranza dei tedeschi. Infine essa può significare: Voi siete un popolo inferiore, indegno, criminale, siete la feccia dell'umanità, qualcosa di diverso da tutti gli altri popoli. - Questo non è altro che quella particolare maniera di pensare e di valutare per categorie collettive, la quale, facendo entrare ogni singola persona in uno schema generale, risulta essa stessa radicalmente falsa e addirittura inumana. Dopo questi brevi accenni preliminari guardiamo la questione più da vicino.
I. LA DIFFERENZIAZIONE DELLA COLPA TEDESCA
l. I delitti A differenza della Prima guerra mondiale, quando, cessate le ostilità, non ci fu bisogno da parte tedesca di riconoscere dei delitti specifici che fossero stati commessi soltanto da una sola parte (l'indagine storica condotta con metodi scientifici ha permesso anche ai nemici della Germania di vedere le cose dallo stess~ punto di vista), oggi invece i delitti commessi dal governo nazista in Germania prima della guerra, e dappertutto durante la guerra, sono evidenti. A differenza della Prima guerra mondiale, in me-
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rito alla quale storici di tutti i paesi non hanno potuto in seguito attribuirne la colpa a uno solo dei belligeranti, questa guerra è stata iniziata dalla Germania di Hitler. Infine, a differenza della Prima guerra mondiale, questa guerra è diventata veramente una guerra mondiale. Essa ha trovato il mondo in una situazione diversa e in diverse condizioni di cultura. In confronto alle guerre precedenti il significato di questa guerra ha raggiunto ben altre dimensioni. Ed ecco che oggi abbiamo qualcosa di assolutamente nuovo nella storia del mondo. I vincitori costituiscono un tribunale. Il processo di Norimberga riguarda dei delitti. Questo ci permette, in primo luogo, di operare una chiara delimitazione in due diverse direzioni. l. Dinanzi al tribunale non sta il popolo tedesco, ma stanno singoli tedeschi accusati di delitti - in sostanza però tutti i gerarchi del regime nazista. Questa delimitazione è stata compiuta fin dall'inizio dal rappresentante americano dell'accusa. Jackson ha detto nel suo discorso che stabilisce i criteri fondamentali del processo: "Noi desideriamo precisare che non intendiamo incolpare tutto il popolo tedesco". 2. Le persone sospettate non vengono accusate poi in linea generale, ma per delitti determinati. Questi sono espressamente definiti nello statuto della corte militare internazionale di giustizia: l) Delitti contro la pace: disegno, preparazione, avviamento o esecuzione di una guerra di aggressione o di una guerra che violi i trattati internazionali ...
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2) Delitti di guerra: violazioni delle leggi di guerra, per esempio: omicidi, maltrattamenti, deportazioni al lavoro forzato di uomini appartenenti alla popolazione civile del territorio occupato - uccisioni, o maltrattamenti di prigionieri di guerra -, saccheggiamenti di beni pubblici o privati, distruzioni arbitrarie di città o villaggi o ogni altra devastazione, che non può essere giustificata in base a necessità militari. 3) Delitti contro l'umanità: assassini, stermini, asservimenti, deportazioni perpetrati a danno di una qualsiasi popolazione civile, persecuzioni commesse per motivi politici, razziali o religiosi perpetrate nel compiere un delitto per cui è competente la corte di giustizia. Inoltre viene definita la sfera delle responsabilità. I capi, le organizzazioni, i promotori e i soci che hanno preso parte all'elaborazione e all'esecuzione di un piano comune o a un'intesa per commettere uno dei delitti sunnominati, sono responsabili per tutte quelle azioni, che sono state commesse da una persona qualsiasi in esecuzione di un tale piano. L'accusa è diretta dunque non solamente contro persone singole, ma anche contro organizzazioni che, come tali, dovrebbero essere giudicate delittuose: il gabinetto del Reich - il corpo dei dirigenti politici della NSDAP delle ss - delle SD - della Gestapo - delle SA - lo stato maggiore dell'esercito - il comando supremo delle forze armate tedesco.
In questo processo noi tedeschi siamo uditori. Sebbene gli accusati siano degli uomini che ci hanno portato alla rovina, non siamo stati noi a provocare il processo né siamo noi a condurlo. Jackson dice: "In verità i tedeschi, non meno che il mondo di fuori, hanno da saldare i conti con gli accusati". Più di un tedesco si sente mortificato per questo
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processo. Questo sentimento è comprensibile. Esso deve riportarsi allo stesso motivo con cui si spiega, d'altro canto, il fatto che del regime di Hitler e dei suoi misfatti viene incolpata l'intera popolazione tedesca. Ogni cittadino di uno stato è corresponsabile e interessato in ciò che il proprio stato fa e subisce. Uno stato criminale carica il peso delle conseguenze su tutto il popolo. Ecco perché ogni cittadino si sente colpito dal trattamento inflitto ai propri capi di stato, anche se sono criminali. Con loro viene condannato anche il popolo. Perciò il popolo sente in se stesso quell'avvilimento e quella mancanza di dignità che si trovano a dover subire i capi di stato. Da ciò deriva l'avversione istintiva e, in un primo tempo, ancora avventata nei riguardi del processo. In realtà bisogna che noi riconosciamo, anche con dolore, di essere politicamente responsabili. Noi dobbiamo provare quella mancanza di dignità in quanto lo esige la nostra responsabilità politica. Con ciò proviamo la nostra completa impotenza politica e la nostra esclusione come fattore politico. Ma ora tutto dipende dal modo in cui noi consideriamo la nostra istintiva sensazione di essere stati colpiti, come ce la spieghiamo, l'assumiamo e la trasformiamo. Esiste la possibilità di opporci a quell'avvilimento incondizionatamente. Allora si cercano dei motivi in base ai quali si possa contestare il processo nel suo insieme, nel suo diritto, nella sua veridicità, nei suoi scopi. l. Si fa ricorso a considerazioni di carattere generale: di guerre ce ne sono state sempre nella storia, e ce ne saranno ancora in avvenire. La guerra
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non è la colpa di un popolo. È la natura stessa dell'uomo, la sua universale disposizione alla colpa, a condurre alla guerra. Considerarsi liberi da ogni colpa è un atto di superficialità da parte della propria coscienza. È un' autogiustifìcazione che, con il modo di comportarsi presentemente, promuove nuove guerre. Contro questa maniera di ragionare c'è da dire: questa volta è fuori di discussione il fatto che sia stata la Germania a preparare, secondo un piano prestabilito, la guerra e a cominciarla senza essere provocata dagli altri. Le cose sono andate in modo assolutamente diverso rispetto al1914.- Alla Germania non si attribuisce la colpa della guerra in generale, ma la colpa di questa guerra. E questa guerra stessa è qualche cosa di nuovo, qualche cosa di diverso determinatasi in una situazione storica mondiale che, così com'è, si è verificata per la prima volta. Questo rimprovero contro il processo di Norimberga può essere espresso anche diversamente: il fatto che, sempre di nuovo, quel che deve essere deciso per "invocazione del cielo" spinga a concludere tramite la forza, è qualche cosa di indisgiungibile dalla natura umana. TI soldato ha sentimenti di cavalleria e può sentirsi offeso anche da vinto, se non viene trattato in modo cavalleresco. Per contro, va detto: la Germania ha compiuto numerose azioni, che (al di fuori di ogni senso di cavalleria e contro il diritto delle genti) hanno portato allo sterminio di intere popolazioni e ad altre crudeltà. La maniera di agire di Hitler era diretta, fin da principio, contro ogni possibilità di conciliazio-
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ne. Non c'era che o la vittoria o la rovina. Adesso ci si trova di fronte alle conseguenze della rovina. È impossibile appellarsi oggi ai princìpi cavallereschi, quando - anche se moltissimi soldati individualmente e intere unità dell'esercito sono senza colpa e si sono, per loro conto, comportati sempre cavallerescamente -l'esercito tedesco, come organizzazione, si è incaricato di eseguire gli ordini criminali di Hitler. Quando ogni principio cavalleresco e ogni senso di magnanimità sono stati rinnegati, non si può più tardi pretendere che essi vengano fatti valere a proprio vantaggio. Questa guerra non è nata dal fatto che non c'era altra via d'uscita tra le parti contendenti a parità di condizioni scese in campo cavallerescamente. Questa guerra è stata, nella maniera in cui si è venuta a determinare e nella maniera in cui è stata condotta, una malvagità criminale, e una totale e inconsiderata volontà di distruzione. Anche nella guerra c'è la possibilità di porre dei freni. La Germania di Hitler è stata la prima a rigettare per principio le parole di Kant: "In guerra non devono accadere quelle azioni che rendono semplicemente impossibile ogni futura riconciliazione". Ecco perché ci siamo trovati di fronte a manifestazioni inaudite della violenza, la quale, se per quanto riguarda la sua natura è rimasta la stessa fin dai tempi più antichi, per quanto riguarda le proporzioni delle possibilità distruttive viene oggi determinata dalla tecnica. L'aver cominciato la guerra nella situazione mondiale presente, è questa la cosa mostruosa. 2. Si dice: il processo di Norimberga è una vergogna nazionale per tutti i tedeschi. Se almeno il tri-
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bunale fosse costituito da tedeschi, allora sarebbero i tedeschi a giudicare i tedeschi. Qui è da obiettare: la vergogna nazionale non è costituita dal processo di Norimberga, ma da ciò che ha portato a esso, dal fatto di questo regime e delle sue azioni. La coscienza di questa vergogna nazionale è cosa che non può essere evitata dai tedeschi. È però falso attribuirla al processo invece che alla causa prima del processo stesso. Inoltre: la nomina, da parte dei vincitori, di un tribunale tedesco o di tedeschi fra i giurati non cambierebbe nulla. I tedeschi, infatti, non si troverebbero a far parte del tribunale per essersi liberati da sé, ma solo per una grazia concessa dal vincitore. La vergogna nazionale rimarrebbe la stessa. TI processo è il risultato del fatto che non siamo stati noi a liberarci dal delittuoso regime, ma ne siamo stati liberati dagli alleati. 3. Un'altra obiezione al processo è questa: come è possibile parlare di delitti nella sfera della sovranità politica? Se si ammette ciò, il vincitore può sempre dichiarare criminale il vinto. Ma allora scompare il significato e il segreto dell'autorità che proviene da Dio. Uomini ai quali un popolo ha ubbidito- e fra essi, messi di nuovo in rilievo, prima il Kaiser Guglielmo II, ora il Fuhrer- sono da ritenere come sacri e inviolabili. A ciò è da rispondere: qui si tratta di una maniera abituale di pensare, derivante dalla tradizione della vita politica in Europa, tradizione che in Germania si è maritenuta più a lungo. Ma oggi l'aureola di santità è scomparsa dalle teste dei capi di stato. Essi sono uomini e sono responsabili di quel che fanno. Da
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quando i popoli europei hanno fatto il processo ai loro monarchi e li hanno decapitati, tocca ai popoli tenere sotto controllo la loro maniera di governare. Ogni atto di stato è nello stesso tempo un atto personale. Gli uomini ne sono individualmente responsabili e vengono quindi chiamati a renderne conto. 4. Dal punto di vista giuridico si solleva l'obiezione che segue: si può parlare di delitti soltanto in base a delle leggi. Il delitto è la violazione di queste leggi. Il reato deve potersi definire in maniera precisa, e deve potersi provare in maniera precisa ed esatta nelle circostanze di fatto. In particolare: nulla poena sine lege - vale a dire che si può pronunciare un giudizio soltanto in base a una legge che esisteva prima del compimento del fatto. A Norimberga, invece, si giudica con retroattività in base a delle leggi che vengono stabilite ora dai vincitori. A ciò è da rispondere a questo modo: se si tiene conto dell'umanità, dei diritti dell'uomo e del diritto naturale, e se ci si riporta alle idee di libertà e democrazia nel mondo occidentale, si può dire che ci sono delle leggi secondo le quali possano essere definiti dei delitti. Oltre a ciò ci sono dei trattati che, quando vengono firmati liberamente da entrambe le parti, stabiliscono appunto questa specie di diritto superiore, al quale ci si può appellare nel caso in cui si verifichi una violazione del trattato. Ma a chi compete qui di giudicare? In condizioni di pace proprie di un ordinamento statale, ci sono i tribunali. Dopo una guerra, ci può essere solo un tribunale del vincitore. 5. Da qui ancora un'altra obiezione: la forza del
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vincitore non è un diritto. n successo non può decidere del diritto e della verità. Non è possibile creare un tribunale capace di accertare obiettivamente e condannare la colpa della guerra e i delitti di guerra. Un tribunale di tal genere non può essere che di parte. Anche un tribunale formato di uomini appartenenti a paesi neutrali sarebbe un tribunale di parte. I paesi neutrali sono infatti impotenti, e si trovano di fatto al seguito dei vincitori. Potrebbe giudicare liberamente soltanto un tribunale che fosse sostenuto da una potenza tale da essere in grado di imporre anche con la forza il risultato del giudizio a entrambe le parti contendenti. L'obiezione con la quale si vuole mettere in rilievo la falsa parvenza di un tale diritto si appiglia anche ad altri argomenti. Dopo ogni guerra la colpa viene sempre addossata allo sconfitto. Questo viene ·costretto a riconoscere la sua colpa. Lo sfruttamento economico che tien dietro alla guerra viene presentato come riparazione. n saccheggio viene camuffato come atto di giustizia. Se non ci può essere un diritto da far valere liberamente, allora sarebbe da preferire la forza nuda e cruda. Sarebbe cosa più leale e più facile a sopportarsi. Non c'è che la potenza del vincitore. L'imputazione di delitto è in sé una cosa che può valere in ogni tempo per l'una e l'altra delle parti contendenti -l'imputazione può sostenerla soltanto il vincitore -, egli lo fa senza alcun ritegno, esclusivamente secondo la misura dei propri interessi. Tutto il resto serve solo a mascherare ciò che in effetti non è che la forza e l'arbitrio di chi ha il potere di farlo. Che il tribunale sia tutta una finzione si vede infi-
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ne dal fatto che le azioni dichiarate delittuose vengono portate innanzi al tribunale soltanto quando sono state commesse da uno stato sconfitto. Le stesse azioni, commesse da stati sovrani o vincitori, vengono passate sotto silenzio, non vengono discusse, tanto meno poi vengono punite. A questo è da rispondere: la potenza e la forza costituiscono effettivamente una realtà decisiva nel mondo degli uomini. Ma non la sola. Prendere in senso assoluto questa realtà significa annullare ogni legame sicuro tra gli uomini. Fino a quando essa predomina, non è possibile nessun trattato, così come Hitler ha infatti dichiarato: "I trattati valgono solo fino a quando essi rispondono ai propri interessi". Ed egli ha anche agito di conseguenza. Ma contro un tale atteggiamento reagisce la volontà che, pur riconoscendo la realtà della potenza e dell'efficacia di quella maniera nichilistica di pensare, la ritiene un qualcosa che non deve essere, e che deve quindi essere trasformato con tutte le forze. Infatti nelle faccende umane realtà non significa ancora verità. A questa realtà bisogna piuttosto contrappome un'altra. E dipende dalla volontà dell'uomo se questa seconda realtà è presente o non è presente. Ognuno deve sapere, nella sua libertà, qual è il posto che occupa e che cosa vuole. Partendo da questo orizzonte, bisogna dire: il processo di Norimberga, dato che rappresenta un tentativo nuovo di promuovere un ordinamento mondiale, non perde il suo significato se non è ancora in grado di farsi forte di un ordine giuridico mondiale, bensì se oggi rimane ancora necessariamente vincolato al gioco della politica intemaziona-
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le. Questo processo non ha luogo così come un processo giudiziario che si svolga nell'ambito di un chiuso ordine statale. Per questo Jackson ha detto apertamente che "se si permettesse alla difesa di fare delle digressioni dall'imputazione assai circoscritta nell'atto di accusa, il processo verrebbe tirato per le lunghe, e la corte si vedrebbe impigliata in controversie politiche irrisolvibili". Ciò significa anche che la difesa non deve occuparsi, per esempio, del problema concernente la colpa della guerra, questione questa che si spingerebbe assai addentro nei suoi presupposti storici, ma deve limitarsi a esaminare il problema di chi ha comincia,to la guerra. Inoltre, il diritto della difesa non dovrebbe consistere nel tirare in ballo e giudicare altri casi di delitti simili. Necessità politiche pongono un limite alle discussioni. Da ciò non consegue però il fatto che, in forza di questo limite, diventi tutto una menzogna. Al contrario, le difficoltà e le obiezioni sono espresse apertamente anche se brevemente. La situazione fondamentale per cui è il successo della lotta, e non la legge sola, a costituire il punto di partenza predominante, non può essere negata. Nel grande avviene come nel piccolo; e infatti, per esempio, quando sotto le armi si commettono delle mancanze, si suole dire ironicamente che non si viene puniti in virtù della legge, ma perché ci si è lasciati sorprendere. Ma questa situazione fondamentale non significa che l'uomo non sia in grado, dopo il successo, di superare il momento della forza e far valere il diritto, grazie alla sua libertà. E anche se
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ciò non avviene in maniera completa, anche se il diritto prevale solo fino a un certo punto, non si può negare di aver fatto con ciò un gran passo in avanti sulla via dell'ordinamento mondiale. Temperare la forza significa creare la possibilità di riflettere ed esaminare meglio le cose, significa portare maggiore chiarezza e quindi rendere più decisamente consapevole dell'importanza che la forza come tale continua pur sempre ad avere. Questo processo ha per noi tedeschi il vantaggio di fare delle differenze tra i delitti ben determinati dei capi, e di non condannare quindi il popolo nella sua collettività. Ma il processo ha un'importanza ancora maggiore. Esso si propone, per la prima volta e per tutto l'avvenire, di dichiarare che la guerra è un delitto e di trarne le conseguenze. Quanto si è iniziato col patto Kellogg deve ora avere per la prima volta la sua attuazione. Non si può mettere in dubbio la grandezza dell'impresa né la buona fede di molti uomini che vi concorrono. L'impresa può sembrare addirittura fantastica. Ma se ci rendiamo ben conto di che cosa qui veramente si tratta, allora ci assale anche un fremito d'attesa al pensiero di ciò che accade. La differenza consiste ora in questo, che noi possiamo o presumere con atteggiamento nichilistico che il processo non possa essere che apparente, o desiderare ardentemente che esso possa riuscire. Tutto dipende dalla maniera in cui il processo verrà eseguito, come verrà condotto dal punto di vista dei contenuti, quali saranno i risulta,ti, le motivazioni, come si concluderà complessivamente il procedimento nel ricordo. Tutto dipende dal fatto se il
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mondo può riconoscere come giusto e come vero quello che viene messo qui in atto, se anche i vinti non possono astenersi dal dare la loro approvazione, se la storia potrà più tardi scorgervi i segni della verità e della giustizia. Ma ciò non si decide soltanto a Norimberga. TI punto essenziale è che il processo di Norimberga costituisca veramente un anello nella catena delle azioni politiche di alto significato - in tal caso non importerebbe se a queste dovessero spesso intrecciarsi anche degli errori, delle insensatezze, delle crudeltà e degli odi -, e che le potenze, che oggi hanno costituito una norma di giustizia enunciata per l'umanità, non vengano un giorno a trovarsi esse stesse in difetto rispetto a questa norma. Le potenze che hanno stabilito di fare il processo di Norimberga hanno con ciò dato prova di voler governare il mondo di comune accordo, assoggettandosi all'ordine mondiale. Esse hanno dato prova di volersi veramente assumere, come risultato della loro vittoria, la responsabilità dell'umanità, e non solamente dei loro stati. Questa loro testimonianza non può risultare falsa. Se si suscita e si diffonde nel mondo la fiducia che a Norimberga si compie un atto di diritto e che al diritto è stato posto un fondamento, vuoi dire allora che il processo politico è diventato un processo giuridico, vuoi dire che il diritto è stato fondato creativamente e costituito per un mondo nuovo che è ancora da edificare. Altrimenti la delusione e il riconoscimento della menzogna e della finzione in questo processo determinerebbero nel mondo una situazione ancora peggiore, che promuoverebbe
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nuove guerre; Norimberga, invece di diventare una benedizione, diventerebbe piuttosto un fattore di sventure; il mondo finirebbe col ritenere che il processo è stato solo apparente e coreografico. Ciò non deve accadere. A tutte le obiezioni possibili contro il processo si deve quindi rispondere a questo modo: a Norimberga si tratta di una cosa veramente nuova. Non si può negare che in tutte le obiezioni ci sia qualcosa che possa rappresentare un eventuale pericolo. Certamente falsi, in primo luogo, sono però quei ragionamenti che vogliono assolutamente porre delle alternative sicure e traggono lo spunto da possibili difetti, errori e confusioni che riguardano punti particolari, per generalizzare e riprovare tutto in blocco. Invece, l'importante è che si sia sulla via giusta e che le potenze persistano pazientemente nell'assumersi le loro responsabilità. Le contraddizioni che si verificano in punti particolari devono essere superate mediante atti che tendano a stabilire un nuovo ordine mondiale, pur in tanti disorientamenti. Falso, in secondo luogo, è quello stato d'animo di sdegnosa aggressività, che dice di no fin dall'inizio. Ciò che ha luogo a Norimberga rappresenta, pur suscitando tante obiezioni, un annuncio ancora debole e vago di quell'ordinamento mondiale di cui oggi l'umanità deve ormai necessariamente cominciare a rendersi conto. Questa è la vera situazione affatto nuova: l'ordinamento mondiale certo non è cosa che già stia senz' altro per avverarsi - sulla via della sua realizzazione ci sono piuttosto ancora terribili conflitti e imprevedibili pericoli di guerra -, però esso è apparso possibile alla mente degli uomi-
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ni e si leva lentamente all'orizzonte, come un'aurora che appena si comincia a intravedere. Se questo nuovo ordinamento del mondo dovesse fallire, allora si delineerebbe una terribile minaccia: l' autodistruzione dell'umanità. Chi è ridotto all'estrema impotenza trova il suo sostegno soltanto nel mondo nel suo insieme. Di fronte al nulla si protende verso l'origine e ciò che tutto abbraccia. Per questo sono proprio i tedeschi quelli che meglio possono comprendere il significato straordinario di questo primo annuncio. La nostra salvezza nel mondo dipende da quell' ordinamento mondiale che a Norimberga non è ancora costituito, ma che a Norimberga viene additato.
2. La colpa politica Quando si tratta di delitti, la punizione colpisce chi li commette. L'essersi il processo di N orimberga limitato a considerare solamente i criminali, ha deposto a discarico del popolo tedesco. Ma questo non vuoi dire che il popolo tedesco si sia liberato da ogni colpa. È precisamente il contrario. La nostra colpa vera e propria diventa ancor più evidente nella sua essenza. Quando il regime nazionalsocialista, che si attribuiva il nome di tedesco e pretendeva di essere la Germania- e sembrava che ne avesse proprio il diritto, poiché aveva nelle mani tutti i poteri dello stato, e fino al1943 non aveva incontrato alcuna oppo-
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sizione che implicasse per esso qualche pericolo -, commise i suoi delitti, noi fummo cittadini tedeschi. La distruzione di ogni forma di stato decorosa e sinceramente tedesca deve avere la sua ragione anche nel comportamento tenuto dalla maggioranza della popolazione tedesca. Un popolo è responsabile per la propria forma di governo. Per quanto riguarda i delitti che sono stati commessi in nome del Reich tedesco, ogni tedesco viene reso corresponsabile. Ne "rispondiamo" collettivamente. Rimane da vedere in che senso ciascuno di noi deve sentirsi corresponsabile. Senza dubbio si tratta qui di quella responsabilità politica per la quale ogni cittadino è corresponsabile delle azioni che vengono commesse dallo stato al quale appartiene. Questo però non significa necessariamente che ciascuno è colpevole anche nel senso morale di aver preso parte, o nei fatti o intellettualmente, a quei delitti. Dovremmo noi tedeschi essere ritenuti responsabili dei misfatti che sono stati consumati contro di noi da tedeschi o ai quali siamo sfuggiti quasi per miracolo? Sl- nella misura in cui abbia, mo tollerato che sorgesse presso di noi un regime di tal genere. No -nella misura in cui molti fra noi sono stati, nella loro più profonda interiorità, contrari a tutte quelle malvagità, e non hanno bisogno di riconoscere in sé alcuna correità morale in forza di nessuna azione che abbiano compiuto e di nessuna motivazione che abbiano avuto. Rendere uno responsabile di una colpa non significa riconoscer/o come moralmente colpevole. Una colpa collettiva esiste dunque necessariamente come responsabilità politica dei cittadini, ma
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non per questo anche nel senso di una colpa morale, metafisica o criminale. Accettare l'imputazione di una responsabilità politica, con tutte le sue terribili conseguenze, è certamente cosa dura per ogni singola persona. Essa significa per noi un'assoluta impotenza politica e una miseria che ci costringerà a vivere per lungo tempo in una condizione di fame e di freddo (o per lo meno in prossimità di essa), e in sforzi vani. Ma questa responsabilità come tale non riguarda l'anima. In uno stato moderno ognuno fa della politica per lo meno quando vota o anche quando tralascia di votare. Il significato stesso della responsabilità politica non permette che qualcuno vi si possa sottrarre. Coloro che han preso parte alla politica attiva sono soliti giustificarsi successivamente, quando è andata male. Ma nella condotta politica siffatte maniere di difendersi non contano. Si dice, per esempio, di aver avuto delle buone intenzioni e di aver voluto il bene. Che Hindenburg non abbia inteso rovinare la Germania e non l'abbia voluta consegnare nelle mani di Rider, questo non gli giova a niente; egli lo ha fatto; e solo questo conta in politica. Oppure si racconta di aver visto la disgrazia, di averlo detto, e di aver messo in guardia contro di essa. Ma ciò non vale in politica, se non si è passati all' azione e se l'azione non ha avuto successo. Si potrebbe pensare: ci potrebbero essere degli uomini completamente apolitici che conducono una vita al di fuori di ogni rapporto politico, come i monaci, gli eremiti, gli studiosi, gli scienziati, gli artisti.
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Se essi fossero veramente apolitici non partecipe· rebbero alla colpa. Ma la responsabilità politica investe anche loro, perché anche la loro vita è resa possibile dall'ordinamento dello stato. Negli stati moderni non c'è nessuno che si possa trovare al di fuori della politica. Si vorrebbe certo poter permettere l'estraneità, ma lo si può fare solo tenendo presente questa restrizione. Noi vorremmo riconoscere e approvare l'esistenza apolitica. Ma, appena smettessero di partecipare alla vita politica, gli apolitici non avrebbero più il diritto di pronunciare dei giudizi sui fatti politici concreti del momento. Con tali giudizi verrebbero infatti a fare anche loro della politica, pur senza correre dei rischi. Un ambito apolitico richiede che ci si autoescluda da ogni specie di attività politica. Ma ciò non implica che ogni responsabilità politica venga a cessare per ogni verso.
3. La colpa morale Ogni tedesco fa un esame di se stesso: qual è la mia colpa? Quando la questione della colpa si considera nei riguardi di una persona singola, e sempre che quest'ultima esamini attentamente se stessa, è detta questione di colpa nel senso morale. In questo sussistono tra noi tedeschi le più grandi discrepanze. Naturalmente è la persona singola quella che solamente può decidere di se stessa nel giudizio di valutazione morale. Però, nella misura in cui ci trovia-
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mo a vivere in comunicazione reciproca, allora possiamo parlarci fra di noi e aiutarci insieme a vederci chiaro dal punto di vista morale. Ma, a differenza della condanna dal punto di vista criminale e politico, la condanna morale dell'altro rimane come in sospeso. limite dove vien meno anche la possibilità di un giudizio morale si raggiunge quando ci accorgiamo che l'altro non sembra fare nemmeno un passo per autoesaminarsi moralmente, quando nel modo di ragionare non percepiamo altro che della sofistica, e quando l'altro non sembra neanche ascoltare. Hitler e i suoi complici, che rappresentavano una piccola minoranza di diecimila persone, si trovano al di fuori della colpa morale in quanto non l' avvertono affatto. Essi sembrano incapaci di pentimento e di conversione. Sono quelli che sono. Di fronte a uomini siffatti non rimane che la forza. Infatti essi stessi non vivono che mediante la forza. Ma la colpa morale sussiste per tutti coloro che danno spazio alla coscienza e al pentimento. Sono colpevoli nel senso morale coloro che sono capaci di espiazione, coloro che pur sapendolo, o pur in condizioni di poterlo sapere, intrapresero una via che essi, nel loro autoesame, vedevano condurre all' errore colposo, sia che nascondessero a se stessi comodamente quel che accadeva, sia che si lasciassero stordire e sedurre, o che si vendessero per vantaggi personali, o che obbedissero per paura. Cerchiamo di rappresentarci alcune di queste possibilità: a) La vita mascherata - per chi vo1eva sopravvivere portò necessariamente a una colpa morale. Bu-
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giarde assicurazioni di lealtà di fronte ad autorità che ricorrevano alla minaccia, come la Gestapo, gesti come il saluto hitleriano, la partecipazione a riunioni, e molte altre cose che producevano la parvenza di una reale partecipazione - chi di noi in Germania non avrebbe, in una circostanza o in un'altra, una colpa di tal genere? Solamente uno smemorato potrebbe illudersi su questo, ma perché lo vuole. Il camuffamento era allora un tratto fondamentale della nostra esistenza, e pesava sulla nostra coscienza. b) Ancora più ci sconcerta, nel momento in cui ce ne rendiamo conto, la colpa che deriva da una falsa coscienza. Più di un giovane ora si ridesta con questa orribile consapevolezza: la mia coscienza mi ha tratto in inganno - in che cosa potrò ancora fare assegnamento? Credevo di sacrificarmi per le mete più alte, credevo di desiderare il meglio. Tutti coloro che si ridestano così, metteranno a prova se stessi, e si accorgeranno che la loro colpa nasceva dalla mancanza di chiarezza, dal non voler vedere, dall' essersi isolati consapevolmente e chiusi nella propria vita all'interno di una sfera "decorosa". Qui, per prima cosa, bisogna distinguere fra l'onore militare e il senso politico. La consapevolezza dell'onore militare rimane al di fuori di ogni discussione relativa alla colpa. Chi, rimanendo sempre fedele nel cameratismo, sempre imperturbato nei pericoli, ha dato buona prova di sé col suo coraggio, col suo realismo, può ora custodire nella sua autocoscienza qualche cosa di inviolabile. Questo elemento puramente militare e al tempo stesso umano è una caratteristica comune a tutti i popoli. Qui nel-
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la prova di sé, non solo non è implicata alcuna colpa, ma vi si esprime anche, quando uno non si viene a macchiare col compiere azioni malvage eseguendo ordini evidentemente malvagi, un fondamento del senso della vita. Però la condotta del soldato per dare prova di sé non si deve identificare con la causa per la quale si è combattuto. La prova di sé fornita dal soldato non esclude ogni colpa per ogni altro verso. L'avere identificato, senza alcuna riserva, uno stato di fatto con la nazione tedesca e con l'esercito tedesco è una colpa di falsa coscienza. Chi, come soldato, fu irreprensibile poté soccombere alla falsificazione della propria coscienza. Per questo si poteva compiere e tollerare, in nome del sentimento di nazionalità, quel che era evidentemente malvagio. Per questo la buona coscienza si è potuta trovare unita con la cattiva condotta. Ma il dovere verso la patria è più profondo di una ubbidienza cieca di fronte a un regime al potere. La patria non è più la patria se la sua anima è stata distrutta. La potenza di uno stato non è un fine per se stesso, ma può diventare anche perniciosa quando un tale stato annulla l'essenza tedesca. Perciò il dovere verso la patria non doveva affatto portare senz' altro alla ubbidienza di fronte a Hitler e al luogo comune che anche come stato hitleriano la Germania doveva vincere la guerra a ogni costo. Appunto in questo consiste la falsa coscienza. Non si tratta di una colpa pura e semplice, ma, nello stesso tempo, del tragico perturbamento che si è venuto a determinare specialmente in una gran parte della gioventù ignara. Il dovere verso la patria im-
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porta che tutto l'uomo venga messo a rischio per le più alte esigenze che ci vengono dai nostri antenati migliori e non dagli idoli di una falsa tradizione. Con questo si spiega un fatto che veramente ci sorprendeva: come mai, nonostante tutte le sue malvagità, venne compiuta un' autoidentificazione con l'esercito e con lo stato. Infatti l'incondizionatezza di una cieca concezione della nazionalità concepibile come l'ultimo terreno marcio in un mondo che sempre più viene perdendo ogni fede comportava, nonostante la buona coscienza, anche una colpa dal punto di vista morale. Una colpa di tale genere veniva resa possibile anche in forza di una frase biblica fraintesa: sii sottomesso all'autorità che esercita la sua forza su di te; ma essa venne del tutto travisata, e venne ridotta all'idea del comando, inteso come sacro in base alla nostra tradizione militare. "Si tratta di un ordine"questo suonava e ancora suona per molti in tono così patetico -, come se esprimesse il più alto dei doveri. Ma questa parola serviva anche a scaricare la coscienza, dato che con un'alzata di spalle si faceva passare come inevitabile tutto quanto c'era di stupido e di malvagio. Una condotta di tal genere, pienamente colpevole dal punto di vista morale, si trasformò in una tendenza a ubbidire ciecamente, tendenza del tutto impulsiva, per cui ciascuno si sentiva in pace con la propria coscienza, mentre di fatto aveva abolito ogni coscienza. Più di uno, nella nausea che provava di fronte al nazismo negli anni successivi al 193 3, si è dato alla carriera di ufficiale dell'esercito, poiché sembrava che quello fosse l'unico ambiente ancora decoroso,
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immune da ogni influenza del partito, anzi con uno stato d'animo contrario al partito, e sembrava che si reggesse da sé per forza propria, senza di esso. Anche questo era un errore di coscienza, come si ebbe a constatare quando l'ufficiale tedesco- a eccezione dei generali ligi all'antica tradizione, i quali si meritano un posto a parte - si lasciò andare, in tutti i posti di comando, a rinunciare a ogni dignità morale, nonostante le numerose nobili, amabili figure, le quali inutilmente avevano cercato di salvarsi, seguendo una coscienza ingannevole, col far parte dell'esercito. Appunto quando uno si è fatto guidare in principio da una coscienza onesta e da una buona volontà, la delusione e l' autodisillusione devono essere tanto più forti. Esse conducono a esaminare anche la più perfetta buona fede, domandando: in che modo io sono responsabile per la mia illusione, per ogni illusione in cui vengo a cadere? Destarsi e rendersi conto di questa illusione è cosa di cui non si può fare a meno. Per questa via da giovani idealisti vengono fuori dei tedeschi che sono uomini sinceri, moralmente affidabili, di chiare vedute politiche, i quali, con rassegnazione, accettano il destino che ora ci sovrasta. c) La parziale approvazione del nazismo, le mezze misure, l'occasionale adattamento interiore e l'accomodamento sono colpe morali senza quel tratto di tragicità che si riscontra nelle forme di colpa delle quali ci siamo occupati in precedenza. Presso di noi era diventata cosa abituale una certa maniera di ragionare. Si diceva che c'era pur sempre qualche cosa di buono nel nazismo. E molti
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erano ben disposti a fare questo riconoscimento che ritenevano giusto. Solamente un radicale aut aut poteva essere vero. Se riconosco il principio malvagio, allora tutto è cattivo, e anche le conseguenze apparentemente buone non sono quello che sembrano essere. Dato che questo senso errato di obiettività portava a riconoscere quel che si pretendeva che ci fosse di buono nel nazismo, avvenne che anche coloro i quali fino ad allora erano stati amici stretti divennero estranei gli uni agli altri, e con loro non si poteva più discorrere apertamente. Quelle medesime persone, le quali poco prima deploravano che non c'era stato nessun martire che si fosse levato a protestare e a sacrificarsi per l'antica libertà contro l'ingiustizia, potevano lodare come un gran merito del regime l'aver abolito la disoccupazione (mediante l'armamento e un'economia finanziaria fraudolenta). Allo stesso modo potevano salutare l'annessione dell'Austria nel1938 come il raggiungimento dell'antico ideale dell'unificazione dell'impero; nel1940 potevano mettere in dubbio la neutralità dell'Olanda e giustificare l'aggressione di Hitler. Quello che più conta è che tutti si rallegravano delle vittorie. d) Parecchi si abbandonavano comodamente alI'autoillusione: assicuravano che avrebbero senz'altro cambiato questo regime sciagurato, che il partito sarebbe sparito, al più tardi, con la morte del Fuhrer. Per il momento bisognava dare una mano a indirizzare dall'interno la cosa al bene. Ecco alcune maniere tipiche di discorrere. Tra gli ufficiali: "Noi ci libereremo del nazismo, dopo la guerra, appunto in base alla nostra vittoria.
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Ora quel che più importa è di mantenerci uniti e compatti, di condurre la Germania alla vittoria. Quando la casa brucia, prima si spegne l'incendio e non si va a indagare chi l'abbia provocato".- Larisposta è questa: dopo la vittoria verrete congedati, e tornerete alle vostre case; ma le ss continueranno a tenere le armi e il regime terroristico del nazismo si accentuerà fino a diventare uno stato di schiavi. A nessuno sarà più concesso di poter vivere a modo suo. Verranno erette delle piramidi, e strade e città saranno costruite e trasformate secondo il capriccio e l'umore del Fuhrer. Una macchina mostruosa di armamenti sarà sviluppata per la conquista definitiva del mondo. Fra professori: "Noi nel partito rappresentiamo la fronda. Noi osiamo discutere senza alcuna riserva. Raggiungeremo risultati spirituali. A lungo andare finiremo col riportare tutto all'antica tradizione dello spirito tedesco". - La risposta è questa: voi vi illudete. A voi viene lasciata quella libertà che si suole lasciare ai matti, a condizione che non veniate mai meno all'ubbidienza cieca. Voi tacete e vi rassegnate. La lotta che voi credete di condurre è una vana parvenza gradita al regime. Voi non fate altro che contribuire a seppellire per sempre lo spirito tedesco. Molti intellettuali nel1933 cooperarono col regime, ambirono a conquistare posti preminenti e apertamente presero posizione a favore della nuova potenza anche da un punto di vista ideologico; poi più tardi vennero costretti a ritirarsi in disparte e di questo si risentirono, ma per lo più continuarono a mantenere un atteggiamento positivo fino a che,
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dopo il1942, si fece evidente il risultato sfavorevole della guerra, che li fece passare all'opposizione più netta. Questi sentono di aver sofferto sotto il nazismo e di essere pertanto chiamati per quel che deve ora subentrare. Essi si considerano come antinazisti. Ci fu, durante tutti quegli anni, un'ideologia di questi nazisti intellettuali. A sentir loro, essi, nelle cose dello spirito, manifestavano la verità senza alcun preconcetto - continuavano la tradizione dello spirito tedesco- mettevano in guardia contro devastazioni -, in ogni cosa erano lì a promuovere nuove iniziative. Tra questi se ne trovano forse parecchi che sono colpevoli per la costanza della loro maniera di pensare, che, sebbene non corrispondesse interamente alle dottrine del partito, manteneva nei fatti l' atteggiamento interiore del nazismo sotto la falsa apparenza del cambiamento e dell'opposizione, senza giungere a vederci chiaro in tutto questo. Con questa maniera di pensare essi sono forse originariamente affini a tutto quello che nel nazismo c'è stato di inumano, di dittatoriale, e che ha nichilisticamente rinnegato ogni forma di esistenza. Chi, come uomo maturo nell'anno 1933, mostrava un'intima persuasione, che non era solo radicata in un errore politico, ma veniva accentuata fino a diventare un senso profondo di vita mediante il nazismo, non si può purificare se non mediante una radicale trasformazione, che forse deve arrivare più in fondo che tutte le altre. Chi si è comportato così nel1933, senza questa radicale trasformazione resterebbe interiormente fragile ed esposto a ulteriori fanatismi. Chi prese parte al razzismo, chi ebbe l'illusione di
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una struttura in realtà fondata sulla menzogna, chi accettò i delitti che già fin da allora si commettevano, non solo è responsabile, ma deve rinnovarsi dal punto di vista morale. Se egli lo può e in che modo lo fa, è cosa che riguarda lui solo e che a malapena si può valutare dall'esterno. e) C'è differenza tra quelli che si sono comportati attivamente e quelli che si sono comportati passivamente. Quelli che hanno agito ed eseguito dal punto di vista politico, quelli che hanno dato le direttive e quelli che hanno fatto propaganda sono tutti colpevoli. Anche se non commisero dei delitti veri e propri, essi, con la loro attività, hanno una colpa determinabile in senso positivo. Però in mezzo a noi ognuno ha colpa nella misura in cui è rimasto inattivo. La colpa della passività è di altro genere. La condizione di impotenza discolpa. Morire per raggiungere un certo effetto è cosa che non si può pretendere dal punto di vista morale. Già per Platone era cosa ovvia che in tempi nefasti di grande disperazione uno si nascondesse e cercasse di sopravvivere. Ma la passività deve riconoscere la sua colpa morale per tutte le volte in cui ha mancato nel trascurare di fare tutto quel che si poteva fare per aiutare coloro che venivano minacciati, per attenuare l'ingiustizia, per opporsi. Anche per chi doveva rassegnarsi nella sua impotenza, rimaneva sempre lo spazio per qualche efficace attività, prendendo ogni cautela e correndo qualche rischio. Nel fatto che per paura si è trascurato di farlo, ciascuno riconoscerà la propria colpa morale: l'essere rimasti ciechi di fronte alla sventura degli altri, questa specie di mancanza di immaginazione
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da parte del cuore e il non sentirsi interiormente colpiti da quelle sofferenze che si avevano innanzi agli occhi. f) La colpa morale di aver simpatizzato per quanto riguarda gli atteggiamenti esteriori è comune a molti di noi, in una misura o nell'altra. Per affermare la propria esistenza, per non perdere il proprio posto, per non annullare le proprie chances, si diventò membri del partito e si diedero con la propria condotta altre prove formali di appartenervi. Nessuno potrà trovare per questo una giustificazione senza residui, specialmente di fronte a tanti tedeschi che non si sono piegati a un adattamento di questo genere, subendone gli svantaggi. È necessario che ci facciamo presente nella mente qual era la situazione nel1936 o nel1937. Il partito era lo stato. Quelle condizioni pareva che dovessero persistere per un tempo imprevedibile. Solamente una guerra poteva abbattere il regime. Tutte le potenze venivano a patti con Rider. Tutte volevano la pace. Il tedesco che non voleva rimanere interamente da parte, o perdere il suo lavoro, o rovinare i suoi affari, era costretto a adattarsi, specialmente se era giovane. Ormai l'appartenenza al partito o a organizzazioni professionali non era più un atto politico, ma era piuttosto un atto di grazia da parte dello Stato che ammetteva la persona interessata. Un "distintivo" era una necessità, nelle condizioni esteriori, senza una vera adesione interiore. Chi allora veniva invitato a iscriversi, difficilmente poteva dire di no. Per la maniera di intendere questa partecipazione, quel che decide è in quali circostanze e per quali motivi ciascuno diventò membro
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del partito. Ciascun anno e ciascuna situazione hanno le loro particolari giustificazioni attenuanti, le quali possono essere distinte solamente secondo i vari casi individuali.
4. La colpa metafisica La morale è sempre anche determinata da fini interiori. Dal punto di vista morale posso essere obbligato a mettere a rischio la mia vita, quando si tratta di portare a effetto uno di questi fini. Ma moralmente non sussiste alcuna pretesa di sacrificare la propria vita, quando è certo che non se ne ottiene nulla. Dal punto di vista morale noi sentiamo l'esigenza del rischio, non quella di scegliere una rovina sicura. Nell'uno e nell'altro caso si richiede piuttosto il contrario: che non si faccia quello che nelle cose del mondo non conduce ad alcun risultato, e che invece ci si preservi in vista di scopi che potranno essere raggiunti. Però c'è in noi una consapevolezza di colpa che ha altra fonte. La colpa metafisica consiste nel venir meno a quell'assoluta solidarietà con l'uomo in quanto uomo. È una pretesa incancellabile, anche quando le esigenze ragionevoli della morale sono già cessate. Questa solidarietà viene lesa quando io mi trovo a essere presente là dove si commettono ingiustizie e delitti. Non basta che io metta a rischio con ogni cautela la mia vita per impedirli. Una volta che quel male ha avuto luogo e io mi sono trovato presente e sopravvivo, dove un altro viene ucciso, in me parla una voce che mi dice che la mia colpa è il fatto di essere ancora vivo.
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Quando, nel novembre 1938, ardevano lesinagoghe e per la prima volta gli ebrei venivano deportati, riguardo a questi delitti si trattò soprattutto di una colpa morale e politica. Queste due specie di colpa vennero a pesare su coloro che ancora avevano il potere. I generali non intervennero. In ogni città i capi dell'esercito potevano intervenire, quando si consumavano i delitti. Infatti i militari sono lì per la difesa di tutti quando i delitti si commettono in misura tale che la polizia non li può impedire o fallisce nel suo compito. Quei generali non fecero niente. Essi in quel momento sacrificarono la tradizione dell'esercito tedesco che, dal punto di vista morale, era stata un tempo gloriosa. Era una cosa che non li riguardava. Essi si erano distaccati dall'anima del popolo tedesco, a favore di una macchina militare assolutamente autonoma, consistente nell'ubbidire agli ordini. Fra la nostra popolazione molti erano indignati, molti furono presi da un terrore in cui c'era già il presentimento della futura sventura. Ma furono in numero anche maggiore coloro che, senza scomporsi, continuarono nelle loro varie attività, nei loro svaghi e divertimenti, proprio come se niente fosse accaduto. Questa è colpa morale. Coloro invece che, nella loro condizione di disperata impotenza, non poterono impedire quella situazione, fecero un passo avanti nella loro conversione attraverso la consapevolezza della colpa metafisica.
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5. Ricapitolazione a) Le conseguenze della colpa Se le nostre considerazioni non sono state del tutto infondate, non ci può essere alcun dubbio in ordine al fatto che tutti noi tedeschi siamo colpevoli, e che ogni tedesco in un modo o in un altro ha la sua colpa: l) Ogni tedesco, senza alcuna eccezione, ha la sua parte nella responsabilità politica. Egli non può sottrarsi alle riparazioni che devono aver luogo nelle forme del diritto, deve necessariamente soffrire insieme con gli altri per le conseguenze di quello che decidono e fanno i vincitori, e anche dei contrasti che si possono verificare tra di loro. Noi non siamo in condizioni di poter esercitare un'influenza come un fattore di forza. Solamente col nostro sforzo costante a esporre in modo ragionevole i fatti, le varie possibilità e i pericoli, possiamo contribuire a fissare i presupposti per le decisioni che dovranno essere prese nei nostri riguardi. Ai vincitori ci possiamo rivolgere in forme adeguate, adducendo ragioni. 2) Non ogni tedesco, ma solamente una piccola minoranza di tedeschi deve essere punita per i delitti commessi. Un'altra piccola minoranza deve espiare per attività naziste. Ciascuno può difendersi dinanzi ai tribunali dei vincitori o alle autorità tedesche che possano essere costituite dai vincitori e chiamate a giudicare. 3) È fuori dubbio che in tutto questo ciascun tedesco, sebbene in condizioni differenti, trova l'oc-
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casione per fare l' esaine della propria coscienza dal punto di vista morale. Qui non c'è bisogno di riconoscere alcuna autorità costituita al di fuori della propria coscienza. 4) E certo ogni tedesco che comprende, nelle esperienze metafisiche di tali sciagure, trasforma la propria coscienza dell'essere e di se stesso. Come ciò accada è cosa che nessuno può prescrivere o fissare in anticipo. È cosa che riguarda ciascun individuo nella sua solitudine. Quel che ne può emergere deve costituire la base essenziale di quello che dovrà essere nell'avvenire l'anima tedesca. Queste distinzioni si prestano a essere utilizzate in modo sofistico per liberarsi in tutto e per tutto dal problema della colpa, in questo modo: Per la responsabilità politica. - Va bene, ma essa limita solamente le mie risorse materiali, mentre io stesso, nella mia interiorità, non ne sono colpito. Per la colpa criminale. - Essa riguarda solamente pochi, ma non me; non mi concerne affatto. Per la colpa morale. - Io sento dire che solo la propria coscienza è l'istanza preposta a questo riguardo, e che gli altri non possono farmi alcun rimprovero. La mia coscienza mi riserverà senz' altro un trattamento amichevole. Non è poi tanto male. Basta tirarvi su un frego, e si incomincia una nuova vita. Per la colpa metafisica. - Ma, come già è stato detto, nessuno può attribuirla a un altro. È una cosa di cui mi devo rendere conto trasformando me stesso. Si tratta di qualche pensiero malinconico di un filosofo. Una cosa del genere non esiste. E se
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anche esiste, io nori ne so niente. Bisogna che lasci le cose come sono. La nostra scomposizione dei concetti di colpa può diventare un trucco, con cui ci si libera da ogni colpa. Le distinzioni stanno in primo piano e possono nascondere l'origine e l'unità della colpa. b) La colpa collettiva Dopo aver distinto i vari momenti della colpa, finalmente torniamo alla questione della colpa collettiva. La distinzione è certamente giusta e sensata in tutto e per tutto; però apre la via a quella seduzione che abbiamo descritto, come se in forza di siffatte distinzioni uno potesse sottrarsi a ogni accusa e liberarsi da ogni peso. Con questo è andato perduto tutto quello che, nonostante tutto, non può essere trascurato nei riguardi della colpa collettiva. n nostro modo grossolano di pensare e condannare in base a concetti collettivi non impedisce il nostro sentimento di appartenenza reciproca. In fin dei conti la vera collettività è costituita dalla coappartenenza di tutti gli uomini di fronte a Dio. Ciascuno può, in un modo o in un altro, liberarsi dai vincoli che lo legano allo stato, al popolo e ad altre organizzazioni, per aprirsi un passaggio verso l'invisibile solidarietà di tutti gli uomini, come uomini di buona volontà e come uomini che hanno la colpa comune della loro natura umana. Ma, dal punto di vista storico, noi restiamo legati alle comunità più strette e più prossime, senza le quali ci verrebbe a mancare il terreno sotto i piedi.
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La responsabilità politica e la colpa collettiva Per prima cosa rendiamoci conto ancora una volta dello stato dei fatti: i giudizi che gli uomini danno e i sentimenti che essi provano in tutto il mondo vengono in larga misura regolati da rappresentazioni collettive. n tedesco, chiunque egli sia, oggi nd mondo viene considerato come qualcuno con cui nessuno vorrebbe avere a che fare. Gli ebrei tedeschi che si trovano all'estero, come tedeschi, sono indesiderati e sostanzialmente ritenuti come tedeschi e non come ebrei. In conseguenza di questa maniera collettivistica di pensare, la responsabilità politica viene nello stesso tempo fondata, come punizione, sulla colpa morale. Questa maniera di pensare per categorie collettive si è verificata spesso nd corso della storia. La barbarie della guerra ha preso le popolazioni come un tutto, e le ha votate al saccheggio, alle violenze e alla vendita in condizioni di schiavi. E oltre a ciò a quei disgraziati toccò anche l'annientamento morale nd giudizio espresso dal vincitore. Il vinto non solo è obbligato a sottomettersi, ma anche a confessare ed espiare la sua colpa. Chi è tedesco, cristiano o ebreo che possa essere, è uno spirito malvagio. Di fronte a questo stato di cose, di fronte a questa opinione così largamente diffusa nd mondo anche se non universale, noi siamo sempre di nuovo esortati non solo a difenderci, servendoci della semplice distinzione tra la responsabilità politica e la colpa morale, ma anche a esaminare quanto ci possa essere di vero nd pensare sulla base di idee collettive. Non si tratta di rinunciare a una tale distin-
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zione, ma di circoscriverla, affermando che la nostra condotta che determinò la nostra responsabilità è fondata su circostanze politiche complessive, le quali, dato che esse contribuiscono a determinare la morale delle singole persone, hanno anche un carattere morale. Da queste circostanze le persone singole non si possono separare in tutto e per tutto, dato che esse, consapevolmente o meno, vivono in esse come membri che non si possono sottrarre a ogni influenza, anche quando siano state all'opposizione. Così c'è anche qualche cosa come una colpa collettiva, dal punto di vista morale, nella maniera di vivere di una popolazione, maniera di vivere alla quale io come singolo prendo parte e dalla quale derivano le realtà politiche. Infatti la situazione politica e la maniera generale di vivere degli uomini non devono essere separate. Non si può fare una distinzione assoluta tra la politica e la natura umana finché un uomo non va a perdersi come un eremita completamente appartato. Lo svizzero, l'olandese si sono venuti a formare attraverso le situazioni politiche nelle quali si sono venuti a trovare; e anche tutti noi che siamo in Germania siamo stati educati per secoli all'ubbidienza, al sentimento dinastico, all'indifferenza e all'irresponsabilità nei confronti della realtà politica - e di tutto questo rimane sempre qualche cosa in noi, anche quando ci opponiamo a questi atteggiamenti. Che l'intera popolazione nell'ordine dei fatti subisca le conseguenze delle azioni dello stato - quidquid delirant reges plectuntur Achivi -, è questo un semplice fatto empirico. Che poi la popolazione si
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sappia responsabile è il primo segno che si ridesta la sua libertà politica. Solamente nella misura in cui questa forma di consapevolezza sussiste e viene riconosciuta, si può dire che la libertà ci sia veramente e non si tratti di una pretesa tutta esteriore da parte di uomini non liberi. L'interiore mancanza di libertà politica da una parte ubbidisce, dall'altra parte non si sente colpevole. n riconoscersi responsabili è l'inizio di una rivoluzione interiore, la quale vuole realizzare la libertà politica. n contrasto tra il modo di sentire libero e quello non libero si può vedere, per esempio, nella concezione del capo dello stato. È stato detto: i popoli hanno colpa per i capi che piacciono loro? Per esempio, la Francia ha colpa per Napoleone? Si può pensare che la stragrande maggioranza dei francesi si trovò d'accordo con Napoleone, volle la potenza e la gloria raggiunte da Napoleone. Napoleone fu possibile solamente perché i francesi lo vollero. La sua grandezza consiste nella sicurezza con cui egli concepì quello che la massa del popolo si aspettava, che cosa voleva udire, che figura voleva fare, quali vantaggi materiali voleva effettivamente conseguire. Non ebbe ragione il Lenz a dire che "si era costituito uno stato che rispondeva al genio della Francia"? Sì, nel senso che rispondeva a una parte della Francia e a una sua determinata situazione; ma non nel senso che rispondeva al genio di un popolo tout court. Chi può mai determinare il genio di un popolo in tal modo? Da quel medesimo genio sono derivate anche realtà del tutto diverse. Si potrebbe forse pensare: come un uomo è re-
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sponsabile della scelta della donna amata, con la quale egli si è venuto a legare col matrimonio e con la quale conduce la sua vita in un comune destino, così anche un popolo è responsabile per l'uomo a cui presta ubbidienza. Se ha sbagliato, la colpa è sua. Tutte le conseguenze debbono essere subite inesorabilmente. Ma appunto questo sarebbe assurdo. Quel che nel matrimonio è possibile e doveroso, nei riguardi dello stato è già per principio una rovina: cioè illegarsi incondizionatamente a un uomo. L'impegno di essere fedelmente al seguito di un uomo è un rapporto non politico quale sussiste in cerchie ristrette e nei rapporti primitivi. In uno stato libero, oggi ci devono essere il controllo e l'avvicendamento di tutti gli uomini. Da ciò scaturisce una doppia colpa: in primo luogo quella di essersi messi senz' altro incondizionatamente nelle mani di un duce, e in secondo luogo quella che deriva da quel determinato tipo di duce a cui ci si sottomette. L'atmosfera di sottomissione si può dire che in certo modo costituisce già una colpa collettiva.
La propria consapevolezza di una colpa collettiva Per quello che fanno i nostri familiari noi sentiamo una certa complicità. È una corresponsabilità che non può essere espressa in maniera oggettiva. Infatti noi non ammetteremmo di dichiarare qualcuno responsabile solo in base al vincolo di parentela. Ma quando uno della nostra famiglia commette qualche cattiva azione, per il fatto che siamo dello stesso sangue, siamo portati a sentirei in un certo
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senso anche noi colpevoli. Per questo siamo anche disposti a rimediare a quella cattiva azione a seconda delle condizioni e della maniera in cui essa ha avuto luogo e a seconda di chi ne è stato vittima, pur non essendo moralmente e giuridicamente responsabili per essa. Così il tedesco - chi cioè parla la lingua tedesca - si sente colpito anche lui da tutto ciò che deriva dall'anima tedesca. Non si tratta P.iù della responsabilità dei cittadini di uno stato. È una certa condizione che consiste nel sentirsi colpiti e coinvolti propria di chi, come uomo, fa parte della vita morale e spirituale tedesca insieme con gli altri della medesima lingua, della medesima origine e del medesimo destino, condizione in base alla quale non si può parlare di una vera e propria colpa, ma di qualche cosa di analogo alla complicità. Inoltre noi non ci sentiamo soltanto partecipi di ciò che viene fatto attualmente, nel senso che ci sentiamo complici solo dell'operato dei nostri contemporanei, ma ci sentiamo anche partecipi di tutto quello che fa parte della nostra tradizione. Noi dobbiamo accettare la colpa dei padri. Tutti noi siamo complici del fatto che, tra le premesse spirituali su cui poggiava la vita tedesca, era data la possibilità di un tale regime. Ciò non significa in alcun modo che noi dovremmo riconoscere l'origine dei misfatti nazionalsocialisti "nel mondo delle idee tedesche", nel "pensiero tedesco del passato". Ma significa che nella nostra tradizione di popolo si nasconde qualche cosa che, possentemente e minacciosamente, determina il nostro pervertimento morale. N oi ci riconosciamo come singoli individui, ma
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anche come tedeschi. Ciascuno di noi, se veramente ha una sua personalità autentica, è il popolo tedesco. Chi non ha vissuto nella sua vita il momento in cui, disperando e opponendosi al proprio popolo, ha detto a se stesso: io sono la Germania; o in cui, in accordo esultante con esso, ha esclamato: anche io sono la Germania! Ciò che è tedesco non ha altra forma che quella delle persone singole. Per questo l'appello alla fusione degli animi, alla rinascita, alla repulsione di ogni sorta di pervertimento, è il compito del popolo nella forma del compito di ogni persona singola. Poiché non posso fare a meno di avere, nel profondo dell'anima, dei sentimenti collettivi, per me come per ognuno, l'essere tedesco non costituisce qualche cosa di stabile, ma rappresenta un compito. Qui non si tratta di dare al popolo un valore assoluto, ma di cosa ben differente. Io sono in primo luogo un uomo: in particolare sono un frisone, un professore, un tedesco; sono vicino ad altre collettività sino alla fusione degli animi, sono legato più o meno con tutti quei gruppi di persone con le quali ho avuto contatto. Grazie a questa vicinanza posso anche in alcuni momenti sentirmi quasi un ebreo, o un olandese, o un irlandese. Ma con tutto ciò il fatto di essere tedesco, vale a dire essenzialmente il fatto che io vivo nella mia lingua materna, è qualche cosa che persiste in me fino al punto che mi sento responsabile anch'io per quello che i tedeschi fanno e hanno fatto, e ciò in una maniera che razionalmente non solo non può più essere compresa, ma può anzi essere confutata. Io mi sento più vicino a quei tedeschi che sentono
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allo stesso modo e mi sento più lontano da coloro che nella loro anima sembrano negare un siffatto legame. E questa prossimità significa innanzi tutto un compito comune, che ci innalza. È il compito di non essere tedeschi così come ormai ci troviamo a essere, ma di diventare tedeschi come non siamo ancora ma abbiamo il dovere di essere, e come ci sentiamo incoraggiati a diventare dalla voce dei nostri grandi avi, e non già dalla storia dei nostri idoli nazionali. Una volta che sentiamo la colpa collettiva, sentiamo anche il compito complessivo di rinnovare fin dall'origine la nostra natura di uomini; questo rinnovamento è il compito di tutti gli uomini sulla terra, ma diventa più urgente e pressante - come se fosse decisivo per tutto l'essere -là dove un popolo si trova, per propria colpa, di fronte al nulla. Sembra çhe io, come filosofo, abbia perduto completamente di vista il concetto. In effetti qui la lingua stessa viene meno, e solo per via di negazioni è possibile ricordare che le nostre distinzioni, indipendentemente dal fatto che noi le riteniamo vere e non vogliamo revocarle, non devono costituire per noi qualcosa di definitivo dove ci sia possibile riposare e rimanere tranquilli. Noi non dobbiamo liquidare con esse la questione e non dobbiamo liberarci da quel peso sotto il quale procediamo nel cammino della nostra vita e grazie al quale deve maturarsi ciò che c'è di più prezioso, l'eterna essenza della nostra anima.
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IL LE POSSIBILITÀ DELLA DISCOLPA
Noi stessi, e tutti coloro che ci vogliono bene, abbiamo approntato dei progetti per attenuare la nostra colpa. Ci sono dei punti di vista che, mentre suggeriscono un giudizio più mite, concorrono nello stesso tempo a caratterizzare e inquadrare con maggior precisione la colpa nel modo in cui essa viene intesa volta per volta.
l. Il terrorismo La Germania sotto il regime nazista era un ergastolo. La colpa di precipitare in questo ergastolo è una colpa politica. Ma una volta che le porte dell' ergastolo sono state sbarrate, non è più possibile infrangerle dal di dentro. La responsabilità e la colpa degli internati, sia che essa continui a sussistere, sia che insorga ora, non può essere messa in chiaro se non tenendo conto di quello che in generale era possibile fare. Chiamare gli internati dell'ergastolo a rispondere delle malefatte dei loro guardiani è cosa evidentemente ingiusta. Si diceva: che milioni e milioni di lavoratori e milioni di soldati avrebbero dovuto opporre resistenza. Essi non lo hanno fatto, hanno lavorato per la guerra e hanno combattuto; dunque sono colpevoli. A ciò si può ribattere: i quindici milioni di lavoratori stranieri hanno anéhe loro lavorato per la guerra come i lavoratori tedeschi. Non è stato dimostrato che da parte loro siano stati commessi atti
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di sabotaggio in maggior numero. I lavoratori stranieri hanno dato segno di una loro maggiore attività soltanto nelle ultime settimane, quando lo sfacelo era già in atto. Non è possibile compiere delle azioni in grande stile senza organizzarsi sotto la guida di capi. Pretendere dalla popolazione civile di uno stato di rivoltarsi anche contro uno stato terroristico significa chiedere l'impossibile. Una rivolta di tal genere può aver luogo solo sporadicamente senza alcun nesso di intesa e alcuna coesione, rimane in tutto e per tutto anonima, non è possibile conoscerne i risultati: non è che un tacito sprofondamento nella morte. Ci sono solo poche eccezioni che diventarono note per speciali circostanze, e anche queste solo oralmente e in una sfera limitata (come l'eroismo dei fratelli Scholl, studenti tedeschi, e del professor Huber a Monaco). È strano che possano essere mosse delle accuse su questo punto. Franz Werfel, che subito dopo il collasso della Germania hitleriana scrisse un saggio saturo di accuse spietate contro tutto il popolo tedesco disse che il solo Niemoller oppose resistenza. E poi parla nello stesso saggio delle centinaia di migliaia di esseri umani assassinati nei campi di concentramento. Perché? Certo perché essi avevano fatto resistenza, anche se per la maggior parte solo a parole. Sono martiri anonimi che, scomparendo senza alcun risultato, stanno a dimostrare ancora una volta che era una cosa impossibile. Fino al1939 i campi di concentramento erano solo una faccenda interna dei tedeschi, e anche in seguito furono riempiti, per una buona parte, di tedeschi. Gli arresti
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operati nel1944 per motivi politici superarono ogni mese il numero di quattromila. Il fatto che ci sono stati campi di concentramento sino alla fine sta a dimostrare che c'è stata un'opposizione nel territorio stesso della Germania. Qualche volta abbiamo l'impressione di trovare nelle accuse che ci vengono rivolte il tono di un certo fariseismo. Sono tutti quelli che riuscirono a scampare, non senza pericoli, ma che alla fine- paragonati a chi ha sofferto ed è perito nel campo di concentramento o a chi è vissuto in Germania in continuo timore - ebbero modo di vivere, senza l'incubo del terrore, all'estero, anche se con le sofferenze proprie del fuoriuscito, e ora ritengono che la loro emigrazione costituisca un merito. Di fronte a un tono di tal genere ci consideriamo nel diritto di rigettare l' accusa senza rancore. Ci sono effettivamente voci di uomini giusti, i quali si rendono conto appunto dell'apparato terroristico e dei suoi effetti. Così Dwight MacDonald nella rivista Politics del marzo 1945: "Il culmine del terrore e della colpa imposta con la forza si raggiunge con l'alternativa: o uccidere o essere uccisi". Molti dei comandanti che erano chiamati a fucilare e ad assassinare si rifiutarono di prendere parte a quelle atrocità e furono essi stessi fucilati. Così Hannah Arendt: "Il terrore determinò il fenomeno sorprendente che il popolo tedesco divenne partecipe dei crimini dei capi. Da subordinati diventarono complici. Senza dubbio ciò non è awenuto in grandi proporzioni. Ma quel che fa meraviglia è che si tratta talvolta di uomini dei quali mai si sarebbe potuto pensare che fossero capaci di tali
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cose. Sono padri di famiglia, cittadini diligenti, usi a compiere in ogni professione il loro dovere, che, con lo stesso senso del dovere, hanno ucciso e hanno commesso, in base a ordini ricevuti, le altre scelleratezze nei campi di concentramento" .1
2. La colpa e il contesto storico Noi facciamo una differenza tra causa e colpa. Esporre il perché una cosa sia accaduta in tale maniera e come mai essa dovesse necessariamente accadere così, vale involontariamente come scusa. La causa è cieca e necessaria, la colpa ci vede ed è libera. La stessa maniera di procedere viene di solito adottata nei riguardi degli avvenimenti politici. Il contesto storico delle cause sembra togliere al popolo il peso della responsabilità. Per questo si spiega la soddisfazione che si prova quando, nella disgrazia, si vede che l'accaduto era inevitabile per le cause che hanno agito. Molti uomini sono portati ad accettare e mettere in rilievo le proprie responsabilità, quando si tratta di azioni presenti, che si vorrebbero attribuire al libero arbitrio e proclamare indipendenti da limiti, condizioni ed esigenze che vengono imposti. Essi, d'altra parte, quando le cose vanno male, sono portati a negare ogni responsabilità, attribuendo la coll. Hannah Arendt ha esposto tutto questo con commovente sempli· cità oggettiva, nel suo articolo "Colpa organizzata" che ha destato profonda impressione. (Wandlung, prima annata, n. 4, aprile 1946, tr. it. in Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano 1993.)
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pa di tutto a delle presunte necessità inevitabili. Si è parlato soltanto, senza sperimentarla, di cosa sia la responsabilità. Conformemente a ciò si sentiva dire in tutti questi anni: se la Germania vince la guerra, allora l'ha vinta il partito, e il partito ne ha il merito; se la Germania perde la guerra,. ~ora la perde il popolo tedesco, e il popolo tedesco ne ha la colpa. Ora però, quando si tratta dei nessi causali della storia, non si può dire fino a qual punto valga la netta separazione fra causa e responsabilità, dato che qui l'azione umana diventa essa stessa un fattore. Nella misura in cui delle deliberazioni concorrono a determinare quello che accade, tutto ciò che chiamiamo causa è nello stesso tempo o una colpa o un merito. Ma per l'uomo, quello che esorbita dalla volontà e dalla· deliberazione, resta sempre nello stesso tempo un compito. n modo in cui influisce il dato naturale dipende sempre nello stesso tempo anche da come l'uomo lo intende, come vi reagisce e cosa ne ricava. Per questo, la conoscenza storica non può cogliere nel corso degli avvenimenti una necessità pura e semplice. Questa conoscenza, come non può fare mai delle previsioni sicure (cosa che è possibile, per esempio, nell'astronomia), così non può nemmeno nelle sue considerazioni retrospettive riconoscere in seguito se tutto il contesto dei fatti e le singole azioni siano stati inevitabili. In entrambi i casi, la conoscenza storica vede il campo delle possibilità, che, quando si riferisce al passato, risulta solo più ricco e concreto. L'esame storico-sociologico e il quadro storico
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che viene elaborato sono d'altronde essi stessi un coefficiente di ciò che accade, e come tali sono questione di responsabilità. Fra le condizioni date che, come tali, risiedono fuori della libertà e quindi fuori della colpa e della responsabilità, bisogna considerare innanzi tutto le condizioni geografiche e la situazione storica mon'· diale. l) Le condizioni geografiche
La Germania ha confini aperti su tutti i lati. Se vuole mantenersi come stato deve essere in ogni momento militarmente forte. Quando ha attraversato tempi di debolezza, è diventata preda degli stati dell'Ovest, dell'Est, del Nord e infine anche del Sud (turchi). In forza della sua posizione geografica la Germania non ha mai conosciuto la tranquillità di una vita non soggetta a minacce, come è avvenuto per l'Inghilterra e ancor più per l'America. L'Inghilterra, per il suo grandioso sviluppo della politica interna, si è potuta permettere decenni di debolezza militare e di impotenza politica nel campo internazionale. Non per questo si è trovata soggetta a una conquista straniera. L'ultima invasione è stata nel1066. Un paese invece come la Germania, che non è tenuto insieme da netti confini, è stato sempre costretto costituire degli stati militari, se voleva continuare a sussistere come nazione. Questo è stato fatto per molto tempo dall'Austria e poi dalla Prussia. La particolarità dello stato che volta per volta si è venuto a costituire in Germania e il suo carattere
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militare si vennero a imprimere anche sul resto della Germania, come qualche cosa che fu sempre anche sentito come estraneo. In Germania si dissimulò il fatto che o c'era, in fin dei conti, il predominio di un solo stato su tutti gli altri, il quale stato ancorché tedesco restava sempre estraneo, o, per l'impotenza derivante dalla mancanza d'unione, si era destinati a cadere in balìa dello straniero. Per questo non c'è mai stato in Germania un centro che si sia fatto valere a lungo, ma solamente centri provvisori. Il fatto che il centro di gravità della Germania si è venuto sempre a spostare ebbe per conseguenza che ciascuno di essi poteva essere sentito e riconosciuto come proprio solo da una parte della Germania. Allo stesso modo non c'è stato mai in effetti un centro spirituale, nel quale si incontrassero tutti i tedeschi. Anche la nostra letteratura classica e la nostra filosofia non erano affatto un bene del popolo tedesco, ma soltanto di una piccola classe colta, che riuscì però a far sentire la propria influenza al di là dei confini di tutti gli stati fin dove veniva parlato il tedesco. E anche in questo campo non tutti si sono trovati concordi nel riconoscere quel che c'era di grande. Si potrebbe dire che la posizione geografica non solo ha dato luogo necessariamente al militarismo con tutte le sue conseguenze, come il generale spirito di sottomissione, il servilismo, la scarsa coscienza di libertà e lo scarso spirito democratico, ma altresì ha ridotto ogni forma statale a un fenomeno necessariamente provvisorio. Soltanto quando sono prevalse delle circostanze favorevoli e ci sono stati al
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potere degli uomini particolarmente illuminati e superiori, è stato possibile a uno stato mantenersi per un certo tempo. Un unico capo irresponsabile è stato capace di portare per sempre all'annientamento politico lo stato e la Germania. Per quanto possa essere giusto il tratto fondamentale di tutte queste considerazioni, per noi è altrettanto essenziale non ravvisare qui una specie di necessità assoluta. La forma particolare di militarismo che si determina, e l'emergere di capi assennati o meno, è cosa che non dipende per niente dalla posizione geografica. Con una posizione geografica analoga i romani, grazie alla loro energia politica, alla loro solidarietà e alla loro accortezza, hanno raggiungo tutt'altri risultati. Essi infatti unificarono l'Italia e fondarono in ultimo un impero mondiale, giungendo però anche loro a distruggere la libertà. Lo studio della storia di Roma repubblicana è del più alto interesse (perché dimostra come lo sviluppo militare e l'imperialismo possano portare un popolo democratico alla perdita della libertà). Si suole dire che, se anche le condizioni geografiche lasciano ancora un posto per la libertà, anche in tal caso è il carattere naturale del popolo quello che decide, e che sta al di fuori della colpa e della responsabilità. Ma questo ora è un mezzo per effettuare false valutazioni, sia che queste abbiano la tendenza ad accentuare le cose sia che l'abbiano ad attenuarle. È probabile che nel fondamento naturale della nostra struttura vitale ci possa essere qualche cosa che faccia sentire qualche sua influenza fin nelle sfe-
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re più alte della spiritualità. Ma noi dobbiamo dire che di ciò non ne sappiamo niente. Nessuna scienza che si è occupata delle razze umane è riuscita a portare a un livello più alto di vera conoscenza quello che noi, rispetto ai vari popoli, riusciamo a stabilire per intuizione, in base a una impressione immediata. Del resto questa stessa intuizione può essere altrettanto evidente quanto illusoria; essa ci si impone nel momento in cui nasce, ma ci può risultare, a lungo andare, poco sicura. n carattere di un popolo viene in effetti descritto sempre facendo appiglio ora a questa ora a quella manifestazione storica. Ma le manifestazioni storiche sono sempre già il risultato degli avvenimenti e di tutte quelle condizioni che vengono determinate dagli avvenimenti. Esse sono volta per volta un gruppo di manifestazioni, che si presenta solo come un tipo fra tanti altri. Se muta la situazione d'insieme, possono venire alla luce tutt'altre possibilità altrimenti nascoste del carattere di un popolo. Accanto ai talenti di un popolo può probabilmente esserci un carattere dato per natura, ma noi non lo conosciamo affatto. Noi non dobbiamo scaricarci della nostra responsabilità rifacendoci a questo presunto carattere nazionale, ma, come uomini, dobbiamo avere la coscienza di essere liberi e aperti a tutte le possibilità. 2) La situazione storica generale
In che posto si trovi la Germania nel mondo, che cosa avvenga nel mondo, come gli altri si comportino nei confronti della Germania, sono tutte cose
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che per la Germania hanno un'importanza tanto maggiore quanto più essa, in forza della sua posizione geografica centrale e senza garanzia di confini, è esposta più degli altri paesi europei alle ripercussioni del resto del mondo. Quello che ebbe a dire Ranke in ordine al primato della politica estera sulla politica interna valeva per la Germania, ma non per la storia in generale. Io non sto a descrivere i contesti politici dell'ultimo cinquantennio. Essi sono certamente tutt'altro che indifferenti per quanto è potuto accadere in Germania. Mi limito a gettare lo sguardo solo su un fenomeno mondiale di natura interiore e spirituale. Forse si può dire: in Germania venne a esplodere quello che, sotto forma di crisi dello spirito, crisi della fede, si preparava in tutto il mondo occidentale. Ciò non attenua la colpa. Difatti l'esplosione è avvenuta in Germania, non altrove. Ma ciò libera dall'isolamento assoluto, ed è istruttivo per gli altri. È una cosa che riguarda tutti. Non è possibile definire in maniera semplice questa situazione storica di crisi mondiale. li venir meno dell'efficacia della fede cristiana e biblica in generale; la perdita di ogni fede e la tendenza a cercare un surrogato; la trasformazione sociale qual è stata operata dalla tecnica e dalle forme del lavoro, trasformazione che, per la natura stessa della cosa, conduce irresistibilmente verso ordinamenti socialistici, dove chiunque faccia parte della massa della popolazione dovrà acquisire i suoi diritti di uomo. Le condizioni di vita sono dappertutto più o meno così da poter dire: bisogna che le cose cambino. In una tale situazione coloro che sono colpiti più degli altri
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sono tutti uomini consapevoli del proprio stato d'insoddisfazione e tendono naturalmente alle soluzioni precipitose, violente, affrettate, illusorie. Nel corso di un processo che ha coinvolto il mondo intero, la Germania ha ballato questa sua corsa supplementare così vertiginosa da trascinarla nell'abisso.
3. La colpa degli altri Chi non si è ancora reso conto della propria colpa per non aver scrutato a fondo se stesso, tenderà a muovere delle accuse contro gli accusatori. Non di rado la tendenza a respingere la colpa è, in questo momento, un segno che noi tedeschi non ci siamo ancora intesi fra di noi. Ma nella catastrofe quel che importa di più è che ciascuno venga in chiaro riguardo a se stesso. E la base fondamentale della nostra nuova vita, che abbia origine nella nostra essenza, non può essere raggiunta se non attraverso un instancabile autoesame. Ma ciò non significa che noi non dobbiamo anche vedere quelli che sono i fatti, quando guardiamo agli altri stati ai quali la Germania deve in definitiva la sua liberazione dal giogo di Hider, e alle cui decisioni è consegnata la nostra vita futura. Noi dobbiamo e possiamo stabilire con chiarezza in che modo l'atteggiamento degli altri ha reso più difficile la nostra situazione, sia nei riguardi della nostra vita interiore, sia nei riguardi della nostra vita esteriore. Infatti tutto quello che gli altri hanno fatto e ancora faranno viene dal mondo nel quale dobbiamo trovare la nostra via e dal quale dipen-
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diamo in maniera assoluta. Dobbiamo evitare lè illusioni. Non dobbiamo cadere né in un cieco rifiuto né in una cieca aspettativa. Quando parliamo di una colpa degli altri, la parola può trarci in inganno. Quando gli altri, con la loro condotta, hanno reso possibili gli avvenimenti che si sono verificati, allora si tratta di una colpa politica. Discutere dunque di questa colpa non deve farci dimenticare in nessun momento che essa si trova su di un piano differente da quello dei crimini di Hitler. Due punti ci sembrano essenziali: le azioni politiche delle potenze vincitrici dopo il1918, e il loro atteggiamento di condiscendenza quando si è costituita la Germania di Hitler. l. L'Inghilterra, la Francia, l'America furono le potenze vincitrici del1918. corso della storia del mondo era nelle loro mani e non in quelle dei vinti. Il vincitore accetta quelle responsabilità che egli solamente ha, oppure se ne tira fuori. E se lo fa, la sua colpa, dal punto di vista storico, è manifesta. Non si può ammettere che il vincitore si ritiri semplicemente nel proprio ambito circoscritto, e voglia essere lasciato in pace, limitandosi a osservare tranquillamente quello che può accadere nel mondo. Se un avvenimento minaccia di avere delle conseguenze disastrose, egli possiede la forza per impedirlo. Per chi possiede questa forza è una colpa politica il non servirsene. Se il vincitore si limita solo a fare delle accuse scritte, vuoi dire che si è sottratto al suo impegno. Ora, il non aver agito rappresenta un rimprovero contro le potenze vincitrici, che però naturalmente non ci libera da alcuna colpa.
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Si può chiarire meglio ancora questo punto facendo riferimento al trattato di pace di Versailles e alle sue conseguenze, al modo in cui si lasciò scivolare la Germania in quella situazione da cui si produsse il nazionalsocialismo. Si può inoltre richiamare l'attenzione sull'aggressione della Manduria da parte dei giapponesi, su questo primo atto di violenza che, per essere stato tollerato, una volta riuscito doveva fare scuola. Si può rammentare la campagna di Abissinia dd 1935, questo atto di forza da parte di Mussolini, che fu ugualmente tollerato. Si può incolpare la politica dell'Inghilterra, che, mediante alcune risoluzioni prese a Ginevra nell'ambito della Società delle Nazioni, mise in scacco Mussolini, ma lasciò che queste decisioni rimanessero carta scritta senza impegnarsi con energia e volontà a distruggere veramente Mussolini in quella occasione. Né seppe essere, d'altro canto, così radicale da guadagnarsi la sua alleanza in modo che insieme con lui, trasformando lentamente il suo regime, avrebbe potuto prendere posizione contro Rider e assicurare la pace. Infatti Mussolini era allora pronto a rimanere solidale con le potenze occidentali contro la Germania, tanto che mobilitò le sue truppe nd 1934, e tenne un discorso, poi dimenticato, di minaccia contro Hitler, quando quest'ultimo voleva entrare con i suoi eserciti in Austria. Fu questa politica dei mezzi termini che determinò poi l'alleanza HiderMussolini. Ma a tutto questo bisogna aggiungere: nessuno sa quali sarebbero state le conseguenze se fossero state prese delle decisioni diverse. E poi soprattutto bisogna considerare che gli inglesi fanno una politica
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che ha anche una portata morale (il che dalla mentalità nazista fu ritenuto perfino come una prova di debolezza dell'Inghilterra). Gli inglesi quindi non possono prendere senz'altro una decisione qualunque solo perché è politicamente efficace. Essi vogliono la pace. Essi vogliono fare tutti i tentativi per mantenerla prima di decidersi ad azioni radicali. Solo quando si accorgono che non c'è altra via d'uscita, essi sono pronti alla guerra. 2. Non esiste soltanto una solidarietà fra i cittadini, ma anche una solidarietà europea e una solidarietà umana. Allorquando furono sprangate le porte dell'ergastolo tedesco, a ragione o a torto noi abbiamo fondato le nostre speranze sulla solidarietà europea. Allora non supponevamo ancora quali sarebbero state le ultime orribili conseguenze e i delitti. Ma vedevamo chiaramente che la libertà andava perduta in tutto e per tutto. Sapevamo che con la perdita della libertà avrebbe avuto mano libera l'arbitrio di coloro che si erano impadroniti del potere. Vedevamo tutto quello che c'era d'ingiusto, vedevamo tutti quelli che venivano esclusi dalla vita politica, anche se tutto ciò non era ancora nulla in confronto a quello che doveva accadere negli anni successivi. Sapevamo dei campi di concentramento, ma non avevamo ancora alcuna conoscenza delle atrocità che vi si commettevano. Certo era la colpa di noi tutti in Germania, quella di essere venuti a cadere in questa situazione politica, di aver perduto la nostra libertà e di essere stati costretti a vivere sotto il dispotismo di uomini rozzi e senza cultura. Però potevamo ben dire a noi stessi,
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a nostro discarico, di essere stati vittima di una combinazione di violazioni del diritto camuffate e di veri e propri atti di forza. Così come, entro la sfera di uno stato, grazie appunto all'ordinamento statale, viene fatta giustizia a chi viene colpito da qualche crimine, allo stesso modo noi speravamo che entro un ordinamento europeo non sarebbero stati permessi simili delitti di stato. Non posso dimenticare una conversazione avuta a casa mia, nel maggio del 193 3, con un amico che doveva più tardi emigrare e che oggi vive in America.2 Allora noi considerammo, con l'animo agitato, la possibilità di un pronto intervento da parte delle potenze occidentali; egli disse: se ritardano ancora un anno Hitler ha vinto e la Germania è perduta, forse è perduta anche l'Europa. In un tale stato d'animo, colpiti alla radice stessa del nostro essere, per molti versi chiaroveggenti e ciechi per altri, vivemmo con sempre rinnovato terrore gli avvenimenti che seguirono. Ai primi dell'estate del1933 il Vaticano concluse un concordato con Hitler. Papen condusse le trattative. Era il primo grande riconoscimento del regime hitleriano. Hitler guadagnò un enorme prestigio. Da principio sembrò impossibile. Ma era un fatto. Noi rabbrividimmo. Tutti gli stati riconobbero il regime di Hitler. Si sentivano voci d'ammirazione. Nel1936 furono celebrate a Berlino le Olimpiadi. Tutto il mondo vi accorse in folla. Morsi da ran2. Era il filosofo Erich Frank (morto nel1948), quando- in preda alla nostalgia per l'Europa- era giunto ad Amsterdam.
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core, noi non potemmo guardare gli stranieri che si presentavano in quell'occasione se non con dolore, al pensiero che ci piantavano in asso; ma essi non lo sapevano, così come non lo sapevano molti tedeschi. Nel1936 Rider occupò la Renania. La Francia lo tollerò. Nel1938 si poteva leggere sul Times una lettera aperta di Churchill a Rider in cui si potevano leggere frasi come questa: se l'Inghilterra dovesse venirsi a trovare in una sciagura nazionale paragonabile a quella della Germania nel1918, allora pregherei Iddio di mandarci un uomo della vostra forza di volontà e della vostra forza di spirito (io me ne ricordo personalmente, ma cito dal Ropke). Nel 1935 l'Inghilterra stipulò con Rider per il tramite di Ribbentrop il patto delle flotte. Ciò significava per noi che l'Inghilterra, pur di potersene stare in pace con Rider, sacrificava il popolo tedesco. Per gli inglesi è indifferente quello che avviene di noi. Essi non hanno ancora assunto la responsabilità dell'Europa. Non solo assistono impassibili al sorgere del male qui da noi, ma vengono persino a patti con esso. Lasciano che i tedeschi vengano sommersi in uno stato militare terroristico. Veramente nei loro giornali sollevano dei rimproveri, ma in realtà non muovono un dito. Noi in Germania siamo impotenti. Essi invece potrebbero ancora, sì, oggi ancora forse senza eccessive perdite, ristabilire la libertà nel nostro paese. Non lo fanno. Ciò avrà delle conseguenze anche per loro, e costerà domani sacrifici molto maggiori. Nel1939la Russia concluse un patto con Rider.
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Ciò dette, proprio all'ultimo momento, la possibilità a Rider di c·ominciare la guerra, e, quando la guerra fu cominciata, ecco che tutti gli stati neutrali, compresa l'America, si tirarono da parte. Il mondo non si unì compatto per poter sventare con un unico sforzo comune quell'opera del demonio. Ecco in che modo la situazione generale degli anni dal 1933 al 1939 viene caratterizzata da Ropke nel suo libro sulla Germania, edito in Svizzera: L'attuale catastrofe mondiale è il prezzo enorme che il mondo intero deve pagare per non aver voluto ascoltare tutti i segnali d'allarme che dal1930 fino al1939 hanno richiamato l'attenzione, in toni sempre più stridenti, sull'inferno che stava per essere scatenato dalle forze sataniche del nazionalsocialismo, prima contro la Germania stessa e poi contro il resto del mondo. Gli orrori di questa guerra corrispondono esattamente a quegli altri che il mondo permise che avessero luogo in Germania, mentre esso manteneva rapporti normali coi nazisti e organizzava con loro delle feste e dei congressi internazionali. Oggi nessuno dovrebbe aver più alcun dubbio sul fatto che i tedeschi sono stati in fondo solo le prime vittime di quell'invasione barbarica che si riversò su di loro, che essi furono i primi a essere sopraffatti col terrore e con l'ipnosi di massa, e che tutto quanto più tardi ebbero a patire i paesi occupati è stato prima inflitto ai tedeschi, compreso quel destino il più infame di essere cioè costretti, con la forza e con l'inganno, a diventare strumento di ulteriore conquista e oppressione.
Se ci si rimprovera di non essere intervenuti sotto il terrore - quando furono commessi i delitti, e quando il regime si insediò al potere, si dice la verità. Ma noi possiamo ben farci presente che gli al-
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tri, senza vivere sotto il terrore, lasciarono parimenti che le cose accadessero senza intervenire, e anzi favorivano senza volerlo ciò che, per il fatto che stava accadendo in un altro stato, non era ritenuto cosa che li riguardasse. Dobbiamo riconoscere che soltanto noi siamo colpevoli? Bisogna rispondere di sì, sempre che si tratti di stabilire chi ha dato inizio alla guerra - chi ha per primo, con metodi terroristici, organizzato e convogliato tutte le energie verso il solo fine della guerra -, chi entro il proprio stato ha tradito e sacrificato la propria essenza di popolo - chi, cosa ancora più grave, ha commesso delle atrocità specifiche, superiori a ogni altra. Dwight MacDonald dice che molte atrocità di guerra hanno avuto luogo tanto dall'una che dall'altra parte; ma sostiene anche che alcune siano tipiche dei tedeschi, e cioè: un odio paranoico senza senso politico, una crudeltà nei supplizi che, per essere stati eseguiti con metodi razionali e con mezzi tecnici moderni, superano di gran lunga gli strumenti di tortura medievali. Eppure non si trattava che di alcuni tedeschi, di un piccolo gruppo (questi disponevano, poi, non si sa in che numero, di altri ancora, di cui si potevano servire dietro comando). L'antisemitismo tedesco non ha assunto mai la forza di un'attività popolare. Nei pogrom mancò il concorso della popolazione, e non ebbero luogo delle azioni spontanee di crudeltà contro gli ebrei. La massa del popolo tacque e si tirò indietro quando, seppur debolmente, non dette addirittura segno della sua opposizione.
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Dobbiamo riconoscere che soltanto noi siamo colpevoli? No, quando si intendesse fare di noi tutti, nella nostra qualità di popolo con le sue caratteristiche fisse e determinate, il popolo malvagio tout court, il popolo di per se stesso colpevole. Ci sono dei fatti a cui possiamo ricorrere che contraddicono questa opinione mondiale. Tutti questi ragionamenti però possono anche essere pericolosi nei riguardi del nostro atteggiamento interiore, a meno che noi non dimentichiamo ciò che qui deve essere ancora una volta ripetuto: l. Qualunque colpa si possa dare agli altri e qualunque colpa gli altri possano dare a se stessi, ciò non ha niente a che fare con la colpa dei delitti commessi dalla Germania di Hitler. Per gli altri si trattò allora di una certa noncuranza dovuta alloro atteggiamento ambiguo. Si trattò di un errore politico. Il fatto che, come conseguenza della guerra, anche i nemici ebbero dei campi di prigionia del tipo di quelli di concentramento, e il fatto che anche i nemici compirono azioni di guerra che la Germania per prima aveva compiute, sono cose secondarie. Qui non si parla degli awenimenti che hanno avuto luogo dopo l'armistizio, né di ciò che la Germania ha patito, e che dopo la capitolazione continua a patire. 2. Il discutere della colpa serve allo scopo di penetrare a fondo nel significato della nostra propria colpa anche quando noi parliamo di una colpa degli altri. 3. La frase: "Gli altri non sono migliori di noi" è senz' altro valida, ma viene falsamente applicata in questo momento. Bisogna riconoscere che ora, in
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questi dodici anni passati, tutto considerato, gli altri sono stati effettivamente migliori di noi. Quella che può essere una verità generale non deve più servire ad attutire la presente verità particolare della nostra colpa.
4. Colpa di tutti? Quando, di fronte alle dissonanze che si rilevano nella condotta politica delle potenze, si sente dire che si tratta ovunque di quelle necessità inevitabili proprie della politica, allora noi rispondiamo che è questa la colpa comune di tutti gli uomini. Noi non facciamo presente le azioni degli altri perché intendiamo alleggerire la nostra colpa. Noi siamo 'piuttosto autorizzati a fare ciò, perché, nella nostra qualità di uomini tra gli uomini, proviamo apprensione per l'umanità. Questa oggi non solo si presenta come un tutto unico alle nostre coscienze, ma, in conseguenza dei risultati raggiunti dall'epoca della tecnica, influisce sul suo ordinamento o lo ostacola. Il fatto fondamentale che noi siamo tutti uomini ci autorizza ad avere questa apprensione per l'umanità nel suo insieme. Quale alleggerimento sarebbe per noi se i vincitori non fossero uomini come noi, ma solo reggitori disinteressati del mondo? Allora essi saprebbero prevedere con saggezza la felice ricostruzione del mondo, facendo in modo che tutti i torti venissero efficacemente riparati. Allora essi ci mostrerebbero, con l'azione e con l'esempio, l'ideale della vita democratica, e ce lo farebbero sentire
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quotidianamente come realtà persuasiva. Allora essi sarebbero d'accordo tra di loro, pronunciandosi ragionevolmente, apertamente e senza secondi fini, e risolverebbero subito assennatamente tutti i problemi che si presentassero. Allora non sarebbe possibile alcun inganno e alcuna ipocrisia. Non ci sarebbe ragione di tacere nulla, e non avrebbe più luogo una differenza tra i discorsi pubblici e quelli privati. Allora verrebbe impartita al nostro popolo un'educazione eccellente, e il nostro pensiero si svilupperebbe nella maniera più viva in tutti gli strati della popolazione, e noi potremmo appropriarci della tradizione più ricca di contenuti. Allora noi verremmo trattati severamente, ma anche giustamente e perfino benevolmente, sì, con amore, solo che si manifestasse il più lieve spirito di conciliazione da parte di noi infelici che smarrimmo la giusta via. Ma gli altri sono uomini come noi, e nelle loro mani risiede il futuro dell'umanità. Nella nostra qualità di uomini noi siamo legati, con la nostra intera esistenza e le possibilità della nostra essenza, a quello che gli altri fanno e alle conseguenze della loro condotta. Così per noi è come se ci occupassimo di una cosa nostra, quando cerchiamo di sapere che cosa essi vogliono, pensano e fanno. Mossi da questa apprensione ci domandiamo: sono forse gli altri popoli più fortunati solo perché la loro sorte politica si rivela più favorevole? Non fanno forse anche loro gli stessi errori che abbiamo fatto noi, ma con questa differenza, che finora per loro non si sono avute queste fatali conseguenze che hanno trascinato noi nel precipizio? Essi si rifiuterebbero di accettare dei consigli e
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degli ammonimenti proprio da noi, gente misera e depravata. Essi forse non comprenderebbero come mai dei tedeschi abbiano delle apprensioni circa il corso della storia, che non dipende dai tedeschi, ma soltanto da loro. Forse lo troverebber.o presuntuoso. Ma il fatto è che un terribile incubo ci sovrasta, quando ci figuriamo certe possibilità: se dovesse affermarsi anche in America una dittatura del tipo di quella di Rider, allora sarebbe la fine, la fine per tempi incalcolabili e non ci sarebbe più alcuna speranza. Noi in Germania potemmo essere liberati dall'esterno. Se la dittatura dovesse prender piede anche li diventerebbe impossibile una liberazione dall'interno. Se la dittatura si impadronisce del mondo anglosassone come è accaduto da noi, non ci sarà più una forza esterna, non ci sarà alcuna liberazione. Quella libertà che nel mondo occidentale gli uomini si sono conquistati attraverso una lotta durata dei secoli e dei millenni, sarebbe finita. Farebbe di nuovo la sua comparsa il dispotismo primitivo, arricchitosi però dei mezzi tecnici moderni. Naturalmente l'uomo non può diventare schiavo in maniera definitiva. Ma questo sarebbe poi un conforto a scadenza molto lunga. Ecco quel che dice Platone: nel corso dei tempi infiniti diventerà o ridiventerà una volta realtà, quello che è una possibilità. Noi constatiamo con terrore che gli altri si sentono moralmente superiori: chi si sente assolutamente sicuro davanti al pericolo si trova già sulla via di caderne preda. La sorte della Germania potrebbe essere un'esperienza per tutti. Possa questa esperienza essere compresa! Noi non siamo una razza peggiore delle altre. Gli uomini hanno ovunque ca-
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ratteristiche simili. Dappertutto ci sono delle minoranze violente e criminali che, abili e vitali, si impossessano alla prima occasione del regime e si comportano in maniera brutale. Noi possiamo ben essere presi da preoccupazione di fronte al modo in cui i vincitori si dimostrano sicuri di sé. Infatti d'ora in poi sono loro ad avere le responsabilità ultime per il corso degli avvenimenti. Sta a loro vedere come prevenire le sventure o provocarne di nuove. Quello che potrebbe diventare una loro colpa, rappresenterebbe la stessa sventura per noi come per loro. Ora che ci va di mezzo la sorte di tutti gli uomini nel loro insieme, è necessario che essi rispondano con maggiore impegno di ciò che fanno. Se la catena del male non-viene spezzata, anche i vincitori si verranno a trovare in una situazione uguale alla nostra, e con loro però l'umanità intera. L'angustia del pensiero umano, specie quando si manifesta sotto la forma di un'opinione mondiale destinata a travolgere ogni cosa come un'irtefrenabile ondata, rappresenta un pericolo immenso. Gli strumenti di cui Dio si serve non sono Dio sulla terra. Ricambiare il male con il male, principalmente ai danni dei carcerati, non solo ai danni dei carcerieri, significherebbe fare ancora del male e generare altre sventure. Se noi ci mettiamo a indagare la nostra c~lpa risalendo fino alla sua fonte originaria, veniamo a trovarci di fronte all'umanità che nella forma tedesca ha assunto un modo caratteristico e terribile di diventare colpevole, ma che è una possibilità dell'uomo in quanto uomo. Spesso si sente dire, quando si parla della colpa
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tedesca, che è la colpa di tutti - il male dappertutto latente nella natura umana ha contribuito anch'esso a determinare quel male che si è manifestato sul suolo tedesco. Se noi tedeschi volessimo attenuare la nostra colpa appigliandoci alla colpa dell'umanità, ciò· sarebbe in effetti una falsa discolpa. Quando noi pensiamo a una colpa generale dell'umanità non intendiamo attenuare, ma approfondire la nostra colpa. n problema del peccato originale non deve diventare una via per evitare di rendere conto della colpa tedesca. La consape-volezza del peccato originale non è ancora comprensione della colpa tedesca. Né deve la confessione religiosa del peccato originale diventare l'abito di cui si rivesta la confessione di una falsa colpa collettiva tedesca, in modo che l'una venga a sostituire l'altra in una confusione disonesta. Noi non abbiamo alcun incentivo a incolpare gli altri. Ma da quella distanza propria di chi ha delle apprensioni per esserci già caduto per primo e ora ritorna su se stesso e si ravvede, noi pensiamo che gli altri non debbano percorrere tali vie. Ora ha avuto inizio un nuovo periodo della storia. Ormai la responsabilità di tutto ciò che accade tocca alle potenze vincitrici.
III. LA NOSTRA PURIFICAZIONE
n fatto che un pppolo illumini se stesso e si ravveda, muovendo dalla sua coscienza storica, è una cosa diversa dal fatto che la persona singola illumini
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se stessa. Eppure non si può giungere al primo senza passare per il secondo. Quel che compiono i singoli nella comunicazione reciproca può, se è vero, diventare la coscienza più ampia di molti, fino a valere come autocoscienza di un popolo. Anche qui dobbiamo volgerei contro quella maniera di pensare per categorie collettive. Ogni trasformazione reale avviene attraverso le persone singole, in molte persone singole, indipendentemente l'una dall'altra o in un mobile scambio. Noi tedeschi, per quanto ognuno lo faccia in maniera diversissima o addirittura opposta a quella degli altri, riflettiamo tutti sulle nostre colpe e non colpe. Lo facciamo tutti, nazisti e oppositori del nazismo. Dico "noi" intendendo quegli uomini con i quali io in un primo tempo mi riconosco solidale per lingua, per origine, situazione e destino. Non voglio accusare nessuno quando dico "noi". Se altri tedeschi si sentono senza colpa è una cosa che riguarda soltanto loro, fatta naturalmente eccezione per quei due punti che riguardano la punizione dei delitti, che concerne coloro che li hanno commessi, e la responsabilità politica per i misfatti commessi dallo stato hitleriano, che riguarda tutti. Coloro che si sentono senza colpa diventeranno oggetto d' attacco solo quando essi stessi, da parte loro, attaccheranno. Quando essi, continuando a ragionare alla stessa maniera dei nazisti, vogliono contestarci la natura tedesca, e quando essi, invece di esaminare le cose a fondo e di ascoltare le ragioni, vogliono piuttosto annientare gli altri ciecamente con giudizi generici, allora non fanno che rompere la solidarietà e, rifìutandosi di scambiare i propri pensieri
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con gli altri, vogliono evitare di sottoporre se stessi a un esame e di evolversi. Non di rado possiamo riscontrare nella popolazione un modo di vedere naturale, non patetico, avveduto. Ecco alcuni esempi di espressioni semplici e schiette: Urio scienziato ottantenne: "In questi dodici anni non ho mai titubato; eppure non sono mai stato soddisfatto di me stesso; sempre daccapo ho rimuginato la maniera come si potesse passare dalla resistenza passiva contro il nazismo all'azione vera e propria. L'organizzazione di Rider era troppo diabolica". Un giovane antinazista: "In verità anche noi che siamo stati contrari al nazismo - dopo che ci siamo piegati per anni interi, anche se digrignando i denti, al regime dd terrore - abbiamo bisogno di una purifìcazione. Noi ci allontaniamo dalla mentalità farisaica di coloro che credono di essere diventati uomini di prima classe per il solo fatto di non aver portato il distintivo dd partito". Un impiegato durante la denazifìcazione: "Se io mi sono lasciato spingere nd partito, se ho fatto sempre in modo che le cose mi andassero abbastanza bene, se mi sono adattato nello stato nazista e ne ho ricavato dei vantaggi - anche se poi nell'anima mi sentivo ostile -:- e se ora per questo subisco degli svantaggi, non posso onestamente lamentarmi".
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l. I tentativi di evitare la purificazione a) Le scambievoli accuse di colpa Noi tedeschi siamo molto differenti gli uni dagli altri secondo il modo e la misura in cui abbiamo preso parte al nazionalsocialismo o vi abbiamo opposto resistenza. Ciascuno deve riflettere sulla propria condotta interiore ed esteriore, e cercare, in questa crisi tedesca, la sua propria rinascita. Anche il momento in cui ha avuto inizio questo rinnovamento interiore è molto differente da una persona all'altra: il1933, o il1934 dopo gli assassini del30 giugno, o dal1938 in poi, dopo che furono appiccati gli incendi alle sinagoghe, o solo quando venne la guerra, o solo quando già si minacciava la sconfitta, o solo al momento del collasso. In tutto ciò noi tedeschi non possiamo riportarci a un unico denominatore comune. Dobbiamo essere aperti gli uni verso gli altri, pur muovendo da punti di partenza essenzialmente diversi. L'unico denominatore comune è dato forse dal fatto che siamo tutti cittadini di un medesimo stato. Qui abbiamo tutti la responsabilità di aver fatto arrivare le cose allo stato del1933 senza morire. Questo è un fatto che lega insieme anche coloro che emigrarono all'estero e coloro che emigrarono all'interno. Si deve alle grandi differenze tra noi se, come sembra, quasi tutti rimproverano tutti gli altri. Fino a quando la persona singola non cesserà di considerare esclusivamente la situazione sua propria e quella di coloro che hanno una situazione analoga, fino a quando non cesserà di giudicare la situazione de-
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gli altri soltanto in relazione alla sua, questo stato di cose non potrà che protrarsi indefinitamente nel tempo. È sorprendente come noi ci eccitiamo veramente soltanto quando ci sentiamo colpiti personalmente e consideriamo ogni cosa dall'angolo visuale della nostra situazione particolare. Se la perseveranza nello scambiare le nostre idee con gli altri minaccia di abbandonarci e se veniamo a trovarci di fronte a un atteggiamento di freddo e brusco rifiuto, anche noi allora possiamo perderei d'animo. Negli anni scorsi ci sono stati dei tedeschi, i quali esigevano che noialtri tedeschi diventassimo dei martiri. Noi non dovevamo tollerare in silenzio tutto quello che accadeva. Anche se la nostra azione era destinata a fallire, sarebbe stata tuttavia un appoggio morale per tutta la popolazione, un simbolo visibile delle forze oppresse. Rimproveri di tal genere potei udire, a partire dal1933, da persone amiche, uomini e donne. Tali esigenze scombussolavano veramente la coscienza, in quanto in esse si nascondeva una profonda verità. Ma questa verità, nella maniera in cui veniva sostenuta, finiva con l'essere travisata in modo offensivo. Infatti quello che l'uomo può provare in se stesso al cospetto della trascendenza, veniva qui abbassato fino al piano moralistico e addirittura sensazionale. Si venivano a perdere il senso di profondo rispetto e di raccoglimento. Presentemente un brutto esempio di come ci si sottragga all'esame della propria coscienza, ricorrendo ad accuse scambievoli di colpa, è dato da molte discussioni fra i fuoriusciti e i tedeschi rimasti in patria, fra quei due gruppi cioè che si potrebbero
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chiamare dell'emigrazione esterna e interna. Gli uni e gli altri hanno le loro pene. Per chi ha emigrato all' estero: la lingua straniera, la nostalgia della patria - simbolico è quel che si racconta di quell'ebreo tedesco a New York nella cui camera era appeso un ritratto di Hitler - come mai? soltanto per il fatto che con ciò si ricordava ogni giorno del terrore che lo aspettava in patria, egli poteva vincere il desiderio ardente di ritornarvi. Per chi è rimasto in patria: l'isolamento, il sentirsi esiliato nel proprio paese, la continua minaccia di essere solo nella sventura, l'essere evitato da tutti meno che da alcuni amici, ad affliggere i quali si prova ulteriore dolore. Ma quando gli uni accusano gli altri, ci si deve fare questa domanda: ci sentiamo bene di fronte allo stato d'animo e al tono di chi fa queste accuse? Ci rallegriamo che tali uomini sentano a questo modo? Sono d'esempio? C'è in loro qualche cosa come slancio, libertà, amore che ci faccia coraggio? Se non è così, allora non è vero quello che dicono. b) Autodegradazione e arroganza Noi siamo sensibili ai rimproveri e facilmente disposti a farne agli altri. Non vogliamo che gli altri si interessino troppo delle nostre cose, ma ci infervoriamo nell'esprimere dei giudizi morali sugli altri. Anche chi ha colpa non vuole !asciarselo dire. Se permette che glielo si dica, non vuole !asciarselo dire da tutti. Il mondo è pieno di riferimenti alla paternità di un misfatto anche nelle situazioni più insignificanti della vita di tutti i giorni. Chi è suscettibile di fronte ai rimproveri può fa-
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cilmente passare a un impulso di confessare la propria colpa. Confessioni siffatte di colpa - false perché sono per se stesse impulsive e ricolme di godimento - hanno, nella maniera in cui si manifestano, un loro tratto inconfondibile. Poiché l'una e l'altra delle due tendenze opposte vengono alimentate dalla medesima volontà di potenza, si può facilmente intravedere che chi confessa la propria colpa crede, mediante la confessione, di potersi mettere in vista e acquistarsi un valore che lo distingua. Confessando la propria colpa si vuole obbligare gli altri a fare lo stesso. In questa confessione c'è come un'impronta di aggressività. Quindi, in ogni trattazione delle questioni della colpa, la prima esigenza dal punto di vista filosofico è l'agire interiore nei confronti di se stessi, attraverso il quale la sensibilità si estingue contemporaneamente all'impulso alla confessione della colpa. Oggi, questo fenomeno che ho descritto psicologicamente si trova a essere strettamente connesso con la serietà della questione tedesca. Il nostro rischio è di confessare la nostra colpa abbandonandoci ai lamenti e di assumere un atteggiamento di arrogante chiusura in se stessi e di orgoglio. Più d'uno si lascia fuorviare dagli interessi esistenziali del momento. In tal caso può sembrare vantaggioso riconoscere la propria colpa. Allo sdegno del mondo per la Germania condannata moralmente corrisponde qui la disposizione a fare una professione di colpa. Di fronte a chi è forte ci si avvicina con le adulazioni. Si è disposti a dire quello che il potente desidera sentir dire. A ciò si aggiunge poi quella fatale inclinazione, per cui ci si reputa,
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con la confessione della colpa, superiori agli altri. Nel compromettere se stessi c'è un attacco agli altri che non lo fanno. Questi atti di accusa contro se stessi a buon mercato sono ignominiosi. È evidente la vigliaccheria di questa adulazione che si presume redditizia. Tutt'altra cosa è l'orgoglio arrogante. Proprio perché gli altri muovono delle accuse morali, ci si ostina più che mai a non riconoscerle. Si vuole preservare la propria autocoscienza in una presunta indipendenza interiore. Ma questa indipendenza non può essere raggiunta senza che si venga prima in chiaro su quello che è il punto decisivo del problema. Il punto decisivo risiede in quello che è un eterno fenomeno fondamentale, e che oggi si presenta di nuovo sotto altra forma: chi, trovandosi nelle condizioni di uno che è stato definitivamente sconfitto, preferisce la vita alla morte, non può vivere nella sincerità -l'unica dignità che gli sia rimasta- se non si risolve per questa vita con la chiara consapevolezza del nuovo significato che in essa è riposto. La decisione ad accettare di vivere in uno stato di impotenza è un atto di una serietà che si pone a fondamento di tutta una vita. Da esso deriva una metamorfosi che modifica tutte le stime di valore. Se questo atto viene compiuto e se ne accettano le conseguenze sottoponendosi al dolore e al lavoro, allora si dischiudono le più alte possibilità per l'anima umana. Nulla viene dato in regalo, niente viene da sé. Solo se questa decisione è chiara come origine è possibile evitare i due pervertimenti dell' autodegradazio-
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ne e dell'orgogliosa arroganza. La purifi.cazione fa luce su questa decisione e sulle sue conseguenze. Quando ora al fatto di essere stati vinti si aggiunge nello stesso tempo anche il fatto di aver commesso delle colpe, allora è necessario che si accetti non solo lo stato di impotenza, ma anche la colpa. Da questi due incentivi deve derivare la trasformazione a cui l'uomo si vorrebbe sottrarre. L'orgogliosa arroganza trova modo di appoggiarsi a modi di vedere, ad atteggiamenti di grandiosità, a discorsi edificanti ricchi di sentimento, per produrre quella illusione che le permette di mantenersi. Ecco qualche esempio: La necessità di assumere quel che è accaduto viene interpretata in un senso differente da quello che si converrebbe. Una tendenza incontrollata "a immedesimarsi con la nostra storia" permette di approvare nascostamente il male, di trovare il bene nel male e di tenerlo fermo nell'intimo, come una barriera orgogliosa contro i vincitori. Come conseguenza di una tale deformazione è possibile sentire frasi come queste: "Noi dobbiamo sapere che portiamo ancora in noi quella forza originaria di volontà che produsse il nostro passato, e dobbiamo dconoscerla e accoglierla nella nostra esistenza ... Siamo stati entrambe le cose, e continueremo anche a esserlo ... E noi stessi non siamo che la nostra storia, sempre, e ne portiamo con noi la forza". La "pietà" deve obbligare la giovane generazione tedesca a diventare di nuovo come è stata la precedente. L'arroganza in veste di pietà scambia qui il fondamento storico, dove noi abbiamo le nostre radici e al quale ci sentiamo affezionati col cuore, con la
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totalità dei fatti reali che costituiscono il nostro passato comune, molti dei quali, presi nel loro significato, noi non solo non amiamo, ma addirittura rigettiamo come essenzialmente estranei a noi. Quando poi si riconosce il male come male, è possibile sentir dire frasi come queste: "Noi dobbiamo diventare così coraggiosi e così grandi e così miti da poter dire: sì, anche tutto questo orrore fu la nostra realtà, e continuerà a esserlo. Ma noi abbiamo anche la forza di trasmutarlo in noi stessi, in modo che diventi opera creatrice. Noi sappiamo che sono in noi latenti delle terribili possibilità, che si sono attuate nella forma di un misero pervertimento. Ma noi amiamo e rispettiamo tutto il nostro passato storico con una pietà e un amore più grandi di ogni singola colpa storica. Noi portiamo in noi questo vulcano col rischio di sapere che può farci saltare in aria, ma con la certezza che, se noi riusciamo a tenerlo a freno, ci si può aprire l'ultimo campo della nostra libertà: quella libertà di portare ad attuazione reale, entro il pericoloso campo di forze di queste nostre possibilità, ciò che, in comunanza con tutti gli altri, sarà l'opera del nostro spirito per l'umanità". Questo è un appello seducente che ci viene dalla cattiva filosofia di un irrazionalismo - ad affidarci senza una decisione chiara e netta a un livellamento esistenziale. È troppo poco "tenere a freno" soltanto. Quel che importa è la "scelta". Se questa scelta non viene compiuta, è sempre possibile una nuova arroganza del male, che conduce necessariamente al principio del pecca /ortiter. Si disconosce che, nel
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rapporto col male, è possibile soltanto una comunità apparente. Un'altra forma di arroganza orgogliosa è quella di coloro che approvano il nazismo in tutto e per tutto dal punto di vista della "filosofia della storia", in una concezione estetica che, invece di considerare in maniera oggettiva la nostra sciagura, la trasforma insieme a tutto il male evidente in qualche cosa di affascinante e di grandioso che, nella sua falsità, annebbia gli animi: "Nella primavera del1932 un filosofo tedesco ha profetizzato che nel giro di dieci anni il mondo sarebbe stato retto soltanto da due centri politici: Mosca e Washington. La Germania tra questi due poli sarebbe stata un vuoto concetto politico-geografico destinato a esistere solo come forza spirituale. La storia tedesca, che dalla disfatta dell918 aveva tratto nuove prospettive di consolidarsi e che si era vista aperta la strada per realizzare il sogno della grande Germania, si ribellò contro la tendenza a semplificare il mondo in due poli, tendenza che, oltre a essere stata profetizzata, si andava effettivamente attuando nei fatti. La storia tedesca contro questa tendenza del mondo si chiuse in se stessa per uno sforzo gigantesco da compiersi isolatamente, con tenacia, allo scopo di arrivare, nonostante tutto, alla sua propria meta nazionale. Se quella profezia del filosofo tedesco, che prevedeva un termine di scadenza pari a soli dieci anni per l'instaurazione della dominazione del mondo da parte degli americani e dei russi, ha avuto ragione, allora la rapidità vertiginosa, e la furia e la violenza con cui ha avuto luogo la reazione tedesca di-
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venta un avvenimento comprensibile: si trattava della velocità di una ribellione che, sebbene fosse storicamente già superata, aveva in sé un suo significato ed esercitava un suo fascino. Noi tutti abbiamo avuto modo di vedere come negli ultimi mesi questa velocità si sia trasformata alla fine in un vero e proprio delirio. - Un filosofo esprime alla leggera questo giudizio: la storia tedesca è alla sua fine; adesso comincia l'era Washington-Mosca. Ma una storia impostata su basi così grandi e appassionate come quella tedesca non può rispondere con un semplice 'così sia' a una tale conclusione accademica. La storia tedesca divampa tutta, si getta a capofitto nella sua fine, profondamente eccitata nella difesa e nell' attacco, in un tumulto sfrenato fatto di fede e di odio". Così scriveva nell'estate 1945 un uomo, da me umanamente molto apprezzato, in preda a torbidi sentimenti. Tutto ciò è effettivamente non purificazione, bensì un precipitare ancora di più nell'intrico. Pensieri siffatti- sia quelli che inducono all' autodegradazione, sia quelli che spingono all'arroganza danno di solito per un istante come un senso di liberazione. Si crede di vivere sopra un terreno ben solido, mentre si è andati a finire proprio così in un vicolo cieco. Qui si accentua e si rafforza l'impurità dei sentimenti a discapito delle possibilità autentiche di trasformazione. A tutte le forme di arroganza appartiene un silenzio aggressivo. Ci si sottrae quando le ragioni addotte diventano inconfutabili. L'autocoscienza viene ricavata dal silenzio, che diventa così l'ultima
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forza degli impotenti. Si ricorre al silenzio pur di mortificare i potenti. Si cela il silenzio, invece, per es.cogitare il modo come risorgere; in campo politico, con !',acquisire strumenti di potenza, sebbene questi possano sembrare ridicoli quando sono nelle mani di coloro che non prendono parte alle gigantesche industrie del mondo che producono strumenti di distruzione; in campo spirituale, col giustificare se stessi senza riconoscere alcuna colpa: il destino mi è stato contrario, si trattava di una supremazia .materiale assurda, la sconfitta era piena di onore, intimamente alimentò il senso della fedeltà e dell'eroismo. Quando ci si mette su questa via e ci si comporta a questo modo aumenta solo quel veleno interiore, il quale ci trascina a pensieri illusori e a esaltazioni anticipate: "non ancora a forza di pugni e di calci" ... "quel giorno, quando noi...". c) Tentativi di evitare la purificazione in virtù di considerazioni particolari, giuste in se stesse, ma inessenziali per il problema della colpa Più d'uno, riguardo alla propria condizione di miseria, pensa: aiutate, ma non parlate di espiazione. La nostra enorme miseria ci discolpa. Ecco quel che sentiamo dire a questo riguardo: "È stato già dimenticato il terrore dei bombardamenti? Quel terrore sotto il quale milioni e milioni di innocenti dovettero perdere la vita e la salute e ogni cosa più cara alloro cuore non è stato un pagamento a saldo per tutto quello che è stato commesso di criminoso in Germania? Il disagio dei profughi tedeschi, con le loro grida di dolore che salgono
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fino al cielo, non dovrebbe bastare a far deporre le armi contro di noi"? "Sono una donna del Sud Tirolo che è venuta in Germania trent'anni fa come giovane sposa. Ho diviso le sventure dei tedeschi dal primo all'ultimo giorno; ho ricevuto colpi su colpi; ho fatto sacrifici e sacrifici; ho bevuto fino all'ultima goccia l'amaro calice - e adesso mi sento accusare insieme con gli altri per cose che non ho affatto commesso." "La miseria che si è riversata su tutto il popolo è così gigantesca e assume delle proporzioni così impensabili che non bisogna spargere ancora del sale sulle ferite. Il popolo, nei suoi elementi certamente innocenti, ha già soffel:to più di quanto non lo richieda forse una giusta espiazione." In effetti la sciagura è apocalittica. Tutti si lamentano, e a ragione: coloro che sono scampati ai campi di concentramento e alle persecuzioni e che hanno vivo il ricordo delle orribili sofferenze patite, e coloro che hanno perduto i loro cari nelle maniere più raccapriccianti; i milioni di profughi e sfollati che vivono vagabondando quasi senza speranze; tutti i simpatizzanti del partito che ora, allontanati dai loro posti, vengono a trovarsi nella miseria; gli americani e gli altri alleati che hanno sacrificato tanti anni della loro vita e che hanno avuto milioni di morti; le popolazioni europee, che sono state martoriate sotto la dominazione del terrore da parte dei tedeschi nazisti; gli emigranti tedeschi che devono vivere in esilio nelle condizioni più difficili e fra gente che parla una lingua straniera; tutti, tutti. Enumerando i vari raggruppamenti di persone che si lamentano, li ho messi gli uni accanto agli al-
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tri allo scopo preciso di far notare subito ciò che non corrisponde in tale enumerazione. La miseria è come tale, come distruzione di ogni esistenza, certamente ovunque della stessa specie: ma essa si presenta come essenzialmente diversa per il contesto in cui si trova. È ingiusto voler dichiarare tutti innocenti alla medesima maniera. Nel complesso resta fermo che noi tedeschi, per quanto siamo venuti a cadere nella miseria più grande di quella di tutti gli altri popoli, portiamo anche la responsabilità più grande per il corso degli avvenimenti fino al1945. Ecco dunque quello che vale per noi, per ciascuno di noi: noi non vogliamo sentirei innocenti così facilmente, non vogliamo compatirci, considerandoci vittime di una disgrazia fatale, non vogliamo aspettarci degli elogi per i dolori sofferti, ma vogliano interrogarci, scrutarci a fondo implacabilmente: quando ho provato falsi sentimenti, quando ho avuto falsi pensieri, quando ho commesso azioni sbagliate? - noi vogliamo cercare la colpa in noi, spin_gendoci più oltre che sia possibile, e non vogliamo cercarla nelle cose o negli altri, né sottrarci a questo compito con la scusa della miseria in cui versiamo. Questo segue dalla decisione di conversione. d) Tendenza a evitare la purifìcazione per considerazioni generiche
È un alleggerimento illusorio se io, nella mia qualità di persona singola, mi trovo a non avere alcuna importanza, poiché tutto quello che accade mi capita addosso senza che vi possa contribuire an-
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ch'io, e non posso quindi avere personalmente alcuna colpa. Allora io stesso vivo, o subendo o partecipando, in una condizione di impotenza. Non vivo più prendendo le mosse da me stesso. Ecco alcuni esempi: l. L'interpretazione complessiva del punto di vista morale della storia lascia presupporre una giustizia globale: "ogni colpa si paga sulla terra". In questo modo io mi sento abbandonato a una colpa totale nella quale il mio agire non ha più alcun ruolo. La mancanza metafisica di vie d'uscita è in tutto e per tutto avvilente. Se sono invece dalla parte che prevale, allora io, oltre a rallegrarmi del successo, ho anche la buona coscienza di essere migliore. La tendenza a non prendersi sul serio come persona singola paralizza gli incentivi di ordine morale. Nel primo caso, l'orgoglio di una confessione della colpa senza alcuna riserva, e nel secondo caso l'orgoglio della vittoria, diventano modi per sottrarsi al compito vero e proprio dell'uomo, presente in ogni singola persona. Ma l'esperienza si oppone a questa concezione totale della storia dal punto di vista morale. n corso delle cose non è affatto univoco. sole risplende tanto sui giusti quanto sugli ingiusti. La maniera in cui viene ripartita la felicità non corrisponde al modo in cui gli uomini regolano la loro condotta morale. Ma sarebbe ugualmente falso pronunciare un giudizio globale contrario e dire: non c'è alcuna giustizia. Certo ci sono molte situazioni in cui, di fronte a determinate condizioni e azioni di uno stato, si
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impadronisce di noi un sentimento incancellabile: "questo non potrà finir bene", "questo costerà caro". Ma appena questo sentimento confida nella giustizia, allora nasce l'errore. In queste cose non ci può essere alcuna certezza, ciò che c'è di buono e di vero nel mondo non viene mai da solo. Nella maggior parte dei casi manca la riparazione. La rovina e la vendetta colpiscono così gli innocenti come i colpevoli. La volontà più pura, la più sincera franchezza, il più grande coraggio possono rimanere senza alcun effetto se la situazione vi si oppone. Per molti che sono rimasti passivi, la situazione si presenta favorevole senza che essi se lo siano meritato e solo per quel che hanno fatto gli altri. Il pensare che esiste solamente una colpa globale e una condizione di irretimento in un nesso colpaespiazione, sebbene in tutto questo possa esserci anche una certa verità metafisica, può far sì che uno sia portato su falsa strada e cerchi di sottrarsi a ciò che è in tutto e per tutto un fatto suo e solamente suo. 2. La concezione globale di chi ritiene che alla fine tutto a questo mondo sia destinato a perire, e che nulla possa essere intrapreso senza che in ultimo finisca col fallire, e che in tutte le cose si nasconda il germe della corruzione, è una concezione che fa scivolare su un terreno comune di fallimento il proprio insuccesso insieme a quello di ogni altro, l'infamia e la nobiltà. Così ogni fallimento particolare viene privato del suo peso. 3. Alla propria sventura, che si considera come una conseguenza della colpa di tutti, viene dato un peso metafisico grazie a un'interpretazione che ne
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fa qualche cosa di singolare: nella catastrofe della nostra epoca la Germania costituisce la vittima rappresentativa. Essa soffre in nome di tutti. In essa erompono la colpa di tutti e l'espiazione per tutti. Questa è una falsa esaltazione patetica che ci distoglie nuovamente dal sobrio compito di fare quello che realmente è nelle nostre forze, ci allontana cioè dal compito di migliorare quel che è comprensibile e di trasformarci interiormente. È come uno slittare nell'"estetico", dove viene a mancare ogni obbligo e dove non si agisce più in base al nucleo dell'essere proprio del singolo. È un mezzo per procurarsi per altra via una falsa coscienza collettiva del proprio valore. 4. Ci sembra di liberarci dalla colpa quando, di fronte a tutte le orribili sofferenze che si sono riversate su noi tedeschi, esclamiamo che già tutto è stato espiato. Qui bisogna fare una distinzione: una pena viene espiata, una responsabilità politica viene circoscritta e conclusa col trattato di pace. Limitatamente a questi due punti è giusto e ragionevole pensare che tutto è stato espiato. Ma la colpa morale e la colpa metafisica, che soltanto dal singolo nella sua comunità sono sentite come proprie, non si prestano per la loro stessa natura a essere espiate. Esse non si estinguono mai. Chi le porta entra in un processo interiore che dura tutta la vita. Per noi tedeschi vale qui questa alternativa: o accettiamo quella colpa a cui il resto del mondo non pensa, ma che ci viene rimproverata dalla nostra coscienza, e facciamo di ciò un tratto fondamentale della nostra autocoscienza tedesca - e allora la no-
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stra anima si incammina sulla via della conversione; oppure affondiamo nella mediocrità di una vita meramente indifferente. In mezzo a noi non si desterà più alcuna aspirazione originaria; ma allora non si rivelerà più a noi quello che è veramente essere; allora non coglieremo più il significato trascendente della nostra alta poesia e della nostra arte e della nostra musica e della nostra filosofia. Se non si incammina sulla via della purificazione, partendo dalla profonda consapevolezza della propria colpa, il tedesco non potrà più realizzare alcuna grande verità.
2. La via della purificazione La purificazione nell'ambito della condotta significa per prima cosa riparazione. Dal punto di vista politico vuoi dire che con pieno consenso interiore venga ottemperato alle richieste di riparazioni presentate in forma legale, affinché coi nostri sacrifici i popoli aggrediti dalla Germania di Hitler vengano ricompensati di una parte di quello che è stato distrutto. Condizioni essenziali perché si possa ottemperare alle richieste di riparazioni sono, oltre alla forma legale grazie alla quale è possibile ripartire gli oneri secondo giustizia, che si possa vivere e che ci sia la possibilità e la capacità di lavorare. Non si può evitare che la volontà di riparare ai danni venga meno quando le azioni politiche dei vincitori distruggono tali condizioni. In tal caso infatti non ci sarebbe più la pace con l'intesa che si riconosca l'obbligo della
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riparazione, ma la guerra protratta nel proposito di un'ulteriore distruzione. Però le riparazioni comportano qualche cosa di più. Chi è interiormente preso dalla colpa a cui ha avuto parte desidera aiutare tutti coloro che hanno sofferto delle ingiustizie per l'arbitrio del regime illegale. Si tratta di due motivazioni diverse, che non vanno confuse: l'esigenza di aiutare là dove c'è la miseria, non importa per quale ragione, semplicemente per il fatto che questa miseria è vicina a noi e invoca aiuto - e, in secondo luogo, l'esigenza di riconoscere dei diritti speciali a tutti coloro che per colpa del regime di Hitler furono deportati, derubati, saccheggiati, martoriati, e ai fuoriusciti. Entrambe le esigenze sono pienamente giustificate; ma c'è una differenza nella loro motivazione. Laddove non c'è il sentimento della colpa, ogni specie di miseria viene portata subito allo stesso livello. È necessario fare una differente classificazione fra coloro che sono stati colpiti dalla miseria se voglio riparare un male del quale sono anch'io colpevole. La purificazione mediante le riparazioni è inevitabile. Ma purificazione significa molto di più. Anche le riparazioni sono volute seriamente e soddisfano alloro significato etico soltanto come conseguenza della nostra trasformazione purificatrice. Rendendoci conto della nostra colpa, nello stesso tempo ci rendiamo conto della nostra nuova vita e delle sue possibilità. Da questo derivano la serietà e la fermezza della nostra decisione. Quando avviene ciò, la vita non può più ridursi semplicemente a un godimento sereno e spensiera-
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t o. La gioia dell'esistenza, laddove viene concessa, la possiamo cogliere negli intervalli e nelle pause; ma essa non ci appaga l'esistenza. Viene piuttosto accolta come un incantesimo benigno sullo sfondo della nostra malinconia. La vita è in sostanza concessa ancora perché venga consumata al servizio di un dovere da compiere. Conseguenza di ciò è la modestia. Nella condotta interiore, al cospetto della trascendenza, ci tendiamo conto della nostra finitezza e incompiutezza umane. Allora, senza alcuna volontà di potenza, potremo, in una gara amichevole, dedicarci alla ricerca della verità per unirei, in suo nome, gli uni con gli altri. Allora potremo tacere vincendo ogni tono aggressivo, e dalla schiettezza del silenzio deriverà la chiarezza di ciò che si può comunicare. Allora tutto dipenderà soltanto ancora dalla verità e dalla nostra condotta. Saremo disposti a sopportare senza inganno ciò che ci sarà imposto. Qualunque cosa possa accadere, il compito dell'uomo, che non può essere espletato sulla terra, continuerà a sussistere, finché vivremo. La purificazione è la via dell'uomo come uomo. La purificazione attraverso lo sviluppo del pensiero della colpa è solamente un momento della purificazione generale. Questa non si verifica in primo luogo mediante azioni esteriori, né mediante un'opera di magia. È piuttosto un processo interiore che non viene mai portato a termine definitivamente, perché si trova sempre in continuo divenire. La puri:fìcazione è cosa che riguarda la nostra libertà. Sempre di
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nuovo ciascuno di noi si troverà di fronte a un bivio, dove occorre scegliere o la via che purifica o quella che intorbidisce. La purificazione non è la medesima per tutti. Ciascuno procede nel proprio cammino secondo la propria personalità: questo cammino non può essere anticipato e indicato da nessun altro. Le considerazioni di ordine generale possono solamente risvegliare la nostra attenzione. Se noi ora, alla fine, ci domandiamo in che cosa consiste la purificazione, non possiamo fare delle ulteriori affermazioni concrete al di fuori di quanto è stato già detto. Poiché qui non si tratta di qualche cosa che possa essere realizzata come scopo della volontà intelligente, ma si tratta di cosa che può essere raggiunta solo attraverso una condotta interiore intesa come trasformazione, non si può che ripetere quelle locuzioni indeterminate che intendono abbracciare quel che si vorrebbe dire con maggiore precisione: rischiarare la propria anima e, elevandoci, diventare trasparenti- amare l'uomo. Per quanto riguarda la colpa, una via possibile è quella di meditare a fondo sui pensieri che sono stati esposti. Questi non debbono essere ripensati astrattamente soltanto con l'intelletto, ma compiuti intuitivamente; debbono essere richiamati alla mente, adottati o respinti con la propria essenza. Questa attuazione, con tutto quanto ne consegue, costituisce la purificazione che, come tale, non si trova dunque alla fine di un processo, né è qualche cosa di nuovo che venga ad aggiungersi a ciò che già c'è. La purificazione è anche la condizione della nostra libertà politica. Infatti, solo dopo che ci siamo
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resi conto della nostra colpa, diventiamo consapevoli della solidarietà e della corresponsabilità senza di cui non è possibile la libertà. La libertà politica comincia là dove, nella maggioranza della popolazione, la persona singola si sente responsabile per la politica della sua comunità - là dove la sua attività non si riduce solo a desiderare e a rimbrottare -, là dove ciascuno pretenderà da se stesso di guardare ai fatti della realtà e non di agire in base alla fede, smerciata falsamente in politica, in un paradiso terrestre, che solo per la cattiva volontà e l'inettitudine degli altri non verrebbe realizzato-, là dove piuttosto ciascuno sa che la politica cerca nel mondo concreto la via da percorrere volta per volta, guidata dall'ideale della natura umana intesa nel senso della libertà. In breve: senza la purifìcazione dell'anima, non è possibile alcuna libertà politica. La maniera in cui ci comportiamo di fronte agli attacchi morali contro di noi ci indica quanto siamo progrediti sulla via della nostra purificazione interiore in base alla coscienza della nostra colpa. Senza questa coscienza della colpa la nostra reazione contro ogni specie di attacco rimane solamente un contrattacco. Se però ci ha colto una scossa interiore, allora l'attacco esterno ci tocca soltanto sulla superficie. Per quanto essa possa offenderei e avvilirci, non penetra però fino all'intimo dell'anima. Quando abbiamo acquisito la coscienza della colpa sopportiamo con calma le imputazioni, false e ingiuste, dato che sono svaniti l'orgoglio e l' arroganza. Per chi sente sinceramente la propria colpa, in
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maniera cioè che si trasformi la coscienza del suo essere, i rimproveri da parte degli altri non possono avere altro effetto che quello di un gioco infantile che, innocuo com'è, non può più colpire. Laddove la reale consapevolezza della colpa diventa un pungolo incancellabile, l'autocoscienza viene costretta ad assumere una nuova forma. Quando si sentono rimproveri di tal genere, ci si preoccupa piuttosto per chi muove il rimprovero, per come possa essere così poco turbato e consapevole. Senza l'illuminazione e la trasformazione della nostra anima, la nostra suscettibilità non farebbe che accentuarsi in una inerme impotenza. Il veleno degli sconvolgimenti psicologici ci corromperebbe interiormente. Noi dobbiamo essere pronti a far buon viso ai rimproveri e a esaminarli dopo averli ascoltati. Invece di evitare gli attacchi contro di noi, dobbiamo piuttosto cercarli, perché essi rappresentano per noi un controllo del nostro pensiero. Il nostro atteggiamento interiore si farà valere. La purifìcazione ci rende liberi. L'andamento delle cose non è nelle mani di nessun uomo, anche se può giungere incalcolabilmente lontano nella conduzione della propria esistenza. Dato che resta sempre l'incertezza e la possibilità di una nuova e più grande sventura, dato che dalla trasformazione nella coscienza della nostra colpa non può derivare affatto come naturale conseguenza la ricompensa di una nuova gioia di vivere, perciò, mediante la purifìcazione, possiamo diventare liberi e pronti per quel che deve venire. L'anima pura può vivere sinceramente in quella tensione che le consente, anche di fronte alla rovina
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completa, di agire instancabilmente nel mondo, per quel che è possibile. Quando pensiamo agli eventi del mondo, facciamo bene a ricordare il caso di Geremia. Quando egli, dopo la distruzione di Gerusalemme, dopo la perdita dello stato e della patria, dopo il suo trasferimento forzato insieme con gli ultimi ebrei che emigrarono in Egitto, dovette ancora vedere come quelli del suo popolo si mettessero a sacrificare a !side nella speranza che questa potesse aiutarli più di J ahweh, allora il suo discepolo Baruch si disperò, e Geremia rispose: "Così parlaJahweh: Invero, quello che io ho costruito, lo abbatto al suolo, e quello che io ho piantato, lo sradico, e tu chiedi per te alcunché di grandioso? Non lo chiedere! ". Che significa ciò? Significa che Dio c'è, questo basta. Se tutto svanisce, Dio c'è, questo è l'unico punto fermo. Ma ciò che è vero di fronte alla morte, nella situazione estrema, si trasforma in un traviamento malvagio quando l'uomo vi si precipita innanzi tempo in un momento di stanchezza, di impazienza, di disperazione. Quell'atteggiamento è infatti vero quando, nelle situazioni-limite della nostra esistenza, esso è sorretto da quella accortezza imperturbabile, che ci induce ad aggrapparci in ogni tempo a quanto è ancora possibile finché dura la vita. Umiltà e moderazione, questo è il nostro contributo.
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Postfazione del 1962 al mio scritto "La questione della colpa"
Lo scritto fu progettato nel 1945, venne esposto in una serie di lezioni tenute nei mesi di gennaio e febbraio del 1946, e quindi pubblicato. Leggendolo, bisogna ricordarsi di quell'epoca in cui fu scritto. La gragnuola delle dichiarazioni di colpevolezza si abbatteva quotidianamente su noi tedeschi. Ai soldati americani era proibito parlare con noi, eccettuate le questioni ufficiali. Solo allora i crimini della Germania nazista furono evidenti a tutto il popolo. Anch'io non avevo saputo nulla della conformità a un piano e delle dimensioni dei delitti. Allo stesso tempo la miseria della vita quotidiana si accrebbe straordinariamente, per chi era rimasto a casa, per i prigionieri di guerra, che allora venivano trasportati ovunque, per i profughi. Dominavano lo sgomento e il silenzio, la rabbia nascosta, oppure per breve tempo anche la semplice apatia. Molti cercavano di ottenere per sé vantaggi dai vincitori. Oltre allo strazio c'era la mancanza di riguardi. La solidarietà in famiglia e fra gli amici era quasi l'unico rifugio. Lo scritto doveva servire all' autoriflessione, a
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trovare la via verso la dignità nell'assunzione della colpa, riconosciuta di volta in volta secondo le sue varie specie. Esso indicava anche le colpe delle potenze vincitrici, non per scaricarci del nostro peso, ma per amore della sincerità, e anche per resistere sommessamente a una possibile autogiustificazione, che in politica provoca conseguenze nefaste per tutti. Il fatto che un simile scritto potesse venire pubblicato sotto il regime di occupazione testimonia quale libertà esso lasciava fin dall'inizio allo spirito. Un eminente americano mi disse allora che lo scritto era indirizzato tanto agli alleati quanto ai tedeschi. Mi sono sforzato di ottenere un'atmosfera pura, nella quale noi tedeschi potessimo ritrovare noi stessi nella nostra autocoscienza. Il testo voleva anche contribuire a rendere possibile un nuovo legame con i vincitori, come un legame di uomini tra uomini. Nonostante le informazioni all'epoca ancora scarse, i tratti fondamentali del regime nazista - con i suoi metodi raffinati, la sua totale falsità e i suoi impulsi criminali- erano chiari a chiunque volesse conoscerli. Doveva avere inizio il rinnovamento dei tedeschi. Io considero ancora oggi vere le discussioni contenute in questo scritto, con un'essenziale eccezione: nella concezione del processo di Norimberga, che allora cominciava, mi sono sbagliato su un punto decisivo. L'idea anglosassone era grandiosa. Ci sembrava, a quel punto, che dal futuro già brillasse qualcosa che avrebbe trasformato il mondo degli uomini: la creazione di un diritto mondiale e di una situazione mondiale in cui, mediante la forza comune delle
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maggiori potenze, sarebbero stati puniti i delitti chiaramente definiti. Nessun politico e nessun militare e nessun funzionario si sarebbe potuto in futuro appellare alla ragion di stato o agli ordini. Tutte le azioni di uno stato sono compiute da personalità umane, siano esse i capi o i collaboratori di diverso rango. Precedentemente la responsabilità veniva scaricata sullo stato, come se esso fosse un'essenza sacra, sovrumana. Adesso ognuno è per se stesso responsabile di quello che fa. Ci sono delitti dello stato che sono sempre al contempo delitti di singoli uomini determinati. C'è la necessità e l'onore di comandare e ubbidire, ma non si può prestare ubbidienza quando chi ubbidisce sa di commettere un delitto. Il giuramento, nel contesto dello stato, ha carattere incondizionato solo se viene prestato sulla costituzione o sulla solidarietà nei confronti di una comunità che pronuncia e motiva i suoi scopi e i suoi princìpi apertamente, e non se viene prestato come giuramento di fedeltà nei confronti di persone che ricoprono una carica politica o militare. Mai cessa di sussistere la responsabilità personale. Possono certamente sorgere conflitti violenti, ma in realtà la questione di per se stessa è sempre semplice quando si tratta di delitti. Essa inizia là dove io vedo la possibilità e già anche l'iniziale effettività del delitto, e ciononostante partecipo. Dove si grida: "Germania, risvegliati, ebrei crepate", "rotoleranno delle teste", dove segue il telegramma di solidarietà di Hitler agli assassini di Potempa, deve parlare la coscienza, anche se nella partecipazione non è ancora stata commessa un'azione delittuosa. Ma chi poi ordina o esegue successivamente i delitti vie-
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ne, questa è l'idea, giudicato come persona dalla comunità mondiale degli stati. Sotto questa minaccia la pace sarebbe assicurata. L'umanità si unirebbe in un'etica comprensibile a tutti. Non si ripeterebbe mai più quello che abbiamo sofferto: e cioè che degli uomini che furono derubati dal loro stato della loro dignità, offesi nei loro diritti umani, espulsi o assassinati, non trovassero protezione nella comunità superiore degli stati. Non si ripeterebbe mai più che stati liberi rivaleggino tra di loro per Hitler e tradiscano i tedeschi, che vengano in massa a Berlino a festeggiare le Olimpiadi, che ricevano nei loro congressi scientifici e organizzazioni culturali uomini autorizzati dallo stato nazista, con esclusione degli indesiderati. Non si ripeterebbe mai più quello che è successo in Germania: e cioè che i liberi stati europei non respingessero solidarmente innanzi tutto con mezzi pacifici i delitti che accadevano dal 1933 e, con violenza crescente, dal1934, che essi li tollerassero con la comoda "non intromissione negli affari interni". Non appena in uno stato il cui popolo, per cultura, tradizione, concezione occidentale della vita, è affine agli altri popoli, questo popolo - anche se a causa di una sciagura che esso stesso si è provocato- viene consegnato impotente al totalitarismo, non lo si può piantare in asso nelle mani dei suoi dittatori terroristici, come non lo si dovrebbe piantare in asso in occasione di una catastrofe naturale. Ora deve cominciare una nuova epoca. È stato costituito un tribunale di cui abbiamo sperato l'ulteriore sviluppo. n desiderio eterno dell'uomo ha intrapreso una via di adempimento. Tutto ciò era
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certamente molto ingenuo. Vi presi parte anch'io, nonostante i miei anni e le mie intense riflessioni sulla politica. Mi sono reso conto della mancanza di chiarezza di cui soffrivo allora, e rivedo riguardo a questo punto il mio giudizio. Del tribunale faceva parte la Russia bolscevica che, come stato caratterizzato dal dominio totalitario, non era diversa dallo stato nazista per quel che riguarda la forma del dominio. Partecipava dunque un giudice che di fatto non riconosceva assolutamente quel diritto sul quale il tribunale doveva essere fondato. tribunale non doveva esaminare i delitti che erano noti come.fatti locali, bensì solo le azioni delle persone accusate. Questa autolimitazione dell'accusa, che escluse un procedimento contro "ignoti"' fece sorgere delle difficoltà. n procedimento si limitò ai prigionieri di guerra. Anche le azioni delle potenze occidentali, che nel corso della guerra avevano compiuto distruzioni senza che fosse militarmente necessario, non vennero fatte oggetto d'indagine. Sono cose sulle quali nel 1945 ho riflettuto, ma che non ho discusso. Nonostante l'orrore ad esempio nei confronti delle assurde distruzioni di Dresda e di Wiirzburg, dicevo a me stesso: le azioni commesse da entrambe le parti forse non possono essere misurate con lo stesso criterio. Quella popolazione che dispone tutte le sue forze al servizio di uno stato criminale non può più contare sulla delicatezza. Laddove milioni di persone sottomesse vennero deportate come schiavi in Germania, !addove i treni viaggiavano quotidianamente per portare gli ebrei nel luogo della loro eliminazione tra-
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mite gas, laddove la guerra occidentale iniziò con la distruzione del centro di Rotterdam e - in occasione dell'annientamento di Coventry - con le parole del Fuhrer: "Cancellerò le loro città", laddove il mondo si vedeva minacciato dal dominio criminale che si era impadronito della maggior parte dell'Europa, allora nei confronti di ciò che era assolutamente sfrenato non poteva aver luogo forse alcuna moderazione presso le istanze inferiori. Non il principio del dominio di stati liberi, ma istanze particolari, probabilmente non approvate affatto dai loro regimi, poterono ricorrere ad atti di distruzione pianificati e militarmente non necessari, per contrapporre al terrore esercitato contro di loro dal governo tedesco il terrore esercitato nei confronti della popolazione tedesca. Sarebbe stato grandioso, e avrebbe trasformato il processo in un evento della storia mondiale completamente diverso, se anche questi delitti fossero stati trascinati davanti al foro. Avrei dovuto scriverlo subito allora. Dapprima il processo si svolse in modo convincente, sotto la guida del pensiero giuridico anglosassone. I procedimenti con gli accusati nel primo processo sono inattaccabili (dei successivi processi di Norimberga non parlo). Si volle verità e giustizia. I delitti erano giuridicamente definiti. Solo questi delitti, e non azioni riprovevoli in generale dal punto di vista morale, dovevano essere condannati. Perciò si ebbe l'assoluzione di Schacht, di von Papen, di Fritsch, nonostante venisse pronunciata da parte del tribunale la condanna morale delle loro azioni. È caratteristico il fatto che il giudice russo esprimesse un giudizio speciale in cui disapprovava queste assoluzio-
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ni. Il suo scarso senso del diritto non riusciva a distinguere tra ciò che era giuridicamente definito e ciò che era morale. Questo giudice giudicò solo come vincitore, mentre gli altri vollero e attuarono l' autolimitazione del potere del diritto dei vincitori. Ma tuttavia: la speranza ci ha ingannato. La grande idea si è manifestata, come nei tempi precedenti, solo come idea e non come realtà. Il processo non ha fondato una situazione mondiale caratterizzata da un diritto mondiale. Che questo processo non abbia mantenuto quel che aveva promesso è un fatto che comporta conseguenze negative. Quando io allora scrissi: "Norimberga, invece di diventare una benedizione, diventerebbe piuttosto un fattore di sventure; il mondo finirebbe col ritenere che il processo è stato solo apparente e coreografico. Ciò non deve accadere" non posso oggi sottrarmi al giudizio secondo cui quello non fu un processo coreografico, ma piuttosto un processo irreprensibile nella sua forma giuridica, e tuttavia fu un processo apparente. Era in effetti un processo unico, istituito dalle potenze vincitriei contro i vinti, presso i quali mancava il fondamento della comune condizione e volontà giuridica delle potenze vincitrici. Esso ha quindi ottenuto il risultato contrario rispetto a quello che doveva ottenere. Non venne fondato il diritto, ma venne incrementata la sfiducia nei suoi confronti. La delusione, rispetto alla grandezza della questione, è prostrante. Non dobbiamo respingere questa esperienza, anche se manteniamo ferma la grande idea. Le potenze illegali sono incommensurabilmente ancora più forti. Oggi non si può ancora riuscire immediatamente
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a fondare una tranquillità mondiale così come era intesa a Norirnberga. Questa stessa tranquillità, garantita dal diritto in forza della volontà delle grandi potenze che si sottomettono esse stesse a questo diritto, necessita di . una condizione. Essa non può semplicemente scaturire dai motivi della sicurezza e della liberazione dall'angoscia. Essa deve costantemente ristabilirsi a partire dall'impegno per la libertà nella ripetizione delle situazioni di rischio. La realizzazione ininterrotta di questa tranquillità presuppone una vita spirituale e morale che abbia un suo rango e una sua dignità. Questo sarebbe a un tempo il suo fondamento e il suo significato.
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MINIMA
l. ]. Hillman, Animali del sogno 2. T. Moser, Grammatica dei sentimenti
3. T. Doi, Anatomia della dipendenza 4. C. Formenti, Piccole apocalissi
5. E. Goshen-Gottstein, Ritorno alla vita 6. K. J aspers, Il medico nell'età della tecnica
7. D. Lopez, Il mondo della persona 8. E. J abès, Il libro dell'ospitalità 9. P. A. Rovatti, ]} esercizio del silenzio
10. K. Kerényi,J. Hillman, Variazioni su Edipo 11. C. N akane, La società giapponese 12. A. Prete (a cura di), Nostalgia 13. C. Le Brun, Le figure delle passioni 14. R. Berger, Il nuovo Golem
15. G. Celli, Etologia della vita quotidiana 16. E.Jabès, Il libro della condivisione 17. H.S. Krutzenbichler, H. Essers, Se l'amore in sé non è peccato ... 18. S. Viderman, Il denaro 19. J. Hadamard, La psicologia dell'invenzione
in campo matematico 20. S. Ferenczi, Thalassa 21. A. Dal Lago, P.A. Rovatti, Per gioco 22. H. Maturana, Autocoscienza e realtà 23. J. Derrida, "Essere giusti con Freud"
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24. R. Prezzo (a cura di), Ridere la verità 25. G. Bocchi, M. Ceruti, Solidarietà o barbarie 26. I. Illich, Nella vigna del testo 27. V. J ankélévitch, Pensare la morte? 28. J. Warr, Una scintilla nella cenere 29. C. Dutt (a cura di), Dialogando con Gadamer 30. G. Bateson, "Questo è un gioco" 31. M. Zambrano, Verso un sapere dell'anima 32. K.Jaspers, La questione della colpa 33. A.A. Semi, Venezia in fumo 34. D. Demetrio, Raccontarsi 35. M. Foucault, Malattia mentale e psicologia 36. M. Collins, La strada per la libertà 37. A. Oliverio Ferraris, Grammatica televisiva 38. P. Santangelo, Il sogno in Cina 39. P.A. Rovatti, Il paiolo bucato 40. A.N. Whitehead, Simbolismo 41. E. Funari, La chimera e il buon compagno 42. E. Tiezzi, La bellezza e la scienza 43. D. Demetrio, Elogio dell'immaturità 44. P.-A. Taguieff, Il razzismo 45. F. J ullien, Elogio dell'Insapore 46. R. Chiaberge, Navigatori del sapere 47. ].-P. Sartre,Merleau-Ponty
48. R. Girarci, Il risentimento 49. R. Ivekovié, Autopsia dei Balcani 50. E. Morin, La testa ben /atta
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51. F. Basaglia, Conferenze brasiliane 52. U. Curi, Lo schermo del pensiero 53. V.Jankélévitch, La menzogna e il malinteso 54. J.-B. Pontalis, Limbo 55. M. Cacciari, M. Donà, Arte, tragedia, tecnica 56. L. Boella, A. Buttarelli, Per amore di altro
57. S. Zizek, Il godimento come fattore politico 58. W.F. Fry,Jr, Una dolce follia
59. E. Morin, I sette saperi necessari all'educazione del/uturo 60. M. Bettetini, Breve storia della bugia
61. M. Ferraris, Una ikea di università 62. L. Scarlini, La musa inquietante 63. J.-L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo 64. S. Cagliano, I.:impronunciabile bisogno 65. ]. Derrida, P.A. Rovatti, I.: università senza condizione 66. P. Virilio, I.:incidente del futuro
67. U. Volli, Figure del desiderio
68. E. Severino, Tecnica e architettura 69. P. Bettolini, Educazione e politica 70. M. Foucault, Il sogno
71. D. Demetrio, Autoanalisi per non pazienti
72. J.-L. Nancy,All'ascolto 73. G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione 74. P. Virilio, Città panico
75. P. Adamo, Il porno di massa 76. R. Girard, Il sacrificio
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